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7/14/2019 Texto de Casagrande.pdf http://slidepdf.com/reader/full/texto-de-casagrandepdf 1/15 1 Carla Casagrande (Università di Pavia) I sette vizi capitali: storia di un successo *  I sette vizi capitali sono un’invenzione della cultura medievale. Certo i vizi sono sempre esistiti e sono un argomento sempre ‘di moda’, un oggetto quasi obbligato per chiunque si occupi o si sia occupato nel passato non solo di etica ma anche di antropologia, psicologia, retorica, politica. Il Medioevo non ha certo inventato né i vizi né il discorso sui vizi. Basti pensare a tutto ciò che è stato detto su questo tema nelle due tradizioni che sono alla base della cultura occidentale: la tradizione greco-romana da una parte e quella ebraico- cristiana dall’altra. La riflessione etica dei filosofi greci è in larga parte un discorso sui vizi dell’uomo; dei vizi hanno parlato con abbondanza ed efficacia i principali autori della letteratura latina da Cicerone a Quintiliano, da Orazio a Giovenale a Seneca. D’altro canto i testi biblici, dell’Antico e del Nuovo Testamento, contengono quasi a ogni pagina riferimenti ai vizi; spesso li elencano in lunghe liste che sembrano prefigurare sistemi codificati. Eppure, nonostante questa sovrabbondanza di discorsi sui vizi, è soltanto con il Medioevo che nasce e si afferma l’idea di sette vizi capitali. Le origini di quest’idea, ancora in parte oscure 1 , si collocano infatti tra V e VI secolo, periodo tradizionalmente considerato l’inizio del Medioevo; il suo declino sembra coincidere con la frattura della Riforma protestante che segna l’avvio dell’Età moderna. La storia dei sette vizi capitali dura dunque circa mille anni, i mille anni del Medio Evo, e sono mille anni nei quali questo schema diventa progressivamente sempre più importante finendo con il collocarsi al centro della vita morale degli uomini e delle donne. Pensato da monaci per altri monaci, il settenario nasce e si afferma dapprima all’interno dei monasteri dove i sette vizi rappresentano gli ostacoli da superare lungo il cammino di perfezione cui i monaci si sono votati. Ma è soprattutto fuori dal monastero che il settenario celebra il suo trionfo. Tra XII e XIII secolo i profondi cambiamenti che coinvolgono la teologia e la pastorale cristiana impongono una riflessione nuova sul tema del peccato e, soprattutto, l’esigenza di una più capillare opera di istruzione e controllo dei laici. In questo contesto predicatori, confessori, maestri di teologia riscoprono il vecchio schema monastico dei * Questo intervento costituisce una riflessione sui temi fondamentali di una ricerca condotta in collaborazione con Silvana Vecchio sui sette vizi capitali in epoca medievale; ricerca che ha portato alla pubblicazione del volume  I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino 2000, al quale rimando per ogni ulteriore approfondimento e indicazione. 1 M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins. An Introduction to the History of a religious Concept, with Special Reference to Medieval Englush Literature, East Leasing Michigan 1952, pp. 43-67.

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Carla Casagrande (Università di Pavia)

I sette vizi capitali: storia di un successo * 

I sette vizi capitali sono un’invenzione della cultura medievale.

Certo i vizi sono sempre esistiti e sono un argomento sempre ‘di moda’, un oggetto quasi

obbligato per chiunque si occupi o si sia occupato nel passato non solo di etica ma anche di

antropologia, psicologia, retorica, politica. Il Medioevo non ha certo inventato né i vizi né il

discorso sui vizi. Basti pensare a tutto ciò che è stato detto su questo tema nelle due tradizioni che

sono alla base della cultura occidentale: la tradizione greco-romana da una parte e quella ebraico-

cristiana dall’altra. La riflessione etica dei filosofi greci è in larga parte un discorso sui vizi

dell’uomo; dei vizi hanno parlato con abbondanza ed efficacia i principali autori della letteratura

latina da Cicerone a Quintiliano, da Orazio a Giovenale a Seneca. D’altro canto i testi biblici,

dell’Antico e del Nuovo Testamento, contengono quasi a ogni pagina riferimenti ai vizi; spesso li

elencano in lunghe liste che sembrano prefigurare sistemi codificati.

Eppure, nonostante questa sovrabbondanza di discorsi sui vizi, è soltanto con il Medioevo che

nasce e si afferma l’idea di sette vizi capitali.

Le origini di quest’idea, ancora in parte oscure1, si collocano infatti tra V e VI secolo, periodo

tradizionalmente considerato l’inizio del Medioevo; il suo declino sembra coincidere con la frattura

della Riforma protestante che segna l’avvio dell’Età moderna. La storia dei sette vizi capitali dura

dunque circa mille anni, i mille anni del Medio Evo, e sono mille anni nei quali questo schema

diventa progressivamente sempre più importante finendo con il collocarsi al centro della vita

morale degli uomini e delle donne. Pensato da monaci per altri monaci, il settenario nasce e si

afferma dapprima all’interno dei monasteri dove i sette vizi rappresentano gli ostacoli da superare

lungo il cammino di perfezione cui i monaci si sono votati. Ma è soprattutto fuori dal monastero che

il settenario celebra il suo trionfo. Tra XII e XIII secolo i profondi cambiamenti che coinvolgono la

teologia e la pastorale cristiana impongono una riflessione nuova sul tema del peccato e,

soprattutto, l’esigenza di una più capillare opera di istruzione e controllo dei laici. In questo

contesto predicatori, confessori, maestri di teologia riscoprono il vecchio schema monastico dei

* Questo intervento costituisce una riflessione sui temi fondamentali di una ricerca condotta in

collaborazione con Silvana Vecchio sui sette vizi capitali in epoca medievale; ricerca che ha

portato alla pubblicazione del volume I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino

2000, al quale rimando per ogni ulteriore approfondimento e indicazione.

1M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins. An Introduction to the History of a religious Concept,

with Special Reference to Medieval Englush Literature, East Leasing Michigan 1952, pp. 43-67.

