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Sergio Virginio Un percorso nel passato -A Sappada -Sulle Alpi svizzere -In Carnia -Le Dolomiti -I parchi dello Utath e dell’Arizona -Dalle colline alle alte cime -Sulle Ande peruviane Tratto da “IL MIO VIAGGIO”

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Sergio Virginio

Un percorso nel passato

-A Sappada -Sulle Alpi svizzere -In Carnia -Le Dolomiti -I parchi dello Utath e dell’Arizona -Dalle colline alle alte cime -Sulle Ande peruviane

Tratto da “IL MIO VIAGGIO”

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A Sappada

Verso la fine dell’estate di tanti anni fa, avevo deciso di andare a trascorrere con la famiglia un fine settimana in montagna nella tanto decantata Sappada. Il mio collega di lavoro, che mi parlava spesso della bellezza di quei monti, mi aveva informato che nei dintorni si potevano fare delle belle passeggiate. A Sappada c’ero passato alcuni anni prima con mia moglie, ancora quando eravamo fidanzati.

Di antiche origini austriache, il paese si trova nella vallata del Piave a un’altitudine di 1245 metri, circondato da un suggestivo paesaggio e dalle massicce cime delle Dolomiti orientali.

Passeggiando sulla via principale del paese, di fronte alla seggiovia del monte Ferro, mi aveva attirato la vista di un grazioso alberghetto. La costruzione, a tre piani, aveva delle terrazze in legno che davano sulla strada, tutte fiorite di gerani rossi e lillà. Su in alto, c’era scritto: “Albergo Venezia”. Ci siamo fermati per il pranzo. La sala ristorante, dal soffitto rivestito in legno lavorato, era molto accogliente. I muri erano abbelliti da alcune ceramiche e qualche quadro di famiglia, olio su tela. I proprietari ci trattavano con premura e gentilezza, dandoci tutte le informazioni sui luoghi da visitare. Ci avevano detto che nei pressi dell’albergo partiva un sentiero molto suggestivo, abbellito da numerose cascatelle, che arrivava sino ai laghetti alpini.

Il pranzo fu delizioso. In quel posto, accogliente e familiare, ci trovammo subito a nostro agio. Così decidemmo di fermarci a dormire per la notte. Seppure per un periodo molto breve, fu una vacanza gradevole .

Durante l’estate successiva, erano venuti in montagna in nostra compagnia anche Lino e Rosanna, gli amici di Udine che abitavano vicino a noi. Con loro c’era anche il figlio Enzo, compagno di giochi di mio figlio. Dormivano in una casa privata, sopra il giornalaio, di fronte al nostro albergo. Nel ristorante dell’albergo c’era una brava cameriera, con la quale io e mia moglie avevamo preso una certa confidenza. Lei si chiamava Mariangela. Sappadina di lingua tedesca, era piuttosto alta di statura. Un po’ riccia di capelli, quando serviva i clienti aveva sempre un aspetto

solare. Una sera, ci aveva invitato a casa sua per farci conoscere la famiglia. Era sposata e aveva due figli. Suo marito si chiamava Claudio e faceva il boscaiolo. Una persona alla mano, molto cordiale e vivace. Abitavano all’ultimo piano di un condominio della centrale via Lerpa, sulla strada che porta verso il Cadore. In una bella mattina soleggiata, io, Lino, le mogli e i ragazzi ci siamo incamminati sul sentiero che portava ai laghi d’Olbe. La salita, a tratti, era un po’ ripida e le mogli volevano tornare indietro. Ma, nonostante le frequenti fermate a prender fiato, siamo arrivati sino al rifugio del monte Ferro. Qui, dopo esserci dissetati e riposati, avevamo deciso di prendere il sentiero del rientro, scendendo sui prati erbosi della pista da sci. L’erba era molto alta e, ad un certo punto, avevo incespicato in qualcosa di grosso che sporgeva: era un fungo di grandi dimensioni! Io, che di funghi non me ne intendevo, non c’avevo fatto caso. “E’ un fungo porcino!” aveva esclamato il mio amico Lino. Così decidemmo di raccoglierlo con cura. Poi lì vicino, sotto le conifere, ne avevamo trovati altri simili. Per trasportarli, avevo usato la giacca della mia tuta sportiva. Arrivati all’albergo, l’esperta cuoca della cucina, aveva confermato che si trattava di funghi porcini. Allora, per fare invidia ad alcuni clienti, assidui cercatori di funghi, abbiamo sistemato i nostri bei porcini in una cassetta di

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legno, mettendoli in esposizione nel bar dell’albergo. Poi li abbiamo tagliati a fette e messi ad essiccare al sole sul terrazzo. Fu così che nacque una nuova passione.

Alle nostre vacanze estive di Ferragosto dell’anno dopo, erano ritornati anche Lino e Rosanna. All’albergo Venezia di Sappada, avevano organizzato una cena con ballo al suono dell’armonica. La sera ci aveva raggiunto anche il mio collega di lavoro Bepi che, a una certa ora, aveva messo in mostra tutte le canzoni del suo repertorio, tenendo svegli i clienti fino alle due dopo mezzanotte. Con quella festa, ci eravamo guadagnati l’appellativo di “Quelli della notte”, ispirato dalla nota canzone di Renzo Arbore.

Quell’anno, c’eravamo iscritti al torneo di bocce “Lui e lei”. Vi parteciparono molti clienti del nostro albergo: una coppia di marchigiani, una di romagnoli e un paio di famiglie pordenonesi. Grazie al mio amico Lino, la cronaca di quel torneo con la foto di tutti i partecipanti, era apparsa sul Messaggero Veneto.

Mariangela, la cameriera del ristorante, non lavorava più nel nostro albergo. Così, una sera, siamo andati a trovarla a casa sua. Ci aveva raccontato che suo marito, transitando con l’auto in un sentiero dissestato, aveva mandato fuori uso il motore. Claudio, costretto a fare ogni giorno alcuni chilometri di strada a piedi, era disperato! Avevano speso tutti i risparmi nei lavori di ristrutturazione dell’appartamento, e non potevano permettersi di pagare la riparazione.

Così, al rientro dalle nostre vacanze, vennero entrambi a pranzo a casa mia per portarsi via la mia vecchia Simca 1000, che avevo promesso loro, visto che era ancora in ottimo stato. In cambio, mi avevano dato la possibilità di poter utilizzare, un paio di settimane all’anno, una delle camere che affittavano ai turisti. Così, per alcuni anni, avevamo abbandonato provvisoriamente il “Venezia”.

