Traduzione e Intercultura_miscellanea

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Università degli studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Lettere e Filosofia Largo S. Eufemia n. 19 - 41100 Modena Seminario sulla teoria della traduzione Corso di laurea in “Lingue e culture europee” Facoltà di Lettere e Filosofia Anno accademico 2004-5

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Università degli studi di Modena e Reggio EmiliaF a c o l t à d i L e t t e r e e F i l o s o f i a

Largo S. Eufemia n. 19 - 41100 Modena

Seminario sulla teoria della traduzioneCorso di laurea in “Lingue e culture europee”

Facoltà di Lettere e FilosofiaAnno accademico 2004-5

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Hans Honnacker (cur.)

Traduzione ed intercultura

Materiali di discussione

Nr. 5 (2006)

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INDICE

Prefazione di Hans Honnacker p. 3

Franco Nasi (Università di Modena), Le maschere di Leopardie l’esperienza del tradurre p. 5

Emilio Mattioli (Università di Trieste), L’etica del tradurre p. 23

Gulliermo Carrascón (Università di Modena), L’errore di traduzione:una prospettiva didattica p. 27

Maria Carreras i Goicoechea (Università di Bologna/SSLMIT di Forlì),“La bomba al panzanio” di Stefano Benni: tradurre l’ironia p. 39

Laura Gavioli (Università di Modena), Tradurre parlando: alcuni esempi ditraduzione dialogica p. 50

Aleardo Tridimonti (Università di Modena), Tradurre l’identità –l’identità della traduzione. Lo scrittore e il suo doppio: il traduttore.Palomar al museo dei formaggi di Italo Calvino p. 64

Demetrio Giordani (Università di Modena), Viaggiatori musulmani tra i duemondi. Il tema del Mi‘râj nella letteratura medievale in Oriente e in Occidente p. 85

Luigi Ballerini (UCLA/University of Los Angeles California)Pellegrino Artusi “tradotto” da Giuliano della Casa p. 96

Giuseppe Palumbo (Università di Modena), Il ruolo centrale dellatraduzione specializzata nell’evoluzione degli studi sulla traduzione p. 101

Hans Honnacker (Università di Modena), La traduzione italiana di SebastianHaffner, «Geschichte eines Deutschen»: problemi e curiosità p. 110

Nota sugli autori p. 124

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In memoriadel poetaMario Luzi

PREFAZIONE

Il presente lavoro continua l’esperienza di un seminario organizzato dal sottoscritto pressol’ateneo modenese nell’anno accademico 2004-5 in seguito ad un analogo seminario tenutosi l’annoprecedente: dieci relazioni, tenute da altrettanti docenti, sul tema “Traduzione ed intercultura”durante l’intero arco del secondo semestre. Questo tema, particolarmente attuale e sentito in tempidi globalizzazione che sembra rispecchiare la felice intuizione di Martin Heidegger, che equiparòtraduzione (Übersetzung) e traduzione (Übersetzung), concependo l’atto di tradurre come un‘collocarsi oltre’ su un’altra sponda, in un altro ambito culturale.1

Anche in questa seconda esperienza, l’approccio del seminario è rimasto volutamenteinterdisciplinare: il seminario, dedicato sia alla prassi che alla teoria della traduzione, la cosiddettatraduttologia, si rivolgeva agli studenti che seguivano un corso di traduzione del secondo anno,quindi ancora poco esperti delle problematiche traduttologiche. Il seminario verteva su variequestioni che la teoria e la prassi della traduzione oggi pongono in ambito letterario e non,affrontate da docenti di diverse discipline, non solo di quelle linguistiche. Si trattava quindi di unseminario interdisciplinare che coinvolgeva, fra gli altri, i docenti di inglese, francese, spagnolo,arabo, tedesco e di filosofia. Principale obiettivo del seminario era fornire allo studente strumentiper una corretta riflessione sull’atto di tradurre e sull’interdipendenza tra il tipo di testo, la suafunzione linguistica o comunicativa e la forma di traduzione, offrendogli nel contempo strategietraduttive pratiche.

Anche quest’anno il successo riscosso presso gli studenti (circa 50 di loro hanno partecipatoad ogni incontro) ha premiato la scelta dell’approccio interdisciplinare. Da un questionariodistribuito agli studenti nel corso del primo incontro e dalla valutazione finale del seminario,emergeva il forte interesse nonché il desideratum per un seminario che affrontasse da varieprospettive il ‘mare magnum’ che rappresenta oggigiorno la tematica della teoria e della prassi dellatraduzione.

Nell’intervento inaugurale del seminario,2 “Le maschere di Leopardi e l’esperienza deltradurre”, Franco Nasi parla dell’esperienza traduttiva di Giacomo Leopardi il cui pensierooriginale, in questo campo specifico, nella critica viene spesso offuscato dai più noti poeti romanticie teorici tedeschi, quali Friedrich Hölderlin, Friedrich Schleiermacher e Wilhelm von Humboldt,per citarne solo alcuni. Nasi dimostra in che modo l’esperienza del tradurre abbia influito anchesulla poetologia e sulla prassi poetica dello stesso Leopardi che pubblicò poesie anticheggianti sottopseudonimi antichi, dimostrando il “ruolo [non] ancillare e sussidiario [della traduzione] rispettoalla produzione poetica creativa nella storia della letteratura di una nazione”.

Nel suo intervento dal titolo “L’etica del tradurre”, Emilio Mattioli tocca un tema moltodiscusso ultimamente negli studi di traduttologia. Richiamandosi al pensiero del teorico franceseAntoine Berman (L’épreuve de l’étranger, 1984), mette in guardia da ogni tentazione di una

1 M. Heidegger, Parmenides, in Gesamtausgabe, II. Abteilung: Vorlesungen 1923-1944, vol. 54, Frankfurta.M., V. Klostermann, 19922, pp. 17-18, §1 b (v. anche la traduzione italiana: M. Heidegger, Parmenide, a cura di F.Volpi, trad. di G. Gurisatti, Milano, Adelphi, 1999, pp. 47-48).

2 L’ordine dei contributi qui raccolti rispecchia l’ordine cronologico in cui sono state tenute le rispettiverelazioni all’interno del seminario, con l’unica eccezione del mio contributo che sostituisce un intervento della collegaClaudia Buffagni. La pubblicazione è dedicata al grande poeta (e traduttore) fiorentino, Mario Luzi, scomparso pochigiorni prima che cominciasse il seminario.

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traduzione etnocentrica che “sotto l’apparenza della trasmissibilità, opera una negazione sistematicadell’estraneità dell’opera straniera”.

L’intervento di Gulliermo Carrascón, “L’errore di traduzione: una prospettiva didattica”fornisce una panoramica esaustiva dei vari concetti e delle svariate tipologie dell’errore nellatraduzione, presenti negli studi di traduttologia, adducendo numerosi esempi concreti, come adesempio quello del titolo del Don Quijote di Cervantes nella traduzione italiana.

Maria Carreras i Goicoechea, nel suo intervento ““La bomba al panzanio” di Stefano Benni:tradurre l’ironia”, si occupa di uno dei maggiori problemi di traduzione letteraria (ma non solo),cioè il tradurre testi da tratti altamente ironici, portando come esempio un articolo di giornalefortemente polemico di Stefano Benni, scritto in occasione dello scoppio della Seconda Guerradell’Iraq nel marzo del 2003.

Laura Gavioli, presentando una conferenza dal titolo “Tradurre parlando: alcuni esempi ditraduzione dialogica”, discute gli aspetti specifici della traduzione orale (l’“interpretazione”), inpassato trascurata dalla traduttologia che predilegeva lo studio della traduzione scritta, riportandoesempi empirici di interpretariato, evidenziandone i problemi peculiari.

Nel suo intervento “Tradurre l’identità – l’identità della traduzione. Lo scrittore e il suodoppio: il traduttore. Palomar al museo dei formaggi di Italo Calvino”, Aleardo Tridimonti affrontail tema della traduzione come mediazione tra due culture, esemplificandolo con il Palomar di ItaloCalvino e mettendo in risalto il ruolo del traduttore come ‘secondo autore’.

L’intervento di Demetrio Giordani, “Viaggiatori musulmani tra i due mondi. Il tema delMi‘râj nella letteratura medievale in Oriente e in Occidente”, tratta il tema del viaggio nelle operedella letteratura medievale araba e le loro traduzioni nelle lingue occidentali, in particolare in latino.Ne emerge un affascinante viaggio da Il Libro Della Scala di Maometto alla Divina Commediadantesca fino all’Orlando furioso ariostesco.

Luigi Ballerini, nella sua conferenza “Pellegrino Artusi “tradotto” da Giuliano della Casa”,parla dell’edizione einaudiana dell’Artusi del 2001, corredata dalle “traduzioni” delle ricette inpittura da parte del pittore emiliano Giuliano della Casa, mettendo in evidenza i cambiamenti dovutia tale passaggio intersemiotico dalla letteratura alla pittura, e il loro gioco dialettico che nescaturisce.

Giuseppe Palumbo affronta il tema “Il ruolo centrale della traduzione specializzatanell’evoluzione degli studi sulla traduzione”, sottolineando l’importanza della traduzionespecializzata per lo sviluppo della traduttologia, oramai definitivamente “affrancatasi dal legamecon gli studi letterari”.

Last but not least, il sottoscritto, presentando un intervento dal titolo “La traduzione italianadi Sebastian Haffner, Geschichte eines Deutschen: problemi e curiosità”, discute la traduzioneitaliana di un’autobiografia di un giornalista e saggista storico tedesco, Sebastian Haffner, la qualeha suscitato molto scalpore in Germania quando è stata pubblicata nel 2000. Ripercorrendo la storiaeditoriale del libro, l’autore mette in luce quanto sia importante per un traduttore la genesi di untesto letterario e non, al fine di poterlo tradurre adeguatamente.

Come l’anno scorso, vorrei infine ringraziare tutti i relatori per la loro squisita disponibilitàche ha reso possibile lo svolgimento regolare del seminario. Un particolare ringraziamento va alcollega e amico Franco Nasi per i suoi suggerimenti sempre pertinenti. Dulcis in fundo, vorreiesprimere la mia gratitudine a Giovanna Procacci per il suo prezioso e sempre competenteappoggio, senza il quale la pubblicazione del presente volume non sarebbe stata possibile.

Modena, marzo 2006 Hans Honnacker

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FRANCO NASILe maschere di Leopardi e l’esperienza del tradurre

Ero giovane, così, naturalmente,dovevo travestirmiJ. L. Borges

Le api saccheggiano i fiori qua e là, mapoi ne fanno il miele, che è tutto loroM. de Montaigne

Secondo Antoine Berman la traduttologia non è una teoria della traduzione intesa come“sapere obiettivante e esteriore”, ma è “l’articolazione cosciente dell’esperienza della traduzione”,ovvero una “riflessione della traduzione su se stessa a partire dalla sua natura di esperienza”.1Berman spiega che cosa intende per esperienza citando un passo di Heidegger tratto da Unterwegszur Sprache:

Fare un’esperienza con quel che sia (…) vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggiunga, cipiombi sopra, ci rovesci e ci renda altro. In questa espressione, “fare” non significa, appunto, che noisiamo gli operatori dell’esperienza; fare vuol dire qui, come nella locuzione “fare una malattia”,passare attraverso, soffrire da cima a fondo, sopportare, accogliere ciò che ci raggiungesottomettendoci a lui.

Il soggetto che “subisce” l’esperienza non è estraneo all’esperienza stessa, ma si trasforma con essa.Meno sofferta, ma per certi versi simile, è l’esperienza del cibo. Mangiando qualcosa citrasformiamo e ciò che mangiamo diventa parte di noi. Ogni esperienza con il cibo ci porta adacquisire una conoscenza nuova, sia di ciò che mangiamo sia delle nostre risposte, fisiologiche o digusto. Come il nostro corpo cambia continuamente, e con esso le nostre reazioni al cibo, cosìcambiano anche i modi in cui comprendiamo, in cui accogliamo in noi i testi letterari e litraduciamo. La similitudine del traduttore come cannibale “che divora il testo di partenza in unrituale il cui fine è la creazione di qualcosa di completamente nuovo”, introdotta dai traduttoribrasiliani e ricordata da Susan Bassnett (1993),2 rientra nella stessa famiglia d’immagini chesottolineano come ogni elemento nel processo (non solo il testo, dunque, ma anche il traduttore, e dicerto anche la percezione che abbiamo dell’autore e del testo originale) subisca una trasformazione.

L’esperienza della traduzione di un testo letterario, dunque, non può lasciarci comeeravamo, così come non può lasciare inalterata la nostra riflessione sull’esperienza del tradurre,quella che Berman chiama, appunto, traduttologia. Al contrario, l’imposizione di una teoriadogmatica all’esperienza del tradurre, una teoria che muove dalla definizione di che cosa deveessere la traduzione, che cosa deve fare il traduttore, renderà ogni esperienza traduttiva unatautologia: non faremo esperienza dell’altro, ma reitereremo l’esperienza di un io sterile e chiuso insé che guarda l’altro, qualunque esso sia, con le stesse lenti deformanti, imponendosi all’altro.

Le teorie sulla traduzione, così come i sistemi filosofici chiusi e definitivi, dannol’impressione di grande solidità e scientificità, ma mostrano spesso un’asettica indifferenza neiconfronti dell’esperienza. Le riflessioni non sistematiche di chi passa faticosamente attraversol’esperienza del tradurre sembrano invece vibranti di vita anche perché segnate da contraddizioni,incertezze, affermazioni e smentite, tutti segni di quella provvisorietà di cui è sostanziata l’esistenza(e la traduzione). I poeti che traducono i poeti e che sanno riflettere sulla loro esperienza di

1 Berman (2003), p. 16.2 Bassnett (1993), p. 5.

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traduzione offrono in questo senso materiali preziosissimi alla traduttologia. Anche la cultura dilingua italiana ha avuto i suoi Novalis e Hölderlin, basti pensare alle intense pagine di Foscolo sulletraduzioni omeriche dei primi dell’Ottocento o, nel Novecento, alle riflessioni di Giudici sulla suaversioni di Puškin3 o di Luzi su Mallarmé.4 Queste riflessioni sono ancor più interessanti quandomostrano come l’esperienza del tradurre trasformi anche lo stile e le poetiche di questi poeti.Studiare le influenze del tradurre nella definizione delle poetiche costituisce un percorso ricco disorprese, anche nel caso dei nostri maggiori da Leopardi a Pascoli a Caproni. Come scrivevaAnceschi in un intervento sul “verri” del 1960:

Le traduzioni ci danno il tono, la misura, il diretto significato del modo di leggere di un secolo, di unmovimento letterario, di una personalità: quel modo di leggere, quel gusto particolare che nel discorsocritico esige di essere trasposto, sia pure per immagini, in un ériger en lois, qui può essere datoimmediatamente nel modo con cui nel passaggio dal testo originale al testo tradotto si sottolineanocerte ragioni formali, se ne trascurano, ignorano, dimenticano altre.5

Un caso esemplare che mostra la continua e sollecitante complementarità fra traduzione ecreazione è il giovane Leopardi. Già De Sanctis, nelle sue fondamentali lezioni del 1876, aproposito della traduzione del quinto idillio di Mosco, aveva chiarito quanto la traduzione siadecisiva per il poeta di Recanati:

Questa non è una traduzione, è poesia originale, e direi profetica. Perché qui c’è già un primo indiziodella maniera leopardiana: la base idillica della sua anima e del suo canto, la prima e tenue corda diquello che un giorno sarà una orchestra.6

L’interesse per la riflessione di Leopardi sulla traduzione è invece più recente, e non è privo dimomenti particolarmente fecondi come gli studi di Emilio Bigi, Antonio Prete, Pino Fasano, ol’utile recente compendio di Simonetta Randino, solo per citarne alcuni. Le pagine come sempreilluminate dello Zibaldone, le note che frequentemente Leopardi premette alle traduzioni cheintende pubblicare, le traduzioni stesse e le recensioni costituiscono un materiale prezioso perindagare a fondo l’esperienza e la riflessione di uno scrittore che non finisce mai di stupire per lasua singolarissima forza profetica.

Cercherò, qui di seguito, correndo un poco e trascurando molti testi importanti, di inoltrarmiper un piccolo tratto di questo intricato percorso, fatto di esperienze (I) e di riflessioni (II), che portail giovanissimo Leopardi a cimentarsi nella invenzione/traduzione di alcuni frammenti per poigiungere alla stesura della sua prima canzone, all’Italia, nascondendosi spesso con una maschera,una specie di schermo, che gli permette di pubblicare le sue prime prove poetiche quasi senzaesporsi (III). In questo percorso s’incontrano non solo curiose e ben architettate finzioni poetiche,ma anche momenti di originale e anticipatrice riflessione sulla traduttologia, a testimonianza di unacontinua e feconda hölderliniana “prova dell’estraneo”.7 Anche grazie a queste “prove di ascolto” ea queste sfide (ogni traduzione letteraria è una prova, una sfida) Leopardi giunge all’acquisizione ealla definizione del suo stile personalissimo, semplice e prezioso, così ben descritto nelle paginedello Zibaldone, e modello della poesia italiana del Novecento.

I. Esperienze. Nel 1815 Giacomo Leopardi, diciassettenne, traduce dieci poesie attribuite aMosco, autore greco del II sec. a.C. Nel Discorso sopra Mosco Leopardi nota che nello stile diMosco è presente una caratteristica che diventerà uno dei capisaldi della poetica del poeta diRecanati:

La natura nelle poesie di Mosco non è coperta dagli ornamenti, non è offuscata dalle frasi poetiche,non è serva dell’arte. (…) Mosco è un poeta civilizzato ma non corrotto; è un pastore che è sortito

3 Giudici (1982), p. X.4 Luzi in Buffoni (2004), p. 50.5 Anceschi (1960), p. 637.6 De Sanctis (1983), p. 36.7 Vedi Berman (1997), pp. 207 sgg.

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qualche volta dalla sua villa, ma che non ha contratto i vizi dei cittadini; è il Virgilio dei Greci, ma unVirgilio che inventa e non trascrive, e che inoltre canta in una lingua più delicata, e in un tempo checonserva alquanto dell’antica semplicità.8

Quello dell’“antica semplicità” e della contrapposizione ai modi artefatti della società è un tema cheritorna continuamente nelle pagine giovanili dello Zibaldone.9 Una scrittura antica nella suasemplicità non è frutto di un’intuizione libera e ingenua, ma piuttosto di una ricerca rigorosa eprolungata: “E lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si mettono a comporre: non iscrivonomica con semplicità e naturalezza (...): ma per contrario non ci si vede altro che esagerazione eaffettazioni e ricercatezze” (Zib., 20).10 Scrivere in modo artefatto o secondo affettazione, in poesia,coincide spesso con l’appiattirsi del poeta alle regole e alle norme della poetica dominante di uncerto periodo. Così il poeta anziché “inventare” “trascrive”, si adatta alla norma, segue fedelmenteil modello in voga in quel momento, e trova in esso una omologante protezione.

I.1 Leopardi traduttore accoglie appieno lo stile “degli ornamenti” o della dizione poeticacondivisa in alcune versioni giovanili. Emblematica è la sua traduzione del frammento 168B diSaffo, databile tra il 1814 e il 1816, e pubblicato a Recanati nel 1816 in un opuscoletto assieme adaltre sette versioni dal greco in occasione delle nozze Santacroce Torri:

Oscuro è il ciel: nell’ondeLa luna già s’asconde,E in seno al mar le PleiadiGià discendendo van.

È mezzanotte, e l’oraPassa frattanto, e solaQui sulle piume ancoraVeglio ed attendo invan.11

Si capisce bene quanto questa prova sia poco più di un esercizio di stile se si confronta con unarecente traduzione in prosa di Ferrari:

È tramontata la luna con le Pleiadi, la notte è al mezzo, il tempo trascorre, e io dormo sola.12

oppure con una in versi, quasi coeva, di Foscolo (1794):

Sparìr le PleiadiSparìo la luna,È a mezzo corsoLa notte bruna. Già fugge rapidaOgni ora, e intanto,Sola in le piume,Io giaccio in pianto.13

È evidente che la scelta di una forma chiusa, in Leopardi come in Foscolo, caratterizzata da unsistema preciso del metro, degli accenti e delle rime, dà alle versioni una facile musicalità. Laversione di Leopardi sembra, fra le due, quella meno sciolta. Introduce un’immagine (il mare in cuiscompaiono la luna e le Pleiadi) non presente nell’originale; insieme alle zeppe (come “ancora”),

8 Leopardi (1988), I, p. 480.9 Vedi Anceschi (1992).10 Leopardi (1969), p. 14.11 Leopardi (1988), I, p. 898.12 Saffo (1987), p. 233.13 Foscolo (1976), p. 251.

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alle apocopi “mar” e “ciel”, così come quelle finali delle quartine (“van” e “invan”) sembranoartifici forzati, utili solo per far quadrare il cerchio della misura metrica assunta (quartine disettenari piani, con la sola eccezione di un settenario sdrucciolo, e gli ultimi versi tronchi). Lo sicapisce anche semplicemente contando le parole (un criterio che non spiega molto ma che dà contodella capacità di restare più o meno aderente all’economia del dettato poetico dell’originale): le 17del testo originale in greco di Saffo diventano 19 nella versione di Ferrari, 28 in Foscolo e 38 inLeopardi. Un altro luogo retorico consolidato è la metonimia delle piume per il letto. Sia Foscolosia Leopardi l’adottano quasi fosse il solo modo codificato dalla poesia per riferirsi al luogo equindi all’atto del dormire. Come è noto, la poesia è stata in molte occasioni della sua storia unalotta fra norme convenzionali e impulsi a dire in modi nuovi. Nel caso della versione di Saffo noncredo che l’attività di Leopardi come traduttore sia di alcun rilievo critico, se non come una tesseraper ricostruire il mosaico della sua biografia intellettuale: la lotta fra l’impulso al nuovo el’adeguamento alla norma è qui vinta dalla seconda intenzione. Già De Sanctis aveva evidenziato leincertezze che caratterizzano questo volgarizzamento leopardiano: “‘Cielo oscuro’ e ‘notte negra’sono fratelli carnali – scrive il critico napoletano – e il tramonto della luna e delle Pleiadi è descrittocome se Saffo lo guardasse dalle piume, e “frattanto”, “ancora”, “invan” sono rimpinzamenti inutilidi poeti tironi”; in Saffo vi è una “Divina semplicità, che ha la sua espressione e il suo motivonell’ultimo verso, il sentimento della solitudine nel silenzio della notte… Semplicità non sentita qui,e guasta da ricami e da ripieni.”14

I.2 Altro discorso va fatto per la traduzione del quinto idillio di Mosco. Anche in questo caso,seguendo alcune indicazioni di metodo di Berman,15 si può lasciare da parte inizialmente ilconfronto con il testo originale, per concentrarsi sull’organicità del testo di arrivo e sullacomparazione con una versione quasi contemporanea della stessa composizione. Si tratta dellatraduzione di Luigi Rossi (1764-1824), apparsa per la prima volta nel 1795 e ripubblicata nel 1809,in un elegante volumetto dedicato (e mi sembra doveroso ricordarlo in questa sede) “al conteGiovanni Paradisi, presidente degli Studi di Reggio”. Nell’idillio quinto si parla delle diversereazioni (di oblio, di paura, o di abbandono sognante) che l’io poetico prova di fronte al mare oracalmo ora in tempesta e alla terra calma o battuta dal vento:

Quando il vento lieve lieveSferza il glauco ondoso letto,Il cor timido nel pettoSento scotersi e balzar.

Né conforto ormai ricevedalla terra in pria diletta:Più la vista allor l’allettaDel tranquillo immenso mar.

Ma qualor bianco rimugge,E s’incurva il salso pianoE rigonfio il flutto insanoL’atre spume incalza al suol,

Dal mar l’alma allor rifugge,Lunge io scampo, e il guardo erranteAlla terra, ed alle pianteRimirar mi giova sol.

14 De Sanctis (1983), pp. 28-29.15 Si veda Berman (2000).

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La campagna a me divieneFida sede, e dove invitaD’alto bosco ombra gradita,Mi sollecita il pensier.

Là, se ancora a romper vieneQue’ silenzj un vento alpino,Parmi il fremito del pinoBel concento lusinghier.

Pescatore sventurato!Cui la barca è casolare,D’esercizio è campo il mare,Preda incerta i pesci son.

Sotto un platano comatoper me il sonno amo, e d’un rio,Che al villano un dolce obblio,Non terrore apporta, il suon.16

Il testo di Mosco è giunto a noi senza titolo. In francese, ricorda Leopardi, era stato tradottomalamente da M. Poinsinet de Sivry, che lo intitolò La paresse, titolo che il poeta recanateseavrebbe ripreso “se i termini italiani di pigrizia, infingardaggine, poltroneria, non mi fosserosembrati troppo grossolani per un Idillio di Mosco, che però amai meglio lasciar senza titolo”.17

Ecco la versione del 1815 di Leopardi:Quando il ceruleo mar soavementeIncrespa il vento, al pigro core io cedo:La Musa non mi alletta, e al mar tranquillo,Più che alla Musa, amo sedere accanto.Ma quando spuma il mar canuto, e l’ondaGorgoglia, e s’alza strepitosa, e cade,Il suol riguardo, e gli arbori, e dal mareLungi men fuggo: allor sicura, e saldaParmi la terra, allor in selva oscuraSeder m’è grato, mentre canta un pinoAl soffiar di gran vento. Oh quanto è tristaDel pescator la vita, a cui la barcaÈ casa, e campo il mare infido, e il pesceÈ preda incerta! Oh quanto dolcementeD’un platano chiomato io dormo all’ombra!Quanto m’è grato il mormorar del rivo,Che mai nel campo il villanel disturba!18

Se dovessimo guardare soltanto alla regolarità e al virtuosismo delle soluzioni metriche, allora laversione di Rossi sarebbe senz’altro da preferire: quartine di ottonari piani con l’ultimo tronco e unoschema di rima (ABBC - ADDC) che si ripete ogni due quartine. Un intreccio minuziosamentecostruito, di fronte al quale l’endecasillabo sciolto di Leopardi, reso ancor meno cadenzato dainumerosi enjambement, potrebbe apparire prosastico. Eppure, credo che all’orecchio di tutti noi,oggi, la versione di Leopardi suoni meno artefatta, assai più semplice, naturale; in una parola:“poetica”. Questo giudizio non si basa su una comparazione fra testo originale e testo in traduzione,ma semplicemente sull’ascolto dei nuovi idilli di Mosco in italiano. Come dice Berman: “Solo la

16 Rossi (1809), p. 125.17 Leopardi (1988), I, p. 476.18 Ivi, p. 509.

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lettura della traduzione permette d’intuire se il testo tradotto regge. Reggere assume qui un duplicesignificato: reggere come lavoro scritto nella lingua ricevente, per cui la qualità della scrittura nondeve essere inferiore alle norme standard; reggere inoltre, al di là di questa esistenza basilare, comeun vero testo (sistematicità, correlatività, organicità di tutti i suoi costituenti). Quello che la riletturascopre o non scopre è il grado di consistenza immanente al di fuori di ogni relazione con l’originale,nonché il suo grado di vita immanente”.19 Il testo regge dunque per il lettore di oggi se le scelteformali del traduttore corrispondono al modo di leggere di una cultura, al gusto particolare di unsecolo. Se alla poesia di Metastasio o dell’Arcadia preferiamo oggi i ritmi di Saba, Montale oMagrelli, se questo tono poetico e non quello suona più lirico al nostro orecchio, è probabile che ilnostro giudizio estetico considererà migliore, o più poetica, la versione di Leopardi rispetto a quelladi Rossi. Un lettore oggi, dopo che la poesia di Leopardi è stata la poesia canonica dell’Ottocento edopo che gran parte del Novecento si è rifatto a quella lezione, probabilmente legge con più piaceree meno senso di spaesamento l’Idillio quinto di Mosco tradotto da Leopardi, mentre nel 1815 ilfavore dei lettori andava probabilmente a Rossi. Leopardi stesso ricorda la fortuna della traduzionedi Rossi nel suo “Discorso su Mosco”:

La raccolta di alcuni Idilli di Teocrito, Mosco e Bione volgarizzati in rima dal sig. Luigi Rossi,ristampata elegantemente in Padova dal Bettoni nel 1809 col testo originale, è troppo recente e tropponota perché faccia d’uopo parlarne.20

Questo esempio ci permette di affermare che un’indagine sulla traduzione di una poesia non puònon considerare la storia della retorica della lingua in cui quella poesia è tradotta: una traduzionesarà più o meno riuscita, più o meno utile quanto più saprà restituire la compattezza e inscindibilitàdi senso e forma dell’originale in compattezza e inscindibilità di senso e forma nella lingua d’arrivo.Ma non bisogna dimenticare che non sempre le migliori traduzioni sono quelle che rispondono alleaspettative del lettore, cioè alle sue abitudini estetiche, così come non sempre, o quasi mai, le opered’arte riuscite sono quelle che hanno successo immediato. Se non si avverte alcun senso di sorpresa,se tutto è come deve essere, se non c’è alcun sobbalzo del sentimento che proviene, noninfrequentemente, dal nuovo, dalla rottura di una modalità percettiva codificata, allora è probabileche ciò che abbiamo di fronte (quadro, poesia, traduzione) sia una buona opera, ma non un’operadestinata a segnare una tappa nella storia delle istituzioni letterarie.21 Il senso di stupore che si provadavanti a versi importanti è dato non solo da quello che ci viene detto (spesso le cose che ci dicono igrandi autori sono le stesse che ci dicono le persone che incontriamo al mercato) ma dal modo incui è detto. Il modo in cui si dice è quello che si dice. Leopardi, con questa traduzione, cosìsemplice e sentita, per nulla atteggiata o in posa, si avvicina a quelle norme del suo proprio farepoetico (dell’indeterminatezza, della vaghezza, della evocatività, della musicalità interiore) checostituiranno i capisaldi della sua poetica e che si imporranno come modello forte nella poesiaitaliana, plasmando così il nostro gusto e indirizzando le nostre valutazioni estetiche. Liberarsi dauna forma chiusa come quella scelta da Rossi e scegliere di tradurre in endecasillabi sciolti ancheuna breve lirica non è una scelta assolutamente innovativa, ma certo, a differenza di quanto si èvisto nel caso della breve versione del frammento di Saffo, va in quella direzione.

I.3 Esperienza della traduzione e riflessione sul tradurre si intrecciano in un terzo caso, quellodella versione dei Salmi. Nel 1816 Leopardi scrive per lo “Spettatore italiano” una lunga recensioneintitolata Parere sopra il Salterio ebraico. Il volume, oggetto della recensione, pubblica i salmi inquattro versioni che corrono tutte verticalmente, come testi a fronte paralleli. Nella prima colonna èriprodotto il testo ebraico, nella seconda la versificazione del Commendatore GiovambatistaGazola, nella terza la “italianizazione” (sic) dell’abate Giuseppe Venturi e infine una serie diannotazioni (un quarto testo che riporta le traduzioni letterali di quelle espressioni che Venturi

19 Berman (2000), p. 51.20 Leopardi (1988), I, p. 490.21 Si veda Jauss (1999).

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aveva ritenuto di dover addomesticare nella “italianizzazione”). L’abate, in una nota introduttiva,traccia una breve storia delle traduzioni dei Salmi e dichiara di aver scelto di pubblicare una“italianizazione” (sic) e non una parafrasi. Queste ultime per Venturi sono forme eccessivamentelibere in cui gli autori per rendere più “concatenata” la loro versione, introducono delle “loroaggiunte” e in esse “vi si affoga il testo, talvolta da non più ravisarsi, e fan per lo più passare persentimenti degli autori ispirati molti dei propri; e se non altro con una prolissità tutta affattocontraria al laconismo di quelle stringatissime composizioni ne levano la vibratezza ed il verbo, nélasciano più ravvisare il cantore di Zionne” (Salterio 1816, VIII). Venturi stabilisce così una scaladi possibilità traduttive che va dalla versione interlineare (le annotazioni), alla italianizzazione (“mison servito del verbo Italianizzare e suoi derivati, che so bene non trovarsi nel Dizionario”, Salterio1816, IX), alla parafrasi (non presente qui, ma possibile come forma di riscrittura) e, infine allaversificazione. La riscrittura poetica è affidata a Gazola, che in una nota Al lettore dichiara diessersi assunto il “dovere di adottare e possibilmente imitare la varietà dello stile ch’ènell’originale, dove semplice dove ornato dove sublime” e di avere utilizzato “quale tra i metriitaliani più vi corrispondesse… e conservando scrupolosamente la divisione dei versetti… di modoche questi Salmi nell’italiano possono recitarsi a coro” (Salterio 1816, XV). Si hanno così varieforme poetiche: dalla canzone alfabetica, agli epigrammi alfabetici, al sonetto, quartine, ottave,selva, metro ebraico, terzine ecc. fino a due salmi resi in endecasillabi sciolti.

Le note introduttive mostrano l’avvedutezza con cui i due traduttori operarono, ma questo nonattenua il giudizio tranchant del giovane Leopardi rivolto non tanto all’italianizzazione di Venturi(che nonostante alcune imprecisioni notate con puntiglio tuttavia “rimane utilissima e degnissimad’esser letta, e lodata da qualsiasi dotto”), ma alle artificiosità delle soluzioni formali adottate dalCommendator Gazola:

Veggo che ora mi convien parlare della versione poetica (…) e mi spiace, perché lettala purora, io son tutto ghiaccio (…). Gran freddo è ciò che io ho sentito in correndo questi paesiEbreo-Italiani, e so di certo che tutto il debbo alle leggi severissime, che come ne fa avvisatiegli stesso, ha creduto doversi imporre il Sig. Commendatore; empie leggi contra le quali nonposso adirarmi a bastanza.

Poco importa al lettore che il metro della traduzione somigli quello che si pretende scorgerenel testo; pochissimo, che la versione serbi la distinzion de’ versetti che è nell’originale;niente che i salmi, alfabetici o acrostici nel testo, il siano altresì nella traslazione: ma moltoche il traduttore si vegga acceso, avvampato dal fuoco dell’originale; moltissimo che latraduzione conservi la semplicità, la forza, la rapidità, il calore della fantasia orientale eprofetica, (…) sommamente che la versione il commuova quasi come il commuoverebbel’originale, e come forse il commuove alcuna interpretazione in prosa che non ha altro pregioche la fedeltà, e la stessa Vulgata. Le troppe difficoltà (delle quali io penso sia stata lamassima quella della rima, con cui sembra impossibil cosa fare una buona traduzione, e chepure in questa sorta di poesia per nostra mala ventura appar necessaria) han fatto, se io nonerro, che il terribil mediocre si affacci alle labbra di chi legge questa versione (…).22

I toni e i contenuti della critica, così come le immagini sono romantiche (la poesia deve avvampare,le leggi severissime della dizione poetica invece ghiacciano, lasciano indifferenti); le notazioni sullapoesia sono tipicamente leopardiane (la traduzione deve conservare “la semplicità, la forza, larapidità…”); si indica inoltre nell’autoimposto vincolo della rima una delle cause principali dellamediocrità della traduzione. Quando la preoccupazione principale del traduttore è di “cercare lerime”, di “dare al verso la giusta misura”, allora il traduttore non è “uomo ispirato”23 e il lettoreresta indifferente. L’analisi di Leopardi continua con l’individuazione di una serie, a suo avviso,inutile di allungamenti, per concludersi poi con la citazione di alcuni versi invece ben riusciti, doveGazola “ha sparso rime a suo talento” sottraendosi in qualche modo ai vincoli ferrei delle forme

22 Leopardi (1988), II, pp. 914-915.

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poetiche chiuse, e con una notazione finale sull’efficacia poetica dell’endecasillabo sciolto: “Nondubito che i due salmi trasportati (…) in versi sciolti, non siano assaissimo migliori degli altri”.24

La considerazione sulla versione poetica di Gazola testimonia degli approfonditi studi sullalingua ebraica intrapresi da Leopardi, ma anche della sua riflessione sullo “stile” del tradurre che siintreccia, anche in questo caso, con una precedente esperienza di traduzione. Alcuni mesi primaGiacomo e il fratello Carlo avevano portato a termine una sorta di esperimento traduttivo: si trattavadi sette diverse versioni (greco, latino letterario, latino metrico, italiano, spagnolo, francese, inglese)del Salmo 46 (47 nella numerazione ebraica), con Giacomo probabilmente responsabile delle primequattro e Carlo delle altre tre. Il testo non fu pubblicato (appare solo nel 1979 grazie al lavoro diOrnella Moroni) anche perché Carlo Antici, su indicazione dell’erudito romano FrancescoCancellieri, dissuase il padre Monaldo dal finanziare la pubblicazione, considerandolo pocorilevante.25 Forse, nella severa critica a Gazola Leopardi fa tesoro anche della sua esperienza ditraduttore e della probabile insoddisfazione per il proprio tentativo giovanile. Un breve confrontofra l’italianizzazione di Venturi e le versificazioni di Gazola e Leopardi mostrerà, da sola, quanto lecritiche di inutili “allungamenti” (per quanto possa valere, 41 sono le parole nell’italianizzazione,55 in Gazola, 60 in Leopardi), di eccessiva fredda e calcolata osservanza delle norme metriche edella rima, che Leopardi rivolge a Gazola nella recensione si possano rivolgere anche alla versioneche Leopardi stesso aveva da qualche mese terminato:

(Abate Venturi)Tutti o popoli, battete palma apalma: /Esultate in Dio con voci dicontentezza. /Poiché l’altissimo IDDIO eterribile, il /Re possente su tutta la terra, /Adduce i popoli sotto di noi; e faprostrarsi /Le nazioni ai nostri piedi.

(Gazola)Tutti popoli battete / Esaltantipalma a palma: /Lieta l’alma – a Dio volgete /Fra concenti di piacer. //Poiché IDDIO (che i cieliascende /Dio tremendo, che l’impero /Sull’intero mondo stende /Infinito in suo poter) //Terre e genti in pria straniere /Sotto il nostro scettro adduce: /E conclude – armate schiere /Tributarie al nostro piè. //

(Leopardi)Palma con palma orsù battete, ogenti, /E delle voci dell’applaudirsincero /Mescete il suon de’ musicistromenti. //Altissimo, infinito, immensoimpero /Ha il Dio che regna sull’etereevolte, /Il Dio che regge l’universointero. //Cento nazioni e cento egli haraccolte, /Sotto le nostre leggi, al nostropiede /Li soggettolle, ei l’ha di ceppiavvolte. //

È poco più di un’ipotesi, ma pare proprio che l’esperienza di traduttore, anche in questo caso, abbiaconsentito una più avveduta e profonda riflessione sullo stile e la poetica del tradurre, con alcune

23 Ivi, p. 915.24 Ivi, p. 919.25 Lettera del 30.1.1816 in Moroni (1979), pp. 430-432.

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importanti indicazioni anche sulle scelte di poetica (relative alla forma metrica, al lessico,all’economicità dell’enunciato) che saranno in seguito codificate nella pratica creativa.26

II.1 Riflessioni. Non meno preziosa fu l’esperienza traduttiva del secondo canto dell’Eneide; inparticolare il confronto con la versione canonica di Annibal Caro, sulla quale Leopardi scrivealcune considerazioni di rilievo sia nella Premessa che accompagna la pubblicazione della versionedel 1817, sia nel “preambolo” alla Titanomachia di Esiodo apparsa sullo “Spettatore italiano” nelgiugno del 1817. Anche in questo caso sarebbe utile fermarsi prima sulla comparazione delle sceltelessicali, sintattiche, metriche dei due traduttori per poi procedere all’esposizione delleconsiderazioni leopardiane. Ma forse sarà sufficiente rimandare a una lettura ad alta voce delle dueversioni della descrizione della drammatica scena di Laoconte e dei figli ghermiti dagli orrendidraghi marini. Non si può dire certo che Annibal Caro non mostri di esser poeta.27 La sua versionecorre con un ritmo incalzante, come incalzante e drammatica è la scena descritta. Assai più dellatraduzione di Leopardi. Ma è proprio questo che Leopardi contesta ad Annibal Caro:

Io trovo vizioso il maggior pregio della traduzione del Caro. Il quale sta in quella scioltezza, o voletedisinvoltura, che fa parere l’opera non traduzione, ma l’originale. E questa s’ha procacciata il Caro conusar parole e frasi al tutto proprie della lingua nostra, e modi non ignobilmente volgari, che dannoall’opera un calore di semplicità vaghissima e di nobile famigliarità. …. Ma questa semplicità e questafamigliarità per essere lecitamente scelte dal Caro a qualità principali della sua traduzione, doveanocerto essere qualità principali dello stile di Virgilio. Ora voi aprite l’Eneide, e di queste in genere nontrovate niente o quasi niente, ma invece un dire sempre grande, sempre magnifico, sempresegnalatamente nobile, sempre superiore a quello del comune degli uomini. Questo risulta e vi dà negliocchi, e questo chiamate carattere dello stile virgiliano, il quale ognuno raffigura a quel colore pateticodato costantemente a che che sia, e a quell’oro in cui sono legati anche i ciottoli: dove il Caro perché lasua traduzione corra sempre libera e spedita, s’adopera a fare bellamente famigliari anche i luoghinobilissimi; e questo chiamate carattere del suo stile. Laonde questi due caratteri sono se non opposti,certo disparatissimi. Ora s’egli è obbligo stretto del traduttore il conservare anche i minutissimilineamenti del testo, l’averne tramutato il distintivo e la proprietà principale, certo sarà un granpeccato. Per tanto il Caro non mai letto né studiato abbastanza, a me pare che sia da imitar con moltogiudizio come traduttore…28

Siamo qui entrati in pieno nelle considerazioni più interessanti di Leopardi come teorico dellatraduzione. Per Leopardi la fedeltà allo stile del testo di partenza, obiettivo irrinunciabile, vaperseguita proponendo un modello stilistico omologo fra le poetiche presenti nel panoramaletterario della lingua d’arrivo. Per Virgilio non serve lo stile semplice, familiare e leggiadro diCaro, ma quello più nobile e austero di Parini: “Dovrebbe un traduttore di Virgilio studiareassaissimo il Parini, e quanto più al Pariniano s’accostasse, tanto più avrebbe del Virgiliano”. Inquesto modo si potrebbe far “a Virgilio far parlare l’italiano virgilianamente”.29 La lingua italiana, adifferenza di quella francese, permette secondo Leopardi il massimo di adattabilità alle lingue

26 Probabilmente nello stesso anno o, come ipotizza Mario Verducci, nel 1817, Leopardi tenta una traduzione

tetraglotta (latino, francese, italiano, greco) anche del Salmo 132 (133). Il testo, conservato fra le Carte Leopardianenella Biblioteca Nazionale di Napoli, è stato pubblicato per la prima volta da Verducci nel 1991. La versione italiana,che qui più ci interessa, è in quattro strofe – due quinari e due sestine alternate – di settenari quasi sempre sdruccioli conl’ultimo verso di ciascuna strofa tronco. Il ritmo della versione è ancora piuttosto meccanico e rigido: “Oh quanto, ohquanto al tenero / Cuor di fratelli unanimi, / Oh quanto è dolce il vivere / In un commun ricovero / In pace, inamistà…”). Secondo Verducci, degne di nota sono tuttavia alcune soluzioni lessicali che permettono di esprimere perquesta seconda traduzione di Leopardi un giudizio più positivo rispetto alla prima prova sul Salmo 46 (Verducci (1991),p. 10).

27 La disputa cinquecentesca sull’adozione dell’endecasillabo sciolto per il genere epico, anziché ilmantenimento della più attestata ottava rima, è troncata d’autorità dalla traduzione del Caro, a riprova del fatto che letraduzioni non svolgono solo un ruolo ancillare e sussidiario rispetto alla produzione poetica creativa nella storia dellaletteratura di una nazione (si veda Giuliani (1992), p. 13).

28 Leopardi (1988), I, pp. 592-593.29 Ivi, p. 594.

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straniere: più che imporsi alle lingue straniere e piegarle alla propria rigida sintassi, consente inveceun’elastica adattabilità (Zib. 92-94 e 963-970). In questo spettro il traduttore deve cercare di forzarequesto congegno, considerando non già le abitudini dei lettori, ma le esigenze del testo dipartenza.30 La semplicità, che in Mosco, ma anche in Esiodo viene esaltata come segno di poeticitàcontro l’affettazione di maniera della dizione poetica, è qui vista come un limite. I testi non vannotradotti tutti allo stesso modo, seguendo le categorie stilistiche di moda: se un poeta straniero usauno stile sublime, si dovrà trovare nella gamma degli esempi di poetiche nella lingua di arrivo unostile che sia il più possibile capace di rendere quello stile. Sembra una posizione dettata dal buonsenso, e forse lo è, ma, purtroppo, capita spesso di leggere traduzioni che riducono gli stili dei testidi partenza a un unico stile nella lingua di arrivo. E quello stile può coincidere a volte con unafacilmente criticabile langue du bois, come la chiama Meschonnic, cioè un traduttese neutro e privodi vita.31 Altre volte invece può succedere che la poetica del traduttore sia talmente esuberante daimporsi ai diversi autori facendo perdere loro la specificità e rendendoli omologhi alle peculiaritàdella poetica dello scrittore-traduttore. Un esempio di questa pesante, a volte intollerabilesovrapposizione, la troviamo in Aldo Busi, traduttore geniale, ma anche sopraffattore esoverchiatore di Boccaccio.32

II.2 Nelle riflessioni sulle versioni da Luciano (già studiate da Mattioli)33 Leopardi mostra conchiari esempi la sua intenzione di preservare il più possibile la complessità del testo originale siaquando si affronta la versione di singole parole sia quando in questione è la ritmica di una sentenza.Così nello Zibaldone (12) una lunga riflessione riguarda la traduzione di un neologismo di Luciano:

Un’osservazione importantissima intorno alle traduzioni, e non so se altri abbiano fatta, e di cui non hoin mente alcuno che abbia profittato, è questa. Molte volte noi troviamo nell’autore che traduciamo,per esempio greco, un composto una parola che ci pare ardita, e nel renderla ci studiamo ditrovargliene una che equivalga, e fatto questo siamo contenti. Ma spessissimo quel tal composto oparola comeché sia, non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, e però neilettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto come fanno le parole nuove di zecca, ecome in noi italiani fanno quelle tante parole dell’Alfieri, per esempio spiemontizzare ec. ec.

Onde tu che traduci, posto ancora che abbi trovato una parola corrispondentissima proprissimaequivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa parola non è nuova e non fa in noiquell’impressione che facea ne’ greci. E qui è così comune l’inavvertenza che nulla più. Perché, setraducendo trovi quella parola e non l’intendi, tu cerchi ne’ Dizionari, e per esser quella parola di unclassico, tu ce la trovi con la spiegazione in parole ordinarie, e con parole ordinarie la rendi e nonguardi, prima se quell’autore che traduci è il solo che l’abbia usata; secondo se è il primo; perchépotrebbe anche dopo di lui esser passata in uso, e nondimeno non esser stato meno ardito né nuovo néesprimente il suo primo usarla.

Ecco un esempio. Luciano ne’ Dialoghi de’ morti; Ercole e Diogene; usa la parola άντανδρον. Cercane’ Lessici; spiegano succedaneus ec. ma se tu volti: sostituto, o che so io, non arrivi per nienteall’efficacia burlesca e satirica di quella nuova parola di Luciano che vuol dire: contrappersona, ecolla sua novità ha una vaghezza e una forza particolare specialmente di deridere. (…) Quello che ioho detto della parola va inteso anche dei modi frasii ec. ec. ec. 34

Il termine utilizzato in traduzione deve creare la stessa sorpresa di quella creata dal termineutilizzato da Luciano. È interessante notare che Leopardi però non propone una traduzionestranierizzante, che crei in italiano un forestierismo a conio sul greco, come potrebbe essereantantropo, ad esempio, ma suggerisce una traduzione straniante, contrappersona, che si fonda suconvenzioni linguistiche proprie della lingua italiana, e che crea comunque lo stupore della novità,come avveniva nel greco con il neologismo άντανδρον.

30 Si veda per le questioni di linguistica Gensini (1984).31 Meschonnic (2000), pp. 16-17.32 Busi – Boccaccio (1990).33 Mattioli (1983), pp. 81-112.34 Leopardi (1969), pp. 8-9.

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Quando in ballo c’è la compattezza ritmica del proverbio e in italiano non c’è un equivalenteLeopardi dichiara la propria incapacità e getta la spugna. Lo si legge in una interessante nota alframmento del volgarizzamento di Come va scritta la storia:

Qui Luciano ha un proverbio al quale non corrisponde nessuno de’ nostri ch’io sappia; e il proverbio èdi quelli che renduti secondo che suonano, o restano insulsissimi o anche senza senso: ora parafrasato edichiarato nessun proverbio è più proverbio, e per l’ordinario diventa freddura. Sicch’io l’ho saltato dinetto: e pure in questa traduzione ho proposto di essere fedelissimo.35

Per Leopardi dunque l’unico modo di tradurre un proverbio è di trovarne uno corrispondente capacedi restituire la compattezza ritmica/semantica del testo originale, poiché ogni parafrasi priva delsuono e ogni mero gioco di parole privo di senso non portano a nulla. È questa una posizionediffusa nella traduzione dei proverbi; secondo Meschonnic costituisce anzi uno dei luoghi comunidel tradurre, e come tutti i luoghi comuni esso può essere parziale e limitante. Il termine tecnico cheMeschonnic utilizza è “disidiomatizzare”, cioè riportare tutto, anche le espressioni idiomatiche, allacultura d’arrivo. Grave limitazione per Meschonnic che vede nella traduzione alla ricerca diun’equivalenza, dinamica o formale, un’intollerabile semplificazione e banalizzazione dellacomplessità del testo di partenza.36 Cosa invece evidentemente auspicabile per Leopardi, senza laquale la traduzione diventa impossibile.

Sia nel caso del neologismo sia in quello del proverbio Leopardi sembra esemplificarequanto afferma in una pagina del 21 novembre 1821 dello Zibaldone (2134-36) dove si legge cheuna traduzione non deve rendere straniera la lingua di arrivo, ma cercare di ottenere sul nuovolettore lo stesso effetto che l’invenzione o lo stilema avevano suscitato nel lettore del testooriginale: “La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e.greco in italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco oin francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile”.37 La buonatraduzione non deve fare cioè quello che auspicava Benjamin, quando, nel suo Il compito deltraduttore, citando Rudolf Pannwitz, ricorda che la buona traduzione dovrebbe trasformare la linguadi arrivo lasciandola “potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera”: “Le vostreversioni, - scrive Pannowitz - anche le migliori, partono da un falso principio, in quanto sipropongono di germanizzare l’indiano, il greco, l’inglese, invece di indianizzare, grecizzare,inglesizzare il tedesco”.38 Credo che potrebbe essere di qualche utilità istituire una differenza piùesplicita di quanto si faccia di solito - penso ad esempio a Lawrence Venuti (1995)39 - frastranierizzazione, straniamento e addomesticamento. Se l’addomesticamento va chiaramente nelladirezione di un etnocentrismo linguistico e culturale, l’atteggiamento inverso non deve essere dinecessità l’annullamento della lingua di arrivo a favore dell’acquisizione delle strutture sintattiche,degli idiotismi, del lessico della lingua di partenza. Ci sono modi diversi in cui l’altro può venireassunto. Una cosa è la stranierizzazione della lingua d’arrivo (pensiamo ad esempio all’influenzadella sintassi inglese nella narrativa italiana contemporanea o l’acquisizione a volte imbarazzante einutile di forestierismi alla moda), altra cosa è invece rendere nella lingua di arrivo le innovazionistilistiche, le evasioni dalla norma, le particolarità presenti nel testo di partenza.

II.3 In un passo famoso dello Zibaldone (963) Leopardi, facendo ricorso alla bella immaginedella Camera Oscura, afferma che “L’effetto di una scrittura in lingua straniera sull’animo nostro, ècome l’effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono esseredistinte e corrispondenti veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattaa renderle con esattezza; sicché tutto l’effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che

35 Leopardi (1988), II, p. 1150.36 Meschonnic (2005), p. 231.37 Leopardi (1969), p. 564.38 Benjamin (1962), p. 48.39 Venuti (1995).

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dall’oggetto reale…”.40 La nostra visione del testo straniero è determinata dalle nostre abitudinilinguistiche, siano esse codificate o da introdurre coerentemente alle possibilità che la lingua diarrivo offre. Benissimo interpreta questo passo dello Zibaldone Antonio Prete: “Per Leopardi ilrapporto tra due lingue non avviene nel campo di una visibilità diretta, non segue una trasposizioneimmediata. La visione della prima lingua, della lingua da cui si traduce, muove dall’universolinguistico di colui che traduce: è questo il recinto, la “camera oscura” in cui la prima lingua apparesecondo i modi di un’indagine riflessa. (…) Adattare la camera oscura vuol dire preparare,tecnicamente, cioè secondo stile e necessità, la propria lingua perché sappia accogliere e intratteneree comprendere questo ospite che è la lingua originale”.41

Così come è necessario che esistano più stili per riproporre in italiano lo stile sublime diVirgilio o quello semplice di Mosco, magari ricercandoli in modelli codificati nella tradizione dellalingua di arrivo (e allora Monti o Parini o Caro, a seconda dell’accordo con lo stile del testo datradurre), così sarà anche necessario ascoltare con la massima attenzione quello che il testo fa nellalingua di partenza (come nell’esempio della traduzione dell’ άντανδρον di Luciano) per creare unmodo nuovo di accoglienza nella camera oscura che è la lingua di arrivo.

III.1 Ripensando a quegli anni di intenso studio e di assorbimento, anche attraverso tanti esercizidi traduzione, della lirica e dell’epica greca e latina, Leopardi nel 1821 giudica il proprio ingegnodiverso da quello di tanti altri non perché più creativo, originale o innovativo, ma per la suapervadente capacità di mimetizzarsi, di insinuarsi completamente nell’ingegno degli autori cheandava leggendo, assumendone le particolarità:

Io, nel mio povero ingegno mio, non ho riconosciuta altra differenza dagli ingegni volgari, che unafacilità di assuefarlo a quello ch’io volessi, e quando io volessi, e di fargli contrarre abitudine forte eradicata, in poco tempo. Leggendo una poesia, divenir facilmente poeta; un logico, logico; unpensatore, acquistar subito l’abito di pensare nella giornata; uno stile, saperlo subito o ben prestoimitare; una maniera di tratto che mi paresse conveniente, contrarne l’abitudine in poco d’ora.42

Ancora, in una lettera a Giordani del 21 marzo 1817:Quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre ilmeglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella miamente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace.43

È forse anche per questo che Leopardi quando passa a scrivere autonomamente lo fa servendosi simaschere. La prima è quella di un umile traduttore di un anonimo poeta greco. Leopardi pubblicanello “Spettatore italiano”, t. VII, quad. LXXV, 1° maggio 1817, la traduzione di un Inno aNettuno, corredato di una dedica, un avvertimento al lettore e una serie di note puntigliose. Daquesto materiale risulta che il testo presentato è la traduzione di un inno greco adespoto, da pocotrovato in “una piccola biblioteca” romana da un amico. Ci troviamo di fronte a una splendida,arguta e, mi pare, ironica finzione, nella quale Leopardi diciannovenne attribuisce alle insistenzedell’anonimo amico la pubblicazione della sua provvisoria versione in italiano. L’ironia emergecontinuamente nella nota introduttiva: quando Leopardi parla celiando della “impazienza” con cui ilpubblico aspetta con ansia la pubblicazione di questi ritrovamenti, o nella chiusura dove iltraduttore dichiara la strategia che lo ha guidato nel suo volgarizzamento in endecasillabi sciolti:“Ho adoperato molto per tradurre fedelissimamente, e non ho trascurato pure una parola del testo, diche potrà agevolmente venire in chiaro chi vorrà ragguagliare la traduzione coll’originale, uscitoche sarà questo alla luce”.44 Il gioco del travestimento è svelato in una bella lettera al Giordani del

40 Leopardi (1969), p. 279.41 Prete (1998), pp. 145 e 147.42 Di “pratica mimetica” parla Damiani (2002), pp. 24 sgg.43 Leopardi (1977), p. 9.44 Leopardi (1988), I, p. 315.

