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-ISCRA- Istituto Modenese di Psicoterapia Sistemica e Relazionale riconosciuto dal Ministero dell’Università (art.3 L.56/89 – D.M. 10/10/94) Resilienza: trasformare gli eventi avversi in risorse. Relatori: Dott. Fabio Bassoli Allieva: Dott. Mauro Mariotti Dott.ssa Simonetta Soldà Dott. Giorgio Donini Dott. ssa Alessia Rapino Tesi di Specializzazione in Terapia Sistemica e Relazionale Sede di Modena Anno Accademico 2012

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-ISCRA- Istituto Modenese di Psicoterapia Sistemica e Relazionale riconosciuto dal Ministero dell’Università (art.3 L.56/89 – D.M. 10/10/94)

Resilienza: trasformare gli eventi avversi in risorse.

Relatori: Dott. Fabio Bassoli Allieva: Dott. Mauro Mariotti Dott.ssa Simonetta Soldà

Dott. Giorgio Donini Dott. ssa Alessia Rapino

Tesi di Specializzazione in Terapia Sistemica e Relazionale

Sede di Modena

Anno Accademico 2012

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Simonetta Soldà

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Indice

Premesse pag. 3

Introduzione pag. 4

1. Resilienza

1.1 CONCETTO E DEFINIZIONE pag. 6

1.2 RESILIENZA VERSO UN’OTTICA SISTEMICA pag. 8

1.2.1 Da un’ottica lineare a un’ottica circolare pag. 8

1.2.2 Fattori protettivi e fattori di rischio pag. 10

1.2.3 Verso una prospettiva ecologico evolutiva pag. 15

1.2.4 Un’ottica sistemica pag. 16

2. Resilienza familiare pag. 18

2.1 PROCESSI FONDAMENTALI SOTTESI ALLA RESILIENZA

FAMILIARE pag. 19

2.1.1 Sistemi di credenze pag. 20

2.1.2 Modelli organizzativi pag. 23

2.1.3 Processi comunicativi pag. 25

3. Quali strumenti? Quale psicoterapia? pag. 28

4. Una storia di resilienza pag. 34

4.1 M. E LA SUA FAMIGLIA pag. 34

4.2 IL PERCORSO TERAPEUTICO pag. 36

4.3 COMMENTI SECONDO UN’OTTICA SISTEMICA pag. 39

Conclusione pag. 44

Bibliografia pag. 45

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Premessa

Resilienza? E’ un termine che inizialmente m’incuteva timore, nel pronunciarlo si è

costretti a scandire con decisione le sillabe e a tendere le labbra, quasi a produrre un

sorriso forzato. Eppure al suo interno questa parola, contiene anche vocali dal suono

dolce, come a ed e, che mitigano il suo aspetto duro. Questo termine, o meglio,

l’argomento a cui questo termine rimanda m’attrae moltissimo, pertanto ho deciso di

“dedicargli” la tesi dell’ultimo anno di specializzazione.

La resilienza è la capacità di superare le difficoltà e di uscirne rafforzati. Lo studio di

questo tema è molto coinvolgente perché il confronto con le teorie elaborate porta a

ripercorrere la propria esperienza personale e a confrontarsi con quanto si è stati resilienti

nelle inevitabili avversità che la vita ci ha riservato.

Fino ai 27- 28 anni dicevo con grande convinzione: <<la vita è bella>>, pensavo che la

vita mi riservasse solo “cose” belle e che io potessi sperimentare solo emozioni e

sentimenti positivi. Quanta ingenuità, o forse era giusto così. Ora mi accorgo che dietro a

queste convinzioni si nascondeva, probabilmente, un certo bigottismo e aspettative

irrealistiche: l’educazione familiare e cattolica che ho ricevuto mi ha insegnato che la vita

è sacra e per questo deve sempre essere accettata ed apprezzata, ma forse mi ha insegnato

a negare le difficoltà. Ma quando arrivano il dolore e la sofferenza, come si fa a

mantenere tale atteggiamento nei confronti di essa? Ad un certo punto mi sono accorta,

che da parte mia, c’era il tentativo di resistere, di tenere come vera questa frase, anche se

provavo un enorme dolore e disperazione a causa di un evento molto grave che è accaduto

nella mia vita: la malattia e successivamente la morte di mio fratello. Da quel momento la

mia idea di vita è andata in frantumi, ho vissuto uno stato di grande e lungo spaesamento.

Poi piano piano ho capito che dovevo reagire, che la mia vita continuava, si era fermata

solo la sua. Erano molte le domande che mi venivano alla mente: la vita com’è? Il futuro

è anche imprevedibile? Quali strumenti ha l’uomo per farvi fronte? Nella vita possono

accadere anche eventi estremamente negativi, come resistere? Quali risorse sono

necessarie per non venirne schiacciati e sopraffatti?

A tutte queste domande ho provato a rispondere, sono stata costretta a farlo, nel tentativo

disperato di sopravvivere al grande urto che la vita mi ha portato. Ora, nell’ultimo anno di

specializzazione, mi accorgo che trovare risposte a questo tema è indispensabile per poter

essere, domani, una terapeuta efficace e competente. Ritengo che questa esperienza

personale vissuta, ma soprattutto il lavoro personale che mi ha portato all’accettazione e

al superamento del dolore, sia un enorme bagaglio che diviene utile oggi nel mio lavoro.

Ritengo che ogni terapeuta, dovendo entrare in risonanza con le sofferenze del paziente,

debba possedere risorse e strumenti per restituirgli energie protettive e stimolarlo a

continuare a vivere una vita piena. Speranza e resilienza sono strumenti che ogni

terapeuta deve possedere.

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Introduzione

In questo ultimo anno di studio avverto forte la necessità di rispondere, in qualità di

prossima psicoterapeuta, ad alcune domande che mi stanno molto a cuore: come può uno

psicoterapeuta accogliere, sostenere ed aiutare pazienti che hanno subito traumi pesanti,

come ad esempio la morte di un figlio, un suicidio di una persona cara, una grave malattia

cronica, una morte improvvisa, abbandoni inaspettati, la nascita di un figlio disabile,

perdita del lavoro, fallimenti economici? Mi chiedo anche: quali sono le condizioni che

permettono ad una persona di rialzarsi? Dopo aver subito duri colpi, come si può

ricominciare a vivere? Quale tipo di vita è possibile? Queste domande sono tutte

interconnesse e rimandano a mille altre domande: da qui voglio partire, con la

convinzione che mi si apriranno moltissimi altri interrogativi.

Una precondizione indispensabile per poter lavorare con queste problematiche è che il

terapeuta, alla base delle proprie convinzioni, abbia la speranza, la speranza e la

convinzione che qualsiasi situazione possa, almeno in parte, cambiare. La speranza è

un’emozione importante, indispensabile per un terapeuta. Dan Short e Consuelo C.

Casula (2004) la definiscono così: <<è la voglia di vivere che scaturisce dal piacere di

esistere anche in presenza di ambiguità e incertezze, anche quando nel presente manca il

benessere, anche quando la vita fa sperimentare dolore, malattie e perdite. La speranza è

una forza reattiva che protegge dalle afflizioni, dalle sofferenze, dalla consapevolezza dei

propri limiti e dalla morte. E’ una disposizione dello spirito che porta a credere alla

realizzazione di quanto ci si augura. E’ un profondo amore per la vita, che con l’età si

impara a coltivare sempre più (…) Non consiste però in un’accettazione passiva dello

stato di cose, ma nella fiducia delle possibilità di cambiamento. La speranza è sia una

passione che una virtù e presuppone la fiducia nelle proprie e altrui risorse, è connessa

all’ottimismo intesa come scelta e non come tratto caratteriale. Il futuro non è legato al

caso ma è costruito in modo consapevole dall’individuo>>. Ancora <<La speranza rende

l’uomo consapevole che il passato non gli appartiene più, che il presente manifesta le sue

ambiguità e che il futuro va inventato. Così si creano le basi per la nascita di

un’esperienza innovativa, permette al singolo di esprimersi progettando il proprio destino,

esalta la libertà di costruirsi il futuro che vuole abitare, di disegnare il profilo di chi vuole

diventare (…) Senza speranza non c’è progresso, non c’è cambiamento.>>.

Sostengo fermamente che uno psicoterapeuta debba sempre trasmettere al paziente “la

speranza”, speranza che le cose possano cambiare e che una vita migliore sia possibile.

Deve tenere a bada i propri pregiudizi per evitare che influenzino l’andamento della

terapia.

Infine ritengo che uno psicoterapeuta debba necessariamente possedere strumenti per

poter affrontare le suddette problematiche, deve riconoscere, affermare e rinforzare i modi

di trasformare le avversità in opportunità, allo scopo di innescare un cambiamento

positivo e un’evoluzione. Così facendo facilita e promuove la resilienza.

Venendo a questo mio lavoro voglio ora precisare la sua organizzazione: il primo, il

secondo e il terzo capitolo sono frutto di una mia ricerca bibliografica e riassumo le

definizioni e i dati emersi dalle ricerche effettuate negli ultimi 40 anni. Porrò attenzione ai

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processi individuali e interattivi determinanti, che consentono all’individuo e alle famiglie

di resistere e reagire all’evento contingente critico, evitando che risulti distruttivo.

Nel quarto capitolo espongo una storia di resilienza familiare e gli interventi promossi da

diverse figure professionali.

Io trovo questo argomento molto appassionante e spero di trasmettere, almeno in parte,

questa emozione, calandola adeguatamente nella concretezza delle storie di vita.

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1. RESILIENZA

1.1 Concetto e definizioni

Nell’attuale momento storico, individui e famiglie sono tormentati da pressioni e

incertezze legate a cambiamenti di natura economica, politica, sociale ed ambientale; mai

come ora è fondamentale credere e diffondere l’idea che l’individuo e le famiglie

posseggono le potenzialità per adattarsi, autorigenerarsi ed evolvere.

Resilienza è un termine derivato dalla fisica e indica la proprietà di alcuni materiali di

conservare la propria struttura o di riacquistare la propria forma originaria dopo essere

stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia e sociologia resilienza

indica la capacità di reagire a eventi traumatici o stressanti e di riorganizzare in maniera

positiva la propria vita (E. Malagutti, 2005). La psicologia ha fatto proprio questo termine

per indicare la capacità di ciascuna persona di resistere ai traumi e le sofferenze che la

vita porta, ma soprattutto di progettare positivamente il proprio futuro. E’ la capacità di

riprendersi e di uscire più forti e pieni di risorse dalle avversità (Walsh, 2008). E’ una

forza presente in tutte le persone, quindi non è da considerarsi un evento eccezionale e

raro.

La resilienza, per noi occidentali non è come per chi abita in altre parti del mondo,

sopravvivere alla fame e agli orrori delle guerre, ma è la capacità di superare le difficoltà

ordinarie della vita, come quelle che si possono superare in adolescenza, nella

genitorialità, nella vita di coppia, nel lavoro e quelle difficoltà straordinarie che tutti

vorremmo evitare, come ad esempio la malattia, l’invalidità, le perdite.

Resilienza è un processo attivo di resistenza, di autoriparazione e di crescita in risposta

alle crisi e alle difficoltà della vita. Questo concetto mette in discussione l’idea, molto

diffusa anche in psicologia, secondo cui un trauma precoce o grave non possa risolversi e

che le esperienze negative prima o poi determinano sempre il verificarsi di danni nelle

persone coinvolte e che i figli provenienti da famiglie problematiche siano “condannati”.

Marie Anaut (2003) dice che la resilienza permette di superare le difficoltà ma non rende

invincibili gli individui, inoltre sostiene che non è una caratteristica presente per tutta la

vita. Infatti possono verificarsi momenti in cui le situazioni sono troppo pesanti da

sopportare e la persona si può destabilizzare. Nessuno è Superman, nessuno è un super

eroe anche se in passato si è mostrato resiliente. L’autrice parla di una convergenza di

variabili personali, relazionali e sociali che a volte si verificano e a volte no.

Boris Cyrulnik (2000) definisce la resilienza come una trama dove il filo dello sviluppo si

intreccia con il filo sociale e affettivo, come un reticolo fatto di interazioni dell’individuo

con l’ambiente. Le persone resilienti sono coloro che hanno trovato in loro stesse, nelle

relazioni umane, nei contesti di vita gli elementi e la forza per superare le avversità.

George Vaillant (1993) sottolinea che la resilienza è un processo che si attua in modo

diverso nelle varie persone a seconda della personalità, dei modelli di riferimento, degli

apprendimenti, delle vicissitudini. Anche questo autore sottolinea che la resilienza nasce

dall’integrazione di elementi presenti nel singolo e nel contesto. Individua tre dimensioni:

biologica, psicologica e sociale. L’intelligenza, il temperamento, la creatività del soggetto

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si intersecano con il sostegno emotivo fornito dalle relazioni familiari e sociali con la

cultura, gli ideali e i valori della comunità di appartenenza.

Infine Anna Oliverio Ferraris (2003) considera la resilienza come un tratto di personalità

nel quale convergono fattori di diversa natura: cognitivi, emotivi, sociali, educativi,

esperienziali e maturativi che lavorando in modo congiunto mobilitano le risorse dei

singoli, dei gruppi e delle comunità. Interessante è sottolineare che l’autrice amplia la

capacità di resistere ai traumi, di superarli e uscirne rinforzati dai singoli, ai gruppi e alle

comunità.

Dan Short e Casula (2004) scrivono: <<resilienza è la volontà determinata di rimuovere

gli ostacoli e superare le difficoltà contingenti per andare avanti con ottimismo

consapevole (…) Resiliente è chi sa sopportare i dolori senza lamentarsi, chi sa reggere le

difficoltà senza disperarsi, chi ha il coraggio di intraprendere una via che sa essere

tortuosa e sa portare a termine quanto intrapreso. Resiliente è chi ama la vita e coltiva una

virtù che modera e limita i timori di morte, di fallimento e di distruzione. Resilienza è

anche fare i conti con la propria impotenza sia vincere la paura del domani. La cosa più

importante è avere la capacità di sopportare e di resistere al peso delle situazioni e degli

eventi che accadono. Chi ha imparato a sopportare può resistere. Persone che hanno

conosciuto l’impossibilità immediata di cambiare il corso degli eventi e hanno creduto

nelle proprie capacità di generare nuove possibilità non hanno fallito nella vita. Resilienza

è anche determinazione, perseveranza e pazienza (…) Resilienza è un antidoto a qualsiasi

tentativo di rassegnazione e di abbandono al destino, alla tragicità o alla fatalità della

superiorità degli eventi sulla persona. E’ la capacità di accettare le ferite nella lotta per la

realizzazione di se stessi, che richiede saggezza e discernimento, per non essere confusa

con slancio cieco, irresponsabilità e incoscienza>>.

Negli anni settanta, nell’ambito della psicologia evolutiva, ha avuto notevole diffusione

un filone di ricerca sullo studio di bambini e ragazzi che avevano uno sviluppo positivo,

nonostante fossero ad alto rischio per problemi a livello familiare e sociale. Più

precisamente i ricercatori hanno studiato persone che sono riuscite a trovare un equilibrio

e a vivere una vita gratificante nonostante abbiano vissuto guerre o violenze o abusi o

incidenti.

