TRIDUO PASQUALE - parrocchiazogno.it · La prima lettura ricorda l¶istituzione della Pasqua...

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1 TRIDUO PASQUALE 2-3-4 aprile 2015 • Quello che veniva chiamato „triduo sacro‟ o anche i „tre giorni santi‟, oggi viene ormai indicato comunemente come il „triduo pasquale‟. Comincia con la Messa della sera del Giovedì santo, ha il suo centro nella Veglia pasquale e termina con i vespri della domenica di Pasqua. Il Messale dunque prevede: - il Giovedì santo la Messa della sera «nella memoria della cena del Signore - il Venerdì santo nel pomeriggio (preferibilmente alle tre) la celebrazione della Passione e Morte del Signore - nella notte del Sabato santo la Veglia pasquale; - la Messa della Domenica di risurrezione. • Anche se le celebrazioni si svolgono in orari più accessibili, giova sempre ricordare che i cristiani di oggi devono essere veramente motivati per partecipare alle celebrazioni del triduo. L‟ambiente in cui vivono, le preoccupazioni comuni non favoriscono affatto un‟attenzione profonda nei confronti del Mistero pasquale. Dobbiamo riconoscere che i ritmi della vita quotidiana e le sue continue sollecitazioni costituiscono più delle tentazioni che un aiuto per coloro che cercano uno spirito di raccoglimento e vogliono porsi con serietà di fronte al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù. Vale la pena, però, invitare tutti i cristiani a fare uno sforzo suppletivo per essere presenti a quelle celebrazioni che costituiscono veramente il culmine dell‟anno liturgico. GIOVEDÌ SANTO Nel ricordo della Cena del Signore • Il Triduo pasquale comincia la sera del Giovedì santo con la celebrazione di una Messa che si svolge al modo solito, senza grandi particolarità. Il Messale - è vero - suggerisce di ripetere il gesto della lavanda dei piedi, ma aggiunge anche “là dove sembra pastoralmente opportuno”. Per il resto non ci sono grandi novità in questa Eucaristia, al di fuori dell‟avvertenza di consacrare tante particole quante possono bastare per la comunione del giorno dopo.

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TRIDUO PASQUALE

2-3-4 aprile 2015

• Quello che veniva chiamato „triduo sacro‟ o anche i „tre giorni santi‟,

oggi viene ormai indicato comunemente come il „triduo pasquale‟. Comincia con

la Messa della sera del Giovedì santo, ha il suo centro nella Veglia pasquale e

termina con i vespri della domenica di Pasqua. Il Messale dunque prevede:

- il Giovedì santo la Messa della sera «nella memoria della cena del Signore

- il Venerdì santo nel pomeriggio (preferibilmente alle tre) la celebrazione della

Passione e Morte del Signore

- nella notte del Sabato santo la Veglia pasquale;

- la Messa della Domenica di risurrezione.

• Anche se le celebrazioni si svolgono in orari più accessibili, giova

sempre ricordare che i cristiani di oggi devono essere veramente motivati per

partecipare alle celebrazioni del triduo. L‟ambiente in cui vivono, le

preoccupazioni comuni non favoriscono affatto un‟attenzione profonda nei

confronti del Mistero pasquale. Dobbiamo riconoscere che i ritmi della vita

quotidiana e le sue continue sollecitazioni costituiscono più delle tentazioni che un

aiuto per coloro che cercano uno spirito di raccoglimento e vogliono porsi con

serietà di fronte al mistero della Morte e Risurrezione di Gesù. Vale la pena, però,

invitare tutti i cristiani a fare uno sforzo suppletivo per essere presenti a quelle

celebrazioni che costituiscono veramente il culmine dell‟anno liturgico.

GIOVEDÌ SANTO

Nel ricordo della Cena del Signore

• Il Triduo pasquale comincia la sera del Giovedì santo con la

celebrazione di una Messa che si svolge al modo solito, senza grandi particolarità.

Il Messale - è vero - suggerisce di ripetere il gesto della lavanda dei piedi, ma

aggiunge anche “là dove sembra pastoralmente opportuno”. Per il resto non ci

sono grandi novità in questa Eucaristia, al di fuori dell‟avvertenza di consacrare

tante particole quante possono bastare per la comunione del giorno dopo.

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• Tuttavia bisogna riconoscere che questa Messa -anche se priva di segni

esteriori consistenti - ha un carattere veramente speciale che le deriva dal fatto che

viene celebrata proprio in questo giorno, in cui, secondo la tradizione, Gesù ha

compiuto l‟Ultima Cena con i suoi. Ogni Messa, è vero, è il memoriale della Cena

del Signore, ma in questa Messa si aggiunge un „oggi‟ che non è di poco conto:

“In questo giorno, vigilia della sua passione, sofferta per la salvezza nostra e del

mondo intero...” dice il Canone Romano. Altre preghiere eucaristiche sono al

proposito più stringate “in questa notte”, mentre la terza preghiera eucaristica

amplia un poco il preambolo: “In questa notte in cui fu tradito, avendo amato i

suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine e mentre cenava con loro.. “.

Non si tratta, comunque, di celebrare la Cena del Signore cercando di

rivivere gli stessi sentimenti che provarono gli apostoli in quel frangente. Molto

probabilmente essi non compresero il significato e la portata delle parole e dei

gesti di Gesù. E quella cena d‟addio dovette essere, in ogni caso, carica di

tristezza e di interrogativi. Dovranno rileggere tutti questi fatti alla luce della

Pasqua per comprendere veramente quello che aveva fatto Gesù.

• La proclamazione delle letture, poi, non può ignorare come secoli di

fede, di riflessione teologica e di esperienza di Dio permettano di interpretare con

maggiore ricchezza “la tradizione che viene dal Signore” (1Cor 11,23).

• Lo stesso „racconto dell‟istituzione‟, integrato nel cuore della preghiera

eucaristica, non è una semplice relazione obiettiva e neutrale di un fatto del

passato. Ma non si vuole affatto dare l‟illusione di assistere a „quella Cena‟. I

verbi restano rigorosamente al passato e si continua ad usare la terza persona

singolare, il che implica inevitabilmente un certo distacco. Nessuna tentazione,

allora, di effettuare una sorta di mimo sacro. Tuttavia nel quadro della liturgia

questo racconto attualizza, nel tempo, le parole e i gesti di Gesù. Quando il prete

dice: “Questo è il mio corpo”, e “Questo è il mio sangue”, le parole pronunciate,

quella sera, da Gesù, esse continuano ad operare, qui e oggi, quello che

esprimono.

• Da questo punto di vista nessuno statuto simbolico o sacramentale

particolare caratterizza la Messa del giovedì santo: essa ha da parte sua solo un

valore esemplare perché esplicita più chiaramente il legame esistente tra ciò che

fece Gesù “offrendosi liberamente alla sua passione” e ciò che noi compiamo oggi

ogni volta che celebriamo l‟Eucaristia, in sua memoria, fino al suo ritorno.

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• Se l‟armonia che contraddistingue questo rito è particolarmente

percepibile questa sera, ciò non toglie che noi avvertiamo sempre la presenza del

Signore, ma anche la sua „assenza‟: per questo siamo in attesa del compimento e

diciamo: “Vieni, Signore Gesù!”.

• Per cogliere tutto ciò non c‟è affatto bisogno di ricorrere ad una specie di

ricostruzione storica che ha solo lo scopo di farci tornare in dietro, al passato. La

liturgia, infatti, è nel presente, ed è in questo presente della storia della salvezza

che fa memoria degli avvenimenti decisivi che vengono riattualizzati. Questa

attualizzazione non riproduce i fatti storici: essi appartengono in modo

irrimediabile al passato, ma questi avvenimenti avvenuti una volta per tutte

agiscono con efficacia, qui e oggi, su di noi, perché è stato Dio a compierli e

perché Gesù ha dato alla sua Chiesa il compito e il potere di realizzarli attraverso

segni efficaci.

“Se io, il Signore e il Maestro,

ho lavato i vostri piedi,

anche voi dovete

lavarvi i piedi”

Giovanni 13,14

LITURGIA DELLA PAROLA Prima lettura: Il rito antico della Pasqua

(Es 12,1-8.11-14) La prima lettura ricorda l‟istituzione della Pasqua ebraica. I riti, fatti di

azioni simboliche, non sono invenzioni arbitrarie, ma affondano le loro radici nel

fondo di una cultura ancestrale. Lo stesso vale anche per i riti religiosi. Vengono

elaborati a partire da usanze che non sono necessariamente religiose e si caricano,

progressivamente, di significato, man mano che si sviluppano all‟interno dl un

contesto sociale che se ne appropria e che ne sviluppa le strutture. Questo vale

anche per i riti pasquali. In effetti i semiti nomadi conoscevano una festa notturna,

celebrata in occasione della prima luna piena di primavera, prima di partire verso i

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pascoli estivi. Con il pane non lievitato dei beduini e le erbe del deserto, si

mangiava un agnello del gregge, arrostito al fuoco. La partenza per la

transumanza, infatti, era un giorno importante e pieno di pericoli. Per liberarsi da

questi pericoli si sporcavano col sangue dell‟agnello i picchetti delle tende.

