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1 (testo per esclusivo uso interno: la relazione rispecchia la forma colloquiale e ovviamente priva di note dell'intervento tenuto da Sr. Lisa Cremaschi, Comunità di Bose, il giorno 29 ottobre.) IGNAZIO DI ANTIOCHIA 1. Notizie su Ignazio Lo storico Eusebio di Cesarea, intorno alla metà del IV secolo, scrive nella sua Storia ecclesiastica: “In quel tempo si affermava in Asia Policarpo, seguace degli apostoli, cui fu assegnato dai testimoni e ministri del Signore l’episcopato della chiesa di Smirne. Contemporaneamente si distinguevano Papia, anch’egli vescovo della diocesi di Gerapoli, e Ignazio, che, secondo dopo Pietro, fu vescovo di Antiochia. Narra la tradizione che fu inviato dalla Siria nella città di Roma per essere dato in pasto alle belve a causa della testimonianza resa a Cristo. Mentre lo portavano attraverso l’Asia sotto la vigilanza strettissima di una scorta, con prediche ed esortazioni rafforzava le diocesi in cui si fermava, raccomandando soprattutto di guardarsi dalle eresie che proprio allora, per la prima volta, iniziavano a diffondersi, e ammoniva ad attenersi strettamente alla tradizione degli apostoli, che egli, pur offrendone già la testimonianza, per maggior sicurezza stimò necessario mettere per iscritto” (Storia ecclesiastica III,36,1-4). Eusebio continua la sua narrazione ricordando le sette lettere scritte da Ignazio nel corso del suo viaggio verso Roma e di alcune di queste lettere riporta anche degli stralci. In queste poche righe Eusebio riassume tutto quello che sappiamo di questa grande figura della chiesa primitiva: che Ignazio fu vescovo di Antiochia, secondo dopo Pietro (in un altro passo, Storia ecclesiastica III,22, si dice: “dopo Evodia”); che durante un persecuzione in quella regione venne arrestato e portato a Roma dove subì il martirio. Se ci atteniamo alla datazione della Cronaca di Eusebio, Ignazio subì il martirio nel decimo anno dell’imperatore Traiano, cioè nel 107-108, ma è verosimile che Eusebio, secondo un procedimento che gli è abituale, abbia raggruppato a questa data tutte le misure prese da Traiano contro i cristiani; egli colloca in questo anno anche la lettera di Plinio a Traiano e ha ipotizzato che Ignazio fosse stato arrestato durante la persecuzione di cui parla la lettera di Plinio. Non ci possiamo dunque fidare di tale datazione; probabilmente il martirio di Ignazio avvenne più tardi, verso la fine del regno di Traiano (+117). Altre testimonianze dei padri non aggiungono molto a queste scarne notizie. Ireneo (Contro le eresie V,28,4) e Origene ne ricordano il martirio (Om. su Luca 6,4; La preghiera 20; Sul Cantico, prol.); Giovanni Crisostomo in un’omelia tenuta ad Antiochia per celebrare la memoria di Ignazio afferma che “ebbe relazioni con gli apostoli”. La tradizione ha conservato un racconto leggendario del suo martirio (composto nel IV o V secolo). Una leggenda attestata a partire dal IX secolo e diffusa da Simeone Metafraste, agiografo greco del X secolo, narra che Ignazio fu quel bambino che Cristo prese tra le sue braccia e mise in mezzo agli apostoli dicendo: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli perché chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli e chi accoglie anche solo uno di questi bambini in nome mio, accoglie me” (Mt 18,3-5). Tale leggenda nasce dal nome che Ignazio stesso si attribuisce in tutte le sue lettere: “Ignazio, detto anche Teoforo”. Ignazio è la trascrizione greca del nome latino Egnatius da ignis (=fuoco); Teoforo cambia significato a seconda dell’accento. Teofóro significa “portato da Dio”; Ignazio è il bambino preso e portato da Dio, Ignazio durante la sua vita intera è preso e portato da Dio. Teóforo, invece, significa “colui che porta Dio”. Nel racconto del martirio si narra

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(testo per esclusivo uso interno: la relazione rispecchia la forma colloquiale e

ovviamente priva di note dell'intervento tenuto da Sr. Lisa Cremaschi,

Comunità di Bose, il giorno 29 ottobre.)

IGNAZIO DI ANTIOCHIA

1. Notizie su Ignazio

Lo storico Eusebio di Cesarea, intorno alla metà del IV secolo, scrive nella sua Storia

ecclesiastica:

“In quel tempo si affermava in Asia Policarpo, seguace degli apostoli, cui fu assegnato dai

testimoni e ministri del Signore l’episcopato della chiesa di Smirne. Contemporaneamente si

distinguevano Papia, anch’egli vescovo della diocesi di Gerapoli, e Ignazio, che, secondo dopo

Pietro, fu vescovo di Antiochia. Narra la tradizione che fu inviato dalla Siria nella città di Roma per

essere dato in pasto alle belve a causa della testimonianza resa a Cristo. Mentre lo portavano

attraverso l’Asia sotto la vigilanza strettissima di una scorta, con prediche ed esortazioni rafforzava

le diocesi in cui si fermava, raccomandando soprattutto di guardarsi dalle eresie che proprio allora,

per la prima volta, iniziavano a diffondersi, e ammoniva ad attenersi strettamente alla tradizione

degli apostoli, che egli, pur offrendone già la testimonianza, per maggior sicurezza stimò necessario

mettere per iscritto” (Storia ecclesiastica III,36,1-4).

Eusebio continua la sua narrazione ricordando le sette lettere scritte da Ignazio nel corso del

suo viaggio verso Roma e di alcune di queste lettere riporta anche degli stralci. In queste poche

righe Eusebio riassume tutto quello che sappiamo di questa grande figura della chiesa primitiva: che

Ignazio fu vescovo di Antiochia, secondo dopo Pietro (in un altro passo, Storia ecclesiastica III,22,

si dice: “dopo Evodia”); che durante un persecuzione in quella regione venne arrestato e portato a

Roma dove subì il martirio. Se ci atteniamo alla datazione della Cronaca di Eusebio, Ignazio subì il

martirio nel decimo anno dell’imperatore Traiano, cioè nel 107-108, ma è verosimile che Eusebio,

secondo un procedimento che gli è abituale, abbia raggruppato a questa data tutte le misure prese da

Traiano contro i cristiani; egli colloca in questo anno anche la lettera di Plinio a Traiano e ha

ipotizzato che Ignazio fosse stato arrestato durante la persecuzione di cui parla la lettera di Plinio.

Non ci possiamo dunque fidare di tale datazione; probabilmente il martirio di Ignazio avvenne più

tardi, verso la fine del regno di Traiano (+117). Altre testimonianze dei padri non aggiungono molto

a queste scarne notizie. Ireneo (Contro le eresie V,28,4) e Origene ne ricordano il martirio (Om. su

Luca 6,4; La preghiera 20; Sul Cantico, prol.); Giovanni Crisostomo in un’omelia tenuta ad

Antiochia per celebrare la memoria di Ignazio afferma che “ebbe relazioni con gli apostoli”.

La tradizione ha conservato un racconto leggendario del suo martirio (composto nel IV o V

secolo). Una leggenda attestata a partire dal IX secolo e diffusa da Simeone Metafraste, agiografo

greco del X secolo, narra che Ignazio fu quel bambino che Cristo prese tra le sue braccia e mise in

mezzo agli apostoli dicendo: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come

bambini, non entrerete nel regno dei cieli perché chiunque diventerà piccolo come questo bambino,

sarà il più grande nel regno dei cieli e chi accoglie anche solo uno di questi bambini in nome mio,

accoglie me” (Mt 18,3-5). Tale leggenda nasce dal nome che Ignazio stesso si attribuisce in tutte le

sue lettere: “Ignazio, detto anche Teoforo”. Ignazio è la trascrizione greca del nome latino Egnatius

da ignis (=fuoco); Teoforo cambia significato a seconda dell’accento. Teofóro significa “portato da

Dio”; Ignazio è il bambino preso e portato da Dio, Ignazio durante la sua vita intera è preso e

portato da Dio. Teóforo, invece, significa “colui che porta Dio”. Nel racconto del martirio si narra

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che Traiano interrogò Ignazio: “Chi sei tu, spirito malvagio, che osi resistere ai miei ordini e

convinci gli altri a fare lo stesso, per cui miseramente muoiono? Chi è Teoforo?” ed egli rispose:

“Colui che porta nel cuore Gesù”. Ignazio è un teoforo; su di lui è stato invocato il nome di Gesù

nel battesimo e porta questo nome, questa benedizione su di sé per diffonderla su tutti quelli che

incontra. Teofori sono tutti i discepoli del Signore; ai cristiani di Efeso Ignazio si rivolge con queste

parole: “Siete compagni di viaggio, portatori di Dio, portatori del tempio, portatori di Cristo e di

cose sante” (Efesini 9,2).

Non sappiamo quale fu l’origine della persecuzione contro i cristiani ad Antiochia; dalla

Lettera ai cristiani di Smirne 11,2 veniamo però a sapere che la chiesa di Siria ha ritrovato la pace.

Antiochia era, a quei tempi, una città di notevole prestigio, ricca, cosmopolita, un centro

commerciale di grande importanza. Era la quarta città dell’impero dopo Roma, Alessandria e

Ctesifonte (nell’attuale Iraq). Nel 64 d.C. era diventata la capitale dell’immensa provincia romana

di Siria che si estendeva a nord fino alla Cilicia e a sud fino ai confini dell’Egitto. Se ci atteniamo ai

dati offerti da Giuseppe Flavio, contava un popolazione pari a quella di Roma e di Alessandria, vale

a dire circa mezzo milione di abitanti tra cui molti giudei. Gli Atti degli apostoli raccontano come i

cristiani costretti a fuggire da Gerusalemme dopo il martirio di Stefano, trovarono rifugio ad

Antiochia e formarono una comunità molto vivace (cf. At 11,19-26). Consolidata da Paolo e da

Barnaba, la chiesa di Antiochia ebbe Pietro come suo primo vescovo.