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vizi capitali e lo utilizzano per disegnare una mappa del peccato capace di individuare e descrivere i

peccati di tutti gli uomini. La longevità e l’universalità del settenario dei vizi appaiono dunque

come le principali caratteristiche del suo straordinario successo in epoca medievale, un successo del

resto ampiamente testimoniato da una massa sterminata di fonti di diverso tipo: regole

monastiche, trattati morali, testi esegetici, agiografie, somme di teologia, prediche, testi per la

confessione, opere letterarie, rappresentazioni visive (miniature, affreschi, sculture).

Un grande successo dunque, che certamente viene meno con l’inizio della modernità, quando

finisce l’età d’oro del settenario, ma che tuttavia non si esaurisce del tutto. L’idea dei sette vizi

capitali non scompare con la fine del Medioevo; conosce una nuova vita che continua in qualche

modo fino ai nostri giorni.

Un successo così clamoroso non può non suscitare degli interrogativi. Perché il sistema dei sette

vizi si rivela così potente e duraturo tanto da costituire un topos della cultura occidentale? Quali

sono le caratteristiche che consentono di considerare per secoli questi sette concetti come la

‘fotografia del male’? Per rispondere a questa domanda credo sia opportuno risalire alle origini del

sistema settenario e individuare nelle sue prime formulazioni quei caratteri che ne hanno garantito

la forza e la durata facendone una specie di eterna geografia delle umane debolezze.

L’ordine del male

Come è noto i ‘padri’ del settenario dei vizi capitali sono due monaci: Giovanni Cassiano,

vissuto nel V secolo tra Oriente e Occidente, e Gregorio, vissuto in Italia nel secolo successivo,

divenuto papa con il nome di Gregorio Magno.

Cassiano condensa in due testi scritti per i monaci della sua comunità, le Collationes e le

 Institutiones, la dottrina che il suo maestro, il monaco orientale Evagrio Pontico, aveva elaborato

sui vizi. Il suo sistema prevede otto vizi principali dei quali vengono analizzate con accuratezza le

caratteristiche, la matrice psicologica, la pericolosità, le filiazioni, gli eventuali rimedi. Distinti in

carnali e spirituali, gli otto vizi di Cassiano sono concatenati tra loro in una doppia progressione

genealogica. Nella prima genealogia ogni vizio è risultato di un vizio precedente: l’accidia deriva

dalla tristezza, la tristezza dall’ira, l’ira dall’avarizia, l’avarizia dalla lussuria, la lussuria dalla gola,

che è quindi l’inizio di tutti i peccati. La seconda genealogia, che comprende nell’ordine superbia e

vanagloria, si innesta alla fine della prima ma non ne costituisce lo sviluppo. Anzi prende le mosse

dal suo superamento: una volta sconfitti tutti i vizi derivati dalla carne, può essere infatti che la

vittoria sugli impulsi e sui desideri generi un pericoloso sentimento di superiorità che dà luogo

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appunto a vanagloria e superbia2. Come si vede, in Cassiano la successione dei vizi capitali

scandisce un processo di perfezionamento, tipicamente monastico, che comincia con la rinuncia ai

beni del corpo e ai piaceri del mondo e prosegue nella cura dell’interiorità.

Un secolo dopo il modello generativo proposto da Cassiano viene ripreso, semplificato e nello

stesso tempo esaltato da Gregorio in una pagina dei  Moralia in Iob, uno dei libri più letti durante

tutto il Medioevo, una pagina che vale la pena di citare perché costituisce, credo, il testo fondatore

della tradizione occidentale dei vizi capitali:

“Tra i vizi che ci tentano e combattono contro di noi una guerra invisibile sotto il

dominio della superbia, alcuni avanzano alla testa dell’esercito, come comandanti, altri

seguono come soldati semplici … Non appena la regina dei vizi, la superbia, si

impadronisce pienamente del cuore dell’uomo dopo averlo piegato, ecco che lo

consegna alla devastazione dei sette vizi principali, che sono una sorta di suoiluogotenenti. A seguito di questi comandanti arriva l’esercito poiché non c’è dubbio che

da essi traggano origine multitudini di vizi …. I vizi sono legati da un vincolo di

parentela strettissimo dal momento che derivano l’uno dall’altro. La prima figlia della

superbia è infatti la vanagloria, che una volta vinta e corrotta la mente genera subito

l’invidia … l’invidia genera l’ira .. dall’ira nasce la tristezza… dalla tristezza si arriva

all’avarizia … A questo punto sopravanzano i due vizi carnali, la gola e la lussuria. Ma

è noto a tutti che la lussuria nasce dalla gola…”3 

Pur con modalità diverse, i due sistemi di vizi elaborati da Cassiano e da Gregorio, si fondano su

un’idea che costituisce il vero punto di forza del settenario dei vizi, uno dei principali motivi, se non

il principale, della sua straordinaria fortuna. L’idea cioè che l’universo del male sia un universo

2Giovanni Cassiano, Conlationes XXIV , V, ed. E. Pichery, Sources Chrétiennes 42, Paris 1955, pp.

187-217. Cassiano analizza uno a uno i vizi capitali negli ultimi otto libri delle  Institutiones

coenobiticae, ed. J.-C. Guy, Sources Chrétiennes 109, Paris 1965, pp. 186-501.

3Gregorio Magno, Moralia in Iob, XXXI, XLV, 89, ed. M Adriaen, Corpus Christianorum. Series

latina 143, Turnhout 1979, pp. 1610-1611: “Temptantia quippe uitia, quae inuisibili contra nos

proelio regnanti super se superbiae militant, alia more ducum praeeunt, alia more exercitus

subsequuntur … Ipsa namque uitiorum regina superbia cum deuictum plene cor ceperit, mox illud

septem principalibus uitiis, quasi quibusdam suis ducibus deuastandum tradidit. Quos uidelicet

duces exercitus sequitur, quia ex eis procul dubio importunae uitiorum multitudines oriuntur … Sed

unumquodque eorum tanta sibi cognatione iungitur, ut non nisi unum de altero proferatur. Prima

namque superbiae soboles inanis est gloria, quae dum oppressam mentem corruperit, mox inuidiam

gignit … Inuidia quoque iram generat … Ex ira quoque tristitia oritur … Tristitia quoque ad

auaritiam deriuatur … Post haec uero duo carnalia uitia, id est uentris ingluuies et luxuria supersunt.