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30 maggio 1817, in cui colpisce, oltre alla prosa semplice, tersa ma ricchissima di immagini eriferimenti, una evidente auto-ironia:

E l’Inno però e le note col resto, l’ho scritto appunto un anno fa (…). Da questo Ella vedrà, se non l’hagià veduto, che quanto io spaccio della scoperta dell’Inno, è una novella. Innamorato della poesiagreca, volli fare come Michel Angelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credead’antico, portò il braccio mancante. E mi scordava che se egli era Michel Angelo io sono Calandrino;oltreché la stretta necessità d’imitare, o meglio di copiare (…) m’impastoiò e rallentò per modo lamente che senza dubbio io ho fatto tutt’altro che poesia.45

Per spiegare l’importanza di questa esperienza creativa nell’ambito della riflessione più generalesulla traduzione, Antonio Prete utilizza l’immagine del cibo, come se si trattasse di una sorta ditransustanziazione che consente la rimessa in vita di un testo dopo la morte. Per Prete infatti l’Innoa Nettuno è una finzione che tuttavia “per la densità dell’artificio e per la solida costruzione delcommento, finisce col confessare uno dei seguenti impulsi propri della traduzione: alimentarsi dellasparizione dell’originale, raccogliere la morte dell’originale nella vita del nuovo testo”.46

Un’immagine afferente alla stesso campo semantico è utilizzata da Emilio Pasquini quando parla diLeopardi studioso di Petrarca. Per Pasquini Leopardi è stato “il maggior petrarchista nei secoli dalXIV ad oggi. Non esiste altro autore che sia andato tanto a fondo nell’attraversamento di unmodello: quello di Leopardi con Petrarca è un caso limite di simbiosi artistica (…). È irripetibile: èun poeta che fagocita un poeta”.47

III.2 La seconda maschera indossata da Leopardi è quella dell’autore anonimo delle due OdaeAdespotae, scritte nel 1816 e pubblicate assieme all’Inno di Nettuno. Le due odi anacreonticheappaiono in greco con versione latina a fronte, questa volta senza nessun particolare paratesto cheespliciti ulteriormente la finzione. La novità di questi sonetti sta nell’immagine della luna che è alcentro della seconda Odae e che tornerà in tante altre poesie di Leopardi, a cominciare da Vitasolitaria:

Lunam caněre lubet. Te, luna, canemussublimen, os argenteam.Tu enim coelum habens,Quietae noctis imperiumNigrorumque somniorum tenes (…)Te dii quoque amant,Te honorant homines,Sublimen, os argenteam,Venerandum, pulcram, luciferam.

ma anche nella semplicità e nella grazia del dettato che però non sembra paragonabile a quellaarcadica e di maniera delle prime prove traduttorie. Come ha notato Gilberto Lonardi, il ricorso auna grammatica semplice del greco e del latino “consente un difficile e per ora eccezionaleequilibrio, che costituisce un passo avanti molto importante verso la semplicità né arcadica négrandioso arcaica dell’idillio o almeno dei più importanti idilli leopardiani”.48 Qui, più chel’imitazione di un modello preciso, Leopardi cerca di costruire una sua lingua naturale e semplice,capace di guardare alla natura in modo naturale, senza la mediazione della dizione poeticaconvenzionale, ma per farlo deve immergersi nella lingua straniera: una sorta di rigenerazioneattraverso l’allontanamento.

45 Leopardi (1977), p. 24.46 Prete (1998), p. 153.47 Pasquini (2004), p. 205.48 Lonardi (1969), p. 21.

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III.3 La terza maschera, quella che Leopardi indossa con più autorevolezza, è quella di Simonide.Siamo alla prima Canzone, All’Italia, pubblicata da Leopardi nel 1818. Sarebbe necessarioun’intera lezione per leggerla e commentarla, considerando anche la traduzione endolinguistica inprosa (non credo si possa parlare di parafrasi) di Marco Santagata che, alla sua uscita, ha suscitatoun acceso dibattito sul danno o l’utilità della versione dei nostri autori classici in un italiano piùvicino alla lingua d’uso. Una lezione che potrebbe iniziare con una citazione di Leopardi stesso,tratta dalla sua premessa al commento delle Rime del Petrarca del 1826: “Nessuno oggi in Italia,fuori dei letterati (io voleva dir fuori di pochissimi letterati), conosce né può intendere facilmente lalingua italiana antica”.49 Ma restando All’Italia, e per sommi capi: la canzone come noto è dedicataall’Italia umiliata dalla restaurazione, che soffre “negletta e sconsolata” (v. 15) l’offesa delle“catene” (v.13) e “piange” la scomparsa della “forza antica” (v. 28). Le prime due strofe dellacanzone sono un’apostrofe all’Italia e un compianto per la sua decadenza. Nella terza strofa si parladegli italiani che ora muoiono per la campagna napoleonica di Russia sacrificando le loro vite nonper la patria, ma per un imperatore straniero in terra straniera. A questo punto, con un salto di tempoe di spazio, la scena è spostata nell’antica Grecia, alle Termopili, quando Leonida e i suoi trecentospartani sacrificarono le loro vite per opporsi all’avanzata di Serse e dei persiani (strofa 4-5). È quiche Leopardi indossa la maschera. Per esaltare l’atto eroico di Leonida e dei suoi, cita l’epicedioche Simonide avrebbe scritto su di loro e per loro proprio alle Termopili, rendendo il loro sacrificioimmortale (strofa 5-6-7). Forse è inutile dire che questi versi sono una creazione originale diLeopardi che si avvale solo di alcuni frammenti dell’inno di Simonide sulle Termopili, e siimmedesima nella figura del vate greco per tessere, questa volta in italiano, il suo canto diringraziamento agli eroi antichi. E non è difficile cogliere quanto più naturale e semplice epoeticamente riuscita risulti questa seconda parte della canzone, scritta sotto la protezione dellamaschera se raffrontata alla magniloquenza e artificiosità della prima parte.

Beatissimi voiMentre nel mondo si favelli o scriva.Prima divelte, in mar precipitando,Spente nell’imo strideran le stelle,Che la memoria e il vostroAmor trascorra o scemi.La vostra tomba è un’ara; e qua mostrandoVerran le madri ai parvoli le belleOrme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,O benedetti, al suolo,E bacio questi sassi e queste zolle,Che fien lodate e chiare eternamenteDall’uno all’altro polo.Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molleFosse del sangue mio quest’alma terra.Che se il fato è diverso, e non consenteCh’io per la Grecia i moribondi lumiChiuda prostrato in guerra,Così la verecondaFama del vostro vate appo i futuriPossa, volendo i numi,Tanto durar quanto la vostra duri.

Simonide auspica per se stesso una gloria altrettanto duratura quanto quella degli eroi morti ecantati. La finzione è qui elevata a potenza: Leopardi che all’inizio vorrebbe morire per la patria (equesta volta i versi sono davvero retorici: “Nessun pugna per te? non ti difende / Nessun de’ tuoi?L’armi, qua l’armi: io solo / Combatterò, procomberò sol io”) qui invece, nascosto dietro la

49 Leopardi (1988), II, p. 991.

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maschera di Simonide, offre alla sua terra ciò che di meglio ha: il suo canto e con esso la speranzache il canto gli porterà la “Fama… appo i futuri”.

IV. All’inizio mi ero riproposto di percorrere un piccolo tratto dell’intricato cammino intrapresoda Leopardi fra esperienze di traduzione, riflessioni sul lavoro svolto e creazioni poetichemascherate. Sono sicuro di avere toccato solo pochissime stazioni di questo percorso, ma spero chesi sia almeno intuita la grande importanza del confronto continuo che il giovane Leopardi stabiliscecon l’altro, del suo fagocitante immedesimarsi con i poeti antichi per carpirne la maestria, entrandoin competizione con loro, tentando di trovare nelle ampie possibilità di scelta offerte dalla lingua edal canone letterario italiano gli stili che meglio si adattavano alla forza del testo di partenza,sperimentando infine modi nuovi, come ad esempio il rifiuto della forma chiusa tradizionale perl’adozione di un endecasillabo sciolto non vincolato quindi dalle rime, oppure di un lessico cherifugge dalle convenzioni di maniera per ricercare la naturalezza e la semplicità, che diventerannouna modalità della sua poetica e di tanta parte della poesia italiana seguente.50 Questo suo muoversiirrequieto e continuo fra i testi da tradurre, spinto da una grande ammirazione, da una finissimacapacità di ascolto e da un profondo desiderio di fare esperienza di questi testi (immedesimandosi inloro, appropriandosene, facendosi contaminare, dialogando con essi) ci dà l’idea, come dice Prete aproposito dello Zibaldone, di un “discorso” dove “tutto resta aperto verso ogni possibile ripresa”,dove nulla “è mai risolto e chiuso dentro una trattazione”.51 Leopardi non irrigidisce le proprieriflessioni ed esperienze sulla traduzione in un trattato, ma, fedele allo spirito che anima loZibaldone, preferisce la misura e lo spirito del saggio, dell’assaggio, nel tentativo di pensare esoppesare l’esperienza della traduzione, per approssimazioni, per avvicinamenti e allontanamenti. Irisultati non sono mai definitivi: nella sua biografia intellettuale la lotta con il testo da tradurre saràin certi momenti sospesa perché ritenuta impossibile, in altri sarà vista solo come un artificio perconsentire la diffusione, in prosa, del pensiero antico.52 Ma la prova con l’estraneo, questoconfronto formativo, sarà sempre uno stimolo a proseguire un cammino di ricerca, fatto di scoperte,di sfide e di passioni. Forse è anche per questo che la vicenda di Leopardi ci sembra così vicina. Edè forse anche per questo che Gianni Celati parla di Leopardi come di “un nostro compagno distrada”. E in questo cammino “quello che conta alla fine non sono le mete a cui arriviamo, ma ilcontinuo transito attraverso gli stati di affezione che sorgono, con una mobilità eccitatoria che èl’anima” della scrittura di Leopardi.53

50 Sul lessico di Leopardi traduttore si veda Savoca – Primo (2003).51 Prete (2004), pp. 32 e 36.52 Si veda Fasano (1985).53 Celati (2004), p. 67.

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Testi citati

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EMILIO MATTIOLIL’etica del tradurre

È ormai una espressione corrente “le virage éthique en traduction”, la svolta etica neltradurre. Di che cosa si tratta? È un fenomeno plurale non riconducibile ad un unico autore né adun’unica concezione, ma sicuramente è maturata da parecchi anni ormai la consapevolezza di unadimensione etica del tradurre, di una responsabilità morale che si assume chi traduce. È forse utilesegnalare qualche data. Si ritiene in genere che l’atto di nascita della traduttologia sia segnato dallapubblicazione a Parigi nel 1963 di Les problèmes théoriques de la traduction di Georges Mounin,mentre il termine traductologie è stato coniato in francese nel 1973 da Brian Harris, la svolta eticasi può fissare al 1984 con la pubblicazione de L’épreuve de l’étranger di Antoine Berman. In questaopera risulta con estrema chiarezza quale sia la portata di questa svolta. Nel paragrafo intitolato“Etica” della traduzione Berman scrive:

Tradurre significa indubbiamente scrivere e trasmettere. Ma questa scrittura e questa trasmissioneprendono il loro vero senso solo a partire dalla finalità etica che le governa. In questo senso, latraduzione è più vicina alla scienza che all’arte - almeno se si presuppone la irresponsabilità eticadell’arte.

Definire più precisamente questa finalità etica, e in tal modo liberare la traduzione dal suo ghettoideologico, ecco uno dei compiti della teoria della traduzione. Ma questa etica positiva presuppone asua volta due cose. In primo luogo, un’etica negativa, vale a dire una teoria dei valori ideologici eletterari che tendono a distogliere la traduzione dalla sua pura finalità. La teoria della traduzione nonetnocentrica è anche una teoria della traduzione etnocentrica, ovvero della cattiva traduzione. Chiamocattiva traduzione quella che, generalmente sotto l’apparenza della trasmissibilità, opera una negazionesistematica dell’estraneità dell’opera straniera.1

Nelle pagine precedenti Berman ha chiarito che “la finalità stessa della traduzione (è) apriresul piano della traduzione un certo rapporto con l’Altro, fecondare il Proprio tramite la mediazionedell’Estraneo”2 e ancora: “l’essere della traduzione è di essere apertura, dialogo, meticciato,decentramento. È un mettere in relazione, o non è nulla.”3

Dunque, nella prova dello straniero la traduzione è concepita come accoglimento dell’altro equindi come esercizio di alto valore morale. In un saggio dell’anno successivo, 1985, La traductionet la lettre ou l’auberge du lointain, tradotto in italiano con il titolo La traduzione e la lettera ol’albergo nella lontanaza,4 la concezione etica della traduzione trova un ulteriore sviluppo e siconcretizza nella traduzione letteraria.

Il punto di partenza di Berman è netto, tanto da prendere forma di assioma: “la traduzione ètraduzione della lettera in quanto è lettera” (ovviamente non si tratta della traduzione parola perparola, della traduzione servile, ma della traduzione letterale) ed è un attacco alla traduzionedominante nel mondo occidentale caratterizzata dall’essere culturalmente etnocentrica,letteralmente ipertestuale, filosoficamente platonica. A queste tre forme di traduzione Bermancontrappone rispettivamente la traduzione etica, la traduzione poetica, la traduzione pensante. Lalettera è lo spazio di gioco di queste ultime. Chiariamo i termini con le parole di Berman,etnocentrico significa “che riconduce tutto alla propria cultura, alle sue norme e a valori e consideraciò che ne è al di fuori – l’Estraneo – come negativo o al massimo buono per essere annesso,adattato, per accrescere la ricchezza di quella cultura. ‘Ipertestuale’ rinvia ad ogni testo generato perimitazione, parodia, pastiche, adattamento, plagio, o qualunque altra specie di trasformazioneformale, a partire da un altro testo, già esistente.”5

1 Berman (1997), pp. 15-16.2 Ivi, p. 14.3 Ivi, p. 15.4 Berman (2003).5 Ivi, p. 25.

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Traduzione platonica non significa, ovviamente, la concezione che Platone ha dellatraduzione, dato che il filosofo non se ne è mai occupato, ma fa riferimento alla scissione frasensibile e intellettuale, fra corpo e anima istituita da Platone che è il presupposto per un tipo ditraduzione che cerca di cogliere il senso (l’anima) al di là della lettera (il corpo). Berman è convintoche questo tipo di traduzione abbia un’origine storica (per esempio la traduzione etnocentrica è nataa Roma) e che la verità della traduzione possa essere recuperata soltanto per via indiretta attraversol’analisi delle tendenze deformanti che agiscono nella traduzione.

Questa analisi è molto ricca e utile anche per chi non accetti l’impostazione di Berman. Letendenze individuate e analizzate sono 13: la razionalizzazione, la chiarificazione, l’allungamento,la nobilitazione e volgarizzazione, l’impoverimento quantitativo, l’omogeinizzazione, la distruzionedelle reti significanti sottostanti, la distruzione dei sistematismi testuali, la distruzione (ol’esotizzazione) dei reticoli vernacolari, la distruzione delle locuzioni e degli idiotismi, lacancellazione della sovrapposizione delle lingue. Dall’analisi di questo sistema di deformazioniemerge quello che Berman intende per traduzione letteraria; ma – e questo è importante – egli nonpropone affatto una nuova metodologia che sarebbe non meno normativa e dogmatica delleprecedenti, suggerisce invece una riflessione sulla essenza della traduzione che può sfuggire alletendenze deformanti. La traduzione non è soltanto un processo di comunicazione, di trasmissione dimessaggi da una lingua di partenza ad una lingua di arrivo. Mettere sullo stesso piano la traduzionedi un testo tecnico e quella di un’opera è possibile soltanto ad un livello di astrazione molto elevato,un testo tecnico, tende a trasmettere una certa quantità di informazioni, “ma un’opera non trasmettealcuna specie di informazione, anche se ne contiene: essa apre all’esperienza di un mondo”. Lacomunicazione per Berman è un concetto troppo astratto per definire l’opera e la sua traduzione. Latraduzione è piuttosto definita dal suo scopo etico, poetico e filosofico.

La definizione dello scopo etico e il suo legame con la lettera è il punto cruciale di questodiscorso. “L’atto etico-scrive Berman-consiste nel riconoscere e ricevere l’Altro in quanto Altro/…/. Questa natura dell’atto etico è implicitamente contenuta nelle saggezze greca ed ebraica, per lequali, sotto la figura dello Straniero (per esempio del supplice), l’uomo incontra Dio o il Divino.Accogliere l’Altro, lo Straniero, invece di respingerlo o di cercare di dominarlo, non è unimperativo. Nulla vi ci obbliga. Achille, nell’Iliade, può respingere Priamo supplice, e tutto loinduce a farlo; ma può anche aderire alla sua supplica e, così facendo, innalzarsi ad una sfera chetrascende quella delle imprese epiche… Ebbene, la traduzione, attraverso il suo obiettivo di fedeltà,appartiene originariamente alla dimensione etica. Essa è, nella sua e stessa essenza, animata daldesiderio di aprire l’Estraneo in quanto Estraneo al proprio spazio di lingua. Il che non vuol direaffatto che storicamente sia andata spesso così. Al contrario, l’obiettivo appropriatore eannessionista che caratterizza l’Occidente ha quasi sempre soffocato la vocazione etica dellatraduzione. La ‘logica dello stesso’ ha quasi sempre prevalso. Ciò non impedisce che l’atto ditradurre obbedisca a un’altra logica, quella dell’etica.”6

È stupefacente che Berman nell’opera postuma: Pour une critique des traductions: JohnDonne,7 “abbia abbandonato il campo dell’etica tale quale l’aveva definito precedentemente cioècome traduzione della lettera o la letteralità”.8 La stessa Godard ha scorto in Berman “unaoscillazione fra due termini (l’orizzonte e la poetica) e dietro di essi fra due strade distinte(l’epistemologia e la metafisica).”9 “Da una parte un approccio storico funzionale con ladelineazione di un orizzonte traduttivo, dall’altra un approccio idealista che privilegia la riflessione

6 Ivi, pp.61-62, passim.7 Berman (1995). In italiano ne è stato tradotto un capitolo con il titolo Traduzione e critica produttiva, Salerno

e Milano, Oedipus ed., 2000, da Gisella Maiello.8 Trad. nostra da Barbara Godard, L’étique du traduire: Antoine Berman et le “virage éthique” en traduction,

p. 68, pubblicato in “TFR” 14/2 (2001), dedicato ad A. Berman.9 Ibidem (trad. nostra).

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di un soggetto autonomo e l’auto-consistenza di una traduzione ‘vera’ che sarà un’opera d’arteavente per missione di rivelare l’essere del testo originale”.10

Comunque sia, Berman ha segnato la svolta etica ed ha lasciato un’eredità che ha conosciutosvolgimenti molto diversi, ma che questo tipo di riflessione ci sia stato conta nel panorama attualeed è un punto di riferimento anche per capire chi ha sviluppato un discorso etico sulla traduzione,ignorando completamente Berman, per esempio la scrittrice bengalese Guyatrik Spivak che insegnaalla Columbia University.

La svolta etica assume significati diversi a seconda dell’idea di cultura cui fa riferimento,l’idea di cultura presente nell’etnografia con coincide con quella di Berman: per Berman la culturava intesa nel senso di Bildung (formazione), non a caso dato che il suo capolavoro L’épreuve del’étranger si occupa della cultura romantica tedesca e quindi il rapporto con lo straniero servesoprattutto ad arricchire la lingua in cui si traduce, nell’ambito etnografico, invece, ad unovviamente diverso concetto di cultura corrisponde una funzione della traduzione diversa chericonosce l’altro nella sua estraneità e incrina i rapporti di potere.

Val la pena prendere in esame gli sviluppi dell’etica del tradurre in alcuni autori. Partirò daHenri Meschonnic che di Berman è stato ispiratore, ma con il quale ha poi avuto rapporticonflittuali. Per Meschonnic il ritmo si configura come etica e poetica del tradurre. Per capire ilsenso di questa affermazione bisogna aver presente che, secondo Meschonnic, “il ritmo, comeorganizzazione soggettiva di un discorso, storicità di questo discorso, fonda il continuo che fa cheun testo sia letteratura.” L’esempio più clamoroso è dato dalla traduzione della Bibbia cheMeschonnic sta conducendo da anni. Nel tradurre la Bibbia non si è mai tenuto conto del suo ritmoche è dato dagli accenti fissati dalla tradizione masoretica e non si è capito che nella Bibbia non c’èdistinzione fra prosa e poesia. Le conseguenze sono impressionanti, la Bibbia, secondo questaprospettiva, non è mai stata tradotta in francese. Rispettare il ritmo nella traduzione è rispettarel’etica, perché significa rispettare l’unicità e la specificità del testo. Il ritmo si contrappone al segnoe costituisce il legame fra la poesia e la vita. La poetica del ritmo di Meschonnic rappresenta unadelle posizioni più avanzate della teorizzazione contemporanea e svolge una funzione criticafortissima.

Lawrence Venuti di cui in italiano circola L’invisibilità del traduttore,11 si riconnetteesplicitamente a Berman, ma ha una decisa posizione politica. Proprio a pagina 72 dell’opera citata,Venuti scrive:

Il fine ultimo di questo libro è quello di costringere i traduttori e i loro lettori a riflettere sulla violenzaetnocentrica della traduzione e di conseguenza stimolarli a scrivere e leggere i testi tradotti secondomodalità che cerchino di riconoscere la differenza linguistica e culturale dei testi stranieri. Ciò che stodifendendo non è una valorizzazione indiscriminata di ogni cultura straniera o di un concettometafisico dell’identità straniera; in realtà il testo straniero viene privilegiato dalla traduzioneestraniante solo fin dove rende possibile un’azione di disturbo nei confronti dei codici culturali dellalingua d’arrivo, in modo tale che il suo valore, a seconda della situazione culturale in cui vienetradotto, sia sempre strategico. La questione consiste piuttosto nell’elaborare i mezzi teorici, critici etestuali attraverso i quali la traduzione può essere studiata e praticata come locus della differenza, enon dell’omogeneità come accade oggi in gran parte dei casi.

Togliere quindi l’illusione della trasparenza del traduttore ha per Venuti un valore etico epolitico. L’analisi della prassi traduttiva dominante in America, determinata da esigenzeeconomiche e politiche, una prassi che tende a rendere invisibile il traduttore e scorrevole latraduzione, mette in luce la pretesa egemonica e l’illusione culturale che regnano in questo ambito.Cercare di far dimenticare al lettore che legge una traduzione è un autentico imbroglio, codificatonei contratti stessi che debbono firmare i traduttori.

10 Ibidem (trad. nostra).11 Venuti (1999).

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I due concetti di “addomesticamento” ed “estraniamento” che corrispondono alla traduzioneetnocentrica e a quella etica di Berman nella prospettiva di Lawrence Venuti variano in rapportoalla situazione geopolitica, infatti lo studioso ha sviluppato un’etica della situazione che dà alla suaanalisi una concretezza molto efficace. Questo si riflette, ovviamente, nella concezione dei rapportiinterculturali e tende a marcare non l’unità dello spirito come in Berman, ma la differenza.

Con Gayatry Spivak, che si dedica agli studi di genere nell’ambito della letteraturafemminista post-coloniale, la svolta etica della traduzione entra decisamente nel campo delle lotte dipotere e diventa una forma di azione socio-politica.12 L’importante però è capire per quale via laSpivak pensa che si possa dar luogo alla traduzione etica nel campo di cui si occupa. Il linguaggionella sua concezione si articola in retorica, logica, silenzio, soltanto se si rispetta la retorica anchenella traduzione dalle lingue del terzo mondo si compie una operazione etica. Con retorica quievidentemente si intendono le specificità di ogni singola lingua. Ignorando queste specificità si dàluogo al traduttorese “cosicché la produzione di una scrittrice palestinese inizia a somigliare nellagrana della prosa a quella di uno scrittore di Taiwan.”13 Si tratta quindi di trasformare i rapportiegemonici stabiliti dall’imperialismo fra le culture euro-americane e quelle del Terzo mondo. Inparticolare per quel che riguarda le lingue si tratta di rompere quella situazione per la quale da unaparte c’è l’inglese, preso per la semiotica come tale e dall’altra gli idiomi presi come degli idiotismistorici. Se il discorso della Spivak nasce da un contesto particolare, le sue considerazioni sullatraduzione assumono un valore generale a cominciare dall’affermazione che “la traduzione è l’attopiù intimo di lettura.”14 Come ha giustamente sottolineato la curatrice della versione italiana delsaggio, Alessandra Biglia: “La retorica / nella concezione della Spivak /… può spezzare la coesionedi un testo e favorire invece la casualità e la possibilità che le cose non siano sempre organizzate dalpunto di vista semiotico.”15 C’è dunque oltre ad un forte impegno per una “traduzionedemocratica”, uno sforzo per prendere il testo nella sua specificità che è sicuramente il presuppostodi ogni forma di traduzione etica.

Testi citati

Berman (1995)Berman, A., Pour une critique des traductions: John Donne, Paris, Gallimard, 1995

Berman (1997)Berman, A., La prova dell’estraneo, trad. a cura di Gino Giometti, Macerata, Quodlibet, 1997

Berman (2003)Berman, A., La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontanaza, trad. a cura di Gino Giometti, Macerata,Quodlibet, 2003

Venuti (1999)Venuti, L., L’invisibilità del traduttore, Roma, Armando Armando, 1999

12 Non a caso il saggio della Spivak pubblicato nel numero 31 di “Testo a fronte”, dicembre 2004, si intitola La

politica della traduzione.13 “TFR”14/2 (2001), p. 30.14 Ivi, p. 31.15 Ivi, p. 62.

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GUILLERMO CARRASCÓNL’errore di traduzione: una prospettiva didattica

Da un punto di vista teoretico, l’errore di traduzione presenta, nell’ambito di studio dellatraduttologia, un notevole interesse: infatti, quali che siano il metodo applicato, i criteri ditraduzione, la finalità e la modalità del tradurre, sembra scontato, persino tautologico, che la migliortraduzione è quella che contiene il minor numero possibile di errori, un numero tendenzialmente oidealmente uguale a zero. Ma in realtà, pensandoci bene non è facile stabilire fino a quale puntopossiamo estendere il precedente ragionamento: per la perfezione della traduzione, la assolutaassenza di errori è solo condizione necessaria o è pure condizione necessaria e sufficiente? O dettoin altri termini: qualsiasi imperfezione nel risultato di una traduzione, cioè, nel testo tradotto, si puòconsiderare un errore di traduzione? E sono solo questo tipo di imperfezioni o difetti testuali chevanno annoverati come tali? Magari sì, ma bisogna tener conto, come numerosi autori hannosegnalato e anche se ciò trascende i nostri interessi attuali, che il motivo dell’insuccesso di unatraduzione non si limita alle possibili imperfezioni linguistiche o ai possibili tradimenti al sensooriginale del testo tradotto: questo in effetti nasce sempre con una funzione e in un contestocomunicativo preciso; così l’inadeguatezza della traduzione al suo scopo è stata sovente ritenuta,dagli studiosi funzionalisti, come un tipo di errore “pragmatico” non di rado considerato più gravedegli stessi errori linguistici o semantici. Quindi, la soluzione a questi quesiti sembrerebbedipendere anche da quello che consideriamo errore di traduzione e dal modo in cui valutiamo lediverse possibilità di inadeguatezza testuale e pragmatica, un versante sul quale la traduttologia nonha mancato certo di fornire delle risposte o, al meno, delle proposte.

In un livello generale si collocano alcune di esse, come quella di Gouadec (1989)1, chedefiniva l’errore come una distorsione ingiustificata del messaggio originale, o quella di Kupsch-Losereit (1985) che pare sia stata la prima studiosa ad indicare che il livello di correttezzalinguistica di un testo si possa far dipendere, in realtà, dalla sua adeguatezza funzionale, nellamisura in cui le formulazioni linguistiche devono variare a seconda dei loro destinatari, dellesituazioni in cui si producono e delle funzioni e degli obiettivi attribuiti loro. Si può tuttaviariportare questa gerarchia ad una dicotomia, diversa da quella stabilita da Spilka nonostante lacoincidenza terminologica (1984),2 tra errore e difetto di traduzione, integrando nella primacategoria – cioè l’errore – tutti i problemi di adeguatezza funzionale, che si potrebbero attribuire adun livello macrotestuale e che investono, quindi, l’impostazione generale, il metodo traduttivo e lestrategie di traduzione; mentre come difetti di traduzione si annovererebbero le scorrettezzelinguistiche a livello microtestuale: fraintendimenti, sviste, calchi e altri errori puntuali di senso e dilingua. Insieme a quella menzionata da Kupsch-Losereit, non sono poche le teorie funzionali chepuntano a sottolineare la portata che per la valutazione della traduzione acquista il concetto diadeguatezza pragmatica, al punto da proporre che lo si possa considerare gerarchicamente piùimportante di quello di correttezza linguistica, lessico-grammaticale e testuale. In parole povere, ilprimo test che il testo tradotto deve superare è quello di svolgere in maniera soddisfacente lafunzione comunicativa e sociale che gli è chiesta: da chi ha commissionato la traduzione, dai suoinuovi destinatari, etc.

Ciò nonostante, si potrebbe obiettare a queste affermazioni generali, che riteniamo tuttaviavalide, che la necessità di adeguatezza pragmatica non è una condizione specifica del testo o deldiscorso tradotto, bensì un’esigenza generale di ogni tipo di produzione linguistica comunicativa,anche di quelle che vivono solo nella lingua originale. Allo stesso tempo, non vi è dubbio che lacorrettezza linguistica – anch’essa, certo, requisito esigibile ad ogni testo – di un testo tradotto e la

1 Ma riprendendo idee di 1981; apud Hurtado (2004), pp. 293-94.2 I.V. Spilka definì come errori un tipo di problemi «sistematici e ricorrenti, dovuti all’interferenza, a errori

pedagogici, alla complessità intrinseca della lingua meta o persino ad una tattica di comunicazione con cui lo studenteusa delle formule difettose ma, ciò nonostante comprensibili ... I difetti sono invece contingenti, dovuti a fattori quali lastanchezza, o delle distrazioni e negligenze momentanee» (Spilka (1984), p. 72; trad. mia).

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sua aderenza all’originale, sia in termini di senso sia nella costellazione di aspetti relativi alla suaformulazione linguistica – correttezza e fedeltà che si possono considerare elementi non accessorinella qualità generale della traduzione, anche nella misura in cui possono costituirsi in veri ostacolialla comunicazione, come non di rado succede – si contano tra le prime istanze sulle quali leoperazioni di traduzione rischiano di incidere negativamente. Potrebbe fare al caso nostro ilseguente esempio, tratto da un manuale tecnico, nel quale la confusione tra il senso letterale e quellofigurato di una parola nella lingua di partenza può dare origine a un malinteso da parte del lettoredel testo tradotto, malinteso, tra l’altro, dalle conseguenze che non esiterei a qualificare come gravise il testo dovesse mai venire preso alla lettera:

Appendice B. Suggerimenti e tecnicheA. Suggerimenti per il DV camcorder

• Formatti il nastro DV prima della fucilazione del video.3

Sembra ovvio che il traduttore abbia sbagliato interpretando in un senso più letterale del dovuto laparola inglese shooting, che in quella lingua si usa, com’è risaputo, per fare riferimento alfunzionamento sia delle armi da fuoco, sia dei vari dispositivi ottici per la ripresa d’immagini, percui si sparano allo stesso modo i fucili e pure le videocamere o le macchine fotografiche; lasimilitudine, in effetti, è grande: anche in italiano si parla, ad esempio, di safari fotografico, nelquale la caccia è stata addolcita sostituendo i colpi con le foto, ma non per ciò una ripresa puòdiventare una fucilazione. Inoltre, un caso come questo – un manuale tecnico on-line –intuitivamente sembra confermare come il rischio che la traduzione incida, come nell’esempioproposto, su aspetti linguistici del testo è molto più elevato della probabilità che intacchi seriamentela sua funzionalità pragmatica. Sono certo che nessun utente prenderà sul serio l’indicazione difucilare la sua cassetta di video digitale, per cui la capacità comunicativa del testo non ècompromessa da questo errore, ma senza dubbio non si può considerare sufficiente la qualità deltesto dal punto di vista logico-linguistico.

Ad ogni modo, quelli che nella terminologia di Spilka sarebbero “errori” di traduzione,senza pretesa di conferir loro un valore assoluto come parametro di qualità di una traduzione esenza preclusione di ulteriore valutazione degli aspetti pragmatici,4 costituiscono elementi valutabilianche in sé e per sé. E se è vero quanto afferma Nord (1991)5 e cioè, che dal punto di vistaprofessionale gli errori pragmatici possono essere i più importanti, non è meno vero che dal nostropunto di vista, che è piuttosto quello della didattica della traduzione, sembra fondamentale che tantol’acquisizione quanto lo sviluppo di una competenza traduttiva si basino sulla capacità di produrretraduzioni che, prive come sovente lo sono quelle eseguite nell’aula da condizionamenti esterni,portino alla ribalta la capacità di aderenza semantica al testo originale nonché il rispetto per leregole grammaticali e testuali della lingua di arrivo. È in questa prospettiva didascalica che ciavvicineremo al concetto di ET ed a una sua classificazione da un punto di vista, quindi,immanentemente testuale e linguistico, per concludere con delle considerazioni che si collocanonella sfera del culturale sottolineando la stretta interdipendenza fra testualità, intertestualità ecultura.

Facciamo un’ipotesi: supponiamo di leggere due testi in traduzione, A e B, ignari però, equindi noncuranti, della loro natura di traduzione, di testo tradotto. Il testo A si presenta nella suainterezza con un livello adeguato di coerenza e di coesione, di correttezza grammaticale e, per dirlabrevemente, con quell’insieme di caratteristiche che costituiscono le condizioni di adeguatezza ecorrettezza di un testo del suo genere nella lingua di arrivo. Di conseguenza, noi ricettori loaccetteremo come un testo riuscito, senza porci il problema della possibile esistenza, in esso, dierrori di traduzione. Invece il testo B, pur essendo comprensibile in toto, presenta in maniera palese

3 Guida dell’applicazione informatica VideoStudio, scaricabile on-line.4 Di più: non dimenticando che questi ultimi possono incidere sui primi, cioè, sui giudizi stabiliti in base agli

aspetti prettamente linguistici, fino a rovesciarli completamente, giustificando pragmaticamente quello che da un puntodi vista esclusivamente linguistico si era giudicato sbagliato.

5 Nord (1991), pp. 170 e sgg.

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la mancanza di alcune delle caratteristiche predette, che A possiedeva, per cui lo percepiamo comealmeno parzialmente non riuscito. Allertati, quindi, da queste imperfezioni, sulla natura ditraduzione del testo B, andremo a controllare sul testo originale; il confronto ci permetterà diverificare se il traduttore, che non ha rispettato tutte le regole della testualità nella lingua di arrivo(LA), ciò nonostante è riuscito a produrre in essa un testo difettoso ma comprensibile e chetrasmette lo stesso senso del suo originale. Già nei panni del traduttologo, continuiamo la nostraindagine e andiamo a confrontare pure il testo tradotto (TT) A – un testo riuscito nella LA – con ilsuo testo originale (TO) per scoprire che in realtà questo TT, pur essendo ben costruito ad ognilivello, trasmette un senso diverso da quello del suo originale. Quello che si palesa qui altro non èche il vecchio problema de les belles infidèles: è preferibile la correttezza, la perfezione linguistica ela bellezza del TT o piuttosto deve esser ad essa anteposta la fedeltà al TO?6

Un paio di esempi ci possono servire a chiarire ulteriormente questa dicotomia. Prendiamoquesta frase della traduzione di Tristana, il romanzo di Benito Pérez Galdós, eseguita da FrancescoGuazzelli7 (pur consapevoli che la brevità dell’esempio proposto potrebbe in qualche manierasnaturare il nostro ragionamento):

L’età del buon gentiluomo, da me calcolata al tempo dei fatti, era una cifra che non si prestava averifica, proprio come l’ora di un orologio smontato.

Si tratta di una frase perfettamente accettabile, corretta, anzi, persino elegante per gli standarddell’italiano letterario, per cui possiamo considerarla come esempio del nostro testo A.Consideriamo adesso, invece, il titolo di questo saggio di D. F. Wallace, pubblicato nel 2005 dallacasa editrice torinese Codice: Tutto e di più. Storia compatta dell’infinito.8 Subito ci rendiamoconto che, stando almeno a quello che ci indicano i dizionari se non la nostra competenza lessicale,la parola “compatta” tradisce a prima vista, come proponevamo per il testo B, la condizione ditraduzione di questa frase.9 A nessuno dovrebbe, infatti, sfuggire che “compatto” non è in italianosinonimo di “conciso”, contrariamente a quello che succede in inglese,10 e che quindi ci troviamoqui di fronte ad un caso di anglicismo. Non è da escludere che questo ubbidisca a una sceltaconsapevole del traduttore,11 scelta che si potrebbe giustificare nel quadro di una tendenza generaleverso la traduzione “straniante” che ha avuto nel tempo rappresentanti tanto illustri comeNabokov;12 comunque si tratta di una scelta che palesa la natura tradotta del testo, ma che non

6 Mounin (1965), pp. 44 sgg.7 Roma: Gruppo editoriale L’Espresso, 2004 (La biblioteca di Repubblica; Ottocento, 20).8 Titolo originale: Everything and More: A Compact History of Infinity, New York, Norton, 2003.9 Infatti, il dizionario De Mauro ci offre queste possibili accezioni della parola: “com·pàt·to. agg., s.m. AU, 1a.

agg., costituito di parti strettamente unite fra loro: terreno compatto, roccia compatta; fitto: infiorescenze compatte |fig., concorde, solidale, unanime: i braccianti scesero compatti in sciopero; 1b. agg., che ha consistenza molto densa,spec. di alimenti che possono essere consumati anche allo stato liquido: yoghurt compatto; 2a. agg., progettato in mododa contenere al massimo l'ingombro risultando il più lineare possibile: auto compatta, televisore compatto; 2b. s.m.,impianto di riproduzione sonora, spec. stereofonico, costituito da elementi diversi inseriti nella stessa struttura didimensioni ridotte”. Il Dizionario Italiano Sabatini Coletti (Giunti, 1997) ci dà simili definizioni. Nessuna di loro, però,sembra molto adeguata per qualificare, almeno in maniera positiva, una storia dell’infinito; ma sappiamo benissimo cheil termine inglese che suona come “compatto”, compact, conta tra le sue più comuni accezioni quella di “Conciso/-a”,che si presterebbe bene per il titolo in questione. Un conto è il fatto che questo anglicismo sia stato introdotto o meno inmaniera consapevole dal traduttore del saggio di Wallace; un altro conto il fatto indiscutibile, a parer mio, che persinoadesso che si sente dire “skillare” per significare “fornire delle competenze e delle abilità”, l’aggettivo compatto nelcontesto proposto si percepisce come un chiaro anglicismo.

10 Il dizionario elettronico plurilingue Oxford SuperLex (Oxford U.P. 1996) ci dà: “compact 1 adj. a (small andneat) compatto ; b (tightly packed) ‹ soil › compatto ; c (concise) ‹style of writing› conciso”.

11 Sulla versione italiana, di Fabio Paracchini e Giuseppe Strazzeri, ho letto numerose critiche, per cui questo“compatto” potrebbe essere semplicemente un altro dei loro, a quanto pare, numerosi errori di traduzione. Mi sembra,però, significativo che persino nelle critiche più feroci, che adducono come esempio la traduzione dell’espressionematematica “integer number” con “numero integrale”, piuttosto che con il giusto “numero intero”, non si faccia maimenzione di questo aggettivo del titolo. Sarà che l’anglicismo “compatto (= conciso)” è già saldamente radicato initaliano, nonostante le testimonianze dei dizionari?

12 Faini (2004), pp. 86-87; cfr. pure ivi, pp. 20-22.

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modifica gravemente il suo senso. Nel peggiore dei casi, un lettore di questo titolo che siacompletamente mancante di ogni nozione d’inglese – cosa, direi, piuttosto difficile da trovare aigiorni nostri – attribuirebbe all’aggettivo “compatta” l’accezione che De Mauro raccoglie come 2a:“progettato in modo da contenere al massimo l’ingombro”, e non sarebbe molto lontano dal sensooriginale poiché si può ipotizzare che un volume conciso sia compatto e viceversa.13

Confrontiamo adesso i due piccoli testi proposti con i rispettivi originali:

Testo A Testi originaliL’età del buon gentiluomo, da me calcolata altempo dei fatti, era una cifra che non siprestava a verifica, proprio come l’ora di unorologio smontato.

La edad del buen hidalgo, según la cuenta quehacía cuando de esto se trataba, era una cifratan imposible de averiguar como la hora de unreloj descompuesto.

Testo BTutto e di più. Storia compatta dell’infinito Everything and More: A Compact History of

Infinity

Se leggiamo con attenzione l’originale di A, ci rendiamo conto che quello che dice è completamentediverso di quello che è stato tradotto in italiano. Tanto per cominciare, e questa è la deviazione piùgrave, chi “faceva i conti” (hacía las cuentas) relativi all’età nell’originale spagnolo non è un “io”narrante, come ha letto il traduttore, bensì “el buen hidalgo”.14 Poi la frase “cuando de esto setrataba” non ha il vago significato reso in italiano con “al tempo dei fatti”; in essa il pronomeneutro “esto” è riferito, di nuovo, all’età del buen hidalgo, e sarebbe molto più giustamente tradottocon un semplice e letterale “quando di ciò si parlava” o “si discorreva”. Davanti a queste alterazionicosì gravi del senso, il fatto che averiguar non sia la stessa cosa che “verificare” oppure che unreloj descompuesto sia un “orologio rotto” e non uno “smontato” diventano peccata minuta; tuttaviauna traduzione, sicuramente meno bella, ma più fedele al senso avrebbe dovuto dire qualcosa come:“L’età del buon gentiluomo, stando ai calcoli che egli stesso faceva quando di ciò si discorreva, erauna cifra impossibile da scoprire, proprio come l’ora di un orologio rotto.”15 Può sembrare unparticolare insignificante, ma in realtà quello che è andato perso nella traduzione italiana, oltre aduna certa logica della narrazione che non sto qui ad analizzare, è la civetteria del personaggio, checerca di nascondere il desiderio di non rivelare la sua età sotto le mentite spoglie dell’ignoranzadella propria data di nascita (ignoranza che, nell’epoca di ambientazione del romanzo, metàOttocento, non era poi così straordinaria). Certo che nell’economia di un intero romanzo un erroredi questo tipo non riveste una grossa importanza. Purché sia solo uno.

13 Mal che andasse il nostro lettore anglofobo lo interpreterebbe nel senso, figurato, di 1b: “che ha consistenza

molto densa”, guardandosi bene, di conseguenza, dal cercare di leggere il libro che tale titolo porta. In questo caso, latraduzione del titolo avrebbe tradito l’intenzione conativa del suo originale: se a concise story ci può incentivare allalettura del libro che presenta, mi pare certo che “storia densa” non sia tanto invitante. L’errore linguistico si proietta cosìsul piano pragmatico e diventa molto grave, nel dissuadere possibili lettori dalla lettura.

14 Nonostante che l’ambiguità morfologica della forma verbale dell’Imperfetto dell’Indicativo spagnolo – chevede sistematicamente uguali le forme della prima e della terza persone singolari – possa permettere di capire altro, peruno spagnolo non c’è ambiguità semantica, in quanto la casella vuota del soggetto viene automaticamente riempitadall’ultimo attante enunciato. Se si volesse introdurre un’altro soggetto bisognerebbe, quindi, enunciarlo, dicendo, adesempio: “según la cuenta que hacía yo cuando...”

15 Infatti la frase suonava così nella traduzione eseguita da Augusto Guarino: “L’età del buon gentiluomo,secondo il conto che egli faceva quando si entrava in argomento, era una cifra impossibile da appurare quanto l’ora diun orologio guasto.” B. Pérez Galdós, Tristana, introduzione di Vito Galeota, traduzione e note di Augusto Guarino,con testo a fronte, Venezia, Marsilio, 1991, p. 37.

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Invece, dopo tutto, come abbiamo già commentato, la “storia compatta” può indirizzarciverso il senso del titolo originale, pregiatosi in realtà di una concisione che si potrebbetraslatoriamente manifestare attraverso la compattezza. Quindi, il testo apparentemente correttonasconde abilmente i suoi errori di traduzione tradendo così fino in fondo il senso originale, mentrequello palesemente mal tradotto ci permette, nonostante tutto, di capire il senso originale ecomunque ci “avverte” della sua natura di TT e quindi della possibile convenienza ad andare adabbeverarci nelle sorgenti primordiali, laddove le acque non sono ancora state inquinate.

Qui, in sintesi, tutte le possibilità di errore che si possono trovare, a livello prettamentetestuale, nei testi tradotti, senza escludere che nella realtà il caso più probabile sarà quello di trovaredei testi in cui si mescoleranno i difetti di B con la infedeltà di A (infedeltà “globale” fatta, tral’altro, probabilmente, di piccole “infedeltà” locali).16 Ma in una prospettiva didattica constatarel’esistenza di errori e descrivere e spiegare perché sono da considerarsi tali, non è tuttaviasufficiente. Per cercare di ridurre al minimo l’insorgere di errori è importante considerare latraduzione nella sua dimensione di processo17 per mettere in luce, nella misura in cui è possibile,quale sia il meccanismo che produce l’errore, quale la sua genesi. Certo che per garantire la totaleassenza di errori non esiste una ricetta valida, ma se capiamo bene i passi che bisogna compiere pertransitare da un testo originale al suo equivalente tradotto, se conosciamo la strada, ridurremosicuramente il rischio di traviare.

Non è rischioso, qualunque sia il modello di rappresentazione del processo di traduzione chepredilegiamo, affermare che i due tipi di errore che abbiamo esemplificato si generano in momentidiversi di esso: l’errore A, alterare il Senso Originale producendo delle forme corrette e adeguatenella LA, si produce nel processo che possiamo denominare, seguendo diverse tendenze teoriche,come deverbalizzazione, decodificazione o comprensione, cioè quella fase in cui il traduttore haricostruito un senso non verbale, globale, dai significati offerti dai segni linguistici che compongonoil testo; l’errore B, invece, si produce più in là nel processo di traduzione, in alcuna delle sottofasiall’interno della fase di riverbalizzazione, ricodificazione o riformulazione del senso nella LA.

Schema semplificato di Atto traduttivo

Senso O Senso TSenso t.re

Segnale O Dec Rec Segnale T

Processo TraduttoreAdattato da Luis J. Prieto “L’atto di comunicazione traduttivo” (1995, 25-27)

S.te TS.to TS.to O S.te O

S.te OS.to O S.to T S.te T

Figura 1: O: originale; T: tradotto; t.re: Traduttore; S.to: Significato; S.te: Significante; Dec:Decodificazione; Rec: Ricodificazione

16 Sono due tipi di errore che si possono vedere come paralleli a quelli individuati da Martínez Melis nelle duecategorie “erreures qui se detéctent en comparant le TA au TO” e “erreures qui se detéctent à la seule lecture du TA”(Martínez Melis (2001), p. 229).

17 Hurtado Albir (2001), p. 289.

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Nell’illustrazione si riassumono i principali passaggi dell’atto di comunicazione traduttivocome lo concepì Luis J. Prieto, applicando i ben noti concetti di Ferdinand de Saussure. La figurava letta da sinistra a destra, seguendo le frecce, in questo modo:0. Da un Senso Originale, attraverso il processo di codificazione linguistica (e successivamente discrittura, ma questo passaggio è aneddotico), si arriva ad un Testo Originale, composto, come ognimessaggio linguistico, da un Significato e un Significante. Questo, ovviamente, rimane fuori dalprocesso di traduzione del quale, però, costituisce la base.1. Il segnale di volontà di comunicare costituito in prima istanza dal Significante Originale, vieneaccolto da un ricettore-traduttore che di conseguenza recepisce il Significante e gli attribuisceautomaticamente un Significato;2. Se questo significato recepito coincide con il Significato Originale saremo sulla buona strada perottenere, attraverso un processo che si è chiamato comprensione, decodificazione odeverbalizzazione, un Senso di Ricezione che coincida con il Senso Originale, ma questo nonsempre avviene così; in questo passaggio può già intercorrere l’errore di traduzione anche se sembratuttavia difficile stabilire in quale dei due passi di semantizzazione – quello (1) che porta dalSignificante Originale al Significato Recepito attraverso il Significante Recepito;18 oppure quello(2, la deverbalizzazione propriamente detta) che porta dal Significato Recepito al Senso diRicezione (“Senso t.re” nella figura) – si introduce un errore di interpretazione simile a quello che,come abbiamo visto, ha portato Guazzelli a leggere in hacía un “[io] facevo” al posto di un “[egli]faceva”;3. Il Senso di Ricezione verrà successivamente riverbalizzato o ricodificato in una lingua diversa,quella di arrivo, generandosi così un nuovo testo, per l’appunto il Testo Tradotto; anche in questopassaggio possono verificarsi degli errori traduttivi: ad esempio la comparsa di “falsi amici” comequello che avevamo visto nel titolo della nostra Storia compatta si può spiegare come una‘scorciatoia’ in questo processo, per la quale la verbalizzazione nella lingua di arrivo ‘salta’ persemplice similitudine fonetica dal Significante Ricepito al Significante Tradotto senza passare dallenecessarie tappe semantiche costituite dal Significato Originale, dal Senso del Traduttore e dalSignificato Tradotto. Pare, d’altronde, possibile che ogni tipo di calco sui diversi piani linguistici sipossa generare in un modo simile a questo.

Sui due grandi tipi di errore che fin qui abbiamo preso in considerazione non è difficileproiettare, rimaneggiandola almeno in parte, la classificazione di Delisle come riassunta da Sager(1989), in maniera di prendere in considerazione delle sottocategorie che possono avere un notevoleinteresse didattico:

ControsensoFalso senso

Deviazionesemantica

NonsensoSovratraduzione

Errore semantico(difetto di traduzione)

SottotraduzionePiano lessicale: false friendsPiano fonomorfologicoPiano morfosintattico

Errore linguistico(difetto di lingua)

Interferenza(Calcoinvolontario)

Piano sintattico

Infatti il “difetto di traduzione” o errore semantico è quello che come abbiamo visto si produce nellafase di comprensione del testo originale e si manifesta attraverso una serie di tipi diversi di infedeltàal senso originale, quello che nei nostri esempi aveva fatto Guazzelli; il difetto di lingua, invece, si

18 Se sono il Significante Originale e quello Recepito a non coincidere, bisognerebbe giustificarlo come una

semplice lettura sbagliata, ma anche questo tipo di errori meccanici può incidere sul risultato finale di una traduzione.

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produce nei diversi livelli della lingua di arrivo, generalmente attraverso l’interferenza dellestrutture proprie della lingua originale che alterano indebitamente quelle proprie del testo tradotto,come abbiamo visto che succede con i falsi amici – quale “compatto” per “conciso”.

Partendo da questo secondo gruppo dei difetti di lingua, cerchiamo di spiegare con qualcheesempio in cosa consistono le diverse classi di errore linguistico; è stato detto che sul pianolessicale è la contiguità fonica tra il significante originale e il significante tradotto quello che puòindurre a sostituire una parola della LP con un termine della LA che ‘suona uguale’ – magari pervia di una stessa origine etimologica – pur non avendo lo stesso significato. Fenomeni omologhipossono incidere su altri piani linguistici: nel seguente esempio19 la normale strutturamorfosintattica della frase spagnola è stata sconvolta, di nuovo, da un tipo di traduzione letteraleche ha preso come punto di mira l’unità linguistica del piano lessicale, la parola, invece diconsiderare un’unità discorsiva di rango superiore, come la frase.

Italiano Traduzione italianeggiante Traduzione spagnolaVi ringraziamo per lapreferenza accordataci

*Les agradecemos por lapreferencia que nos hanacordado

Les agradecemos lapreferencia que nos hanconcedido

Infatti, il processo traduttivo si basa sull’equivalenza fra elementi testuali in due lingue, mal’equivalenza giusta deve essere stabilita in maniera coordinata su più piani linguisticicontemporaneamente. Nell’esempio appena esposto (a parte la presenza del ‘falso amico’“accordare” : “acordar”) è prevalso il piano lessicale, sui cui elementi, ‘parola per parola’, sonostate stabilite delle equivalenze senza tener conto delle esigenze di unità appartenenti a pianidiversi, come quello morfosintattico, che in spagnolo impone un regime transitivo al verboagradecer, diverso da quello che ha in italiano “ringraziare”: in questa lingua l’oggetto è l’agentebenefico e il beneficio ricevuto s’introduce obliquamente con la preposizione “per”, mentre inspagnolo oggetto del verbo agradecer è il beneficio stesso, mentre l’agente che lo causa diventacomplemento di termine: “ringraziare qualcuno per qualcosa” si traduce quindi con agradecer algo(qualcosa) a alguien (qualcuno), e non, con *agradecer alguien por algo, frase impossibile inspagnolo, che costituisce un calco morfosintattico dell’italiano.

Nell’esempio successivo, invece, ci troviamo con una costellazione di calchi sui diversipiani linguistici che possiamo riassumere analizzando l’interferenza come un unico calco sintattico:

Italiano Traduzione italianeggiante Traduzione spagnolaPer una maggiore efficienzadel servizio, per richiesta diassistenza o di pezzi diricambio, Vi preghiamo diseguire le istruzioni delmanuale ricambi.

*Para una mayor eficiencia delservicio, a pedido de asistenciao de piezas de repuesto, Lesrogamos de seguir lasinstrucciones contenidas en elmanual repuestos.

Para una mayor eficiencia delservicio en la solicitud deasistencia o piezas derepuesto, les rogamos quesigan las instrucciones delmanual de repuestos.

In effetti, costruzioni sintattiche proprie dell’italiano, come l’assenza di articolo determinativo in“per richiesta”, la ripetizione della preposizione davanti ai due termini in coordinazione (“richiestadi assistenza o di pezzi di ricambio”), la subordinazione implicita “Vi preghiamo di seguire” o lacomplementazione per apposizione del sintagma nominale come in “manuale ricambi” devonoessere rese d’accordo con le regole sintattiche dello spagnolo, che richiedono la determinazione delsostantivo indipendentemente dalla presenza di una preposizione (en la solicitud), suggeriscono lasoppressione della preposizione davanti al secondo elemento coordinato (solicitud de asistencia opiezas de recambio) ed esigono la complementazione prepositiva di specificazione (manual de

19 Ringrazio Anna Maria Venuta per questo esempio e per quello successivo, tratti da un Manuale d’istruzioni.

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repuestos) e la subordinazione esplicita in caso di non coincidenza tra i soggetti del verbo principalee di quello subordinato (les rogamos que sigan).

