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Trib. Bologna 19 gennaio 2006, g.u.p. Gamberini Motivazione (omissis) La mattina del 24 maggio 2000, una pattuglia del commissariato della Polizia di Stato di Imola interveniva presso la comunità di ricovero (...), dove era stata segnalata l’aggressione di un inserviente da parte di un paziente. Intervenuti sul posto, gli agenti constatavano che G.M., soggetto affetto da schizofrenia paranoide cronica, aveva accoltellato l’operatore A.C.. Quest’ultimo, attinto alla regione sottoclaveare sinistra, nonostante venisse sottoposto immediatamente alle cure del medico, intervenuto prontamente con un’ambulanza, decedeva alle ore 9,30 per arresto cardiocircolatorio. Gli operanti, dopo avere tratto in arresto il G.M., rinvenivano sotto il materasso del letto in uso al medesimo un coltello da cucina con una lama di 22 cm., ancora sporco di sangue, utilizzato dal paziente per colpire il A.C. Nella c.n.r. si legge testualmente: "… Dalle dichiarazioni essenzialmente è emerso che il G.M. negli ultimi tempi aveva manifestato un peggioramento della sua condizione mentale; infatti rifiutava il cibo ritenendo che fosse avvelenato, si era isolato diventando ossessionato da tutto quello che lo circondava evitando di assumere i medicinali che gli erano stati prescritti. Si è evidenziato che questo peggioramento è stato una conseguenza della diminuzione del dosaggio dei farmaci disposto dal Dr. XX, psichiatra che ha in cura il G.M. dal novembre scorso". A seguito dell’omicidio, G.M. veniva arrestato e allo stesso veniva applicata dal G.I.P. la misura di sicurezza del ricovero presso un ospedale psichiatrico giudiziario. Lo stesso veniva quindi ristretto presso la struttura di Montelupo Fiorentino. Tutti i soggetti operanti nella comunità (...) sentiti nelle immediatezze del fatto riferivano di avere constatato un notevole peggioramento dell’umore e del comportamento da parte del G.M. nelle ultime settimane prima del tragico evento (cfr. s.i.t. M.M., G.S.P., D.C., Z.S.). Significative sono le dichiarazioni rese da D'A.F., assistente di base della Comunità, la quale riferiva quanto segue: "… Circa quindici giorni fa, il dott. XX, ritenendo che le condizioni del G.M. fossero sensibilmente migliorate, gli ha modificato la terapia farmacologica ed in particolare ha ritenuto di non praticargli più una particolare terapia intramuscolare… In coincidenza di tale fatto, ho potuto constatare un sensibile cambiamento di umore da parte del G.M.. Infatti, egli tendeva spesso ad isolarsi ed era divenuto un po’ aggressivo nei confronti degli ospiti dell’(...) ed in particolare con alcuni operatori di sesso maschile (…). Il G.M., a seguito di questo cambiamento di umore, rifiutava il cibo e qualsiasi terapia medica propostagli. Egli era solito recarsi in qualche bar a consumare i suoi pasti. In verità ero molto preoccupata per tale atteggiamento tanto che tale preoccupazione si era trasformata in paura quando il G.M. aveva cominciato a chiedermi di aiutarlo ad ammazzare, come diceva lui, tutti. Tale richiesta, come ho saputo successivamente, il G.M. l'ha fatta anche al F.A. Avevo fatto presente www.personaedanno.it

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Trib. Bologna 19 gennaio 2006, g.u.p. Gamberini

Motivazione

(omissis)

La mattina del 24 maggio 2000, una pattuglia del commissariato della Polizia di Stato di Imola interveniva presso la comunità di ricovero (...), dove era stata segnalata l’aggressione di un inserviente da parte di un paziente. Intervenuti sul posto, gli agenti constatavano che G.M., soggetto affetto da schizofrenia paranoide cronica, aveva accoltellato l’operatore A.C.. Quest’ultimo, attinto alla regione sottoclaveare sinistra, nonostante venisse sottoposto immediatamente alle cure del medico, intervenuto prontamente con un’ambulanza, decedeva alle ore 9,30 per arresto cardiocircolatorio. Gli operanti, dopo avere tratto in arresto il G.M., rinvenivano sotto il materasso del letto in uso al medesimo un coltello da cucina con una lama di 22 cm., ancora sporco di sangue, utilizzato dal paziente per colpire il A.C.

Nella c.n.r. si legge testualmente: "… Dalle dichiarazioni essenzialmente è emerso che il G.M. negli ultimi tempi aveva manifestato un peggioramento della sua condizione mentale; infatti rifiutava il cibo ritenendo che fosse avvelenato, si era isolato diventando ossessionato da tutto quello che lo circondava evitando di assumere i medicinali che gli erano stati prescritti. Si è evidenziato che questo peggioramento è stato una conseguenza della diminuzione del dosaggio dei farmaci disposto dal Dr. XX, psichiatra che ha in cura il G.M. dal novembre scorso".

A seguito dell’omicidio, G.M. veniva arrestato e allo stesso veniva applicata dal G.I.P. la misura di sicurezza del ricovero presso un ospedale psichiatrico giudiziario. Lo stesso veniva quindi ristretto presso la struttura di Montelupo Fiorentino.

Tutti i soggetti operanti nella comunità (...) sentiti nelle immediatezze del fatto riferivano di avere constatato un notevole peggioramento dell’umore e del comportamento da parte del G.M. nelle ultime settimane prima del tragico evento (cfr. s.i.t. M.M., G.S.P., D.C., Z.S.).

Significative sono le dichiarazioni rese da D'A.F., assistente di base della Comunità, la quale riferiva quanto segue: "… Circa quindici giorni fa, il dott. XX, ritenendo che le condizioni del G.M. fossero sensibilmente migliorate, gli ha modificato la terapia farmacologica ed in particolare ha ritenuto di non praticargli più una particolare terapia intramuscolare… In coincidenza di tale fatto, ho potuto constatare un sensibile cambiamento di umore da parte del G.M.. Infatti, egli tendeva spesso ad isolarsi ed era divenuto un po’ aggressivo nei confronti degli ospiti dell’(...) ed in particolare con alcuni operatori di sesso maschile (…). Il G.M., a seguito di questo cambiamento di umore, rifiutava il cibo e qualsiasi terapia medica propostagli. Egli era solito recarsi in qualche bar a consumare i suoi pasti. In verità ero molto preoccupata per tale atteggiamento tanto che tale preoccupazione si era trasformata in paura quando il G.M. aveva cominciato a chiedermi di aiutarlo ad ammazzare, come diceva lui, tutti. Tale richiesta, come ho saputo successivamente, il G.M. l'ha fatta anche al F.A. Avevo fatto presente questo fatto alla mia coordinatrice ed avevo annotato il tutto nel quaderno delle consegne che voi avete sequestrato. Tali richieste sono cominciate circa 15 giorni fa a seguito dell’interruzione della terapia intramuscolare. Avevo la strana sensazione che qualcosa dovesse accadere…".

La Dott.ssa K.K., coordinatrice della Comunità (...), dichiarava agli operanti che il G.M. aveva da sempre esternato la volontà di interrompere la terapia farmacologia, ma che i precedenti medici che lo avevano in cura non avevano mai ritenuto opportuno accontentarlo. Il Dottor XX, al contrario, aveva cominciato a diminuire il dosaggio delle iniezioni, mantenendo inalterata la terapia orale; lo stesso si era peraltro raccomandato di avvertirlo nel caso in cui fossero subentrate delle novità o dei motivi di preoccupazione. La Dott.ssa K.K. riferiva inoltre di avere avvertito il Dottor XX, verso la metà del mese in corso, dei primi segnali di malessere manifestati dal paziente; dopo qualche giorno lo aveva informato che la situazione stava rapidamente peggiorando e gli aveva chiesto di anticipare la visita programmata per il giorno 23 maggio; lo psichiatra le aveva quindi suggerito di accompagnare il G.M. nel pomeriggio del giorno 18 maggio. Tuttavia, poiché il paziente si era rifiutato di recarsi alla visita, dopo varie insistenze da parte della Dott.ssa K.K., il

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Dottor XX si era recato presso la struttura residenziale ove aveva incontrato il G.M.; quest’ultimo si era però opposto a che gli somministrassero nuovamente il neurolettico depot, non riconoscendo al Dottor XX il suo ruolo di medico. Alla fine, il Dottor XX si era lasciato convincere dal paziente che il giorno successivo si sarebbe fatto praticare l’iniezione dalla dott.ssa D’A. (medico di base del paziente), cosa che effettivamente era avvenuta il giorno dopo. La coordinatrice aggiungeva che il giorno 22 maggio era stata informata da uno degli operatori che il G.M. non aveva assolutamente cambiato il suo comportamento e che stava ulteriormente peggiorando. La stessa aveva telefonato al Dottor XX, il quale, tuttavia, essendo di fretta, le aveva risposto di chiamarlo alle successive ore 17,00; nell'occasione la Dott.ssa K.K. gli aveva riferito che il G.M. da alcuni giorni si rifiutava di assumere le gocce di ‘Valium’ ed ‘Entumin’ e il Dottor XX le aveva replicato che era sua intenzione inserire nella terapia anche del Clopixol. Dichiarava infine la Dott.ssa K.K.: "i rapporti fra il G.M. e il A.C. sono sempre stati in un ambito di normalità e fra i due non ci sono mai stati episodi di litigi; solo in questi ultimi giorni il G.M. si comportava con il A.C. nella stessa misura in cui si comportava con la maggior parte degli operatori e cioè rifiutava qualsiasi contatto fisico e visivo".

L’odierno imputato (le cui dichiarazioni risultano in questa sede pienamente utilizzabili in quanto rese in un momento in cui non emergevano nei suoi confronti indizi di reità) riferiva ai verbalizzanti di avere cominciato a seguire il G.M. dal novembre 1999, allorquando la Dott.ssa YY 3, psichiatra referente del paziente, e la Dott.ssa Z.Z., lo pregarono di subentrare alla prima per delle difficoltà di carattere relazionale che si erano manifestate. Dichiarava il Dottor XX che "il paziente presentava un quadro di schizofrenia paranoide cronica in condizioni di buon compenso e per questa patologia assumeva costantemente neurolettici depot, neurolettici per bocca, farmaci anti parkinsoniani e tranquillanti tipo benzodiazetipinico; inoltre il G.M. presentava alcune problematiche del tipo medico quali blocco atrio-ventricolare, altre problematiche del tipo ipertensivo; infine, a causa della costante assunzione di farmaci neurolettici presentava segni di parkinsonismo iatrogeno". Spiegava quindi di avere inizialmente deciso di proseguire la terapia esistente, verificando ad ogni somministrazione di neurolettici depot – che avveniva ogni tre settimane – il quadro clinico del paziente. Nei mesi successivi, dopo avere accertato che permanevano le sue condizioni di buon compenso psicopatologico, tenuto conto dei problemi di tipo parkinsoniano che presentava il paziente, della sua collaborazione ad assumere la terapia per bocca e della sua manifestata volontà di interrompere il trattamento depot, il Dottor XX aveva deciso di diminuire a scalare il dosaggio di questo tipo di neurolettici, invitando al contempo gli operatori a fornirgli elementi e notizie "nel caso avessero notato alterazioni dello stato psichico del paziente". Riferiva, inoltre, che una decina di giorni prima della tragedia, il personale della comunità gli aveva comunicato che il G.M. stava ripresentando aspetti deliranti di chiusura e di rifiuto del cibo. In giorno 19 maggio era prevista la visita del G.M. ma questi si era rifiutato di recarsi dallo psichiatra; il dottore si era quindi recato personalmente presso la comunità (...) ove aveva constatato il peggioramento della situazione psicopatologica del paziente; costui, infatti, aveva rifiutato di avere rapporti con il medico nonché di farsi fare l’iniezione di neurolettici. Dopo avere parlato con il G.M. ed avere ricevuto assicurazioni che si sarebbe fatto fare l’iniezione il giorno successivo dal suo medico curante, il Dottor XX aveva lasciato il farmaco depot ai responsabili in modo che, il giorno dopo, la dott.ssa D’A. avrebbe potuto somministrarglielo per iniezione. Nel frattempo, lo psichiatra aveva preso contatti con il dott. G., il collega che sarebbe subentrato per le urgenze, avvertendolo che, nel caso in cui il G.M. avesse rifiutato la terapia, sarebbe stato necessario chiedere un T.S.O. Tuttavia, il giorno successivo, era stato rassicurato dai colleghi sul fatto che l’uomo aveva accettato di farsi praticare l’iniezione dalla dott.ssa D’A.

Nella mattinata del giorno prima l’accoltellamento, la Dott.ssa K.K. aveva contattato l’attuale imputato per riferirgli che, sebbene fosse stato somministrato al G.M. il farmaco depot, lo stesso presentava ancora aspetti deliranti, per cui il Dottor XX le aveva indicato di introdurre nella terapia serale un nuovo neurolettico in compresse.

Il giorno successivo, gli operanti provvedevano ad escutere a s.i.t. la Dott.ssa Z.Z., la quale ebbe a lavorare presso l’ospedale psichiatrico di Imola per nove anni, sino alla chiusura avvenuta nel 1996, proprio nel reparto in cui era ricoverato il G.M.. La stessa dichiarava testualmente: "…Durante il mio servizio di lungo degenza al reparto n. 7, ricordo che il dott. Vinci, che era il primario, si raccomandò di non calare la terapia neurolettica al G.M., anche se lui continuamente lo chiedeva, perché c’era la possibilità che il paziente si scompensasse. Questo tipo di raccomandazione l’avevo trasmessa alla dott.ssa YY 3 dal momento

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in cui lei iniziò a seguire il G.M. e, successivamente, quando subentrò alla dott.ssa YY 3 il dott. XX, ritenni opportuno ribadire anche a lui la predetta raccomandazione".

La Dott.ssa YY 3 riferiva di essere stata il consulente psichiatra di G.M. dalla primavera del 1997 (data nella quale lo aveva preso in carico dalla collega Dott.ssa Z.Z.) sino all’autunno del 1999. La stessa asseriva che il G.M. era sempre stato un paziente difficile da trattare "in quanto non ha mai accettato facilmente la somministrazione di medicinali perché lui riteneva di non averne bisogno"; proprio per questo motivo, la psichiatra aveva accettato di diminuire la terapia orale. La donna dichiarava, tuttavia, che il G.M. – per quanto lei potesse ricordare – non aveva mai manifestato comportamenti aggressivi nei confronti delle altre persone.

F.A., assistente di base presso il centro (...), affermava che, sino a qualche mese prima, il G.M. si era sempre comportato in maniera tranquilla ed era sempre apparso disponibile alla compagnia; ad un certo punto, tuttavia, a seguito del decesso di due donne ricoverate nella struttura, il paziente aveva iniziato a chiudersi sempre di più in sé stesso, rifiutando anche di nutrirsi e di assumere la terapia orale.

L’addetta alle pulizie G.S.P. dichiarava di avere notato che, già da alcuni giorni, il G.M. era diventato silenzioso e triste e che parlava sovente da solo; in un’occasione le aveva detto: "Paola, vai, vai, che qui si muore", probabilmente riversando su di lei la paura della morte.

A.F., volontario del servizio civile da circa tre mesi, asseriva che il G.M., nei primi due mesi e mezzo, gli era parso disponibile e cordiale; tuttavia, nell’ultimo periodo – in particolare da quando gli era stata tolta l’iniezione di neurolettici – lo stesso era divenuto introverso, sospettoso e aveva difficoltà a riconoscere le persone. Di tutto ciò egli aveva informato i responsabili della comunità. Il volontario non era però in grado di affermare con certezza se il G.M. assumesse o meno la terapia orale.

L’assistente di base M.M. confermava quanto riferito dagli altri operatori in ordine all’atteggiamento assunto dal paziente negli ultimi quindici giorni e riferiva di avere avuto la netta sensazione che il G.M. non assumesse più la terapia orale, per cui di ciò ne aveva fatto menzione nelle consegne giornaliere. La donna sosteneva inoltre di avere visto negli ultimi due giorni il G.M. con uno sguardo strano e che ciò le aveva fatto pensare che l’uomo stesse meditando "qualche cosa di poco piacevole".

