The Toxic Ships - Le Navi Dei Veleni - Rapporto Greenpeace Giugno 2010

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Introduzione E’ da oltre venti anni che Greenpeace si batte contro lo smaltimento dei rifiuti e l’incenerimento a mare e per porre fine all’esportazione di rifiuti nocivi nei paesi in via di sviluppo. Negli anni ’90 le campagne di Greenpeace hanno portato a grandi cambiamenti nell’orientamento di un buon numero di governi e di grandi compagnie, un cambiamento che ha anche portato all'aumento delle restrizioni e dei divieti nei trattati e nelle convezioni internazionali che impediscono ai nostri mari di diventare l’ultimo secchio della spazzatura. Da quando la convenzione di Londra del 1993 ha proibito lo smaltimento dei rifiuti radioattivi nei mari, sono molte le voci che circolano sulle operazioni di smaltimento nel Mediterraneo, nel Sud Est Asiatico, al largo delle coste della Somalia, ma i governi hanno fatto poco e niente per verificarmene la fondatezza. Nel frattempo lo sporco e lucroso affare è proseguito. Le “navi tossiche” salpano ogni giorno dai nostri porti con carichi di rifiuti nocivi destinati ad un paese in via di sviluppo. Tra 1988 e il 1994 Greenpeace ha reso pubblici 94 casi di trasporto (o tentativi di ) di rifiuti nocivi verso l’Africa: più di 10 milioni di tonnellate di residui. Alcuni piani prevedevano la costruzione di strutture in loco per lo smaltimento dei rifiuti, inceneritori e discariche. Atri riguardavano rifiuti radioattivi, come il famigerato progetto ODM per il quale erano stati identificati almeno 16 diversi paesi africani. Ma per la maggior parte si trattava semplici operazioni di scarico rifiuti. I container con i rifiuti venivano spediti seguendo la linea della minima resistenza e del governo più debole, finendo in aree remote come la Guinea equatoriale, il Libano, la Somalia e il Congo. Rifiuti tossici sono stati depositati su spiagge della Nigeria e di Haiti. Lo scarico di rifiuti a mare si associa normalmente con il traffico dei rifiuti. Nel 1989, dopo due anni di navigazione per i mari di tutto il mondo e dopo 11 tentativi falliti di scaricare 15.000 tonnellate di rifiuti in terre esotiche, la nave Khian Sea abbandonò il carico da qualche parte dell’Oceano Indiano. Qualcosa andò storto anche ad alcune navi salpate dall’Italia nel 1987. Nella seconda metà del 1988 almeno 364 barili pieni di rifiuti sono stati spinti sulla costa turca del Mar Nero. Dai documenti trovati nei barili è emerso che la maggior parte dei rifiuti, se non tutti, proveniva dall’Italia. Il magistrato italiano che sta indagando sul caso ha scoperto che i rifiuti erano stati trasportati a Sulina in Romania, a bordo di imbarcazioni maltesi e turche. Lo scarico di rifiuti nel mare assume un aspetto ancora più sinistro nella regione mediterranea, dove per oltre due decenni le procure hanno indagato su una serie di affondamenti di nave sospetti in punti in cui l’acqua è più profonda. Il sospetto è che alcune industrie italiane ed estere abbiano agito insieme alla criminalità organizzata, ma forse anche con agenzie governative, per usare il Mediterraneo come discarica. Alcune imbarcazioni con a bordo carichi sinistri sono affondate in condizioni meteorologiche buone, senza inviare SOS e il loro equipaggio è svanito. Nessuna di queste imbarcazioni affondate è mai stata localizzata. Il presente rapporto cerca di riassumere informazioni, conosciute e non, su quelle “navi tossiche” presumibilmente affondate nel Mediterraneo. Lo scopo è di sollevare il velo sul traffico globale dei rifiuti e delle sue interconnessioni con le reti del mercato nero legate al contrabbando d’armi, al riciclo di denaro e ad altre attività illecite che possono snaturare la vita sociale, economica e politica di intere comunità. E’ un tributo – pur se modesto – agli individui, alle comunità e alla società civile in cerca della verità su queste reti e sul potere che esercitano. Il traffico di veleni: il caso delle navi tossiche italiane (1987-1989)

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L’inchiesta di Greenpeace sulle “navi tossiche” italiane inizia al principio del 1987, dopo che i lavoratori dei porti di Marina Carrara (Toscana) e Chioggia (Veneto) avevano rivelato ad alcuni amministratori locali dei Verdi e alla stampa l’esistenza di navi che venivano caricate con rifiuti industriali. Queste navi erano dirette in Romania e in Africa. Immediatamente per impedire queste spedizioni vennero informate le autorità locali, la magistratura e il governo. La richiesta fu ignorata. Anzi, la Polizia di Marina di Carrara chiese ai lavoratori portuali di velocizzare il carico dei rifiuti per prevenire eventuali manifestazioni da parte degli ambientalisti. Grazie all’assenza di leggi in materia d’esportazione dei rifiuti al di fuori dell’Unione Europea alle “navi tossiche” fu consentito di lasciare l’Italia. Questo vuoto legislativo fu sfruttato dai trafficanti di rifiuti senza scrupoli e dai mediatori che proposero alle industrie europee, per la maggior parte del settore chimico, di sottoscrivere piani di consegna di tonnellate di rifiuti ai paesi poveri. I sostenitori di questo progetto includevano fiduciari, avvocati svizzeri, aziende contenitore basate in Svizzera e nel Regno Unito, intermediari e legittimi commercianti di rifiuti. La lista che segue include le navi cariche di rifiuti nocivi che risultano aver lasciato i porti di Massa Carrara e di Livorno dal 1987 al 1988. Appaiono anche tre “navi fantasma” che probabilmente trasportavano i rifiuti nocivi scaricati in Libano e poi sparite nel Mar Mediterraneo. Molte altre “navi tossiche” sono ancora sconosciute poiché a quel tempo l’ esportazione dei rifiuti dai porti italiani ed europei stava diventando un affare fiorente.

a) Lynx Nel febbraio del 1987 la nave “Lynx” salpa dal porto di Carrara con un carico di oltre 2000 tonnellate di rifiuti industriali con destinazione originale Gibuti. La spedizione era stata organizzata dalla ditta svizzera “Intercontract SA” e dalla ditta italiana di gestione dei rifiuti “Jelly Wax”. Gli ambientalisti allertarono immediatamente del carico l’ambasciata di Gibuti. I rifiuti furono allora deviati su Puerto Cabello in Venzuela, dove le autorità locali non permisero alla nave di entrare. Due anni dopo i rifiuti tornano in Italia passando per la Siria. Intervistato dalla stampa sul caso, Gianfranco Ambrosini, rappresentate della ditta “Intercontract SA” ammise che nel piccolo paese africano non esisteva un luogo predisposto per lo scarico dei rifiuti. Come era possibile depositare milioni di tonnellate di rifiuti nocivi in un paese così piccolo e deserto? La risposta potrebbe essere che Gibuti non è mai stata considerata l’ultima fermata sulla rotta dell’esportazione dei rifiuti. L’ex colonia francese era un importante centro logistico per la consegna di beni per la Somalia e l’Etiopia. I rifiuti potrebbero aver seguito lo stesso iter. b) Akbay-1 La nave carica con più di 800 tonnellate di rifiuti industriali lascia Marina di Carrara il 17 aprile 1987 e arriva a Sulina, in Romania il 26 aprile. Il carico consisteva di residui manifatturieri, di lavaggi a secco, oli di scarico, pesticidi e isocianati provenienti da diverse ditte. La Akbay 1 faceva parte di una flotta di navi che trasportavano rifiuti nocivi che avevano lasciato i porti di Marina di Carrara e Chioggia per raggiungere il porto di Sulina in Romania. I rifiuti erano stati raccolti dalle ditte italiane Sirteco srl di Agrate Brianza (Milano) e Piattaforma Ecologica Industriale (PEI) di Marghera (Venezia). Pare che le ditte abbiano preso la via per il trasporto dei rifiuti in Romania aperta da un oscuro intermediario inglese, la Metrode Ltd, che aveva un rappresentante con sede a Viganello (Lugano) in Svizzera, e da una