Sappada, era diventata il mio secondo paese. L’opportunità di stare a contatto con la popolazione locale, mi aveva dato la possibilità di scoprire le abitudini locali e le tradizioni di quella popolazione montanara di origine tedesca, molto riservata e genuina.

Tra le varie feste paesane, quella del carnevale sappadino l’avevo scoperta in occasione di un weekend sciistico fatto assieme ai miei amici Elio e Bepi. Le nostre mogli, per impegni di lavoro, ci avevano raggiunti il sabato sera, alla festa di carnevale che si teneva nella locale caserma degli alpini. Era il gran finale: sfilate di maschere e cena con ballo. La maschera tradizionale, il Rollate,

rappresentava uno spauracchio, munito di campanacci e scopa, che i sappadini dei tempi antichi usavano durante l’inverno per difendersi dai lupi affamati.

Nella circostanza di quei balli carnevaleschi, avevo anche scoperto che, alle donne sappadine sposate, era concessa la facoltà di scegliersi il ballerino con cui fare coppia. Però, senza farsi riconoscere!

Sulle Alpi svizzere

In una soleggiata estate dei primi anni Novanta, io e mia moglie eravamo partiti in auto assieme agli amici Bepi, Elio, Luisa e Velda. Dovevamo raggiungere in auto Nendaz, una località turistica di montagna situata sulle Alpi della Svizzera del cantone francese. Dopo aver percorso l’autostrada per Torino, deviando fino ad Aosta, avevamo preso la strada in salita del Gran San Bernardo. In un noto ristorante di montagna, che si trovava dopo il confine svizzero, era avvenuto l’incontro con Pierre e

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Luisa, una coppia di emigranti italiani che avevamo conosciuto un paio d’anni prima tramite i nostri amici. Loro erano diventati proprietari di un bellissimo chalet di montagna dove eravamo stati invitati a trascorrere qualche giorno di vacanza. Avevamo raggiunto Nendaz nel pomeriggio. Quella località turistica di montagna, si trovava a cavallo di un altopiano a un’altitudine di circa 1300 metri. La cittadina, con le sue eleganti villette e le strade ordinate, si era sviluppata durante gli ultimi anni attorno a un antico villaggio vallese, con le sue vecchie case, i suoi granai e i tipici fienili montanari. La località offriva una splendida veduta sulle alpi bernesi e vallesi. Giù, nella valle del Rodano, si poteva distinguere a vista d’occhio la città di Sion, capoluogo del Vallese.

Per sdebitarmi con Pierre e Luisa della loro ospitalità, avevo procurato un ottimo prosciutto crudo di San Daniele con l’osso. Pierre ne fu entusiasta e, appena arrivati a casa, si mise ad affettare il prosciutto col coltello, riempiendo i piatti dell’antipasto serale. Il prosciutto, a suo parere, andava accompagnato con un vino bianco verduzzo di Ramandolo che aveva portato Bepi. L’abbinamento del dolce col salato non mi sembrava tanto azzeccato. Ma andò bene lo stesso. Da quelle parti, il vino aveva prezzi proibitivi!

L’indomani siamo andati a fare trekking sul comprensorio della stagione invernale. Saliti con l’unica seggiovia che funzionava, abbiamo percorso un sentiero in quota. Il cielo era limpidissimo, l’aria fresca e pungente. Avevamo deciso di scendere verso il basso per fare il picnic di mezzogiorno: panini di prosciutto San Daniele, con l’aggiunta di un saporito formaggio della latteria di Lavariano.

Il giorno successivo abbiamo raggiunto in auto la funivia che saliva a Bettmeralp, una ridente e soleggiata località di villeggiatura a quota duemila, chiusa al traffico e accessibile unicamente in teleferica.

Poi, dal paese, abbiamo preso un’ovovia che portava fin sulla vetta del Bettmerhorn, dove l’imponente ghiacciaio dell’Aletsch, formava una curva. Sulle pareti rocciose, verso l’alto del letto, si potevano notare i segni lasciati dal ghiacciaio, a testimonianza del lento abbassamento dello stesso. Eravamo a 2650 metri di altitudine e, nonostante il sole splendente, verso le undici del mattino, il freddo pungeva ancora. Così abbiamo deciso di ritornare a piedi fino al paese, passando nei pressi del lago di Marjelen, dove ci siamo fermati ad ammirare la sua incantevole bellezza. Sull’acqua limpidissima si rifletteva l’intenso azzurro del cielo.

Il quarto giorno io e Nives siamo dovuti partire alla volta di Lucerna. Ci era dispiaciuto lasciare le alpi svizzere e quella compagnia così allegra e affiatata, ma eravamo d’accordo di andare a trascorrere il weekend dagli zii svizzeri.

In Carnia Nei primi anni Novanta, per motivi di lavoro, avevo conosciuto la nuova e moderna struttura alberghiera “I Larici” di Forni di Sopra. Si trovava subito dopo l’abitato di Vico, all’inizio del verde versante del Clap Varmost. La costruzione era a due piani, con un terzo piano in mansarda, le cui

finestre verso la valle del Tagliamento, erano ricavate in simpatici abbaini che dal tetto sporgevano tutti in fila appuntiti verso il cielo. Una struttura che bene s’inseriva in quel paesaggio alpino. Era stata costruita da una grossa cooperativa bolognese del comparto edile. La cooperativa era proprietaria della nuova struttura e gestiva direttamente anche l’attività alberghiera. Il trattamento era eccellente e il costo accessibile. Durante la mia attività turistica, quei soggiorni alberghieri andavano a ruba dai turisti della Coop per cui lavoravo.

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Fu l’occasione per andarci più volte a trascorrere la settimana di Ferragosto con la mia famiglia, in compagnia di mia madre. La località, situata a 907 metri di altitudine, si trova nell’alta Val Tagliamento. Immersa tra boschi di conifere, durante l’estate era uno dei posti di montagna più amato dai friulani. La particolare conformazione geologica, dona alla vallata un aspetto originale in contrapposti orizzonti. A sud la Dolomia principale crea una serie di cime, torri, vette aguzze, canaloni e guglie che formano frastagliati e multiformi scenari dolomitici, raggiungendo con le cime del Cridola i 2580 metri di altitudine. Il versante settentrionale, meno aspro, più tondeggiante e morbido, raggiunge coi monti Bìvera quota 2474.