Sed cunctis liquet quod de uentris ingluuie luxuria nascitur…”.

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ordinato: il peccato insomma non è puro disordine, è un disordine ordinato, un disordine che mima

e capovolge l’ordine stabilito da Dio. Questo ordine è inoltre un ordine gerarchico.

Nell’innumerevole serie dei peccati esistono colpe più gravi e colpe meno gravi, principali e

secondarie; alle prime spetta il compito di aggredire e prostrare l’animo umano e solo dopo questa

operazione di sfondamento la turba delle colpe minori può dilagare liberamente. I vizi capitali sono

per l’appunto i sette luogotenenti dell’esercito, quelli che sono a capo di tutti gli altri peccati. Di

più, quell’ordine gerarchico è anche un ordine genealogico. Le colpe principali (i vizi capitali) sono

la matrice diretta delle colpe secondarie e sono a loro volta collegate l’una all’altra da un rapporto

di filiazione. In Gregorio, la progressione genealogica ha il suo inizio nella superbia che diventa

una specie di supervizio, la madre di tutti i vizi, dalla quale direttamente o indirettamente tutti

traggono origine, dapprima i sette vizi principali-capitali, poi le loro filiazioni.

In questo modo tutti i peccati occupano un posto preciso nella famiglia dei vizi e nessuno resta

escluso. Il sistema cioè appare ordinato, completo e tendenzialmente chiuso. Non c’è peccato, per

quanto nuovo, fantasioso, inusitato, bizzarro, che non possa essere fatto risalire, più o meno

agevolmente, a uno dei sette vizi capitali e attraverso di esso alla superbia. Questo significa che

ogni peccato è descrivibile, riconoscibile nelle sue origini, manifestazioni e conseguenze e per

questo prevedibile e curabile. Nella misura in cui l’universo della colpa viene ordinato

quell’universo diventa controllabile e forse in parte sopportabile.

Le immagini dei vizi

Tutto questo, e non è poco, viene detto sia da Cassiano sia da Gregorio in modo estremamente

efficace e suggestivo attraverso l’uso di alcune potenti metafore: la battaglia, la famiglia, il

viaggio. Non c’è nulla di esteriore, ornamentale e occasionale nell’uso di queste immagini. La

forma metaforica è la forma del discorso sui vizi capitali, un elemento costante e strutturale del

sistema, uno dei motivi della sua forza e della sua fortuna. L’impiego sistematico delle metafore, il

loro alternarsi o intersecarsi consente infatti di visualizzare concetti astratti, altrimenti difficili da

proporre, con il doppio effetto di aiutare la memoria di quanti sono tenuti a parlare dei vizi

(predicatori, confessori, direttori spirituali) e di tradurre in un linguaggio facilmente comprensibile

dai meno dotti le idee guida del discorso morale. L’uso della metafora è strutturale nel discorso sui

vizi nella misura in cui questo discorso nasce come un discorso pedagogico, che vuole intervenire,

controllare, cambiare la vita degli uomini e delle donne, un discorso che deve essere efficace, nel

quale la descrizione dell’universo del male, la ricostruzione dell’ordine dei peccati, è sempre

funzionale all’individuazione dei rimedi.

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Nato come discorso figurato, il discorso sui vizi resterà durante tutta la sua storia un discorso

figurato4. Così come avevano fatto Cassiano e Gregorio, anche i loro numerosi discepoli

continueranno a parlare dei sette vizi all’interno di immagini, e queste immagini saranno per lo più

le immagini della battaglia, della famiglia e del viaggio5.

La battaglia dei vizi, che Gregorio ha così accuratamente descritto e sulla quale insiste molto

anche Cassiano, e che oltre a loro aveva ispirato il fortunato poemetto di Prudenzio, la

Psichomachia, sarà durante tutto il Medioevo il tema dominante di molti trattatelli edificanti, sia in

latino sia in volgare, e di molte rappresentazioni, tra cui per esempio, quella della cavalcata dei vizi,

presente nelle chiese italiane e francesi del XIV e XV secolo6.

L’altra immagine, quella della famiglia dei vizi, sarà altrettanto fortunata trovando la sua

formulazione più efficace nella rappresentazione dell’albero dei vizi che ritorna in molti trattati7.

Uno dei più interessanti è indubbiamente lo Speculum conscientie, un opuscolo della seconda metà

del secolo XIII, attribuito a San Bonaventura, dove vengono descritti con precisione quasi

maniacale i singoli rami dell’albero del male, i sette vizi appunto, tutti derivanti dalla comune

4Sulle metafore dei vizi e delle virtù, vedi R. Newhauser, The Treatise on Vices and Virtues in

 Latin and Vernacular , Typologie des sources du Moyen Age occidental 68, Turnhout 1993, pp.

156-165.5

Il viaggio, a differenza della battaglia e della famiglia, non è un’immagine usata da Cassiano e

Gregorio, i due padri fondatori del sistema dei vizi capitali. Tuttavia l’immagine del viaggio è in

qualche modo implicita nel percorso di perfezionamento tracciato da Cassiano, nel quale i vizi

capitali sono considerati tappe che devono essere superate una dopo l’altra.

6Sull’immagine della battaglia A. Katzenellenbogen,  Allegories of the Virtues and Vices in

 Medieval Art from Early Christian Times to the Thirteenth Century, London 1939, pp. 1-21; J.

Houlet,  Les combats des Vertus et des Vices, Paris 1969; J. S. Norman,  Metamorphoses of an

 Allegory. The Iconography of Psychomachia in Medieval Art , New York – Bern – Frankfurt am

Main 1988; J. O’Really, Studies in the Iconography of the Virtues and Vices in the Middle Ages ,

New York – London 1988, pp. 39-82; M. Vincent-Cassy, Un modèle français: les cavalcades des

sept péchés capitaux dans les églises rurales de la fin du XVe siècle, in  Artistes , artisans et 

 production artistique au Moyen Age. Actes du Colloque de Rennes, ed. X. Barral y Altet, Paris

1990, III, pp. 461-487.

