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TITOLO

Water connection

Le risorse energetiche in Asia Centrale

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A te, il mio porto... la mia tempesta.

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INDICE

3 Premessa

Capitolo Primo: Per una storia della regione

5 La Via della Seta

8 Il viaggio di Chang Ch’ien

9 La Via della Seta e le sue piste 12 La dominazione russa in Asia Centrale 15 Quale islam in Centro Asia ? 17 Il Great Game 19 La Seconda Guerra mondiale Capitolo Secondo: La disintegrazione dell’Impero sovietico 23 L’indipendenza delle cinque repubbliche 24 Le nuove sfide e le linee politiche delle cinque repubbliche 27 Un quadro politico 37 Le relazioni tra le cinque repubbliche Capitolo Terzo: Localizzazione delle risorse energetiche e dati regionali delle singole repubbliche 41 Kazakistan 43 Le risorse energetiche in Kazakistan 44 Problemi e potenziali economici 45 Rapporti economici con l’estero 46 Diritti umani 47 Uzbekistan, le risorse economiche 49 Kirghizistan, un quadro economico

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51 Tagikistan 52 Turkmenistan Capitolo Quarto: L’oro blu, il problema dell’acqua in Centro Asia 55 L’acqua, una risorsa scarsa 57 L’acqua, una risorsa strategica 59 L’acqua in Asia Centrale 61 Il disastro del lago d’Aral 68 Le quote dell’acqua e le controversie tra le diverse repubbliche Capitolo Quinto: Interessi politici e interessi economici nell’Asia Centrale 73 Gli interessi politici nella zona centroasiatica 74 Gli interessi USA nel contesto centroasiatico 77 Il ruolo della Cina 82 Gli interessi della Russia 84 L’Iran e la Turchia Capitolo Sesto: Il ruolo dell’Italia 89 La situazione energetica italiana 90 L’Italia nella regione centroasiatica 91 L’ENI in Kazakistan 93 L’Italia e la cooperazione allo sviluppo in Asia Centrale 97 Conclusioni 99 Bibliografia

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Premessa L’Asia Centrale è una zona del mondo che presenta caratteristiche estremamente particolari, una regione che nel corso della sua storia ha visto il passaggio di popoli, culture e religioni estremamente diverse tra di loro, una regione contraddistinta da forti contrasti, da luci e da ombre. Oggi, l’Asia Centrale costituisce un’area in cui si intrecciano interessi geopolitici, per via della posizione strategica che i suoi stati ricoprono all’interno dell’Eurasia e geoeconomici, in quanto la regione è ricca di petrolio e gas naturali. La regione dell’Asia Centrale è considerata molto importante per varie ragioni: gli stati di quest’area sono situati infatti in una posizione geografica di notevole rilevanza, la cosiddetta “Via della Seta”, e sono strategicamente importanti per i flussi commerciali tra Est e Ovest. Dal punto di vista economico, inoltre, la regione vede nei vasti giacimenti di petrolio e di gas, in particolare in Azerbaijan, Kazakistan e Turkmenistan una grande possibilità per lo sviluppo regionale, in quanto l’area considerata potrebbe diventare, entro il 2010, la più grande produttrice di risorse energetiche escludendo i paesi facenti parte dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio. Attraverso questa trattazione si cercherà di capire il ruolo che oggi l’Asia Centrale ricopre all’interno dello scenario geostrategico mondiale, prendendo in considerazione l’evoluzione che nel corso della storia questa parte del mondo è andata rappresentando, in modo particolare il ruolo svolto dalle cinque repubbliche centroasiatiche. Verrà analizzato in modo particolare il settore delle risorse energetiche, petrolio e gas, e sarà posto l’accento su quelli che sono i problemi legati alle risorse idriche all’interno della regione, osservando il disastro del lago d’Aral. Sarà fondamentale documentare quelli che sono gli interessi politici ed economici nella regione dei diversi attori internazionali quali Stati Uniti, Russia, Cina, Iran e Turchia, paesi questi per i quali l’approvvigionamento energetico costituisce una priorità della propria politica internazionale, saranno inoltre prese in considerazione le complesse relazioni internazionali intrattenute dalle cinque repubbliche con gli stessi paesi. Sarà poi analizzato il ruolo dell’Italia da due diversi punti di vista, la presenza economica e quella relativa alla cooperazione allo sviluppo del nostro paese all’interno dell’Asia Centrale, relativamente al problema idrico. L’analisi delle diverse fasi storiche sarà poi una premessa indispensabile per poter comprendere meglio quelli che oggi sono i fragili equilibri presenti in questa parte di mondo, le influenze di grandi imperi come quello zarista, l’influenza di una religione quale quella dell’Islam e gli scempi gestionali lasciati in eredità dalla politica del divide et impera di Stalin, non che l’arrivo inaspettato di una indipendenza non cercata. Sono questi, tutti elementi che si sommano e vanno a formare oggi quello che è uno degli scenari geostrategici più complicati all’interno del panorama politico mondiale. Il presente lavoro è stato possibile anche grazie al contributo della Regione Autonoma della Sardegna, volto a finanziare tesi di laurea aventi come oggetto i problemi della cooperazione internazionale e della cooperazione allo sviluppo.

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Capitolo primo Per una storia della regione La Via della Seta L’Asia Centrale dal punto di vista geografico è una terra di violenti contrasti. La maggior parte della regione è occupata da alte catene montuose e da estesi deserti poco adatti agli insediamenti umani; ma molte delle sue valli fluviali, il cui suolo è reso ricco e fertile dal loess, sono state occupate fin dai tempi remoti da insediamenti stabili; inoltre le falde delle colline è le steppe offrono condizioni eccellenti all’allevamento del bestiame. Dalle testimonianze archeologiche è stato accertato che l’uomo comparve in Asia Centrale fin dal periodo Paleolitico e che da allora in poi la regione non ha mai cessato di essere abitata.1 Il termine Via della Seta viene proposto e utilizzato molto spesso, citato in diverse occasioni e per indicare diverse cose ma in genere non si indica qualcosa di preciso e definito. Una prima domanda potrebbe essere: è un’antichissima strada che collega la Cina col Mediterraneo? O sono diverse strade? L’espressione Via Della seta è relativamente giovane, non ha infatti che un centinaio d’anni. Fu coniata dal geografo e geologo tedesco Ferdinand von Richthofen nel volume introduttivo della sua opera sulla Cina. Da quel momento il concetto di via della seta è stato utilizzato da tutti coloro che parlano di relazioni commerciali tra il Regno di Mezzo e l’Occidente durante oltre un millennio. Il termine esatto però dovrebbe essere “vie della seta”, il motivo va ricercato nel fatto che c’è stata non tanto una via della seta quanto una complessa rete di strade tra Est e Ovest e tra Nord e Sud, un vero e proprio network di collegamenti tra città, stati e popoli che venivano utilizzati per commerciare ma anche per portare avanti le varie conquiste territoriali. Queste antiche vie di comunicazione hanno rappresentato un vero e proprio crocevia di popoli e culture motivo per cui possiamo oggi notare l’estrema eterogeneità etnica e culturale che esiste nella regione centro asiatica. Inoltre queste vie, in modo particolare in epoche antiche, furono i luoghi dei fondatori di religioni, dei sacerdoti e dei monaci, di esploratori e di artigiani. Furono proprio questi uomini che si insediarono lungo queste strade impiantando caravanserragli e costruendo città funzionali ai commerci di cui oggi rimangono ancora delle rovine. In modo particolare questo discorso vale per le vie meridionali che videro un traffico estremamente intenso. Per quanto riguarda la situazione del Nord invece, esattamente in quei territori tra la Mongolia, la Siberia e le steppe della Russia Asiatica, là ebbe inizio quel millenario movimento fra Est e Ovest che fu caratterizzato dalla dinamica vita dei popoli nomadi, i quali disponevano del più veloce mezzo di trasporto dell’epoca: il cavallo. Il movimento dei popoli del Nord asiatico è sempre stato caratterizzato fin dai primordi dalla costante inquietudine della vita nomade. Ciò era dovuto dalla necessità di trovare sempre nuovi pascoli per le greggi e foraggio per i cavalli. Questo continuo spostarsi portava ovviamente anche a scontri con le varie popolazioni sedentarie, in modo particolare a oriente con i contadini cinesi, a occidente con i coloni e i contadini inurbati della Siria e della Mesopotamia. Si sviluppò quindi quella proverbiale aggressività nomade che trova nella crudeltà degli 1 Aleksandr Belenitsky, Asia Centrale, Edizioni Nagel, Ginevra, 1975, p.15.

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Unni come dei Mongoli la sua espressione più chiara. Andò quindi sviluppandosi tra i nomadi una mentalità da predoni. La rapina e il saccheggio non scaturivano però dalla voglia di attaccare e aggredire quanto piuttosto dalle incursioni dei sedentari che con la colonizzazione e la coltivazione della terra restringevano gradualmente i pascoli, vitali per la sopravivenza dei nomadi e delle loro tribù. Inizia così quella costante della regione centro asiatica e cioè la contrapposizione tra popolazioni nomadi del Nord e popolazioni sedentarie del Sud, due opposte forme di vita. Un contrasto che si configura come espressione di una continua lotta per l’esistenza. Anticamente esistevano delle piazze dove i nomadi si incontravano per scambiarsi merci e novità. Queste piazze erano situate nei pressi delle oasi, intorno ai punti d’acqua o in particolari punti deserti o delle steppe. Non a caso perfino le strade passavano di là, in quanto venivano seguiti gli itinerari più sicuri, la migliore transitabilità del terreno, evitando i tratti esposti a rapine, bestie feroci e tempeste di sabbia. L’esperienza andava dunque tracciando delle strade, larghe cento metri o più, che rappresentavano non tanto la via più breve tra due punti quanto quella meno esposta a pericoli e quindi la più sicura. Saranno proprio questi percorsi che diventeranno le vie di comunicazione per le grandi distanze, lungo le quali sorsero punti di sosta, caravanserragli, insediamenti e infine vere e proprie città fortificate. Con la seconda dinastia cinese e cioè quella degli Han, la Cina aveva raggiunto una certa stabilità economica, che non sarebbe stato possibile mantenere senza espansione e senza un commercio internazionale. La produzione della seta aveva raggiunto nel primo periodo Han un elevato volume da coprire non solo il fabbisogno interno ma necessitava anche di mercati esterni di sbocco. La seta non veniva utilizzata solo per l’abbigliamento ma per tutta una serie di altri usi. Infatti con la seta grezza venivano creati cordoncini, corde per strumenti musicali, contenitori a tenuta stagna per il trasporto dei liquidi, masse isolanti e recipienti. I prodotti realizzati quindi con la seta grezza erano veramente i più svariati. Ma sulla Via della Seta transitavano molte altre merci, le carovane dirette in Cina infatti erano cariche di oro e altri metalli di valore, pezze di lana e lino, avorio, corallo, ambra, pietre preziose, asbesto e vetro, il quale non fu prodotto in Cina sino al V secolo. Le carovane invece in partenza dalla Cina trasportavano pellicce, ceramiche, ferro, lacca, scorze di cannella e rabarbaro non che oggetti in bronzo come fibbie, armi e specchi. Per questo motivo si rendeva indispensabile aprire mercati raggiungibili e ricettivi i quali dovevano superare ampiamente le piccole piazze commerciali, il più delle volte occasionali ed esistenti già da secoli. Bisognava quindi intensificare commercialmente i collegamenti esistenti e collegarne dei nuovi2. Bisogna notare come non tutte le merci trasportate viaggiassero per l’intera lunghezza della Via della Seta, molti degli articoli venivano barattati o venduti nelle oasi o nelle città lungo la strada, dove venivano rimpiazzati da altre merci, come la giada. Un’altra questione fondamentale era la sicurezza di queste vie commerciali, agli inizi infatti il commercio mancava di ogni sorta di protezione e sicurezza per i mercanti in viaggio, fattore che già da allora si ripercuoteva sui i prezzi delle merci. L’insicurezza e la pericolosità di queste vie contraddistinse la via della seta come una delle più insicure e pericolose strade della terra. Ragione per cui la dinastia Han dovette affrontare tra i vari problemi, quello della sicurezza delle frontiere settentrionali, continuamente minacciate dalle invasioni dei nomadi del Nord. La sicurezza delle frontiere non poteva essere garantita da una semplice politica difensiva basata sulla sorveglianza della Grande Muraglia perché ci sarebbero sempre stati sconfinamenti e

2 Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Adelphi, Milano, 2006, p. 43.

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incursioni, magari solo da parte di piccoli gruppi, occorreva quindi passare all’offensiva, in modo da incutere terrore ai barbari e scoraggiarli da ulteriori aggressioni. Questa inversione di tendenza si ebbe grazie all’imperatore Wudi(140-85 a.C), terzo della dinastia Han. Egli ritenne infatti che dopo settant’anni di consolidamento dell’impero fosse giunto il momento di portare un attacco diretto contro le popolazioni dei territori occidentali, rompendo il tradizionale sistema di “armoniosa parentela”. I motivi di questa decisione vanno ricercati in particolar modo nell’intenzione di espandere i commerci attraverso le vie carovaniere nei territori in cui i barbari possedevano punti strategici e di eliminare definitivamente la minaccia di incursioni che periodicamente incombeva nei territori di confine. Il nord della Cina fu quasi completamente liberato da scorrerie per quindici anni e le vie carovaniere divennero relativamente sicure.3 Il termine Via della Seta può in qualche modo essere fuorviante, infatti come si è già detto non esisteva un’unica via ma ben si svariate. In passato si era dell’opinione che fosse esistita una sola via tra la Cina e l’Occidente, immutata nei secoli. Si era sicuramente consapevoli del fatto che esistessero vie carovaniere che portavano a Sud e a Sud Ovest, verso l’India e la Persia, ma per quanto riguardava la via che si spingeva sino al mediterraneo orientale, si credeva fosse stato il più antico collegamento con l’Occidente: una via commerciale che conduceva alle coste del Mediterraneo, passando per la provincia del Kansu e il bacino del Tarim settentrionale per i passi del Pamir verso l’Afghanistan, la Persia, la Siria e l’Anatolia. Sicuramente durante la dinastia Han questa fu in effetti la strada più utilizzata, ma la via più antica della quale ancora oggi si ignora quando per la prima volta fu utilizzata come strada commerciale, portava dal Kansu, a Nord dei Monti del Cielo, nella così detta zona boschiva della Russia asiatica meridionale, sino ad arrivare alla foce del Don, nel Mar d’Azov. A partire da questo punto esisteva un antichissimo sistema stradale ramificato che portava in alcuni territori dell’Asia settentrionale e dell’Europa orientale e conduceva anche nel Nord dell’Europa. Come si può quindi notare non esisteva un’unica via commerciale ma svariate, a tal punto una precisa ricostruzione dell’esatto tracciato delle vie della seta risulta arduo, ciò è dovuto dal fatto che tutte le località citate negli antichi annali, sia orientali che occidentali, riportano nomi diversi a seconda della fonte. I nomi non cambiano solo col passare dei secoli ma sono differenti pure nella medesima epoca a seconda della lingua in cui essi venivano riportati. Una questione particolarmente complessa da decifrare, ad esempio, sono le differenze tra i nomi delle città usati dagli autori cinesi e quelli invece utilizzati dai loro contemporanei greci e romani. Il problema non è solo linguistico ma anche cercare di pulire le informazioni da quelle che erano le leggende che andavano facendosi largo dovute alle grandi distanze che le informazioni dovevano compiere prima di giungere a destinazione. In base alle informazioni certe e verificate archeologicamente si può partire dal fatto che sono esistiti tre grandi collegamenti, dei quali il più antico puntava con tutta probabilità verso sud, unendo la Cina all’India e all’Asia meridionale. La prima via per l’Europa era sicuramente l’itinerario settentrionale che non può però essere considerato un collegamento ininterrotto. La strada meridionale, cui Ferdinand von Richtofen diede il nome Via della Seta, era indubbiamente la più recente ma anche la più nota via commerciale dalla Cina all’Occidente, e quella utilizzata con maggior frequenza nel corso dei secoli.

3 Piero Corradini, Cina, popoli e società in cinque millenni di storia, Giunti, Firenze, 1996, pp. 108-109-110.

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Da queste tre grandi arterie si diramavano naturalmente tutta una serie di vie secondarie attraverso le quali i vari prodotti giungevano al consumatore.

(Cartina reperibile nel sito http://www.silab.it/storia/?pageurl=00-atlante-storico-on-line)

Il viaggio di Chang Ch’ien Come detto in precedenza uno dei maggiori problemi che dovette affrontare la dinastia Han fu quello di contrastare le invasioni delle popolazioni nomadiche del Nord, rappresentate dagli Hsiung-nu4. L’imperatore Hu-ti che portava il titolo ufficiale di “Figlio del Cielo”, vene a sapere da prigionieri Hun che alcuni anni prima essi avevano sgominato un altro popolo centro asiatico, gli Yueh-chin. Dopo aver usato il cranio del loro condottiero sconfitto come calice, li avevano costretti a fuggire a Ovest, oltre il deserto del Takla Makan, e qui, riferirono all’imperatore, essi aspettavano di vendicarsi della loro sconfitta, ma non prima di aver trovato un alleato. Hu-ti decise quindi immediatamente di stringere rapporti con gli Yueh.chin allo scopo di sferrare un attacco simultaneo contro gli Hsiung-nu, di fronte e alle spalle.

4 Dell’esistenza degli Hsiung-nu si è appreso da fonti cinesi, in modo particolare fondatore della <unnologia> fu l’autore delle Memorie storiche Ssu-ma Ch’ien, vissuto nel II secolo prima della nostra era. Gli Hsiung-nu hanno lasciato un’orma profonda nella storia del mondo. Mossi dall’Asia orientale verso occidente essi si stanziarono nelle vicinanze degli Urali presso gli Ugri. Si fusero con questi e formarono un nuovo popolo che divenne noto in Europa col nome di Unni. Ancora oggi la parola <unno> suona spesso come sinonimo di selvaggio sanguinario, e non senza ragione, in quanto gli Hsiung-nu nel corso di un millennio comparvero non solo come costruttori ma spesso come distruttori. L.N.Gumilev, Gli Unni, Einaudi, Torino, 1972, p. 1.

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Cercò dunque un volontario adatto alla pericolosa missione, pericolosa in quanto per raggiungere la città degli Yueh-chin bisognava attraversare il territorio controllato dagli Hun. Chang-Ch’ien, funzionario della casa imperiale, si presentò volontario e fu così accettato dall’imperatore. Pur non riuscendo a raggiungere l’obbiettivo specifico della missione, il suo viaggio si rivelò uno dei più importanti della storia, perché avrebbe condotto la Cina a scoprire l’Europa e avrebbe fatto nascere la Via della Seta. Nel 138 a.C Chang-Ch’ien partì con una carovana di cento uomini determinati ad affrontare la sfida degli Hun. Ma in quello che oggi è il Kansu vennero assaliti dagli Hsiung-nu e i superstiti furono catturati e trattenuti prigionieri per dieci anni. Chang fu trattato bene e gli fu perfino assegnata una moglie. Continuando a pensare alla fuga per proseguire il viaggio verso l’Ovest, riuscì a tenere nascosta la sua vera missione e identità. Man mano i suoi carcerieri gli concessero sempre più libertà e fu così che Chang riuscì ad evadere con quello che rimaneva della sua scorta e riprese il cammino verso la meta della sua missione. Raggiunse finalmente il territorio degli Yueh-chin solo per scoprire che negli anni trascorsi dalla loro sconfitta essi avevano ormai prosperato e non avevano più intenzione di vendicarsi degli antichi nemici.5 Chang rimase comunque un anno presso questa popolazione, raccogliendo tutte le informazioni possibili su di loro e sugli altri Stati e tribù dell’Asia Centrale. Al suo ritorno presso la corte degli Han, esattamente tredici anni dalla sua partenza, egli presentò il suo rapporto all’imperatore, e dei cento uomini partiti al suo seguito solo uno insieme a lui fece ritorno. Le informazioni che Chang-ch’ien portò con se, di carattere politico, militare, economico e culturale, fecero sensazione alla corte degli Han. Si apprese tutto sui ricchi e fino ad allora sconosciuti regni del Fergana, Samarcanda, Buchara e Balkh (ora in Afghanistan). Si apprese per la prima volta anche l’esistenza della Persia e probabilmente di Roma. Ma cosa molto importante fu apprendere l’esistenza di una nuova e stupefacente razza di cavalli da guerra provenienti dal Fergana. Sarà proprio grazie a questi animali che gli Han riusciranno a contrastare la temibile cavalleria degli Hun.6 La Via della Seta e le sue piste Come detto in precedenza la Via della Seta acquisì questo nome così evocativo solo in tempi relativamente recenti. Non solo la seta veniva trasportata lungo queste vie che attraversavano la Cina, il Centro Asia e il Medio Oriente ma bensì tutta un’altra serie di prodotti. Man mano che gli anni passavano con l’avanzare delle frontiere cinesi spinte sempre più a ponente dai vari imperatori Han, queste vie restavano sempre più spesso alla mercè dei predoni Hun, Tibetani e di altre popolazioni. Si rese quindi necessario un continuo presidio per garantire i vari flussi economici e proteggerli dalle varie razzie. L’origine della Via della Seta era collocata esattamente nell’antica capitale cinese di Ch’ang-an, l’odierna Sian e puntava a nordovest passando per il corridoio del Kansu

5 Peter Hopkirk, op cit. pp. 34- 35- 36. 6 Hu-ti comprese infatti da subito che questi cavalli sarebbero stati l’arma ideale contro gli Hun. Inviò allora una missione a Fergana per acquistare questi cavalli, ma i suoi inviati furono uccisi lungo il percorso e lo stesso capitò alle missioni successive. Venne deciso allora di inviare un vero e proprio contingente per assediare Fergana . Nonostante questo i suoi abitanti radunarono tutti i cavalli e si rinchiusero con il loro patrimonio equino all’interno della città fortificata, minacciando di uccidere se stessi e i loro preziosi destrieri se i cinesi si fossero avvicinati troppo. Alla fine si riuscì a trattare una resa onorevole e i cinesi tornarono a casa con i cavalli tanto agognati. Peter Hopkirk, op.cit. p. 37.

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verso l’oasi di Tun-huang nel deserto di Gobi, città di frontiera. Lasciando il Tun-huang e passato il famoso Cancello di Giada o Yu-men-kuan, si divideva offrendo alle carovane la scelta tra due itinerari attorno al perimetro del deserto del Takla Makan. Di queste due vie la più settentrionale puntava dritta attraverso il deserto, verso Hami. Poi costeggiando le colline del Tien Shan o <<Montagne Celesti>>, seguiva la linea di città oasi che punteggiavano il margine settentrionale del Takla Makan, passando per Turfan, Karashahr, Kucha, Asku, Tumchuq e Kashgar. La pista meridionale, invece si infilava tra i contrafforti settentrionali del Tibet e il bordo del deserto, anche qui seguendo la città oasi e cioè Miran, Endere, Niya, Keriya, Khotam e Yarkand. Da qui svoltava a Nord intorno all’estremità del Takla Makan, per congiungersi alla pista settentrionale a Kashgar. Da Kashgar la Via della Seta continuava verso occidente iniziando l’ascesa dell’alto Pamir, il tetto del mondo. In questo punto usciva dal territorio cinese per entrare in quella che è oggi l’Asia Centrale, continuando per Khokand, Samarcanda, Buchara, Merv e poi attraversando la Persia e l’Iraq, fino alla costa del mediterraneo, dove le merci venivano caricate sulle navi per arrivare via mare a Roma e ad Alessandria. Vi era un altro ramo il quale abbandonava la pista meridionale all’estremità occidentale del Takla Makan e prendeva la via di Balkh, oggi nell’Afghanistan settentrionale, per poi raggiungere a Merv la via della seta diretta a ponente. Un’altra fondamentale via di raccordo, questa volta verso l’India, lasciava la pista meridionale a Yarkand e scalava i rischiosi passi del Karakorum fino alle città di Leh e Sringar, per iniziare la discesa verso i mercati costieri di Bombay. Esisteva però ancora un altro ramo al termine orientale della Via, questo era noto ai cinesi come << la Via del Centro>>. Passato il cancello di Giada, costeggiava la riva settentrionale del <<Lago errante>> di Hedin a Lop-nor e passava per l’importante oasi di Lou-lan prima di raggiungere la pista settentrionale.7 Una questione fondamentale da prendere in esame riguarda il fatto che la sopravivenza della Via della Seta dipendeva esclusivamente da tutta una serie di oasi che circondavano il perimetro del Takla Makan, disposte tutte in modo strategico e quindi a pochi giorni di marcia l’una dall’altra. Vitali per queste oasi erano i fiumi glaciali che scorrevano dalle vaste catene montuose disposte a ferro di cavallo attorno ai tre lati del grande deserto, infatti la sopravivenza sarebbe stata impossibile se non ci fossero stati i corsi d’acqua che precipitavano giù dalle montagne irrorando il deserto. Grazie all’intelligente sfruttamento di quelle acque per mezzo di elaborati sistemi di irrigazione, il popolo delle oasi si era reso autosufficiente con l’agricoltura. Se per una qualsiasi ragione l’irrigazione veniva trascurata o interrotta per qualche tempo, il deserto riprendeva allora il soppravvento. L’oasi avrebbe quindi dovuto essere abbandonata e ogni segno di insediamento umano sarebbe scomparso sotto la sabbia. Queste vere e proprie città oasi andavano aumentando man mano che il traffico sulla Via della Seta si intensificava. Man mano che il tempo passava le oasi più grandi e prospere imposero la loro influenza sulle zone circostanti, salendo al rango di principati feudali indipendenti.8 Questo intreccio di vie carovaniere come detto all’inizio non fu solo veicolo di merci e genti ma anche di culture e religioni. Importante fu il ruolo che questo insieme di vie di comunicazione ebbe nel diffondere quel credo che avrebbe rivoluzionato l’arte e il pensiero non solo in Cina ma in tutto l’Estremo Oriente, il Buddhismo. Questa dottrina indiana che predicava la non violenza, l’amore universale e la cessazione del

7 Peter Hopkirk, op cit. pp. 38- 39. 8 Peter Hopkirk, op cit. p. 40.

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dolore nell’annullamento completo, il Nirvana. Il buddhismo giunse in Cina passando per il Centro Asia nella così detta forma del Grande Veicolo o mahayana. Con l’aumentare delle conversioni alla nuova fede, i pellegrini in cerca delle sue fonti originarie, delle scritture e dei luoghi sacri presero a incamminarsi lungo la Via della Seta verso occidente. Oltrepassarono i passi del Karakorum e del Pamir, raggiunsero Gandhara, ormai una seconda terra santa per i buddisti e si spinsero fino alla stessa India. Molti di loro lasciarono dettagliate descrizioni della via nelle ormai fiorenti città-oasi del Takla-Makan. Ma il buddismo non fu la sola religione straniera che arrivò in Cina attraverso la Via della Seta. Altri due culti trovarono rifugio nel Takla-Makan, il Cristianesimo Nestoriano e il Manicheismo. I nestoriani che negavano la duplice natura del Cristo, umana e divina, furono messi fuori legge nel 431 d.C. dal Concilio di Efeso9. Molti fedeli nestoriani fuggirono in Oriente presso l’Impero Sassanide, nell’attuale Iran. Da lì i mercanti-missionari diffusero il loro credo sino ad arrivare in Cina dove la prima chiesa nestoriana fu consacrata a Ch’hang-an nel 638. Arrivò in Cina lungo il ramo settentrionale della via, motivo per cui il Cristianesimo Nestoriano si diffuse anche nelle varie città-oasi. Il Manicheismo, invece, nacque in Persia nel III secolo d.C. e si fondava sull’opposizione di due principi, la luce (lo spirito) e l’oscurità (la carne). In occidente i discepoli di Mani10 furono crudelmente perseguitati dai cristiani alla fine

9 Il concilio di Efeso fu indetto per confutare le tesi di Nestorio (381-451), il quale sosteneva che in Cristo vi erano due nature e due persone, mentre il Concilio afferma in Gesù una sola persona, quella divina. Inoltre Maria fu proclamata solennemente madre di Dio (theotokos). [www.linguaggioglobale.com]. 10 Il termine manicheismo trae la sua origine dal nome del fondatore Mani (216-276 d.C.), un persiano nato nella Babilonia del nord. La religione che egli fondò aveva chiare pretese di tipo universale. Essa doveva essere la rivelazione definitiva capace di soppiantare quelle esistenti. Mani formulò le sue idee sul perche‚ ed il come della realtà cercando d'integrare ed amalgamare tra loro in modo più o meno coerente elementi persiani, cristiani e buddisti. Il sistema è dunque costituito da un intreccio di frammenti che rispondono ad una sensibilità assai diffusa. Come caratteristica centrale del manicheismo si può indicare il forte dualismo che costituisce la struttura portante dell'intero edificio. Si può così affermare che il manicheismo appartiene da un lato al variegato ambito dello gnosticismo e dall'altro costituisce un fenomeno a sé, poiché è una religione universale munita di sacre scritture e di un fondatore vero e proprio. Ancora più fortemente che nei movimenti gnostici, il manicheismo afferma la netta opposizione tra il principio della Luce e quello delle Tenebre. In un certo senso esso costituisce proprio la forma più perfetta di gnosticismo, perch‚ in esso domina in modo radicale l'elemento dualistico e rimane fortemente ostile all'Antico Testamento. Nel linguaggio comune del mondo contemporaneo, il termine «manicheo» evoca proprio ogni atteggiamento che contrappone alla drastica condanna l'esaltazione esclusiva. Mani proveniva da una setta di cristiani giudaizzanti ed era stato impressionato dalla lettura di apocalissi. Quando ricevette le sue «rivelazioni», si autoproclamò «Apostolo di Gesù Cristo» e cominciò a predicare. Per più di trent'anni percorse la Mesopotamia, la Persia e raggiunse persino l'India. Si disse che aveva il potere di liberare da demoni e malattie. Dotato anche di doti artistiche, non solo si vestiva in modo sgargiante, ma compose diverse opere (nove), tra l'altro una che propagandava in modo visivo le sue idee anche per coloro che non sapevano leggere e che registrò un notevole successo. Egli venne ucciso in maniera feroce ed il movimento fu oggetto anche in seguito di notevoli persecuzioni da parte del cristianesimo e degli imperatori romani. Anche a causa di ciò, le fonti sono diventate accessibili solo in questo secolo. La diffusione del manicheismo avvenne soprattutto ad opera di missionari zelanti che estesero la loro influenza non solo in Siria ed in Palestina, ma persino in Africa, Europa e Cina. Essi svolsero un'intensa opera di proselitismo ed in particolari regioni rappresentarono un consistente pericolo per il cristianesimo. Tra i suoi seguaci si può contare lo stesso Agostino. Con la sua conversione egli prese le distanze da tale movimento, anche se qualche accento, come l'ossessione del tempo, sembra risentire dello sfondo manicheo. Al loro interno i manichei erano organizzati in modo gerarchico con un organigramma assai articolato. Si distinguevano in una élite di «eletti» e in una massa di fedeli «uditori». Questi ultimi offrivano quotidianamente agli eletti doni di frutti che si pensava possedessero molta luce. Gli eletti erano dal canto loro asceti e vegetariani, occupavano cariche di responsabilità e potevano compiere riti sacri. Il passaggio dalla

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del V secolo. Fuggirono quindi verso oriente raggiungendo alla fine l’Asia Centrale cinese e la Cina, dove si stabilirono definitivamente sotto le dinastie Sui (589-618) e T’ang (618-907). Questa fede, che aveva fuso le contrastanti credenze del cristianesimo e dello zoroastrismo, conobbe il suo apogeo nel X secolo. In seguito declinò gradualmente fino a sparire dalla Cina. Analizzare la Via della Seta è dunque utile per avere un’idea e capire come la regione dell’Asia Centrale abbia rappresentato lungo la sua storia un vero e proprio crocevia di popoli, culture e religioni. Questo è un comodo strumento per capire l’attuale situazione etnica e culturale di queste regioni, estremamente frammentate al loro interno. Molti dei problemi che si sono verificati in passato e che ancora oggi si manifestano derivano proprio dall’estrema eterogeneità che è tipica di questa parte del mondo e una loro comprensione non può prescindere da una analisi storica che rintracci le cause prime di queste divisioni. La dominazione russa in Asia Centrale Nel settimo secolo d.C la zona centro-asiatica conobbe l’arrivo dell’Islam. L’Islam arrivò e si diffuse in maniera molto rapida, a tal punto che solo dopo duecento anni esso conobbe una completa diffusione in questi territori, territori che è bene ricordare sono si stati islamizzati ma non arabizzati. Islamizzati in modo violento tramite le armate arabe e quindi le conversioni avvenivano per lo più per potersi salvare la vita. Al suo arrivo l’Islam trovò già uno strato culturale ben definito con i propri credi.

condizione di uditore a quella di eletto non richiedeva solo un radicale cambiamento, ma era possibile solo col beneplacito degli eletti, che costituivano gli unici giudici in capitolo. I manichei erano inoltre organizzati in piccoli gruppi per far sì che la propria religione potesse diffondersi nel modo più ampio possibile e nel medesimo tempo per poter avere maggiori possibilità di sopravvivenza in occasioni di persecuzioni. Il manicheismo conobbe una vasta diffusione e prolungò i suoi effetti nel tempo non solo come religione a sé, ma anche come concezione che permeava altre espressioni religiose. Ecco perché molti, pur non dichiarandosi manichei, prolungano lo stesso spirito in contesti apparentemente assai lontani. Verso il VI secolo il manicheismo registrò un certo declino soprattutto in Occidente. Dopo il VII secolo, il movimento «pauliciano», che si sviluppò in Armenia, ripudiò il manicheismo, ma per certi versi rimase influenzato dal suo dualismo. Verso il X secolo esso raggiunse la Bulgaria e contribuì allo sviluppo dei bogomili che fiorirono nei Balcani nei secoli XI e XII. Ad essi possono essere collegati i catari e gli albigesi che si diffusero nei secoli XII e XIII nella Francia meridionale ed in Italia. Nella visione cosmica di Mani si possono almeno fissare alcuni elementi orientativi che nei dettagli diventano assai complessi. Per lui esistono due principi indipendenti e contrapposti: il bene ed il male, la Luce e le Tenebre, Dio e la materia. In un primo periodo questi principi erano rigorosamente contrapposti, nella seconda fase erano mescolati ed in quella finale dovranno essere nuovamente separati. L'universo è quindi stato creato per liberare la Luce e per punire ed imprigionare gli arconti delle Tenebre. Il contrasto tra il regno dello spirito (bene) e quello della materia (male) è estremamente radicale. C'è quindi un Dio pensato come estraneo al mondo ed un altro inferiore, il Demiurgo, che ha creato e domina questo mondo. L'organizzazione del mondo costituisce quindi una mescolanza d'elementi buoni ed elementi cattivi. La salvezza consisterebbe allora nel fuggire dal regno della materia. Ciò avverrebbe attraverso la conoscenza di sé, o meglio, un riconoscersi e recuperare il proprio vero «io» che era sprofondato dal miscuglio col corpo e la Materia. Fortemente influenzato dal platonismo, il manichesimo sostiene quindi l'idea di un combattimento permanente tra due mondi. L'anima umana sarebbe in grado d'essere risvegliata dalla conoscenza che la renderebbe cosciente della sua origine divina. L'anima dell'uomo sarebbe della stessa sostanza divina, come dire, una parte di Dio stesso precipitata in basso. Ciò che bisogna salvare è l'anima dell'uomo, ma l'elemento che permette ciò è proprio il suo spirito o la sua intelligenza. Dio salverebbe se stesso attraverso l'uomo e l'uomo si salverebbe a sua volta attraverso la particella del divino che lo abita. [www.riforma.net/apologetica].

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Nelle zone del nord erano presenti tutta una serie di popolazioni organizzate in gruppi e che daranno vita alle popolazioni russe che man mano si divideranno andando a formare i vari principati. Queste popolazioni hanno resistito all’islamizzazione in quanto anteponevano una cultura, quella cristiana, forte abbastanza da resistere ai vari flussi esterni. Allo stesso tempo l’islam per le popolazioni dell’Asia Centrale è servito come una sorta di grande coperta culturale che ha consentito di conservare le proprie tradizioni dalle diverse invasioni lungo la sua storia, una per tutte, quella mongola.11 Nel 1237 arrivano dall’oriente i mongoli di Gengis Khan, questa espansione nomadica non avviene per motivi di costrizione ma bensì per scelta. Gengis Khan stava iniziando la sua espansione e la costituzione di quello che sarà il suo impero. Nell’arco di un secolo, esattamente tra il 1250 e il 1350 circa, i conquistatori mongoli, che dopo aver compiuto devastazioni e massacri, iniziarono ad adottare una politica di tolleranza verso le altre culture, riunendo i territori del continente euroasiatico, unificando per la prima volta le tribù nomadi e fondando il più ampio impero della storia. La così detta Pax mongolica instaurò un periodo di civiltà e di sviluppo lungo la via della seta.12Da un punto di vista etnico si ebbe la diffusione dei popoli turchi nell’Asia occidentale, infatti di per se i mongoli erano poco numerosi, in quanto provenienti da terre aride e poco fertili. Dunque Gengis Khan integrò il suo esercito con uomini delle tribù su cui poteva contare, aumentando quindi la presenza e la diffusione dei Turchi in Asia Centrale, facendo così avanzare la lingua turca attraverso l’Asia mediante gli eserciti mongoli. Gengis Khan morì nel 1227 lasciando in eredità un impero diviso secondo il sistema tradizionale dei clan mongoli che mirava a perpetuare l’unità dei domini per mezzo del vincolo familiare, vale a dire tra i suoi figli, i quali si espansero lungo la Siberia travolgendo i regni dei selgiuchidi in Anatolia, occuparono Damasco per essere però fermati dai Mamelucchi. La presa di Baghdad, saccheggiata per una settimana segnò la fine del califfato universale(1258).13 Nella divisione dell’impero, territori dell’Orda d’oro toccarono ai figli del suo primogenito e si estendevano esattamente dall’Ucraina a Mosca, comprendendo tutto il Kazakistan occidentale e parte di quello settentrionale. Al secondogenito Chaghatai andò la maggior parte degli attuali Kazakistan, Uzbekistan, Afghanistan e Xinjian occidentale, andando a formare così il Khanato di Chaghatai. Al figlio di Ogedei andò la parte di terre compresa tra il Khanato di Chaghatai e l’Asia mongola. I khan di Chaghatai mantennero inizialmente uno stile di vita nomade ,successivamente iniziarono a stanziarsi mostrando una tendenza a volersi islamizzare. Fu questo il motivo per cui a metà del XIV secolo il Kanato si divise in due: Chaghatai musulmano in Transoxiana e il ramo più conservatore nel Tien Shan, a Kasghar, nelle steppe a Est e a Nord del Syr Darja Espandersi significava arricchire il proprio patrimonio ma soprattutto potersi sostituire a quello che allora era l’Impero cinese. Particolarità della popolazione mongola era quella di non voler imporre la propria cultura o i propri credi ma anzi quella di lasciarsi assimilare, solo così infatti era più semplice potersi espandere il più possibile. Al loro arrivo i mongoli appartenevano a diversi culti compreso il cristianesimo, che venne loro fatto conoscere dai missionari presenti in Cina. Nelle zone centro-asiatiche erano si presenti diverse culture ma i mongoli trovarono anche quella coperta che era l’Islam e fu per questa ragione che essi si lasciarono islamizzare. In questo caso infatti si parla di popolazioni Turco-Mongole. Nella loro espansione i mongoli riuscirono ad arrivare

11 Annamaria Baldussi, Lezioni del corso di Storia e istituzioni del Medio ed Estremo Oriente, A.A 2006/2007. 12 Manlio Masnata, Caucaso e Asia Centrale, Globe, Roma, 2006, p. 156. 13 Manlio Masnata, op cit. p. 157.