Grazie a questi studi sono state individuate le variabili che permettono ad un individuo di

resistere alle situazioni stressanti e di evolvere positivamente nonostante i traumi. Tutto

ciò rappresenta, per gli psicologi e la psicologia, un nuovo paradigma in quanto ha

permesso di passare da un’ottica della cura della malattia alla promozione della salute,

dalla terapia alla prevenzione, ma ha permesso, anche, di affrontare con maggior

consapevolezza, lungimiranza e apertura la terapia di persone che hanno subito gravi

traumi.

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1.2 Resilienza: verso un’ottica sistemica

1.2.1 Da un ottica lineare a un’ottica circolare

In passato i bambini e gli adulti traumatizzati si “arrangiavano” come potevano. Tutti

soffrivano, molti restavano segnati e solo alcuni riuscivano a riprendersi, senza che

nessuno cercasse di comprendere come avessero fatto a proteggersi dalla sofferenza e a

ritrovare il loro posto nel mondo. La resilienza veniva spiegata dai ricercatori come una

caratteristica innata: le persone che escono dalla crisi sono biologicamente più forti,

oppure la loro personalità era già ben strutturata prima del trauma. All’inizio la ricerca era

orientata a studiare la resilienza in termini individuali, veniva osservata la persona avulsa

dai suoi contesti relazionali, la sua forza, la sua capacità di dominare le avversità. In

particolar modo queste qualità erano ricercate nei suoi tratti di personalità e stili di

coping. Quindi l’idea di fondo era: la resilienza o la possiedi o non la possiedi.

La resilienza era considerata una caratteristica innata, l’individuo possiede “il materiale

giusto” ed è destinato ad aumentare sempre più la propria forza e le proprie capacità. Di

contro chi non possiede queste caratteristiche è destinato all’infelicità e al fallimento.

Questo atteggiamento di fronte alla sofferenza rispecchia un modo di pensare lineare e

individualistico, cioè chi gode di buona salute, ha alle spalle una buona famiglia, possiede

una cultura solida, può svilupparsi positivamente, insomma può ritenersi fortunato. Al

contrario chi è malato, è debole, non ha una famiglia o è seriamente problematico, è senza

cultura, non ha la possibilità di evolversi, insomma è da considerarsi sfortunato.

Conseguentemente a questo tipo di analisi non si può fare più di tanto per chi ha avuto

sfortuna, gli si può dare solo qualche parola di consolazione.

Attualmente, invece, gli studiosi di questo ambito sono convinti che una persona, dopo il

trauma, riprende a vivere perché trova attorno a se un sostegno affettivo, strutture sociali

e culturali che gli hanno offerto possibilità che ha saputo sfruttare.

Dagli anni ’80 gli studi sulla resilienza hanno portato nuovi pensieri, nuovi pensieri

permettono di vedere pezzi di mondo mai visti. Si è così passati da una causalità lineare a

una causalità circolare, considerando i problemi nel quadro di un sistema: se un elemento

del sistema si rompe è l’insieme del sistema che si modifica. Dopo il trauma è ancora

possibile una ripresa evolutiva, ma si deve agire simultaneamente sul traumatizzato, sul

suo ambiente familiare e sugli stereotipi della sua cultura. Quindi si è passati da una

visione individualistica della resilienza a un visione che prende in esame i contesti

relazionali della persona e che facilitano o ostacolano la resilienza.

Inoltre, in passato, si è erroneamente equiparata la vulnerabilità con la debolezza e

l’invulnerabilità con la forza, ma è importante aggiungere che l’invulnerabilità non va

confusa con la resilienza. La capacità di ripresa non va intesa come un disinvolto

superamento delle crisi, come se nell’esperienza non venisse vissuto nessun dolore o

sofferenza, come se attorno alla persona ci fosse una guaina protettiva e ogni problema

rimbalzasse senza procurare sofferenza e dolore. Nella nostra cultura è diffusa l’abitudine

a tagliar fuori le esperienze stressanti e fortemente conflittuali, si nota una certa

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intolleranza verso il dolore individuale, si cerca di evitare il disabile, chi sta vivendo un

lutto o difficoltà economiche, ecc .

Higgins(1994) afferma che la resilienza implica una “dura battaglia” in quanto la

persona sperimenta e vive, nello stesso tempo, il dolore e il coraggio, deve cioè affrontare

in modo competente le difficoltà sia a livello personale che interpersonale.

In genere si può quindi affermare che la resilienza implica molto di più di una “semplice”

capacità di sopravvivere, anzi la persona resiliente deve intraprendere una dura battaglia,

deve percepire contemporaneamente dolore e coraggio, affrontando in modo competente

le difficoltà, sia a livello personale che interpersonale. Deve inoltre integrare l’esperienza

intensa di crisi nella propria identità.

Alcune persone rimangono intrappolate nel ruolo di vittime, impedendo alle proprie ferite

di rimarginarsi e alla propria vita di continuare, in quanto covano sentimenti di rabbia e di

recriminazione (Wolin, Wolin, 1993). Invece nella “vera” resilienza le persone risanano

realmente le loro ferite, assumono il controllo della propria esistenza e riprendono ad

amare e a vivere pienamente (Walsh, 2008).

Gli studi compiuti dagli anni 70 ad oggi, ci hanno fatto capire che la resilienza è un

prodotto di una costante interazione tra natura e cultura che si realizza tramite una rete di

relazioni supportive. La famiglia e le esperienze sociali offrono nuove opportunità che

possono rivelarsi punti di svolta nella vita di ciascuno. Anche la neurobiologia ha

mostrato, recentemente, che i legami interpersonali svolgono un ruolo importante nella

formazione delle connessioni neuronali, nei processi di sviluppo della mente e che la

struttura nervosa del cervello può essere modificata dalle nuove esperienze e da

cambiamenti che intervengono negli schemi relazionali nel corso della vita (Siegel, 1999).

A tale proposito Walsh ( 2008) afferma: grazie a relazioni supportive, all’addestramento e

alla pratica possiamo potenziare la nostra capacità di resilienza e affrontare in modo più

efficace gli eventi traumatici e le difficoltà della vita.

Walsh (2008) sostiene che nella nostra cultura sono dominanti due miti, che “annebbiano”

la capacità di leggere il presente e influenzano il comportamento delle persone:

- l’erronea convinzione che esistano individui e famiglie sane, esenti da problemi; ciò può

sfociare in una erronea patologizzazione delle persone e delle famiglie sane che lottano

quotidianamente con le difficoltà o contro esperienze traumatiche;

- l’idea che esista un modello unico e universale di persona e famiglia sana. Tale assunto

porta a idealizzare persone vissute nel passato o le famiglia strutturate secondo modelli

ormai superati, ciò però porta a considerare valori, configurazioni familiari e ruoli di

genere diversi dalla norma come intrinsecamente disfunzionali e compromettono lo

sviluppo dell’individuo a partire dall’infanzia. In realtà la ricerca ha evidenziato che

possono esistere vari modi di condurre la propria vita e di esprimersi e che le famiglie

possono prosperare e i bambini crescere bene in una moltitudine di contesti e di

configurazione familiari. Ciò che più conta è che nel singolo o nelle famiglie si riesca a

costruire processi evolutivi.

Come è emerso dalle ricerche la resilienza si forgia attraverso le difficoltà e non, come si

pensava un tempo, grazie ad una vita facile, priva di complessità e problemi. Al contrario

le crisi esistenziali e le avversità possono far emergere risorse e abilità impensabili.

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E’ curioso notare che l’ideogramma cinese della parola “crisi” è un simbolo composto da

due segni: i simboli che indicano “pericolo” e “opportunità”. Il paradosso della resilienza

è proprio questo: i nostri e altrui momenti peggiori possono rivelarsi molto vantaggiosi

(Wolin, Wolin, 1993). Il peggiore dei momenti può far emergere parti “nuove” e

“positive” di noi.

Quindi si può affermare che attualmente per resilienza si intende la capacità di riprendersi

e di uscire più forti e pieni di nuove risorse dalle avversità, assumere il controllo della

propria esistenza e tornare ad amare pienamente (Walsh, 2008).

1.2.2 Fattori protettivi e fattori di rischio

Le ricerche condotte sulla resilienza hanno evidenziato che la resilienza comprende tre

ambiti: quello individuale, familiare e sociale.

I primi studi sulla resilienza cercavano di individuare le caratteristiche che permettevano

ad un individuo di essere resiliente. Emma Werner (1992), insieme ai suoi collaboratori,

avviò una ricerca di durata trentennale su 698 neonati dell’isola di Kanai, Hawaii: questi

bambini sono cresciuti in condizioni di povertà e deprivazione. Un terzo di loro era stato

classificato a “rischio” perché era stato esposto, prima dei due anni d’età, all’azione di

almeno quattro fattori di rischio secondari: seri problemi di salute, un ambiente familiare

alterato da alcoolismo, povertà, violenza, divorzio o malattia mentale. All’età di 18 anni,

circa i due terzi di questi bambini a rischio avevano confermato un’ipotesi prognostica

negativa: gravidanze precoci, disturbi mentali, disturbi d’apprendimento e problemi

legali. Ciò che stupì positivamente i ricercatori è che 72 bambini erano cresciuti

adeguatamente nonostante tutto, erano adulti capaci di stabilire relazioni stabili, in grado

di mantenere un lavoro ed altruisti. In un follow up effettuato verso i 40 anni, tutti questi

soggetti tranne due conducevano una vita ancora gratificante.

I ricercatori rivolsero la loro attenzione alle condizioni che avevano permesso a questi

ragazzi di svilupparsi positivamente e trovarono delle caratteristiche comuni, quali: fare

parte di famiglie poco numerose con figli nati a distanza di tempo l’uno dall’altro, avere

ricevuto da persone significative un’accettazione incondizionata, aver saputo dare

significato e senso alla vita. Probabilmente quei ragazzi avevano ricevuto aiuto dalla rete

informale.

Grazie anche alla suddetta ricerca si nota, negli studiosi del campo, un cambiamento di

prospettiva, in quanto la resilienza viene intesa come caratteristica propria dei contesti nei

quali le persone vivono e contribuiscono a co-costruire. Inizialmente è stata studiata

all’interno di una relazione diadica, di un bambino con un adulto significativo, poi con

l’avvento della teoria dei sistemi, il costrutto di resilienza è stato inserito all’interno di

sistemi familiari e sociali di appartenenza.

Dagli studi sulla resilienza gli autori hanno individuato fattori protettivi e fattori di

rischio. Allo stato delle ricerche attuali è necessario studiare l’individuo nel suo contesto

e nella sua storia, considerando anche i fattori protettivi che agiscono sui fattori interni-

costituzionali e sui fattori eterni-ambientali in interazione tra loro. L’intreccio e

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l’interazione tra fattori protettivi e fattori di rischio determina il risultato nel processo di

resilienza.

I ricercatori, per comodità di studio, hanno distinto i fattori di rischio e quelli di

protezione come relativi all’individuo, alla famiglia e alla comunità, ma devono essere

considerati in interazione tra loro e all’interno dell’unicità della storia individuale.

Fattori protettivi

Più che di fattori protettivi gli psicologi preferiscono parlare di processo protettivo, cioè

delle modalità con cui i fattori protettivi favoriscono il verificarsi di buoni risultati in

situazioni avverse.

Le prime ricerche si sono concentrate sui tratti di personalità e sulle disposizioni

individuali, come il possedere un temperamento mite e un’intelligenza superiore alla

media, sembravano concorrere, in buona parte, allo sviluppo della resilienza. Tali

caratteristiche, infatti, tendono a favorire un numero maggiore di risposte positive negli

altri e a favorire strategie di coping e abilità di problem-solving. Anche un’autostima

elevata e un alto livello di efficacia personale, uniti ad un sentimento di fiducia e di

controllo sugli eventi, aumentano la possibilità di mettere in atto strategie di coping

efficaci. Al contrario un sentimento di impotenza aumenta la possibilità di passare da una

disgrazia all’altra (Rutter 1985), in quanto induce ad assumere un atteggiamento passivo e

a interrompere qualsiasi tentativo di risolvere i problemi. Werner e Smith (1992) hanno

sottolineato che la condizione necessaria perché una strategia di coping si verifichi

efficace, risiede nel fatto che le persone abbiano fiducia che le avversità possano essere

superate. In particolare è la presenza di un Locus of control interno che favorisce una

fiduciosa sicurezza nelle proprie capacità di influenzare gli eventi.

Dalle ricerche di Bernard, 1991; Catalano, Hawkins, 1996; Marcus, Swisher et. Al, 1992,

sono emersi i seguenti fattori di protezione:

Fattori di protezione che riguardano l’individuo sono:

Temperamento aperto alle relazioni sociali

Buona intelligenza

Autonomia

Capacità di risolvere i problemi

Capacità di porsi obiettivi e di saperli realizzare

Fattori di protezione che riguardano la famiglia:

Coesione

Sostegno affettivo

Coinvolgimento in attività prosociali e consapevolezza del loro valore

Intesa fra i genitori per un mutuo aiuto

Legame profondo con i figli durante l’infanzia

Sostegno da parte della famiglia allargata e dalle persone amiche

Confini definiti

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Fattori di protezione che riguardano la scuola:

Partecipazione e coinvolgimento nel raggiungimento dei programmi e

nell’attuazione dei valori

Stima fra insegnati e studenti

Counseling fra insegnanti e verso i ragazzi

Adeguate aspettative

Enfasi sui progressi cognitivi, sull’impegno e sulla possibilità di partecipare a

iniziative prosociali

Fattori di protezione che riguardano la comunità:

Coinvolgimento del gruppo dei pari in attività di solidarietà nei confronti della

scuola e della comunità

Iniziative per favorire la coesione sociale, la solidarietà e la partecipazione

Interventi mirati alla promozione del benessere nei giovani

Secondo Bernard (Burns, 1996) le caratteristiche di individui resilienti sono

essenzialmente relative a cinque aspetti: autonomia, capacità di problem solving, abilità

sociali, propositi e futuro: Vediamole in breve:

Autonomia:

Autostima: valutazione positiva delle proprie capacità in base a ciò che si ritiene

importante nella vita

Autoefficacia: consapevolezza di sapersi porre degli obiettivi e di raggiungerli

Locus of control interno: attribuzione di successo o di insuccesso soprattutto a se

stessi, riconoscendo la responsabilità personale degli eventi, per trarne incitamento

a progettare e ad agire

Indipendenza: saper agire in base ai propri valori e ai propri obiettivi senza farsi

condizionare dall’accettazione e dal giudizio degli altri

Motivazione: trovare nelle risorse interne ed esterne la spinta ad agire

Speranzosità: speranza nel buon esito delle situazioni per un processo di attivo

impegno personale.

Problem Solving:

Pensiero critico: capacità di utilizzare informazioni, “leggere” la realtà sociale

individuando ostacoli e risorse, analizzare aspetti positivi e negativi della propria

personalità, stabilire la fattibilità di obiettivi, riconoscere la funzionalità o la

disfunzionalità di alcuni componenti

Pensiero creativo: produzione di idee nuove e di nuovi punti di vista, ricchezza di

intuizione e di immaginazione

Progettualità: avere obiettivi e individuare strategie per raggiungerli

Capacità di produrre cambiamenti: avere una visione del futuro, cogliere i segnali

dell’ambiente, partecipare attivamente alla vita di comunità

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Abilità Sociali:

Responsabilità: essere soggetto attivo nella comunità, partecipare, assumersi le

conseguenze delle proprie azioni

Flessibilità: sapersi confrontare, saper negoziare, non voler prevaricare

Empatia: entrare in contatto con le emozioni dell’altro, “come se” fossero le

proprie, favorire il contatto tra le persone, saper aiutare

Abilità comunicative: comprendere sentimenti ed emozioni, ascoltare in modo

partecipe, sapere essere assertivi

Senso dell’umorismo: cogliere gli aspetti “leggeri” delle situazioni, da non

confondere con il sarcasmo.