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compagnia svizzera, la Eldip SA, che aveva come amministratore unico l’avvocato di Lugano Cesare Forni. La Metrode Ldt e la Eldip SA organizzano la spedizione di oltre 9000 tonnellate di rifiuti industriali dal nord Italia ad un costo di circa 7 milioni di franchi francesi. c) Radhost Nel giugno del 1987 la nave Radhost salpa da Marina di Carrara trasportando più di 2400 tonnellate di rifiuti industriali raccolti dalla “Jelly Wax”. La nave avrebbe dovuto raggiungere la “Lynx” per scaricare il carico in Venezuela, dove dello smaltimento dei rifiuti si sarebbe occupata da una ditta locale appartenente ad una compagnia di Panama. Renato Pent, proprietario della “Jelly Wax” faceva parte del direttorio della “Ileadil CA”. Ma le due spedizioni finiscono sotto il mirino dei media e le autorità venezuelane ordinano la riconsegna dei rifiuti scaricati dalla “Lynx” e non permettono alla “Radhost” di entrare in porto. Tre mesi dopo, la nave consegna il suo carico tossico al porto di Beirut in Libano, sotto la responsabilità di intermediari libanesi corrotti dalla “Jelly Wax” e in cambio di denaro con la copertura - pare - delle “Forze Libanesi”, un gruppo militare coinvolto nella guerra civile libanese. L’indignazione pubblica seguita alle notizie sull’operazione da parte dei media costrinse il governo italiano ad occuparsi dei rifiuti. Un’operazione “rispedire al mittente” fu organizzata dalla ditta di gestione dei rifiuti “Monteco” filiale del gigante chimico Montedison. Il fatto che parte dei rifiuti scaricati a Beirut provenisse da diverse fabbriche della Montedison non interessò le autorità italiane. d) Jolly Rosso La raccolta e il carico dei rifiuti sulla nave “Jolly Rosso” organizzata dalla Monteco per riportarli in Italia ebbero luogo senza alcuna collaborazione tra gli italiani e il comitato ufficiale di esperti libanesi creato per supervisionare le operazioni. Gli italiani andavano di fretta, utilizzando come scusa la preoccupazione per la rabbia che generava l’uso del porto. Le autorità libanesi ordinarono che la partenza della nave fosse rinviata fino all’arrivo di un’autorizzazione da parte del Ministero della Salute e che questa non salpasse prima che fosse redatto un documento del Ministero della Salute e del Comitato di Esperti libanesi con il quale veniva confermata la partenza di tutti i rifiuti. Gli italiani non diedero retta alle richieste del governo libanese e la nave lasciò Beirut senza l’autorizzazione del Ministero della Salute e senza le carte di convalida del Comitato libanese. La Jolly Rosso lasciò Beirut l’11 gennaio 1989, con più di 9500 barili a bordo. Pochi giorni dopo raggiunse il porto italiano di La Spezia dove rimase fino ad aprile in attesa dell’autorizzazione delle autorità italiane a scaricare il carico. Soddisfatto Il Governo italiano rilasciò una dichiarazione in cui diceva che tutti i rifiuti scaricati in Libano erano rientrati. e) Cunski, Yvonne A, Voriais Sporadais Poco dopo la partenza della Jolly Rosso, il Libano comincia a sospettare che non tutti i rifiuti depositati originariamente dal Radhost – 15800 barili – fossero stati riportati a bordo della Jolly Rosso. Non meno preoccupante era la misteriosa scomparsa delle tre altre navi - pare anch’esse cariche di questi rifiuti - che erano entrate in porto al seguito della Jolly Rosso: la Yvonne A, la Cunsky, e la Voriais Sporadais. I media annunciarono che le navi erano state tutte affondate o che, perlomeno, avevano scaricato il carico in mare. Un rapporto dell’Assemblea Generale

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delle Nazioni Unite diede credibilità a queste voci secondo le quali una larga porzione dei rifiuti era stata scaricata in mare aggiungendo che due navi che non erano state identificate nel porto di Beirut – presumibilmente la Cunsky e la Voriais Sporadais – avevano provveduto al carico di una terza nave, la Yvonne A, battente bandiera delle Sri Lanka, destinata ad essere deliberatamente “affondata con il suo carico nel Mediterraneo dopo aver lasciato il porto”. Nel 1989 un giornalista di Famagosta, Cipro, racconta a Greenpeace di aver intercettato una conversazione radio tra il capitano di una nave non identificata che aveva lasciato il porto di Beirut e la “Voriais Sporadais”. I due capitani stavano discutendo su quale fosse il miglior punto in cui scaricare i rifiuti: si trovavano tra 40 e 50 chilometri ad est di Famagusta, tra il Libano e Cipro. La Monteco e le autorità italiane negarono con forza che alcun rifiuto fosse stato lasciato in Libano. La Monteco negò anche di aver noleggiato le tre navi misteriose per riportare in Italia parte dei rifiuti e altri materiali che non riuscivano ad entrare a bordo della Jolly Rosso. Le tre navi fantasma sparirono per ricomparire di colpo 15 anni più tardi nelle rivelazioni del pentito italiano Francesco Fonti. FRANCESCO FONTI Dal 1994 Francesco Fonti, condannato a cinquanta anni di carcere per i crimini commessi quando era un importante membro della ‘Ndrangheta calabrese, collabora con le autorità italiane per ottenere gli arresti domiciliari anche a causa dei suoi gravi problemi di salute. Nel settembre-ottobre 2009, Francesco Fonti racconta ai media di aver affondato tre navi in successione rapida. Fonti sostiene di aver affondato nell’arco di due settimane nel 1992 la Yvonne A con 150 contenitori da 20 tonnellate di rifiuti tossici a bordo, la MV Cunsky con i suoi 120 barili di liquame radioattivo e la Voriais Sporadais con 75 container di diversi rifiuti tossici e contaminanti pericolosi. Nell’ottobre del 2009 il Governo italiano chiese ad una nave per la ricerca oceanografica – la Mare Oceano – di cercare il relitto di una delle tre navi con a bordo rifiuti tossici e rifiuti nucleari presumibilmente affondate da Fonti nel 1992: la Cunsky. Il Governo ha poi dichiarato che il relitto rilevato a largo delle coste della Calabria era una nave passeggeri a vapore affondata da un sottomarino tedesco nel 1917: la Catania. Tuttavia, nulla è mai stato mostrato (nessun video o fotografia) a sostegno di questa dichiarazione.

La decisione del governo di assegnare il contratto di ricerca alla famiglia Attanasio, proprietaria della Mare Oceano lasciò diverse persone sorprese. A dire di David Mills e del Primo Ministro italiano Silvio Berlusconi, Diego Attanasio avrebbe pagato 600.000 dollari all’avvocato inglese David Mills. I procuratori italiani ritengono che la soma sia stata un “regalo” da parte di Silvio Berlusconi all’ex marito di Tessa Jovell - l’ex ministro laburista dello sport e attuale MEP del labour, - come premio per la falsa testimonianza rilasciata in soccorso del Primo Ministro italiano. Nel febbraio del 2010 la Corte di Cassazione ha deciso che le accuse contro Mills fossero annullate senza rinvio per estinzione del reato per decorrenza dei termini. Dalla documentazioni di cui è giunta in possesso Greenpeace emerge che il Ministero della difesa britannico avesse fatto un’offerta per la ricerca del relitto della nave a Cetraro ad un prezzo più