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sino alle porte di Vienna e fu nel momento del loro ritorno che impattarono contro i vari principati russi. Quello che in origine, nel decimo secolo, era un agglomerato di principati slavi finì sotto la dominazione mongola dal 1238 al 1462. Alla fine però, liberandosi dal governo dei mongoli, furono i principi della Moscovia a emergere in qualità di “zar di tutte le Russie” . La culla dell’impero russo fu Kiev, dove intorno al 980 arrivò il granduca russo Vladimiro dopo aver assassinato il fratello per potersi garantire il trono. Poco più che trent’enne inaspettatamente si rivoltò contro gli dei pagani. Motivo di questo comportamento fu il fatto che egli sapeva bene che i vicini re di Polonia, Ungheria, Danimarca e Norvegia si erano recentemente convertiti al Cristianesimo latino. Ma a differenza di questi egli non seguì il loro esempio, fece invece arrivare alla sua corte chi difendeva l’Islam, chi il Giudaismo e chi il Cristianesimo. La scelta finale cadde sul Cristianesimo ortodosso in quanto giudicava gli ebrei troppo dispersi e credeva che i suoi sudditi si sarebbero potuti ribellare al bando dell’alcol previsto dalla religione musulmana. Ma fu sotto Ivan il terribile che si affermò la preminenza della Moscovia. Ivan IV fu incoronato nel 1547 zar di tutte le Russie dal metropolita ortodosso Macario. Ivan fu il primo principe di Moscovia a essere incoronato come zar e questo simbolicamente aveva una grande importanza. Egli riuscì a conquistare Kazan, che i russi presero d’assalto nel 1552, ciò rappresentava in tutti i sensi la nascita di un impero. Kazan infatti era situata a 425 miglia a est di Mosca e faceva parte dei khanati indipendenti generati dall’Orda d’Oro di Gengis Khan. L’Orda era riuscita a sopravvivere per più di un secolo dopo la morte nel 1227 di Gengis Khan e c’erano voluti tutta una serie di ripetuti colpi per poterla dissolvere, come ad esempio i vari conflitti tra tribù nomadi e sedentarie, la Morte Nera e l’ascesa in Asia Centrale di Tamerlano14, un signore della guerra rivale. Tra gli stati successori c’erano i khanati di Kazan sul medio Volga, Astrakan sul basso Volga e il kanato di Cimea a Bakhchisarai, tutte nazioni di etnia mongola o turca e quasi tutte di religione musulmana. Bisogna notare come in teoria la Moscovia e diversi altri principati russi erano vassalli dei mongoli, noti tra l’altro anche con il nome di tatari, ma in pratica i principi ortodossi collaboravano raramente con i loro signori islamici. Prima di Ivan furono diversi i tentativi portati avanti dai suoi predecessori di liberarsi dal giogo mongolo, tutti però rivelatisi inutili. Nel 1552, come già detto, Ivan e il suo corpo di spedizione formato da centocinquantamila cavalieri cinsero d’assedio Kazan. Contribuì sicuramente all’ardore dei russi nel combattere, il fatto che si trattasse di una guerra popolare contro avversari musulmani temuti e disprezzati perché rapivano schiavi da vendere sui mercati di Caffa. Questa vittoria fu fondamentale per la successiva espansione russa. Da questo momento in avanti infatti il Volga, divenne un fiume russo, un fiume che copre 2325 miglia e che con gli affluenti navigabili arriva a ventimila miglia. La sua conquista diede inizio a una formidabile marcia di conquista verso est. In meno di settant’anni Mosca divenne padrona della Siberia, terra estremamente ricca di risorse che si estendeva per 5.3 milioni di miglia quadrate. L’espansione venne portata avanti fondamentalmente in due modi. Da una parte utilizzando gli Stroganov, baroni mercanti e agenti

14 Da una tribù presso Samarcanda emerse la personalità di Tamerlano (Timur Lang, Timur lo zoppo), il quale riuscì ad approfittare della debolezza del potere mongolo in Transoxiana per contrapporre l’etnia turca a quella mongola, sedentari a nomadi, l’islam allo sciamanesimo. Nel 1370, dopo aver fatto di Samarcanda la propria base, si fece proclamare khan con una cerimonia barbarica. Tamerlano, deciso a restaurare l’impero di Gengis Khan , soggiogò i vicini khanati con terribili campagne militari, conquistando la Transoxiana e Khorezm ( 1371-1379) . Dopo la battaglia di Sanni (1395), estese il suo potere sui territori che oggi fanno parte di Iran, Iraq, Siria, Turchia orientale e Caucaso. Manlio Masnata, op cit. p. 161.

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commerciali degli zar e dall’altra mediante i cosacchi, guerrieri dediti al saccheggio rinomati per la loro abilità nell’arte di cavalcare, la fedeltà assoluta e la ferocia, essi combattevano pagati dagli Stroganov ma in nome dello zar.15 I russi adottarono nei vari territori occupati una politica settoriale, in quanto da una parte oppressiva e dall’altra disinteressata, ciò dipendeva dalla posizione e conformazione etnica e culturale delle zone occupate. Interessante è notare come i russi misero in atto tutti e tre i sistemi di colonizzazione europei. Il primo era quello francese, e cioè diretto, generalmente utilizzato nelle parti di territorio più lontane dal centro, quelle che avevano maggior bisogno di controllo. In questo caso a governare non erano mai degli intermediari del posto ma sempre russi. Il secondo sistema era quello all’inglese e cioè del governo indiretto, applicato fondamentalmente nelle zone più vicine, facilmente controllabili, la gestione era quindi affidata direttamente ai locali. Ma venne utilizzato anche un terzo sistema e cioè la così detta colonia di popolamento. Questo sistema veniva messo in atto generalmente in quelle zone dove la Russia aveva particolari interessi economici e strategici, ad esempio quello che è l’attuale Kazakistan è stato trasformato nel corso del tempo nell’arsenale russo. I popoli sottomessi non venivano generalmente sottoposti a una russificazione, non vi era un interesse ad esempio nel convertire le popolazioni musulmane in cristiane, ciò che veniva però preteso era il rispetto delle leggi russe e delle varie gerarchie oltre alla lealtà allo zar. Ciò spiega come tutt’oggi dopo un lunghissimo tempo di dominazione, dell’impero zarista prima e dell’Unione Sovietica poi, in questi territori, la cultura così come la religione sia profondamente diversa da quella propriamente appartenete alla Russia. Venivano applicate due divisioni nelle società dei popoli sottomessi: una prima divisione detta orizzontale e cioè tra la nobiltà e la popolazione e una seconda verticale, tra russi e non russi. Il fatto che non si cercasse di portare avanti una conversione religiosa forzata non impediva però che venissero attuate tutta una serie di repressioni di carattere sia religioso, contro ad esempio luoghi di culto e scuole oltre che esponenti religiosi come gli ulema, sia di carattere civile. Questo tipo di atteggiamento repressivo conobbe un’eccezione con l’incoronazione a zar di Caterina, la quale lasciò libera la popolazione di essere musulmana pur che questi non minacciassero con la loro religione la cristianità dei russi. Ma le repressioni continuarono con gli zar successivi. I motivi di queste politiche repressive possono essere ricercati in due ragioni: una di carattere interno, quindi la diversità etnica e l’esigenza di ottenere un’uguaglianza religiosa per meglio gestire i vari territori e una motivazione di carattere culturale, infatti le popolazioni non russe venivano considerate fondamentalmente inferiori. Quale Islam in Centro Asia?

La popolazione islamica centroasiatica è formata per la maggior parte da musulmani sunniti di osservanza hanafita, questo in quanto la scuola hanafita permette in maniera tacita una reinvenzione su base locale della tradizione del profeta, l’esatto contrario ad esempio della scuola hanbalita16, in particolar modo il rito hanafita offre maggiore spazio al giudizio personale (ra’i ), e in particolar modo viene ammesso il ricorso ad espedienti per risolvere i problemi pratici (hiyal). Il rito hanafita è diffuso maggiormente fra i musulmani non arabofoni, Turchi, Afghani, Pakistani, Indiani e

15 Karl E. Meyer, La polvere dell’impero, Corbaccio, Milano, 2004, pp. 76- 77- 80- 81. 16 Paolo Affatato, Emanuele Giordana, A oriente del profeta, O barra O edizioni, Milano, 2005, P. 84.

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Cinesi. La componente sciita rappresenta una minoranza situata prevalentemente in alcuni dei grandi centri commerciali, come Bukhara e Samarcanda ma fondamentalmente in Tagikistan, dove è presente la setta degli ismailiti. Gli sciiti appartengono per lo più alla corrente duodecimana, e discendono da mercanti o prigionieri di origine iranica dei secoli passati17. L’Islam centroasiatico ha assunto nel tempo diverse e numerose forme, caratterizzato sempre da grandi progressi in filosofia, etica e ricerche scientifiche sotto governanti per larga parte politicamente liberali, un islam che si è diffuso in questa regione attraverso arabi, mongoli e turchi. Una questione particolarmente importante è notare come i primi musulmani dell’Asia Centrale, siano convissuti in uno stato di relativa pace, non solo tra di loro ma anche con tutta un’altra serie di credenti presenti in questi territori, come ebrei, buddisti, indù, zoroastriani e nestoriani. Certo, in seguito alla dissoluzione dell’URSS nel 1991, sono nati in modo estremamente rapido tutta una miriade di sette islamiche militanti che hanno in qualche modo contribuito a nascondere l’originale tolleranza dell’islam tradizionale centroasiatico. Il movimento islamico centroasiatico più importante è sicuramente quello rappresentato dai sufi, il sufismo. Il sufismo può essere considerato a tutti gli effetti una sorta di misticismo islamico che predicava la comunione diretta con Dio non che la tolleranza nei confronti di tutte le altre credenze. Il sufismo nacque proprio in Asia Centrale e in Persia poco dopo le invasioni arabe. Il nome trae origine dai mantelli in lana portati dai primi fratelli sufi. Il sufismo ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione dell’islam all’interno della regione centroasiatica, infatti i sufi incoraggiavano la partecipazione popolare con la loro opposizione all’autorità, all’intellettualismo e ai mullah. Venivano incoraggiati tutti i musulmani a raggiungere un’esperienza diretta di Dio, senza l’intermediazione dei sacerdoti o degli studiosi. Gli ordini dei sufi (tariqa), generalmente vengono definiti “confraternite”, la dove gli anziani curano l’iniziazione dei discepoli che successivamente frequenteranno una scuola di pensiero e di pratica. I maestri sufi, sono noti come wali (amici di Dio), un termine che spesso viene tradotto con “santi”, anche se nell’islam non esiste ne una chiesa ne alcun processo formale di canonizzazione. I poteri di intercessione che vengono attribuiti ai wali, legittimano l’esistenza delle confraternite sufiche.18 Le tariqa ad esempio sono state vitali nella rinascita islamica del tredicesimo secolo, successivamente alle distruzioni portate dai mongoli e, fatto estremamente importante, hanno continuato a sostenere la fede e la pratica islamiche in epoca sovietica, nel momento in cui l’Islam venne costretto dalle autorità alla clandestinità. 19 Il messaggio delle scuole sufite venne diffuso fino in Cina, attraverso la valle del Fergana, in India e nel mondo arabo attraverso l’Afghanistan. Al di fuori delle così dette città-oasi e delle valli, la diffusione dell’Islam, soprattutto nelle steppe della regione centroasiatica, era però abbastanza lenta e sporadica. Infatti l’Islam raggiunse la steppa kazaka solo nel diciassettesimo secolo, un Islam dove era predominante proprio il sufismo che aveva in se antiche tradizioni sciamaniche della cultura nomade, come ad esempio la venerazione degli animali e della natura. Andarono così in origine, emergendo in Centro Asia due branche della religione islamica, un Islam tradizionale, conservatore ed erudito, esattamente in quelle città-oasi, dominato dai governanti e dagli ulema, e un islam dei nomadi che opta per il sufismo e per i culti e tradizioni preislamiche, un Islam molto meno restrittivo e più libero rispetto a quello tradizionale. Le confraternite sufi hanno di fatto permesso alle popolazioni locali di radicarsi nell’Islam resistendo a quelle che 17 Valeria F. Piacentini, La disintegrazione dell’impero sovietico, Rivista Militare, Roma, 1995, p. 152. 18 Malise Ruthven, Islam, Einaudi, Torino, 1999, p. 66. 19 Ahmed Rashid, Nel cuore dell’Islam, Feltrinelli, Milano, 2002, pp. 37-38-39.

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erano le pressioni dei vari colonizzatori, dai mongoli ai sovietici. La confraternita sufi maggiormente radicata è la Naqsbandiya, la quale vene fondata nel XIV secolo a Buchara da Muhammad ibn Muhammad Bahaudin Naqsband. Tale confraternita ebbe un grandissimo seguito per via della sua estrema adattabilità, infatti riuscì ad islamizzare i nomadi turcofoni, facendo in modo di assorbire molte delle loro tradizioni e favorendo una sintesi tra la cultura iraniana e la cultura turca, cioè tra cultura sedentaria e cultura nomade. Caratteristica importante di questa confraternita è proprio una sua tendenza al sincretismo. L’islam centroasiatico, divenne meno dinamico sotto gli zar, non tanto perché i nuovi dominatori cercassero in qualche modo di interferire con quello che era il clero, gli usi islamici o il diritto, ma perché tentarono i musulmani con tutta una serie di modernità come ad esempio l’industria, l’istruzione e la tecnologia. In qualche maniera l’introduzione di idee e scienze occidentali fece in modo di aprire una nuova strada ad una reinterpretazione in chiave modernista dell’Islam da parte degli jadidisti, una setta riformatrice di tartari che trovava la sua fonte di ispirazione in Bay Gasprinski (1851-1914). Alla fine dell’Ottocento, furono numerosi i movimenti riformisti intellettuali islamici che nacquero nel mondo musulmano centroasiatico, un mondo musulmano colonizzato. Questi movimenti cercavano in qualche maniera di conciliare i problemi legati al modernismo occidentale con la religione e la cultura musulmana.20 Tra questi movimenti merita però particolare attenzione proprio lo Jadidismo (da usul-i jadid, cioè 'nuovo metodo'), questo movimento tentava di "aggiornare" la religione con la scienza e la tecnica moderne/europee e per questo andava esaltando la funzione parzialmente civilizzatrice della colonizzazione russa. Il Jadidismo si proponeva di coniugare le conoscenze tradizionali con quelle della scienza moderna. Era ben visto dallo zar in quanto avrebbe favorito la modernizzazione dei Paesi dell'Asia Centrale ma d’altra parte non era gradito alle autorità tradizionali di quei paesi, poiché temevano di perdere il proprio potere. Il movimento dello Jadidismo fondato come già detto da Ismail Bay Gasprinsky ha origine nel XVIII secolo d.C. in seguito alla caduta dell'impero uzbeko il quale succedeva a quello di Tamerlano (XIV-XVI secolo) sotto il dominio dello zarismo russo. Il movimento nasce in quell'area centro-asiatica conosciuta un tempo con il nome di Turkestan che, come si vedrà meglio in seguito, negli anni Venti del '900, fu diviso da Stalin nelle cinque repubbliche sovietiche di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. L'impero russo impose nell'area il suo dominio ed un processo di modernizzazione che favorì la nascita di questo movimento che poneva attenzione agli sviluppi della scienza e del pensiero occidentale. In epoca sovietica, con la proclamazione del principio di autodeterminazione, il movimento dello jadidismo fu proposto dal leader jadidista Said Sultan Galiev come elemento di unione tra comunismo e islamismo. Dopo una iniziale fase di apertura da parte dell'ideocrazia sovietica alle proposte di Galiev di fondare partiti comunisti musulmani nell'area centro asiatica, il movimento jadidista conobbe una fase di repressione poiché considerato reazionario nei confronti dello spirito della rivoluzione sovietica.

Il Great game La vulnerabilità delle regioni lungo i confini nord-occidentali dell’India, Punjab, Sind e Afghanistan, allarmò gli inglesi, preoccupati di una possibile minaccia zarista nei

20 Ahmed Rashid, op cit. p. 40- 41.

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confronti dell’India e allo sviluppo della North West Frontier Policy. Da parte sua la Russia nutriva esigenze di sicurezza dei confini dell’ Impero, tormentato da incursioni uzbeke, dalle difficoltà nei commerci, dalle continue catture di russi addotti in schiavitù, e da una marcata fragilità politica. Tutto ciò contribuì alla spinta espansionistica dei territori centroasiatici. Bisogna anche considerare il desiderio degli zar di uno sbocco nei mari caldi e l’esigenza di colmare il vuoto di potere in Asia Centrale per consentire lo sviluppo di commerci non che dopo il 1880, lo sfruttamento del cotone grezzo.21 Nella seconda metà del XIX secolo, l’armata russa inizia la conquista sistematica dell’Asia Centrale. Al nord prende completamente il possesso delle steppe kazake, nel 1855. Nel 1865 è la volta del Tachkent e di Samarkanda nel 1868. Il khanato di Khiva cadde nel 187322. Nel 1884 la Russia arrivò a conquistare la città di Merv, la quale costituiva un importante crocevia per Herat, che a sua volta rappresentava un luogo di facile passaggio per l’Afghanistan, da cui si poteva avere accesso all’India inglese. L’occupazione di Merv, vista la sua importante posizione strategica, non che l’ulteriore avanzata verso il confine con l’Afghanistan, mise ulteriormente in allarme la Gran Bretagna e ne provocò le reazioni. Già nel 1938-42 e nel 1878, gli inglesi avevano cercato in modo fallimentare di controllare l’Afghanistan.23 Dopo aver sconfitto i Sikh e conquistato la valle di Peshawar e il Punjab, gli inglesi guardavano alla catena del Pamir in concorrenza con la Russia. Fu così che intorno a Kashgar si scatenò un gioco politico-diplomatico tra Russia e Cina da una parte e tra Inghilterra e Turchia dall’altra.24 Ebbe così inizio il Grande Gioco25, come venne chiamato dagli inglesi o “Torneo delle ombre” per i russi. Colonizzando l’Asia Centrale, l’Impero russo andò incorporando non solo dei nuovi territori, ma anche delle nuove popolazioni estremamente eterogenee. All’interno degli emirati di Bukhara e nei khanati di Khiva e di Kokand, questi gruppi erano estremamente mischiati. Al fine di integrare l’Asia Centrale all’Impero russo, l’amministrazione imperiale condusse una riorganizzazione politica e amministrativa. L’Emirato di Bukhara e il khanato di Khiva divennero dei protettorati. L’amministrazione imperiale creò un governatorato delle steppe, nell’attuale nord del Kazakistan, al centro un governatorato del Turkestan, comprendente la parte orientale dell’attuale Uzbekistan e la parte occidentale dell’odierno Tagikistan, mentre ad ovest una provincia della Transcaspiana, nell’attuale parte occidentale del Turkmenistan. L’arrivo costante di coloni russi che si installavano nelle steppe kazake e nei centri urbani, contribuì a cambiare la composizione etnica della regione e a russificare le elite locali. Nel 1911 i russi stanziati in Asia Centrale ammontavano a due milioni su una popolazione totale di dieci milioni di abitanti. Al cambiamento della composizione etnica si accompagnò anche la trasformazione dell’economia regionale. La costruzione di nuove reti ferroviarie come la Transcaspiana (1880-1899) e la

21 Valeria F. Piacentini, op cit. p. 167- 168. 22 Boris Eisenbaum, Guerres en Asie Centrale, Bernard Grasset, Parigi, 2005, p. 17. 23 In effeti nessuna potenza straniera in epoca moderna è mai riuscita a conquistare e colonizzare l’Afghanistan. Ciò lo si deve a diversi fattori, come la conformazione dei propri territori, impervi e adatti alla guerriglia, o alla estrema frammentazione etnica presente in questo paese. 24 Manlio Masnata, op cit. pp. 162-163. 25 Il termine Great Game venne coniato dal Colonello Arthur Conolly (1807-1842), il quale paragonò le manovre diplomatiche e spionistiche in Asia a quelle di una partita a scacchi. Conolly auspicò ad una pacificazione dei khanati centroasiatici di Khiva, Bukhara e Khokand, sotto la protezione e il controllo britannico . Nel 1840, durante la prima guerra anglo-afghana, si recò in missione politico-diplomatica a Khiva ed a Khokand, ma una volta giunto a Bukhara venne catturato e creduto una spia decapitato insieme al Colonnello Stoddard. Valeria F. Piacentini, op cit. p. 166.

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Transaralien (1901-1906), aprirono l’Asia Centrale all’economia russa e ai suoi prodotti che trovarono nuovi sbocchi.26 Interessante è osservare questo gioco fatto di delicati equilibri e giochi diplomatici anche da un punto di vista etno-antropologico. Infatti nei movimenti di Londra e Pietroburgo si inserirono anche le realtà locali, con le quali bisognava fare inevitabilmente i conti. Proprio le caratteristiche etniche di questa vasta regione ebbero un importante rilevanza con la loro fluidità e vischiosità dei rapporti di potere locali, basati su tradizionali conoscenze e modelli di società che non sempre venivano capiti dai policy-makers europei, e che in ogni caso risultavano essere estremamente diversi da quei modelli che l’Occidente andava esportando con le rivoluzioni del XIX secolo. Era fondamentale capire che le relazioni personali che legavano il capo tribale ai suoi sostenitori, basate per lo più su doti carismatiche di comando e legittimate dal consenso che si creava intorno ad esso, erano limitate temporalmente, continuamente minacciate da lotte tribali o interclaniche. Fu proprio il non capire una tale concezione del potere della società e della statualità, in profonda contraddizione con le concezioni occidentali, che diede origine ai fallimenti delle relazioni tra i rappresentanti del governo anglo-indiano e i vari khan, amir e sardar delle aree tribali lungo la frontiera a nord-ovest dell’India. In modo particolare le sconfitte politiche e diplomatiche spesso erano originate proprio da incomprensioni di base da parte inglese, delle strutture e dei meccanismi del potere locale. Lo stesso discorso vale anche per il fallimento delle relazioni politico-diplomatiche fra i generali russi e i khan delle steppe centroasiatiche, o dei khan di Khiva, Khokand e gli amir di Bukhara e dell’Afghanistan. Venne portato avanti da parte russa uno smembramento degli organismi territoriali preesistenti mediante attribuzioni territoriali, che seguivano una politica tesa ad assicurare la protezione dei confini artificiali stabiliti attraverso la cessione di aree fertili a regni ritenuti politicamente più affidabili per il governo anglo-indiano. Una politica del genere garantiva sicuramente la sicurezza dei territori ma trascurava totalmente i sistemi di sfruttamento delle nicchie ecologiche utilizzate dalle tribù nomadi la cui base economica era fondamentalmente pastorale, sistema quello pastorale che stava alla base della loro sopravivenza. Altra manovra politica russa fu quella che vide l’abolizione dei clan tribali, questa venne imposta al fine di portare avanti una sedentarizzazione utile ai fini di un maggiore controllo politico-territoriale delle aree prive di frontiera. Contemporaneamente venne affiancata a questa manovra una crescente e massiccia immigrazione di coloni russi ed ucraini nei territori centro asiatici, come visto in precedenza, non che una conversione a monocoltura del cotone e di conseguenza una sempre maggiore dipendenza economico-agricola dal governo centrale. Era quindi chiaro che si stava mettendo in atto una politica di sottomissione e russificazione delle popolazioni autoctone attraverso una rigida politica di centralizzazione amministrativa.27 La seconda guerra mondiale Ai fini del tema di questa trattazione, è utile soffermarsi su il periodo della Seconda guerra mondiale, con particolare attenzione agli effetti che questo evento ebbe all’interno dell’Asia Centrale.

26 Boris Eisenbaum, op cit. pp. 26- 27. 27 Valeria F. Piacentini, op cit. pp. 168- 169.

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Nel 1942 erano presenti più di un milione di musulmani all’interno dell’Armata Rossa, tra l’altro l’Asia Centrale durante quell’anno raccolse numerosissimi rifugiati e altrettanti deportati provenienti dalle regioni europee dell’Unione Sovietiche. Ciò che è importante notare è come la politica di Stalin nei confronti delle èlites musulmane e dell’establishment islamico all’interno dell’Unione Sovietica coincise con il delinearsi di due correnti importanti all’interno del mondo musulmano, e cioè l’affermarsi di movimenti tradizionalisti di rivalutazione dell’Islam e l’affermarsi di tendenze secolari. L’Islam tradizionale s’identificava nel Wahhabismo28 dell’Arabia Saudita, e in alcuni movimenti in India e Indonesia, mentre l’Islam riformista era legato ai Fratelli Musulmani in Medio Oriente e al fondamentalismo riformista di Mawdudi29 in Pakistan.30 Furono questi sviluppi nel mondo musulmano a far si che si sviluppasse una nuova direttrice di politica estera sovietica, strettamente collegate al collasso dei 28 Wahhabismo è il termine che identifica la dottrina di Muhammad b. ‘Abd Al-Wahhab, vissuto negli anni 1703-1792 dell’era cristiana (1115-1206 dell’egira). I wahhabiti si considerano sunniti di scuola hanbalita e, in particolare, seguaci del rigoroso insegnamento di Ibn Taymiyya (morto nel 1328 d.C.), forse il più celebre dotto hanbalita dopo il fondatore ed eponimo della scuola; le fortune del wahhabismo sono intimamente legate con quelle della famiglia al-Sa‘ud che nel corso del XX secolo procederà ad unificare e governare l’attuale Arabia Saudita. Teologicamente, la dottrina wahhabita si muove lungo un percorso estremamente rigido, il cui perno è l’affermazione del tawhid, ovvero la assoluta unità di Dio e la lotta aperta contro forme, ritenute devianti, di culto, rientranti nel concetto di politeismo (shirk). In particolare, ‘Abd al-Wahhab sostiene che un numero spropositato di musulmani vive in una tale ignoranza dei contenuti della propria fede da poter essere paragonati a coloro che vivevano nella jahiliyya, ovvero “epoca dell’ignoranza”, termine con il quale si identifica il mondo prima dell’avvento dell’islam. Fondamentalmente, la dottrina wahhabita afferma che tutti gli atti di adorazione rivolti ad entità diverse da Allah sono falsi e rendono i loro autori meritevoli di morte. Sono così manifestazioni di politeismo il fatto di introdurre il nome di un profeta, di un santo o di un angelo nella preghiera, ovvero il fare un voto a qualcuno che non sia Dio. La collocazione del wahhabismo in seno al rito hanbalita definisce già per grandi linee il contenuto dogmatico della corrente in questione. Ahmad Ibn Hanbal (morto nel 855 d.C.) nacque e visse in una Baghdad, dal clima assai turbolento, percorsa da fermenti eretici e dominata dalla scuola teologica mu‘tazilita, in un’epoca in cui le neonate scuole giuridiche, ancora in formazione, non erano in grado di rappresentare solidi punti di riferimento. Ibn Hanbal propugnava dunque un rigoroso ritorno alle fonti, cioè al Corano e alla Sunna, concepite come ancora di salvezza contro la corruzione della comunità. Formatosi sotto gli insegnamenti di Shafi’i e del hanafita Abu Yusuf, Ibn Hanbal era però un giurista indipendente, un vero e proprio mujtahid, e rimproverava ai suoi predecessori di essersi discostati dalla Rivelazione e dall’insegnamento profetico. Nel difendere il rigido primato delle tradizioni del Profeta, Ibn Hanbal respinge l’uso del qiyas (ragionamento analogico) e del ra’y (opinione personale), è diffidente verso il criterio ermeneutico del istihsan, ovvero il “ritenere buono ed equo”, di cui fanno invece buon uso gli hanafiti; infine, l’ijma’ , o consenso dei dotti, non è per gli hanbaliti fonte del diritto, essendo esso irrealizzabile dopo la generazione del Profeta e risultando impraticabile la verifica della dottrina di tutti i giuristi qualificati al ijtihad. In vita, Ibn Hanbal non elaborò egli stesso un sistema di diritto, sì che la sua opera maggiore è il musnad, imponente raccolta di tradizioni profetiche che gode anche oggi di grande prestigio; la sistematizzazione della sua dottrina giuridica fu opera dei suoi allievi. [www.crisestoday.com]. 29Mawdudi (1903-1979), ha definito i fondamenti culturali dello stato islamico, in antitesi al “nazionalismo musulmano”che sarebbe sfociato nel 1947 con la creazione del Pakistan. Mawdudi inserisce la sua attività principalmente nel campo della cultura. Per questo teorico, ogni nazionalismo è empietà, i suoi richiami espliciti vanno all’avanguardia dei primi musulmani che nel 622 avevano rotto con gli abitanti idolatri della Mecca, e in occasione dell’Egira, avevano seguito il Profeta a Medina per creare uno stato islamico. Sarà il creatore del partito jama’at-e islami, il quale si prefigge come obiettivo quella rottura originaria su cui si basa l’islam e trasformarla in strategia d’azione. Il partito di Mawdudi agirà per la maggior parte della sua storia in un quadro di legalità. Secondo mawdudi, lo stato islamico è l’unica difesa possibile contro le minacce cui sono soggetti i musulmani. M a il suo richiamo alla rottura culturale non incita alla rivoluzione sociale, punta più che altro alla partecipazione politica del suo partito nelle istituzioni pakistane. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino, Carocci, Roma, 2004, p. 33-34-35-36. 30 Valeria F. Piacentini, op cit. p, 199.

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Partiti Comunisti nei paesi di colonizzazione europea e nei paesi del Komintern e, ad un atteggiamento di aperta ostilità da parte dei musulmani dell’Unione Sovietica. In Turchia, Egitto e Iran il Partito Comunista fu dichiarato fuori legge, venne osteggiato nell’Afghanistan di Amanullah. Interessante è notare che durante la seconda guerra mondiale, dai trecento ai quattrocento mila non russi dell’Asia Centrale si arruolarono nelle Forze Armate tedesche in nome di ben determinati sentimenti antirussi e antisovietici.31La reazione di Stalin fu la deportazione in massa dei tedeschi del Volga, dei Tatari di Crimea, dei Calmucchi e dei nord-Caucasici, nel complesso si parla di circa un milione e mezzo di persone accusate di collaborazionismo. Nel corso della guerra l’afflusso in Asia Centrale di contadini russi e ucraini proseguì a ritmo accelerato. Il processo di sovietizzazione venne temporaneamente interrotto in quanto era preminente la necessità di disporre di truppe reclutate dall’Asia Centrale, e portò anche alla concessione di alcune liberà religiose, come ad esempio la reintroduzione del Corano, la riapertura di 500 moschee tra il 1943 e il 1945, l’organizzazione dei congressi musulmani e l’abrogazione del divieto di recarsi in pellegrinaggio alla Mecca. Fu dunque per motivi interni e internazionali che sia durante la guerra che nel periodo successivo, Stalin dovette rivedere i propri rapporti con le istituzioni islamiche. Questa relativa apertura consentì pubblicazioni in Asia Centrale di riviste in uzbeko e di raccolte di fetwà del muftì Ishan Babakhan. Tra il 1942 e il 1943 Stalin si accordò con il muftì di Ufa, Aabdurrahman Rasulaev, secondo il modello creato nel XVIII secolo da Caterina II, e istituì un organismo apposito, che avrebbe dovuto definire la posizione dell’Islam all’interno dell’Unione Sovietica.32 Nel 1943 vennero anche strette delle relazioni diplomatiche con l’Egitto e l’anno successivo con la Siria, il Libano e l’Iraq. Nonostante questo però, fino agli anni 50, le rappresentanze della diplomazia sovietica furono gestite elusivamente da funzionari russi ortodossi che avevano cura di evitare ogni contatto a livello internazionale degli esponenti musulmani sovietici con paesi islamici mediorientali. I motivi vanno ricercati in parte in questioni di affidabilità politica dei funzionari musulmani e in

31 Le armate in questione erano le così dette “Legioni Orientali”, le quali disertarono in massa per entrare a far parte dell’esercito tedesco. Valeria F. Piacentini, op cit. p, 200. 32 Il 1943 fu l’anno che segnò in qualche modo la svolta nelle relazioni tra lo stato e le comunità musulmane dell’Urss, incluse quelle dell’Asia centrale. Stalin, pare su iniziale richiesta del muftì di Ufa Abdurrahman Rasulev il quale mirava a normalizzare i rapporti tra il governo sovietico e l’Islam, permise la creazione di quattro direttorati spirituali per le maggiori comunità musulmane dell’URSS (Transcaucasia, Caucaso settentrionale e Daghestan, Russia europea e Siberia, Asia centrale e Kazakistan). Dopo la morte di Stalin, prese lentamente avvio il processo di riabilitazione dei molti ulema arrestati dalla polizia politica e condannati ai lavori forzati durante gli anni Trenta o spediti al fronte durante la seconda guerra mondiale. In generale si tratta di individui che, per il fatto di essere tra i pochi ad avere avuto una formazione classica all’interno delle madrasa e a dominare le lingue orientali in caratteri arabi, vennero assunti per svolgere mansioni all’interno degli Istituti di Studi Orientali, a Dushanbe e Tashkent, quando iniziò l’opera di catalogazione dei fondi manoscritti delle filiali tagika e uzbeka dell’Accademia delle Scienze. Tra gli ulema scampati alle purghe alcuni furono scelti per coniugare la propria competenza in materia di diritto islamico alle politiche di ingerenza dello stato sovietico nell’ambito confessionale. E il caso degli ulema reclutati all’interno dell’Ammini-strazione spirituale dei musulmani dell’Asia centrale, istituzione nota con l’acronimo russo Sadum (Sredneaziatskoe duchovnoe upravlenie musul’man) che gestiva i rapporti tra il Consiglio per gli affari dei culti religiosi e la popolazione musulmana centroasiatica. Esso costituiva uno strumento utilizzato dallo stato per controllare e monitorare l’Islam. Al Sadum facevano capo le due uniche madrasa esistenti in Asia centrale situate una a Tashkent, l’altra a Bukhara. Esso assegnava gli imam-khatib alle moschee ufficialmente registrate presenti sul territorio repubblicano e trasmetteva loro le direttive che giungevano “dall’alto” sulla gestione dei luoghi di culto. Paolo Sartori, L’Islam in Asia centrale tra recupero della tradizione e movimenti radicali: il caso uzbeko, ISPI, Working Paper.

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parte in difficoltà oggettive di reclutamento di quadri appositi appartenenti alle repubbliche centroasiatiche.33 Durante la guerra, le cariche all’interno dei Partiti Comunisti dell’Asia Centrale e dei dipartimenti economici vennero ripartite tra un elemento russo e uno autoctono, sempre affiancati, mentre la carica di Primo Segretario veniva sempre ricoperta da un esponente locale. I settori chiave come quello dell’economia, dell’istruzione, irrigazione, comunicazioni, sicurezza e polizia erano sempre nelle mani di esponenti russi. Bisogna notare come però il graduale inserimento di elementi autoctoni all’interno dei quadri dei Partiti nazionali, permise una tribalizzazione dei privilegi della sovietizzazione, vale a dire lo sfruttamento da parte dei dirigenti centroasiatici delle loro cariche, che gli permetteva di mettere in atto una politica di clientelismo a vantaggio delle rispettive tribù d’appartenenza. Con la fine della seconda guerra mondiale, l’istituzione della Carta Atlantica alla quale seguirono lo statuto delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, iniziò un nuovo corso politico, che avrebbe, come noto, portato molti paesi dell’Asia e dell’Africa all’indipendenza. Il 14 agosto del 1947 l’Inghilterra concesse l’indipendenza all’India, divisa in Unione Indiana e stato musulmano del Pakistan. La fine della politica sovietica di controllo del corridoio indo-persiano in funzione anti britannica, quindi la fine di una polarizzazione russo-britannica in Asia Centrale, coincise con tutta una serie di conflitti interetnici.34 Particolarmente significativo per il Centro Asia risulta essere il post guerra, in modo particolare l’era di Khrushev. Le politiche adottate da Khrushev risultarono avere un profondo impatto nella regione centroasiatica, in modo particolare egli adottò una politica di annientamento di tutte le religioni dell’Unione Sovietica da compiersi entro una generazione, il progetto delle “Terre Vergini” e il recupero di alcuni valori legati all’Islam come politica di immagine e solidarietà nei confronti delle masse del Terzo Mondo, in modo particolare quelle islamiche. La politica delle “Terre Vergini”, iniziata nel 1954, aveva il fine di aumentare la produzione agricola, in particolar modo quella del grano, vennero quindi arate le immense steppe del Kazakistan nelle quali furono installate fattorie con manodopera russa, e vennero costruiti impianti di irrigazione che prelevavano acqua dal fiume Ob in Siberia. Un tipo di politica che però risultò essere fallimentare in quanto il terreno friabile della steppa non era particolarmente adatto, visto che veniva regolarmente spazzato via dal vento.35

33 Valeria F. Piacentini, op cit. p. 202. 34 Valeria F. Piacentini, op cit. p. 203. 35 Manlio Masnata, op cit. p. 168.

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Capitolo secondo La disintegrazione dell’Impero sovietico L’indipendenza delle cinque repubbliche Prima del fallito colpo di stato a Mosca nel giugno del 199136, i soviet dei governi regionali e provinciali delle repubbliche centroasiatiche erano fondamentalmente lo specchio della gerarchia politica che comandava i partiti politici locali. Infatti i presidenti delle repubbliche erano anche i segretari dei loro partiti comunisti locali, fatta eccezione per Askar Akayev del Kirghizistan, salito al potere in seguito ad una rivolta all’interno della locale èlite di governo. In un contesto come quello centroasiatico dove a buon diritto si parlava di stati satellite dell’Unione Sovietica, il colpo di stato nell’Agosto del 1991 arrivò come un fulmine a ciel sereno. L’atteggiamento generale fu per lo più quello di stare a guardare il succedersi degli eventi, senza intervenire. L’unica eccezione fu rappresentata dal presidente Askayev il quale attaccò apertamente l’operato del Vice Presidente Sovietico, Gennadij Yanayev e dei suoi collaboratori e mobilitò il locale ministro degli interni per evitare che il locale Partito Comunista cercasse di tornare al potere. Ciò che bisogna rilevare è come il fallimento del colpo di stato e la caduta del Partito Comunista sovietico ebbero riflessi drammatici anche in Asia Centrale. I vari stati centro asiatici non avevano mai conosciuto nella loro storia una vera indipendenza, dipendevano in tutto e per tutto dal centro rappresentato da Mosca. Il colpo di stato lasciava orfani i dirigenti delle cinque repubbliche centroasiatiche. Una volta disgregatosi il centro non avrebbero più potuto contare sul sostegno politico ed economico di Mosca, ma cosa fondamentale cadeva la possibilità di tenere sotto controllo l’ordine interno. Furono il Kirghizistan e il Tagikistan per primi a proclamare la propria indipendenza, esattamente il 31 Agosto. Il 9 Settembre fu la volta dell’Uzbekistan e il 29 Ottobre del Turkmenistan. Un caso a parte fu il Kazakistan, il cui atteggiamento fin dal primo momento era stato di ferma lealtà verso Mosca. L’obbiettivo era quello di salvare non solo gli antichi legami ma anche lo status quo interno. Furono due esattamente i fattori che determinarono questo atteggiamento da parte del Presidente Nazarbayev: in primo luogo il fatto che in Kazakistan era presente una forte minoranza slava (circa il 40% dell’intera popolazione) e poi ragioni di ordine e stabilità non che di natura economica e di sicurezza nazionale e regionale. Nazarbayev al contrario degli altri presidenti che proclamavano le varie indipendenze cercava di stabilire con Mosca, attraverso tutta una serie di viaggi e accordi regionali quanto meno di natura

36 Il 16 Agosto 1991 fu attuato un colpo di Stato da parte di comunisti conservatori. Gorbaciov venne rinchiuso nella Villa di Crimea, dove si trovava in vacanza. Un “Comitato di Stato per lo stato di emergenza”, composto da otto persone prese il potere. Era formato da uomini nominati da poco dallo stesso Gorbaciov, fra i quali il primo ministro Valentin Pavlov, i ministri degli Interni e della Difesa, non che il presidente del KGB. Venne eletto come capo Gennady Yanayev, vicepresidente dell’Unione. Questi rappresentavano fondamentalmente la “vecchia guardia”. L’impresa però fallì nell’arco di tre giorni, da una parte in quanto era stata mal organizzata, e dall’altra mediante l’energia di Boris Eltsin, infatti, rinchiuso nel Parlamento di Russia, sostenuto da una numerosa folla osò andare fino allo schieramento dei carri armati, arringò i soldati, e preconizzò uno sciopero generale. Il 19 Agosto il golpe terminò ed i suoi dirigenti vennero arrestati. Jean-Baptiste Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai giorni nostri, LED, Parigi, 1993, pp. 724-725.