7Sull’immagine dell’albero C. Frugoni, La mala pianta, in Storiografia e storia. Studi in onore di

 E. Dupré Theseider , Roma 1974, II, pp. 651-659; J. O’Really, Studies in the Iconography of the

Virtues and Vices in the Middle Ages, pp. 323-449.

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radice, la superbia, e tutti pieni di foglie e di frutti che sono gli innumerevoli peccati secondari8.

Albero malefico, che evoca immediatamente l’albero proibito del Paradiso terrestre che determinò il

destino del primo uomo, ma che assume la fisionomia sempre più precisa di un albero genealogico,

e come tale viene spesso rappresentato, soprattutto nelle miniature, immagine araldica di quella

famiglia del male che si riproduce, sempre identica a se stessa, secondo la genetica illustrata da

Gregorio.

Fondamentale nella storia del settenario sarà anche l’immagine del viaggio nella quale si traduce

l’idea dei vizi come tappe da superare in un percorso di progressivo perfezionamento dell’anima9.

Nessuno ha illustrato meglio questa idea di Dante: il lungo viaggio nei regni dell’al di là è nel suo

complesso un percorso di penitenza e di rigenerazione spirituale che trova nel Purgatorio il luogo

per eccellenza della liberazione dai peccati non solo per i penitenti che espiano ma anche per il

pellegrino Dante che vede via via scomparire dalla sua fronte le sette P che l’angelo vi ha impresso

con la spada di fuoco. Luogo di invenzione recente, come ha insegnato Le Goff 10

, il Purgatorio è,

nella Commedia dantesca, organizzato secondo lo schema dei sette vizi capitali ad illustrare che non

può esserci espiazione se non ripercorrendo all’indietro quello schema che sorregge l’impianto

generativo del male. Le pene che secondo la legge del contrappasso affliggono i penitenti dei

singoli gironi (i macigni che opprimono i superbi, gli occhi cuciti degli invidiosi, il fumo nero che

avvolge gli iracondi, la corsa inarrestabile degli accidiosi, le corde che legano a terra gli avari, il

fango e gli odori nauseabondi che smagriscono i golosi, il fuoco che brucia i lussuriosi)

coinvolgono nella compassione anche il poeta e gli procurano, grazie al dolore che condivide con i

penitenti, la liberazione da quelle medesime colpe. La funzione catartica e al tempo stesso

deterrente della rappresentazione del Purgatorio dantesco è la stessa che hanno le rappresentazioni

visive dell’Inferno e del Purgatorio presenti nelle chiese italiane del tardo medioevo nelle quali,

come ha mostrato Jérôme Baschet, la raffigurazione delle pene dei peccatori è strutturata secondo

lo schema dei sette vizi capitali11

.

8Ps. Bonaventura da Bagnoregio, Speculum conscientiae, in Opera omnia, Collegio San

Bonaventura, VIII, Quaracchi 1898, pp. 623-645.

9C. Segre, Il viaggio allegorico-didattico: un mondo modello, in Idem, Fuori dal mondo. I modelli

nella follia e nelle immagini dell’al di là, Torino 1990, pp. 49-66.

10J. Le Goff, La naissance du Purgatoire, Paris 1981.

11J. Baschet, Les justices de l’au-delà. Les représentations de l’Enfer en France et en Italie (XIIe-

 XVe siècle), Roma 1993, pp. 291-406; Idem, I peccati capitali e le loro punizioni nell’iconografia

medievale, in C. Casagrande e S. Vecchio,  I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo,

Torino 2000, pp. 225-260.

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Ma se le metafore del viaggio, della battaglia e dell’albero mostrano i rapporti interni al

sistema dei vizi capitali, ci sono altre metafore che si concentrano invece sui singoli elementi del

sistema. Ciascuno dei vizi evoca infatti immediatamente uno o più animali: la superbia il leone,

l’avarizia il lupo, la lussuria la capra o la scimmia, l’accidia l’asino, la gola il maiale, l’invidia il

cane o il gufo, l’ira l’orso ed così via12

. Ma il vizio, malattia dell’anima, rimanda anche

inevitabilmente al ricco repertorio metaforico delle malattie del corpo: febbre, idropisia, follia,

epilessia, lebbra, letargia, paralisi, emorragia vengono variamente messe in corrispondenza con i

diversi vizi, secondo un ordine non sempre fisso, ma che comunque evidenzia i tratti comuni della

patologia del corpo e di quella dell’anima13

.

Un sistema universale

Una ordinata e riconoscibile geografia della colpa presentata in modo comprensibile ed

estremamente efficace. Basterebbe questo per spiegare il successo avuto nei secoli dal settenario

dei vizi messo a punto da Cassiano e Gregorio. Ma non basta: quel sistema morale non era solo

chiaro, ordinato, suggestivo, funzionale agli obiettivi per cui era stato costruito, quel sistema aveva

anche una portata universale. Quei sette-otto vizi sembravano infatti aver colto una volta per tutte

delle costanti dell’anima umana nelle quali tutti potevano riconoscersi. In realtà, come si è detto,

quel sistema era stato inventato ad uso e consumo dei monaci per scandire le tappe della loro fuga

dal mondo e della loro ricostruzione in terra del Paradiso perduto. Tuttavia sono proprio i padri

fondatori del settenario, e in particolare Gregorio, a garantire una dimensione universale al

settenario dei vizi mettendolo a disposizione di tutti. Tutto si consuma nel passaggio da Cassiano

a Gregorio il quale riesce a trasformare il monastico sistema dei vizi capitali di Cassiano in

schema morale ‘universale’ con poche ma decisive mosse: eliminazione di un vizio tipicamente

monastico come l’accidia, introduzione di un vizio dai forti risvolti sociali, come l’invidia, e

soppressione della doppia genealogia, che descriveva una progressione di vizi tipica di chi si era

ritirato dal mondo, a favore di un’unica genealogia fondata sulla superbia, a significare che, per

quanto diversi siano gli uomini, tutti i loro peccati, dal peccato di Adamo al più lieve dei peccati

12M. Vincent-Cassy, Les animaux et les péchés capitaux: de la symbolique à l’emblematique, in Le

monde animal et ses représentations au Moyen Age (XIe-XVe siècles), Toulouse 1985, pp. 121-132;

M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins, pp. 245-249.