Il collegamento con la liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell‟Egitto

diede a questo rito antico un nuovo significato. Ormai esso venne a ricordare

l‟intervento di Dio a favore del suo popolo e la speranza della venuta del Messia.

Il suo rituale, codificato in modo minuzioso, prevedeva dunque due riti distinti: i

pani senza lievito e il sacrificio dell‟agnello pasquale, ricordati dalla prima lettura.

Perché proprio questo testo? Per due ragioni molto evidenti.

Da una parte esso ci mostra il rito pasquale, così come veniva svolto ai

tempi di Gesù. E dunque indica quello che Gesù fece la vigilia della sua passione.

Dall‟altra, la tradizione cristiana vede nell‟agnello immolato per la Pasqua la

prefigurazione del sacrificio di Cristo sulla croce. Non era stato già Giovanni il

Battista a designare Gesù come «l‟agnello di Dio che toglie il peccato del

mondo»‟? Non mancano poi dei collegamenti significativi tra quel rito e quello

che noi facciamo oggi.

• Il pane azzimo è il pane dei nomadi, che non hanno il tempo di far

fermentare la pasta. Le erbe amare sono le erbe del deserto. Anche l‟eucaristia è la

Pasqua di credenti che si considerano pellegrini su questa terra. Essi non hanno

quaggiù una dimora stabile. Per questo il pane eucaristico è pane per il viaggio,

pane dei pellegrini.

• La Pasqua non può essere mangiata da soli: ci si mette insieme, per

famiglie o per gruppi di vicini. E non solo perché altrimenti non si è abbastanza

numerosi per consumare l‟agnello, ma perché si viene salvati insieme, come

comunità appartenente al popolo di Dio.

• La celebrazione dei nomadi avviene nella notte perché le occupazioni

della giornata sono terminale, il gregge riposa e bisogna essere pronti a partire

all‟alba. Il rituale ebraico riprende quest‟uso, ma dando una nuova spiegazione:

«Fecero cuocere la pasta che avevano portata dall‟Egitto in forma di focacce

azzime, perché non era lievitata: erano infatti, stati scacciati dall‟Egitto e non

avevano potuto indugiare; neppure si erano procurati provviste per il viaggio» (Es

12,39), ma aggiunge anche: «Notte di veglia fu questa per il Signore per farli

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uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore

per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione». E il Vangelo non

riprende questo tema, ricordando ai cristiani che il Signore ritornerà

all‟improvviso, di notte? Per questo bisogna vegliare! L‟eucaristia che celebriamo

rimane orientata sempre verso il „ritorno del Signore‟: è questa speranza che

anima la Chiesa.

• Infine il rito del sangue. La Pasqua antica comportava il rito del sangue

con cui si sporcavano gli stipiti delle porte. Questo gesto segnalava che quelle

case erano abitate da persone alle quali Dio aveva promesso di aver salva la vita.

Ora, quello che il rito antico indicava, il Cristo l‟ha compiuto una volta per tutte

con l‟offerta della sua vita. Il suo sangue non viene più messo sugli stipiti delle

porte: è divenuto nostra bevanda sotto il segno del vino. E il suo corpo nostro

cibo, sotto il segno del pane.

È dunque questa Pasqua del Signore che viene celebrata in ogni eucaristia:

a questa Pasqua noi partecipiamo nella gioia e con il rendimento di grazie.

Seconda lettura: L‟eucaristia, una tradizione che

viene dal Signore (1Cor 11,23-26)

Scritta prima dei vangeli, la prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto

offre il racconto più antico dell‟Eucaristia. Paolo la presenta come una tradizione

che ha ricevuto. L‟ha probabilmente trovata nella Chiesa di Antiochia e la

condivide con il Vangelo di Luca.

Secondo questo racconto Gesù compie, innanzitutto, i riti di benedizione

della tavola previsti dal rituale ebraico. Si tratta di gesti che riconoscono nel pane

il dono di Dio, che permette di sussistere e di vivere insieme, ma Gesù aggiunge

che questo dono di Dio è il suo corpo, che è per noi. Mangiando questo pane, noi

oggi sperimentiamo come la sua morte è per noi sorgente di vita e di unità.

Presso gli ebrei la coppa del vino è il segno della festa, e soprattutto delle feste

pasquali. Qui Gesù la presenta come il calice della Nuova Alleanza annunciata da

Geremia (31,31-34), un nuovo modo di vivere con Dio e insieme tra noi. Questa

alleanza è fondala sul sangue, ma non sul sangue dei sacrifici - a partire da quello

celebrato al Sinai, Es 24,8 - ma sul sangue versato da colui che ha bevuto alla

coppa della morte.

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Compiere questo memoriale, dunque, significa proclamare davanti a Dio

il significato che assume la „morte del Signore‟, nella speranza che egli venga a

portare a compimento il mistero di una comunione universale.

Perché Paolo ricorda ai Corinzi che ha trasmesso loro quello che a sua

volta ha ricevuto? Perché egli ravvisava nella loro pratica eucaristica dei disordini,

un comportamento indegno della Cena del Signore. I cristiani che questa sera

celebrano la memoria dell‟Ultima Cena non devono dunque dimenticare che la

loro maniera di celebrare giudica la comunità. E nello stesso tempo che

l‟eucaristia „fa la Chiesa‟, cioè rivela ad ogni comunità ecclesiale ciò che essa è e

ciò che deve diventare, man mano che ripete il gesto di Gesù.

Vangelo: Gesù, maestro e Signore, in divisa da

servo (Gv 13,1-15) San Giovanni non racconta l‟istituzione dell‟eucaristia. Al suo posto,

riporta il gesto della lavanda dei piedi con il quale Gesù rende plasticamente reale

la sua affermazione: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve...» (Lc 22,27).

Quest‟azione apre quel „testamento‟ che egli lascia ai suoi nel discorso di addio

(Gv 13-17, che verrà letto nel tempo pasquale). Si capisce dunque la lunga frase

introduttiva che riguarda l‟”ora” di Gesù: egli mostra ai suoi di entrare

deliberatamente negli avvenimenti della passione. È lo scontro tra Dio e le forze

delle tenebre, che si servono del tradimento di Giuda, ed è la Pasqua, cioè il

passaggio‟ da questo mondo al Padre.

Al di sopra di tutto, comunque, c‟è l‟impegno di amore di Gesù verso i

suoi‟, verso quelli che crederanno in lui: «egli li amò sino alla fine», cioè fino alla

morte e fino all‟amore più estremo, come la lavanda dei piedi vuole dimostrare, in

anticipo sugli avvenimenti.

Una vecchia legge ebraica diceva: «Uno schiavo ebreo non deve lavare i

piedi del suo padrone, né mettergli le calzature...». Proprio per questo Gesù

compie un gesto simile. E sembra che lo compia tranquillamente, oseremmo dire

quasi con lentezza. „Depone‟ le vesti, che poi „riprenderà‟, due verbi con i quali

Giovanni ha già evocato il Cristo che depone e riprende la sua vita nel mistero

della passione (cfr. Gv 10,17-18). Ed è davanti a questo abbassamento - che è

l‟abbassamento della croce - che Pietro, in anticipo e a sua insaputa, esprime

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l‟insufficienza della sua fede. Gesù gli dice: «Lo capirai dopo».

La difficoltà di ogni cristiano è in fondo la stessa di Pietro: lasciarsi

servire e salvare secondo il modo che Gesù ha scelto, fedele al progetto di amore

del Padre che, nel Figlio, spinge il suo amore fino all‟estremo. Certo, i discepoli

hanno già ricevuto un primo „bagno‟, quello della parola di Cristo che li ha

purificati, ad eccezione di Giuda, che si è lasciato ispirare dal diavolo,

dall‟avversario di Dio, ma ora essi devono affrontare il battesimo della morte che

fa parte della missione di Gesù.