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economica.37 L’8 Dicembre del 1991, Russia, Bielorussia e Ucraina, gli stessi che nel 1922 avevano firmata la costituzione che diede vita all’URSS, si riunirono a Mink e firmarono un nuovo patto, nasceva infatti il “Commonwealth of Indipendent States” (CSI). Dopo un incontro ad Ashkabad, capitale del Turkmenistan, i capi delle cinque repubbliche centroasiatiche si ritrovarono ad Alma Ata, capitale del Kazakistan e il 16 Dicembre 1991 anche il Kazakistan proclamava la propria indipendenza. Venne trovata una strada comune, che consisteva nell’essere si indipendenti ma una indipendenza che avesse un garante che consentisse di fronteggiare e di risolvere gli enormi problemi di sicurezza nazionale e collettiva che l’indipendenza avrebbe certamente portato. Fu così che il 21 Dicembre del 1991 l’incontro ad Alma Ata si concludeva con la dichiarazione di indipendenza delle ex repubbliche sovietiche centroasiatiche e la loro adesione alla Comunità degli Stati Indipendenti, (CSI). Da quel momento in poi, per la prima volta nella loro storia ognuna delle repubbliche assumeva il pieno controllo del proprio territorio e delle proprie risorse naturali non che della propria economia.38 Le nuove sfide e le linee politiche delle singole repubbliche Nel momento in cui uno stato raggiunge l’indipendenza deve sempre far fronte a tutta una serie di sfide, questo è maggiormente vero se lo stato in questione non ha mai avuto una precedente esperienza d’indipendenza. Le sfide vengono generalmente affrontate da leader che hanno scelto deliberatamente di guidare il loro paese verso nuove e migliori mete. Il caso delle cinque ex repubbliche sovietiche è emblematico perché nessuno di questi casi era presente al momento dell’indipendenza. I cinque leader centro asiatici ad esempio non si erano mai posti l’obiettivo di raggiungere l’indipendenza. Quasi tutti appartenevano, come detto in precedenza, ala vecchia nomenclatura sovietica che a sua volta era generalmente reclutata tra le elite del potere tradizionali locale. Non erano quindi degli eroi nazionali ne dei dittatori, erano però consapevoli della vulnerabilità del loro paese soprattutto, una vulnerabilità resa ancora più forte dalle condizioni in cui l’indipendenza era stata ottenuta.39 Sapevano di dover guidare delle nazioni nate in modo prematuro e quindi estremamente deboli e prive di basi, prive di una “nazionalità” definita, fondamentalmente tutta da definire nei contenuti. Era proprio questo il primo problema da affrontare, costruire un’identità nazionale che potesse giustificare davanti alla comunità internazionale la nascita di cinque repubbliche sorte dall’arbitraria volontà di un regime ormai morto. Altra questione fondamentale era la sopravivenza economica, uscire cioè da una situazione di isolamento economico, di estrema dipendenza da Mosca. Un’economia strettamente intrecciata e competitiva con quella dei propri vicini, che precedentemente veniva coordinata e regolata dalle strutture venute meno con la disintegrazione dell’URSS. In modo particolare era necessario ricostruire le economie delle singole repubbliche e questo rappresentava un ulteriore problema in quanto queste basavano la loro economia su monoculture agricole volute da Mosca e sullo sfruttamento delle risorse naturali. Fondamentale era quindi diversificare i rendimenti cercando di attirare investimenti e aiuti stranieri. Bisognava anche dotarsi di apparati istituzionali adeguati alle necessità poste dall’indipendenza, ad esempio apparati

37 Valeria F. Piacentini, op cit. p 18. 38 Valeria F. Piacentini, op cit. p 19. 39 Valeria F. Piacentini, op cit. p 20.

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elettorali e strutture burocratico-amministrative in grado di governare il paese e creare regolari relazioni diplomatiche con i paesi esterni. Al di là comunque dei vari obiettivi imposti dal nuovo corso degli eventi, rimaneva di primaria importanza il problema della costruzione di un’identità nazionale. L’indipendenza metteva davanti alla scelta di un modello nazionalistico e democratico che in qualche modo giustificasse agli occhi dell’opinione pubbliche interna e esterna la sopravivenza territoriale di stati che altro non erano se non l’artificiale creazione del regime appena defunto. Dunque portare avanti e creare dal nulla un nazionalismo nuovo, che per ovvi motivi doveva segnare uno stacco da quello precedente. Il problema nasceva dal fatto che la creazione di un sentimento nazionalista, regionalista se si vuole, soltanto pochi mesi prima la proclamazione dell’indipendenza sarebbe stato condannato come deviazionismo ideologico. Dunque il compito non poteva definirsi del tutto semplice. Il primo passo fu quello di sciogliere i rispettivi partiti comunisti, fatta eccezione per il Tagikistan, il cui presidente restio allo scioglimento del partito venne però immediatamente esautorato da una rivolta popolare. Dato che il problema principale per la creazione di un’identità nazionale era rappresentato dai confini tracciati nel 1924 da Stalin, bisogna fare un passo in dietro e capire come avvenne la divisione territoriale centroasiatica portata avanti dallo statista russo. L’inizio della divisione iniziò nel 1924 quando con una risoluzione del CC Esecutivo del URSS, il potere centrale sovietico portava avanti una strategia che mirava a spezzare l’unità storica, culturale ed economica che si era venuta a creare fra i differenti gruppi etnici presenti in Asia Centrale, come la dissoluzione della Repubblica del Turkestan e di Bukhara e della Khorasamia. Stalin ridisegnò quindi la carta geopolitica dell’Asia Centrale ma non con l’obbiettivo di consolidare delle regioni naturali o delle aree omogenee da un punto di vista storico e culturale, non che economico. L’obbiettivo era invece quello di controllare e governare un impero estremamente vasto la cui frammentazione etnico-culturale, causa di diverse lotte, doveva essere accettata, nella riduzione però delle prospettive di un’unità regionale, che avrebbe potuto far nascere rivendicazioni indipendentiste. Vennero così create le cinque repubbliche. Furono però i confini che rappresentarono un vero problema, questi vennero infatti definiti in modo da segmentare e frantumare la geografia dei territori e delle loro economie e risorse naturali e dei grossi gruppi etnici. Per quanto concerne l’economia, i confini vennero tracciati in modo da evitare la nascita di economie regionali forti ed autosufficienti. Si ebbero quindi, come già detto, delle economie competitive o interdipendenti, ma mai complementari e soprattutto integrate nel sistema economico sovietico. Mentre per i grossi gruppi etnici, i confini servirono a frammentarli e scorporarli nelle diverse repubbliche in modo tale da ridurre al minimo il pericolo di insurrezioni nazionalistiche. Fu così che quindi Bukhara e Samarcanda, due delle principali città persofone, furono incluse nell’Uzbekistan. Così anche la Valle del Fergana40, venne divisa fra il Tagikistan, l’Uzbekistan e il

40 La valle di Ferghana, abitata da più di 10 milioni di persone, ha circa il 60% del suo territorio in Uzbekistan, il 25% in Tagikistan e il 15% in Kirghizistan. La valle, che si adagia sotto il complesso montuoso di Tien-Shan, è lunga 350 chilometri ed è larga 100 ed è attraversata dal fiume Syr-Darja. Delle sette provincie amministrative in cui è suddivisa la valle, 3 si trovano in Uzbekistan, 3 in Kirghizistan e una in Tagikistan. A complicare il problema dei confini nella valle vi è anche la presenza di 5 piccole enclaves. La valle di Ferghana ha sofferto moltissimo con l’indipendenza per l’imposizione di confini territoriali in un’area che era economicamente interconnessa grazie ad una rete di infrastrutture idriche, energetiche e di trasporti durante il periodo sovietico. Quelli che una volta erano semplici confini amministrativi, col crollo dell’Unione Sovietica sono divenuti nuovi confini nazionali, luoghi di tensione tra gli stati che si contendono il controllo della valle (ad es. parte del confine tra Uzbekistan e Tagikistan è stato minato). Seri conflitti per le risorse idriche e per la proprietà

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Kirghizistan. Anche diverse regioni che oggi fanno parte del Kazakistan meridionale e nel Turkmenistan orientale sono popolate ad esempio da Uzbeki. Da ultimo bisogna segnalare, anche se farà parte di una più ampia trattazione in seguito, come l’impari tracciato dei confini tra Tagikistan e Kirghizistan rispecchiava gravissime ingiustizie nella ripartizione delle risorse idriche, che di conseguenza ha portato a diversi scontri armati tra le due repubbliche.41 Dunque i nuovi leader si sono trovati tra le diverse cose, a ereditare anche dei confini tracciati in modo approssimativo, e la questione dei confini è di strategica importanza la dove si voglia creare anche solo una facciata nazionale. Il primo passo verso la creazione dell’identità nazionale fu quello di trovare una fonte di legittimità per le diverse classi dirigenti, in modo particolare venuto meno l’antico apparato ideologico del Partito. Ci fu quindi un riaffiorare di vecchie correnti ideologiche nazionalistiche trans-etniche come il panislamismo o il panturanesimo o etnico-culturali come il panturchismo42. Emersero poi le glorie del passato, ovviamente un passato pieno di eroi e di splendore culturale, che tendeva a sconfinare nel mito o nella legenda. Un esempio esplicativo può sicuramente essere quello del “Grande Uzbekistan”, dell’epoca dei khanati centroasiatici, dello “splendore del regno timuride” o della “eroica resistenza turcomanna” e “dell’eroico impero mongolo”. Questi miti vengono dunque riproposti a se stessi e al mondo come la nuova ideologia, come giustificazione e legittimazione della classe dirigente e dei poteri che essa esercita per il suo popolo. Ad esempio in Uzbekistan il nuovo regime trovò in Tamerlano il padre della nazione. Le varie ideologie ovviamente andavano intrecciandosi tra di loro e sovrapponendosi a una realtà che era completamente diversa dai tempi ormai passati. I vari miti venivano tirati fuori quando più era utile, ad esempio per legittimare rivendicazioni e conflittualità dietro le quali il più delle volte si trovavano interessi economici o quanto meno ben più pragmatici e concreti. Col passare del tempo questi paesi centroasiatici sono andati maturando una sempre maggiore fragilità, dovuta non tanto a motivi di ordine esterno quanto di carattere interno. Ad esempio è tipica la personalizzazione del potere affidato in genere ad un leader carismatico, un tipo di potere che trova la sua fonte di legittimazione sul consenso dato alla persona e non invece a una Istituzione o a un apparato istituzionale. Le repubbliche centroasiatiche hanno conosciuto e conoscono tutt’oggi una classe dirigente che governa sulla base dell’ascendente personale e grazie a tutta una serie di alleanze con altri gruppi influenti all’interno dei paesi. Secondo alcune scuole di pensiero, uno dei principali ostacoli a una normalizzazione della situazione politica in Asia Centrale è stato il moltiplicarsi delle contese territoriali, conseguenza della creazione dei confini imposti da Stalin. Nella maggior parte dei casi, le differenze territoriali tra i paesi dell’Asia Centrale ricoprono degli antagonismi etnici

terriera, complicati da antiche rivalità etniche e da un tragico declino nelle condizioni di vita della popolazione hanno fatto sì che il rischio di esplosioni di violenza nella valle di Ferghana, specialmente tra Tagikistan del nord e Kirghizistan del sud, sia uno dei più alti di tutta l’Asia centrale. L’acqua è oggi la causa della maggior parte dei conflitti su piccola scala che agitano la vita della valle di Ferghana. Centro studi difesa civile. [www.pacedifesa.gov]. 41 Valeria F. Piacentini, op cit. p. 25. 42 Nata all'inizio del XX° secolo con il crollo dell'Impero ottomano, l'idea del panturchismo consiste nel ricostruire un nuovo impero che si estenda dal Mediterraneo alla Cina, basato essenzialmente sull'etnia turco - altaica. Il panturchismo (o panturanismo), si propone, come la esprime il suo ideologo Enver Pacha, di ricostituire l'Impero turco - musulmano sulle basi ideologiche moderne, laiche e secondo una concezione etno-nazionale dell'identità. A partire dagli anni '70 evolverà verso un neo - ottomanismo a colorazione più islamica. Alexandre del Valle, Islamisme-Etats-Unis, une alliance contre l’Europe. [www.alexandredelvalle.com].

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e un imposizione per il controllo delle risorse naturali e delle infrastrutture economiche comuni. Tra queste contese territoriali vi sono quella tra Uzbekistan e Tagikistan, tra Uzbekistan e Kirghizistan e tra Tagikistan e Kirghizistan.43 Le difficoltà sopra esposte, che le nuove cinque repubbliche si trovarono ad affrontare, non portarono al verificarsi di quegli scenari che di norma si pensava potessero accadere, come ribellioni, movimenti insurrezionali e in generale manifestazioni di violenza. A parte una devastante guerra civile in Tagikistan44 ed episodiche sommosse in Uzbekistan, le manifestazioni di violenza in Asia Centrale si sono rivelate di poco conto. Per capire meglio, si potrebbe fare un raffronto con il Caucaso, dove le guerre nate subito dopo la loro indipendenza tra le repubbliche di Georgia, Azerbaigian e Armenia hanno causato quasi un milione e quattrocentomila profughi. A eccezione del Tagikistan, le repubbliche dell’Asia Centrale sono riuscite a evitare la nascita delle guerre civili cercando una stabilità di breve termine.45Dopo dieci anni dalla nascita delle cinque repubbliche, quattro dei cinque presidenti erano ancora in carica. Un elemento utile alla comprensione di questa relativa stabilità può essere trovato nel fatto che i fondatori delle cinque repubbliche non solo erano dei veterani del dell’apparato del Partito comunista sovietico, fatta eccezione per Askar Akaev, ma avevano anche ereditato la tradizione imperiale zarista. Erano abili nelle arti necessarie dell’adulazione e dell’inganno. In patria erano diventati abili nei rapporti con gli oppositori e i rivali a scovare le più piccole crepe utili a dividere chi li criticava. Giustificavano il loro potere con quelli che erano presunti benefici per il popolo. Un quadro politico Con il crollo del sistema sovietico, sull’esempio degli altri paesi già parte del Patto di Varsavia, le repubbliche d’Asia centrale, hanno portato avanti tutta una serie di riforme politico-istituzionali aventi l’obiettivo d’uniformare i propri sistemi interni a quelli dei paesi dell’area atlantica. Da parte di questi ultimi vi fu un’adesione interessata alle richieste provenienti da questi neonati della scena internazionale. Le repubbliche dell’Asia Centrale vennero allora considerate terreno d’espansione del

43 Boris Eisenbaum, op cit. p. 126. 44 Il conflitto si accese a Dusanbe, capitale decisa dai sovietici. Questa città venne gradualmente trasformata in un importantissimo centro industriale, contemporaneamente la sua popolazione aumentava sino ad arrivare ad un numero di 600.000 abitanti. La scintilla del conflitto furono i tumulti che andarono ad accompagnare nel 1990 la fondazione del Partito della rinascita islamica, il primo raggruppamento di questo tipo nell’Asia Centrale sovietica. I comunisti locali risposero ai disordini mettendo al bando tutti i candidati di opposizione delle elezioni del marzo 1990 al Soviet supremo della repubblica. Il partito andò avanti nominando un nuovo segretario, Rakhmon Nabiev, il quale impose lo stato d’emergenza. Quando l’Unione Sovietica iniziò il suo processo di dissoluzione, il leader locali in Asia Centrale prendendosela l’uno contro l’altro, puntarono verso il più debole. Le dimostrazioni continuavano e Nabiev era indeciso tra le misure repressive o un tentativo di riconciliazione. Alla fine diede il permesso a fin che si svolgessero elezioni, le quali vennero però subito contestate. Il risultato furono altri scontri con arresti di massa. La fase iniziale del conflitto culminò nel settembre del 1992 con la cacciata di Nabiev sotto la minaccia delle armi. Regnava l’anarchia quando il parlamento decise di nominare presidente l’imam Alì Rkhmanov. Con l’aiuto della Russia, dell’Iran e degli altri stati dell’Asia Centrale i mediatori dell’ONU riuscirono a trasformare un cessate il fuoco di trentasei mesi in un accordo di pace transitorio. L’accordo di pace firmato nel 1997, prevedeva un’amnistia generale e la legalizzazione dei partiti di opposizione. Fu la prima volta che si acconsentì a condividere il potere con l’opposizione islamica. Karl E. Meyer, op cit. pp. 270- 271- 272. 45 Karl E. Meyer, op cit. pp. 258- 259.

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modello liberal-democratico. Nonostante ciò, l’esperienza degli ultimi 15 anni ha dimostrato la vacuità delle aspettative iniziali: infatti nonostante innumerevoli sforzi, programmi e iniziative varie finalizzate all’apertura e alla trasformazione dei sistemi politici centroasiatici secondo i principi dello stato di diritto, il panorama regionale è tutt’oggi caratterizzato da pratiche autoritarie e da magistrature corrotte e inefficienti, nel cui quadro il numero di violazioni quotidiane dei diritti fondamentali dei cittadini si è mantenuto costante, mentre in una parte considerevole della regione sono andate allargandosi le zone grigie di non-diritto legate alla deliquescenza delle istruzioni pubbliche.46 A tutt’oggi, il rapporto dei regimi ai programmi di democratizzazione si trova in una condizione paradossale. Nonostante i dirigenti dichiarino che l’instaurazione della democrazia rappresentativa non che il rispetto delle libertà fondamentali siano obiettivi delle loro politiche, la realtà dimostra una precisa volontà volta a impedire concrete evoluzioni in tale direzione. Negli ultimi anni questa divergenza è stata giustificata nei termini della costruzione di una cosiddetta “democrazia guidata” (upravljaemaja demokratija). Pretesa quale via nazionale alla democrazia, tale formula viene piuttosto intesa quale “democrazia imitata”, un paravento per regimi non completamente dittatoriali e preoccupati di mantenere un dialogo con i sistemi considerati autenticamente democratici.47 Ma quali sono state le linee politiche e istituzionali adottate dai singoli presidenti all’indomani della creazione di questi nuovi stati? Di seguito verranno prese in esame le singole direzioni politiche portate avanti in ciascuna repubblica. Per quanto concerne il Kazakistan il sistema instaurato dal presidente Nursultan Nazarbaev si pone quale effettivo esempio di “democrazia guidata” o piuttosto autoritarismo illuminato. Durante tutto il corso della propria esperienza post-sovietica, la dirigenza si è prestata a vari esperimenti di transizione istituzionale e state-building, con e senza il supporto di istituzioni internazionali, senza tuttavia permettere che questi andassero a toccare in profondità gli equilibri interni del paese. Dopo le prime aperture, con la costituzione del 1995 Nazarbaev fissava le regole del gioco del sistema ponendo i tre rami del potere sotto il suo saldo controllo. Reso bicamerale ma privato dell’iniziativa legislativa, il parlamento può essere sciolto in qualunque momento per decisione presidenziale avendo così cura di lavorare conformemente alla sua volontà. Le vicende parlamentari sono state indicative delle tendenze politiche e del ricorso sistematico alla manipolazione istituzionale come forma di legittimazione del regime. Così nella stessa occasione, un referendum fu indetto per l’estensione del mandato del leader per altri cinque anni. Da quel momento il paese conobbe una lunga serie d’emendamenti costituzionali e plebisciti volti a modellare il dettato legislativo con l’ordine delle cose e gli interessi del regime. Questi ha altresì. esercitato un’accorta e puntuale rotazione dei quadri la quale, unita ad una centralizzazione crescente e a rimaneggiamenti territoriali delle unità amministrative, ha permesso d’instaurare un controllo effettivo sull’insieme del campo politico. Il successo del Kazakistan indipendente può essere fatto coincidere con quello di Nazarbayev, infatti il suo principale merito è stato quello di essere riuscito a mantenere insieme un paese dove i titolari kazaki non rappresentavano che la metà della popolazione complessiva evitando così scissioni regionali e conflitti interetnici.48 La forza del sistema di Nazarbayev è stata nell’abilità di neutralizzare tutte le potenziali forze antagoniste attraverso metodi differenziati che comprendono

46 Fabrizio Vielmini, Continuità post-sovietica, autoritarismo politico e diritti umani in Asia Centrale, ISPI, working paper, 2007, p. 2. 47 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 3. 48 Manlio Masnata, op cit. p. 201.

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sia la repressione che la cooptazione nei ranghi del potere. Nel corso degli anni, Nazarbayev ha compiuto altri passi volti ad assicurare al proprio regime il pieno controllo del potere politico e fissava quest’ordine di cose facendo adottare dal parlamento la cosiddetta Legge del primo presidente (27 giugno 2000), la quale garantiva l’immunità perpetua di Nazarbayev e la sua futura influenza sul sistema politico anche dopo l’uscita formale dalla scena istituzionale. Regnando su un paese immenso, sottoposto a numerose forze centrifughe, Nazarbayev ha operato una modifica sapiente del rapporto fra centro e periferia, dialettica essenziale ereditata dal sistema sovietico. Se il centro ha mantenuto il controllo diretto tramite la nomina dei governatori regionali (akim), i poteri di questi ultimi si sono rafforzati in modo che essi fungano da garanzia della necessaria mobilitazione dei votanti in occasione dei numerosi esercizi elettorali e più in generale della legittimazione del regime a livello regionale. Questa decentralizzazione de facto deriva anche dal relativo, a confronto dei vicini, pluralismo partitico, il quale ha permesso ai leader regionali di appropriarsi di risorse già a disposizione dell’apparato del PCUS, che ne ha ulteriormente aumentato il potere e il margine di manovra nell’implementazione delle politiche del centro49. Contemporaneamente, è stato conservato il principio dell’eleggibilità delle assemblee regionali. Il potere centrale è stato favorito dalle difficoltà oggettive che incontrava la formazione di una contro-élite proprio in virtù dell’immensità delle distanze tra i diversi centri urbani, così che potenziali leader alternativi venivano facilmente cooptati nell’élite o marginalizzati dall’impossibilità di strutturare reti di supporto su scala nazionale. Altro elemento strutturale che va tenuto presente è come il sistema si sia ristrutturato accentuando il principio etno-nazionalista nella costruzione nazionale sovietica. In tal modo l’appartenenza all’etnia kazaka è divenuto un pre-requisito importante per trovare lavoro o fare carriera. In un contesto in cui la nazionalità eponima del paese costituiva solo una risicata maggioranza, tale situazione ha posto una parte consistente della popolazione in una zona grigia di non diritto sottolineata dall’ambiguità della definizione ufficiale della cittadinanza, oscillante fra ius solis e ius sanguinis. In generale, il principale fattore che ha dato forma al sistema è stata la piena affermazione del controllo del clan presidenziale sulla vita economica del paese. Di fronte alla precarietà della tenuta interna, la chiave del successo di Nazarbayev in tale impresa è in larga misura risieduta nel bilanciamento delle fonti di supporto interne con quelle internazionali. Accondiscendendo all’introduzione di un indirizzo di politica economica generale d’ispirazione liberista, così come richiesto dal grande capitale transnazionale che si andava allora installando nel settore energetico del paese, il regime si è assicurato il silenzio dei censori internazionali della democratizzazione. Allo stesso tempo, il regime ha tratto dal contesto internazionale solo quegli elementi che potevano essergli utili nell’opera di consolidamento interno, scartando allo stesso tempo quanto avrebbe rimesso in gioco rendite e monopoli controllati dall’élite. La politica estera rappresenta una componente fondamentale del successo di Nazarbayev, Infatti sin dal momento della scomparsa dell’URSS e dalla costituzione della CSI, il presidente si è posto come principale fautore dell’integrazione post-sovietica. Il desiderio di integrazione riflette l’elevata interconnessione con la Federazione Russa, sia sul piano economico che su quello psicologico e sociale. Ma allo stesso tempo Nazarbayev porta avanti un’altra linea di politica estera, quella della “multivettorialità”50, cioè cercare di affermarsi sulla scena internazionale, mettendo in campo svariate iniziative

49 Fabrizio Vielmini, op cit. pp. 6- 7. 50 Manlio Masnata, op cit. p. 203.

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diplomatiche. Alla base di questa linea vi era l’idea che il Kazakistan potesse ricoprire il ruolo di ponte tra Est e Ovest, tra Asia ed Europa, quindi ricoprire la figura di perno degli equilibri eurasiatici.51 Sulla falsariga di quanto avveniva contemporaneamente in Russia, Nazarbayev ha così eliminato la vecchia guardia contraria alle privatizzazioni e ai programmi del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). A determinare la vita del paese sono dunque sorti alcuni grandi gruppi finanziari, fra i quali primeggiano quelli controllati dai parenti di Nazarbaev, i quali si sono anche ripartiti i principali media spingendosi in alcuni casi fino ad operazioni d’ingegneria partitica volte ad assicurare i loro interessi all’interno delle istituzioni52. Nonostante il fatto che alcuni rappresentanti dei gruppi oligarchici abbiano sfidato il sistema cercando di creare un’opposizione politica strutturata, Nazarbayev ha dato finora prova della massima abilità politica riuscendo a neutralizzare le fronde successive tramite un utilizzo disinvolto della giustizia e di altri strumenti extra-legali. Ciononostante, all’interno del girone ex sovietico, ma anche al di là di esso, con gli anni il regime di Nazarbayev è andato acquistando un crescente prestigio frutto sia del finora riuscito sviluppo economico che della capacità ineguagliata di soddisfare il capitale internazionale presente nel paese, distribuire risorse per arricchire la propria sfera famigliare e clientelare, coordinare le spinte centrifughe ed evitare i nefasti scenari di conflitto che venivano prescritti come quasi inevitabili nei primi anni d’indipendenza. Emblematico è invece il caso del Kirghizistan, infatti a fronte dei successi e dell’equilibrio nell’implementazione delle ristrutturazioni capitalistiche propri all’esperienza kazaka, quella del Kirghizistan offre l’esempio di un paese che dal primo momento della scomparsa della struttura federale sovietica, non ha cessato di oscillare fra diversi esperimenti istituzionali teoricamente destinati a sviluppo, democratizzazione e effettiva governance ma portatori nei fatti di profondo disordine, per il paese così come per l’insieme della regione. A differenza del Kazakistan il Kirghizistan si trovò ad affrontare il trauma dell’indipendenza sprovvista di risorse naturali. Per diverso tempo il Kirghizistan è stato considerato il modello per l’applicazione del paradigma della transizione alla regione centroasiatica. Molto è dipeso dalla figura del primo presidente, Askar Akaev, l’unico leader centroasiatico all’alba dell’indipendenza a non provenire dalla nomenclatura del PCUS, ma bensì dal mondo accademico. Cosciente delle simpatie che tale fatto gli procurava in ambito internazionale, Akaev aveva sognato nella prima metà degli anni Novanta di fare del suo paese un’“isola di democrazia” sullo sfondo autoritario della regione. Per qualche anno di fatti sembrò funzionare. La prima Costituzione, emanata nel maggio 1993, era interamente modellata sui principi del liberalismo anglosassone, con la connessa enfasi sui diritti umani.53 Akaev condannava duramente il “totalitarismo” introducendo le più disparate riforme con il plauso e l’assistenza di differenti istituzioni sopranazionali. Fra queste, l’FMI il quale suggeriva una riforma d’aggiustamento strutturale con effetti devastanti per la struttura economica del paese. Venne smantellata quindi la base industriale ereditata dall’URSS, svendute a privati le poche attività profittevoli e lasciate andare in rovina tutte le altre54. Su tale sfondo, al centro divenne rapidamente chiaro che con gli strumenti propri dei regimi liberali non sarebbe stato possibile governare un paese profondamente diviso da una frattura generale nord/sud e, all’interno di queste macroregioni, da una struttura clanica

51 Manlio Masnata, op cit. p. 202. 52 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 8. 53 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 9. 54 Manlio Masnata, op cit. p. 204.

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particolarmente frammentata (circa una quarantina di gruppi). In questo contesto, data la scarsità di risorse materiali e le stridenti contraddizioni regionali, gli istituti democratici non potevano che risultare inutili, secondario rispetto all’esigenza di assicurare la tenuta del paese nelle frontiere ereditate dall’Urss. Da un lato, Akaev dovette fare sempre più riferimento ai suoi sponsor internazionali. A tal punto, in una condizione che perdura ancora oggi, che il Kirghizistan può a buon diritto essere descritto quale un “protettorato internazionale”. La differenza rispetto al periodo precedente al 1991 sta nel fatto che invece di doversi rapportare a un’unica potenza ordinatrice, il paese deve ora far riferimento a un’insieme di soggetti trans-nazionali (ma in maggioranza anglo-americani), senza il supporto dei quali lo stato non sarebbe in grado di assicurare le funzioni più basilari dell’amministrazione pubblica quali l’educazione, le strutture di sicurezza e la sanità. A differenza del Kazakistan il Kirghizistan non è riuscito ad elaborare nessuna azione esterna stabile e decisa sul piano internazionale. Akaev si è ritrovato senza mezzi per creare proprie strutture di sicurezza e per questo motivo si è dovuto costantemente piegare alle esigenze dei vicini, come la Cina e l’Uzbekistan con le sue ambizioni nazionalistiche. In generale la politica estera di Akaev diede l’impressione di consistere principalmente in una svendita degli interessi nazionali in cambio di sostegno politico per il proprio regime. Tuttavia l’appoggio internazionale da un lato non era sufficiente, dall’altro i suoi referenti interni, la collettività degli operatori delle Ong create dai programmi di cooperazione, premeva per la continuazione delle riforme, senza tenere in considerazione gli effetti profondi per la società, per alcuni in preda ad una sorta di “surriscaldamento da modernizzazione”. Il regime cominciò dapprima ad applicare pressioni crescenti sui media, poi, con il crescere dei disastri sociali provocati dal nuovo corso economico e il conseguente innalzamento del livello delle critiche da parte delle opposizioni, dovette cercare di ricostruire una linea verticale di potere in grado di mantenere il contatto fra il centro e le regioni. Akaev cominciò un crescente ricorso allo strumento referendario, con l’intento di scavalcare il legislativo e poter così procedere con la linea di transizione prescelta. Sull’esempio di Nazarbayev, mise in piedi un sistema piramidale al cui vertice stavano i membri ed i prossimi della famiglia presidenziale i quali a loro volta garantivano il tornaconto di una serie di clan e gruppi d’interesse economici. Il paese andò divenendo rapidamente permeabile a tutte le influenze esterne, in modo particolare dopo l’11 settembre, la dove nella speranza di ingrandire la base del consenso al proprio regime, Akaev concesse agli Stati Uniti il permesso di aprire all’interno dell’aeroporto di Biskek una base militare.55Qualche mese più tardi anche i russi otterranno tale autorizzazione. Tuttavia, la più elevata frammentazione interna e povertà rendevano molto più difficile la tenuta interna del sistema. A poco servì anche fare ricorso ai miti mobilizzatori del nazionalismo i quali trovarono un’eco soffusa, non sufficiente a superare né la frammentazione clanica regionale né l’alienazione crescente delle masse rurali sempre più esposte agli effetti delle ristrutturazioni liberali. Il sistema di Akaev entrò in crisi con l’avvicinarsi delle elezioni per il rinnovo del parlamento e della presidenza del 2005. Da un lato, gli interessi consolidatisi intorno al regime compirono innumerevoli e goffi tentativi volti a mantenere inalterati i propri privilegi. Dall’altro la lunga serie di scontenti dello stato corrente delle cose iniziò a uscire dai ranghi. Il risultato finale fu il primo cambio di regime nell’area centroasiatica. Attori principali furono le masse di diseredati mobilitati verso i palazzi del potere dagli oppositori, contadini o sotto-proletari di recente urbanizzazione i quali espressero una

55 Manlio Masnata, op cit. p. 205

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sorta di vendetta delle campagne contro una capitale percepita come indifferente al degrado delle loro condizioni di vita, tale movimento prese il nome di “Rivoluzione dei Papaveri”. Il successivo evolversi della vita politica del paese ne conferma la crisi strutturale, frutto in buona parte di un erronea applicazione di schemi alieni alla sua realtà. Il nuovo regime di Kurmanbek Bakiyev si è però rapidamente ritrovato nella condizione di Akaev. Le pratiche nepotistiche e la corruzione sono continuate, allargandosi e corrodendo sempre più l'insieme della cosa pubblica. Al fine di essere eletto senza complicazioni ed evitare di approfondire le tensioni fra il nord e il sud del paese, Bakiyev sottoscrisse un patto pre-elettorale con l’unica altra personalità che potesse aspirare alla presidenza nel dopo Akaev, il generale dell’ex KGB e anch’egli ex ministro Felix Kulov. Kulov venne liberato dalla rivolta dopo quattro anni di prigionia e nonostante il suo passato egli potè contare sul notevole carisma derivatoli dall’immagine di ex prigioniero politico. Molto dubbio in termini costituzionali, l’accordo riservava a questi la guida del governo. Nel frattempo il nuovo regime si è trovato a condurre un costante braccio di ferro con l’opposizione, la quale ha continuato a fare ricorso alla piazza, paralizzando più volte la vita della capitale. Alla fine del 2006, Bakiyev aveva accettato di ridurre le prerogative della presidenza con l’introduzione di una costituzione di stampo parlamentare. Tuttavia, dopo poco più d’un mese, il presidente ribaltò il compromesso raggiunto e fece votare dal parlamento (da lui largamente controllato) una nuova carta fondamentale che in pratica restaurava l’egemonia della massima carica. A quel punto, dopo un anno e mezzo d’intesa, Bakiyev ha anche estromesso il Primo ministro facendo in modo che non venisse riconfermato dal parlamento dopo che Kulov aveva presentato le dimissioni dell’esecutivo in seguito alla crisi costituzionale. Kulov ha così raggiunto il fronte delle opposizioni portando ad un confronto che ancora oggi persiste. L’accusa principale rivolta al presidente continua ad essere l’incapacità a portare a termine le riforme. In realtà il problema del Kirghizistan sta nel fallimento del tentativo di creare un apparato statale funzionante, che induce una condizione di crisi a carattere endemico nell’assenza di un élite dirigente e d’una opposizione in grado di avanzare proposte concrete. Al suo posto si possono trovare una costellazione frammentata di piccoli capi regionali e tribali, privi di programmi politici, i quali piuttosto che dirigere subiscono anch’essi il corso degli eventi. Le richieste di riforme celano con difficoltà esigenze di redistribuzione di ricchezza e potere mentre i partiti con i loro programmi politici sono solo un involucro per gruppi d’interesse finanziario o regionale, in una prospettiva in cui la politica è in primo luogo un’arena in cui si gioca per inserire i propri rappresentanti all’interno delle strutture di potere in modo da poter meglio affermare i propri interessi a livello locale.56 Il Tagikistan, si colloca in una posizione intermedia fra la precedente coppia più pluralista e il blocco autoritario rappresentato da Uzbekistan e Turkmenistan. Il paese si pone quale esperienza a sé poiché marcata dal conflitto civile che lo ha devastato fra il 1992 e il 1997, un fatto che ha impedito al sistema politico di assumere tratti ben definiti. La delimitazione nazionale sovietica degli anni Trenta creò in Tagikistan un soggetto particolarmente squilibrato, dove il problema principale era il basso grado di auto-identificazione delle province con il centro. Le rivalità regionali esplosero in conflitto non appena l’improvvisa indipendenza fece venire meno il fattore esterno che aveva assicurato la tenuta del sistema. La figura di Imomali Rakhmonov, un oscuro quadro di secondo livello, venne innalzata alla presidenza da parte della

56 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 11.

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coalizione al potere, probabilmente nella convinzione che, dato il suo basso profilo e l’assenza di una rete strutturata di supporto a livello nazionale, questi sarebbe stato più facilmente manipolabile in una fase di passaggio. Al contrario, Rakhmonov è riuscito a sopravvivere alle sue eminenze grigie e giostrando fra l’alto livello di conflittualità all’interno della stessa coalizione governativa, a mantenere il potere presentandosi quale artefice della riconciliazione nazionale. La congiuntura successiva alla guerra civile suscitò elevate aspettative fra gli attori della democratizzazione in Asia centrale. La cessazione delle ostilità si fondava su un Accordo di riconciliazione nazionale il quale prevedeva meccanismi istituzionali e pratiche volti ad assicurare l’accesso al potere ai membri dell’opposizione, per i quali veniva riservato il 30 per cento delle cariche pubbliche. La singolarità della situazione tagika sta anche nel riconoscimento di una legittimità politica ai membri dell’opposizione islamista (Partito della rinascita islamica, Pri), unico caso in una regione in cui le forze rifacentesi all’islam politico vengono represse in ogni modo in quanto presentate quale minaccia alle istituzioni laiche. Se la presidenza è stata in qualche modo costretta a confrontarsi con eletti dal popolo per la composizione dell’esecutivo, tale situazione è stata più che altro il portato di un conflitto intestino che ha lacerato il paese senza che nessuna delle parti fosse in grado di prevalere sugli oppositori. Nella misura in cui la situazione è andata stabilizzandosi, il regime ha cercato di espellere gli avversari politici, così che il paese conobbe una “normalizzazione” autoritaria, in linea con le più generali tendenze centroasiatiche57. L’élite al potere con Rakhmonov ha continuato a far uso di strumenti repressivi per affermare ed allargare la propria sfera di controllo tramite il costante rafforzamento dell’istituto della presidenza. La costituzione in vigore, che di base è ancora quella adottata nel 1994, ha subito continui cambiamenti. Essa assegna al presidente la nomina dei sindaci e dei governatori regionali, prerogativa di cui Rakhmonov ha più volte usufruito per allontanare ex membri dell’opposizione, distorcendo in tal modo il dettato dell’accordo di riconciliazione nazionale. Il potere giudiziario è dichiarato indipendente ma il presidente può dimettere e nominare i giudici, oltre che influenzare la Corte costituzionale tramite il controllo sul parlamento del partito presidenziale (Partito democratico del popolo). D’altronde, in violazione alla Legge sull’amnistia parte degli accordi del 1997, molti ex antagonisti del presidente sono stati portati innanzi alla giustizia per presunti crimini commessi prima della pacificazione. La “guerra al terrorismo” ha costituito un’occasione inattesa per Rakhmonov, il quale ne ha ricavato risorse aggiuntive per consolidare la propria presa sul paese. Nel 2003, l’attuale presidente ha riguadagnato il distacco dai suoi colleghi regionali, estendendo il proprio mandato da cinque a sette anni ed introducendo per se stesso la possibilità di concorrere per due mandati aggiuntivi. Il tutto tramite un referendum dove i cittadini erano chiamati contemporaneamente ad esprimersi su un pacchetto di 50 emendamenti costituzionali, le cui modalità sfidavano qualsiasi decenza internazionale. Il clima creato nella regione dall’emergenza “anti-terrorista” post-2001 ha favorito il riemergere di un rinnovato discorso pubblico sulla “minaccia islamica”, anche questo una costante nei percorsi istituzionali regionali. Rakhmonov ha comunque cura a bilanciare le proprie mosse liberticide con atti d’apertura, dovendo tenere in considerazioni che le fonti esterne di finanziamento – soprattutto quelle destinate al cospicuo terzo settore - restano fra le voci principali del bilancio nazionale. Il sistema vanta ancora un certo pluralismo politico ma esso è sempre meno sostanziale. Esemplare il rapporto del potere con il Partito della rinascita islamica, il

57 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 12.