13J.-L. Bataillon,  Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in “Freiburger Zeitschrift für

Philosophie und Theologie, XXXVII (1990), in particolare le pp. 330-336; più in generale sulle

metafore peccato-malattia e sacerdote-medico, vedi J.Agrimi e C. Crisciani,  Medicina del corpo e

medicina dell’anima, Milano 1978, pp. 36-53.

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che ogni uomo può commettere, non fanno altro che ripetere quel primo peccato di superbia che

separò l’angelo ribelle dal suo creatore.

A questo punto i vizi capitali sono pronti ad uscire dai monasteri, come accade già in epoca

carolingia quando un gruppo di monaci legati alla corte imperiale (Alcuino, Rabano Mauro,

Incmaro di Reims) utilizza in una serie di trattati lo schema dei vizi capitali per descrivere e

modellare i comportamenti dei laici14

. Ma è tra XII e XIII secolo che comincia la grande avventura

del settenario fuori dai monasteri. Di questa avventura possiamo indicare una data simbolica: il

1215, l’anno del IV Concilio Laterano che impone a tutti i fedeli di confessare una volta all’anno in

segreto e al proprio sacerdote tutti i loro peccati. Quella disposizione impone un’esigenza di

classificazione e di descrizione dell’universo della colpa sconosciuta nel passato: tanto per i fedeli

quanto per i sacerdoti è ormai necessaria una mappa completa del peccato che consenta loro di

riconoscere i peccati, stabilirne la gravità, individuarne le cause, gli effetti, i rimedi. Bisogna

insomma che i peccati siano confessati con ordine per essere riconosciuti, valutati, e nel caso

perdonati. Il vecchio settenario monastico, con le sue classificazioni genealogiche, si presta

mirabilmente allo scopo: mette a disposizione tecniche di introspezione psicologica, stabilisce

criteri di gravità, individua contiguità e connessioni, prevede pericoli, insomma mette ordine nei

disordinati e lacunosi racconti dei penitenti. Un famoso passo del chierico inglese Roberto di

Flamborough, tratto dalla sua somma penitenziale composta tra il 1208 e il 1215, fotografa

perfettamente la situazione:

“Quasi tutti si confessano in maniera disordinata; trascurando l’ordine dei vizi seguono

il criterio dell’età, dei luoghi, dei tempi, e dicono: “A quell’età ho commesso la tale

fornicazione, il tale adulterio, il tale furto, il tale spergiuro, il tale omicidio. Inoltre a

quell’altra età ho commesso il tale incesto, ho violato quella monaca, ho fatto il tale

sortilegio. E in questo modo si confondono e confondono anche la memoria del

sacerdote. Mi piace invece che, cominciando dalla superbia, che è la radice di tutti i

mali, tu confessi i singoli vizi con le rispettive specie, seguendo l’ordine con cui un

14M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins, pp. 80-81; R. Jehl,  Die Geschichte des Lasterschemas

und seiner Funktion. Von des Väterzeit bis zur karolingischen Erneuerung, in “Franzischanische

Studien”, LXIV (1982), pp. 261-359.

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vizio nasce e deriva dall’altro; e cioè prima la vanagloria, seconda l’invidia, terza l’ira,

quarta l’accidia, quinta l’avarizia, sesta la gola, settima la lussuria”15

.

La scelta di Roberto di Flamborough non è frutto di una personale predilezione del chierico

inglese per il settenario. Dalla fine del XII fino a tutto il XV pressoché tutti i testi per la

confessione, sia in latino sia in volgare, dalle voluminose somme penitenziali ai rapidi formulari ad

uso dei sacerdoti, dagli statuti sinodali ai manuali di istruzioni del clero fino agli agili esami di

coscienza ad uso dei penitenti, prevedono che l’individuazione e la confessione dei peccati avvenga

secondo l’ordine dei sette vizi capitali e delle loro filiazioni. Il sistema dei vizi capitali si installa,

almeno nelle intenzioni dei chierici, all’interno delle coscienze di tutti i fedeli, governa le loro

condotte verso Dio e verso il prossimo, decide del loro destino nell’al di là16

.

Il ruolo determinate assunto dal settenario nei testi per la penitenza ne determina e ne amplificala presenza in altri ambiti. Nella predicazione prima di tutto, divenuta proprio in quegli anni, grazie

alla fondazione degli ordini mendicanti, veicolo di massa di un’istruzione religiosa nella quale il

tema del peccato è certamente centrale. Interi sermoni sono dedicati al settenario o ai singoli vizi

che lo compongono; qualche volta sono interi cicli di sermoni, come capita per esempio in alcuni

Quaresimali italiani del XIV e XV secolo, a strutturasi secondo l’ordine del settenario17

. Il

predicatore, che è spesso anche confessore, propone nella predica quella griglia di peccati che il

fedele dovrà imparare a usare nella confessione e lo fa attraverso definizioni chiare e immagini

suggestive che sappiano convincere e indurre al pentimento. Spesso questo avviene in chiese dove

alla predica parlata del predicatore si aggiunge quella muta delle immagini. Affreschi e sculture che

15Roberto di Flamborough,  Liber poenitentialis, ed. J. J. F. Firth, Toronto 1971, p. 62: “Fere

omnes inordinate confitentur; quia omisso ordine vitiorum ordinem aetatis, locorum et temporum

observant, dicentes. “In illa aetate feci illam fornicationem, illud adulterium, illud furtum, illud

perjurium, illud homicidium. Item in illa aetate feci illum incestum, illam monialem procatus sum,

illud sortilegium feci.” Et ita et se et sacerdotis memoriam confundunt. Mihi placet ut incipiens a

superbia, quae est radix omnium malorum, singula cum suis speciebus confitearis gradatim vitia

prout unum ab alio nascitur et procedit. Scilicet prius vanam gloriam, secundo invidiam, tertio iram,

quarto accidiam, quinto avaritiam, sexto gulam, septimo luxuriam”.