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basso di quello offerto dai proprietari della Mare Oceano. Non si conosce la ragione per il rifiuto dell’offerta brittanica, come non si sa nulla dei termini del contratto con la Mare Oceano. Corrono voci che nell’area in questione vi siano diversi relitti di navi. I dettagli del governo riguardanti il relitto non coincidono con quelli emersi da ricerche precedenti fatte da una nave da ricerca finanziata dalle autorità calabresi, sulla base delle vaghe coordinate fornite da Fonti. Le autorità regionali avevano mandato un robot subacqueo (ROV) a circa 500 metri sotto il livello del mare per indagare sulla presenza di rifiuti. Queste sostengono che il ROV abbia identificato circa 120 barili sigillati all’interno del relitto. Si tratta della stessa nave cercata dalla Mare Oceano? Il governo ha deciso di chiudere le ricerche della nave che Francesco Fonti sostiene di aver mandato a fondo con la dinamite. L’affidabilità di Fonti come testimone sui presunti affondamenti è stata ampiamente messa in dubbio, tuttavia i procuratori hanno ammesso che dal 1994 la sua collaborazione ha portato all’arresto di personaggi di spicco della ‘Ndrangheta calabrese coinvolti nel traffico di droga. Perché questa volta si sarebbe sbagliato?

f) Rigel Questa nave salpata da Marina di Carrara il 9 settembre 1987 con un carico di rottami metallici, blocchi di cemento e polvere di marmo era ufficialmente diretta a Famagosta, Cipro. Dopo aver vagato per circa due settimane per il Mar Tirreno, la nave affondò a circa 20 miglia da Capo Spartivento in Calabria, ad una profondità di circa 3000 metri senza lanciare SOS. L’equipaggio viene tratto in salvo da un’altra nave, sbarcato in Tunisia e sparito nel nulla. Qualche anno dopo, un tribunale italiano dichiarò che la Rigel era stata affondata per riscuotere il premio assicurativo, e che gli agenti doganali al Porto di Marina di Carrrara erano stati pagati per chiudere un occhio mentre la nave veniva caricata. La cosa ha suscitato preoccupazione sulla vera natura del carico visto il precedente di diecimila barili di rifiuti pericolosi partiti dal Porto di Marina di Carrara lo stesso giorno. Stando alle cronache giornalistiche è interessante notare che le prove della frode assicurativa perpetrata dagli agenti navali della Rigel sono state raccolte anche tramite intercettazioni telefoniche da un procuratore di La Spezia. E’ molto probabile che il 21 settembre, lo stesso giorno che la Rigel affondava nel Mar Ionio, la polizia italiana abbia ascoltato una conversazione telefonica tra agenti navali che annunciavano “il bambino è nato questa mattina presto”. Sarebbe utile recuperare i materiali dell’inchiesta sulla Rigel per fare ulteriore luce sulla catena di eventi che hanno portato al suo affondamento. Questo potrebbe anche aiutare a controllare il presunto coinvolgimento di Giorgio Comerio, la mente dietro all’ODM, nel caso Rigel come dichiarato da Francesco Neri, PM di Reggio Calabria.

g) Baruluch, Danix, Line, Juergen Vesta Denise

Queste navi hanno lasciato Marina di Carrara e Livorno tra l’Agosto 1987 e l’Aprile 1988 con un carico totale di 43.330 tonnellate di rifiuti nocivi raccolti dalle ditte Jelly Wax e Ecomar. Un cittadino Nigeriano, Sunday Nana, aveva fatto un accordo con Gianfranco Raffaelli, un italiano vissuto in Nigeria per oltre 20 anni, con il quale accettava di conservare 8000 balle di rifiuti, incluso PCB, nella sua proprietà sul piccolo delta del Koko per 100 dollari al mese. Più avanti Raffaelli chiese alle autorità nigeriane il permesso di importare rifiuti “Non esplosivi, non radioattivi e non autocombustibili”.

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Ai primi di giugno, in risposta al deposito di rifiuto e per far pressione sull’Italia affinché li rimovesse, la Nigeria richiamò il suo ambasciatore in Italia e sequestrò la nave da trasporto italiana Piave, non coinvolta nel commercio dei rifiuti. Il 26 luglio 1988 la Nigeria liberò la Piave e i suoi 24 membri dell’equipaggio. All’esplodere dello scandalo di Koko, Raffaelli lasciò la Nigeria, ma un impiegato italiano della Iruekpen Construction, Desiderio Perazzi, e almeno altre 54 persone coinvolte nello scandalo furono state arrestate dal governo nigeriano. Il 17 luglio 1998 il governo italiano accettò di rimuovere i rifiuti dalla Nigeria e riportarli in Italia. Per trasportare i rifiuti dalla Nigeria all’Italia furono prese a nolo due navi, la Karin B e la Deepsea Carrier. L’ambasciatore Nigeriano in Italia riprese il suo posto nel Settembre del 1988. La Somalia Connection “La Gran Bretagna si è ritirata dal Somaliland nel 1960 per permettere al suo protettorato di unirsi alla Somalia italiana e formare così la nuova nazione Somalia. Nel 1969, un colpo di stato capeggiato da Mohamed Siad Barre che introdusse un governo di socialismo autoritario che riuscì a imporre un grado di stabilità nel paese per oltre due decenni. Dopo la caduta del regime all’inizio del 1991 la Somalia si è ritrovata in una situazione di turbolenza, guerre tra fazioni e anarchia”. “Nonostante un governo ad interim sia stato creato nel 2004, continuano ad esistere altri organi di governo regionali e locali che controllano varie regioni del paese, inclusa l’auto proclamata Repubblica del Somaliland nel nordovest della Somalia e lo stato semi autonomo di Puntland nel nord est della Somalia”. Dopo la caduta di Siad Barre sono innumerevoli le accuse alle compagnie e ai governi stranieri di approfittare del collasso dello stato somalo per usare le acque e le terre di quel paese come discarica. All’inizio del 2005, alcune fonti di stampa internazionale hanno scritto che le onde che colpirono la Somalia in conseguenza del terremoto nell’Oceano Indiano del 2004, oltre ad uccidere centinaia di persone, portarono anche a terra rifiuti radioattivi e tossici scaricati nel paese nei primi anni ’90.“I primi rapporti indicano che le onde dello Tsunami hanno rotto i container aperti pieni di rifiuti tossici e ne hanno sparpagliato il contenuto. Parliamo di tutto, da rifiuti medici a rifiuti di prodotti chimici”, ha dichiarò alla stampa Nick Nuttal il portavoce del programma ambientale dell’Onu (UNEP). Più di recente, nel 2008, l’invito speciale dell’Onu per la Somalia, Ahmedou Ouls Abdallah, ha più volte suonato il campanello d’allarme sulla pesca illegale e l’illegale scarico di rifiuti al largo della Somalia da parte di aziende Europee. Abdullah ha detto che la sua organizzazione ha “informazioni affidabili” che le compagnie europee e asiatiche stanno scaricando rifiuti – inclusi rifiuti nucleari – nella regione. L’Unione Europea ha risposto con il silenzio a queste accuse.

a) La “Mafia italiana” Il 30 marzo del 1992 a Roma, il ministro somalo della salute e degli affari sociali, Nue Elmi, un alleato di Ali Mahdi, il signore della guerra che controllava Mogadiscio, aveva firmato un accordo con il quale si autorizzava la compagnia italiana Interservice srl ad importare in Somalia 2 milioni di tonnellate di “rifiuti in ferro” per “recupero”, un piano dal valore di circa 76 milioni di dollari. Ali Abdi Amalow, il Governatore della Banca Centrale della Repubblica Somala firmò a Roberto Ruppen e Ferdinando Dall’O, rappresentanti della Interservice SRL, una procura per il “rilascio di di fondi della Cooperazione di proprietà dello Stato della Somalia, nonché di altri fondi destinati agli aiuti umanitari e all’assistenza straordinaria”:

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Il 4 settembre del 1992, Mostafa Tolba Direttore esecutivo dell’Unep nel tenere un seminario all’International Center for Research in Agroforestry di Nairobi in Kenia, fece suonare un campanello d’allarme sulla scelta delle “compagnie mafiose italiane” di utilizzare la Somalia per la tratta dei rifiuti. Il 7 settembre, Tolba consegnò alla Reuters a Nairobi una copia di un documento firmato dal Ministro della salute Nur Elmy Osman con il quale si autorizzava la compagnia svizzera ACHAIR & PARTNERS a costruire “una discarica polifunzionale” in Somalia. Pochi giorni dopo Greenpeace rivelò che una compagnia italiana, la Progresso Srl di Livorno, era parte del piano. Un contratto del valore di 80 milioni di dollari firmato a Dicembre 1991 con il quale la compagnia svizzero-italiana era autorizzata a costruire una struttura di stoccaggio per rifiuti pericolosi. I rifiuti sarebbero stati trasportati in Somalia alla velocità di 500 tonnellate l’anno. Grazie all’intervento dell’UNEP, il contratto fu dichiarato nullo e la discarica mai costruita. Ma al direttore dell’Unap Mustafa Tolba è parso eveidente che le ditte ACHAIR & PARTNERS e Progresso SRL erano state create specificamente come società contenitore per disfarsi di rifiuti pericolosi.

b) Discarica di rifiuti nucleari? Nel 1995 Franco Oliva, esperto di cooperazione italiana che aveva lavorato in Somalia dal 1986 al 1990, testimoniò davanti ad una commissione bicamerale del parlamento italiano creata per investigare di possibili casi di corruzione nel programma italiano di aiuti alla Somalia. Oliva ha raccontato di aver incontrato Guido Garelli a Mogadiscio “Prima del 1990”, e che Garelli stava tentando di organizzare l’export di un “carico di rifiuti nucleari” in Somalia insieme a Giancarlo Marocchino, un controverso faccendiere italiano che abitava nella città portuale di Karaan e che era vicino ad Ali Mahdi. Per oltre dieci anni Marocchino fornì supporto logistico alle attività dei progetti di cooperazione italiani. Nel 1993, durante un’operazione militare ONU in Somalia, la“Restore Hope”, l’esercito americano arrestò Marocchino con l’accusa di traffico d’armi con le fazioni somale in guerra. Dopo lunghi negoziati con i rappresentanti del contingente militare italiano i Marines americani consegnarono Marocchino agli italiani che lo liberarono.

Il 24 giugno del 1992 a Nairobi (Kenia), Giancarlo Marocchino, Guido Garelli e Ezio Scaglione (Console Onorario della Somalia) firmarono un accordo confidenziale riguardante l’esportazione di rifiuti al “Corno D’Africa”. Sei settimane dopo il direttore esecutivo dell’Unep Mustafa Tolba denunciò il tentativo “della Mafia italiana” di esportare rifiuti in Somalia. Il 19 agosto 1996, il “Presidente ad interim della Somalia”, Ali Mahdi autorizzò Ezio Scaglione a costruire una struttura per trattare i rifiuti importati in Somalia”. Alcuni anni dopo, presentandosi come testimone davanti alla commissione parlamentare congiunta sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i due giornalisti italiani uccisi a Mogadiscio in circostanze oscure nel marzo del 1994, Ali Mahdi dichiarò quel documento un falso.

c) Asti: una piccola città italiana In seguito all’autorizzazione ad esportare rifiuti in Somalia emessa da Ali Mahdi, il “Console Onorario” Ezio Scaglione comincia a cercare aziende operanti nel campo dei rifiuti desiderosi di aprirsi alla tratta dei rifiuti. Tuttavia, uno dei candidati contattati da Scaglione, a conoscenza del divieto di esportazione ai paesi non OECD messo in atto dalla legislazione UE sulle spedizioni dei rifiuti, si rivolge alla Guardia Forestale e alla procura di Asti in Piemonte.

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Nel 1997, il procuratore di Asti Luciano Tarditi apre un’inchiesta sui tentativi di commercio dei rifiuti da parte di Scaglione. Le conversazioni telefoniche con Giancarlo Marocchino vengono intercettate. Nell’agosto del 1997 Marocchino sollecita Scaglione ad organizzare la spedizione di “2000-3000” barili di rifiuti visto che Ali Mahdi avrebbe messo a disposizione un terreno per rifiuti pericolosi nella regione del Barhaf. Marocchino rassicura Scaglione sulla credibilità del progetto inviandogli le carte originali attraverso Franco Giorni, un noto commerciante d’armi. Inoltre Marocchino suggerisce a Scaglione di contattare Nesi, uno spedizioniere di Livorno, per organizzare la spedizione dei rifiuti. Livorno era anche la base della Progresso srl, la compagnia coinvolta nel piano della “Mafia italiana” svelato dall’UNEP nel 1992. Il procuratore Tarditi cerca allora di verificare se Macello Giannoni, amministratore unico della Progresso Srl, può fare luce sulle spedizioni di rifiuti in Somalia di quel periodo. E Giannoni lo fa. Dichiara agli investigatori di essere sicuro che dei rifiuti industriali e forse ospedalieri venivano spediti in Somalia per diventare materiali di costruzione per la strada e il porto di Bosasso e Garoe. Il procuratore Tarditi ascoltando le conversazioni telefoniche tra Marocchino, Scaglione e altri allo scopo di provare la spedizione di migliaia di barili di rifiuti pericolosi verso la Somalia, si trova a sentire Marocchino dire che può confermare che l’arresto da parte della polizia italiana del presunto assassino di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è una bufala. Tarditi informa immediatamente Franco Ionta, il procuratore che a Roma ha in carica l’indagine sull’assassinio dei due giornalisti italiani. Qualche giorno dopo Tarditi sente l’avvocato di Marocchino, Stefano Menicacci, che chiama una delle persone intercettate dalla polizia per informarla che era sotto indagine da parte del procura di Asti. “Quella spiata ha ucciso la nostra indagine” dichiarerà Tarditi qualche anno dopo, dopo aver chiuso il fascicolo sulla presunto traffico di rifiuti in Somalia nel 1988 perché diventato impossibile controllare le presunte discariche. Franco Giorgi E’ un trafficante d’armi che riforniva gruppi armati serbi durante la guerra dei Balani nel 1991-1993. Secondo il Corriere della Sera, nel 1997 le sue dichiarazioni hanno permesso al magistrato svizzero Carla Dal Ponte di smascherare un conto in una banca svizzera che conteneva “il tesoro privato” di Radovan Kardzic. Giorni è una vecchia conoscenza sia di Giancarlo Marocchino che del suo avvocato Stefano Menicacci. Pensando di poter fare affari con gli armamenti in Somalia va a trovare Marocchino nell’estate del 1997, mentre era in costruzione il piccolo porto di Eel Ma’aan, a 30 chilometri a nord di Mogadiscio. Il porto di Eel Ma’aan Marocchino stava costruendo il porto di Eel Ma’aan per creare un’alternativa al porto della capitale chiuso a causa delle guerre tra i signori della guerra somali. Eel Ma’aan diventa presto un porto strategico di entrata sia per gli aiuti umanitari sia per le scorte d’armi destinate alle fazioni in guerra. Dal 1999 al 2007 il porto è diretto dalla Banadir General Services, parte delle compagnie del gruppo Banadir, un business promettente coinvolto anche nella consegna degli aiuti umanitari alla Somalia. Due uomini d’affari somali portano avanti le operazioni a El Maan: Abukar Omar Adaani e AbdulaqadirMohamed Nur, detto “Enow”. Entrambi collegati a