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quale, pur avendo perduto presa nel sociale viene mantenuto quale interlocutore privilegiato, proprio perché inoffensivo nei confronti del regime in forza delle sue crescenti divisioni interne. In ogni caso, i partiti si sono sempre più svuotati di senso e gli equilibri dell’élite si determinano facendo affidamento sui legami di solidarietà e di parentela piuttosto che sulle alleanze politiche.58 L’Uzbekistan in virtù della propria posizione centrale e del peso demografico (oltre la metà della popolazione centroasiatica), influenza in profondità la vita della regione, tendenze politiche incluse. Dopo l’uscita dalla compagine federale, l’élite al potere ha effettuato una chiara scelta basata sul ruolo centrale dello stato nel condurre il passaggio all’indipendenza. Durante il periodo sovietico, lo stato uzbeko, che quale perno del sistema d’amministrazione dell’Asia centrale aveva potuto disporre di ingenti risorse economiche nel migliorare le condizioni di vita delle masse, si è radicato in profondità fra la popolazione. Islam Karimov, primo presidente, ha sempre sostenuto la necessità dell’instaurazione della democrazia, della costituzione di uno stato di diritto fondato su un sistema di libere elezioni. Egli aveva in mente un modello di riferimento propriamente occidentale privo di radici nell’Uzbekistan. Nonostante aver elaborato un modello di costituzione improntato sui valori di quella francese, l’amministrazione Karimov andò caratterizzandosi per una forte concentrazione del potere nelle proprie mani. Bisogna notare come nei momenti successivi all’indipendenza nazionale la Turchia e l’Iran sembravano potessero avere un ruolo da referenti tradizionali per l’Uzbekistan, ma non ebbero la forza soprattutto economica per rivestire un compito del genere. La Turchia ad esempio aveva un grande ascendente in Asia Centrale, grazie ai legami con le popolazioni turcofone, con le quali potevano essere condivise tradizioni, lingua, e religione. Ma ad attirare Karimov fu più che altro la concezione di Stato islamico che caratterizzava la Turchia. Questo interesse era ovviamente giustificato dal fatto che la costruzione di uno stato sovrano in Uzbekistan serviva a fronteggiare la rivitalizzazione dell’Islam Uzbeko, conseguenza della dissoluzione dell’ateo regime sovietico. Nonostante gli aiuti materiali ed economici e il riconoscimento politico da parte del governo turco, Karimov aveva intenzione di assumere solamente il modello statale laico della Turchia, senza che potesse trovare spazio l’affermazione del panturchismo.59 Benché l’attuale Uzbekistan sia una creatura geopolitica artificiale composta da territori appartenuti nel corso della storia a differenti formazioni politiche, sul suo territorio si concentra la memoria storica dei principali sistemi statali preesistenti l’entrata della regione nella compagine imperiale russa. La vita politica nazionale si organizza su clan a base regionale, i cui principali sono quelli di Samarcanda, Ferghana e Bukhara. La rete dei gruppi politici regionali si collega con gli interessi economici e commerciali per via del mantenimento del controllo statale sulle principali attività economiche del paese. L’intreccio di potere politico ed economico esprime un elevato livello di interdipendenza fra tutte le classi privilegiate e le strutture statali. 60La base di forza degli interessi consolidati in tale blocco è stata tale da sabotare i tentativi di democratizzazione, che aumentando la trasparenza del sistema e la partecipazione popolare, sarebbero andati ad intaccare privilegi consolidati. L’accentramento è stato favorito dal contesto dei primi anni d’indipendenza quando il crollo della situazione di sicurezza in Tagikistan e la degradazione delle condizioni di vita presso i vicini per effetto delle “terapie shock” neoliberali sembravano giustificare il corso politico di 58 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 13. 59 Manlio Masnata, op cit. p. 233. 60 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 14.

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Karimov. In parallelo questi ha tratto un’altra importante risorsa volta al consolidamento del proprio regime dalla manipolazione storiografica e propagandistica del passato uzbeko. Con un’intensità a tratti di carattere totalitario, è stata elaborata un ideologia dell’“indipendenza nazionale” la quale ha ripreso meccanismi della propaganda sovietica, quali la lotta alle idee “aliene e distruttive” e la glorificazione dell’autorità presidenziale in un’assimilazione analogica che proietta un’irreale grandezza passata sul radioso futuro che la guida del leader fornirà al paese al fine di giustificare tutte le forzature del sistema. Se il sistema di clientelismo di stato con i suoi meccanismi di propaganda ha presentato nel corso degli anni Novanta un elevato grado di coerenza, con l’esaurirsi delle risorse economiche in virtù della forte crescita demografica e del corso di politica estera improntato all’autarchia e al contrasto con la Russia, le cose hanno cominciato a deteriorarsi. Le chiusure del sistema hanno cominciato a costituire un serio freno allo sviluppo delle attività imprenditoriali con la creazione di contrasti fra i gruppi dediti ai settori rentier dell’economia e quelli emergenti legati al commercio e alla finanza.61 La degradazione economica ha dato un forte impulso alla corruzione. In un contesto di crescente ricorso a misure coercitive a livello di politica generale, i pubblici ufficiali e le forze dell’ordine sono stati incoraggiati a comportamenti di tipo predatorio a tutti i livelli. Soprattutto, il ristagno ha incrinato l’equilibrio fra i principali clan del paese. A farne le spese è stato quello della valle del Ferghana, il punto più sensibile del paese dove risiede oltre un terzo della popolazione e si concentrano le principali attività agricole e industriali. Sempre qui, sono maggiormente marcati i problemi sociali e demografici che vanno a intrecciarsi con la presa più salda dell’Islam sulla collettività, una concentrazione di condizioni per lo sviluppo di forme virulente di protesta che costituisce il maggior motivo di apprensione per le autorità centrali. Un’espressione del crescente contrasto fra la valle del Ferghana ed il potere centrale sono stati i fatti di Andijan62, quando sullo sfondo dell’anarchia nel vicino Kirghizistan, i gruppi economici colpiti dalle manovre del centro non hanno esitato a manipolare il malcontento popolare per cercare di rafforzare la propria posizione nei confronti del governo il quale ha risposto con pugno di ferro alla sfida locale. I fatti di Andijan hanno indicato come il regime sia sempre più incline ad usare la violenza quale mezzo di risoluzione delle controversie politiche. Sin dai primi anni di sovranità, Karimov ha sfruttato a fondo il tema della stabilità politica e delle minaccia islamista, reale o percepita, incombenti sul paese e di converso su tutta la regione. Tali temi sono stati “securitizzati”, ossia sottratti al dibattito e al campo della politica e volutamente esasperati per giustificare ogni genere di repressione interna. La sicurezza viene portata avanti come valore assoluto, al quale è stata sacrificata ogni prospettiva di riforma politica, con un parallelo rafforzamento delle strutture di sicurezza e una chiusura delle possibilità d’accesso ai vertici dell’élite. Allo stesso tempo è cresciuta la volontà di controllo totale sulle organizzazioni sociali e non-

61 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 14. 62 Il 12 e 13 maggio la città di Andijan, in Uzbekistan è stata al centro di un'insurrezione armata. Un contingente di 50-100 uomini armati si è impadronito della prigione, di diversi commissariati di polizia, di due guarnigioni militari e di edifici amministrativi e ha assunto il controllo della città per un'intera giornata. Riuniti nel centro della città con diverse persone in ostaggio, ai guerriglieri si sono uniti alcuni sostenitori e semplici curiosi che volevano ascoltare i discorsi contro il regime. Ma ben presto truppe speciali inviate da Tashkent hanno preso posizione intorno alla piazza centrale. Secondo alcuni testimoni, i soldati avrebbero aperto il fuoco sulla folla facendo 500 morti. Le cifre ufficiali parlano di 176 vittime, di cui metà costituita da insorti. Nel frattempo diverse centinaia di uzbechi hanno varcato la frontiera e sono stati riuniti in campi profughi in Kirghizistan. Bagno di sangue in Uzbekistan, Le Monde Diplomatique, Ottobre 2005.

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governative le quali sono state represse tramite restrizioni legali, blocchi delle disponibilità finanziarie e varie misure intimidatorie. Il Turkmenistan occupa il punto estremo dello spettro politico centroasiatico, avvicinandosi di molto alla definizione di un sistema totalitario. Va detto che anche prima dell’indipendenza questa era fisicamente e culturalmente una delle parti più isolate dell’Urss, dove conseguentemente furono meno avvertiti i rinnovamenti dell’epoca della perestrojka, così che mancava il materiale sociale attraverso cui tentare una democratizzazione del paese. Il fattore personale ha giocato un ruolo considerevole nel definire il profilo politico del Turkmenistan post-sovietico. Per ventuno anni, fino alla sua scomparsa nel dicembre 2006, la vita pubblica è stata dominata dalla figura del presidente Saparmurat Niyazov. Nominatosi Turkmenbashi (“padre dei turkmeni”), Niyazov si è differenziato dai suoi colleghi e vicini per una certa onestà intellettuale nei confronti del discorso della democratizzazione. Pur seguendo le tendenze regionali volte a creare istituzioni formali sul modello occidentale, l’ex presidente ha sempre messo in chiaro che l’influenza internazionale sarebbe stata subordinata alla sua concezione degli interessi nazionali, vantando la necessità di preservare il carattere “orientale” del paese in quanto maggiormente indicato al carattere ed alle esigenze della popolazione. Facendo seguire i fatti alle parole, solo fra tutti gli eredi del sistema sovietico, Niyazov ha conservato il sistema a partito unico (ribattezzando il Partito comunista quale Partito democratico), ha organizzato plebisciti referendari per dapprima estendere e poi promulgare a vita il proprio mandato presidenziale e introdotto un culto della propria personalità che estremizzava i fasti staliniani. Il risultato politico conseguito è una forma estremamente accentrata di potere patrimoniale personale, definibile quale “sultanistica” in virtù dell’assenza di strutture d’intermediazione fra il vertice e le masse, in cui l’apparato amministrativo e militare agiscono quali puri strumenti personali del presidente sulla base di pulsioni elementari quali il timore della punizione e il desiderio di ricompensa.63 Niyazov è riuscito a controllare sapientemente l’equilibrio dei cinque principali clan del paese e a impedire il consolidamento di poli di potere alternativi attraverso una rotazione ininterrotta di personalità differenti alle principali cariche pubbliche. Sul piano costituzionale, il presidente è contemporaneamente capo dello stato, del governo e delle forze armate e dispone inoltre di una facoltà illimitata d’emissione di decreti aventi immediato valore di legge, del diritto esclusivo di nomina dei magistrati, dei procuratori e di tutte le cariche direzionali regionali. Il potere legislativo inizialmente rappresentato da un parlamento (Mejlis) di 50 deputati è stato svuotato di senso tramite l’introduzione di un Consiglio del popolo (Khalq Maslikhaty) dove si radunano oltre ai normali parlamentari, i rappresentanti dei distretti e gli hakim nominati dal presidente. Il Consiglio, organo di rappresentanza suprema ma senza poteri effettivi, presenta similitudini con strutture analoghe del Barhein e della Giordania, ma, data la composizione allargata a 2507 persone e il fatto che sia prevista una sola sessione annua, rappresenta più un’assemblea tribale che altro. Niyazov non si è limitato ad estendere il suo controllo a tutti gli ambiti della vita pubblica e a costruire un culto stalinista della personalità. Nel quadro di una propaganda massiccia sul suo ruolo nel riportare i turkmeni ad una presunta perduta grandezza, il presidente aveva, con la pubblicazione del Rukhnama (Libro dell’anima) nel 2002, tentato di attribuire

63 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 16.

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caratteri sacrali alla propria persona. Può essere facilmente compreso come un tale sistema presenti uno dei peggiori record mondiali in termini di rispetto dei diritti umani, libertà personali gravemente ristrette, serie limitazioni alla libertà di movimento sia all’interno che all’estero, negazione dei diritti delle minoranze etniche e religiose. Prima della scomparsa di Niyazov, la morte in detenzione della giornalista O. Muradova ha messo in evidenza l’isolamento totale del sistema carcerario (con uno dei numeri di detenuti fra i più elevati al mondo) e l’uso sistematico della tortura per i crimini d’opinione. Il tutto nell’ambito di uno sforzo sistematico volto a isolare il paese da qualsiasi influenza proveniente dal resto del mondo, incluse quelle provenienti dalla sfera religiosa, nella quale il Turkmenistan spicca quale sola repubblica ex sovietica dove siano stati demoliti luoghi di culto appartenenti a confessioni “aliene”, ossia tutte quelle al di fuori dell’Islam ufficiale e della Chiesa ortodossa.64 Le relazioni tra le cinque repubbliche Sono diversi i punti di contrasto tra le reciproche relazioni delle cinque repubbliche: sono infatti numerosi i fattori di tensioni tra i vari paesi che non permettono una vera cooperazione regionale. I motivi di contrasto vanno cercati ad esempio nelle dispute territoriali, nelle tensioni etniche tra le popolazioni e nello sfruttamento delle risorse presenti. Inoltre comune a tutti questi paesi è il pericolo del propagarsi del fondamentalismo islamico e di gruppi terroristici già presenti nell’area, in una regione per la maggior parte musulmana. Il paese centroasiatico che presenta maggiori contrasti con gli altri stati è l’Uzbekistan, non solo perché questo paese confina con tutti gli altri stati della regione ma anche per l’aspirazione di ruolo di guida che intende svolgere questo all’interno dell’area. Possiamo osservare che le tensioni tra questo paese e il Tagikistan sembrano attenuarsi, per quanto riguarda le dispute territoriali concernenti la città uzbeka di Bukhara rivendicata dal Tagikistan per ragioni storiche, in quanto vi è la presa di coscienza da parte di entrambi i governi del pericolo del fondamentalismo islamico. Persistono comunque rivalità inter-etniche tra i due paesi e scambi di accuse da entrambi i governi di fomentare e appoggiare movimenti politico-militari in opposizione agli attuali presidenti in carica. Un ulteriore fattore che acuisce le tensioni tra i due paesi è dato dalla lotta in Afghanistan tra politici uzbeki e tagiki: anche questi contrasti sono fomentati dall’esterno dai due paesi, e rendono maggiormente difficile anche la situazione all’interno del paese afghano. Con il Turkmenistan dopo l’attentato nel novembre 2002 contro il presidente Nyazov65, il governo turkmeno ha provveduto a rafforzare il livello di sicurezza sui confini. La frontiera con l’Uzbekistan è stata già negli anni passati fonte di disagi e problemi tanto che fin dal 1990 solo per viaggiare nella regione nord di Dashoguz si richiedeva un visto interno. Tutto questo è il frutto di una lunga storia di forte sfiducia tra turkmeni e uzbeki, specialmente in relazione ai confini e alle risorse idriche. Questa diffidenza si è ulteriormente sviluppata dopo il tentato omicidio di Nyazov tanto da portare la popolazione turkmena a credere che il governo dell’Uzbekistan volesse sostituire il presidente al fine di usurpare i territori del Turkmenistan. Con il

64 Fabrizio Vielmini, op cit. p. 17. 65 Il 25 novembre scorso un uomo armato ha attaccato il corteo presidenziale ferendo una persona. Il presidente Niyazov è rimasto illeso. Secondo fonti ufficiali le persone arrestate perché coinvolte nel tentativo di omicidio sono state 67. [www.mail-archive.com/[email protected]].

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Kirghizistan i rapporti sono tesi per i territori situati nella zona di Sokh settentrionale, un territorio situato in Kirghizistan ma appartenente all’Uzbekistan, dove sono presenti giacimenti di gas e di petrolio: il governo di Akaev richiedeva per questi territori una revisione dei confini. Un’altra questione controversa riguarda le tensioni relative alle acque del fiume Syr Darja che scorre a monte nel Kirghizistan e a valle in Kazakistan e Uzbekistan. Di non secondaria importanza è l’irrisolta questione dei confini che dividono il Kirghizistan e l’Uzbekistan, in quanto lungo il tratto di confine comune ai due stati si effettua lo scambio di energia e risorse naturali. La gestione delle risorse idriche, rappresenta uno dei problemi maggiori per una regione desertica e di steppe vista la scarsità di acqua. Proprio in questo settore sembra più che mai necessario una vera cooperazione regionale: infatti le maggiori riserve idriche sono situate in Kirghizistan e Tagikistan che ha causa della mancanza in alcuni periodi dell’anno di energia elettrica sono costretti ad una maggior erogazione di energia idroelettrica, con conseguenze però per gli altri paesi della regione che non possono usufruire regolarmente delle riserve idriche necessarie per la loro economia. Inoltre la cattiva gestione dell’acqua comporta insieme alla coltivazione del cotone, gravi rischi e danni per l’ambiente in Asia Centrale. La situazione più problematica della regione è però la valle del Fergana in quanto si intrecciano varie tensioni di origine etnica, religiosa e per la gestione delle risorse. Quest’area è situata tra la parte orientale dell’Uzbekistan, il nord del Tagikistan e il sud del Kirghizistan, ed è uno dei territori più densamente popolati della regione, oltre che una ricca area agricola, dove sono presenti importanti risorse idriche. Questi fattori comportano ovviamente tensioni crescenti per l’approvvigionamento alle risorse presenti in questa valle da parte dei tre stati, uniti alle tensioni etniche tra le varie popolazioni a causa di confini soggetti alle incursioni. Proprio gli attacchi dei gruppi terroristici, in modo particolare dell’IMU66 e dell’Hizb ut-Tahrir67, in questa valle, rappresentano un grave problema per la stabilità dell’intera regione: questo territorio è infatti la culla culturale e politica dell’Islam dell’Asia Centrale, e questi gruppi che riescono a sfruttare le tensioni e le condizioni di povertà dell’area riescono a trovare, soprattutto tra i più giovani terreno fertile per il loro proselitismo. In tutta l’Asia Centrale, infatti, la popolazione è in massima parte musulmana: in questi paesi esiste una realtà religiosa dalle radici profonde a cui l’ideologia sovietica non era riuscita a sostituirsi. Mosca aveva seguito il modello di creazione di un Islam “ufficiale”, ovviamente sotto controllo sovietico,

66 Il Movimento islamico uzbeko venne fondato nel 1997 con l'obiettivo di rovesciare il regime di Karimov e di sostituirlo con un governo islamico. Dal 2000 ha cambiato strategia, puntando alla formazione di un grande califfato mussulmano in Asia Centrale. L'IMU, che si sospetta abbia forti legami con Al Qaeda e si finanzi attraverso il controllo del traffico di droga che attraversa l'Asia Centrale, ha compiuto una serie di attentati tra il 1999 e il 2001 in Uzbekistan, uno dei quali diretto contro il Presidente della Repubblica Islam Karimov. Attualmente la dirigenza dell'IMU pare si sia rifugiata tra le montagne afghane al confine con il Pakistan, mentre l'organizzazione starebbe facendo nuovi proseliti nella valle del Fergana, in Uzbekistan, a causa della dura repressione che i musulmani stanno subendo sotto il regime di Kharimov. (http://www.cedost.it/news/organizzazioni/imu.htm). 67 Lo Hizb ut-Tahir è un movimento che nasce tra i palestinesi in Giordania all’inizio del 1950 e solo successivamente trapiantatosi in Asia Centrale. Può essere considerato a tutti gli effetti un movimento radicalista, infatti il suo obiettivo consiste nella creazione di uno stato islamico. Rifiuta ogni gradualismo respingendo ogni compromesso con le strutture istituzionali e in polemica con i riformisti rifiuta ogni contaminazione con le idee di costituzionalismo e di nazionalismo, giudicate come un contagio occidentale. Va detto però che la caratteristica principale dell’Hizb ut-Tahir è il rifiuto programmatico della violenza, alla quale viene preferito un capillare lavoro di propaganda e proselitismo mirato a creare l’èlite dei militanti che dovrà porre in essere il canale di trasmissione con la umma dei fedeli. Paolo Affatato, Emanuele Giordana, A oriente del profeta, O barra O edizioni, Milano, 2005, pp. 91- 92.

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in cui incanalare quello che considerava un dato folkloristico popolare. Ciò non ha impedito comunque il formarsi di un Islam “parallelo”, fatto di pratiche quotidiane e incoraggiato dalle confraternite religiose che è diventato ben presto un riferimento sociale slegato dal gran muftì o dagli ulema ufficiali. Con la caduta dell’Unione Sovietica è avvenuto perciò un recupero della religione islamica come fattore di coesione. La liberalizzazione della religione ha fatto di questo Islam parallelo il veicolo per la rinascita islamica nei vari paesi. La ripresa di questi movimenti attivisti islamici, è stato incoraggiato anche dalle nuove leadership nate con l’indipendenza dall’URSS, ma attraverso questi stessi canali paralleli nacque presto, circa a metà degli anni novanta, la nascita di un islam politico radicale e violento finanziato e incoraggiato dall’Arabia Saudita. Nel momento in cui questi movimenti portarono a nuove forme di contestazione e di opposizione al governo e divenendo una minaccia al potere politico, non è tardata una pesante repressione nei confronti di tutti i movimenti radicali islamici non istituzionalizzati. Ma tale politica come ad esempio quella autocratica di Karimov paradossalmente non ha fatto che alimentare questi movimenti poiché, avendo egli chiuso ogni spazio di discussione politica, ha fatto della moschea l’unico punto di incontro e di discussione esistente in Uzbekistan. Paradossalmente proprio la repressione del regime governativo, ha creato terreno fertile per la militanza radicale. In particolare i terroristi sembrano aver seguito un sentimento diffuso fra la popolazione, di timore e odio verso la polizia che compie quotidianamente soprusi a danno dei cittadini. Dopo l’11 settembre la repressione del governo nei confronti dei movimenti islamici d’opposizione è diventata ufficialmente lotta al terrorismo internazionale, e i paesi dell’Asia Centrale sono stati fra i primi stati a dare pieno appoggio agli Usa nelle guerre contro l’Afghanistan dei Talebani e contro l’Iraq di Saddam. La situazione anche a livello regionale resta quindi tesa, e le relazioni tra gli stati della regione sono per lo più improntate su interessi tattici piuttosto che su una strategia a lungo termine che permetta una reale cooperazione regionale.

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Capitolo terzo Localizzazione delle risorse energetiche e dati regionali delle singole repubbliche Kazakistan Il Kazakistan è uno stato transcontinentale, a cavallo tra Europa ed Asia, comprende nel suo territorio il fiume Ural, che generalmente è considerato come confine tra i due continenti. Secondo alcune definizioni, che tengono conto unicamente di criteri geo-politici, si tratterebbe di uno stato completamente asiatico (in questi casi il confine tra Europa ed Asia non è posto sul fiume Ural ma lungo il confine del Kazakistan ). Con un'area di 2,7 milioni di kmq, il Kazakistan è il nono paese al mondo per superficie. La popolazione è pari a 15.233.244 di abitanti. Le sue dimensioni corrispondono più o meno a quelle dell'Europa occidentale e a metà del territorio degli Stati Uniti. Confina con la Russia a nord, con il Mar Caspio a ovest, con il Turkmenistan, l'Uzbekistan e il Kirghizistan a sud e con la Cina a est. Il territorio è quasi tutto arido e pianeggiante, se si escludono le zone montuose al confine orientale e sud orientale, che si estendono lungo l'estremità settentrionale della vasta catena del Tian Shan. Il monte Khan Tengri, con i suoi 6995 m di altitudine, si trova al confine con il Kirghizistan ed è la vetta più alta del paese. Al centro del Paese esiste un territorio molto arido detto Steppa della Fame. In questo stato il clima è caratterizzato da inverni rigidi ed estati torride. In particolare le escursioni termiche annue sono molto alte. Dato che gli oceani sono lontani, le masse di aria umida non penetrano nell'interno e perciò le precipitazioni sono scarse e c'è poca vegetazione. Come visto in precedenza il 25 ottobre del 1990 il Kazakistan proclamò la sua sovranità e si dichiarò indipendente il 16 dicembre 1991, aderendo alla Comunità Stati Indipendenti (CSI). Il parlamento elesse lo stesso anno Nursultan Nazarbayev presidente. Il 2 marzo 1992 il paese aderisce all'ONU e nel maggio dello stesso anno diviene membro dell'UNESCO. Nel 1995 venne firmato un trattato con Uzbekistan e Kirghizistan per l'istituzione di uno spazio economico comune. Il Kazakistan è suddiviso in 14 regioni e 3 città a statuto speciale. Le tre città a statuto speciale sono: Almaty, l'antica capitale, Astana, la nuova capitale ,Baikonur, città dello spazio. Almaty con 1.128.000 abitanti è la città più popolosa del Kazakhstan, situata sulle pendici dei monti Zailijski Alatau, presso la frontiera col Kirghizistan. Importante nodo ferroviario, presenta un tessuto economico sviluppato (industrie agricole, alimentari, meccaniche). È sede di un'università e di un'Accademia delle scienze. Astana è capitale del Kazakhstan. Ha una popolazione di circa 538.000 persone, in rapido aumento. La città è situata nel Kazakistan centrale, sul fiume Ishim, circondata da una regione pianeggiante, la steppa semi desertica che copre la maggior parte del territorio kazako. Baikonur è una città del Kazakhstan amministrata dalla Russia. Fu costruita per servire il Cosmodromo (base di lancio spaziale). Originariamente Baikonur era una cittadina mineraria. Dal cosmodromo di Baikonur vennero lanciati le Soyuz e gli Sputnik, tra cui il primo satellite della storia: lo Spitnik I. Baikonur era il centro principale di funzionamento dell'ambizioso programma spaziale sovietico da prima degli anni '60 fino agli '80 ed è dotato di attrezzature per il lancio di velivoli spaziali con e senza equipaggio umano. Il Kazakistan è uno stato unitario con forma di governo Presidenziale. La lingua ufficiale è la lingua kazaka. Tuttavia la lingua russa è comunemente usata

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come la lingua di comunicazione interetnica. Secondo la Costituzione il Presidente della Repubblica, Capo dello Stato, viene eletto per sette anni. L'attuale Presidente della Repubblica è Nursulatan Nazarbayev, il quale è stato eletto per la seconda volta durante il referendum del gennaio 1999. Il Parlamento della Repubblica, il supremo organo legislativo, è bicamerale: il Senato (47 seggi) e il Magilis (77 seggi dei quali 67 eletti con il sistema maggioritario, 10 per gli elenchi di partiti). L'elezione nella Camera dei Rappresentanti si svolge per votazione diretta, segreta e generale, nel Senato per votazione indiretta e segreta. Il Senato viene eletto per sei anni, il Magilis per cinque. Le ultime elezioni parlamentari si sono svolte nell'ottobre 1999. Il Primo Ministro è il capo del Governo della Repubblica che risponde al Presidente ed è sottoposto all'autorità del Parlamento per quanto riguarda la lettura, l'approvazione e il resoconto del programma del Governo. Il Governo è composto da quindici ministri. La Corte Suprema è l'organo supremo giurisdizionale con competenza nella sfera civile, penale ed amministrativa. Il Consiglio Costituzionale garantisce la sicurezza costituzionale. In seguito al crollo dell'URSS il Kazakistan ha rinunciato allo status di potenza nucleare. Nel 1991 è stato chiuso il poligono di Semipalatinsk, nel maggio 1992 è stato firmato il protocollo di Lisbona per lo smantellamento delle armi nucleari situate nel territorio del Kazakistan, e nel 1994 venne firmato il Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza del Kazakistan da parte di Russia, Usa, Gran Bretagna; le stesse garanzie sono state ricevute anche dalla Francia e dalla Cina. Attualmente nella Repubblica operano più di 2.500 organizzazioni non governative, 2.700 organizzazioni religiose che rappresentano 30 confessioni. L' Assemblea dei Popoli del Kazakistan che unisce i rappresentanti di 120 nazioni è un organo consultativo presso il Presidente della Repubblica del Kazakistan. Nel territorio sono presenti più di 1.754 mezzi di comunicazione di massa tra i quali, 1.167 giornali, 121 compagnie radiotelevisive, 15 agenzie d'informazione. Per quanto concerne le risorse economiche del paese, il Kazakistan è un grande Stato industriale ed agrario nel quale sono stati creati grossi centri industriali per la produzione dell'energia, di macchinari, per i settori della metallurgia, idrocarburi e chimico. La Repubblica kazaka è un importante produttore di metalli ferrosi e non ferrosi, uranio, carbone, petrolio, grano, prodotti dell'allevamento del bestiame. Le industrie producono ghisa, coke, acciaio, piombo, rame, zinco, titanio, magnesio, allumina, caucciù sintetico, resine, plastica, fibre chimiche, pneumatici per automobili, concimi chimici, cemento, macchine utensili, fucinatrici e presse, laminatoi, trasformatori di potenza, apparecchi radioscopici, macchine agricole, trattori, scavatrici, ecc. Il Kazakistan dispone di enormi risorse naturali. Tra tutti gli elementi chimici presenti nella tabella di Mendeleev, nel sottosuolo della Repubblica ne sono stati individuati 99, esplorati 70 e se ne estraggono 60. Alcuni di questi minerali sono: piombo (il 19% delle riserve mondiali), zinco, bismuto (il primato tra i paesi della CSI), manganese (il 25% delle riserve mondiali), rame, molibdeno, bauxite, petrolio, fosfato, cadmio (il secondo posto nella CSI). Si estrae, in riferimento alla complessiva produzione della CSI: il 40% di uranio, il 97% di cromo, il 70% di piombo, il 50% di zinco. Sono inoltre notevoli i volumi di estrazione delle materie prime di altri tipi, non che di metalli preziosi puri, oro compreso. Le condizioni climatiche ed i terreni del Kazakistan sono i più svariati, è possibile infatti coltivare nel Paese quasi tutte le specie proprie della zona moderata calda e di sviluppare numerosi settori della produzione agricola. In funzione di una particolare posizione geografica, nella Repubblica si sono formate cinque regioni economiche, esse sono esattamente: Il Kazakistan Centrale, che comprende la Regione amministrativa di Karaganda (la più grande in superficie). Il suo territorio è di 428 mila km2; la popolazione è di1310,2 mila abitanti. Il

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Kazakistan Orientale , il cui territorio è il più piccolo nella Repubblica, con una superficie di 308,9 km2, comprende la Regione amministrativa omonima (Vostochno-Kazakhstanskaia); la popolazione è di 1531 mila abitanti. Il Kazakistan Occidentale , il cui territorio è il più grande nella Repubblica, con una superficie di 737,1 km2, comprende quattro Regioni amministrative: Actiubinsk, Atyrau, Kazakistan Occidentale (Zapadno-Kazakhstanskaia) e Manghistau; la popolazione è di 2054,4 mila abitanti. Il Kazakistan Settentrionale, il granaio principale della Repubblica, che comprende quattro Regioni amministrative: Acmola, Pavlodar, Kazakhstan del Nord (Sevrno-Kazakhstanskaia) e Kostanai. Il suo territorio è di 585,9 mila km2; la popolazione di 3700milaabitanti. Il Kazakistan Meridionale , la più popolata zona economica, che comprende quattro regioni amministrative: Almaty, Czyl-Orda, Zhambyl e Kazakistan del Sud (Iuzhno-Kazakhstanskaia). Il suo territorio è di 711,6 mila km2; la popolazione di 6256,2 mila abitanti.68

Le risorse energetiche in Kazakistan

Il Kazakistan dispone di riserve uniche per quanto concerne le materie prime e gli idrocarburi ed occupa il 13° posto nel mondo per i giacimenti scoperti. Secondo le stime degli esperti le riserve generali di petrolio e di gas del Paese ammontano a 23 miliardi di tonnellate di cui circa 13 miliardi sono concentrate nella piattaforma del Mar Caspio. Attualmente sul territorio del Kazakistan sono conosciuti oltre 250 giacimenti di gas e di petrolio, situati prevalentemente nella parte occidentale della Repubblica. I più importanti tra essi sono: il giacimento di Tenghiz con le riserve estraibili di petrolio pari a oltre 1 miliardo di tonnellate; il giacimento di condensato di gas e di petrolio di Caraciaganak con riserve di gas di 1,3 mille miliardi m3. e con le riserve estraibili di condensato pari a circa 700 milioni di tonnellate, nonchè i giacimenti di Kenbaj, Zhanazhol, Zhetybaj, Calamcas, Carazhanbas, Uzen, Cumcol. Il settore degli idrocarburi della Repubblica è rappresentato dalla compagnia "Kazakhoil" che si occupa di preservazione e di tutela degli interessi dello Stato negli accordi per la prospezione, l'estrazione e la trasformazione delle materie prime di idrocarburi, della creazione del sistema di gestione del sottosuolo, di sviluppo e di realizzazione dei programmi di ristrutturazione e di privatizzazione nel settore di idrocarburi. Oggi quasi tutti i giacimenti di petrolio e di gas nel Kazakistan sono esplorati e si sfruttano con l'impiego delle esperienze e dei finanziamenti dall'estero. I capitali stranieri sono investiti in 27 grandi progetti relativi ai lavori di estrazione, di prospezione e di ricerca, di ricostruzione degli impianti di trasformazione, di trasporto del petrolio e del gas. Attualmente la produzione del settore degli idrocarburi si esporta in alcune decine di Paesi del continente Eurasiatico. I più grandi importatori di petrolio, di gas e di prodotti petroliferi del Kazakistan sono: la Russia, la Gran Bretagna, l'Ucraina, la Svizzera e l'Italia. Tenendo conto delle previsioni per la crescita dei volumi di estrazione di petrolio e di gas si rivela la necessità di potenziare i condotti per il trasporto di questi prodotti. Tutte le linee previste di oleodotti possono essere divise in tre direzioni: la linea dell'Ovest è Kazakistan-Bacu-Gejhan; la direzione dell'est: Kazkistan Occidentale-Costa cinese del Pacifico,e quella del sud: Kazakistan-Turkmenistan-Iran. Oltre agli oleodotti per l'esportazione, esistono alcuni progetti per la costruzione dei condotti interni di petrolio e di gas: L'oleodotto Kazakistan Occidentale-Kenkijak-Cumcol, parte integrante dell'oleodotto tra il

68 Associazione Italia-Kazakistan.

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Kazakistan e la Cina, che deve collegare i giacimenti delle regioni di Atyrau e di Actiubinsk con i due stabilimenti di trasformazione del petrolio di Pavlodaredi Scimkent; Il gasdotto Aksaj-Ottobre Rosso-Astana, che è destinato alle forniture di gas per le regioni del Nord-Est della Repubblica; L'ampliamento del gasdotto tra l'area di giacimento di gas di Bakhara e la città di Almaty.

(Fonte:www.eia.doe.gov)

Problemi e potenziali economici

Il passaggio da un sistema economico fondato sui criteri socialisti di pianificazione e controllo centralizzati ad un' economia di libero mercato non è stato e non è tuttora facile nemmeno in Kazakistan. Dalla proclamazione della sua indipendenza nel 1991, il Kazakistan si è trovato nella situazione di dover affrontare e cercare di risolvere, nel più breve tempo possibile, tutta una serie di notevoli e complessi problemi. Tra le più significative problematiche che hanno ostacolato un rapido decollo economico di questo paese dalle enormi ricchezze, basti ricordare: l'eredità di strutture tecnologiche obsolete di cui era fornita l'economia sovietica; un sistema di infrastrutture creato a suo tempo per soddisfare le necessità economiche ed i piani di sviluppo dell' Unione Sovietica e non lo sviluppo economico del Kazakistan . Infatti i pilastri dell' economia Kazaka: agricoltura, industria mineraria, industria leggera erano completamente strutturati per rifornire il mercato sovietico, la mancanza di sbocchi diretti sui mercati occidentali e del Sud Est asiatico per la propria produzione di idrocarburi, la mancanza di una classe imprenditoriale, abbinata all'eredità di una burocrazia impreparata a gestire le strutture di uno stato moderno, le impellenti necessità finanziarie e la mancanza di esperienze di mercato e negoziali, che hanno dato origine, soprattutto nella prima fase della privatizzazioni, ad alcuni risultati negativi. Nel 2001 il Kazakistan ha prodotto oltre 40 milioni di tonnellate di petrolio e condensati e 14 miliardi di metri cubi di gas, ma il Governo si è posto l' obiettivo di

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quadruplicare tale quantitativo in un vicino futuro. Uno dei maggiori ostacoli che hanno impedito al Kazakistan di sfruttare prima e meglio le proprie risorse di idrocarburi è stata la mancanza di un proprio sistema di oleodotti e gasdotti attraverso i quali far affluire petrolio e gas verso i mercati occidentali. Oggi, tuttavia, il problema delle pipelines è affrontato in modo energico dal Governo e dalle compagnie petrolifere. Il 15 Ottobre 2001 è stata caricata al terminale di Novorossisk, sul Mar Nero, la prima petroliera con il petrolio Kazako trasportato dall' oleodotto del Caspian Pipeline Consortium ed il Kazakistan è ora in possesso di un primo, importante mezzo di trasporto del proprio petrolio. Il settore degli idrocarburi è il maggior pilastro dell' economia Kazaka, ma il potenziale per lo sviluppo economico del Paese è considerevole. Il Kazakistan è stato dotato di un sottosuolo ricchissimo di carbone, metalli preziosi, metalli ferrosi, e non ferrosi. E' il secondo produttore mondiale di cromo, vanta il secondo posto al mondo come riserve di uranio, piombo, zinco, è al terzo posto per il manganese e può produrre notevoli quantità di stagno, nichel, volframio, molibdeno, alluminio. Le sue possibilità di produzione di energia elettrica sono enormi.69

Rapporti economici con l’estero

Contemporaneamente al processo di riforme economiche e di ristrutturazione giuridico-amministrativo generale, il Kazakistan indipendente forgiava la propria politica commerciale con l' Estero, nella consapevolezza dell’ importanza che gli scambi commerciali con il Resto del Mondo rivestono per lo sviluppo economico di un Paese. Nel 1995 venne completata la liberalizzazione del commercio con l'estero ed i prodotti kazaki poterono acquistare l'accesso ad un numero più grande di mercati. Il Kazakistan ha ottenuto la clausola di Nazione più favorita nell' Unione Europea, negli USA, in Giappone, in Canada, nei Paesi scandinavi ed ha stipulato più di 40 trattati bilaterali e multilaterali con Paesi in maggioranza membri del WTO. Il Kazakistan è membro dell' Unione Doganale con Russia, Bielorussia, Kirghizistan. Fino al 1996, il 55% del commercio estero kazako aveva luogo con i Paesi CIS (50% con la Russia), ma a partire dal 1997 gli scambi commerciali con tali Paesi hanno subito una certa contrazione e di ciò si sono avvantaggiati l' Europa Occidentale e gli USA. Nel 2001, il "turnover" del commercio estero è stato di 15 miliardi di dollari, con un aumento del 6% circa rispetto al 2000. L' interscambio ha riguardato i Paesi CIS per il 40%, l'UE per il 23% e gli altri Paesi per il 37% . La Russia ha coperto il 20% del totale dell'export e il 45% dell'import kazaki. Il Kazakistan ha esportato per 8,6 miliardi di dollari ed ha importato per 6,4 miliardi. Attualmente, il Kazakistan esporta più di 200 tipi di prodotti, ma la parte preponderante dell'export (circa il 60%) è rappresentata da materie prime, in particolare da idrocarburi, metalli ferrosi e non ferrosi, leghe in ferro, laminati di metallo. Altre voci importanti dell' export sono i materiali per le costruzioni (marmo, granito, gesso, calcare conchiglifero), nonché i cereali, la lana le fibre di cotone, i pellami,il tabacco,la carne in scatola. Le importazioni coprono una vasta gamma di prodotti, ma le voci più significative sono i macchinari, le attrezzature industriali, i veicoli, i prodotti petroliferi, chimici e farmaceutici. Il Kazakistan intende sfruttare anche il proprio potenziale turistico. Le iniziative già avviate in questo campo prevedono battute di caccia, escursioni,

69 Associazione Italia-Kazakistan .

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settimane bianche in località sciistiche, visite a luoghi di culto o di interesse archeologico.