Una volta rivestito dei suoi abiti (risuscitato?), Gesù esplicita il suo

messaggio. Il Maestro e Signore ha scelto il comportamento del Servitore, ed è

andato addirittura al di là di quello che ci si potrebbe attendere da un servo

comune. Bisogna tirarne le conseguenze: Gesù vuole che la logica di amore, che

egli incarna, passi nella vita dei discepoli, vuole che il loro servizio reciproco,

improntato all‟umiltà, diventi una buona testimonianza per il mondo.

La sera del giovedì santo, tre parole di Gesù - rimandandosi l‟una all‟altra

e illuminandosi a vicenda - offrono il significato pieno dell‟Eucaristia: «Vi ho

dato, infatti, l‟esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15);

«Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato» (Gv 13,34), e «Fate questo in

memoria di me» (1Cor 11,24).

PER LA REGIA LITURGICA

Il gesto del vangelo, la lavanda dei piedi, sta al centro di questa eucaristia del

giovedì santo e aiuta ad interpretare e capire il gesto più abituale dell‟eucaristia, il

pane spezzato e il calice del vino che viene condiviso.

L‟omelia deve essere dunque consacrata a far emergere il „senso‟ di questa azione

di Gesù. A questo proposito suggeriamo alcuni passaggi da tener presenti.

1. La lavanda dei piedi è un‟azione simbolica, che richiama quelle dei

profeti dell‟Antico Testamento. L‟interpretazione di questo gesto ci viene offerta

in molti modi “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua

ora di passare da questo mondo al Padre”, cioè l‟ora di essere innalzato sulla croce

per essere elevato nella gloria; “quando già il diavolo aveva messo in cuore a

Giuda Iscariota di tradirlo, Gesù si appresta ad amare i suoi “fino alla fine”, cioè

fino a donar loro la più grande prova d‟amore che consiste nel dare la vita per i

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suoi amici. A questo scopo egli “depone” le sue vesti prima di “riprenderle”, come

il buon pastore che offre la sua vita per le pecore.

2. Lavare i piedi resi sporchi e maleodoranti dal cammino di una giornata

era un‟azione riservata agli schiavi di origine straniera, tanto essa sembrava

umiliante nei confronti di schiavi che appartenevano allo stesso popolo ebreo.

Tuttavia, qualche volta questo gesto serviva a dimostrare l‟attaccamento che i

discepoli provavano nei confronti del maestro o che un figlio provava verso il

padre. Il gesto di Gesù non è solo un gesto di umile servizio, ma anche un gesto di

amore: è la testimonianza dell‟amore di una persona che sta andando verso la

morte per lavare e salvare i suoi con il proprio sangue

3. Pietro si ribella di fronte a questo gesto, di cui coglie solo il carattere

umiliante che assume per Gesù. Di fatto, solo dopo la morte e risurrezione del

Maestro, egli comprenderà il grande significato che esso conteneva: un amore

smisurato verso di lui e verso tutti gli uomini. Perché non si tratta di essere lavati:

“Voi siete già puri”, dice Gesù, ma di lasciarsi amare fino all‟estremo.

4. Se il gesto di Gesù manifesta, anticipatamente, l‟amore che egli porta

verso di noi, fino a donare la sua vita, allora comprendiamo perché egli ci invita a

comportarci allo stesso modo. Il suo ordine “Anche voi dovete lavarvi i piedi gli

uni gli altri» non istituisce un nuovo rito, ma equivale al suo comandamento:

“Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amato”. I discepoli devono amare come

Gesù, fino in fondo!

5. La celebrazione eucaristica della sera del giovedì santo riceve un

accento particolare da questo gesto narrato dal vangelo e eventualmente ripetuto

subito dopo la proclamazione. Invita a guardare al senso profondo di quello che si

sta per fare. Il pane che ci dà la vita è un corpo spezzato, donato. Il calice della

salvezza contiene un sangue versato. Partecipare all‟eucaristia significa

condividere “In gesto d‟amore, ricevere la forza per mostrare, in ogni frangente,

uno stesso amore che va “fino in fondo”.

Senza cadere in un continuo riscontro „mimetico‟ con l‟ultima cena, la

regia liturgica deve tuttavia far avvertire la memoria solenne che contraddistingue

questa celebrazione, attraverso alcuni gesti e alcune parole appropriate.

Alcuni gesti e segni:

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- una tavola apparecchiata dove c‟è un grosso pane e una coppa di vino;

- il gesto della lavanda dei piedi, accompagnato da una musica di fondo o da un

canto di meditazione;

- un gesto di solidarietà nei confronti dei più poveri e abbandonati, che dà

immediato riscontro alla fraternità.

Alcune parole:

- che aiutano ad „entrare‟ nella celebrazione. Non è così evidente, in un giorno

lavorativo, staccare dalle preoccupazioni e dalla giornata quotidiana e vivere

intensamente un momento come questo;

- che introducono alle letture, in particolare alla prima, che ha un grande

significato, ma anche un gusto „arcaico‟ difficile da decifrare (ecco perché ci

siamo dilungati su di essa...);

- che fanno il passaggio dalla liturgia della Parola alla liturgia eucaristica.

E anche un consiglio: non enfatizzare eccessivamente il collegamento tra

sacerdozio ministeriale e Ultima cena. Per fedeltà al Vangelo: ogni servizio, ogni

ministero, ma anche ogni gesto più umile di bontà, di dedizione e di amore, trova

il suo modello in Gesù che lava i piedi. Per fedeltà alla comprensione globale

della fede, che non ignora come il ministero sia da collegarsi non solo all‟Ultima

cena, ma anche alla Pasqua e alla Pentecoste, cioè al dono dello Spirito.

Sarà opportuno, inoltre, curare il passaggio dal termine della celebrazione

al momento dell‟adorazione eucaristica. Lo si faccia con sobrietà, ricorrendo

magari alle parole che abbiamo suggerito nelle schede.

VENERDÌ SANTO

Nella memoria

della passione e morte del Signore

• Dalla sera del giovedì santo la Chiesa vive nel raccoglimento e nella

meditazione. La celebrazione del venerdì santo prolunga quel raccoglimento e,

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proprio per questo, comincia con un momento di preghiera silenziosa, al termine

del quale si leva la voce di colui che presiede, che si rivolge a Dio, a nome di tutti:

“Ricordati, Padre, della tua misericordia; santifica e proteggi sempre questa tua

famiglia, per la quale Cristo, tuo Figlio, inaugurò nel suo sangue il mistero

pasquale”.

• Il rito, uno dei più belli del Messale-Romano proprio per la sua sobrietà,

si sviluppa in quattro parti: il racconto della Passione, la solenne Preghiera

universale, l‟adorazione della Croce, la Comunione. A chi prepara questa liturgia

domandiamo di vegliare sull‟autenticità dei segni, delle invocazioni, delle parole

e dei gesti. In questo caso, aggiungere troppo significherebbe sciupare. Ci deve

essere piuttosto una tendenza contraria, fino ad andare verso una sorta di nudità e

di spoliazione... cercando di fare meglio dell‟anno scorso!

Presero Gesù

e

lo crocifissero»

LITURGIA DELLA PAROLA

È particolarmente esemplare. Comporta due letture prima del Vangelo:

una tratta dall‟Antico e una dal Nuovo Testamento, entrambe scelte, come nelle

domeniche e nei giorni di festa, in funzione del vangelo. Esse ci preparano a

comprendere bene il racconto della Passione e morte di Gesù secondo

l‟evangelista Giovanni.

Prima lettura: «Il giusto, mio servo, giustificherà

molti, egli si addosserà la loro iniquità»

(Is 52,13-53,12) È il quarto canto del Servo sofferente che apre la celebrazione della

Passione. Questo testo, dichiaratamente non facile se non addirittura oscuro, ha

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fortemente ispirato gli autori del Nuovo Testamento e noi lo leggiamo oggi

proprio per questa ragione. Secondo una delle interpretazioni, il Servo rappresenta

un gruppo di ebrei esiliati a Babilonia nel sesto secolo a.C., che porta su di sé il

peso del castigo, mentre altri ebrei, che non sono in esilio, sono colpevoli come

loro di ciò che è accaduto. Nell‟umiliazione e nella fedeltà di questi deportati Dio

vede un sacrificio volontario che ha valore di perdono per l‟insieme del popolo.

Per questo sarà possibile un futuro, una risurrezione e una posterità, e il mondo

intero ne sarà testimone. «Il servo giustificherà le moltitudini»: questo avverrà

proprio per il suo sacrificio. Dio cancellerà il peccato e, in vista di una nuova

partenza, considererà il suo popolo come giusto. Ricordiamo che il testo alterna

dei momenti in cui parla Dio («il mio Servo») a momenti in cui a parlare sono

degli ebrei o addirittura le nazioni testimoni del destino del Servo.