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Marocchino. Secondo un rapporto pubblicato di recente dal gruppo di monitoraggio Onu sulla Somalia, “la famiglia Aadani, uno dei più grossi appaltatori per il World Food Programme in Somalia, ha per molto tempo finanziato gruppi armati ed è stata un vicino alleato del leader dell’ Hizbul Islam (gruppo ritenuto vicino ad Al Qaida). Quando la famiglia Adaani non riuscì ad assicurare concessioni dal governo federale di transizione in cambio della chiusura del porto privato di Eel Ma’aan - una mossa che avrebbe privato il governo di entrare vitali – fu dato mandato a Hizbul Islam di riaprire la struttura. Ci sono anche altri membri del cartello di imprenditori che dominavano la consegna di cibo e aiuti in Somalia coinvolti in manipolazioni delle risorse umanitarie più subdole, ma non meno dannose”. Abukar Omar Adaani e “Enow” negarono con rabbia le accuse da parte del gruppo di monitoraggio Onu sulla Somalia. Secondo la stampa somala, nel settembre del 2009 il presidente del paese ha scritto una lettera al Segretario Generale dell’ONU difendendo “Enow” e sottolineando i suoi sforzi per salvare la popolazione del Somalia. d) Indagine n 395/97 Nel marzo del 2010 Greenpeace venne autorizzata dalla magistratura di Asti a consultare i materiali dell’indagine relativa al presunto traffico di rifiuti verso la Somalia. Quelli che seguono sono estratti che noi crediamo meritino di essere portati all’attenzione del grande pubblico affinché capisca meglio il contesto generale del presunto traffico di rifiuti verso la Somalia. L’indagine è stata chiusa perché mancavano le prove che i rifiuti venissero scaricati in Somalia. Leggendo le migliaia di pagine dell’indagine n. 395/97 risulta tuttavia evidente che gli investigatori si trovarono davanti ad una serie di fatti che portavano a concludere che molto probabilmente i rifiuti erano stati scaricati in Somalia tra il 1990 e il 1997. Il 15 dicembre Ezio Scaglione dichiara al procuratore Tarditi che Marocchino avrebbe detto di poter sistemare i rifiuti radioattivi seppellendoli nei contenitori usati per rafforzare la banchina di Eel Ma’aan. Estratti di una intercettazione telefonica alle 18:03 del 25/10/1998: Faduma Adid (Rappresentante ufficiale della Somalia in Italia) e Idor Nur Hussein commentano una trasmissione sulla Somalia andata in onda su RAI2: Faduma: “Stanno raccogliendo i rifiuti. La strada Garoe-Bosasso sarà utilizzata per seppellire i rifiuti”… “Anche la zona di Ali Mahdi. Li stanno trasferendo alla regione Hawdle. Marocchino sta scavando le buche, mi era stato raccomandato da uno straniero. Lo hai sentito? “Hanno avvelenato tutto il territorio. Mio padre ha protestato contro Mustafa Tolba, che allora era il rappresentante dell’ONU a Nairobi. Lo sai che ha svelato i fatti?D’altro canto ai Miguirtini sta bene seppellire i rifiuti tossici. Questo è il problema. A loro non interessa del paese e della gente che muore. I rifiuti tossici prodotti dalle industrie italiane ed europee sono caricati sulle Navi nel porto do Trieste. Vengono poi distribuiti tra i vari paesi. Sono rifiuti tossici e uranio. Distruggono ogni cosa. Dichiarazione di Marcello Giannoni 5/5/1989, Fascicolo V Pag 101-141 I rifiuti da spedire in Somalia dovevano provenire anche dagli Stati Uniti e contenevano un materiale radioattivo detto “Yellow cake” (torta gialla ndt). Ma l’accordo non andò in porto dopo che il caso era esploso sulla stampa. I rifiuti sono certamente arrivati in Somalia. Erano

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rifiuti nocivi industriali e forse anche sanitari. Sono stati seppelliti durante la costruzione del porto di Bosasso e della strada Garoe- Bosasso. Dichiarazione di Brofferio Angelo 04/02/2004, fascicolo V p. 99 E’ stato direttore dei lavori della strada Garoe-Bosasso dal giugno 1997 al Dicembre 1998. Ha usato Marocchino per trasportare i materiali edili dal porto di Mogadiscio al cantiere per la costruzione della strada. Ad un certo punto Marocchino suggerisce di seppellire diversi contenitori in una serie di luoghi deserti, a condizione che non siano mai aperti, con la prospettiva di fare un mucchio di soldi. Dichiarazione di Marco Zaganelli, 08/04/1998 fascicolo V p. 715 Ha conosciuto Marocchino in Somalia nel 1987-88 perché gli aveva chiesto di aiutarlo ad ottenere un contratto con la Somalia per importare in continuazione rifiuti di compagnie europee. Marocchino sosteneva che c’erano contenitori di rifiuti pronti a partire da un porto del sud Italia (Castellamare di Stabia o Gioia Tauro) Dichiarazione di Ezio Scaglione 11 e 15/12/1998. Procedura n. 395/97 fascicolo III pp. 506-511 Ha conosciuto Garelli e Zamarella Flavio attraverso Marocchino a Milano nel 1992 per comprare due macchine per Guido Garelli. Le macchine erano però rubate e la polizia le sequestrò a Scaglione. Più tardi, a Nairobi, Garelli e Marocchino lo introducono nel “Progetto Uranio”, un piano per esportare rifiuti tossici e nucleari in Somalia, al quale aderisce. Dopo un soggiorno a casa di Marocchino in Somalia Scaglione torna in Italia mentre Garelli resta in Somalia. Nel 1996 Marocchino contatta Scaglione e gli propone di organizzare l'esportazione di rifiuti in Somalia, questa volta per essere utilizzati nella costruzione del porto di Eel Ma’aan. Marocchino sosteneva di poter distribuire/liberarsi dei rifiuti nucleari seppellendoli nel cemento della banchina del porto. Annotazione della PG (investigatori) alla procura, 24/05/1999 fascicolo III pp.483-490 I testimoni ricordano che interi container furono sepolti nel porto di Eel Ma’aan, container pieni di rifiuti (fanghi, smalti, terreno contaminato dalla fabbriche di acciaio e ceneri dei filtri elettrici). Questo è indicato in una nota che Marocchino invia a Scaglione via fax il 19 agosto 1996. Alcune fotografie datate Febbraio 1997, trafugate dai collaboratori di Marocchino Gloria Melani e Claudio Roghi, mostrano la sepoltura dei contenitori durante la costruzione del porto. Anche alcune fotografie scattate da Giancarlo Ricci nel 1997, un impiegato della compagnia Molino Paradisi che ha accusato Marocchino del furto di 2,500 tonnellate di farina inviata in Somalia per esser venduta, mostrano i container seppelliti nel porto durante la costruzione. Giancarlo Ricchi sostiene che i lavoratori somali gli avrebbero detto che i container erano stati seppelliti ad Eel Ma’aan. Tuttavia, nessuno sapeva che tipo di materiali ci fossero nei container. Parte II Il quadro legislativo dell’ UE sul trattamento e la spedizione dei rifiuti