Il 17 giugno 2000, gli operanti procedevano all’escussione di O.M., operatrice nel campo dell’assistenza, legata sentimentalmente al A.C. da tre anni. La donna dichiarava che il compagno aveva iniziato a lavorare presso la comunità (...) da circa un anno, dopo che era stato allontanato dal precedente posto di lavoro (assistenza a portatori di handicap) in quanto si era reso responsabile di comportamenti nei confronti di un assistito che "avevano leso l’immagine della capacità di assistenza dei Servizi Sociali imolesi". A.C. le aveva in più occasioni raccontato che vi era un ospite della residenza che più volte lo aveva avvicinato e, in dialetto, lo aveva minacciato di morte. Un mese prima di morire, la vittima aveva manifestato alla O.M. i propri timori, riferendo che il G.M. era notevolmente scompensato ed aveva intensificato le minacce. La donna, evidentemente preoccupata, gli aveva consigliato di metterne a conoscenza il dottor XX e si era informata se quest’ultimo avesse pensato ad intervenire per consentire al paziente di superare la fase di scompenso ma la futura vittima le aveva risposto di essere al corrente del fatto che il medico aveva pensato a dei cambiamenti ma, non avendolo mai incontrato, di non sapere di cosa si trattasse. Nell’ultimo periodo, il A.C. le aveva riferito che il G.M. stava sempre più peggiorando, che aveva smesso di uscire dalla propria stanza e che non voleva più assumere la terapia farmacologica. La sera della tragedia, la zia del A.C. le aveva raccontato che il giorno prima, recandosi a casa sua per prendere il figlio, il nipote le aveva detto che quel pomeriggio il G.M., in dialetto, aveva nuovamente minacciato di ucciderlo con un coltello.

Il P.M. incaricava il dott. Renato Ariatti della consulenza tecnica in ordine alla capacità di intendere e di volere del G.M. al momento del fatto criminoso nonché all’attuale pericolosità sociale.

Lo psichiatra, dopo avere incontrato il paziente presso l’O.P.G. di Montelupo Fiorentino, nel concludere per una palese condizione di incapacità di intendere di volere al momento del fatto e di evidente pericolosità sociale, nella sua relazione scriveva: "(…) Tutta la documentazione esaminata, che copre un arco di

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moltissimi anni, nonché gli accertamenti recentemente condotti, orientano in modo inequivocabile per una grave patologia schizofrenica, esordita oltre trenta anni fa, e poi cronicizzatasi nonostante le diverse terapie tentate. Nella storia del periziando infatti si ritrovano, variamente associati fra loro, anche se in epoche cronologicamente diverse, e con prevalenza ora dell'uno, ora dell'altro, tutti i sintomi patognomonici della schizofrenia, e che costituiscono i criteri universalmente accettati in ambito scientifico per porre diagnosi di tale patologia. Sono infatti ampiamente descritti, nelle cosiddette fasi "attive" o floride del disturbo, idee deliranti, a prevalente contenuto persecutorio, allucinazioni, soprattutto uditive, eloquio a tratti incoerente e disorganizzato, comportamento sovente inadeguato, con lunghe fasi di appiattimento dell'affettività, abulia, negativismo, ritiro e "chiusura". Si può concordare, più nello specifico, con la diagnosi posta in più occasioni dai colleghi imolesi di "schizofrenia paranoie". (…) I temi persecutori, soprattutto in questa variante della malattia, rappresentano, unitamente ad una modalità di comportamento stenica ed oppositiva, l’aspetto più rilevante ai fini del rischio di manifestazioni di violenza eterodiretta (…)".

Il P.M. procedeva altresì ad incaricare il prof. Michele Schiavon e il dott. Mario Iannucci della consulenza tecnica avente ad oggetto, tra l’altro, il seguente quesito: "se la patologia dalla quale è affetto G.M. fosse tale da far prevedere la consumazione di fatti di violenza in danno di persone ed, in particolare, degli operatori con i quali era in contatto al momento dell’omicidio e, in caso positivo, se il trattamento farmacologico e terapeutico prestato al medesimo G.M. nel periodo immediatamente precedente e concomitante ai fatti di causa fosse o meno idoneo a contenerne la pericolosità sociale". Delle risultanze di tale consulenza tecnica si darà conto nel corso della trattazione.

In data 23 settembre 2003, il G.M. decedeva presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia per "uno shock emorragico derivato da un’imponente emorragia digestiva, derivata dalla fistolizzazione di un vaso mediastinico di un voluminoso diverticolo paraesofageo" (cfr. esiti consulenza tecnica disposta dal P.M. di Reggio Emilia).

* * * * *

Preliminarmente ad ogni valutazione di merito, è necessario, ad avviso di questo giudicante, evidenziare il quadro psico – patologico del G.M. al momento del fatto, con particolare riguardo all’anamnesi personale e patologica del medesimo e al progressivo riacutizzarsi della malattia e degli impulsi di aggressività manifestatisi nelle settimane anteriori all’accoltellamento del A.C.

A tale proposito va sottolineato che vi è un sostanziale accordo tra tutti gli psichiatri che si sono interessati della vicenda (o perché medici curanti del paziente o perché incaricati di redigere consulenze o perizie in questo procedimento) sulla patologia psichiatrica dalla quale era affetto il G.M.: si trattava di una forma di "schizofrenica paranoide cronica" in fase di parziale remissione.

Con riguardo all’anamnesi del medesimo e ai suoi trascorsi giudiziari e clinici, significativa è la ricostruzione operata – attraverso l’esame della copiosa documentazione acquisita presso i vari O.P.G. e il Dipartimento di Salute Mentale di Imola – dai consulenti tecnici del P.M. Nella stessa si legge:

"(…) L’esordio certo della storia psichiatrica di G.M. è collocabile nel novembre del 1970, periodo nel quale, essendosi reso autore di un reato di resistenza a pubblico ufficiale, venne sottoposto a perizia psichiatrica e giudicato non imputabile per totale infermità di mente. Trascorse allora quattro anni (1970-1974) in misura di sicurezza in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (nelle sedi di Reggio Emilia e Aversa) e al termine di detto periodo venne trasferito all'Ospedale Psichiatrico di Imola per proseguimento cure. L'esame puntuale delle cartelle di ricovero in detti OO.PP.GG., reso in parte problematico per parziale illeggibilità delle stesse, consente comunque di annotare come sussistesse una conclamata condizione psicotica, con ideazione delirante, e come fossero presenti manifestazioni di aggressività e intolleranza tali da comportare frequenti provvedimenti di contenzione, evidenziandosi mancanza di collaborazione col personale e aperta ostilità verso le proposte di terapia. Dall'anamnesi redatta nell'OPG di Reggio Emilia si apprende che già nel 1963 (all'età di 22 anni) aveva avuto un episodio acuto psichiatrico, definito come "crisi catatonica". Tuttavia il disturbo non venne trattato per l'indisponibilità del paziente a curarsi. Ricorrono spesso annotazioni che segnalano una "latente pericolosità verso gli altri", ma sono anche

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registrati palesi scompensi comportamentali, con atteggiamenti di estrema violenza, in presenza di uno stato dissociativo. Nella relazione prodotta per il trasferimento in OPG ad Aversa si conclude che G.M. è affetto da schizofrenia similcatatonica, che è estremamente pericoloso in senso psichiatrico e che necessita di continue cure ed assistenza. "Malgrado le continue terapie eseguite - continua la relazione - le condizioni psichiche non sono di molto migliorate ma perlomeno dette cure sono riuscite a sedare la violenta aggressività e a controllare la continua pericolosità". Nel marzo 1974, conclusa la permanenza in OPG con revoca della misura di sicurezza dopo un anno di proroga, viene inviato dapprima presso l’O.P.S. Maria Maddalena di Aversa e quindi, per competenza di zona, viene trasferito all'Ospedale Psichiatrico S. Maria della Scaletta di Imola. In questa sede rimane ricoverato per oltre 20 anni in maniera praticamente continuativa, fino all'atto di definitiva dimissione, nel 1995. Interessa riportare, per rendere in modo sintetico i contenuti delle relative cartelle, talune delle annotazioni più idonee a descrivere il decorso clinico e gli approcci terapeutici applicati.

All'ingresso (settembre 1974) le condizioni psico-comportamentali erano stabilmente caratterizzate come molto gravi:

23.9.1974: "scontroso, impaurito e a tratti incoerente"

28.12.1974: "continua il processo di regressione dimostrando di non aver più fiducia in nessuno e manifestando una ideazione incoerente con tendenza ad organizzare idee di tipo persecutorio in modo però frammentario e scarsamente comprensibile"

10.1.1975 : "rifiuta qualsiasi terapia. Rifiuta di alimentarsi per cui si deve ricorrere ad ogni sorta di trucchi e di stimoli perché si alimenti in modo sufficiente [... ]"

26.1.1975 : "[ ... ] si tenta una terapia iniettiva con quei pochi farmaci che ancora non sono stati usati ma la reazione alle iniezioni compare ogni giorno sempre più violenta e ostinata, aumentando l'ostilità nei nostri riguardi "

10.10.1975: "Nuovo peggioramento dello stato mentale: molto dissociato, scontroso, verbalmente minaccioso, incoerente"

18.10.1975: "[ ... ] sitofobia e mutacismo ostinato. Lo si contiene"

9.1.1976: "Stamane ha aggredito il medico di reparto alle spalle tentando di strangolarlo. Sono occorsi 3 infermieri per ridurlo a letto"

20.1.1976 : "( ...] Ogni volta che gli si pratica una fleboclisi occorre che il personale ingaggi una lotta per tenerlo fermo [...]"

Interessante l'annotazione del 16.12.76: "Stesso comportamento scontroso, taciturno. Ha raptus di violenza durante i quali aggredisce ed è veramente pericoloso. Tuttavia le sue aggressioni appaiono sempre premeditate in quanto esse avvengono proditoriamente [...]"

10.9.1977: "Estremamente scontroso, non si presta assolutamente al colloquio, quando parla l'eloquio è sconnesso, incoerente, sempre con contenuti minacciosi verso chiunque"

18.3.1978 : "Sempre scontroso, disordinato, minaccioso, aggressivo spesso con premeditazione"

17.5.1978: "Dopo aver rotto alcuni bicchieri, con un frammento ha procurato una lieve ferita al capo al degente S (...)".

Si registrano, nell'estate del 1978, un'attenuazione dei disturbi comportamentali e una maggiore adeguatezza. Viene quindi provata una dimissione con affidamento ai familiari, "con l'impegno [inoltre] di

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seguirlo nel limite delle possibilità a domicilio". Esce, il 13 luglio 1978, con diagnosi di schizofrenia paranoide. Dopo appena un mese tuttavia, il 14 agosto 1978, G.M. deve essere ricoverato ancora una volta presso il Servizio Psichiatrico Ospedaliero di S. Maria della Scaletta, avendo espresso nuovi e gravi disturbi del pensiero e delle condotte. Si legge infatti che "ha presentato comportamenti violenti ed aggressivi nei confronti dei vicini di casa". E, ancora una volta, la cartella clinica documenta un prolungato periodo di grave disordine psico-comportamentale, con reiterati rifiuti della terapia neurolettica prescritta e con episodiche reazioni violente.

20.2.1979: "Si sospende Moditen depot per grave stato di impregnazione"

Nuovo allarmante episodio di aggressività il 21.7.1979: "Ha avuto un tentativo di aggressione nei confronti di un infermiere. Si è scoperto che teneva una bottiglia di vetro che si teme volesse usare come arma. Si sostituisce con bottiglia di plastica". Sono presenti anche comportamenti bizzarri:

31.8.1979: "[...] è sudicio e continua a gettare escrementi dalla finestra [...] ".

Dal 10.10.1979 viene dimesso e accolto a Villa dei Fiori, con diagnosi di psicosi delirante. Il ricovero, che si protrae fino al marzo 1981, mette in evidenza i consueti comportamenti caratterizzati da sporadica impulsività, aggressività verbale, con ideazione delirante.

In data 19.2.1981 è stato inserito in una nota di persone che devono essere trasferite all' O.P. durante la validità della proroga concessa ai termini della legge 180 ".

Il 6 marzo 1981 riprende dunque il ricovero in OP, alla "Scaletta" di Imola, ricovero che si protrarrà fino al 30 dicembre 1995. Il diario clinico documenta un prolungato periodo caratterizzato da disordine, bizzarrie, impulsività ed è indicativo del peggioramento connesso alla processualità schizofrenica. Persistono la totale assenza di coscienza di malattia, l'ostilità, i rituali alimentari indicativi del delirio di veneficio. Nel maggio 1984 viene reimpostata una terapia con neurolettico depot (1/2 fl di Moditen depot) abbinando opportuna terapia di controllo dei concomitanti effetti extra piramidali (manifestazioni che in precedente tentativo avevano indotto alla sospensione del trattamento). La nuova terapia induce significativi miglioramenti (2.7.84: "Dati i risultati conseguiti, e in certo modo ormai insperati, continua nella terapia con Moditen Depot") e consente di ripristinare modalità di discreto adeguamento alla realtà da parte del paziente. Risulta molto attenuata la clamorosità comportamentale e il paziente prende qualche timida iniziativa (21.1.85 "esce, a sua discrezione, dal reparto, girando per il parco e andando al Centro sociale, facendo qualche acquisto, mantenendo, in breve, comportamento corretto e rientrando regolarmente; [permangono tuttavia atteggiamenti patologici di fondo, visto che la nota clinica continua così:] "sempre piuttosto chiuso, di poche parole, a volte sospettoso o turbato da qualche sensazione o percezione abnorme, ma senza manifestazioni di impulsività"). Negli anni seguenti permane la sostanziale riduzione delle anomalie comportamentali, spesso è sottolineato un atteggiamento tranquillo, disciplinato e adattato, anche se si rileva un contegno improntato a petulanza e stolidità, con grave ipocritica. Nel 1988 viene anche avviato al lavoro presso il centro sociale, risultando tranquillo e disponibile al colloquio, "persino ironico e scherzoso". Prosegue il trattamento con neurolettico depot e non vengono più annotate segnalazioni di scompenso psico-comportamentale, venendo apposti soprattutto aggiornamenti di interesse internistico. Nell'ultimo (14.8.95) aggiornamento della terapia si conferma la prescrizione del Moditen Depot 1 fl ogni 3 settimane, insieme con terapia neurolettica orale. La dimissione è attuata il 30.12.1995: "su disposizione del dr. Venturini il paziente viene dimesso non necessitando ulteriormente di regime di ricovero ospedaliero, con diagnosi di sindrome residuale in psicosi schizofrenica".".

Il quadro clinico relativo a oltre trent’anni di ricoveri in strutture psichiatriche è inequivocabile: si trattava di un paziente affetto da una forma di schizofrenia molto grave, caratterizzata da importanti disturbi comportamentali e da frequenti manifestazioni di violenza o aggressività. Parimenti, non vi è dubbio come l’introduzione di una terapia a base di antipsicotici depot (dal maggio 1984) avesse comportato un significativo miglioramento delle condizioni del paziente e una concreta attenuazione degli scompensi psico – comportamentali.

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Questa è sostanzialmente la situazione del G.M. allorquando, nel dicembre 1995, dimesso dall’ospedale psichiatrico, fece ingresso nella comunità (...) di Imola.

Va peraltro evidenziato che, dal momento dell’ingresso in comunità sino al marzo 1999, non si registrano annotazioni nella cartella clinica del paziente; il che (oltre a costituire uno degli addebiti contestati dal P.M. alle Dott.sse Z.Z. e YY 3) rende assai ardua una esaustiva e puntuale ricostruzione della storia clinica del G.M. nei primi tre anni all’interno della struttura.

Nel primo periodo G.M. fu affidato alle cure psichiatriche della Dott.ssa Z.Z., la quale era anche lo psichiatra referente del D.S.M. per la comunità (...). Durante il corso del 1998, tuttavia, a causa di difficoltà insorte nella relazione terapeutica con il paziente, la Dott.ssa Z.Z. chiese alla collega Dott.ssa YY 3 di subentrarle come psichiatra curante. Nel 1999, fu la Dott.ssa YY 3 a domandare all’odierno imputato di prendere in carico il G.M., anche in questo caso per difficoltà relazionali nel rapporto medico - paziente.

Non ha una data certa il passaggio delle consegne tra la Dott.ssa YY 3 e il Dottor XX; tuttavia non si ha ragione di dubitare di quanto riferito dall’imputato in sede di interrogatorio reso innanzi a questo giudicante, allorquando egli ha dichiarato che ciò avvenne negli ultimi mesi del 1999 (tale circostanza peraltro trova conferma nelle dichiarazioni rese dalla stessa Dott.ssa YY 3 alla P.G. il 25 maggio 2000). Ciò che è certo è che il 1° ottobre 1999 il Dottor XX è lo psichiatra curante del G.M. posto che in tale data risulta avere redatto la sua prima annotazione nella cartella clinica del malato.

Ha riferito il Dottor XX (cfr. interrogatorio in data 25 novembre 2005) che si trattava di "un paziente difficile, ostile, paranoico, caratterizzato da rabbiosità in condizioni di deterioramento cognitivo in fase stazionaria"; tuttavia non vi erano più manifestazioni di recrudescenza patologica da alcuni anni e che aveva una propria autonomia di vita (si preparava da mangiare, usciva per compere personali, ecc.). Lo stesso imputato, peraltro, ha sostenuto con i consulenti del P.M. che la collega Dott.ssa YY 3, nel passaggio delle consegne, non gli riferì in alcun modo che, in passato, il G.M. era stato internato in O.P.G.