Erano gli anni in cui, io e mia moglie concepivamo la vacanza estiva in montagna, come un’opportunità di riposo al riparo dal traffico e dalle calure estive della pianura. A lei non piaceva camminare molto. Mi ricordo che una delle prime escursioni a piedi, la feci assieme a mia sorella Roberta, che era venuta a Forni assieme alla mamma. Dall’albergo I Larici, dov’eravamo alloggiati, avevamo raggiunto a piedi la malga del monte Varmost. Andata e ritorno, fu una fatica immensa che mi provocò dolori muscolari alle gambe per tre giorni di seguito. Nell’estate successiva, assieme a mia moglie, avevo percorso l’Anello di Forni e il sentiero che portava al rifugio “Giaf”. Di ritorno dalle nostre camminate, il posto dove amavamo fermarci si chiamava “Nuòitas”, un albergo verso il passo della Mauria, dove si trovava il miglior frico carnico, con salsiccia e polenta.

Verso la metà degli anni Novanta, la nostra vacanza di Ferragosto si era spostata sui monti carnici di Ampezzo. Eravamo ospiti nell’appartamento di Bruna e Franco, una coppia di amici che avevamo conosciuto durante un viaggio turistico. Loro erano appassionati di trekking. Così, in un Ferragosto pieno di sole, ci portarono in auto sul passo del Pura, sulla strada per Sauris. Dopo aver lasciato l’auto nel parcheggio del rifugio “Tita Piaz”, con zaino in spalla, ci siamo incamminati sul sentiero di fronte sino a raggiungere la casera Tintina. Dopo una breve sosta, nonostante le proteste di mia moglie, siamo saliti attraverso il sentiero naturalistico Tiziana Weis fin sulla punta dell’Uccel. Nonostante il fresco venticello, ci siamo seduti a consumare i panini in uno spiazzo dove c’erano le stelle alpine. La vista di quel panorama ci aveva ripagato le fatiche della salita: a nord, dopo un accavallarsi di cime verdi, si poteva intravedere l’azzurro del lago di Sauris; a sud, in fondo alla valle, si scorgevano le piccolissime abitazioni di Forni di Sotto. Al ritorno nei pressi del rifugio, era iniziata la festa ferragostana. All’aperto, era stato allestito un chiosco e uno spiazzo per ballare con un’orchestrina che allietava i partecipanti. Così, per alcuni anni, il passo del Pura e la sua festa diventarono la nostra meta preferita del giorno di Ferragosto. Verso l’imbrunire, dopo aver mangiato il solito frico con polenta, si ritornava in auto fino ad Ampezzo.

Durante quelle vacanze, avevo scoperto alcuni paesini della Carnia a me sconosciuti. A Oltris e Voltois, c’erano delle case tipiche carniche, con finestre e porticati in pietra scura bucherellata a forma d’arco. Nei sentieri dei dintorni, sulle rocce, avevo notato delle tracce di fossili marini che testimoniavano una remota presenza del mare. Più volte, mi ero soffermato ad ammirare la bellezza tipica di un autentico borgo come Sauris, il comune più alto della regione dall’aria fine e fresca, conosciuto anche per la dolcezza del suo prosciutto crudo. Camminando sui sentieri dei suoi dintorni, ci si rigenerava per poi meglio

affrontare il caldo afoso della pianura. Tra le camminate di quel periodo, ricordo il percorso da Casera Razzo a Casera Tortoi, dove ci si fermava in un posto al sole a fare il picnic. Un giorno, risalendo in auto da Tolmezzo la valle del But, circa tre chilometri dopo Paluzza, avevamo svoltato a destra sulla sdradina bianca in mezzo al

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bosco sino al rifugio della Casera Pramosio. Poi abbiamo proseguito a piedi, in mezzo al verde cosparso di rocce dove facevano capolino simpatiche marmotte, fino a raggiungere l’Avostanis: un suggestivo laghetto dalle acque gelide dove si rispecchiava il colore del cielo. Mi ricordo che, sulla via del ritorno, c’eravamo fermati a raccogliere dei grossi mirtilli.

Le Dolomiti

In una calda estate degli anni Duemila, mi ero deciso di andare a trascorrere le vacanze estive sulle Dolomiti del Trentino. Verso la fine di luglio, in compagnia di mia moglie, sono partito in auto in direzione di Cortina d’Ampezzo. Proseguendo sulla strada statale in salita, avevamo superato i passi Falzarego e Pordoi. Dopo un’interminabile sequenza di tornanti, alla fine della discesa avevamo raggiunto Canazei, il primo paese della Val di Fassa. Ci siamo fermati in un confortevole hotel per una settimana di riposo.

Da lì partivano moltissimi sentieri alla scoperta delle incantevoli Dolomiti. Il Col Rodella era uno stupendo balcone panoramico sulla vallata, circondato dalle famose cime del Sassolungo, dalla sommità schiacciata del Sass Pordoi e dall’eterno ghiacciaio della Marmolada. Durante l’estate successiva, eravamo andati alla scoperta dell’Alta Badia. Per due anni consecutivi avevamo trovato alloggio in un meublè di San Cassiano. Il paese ladino era appollaiato sopra il falsopiano a un’altitudine di 1537 metri, ai piedi dei massicci Lavarella e Conturines. Un posto rilassante, indicato per gli escursionisti più tranquilli: sentieri in mezzo alla frescura dei boschi e nei prati soleggiati dell’Armentarola e dello Störes. Eravamo alloggiati alla “Ciasa Roby”, un confortevole meublè al centro del paese; nel ristorante della prima colazione, un grande cartello riportava la scritta: “Vietato asportare panini”. La meta preferita delle nostre camminate era un rifugio tutto in legno, dove c’era un cortile recintato pieno di galline, anatre e conigli ruspanti con l’odore che proveniva dalla stalla e da un porcile con dei graziosi maialini che dormivano tutti ammassati all’aperto. All’interno del rifugio c’erano alcuni tavoli dove prendevamo posto per uno spuntino meridiano: speck affumicato con cetrioli in agro dolce, ricotta e formaggio di malga. Nel luglio del 2006 era avvenuto il nostro ritorno sui sentieri sappadini. Da allora l’albergo Venezia aveva ripreso a essere la nostra casa di montagna. La meta preferita dei dintorni era il rifugio Calvi, che appariva da lontano sotto le cime rocciose del monte Peralba, a un’ora e mezza di cammino dalle sorgenti del Piave. I gestori del nostro albergo Sandra e Ugo, facevano di tutto per renderci l’ospitalità gradevole. Ci riservavano sempre la camera migliore e, a cena, non mancava mai come contorno, la fresca insalata del loro orto. Io mi sdebitavo, lasciando loro tutti i porcini e i gialletti che raccoglievo nei boschi. Durante il soggiorno, avevamo raggiunto in auto località come la vicina Val Visdende, Auronzo, San Candido e le tre cime di Lavaredo, sopra il lago di Misurina.