Propositi e futuro:

Chiarezza di obiettivi: avere consapevolezza degli obiettivi che si vogliono

raggiungere in base alle proprie potenzialità e ai propri desideri.

Successo: ottenere buoni risultati nella realizzazione degli impegni

Motivazione: trovare gli stimoli per portare a termine gli impegni

Aspirazioni formative: aumentare le conoscenze e le competenze

Forti aspettative: attese realistiche di realizzazione di progetti

Tenacia: persistenza negli impegni

Speranza: fiducia nel futuro ed entusiasmo

Coerenza: coerenza nelle scelte e nell’operatività, ricerca di senso e di significato

nella vita.

Fattori di rischio

Garmezy (1991) afferma che gli studi hanno evidenziato che i fattori di rischio non

necessariamente provocano disagio quando sono presenti fattori di protezione e che un

solo fattore di rischio non è sufficiente per un maladattamento, ma sono necessari più

fattori per cui si parla di rischio cumulativo.

Di seguito riporto i fattori di rischio che sono emersi da alcune ricerche, sono nuovamente

suddivisi come relativi all’individuo, alla famiglia e alla comunità.

Fattori di rischio che riguardano l’individuo sono considerati (Costabile, 1996):

Elementi genetici

Psichici

Relazionali

Qualità d’attaccamento

Difficoltà relazionali

Difficoltà a gestire lo stress.

Fattori di rischio che riguardano la famiglia (Costabile, 1996):

Situazione economica

Devianze

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Carenze affettive

Alta litigiosità

Assenza di uno dei genitori

Rigidità

Coercizioni

Punizioni

Numerosi cambiamenti di città o casa

Disorganizzazione

Ancora altri autori (Batten, Russel, 1995; Farrington, 1992; Resnik et al. 1997) hanno

invece individuato i seguenti fattori di rischio che riguardano l’individuo:

Bassa autostima

Difficoltà a mantenere e a stabilire relazioni interpersonali positive

Scarso attaccamento alle figure parentali

Alto livello di rabbia e aggressività

Aspettative inadeguate relativamente a se stesso e agli altri

Malattie mentali

Comportamenti distruttivi

Iperattività

Uso di sostanze psicoattive

Isolamento sociale

Insuccesso scolastico

Secondo gli stessi autori, invece, i fattori di rischio che riguardano la famiglia sono:

Forti dissidi familiari

Assenza del padre

Abusi

Presenza di alcolismo

Comportamenti antisociali

Povertà

Questi ultimi autori hanno individuato anche fattori di rischio legati alla scuola:

Classi molto numerose

Poca attenzione ai bisogni individuali

Alta competitività

Relazioni negative tra insegnanti e studenti

Poca interazione

Mancanza di supporto

Relazioni tra pari con alta presenza di bullismo

Aggressività

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Indicano anche fattori legati alla comunità:

Povertà

Alta densità urbana

Forte mobilità

Ho trovato questa lunga lista di fattori molto interessante ed utile, in quanto la ritengo uno

strumento pratico ed immediato da tenere in grande considerazione per poter riflettere sui

casi specifici e poter avere spunti e idee nuove su cui lavorare ed intervenire.

1.2.3 Verso una prospettiva ecologica ed evolutiva

Molti autori sottolineano che per comprendere e promuovere la resilienza e i meccanismi

protettivi si deve prestare attenzione alle interazioni tra quanto accade all’interno delle

famiglie e il clima politico, economico, sociale ed etnico in cui gli individui e le loro

famiglie prosperano o soccombono.

La prospettiva evolutiva è essenziale per comprendere la resilienza, in quanto i processi di

coping e di adattamento non sono tratti immutabili e implicano una pluralità di processi

che variano nel corso del tempo. Una fonte di stress è considerata un insieme complesso

di condizioni mutevoli, connessa ad un passato e a un futuro, di conseguenza nessuna

risposta di coping è la più efficace in assoluto. E’ importante possedere una varietà di

strategie di coping per affrontare diverse situazioni difficili, nel momento in cui si

presentano. I ricercatori hanno studiato i processi di coping e di adattamento in diverse

condizioni di stress come: malattie croniche, passaggi evolutivi, tensioni legate al ruolo,

morte di una persona cara, divorzio, formazione di una famiglia ricostituita,

disoccupazione e incertezza economica, maltrattamento e incuria, guerre e genocidi,

calamità naturali. Affermano che le probabilità che eventi stressanti possano influenzare

negativamente il funzionamento sono maggiori quando gli eventi sono imprevisti, o gravi

e persistenti, o quando l’azione di più agenti stressanti genera effetti cumulativi. Anche

gli eventi che si verificano “fuori tempo”, cioè non in consonanza con le attese

cronologiche o sociali, come la morte di un giovane o una vedovanza precoce, sono più

complicati.

Una prospettiva centrata sul ciclo vitale dei singoli individui e delle famiglie è

fondamentale per comprendere la resilienza. Le situazioni problematiche, che possono

rappresentare un fattore di rischio, possono essere suddivise in evolutive o accidentali.

Quelle evolutive sono legate al ciclo di vita e possono rappresentare fattori di rischio se

non elaborate e superate. Ad esempio in adolescenza i cambiamenti del corpo, i rapporti

con la famiglia, l’impegno scolastico, gli innamoramenti, ecc. Le crisi accidentali, invece

sono quelle generate da eventi in parte imprevedibili, quali delusioni amorose, lutti,

malattie ed incidenti. Negli ultimi anni si è compreso che prevedere a lunga distanza il

decorso di vita degli individui è impossibile, in quanto intervengono un numero molto

alto di fattori in interconnessione complessa tra loro.

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I ricercatori hanno potuto osservare che nulla è per sempre e i risultati della ricerca

confermano le seguenti ipotesi, fondanti un approccio clinico sulla resilienza (Walsh

2008):

1. le persone con storie difficili alle spalle hanno la possibilità di cambiare radicalmente

il corso della loro vita una volta divenute adulte;

2. una crisi può rivelarsi un punto di svolta positivo.

Alcuni studi hanno rilevato che tra i soggetti che riescono ad affrontare con successo le

avversità, indipendentemente dalla fascia di età considerata, le femmine sono più dei

maschi (Walsh 2008). L’autrice ipotizza che la causa di questo sia da attribuire al tipo di

educazione che le femmine ricevono nella nostra cultura, sono infatti educate ad essere

più accomodanti e più orientate alla relazione.

Le conclusioni cui sono giunti Werner e Smith (1992) sono state confermate da molte

ricerche condotte su bambini a rischio in altri contesti, che indicano gli effetti positivi

della rete di relazioni costituita dalla famiglia allargata, dagli amici e dai vicini. Nel corso

degli anni le interazioni positive generano effetti che si rinforzano reciprocamente,

tracciando percorsi evolutivi positivi, come spirali ascendenti. Attraverso un complesso

intreccio di possibilità che porta alla resilienza, un movimento a spirale discendente può

essere invertito in qualsiasi momento della vita (Walsh, 2008).

1.2.4 Un’ottica sistemica

Lo studio sulla resilienza si è andata sempre più orientando verso il riconoscimento di una

prospettiva relazionale del fenomeno. Froma Walsh (Walsh, 2008) sostiene che per

comprendere in modo ampio la resilienza, è necessario riferirsi a un modello interazionale

complesso. Propone di considerare la resilienza all’interno della teoria dei sistemi, allarga

così i confini dell’adattamento individuale considerandolo come un processo

intrinsecamente connesso ad un insieme più ampio di processi interazionali riferiti ai

contesti familiari e sociali di appartenenza, cioè un sistema d’influenzamento ricorsivo

che si dispiega nel corso del tempo. La resilienza è inserita in una fitta rete di relazioni e

di esperienze che si dipanano nel corso dell’esistenza individuale e attraverso diverse

generazioni, quindi è necessario considerarla all’interno di un contesto sociale e

temporale.

La teoria e la pratica dei terapeuti familiari di orientamento sistemico hanno

progressivamente abbandonato il paradigma basato sul deficit e assunto un paradigma

orientato alle risorse. Si è passati cioè a cercare di comprendere il modo con cui tali

sistemi sono messi alla prova dalle avversità e le modalità che ciascuno, nella propria

diversità, mette in atto per sopravvivere e rinnovarsi anche in condizioni di grande

difficoltà. Quindi l’approccio sistemico alla resilienza sottolinea il potenziale evolutivo e

autoriparativo delle famiglie nelle situazioni di crisi e di difficoltà. Quindi si è passati dal

porre l’attenzione sulle carenze della famiglia, alla comprensione e promozione dei

processi familiari che ne sostengono il benessere e l’evoluzione nel suo ciclo vitale e nel

susseguirsi delle generazioni.

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Chi si occupa delle professioni d’aiuto deve comprendere quali sono i processi che

promuovono resilienza. Gli interventi in questo ambito insistono sul rafforzamento delle

reti parentali e sociali perché diventino un contesto di cura per alleviare le sofferenze e

rinnovare il ciclo vitale.

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2. RESILIENZA FAMILIARE

L’espressione “resilienza familiare” si riferisce ad una serie di strategie di coping e di

processi di adattamento che intervengono all’interno della famiglia intesa come unità

funzionale (F. Walsh, 2008). Adottare un’ottica sistemica permette di comprendere in

quale modo le dinamiche familiari modulino lo stress, permettendo alle famiglie e ai

singoli componenti di affrontare le crisi e superare situazioni di disagio prolungate. Il

modo in cui una famiglia affronta e gestisce un’esperienza di crisi, contiene lo stress, si

riorganizza adeguatamente e prosegue la sua vita, influenza i processi di adattamento

immediati e nel lungo periodo di tutti i componenti ed anche la reale sopravvivenza e il

benessere dell’intero nucleo familiare. Tale concetto permette di considerare sia il

cambiamento che la continuità in una prospettiva temporale. Nessuna famiglia è immune

da difficoltà. I problemi di vita riguardano tutti noi, in modi e in tempi diversi, all’interno

del ciclo vitale di ogni famiglia.

Un approccio basato sulla resilienza familiare comprende e sostiene le difficoltà connesse

al ruolo genitoriale, promuove la riconciliazione e va alla ricerca di risorse, probabilmente

ignorate, presenti nella rete delle relazioni familiari. La famiglia è stata una risorsa

trascurata negli interventi diretti ad aumentare la resilienza nel singolo, bambino o adulto

che sia, concentrando gli sforzi per salvare i singoli sopravvissuti. In questo modo però

veniva ignorato il potenziale insito nelle loro famiglie, fino ad arrivare a liquidarne molte

come casi senza speranza.

Le famiglie oggi sono in trasformazione, in quanto assumono configurazioni sempre più

varie e complesse, cambiano i ruoli legati al genere e agli orientamenti sessuali, le

diversità culturali e sociali e le fasi del ciclo vitale. Molti appaiono disorientati e avviliti e

lottano per preservare l’aderenza a pattern familiari noti, altri invece mettono in

discussione i modelli di famiglia mitizzati del passato. C’è comunque una confusione

generale sulle diverse configurazioni familiari e sul significato che assumono le relazioni

all’interno della famiglia: su cosa è ”normale” nella vita di una famiglia e su come

costruire una famiglia “sana”, che funzioni bene e mostri una certa resilienza in

condizioni di stress (Walsh, 2008). I ricercatori hanno rilevato che nessuna particolare

tipologia familiare si pone come assoluta garanzia per uno sviluppo sano dei bambini.

Occorre comunque identificare le variabili di rischio e favorire le dinamiche familiari che

promuovono la resilienza durante le difficili fasi di transizione.

A tal proposito Walsh (2008) afferma che nel mondo di oggi si deve saper improvvisare,

non esiste più un modello al quale aderire acriticamente, si rischierebbe il fallimento, anzi

vivendo si scoprono diversi modelli di vita possibili. Dobbiamo aiutare le famiglie a

trovare un senso di continuità e di coerenza nella complessità. La capacità di combinare

diversi ruoli e accettare nuove sfide può essere appresa.

Come professionisti della salute e della relazione d’aiuto dobbiamo essere in grado di

cogliere le ipotesi implicite sottese al concetto di normalità, salute e patologia della

famiglia. Dobbiamo anche riflettere sulla nostra concezione di normalità di famiglia e

dobbiamo esplorare le deviazioni che i clienti introducono in essa, nell’incontro

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terapeutico. Queste credenze influenzano il modo in cui definiamo e interpretiamo le

situazioni problematiche, i successi, i fallimenti e i nostri obiettivi terapeutici.

Nella valutazione delle famiglie è importante conquistare una visione olistica del sistema

familiare e delle sue connessioni al tessuto sociale in cui vive. Quindi sono compresi tutti

i componenti della famiglia che vivono sotto lo stesso tetto, la gerarchia della famiglia

allargata e le relazioni più significative che sono ritenute rilevanti in termini di

funzionamento della famiglia e di chi ne fa parte.

Le avversità, che si incontrano inevitabilmente nella vita, producono una crisi di

significato e una potenziale disorganizzazione della coerenza del sé. Questa tensione

stimola la costruzione o la rielaborazione della nostra storia di vita e delle nostre

credenze. Come afferma Walsh (2008), nel corso del tempo ogni individuo rivede la

propria storia, costellata di avversità e resilienze, per raggiungere coerenza e integrità

narrativa.

2.1 Processi fondamentali sottesi alla resilienza

familiare

Grazie alle ricerche svolte sulla resilienza ed anche agli studi svolti in chiave sistemica

sono stati individuati i processi fondamentali sottesi alla resilienza familiare e Walsh

(2008) li ha suddivisi in tre ambiti:

1. sistemi di credenze familiari

significati attribuiti alle situazioni avverse

atteggiamento positivo

trascendenza e spiritualità

2. strutture organizzative

flessibilità

coesione

presenza di risorse sociali ed economiche

3. processi comunicativi

chiarezza

espressione libera delle emozioni

strategie collaborative di risoluzione dei problemi

Questi processi si esprimono in modi e in misura diversa nelle varie famiglie adattandosi

ai valori, alle configurazioni, alle risorse e alle difficoltà di ciascuna di esse.

Di seguito approfondisco i tre processi.

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2.1.1 I sistemi di credenze

1) Dare un senso alle avversità. Le credenze sono le lenti attraverso cui osserviamo

il mondo mentre viviamo e influenzano quello che vediamo o non vediamo e quello che

facciamo delle nostre percezioni. Rappresentano quindi il nucleo essenziale di ciò che

siamo, della nostra comprensione del mondo e del significato che attribuiamo alla nostra

esperienza. Le nostre credenze fondamentali ci ancorano a quella che chiamiamo realtà e

in questo modo esse finiscono per definire la nostra realtà (Keeney, 1985).

I sistemi di credenze comprendono i valori, le convinzioni, gli atteggiamenti, i pregiudizi

e le ipotesi che si fondono a formare un insieme di premesse di base che attivano le

risposte emozionali, formano decisioni e orientano l’azione. Infatti credenze e azioni sono

intimamente connesse: le nostre azioni e le loro conseguenze possono rinforzare o

modificare le nostre credenze (Keeney, 1985).