Diritti umani

Per quanto concerne i diritti umani e le libertà fondamentali esistono alcuni punti che potrebbero definirsi problematici, in modo particolare per quanto concerne l’equità dei processi e il rimpatrio forzato. Infatti, nonostante sia migliorata la collaborazione tra il governo e l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, il Kazakistan ha continuato a disattendere i propri obblighi in base al diritto internazionale. I rifugiati non hanno ricevuto effettiva protezione e hanno continuato a rischiare il rimpatrio forzato in Cina e Uzbekistan dove erano stati oggetto di grazi violazioni dei diritti umani. A novembre del corrente anno l’UNHCR ha espresso grave preoccupazione per l’incolumità di un richiedente asilo uighuro, del quale non si era più saputo nulla dopo che era stato rilasciato dalla detenzione nel mese di ottobre. Una corte di Almaty aveva cassato a giugno le accuse penali per le quali si trovava detenuto. L’UNHCR ha espresso il timore che egli potesse essere stato deportato con la forza. Due uighuri originari della Regione autonoma Xinjiang Uighur (XUAR), in Cina, il 35enne Yusuf Kadir Tohti (noto anche come Erdagan) e il 30enne Abdukadir Sidik, sono stati detenuti in Cina dopo essere stati rimpatriati forzatamente dal Kazakistan nel mese di maggio. Secondo quanto riferito, le autorità cinesi hanno accusato Yusuf Kadir Tohti di “separatismo” e ne hanno chiesto l’estradizione. Abdukadir Sidik era fuggito dalla XUAR nel 1999 dopo aver protestato pubblicamente contro le politiche sulle minoranze adottate dalle autorità cinesi. Secondo una lettera che Abdukadir Sidik aveva scritto dal carcere prima di essere rimpatriato con la forza, egli era stato interrogato e minacciato da poliziotti cinesi durante la sua detenzione in Kazakistan. A gennaio le autorità hanno negato di aver detenuto nel 2005 nove cittadini uzbeki, compresi quattro richiedenti asilo certificati. Al contrario, esse hanno sostenuto che gli uomini erano stati detenuti dalle forze dell’ordine uzbeke in territorio uzbeko. Tuttavia, secondo fonti attendibili, i nove furono detenuti nella città di Shymkent, Kazakistan meridionale, il 24 e il 27 novembre, e trattenuti fino al loro rimpatrio forzato in Uzbekistan il 29 novembre 2005. Secondo le fonti, inizialmente soltanto a due dei rimpatriati era stato concesso di accedere agli avvocati in Uzbekistan; gli altri erano stati trattenuti. Due sono stati successivamente condannati a 6 anni di carcere al termine di un processo celebratosi a porte chiuse a Tashkent, Uzbekistan, nel mese di aprile 2006. Rukhiddin Fakhruddinov, un ex imam indipendente di una moschea di Tashkent, è stato condannato a 17 anni di carcere a settembre da un tribunale di Tashkent a termine di un processo a porte chiuse. Ad agosto le autorità hanno rilasciato il cittadino uzbeko Gabdurafikh Temirbaev consegnandolo alle cure dell’UNHCR e concedendo a lui e alla sua famiglia di stabilirsi permanentemente in un Paese terzo. Secondo quanto riferito, Gabdurafikh Temirbaev si trovava in Kazakistan dal 1999 dopo essere sfuggito alla persecuzione per motivi religiosi in Uzbekistan. Egli è stato arrestato da agenti dei servizi di sicurezza nel mese di giugno, stando alle fonti, in seguito a una richiesta di estradizione avanzata dall’Uzbekistan. Gabdurafikh Temirbaev era stato riconosciuto quale rifugiato dall’UNHCR in giugno al termine di un’approfondita procedura di determinazione dello status.70

70 Amnesty International, Rapporto annuale 2007.

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Uzbekistan, le risorse economiche

L’Uzbekistan ha una superficie complessiva di 447.400 km2 e, fatta eccezione per una parte del bacino chiuso dal lago d’Aral (374mila km2), non ha sbocchi sul mare. Confina a nord con il Kazakistan (2200 km di confine), a est con il Kirghizistan (1099 km) ed il Tagikistan (1161 km) e a sud con il Turkmenistan (1621 km) e l’Afganistan (137 Km). Il territorio è prevalentemente pianeggiante: il 60% è deserto e steppa. Solo l’11% della terra è coltivabile e si trova lungo il corso dei fiumi Amu Darja, Sirdaryo e Zarafshon. La parte orientale è circondata dalle montagne del Tagikistan e del Kirghizistan, con cime che raggiungono anche i 4000 metri di altezza. Per quanto concerne il clima, nella maggior parte del paese è tipico del deserto continentale, con lunghe e torride estati ed inverni freddi e umidi. Nella parte sudorientale, e in special modo nella valle del Fergana, si gode di un clima abbastanza mite. La lingua ufficiale è l’uzbeko (lingua del ceppo turanico), sono però anche usati il russo (soprattutto nei rapporti interetnici) ed il tagiiko. La religione predominante è la musulmana, professata dall’88% della popolazione. Gli ortodossi costituiscono il 9% della popolazione e le altre religioni solo il 3%. L’Uzbekistan è Repubblica Presidenziale Indipendente dal 31 agosto 1991 ed ha una costituzione propria dal 1992. Il Parlamento è bicamerale e i 250 membri che lo compongono sono eletti a suffragio universale tra i candidati presentati dai diversi partiti politici (anche se in realtà il Parlamento è poco indipendente nei confronti del governo). Il presidente, Islam Karimov - ex capo della Repubblica Socialista dell’Uzbekistan e capo del Partito Democratico Popolare (l’ex partito comunista) - fu eletto Presidente della nuova repubblica a dicembre 1991 con l’86% dei voti; nel 1995 con un referendum popolare fu approvata. Il settore agricolo, che rappresenta circa il 33% nella struttura del PIL, costituisce il settore portante dell’economia del paese. La maggior parte della produzione agricola è costituita dal cotone, di cui l’Uzbekistan è il secondo più grande esportatore mondiale. Nel corso del 2005 il raccolto di cotone, anche grazie all’aumento delle coltivazioni, ha raggiunto i 3,8 milioni di tonnellate, con un incremento del 6,6% rispetto al 2004 (anno in cui era aumentato del 23,7%).71 L’agricoltura rappresenta, insieme all’indotto industriale, l’ossatura dell’economia uzbeka. Tale dato è confermato dalla circostanza che il 65% della popolazione risiede nei distretti rurali. Lo sviluppo del settore agricolo è ostacolato però dall’implementazione di una versione, ben che limitata, del sistema sovietico di acquisti statali obbligatori, dalla carenza di macchinari e carburanti. Il Governo ha dichiarato frequentemente il suo impegno a voler riformare il sistema, ma le limitate riforme compiute sono state indebolite dal divieto, per i privati, di essere proprietari terrieri. La conseguenza inevitabile è la mancanza di un mercato terriero e, malgrado giuridicamente permanenti ed ereditabili, i diritti di affitto possono essere accorciati dal notevole arbitrio che le autorità locali hanno nei confronti degli agricoltori privati. La riluttanza delle autorità a liberalizzare il settore primario è rappresentata da un decreto presidenziale dell’ottobre 2003, diretto allo sviluppo del settore agricolo nel periodo 2004-06. Il decreto, nonostante contenga dichiarazioni rivolte ad incoraggiare l’economia di mercato e conceda sgravi fiscali a favore delle nuove imprese agricole, in realtà consolida il controllo dello Stato negando ai contadini il diritto di proprietà prevedendo, inoltre, che le locazioni concesse agli agricoltori rimangano soggette allo scrutinio e cancellazione da parte degli organi governativi. Il cotone è la principale coltura, di cui l’Uzbekistan è il sesto produttore mondiale ed il secondo esportatore.

71 Dati dell’Istituto nazionale per il commercio estero.

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L’importanza del cotone è facilmente comprensibile la dove si consideri che circa il 60% della popolazione uzbeka fa affidamento, per i propri redditi, sul tale tipo di produzione la cui esportazione rappresenta la voce più importante dell’export uzbeko e per la cui raccolta lo Stato impiega anche gli studenti. Il volume totale della produzione di cotone acquistato obbligatoriamente dallo Stato è diminuito, nel periodo 1991-2002, dal 100% al 30%.72 Il Governo, inoltre, acquista un ulteriore 20% ad un prezzo negoziato che, nonostante sia superiore al prezzo corrisposto per gli acquisti obbligatori, è sostanzialmente inferiore al prezzo di esportazione. Ciò permette al Governo uzbeko di esportare il cotone ad un prezzo altamente competitivo, pari a circa l’85% del prezzo mondiale, ma al tempo stesso incentiva gli agricoltori a dichiarare una produzione di cotone inferiore a quella reale per esportare illegalmente la differenza. A partire dal 2003 è stata concessa ai produttori di cotone la possibilità di vendere direttamente parte della loro produzione, ciò nonostante questa misura non ha modificato in modo sensibile la situazione visto che il Governo mantiene il controllo sugli acquirenti di tale coltura la cui vendita all’estero, inoltre, deve transitare attraverso la compagnia statale delle esportazioni. La notevole dipendenza dell’economia uzbeka dalla produzione e conseguente esportazione di cotone dovrebbero rappresentare una criticità per il Governo uzbeko. Le correlate entrate di valuta forte, infatti, dipendono essenzialmente da variabili esogene quali la quantità e qualità della produzione della fibra di cotone, influenzata dalle condizioni atmosferiche, e dal prezzo della fibra, legato alla produzione mondiale. La posizione di grande esportatore di fibra grezza mostra inoltre che nel paese mancano le necessarie capacità manifatturiere che permetterebbero di conferire valore aggiunto al principale prodotto uzbeko. Solamente il 28% della fibra di cotone prodotta è infatti processata in Uzbekistan. Tali carenze sono state oggetto di analisi da parte della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo la quale, nel novembre 2005, ha concesso un prestito ad una società turca che intende costruire a Tashkent una fabbrica per la produzione di capi di cotone che dovrebbe impiegare più di 1.200 dipendenti.73 La produzione industriale, aumenta di anno in anno il suo peso specifico sull’economia. Il settore secondario uzbeko si caratterizza per conferire un limitato valore aggiunto ai beni prodotti; non appare inoltre aver sorpassato le logiche sovietiche dell’economia pianificata. Per prevenire il collasso del settore il Governo ha implementato delle politiche protezionistiche e concesso dei prestiti con garanzia statale, misure che hanno inoltre lo scopo di sostituire le importazioni con beni prodotti in Uzbekistan. Tali misure, se da una parte hanno difeso le industrie locali, non hanno tuttavia incoraggiato lo sviluppo tecnologico di una base industriale competitiva che quindi si trova attualmente impreparata a competere in mercati stranieri. Ciò risulta tanto più vero ove si consideri che la qualità dei beni prodotti in loco, destinati a sostituire le importazioni, non è generalmente elevata con la conseguenza che tali beni, quando esportati, sono destinati a mercati ex sovietici e quindi non generano valuta pregiata. Il principale settore industriale è quello energetico che, secondo le statistiche ufficiali, nell’anno 2004 ha rappresentato il 24% della produzione industriale. Il Governo ha preso a prestito oltre un miliardo di USD per permettere all’Uzbekistan di divenire energeticamente autosufficiente. Anche grazie a tali investimenti il Paese è il più importante produttore di energia elettrica della regione e fornisce oltre la metà del totale dell’energia del sistema energetico

72 Dati dell’ambasciata italiana a Tashkent, 2007. 73 Dati dell’ambasciata italiana a Tashkent, 2007.

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dell’Asia Centrale, sistema che unisce le linee uzbeke con quelle del Kazakistan, del Kirghizistan e del Tagikistan. Nonostante siano operative ben 42 centrali elettriche, di cui 18 termiche, la rete di distribuzione è antiquata e necessita di riparazioni; tale situazione comporta che in alcune zone del Paese si verificano dei continui abbassamenti di tensione. Secondo delle stime indipendenti la domanda di energia elettrica, nel 2010, sarà superiore all’offerta di circa il 10%. Dopo quello energetico, il più importante settore industriale è rappresentato dall’industria leggera, particolarmente dalla lavorazione del cotone e dalle imprese manufatturiere, che nel 2004 ha generato il 19% della produzione industriale. Segue quindi la produzione di metalli ferrosi, che nel 2004 ha rappresentato il 15% del totale della produzione del settore secondario. Significativa e’ la produzione automobilistica che avviene nella fabbrica della UzDaewooAuto sita in Asaka, nella valle del Fergana, dove si assemblano componenti che sono prevalentemente importati. La produzione automobilistica risale al 1996, quando fu creata una joint venture tra la sud coreana Daewoo e la Uzavtosanaot, società posseduta dallo Stato uzbeko. A seguito della crisi sofferta dalla Daewoo, e la conseguente bancarotta dichiarata dalla società sud coreana, il Governo uzbeko ha deciso di acquistare, nell’ottobre 2005, tutte le azioni della joint venture con la conseguenza che la fabbrica è ora di proprietà governativa Russa. Gli investimenti operati dalle società russe Gazprom e Lukoil si sono rivelati strategici ed hanno contribuito a creare un sensibile indotto, sia nel settore industriale che in quello dei servizi connessi. La Gazprom, in particolare, ha sottoscritto nel 2002 un accordo con la società statale uzbeka Uzbekneftegaz per la cooperazione strategica nel settore del gas. Tale accordo consente alla Gazprom di acquistare, in Uzbekistan, gas fino al 2012; le permette, inoltre, di partecipare allo sviluppo dei relativi impianti di estrazione e di trasporto. L’Uzbekistan è tra i primi dieci produttori mondiali di oro. La principale miniera di oro è posseduta dalla Lega delle Imprese Minerarie e Metallurgiche della Regione del Navoi, società posseduta dallo Stato, che rappresenta un retaggio dell’era sovietica. Viene stimato che nel 2003 siano state estratte 86 tonnellate di oro, cifra che comunque non può essere confermata. L’oro rappresenta la seconda esportazione del Paese, contando per circa il 15% del totale. Nonostante a partire dal 2002 il prezzo dell’oro sia aumentato in maniera sensibile, l’ingresso di nuove imprese e’ arduo.74 Kirghizistan, un quadro economico La situazione socio-politica ed economica del Kirghizistan, nel corso del 2005, ha subito crisi di tale entità che l’hanno resa più fragile e che hanno minato, anche a livello internazionale l’immagine di Paese moderato di cui godeva. Da notare che questa è l'unica Repubblica ex-sovietica del Centro Asia a far parte del WTO. A seguito di tali eventi l’economia del Paese, che sembrava accennare a qualche tentativo di rilancio, ha subito anche nel 2006, battute di arresto o forti rallentamenti. Il PIL è stato di 2,8 miliardi di dollari, ed ha registrato il modesto incremento dell'1,6% annuale, derivante quasi esclusivamente dall’incremento della domanda interna delle famiglie, sostenuta dagli aumenti nei salari e dalle ingenti rimesse dei lavoratori kirghisi emigrati all’estero. Infatti, la contrazione nell’estrazione dell’oro presso la miniera di Kumtor, la cui produzione rappresenta il 40% dell’output industriale e l’8% del PIL, il rallentamento degli investimenti (gli investimenti di

74 Dati dell’ambasciata italiana a Tashkent, 2007.

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capitale sono diminuiti del 21%) e l’incertezza politica hanno frenato l’espansione dell’economia nonostante il governo avesse incluso nel suo programma una serie di riforme economiche, istituzionali e legali da attuare nel Paese75. Costituisce una realtà importante la produzione del cotone e del tabacco, unici due prodotto agricoli a essere esportati. Altrettanto importante è l’esportazione di materie prime come l’oro, il mercurio, l’uranio e il gas naturale. A novembre 2006, l’output del settore industriale, a causa della riduzione nella produzione di oro presso la miniera di Kumtor, risultava essere diminuito del 4% annuale. Anche gli altri comparti hanno, comunque, mostrato un andamento piuttosto deludente e solo i modesti aumenti avuti nei consumi (+5,1% annuale) hanno aiutato a mitigare gli effetti del calo della produzione nel resto dei comparti del settore industriale. L’industria mineraria kirghisa e’ concentrata quasi esclusivamente nell’estrazione dell’oro che rappresenta circa il 4,3% del PIL. Nel 2006 la produzione di oro è stata di 9,4 tonnellate.76 L’agricoltura è il settore portante dell’economia kirghisa, rappresenta il 36,6% del PIL e dà lavoro al 53% della popolazione attiva, e la sua importanza continua ad aumentare parallelamente alla stagnazione dell’industria. La produzione cerealicola, costituisce circa la metà dell’intero output del settore, completato dalla produzione di patate, barbabietola da zucchero, foraggio, verdure, latte e prodotti caseari. Nel 2006, la produzione agricola, pari a 45,7 miliardi di Som (1182 milioni di dollari.), risulta aumentata del 2% annuale. L’obsolescenza delle tecnologie, la carenza di materiali, l’insufficiente distribuzione, gli scarsi legami tra le aziende agricole e quelle di trasformazione e le disparità nella tassazione, hanno ostacolato gli investimenti privati nel settore. Per quanto concerne le esportazioni, il settore più importante del Kirghizistan è costituito dall’oro le cui esportazioni, nel primo semestre 2006, sono diminuite da 125,4 milioni di dollari. (primo semestre 2005) a 123,3 milioni di dollari. (primo semestre 2006) e sono state equivalenti a circa il 33% dell’export totale. Altri settori che alimentano l’export sono: prodotti non-metallici che costituiscono il 7,5% delle esportazioni totali, prodotti dell’industria leggera (ed in particolare il tessile, che da solo ne rappresenta il 7,8%), prodotti dell’industria alimentare. Geograficamente, nel corso del primo semestre 2006, le esportazioni verso i paesi CSI (44,9% del totale) sono aumentate del 26,3%, a causa della crescente domanda di elettricità proveniente dai Paesi limitrofi. La Russia continua ad occupare una posizione privilegiata all’interno della CSI e copre il 41,5% dell’export totale diretto verso quell’area. Segue il Kazakistan che, a seguito di alcuni accordi bilaterali3, riceve attualmente circa il 38,8% dei prodotti destinati alla CSI. Al di fuori della CSI, è la Svizzera che, come principale importatore dell’oro kirghiso, accoglie circa il 34% delle esportazioni totali.77 Per quanto riguarda il settore delle importazioni si è registrato un aumento delle stesse nel primo semestre del 2006 che è essenzialmente attribuibile all’incremento della domanda interna, alla crescita dei prezzi internazionali dei prodotti energetici ed alle migliori condizioni economiche della popolazione. Infatti, data la mancanza di significative riserve di idrocarburi, i prodotti energetici rappresentano per il Kirghizistan la voce più importante delle importazioni, seguiti poi, in misura nettamente inferiore, da: macchinari, prodotti chimici, alimenti, bevande e tabacco, veicoli e attrezzature per il trasporto. I principali paesi fornitori appartengono all’area CSI, che nel primo semestre 2006 ha fornito il 61,8% del totale dei beni importati. Il primato dell’export verso il Kirghizistan spetta alla Russia, che

75 Ministero degli esteri, Istituto nazionale per il commercio estero, rapporto economico del 2007. 76 Ministero degli esteri, Istituto nazionale per il commercio estero, rapporto economico del 2007. 77 Ministero degli esteri, Istituto nazionale per il commercio estero, rapporto economico del 2007.

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da sola fornisce il 38,6% del totale, immediatamente seguita dal Kazakistan (13,4%). Al di fuori della CSI, l’11,4% delle importazioni proviene dalla Cina.78

Tagikistan

La situazione d’instabilità a livello politico e militare che ha accompagnato il periodo successivo all’indipendenza, ha provocato, dopo anni di guerra civile, un’arretratezza decennale nel processo di sviluppo economico del paese, andando a rendere molto più difficile e lento il passaggio all’economia di mercato. I programmi di riforme elaborati durante l’ultimo decennio in collaborazione con l’FMI hanno previsto tutta una serie di misure, come la privatizzazione delle imprese statali, la riforma del settore agrario, la creazione di un clima favorevole agli investimenti esteri, la riduzione dei sussidi e il rafforzamento delle istituzioni del settore pubblico, misure volte proprio a sostenere e velocizzare il processo di transizione. Però ostacoli di natura legislativa, culturale ed istituzionale ne hanno rallentato l’esecuzione. Come avvenuto per il processo di privatizzazione che, oltre ad essere andato particolarmente a rilento (nel 2002, circa il 90% delle piccole e medie imprese statali era già stato venduto, ma solo un terzo delle imprese medio-grandi erano state privatizzate), è stato poco “trasparente” ed ha consentito a chi si trovava in posizioni privilegiate di assicurarsi le proprietà più interessanti a condizioni particolarmente favorevoli. Al termine della terza revisione dell’andamento dell’economia nell’ambito del Programma di Crescita e Riduzione della Povertà (PGRF), a luglio 2004, il FMI si è mostrato soddisfatto dei risultati dell’economia, in particolar modo del rafforzamento della crescita del PIL e della decelerazione dell’inflazione ed ha autorizzato la concessione di finanziamenti per un valore di 14,5 milioni di dollari. Attualmente, come rilevabile anche dai dati relativi ai risultati riportati dai principali indicatori macroeconomici, la situazione, pur continuando ad essere in presenza di difficoltà e inevitabili lentezze amministrativo-burocratiche, sembra avviarsi verso il cambiamento.79 L’elevato potenziale idroelettrico ha consentito al Tagikistan di sviluppare un settore energetico che, benché soffra per la mancanza di ristrutturazione e per gli elevati livelli di indebitamento, e continui ad essere fortemente dipendente dai sussidi statali (che corrispondono a circa il 7% del PIL), rappresenta uno dei perni dell’economia del paese. Il settore edile e delle infrastrutture risente ancora degli effetti della guerra civile che ha devastato la maggior parte delle infrastrutture del paese, e della scarsezza di investimenti nel settore, derivata anche dall’inadeguatezza dei lavori eseguiti dalle imprese tagike rispetto agli standard internazionali, che ha fatto si che molti progetti di costruzione e ricostruzione rimanessero incompleti (incluso il passo montano di Anzob e gli impianti idroelettrici di Rogun e Sanguda). A partire dal 2003 la produzione nel settore è, comunque, aumentata del 53,6% e si stima che nel 2004-2005 il settore abbia sperimentato una crescita esponenziale grazie ai fondi stanziati, a seguito di accordi bilaterali, da alcuni Paesi donatori e da organismi finanziari internazionali per potenziare le infrastrutture, ed ai nuovi complessi residenziali (+43% nel 2003) costruiti per far fronte alla crescente presenza di stranieri nel paese, che ha provocato un aumento della domanda di abitazioni ed uffici in stile occidentale. Gli accordi conclusi con la Russia e l’Iran circa il completamento degli impianti di Ronguskaya e Sangtuda dovrebbero consentire di

78 Dati Cia (Central Intelligence Agency). 79 Rapporto dell’Istituto nazionale per il commercio estero, 2006.

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aumentare la produzione di energia idroelettrica, che nel 2005 è stata di 17,1 miliardi di Kwatt/ora (con un incremento del 3,6% rispetto al 2004). Il contributo del settore agricolo all’economia del Tagikistan va diminuendo progressivamente a causa della lentezza delle riforme strutturali, della mancanza di investimenti, del cattivo stato delle infrastrutture e del predominante ruolo che lo Stato continua ad esercitare. Infatti, anche dopo la privatizzazione, lo Stato ha continuato a mantenere una forte presenza nel settore agricolo attraverso il controllo sulla produzione e sul raccolto (in media il 70% del cotone viene prodotto dalle aziende collettive appartenenti allo Stato). Nel 2005, il settore agricolo ha registrato un aumento del 3,1% rispetto al 2004 attribuibile al minor del raccolto di cotone, causata dalla scarsezza di fertilizzanti, macchinari ed attrezzature e dalle condizioni atmosferiche avverse che hanno forzato gli agricoltori a ripiantare il 10% dei terreni adibiti a questa coltura. Importante è notare come la vulnerabilità dell’economia, soggetta alle fluttuazioni dei prezzi del cotone e dell’alluminio sui mercati internazionali, e la relativa rigidità della domanda per la maggior parte delle importazioni, come alimenti, ossido di alluminio80 e idrocarburi, ha condotto il paese, sin dall’indipendenza, a registrare un saldo negativo nella bilancia commerciale. Per quanto concerne le importazioni, il Tagikistan rimane fortemente dipendente dai paesi ex sovietici. Infatti, circa i 2/3 del totale delle importazioni costituite prevalentemente da fonti energetiche provengono dalle Repubbliche della CSI (dati relativi al 2004), ed in particolare dalla Russia (24,2% del totale), dal Kazakistan (15,2%) e dall’Uzbekistan (12,3%). Allo scopo di ridurre la suddetta dipendenza dai paesi dell’area CSI e migliorare i legami commerciali con l’Asia, il Tagikistan ha aperto una nuova frontiera con la Cina che dovrebbe favorire il commercio nei due sensi.81

Turkmenistan

Una volta superata la crisi seguita alla disgregazione dell'Unione Sovietica, l'economia del Turkmenistan negli ultimi anni sta attraversando una importante fase di rinnovamento caratterizzata dalla modernizzazione delle strutture esistenti e dalla realizzazione di numerose nuove iniziative produttive. Nonostante il ruolo preponderante svolto dal comparto estrattivo per lo sfruttamento delle ricchissime risorse naturali di cui il Turkmenistan è dotato, il settore agricolo rappresenta ancora oggi un ruolo di primaria importanza nell'ambito della struttura economica del paese. Storicamente limitata nel suo sviluppo dalla scarsità d'acqua, l'agricoltura turkmena beneficia oggi delle risorse idriche apportate nelle regioni desertiche del paese dal canale Karakum, che per 1.100 km. convoglia le acque dell'Amu Darja attraverso il deserto del Karakum fino ad Aşgabat. Ciò ha consentito di migliorare sensibilmente le rese delle aree coltivate e, allo stesso tempo, di mettere a coltura terreni che fino al completamento del canale, nel 1982, erano completamente incolti. Le aziende agricole più diffuse sono ancora quelle statali82. I principali prodotti del settore agricolo destinati all'approvvigionamento alimentare sono i cereali, gli ortaggi e la frutta, mentre tra le produzioni destinate all'industria predomina il cotone. A tal

80 L’alluminio prodotto nel 2004 è stato esportato prevalentemente in Olanda (47,5% delle esportazioni totali), Turchia (17,6%) e Iran (13,2%); mentre il cotone esportato è stato diretto verso la Lettonia (che ha accolto il 40% del cotone totale), la Federazione Russa (17,4% delle esportazioni totali), la Svizzera (7,9%), l’Iran e l’Ucraina (6,1%). [www.turkmenistan.it]. 81 Istituto Nazionale per il commercio estero. 82 [www.turkmenistan.it].

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proposito va sottolineato che quest'ultimo ha assunto un ruolo di primo piano nell'ambito della produzione agricola del paese, in quanto la sua esportazione rappresenta, escludendo gli idrocarburi, la voce attiva più importante nella bilancia commerciale turkmena. La produzione del cotone è concentrata prevalentemente nelle regioni situate lungo la valle del fiume Amu Darja. Completa il panorama delle attività del settore primario l'allevamento, particolarmente diffuso nelle regioni desertiche del paese meno adatte all'agricoltura. L'allevamento più diffuso è quello ovino, destinato principalmente alla produzione della lana di astrakan ottenuta dalle pecore di razza karakul, ma è largamente diffuso anche l'allevamento dei cammelli e dei cavalli della pregiata razza achaltekin. Un notevole ruolo nell'economia del Turkmenistan è svolto anche dall'industria, essenzialmente orientata verso la trasformazione delle materie prime prodotte nel paese. Di primaria importanza in questo senso sono le raffinerie di petrolio, recentemente ammodernate per l'otte-nimento di prodotti finiti di elevata qualità. Per la trasformazione delle materie prime del settore tessile sono inoltre attivi importanti cotonifici e lanifici, questi ultimi specializzati nella trasformazione della pregiata lana ovina karakul. Importanti sono anche alcune industrie meccaniche ed alimentari, mentre un ruolo di primo piano va riconosciuto ai laboratori per la produzione dei tappeti, un importante settore tradizionale dell'artigianato turkmeno. Il territorio del Turkmenistan si presenta estremamente ricco di risorse naturali. La principale tra queste è rappresentata senza dubbio dal gas naturale, le cui riserve, stimate in 12.000 miliardi di mc., collocano potenzialmente il paese tra i primi produttori a livello mondiale. I principali giacimenti sono concentrati nella regione di Mary, dove sorge l'importante impianto di Šatlyk, e nella regione di Türkmenabat, dove è attivo l'impianto di Farab. Di primaria importanza tra le risorse naturali del Turkmenistan è anche il petrolio, le cui riserve stimate ammontano a 6.300 milioni di tonnellate. I principali giacimenti sono collocati lungo la costa del Mar Caspio e nell'adiacente piattaforma continentale. Di particolare importanza sono i giacimenti della penisola di Čeleken, nella località di Kotur-depe e nella stessa Čeleken, mentre più a sud, non lontano dal confine iraniano, vi sono i campi petroliferi di Okarem. All'interno della fascia costiera i giacimenti più importanti si trovano a Nebit Dağ e a Kum Dağ. Nella regione di Türkmenabat e nel deserto del Karakum vi sono anche giacimenti di zolfo, mentre nella penisola di Čeleken vi sono impianti per l'estrazione di sali di iodio. Importante infine tra le risorse naturali è la mirabilite, solfato di sodio, estratta nel golfo di Kara Bogaz Gol. Lo sfruttamento delle ricchissime riserve di combustibili fossili costituisce il principale settore trainante dell'economia turkmena e può rappresentare un'ulteriore potenzialità di sviluppo di notevolissima importanza. Negli anni immediatamente successivi all'indipendenza del paese, tuttavia, si è manifestata con grande evidenza la necessità di realizzare una nuova rete di gasdotti ed oleodotti che affrancasse il Turkmenistan dalla necessità di utilizzare i vecchi canali di esportazione, tradizionalmente orientati verso le altre repubbliche sovietiche. La grande determinazione manifestata dal governo turkmeno per il conseguimento di questo obiettivo ha consentito di instaurare in pochi anni stabili e fruttuosi rapporti di collaborazione con i paesi confinanti. Già nel 1994 è stato stipulato un accordo di collaborazione con l'Iran e la Turchia per la realizzazione di un gasdotto che attraverso questi paesi raggiungesse l'Europa.

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(Fonte:www.eia.doe.gov)

(Fonte:www.eia.gov)

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Capitolo quarto

L’oro blu: il problema dell’acqua in Centro Asia

L’acqua, una risorsa scarsa

Nel 1995, l’allora vice presidente della Banca Mondiale, Ismail Sarageldin, fece una previsione su quelle che sarebbero potute essere le guerre del futuro: “Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo secolo avranno come oggetto del contendere l’acqua”. L’acqua rappresenta fondamentalmente una risorsa di primaria importanza all’interno di ogni sistema economico, i suoi utilizzi sono i più svariati, dagli usi domestici a quelli produttivi. La stessa vita dell’uomo senza acqua non avrebbe senso, sarebbe impossibile. Questo è un motivo per cui la sua fruizione rappresenta, prima di tutto, un diritto inalienabile dell’uomo che in teoria gli stati nazionali dovrebbero garantire e salvaguardare. L’acqua, però, può essere definita oggi, una risorsa scarsa, basti pensare che se è vero che il 71% della superficie terrestre è ricoperto d’acqua, il 98% del volume totale si trova negli oceani e nei mari, quindi un volume d’acqua troppo salato per poter essere utilizzato per scopi quali l’agricoltura o gli usi domestici. L’acqua dolce è solo il 2,5% e di questa circa l’87% è concentrata nei ghiacciai, nell’atmosfera o a grandi profondità, quindi difficilmente utilizzabile. Le fonti di approvvigionamento, sono principalmente i fiumi, i laghi e le falde acquifere, questi rappresentano i serbatoi naturali nei quali viene raccolta la quantità d’acqua che si rende disponibile per l’uso attraverso il ciclo idrologico. Osservando questi dati, si capisce facilmente, come di per se l’acqua sia effettivamente una risorsa scarsa, il problema però non risulta essere solo la sua scarsità naturale, ma la sua mal distribuzione, una distribuzione che è a tutti gli effetti ineguale. La maggior parte dell’acqua è concentrata in alcuni grandi bacini, situati in Siberia, nella regione dei Grandi Laghi nordamericani, nei laghi Tanganika, Vittoria, Malawi in Africa, mentre il 25% è costituito dai cinque più grandi sistemi fluviali del mondo: il Rio delle Amazzoni, il Gange con il Brahmaputra, il Congo, lo Yangtze Kiang e l’Orinoco.83 La carenza dell’acqua e la sua ineguale distribuzione sono fattori che incidono profondamente nella limitazione dello sviluppo, infatti anche la dove siano disponibili mano d’opera, risorse naturali e terra, la scarsità d’acqua impedisce una vita domestica e urbana decente e moderna, oltre ovviamente a non permettere un reale sfruttamento di risorse economiche come l’agricoltura84, il turismo o la manifattura. Il problema della scarsità dell’acqua diviene ancora maggiore nel momento in cui si considerano tutta un’altra serie di problemi che risultano essere un’interazione di diversi processi che agiscono sia a livello locale sia a livello globale, come ad esempio processi ambientali (cambiamenti climatici, desertificazioni ecc), processi economici (globalizzazione degli scambi, bisogni crescenti di energia), processi culturali (passaggio dal rurale all’urbano, dall’agricoltura di sussistenza a quella di profitto). Bisogna poi considerare fenomeni che vanno sempre aumentando, come l’eccessivo sfruttamento del suolo, la distruzione di boschi, l’agricoltura intensiva e l’edificazione imponente, fenomeni che provocano tutta una serie di alterazioni e squilibri nel ciclo dell’acqua, infatti le precipitazioni vanno diminuendo e ciò provoca un maggiore ricorso all’estrazione 83 Giuseppe Anzera, Geopolitica dell’acqua, Guerini Studio, Milano, 2003, p. 7. 84 La maggior parte del consumo di acqua si concentra nel settore agricolo, il quale utilizza l’80% della disponibilità. Il 23% viene utilizzato dal settore industriale e dal settore energetico. Solamente il 3,5% è utilizzato per scopi domestici. 84 Giuseppe Anzera, op cit. p.10.

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del’acqua dal sottosuolo, importazioni da zone lontane che inevitabilmente provoca una sottrazione della risorsa ad altre comunità. Si viene a creare una sorta di spirale che si configura come una forma di violenza esercitata da molte comunità, e cioè: una maggiore domanda, un peggioramento della qualità, minore disponibilità, maggiore richiesta d’acqua che viene sottratta a società più deboli.85 Il quadro diventa critico se si considerano le previsioni di medio periodo, infatti si stima che la domanda di acqua raddoppierà in vent’anni e crescerà a tassi doppi rispetto alla popolazione, quindi due terzi della popolazione mondiale da oggi al 2025 saranno colpiti da scarsità d’acqua. Si stima che la popolazione mondiale crescerà di 2,6 miliardi di unità, passando da 5,7 a 8,3 miliardi di persone. Ma in modo particolare, la popolazione dei paesi sotto sviluppati che si concentrerà nelle città, passerà dal 37% al 56%, rendendo quindi necessarie nuove infrastrutture idriche e sanitarie. Negli ultimi cinquant’anni la disponibilità d’acqua è diminuita di tre quarti in Africa e di due terzi in Asia. La FAO prevede che nel 2000 saranno almeno 30 i paesi che dovranno far fronte a crisi idriche croniche. In Africa la disponibilità di acqua potabile, reti fognarie e servizi igienici è ancora molto lontana da uno standard accettabile, soprattutto nelle aree rurali, dove meno del 60% della popolazione dispone di acqua potabile e meno della metà di servizi igienici. In Papua Nuova Guinea il 70 % della popolazione non ha accesso all'acqua, in Zambia la percentuale è del 73% e in Burkina Faso sale al 78%. Un cittadino nordamericano utilizza 1.700 metri cubi di acqua all’anno; la media in Africa è di 250 metri cubi all’anno. La Commissione mondiale per l’acqua indica in 40 litri al giorno a persona la quantità minima per soddisfare i bisogni essenziali. Con circa 40 litri, un cittadino italiano in media,si fa la doccia, per gli altri rappresenta l’acqua di intere settimane. Circa 800 milioni sono le persone che non hanno un rubinetto in casa e secondo le stime dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, più di 200 milioni di bambini muoiono ogni anno a seguito del consumo di acqua insalubre e per le cattive condizioni sanitarie che ne derivano. Complessivamente si stima che l’80% delle malattie nei Paesi del Sud del mondo sia dovuto alla cattiva qualità dell’acqua. Sono fondamentalmente cinque le malattie di origine idrica: 1) malattie trasmesse dall'acqua (tifo, colera, dissenteria, gastroenterite ed epatite); 2) infezioni della pelle e degli occhi dovuti all'acqua (tracomi, lebbra, congiuntivite e ulcere); 3) parassitosi legate all'acqua; 4) malattie dovute ad insetti vettori, ad esempio mosche e zanzare; 5) infine, malattie dovute a mancanza di igiene (taeniases). L’Italia è prima in Europa per il consumo d’acqua e terza nel mondo con 1.200 metri cubi di consumi l’anno pro capite. Più dell’Italia soltanto gli Stati Uniti e il Canada. Una volta preso in considerazione che l’acqua è a tutti gli effetti non solo una risorsa scarsa, ma una risorsa indispensabile per la vita e un fattore chiave per la sopravivenza di intere regioni, è facile capire come avere il controllo di questa risorsa significhi fondamentalmente controllare dei popoli.86

L’acqua, una risorsa strategica

85 Giuseppe Anzera, op cit. p. 8. 86 Giuseppe Anzera, op cit. p. 9.

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Una domanda che ci si potrebbe fare è: che differenza c’è tra il petrolio e l’acqua a livello strategico? Il petrolio come è noto, è oggi a tutti gli effetti una risorsa estremamente importante, una risorsa scarsa, una risorsa indispensabile per ogni paese. Ma senza petrolio la vita continuerebbe ugualmente, senza acqua questo non sarebbe possibile, ne sono consci tutti i paesi, e i rispettivi governi. Bisogna prendere in considerazione un altro elemento che rende critica la questione idrica, e cioè il fatto che altre risorse strategiche come ad esempio il petrolio possono essere sostituite con sostanze diverse per mezzo del progresso tecnologico, si pensi all’etanolo, l’acqua invece non può essere sostituita come elemento fondamentale per la produzione di cibo ne tantomeno come nutrimento essenziale per la vita umana. L’acqua così come il petrolio è una risorsa scarsa indispensabile, una risorsa che proprio per la sua importanza potrebbe in futuro essere causa di conflitti internazionali. Secondo M. Wally N’Dow, segretario generale della seconda conferenza delle Nazioni Unite sulle città, tenutasi nel 1996, l’acqua potrà essere un fattore innescante dei conflitti. Lo stesso Boutros Boutros Ghali, ex Segretario Generale delle Nazioni Unite era del parere che le guerre in Medio Oriente, nel futuro potrebbero avere come principale causa il contendersi delle risorse idriche.87 Il controllo di risorse strategiche fondamentali per ragioni di potere, di prosperità è stato alla base di numerosi conflitti del Ventesimo secolo, questo fenomeno con tutta probabilità andrà sempre crescendo, il motivo è da ricercare nel fatto che le risorse scarse che si cerca di controllare sono limitate e con il loro sfruttamento intensivo, sfruttamento che cresce rapidamente con il crescere dei consumi mondiali, queste risorse stanno diventando sempre più scarse. Indubbiamente le guerre saranno causate da ragioni quali odi etnici, motivi di ordine religioso, competizioni politiche ed economiche, ma il contendersi delle risorse naturali diventerà col passare del tempo, una causa primaria e l’acqua andrà a inserirsi all’interno di questo scenario. Per molti stati, la protezione dei propri giacimenti petroliferi e di gas naturale, rappresenta il principale obbiettivo strategico, tanto da influenzare in modo significativo la propria politica estera e la propria pianificazione governativa. Esistono però stati, la cui principale prerogativa è la salvaguardia non tanto del petrolio, ma dell’acqua. Molte delle nazioni del Nord Africa e del Medio Oriente conoscono una carenza d’acqua dolce e si trovano sempre più spesso nella difficoltà di soddisfare una domanda che va sempre crescendo. Si può allora ben comprendere come ogni minaccia alle fonti idriche esistenti, costituisca un grave pericolo per la sicurezza internazionale. La previsione di possibili conflitti causati dalla progressiva diminuzione delle scorte di materiali strategici primari è acuito ulteriormente dal fatto che spesso i giacimenti o i depositi siano collocati in modo tale da essere condivisi da due o più Stati, oppure si trovano a cavallo di zone non ben delimitate. Parlando di risorse idriche, il problema più comune è quello in cui fonti di approvvigionamento siano disposte in modo tale da interessare i confini di più stati.88 Un conflitto in cui l’acqua risulta essere l’unico singolo fattore di scontro, un vero e proprio casus belli, sembra generalmente considerato come una questione appartenente al passato, la guerra si è infatti per secoli interessata alla protezione di importanti sistemi idrici o alla loro distruzione, così da porre l’elemento acqua nella posizione di materiale strategico più antico del mondo.89 Ad esempio anche durante la

87 Frèdèric Lasserre, L’Eau, enjeu mondial, Le Serpent à Plumes, Parigi, 2003, Capitolo terzo. 88 Giuseppe Anzera, op cit. p. 15. 89 Nel 689 a.C Sennacherib guidò le armate assire contro Babilonia, distrusse i sistemi di irrigazione della città e ne inondò il centro deviando alcuni corsi d’acqua, come vendetta per la morte di suo figlio. Nel V secolo a.C i cinesi costruirono a scopo di difesa delle dighe che in caso di aggressione potevano rapidamente essere distrutte con lo scopo di far fuoriuscire l’acqua, tecnica che venne poi riutilizzata

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guerra fredda, si sono verificati scontri per l’acqua. Non è ormai più in discussione, infatti, che la Guerra dei Sei Giorni del 1967 che vedeva opposti Israele ed Egitto da una parte e Siria e Giordania dall’altra, venne innescata dalla necessità di esercitare un controllo strategico sui tributari del fiume Giordano.90 Un altro esempio può essere rintracciato nel 1975, quando la Siria iniziò a riempire il lago Assad, riducendo così il flusso dell’Eufrate verso valle, Siria e Iraq entrarono quasi in guerra. Bisogna però fare attenzione a non arrivare a una conclusione quasi meccanica secondo la quale la carenza d’acqua dovrà in futuro portare ad un conflitto tra stati, è necessario infatti considerare anche le dinamiche interne agli stessi Stati. Una guerra combattuta avente come sola causa l’acqua, oggi giorno quindi, non sembra poi essere così improbabile, infatti all’inizio del Ventunesimo secolo, il rischio di una vera e propria guerra combattuta per l’acqua, è tornato a rappresentare una possibilità concreta. La domanda di acqua se accostata alla consapevolezza e alla percezione di una risorsa che non è più infinita, alla volontà di controllo delle falde acquifere e al possesso di aree strategiche dal punto di vista idrico potrebbero spingere paesi in difficoltà al ricorso della forza per difendere la propria sopravivenza e la propria sicurezza. Esiste anche una scuola di pensiero che viene definita degli “Idrottimisti”, i quali puntano su delle considerazioni storiche per dimostrare che un conflitto centrato sull’acqua è un evento non solo raro ma del tutto innaturale.91 Tra le motivazioni a sostegno di queste tesi ottimiste vi è l’attività diplomatica, la quale viene vista come strumento fondamentale a scongiurare possibili conflitti incentrati sulle risorse idriche. Tra il XIX e il XX secolo, si possono individuare più di 3600 trattati stipulati approssimativamente per risolvere controversie legate all’acqua. Altro elemento è l’atteggiamento cooperativo degli Stati sulle questioni idriche, a tal proposito molti esperti sostengono che non si considerano con la dovuta attenzione tutta una serie di accordi che hanno risolto possibili crisi tra stati, accordi che avevano come punto centrale lo sfruttamento di risorse idriche. Secondo l’UNESCO, un terzo di tutti i bacini fluviali sono condivisi da più di due paesi. Nel mondo ci sono 262 bacini fluviali internazionali: 59 in Africa, 52 in Asia, 73 in Europa, 61 in America Latina e Caraibi, e 17 in Nord America. In totale, 145 paesi hanno territori con almeno un bacino fluviale condiviso. Tra il 1948 e il 1999, sempre secondo l´UNESCO, si sono registrate 1.831 "interazioni internazionali", compresi 507 conflitti, 96 eventi neutrali o non significativi, e 1.228 importanti istanze di cooperazione."Nonostante il potenziale problema, la storia ha dimostrato che nei bacini condivisi la cooperazione è più probabile del conflitto", conclude l´UNESCO. Alla base di queste tesi vi è fondamentalmente,come già detto, un’osservazione storica, ma anche la constatazione che l’acqua è troppo importante e che le nazioni non possono permettersi di combattere per l´acqua. Piuttosto, questa risorsa alimenta una maggiore interdipendenza. Riunendosi per gestire congiuntamente le risorse idriche condivise, i paesi possono costruire la fiducia e prevenire i conflitti. Per quanto riguarda la gestione transfrontaliera dell’acqua l’UNDP nel 2006 ha individuato due obbiettivi fondamentali e cioè sostituire l’azione unilaterale con la cooperazione multilaterale e mettere al centro del dibattito le questioni dello sviluppo umano, e non il potere e la politica.92 Bisogna tenere in considerazione però che un appiglio storico non costituisce una base solida per escludere dinamiche future, è sicuramente vero che la

sempre dagli stessi cinesi contro i giapponesi all’epoca dell’invasione della Cina nel Luglio del 1937.