Qual era la posizione giuridica dei cristiani in Asia minore al tempo di Ignazio? La richiesta

ufficiale di direttive sul modo di trattare i cristiani inviata da Plinio il Giovane, divenuto

governatore della provincia di Bitinia intorno al 111, all’imperatore Traiano ci informa che in

queste regioni dell’Asia minore molte persone furono denunciate presso l’amministrazione statale

come cristiane, chiamate in giudizio e condannate a morte se persistevano nel confessare la loro

fede. Plinio ci fa sapere che il cristianesimo ha trovato numerosi adepti sia nella città che nelle

campagne, tra gente di ogni età e condizione sociale. Questi cristiani infrangevano esplicitamente

un’ordinanza imperiale che proibiva ogni associazione e ogni riunione non riconosciuta dallo stato.

Plinio ritiene che “tanta gente potrebbe essere ricondotta al culto degli dèi, se si fosse indulgenti con

quanti si pentono” (Plinio, Lettere 96,7, menzionato in Eusebio, Storia ecclesiastica XXXIII,1-2).

Da questa lettera emerge con chiarezza che ai tempi di Plinio non esiste un’ordinanza

imperiale che possa dirsi normativa per procedere contro i cristiani. Secondo la testimonianza

fornita dalle lettere di Plinio il Giovane, molti cristiani ritornavano al paganesimo; i rinnegamenti,

le apostasie non erano un fatto eccezionale. Nella stessa epoca in cui viene condannato Ignazio,

abbiamo notizia di un altro vescovo martire: Simeone, secondo vescovo di Gerusalemme dopo

Giacomo, che subì la morte all’età di 120 anni sotto l’impero di Traiano. Era piuttosto raro che i

condannati fossero condotti a Roma, tuttavia accadeva che alcuni vi fossero trasferiti e condannati

alle belve nei giochi del circo organizzati per festeggiare le vittorie dell’esercito romano. Insieme a

Ignazio furono martirizzati anche altri cristiani; la lettera di Policarpo ai cristiani di Smirne ricorda

Zosimo e Rufo, che compirono il viaggio verso Roma insieme a Ignazio. I prigionieri, scortati da un

drappello di dieci soldati, godevano di una certa libertà. Ignazio e gli altri prigionieri erano custoditi

dalle guardie, ma potevano ricevere visite. Questo viaggio verso il martirio diventa occasione di

incontro con le comunità cristiane dell’Asia minore.

Il percorso da Antiochia a Roma si snoda attraverso una serie di tappe: da Antiochia è

trasportato via mare sulla costa dell’Asia minore; di qui giunge a Smirne dove è accolto dal vescovo

Policarpo e riceve delle delegazioni inviate dalle comunità di Efeso, di Magnesia e di Tralli. Da

ciascuna di queste comunità giunge il vescovo accompagnato da presbiteri o da diaconi. E Ignazio li

accoglie e, da vero padre e pastore, è attento ai bisogni di ciascuno; a ciascuna di queste chiese

scrive una lettera, in cui ringrazia per la loro vicinanza premurosa, esorta, ammonisce, rimprovera.

Sempre da Smirne, il 24 agosto, scrive una lettera ai cristiani di Roma. Da Smirne è accompagnato

dal diacono Burro che gli resterà accanto fino a Roma. In una seconda tappa a Troade scrive alla

comunità di Filadelfia, alla comunità di Smirne e al vescovo Policarpo. In questa città è raggiunto

da due diaconi che gli annunciano che la persecuzione ad Antiochia è cessata. La sosta a Troade

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non dura a lungo; un ordine improvviso fa immediatamente ripartire la carovana alla volta di

Neapolis, in Macedonia; di qui dovette proseguire il suo viaggio verso Roma. Le ultime notizie che

abbiamo di Ignazio ci sono fornite dalla lettera che Policarpo scrisse alla comunità di Filippi. I

cristiani di Filippi avevano chiesto a Policarpo una copia delle lettere di Ignazio ed egli le inviò loro

accompagnandole con una sua lettera in cui loda la comunità per la premura e l’affetto con cui ha

accolto i cristiani “immagini della vera carità” e per aver accompagnato “quelli che erano legati

dalle sante catene” (Policarpo, Ai filippesi 1,1). Al momento in cui scrive non ha ancora notizie

sicure sulla sorte di Ignazio e dei suoi compagni, si dice però certo “che non hanno corso invano,

ma nella fede e nella giustizia. Sono nel luogo loro dovuto presso il Signore insieme al quale hanno

patito” (9,2). Chiede di essere informato se vi sono ulteriori notizie su Ignazio. “Comunicateci ciò

che di certo venite a sapere di Ignazio e di quelli che sono con lui” (13,2).

Secondo il Martyrium Antiochenum il santo subì il martirio il 20 dicembre dell’anno 107

(più probabilmente tra il 110 e il 118); in quel giorno ancor oggi la chiesa bizantina celebra la sua

memoria. La liturgia latina ricordava il martirio di Ignazio l’1 febbraio, conformemente alla data

fornita dal Martyrium latinum. La riforma liturgica del calendario ha preferito attenersi all’antico

uso di Antiochia che celebrava la memoria del suo santo martire il 17 ottobre. L’unica lettera di

Ignazio che sia datata è quella ai romani che porta la data del 24 agosto; è verosimile Ignazio sia

stato martirizzato il 17 ottobre.

La collezione delle lettere

Scrive Policarpo ai filippesi: “Come ci avete chiesto, vi mandiamo le lettere di Ignazio

indirizzate a noi da lui e quante altre abbiamo con noi. Sono accluse a questa lettera e ne potrete

trarre grande profitto perché esse racchiudono fede, pazienza, e ogni edificazione che eleva al

Signore” (Ai filippesi 13,2).

Una raccolta di lettere di Ignazio si è dunque già costituita poco dopo la sua morte. Quante

lettere comprendeva? Noi possediamo tre recensioni delle lettere di Ignazio: la recensione lunga con

13 lettere, la recensione media con 7 lettere e la recensione breve con solo 3 lettere. Dopo quattro

secoli di accese polemiche e discussioni, la grande maggioranza degli studiosi si è pronunciata a

favore della recensione media, di 7 lettere – quella oggi riportata in tutte le versioni - e ha

individuato nella recensione lunga l’opera di un falsario della seconda metà del IV secolo o

dell’inizio del V. Ma non mancano, ancora oggi, voci discordi che considerano un falso anche la

collezione delle 7 lettere. J. Rius-Camps, ad esempio, in due lunghi articoli del 1977 e 1979,

riconosce come autentiche solo 4 lettere, dalle quali elimina drasticamente tutti i passi che

testimoniano l’esistenza di una costituzione ecclesiale di tipo giuridico e un episcopato monarchico.

Le lettere sarebbero state scritte tra l’80 e il 100 d.C. e Ignazio sarebbe il vescovo di tutta la Siria e

non solo di Antiochia; non sarebbe morto nella persecuzione di Traiano ma si sarebbe offerto

volontariamente al martirio autodenunciandosi alle autorità imperiali come l’unico responsabile di

una sommossa avvenuta nella provincia di Siria per salvare i suoi fedeli. La discussione è stata

ripresa da Robert Joly della Libera Università di Bruxelles; questi afferma che le lettere sono state

scritte poco tempo dopo il martirio di Policarpo, che lui propone di datare nel 161 o poco dopo.

Trova punti non chiari in questi testi. Ad esempio, perché Ignazio non scrive alla sua comunità di

Antiochia? Perché cita tanti nomi di persone ma non ricorda mai per nome dei fratelli di Antiochia?

Perché sembra attirare attenzione, venerazione e simpatia tanto più si allontana da Antiochia? Come

mai non menziona mai i suoi compagni condannati al martirio come lui? Le lettere sarebbero false.

A tali obiezioni, anche se non sempre si possono trovare risposte, si può obiettare che non sappiamo

tutto ciò che riguarda le chiese del II secolo, che probabilmente altre lettere sono andate perdute, che

la chiesa primitiva non era così monolitica come siamo abituati a immaginarla … Perché accenno,

seppur brevemente a tali questioni? Perché la visione che possiamo farci del II secolo cristiano

muterebbe di molto se si datassero queste lettere cinquant’anni più tardi o, ancora peggio, le si

ritenesse opera di un falsario. Ad alcuni, soprattutto in ambito protestante, pare inverosimile che,

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all’epoca di Traiano, la chiesa presenti già un’organizzazione gerarchica così precisa (Ai tralliani

3,1). Purtroppo Ignazio, “uomo di unità”, come egli stesso ama definirsi (Ai filadelfesi 8,1), è stato a

lungo un’occasione di divisione tra le chiese; da parte cattolica ce ne si è serviti per difendere il

primato romano e una ben precisa gerarchia ecclesiastica, da parte protestante si è risposto tentando

di dimostrare che questi scritti erano soltanto opera di un falsificatore.

Il genere letterario

Ignazio scrive delle lettere; ora, mentre l’epistola è una composizione artificiale, che

obbedisce a un particolare genere letterario con le sue leggi, la lettera è uno scritto occasionale,

personale, spontaneo. Le lettere di Ignazio non hanno uno specifico scopo dottrinale, l’autore cerca

di rispondere ai problemi che gli vengono sollevati dall’incontro con i rappresentanti delle diverse

chiese. Ma proprio per il loro carattere occasionale sono un testimonianza preziosissima sulla chiesa

antica in Asia minore. Non sono facili da leggere perché lo stile è originale; il suo greco spesso non

rispetta le regole grammaticali, contiene latinismi; talvolta le frasi sono oscure, lunghi periodi

vengono incominciati e troncati improvvisamente. Tradurre questi testi è difficile; si tratta di

scegliere se riprodurre il testo originale il più esattamente possibile, ma con il rischio di essere

oscuri, o farne una parafrasi, una traduzione meno aderente al testo e più comprensibile.

Le citazioni bibliche sono scarsissime. L’AT è citato esplicitamente solo tre volte: in Efesini

5,3 e Magnesii 12 cita il libro dei Proverbi (3,34 e 18,17) introducendolo con la formula “come è

scritto”; in Trallesi 8,2 cita Is 52,5. Vi sono alcune allusioni, ma in generale sembra conoscere poco

l’AT. Per quanto riguarda il NT, conosce e cita il vangelo di Matteo, fa allusioni a Marco, Luca e

agli Atti, conosce bene il vangelo di Giovanni; delle lettere di Paolo ricorda soprattutto Efesini e

1Corinti.