Dal canto suo, la Dott.ssa Z.Z. ha esplicitamente dichiarato di avere trasmesso sia alla Dott.ssa YY 3, sia successivamente al Dottor XX, la raccomandazione fattagli dal dottor Vinci, primario dell’ospedale psichiatrico di Imola, "di non calare la terapia neurolettica al G.M., anche se lui continuamente lo chiedeva, perché c’era la possibilità che il paziente si scompensasse".

Importantissimi elementi in ordine al vissuto del G.M. all’interno della comunità e all’excalation della recrudescenza della sua patologia possono trarsi dalle annotazioni riportate – per la verità, con regolarità e puntualità – nel diario relativo tenuto dagli operatori della residenza nonché dai verbali delle riunioni settimanalmente tenute dagli stessi operatori, mentre le annotazioni sulla cartella clinica (invero riferibili soltanto all’odierno imputato) sono rare e laconiche.

In questa sede, appare opportuno riportare le annotazioni più significative ai fini che ci riguardano.

Assai rilevante, in quanto sintomatica di un’aggressività fino in fondo mai sedata, è l’annotazione datata 2 ottobre 1999 (il giorno successivo alla formale presa in carico del paziente da parte del Dottor XX): "Oggi a tavola Pezzi, in uno dei suoi raptus, ha minacciato con un pugno chiuso e ripetutamente G.M., il quale con fare repentino portava il coltello, con il quale stava tagliando la braciola, tra le sue gambe. Dato che quando distribuiamo i coltelli (solamente a quelle persone che sanno tagliarsi il cibo autonomamente) li controlliamo ancora più strettamente non ci è sfuggita la mossa repentina. Ce lo siamo fatto consegnare immediatamente (...). Alle nostre domande sul suo gesto, Giovanni ha risposto in modo consapevole che lo avrebbe usato, il coltello, come arma di difesa, nel caso che Pezzi lo avesse aggredito ...".

La prima nota a firma del Dottor XX porta la data del 22 novembre 1999; scrive in quella data lo psichiatra sulla cartella clinica del paziente: "(...) è costantemente seguito dal nostro servizio dal 1974 per psicosi schizofrenica paranoide cronica. È attualmente seguito con una costante terapia farmacologica (neurolettici, neurolettici depot, ansiolitici) ed un progetto riabilitativo individualizzato portato avanti dagli

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educatori che operano presso la comunità. II quadro psicopatologico è tuttora invariato, ma non presenta più significativi episodi di recrudescenza".

Il 21 gennaio 2000, un’operatrice annota: "G.M. ha tentato per due volte di toccarmi e baciarmi".

Altro episodio di incontrollata rabbia si verifica il 18 febbraio 2000, allorquando viene riportato sul diario: "G.[M.] ha avuto una "sclerata" convogliando la sua aggressività nei confronti di Franca. La motivazione era che lei non mangiava il cibo che le veniva proposto perciò lui spendeva dei soldi per comperare delle vivande che poi vengono gettate (...). L'alterco è stato piuttosto lungo (...) L'espressione del viso e la foga che lo animava, faceva supporre che G.[M] si sentisse defraudato effettivamente da Franca e si sentisse ‘CONTAMINATO’ perché per preparare la pasta in bianco per lei usavamo i suoi pentolini".

Il 25 febbraio, gli operanti trascrivono l’avvenuto incontro con il Dottor XX: "…Accompagnato alla Villa dei Fiori x la puntura. Alla prossima, tra 3 settimane, dovrà anche fare un colloquio col suo psichiatra, dott. XX, al quale sicuramente chiederà di eliminare le medicine". Il successivo 16 marzo vi è un’annotazione relativa alla prima riduzione della terapia farmacologica operata dall’attuale imputato: "…accompagnato G.M. a fare la puntura alla Villa e il colloquio con il dott. XX. È stata portata a 1/2 la puntura di Moditen che fa ogni 3 settimane mentre invariata quella di Lyseen. Da oggi fino al 7.4.2000 c’è da controllare che non abbia problemi in modo che al prossimo colloquio verrà riferito al medico la situazione che ha creato la riduzione della puntura o se tutto va bene".

A proposito della riduzione della terapia, in data 16 marzo è annotato dal Dottor XX: "Stiamo progressivamente diminuendo un po' alla volta le medicine". Infatti in quella data veniva praticato un dimezzamento della terapia depot (Moditen depot 1/2 fl).

Un evento che contribuisce all’aggravarsi della situazione del G.M. e ad alimentare la diffidenza verso gli altri è annotato il 3 aprile 2000: "…insiste parecchio per essere accompagnato in Banca, perché vuole ritirare i 30 milioni che ha depositato più di un lustro fa. A nulla valgono le nostre spiegazioni sul punto che lui non possiede più quella somma, usata in questi anni per pagare tutto ciò che gli serve per vivere. (...) continua a ripetere, caparbiamente, che quei soldi, se qualcuno non li ha rubati, devono essere ancora lì depositati (...) e se non facciamo qualcosa per farglieli avere si rivolgerà ai Carabinieri". Il tema del denaro "sparito" non è contingente ma ritorna anche successivamente; così viene riportato il successivo 11 aprile: " … ‘Mi hanno portato via i soldi e vogliono che io paghi!’. Da giorni infatti è molto irritato x la questione denaro (...). Di questa cosa, nonostante ripetutamente informato, non riesce a capacitarsi ed ha bisogno di attribuire per forza a qualcuno la ‘colpa' di non avere più i soldi di un tempo. Rifiuta ogni confronto".

Il 7 aprile 2000, vi è l’appunto relativo all’incontro con il Dottor XX e alla somministrazione dell’ultima fiala di depot (prima di quella del 19 maggio): "Accompagnato x la puntura. Incontra velocemente il dott. XX che, non avendo tempo, rimanda la valutazione sulla attuale terapia iniettiva alla prossima volta. Qualche giorno prima della puntura del 28.4 chiamerò lo psichiatra x fornire eventuali informazioni. Scrivete tutto l'osservabile possibile se non rientra nel solito andamento di G.M.". Il 18 aprile viene annotato: "Chiamo il dott. XX per fare un po’ l’aggiornamento di G.M.. Gli racconto l'episodio dell'arrabbiatura con noi, quando si parlò del calo del suo conto in banca. XX mi risponde che anche continuando a fare la puntura, non è che si risolva questo problema. XX quindi è intenzionato a togliere definitivamente la puntura...".

Scrive l’attuale imputato sulla cartella clinica del paziente il 24 aprile 2000: "La diminuzione del dosaggio di Moditen non ha avuto effetti negativi. Proverò questa volta a sospendere completamente con l'accordo di vederci fra circa un mese e valutare assieme (operatori + paziente) come sta andando. Sospeso Lyseen e sospeso Moditen (si mantiene Entumin orale 5 + 8 gtt) ".

A proposito della decisione dello psichiatra di interrompere la somministrazione del depot, il 28 aprile 2000 un operatore scrive: "Incontro fra G.M. ed il dott. XX, il quale dopo un breve colloquio a tre, decide di sospendere le iniezioni di Moditen e Lyseen fino a prossima verifica del 13.5.2000. Occorre quindi raccogliere osservazioni su eventuali variazioni di comportamento ...".

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Numerose, poi, sono le annotazioni che concernono il difficile rapporto del G.M. con il cibo nonché l’idea costante del veneficio e della "contaminazione" (così l’11 maggio: "Questa mattina (...) non accettava la pasta e quindi si è cotto una pasta di suo gradimento. Al momento del pranzo non ha accettato neanche il secondo dicendomi che le uova, come tutte le altre cose che comperiamo, sono cattive e (truccate!) che le persone dove ci rechiamo a comperare il cibo truccano tutto. Ha richiesto di mangiare le scatolette che quelle vanno bene!"; ancora il giorno successivo: "Questa mattina G.M. è venuto in cucina e ha controllato con me il menù, che è stato accettato (la pasta però bianca) lo sgombro che avevo preparato nel vassoio l'ha rifiutato e ha richiesto le scatolette sigillate. (...) non riesce a capire come mai le uova sono così truccate e che non sa come la gente riesca a truccarle dentro (...). P.S. (Questa mattina anche il latte non era più buono)"; il 15 maggio viene riportato: "Invitato a partecipare alla stesura del menù alza le mani in alto, come in segno di resa, e sale nella sua camera. (...) Rifiuta il primo, minestrone di verdura, accetta il formaggio che va a lavare nel lavandino del bagno dove consuma la cena. Non usa né i piatti né le posate. Non accetta nessun tipo di dialogo ma si guarda continuamente in giro e osserva tutto e tutti").

Dalla metà di maggio, i segni di un ingravescente malessere interiore nel paziente appaiono sempre più accentuati. Il 14 maggio un operatore annota: "G.M. ha un'espressione in volto di qualcuno che non è molto tranquillo, come se avesse qualcosa di grave. Durante la cena gli ho chiesto se aveva qualcosa che non andava, ha fatto un gesto come per dire vai...". La mattina del 15 viene annotato "G.M. resta tutto il tempo seduto sul divano sempre con la stessa espressione, come se fosse arrabbiato! (...) Ho notato anche che dorme di meno rispetto a prima; anche se resta a letto fino a tardi non dorme: la notte al minimo rumore di Mario apre gli occhi, cosa che prima non faceva"; con riguardo alla stessa notte viene riportato: "durante la notte poi quando va al bagno sembra ispezionare le camere".

Significativo è l’appunto del 16 maggio, con riguardo ai rapporti con il medico psichiatra e all’assunzione dei farmaci: "(…) riferisco a G.M. dell'appuntamento di giovedì prossimo col dott. XX. La risposta di Giovanni è "Non è l'uomo per me, lui non capisce niente, cosa vuoi che mi faccia?". (...) secondo me G.M. nel rito del lavaggio del bicchiere dopo la terapia butta via le gocce...".

Nella stessa giornata, la Dott.ssa K.K. riferisce nel verbale delle riunioni della comunità (...): "[G.M.] ha avuto un crollo allarmante. Ho chiamato XX e ho preso l'appuntamento per giovedì pomeriggio. Ho raccontato gli ultimi episodi avvenuti: il modo di guardare; ieri sera non ha posato il cibo nel piatto. Da un mese e mezzo gli è stato tolto il depò. Dopo parlerò con G.M. per dirgli che l'appuntamento è stato anticipato" e ancora: "G.M. è molto attento a tutte quelle cose che gli riportano la memoria di altre morti vissute. Forse la terapia è stata tolta troppo in fretta ".

Datata 17 maggio è una lunga annotazione da parte dell’operatrice F. che riporta, con dovizia di particolari, tutta una serie di atteggiamenti psico – patologici notati nel G.M.; della stessa appare opportuno riportare un breve stralcio: "…mi comunica che il suo medico è morto; gli spiego che si sta sbagliando e che se voleva chiedevamo conferma a Laura. Laura gli dice che il suo medico attuale non è morto e che quel medico che nominava lui era un medico che lo seguiva molto tempo [prima]. Fa storie dicendo che la D'A.[…] non è brava perché non lo visita e che lo manda a fare delle visite da dei medici che non capiscono niente (…)".

Molto importante è altresì il resoconto del giorno 18 maggio, in quanto significativo della fondata preoccupazione che nutrono gli operatori della comunità per il peggiorarsi delle condizioni mentali del paziente: "Insistiamo col dott. XX di venire in struttura a visitare G.M. dal momento che egli non ha voluto recarsi alla Villa dei Fiori al consueto appuntamento. G.M. molto cupo ed a tratti quasi delirante (pronunciava parole inesistenti nella realtà) ha ribadito a XX con tono deciso (in un momento allungando verso di lui le mani) che ormai la puntura gli è stata tolta e non la farà più. XX ed i suoi infermieri sono entrati in casa sua invadendo il suo spazio, ma G.M. non lo conosce e non gli riconosce il ruolo di medico psichiatra. G.M. ha inoltre negato di non mangiare, né di vivere in modo appartato; ha negato in breve di stare male. XX ha modificato la terapia orale. Ho manifestato i nostri dubbi rispetto alla effettiva assunzione da parte di G.M. XX dice di controllare meglio e dice anche che è diritto di G.M. rifiutare che gli venga fatta la puntura, tuttavia domattina si tenterà l'approccio con la dott. D'A. Se funzionerà o meno, lo dirò all'infermiera del Dr. XX e si farà poi nuova verifica".

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Dal canto suo, il XX registra quanto avvenuto sulla cartella clinica del G.M. nel modo che segue: "Chiamata urgente dalla comunità. Da alcuni giorni non si alimenta più (cibi secondo lui avvelenati) è molto chiuso e presenta spunti di riferimento. Al colloquio in V.D. (ndr visita domiciliare) nega ogni problema, è aggressivo. Proveremo a utilizzare il M.M.G. (ndr medico di medicina generale) per fargli ricominciare il depot. Non bisogna più togliere il depot, perché quando sta male assume la terapia per os in modo totalmente inaffidabile".

La ricorrente ossessione del paziente per la morte ritorna nelle annotazioni del registro delle consegne del giorno successivo (giornata tragica per il G.M. poiché gli viene comunicata la morte di due pazienti alle quali si sentiva legato affettivamente): "non mi ascolta quando gli chiedo di bere le gocce prima di andare in bagno per lavare il bicchiere (...) poi esce e va in sala (...) quando Enzo ripassa gli dice "non vedi che stiamo morendo tutti!" indicando i tavoli vuoti"; nello stesso giorno, all’ora di pranzo, un operatore annota l’ennesima esternazione del G.M.: "Qua vogliono ammazzarci tutti. Hanno ammazzato le mie donne, hanno ammazzato Deanna". Di seguito viene trascritto: "la dr.ssa D'Angelo, molto razionale ed essenziale, riesce a fargli accettare la puntura, nonostante lui ripeta ugualmente di avere paura di essere ammazzato e che quella sarà l'ultima volta che la farà. Più tardi lo raggiungo in camera con Ateo e gli dico che purtroppo Deanna, in ospedale da tanto tempo, non ce l’ha fatta x cardiopatia. Lui mi ha accusato (delirando) che l'ho ammazzata io e lui invece vuole vivere. Lo rassicuriamo - ma sicuramente senza convincerlo - che lui vivrà (…)"; ancora nello stesso pomeriggio: "Comunico a G.M. la morte di Franca. Lui è a letto, mi guarda, e appena glielo dico chiude gli occhi e scuote la testa, gli chiedo se vuole vederla e lui mi risponde di no scuotendo la testa. Non ha detto nessuna parola".

Il 21 e il 22 maggio vengono riportate delle interessanti annotazioni relative alla manifesta difficoltà nel fare assumere al malato la terapia prescritta ("…appena mi avvicino all'armadietto dei medicinali alle 8.00 mi si avvicina dicendomi che lui le medicine non le prenderà più... Rifiuta la terapia del pomeriggio... Rimane tutto il pomeriggio al piano superiore, quasi sempre chiuso nella stanza da bagno. Invitato a cena non scende"; "G.M. stasera appena mi sono accostata all'armadietto delle terapie, mi ha presa per le spalle invitandomi ad andarmene a casa, rifiuta la terapia"; "Giovanni chiede di poter andare al bar, cerco di convincerlo ad assumere prima la terapia, in un primo momento sembra rifiutarsi fermamente, dicendo che le medicine non erano più buone, che erano scadute e che, se insistevo, voleva dire che volevo morire anch'io. Poi ha preso le scatole delle pillole... le ha aperte e si è preso da solo la terapia. Le gocce le ha comunque rifiutate").

Altri episodi significativi di una grave recrudescenza della patologia psichiatrica da cui è affetto il G.M. si manifestano il giorno 22 maggio; l’operatore registra: "Paola è scesa da me in cucina dicendomi che G.M. aveva fatto la pipì contro alla porta e sul pavimento dalla parte di Mario, e poi vi ha versato sopra il bagnoschiuma, dicendo che così "disinfettava!" (...). Dopo pranzo salgo in camera da Giovanni per dargli la terapia, lui insiste nel rifiutare, ribadendo che in farmacia ci va lui a prendere ciò che gli serve e dopo una mia insistenza ha "minacciato" di ammazzarmi, dispiacendosi di doverlo fare".