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Introduzione I dati ufficiali stimano la quantità di rifiuti generati in Europa in un anno in 1.3 miliardi di tonnellate, di cui circa 40 milioni sono rifiuti nocivi. Secondo le statistiche dell’EFA questo ammonterebbe a circa 3.5 tonnellate di rifiuti solidi per ogni uomo, donna e bambino. A questo dato vanno aggiunti altri 700 milioni di tonnellate di rifiuti agricoli. I dati ufficiali relativi all’Europa dei 15 (prima dell’ingresso di altri 10 paesi nel 2005) mostrano che la crescita aritmetica nel numero dei rifiuti pericolosi tra il 2000 e il 2005 è stata del 22%. La gestione dei rifiuti è altamente lucrativa. E’ stato stimato che il settore della gestione dei rifiuti della UE ha un turnover di circa 100 miliardi di dollari per l’Europa a 25 e fornisce tra 1,2 e 1,5 milioni di posti di lavoro. Le 25 principali aziende di gestione di rifiuti in Europa impiagano oltre 130.000 persone. I giganti francesi Veolia/Onyx e Sita Suez sono in cima alla lista delle più grandi aziende, essendo due volte più grandi di quelle a seguire, la Remondis/Rethmann (Germania) e la FCC – Fomento de Construcciones y Contratas (Spagna). Secondo l’organizzazione per la cooperazione economica e lo Sviluppo (OECD), tra il 1990 e il 1995, la quantità totale dei rifiuti generati in Europa è cresciuta del 10%. Secondo l’OCED a partire dal 2020 potremmo creare il 45% di rifiuti in più rispetto al 1995. La prevenzione dei rifiuti è stata nell’agenda della UE per gli ultimi 30 anni. Le vaste strategie e la legislazione UE si basano su una evidente “gerarchia” dove l’evitare i rifiuti e la minimizzazione hanno il sopravvento sul riutilizzo, il riciclo, il recupero e infine l’eliminazione. In generale i requisiti per la gestione dei rifiuti sono stati armonizzati dalla UE in questo periodo, specialmente negli ultimi 10-15 anni. Secondo un rapporto del 2009 della Commissione Europea sull’attuazione di una legislazione sui rifiuti comunitari nel 2004-2006, “l’applicazione della legislazione sui rifiuti non può ancora essere considerata soddisfacente, come dimostra l’ampio numero di violazioni in materia di rifiuti. Sono perciò necessari sforzi significativi verso una piena attuazione, specialmente nella promozione della prevenzione dei rifiuti e del riciclo”. In parole povere, la creazione di rifiuti è ancora in crescita mentre il 65% dei rifiuti europei vengono ancora inceneriti o seppelliti. Questo rappresenta uno dei più evidenti fallimenti della politica ambientale della UE. L’introduzione del mercato unico UE nel 1993 ha trasformato le operazioni di gestione dei rifiuti da locali a globali. L’apertura delle frontiere nazionali alle attività di gestione dei rifiuti ha attratto all’inizio gli interessi dei colossi della gestione dei Rifiuti USA, come la Waste managment Inc. (WMX), e la Browning Ferries Industries (BFI), all’epoca rispettivamente la prima e la seconda più grande compagnia di eliminazione dei rifiuti al mondo. I dieci anni a seguire hanno visto l’arrivo di gruppi di private equity (PE) tra i maggiori attori nel mercato dei rifiuti UE. Blackstone, Terra Firma, Apax e altri hanno investito pesantemente nel settore della gestione dei rifiuti. Tuttavia, non ci sono prove del fatto che le compagnie di gestione dei rifiuti vengano trattate dai gruppi PE come investimenti infrastrutturali a lungo termine valutate per il loro flusso di denaro stabile. I profitti arrivano sotto forma di guadagni di capitale (capital gains) a breve termine, attraverso uscite dopo due o tre anni, come per tutti gli altri investimenti delle PE. Un rapporto pubblicato dalla Federazione Europea dei sindacati del Servizio pubblico (EPSU, 2007) mostra che in 18 mesi dall’inizio del 2006 ci sono state 16 importanti fusioni e acquisti (M&A) tra le compagnie di gestione dei rifiuti in Europa, ad un prezzo totale di circa 1,25 miliardi di Euro. Le compagnie che hanno cambiato mani hanno avuto un turnover totale di 6.6 miliardi di euro, impiegando 39.000 lavoratori.

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Complessivamente, ci sono state più di 20 M&A importanti in Europa tra il 2006 e il 2009. Gli esperti dicono che c’è da aspettarsi ulteriori concentrazioni nel futuro prossimo. 1. La convenzione di Basilea sul commercio dei rifiuti

Nel 1998 in seguito ad una serie di scandali legati alla spedizione di rifiuti pericolosi nei paesi in via di sviluppo dall’Europa e dagli Stati Uniti, 33 paesi si sono incontrati in Svizzera, a Basilea, e si sono accordati per limitare la spedizione di rifiuti tossici in particolare dai paesi ricchi a quelli più poveri. Alla fine 168 paesi, non gli Stati Uniti, hanno ratificato la convenzione di Basilea. Nel 1995, gli Usa hanno annunciato che avrebbero ratificato la convenzione riservandosi il diritto di spedire rifiuti “riciclabili” ovunque questi fossero accolti. Poiché potenzialmente quasi tutto può esser riciclato, questo difficilmente pone dei limiti a ciò che gli USA spediscono all’estero. Al Gennaio 2009, l’Afganistan, Haiti e gli Stati Uniti avevano firmato ma non ancora ratificato la Convenzione. Al suo inizio la Convenzione di Basilea venne accusata di essere uno strumento volto a più legittimare il commercio dei rifiuti nocivi che non a proibire questa che molti vedevano come un’attività criminale. Il gruppo di paesi africani, altri paesi in via di sviluppo e Greenpeace hanno condannato la Convenzione ma hanno continuato a lavorare al suo interno per ottenere il divieto. La decisione di Basilea sul divieto prende infine piede il 1 gennaio del 1998 e riguarda tutte le forme d’esportazione di rifiuti pericolosi dai 29 paesi più ricchi e industrializzati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo Economico (OECD) verso tutti i paesi non OECD. Se gli scandali sull’esportazione dei rifiuti fossero solo incidenti isolati, forse il problema non sarebbe così importante. Tuttavia, circa 3 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi e tossici vanno ogni anno a mare alla ricerca di un luogo dove essere scaricati. Un rapporto della Commissione per i Diritti Umani dell’Onu del 1998 ha indicato gli Stati Uniti e L’Europa come i maggiori esportatori di rifiuti tossici. Le spedizioni di rifiuti UE .. Ci sono cose che non sappiamo (Donald Rumsfeld) I dati statistici riferiti alla commissione dagli stati membri mostrano un numero crescente di spedizioni illegali. Tuttavia, non è chiaro se questo sia dovuto ad un vero aumento delle spedizioni illegali o ad un migliore monitoraggio). (EEA) Secondo l’agenzia ambientale Europea, dal 1997 al 2005 l’esportazione legale di rifiuti ( che include per la maggior parte rifiuti pericolosi e problematici da paesi membri della UE a altri paesi UE e non UE) si è quasi quadruplicata. Di conseguenza è cresciuto anche il numero di spedizioni illegali. Il numero annuale delle spedizioni illegali di cui si ha notizia risulta essere tra 7.000 e 47.000 tonnellate con una media di circa 22.000 tonnellate. Questi probabilmente sono dati di minima perché i rapporti non contengano informazioni sulle quantità spedite. E’ presumibile che il numero di spedizioni illegali di cui si ha notizia sia una frazione minima del numero effettivo e che il numero delle spedizioni illegali sia invece considerevole. Tra il 1986 e il 1989 Greenpeace ha mostrato una serie di esportazioni di rifiuti pericolosi da paesi UE verso L’Europa dell’est, L’Africa, e l’America Latina. In seguito alla istituzione della Convenzione di Basilea, la UE ha adottato il Regolamento EC 259/93 sulla supervisione e il controllo delle spedizioni di rifiuti. Modifiche successive del Regolamento 259/93 hanno

