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Carla Casagrande (Università di Pavia)
I sette vizi capitali: storia di un successo *
I sette vizi capitali sono un’invenzione della cultura medievale.
Certo i vizi sono sempre esistiti e sono un argomento sempre ‘di moda’, un oggetto quasi
obbligato per chiunque si occupi o si sia occupato nel passato non solo di etica ma anche di
antropologia, psicologia, retorica, politica. Il Medioevo non ha certo inventato né i vizi né il
discorso sui vizi. Basti pensare a tutto ciò che è stato detto su questo tema nelle due tradizioni che
sono alla base della cultura occidentale: la tradizione greco-romana da una parte e quella ebraico-
cristiana dall’altra. La riflessione etica dei filosofi greci è in larga parte un discorso sui vizi
dell’uomo; dei vizi hanno parlato con abbondanza ed efficacia i principali autori della letteratura
latina da Cicerone a Quintiliano, da Orazio a Giovenale a Seneca. D’altro canto i testi biblici,
dell’Antico e del Nuovo Testamento, contengono quasi a ogni pagina riferimenti ai vizi; spesso li
elencano in lunghe liste che sembrano prefigurare sistemi codificati.
Eppure, nonostante questa sovrabbondanza di discorsi sui vizi, è soltanto con il Medioevo che
nasce e si afferma l’idea di sette vizi capitali.
Le origini di quest’idea, ancora in parte oscure1, si collocano infatti tra V e VI secolo, periodo
tradizionalmente considerato l’inizio del Medioevo; il suo declino sembra coincidere con la frattura
della Riforma protestante che segna l’avvio dell’Età moderna. La storia dei sette vizi capitali dura
dunque circa mille anni, i mille anni del Medio Evo, e sono mille anni nei quali questo schema
diventa progressivamente sempre più importante finendo con il collocarsi al centro della vita
morale degli uomini e delle donne. Pensato da monaci per altri monaci, il settenario nasce e si
afferma dapprima all’interno dei monasteri dove i sette vizi rappresentano gli ostacoli da superare
lungo il cammino di perfezione cui i monaci si sono votati. Ma è soprattutto fuori dal monastero che
il settenario celebra il suo trionfo. Tra XII e XIII secolo i profondi cambiamenti che coinvolgono la
teologia e la pastorale cristiana impongono una riflessione nuova sul tema del peccato e,
soprattutto, l’esigenza di una più capillare opera di istruzione e controllo dei laici. In questo
contesto predicatori, confessori, maestri di teologia riscoprono il vecchio schema monastico dei
* Questo intervento costituisce una riflessione sui temi fondamentali di una ricerca condotta in
collaborazione con Silvana Vecchio sui sette vizi capitali in epoca medievale; ricerca che ha
portato alla pubblicazione del volume I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino
2000, al quale rimando per ogni ulteriore approfondimento e indicazione.
1M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins. An Introduction to the History of a religious Concept,
with Special Reference to Medieval Englush Literature, East Leasing Michigan 1952, pp. 43-67.
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vizi capitali e lo utilizzano per disegnare una mappa del peccato capace di individuare e descrivere i
peccati di tutti gli uomini. La longevità e l’universalità del settenario dei vizi appaiono dunque
come le principali caratteristiche del suo straordinario successo in epoca medievale, un successo del
resto ampiamente testimoniato da una massa sterminata di fonti di diverso tipo: regole
monastiche, trattati morali, testi esegetici, agiografie, somme di teologia, prediche, testi per la
confessione, opere letterarie, rappresentazioni visive (miniature, affreschi, sculture).
Un grande successo dunque, che certamente viene meno con l’inizio della modernità, quando
finisce l’età d’oro del settenario, ma che tuttavia non si esaurisce del tutto. L’idea dei sette vizi
capitali non scompare con la fine del Medioevo; conosce una nuova vita che continua in qualche
modo fino ai nostri giorni.
Un successo così clamoroso non può non suscitare degli interrogativi. Perché il sistema dei sette
vizi si rivela così potente e duraturo tanto da costituire un topos della cultura occidentale? Quali
sono le caratteristiche che consentono di considerare per secoli questi sette concetti come la
‘fotografia del male’? Per rispondere a questa domanda credo sia opportuno risalire alle origini del
sistema settenario e individuare nelle sue prime formulazioni quei caratteri che ne hanno garantito
la forza e la durata facendone una specie di eterna geografia delle umane debolezze.
L’ordine del male
Come è noto i ‘padri’ del settenario dei vizi capitali sono due monaci: Giovanni Cassiano,
vissuto nel V secolo tra Oriente e Occidente, e Gregorio, vissuto in Italia nel secolo successivo,
divenuto papa con il nome di Gregorio Magno.
Cassiano condensa in due testi scritti per i monaci della sua comunità, le Collationes e le
Institutiones, la dottrina che il suo maestro, il monaco orientale Evagrio Pontico, aveva elaborato
sui vizi. Il suo sistema prevede otto vizi principali dei quali vengono analizzate con accuratezza le
caratteristiche, la matrice psicologica, la pericolosità, le filiazioni, gli eventuali rimedi. Distinti in
carnali e spirituali, gli otto vizi di Cassiano sono concatenati tra loro in una doppia progressione
genealogica. Nella prima genealogia ogni vizio è risultato di un vizio precedente: l’accidia deriva
dalla tristezza, la tristezza dall’ira, l’ira dall’avarizia, l’avarizia dalla lussuria, la lussuria dalla gola,
che è quindi l’inizio di tutti i peccati. La seconda genealogia, che comprende nell’ordine superbia e
vanagloria, si innesta alla fine della prima ma non ne costituisce lo sviluppo. Anzi prende le mosse
dal suo superamento: una volta sconfitti tutti i vizi derivati dalla carne, può essere infatti che la
vittoria sugli impulsi e sui desideri generi un pericoloso sentimento di superiorità che dà luogo
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appunto a vanagloria e superbia2. Come si vede, in Cassiano la successione dei vizi capitali
scandisce un processo di perfezionamento, tipicamente monastico, che comincia con la rinuncia ai
beni del corpo e ai piaceri del mondo e prosegue nella cura dell’interiorità.