Come afferma Hoffman (1990) le credenze sono costrutti sociali che evolvono in un

processo continuo attraverso le interazioni con gli altri significativi e il più ampio

contesto sociale. Anche all’interno di ciascun sistema familiare vengono condivise un

sistema di credenze specifiche, ma ancorate ai valori culturali dominanti e influenzate

dalle esperienze sociali vissute. I sistemi di credenze costituiscono una cornice all’interno

della quale la famiglia si muove e costruisce le proprie idee e spiegazioni su come

funziona il mondo, sul ruolo che occupa in esso. Quindi si può affermare che le credenze

dominanti in un sistema familiare e la sua cultura influenzano profondamente il modo in

cui la famiglia affronterà le avversità (Walsh, 2008).

Il modo in cui le famiglie spiegano a loro stessi e agli altri una situazione di crisi è

determinante e decisivo per la resilienza. La capacità e la possibilità di chiarire e

“comprendere” e dare un significato a una situazione critica, la rende più sostenibile.

Per tanto è necessario che il terapeuta indaghi tali convinzioni. Walsh(2008) indica le

seguenti tappe:

a. La resilienza è da considerarsi una qualità che si apprende ed è di natura relazionale,

quindi è necessario pensare a promuovere o rafforzare reti di sicurezza sociali. Dalle

ricerche svolte sulla resilienza è emerso che l’unione di più persone permette di

rafforzare le capacità di superare le avversità. Soprattutto i legami familiari e

comunitari significativi fungono da ancora di salvezza nei momenti di maggior

difficoltà, in quanto è possibile condividere con altri dolori, emozioni, preoccupazioni

e fatiche. La crisi diviene una sfida condivisa da affrontare assieme.

b. Normalizzare e contestualizzare l’esperienza critica. La resilienza risulta aumentata

quando i membri di una famiglia riescono a contestualizzare la loro situazione di crisi.

Noi terapeuti possiamo promuovere la resilienza delle persone normalizzando e

contestualizzando il loro disagio, riducendo la loro tendenza ad autobiasimarsi e a

sperimentare sensi di colpa e di vergogna. Così facendo favoriamo anche una visione

complessiva dei problemi e dei sentimenti, valutiamo la situazione nella quale la

famiglia si trova, come una condizione “normale” o comune a molte persone e

famiglie. La resilienza familiare risulta maggiore se gli individui coinvolti riescono ad

accettare il trascorrere del tempo e l’ineluttabilità del cambiamento nelle varie fasi del

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ciclo di vita. Molte volte i sintomi si presentano proprio nei momenti di transizione da

una fase all’altra.

c. Il terapeuta deve lavorare per far si che il paziente arrivi a considerare la crisi come

sfida comprensibile, controllabile e significativa. Si può promuovere stabilità e salute

in momenti di perturbazione e cambiamento trovando un senso di coerenza verso la

vita, cioè intesa come esperienza dotata di evidenza naturale, concreta e significativa.

Alla base del senso di coerenza sta la fiducia nella capacità di chiarire la natura dei

problemi così da sembrare facilmente organizzabili, prevedibili e decifrabili. Gli

eventi stressanti vengono considerati sfide che è possibile accogliere e affrontare in

modo efficace. Il senso di coerenza contribuisce in modo significativo alla salute, al

benessere psicologico e alla qualità della vita.

d. Il terapeuta deve valutare come la famiglia si spiega l’evento avverso accaduto. Nella

valutazione iniziale di una famiglia il clinico deve esplorare i modelli esplicativi ed

attributivi che la caratterizzano. I quesiti legati alla ricerca di cause e colpevoli

possono condurre alla colpevolizzazione e alla ricerca di un capro espiatorio. Spesso

le persone si bloccano in una particolare versione dell’esperienza, se opportunamente

sollecitate possono riflettere sulle proprie credenze e conquistare così una posizione di

maggiore libertà, dalla quale partire per sviluppare nuovi punti di vista. Anche la

cultura influisce sul modo di considerare e valutare l’evento. Il modo in cui i membri

della famiglia definiscono e spiegano una situazione problematica determinerà le

strategie che adotteranno per affrontarla.

Cosa domandare? Nella fase di raccolta di informazioni relative a famiglie in crisi si

possono rivelarsi utili i seguenti interrogativi: in che modo i diversi membri della famiglia

interpretano il problema? Come lo spiegano? Cosa è accaduto? Chi ha più responsabilità?

E’ stato un incidente o è stato voluto da qualcuno? L’accaduto fa sperimentare a qualche

membro della famiglia vergogna o senso di colpa? In che modo i diversi punti di vista

convergono o si distanziano? L’evento critico può essere connesso con altri eventi

negativi della loro vita o della storia pregressa della famiglia?

2) Visione costruttiva

Ciascuno possiede aspettative, consapevoli o inconsapevoli, per il futuro. Ciò che ci

aspettiamo può indurci ad agire in modo da far accadere ciò che avevamo previsto. Il

clinico deve andare a cercare queste idee preconcette.

In genere è stato provato che per ottenere una buona resilienza è importante mantenere un

atteggiamento positivo verso gli eventi di vita. Speranza, ottimismo, la centralità sulle

risorse e sulle potenzialità, lo spirito di iniziativa, la perseveranza, il coraggio e

l’incoraggiamento, l’intraprendenza e la flessibilità sono fondamentali nella definizione

delle risorse necessarie per resistere e riprendersi dalle avversità.

Noi clinici dobbiamo aiutare le famiglie che hanno subìto una perdita o un evento

devastante a tornare a investire nella costruzione della loro vita, tornando a recuperare

anche piccole parti di speranze o di sogni perduti.

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E’, inoltre, necessario che il terapeuta aiuti la persona a valutare la situazione in cui si

trova, individuando vincoli e risorse, riconoscendo ciò che è possibile e accettando ciò

che non può essere cambiato.

Per acquisire resilienza sono inoltre necessari spirito di intraprendenza e capacità di

sopportazione.

3) Trascendenza e spiritualità

Nel loro lavoro, i clinici, dovrebbero considerare e lavorare anche sui contenuti di natura

spirituale. A questo proposito Froma Walsh (2008) afferma: “per poter essere più utili alle

famiglie dobbiamo riconoscere che la sofferenza ha valenza spirituale e che religione e

spiritualità possono rappresentare potenti risorse ai fini di una ripresa, della guarigione e

della resilienza”.

Le credenze trascendenti e la spiritualità, intese anche in modo laico, promettono un

senso, uno scopo, un senso di unione che va al di là di noi stessi, delle nostre famiglie e

dei nostri problemi. Garantiscono una continuità con il passato e con il futuro. L’uomo ha

la necessità di trovare un significato superiore nella propria esistenza e comunemente lo

trova nella fede religiosa e nel patrimonio culturale, ma anche in profonde convinzioni

filosofiche, ideologiche e politiche. Le credenze trascendenti danno chiarezza alla vita e

consolazione nei momenti difficili, rendono gli imprevisti meno minacciosi e favoriscono

la capacità di accettare le situazioni che non è possibile cambiare.

Molte delle nostre credenze fondamentali traggono origine dalla religione e dalla

spiritualità. Le religioni sono sistemi organizzati di credenze che comprendono principi

morali istituzionalizzati e condivisi, credenze relative a un potere più elevato e

l’appartenenza a una comunità di fedeli. Le religioni, attraverso i propri precetti, rituali e

liturgie, offrono delle linee guida rassicuranti.

La spiritualità può essere vissuta sia dentro che fuori le strutture religiose. La spiritualità è

un costrutto sovraordinato più ampio e personale, può essere definito come quella cosa

che connette l’uno al tutto (Griffith, Griffith, 2002). La spiritualità implica un

investimento attivo su credenze interne che danno un senso di pregnanza, di pienezza e di

connessione con gli altri.

Vivere esperienze religiose e spirituali porta a una sensazione generale di benessere e di

integrità. La sofferenza sprona le persone a cercare conforto nella spiritualità. La religione

spesso permette di dare un senso alla sofferenza e agli eventi avversi. Conferisce alle

persone la forza di resistere alle avversità.

Anche il contatto con la natura fa parte delle esperienze spirituali, esso permette di

sperimentare un senso di comunione spirituale e di rinnovamento: passeggiate nei boschi,

la visione di un tramonto, o di una cascata, ecc. Anche l’arte, i luoghi culturali, la

letteratura o il teatro e la musica offrono esperienze trascendentali. La bellezza può avere

effetti spirituali e terapeutici in molteplici forme.

Per superare le avversità le persone hanno anche bisogno di ispirarsi a modelli positivi

”incontrati” in letture e in opere artistiche. C’è la necessità di avere modelli da cui trarre

un’ampia gamma di strategie da utilizzare per affrontare le difficoltà della vita.

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2.1.2 Modelli organizzativi

Una famiglia, per affrontare efficacemente una crisi, deve mobilitare e organizzare le

proprie risorse, contenere lo stress e ridefinire un nuovo assetto funzionale e

organizzativo che gli consenta di adattarsi alle nuove condizioni. I processi fondamentali

che sottendono una resilienza relazionale sono: flessibilità, capacità di stare in relazione,

risorse di natura sociale ed economica.

1. Flessibilità L’individuo o la famiglia devono incrementare una struttura flessibile per

poter mantenere un funzionamento ottimale di fronte alle avversità.

a) Solitamente si tende a difendersi e ad evitare i cambiamenti che superano una

certa soglia di tolleranza. Dato che il cambiamento è una parte integrante e

ineludibile della condizione umana, individui e famiglie devono sapersi adattare

alle mutevoli richieste dell’ambiente e dell’evoluzione, sia che si tratti di eventi

prevedibili e attesi, che rientrano nell’ambito delle fasi del ciclo di vita, sia

rispetto a eventi inattesi e insoliti. Quindi un equilibrio dinamico tra stabilità

(omeostasi) e cambiamento (morfogenesi) permette la formazione di una struttura

individuale e familiare solida.

b) Nelle fasi di crisi le famiglie tendono a perdere la loro struttura organizzativa e le

routine quotidiane si interrompono. I clinici dovrebbero favorire la resilienza

aiutando i membri della famiglia a recuperare la stabilità e a ripristinare ruoli,

regole e modalità interattive caratterizzate da prevedibilità e coerenza. Inoltre

devono essere ripresi e mantenuti i rituali e le routine familiari in quanto

connettono il presente con il passato e con il futuro. Nel caos devono essere

garantiti stabilità, affidabilità, routine e rituali.

c) Leadership: Il clinico dovrebbe lavorare per far si che, in una situazione di grave

crisi, i genitori svolgano una solida funzione di guida svolgendo un chiaro ruolo

direttivo, dove il controllo dei comportamenti è caratterizzata da una giusta

combinazione di autorevolezza e flessibilità. Si dovrebbe tendere a una leadership

forte e autorevole che possa rappresentare una base sicura per i più deboli

(bambini e anziani) e relazioni di coppia paritetiche e non squalificanti.

2. Capacità di relazione

a) Il funzionamento ideale di coppia si ha quando ciascuno dei partner sostiene le

migliori qualità e gli aspetti creativi dell’altro in un clima di parità e di reciprocità.

Importante è la flessibilità dei ruoli e dell’equilibrio tra le funzioni per

promuovere l’evoluzione e la crescita di entrambi i partner. Nella pratica clinica

possiamo invitare le famiglie a decostruire modalità rigide e stereotipate di

attuazione dei ruoli legati al genere.

La reciprocità è essenziale per stabilire una relazione leale. Possiamo aiutare i

partner a negoziare per riequilibrare potere e diritti acquisiti, per condividere i

carichi in modo più equo e per apprezzare i contributi dell’uno e dell’altro.

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b) Dobbiamo favorire l’instaurarsi di relazioni basate sul rispetto reciproco e sfidare

abitudini comportamentali che perpetuano sbilanciamento di potere.

La coesione o compattezza dei membri di una famiglia informa sulle qualità dei

loro legami emotivi e strutturali. Nel concetto di coesione vi rientrano alcune

variabili strutturali quali: confini, coalizioni familiari, il tempo o gli spazi

condivisi o segregati, l’esistenza di reti amicali e di interessi. Il terapeuta deve

approfondire tutti questi ambiti.

Per superare i momenti di crisi una delle strategie più importanti è unire le forze.

All’interno della famiglia si deve promuovere la capacità di confidare l’uno

nell’altro ma nello stesso tempo ognuno deve sentire di poter fare affidamento

sulle proprie forze, sulla propria capacità personale e sul proprio senso di

competenza. Le differenze individuali, i confini e i bisogni individuali devono

essere rispettati, i confini tra individui devono essere solidi, ma flessibili.

All’interno della famiglia è essenziale mantenere confini chiari tra i vari

sottosistemi, in particolare quelli tra genitori e figli.

c) I terapeuti familiari possono promuovere un processo di riconnessione e

ridefinizione di relazioni tormentate e interrotte cercando una riconciliazione dei

legami compromessi. Quando i membri della famiglia vivono in luoghi distanti è

necessario ripristinare i legami con la rete familiare attraverso e-mail, lettere,

visite, oggetti, foto, richiami alle tradizioni culturali condivise. Una crisi può

essere vissuta e accolta come un’opportunità per riconciliarsi.

3. Risorse sociali ed economiche

a) In un’epoca di grande frammentazione sociale e indipendenza come la nostra, noi

clinici dobbiamo aiutare le famiglie a costruire reti di solidarietà al proprio interno

e con l’ambiente esterno. Ciò permette di affrontare più facilmente le difficoltà e

di trovare sostegno dal punto di vista pratico e psicologico. Le reti famigliari e

sociali estese offrono assistenza materiale, sostegno emotivo e un vitale senso di

appartenenza alla propria comunità. Nei momenti di difficoltà garantiscono aiuti

concreti, sostegno, compagnia e conforto. Favoriscono anche lo sviluppo di un

senso di sicurezza e di solidarietà. I collegamenti con il contesto sociale è indice di

benessere psicologico e si rivela indispensabile nel processo di resilienza, per

superare i momenti di crisi. L’isolamento e la carenza di sostegno sociale

contribuisce, in condizioni di stress, a generare processi disfunzionali (Walsh,

2008).

b) Un altro fattore cruciale ai fini della resilienza è rappresentato da una certa

sicurezza economica. Nella nostra società le famiglie devono destreggiarsi per

sopravvivere a pressioni cumulative, alla difficoltà di trovare un punto di

equilibrio tra esigenze lavorative, impegni familiari e l’assenza di servizi per

l’infanzia accessibili e di qualità.

c) Quindi per far si che l’individuo e le famiglie raggiungano e mantengano un buon

equilibrio è necessario che il lavoro del clinico sia connesso con le reti formali-

istituzionali.

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Per il clinico si rivela importante valutare la qualità dei rapporti sociali e la loro

numerosità. Il clinico deve anche cercare le risorse nascoste e promuovere la creazione di

nuove connessioni sia intra-familiari che extra-familiari. Deve offrire informazioni sulle

risorse presenti nella comunità e facilitare l’accesso ad esse.

Nel lavoro clinico la valutazione del funzionamento familiare e degli interventi necessari,

non dovrebbe limitarsi alle modalità o problematiche interne alla famiglia, ma dovrebbe

anche prendere in considerazione le connessioni presenti o assenti che mettono in

comunicazione la famiglia con le altre risorse. Si dovrebbe esplorare la situazione

economica, il reddito e le condizioni di impegno lavorativo. Le crisi familiari non

riflettono sempre problemi strutturali nella famiglia, spesso rimandano a problemi di

carenza o errata organizzazione sociale.