Al di là comunque della questione sull‟identità del Servo al tempo in cui

l‟oracolo profetico viene pronunciato, rimane un dato di fatto. Fin dagli inizi la

comunità cristiana ha ravvisato in questo misterioso Servo i tratti del suo Signore:

Gesù corrisponde perfettamente al Servo che soffre di cui parla Isaia. È, infatti,

evidente che questo testo assume tutto un senso particolare se lo si legge

lentamente, contemplando il Cristo in croce: «Maltrattato si lasciò umiliare e non

aprì la sua bocca, era come agnello condotto al macello...»; «Egli è stato trafitto

per i nostri delitti...»; «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Proclamato il

venerdì santo, questo brano attira utilmente la nostra attenzione sul modo in cui

dobbiamo interpretare la Passione secondo Giovanni. Infatti, proprio descrivendo

con realismo il destino tragico del Servo, questo „canto‟ mette in evidenza, per

contrasto, gli effetti benefici del suo sacrificio, come anche la gloria cui sarà

elevato colui che ora sembra annientato, distrutto, percosso e umiliato.

L‟oracolo di Isaia termina con una visione di pace, di serenità e di

speranza; è sempre un salmo di fiducia in Dio e di lode che ne costituisce la

risposta, non un grido di lutto o di disperazione.

Seconda lettura: Gesù, Figlio di Dio

(Eb 4,14-16; 5,7-9)

La seconda lettura è come il terzo pannello di un trittico, in cui al centro

sta l‟Evangelo. L‟oracolo del libro di Isaia faceva intravedere un misterioso

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«servo di Dio», che con le sue sofferenze avrebbe salvato la moltitudine e sarebbe

stato glorificato da Dio. Ecco ora, invece, un autore cristiano che mostra la dignità

di colui che noi conosciamo bene per nome e svela il mistero della sua obbedienza

al Padre: è «Gesù, il Figlio di Dio», è «il Cristo».

L‟autore della lettera agli Ebrei presenta Gesù come il nostro sommo

sacerdote. Dal loro sommo sacerdote gli ebrei si aspettavano che presentasse a

Dio le loro offerte in modo irreprensibile e che in tal modo ottenesse a loro

misericordia e grazia da parte di Dio. Ma nel tempio terreno il sommo sacerdote

non incontrava Dio faccia a faccia. Ora, invece, Gesù «è penetrato al di là dei

cieli». E tuttavia non è diventato un estraneo, lontano da noi. Il venerdì santo ci

ricorda proprio che egli ha conosciuto le nostre prove, senza mai cedere al

peccato. Non ha dunque abbandonato la sua condizione umana. Egli rimane per

sempre il Crocifisso, segnato dalle piaghe, ormai gloriose, della sua Passione.

L‟esperienza della prova, iscritta in modo indelebile nella sua memoria e nel suo

cuore, fa di Gesù un sommo sacerdote vicino alle nostre debolezze e pieno di

compassione verso le nostre infermità.

Per questo veniamo invitati a «mantenere ferma la professione della nostra

fede» e «ad accostarci con piena fiducia al trono della grazia», a non cercare altro

tramite tra noi e Dio che non sia Cristo Gesù.

Dopo l‟esortazione, l‟autore presenta l‟eccellenza della mediazione di

Cristo. «Durante i giorni della sua vita terrena» egli ha offerto a Dio la sua

preghiera fedele e la sua totale obbedienza, come nel giardino degli ulivi. Così

egli è stato esaudito: ha potuto unire la sua volontà alla volontà d‟amore del Padre.

Ha accettato «le sofferenze della sua passione» e ha vissuto in totale solidarietà

con l‟umanità. Avendo oltrepassato la morte è divenuto l‟esempio e la guida

perfetta di tutti coloro che comprendono il significato del suo sacrificio.

In effetti, nulla come la morte dell‟uomo costituisce uno scandalo che la

ragione umana non riesce a superare e che può condurre ad un pessimismo

radicale. Come dice Qoelet (3,19): «Infatti, la sorte degli uomini e quella delle

bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli; c‟è un solo soffio vitale

per tutti. Non esiste superiorità dell‟uomo rispetto alle bestie, perché “tutto è

vanità”, ma che cosa dire della morte di colui che Dio stesso riconosce come

giusto, della morte del suo Figlio? Com‟è che Gesù stesso ha visto e vissuto la

propria morte? Veramente uomo - e non eroe impassibile - egli ha provato

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angoscia ed orrore davanti alla morte: per questo «offrì preghiere e suppliche, con

grandi grida e lacrime». Ma che ne è stato della sua preghiera? Si è scontrata forse

col silenzio di Dio, col suo rifiuto di ascoltarlo? No, «egli fu esaudito». Fu

esaudito perché potè portare a compimento un progetto di amore, i cui effetti

benefici si diffondono su tutta l‟umanità. Fu esaudito perché il Padre «l‟ha

glorificato». Ecco i dati che la fede ci invita a tenere insieme, benché la ragione

umana non riesca a comporre la loro antinomia. Pur essendo il Figlio, Gesù,

attraverso le sofferenze della sua passione, ha imparato fino in fondo ad obbedire,

fino alla spoliazione assoluta, fino al dono della vita. In questo modo è diventato

«causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono». Il mistero della

morte del giusto e di ogni uomo permane, ma il credente l‟accoglie nella fede,

contemplando il Cristo. La croce di Cristo non è un simbolo di morte, ma è Buona

Novella, Vangelo di vita, di speranza, pegno di vita eterna.

Vangelo: Passione del Signore Gesù secondo

Giovanni (18,1-19,42)

È senz‟altro un racconto di una densità e di una ricchezza teologica

considerevoli.

- La passione è, in effetti, questa misteriosa „ora‟ di Gesù, di cui il quarto

vangelo ha cominciato a parlare fin dagli inizi e verso la quale tutto converge.

Essa costituisce il segno supremo, quello che ricapitola tutto. Nella presentazione

globale del mistero dell‟incarnazione e della missione di Gesù, che troviamo nel

prologo, Giovanni scrive: «Egli è venuto tra i suoi, ma i suoi non l‟hanno accolto»

(Gv 1,11). L‟”ora‟ decisiva della croce è però anche quella della glorificazione.

Attraverso la Pasqua, il passaggio da questo mondo al Padre, Gesù porta a termine

quell‟opera per la quale è venuto nel mondo (Gv 19,30): per questo può dire:

«Tutto è compiuto» (Gv 19,30). La gloria di Cristo, che appariva velata nella sua

carne mortale e che lasciava intravedere solo i „segni‟ che egli compiva, ora si

trova messa in piena luce. La croce è il luogo della vera manifestazione. Dalla

morte del Figlio sgorga la vita per tutti coloro che leveranno gli occhi verso il

Crocifisso, trapassato dal colpo di lancia del soldato. Nella Passione secondo

Giovanni affiorano tutti i temi che hanno costituito la trama del suo Vangelo. Gli

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annunci, i segni discreti, le parole a doppio senso che scandiscono il suo testo

trovano ora pieno significato. Storia e teologia si raggiungono. I fatti sono riportati

con fedeltà da un testimone oculare («La sua testimonianza è vera ed egli sa che

dice il vero»: Gv 19 35), ma l‟evangelista vuole anche che i suoi lettori

percepiscano il significato vero di ciò che accade: «perché anche voi crediate»

(Gv l 9 35).

- Ciò che colpisce immediatamente quando si sente raccontare la Passione

di Gesù secondo Giovanni è la straordinaria e sovrana serenità e libertà che

emanano da Cristo. Egli non subisce gli avvenimenti: li vive in piena coscienza e

conoscenza di causa. Non viene sorpreso, li vede arrivare, ma proprio per questo è

in grado di dominarli. In effetti, egli sa che è arrivata la sua „ora‟ (Gv 13,1) Questa

conoscenza non genera in Gesù una sorta di fatalismo coraggioso. Per lui si tratta

«del calice che il Padre gli dà da bere» che egli non vuole rifiutare. La scena

dell‟arresto è particolarmente significativa. Gesù avanza verso il distaccamento

delle guardie che è venuto per arrestarlo. «Chi cercate?». «Gesù di Nazareth»

«Sono io». Questa determinazione tranquilla e questa padronanza di sé

impressionano i soldati che indietreggiano e cadono a terra: bisogna che Gesù

stesso intervenga perché essi si riprendano e portino a compimento la loro

missione. Ma mentre si presenta lui stesso ai soldati, Gesù dà un ordine: «Se

cercate me, lasciateli andare». E i soldati obbediscono e non molestano nessuno

dei discepoli, neppure Pietro che aveva estratto la spada e colpito il servo del

sommo sacerdote. Anche Pilato, che non si lasciava prendere facilmente dagli

scrupoli e che disprezzava profondamente gli ebrei, resta impressionato da Gesù.