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rispecchiato i passi in avanti della convenzione di Basilea, in particolare l’adozione del divieto di Basilea all’esportazione di rifiuti pericolosi verso i paesi non OCED del 1998. Vietare la spedizione di rifiuti pericolosi per farli eliminare nei paesi poveri è una conquista lodevole. Nonostante ciò grandi quantità di rifiuti vengono spediti dall’Europa e dagli Stati Uniti in Africa e in Asia quotidianamente. La maggior parte di queste spedizioni riguardano rifiuti elettronici (e-waste). Per la Convenzione di Basilea la maggior parte di queste sono illegali. I Governi dei paesi ricchi permettono questo traffico chiudendo un occhio, rifiutando di stanziare risorse per implementare correttamente le proprie politiche di esportazione dei rifiuti. Nel rapporto del 2009 sull’allargamento del regolamento 259/93 sulle politiche sull’esportazione dei rifiuti da parte degli stati membri, la Commissione sottolineò: “I rapporti (degli Stati Membri) su incidenti specifici e/o sull’interruzione delle spedizioni illegali di rifiuti sono incoerenti e presumibilmente non realistici”. Il caso dei rifiuti elettronici Nel 2003 la Ue ha adottato il regolamento più restrittivo del mondo sull’ e-waste, la Direttiva sui Rifiuti Elettrici e Strumenti Elettronici (WEEE). Obiettivo della direttiva è raccogliere e riciclare separatamente 4 chili di rifiuti pro capite all’anno. Un testo rivisto e proposto dalla Commissione Europea nel dicembre del 2008 fissa degli obiettivi obbligatori di raccolta pari al 65% del peso medio degli strumenti elettrici ed elettronici immessi sul mercato nei due anni precedenti da ogni Stato membro. La revisione dovrebbe aiutare ad affrontare le grosse carenze nell’applicazione della direttiva WEEE da parte degli Stati Membri. Secondo la Commissione Europea circa il 70% dell’ e-waste non viene calcolato. Solo circa un terzo dei rifiuti di strumenti elettrici ed elettronici (33%) risulta trattato in base alla legislazione. Il resto andrebbe interrato (13%) e spedito per un utilizzo di bassa qualità dentro o fuori la UE (54%). Delle 8,7 milioni di tonnellate di e-waste prodotte l’anno nella UE, un buon 5,8 milioni di tonnellate non viene riciclato. E’ probabile che l’esportazione illegale verso paesi non UE rappresenti larga parte di questa quantità. Nell’ottobre del 2005 il Basel Action Network (BAN) aveva già fatto emergere la verità sul “commercio dei televisori usati” verso la Nigeria. Il Rapporto BAN “The Digital Dump” (la discarica digitale ndt) dice che nel porto nigeriano di Lagos arrivano ogni mese circa 500 container di materiale elettronico usato, ognuno con un carico di circa 800 computer, per un totale di circa 400.000 computer usati al mese. La maggioranza di questi strumenti che arriva a Lagos è inutilizzabile e neanche economicamente riparabile o rivendibile. La Nigeria, come molti paesi in via di sviluppo, può solo sistemare strumenti usati funzionanti. Questo significa che gli strumenti importati spesso finiscono sotto terra, dove le tossine inquinano l’acqua e creano condizioni malsane. Nel 2008 una squadra di Greenpeace è andata in Ghana a documentare e raccogliere prove di quanto accade realmente con il nostro e-waste. Li hanno trovato container pieni di vecchi computer spesso rotti, schermi e televisori di ogni marca spediti in Ghana dalla Germania, dalla Corea, dalla Svizzera e dall’Olanda con la falsa etichetta di “Beni di seconda mano”. La maggior parte del contenuto dei container è finito nelle discariche del Ghana per essere fatto a pezzi e bruciato da lavoratori senza protezione. Alcuni commercianti riferiscono che affinché gli venga consegnato uno dei container con un paio di computer funzionanti, devono accettare da parte degli esportatori dei paesi industrializzati, anche rottami come vecchi schermi non funzionanti. Conclusioni: La mancanza di applicazione delle leggi, di controllo e di raccolta dei dati sull’esportazione dei rifiuti della UE è comune a tutti gli stati membri per la ragione molto semplice che le spedizioni

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illegali di rifiuti verso i paesi poveri fanno risparmiare molti soldi sia agli imprenditori che alle agenzie governative che hanno il compito di monitorare l’allargamento della legislazione UE in materia di rifiuti. Negli ultimi 25 anni i governi nazionali della UE hanno resistito con successo alla richiesta da parte del Parlamento Europeo di adottare criteri armonizzati riguardanti le ispezioni ambientali e il rafforzamento della legge sui rifiuti, in particolare sulla spedizione dei rifiuti. L’unica istituzione europea che promuove la cooperazione nell’affrontare la questione dell’esportazione illegale di rifiuti pericolosi è una ONG composta da agenzie governative e coordinata dalla Commissione Europea. Il network dell’Unione Europea per l’allargamento e il rafforzamento delle leggi sull’ambiente (IMPEL) è un’associazione non-profit internazionale composta da autorità ambientaliste degli Stati Membri o che stanno entrando, o che sono candidati all’ingresso nell’Unione Europea o, infine, dei paesi EEA. L’iscrizione all’IMPEL è volontaria. L’IMPEL può fornire esclusivamente la struttura per il policy-making, per gli ispettori ambientali e incaricati per l’applicazione della legge “per scambiare idee e incoraggiare lo sviluppo di strutture per l’applicazione e le buone pratiche”. Mentre una ONG governativa fa del suo meglio per unire su base volontaria i rappresentati della UE che si occupano dell’applicazione delle leggi e che si trovano a combattere il complesso, globale e multimilionario crimine ambientale, l’esportazione di rifiuti pericolosi verso i paesi non-OECD prosegue e un numero di problemi chiave resta irrisolto: Al momento non è possibile documentare a livello UE che tipo specifico di rifiuti pericolosi e problematici viene spedito all’estero. Infatti il 40-50% dei rifiuti trasferito furori dalla UE è definito semplicemente come “altri rifiuti”. Secondo le definizioni dettate dalla Convenzione di Basilea questi dovrebbero essere rifiuti casalinghi e residui dell’incenerimento di rifiuti analoghi che andrebbero però sottoposti allo stesso controllo dei rifiuti pericolosi. Tuttavia, la natura di questo tipo di rifiuti è ampiamente sconosciuta. E’ probabile che molti trasferimenti di rifiuti portino a crimini ambientali e contro la salute pubblica nei paesi riceventi. E’ difficile seguire il flusso di alcuni rifiuti, in particolare quello dell’e-waste e di altri rifiuti industriali, poiché vengono spesso confusi come beni riutilizzabili. In conclusione, al momento sappiamo che la maggior parte del trasferimento di rifiuti fuori dalla UE è determinato dalla ricerca di un maggior guadagno. Sappiamo che un buon numero di rifiuti nocivi è spedito in regioni, paesi e strutture con standard di qualità più bassi, dove manca la supervisione e l’applicazione delle leggi. Le richiesta di Greenpeace In base alle scoperte e alle informazioni riassunte nel presente rapporto, Greenpeace crede che: L’ONU debba portare avanti una valutazione indipendente sul presunto scarico di rifiuti tossici e radioattivi in Somalia, in particolare nell’area del porto di Eel Ma’aan;