Il giorno antecedente l’omicidio, è lo stesso A.C. a narrare di una vicenda assai allarmante (di fatto un’anticipazione della tragedia che si sarebbe consumata il giorno dopo); l’operatore annota sul diario: "Ore 14,20 ca. (...) salgo con le confezioni di compresse intonse, in modo da non "CONTAMINARE" le pasticche che G.[M] deve prendere (...). Lo trovo in uno dei 3 bagni. Mi accoglie iniziando a dire di lasciarlo vivere. Gli rispondo che sono lì in quel luogo solamente per offrirgli la terapia. Lui afferra una ‘padella’ e mi colpisce. Lo disarmo facilmente e gli dico che non ho paura di lui. Si siede, poiché è sedata la sua aggressività fisica, ma non certamente quella psicologica. Inizia a sproloquiare dicendo che mi ha già detto di non seguirlo, lui si era ‘nascosto' in bagno ed io sono andato lì e l'ho importunato... poi che dovevo andare in cucina a biascicare la roba... che lui il suo caffè se lo compera al bar... che non ha bisogno delle medicine... che c'è già altra gente che ha pensato a lui... Gli dico di prendere intanto la terapia. La prende e poi si alza e minaccioso si avvicina a me parlando come sopra. Mi pongo immobile, sguardo nello sguardo, di fronte a lui, e dopo poco, visto che cede, cerco di riportarlo alla realtà, alzando la voce e intimandogli di smettere di dire sciocchezze. Ha sicuramente ragione Laura, che lui in questo momento è completamente fuori dalla realtà ed è inutile cercare di farlo ragionare logicamente o cercare di farlo rientrare nel mondo usando i metodi che sono validi con i bambini…".

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L’ultima annotazione sul diario a proposito del G.M. viene registrata nel pomeriggio del 23 maggio ed è del seguente tenore: "(…) L'espressione è spaventata, addolorata, smarrita. Mi si avvicina e mi chiede "E' morta la, la, la ... " non gli viene il nome, balbetta, è spaventatissimo. "Franca!" dico io, e lui mi risponde "sì!, li hai chiamati tu i becchini, vero?" Gli rispondo di sì, che l'ho fatto assieme a Laura e lui "se muore qualcun altro sarai tu a chiamarli di nuovo, vero!" io gli rispondo: "se sarò in turno, ma ora non dovrebbe morire più nessuno, stai tranquillo!" A questo punto chiude la porta e mi spinge fuori. Non ho colto accuse, contro di me, ma solo una disperata ricerca di sicurezza. Non è sceso a cena".

Il "caso" G.M. è all’ordine del giorno della riunione della comunità tenutasi lo stesso 23 maggio; nel verbale si legge: "All'origine dello scompenso di G.M. si era pensato che potessero esserci tutti gli eventi luttuosi di questo periodo (Deanna e Franca). In realtà i primi segnali di scompenso sono arrivati prima e sono cresciuti di forza e di numero nei giorni subito successivi. Ora sta male, chiuso in camera o in bagno. Va al bar per mangiare, sceglie le persone con cui rapportarsi sia al bar che in comunità…".

In tale data compare anche l’ultima annotazione del Dottor XX sulla cartella clinica: "Sabato mattina il MMG. ha praticato il Moditen. Oggi, dopo avere sentito l'operatrice Laura decidiamo di introdurre anche un Clopixol 25 mg ore 21 poiché permangono gli aspetti persecutori e non siamo certi che assuma con regolarità le gocce di Entumin".

* * * * *

Preliminarmente, occorre evidenziare i profili di colpa, generica e specifica, addebitabili all’attuale imputato, per poi affrontare le tematiche della sussistenza di un nesso causale tra la condotta e l’evento, della concreta prevedibilità di quest’ultimo, del concorso di cause e del concorso colposo nel reato doloso.

In buona sostanza, ad avviso di questo giudicante, sulla base dell’analisi del materiale probatorio e delle argomentazioni di carattere tecnico scientifico apportate dagli specialisti, le violazioni delle regole di condotta dell’attività medico – psichiatrica ascrivibili al Dottor XX possono essere così riassunte:

1) nell’avere modificato la terapia farmacologica del paziente (prima riducendo e poi sospendendo la somministrazione del farmaco depot), in assenza di un’adeguata conoscenza dell’anamnesi personale e patologica, remota e prossima, dello stesso, senza valutarne adeguatamente la condizione del momento con riferimento alla recrudescenza dei sintomi di aggressività manifestati e senza coordinarsi con i responsabili e gli operatori della comunità;

2) nel non avere commisurato, per qualità e quantità, le visite al G.M. alla reale necessità e cogenza che la situazione invece richiedeva e nel non avere accompagnato alla riduzione della terapia farmacologica l’approntamento di quelle misure di supporto che avrebbero potuto in qualche modo contenere la riacutizzazione della patologia;

3) nel non avere richiesto, come invece la legge gli imponeva, nel momento in cui lo scompenso psicopatologico del paziente era assolutamente manifesto, il T.S.O.

Trattasi, come è evidente, di una condotta da valutarsi nel suo complesso, in cui i profili di colpa commissiva (consistita nell’avere modificato la terapia farmacologica) si intrecciano necessariamente con profili di colpa omissiva (difetto di informazione, mancato approntamento delle necessarie cautele, mancata attivazione delle procedure per il T.S.O.). Una valutazione parcellizzata di questi profili, avulsa da una considerazione più generale dell’operato del professionista, potrebbe ingenerare, infatti, l’errato convincimento che ciascuna delle condotte (commissive od omissive) poste in essere dallo stesso fossero comunque conformi alle leges artis della professione medico - psichiatrica.

Con riguardo al primo dei profili di condotta colposa sopra evidenziati, appare chiaro che la valutazione in ordine alla correttezza della scelta terapeutica operata dallo psichiatra è uno degli aspetti più rilevanti e controversi della vicenda in questa sede in esame.

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Sul dato storico relativo alle modalità e ai tempi della modificazione della terapia farmacologica vi è assoluta concordanza tra tutti gli esperti che hanno fornito il loro contributo conoscitivo e valutativo al procedimento. In data 16 marzo 2000, il Dottor XX dà attuazione al suo proposito di riduzione della somministrazione di neurolettici depot, riducendo la dose a metà fiala di Moditen. La successiva iniezione (sempre di mezza fiala) avviene, come fino a quel momento avvenuto, dopo tre settimane, il 7 aprile. Alla data del 24 aprile, il Dottor XX – rilevando che "la diminuzione del dosaggio di Moditen non ha avuto effetti negativi" – decide di "sospendere completamente" (sono parole dell’imputato) la somministrazione, con l’accordo di rivedere il paziente dopo un mese. Il 18 maggio – su sollecitazione della Dott.ssa K.K. che "insiste" perché visiti il G.M. – il Dottor XX reintroduce il farmaco depot a dosaggio pieno (iniezione che viene materialmente effettuata il giorno successivo dal medico di base).

Sul perché si determinò a tale scelta terapeutica, il Dottor XX ha fornito esaurienti spiegazioni. Ha riferito, anche in sede di interrogatorio reso innanzi a questo giudice, che il G.M. aveva allora 59 anni circa, ma sembrava molto più anziano, avvertiva dolori e tremori continui e presentava una patologia cardiaca (ipertensione arteriosa labile e turbe cardio-respiratorie); i farmaci assunti avevano prodotto nel corso degli anni danni irreversibili al cervello e, in particolare, ai nuclei della base che controllano il movimento. Questi sintomi extrapiramidali erano conseguenza diretta dell’assunzione di detti farmaci. Essendo un paziente paranoide in fase di remissione, il Dottor XX aveva ritenuto opportuno rivedere la terapia, sia perché la rabbiosità manifestata dallo stesso poteva essere dovuta proprio all’assunzione di questi medicinali, sia per cercare di ottenere una maggior fiducia e di instaurare un rapporto più collaborativo con il paziente.

Le motivazioni che hanno condotto il terapeuta a modificare il trattamento farmacologico del paziente non sono state considerate fondate dai consulenti tecnici del P.M, che hanno, al contrario, considerato la condotta dell’attuale imputato "non ispirata agli indispensabili criteri di prudenza, di perizia e di diligenza". Hanno osservato gli stessi che il Dottor XX dispose dapprima di ridurre il Moditen depot e poi di sospenderlo, "pur avendo del caso clinico una sommaria conoscenza e benché la relazione terapeutica con il paziente fosse molto lontana dall'essere stabilita ancor più che dall'essere consolidata"; tale decisione, poi, non solo non venne a suo tempo sufficientemente motivata (niente risulta scritto sulla cartella clinica ambulatoriale), ma anche gli argomenti che sono stati addotti dallo psichiatra appaiono privi di una reale consistenza: infatti, "le patologie organiche (cardiache in particolare) che G.M. presentava allora, apparivano stabilizzate e non erano di tale gravità da controindicare la somministrazione di neurolettici, che si era continuato a somministrare per anni; i sintomi extrapiramidali causati dal Moditen, ove presenti, non impedivano comunque al paziente di andarsene in giro per la città, di frequentare qualche locale pubblico, di avere una notevole autonomia nella cura della persona (…), di mantenere insomma piccole ma non trascurabili relazioni sociali; il paziente si avvia inoltre verso un'età senile, ma non è certo vecchio al punto tale che una terapia neurolettica, di fronte alla persistenza di sintomi produttivi psicotici, debba essere sospesa . Infine, secondo i consulenti, l’argomentazione del Dottor XX, relativa alla opportunità di utilizzare la riduzione della terapia neurolettica iniettiva per stringere una migliore alleanza terapeutica con il paziente, considerando che quest'ultimo insisteva spesso per farsi togliere le terapie, deve essere riguardata criticamente. Infatti, può essere assai controproducente "assecondare un paziente psicotico che non perde occasione per chiedere di non essere sottoposto a un terapia, qualora permangano chiari segni di una produttività psicotica e qualora le richieste del paziente emergano da un difetto pressoché totale, in lui, della consapevolezza di malattia".

Al contrario, tale scelta terapeutica è stata ritenuta corretta e adeguata dai consulenti tecnici nominati dalla difesa. I professori. Berti Ceroni e Borghesi sono partiti dalla patologia da cui risultava affetto il G.M. ("schizofrenia paranoide cronica" in fase di parziale remissione… permanevano dei tratti tipici di una personalità paranoidea quali diffidenza, sospettosità e ostilità, e, prevalenti al momento, sintomi della serie "negativa" quali isolamento, introversione, negativismo, appiattimento"), hanno analizzato le patologie organiche presenti nel malato e gli effetti extrapiramidali derivanti dal lungo trattamento farmacologico a cui lo stesso è stato sottoposto ("…Le patologie organiche presenti erano ipertensione arteriosa instabile, turbe della conduzione cardiaca, esiti di un processo specifico polmonare, positività dell'Antigene Au (quindi problemi epatici e conseguentemente ridotta capacità di eliminazione farmaci). Tra le patologie iatrogene: tremore distale agli arti superiori (a riposo), rigidità, ipertonia extrapiramidale, ipocinesia, deterioramento cognitivo, senso di pesantezza agli arti inferiori; in particolare acatisia, irrequietezza psicofisica, rabbiosità, malumore che orientavano per una disforia soggettiva da neurolettici") e hanno valutato il dosaggio di

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neurolettici somministrato al paziente ("La terapia deve essere considerata nel suo complesso (Moditen+Entumin) e tradotta in dosi equivalenti corrisponde a circa 14 mg/ pro die di aloperidolo oppure a circa 700 mg/ pro die di clorpromazina. Si tratta pertanto di un dosaggio di neurolettici assai alto"), per concludere – sulla base anche della letteratura scientifica e delle linee guida internazionali più accreditate (American Psychiatric Association e Bethelm & Maudsley Hospital per il Trattamento della Psicosi) – che "la riduzione della terapia neurolettica e la sua eventuale sostituzione con antipsicotici atipici non era un’opzione possibile, ma un'indicazione di fatto vincolante, anche ai fini di potenzialmente ridurre le manifestazioni (da un lato uno sfumato deterioramento cognitivo, dall'altro un corteo di sintomi - malumore, rabbia, irrequietezza, impulsività - che orientavano verso una disforia soggettiva) che potevano disporre al riproporsi di una pericolosità sociale".

I consulenti tecnici della difesa hanno mosso le loro considerazioni dalle più recenti acquisizioni della letteratura psichiatrica internazionale che, sulla base di studi scientifici sugli effetti negativi dell’eccessivo dosaggio di farmaci depot in pazienti schizofrenici per periodi prolungati, ha elaborato due diverse strategie: 1) la completa sospensione della terapia neurolettica (strategia di somministrazione intermittente - targeted strategy) e suo ripristino nel momento della comparsa di eventuali prodromi psicotici (Herz et al., 1991; Carpenter et al., 1987); 2) la ricerca delle dosi minime efficaci (low-doses strategy) (Kane et al., 1986; Marder et al., 1987).

Secondo i due psichiatri, la strategia delle "dosi minime efficaci", non solo riduce gli effetti negativi dei farmaci, ma favorisce anche gli interventi socioriabilitativi e psicoeducazionali che rivestono un ruolo essenziale nel migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da psicosi croniche.

Nel caso di specie, a parere degli stessi consulenti di parte, la strategia adottata dal Dottor XX è stata consona e pertinente: in una prima fase, lo psichiatra curante ha operato una riduzione progressiva del neurolettico depot, nel frattempo mantenendo la terapia neurolettica per via orale; successivamente, di fronte all'evidenza dello scompenso, la terapia è stata rapidamente potenziata, sia per os (aggiunta di Clopixol in gocce) che per iniezione per depot.

Dal canto loro, i periti nominati da questo giudice, in risposta al quesito relativo alla correttezza dell’opzione terapeutica dell’odierno imputato, hanno preliminarmente dato conto che "esiste un’evidenza crescente che l’esito a lungo termine della schizofrenia sia correlato agli interventi farmacologici precoci ed ad una prevenzione efficace delle ricadute. Uno dei risultati meglio documentati e più riprodotti nella ricerca sull’esito in psichiatria è che il trattamento a lungo termine con gli antipsicotici sia il fattore principale nella prevenzione delle ricadute e delle recidive del disturbo. Il rischio di ricadute è ridotto di circa due terzi se viene mantenuto il trattamento a lungo termine con farmaci antipsicotici...Quindi, a tutti i pazienti sofferenti di schizofrenia, compresi quelli al primo episodio, viene consigliato di proseguire il trattamento di base a lungo termine..." (Fleischhacker).

Hanno poi spiegato che i più autorevoli studi scientifici sull’interruzione delle terapie di trattamento antipsicotico hanno documentato unanimemente rischi elevati di ricaduta; "i pazienti multi-episodici dovrebbero essere in remissione da almeno cinque anni, prima che sia possibile discutere l’interruzione del trattamento antipsicotico". L’autore citato dai periti evidenzia che "se è indicata una riduzione della dose, non la si dovrebbe effettuare a passi superiori al 20% della dose precedente. Gli intervalli tra questi passi dovrebbero durare tra i 3 ed i 6 mesi, poiché si sa bene che le ricadute a seguito di dosi insufficienti di neurolettici possono presentarsi con un ritardo di tempo significativo. Naturalmente, si dovrebbe tentare di trattare i pazienti con la dose minima efficace. Nella pratica clinica questo non è sempre facile ed è possibile che, cercando di raggiungere questo dosaggio, si corra il rischio di sottodosare e di giungere alla conseguente ricaduta".

Sempre con riguardo all’uso dei farmaci antipsicotici nella "fase stabile" della malattia schizofrenica e alla ricerca della c.d. dose minima efficace, le linee-guida dell’American Psychiatric Association affermano che "decidere circa la dose di un medicamento antipsicotico durante la fase stabile è spesso difficile. Per alcuni pazienti stabilizzati, i farmaci antipsicotici attivamente sopprimono i sintomi psicotici. Quando la terapia è interrotta o le dosi sono significativamente ridotte, questi individui peggiorano quasi immediatamente"; e

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ancora: "l’interruzione della terapia può anche essere presa in considerazione per pazienti con pregressi multipli episodi che sono rimasti stabilizzati per 5 anni senza sintomi positivi e che aderiscono al trattamento. La somministrazione continuata indefinita di farmaci antipsicotici è raccomandata per pazienti con una storia di seri tentativi di suicidio o di comportamento violento, aggressivo".

Sulla base degli elementi di fatto sopra evidenziati e dell’analisi e comparazione delle conclusioni rese dagli esperti tecnici che hanno interloquito nell’ambito del procedimento, è convinzione di questo giudicante che la scelta terapeutica operata dall’imputato non sia stata improntata a quei criteri di prudenza, diligenza e perizia esigibili, nel caso concreto, dallo psichiatra. E ciò sotto una molteplicità di profili che, seppure singolarmente considerati, risultano tra loro interconnessi e – per quanto si vedrà successivamente – hanno contribuito a determinare l’evento.

In primo luogo, appare incontestabile che la decisione di modificare la terapia farmacologica sia avvenuta, da parte del Dottor XX, sulla base di un substrato informativo assolutamente carente e comunque inadeguato.