Questi due esempi potrebbero, quindi, corroborare l’ipotesi che i calchi si producano comeun salto tra il significante della lingua di partenza e quello della lingua di arrivo, dovuto a unamancata conoscenza da parte del traduttore delle regole morfologiche e sintattiche di quest’ultima ocomunque a un loro venir meno per motivi che hanno più a che fare con la psicologia e la scienzacognitiva che non con la linguistica in senso stretto. Mentre ci riserviamo per la fine, per le sueimplicazioni culturali, un curioso esempio d’interferenza fonomorfologica, passiamo adesso aconsiderare alcuni esempi di diversi tipi di errore semantico. Probabilmente quelli più abbondantisono le deviazioni semantiche, simili a quel caso già visto nella traduzione di Tristana, con i quali iltradutore modifica il senso originale. Se la stragrande maggioranza di questi errori è giustificata dacaratteristiche di ambiguità intrinseche della LO, ogni tanto è possibile trovare delle vere e propriealterazioni del senso, che quindi originano un falso senso nel testo di arrivo, e che sembranoassolutamente arbitrarie; la seguente frase, all’inizio del famoso racconto di Jorge Luis Borgesintitolato «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius»,

Bioy Casares había cenado conmigo esa noche y nos demoró una vasta polémica sobre la ejecuciónde una novela en primera persona…

si può tradurre in italiano in questo modo:Bioy Casares si era fermato a cena da me quella sera e ci attardammo in una vasta polemica

sull’esecuzione di un romanzo in prima persona...

Invece una delle traduzioni pubblicate in Italia (nella raccolta intitolata Finzioni) dice così:Bioy Casares, che quella sera aveva cenato con me, stava parlando di un suo progetto di romanzo

in prima persona…

È difficile spiegare perché e con quale criterio siano state scelte dal traduttore italiano le modificheinnecessarie e arbitrarie che ha introdotto nel testo. Non c’è niente nel prosieguo della narrazioneche giustifichi l’attribuzione a Bioy Casares del progetto di romanzo in prima persona, che allostesso modo potrebbe essere, nell’originale, un’idea del narratore o una questione teorica.Comunque sia, se l’alterazione sintattica – per cui una proposizione principale seguita da unacoordinata è diventata una subordinata relativa con funzione esplicativa – non è facilmentegiustificabile (le conseguenze stilistiche sono difficili da valutare il che esula comunque dai nostriinteressi) il difetto più palese è l’aggiunta di un elemento di significato che nell’originale non erapresente, parallela a quello che invece potremmo considerare come sottrazione di qualcosa di moltosignificativo: è ovvia la differenza che c’è fra quell’appassionato attardarsi di due interlocutori in“una vasta polemica” e quella fastidiosa esposizione di un progetto di romanzo da parte del poveroBioy Casares, che il traduttore italiano ha fatto diventare protagonista di un noioso monologo.

Queste due caratteristiche, aggiunta più sottrazione, potrebbero far pensare alle categorie diaddizione e omissione che Delisle definiva in questi termini:

Addizione: introdurre nel testo di arrivo, in maniera ingiustificata, elementi d’informazionesuperflui o effetti stilistici assenti nel testo di partenza.

Omissione: non tradurre, in maniera ingiustificata, un elemento di senso o un effetto stilistico deltesto di partenza.20

In effetti, i diversi tipi di errore che abbiamo preso da Sager e Delisle hanno ricevuto numerosecritiche per l’indefinizione che li caratterizza, per la scarsa chiarezza delle frontiere che li separanoe che sovente rende difficile stabilire con sicurezza a quale categoria appartiene un difettoparticolare. Se nel primo esempio che abbiamo visto, quello del romanzo di Pérez Galdós, era facileindividuare come origine dell’errore una ambiguità morfologica dello spagnolo, nel caso del

20 Delisle (1993), pp. 37-38, apud Hurtado Albir (2001), p. 291.

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racconto di Borges, ad esempio, non sembra possibile stabilire con uguale certezza la causa delleindicate alterazioni del senso originale. Noi ci dovremo accontentare, in questo caso, dellaconstatazione che è stato introdotto un senso diverso da quello originale e in quanto tale, “falso”.Queste difficoltà di classificazione possono bene palesare i motivi per cui non pochi studiosi hannomosso delle critiche alle categorie tradizionali di Delisle, pur riconoscendo loro una indubbia utilitàdidattica. In questo senso sono fondamentali le apportazioni di Jeanne Dancette,21 che ritenendopoco chiarificatori i concetti tradizionali, ha cercato a più riprese di esplorare la genesi dell’erroresia sul terreno della linguistica sia nell’ambito della psicologia cognitiva.

Altri tipi di errore, tuttavia, sono più facilmente definibili e di conseguenza non è difficiletrovarne esempi chiari. Così succede con il caso di nonsenso, nel quale potremmo annoverarel’esempio già visto della “fucilazione del video” insieme a quella “gonna da vestire”, traduzioneletterale dello spagnolo falda de vestir (gonna elegante), che troviamo su una sedia nella traduzioneall’italiano di un romanzo dell’autore spagnolo contemporaneo Javier Marías.22 E lo stessopotremmo dire del controsenso, per il quale si attribuisce “ad una parola o ad un gruppo di parole unsenso erroneo o più in generale si tradisce il pensiero dell’autore del testo di partenza”.23 Un buonesempio di quest’ultimo tipo di difetto di traduzione lo troviamo in una versione italiana, scaricabileda Internet, del famoso Llanto por Ignacio Sánchez Mejía di F. García Lorca, versione nella qualela frase “y el toro solo, corazón arriba” è diventato “*solo il toro ha il cuore in alto”. Anche inquesto caso la mancata comprensione passa dal piano lessicale: è ovvio che il traduttore nonconoscesse il senso del modismo spagnolo per il quale anteponendo all’avverbio arriba unsostantivo spaziale concreto quale calle (via), carretera (strada), río (fiume), monte (montagna) oescaleras (scale) si ottiene una serie di locuzioni avverbiali che denotano un movimento ascendentelungo l’itinerario o attraverso il luogo indicato dal sostantivo. Di conseguenza una traduzione piùfedele al senso originale potrebbe essere stata “e il toro va su da solo verso il cuore” che puòrendere un po’ di più l’idea poetica del testo originale, cioè questo toro che ha invaso il corpo deltorero morto e sale attraverso le sue vene e il suo cuore. Inutile sottolineare la forza catartica diun’immagine così potente, così sconvolgente, che nella traduzione è stata malamente banalizzata dauna comprensione erronea.

Come si può osservare, non sono pochi gli errori semantici che dallo spagnolo all’italiano sigenerano sul piano lessicale, e molti di essi ci rimandano all’uso reale della lingua attraverso ilquale certi raggruppamenti di parole, quali le locuzioni e le parole composte, acquisiscono unsignificato che non è facilmente deducibile dalla semplice somma dei significati delle parole cheintegrano l’insieme. Questa è tuttavia una questione complessa di lessicologia che richiederebbe untrattamento più esteso di quanto qui possiamo accordarle. Vorrei invece prendere in considerazione,per finire, un caso particolare che ci permette di riflettere da una parte, sulle implicazioni culturaliche può comportare in alcuni casi la scelta del traduttore, dall’altra sull’importanza che per unaadeguata risoluzione dei problemi di traduzione riveste una conoscenza approfondita, attraversoun’accurata analisi del testo in considerazione, dei rapporti intertestuali da esso intrattenuti e piùprecisamente, della sua precisa situazione nella costellazione della cultura testuale di partenza.

Come si sa, nel 2005 si è celebrato in Italia come in tutto il mondo il IV centenario dellapubblicazione del più famoso e universale dei romanzi della letteratura spagnola, Las aventuras delingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha. L’opera, presto tradotta in inglese e in francese, lo fupure in italiano, nell’anno 1621, a cura di Lorenzo Franciosini, uno studioso che aveva dato giàabbondanti dimostrazioni della sua conoscenza e del suo interesse per la lingua della Castiglia.Nonostante ciò, ci sono buoni motivi per affermare che, nella sua scelta d’italianizzare nel modo incui lo fece il nome del protagonista, Don Chisciotte, il Franciosini sbagliò. In primo luogo, e in sua

21 Dancette (1989), Dancette (1995) e Dancette (1997).22 In questo caso la genesi dell’errore sembra chiara: il traduttore ha ignorato il valore di locuzione che sul

piano lessicale dello spagnolo colloquiale acquisisce l’insieme di parole de + vestir, e ha così tradotto parola per parolaun’associazione che genera solidalmente il suo significato e deve quindi essere tradotta in maniera unitaria.

23 Delisle (1993), p. 31, apud Hurtado Albir (2001), p. 291.

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giustificazione, bisogna tener conto del fatto che se da una parte era pratica abituale all’epoca latraduzione dei nomi propri, rimane anche ai giorni nostri il fatto oggettivo della difficoltà insita nelsuono del fonema velare fricativo sordo rappresentato dalla <j> di Don Quijote per gli italofoni.Questo dato di fatto era in effetti un incentivo per adattare il nome. Ma il primo traduttoredell’immortale romanzo avrebbe dovuto prendere in considerazione due tipi di argomenti, da cuifarsi guidare in questa operazione di addattamento: in primo luogo quelli morfologici e poi, anchese non meno importanti, quelli intertestuali. Da una parte l’analisi morfologica del nome “Quijote”,ci rivela – e in questo ci conforta la lettura del libro – che questo nom de guerre è formato su unabase ‘Quij-‘, probabilmente presa da uno dei possibili cognomi dell’hidalgo pazzo, Quijano oQuejada,24 alla quale è stato aggiunto un suffisso alterativo ‘-ote’ che ancor oggi il Diccionario dela Real Academia Española definisce come “utile per formare accrescitivi e peggiorativi”, anche seprobabilmente la maggior parte delle alterazioni che si possono derivare con questo suffisso assumetutte e due le sfumature. Ma è ovvio che Alonso Quijano non scelse con questi criteri negativi ilsoprannome che riteneva – a ragione – destinato a far perdurare le sue prodezze cavalleresche nellamemoria delle genti. Il povero hidalgo – e questa è una tipica ironia cervantina – non si rendevaconto di quanto fosse buffo, proprio per via del suffisso, il nome da lui scelto. Sul vero motivo chein realtà lo spingesse a prendere come nome cavalleresco quello scelto, niente ci dice il testo delromanzo: “Avendo messo il nome, con tanta soddisfazione, al suo cavallo, volle ora trovarsene unoper sé, e in questo pensiero passò altri otto giorni, finché si risolse a chiamarsi don Chisciotte”.25

Tuttavia, poco più in là del passaggio citato, lo stesso personaggio ci fa capire cosa avesse avuto inmente per dare a se stesso un nome così poco fortunato. In effetti, nel capitolo successivo, mentrealcune povere servette lo spogliano dalla sua armatura in quella venta che lui pensa essere castello,Don Quijote si rivolge a loro recitando, mutatis mutandis, una vecchia ballata castigliana che offroin versione bilingue:

Non fu al mondo cavaliereche dame tanto onorasserocome lo fu Don Chisciottequando lasciò il suo villaggio.Principesse a lui badavanoe donzelle al suo ronzino.

Nunca fuera caballerode damas tan bien servidocomo fuera Don Quijotecuando de su aldea vino:doncellas curaban de él,princesas, del su rocino.

Si tratta di un componimento di tipo popolare, autore anonimo, diffusione orale e molto conosciutoall’epoca, il cui vero protagonista, però, non era il nostro hidalgo bensì il cavaliere della arturianaTavola Rotonda, Lancillotto del Lago, in spagnolo conosciuto come Lanzarote del Lago.26

E con questo mi pare evidente che ci siano già piste sufficienti per individuare qualedovrebbe essere stato il più giusto adattamento italiano del nome del nostro personaggio: DonChisciotto. Infatti, l’italiano riconosce il suffisso ‘-otto’ come tale, contrariamente a quanto succedecon ‘-otte’ e in questa lingua,27 inoltre, il nome del cavaliere leggendario che ha ispirato il battesimod’armi dell’hidalgo spagnolo è, appunto, Lancillotto, mica Lancillotte. È molto probabile, tuttavia,che in questo errore di traduzione, che si è perpetuato nel tempo in maniera tale che oggi non è piùpossibile correggerlo, si possano scorgere due origini diverse: da una parte, è stato il piano foneticodello spagnolo a esercitare un’interferenza indesiderabile, in maniera che è prevalso su quello

24 “Si risolse a chiamarsi Don Chisciotte; dal che, come s’è detto, gli scrittori di questa autentica storia

dedussero che doveva chiamarsi Quijada e non già Quesada come piacque ad altri sostenere”. Don Chisciotte dellaMancha, Cap. I della I parte. Trad. di Vittorio Bodini, Torino, Einaudi, 1957, p. 30. Ma alla fine, già rinsavito e nel suoletto di morte, lo stesso personaggio si riferisce a se stesso come “Alonso Quijano il Buono” (ivi, p. 934).

25 Ivi, p. 30.26 L’originale diceva, infatti: “Nunca fuera caballero/ de damas tan bien servido / como fuera Lanzarote /

cuando de Bretaña vino:/ doncellas curaban de él,/ princesas, del su rocino”27 Sebbene le sue connotazioni non siano così decisamente peggiorative come quelle dello spagnolo ‘-ote’,

l’effetto ironico nascerebbe in italiano proprio dal valore diminutivo del suffisso.

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morfologico – sul quale il traduttore italiano si sarebbe dovuto imperniare – imponendo l’unitàlinguistica ‘fono’ piuttosto di quella ‘morfo’ come base dell’equivalenza; dall’altra, è possibileipotizzare un influsso collaterale della lingua francese, della quale traduzione (eseguita da CésarOudin e pubblicata nel 1614) si servì sicuramente il Franciosini28 e in cui il cavaliere errante era giàstato battezzato come Don Quichotte.29

Questo esempio, quindi, oltre a fornirci un caso chiaro di interferenza della LO sul pianomorfonematico della LA, mette in rilievo quanto sia importante, tra gli ingredienti che compongonola competenza traduttrice, una conoscenza approfondita dell’universo culturale e in particolare dellacultura testuale della lingua di partenza.

Riferimenti bibliografici

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28 Ruffinatto (2002), p. 129.29 Un altro conto sarebbe stabilire la correttezza di questo adattamento al francese.

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MARIA CARRERAS I GOICOECHEA“La bomba al panzanio” di Stefano Benni:

tradurre l’ironia*

IntroduzioneLa bomba al panzanio di Stefano Benni è un articolo di opinione con un forte uso dell’ironia

e di una particolare cifra stilistica, quella che da alcuni viene chiamata bennilingua e che siriconosce anche nei suoi romanzi e testi teatrali. Per quanto riguarda l’autore, è un personaggiomolto noto che desta nei lettori sentimenti ambivalenti (o lo si ama o lo si odia: basta navigare unpo’ sulla Rete per vedere quanto è stato usato il testo da noi preso in esame come base di dibattito inmolti forum di discussione e quali reazioni ha provocato fra i suoi amanti e detrattori). StefanoBenni, nato a Bologna il 12 agosto 1947, è giornalista, scrittore e poeta; collabora con numerosetestate giornalistiche e riviste tra cui Corto Maltese, Cuore, Effe, Il Manifesto, Panorama, LaRepubblica, L'espresso, Linus, Micromega, etc. Scrive per Smemoranda, è autore di svariateintroduzioni e di diverse collaborazioni, persino nell’ambito musicale, autore di una lettura di Lolitadi Nabokov e traduttore dal francese (Il rapimento di Ortensia 1988, di Jacques Roubaud), ma è,soprattutto, autore di corsivi, racconti e romanzi.1 È inoltre un personaggio molto attivo in Rete, conun proprio sito dal quale risponde alle domande dei suoi lettori e autore di diversi seminari nellaLibera Università di Alcatraz, dove partecipano anche Dario Fo e Franca Rame, tra altri.

Procediamo ad un’analisi del testo finalizzata alla traduzione in spagnolo dello stesso anchese i problemi che andiamo a presentare sono validi per qualunque lingua,2 mentre le soluzionipotrebbero cambiare. Per permettere il lettore di seguire meglio le nostre riflessioni, alleghiamo iltesto di Benni dove abbiamo indicato con diversi colori alcune delle cose che più ci interessacommentare.

Situazione comunicativa:Il testo, pubblicato come si è già detto il 5 aprile 2003 su Il Manifesto, appare in prima

pagina e con la firma del suo autore.3 Bisogna dire che quest’articolo era stato annunciato alcunigiorni prima della sua comparsa da altri giornali come La Repubblica, dando modo di leggerlo alettori non necessariamente del Manifesto ma conoscitori dell’autore. Si presenta sotto forma dinotizia (nello stile della cronaca di guerra) con un titolo accattivante e misterioso allo stesso tempo,ma è evidente che il referente è solo un pretesto. La modalità è l’elemento chiave della presenzadell’autore. Abbiamo inoltre uno stile tutto personale, la cosiddetta bennilingua, riconoscibile

* Questo articolo nasce dall’esperienza didattica forlivese Settimana d’insegnamento sulla guerra (28 aprile-2

maggio 2003, SSLMIT) anche se è stato rivisto e corretto in occasione di questo seminario.1 Alcune delle sue opere sono La tribù di Moro seduto (1977), Non siamo stati noi: corsivi e racconti (1978),

Prima o poi l’amore arriva (poesie, 1981), Terra! (romanzo, 1983), I meravigliosi animali di Stranalandia, con disegnidi Pirro Cuniberti (1984), Comici spaventati guerrieri (romanzo, 1986), Il bar sotto il mare (racconti, 1987), Baol, unatranquilla notte di regime (romanzo, 1990), Ballate (poesie, 1991), La Compagnia dei Celestini (romanzo, 1992),L’ultima lacrima (racconti, 1994), Elianto (romanzo, 1996), Bar Sport (racconti, 1997), Bar Sport Duemila (racconti,1997), Blues in sedici, ballata alla città dolente (poesie, 1998), Il mondo di Stefano Benni: asino chi non legge (1999),Leggere, scrivere, disobbidire. Conversazione con Goffredo Fofi (1999), Teatro (copioni, 1999), Spiriti (romanzo,2000), Dottor Niù: corsivi diabolici per tragedie evitabili (corsivi, 2001), Saltatempo (romanzo, 2001), Teatro 2(copioni, 2003), Margherita Dolcevita (romanzo 2005).

2 Anche se ovviamente le strategie traduttive dipenderanno non solo dalla lingua di arrivo ma anche, esoprattutto, dalla cultura di arrivo: non sarà lo stesso tradurlo in francese per il Belgio, per la Francia o la Svizzera cheper i lettori dei territori d’oltremare, e non tanto per le varianti linguistiche che si trovano fra questi bensì per ledifferenze culturali poiché abbiamo un testo molto incentrato sul punto di vista dell’Occidente.

3 La parte introduttiva, in corsivo, e altri tre paragrafi si trovano esattamente al centro della prima pagina, ilresto a pagina tredici. Si tratta di un articolo di 1165 parole.

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subito sin dal titolo. Infatti, in La bomba al Panzanio troviamo questo sostantivo neologico formatoper composizione (panzana + uranio), fantascientifico composto che riusciamo a decodificaregrazie all’accostamento con il sostantivo bomba.4 Come vedremo, la notizia (il bombardamento dipanzane) non è altro che un pretesto per sviluppare attraverso l’ironia una dura critica.

• Macrostruttura:Possiamo dividere il nostro testo in quattro parti, in pratica l’apparato dei titoli, l’occhiello

(in corsivo nel TO, da I mortiferi… ad esplodere), il corpo dell’articolo e le conclusioni, il tuttosenza connettori. Più in generale, in due parti: il riassunto da un lato e il racconto vero e propriodall’altro, come si illustra nello schema sottostante:

4 È interessante osservare come si sia rapidamente esteso l’uso della locuzione coniata da Benni, bomba al

panzanio, che in Rete ormai viene usata per indicare appunto la manipolazione dell’informazione. Diversi poi sonocoloro che si riferiscono alle “bombe al panzanio come le definisce Benni” o alle “bombe che Benni chiama alpanzanio”. Interessanti anche “i media panzanici”, con il derivato virgolettato, sempre in Rete.

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IraqLa bom

ba al panzanio

Titolo

I mortiferi B

52… pronte a esplodere

occhiello

RIA

SS

UN

TO

paragrafo 23conclusioni.

……

paragrafo 3

paragrafo 2

paragrafo 1

RA

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TICO

LO

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• Titoli:Presentano il tema o topico, in questo caso la guerra contro l’Iraq (è sufficiente un toponimo

come questo da solo per situare il lettore nello spazio e nel tempo) e un tipo di bombaapparentemente sconosciuto ma che automaticamente fa pensare al nucleare. Così, la bomba alpanzanio ci introduce nel contesto: situazione allarmante, di pericolo, appena 15 giorni dopol’inizio del ‘conflitto’, come lo hanno chiamato spesso i giornali evitando l’uso di parole più direttecome quelle che sceglie Benni. Ovviamente, un lettore familiarizzato con lo stile dello scrittorebolognese può facilmente intuire il gioco di parole che comunque viene subito chiaritonell’occhiello.

• Occhiello:Vi possiamo individuare quattro sequenze ed in ognuna è presente almeno una volta la

parola chiave bomba. La prima sequenza (I mortiferi B 52 …la superbomba tagliamargherite)presenta una lista di cinque tipi di bombe in un’autentico bombardamento di informazione ottenutograzie alla giustapposizione con elisione totale di verbi. L’ironia fa subito capolino passando dagliautentici ordigni esplosivi (i B52, le testate chimiche e le bombe a grappolo) a altre bombe menoreali benché possibili, se non fosse per l’assurdo del loro uso (la minibomba nucleare agittata…federalista e la superbomba…tagliamargherite). Il riferimento all’informazione bugiardanata nel seno della Lega e quella destinata a danneggiare la Margherita è chiaro. Nella secondasequenza (Ma fra tutte …corpi massacrati) ritroviamo il tema questa volta con un tono molto seriograzie alla ripresa del titolo, come si usa solitamente negli articoli giornalistici, e all’esplicitazionedel suo significato, dapprima molto tecnica: la bomba P., cioè al panzanio arricchito; poisarcastica: bomba che quando esplode sparge intorno a sé decine di panzane, bugie e omissioni,notizie false…. Nella terza sequenza (È assai più potente… ex democrazia del mondo) la bomba inquestione viene descritta secondo la sua potenza e i suoi utenti e in questo modo si anticipa il verodestinatario della critica in atto, cioè l’America da un lato e la manipolazione dell’informazionedall’altro (chiaro anche il riferimento al conflitto di interessi del Presidente del Consiglio italiano).L’ultima sequenza, infine, (Ecco… pronte ad esplodere) annuncia in cosa consisterà il resto deltesto: una serie di esempi di manipolazione dell’informazione, ovviamente in chiave ironica.

In ognuna di queste sequenze troviamo, almeno una volta, il termine bomba, a conferma diun piano fonologico significativo, dove le accuse cadono come macigni, con il ritmo delle bombelasciate cadere da un aereo.

• Corpo del testo:Lo sviluppo e l’espansione del tema avviene in ben ventitré paragrafi che raccontano, come

in una cronaca di guerra, diversi fatti in un crescendo di assurdità, crescendo che si conclude conuna possibilità ben più reale di quanto possa sembrare: dopo l’Iraq la guerra preventiva potrebbevenire applicata anche contro Siria e Corea. Con un consiglio: “Chi vuol capire capisca” che ha unagran forza perlocutiva poiché sta esortando il lettore a vigilare, ad agire… Il traduttore dovrà trovareuna forma proverbiale adeguata che abbia la stessa forza perlocutiva nella lingua di arrivo.5

• Microstruttura del corpo della notizia:Dicevamo di ventitré paragrafi, attraverso i quali si sviluppano tre storie parallele: la cronaca

di guerra tra USA e GB contro l’Iraq (i paragrafi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 16, 20, 21 e 22),l’esilarante cronaca della conquista di Bassora (par. 2, 6, 12, 15, 19 e 20, che abbiamo trascritto inrosso) e il ruolo dell’Italia nella guerra e, più in generale, il suo passato più recente (par. 17), tral’altro il paragrafo più ampio fra tutti e situato nel centro del testo.

5 Per esempio, in spagnolo, A buen entendedor pocas palabras.

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• Piano lessicaleCome si può intuire, domina il linguaggio relativo alla guerra (evidenziato da noi in giallo).

Oltre alle diverse bombe di cui si è già detto, bisogna notare diversi tipi di armi, fra cui i tank, glispari, i colpi di bazzooka, le armi chimiche; l’esercito, rappresentato dai soldati, le truppe inglesi, imarines e i caporalmaggiori; il contesto a loro più naturale, cioè una base militare e i campi diaddestramento; la guerra vera e propria, vale a dire l’attacco e la battaglia, i corpi massacrati cheportano alla vittoria o gli eufemismi come operazione e scaramuccia; numerosi verbi e collocazionilegati alla guerra come bombardare, sganciare (bombe), centrare, attaccare, scoppiare, esplodere,spargere, sparare, controllare, conquistare, sfilare; un regime e una ex-democrazia che in qualchemodo sono coinvolti nella guerra; una banalissima giacca militare e diverse strategie e tattiche. Laparola guerra però si trova solo quattro volte: una nell’occhiello, che annuncia gli argomenti atrattare, e tre concentrate nel paragrafo 17, quello dedicato all’Italia. Ci sono inoltre alcuni esempiche potremmo chiamare ‘positivi’ come il fuoco amico, la resistenza, i superstiti e, soprattutto, lapace e i pacifisti, i quali non hanno molto spazio (la pace appare solo una volta e i suoi derivati altretre, tutti nello stesso paragrafo 17). Non c’è bisogno di dire quanto sia importante preservare lasensazione di squilibrio tra la pace e la guerra trasmessa al lettore con un campo semantico cosìiterato e l’altro a malapena nominato.

Di fronte al settore della guerra rimangono soltanto in secondo piano, ma sono utilissimi per lariflessione sulla traduzione di testi divulgativi, i toponimi, antroponimi, nomi di organismi eistituzioni internazionali e locali. Tra gli antroponimi si possono notare alcuni nomi di personaggiche a un lettore straniero risulteranno più familiari di altri (Ciampi, Saddam, Bush, Collin Powell)contro altri come Gasparri, Casini, Previti, etc., meno noti fuori dall’Italia ai lettori non esperti nellapolitica del Bel Paese (abbiamo evidenziato in grigio i nomi dei politici noti e meno noti). Siosservino infine le deformazioni di alcuni dei protagonisti, come Silvio W. Berlusconi o il soldatoPreviti. Da commentare, infine, che i ragazzini tra gli otto e i quattordici anni che durante ilfascismo si radunavano in formazioni paramilitari, i balilla, (in grasseto e grigio) risultano spessosconosciuti ai ventenni6 i quali, purtroppo, hanno veramente poca familiarità con il loro passatostorico. Ne riparleremo a proposito dei problemi di traduzione. Per quanto riguarda gli organismi, sinotino la Fininvest, la Esso, Mediobanca e Corsera. Un altro riferimento importante è quello allalegge Gasparri, che ai nuovi lettori andrà in qualche modo esplicitata.

Come si osserva spesso nei testi giornalistici, anche qui troviamo diversi esempi di anglicismisebbene bisogna dire che, tutto sommato, non sono troppi. Alcuni, come week-end, ormai la formapiù usata in Italia per indicare il sabato e la domenica, in spagnolo vanno senz’altro tradotti (fin desemana). Altri, come Bazooka, tank e spray, si adatteranno al sistema morfofonologico castigliano(tanque, bazuca, espray). Lasceremo invece invariati Pay Tv e My Tv perché contribuiscono arendere l’immagine di questa Tv tutta commercio e pubblicità. Per quanto riguarda il gallicismochoc si possono proporre sia il prestito sia la traduzione trauma, che sposta il foco dalla causa sulrisultato.

• Piano morfologicoSi è già anticipato che l’aspetto più interessante della cosiddetta bennilingua è la formazione di

nuove parole, sia per derivazione che per composizione, molto spesso non solo inventate ma ancheimprobabili. Si tratta di un aspetto molto affascinante anche dal punto di vista traduttivo e a volte sitramuta in una vera e propria sfida. Ritorniamo per un momento al titolo: la bomba al panzanio. Ladifficoltà più grande sarà rendere allo stesso tempo sia l’idea di pericolo legata all’accostamento trabomba e uranio sia il sema di ‘bugia’ raccolto in panzana. Chiarito che si tratta di una voce comune(DLI, De Mauro), ci divertiremo a cercare sinonimi di bugia in spagnolo che mantengano lo stesso

6 La fascia di età degli studenti universitari va dai 19 ai 25 anni circa.

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registro e permettano di ottenere un effetto simile a quello del titolo originale. Alcune soluzionipossono essere mentiranio, trolanio, bolanio, patrañio.

Altri esempi di formazione di parole sono alcune deformazioni dei nomi di personaggi famosi(Tony Blairforce, George We[h]rmachtBush che abbiamo evidenziato in verde scuro), di luoghi(Camp Italy), e di cose (la già citata My TV per analogia con Pay Tv).

• Piano semanticoCome si è anticipato nell’introduzione, la strategia di Benni consiste nel passare dalle

informazioni vere a quelle plausibili per poi arrivare a quelle assurde che fanno scattare la risata. Sitratta, in effetti, dell’uso di una figura retorica assai complessa poiché “il suo paradosso consiste nelfatto che per funzionare deve essere riconoscibile ma se è troppo scoperta perde di efficacia e siavvicina all’amarezza del sarcasmo: il discorso ironico si gioca quindi tra riconoscibilità eleggerezza”.7 L’ironia è simile all’antifrasi (in altre parole dire il contrario di quello che si pensarealmente), anche se meno svelata, e alla litote, benché più sottile, e ha un rapporto molto delicatocon l’enfasi. Come spiega Beccaria:I. Per ottenere l’ironia è di fondamentale importanza che l’emittente e il destinatario

condividano la medesima presupposizione pragmatica o, detto in parole di Umberto Eco, lastessa enciclopedia. È proprio questo, come vedremo più avanti, a rendere difficile latraduzione del nostro testo: se gli eventuali lettori spagnoli conoscono bene i fatti dellaguerra contro l’Iraq, sono meno informati sulla particolarità della politica italiana (anche senon bisogna dimenticare che diversi autori di corsivi citano il Presidente Berlusconicontinuamente) e quindi non sempre possono riconoscere i riferimenti extratestuali troppo“locali”.

II. Qualsiasi enunciazione ironica in realtà esprime un giudizio di valore dato che contiene unfondo morale e un certo senso di superiorità nascosto nella ‘norma’ immaginata da chi parla:nel nostro caso Benni considera immorale il comportamento dei governanti di USA, GranBretagna e Italia (le parti più dure nei confronti del governo italiano e del suo presidente leabbiamo evidenziate in rosso).8

III. L’ironia è basata sulla polifonia e cioè sulla presenza in ogni enunciato di altri enunciati: ineffetti, La bomba al Panzanio presenta vari esempi di discorso diretto attribuito a terzi (unadonna bombardata, Rumsfeld, Bush, Blair, Ciampi, Pisanu, i pacifisti, Frattini, Berlusconi,Powell, etc.).9

IV. L’ironia non si chiude in una fase ma dipende da una sequenza interattiva che può diventarestrategia o stile. Tutto il testo di Benni è strutturato in questo modo (si osservino i branievidenziati in verde oliva).

V. Infine, il ricorso all’ironia presuppone la negoziazione con il lettore e la sua complicità,altrimenti il testo non viene apprezzato in quanto si è in disaccordo con le affermazioni fattee viene presto abbandonato. Questo spiega anche perché, come dicevamo sopra, il nostro

7 Beccaria (1994), pp. 400-401.8 E, dobbiamo supporre, la Spagna, visto che aveva aderito alla proposta di guerra preventiva senza prendere in

considerazione che quasi il 90% degli spagnoli si era dimostrato contrario alla stessa. Va da sé che la traduzionedell’articolo di Benni avrebbe trovato una accoglienza positiva proprio nella condivisone del giudizio morale. Lapubblicazione del testo tradotto in spagnolo doveva però essere fatta in tempi molto vicini ai fatti commentati da Benniper avere un senso. Pubblicato ora, alcuni anni dopo, l’articolo non perderebbe la sua forza come documento mabisognerebbe tener presente che il contesto è cambiato molto: la Spagna del PP è stata sconfitta alle ultime elezioni e laprima azione importante del governo di Zapatero (PSOE) è stato ritirare le truppe spagnole dall’Irak. Purtroppo lanotizia in sé, cioè la guerra in Irak, è ancora attuale.

9 Tra l’altro è anche una nota strategia per dare autorità all’informazione raccolta nei testi giornalistici che allostesso tempo, se accompagnata dalla citazione virgolettata, dovrebbe evitare non pochi guai ai giornali.

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autore, che spesso fa uso di una delle “forme maligne” dell’ironia10 dove “prevale l’intentoderisorio”, ha amanti o detrattori.

Alcuni problemi di traduzione• I riferimenti culturali: durante la nostra analisi, ci siamo chiesti quali fossero i problemi ditraduzione dovuti alla tipologia testuale, come la presenza di antroponimi, toponimi, nomi diistituzioni o enti che presenta qualsiasi testo giornalistico e che abbiamo già elencato nel pianolessicale,11 ma ci siamo anche chiesti quali fossero invece i problemi dovuti all’ancoraggio del testoalla realtà italiana, come i molteplici riferimenti a diversi personaggi politici senza alcunaindicazione dei partiti di appartenenza e dei loro incarichi istituzionali. Lo stesso avviene con ipersonaggi appartenenti al contesto culturale italiano. Si sono dovute vagliare soluzioni diverse perognuno di loro: come far capire il celodurismo della Lega o il riferimento al bando di Lutazzi dallaTV senza rompere l’equilibrio del testo originale? Ben più semplici e immediati il già citato CampItaly, sulla falsa riga di Camp Derby, e il soldato Previti (dove l’allusione al film Salvate il soldatoRyan rimane riconoscibile mentre la figura di Previti forse, chi lo sa, andrebbe chiarita ad un lettorespagnolo). L’accostamento tra Casini e i Balilla si può risolvere facendo precedere al nome delprimo il ruolo di presidente della Camera, mentre confideremo nei lettori meno giovani per ilriconoscimento dei piccoli soldatini. Il famoso arbitro Moreno (reo dell’eliminazione dell’Italianegli ultimi mondiali di calcio) non ha bisogno di ulteriori chiarimenti, ma forse bisognerà trovare ilmodo di permettere al lettore spagnolo di cogliere appieno la critica a Pisanu, che si ripete nelle sueosservazioni sul movimento non global, e a Fini, accusato di provocare i pacifisti. Il paragone tra ilministro degli esteri, Frattini, e Cipollino (il famoso personaggio di Massimo Boldi?) si potrebbeaccompagnare dal nome di Jaimito, personaggio delle barzellete spagnole simile all’italianoPierino, con una perdita di informazione dovuta alla semplificazione che ci sembra di poteraccettare. Insomma, benché il cuore del testo di Benni sia dedicato all’Italia, al nostro nuovodestinatario dovrebbe bastare riconoscere alcuni dei bersagli dell’autore per riuscire a capire quantosiano dure le accuse che vengono loro avanzate.

Altro aspetto interessante del nostro testo è il discorso diretto e l’uso dei verba dicendi cheintroducono la polifonia di cui si è già parlato a proposito dell’ironia: (secondo x, ha ribadito, harisposto, ha detto, ha dichiarato, ha detto, hanno risposto, ha aggiunto, ha dichiarato, etc.): più chetradurre letteralmente il verbo del TO è importante preservare il ritmo degli interventi e la volontàdell’autore di riprodurre lo stile caratteristico delle cronache vere con una totale mancanza di ricercastilistica (“ha detto” si ripete ben 10 volte).

Ben più complesso ci è sembrato riuscire a preservare i cambiamenti di registro, il grado diimplicazione tra l’autore e il messaggio, ovverosia la soggettività di questo testo, e il suo grado diperlocutività, vale a dire le intenzioni comunicative, senza perdere né il ritmo né l’ironia stradafacendo.

La parte dedicata all’Italia contiene una serie di accuse molto forti che l’autore non cerca dinascondere: sostantivi come fascismo e i suoi derivati o voci legate a quegli anni come balilla eMussolini hanno un peso considerevole. L’argomento della cattiva informazione annunciatonell’occhiello si sviluppa tutto qua: Berlusconi controlla l’informazione e la manipola e quindi ilsuo modo di governare ha tutti i presupposti per essere paragonato ai passati regimi. Altri membriimportanti del governo sono altrettanto responsabili (Casini, presidente del Parlamento, Frattini,ministro agli esteri, Pisanu, ministro agli interni, Fini, vicepresidente del governo…).

10 Beccaria (1994), pp. 400-401.11 Tra l’altro, in questo caso, poiché il contesto è il Medio Oriente, si presenta la questione della trascrizione

dei nomi arabi che, solitamente, i giornali italiani trascrivono servendosi direttamente della lingua inglese o dal francesementre in spagnolo si rispettano le proprie regole di ortografia (ad esempio Bassora, Saddam… in spagnolo sitrascrivono con la consonante semplice perché non esiste altra doppia che -rr-).

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Un traduttore può rifiutarsi di accettare un incarico di traduzione di un testo come questo mase lo accetta, sarà suo obbligo morale preservare l’integrità del testo originale senza aggiungere nétogliere nulla di quanto dice l’autore. La fedeltà al testo originale si otterrebbe:• preservando il piano fonologico del primo paragrafo• preservando la forma e la microstruttura• preservando la presenza dell’autore attraverso l’uso della modalità• preservando lo stile dell’autore in chiave ironica• preservando la critica all’Italia• preservando i giochi linguistici

Ma non sarà lo stesso tradurre in tutte le lingue. Abbiamo già detto che tradurre non è solopassare da una lingua ad un’altra ma che si tratta anche, e soprattutto, di un’operazione di tipoculturale. Ecco alcuni dei fattori che non dobbiamo dimenticare:• Inglese: gli inglesi e gli americani sono criticati, derisi, e persino ridicolizzati nel testo.• Tedesco: il riferimento alla Wehrmacht può essere offensivo?• Arabo: le popolazioni di lingua araba sono le vittime di questo testo ma forse Damasco si

potrebbe offendere per l’accusa non tanto velata di sudditanza.• Francese e Spagnolo: apparentemente due paesi fuori dal conflitto, anche se la Spagna di Aznar

appoggiò il conflitto. Ricordiamo inoltre che sono due lingue parlate in molti altri paesi chehanno culture diversissime e che il francese è seconda lingua in molti paesi arabi.

Testi citati

Beccaria (1994)Dizionario di linguistica, metrica, retorica, diretto da Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 1994

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IRAQLA BOMBA AL PANZANIOStefano Benni

I mortiferi B 52, le testate chimiche, le bombe agrappolo, la minibomba nucleare a gittatafederalista, la superbomba tagliamargherite. Ma fratutte le armi impiegate in questa sporca guerra lapiù letale è senz’altro la bomba P, ovvero bomba alpanzanio arricchito, quella che esplodendo spargeintorno a sé decine di panzane, bugie e omissioni,notizie false e sfilate di tank al posto dei corpimassacrati. È molto più potente della vecchiaBomba Propaganda, usata da ogni esercito eregime. È centuplicata dai caporalmaggioridell’informazione, ed è pianificata nei computerdella Cia, il cervello paranoico della più grande ex-democrazia del mondo. Ecco alcune delle bombe alpanzanio già scoppiate o pronte a esplodere.

I marines hanno occupato l’aeroporto di Baghdadsenza incontrare resistenza. Purtroppo durante la

scaramuccia un colpo di bazooka ha centrato ilnastro dei bagagli. Un gruppo di passeggeri diritorno dalle Maldive, esasperato dal ritardo, haattaccato le forze angloamericane con inaspettataviolenza, facendo uso di armi chimiche quali sprayantizanzare. La battaglia in corso è dura, mal’aeroporto sarà conquistato entro poche ore oqualche mese.

Le truppe inglesi hanno il completo controllo diBassora.

L’esercito americano è entrato a Baghdad tra due alidi folla festante. Non un solo colpo è stato sparato. Ibambini festanti e superstiti mostravano ritratti diBush e Topolino. Un uomo è andato incontro almarines ed è letteralmente esploso per la gioia.

SEGUE A PAGINA 13

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Una donna, bombardata inospedale, ha dichiarato che lochoc l’ha liberata da unaforma d’asma di cui soffrivada anni.

Il Pentagono ha accertato chei missili caduti sul mercato diBaghdad non sono americani,ma sono stati lanciati daun’associazione diconsumatori iracheniesasperati dal rincaro delleverdure.

Le truppe inglesi sono entratea Bassora malgrado la strenuaresistenza opposta dal fuocoamico. Ora Bassora è tuttacontrollata a eccezione dellecase con numeri dispari.

Sono state trovate nelle cittàirachene numerose bombeatomiche di fabbricazionecinese, oltre a dodici campid’addestramento per terroristitravestiti da campi di calcio.L’operazione antiamericanaera stata chiamata in codice«campionato di serie A».

I marines hanno sottocontrollo la sala Vip e metàdelle piste dell’aeroporto diBaghdad, ma per uno scioperodei controllori di volo nonpossono ancora far atterrare iB 52.

Nessuno screzio tra Rumsfeld,Powell e i generali americani.In un cordiale incontrosvoltosi al Pentagono tuttisono stati d’accordo sullabontà della strategia usata esulle tattiche future. Lo stessoRumsfeld è uscito dalla salaper incontrare i giornalisti.Alla domanda: come mai èvenuto qui lanciato dallafinestra, Rumsfeld ha riposto:avevo fretta di parlarvi.

Non ci ha mai interessato ilpetrolio, ha detto Bush inconferenza stampa, nonsapevo neanche che in Iraq cifosse il petrolio. Quando erosocio con Bin Laden lui me lodiceva sempre, ma pensavoche scherzasse. Non è vero chesono pagato dai petrolieri e daimercanti d’armi. È come dalbenzinaio. Mi danno unbollino-premio ogni diecinemici eliminati. Ho già vintola giacca militare e lo stereo,con altri mille punti prendo iltelefonino.

Nessun lite tra Tony Blairforcee George WermachtBush sulfuturo dell’Iraq. Secondo Blairil governo dell’Iraq dovràessere retto da iracheni,mentre per Bush il parlamentosarà locale ma il presidente delconsiglio potrebbe essere untecnico o un bipartisan. Icandidati sono: ArnoldSchwarzenegger, LauraBush e il presidente dellaEsso.

Gli inglesi sono entrati aBassora, sono usciti di slancio,hanno passato due volte ilTigri e l’Eufrate, poi hannofatto un’inversione a U e sonostati visti dirigersi verso laperiferia di Istanbul. Si ignoradove siano adesso.

Bush ha detto che la vittoria èvicina. Saddam gli ha ripostoin televisione che vincerà lui.Bush ha detto che la rispostadi Saddam era unavideocassetta registrata e sullosfondo si vedeva un albero diNatale. Saddam ha replicatoche Bagdad ha viveri per settemesi. Bush ha chiesto altriduecentomila soldati. Saddamha detto che ha usato solo unterzo delle forze. Bush hadetto che ce l’ha più lungo.Saddam ha tirato giù le braghe

a un sosia. Questi sonouomini.

Non si hanno notizie sullasorte di Bin Laden ma pareche stia per ricomparire con unvideo molto costoso diretto daSpielberg.

I marines hanno conquistatol’aeroporto di Bassora dopoaver piegato la resistenza delletruppe inglesi, o viceversa,attendiamo notizie più precise.

Il Pentagono ha precisato chePeter Arnett è stato licenziatonon perché aveva parlato maledell’America, ma perchéaveva parlato al telefono conLuttazzi.

Notizie dalla più grande basemilitare Usa del mondo, CampItaly. Il presidente Ciampi hadichiarato che non manderemosoldati italiani in Iraq per unadecisione autonoma e sovrana,ovvero perché non ce li hannochiesti. Il premier Silvio W.Berlusconi, borsanerista eapprofittatore anche in tempodi pace, approfittanaturalmente della guerra perfare affari, per impossessarsidi Mediobanca e del Corsera,per tentare di salvare il soldatoPreviti e per far passare lalegge Gasparri che secondo ilpremier prevede entro il 2005la sostituzione della Pay Tvcon la My Tv. Il balillaCasini, tanto imparziale daessere ormai definito ilMoreno della Camera, hadifeso il privilegio che guidaogni giorno e ogni attodell’illegalità democraticaitaliana, cioè la prepotenza dicomportarsi da maggioranzaanche quando non lo si è più.Il ministro Pisanu ha detto chei pacifisti devono isolare iprovocatori e i violenti, e ipacifisti hanno risposto cheloro Fini non lo vedono da

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mesi. Il ministro dei Rapporticon il parlamento americano,Cipollino Frattini, ha dettoche i parà usciti dalla casermadi Vicenza non sono andati inguerra. Metà sono a puttane emetà galleggiano in aria per ungioco di correnti ascensionali.Dopodiché Berlusconi,proprietario del novanta percento dell’informazione edella pubblicità, ha detto chesui giornali i pacifistiantigovernativi hanno anchetroppo spazio, e che lebandiere rosse sono unsimbolo sanguinario e lospaventano, perché i fascisticome lui se le sono trovatetroppo spesso contro durantela resistenza. Per finire, haribadito che la ricostruzionedell’Iraq non gli interessa. Ildepliant degli oleodottiFininvest era già statostampato prima della guerra.Questa ultima bomba P èsembrata troppo grossa ancheagli americani per sganciarla.

Bassora è stata conquistata daiturchi.

Le truppe americanecontrollano finalmentel’aeroporto di Damasco. È unerrore scusabile, ha dettoPowell, non capiamo lasegnaletica araba.E anche quella cinese, haaggiunto Rumsfeld.

Il ruolo dell’Onu nellaricostruzione nell’Iraq èancora da definire, ha dettoPowell. Ma potrebbero aiutarcia caricare le taniche.

Nell’ultima conferenza stampaprima di partire per il week-end, Bush ha dichiarato: nonabbiamo mai confuso ilterrorismo di Geronimo con ilpopolo pellerossa, e la riprovaè che gli Apache hannomantenuto la propria nazione e

un parlamento autonomo.Inoltre sono già pronti gli aiutiumanitari per i bambini sirianie coreani. Chi vuol capire,capisca.

sabato 5 aprile 2003

http://www.ilmanifesto.it

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LAURA GAVIOLITradurre parlando: alcuni esempi di traduzione dialogica

0. IntroduzioneLa traduzione orale e, in particolare, la traduzione all’interno di una conversazione sta

diventando un fenomeno sempre più diffuso soprattutto nelle interazioni di tipo istituzionale, ecome tale sta assumendo un crescente interesse negli studi traduttologici, in quelli linguistici esull’interazione, e nella formazione degli “esperti linguistici” in generale.

In questo contributo, traccerò un breve resoconto di come questo interesse si è sviluppato intempi recenti e mi soffermerò su alcuni aspetti della traduzione e del ruolo del traduttore checaratterizzano da un lato la traduzione orale e dall’altro la costruzione dell’interazione che vedecoinvolti parlanti di lingue diverse con l’“aiuto” di un partecipante che le parla e comprendeentrambe. In particolare analizzerò tre aspetti che mi sembrano caratterizzare l’interazione mediatadall’interprete: l’aspetto della traduzione vera e propria dei turni e delle sequenze, il ruolo dicoordinamento e di organizzazione dell’interazione che viene spesso assunto dall’interprete e ilruolo di “filtro” delle informazioni e di quanto espresso dai partecipanti che si attua inevitabilmentee in vari modi attraverso il contributo dell’interprete come traduttore e coordinatore dell’interazionein due lingue.

Questo studio si basa su due prospettive di analisi che ritengo fondamentali nello studio dellatraduzione dialogica: a. la traduzione viene vista all’interno del “parlato” e come costitutivadell’interazione; b. l’analisi si basa su “esempi”, cioè dati conversazionali raccolti al fine di poterosservare il contributo dei partecipanti a un’interazione mediata da un interprete: in altre parole sitratta di una ricerca a sfondo empirico. Queste due prospettive di analisi mettono in luce alcuniaspetti di cui può essere importante tener conto nella formazione dei traduttori e di chi si occupadella comunicazione in ambiti in cui sono coinvolti parlanti di più lingue e di diverse culture.

1. Lo sviluppo dell’interesse scientifico per la traduzione orale e alcune definizioniBenché la traduzione orale sia stata probabilmente una delle forme di traduzione più diffuse

sin dall’antichità,1 tradizionalmente gli studi traduttologici si sono concentrati su testi scritti,prevalentemente letterari. Solo molto recentemente si è individuata la necessità di concentrarsi sullatraduzione orale come un’area di indagine a se stante.2 L’“interpretazione”, come vienenormalmente denominata la traduzione orale, ha quindi, ultimamente, riscosso un crescenteinteresse sia all’interno degli studi sulla traduzione che all’interno di quelli linguistici.

Questo ritardo nel definire l’area di studi ha ragioni storiche, alcune delle quali sono legateallo sviluppo della ricerca linguistica. Gli studi sulla lingua orale, soprattutto quelli sul parlatoconversazionale, infatti, hanno, in generale, un’origine piuttosto recente e risalgono circa agli annisessanta del secolo scorso. Sono sostanzialmente legati alla comparsa di attrezzature che nepermettano la registrazione, e quindi l’osservazione.3 Insieme a questo aspetto, diciamo “tecnico”, acui sono associati gli studi sul testo parlato, occorre però anche ricordarne almeno altri due. Il primoè dato da un crescente interesse dei ricercatori per l’analisi di “dati”, cioè di esempi naturalistici ditesto prodotto da parlanti e/o scriventi nelle loro comunicazioni quotidiane. Questo ha comportatouno spostamento dell’interesse della ricerca linguistica da un’analisi di tipo introspettivo, basatosulla competenza cognitiva del parlante, a un’analisi della produzione del parlante. Il secondo,strettamente legato al primo, è dato dallo sviluppo di studi che collegano la produzione linguisticaall’interazione fra i parlanti e al contesto comunicativo.4 Questi sviluppi hanno contribuito a renderela traduzione nella conversazione un fenomeno osservabile e studiabile.

1 Hermann (1956/2002).2 Pöchhacker e Schelsinger (2002), p. 1.3 Brown e Yule (1983), p. 21.4 Widdowson (1996), pp. 65-68.

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Tradizionalmente,5 la traduzione orale viene distinta in quattro tipi principali:interpretazione simultanea, consecutiva, chuchottage e dialogica. L’interpretazione simultaneaavviene quando un oratore viene tradotto da un interprete mentre sta parlando, con un leggerodécalage, cioè una brevissima distanza tra il momento in cui l’oratore pronuncia la frase e quello incui l’interprete pronuncia la traduzione. Normalmente comporta l’uso di una cabina insonorizzata edi microfoni collegati ad auricolari: mentre l’oratore parla, l’interprete traduce al microfonoall’interno della cabina e l’ascoltatore riceve la traduzione sull’auricolare; in questo modo la vocedell’interprete “si sostituisce” a quella dell’oratore. L’interpretazione consecutiva avviene inveceper “unità” che vengono definite fra oratore e interprete. L’oratore parla per un periodo di tempoche può andare dai cinque ai quindici minuti e quindi si ferma e lascia spazio alla traduzione. Inquesto modo l’interprete riformula nell’altra lingua quanto detto dall’oratore, “pezzo dopo pezzo”.Il chuchottage avviene allo stesso modo dell’interpretazione simultanea, ma anziché utilizzare unacabina con microfono e auricolari, l’interprete siede accanto all’ascoltatore e “sussurra” latraduzione in modo tale che l’ascoltatore possa sentirla.

Questi tre tipi di interpretazione si adattano a determinate situazioni e composizioni dipubblico. Ad esempio, perché una traduzione consecutiva abbia effetto è necessario che gliascoltatori siano tutti della stessa lingua e che ci siano tempi adeguati per poter “raddoppiare” ladurata del discorso dell’oratore, mentre la simultanea si adatta ad un pubblico composto diascoltatori di diverse lingue e alla necessità di non allungare troppo i tempi, e, infine, per ilchuchottage, è indispensabile che gli ascoltatori che ne usufruiscono siano pochi perché il brusionon disturbi oratore e platea.

Nonostante questi diversi tipi di “organizzazione traduttiva” richiamino diversi tipi disituazione comunicativa (ad esempio il chuchottage si adatta a un convegno, essenzialmente in unalingua, in cui vi sia un numero molto limitato di ospiti stranieri che seguono i lavori, mentre lasimultanea si adatta a riunioni internazionali, con molti parlanti di diverse lingue), i tre tipi diinterpretazione descritti hanno in comune il fatto che si prestano a situazioni in cui uno dei parlantiparla davanti a un pubblico che ascolta. Si tratta, dunque, di situazioni come i convegni, leconferenze, le lezioni accademiche, i meeting politici internazionali.

Il quarto tipo di interpretazione, l’interpretazione dialogica, è sostanzialmente diverso dallealtre tre poiché prevede parlanti che si alternano nella presa del turno in una conversazione che livede tutti coinvolti come parlanti e come ascoltatori. Si adatta quindi a situazioni come le trattativedi affari, gli scambi di informazioni su prodotti commerciali (ad esempio presso le fiere), oppurescambi all’interno di istituzioni pubbliche che coinvolgono un parlante straniero, ad esempio inospedale, fra medico e paziente o infermiere e paziente, o in ambiti legali, ad esempio fragiudice/avvocato e accusato o fra polizia e trattenuto.

I primissimi studi sull’interpretazione la riconoscono come una “pratica” più che come unoggetto di studio e le prime pubblicazioni sono manuali scritti da interpreti per interpreti e sonobasati sull’esperienza degli autori che danno una serie di consigli su ciò che si fa e ciò che non si faquando si traduce oralmente. Forse anche in seguito al processo di Norimberga, che per la primavolta ha dato visibilità all’importanza della traduzione orale nelle questioni di politicainternazionale, la ricerca sulla traduzione simultanea e consecutiva parte un po’ in anticipo rispettoa quella sulla traduzione dialogica. Intorno agli anni settanta, vengono infatti pubblicati una serie distudi sperimentali di natura essenzialmente psicologica che indagano il processo cognitivodell’interprete simultaneo e che influenzeranno pesantemente gli studi successivi.6 La ricercasull’interpretazione dialogica si sviluppa dapprima come un sotto-campo dell’interpretazionesoprattutto consecutiva e occorre aspettare una decina di anni perché escano i primi studi che laindagano come un evento comunicativo a se stante e fortemente svincolato dai requisiti checaratterizzano gli altri tipi di interpretazione.7

5 Paneth (1957/2002).6 Cfr. Gile (1995).7 Pöchhacker e Schelsinger (2002), pp. 5-8.

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In questo contributo mi soffermo in particolare sulla traduzione dialogica e sui significati delruolo del traduttore all’interno dell’interazione parlata.