Giuseppe Anzera, op cit. p. 23. 90 Giuseppe Anzera, op cit. p. 19. 91 Giuseppe Anzera, op cit. pp. 30- 31. 92 UNDP, L’acqua tra potere e povertà , Rapporto 2006.

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quantità di acqua dolce disponibile oggi sulla terra è la stessa che era presente 5000 anni fa, ma è anche vero che la popolazione mondiale è in continua crescita e che la domanda e gli utilizzi dell’acqua stanno aumentando in maniera a dir poco esponenziale. L’acqua potrebbe quindi, al di là di quanto la storia ci dice, rappresentare un possibile casus belli per futuri conflitti, questo perché è destinata a diventare una risorse sempre più scarsa e sempre più fondamentale.

L’acqua in Asia Centrale

Da decenni ormai l’Asia Centrale consuma acqua ad un ritmo insostenibile, ma l’utilizzo delle risorse idriche è aumentato in maniera considerevole soprattutto dopo l’indipendenza del 1991. Nonostante nella regione vi sia un’abbondanza di acqua dolce, sufficiente a soddisfare il proprio fabbisogno idrico, lo sfacelo delle infrastrutture e la cattiva gestione, hanno portato i paesi della regione centroasiatica a consumare una volta e mezzo la quantità d’acqua che dovrebbero. L’ obbiettivo delle politiche agricole realizzate in Asia Centrale a partire dal XIX secolo, è stato quello di incrementare la produzione del cotone e del riso per permettere alla Russia prima e all’Unione Sovietica poi, di ridurre la dipendenza dalle importazioni. Ne deriva quindi, che tutti gli investimenti sia nel settore delle coltivazioni che in quello delle irrigazioni, sono stati portati avanti in maniera indiscriminata, senza tener conto di quelli che sarebbero stati gli impatti ambientali e sociali. Altro periodo fondamentale fu il post indipendenza, in quanto le nuove nazioni, nate dal crollo dell’Unione Sovietica, si trovarono prive ovviamente di fondi e di sussidi che provenivano costantemente da Mosca. Si arrivò quindi al punto di incrementare ulteriormente la produzione agricola e quindi aumentare lo sfruttamento idrico. Con il clima arido presente in gran parte della regione, l’acqua di irrigazione è indispensabile per l’agricoltura, e l’agricoltura è la colonna portante delle economie nazionali e dei mezzi di sostentamento in tutta l’Asia centrale. L’agricoltura irrigua rappresenta oltre un quarto del PIL in Tagikistan e in Turkmenistan, e oltre un terzo in Kirghizistan e in Uzbekistan. Circa 22 milioni di persone dipendono dall’irrigazione per il loro sostentamento. L’eredità regionale lasciata dai pianificatori sovietici comprende un gran numero di dighe, canali e impianti di pompaggio, la maggioranza dei quali si trova in bacini fluviali transfrontalieri. Un’altra eredità è il disastro ambientale del lago d’Aral, causato dalla deviazione dei corsi dei fiumi per irrigare le piantagioni di cotone, del quale si dirà in seguito. Altro fattore fondamentale è il rapido e costante incremento demografico, il quale ha fatto si che aumentasse la domanda di terreno, un problema questo che è ulteriormente evidenziato dal crollo del settore industriale, che ha costretto moltissime persone a tornare a dedicarsi all’agricoltura. Inoltre, il cotone rappresenta un prodotto chiave, in quanto permette di ottenere entrate in valuta pregiata, ma come già detto, richiede un’abbondante irrigazione.93 La problematica delle risorse idriche nel contesto centroasiatico dipende da alcune questioni di non poca rilevanza. Ad esempio si può prendere in considerazione il fatto che la progettazione e la gestione al tempo dell’era sovietica, ha collegato tra loro i vari sistemi idrici, sistemi che oggi devono essere gestiti da cinque paesi diversi che come si può facilmente desumere spesso si dimostrano litigiosi e scarsamente propensi ad

93 International Crisis Group, Asia Centrale, risorse idriche e conflitti, Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, 30 maggio 2002, Selezione Stampa, pp. 179- 187.

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una collaborazione per la gestione dell’acqua. Le economie centroasiatiche, inoltre, sono fortemente dipendenti dall’irrigazione per buona parte della loro produzione. Esiste una situazione di cattiva gestione e sovra utilizzo delle risorse idriche, che espongono diverse aree alla siccità e portano a disastri ambientali come quello del Lago d’Aral. Altro fattore importante è che i paesi situati a valle dei corsi d’acqua, dispongono di maggiore forza militare ed economica rispetto a quelli situati a monte, squilibrio questo che è stato presente nella maggior parte delle controversie sull’acqua.94La gestione inadeguata e il deterioramento delle infrastrutture di drenaggio hanno provocato un’estesa salinizzazione e inibizione del suolo, soprattutto negli stati a valle. Nei bacini fluviali dell’Amu Darja e del Syr Darja in Kazakistan e in Uzbekistan, la salinità è aumentata di oltre il 50 per cento nell’arco di un decennio.95 L’innalzamento delle falde acquifere, tra i principali fattori responsabili della salinizzazione, costituisce ora una grave minaccia per l’agricoltura. La scarsità di acqua in gran parte della regione non è dovuta tanto alla disponibilità, quanto al degrado delle infrastrutture. Misurato per ettaro, l’impiego idrico nei sistemi irrigui dell’Asia centrale è superiore del 30 per cento rispetto a quello osservato in Egitto e in Pakistan, paesi che non sono certo fra i più efficienti nell’uso dell’acqua. L’evaporazione, l’interrimento dei canali e le perdite delle condutture fanno si che meno del 40 per cento dell’acqua deviata dai fiumi raggiunga i campi. Le pessime condizioni degli impianti di pompaggio utilizzati per tirare su l’acqua da centinaia di metri di profondità sono un’altra causa della scarsità. L’inefficienza genera ingenti perdite: i paesi dell’Asia centrale perdono una cifra stimata a 1,7 miliardi di dollari all’anno a causa della cattiva gestione dell’irrigazione. Il Tagikistan illustra l’entità del problema. Dal 1991, oltre un quinto dei terreni irrigui del paese ha smesso di ricevere acqua, fatto che, secondo una stima, ha determinato una perdita del 4% del PNL.96 Due terzi dei 445 impianti di pompaggio del paese sono fuori servizio, con una conseguente riduzione della portata idrica del 40%, e le perdite di acqua attraverso l’infrastruttura di irrigazione, già elevate, continuano ad aumentare. Il degrado delle infrastrutture è andato di pari passo con la diminuzione degli investimenti pubblici. Stando ai dati forniti, i finanziamenti destinati al settore nel 2002 erano pari a un decimo di quelli del 1991. Le soluzioni non sono semplici. Durante l’era sovietica, la gestione dell’irrigazione era estremamente accentrata a Mosca. Nell’era post-sovietica, alcuni governi si sono orientati verso l’estremo opposto, trasferendo l’autorità alle associazioni degli utenti privati dell’acqua. La mancanza di finanziamenti per la manutenzione delle infrastrutture in generale, l’incapacità di sostenere i costi crescenti dell’elettricità per il pompaggio e le restrizioni finanziarie presenti a livello locale hanno causato il fallimento di molte di queste associazioni. Un altro problema è costituito dalla scarsa cooperazione a livello regionale. I mezzi di sostentamento rurali in tutta la regione sono collegati tramite sistemi fluviali comuni. La gigantesca centrale di pompaggio in cascata di Karshi preleva acqua dall’Amu Darja per irrigare 400.000 ettari di terreni agricoli nelle steppe dell’Uzbekistan meridionale. Sei dei sette impianti di pompaggio si trovano in Turkmenistan.97

94 International Crisis Group, op cit, p. 188. 95 UNDP, L’acqua tra potere e povertà ,Rapporto 2006. 96 UNDP, L’acqua tra potere e povertà, Rapporto 2006. 97 UNDP, L’acqua tra potere e povertà, Rapporto 2006.

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Il Disastro del lago d’Aral

Il lago d’Aral è un lago situato al centro di un ampio bacino, tra Uzbekistan e Kazakistan. Prima del disastro era il quarto lago più esteso al mondo, grazie al quale si era sviluppata una fiorente pesca ed un’agricoltura irrigua presso i delta dei suoi due immissari, l’Amu-Darja a sud ed il Syr-Darja a nord.

(Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Immagine:Aral_map.png)

Agli inizi degli anni ’50 del Novecento l’Unione Sovietica inaugurò una nuova politica agraria, detta dello “sfruttamento delle terre vergini”, della quale si è parlato in precedenza, si tentò cioè di mettere a coltura terre sino ad allora improduttive. Fu allora che per la prima volta le steppe asiatiche vennero arate. Nel bacino del lago d’Aral si cercò di potenziare la coltivazione del cotone, nel tentativo da parte dell’URSS di diventare il primo produttore mondiale sorpassando gli USA. I motivi di una simile operazione erano ovviamente agrari, ma anche propagandistici nell’ambito della Guerra Fredda tra i due blocchi Si cercava fondamentalmente di dimostrare la superiorità del modello sovietico rispetto a quello americano. Il problema nacque dal fatto che il potenziamento della coltura del cotone fu attuato deviando le acque dell’Amu-Darja e del Syr-Darja, immissari del lago d’Aral, verso le nuove piantagioni cotoniere. Ma il 50% dell’acqua evaporava o si sprecava prima di raggiungere i campi a causa delle canalizzazioni a cielo aperto e spesse volte scavate nel terreno. Indubbiamente nel primo periodo la produzione di cotone aumentò sensibilmente (senza però mai arrivare al “sorpasso” nei confronti degli USA), ma a partire dagli anni ’70 del Novecento il sistema produttivo cotoniero entrò in crisi a causa della scarsa fertilità dei suoli. L’effetto collaterale di questa operazione fu che il livello dell’Aral iniziò progressivamente ad abbassarsi, ciò dovuto al fatto che le poche acque dei due immissari che giungevano al lago non bilanciavano le acque perse per evaporazione. L’abbassamento del livello dell’Aral ha provocato uno dei più grandi disastri ambientali del XX secolo anche perche con l’abbassarsi delle acque è aumentata la salinità del lago, provocando la scomparsa totale dell’ittiofauna endemica. L’economia e la cultura locale, basate sulla pesca, sono state cancellate nell’arco di pochi decenni, i terreni lasciati liberi dal ritirarsi delle acque dell’Aral si

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sono rivelati sterili, perché troppo salati Il delta dell’Amu-Darja e del Syr-Darja si sono quasi completamente prosciugati. La crisi economica collegata alla scomparsa sia delle pesca che dell’agricoltura, associata alle particelle saline in sospensione nell’aria, fanno sì che questa crisi ambientale abbia anche una dimensione sanitaria: la regione uzbeka sull’Aral detiene ad esempio il triste primato del più alto tasso di mortalità infantile di tutta quanta l’Asia Centrale98. La zona infatti è caratterizzata da un aumento senza precedente nei tassi dei cancri polmonari e della gola, malattie dei reni, l'epatite, l'asma, la bronchite,e patologie gastrointestinali per non parlare di un aumento della tubercolosi.99 In tutto, più di 20 milioni di persone nella regione patiscono come conseguenza delle circostanze pericolose che circondano il lago. I terreni lasciati liberi dal ritiro delle acque dell’Aral non possono neanche essere utilizzati per l’agricoltura in quanto troppo salati, infatti oggi la salinità dell’acqua è otto volte quella del 1960. I delta dell’Amu-Darja e del Syr-Darja si sono quasi completamente prosciugati. Un’altra conseguenza disastrosa oltre le malattie è la crisi economica collegata alla scomparsa sia delle pesca che dell’agricoltura, associata alle particelle saline in sospensione nell’aria, le quali fanno sì che questa crisi ambientale abbia anche una dimensione come già detto sanitaria. Contemporaneamente all’aumento della salinità, con l’abbassamento del livello delle acque è aumentato anche il livello di inquinamento. La disgregazione dell’Unione Sovietica e la successiva nascita delle repubbliche indipendenti, ha fatto si che il lago d’Aral fosse diviso tra Uzbekistan e Kazakistan, le quali per tutta una serie di motivi nazionalistici hanno gestito la crisi in contrapposizione, e non cooperando tra loro. Grazie al suo isolamento, ai tempi dell’Unione Sovietica in un’isola al centro dell’Aral era stata ubicata una base militare segreta per la guerra batteriologica. Infatti i militari sovietici scelsero l’isola di Vozrozhdeniya per portare avanti un programma segreto per testare armi batteriologiche. Sino al 1990 vennero testati diversi agenti patogeni come l’antrace.100 Nel 1992 i laboratori vennero abbandonati e per diversi anni più nessuno 98 Nell’Uzbekistan occidentale, nelle desolate strisce di terra a sud del lago d’Aral, Medici Senza Frontiere (MSF) gestisce un ospedale speciale in cooperazione con il Ministero uzbeko della salute. Qui vengono curati i pazienti che hanno sviluppato resistenze ai farmaci contro la TBC. Questa clinica, nella città di Nukus, è il solo posto nella regione di Karakalpakstan dove questi pazienti possono ricevere assistenza. In seguito al collasso dell’Unione Sovietica, il sistema sanitario della regione ha patito innumerevoli difficoltà. I medici non erano più pagati e abbandonavano gli ospedali. I farmaci non erano sempre disponibili, cosicché chiunque riusciva a ottenerne smetteva di assumerli non appena iniziava a sentirsi meglio o finiva i soldi. Quest’utilizzo incorretto è una delle ragioni che provocano resistenza. Per guarire dalla TBC è necessario assumere l’intero trattamento, che può durare da sei a otto mesi per la TBC regolare. Coloro che hanno sviluppato resistenze al farmaco iniziale devono seguire cure diverse, che durano ancora più tempo. La forma di TBC multi-resistente ai farmaci è molto difficile da curare. La condizione di molte persone è aggravata dal fatto che vivono ammassati in case poco ventilate e sono molto vulnerabili alle malattie. Proprio ciò che accade a Nukus: il progressivo ritiro delle acque del lago d’Aral ha distrutto gran parte delle attività economiche della zona e oggi la maggioranza delle persone deve affrontare grandi sfide economiche in condizioni di povertà. Non ci sono soldi per una dieta corretta o per garantire adeguate condizioni di igiene. Inoltre, la maggior parte della gente vive in piccole stanze insieme a dieci altre persone o più. Nelle case è molto rara la luce del sole o l’aria fresca: esattamente le condizioni ideali nelle quali si sviluppa il batterio della TBC.MSF cura i pazienti che hanno sviluppato multi-resistenze ai farmaci con una speciale terapia molto potente, che può durare fino a due anni. Le conseguenze fisiche, mentali e sociali della terapia sono tali e tanto grandi che molti pazienti hanno difficoltà a portarla a termine. Molti si lamentano perché vomitano spesso e hanno allucinazioni. La lunga degenza in ospedale causa molti problemi alle coppie sposate; l’assenza di qualcuno che possa sostenere la famiglia o di qualcuno che si occupi dei bambini spinge molti a cercare un nuovo marito o una nuova moglie. [www.msf.it]. 99 Philip Micklin, The Aral Sea and Its Future: An Assessment in 2006, Eurasian Geography and Economics, p 553. 100 Philip Micklin, op cit, p. 554.

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mise piede sull’isola. Una delle preoccupazioni maggiori riguarda le tonnellate di antrace che vennero seppellite nel 1988, si teme infatti che possano fuoriuscire dai fusti lasciati incustoditi e che col tempo vanno deteriorandosi. Non solo, ma quella che un tempo era un’isola oggi è di fatto collegata da una striscia di terra, conseguenza del prosciugamento del lago, si teme quindi che gli animali possano trasportare spore di antrace sino ai centri abitati. A causa dell’abbassamento delle acque del lago, tale isola è oggi diventata una penisola facilmente accessibile, e la base non è stata bonificata. Spesso nella zona dell’Aral scoppiano epidemie. La situazione è decisamente migliore nel lago d’Aral del nord, poiché in esso, più piccolo, sono tornate a sfociare le acque del Syr-Darja. Trovandosi inoltre in solo territorio kazako, la gestione dei fondi internazionali è stata migliore. Il livello del bacino è aumentato negli ultimi anni di diversi metri; la l’ittiofauna è stata reintrodotta ed i pescatori sono tornati a lavorare. Ancora critica è invece la situazione nell’Aral del sud, tra Kazakistan ed Uzbekistan, dove le acque dell’Amu-Darja non riescono a far aumentare il volume del lago. La gestione dei fondi internazionali è stata inoltre mal coordinata dai due stati.101 In qualche modo, si può sostenere che l’abbassamento del livello del Lago d’Aral è una delle eredità più nefaste della gestione sovietica delle risorse idriche. Si potrebbe anche discutere di quelli che furono i tentativi da parte sovietica di salvare il Lago d’Aral, al quanto controversi. Ad esempio, tra i tanti progetti elaborati, uno in particolare prevedeva di deviare parte dell’acqua dei fiumi siberiani Ob e Irtysh verso l’Asia Centrale, progetto che venne abbandonato alla fine degli anni ottanta, in quanto fu fortissima l’opposizione degli scienziati, scrittori e ambientalisti, tutte classi sociali che da poco stavano acquisendo una certa influenza politica.102 Per non parlare di un progetto che prevedeva l’utilizzo di armi nucleari per sciogliere diversi ghiacciai e convogliarne le acque nel lago. Per affrontare il problema del Lago d’Aral, nel 1993 vennero istituiti il Consiglio Interstatale per il Bacino del Mare d’Aral (ICAB- Interstate Council for the Aral Sea) e il Fondo per salvare il Mare d’Aral (IFAS- International Fund to Save the Aral Sea), i quali si fusero tra di loro nel 1997. Il principale compito dell’IFAS doveva essere quello di reperire i finanziamenti per realizzare il programma di intervento firmato dai leader centroasiatici nel 1994 a Nukus.103 Sono numerosi anche i progetti proposti a livello internazionale per cercare di risolvere il problema dell’acqua in Asia Centrale. Progetti che per la maggior parte si sono concentrati sulle soluzioni tecniche piuttosto che su quelle politiche o economiche. Indubbiamente alcuni risultati sono stati ottenuti, ma questo tipo di approccio non tiene conto di fatto di quello che è il

101 Piastra, Il lago d'Aral. Caratteri e vicende di un disastro ecologico. [http://amscampus.cib.unibo.it/archive/00002068/]. 102 Un progetto del genere tornò di attualità nel 2002, questo perché l’Uzbekistan lo considerava una semplice soluzione ai suoi problemi idrici. Teoricamente un progetto del genere , cioè costruire un canale dalla Siberia all’Uzbekistan attraverso il Kazakistan, risolverebbe il problema delle limitate risorse idriche dell’Uzbekistan ma con tutta probabilità si rivelerebbe distruttivo da un punto di vista idrologico. Alla fine degli anni Ottanta, la gran parte dell’opposizione al progetto era basata sulle riserve dei nazionalisti russi all’idea di deviare dei fiumi russi per aiutare le Repubbliche asiatiche dell’URSS. Le motivazioni erano anche di tipo scientifico, riguardo a quello che sarebbe potuto essere il forte impatto ecologico sui bacini dei fiumi siberiani. Nel marzo del 2002 il Viceministro russo per le Risorse Naturali Valerii Roshchupkin riconobbe l’interesse dell’Asia Centrale nella deviazione delle acque in eccesso dell’Ob e dell’Irtysh verso Sud, ma affermò contemporaneamente che vi era bisogno di studiare i possibili impatti ambientali e che un tale progetto sarebbe risultato essere molto costoso. I motivi dell’interesse russo per tale progetto erano ovviamente di ordine strategico, infatti esso avrebbe permesso di assicurare una forte dipendenza dell’Uzbekistan dall’acqua russa, garantendo ovviamente a Mosca un nuovo strumento di influenza. International Crisis Group, op cit, pp. 245- 246. 103 International Crisis Group, op cit, p. 196.

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problema che sta alla base, e cioè una grave inefficienza della gestione della risorsa idrica. La dove poi le soluzioni tecnologiche non tengano conto di quelle che sono le condizioni locali, l’impatto che ottengono è relativamente scarso. Si può ad esempio citare un progetto del 1996, portato avanti da Israele, il quale prevedeva l’introduzione di sistemi di irrigazione a basso consumo d’acqua in Uzbekistan. Questo progetto fallì in quanto gli agricoltori erano portati a credere che i costi di manutenzione e quelli per l’energia necessaria fossero eccessivi.104D’altra parte, i progetti che hanno cercato di risolvere il problema da un punto di vista politico, hanno di fatto ottenuto scarsi risultati e hanno incontrato non pochi problemi, primo tra tutti la scarsa volontà cooperazione tra gli stessi stati centroasiatici. Si può citare come esempio il tentativo che nel 2000 l’OCSE( l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), cercò di portare avanti per organizzare una conferenza regionale sulle risorse idriche, fallì nel momento in cui il Turkmenistan e l’Uzbekistan dichiararono che preferivano trattare su base bilaterale.105 Importante come iniziativa volta a risolvere il problema dell’acqua è quella sviluppata dal GEF( Global Environment Facility), una struttura questa, di finanziamento a livello mondiale che si adopera per sostenere progetti ambientali in cooperazione con l’IFAS, mediante fondi elargiti dalla Banca Mondiale. Il progetto della GEF si ricollegava tra l’altro proprio a un progetto della stessa Banca Mondiale e cioè “l’Aral Sea Basin Program”, progetto questo da diciassette milioni di dollari che non raggiunse praticamente alcun risultato106. Bisogna dire che l’IFAS così come gli altri enti coinvolti, venivano gestiti dalla vecchia guardia dei funzionari addetti alle risorse idriche, i quali non sapevano esattamente come portare avanti dei progetti di cambiamento.

104 International Crisis Group, op cit, p. 202. 105 International Crisis Group, op cit, p. 203. 106 International Crisis Group, op cit, p. 204.

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Due immagini satellitari mostrano l’evoluzione del danno ambientale.

(Fonte: http://na.unep.net/digital_atlas2/webatlas.php?id=11)

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Queste immagini satellitari mostrano bene la riduzione delle acque del lago d’Aral, la prima immagine risale al 1985, la seconda al 2001 e la terza al novembre del 2003. (Fonte: Wikipedia)

Area (km²)

Volume (km³)

Quota slm (m)

Salinità (g/l)

Sorgente informazioni

1960 ~68000 ~1040 53 ~10 WDB II

1985 45713 468 41.5 ~23 NOAA-AVHRR

1986 43630 380 40.5 NOAA-AVHRR

1987 42650 354 40 NOAA-AVHRR

1988 41134 339 39.5 NOAA-AVHRR

1989 40680 320 39 ~30 NOAA-AVHRR

1990 38817 282 38.5 NOAA-AVHRR

1991 37159 248 38 NOAA-AVHRR

1992 36087 231 37.5 NOAA-AVHRR

1993 35654 248 37 NOAA-AVHRR

1994 35215 248 37 NOAA-AVHRR

1995 35374 248 37 RESURS-01

1996 31516 212 36 RESURS-01

1997 29632 190 35 RESURS-01

1998 28687 181 34.8 ~45 NOAA-AVHRR

2010 21058 ~124 32.4 ~70 Previsione

I dati presenti nella tabella, mostrano la riduzione sia del volume d’acqua che di quello dell’area del lago, partendo dal 1960 e concludendosi con una previsione per il 2110. Vengono anche indicati i dati relativi alla salinità, interessante in quanto si può osservare come col passare del tempo e la riduzione delle acque, la salinità sia salita a livelli impressionanti. (Fonte: www.globalgeografia.com).

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(Fonte: cicloacqua.altervista.org/lago/foto.htm)

(Fonte: www.free-people-world.com)

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(Fonte: www.siamoiblei.com)

L’immagine mostra il villaggio kazaco di Karateren giace ricoperto di sabbia vicino al lago d’Aral. (Fontewww.free-people-world.com)

Le quote dell’acqua e le controversie tra le diverse repubbliche

Sono due, fondamentalmente i motivi per cui sono nati diversi conflitti tra le cinque repubbliche relativamente alla risorsa dell’acqua: il primo è quello che vede come motivo il modo in cui l’acqua del bacino del Lago d’Aral dovrebbe essere suddivisa tra i diversi paesi e al loro interno, il secondo invece, è il funzionamento dei vari meccanismi di compensazione e di pagamento che collegano tra di loro le risorse idriche e l’energia, in modo da fornire quest’ultima ai Paesi situati a monte e la prima a quelli situati a valle. Quando si parla di quote d’acqua, si fa riferimento a delle vere

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e proprie quote per l’utilizzo di questa risorsa da parte dei vari paesi. Nel 1992, l’Accordo di Almaty stabilì infatti delle quote di utilizzo per le diverse repubbliche, in modo tale però che all’Uzbekistan, al Kazakistan e al Turkmenistan, i tre paesi più ricchi dell’Asia Centrale, vennero assegnate le quote più sostanziose dell’Amu Darja e del Syr Darja. Invece ai paesi a monte vennero assegnate quote inferiori, perché meno popolose rispetto agli altri. Ovviamente, all’indomani di questi accordi, si sono scatenate subito fortissimi proteste, ad esempio il Kirghizistan e il Tagikistan manifestarono la volontà di espandere le proprie coltivazioni irrigue, solo che contemporaneamente i paesi a valle stavano espandendo il proprio settore agricolo per compensare il rapido declino del settore industriale. Tutto questo comportò durante gli anni Novanta un fortissimo sfruttamento delle risorse idriche. Molto spesso però le quote dell’acqua non venivano e non vengono rispettate a causa della scarsità dei controlli, ovviamente questo comporta una scarsità d’acqua nel basso corso del Syr Darja e dell’Amu Darja, non che una tensione tra i paesi a valle e quelli a monte. In generale si può sostenere che tutti i tentativi di determinare quote dell’acqua che in qualche modo potessero soddisfare tutti i Paesi della regione sono falliti. L’Uzbekistan utilizza il 51% del Syr Darja, il Kazakistan il 37%, mentre la maggior parte dell’acqua dell’Amu Darja viene utilizzata sempre dall’Uzbekistan e dal Turkmenistan.107 Un altro istituto ereditato dal sistema sovietico è quello dei meccanismi di compensazione e di pagamento. Mediante tale sistema le repubbliche centroasiatiche si scambiavano acqua ed energia attraverso degli accordi di compensazione stabiliti da Mosca. Questo sistema è stato fondamentalmente il motivo scatenante di moltissimi risentimenti tra i diversi paesi, la dove ad esempio la maggior parte delle repubbliche è fuoriuscita da questo sistema, la popolazione è stata sempre la prima a farne le spese, siccità, inondazioni e mancanza di elettricità. Il sistema consisteva fondamentalmente nel fatto che i diversi paesi scambiavano le proprie risorse dietro altre risorse di cui erano privi o che non avevano in abbondanza. Così ad esempio all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, l’Uzbekistan e il Kazakistan hanno allineato i prezzi per il gas naturale e il carbone che essi producevano, con il prezzo del mercato mondiale, il Kirghizistan dal canto suo incrementò la produzione invernale di energia elettrica della centrale di Toktogul per compensare la propria carenza di combustibile. Il problema nacque però dal fatto che questo incremento di energia elettrica causò gravi problemi all’Uzbekistan e al Kazakistan, infatti il Kirghizistan aumentando la produzione di energia elettrica andò alterando la portata del Syr Darja, riducendo così l’acqua per l’irrigazione a disposizione dell’Uzbekistan e del Kazakistan. Tutto questo sfociò in gravi tensioni nel 1997, nel momento in cui la siccità ridusse ulteriormente l’acqua a disposizione per l’irrigazione. Nel 1998 si arrivò ad una soluzione negoziando un accordo-quadro. In generale gli accordi di compensazione tra questi paesi hanno avuto un effetto molto limitato, questo perché ad esempio non esistono dei controlli efficaci e la fiducia tra i diversi paesi è di fatto scarsa. Si può notare quindi come i paesi dell’Asia Centrale siano stretti in una rete di interdipendenza idrologica. I bacini del Syr Darja e dell’Amu Darja legano il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan nel nesso acqua- energia vitale per le loro prospettive di sviluppo umano, prospettive seriamente minacciate dalla scarsa cooperazione. Quel nesso lo si può comprendere meglio seguendo il flusso dei fiumi. L’acqua del tratto superiore del Syr Darja scende veloce dalle alture ripide. L’enorme bacino artificiale di Toktogul, nel Kirghizistan, negli anni Settanta era usato per immagazzinare l’acqua e per ridistribuire i flussi d’acqua irrigua fra le

107 International Crisis Group, op cit p. 208.

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stagioni secche e quelle piovose in Uzbekistan e nel Kazakistan meridionale. Nell’era sovietica, quasi tre quarti dell’acqua venivano rilasciati nei mesi estivi e un quarto d’inverno108. L’energia elettrica generata nei mesi estivi veniva anche esportata, e il Kirghizistan in cambio riceveva dal Kazakistan e dall’Uzbekistan il gas necessario a soddisfare il fabbisogno invernale di energia. In seguito all’indipendenza, questa struttura di cooperazione è crollata. Dopo la liberalizzazione dei mercati, il traffico di energia è stato portato su un piano commerciale, quindi le autorità del Kirghizistan per importare il carburante devono pagarlo ai prezzi di mercato. La autorità hanno iniziato ad aumentare le aperture invernali delle chiuse della diga di Toktogul per produrre energia, riducendo il flusso disponibile per l’irrigazione in Kazakistan e in Uzbekistan nei mesi estivi. Negli anni Novanta, i flussi di acqua dalla diga in estate sono scesi della metà, provocando gravi carenze di acqua per l’irrigazione. I negoziati per la condivisione dell’acqua e dell’energia sono iniziati nel 1992 ma hanno ottenuto poco. Se da un lato gli stati a valle e a monte riconoscono che l’invaso a monte è un servizio economico e che si debba organizzare il baratto di acqua in cambio di energia e di combustibili fossili, dall’altro è risultato difficile raggiungere un accordo sulle quantità e sui prezzi. Nel 2003 e nel 2004, i governi non sono stati capaci di accordarsi neppure su un piano annuale minimo. Che cosa ha comportato per le politiche nazionali la non cooperazione? In Uzbekistan, ha portato ad adottare politiche mirate a raggiungere l’autosufficienza e a ridurre la dipendenza dalla diga di Toktogul. Nella strategia rientra la costruzione di serbatoi in grado di immagazzinare 2,5 miliardi di metri cubi d’acqua. Anche il Kazakistan ha elaborato una risposta nazionale al problema regionale e sta studiando la possibilità di costruire un serbatoio da 3 miliardi di metri cubi a Koserai. Con acqua in abbondanza, il Kirghizistan persegue l’autosufficienza in campo energetico. Le autorità stanno studiando la costruzione di due nuove dighe e centrali idroelettriche che potrebbero produrre abbastanza energia per rendere autosufficiente il paese, più un surplus per l’esportazione, ma il prezzo di 2,3 miliardi di dollari stimato per la realizzazione di queste dighe è 1,2 volte il PNL del paese. Un’alternativa sarebbe sviluppare una centrale termica a un costo inferiore per soddisfare le necessità invernali. Pur essendo un’opzione più economica, questo progetto cozza con la linea della politica nazionale di autosufficienza energetica. La centrale aumenterebbe la dipendenza del Kirghizistan dalla fornitura di gas naturale da parte dell’Uzbekistan, che periodicamente viene sospesa con decisione unilaterale. In questo caso, la scarsa cooperazione è una barriera al miglioramento dell’efficienza tramite il commercio. L’incapacità di accordarsi su soluzioni di cooperazione ha creato uno scenario in cui tutti perdono. Ha spinto i paesi ad adottare strategie non ottimali per lo sviluppo di infrastrutture alternative, con perdite economiche potenzialmente ingenti. La semplice analisi costibenefici indica che dalla cooperazione il bacino nel suo insieme guadagnerebbe 32 milioni di dollari, e ci guadagnerebbero tutti i paesi se gli stati a valle offrissero una compensazione al Kirghizistan. Altrove, il Tagikistan ha il potenziale per diventare il terzo produttore mondiale di energia idroelettrica, ma rimane indietro perché la mancanza di cooperazione fra i paesi rende le istituzioni finanziarie internazionali riluttanti a concedere prestiti per progetti legati all’energia idroelettrica. Quindi, se la spinta verso l’autosufficienza infligge costi economici pesanti a tutto il bacino e se i benefici economici della cooperazione sono così. ingenti, cos’è che trattiene i paesi dell’Asia centrale? In due parole, la politica. Un’efficace gestione dell’acqua transfrontaliera richiede un dialogo politico

108 UNDP, L’acqua tra potere e povertà, Rapporto 2006.

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prolungato e negoziati per individuare scenari in cui tutti escano vincitori e per sviluppare strategie finanziarie e cooperative ottimali.

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Capitolo quinto

Interessi politici e interessi economici nell’Asia Centrale

Gli interessi politici nella zona centroasiatica

Quando si parla di interessi politici nelle relazioni internazionali, spesso è inevitabile parlare degli annessi interessi economici, ancora più spesso interessi politici e interessi economici coincidono. Questo ragionamento è tanto più vero nel momento in cui si discute delle manovre politiche portate avanti nei confronti delle diverse regioni centroasiatiche nel corso della storia ma in modo particolare negli ultimi anni. Come analizzato in precedenza l’Asia Centrale è una zona estremamente ricca di risorse energetiche strategiche, ragion per cui l’accesso a tali risorse rappresenta un obiettivo e ha rappresentato un obiettivo tale da fomentare ambizioni nazionali e da sollecitare gli interessi di grandi gruppi economici. Non solo, ma la posta in gioco in questa regione del mondo alimenta non poche rivalità internazionali. La fine della guerra fredda e dell’era bipolare ha portato ad uno stravolgimento delle relazioni strategiche in Asia Centrale. In epoca sovietica le relazioni tra la regione ed il mondo esterno passavano da Mosca. Non vi erano rappresentanze diplomatiche nella regione, l’accesso alla quale era interdetto alla quasi totalità dei cittadini non sovietici, non vi erano élite diplomatiche centroasiatiche e soprattutto non vi era alcuna sistematica riflessione teorica sul ruolo che la regione potesse occupare nel sistema internazionale in quanto non se ne vedeva la necessità: l’ordine nella regione era garantito da Mosca e l’input delle élite regionali nel definire questo ordine pareva minimo. L’implosione dello stato sovietico e la conseguente indipendenza delle cinque repubbliche centroasiatiche hanno rimesso in discussione non solo questa certezza, ma anche l’importanza strategica della regione. Nei primi anni Novanta, come detto precedentemente, il consolidamento statuale e dell’identità nazionale costituivano le priorità delle élite centroasiatiche. Per le potenze esterne alla regione, oltre al consolidamento della statualità delle cinque repubbliche (che avrebbe evitato irredentismo e secessionismo), l’accesso alle risorse energetiche (petrolio e gas naturale) rappresentava la principale ragione per allacciare rapporti con gli attori regionali. Verso la fine degli anni Novanta apparve inconfutabile che la minaccia posta dal radicalismo islamico avrebbe occupato un ruolo centrale nelle relazioni tra le repubbliche post-sovietiche e ogni altro attore che avrebbe voluto interagire con loro. A livello geografico l’Asia Centrale comprende una porzione significativa della massa eurasiatica, che racchiude non solo le cinque repubbliche post-sovietiche di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan, ma anche la Mongolia, il Xinjiang e l’Afghanistan. I problemi sorgono quando si cerca di definire la regione a livello politico. La regione era nota come “Asia di mezzo e Kazakistan” (srednyaya Aziya i Kazakhstan) in epoca sovietica in quanto le autorità sovietiche differenziavano tra la parte meridionale della regione, marcatamente distinta a livello geografico e culturale dalla Russia, e il Kazakistan, più simile – o meno dissimile, almeno nelle regioni settentrionali alle zone della Siberia centrale. E’ solo in epoca post-sovietica che i leader delle cinque repubbliche resero noto che la categoria “Asia centrale” avrebbe sostituito quella precedente e che ne avrebbero fatto parte le cinque repubbliche di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan.109 109 Matteo Fumagalli, La dimensione strategica dell’ Asia centrale tra Russia, Cina e USA, ISPI, Working Paper.