Lettera agli efesini

Efeso, sede di una delle comunità fondate da Paolo (At 19,1-20,1), tra la fine del I e l’inizio

del II secolo era una delle città più fiorenti di tutto l’impero romano, una metropoli politica e

commerciale dell’Asia minore. Paolo vi era rimasto due anni. Nell’arco di nemmeno trent’anni ben

tre autori diversi indirizzano uno scritto a questa comunità: un discepolo di Paolo intorno agli anni

80, l’autore dell’Apocalisse verso il 95, Ignazio di Antiochia tra il 100-115. Questo fatto, unico

nella storia della chiesa primitiva, costituisce una dimostrazione di grande interesse per questa

comunità ed è un segno della vitalità e dell’importanza che la chiesa di Efeso rivestiva nell’ambito

del cristianesimo delle origini.

4. L’immagine della cetra era impiegata per parlare del’armonia del cosmo o dell’essere

umano come microcosmo, o ancora per definire le relazioni tra la gente. Qui Ignazio l’applica al

rapporto tra presbiteri e vescovo. Il presbiterio è come un coro, in cui si canta “a una stessa voce”

(sýmphonoi) in unità di sentimenti (en homonoía).

5. Dichiara di aver raggiunto una familiarità non umana non umana, ma spirituale, cioè

un’unione e una comunione che non sono dettate da sintonia di carattere, ma dalla presenza in

Ignazio e Onesimo dell’unico Spirito, il quale solo fa l’unità. “Se uno non è dentro il santuario”

(thysastérion); non indica tanto una chiesa materiale – al tempo di Ignazio si celebrava nelle case e

l’altare era semplicemente un tavolo (trápeza) – quanto la chiesa come comunità di credenti. Chi

non resta unito alla comunità si priva del pane di Dio, espressione che rinvia a Gv 6,33. Come dice

Mt 18,19-20: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il

Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono

io in mezzo a loro”. Se tale è la forza della preghiera di due o tre credenti, quanto maggiore sarà

quella di un’intera comunità unita al suo vescovo! 5,3: “Chi non viene epì tò autó - che lett.

significa ‘nello stesso luogo’, ma va inteso in senso figurato: ‘negli stessi sentimenti’ – già si

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comporta da orgoglioso e ha giudicato se stesso”. Segue un invito a non opporre resistenza al

vescovo per essere sottomessi a Dio.

6. Il passo relativo al silenzio del vescovo è poco chiaro. Vi è chi lo spiega con

l’affermazione che Dio è silenzio (Efes. 19,1; Magn. 8,2) e il vescovo, a immagine di Dio è silenzio;

vi è chi vi trova un’allusione al carattere silenzioso e timido di Onesimo e lo collega alla frase

seguente, in cui si dice che il padrone di casa deve essere accolto con la stessa venerazione che si ha

per chi l’ha inviato (“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha

mandato”, Mt 10,40; “Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me accoglie

colui che mi ha mandato”, Gv 13,20). Del resto a Efeso regna l’eytaxía, “il buon ordine”, l’armonia

e la mancanza di divisioni.

7. I cc. 7-9 trattano dei falsi maestri. Vi sono alcuni che “portano in giro” il nome ma

agiscono in modo indegno di Dio. Ignazio, colui che porta il nome di “Teoforo”, mette in guardia

contro questi falsi fratelli, contro quelli che dicono “Signore, Signore”, ma poi non fanno la volontà

del Padre (Mt 7,13-21). Anche Paolo attesta che nella comunità di Corinto vi erano dei falsi apostoli

“operai fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo. Ma questo non fa meraviglia perché

anche Satana si traveste da angelo di luce” (2Cor 11,14). Vanno evitati, c’è una specie di

scomunica; occorre vigilare perché il loro insegnamento è come il morso di un cane rabbioso.

L’accenno a queste ferite procurate dai falsi fratelli lo conduce a ricordare che il vero medico è

soltanto Gesù Cristo. È un tema che diverrà tradizionale nella letteratura patristica. Cristo è “medico

delle anime e dei corpi”, è lui che guarisce. Gli uomini possono essere solo strumenti di tale

guarigione.

9. L’immagine della semina è evangelica; quella delle pietre del tempio rinvia a 1Pt 2,4-6,

secondo la quale i cristiani sono “pietre vive”, che formano un edificio spirituale. Sono elevati in

alto, cioè in Dio, tramite la croce. L’immagine non è chiara, né coerente; subito dopo dice che a

sollevarci in alto è la fede e che la via è l’amore. Dall’immagine della via si passa a quella di una

processione religiosa in cui i cristiani, compagni nel cammino, portano Dio, portano il tempio,

portano Cristo, portano cose sante (secondo alcuni: lo Spirito santo). Ignazio gioisce del fatto che i

cristiani di Efeso vivono “secondo un’altra vita”, un modo di vivere diverso, un modo di stare nella

vita diverso da quello di chi non ha fede, un modo “altro”.

10. Se ha parlato con durezza dei falsi fratelli, sembra più mite nei confronti dei pagani.

Invita all’intercessione perché vi è in essi “una speranza di conversione” e chiede che sia data loro

la testimonianza delle opere, in parallelo con 1Pt 2,12: “Tenete una condotta esemplare fra i pagani

perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre opere belle diano gloria a Dio nel

giorno della sua visita”. “Ci sia concesso di essere loro fratelli”: anche se non mostrano un

atteggiamento fraterno verso i cristiani, sono i cristiani che devono cercare di essere fraterni con

loro.

13. Invita a riunirsi più di frequente per l’eucharistían theoû, termine che ricorre qui per la

prima volta per indicare la celebrazione eucaristica. Per qualche studioso è un invito a celebrare

l’eucarestia anche durante la settimana e non solo di domenica perché quando la comunità si raduna

per l’eucarestia, nella concordia e nella fede, vengono sconfitte quelle potenze dell’aria di cui parla

Paolo in Ef 6,12. È un ammonimento che troviamo anche nella Lettera agli ebrei 10,25: “Non

disertiamo le nostre riunioni come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto

più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore”. C’è di nuovo un’insistenza sull’unità e la

concordia; la pace è frutto della preghiera comune, della lotta nella preghiera dei credenti (cf. Rm

15,30: “Lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio”; Col 4,12: “Vi saluta Epafra, servo di

Gesù Cristo, che è dei vostri, il quale non smette di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate

saldi, perfetti e aderenti a tutte le volontà di Dio”).

15. Contiene un ammonimento sul rapporto tra parola e pratica: è meglio vivere l’evangelo

nel silenzio che parlare dell’evangelo senza una prassi coerente; e un ammonimento per chi insegna.

Se Gc 3,1 mette in guardia dal farsi maestri e Mt 23,8 invita a non farsi chiamare rabbì, perché c’è

un solo maestro, Ignazio ricorda che soltanto in Cristo c’è una perfetta concordanza tra parole e

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opere, la sua parola è creatrice (cf. Gen 1 dove Dio disse e fu si riferisce alla Trinità; anche Cristo

presiede all’opera di creazione). Le parole: “Le cose che ha fatto tacendo sono degne del Padre” e

poco più avanti il riferimento al silenzio (hesychía) di Gesù non sono molto chiare. La spiegazione

che più mi convince è quella che vede nel silenzio di Gesù, il suo ritrarsi dopo la creazione, il suo

fare silenzio per lasciare libero l’uomo. Altri vi vedono un riferimento al suo silenzio davanti a

Pilato, durante la passione.

Il docetismo. (Smirnesi 1-2;Trallesi 6,1-2; 10-11,2)

Ignazio si trova ad affrontare due tendenze che emergono all’interno delle comunità

cristiane dell’Asia minore: tendenze docete e tendenze giudaizzanti.

Dei doceti tratta soprattutto nella Lettera ai cristiani di Smirne, una chiesa alla quale era

stata rivolta una lettera dall’autore dell’Apocalisse, una lettera in cui la chiesa è invitata a essere

paziente e perseverante nella tribolazione. “Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei

ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano giudei e non lo sono, ma sono sinagoga di

satana. Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere

per mettervi alla prova, e avrete un tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò

la corona della vita. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. Il vincitore non sarà

colpito dalla seconda morte” (Ap 2,9-11). La chiesa di Smirne ha patito la prova, ha partecipato

nella sua carne alla passione di Cristo, alcuni cristiani sono stati gettati in carcere e nella lettera che

Ignazio scrive a questa chiesa parla proprio di quelli che negano la realtà della passione di Cristo, di

un gruppo presente nelle chiese dell’Asia minore il quale sostiene che Cristo ha sofferto soltanto in

apparenza. Sono le stesse dottrine contro le quali aveva combattuto l’apostolo Giovanni nelle sue

lettere (1Gv 4,2: “In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù

Cristo venuto nella carne è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù non è da Dio”; 2Gv 7:

“Sono apparsi nel mondo molti seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne”), ma che

compaiono già nei vangeli (cf. Lc 24,36-43). Il docetismo (dal verbo greco dokéo= sembrare,

apparire) è in forte consonanza con la cultura ellenistica nella quale prevaleva un forte disprezzo per

la materia. Il divino non può essere materiale. Lo spirituale, il filosofo, non può compiere lavori

materiali. In ambito cristiano ciò significa che il Signore non si è veramente fatto uomo, non ha

patito veramente, ma soltanto in apparenza. In un testo ritrovato nella biblioteca di Nag Hammadi

sta scritto: “Non fui consegnato a loro, come essi avevano tramato, né fui in alcun modo sottoposto

ai dolori. Essi mi colpirono, ma io non morii realmente, bensì in apparenza … In verità essi non mi

videro e non mi colpirono: fu un altro … colui che bevve il loro fiele e il loro aceto; non io fui

percosso con la canna, fu un altro a portare la croce sulle spalle; … sul capo di un altro fu posta la

corona di spine, mentre io gioivo nell’eccelso … e ridevo della loro mancanza di intelletto”. Negli

Atti di Giovanni, documento gnostico composto in Asia minore verso la metà del II secolo, si dice:

“Venerdì, all’ora sesta del giorno, Gesù mi disse: ‘Giovanni, laggiù a Gerusalemme per la

moltitudine io sono crocifisso, sono ferito con lance e abbeverato con aceto e fiele … Ma quello

sulla croce non sono io: quello che dicono di me è misero e indegno di me. Hai udito che io ho

sofferto, e non ho sofferto; che fui trafitto, senza essere stato trafitto; che fui appeso, e non fui

appeso; che il sangue scorse da me, eppure non scorse”. Questa dottrina svuota il mistero cristiano e

vanifica il senso della croce, il mistero dell’incarnazione, mistero che prova già scandalo nel NT.