Contrariamente a quello che si aspettava, non è lui, il procuratore romano, che

incute paura all‟accusato, ma è l‟accusato che si rivela padrone della situazione:

ispira rispetto. Tanto che Pilato vorrebbe rilasciarlo, dal momento che - man mano

che procedeva l‟interrogatorio - sentiva crescere in lui un certo timore. Proprio per

paura lo mette nelle mani dei suoi accusatori. Anche sulla croce Gesù resta

padrone di se stesso Egli «rimette lo spirito» sapendo che «ormai ogni cosa è

compiuta». Inevitabile il contrasto tra l‟atteggiamento di Gesù e le reazioni dei

discepoli: essi subiscono gli avvenimenti senza capire quel che accade. Pietro

segue Gesù fino alla casa del sommo sacerdote, ma poi nega di essere un

discepolo di «quell‟uomo». Dopo la morte di Gesù è Giuseppe d‟Arimatea, un

uomo che non fa parte del gruppo degli intimi di Gesù, un «discepolo segreto, per

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paura dei Giudei» che prende l‟iniziativa coraggiosa di richiedere il corpo di

Gesù. Ed è assieme a Nicodemo, «colui che era andato a trovare Gesù di notte»,

che depone il corpo in una tomba.

- La regalità di Gesù è oggetto del dialogo tra lui e Pilato. Se ne parla con

insistenza, ma il titolo è del tutto equivoco, perché evoca un potere temporale che

potrebbe situarsi sullo stesso piano del potere di Cesare ed opporsi a lui. In effetti,

è proprio questo equivoco che sfrutteranno i capi degli ebrei. Gesù non nega la sua

qualità di re, ma spiega in quale senso deve essere intesa: «il mio regno non è di

questo mondo... Io sono nato e sono venuto nel mondo per questo: per rendere

testimonianza alla verità». Questa affermazione, annota l‟evangelista, non manca

di colpire Pilato che «ebbe ancor più paura» quando gli dissero che Gesù si «era

fatto Figlio di Dio». I soldati colgono questo pretesto per fare di Gesù un re da

burletta: intrecciano una corona di spine e gliela pongono sul capo, gli mettono

addosso un mantello di porpora e in mano una canna. Pilato, una volta che si è

ripreso, approfitta della regalità di Gesù per umiliare gli ebrei che detesta e che lo

mettono continuamente in situazioni impossibili: «Gesù, il Nazareno, il re dei

Giudei». San Giovanni, è evidente, riporta tutti questi fatti proprio per farci

comprendere che Gesù è veramente re. La sua regalità si manifesta pienamente

proprio nell‟”ora‟ della sua passione, che è anche il momento in cui possiamo

provare l‟autenticità della nostra fede, adorando Colui che è stato inchiodato alla

croce.

PER LA REGIA LITURGICA

In molte comunità cristiane i sacerdoti evitano di fare un‟omelia il venerdì

santo. È un segno di rispetto nei confronti del racconto che è stato appena inteso,

non tanto un accorgimento per abbreviare una liturgia che rischia di essere troppo

lunga! Del resto quale parola - pur di spiegazione e di commento pieno di fede ed

amore - potrebbe avere l‟ardire di coprire le parole che sono state appena udite?

Se, comunque, esiste la tradizione di fare l‟omelia noi consigliamo

vivamente un intervento breve. Che cosa dire?

1. Partire dall‟emozione benefica provocata dal racconto della passione di

Gesù, un‟emozione destata dalla morte di una persona alla quale vogliamo bene,

perché essa stessa ci ha manifestato per primo un immenso amore. L‟emozione è

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un passaggio importante, ma essa deve approdare alla fede, una fede che rigenera

tutta l‟esistenza cristiana.

2. Che cosa ci dice la fede sulla morte di Gesù? La prima realtà che ci

manifesta è la morte di Dio. Sulla croce appare tutto il mistero dell‟Incarnazione.

Colui che muore sulla croce è il Figlio di Dio. Varrebbe la pena ricordare qui le

icone orientali della Natività che mostrano la grotta della nascita uguale alla grotta

della sepoltura e la culla che coincide con una tomba, il corpo di Gesù avvolto in

fasce richiama anche il corpo del Signore morto coperto dalle bende. Accettiamo

questo annuncio della morte. E riconosciamo in questa morte l‟identità di Dio, di

quel Dio in cui crediamo. Egli ha voluto condividere la vita dell‟umanità fino a

questo punto, fino a compiere l‟itinerario completo della nostra esistenza, fino a

raggiungere anche il momento oscuro della morte. La vera contemplazione del

venerdì santo è contemplazione dell‟amore di Dio per gli uomini.

3. Ma c‟è anche una seconda verità che ci viene rivelata. Nel suo

abbassamento, nella sua spoliazione, nel suo incontro drammatico con l‟odio e la

violenza, Dio rimane Dio e riesce a vincere la morte e tutto ciò che genera morte.

Un cristiano non può contemplare la croce, dimenticandosi la risurrezione. La

risurrezione non rende artificiale o meno realistica e tragica la morte. Colui che

risuscita è morto veramente. Per essere vera, la risurrezione ha bisogno della

verità della morte, ma questa morte non è una morte qualsiasi, casuale. È la morte

di Colui che dà la vita per i suoi, per tutti, per amore. E ci invita a fare la stessa

cosa con la nostra vita, se vogliamo trovare la risurrezione.

4. Il suo sangue scende sopra di noi, ci purifica da ogni male. Il suo

sangue ci induce al pentimento e alla conversione. Il suo sangue ci lava da ogni

cattiveria. Il suo amore mette in risalto le nostre fragilità. Ma non per scoraggiarci.

Al contrario: per donarci una forza nuova, per trasmettere a noi la sua vita.

Oltre alla liturgia della Parola, in questa celebrazione del Venerdì santo vi

sono altri tre momenti importanti, che abbiamo già ricordato all‟inizio del nostro

intervento.

1. La solenne preghiera universale. Benché essa appaia oggi, dopo la

riforma liturgica del Vaticano II, meno desueta, bisogna riconoscere che è

caratterizzata da una ampiezza e da una profondità particolare. Richiede quindi di

essere compiuta con tutto il tempo che si rende necessario, dal momento che si

prevede l‟enunciazione dell‟intenzione, un breve silenzio per la preghiera

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personale e l‟orazione conclusiva (per ogni intenzione) da parte di colui che

presiede. Anche se una liturgia celebrata alle tre del pomeriggio prevede un buon

numero di ragazzi e di fanciulli, è bene non „saltare‟ il momento di silenzio.

Un‟introduzione molto breve potrà invitare a rispettarlo, anche se costa fatica.

2. L’adorazione della Croce. È un rito che trova la sua origine nella

Chiesa di Gerusalemme, dove ha assunto un‟ampiezza prima sconosciuta in

seguito al „ritrovamento‟ della croce di Cristo nel 326, ad opera di Sant‟Elena, la

madre dell‟imperatore Costantino. Anche se le persone presenti sono molte, vale

la pena di evitare l‟uso di due croci. È importante che tutti convengano verso uno

stesso „simbolo‟. Si cerchi, piuttosto, di accompagnare la realizzazione di questo

gesto, pieno di spontaneità e di affetto, intercalando dei canti e delle preghiere a

cui l‟assemblea può rispondere. Potrebbe essere utile anche utilizzare delle

preghiere che i fanciulli stessi del catechismo hanno composto e che vengono a

leggere, a turno, al microfono.

3. La Comunione. Non è un‟appendice devozionale, ma piuttosto il logico

proseguimento del rito. La preghiera del Padre Nostro fa da „passaggio‟, ci

permette di cogliere la nostra identità di figli di Dio e fratelli tra di noi. È il sangue

di Cristo sulla croce che ha reso possibile tutto questo. È sangue versato per quel

Regno di cui attendiamo e desideriamo il compimento. La Comunione in questa

giornata - severa, ma non luttuosa - assume un tono particolare.

Perché quel pane che riceviamo sulla mano rinvia immediatamente al

corpo martoriato che vediamo inchiodato alla croce.