2.1.3 Processi comunicativi

Una comunicazione efficace promuove il processo di resilienza. Perché la comunicazione

sia efficace necessita di tre caratteristiche: deve essere chiara, permettere l’espressione e

la condivisione delle emozioni e la capacità di mettere in atto strategie collaborative per la

risoluzione dei problemi. Nei momenti di crisi è maggiormente possibile che la

comunicazione fallisca. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto, cioè riferisce

fatti, convinzioni o sentimenti, e di relazione che definisce, afferma o contesta la natura

della relazione (Watzlawick et al. 1971).

Ogni intervento con famiglie che si trovano in situazioni problematiche è volto ad

accrescere le capacità comunicative dei vari membri della famiglia.

1) La chiarezza è una qualità essenziale della comunicazione, all’interno delle famiglie

sane dovrebbe essere diretta, chiara, specifica e autentica. I messaggi verbali e

comportamentali dovrebbero essere coerenti.

Nell’affrontare le avversità è importante chiarire il più possibile la situazione, cercare

di dare significato alla crisi, chiarire gli antefatti e valutare le alternative possibili, così

da fare chiarezza su come affrontarli.

2) La capacità di condividere le emozioni è una caratteristica indispensabile per

affrontare le situazioni di crisi. La capacità di esprimere un’ampia gamma di emozioni

e sentimenti, in modo diretto, è connesso ad un buon stile comunicativo. Si deve

imparare ad esprimere sentimenti cosiddetti positivi come gioia, speranza ma anche

quelli con valenza negativa come rabbia, sdegno, paura e dolore. Nei momenti critici

di vita l’espressione dei sentimenti può assumere toni molto reattivi, problematici e

aggressivi. Il conflitto può portare a un’escalation fuori da ogni controllo. Oppure al

contrario la comunicazione può assumere toni contratti e reticenti per evitare

sentimenti dolorosi. In una situazione di crisi i sentimenti non confessati o

ambivalenti dei diversi membri della famiglia, possono diventare delle barriere tra i

diversi componenti o tra i diversi rami della famiglia. In tutte queste situazioni è

necessario che il clinico aiuti ad entrare in contatto con la complessità dei propri

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sentimenti e ascoltare e accogliere la complessità di quelli degli altri. E’ importante

acquisire capacità di empatia reciproca e tolleranza delle differenze.

Numerose ricerche affermano l’importanza dell’umorismo nei momenti di crisi e di

difficoltà. L’umorismo aiuta a far fronte a situazioni difficili, smorza le tensioni e

consente un riconoscimento dei propri limiti ed anche rende possibile un attimo di

tregua da situazioni incalzanti. Recenti ricerche (Walsh, 2008), in ambito medico,

hanno documentato che l’umorismo fortifica lo spirito e il sistema immunitario in

modo da favorire i processi di guarigione e di ripresa da malattie gravi. Anche in

terapia l’umorismo può essere utilizzato ed ha l’effetto di sciogliere momenti di

grande tensione e la percezione di nuove strade percorribili. L’umorismo però non

deve trasformarsi in sarcasmo, diventando così distruttivo, se utilizzato per esprimere

la rabbia, crudeltà e disprezzo. Si rivela importante, quindi, incoraggiare i membri

della famiglia a coltivare il proprio senso dell’umorismo, la capacità di ognuno di

ridere con l’altro, questo può dare nuova linfa alle famiglie che hanno la necessità di

sperimentare un po’ di tranquillità.

3) Strategie collaborative nella risoluzione di conflitti. Caratteristica essenziale della

resilienza è la capacità di gestire i conflitti e impegnarsi in modo collaborativo nella

risoluzione dei problemi. In una situazione di crisi gli aspetti pratici ed emotivi sono

strettamente interconnessi, così che lo stress emotivo compromette la capacità di

risolvere i problemi. Un tono emozionale negativo tra i membri della famiglia, rabbia,

frustrazione, sconforto e senso di disfatta, può determinare una sorta di paralisi che

impedisce di gestire in modo efficace le situazioni problematiche.

Nella soluzione dei problemi si devono attraversare alcune tappe:

a) Identificare i problemi e le fonti di stress. Si deve identificare il problema

contingente e rintracciare eventuali fonti di stress aggiuntive recenti o attuali nella

vita della famiglia,. E’ importante indagare in che modo gli altri membri della

famiglia reagiscono, per capire se contribuiscono al mantenimento del problema.

b) Confronto e discussioni critiche e creative. Identificati i problemi, i membri della

famiglia devono lasciarsi coinvolge in un confronto creativo. Ognuno deve poter

esprimere le proprie idee e queste devono essere rispettate e accolte. Devono

essere comprese le impasse che ostacolano la soluzione delle comunicazioni e così

trovare i modi per superarli. La speranza e la disponibilità a tentare nuove

soluzioni non deve mai venire meno in una famiglia, perché sono caratteristiche

indispensabili per ottenere un buon funzionamento e adattamento nella vita

famigliare.

c) Processi decisionali partecipativi: negoziazione, imparzialità e reciprocità. Una

buona negoziazione implica la capacità di riconoscere e accogliere i bisogni

dell’altro e differenziarli dai propri. Quindi la negoziazione implica l’opportunità

di accogliere e dar voce alle differenze, lavorando per la realizzazione di un

obiettivo comune. Deve essere garantita la partecipazione paritaria nella

risoluzione dei problemi. I circoli viziosi innescati da atteggiamenti di critica,

colpevolizzazione e ritiro devono essere interrotti. Si potrebbe dire: così non va,

cerchiamo di risolvere i nostri contrasti in modo più tranquillo, così da ascoltare

l’uno le ragioni dell’altro. E’ frequente che la possibilità di aprire una

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negoziazione e raggiungere un compromesso sia impedita da lotte di potere volte

ad affermare una qualche forma di controllo. L’adattamento può essere visto solo

in termini di vittoria o di sconfitta: o si esercita il potere sull’altro oppure si è

assoggettati a controllo o a una condizione one-down. Le posizioni diventano

rigide e non negoziabili nel momento in cui ogni compromesso è percepito come

un “atto di resa” nei confronti dell’altro.

d) Concentrarsi sugli obiettivi e compiere passi concreti. Spesso il processo che

porta alla definizione di decisioni cruciali o la risoluzione della crisi non procede

in modo fluido, ma contempla l’emergere di profondi conflitti, dolore e rabbia. Il

terapeuta cercherà di aiutare le famiglie a vedere queste tensioni come

perturbazioni prevedibili e transitorie che non sfociano necessariamente nella

dissoluzione dei legami familiari nel lungo periodo. Una certa tolleranza per il

conflitto ammette l’espressione del dissenso e il riconoscimento delle differenze e

permette la soluzione dei conflitti attraverso la costruzione del consenso, la

definizione di un compromesso o una ridefinizione del problema che ha generato

il conflitto. Il conflitto non è distruttivo se le varie parti in gioco trovano una

combinazione ed è compensato da un’espressione positiva delle emozioni, in

particolare attraverso la manifestazione d’affetto, l’umorismo, la risoluzione

positiva dei problemi, il consenso, l’intesa l’empatia e l’ascolto attivo e non

difensivo.

e) Trarre vantaggio dai successi, apprendere dai propri fallimenti ed errori. Deve

esserci l’assoluta fiducia nell’esistenza di una capacità attiva di controllare gli

eventi problematici, concentrandosi su obiettivi realizzabili e compiendo passi

concreti per il loro raggiungimento. L’accettazione degli errori consente ai

componenti della famiglia di sbagliare senza essere attaccati o venire bollati come

incapaci. Assumendosi la propria parte di responsabilità quando qualcosa va storto

imparano a non ripetere un errore.

f) Prevenire i problemi e predisporsi ad affrontare sfide future. Quando si presenta

un problema si dovrebbe tentare di risolverlo tempestivamente considerando in

modo aperto e chiaro gli aspetti pratici e le implicazioni emotive. Possiamo

promuovere resilienza incoraggiando le famiglie a vedere un conflitto, una crisi,

un’impasse come una sfida accettabile e ricca di significato. Se il loro approccio

alla crisi è rispettoso e collaborativo, esse usciranno più forti da questa esperienza.

E’ importante incoraggiare le famiglie a guardare al futuro, a superare gli

inevitabili ostacoli che tutte le famiglie si trovano a dover affrontare nella vita di

ogni giorno.

E’ importante aiutare le famiglie a definire obiettivi raggiungibili, a individuare step

concreti, a costruire sulle piccole conquiste, ad apprendere dall’esperienza, dai propri

errori, a sperimentare le innovazioni, a prepararsi ad affrontare le difficoltà attese e

soprattutto ad aspettarsi l’inaspettato.

La chiarezza dei processi comunicativi, un’espressione aperta delle emozioni e una

risoluzione collaborativa dei problemi sono gli elementi essenziali per la resilienza

familiare. E’ fondamentale rinforzare i processi comunicativi per lenire la sofferenza e

aumentare la capacità delle famiglie di attingere alle proprie risorse.

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3. QUALI STRUMENTI DIAGNOSTICI? QUALE

INTERVENTO?

Il modello di intervento basato sulla resilienza familiare funge da mappa per orientare

l’attenzione dei professionisti su aspetti importanti del funzionamento familiare e

garantire la coerenza del progetto terapeutico proposto (Walsh, 2008). Partendo dalla

domanda specifica della famiglia, di risolvere una contingenza problematica, possiamo

attuare una serie di interventi volti a rinforzare la resilienza familiare.

Dovremmo promuovere un processo collaborativo con il paziente, in cui noi strutturiamo

attivamente la terapia e partecipiamo la nostra esperienza e il nostro sostegno, aiutando i

pazienti a sentire di avere un controllo sul processo terapeutico e sulla propria vita. Nelle

prime sedute il terapeuta deve esplorare ciò che i pazienti ritengono di aver bisogno e ciò

che ritengono più importante, ma anche ciò che non vogliono cambiare. Chi lavora

nell’ambito delle professioni d’aiuto dovrebbe imparare a rispettare la difficoltà dei

pazienti ad attuare processi di cambiamento, dovrebbe accogliere il desiderio di frenare

ogni variazione per ritrovare una certa stabilità, cercando poi di far loro raggiungere un

adattamento flessibile.

Compito e obiettivo della terapia è quello di rielaborare una narrazione personale nella

quale le avversità passate o presenti vengono rilette secondo un’ottica nuova e costruttiva.

La crisi viene considerata un’opportunità per trovare nuovi modi di vivere, per conoscere

nuove risorse personali e famigliari. La psicoterapia può offrire un contesto curativo in

cui dialogare e raccontare la propria storia ed insieme al terapeuta costruire una nuova

narrazione. Il terapeuta organizza le domande e i commenti secondo alcune premesse,

destabilizza la storia fondata sul problema, elicita nuove informazioni e favorisce la

trasformazione della storia portata, in storia meglio formata. In questo modo viene

favorita l’evoluzione collettiva dei membri della famiglia e la sopravvivenza della nuova

storia (C. Sluzki, 1994)

Per la raccolta delle informazioni lo psicoterapeuta sistemico relazionale utilizza

prevalentemente il genogramma trigenerazionale, completo di date del ciclo vitale.

Vengono cioè specificati gli avvenimenti significativi per la storia familiare e/o per quella

individuale, inevitabilmente interconnesse. Walsh (2008) afferma che il genogramma e la

linea temporale degli eventi, rappresentano strumenti essenziali per poter rilevare

avvenimenti stressanti recenti o passati e il loro significato. Questi strumenti permettono

anche di individuare la presenza di fattori stressanti concomitanti e convergenti, ma pure

successi o difficoltà connessi a condizioni critiche analoghe ad esperienze passate, ma

anche processi di coping e potenziali risorse. Redigere una linea del tempo nella quale

inserire i sintomi attuali connessi a eventi stressanti pregressi o attuali o temuti, permette

di avere una visione ampia della situazione familiare.

Il genogramma è una rappresentazione grafica arricchita dalla descrizione verbale fornita

dal paziente e carica di significati affettivi ed emotivi. La rappresentazione grafica

associata alla narrazione rigorosa del terapeuta, attraverso la lettura dei modelli

relazionali raffigurati, permette di rivisitare il passato riattualizzandolo nel presente

attraverso una nuova narrazione. La situazione attuale viene letta come il risultato di

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emozioni, relazioni e azioni che hanno origine negli eventi passati e negli intrecci

relazionali di quella specifica famiglia. Mettendo insieme elementi storici e grafico-

spaziali è possibile svelare l’invisibile trama di aspettative e norme che condizionano la

trasmissione generazionale (Montàgano e Pazzagli, 1989).Il genogramma è uno strumento

che permette di rappresentare graficamente il sistema familiare e consentire al clinico e ai

membri della famiglia di visualizzare la rete di relazioni e le configurazioni significative

che essi hanno messo in atto. Permette infatti di esplorare gli schemi relazionali pregressi

nella famiglia d’origine e di mostrare l’attuale configurazione del sistema familiare: rivela

il modello organizzativo dei diversi contesti familiari di convivenza, fa emergere alleanze,

conflitti, rotture emotive; permette inoltre di individuare le risorse disponibili e potenziali

all’interno della famiglia allargata e delle reti sociali rilevanti. In tal modo si rende

possibile e si attiva il processo riflessivo e la mentalizzazione. La sequenzialità

cronologica della storia familiare, inscritta nel genogramma, è di grande aiuto

nell’osservazione di una concatenazione di eventi stressanti e della convergenza tra questi

eventi e la comparsa di sintomi connessi. Il genogramma, oltre ad essere uno strumento

diagnostico, è anche un intervento terapeutico vero e proprio se costruito insieme ai

membri di una famiglia o all’individuo.

Un altro strumento che si può rivelare utile è il disegno della rete bio-psicosociale. Il

clinico, insieme al cliente, definisce le relazioni che quest’ultimo, o il sistema, ha in atto

nel momento presente. Su un foglio o una lavagna vengono disegnati tre cerchi

concentrici, al centro viene tracciata una croce che divide il disegno in quattro sezioni,

ognuna rappresenta un diverso ambito relazionale: famiglia, amici, lavoro e ambiente

sanitario. In ciascuno spazio il soggetto deve indicare le persone che sente più o meno

vicine, quelle al centro del disegno sono le più vicine, quelle più lontane sono quelle più

distanti relazionalmente. Questo strumento risulta rilevante per individuare risorse o

carenze da colmare nell’ambito relazionale e per capire come orientare l’intervento. Oltre

ad avere valore di indagine e di conoscenza del cliente, questo strumento permette di

individuare risorse forse impensate. Anche la rete biopsicosociale si rivela uno strumento

diagnostico e allo stesso tempo un intervento terapeutico, in quanto la visione grafica

facilita il processo di mentalizzazione e la riflessività.

In base a quanto detto nei capitoli precedenti indagare e lavorare su temi relazionali è un

aspetto imprescindibile per promuovere resilienza. Una persona isolata deve essere

sollecitata ad incrementare la propria rete relazionale.

Un altro strumento che si rivela fruttuoso in terapia è l’utilizzo delle domande circolari

diadiche e triadiche. Il terapeuta cerca di far emergere informazioni sollecitando ogni

membro della famiglia ad esprimere il proprio punto di vista circa le relazioni tra altri due

membri del nucleo familiare. Viene cioè indagata la relazione diadica vista da un terzo.