Basta pensare al testo di Mc 6,1-6, in cui Gesù, conosciuto come il falegname, il figlio di Maria, il

fratello di Giacomo, ecc. diventa motivo di scandalo. I più vicini secondo la carne sono in realtà i

più lontani dal mistero dell’incarnazione. Hanno conosciuto Gesù, sanno che è un falegname, un

uomo ordinario, figlio di Maria, lo hanno visto mangiare, lavorare, e restano scandalizzati. Dio in

Gesù si fa talmente debole da essere rifiutato. Tutti i vangeli sono concordi nel sottolineare come le

folle che seguivano Gesù si assottigliano mano a mano che procede nella sua missione e annuncia il

mistero della croce. Gesù annuncia che il Figlio dell’uomo deve andare a Gerusalemme, soffrire

molto, venire ucciso e, di fronte a questo annuncio della passione e della morte, anche Pietro, che

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pur lo aveva confessato quale Cristo, figlio del Dio vivente, patisce lo scandalo. “Mentre i giudei

chiedono miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i

giudei, stoltezza per i pagani”, dirà Paolo (1Cor 1,23). Ma non a caso questo stesso scandalo è

patito di fronte al mistero dell’eucarestia; in Gv 6,42 i giudei si scandalizzano e mormorano perché

Gesù si è rivelato quale pane disceso dal cielo. “Dicevano: ‘Costui non è forse Gesù, il figlio di

Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre’”. È un’espressione parallela a quella di Mc 6. Ma

Gesù ribadisce che è lui il pane vivo e questo pane è la sua stessa carne. “Questo vi scandalizza? E

se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima?” (Gv 6,62). Ai discepoli increduli Gesù fa

vedere che vi è un segno ancora più grande, che rappresenta il vero scandalo, la pietra di inciampo:

la croce, l’innalzamento del Figlio dell’uomo. Ed è in realtà un unico mistero, il mistero del Figlio

di Dio che si riveste di carne umana, si fa servo, è rifiutato e crocifisso per amore! L’altro momento

di scandalo di Pietro nel vangelo di Giovanni è al c. 13, durante la lavanda dei piedi, là dove Gesù

rivela che cos’è la carità e dà il comandamento nuovo: “Amatevi come io vi ho amato”. Già nel

vangelo, dunque, è presente lo scandalo patito di fronte all’incarnazione, che si esplicita nel rifiuto

della persona di Gesù, figlio di Maria, nel rifiuto dell’eucarestia e nello scandalo di fronte al gesto

della lavanda dei piedi, gesto rivelativo dell’agape. E questi sono gli stessi tre rifiuti che troviamo in

questa lettera di Ignazio. Troviamo parole di estrema severità nei confronti di questi doceti; li

chiama “belve, cani rabbiosi” (Efes. 7,1), “rami parassiti” (Tral. 11,1), “colonne e tombe di morti”

(Filad. 6,1), “belve” (Smirn. 4,1), “non degni di essere nominati” (Smirn. 5,2), “contraddicono al

dono di Dio e muoiono disputando” (Smirn. 7,1). Sono parole molto dure e Ignazio dà ordini

perentori: “Non ascoltare alcuno che non parli di Gesù Cristo nella verità” (Efes. 6,2), “siate sordi”

(Tral. 9,1), non si deve “nemmeno incontrarli” (Smirn. 4,1), “starne lontani e non parlare di loro”

(Smirn. 7,2). Alle loro dottrine contrappone la sua confessione di fede: Smirn. 2-3; Trall. 9, dove c’è

un’insistenza continua sul “veramente” contrapposto al “in apparenza”. E vengono poi evidenziate

le conseguenze di questo rifiuto: Smirn. 6,2-7,1. Il rifiuto del mistero dell’incarnazione è rifiuto

dell’eucarestia e rifiuto dell’agape. Come può praticare l’amore gratuito e disinteressato per il

fratello chi non crede che questo amore è dono del Figlio di Dio fatto uomo e morto sulla croce per

amore? Si può appartenere formalmente alla comunità cristiana eppure essere avversari di Cristo;

nelle comunità cristiane cui si rivolge Giovanni, come in quelle del tempo di Ignazio, come sempre

all’interno della chiesa vi sono dei falsi fratelli che, nonostante il loro linguaggio cristiano, non

credono in Cristo, riducono l’evangelo a ideologia, a messaggio, a gnosi, e non a vangelo di

salvezza che agisce con potenza sulle nostre vite. Trall. 6,2: “Vi sono alcuni che mescolano Gesù

Cristo con se stessi”; riprende l’immagine dalla medicina. Si era soliti dare un bicchiere di medicina

amara in un bicchiere il cui orlo era cosparso di miele. Trall. 11,1: “Fuggite queste piante cattive”;

il comportamento dei cristiani nei confronti di questi falsi fratelli deve essere molto netto; va loro

rifiutato il saluto e l’ospitalità, cioè vanno scomunicati. 2Gv 10: “Se qualcuno viene a voi e non

porta questo insegnamento (= che Gesù è venuto nella carne) non ricevetelo in casa e non salutatelo

perché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse”. Smirn. 7,1: “Si tengono lontani

dall’eucarestia e dalla preghiera, perché non confessano che l’eucarestia è carne del Salvatore

nostro Gesù Cristo … Coloro che si oppongono al dono di Dio, muoiono disputando; mentre

sarebbe utile per loro amare, al fine di risorgere”; “amare” in greco è agapân, espressione

volutamente confusa perché significa sia celebrare l’eucarestia, l’agape, il banchetto fraterno, sia

amare. E Ignazio, a mio avviso, permette volutamente questa confusione tra vivere nella carità e

celebrare l’eucarestia che tanto ha imbarazzato i traduttori e che invece è molto chiara perché c’è un

legame indissolubile tra eucarestia e amore, ed è questo ciò che Ignazio vuole sottolineare. Smirn.

6,2: il rifiuto dell’eucarestia rende impossibile l’esercizio dell’amore fraterno. Come può praticare

l’amore gratuito e disinteressato chi rifiuta il dono dell’eucarestia, chi rifiuta il dono preveniente del

Signore? Come può amare il povero, la vedova, l’orfano che sono il corpo del Signore chi non crede

che Dio si è fatto realmente uomo e ha assunto realmente la nostra carne?

Negli anni successivi a Ignazio quei gruppi a tendenza doceta divennero sempre più forti. Le

varie correnti gnostiche lottano contro l’idea che un essere divino possa realmente farsi uomo,

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compromettendosi con la “materia cattiva” di questo mondo e con le miserie della vita umana. Di

fronte a questa tendenza a sottovalutare, minimizzare la realtà storica dell’opera salvifica di Dio la

chiesa fu costretta a prendere atto di quanto fosse stata reale e totale la realtà dell’incarnazione,

dovette approfondire questo mistero così urtante per la cultura del tempo. I padri sottolinearono tutti

gli aspetti umani di Gesù presenti nei vangeli: la sua stanchezza, la sua fame, la sua sete, le sue

lacrime sulla morte dell’amico Lazzaro, l’angoscia del Getsemani … Alla fine si giunse a

confessare che in Gesù l’uomo è liberato “con la sua carne” e non “dalla sua carne”. “Ciò che è

assunto è salvato” afferma Gregorio di Nazianzo (Lettera 101). “Risparmiate quella che è l’unica

speranza di tutto il mondo”, cioè l’umanità di Cristo, grida Tertulliano agli gnostici (Sulla carne

5,3).

I giudaizzanti (Magnesii 8-10; Filadelfesi 8-9)

La seconda tendenza che Ignazio deve contrastare è quella dei giudaizzanti. Chi sono?

Ripercorriamo brevemente quello che è accaduto all’interno della comunità cristiana primitiva.

Partiamo da At 9, dove Luca ci racconta che Saulo chiede lettere per condurre in catene “uomini e

donne appartenenti alla Via”; durante il viaggio per Damasco gli si rivela Gesù. Saulo resta cieco e

viene condotto a Damasco. Nel frattempo a Damasco c’è Anania, che riceve l’ordine da parte del

Signore di andare a imporgli le mani per guarirlo. Alle sue obiezioni il Signore dice: “Va’, perché

egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai

figli di Israele” (At 9,15). Poi, in realtà, nei capitoli successivi vediamo Saulo predicare Gesù Cristo

nelle sinagoghe, tra gli ebrei ed è Pietro il primo, in At 10 ad annunciare l’evangelo a Cornelio, un

centurione romano. Pietro ha una visione in cui gli viene offerto da mangiare del cibo impuro; in un

primo momento si rifiuta: “Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o

di impuro” (At 10,13). Di per sé è un ritorno indietro rispetto al vangelo; Gesù in Mc 7,15 ha

dichiarato: “Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le

cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. C’è una certa fatica ad assimilare l’insegnamento di

Gesù, ma poi Pietro si rende conto che “Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e

pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”; poi vi è la discesa dello Spirito e il battesimo.

Ma a Gerusalemme Pietro deve giustificarsi dall’accusa di essere entrato in casa di uomini non

circoncisi e di aver mangiato con loro. At 11,20 ci dice che dei dispersi a causa della persecuzione

scoppiata a motivo di Stefano ad Antiochia cominciano a parlare ai greci, annunciando Gesù Cristo.

Solo in seguito la chiesa di Gerusalemme manda un suo rappresentante, Barnaba, che a sua volta

chiama Saulo. È qui che per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani. Ma la predicazione

agli ebrei continua; ci sono tensioni (cf. At 13,45); Paolo e Barnaba dichiarano: “Era necessario che

fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate

degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani” (At 13,46). In realtà non è vero,

continuano a predicare ai giudei (cf. At 14,1). Il c. 15 segna il processo di integrazione dei pagani

nella comunità. Ci sono due obiezioni; alcuni venuti dalla Giudea pretendono che i cristiani

provenienti dal paganesimo si facciano circoncidere; alcuni farisei diventati credenti chiedono che i

cristiani provenienti dal paganesimo ricevano la circoncisione e osservino la legge di Mosè.