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La UE deve rafforzare le misure preventive sul commercio dei rifiuti tossici, che sono uno dei pilastri della politica UE sui rifiuti; L’Italia deve creare un forte coordinamento tra le Autorità investigative (Procure della Repubblica) che hanno, e ancora lo fanno, lavorato sul tema del traffico dei rifiuti tossici e radioattivi per identificare e neutralizzare la rete di imprese e persone che gestiscono il traffico illegale di rifiuti inviati nei paesi un via di sviluppo con l’aiuto delle reti criminali e il sostegno di funzionari statali; L’Italia deve creare, presso il Ministero dell’Ambiente per la protezione del territorio e del mare, un'autorità operativa che censisca tutte le attività recenti, sovvenzionate da diversi Ministeri e Regioni, riguardanti l’inquinamento dovuto a sostanze tossiche e radioattive in mare aperto, nelle acque in superficie e nei sedimenti. Una simile authority dovrebbe anche raccogliere tutte le informazioni dai lavoratori marittimi (inclusi i pescatori) in modo da elaborare e eseguire una ricerca mirata dei relitti delle navi note come “navi tossiche”. Una simile ricerca deve utilizzare tutte le competenze nazionali e internazionali e fare uso di istituiti di ricerca indipendenti; Infine, l’Italia deve preparare ed eseguire, sulla base della cooperazione tra il Ministero dell’Ambiente per la Protezione del Territorio e del Mare e il Dipartimento della protezione civile della Presidenza del Consiglio, un'azione mirata volta a identificare e ripulire tutti i possibili relitti delle “navi tossiche”. Un simile progetto dovrebbe anche basarsi sulle conclusioni di un gruppo di lavoro tecnico composto da tutte le autorità investigative e i servizi di intelligence, istituito presso il Ministero degli Interni e sostenuto all’Istituto Superiore di sanità (ISS). Allegato - Casi storici di spedizioni di rifiuti Il Viaggio della Khian Sea Il 31 agosto del 1986 la nave da trasporto Khian Sea carica 14,000 tonnellate di ceneri tossiche prodotte dagli inceneritori inizia un’odissea che simbolo di un problema che condividiamo tutti: cosa fare con i nostri rifiuti. A cominciare dagli anni ’70 la citta di Philadelphia negli Stati Uniti ha bruciato la maggior parte dei rifiuti municipali e inviato le ceneri prodotte in una discarica del New Jersey. Nel 1984, quando il New Jersey si è rese conto che le ceneri contenevano quantità di arsenico, cadmio, piombo, mercurio, diossina e altri elementi tossici classificabili come rifiuti nocivi, si rifiutò di accettarne delle altre. Dopo che anche altri sei stati si rifiutarono di accettare le spedizioni di ceneri provenienti dall’inceneritore, Philadelphia si trovò nei guai. Cosa poteva fare delle 180,000 tonnellate di quella roba prodotta ogni anno? La risposta fu di spedirle lontano, verso paesi con standard ambientali meno rigidi. Uno spedizioniere locale si offrì di spedirli ai Carabi. La Khian Sea doveva essere la prima di queste consegne. Quando la Khian Sea cercò di scaricare il suo carico nelle Bahamas, non fu però accettata. Nei 14 mesi a seguire alla nave fu finanche rifiutato l’ingresso nella Repubblica Domenicana, Honduras, Panama, Bermuda, Guinea Bissau (nell'Africa occidentale) e nelle Antille Olandesi. Poi, alla fine del 1987, il governo di Haiti diede un permesso per l’importazione di “fertilizzanti”, e l’equipaggio scaricò 4000 tonnellate di cenere sulla spiaggia vicino alla città di Goinaives. Allertati da Greenpeace sul fatto che la cenere non era veramente un fertilizzante, le autorità haitiane revocarono il permesso e ordinarono che tutto fosse caricato di nuovo sulla nave, ma la Khian Sea fuggì di notte, lasciando dietro di se una montagna di ceneri sparse. Parte dei rifiuti furono portati all’interno e seppelliti, ma la maggior parte rimase sulla spiaggia, sparsa lentamente in giro dal vento e gettata in mare. Dopo aver lasciato Haiti, la Khian Sea si reca in Senegal, Marocco, Yugoslavia, Sri Lanka; e Singapore cercando un luogo dove scaricare il suo carico tossico. Mentre girava per gli oceani alla

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ricerca di un porto, la nave cambiò nome da Khian Sea a Felicia, e poi a Pellicano: la sua registrazione fu trasferita dalla Liberia alle Bahamas e all'Honduras nel tentativo di nascondere la sua vera identità, ma nessuno volle la nave o il suo contenuto. Due anni, tre nomi, quattro continenti e 11 paesi dopo, il problematico carico era ancora a bordo. Ad un certo punto in qualche parte nell’Oceano Indiano tra Singapore e lo Sri Lanka le ceneri scomparvero. Interrogato sulla faccenda l’equipaggio non aveva commenti da fare se non che queste fossero sparite. Tutti assumono, ovviamente, che una volta fuori dalla vista della terraferma, esse siano state semplicemente gettate in acqua. Anni dopo, il capitano della Khian Sea/ Felicia/Pellicano ammise in aula che le ceneri erano state gettate negli Oceani Atlantico e Indiano. Il caso della Probo Koala Il 2 luglio 2006 una nave chiamata Probo Koala affittata dal gruppo Trafigura, un gestore di petrolio, cerca di scaricare rifiuti ad Amsterdam. Insospettive dall’odore forte dei rifiuti e quindi dalla loro probabile natura tossica, le autorità portuali dissero alla nave che i rifiuti sarebbero stati più costosi da scaricare. La nave rifiutò di pagare ulteriori costi e lasciò Amsterdam. Dove sia andata la nave tra il 2 luglio e il 19 agosto e cosa abbia fatto del suo carico tossico resta poco chiaro. Il 19 agosto 2006 la Probo Koala scarica un carico di rifiuti tossici ad Abidijan, la principale capitale economica della Costa D’Avorio. Ma fu solo nella prima settimana di settembre che l’incidente venne alla luce. Il Ministro della salute ivoriano annunciò una riunione straordinaria che portò alla rimozione del suo governo il 6 settembre. I rifiuti sarebbero dovuti essere trattati da una società ivoriana di gestione de rifiuti. Di fatto i rifiuti, che consistevano di idrocarburi volatili, furono sparsi in 11 siti della città. I sintomi riferiti da quanti sono entrati in contatto con i rifiuti comprendono problemi respiratori, nausea, debolezza, vomito (incluso il vomitare sangue), bruciore e irritazione. Sette persone sono morte, mentre più di 30,000 hanno avuto bisogno di assistenza medica. Nel febbraio del 2007 la Trafigura ha pagato 152 milioni di euro al governo ivoriano per rimuovere i rifiuti. In cambio il presidente ivoriano ha accettato di ritirare ogni accusa nei confronti della compagnia e dei suoi presidenti e si è impegnato a non portare avanti altre richieste finanziarie alla compagnia. A settembre del 2009 la Tra figura ha accettato di pagare un compenso di 1.100 euro ad ognuna delle 30.000 persone che si ritiene abbia fatto ammalare. Il primo giugno del 2010, la Trafigura e altre compagnie sono state accusate di reato dalla corte penale di Amsterdam in seguito alle denunce di Greenpeace del 2006. Greenpeace ritiene il commerciante internazionale di petrolio responsabile di aver scaricato rifiuti tossici illegali dalla nave Probo Koala in Costa d’Avorio nel 2006. La Trafigura nega ogni responsabilità e indica l’impresa locale Tommy come parte in causa responsabile dello scarico dei rifiuti. Sotto processo si trovano la Trafigura, uno dei suoi commercianti inglesi, e il capitano della Probo Koala per occultamento della vera natura dei rifiuti tossici e per l’import export illegale di questi rifiuti pericolosi. La città di Amsterdam è accusata di averli assistiti nell’esportazione di questi rifiuti pericolosi in Costa d’Avorio. Lo scarico dei rifiuti in Costa d’Avorio non riguarda invece il processo di Amsterdam. Già a settembre del 2009 Greenpeace aveva presentato un reclamo alla corte d’appello dell’Aja contro il rifiuto della pubblica accusa di incriminare la Trafigura per lo scarico dopo una breve investigazione senza risultati sui fatti avvenuti in Costa d’Avorio. Nel frattempo sono emerse nuove

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informazioni. E-mail internazionali mostrano di come la dirigenza della Trafigura fosse a conoscenza della pericolosità dei rifiuti e che l’esportazione in Africa era illegale per la legge europea. Anche i camionisti che trasportarono e scaricarono i rifiuti si sono di recente presentati con nuove informazioni, dichiarando di essere stati pagati per riferire che i rifiuti che trasportavano non erano tossici. Greenpeace ha presentato queste denunce all’ufficio dell’accusa il 14 maggio 2010, chiedendo un’indagine. La decisione di procedere anche sullo scarico di Abidjan dovrebbe essere presa a ottobre 2010. Dalla scoperta di questo scandalo, la Trafigura ha cercato di nascondere la verità trattenendo le informazioni, pagando i più cari e migliori tra gli avvocati e uffici di pubbliche relazioni e minacciando di diffamazione per zittire il dibattito pubblico. Greenpeace crede che la Trafigura debba assumersi le proprie responsabilità in aula, fornendo piena collaborazione nel cercare la verità su questo disastro ambientale.