La liturgia del venerdì santo si è aperta nel silenzio: è bene che si chiuda

anche con un silenzio pieno di rispetto e di contemplazione, in un clima di

preghiera che continua per tutti coloro che si fermeranno ai piedi della croce.

VEGLIA PASQUALE

Cristo è risorto!

“Gesù venne

loro incontro

dicendo:

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„Salute a voi”

(Matteo 28,9)

1. Liturgia della luce

Benché la parola occupi, al suo interno, un posto rilevante, bisogna

riconoscere che la liturgia è, fondamentalmente, questione di simboli, di azioni, di

gesti. Se si viene a cercare solo un insegnamento e se la si accosta con una

mentalità utilitaristica se ne resta immancabilmente delusi. Bisogna, dunque,

accettare i suoi dinamismi, che fanno appello all‟intelligenza, ma anche al cuore e

che, attraverso il simbolismo, impegnano tutto l‟essere. Non si tratta solo di

ascoltare, dunque ma anche di guardare per vedere, attraverso le realtà significate,

quello che le parole e le spiegazioni non possono evocare. Quanto vale in genere

per la liturgia, riguarda - a maggior ragione - la veglia pasquale. La liturgia della

luce non ha nulla di utilitaristico o di folkloristico, ma mostra come «la luce di

Cristo, risorto nella gloria, dissipa le tenebre del nostro cuore e del nostro spirito».

La processione al seguito del cero pasquale evoca il cammino del popolo di Dio,

guidato non più da una nube luminosa, ma dal Cristo glorioso che illumina ogni

uomo: «Cristo, luce del mondo...». «Rendiamo grazie a Dio!». Quando la chiesa

appare illuminata dalle candele che sono state accese al cero pasquale, essa viene

percorsa dalla più lunga e dalla più lirica delle azioni di grazie, il preconio

pasquale. In esso le espressioni si succedono l‟una all‟altra, con un‟audacia

straordinaria: «Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato

distrutto con la morte del Cristo! Felice colpa, che meritò di avere un

così grande redentore!». Ascoltando questo canto meraviglioso si capisce

perché questo cero viene acceso ad ogni battesimo e ad ogni celebrazione delle

esequie: «Ti preghiamo, dunque, Signore, che questo cero, offerto in

onore del tuo nome per illuminare l’oscurità di questa notte, risplenda

di luce che mai si spegne... Lo trovi acceso la stella del mattino, quella

stella che non conosce tramonto: Cristo, tuo Figlio, che risuscitato dai

morti, fa risplendere sugli uomini la sua luce serena...».

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2. Liturgia della Parola

La veglia pasquale continua con la liturgia della Parola che riserva un

posto eccezionale alla lettura dell‟Antico Testamento. È giusto, infatti, che in

questa santa notte venga consacrato un tempo più lungo all‟ascolto delle Sacre

Scritture e soprattutto a quelle tratte dall‟Antico Testamento. Si tratta di «partire

da Mosè e da tutti i profeti» per capire che «bisognava che il Cristo soffrisse tutto

ciò per entrare nella sua gloria» (Lc 24,26-27). Del resto, come afferma l‟orazione

che viene dopo la settima lettura, attraverso le pagine dell‟Antico e del Nuovo

Testamento, Dio ci prepara a celebrare il mistero pasquale. La scelta delle prime

quattro letture trova corrispondenza, almeno in parte, nella tradizione d‟oriente e

d‟occidente. Non solo, essa viene confermata anche dalla tradizione ebraica. Si

tratta - secondo il Targum palestinese del II secolo a.C. - delle „quattro notti‟ che

venivano ricordate nella notte di Pasqua: quella della creazione del mondo, quella

del sacrificio di Abramo, dell‟esodo e della venuta del Messia. Le altre tre letture,

invece, hanno chiaramente riferimenti battesimali. La lettera ai Romani, che viene

subito dopo di esse, riguarda dichiaratamente il battesimo, come passaggio dalla

morte del peccato alla vita per Dio. Infine, il vangelo ci conduce alla tomba del

Signore Gesù, quella tomba che le donne, all‟alba del primo giorno della

settimana, trovarono vuota e dove ricevettero il primo annuncio della risurrezione.

a) “In principio...” (Gen 1,1-2,2). L‟esperienza di ciò che Dio ha fatto per

il suo popolo fa nascere una domanda: «Chi è questo Dio che ci ama fino a questo

punto?». È la stessa questione che si è posta un sapiente di Israele, nel V-VI

secolo a.C., meditando sul potere con cui Dio guida la storia. Il ritorno insperato

dall‟esilio ne rappresentava la manifestazione più recente, ma per comprendere

era necessario riandare all‟inizio, a ciò che era avvenuto «in principio». Dio creò

il cielo e la terra, creò l‟uomo maschio e femmina «secondo la sua somiglianza»,

diede loro il compito di governare la terra e di riempirla. Ecco i primi atti di Dio

che lo rivelano e di cui si deve «fare memoria» ogni volta che si vuole

comprendere ciò che accade nella storia.

Di questo inizio viene tracciato un affresco davvero mirabile:

comprensibile a tutti - si potrebbe dire popolare - e di un‟esattezza teologica - o

addirittura mistica - considerevole, attraverso un racconto ordinato, facile da

memorizzare. Chi scrive conosce i miti babilonesi sulla creazione del mondo e in

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parte li utilizza, liberandoli dagli antropomorfismi più rudimentali e da ogni

dualismo, che prevede la lotta tra principio del bene e principio del male. Il Dio

del libro della Genesi crea con una sola parola: la sua parola giocherà un ruolo

decisivo in tutta la storia della salvezza, manifestando la sua iniziativa e la sua

potenza creatrice. Lo stesso vale a proposito del suo soffio vitale, dell‟acqua e

della luce.

b) La prova di Abramo (Gen 22,1-18). Anche se sappiamo che Isacco non

verrà immolato, tuttavia il racconto della prova a cui Dio sottomette Abramo non

manca di continuare a colpire per la sua drammaticità. Per la nostra coscienza

contemporanea è inammissibile che si debba uccidere qualcuno per dimostrare la

propria fedeltà. Lo è ancor più quando si chiese ad un padre di sacrificare il

proprio figlio, ma a fronte di queste difficoltà che avvertiamo oggi alla lettura di

questo testo, resta il fatto che il Nuovo Testamento fa più volte allusione alla

prova di Abramo e al sacrificio di Isacco, che vengono poi ripresi nell‟iconografia

cristiana. Dalla sua chiamata fino alla nascita di Isacco, la storia di Abramo

registra una serie di promesse da parte di Dio, alle quali egli deve credere

basandosi solo sulla parola del Signore. L‟episodio di cui ci occupiamo non

costituisce solo un momento tragico e sconvolgente della sua storia personale.

Questa „prova‟ rivela che la realizzazione delle promesse è assicurata perché Dio

si è impegnato e nulla può impedire che la parola di Dio giunga a compimento.

Questo fatto oscuro evoca per i cristiani ciò che è accaduto nella storia di Gesù: è

Gesù l‟Agnello di Dio, il Figlio della promessa che si compie una volta per tutte

attraverso la sua morte e risurrezione. Una morte che rimane una prova per la

fede: gli apostoli non l‟hanno superata con facilità.

c) «Quando Israele uscì dall’Egitto...» (Es 14,15-15,1). Non si può

celebrare la Pasqua, che ne costituisce il memoriale, senza rileggere il racconto di

quella notte, notte memorabile più di ogni altra notte, notte in cui il Signore liberò

il suo popolo dalla mano degli oppressori, in terra d‟Egitto. L‟esodo dall‟Egitto è,

difatti, il primo, grande avvenimento fondatore scritto nella memoria collettiva di

Israele. È anche il fatto cui questo popolo si riferisce continuamente quando deve

trovare un senso alla sua esistenza e ravvivare la sua speranza. Ma che cosa è

accaduto veramente in quel frangente? Quale fatto storico ha dato origine a questo

grande racconto? Una cosa è certa: Israele ha riconosciuto in quanto è accaduto un

intervento decisivo da parte di Dio, l‟intervento che deve essere ricordato di

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generazione in generazione. È il rito della Pasqua, celebrata ogni anno, mangiando

pani azzimi e l‟agnello pasquale, all‟interno di un pasto familiare in cui il padre

prende la parola per spiegare ai figli il significato di ciò che si sta facendo.