Un secolo dopo il modello generativo proposto da Cassiano viene ripreso, semplificato e nello
stesso tempo esaltato da Gregorio in una pagina dei Moralia in Iob, uno dei libri più letti durante
tutto il Medioevo, una pagina che vale la pena di citare perché costituisce, credo, il testo fondatore
della tradizione occidentale dei vizi capitali:
“Tra i vizi che ci tentano e combattono contro di noi una guerra invisibile sotto il
dominio della superbia, alcuni avanzano alla testa dell’esercito, come comandanti, altri
seguono come soldati semplici … Non appena la regina dei vizi, la superbia, si
impadronisce pienamente del cuore dell’uomo dopo averlo piegato, ecco che lo
consegna alla devastazione dei sette vizi principali, che sono una sorta di suoiluogotenenti. A seguito di questi comandanti arriva l’esercito poiché non c’è dubbio che
da essi traggano origine multitudini di vizi …. I vizi sono legati da un vincolo di
parentela strettissimo dal momento che derivano l’uno dall’altro. La prima figlia della
superbia è infatti la vanagloria, che una volta vinta e corrotta la mente genera subito
l’invidia … l’invidia genera l’ira .. dall’ira nasce la tristezza… dalla tristezza si arriva
all’avarizia … A questo punto sopravanzano i due vizi carnali, la gola e la lussuria. Ma
è noto a tutti che la lussuria nasce dalla gola…”3
Pur con modalità diverse, i due sistemi di vizi elaborati da Cassiano e da Gregorio, si fondano su
un’idea che costituisce il vero punto di forza del settenario dei vizi, uno dei principali motivi, se non
il principale, della sua straordinaria fortuna. L’idea cioè che l’universo del male sia un universo
2Giovanni Cassiano, Conlationes XXIV , V, ed. E. Pichery, Sources Chrétiennes 42, Paris 1955, pp.
187-217. Cassiano analizza uno a uno i vizi capitali negli ultimi otto libri delle Institutiones
coenobiticae, ed. J.-C. Guy, Sources Chrétiennes 109, Paris 1965, pp. 186-501.
3Gregorio Magno, Moralia in Iob, XXXI, XLV, 89, ed. M Adriaen, Corpus Christianorum. Series
latina 143, Turnhout 1979, pp. 1610-1611: “Temptantia quippe uitia, quae inuisibili contra nos
proelio regnanti super se superbiae militant, alia more ducum praeeunt, alia more exercitus
subsequuntur … Ipsa namque uitiorum regina superbia cum deuictum plene cor ceperit, mox illud
septem principalibus uitiis, quasi quibusdam suis ducibus deuastandum tradidit. Quos uidelicet
duces exercitus sequitur, quia ex eis procul dubio importunae uitiorum multitudines oriuntur … Sed
unumquodque eorum tanta sibi cognatione iungitur, ut non nisi unum de altero proferatur. Prima
namque superbiae soboles inanis est gloria, quae dum oppressam mentem corruperit, mox inuidiam
gignit … Inuidia quoque iram generat … Ex ira quoque tristitia oritur … Tristitia quoque ad
auaritiam deriuatur … Post haec uero duo carnalia uitia, id est uentris ingluuies et luxuria supersunt.
Sed cunctis liquet quod de uentris ingluuie luxuria nascitur…”.
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ordinato: il peccato insomma non è puro disordine, è un disordine ordinato, un disordine che mima
e capovolge l’ordine stabilito da Dio. Questo ordine è inoltre un ordine gerarchico.
Nell’innumerevole serie dei peccati esistono colpe più gravi e colpe meno gravi, principali e
secondarie; alle prime spetta il compito di aggredire e prostrare l’animo umano e solo dopo questa
operazione di sfondamento la turba delle colpe minori può dilagare liberamente. I vizi capitali sono
per l’appunto i sette luogotenenti dell’esercito, quelli che sono a capo di tutti gli altri peccati. Di
più, quell’ordine gerarchico è anche un ordine genealogico. Le colpe principali (i vizi capitali) sono
la matrice diretta delle colpe secondarie e sono a loro volta collegate l’una all’altra da un rapporto
di filiazione. In Gregorio, la progressione genealogica ha il suo inizio nella superbia che diventa
una specie di supervizio, la madre di tutti i vizi, dalla quale direttamente o indirettamente tutti
traggono origine, dapprima i sette vizi principali-capitali, poi le loro filiazioni.
In questo modo tutti i peccati occupano un posto preciso nella famiglia dei vizi e nessuno resta
escluso. Il sistema cioè appare ordinato, completo e tendenzialmente chiuso. Non c’è peccato, per
quanto nuovo, fantasioso, inusitato, bizzarro, che non possa essere fatto risalire, più o meno
agevolmente, a uno dei sette vizi capitali e attraverso di esso alla superbia. Questo significa che
ogni peccato è descrivibile, riconoscibile nelle sue origini, manifestazioni e conseguenze e per
questo prevedibile e curabile. Nella misura in cui l’universo della colpa viene ordinato
quell’universo diventa controllabile e forse in parte sopportabile.