Seguono due discorsi; nel primo, parla Pietro e va notato che nel suo discorso afferma che “Dio ha

eletto” le genti, usando l’espressione forte di “eleggere”. Pietro si assume la responsabilità di essere

stato artefice di questo annuncio: Dio non ha fatto discriminazioni, “purificando i loro cuori con la

fede”; la purificazione non avviene attraverso regole alimentari e imporre regole giudaiche significa

tentare Dio. Pietro comunica alla comunità la sua fatica, il travaglio che anche lui ha dovuto

attraversare. Giacomo afferma che Dio ha voluto scegliere “un popolo per il suo nome” (At 15,14)

fin da principio; ma è Israele che era stato costituito per essere segno del nome di Dio in mezzo alla

genti, ora le stesse parole sono applicate ai cristiani. È un discorso coraggioso. L’elezione di Israele

non esclude l’allargamento. C’è un fatto interpretato alla luce della Scrittura; si parte dagli eventi,

dalla storia, la si legge alla luce della parola di Dio, ci si confronta comunitariamente, in un libero

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scambio che porta a constatare la trasformazione della fisionomia della comunità. Si decide di

chiedere qualcosa ai pagani. At 15,29-30: “astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli

animali soffocati e dalle unioni illegittime”. Sono indicazioni dettate dal principio dell’oikonomía,

non sono dottrinali. In quella situazione, per poter consentire un contatto tra ebrei e cristiani

provenienti dal paganesimo, si stabiliscono delle norme provvisorie per non destare scandalo nei

deboli. È il principio che regge 1Cor 10,20-23: “Tutto è lecito”; questo è il principio, è la libertà

voluta da Cristo, ma per non scandalizzare l’altro, la coscienza dell’altro, posso porre limiti alla mia

libertà. L’importante è che ciò avvenga nella libertà e per amore. Si giunge così a stilare un

documento, una lettera accompagnata dalla viva voce di due inviati. Cosa ci insegna tutto questo?

Che il volto della chiesa è sempre in divenire; non c’è nessuna fossilizzazione, non perché cambi il

vangelo, ma perché cambia il nostro modo di comprenderlo, cambia il nostro modo di ridirlo.

In Gal 2,3 neppure Tito, “benché fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere”; si parla di

“falsi fratelli intrusi, i quali si erano infiltrati a spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù”.

In Gal 2,11-14 Paolo accusa Pietro perché, prima che venissero da lui alcuni fratelli da parte di

Giacomo, prendeva cibo insieme ai pagani, ma dopo la venuta di alcuni ebrei da Gerusalemme, li

tiene in disparte per timore dei circoncisi e Paolo lo contesta e lo accusa di avere un atteggiamento

poco chiaro, ambiguo, di vivere alla maniera dei giudei abbracciandone leggi e costumi. “Cristo ci

ha liberati per la libertà” (Gal 5,1).

Le prescrizione di At 15 sono superate dalla realtà, dalla storia che è sempre in movimento.

Non c’è un diritto canonico valido universalmente in ogni tempo. Chi sono quei cristiani che

secondo Magn. 8,1: “continuano a vivere secondo il giudaismo”? Anzitutto, mentre nei confronti

dei doceti c’è un atteggiamento duro, severo e sembra non esserci speranza di conversione – Smirn.

4,1: “Dovete pregare per loro, se mai possano convertirsi, benché sia difficile” – quei cristiani che

vivono “secondo il giudaismo” non sarebbero separati dalla comunità; si tratterebbe di ebrei

diventati cristiani cui si aggiungevano probabilmente dei cristiani di origine pagana. Che cosa viene

rimproverato loro? Anzitutto per Ignazio vi è un modo “giudaico” di leggere le Scritture e i profeti.

Al suo tempo non esiste ancora un NT come noi lo conosciamo; non si è ancora costituito il canone

delle Scritture e quando lui parla di Scrittura parla dell’AT. Quando parla di evangelo, non si

riferisce ai testi che noi abbiamo, ma probabilmente ad alcune tradizioni da cui poi sono derivati

anche i vangeli canonici. In Smirn. 5,1: “Non li persuasero le profezie né la legge di Mosé; e

nemmeno fin d’ora l’evangelo né i patimenti di ciascuno di noi”. Ci sono quattro testimonianze:

profeti, legge, vangelo e i patimenti del cristiano, la croce vissuta dal discepolo nella propria carne.

Filad. 5,1-6,1: afferma di rifugiarsi “nell’evangelo come nella carne di Gesù e negli apostoli come

nel presbiterio della chiesa”; “Se qualcuno vi spiega il giudaismo, non ascoltatelo. È meglio infatti

ascoltare il cristianesimo da un uomo circonciso, che il giudaismo da un incirconciso. Ma se

entrambi non vi parlano di Gesù Cristo, costoro sono per me delle colonne sepolcrali e delle tombe

di morti, sulle quali stanno scritti soltanto dei nomi di uomini”. Filad. 8,2: “Ho sentito alcuni che

dicevano: ‘Se non lo trovo negli archivi, non credo nell’evangelo’; e quando io ho detto loro: ‘Sta

scritto’ mi hanno risposto. ‘È proprio qui il problema!’. Ma i miei archivi sono Gesù Cristo! Gli

archivi inviolabili sono la sua croce, la sua morte, la sua resurrezione e la fede che ci viene per

mezzo di lui”. Alcuni cristiani rimanevano arroccati come a loro unico punto di riferimento agli

archivi giudaici, cioè all’AT, subordinando ad essi il vangelo. “I miei archivi sono Gesù Cristo”, la

persona di Gesù, non tanto un libro, un testo scritto. I profeti sono coloro che annunciano il messia,

quindi il cristiano non può che leggerli a partire dall’incarnazione; quando dice che nessuno deve

interpretare l’evangelo in maniera giudaica sta dicendo che il cristiano legge l’AT a partire

dall’evento di Cristo. E lo ripeto: non si tratta tanto di un libro, ma di un uomo, una vicenda, una

vita. Il cristianesimo non è una religione del libro, è la religione della carne di Cristo, la novità è

Cristo, come scriverà Ireneo: “Gesù ha portato ogni novità portando se stesso”. Dunque quando

Ignazio parla di un modo giudaico di leggere la Scrittura non sta parlando di un metodo esegetico,

ma sta dicendo che quel messia attestato e annunciato dall’AT è Gesù di Nazaret. Cristo “è la porta

del Padre” (Filad. 9,1), immagine che troviamo anche in Pastore d’Erma, Sim. IX,12; è l’unica via

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di accesso possibile al Padre, l’unico che può entrare nel Santo dei santi e che conosce i misteri di

Dio.

Oltre che alla Scrittura, Ignazio fa riferimento a usi giudaici. Magn. 9,2: “Se coloro che

vivevano secondo le realtà antiche sono pervenuti alla novità della speranza, non osservando più il

sabato ma vivendo secondo la domenica, giorno nel quale anche la nostra vita è risorta grazie a lui e

alla sua morte … come potremo noi vivere senza di lui che anche i profeti, discepoli nello Spirito,

attendevano come maestro?”. Vivere secondo la domenica è vivere secondo il mistero della morte e

resurrezione di Gesù, è porre Gesù al centro della nostra vita.

Il martirio: la Lettera ai romani

La Lettera ai romani all’interno dell’epistolario di Ignazio occupa un posto particolare. È

vero che tutte e sette le lettere sono scritte da un vescovo condannato a morte, un discepolo del

Signore che si prepara a offrire la testimonianza suprema e che tutte hanno il carattere di un

testamento, ma in esse Ignazio si manifesta come il vescovo che esorta, raccomanda, consiglia,

parla con autorità, mette in guardia le comunità contro i pericoli che le minacciano. Nulla di tutto

questo nella Lettera ai romani; non ci sono né esortazioni, né consigli, né inviti all’unità. Tutta la

lettera non è altro che una grande supplica alla chiesa che presiede alla carità perché Ignazio possa

testimoniare la carità fino al dono della vita. È l’unico tema di tutta questa Lettera ai romani: il dono

della vita, il martirio, la testimonianza di un amore perseverante fino alla morte per divenire vero

discepolo e offrire la vita per amore dei suoi fratelli.

Prol. Rivolgendosi a questa chiesa Ignazio fa uso di espressioni che manifestano una

speciale venerazione. La chiesa di Roma presiede nella regione dei romani, presiede nella carità. Al

c. 3,1 Ignazio testimonia: “Non avete mai invidiato nessuno; avete insegnato agli altri!”, parole che

devono necessariamente riferirsi alle lettere che una quindicina di anni prima Clemente aveva

scritto alla comunità di Corinto, e ancora, al c. 9,1: “Ricordatevi nelle vostre preghiere della chiesa

di Siria, che in vece mia ha Dio quale pastore. Come vescovo su di essa avrà solo Gesù Cristo e il

vostro amore”. Ignazio affida la sua comunità, restata senza pastore e che con tutta probabilità a

causa della persecuzione in corso non poteva provvedere a un altro pastore, alle preghiere e alla

carità della chiesa di Roma. Certamente chiede il sostegno e il conforto della preghiera e dell’aiuto

materiale alle chiese sorelle dell’Asia minore; è a queste chiese che chiede di inviare dei delegati ad

Antiochia, però affida la sua comunità in modo particolare a quella chiesa che ha il compito di

presiedere alla carità. Se si può parlare di un primato, si tratta di un primato di amore, di un primato

nel servizio fraterno.