Già si è detto della circostanza che sulla cartella clinica del G.M., durante il soggiorno nella comunità (...), dal 1995 al marzo 1999, non compaia alcuna annotazione. Il passaggio di consegne tra la Dott.ssa YY 3 e il Dottor XX deve essere avvenuto in modo assai approssimativo, tanto che l’imputato ha dichiarato in sede di interrogatorio che, benché la collega gli chiese di subentrarle nell’incarico già nella primavera del 1999, soltanto nell’autunno successivo egli venne a conoscenza del fatto che era il nuovo terapeuta del G.M.. Il Dottor XX ha inoltre asserito che la collega non gli riferì che il paziente era stato nel passato internato in un O.P.G. (circostanza peraltro smentita dalla stessa Dott.ssa YY 3) e che dalle informazioni ricevute dalla stessa aveva tratto la conclusione che "la storia del G.M. fosse sovrapponibile a quella di tantissimi altri pazienti".

Peraltro, risulta chiaro come l’imputato, come sarebbe stato invece suo dovere di terapeuta, non si sia minimamente preoccupato di acquisire la documentazione anamnestica che avrebbe facilmente reperito (come fatto dai consulenti tecnici del P.M.) presso gli istituti, giudiziari o civili, nei quali il G.M. era stato ricoverato.

Nessun dubbio che una maggiore conoscenza dell’anamnesi patologica del paziente, del suo andamento clinico e del percorso terapeutico sino a quel momento seguito avrebbe potuto indirizzare il Dottor XX ad una scelta terapeutica più consona alla reale situazione psicopatologica del G.M..

Dalla lettura della documentazione relativa ai precedenti ricoveri era, infatti, facilmente accertabile come il paziente aveva più volte dato concrete dimostrazioni delle sue inclinazioni violente e della potenziale pericolosità del suo comportamento (tra i tanti episodi, nel 1976 aveva aggredito il medico di reparto alle spalle tentando di strangolarlo; mentre nel 1979, dopo avere assalito un infermiere, si è scoperto che teneva una bottiglia di vetro da usare come arma). Pertanto, deve ritenersi destituita di ogni fondamento la valutazione operata dal Dottor XX in ordine alla sostanziale ordinarietà del "caso" G.M..

Parimenti censurabile appare il mancato coordinamento del Dottor XX con il personale della comunità, ovvero con quelle persone che quotidianamente erano in contatto con il malato ed erano in grado, pur non avendo specifiche professionalità in campo psichiatrico, di valutarne e comprenderne comportamenti e reazioni.

Gli incontri tra lo psichiatra e gli operatori avvenivano soltanto nelle occasioni e nei brevi minuti in cui il G.M. veniva condotto dal Dottor XX per la somministrazione del depot e, per quanto è dato di evincersi, durante tali contatti non si verificava quell’interscambio di informazioni e di notizie che sarebbe stato necessario per una migliore valutazione della situazione clinica del paziente.

Inoltre, come evidenziato anche dai consulenti del P.M., "non risulta infatti che fosse mai stato elaborato quel "progetto individualizzato condiviso dall'équipe del CSM e dallo staff della struttura" che il DSM individua come uno degli "obiettivi specifici"....omissis... Risulta in ogni caso incontrovertibilmente che, per

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quanto concerne G.M., non sono state eseguite le verifiche programmate da parte dell'équipe che segu[iva] il paziente (non meno di n. 4 all'anno)...".

Ciò peraltro, oltre ad integrare una palese negligenza nell’operato dell’imputato, è in aperto contrasto con quanto stabilito dal documento redatto dal Dipartimento di Salute Mentale di Imola che nell’attribuire ai responsabili medici il compito di assumere le misure necessarie per i singoli pazienti, prevede che ciò va fatto tenendo conto delle segnalazioni che gli altri membri dell'équipe forniscono loro.

Relativamente al momento in cui il Dottor XX decise di modificare la terapia farmacologica, molto si è discusso su quale fosse la reale condizione del paziente G.M..

Come si è detto, secondo i consulenti della difesa, si trattava di un paziente in stato di "schizofrenia paranoide cronica" in fase di parziale remissione, senza episodi significativi di recidiva negli ultimi quindici anni; per cui era corretta e doverosa una rimodulazione della terapia attuata attraverso la ricerca della "dose minima efficace".

Al contrario, i periti nominati da questo giudice hanno valutato il G.M. come un paziente da sempre particolarmente "difficile" (tenuto conto della sua storia clinica precedente all’ingresso in comunità e il fatto che, negli ultimi tre anni anteriori all’omicidio, ben tre psichiatri lo avevano avuto in cura proprio per le difficoltà a rapportarsi con lui) e molto problematico da gestire, date la sua scarsa compliance alla terapia, le sue cariche aggressive e la sua scarsa tolleranza alle frustrazioni (vedi episodio del 2 ottobre 1999). Gli stessi hanno reputato che la situazione clinica presentata dal G.M. al momento della modifica della terapia "non era quella di un soggetto in "remissione" sintomatologica ma, al contrario, era da tempo un paziente sull’orlo dello scompenso, e quindi ad alto rischio di scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressività nonché di sintomi "positivi".

Questo giudicante è giunto alla conclusione che, in considerazione dello status del paziente, certamente problematico e ostile, con trascorsi importanti in termini di atti di violenza e impulsi di aggressività, ma da parecchi anni in fase di "remissione", con assenza di sintomi psicotici rilevanti e in presenza di un unico - anche se non trascurabile - episodio sintomatico (quello più volte citato del 2 ottobre 1999), una decisione di rivalutazione e modificazione del trattamento farmacologico nell’ambito di una ricerca della c.d. dose minima efficace non fosse, almeno in astratto, un’opzione terapeutica totalmente errata.

Ciò che risulta, invece, censurabile in quanto contrario ai criteri di dilgenza, prudenza e imperizia oltre che alle leges artis della professione medico – psichiatrica sono le modalità concrete con le quali l’attuale imputato ha attuato la sua scelta.

Non vi è incertezza, come peraltro affermano i periti nominati da questo giudice, sul fatto che la riduzione (e poi la completa sospensione) della somministrazione del Moditen depot sia avvenuta troppo rapidamente, senza un’adeguata osservazione e ponderazione delle conseguenze di tale scelta. La letteratura scientifica sopra evidenziata documenta, infatti, come nell’attuazione di una strategia di riduzione delle dosi di neurolettici depot "non la si dovrebbe effettuare a passi superiori al 20% della dose precedente. Gli intervalli tra questi passi dovrebbero durare tra i tre e i sei mesi, poiché si sa bene che le ricadute a seguito di dosi insufficienti di neurolettici possono presentarsi con un ritardo di tempo significativo".

Nel caso di specie, appare assolutamente palese come tali indicazioni di metodo siano state completamente disattese: il 16 marzo 2000, il Dottor XX ha ridotto del 50 % la dose di Moditen e tre settimane dopo, il 7 aprile, ha somministrato l’ultima mezza fiala di depot, prima di quella, a dosaggio pieno, iniettata il successivo 18 maggio, a seguito della constatazione della situazione di evidente scompenso del paziente.

I periti hanno correttamente stimato che, nel valutare una revisione della terapia, "sarebbe stato più che sufficiente allungare i tempi di somministrazione del depot, portando, gradualmente nel tempo, gli intervalli da 3 a 6 settimane (ci sono infatti studi, condotti con il metodo del doppio cieco, che ben dimostrano che l’iniezione di 25 mg. di flufenazina decanoato ogni 6 settimane, per la durata di 54 settimane, è in grado di incrementare la compliance e lo stato soggettivo di benessere dei pazienti, così come è in grado di diminuire

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gli effetti di accumulo di antipsicotico, senza aumentare i tassi di ricaduta e la sintomatologia psicopatologica, rispetto alla consueta somministrazione del farmaco ogni 2 settimane").

La difesa dell’imputato (supportata dalle argomentazioni dei consulenti tecnici di parte) ha sostanzialmente contestato quanto affermato dai periti e dai consulenti tecnici del P.M. in ordine alla circostanza che il Dottor XX avrebbe interrotto la terapia depot, sostenendo che, in realtà, vi sarebbe stata dapprima una riduzione del dosaggio dei farmaci e, successivamente, una dilatazione dei tempi di somministrazione (da tre a sei settimane). Tale interpretazione dei fatti, ad avviso di questo giudicante, non corrisponde a quella che appare essere stata la scelta operata dal Dottor XX: se le parole hanno un senso ("proverò questa volta a sospendere completamente con l’accordo di vederci fra circa un mese e valutare insieme come sta andando"), non c’è dubbio che l’intenzione del medico sia stata quella di eliminare la somministrazione del farmaco depot, salvo poi valutare, in tempi abbastanza contenuti, le conseguenze di tale decisione.

Peraltro, le decisioni del 16 marzo 2000 di dimezzare il dosaggio e del successivo 24 aprile di sospendere completamente il depot (per quanto quest’ultima giustificata dal Dottor XX in cartella con il fatto che "la diminuzione del dosaggio di Moditen non ha avuto effetti negativi") appaiono in realtà assunte frettolosamente e senza una chiara consapevolezza dell’evoluzione del quadro clinico del paziente.

L’educatrice C.B. ha dichiarato a s.i.t. che, il 16 marzo, quando lei accompagnò il paziente a Villa dei Fiori alla visita psichiatrica, a fronte delle lamentele del G.M. sulle iniezioni che gli davano dolore alle gambe e che non avrebbe voluto più fare in quanto riteneva di stare bene, il Dottor XX, fattasi descrivere dall’educatrice la giornata tipo del paziente, decise di dimezzare la dose di Moditen Depot "senza avere visto la cartella clinica che l'assistente stava ancora cercando". Dal canto suo, l’operatore che accompagnò il paziente alla visita del 24 aprile ha annotato sul diario della comunità: "Incontro fra G.M. ed il dott. XX, il quale, dopo un breve colloquio a tre, decide di sospendere le iniezioni di Moditen e Lyseen fino a prossima verifica…".

Peraltro, nonostante che il Dottor XX abbia chiesto agli operatori di annotare scrupolosamente ogni comportamento del G.M. che fosse fuori dalle sue abitudini, lo stesso non si è mai recato – almeno sino al 18 maggio – presso la comunità (...) e quindi non vi è prova che abbia consultato il diario tenuto dal personale della stessa.

Risulta chiaro come il Dottor XX abbia colposamente sottovalutato i sintomi della progressiva recrudescenza della patologia psichiatrica del G.M.. Così è per la vicenda della scoperta da parte del paziente di non possedere più la somma di denaro che alcuni anni prima aveva depositato in banca. Le varie annotazioni sul diario della comunità e il tenore delle stesse evidenziano come l’evento in questione abbia notevolmente inciso sull’umore e sul comportamento del G.M.; al contrario, l’imputato, informato di quanto avvenuto, ha glissato osservando che "anche continuando a fare la puntura, non è che si risolva questo problema".

Anche successivamente, nonostante le forti preoccupazioni manifestate dagli operatori per l’aggravarsi delle condizioni mentali del G.M., il Dottor XX risulta sostanzialmente assente e appare non sufficientemente consapevole della gravità della situazione. Sono state, infatti, necessarie le insistenze della Dott.ssa K.K. perché lo psichiatra decidesse di recarsi presso la struttura per visitare il paziente. È a questo punto che lo stesso, resosi conto della situazione di scompenso e, probabilmente, del suo errore terapeutico, decise di reintrodurre la somministrazione del depot. È lo stesso psichiatra, difatti, a scrivere: "Non bisogna più togliere il depot, perché quando sta male assume la terapia per os in modo totalmente inaffidabile".

Peraltro, che il G.M. fosse riluttante ad assumere la terapia orale e che, probabilmente, in alcune occasioni approfittava del lavaggio del bicchiere per buttare via le gocce era stato oggetto di frequenti annotazioni da parte del personale. Evidenziano a tale proposito i periti "la scarsissima compliance alla terapia psicofarmacologica con antipsicotici per os da parte del G.M. (elemento perdurante "da sempre" nella storia clinica del paziente), legata (forse da sempre) sia ad una pressoché assente coscienza di malattia (…), sia alla presenza in lui di una ideazione delirante di "veneficio", sintomo anch’esso da sempre (seppur in misura variabile quanto ad intensità e "convinzione") presente e mai "rimesso" del tutto…".

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Anche gli eventi traumatici degli ultimi giorni (le morti di Franca e Deanna, ospiti della comunità a cui il G.M. si sentiva affettivamente legato) sono stati sottostimati da parte dello psichiatra. È lo stesso Dottor XX a riferire successivamente di non essere stato a conoscenza dei sentimenti che il paziente nutriva per queste donne e di non avere compreso le ragioni della richiesta degli operatori affinché fosse lui a comunicare all’uomo la notizia della morte delle stesse (cfr. consulenza tecnica Schiavon – Iannucci). Ciò, oltre a confermare il quadro di sommaria conoscenza da parte del Dottor XX delle condizioni psichiche e psicologiche del malato, è certamente indice di una scarsa empatia nei confronti dello stesso.

Non vi è dubbio che il Dottor XX nell’adottare una opzione terapeutica fondata sulla riduzione e poi sulla sospensione del trattamento farmacologico depot abbia operato una scelta rischiosa, tenuto conto dei numerosi studi scientifici che hanno documentato i rischi elevati di ricaduta che sono frequentemente connessi a tali comportamenti.

È regola comune di esperienza che, in qualunque attività umana, all’accrescersi dei rischi deve corrispondere l’approntamento di un sistema di cautele e precauzioni idoneo a scongiurare il verificarsi di eventi dannosi o pericolosi.

Nel caso in esame, tenuto conto della tipologia del paziente e dei suoi trascorsi psichiatrici caratterizzati da condotte violente e aggressive, ad avviso di questo giudice, il Dottor XX, nel rivedere la terapia farmacologica attraverso una drastica diminuzione di dosaggio di neurolettici, aveva il dovere di predisporre quelle necessarie misure di supporto che avrebbero potuto in qualche modo contenere la riacutizzazione del male e gli episodi di recidiva. È questo il secondo profilo di colpa (necessariamente integrato con il primo) ascrivibile all’imputato.

Le indagini preliminari hanno permesso di accertare, in modo inconfutabile, che le visite mediche effettuate dal Dottor XX nei confronti del G.M. sono sempre state, oltre che contenute nel numero, improntate ad eccessiva fretta e superficialità.

Dopo il 1° ottobre 1999, data in cui il Dottor XX visitò per la prima volta il G.M., è dimostrato che lo psichiatra ha rivisto il paziente all’incirca ogni 21 giorni, allorquando, presso il CSM di Villa dei Fiori, veniva somministrato allo stesso il Moditen depot. Come già evidenziato, di tali incontri l’imputato non ha mai fatto cenno sulla cartella ambulatoriale.

In realtà, nella maggior parte delle occasioni in cui il paziente venne condotto a Villa dei Fiori, il Dottor XX non lo ha visitato. Ciò trova conferma, principalmente, nelle dichiarazioni della Dott.ssa K.K., la quale ha riferito che, quando è stata lei ad accompagnare il paziente per la ripetizione del Moditen depot (il 22/10/99, il 12/11/99, il 3/12/99 e il 25/2/00), lo psichiatra non ha sottoposto a visita G.M.. In sede di interrogatorio delegato dal P.M. alla P.G. (21 gennaio 2002), la stessa Dott.ssa K.K. ha ulteriormente specificato che il Dottor XX, dopo avere visitato il paziente per la prima volta nell’ottobre 1999, lo ha sottoposto nuovamente a visita solo nel mese di aprile dell’anno successivo. A riscontro di tali dichiarazioni vi è l’annotazione sul diario interno dell'(...) a firma della stessa Dott.ssa K.K.: "25.02. 2000: accompagnato alla Villa dei Fiori per la puntura. Alla prossima, tra 3 settimane, dovrà anche fare un colloquio col suo psichiatra, dott. XX , al quale sicuramente chiederà di eliminare le medicine".

Ma l’intensità e la qualità delle visite non è mutato – come invece sarebbe stato doveroso – allorquando il terapeuta ha deciso di ridurre la terapia farmacologica. Di tale conclusione vi è traccia scritta nel diario della comunità ("7.4.2000: "Accompagnato x la puntura. Incontra velocemente il dott. XX che, non avendo tempo, rimanda la valutazione sulla attuale terapia iniettiva alla prossima volta."; "28.04.2000: "Incontro fra G.M. ed il dott. XX, il quale dopo un breve colloquio a tre, decide di sospendere le iniezioni di Moditen e Lyseen fino a prossima verifica del 13.5.2000.").

La negligenza dello psichiatra nel non adeguare la frequenza e la qualità delle visite alla mutata situazione (dal punto di vista della terapia farmacologica) del paziente è documentata anche dalle linee guida internazionali.