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Per gran parte degli anni Novanta per gli Stati Uniti, la Russia e la Cina (come pure per l’Unione Europea) le repubbliche centroasiatiche sono state percepite come «un collettaneo di “stan” non proprio degni di nota». L’Asia Centrale, quindi, costituisce un’area in cui si intrecciano interessi geopolitici, per la posizione strategica di questi stati nell’Eurasia e geoeconomici in quanto la regione è ricca, come detto, di petrolio e gas naturali. Tali fattori hanno portato, dopo la dissoluzione dell’URSS, a una competizione tra gli attori esterni per esercitare la propria influenza. Gli attori interessati a questa regione sono molteplici. Gli USA, che in seguito alla guerra in Afghanistan sono divenuti una presenza stabile nella regione. La Russia, che considera questi stati come il suo “estero vicino”, e che intende continuare ad esercitare la propria influenza sull’area che resta ancora legata ad essa per quanto riguarda le infrastrutture e le reti di collegamento. La Cina, che ha bisogno delle risorse energetiche dell’area e che vede nella presenza americana una minaccia per la propria sicurezza. Vanno poi menzionati due potenti attori regionali, la Turchia e l’Iran, con forti aspirazioni sulla regione. Entrambe sembrano consapevoli di poter assurgere a modello, seppur in termini diversi: la prima una repubblica laica e moderna, la seconda una repubblica islamica.

Gli interessi degli USA nel contesto centroasiatico

Per gli Stati Uniti, all’indomani della disgregazione dell’Unione Sovietica, si aprirono immense possibilità geostrategiche all’interno della regione centroasiatica. Due considerazioni vennero da subito fatte, e cioè la regione in questione era indubbiamente troppo distante per poter esercitare un predominio ma allo stesso tempo, troppo importante per potersene tenere fuori.110La Russia era troppo debole per riconquistare un predominio imperiale o quanto meno escludere le altre potenze dalla regione, ma allo stesso tempo la sua posizione era strategicamente rilevante per poter essere estromessa. La Turchia e l’Iran erano attori estremamente rilevanti per non poter esercitare una loro influenza, e ognuno legato culturalmente con le regioni centroasiatiche. La Cina si ritrovava a ricoprire una posizione estremamente potente già allora per non poter essere temuta dalla Russia e dagli Stati dell’Asia Centrale, ma contemporaneamente il suo dinamismo economico poteva facilitare la ricerca di una maggiore proiezione internazionale da parte degli stessi Stati. Una volta tracciato questo quadro politico, fu quasi gioco forza che per gli USA l’interesse primario fosse rappresentato dall’assicurarsi che nessuna singola potenza potesse predominare all’interno di questo spazio geopolitico e che la comunità internazionale potesse avere libero accesso economico e finanziario nella regione.111 Una data fondamentale è sicuramente l’11 settembre 2001, non che la successiva guerra al terrorismo condotta dall’amministrazione Bush, questo perché la politica estera USA ha maggiormente focalizzato l’attenzione sulla regione centroasiatica. La politica di avvicinamento a questa regione è iniziata però lungo tutti gli anni Novanta, mediante interventi sia sul piano bilaterale che su quello multilaterale, ad esempio includendo alcuni dei recenti stati indipendenti centroasiatici nella Parteneship for Peace della NATO112, o

110 Zbigniev Brezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi & Co, Milano, 1998, p. 199. 111 Zbigniev Brezinski, op cit. p. 199. 112Il Parteneship for Peace venne istituito nel 1994 per consolidare i rapporti tra i 16 membri occidentali dell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) e gli stati dell'Europa centrale e orientale, in particolare quelli che aderivano al patto di Varsavia, sciolto nel 1991. Conclusa

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attraverso l’inserimento nella zona di responsabilità del Comando Centrale statunitense, CENTCOM. Bush padre si interessò da subito a questa regione dopo il crollo dell’URSS, ma è vero che l’interesse reale è nato solo dopo le grandi esplorazioni di petrolio e gas nel 1993 e del 1994. Chi delineò una politica completa, non limitata cioè al solo sfruttamento delle risorse energetiche, fu l’amministrazione Clinton (1996-2000), questo perché si capì che lo sfruttamento delle risorse non poteva che essere condizionato da una stabilità politica nella regione. Il presidente Bill Clinton fu il primo ad estendere la Dottrina Carter, dichiarando che il flusso di petrolio e di gas dal mar Caspio all’occidente era una priorità per la sicurezza degli Stati Uniti. Per questo motivo strinse rapporti militari con i governi di Azerbaigian, della Georgia, del Kazakistan e dell’Uzbekistan.113 Significativo fu il “Silk Road Strategy Act” (Documento strategico per la Via della Seta) del 1999, nel quale venivano delineati gli interessi primari per gli Stati Uniti all’interno del Centro Asia. Questi erano orientati su tre settori: il settore della sicurezza, quindi combattere il terrorismo, il narcotraffico, la corruzione, la proliferazione delle armi, lo smantellamento dell’arsenale nucleare degli ex territori sovietici e cercare fondamentalmente di rendere quanto più stabile la regione. Il settore energetico, incoraggiando economicamente l’estrazione e i progetti di trasporto degli idrocarburi presenti nella regione verso il mercato mondiale, facendo così in modo di sostenere la crescita economica di questi paesi e di vedere realizzate le proprie esigenze di diversificazione delle fonti e di approvvigionamento delle risorse energetiche. Ultimo settore era quello di cercare di promuovere le riforme interne nei paesi centroasiatici sia dal punto di vista politico , ad esempio mediante la promozione di istituzioni politiche democratiche a al rispetto dei diritti umani, sia dal punto di vista economico, con la liberalizzazione dell’economia, promuovendo la cooperazione regionale. Per capire quanto la zona centroasiatica divenne di estrema importanza per gli Stati Uniti, si può prendere in considerazione il fatto che nel 1998-1999, il Pentagono rivide le aree di responsabilità dei comandi americani, il globo venne diviso quindi in “aree di responsabilità” e cioè: il Grande Medio Oriente (Vicino Oriente, Paesi del Golfo, Iran, Pakistan, Afghanistan e Corno d’Africa) venne diviso in due comandi, il Comando Centrale da cui il termine CENTCOM, e l’EUCOM, il Comando Europa per il Maghreb. Esattamente il primo ottobre 1999, le cinque repubbliche passarono dalla giurisdizione dell’EUCOM a quella del CENTCOM. Questo significava che esse da quel momento non sarebbero più state considerate di competenza dello spazio post-sovietico, ma sarebbero entrate nelle zone più strategiche per gli Stati Uniti.114In seguito agli avvenimenti dell’11 settembre indubbiamente il coinvolgimento americano nell’Asia centrale muta radicalmente. Se dunque fino alla guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti erano ancora assenti sul piano delle strutture di controllo

la Guerra Fredda in seguito al crollo del blocco orientale, la NATO creò, come forum di discussione, il Consiglio di cooperazione nord-atlantico (North Atlantic Cooperation Council, NACC), trasformato nel 1997 in Consiglio di partenariato euro-atlantico (Euro-Atlantic Partnership Council, EAPC). Nell'ambito del NACC nacque il programma Partnership for Peace (PFP), con lo scopo di favorire lo sviluppo di più strette relazioni tra i paesi che vi aderivano e la NATO, in vista di un allargamento di quest'ultima. I partecipanti al PFP si impegnano ad astenersi dall'uso della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica degli altri stati, a rispettare i confini esistenti e a risolvere le controversie con mezzi pacifici. Il Partenariato per la pace implica la condivisione con la NATO di informazioni concernenti la difesa e la sicurezza, il controllo democratico sulle forze armate e la partecipazione a missioni di pace. La NATO si impegna a condurre attività di addestramento ed esercitazioni congiunte. Enciclopedia Encarta. 113 Michael T. Klare, Potere Nero, Internazionale, 9/15 febbraio 2007, p. 22. 114 Alessandro Colombo, La sfida americana, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 82.

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permanenti, e il coinvolgimento era fondamentalmente legato ad accordi di sostegno militare, economico e diplomatico, la guerra contro i talebani muta profondamente il quadro strategico. Infatti l’operazione militare in Afghanistan ha permesso, principalmente all’Uzbekistan, ma anche alle altre repubbliche, di portare avanti tutta una serie di fruttuose collaborazioni. L’Uzbekistan, dopo due visite compiute il 7 ottobre e il 4 novembre 2001 dall’allora segretario americano alla Difesa Donald Rumsfeld a Tashkent, firma un accordo che prevedeva lo stanziamento di un numero limitato di truppe americane nel paese uzbeko, lo scambio di intelligence tra i due paesi e l’utilizzo dello spazio aereo uzbeko da parte degli americani. Non solo, ma è stata anche costruita a sud della città di Karshi la prima base militare americana su suolo della ex-Unione Sovietica. Il caso dell’interesse statunitense per l’Uzbekistan è abbastanza particolare, questo paese infatti non è considerato dagli americani strategico, e non sarebbe concepito come baluardo contro l’influenza di potenze quali l’Iran, la Cina, o la Russia. L’Uzbekistan sarebbe piuttosto visto come un paese nel quale la sicurezza dovrebbe essere rafforzata per impedire lo sviluppo e la diffusione del terrorismo.115 Nel 2002, i due paesi si accordarono per una cooperazione in campo politico e umanitario, una maggiore assistenza economica non che militare. Vennero versati dagli USA 160 milioni di dollari di aiuti all’Uzbekistan per il loro sostegno alle operazioni militari in Afghanistan, aiuti destinati al finanziamento di progetti economici comuni.116 Il presidente uzbeko ottenne inoltre che l’IMU ( Islamic Movement of Uzbekistan), passasse ufficialmente come un’organizzazione terroristica e venisse inserita nella lista nera di Washington.117 Il governo del Kazakistan è considerato un importante alleato USA nella guerra al terrorismo. Dopo l’11 settembre 2001, il governo kazako ha infatti appoggiato la campagna contro il terrorismo e la guerra in Afghanistan degli Stati Uniti. Il paese kazaco ha messo a disposizione il proprio spazio aereo e concesso altre agevolazioni alle truppe americane, ricevendo dagli Stati Uniti un aiuto fondamentale per lo sviluppo del settore energetico interno, nel tentativo di far accedere nella pipeline Baku-Tblisi-Ceyan il petrolio estratto dal suolo kazaco. Un paese per cui gli avvenimenti post 11 settembre sono diventati la chiave di volta per uscire dall’isolamento internazionale è il Tagikistan. Pur non disponendo di grandi possibilità di manovre politico-militari per il forte rapporto che lo lega alla Russia (che continua ad avere proprie truppe dislocate nel paese), ha fornito un importante aiuto alle truppe americane. Il presidente Rakhmanov, infatti, autorizzò gli Stati Uniti a stanziare le proprie truppe nel paese, e permise l’utilizzo della base di Khujand, Kurgan-Tyube e Kulyab, la più vicina al confine con l’Afghanistan. Con il paese afghano, il Tagikistan è legato da profonde radici etno-linguistiche e, inoltre, i rapporti tra il governo tagiko e quello di Karzai sono molto buoni, visto i legami stretti nel passato con l’Alleanza del Nord. Il paese tagiko è molto interessato alle vicende afghane anche per le implicazioni derivanti dal flusso di rifugiati provenienti da questo paese e per la stabilità del suo confine meridionale. Dal supporto fornito agli americani, il paese ha cercato di ottenere giovamento sia in campo economico, che in termini di sicurezza Il Kirghizistan fu la prima delle cinque repubbliche ad autorizzare il sorvolo del proprio paese alle forze americane e alleate. Infatti nel dicembre 2001 concesse l’uso dell’aeroporto di Menas (il quale rappresenta di fatto la migliore base per condurre operazioni in Asia centrale), nella campagna contro i Talebani, non solo per fini umanitari ma anche come supporto ai combattimenti, inoltre nel paese è presente un contingente di 115 Alessandro Colombo, op cit. p. 91. 116 Alessandro Colombo, op cit. p. 86. 117 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche, 2005. [www.equilibri.net].

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duemila soldati americani. Il paese ha visto quindi cambiare in modo considerevole il proprio rapporto con l’Occidente. Infatti oltre ai proventi derivanti dall’uso dell’aeroporto (per un totale di 40 milioni di dollari l’anno), è stata prevista anche una maggiore assistenza in campo militare che permetta al paese di avere truppe addestrate, per una maggiore stabilità e sicurezza nel controllo dei suoi confini territoriali. Il Kirghizistan ha ricevuto nel 2002 dagli americani 92 milioni di dollari di aiuti (per la maggior parte militari) e per il 2003 il raddoppio degli aiuti economici di Washington a Bishkek.118 Un caso a parte è invece rappresentato dal Turkmenistan, infatti il governo ha espresso il proprio stato di neutralità, e di fatto i rapporti con gli Stati Uniti a livello di cooperazione sono stati minimi. Nonostante questo però, è stato concesso il sorvolo dello spazio aereo per le operazioni in Afghanistan solo per scopi umanitari.

(Fonte: Country Analysis Briefs: http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/Kazakhstan/Full.html)

Il ruolo della Cina

L’interesse della Cina per l’Asia Centrale è in costante crescita sin dai primi giorni dell’indipendenza delle repubbliche ex sovietiche della regione. Alle considerazioni di sicurezza nazionale che predominavano all’inizio degli anni Novanta si è aggiunta una crescente componente economica legata allo sviluppo delle regioni interne della Cina e alla strategia di diversificazione degli approvvigionamenti energetici. Nel quadro di questa strategia l’Asia Centrale occupa un posto sempre più importante, sia per le sue risorse interne che quale piattaforma continentale in direzione dell’Iran e del Golfo. La regione centroasiatica offre indubbiamente tutta una serie di notevoli opportunità alla Cina per poter espandere la propria influenza. La Cina ha tutti gli elementi per potersi porre come modello per i paesi dell’Asia Centrale, e grazie alla sua impressionante crescita economica aspira a ricoprire il ruolo di attore fondamentale all’interno della scena centroasiatica ponendosi come partner dei paesi della regione, offrendo in modo particolare tecnologia e prodotti di consumo, cercando così di ottenere in cambio risorse energetiche e materie prime. L’importanza dell’Asia Centrale per la Cina era già presente sin dagli inizi degli anni Novanta, in 118 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net].

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modo particolare nel momento in cui venne portata avanti come linea politica strategica “appoggiarsi al Nord, stabilizzare l’Ovest, e concentrare gli sforzi sull’Est e sul Sud”119. Fu il tentativo di cooperazione con il Kazakistan e il Kirghizistan a legare inizialmente la Cina ai paesi centro asiatici, il tentativo era quello di stabilizzare la provincia nordoccidentale dello Xinjang, abitata per la maggior parte da uiguri kazaki e kirghizi, provincia che aspira alla secessione.120 La Cina temeva quelle che

119 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net]. 120 Il problema degli iuguri ha origine nel 1759, in seguito alle guerre che portarono alla scomparsa del regime dei kho¯ ja nel Turkestan Orientale (1678-1759), per avere poi uno stallo tra l’emirato indipendente di Ya‘qûb Beg in Kasgharia (1864-1877) ed il 1884, quando la regione venne ribattezzata Xinjiang («Nuovo Territorio»). Tuttavia, solo con l’annessione della regione alla Repubblica Popolare si è determinato un flusso migratorio costante. Dopo l’annessione della Repubblica Islamica del Turkestan Orientale (1944-49) da parte della Repubblica Popolare Cinese (1°ottobre 1949), la variazione demografica nel Xinjiang iniziò a essere in costante mutamento in favore dell’etnia cinese Han. Nel periodo 1949-85 gli immigrati han inviati in Xinjiang erano per lo più soldati dei bingtuan. Dal 1985 ad oggi, gli han sono diventati la seconda etnia del Xinjiang, soppiantando così l’etnia kazaka. Negli anni gli insediamenti dei bingtuan, destinati a costruire impianti per l’irrigazione del terreno, hanno costituito la testa di ponte per la nuova immigrazione. Oggi infatti, dopo decenni di vita isolata, gli han immigrati in Xinjiang hanno sviluppato una propria identità, distinta da quella degli altri han, visti come minaccia al lavoro svolto in più di cinquant’anni. Il nuovo flusso migratorio (1985-2001) ha visto passare gli han dal 6,1% del 1953 al 37,6% del 1990, contro un calo generale delle minoranze. Ad esempio gli uiguri, considerati la minoranza più rappresentativa, sono passati nello stesso lasso di tempo dal 74,7% al 47,5% della popolazione totale di quasi 16 milioni. Ad Urümqi, la capitale provinciale, nel solo biennio 1998-2001 gli han sono passati dal 75% al 95% della popolazione. Questa situazione quindi ha portato gli uiguri, i kazaki e altre popolazioni a sentirsi come «stranieri nella propria terra». L’immissione di forza lavoro dalle regioni interne della Cina è stato dunque il principale strumento usato da Pechino per l’assimilazione delle minoranze o, nei termini della propaganda governativa, per creare una «madrepatria» senza distinzioni etniche e sociali. Ma nonostante gli sforzi di Pechino per acculturare le minoranze islamiche della regione, gli stessi uiguri che vivono e lavorano nelle grandi città, nonostante parlino cinese e desiderino essere equiparati ai loro colleghi cinesi, ritengono ancora oggi inconcepibile il matrimonio con una donna han. In questo processo di assimilazione Pechino ha un prezioso alleato; gli hui o dungani (han musulmani), popolazione di origine mista turco-persiana e cinese del Gansu, che per secoli ha svolto i ruolo di tramite culturale tra il governo centrale e le popolazioni turco-islamiche. Questa doppia identità rende gli hui mal visti sia agli han che alle popolazioni turche del Xinjiang. Gli uiguri in particolare non hanno dimenticato l’invasione della prima repubblica turco-islamica del Turkestan Orientale (1933-36) da parte delle truppe hui del signore della guerra del Gansu, Ma Zhongying. Oggi gli hui, nonostante siano i principali sostenitori di un «islam di Stato», sono vittime insieme alle altre minoranze islamiche della campagna per «l’apertura dell’Occidente». La discriminazione economica e sociale prodotta dall’immigrazione han colpisce gli interessi della popolazione locale. La principale posta in gioco nel Xinjiang è rappresentata dallo sfruttamento incontrollato delle immense risorse naturali (gas, petrolio e acqua) del Bacino del Tarim, ma rimangono questioni fondamentali anche il degrado ambientale provocato dagli esperimenti nucleari nella regione di Lop Nor, non che l’assimilazione culturale condotta non solo attraverso la già citata immigrazione e la segregazione culturale, ma anche per mezzo della rilettura sinocentrica della storia e della riproposizione in chiave folcloristica della vita degli abitanti originari della regione, che gli abitanti del Turkestan Orientale, soprattutto gli uiguri, chiamano da millenni «la nostra terra, il nostro territorio». Con la conversione all’islam, il termine «uiguro» scomparve, per essere sostituito tra il XVI e il XVIII secolo da definizioni quali sart (in persiano sârt vuol dire «mercante», «carovaniere») o taranchi (termine turco chagataico indicante i contadini delle oasi del Bacino del Tarim, trasferiti nella Valle dell’Ili sotto il regno dell’imperatore Qianlong). Il termine venne riutilizzato solo a partire dal 1933, quando il governatore nazionalista Sheng Shicai (1933-44), su consiglio del diplomatico sovietico Garegin Apresov, volle designare gli abitanti del Bacino del Tarim, basandosi sulle stesse formule storico-linguistiche adottate da Lenin per definire i popoli dell’Asia centrale negli anni Venti. Il termine però apparve per la prima volta su un documento ufficiale durante una riunione dei rappresentanti degli uiguri a Tashkent nel 1921. Fino ad allora e per molto tempo ancora dopo quella data, la popolazione della regione (esclusi i nomadi kazaki e kirghisi e le altre minoranze) si auto identificava in base alla città o all’oasi di provenienza. Coloro che si battono per uno Stato indipendente nel Turkestan Orientale si dividono in diversi gruppi e

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sarebbero potute essere le conseguenze di una destabilizzazione del centro Asia, ragion per cui essa accettò lo status quo venutosi a creare nella regione e cercando quanto più possibile di aumentare la propria influenza attraverso strumenti economici. Lo strumento economico permetteva alla Cina non solo di soddisfare i propri interessi relativi alla sicurezza ma allo stesso tempo poteva portare avanti l’approvvigionamento delle materie prime, fondamentali per la propria crescita economica.121L’intesa con il Kazakistan, in termini sia economici che strategici, si è rafforzata sin dai primi giorni dell’indipendenza della repubblica. Lo sviluppo della linea cinese viene visto dal Kazakistan come una delle priorità della propria politica estera. Dal 2002 i due vicini sono legati da un accordo d’amicizia e cooperazione il cui contenuto è stato rafforzato in una dichiarazione sul «partenariato strategico» firmata dai presidenti Nazarbaev e Hu Jintao alla vigilia dell’ultimo vertice dell’OCS ad Astana. Attualmente la Cina ha sottoscritto patti di tale livello solo con la Russia. Da notare come la collaborazione sino-kazaka in materia di sicurezza sia quasi totale, caratterizzata da un dialogo costante e da un elevato grado di cooperazione fra le strutture di sicurezza dei due paesi.122 In modo diretto, la Cina intervenne all’interno della regione centroasiatica mediante la creazione del così detto “Gruppo di Shanghai”, creazione questa che sarebbe dovuta servire, nelle intenzioni di Pechino, per la discussione delle delimitazioni dei confini territoriali e la promozione del commercio regionale. Al Gruppo di Shanghai aderirono, oltre la Cina, la Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan. L’11 settembre e la successiva operazione in Afghanistan da parte americana ha comportato, come visto in precedenza, un profondo cambiamento negli equilibri dello scenario in questione, non fosse altro che ne è derivato un coinvolgimento e una presenza diretta della potenza statunitense sul suolo centroasiatico, percepito quindi come una possibile minaccia dalla Cina. La Cina ufficialmente ha accettato la presenza americana cercando il più possibile di limitare i motivi di attrito con gli USA, ma allo stesso tempo ha portato avanti un’intensa serie di rapporti con i paesi del Gruppo di Shanghai, al quale si è unito con una dichiarazione di esplicita collaborazione anche l’Uzbekistan. Con l’ingresso dell’Uzbekistan il Gruppo di Shanghai si è trasformato nello SCO ( Shanghai

movimenti. Tra le varie versioni dell’indipendentismo turkestano se ne possono distinguere almeno quattro, talvolta presenti nello stesso movimento: panturchismo, panislamismo, autonomismo e assimilazionismo. Il panturchismo ed il panislamismo sono tornati fare proseliti in tutto il Turkestan in seguito al crollo dell’Unione Sovietica.. Autonomismo e assimilazionismo rappresentano una risposta locale all’aggressione politica, economica e culturale messa in atto dal governo di Pechino. L’autonomismo è la visione più diffusa tra la cosiddetta «maggioranza silenziosa», ossia coloro che non hanno i mezzi economici o culturali per potersi contrapporre al dominio sociale e culturale esercitato dagli han. Vicini a questa corrente sono gli oppositori più o meno passivi, soprattutto giovani universitari, che con atti provocatori verso le autorità cercano di coinvolgere proprio la «maggioranza silenziosa» in proteste su larga scala.. Un’ulteriore distinzione va fatta tra i gruppi che conducono una lotta armata che bisogna dire, rappresentano un’esigua minoranza e quelli che si battono invece per una soluzione pacifica. Sebbene il fine delle organizzazioni uigure sia il più delle volte la separazione del Turkestan Orientale dalla Cina, negli ultimi quindici anni, ossia dall’insurrezione di Baren (5 aprile 1990) all’attentato di Osh in Kirghizistan (8 maggio 2003), solo di rado gli attivisti uiguri sono ricorsi alla violenza per affermare questo principio. Da indagini condotte dal Dipartimento di Stato americano e dal Centro di studi internazionali di Shanghai oggi sappiamo che vi sono diversi gruppi armati che operano sia nel Xinjiang che negli Stati confinanti, soprattutto in Kazakistan e in Kirghizistan. I due movimenti terroristici considerati tra i più rappresentativi della lotta armata contro il governo di Pechino sono lo East Turkestan Islamic Movement e la Eastern Turkestan Liberation Organization. Federico De Renzi, Il sogno del Turkestan orientale, Limes, volume 4, 2005. 121 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net]. 122 Fabrizio Vielmini, La Cina in Asia Centrale, un’opportunità anche per Teheran, Limes, 2005, vol.5.

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Cooperation Organization), esattamente nel gennaio del 2002 con una riunione tenutasi a Pechino. Venne così a formarsi una vera e propria struttura per la sicurezza regionale, concentrata ad esempio nella lotta contro il terrorismo, infatti nel 2003 venne costituito a Shangai un centro per l' anti-terrorismo e durante il summit SCO tenutosi a Tashkent, in Uzbekistan, dal 16 al 17 luglio 2004, si pervenne ad un accordo per l' istituzione di una Struttura Regionale per l' Anti-terrorismo (RATS, Regional Anti-Terrorism Structure). La presenza americana ha dunque mutato le strategie cinesi all’interno dell’Asia Centrale, ma allo stesso tempo, pur mantenendo un certo grado di preoccupazione, la presenza americana ha permesso in qualche modo una certa cooperazione tra le due potenze. Infatti appoggiare la guerra in Afghanistan venne visto dal governo cinese come una possibilità di ottenere delle concessioni da parte di Washington per la risoluzione di alcuni problemi preminenti per Pechino, come ad esempio un possibile supporto per combattere i separatisti uiguri, infatti nel 2002, prima gli Stati Uniti e successivamente l’ONU, hanno inserito il movimento islamico del Turkestan orientale (Xin Jiang) nella lista delle organizzazioni legate ad Al Qaida.123Il crescente sviluppo economico cinese determina un continuo incremento della domanda di energia. La Cina non ha problemi di approvvigionamento per la sua principale fonte energetica, il carbone124, mentre invece è crescente la domanda cinese di petrolio e, in misura minore di gas, sui mercati internazionali. La richiesta energetica cinese sta crescendo rapidamente contemporaneamente all’incredibile crescita economica. La Cina è la terza importatrice di petrolio più grande del mondo dietro agli Stati Uniti e al Giappone. Strategia di approvvigionamento della Cina per quanto concerne le risorse energetiche, è la diversificazione dei fornitori, Medio Oriente, Russia, Asia centrale, Africa, America latina e Asia Sud-Orientale.125 Non solo, ma bisogna anche considerare che la Cina ha la necessità di espandere la sua capacità di raffinazione di 350 mila b/g per supportare la crescente domanda interna e allo stesso tempo adattare i suoi impianti di raffinazione in funzione degli standard europei per la produzione di carburanti. Mentre a breve inizierà la costruzione della raffineria di Jinling, sono solo sei gli altri progetti in cantiere per il 2010, due dei quali joint ventures con Saudi Aramco e Kuwait National Petroleum Company (KNPC). Con la prima, già nel 2005, è stata inaugurato un campo di estrazione di 160 mila b/g a Fujian, comprensivo di un impianto di raffinazione operativo solo da quest’anno. Nel 2006 la KNPC e la SINOPEC hanno costruito un impianto di raffinazione, con capacità di 250 mila b/g, nella provincia del Guangdong, annunciando per il 2010 la prima produzione.126 Le

123 Angelo Rinella, Cina, il Mulino, Bologna, 2006, p. 153. 124 In Cina, la principale fonte energetica è il carbone, tramite il quale sono ottenuti oltre i due terzi dell’energia complessivamente consumata dal paese. La Cina, che è il primo consumatore di carbone al mondo, ne è anche il primo produttore e possiede riserve tali da assicurarne la disponibilità ancora per quasi sessant’anni. La Cina non ha dunque problemi di approvvigionamento per quanto riguarda il carbone. Il consumo cinese continuerà a crescere, anche se è probabile che l’incidenza per-centuale del carbone sui consumi energetici totali cali un poco. Il governo sta operando una certa apertura del settore, che impiega almeno 6 milioni di lavoratori, agli investimenti esteri: servono nuove tecnologie, quali la gassificazione e la liquefazione, capaci di realizzare un uso più efficiente e meno inquinante di questa risorsa. L’impatto inquinante è centrale, perché il carbone è stato negli ultimi decenni il principale responsabile del grave deterioramento dell’ambiente in Cina. E’ inoltre necessario razionalizzare la politica dei prezzi (sul carbone vengono ancora applicati prezzi che non sono di mer-cato) e adeguare le infrastrutture, soprattutto ferroviarie, necessarie alla distribuzione. Marco Rossi, La Cina alla ricerca della sicurezza energetica, 2005, ISPI,Policy Brief. 125 Energy Information Administration. [http://www.eia.doe.gov/]. 126Domenico Guglielmi, Energia: lo scenario globale del petrolio fino al 2030, 2007. [www.equilibri.net].

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maggiori compagnie petrolifere cinesi sono tre: CNPC (China National Petroleum Company), Sinopec e CNOOC (China National Offshore Oil Corporation) che gestisce l'esplorazione e l'estrazione in offshore. Tutte e tre le compagnie sono società in cui lo stato detiene la maggioranza dei capitali. Per legge le compagnie cinesi devono mantenere sempre la maggioranza dei capitali in qualsiasi scoperta effettuata sul territorio cinese. Eccezioni sono previste soltanto per giacimenti situati in zone remote del paese e, quindi, di difficile esplorazione. CNPC e Sinopec in passato erano specializzate la prima nel settore upstream (esplorazione, estrazione e produzione) la seconda nel downstream (raffinamento e distribuzione), mentre attualmente svolgono entrambe un servizio integrato e operano in zone diverse del paese. I progetti della CNPC sono localizzati nel nord del paese in particolare nella zona di Daqing mentre quelli della Sinopec nel sud, nella zona di Shengli. Il reddito lordo di Sinopec ammontava nel 2005 a 8 miliardi di dollari con un netto di 5 miliardi di dollari. CNPC è una delle maggiori produttrici di petrolio al mondo con un fatturato lordo di 16,6 miliardi di dollari (9,3 miliardi il reddito netto) nel 2004. Concentrando l’attenzione sulla regione centroasiatica, si può notare come la Cina e le sue compagnie petrolifere, abbiano raggiunto tutta una serie di intese bilaterali relative alla ricerca, alla produzione e all’acquisto di idrocarburi con le rispettive controparti politiche e societarie in paesi come l’Uzbekistan e il Kazakhstan.127 La CNPC, ad esempio possiede nella regione kazaka la PetroKazakhstan, la maggiore compagnia petrolifera del paese. Mentre la Sinopec è la maggiore compagnia di raffinazione in Asia.128 Le tre maggiori compagnie cinesi possiedono numerosi progetti di estrazione oltremare. La sola CNPC ha progetti in 21 paesi del mondo. Il più significativo è stato nel 2005 l'acquisto per 4,18 miliardi di dollari della compagnia canadese PetroKazakhstan (il 33% della quale è stato successivamente venduto al governo kazako per ottenerne il favore), tramite il quale la compagnia ha acquisito circa 11 campi di estrazione e ha avviato la costruzione di un oleodotto tra il Kazakistan e la Cina diventato operativo nel luglio del 2006. Nella stessa area ha costituito nel 2005 un consorzio insieme alla Petronas, alla russa LUKoil, alla compagnia nazionale coreana e alla società statale dell'Uzbekistan per l'esplorazione della zona del lago Aral. 129

Kazakhstan – China Pipeline Route

127 Marco Rossi, La Cina alla ricerca della sicurezza energetica, 2005, ISPI, Policy Brief. 128 [http://it.transnationale.org/]. 129 Elena Zuliani, Asia: uno sguardo al settore degli idrocarburi, 2007. [www.equilibri.net].

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(Fonte: Country Analysis Briefs: http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/Kazakhstan/Full.html)

Gli interessi della Russia

La Russia rappresenta, per quanto concerne le relazioni con la regione centroasiatica, un caso molto particolare. Infatti, come noto, sino al 1991 le cinque repubbliche facevano parte dell’URSS, la leadership in questa zona è considerata una questione di sicurezza internazionale per Mosca. Di fatto la presenza russa in centro Asia è particolarmente visibile sia da un punto di vista militare che economico. Le stesse repubbliche vedono in Mosca una presenza fondamentale che rappresenta un fattore di stabilità e allo stesso tempo uno strumento per un accesso ad un mercato maggiormente integrato.130 Sicuramente la Russia ha cercato di mantenere la sua presenza all’interno della regione, cercando di impedire la penetrazione di attori esterni, ma è anche vero che fatta eccezione per il Tagikistan, le altre repubbliche hanno percorso delle strade che le hanno da subito portate a volersi sottrarre da una pressione e ad un controllo troppo forte da parte di Mosca. Ad esempio il Turkmenistan non ha accettato il permanere dell’influenza russa, scegliendo piuttosto un auto-isolamento, o l’Uzbekistan il quale come visto precedentemente mira a ricoprire una posizione predominante all’interno del contesto centroasiatico. Si noti pure l’atteggiamento del Kirghizistan con le sue aperture a diversi attori internazionali, come gli USA. La reazione di Mosca è ovviamente di aperta preocupazione, in quanto queste politiche da parte delle repubbliche centroasiatiche sono viste come dei tentativi di ridurre la propria influenza. Discorso a parte merita il Kazakistan, il quale porta avanti con Mosca un rapporto che potrebbe essere definito “preferenziale”. Il Kazakistan condivide con la Russia un estesissima linea di confine 130 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net].

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e all’interno i russi rappresentano il 30% del totale dell’intera popolazione. Tra le varie relazioni estere intrattenute dal Kazakistan, Mosca sembra essere quella preferita. In modo particolare con la Russia di Putin, i rapporti si sono fatti più stretti, al punto da diventare Mosca, l’asse principale della politica estera kazaka, sia per motivazioni di sicurezza nazionale, sia perché fondamentalmente costituisce il principale partner commerciale: infatti se il ruolo giocato dal Kazakistan agli occhi della Russia assume importanza essendo le risorse energetiche e minerarie di cui questo paese dispone, una grossa fonte di approvvigionamento per l’apparato industriale e commerciale russo, anche la Russia ha un ruolo importantissimo per Astana, visto che a causa della posizione geografica svantaggiata, non ha attualmente altre vie di trasporto per la propria produzione petrolifera che non siano quelle russe.131 Entra qui in gioco un importante strumento di geopolitica che la Russia può utilizzare a proprio vantaggio e cioè il controllo delle infrastrutture di gasdotti e di oleodotti che collegano tutte le ex repubbliche sovietiche alla Russia stessa e quest’ultima al resto del mondo. Infatti il sistema di idrocarburi della vecchia Unione Sovietica era stato costruito per essere gestito dal centro, cioè da Mosca, ed ora è appannaggio delle due società russe sotto controllo governativo: Transneft (petrolio) e Gazprom (gas). Grazie a tale sistema di gasdotti e oleodotti, Mosca può condizionare i flussi di energia a tutta la CIS (Comunità di Stati Indipendenti costituita nel 1992). Non solo, ma esiste un’intensa cooperazione industriale dettata fondamentalmente dalla necessità di sviluppare le risorse, le infrastrutture e la tecnologia, ad esempio per quanto concerne il settore minerario le attrezzature utilizzate sono tutte di origine russa. Nei maggiori campi petroliferi del Kazakistan occidentale si utilizzano impianti di trivellazione costruiti in Russia, e sempre in Russia vengono lavorati i prodotti agricoli coltivati nella regione kazaka.132 Mentre i rapporti con l’Occidente e soprattutto con gli Stati Uniti si basano per lo più sulle questioni della sicurezza e dell’estremismo islamico; i rapporti con la Russia hanno preminente carattere economico e sono in particolare incentrati sulla questione energetica. Molte società petrolifere russe sono diventate importanti, anzi principali investitori nella regione. In una visita al Kazakistan del 3 ottobre 2006, il Presidente russo Vladimir Putin sottolineò la necessità di sviluppare le relazioni bilaterali tra i due Stati definendo prioritarie le aree dell’industria agricola, del settore del carburante e dell’energia.133 La Russia oggi tenta di proporsi come centro del transito delle produzioni petrolifere centroasiatiche. Questo obiettivo, insieme all’aumento della produzione petrolifera della regione, ha fatto sì che il paese cercasse di disporre di un sistema di trasporto più completo, così infatti alla pipeline che dalla città kazaca di Atyrau terminava a Samara, in Russia, già esistente ai tempi dell’Unione Sovietica, con una capacità di 240.000 b/g ed una lunghezza pari a 432 miglia, si è arrivati ad un accordo con il Kazakistan nel 2002 per la durata di 15 anni, il quale prevede il trasporto di ulteriori 350.000 b/g di greggio lungo la rotta Baku-Novorossiysk, che si va ad aggiungere all’altra rotta nord-occidentale, la nuova pipeline Tengiz-Novorrossiysk gestita dal Caspian Pipeline Consortium (CPC). Il primo di questi oleodotti, conosciuto anche come la “rotta del nord”, parte dalla capitale azera Baku e passando per gli snodi di Grozny e Tikhorestsk, giunge al terminal russo sul Mar Nero, il porto di Novorossiysk. Quest’oleodotto funzionante dal 1997, ha una capacità di 100.000 b/g, per una lunghezza di 868 miglia. Questa pipeline attraversa l’instabile territorio ceceno, e proprio il fattore sicurezza, non che le dispute sulle tariffe di transito, hanno 131 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net]. 132 Sergej Golunov, La frontiera più lunga del mondo, LIMES, 2004, Volume 6, pp. 220- 221. 133 Sara Schintu, Kazakhstan: sviluppo verso Occidente. [www.equilibri.net].

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permesso che solamente il 40 % della capacità dell’oleodotto fosse sfruttato, preferendo il trasporto su ferro dai campi azeri attraverso la città di Stavrpol e il Daghestan, anch’esso per altro instabile, oltrepassando così il territorio ceceno. La soluzione trovata, però, risultava antieconomica, e il seguito del conflitto ceceno, i continui danneggiamenti della pipeline, hanno portato ad una decisione diversa: Transneft, industria monopolista russa per gli oleodotti, ha scelto di risolvere la situazione modificando la pipeline attraverso la costruzione di una bretella che passa per il Daghestan della portata di 120.000 b/g. Esistono però dei limiti oggettivi, economici e tecnologici, che non consentono alla Russia di poter competere per un posto da protagonista assoluto con gli stati occidentali in quello che è il settore energetico134. Anche all’interno di questa analisi, l’11 settembre 2001 deve essere preso in considerazione quale nuovo punto di partenza storico, che ha segnato un radicale mutamento negli equilibri e nelle strategie della Russia. Con la guerra in Afghanistan da parte degli Stati Uniti la Russia ha dovuto accettare la presenza americana nell’area centroasiatica, che ha portato ad una conseguente collaborazione nella lotta al terrorismo mediante lo scambio di informazioni d’intelligence non che del permesso di sorvolo del territorio russo per motivi esclusivamente umanitari e contributi alle operazioni di polizia internazionale. L’11 settembre ha permesso che per la prima volta dopo la Seconda Guerra mondiale, Russia, Stati Uniti ed Europa collaborassero di comune accordo per raggiungere interessi vitali quale ad esempio la sicurezza. Per diverse ragioni, storiche e geografiche, la Russia è risultata essere importante non solo per la guerra in Afghanistan ma anche per altre operazioni di identificazione ed eliminazione di cellule terroristiche appartenenti ad Al-Qaeda sparse per il mondo.135 Questa linea politica ha permesso d’altra parte a Putin di portare avanti la propria guerra indiscriminata contro la Cecenia, formalmente contro il terrorismo, con maggiore durezza e in totale violazione dei diritti umani. Non solo benefici politici ma anche economici sono stati ottenuti dal governo russo con il loro affiancamento agli Stati Uniti, ad esempio le compagnie petrolifere russe hanno ottenuto il permesso di poter partecipare al progetto dell’oleodotto Baku-Ceyhan, partecipazione che in precedenza era stata contestata e ostacolata.136 Così come la Cina, anche la Russia ha cercato quindi di ottenere il massimo beneficio possibile dalla collaborazione con Washington, sia per le proprie questioni interne, fondamentalmente la lotta ai movimenti secessionisti, che per questioni economiche. Nonostante ciò, il timore che l’influenza americana in Centro Asia aumenti, resta una preoccupazione reale per Mosca.