Tale procedimento risulterà efficace in quanto fa scattare, tra i membri della famiglia, un

vortice retroattivo circolare che mette in evidenza le relazioni triadiche (Selvini Palazzoli,

et al., 1980). Le domande circolari permettono di evidenziare “la struttura che connette”

persone, oggetti, azioni, percezioni, idee, eventi, sentimenti, credenze, contesti in circuiti

ricorsivi o cibernetici. Si utilizzano parole come: “chi”, “chi altro”,” chi più”, “chi meno”,

“che cosa”, “dove”, “come”, “quando”, ecc. che sostituiscono il fatidico “perché” delle

domande lineari. Un intervento circolare introduce nuove punteggiature, mette in

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relazione il sistema nel tempo, fino a introdurre idee, ipotesi, punteggiature del presente,

del passato, del futuro e allargare il contesto.

I quattro strumenti sopra descritti, utilizzati parallelamente e messi in interconnessione tra

loro, permettono di costruire un’ipotesi sulla formazione e strutturazione delle relazioni

all’interno della famiglia e si rivelano estremamente potenti ed efficaci.

Altro strumento utilizzato in terapia familiare e soprattutto nella terapia che promuove

resilienza è il favorire e promuovere la messa in pratica di rituali. Questi permettono di

recuperare un senso di continuità con il patrimonio culturale della propria famiglia e con

il passato, di creare nuove trame e di sostenere i processi di ripresa (Walsh, 2008).

La tecnica della connotazione positiva è un altro strumento estremamente potente e utile,

in quanto permette di creare alleanza terapeutica. Consiste nella valutazione in termini

positivi di un comportamento sintomatico o di un problema. Ridefinire in positivo una

difficoltà ristruttura la situazione con una via d’uscita e consente di lavorare sul profondo

valore evolutivo di una crisi, di un problema, di una difficoltà. La connotazione positiva,

insieme all’utilizzo di altre tecniche come, la riformulazione e la ridefinizione, offrono al

paziente una nuova cornice a cui riferirsi e rendono possibile la costruzione di nuove

narrazioni e la modificazione di risposte rigide.

In genere in terapia, che promuove resilienza, il terapeuta chiede ai clienti di raccontare la

propria esperienza di vita e delle rispettive famiglie, prestando attenzione ai vissuti

traumatici, alle perdite subite e alle fonti di resilienza che hanno consentito loro di

sopravvivere, riorganizzarsi e trovare la propria strada nel mondo. Recuperare queste

storie perdute, può riaccendere un sentimento vitale di appartenenza e significato. Nel

processo terapeutico potrebbero emergere importanti storie del passato che sono andate

frammentandosi o che sono divenuti segreti familiari.

Si devono anche valutare le risorse e le vulnerabilità familiari in relazione alla particolare

situazione socioeconomica e alle urgenze evolutive di ogni famiglia. Un approccio

centrato sulla resilienza familiare richiede una visione dinamica ed evolutiva delle

criticità che le famiglie incontrano e delle risposte elaborate nel corso del tempo.

Come si è detto nel capitolo precedente i sistemi di credenze del singolo e del sistema

influenzano il modo di affrontare una crisi, quindi è necessario capire come il sistema si

spiega ciò che sta accadendo.

Pertanto il terapeuta dovrebbe indagare se nella vita del paziente ci sono stati

cambiamenti recenti, quale tipo di reazione o di modalità ha messo in atto la famiglia,

quale impatto hanno esercitato questi cambiamenti.

Per favorire la resilienza Rutter (1987) ha individuato 4 processi protettivi da rinforzare

mediante interventi mirati:

1. Interventi tesi a ridurre i fattori di rischio;

2. Interventi tesi a contenere l’innesco di escalation reattive negative;

3. Interventi volti a rinforzare i fattori protettivi familiari e ridurre la vulnerabilità;

4. Interventi tesi a sviluppare e mantenere un senso di stima e di efficacia della

famiglia e dei singoli.

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Walsh (2008) dà indicazioni pratiche su come potenziare la resilienza familiare e

suggerisce di centrare l’intervento su tre ambiti:

1. Significazione della crisi e acquisizione di un maggior senso di controllo sugli

eventi;

2. Riorganizzazione delle configurazioni strutturali della famiglia;

3. Favorire lo sviluppo di una efficace comunicazione e di strategie di risoluzione dei

problemi.

Analizzo ora, in modo più approfondito, le tappe che, Froma Walsh (2008), suggerisce

seguire nella terapia della resilienza:

- Significare la crisi.

Il terapeuta deve esplorare i possibili significati che un evento traumatico o avverso ha

per una famiglia, evitando di lasciarsi influenzare dai propri pregiudizi. Si potrebbe

porre le seguenti domande: “Come vi siete spiegati il verificarsi di questa situazione?

Qual è stato l’aspetto più sconvolgente o più pregnante della situazione che avete

affrontato? Quale impatto ha avuto sugli altri membri della famiglia? In che modo

ciascuno di voi ha cercato di affrontare le difficoltà? I componenti della famiglia si

sono accorti delle minacce che si annunciavano all’orizzonte? Si sono confrontati in

merito? Chi ha sofferto di più? Chi ha dato meno peso a quanto accaduto? In che

modo e con quale efficacia avete mobilitato le risorse disponibili per prevenire una

crisi o smorzare l’impatto?

Con queste ed altre domande il terapeuta deve arrivare a comprendere l’unicità

dell’esperienza di ogni particolare famiglia e accogliere l’esperienza soggettiva di

ogni componente. E’ importante arrivare ad aiutare la famiglia ad attribuire un

significato alla crisi o alla minaccia di crisi e comprendere quali implicazioni avrà per

il futuro e quali passi potranno compiere per adattarsi meglio alla situazione. In questo

modo si aiuterà le persone a conquistare un senso di coerenza e a rendere più

comprensibile, gestibile e ricca di significati la situazione di crisi.

Si rivela di fondamentale importanza che il terapeuta rassicuri i membri della famiglia

della sua (del terapeuta) capacità di reggere il dolore e la loro sofferenza, garantendo

un contesto sicuro in cui contenere ed elaborare stati d’animo intensi.

Si deve favorire che i membri della famiglia chiariscano la loro situazione: cosa è

stato detto, a chi, da chi, dove, e quale opinione ognuno di loro ha in proposito. Ciò ha

lo scopo di uniformare, almeno in parte, le concezioni e le percezioni dei vari membri

della famiglia così da placare le ansie e permettere un maggior adattamento alla

situazione. Inoltre si deve trasmettere, ai membri della famiglia, la convinzione che

loro possiedono tutte le potenzialità per superare le difficoltà e che tutto può diventare

più realizzabile attraverso un impegno comune e condiviso.

- Normalizzare, depatologizzare e contestualizzare la crisi.

Il terapeuta utilizzerà un linguaggio rispettoso e offrirà una cornice di senso che gli

consentirà di normalizzare e contestualizzare il disagio. Un intervento normalizzante

permette di offrire nuove informazioni e prospettive per considerare i sintomi

individuali e le relazioni problematiche come eventi comuni e comprensibili nelle

difficili circostanze che la famiglia sta attraversando. Un intervento di

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normalizzazione ha lo scopo di depatologizzare e contestualizzare il disagio familiare

pur non banalizzandolo e compiendo eccessive generalizzazioni. Si farà però notevole

attenzione a non normalizzare violenza e abusi sessuali.

- Offrire un luogo sicuro in cui condividere la sofferenza, le paure e le difficoltà.

Attraverso l’uso della connotazione positiva, i problemi possono perdere una

connotazione patologica e divenire l’espressione legittima di un disagio normale,

prevedibile e temporaneo, i sintomi possono essere letti come strategie di

sopravvivenza.

Dobbiamo offrire nuove cornici di senso all’interno della quale il disagio viene

contestualizzato e il paziente vede sé stesso, i suoi problemi e le risorse in una luce

più positiva e più ampia.

- Co-costruire una visione costruttiva per affrontare la vita e il futuro con

speranza

Terapeuta e paziente co-costruiscono nuove narrazioni attraverso la riformulazione

delle situazioni problematiche, all’assunzione di una nuova punteggiatura e

all’utilizzo di un nuovo linguaggio.

Mantenendo un contatto empatico con la sofferenza dei pazienti dobbiamo anche

infondere loro la speranza e fiducia nella possibilità che si possano superare le

avversità.

Di fronte ad un gran pessimismo si deve provare ad allargare il contesto ponendo

domande su modalità utilizzate in passato per risolvere altre situazioni, o ricercando il

momento in cui le modalità di affrontare l’evento sono cambiate. Si può chiedere ad

esempio: cos’era diverso allora? Chi le è stato più d’aiuto? In che modo? Come

potrebbe sfruttare ora questa energia positiva? Cosa si può fare per migliorare la

situazione? In questo modo la prospettiva viene allargata e con l’acquisizione di una

nuova prospettiva è possibile vedere qualche possibilità per il futuro. E’ importante

rendere esplicite le connessioni implicite tra passato, presente e futuro, in modo che i

componenti della famiglia possano comprendere il disagio attuale e integrare le loro

esperienze.

- Spostare il focus dai vincoli alle possibilità.

E’ rilevante trasmettere il concetto che gli errori sono connessi a fattori che le persone

possono cambiare e non a fattori innati. Risulta oltremodo importante che il terapeuta

comprenda il disagio, la sofferenza e la frustrazione che stanno alla base di un

atteggiamento critico e aiuti i membri della famiglia a spostare il focus dalle

lamentele, da cosa è sbagliato, a un’intenzione positiva, cioè a cosa sarebbe meglio e

pensare e a come fare per realizzarla. Cosa renderebbe la situazione più sostenibile?

Qual è la sua idea di famiglia? Quali cambiamenti dovreste fare per diventare così?

Connettendo le esperienze passate al disagio attuale e un’attenzione al futuro, può

diventare una forza positiva capace di interrompere la reiterazione di schemi

distruttivi e conquistare relazioni più sane.

Una tendenza a guardare e apprezzare le qualità migliori aiuta le persone ad

utilizzarle. Si devono cercare degli aspetti positivi da valorizzare in ogni membro

della famiglia, si devono scoprire le loro potenzialità e risorse, cercando dei modi per

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coltivarle e incrementarle. Si devono anche apprezzare le loro buone intenzioni, gli

sforzi compiuti e le conquiste fatte.

- Considerare le esperienze avverse come parte costituzionale della vita.

Importante è orientare le famiglie a convivere con le incertezze, attingendo anche alle

loro risorse spirituali per recuperare il sentimento di avere uno scopo, di trovare un

senso di consolazione e di conforto. Il clinico deve anche indagare le credenze e le

abitudini della famiglia rispetto alle strategie di recupero di energie: sono abituati a

frequentare gruppi religiosi? Gruppi culturali o di svago? Amano passeggiate a

contatto con la natura? Ecc.

Froma Walsh (2008) sostiene che è importante assegnare grande valore, in termini

relazionali, al ruolo che animali da compagnia o da assistenza svolgono nel dare

speranza e coraggio agli individui, essi spesso si rivelano essenziali in termini di

sostegno e resilienza. Alcune ricerche hanno mostrato che le persone che vivono con

un animale godono di migliori condizioni di salute, che il solo gesto di accarezzare un

cane o un gatto riduce gli effetti dello stress, la frequenza del battito cardiaco e la

pressione sanguigna, sia nella persona che fa la carezza, sia nell’animale che la riceve.

Concludo questo capitolo con una frase di Froma Walsh (2008): <<Affrontare le

difficoltà può voler dire fare tre passi avanti e due indietro e poi fare un respiro e cercare

di andare ancora avanti. Quando una famiglia vive una situazione di stallo dobbiamo

spingerli a rimettersi in moto e a perseverare nei loro sforzi di cercare una nuova

strada>>.

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4. UNA STORIA DI RESILIENZA

4.1 M. e la sua famiglia

Il lavoro con le famiglie parte dalla comprensione e dall’accoglienza del loro dolore e

sofferenza e dalla trasmissione della convinzione che possiedano risorse per superare gli

eventi difficili.

Da molti anni lavoro presso un Centro Diurno Disabili (CDD) del nord Italia ed ho

conosciuto molte persone disabili e le loro rispettive famiglie, con le quali ho condiviso

pezzi più o meno lunghi di vita. L’incontro con queste persone ha stimolato in me la

necessità di cercare e di possedere strumenti per aiutarle ad affrontare la vita con meno

pesantezza e a far emergere le loro risorse. Tra le tante storie che ho incontrato scelgo di

raccontare quella di M. perché è recente, stimolante ed in evoluzione. Per preservare la

privacy dei protagonisti indico solo alcune iniziali non corrispondenti ai nomi reali.

M. ha attualmente 20 anni ed è inserito da 2 anni presso il centro per il quale lavoro.

Quando M. è nato la mamma B. aveva 20 anni e il papà C. 19. Entrambi provengono da

famiglie semplici, modeste, di grandi lavoratori. Da giovane B. soffriva di epilessia.

Quando M. è nato è stato sottoposto, ogni mese, a un EEG di controllo, a 6 mesi ha avuto

come esito tracciato anomalo con episodi di tipo mioclonico. Da lì sono iniziati controlli

assidui e M. è stato preso in carico dalla neuropsichiatria della sua città. All’età di 5 anni

gli è stato diagnosticato un ritardo mentale di media gravità, un’epilessia fotosensibile e

impaccio motorio. Dai 10 ai 12 anni è stato sottoposto a moltissimi controlli e visite per

l’epilessia, circa una volta al mese, e a numerosi ricoveri ospedalieri.

All’età dell’obbligo ha frequentato le scuole statali affiancato da un insegnante di

sostegno. A 10 anni presentava scarse abilità di linguaggio e capacità d’apprendimento

molto limitate. Nelle relazioni sociali ha sempre manifestato chiusura e agitazione, era

però in grado di cogliere alcuni particolari o differenze negli atteggiamenti degli altri.

All’età di 12 anni è stato inserito presso una scuola speciale con frequenza diurna. A 18

anni, dopo aver conseguito il diploma di scuola secondaria di primo grado, è stato inserito

nel CDD nel quale lavoro.

M., attualmente, vive con i genitori e con due fratelli: G. di 18 anni che presenta epilessia

e P. di 9 anni. G. presenta epilessia di tipo diversa da quella che presenta il fratello

maggiore, a scuola, è affiancato da un’insegnante di sostegno. P. frequenta la scuola

pubblica e presenta disturbi d’attenzione e disturbi d’apprendimento.

La madre, in passato, ha lavorato come babysitter, attualmente lavora in un’impresa di

pulizie. Il padre lavora in una piccola azienda come operaio.

All’interno della famiglia la moglie sembra avere maggior ruolo decisionale, il marito

invece sembra più periferico ed è stato più volte definito dalla signora come il “quarto

figlio”.

Durante il primo colloquio avuto con la madre, antecedente l’inserimento di M., sono

rimasta colpita dall’atteggiamento piuttosto provato e affaticato della madre: tendeva a

non guardare negli occhi i suoi interlocutori, sbatteva spesso le palpebre, teneva gli occhi

socchiusi e orientati verso il pavimento. All’incontro successivo si sono spontaneamente

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presentati la madre e il padre di M., la nonna e la sorella materna. Tale incontro aveva

l’obiettivo di far conoscere il centro alla famiglia e di raccogliere ulteriori informazioni

sul ragazzo. Ho notato che solo la madre e la nonna hanno parlato; quest’ultima ha

“sviato” il discorso quasi subito, parlando di sé e del terribile dolore legato alla morte del

marito, nonno di M., avvenuta, a quel tempo, 4 anni prima.