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Si legge nella perizia dei professori Traverso e Addabbo che le linee-guida dell’American Psychiatric Association prevedono che "quando si prende una decisione di interrompere il trattamento antipsicotico, precauzioni addizionali dovrebbero essere prese per minimizzare il rischio di una ricaduta psicotica. Queste precauzioni possono includere una graduale riduzione della dose nel corso di parecchi mesi, più frequenti visite, l’utilizzo di strategie di intervento precoce, o tutte quante le precedenti salvaguardie. In questo contesto, lo psichiatra dovrebbe insegnare al paziente ed alla famiglia a riconoscere i sintomi precoci di ricaduta e a collaborare per sviluppare piani di azione in caso di comparsa dei segni. (…) Durante gli episodi prodromici, i pazienti ed i membri della famiglia dovrebbero essere visti più frequentemente per il trattamento, il monitoraggio, ed il supporto, e ulteriori assertivi interventi, come le visite domiciliari, dovrebbero essere utilizzati allorché indicato".

Gravemente imprudente e negligente appare poi la decisione di delegare il controllo sulle condizioni psichiche del paziente alla osservazione da parte del personale della comunità, il quale non era sufficientemente preparato sul piano professionale a valutare i sintomi della recrudescenza della patologia psichiatrica.

Peraltro, occorre dare atto che gli operatori dell’(...) di avere scrupolosamente annotato e descritto in maniera dettagliata tutti i comportamenti e gli atteggiamenti del G.M. che potessero, in qualche modo, avere una valenza "patologica" e di essersi resi conto, con evidente preoccupazione, del crescente disagio psicologico e dei prodromi dello scompenso acuto che poi è degenerato nel gesto estremo.

Inoltre, non può certamente essere rimproverato ai predetti operatori un difetto di informazione nei confronti dell’attuale imputato. Al contrario, risulta pacificamente dimostrato come in più occasioni la Dott.ssa K.K. e gli altri addetti abbiano contattato il Dottor XX, specialmente nel periodo di conclamato e grave scompenso psico-comportamentale del G.M., per renderlo edotto delle loro preoccupazioni in ordine al paziente.

È, invece, il Dottor XX a sottovalutare colposamente i "sintomi" che gli venivano minuziosamente descritti.

Così il 18 aprile 2000, quando gli viene raccontato l’episodio della scoperta da parte del G.M. dell’esaurimento dei suoi fondi bancari e della "drammatizzazione" da parte dello stesso della vicenda, lo psichiatra, evidentemente non cogliendo appieno il significato della stessa per il malato, replica "che anche continuando a fare la puntura, non è che si risolva questo problema".

Ancora, il 12 maggio quando la Dott.ssa K.K. telefona al Dottor XX per avvertirlo, come lui aveva chiesto, dell'aggravarsi del quadro, lo stesso appare laconico e inadeguato, come testimonia l’annotazione sul diario della comunità ("Mi consulto col dott. XX [...] riportandogli quanto è stato qui sopra scritto. Il dott. consiglia di tenere controllato questo discorso del cibo, cercando possibilmente di scavare più a fondo, raccogliendo + parole, frasi che dice. Gli ho chiesto se dobbiamo orientarci verso domande specifiche, ma lui, rimanendo sul vago, ha ribadito solo di cercare di approfondire con G.M.").

Alla B. che gli chiede un aiuto per comunicare al paziente la notizia della morte della Deanna (vicenda che, come si è dato conto, ha inciso in misura rilevante sulla destabilizzazione del paziente), lo psichiatra risponde di non essere in grado di poterli aiutare in quanto non conosceva tale Deanna e non sapeva nulla dei rapporti della stessa con il G.M..

Ancora, il 18 maggio, allorquando la Dott.ssa K.K. deve insistere perché il Dottor XX si rechi presso la comunità e gli esterna i suoi dubbi in ordine all’effettiva assunzione della terapia via orale, l’attuale imputato si limita a suggerire di controllare meglio e che, comunque, "che è diritto di G.M. rifiutare che gli venga fatta la puntura".

Ugualmente inadeguato appare lo psichiatra il successivo 22 maggio, quando la stessa Dott.ssa K.K. gli telefona per informarlo che il G.M. "non aveva assolutamente cambiato il suo comportamento", ma l’imputato, avendo fretta, le dice "di chiamarlo alle successive ore 17,00".

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Ora, l’imputato ha più volte riferito nel corso del procedimento di non avere pienamente compreso la gravità della situazione di disagio psichico del G.M.. Ciò è probabilmente vero ma la responsabilità di tale mancata percezione (nonché del mancato approntamento di misure contenitive) è attribuibile esclusivamente a lui stesso.

Quale sarebbe stata da parte dell’imputato la condotta adeguata ed esigibile nel caso concreto?

Non c’è dubbio che, operata la scelta (rischiosa) della riduzione farmacologica, il medico avrebbe dovuto intensificare le visite di controllo, anche domiciliari; ciò – per usare le parole dei periti – " gli avrebbe permesso sia di monitorizzare l’evoluzione sintomatologica del paziente di fronte alla nuova strategia terapeutica (valutando anche più precisamente la compliance alla residua terapia orale, ed il ruolo di "cibo avariato" che stava assumendo lo stesso trattamento farmacologico), sia di vagliare la situazione ambientale nella quale il G.M. era immerso (e di comprendere, di conseguenza, sia la portata che per il paziente avevano assunto i due decessi delle "donne del G.M.", sia la reale consistenza della gestualità aggressiva attuata dal G.M. nei confronti degli operatori, delle "minacce" verbali di morte nei confronti di singoli operatori, nonché le dinamiche interattive fra il G.M. e gli stessi operatori), sia, infine, in modo più complessivo, di emettere una accurata, prudente, cauta prognosi, basata sull’evidenza, circa la probabilità del comportamento violento futuro del soggetto in questione".

Inoltre, una maggiore assiduità nelle visite e un più diretto contatto con il malato, avrebbero permesso all’attuale imputato di rendersi conto tempestivamente della sostanziale inefficacia della reintroduzione del farmaco depot e gli avrebbero consentito di modificare la terapia in considerazione della "fase acuta" della malattia schizofrenica o, eventualmente, di richiedere il T.S.O.

Molto si è discusso tra consulenti e periti in ordine alla correttezza ed adeguatezza della scelta di somministrare il Moditen depot ad un paziente in fase di scompenso acuto.

Hanno sostenuto a tale riguardo i consulenti tecnici della difesa – anche valendosi di un parere redatto dal prof. Altamura – che "la dose di Flufenazina somministrata il 19 maggio 2000, al di là delle concentrazioni e stato di equilibrio come già accennato difficilmente prevedibile, permette tuttavia di affermare che, essendo il picco relativo alla somministrazione individuabile con una notevole certezza entro i primi due-tre giorni dall’iniezione, è da ritenersi che in quinta giornata il paziente avesse concentrazioni con molta probabilità adeguate ad antagonizzare i sintomi psicotici di cui il soggetto soffriva, il che tuttavia non sempre assicura una adeguata protezione dagli agiti impulsivi/aggressivi auto o eterodiretti".

Al contrario i periti d’ufficio hanno reputato, citando la letteratura scientifica sul punto, che la scelta di reintrodurre il Moditen depot al paziente in uno stato di scompenso conclamato non sia stata affatto corretta e che il semplice rialzo del picco ematico della Flufenazina non poteva garantire il ripristino di una sintomatologia che era ormai senza controllo; scelta terapeutica più adeguata sarebbe stata quella "di sostenere la terapia del decanoato con un farmaco più incisivo e a maggiore velocità di azione" (cfr. prof. Addabbo in udienza 21 settembre 2005).

Sulla stessa lunghezza d’onda, i consulenti tecnici del P.M. hanno sostenuto che " il Moditen Depot è infatti un farmaco long-acting, che viene assorbito gradualmente e che non garantisce il controllo di fasi psicotiche acute, che necessitano di essere trattate con farmaci a pronto assorbimento, il cui dosaggio è maggiormente adattabile all'evolvere di una situazione in rapida progressione".

In realtà, ad avviso di questo giudice, la questione non ha rilievo assorbente, tenuto conto che, dato incontestabile, la somministrazione della dose intera di Moditen depot non ha sortito di fatto alcun effetto e il paziente non è assolutamente migliorato ma, al contrario, ha continuato progressivamente e sensibilmente ad aggravarsi. Non è dato di affermarsi con sicurezza se la decisione di somministrare nuovamente il neurolettico depot nel paziente totalmente scompensato sia stata o meno la scelta terapeutica più corretta; quello che è invece certo è che tale opzione non ha comportato per il paziente alcun effetto positivo.

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Il punto fondamentale è un altro – e ciò ci conduce al terzo dei profili di colpa evidenziati in premessa – ovvero che lo psichiatra, constatato lo stato di gravissimo scompenso psicotico del paziente e la totale inefficacia della terapia farmacologica somministrata, avrebbe dovuto attivare le procedure per il Trattamento Sanitario Obbligatorio.

In sede di interrogatorio, l’imputato ha affermato di avere pensato di chiedere tale misura restrittiva, ma di non averlo fatto per non contravvenire alla legge; infatti il paziente si era mostrato disponibile ad assumere la terapia depot purché a somministrargliela fosse la dott. D’A..

Va preliminarmente evidenziato che la legge (art. 2 della legge 180/78, riprese nel 4° comma dell'art. 34 della legge 833/78) prevede il Trattamento Sanitario Obbligatorio in regime di degenza ospedaliera come un provvedimento di carattere eccezionale che può essere adottato nella contemporanea sussistenza di tre presupposti: 1) l’esistenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2) la non accettazione degli stessi da parte dell'infermo; 3) l’assenza di condizioni e circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere.

Nell’ipotesi in questa sede in esame, nessuna incertezza può residuare in ordine all’esistenza del primo presupposto. Tutti gli psichiatri che hanno prestato la propria consulenza nell’ambito di questo procedimento – compresi i consulenti tecnici della difesa – hanno concordato sul fatto che, nei giorni precedenti l’omicidio, il G.M. si trovasse in uno stato di grave scompenso psichico.

Contrariamente a quanto sostenuto nel loro elaborato dagli esperti nominati dalla difesa, è convinzione di questo giudicante che sussistesse anche il secondo dei presupposti richiesti dalle legge. Infatti, nonostante che – dopo ripetuti tentativi – il G.M. avesse accettato di farsi praticare l’iniezione di depot dal medico di base, era opinione comune tra gli operatori ed era stato fatto presente anche al Dottor XX che il paziente non assumeva più i farmaci per via orale, i quali costituivano una parte essenziale della terapia.

Sul punto fanno testo le numerose annotazioni sul diario della comunità e le dichiarazioni rese da responsabili e operatori nel corso delle indagini preliminari sopra riportate (cfr. s.i.t. rese da D'A.F., Dott.ssa K.K., A.F., F.A., M.M. e O.M.). Riguardo a ciò, la Dott.ssa K.K., nell’interrogatorio reso il 21 gennaio 2002, ha riferito che, in occasione della visita del Dottor XX al G.M. presso la comunità il 18 maggio 2000, lei ribadì allo psichiatra che non aveva senso aumentare la terapia orale, in quanto il malato non la assumeva; ma di tale considerazione l’attuale imputato non tenne minimamente conto. Inoltre è lo stesso Dottor XX ad affermarlo allorquando, all’esito della visita, annotò sulla cartella clinica del G.M.: "proveremo ad utilizzare il medico di medicina generale per fargli ricominciare il depot. Non bisogna più togliere il depot perché quando sta male assume la terapia per os in modo totalmente inaffidabile" nonché quando successivamente riportò: "…Oggi, dopo avere sentito l'operatrice Laura decidiamo di introdurre anche un Clopixol 25 mg ore 21 poiché permangono gli aspetti persecutori e non siamo certi che assuma con regolarità le gocce di Entumin".

In ogni caso, come si è visto, nonostante la reintroduzione del farmaco nella forma depot, il paziente non solo non migliorò, ma le sue condizioni si fecero giorno dopo giorno più critiche. Per questo motivo, la decisione di chiedere una misura contenitiva era di fatto per il medico – psichiatra vincolante.

Parimenti, il Dottor XX avrebbe dovuto rendersi conto del fatto che la comunità (...) non era una struttura idonea a fare fronte alla grave crisi psicotica del paziente.

Sul punto, anche gli stessi consulenti tecnici di parte esprimono delle perplessità laddove affermano: " in merito alla condizione 3) prevista dalla legge, può essere discutibile se una comunità riabilitativa sia un luogo in assoluto idoneo per far fronte a una condizione acuta di un paziente psicotico. In assoluto certamente no, perché essa non prevede la costante presenza di personale sanitario (medico e infermieristico). Questo fatto non esclude che essa sia una condizione extra ospedaliera sufficientemente idonea, anzi non si capisce quali possano essere le alternative a cui allude la legge se non quelle che si avvalgono di personale specializzato (educatori ed assistenti di base) in ambito psichiatrico, che possono

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rivolgersi in qualsiasi momento al medico psichiatra di turno (sulle 24 ore) presso la sede, che quindi può garantire una quotidiana osservazione, vigilanza e contenimento delle angosce del paziente scompensato".

La comunità (...) è una comunità residenziale gestita dal Consorzio Ippogrifo, vincitore di un pubblico appalto; la stessa veniva condotta sulla base di protocolli organizzativi fissati dal Dipartimento di Salute Mentale di Imola (cfr. documento di presentazione della struttura in atti). Per ogni comunità, veniva individuata una mini – equipe formata da un medico psichiatra, con funzioni di consulente esterno, e un assistente sociale, con il ruolo di referente istituzionale del Dipartimento. Secondo il documento, il medico psichiatra svolgeva funzioni di: 1) assistenza specialistica agli ospiti della comunità secondo le modalità ritenute più opportune (nella residenza o nell’ambulatorio) e a seconda delle necessità; 2) supervisione mensile sullo staff degli operatori delle comunità; 3) indirizzo e verifica dei progetti terapeutico – riabilitativi. Con riguardo alle altre figure professionali previste dalla struttura, il capitolato speciale relativo alla gara d’appalto dell’azienda U.S.L. di Imola del 6 febbraio 1996, prevedeva la presenza di un referente coordinatore, di educatori professionali in possesso del diploma di educatore o della laurea in scienze dell’educazione o di esperienza di almeno un anno nella posizione funzionale corrispondente, di operatori addetti all’assistenza di base.

Si trattava dunque di una struttura di carattere riabilitativo, con un approccio prevalentemente sociale nella gestione dei malati psichiatrici, priva di personale medico e infermieristico, e, pertanto, del tutto inadeguata a gestire situazioni di emergenza come quella presentatasi con il "caso" G.M..

Tale conclusione trova peraltro conferma in un documento redatto dalla presidenza del consorzio Ippogrifo pochi giorni dopo il tragico evento, nel quale – dopo avere evidenziato i punti critici dell’organizzazione di siffatte comunità – si censurava il sostanziale fallimento delle equipe medico – sociali composte dal medico psichiatra e dall’assistente sociale rilevando come "tali figure sono state assorbite ed integrate nelle equipe territoriali, con conseguente aggravio dei carichi di lavoro che hanno portato ad una presenza in riunione dell’assistente sociale ogni due – tre settimane e del medico psichiatra una volta al mese nella migliore delle ipotesi. La scarsa disponibilità di tempo anche per le visite, consulenze, ecc. ha reso ancora più sporadica e insufficiente la presa in carico dal punto di vista clinico dei residenti delle comunità".

Quanto poi alla specifica competenza professionale degli operatori della comunità, il documento rilevava come "le figure professionali impiegate nelle comunità non hanno competenza/preparazione di sanitario, il che li espone maggiormente a rischi". A tale proposito, la presidenza del consorzio chiedeva esplicitamente "una formazione specifica, promossa dall’Azienda U.S.L., intesa almeno a qualificare maggiormente gli operatori delle comunità nel compito di somministrare i farmaci".

Concorda questo giudicante su quanto affermato dai consulenti della difesa in ordine al fatto che l’odierno imputato non poteva farsi carico delle disfunzioni della struttura nella quale egli prestava un incarico di consulente esterno. Tuttavia, non vi è dubbio che il Dottor XX, nella sua veste di medico psichiatra del D.S.M. di Imola, consulente di più strutture residenziali, non poteva non rendersi conto di tali carenze organizzative, specialmente sotto il profilo delle competenze professionali degli operatori della comunità (...), nonché della sostanziale impossibilità di fare fronte adeguatamente in quel contesto alla grave crisi psicotica manifestata dal G.M..

Tenuto conto dell’assenza nella struttura di personale medico e infermieristico con specifica formazione psichiatrica e dell’impossibilità di contenere efficacemente la situazioni di crisi del paziente, il Dottor XX aveva quindi l’obbligo giuridico di chiedere l’attivazione delle procedure per il Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il non averlo fatto integra senza dubbio un profilo di grave imprudenza e negligenza da parte del medico – psichiatra.