16R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002, in

particolare il cap. III,  Il peccato, l’individuo e la Chiesa: “ordinate confiteri”, pp. 83-103.

17Su questa letteratura, cfr. a questo proposito, C. Casagrande e S. Vecchio,  La classificazione dei

 peccati tra settenario e decalogo (secoli XIII-XV), in “Documenti e Studi sulla tradizione filosofica

medievale”, V (1994), in particolare le pp. 384-385.

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adornano le chiese mostrano alberi e famiglie di vizi, battaglie e tornei tra vizi e virtù, diavoli e

animali che illustrano ad uso dei meno colti i temi predicati dal pulpito; soprattutto nelle

raffigurazione dell’al di là i sette vizi trionfano, fornendo, come ho già ricordato, una struttura alla

rappresentazione dell’Inferno e nel Purgatorio, secondo un modello che ha nel Camposanto di Pisa

la sua realizzazione più compiuta18

.

A decretare il grande revival duecentesco del settenario non solo i predicatori e i confessori.

Anche i teologi dicono la loro su quell’antico e un po’ polveroso schema chiamato ora a nuove e

importantissime funzioni. Nelle scuole il settenario viene sottoposto, come mai era accaduto prima

di allora, a una analisi razionale volta a indagarne coerenza, completezza, autorità, in una parola,

come si dice in linguaggio scolastico, sufficientia. I teologi sembrano soprattutto preoccupati di

dare un fondamento razionale a uno schema che, va ricordato, è privo di fondamenti scritturali. C’è

chi predilige un modello psicologico che collega i diversi vizi alle parti dell’anima; chi ravvisa nella

struttura stessa dell’uomo una sorta di settenario, costituito dalle tre potenze dell’anima e dai

quattro elementi del corpo; chi definisce i vizi come modi della volontà disordinata , chi interseca

tra loro queste diverse soluzioni. Ma non c’è solo un problema di coerenza interna al sistema a

preoccupare i teologi, bisogna anche che il settenario sia raccordato ad altri schemi morali, le virtù,

i precetti, i doni dello Spirito Santo, nel quadro di una teologia morale che si vuole sistematica e

razionale. Ma al di là delle singole soluzioni scelte dai vari teologi, va sottolineato che, almeno

fino al XIII secolo, il settenario resta un argomento all’ordine del giorno del dibattito teologico.

Una teologia, molto legata alla pratica pastorale, come è quella che si sviluppa tra XII e XIII secolo,

ha contribuito al successo medievale del settenario dei vizi: da Giovanni della Rochelle a

Bonaventura, da Alessandro di Hales ad Alberto Magno fino a Tommaso, tutti i grandi scolastici del

secolo XIII trattano nelle loro opere del settenario dei vizi continuando ad affidare a quell’antico

schema, pur con qualche problema, come vedremo, la funzione di descrivere e ordinare l’universo

del peccato19

.

18Vedi supra, n. 11.

19Per il dibattito scolastico sul settenario, vedi S. Wenzel, The Seven Deadly Sins: Some Problems

of Research, in “Speculum”, XLIII (1968), pp. 3-12; Idem, The Sin of Sloth: “Acedia” in Medieval

Thought and Literature, Chapel Hill Ca., pp. 38-46; Casagrande e Vecchio,  La classificazione dei

 peccati, pp. 336-343.

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E infine, a decretare che ormai il settenario è entrato anche nella cultura dei laici, il suo ingresso

nei testi della letteratura volgare, come testimonia l’uso che del settenario fanno Dante nella

Commedia e Chauser nei Canterbury Tales20

.

Insomma un unico grande discorso che ha come oggetto il settenario dei vizi risuona per tutto

l’Occidente medievale: nello spazio privato e segreto delle coscienze, in quello pubblico delle

piazze, in quello professionale delle aule universitarie, all’interno delle navate e di fronte ai portali

delle chiese, davanti alle cattedre dei maestri, durante l’incontro del penitente con il suo confessore.

Mutazioni e crisi

Tanto successo non poteva non cambiare il vecchio settenario dei vizi. Usciti dai monasteri per

entrare nel mondo a quel mondo i sette vizi hanno dovuto adeguarsi. La migliore testimonianza

dello stato del settenario nei secoli del suo trionfo mondano è costituita dalla Summa de virtutibus et 

vitiis del domenicano lionese Guglielmo Peraldo, scritta verso la metà del secolo XIII. Testo di

enorme fortuna, uno dei grandi best-seller medievali insieme alla  Bibbia, alla  Legenda aurea di

Iacopo da Varazze, alla Summa de poenitentia di Raimondo di Penafort, diffuso da centinaia di

manoscritti e decine di edizioni, volgarizzato in molte lingue, ispira gran parte della trattatistica

morale del tardo Medioevo21

.

Il settenario di Peraldo è sostanzialmente quello gregoriano con qualche variante (la vanagloria

divenuta specie della superbia, l’accidia che prende il posto della tristezza) che la tradizione aveva

già reso canonica. Nulla di nuovo apparentemente. Se non che i vizi sono divenuti ipertrofici.

L’analisi riservata a ciascuno dei vizi capitali presenta infatti una ricchezza, un’articolazione e

un’ampiezza prima sconosciute. Ogni vizio dà luogo a corposi trattati (i più lunghi sono avarizia e

lussuria) nei quali, attraverso un uso sapiente della citazione e dell’esempio, il vizio viene

analizzato nella sua natura, nelle sue conseguenze, nei suoi rimedi; le filiazioni sono in genere

quelle gregoriane all’interno delle quali però trovano ora posto moltissimi peccati, più o meno

20S. Wenzel,  Dante’s Rationale for the Seven Deadly Sins (Purg. XVII), in “Modern Language

Review”, LX (1965), pp. 529-533; Idem, The Source of Chauser’s Seven Deadly Sins, in “Traditio”,

XXX (1974), pp. 351-378.

21Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, 2 voll., Paris 1668. Per manoscritti ed

edizioni, vedi Th. Kaeppeli – E, Panella, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, II, Roma

1975, pp. 133-142, IV, Roma 1993, p. 106. Sulla fortuna di Peraldo, S. Wenzel, The Continuing

 Life of William Peraldus’s ‘Summa vitiorum’, in  Ad litteram. Authoritative Texts and Their 

 Medieval Readers, ed. M. D. Jordan e K. Emery jr., Notre Dame Ind. – London 1992, pp. 135-163;

C. Delcorno, ‘ Exemplum’ e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 1989, pp. 163-227.

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gravi, alcuni precedentemente sconosciuti, altri rivisitati, altri ancora tipici di particolari condizioni

sociali, classi di età, condizioni di vita, professioni. Ogni vizio, mostrando una notevole capacità di

espansione e una notevole flessibilità, diventa un grande contenitore di colpe tra loro anche molto

diverse quanto a gravità, condizioni e contesti di esecuzione. Si pensi per esempio che all’interno

della superbia c’è posto per un’amplissima serie di peccati che vanno dall’atto di rivolta di

Lucifero contro Dio a tutti i peccati di vanagloria delle donne che amano i vestiti sontuosi, i

gioielli, il maquillage; che l’accidia si declina ora in mancanza di fervore religioso, ora in pigrizia

nel lavoro, ora in tristezza e malinconia; che la lussuria diventa da un lato spazio di analisi

psicologica sulle dinamiche del desiderio sessuale, con un lungo elenco di tutti i turbamenti che essa

procura nell’anima e nel corpo del peccatore, e dall’altro occasione di una tipologia della sessualità

proibita, fondata su un’etica matrimoniale che si va costruendo proprio in quegli anni e che presenta

forti risvolti sociali; che l’avarizia prevede tutta una serie di attività economiche vecchie e nuove

che vanno dal furto alla simonia, dalla frode alla rapina, dall’usura alla corruzione fino alle diverse

forme di tesaurizzazione e sperpero; che l’invidia, vizio sociale per eccellenza, non a caso escluso

dalle prime formulazioni monastiche del settenario, offre lo spazio per condannare varie forme di

aggressività sociale, dalla competizione economica alla lotta politica fino alla rivoluzione, e così

via.

Questa espansione dei singoli vizi è stata favorita da un altro cambiamento fondamentale che ha

come liberato i vizi estendendone i confini interni ed esterni. E’ un cambiamento che riguarda il

sistema nel suo complesso e cioè la fine dell’ordinamento genealogico. Già in Peraldo, e il

processo sarà ancora più evidente successivamente, i vizi non derivano più uno dall’altro, ma si

succedono con criteri occasionali, in un ordine che può anche cambiare. Non basta. La genealogia

viene meno anche all’interno dei singoli vizi che prevedono, nella maggior parte casi, specie e non

più filiazioni. Insomma da classificazione genealogica il settenario è diventato una classificazione

tassonomica, un grande repertorio tematico, l’indice di una enciclopedia morale all’interno della

quale ordinare peccati tra loro simili e contigui. L’ordine dei peccati non sta più nei peccati ma nel

modo in cui gli uomini decidono di parlarne22

.

E Peraldo, come molti dopo di lui, decide di farlo con una certa libertà, senza preoccuparsi

troppo di possibili contraddizioni, incongruenze, ripetizioni. La sua preoccupazione è soprattutto

quella di costruire ad uso dei predicatori e dei confessori una mappa dei vizi il più possibile

completa, nella quale avere un elenco affidabile dei peccati più comuni e di quelli più bizzarri,

trovare definizioni, sentenze, esempi relativi ai vari peccati, avere a disposizione un repertorio

metaforico utile nella predicazione. A questo scopo dopo essersi accorto che c’è un peccato molto

22Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, in particolare le pp. 367-369.

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diffuso che non ha avuto sufficiente attenzione nell’analisi dei sette vizi tradizionali, il peccato della

lingua, non esita ad aggiungerlo ai sette vizi come ottavo vizio distinguendolo in ben 24 peccati23

.

Operazioni simili volte a sopperire alle carenze del settenario e indubbiamente facilitate dalla fine

dell’ordinamento genealogico vengono ripetute in seguito da altri autori. Accanto al settenario

compaiono sempre più spesso altre liste di peccati che rimediano alle ‘dimenticanze’ del settenario:

i peccati di pensiero, parola, opera, i peccati dei cinque sensi, i peccati contro lo Spirito santo, i

peccati alieni (quelli che implicano complicità con altri), i peccati travestiti in virtù, i peccati contro

i 10 precetti24

.

Dilatato e integrato, il settenario di Peraldo presenta poi un’altra caratteristica importante: è

analizzato all’interno di un sistema di liste morali che comprende le virtù, i doni dello Spirito

Santo, le beatitudini. Parlare di sistema nel caso di Peraldo è forse eccessivo dato che le varie

classificazioni sono giustapposte una all’altra senza che i loro elementi siano raccordati tra loro,

tuttavia è evidente il tentativo del domenicano lionese di collocare la classificazione dei vizi in

una sistema morale più ampio. L’operazione sarà più volte ripetuta in seguito fino a tutto il secolo

XV dando luogo a manuali per sacerdoti e a trattati di istruzione religiosa per laici che

prefigurano i catechismi controriformisti. A volte il settenario non si limita ad essere

accompagnato e circondato da altre liste ma le contiene, presentando all’interno dei singoli vizi

l’analisi delle virtù, dei doni dello SS, delle beatitudini, dei precetti ad essi relativi25

. In ogni caso,

ormai collocato al centro di un sistema morale complesso e articolato, il settenario è diventato non

solo il repertorio delle colpe, il sistema per eccellenza per parlare del peccato, ma il veicolo della

dottrina cristiana nel suo complesso.

Il successo del settenario sembra completo e lo è. Tuttavia in quel successo ci sono le cause

della futura sconfitta, anzi sono proprio gli stessi motivi che garantiscono la fortuna del settenario

a costituire la cause del suo lento ma progressivo declino. Innanzitutto, la proliferazione di altri

sistemi morali dentro o a fianco del settenario, se ne esalta la centralità, ne mette anche in luce le

carenze e le difficoltà. La pretesa di completezza, che era stata il suo punto di forza, risulta

23Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, II, p.371: “Ultimo inter peccata dicendum est

de peccato linguae, quia istud peccatum remanet post alia peccata”. Vedi C. Casagrande e S.