Col passare dei mesi la relazione con la famiglia, e il suo tramite M., si è rivelata piuttosto

complessa, in quanto erano molti gli aspetti contraddittori e confusi che si presentavano:

non si riusciva realmente a capire chi avevamo di fronte. I genitori, soprattutto la madre,

ci rimandavano un’immagine di M. idealizzata: nel futuro del figlio vedevano, ad

esempio, la patente, il matrimonio, un lavoro, ecc..

M. ci era stato presentato come un ragazzo tranquillo, senza rivalità particolari verso gli

altri, molto accondiscendente. In realtà, nelle relazioni paritarie, ha presentato frequenti

atteggiamenti di sfida, bisogno di primeggiare: la sconfitta, ad esempio nel gioco di

bocce, lo faceva arrabbiare moltissimo e si rinchiudeva in un lungo mutismo.

Il figlio di mezzo ci era stato presentato come ben adeguato all’età, ben inserito nella

scuola, presentava solo una leggera epilessia. Più avanti siamo venuti a sapere che aveva

anche un ritardo mentale lieve e per questo era certificato. Un’insegnante di sostegno lo

supportava a scuola.

Il figlio minore veniva presentato come un po’ turbolento e agitato, più avanti nella

relazione siamo venuti a sapere che era considerato al limite per una diagnosi di disturbo

di apprendimento.

Inoltre la famiglia presentava una certa ambiguità nella gestione economica: raccontavano

di fare molta fatica ad arrivare a fine mese, dovevano andare a fare la spesa nei

supermercati più economici e prestare molta attenzione a quello che acquistavano,

indossavano abiti modesti ecc., ma dall’altra parte siamo venuti a sapere che spendevano

cifre consistenti per acquistare materiali da utilizzare nel tempo libero e di sera, per stare

insieme come famiglia (puzzle, materiale per il decupage, giochi di società, ecc.) ed

andavano spesso a mangiar fuori, presso i centri commerciali, ecc.

Anche per quanto riguarda l’attenzione, da parte della madre, all’igiene e alla cura del

figlio M., sembrava altalenante: a volte appariva molto precisa ed attenta, altre volte

invece manifestava trascuratezza: ad esempio, in pieno inverno lo faceva uscire con un

giubbino primaverile, non seguiva il figlio nell’igiene ed anche, inavvertitamente, gli ha

versato mezzo flaconcino di Valium direttamente in bocca, mandandolo in stato di coma

all’ospedale, ecc.

Durante i periodi di chiusura del CDD si è notato un’alta probabilità che la madre sviluppi

preoccupazione per la salute del figlio e lo porti d’urgenza al Pronto Soccorso, anche per

questioni risolvibili dal medico di base.

Da qualche mese dall’inserimento di M. al CDD, la mamma ha chiesto un colloquio con

la psicologa perché esasperata e preoccupata dalle continue e pesanti liti tra i tre figli: non

riusciva a fermarli e ad aiutarli a trovare un modo costruttivo per accordarsi. Riconosceva

di avere una famiglia pesante e ripeteva frequentemente che così non riusciva ad andare

avanti.

Presso l’ente per cui lavoro è attivo un servizio di consulenza psicologica aperto alle

famiglie degli utenti che frequentano i nostri centri, così la madre, prima e la famiglia poi,

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hanno iniziato un percorso psicologico. Le sedute sono state tenute dalla psicologa

psicoterapeuta consulente del centro, che ha orientamento junghiano. Io cercherò di

riportare il lavoro da lei svolto integrandolo con una visione sistemico relazionale.

Proverò anche ad utilizzare gli strumenti sistemici per rielaborare ed approfondire il caso.

4.2 Il percorso terapeutico

Alle prime due sedute, B. si è presentata da sola. La terapeuta ha cercato di stabilire con

lei una relazione terapeutica e creare un rapporto di fiducia e di alleanza. Ha accolto ed

ascoltato le sue richieste. Dopo aver indagato la composizione familiare e l’ambito

lavorativo in cui sono inseriti i coniugi, la terapeuta ha cercato di indagare il tipo di

relazione in atto tra la coppia, il tipo di organizzazione famigliare, si è posta l’obiettivo di

riavvicinare i coniugi e far ritornare M. nella fratria. Per tanto anche il padre è stato

invitato a partecipare ai colloqui, insieme alla moglie, per poter lavorare sulla

genitorialità. Alcune sedute sono state dedicate, anche, ad approfondire il tipo di

sistemazione degli spazi in casa. Nei primi due mesi le sedute hanno avuto cadenza

regolare di una volta la settimana, poi, per quattro mesi la frequenza si è diradata a una o

due volte al mese, dopo sei mesi si è tenuto un incontro di “controllo” e terapeuta e

cliente hanno concordato di terminare il ciclo di incontri. Ora descriverò brevemente

quanto emerso.

B. si sente addosso tutto il peso della famiglia, riconosce di avere un legame “speciale”

con M. e specifica: <<forse perché lui ha tanti problemi>>. Inoltre afferma di non riuscire

a non accontentare il figlio in tutte le sue richieste e di essere convinta che gli altri fratelli

debbano lasciarlo “vincere”, perché lui ha meno abilità e risorse di loro. Riferisce anche

di non riuscire a dare delle regole di comportamento comuni a tutti e tre, nel rispetto delle

differenze d’età. Dice anche di sentirsi in colpa per aver trascurato, in alcuni momenti, gli

altri due figli, dice anche di aver, forse, richiesto troppo aiuto al figlio di mezzo G., per

farsi aiutare nella gestione dei due fratelli. In particolar modo chiedeva a G. di accudire P.

mentre lei svolgeva altre faccende. Forse anche grazie a questa continua vicinanza i due

fratelli si sono molto uniti, tantè che, alcune volte, G. rinuncia ad uscire per stare con P.,

anche se è molto più piccolo di lui. La terapeuta ha dedicato numerosi colloqui a questo

tema, ed è apparsa rapidamente la seguente organizzazione familiare: M. si trova isolato

dai fratelli, in alleanza con la madre; G. e P. alleati tra loro, in grande competizione verso

M. Il padre C. si trova vicino ai figli G. e P. Talvolta “tenta” di avvicinarsi alla moglie ma

entra in conflitto con il figlio M..

La terapeuta ha lavorato per trovare delle strategie, per sciogliere competizioni dannose e

cercare di avvicinare i fratelli in modo più armonioso, nel rispetto delle loro esigenze e

benessere. La terapeuta ha più volte sottolineato la necessità che i genitori tengano in

considerazione anche i bisogni e le richieste di G. e di P,. equilibrandole e integrandole

con quelle di M..

Altro tema rilevante emerso nelle prime sedute è relativo al fatto che B. non si sente

aiutata dal marito, è lei che dà le regole ai figli, lui non concorda con le modalità della

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moglie, secondo lui sono eccessivamente normative. In genere il marito non prende

nessuna decisione e vorrebbe solo uscire ed andare in vacanza unicamente con la moglie.

Quest’ultima, invece, vorrebbe stare insieme come famiglia e passare momenti belli in

compagnia dei figli e del marito. Quest’ultimo, in genere, non se la sente di stare da solo

con M., per paura delle sue crisi epilettiche, questo pesa molto alla madre che vorrebbe

invece che il figlio svolgesse una vita normale e che uscisse, anche per momenti brevi,

con il padre. Inoltre, secondo lui, M. non dovrebbe uscire perché l’eccessiva stimolazione

potrebbe produrgli una crisi epilettica. La famiglia allargata, nonni materni, nonni paterni

e zie sostengono la posizione del padre, mentre la madre si ritrova letteralmente sola nella

convinzione che M. debba uscire e fare le sue esperienze come un ragazzo normodotato.

In terza seduta si presenta anche il marito, appare molto timido. Entrambi i coniugi

parlano della loro coppia come solida e affiatata. Per quanto riguarda le competenze

genitoriali, la terapeuta sottolinea l’importanza di essere concordi nel momento in cui si

dà una regola o si pone un limite, nei momenti di disaccordo è importante discutere,

possibilmente non di fronte ai figli, ma in un ambiente appartato. Anche C. sembra

sopravvalutare le capacità dei figli e si aspetta che i ragazzi possano fare un percorso

evolutivo normale come gli altri coetanei.

Viene affrontato anche il tema di come è distribuito lo spazio in casa, che viene vissuto

dai coniugi come insufficiente rispetto alle esigenze di autonomia dei figli. I genitori

hanno pensato di dividere alcuni ambienti per lasciare più spazio a M. che, secondo loro,

ha esigenze diverse rispetto ai fratelli. Questa spiegazione, alla terapeuta, è apparsa

ambigua ed è stata da lei approfondita. Durante il percorso terapeutico è emerso che

anche G. avrebbe necessità di una camera singola, data l’età e la fase di vita che sta

vivendo. Forse lasciare insieme G. e P. voleva dire colludere con lo stato di cose attuale e

impedire, inconsapevolmente, un ricongiungimento della fratria.

Un’ altro argomento affrontato in seduta è stato approfondire le convinzioni che ciascun

coniuge ha circa i limiti e le potenzialità di M., ma anche di P e di G.. Terapeuta e genitori

hanno parlato di situazioni concrete, episodi avvenuti nel presente e nel passato, per poter

costruire un atteggiamento più realistico e costruttivo. Hanno connesso il passato e il

presente con il futuro ed hanno cercato di elaborare insieme, delle previsioni e delle

azioni concretizzabili e fattibili.

In terapia è stato affrontato anche l’argomento di cosa e quali comportamenti B. si aspetta

e desidera da M.. E’ emerso che è ansiosa nel vedere cambiamenti e progressi nel figlio,

vorrebbe coinvolgerlo e forzarlo in iniziative, che forse, per lui, potrebbero rivelarsi

frustranti o eccessive, ma pur rendendosene conto non riesce a modificare il proprio

atteggiamento. Lo sprona, a volte lo forza, a provare nuove esperienze o ad uscire,

rendendosi poco conto o negando la sua ritrosia e stanchezza.

A livello trigenerazionale sono emerse difficoltà e situazioni molto dolorose del passato e

non ancora superate. La signora ha riportato molte insicurezza nello svolgere il ruolo di

madre, si sente spesso in ansia, ha frequentemente il timore di sbagliare o di creare traumi

ai figli. B. attribuisce la causa di questa sua eccessiva ansia all’adolescenza e al rapporto

con il padre, che era molto severo e pretendeva tantissimo da lei. Il padre della signora,

nonno di M., è morto 6 anni fa. Quando è stato affrontato questo tema è emersa in B. una

forte emozione che subito ha bloccato ed ha affermato che, quando era ragazza, aveva

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molta paura del proprio padre, ma si è interrotta. Anche nelle sedute successive non ha

più voluto affrontare l’argomento. In genere B. descrive la propria infanzia ed

adolescenza come molto tristi e difficili. La terapeuta ha cercato di approfondire questo

tema investigando sui rapporti e sui legami affettivi con le figure parentali, il tipo di

attaccamento stabilito con loro e le relazioni con la famiglia allargata. La signora è la

quartogenita; il primogenito è morto a pochi giorni dalla nascita a causa di un’epidemia

diffusasi in ospedale. A quel tempo sua madre era molto giovane ed è stato molto difficile

per lei risollevarsi. B. ha due sorelle più grandi di 2 e di 5 anni. La maggiore ha un figlio

che presenta gravi disturbi di tipo oppositivo provocatorio ed è separata dal marito. La

mezzana è sposata ed ha un figlia. Il figlio della sorella maggiore ha gravi problemi

comportamentali di tipo aggressivo con passaggi all’atto, è molto legato a G. e richiede

spesso la sua presenza. A tal proposito i coniugi hanno raccontato un episodio che li ha

messi in notevole difficoltà. La sorella ha chiesto a B. di poter avere G. a casa sua per fare

compagnia al proprio figlio, in quanto stava vivendo un periodo difficile a causa della

separazione dei genitori. B. non è riuscita a dire di no, anche se era a conoscenza del fatto

che, in passato, il nipote aveva avuto, verso G., degli atteggiamenti aggressivi piuttosto

intensi. La mancanza di G. da casa, per quindici giorni, ha fatto scattare le proteste di P.,

il figlio minore, in quanto è molto legato al fratello e sentiva la sua forte mancanza. I

rapporti con la famiglia allargata non sembrano chiari e i confini appaiono labili.

La nonna materna appare una persona disponibile e presta il proprio aiuto alle figlie;

sembra anche avere un ruolo incisivo con i nipoti. Anche i nonni paterni sono ben

presenti nella vita di questa famiglia e badano ai nipoti al mattino presto e al pomeriggio

quando rientrano da scuola.

Dopo un anno di sospensione della terapia, la signora B. ha chiesto nuovamente

appuntamento alla terapeuta per parlare, questa volta, del figlio G.. B. si trova in difficoltà

nel gestire recenti avvenimenti che hanno come protagonista il figlio suddetto. G. sta

attraversando la fase adolescenziale, stanno avvenendo molti cambiamenti e B. sente la

necessità di essere seguita dalla psicologa.

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4.3 Commenti secondo un’ottica sistemica

In questo genogramma, ciò che mi balza all’occhio, è lo sbilanciamento del numero di

“attori” presenti nelle due famiglie d’origine: nella famiglia di B. son presenti molte

persone, appare molto pieno e denso di personaggi e di eventi, invece la parte che

interessa C. sembra scarna e “monotona”. Un dato importante che riguarda la situazione

trigenerazionale di B. è che il matrimonio dei nonni materni è coinciso con la gravidanza

e la succesiva morte del primo figlio, situazione che sicuramente ha avuto i suoi effetti sia

per i genitori che per i figli nati successivamente. Questo evento ipotizzo abbia influito

notevolmente sullo stile di attaccamento che si è stabilito successivamente tra genitori e

figli.

Altro aspetto che mi colpisce è che B., a differenza delle sue sorelle, ha avuto tre figli,

numero che costituiva la figliolanza della sua famiglia d’origine, in quest’ultima c’era

anche una predominanza del genere femminile, nell’attuale famiglia, invece, c’è una

prevalenza del genere maschile.

Nell’ascolto di questa storia si rimane “sbalorditi” dal fatto che i tre figli presentano tutti

aspetti problematici: due ritardo mentale associato ad epilessia, il minore presenta un

disturbo d’apprendimento.

La situazione appare complessa e dagli equilibri molto fragili.

Utilizzerò la cornice del ciclo di vita per commentare la storia di questa famiglia,

inizialmente farò una breve introduzione teorica, cercando poi di connettere le varie fasi

con la storia familiare di M..

20 18 9

39 42

67 65

45 40

65

B.

M. G. P.

C.

1965

1970

1991

2006

1965

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I sistemi familiari sono soggetti a continue modificazioni nel corso del tempo e passano

attraverso una serie di stadi che insieme costituiscono il ciclo di vita familiare. Ogni tappa

di questo ciclo è segnata da un evento “critico” come l’ingresso o l’uscita di un

componente dal sistema, ciò comporta una sua modificazione strutturale e la necessità di

rinegoziare le relazioni al suo interno. Il concetto di ciclo di vita implica il concetto di

ricorsività, che indica un processo che ha inizio e si svolge in riferimento costante alle

esperienze passate dell’individuo o della famiglia (Scabini, 1994). Quindi per ciclo di vita

di una famiglia si intende <<una successione di fasi, delimitate da alcuni eventi tipici, che

inducono, nel corso della vita del “soggetto famiglia”, significative trasformazioni di

ordine strutturale, organizzativo, relazionale, psicologico>> (Blagiardo e Scabini, 1995).