Inaccettabile e puramente formalistica appare dunque la giustificazione data dall’imputato con riguardo alla sua decisione di non chiedere la restrizione temporanea del malato in idonea struttura psichiatrica per non essere costretto a "violare la legge".

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* * * * *

Non può sorgere alcuna incertezza di sorta sull’esistenza, in capo al medico psichiatra oggi imputato, di un obbligo di garanzia nei confronti del malato di mente, nella forma della posizione di controllo che impone al soggetto obbligato la neutralizzazione di determinate fonti di pericolo in modo da tutelare tutti i beni giuridici che si trovino in contatto con esse e che, per questa ragione, possano versare in una situazione di pericolo.

La fonte di tale posizione di garanzia risiede principalmente nella volontaria assunzione da parte del Dottor XX, psichiatra dipendente dal D.S.M. di Imola, del ruolo di consulente della comunità (...) per quanto concerneva il paziente G.M..

Nelle controdeduzioni depositate il 15 settembre 2005, i consulenti di parte pongono di fatto in discussione l’esistenza di un tale obbligo, evidenziando che, sulla base del protocollo organizzativo predisposto dal D.S.M. di Imola, il medico psichiatra era incaricato prevalentemente della gestione della terapia farmacologica dei pazienti con un incontro mensile di "supervisione" su tutti i casi. Con riguardo poi al "caso G.M.", secondo gli esperti, la vicenda risultava anomala, in quanto la comunità (...) aveva come psichiatra consulente la Dott.ssa Z.Z., mentre il ruolo del Dottor XX era limitato alla specifica gestione del suddetto paziente, essendo peraltro lo stesso consulente esterno di un’altra comunità. Egli quindi non aveva avuto alcun obbligo di presenza alle riunioni e aveva notizia del comportamento del paziente solo dai suoi stessi racconti e dai resoconti degli operatori.

In realtà, in tema di colpa professionale, il concreto e personale espletamento di attività medico – terapeutica da parte del sanitario comporta sempre l’assunzione diretta della posizione di garanzia nei confronti del paziente, sicché su di lui incombe l’obbligo della osservanza delle leges artis, che hanno per fine la prevenzione del rischio non consentito ovvero dell’aumento del rischio.

La Suprema Corte ha affermato, in tema di responsabilità professionale, che sussiste la posizione di garanzia del medico che, sia pure a titolo di semplice consulto, accerti l’esistenza di una patologia ad elevato ed immediato rischio di aggravamento. Tale medico ha l’obbligo di attivarsi disponendo personalmente i trattamenti terapeutici ritenuti idonei oppure facendo immediatamente ricoverare il paziente in un reparto specialistico (Cass. pen., sez. IV, 3 febbraio 2003, n. 4827, Perilli Ludovico).

È chiaro quindi che il Dottor XX, indipendentemente dalla sua qualifica formale e dai suoi compiti delegati, aveva un obbligo di garanzia nei confronti del G.M., in quanto suo esclusivo medico – psichiatra curante.

Ulteriore e fondamentale momento della trattazione è quello concernente l’evento del reato, da individuarsi nel grave atto eteroaggressivo posto in essere dal G.M. nei confronti del A.C..

Il primo aspetto da sviscerare è quello relativo alla prevedibilità da parte dell’agente dell’evento dannoso come sopra descritto.

A tale proposito, questo giudicante condivide pienamente e fa proprie le conclusioni elaborate dal dott. Ariatti, incaricato dal P.M. di valutare la capacità di intendere e di volere del G.M. al momento del fatto criminoso. Lo psichiatra, nella sua relazione tecnica, ha spiegato come "l'excalation di produttività delirante, a contenuto di veneficio, degli ultimi tempi, ci propone il quadro di un paziente immerso nel suo mondo delirante, popolato di persecutori, in cui l’angoscia della morte, dell’avvelenamento, della contaminazione domina la sua quotidianità. Egli si sente contaminato dai farmaci, dal cibo, minacciato e invaso nel suo "spazio", che ritiene inviolabile, dalla riproposizione giornaliera del rituale dell'assunzione dei farmaci e della contrattazione rispetto ad essa. Si rifugia in bagno, evita il cibo preparatogli, vuole solo scatolette sigillate, chiede di comprarsi lui al bar quello che gli occorre, chiede di "essere lasciato vivere". (…). Il gesto estremo che egli mette in atto la mattina del 24-5-2000 altro non è che l'estrinsecazione di tale angosciosa percezione della realtà esterna, e rappresenta, nel suo vissuto delirante, un modo per difendersi da ciò che egli sentiva essere un pericolo incombente ed imminente. Trattasi cioè di un "gesto sintomatico", espressione diretta della psicopatologia di cui egli è affetto…".

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Su tali conclusioni vi è peraltro la piena adesione sia dei consulenti tecnici del P.M. sia dei periti nominati in sede di giudizio abbreviato.

In particolare, i primi, partendo dalla constatazione che "il tipo paranoide della schizofrenia costituisce la categoria diagnostico psichiatrica che annovera la più elevata percentuale di reati gravi contro la persona", hanno evidenziato come i comportamenti espressi, nell’ultimo periodo, dal G.M. in termini dì aggressività, diretta o simbolica, dovevano far prevedere al medico curante la concreta possibilità che il medesimo "avrebbe potuto replicare comportamenti aggressivi, potenzialmente anche gravi e idonei a procurare lesioni fisiche a terzi, anche se di sostanziale e profondo significato difensivo".

Dal canto loro i periti d’ufficio hanno documentato – sulla base di autorevoli studi scientifici e di dati statistici – che "esiste una relazione fra disturbi mentali maggiori e delinquenza, così come esiste una relazione fra schizofrenia (o altre psicosi) e comportamento violento". Dalla perizia appare opportuno citare un brano del Trattato italiano di Psichiatria che si attaglia al caso in esame: "In diversi studi è stato evidenziato come la diagnosi psicopatologica più spesso associata con i comportamenti ostili è la schizofrenia. Sembra infatti che a questa patologia appartengano pazienti più violenti che non a quella dei disturbi di personalità o alla patologia affettiva o alla patologia organica cerebrale e anche risulterebbe che, nell’ambito di valutazioni compiute in regime di ricovero ospedaliero, i pazienti schizofrenici siano mediamente più aggressivi dei pazienti con dipendenza dall’alcool o dalle droghe. Nell’ambito della schizofrenia è indubbio che esistano delle differenze che dipendono dalla forma clinica, dal decorso della malattia, dal tipo di episodio e dalla risposta alla terapia. Ad esempio i pazienti con schizofrenia di tipo paranoide possono presentare comportamenti aggressivi in rapporto a un particolare delirio e quindi solitamente diretti verso una o più persone specifiche...".

Gli stessi psichiatri hanno inoltre affermato che, pur non esistendo criteri (statistici, clinici, biochimici, ecc.) obiettivi per una prognosi certa del comportamento violento nell’ambito della malattia mentale, è tuttavia compito dello psichiatra cercare di identificare il paziente che potrà commettere agiti di violenza. Secondo la letteratura scientifica, la prognosi psichiatrica del comportamento violento può essere generica, condizionale o imminente (Nivoli e altri, 1993).

La prognosi può dirsi generica quando il paziente presenta sintomi psichiatrici aspecifici di un probabile comportamento violento non ancora iniziato in modo concreto. Ad esempio, un soggetto schizofrenico con delirio strutturato a contenuto persecutorio può in linea di principio passare all’azione con comportamenti violenti verso i supposti persecutori; tuttavia, l’esperienza clinica dimostra che sono statisticamente assai limitati i soggetti schizofrenici con deliri a contenuto persecutorio che in realtà passano all’azione violenta su persone. In questi casi, la capacità di previsione dello psichiatra è assai limitata e soggetta a molti errori.

Nel caso di prognosi condizionale, pur non essendosi ancora manifestato alcun comportamento violento, la prevedibilità di un siffatto agire può essere, sotto il profilo clinico e statistico, desunta da uno specifico sintomo o da specifiche "costellazioni di sintomi" scatenanti. Per esempio, può essere considerato significativamente probabile un comportamento violento se un soggetto schizofrenico con delirio a contenuto persecutorio presenta unitamente a questo sintomo: uno stato di agitazione psicomotoria, oltre due notti trascorse insonni ed in stato eretistico, "minacce calde", chiaramente identificata una vittima, precedenti di aggressione sulle persone per percepiti soggettivi e contesti sociali analoghi all’attuale. In queste ipotesi lo psichiatra deve essere in grado di individuare gli specifici sintomi o le specifiche costellazioni di sintomi scatenanti il comportamento violento e di adottare tutte le misure necessarie per evitare il verificarsi di fatti dannosi.

Infine, "nella prognosi imminente il comportamento violento del paziente è già iniziato in modo concreto ed è richiesto allo psichiatra un intervento rapido in termini di neutralizzazione di dinamiche di agiti violenti". È questo il caso, ad esempio, del soggetto affetto da psicosi maniacale che, in stato di violenta agitazione psicomotoria, inizia a percuotere la porta del servizio di psichiatria, esprimendosi ad alta voce, con minacce adeguate e calde in crescendo, richiedendo di essere prontamente dimesso dal reparto ove è stato ricoverato contro la propria volontà. In queste ipotesi, lo specialista è ancora più in grado, rispetto alla prognosi

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condizionale, di prevedere le manifestazioni violente e di predisporre le necessarie misure contenitive, anche di tipo restrittivo.

Nella fattispecie in esame, concorda questo giudicante sul fatto che l’emergenza manifestatasi nella seconda decade di maggio, con tutta la costellazioni di sintomi significativi di uno scompenso acuto (forti timori di essere ammazzato, le minacce di morte nei confronti di vari operatori, l’aggressione posta in essere contro la futura vittima con l’uso di una padella, ecc.), anche in considerazione dell’anamnesi psicopatologica del G.M., doveva far elaborare al Dottor XX, alla luce della sua qualifica e della sua esperienza clinica, una prognosi di violenza "condizionale", se non addirittura di violenza "imminente", tenuto conto che il comportamento aggressivo e violento era di fatto già iniziato.

L’impulso eteroaggressivo che è sfociato nel ferimento a morte dell’operatore A.C. non è stato dunque un evento inaspettato e imprevedibile, bensì si è trattato di un atto ben inquadrabile nella patologia psichiatrica da cui era affetto il paziente e tipico della grave crisi psicotica in cui lo stesso versava. Non vi è dubbio quindi che l’odierno imputato avrebbe potuto e dovuto immaginare il possibile (se non probabile) verificarsi di tale evento.

Ulteriore e fondamentale problema da trattare è quello relativo alla sussistenza di un nesso eziologico tra le condotte, commissive e omissive, attribuibili al Dottor XX e l’evento dannoso come sopra descritto.

A tale proposito, va immediatamente evidenziato che oggetto di valutazione in questa sede saranno soltanto quegli aspetti della condotta colposa dell’imputato che hanno natura prevalentemente commissiva o comunque mista (l’avere ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica depot senza l’approntamento di misure idonee a contenere la prevedibile "ricaduta" del paziente"), dal momento che non può porsi alcun dubbio circa la sussistenza di un rapporto causa – effetto tra la mancata attivazione delle procedure per il T.S.O. e il verificarsi dell’evento. Non vi è, infatti, alcuna necessità di motivare sul fatto che, se il G.M. fosse stato ricoverato in idonea struttura psichiatrica (come sarebbe stato invero necessario), questi non avrebbe potuto ferire a morte l’inserviente A.C..

Non si nasconde questo giudice la difficoltà di stabilire con certezza l’esistenza di un rapporto causa – effetto in campo psichiatrico tra l’adozione (o la mancata adozione) di una scelta terapeutica e l’esacerbazione della patologia del paziente.

A tale riguardo, va rilevato che la più avveduta e moderna giurisprudenza ha ripudiato, nel procedimento di spiegazione causale, il metodo deduttivo che, presupponendo una completa conoscenza di tutte le condizioni iniziali del processo causale e una perfetta dimostrabilità scientifica ed empirica di tutte le fasi, pretende di fornire una risposta certa e assoluta perché fondata su leggi universali. Non vi è dubbio che, specie in materia di colpa medica, un’imputazione oggettiva dell’evento fondata su base strettamente causale, condizionalistica, tenuto conto della misura di incertezza che permea la materia della clinica e della medicina in genere, comporterebbe la sostanziale rinunzia a sanzionare penalmente comportamenti spesso anche gravemente trascurati che incidono sul bene primario della vita umana. Al criterio di "certezza scientifica" si è quindi progressivamente sostituito quello di "certezza processuale", sulla base del quale sussiste il necessario nesso di causalità allorquando la condotta dell’agente sia stata condizione necessaria dell’evento con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica" (cfr. Cass. pen., S.U., 13 febbraio 2002, Franzese).

Nella pratica giudiziaria si osserva come sussistano ipotesi relative a condotte colpose e commissive nelle quali l’accertamento del nesso causale non diverge da quello che si avrebbe qualificando come omissiva la condotta dell’agente. È chiaro che il sanitario che sbaglia la cura è in colpa avendo, dal punto di vista eziologico, posto in essere le condizioni positive dell’evento lesivo ma, allo stesso tempo, dal punto di vista giuridico, non avendo attivato le condizioni negative dello stesso. La sua condotta quindi da un lato è condizione dell’evento perché lo determina (quanto meno accelerando i tempi del processo), dall’altro lo è ugualmente perché non attiva condizioni impeditive del medesimo.

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La difesa dell’imputato, attraverso i consulenti tecnici dalla stessa nominati, ha fortemente contestato l’asserita riconducibilità dello scompenso psicotico del G.M. alla scelta terapeutica operata dal Dottor XX e, in particolare, alla riduzione del dosaggio di Moditen depot.

I consulenti hanno spiegato – avvalendosi anche della letteratura scientifica in materia – come la flufenazina (il principio attivo del Moditen), nella formulazione depot, è legata a un eccipiente che trattiene il farmaco nell’organismo e, rilasciandolo un po’ alla volta, gli consente di dispiegare il proprio effetto farmacologico per un certo periodo di tempo. Mentre per i pazienti che non hanno mai assunto in precedenza il farmaco, dopo l’iniezione, la concentrazione raggiunge nell’organismo il picco massimo nelle successive 24 – 48 ore per poi decrescere progressivamente e dimezzarsi in 6 – 10 giorni; nei soggetti che hanno una lunga storia di somministrazione di tale prodotto, il farmaco si accumula nell’organismo e il tempo di dimezzamento si porta da 14 a 100 giorni. Secondo gli specialisti della difesa, tenuto conto che il G.M. assumeva il Moditen da circa tre lustri e dell’età avanzata del medesimo (che comporta un rallentamento dei processi di eliminazione dei farmaci a livello epatico), deve presumersi che il tempo di dimezzamento fosse tendente verso l’estremo più elevato del range (100 giorni). Peraltro, è la conclusione degli stessi, in considerazione dell’intervallo tra la somministrazione del depot del 7 aprile e quella del 19 maggio, deve escludersi che il paziente fosse, al momento del fatto criminoso, "scoperto" sotto il profilo farmacologico.

Tali conclusioni sono completamente disattese da tutti gli altri consulenti e psichiatri che hanno interloquito nell’ambito del presente procedimento. In particolare, i periti d’ufficio hanno esplicitamente affermato che – a loro parere – deve ritenersi sussistente "un legame causa-effetto tra modificazione della terapia farmacologia somministrata al G.M. (riduzione fino alla sospensione del Moditen depot) e la riacutizzazione della sua patolgia schizofrenica, con comparsa di una condizione di scompenso acuto, e che, a sua volta, vi sia un legame, quantomeno di significativa concausalità, tra il suddetto scompenso acuto e le manifestazioni di aggressività che hanno condotto il paziente a compiere l’atto delittuoso di cui alla presente causa".

A supporto delle loro conclusioni, gli psichiatri nominati da questo giudice hanno citato la letteratura scientifica internazionale che documenta come l’interruzione (o la significativa riduzione) delle dosi di antipsicotico può produrre, come di fatto produce, un peggioramento anche molto rapido (anche se per pazienti in trattamento con farmaci depot i tempi di recidiva possono allungarsi per la persistenza nel sangue di dosi subcliniche di farmaco long-acting) delle condizioni cliniche di pazienti "stabilizzati" senza segni psicotici.

Questo giudicante condivide e fa proprie le documentate e ponderate conclusioni dei periti in ordine alla sussistenza di un nesso di causalità tra la modifica del trattamento farmacologico operata dall’attuale imputato e la recrudescenza della patologia psichiatrica del malato che ha poi portato al tragico atto del 24 maggio 2000.