2. Tradurre parlando: orientamento al testo e orientamento all’attivitàIl fatto che la traduzione dialogica sia stata, almeno per un periodo, “assorbita” all’interno

degli studi sulla traduzione simultanea e consecutiva, ha fatto sì che l’interprete dialogico venisseosservato in qualche modo come un traduttore di “brevi monologhi”, di “turni”, piuttosto checollocato all’interno di sequenze conversazionali. Soprattutto da un punto di vista analitico, questoha portato a considerare il turno come unità testuale e traduttiva e conseguentemente a valutare latraduzione come resa coerente e coesa del singolo turno, uno dopo l’altro. A questo proposito,Wadensjö (1998)8 articola un’utile distinzione fra ciò che chiama “talk as text” e “talk as activity”.Nota che orientarsi al parlato come testo o al parlato come attività, ha esiti diversi sia per l’analistache esamina la (trascrizione della) conversazione, sia, probabilmente per le scelte dell’interpretecoinvolto. Orientarsi al parlato come testo significa sottolineare l’importanza della ricezione e dellaproduzione testuale e ha, secondo Wadensjö, le seguenti implicazioni:

a. l’uso linguistico viene visto in relazione al tipo di testo che viene prodotto;b. le funzioni delle azioni verbali sono viste inerentemente alle lingue nelle quali

vengono espresse;c. i turni vengono visti come singole unità di significato.

Orientarsi al parlato come attività significa invece tenere conto dell’interazione e della costruzionedel significato nella situazione comunicativa; ciò ha, a sua volta, alcune implicazioni:

a. l’uso linguistico viene visto all’interno dell’interazione e in co-produzione con l’attività dialtri partecipanti;

b. le funzioni delle azioni verbali sono viste in associazione alla comprensione, da parte deipartecipanti, della situazione comunicativa e di quanto viene detto hic et nunc;

c. i turni sono visti come attività che fanno parte dell’interazione e della situazionecomunicativa e che assumono un senso all’interno di essa.9

I due orientamenti, al parlato come testo e al parlato come attività, sono per molti versicomplementari ed è probabilmente necessario tenerli presenti entrambi per valutare il contributodell’interprete dialogico, sia da parte dell’analista, sia da parte di chi esercita la traduzione.

Vorrei, a questo proposito, introdurre due esempi. Il primo è tratto da una situazione diinterpretazione consecutiva. L’oratore è il romanziere Hanif Kureishi che parla dei suoi romanziall’interno di un evento culturale che ha luogo a Mantova ogni anno, intitolato Festivaletteratura. Lasequenza su cui mi soffermo è quella introduttiva, in cui Kureishi prende la parola per salutare ilpubblico dopo una lunga presentazione in italiano (il simbolo (.) indica una breve pausa neldiscorso). Il saluto è molto caloroso e anticipa la lettura di un racconto che Kureishi terrà per ilpubblico poco dopo:

Esempio 2.1HK: Thank you very much for coming this evening (.) erm (.) It’s a very beautiful city you have here inMantua this is the second time I’ve been and I would be happy to come every year (.) erm (.) it’swonderful com-to come to a city that is (.) eh (.) dedicated to books(.) erm (.) I was walking thisafternoon in the city and everywhere (.) eh (.) I looked I could see books and it’s wonderful that peoplewant to-want to read (.) so (.) I’m going to read myself now (.) f-from (.) erm (.) this is a story called“Four Blue Chairs” and I would like to (.) erm (.) dedicate this reading to (.) erm (.) my editor BompianiElisabetta Sgarbi who has always published m-me an-and (.) looked after me very well.

8 Wadensjö (1998), pp. 21-47.9 Ivi, pp. 22-23.

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La traduzione che ne viene data è la seguente:I: Eh (.) allora intanto grazie di essere (.) eh (.) grazie di essere qui è sempre un piacere venire in unabellissima città come Mantova, è la seconda volta che io vengo a Mantova e (.) eh (.) confesso mifarebbe piacere ritornarci anche tutti gli anni soprattutto perché è molto bello camminare per una cittàche (.) in questo momento è completamente dedicata ai libri ho fatto una passeggiata oggi e c’erano libridappertutto eh questa è sempre una- una grande gioia per l’animo e per celebrare i libri vorrei cominciarefacendo una lettura eh da un eh racconto ehm:: pubblicato nel mio ultimo libro “Mezzanotte tutto ilgiorno” che vorrei dedicare alla mia editor alla Bompiani che mi ha sempre curato molto e che mi seguecon molto interesse.

Due caratteristiche abbastanza evidenti di questa traduzione rivelano le scelte della traduttrice neltrattare il contributo di Kureishi. In primo luogo, il testo di partenza contiene un certo numero dipause ed esitazioni che vengono ridotte drasticamente nella traduzione, in modo tale da abbreviarneil tempo di produzione. In secondo luogo, il testo di partenza si articola in una serie di battute diviseda pause ed esitazioni, senza connettori espliciti che le colleghino. La traduttrice, invece, introducediverse espressioni di collegamento testuale nella traduzione. Possiamo ad esempio notare“confesso mi farebbe piacere ritornarci”, dove Kureishi dice “I would be happy to come everyyear”, oppure “soprattutto perché è molto bello camminare” per “I was walking this afternoon in thecity” e infine “per celebrare i libri vorrei cominciare facendo una lettura” dove Kureishi usa “so”senza precisare se si riferisce al festival, ai libri o all’amore per la lettura più in generale: “so (.) I’mgoing to read myself now”.

Attraverso queste scelte, la traduttrice mostra un’attenzione alla traduzione “come testo” ealla sua coesione, e tratta questa parte del discorso dell’oratore come un’unità a se stante. Poiché sitratta di un esempio di traduzione consecutiva di un’attività monologica, è difficile in questo casodire in che modo e se la traduttrice si orienta anche al parlato come attività. Mentre abbiamo, infatti,il contributo dell’interprete che manifesta la propria comprensione dell’attività orale in cui èinserita, non abbiamo un contributo esplicito del pubblico. Per quanto riguarda l’oratore, in seguitoal contributo della traduttrice, dà avvio alla lettura del racconto, mostrando così di aver preso attoche la lettura è stata annunciata e, in qualche modo, resa rilevante per il pubblico.

All’interno della conversazione, l’attenzione alla traduzione “come testo” e “come attività” èpiù evidente poiché è osservabile il contributo di tutti i partecipanti alla comunicazione. Introduco, aquesto proposito il secondo esempio citato sopra. Si tratta di una conversazione in un ambulatorioospedaliero, che ha luogo fra il medico americano, la madre e il padre, italiani, di una bambinacardiopatica e l’interprete.10 L’incontro è nella fase iniziale in cui il medico raccoglie i dati relativiai cambiamenti di peso e di altezza del bambino.

Esempio 2.2 (D: medico, I: interprete, F: padre, M: madre)1 D you you gained three kilos?2 (.)3 I hai aumentato di tre chili? (.) sì? giusto?4 (1)5 F sì è cresciuto6 (.)7 I yeah he got taller too8 (.)9 D that’s right =10 I = OK è giusto11 (.)12 M in nove mesi13 (.)14 I in nine months =

10 Dati di Amato (2006), in stampa.

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15 D = yeah =16 I = his last visit was nine months ago so (.) not six ti sei allungato anche (.) benissimo

Come si può vedere in questo esempio, l’interprete traduce, turno per turno, ciò che viene detto dalmedico, dal padre e dalla madre. I partecipanti si scambiano informazioni di tipo medico relativealla crescita del bambino e l’interprete si orienta a questa come attività principale dei parlanti.Traduce quindi il primo turno del medico come una richiesta di informazioni (“you gained threekilos?” / “hai aumentato di tre chili), sottolineando la rilevanza della correttezza dell’informazione(“sì, giusto?”), quindi traduce il turno del padre, “sì è cresciuto”, non come una semplice confermaal medico, ma come un’aggiunta di informazione (“he got taller too”) e di nuovo il turno del medico(“that’s right” / “ok è giusto”) come una conferma della veridicità del dato di crescita, piuttosto checome un più generico “sì”.

L’interprete quindi, in questa prima parte, traduce un turno dopo l’altro, interpretando icontributi dei parlanti in base all’attività che sono lì per svolgere: raccogliere informazioni sullacrescita del bambino. Nonostante, in questo esempio, questa sia forse l’attività primaria dei parlanti,si può vedere che nell’interazione viene resa rilevante un’ulteriore attività, quella di esprimeresoddisfazione per la crescita del bambino. Questo è particolarmente evidente nel contributo dellamadre che sottolinea, attraverso l’intonazione, la brevità del tempo in cui è avvenuta la crescita (“innove mesi”). Nell’ultimo turno dell’esempio, l’interprete mostra di nuovo di orientarsi all’attività discambio di informazioni, offrendo un proprio contributo, non traduttivo, mirato a correggere iltempo trascorso dall’ultima visita. Recupera quindi l’espressione della soddisfazione deipartecipanti aggiungendo una coda in italiano: “ti sei allungato anche, benissimo”.

L’orientamento dell’interprete all’attività conversazionale che la vede coinvolta può esseredeterminante per la comprensione e l’interpretazione dei contributi dei partecipanti. Nell’esempio2.2 l’interprete si orienta ai turni interpretandoli secondo quelli che ritiene essere gli scopi generalidell’attività conversazionale fra i partecipanti (lo scambio di informazioni mediche) e anche gliscopi dell’attività che vengono resi rilevanti nell’interazione, come, in questo caso, esprimeresoddisfazione o gioia per la crescita del bambino e questo si riflette anche sulla traduzione “cometesto”. Mentre in un evento monologico, come quello visto nell’esempio 2.1, i partecipantiall’interazione non possono esprimere, tutti e allo stesso modo, la propria comprensione o il proprioatteggiamento verso l’attività comunicativa, poiché una delle parti, il pubblico, non partecipaattivamente, in un evento dialogico, come quello visto nell’esempio 2.2, i partecipanti co-costruiscono l’attività conversazionale rendendo più o meno rilevanti determinate azioni edespressioni di atteggiamenti.

3. L’interprete come coordinatore nell’interazioneAnche quando l’interprete traduce “come testo”, dunque, manifesta un orientamento ad una

attività, come mostrato sopra, attraverso l’esempio 2.2, allo scambio di informazioni mediche oall’espressione della soddisfazione dei partecipanti. Da questo punto di vista, è difficile pensare chel’interprete possa agire nell’interazione come una semplice “macchina traduttiva”, anche quando difatto traduce turno dopo turno e in modo molto “aderente al testo”. In contrapposizione a unaletteratura precedente che sottolineava un ruolo etico di “massima neutralità” e “minima visibilità”dell’interprete, la letteratura più recente sull’interpretazione dialogica11 tende a sottolinearel’aspetto di “partecipazione” dell’interprete all’interazione: ciò permette di capire meglio qual è ilsignificato del ruolo di un partecipante, come l’interprete, la cui presenza è motivatasostanzialmente dal fatto di rendere possibile l’interazione fra altri partecipanti. Wadensjö (1998),12

in particolare, nota che l’interprete dialogico prende spesso un importante ruolo di coordinamentodell’interazione: in quanto si tratta del partecipante maggiormente in grado di gestire le due lingue

11 Ad esempio Roy (1993/2002); Wadensjö (1993/2002), Wadensjö (1998); Davidson (2002).12 Wadensjö (1998), pp. 108-110.

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(a volte, non sempre, l’unico che ne ha accesso), l’interprete svolge una funzione fondamentale neldistribuire i turni fra i partecipanti e nel coinvolgerli nell’interazione. Nota, inoltre, che unorientamento dell’interprete al parlato come attività può facilitare questa attività di coordinamento.

Qui vorrei discutere brevemente due casi che esemplificano diversi modi in cui l’interpretepartecipa all’interazione e vedere le implicazioni delle azioni di coordinamento dell’interpreterispetto alla partecipazione degli altri interlocutori, al loro coinvolgimento e “messa in contatto”.

I due esempi sono stati entrambi registrati presso stand di fiere campionarie dove ditte cheesponevano i propri prodotti si sono servite di interpreti per agevolare la comunicazione con clientistranieri. Diversamente da quanto poteva forse suggerire l’esempio 2.2, sopra, la traduzionedialogica non avviene sempre sistematicamente turno dopo turno, ma la rilevanza della traduzioneviene co-gestita dai partecipanti all’interazione. Negoziare la rilevanza della traduzionenell’interazione significa che i partecipanti possono agire in modo da richiederla o non richiederla eche l’interprete può fornirla subito, ritardarla o non fornirla e tutte queste azioni possono contribuirea creare spazi, momenti di contatto e tipi di coinvolgimento molto diversi per i partecipanti.

3.1 Primo esempioL’esempio 3.1, qui di seguito, è tratto da una conversazione registrata presso una fiera di

prodotti ciclistici fra un cliente danese (D), un’interprete (I) e un esibitore italiano (E) che hanno giàavuto precedenti contatti.13 Nella trascrizione, vediamo una parte in cui dopo essersi salutati, ilcliente danese fa notare all’esibitore che la sua conoscenza dell’italiano è migliorata e che possonocosì comunicare direttamente, senza l’interprete. Anche se, come vediamo nella prima partedell’esempio, il cliente danese userà pochissimo l’italiano, l’interprete non interviene, lasciando aglialtri due partecipanti lo “sforzo” di comunicare senza l’aiuto della traduzione:

Esempio 3.1 - prima parte[…]1 D: Come va? Imparo italiano eehh?2 E: Ha!Ha! Bravo! Noi stiamo bene (.) faticoso però.3 D: (mh)4 E: It’s very tiring!5 D: Oh capito!6 E: Caffè? D: Caffè italiano! Espresso!7 E: Per tutti e due?8 (.)9 E: Due caffè?10 D: Sì. Due.11 E: Bene. Come stanno le vostre famiglie?12 (.)13 E: Your families?14 D: Bene. Sì bene. A casa (.) eehm..Denimarca.15 E: Oh bene (.) e la fiera com’è?16 (.)17 E: La fiera. Mmh the the (.) mmh exhibition. Good?18 D: Sì bello.19 E: Mmh Vogliamo parlare parliamo di biciclette?20 (.)21 E: Then we start talking about bicycles?22 D: Ha!Ha! Ya, ok! Ya! Let’s stop joking!

13 Dati di Lazzaretti (2003).

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L’interprete non interviene e gli altri interlocutori usano il poco inglese e italiano che conoscono perqueste “due chiacchiere” iniziali. Con la sua scelta di non intervenire, l’interprete coordinal’interazione fra i partecipanti in modo che siano loro a esprimersi come vogliono e come possono.L’interprete mostra qui un orientamento al parlato come attività, dove l’attività è la creazione di uncontatto, di una “relazione simpatica” fra i partecipanti.

L’intervento dell’interprete viene reso rilevante dall’ultima coppia di turni dei parlanti, quisopra, che decidono che è giunto il momento di parlare di biciclette e di “smettere di scherzare”.Nel momento in cui viene annunciato un turno in cui si “smetterà di scherzare”, il cliente danesesmette di parlare italiano e l’esibitore smette di parlare inglese e questo rende rilevante l’interventodell’interprete, nel secondo turno, nella seconda parte dell’esempio 3.1 qui sotto:

Esempio 3.1 – seconda parte23 D: Well mmh we heard about this new Campagnolo Neutron wheel and and actually (.) we would

like to know more details about it.24 I: Hanno sentito parlare della Neutron e vorrebbero avere qualche qualche dettaglio.25 E: Perfetto, sì dunque quest’anno la versione copertoncino si presenta quest’anno con il cerchio

alleggerito che riduce il peso delle ruote. Però rimangono le caratteristiche tecniche della ruota. Okvai scusa -

26 I: Grazie (.) mmh, this year we propose a new clincher tie version. It has a rim that has beenlightened by a special process and it this reduces the weight by about 30 grams. But it it it maintainsthe wheels technical properties (.) and -

27 D: Sorry, but but what’s the difference with Neutron 2001? If I may ask.28 I: Substantially mmh they’re the same wheel with a new name mmh but the difference but is the use

of aerodynamic spokes mmh streamlined on the right of the the rea- rear wheel.29 D: Oh! Well but can one use can we use full carbon wheels brake pads with another wheel that has a

car breaking surface.30 I: Chiedono vogliono sapere se (.) did you say “full carbon”?31 D: Ya!32 I: Ok bene vogliono sapere se si possono utilizzare i pattini freno speciali con superficie frenante in

fibra di carbonio? Penso intendano i BR-701 credo33 E: Questo ce lo chiedono tutti.. dovremo metterlo nelle istruzioni mmh no no quei freni sono stati

concepiti solo per la ruota Hyperon no non si deve assolutamente usarle diglielo bene non si devonousare con altre ruote proprio è proprio pericoloso (.) vai vai

34 I: Mmh well..Absolutely no- you can’t use er different types of carbon fibres have differentproperties and and they require specialized brake pads It’s dangerous don’t use with different wheelsit’s really really dangerous! The pads..mmh the pads won’t stop properly the bicycle!! Really don’tdon’t use them with different wheels

35 D: I see ehm36 I: If you have any other doubt –

L’interprete inizia così il proprio lavoro traduttivo orientandosi allo scambio di informazioni“serie”, in quanto reso rilevante dal contributo del cliente e dell’esibitore. Possiamo vedere che,oltre a tradurre, l’interprete svolge, nuovamente, un importante lavoro di coordinamento. Adesempio, ai turni 25-26 e un po’ oltre, ai turni 33-34, è interessante notare che l’esibitore el’interprete si accordano sullo scambio di turno (“ok vai scusa” – “grazie”) rendendo così esplicitala rilevanza dell’intervento dell’interprete. L’interprete interviene, inoltre, o con contributi traduttivi(in cui traduce ciò che è stato detto nel turno precendente, ad esempio nel turno 26) oppurefornendo/chiedendo chiarimenti (turni 28, 30) o offrendo aiuto (turno 36). Dal punto di vista dellagestione dei turni, la traduzione rende rilevante, cioè “chiama in causa”, nella conversazione unturno del terzo interlocutore, coinvolgendo tutti i partecipanti nella conversazione, mentre fornire unchiarimento o offrire aiuto sono azioni che l’interprete rivolge ad un parlante, spostandol’interazione da tre a due partecipanti. Nella seconda parte dell’esempio 3.1 esercita la propriafunzione di coordinamento bilanciando l’attività di traduzione (che coinvolge tutti i partecipanti) e

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quella di chiarimento e offerta di aiuto (a volte necessaria per rendere possibile la traduzione) e inquesto modo promuove la possibilità di partecipazione ed espressione degli interlocutori cheforniscono le informazioni che reciprocamente vengono ritenute rilevanti. Nella prima partedell’esempio, l’astensione dell’interprete aveva un’analoga funzione di coordinamento, con l’effettodi promuovere la partecipazione e la messa in contatto degli altri interlocutori.

3.2 Secondo esempioIl secondo esempio che discuto in questa sezione è tratto ancora da una fiera campionaria; i

prodotti commercializzati sono, in questo caso, tecnologie ferroviarie. La conversazione ha luogofra un cliente italiano (It), l’interprete (I) e un esibitore olandese che parla inglese (E).14

Diversamente da ciò che accade nell’esempio 3.1 visto sopra, in questo caso il coordinamento fra ipartecipanti è più difficile. L’interprete mostra di orientarsi più al testo che all’attività e questo creaalcune difficoltà nell’interazione.

Tali difficoltà vengono espresse attraverso forme “di rimedio”: i partecipanti non accettanoalcune delle attività che vengono iniziate nella conversazione, declinando, riformulando osottolineando la mancanza di rilevanza di un’azione. Nella primissima parte, ad esempio, il cliente(turno 1) saluta in italiano, l’interprete tratta il saluto “come testo” e traduce; l’esibitore risponde initaliano, mostrando così l’irrilevanza della traduzione per l’attività dei saluti:

Esempio 3.2 – prima parte1 It: Buongiorno2 I: Good Morning3 E: Buongiorno

Nella parte successiva, il cliente italiano si rivolge all’interprete per chiedere il suo aiuto; questoapre una sequenza a due, che si protrae per alcuni turni, in cui vengono trattate l’accettazionedell’interprete di aiutare nella comunicazione e le lingue straniere che vengono usate. Questasequenza a due esclude il terzo partecipante, l’esibitore, che, al turno 10, invita l’interprete atradurre. Anche questa volta l’interprete, orientandosi al contenuto del testo prodotto, piuttosto cheall’attività del parlato, risponde “nothing important” ed evita di mettere l’esibitore a parte dellaconversazione. L’esibitore re-interviene offrendo un caffè (turno 12) e l’inizio di traduzionedell’interprete (turno 13) viene immediatamente reso irrilevante dal cliente italiano che dichiara diaver capito (turno 14):

Esempio 3.2 – seconda parte4 It Siamo della Colmar ehm (.) sei l’interprete per caso?5 I Sì parlate pure con me.6 It Proprio (.) fortuna. Non parliamo una parola di tedesco.7 I Comunque loro sono olandesi. Con me parlano inglese -8 It Inglese qualcosa. Poco però.9 I Ah, non vi preoccupate.10 E You might want to translate -11 I Nothing important.12 E Well, ask if they want a coffee.13 I Volete -14 It Questo l’abbiamo capito. Un caffè. Sì volentieri.15 I Yes.

14 Dati di Lazzaretti (2003).

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Nelle prime due parti dell’incontro, pare che il coordinamento promosso dall’interprete non facilitila partecipazione degli interlocutori le cui azioni non vengono accettate, o vengono accettate conuna certa resistenza da parte degli altri parlanti.

Nella terza parte dell’incontro i partecipanti passano a discutere problemi relativi alletecnologie ferroviarie. Anche in questo caso, l’interprete mostra di orientarsi al testo piuttosto cheall’attività del parlato e fatica così a creare un coordinamento fra i partecipanti, con conseguentidifficoltà “a intendersi”. Ad esempio il parlante italiano nel turno 16 fa una premessa alla qualesegue una richiesta. L’interprete traduce il turno cercando di mantenerne l’organizzazione testuale einizia quindi dalla premessa (turno 17). Questa premessa è ritenuta poco significativa dall’esibitoreche, al turno 18, chiede precisazioni. Di nuovo, l’interprete tratta questa richiesta di precisazionicome testo, non risponde all’esibitore traducendo ciò che era già stato precisato dal cliente e invecetraduce, riproponendo la domanda al cliente italiano. Al turno 20, il cliente italiano sottolinea che hagià spiegato (“come dicevamo”) che gli interessa il servizio e che vuole sapere se la ditta offre i suoiservizi in Germania. L’interprete traduce (turno 21) e la traduzione non viene capita dall’esibitoreche non risponde alla richiesta del cliente (turno 22). L’interprete non inizia a questo punto unasequenza di chiarimento per ottenere la risposta che era stata resa rilevante dal cliente, ma di nuovosi limita a tradurre ciò che ha detto l’esibitore portando il cliente a ri-formulare la sua richiesta perla terza volta: “sì ma intendiamo il servizio” (turno 24):

Esempio 3.2 – terza parte16 It Dunque ecco noi siamo della Colmar e produciamo binari per la Deutsche Bahn e noi

quest’anno dovremmo saremmo interessati alle loro macchine molatrici. In Italia l’offerta èscarsa e stiamo cercando ehm un po’ all’estero. La Pfleiderer track systems ci ha detto divenire qui volevamo sapere se lavorano anche in Germania voglio dire se offrono il serviziooppure vendono solo i macchinari perché noi saremmo interessati anche al servizio…

17 I Well, they are manufacturers of track systems and they areinterested in your machines hem grinding machines.

18 E Do they want a description of the machines, brochures or..19 I Volete una descrizione dei macchinari?20 It Mmh no, come dicevamo ci interessa il servizio. Sappiamo che

lavorano bene solo non sappiamo se offrono anche il servizio ad esempio in Germania.21 I They want to know if you work in Germany.22 E In Germany? We are from Holland.23 I Olandesi, sono olandesi.24 It Sì ma intendiamo il servizio25 I Ah (.) they mean if you make the service abroad too26 E Well, we are in (.) we sell our grinding machines together with the

pertinent staff. If one wants the machine we can also sell just the machine, but we providefor the service too.

27 I Non c’è (.) Sì insieme alla macchina molatrice offrono uno staffqualificato che provvede che fa la molatura quindi potete affidare qualsiasi tipo di lavoro cheloro lo fanno in tempi brevi.

28 It Sì, mmh bene dunque come la può chiedere come avviene la molatura -[…]

Come possiamo vedere, diversamente da quanto accade nell’esempio 3.1, in questo secondoesempio, l’interprete agisce come “traduttore di turni” orientandosi al singolo turno come testo eignorando la funzione più generale che quel turno ha nell’attività in corso. Questo la porta adeclinare la sua potenziale funzione di coordinatore dell’interazione che si manifesta nel modo incui seleziona i propri interventi (offrendo o non offrendo traduzioni in modi spesso ritenuti nonrilevanti), nel modo in cui si astiene dall’avviare sequenze di chiarimento, nel modo i cui passa onon passa il turno agli interlocutori (ad esempio nel turno 11 in cui non accetta la richiestadell’esibitore di tradurre, impedendogli così il coinvolgimento nella prima parte dell’interazione).

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4. L’interprete come “filtro” nell’interazioneAlcuni studi sull’interpretazione dialogica in ambito ospedaliero15 notano che l’azione

dell’interprete esercita un filtro nel passaggio delle informazioni fra medico e paziente. Inparticolare, osservano che, nella traduzione, l’interprete tende a selezionare le informazioni di tipostrettamente medico, riducendo ampiamente o eliminando quegli aspetti della comunicazionemedico-paziente che sottolineano l’atteggiamento degli interlocutori verso la malattia, ad esempiol’espressione di preoccupazione da parte del paziente o la rassicurazione da parte del medico.Questa caratteristica dell’interpretazione in ambito medico è visibile anche nell’esempio 2.2riportato più sopra in questo contributo. Anche in quel caso la traduttrice mostrava un orientamentoa interpretare il testo nella sua funzione informativa, traducendo i dettagli relativi alla crescita delbambino e lasciando da parte l’espressione di soddisfazione da parte dei genitori.

L’orientamento sistematico da parte dell’interprete a trascurare i racconti, le esperienze e lepercezioni soggettive della malattia da parte del paziente riducono, in particolare secondo Bolden(2000), le possibilità del paziente di sentirsi “ascoltato” dal medico e questo può riflettersi su unpeggioramento anche della prestazione medica. Un orientamento dell’interprete al parlato comeattività, dunque, comporta un’attenzione ad aspetti dell’interazione che non sono puramente legatialla trasmissione di informazioni e, di conseguenza, l’espressione di atteggiamenti, sentimenti,percezioni assume un’importanza fondamentale nella costruzione del rapporto fra gli interlocutoriche può essere a sua volta funzionale alla costruzione della comunicazione complessiva.16

La maggior parte degli studi sull’interpretazione dialogica, anche quelli che analizzanol’interazione, tendono a focalizzarsi soprattutto sull’azione dell’interprete. Occorre, tuttavia,ricordare che in un’ottica interazionale, l’interprete non è l’unico responsabile della costruzionedella comunicazione, ma che si inserisce in un complesso sistema in cui le azioni di tutti gliinterlocutori vengono rese rilevanti da altre azioni degli altri interlocutori. Da questo punto di vista,anche l’azione di “filtro” dell’interprete può essere resa rilevante o non rilevante dai partecipantiall’interazione e può essere gestita dagli interlocutori in modo più o meno funzionale all’attività incorso.

In uno studio di un lungo meeting aziendale mediato da un’interprete,17 abbiamo mostratoche l’azione di filtro dell’interprete può essere resa rilevante nella conversazione per ottenere unafunzione di mitigazione delle informazioni, a sua volta funzionale a stabilire “buoni rapporti” fra gliinterlocutori. In particolare si è notato che mentre in situazioni in cui viene espresso accordo fra ipartecipanti, l’azione traduttiva dell’interprete viene molto ridotta o resa irrilevante nellaconversazione, in situazioni in cui viene espresso disaccordo, i partecipanti ritardano le lororisposte, secondo il meccanismo descritto da Pomerantz (1984), consentendo così all’interprete diintervenire. L’intervento dell’interprete ha spesso la funzione di mitigare la sequenza di disaccordo.

Vediamo a tal proposito due esempi presi dalla trattativa di affari in questione. Nel primo, leparti stanno discutendo gli aumenti di capitale dell’azienda in caso di fusione e uno degliinterlocutori (S1) spiega che non c’è nessun interesse da parte della propria azienda a rimanere lasola responsabile. L’interprete inizia a tradurre prima al turno 2, dove viene interrotta da S1 cheriformula la propria posizione, poi al turno 6. L’interlocutore I1 interrompe la traduzione sia alturno 7 che al turno 9 per dire che ha capito e che è d’accordo e infine, al turno 16 esprime ilproprio accordo in inglese.

15 Davidson (2000), Bolden (2000).16 Gli studi linguistici e sociolinguistici che mettono in luce l’importanza di aspetti “affettivi” nel parlato sono

numerosi. Ricordo, a questo proposito, la distinzione classica di Brown e Yule (1983) fra parlato transazionale (legatoalla costruzione dell’informazione) e parlato interazionale (legato alla costruzione del rapporto fra gli interlocutori) e glistudi di Ochs e Schieffelin (cfr. ad esempio 1989).

17 Fogazzaro e Gavioli (2004).

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Esempio 4.11 S1 = and I think what should be said more direct is this. that we

don’t have any interest to try to raise the capital in such a way that we are becomingonly shareholder of the company.

2 X lui [vuole m-3 S1 [as I mean our first principle is the ruleset that we

shouldtry to go together

4 X =certo.5 S1 the reason why they want to have is is that we want that the

company to survive in the future. [this is our aim.6 X [dunque il, lui vuole

puntualizzare il fatto che loro non hanno nessuna intenzionedi aumentare il capitale in modo da ah [ottenere la: il +100%della proprietà.

7 I1 [sì è chiaro è chiaro èchiaro

8 X =loro vogliono che le due quote di partecipazione9 I1 =camminino [di pari passo.10 X [procedano* parallelamente, perché questo è il

modo migliore per assicurare il futuro dell’azienda.11 I1 =benissimo. ok. condividiamo in pieno.12 X we ah we agree with you.13 S3 [all right?14 S2 [ok?15 S1 [yeah?16 I1 ok. -- very (??).

In questa trascrizione, gli interlocutori si sovrappongono alla traduzione e partecipano interagendodirettamente, mostrando di “essersi capiti” e di essere d’accordo.

Nell’esempio che segue (4.2) invece, benché non ci sia nulla sul piano linguistico che possafar pensare che ciò che viene detto qui sia “meno comprensibile” di ciò che viene detto in 4.1, iparlanti ritardano il proprio intervento lasciando all’interprete il compito di creare comprensione,non solo sul piano linguistico/traduttivo, ma anche attraverso un tentativo di trovare unacondivisione su ciò di cui si discute. Nell’esempio 4.2 si parla della possibilità che alcuni managerdell’azienda che viene assorbita possano andare in pensione in seguito all’assorbimento. Uno deiparlanti (S1) chiede se questo pensionamento si verificherà effettivamente. Il parlante I1 si mostratitubante e risponde che il pensionamento non dipende dalla volontà dei manager o della propriaditta, ma da ciò che deciderà la ditta di S1. Questo punto viene espresso in modo scherzoso nei turni7 e 9, dove il parlante italiano spiega che la decisione non dipende dall’azienda italiana; al turno 10l’interprete riformula in inglese quanto espresso da I1 e aggiunge un invito ai rappresentantidell’altra azienda a esprimersi in merito al pensionamento (“ehm I mean Mr Bianchini and MrRossoli could as well retire but could keep working. it depends on what ehm”). A questo invito ilparlante S2 risponde che si tratta di una decisione difficile e non ancora presa (turno 11).

Esempio 4.21 S1 = and then we have understood it like that you Mr - Bianchini

and Mr Rossoli, when they are coming new - you are retiring from the company.2 X chiede se quando,3 S1 =that’s that how we have understood it.4 X appunto. chiede, vuole capire se ehm è stato detto che quando

loro assorbono l’azienda, ehm Mr il signor Bianchini e il signor Rossoli vanno inpensione.

5 I1 sì

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6 X è vero questo quando loro,7 I1 diciamo che. vanno in pensione. [ride] possiamo decidere di

andarci, possiamo decidere di non andarci. non dipende da [noi.8 X [it de*pends [on9 I1 [cioè loro stanno bene, sono in forma, sono in

salute, sono sono attivi,10 X it depends on on what we want to do. ehm I mean Mr Bianchini

and Mr Rossoli could as well retire but could keep working. Itdepends on what ehm

11 S2 yeah. ehr it is hard for us to know you see.

In questo esempio, dunque, l’azione di “filtro” esercitata dall’interprete viene resa rilevante pertrattare la delicatezza dell’argomento. Mentre il parlante italiano si limita a dire “non dipende danoi” (turno 7), come “terzo interlocutore”, non direttamente coinvolto nell’uno o nell’altro gruppo,l’interprete si orienta alla propria attività di coordinamento della conversazione e pone il problemacome problema “collettivo (“It depends on what we want to do”); attraverso il suo intervento,esprime la posizione dell’azienda italiana e invita l’altra azienda a esprimere la propria.

Gli esempi 4.1 e 4.2 mostrano dunque che l’azione dell’interprete come filtro può essereresa rilevante nell’interazione per gli scopi dell’attività in corso. Poiché partecipa all’interazionecon la funzione di rendere possibile la comunicazione, l’interprete è un partecipante un po’particolare: è coinvolto nell’interazione, ma forse non così coinvolto come gli altri interlocutorinegli argomenti che vengono discussi. Il suo ruolo può quindi essere utilizzato dagli interlocutoricome una risorsa per gli scopi dell’attività in corso.18 Mentre negli incontri fra medico e paziente,un orientamento dei partecipanti alla trasmissione di informazioni inibiva l’espressione dipreoccupazione e rassicurazione e il “filtro” esercitato dall’interprete nella traduzione andava nelladirezione di ridurre fortemente la partecipazione di tipo “affettivo” a favore di quella di tipoinformativo,19 nell’esempio 4.2, l’orientamento dei partecipanti alla discussione di “problemicomuni” fornisce all’interprete l’opportunità di offrire la propria azione di “filtro” come risorsa permitigare o per trattare un argomento delicato e di potenziale disaccordo.

5. ConclusioniL’analisi di esempi di conversazioni mediate dall’interprete, registrate in situazioni

quotidiane istituzionali, mostra dunque che, nell’interazione, l’interprete esercita una funzionemolto più complessa di quella di “tradurre turni” di parlato e che, in qualche caso, un orientamentoalla traduzione dei turni di parlato “come testo” a se stante può ostacolare la comunicazione.L’interprete agisce nell’interazione come partecipante e le sue azioni vengono rese rilevanti nellaco-costruzione della conversazione in sintonia con quelle degli altri partecipanti.

Questo non toglie all’interprete la peculiarità della propria funzione; il punto è che talefunzione, all’interno della conversazione, è ancora poco studiata. Osservandola, attraverso strumentilinguistici basati sull’analisi della conversazione, essa si rivela di grande interesse per gli studi sullatraduzione, sulla comunicazione e sulla descrizione del parlato in due lingue e in situazioniinterculturali. Qui abbiamo visto che un’orientamento al parlato come attività rispetto al parlatocome testo può avere esiti molto diversi per il contributo traduttivo e conversazionaledell’interprete. All’interno dell’orientamento al parlato come attività, poi, scelte come orientarsi atrasmettere informazioni rispetto a esprimere soddisfazione sono, a loro volta, correlate con esitimolto diversi per la traduzione a livello testuale.

Le funzioni dell’interprete che abbiamo visto sopra, in particolare quella traduttiva, quella dicoordinamento e quella di filtro, vengono rese rilevanti dagli interlocutori nella conversazione,

18 Vedi Wadensjö (2006).19 Davidson (2000).

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secondo i meccanismi di gestione dei turni su cui si basa la conversazione. I parlanti accettano odeclinano le azioni iniziate dagli altri parlanti manifestando così il proprio orientamento allacomunicazione. Allo stesso modo accettano o declinano il contributo dell’interprete, nel tradurre,nel coordinare o nel filtrare (e come filtrare) i contenuti.

Ciò che ho delineato in questo contributo si basa essenzialmente su una descrizione delparlato mediato dall’interprete utilizzando strumenti di analisi della conversazione e strumentirelativi allo studio della comunicazione. Quanto discusso ha, tuttavia, una potenziale importanzaanche per la formazione degli interpreti dialogici. Come accennato nella prima sezione di questocontributo, la ricerca sull’interpretazione dialogica è ancora molto giovane e, almeno in una primafase, i contributi nel campo della formazione sono stati essenzialmente “vademecum” scritti dainterpreti per altri interpreti che fornivano indicazioni di massima su ciò che si deve o non si devefare per tradurre in determinate situazioni. Questo ha inevitabilmente ridotto la problematicità dellafunzione e anche della professione dell’interprete dialogico a principi di carattere etico o operativo acui è spesso difficile attribuire un significato concreto. L’analisi delle interazioni mediate sottolinea,invece, la complessità del lavoro dell’interprete dialogico problematizzando aspetti relativi alla“neutralità” del suo ruolo o alla “fedeltà” della traduzione. In questo senso, benché il lavoro dianalisi sull’interpretazione dialogica sia ancora agli inizi e sia difficile trarre conclusioni su che cosaimplichi per la formazione dell’interprete, permette di suggerire una linea diversa da quellaprecedentemente tracciata e potenzialmente, utilmente, complementare ad essa.

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ALEARDO TRIDIMONTITradurre l’identità – l’identità della traduzione

Lo scrittore e il suo doppio: il traduttore. Palomar al museo dei formaggidi Italo Calvino

La traduzioneAiuta a fare uscire il mondodal silenzio, a farlo esistereA dargli un senso, uno stileLa traduzioneCi fa liberi e la libertàDà a ognuno la possibilitàDi esprimere la propria identitàLa propria culturaLa libertà ci fa ugualiÈ la nostra veritàÈ il nostro destino

Il museo dei formaggi

Il signor Palomar fa la coda in un negozio di formaggi, a Parigi. Vuole comprare certi formaggini dicapra che si conservano sott’olio in piccoli recipienti trasparenti, conditi con varie spezie ed erbe. La fila deiclienti procede lungo un banco dove sono esposti esemplari delle specialità più insolite e disparate. È unnegozio il cui assortimento sembra voler documentare ogni forma di latticino pensabile; già l’insegna“Spécialités froumagères” con quel raro aggettivo arcaico o vernacolo avverte che qui si custodisce l’ereditàd’un sapere accumulato da una civiltà attraverso tutta la sua storia e geografia.

Tre o quattro ragazze in grembiule rosa accudiscono i clienti. Appena una è libera, prende a caricoil primo della fila e l’invita a dichiarare i suoi desideri; il cliente nomina e più spesso indica, spostandosi peril negozio verso l’oggetto dei suoi appetiti precisi e competenti.

In quel momento tutta la fila si sposta avanti d’un passo; e chi finora aveva sostato accanto al “Bleud’Auvergne” venato di verde viene a trovarsi all’altezza del “Brin d’amour” il cui biancore trattiene fili dipaglia secca appiccicati; chi contemplava una palla avvolta in foglie può concentrarsi su un cubo cosparsodi cenere. C’è chi dagli incontri di queste fortuite tappe trae ispirazione per nuovi stimoli e nuovi desideri:cambia idea su quel che stava per chiedere o aggiunge una nuova voce alla sua lista; e c’è chi non si lasciadistrarre nemmeno per un istante dall’obiettivo che sta perseguendo e ogni suggestione diversa in cuis’imbatte serve solo a delimitare, per via d’esclusione, il campo di ciò che lui testardamente vuole.

L’animo del signor Palomar oscilla tra spinte contrastanti: quella che tende a una conoscenzacompleta, esaustiva, e potrebbe essere soddisfatta solo assaporando tutte le qualità; o quella che tende a unascelta assoluta, all’identificazione del formaggio che solo è suo, un formaggio che certamente esiste anchese lui ancora non sa riconoscerla (non sa riconoscersi in essa).

Oppure, oppure: non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d’essere scelti. C’è unrapporto reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modod’attrarlo, con una sostenutezza o granulosità un po’ altezzosa, o al contrario sciogliendosi in unarrendevole abbandono.

Un’ombra di complicità viziosa aleggia intorno: la raffinatezza gustativa e soprattutto olfattivaconosce i suoi momenti di rilassatezza, d’incanagliamento, in cui i formaggi sui loro vassoi sembranooffrirsi come sui divani d’un bordello. Un sogghigno perverso affiora nel compiacimento d’avvilirel’oggetto della propria ghiottoneria con nomignoli infamanti: crottin, boule de moine, bouton de culotte.

Non è questo il tipo di conoscenza che il signor Palomar è più portato ad approfondire: a luibasterebbe stabilire la semplicità d’un rapporto fisico diretto tra uomo e formaggio. Ma se lui al posto deiformaggi vede nomi di formaggi, concetti di formaggi, significati di formaggi, storie di formaggi, contestidi formaggi, psicologie di formaggi, se – più che sapere – ha presente che dietro a ogni formaggio ci siatutto questo, ecco che il suo rapporto diventa molto complicato.

La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbememorizzare tutti i nomi, tentare una classificazione a seconda delle forme – a saponetta, a cilindro, acupola, a palla –, a seconda della consistenza – secco, burroso, cremoso, venoso, compatto –, a seconda deimateriali estranei coinvolti nella crosta o nella pasta – uva passa, pepe, noci, sesamo, erbe, muffe –, ma

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questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza, che sta nell’esperienza dei sapori, fatta dimemoria e d’immaginazione insieme, e in base ad essa soltanto potrebbe stabilire una scala di gusti epreferenze e curiosità ed esclusioni.

Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo; prati incrostati disale che le maree di Normandia depositano ogni sera; prati profumati d’aromi al sole ventoso di Provenza;ci sono armenti con le loro stabulazioni e transumanze; ci sono segreti di lavorazione tramandati nei secoli.Questo negozio è un museo: il traduttore visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto lapresenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma.

Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua lacui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta unaricchezza inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato, come tutte lelingue nutrite dall’apporto di cento dialetti. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspettoesteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi un po’ di nomenclatura resta sempre la primamisura da prendere se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi.

Estrae di tasca un taccuino, una penna, comincia a scrivere dei nomi, a segnare accanto a ogni nomequalche qualifica che permetta di richiamare l’immagine alla memoria: prova anche a disegnare uno schizzosintetico della forma. Scrive pavé d’Airvault, annota “muffe verdi”, disegna un parallelepipedo piatto e suun lato annota “4 cm circa”; scrive St-Maure, annota “cilindro grigio granuloso con un bastoncino dentro” elo disegna, misurandolo a occhio “20 cm”; poi scrive Chabicholi e disegna un piccolo cilindro.

- Monsieur! Houhou! Monsieur! – Una giovane formaggiaia vestita di rosa è davanti a lui, assorto nel suotaccuino. È il suo turno, tocca a lui, nella fila dietro di lui tutti stanno osservando il suo incongruocomportamento e scuotono il capo con l’aria tra ironica e spazientita con cui gli abitanti delle grandi cittàconsiderano il numero sempre crescente dei deboli di mente in giro per le strade.

L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta;ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massanon aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balìa.

Italo CALVINO, Palomar, Milano, Mondadori,1983____________________________

Leggendo questo brano, viene spontaneo pensare allo scrittore e al suo doppio, il traduttore.Infatti, se sostituiamo il protagonista con “traduttore”, il negozio di formaggi con “editore” oppure“libreria”, formaggi con “scrittore” oppure “opere da tradurre” o “opere da leggere” e i clienti con“lettori”, eccoci in fila per un viaggio di iniziazione, una Recherche nel mondo della traduzioneche si snoda in varie tappe che cercheremo di interpretare. Il viaggio inizia alla superficie del reale,in una festa di forme, di colori, di sapori, di arredi, con sbrigative ragazze in grembiule rosa adaccoglierci, un po’ in contrasto con questo luogo Belle-Epoque. Prima osserviamo dall’esterno lasuperficie delle parole, poi, pian piano, con Palomar come guida, ci addentriamo sempre più inprofondità nella mente del traduttore, nella sua psicologia, nell’universo oscuro dellacomprensione, fino a toccare con mano i meccanismi infinitesimali di quella macchina misteriosae assolutamente straordinaria che è la “recréation vivante” di un libro. Certo, non è con questaintenzione esplicita che Calvino ha scritto il breve racconto che analizzeremo. Egli pensava che lalezione da trarre da questo XX secolo ansimante era quella di rinnovare il rapporto tra linguaggio emondo.

Il mio problema nello scrivere Palomar è stato che io non sono mai stato quello che si diceun osservatore; dunque la prima operazione che dovevo fare era concentrare la miaattenzione su qualcosa e poi descriverla, o meglio fare le due cose allo stesso tempo. (…)Devo dire che la maggior parte dei libri che ho scritto e di quelli che ho in mente discrivere, nascono dall’idea che scrivere un libro così mi sembrava impossibile. Quando misono convinto che un certo tipo di libro è completamente al di là delle possibilità del miotemperamento e delle mie capacità tecniche, mi siedo alla scrivania e mi metto a scriverlo.1

1 Calvino (2002), p. 122.

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La stessa sfida della scrittura di traduzione, la stessa épreuve quotidiana ma con l’étranger, lostesso sforzo che fa il traduttore per padroneggiare ciò che non conosce o non sa, per significarel’altro lato delle parole, per rendere possibile agli altri di esprimersi attraverso di lui. Da espertoconoscitore della traduzione per averla a lungo praticata,2 Calvino, narratore sembra qui sdoppiarsiin traduttore, intendendo il suo lavoro e quello del lettore come quello di un traduttore. Egliosserva se stesso, si traduce e cerca di trasmetterci “il senso dell’approccio all’esperienza, più cheil senso dell’esperienza raggiunta” perché “scrivere, come leggere e tradurre è un’esperienzad’iniziazione, comporta una continua educazione di se stessi, e questo dovrebbe essere il puntod’arrivo d’ogni azione umana”.3

Già negli anni ’60, Calvino seguiva da vicino la linguistica e le nuove teorie sullatraduzione, che solo allora cominciava ad essere considerata scienza e non più prevalentementeopera di artigiani formati dalla pratica. Egli rimase particolarmente incuriosito dall’opera diSaussure e di Mounin,4 che proponeva un approccio nuovo alla materia. Mounin rappresentò inpieno l’epoca in cui i lavori della linguistica, dell’antropologia culturale di Lévy-Strauss,dell’etnografia e della critica letteraria venivano mossi da un comune e innovativo spiritoorganizzatore e sistematico.

Per tradurre un testo scritto in una lingua straniera, bisogna rispettare due condizioni, e nonuna soltanto; due condizioni necessarie, nessuna delle quali è sufficiente di per se stessa:conoscere la lingua e conoscere la civiltà di cui parla questa lingua (e ciò significa la vita,la cultura, l’etnografia più completa del popolo di cui questa lingua è il mezzod’espressione).5

Calvino entusiasta per teorie così affascinanti e, per la prima volta chiare sul tradurre, tentadi metterle in pratica con una grande impresa: la traduzione di Les Fleurs bleues di Queneau cherappresentavano la summa del suo scrivere. Queneau possedeva un’erudizione enciclopedica,passava indistintamente da materie scientifiche a materie umanistiche; nessun tipo di conoscenzadisponibile gli era estraneo. Per leggere Les Fleurs bleues, è necessario condividere la cultura diQueneau, disporre di un bagaglio di conoscenze straordinario, di una padronanza linguistica davirtuoso per cercare di cogliere e preservare la forza della lingua popolare dell’originale conespressioni orali e proverbiali, calembours, contrepèteries, l’amore per il suono della parola, per iparadossi concettuali, nonché le parodie letterarie. E poi, Queneau, matematico, è sempreestremamente preciso. Tradurlo, è titanismo. Ecco perché l’analisi della traduzione di questoromanzo costituisce un’ideale fonte per comprendere come Calvino lavorasse da traduttore e comevedesse questa figura. Ma non è oggetto di questo lavoro. Tuttavia, il brano preso in esame,rispecchia a parer nostro, il suo modo di vedere il traduttore e affronta tutti i maggiori problemidella traduzione.

1° paragrafoIl soggetto narrante è un italiano a Parigi, che scrive in italiano, per dei lettori italiani.

Dunque, l’Io che penetra lentamente nel mondo intimo dell’Altro e cerca di descrivercelo conl’occhio e la mente dello straniero. Il nome del personaggio evoca un potente telescopio, ma la suaattenzione si posa su tutte le cose che gli capitano sotto gli occhi. Nel raccontare la sua esperienza,egli procede come se fosse un etnografo che descrive intraculturalmente i fatti culturali e di unantropologo che li riporta interculturalmente tramite un linguaggio specifico. Egli li scruta neiminimi dettagli con un ossessivo scrupolo di precisione, egli si concentra ogni volta su unfenomeno isolato. Senza questa messa a fuoco preliminare nessuna forma di conoscenza glisembra possibile, ma l’operazione all’atto pratico risulta ogni volta meno semplice di quel che si

2 Queneau (1965). La traduzione italiana è: Queneau Raymond, I fiori blu. Nella traduzione di Italo Calvino,Torino, Einaudi, 19812. La relazione tra Calvino e il gruppo Oulipo passa attraverso questa passione per Queneau.

3 Ivi, p. 135.4 Calvino curò, nel 1965, la pubblicazione Teoria e critica della traduzione di Mounin per l’Einaudi.5 Mounin (1963), p. 122.

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poteva credere. L’oggettività e l’immobilità dell’osservazione si trasformano in racconto,peripezia, coinvolgimento della propria persona. Più Palomar circoscrive il campo dell’esperienza,più esso si moltiplica al proprio interno aprendo prospettive vertiginose, come se in ogni puntofosse contenuto l’infinito. Uomo taciturno, egli intercetta segnali fuori d’ogni codice, intrecciadialoghi muti, tenta di costruirsi una morale che gli consenta di restare zitto, neutrale il più a lungopossibile. Esattamente come il traduttore.

“Spécialités froumagères”: esempio di lingua di civilisation legato al “genio” specificodella lingua francese, ma anche porta di accesso a un altro mondo. In una società che muta da tuttele parti, sembra che qui il tempo si sia fermato, abbia preservata intatta dalle influenze esterne unluogo primitivo immobile, omogeneo, armonioso e ideale. Questo è uno dei buoni negozigastronomici della metropoli, miracolosamente sopravvissuto in un quartier dove l’appiattimentodel commercio di massa, le tasse, il basso reddito dei consumatori, la crisi, hanno smantellato auna a una le vecchie botteghe sostituendole con anonimi supermagazzini. Aspetto linguistico per iltraduttore, ma anche antropologico. Riprendendo la tesi di Saussure sull’impossibilità di avere dueelementi di uguale valore, dunque delle equivalenze dirette perché ogni lingua divide il suo spaziosemantico a modo suo, Calvino mette in discussione la nozione di equivalenza e di transfert sullequali si basavano le teorie tradizionali e ci invita a riflettere sui problemi che ostacolano lacomunicazione tra due lingue e due culture, o meglio tra due lingue-cultura. Fino agli anni ’70, iltesto da tradurre veniva considerato come una sequenza lineare di unità e la traduzione comeun’operazione di decodifica durante la quale il traduttore sostituiva le unità del testo di partenzacon unità equivalenti del testo di arrivo, un po’ come diceva Victor Hugo, “gli ingegneri rendonocarrozzabili le alte montagne”. Non bisogna dimenticare che la storia della traduzione èstrettamente legata allo sviluppo degli Stati-nazione, alla visione del mondo, ai processi dinormalizzazione linguistica. Non a caso l’antropologia è nata mentre l’Europa era impegnata nellaconquista del mondo e la sua cultura inventava la modernità. Con la decolonizzazione, l’accessoall’indipendenza e le grandi trasformazioni geo-politiche che hanno scosso la seconda metà del‘900, difficilmente i modelli fin lì sviluppati potevano continuare ad essere applicati ai contestioggetto di studio. L’approccio strutturalista o funzionalista che consisteva nello studiare le società(e le lingue) in quanto insiemi omogenei e statici in un’ottica etnocentrica, tendeva a collocarel’oggetto dello studio in uno spazio fuori dalla modernità, idealizzato e dunque privo di ognipotenziale creativo, costruttivo. I crescenti disordini sociali e politici, i problemi economici delTerzo mondo, i fenomeni migratori, mettevano in discussione questa visione, imponendo aglistudiosi nuovi orientamenti che li avrebbero portati ad affrontare aspetti contemporanei e pertinentiper queste società. Questo ha costretto gli antropologi ad interrogarsi sul loro operato, a cominciaredal loro ruolo in situ, a ripensarsi nella loro etica professionale, a mettere in conto la possibilità diessere letti da coloro che costituivano le società oggetto del loro studio e di conseguenza essereesposti anche a delle critiche. Non si poteva più non mettere in conto sia prima, che durante e dopoil lavoro svolto sul terreno anche i pareri e le interpretazioni di coloro che, fin a quel momento,non erano mai stati ritenuti lettori e critici potenziali, ma solo semplici informatori. Il contestodiventa così oggetto di nuove riflessioni e di nuovi compromessi. L’uomo psico-chimico è,comunque, dal punto di vista antropologico un essere di cultura. Chi dice cultura dice particolarivisioni del mondo e le visioni del mondo sono spesso divisioni del mondo, tensioni, perché leculture servono anche a stabilire dei confini tra i gruppi, a identificarli, a trasformarli. La lingua viassume il ruolo di specchio d’identificazione e al contempo di riconoscimento culturale. Conl’analogia tra la figura dell’antropografo e quella del traduttore, tra la cultura e il testo(quest’ultimo in quanto rappresentazione culturale) Calvino ci fa riflettere sulla costruzione delleconoscenze e sulla natura del processo traduttivo. Per questo, al paragrafo 2, prima di introdurcinell’officina del traduttore, Palomar ci invita a considerare le condizioni, diciamo così ambientali /istituzionali (tempi di consegna, figura dell’editore, gusti dei lettori, ideologia personale deltraduttore e sua vulnerabilità in quanto interprete culturale, sua capacità di interpretare gli altri) chefin qui erano sottintese e che ora vengono messe in discussione.

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Per tornare all’anacronistica insegna spécialités froumagères, come suscitare nella mentedel lettore straniero l’immagine, il senso particolare che queste parole evocano in quella deifrancesi che sono parte dello stesso contesto culturale, linguistico, storico in cui il segno simanifesta? È sufficiente fornire l’equivalente della semplice superficie lessicale e sintattica?Calvino comincia con lo sfatare alcuni luoghi comuni. Contrariamente a ciò che affermavanoallora gran parte dei linguisti e teorici della traduzione, la traduzione è in primo luogo traduzionedi una cultura in un’altra cultura. L’atto verbale diventa tale solo di riflesso, per il contenuto, ilquale è di natura sociale. È una operazione che risulta da un insieme di interrelazioni sociali eculturali, prima di tutto nell’ambito della propria lingua e cultura e poi tra lingue e culturestraniere. Per Nida, il compito della traduzione è quello di produrre nella LA l’equivalente naturalepiù vicino al messaggio espresso dalla LP, prima di tutto per quanto riguarda il senso, poi lo stile.Il traduttore non deve prestarsi all’“insicurity about his own language”. Egli deve sorvegliare lefrontiere al fine di evitare che delle parole straniere penetrino attraverso le voci e le vie anche lepiù ufficiali. Modulare, adattare, naturalizzare. Se proprio non vi è altro modo per renderel’ambientazione del testo di partenza, l’effetto di spaesamento, si tollera, eccezionalmente, latrascrizione, ma deve essere fatta secondo alcuni canoni stilistici, enfatizzandola col corsivo o levirgolette. È quanto fa Calvino, non per convenzione, ma per rispetto della cultura dell’Altro. Egline esplicita anche il senso in maniera naturale attraverso un’operazione di incrementazione,aggiungendo “quel raro aggettivo arcaico o vernacolo avverte che …”. Newmark a sua voltasostiene che la trascrizione è dimostrazione di una certa “incompetenza” del traduttore. Taleprocedimento è la negazione della traduzione. Se si accetta il principio dell’universalità dellospirito umano e il concetto di “metalinguistico” come insieme dei rapporti che uniscono i fattisociali, culturali e psicologici alle strutture linguistiche (dunque anche questi universali e in teoriatraducibili), le trascrizioni sono probabilmente tutte dimostrazioni di una certa incompetenza deltraduttore, ma è anche vero che l’adattamento può portare al paradosso descritto da Ionesco in Laleçon6:

Le professeur«Je vous donne un exemple: l’expression néo-espagnole célèbre à Madrid: «ma patrie est lanéo-Espagne» devient en italien : «ma patrie est ...L’élève«La néo-Espagne »Le professeur«Non! Ma patrie est l’Italie» (...) C’est pourtant bien simple: pour le mot Italie, en français,nous avons le mot France qui en est la traduction exacte. Ma patrie est la France. Et Franceen oriental: Orient. Ma patrie est l’Orient. Et Orient en portugais: Portugal! L’expressionorientale: ma patrie est l’Orient se traduit donc de cette façon en portugais: ma patrie est lePortugal! Et ainsi de suite...