Valtolina (2000) sintetizza le principali fasi del ciclo vitale della famiglia come segue:

- Fase iniziale breve: dalla costituzione della coppia alla nascita dei figli;

- Fase centrale prolungata: questa fase occupa genitori e figli per circa 20 anni e

termina con la compresenza di due generazioni di adulti, cioè i figli ormai cresciuti e

ultra-diciottenni e i genitori;

- Fase di coppia anziana o del nido vuoto: molto prolungata dopo l’uscita di casa

dell’ultimo figlio;

- Fase di vita in solitudine: con la morte di un coniuge, chi rimane tende ad appoggiarsi

alla famiglia dei figli.

L’unità di analisi che permette di studiare il ciclo di vita familiare è costituito da almeno

tre generazioni, cioè i singoli componenti della famiglia dovranno affrontare compiti di

sviluppo in riferimento sia ai propri rapporti con la generazione che li precede, sia con la

generazione che li segue. Inoltre, i membri della famiglia, dovranno anche mantenere

rapporti con il contesto sociale in cui sono inseriti.

Valtolina (2000) propone un interessante confronto tra le famiglie con figli normodotati e

le famiglie con figli disabili.

La prima tappa è quella caratterizzata dalla costituzione della coppia; i membri devono

affrontare una serie di compiti di sviluppo legati alla loro nuova realtà di coppia, sia in

riferimento alla relazione coniugale, sia in riferimento alla relazione filiale che

mantengono ancora con i propri genitori. A tal proposito B. e C. si sono conosciuti molto

giovani (16-17 anni) ed ipotizzo che si siano “lanciati” in questa nuova avventura della

relazione di coppia idealizzandola. Alle spalle, forse, non avevano un tessuto familiare,

sociale e culturale in grado di proteggerli. Così, all’età di 19 anni lui e di 20 anni lei, si

sono ritrovati in attesa di un figlio. Il tempo della costituzione della coppia è stata molto

breve o quasi inesistente, hanno avuto poco tempo anche per risistemare le relazioni con

le rispettive famiglie d’origine e per di più si sono ritrovati a dover affrontare e gestire

aspetti pratici, come impiantare e gestire una casa e organizzare i preparativi per l’arrivo

di un figlio. Ipotizzo che in quel periodo la famiglia allargata abbia vissuto momenti di

grande ansia e preoccupazione, mentre credo che i novelli coniugi, abbiano vissuto,

anche, momenti di grande eccitazione e spensieratezza per il nuovo che arrivava. Un

elemento ridondante che si trova in questa storia è che B. si è ritrovata in cinta a 19 anni,

di conseguenza si è sposata poco dopo, proprio come sua madre.

Nella fase successiva i due coniugi, che sono già diventati genitori, devono far fronte a

nuovi compiti di sviluppo, generati dall’evento critico della nascita del primo figlio. E’ in

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questa tappa che le famiglie con figli disabili si differenziano dalle famiglie con figli sani.

Se da un lato la nascita di un figlio sano può essere considerato un evento prevedibile e

solitamente scelto da parte di genitori, dall’altro, la nascita di un figlio portatore di

disabilità può essere definito un evento imprevedibile e non scelto. L’ampiezza e il tipo di

difficoltà che tali eventi suscitano, indipendentemente dal grado di difficoltà, sono

strettamente interconnessi al significato a esso attribuito dalla famiglia e alle risorse di cui

la famiglia dispone. Come dice Scabini (1995) cruciale è il modo in cui i familiari

affrontano l’evento, lo connettono alla storia familiare e lo inseriscono nella loro vicenda

familiare. Già la costituzione di questa famiglia è stata caratterizzata da eventi imprevisti

perché ha accorciato e sovrapposto il tempo iniziale. Anche la nascita del primo figlio ha

portato con se una grande preoccupazione, cioè quella che si potesse ripresentare

l’epilessia di cui soffriva la madre durante l’infanzia e l’adolescenza. Perciò dal momento

in cui M. è nato sono iniziati una serie di fitti controlli medici ed esami. Immagino la

grande preoccupazione e forse disperazione di quel periodo e la difficoltà di vivere una

normale condizione di gioia e di tranquillità che di solito segue la nascita di un figlio.

Suppongo che anche tutte le persone che ruotavano intorno alla famiglia abbiano

sperimentato apprensione e dolore per quanto stava accadendo e che abbiano incontrato

difficoltà a sostenere, confortare e spronare la madre soprattutto, ma anche il padre. Penso

anche sia stato difficile, per i coniugi, affrontare con fiducia gli eventi prossimi e futuri.

B. ha raccontato di essersi sentita sostenuta, nel nuovo ruolo e impegno, solo dalla propria

madre. Il marito era presente, ma fragile. Il padre l’ha criticata ed ha evitato qualsiasi

coinvolgimento. Dalle sorelle ha avuto scarso aiuto. Dal primo anno di vita di M., la

coppia, e di riflesso le famiglie d’origine, hanno dovuto intraprendere un cammino di

accettazione, di adeguamento e di riorganizzazione familiare più difficoltoso, rispetto alle

famiglie con figli sani, che potrebbe aver indebolito e compromesso le basi stesse su cui

si era fondata l’unione. Inoltre il livello economico e culturale della coppia e delle

rispettive famiglie è medio-basso e possiedono una bassa qualità e quantità di risorse

materiali. La famiglia però ha saputo rispondere prontamente e si è mobilitata per

ricercare punti di riferimento in ambito dei servizi sanitari e sociali. Quando M. aveva 6

anni è stato seguito dal servizio di neuropsichiatria infantile e la mamma ha saputo

utilizzare la presenza di questo centro per ottenere il maggior numero di informazioni

circa i comportamenti e modalità da tenere con il figlio.

La fase successiva del ciclo di vita, famiglia con figli adolescenti, mette di nuovo in

discussione alcuni compiti propri della coppia genitoriale e coniugale e quelli relativi alla

relazione filiale con i rispettivi genitori. Mamma e papà devono essere in grado di

rinegoziare la relazione con i propri figli, ciò avviene permettendo loro di concludere il

processo di separazione-individuazione, assumendo un atteggiamento di protezione

flessibile nei loro confronti. Nelle famiglie con figli disabili questo processo non si potrà

mai concludere o comunque si svilupperà in modo completamente diverso da ciò che

accade nelle famiglie con figli sani. Gli aspetti che maggiormente influenzano

l’esperienza genitoriale di questo periodo risiede nel fatto che le speranze di

miglioramento per la disabilità del figlio vengono progressivamente meno e la fiducia

negli interventi riabilitativi entra in crisi. Inoltre il figlio disabile termina la frequenza

della scuola dell’obbligo e si apre il nuovo capitolo legato all’incognita per il suo futuro.

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In questa situazione le famiglie vivono ansia e angoscia intensa. In questa fase inoltre i

genitori devono accettare il fatto che, nonostante tutto, il loro figlio non è più un bambino.

Durante questo periodo molto delicato per ogni adolescente emerge anche il problema

della conquista dell’autonomia, che nel caso di persone disabili assume spesso

caratteristiche di profonda sofferenza. E’ sempre durante il periodo adolescenziale che

emergono interessi e problematiche di natura affettiva e psicosessuale.

E’ assolutamente necessario fornire ai genitori un supporto adeguato sia per la

comprensione che per l’accettazione del processo di crescita e di sviluppo, sia per

l’organizzazione di adeguate strategie di comunicazione con il proprio figlio per portare

quest’ultimo alla conquista di un’autonomia ad hoc, nel rispetto delle sue esigenze, delle

sue potenzialità e delle sue limitazioni. Anche all’interno dell’ambito affettività-sessualità

è necessario fornire ai genitori supporto, sostegno e informazioni adeguate per tracciare

delle linee guida per indicare al figlio, fin dove possibile, le diverse valenze che rivestono

termini come amicizia, affettività e sessualità.

Attualmente B. e C. si trovano proprio in questa situazione, in quanto M. e G. stanno

vivendo la fase adolescenziale, anche se in modo diverso. M., ha il proprio futuro già in

parte organizzato: frequenta un CDD, che lo potrà accogliere fino ai 65 anni. All’interno

di questo centro appare ben inserito, ha acquisito buone capacità relazionali e sta

sviluppando maggiore autonomia. La famiglia sta apprezzando il suo cambiamento ed

evoluzione e forse ha raggiunto una maggior consapevolezza delle sue potenzialità e dei

suoi limiti. Rispetto al futuro di M., appare più tranquilla e serena, sembra aver accettato

che, probabilmente, non avrà mai una vita autonoma ed indipendente, in quanto la sua

disabilità gli impedisce un adattamento normale.

La famiglia sta ora vivendo un altro importante periodo critico rispetto a cambiamenti che

riguardano il figlio G.: fra qualche mese concluderà gli studi di scuola superiore e i

genitori devono programmare il suo futuro e prendere consapevolezza e giungere

all’accettazione dei suoi limiti. Lui, avendo un ritardo mentale più lieve rispetto al fratello

maggiore, avrà probabilmente la possibilità di sperimentare un certo grado di autonomia

e, forse per questo motivo, il suo processo sarà più complesso e la mediazione sarà più

difficile da ottenere. In quest’ultimo periodo i genitori stanno cercando, tramite i servizi

sociali comunali, di inserirlo in un lavoro protetto, se non riusciranno valuteranno la

possibilità di inserirlo in un centro per disabili che accoglie persone con disabilità lieve.

A causa di questa situazione importante, la mamma sembra stremata, in ansia e spaesata,

ma forse anche il sommarsi di preoccupazioni che riguardano tutti e tre i figli vanno ad

aumentare notevolmente il suo livello di stress. Il marito sembra ancora meno coinvolto

nella relazione con i figli e meno consapevole delle difficoltà che loro presentano. Inoltre

è la madre che funge da interlocutore con i servizi e le scuole presso cui sono inseriti i

figli e mantiene i contatti anche con i servizi sanitari. Il padre sembra avere una modalità

disimpegnata e sembra arretrare dietro la moglie nel momento in cui, come genitori,

devono prendere delle decisioni. La coppia sembra comunque reggere e periodicamente

riescono a ritagliarsi del tempo per delle “fughe“ di qualche giorno.

Per quanto riguarda le relazioni sociali la famiglia e i singoli individui non posseggono

molti contatti. Le relazioni sono limitate all’interno dell’associazione nella quale è

inserito il figlio maggiore.

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La fase successiva del ciclo di vita della famiglia è quella della fase lunga del giovane

adulto. Ma quando si è in presenza di famiglie con figli disabili, soprattutto con handicap

grave, o che compromette l’autonomia del soggetto, i genitori devono affrontare compiti

di sviluppo diversi rispetto a quello delle altre famiglie. Ad esempio è difficile che queste

coppie vivano l’uscita di casa del figlio, della formazione di una nuova famiglia, ma è

anche improbabile che raggiunga l’autonomia dal punto di vista lavorativo.

Pensando al futuro e alla mancata uscita dei figli dalla famiglia, la coppia avrà minori

possibilità di reinvestire energie all’interno della relazione coniugale ma, attualmente,

dimostrano di avere risorse per mantenere una certa unione e questo fa ben sperare per il

futuro.

In generale si può affermare che per le famiglie con un figlio disabile risulta molto

difficile stabilire relazioni sociali, in quanto il tempo da dedicare alla cura e alla

riabilitazione del figlio è maggiore rispetto a quello richiesto dalle altre famiglie. Inoltre

anche la stigmatizzazione sociale e un buon grado di autosvalutazione costituiscono gravi

impedimenti nella costruzione di legami relazionali intensi, esterni al nucleo familiare.

Per concludere si può affermare che le famiglie con figli disabili devono affrontare una

serie di eventi critici aggiuntivi (malattie croniche, cure, riabilitazione del figlio disabile,

angoscia e preoccupazione per il futuro) rispetto ai compiti di sviluppo tipici di ogni fase

del ciclo di vita della famiglia. Le tappe di sviluppo della famiglia con figli disabili sono

caratterizzate da un accumulo di eventi stressanti che incidono profondamente sulla vita

dei singoli componenti del nucleo familiare e sullo sviluppo del singolo stesso. Di

conseguenza le famiglie con figli disabili hanno la necessità di attivare una serie di servizi

e supporti esterni, per far fronte alle esigenze specifiche determinate dalla disabilità del

figlio. A tale proposito assumono notevole rilevanza il contesto sociale e le risorse in esso

presenti. Una grande abilità che va riconosciuta a B. è quella di aver sviluppato, negli

anni, la capacità di chiedere consulenze e di ottenere risposte dai vari servizi con i quali è

in contatto, ciò ha permesso a lei, ai figli e a tutta la famiglia di proseguire il proprio

cammino evitando, così, una pericolosa chiusura.

Volutamente non descrivo le ultime due fasi del ciclo vitale in quanto la famiglia del caso

sopra esposto non le ha ancora raggiunte.

Il lavoro con le famiglie, all’interno del servizio presso il quale lavoro, si sviluppa a più

livelli: educativo con il figlio, sostegno e supporto alla genitorialtà, psicoterapia per la

famiglia in caso di necessità, facilita e incrementa le relazioni con altre famiglie

attraverso cene, incontri di gruppo aperti a tutte le famiglie degli utenti, laboratori di

pasticceria, ed anche offre informazioni sulle risorse presenti nella comunità e facilita

l’accesso ad esse.

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Conclusioni

Concludo questo mio lavoro con una frase di Hemingway (1929): << La vita ci spezza

tutti quanti, ma solo alcuni diventano più forti proprio nel punto in cui sono stati

spezzati>>. La vita non è costituita solo da amore, gioia e felicità ma anche da perdite,

malattie, rabbia, odio, sfide: solo il riuscire a viverle, ad affrontarle e a superarle ci

permette di diventare più sani e felici.

Le difficoltà vanno considerate parte della vita e le situazioni problematiche possono

portare a riconoscere e a ricercare risorse personali, parentali e amicali da mobilitare per

affrontare le vicissitudini negative. Il dolore può anche far crescere e stimolare, nelle

persone, una profonda fiducia in se stessi, un prioritario credere nelle proprie idee, una

grande curiosità nei confronti di un mondo ricco di possibilità inesplorate.

Il compito di noi terapeuti è di aiutare i membri della famiglia a superare lo stato di

impotenza e disperazione che stanno sperimentando e di farli giungere alla fiducia nelle

proprie capacità e possibilità di far migliorare le cose. Il terapeuta e la famiglia

collaborano nell’elaborazione di significati alternativi o di nuove storie, più ottimistiche e

positive, che rimpiazzino quelle negative precedenti. Un approccio fondato sulla

resilienza va a cercare le risorse che ogni famiglia possiede e su questo potenziale

costruisce la possibilità di un cambiamento.

Ancora come professionisti, oltre ad incoraggiare le famiglie a modificare le proprie

concezioni rigide e vincolanti e a superare le condizioni avverse in cui si trovano,

dobbiamo impegnarci a cambiare le circostanze sfavorevoli: sarebbe necessario operare

d’intesa con sistemi più ampi per cambiare politiche e interventi, affinché le famiglie

possano realizzare le proprie aspirazioni ed avere una vita più “facile”.

Come professionisti possiamo sostenere i loro sforzi credendo fino in fondo nel

potenziale di guarigione e di resilienza che ogni famiglia possiede.

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