Vecchio,  I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma

1987.

24C. Casagrande, La moltiplicazione dei peccati. I cataloghi dei peccati nella letteratura pastorale

dei secoli XIII-XV , in  La peste nera. Dati di una realtà ed elementi di una interpretazione, Atti del

XXX Convegno storico internazionale, Todi 10-13 ottobre 1993, Spoleto 1994, pp. 253-284.

25Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, pp. 377-381.

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vanificata dalle continue integrazioni di vizi nuovi o ‘dimenticati’. D’altra parte il rapporto con le

sette virtù canoniche e con i doni dello Spirito Santo mostra molte incongruenze. All’interno di una

morale che si vuole sistematica il settenario procura insomma qualche problema. Inoltre, la

dissoluzione dell’impianto genealogico, che garantisce al sistema settenario e ai suoi componenti

flessibilità e capacità di espansione, ne mette però in luce la natura convenzionale. Il sistema dei

vizi capitali non riflette la dinamica del peccato, si limita, e certo non è poco, a classificare

efficacemente i peccati. Il settenario paga il suo ruolo di centro e contenitore di tutta la morale

cristiana con la perdita della sua capacità di indagare le anime, di rivelarne i movimenti segreti, di

essere strumento di introspezione. Divenuto un semplice sistema di classificazione, certo potente

ma convenzionale, può essere sostituito da altri sistemi più autorevoli o più efficaci, come per

esempio le tre concupiscenze di cui si parla nel Vangelo di Giovanni, le sette virtù, i dieci

comandamenti .

I primi a denunciare le insufficienze del settenario sono i teologi. Dalla metà del secolo XIII

sottopongono il settenario dei vizi a una serie di critiche che ne denunciano la debolezza

dell’impianto generativo, l’incompletezza, l’assenza di fondamento scritturale, le incongruenze

all’interno di una morale sistematica. Alla fine di questa analisi impietosa il settenario viene escluso

dal dibattito teologico: utile per i predicatori e i confessori, presenta troppe contraddizioni per avere

un qualche interesse per i teologi. Esemplare il percorso di Tommaso: se nel De malo il domenicano

affida al sistema dei sette vizi la descrizione dell’universo del peccato, nella Somma teologica quel

sistema viene come polverizzato all’interno di un morale costruita a partire dalle virtù, nella quale

i sette vizi compaiono in ordine sparso all’interno dell’analisi delle singole virtù. Significativa e

anche definitiva la posizione di Duns Scoto all’inizio del XIV secolo che propone di sostituire il

settenario, giudicato incapace di individuare sia le radici dei peccati sia i peccati principali, con il

settenario delle virtù o, preferibilmente, con il più autorevole e completo decalogo26

.

Sconfitto in ambito teologico già nei primi anni del XIV, il settenario continua in realtà a

trionfare in ambito pastorale nelle forme e con le funzioni che abbiamo visto, per nulla turbato

dalla concorrenza del decalogo al quale viene spesso affiancato, integrato, sovrapposto27

.

Bisognerà aspettare la Riforma perché quella crisi annunciata esploda. Vituperato da Lutero,

rifiutato in ambito riformato, anche presso i cattolici il settenario avrà una presenza sempre più

limitata. Insomma, con l’avvento della modernità, la fortuna del settenario finisce; certo si

26Duns Scoto, Quaestiones in secundum librum Sententiarum, dist. III, q. 7, in Opera Omnia, XII,

Parisiis 1893, p. 364; dist. XLII, q. 5, XIII, p. 47. Sulla “crisi” del settenario in ambito teologico,

vedi Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, pp. 334-361.

27Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, pp. 377-393.

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continuerà a fare riferimento a quel sistema in opere religiose e letterarie anche importanti, ma i

sette vizi cessano di essere l’ordine del regno del male. La dottrina della Chiesa non porrà più i vizi

capitali al centro della vita morale dei fedeli. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, redatto per

iniziativa di Giovanni Paolo II e pubblicato nel 1992, i sette vizi sono citati ma si tratta di una

piccola citazione (quattro righe all’interno del capitolo del peccato), un omaggio alla tradizione più

che l’indicazione ai fedeli di uno strumento utile per riconoscere le loro colpe28

.

Questo non vuol dire che i peccati capitali siano scomparsi. Anzi, essi sono dovunque: nei film,

nella pubblicità, nel teatro, nelle opere musicali, nelle rappresentazioni artistiche, nei convegni

storici. Ho prima ricordato come i vizi capitali siano ormai una categoria della cultura occidentale

da tutti più o meno conosciuta. Ma questi vizi, che si trovano dovunque, non hanno più la stessa

funzione che avevano nel Medioevo; non provvedono più, come nel Medioevo, all’integrità morale

dell’individuo, alla solidità delle famiglie, all’ordine della società e, soprattutto, alla salvezza delle

anime. Possono ancora essere un buon sistema di classificazione, ma quel che classificano è

qualcosa che non è più o non è solo peccato. I vizi sono diventati soprattutto categorie

psicologiche che descrivono attitudini e comportamenti non necessariamente colpevoli. Categorie

descrittive, come una volta, ma non più, come una volta, categorie normative. In quanto tali i vizi

non fanno più paura. Non a caso ci si domanda spesso quale sia il peccato preferito; non a caso ci

sono vizi che non sembrano più tali e vizi di cui addirittura ci si può vantare: la gola, la lussuria ,

la superbia … I vizi sono ormai diventati occasione di conversazione, di ricreazione, qualche volta

di studio. Insomma il settenario dei peccati capitali è restato un sistema più o meno efficace di

catalogazione psicologica e un oggetto culturale molto suggestivo, ma non è più, come era, un

oggetto teologico al quale veniva affidata la salvezza dell’umanità. I nostri vizi capitali

assomigliano ai vizi capitali degli uomini e delle donne del Medioevo, ma certamente non sono più

la stessa cosa.

28 Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano 1992, 1866, pp. 471-472: “I vizi possono

essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono, oppure possono essere collegati ai

 peccati capitali che l’esperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san

Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia,

l’avarizia, l’invidia, l’ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia”.