Col passar degli anni, avevo cominciato ad avere fiducia in me stesso, frequentando da solo i sentieri a portata di mano. In compagnia del mio cellulare, m’inoltravo nella frescura dei boschi verso il passo del Digola, il passo dell’Arco, il Col dei Mughi, oppure fino al rifugio del monte Sierra. Un giorno, di buon mattino, avevo preso la seggiovia di “Sappada 2000”. Dopo alcune giornate grigie e piovose, il cielo era completamente azzurro. Lasciata la seggiovia in alto, a fianco del rifugio, con zaino in spalla e armato di bastoncini da trekking, dopo aver preso

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la discesa della pista da sci, mi sono inoltrato sul viscido sentiero che costeggiava la parete rocciosa del monte della Piana. Ma, ad un certo punto, mi sono accorto che il sentiero era sparito! Non volevo credere ai miei occhi, ma il sentiero finiva lì. Nel frattempo, sono arrivati altri escursionisti che hanno dato subito sfogo ai telefonini per avvisare chi di dovere che la stradina era franata.

E così abbiamo fatto dietrofront, per riprendere la pista e scendere giù fino alla conca. Ci sono volute quasi due ore per fare quel lungo giro e giungere alla cappelletta che precedeva il lago più grande e i due laghetti, dove si specchiava l’azzurro del cielo in uno scenario quasi lunare sotto le incantevoli croste del Ferro. E poi il ritorno in discesa fino al rifugio per rifocillarsi. Erano anni che ci tenevo a fare quella escursione. Nonostante tutto, ce l’avevo fatta!

I parchi dello Utath e dell’Arizona

Il mese di aprile del 2008, facevo parte di un nutrito gruppo del Dlf di appassionati di montagna. Dopo sei giornate di sci sulle cime bianche del Colorado, avevamo proseguito in bus il nostro itinerario di viaggio verso sud-ovest. La strada costeggiava il fiume Colorado, che proveniva dalle Montagne Rocciose, scorrendo in alte quote attraverso i territori degli Stati Uniti e del Messico, prima di sfociare nell’Oceano Pacifico. L’azione corrosiva delle sue acque, nel corso di milioni di anni, aveva scavato un profondo canyon: una gola, quasi verticale. Una prima tappa di due giorni a Moab, nel cuore dello Utah. Si va a camminare nel Canyolands National Park. Arriviamo in bus al visitor center di Island in the Sky, la zona più facilmente raggiungibile. Essa era delimitata dai fiumi Colorado e Green. Si estendeva da nord fino alla loro confluenza. Lo scenario che ci appariva era pieno di colore e molto suggestivo. Rocce arancione vivo, come i pendii, gli altopiani e i tavolati. Vegetazione scarsa: qualche alberello sempre verde, arbusti bassi e alcuni alberi secolari secchi. In lontananza, il dolce brusio delle acque, color caffèlatte, dell’affluente Green. Il suo percorso appariva tortuoso, con curve a gomito impressionati. Dall’altra parte, sulle rive del Colorado, s’intravedevano alcune saline. Le sue acque rispecchiavano l’azzurro del cielo. I diversi strati delle pareti rocciose sono una testimonianza della lunga ed interminabile attività di erosione di queste acque.

Prima di fare ritorno al bus, percorriamo alcuni sentieri di terra rossastra dell’ “Isola nel cielo”. Verso il tramonto, lo scenario era diventato ancora più suggestivo ed invitante per scattare decine di foto. Ero rimasto colpito dalla bellezza naturale dei paesaggi di quel territorio selvaggio. Il primo percorso di trekking si era esaurito con l’ingresso al punto di ristoro del parco.

Il giorno dopo siamo partiti col nostro bus verso il parco Arches, a pochi chilometri di Moab. Il parco, di dimensioni molto estese, era situato su un letto salino sotterraneo, fondamentalmente

responsabile della formazione rocciosa di archi, spirali e pinne di roccia arenaria. Acqua, ghiaccio, vento e temperature estreme avevano contribuito al processo di erosione, creando delle forme dinamiche che cambiavano gradualmente nel corso degli anni. Il cielo era terso, il clima un po’ fresco. Il terreno, asciutto e quasi piatto, si poteva percorrere con scarpe da ginnastica. All’inizio, si presentava un deserto arido, di colore rosso e, mano a mano che ci allontanavamo, alcune formazioni sabbiose diventavano sempre più distinte: vette, guglie e rocce in bilico. I colori caldi si esaltavano con lo sfondo azzurro del cielo. La vegetazione era scarsa, con piccoli arbusti gialli e qualche alberello secolare, qua e là.

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Eravamo entrati nel territorio selvaggio, dove gli indiani d’America avevano vissuto per alcuni millenni. Qui le popolazioni arcaiche si erano insediate nell’arido deserto per sopravvivere con piante selvatiche e la caccia di animali. La sabbia rossastra era ricoperta, in buona parte, da bassi arbusti di un colore grigio-giallo e da qualche alberello di pino e di ginepro, che aggiungevano un tocco di verde. Sullo sfondo, verso nord, grosse nuvole scure si rincorrevano veloci e minacciavano pioggia. Tutto intorno regnava un profondo silenzio. Non ci veniva nemmeno voglia di commentare tra di noi, ma solo di guardare, fotografare e camminare. Completato l’anello del percorso, abbiamo fatto ritorno al pullman, dove era stata preparata una tavola all’aperto ben fornita di generi di conforto:deliziosi panini imbottiti di prosciutto e formaggio, verdure, frutta, dolci e bibite.

Dopo quella gradevole pausa, eravamo ripartiti in coach verso nord fino all’area Devis Garden Trail. Scesi dal bus ci siamo incamminati attraverso una stretta gola dalle pareti altissime, passando vicino agli archi del Tunnel e del Pine Tree, fino ad arrivare davanti all’arco più lungo: il Landscape, che misurava oltre novanta metri di larghezza. Dopo aver fatto ritorno al nostro coach, avevamo ripreso la strada verso sud, passando nei pressi di una vecchia casetta di legno, affiancata dal recinto per il bestiame: il famoso ranch.