Dopo avervi alluso durante la sua predicazione. Gesù assegna alla Pasqua

un posto centrale nell‟Ultima Cena, nuovo banchetto pasquale, e nel discorso

d‟addio che ha luogo immediatamente dopo. Non è casuale, poi, che Giovanni

strutturi il suo vangelo attorno alle tre feste di Pasqua (Gv 2,13: purificazione del

tempio; Gv 6,4: moltiplicazione dei pani; Gv 13,1: l‟ultima cena di Gesù e la sua

passione). Egli presenta Gesù come il vero Agnello pasquale: il suo sacrificio

sulla croce inaugura l‟esodo definitivo. San Paolo (1Cor 10,1-2) vede nel

passaggio del mar Rosso l‟immagine del battesimo. Tutto questo non manca di

trovare un‟eco nel cuore dei cristiani, quando nella veglia pasquale ascoltano il

racconto dell‟esodo. Camminando dietro a Cristo, la nube luminosa che li precede,

essi sanno di poter oltrepassare ostacoli ritenuti insormontabili.

Ciò che un tempo Dio ha compiuto per un solo popolo, in Cristo l‟ha

realizzato per tutte le nazioni. Ecco perché l‟assemblea riprende il Cantico di

Mosè per cantare la vittoria del Cristo che ci libererà dalla schiavitù del peccato e

della morte.

d) Una felicità senza limiti (Is 54,5-14). La quarta tappa della storia della

salvezza - la quarta notte che vedrà risplendere la luce - è annunciata da una

parola del Signore contenuta nel libro della consolazione. È Dio stesso a parlare,

accostandosi al suo popolo con accenti di grande tenerezza: «tuo sposo è il tuo

creatore». Dio rivela di essere unito ad Israele da un legame d‟amore

indistruttibile. Ci sono state - è vero - delle crisi, dei periodi in cui l‟amata si è

allontanata dal suo sposo, dei momenti in cui Dio stesso sembrava aver deciso la

rottura, ma ora egli ha deciso di riprendere con immenso amore la sua alleanza, di

avere pietà e di mostrare un affetto perenne.

e) «Venite, ascoltate e vivrete!» (Is 55,1-11). L‟evocazione di ogni grande

tappa della storia della salvezza guidava lo sguardo del cristiano verso Cristo,

origine e compimento di ogni cosa. In questo modo le prime quattro letture

offrivano la possibilità di meditare nella fede il mistero della Pasqua di Cristo. I

tre oracoli che seguono permettono di prolungare questa riflessione considerando

l‟opera compiuta da Cristo in una prospettiva sacramentale. Così la conclusione

del «Libro della consolazione di Israele» (Is 55) mostra l‟”ora‟ in cui finalmente si

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può colmare la propria sete e la propria fame e cercare il Signore finché si fa

trovare. La salvezza, dunque, è alla portata di tutti, anche di coloro che non hanno

denaro. La tavola del Signore è offerta gratuitamente, il perdono e la salvezza

sono vicini a tutti gli uomini. Quello che colpisce in questo testo è l‟importanza

assegnata alla Parola. Nella parte finale il messaggio è molto chiaro. Dio dice:

«Ascoltate e vivrete», perché la parola non manca mai di raggiungere il suo

obiettivo.

f) Vieni alla saggezza! (Bar 3,9-15.31-4,4). Se la lettura che precede

aveva proposto una meditazione sulla Parola che risuona nel mondo, questo testo

profetico propone invece un inno alla Sapienza, che «è apparsa sulla terra e ha

vissuto in mezzo agli uomini». Il male in sé ha un‟antica causa e un‟unica

spiegazione: gli uomini si sono allontanati dai sentieri di Dio, dalla sorgente della

Sapienza, ma questa saggezza di Dio gli uomini non la possono raggiungere con le

proprie forze, resta fuori della loro portata. Le loro conoscenze non raggiungono

la conoscenza. Ogni ricerca di saggezza resta, dunque, votata al fallimento? No,

perché Dio stesso ha deciso di rivelare la sua Sapienza. La ricerca disperata si

cambia allora in gioia e gli occhi possono finalmente contemplare la luce. Il

Cristo, «pieno di grazia e di verità», è lui stesso «la Sapienza di Dio», «la via, la

verità e la vita».

g) «Metterò dentro di voi uno spirito nuovo” (Ez 36,16-28). L‟ultima

delle letture dell‟Antico Testamento è tratta dal libro di Ezechiele, quando il

profeta riferisce la parola di Dio che gli è stata rivolta. È Dio stesso ad evocare ciò

che è accaduto: il peccato, i crimini, l‟idolatria del popolo che hanno provocato il

suo furore e l‟hanno costretto al castigo dell‟esilio. Non bisogna cercare altrove la

causa della deportazione: la corruzione era diventata radicale, ma le nazioni non

hanno compreso la storia così e ora si prendono beffe del Dio d‟Israele. Per questo

Dio non può fare a meno di reagire. Radunerà tutti i dispersi, porrà fine all‟esilio,

ricondurrà il suo popolo in patria. Per operare questo, si rende, tuttavia, necessaria

una purificazione che solo Dio può operare. Ad essere toccato è stato il cuore del

suo popolo: questo cuore deve essere ricreato. Dio porrà in ognuno il suo Spirito

che lo rigenererà. Inutile dire che i cristiani pensano immediatamcnte alla

rigenerazione realizzata dal battesimo, che è una seconda nascita «dall‟acqua e

dallo Spirito».

h) Il battesimo: morte al peccato per rinascere ad una vita nuova (Rom

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6,1-11). Il capitolo 6 della lettera ai Romani ci appare come lo schema di

un‟omelia battesimale, nella quale Paolo invita i cristiani a considerare le

conseguenze del battesimo. Molte formule ci fanno pensare allo stile di un oratore

che si sforza di convincere il suo uditorio («Non sapete...? Sappiamo bene...»).

Tutto ruota attorno all‟affermazione: «battezzati in Cristo Gesù». Attraverso il

battesimo, ricevuto nella fede, si instaura, infatti, una stretta solidarietà con Cristo.

Il simbolismo dell‟immersione aiuta a comprendere il significato del battesimo.

Non immaginiamo, però, una piscina profonda alcuni metri! I bagni romani erano

poco profondi..., ma non è per questo che il segno dell‟acqua risulta meno forte.

Come tutti i grandi simboli, anche l‟acqua è caricata di un duplice significato,

morte e vita. I salmi non mancano di evocare le «acque della morte» da cui il

fedele domanda di essere salvato. Ora con il battesimo noi veniamo immersi in

quella prova, da cui il Cristo è uscito vivo e glorioso il mattino di Pasqua. Per noi,

tuttavia, la risurrezione avviene in due tempi: prima il dono di una vita nuova, che

si deve tradurre quotidianamente in una rottura radicale con il peccato, poi la

risurrezione che configurerà definitivamente il nostro corpo umiliato al corpo

glorioso del Cristo.

i) Risurrezione di Cristo e tempi nuovi (Mt 28,1-10). Matteo vede nella

risurrezione di Cristo l‟inaugurazione dei tempi nuovi, l‟avvenimento che prelude

alla fine dei tempi (Mt 28,1-10). Il suo racconto si presenta come quello più ricco

di dettagli, più elaborato teologicamente e, grazie al suo ieratismo, anche quello

più liturgico. L‟evangelista, infatti, ha notato che le due donne, «Maria di Magdala

e Maria, la madre di Giacomo e di Giuseppe», hanno assistito alla sepoltura di

Gesù e hanno visto che veniva posta una grande pietra all‟entrata del sepolcro.

Ricorda anche come siano state collocate delle guardie per sorvegliare la tomba di

Gesù. Apparentemente tutto sembra finito, ma l‟evangelista sa bene che le cose

non sono così. Se insiste su alcuni fatti ed alcuni dettagli è perché il lettore se ne

ricordi quando leggerà il seguito del racconto. Questo comincia proprio con la

visita alla tomba delle due donne, che erano state testimoni della sepoltura e di

tutte le precauzioni prese dall‟autorità.

«All‟alba del primo giorno della settimana», quando vanno al sepolcro,

esse avrebbero, dunque, dovuto trovare le cose come le avevano lasciate il

venerdì, ma non è affatto così. Si produce un insieme di fatti straordinari: un gran

terremoto (come quello che era accaduto alla morte di Gesù), la pietra rotolata via,

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l‟angelo del Signore seduto sopra la stessa pietra (il suo aspetto era come la

folgore) e, come al momento della morte di Gesù, ancora una volta le guardie

sono piene di spavento. Tuttavia, pur mettendo insieme tutti questi elementi che

sono abituali nelle apocalissi, il racconto di Matteo rimane di una grande sobrietà.