Le immagini dei vizi
Tutto questo, e non è poco, viene detto sia da Cassiano sia da Gregorio in modo estremamente
efficace e suggestivo attraverso l’uso di alcune potenti metafore: la battaglia, la famiglia, il
viaggio. Non c’è nulla di esteriore, ornamentale e occasionale nell’uso di queste immagini. La
forma metaforica è la forma del discorso sui vizi capitali, un elemento costante e strutturale del
sistema, uno dei motivi della sua forza e della sua fortuna. L’impiego sistematico delle metafore, il
loro alternarsi o intersecarsi consente infatti di visualizzare concetti astratti, altrimenti difficili da
proporre, con il doppio effetto di aiutare la memoria di quanti sono tenuti a parlare dei vizi
(predicatori, confessori, direttori spirituali) e di tradurre in un linguaggio facilmente comprensibile
dai meno dotti le idee guida del discorso morale. L’uso della metafora è strutturale nel discorso sui
vizi nella misura in cui questo discorso nasce come un discorso pedagogico, che vuole intervenire,
controllare, cambiare la vita degli uomini e delle donne, un discorso che deve essere efficace, nel
quale la descrizione dell’universo del male, la ricostruzione dell’ordine dei peccati, è sempre
funzionale all’individuazione dei rimedi.
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Nato come discorso figurato, il discorso sui vizi resterà durante tutta la sua storia un discorso
figurato4. Così come avevano fatto Cassiano e Gregorio, anche i loro numerosi discepoli
continueranno a parlare dei sette vizi all’interno di immagini, e queste immagini saranno per lo più
le immagini della battaglia, della famiglia e del viaggio5.
La battaglia dei vizi, che Gregorio ha così accuratamente descritto e sulla quale insiste molto
anche Cassiano, e che oltre a loro aveva ispirato il fortunato poemetto di Prudenzio, la
Psichomachia, sarà durante tutto il Medioevo il tema dominante di molti trattatelli edificanti, sia in
latino sia in volgare, e di molte rappresentazioni, tra cui per esempio, quella della cavalcata dei vizi,
presente nelle chiese italiane e francesi del XIV e XV secolo6.
L’altra immagine, quella della famiglia dei vizi, sarà altrettanto fortunata trovando la sua
formulazione più efficace nella rappresentazione dell’albero dei vizi che ritorna in molti trattati7.
Uno dei più interessanti è indubbiamente lo Speculum conscientie, un opuscolo della seconda metà
del secolo XIII, attribuito a San Bonaventura, dove vengono descritti con precisione quasi
maniacale i singoli rami dell’albero del male, i sette vizi appunto, tutti derivanti dalla comune
4Sulle metafore dei vizi e delle virtù, vedi R. Newhauser, The Treatise on Vices and Virtues in
Latin and Vernacular , Typologie des sources du Moyen Age occidental 68, Turnhout 1993, pp.
156-165.5
Il viaggio, a differenza della battaglia e della famiglia, non è un’immagine usata da Cassiano e
Gregorio, i due padri fondatori del sistema dei vizi capitali. Tuttavia l’immagine del viaggio è in
qualche modo implicita nel percorso di perfezionamento tracciato da Cassiano, nel quale i vizi
capitali sono considerati tappe che devono essere superate una dopo l’altra.
6Sull’immagine della battaglia A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtues and Vices in
Medieval Art from Early Christian Times to the Thirteenth Century, London 1939, pp. 1-21; J.
Houlet, Les combats des Vertus et des Vices, Paris 1969; J. S. Norman, Metamorphoses of an
Allegory. The Iconography of Psychomachia in Medieval Art , New York – Bern – Frankfurt am
Main 1988; J. O’Really, Studies in the Iconography of the Virtues and Vices in the Middle Ages ,
New York – London 1988, pp. 39-82; M. Vincent-Cassy, Un modèle français: les cavalcades des
sept péchés capitaux dans les églises rurales de la fin du XVe siècle, in Artistes , artisans et
production artistique au Moyen Age. Actes du Colloque de Rennes, ed. X. Barral y Altet, Paris
1990, III, pp. 461-487.
7Sull’immagine dell’albero C. Frugoni, La mala pianta, in Storiografia e storia. Studi in onore di
E. Dupré Theseider , Roma 1974, II, pp. 651-659; J. O’Really, Studies in the Iconography of the
Virtues and Vices in the Middle Ages, pp. 323-449.
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radice, la superbia, e tutti pieni di foglie e di frutti che sono gli innumerevoli peccati secondari8.
Albero malefico, che evoca immediatamente l’albero proibito del Paradiso terrestre che determinò il
destino del primo uomo, ma che assume la fisionomia sempre più precisa di un albero genealogico,
e come tale viene spesso rappresentato, soprattutto nelle miniature, immagine araldica di quella
famiglia del male che si riproduce, sempre identica a se stessa, secondo la genetica illustrata da
Gregorio.
Fondamentale nella storia del settenario sarà anche l’immagine del viaggio nella quale si traduce
l’idea dei vizi come tappe da superare in un percorso di progressivo perfezionamento dell’anima9.
Nessuno ha illustrato meglio questa idea di Dante: il lungo viaggio nei regni dell’al di là è nel suo
complesso un percorso di penitenza e di rigenerazione spirituale che trova nel Purgatorio il luogo
per eccellenza della liberazione dai peccati non solo per i penitenti che espiano ma anche per il
pellegrino Dante che vede via via scomparire dalla sua fronte le sette P che l’angelo vi ha impresso
con la spada di fuoco. Luogo di invenzione recente, come ha insegnato Le Goff 10
, il Purgatorio è,
nella Commedia dantesca, organizzato secondo lo schema dei sette vizi capitali ad illustrare che non
può esserci espiazione se non ripercorrendo all’indietro quello schema che sorregge l’impianto
generativo del male. Le pene che secondo la legge del contrappasso affliggono i penitenti dei
singoli gironi (i macigni che opprimono i superbi, gli occhi cuciti degli invidiosi, il fumo nero che
avvolge gli iracondi, la corsa inarrestabile degli accidiosi, le corde che legano a terra gli avari, il
fango e gli odori nauseabondi che smagriscono i golosi, il fuoco che brucia i lussuriosi)
coinvolgono nella compassione anche il poeta e gli procurano, grazie al dolore che condivide con i
penitenti, la liberazione da quelle medesime colpe. La funzione catartica e al tempo stesso
deterrente della rappresentazione del Purgatorio dantesco è la stessa che hanno le rappresentazioni
visive dell’Inferno e del Purgatorio presenti nelle chiese italiane del tardo medioevo nelle quali,
come ha mostrato Jérôme Baschet, la raffigurazione delle pene dei peccatori è strutturata secondo
lo schema dei sette vizi capitali11
.