Raggiunto il parcheggio, siamo ripartiti a piedi per un’escursione di cinque chilometri attraverso il percorso che ci portava al Delicate Arch "Arco delicato," uno dei simboli dello Utah: una formazione di roccia rossa, che delineava la bellezza di quel territorio. La sua struttura, alta quattordici metri, era completamente a forma d’arco e ci appariva sottile, nonostante gli appoggi di circa quattro metri di diametro. Si ergeva sui confini di un alto strapiombo, da dove si poteva ammirare il panorama fino all’orizzonte. Sul sentiero del ritorno, tra gli arbusti e le fessure delle rocce, spuntavano ogni tanto delle piantine grasse e dei fiori selvatici. I colori erano molto vivaci: giallo, arancio, azzurro e violetto. Si diceva che qui, la maggior parte degli animali selvatici, fosse più attiva di notte. Ma la nostra fretta di ritornare al punto di partenza prima del tramonto, ci imponeva di proseguire la marcia senza soste. L’indomani avevamo varcato i confini dell’Arizona. Il nostro coach avevo preso la strada all’interno della riserva degli indiani navajo. Il terreno desertico era arido e non adatto all’agricoltura. Ci siamo fermati a fotografare le alture di Monument Valley, tutta cosparsa di torri rossastre e guglie appuntite.

Poi, più avanti, avevamo fatto una sosta al centro commerciale Tuba City, nei pressi di Kaienta. Eravamo entrati a bere qualcosa in un bar. Era abbastanza affollato e mi aveva fatto un certo effetto trovarmi, per la prima volta, in mezzo agli indiani d’America. Al banco, uomini taciturni e quasi immobili, con lo sguardo fisso sul proprio bicchiere stavano fumando. Vicino a me, c’era un signore anziano che sorseggiava una birra. Il suo viso, dal naso aquilino e dal un colore olivastro scuro, era segnato da numerose e profonde rughe. I suoi capelli bianchi lunghissimi gli arrivavano fin sulle

spalle, ed emanavano uno sgradevole odore di nicotina. Mentre lo guardavo, mi ero immaginato di vederlo in un film western, con sulla fronte una fascia colorata che sosteneva una grande penna bianca. Quando era arrivata l’ora di partire, mi sono alzato dallo sgabello. Allora l’indiano mi ha fatto un cenno di saluto con la mano. Anch’io l’avevo salutato dicendogli: “Goodbye!” Dopo aver trascorso la notte nei bungalow immersi nei boschi dell’immenso Grand Canyon, un’improvvisa nevicata ci aveva costretto a rinunciare al percorso di trekking previsto all’interno del parco.

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Col tramonto, avevamo raggiunto Las Vegas, la moderna metropoli del gioco d’azzardo, del divertimento e dello shopping, dove ci attendevano due giorni e due notti di riposo e di svago. Nella mattinata di venerdì 11 aprile, quando il nostro aereo si era alzato nel cielo sereno del Nevada, sotto di noi avevamo visto per l’ultima volta il Grand Canyon. Dall’alto, si notava una interminabile screpolatura della crosta terrestre, spaccata dalla forza del fiume Colorado che continuava imperterrito la sua corsa verso il mare. Poi, le prime nuvole avevano interrotto la visione, facendoci sprofondare nelle nostre poltrone. Mi ero addormentato senza sognare. Il mio sogno di sciare sulle nevi del Colorado e di fare trekking fra le meraviglie dell’Ovest, si era avverato.

Dalle colline alle alte cime

Con gli anni della pensione, avevo scoperto anche i benefici dell’attività motoria basata sul camminare. Quella pratica, conosciuta come escursionismo di montagna, negli ultimi tempi aveva acquisito il termine internazionale di “trekking”. In primavera, dopo la fine della stagione sciistica, si iniziava così a camminare. Quando il tempo mi era amico, andavo a camminare in buona compagnia quasi ogni fine settimana. Ci si trovava a Udine, per raggiungere le località collinari. Si cambiava posto ogni volta: dal Cormonese alle valli del Natisone, dal monte di Ragogna alle colline del Ramandolo, da quelle del Tarcentino fino all’Alta Val Torre. Tra i vari percorsi che venivano ripetuti periodicamente, il mio itinerario preferito s’inoltrava nei boschi delle verdi colline di Nimis. Fuori del paese, sulla strada per Savorgnano, attraversato lo stretto ponte sul torrente Torre, si lasciava l’auto nei pressi del rustico in pietra “Al Fogolar”. Il sentiero era un saliscendi piacevole che percorreva i boschi delle colline nei pressi del monte Lauer. Sotto le fronde delle querce e degli altissimi castagni, il fresco era garantito. Si potevano prendere due direzioni, ma ovunque c’era un silenzio rilassante che veniva allietato da un piacevole cinguettio proveniente da lontano. Al rientro, era consuetudine rifocillarsi sotto il portico del locale: soppressa di salame, formaggio di latteria di due mesi col pane fatto in casa e vino cabernet. Poi, per addolcire il palato, alcuni vuessuts, i biscotti di pasta frolla che si accompagnavano perfettamente con un amabile calice di Ramandolo. Col primo caldo soffocante di giugno, si iniziava a camminare sui sentieri che portavano ai rifugi alpini delle montagne carniche. Uno dei miei percorsi preferiti era quello per raggiungere il rifugio De Gasperi. Bisognava percorrere in auto quasi tutta la Val Pesarina. Da Pian di Casa, mantenendo un passo normale, in un paio d’ore si faceva un dislivello di quasi seicento metri. Una volta arrivati al rifugio, le fatiche della salita svanivano alla vista della stupenda vallata e delle prime Dolomiti orientali. Le cime rocciose del Clap Grand, quelle appuntite del Sierra e della Creta Forata, erano lì

che attiravano come calamite nuvolette bianche e grigie. Per la discesa si ripercorreva lo stesso sentiero. Poi, sulla strada del ritorno, era d’obbligo una sosta a Pesaris, il paese degli orologi, con la tipica borgata carnica lastricata di sassi, che porta sin sul sagrato della chiesa. Il più bel laghetto di montagna, dall’acqua verde a chiazze scure, si trova invece sul passo Volaia. Si raggiunge agevolmente, prendendo il sentiero che parte dal rifugio Tolazzi, dopo aver visto le marmotte saltellare tra le rocce del Coglians. Salendo la strada ciclabile, a est dal rifugio, un giorno avevo raggiunto il Marinelli.