1. Chiede ai romani di non togliergli il privilegio di poter morire martire. “Temo il vostro

amore” (1,2); afferma di morire volentieri per Dio (4,1); dichiara di voler morire (“Vi scrivo infatti

mentre sono vivo e desidero ardentemente morire”, 7,2); li prega di non avere per lui una

benevolenza inopportuna (4,1). Stando alla lettera di Plinio a Traiano a quell’epoca molti cristiani di

fronte alla persecuzione rinnegavano la loro fede per aver salva la vita; Ignazio testimonia a prezzo

della sua vita che vale la pena di vivere e morire per il Signore, che bisogna perseverare “inchiodati

nel corpo e nell’anima alla croce di Gesù Cristo e fondati nell’amore, nella carità del suo sangue”

(Smirn. 1,1), e non lo dice soltanto a parole, ma con la sua stessa vita. Ignazio combatte le tendenze

docete e di nuovo le combatte nella sua carne; le sue catene, le sue sofferenze, la sua passione sono

“dimostrazione” dell’incarnazione. Non è con le sue forze che Ignazio può desiderare il martirio,

non è certo contando sulla sua carne che può sopportare la tribolazione, ma è per la potenza che

viene dal Signore che ha veramente patito ed è veramente morto per noi. Trall. 10: “Se come dicono

alcuni atei, cioè infedeli, egli ha patito in apparenza – mentre sono loro in apparenza – perché

desidero combattere con le belve?”. Smirn. 4,2: “Se è in apparenza che queste cose sono state fatte

dal Signore nostro, anch’io sono incatenato in apparenza. Perché dunque ho dato me stesso

consegnandomi alla morte, attraverso il fuoco, la spada e le belve?”. Vive il suo martirio come un

fatto ecclesiale, è vescovo e pastore fino all’ultimo istante; abbiamo visto come nelle altre lettere si

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rallegra, gioisce per l’affetto fraterno, per l’unzione di fede che gli viene offerta dalle comunità

cristiane che si trovano lungo la via che lo conduce a Roma, ma poi ammonisce, esorta, consiglia,

rimprovera, manifestando una profondissima sollecitudine per tutte le chiese. Il martirio non è mai

un fatto individuale, personale, non è il raggiungimento della salvezza del singolo, è sempre un fatto

ecclesiale. È un’esortazione alla perseveranza nella fede, un incoraggiamento alla saldezza nella

fede. “Vi esortano le mie stesse catene” (Trall. 12,2). Più volte Ignazio nelle sue lettere parla del

suo martirio come antípsychon, come “vittima di espiazione” per i suoi fratelli cristiani. Si tratta di

un’espressione che ricorre in quattro casi: Efes. 21,1: “Io sono la vittima di espiazione per voi e per

coloro che, per l’onore di Dio, avete inviato a Smirne”; Smirn. 10,2: “Offro per voi il mio spirito e

le mie catene, che non avete disprezzato e di cui non vi siete vergognati”; Polic. 2,3: “Io mi offro

per te insieme alle mie catene che tu hai amato”; Polic. 6,1: “Io offro me stesso per coloro che si

sottomettono al vescovo, ai presbiteri, ai diaconi”. C’è una forza purificatrice ed espiatrice nel

sangue del martire che muore per la legge e diventa “vittima di espiazione” per i peccati del popolo.

Nell’AT vi sono diverse premesse di questa concezione in diversi testi; accenno soltanto a Is 53,4-5

dove il servo “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo

giudicavamo castigato percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe,

schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà la salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue

piaghe siamo stati guariti”. Nel NT la forza di intercessione, espiazione, sostituzione

rappresentativa si raccoglie e si compie nella persona di Gesù, il Figlio dell’uomo che “non è

venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Paolo

ricorda che “uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (2Tm 2,5), che il

sacrificio sulla croce di Gesù Cristo è unico (1Cor 1,13: “È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse

crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?”). La sequela di Gesù comporta un

paradossale modo di salvare la propria vita, cioè perderla per il vangelo, il che significa donarla per

i fratelli. È Cristo che salva, ma il discepolo diventa una sola cosa con lui. Quando Ignazio parla

degli eretici dice che “non sono piantagione del Padre”. Se lo fossero, apparirebbero come “rami

della croce”, scrive in Trall. 11,1-2. Il discepolo invece è tralcio innestato nella vite (cf. Gv 15,5), è

uno che lascia vivere in sé Cristo (Gal 2,20: “Non sono più io che vivo è Cristo che vivo in me”).

Accanto a quest’espressione ne troviamo un’altra: “Io sono spazzatura”, che riprende le parole di

Paolo in 1Cor 4,13: “Ritengo che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come

condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini … siamo

diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. Ignazio scrive: “Io sono

spazzatura in confronto a voi e mi offro in sacrificio per voi” (Efes. 8,1). “Il mio spirito è spazzatura

in confronto alla croce” (Efes. 18,1). Questa espressione in qualche modo corregge e risitua quella

precedente. La sua vita è ben poca cosa, ma trova senso e valore nell’essere donata per i fratelli. Il

termine perípsema si applicava ai criminali che venivano sacrificati agli dèi per espiare i peccati di

una nazione e placare la loro collera. Fozio racconta che ad Atene si buttava a mare un criminale e

nell’atto di gettarlo si diceva: “Sii nostro rifiuto”. Altri fratelli hanno donata la loro vita nel servizio

fraterno. Ignazio non ha scelto da se stesso di morire martire, non si è auto consegnato alle autorità,

non ha scelto lui per quale via seguire il Signore. “Il cristiano non ha potere su se stesso, ma si

dedica a Dio” (Polic. 7,3). Il martirio è la conclusione di un quotidiano cammino di donazione a Dio

e ai fratelli.

2. E infatti nel c. 2 Ignazio ne parla come di “un’occasione” (kairós), del “momento

propizio”, espressione che ricorre nel NT, ad es. in Mt 26,18: “Andate in città da un tale e ditegli:

‘Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino’”, dove indica l’ora della passione. Poi continua: “Se

tacerete a mio riguardo, io sarò una parola di Dio; se invece amerete la mia carne, io sarò una

semplice voce”. Io diverrò “una parola di Dio”: questa è la vocazione del cristiano. Logos, parola è

Cristo; noi siamo chiamati a diventare una sola cosa con Cristo, a diventare il Figlio stesso di Dio.

Qualche decennio più tardi Ireneo dirà: “Il Verbo si è fatto uomo e il figlio di Dio divenne figlio

dell’uomo, perché colui che si unisce al Verbo di Dio e accetta l’adozione divenga figlio di Dio”

(Contro le eresie III,19,1). Per questo Dio si è incarnato, per portare a compimento l’opera di

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divinizzazione dell’uomo. Dio si fa uomo perché l’uomo possa diventare Dio. Ancora Ireneo scrive

che il Figlio di Dio, “per il suo smisurato amore, divenne ciò che noi siamo perché noi potessimo

divenire ciò che lui è” (Contro le eresie, pref. 5). Troviamo già abbozzata in Ignazio una teologia

della divinizzazione dell’uomo che sarà sviluppata più tardi (cf. Atanasio).

Per parlare del martirio Ignazio usa termini normalmente impiegati per parlare

dell’eucarestia; parla di offerta in libagione, espressione che richiama Fil 2,17: “Anche se io devo

essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede”; 2Tm 4,6: “Io sto già per essere versato

in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita”. Parla di “altare”, dice che i cristiani di

Roma formano un coro nell’amore per cantare al Padre in Gesù Cristo; il martirio è descritto come

una liturgia. Paragona il suo viaggio verso Roma, verso l’occidente, al tramontare del sole, un

tramonto che diventa un nuovo sorgere in Dio.

4. Troviamo di nuovo un’espressione che rinvia all’eucarestia. Consegnato alle fiere, diventa

“pane eucaristico”. Ma, in fin dei conti, in qualche modo, ogni nostra partecipazione all’eucarestia è

un passo verso il martirio. Ogni volta che partecipiamo all’eucarestia facciamo offerta di tutta la

nostra vita al Padre; giorno per giorno, nella vita quotidiana, siamo chiamati ad offrire i nostri corpi

come “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1). Vi è un riferimento a Pietro e Paolo che

sembra presupporre la tradizione della loro presenza a Roma (cf. 1Clemente 5,3-7).

6,3 Non c’è nessun rifiuto di ciò che è umano, il Signore è venuto a insegnarci a vivere, a

essere veramente umani. E l’essere veri uomini, per Ignazio, consiste nell’imitare la passione di

Dio. Fino a che punto è radicata nella Bibbia la mistica dell’imitazione? Nella storia della

spiritualità il tema dell’imitazione di Cristo occupa un posto importante. La tradizione cristiana ha

spesso inteso l’invito alla sequela di Gesù come una chiamata a imitarlo. Ora, mentre il concetto di

“imitazione” è essenziale nella cultura greca, esso sembra del tutto assente dal mondo biblico.

Nell’AT Dio è incomparabile e inimitabile: “A chi mi potete paragonare e rassomigliare, uguagliare

e paragonare?” (Is 46,5). Il tentativo di rendersi uguale a Dio è il più grande peccato, è il peccato di

Adamo e di Eva. A Eva che vuole mangiare il frutto dell’albero che Dio ha proibito di mangiare il

serpente dice: “Se voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio” (Gen

3,4). Farsi simile a Dio è il desiderio del re di Babilonia di cui parla Isaia: “Salirò sulle regioni

superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo’” (Is 14,13-14). C’è un solo testo in cui l’idea

dell’imitare è intesa in senso positivo, anche se non si riferisce all’imitazione di Dio, ma a quella di

uomini diventati di esempio per gli altri, e quest’unico caso, in cui la Bibbia usa il verbo miméomai

(= imitare) in senso positivo, è un racconto di martirio. In 4Mac 9,23 il fratello maggiore fra i

tormenti grida agli altri: “Imitatemi, fratelli”, e poco più avanti i sette fratelli dicono: “Imitiamo i tre

giovani dell’Assiria che disprezzarono la fornace che li accomunava nello stesso destino” (Dn

3,17). L’unico caso in cui si parla di imitazione è in un contesto di sofferenza, di passione, di fronte

alla testimonianza del Dio unico fino al sangue. Per il resto il concetto di imitazione è del tutto

estraneo all’AT, soprattutto è assente l’idea che si debba imitare Dio. Nei vangeli si parla di

“seguire” Gesù, di stare alla sua sequela; l’idea di imitazione compare nella Lettera agli ebrei 6,12,

che offre modelli di fede e invita a imitare la fede e la perseveranza dei padri, e 13,7 (“Ricordatevi

dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la parola di Dio. Considerando attentamente l’esito

finale della loro vita, imitatene la fede”); in Paolo l’idea di imitazione ha oggetti di riferimento

diversi. Ts 2,14: “Siete diventate imitatori delle chiese di Dio … perché avete sofferto”; c’è

un’imitazione di altri cristiani e questa imitazione avviene nel patire, nella passione. In tutta una

serie di passi Paolo pone se stesso a modello delle sue comunità, un modello che devono imitare

(2Ts 3,7; 1Cor 4,16); Fil 3,17: “Fatevi miei imitatori” e nei vv. precedenti viene spiegato che cosa si

deve imitare: “Tutto ormai reputo una perdita di fronte alla sublimità di Cristo … perché possa

diventargli conforme nella morte” (cf. anche Fil 4,9). In 1Cor 11,1 Paolo motiva l’imitazione del

suo comportamento con il fatto che egli stesso si sforza di essere imitatore di Cristo, così pure in