L’esempio, anche se teatrale, è calzante e non necessita commenti. Se accettiamo il presuppostoche la traduzione è uno strumento chiave per la rappresentazione e il riconoscimento di una culturastraniera e per la formazione di “identità culturali”, che rappresentazione ce ne fornisce iltraduttore che si attiene ai principi di Newmark e di Nida e che obbliga l’Altro a passare dallostampo della naturalizzazione? Calvino si era subito accorto che la traduzione costruisce l’essenzadelle culture e delle identità e che la lingua, prima ancora di essere strumento che serve adescrivere la cultura è essa stessa cultura. Posto ciò, il lavoro del traduttore non consiste solo nelriprodurre, nel pasticher l’autore che egli traduce. In quanto mediatore culturale, egli è unprofondo conoscitore delle due culture delle due lingue a confronto e costituisce l’anello dicollegamento che determina la loro interazione. Il risultato finale del suo lavoro deve essere per illettore destinatario il medesimo che si propone al madrelingua. Egli deve fare sì che, come ilromanzo, la traduzione diventi lingua, giungendo a una sensibilità comune tale da realizzare le sue

6 Ionesco (1954), pp. 133-134.

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proprie parole, senza che queste cessino di essere quelle dell’autore, facendo rivivere quello spaziocomune tra gli elementi semiotici e simbolici della lingua, tra la “vera” vita interiore e la vitasociale, esteriore, così come tra le due lingue.

Il problema del traduttore è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta alcentro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede (…) di dominare non una lingua, ma tuttociò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero mododi vedere il mondo.7

A questo proposito, Kristeva scrive:Traduire, signifie se situer avec chaque mot que je choisis, chaque phrase que je construis, aucarrefour de ces deux mondes. Je dois habiter cet espace entre le senti de la langue et lalangue en tant que structure et clarté d’intelligence – ce même espace qui existe entre leslangues, ce même espace qui existe entre les mots eux-mêmes: dans cet espace qui créel’étrangeté du langage littéraire. Il faut l’oreille fine, sans doute, mais il faut aussi cette autrecapacité qu’a le petit garçon, celle de sentir ce qu’il y a de commun entre les choses .8

Più che una scienza, “tradurre è un’arte: il passaggio di un testo letterario, qualsiasi sia il suovalore, in un’altra lingua richiede ogni volta un qualche tipo di miracolo. (…) La vera letteratura(…) lavora sul margine intraducibile di ogni lingua. Il traduttore letterario è colui che mette ingioco tutto se stesso per tradurre l’intraducibile”9. Fino allo strutturalismo, il mondo era diviso tralingue superiori e lingue inferiori, le une, espressione dell’Uomo portatore di civiltà, le altre,espressione di “animali” più o meno ragionevoli, mossi da passioni oscure. Un po’ la concezioneplatonica. Con lo strutturalismo, tutte le lingue hanno un universale, ovvero una struttura e unacapacità di generarsi, in base a un disegno razionale e una volontà. Calvino, anticipando sullatraduttologia, libera la traduzione dalla linguistica teorica e applicata e la riporta nel suo ambitonaturale che Kant definiva “movimento del linguaggio”, “dottrina del gusto”, filosofiadell’estetica. In ogni testo è fondamentale tenere in considerazione il concetto di movimento dellinguaggio, di stratificazione delle lingue storiche. Da qui la necessità di guardare nella profonditàdella LP e della LA, nei corrispettivi stili collettivi, perché la traduzione sia vera. E questestratificazioni, non è possibile rilevarle con gli strumenti della linguistica teorica.

2° paragrafo“(…) l’invita a dichiarare i suoi desideri; il cliente nomina e più spesso indica, spostandosi per il negozio

verso l’oggetto dei suoi appetiti precisi e competenti.”

Prima di cominciare ad operare in situ, di avviare il processo di elaborazione del prodotto,per meglio definire il suo ruolo, Palomar invita il traduttore a conoscere bene il terreno nel quale siinserisce il suo lavoro, la situazione che precede e segue l’atto traduttivo vero e proprio, con le sueinnumerevoli servitù. Ci invita a osservare i libri già tradotti, disposti sugli scaffali e che aspettanosolo di essere letti; i clienti-lettori-consumatori; ci invita a considerare l’importanza del“packaging” nell’orientare gli appetiti del pubblico i cui gusti spesso prevalgono sulla qualità, aconferma della forza dei pregiudizi riguardo ciò che la letteratura deve essere anziché di ciò che è;degli editori, che ne sono responsabili. Anzitutto, per evitare i rischi in termini di guadagni.Secondariamente, per il fatto che una casa editrice è gestita da teste pensanti, che hanno,chiamiamoli così, i loro gusti, le loro preferenze, anche ideologiche. Il criterio per il quale sidecide di tradurre e pubblicare un autore piuttosto che un altro, non è necessariamente legato allaqualità letteraria. Il motivo di disinteresse per la produzione letteraria di alcuni paesi non sta nelledifferenze culturali o nel pretesto che non vi sono nomi degni di traduzione. Relegare nella sferadell’ignoto o dell’esotico, rafforzando gli stereotipi, è rassicurante. Senza mai dimenticare lerelazioni storiche, economiche, geopolitiche tra i vari paesi che hanno un grosso peso sulla

7 Fruttero & Lucentini (2003).8 Kristeva (1998), p. 395.9 Calvino (2002), p. 87.

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traduzione. Inoltre, il traduttore, in quanto interprete culturale, deve riconoscere il ruolo didistorsione che produrrà il filtro ideologico personale attraverso il quale egli interpreta gli Altri. Diriflesso, tutti questi numerosi condizionamenti incideranno, anche se in maniera inconsapevole, sulsuo lavoro. Nel 1966, Michel Foucault10 parlava di “modi di essere” di una cultura: modi di viveree di pensare comuni a una determinata comunità, che portano gli individui che vi appartengono adagire in certe situazioni sociali in maniera comune. Questi modi di essere sono importanti ancheperché possono indurre i traduttori a tradurre in un modo particolare e comune, legato al contesto eai vincoli sociali che caratterizzano quel momento. Nel 1984, un’opera di Berman11 colpì ilmondo accademico della traduzione perché dimostrava il ruolo che un intero movimento culturale(in questo caso quello romantico tedesco) può assegnare alla traduzione nella costruzionedell’identità nazionale. Una decina d’anni più tardi, Delisle e Woodsworth12 affermano: « Par delàles décideurs (commanditaires, éditeurs, etc.), par delà la matérialité des textes, (...) il brouille lescartes, en l’occurence ces cultures, ces valeurs, celles de l’autre comme les siennes propres qu’onvoudrait bordées, délimitées, alors qu’elles sont fluides, mouvantes ». Un po’ ciò che Mallarméscriveva nel 1877: “Le traducteur n’est pas uniquement prospecteur de différences, explorateur deterritoires culturels inconnus. Il est aussi celui qui, dans sa reconnaissance de l’autre, change lesperspectives de sa communauté, dérange les «mots de sa tribu »” . In The Scandals ofTranslation13, Lawrence Venuti parla di politica della traduzione e scrive:“Translation wieldsenormous power in creating representations of foreign cultures.”

Come gli antropologi prima di lui, il traduttore deve riconoscere la sua propria influenzasulla costruzione e la comprensione di culture altre, riconoscere che non solo è un osservatoreparziale, ma anche un protagonista. Pur non operando sul terreno, egli deve tuttavia documentarsi,consultare fonti, interrogarsi, svolgere ricerche. Poiché il dialogo tra l’antropologo e i suoiinformatori assume un ruolo molto importante nel metodo di lavoro, anche per la traduzione è digrande rilevanza lo studio dall’interno dell’interazione tra il traduttore e il contesto che da sensoalla lingua-cultura.

Toute saisie d’un objet par un sujet constitue un filtrage, c’est à dire une médiation par le sujetrécepteur. Celui-ci plaque sur l’objet la grille de présupposés culturels, idéologiques,expérientiels, intellectuels qu’il s’est constituée au fil d’une existence et, à moins de se faireviolence pour résister à la tentation de caser l’objet nouveau dans les structures du connu, àmoins de faire table rase de ses préjugés, ce qui exige une véritable ascèse d’anthropologue, ilfinit par ne reconnaître que ce qu’il a appris au préalable à connaître.14

Dopo questo necessario preambolo, Palomar ci avvicina ai meccanismi che ci consentonointralinguisticamente di dichiarare i nostri desideri, i nostri appetiti competenti, di nominare.Mentre l’Europa si imponeva alle altre società, negando le loro culture, le loro lingue e le loroidentità, paradossalmente, nello stesso periodo, molti studiosi si sono interrogati sulla natura delleparole, sulla la loro relazione con i segni del mondo, sulla loro percezione. Calvino più attratto daMounin, Saussure e probabilmente anche dalla filosofia del linguaggio di Wittgenstein, sidissocerà da strutturalisti come Lukàcs. “Affermare che ogni parola significa qualcosa equivale anon dire nulla. Le parole hanno funzioni disparate, come disparate sono le funzioni degliutensili”.15 Ogni singola realizzazione concreta del linguaggio risponde a precise regole e a unalogica interna fissate dall’uso ordinario di esso, esattamente come avviene con qualunque gioco. Ilsignificato di una parola è il suo uso nel linguaggio sociale ed è il risultato di una percezionetradotta in una rappresentazione o linguaggio mentale di ciascun individuo poi repertoriata. Lostesso dicasi per il significato di un segno. In sé non è nulla. La “messa in parole” o ri-traduzione

10 Foucault (1966).11 Berman (1984).12 Delisle e Woodsworth (1995).13 Venuti (1998), p. 67.14 Folkart (1991).15 Wittgenstein (1958), citato da Osimo (2004).

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in codice esterno comune ad altri, è l’atto indispensabile unicamente per la vita socialedell’individuo, per poter condividere con altri il contenuto dei propri atti cognitivi e percettivi.

(…) se per la sopravvivenza biologica di un singolo individuo è sufficiente che venganosoddisfatti determinati bisogni naturali, la vita di una collettività, quale che sia, non è possibilesenza una cultura (…) Tutti i bisogni dell’uomo si possono ripartire in due gruppi. Gli unirichiedono una soddisfazione immediata e non possono (o quasi) venire accumulati. (…) Ibisogni che possono essere soddisfatti mediante l’accumulazione di riserve formano un gruppodistinto. Essi sono la base oggettiva per l’acquisizione, da parte dell’organismo, diinformazione extragenetica. (…) L’uomo nella lotta per la vita è inserito in due processi:nell’uno interviene come consumatore di valori materiali, di cose, nell’altro invece, comeaccumulatore d’informazione. Ambedue sono necessari all’esistenza. Se all’uomo comecreatura biologica è sufficiente il primo, la vita sociale presuppone ambedue. (…) La cultura èun fascio di sistemi semiotici (lingue) formatisi storicamente. (…) La traduzione dei medesimitesti in altri sistemi semiotici, l’assimilazione di testi diversi, lo spostamento dei confini fra itesti che appartengono alla cultura e quelli che si trovano oltre i suoi limiti costituiscono ilmeccanismo d’appropriazione culturale della realtà. Tradurre un certo settore della realtà in unadelle lingue della cultura, trasformarlo in un testo, cioè in un’informazione codificata in uncerto modo, introdurre questa informazione nella memoria collettiva: ecco la sfera dell’attivitàculturale quotidiana. Solo ciò che è stato tradotto in un sistema di segni può diventarepatrimonio della memoria. La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta perla memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione dellamemoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi.16

Poiché ogni uso coinvolge un’intera memoria collettiva di contenuti culturali già elaborati nonché diforme che la storia ha sedimentato, è importante sapere come il testo è stato prodotto, conoscerne ilcontesto linguistico, sociale, culturale (anche in senso etnologico).

3° paragrafo“C’è chi dagli incontri di queste fortuite tappe trae ispirazione per nuovi stimoli e nuovi desideri: cambia idea suquel che stava per chiedere o aggiunge una nuova voce alla sua lista;e c’è chi non si lascia distrarre nemmeno per un istante dall’obiettivo che sta perseguendo e ogni suggestione diversain cui s’imbatte serve solo a delimitare, per via d’esclusione, il campo di ciò che lui testardamente vuole.”

Dopo questo breve excursus, Palomar ci riporta alla traduzione interlinguistica e cerca difarci capire quanto la relazione tra processo di transfert linguistico, soggettività del traduttore e“construction du phrasé” sia, di fatto estremamente complessa. Il traduttore non è il solo a tradurre,ma nemmeno traduce da solo e neanche il suo ruolo è riducibile a un’operazione di mero transfertinterlinguistico. Abbiamo visto che, in ambito linguistico, non vi sono certezze, né assoluti, masolo arricchimenti; ogni individuo interpreta a modo suo e in maniera progressiva un segno,espandendo o delimitando meglio il campo. “Un traduttore che non ha dubbi non può essere unbuon traduttore: il mio primo giudizio sulla qualità d’un traduttore mi sento di darlo sul tipo didomande che mi fa.”17

Non svolgendo un testo le sue funzioni finché non è letto e essendo la lettura a sua volta unasorta di traduzione dal linguaggio verbale esterno al linguaggio non verbale interno, con gli stessimeccanismi di funzionamento del linguaggio verbale, quando un traduttore legge il testo datradurre, egli percepisce ciò che legge desumendone interpretazioni e inferenze sui possibili intentidell’autore del messaggio al momento della sua stesura, li trasferisce dal contesto naturale perproiettarlo nella sua mente dove prendono forma, in maniera veloce, provvisoria e non sempre deltutto consapevole. Le sue potenziali possibilità di traduzione si materializzeranno successivamentein un prodotto risultante dal suo status culturale e linguistico personale e che risponde alle varieconvenzioni in uso nella sua lingua. Che si tratti di un testo originato dalla propria cultura oppure

16 Lotman (1987) citato da Osimo (2004).17 Calvino (2002), p. 88.

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da una cultura straniera, ogni lettore lo percepirà attraverso la propria griglia e i propri presuppostie ne interpreterà solo ciò che è riuscito a riconoscervi e dunque ciò che già conosceva.L’interpretazione che farà leggere ai suoi lettori e di cui è interamente responsabile, è la sua,ovvero una tra tante altre, risultato della costruzione del senso e della forma che non avviene in unvuoto culturale. Per questo, la traduzione è un’operazione letteraria, creativa, dove c’è semprel’apporto di un’interpretazione personale, anche perché il traduttore scrive nella propria linguache, comunque non è quella dello scrittore.

Come scriverei bene se non ci fossi? Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storieche prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quelloscomodo diaframma che è la mia persona! Lo stile, il gusto, la filosofia personale, la soggettività,la formazione culturale, l’esperienza vissuta, la psicologia, il talento, i trucchi del mestiere: tuttigli elementi che fanno sì che ciò che scrivo sia riconoscibile come mio, mi sembrano una gabbiache limitano le mie possibilità. Se fossi solo una mano, una mano mozza che impugna una pennae scrive … Chi muoverebbe questa mano? La folla anonima? Lo spirito dei tempi? L’inconsciocollettivo? Non so. Non è per essere il porta-voce di qualcosa di difendibile che vorrei annullareme stesso. Solo per trasmettere lo scrivibile che attende d’esser scritto, il narrabile che nessunoracconta. 18

Lingua, testo e funzione del testo sono prodotti e riflessi diversi di una stessa cultura. La sorteinterpretativa di un testo fa pertanto parte del proprio meccanismo generativo. Il traduttoreinterpreta e costruisce il suo testo intrattenendo un dialogo costante e muto tra se stesso e l’autoreinvisibile. “En traduction, on ne peut pas, on ne doit pas être neutre. La neutralité n’est pas lecorrectif du dogmatisme”19. Da qui la necessità, per il traduttore, di accompagnare il suo lavoro dauna profonda riflessione e da una rimessa in discussione continua delle sue scelte.

4° paragrafo “L’animo del signor Palomar oscilla tra spinte contrastanti:- quella che tende a una conoscenza completa, esaustiva, e potrebbe essere soddisfatta solo assaporando tutte lequalità;- o quella che tende a una scelta assoluta, all’identificazione del formaggio che solo è suo, un formaggio checertamente esiste anche se lui ancora non sa riconoscerla (non sa riconoscersi in essa).”

I conflitti, le tensioni, le negoziazioni, le decisioni, le controversie fanno parte del processotraduttivo. Oltre a essere “preso fra il dire tutto a nessuno, dire nulla a tutti, e le due situazioni sonoinversamente proporzionali”20, il traduttore deve anche confrontarsi con le teorie delle varie scuoledi pensiero: teoria strutturalista, teoria del senso o teoria interpretativa, teoria delle equivalenze,teoria dello skopos, teoria della lettera e dell’autonomia linguistica, teoria della fedeltà, dellacongruenza, dei “ciblistes”, dei “sourciers”…Tradurre un testo è un’attività trans-linguisticaquanto l’attività stessa della sua scrittura e tale procedimento non può essere teorizzato dallalinguistica dell’enunciato (Lukàcs) né dalla poetica formale di Jakobson.

La mente dello scrittore è ossessionata dalle contrastanti posizioni di due correnti filosofiche.La prima dice: il mondo non esiste; esiste solo il linguaggio. La seconda dice: il linguaggiocomune non ha senso; il mondo è ineffabile. Secondo la prima, lo spessore del linguaggio sierge al di sopra d’un mondo fatto d’ombre; secondo la seconda, è il mondo a sovrastare comeuna muta sfinge di pietra un deserto di parole come sabbia trasportata dal vento. La primacorrente ha stabilito le sue sorgenti a Parigi; la seconda scorre dall’inizio del secolo partendo daVienna ed è passata attraverso varie trasmigrazioni riacquistando attualità in anni recenti anchein Italia. Entrambe le filosofie hanno forti ragioni dalla loro. Entrambe rappresentano una sfidaper lo scrittore: la prima, esige l’uso d’un linguaggio che risponda solo a se stesso, alle sue

18 Baranelli e Ferrero (2003), p. 260.19 Meschonnic (1973), p. 63.20 Guiraud (1982), p. 461.

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leggi interne; la seconda, l’uso d’un linguaggio che possa far fronte al silenzio del mondo.Entrambe esercitano su di me il loro fascino e la loro influenza. Ciò significa che finisco pernon seguire né l’una né l’altra, che non credo né nell’una né nell’altra.21

Lo stesso dilemma ossessiona la mente del traduttore. Se nei brani seguenti sostituiamo “libro” con“traduzione”, la posizione saggia di Calvino invita il traduttore a prendere le distanze dallalinguistica e ad avere un atteggiamento di giusto equilibrio nei confronti del lavoro che egli èchiamato a svolgere, consapevole del fatto che la Traduzione assoluta non esiste, né l’equivalenzaideale.

L’idea d’un libro assoluto si presenta ogni tanto anche alla letteratura profana, come il Librocon l’elle maiuscola vagheggiato da Mallarmé, ma direi che è una tentazione diabolica.Meglio il gesto perplesso e modesto di chi spinge avanti il proprio libro come una glossa(…). Il libro magico, il libro assoluto, i cui arcani superano i limiti d’ogni linguaggio, nonsarebbe dunque altro che un modello di cervello elettronico? Ma il computer vale per noisolo in quanto può memorizzare ed eseguire una gran quantità di programmi che siamo noi aelaborare e a inserire nei suoi microcircuiti. Torniamo alla molteplicità come condizioneprima d’ogni atto di conoscenza. Come il computer non ha senso senza i programmi, senza ilsuo software, così anche il libro che pretenda d’essere considerato “il Libro” non ha sensosenza il contesto di molti, molti altri libri intorno a lui. (…) Un grande libro non vale tantoperché ci insegna a conoscere un determinato individuo, ma perché ci presenta un nuovomodo di capire la vita umana, applicabile anche agli altri, di cui anche noi possiamo servirciper riconoscere noi stessi. Se ogni persona umana contenesse un proprio libro e non lerestasse che depositarlo sulla carta (o scodellarlo come un uovo), le biblioteche sarebberoaffollate da popolazioni sterminate di doppi cartacei di tutti i vissuti e defunti, menodeperibili dei corpi di carne e ossa che si affolleranno nella valle di Giosafatte, prospettivache sarebbe questa sì, la più angosciosa di tutte. Io preferisco credere a una biblioteca idealeche accolga i modelli esemplari d’esperienza, i prototipi, le forme essenziali dalle quali sipotrà dedurre tutto il possibile. (…) Più che dal desiderio di scrivere il mio libro, il librocome equivalente di me stesso, io sono spinto dal desiderio d’aver davanti a me il libro chemi piacerebbe di leggere, e allora provo ad identificarmi con l’autore immaginario di questolibro ancora da scrivere, un autore che potrebbe anche essere molto diverso da me.22

Come il computer non ha senso senza i programmi, così neanche la traduzione non ha senso senzal’esperienza diretta del traduttore e l’apporto di tante altre esperienze di traduzione. Anche leparole, ad immagine dei loro parlanti o traduttori, hanno un’anima, una storia, una sensibilità. Ed èciò che differenzia il linguaggio umano da quello della macchina, la traduzione umana da quellaautomatica, dalla Traduzione. La totalità e la neutralità sono un concetto dei filosofi che resteràsempre astratto. Una traduzione non potrà comunque mai essere equivalente all’originale néconsiderarsi “finita”, ma solo provvisoria e sempre migliorabile. È inevitabile che, trattandosi di unconfronto dinamico tra due lingue e due culture, essa porta inevitabilmente a evidenziare eproblematizzare le differenze, a volte inconciliabili tra di esse.

Ogni traduttore incontrerà immancabilmente uno dei due scogli seguenti: o seguirà controppo scrupolo l’originale, a scapito del gusto e della lingua del suo popolo, o aderiràall’originalità del suo popolo, a scapito dell’opera da tradurre.23

Tuttavia, visto che “ciò che cercano gli scrittori di romanzi è tessere una rete che leghi l’esperienzacustodita nei libri durante i secoli a quel pulviscolo d’esperienza che attraversiamo giorno pergiorno nelle nostre vite e che ci risulta sempre più inafferrabile e indefinibile”,24 il traduttore deve

21 Calvino (2002), p. 116.22 Ivi, pp. 134-135.23 Lettera a Schlegel, 23 luglio 1796, citata da Berman (1984), p. 9.24 Calvino (2002), p. 133.

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separare ognuno degli elementi visibili del testo in un’infinità di elementi invisibili senza i qualiglie ne sfugge la percezione.

La traduzione è un mestiere che s’impara, ma a sua volta è un mestiere che insegna ascrivere, che offre l’opportunità di esplorare a fondo il senso delle parole e le strutture della linguaper la necessità di riconoscerle e di paragonarle con loro consimili in una lingua diversa, fino arinfrancare il proprio stile. La ricerca lessicale e sintattica è mirata alla perfezione tecnica perchéper il grande scrittore come per il bravo traduttore, se si vuole essere letti senza difficoltà, scriverediventa estremamente difficile.25 La tentazione della traduzione sta anche in questo, nell’essereun’occasione di scrittura che può diventare un riferimento per gli altri. Ciò significa affrontarel’aspetto autoriale della traduzione. Perché a un certo punto, come abbiamo visto con Calvino eEco, il traduttore quasi si immedesima con l’autore, condivide la stessa visione del mondo, scrivecon lo stesso stile, trova con facilità le parole, le espressioni. Ma, di solito, il traduttore non è loscrittore ed è bene che non cerchi di esserlo.

5° - 6° paragrafo“Oppure, oppure: non è questione di scegliere il proprio formaggio ma d’essere scelti. C’è un rapporto

reciproco tra formaggio e cliente: ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d’attrarlo, (…) o alcontrario sciogliendosi in un arrendevole abbandono. Un’ombra di complicità viziosa aleggia intorno: la raffinatezzagustativa e soprattutto olfattiva conosce i suoi momenti di rilassatezza, d’incanagliamento, in cui i formaggi sui lorovassoi sembrano offrirsi come sui divani d’un bordello. Un sogghigno perverso affiora nel compiacimento d’avvilirel’oggetto della propria ghiottoneria con nomignoli infamanti.”

È il testo che si fa tradurre o è il traduttore che sceglie come tradurlo? Domandaapparentemente banale, ma in realtà molto più subdola. Vi è un rapporto gerarchico tra lingua etraduttore?

L’uomo si comporta come se fosse lui a forgiare e a dominare la lingua, mentre è la linguainvece che resta la padrona dell’uomo. Quando questa relazione di dominio viene invertita,l’uomo si trova limitato a strani espedienti. La lingua diventa allora mezzo di espressione, lalingua può degenerare in puro mezzo d’espressione (in pura stampa). Sforzarsi di aver cura delproprio discorso, persino quando la lingua viene usata in questo modo, è lodevole. Ma da solo,questo non basta a districarsi dall’invasione e della confusione del vero rapporto gerarchico trala lingua e l’uomo. Giacché di fatto è la lingua a parlare. L’uomo parla soltanto nella misura incui “risponde” - “corrisponde” – alla lingua e ascolta il suo appello, il suo consenso. Fra tutti iconsensi che noi uomini non possiamo mai articolare da soli, la lingua è il più elevato e ilprimo in assoluto.26

E Calvino:Il pensiero che i libri siano generati dai libri come una forza biologica propria della carta scrittapuò comunicare angoscia: se è il discorso scritto che passa attraverso la mano che scrive, el’autore non è che uno strumento di qualcosa che si scrive indipendentemente da lui, forse nonsiamo noi a scrivere i libri ma sono i libri che scrivono noi.27

Qui ci viene da fare un paragone con quanto avvenne agli albori del Novecento, con lo scientismoche erigeva a livello di verità scientifica assoluta una concezione materialista e deterministadell’universo, dove nessun spazio veniva concesso all’esistenza della mente e neanche alla libertà.Bergson scosse i benpensanti dell’Occidente, con “les données immédiates de la conscience” e il“dinamismo della vita interiore” dell’individuo e li pose di fronte alla domanda imbarazzante: invirtù di quale ragione abbiamo preso una decisione, compiamo un atto? Risposta: forse contro ogniragione! Gli atti liberi sono dunque rari; nella maggior parte delle nostre azioni quotidiane (la vitaè fatta di circostanze ordinarie e di circostanze solenni) siamo degli automi coscienti; infine, siamo

25 Calvino (2002), p. 86.26 Heidegger (1954), citato da Steiner (2004), p. 21.27 Calvino (2002), p. 133.

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liberi solo quando i nostri atti emanano dalla nostra intera personalità, quando la esprimono eassumono l’indefinibile assomiglianza che si trova a volte tra l’opera e l’artista. Bergson invitava isuoi contemporanei a riappropriarsi di quel flusso ininterrotto della propria vita interiore, mostrareche nulla vi si ripete, che il prolungarsi del passato nel presente e del presente nell’avvenire è una“creazione continua di imprevedibili novità”. Così facendo, si riscopre la realtà e la libertà dellamente come evidenze immediate. Poi Freud svelò che l’inconscio rappresenta un campo molto piùvasto dell’Io conscio, addirittura l’essenziale della vita psichica, determina i nostri comportamential punto da essere l’Io stesso. La natura del tradurre sta proprio nella ricerca di questo legamemisterioso con il nascosto, con i miti. Tradurre, significa ascoltare tutto ciò che dice il testo, siadirettamente che indirettamente, tra e dietro le righe; significa assumersi responsabilità neiconfronti delle scelte da fare, difenderle pur sapendo che si tratta solo di una tra le tante possibiliinterpretazioni; significa ricreare la musica e le immagini di un discorso in un’altra lingua, nellamaniera in cui egli le ha percepite con la sua sensibilità, ma nel pieno rispetto dell’autore edell’alterità che riveste il suo discorso. Ogni testo tradotto rivela l’atteggiamento del traduttore neiconfronti del testo stesso, del suo autore, dei futuri lettori del nuovo testo in versione tradotta. Ilsuo senso gli è dato dall’incontro casuale con un lettore qualsiasi oppure da un modello di lettoreche il suo autore ha previsto. Eco dice che “chi scrive deve prevedere un modello di lettorepossibile o Lettore Modello, che suppone sia in grado di affrontare interpretativamente leespressioni nello stesso modo in cui l’autore le affronta generativamente.”28 La traduzione si situain uno spazio sociale nel quale, sia l’autore che scrive il testo originale per i suoi destinatari, che iltraduttore, che scrive la sua propria versione del testo all’intenzione di altri destinatari, hannoobiettivi e interessi che orientano le rispettive enunciazioni e che non per forza di cose coincidono.

Tentare di rendere il piacere di chi legge un libro in traduzione pari a quello di chi leggel’originale, significa esigere moltissimo di se stesso. Però quando il traduttore riesce ad entrareveramente a fondo in un romanzo e, quindi, a tradurlo bene, non solo esprime un rapporto difedeltà, ma si crea anche un senso di possesso al punto che un romanzo che non è suo un po’ lodiventa, ne è orgoglioso, segue le sue sorti con partecipazione e un po’ di apprensione. La naturadel tradurre sta proprio in quel legame misterioso, in quella complicità viziosa. Affidandosi al testodel quale diventa responsabile, il traduttore conquista negli angoli più remoti del proprio Io, ilpermesso di trasgredire alla traccia dell’autore. Calvino traduttore di Les fleurs bleues e a Eco diExercices de style dimostrano una totale autonomia linguistica, forzando talvolta la traduzione alpunto da renderla spesso infedele, seppur corretta nel senso e nelle tematiche. Una volta compresoil senso, essi si prendono la libertà di riscrivere Queneau, spostano sottilmente l’equilibrio delromanzo attraverso compensazioni, “calvinizzando” o “echizzando” lo stile di Queneau, invece dilimitarsi a tradurlo.

Le corps verbal ne se laisse pas traduire ou transporter dans une autre langue: il est celamême que la traduction laisse tomber. Laisser tomber le corps, telle est même l’énergieessentielle de la traduction.29

La traduzione diventa allora la dimostrazione della sicurezza acquisita; nel mostrare la lorosicurezza, essi ricreano l’opera, restituendo “l’air de la chanson”. Umberto Eco scrive a questoproposito: “Fedeltà significa capire le regole del gioco, rispettarle e poi giocare una nuova partitacon lo stesso numero di mosse”. Lo stesso concetto di gioco era stato espresso, come già detto, daWittgenstein. Le due opere sono così il frutto di due stili letterari, accomunati dalla scelta dei temie dalla struttura dei medesimi, ma null’affatto dallo stile e dalle caratteristiche linguistiche30. Ilmotivo di tanta congenialità tra questi scrittori risiede nel metodo di scrittura, nella concezione delruolo dello scrittore e del traduttore, nell’importanza che attribuiscono all’ironia, alla comicità,all’esattezza, al ritmo, al rigore matematico. Ogni parola è soppesata: lo si percepisce nella

28 Eco (1995).29 Derrida (1967), p. 312.30 M.-F. Federici, Calvino e la traduzione di Les fleurs bleues, University of Reading.

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passione a giocare con la combinazione di eventi e situazioni in formule linguistiche sorprendenti.Ma non è sempre così. È più frequente trovare testi che sono stati veramente avviliti e i modi perfarlo sono quelli contenuti nelle parole di Italo Calvino, che introducono la terza delle sue Lezioniamericane intitolata “Esattezza”:

Sento il bisogno di difendere dei valori che ad altri potranno sembrare ovvii perché misembra che il linguaggio venga sempre più usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, ene trovo un fastidio intollerabile. (…)

A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltàche più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste di linguaggio che si manifesta comeperdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellarel’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare lepunte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuovecircostanze.

Non m’interessa qui chiedermi se le origini di questa epidemia siano da ricercare nellapolitica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media,nella diffusione scolastica della media cultura.

Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo laletteratura) – e noi aggiungiamo la traduzione – può creare degli anticorpi che contrastinol’espandersi della peste del linguaggio. (…)

Ma forse l’inconsistenza non è nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisceanche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali,confuse, senza principio né fine.

Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporrel’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura.31

Oppure quelli elencati da Berman:32 la razionalizzazione, la chiarificazione, l’allungamento, lanobilitazione, l’impoverimento qualitativo, l’impoverimento quantitativo, l’omogeneizzazione, ladistruzione dei ritmi, la distruzione dei reticoli significanti soggiacenti, la distruzione ol’esotizzazione dei reticoli linguistici vernacolari, la distruzione delle locuzioni, la cancellazionedella sovrapposizione di lingue. Secondo l’autore, queste tendenze formano assieme un sistemache concorre a disfare il rapporto che l’opera ha stabilito tra la lettera e il senso, dove non è più lalettera che “assorbe” il senso ma il senso che doma la lettera.

La storia della traduzione ci insegna che, sia per ragioni culturali, che linguistiche, sociali epolitiche, questo atteggiamento del traduttore, assunto liberamente e spontaneamente oppureimposto, è sempre ruotato attorno a due poli: “sourcier” oppure “cibliste”. Come abbiamo visto, latraduzione, in particolare francese, sin dalle “Belles infidèles” del XVII secolo, ha lasciato tracceindelebili nel modo di concepire sia il “bel linguaggio” che la traduzione e tende verso il“ciblisme”. Queste dicotomie che Calvino invita a superare, sono ignorate dalla critica letteraria. Equesto è paradossale, poiché la traduzione letteraria è frutto anch’essa di (ri)creazione. Il traduttoresubisce ancora troppo spesso pressioni non solo, come abbiamo visto, da parte dell’editore, delpubblico, ma anche dal punto di vista culturale a causa dell’ossessione della norma, del corretto,dell’accettato, dello standard. Questo avvilimento, di fatto, colpisce il testo originale. Porta asmussarlo, ad adattarlo, a sostituire le metafore originali con clichés linguistici che neutralizzano ildiscorso, lo privano della sua forza. Scrive a questo proposito Meschonnic:

Je définirais la traduction la version qui privilégie en elle le texte à traduire et l’adaptation,celle qui privilégie (volontairement ou à son insu, peu importe) tout ce hors-texte fait desidées du traducteur, sur le langage et sur la littérature. Sur le possible et sur l’impossible (parquoi il se situe) et dont il fait le sous-texte qui envahit le texte à traduire.

Oltre alla conoscenza perfettamente funzionale delle lingue, è necessaria, per tradurre, anche laconoscenza comparata delle azioni-reazione del testo all’interno della lingua e della cultura “fonte”

31 Calvino (1993).32 Berman (1984), pp. 53-66.

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assieme alle probabili letture che la cultura d’arrivo imporrà. L’immersione del traduttore nel testoè una delle condizioni senza la quale non vi può essere alcuna buona traduzione: tra opera datradurre, traduttore e cliente-lettore c’è dunque un rapporto reciproco, un’ombra di complicitàviziosa. “Plus le traducteur s’inscrit comme sujet dans la traduction, plus, paradoxalement, traduirepeut continuer le texte. C’est à dire dans un autre temps et une autre langue, en faire un texte.Poétique pour poétique ”.33

7° paragrafo“Non è questo il tipo do conoscenza che il signor Palomar è più portato ad approfondire: a lui basterebbe

stabilire la semplicità d’un rapporto fisico diretto tra uomo e formaggio. Ma se lui al posto dei formaggi vede nomidi formaggi, concetti di formaggi, significati di formaggi, storie di formaggi, contesti di formaggi, psicologie diformaggi, se – più che sapere – ha presente che dietro a ogni formaggio ci sia tutto questo, ecco che il suo rapportodiventa molto complicato.”

Adesso Palomar ci guida verso luoghi più reconditi, dove si cela la ricchezza del taciuto. Inqueste poche righe, e in quelle che seguono, è riassunta tutta la problematica della traduzione. Laparola non è nulla se non la si pensa. E pensare, significa liberarsi, tramite la traduzione, dalla sferadi riferimento materiale, dalla situazione da tradurre. Il decalaggio che esiste tra la lingua di unasocietà e il linguaggio personale di ognuno di noi, esiste anche tra il personaggio sociale di unoscrittore e ciò che scrive, ovvero il suo “stile”, il suo cosmo nonché tra il traduttore e la sua identitàsociale e quella dell’autore che deve tradurre. Ogni opera letteraria costituisce un minuziosissimosistema atomico, o un’enorme sistema solare, dove una ferrea legge connette fra loro tutte le pagine,le immagini, i personaggi, lo stile, l’archittura, la punteggiatura, gli spazi bianchi, le intenzionipalesi o nascoste, le allusioni, i lapsus, dove tutto ciò che è scritto significa. Senza mai dimenticareche dietro ogni testo che leggiamo, abita un testo nascosto. Il ritorno di certe immagini, il gioco dicerte metafore, ci fanno riscoprire questo secondo libro, che sta dietro il primo e dove si celano imiti o Weltanschauung che ogni scrittore porta con sé e che impregnano più o meno intensamentetutti gli elementi del suo libro. Il traduttore deve evitare di scivolare sulla superficie, deve riuscire arivelare questo libro nascosto e far parlare l’immenso patrimonio del non detto, portando alla luce lamassa di implicito racchiuso dentro il testo.

A proposito di Proust, Kristeva diceva che scrivere, significa tradurre il libro interiore delleimpressioni e dei non-segni sensoriali in lingua:

Ce qui se présente ainsi obscurément au fond de la conscience, avant de le réaliser en oeuvre,avant de le faire sortir au-dehors, il faut lui faire traverser une ragion intermédiaire entre notre moiobscur et l’extérieur, notre intelligence, mais comment l’amener jusque là, comment le saisir?34

La stessa terribile domanda assilla anche il traduttore. Prosegue KristevaNous sentons la présence d’une langue maternelle, des paroles anciennes qui résonnent à partird’une couche profonde et antérieure à l’écriture. Traduire Proust, c’est trouver en nous-mêmes cette langue source, la musique latente de notre propre langue maternelle. Il ne s’agit pas seulement detrouver les mots qui conviennent dans un idiome à partir d’un autre; il faut avoir cette même«oreille fine» dont parle Proust dans Contre Sainte Beuve, celle qui appartient au «garçon» qui sedéveloppera en un des «moi» dans la Recherche. Cette «oreille fine» est la contrepartie réceptive àla capacité de transformer une sonorité intérieure en musique stylistique au niveau de la langue.35

A sua volta, in Contre Sainte-Beuve, Proust dice:Dès que je lisais un auteur, je distinguais bien vite sous les paroles l’air de la chanson, qui enchaque auteur est différent de ce qu’il est chez tous les autres, et tout en lisant, sans m’en rendrecompte, je chantonnais ... 36

33 Meschonnic (1999), p. 27.34 Ivi, p. 393.35 Ivi, pp. 385-396.36 Proust (2002), p. 295.

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Tradurre, dunque, non significa solo concentrarsi sulle parole in quanto singole entità, ma lasciarsiimpregnare da ciò che vi è di comune tra di esse, entrare in quello spazio che le separa e che portaoltre; significa ritrovare quel contesto particolare da dove scaturisce lo stile dell’autore. Ladifferenza tra un vero scrittore e un dilettante non sta nel fatto che il primo non percepisce il mondoallo stesso modo del secondo, ma piuttosto nel fatto che il secondo è incapace di rendere sensibileagli altri, di svelare e comunicare loro ciò che è nascosto e sfugge al rapporto fisico diretto. Se illavoro del pittore come quello dello scrittore dovesse limitarsi a riprodurre la realtà che ha davanti aisuoi occhi o attorno a sé, e se la prova della sua bravura dovesse essere una piatta assomiglianza,una riproduzione, non si capisce allora qual’è la necessità dell’arte, a meno che non si tratti di unsemplice passatempo per oziosi. Che cosa aggiunge un doppione alla nostra conoscenza? Seprendiamo come esempio la storia della pittura dal ‘900 ad oggi, forse riusciamo a rendere meglio ilsenso di questo rapporto complicato. La pittura moderna non è compresa da tutti, in particolare dalsenso comune, perché si crede, appunto, che l’oggetto dell’arte consista nel riprodurre la natura.Mentre il suo senso sta proprio nel farcela scoprire, nel svelarcela in un modo che gli è proprio,facendo violenza ai sensi che la percepiscono. Parafrasando Leonardo da Vinci, come la pittura, lalingua “è cosa mentale”. “Ogni scrittore è costretto a costruirsi la propria lingua, a spostare i confini,a spingerli oltre ai limiti concordati. Lo scrittore, di qualsiasi corrente, ha l’incarico di inventare lalingua, cioè di ricrearla, di trasformarla in una sorta di lingua straniera, e non è un’altra lingua, né undialetto rivalutato, ma un diventare altro della lingua.” Nella Recherche du Temps perdu, ladomanda che Marcel pone a se stesso è proprio quella di sapere se egli sarà capace non di descriverei tre campanili di Martinville, ma bensì di rendere con la scrittura l’impressione da essi suscitata inlui. Tutta la sua vita, il suo senso dipende da questo suo talento. Lo stesso vale per la breve suonatadi Vinteuil o le tele di Elstir. E così, più il traduttore circoscrive il campo dell’analisi, più esso simoltiplica al proprio interno, aprendo prospettive vertiginose, come se in ogni punto, in ogni parolafosse contenuto l’infinito.

Il traduttore di un’opera letteraria non è un professionista del mistero o un mistico, né unvero scrittore: è piuttosto un intarsiatore di legni altrui, che tuttavia riesce a rivelare il libronascosto, a fare parlare l’immensa ricchezza del taciuto.37

8° paragrafo“La formaggeria si presenta a Palomar come un’enciclopedia a un autodidatta; potrebbe memorizzare tutti i

nomi, tentare una classificazione (…), ma questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza, che stanell’esperienza dei sapori, fatta di memoria e d’immaginazione insieme, e in base ad essa soltanto potrebbe stabilireuna scala di gusti e preferenze e curiosità ed esclusioni.”

L’enciclopedia rappresenta il tentativo di concentrare il sapere di tutti i libri in un solodiscorso, di tracciare una mappa dei territori del sapere umano, di verificare i confini delle nostreconoscenze. Nasce da un bisogno d’ordine e di metodo.

Forse ogni civiltà, ogni epoca non può fare a meno di tentare l’impresa enciclopedica: ma èpur vero che ogni volta che questa pretesa d’unificare i saperi plurimi si riveleràun’illusione perché ogni tipo di conoscenza ha il suo metodo e il suo linguaggio chediverge dagli altri metodi e dagli altri linguaggi e non si lascia inserire in un disegnocircolare quale quello che il nome stesso di enciclopedia suggerisce.38

Mentre lo scopo della scienza è quello di modificare la realtà a partire dalla conoscenza dellesue leggi, lo scopo del discorso, come dell’arte, è quello di superarla. Essendo latestualizzazione frutto di un processo sociale, culturale e identitario, lo status di una parola egli atti di enunciazione sono indissociabili dal tempo, dallo spazio, dal gruppo di parlanti escriventi e sono a loro volta in continuo assestamento.

37 P. Citati, Ritratti del Vero e del Falso, La Repubblica, 11 novembre 1991.38 Calvino (2002), pp. 131-132.

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Non ci sono delle epoche, delle classi sociali, dei luoghi dati che si servono delle parole edella sintassi per esprimere esattamente la stessa cosa, per emettere gli stessi segnali quantoal giudizio o all’ipotesi. E neanche due esseri umani. Ognuno di noi si riferisce,deliberatamente o per abitudine, a delle basi linguistiche: la lingua corrente, checorrisponde al livello di cultura personale, e un fondo privato.39

Tradurre un testo è una attività trans-linguistica quanto l’attività stessa della scrittura di un testo, enon può essere teorizzato dalla linguistica dell’enunciato né dalla poetica formale di Jakobson.Come per l’etnologia, il processo di traduzione culturale, prima che con le parole, inizia conl’osservazione, il rilevamento di dati, le ricerche documentarie e terminologiche, prosegue con ladistanza simbolica, allo stesso tempo pragmatica e semantica che consente il linguaggio perconcludersi con il transfert o riformulazione, che è una variante dell’interpretazione. Come loabbiamo già visto, la riformulazione, in senso antropologico, non è riducibile a un sempliceproblema di linguaggio, ma bensì di discorso, di cui il traduttore deve conoscerne i significatispecifici. Se da un lato, non solo le parole hanno sempre un senso nella nostra mente prima che lesi usi e l’uso mobilita un’intera memoria collettiva di contenuti culturali pre-elaborati e formesedimentate dalla storia, dall’altro, sono i parlanti, “in base alla loro esperienza dei sapori, fatta dimemoria e d’immaginazione insieme, e in base a essa soltanto che possono stabilire una scala digusti e preferenze e curiosità e esclusioni”. Non è la lingua a fare riferimento alle conoscenzequando si parla. Non sono gli enunciati che sono in rapporto con il mondo, ma coloro che ne fannouso. E così, il traduttore “non ha mai finito di conoscere quel che deve conoscere per dire quel cheha da dire l’autore che deve tradurre”.40

9° paragrafo“Dietro ogni formaggio c’è un pascolo d’un diverso verde sotto un diverso cielo; ci sono segreti di

lavorazione tramandati nei secoli. Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre,dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma.”

Parler de traduction, c’est parler des oeuvres, de la vie, du destin et de la nature des oeuvres; dela manière dont elles éclairent nos vies; c’est parler de la communication, de la transmission, dela la tradition; c’est parler du rapport du Propre et de l’Etranger; c’est parler de la languematernelle, natale, et des autres langues; c’est parler de l’être-en-langues de l’homme; c’est parlerde l’écriture et de l’oralité; c’est parler du mensonge et de la vérité, de la trahison et de la fidélité;c’est parler du mimétique, du double, du leurre, de la secondarité; c’est parler de la vie du sens etde la vie de la lettre; c’est être pris dans un enivrant tourbillon réflexif où le mot «traduction» lui-même ne cesse de se métamorphoser.41

L’esistenza dell’arte e della letteratura, la realtà della storia vissuta da un gruppo umano, sonocondizionate da un processo continuo, ma spesso inconscio, di traduzione interna. La linguadunque, come luogo dove sono raccolti, tradotti, ordinati, custoditi e trasmessi a una collettivitàsociale, fatti e significazioni convenzionali (di natura storica, artistica, scientifica, tecnica…), modicondivisi di vedere il mondo. L’identità culturale che ne scaturisce fonda una socialità consensualebasata su un’etica (valori riguardo il vero e il bene) e un’estetica (consenso sul sentimento di belloe di brutto). La lingua come specchio del mondo e autoritratto dell’individuo. La traduzione comeluogo dove si possono osservare le tendenze di una collettività. Gli studi di antropologia hannoriconosciuto il fatto che tutte le culture del mondo sono costruzioni sociali e storiche in continuoassestamento e rimescolamento, che le differenze culturali si allentano in un posto per rinsaldarsialtrove e in maniera diversa, dimostrando così l’eterna e universale mescolanza tra le popolazioni efacendo di conseguenza crollare molti luoghi comuni. Il mondo, come il museo è luogo di

39 Steiner (2004).40 Calvino (2002).41 A. Berman, inedito del 1991, riportato sul quarto di copertina della versione francese di La traduction et la

lettre ou l’auberge du lointain, Paris, Seuil, 1999.

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transculturalità. Non sempre il confronto è spontaneo e pacifico. Nel mondo, come all’interno dellaTorre di Babele o in Parlamento, si litiga, ci si scontra in maniera aspra. Ma il conflitto, a patto cheresti nell’ambito delle idee, è sempre salutare. Perché nel dialogo, si è obbligati a conoscersi bene,mentre la pace forzata come l’assoluto sembrano fatti apposta per potersi ignorare

In Dopo Babele, Steiner insiste sulla necessaria appropriazione di un testo da parte di chi lotraduce, sulla intimità che viene a crearsi tra di loro.

S’emparer d’un texte en le pénétrant à fond, en découvrir et recréer les forces vives en unmême mouvement (prise de conscience), représente une démarche qu’on ressent dans sachair mais qu’on ne peut pour ainsi dire ni expliciter ni systématiser. C’est un problème«d’instruments spéculatifs », comme les appelait Coleridge dont l’intelligence allait aucoeur des choses. On ne peut se passer d’une intimité gourmande et lucide avec l’histoirede la langue considérée, avec les courants d’affectivité changeants qui font de la syntaxeune image de l’être social.42

La lingua è dunque un sistema storico in continua evoluzione sia nel contesto culturale nel quale èinserita, sia all’interno della coscienza dialogante del traduttore. Gli slittamenti di significato fannoda specchio a fenomeni di portata più generale, influenzano, condizionano il nostro modo di pensaree di comunicare, plasmano il rapporto con la realtà che ci circonda. La traduzione non è riducibile alpassaggio da una lingua ad un’altra. “È piuttosto il passaggio di un testo, di un messaggio da unacultura o da un sistema ad un altro, di un’identità ad un’altra che può anche diventare differenza,riproduzione per divenire piuttosto produzione”.43

10° paragrafo“Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui

morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezzainesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature di significato, come tutte le lingue nutritedall’apporto di cento dialetti. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un aspetto esteriore, strumentale;ma per il il signor Palomar, impararsi un po’ di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere se vuole fermareun momento le cose che scorrono davanti ai suoi occhi…”

Immaginiamo un istante, con Pietro Citati44, che il testo, più che un dizionario, sia un immensosistema macchina, composto da milioni di bulloni e di viti quasi invisibili. Il traduttore scomponequesta macchina immaginaria, suddivide ogni elemento, ogni frase, ogni parola e ogni immagine,finché ha l’illusione di avere davanti agli occhi, disposti ordinatamente sul tavolo di meccanico dellaletteratura, tutti gli elementi primi del testo. Lavora nel buio, a tentoni, a tastoni, illuminato solo dauna piccola luce portatile. In quell’oscurità, le idee brillanti, le formule rapide, le teorie linguistichenon servono a nulla. Laggiù, ogni cosa è così piccola, così delicata, così fragile. Con la sualampadina portatile, segue il significato di ogni elemento, i rapporti che si stabiliscono tra glielementi, tutte le associazioni, le combinazioni, le corrispondenze, le trasformazioni… Le sue manidebbono essere lente, precise, delicatissime. Sbagliare è così facile. Basta che egli interpreti maleuna metafora, o colga erroneamente un rapporto perché la comprensione del libro gli resti persempre preclusa. Certo, porta nella memoria tutti i libri che ha letto; le associazioni lontane, leremote immagini e le analogie tra libri che non si sono mai incontrati lo aiutano, possono contenereuna scintilla di luce. Ogni testo letterario è un cosmo. E il traduttore non deve mai dimenticare che ilsuo è un lavoro di estrema precisione, un continuo gioco di equivalenze, che si deve compiere senzanessun capriccio impressionistico. Egli deve leggere, rileggere e rileggere ancora, in maniera quasimaniacale il testo da tradurre, sperando che esso si stanchi di difendere il proprio segreto.

42 Steiner (1998), p. 61.43 Gambier (1999-2000).44 P. Citati, Ritratti del Vero e del Falso, La Repubblica, 11 novembre 1991.

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Da qualsiasi lingua e in qualsiasi lingua si traduca, occorre non solo conoscere la lingua, ma sapereentrare in contatto con lo spirito della lingua, lo spirito delle due lingue, sapere come le due linguepossono trasmettersi la loro essenza segreta.45

Calvino dirà a questo proposito: “Io non sono un devoto dei dizionari: quel che conta per me è lavittoria dell’armonia e della logica interna della frase presa nel suo complesso, anche se questoavviene con la piccola violenza, lo strappo che il parlato tende a imporre alla regola”.46

I termini con cui una società esprime informazioni, relazioni, emozioni, sentimenti, sogni,ovvero comunica non può non riflettere la sua struttura e riflettersi su di essa. Dietro ad ogni parolasi sente “la presenza della civiltà che gli ha dato forma, e che da essa prende forma”. Non è con lalingua spontanea, del semplice rapporto diretto che si trasmette una civiltà, una cultura, lademocrazia. La lingua è una delle maggiori conquiste sociali di una società. Ne è la grammatica ela carta d’identità e può perfino avere effetti riparatori, servire da collante di fronte a rischi didisgregazione politica. Per tradurre, dunque, non bastano le nomenclature, le equivalenze, gliattrezzi del mestiere, come un dizionario, un’enciclopedia. Il deficit di conoscenze del traduttore locostringe a completarle per giungere a una comprensione adeguata dell’enunciato. Da quil’importanza delle ricerche documentarie e terminologiche, l’elaborazione di glossari funzionali.Osservando come Palomar procede per imparare un po’ di nomenclatura, ci sembra di vedereall’opera non solo uno scrittore come Balzac, ma il traduttore professionista che consulta, cataloga,elabora schede terminologiche, glossari. “Comincia a scrivere dei nomi, a segnare accanto a ogninome qualche qualifica che permetta di richiamare l’immagine alla memoria…

La scienza, modello di rigore, senso dell’ordine, della razionalizzazione per organizzare lamateria letteraria diventa un atteggiamento mentale importante anche per il traduttore perchéordinare il mondo, geometrizzarlo, classificarlo, significa avere una visione chiara, organizzarne lapercezione per il futuro. È il pedaggio da pagare per i principi di precisione, eleganza e soprattuttodi leggerezza.

11° - 12° paragrafo“Monsieur! Houhou! Monsieur! (…) È il suo turno, tocca a lui, nella fila dietro di lui tutti stanno

osservando il suo incongruo comportamento e scuotono il capo con l’aria tra ironica e spazientita con cui gliabitanti delle grandi città considerano il numero sempre crescente dei deboli di mente in giro per le strade.

L’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiegasul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettasseroche quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balìa.”