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Ma il più bel panorama a trecentosessanta gradi, lo avevo scoperto sulla cima del monte Crostis, a 2250 metri di altitudine, sedendomi nei pressi di un crocefisso in ferro battuto. L’avevamo raggiunta a piedi percorrendo il sentiero che partiva dal parcheggio, dopo la salita in auto sulla strada asfaltata, transitando dal paese di Tualis. A nord, il monte Coglians era contornato da uno sciame di nuvolette bianche che sembravano far da corona al re delle Alpi carniche. A occhio nudo si poteva vedere, il rifugio Lamberdenghi a due passi dal confine austriaco. Verso est, un po’ più basso, si vedeva anche il rifugio Marinelli, col suo bel tetto rifatto da poco dove spiccavano gli abbaini e gli scuri delle finestre di colore azzurro con in mezzo una fascia bianca. Verso la fine di giugno, si partiva in pullman al long weekend di trekking del dopolavoro ferroviario sulle Dolomiti. Inizialmente, soggiornavamo negli alberghi della Val di Fassa. Un anno, in quota, avevamo trovato la neve e un freddo cane. Memorabile il giro Sassolungo-Sassopiatto, partenza e arrivo dal Passo Sella. Eravamo saliti con un’ovovia sino al rifugio Toni Detemetz, in mezzo alla neve a quota 2685, a fianco delle cime appuntite del gruppo del Sella. Per affrontare la

discesa sul pendio innevato, fu necessario l’aiuto di una corda che la guida aveva teso fra due enormi massi rocciosi. Il giro aveva occupato l’intera giornata, con tappe ai rifugi Vicenza, Sasso Piatto e Pertini. Nel giugno del 2011, ero andato per la prima volta nella Val di Zoldo. Quattro giorni di trekking di gruppo con la guida, con base in un confortevole albergo di Pecol di Zoldo. Un giorno, quando salivamo un sentiero del monte Pelmo, si era abbattuto un violento temporale. Dopo aver raggiunto il rifugio “Città di Fiume”, siamo stati costretti a fare dietrofront sulla stradina in discesa

per raggiungere, con mantellina e ombrello antifulmine, la strada dove c’era il bus, dopo aver attraversato il bosco in mezzo alla pioggia incessante e a ripetute grandinate. L’ultimo giorno era stato faticoso, ma molto gratificante con incantevoli vedute panoramiche. Avevamo percorso il sentiero che dal rifugio “Col dei Baldi”, nei pressi del laghetto Caldai, passa sotto la parete rocciosa del monte Civetta per poi ridiscendere a valle sino al paese di Pecol.

Sulle montagne austriache della confinante Carinzia c’ero stato più volte sulle piste innevate di diverse località sciistiche. Fra queste c’era una vallata che mi attirava particolarmente per la posizione e le sue famose piscine termali. Si trattava di Bad Kleinkirchheim ridente e curata località del distretto di Spittal.

In un grazioso hotel, che si sporgeva da un versante verso la fine del paese, avevo trascorso con mia moglie la settimana di Ferragosto per due anni di seguito. L’ultima volta erano venuti con noi anche gli amici udinesi Lino e Rosanna. Da lì si potevano raggiungere facilmente alcuni rilassanti laghetti del circondario che erano attrezzati per la balneazione. Solo che, quando di pomeriggio mi sdraiavo al sole sul terrazzo dell’hotel a godermi la vista della vallata, venivo puntualmente assalito dalle api. L’ultima volta ero stato costretto a ricorrere alle cure del medico. Così decisi di abbandonare quella località e le sue api aggressive.

Ma quelle montagne, che facevano parte del Parco nazionale austriaco, mi attiravano troppo. Così ebbi l’occasione di ritornaci in buona compagnia a fare un po’ di trekking un fine settimana di settembre. Siamo saliti fin sulla cima del Kaiserburg, una montagna che avevo percorso solo in discesa sulle sue piste innevate. Nel luglio del 2012, avevo fatto una settimana di trekking in buona compagnia, con lunghe e faticose camminate. Avevamo raggiunto in auto la Logarska Dolina, un famosissimo parco della

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vicina Slovenia, una verdissima valle d’origine glaciale, racchiusa fra montagne scoscese e pareti rocciose a strapiombo. Grazie ad una serie di attrattive naturali e paesaggistiche, la valle era stata protetta ed aveva lo status di parco naturale. Nella valle si potevano raggiungere diverse cascate, una più suggestiva dell’altra. La cascata Rinka era la più famosa; dichiarata monumento naturale, si poteva ammirare da vicino, salendo sul terrazzo di legno sospeso su due grosse travi, sulla sua destra, percorrendo un ripidissimo sentiero e una gradinata. La Logarska Dolina è anche un ottimo punto di partenza per le

ascensioni sulle cime delle vicine Alpi di Kamnik e della Savinja dove siamo salti con molta fatica, ripagata da una vista suggestiva ed emozionante, dopo aver raggiunto le cime. Una vacanza bellissima che mi fece conoscere le particolarità di quella zona montana in un contesto turistico ancora agli albori, dove il cliente veniva visto come una risorsa importante.

Fra le uscite di trekking di questi ultimi anni, ricordo volentieri il percorso in salita del monte Lussari, nei pressi di Tarvisio e l’escursione sul monte Sernio, nei pressi della carnica Paularo dove, sulla via del ritorno, avevo raccolto un fungo mazza di tamburo gigante. E poi il mitico paesino di Pozzis, dimenticato e nascosto dalla vegetazione, scendendo dalla sella Chianzutan, passaggio obbligato per raggiungere le tre incantevoli cascate dell’Arzino. Lo avevo scoperto leggendo il libro di Mauro Daltin “L’ultimo avamposto del mondo”. Infine, il più recente long weekend col dopolavoro ferroviario a Madonna di Campiglio con le escursioni guidate sui sentieri delle Dolomiti del Brenta e dei cinque laghi. Un giorno, dopo aver percorso in pulmino la Val di sole, siamo saliti con le nostre gambe fino al ghiacciaio sul massiccio granitico dell’Adamello. Quando siamo arrivati al rifugio Mandron per la sosta, nei pressi del ghiacciaio, nevicava incessantemente. Eravamo verso la fine del mese di giugno. Il trekking era entrato a far parte delle mie passioni. Ogni vallata, ogni montagna, ogni paesino sperduto, avevano sempre qualcosa di nuovo da scoprire. La fatica sugli impervi sentieri in salita, si faceva volentieri.

Era bello arrivare in cima alla montagna, e sedersi a mangiare il panino. Guardarsi intorno, tra le cime rocciose, avvolte da un silenzio profondo e rilassante. Per poi soffermare lo sguardo sul suggestivo paesaggio che si apriva di fronte, riempiendo l’anima.