Infatti, Matteo non scrive questi particolari per soddisfare la curiosità dei lettori,

ma perché noi possiamo comprendere come la risurrezione inaugura un mondo

nuovo, la fine dei tempi: è «il primo giorno della settimana». Egli vuol farci

cogliere la potenza del Dio invisibile che è all‟opera: a guardar bene non c‟è nulla

da vedere, se non dei segni. Come ha ben detto il preconio: «O notte beata, tu sola

hai meritato di conoscere il tempo e l‟ora in cui Cristo è risorto dagli inferi».

Contrariamente alle guardie, che sono morte di paura, le donne accolgono

il messaggio dell‟angelo: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù, il

crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto». È il messaggio pasquale in

tutta la sua forza e la sua semplicità, così come verrà proclamato nella

predicazione apostolica. Vale la pena di sottolineare come la fede dei discepoli si

basi proprio sulla parola di Gesù.

L‟angelo aggiunge: «Venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto,

andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti e vi precede in Galilea: là lo

vedrete». Anche questo Gesù l‟aveva anticipato e promesso (Mt 26,32).

Il messaggio è così importante che bisogna andare a comunicarlo in tutta

fretta: le donne lo fanno «con timore e gioia grande». Gesù stesso, a questo punto

viene incontro alle donne ed esse «avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo

adorarono». Anche Gesù ripete che l‟appuntamento per i discepoli è in Galilea.

Perché questa insistenza continua sulla Galilea? Basta leggere il seguito di

Matteo per capirlo. In una scena grandiosa egli mostra gli undici apostoli che

manifestano la loro fede nel Signore risorto: nonostante i loro dubbi, essi «si

prostrarono» davanti a lui. In quell‟occasione essi vengono inviati in missione (Mt

28,18-20): «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque, e

ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del

mondo». È proprio verso questa conclusione del vangelo di Matteo che vuole

orientare il racconto della risurrezione.

Perché parliamo di un chiaro “sapore liturgico” del racconto? Perché gli

atteggiamenti delle donne sono quelli della liturgia («si prostrarono»). In questo

modo Matteo ricorda che la risurrezione di Gesù è essenzialmente oggetto di fede.

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Non bisogna cercare delle „prove‟, ma fidarsi dei testimoni.

3. Liturgia battesimale

Oltre ad una liturgia della Parola più sviluppata, la celebrazione della

veglia pasquale comporta una liturgia battesimale. Questa si può svolgere in due

forme: in un caso l‟acqua viene benedetta per il battesimo che ha luogo

immediatamente dopo o nel tempo pasquale, nell‟altro la celebrazione del

battesimo non è prevista, ma ha comunque luogo un‟aspersione di acqua benedetta

e il rinnovamento delle promesse battesimali. Infatti, la notte pasquale assurge ad

una sorta di anniversario del battesimo di ogni cristiano, quale che sia la data in

cui esso di fatto è stato celebrato.

La benedizione dell‟acqua battesimale evoca i grandi momenti della storia

della salvezza in cui l‟acqua ha giocato un ruolo: dagli inizi, quando lo Spirito di

Dio deponeva nell‟acqua la forza che santifica, al diluvio in cui essa ha

prefigurato la morte al peccato e la nascita di una giustizia nuova, al passaggio del

mar Rosso, al battesimo di Gesù e alla sua morte in croce, quando dal suo costato

aperto esce sangue ed acqua, per concludere con la missione affidata agli apostoli

di battezzare «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»,

4. Liturgia eucaristica

«Cristo è risorto! È veramente risorto!»: il grido lanciato nella notte di

Pasqua si ripercuote di secolo in secolo, nel corso della celebrazione della Pasqua,

da un‟assemblea cristiana all‟altra. Si prolunga in Alleluia infiniti che cantano la

gioia del cielo e della terra.

Eppure l‟espressione più consistente di questa gioia è l‟azione eucaristica.

È l‟eucaristia di ogni domenica che in questa notte assume, però, un significato

particolare. Dopo aver rivissuto ciò che Dio ha fatto «dagli inizi», si può percepire

meglio il canto di lode di tutta la creazione che inonda il cielo e la terra: «È

veramente cosa buona giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, proclamare

sempre la tua gloria, o Signore, e soprattutto esaltarti in questa notte nella “quale

Cristo, nostra Pasqua, si è immolato”.

5. Per la regia liturgica

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Quale omelia nella veglia pasquale? a) In questa notte, illuminata dalla

gloria del Risorto, l‟assemblea cristiana è invitata a celebrare il suo passaggio

dalla morte alla vita.

Chiamando il suo Figlio crocifisso a vita nuova, Dio non ha né annullato

né banalizzato l‟atroce realtà della sua morte umana, ma ne ha cambiato il

significato. La risurrezione mostra come la prova angosciosa della morte apre un

passaggio verso la comunione con Dio.

b) Tutta la vita di un battezzato è una Pasqua, un esodo dal paese

dell‟idolatria, della menzogna e della violenza. Mentre annuncia il nostro destino

di risorti con Cristo, la veglia pasquale celebra il mistero quotidiano della nostra

rinascita, così magnificamente evocato dai simboli: la luce, la parola, l‟acqua del

battesimo, il pane e il vino dell‟eucaristia.

c) Su questi elementi vale la pena soffermarsi, prediligendo in particolare

l‟uno o l‟altro. Senza eccessi, tuttavia. Infatti, l‟omelia ha lo scopo di portare a

parola ciò che già si vede e si intuisce attraverso l‟azione liturgica e di collegarlo

alla storia di una comunità. In ogni caso si preferisca il ricorso alle immagini, ai

fatti, attraverso un linguaggio evocativo e poetico, piuttosto che infarcire la

propria presa di parola di elementi dottrinali e didattici: si rischierebbe di

mortificare la grande ricchezza di questa veglia. Basterà allora poco per far

emergere l‟esperienza di credenti che si sentono illuminati dal Signore e che, pur

nella loro fragilità, sono guidati fiduciosamente lungo i sentieri della storia.

Oppure si potrà richiamare i momenti in cui avvertiamo una „sete‟ che solo lo

Spirito, con la sua presenza, riesce ad estinguere... una sete che si esprime

attraverso le grandi domande, i grandi interrogativi dell‟esistenza. O ancora si farà

percepire quale senso assume, in questa veglia, la ripetizione del gesto dell‟Ultima

Cena, come essa faccia commensali del Signore risorto, facendo ripetere la stessa

esperienza degli apostoli.

d) Se si assegna una parte preponderante dell‟omelia al percorso tracciato

dalla proclamazione delle letture, se ne scelgano una o due il brano paolino e il

racconto evangelico, o una lettura veterotestamentaria e l‟annuncio della mattina

di Pasqua.

e) Non si passi, comunque, sotto silenzio l‟importanza che assume

l‟appuntamento in Galilea. Il destino di Gesù si è compiuto, in modo drammatico,

nella città santa (“non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”: Lc

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13,33), ma il Risorto di Gerusalemme è lo stesso Maestro che ha cominciato la sua

missione in Galilea. Si tratta in ogni caso di lasciare i luoghi santi, consacrati dalla

tradizione, per recarsi al crocevia delle nazioni, perché il vangelo deve essere

portato ad ogni popolo. L‟assemblea che celebra la Pasqua sarà in grado di

affrontare la dispersione con lo stesso coraggio e la stessa fiducia degli apostoli?

Quanto è già stato detto sullo svolgimento rituale dovrebbe aver reso

avvertito il sacerdote o il gruppo liturgico che preparano la veglia. Poiché si tratta

di una veglia suggestiva e straordinariamente ricca, il rischio è quello di impedire

l‟accesso ai grandi simboli e ai grandi elementi della celebrazione. Come

suggeriscono le schede, si ricorra a pochi commenti, sobri ed in ogni caso

essenziali. Se si compie ogni azione con dignità e si eseguono i gesti previsti con

semplicità e calma, questa liturgia porterà una grande consolazione e una grande

gioia a coloro che vi partecipano.

Eppure non si può dar l‟impressione di avere fretta: meglio diminuire il

percorso delle letture, che proclamarle frettolosamente.

Né si può lesinare sulle candele: si priverebbero i presenti della

sensazione fisica che si prova nel reggere un cero acceso.

Né si può ricorrere ad oggetti che mortificano l‟azione liturgica: ci vorrà

un bel cero pasquale e un bacile degno di contenere l‟acqua battesimale, se non si

utilizza lo stesso battistero.

Si valuti anche la necessità di non „schiacciare‟ l‟azione eucaristica perché

ci si è troppo attardati precedentemente. Anche se il rendimento di grazie è

comune ad ogni messa, la celebrazione eucaristica di questa notte è del tutto

particolare.