Le argomentazioni di carattere scientifico portate dai periti non risultano in alcun modo scalfite dalle considerazioni dei consulenti di parte, i quali si limitano ad affermare che, nei casi di pazienti già precedentemente trattati con farmaci a base di flufenazina, il periodo di dimezzamento del farmaco nell’organismo varia da 14 a 100 giorni. Ora, va considerato che, nel caso di specie, il Dottor XX aveva già operato, in data 16 marzo, un dimezzamento della dose precedentemente somministrata e che, dal 7 aprile (data dell’iniezione di mezza dose) e il 19 maggio (ripristino dell’intera fiala) sono trascorsi ben 45 giorni, periodo certamente idoneo – secondo gli studi scientifici in materia – a determinare una significativa riduzione della concentrazione di principio attivo; concentrazione peraltro già precedentemente diminuita a seguito del dimezzamento delle dosi da parte dello psichiatra curante.

Oltre alle valutazioni di carattere scientifico, sono le stesse osservazioni dal punto di vista clinico che confortano la conclusione sopra tratta.

Significativa, a questo proposito, è la raccomandazione fatta dal prof. Vinci, primario dell’ospedale psichiatrico di Imola ove era stato ricoverato il G.M., alla Dott.ssa YY 3 (dalla stessa poi rivolta allo stesso Dottor XX), allorquando la stessa prestava servizio presso il predetto istituto, di non ridurre mai la terapia di neurolettici depot al paziente per il concreto rischio che lo stesso si scompensasse.

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Inoltre, gli stessi operatori che giornalmente sono stati in contatto con il G.M. e hanno potuto osservare il progressivo deteriorarsi del suo stato psichico, pur senza basi scientifiche e professionali adeguate, hanno tutti quanti posto in relazione tale evenienza con la riduzione del trattamento farmacologico (cfr. verbali di s.i.t. e annotazioni sopra riportate).

Infine, è lo stesso Dottor XX, con l’annotazione sulla cartella clinica del G.M. del 18 maggio 2000, in qualche modo, a porre in relazione lo stato di scompenso del paziente con la sospensione della terapia avvertendo che "non bisogna più togliere il depot, perché quando sta male assume la terapia per os in modo totalmente inaffidabile". Peraltro, che anche l’imputato abbia posto in correlazione i due eventi è dimostrato dal fatto che, constatata la crisi, la sua scelta terapeutica è stata quella di reintrodurre immediatamente il farmaco depot.

Sempre sul tema della causalità, i professori Berti Ceroni e Bernardi hanno ipotizzato che alla base dello scompenso del G.M. possano esservi state cause diverse dalla modificazione della terapia farmacologica, quali eventi traumatici o stressanti come le morti delle compagne di comunità Franca e Deanna, per le quali il G.M. provava sentimenti di affetto profondo. Affermano i consulenti che i più recenti studi hanno dimostrato che i pazienti schizofrenici, per quanto dissociati dalla realtà, presentano sovente "disturbi della sfera affettiva che possono conseguire a legittime e prevedibili reazioni a lutti e perdite".

È convinzione di questo giudice che gli eventi traumatici indicati dagli specialisti della difesa (insieme peraltro alla vicenda relativa alla scoperta dell’esaurimento dei suoi fondi bancari) abbiano decisamente inciso sullo stato psichico del G.M.. Tuttavia, rispetto alla condotta oggetto di incolpazione, deve ritenersi che questi fattori abbiano agito solo come concause, da sole non sufficienti a determinare l’evento. Deve, infatti, applicarsi, in questa materia, il principio giuridico dell’equivalenza delle cause, secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset; mentre tale nesso non può essere escluso allorquando la causa successiva abbia soltanto accelerato la produzione dell’evento (Cass. pen., sez. V, 14 luglio 2000, Falvo).

Nel caso di specie, non si tratta, invero, di cause sopravvenute eccezionali, tali da interrompere il nesso causale tra l’evidenziata condotta colposa e l’evento dannoso, bensì di eventi, dotati di una rilevante incidenza causale, che tuttavia si inseriscono nell’alveo di una situazione (progressivo scompenso psichico del malato) già determinatasi a cagione del comportamento dell’agente. Peraltro, come si è dimostrato, si tratta di eventi che il Dottor XX avrebbe dovuto conoscere e sulla base dei quali avrebbe avuto l’obbligo di commisurare l’adeguatezza del suo intervento terapeutico.

In ogni caso, come testimoniato dalle dichiarazioni dei soggetti operanti nella struttura residenziale e come riportato nelle annotazioni sul diario della comunità e sul verbale delle riunioni, la crisi aveva cominciato a manifestarsi ben prima di tali fatti luttuosi che risalgono al 19 maggio 2000. A tale proposito, significativa è l’annotazione sul verbale delle riunioni del 23 maggio che recita: "all’origine dello scompenso di G.M. si era pensato che potessero esserci tutti gli eventi luttuosi di questo periodo (Deanna e Franca). In realtà i primi segnali di scompenso sono arrivati prima e sono cresciuti di forza e di numero nei giorni subito successivi…".

Totalmente fuorviante è poi l’argomentazione difensiva – tratta peraltro dalle conclusioni dei periti – secondo la quale, posto che una certa percentuale di pazienti psicotici (circa il 20% all’anno) ha una ricaduta anche ricevendo iniezioni depot ad effetto prolungato, non vi sarebbe alcuna dipendenza causale tra l’opzione terapeutica posta in essere dall’imputato e l’evento omicidiario.

In realtà, il dato statistico – sicuramente significativo – indica soltanto che la recidiva può verificarsi anche con pazienti sottoposti a profilassi antipsicotica. Ma ciò non inficia la premessa iniziale secondo la quale l’osservazione scientifica e clinica ha dimostrato che l’interruzione della somministrazione di neurolettici depot determina nei pazienti schizofrenici un peggioramento, talvolta anche assai rapido, delle condizioni psichiche. È ovvio, infatti, che, pure se lo scompenso avrebbe potuto ugualmente verificarsi anche con il paziente sottoposto a terapia di mantenimento, la diminuzione e la successiva interruzione della terapia,

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insieme agli altri fattori traumatici non tenuti in considerazione da parte dello psichiatra, hanno certamente agevolato le condizioni del suo manifestarsi e quindi ne costituiscono condizione necessaria.

A seguito dell’udienza di discussione della perizia, come si è detto in premessa, la difesa si è premurata di acquisire la documentazione clinica relativa ai ricoveri in O.P.G. del G.M. negli anni successivi all’omicidio e, col consenso delle parti, di produrla agli atti del fascicolo.

Sulla base dei dati emergenti da tale documentazione, i consulenti tecnici di parte hanno formulato ulteriori osservazioni tecniche con riguardo ai tre distinti periodi di detenzione.

Ricoverato presso l’O.P.G. di Montelupo Fiorentino (27 maggio 2000 – 7 febbraio 2003), il G.M., nonostante fosse sottoposto a trattamento depot, inizialmente manifesta una notevole aggressività, giungendo più volte ad assalire infermieri e personale. In un periodo successivo, viene annotato uno "scarso controllo dell’impulsività"; mentre nell’ultimo anno e mezzo viene descritto come "oppositivo" ma non più aggressivo. Il suo quadro clinico si evolve in una demenza senile con deficit di tipo cognitivo.

L’8 febbraio 2003, il paziente viene trasferito presso l’O.P.G. di Napoli, ove rimane ricoverato sino al 4 aprile 2003. Nonostante trattato con dosi importanti di depot, lo stesso ricade in comportamenti aggressivi.

Tali comportamenti non mutano anche a seguito del successivo trasferimento presso l’omologa struttura di Reggio Emilia, ove l’aggressività del paziente non permette ai sanitari neppure di avvicinarsi per i prelievi del sangue.

Osservano quindi gli psichiatri che "in tutto il periodo della sua detenzione presso i tre O.P.G. il paziente è sottoposto ad una terapia farmacologica massiccia e costante, ma gli episodi di aggressività non sembrano risentirne e proseguono immutati. E quando si attenuano, questo non accadrà mai a seguito di un incremento farmacologico". Sulla base di queste constatazioni, gli stessi concludono che "le manifestazioni comportamentali del paziente sono una variabile dipendente dai cambiamenti ambientali – relazionali e non del trattamento farmacologico".

È convinzione di questo giudicante (pur non avendo avuto sul tema specifico l’apporto conoscitivo e valutativo dei periti, essendo state depositate le deduzioni in limine litis) che queste trancianti conclusioni non siano accettabili.

Ciò, in primo luogo, perché partono da una premessa errata: il G.M. ricoverato il 27 maggio 2000 presso la struttura di Montelupo Fiorentino non è – dal punto di vista psichiatrico – la stessa persona che, soltanto un mese prima, cominciava a manifestare i primi problemi comportamentali presso la comunità residenziale ove era ospitato. Il paziente ricoverato a seguito del crimine è un soggetto che, sulla grave crisi psicotica in atto, si innestano due traumi di rilevante entità: l’omicidio perpetrato con modalità estremamente violente e lo sradicamento da un contesto ambientale tranquillizzante come era la comunità residenziale (...) e la restrizione paracarceraria in una struttura prevalentemente contenitiva quale è l’ospedale psichiatrico giudiziario.

Dall’altro lato, perché – come si è osservato in precedenza – è ragionevole ritenere che la situazione di grave scompenso psicotico del G.M. non sia stata determinata dall’uno o dall’altro fattore (la modifica della terapia o da condizioni esterne quali lutti o traumi), bensì dal combinarsi di tutte queste condizioni che, lasciate senza controllo, hanno reso possibile il verificarsi dell’evento omicidiario.

Conforta tale conclusione la constatazione che, dopo un primo periodo di ricovero a Montelupo caratterizzato da impulsi di violenza e aggressività, il G.M., ambientatosi nella nuova realtà e nuovamente sedato con la somministrazione di neurolettici, ha progressivamente diminuito i suoi agiti e si è, quantomeno negli ultimi tempi, sostanzialmente stabilizzato. Quanto ai successivi ricoveri, la progressiva evoluzione della patologia in "psicosi organica" e i fattori traumatici derivanti dai trasferimenti in nuove realtà ambientali impediscono di comprendere e valutare compiutamente l’eziologia delle sue manifestazioni aggressive.

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Ultimo punto oggetto di trattazione è quello che ha determinato il provvedimento di reiezione da parte di altro G.I.P. di questo ufficio della richiesta avanzata dal P.M. di procedere, nelle forme dell’incidente probatorio, a perizia medico – legale in ordine agli eventuali profili di colpa professionale nella condotta dei soggetti a quella data iscritti nel registro degli indagati.

Il ragionamento del giudice si fondava su una pretesa impossibilità di configurare, dal punto di vista giuridico, un concorso colposo degli allora indagati nel reato doloso posto in essere dal G.M.. Conformemente ad un’impostazione dottrinaria, tale ipotesi sarebbe inconciliabile con la struttura del reato in concorso che esclude la possibilità che i correi possano rispondere dello stesso evento con differenti elementi soggettivi. Si citava a tale proposito una pronunzia della Suprema Corte che enunciava che " il concorso colposo non è configurabile rispetto al delitto doloso, richiedendo l’art. 42 comma II c.p. un’espressa previsione che manca, in quanto l’art. 113 c.p. che parla di cooperazione nel delitto colposo e non già di cooperazione colposa nel delitto, contempla solo il concorso colposo nel delitto colposo" (Cass. pen., sez. IV, sent. 11 ottobre 1996, n. 9542).

Tale impostazione, peraltro completamente disattesa dalla più moderna dottrina penalistica, è stata recentemente capovolta anche dalla Cassazione, la quale ha esplicitamente affermato che "il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto doloso, non ostandovi la previsione di cui all’art. 42, comma II, c.p., che riferendosi soltanto alle parti speciali del codice, non interessa le disposizioni di cui agli artt. 110 e 113 c.p." (Cass. pen., sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 39680, Giancarlo: trattasi di una vicenda nella quale è stata affermata la responsabilità a titolo di colpa di un soggetto che aveva contribuito a porre in essere le condizioni, per lo stato di abbandono e di negligente trascuratezza in cui aveva tenuto un deposito di materiale gommoso, per il verificarsi di un incendio, poi in realtà appiccato da ignoti).

In realtà, nel caso di specie, non appare neppure necessario scomodare la problematica del concorso colposo nel reato doloso, posto che tale non può essere considerato l’atto dell’incapace di intendere e di volere. Ragionando diversamente si dovrebbe infatti escludere la punibilità della condotta della maestra elementare, la quale, omettendo colposamente di esercitare la necessaria vigilanza, non impedisce che un alunno "volontariamente" ferisca il compagno di giochi. Anche il bambino – al pari dell’infermo psichico – per la legge penale è soggetto privo della capacità di intendere e di volere; tuttavia, dal punto di vista psicologico, non può escludersi che lo stesso possa commettere un atto intenzionalmente. A tale proposito, la moderna dottrina parla, con riguardo agli stati psicologici degli incapaci di intendere e di volere, di "pseudo – dolo" e "pseudo – colpa".

Ciò che, in realtà, si rimprovera all’attuale imputato non è di avere concorso con la propria condotta colposa nell’attività delittuosa del G.M., bensì di non avere impedito un evento (la morte del A.C.) che, in qualità di destinatario di una posizione di garanzia, egli aveva l’obbligo giuridico di impedire.

* * * * *

Affermata la penale responsabilità dell’imputato in ordine al delitto in contestazione, devono essere passati in rassegna i profili afferenti al trattamento sanzionatorio e alle determinazioni civili della sentenza.

Vanno certamente riconosciute al Dottor XX le circostanze attenuanti generiche, in considerazione dello stato di incensuratezza nonché al fine di adeguare la pena al concreto disvalore penale della condotta, tenuto conto della particolare delicatezza e importanza sociale del ruolo professionale svolto dallo stesso.

Con riguardo alla determinazione della pena occorre fare riferimento ai criteri stabiliti dall’art. 133 c.p. A tale riguardo va considerato che, seppure la condotta dell’imputato appaia spesso connotata da superficialità comportamentale e da palese inadeguatezza, la scelta terapeutica adottata (seppure non con le modalità che il caso concreto imponeva) risulta invece conforme ad un’interpretazione più evoluta e moderna della psichiatria che vede il ruolo del medico più in una prospettiva terapeutico – sanitaria che in quella contenitiva della pericolosità sociale del paziente. Non si possono non condividere le argomentazioni

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difensive laddove si è evidenziato che il medico, quando avrebbe potuto adottare una scelta di comodo mantenendo il paziente sedato sino alla fine dei suoi giorni, ha comunque adottato una scelta terapeutica al fine di consentire al G.M. una migliore qualità della vita. Pertanto, tenuto conto anche della limitatissima capacità a delinquere del reo, appare equa e congrua una pena base pari a nove mesi di reclusione. La stessa deve essere poi ridotta a mesi sei per la concessione delle circostanze attenuanti generiche e ancora diminuita di un terzo per la scelta del rito, pervenendosi così alla pena finale di quattro mesi di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Sussistono le condizioni (incensuratezza e giudizio prognostico sfavorevole in ordine a future condotte recidivanti) per la concessione al condannato della sospensione condizionale della pena.

Il Dottor XX deve essere poi condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite B.I., B.M. e T.c., da liquidarsi in separato giudizio innanzi al competente giudice civile.

In questa sede, sussistendone i presupposti, deve essere concessa a favore delle stesse parti civile una provvisionale pari a euro 50.000,00 ciascuno a favore di B.I. e T.c. e a euro 20.000,00 a favore di B.M.. Il condannato sarà altresì tenuto a risarcire le predette parti civili delle spese processuali dalle stesse sostenute nella misura indicata in dispositivo.

P. Q. M.

Il giudice, visti gli artt. di legge in epigrafe., 62 bis c.p., 442, 533 e 535 c.p.p., dichiara XX colpevole del reato ascrittogli in rubrica e, concessegli le circostanze attenuanti generiche, applicata la diminuente per il rito, lo condanna alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.Visti gli artt. 163 e ss. c.p., ordina che l'esecuzione della pena come sopra inflitta rimanga sospesa nei confronti del predetto XX per anni cinque alle condizioni di legge. Visti gli artt. 538 e ss. c.p.p., condanna XX al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite B.I., B.M. e T.c., da liquidarsi in separato giudizio innanzi al competente giudice civile.Condanna il predetto XX al pagamento, a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva, della somma di euro 50.000,00 a favore di B.I. e T.c. e di euro 20.000,00 a favore di B.M..Condanna altresì il medesimo alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle stesse parti civili, che liquida in complessivi euro 4.640,00 (escluse le spese in quanto non documentate), oltre a IVA e CPA, come per legge, a favore di B.I., e euro 4.720,00, oltre a IVA e CPA, a favore di B.M. e T.c..Visto l’art. 544/III co. c.p.p., indica in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione della sentenza.

Bologna, deciso il 25 novembre 2005.

IL GIUDICE dott. Alberto Gamberini

 Depositata la motivazione in Cancelleria il 19.01.2006

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