8Ps. Bonaventura da Bagnoregio, Speculum conscientiae, in Opera omnia, Collegio San
Bonaventura, VIII, Quaracchi 1898, pp. 623-645.
9C. Segre, Il viaggio allegorico-didattico: un mondo modello, in Idem, Fuori dal mondo. I modelli
nella follia e nelle immagini dell’al di là, Torino 1990, pp. 49-66.
10J. Le Goff, La naissance du Purgatoire, Paris 1981.
11J. Baschet, Les justices de l’au-delà. Les représentations de l’Enfer en France et en Italie (XIIe-
XVe siècle), Roma 1993, pp. 291-406; Idem, I peccati capitali e le loro punizioni nell’iconografia
medievale, in C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo,
Torino 2000, pp. 225-260.
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Ma se le metafore del viaggio, della battaglia e dell’albero mostrano i rapporti interni al
sistema dei vizi capitali, ci sono altre metafore che si concentrano invece sui singoli elementi del
sistema. Ciascuno dei vizi evoca infatti immediatamente uno o più animali: la superbia il leone,
l’avarizia il lupo, la lussuria la capra o la scimmia, l’accidia l’asino, la gola il maiale, l’invidia il
cane o il gufo, l’ira l’orso ed così via12
. Ma il vizio, malattia dell’anima, rimanda anche
inevitabilmente al ricco repertorio metaforico delle malattie del corpo: febbre, idropisia, follia,
epilessia, lebbra, letargia, paralisi, emorragia vengono variamente messe in corrispondenza con i
diversi vizi, secondo un ordine non sempre fisso, ma che comunque evidenzia i tratti comuni della
patologia del corpo e di quella dell’anima13
.
Un sistema universale
Una ordinata e riconoscibile geografia della colpa presentata in modo comprensibile ed
estremamente efficace. Basterebbe questo per spiegare il successo avuto nei secoli dal settenario
dei vizi messo a punto da Cassiano e Gregorio. Ma non basta: quel sistema morale non era solo
chiaro, ordinato, suggestivo, funzionale agli obiettivi per cui era stato costruito, quel sistema aveva
anche una portata universale. Quei sette-otto vizi sembravano infatti aver colto una volta per tutte
delle costanti dell’anima umana nelle quali tutti potevano riconoscersi. In realtà, come si è detto,
quel sistema era stato inventato ad uso e consumo dei monaci per scandire le tappe della loro fuga
dal mondo e della loro ricostruzione in terra del Paradiso perduto. Tuttavia sono proprio i padri
fondatori del settenario, e in particolare Gregorio, a garantire una dimensione universale al
settenario dei vizi mettendolo a disposizione di tutti. Tutto si consuma nel passaggio da Cassiano
a Gregorio il quale riesce a trasformare il monastico sistema dei vizi capitali di Cassiano in
schema morale ‘universale’ con poche ma decisive mosse: eliminazione di un vizio tipicamente
monastico come l’accidia, introduzione di un vizio dai forti risvolti sociali, come l’invidia, e
soppressione della doppia genealogia, che descriveva una progressione di vizi tipica di chi si era
ritirato dal mondo, a favore di un’unica genealogia fondata sulla superbia, a significare che, per
quanto diversi siano gli uomini, tutti i loro peccati, dal peccato di Adamo al più lieve dei peccati
12M. Vincent-Cassy, Les animaux et les péchés capitaux: de la symbolique à l’emblematique, in Le
monde animal et ses représentations au Moyen Age (XIe-XVe siècles), Toulouse 1985, pp. 121-132;
M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins, pp. 245-249.
13J.-L. Bataillon, Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in “Freiburger Zeitschrift für
Philosophie und Theologie, XXXVII (1990), in particolare le pp. 330-336; più in generale sulle
metafore peccato-malattia e sacerdote-medico, vedi J.Agrimi e C. Crisciani, Medicina del corpo e
medicina dell’anima, Milano 1978, pp. 36-53.
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che ogni uomo può commettere, non fanno altro che ripetere quel primo peccato di superbia che
separò l’angelo ribelle dal suo creatore.