Sulle Ande peruviane

Ad Arequipa, località della Cordigliera situata a duemila metri di altitudine, eravamo giunti all’una di notte. Partecipavo al “Tour del Sud peruviano” con un gruppetto di dodici persone. Il soggiorno di due giornate dedicato alla visita della “città bianca”, circondata da monti e vulcani dalle cime innevate, aveva anche lo scopo di acclimatarci all’altura con gradualità.

Dopo due giorni di riposo, siamo ripartiti con un pulmino riservato verso la valle del Colca. La guida, era un indios di mezza età. Si chiamava Juan Pablo. Non aveva molta padronanza della lingua italiana, usava pause lunghe, ma scandiva con chiarezza le parole. Avevamo preso la strada principale delle Ande, quella asfaltata che portava verso il lago Titicaca. Dopo pochi chilometri, gli automezzi si diradavano fino a scomparire quasi completamente. Nei pressi dei primi contrafforti, le bidonville della periferia avevano lasciato posto alle desolate radure occupate dagli indios. Erano scesi dalla puna, l’altopiano desertico, alla ricerca di una vita migliore e abitavano in casupole con pareti di fango e tetti in lamiera, disseminate sulle pendici della montagna. Salendo, ai lati della

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strada, la terra era arida, ricoperta da piccoli cespugli verdi e scuri. In alto svettavano due cime vulcaniche ricoperte di neve. Ci siamo fermati sullo spiazzo dove un cartello verde indicava i 4000 metri di altitudine. Sul

pendio, avevamo visto i primi greggi di vigogne al pascolo. Questi animali fanno parte della famiglia del lama e vivono nelle elevate altitudini. Presso il bar del chiosco, l’unica bevanda calda disponibile era una tazza di mate de coca: un infuso bollente di foglie fresche di coca, utile per combattere il soroche, il mal di montagna. La coca è da sempre conosciuta dal popolo delle Ande, poiché aiuta ad affrontare la mancanza di ossigeno e a sopportare la fatica, la fame e la tristezza. Io ero un po’ scettico su tutte queste proprietà. Titubante, avevo preso una tazza in mano e coraggiosamente bevuto un sorso, senza rilevare particolari benefici. Il soroche è un mal di montagna che ti devasta. Se non si procede a salire per gradi, non c’è mate de coca che tenga. Proseguendo il viaggio, la vallata diventava sempre più piatta. La strada scorreva diritta sull’altopiano, con qualche piccolo dosso. Ai lati si presentavano delle grandi pozze d’acqua gelate e, verso l’alto, si distinguevano dei piccoli nevai. A destra, più in alto, s’intravedeva il cratere innevato del vulcano. Ci siamo fermati a fotografarlo da quota 4600. Il manto erboso appassito, di colore giallo, saliva fino al grigio scuro della lava. Poi c’era il nero della roccia vulcanica e il bianco cratere innevato, a contatto col cielo percorso, a tratti, da nuvole bianche. Al Mirador del los Andes “Belvedere delle Ande” avevamo raggiunto il passo a quota 4910. Fuori faceva freddo. Il silenzio era profondo. Una vista nitida si estendeva a trecentosessanta gradi. L’atmosfera rarefatta rendeva il paesaggio più emozionante. Davanti, decine di chilometri della Cordillera: un esteso sistema montuoso composto da numerose catene. Cime innevate, che s’innalzavano maestose verso il cielo e si susseguivano in continuazione sovrastando pendii di terra

scura e arida. Mentre camminavo, il passo diventava sempre più lento e il respiro pesante. Per mantenere meglio l’equilibrio, allargavo le braccia, provando l’emozione di uno che stava per battere un piccolo record. Mi fermavo a scattare foto a tutto quello che vedevo intorno. Sull’altro lato della strada c’era una distesa di piccole torri, formate da pezzi di pietra, disposti uno sopra l’altro. Sullo spiazzo, c’era l’immancabile mercatino con l’esposizione di tappeti, souvenir e lane colorate: chullos, ponchos, toques,jersey.

Dopo aver preso la strada in discesa, siamo giunti nel villaggio di Chivay, nella valle del Colca.

Dopo la sosta per il pranzo, abbiamo raggiunto l’albergo Pozo del cielo, dove avevamo trascorso la notte. Alle camere bungalow, disposte su un leggero pendio, si accedeva direttamente dal giardino interno. La stanza era fredda e molto spaziosa, con una grande vetrata che dava verso le montagne aride e soleggiate.

L’indomani mattina eravamo ripartiti all’alba. Un’aurora infuocata cedeva lentamente il passo all’abbagliante luce del giorno, offrendoci la vista di paesaggi andini molto suggestivi: montagne brulle dai contorni nitidi e cime scure, che facevano da contrasto al rosso dell’alba.

Avevamo preso la strada del maestoso canyon del Colca, uno dei più profondi al mondo, frutto dell’azione corrosiva millenaria delle acque dell’omonimo fiume. Eravamo sul percorso che portava a Patapampa, nei pressi del vulcano, alto 5600 metri. L’asfalto era stato sostituito da uno sterrato di ghiaia e polvere, costellato da buche che l’autista non poteva evitare. La vista delle montagne, che si stagliavano maestose contro l’incredibile cielo azzurro, compensava il disagio dei sobbalzi.

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Lungo la strada avevamo incontrato due campesinos al dorso di un mulo, dandoci l’impressione che in questo posto le lancette degli orologi si fossero fermate tanto tempo fa. Lungo quel percorso, l’unico villaggio che avevamo incontrato si chiamava Maca, un posto dove si parlava la lingua quechua. C’eravamo fermati sui bordi della piazza dove c’era un mercatino. Una venditrice indossava il costume della tribù locale e, per ripararsi dal freddo, portava una coperta di lana sulle spalle, mettendosi in posa per essere fotografata con la sua grande aquila grigia, appoggiata sull’avambraccio destro. Dopo la sosta, abbiamo ripreso la strada bianca che costeggiava il canyon, priva di qualsiasi protezione. Sui versanti delle montagne, a tratti rocciosi,

prevaleva il giallo-marrone del deserto. Giù, in basso, scorreva l’acqua del fiume Colca che nasceva sugli altipiani del Sud, a più di cinquemila metri di altitudine. Il fiume, prima di sfociare nell’Oceano Pacifico, tagliava la Cordigliera occidentale delle Ande per ben 450 chilometri.