1Ts 1,6: “Voi siete diventate imitatori nostri e del Signore”. Una sola volta, in Ef 5,1, Paolo parla di

imitazione di Dio. Spesso questa idea di imitazione è accompagnata da quella di “modello” (týpos)

che certamente vuole rinforzare questa immagine. L’uso di questi vocaboli si accentua nei padri

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apostolici. 1Clem. 17,1: “Facciamoci imitatori di coloro che camminarono predicando la venuta di

Cristo”; nell’A Diogneto 10,4-6 l’uomo deve essere imitatore della bontà di Dio, e in diversi passi

delle lettere di Ignazio. In Smirn. 12,1 Ignazio invita i credenti a imitare il diacono Burro perché è

un modello del servizio di Dio; in Efes. 1,1; Trall. 1,1; Efes. 10,3: “Cerchiamo di essere imitatori

del Signore!”; in Filad. 7,2 l’imitazione di Gesù Cristo consiste nell’amare la pace, nel fuggire ogni

divisione e in Rom. 6,3 il concetto di imitazione è chiaramente riferito al martirio. La perfetta

imitazione del Signore è presente nel martirio, nella passione del discepolo a imitazione della

passione del suo Signore. È la stessa idea che, del resto, sottosta a tutti i racconti di martirio degli

Atti dei martiri e nelle esortazioni al martirio di Origene e di Cipriano. Questo tema dell’imitazione

di Gesù continua durante tutta l’epoca patristica attraverso soprattutto Giovanni Crisostomo e

Agostino (“Che cosa significa seguire se non imitare?” (La santa verginità 27) e passa poi nella

spiritualità medievale; basta pensare a Francesco di Assisi e all’Imitazione di Cristo (1,1; 3,56). Ai

tempi della riforma Lutero, nella sua reazione contro la pietà medievale, vide nell’idea di imitazione

un tentativo orgoglioso di acquistarsi dei meriti e oppose all’idea di imitazione quella di sequela. La

critica di Lutero comporta sicuramente una buona parte di verità. La nozione di imitazione pone

modello e imitatore sullo stesso piano e non evidenzia il ruolo unico del Signore. Non si può imitare

Cristo come un eroe, come un modello umano. Gesù ha salvato l’umanità, ha fatto tutto, e noi non

dobbiamo rifare quello che egli ha fatto in modo unico e definitivo. Gesù è colui che ci precede, ci

indica il cammino e ci chiama alla sua sequela. Paolo che pure parla di imitazione di Cristo e di

Dio, accosta però ad essa altre immagini che mettono maggiormente in luce il ruolo della grazia.

L’immagine di Cristo riflettendosi in noi come in uno specchio ci rende sempre più conformi al

Signore, ma non siamo noi a imitare il Signore con le nostre opere, con i nostri sforzi, è Cristo che

ci rende conformi alla sua persona, che ci trasforma, che trasfigura il nostro corpo di miseria

conformandolo al suo corpo di gloria (cf. 2Cor 3,18). Senza queste precisazioni c’è il rischio di

ridurre il cristianesimo a uno sforzo etico per ottenere la salvezza. Potremmo dire che è più

conforme allo spirito biblico parlare di sequela piuttosto che di imitazione, ma con Ignazio siamo

ancora alle origini della storia della chiesa e il linguaggio teologico cristiano sta nascendo tra mille

difficoltà. Certamente, però, non c’è nelle lettere di Ignazio uno sforzo volontaristico di salvezza; il

martirio non viene mai concepito nella chiesa come un’opera umana, ma sempre come una

chiamata di Dio e anche Ignazio sa bene questo. Trall. 4,2: “Certo, io amo patire, ma non so se ne

sono degno!”. Ignazio conosce la sua debolezza, sa che il principe di questo mondo tenterà di

strapparlo a Dio fino all’ultimo momento. Ma io credo che se parla di imitazione a proposito di

questa sua sequela del Signore fino al martirio e se questo tema resta così presente nella tradizione

della chiesa è perché vuole controbattere certe posizioni di cristiani all’interno della comunità che

mirano a dissolvere il mistero dell’incarnazione. Dio si è veramente incarnato, ha veramente

assunto la nostra carne e per questo è possibile imitarne la vita. Di fronte all’eresia doceta la

nozione di sequela, del seguire poteva forse restare ancora vaga. Ignazio sottolinea invece la

storicità della persona di Cristo, la profonda realtà del suo assumere la carne umana. Di fronte a chi

sta lontano dall’eucarestia, non pratica la carità, dice che si è imitatori di Dio quando si è

“inchiodati alla croce del Signore Gesù Cristo” (Smirn. 1,1). E la sua passione stessa a imitazione

della passione di Gesù testimonia la realtà dell’incarnazione; il vescovo di Antiochia può sopportare

le catene, può andare verso il martirio perché Cristo per primo ha patito tutto questo e perché lo

Spirito lo chiama e gli dà quella forza e quella potenza di Dio che trionfa nella debolezza

dell’uomo. E mi sembra che questo tema dell’imitazione di Gesù, imitazione soprattutto del Gesù

povero, del Christus patiens, ritorni con più forza quando la chiesa è più lontana dalla povertà

evangelica, quando la chiesa, invece di farsi serva degli uomini e di portare la croce dietro al suo

Signore, si allea con i ricchi e con i potenti. Penso a Francesco che viene chiamato dai suoi

contemporanei “l’imitatore di Cristo”, che viene definito da Chiara “l’imitatore della povertà e

dell’umiltà del Figlio di Dio”. Anche le stigmate di Francesco sono da leggere in questa linea di

imitazione del Signore nella sua passione. Basta pensare ancora a Charles de Foucauld in cui è più

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che mai presente questo desiderio di assoluta conformità al Gesù di Nazareth; tutto il suo cammino

spirituale è contrassegnato da questa ricerca di imitare la vita nascosta di Gesù a Nazaret.

7,2 Supplica di non lasciarsi incantare da nessuno, da eventuali richieste di liberarlo dalla

morte. “Il mio amore è crocifisso”. Origene ha dato inizio a una lunga tradizione di interpretazione

del passo secondo la quale per “amore” bisogna intendere Gesù (“Il mio amore, cioè colui che amo,

il Cristo crocifisso” (Prol. al Ct 3). Dopo di lui Dionigi l’Areopagita (I nomi divini 4,12) e Teodoro

Studita. Ma il termine éros qui impiegato è estraneo al NT e all’antica letteratura cristiana. La frase

di Ignazio va compresa piuttosto alla luce di Gal 5,24: “Quelli che sono di Cristo hanno ucciso la

carne con le sue passioni e i suoi desideri”; Gal 6,14: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella

croce del Signore nostro Gesù Cristo per mezzo della quale per me il mondo è stato crocifisso come

io per il mondo”. Ignazio ha messo a morte la sua passione carnale, il suo attaccamento alla vita per

divenire amore puro per il Signore. Più volte ricorre la distinzione tra eros e agape. In Magn. 6,2

scrive: “Tutti cercate di avere gli stessi sentimenti di Dio, rispettatevi l’un l’altro e nessuno

consideri il suo prossimo secondo la carne, ma in Gesù Cristo”. È un invito a un amore non psichico

e non carnale, un amore in Cristo Gesù. E ai cristiani di Efeso confida “di essere entrato in

familiarità con il loro vescovo, familiarità non umana, ma spirituale” (Efes. 5,1). In Ignazio c’è

un’acqua viva che sgorga dal profondo del cuore, quell’acqua di cui parla il vangelo di Giovanni:

“Chi ha sete venga a me e beva, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo

seno” (Gv 7,39); abbeverato alle Scritture è diventato anch’egli fonte di acqua viva e lo Spirito lo

chiama e lo guida. “Vieni al Padre”: è questa la nostra vocazione, ascoltare quella voce che

nell’intimo risuona e giorno dopo giorno, nel quotidiano, ci invita a guardare in alto, a fare ritorno

al Padre come il figlio minore andato lontano da casa che si muove verso il padre e lo incontra, lui

che è uscito di casa per abbracciarlo.

Chiesa e ministeri in Ignazio di Antiochia

Anzitutto va notato che le lettere di Ignazio sono indirizzate a intere chiese, mentre dopo il II

secolo vi saranno solo lettere rivolte a vescovi o al clero. Qui la chiesa ha una sua consistenza che le

deriva dall’alto. Per quanto riguarda i ministeri, è diventato quasi un luogo comune affermare che

nella prima comunità cristiana l’autorità apostolica era eminentemente spirituale e carismatica, non

aveva nulla di coercitivo e di giuridico ed era di tipo collegiale. Con Ignazio avremmo invece già un

fase molto avanzata in senso istituzionale e giuridico, centrata sulla figura dell’“episcopato

monarchico”. È una questione controversa, una delle più oscure di tutto il cristianesimo primitivo.