L’Iran e la Turchia

Uno dei motivi dell’interesse da parte dell’Iran per la regione centroasiatica nasce dalla particolare posizione geografica ricoperta da questo paese, e cioè tra il mar Caspio e il Golfo Persico, ma anche dalla possibilità di fornire la propria collaborazione dal punto di vista dell’assistenza delle infrastrutture e ai sistemi di trasporti agli stati centroasiatici, i quali, come già detto, pur essendo ricchi di risorse energetiche non hanno accesso diretto ai mercati internazionali. Per questi motivi, la 134 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net]. 135 Musa Khan Jalalzai, The Pipeline War in Afghanistan, Sang-E.Meel Publicationes, Lahore, 2003, p. 63. 136 Giuseppe Bottiglieri, Asia centrale: le risorse energetiche. [www.equilibri.net].

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maggior parte delle politiche iraniane verso questa regione, sono state di carattere prettamente economico e commerciale, con riguardo al settore energetico. L’Iran tende a considerarsi da lungo tempo come il vicino più importante dell’Asia Centrale e del Caucaso. I suoi interessi strategici in questa regione sono fondamentalmente orientati a sviluppare buoni rapporti politici e commerciali con i paesi dell’area, specialmente con il Turkmenistan, il Kazakistan, il Tagikistan e l’Armenia, proteggere il libero accesso alle risorse energetiche e favorire lo sviluppo delle relative industrie sulla base della collaborazione fra aziende estere e nazionali. Altro interesse fondamentale è quello di tessere rapporti che contribuiscano a rompere il suo isolamento internazionale, dovuto secondo Teheran all’egemonia mondiale degli Stati Uniti, non che mantenere stretti legami con la Russia. Teheran mantiene un duplice atteggiamento verso le ex repubbliche sovietiche, dettato da un lato da motivazioni di ordine economico, dall’altro da preoccupazioni di sicurezza. Entrambi entrano in gioco in alcuni conflitti regionali come quello relativo al Mar Caspio. L’approccio economico è stato predominante durante la presidenza di Akbar Hashemi Rafsanjani (1989-1997) L’Iran ha cercato nel tempo di sviluppare i suoi rapporti economici e sociali con i paesi vicini e proprio in virtù delle buone relazioni storiche, culturali e persino individuali con i loro leader è riuscito a rafforzare i legami con i nuovi Stati indipendenti dell’ex Unione Sovietica, favorendo il loro ingresso in organizzazioni internazionali quali l’Onu, la Conferenza islamica, il Movimento dei non allineati. L’Iran ha perseguito attivamente i propri interessi energetici in Asia Centrale e nel Caucaso. Area strategica per il transito del gas e del petrolio del Mar Caspio verso l’Estremo Oriente e l’Asia meridionale, infatti questo paese possiede terminal di smistamento tecnicamente molto avanzati, una forza lavoro qualificata e un’ampia rete di condotte che può essere facilmente raggiunta dall’Azerbaigian, dal Turkmenistan o dal Kazakistan. Le sanzioni degli Stati Uniti hanno impedito però all’Iran di svolgere un ruolo nell’esportazione di gas e petrolio del Caspio. L’Iran è ben attrezzato per trasportare il petrolio e il gas provenienti dal Caucaso e dall’Asia Centrale ed è tra le altre cose a sua volta un consumatore di questi prodotti. L’Iran ha svolto un tentativo di pacificazione anche nel caso del sanguinoso conflitto fra il governo del Tagikistan e i gruppi d’opposizione islamici e nazionalisti, non solo evitando di schierarsi con questi ultimi, ma adoperandosi come mediatore tra i due campi contrapposti. Nell’agosto del 1995, il presidente in carica, Imamali Rahmanov, e Abdollah Nouri, leader del Movimento islamico di questo paese. vennero invitati a Teheran dove firmarono, alla presenza del presidente iraniano Rafsanjani, un accordo volto a superare pacificamente le loro divergenze. Decisero poi di estendere la tregua concordata sempre a Teheran un anno prima, e di istituire un organismo consultivo per facilitare graduali intese. Nel corso del processo di pace, l’Iran e la Russia sono stati i due paesi che più d’ogni altro hanno cercato di fungere da mediatori e garanti degli accordi, assumendo una posizione equidistante. Teheran ha contribuito a preparare la Dichiarazione di Mosca del 27 giugno 1997, l’accordo generale per l’instaurazione della pace, l’accordo nazionale e il protocollo d’intesa reciproca fra il presidente del Tagikistan e il fronte unito dell’opposizione, firmati tutti nello stesso momento. I leader iraniani hanno generalmente mantenuto rapporti amichevoli con entrambe le parti in conflitto nel corso degli anni Novanta. Il governo di Teheran non ha mai sostenuto ufficialmente l’ambizione di creare uno Stato islamico nutrita dai fondamentalisti tagiki, ma li ha spinti piuttosto a trovare una soluzione pacifica alla guerra civile. Anche se, nel 1991-92, ha appoggiato l’opposizione tagika e ne ha ospitato i leader dal 1993 al 1998. Ma in generale è possibile sostenere che la sua politica è stata quella di mantenere buone relazioni con la Russia, cercando insieme ad

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essa di prevenire un più ampio coinvolgimento dei taliban afghani, del Pakistan e dell’Arabia Saudita nello scontro in atto in Tagikistan. Sia Mosca che Teheran hanno tentato tra l’altro di ridurre al minimo l’influenza esercitata dagli Stati Uniti e dalla Turchia nella regione, tenendo entrambi a distanza dai negoziati fra le parti in conflitto. L’Iran è stato uno dei principali attori non che sostenitori del processo di pace svolgendo un ruolo di osservatore ufficiale. E ha ospitato il secondo, il sesto e l’ottavo vertice diplomatico, un incontro consultivo e due incontri fra Rahmanov e Nouri . Teheran ha stretto legami nella regione mediante la fornitura di aiuti umanitari, ha assistito alla costruzione di oleodotti, ferrovie e linee elettriche che collegano l’Armenia e il Turkmenistan con le reti iraniane. Ha inoltre investito ingenti somme per la realizzazione di una linea ferroviaria fra Mashhad e la vecchia rete sovietica del Turkmenistan. L’Iran ha incoraggiato anche il trasporto su strada di beni provenienti dall’India, dal Sud-Est asiatico e dagli Stati del Golfo, diretti verso l’Asia centrale, insieme alle sue esportazioni e a quelle della Turchia. Bisogna inoltre prendere in considerazione come Teheran abbia facilitato inoltre l’ingresso degli Stati dell’Asia Centrale e dell’Azerbaigian nell’Organizzazione per la cooperazione economica (OCE), nonostante le pressioni esercitate dalla Russia per mantenerli sotto la sua influenza. L’OCE persegue obiettivi quali l’intensificazione degli scambi commerciali fra gli Stati membri, la promozione dello sviluppo economico e la partecipazione attiva al mercato internazionale . Oltre a intessere rapporti bilaterali, la Repubblica Islamica ha avviato anche molte iniziative regionali volte a rafforzare il suo prestigio come guida del mondo musulmano e principale interlocutrice esterna delle repubbliche ex sovietiche. L’OCE è stata creata nel 1985 da Iran, Pakistan e Turchia per sviluppare la cooperazione economica, tecnologica e culturale fra i paesi membri. In questo contesto ha giocato un ruolo fondamentale la posizione della Turchia, la quale già dal 1992 ha iniziato a nutrire un grande interesse nei confronti dell’Asia Centrale, tentando di assumere un ruolo sempre più attivo facendosi forza delle comuni origini culturali e linguistiche, infatti sono di ceppo turco le lingue parlate dagli azeri, dai tatari, dai bashkiri, kazaki, uzbeki, kirgizi, turkmeni e dagli jacuti della Siberia non che dagli uiguri della Cina Occidentale. Dal 1994 infatti Ankara ha portato avanti un tipo di politica prudente rispetto in modo particolare a quelle che sono le posizioni della Russia, in quanto questa rimane il suo principale mercato nell’ambito della CSI. La Turchia ha quindi privilegiato lo sviluppo degli interessi commerciali con il sostegno degli Stati Uniti. Ma nonostante questo, la Turchia ricopre un ruolo importante nei confronti delle amministrazioni delle cinque repubbliche centroasiatiche, che vedono nel paese turco un modello laico di paese musulmano, sia come una porta di accesso verso l’Europa.137 Un fattore di non poca importanza è come la politica estera turca sia stata ridefinita all’indomani dell’indipendenza dei paesi centroasiatici. Prima dell’indipendenza di questi paesi infatti la politica estera turca ruotava intorno all’Europa, alla NATO e agli USA, approfittando della propria posizione geografica, altamente strategica. Nel 1991, Ankara fu la prima a riconoscere prima l’Azerbaigian e poi in blocco tutte le ex Repubbliche sovietiche. Ankara negli ultimi anni ha moltiplicato i suoi istituti di cultura e portato avanti diverse iniziative culturali nei paesi centro asiatici. Obbiettivo principale della Turchia è fondamentalmente quello di svolgere un ruolo di primo piano nello sfruttamento delle risorse petrolifere presenti nella regione centroasiatica. Anche per questo motivo la guerra in Afghanistan è stata un’occasione importante per ricoprire un ruolo all’interno degli equilibri dell’Asia Centrale, infatti la Turchia offrì

137 Stanislao de Marsanich, Politica Internazionale in Asia Centrale, Occidente, 2002, p. 42.

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un corpo di peacekeepers di 3 mila uomini da affiancare agli Stati Uniti nelle operazioni belliche con l’obbiettivo di ricoprire un ruolo di primo piano nella successiva fase di stabilizzazione del paese. Dunque una politica fatta di collaborazioni economiche e culturali, rappresentanze, dichiarazioni e trattati di amicizia e soprattutto attraverso importanti accordi riguardanti l’estrazione e lo smistamento delle risorse energetiche. Per la Turchia una stabile presenza militare ed economica nella regione a fianco dei paesi occidentali alleati, potrebbe di fatto essere utilizzata per intensificare le relazioni con i paesi dell’area centroasiatica, soprattutto attraverso la realizzazione ed il mantenimento delle vie di transito in cui far passare gli oleodotti e i gasdotti per le riserve di petrolio e di gas, non che per dare sostegno agli sforzi regionali e internazionali nel cercare di trovare soluzioni politiche alle controversie presenti nella regione.138

(Fonte: www.eia.doe.gov)

138 Stanislao de Marsanich, op cit, p. 44.

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(Fonte:www.eia.doe.gov.)

(Fonte:www.eia.doe.gov)

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Capitolo sesto

Il ruolo dell’Italia

La situazione energetica italiana

L’Italia si posiziona agli ultimi posti nella scala dell’autosufficienza energetica, prendendo in considerazione i 7 Stati membri dell’Unione Europea che hanno una popolazione superiore ai 15 milioni di abitanti e all’ultimo posto nella scala di dipendenza dagli idrocarburi: viene importato l’85% del proprio fabbisogno energetico rispetto ad esempio al 50% circa della media dell’Unione. Per quanto riguarda la dipendenza energetica dalle importazioni la situazione italiana si avvicina a quella della Spagna, la quale è decisamente migliore quanto a diversificazione energetica, in quanto produce 14 milioni di tep con l’elettronucleare; la Polonia gode di una situazione migliore dell’Italia grazie ad esempio a una produzione di carbone che nel 2004 è stata di circa 70 milioni di tep, per non parlare del divario esistente tra la nostra situazione e quella dei Paesi Bassi che sono esportatori di gas naturale e hanno anche una presenza nel nucleare. Inoltre, l’Italia dispone di una diversificazione energetica particolarmente squilibrata, in quanto sin dagli anni ’70 ha scelto di privilegiare l’utilizzo degli idrocarburi che nel 2004, su un consumo energetico per fonti primarie di 196,5 milioni di tep, pesa per ben 154,5 milioni di tep, rappresentando circa il 78% dell’intero consumo energetico nazionale. Una prima conseguenza negativa di questo squilibrio si nota nel momento in cui si è in presenza di una crescita considerevole delle quotazioni internazionali del petrolio che si ripercuote con impatto pesante sulla bolletta energetica nazionale e frena lo sviluppo. Gli effetti negativi potrebbero ad esempio essere particolarmente problematici per l’Italia se si dovesse fronteggiare una crisi energetica mondiale con taglio o sospensione di alcune forniture di petrolio o di gas naturale. L’Italia ha importato nell’anno 2004 circa 87 milioni di tonnellate di petrolio: dall’Africa il 37%, con prevalenza dalla Libia (circa 22 milioni di tonnellate); dal Medio Oriente il 31% (con prevalenza dall’Arabia Saudita, circa 12 milioni di tonnellate e dall’Iran, circa 10 milioni di tonnellate); dalla Russia il 22%, con circa 20 milioni di tonnellate e il 4% dal Mare del Nord. La produzione nazionale copre solo il 6%. Per quanto concerne il gas naturale, l’approvvigionamento italiano nel 2004 è stato di circa 80 miliardi di metri cubi, di cui il 32% provenienti dall’Algeria, il 29% dalla Russia, il 10% dai Paesi Bassi, il 6% dalla Norvegia, il 7% da altri Paesi.139 La produzione nazionale ha coperto il 16%, ma purtroppo è in costante declino negli ultimi anni. Per fronteggiare questa situazione i rimedi cui dovrebbe far ricorso la politica energetica italiana sono quelli indicati ad esempio dal “Libro Verde, Verso una strategia europea di sicurezza dell’approvvigionamento energetico140” e dall’ulteriore “Libro Verde, Una strategia europea per un’energia sostenibile, competitiva e sicura141”, premettendo però che i rimedi indicati dall’Unione Europea dovrebbero essere messi in atto dall’Italia in maniera totale e rapidamente. Ad esempio andrebbero attuate tutte le possibili misure

139 Fabrizio Bastianelli, La politica energetica dell’Unione Europea e la situazione dell’Italia, Rapporto SIOI 2005. 140 Libro verde della Commissione del 29 novembre 2000, "Verso una strategia europea di sicurezza dell'approvvigionamento energetico”. [http://europa.eu/scadplus/leg/it/lvb/l27037.htm]. 141 Libro verde della Commissione, dell'8 marzo 2006, "Una strategia europea per un'energia sostenibile, competitiva e sicura”. [http://europa.eu/scadplus/leg/it/lvb/l27062.htm].

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indicate dall’Unione nei due Libri Verdi riguardo all’efficienza e al risparmio, puntando sul risparmio energetico negli edifici, il cui consumo attualmente incide circa per il 22% sul consumo globale, nell’illuminazione, agendo sul settore dei trasporti, il cui consumo incide circa per il 23% sul consumo globale, rilanciando la ferrovia e in particolare l’alta velocità, promuovere nelle città l’uso di auto più efficienti, meno inquinanti e privilegiando anche i “trasporti collettivi”, col dare un forte impulso al trasporto marittimo, particolarmente indicato per la conformazione geografica, peninsulare ed insulare, del nostro Paese, ricorrere ai biocarburanti e ai carburanti sintetici di alta qualità e prestazioni, Bisognerebbe inoltre sviluppare le energie rinnovabili puntando sull’eolico, sui termovalorizzatori che dovrebbero sostituire le discariche di rifiuti domestici, sul solare, sulla biomassa. La politica energetica italiana dovrebbe orientare la domanda per modificare i comportamenti degli utenti, sensibilizzandoli e responsabilizzandoli nelle scelte, finalizzate ad un minor consumo con effetti positivi sulla tutela dell’ambiente.142 Indubbiamente nel contesto di crescente domanda di idrocarburi e crescente concorrenza per le loro forniture, l’Italia rischia di essere particolarmente svantaggiata. Questo perché come già detto, a seguito della rinuncia al nucleare e a causa dello scarso utilizzo del carbone per la generazione elettrica, la diversificazione energetica italiana si è progressivamente sbilanciata verso il gas: oggi l’Italia è il paese che, in proporzione, utilizza più gas per il proprio fabbisogno energetico rispetto a tutti gli altri paesi europei.143Anche da un punto di vista economico una scelta del genere si rivela estremamente penalizzante. La tendenza a un utilizzo estensivo del gas è già in atto anche in molti altri paesi europei, come conseguenza delle preoccupazioni sul cambiamento climatico e dei processi di liberalizzazione in corso. Il problema è che a causa dell’esaurimento dei giacimenti europei, l’aumento dell’utilizzo del gas in Europa, comporterà inevitabilmente anche un aumento della dipendenza energetica continentale dai paesi produttori come Russia e Algeria in primo luogo. L’Italia già oggi importa praticamente l’intero quantitativo di carbone che utilizza, senza considerare una percentuale molto rilevante di petrolio e gas. La situazione è destinata a peggiorare: si stima che già a partire dal 2025 il nostro Paese importerà praticamente l’intero quantitativo di fonti primarie destinate a soddisfare il proprio fabbisogno144.

L’Italia nella regione centroasiatica

La produzione italiana la quale è significativamente presente nei settori dei beni di consumo, dei beni intermedi, dei macchinari e delle costruzioni ad esempio attrezzature e materiali edili come piastrelle, articoli igienico-sanitari, si colloca nella fascia medio-alta del mercato kazako. Nel 2005 le esportazioni dell’Italia in Kazakistan sono state pari a 678,7 milioni di dollari, con un incremento del 59,2% rispetto al 2004 che ha portato la quota di mercato italiana dal 3,3 al 3,9%.145 I settori che presentano maggiori opportunità di crescita commerciale continuano a

142 Fabrizio Bastianelli, La politica energetica dell’Unione Europea e la situazione dell’Italia, Rapporto SIOI 2005. 143http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Temi_Globali/Energia/Situazi_Italiana.htm. (Ministero degli Affari Esteri Italiano). 144 http://www.esteri.it/MAE/IT/Politica_Estera/Temi_Globali/Energia/Situazi_Italiana.htm. (Ministero degli Affari Esteri Italiano). 145 Dati dell’ambasciata italiana in Kazakistan.

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essere quelli dei prodotti alimentari, forniture per mobili, calzature e abbigliamento, articoli da regalo, oggettistica per la casa, gioielleria, attrezzature edili. Per quanto riguarda le esportazioni del Kazakistan in Italia, nel 2005 esse sono ammontate complessivamente a 4.190,5 milioni di dollari, segnando un aumento del 34,7% rispetto al 2004. Le principali voci che le compongono continuano a essere le materie prime, in particolare petrolio e gas condensato, rame e derivati, metalli per fusione e pellami. Gli investimenti dell’Italia in Kazakistan, che nel 2004, con un volume di 313 milioni di dollari, l’hanno collocata al quarto posto dopo Stati Uniti, Olanda e Gran Bretagna, continuano a essere molto significativi nel settore petrolifero e, seppure in misura minore, in quello delle costruzioni. Quanto al primo, si segnala in particolare la presenza dell’ENI, di cui verrà detto in seguito. Quanto invece al settore delle costruzioni, è rilevante soprattutto la presenza di Renco e Italcementi, mentre risultano ancora assenti investimenti diretti italiani in altri comparti dell’economia. Sotto il profilo istituzionale, lo sviluppo della collaborazione economica fra Italia e Kazakistan viene promosso fondamentalmente dal Gruppo di Lavoro intergovernativo per gli scambi e la cooperazione economica e industriale. Come presenze permanenti in loco, invece, va menzionata la Sezione Commerciale dell’Ambasciata d’Italia ad Astana e l’Ufficio dell’Istituto Nazionale per il Commercio Estero (ICE) ad Almaty, particolarmente attivo nell’organizzazione di iniziative di sostegno e promozione in quello che, nonostante il trasferimento della capitale da Almaty ad Astana, rimane uno dei principali poli economici e finanziari del Paese.146 Per quanto concerne l’Uzbekistan l’interscambio commerciale con l’Italia è in lenta ascesa, favorito dall’interesse che l’Uzbekistan manifesta riguardo ai macchinari, alla tecnologia ed alle apparecchiature che servono alle imprese uzbeke per implementare il piano governativo di sostituzione delle importazioni. L’interesse per i beni italiani è infatti manifestato soprattutto nel settore delle macchine per l’industria tessile.147 Importante è il contributo offerto dal comparto tessile-abbigliamento, pelletteria e calzaturiero Per quanto concerne gli investimenti diretti italiani in loco, essi sono modestissimi, in quanto non esistono ancora in Uzbekistan delle condizioni economiche e giuridiche favorevoli atte a permettere investimenti da parte degli operatori nazionali.

L’ENI in Kazakistan

L’Eni è presente in Kazakistan sin dal 1992 e opera in questo settore attraverso due importanti iniziative: la prima è lo sviluppo di un’area offshore nel Mar Caspio, nella quale si trova il campo di Kashagan, la più importante scoperta petrolifera al mondo degli ultimi trenta anni, e il secondo è lo sviluppo del campo onshore di Karachaganak. Nel 2006, la produzione di idrocarburi in quota Eni in Kazakistan è stata di 103 mila barili di greggio. L’Eni è operatore unico e detiene una partecipazione del 18,52% nel Consorzio titolare del North Caspian Sea Production Sharing Agreement che ha come obiettivo la ricerca, lo sviluppo e la messa in produzione degli idrocarburi in un’area offshore, nella parte nord del Mar Caspio, dove è stato scoperto oltre al campo di Kashagan, i campi di Kashagan South West, Kalamkas, Aktote e Kairan. Per le attività operative Eni ha costituito l’Agip Kazakistan North Caspian Operating Company, (Agip KCO), che agisce per conto del Consorzio. Lo sviluppo del campo prevede la perforazione di circa 280 pozzi e la

146 Dati dell’ambasciata italiana in Kazakistan. 147 Dati dell’ambasciata italiana in Uzbekistan.

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costruzione di piattaforme di produzione e di isole artificiali.148 Il petrolio e parte del gas naturale prodotto saranno inviati attraverso due condotte separate all’impianto di trattamento di West Eskene, nelle vicinanze di Atyrau. Per quanto concerne l’esportazione della produzione verso i mercati internazionali vi sono una serie di opzioni tra cui l’utilizzo dell’oleodotto del Caspian Pipeline Consortium (CPC) che collega Tenghiz e Atyrau, in Kazakistan, al terminale russo di Novorossiysk, sul Mar Nero e dell’oleodotto Atyrau-Samara; la realizzazione di un nuovo sistema di trasporto destinato a collegare l’impianto di Eskene a Kuryk, sul Mar Caspio, per poi raggiungere l’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan (BTC)149,

(Fonte:www.eia.gov) entrato in funzione nel 2006 (Eni detiene il 5%, corrispondente al diritto di trasporto fino a 2,5 milioni di tonnellate/anno); la realizzazione dell’oleodotto Samsun-Ceyhan che consentirà di trasportare il petrolio dall’area del Caspio a Ceyhan sul Mediterraneo. I lavori per l’oleodotto Samsun-Ceyhan sono stati avviati nell’aprile 2007 dal consorzio Trans Anadolu Pipeline Company (TAPCO), il quale è 148 Dati e informazioni reperibili nel sito internet dell’ENI. [http://www.eni.it/home/home.var]. 149 Eni è entrata nel Consorzio BTC a negoziazione completata (con una quota del 5% acquistata dalla compagnia azera Socar) e, pur non avendo responsabilità nella costruzione e gestione dell’oleodotto né proprio personale coinvolto nel progetto, quale partner sensibile, si è fatta carico di sottoporre all’operatore BP una serie di raccomandazioni volte a garantire lo svolgimento delle operazioni secondo le migliori pratiche e standard internazionali e il massimo rispetto dei diritti delle comunità interessate, nel quadro delle legislazioni nazionali vigenti e delle convenzioni internazionali. Il contesto legale di riferimento per il progetto è quello previsto per i progetti di infrastrutture che attraversano più paesi. Nella conduzione delle attività i gestori del progetto sono impegnati ad assicurare le migliori pratiche per minimizzare gli impatti sociali e ambientali. Ciò è stato finora realizzato con l’adozione di vari strumenti – tra questi, studi impatto, piani di emergenza, attività di monitoraggio e mitigazione e l‘attivazione di un processo di consultazione con i principali stakeholder per illustrare i programmi di sviluppo per le comunità. Nel maggio 2003 l’operatore BP e i tre governi interessati, proprio per rispondere a una serie di perplessità avanzate da associazioni umanitarie e ambientaliste, hanno siglato uno “Joint Statement” che ribadisce l’impegno a rispettare i codici di condotta internazionali e i più elevati standard in materia di ambiente e condizioni di lavoro. A seguito di un impegno contenuto nello Joint Statement, nel luglio 2003, le parti hanno sottoscritto un Protocollo nel quale si impegnano a cooperare per garantire la protezione dell’oleodotto e scambiare informazioni in materia di security. Ribadiscono inoltre il rispetto dei principi in materia di ditti umani, integrando nel contesto locale che regolamenta il progetto anche i Voluntary Principles on Security and Human Rights, sottoscritti congiuntamente nel 2000 dai Governi britannico e statunitense, ONG e alcune importanti compagnie del settore estrattivo. [http://www.eni.it/home/home.var].

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attualmente costituito in parti uguali dall’Eni e dalla società turca Çalik Enerji. Nell’ambito del programma di valutazione delle scoperte nell’Area contrattuale del North Caspian Sea PSA, nel 2006 si è conclusa con successo la perforazione del primo pozzo della struttura di Kairan (Kairan 2) e del secondo pozzo della struttura di Kalamkas (Kalamkas3). Eni è cooperatore e detiene una quota di partecipazione del 32,5% nel Consorzio denominato Karachaganak Petroleum Operating (KPO), il quale ha sviluppato e messo in produzione il campo di petrolio, condensati e gas naturale di Karachaganak, ubicato nel Kazakistan nord-occidentale. Il campo di Karachaganak ha prodotto nel 2006 circa 340.000 barili di greggio al giorno, di cui circa 103.000 in quota Eni. Circa due terzi della produzione è stabilizzata presso il centro di trattamento di petrolio Karachaganak Processing Complex (KPC), entrato in funzione nel 2003, con una capacità di circa 150 mila barili/giorno di petrolio. Per l’evacuazione del petrolio e dei liquidi del gas naturale il Consorzio ha realizzato un oleodotto di circa 640 chilometri, tra Karachaganak e Atyrau, sul Mar Caspio, dove si collega con l’oleodotto CPC. L’esportazione del petrolio e dei condensati verso i mercati occidentali avviene principalmente attraverso il CPC e il resto tramite l’oleodotto Atyrau-Samara, entrato in funzione nel luglio 2006. Il condensato rimanente non stabilizzato è commercializzato presso il terminale russo di Orenburg. Nel giugno 2007 è stato firmato il Gas Sale Agreement (GSA) tra il consorzio KPO e la joint venture KazRosGaz, formata da KazMunaiGaz e Gazprom. Il Gas Sale Agreement prevede il conferimento da parte del KPO, a partire dal 2012, di circa 16 miliardi di metri cubi all’anno di gas grezzo, da raffinare successivamente presso l’impianto di Orenburg. L’accordo segna un’ulteriore tappa nello sviluppo del giacimento Karachaganak, creando le condizioni per l’avvio della "Fase 3" del progetto, che consentirà al consorzio, di cui Eni è cooperatore, lo sfruttamento di oltre 2 miliardi di barili di olio.150 L’Italia e la cooperazione allo sviluppo in Asia Centrale Nell'esperienza storica, la cooperazione italiana si è sviluppata a partire dagli anni Cinquanta con una serie di interventi di assistenza messi in atto in paesi legati all'Italia da precedenti vincoli coloniali. Successivamente l'Italia ha avviato un'attività di cooperazione più sistematica intesa a contribuire agli sforzi internazionali volti ad alleviare la povertà nel mondo e aiutare i Paesi in via di sviluppo a rafforzare le rispettive istituzioni. Più di recente le nuove emergenze hanno conferito alla cooperazione un ruolo sempre più fondamentale nella politica estera italiana, in armonia con gli interventi per il mantenimento della pace e la gestione dei flussi migratori. Come detto in precedenza, l’Italia porta avanti tutta una serie di rapporti economici nella zona centroasiatica, rapporti nei settori più disparati, ma con una particolare attenzione al settore energetico. Ciò che invece ora si vuole cercare di mettere in evidenza, è il ruolo dell’Italia all’interno dei progetti di cooperazione allo sviluppo all’interno delle regioni centroasiatiche e capire quale sia il ruolo del governo italiano per quanto concerne il problema delle risorse idriche in Asia Centrale. A livello generale l’Italia, tramite la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri151, porta avanti tutta una 150 Dati e informazioni reperibili nel sito internet dell’ENI. [http://www.eni.it/home/home.var]. 151 La Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri (DGCS) è l’organo preposto ad attuare tale politica, in attuazione della legge n.49/87. La DGCS programma, elabora ed applica gli indirizzi della politica di cooperazione e le politiche di settore tra cui sanità, ambiente e sviluppo imprenditoria locale. Attua iniziative e progetti nei Paesi in via di sviluppo,

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serie di iniziative in diverse parti del mondo. Per quanto concerne la cooperazione bilaterale, le priorità geografiche dell’Italia sono concentrate principalmente sul continente africano, con particolare riguardo all’Africa sub-sahariana, così come segnalato nella Relazione Previsionale e Programmatica del 2007.152 Secondo tale analisi proprio l’Africa è l’area del pianeta nella quale la lotta alla povertà è più necessaria. Accanto al continente africano, l’azione italiana si concentrerà nel 2007 in Paesi nei quali sono stati recentemente assunti importanti impegni internazionali, come l’Afghanistan ed il Libano, nonché in aree nelle quali la presenza dell’Italia ha radici profonde, quali l’America Latina ed il Medio Oriente e il Mediterraneo.153 La Legge Finanziaria prevede per il 2007 un aumento delle risorse del Ministero degli Esteri da destinarsi ad iniziative di cooperazione, sia bilaterale sia multilaterale, pari a più del 65% dei fondi inizialmente previsti, cioè da 382 si passa infatti a 650 milioni di Euro. Inoltre, sono da ricordare le altre risorse per iniziative di cooperazione ricollegabili alla voce intitolata “missioni di pace” in cui è ragionevole prevedere come fondamentale il ruolo della cooperazione civile e sociale nei processi di ricostruzione di Paesi che abbiano subito devastazioni causate da disastri naturali o da conflitti. I settori prioritari d’intervento della Cooperazione Italiana saranno quelli dell’ambiente e beni comuni con particolare attenzione allo sviluppo rurale, all’agricoltura biologica o convenzionale, alla ricerca di fonti alternative e rinnovabili, le politiche di genere ed in particolare l’empowerment delle donne accanto al tradizionale intervento sulla salute e sull’educazione. Per quanto concerne la cooperazione italiana in Asia Centrale, attualmente non esistono dei progetti diretti nelle regioni centroasiatiche e in particolare in quelle zone colpite da problemi relativi alle risorse idriche. Mentre ad esempio nel 2004 l’Italia è stata presente in Tagikistan con due progetti gestiti rispettivamente da una ONG (COOPI)154 e dall’UNDP. Il primo progetto era teso al miglioramento delle condizioni idriche e sociosanitarie con un importo complessivo di 774.308,65 euro. Mentre il secondo progetto riguardava la riabilitazione e formazione professionale per le vittime delle mine e degli ordigni di guerra inesplosi con un importo complessivo di 70.000 euro.155Sempre in Tagikistan nel corso del 2005, il Governo italiano ha continuato a finanziare il programma “Miglioramento delle condizioni idriche e socio-sanitarie nella regione di Kathlon”, promosso, come già detto, dall’ONG COOPI. Sono anche da segnalare i contributi italiani a livello regionale erogati nel 2005 a favore dell’UNODC (per un totale di 800.000 euro); e i finanziamenti stanziati a favore del CARICC (Central Asian Regional Information and Coordination Centre), il cui ambito di intervento comprende, oltre all’Uzbekistan, anche il Tagikistan. Tali contributi sono diretti alla

effettua interventi di emergenza e fornisce aiuti alimentari. Gestisce la cooperazione finanziaria e il sostegno all’imprenditoria privata e alla bilancia dei pagamenti dei Pvs. La Direzione Generale è competente anche per i rapporti con le Organizzazioni Internazionali che operano nel settore, e con l’Unione Europea, con le quali collabora finanziariamente ed operativamente per la realizzazione di specifici programmi. Cura, infine, i rapporti con le Organizzazioni non governative ed il volontariato. Promuove e realizza la cooperazione universitaria anche attraverso la formazione e la concessione di borse di studio in favore di cittadini provenienti dai Pvs. Ministero Affari Esteri. 152 Relazione Previsionale e programmatica della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. [http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/Pubblicazioni/intro.html]. 153 Relazione Previsionale e programmatica della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo. [http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/Pubblicazioni/intro.html]. 154 Cooperazione Internazionale è un'organizzazione non governativa italiana laica e indipendente fondata nel 1965. [www.coopi.org]. 155 Relazione del 2004 al Parlamento della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.

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lotta al traffico di sostanze stupefacenti. 156Come analizzato in precedenza, uno dei problemi principali in Asia Centrale è sicuramente quello legato alle risorse idriche. Il ruolo dell’Italia da questo punto di vista potrebbe sicuramente essere maggiore, un ruolo diretto e non solo mediante un appoggio dato alle diverse ONG. Indubbiamente la risoluzione dei problemi legati all’acqua in Asia Centrale non può assolutamente prescindere da quello che deve essere un vasto programma di riforme politiche e sociali interne alle singole repubbliche. In più, come già esposto in precedenza, dovrebbe essere sviluppato e portato a pieno regime un certo grado di cooperazione regionale per poter finanziare ad esempio la costruzione di nuove infrastrutture che andrebbero a sostituire quelle ormai decrepite. L’Italia potrebbe promuovere ad esempio progetti atti alla riparazione e all’ammodernamento dei sistemi di irrigazione ormai obsoleti, facendo così in modo di ridurre il consumo e lo spreco d’acqua. Per quanto concerne il disastro del lago d’Aral sarebbero indispensabili tutta una serie di aiuti economici destinati a quelle famiglie la cui economia in passato era basata sulla produzione ittica e che oggi a causa del prosciugamento delle acque è scomparsa. Un piano d’assistenza sanitaria rivolto ai bambini che vivono nelle zone limitrofe il lago e che continuano ad ammalarsi a ritmi sempre crescenti. Ad esempio attualmente è fondamentale la presenza, la sola, di Medici senza Frontiere la quale attraverso il programma DOTS cerca di combattere la tubercolosi in molte regioni dell'Uzbekistan. MSF sta attualmente trasferendo il controllo del trattamento al Ministero della Sanità. Nell'ambito del programma di cura della tubercolosi, nel 2002 MSF ha lanciato un progetto pilota nella città di Nukus e nel distretto di Chimbay per trattare la tubercolosi multiresistente. MSF sta inoltre conducendo una ricerca sulla zona del lago d'Aral; l'obiettivo è di favorire una migliore comprensione della relazione tra l'ambiente degradato della zona del lago d'Aral e la salute umana e lavorare in favore di un cambiamento di politica e di interventi da parte del governo e degli attori internazionali. Durante l'ultimo anno, MSF si è inoltre occupata dei fabbisogni degli sfollati attraverso distribuzioni alimentari alle famiglie più vulnerabili al centro di insediamento di Istiqol fino al maggio 2003.

156 Relazione del 2005 al Parlamento della Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.

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Conclusioni

Come è emerso dall’analisi fin qui compiuta, l’Asia Centrale ricopre oggi all’interno degli equilibri internazionali, una posizione estremamente importante, conseguenza di tutta una serie di motivi legati a fattori economici oltre che politici: esiste a tutti gli effetti una commistione di fattori geopolitici e geoeconomici che vanno a creare una serie di relazioni internazionali intessute dai vari governi occidentali e non, con i paesi dell’area. La regione, infatti, possiede risorse tali da non poter essere trascurata, soprattutto in un’epoca in cui la domanda energetica va crescendo in maniera sempre più rapida, anche per il venire alla ribalta di nuovi attori politici ed economici come la Cina e l’India. Inoltre, queste risorse rappresentano anche la possibilità di differenziare l’approvvigionamento energetico da parte dei paesi occidentali, e diminuire la propria dipendenza dalle risorse mediorientali, necessità che si impone vista la situazione sempre più incerta di questa parte di mondo, soprattutto dopo l’intervento americano in Iraq. Conseguentemente, i principali attori internazionali pongono l’Asia Centrale tra le prerogative della loro politica estera ed energetica, portando avanti tutta una serie di intese e accordi bilaterali. Problema di primaria importanza è sicuramente quello legato alle risorse idriche. L’acqua sta divenendo un bene sempre più scarso, e se non è ragionevole pensare che in un prossimo futuro possano scoppiare dei conflitti aventi come oggetto unico la risorsa idrica, essa tutt’ora può però costituire un fattore chiave all’interno dei rapporti tra le cinque repubbliche centroasiatiche non che motivo estremamente rilevante all’interno di conflitti locali. La carenza idrica, infatti, limita fortemente la crescita economica e non permette lo sviluppo di quelle zone rurali che maggiormente si trovano in situazioni di miseria. La risoluzione dei problemi legati all’acqua richiederebbe indubbiamente in Asia Centrale un vastissimo programma di riforme politiche, economiche e sociali, in modo particolare in Uzbekistan e in Turkmenistan. In generale bisognerebbe puntare sulla creazione di un funzionante sistema di cooperazione regionale in modo tale da poter finanziare il rinnovamento delle strutture decadenti che contribuiscono ad un enorme spreco d’acqua. I governi delle cinque repubbliche dovrebbero poi sottostare all’autorità di un sistema sovranazionale preposto alla gestione delle risorse idriche, un sistema che andrebbe a fissare le varie quote nazionali di utilizzo e che attuasse sanzioni nei confronti di quei paesi che non le rispettassero. Esistono poi enormi disuguaglianze tra le varie repubbliche per quanto concerne lo sfruttamento dell’acqua, i paesi più ricchi infatti, come il Kazakistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan godono di quote maggiori rispetto a paesi più poveri come il Kirghizistan e il Tagikistan. Bisognerebbe dunque attuare un sistema di sfruttamento più equo. L’Italia gioca sotto il profilo economico, un ruolo di tutto rispetto all’interno di questo scenario centroasiatico, i rapporti con le diverse repubbliche in ambito di cooperazione internazionale sono fitti e in costante movimento, punta di diamante in questo panorama è sicuramente l’ENI. Proprio in virtù di questi rapporti, l’Italia potrebbe portare avanti un programma di cooperazione allo sviluppo relativamente al problema delle risorse idriche più incisivo e diretto. L’importanza di questa regione a livello geopolitico e geoeconomico andrà sempre aumentando, in un contesto geografico dove è ormai in atto dalla dissoluzione dell’URSS un nuovo “Great Game”, una corsa sempre più vitale per la conquista di posizioni strategiche che permettano maggiori introiti energetici e contemporaneamente, le cinque repubbliche, paesi instabili politicamente e deboli economicamente avranno sempre più bisogno

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dell’aiuto delle potenze esterne per poter rafforzare un grado soddisfacente di sviluppo, almeno nel settore economico e nel settore della sicurezza.

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