A questo punto i vizi capitali sono pronti ad uscire dai monasteri, come accade già in epoca
carolingia quando un gruppo di monaci legati alla corte imperiale (Alcuino, Rabano Mauro,
Incmaro di Reims) utilizza in una serie di trattati lo schema dei vizi capitali per descrivere e
modellare i comportamenti dei laici14
. Ma è tra XII e XIII secolo che comincia la grande avventura
del settenario fuori dai monasteri. Di questa avventura possiamo indicare una data simbolica: il
1215, l’anno del IV Concilio Laterano che impone a tutti i fedeli di confessare una volta all’anno in
segreto e al proprio sacerdote tutti i loro peccati. Quella disposizione impone un’esigenza di
classificazione e di descrizione dell’universo della colpa sconosciuta nel passato: tanto per i fedeli
quanto per i sacerdoti è ormai necessaria una mappa completa del peccato che consenta loro di
riconoscere i peccati, stabilirne la gravità, individuarne le cause, gli effetti, i rimedi. Bisogna
insomma che i peccati siano confessati con ordine per essere riconosciuti, valutati, e nel caso
perdonati. Il vecchio settenario monastico, con le sue classificazioni genealogiche, si presta
mirabilmente allo scopo: mette a disposizione tecniche di introspezione psicologica, stabilisce
criteri di gravità, individua contiguità e connessioni, prevede pericoli, insomma mette ordine nei
disordinati e lacunosi racconti dei penitenti. Un famoso passo del chierico inglese Roberto di
Flamborough, tratto dalla sua somma penitenziale composta tra il 1208 e il 1215, fotografa
perfettamente la situazione:
“Quasi tutti si confessano in maniera disordinata; trascurando l’ordine dei vizi seguono
il criterio dell’età, dei luoghi, dei tempi, e dicono: “A quell’età ho commesso la tale
fornicazione, il tale adulterio, il tale furto, il tale spergiuro, il tale omicidio. Inoltre a
quell’altra età ho commesso il tale incesto, ho violato quella monaca, ho fatto il tale
sortilegio. E in questo modo si confondono e confondono anche la memoria del
sacerdote. Mi piace invece che, cominciando dalla superbia, che è la radice di tutti i
mali, tu confessi i singoli vizi con le rispettive specie, seguendo l’ordine con cui un
14M. Bloomfield, The Seven Deadly Sins, pp. 80-81; R. Jehl, Die Geschichte des Lasterschemas
und seiner Funktion. Von des Väterzeit bis zur karolingischen Erneuerung, in “Franzischanische
Studien”, LXIV (1982), pp. 261-359.
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vizio nasce e deriva dall’altro; e cioè prima la vanagloria, seconda l’invidia, terza l’ira,
quarta l’accidia, quinta l’avarizia, sesta la gola, settima la lussuria”15
.
La scelta di Roberto di Flamborough non è frutto di una personale predilezione del chierico
inglese per il settenario. Dalla fine del XII fino a tutto il XV pressoché tutti i testi per la
confessione, sia in latino sia in volgare, dalle voluminose somme penitenziali ai rapidi formulari ad
uso dei sacerdoti, dagli statuti sinodali ai manuali di istruzioni del clero fino agli agili esami di
coscienza ad uso dei penitenti, prevedono che l’individuazione e la confessione dei peccati avvenga
secondo l’ordine dei sette vizi capitali e delle loro filiazioni. Il sistema dei vizi capitali si installa,
almeno nelle intenzioni dei chierici, all’interno delle coscienze di tutti i fedeli, governa le loro
condotte verso Dio e verso il prossimo, decide del loro destino nell’al di là16
.
Il ruolo determinate assunto dal settenario nei testi per la penitenza ne determina e ne amplificala presenza in altri ambiti. Nella predicazione prima di tutto, divenuta proprio in quegli anni, grazie
alla fondazione degli ordini mendicanti, veicolo di massa di un’istruzione religiosa nella quale il
tema del peccato è certamente centrale. Interi sermoni sono dedicati al settenario o ai singoli vizi
che lo compongono; qualche volta sono interi cicli di sermoni, come capita per esempio in alcuni
Quaresimali italiani del XIV e XV secolo, a strutturasi secondo l’ordine del settenario17
. Il
predicatore, che è spesso anche confessore, propone nella predica quella griglia di peccati che il
fedele dovrà imparare a usare nella confessione e lo fa attraverso definizioni chiare e immagini
suggestive che sappiano convincere e indurre al pentimento. Spesso questo avviene in chiese dove
alla predica parlata del predicatore si aggiunge quella muta delle immagini. Affreschi e sculture che
15Roberto di Flamborough, Liber poenitentialis, ed. J. J. F. Firth, Toronto 1971, p. 62: “Fere
omnes inordinate confitentur; quia omisso ordine vitiorum ordinem aetatis, locorum et temporum
observant, dicentes. “In illa aetate feci illam fornicationem, illud adulterium, illud furtum, illud
perjurium, illud homicidium. Item in illa aetate feci illum incestum, illam monialem procatus sum,
illud sortilegium feci.” Et ita et se et sacerdotis memoriam confundunt. Mihi placet ut incipiens a
superbia, quae est radix omnium malorum, singula cum suis speciebus confitearis gradatim vitia
prout unum ab alio nascitur et procedit. Scilicet prius vanam gloriam, secundo invidiam, tertio iram,
quarto accidiam, quinto avaritiam, sexto gulam, septimo luxuriam”.
16R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra Medioevo ed età moderna, Bologna 2002, in
particolare il cap. III, Il peccato, l’individuo e la Chiesa: “ordinate confiteri”, pp. 83-103.
17Su questa letteratura, cfr. a questo proposito, C. Casagrande e S. Vecchio, La classificazione dei
peccati tra settenario e decalogo (secoli XIII-XV), in “Documenti e Studi sulla tradizione filosofica
medievale”, V (1994), in particolare le pp. 384-385.
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adornano le chiese mostrano alberi e famiglie di vizi, battaglie e tornei tra vizi e virtù, diavoli e
animali che illustrano ad uso dei meno colti i temi predicati dal pulpito; soprattutto nelle
raffigurazione dell’al di là i sette vizi trionfano, fornendo, come ho già ricordato, una struttura alla
rappresentazione dell’Inferno e nel Purgatorio, secondo un modello che ha nel Camposanto di Pisa
la sua realizzazione più compiuta18
.
A decretare il grande revival duecentesco del settenario non solo i predicatori e i confessori.