Stiamo arrivando alla fine del percorso. La voce della materialità e della modernità in grembiulinorosa annuncia la fine del viaggio verso l’altrove intimo dello scrittore. Anche per questaconclusione vi sono due livelli d’interpretazione: etnologico e linguistico. La ghiottoneria deltraduttore forse è solo mentale, estetica, simbolica, intenzionale. Il legame alla propria cultura, allapropria rappresentazione del bello, del corretto, di ciò che rientra o no nel buon gusto e chescaturisce dall’ambiente culturale nel quale egli è cresciuto lo fa balbettare e ripiegare sul piùovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, sugli automatismi della civiltà di massa. Genera deitics traduttivi involontari o “figures de la traduction” che gli fanno preferire sistematicamente unacostruzione o delle immagini ad un’altra, un determinato ordine delle parole ad un altro. I calchi oprestiti semantici e sintattici che si cristallizzano in moduli “pronti all’uso”, causando unimpoverimento nelle scelte terminologiche e stilistiche che tendono a standardizzare, e in ultimaanalisi a erodere, non solo la qualità della traduzione, ma più in generale, a accelerare ildepauperamento delle risorse linguistiche e culturali. Egli obbedisce, senza volerlo a tutto ciò cheviene considerato come norma, come “limiti concordati”, come modo più naturale di esprimersi inlingua materna, non solo per quanto riguarda il lessico, ma anche per l’aspetto referenziale e

45 Calvino (2002), p. 88.46 Ivi p. 53.

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sintattico. In quanto agente e anello della comunicazione, il traduttore dovrebbe essere al centrodella società, ma di fatto, perché lavora al confine, al limite tra due culture e due lingue, si trova aisuoi margini. Nella nostra società manca, purtroppo, una cultura della traduzione. E così, chipratica questa professione, oltre ad essere misconosciuto, costituisce una presenza incompresa,“incongrua”, un po’ come l’antropologo il cui strano comportamento era oggetto di curiosaosservazione da parte degli indigeni. La traduzione è un prezioso esercizio cognitivo ed etico cheallarga i confini della propria identità e apre le porte alla cultura del relativo e alla perfettibilitàinfinita come essenza della vita della mente. Il significato ultimo della traduzione come sfida arivelare il significato ultimo del segno. Il lettore non immagina nemmeno lontanamente lo sforzoimmane e tutto il tempo che sono stati richiesti al traduttore per raccogliere nella mente tutti i fili,tutti i colori, tutti i punti di quella immensa tela, necessaria per elaborare quel prodotto ghiotto eben pubblicizzato che, una volta sugli scaffali, egli divora in un attimo, spesso senza neancheassaporarne le qualità. Scrivere significa prendere coscienza, e non vi è coscienza senzasofferenza. Il grande rigore è appannaggio del grande scrittore e, di riflesso, del bravo traduttore. Illettore-consumatore non capirà mai che la traduzione letteraria è guidata da obblighi tantonumerosi e rigorosi che generano fatalmente in chi vi lavora con maggior dedizione un certoinappagamento, un senso di diluizione dei sentimenti. Il lettore non capirà mai quanto si deveesigere di se stesso perché il piacere di chi legge un libro in traduzione sia pari a quello di chilegge l’originale; egli non capirà mai che da una traduzione, si esce sfiniti. Dopo lo scrittore, iltraduttore è sicuramente la persona che capisce meglio il romanzo, che ne è il suo miglior lettore. Èper questo che nel momento in cui lo deve lasciare, consegnata la traduzione, egli sa che mainessuno lo leggerà come lui. Come se non bastasse, alla scarsa rilevanza che viene data al suolavoro, al suo nome, si aggiunge la sottovalutazione anche a livello economico. A lui

si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui.Ma un simile lavoro non ha prezzo! Appunto per questo i cinici editori l’hanno sempreretribuito male. Essi sanno di aver a che fare con un asceta, un eroe essenzialmentedisinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di pane e a scomparire nelcrepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica impresa è finita. Il traduttore è l’ultimo, verocavaliere errante della letteratura. Cribbio! Ma allora non è un mestiere, è una vocazione!47

In un atmosfera inquinata dal cattivo gusto della parola, dalla superficialità, dall’omologazione dimassa, dagli imperativi di mercato, fino a dove il traduttore riesce a sfuggire ai condizionamentidel linguaggio e dell’ambiente che pervadono tutto il fuori e tutto il dentro di sé stesso? Questoprocesso infinito di arricchimento verso la conoscenza, alla prova dei fatti, per la suaconsapevolezza, rischia di convincere il traduttore d’essere lui il profano, l’estraneo, l’escluso.

In conclusione, ricordiamo che le parole non designano soltanto le cose, ma trasportanomodelli di cultura. Anche le scelte che potrebbero considerarsi meramente linguistiche implicanosempre parametri etici, al punto che l’attività stessa del tradurre diventa veicolo di valori qualil’integrità, la responsabilità, la fedeltà, l’audacia, l’umiltà. Calvino ha seguito con attenzione leriflessioni di natura etica e epistemologica con le quali hanno dovuto confrontarsi gli antropologi eche ha portato ad inserire la traduzione nel suo contesto sociale, politico, storico; a riconoscerne lapotenza creativa e costruttiva; a mettere in discussione il modo di lavorare del traduttore, la suaidentità, la sua responsabilità, il suo filtro ideologico, a sapere per chi traduce, facendo diventare latraduzione modo di rappresentare, strumento di dialogo. Tuttavia, perché vi sia dialogo, occorreche ognuno sia convinto di aver qualcosa da imparare dall’altro. Purtroppo, il nostro monologo hacercato di orientare tutte le culture in funzione del nostro personale modo di essere, mentre lacomprensione di un’altra cultura richiede una vera mutazione della nostra mentalità, un grandesforzo di umiltà intellettuale e di accoglienza per rinunciare alle mutilazioni reciproche, aicompromessi e consentire ad ognuno di diventare ciò che è e di essere ciò che diventerà. L’Altro

47 Fruttero e Lucentini (2003), p. 60.

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può aiutarci a prendere coscienza dei limiti della nostra visione del mondo. Per questo, ènecessario ammettere la relatività di ciò che rappresentiamo. Nel 1977, in Pour un dialogue descivilisations, Roger Garaudy scriveva: “Qu’un ethnologue africain étudie les multinationales!Qu’un ethnologue boudhiste étudie la publicité européenne! Ils décèleraient sûrement, dans leursanalyses, les traces d’un cerveau reptilien le plus archaïque qui existe chez l’homme. Je souhaiteque ces coopérants d’Afrique ou d’Asie viennent compléter notre éducation. Nous sommes, surbien des points essentiels de la vie, des sous-développés.” Il rifiuto delle dicotomie sulle quali eracresciuta l’antropologia funzionalista e l’importanza data ad una epistemologia dialettica chefondava la sua conoscenza su un principio di scambio e di confronto hanno avuto come risultato ilrimpatrio dell’antropologia nelle società occidentali di appartenenza e hanno fatto emergere unanuova figura, quella dell’antropografo “indigeno”. Questo ci induce a riflettere seriamente sullatransculturalità, nel senso attribuitogli da Marc Augé,48 ovvero come volontà di superare l’inegualeincrocio di sguardi per istaurare un dialogo tra osservatore e osservato e iscriversi in un universodove tutti e due si riconoscono. Tale riconoscimento reciproco di un universo di significazionicondivise nell’ambito di un dialogo riposa interamente sulla possibilità della cultura di esseretradotta. Riuscirà la traduzione a non essere più considerata soltanto come riproduzione,“passaggio da una lingua ad un’altra” per diventare piuttosto passaggio di un testo da una cultura,identità o sistema ad un altro per diventare semmai differenza, produzione? Nello spaziotransnazionale di differenze accettate che è il nostro destino, è proprio la traduzione che forseriuscirà a traghettarci verso la “citoyenneté à venir”.

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DEMETRIO GIORDANIViaggiatori musulmani tra i due mondi.

Il tema del Mi‘râj nella letteratura medievale in Oriente e in Occidente

Il racconto del viaggio notturno del Profeta Muhammad e della sua ascensione è uno deitemi che hanno maggiormente destato l’interesse degli orientalisti moderni. La letteratura delmisticismo islamico, araba, persiana, indiana e turca, ha composto le sue opere migliori propriointorno al tema del Mi‘râj; le tracce di questa leggenda orientale sono ben visibili anche nellaletteratura medievale occidentale, al punto da risultare inconfondibili per chiunque volesse indagarea fondo sulla costruzione della Commedia dantesca o su alcuni temi dell’Orlando Furioso.

LE FONTI ORIGINALI

La narrazione tradizionale del Mi‘râj trae origine dal Corano; si tratta in realtà di pochiaccenni contenuti nei primi versetti della “Sûra della Stella” (Corano LIII: 1-18) e nel primoversetto della “Sûra del Viaggio Notturno”:

Gloria a Colui che rapì il Suo servo dal Tempio Santo al Tempio Ultimo, dai benedetti precinti, permostrargli del Nostri Segni. In verità Egli è l’Ascoltatore, il Veggente (Corano XVII: 1).

La maggior parte del racconto è però ricavata dalle tradizioni profetiche, in particolar mododagli hadîth della compilazione di Al-Bukhârî (m. 870) 1, dal resoconto di Ibn ‘Abbâs (m. 688 ca.) 2,oppure dalla prima biografia di Muhammad composta da Ibn Hishâm (m. 828)3. Questi i principalitemi del Mi‘râj del Profeta, secondo il racconto tramandato da Anas ibn Mâlik (m. 711 ca.)4 eriportato nel Jâmi‘ al-Sahîh di Al-Bukhârî: Jibrîl, l’Arcangelo Gabriele, scende a visitare il Profetamentre è addormentato presso il cortile della Ka‘ba, alla Mecca; dopo averlo svegliato, dopo avergliaperto il petto, lavato e purificato il cuore in un bacile d’oro, l’Arcangelo invita Muhammad a saliresulla creatura alata dal manto bianco e con una fisionomia “a mezzo tra il mulo e l’asino”, che èpresso di lui. In groppa ad Al-Burâq, così nel testo è chiamata la cavalcatura celeste, Muhammadvola dalla Mecca a Gerusalemme, poi inizia ad ascendere, e nel primo cielo incontra il profetaAdamo, nel secondo Yahyâ (Giovanni Battista) e ‘Isâ ibn Maryam (Gesù figlio di Maria); Yûsufibn Ya‘qûb (Giuseppe figlio di Giacobbe) nel terzo, nel quarto Idrîs, Hârûn (Aronne) nel quinto,Mûsâ (Mosè) nel sesto, e Ibrâhîm (Abramo) nel settimo. Poi, sempre guidato dall’Arcangelo,Muhammad arriva alla Casa Abitata (al-Bayt al-Ma’mûr), il prototipo soprannaturale della Ka‘ba,situata nei pressi del “Loto dell’Estremo Limite” (Sidrat al-Muntahâ);5 in quel luogo al Profetasono offerte tre coppe, una di vino, una di latte e una di miele, e tra le tre egli sceglie quella piena dilatte.

Sempre secondo il resoconto di Anas Ibn Mâlik, Muhammad giunge al cospetto di Dio; làriceve l’ordine di far eseguire cinquanta preghiere giornaliere alla sua comunità. Sulla via delritorno incontra di nuovo Mosè nel sesto cielo che gli fa capire che quelle cinquanta preghieregiornaliere sono troppe per la sua nazione, perché, per sua esperienza, neanche i figli di Israele sierano adattati a condizioni così dure. Mosè consiglia quindi Muhammad di tornare da Dio perchiederne una riduzione; Muhammad torna quindi da Dio e ottiene una riduzione di dieci preghiere,

1 Al-Bukhârî (1992), vol. IV, pp. 628-630.2 ‘Abd Allâh ibn ‘Abbâs ibn ‘Abd al-Muttalib (m. 688) cugino e intimo compagno del Profeta, considerato

come suprema autorità dell’esegesi tradizionale della prima generazione dei musulmani.3 Ibn Hishâm (1998), vol.II, pp. 17-24.4 Anas ibn Mâlik al-Ansârî al-Khazrajî, accompagnò il Profeta sin dalla più tenera età. Fu un prolifico

trasmettitore di detti profetici (hadîth), trascorse gran parte della sua vita a Medina, poi si trasferì a Basra dove morìcentenario.

5 È così chiamato nel Corano il limite estremo del mondo sensibile che neanche l’Arcangelo Gabriele puòoltrepassare. Oltre questo limite Dio «rivelò al servo Suo quel che rivelò.» (Corano LIII: 10).

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ma Mosé gli riconferma le sue perplessità; Muhammad torna da Dio e ottiene una riduzione di altredieci preghiere, ma Mosè gli dice ancora che sono troppe. La storia si ripete per altre tre volte nellostesso identico modo, finché Muhammad riesce ad ottenere che la sua nazione preghi solo percinque volte al giorno, ma anche quelle cinque per Mosè sono sempre troppe, e consiglia aMuhammad di tornare ancora da Dio per ottenere un’ulteriore riduzione. A quel punto il Profetadice a Mosè che non se la sente più di tornare indietro, e le cose restano così per l’eternità.

LA VERSIONE DI IBN ‘ABBÂS.

Il racconto di Anas ibn Mâlik, anche se è la fonte più stimata dall’Islâm tradizionale, è fintroppo sintetico ed è privo di quella ricchezza narrativa di cui è dotato invece il Kitâb al-Isrâ’ wa-l-Mi‘râj di Ibn ‘Abbâs, che è senza dubbio il modello che ha ispirato tutte le opere apparsesuccessivamente. Qui si trovano descrizioni e racconti che mancano nel breve resoconto di Anas ibnMâlik, come ad esempio le visioni dell’Inferno e del Paradiso, o la descrizione di Al-Burâq o dellaScala; mancano però alcuni particolari importanti, come ad esempio la descrizione dell’“aperturadel petto” di Muhammad operata da Jibrîl all’inizio del viaggio. L’ordine degli avvenimenti poi èleggermente diverso, come nel caso dell’episodio della presentazione delle tre coppe, che nel Kitâbal-Isrâ’ wa-l-Mi‘râj avviene all’inizio del viaggio celeste:

Allora Jibrîl mi precedette a Gerusalemme (bayt al-maqdis), poi io lo seguii; quando mi accolse vidiche aveva con sé tre coppe: nella prima vi era latte, nella seconda vino, nella terza acqua. Allora mi disse:“Bevi quello che vuoi”, io presi il latte e ne bevvi un po’. Allora Jibrîl mi disse: “Hai scelto la pura naturaumana (al-fitra), se avessi scelto il vino la tua nazione si sarebbe fuorviata, se avessi scelto l’acqua la tuanazione sarebbe naufragata, se avessi bevuto tutto il latte nessuno della tua nazione sarebbe mai entratonell’inferno”. Dissi allora: “Oh Jibrîl fratello mio, ridammi la coppa!” Ma egli disse: “ImpossibileMuhammad, la cosa è ormai decisa e l’inchiostro della penna s’è seccato! Questo è ciò che è”.6

Quando arriva nel terzo cielo viene accolto dagli angeli che discendono sulla terra la “Nottedel Destino” (Laylat Al-Qadr)7 e in mezzo a loro:

Un giovane seduto su di un trono di luce, lo splendore che proveniva dal suo volto e dalla sua figuraera come quello della luna piena e dissi: “chi è quel giovane o Jibrîl, fratello mio?” Disse: “Quello è Yûsuf,figlio di Ya‘qûb che Iddio ha favorito con la bontà e la bellezza, coma ha favorito la luna su tutte le altrestelle”.8

Nel quarto cielo, poi, Muhammad chiede ad ‘Izrâ’îl, l’angelo della morte, di mostrarsi:Allorché l’angelo della morte posò il suo sguardo su di me, seppi che questo basso mondo è nelle sue

mani così come una moneta (dirham) è nelle mani di uno di voi che la rigira come vuole9.

Sempre nel quarto cielo l’angelo della morte apre una porta attraverso la quale Muhammadvede il Jahannam, l’Inferno.

Vi vidi allora settantamila mari di ghislîn10, settantamila mari di ghassâq11, settantamila mari di pecee settantamila mari di piombo fuso, e sulle rive di ognuno di quei mari, mille città di fuoco, e in ogni cittàmille palazzi di fuoco, e in ogni palazzo settantamila casse di fuoco, e in ogni cassa settantamila scrigni difuoco, e in ogni scrigno di fuoco settantamila varietà di castigo.12

6 Ibn Abbâs (s.d.), p. 6.7 La ventisettesima notte di Ramadân, quando il Profeta ricevette per la prima volta la rivelazione di alcuni

versetti del Corano. Si parla di questa notte anche nella sura XCVIII, come della notte “più bella di mille mesi”, in cui:«Scendono gli angeli e lo Spirito a fissare ogni cosa» (Corano XCVIII: 4).

8 Ibn Abbâs (s.d.), p. 11.9 Ivi, p. 14.10 Cibo riservato ai peccatori di cui parla il Corano (LXIX: 36).11 Bevanda fetida di cui parla il Corano (XXXVIII: 57 e LXXVIII: 25).12 Ibn Abbâs (s.d.), p. 16.

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Seguono, sempre nel racconto di Ibn ‘Abbâs, dettagliate descrizioni delle categorie deipeccatori e del castigo a cui sono sottoposti; ogni volta Muhammad si rivolge a Jibrîl chiedendospiegazioni sulla loro condizione, così come avrebbe fatto Dante rivolgendosi a Virgilio.

Giunti all’ultimo dei sette cieli, laddove è situata “La Casa Visitata” (al-Bayt al-Ma’mûr), iltempio celeste archetipo della Ka‘ba, attorno a cui girano settecentomila angeli ogni giorno, Jibrîl sicongeda da Muhammad annunciandogli che non può proseguire oltre. Alla reazione dispiaciuta delProfeta, l’angelo risponde che gli duole separarsi da lui, ma ciò non dipende dalla sua volontà:

Per Colui che ha ti inviato come Profeta con la Verità, ad ognuno di noi è assegnata una stazioneprestabilita, e se qualcuno di noi dovesse oltrepassare la sua stazione, sarebbe annientato dalla luce13.

Muhammad continua da solo il suo viaggio, incontra allora Mîkâ’îl, l’Arcangelo Michele, eassieme a lui e ad altri settantamila angeli alla sua destra e alla sua sinistra prosegue nella suaascesa:

Lacerammo settantamila veli di luce bianca, settantamila veli di smeraldo (zumurrud) verde,settantamila veli di broccato d’oro (al-istabraq), settantamila veli di seta (al-sundus), settantamila veli diluce e settantamila veli di tenebra, settantamila veli di muschio (al-misk), settantamila veli d’ambra (al-‘anbar), settantamila veli del Regno della Potenza (al-jabarût) e tra l’uno e l’altro velo vi erano cinquecentoanni....14

Giunto al cospetto divino vengono sollevati gli ultimi veli e il Profeta resta a lungo incolloquio con Dio, alla misteriosa distanza “di due archi o meno ancora” (Corano LIII: 9); parti diquesto colloquio vengono riportate in alcuni capitoli del Corano, mentre altre parti fanno sonoripetute nelle invocazioni recitate nella fase conclusiva della preghiera canonica. Al ritornodall’incontro con Dio, Muhammad incontra il profeta Mûsâ che gli chiede degli esiti del colloquio;il Profeta gli racconta che ha ricevuto da Dio l’ordine di far compiere alla sua gente cinquantaorazioni giornaliere, Mosè gli fa notare la difficoltà degli uomini ad assolvere un compito cosìgravoso e consiglia a Muhammad di tornare da Dio per ottenere un alleggerimento; l’episodioavviene in parte com’è riportato nel già citato hadîth di Anas ibn Mâlik e in altre fonti, e alla fineMuhammad ottiene da Dio di ridurre a cinque le preghiere per la sua comunità, il cui valore èinvece pari a cinquanta.

Durante la sua discesa, il Profeta infine incontra di nuovo Jibrîl che nel frattempo non s’èmosso dal luogo in cui si erano precedentemente separati; l’arcangelo affida Muhammad a Ridwân,il guardiano del paradiso, il quale mostra al Profeta le terre e i cieli, le piante, i padiglioni, i fiumi ele altre meraviglie delle dimore celesti.

Il racconto di Ibn ‘Abbâs termina con il ritorno di Muhammad a La Mecca prima del sorgerdel sole, prima dell’arrivo in città delle carovane che egli aveva notato dall’alto giungendo daGerusalemme. Jibrîl si congeda da lui raccomandandogli di raccontare ai meccani per filo e persegno gli avvenimenti prodigiosi di quella notte.

Durante i secoli molti hanno ripreso e arricchito di particolari il racconto del ViaggioNotturno del Profeta. La storia dell’ascensione è divenuta nel tempo la parte più celebre dellabiografia di Muhammad; la tradizione letteraria araba, popolare e colta, ha ripreso e ha rielaborato iltema in vario modo e lo ha poi travasato nella letteratura persiana, da qui poi nel mondo turco eindiano, dove ha dato luogo ad adattamenti e a raffinate rielaborazioni. Durante tutti questi passaggila struttura portante del Mi‘râj, e il suo contenuto, hanno rivestito forme letterarie e poetiche divario genere, in epoche e luoghi a volte molto distanti tra loro. Soprattutto poeti e teologi sufi hannovariamente riadattato quel modello, utilizzando molti dei suoi elementi in modo simbolico peresprimere gli stadi dell’ascesi o per comunicare una visione contemplativa. Abû Yazîd al-Bistâmî,Muhyiddîn Ibn ‘Arabî, Farîd ad-Dîn ‘Attâr furono solo alcuni tra coloro che hanno narrato con

13 Ivi, p. 26.14 Ivi, pp. 29-30.

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parafrasi e metafore, in epoche diverse e in diverse forme, un identico viaggio, il prototipo del qualeè sempre il Viaggio Notturno.

LE VISIONI DI BAYAZÎD.

Abû Yazîd al-Bistâmî (m. 874) è una figura leggendaria del Sufismo persiano vissuto acavallo tra il secondo e il terzo secolo dell’Egira, divenuto celebre per i suoi detti e per le sueaffermazioni stravaganti ampiamente testimoniate nei testi di Sufismo d’epoca successiva.15 Eglinon ha lasciato in realtà nessuno scritto che possa essergli attribuito con certezza; gli viene tral’altro attribuita la breve narrazione di un suo viaggio ultramondano, in cui riappare in manierainequivocabile la struttura originale del Mi‘râj. L’affinità tra il suo e il Viaggio di Muhammad stasoprattutto nella salita ai sette paradisi, che nel suo caso esemplifica il progresso attraverso le settemaqâmât, le stazioni del cammino spirituale dei Sufi. All’inizio del suo racconto non c’èl’Arcangelo che lo prende con sé, ma un uccello:

Vidi in un sogno che stavo ascendendo ai cieli e quando arrivai al cielo di questo mondo (samâ’ al-dunya) un uccello verde allargò una delle sue ali, mi prese su, e volò con me finché non raggiungemmoschiere di angeli, i quali, stando eretti, con i piedi che bruciavano sulle stelle, lodavano Iddio mattina e sera.16

Ad accogliere Abû Yazîd all’arrivo ad ogni sfera celeste, non vi sono i profeti dellatradizione, come nel caso del Viaggio di Muhammad, ma moltitudini di angeli che lo accolgono eche in alcuni casi, lo guardano “come gli abitanti di una città guardano l’arrivo di un principeconquistatore”. Essi cercano di trattenerlo con offerte e lusinghe; ma l’elemento costante della suanarrazione è la sua determinazione a oltrepassare ogni sfera, ad andare oltre per dirigersi versoAllâh, che è il vero scopo del suo viaggio. Abû Yazîd sa bene che ad ogni tappa Dio lo vuolemettere di fronte ad una prova, ma egli ogni volta rinuncia a tutto quel che gli viene offerto e ognivolta proclama che non è quello il fine del suo viaggio. Quando Iddio comprende la sua sinceradeterminazione e il suo sincero desiderio, un angelo, allora, stende la mano e lo solleva al gradosuccessivo.

Giunto nel terzo cielo uno di questi angeli gli dice a un certo punto: “Sei tu, dunque, uno superiore a noi?” Dissi: “Sono un servo a cui Iddio l’Altissimo ha elargito il

Suo favore”. L’angelo disse: “Vuoi vedere i miracoli di Dio?” “Certo!” Dissi, e allora l’angelo dispiegò unadelle sue ali, e in ognuna delle piume del suo manto c’era una lampada che oscurava lo splendore della lucedel sole, poi disse: “Avvicinati Abû Yazîd, rifugiati all’ombra della mia ala, così potrai lodare Iddiol’Altissimo ed esaltarlo fino al giorno della tua morte.” Ed io gli risposi: “Iddio mi è sufficiente!” Allora unbagliore della luce della mia conoscenza scaturì dal profondo del mio cuore facendo eclissare la luce dellelanterne, e l’angelo divenne come un moscerino di fronte alla mia perfezione. Continuarono a mostrarmiregni e possedimenti che nessuna lingua può descrivere, ma io sapevo che in questo modo Iddio mi stavamettendo alla prova; distolsi lo sguardo da tutto ciò, magnificai la Sua nobiltà e dissi: “O amato, quel che iodesidero non è ciò che Tu mi mostri!”.17

Dopo avere attraversato tutte le sfere celesti ed essere passato oltre il settimo cielo, AbûYazîd, è trasformato da Dio in uccello, ogni piuma delle sue ali è lunga più di mille volte delladistanza che c’è tra l’Oriente e l’Occidente. Dopo aver volato attraverso innumerevoli regni,innumerevoli pianure e mari, e dopo aver lacerato infiniti veli, Abû Yazîd ha la visione del mare diluce “in cui onde di luce si scontravano fra di loro, e il loro splendore adombrava la luce del sole,su quel mare navigavano vascelli, la luce dei quali era tale da oscurare quella del mare stesso.”18

15 Vedere a questo proposito il capitolo a lui dedicato nella Tadhkirat al-Awliyâ’ di Farîduddîn ‘Attâr, dove tra

l’altro si riporta la descrizione della sua ascensione (mi‘râj) che corrisponde solo in parte al testo che viene qui preso inesame. Cfr. Attâr (1994), pp.198-201.

16 “Mi‘râj Abî Yazîd al-Bistâmî”, in Al-Tu‘mî (cur.) (2000), p. 224. Vedere anche El-Azma (1973), pp. 93-104.

17 “Mi‘râj Abî Yazîd al-Bistâmî”, in Al-Tu‘mî (cur.) (2000), pp. 225-226.18 Ivi, p. 228.

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Giunge poi al Trono del Misericordioso e si spinge ancora oltre inseguendo il richiamo di Allâh chelo vuole vicino a Sé; egli infine si avvicina a Dio, “più di quanto non sia vicina l’anima al corpo”. Aquel punto le anime dei profeti lo accolgono, lo salutano e si congratulano con lui per averraggiunto un simile traguardo. Infine Muhammad stesso si mostra e gli dà il benvenuto; lo invitainfine a tornare sulla terra a portare il suo saluto alla sua comunità e a guidare gli uomini verso ilsuo stesso traguardo; ma Abû Yazîd si spinge ancora oltre e continua a viaggiare fin dove terminal’Essere, “là dove il Vero permane senza forma né distanza, senza come né dove”.19

LA SCALA DI MUHYIDDÎN.

Alla prosa poetica e visionaria di Abû Yazîd al-Bistâmî si contrappone invece il linguaggioermetico di Muhyiddîn Ibn ‘Arabî (m. 1240) il grande sufi andaluso autore di opere come Al-Futuhât al-Makkiyya, (Le Rivelazioni Meccane) e i Fusûs al-Hikam (I Castoni della Saggezza) checontengono in maniera estesa il suo sistema teosofico. Tutte le sue opere portano indiscutibilmentele tracce del Mi‘râj di Muhammad, ma, in particolare, l’opera in cui egli riporta la descrizionedettagliata di un viaggio tra i due mondi è il Kitâb al-Isrâ’ ilâ maqâm al-Asrâ (Il Libro del Viaggionotturno verso la dimora di coloro che sono stati catturati). Tale opera conta approssimativamentecinquanta pagine,20 trentaquattro capitoli composti in versi e in prosa rimata, in cui i temifondamentali del Mi‘râj del Profeta vengono simbolicamente ripresi per comporre una lungaallegoria del Sufismo.

Chi compie stavolta il viaggio è un “viandante” (sâlik) che è il termine comunemente usatonel linguaggio tecnico per indicare il pellegrino della Via dei Sufi, ma il testo lascia implicitamenteintendere che il soggetto del viaggio è l’autore stesso. Jibrîl, la guida di Muhammad nella versionedi Ibn ‘Abbâs, viene sostituito nella prima parte del trattato da un giovane soprannaturale (fatârûhânî), poi da un maestro sufi che, nella seconda parte, viene chiamato “L’Inviato (rasûl) dellaGrazia divina”. Prende il posto della cavalcatura celeste di Muhammad il “Burâq della purezza”, sucui è posata la “gualdrappa del tripudio” e la “briglia della sincerità”. Il petto del viandante vieneaperto poi dal “coltello della Pace trascendente” (sikkin al-sakîna) e il suo cuore viene estratto eriposto nel “bacile della soddisfazione” (tast al-ridâ’) per far cadere da esso la presa di Satana.21

Prima di salire al primo dei cieli il viandante deve raggiungere Gerusalemme (al-bayt al-maqdis) partendo dall’Andalusia, passando attraverso sei stazioni alla cui descrizione Ibn ‘Arabîdedica i primi sei capitoli dell’opera; la prima di queste sei tappe è il capitolo dedicato al “Viaggiodel Cuore”, l’ultimo al grado dell’“Anima Pacificata”. Tutte queste tappe sono preparatorieall’ascensione vera e propria e corrispondono al viaggio orizzontale di Muhammad dalla Mecca aGerusalemme (ne è conferma il fatto che, nella quinta tappa, anche il viandante di Ibn ‘Arabî, comeil Profeta Muhammad nel racconto di Ibn ‘Abbâs, viene posto di fronte alla scelta tra vuotare unacoppa di latte oppure una di vino).22 Solo dopo questo primo viaggio orizzontale può iniziare laseconda parte del viaggio, ovvero l’ascensione nel vero senso del termine, che occupa la partecentrale dell’opera.

Come nel racconto di Abû Yazîd al-Bistâmî anche nella narrazione di Ibn ‘Arabî vienemantenuta la struttura dei sette cieli, la stessa del modello iniziale, e vengono omesse le descrizionidell’Inferno e del Paradiso. Ibn ‘Arabî, diversamente da Abû Yazîd, lascia a ciascun cielo il suoprofeta, nello stesso ordine indicato nel Mi‘râj di Ibn ‘Abbâs; anche qui il viandante colloquia conciascun profeta che lo accoglie e gli parla confidandogli segreti e verità teologiche. L’ordine deiprofeti non coincide con l’ordine cronologico della loro missione, né con una loro improbabiledisposizione in senso gerarchico; tale ordine semmai dipende da alcune qualità connesse allecaratteristiche della loro natura e della loro funzione. La prima tappa dell’ascensione è nel cielo

19 Ivi, pp. 228-229.20 Nella versione contenuta in Muhyiddîn ibn ‘Arabî (2001), pp. 133-182.21 Ivi, p. 137.22 Ivi, p. 138.

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della Luna, chiamato anche “il cielo dei corpi” (samâ’ al-ajsâm), dov’è Âdam, il padre della razzaumana, il primo a sopportare il fardello della condizione corporea. Il secondo è il cielo di Mercurio,chiamata anche “il cielo degli spiriti” (samâ’al-arwâh), dov’è al-Masîh (Gesù) per mezzo del qualeIddio ha parlato direttamente all’umanità23. Il terzo è il cielo di Venere ed è “il cielo della Bellezza”(samâ’ al-jamâl), dove Yûsuf spiega al viandante l’ordine, l’armonia e la Bellezza dell’universo. Laquarta tappa del viaggio dell’itinerante è il cielo del Sole, ovvero “il cielo dell’Autorità” (samâ’al-imâra) dimora di Idrîs, il nome arabo del profeta biblico Enoch. La quinta tappa è il cielo di Marte,la sfera del profeta Hârûn, che è altresì “il cielo del Comando” (samâ’al-shurta). La sesta tappa ènel cielo di Giove ed è “il cielo della Legge e del Giudizio” (samâ’al-qadât), dimora del profetaMûsâ. La settima stazione è il cielo di Saturno, è “il cielo del Fine ultimo” (samâ’al-ghâyat) ed è illuogo dove l’itinerante resta in colloquio con Ibrâhîm, il padre di tutte le religioni.

Il viaggio dell’itinerante prosegue oltre la settima sfera, oltrepassa il “Loto dell’EstremoLimite”, ripercorre l’itinerario del Profeta in tutti i luoghi e sotto ogni aspetto, finché in prossimitàdel Trono tutti i veli rimanenti tra la creatura e il Creatore vengono rimossi. La parte finale deltrattato è composta da una serie di dialoghi intimi (munâjât) che il servo intrattiene con il Signoretradotti nel linguaggio ermetico del Sufismo. La parte conclusiva è riservata ai colloqui chel’itinerante intrattiene con le realtà spirituali di tutti i profeti, i quali gli affidano i propri segreti e lorivestono della loro autorità.

I TRENTA UCCELLI E IL SÎMURG

Molto diversa nella forma ma non nel contenuto è la narrazione di Farîduddîn ‘Attâr, poetasufi persiano, morto a Nîshâpûr intorno alla prima metà del secolo XIII, probabilmente durantel’invasione mongola della Persia. La versione poetica del viaggio più rappresentativa di ‘Attâr è ilMantiq al-Tayr, “Il Verbo degli Uccelli”, opera persiana in versi dove viene descritto il Mi‘râj di unfolto stormo di uccelli che partono alla ricerca del loro mitico sovrano, il Sîmurg, la dimora delquale è posta oltre monti, deserti e città, sulla sommità del Monte Qâf, la mitica montagna che nellacosmologia musulmana segna i confini del mondo. Gli uccelli sono guidati dall’upupa, che nelCorano porta a Re Salomone notizie di Bilqis, la regina di Saba (Corano XXVII:20-29).

L’esposizione del viaggio non è come nel caso di Ibn ‘Arabî affidata al linguaggioenigmatico del Sufismo arabo, ma è invece una sottile analogia che usa il simbolo dell’uccello pernarrare l’avventura dello spirito attraverso le prove dell’ascesi, nella forma stilistica più consuetadella poesia mistica persiana medievale, che è il mathnawî. L’allegoria dell’uccello era già stataproposta da Al-Ghazâlî nella sua breve epistola in prosa araba, la Risâla al-Tayr, (Trattatodell’Uccello) e da Avicenna, in un’opera omonima, ma il canovaccio è lo stesso e gli stessi sono i“pioli” della struttura narrativa del prototipo che è, in questo e in tutti gli altri casi, il Viaggionotturno del Profeta.

Il poema inizia con una invocazione a Muhammad e ai primi quattro califfi, poi proseguecon una doppia serie di dialoghi in cui ogni uccello confida all’upupa dubbi e incertezze, oppurechiede spiegazioni sul senso del viaggio; a tali interrogativi l’uccello risponde ora pazientemente,ora duramente, con sentenze e consigli. Ogni dialogo è sempre seguito da racconti di carattereaneddotico che illustrano il tema principale del capitolo: la morte, l’ambizione, l’amore,l’appagamento; i protagonisti sono sempre dei sufi o dei profeti: Abû Yazîd, Râbi‘a, Gesù,Giuseppe ecc.. Poi inizia la narrazione del viaggio che si rivela lungo e difficile: per giungere incima al monte Qâf dove abita il Sîmurgh gli uccelli devono valicare sette valli, e precisamente levalli della Ricerca, dell’Amore, della Conoscenza, del Distacco, dell’Unificazione, dello Stupore,dell’Annientamento.

Il drappello originale composto di centomila uccelli si assottiglia ad ogni tappa finché solotrenta di loro, “spennacchiati, stanchi e malati, dal cuore spezzato, sfiniti, dal corpo consunto”,

23 Ivi, p. 141. Bisogna qui ricordare che uno dei più ricorrenti nomi dati a Gesù nella tradizione islamica èappunto “Lo Spirito divino” (Rûh Allâh).

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giungono alla mèta. La storia si conclude con l’incontro dei superstiti che sono ammessi alla visionedel loro Re, ma in quell’incontro essi non vedono altro che loro stessi, il Sîmurg infatti non è altroche sî-murg, il “Trenta-Uccelli”24, l’immagine speculare di quelli che sono giunti alla sua corte.

Finalmente il fulgido sole dell’intimità rifulse su di loro e i suoi raggi vennero riflessi dallo specchiodelle loro anime. Nell’immagine del volto di Sîmurg contemplarono il mondo, e dal mondo videro emergereil volto di Sîmurg. Osservando più attentamente si accorsero che i trenta uccelli altri non erano che Sîmurg eche Sîmurg era i trenta uccelli: infatti volgendo nuovamente lo sguardo verso Sîmurg, videro i trenta uccelli,e guardando ancora se stessi videro lui. O meraviglia, questo era quello e quello era questo! Quando mai nelmondo si era assistito a un simile prodigio? Gli uccelli, sgomenti e confusi, rimasero un poco a pensare pursenza pensieri, ma non venendo a capo di nulla interrogarono senza parole quell’augusta presenza,implorando la spiegazione di questo assoluto mistero per cui il “noi” e il “tu” apparivano uniti.25

Nel finale della storia la prospettiva panteista, anche se preannunciata, è nettamente esclusa;l’epilogo è nel classico stile della metafisica sufi: a tutti gli esseri individuali è necessariamentedestinata la sorte degli accidenti; gli uccelli finiscono con l’estinguersi nell’Essenza divina senzalasciare alcuna traccia del loro essere.

E gli uccelli si annullarono eternamente in lui: l’ombra si dissolse nel sole, e così sia. Finché gliuccelli procedevano lungo la via, avanzava con loro il mio racconto. Ma ora che sono giunti alla meta e diloro non è rimasta una sola piuma, necessariamente devo tacere. La guida e i viandanti sono svaniti nel nullatrasformandosi nella via.26

Oltre al Mantiq al-Tayr Farîduddîn ‘Attâr ha scritto un altro mathnawî la cui trama non sidiscosta di molto da quella delle opere sin qui analizzate. Nel Mosîbat-Nâma (letteralmente Il Librodella Sventura) il viandante attraversa quaranta stazioni mosso dal desiderio della ricerca delrimedio che gli consenta di guarire dal dolore dell’esistenza. Dopo una serie di dialoghi con unmaestro (pîr) che lo esorta al viaggio, e che lo seguirà per tutto il percorso, il viandante inizia la suaascesa e nelle prime dieci stazioni si intrattiene con gli stessi angeli che aveva incontratoprecedentemente Muhammad nel suo Mir‘âj: Jibrîl, Isrâfîl, Mîkâ’îl, ‘Izrâ’îl, poi con gli angeli chesostengono il Trono divino; nessuno di loro riesce a dare al viandante una risposta alla sua ricerca.Vengono poi il Trono, lo Sgabello, la Tavola Custodita, il Calamo, il Paradiso e tutte le realtàultramondane già descritte nell’opera di Ibn ‘Abbâs. Seguono quindi l’Inferno, il Cielo, il Sole, laLuna, il Fuoco, il Vento, l’Acqua, la Terra: tutte queste realtà si mostrano al viandanteprofondamente pervase dal suo stesso dolore, e gli confermano che esso è connesso alla natura degliesseri creati. Infine il viandante si reca dagli spiriti dei profeti della tradizione; costoro nonesprimono sentimenti di dolore, ma impartiscono al viandante ammonimenti e insegnamenti, e loinvitano a recarsi dal profeta degli ultimi tempi, Muhammad. Questi lo accoglie e lo invita adannientarsi nell’Essere assoluto, a diventare un’ombra che si dissolve nel Sole. Il viandante allorainizia il viaggio in se stesso sotto la guida del suo pîr che lo guida nelle fasi successive della via deisufi, sino all’esito finale, che è anche qui, come nel Mantiq al-Tayr, l’estinzione dell’individualitànella realtà eterna.27

UN MIR‘ÂJ OCCIDENTALE

Inequivocabili tracce di questa grande tradizione letteraria sono riscontrabili in Occidente inuna delle redazioni del viaggio che è inaspettatamente tra le più somiglianti alle fonti originali.

Enrico Cerulli, funzionario diplomatico in Spagna, aveva segnalato nel 1944 l’esistenza didue codici giacenti l’uno a Oxford e l’altro a Parigi, di una versione francese e latina del raccontodel Mi‘râj (intitolate in maniera deformata Halmaerig e Halmahareig). Il racconto, fantasioso e

24 In persiano sî vuol dire “trenta” e morg “uccello”.25 ‘Attâr (1986), p. 206.26 Ivi, p. 207.27 Vedere a questo proposito Pagliaro e Bausani (1968), pp. 443-445.

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ripetitivo, era la traduzione di un testo originale arabo, andato probabilmente perduto, fatta eseguireda Alfonso X di Castiglia, detto “Il Savio” al medico ebreo Abraham Alfaquim, che per primo lotradusse in castigliano nel 1264; esso fu poi ritradotto in latino come Liber scalae Machomethi dalnotaio senese Bonaventura. Una terza versione in latino di questa storia è contenuta in Vaticano,nella Collectio Toledana, la raccolta di testi scientifici arabi fatti tradurre a Toledo a partire dal XIIsecolo per iniziativa di Pietro il Venerabile, che costituisce l’esempio più significativo delpassaggio di conoscenze dal mondo islamico a quello cristiano.

Le ricerche di Enrico Cerulli approdarono nel 1949 alla stesura di un’importantissima operache contribuì alla formulazioni di ipotesi più che credibili sulle fonti della Commedia dantesca,intitolata: Il «Libro della Scala» e la questione delle fonti arabo spagnole della DivinaCommedia.28 La recente traduzione italiana del Libro della Scala scaturisce dal raffronto tra leversioni latina e quella francese, conservate rispettivamente nella Biblioteca Nazionale di Parigi enella Biblioteca Bodleiana di Oxford.29

L’esposizione del Viaggio notturno del Profeta che viene fatta nel Libro della Scala apparepiù circostanziata, variopinta e fantasiosa delle fonti che l’hanno ispirata; mantiene inoltre lo stiletipicamente ripetitivo di certa prosa araba medievale, ed è possibile qua e là identificare passi delCorano, tracce di tradizioni profetiche o addirittura alcuni passaggi della narrazione originale di Ibn‘Abbâs, come nel caso della descrizione della scala (mi‘râj) da cui il libro stesso prende nome:

Dopo che io, Maometto, ebbi compiuto in quel tempio (Gerusalemme) le mie preghiere con i profetilì radunati, e dopo essere stato ricevuto con onore e anche abbracciato da loro, come avete udito, ecco cheGabriele mi prese per mano e mi condusse fuori del tempio e mi mostrò una scala che scendeva dal primocielo fino alla terra su cui mi trovavo. E quella scala era la cosa più bella che si fossa mai vista. Essapoggiava su quella pietra presso cui in precedenza ero disceso. I suoi gradini erano fatti come segue: il primoera di rubino, il secondo di smeraldo, il terzo di perla luminosissima, e tutti gli altri di pietre preziose, ognunasecondo la sua natura, lavorati con perle e oro purissimo, tanto riccamente che nessun cuore umano sarebbein grado di concepirlo.30

Così è invece la descrizione della scala celeste nel testo arabo di Ibn ‘Abbâs:Allora Jibrîl, su di lui la pace, mi portò fino alla pietra ed ecco che (vidi) la scala (al-mi‘râj) che

scendeva sulla pietra dalle nuvole del cielo; non avevo mai visto nulla di più bello di quella scala; essa avevaun gradino d’oro, un gradino d’argento, un gradino di crisolito (al-zabarjad), un gradino di rubino ….31

È altrettanto interessante confrontare la descrizione di Al-Burâq, la cavalcatura celeste diMuhammad, nelle due versioni. Si legge nel Libro della Scala:

Dopo che io, Maometto, mi fui inchinato di fronte a Gabriele, come avete appena udito, ecco cheguardando io vidi che teneva per le briglie una bestia che aveva portato per me e il cui nome arabo era“Alborak”, che in latino significa “maschio d’anatra o di piccola oca”. Tale infatti, era per forma, mentre perdimensioni era più grande di un asino e più piccola di un mulo. Aveva volto umano, crini di perla e crinieradi smeraldo; la coda era di rubino, e aveva gli occhi più chiari del sole. I suoi zoccoli e le unghie erano comequelli del cammello e i suoi colori erano di purissimo splendore. Aveva una sella così magnifica e cosìriccamente e mirabilmente ornata di perle e pietre preziose che nessuno saprebbe descriverla. L’arcione erad’oro purissimo e persino il cuoio non era cuoio, ma la stessa gloria di Dio; il freno e il pettorale erano dirubini, topazi e smeraldi; e le staffe di croco. Vidi anche che la bestia era attorniata da angeli che su di leivigilavano».32

28 Un’altra importante opera da segnalare su questo stesso argomento è quella del religioso spagnolo Miguel

Asìn Palacios che nel 1919 pubblicò a Madrid: La escatologia musulmana en la Divina Commedia, in cui delineòl’ipotesi che a ispirare l’opera dantesca avesse contribuito indirettamente anche l’opera di Muhyiddîn ibn ‘Arabî.L’opera è stata recentemente tradotta in italiano con il titolo Dante e l’Islam, Parma, 1994 e 1997.

29 Il Libro Della Scala di Maometto (1991).30 Ivi, p. 23.31 Ibn Abbâs (s.d.), p. 7.32 Il Libro Della Scala di Maometto (1991), p. 20.

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La stessa descrizione nel testo di Ibn Abbâs si traduce come segue:Ed ecco, al-Burâq stava in attesa, Jibrîl lo conduceva. Esso non assomigliava a nessun altro animale,

era a metà strada tra l’asino e il mulo, aveva il viso come quello di un essere umano, il corpo come quello diun cavallo, ed era l’animale più bello di questo basso mondo e di tutto quel che c’è in esso. La criniera era diperle lucenti in cui erano incastonati rubini splendenti di luce, le briglie di smeraldo verde; gli occhi eranocome due astri luminosi che ardevano sfolgoranti come i raggi del sole. Il manto era grigio cenere a chiazzebianche, le zampe bianche fino allo stinco, tutte tranne l’anteriore destra. La gualdrappa intarsiata di perle edi gemme, nessuno saprebbe descriverla se non Iddio l’Altissimo. Il suo respiro era come il respiro di unessere umano.33

I versetti del Corano che appaiono nel Libro della Scala corrispondono approssimativamenteal senso originale,

O voi che non credete ai profeti e ai nunzi miei, ecco, il fuoco di Halgahym sarà vostro possesso edestino.34

Che corrisponde a:Mentre coloro che rifiutano la fede e i Nostri segni smentiscono, sono quelli dell’inferno (al-jahîm)

(Corano V:10, V:86, 58:19).

Ma sono soprattutto le trascrizioni dall’arabo che denotano un faticoso tentativo diriprodurre il testo originale:

E mentre le contemplavo, ecco che udii da oltre le cortine una voce pronunciare le parole del Corano,la dove si inizia a dire: “hamina harazul bine unzila ylay “che vuol dire: “il nunzio ha creduto a tutto ciò chegli fu rivelato”.35

Che corrisponde bene o male al versetto:Il Messaggero di Dio crede in ciò che gli è stato rivelato (dal suo Signore)» (Amana al-rasûl bi-mâ

unzila ilayhi min rabbihi. – Corano II:285 –).

CONCLUSIONI

Quanto è stato detto finora dimostra che il Mi‘râj di Muhammad è stato il prototipo a cui sisono ispirati liberamente gli autori e i poeti che abbiamo esaminato, e anche molti altri, le opere deiquali non sono state prese in considerazione in queste brevi note; basterebbe ricordare “L’Epistoladel Perdono” (Risâla al-Ghufrân) del poeta siriano Abû-l-‘Alâ’ al-Ma‘ârrî (m. 1058), o il“Racconto dell’Esilio Occidentale” (Qissat al-ghurbat al-gharbiyya) di Shaykh ShihabuddînSuhrawardî “al-Maqtûl” (m.1191), oppure il “Viaggio dei Servi di Dio nel Regno del Ritorno”(Sayr al-‘ibâd ilâ al-Ma‘âd) uno dei mathnawî di Sanâ‘î di Ghazna (m. 1141), per vedere ancor piùchiaramente il percorso del modello del Mi‘râj nei vari contesti letterari orientali. Durante il suolungo tragitto il racconto ha varcato i limiti del mondo islamico medievale e le sue tracce sono benvisibili in luoghi non lontani dalla Firenze di Dante e di Beatrice. In molti, inevitabilmente, hannocercato di vedere somiglianze tra la Divina Commedia e le fonti arabo-islamiche; le ha intravisteanche J. L. Borges, che in uno dei suoi brevi appunti letterari ha accostato, non senza una vena discetticismo, l’Aquila imperiale che appare a Dante nel canto XVIII del Paradiso e il Simurg. A suogiudizio, infatti:

La differenza tra l’Aquila e il Simurgh non è meno evidente della somiglianza. L’Aquila non è altroche inverosimile; il Simurgh impossibile. Gli individui che compongono l’Aquila non si perdono in essa(Davide funge da pupilla di un occhio, Traiano, Ezechia e Costantino da ciglia): gli uccelli che guardano ilSimurgh sono anch’essi il Simurgh. L’Aquila è un simbolo momentaneo, come prima lo furono le lettere, e

33 Ibn Abbâs (s.d.), pp. 3-4.34 Il Libro Della Scala di Maometto, p. 110.35 Ivi, p. 81.

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coloro che lo compongono non cessano di essere ciò che sono; l’ubiquo Simurgh è inestricabile. Dietrol’Aquila c’è il Dio individuale di Israele e di Roma; dietro il magico Simurgh c’è il panteismo36.

Si potrebbe pensare che Borges abbia travisato la fine del poema di ‘Attâr, che termina,come abbiamo visto, con l’apoteosi del Non-Essere. Forse per semplice disattenzione, oppure,forse, perché la ragione del grande scrittore argentino, come quella di ogni uomo sincero, di fronteall’Infinito si ferma e retrocede. Lo sapeva anche il poeta persiano quando scriveva:

La ragione parla come Gabriele:«oh Ahmad (Muhammad) se avanzo ancora di un passo, mi brucerà».37

36 J.L. Borges, Il Simurgh e l’Aquila, in Borges (1985), vol. II, p. 1299.37 Jalâl ad-Dîn Rûmî: Mathnawî ma‘nawî, 1:1066, Teheran 1349 (h).

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BIBLIOGRAFIA

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LUIGI BALLERINIPellegrino Artusi “tradotto” da Giuliano della Casa

La storia editoriale de La Scienza in cucina e l’arte del mangiar bene è uno degli ingredientiessenziali dell’esperienza che, oggigiorno, la semplice menzione del libro, o che fa lo stesso, delnome del suo autore, suscita e rappresenta. Non esiste edizione moderna di qualche pregio cheometta il fervorino che Pellegrino Artusi prepose all’edizione del 1902 e in cui racconta, neanchetroppo velatamente, i difficili inizi di quella sua opera che, dall’esordio nel 1881 e fino al 1910,anno della morte dell’autore, avrebbe conosciuto ben quattordici edizioni. Molto opportunamenteegli volle intitolare quel suo capitoletto prefativo: “Storia di un libro che rassomiglia alla storia diCenerentola”.

Rifiutata da un editore fiorentino (con ogni probabilità il Barbera), pubblicata a propriespese e inviata direttamente dall’autore (contro pagamento, è chiaro) a chi gliene avesse fattorichiesta, La scienza in cucina fa oggi parte del catalogo di numerosi editori tra cui Garzanti, Giunti,Rizzoli e, ben inteso, Einaudi che, nel 1970, grazie alla cura (e alla disinvoltura) di PieroCamporesi, trasformò il manuale noto a tutte le madri d’Italia e da loro religiosamente trasmessoalle proprie nuore, in un classico della letteratura italiana.

Resta ora un altro passo da compiere: un’edizione critica del testo esemplata sulle varieedizioni: non vi furono solo aggiunte di ricette (da un’edizione all’altra), ma anche modifiche sia disostanza sia di dicitura. È compito cui, se non andiamo errati, stanno per accingersi MassimoMontanari e Alberto Capatti, all’insegna della Casa Artusi, un’istituzione volutadall’amministrazione comunale di Forlimpopoli che prevede il pieno funzionamento di unabiblioteca di gastronomia e la pubblicazione di testi ispirati all’Artusi e alla sua ereditàgastronomica e culturale.

L’annuncio, non formalmente esplicito, e però nemmeno gravato da ipoteche o incertezze, èstato fatto durante il convegno: “La scienza in cucina nel mondo”, svoltosi il 18 giugno del 2005,secondo giorno della Festa Artusiana, e da cui è emerso, tra l’altro, che la Cenerentola ha trovato ilsuo principe azzurro e, anzi, o tempora o mores, che ne ha addirittura trovati più d’uno: aun’edizione tedesca, in cui però di artusiano è rimasto solo il nome, fanno riscontro un’edizionespagnola, una olandese, e una nordamericana, in cui dell’Artusi scrittore è stato rispettato finl’ultimo capello (d’angelo, naturalmente).

Ma è all’edizione Einaudi che dobbiamo velocemente tornare e, in particolare, alla ristampache l’editore ne fece per la collana I Millenni: parliamo dunque del 2001. In quell’occasione, al trioormai consolidato di Artusi, Camporesi e, ben inteso, dello stesso Einaudi, si aggiunse, in qualità diillustratore (ma, mai, come in questo caso il termine e si è rivelato inadeguato e fuorviante)Giuliano Della Casa.1 Il risultato fu, come usa dire, “senza precedenti”. Quella che doveva essereun’operazione di ordinaria amministrazione si trasformò in una svolta epocale.

Gli acquerelli dell’artista modenese che da cinque anni a questa parte accompagnano il testodell’Artusi, ecco, per l’appunto, non lo “accompagnano” affatto. Essi sono, in realtà, e lo sono statifin dal loro primo apparire, parte integrante dell’esperienza che si fa quando si prende in mano perleggere (e dunque non solo per consultare) l’Artusi. Per dire meglio, gli acquarelli di Giuliano DellaCasa hanno permesso all’Artusi di assomigliare a se stesso, o, se si preferisce, di diventare quel cheera destinato a diventare. Ciò vuol anche dire che chi si avvicinasse all’Artusi per il tramite diun’edizione non galvanizzata da Della Casa si troverebbe tra le mani un testo buono al massimo perimparare a cuocere le uova, o per essere un po’ meno grossolani, un testo godibile solo comereperto archeologico, come pezzo da museo.

1 È giusto ricordare che l’edizione einaudiana del 2001 uscì corredata anche da una simpatica “toccata e fuga”prefativa firmata dallo scomparso scrittore e pittore Emilio Tadini. Citiamo qui le frase conclusiva del suo breve testo:“Doveva avere un ricettario, l’Artusi, per essere in grado di preparare tanti eccellenti piatti di parole...”

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Non si può non pensare alla risposta che, quanto meno secondo un tratto persistentedell’aneddotica che lo circonda, Picasso avrebbe dato a chi gli faceva incautamente osservare che ilsuo ritratto di Getrude Stein non assomigliava affatto alla scrittrice nordamericana: “Leassomiglierà”. E poiché i fatti sembrano avergli dato ragione (la Stein in carne e ossa, da quanto èlecito dedurre guardando le foto dell’epoca, si andò somaticamente conformando all’anticipazionevisuale del suo “illustratore”) non si può non concludere che Picasso avesse intuito, in partenza,l’evoluzione del proprio soggetto.

All’Artusi (non persona, è chiaro, ma libro, e dunque scrittura) è successo qualcosa di similegrazie a un artista che ha non solo indovinato il modo in cui il gastronomo avrebbe desideratopresentarsi per continuare a essere, ma anche individuato il dna cromatico del suo messaggioculturale. Si può ugualmente dire che tra l’Artusi e Della Casa si sia stabilito un inquieto equilibrio,paragonabile forse a quello osservabile in liquido contenuto in vasi comunicanti di diametropressoché equivalente... ma non proprio equivalente.