Avevamo raggiunto la meta, la “Cruz del condor” “Croce del condor”, dopo circa tre ore di strada in salita, dissestata e polverosa. Appostati sul bordo del canyon, protetto da un muretto c’erano dei turisti arrivati prima di noi. Da quella posizione, la gola stretta si inabissava per quasi

3200 metri di profondità. Il cielo era terso, ma soffiava un dispettoso venticello fresco. In alto alcuni condor neri avevano iniziato a volteggiare nell’aria. Tra le credenze religiose degli incas, il condor era un animale sacro, simbolo di libertà e, come il puma, era rappresentativo di quella civiltà. Dopo una decina di minuti, i condor avevano esaurito i loro volteggi. Per riempire il tempo che avevamo a disposizione, ci siamo inoltrati a piedi sul primi sentiero del canyon. Il ritrovo con la guida era stato fissato nei pressi della grande croce di pietra, la cruz, posta sul punto più alto, al centro di un piccolo piazzale sommerso dai colori dei mercatini. Siamo ritornati a Chivay ripercorrendo, in discesa, la stessa strada bianca e dissestata dell’andata. Al ristorante Qhapaq Nan, per pranzo, c’erano le stesse pietanze del giorno precedente. Avevo mangiato per fame e per digerire la polvere del Colca.

Machu Pichu: la città nascosta

Sulla via del ritorno dalla capitale boliviana, avevamo soggiornato a Puno, sul lago Titicaca, e a Cusco, la città dell’impero Inca. Dal lì avevamo raggiunto in treno Aguas Calientes. Il piccolo centro turistico ai piedi della montagna che, per tanti anni, aveva nascosto le rovine di Machu Pichu “Vecchio Picco”, dov’era stata scoperta la città sacra degli incas, completamente originale e rimasta salva dalle incursioni degli spagnoli. L’appuntamento per la cena era stato fissato al Rotana del Che, una delle tante trattorie col solito menù per turisti, allietato per mezz’ora dalle dolci note della musica peruviana. Prima di prendere possesso della camera dell’hotel, siamo andati a fare una passeggiata sulle vie del piccolo centro per procurare l’acqua minerale per il percorso dell’indomani.

Il suono antipatico della sveglia aveva squillato con le primi luci dell’alba. Dopo una leggera colazione, eravamo saliti sul bus che faceva la spola. Il mezzo si era inoltrato velocemente sul percorso in salita, pieno di tornanti al limite della concezione umana. La strada era ghiaiosa, sprovvista di guardrail, e s’inerpicava sul ripido pendio, in mezzo al verde della giungla. Siamo arrivati all’ingresso del sito archeologico dopo mezz’ora da brivido!

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La nostra guida ci aveva distribuito i biglietti d’ingresso e, dopo qualche minuto, ci siamo trovati all’interno di una delle più belle meraviglie del mondo moderno. Sul percorso erano disseminati 3200 gradini di pietra, in un continuo alternarsi di salite e discese, che si adattavano alla conformazione orografica del terreno. Questo luogo, dichiarato patrimonio dell’umanità sotto la protezione dell’Unesco, fu scoperto nel 1911 da Hiram Bingham, che guidava una spedizione americana di esploratori. Le rovine della città, abbandonata dagli incas, erano nascoste tra una fitta vegetazione di alberi e di sterpi. Dagli studi di molti reperti archeologici e di resti umani, era stato possibile individuare la sua fondazione attorno al 1440. Avevamo camminato in salita, fino a raggiungere l’osservatorio in alto, con la veduta più suggestiva della città di pietra, sovrastata dal Huayna Pichu, il “Giovane Picco”. Ciò che colpiva subito era l’ardita posizione della città: sopra una sella a 2400 metri di altitudine, ai piedi dei picchi di roccia macchiati dal verde della vegetazione e circondati da un profondo precipizio. Abitazioni, palazzi e templi. Muri a secco di pietra bianca, che furono le mura della città, assieme ai numerosi terrazzi sporgenti sui dirupi, davano l’impressione di un geometrico gioco di cubi incastrati ad angolo retto. L’azzurro del cielo e la luce del sole splendente contribuivano ad abbellire questo affascinante sito storico, armonicamente inserito in un originale e incantevole contesto naturale. La sensazione di soddisfazione e di pienezza che avevo provato, è molto difficile da descrivere. Dopo aver dato sfogo alla macchina fotografica. Avevo seguito con attenzione le spiegazioni della nostra guida.

La città era dislocata in due zone, ciascuna delle quali convergeva nella Inti Pampa, la piazza centrale dalla forma rettangolare, rivestita da un verde tappeto erboso. A sud c’era la zona più estesa dei terrazzi agricoli. A nord quella delle abitazioni, dove si potevano distinguere le costruzioni più raffinate. Ci siamo incamminati attraverso un sentiero in discesa sul ripido declivio, dove sporgevano los andenes, i terrazzamenti drenanti. Le mura di sostegno, in pietra secca, venivano riempite con un impasto di sabbia, ghiaia e terra, portata fin quassù dal fondovalle; un sistema ingegnoso di drenaggio per

evitare allagamenti. Su queste terrazze si coltivava di tutto: patate, granoturco, erbe medicinali e la tapioca, da cui si ricavava la farina. A questi prodotti andavano aggiunti anche quelli che venivano raccolti nella foresta, come: frutta, tuberi e foglie di coca. Giù, nel fondo della profonda gola, s’intravedeva il corso d’acqua dell’Urubamba, che scorreva vorticosamente in mezzo a pietre e detriti. Poi avevamo proseguito l’itinerario attraversando il settore urbano. Sopra una collinetta si ergeva l’Intiwatana, il tempio principale del sito. Attorno alla grande piazza centrale c’erano le rovine dei ricchi edifici residenziali, del toreon e di un altare per i riti propiziatori in favore di Pacha Mama, la Dea della fertilità. Più avanti avevamo incontrato anche il tempio del Sole, facilmente individuabile dalla parete a curva verso i terrazzamenti, affiancato dalle sedici vasche cerimoniali. Le pietre usate nelle costruzioni provenivano dalla vicina cava, ricavata sul declivio roccioso della montagna. Le costruzioni erano scoperte, eccetto alcune, a cui era stato rifatto il tetto come all’origine. Sulla piazza avevamo incontrato una famiglia di vigogne al pascolo, incuranti della presenza dei numerosi turisti. Un metodo molto semplice e naturale per mantenere l’erba sempre ben curata. La visita si era protratta fino al tempo stabilito di tre ore e mezza. Si era concluso verso mezzogiorno, passando sotto la porta d’accesso. All’uscita, siamo passati allo sportello col passaporto in mano per mettere il timbro indelebile di Machu Pichu, a testimonianza di una memorabile giornata.