Anche i teologi dicono la loro su quell’antico e un po’ polveroso schema chiamato ora a nuove e
importantissime funzioni. Nelle scuole il settenario viene sottoposto, come mai era accaduto prima
di allora, a una analisi razionale volta a indagarne coerenza, completezza, autorità, in una parola,
come si dice in linguaggio scolastico, sufficientia. I teologi sembrano soprattutto preoccupati di
dare un fondamento razionale a uno schema che, va ricordato, è privo di fondamenti scritturali. C’è
chi predilige un modello psicologico che collega i diversi vizi alle parti dell’anima; chi ravvisa nella
struttura stessa dell’uomo una sorta di settenario, costituito dalle tre potenze dell’anima e dai
quattro elementi del corpo; chi definisce i vizi come modi della volontà disordinata , chi interseca
tra loro queste diverse soluzioni. Ma non c’è solo un problema di coerenza interna al sistema a
preoccupare i teologi, bisogna anche che il settenario sia raccordato ad altri schemi morali, le virtù,
i precetti, i doni dello Spirito Santo, nel quadro di una teologia morale che si vuole sistematica e
razionale. Ma al di là delle singole soluzioni scelte dai vari teologi, va sottolineato che, almeno
fino al XIII secolo, il settenario resta un argomento all’ordine del giorno del dibattito teologico.
Una teologia, molto legata alla pratica pastorale, come è quella che si sviluppa tra XII e XIII secolo,
ha contribuito al successo medievale del settenario dei vizi: da Giovanni della Rochelle a
Bonaventura, da Alessandro di Hales ad Alberto Magno fino a Tommaso, tutti i grandi scolastici del
secolo XIII trattano nelle loro opere del settenario dei vizi continuando ad affidare a quell’antico
schema, pur con qualche problema, come vedremo, la funzione di descrivere e ordinare l’universo
del peccato19
.
18Vedi supra, n. 11.
19Per il dibattito scolastico sul settenario, vedi S. Wenzel, The Seven Deadly Sins: Some Problems
of Research, in “Speculum”, XLIII (1968), pp. 3-12; Idem, The Sin of Sloth: “Acedia” in Medieval
Thought and Literature, Chapel Hill Ca., pp. 38-46; Casagrande e Vecchio, La classificazione dei
peccati, pp. 336-343.
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E infine, a decretare che ormai il settenario è entrato anche nella cultura dei laici, il suo ingresso
nei testi della letteratura volgare, come testimonia l’uso che del settenario fanno Dante nella
Commedia e Chauser nei Canterbury Tales20
.
Insomma un unico grande discorso che ha come oggetto il settenario dei vizi risuona per tutto
l’Occidente medievale: nello spazio privato e segreto delle coscienze, in quello pubblico delle
piazze, in quello professionale delle aule universitarie, all’interno delle navate e di fronte ai portali
delle chiese, davanti alle cattedre dei maestri, durante l’incontro del penitente con il suo confessore.
Mutazioni e crisi
Tanto successo non poteva non cambiare il vecchio settenario dei vizi. Usciti dai monasteri per
entrare nel mondo a quel mondo i sette vizi hanno dovuto adeguarsi. La migliore testimonianza
dello stato del settenario nei secoli del suo trionfo mondano è costituita dalla Summa de virtutibus et
vitiis del domenicano lionese Guglielmo Peraldo, scritta verso la metà del secolo XIII. Testo di
enorme fortuna, uno dei grandi best-seller medievali insieme alla Bibbia, alla Legenda aurea di
Iacopo da Varazze, alla Summa de poenitentia di Raimondo di Penafort, diffuso da centinaia di
manoscritti e decine di edizioni, volgarizzato in molte lingue, ispira gran parte della trattatistica
morale del tardo Medioevo21
.
Il settenario di Peraldo è sostanzialmente quello gregoriano con qualche variante (la vanagloria
divenuta specie della superbia, l’accidia che prende il posto della tristezza) che la tradizione aveva
già reso canonica. Nulla di nuovo apparentemente. Se non che i vizi sono divenuti ipertrofici.
L’analisi riservata a ciascuno dei vizi capitali presenta infatti una ricchezza, un’articolazione e
un’ampiezza prima sconosciute. Ogni vizio dà luogo a corposi trattati (i più lunghi sono avarizia e
lussuria) nei quali, attraverso un uso sapiente della citazione e dell’esempio, il vizio viene
analizzato nella sua natura, nelle sue conseguenze, nei suoi rimedi; le filiazioni sono in genere
quelle gregoriane all’interno delle quali però trovano ora posto moltissimi peccati, più o meno
20S. Wenzel, Dante’s Rationale for the Seven Deadly Sins (Purg. XVII), in “Modern Language
Review”, LX (1965), pp. 529-533; Idem, The Source of Chauser’s Seven Deadly Sins, in “Traditio”,
XXX (1974), pp. 351-378.
21Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, 2 voll., Paris 1668. Per manoscritti ed
edizioni, vedi Th. Kaeppeli – E, Panella, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, II, Roma
1975, pp. 133-142, IV, Roma 1993, p. 106. Sulla fortuna di Peraldo, S. Wenzel, The Continuing
Life of William Peraldus’s ‘Summa vitiorum’, in Ad litteram. Authoritative Texts and Their
Medieval Readers, ed. M. D. Jordan e K. Emery jr., Notre Dame Ind. – London 1992, pp. 135-163;