Bisogna però ricordare che la concezione di Ignazio non è poi così isolata all’interno dello stesso I

secolo. La concezione ignaziana del vescovo non è poi una novità così strana ed è probabile che la

sua origine sia nella chiesa madre di Gerusalemme. Ad Antiochia si costituisce una gerarchia a

immagine di quella che c’era a Gerusalemme: il vescovo coadiuvato dai presbiteri e dai diaconi. In

ogni chiesa ci deve essere un solo vescovo, nella prospettiva dell’unità. La divisione è la morte della

chiesa: “Dove c’è divisione e ira, Dio non abita” (Filad. 8,1), e l’eucarestia celebrata intorno al

vescovo manifesta e costruisce la concordia della chiesa (Magn. 6,2). Smirn. 8,1: va ritenuta valida

quell’eucarestia che è “sotto il vescovo”, però sembra che il vescovo potesse affidare a un altro la

presidenza eucaristica in case private. La comunione tra le varie chiese si realizza con le lettere,

l’invio di delegazioni da una chiesa all’altra, il prendersi cura di un’altra chiesa in situazioni di

emergenza. Non parla di ministeri itineranti, che dovevano essere ancora numerosi al suo tempo;

tace sui profeti cristiani. Il carisma della profezia è ancora presente nella chiesa apostolica (cf. At

11,27; 13,1; 21,10). Nelle chiese da lui fondate Paolo vuole che esso non sia deprezzato (cf. 1Ts

5,20). Lo colloca molto al di sopra del dono delle lingue (1Cor 14,1-5) ma vuole che sia esercitato

nell’ordine e per il bene della comunità (cf. 1Cor 14,29-32). Di profeti parlano anche la Didaché e Il

pastore di Erma; per Ignazio i profeti sono solo quelli dell’AT. Accanto ai vescovi ci sono i

presbiteri termine che significa “anziano”; essi sorvegliano collegialmente la chiesa perché hanno la

missione di pascere il gregge di Dio (cf. At 20,28; 1Pt 5,2ss.) a immagine di Cristo, modello dei

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pastori (cf. 1Pt 5,4), pastore e sorvegliante delle anime (cf. 1Pt 2,25). E infine ci sono i diaconi, che

sembrano avere il ministero della parola (Filad. 11,1) ed esercitare la carità (Trall. 2,3: “Coloro che

sono diaconi dei misteri di Gesù Cristo cerchino in ogni modo di venire incontro a tutti. Non sono

infatti dispensatori di cibi o di bevande - deputati cioè all’assistenza ai poveri - ma servitori della

chiesa di Dio. Pertanto si guardino dalle accuse come dal fuoco”). Dovevano essere disinteressati e

imparziali, senza preferenza di persone. Li definisce “conservi”, “carissimi”, “esempio di servizio

divino” (Smirn. 12,1), “esempi di carità” (Efes. 2,1); hanno rinunciato ai loro beni (Filad. 11,1);

sono inviati come “messaggeri” (Filad. 10,1); devono essere “saldi nel vangelo” (Magn. 13,1).

Lettera a Policarpo: consigli a un vescovo

A Troade Ignazio scrive una lettera a Policarpo, il vescovo di Smirne che l’aveva accolto

con tanto affetto e venerazione. È uno scritto che richiama per molti aspetti le lettere di Paolo a

Timoteo. Come Paolo indirizza parole di esortazione e consolazione a Timoteo, suo figlio nella

fede, così Ignazio, in questa lettera, l’unica indirizzata a una persona singola, trasmette la sua

sapienza pastorale al fratello più giovane nel ministero. È, in un certo senso, il testamento di Ignazio

alla vigilia della sua morte; certamente è un testamento anche la lettera alla comunità di Roma, ma

in queste pagine è il pastore che parla, che trasmette quello che lui stesso ha appreso nel corso del

suo ministero pastorale ad Antiochia e conferma, esorta, consola Policarpo, che diverrà il suo erede

spirituale nel ministero episcopale e poi, più tardi, anche nel martirio.

Prol. Il saluto è il più breve di tutte le lettere; è stata decisa all’improvviso la sua partenza

per Neapolis e non ha molto tempo (8,1). Indirizza la sua lettera al vescovo, all’episcopo della

chiesa di Smirne. Potremmo tradurre: “a colui che veglia sulla chiesa di Smirne, o piuttosto a colui

sul quale vegliano Dio padre e il Signore Gesù Cristo”. Policarpo è vescovo, deve vegliare sulla

comunità, sul gregge che gli è stato affidato, ma Ignazio gli ricorda che il vero epískopos è Dio e

che Policarpo per primo ha bisogno che Dio vegli su di lui. (cf. Gb 20,29; nel libro della Sapienza si

dice che Dio vede i sentimenti dell’empio ed è “vero epískopos” del cuore dell’uomo (Sap 1,6). Nel

corso di tutta la sua storia Israele ha sperimentato che Dio veglia su di lui e viene a visitarlo. I due

termini: “vegliare” (episkopéo) e “visitare” (episképtomai) derivano in greco da una stessa radice e

hanno un significato molto simile. Dio veglia su Israele ed pronto a rendergli visita nel momento

del bisogno. Dio, dunque, è il vero episcopo, ma esercita questa sua qualità attraverso alcuni uomini

a cui affida il compito di vegliare sul popolo. Negli scritti di Filone Mosè viene definito epískopos

(Rer div. Her. 30); nella LXX questo termine è usato per indicare chiunque ha un compito di

sovrintendenza e, a volte, questo compito è connesso con il culto, come in Nm 4,16, dove Eleazaro

è il sovrintendente alla liturgia, riceve l’incarico di sorvegliare l’olio per la lampada, l’incenso, le

vittime sacrificali, tutti gli arredi del tempio. Nel NT è Cristo stesso che viene chiamato epískopos.

Pietro, nella sua prima lettera, conclude l’inno del c. 2 dicendo: “Eravate erranti come pecore, ma

ora siete ritornati al pastore ed epískopos delle vostre anime” (1Pt 2,25). Sempre in 1Pt l’autore

esorta gli anziani a pascere il gregge di Dio che è stato loro affidato “sorvegliandolo

(episkopoûntes) non per forza, ma volentieri, non per vile interesse, ma di buon animo, non

spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il

pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1Pt 5,1-4). C’è un unico

buon pastore, il Cristo, il pastore supremo, ma vi sono poi alcuni anziani, alcuni presbiteri che

hanno ricevuto da Dio il compito di vegliare, di pascere sul gregge prendendo a esempio e modello

Cristo stesso. Ignazio è vescovo di Antiochia e scrive a Policarpo, vescovo di Smirne, ricordando

che Dio veglia su di lui e che se a tutti i cristiani è chiesto di vegliare in attesa del ritorno del

signore, al vescovo in particolare è chiesto di vegliare, di vigilare sui suoi fratelli, sulla sua

comunità. In Mc 13,33-34 il Signore ammonisce: “State attenti, vegliate, perché non sapete quando

verrà il momento preciso. È come uno, che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria

casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare”. Il

vescovo è il portinaio della casa incaricato di vigilare, ma può vigilare perché Dio veglia su di lui,

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perché Cristo ha promesso in modo particolare di pregare per Pietro, per chiunque partecipa del

ministero petrino (cf. Lc 22,31-32).

La lettera è una grande esortazione: “Ti esorto … a esortare”. C’è un invito a perseverare

nella corsa, e poi il primo grande ammonimento riguarda l’unità. “Preoccupati dell’unità di cui nulla

è meglio”. Il Signore, prima della sua passione, ha pregato per l’unità dei suoi discepoli, perché

siano una cosa sola, perché siano un solo gregge sotto un solo pastore. Il ministero del vescovo è un

ministero di unità, è lo strumento ordinario con cui Dio opera l’unità nella sua chiesa, è colui che

deve vegliare perché non ci siano divisioni, contese, discordie; è colui che deve cercare che nella

sua comunità “tutti siano un cuore solo e un’anima sola” (At 4,42).

“Porta tutti, come il Signore porta te; sopporta tutti nell’amore, come già fai”. Policarpo

deve ricordare che il Signore lo ha portato, si è caricato di lui come della pecora smarrita e sul suo

esempio deve farsi carico dei suoi fratelli (cf. Gal 6,2). Questo è possibile solo se ci si dedica

(schólaze) alla preghiera, se si vive in una preghiera costante (cf. 1Ts 5,17), se vi è intercessione

reciproca davanti al Signore. Chi svolge il ministero di pastore, di guida, deve, ancor più degli altri,

intercedere per i fratelli.

Nell’AT le due figure su cui più si è concentrata la teologia dell’intercessione sono proprio

due figure di pastori, di guide del popolo: Mosè e Samuele. Mosè che, a braccia alzate, prega per il

suo popolo e assicura la vittoria contro Amalek diventa il “tipo”, il modello dell’intercessore (cf. Es

17,11). Come Mosè, Policarpo deve lottare nella preghiera, stare in mezzo tra Dio e la comunità,

ricordare ai suoi fedeli le esigenze della giustizia di Dio e dall’altro lato ricordare al Signore le sue

promesse. E infine, Policarpo non deve stancarsi di chiedere con insistenza a Dio la sapienza, come

Salomone deve chiedere a Dio che gli conceda un cuore docile che sappia rendere giustizia al

popolo e sappia distinguere il bene dal male (cf. 1Re 3,9), deve invocare il dono della sapienza

perché lo assista e condivida la sua fatica, lo guidi in tutto il suo operare (cf. Sap 9,10-11; vedi

anche Gc 1,5), gli ispiri una parola buona da donare a ciascuno “individualmente”. L’immagine

dell’atleta la troviamo in 2Tm 2,5: “Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le

regole”.

2. L’amore premuroso del vescovo si riverserà soprattutto sui più malati, sui peccatori (cf.

Lc 6,32-33: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano

quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è

dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso”). Cristo è il medico venuto a curare i malati, a guarire le

malattie e i suoi discepoli sono associati in quest’opera di guarigione e di servizio del fratello ferito

dal male. Il vescovo deve discernere il medicamento adatto a ciascuno. La chiesa sta attraversando

un momento difficile e Policarpo è il pilota della barca sconvolta dalle onde.

4. Come l’orfano e lo straniero, la vedova è oggetto di particolare protezione da parte della

Legge; Dio ascolta il suo lamento e si fa il suo difensore e vendicatore. Forse qui Ignazio vuole

ricordare quelle vedove di cui parla Paolo in 1Tm 5,3-16. Chiede, come fa anche in altre lettere, che

non si faccia nulla senza il vescovo (Magn. 4; 7,1; Trall. 2,2; Filad. 7,1-2). Esorta a riunirsi più

frequentemente, come in Efesini 13,1, invitando ciascuno personalmente, ma non sappiamo che

cosa significhi nella pratica tale frequenza.

5. Segue un invito all’amore tra coniugi cui si affianca, alla fine del paragrafo, l’indicazione

che gli uomini e le donne si devono unire in matrimonio “con il parere del vescovo”. Le

testimonianze dirette ed esplicite intorno alla celebrazione matrimoniale dei cristiani per i primi due

secoli sono scarsissime; in generale si può dire che i matrimoni in Palestina e nelle colonie ebraiche

continuarono a seguire i costumi giudaici e quando si moltiplicarono i convertiti al paganesimo

continuarono a seguire i costumi matrimoniali dell’ambiente circostante evitando semplicemente

ogni atto di culto idolatrico.

Vi è anche un accenno al celibato; in un ambiente in cui le tendenze encratite sono forti,

Ignazio, come anche Clemente di Roma (1Clem. 38,2), deve richiamare all’umiltà, al

nascondimento. Sembra che fin dall’inizio la vita nel celibato abbia rischiato di sentirsi una via

migliore.