Non sarà, per tanto, del tutto inimmaginabile sostenere che l’incontro Artusi-Della Casa sia,in realtà, un’ekfrasis rovesciata. È vero che prima sono venute le parole, e solo a distanza di quasiun secolo le immagini (queste immagini), ma le parole sono state scritte per dare modo a certisapori di materializzarsi e corrispondono oggigiorno ai colori in cui Della Casa li ha tradotti. C’è,per questo andirivieni, e cioè, per dire più seriamente, per questa trasferenza significante che operaal di fuori delle coordinate cronologiche, una spiegazione ben precisa. L’ha ben colta, a mio parere,Pablo Echaurren, che credo sia stato il primo ad accennare al binomio sapore/colore:

La pittura di Giuliano è anticoncettuale, sorgiva, istintuale, tanto quanto il suo autore è unaforza della natura, un prodotto della cultura della sua regione, della tradizione, di quando siseguiva il dettato di Pellegrino Artusi e non si sarebbero degnati di alcuna attenzione gliastrusi officianti devoti alla nouvelle cuisine ... Così come nella fattura di un acquerello nonè permesso il ripensamento, il cincischiamento, l’indugio, anche l’arte del mangiare sibasava sulla schiettezza, sulla risolutezza, sulla determinazione a andare al fondo dellaquestione senza girarci troppo intorno, senza ritoccare, aggiustare, correggere.

La specialità della casa di Giuliano Della Casa sta proprio in questo binomiocolore/sapore, il suo segno è rapido e pregno come un tortello, incisivo e lieve come unculatello, effimero e permanente come il tartufo nel timballo.2

Accogliendo, con entusiasmo, il parallelo qui istituito tra la fiducia nell’esecuzione di unpiatto secondo le istruzioni dell’Artusi (e questo fidarsi, sia ben chiaro, non è un adagiarsi dicomodo, in quanto che il gastronomo romagnolo concede comunque ampi margini di libertàall’esecutore, e anzi lo coinvolge nella continua sperimentazione di cui ogni piatto è occasione,ponendosi quindi agli antipodi di un Escoffier, per cui la cucina è una scienza esatta la cuifrequentazione richiede piuttosto obbedienza che fiducia) e la fiducia che l’artista ripone nel suogesto senza ripensamenti, mi pare utile domandarsi in che modo debba o possa valutarsil’identificazione dell’ulteriore e reciproca parentela proposta da Echaurren, tra l’immediatezza delsegno pittorico e la schiettezza, l’autenticità, potremmo interpretare, dell’esperienza gastronomica.E qui, per autenticità, suppongo che sia lecito intendere non altro che uno stato di grazia nonmediato dalle attese, dalle aspettative di un fruitore, cui l’artista vuole piacere (è lecito) senza maicompiacerlo, e anzi senza neppure eleggerlo a condizione dell’atto creativo.

È autentico, in sostanza, ciò che rispetta le implicazioni della fonte dalla quale procede e nonsi fa sedurre da opportunità linguistiche preconfezionate o, comunque, a portata di mano.L’autentico, per tanto, non paga nessun tributo agli obblighi contratti dal genere (unamacchinazione mentale sempre approssimativa e avente, al massimo, funzione orientativa) in cuiviene calato, ed è assai più complesso e dispotico del semplicemente genuino. L’autentico prevedealchimie, rituali, montaggi e non è mai, dunque, una semplice presentazione di materiali puri o

2 Vedi il catalogo della mostra di Giuliano della Casa alla Biblioteca Civica Luigi Poletti di Modena (Marzo-

Giugno 2002).

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purificati (in questi termini è già traccia di una moralità chiesastica e dunque mercantile, capace diingenerare attività proficue intese a rendere meno intollerabile e scomodo un mondo che, sottratto airicatti e alle abitudini di quelle stesse attività, diventa, ipso facto, perfettamente godibile). Ilgenuino dunque non garantisce l’autentico. Nel primo sono schietti i materiali, nel secondo sonoschietti i procedimenti, le manipolazioni, i passaggi, i tradimenti, perfino, delle premesse quandofossero diventate o stessero per diventare vincolanti (genuine).

In fatti ciò che solo ha in sé il proprio ente (ma tremo all’idea di verificare questo etimo) è ilpasso, il passaggio, lo stare tra due, un essere che non è più e non è ancora, una cosa in bilico il cuimanifestarsi non dipende né dalla sua origine né dal suo destino, né dalla partenza né dall’arrivo.Forse è per questo che la vita ci “sfugge” continuamente: perché nell’incertezza inevitabile del suotrascorrere e palesarsi noi cerchiamo testardamente la certezza confermante del nascere e delmorire.

Per apodittiche che possano sembrare, tali affermazioni suggeriscono un fondamentaledistacco tra il principio della modularità riproduttiva e l’esperienza dell’affidamento interno, diquella pistis medianica (e non mediatica), in cui né oggetto si cattura, né soggetto si assumepreposto (magari con tanto di autorizzazione accademica) alla cattura dell’oggetto. In luogo di talirapacità si suggerisce qui di tentare la via del trasalimento, del conoscere per traduzione reciprocadei significanti. È nella qualità dell’espressione che si apposta il senso (e il godimento) delconoscere, non nella sua specifica aderenza a un codice supinamente accettato.

Ciò premesso, conviene pensare al lavoro “artusiano”3 di Giuliano Della Casa come aun’opera di traduzione, non intesa a rendere l’equivalente di un testo in un altro testo, cosa del restoinsensata, specialmente quando i testi medesimi si esprimono secondo fisicità diverse(alfabeticamente Artusi, iconicamente Della Casa), ma neppure a torturare il testo di arrivo affinché“sostenga” a tutti i costi e fino a sfociare nell’incomprensibile, le istigazioni e le peculiarità diquello di partenza.

Si tratta piuttosto di un affidamento trasferitivo, in cui, secondo quanto indicava WalterBenjamin nel suo celebre saggio, il compito del traduttore consiste nell’osservare le contrazioni egli spasimi della nascita di un testo nuovo stimolato da un testo di partenza: “anziché assomigliareal significato dell’originale, una traduzione deve con amore e attenzione rivolta ai dettagli,incorporare le modalità di significazione attive nell’originale, in modo che tanto l’originale quantola traduzione si rivelino come frammenti di un linguaggio superiore”. E ancora prima: “Il compitodel traduttore consiste nel trovare nella lingua in cui tradurre quel particolare effetto [intenzione]capace di suscitarvi un’eco dell’originale”.4

Se passiamo ora a esaminare gli iconogrammi in cui Giuliano della Casa ha tradotto i“palatogrammi”, per usare un efficace neologismo coniato da Paolo Fabbri, non faremo fatica adammettere che il principio benjaminiano di una traduzione ironica e infinitamente provvisoria,come voleva, ancora e sempre, il filosofo tedesco – e necesssariamente parodica, si potrebbeaggiungere – che consente al proprio mezzo linguistico (familiare, domestico) di farsi efficamenteaprire e visitare, e fino a rilasciare inedite possibilità espressive, da un altro mezzo linguistico(estraneo, foresto), è non solo religiosamente rispettato, ma intensamente praticato fino a dimostrarecome lo scopo ultimo di ogni traduzione non possa essere che “quello di esprimere quel rapporto direciprocità con altre lingue senza del quale una lingua non sarebbe nemmeno tale”.5

Nella ricetta “Tordi colle olive”, la formula di cottura rimanda a quanto già detto per i“Piccioni in umido”: essa è dunque assai sbrigativa. Come spesso accade, nell’Artusi, le“istruzioni” sono precedute o seguite (in questo caso seguite) da riflessioni d’ogni genere. Qui lascelta è caduta su di un aneddoto, per altro assai scipito, che viene a dimostrare come la massima

3 Ma anche rabelaisiano. Vedi, sempre per i tipi dell’Einaudi (2004), l’edizione “illustrata” da Della Casa di

Gargantua e Pantagruel.4 Queste “traduzioni” sono parafrasi della traduzione inglese del testo benjaminiano.Vedi Benjamin (1969),

rispettivamente alle pagine 78 e 76.5 Traduzione, anche qui assai libera, da Benjamin (1969), p. 72.

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“chi è più furbo è meno furbo” sia specialmente vera, quando il “personaggio” di cui si parla ètaccagno (“Per non cedere a furberia, o forse perché con essi quel signore si mostrava soltanto largoin cintura, “gliela vogliamo fare” gridarono [i camerieri] ad una voce...” La morale della favola èche il cliente si trova a mangiare sei tordi striminzi, anziché i sei “belli, freschi e grassi come ibeccafichi” da lui stesso recati al ristorante.

La soluzione del mistero si legge a pagina 272 de La scienza in cucina e a tale luogorimando volentieri il lettore curioso. Qui preme notare che assolutamente nulla di tutto questoemerge dal gouache di Della Casa (che tra l’altro, è, come anche tutte le altre, una tavola fuori testo,inserita a distanza di diverse pagine dal brano di testo cui dovrebbe corrispondere). Il Della Casaprende l’Artusi in parola, e accoltane la provocazione, gliela, ma più opportunamente, ce larestituisce traformata in idillio. Il tordo di Giuliano Della Casa è vivo e se ne sta appoggiato a unramo di olive che ha piuttosto l’aspetto di un ideogramma filiforme, lungo il quale si rinoscono lebacche verdi dell’ulivo, è chiaro, ma anche una ‘g’ minuscola (la stessa che compare nella firmadell’artista) e, dulcis in fundo, dei numeri. Dei numeri? Si perché la ‘g’, ripetendosi, ha finito conl’assomigliare a un due (sono due anche le olive sul ramo) e il due non può stare senza il tre. Maqui, per buona misura c’è anche il quattro. E sul mistero che in quest’ultimo si annida (sempre ditordi si tratta) non saprei profferire verbo. Tutto questo è assurdo? Ben inteso. Solo l’assurdo potevarimettere in moto la macchina artusiana, ma che dico rimettere in moto? Farla correre a Monza... aIndianapolis. Chi ha mai visto un libro di cucina “illustrato” in questo modo, lanci la prima pietra.

C’è di più, naturalmente. Anzi ce ne sono due... due “di più” su cui abbiamo scelto disoffermarci, che altri ancora se ne potrebbero elencare.6 Il primo riguarda il fatto che il cibo, graziealla bacchetta magica di Della Casa, viene restituito alla primigenia inspiegabilità e defunzionalitàdella natura. Il che significa proseguire (e trasvalutare) l’insegnamento dello stesso Artusi il cuihumour culinaire, ha scritto Piero Camporesi, “pose finalmente fine... all’aspetto truce che leoperazioni coquinarie portano fatalmente con sé, come se a questa “scienza” sia negata laredenzione dall’antico peccato originale nel quale quotidinamente ricade”.7

Parallelamente a quanto descritto due paragrafi or sono, nell’ultima edizione nord-americana,8 cui abbiamo più sopra accennato (anche su questa Della Casa ha lasciato la suainconfondibile impronta) ci imbattiamo in un pesce gatto che nuota disinvolto su di un piatto aibordi del quale ha trovato comodo ospizio anche una rana. Sopra entrambi volteggia (zig-zaga?)una farfalla o, se non proprio una farfalla, certo un insetto meraviglioso.

Viene in mente, mi auguro non a sproposito, quanto confessava il poeta romagnolo ToninoGuerra, reduce dai campi di concentramento:

Cuntént própri cunténta sò stè una masa ad vólti tla vóitamó piò di tótt quant ch’i m’a liberèin Germania

6 Un terzo “di più” ebbe essere costituito dalla disposizione assolutamente perversa delle tavole nel testo. Non

una di esse accompagna una precisa ricetta, come usa, nei manuali “ufficiali” di gastronomia. Il muso di un porcelloappare a metà della sezione dedicata dall’Artusi alla cottura del pesce, per esempio.

7 Vedi la sua introduzione alla citata edizione einaudiana (I millenni), p. LXI. L’affermazione dello studioso èpreceduta da un elenco di formule stereotipe del gergo cucinario: “pulite e disossate”, “pulite e sventrate”, ... “scorticatee sventrate”, “spellate e sventrate” e dall’osservazione che “questo cursus rituale ... conserva nelle sue glaciali formulelinguistiche da obitorio qualcosa del momento sacrificale e della ritualità dell’assassinio della vittima predestinata”, p.LX. È “idillica”, in Della Casa, perfino la tavola delle braciole.

8 In Nordamerica le edizioni artusiane, cioè manuali di gastronomia “emunti” dall’Artusi sono cominciate nel1939. Un’edizione “defintiva” è apparsa nel 2003 a Toronto (University of Toronto Press, a cura del sottoscritto, e contavole, come si è detto, di Giuliano della Casa). Unico dispiacere: la parsimonia con cui l’editore canadese si è avvalsodell’opera di Della Casa: otto tavole in tutto, contro le 24 dell’edizione einaudiana.

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ch’a m sò mèss a guardè una farfàlasénza la vòia ad magnèla.9

L’idea di mangiare, a dire vero, non passa neanche per l’anticamera del cervello di chi guarda (evede) quel che Della Casa gli ha messo davanti agli occhi. In questa pagina lievita una dolcezzacontemplativa che l’irriverente didascalia (“fritto di pesce gatto come in Luisiana” – di cui non ètraccia nel testo artusiano – e “come in rane fritte alla fiorentina”) non solo non scalfisce, maaddirittura incrementa. Dove ci troviamo? Siamo in cucina o in qualche estuario o fossato o lago?Forse in tutti e due. Una tenerezza campestre, un sapore di passeggiata, annulla completamente lamaledizione della necessità che inerisce al dettato culinario (anche quello alleggerito dell’Artusi).

Il secondo “di piu” è lo “straniamento locativo”, l’elemento fuorviante che ammorbidiscel’atmosfera neo-positiva, avvocatizia che trapela ogni tanto nel testo artusiano. Se Della Casaaffronta il tema “ciliege” possiamo star certi che il loro nitore assoluto verrà esaltato a tutti i costi:la loro esuberanza cromatica travolge, nel libro, ogni logica figurativa: dipinte su di una cartaappesa al muro esse sono contemplate da un barattolo (rosso) che dovrebbe contenerle: le ciliegie,in altre parole, sono “esposte” e il barattolo non è che un visitatore discreto e mogio... e intimiditodal trovarsi in un museo. Per un cocktail... un coppa di cristallo attende due ciliegie che paionoimpegnate in un duello, quanto meno in una logomachia. È certo che queste ciliege non si farannomai avvilire dalla tentazione di un Whiskey Sour.

Siamo alle prese con le salse? Si tre diverse salse: salsa di acciughe, maionese e salsa dipomodoro. Ma ecco, prima di tutto in mezzo alla pagina ci sono tre vasi vuoti (e più adatti alleconserve che alle salse)... le salse ci sono, si, ma sono appena accennate: tre macchie, trepozzangherine su cui “posano” o navigano i tre rispettivi contenitori.

Ma di questo straniamento l’esempio più significativo è forse la tavola con frigorifero eferro da stiro. Qui all’elemento spaziale si aggiunge uno scarto temporale, visto che ai tempidell’Artusi, questi elettrodomestici erano di là da venire. Un “filologo” dell’illustrazione si sarebbespinto fino alla cucina economica e alla ghiacciaia... ma al frigorifero non avrebbe certo pensato.Dunque cosa ci fa qui questo frigorifero accolto in una sua mandorla alonata quasi si trattassedell’apparizione della Madonna di Pompei o di Fatima o di Guadalupe? Forse si tratta proprio diquesto: di una profezia visuale, suscitata dal gusto delle tre “frittelline” numerate che occupano,modestamente, la parte in alto a sinistra della tavola. E non lo suggerisce anche la didascalia (didifficile lettura) che le accompagna: “Fatemi sognare frittelline mie”. Ma sognare una Madonnafrigorifero! Dove andremo a finire?

Meglio: dove andremo a non finire? Perché quando si passa da un’arte per modo di dire,quale quella dei fornelli, a un’arte reale, quale la pittura per acquerelli di Giuliano Della Casa, a ogni“lettura” ci si imbatte in arrivi provvvisori sempre diversi che scatenano, ogni volta, partenzeulteriori. Limitiamoci dunque, per concludere, a dire anche noi provvisoriamente, e anzi a ribadire,che, oggi (in effetti dal 2001), La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene senza Giuliano DellaCasa non si può.

Testi citati

Benjamin (1969)Benjamin, W., Illuminations, New York, Shocken Books, 1969

Guerra (1992)Guerra, T., Il Polverone, Rimini, Maggioli editore, 1992

9 Contento proprio contento / sono stato molte volte nella vita / ma più di tutte quando mi hanno liberato / inGermania / che mi sono messo a guardare una farfalla / senza la voglia di mangiarla. Vedi “La farfàla”, in Guerra(1992).

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GIUSEPPE PALUMBOIl ruolo centrale della traduzione specializzata nell’evoluzione

degli studi sulla traduzione1

IntroduzioneL’esplosione di studi sulla traduzione, definitivamente affrancatasi dal legame con gli studi

letterari e ormai osservata e discussa dalle prospettive più disparate, conferma il superamento siadella tradizionale visione del traduttore come figura solitaria sia della traduzione come processomeccanicistico, rapporto tra due “oggetti” meramente linguistici tra i quali stabilire un’equivalenzadi natura non meglio specificata. Un approccio tendenzialmente funzionalista è acquisito, pur convari distinguo, dalla maggioranza degli studiosi, ma se quell’approccio operava ancora in unaprospettiva essenzialmente testuale, oggi le ricerche si concentrano anche su altre dimensioni, inprimis quella cognitiva (studi sulla traduzione come processo) e quella sociologica (studi sullecondizioni di lavoro dei traduttori, sulla traduzione come “catena produttiva”, sulle aspettative deidestinatari, e così via), dimensioni che, pur quando rimangono lontane da una tradizionaleattenzione agli aspetti meramente linguistici, finiscono spesso con avere ricadute significative anchesu questi ultimi. Un lavoro come Robinson (2003), tanto per citare un esempio, fa della traduzione,analizzata anche nei suoi numerosi aspetti di contorno e anzi spesso proprio a partire da quelli, uncaso esemplare di atto linguistico, fenomeno nel quale (come del resto già confermavano gliapprocci funzionalisti appena ricordati) diventa evidente la tendenza della lingua ad agire (“doing”)sui destinatari e non semplicemente a trasmettere (“saying”) contenuti informativi. La traduzionediventa dunque paradigma del funzionamento della lingua tout court, specchio attraverso il qualediventa possibile esaminare le modalità e le implicazioni di ogni atto di comunicazione.

Tutto ciò ha portato a riconsiderare in maniera talvolta radicale le modalità secondo le qualiun traduttore sceglie, in lingua di arrivo, un equivalente per un determinato elemento (parola, frase,capoverso, intero testo) della lingua di partenza. Che la scelta avvenga in base alle considerazionipiù disparate è cosa ovvia per molti di coloro che la traduzione la praticano a livello professionale,ma forse i tentativi di spiegare la traduzione esclusivamente facendo ricorso a una prospettivalinguistica, magari improntata a un più o meno rigido formalismo, hanno in passato a lungoimpedito un’analisi lucida dei fenomeni traduttivi e dei fattori che concorrono a determinarli. Negliultimi decenni, tuttavia, la nascita dei Translation Studies come disciplina ha portato al centro deldibattito una fondamentale domanda (“Quali sono le modalità secondo le quali il traduttore opera lesue scelte e quali fattori condizionano tali scelte?”) cui si tenta di dare una risposta conspregiudicatezza metodologica e senza timori reverenziali nei confronti delle discipline affini, apartire proprio dalla linguistica.

La traduzione specializzata si è affermata come uno dei filoni di ricerca principali all’internodella più vasta area dei Translation Studies. Sono ormai lontani i tempi in cui il testo specialisticoveniva visto, anche in ottica traduttiva, come caratterizzato essenzialmente da una elevata densità ditermini tecnici. La ricerca linguistica e, in parallelo, quella sulla traduzione hanno ormai assodatoche la peculiarità del testo specialistico va cercata tanto nel lessico quanto nelle sue particolaricaratteristiche morfosintattiche. L’attenzione degli studiosi, tuttavia, è andata anche al di là dellivello frastico, estendendosi alle caratteristiche testuali e, in tempi più recenti, alla valenza retorico-pragmatica degli enunciati che compongono i testi. Ci si è in definitiva allontanati definitivamenteda una visione del testo specialistico parcellizzata e isolata dal contesto socio-culturale e si èapprodati a una concezione più organica e articolata, incentrata sul testo come atto comunicativoche non prescinde (ossia non può prescindere) dalla situazione sociale e culturale in cui è calato.

La pratica della traduzione a livello professionale ha, in un certo senso, seguitoun’evoluzione parallela, favorita dall’imporsi di mezzi di comunicazione inediti (tanto per fare un

1 Questo contributo è apparso, con un titolo diverso e con qualche piccola modifica al testo, nel numero 9 dellaRivista internazionale di tecnica della traduzione.

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esempio macroscopico, Internet). L’avvento del computer, in generale, ha rappresentato per latraduzione professionale un punto di svolta: con l’informatica le modalità di produzione e fruizionedei testi sono cambiate a tutti i livelli e questo non poteva non avere ripercussioni sull’attività di chiquesti testi li traspone in un’altra lingua e per culture, e mercati, diversi. La concezione stessa ditesto ne ha risentito (il menù di un’interfaccia software è un testo o no?) e, sempre a partire dallapratica, sono in alcuni casi usciti chiaramente allo scoperto i punti deboli o le lacune di quelleconcezioni teoriche della traduzione che vedono nella parola il proprio cardine. Le innovazioni nellatraduzione come professione, insomma, hanno sancito la consacrazione degli approcci teoricifunzionalisti più spinti - quali, per dirne uno, la Skopostheorie di H. Vermeer - che sono apparsidotati degli strumenti più adatti alla riflessione sulla traduzione come viene praticata oggi dai free-lance e dalle aziende specializzate del settore. Ovvio che gli ormai numerosi centri di formazionedei traduttori a vario livello facessero propri tali approcci, sebbene al loro interno siano spesso sortiaspri (e, perché no?, fecondi) conflitti con i “formatori” di estrazione letteraria.

La traduzione specializzata ha dunque fatto in un certo senso da anello di congiunzione tratendenze affermatesi in diversi campi: linguistico (si pensi all’attenzione data di recente al“discorso”e a i “generi testuali”), propriamente traduttologico (vedi la svolta “culturale”, quella“funzionale” e l’attenzione oggi rivolta agli aspetti etici e sociologici della traduzione),terminologico (gli studiosi si stanno chiedendo cosa sia un termine, come esso si leghi ai concetti ecome arrivi ad imporsi nell’uso), cognitivo (si guardino, ad esempio, gli studi sullacategorizzazione) e filosofico (in filosofia della scienza, ma anche in linguistica, è stato indagato dapiù autori il rapporto tra lingua ed epistemologia, fino ad individuare, nei testi scientifici, unaretorica parallela a quelle di altre discipline).

In questo contributo propongo una breve ricognizione di alcuni concetti che hanno animatoil dibattito sulla traduzione negli ultimi decenni, scelti tra quelli che hanno apportato, e chesembrano poter apportare in futuro, spunti innovativi di discussione e di analisi per quanto riguardain particolare la traduzione specializzata, il cui studio ha contribuito in maniera decisiva allacomplessiva maturazione della disciplina dei Translation Studies. In particolare, mi interessa vederecome tali concetti (essenzialmente due: le “norme traduttive” e la “competenza traduttiva”) possanoessere applicati su due distinti versanti, quello della didattica e quello della pratica professionale,nella convinzione che la riflessione teorica sulla traduzione possa avere non poco da offrire tanto achi è già oggi chiamato a fornire, sul campo, servizi di mediazione linguistica e culturale quanto achi si sta preparando a farlo.

La prospettiva sociologicaUn utile punto di partenza, in base a una prospettiva eminentemente sociologica, è la presa

d’atto della dimensione collettiva del lavoro di traduzione. Molti testi tradotti sono in effetti ilrisultato di un lavoro a più mani, anche quando non sono presentati come tali: un traduttore ha oggila possibilità di chiedere aiuto ai colleghi attraverso canali un tempo non disponibili, come lemailing-list, canali che creano veri e propri gruppi virtuali di professionisti in costante contatto gliuni con gli altri; se usa una memoria di traduzione, il traduttore può riutilizzare il lavoro fatto daaltri in passato e confluito nella memoria; in determinati ambiti, come quello dei servizi editoriali odella localizzazione del software, può contare sulla collaborazione di tutti gli altri operatoricoinvolti nel progetto di traduzione. La capacità di relazionarsi con i colleghi, di chiedere aiuto e dirivolgersi alle persone giuste viene anzi ormai vista da non pochi studiosi come parte intergrante delbagaglio di competenze minimo del traduttore professionista.

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Ma si potrebbe andare oltre, e osservare come ormai i processi di automazione stianospostando l’attività di traduzione verso una specie di “cervello diffuso”2 (sia esso una comunità on-line, il server di un’azienda o l’intero World Wide Web) del quale i singoli traduttori possono esserevisti come singoli neuroni, punti di smistamento (nevralgici, ma per quanto ancora lo rimarranno?)di un’immensa offerta di traduzioni già disponibili sotto forma di memorie di traduzione, banchedati terminologiche, dizionari, enciclopedie, corpora e, non ultime, le pagine web raggiunteattraverso i motori di ricerca, questi ultimi per certi versi ormai infinitamente più utili di qualsiasidizionario.

Non si tratta, come si può vedere, della traduzione automatica come ce la si immaginavafino a pochi anni orsono, ma di qualcosa di ben più affascinante e, probabilmente, di molto piùefficace, perlomeno in termini di produttività. Dal punto di vista del dibattito sulla qualità delletraduzioni, è interessante notare come, almeno per il momento, i processi di automazione sisviluppino in senso contrario al percorso seguito dalla riflessione teorica: se questa ha spostatogradualmente la sua attenzione dalle unità minime al testo, le più diffuse applicazioni software sonoattualmente imperniate sulla corrispondenza tra unità frastiche e terminologiche, anche se non sonoaffatto da escludere progressi che consentano al software di superare questa barriera e arrivare altrattamento di segmenti testuali ben più ampi.

Ancora in prospettiva sociologica è interessante notare come, mentre il lavoro di traduzionesi distribuisce a una “squadra”, al singolo traduttore venga oggi demandata una pluralità di compiti,molti di quali posti al di fuori di quello che una volta era percepito come il nucleo caratterizzantedella sua attività, ossia la trasposizione di testi, di materiale linguistico:

The translator needs to develop the expertise of a project manager, a computer scientist, adocumentalist, a DTP specialist, a terminologist, a language engineer, an evaluator, alocalizer, and a technical writer.3

Va ricordato tuttavia, che le ultime linee di sviluppo del mercato della traduzione lasciano presagireun ritorno alle mansioni prevalentemente linguistiche, pur in un quadro di spiccata vocazionetecnologica. Esselink (2005), ad esempio, spiega come negli anni a venire la gestione delle memoriedi traduzione, di cui i traduttori sono attualmente responsabili, verrà assunta esclusivamente dalleaziende, lasciando al traduttore il compito di dialogare con il server nel quale la memoria risiede edi concentrarsi sul controllo di qualità delle corrispondenze offerte dalla memoria (col rischio cheegli perda di vista la dimensione testuale, spesso indispensabile per valutare la bontà di unasoluzione traduttiva).

Il dibattito sulle “norme” traduttiveIn qualsiasi settore egli operi, quella del traduttore può essere vista come una “‘norm-

governed’ freedom”.4 Lasciato (per il momento?) da parte il dibattito sull’equivalenza, diversistudiosi della traduzione si sono in effetti dedicati all’osservazione e all’analisi delle convenzioni,delle tendenze o delle attitudini (in breve delle “norme”, osservate descrittivamente) che regolanol’attività del traduttore, studiandole a partire da una prospettiva non linguistica ma socio-pragmatica. Tra i primi a impegnarsi in tale ricerca è stato Gideon Toury (1980) e (1995), che haaperto la strada a un notevole numero di studi, alcuni dei quali si sono innestati, talvoltaabbandonando la prospettiva esclusivamente sociologica, sul filone delle ricerche sugli universalidella traduzione e sullo sviluppo e le modalità di acquisizione della competenza traduttiva. Mafermiamoci, per il momento, a illustrare brevemente la proposta di Toury e a vedere come essa siastata discussa e integrata in lavori successivi, in particolare quelli di Simeoni (1998) e Robinson(2003). Sullo sfondo del dibattito sulle norme c’è l’idea che il giudizio di qualità sulla traduzione

2 Cfr. i concetti di “elusive, composite epistemic subject”, di “virtual authorship” e di “collective

constructionism” di cui parla Simeoni (1998), p. 36.3 Rico Pérez (2002).4 Robinson (2003), p. 89.

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non può non essere influenzato da quelle che si ritiene siano le convenzioni che, più o menotacitamente, regolano l’attività dei traduttori in un dato periodo storico e in un dato segmento socio-professionale.

Il modello di Toury è di chiara impronta sociologica: allo studioso interessa vedere in chemodo i traduttori arrivino a conformarsi alla prassi che regola il particolare settore della società incui essi sono professionalmente impegnati. Le norme possono essere viste come strategie che itraduttori, in una data situazione socioculturale, tendono a scegliere al posto di alte strategie purpossibili. Nella definizione di Hermans (1995),5 uno degli studiosi che hanno sviluppato le idee diToury, le norme sono

internalized behavioural constraints which embody the values shared by a community and governthose decisions in the translations process which are not dictated by the two language systemsinvolved.

Definizione nella quale è evidente lo spostamento della prospettiva dall’equivalenza linguistica etestuale ai meccanismi che determinano le scelte del traduttore.6

Il lavoro di Simeoni (1998) riprende, rielaborandolo e in parte criticandolo, il modello diToury. L’enfasi rimane sulla pratica del tradurre, piuttosto che sui testi, ma il baricentro si spostadalla forza normativa della prassi alla rielaborazione che di questa fa ogni singolo traduttore:concetto centrale per Simeoni (1998)7 è quello di habitus, visto come “elaborate result of apersonalized social and cultural history”. Al modello di Toury Simeoni imputa la mancanza diquattro aspetti giudicati cruciali:1) una esauriente spiegazione delle modalità di apprendimento e interiorizzazione delle norme;2) una illustrazione dei meccanismi di trasmissione delle norme;3) il riconoscimento della libertà di movimento del traduttore, se non altro di fronte alla scelta dellanorma da preferire qualora egli si trovi di fronte a norme in conflitto;4) una visione complessa della dimensione sociale in cui si trova ad operare il traduttore e dellemodalità secondo cui tale dimensione viene interiorizzata.

Gli elementi che qui ci interessano più da vicino sono quelli richiamati ai punti (2) e (4).Come tiene a sottolineare Robinson (2003),8 al quale si deve anche la schematizzazione dellecritiche rivolte da Simeoni a Toury, nell’essere trasmesse le norme possono anche subire leggeremodifiche. I “portatori” delle norme, in altre parole, possono, nel tramandarle, introdurvi deglielementi personali, e altrettanto può fare chi le norme le riceve, apprendendole e interiorizzandole;il tutto in base a un processo che Robinson vede come caratteristico di ogni atto di trasmissione dienunciati linguistici o di pratiche sociali:

translation norms arise out of the structured/structuring interactions of the marketplace, notout of the work or committees or other decision-making bodies to which translators mightbe appointed as the representatives of “practitioners” or some such.9

Ciò lascia intravedere un margine di movimento molto più ampio di quello ipotizzato daToury, margine evidente anche nella facoltà di scegliere norme diverse, specie laddove esse siano inconflitto tra loro. Ed è interessante notare, da questo punto di vista, come Robinson (2003),10 nelriprendere la critica di Simeoni, faccia riferimento non all’etereo mondo della traduzione letteraria

5 Hermans (1995), p. 216.6 Alle “norme” è dedicato anche un lavoro di Chesterman (1993; v. anche 1997), in cui si adotta una

prospettiva sociologica ma si rende conto anche della dimensione testuale. Nella categoria delle “professional norms”,infatti, Chesterman inserisce anche le “relation norms” basate sul criterio del mantenimento di un rapporto diequivalenza tra testi di partenza e arrivo. La proposta di Chesterman è scopertamente prescrittiva, ancorché di unprescrittivismo probabilistico, ossia basato sull’osservazione delle regolarità rintracciabili nel comportamento deitraduttori.

7 Simeoni (1998), p. 32.8 Robinson (2003), pp. 86-87.9 Ivi, 87.10 Ivi, p. 88.

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(mondo che forse poi tanto etereo non è) quanto alla attività quotidiana del traduttore free-lance alleprese con i committenti e gli incarichi più diversi:

the same freelancer may be asked in the course of a single month to do a back-translation,sticking as closely as possible to the original syntax to show the client whether the originaltranslation was properly done; to localize a piece of software […]; to give a client the gist ofa letter over the phone; an to edit the work of another translator. What are the norms of thistranslator’s behaviour?

La competenza traduttivaTorniamo, insomma, a uno dei nostri punti di partenza, vale a dire all’esplosione di compiti

diversi demandati al traduttore (e, conseguentemente, delle competenze che gli si richiedono).Esplosione che lo rende operatore giocoforza flessibile e magari anche più aperto a considerare,nota Simeoni (1998),11 le istanze dei Translation Studies, cui non pochi traduttori professionistiguardano tradizionalmente con diffidenza. Secondo Simeoni, anzi, il mondo della traduzione ètroppo aperto e variegato perché si possa parlare, come invece tendeva a fare Toury, di normemonopolizzate da una ristretta cerchia e imposte a chi intende entrarvi. Se si accetta questa riserva,

it will be difficult to envisage actual products of translation as anything more than theresults of diversely distributed social habituses, or, specific habituses governed by the rulespertaining to the fields in which the translation takes place. Not the field of translation, butthat of heteronomous (literal, scientific, technical legal, etc.) production.12

Questo a sua volta, ci ricollega alla visione della traduzione come lavoro essenzialmente disquadra, dato che sono rari i casi di traduttori che siano al contempo figure attive nel campo in cuila traduzione si colloca.13 Sono molto più frequenti invece i casi di traduttori che si specializzarononei testi di un dato settore, ma è evidente come essi non diventino specialisti tout court del campo,bensì professionisti capaci di orientarvisi e magari di sapere entrare, a fini di documentazione e diconsultazione, in relazione proficua con chi vi opera (qui, in fondo, sta l’essenza della dimensionefortemente collaborativa della traduzione specializzata). Tutto ciò si badi bene, non vaassolutamente inteso nel senso di un ridimensionamento della figura del traduttore, bensì (eall’opposto) come tentativo di identificarne le prerogative, i tratti distintivi che lo presentano comefigura specializzata nel mediare tra lingue e culture (anche culture settoriali e specialistiche)diverse.

Altra conseguenza dell’osservazione di Simeoni appena riportata è il fatto, messo in lucedallo stesso studioso, che probabilmente le decisioni stilistiche (lessicali, retoriche e relativeall’organizzazione testuale) prese dai traduttori sono una funzione delle differenze esistenti tra glihabitus specializzati dei vari settori cui i testi da tradurre afferiscono. In altre parole, l’approccio diciascun traduttore tenderà a variare a seconda del settore in cui egli opera. La traduzione viene cosìa configurarsi come mosaico di attività e abitudini diverse, nessuna delle quali esaurisce in sé, presasingolarmente, le caratteristiche del campo più vasto che chiamiamo appunto “traduzione”. Se leattività sono diverse, tuttavia, comune sembra la predisposizione (o la capacità, che dir si voglia) aindividuare di volta in volta i fattori preminenti dell’atto di trasposizione linguistica e culturale,secondo una definizione minimalista di competenza traduttiva che riecheggia la definizioneproposta da Pym (2002) ma che, a differenza di questa, recupera in maniera più esplicita il ruolo deifattori socio-culturali. Pym infatti vedeva nella capacità di selezione l’essenza dell’attività deltraduttore ma, forse nel timore di complicare la definizione, non specificava la natura del fattori cheguidano la selezione: il riferimento di Simeoni all’habitus (quello proprio del traduttore e quello del

11 Simeoni (1998), pp. 13-14.12 Ivi, pp. 19-20; corsivo nell’originale.13 Uno dei settori in cui accade più spesso che a tradurre un testo specialistico sia uno specialista del campo

stesso è la medicina. Si tratta, tuttavia, di una mia impressione personale non suffragata da indagini statistiche, che forsesarebbe interessante condurre per capire, tra le altre cose, se vi siano settori che, per l’elevato grado di specializzazioneo magari per evitare intrusioni nella categoria, tendono a “respingere” i traduttori.

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settore cui la sua attività afferisce) permette forse di chiarire di che natura possano essere talifattori.14 Anche se è difficile “to even conceive of a distinct ‘community’ of translators” (Simeoni1998),15 è tuttavia possibile rintracciare capacità che sembrano caratterizzare l’attività traduttiva intutte le sue pur diverse manifestazioni, capacità fra cui lo stesso Simeoni (1998)16 annovera quella“adaptive faculty” cui si richiama la definizione di “competenza” appena proposta.

Ricadute sulla didattica e sull’ethos professionaleCome possiamo, in base alle necessariamente brevi e schematiche considerazioni fatte

prima, riconfigurare i vincoli che agiscono sull’attività del traduttore, in particolare nel campo dellatraduzione specializzata? Primo passo verso questa riconfigurazione può essere quello di liberare iltermine stesso, “vincolo”, da qualsiasi connotazione negativa, vederlo nel senso non di costrizionema di fattore che concorre a determinare una serie di scelte, nel quadro di una visione dellatraduzione come processo decisionale basato su considerazioni di carattere funzionale e contestuale.

Ogni incarico di traduzione può essere allora visto come rientrante in un “progetto”,delineato esplicitamente o implicitamente, che fissa le coordinate in base alle quali il traduttore (echi collabora con lui) opera le proprie scelte: coordinate stilistiche, testuali ma anche situazionali,ossia legate alle condizioni di lavoro (tempistica, disponibilità e tipo degli strumenti diconsultazione, possibilità di consultare colleghi) e alle aspettative dei destinatari, alle conoscenzepregresse del traduttore sull’argomento trattato nel testo e ad altri fattori eterogenei quali la lineaeditoriale, le implicazioni etiche del lavoro di traduzione, le aspettative del committente, ecc. Ivincoli insomma nascono non solo dal testo ma anche da tutta una serie di fattori extratestuali; iltraduttore è dunque spesso “libero” nei confronti del testo, ma vincolato da fattori soloapparentemente estranei ma di fatto cogenti e – considerazione non secondaria – di volta in voltadiversi.

Nella traduzione specializzata, a fare da contraltare a questo generale accoglimento delleposizioni funzionaliste o comunque fondate su una visione dinamica dell’equivalenza traduttiva,hanno contribuito a lungo gli studi in campi affini quali la terminologia e la linguistica. Interminologia ha dominato per decenni il paradigma wüsteriano, che aveva nell’esattacorrispondenza tra termine e concetto un suo caposaldo. In linguistica, non pochi studiosi hanno inpassato presentato della lingua tecnico-scientifico un’immagine idealizzata, poco rispondente alvero, ossia quella di una lingua neutra, monoreferenziale e, in definitiva, “oggettiva”; immagine, èinteressante notare, che molti studenti di traduzione sembrano ormai aver introiettato, cometestimonia, ad esempio, lo studio illustrato in Sevilla Muñoz (2004).17

Queste posizioni hanno contribuito non poco a far figurare la traduzione specializzata comeun’eccezione in un quadro generale pur fondato sull’abbandono del meccanicismo. Come moltitraduttori sanno, tuttavia, e come diversi studiosi hanno cominciato a far notare, anche la traduzione

14 Più di recente lo stesso Pym (2004) ha riveduto la sua definizione: abbandonata la pur elegante

individuazione del criterio della selezione come principio fondante dell’attività traduttiva, lo studioso delinea un quadroin cui le scelte traduttive sono compiute in ottica perlopiù extralinguistica, facendo del “rischio” associato alle diversecomponenti di un testo il cardine delle scelte operate dai traduttori, in base al seguente principio: il traduttore concentrai propri sforzi sugli elementi che sono a più alto rischio nell’economia complessiva del testo.

15 Simeoni (1998), p. 26.16 Ivi, p. 31.17 Nello studio di Sevilla Muñoz (2004) si presentano i risultati di un sondaggio svolto, in Spagna, tra gli

studenti di alcuni corsi universitari di traduzione tecnico-scientifica e volto a identificare quelle che, per loro, sono leprincipali caratteristiche della lingua tecnico-scientifica e le maggiori difficoltà legate alla traduzione di testi incentratisu argomenti tecnici o scientifici. I tratti che la maggioranza degli studenti identifica, tra cui la precisione linguistica el’universalità e univocità terminologiche, sono, guarda caso, gli stessi appena citati a proposito dell’idealizzazione dellalingua della tecnica e, soprattutto, della scienza. Sarebbe stato interessante vedere che ruolo giocano nelle rispostefornite dagli studenti la loro esperienza diretta della lingua tecnico-scientifica e quelli che invece possiamo ipotizzareessere i giudizi indotti dalla consultazione delle opere di linguistica cui gli studenti hanno presumibilmente avutoaccesso nel loro corso di studi. Sevilla Muñoz stesso, in ogni caso, è concorde nel ritenere quella espressa degli studentiun’immagine riduttiva e poco aderente alla realtà.

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specializzata è fondata in buona parte su strategie e modalità operative dinamiche se non addiritturaincentrate sulla stessa creatività solitamente associata a tipi di traduzione molto diversi (e didinamismo si parla apertamente ormai anche in terminologia – cfr. ad esempio Temmerman (2000)e Ahmad (2002) – mentre la linguistica, come si ricordava in apertura, è approdata a una concezionepiù problematica della lingua specialistica, cominciando a rilevarne le componenti socio-pragmatiche e presentandole non come aspetti marginali ma come tratti costitutivi).

In sede didattica, fare riferimento a questo quadro che vede i fattori contestuali comepreminenti nel processo decisionale del traduttore appare dunque non un corollario del percorsoformativo ma un suo elemento cardine. Anzi, il riferimento alla dimensione socio-pragmatica puòessere talvolta, per il docente, l’unico modo di cavarsi di impaccio di fronte chi è ansioso di sapereperché una dato equivalente può essere considerato migliore di altri, pur possibili (magari gli uniciproposti dai dizionari). Se ciò può far temere a qualcuno che a risentirne sia lo sviluppo dellecompetenze linguistiche (viste come primo passo nella preparazione dei traduttori, fase preliminarealla fine della quale, e solo allora, si può cominciare a tradurre), gioverà forse ricordare che latraduzione può essere un efficacissimo strumento di apprendimento linguistico proprio perché portaallo scoperto la dimensione essenzialmente “performativa” della lingua.

Ma non solo: il fatto che ormai la traduzione possa essere considerata, seppure in unaprospettiva “virtuale”, un’attività collettiva, svolta cioè coniugando competenze individuali ecompetenze “diffuse”, dovrebbe forse spingerci a riconsiderare alcuni specifici aspetti dellaformazione. In particolare, sarebbe forse opportuno inserire a pieno titolo nei percorsi formativiquesta nuova dimensione e sforzarsi di individuarne quegli aspetti da discutere criticamente oquantomeno da far presente agli studenti perché ormai facenti parte a pieno titolo del bagaglioprofessionale dei traduttori.

Oltre che in sede didattica, il quadro delineato fin qui potrebbe dare un contributo anche insede di costruzione di una identità professionale “forte” del traduttore, identità da imperniare non(solo) sulle competenze linguistiche ma anche sulla più volte richiamata attitudine a gestire lacomunicazione interculturale. In una orgogliosa rivendicazione come quella di Scarpa (2004),18 delresto, questa componente figura già in maniera preminente: secondo la studiosa, infatti, tra lecompetenze che costituiscono lo specifico della traduzione non possono mancare né la capacità dimediazione culturale, né la capacità di riflessione sulla propria attività di traduttori, né, infine, lacapacità di adeguare il proprio metodo di lavoro ai bisogni del mercato (cfr., a proposito diquest’ultima, la “adaptive faculty” richiamata sopra). Ed è su queste basi che i traduttori (aiutatimagari dagli istituti di formazione) possono assumere, nei confronti dei committenti un ruolopropositivo, attenuando l'enfasi eccessiva che in alcuni casi l’industria pone sulla produttività ascapito della qualità.

Di tale consapevolezza, del resto, si stanno facendo portavoce anche gli stessi traduttoriattivi sul mercato, molti dei quali cominciano a notare lo scarto molto forte esistente tra il proprioideale di qualità e le aspettative dei committenti. Benis (2005),19 ad esempio, ricorda come iparametri presi in considerazione nell’eseguire i controlli di qualità sui grandi progetti di traduzionesiano tuttora ancorati ad una visione che fa del testo di partenza la “authority” ultima, lasciando cosìda parte quello che invece dovrebbe essere il criterio principale, ossia la “suitability for purpose”dei testi tradotti. Sempre Benis (2005),20 inoltre, fa notare come, nel promuovere un cambiamentodi prospettiva sulla qualità dei testi tradotti, i singoli traduttori, più che le grandi aziende, possanosvolgere un ruolo decisivo, “acting individually or in partnership to provide the specialist cross-cultural consultancy that the increasing number of clients who have got their fingers burnt withinappropriate communications now demand” (corsivo mio).

18 Scarpa (2004), p. 137.19 Benis (2005), pp. 27-28.20 Ivi, p. 30.

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Conclusioni?Più che a vere e proprie conclusioni, le sbrigative riflessioni fin qui esposte sembrano

condurre naturalmente a una serie di domande. Innanzitutto: come fare in modo che a tali riflessioni(a patto di trovarle valide e giustificate) sia dato non solo un posto ma anche il giusto rilievo neicorsi di formazione? Chi insegna si trova spesso in oggettiva difficoltà nel valutare la bontà di unascelta traduttiva proposta da uno studente: tale difficoltà può risultare proprio dalla mancanza di un“progetto” che, anche implicitamente, possa essere visto come insieme delle coordinate che guidanole scelte del traduttore. Tra le capacità di chi forma i traduttori non può non esserci, a mio parere,quella di immaginare diverse ipotesi di utilizzo e di fruizione per i testi oggetto delle esercitazioni.Da qui la necessità che i docenti possano contare su un certo bagaglio di esperienze di traduzione alivello professionale.

Seconda domanda: come si possono “educare” i committenti, spesso ancora legati a unavisione rigida e semplicistica dell’attività dei traduttori? In particolare, come far capire loro che inmolti casi il rischio non è legato a una mancata trasmissione di tutte le informazioni contenute in untesto quanto (tanto per rimanere su un parametro di valutazione che ormai viene universalmentericonosciuto in sede di riflessione teorica) alla mancata aderenza ai canoni stilistici e redazionali chegovernano quel determinato tipo di testo in lingua d’arrivo? A tale proposito si può notare unparadosso, relativo allo scarto tra le richieste qualitative del mercato (non di rado basse) e quelloche da diversi anni ormai si trasmette agli aspiranti traduttori in sede di formazione allorché li siavverte della necessità di prestare grande attenzione alle aspettative dei destinatari, ai canoniredazionali e così via. Laddove per il committente questi aspetti rimangano secondari, tutti gli sforzicompiuti in tal senso dal traduttore andranno persi e anzi potranno ingenerare un atteggiamento didiffidenza nel committente, che crede di non ritrovare nel testo di arrivo quello che vedeva nel testodi partenza.

Terza, e conclusiva, domanda: come assicurare che, in sede di formazione, venga rispettatoil delicato equilibrio tra le richieste del mercato, da un lato, e le istanze di salvaguardia della qualitàespresse dai formatori (e dai traduttori) più avvertiti? Su questo tema sono sorte in passato asprepolemiche tra istituti di formazione e rappresentanti del mondo produttivo, non di rado dovute a unamancata comprensione dei rispettivi ruoli. Il mondo accademico, tuttavia, sta compiendo uno sforzodi accoglimento delle prospettive più vicine alla reale attività dei traduttori, sforzo che, comeabbiamo visto, sembra ripagare anche nei termini di una più lucida analisi teorica dei fenomenitraduttivi.

Riferimenti bibliografici

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HANS HONNACKERLa traduzione italiana di Sebastian Haffner,

«Geschichte eines Deutschen»: problemi e curiosità1

Geschichte eines Deutschen di Sebastian Haffner ha suscitato scalpore non soltanto inGermania, ma in tutto il mondo, quando uscì postuma nel 2000. Per mesi il libro di Haffner era invetta alla classifica dei libri di saggistica più venduti in Germania. Al riguardo Volker Ulrich scrissein un articolo della “Zeit” del giugno 2001: “Über 170 000 Exemplare sind bereits verkauft. SeitMonaten besetzt das Werk Platz eins der Bestsellerlisten, und es wird vermutlich noch einige Zeitdort verweilen.“ 2 Anche in Inghilterra dove il figlio di Haffner, Oliver Pretzel, ha curato l’edizionecon il titolo Defying Hitler. A Memoir, Geschichte eines Deutschen ha riscosso un grande successo.3Non stupisce quindi che, solo un anno dopo la seconda edizione tedesca del libro di Haffner, siauscita anche una traduzione italiana che, come vedremo, denota alcune particolarità e qualchedifetto, riconducibili forse ai tempi stretti della pubblicazione della traduzione.

Prima di entrare nel merito della edizione italiana, vorrei fare alcune brevi osservazioniriguardo alla biografia di Haffner e alla storia editoriale della Geschichte eines Deutschen visto che,a mio avviso, sono rilevanti per la traduzione e la sua descrizione.

I. Storia editoriale1. Breve biografia di Sebastian Haffner

Raimund Pretzel, alias Sebastian Haffner, nato a Berlino nel 1907, conseguì il dottorato diricerca in legge prima di emigrare in Inghilterra nel 1938 dove lavorò come giornalista di “TheObserver”. Tornato in Germania nel 1954, scrisse per il giornale “Die Welt” e più tardi per la rivista“Stern”. Pubblicò una serie di bestseller storici: Winston Churchill (1967), Anmerkungen zu Hitler(1978), di cui il noto critico letterario Marcel Reich-Ranicki disse che era il libro migliore cheavesse mai letto su Hitler, infine Historische Variationen (1985) e Von Bismarck zu Hitler (1987).4Haffner si era dunque fatto un nome nel campo della saggistica storica. Insisto su questo fatto dalmomento che la ricostruzione delle attese dei lettori, determinata da altre opere dell’autoreprecedentemente uscite, è decisiva per una traduzione. Tornerò su questo in seguito.

2. Due edizioni di Geschichte eines DeutschenQuando Haffner morì nel 1999, suo figlio, Oliver Pretzel, che tuttora vive a Londra, scoprì

nel lascito di suo padre il manoscritto di Geschichte eines Deutschen, di cui non sapeva niente comeegli stesso scrive nella postfazione sulla storia editoriale della seconda edizione del 2002. La primaedizione apparve nel 2000 presso la casa editrice Deutsche Verlagsanstalt e suscitò un notevoleinteresse presso il grande pubblico nonché la stampa, cosa che colse lo stesso Oliver Pretzel disorpresa, “besonders da das [Buch] auch ja ein Torso ist und Mitte 1933 unbefriedigend abbricht,wo doch nachher so viel Schlimmeres noch folgte”.5

Nel 2002 seguì la seconda edizione con aggiunte, rese possibili dal ritrovamento di duemanoscritti da parte del giovane storico Jürgen Peter Schmied nell’archivio federale tedesco. Si

1 Il presente saggio è una versione modificata di una relazione tenuta al “Fünfundzwanzigstes Seminar:

Italienisch-deutsche wissenschaftliche Übersetzung” a Bolzano (11.-13. November 2004) ed in parte si basa sulla tesi dilaurea di Katia Abelli: “Wer deutsch ist, bei dem kann Hitler nicht weit sein”? Die “Geschichte eines Deutschen” vonSebastian Haffner und ihre italienische Übersetzung, discussa nel luglio 2005.

2 Volker Ullrich, in “Die Zeit”, giugno 2001 (www.zeit.de/2001/06/Kultur/200106_p-haffner.html).3 Cfr. Haffner (2002c). Questo vale anche per l’edizione francese, come ha confermato Oliver Pretzel.4 Accanto alla sua attività giornalistica per “The Observer”, Haffner compose nell’esilio inglese Germany:

Jekyll and Hyde (1940) e Offensive against Germany (1941) (v. a tale riguardo Haffner (2002b), p. 5, nota 1). Nel suorecente libro Begegnungen lo storico Joachim Fest fornisce un ritratto di Haffner ricco di spunti interessanti, sebbenenon sempre positivo (Fest (2004), pp. 21-54). In questo contesto va segnalata anche l’intervista sull’esilio inglese,condotta da Jutta Krug con Sebastian Haffner nel 1989 (Haffner (2004)).

5 Oliver Pretzel nella postfazione a Haffner (2002a), p. 303.

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tratta della mancante versione dattiloscritta dei capitoli 25 e 35-40 che proseguono il racconto finoal dicembre del 1933. “Mit diesen beiden Ergänzungen”, scrive Pretzel, “entspricht nun das Buch,bis auf das zurückübersetzte Kapitel 10, in vollem Umfang dem Zustand, den das Manuskript imHerbst 1939 hatte, als es beiseite gelegt wurde”.6

3. L’edizione italiana di Geschichte eines Deutschen e la traduzione italiana di Anmerkungenzu Hitler di Haffner

Come sopra accennato, l’edizione italiana di Geschichte eines Deutschen è uscita a maggiodel 2003 presso Garzanti di Milano, e cioè appena un anno dopo la pubblicazione della secondaedizione tedesca. Nel 2002 era apparso presso lo stesso editore Hitler. Appunti per una spiegazionedi Haffner, la traduzione di Anmerkungen zu Hitler (1978), che il noto politologo Gian EnricoRusconi presentava con queste parole:

È diventato un classico della letteratura pubblicistica che si occupa della figura e dellapersonalità del Führer. Può considerarsi un esempio di “pedagogia civile tramite la storia”,con le sue penetranti considerazioni che rispondono a un diffuso bisogno di conoscenza e digiudizio sia delle generazioni più giovani sia di quelle più anziane che continuano a chiedersi:“Chi era davvero Hitler? Come è stato possibile? Che posto ha nella storia tedesca? Puòpresentarsi di nuovo?”7

Anche in Italia quindi Haffner era conosciuto al pubblico come scrittore di almeno un saggio storicoprima della pubblicazione della Geschichte eines Deutschen – del resto la prima edizione diAnmerkungen zu Hitler era già apparsa nel 1979 con il titolo Il caporale Hitler erschienen.8 ClaudioGroff, ha sicuramente tenuto conto di questo libro nella sua traduzione di Geschichte einesDeutschen.