C. Delcorno, ‘ Exemplum’ e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 1989, pp. 163-227.
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gravi, alcuni precedentemente sconosciuti, altri rivisitati, altri ancora tipici di particolari condizioni
sociali, classi di età, condizioni di vita, professioni. Ogni vizio, mostrando una notevole capacità di
espansione e una notevole flessibilità, diventa un grande contenitore di colpe tra loro anche molto
diverse quanto a gravità, condizioni e contesti di esecuzione. Si pensi per esempio che all’interno
della superbia c’è posto per un’amplissima serie di peccati che vanno dall’atto di rivolta di
Lucifero contro Dio a tutti i peccati di vanagloria delle donne che amano i vestiti sontuosi, i
gioielli, il maquillage; che l’accidia si declina ora in mancanza di fervore religioso, ora in pigrizia
nel lavoro, ora in tristezza e malinconia; che la lussuria diventa da un lato spazio di analisi
psicologica sulle dinamiche del desiderio sessuale, con un lungo elenco di tutti i turbamenti che essa
procura nell’anima e nel corpo del peccatore, e dall’altro occasione di una tipologia della sessualità
proibita, fondata su un’etica matrimoniale che si va costruendo proprio in quegli anni e che presenta
forti risvolti sociali; che l’avarizia prevede tutta una serie di attività economiche vecchie e nuove
che vanno dal furto alla simonia, dalla frode alla rapina, dall’usura alla corruzione fino alle diverse
forme di tesaurizzazione e sperpero; che l’invidia, vizio sociale per eccellenza, non a caso escluso
dalle prime formulazioni monastiche del settenario, offre lo spazio per condannare varie forme di
aggressività sociale, dalla competizione economica alla lotta politica fino alla rivoluzione, e così
via.
Questa espansione dei singoli vizi è stata favorita da un altro cambiamento fondamentale che ha
come liberato i vizi estendendone i confini interni ed esterni. E’ un cambiamento che riguarda il
sistema nel suo complesso e cioè la fine dell’ordinamento genealogico. Già in Peraldo, e il
processo sarà ancora più evidente successivamente, i vizi non derivano più uno dall’altro, ma si
succedono con criteri occasionali, in un ordine che può anche cambiare. Non basta. La genealogia
viene meno anche all’interno dei singoli vizi che prevedono, nella maggior parte casi, specie e non
più filiazioni. Insomma da classificazione genealogica il settenario è diventato una classificazione
tassonomica, un grande repertorio tematico, l’indice di una enciclopedia morale all’interno della
quale ordinare peccati tra loro simili e contigui. L’ordine dei peccati non sta più nei peccati ma nel
modo in cui gli uomini decidono di parlarne22
.
E Peraldo, come molti dopo di lui, decide di farlo con una certa libertà, senza preoccuparsi
troppo di possibili contraddizioni, incongruenze, ripetizioni. La sua preoccupazione è soprattutto
quella di costruire ad uso dei predicatori e dei confessori una mappa dei vizi il più possibile
completa, nella quale avere un elenco affidabile dei peccati più comuni e di quelli più bizzarri,
trovare definizioni, sentenze, esempi relativi ai vari peccati, avere a disposizione un repertorio
metaforico utile nella predicazione. A questo scopo dopo essersi accorto che c’è un peccato molto
22Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, in particolare le pp. 367-369.
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diffuso che non ha avuto sufficiente attenzione nell’analisi dei sette vizi tradizionali, il peccato della
lingua, non esita ad aggiungerlo ai sette vizi come ottavo vizio distinguendolo in ben 24 peccati23
.
Operazioni simili volte a sopperire alle carenze del settenario e indubbiamente facilitate dalla fine
dell’ordinamento genealogico vengono ripetute in seguito da altri autori. Accanto al settenario
compaiono sempre più spesso altre liste di peccati che rimediano alle ‘dimenticanze’ del settenario:
i peccati di pensiero, parola, opera, i peccati dei cinque sensi, i peccati contro lo Spirito santo, i
peccati alieni (quelli che implicano complicità con altri), i peccati travestiti in virtù, i peccati contro
i 10 precetti24
.
Dilatato e integrato, il settenario di Peraldo presenta poi un’altra caratteristica importante: è
analizzato all’interno di un sistema di liste morali che comprende le virtù, i doni dello Spirito
Santo, le beatitudini. Parlare di sistema nel caso di Peraldo è forse eccessivo dato che le varie
classificazioni sono giustapposte una all’altra senza che i loro elementi siano raccordati tra loro,
tuttavia è evidente il tentativo del domenicano lionese di collocare la classificazione dei vizi in
una sistema morale più ampio. L’operazione sarà più volte ripetuta in seguito fino a tutto il secolo
XV dando luogo a manuali per sacerdoti e a trattati di istruzione religiosa per laici che
prefigurano i catechismi controriformisti. A volte il settenario non si limita ad essere
accompagnato e circondato da altre liste ma le contiene, presentando all’interno dei singoli vizi
l’analisi delle virtù, dei doni dello SS, delle beatitudini, dei precetti ad essi relativi25
. In ogni caso,
ormai collocato al centro di un sistema morale complesso e articolato, il settenario è diventato non
solo il repertorio delle colpe, il sistema per eccellenza per parlare del peccato, ma il veicolo della
dottrina cristiana nel suo complesso.
Il successo del settenario sembra completo e lo è. Tuttavia in quel successo ci sono le cause
della futura sconfitta, anzi sono proprio gli stessi motivi che garantiscono la fortuna del settenario
a costituire la cause del suo lento ma progressivo declino. Innanzitutto, la proliferazione di altri
sistemi morali dentro o a fianco del settenario, se ne esalta la centralità, ne mette anche in luce le
carenze e le difficoltà. La pretesa di completezza, che era stata il suo punto di forza, risulta
23Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, II, p.371: “Ultimo inter peccata dicendum est
de peccato linguae, quia istud peccatum remanet post alia peccata”. Vedi C. Casagrande e S.
Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma
1987.
24C. Casagrande, La moltiplicazione dei peccati. I cataloghi dei peccati nella letteratura pastorale
dei secoli XIII-XV , in La peste nera. Dati di una realtà ed elementi di una interpretazione, Atti del
XXX Convegno storico internazionale, Todi 10-13 ottobre 1993, Spoleto 1994, pp. 253-284.
25Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, pp. 377-381.
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vanificata dalle continue integrazioni di vizi nuovi o ‘dimenticati’. D’altra parte il rapporto con le
sette virtù canoniche e con i doni dello Spirito Santo mostra molte incongruenze. All’interno di una
morale che si vuole sistematica il settenario procura insomma qualche problema. Inoltre, la
dissoluzione dell’impianto genealogico, che garantisce al sistema settenario e ai suoi componenti
flessibilità e capacità di espansione, ne mette però in luce la natura convenzionale. Il sistema dei
vizi capitali non riflette la dinamica del peccato, si limita, e certo non è poco, a classificare
efficacemente i peccati. Il settenario paga il suo ruolo di centro e contenitore di tutta la morale
cristiana con la perdita della sua capacità di indagare le anime, di rivelarne i movimenti segreti, di
essere strumento di introspezione. Divenuto un semplice sistema di classificazione, certo potente
ma convenzionale, può essere sostituito da altri sistemi più autorevoli o più efficaci, come per
esempio le tre concupiscenze di cui si parla nel Vangelo di Giovanni, le sette virtù, i dieci
comandamenti .
I primi a denunciare le insufficienze del settenario sono i teologi. Dalla metà del secolo XIII
sottopongono il settenario dei vizi a una serie di critiche che ne denunciano la debolezza
dell’impianto generativo, l’incompletezza, l’assenza di fondamento scritturale, le incongruenze
all’interno di una morale sistematica. Alla fine di questa analisi impietosa il settenario viene escluso
dal dibattito teologico: utile per i predicatori e i confessori, presenta troppe contraddizioni per avere
un qualche interesse per i teologi. Esemplare il percorso di Tommaso: se nel De malo il domenicano
affida al sistema dei sette vizi la descrizione dell’universo del peccato, nella Somma teologica quel
sistema viene come polverizzato all’interno di un morale costruita a partire dalle virtù, nella quale
i sette vizi compaiono in ordine sparso all’interno dell’analisi delle singole virtù. Significativa e
anche definitiva la posizione di Duns Scoto all’inizio del XIV secolo che propone di sostituire il
settenario, giudicato incapace di individuare sia le radici dei peccati sia i peccati principali, con il
settenario delle virtù o, preferibilmente, con il più autorevole e completo decalogo26
.
Sconfitto in ambito teologico già nei primi anni del XIV, il settenario continua in realtà a
trionfare in ambito pastorale nelle forme e con le funzioni che abbiamo visto, per nulla turbato
dalla concorrenza del decalogo al quale viene spesso affiancato, integrato, sovrapposto27
.
Bisognerà aspettare la Riforma perché quella crisi annunciata esploda. Vituperato da Lutero,
rifiutato in ambito riformato, anche presso i cattolici il settenario avrà una presenza sempre più
limitata. Insomma, con l’avvento della modernità, la fortuna del settenario finisce; certo si
26Duns Scoto, Quaestiones in secundum librum Sententiarum, dist. III, q. 7, in Opera Omnia, XII,
Parisiis 1893, p. 364; dist. XLII, q. 5, XIII, p. 47. Sulla “crisi” del settenario in ambito teologico,
vedi Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, pp. 334-361.
27Casagrande e Vecchio, La classificazione dei peccati, pp. 377-393.
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continuerà a fare riferimento a quel sistema in opere religiose e letterarie anche importanti, ma i
sette vizi cessano di essere l’ordine del regno del male. La dottrina della Chiesa non porrà più i vizi
capitali al centro della vita morale dei fedeli. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, redatto per
iniziativa di Giovanni Paolo II e pubblicato nel 1992, i sette vizi sono citati ma si tratta di una
piccola citazione (quattro righe all’interno del capitolo del peccato), un omaggio alla tradizione più
che l’indicazione ai fedeli di uno strumento utile per riconoscere le loro colpe28
.
Questo non vuol dire che i peccati capitali siano scomparsi. Anzi, essi sono dovunque: nei film,
nella pubblicità, nel teatro, nelle opere musicali, nelle rappresentazioni artistiche, nei convegni
storici. Ho prima ricordato come i vizi capitali siano ormai una categoria della cultura occidentale
da tutti più o meno conosciuta. Ma questi vizi, che si trovano dovunque, non hanno più la stessa
funzione che avevano nel Medioevo; non provvedono più, come nel Medioevo, all’integrità morale
dell’individuo, alla solidità delle famiglie, all’ordine della società e, soprattutto, alla salvezza delle
anime. Possono ancora essere un buon sistema di classificazione, ma quel che classificano è
qualcosa che non è più o non è solo peccato. I vizi sono diventati soprattutto categorie
psicologiche che descrivono attitudini e comportamenti non necessariamente colpevoli. Categorie
descrittive, come una volta, ma non più, come una volta, categorie normative. In quanto tali i vizi
non fanno più paura. Non a caso ci si domanda spesso quale sia il peccato preferito; non a caso ci
sono vizi che non sembrano più tali e vizi di cui addirittura ci si può vantare: la gola, la lussuria ,
la superbia … I vizi sono ormai diventati occasione di conversazione, di ricreazione, qualche volta
di studio. Insomma il settenario dei peccati capitali è restato un sistema più o meno efficace di
catalogazione psicologica e un oggetto culturale molto suggestivo, ma non è più, come era, un
oggetto teologico al quale veniva affidata la salvezza dell’umanità. I nostri vizi capitali
assomigliano ai vizi capitali degli uomini e delle donne del Medioevo, ma certamente non sono più
la stessa cosa.
28 Catechismo della Chiesa cattolica, Città del Vaticano 1992, 1866, pp. 471-472: “I vizi possono
essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono, oppure possono essere collegati ai
peccati capitali che l’esperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san
Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia,
l’avarizia, l’invidia, l’ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia”.