II. Tipologia testuale1. Saggio storico vs. autobiografia

Geschichte eines Deutschen. Die Erinnerungen 1914-1933 può essere considerata un saggiostorico, un’autobiografia o entrambe le cose? Nella classifica dei libri più venduti in Germania illibro di Haffner viene classificato come saggio storico quindi in un certo senso come un’operastoriografica o, come scriveva Joachim Fest in Anmerkungen zu Hitler, un testo di ‘saggisticastorica’). Tuttavia il testo denota palesi tratti tipici dell’autobiografia, avendo così differentifunzioni comunicative dominanti. Questo emerge chiaramente già dal capitolo introduttivo delracconto di Haffner:

Der Staat ist das Deutsche Reich, der Privatmann bin ich. Das Kampfspiel zwischen uns maginteressant zu betrachten sein, wie jedes Kampfspiel [...]. Aber ich erzähle es nicht allein umder Unterhaltung willen [..]. Mein privates Duell mit dem Dritten Reich ist kein vereinzelterVorgang. Solche Duelle, in denen ein Privatmann sein privates Ich und seine private Ehregegen einen übermächtigen feindlichen Staat zu verteidigen sucht, werden seit sechs Jahrenin Deutschland zu Tausenden und Hunderttausenden ausgefochten [...]. Ich will in diesemBuch nur erzählen, keine Moral predigen. Aber das Buch hat eine Moral, welche, wie das«andere und größere Thema» in Elgars Enigma-Variationen «durch und über das Ganzegeht» – stumm. Ich habe nichts dagegen, daß man nach der Lektüre alle die Abenteuer und

6 O. Pretzel, Vorbemerkung zur Taschenbuchausgabe, ivi, p. 5. Il perché mise da parte il manoscritto, Haffner

lo spiegava nel modo seguente: “Als der Krieg ausbrach, hatte ich das Gefühl, jetzt ist die Zeit zu ernst für diesepersönlichen, feuilletonistisch empfundenen Erinnerungen. Ich nahm mir vor, systematischer zu schreiben.” (v.Schmied (2002), p. 14). Si ricorda che, durante l’esilio di Haffner in Inghilterra, fu iniziata anche una versione inglesedi Geschichte eines Deutschen che però non fu mai pubblicata e non si sa chi ne fosse l’autore (O. Pretzel, Nachwort,Haffner (2002a), p. 294).

7 Haffner (2002b), p. 5. Rusconi accenna qui brevemente a Geschichte eines Deutschen senza tuttavia entrarenel merito della storia editoriale (cfr. ivi, p. 5, nota 1).

8 Haffner (1979).

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Wechselfälle wieder vergißt, die ich erzähle. Aber ich wäre sehr befriedigt, wenn man dieMoral, die ich verschweige, nicht vergäße.9

2. Differenti funzioni comunicative dominantiDa un lato Haffner esprime qui le impressioni personali dell’epoca (la funzione emotiva

nella terminologia di Roman Jakobson), dall’altro è convinto di poterle generalizzare, dando unquadro generale della situazione storica intorno al 1933 (funzione referenziale), al fine diconvincere il lettore della pericolosità del regime nazista (funzione conativa) – la morale„sottaciuta“ di cui Haffner parla, che doveva essere l’intenzione testuale originale. Infine non vadimenticata la funzione poetica che Roman Jakobson postula per testi letterari10 che, almeno percerti brani del testo di Haffner, deve essere tenuta in considerazione, come si mostrerà in seguito.Una traduzione deve tenere conto di queste diverse funzioni comunicative al fine di poter rendereadeguatamente il testo originale, fermo restando che l’intenzione testuale nella lingua di partenzanon deve necessariamente coincidere con quella della lingua di arrivo.11 In aggiunta, come nel casodi Geschichte eines Deutschen l’edizione tedesca apparsa postuma non ha più la stessa intenzionetestuale del manoscritto composto da Haffner alla fine degli anni Trenta. A ciò si dovrebbeaccennare in una breve prefazione di una traduzione. Il traduttore dovrebbe chiarire fin dall’inizio, aquale pubblico la traduzione è destinata (nel nostro caso: storici o, più in generale, un pubblico piùvasto con interessi storici), nel caso in cui questo non sia già stato precedentemente stabilito dal suocommittente.

3. Attese dei lettoriQuale aspettativa nutriva il pubblico tedesco, e non solo quello ben informato, riguardo

all’edizione di Geschichte eines Deutschen? Certamente, quella di un saggio storico, come fannopresumere le note opere sopra citate: Winston Churchill, Anmerkungen zu Hitler, HistorischeVariationen e Von Bismarck zu Hitler. Nondimeno i lettori interessati di storia conoscevano già unbrano del capitolo 25 che Haffner aveva messo a disposizione dello “Stern” nel 1983 in occasionedel cinquantesimo anniversario del boicottaggio degli ebrei, indetto dai nazisti il 1° aprile 1933. Ilpubblico della prima edizione tedesca aveva quindi avuto un ‘assaggio’ del modo di raccontaretotalmente diverso che Haffner stesso descriveva come soggettivo e feuilletonistico, se ad esempiolo si paragona con quello delle Anmerkungen zu Hitler. Questa forse è stata la ragione per cuiHaffner non ha voluto pubblicare (almeno non integralmente) Geschichte eines Deutschen finchéera in vita.

Per il pubblico italiano che il traduttore ha in mente vale un discorso simile: come dettosopra, Haffner era conosciuto in quanto autore di saggi storici di successo:12 Geschichte einesDeutschen, invece del tutto sconosciuto, viene però ugualmente presentato come saggio. Questo inbreve era quindi l’‘orizzonte di attesa’ dal quale il traduttore italiano ha preso le mosse.

III. La traduzione italiana di Geschichte eines Deutschen1. Elementi paratestuali

Prima di proporre in seguito una critica della traduzione italiana di Geschichte einesDeutschen, vorrei puntualizzare che non mi preme qui giudicare la traduzione di Claudio Groff, mapiuttosto descriverla e discuterla. Chiunque si sia cimentato anche solo una volta in un lavoro ditraduzione destinato alla pubblicazione, sa fin troppo bene in quali condizioni difficili un traduttoresi trovi spesso a lavorare, fatto che comporta sviste evidenti e, a volte, soluzioni traduttive curiose.

9 Haffner (2002a), pp. 10 sg.10 Per la funzione poetica si veda Schwarz / Linke / Michel / Scholz Williams (1988), pp. 21 sg. A tale riguardo

si confronti il giudizio di Oliver Pretzel: “[Das Manuskript] weist nicht den knappen Stil auf, den er sich als SebastianHaffner erarbeitet hat. Sein Stil ist vielmehr emotionaler und ›literarischer‹. [...] Es gibt aber ein graphisches Bild seinerZeit.” (O. Pretzel, Nachwort a Haffner (2002a), p. 302).

11 Cfr. a questo proposito anche Hönig/Kußmaul (19995), pp. 39 sg. e Kautz (20022), pp. 55 e 61.12 Cfr. a tale riguardo Gian Enrico Rusconi in Haffner (2002b), pp. 5 sgg.

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In questo contesto vorrei solo menzionare i tempi stretti e le condizioni contrattuali imposte daglieditori o dai committenti che, per motivi pratici di spazio, non permettono per esempio una pre- opostfazione, note a piè di pagina etc.

Sfogliando l’edizione italiana, colpisce subito la modifica del sottotitolo e della copertina dellibro di Haffner, non insolita nelle traduzioni ma, a mio avviso, significativa per la strategiaeditoriale. Il sottotitolo non è, come sarebbe stato da aspettarsi, “Le memorie (o i ricordi) dal 1914al 1933” (nell’originale: “Die Erinnerungen 1914 –1933”),13 ma “un ragazzo contro Hitler dallarepubblica di Weimar all’avvento del Terzo Reich”. Tale sottotitolo, da una parte, specifica il lassodi tempo indicato dal testo tedesco, dall’altra esclude la descrizione della prima guerra mondialetrattato nei primi capitoli del libro (capp. 1-5) e sottace l’indicazione testuale di un’autobiografia:“Erinnerungen” (al contrario per esempio delle edizioni francese e inglese). In compenso esplica findall’inizio la tendenza di fondo di Geschichte eines Deutschen: l’opposizione di Haffner contro ilnascente regime nazista sorgente. Tale modifica del sottotitolo corrisponde sicuramente ad unastrategia editoriale ben precisa del traduttore e/o della casa editrice, e cioè attirare l’attenzione dellettore italiano, servendosi abilmente di certi stereotipi dell’immaginario non solo italiano riguardoai tedeschi: accanto a “tedesco” si legge subito “Hitler” sebbene questi non fosse, come è ben noto,tedesco di nascita.14 Questo vale anche per l’edizione inglese per la quale l’editore pretese il nomedi Hitler nel titolo, benché assente nell’originale, come ha confermato il figlio di Haffner. Se fossestato per la casa editrice, il libro di Haffner porterebbe il titolo “Betraying Hitler”, come se fossestato un rinnegato delle SS. Anche la copertina dell’edizione italiana segue questa logica, in cui nonè riprodotta (come nell’originale tedesco, ma anche nell’edizione inglese) una foto del giovaneHaffner (un ulteriore indizio dell’autobiografia), ma una caricatura del noto grafico berlineseGeorge Grosz (1893-1959).

Sebbene tali modifiche del titolo e della copertina siano assolutamente legittime – la foto diHaffner non avrebbe avuto probabilmente nessun significato per il pubblico italiano –, nondimenosorprende il fatto che nell’edizione italiana che segue l’edizione tedesca del 2002 manchino sia laprefazione che la postfazione sulla storia editoriale. Proprio quest’ultima è a mio avvisoimprescindibile per la comprensione anche da parte del pubblico italiano (come accennato sopra):anche il lettore italiano dovrebbe essere informato dell’incompiutezza del libro di Haffner e del suocarattere frammentario. Con ogni probabilità questa scelta editoriale non è stata presa dal traduttore,ma dall’editore che, per motivi di spazio, ha voluto rinunciare a tali elementi paratestuali.15

Nondimeno tale decisione rimane incomprensibile, considerando anche il fatto che una prefazionedi venti pagine circa precede l’edizione italiana delle Anmerkungen zu Hitler in cui Gian EnricoRusconi, come detto sopra, discute e, in parte, critica le teorie storiche di Haffner. Forse taleintroduzione doveva fungere da prefazione a entrambe le edizioni italiane, cioè alla riedizione diAnmerkungen zu Hitler e alla prima edizione di Geschichte eines Deutschen (usciti nel biennio2002-2003) che probabilmente erano entrambi parte di un progetto editoriale. La mancanza di unaprefazione stupisce tanto più se si considera che l’edizione italiana è stata sovvenzionata dal GoetheInstitut-Inter Nationes.

Analogamente alla prima edizione tedesca anche quella italiana è uscita in tempi ristretti,16

altrimenti non si spiegherebbe il perché il traduttore abbia tralasciato una pagina intera delmanoscritto (come nella prima edizione tedesca), non seguendo la seconda edizione tedesca più

13 L’edizione francese della Geschichte eines Deutschen riporta di conseguenza il seguente titolo: Histoire d’un

allemand. Souvenirs 1914-1933. Come in Germania, in Francia sono del resto apparse due edizioni presso la casaeditrice Actes Sud (2002 e 2003).

14 Tale binomio corrisponde ancora oggi ai ‘pre-giudizi’ della maggior parte dei paesi europei nei confrontidella Germania (si veda a tale riguardo Jessen (2003), p. 33).

15 Soltanto dalla copertina si apprendono le più elementari notizie bio- e bibliografiche dell’autore. Riguardo aGeschichte eines Deutschen si legge solo: “Storia di un tedesco, scritto alla fine degli anni Trenta ma pubblicato dalfiglio solo dopo la morte dell’autore, è apparso in Gran Bretagna e in Germania nel 2000 ed è stato tradotto in ventipaesi.”

16 O. Pretzel, Nachwort zu Haffner (2002a), p. 303.

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completa del 2002. Che nella prima edizione tedesca mancasse un brano, si potrebbe spiegare con ilcarattere frammentario del manoscritto ma, guardando meglio, è più che evidente. Nel testo tedescosi legge:

Ich lernte – und zwar, wie gesagt, so schnell, als hätte ich es immer gewußt – die Namen vonHeerführern, die Stärke von Armeen, die Bewaffnung mit naiver Lust und ohne Spur vonZweifel oder Konflikt, die Auswirkung der seltsamen Begabung meines Volkes,Massenpsychosen zu bilden.17

Nella traduzione italiana tale passaggio viene riportato fedelmente:Imparai – e, l’ho già detto, così rapidamente come se li avessi sempre saputi – i nomi deigenerali, la consistenza degli eserciti, i tipi di armi, con ingenuo piacere e senza traccia didubbio o di dissidio, effetto della strana propensione del mio popolo a creare psicosi dimassa.18

La lacuna si avverte al punto “Bewaffnung [...] mit naiver Lust”: non solo il sostantivo‘Bewaffnung’ non viene specificato da un complemento nominale come quelli precedenti(‘Namen’, ‘Stärke’), ma anche la successiva parte della frase (“die Auswirkung der seltsamenBegabung meines Volkes, Massenpsychosen zu bilden”) non sembra collegata in modo chiaro conil resto della frase. Infatti, se tale parte della frase proseguisse l’elenco precedente, ci si sarebbeaspettati una congiunzione coordinata copulativa come ‘und’ prima dell’ultima parte della frase.Inoltre l’infinito ‘die Auswirkung lernen’ richiederebbe un completamento, cioè ‘kennen lernen’,per concludere la frase correttamente. Se si trattasse invece di un’apposizione, il ‘talento’ delpopolo tedesco di creare psicosi di massa sarebbe il motivo per cui il giovane Haffner abbiaimparato così velocemente i nomi dei generali e la consistenza degli eserciti etc.; una spiegazionetroppo sbrigativa e distorta, come dimostra la versione integrale:

Ich lernte – und zwar, wie gesagt, so schnell, als hätte ich es immer gewußt – die Namen vonHeerführern, die Stärke von Armeen, die Bewaffnung und Wasserverdrängung von Schiffen,die Lage der wichtigsten Festungen, den Verlauf der Fronten – und ich kam alsbald dahinter,daß hier ein Spiel im Gange war, geeignet, das Leben spannend und aufregend zu machenwie nichts zuvor. Meine Begeisterung und mein Interesse für dieses Spiel erlahmten nicht biszum bitteren Ende. Ich muß hier meine Familie in Schutz nehmen. Es waren keineswegsmeine nächsten Angehörigen, die mir den Kopf verdrehten. Mein Vater litt unter dem Kriegevom ersten Augenblick an und blickte auf die Begeisterung der ersten Wochen mit Skepsis,auf die Haßpsychose, die ihr folgte, mit tiefem Ekel – wenn er auch selbstverständlich, loyalund patriotisch, Deutschlands Sieg wünschte. Er gehörte zu den vielen liberalen Geisternseiner Generation, die im Stillen fest überzeugt gewesen waren, daß Kriege unter Europäernein Ding seien, das der Vergangenheit angehörte. Er konnte mit dem Kriege, sozusagen,nichts anfangen – und er verschmähte es durchaus, sich, wie so viele andere, etwas darübervorzumachen. Ich hörte ihn ein paarmal bittere und skeptische Worte sagen – nicht mehr nurüber die Österreicher –, die mich in meiner neugewonnenen Kriegsbegeisterung befremdeten.Nein, mein Vater – und ebenso meine übrigen Angehörigen – waren unschuldig daran, daßich binnen weniger Tage zum fanatischen Chauvinisten und «Heimkrieger» wurde. Schuldwar – die Luft; die anonyme tausendfältig spürbare Stimmung ringsum; der Sog und Zug dermassenhaften Einigkeit, die den, der sich hineinwarf (und sei es ein siebenjähriger Junge) mitunerhörten Emotionen beschenkte, und den, der draußen blieb, fast ersticken ließ in einemVakuum von Öde und Einsamkeit. Ich verspürte zum ersten Mal, damals mit naiver Lust undohne Spur von Zweifel oder Konflikt, die Auswirkung der seltsamen Begabung meinesVolkes, Massenpsychosen zu bilden.19

17 Haffner (20016), pp. 18 sg.18 Haffner (2003), p. 17.19 Haffner (2002a), pp. 18-20 (il corsivo è mio).

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L’entusiasmo per la guerra, dimostrato da Haffner ad appena sette anni, si esprime nel suopersonale gioco di guerra (l’imparare dei nomi di generali e della consistenza degli eserciti etc.), edè dunque l’effetto del particolare ‘talento’ del popolo tedesco di creare delle psicosi di massa.

Nel caso di un testo originale ambiguo come questo, il traduttore o l’editore si sarebberodovuti rivolgere alla casa editrice tedesca o al curatore, cioè a Oliver Pretzel: si sarebbero cosìaccorti della non insignificante lacuna; non insignificante dal momento che il lettore viene a saperedi fatti importanti riguardo al ‘clima’ durante la prima guerra mondiale e riguardo ai liberalieuropei, e quindi anche tedeschi, per i quali all’inizio del Novecento una guerra costituiva unanacronismo.20 In effetti questa pagina fornisce un ritratto della borghesia liberale tedescatotalmente diverso – personificata nella figura del padre di Haffner che con disprezzo reagì allapsicosi di odio della prima guerra mondiale –, da quello fornito normalmente ancora oggi nellastoriografia internazionale in cui, sebbene non esclusivamente come accadeva fino a poco tempo fa,nella maggior parte dei casi la colpa della guerra fu attribuita in toto ai tedeschi.21

2. Strategie implicite e decisioni del traduttoreDal momento che, per quanto io sappia, mancano osservazioni esplicite di Claudio Groff

riguardanti la sua traduzione (presumo non per propria scelta, ma per quella dell’editore), possiamoevincere le sue strategie e decisioni traduttive soltanto dal testo stesso.

Dapprima va segnalato che Groff intendeva evidentemente scrivere una traduzione fluente eben comprensibile in italiano (cosa che, senza dubbio, è riuscito a fare); nel complesso, la suatraduzione è orientata più alla lingua di arrivo che alla lingua di partenza – una distinzione cherisale, passando per Friedrich Schleiermacher e Wilhelm von Humboldt, addirittura fino a Lutero22

e che viene adottata ancora oggi nella traduttologia. Un indizio di una traduzione orientata al lettoresono anche le note a piè di pagina, seppure abbastanza rare, che spiegano al lettore italiano terminiincomprensibili o nomi di personaggi storici sconosciuti e che Groff non traduce, conservando ladizione tedesca. Per fare alcuni esempi: NSV = “Nationalsozialistische Volkswohlfahrt, l’entenazionalsocialistico per la previddenza sociale”, “Rote Fahne” e “Tägliche Rundschau” =“«Bandiera rossa»; il titolo consueto significa «cronaca quotidiana»” e “Noske” =“Socialdemocratico di destra, Gustav Noske (1868-1946) fu nominato ministro della Difesa nelgabinetto Ebert (1918) e diresse la repressione dell’insurrezione spartachista”.23 Nella traduttologial’uso di annotazioni o note è assai discusso – per motivi di spazio, gli editori vorrebberopermetterne il minor numero possibile –, tuttavia queste sono a mio parere inevitabili se si parte dalpresupposto, come fa Umberto Eco, che diversi sistemi linguistici sono incommensurabili, ma purtuttavia paragonabili.24 In traduzioni di saggi le note sono più diffuse rispetto a traduzioni di testiletterari, e quindi sono da considerarsi appropriate se vediamo un saggio storico nel testo di

20 Cfr. a tale proposito anche Detti / Gozzini (2000-2002), vol. I, p. 379.21 Ivi, vol. II, p. 23 sgg.22 Martin Luther, Sendbrief vom Dolmetschen (1530). Si veda a tale riguardo Nergaard (cur.) (1993), pp. 99 sgg.

Per Schleiermacher e von Humboldt cfr. ivi, pp. 125 sgg. e 143 sgg.23 Haffner (2003), pp. 10, 24 e 29. Cfr. a tale riguardo ivi, pp. 33, 106-107, 147-148, 159, 190 e 192. Un altro

esempio per il ‘resto intraducibile’ (v. a tale proposito Osimo (1998), passim), che potrebbe essere spiegato in una nota,è: “Heute gehts Null Komma fünf” (Haffner (2002a), p. 17). Groff traduce questo modo di dire – evidentemente tipicodella Pomerania orientale – della domestica letteralmente: “Oggi la va di zero virgola cinque” (Haffner (2003), p. 15),probabilmente visto che il significato di questa espressione rimane nascosto allo stesso autore, Haffner, e che poi inseguito viene in parte spiegato. Qui forse il traduttore avrebbe potuto trovare un modo di dire regionale corrispondente(ad esempio: “oggi è un casotto”). In generale Groff parte dall’idea di un pubblico erudito, se dà per scontato che illettore italiano di oggi sa che cosa sono le Enigma-Variationen di Elmar (ivi, p. 11). Edward William Elgar,compositore brittanico (1857-1934), negli anni Trenta del secolo XX era conosciuto in particolare per le sue Variationson an original theme (‘Enigma’).

24 Eco (2003), pp. 345 sgg. Eco considera note a piè di pagina o annotazioni una sconfitta del traduttore (cfr. ivi,p. 95).

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Haffner. Nell’opera di Haffner Hitler. Appunti per una spiegazione, che è chiaramente da ritenersiun saggio storico, il traduttore, Ettore Zelioli, ne fa uso benché misuratamente.25

Nondimeno Groff cerca di riprodurre parzialmente anche il ‘fascino’ del testo tedesco dipartenza, per quanto sia possibile, orientando in parte la sua traduzione all’originale. Il terzocapitolo, da cui è tratto il seguente brano, ne offre un esempio interessante:

Nie werde ich diesen 1. August 1914 vergessen, und immer wird die Erinnerung an diesenTag ein tiefes Gefühl von Beruhigung, von gelöster Spannung, von »Alles wieder gut« mitheraufbringen. So seltsam kann das »Geschichte-Miterleben« vor sich gehen. Es war einSonnabend, mit all der wundervollen Friedlichkeit, die ein Sonnabend auf dem Lande habenkann. Die Arbeit war vorbei, Geläute heimkehrender Herden in der Luft, Ordnung und Stilleüber dem ganzen Gutshof, die Knechte und Mägde putzten sich in ihren Kammern fürirgendein abendliches Tanzvergnügen [...]. Als ich soweit zugehört hatte, ging ich hinaus, dasHerz ganz geschwellt von Erlöstheit, Zufriedenheit und Dankbarkeit, und sah mit geradezufrommen Gefühlen über den Wäldern, die nun wieder mein Besitz waren, die Sonneuntergehen. Der Tag war bedeckt gewesen, aber gegen Abend hatte er sich immer mehraufgeklärt, und jetzt schwamm die Sonne, golden und rötlich, im reinsten Blau, einenwolkenlosen neuen Tag verheißend.26

Groff traduce nel modo seguente questo brano piuttosto ‘lirico’ che in questo punto non somigliaaffatto a un saggio storico:

Non dimenticherò mai il 1° agosto 1914, e il ricordo di quel giorno porterà sempre con sé unprofondo senso di quiete, di tensione risolta, di «va tutto bene». È strano il modo in cui puòsvolgersi la «partecipazione alla storia». Era un sabato, con tutta la meravigliosa tranquillitàche può avere un sabato in campagna. Il lavoro era finito, nell’aria suoni di greggi chetornavano all’ovile, ordine e silenzio in tutta la tenuta, gli stallieri e le domestiche si facevanobelli nelle loro stanzette prima di andare a ballare da qualche parte [...]. Quando ebbi sentitoabbastanza uscii, il cuore gonfio di sollievo, di contentezza e di riconoscenza, e colmo disensazioni addirittura religiose guardai il sole tramontare dietro i boschi, che ora miappartenevano di nuovo. Il giorno era stato coperto, ma verso sera si era rasserenato sempredi più e adesso il sole, dorato e rossastro, nuotava nell’azzurro più luminoso promettendo unanuova giornata senza nubi.27

Eccetto le traduzioni delle espressioni «va tutto bene» (per »Alles wieder gut«) e «partecipazionealla storia» (per »Geschichte-Miterleben«), sulla cui adeguatezza si potrebbe discutere, mi sembrache Groff riproduca fedelmente la sintassi e il ritmo del testo originale, per quanto naturalmente siapossibile.28 Un discorso analogo vale per il registro stilistico medio-alto (in particolare la metaforadel sole), cosicché anche in italiano si ha l’impressione di una descrizione romantica del paesaggioe dell’anima che, per quanto riguarda l’atmosfera di gioia prefestiva, ricorda il famoso incipit de Ilsabato nel villagio di Giacomo Leopardi, ben noto anche ad un lettore italiano medio. Una taletraduzione è giustificata dal momento che, se il lettore tedesco associa la scena descritta a branidell’opera di Joseph von Eichendorff, Aus dem Leben eines Taugenichts, la rievocazione con lapoesia leopardiana per il pubblico italiano è tutt’altro che fuorviante.29

25 Haffner (2002b), pp. 61, 102 e 149. È interessante che Zelioli conserva certe parole-chiave in tedesco (benché

fra parentesi), traducendole poi in seguito (ivi, pp. 128, 154 etc.). Stranamente manca anche in questa traduzione unafrase del testo di partenza, per quanto io possa vedere: “Das entscheidende Kennzeichen dieses Lebens ist seineEindimensionalität” (Haffner (200121), p. 8).

26 Haffner (2002a), pp. 15 sg.27 Haffner (2003), pp. 14 sg.28 Come è ben noto, la sintassi tedesca, soprattutto la posizione finale del verbo, non può essere riprodotta in

italiano. Nella traduzione italiana la sintassi, nel complesso, assomiglia a quella del testo tedesco, per quanto siapossibile. Questo sicuramente non è un caso: Groff avrebbe potuto suddividere i lunghi periodi di frase di questo branoin più frasi brevi.

29 Cfr. G. Leopardi, Il sabato nel villaggio, in Leopardi (1988), pp. 236 sgg. (vv. 1-21): “La donzelletta vien dallacampagna, / in sul calar del sole, / col suo fascio dell’erba [...] / Or la squilla dà segno / della festa che viene [...]” e

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Che Groff cerchi di riprodurre l’atmosfera descritta in parte anche nella sintassi, emergechiaramente dal seguente lungo periodo di frase:

Ma giù nella sala con le corna di cervo alle pareti e le stoviglie di stagno e i lucidi piatti diterraglia sul pavimento trovai mio padre e il proprietario della tenuta, il nostro padrone dicasa, seduti in profonde poltrone mentre consideravano misuratamente ogni cosa discorrendocon accortezza. Naturalmente non capii molto di ciò che dicevano e del resto l’ho del tuttodimenticato. Ma non ho dimenticato come suonavano calme e consolanti le loro voci, quellapiù acuta di mio padre e il basso profondo del padrone di casa, come saliva nell’aria in brevicolonne, infondendo fiducia, il fumo aromatico dei loro sigari lentamente aspirati e come, piùa lungo parlavano, tutto diventava sempre più chiaro, sempre più positivo, sempre piùconfortante.30

Nell’originale si legge:Unten aber in der Halle mit den Hirschgeweihen an den Wänden und den Zinngeräten undblanken Steinguttellern auf den Borden fand ich, in tiefen Lehnstühlen sitzend, meinen Vaterund den Gutsherrn, unsern Wirt, vor, wie sie in besonnenem Gespräch alles bedächtigerwogen. Selbstverständlich verstand ich nicht viel von dem, was sie redeten, und ich habe esauch völlig vergessen. Nicht vergessen habe ich, wie ruhig und tröstlich ihre Stimmenklangen, die hellere meines Vaters und der tiefe Baß des Gutsherrn, wie vertrauenseinflößendder wohlriechende Rauch ihrer langsam gerauchten Zigarren in kleinen Säulen vor ihnen indie Luft stieg, und wie, je länger sie redeten, alles immer klarer, immer besser und immertröstlicher wurde.31

Con l’eccezione dell’evidente svista “Boden” / “Borden” (“pavimento” / “mensole”) – in questocaso un redattore di bozze avrebbe dovuto ricorrere al suo sapere enciclopedico, per usare untermine di Eco (piatti di terraglia che, anche in un podere, sicuramente non stavano per terra) –Groff dà un quadro similmente tranquillizzante come appare nel testo tedesco: il fumo dei sigari chesale piano piano nella sala in cui si trova padre di Haffner con il padrone del podere che convince ilbambino che la guerra non sarebbe potuta scoppiare.32 Nella prima frase ad esempio, il traduttoresegue la struttura della frase orientata verso sinistra, tipica per il tedesco, cioè che informazioni diuna certa rilevanza vengono nominate prima del verbo e del soggetto, quindi non seguendo lasintassi tipica italiana, orientata normalmente verso destra.33 Groff avrebbe potuto tradurre adesempio nel modo seguente, seguendo un ritmo forse più familiare per il lettore italiano: ‘Ma trovaimio padre e il proprietario della tenuta, il nostro padrone di casa, seduti in profonde poltrone,mentre consideravano misuratamente ogni cosa discorrendo con accortezza giù nella sala con lecorna di cervo alle pareti e le stoviglie di stagno e i lucidi piatti di terraglia sulle mensole.’ Èl’atmosfera della sala (il setting) che Haffner descrive in modo intenso e che, non a caso, si trova astare all’inizio della frase: la sala in cui il padre di Haffner discute con il padrone del podere lasituazione politica dell’epoca viene rappresentata dalla prospettiva del giovane Haffner che si trovaal primo piano e dà un quadro della situazione tranquillizzante che, in una sorta di ecfrasi,34 il

Eichendorff (19842), pp. 58, 110, 212 e passim. L’analogia con il romanzo di Eichendorff risulta evidente nell’usodell’espressione “Alles wieder gut” che, in forma leggermente modificata, conclude l’Aus dem Leben einesTaugenichts, trovandosi in una posizione di massimo rilievo: “und es war alles, alles gut!” (ivi, p. 278); interessante,seppur insolita, la traduzione di Lydia Magliano: “tutto, tutto era divinamente bello” (ivi, p. 279).

30 Haffner (2003), pp. 14 sg.31 Haffner (2002a) p. 16.32 Per l’effetto “tranquillizzante” del fumo si veda anche Banda (2001), pp. 98-101: “Guardarlo, poterlo guardare,

a lungo, il fumo, il filo di fumo, le spirali di fumo, le capriole di fumo; contemplarlo, a lungo, molto a lungo, mentre sisvolge dal sigaro, mentre voluttuoso e volubile si districa dal sigaro, si divincola, lento, lentissimo, dal sigaro, e sale e sidisperde, quel filo di fumo, e si raddensa in nuvole, di fumo...” [ivi, p. 100]).

33 A tale riguardo si confronti Rega (2001), pp. 128 sgg. Rega si richiama qui alla teoria di M. Doherty della‘Verzweigungsrichtung’ che, nella linguistica, però non è indiscussa (ibidem). Vedi anche Schmidt (1995), inparticolare. 183 sgg.

34 Per l’ecfrasi si veda Lausberg (19632) , p. 119, § 369.

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lettore crede di vedere davanti a sé con i propri occhi. Groff riesce a ricreare lo stesso effetto –avrebbe potuto cambiare non solo la struttura della frase, ma suddividere la lunga sequenza in piùfrasi: ‘Ma trovai mio padre e il proprietario della tenuta, il nostro padrone di casa, seduti inprofonde poltrone giù nella sala con le corna di cervo alle pareti e le stoviglie di stagno e i lucidipiatti di terraglia sulle mensole. Stavano considerando misuratamente ogni cosa discorrendo conaccortezza.’

Si potrebbero addurre numerosi esempi di tale strategia traduttiva ma, per motivi di spazio,non posso entrare più nel dettaglio della questione. Nondimeno, riassumendo si può affermare che,da un canto, il Groff procede generalmente nella sua traduzione in modo orientato al lettore, madall’altro cerca di seguire il registro talvolta letterario-poetico del testo tedesco (e quindi anche ladifferente funzione comunicativa), e per quanto sia possibile, perfino la sintassi (eccetto laposizionale finale del verbo).

In conclusione vorrei occuparmi di un esempio testuale che, nel testo originale, non èframmentario, ma ambiguo a tal punto da non permettere un’interpretazione chiara, ma piùinterpretazioni possibili – caso che i traduttori non raramente devono affrontare: “Manche von denDuellanten, heldischere oder märtyrerhaftere Naturen, haben es weiter gebracht als ich: bis zumKonzentrationslager, bis zum Block, und bis zu einer Anwartschaft auf künftige Denkmäler.”35

Groff traduce: “Alcuni dei duellanti, temperamenti più eroici o più votati al martirio, sono arrivatipiù lontano di me: fino al campo di concentramento, fino al ceppo, e fino alla candidatura a futurimonumenti.”36 Quello che, ad una prima lettura, sembra chiaro, diventa una difficoltà per latraduzione: che intende Haffner esattamente con ‘Block’? Tale lessema è riprodotto adeguatamentein italiano con ‘ceppo’? Il Duden (Deutsches Universalwörterbuch) riporta dodici significati per‘Block’, di cui nessuno in questo contesto è veramente appropriato.37 Dapprima il lettorepenserebbe probabilmente ad uno stabilimento di un casa o di una prigione visto che, nella fraseseguente, si parla di N.S.V.-Blockwalter con cui si intende evidentemente l’unità organizzativa piùpiccola della suddivisione regionale della NSDAP (20-30 nuclei familiari circa) e che Groff traducedi conseguenza. Nella frase precedente ‘Block’ è però ambiguo: in questo contesto tale parolapotrebbe stare per un particolare stabilimento di una prigione o di un patibolo. Entrambe leinterpretazioni sarebbero, a mio avviso, possibili anche se quest’ultima sembra più plausibile per ilclimax della frase (Konzentrationslager – Block – Denkmäler). Groff decide per una soluzione che,a prima vista, sorprende, traducendo (come accennato sopra) ‘Block’ con ‘ceppo’, cosa chesicuramente non è casuale; lessemi che d’altronde hanno lo stesso significato di base ‘Holzklotz’(blocco di legno). Groff non ha scelto ‘ceppo’ ovviamente in questo significato, ma in quellosecondario di ‘Hinrichtungsstätte’ (patibolo). Avrebbe potuto scegliere proprio ‘patibolo’ parola cheforse per il lettore italiano sarebbe stata più chiara, ma univoca.38 Il lessema ‘ceppo’ al plurale haanche il significato traslato di ‘prigione’,39 e così Groff ha trovato un lessema altrettanto ambiguo.Questa naturalmente è un’eccezione, spesso il traduttore in un caso simile deve prendere unadecisione secondo la sua interpretazione: in breve, è costretto a rendere il testo originale ambiguocon un testo univoco (ad esempio con ‘patibolo’).

35 Haffner (2002a), p. 10.36 Haffner (2003), p. 10.37 Per esempio: “kompakter, kantiger Brocken aus hartem Material”, “Einrichtung zur Sicherung des

Eisenbahnverkehrs auf Bahnhöfen u. Strecken”, “in sich geschlossene, ein Quadrat bildende Gruppe von[Wohn]häusern innerhalb eines Stadtgebietes; Häuserblock” etc. (Duden. Deutsches Universalwörterbuch (20014), p.299).

38 È interessante che il figlio di Haffner, Oliver Pretzel, abbia tradotto nella traduzione inglese da lui curata‘ceppo’ con ‘gallows’, parola che corrisponde all’italiano ‘patibolo’ (cfr. Haffner (2002c), p. 4).

39 Il lessema italiano ‘ceppo’ ha fra gli altri, i seguenti significati: ‘parte inferiore del tronco di un albero’, ‘untempo, tronco sul quale appoggiavano la testa i condannati alla decapitazione’, pl. (fig.) ‘prigionia’ (L’Enciclopedia.Dizionario di italiano (2004), vol. 21, p. 566). ‘Blocco’ ha più denotazioni che non sono identiche a quelle della parolatedesca ‘Block’: ‘massa compatta di notevoli dimensioni’, ‘block-notes’, ‘unione stretta’, ‘alleanza di gruppo’ etc. (ivi,pp. 395 sg.).

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IV. Alcune conclusioni teoriche1. Gamma di interpretazioni e traduzioni possibili

Il fatto che in un tale caso il traduttore debba prendere una decisione e fare una sceltasecondo la sua interpretazione, è una delle principali conclusioni teoriche da trarre da questa brevedescrizione dell’edizione italiana di Geschichte eines Deutschen di Haffner. Una traduzionepresuppone un’interpretazione da parte del traduttore, e in questo punto concorda la maggior partedei teorici della traduzione.40 Tradurre dunque vuol dire sempre anche interpretare, anche se non èsempre vero il contrario come sostiene invece Martin Heidegger.41 Il traduttore/la traduttrice si puòvedere costretto/a a tradurre un passo ambiguo nel testo originale chiarendolo, come affermava giàHans-Georg Gadamer, se nella lingua di arrivo non esistono analoghi lessemi ambigui.

2. Rilevanza delle scelte e strategie traduttiveDopo un’attenta lettura del testo originale, il traduttore deve maturare decisioni, elaborare

ipotesi di lavoro a seconda della tipologia di testo e della funzione comunicativa dominante le qualivanno verificate durante il processo di traduzione.42 Di tali decisioni può fare parte la scelta dirinunciare generalmente a note e/o annotazioni o meno. D’altro canto è possibile che tali ipotesitraduttive, prese all’inizio del processo traduttivo, vengano via via modificate o persino capovolte.È importante che il traduttore prenda certe decisioni traduttive che mantenga fino alla fine, il chenon vuol dire che, come detto sopra, non le possa rivedere. Idealmente il traduttore dovrebbe aver lapossibilità di spiegare e motivare brevemente le sue decisioni al fine di evidenziare le difficoltàtraduttive incontrate. Che spesso i committenti di traduzioni o le stesse case editrici non permettanoquesto, ce lo insegna purtroppo l’esperienza. Nondimeno nel caso di Geschichte eines Deutschenciò sarebbe necessario solo per la storia editoriale sopra descritta.

3. Possibilità di manipolazione o di deformazione dell’originaleCome abbiamo visto nei pochi esempi, traduzione non significa una semplice

trascodificazione di un testo da un sistema linguistico ad un altro.43 Essa va anzi intesa come unprocesso interculturale di trasformazione in cui un sistema culturale viene trasposto in un altro(übersetzen come übersetzen in un altro spazio culturale, come lo intende Heidegger).44 In questoprocesso si arriva quasi necessariamente ad una ré-écriture, cioè una riscrittura del testo dipartenza,45 al fine di renderlo accessibile nella lingua di arrivo. Naturalmente consiste in questoanche il pericolo di una manipolazione o deformazione del testo – nel senso del modo di direitaliano traduttore, traditore,46 modo di dire o meglio gioco di parole che, ad esempio, non puòessere tradotto in tedesco. La lacuna della pagina non irrilevante, di cui si è parlato sopra, inGeschichte eines Deutschen potrebbe far pensare in un primo momento a una tale manipolazione –in passato le traduzioni accorciate non erano l’eccezione –, che tuttavia si spiega conl’incompiutezza della prima edizione tedesca.

Tuttavia proprio nel caso di temi sensibili, come la rielaborazione del recente passatotedesco, bisogna prestare particolare attenzione, come dimostra Lorenza Rega con l’esempio deldiscusso libro di Goldhagen: la traduzione tedesca sarebbe attenuata, se paragonata con l’originale

40 Cfr. a tale riguardo per esempio Eco (2003), pp. 225 sgg., Gadamer (19906), pp. 387 sgg., Heidegger (1984),

pp. 74-76 e Drumbl (2003), pp. 83-99, in particolare 97-99. Di parere opposto Mattioli (2003), pp. 29-36, in particolarep. 33 e Nasi (2001), pp. 135-150, soprattutto 142 sg. Tuttavia a mio avviso, Mattioli e Nasi ‘assolutizzano’ la posizionedi Gadamer a tale riguardo (v. Honnacker (2006)).

41 Heidegger (1984), pp. 74-76.42 A tale proposito cfr. Eco (2003), pp. 80 sgg. e Nasi (2004), pp. 20 sg.43 Si veda a tale proposito S. Nergaard, Un approccio semiotico alla traduzione multimediale, in

Bollettieri Bosinelli / Heiss / Soffritti / Bernardini (cur.) (2000), pp. 431-449, in particolare 431.44 Heidegger (19922), pp. 17-18, §1 b.45 Nasi (2004), pp. 17 sg.46 Cfr. R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Nergaard (cur.) (1995), pp. 51-62, soprattutto 62.

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inglese, soprattutto quando si parla del tema della ‘colpa collettiva tedesca’. Il traduttore tedesco harespinto queste accuse, definendole come sofisticherie.47

Anche nel caso di Geschichte eines Deutschen nell’edizione italiana, a causa della mancanzadella pagina sopra citata, emerge, benché sicuramente in modo del tutto involontario,un’impressione diversa della posizione dei liberali nei confronti della prima guerra mondialerispetto alla seconda edizione tedesca. Un eventuale accenno al carattere frammentario dell’opera inuna pre- o postfazione avrebbe potuto se non evitare, almeno relativizzare questa impressione‘falsa’. In generale sarebbe auspicabile che tutti i partecipanti al processo traduttivo, dai traduttorialle case editrici fino ai committenti fossero più consapevoli della loro responsabilità riguardo allatrasmissione interculturale del sapere, come postulò già nel 1995 Reinhard Schmidt per latraduzione scientifica,48 al fine di garantire una trasposizione adeguata (e non deformante) di operescientifiche significative.

47 Rega (2001), pp. 20 sg. A. Lefèvere vede nella traduzione generalmente una ré-écriture inevitabile e

manipolazione del testo di partenza (vedi Lefèvere (1998), p. 10). Per la polemica riguardante il libro di Goldhagen siconfronti anche Haffner (2002b), p. 7. Per Lefèvere e la problematica della traduzione come ré-écriture si vedano leosservazioni di F. Nasi, Da un italiano ad altri: riscritture e traduzioni endolinguistiche del Decameron, in Honnacker(cur.) (2005), p. 46.

48 Schmidt (1995), pp. 163-202, in particolare pp. 198 sg.

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Haffner (2002b)Haffner, S., Hitler. Appunti per una spiegazione. Presentazione di Gian Enrico Rusconi, Milano,Garzanti, 2002

Haffner (2002c)Haffner, S., Defying Hitler. A Memoir, New York, Farrar, Straus & Giroux, 2002

Haffner (2003)Haffner, S., Storia di un tedesco. Un ragazzo contro Hitler dalla repubblica di Weimar all’avvento delTerzo Reich, tradotto da C. Groff, Milano, Garzanti, 2003

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Haffner (2004)Haffner, S., Als Engländer maskiert. Ein Gespräch mit Jutta Krug über das Exil, München, Dtv, 2004

Heidegger (1984)Heidegger, M., Hölderlins Hymne «Der Iser», Frankfurt a.M., V. Klostermann, 1984

Heidegger (19922)Heidegger, M., Parmenides, in Gesamtausgabe, II. Abteilung: Vorlesungen 1923-1944, vol. 54,Frankfurt a.M., V. Klostermann, 19922

Hönig / Kußmaul (19995)Hönig, H.G. / Kußmaul, P., Strategie der Übersetzung. Ein Lehr- und Arbeitsbuch, Tübingen, GunterNarr Verlag, 19995

Honnacker (cur.) (2005)Honnacker, H. (cur.), Dieci incontri per parlare di traduzione, a cura di H. Honnacker, “Materiali didiscussione” 3 (2005)

Honnacker (2006)Honnacker, H., Recensione a F. Nasi, Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Milano,Medusa, 2004, in “Italica” (2006), in corso di stampa

Jessen (2003)Jessen, J., Stammtisch Europa, in “Die Zeit” del 17 luglio 2003

Kautz (20022)Kautz, U., Handbuch Didaktik des Übersetzens und Dolmetschens, edito dal Goethe-Institut,München, Iudicium Verlag GmbH, 20022

Lausberg (19632)Lausberg, H., Elemente der literarischen Rhetorik, München, 19632

L’Enciclopedia. Dizionario di italiano (2004)L’Enciclopedia. Dizionario di italiano, Rom, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2004, vol. 21

Lefèvere (1998)Lefèvere, A., Traduzione e riscrittura: la manipolazione della fama letteraria, a cura di M. Ulrych,Torino, UTET, 1998

Leopardi (1988)Leopardi, G., Canti, a cura di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1988

Mattioli (2003)Mattioli, E., La poetica del tradurre di Henri Meschonnic, in “Rivista internazionale di tecnica dellatraduzione. International Journal of Translation” 7 (2003), pp. 29-36

Nasi (2001)Nasi, F., Note per una teoria della traduzione letteraria, in Sulla traduzione letteraria. Figure deltraduttore – Studi sulla traduzione. Modi del tradurre, Ravenna, Longo, 2001

Nasi (2004)Nasi, F., Poetiche in transito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Milano, Medusa, 2004

Nergaard (cur.) (1993)Nergaard, S. (cur.), La teoria della traduzione nella storia, Milano, Bompiani, 1993

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Nergaard (cur.) (1995)Nergaard (cur.), S., Teorie contemporanee della traduzione. Testi di Jakobson, Levý, Lotman, Toury,Eco, Nida, Zohar, Holmes, Meschonnic, Paz, Quine, Gadamer, Derrida, Milano, Bompiani, 1995

Osimo (1998)Osimo, B., Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli, 1998

Rega (2001)Rega, L., La traduzione letteraria. Aspetti e problemi, Torino, UTET, 2001

Schmied (2002)Schmied, J.P., Mit Bleistift auf vergilbtem Papier, in “Die Zeit”-Dossier Das Gift der Kameradschaft,16 maggio 2002

Schmidt (1995)Schmidt, R., Lingua e pensiero: possibilità, problemi e sfide della traduzione italo-tedesca nellescienze sociali, in R. Arntz (cur), La traduzione. Nuovi approcci tra teoria e pratica, Neapel, CUEN,1995, pp. 163-202

Schwarz / Linke / Michel / Scholz Williams (1988)Schwarz, A. / Linke, A. / Michel, P. / Scholz Williams, G., Alte Texte lesen, Bern/Stuttgart, P. Haupt,UTB, 1988

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NOTA SUGLI AUTORI

LUIGI BALLERINI (Milano, 1940) è professore ordinario di Letteratura Italiana presso l’UCLAUniversity of Los Angeles California. Tra le sue numerose pubblicazioni di poesia e traduzione ricordiamosolo alcuni titoli essenziali: La piramide capovolta (Venezia, 1975), Il terzo gode, con un saggio di RemoBodei (Venezia, 1994), Uscita senza strada, ovvero come sbrinare una bandiera rossa, con introduzione diFrancesco Muzzioli (Firenze/Palermo, 2000) e G. Stein, La sacra Emilia e altre poesie, a cura di L. Ballerini(Venezia, 1998).

GUILLERMO CARRASCÓN (Madrid [Spagna], 1959) è ricercatore di letteratura spagnola; ha insegnatoLingua spagnola presso le università di Torino e Bologna, e precedentemente negli Stati Uniti, al DickinsonCollege in Pennsylvania e alla John Hopkins University di Baltimora; insegna attualmente “Traduzionespagnola” e “Spagnolo terza lingua” all’interno del corso di laurea “Lingue e culture europee”. Da segnalarei suoi seguenti saggi: Fondamenti di fonologia e di morfologia dello spagnolo (Torino, 2000), Usosescénicos del sueño en el primer Lope, in Sogno e scrittura nelle culture iberiche (Roma, 1998) e Latradución como modelo epistemológico en los programas universitarios de lenguas para enseñar, enseñar atraducir (in corso di stampa).

MARIA CARRERAS I GOICOECHEA (Barcelona [Spagna], 1965) è ricercatrice di letteratura e linguaspagnola presso l’Università di Bologna; insegna attualmente traduzione dall’italiano verso lo spagnolopresso la SSLMIT (Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori) di Forlì. Tra le sue pubblicazioni vannomenzionate: Anglicismo y lenguas de especialización: los prefijos de intensificación en italiano, catalán yespañol, in F. San Vincente (cur.), L’inglese e le altre lingue europee. Studi sull’interferenza linguistica,Bologna, Clueb, 2000, pp. 171-196, La Divina Commedia nelle versioni spagnole e catalane, in “Tratti.Fogli di letteratura e grafica da una provincia dell’Impero” 67 (2004), pp. 63-73 e La didáctica de latradución jurídica italiano-español, in Carmen Mata Pastor (cur.), Introducción a la traducción jurídicajurada italiano-español, Málaga, Comares (in corso di stampa).

LAURA GAVIOLI (Castelfranco Emilia [Modena], 1962) è professore associato presso l’Università diModena, ha insegnato per circa dieci anni presso la SSLMIT (Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori) diForlì (Università di Bologna); attualmente insegna “Linguistica inglese” all’interno del corso di laurea“Lingue e culture europee” presso l’ateneo modenese. Fra le sue pubblicazioni si ricordano alcuni articoli incui affronta il tema dell’apprendimento della traduzione attraverso il testo scritto, orale e cinematografico (Ildoppiaggio: Trasposizioni linguistiche e culturali, a cura di L. Gavioli, Raffaella Baccolini e Rosa MariaBollettieri Bosinelli, Bologna, Clueb, 1994, The learner as researcher: introducing corpus concordancing inthe classroom, in G. Aston (cur.), Learning with Corpora, Bologna, Clueb, 2001, pp. 108-137 e, insieme a E.Fogazzaro, L’interprete come mediatore: riflessioni sul ruolo sociolinguistico dell’interprete in unatrattativa d’affari, in G. Bersani Berselli, G. Mack e D. Zorzi (cur.), Studi sulla traduzione orale, Bologna,Clueb, 2004) e la monografia Exploring Corpora for ESP Learning (John Benjamins Pub.).

DEMETRIO GIORDANI (Roma, 1955), dottore di ricerca dell’École des Hautes Études en SciencesSociales di Parigi, insegna Storia dei Paesi Islamici come ricercatore presso l’ateneo modenese. Da segnalarele sue seguenti traduzioni: Abd Al-Rahmân Al-Sûlamî (932-1021), Introduzione al Sufismo (2001)(traduzione dall’arabo in italiano); L’inizio e il ritorno di Ahmed Sirhindi (2003) (traduzione dall’arabo e dalpersiano in italiano e francese); Appunti per un Commento alla Sûra CII (1992) + XCIV. Inoltre si ricorda ilsuo saggio Traduzioni e traduttori del Corano in H. Honnacker (cur.), Dieci incontri per parlare ditraduzione, “Materiali di discussione” 3 (2005), pp. 23-30 (http://www.lettere.unimo.it/dipslc/materiali/Honnacker% 20Modena%20-%20seminario%20-%20 pubblicazione.pdf).

HANS HONNACKER (Bonn [Germania], 1966) si è laureato in italianistica con una tesi sull’OrlandoFurioso all’Università di Firenze nel 1996. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Freie UniversitätBerlin nel 2000 e ha tradotto vari saggi della critica tedesca sulla letteratura italiana. Attualmente insegnaTraduzione Lingua Tedesca all’Università di Modena e Reggio Emilia. Tra le sue pubblicazioni si ricordanoi seguenti saggi: Der literarische Dialog des primo Cinquecento. Inszenierungsstrategien und ‘Spielraum’(Baden-Baden, Koerner, 2002), ‘Renaissance’ della traduzione nella didattica delle lingue straniere. La

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traduzione e la sua rivalutazione come processo interculturale di trasformazione in H. Honnacker (cur.),Dieci incontri per parlare di traduzione, “Materiali di discussione” 3 (2005), pp. 10-22 (http://www.lettere.unimo.it/dipslc/materiali/Honnacker%20Modena%20-%20seminario%20-%20 pubblicazione.pdf). Infine sisegnala la sua traduzione di K.W. Hempfer, Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nelCinquecento. Lo studio della ricezione storica come euristica dell’interpretazione, trad. di H. Honnacker,Modena, Panini, 2004.

EMILIO MATTIOLI (Modena, 1933), già professore ordinario di estetica all’Università di Trieste. Oltre aimportanti studi sul Sublime e su Luciano di Samosàta (Luciano e l’Umanesimo, Bologna, Il Mulino, 1980),Emilio Mattioli ha pubblicato molti saggi sulla traduzione fin dal 1965, fra gli altri: Introduzione al problemadel tradurre, apparso sulla rivista “Il Verri”, 19 (1965), in cui venivano discusse e criticate posizioni teoricheallora molto diffuse come quelle di Benedetto Croce o Roman Jakobson; Contributi alla teoria dellatraduzione letteraria (Palermo 1993), Per una critica della traduzione (“Studi di estetica”, 14 (1996) e Ritmoe traduzione (Modena, Mucchi, 2001), La traduzione letteraria (“Il confronto letterario”, 39 (2003), pp. 171-179) in cui Mattioli tira le somme delle sue riflessioni sulla traduzione, proponendo, sulla scia di HenriMeschonnic, una poetica della traduzione. A tale proposito è da segnalare anche la traduzione italiana diun’opera fondamentale del filosofo francese (H. Meschonnic, Un colpo di Bibbia nella filosofia, Milano,Medusa, 2005), introdotta dallo studioso modenese. Altre iniziative importanti di Mattioli sono la creazione ela direzione della più importante rivista di traduzione letteraria in Italia, “Testo a fronte”.

FRANCO NASI (Reggio Emilia, 1956) è ricercatore di Letteratura Italiana Contemporanea pressol’ateneo modenese. Dal 1998 al 2001 è stato Visiting Lecturer alla University of Chicago. Attualmenteinsegna Letteratura Italiana e Traduzione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha tradotto ecurato opere di estetica e teoria letteraria di S.T. Coleridge, W. Wordsworth, J.S. Mill, e raccolte di poesie diRoger McGough e Brian Patten. È curatore della raccolta di saggi Sulla traduzione letteraria. Figure deltraduttore – Studi sulla traduzione. Modi del tradurre, Ravenna, Longo, 2001 ed autore di Stile ecomprensione. Esercizi di critica fenomenologica sul Novecento, Bologna, CLUEB, 1999 e Poetiche intransito. Sisifo e le fatiche del tradurre, Milano, Medusa, 2004.

GIUSEPPE PALUMBO (Torre del Greco [Napoli], 1972) è attualmente ricercatore di “Lingua etraduzione inglese” presso l’ateneo modenese; si è occupato della traduzione specialistica (tecnologiadell’architettura) e ha lavorato sia come traduttore che come lessicografo. Fra le sue pubblicazioni nel campodella linguistica e della traduttologia ricordiamo: La localizzazione dall’inglese in italiano dei prodottisoftware: problemi e tendenze (Trieste, 1999), A Model for Translation-Oriented Terminography in theDomain of Building Construction (Vienna, 1999), I dizionari bilingui italiano e inglese su CD-Rom: unostrumento realmente innovativo (Trieste, 2001) e A Multilingual Translation Project in an AcademicContext: Lessons to be Learned (Leeds, 2005).

ALEARDO TRIDIMONTI (Sarsina, 1949) insegna Traduzione italiano-francese presso la Scuola Superioredi Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì – Università di Bologna e, presso l’ateneo modenese,Mediazione e Trattativa francese-italiano. Si segnala il suo lavoro sulla politica linguistica dell’UnioneEuropea: Europa: la vecchia signora che ama leggere romanzi d’amore ovvero la memoria dimenticata,MEP Model European Parliament, 2001. Di recente, ha pubblicato un’analisi della Industria delle lingue e imestieri della traduzione. Il traduttore tecnico, ingegnere della comunicazione multilingue e multimediale.Ha inoltre collaborato alla redazione del dizionario bilingue francese-italiano Larousse avancé (2005).

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TITOLI GIÀ PUBBLICATI IN QUESTA COLLANA

Nr. 1: Massimiliano Spotti, Constructing native speakers to be in the multilingualclassroom. A case study of the discourse of a monolingual primary teacher in BelgianFlanders (maggio 2004)

Nr. 2: Maria Chiara Felloni, Il plurilinguismo istituzionale all’interno dell’UnioneEuropea (settembre 2004)

Nr. 3: Hans Honnacker (cur.), Dieci incontri per parlare di traduzione (aprile 2005)(http://www.lettere.unimo.it/dipslc/materiali/Honnacker%20Modena%20-%20seminario%20-%20pubblicazione.pdf)

Nr. 4: Silvia Gaetani, Le lingue della communicazione scientifica (febbraio2006)