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1 PREMESSA Con il seguente lavoro tento di dimostrare la possibilità di trattare persone tossicodipendenti inserite in comunità terapeutica con lo strumento dell’ipnosi, essendo l’ambiente terapeutico comunitario un setting particolarmente favorevole a questa pratica. Esistono pregiudizi in tal senso dovuti, credo, a tentativi di dare una risposta terapeutica alla tossicodipendenza e all’acolismo con trattamenti di ipnosi e suggestione che si sono spesso dimostrati vani e, in alcuni casi, controproducenti. Mi riferisco alle terapie ipnotiche avversative al sintomo. E’ mio desiderio dimostrare che l’uso dell’ipnosi è efficace per affrontare, alleviare, e spesso risolvere, i traumi vissuti e le sofferenze intrapsichiche che sono causa o concausa di forme di dipendenza acuta, a maggior ragione nel caso di pazienti in trattamento nelle comunità e inseriti in un clima terapeutico. Nei primi capitoli di questo lavoro, riferendomi soprattutto al testo di Luigi Cancrini “Quei temerari sulle macchine volanti – studio sulle terapie dei tossicomani”, sosterrò che la tossicodipendenza e l’alcolismo, nella maggior parte dei casi, sono il sintomo di un disagio interiore; che questi disagi interiori possono essere di grave o di più lieve entità, e che si possono trattare con successo mediante lo strumento dell’ipnosi indipendentemente dal sintomo. Nei successivi capitoli sintetizzerò il concetto di comunità terapeutica; del clima terapeutico; del gruppo comunitario, e infine riassumerò due casi trattati presso la comunità terapeutica “La Vernazza” di Alba (CN), iscrizione n. 2734/1996 all’albo enti ausiliari della regione, in attività dall’agosto 1989, con tre strutture autonome operanti sul territorio piemontese.

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PREMESSA

Con il seguente lavoro tento di dimostrare la possibilità di trattare

persone tossicodipendenti inserite in comunità terapeutica con lo strumento

dell’ipnosi, essendo l’ambiente terapeutico comunitario un setting

particolarmente favorevole a questa pratica.

Esistono pregiudizi in tal senso dovuti, credo, a tentativi di dare una

risposta terapeutica alla tossicodipendenza e all’acolismo con trattamenti di

ipnosi e suggestione che si sono spesso dimostrati vani e, in alcuni casi,

controproducenti. Mi riferisco alle terapie ipnotiche avversative al sintomo.

E’ mio desiderio dimostrare che l’uso dell’ipnosi è efficace per affrontare,

alleviare, e spesso risolvere, i traumi vissuti e le sofferenze intrapsichiche che

sono causa o concausa di forme di dipendenza acuta, a maggior ragione nel

caso di pazienti in trattamento nelle comunità e inseriti in un clima terapeutico.

Nei primi capitoli di questo lavoro, riferendomi soprattutto al testo di Luigi

Cancrini “Quei temerari sulle macchine volanti – studio sulle terapie dei

tossicomani”, sosterrò che la tossicodipendenza e l’alcolismo, nella maggior

parte dei casi, sono il sintomo di un disagio interiore; che questi disagi interiori

possono essere di grave o di più lieve entità, e che si possono trattare con

successo mediante lo strumento dell’ipnosi indipendentemente dal sintomo.

Nei successivi capitoli sintetizzerò il concetto di comunità terapeutica;

del clima terapeutico; del gruppo comunitario, e infine riassumerò due casi

trattati presso la comunità terapeutica “La Vernazza” di Alba (CN), iscrizione n.

2734/1996 all’albo enti ausiliari della regione, in attività dall’agosto 1989, con

tre strutture autonome operanti sul territorio piemontese.

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CAPITOLO I: IL CONCETTO DI TOSSICODIPENDENZA

Chi è il tossicodipendente?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo avvalerci di quanto afferma

l’Organizzazione Mondiale della Sanità e del DSM IV per un giudizio obiettivo

sui sintomi, e a L. Cancrini per scoprire e ragionare in merito ad alcune ipotesi

sulle cause che portano una persona alla tossicodipendenza.

Il concetto di dipendenza da una droga viene così indicato dall’

Organizzazione Mondiale della Sanità:

“Uno stato psichico, e qualche volta fisico, risultante dall’integrazione fra un

organismo vivente ed un farmaco, caratterizzato da comportamenti o reazioni

che includono l’uso compulsivo della sostanza, continuo o anche periodico,

dovuto all’esperienza dei suoi effetti psichici e, qualche volta, al malessere

caratterizzato dalla sua assenza”.

Dal punto di vista diagnostico il DSM-IV (American Psichiatryc

Association 1994) evidenzia che il disturbo da dipendenza è piuttosto

complesso.

DSM IV: “Interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative o

ricreative a causa dell’uso della sostanza.

L’uso continuativo della sostanza nonostante la consapevolezza di aver un

problema, persistente o ricorrente, di natura fisica o psicologica,

verosimilmente causato o esacerbato dall’uso della sostanza” (per esempio,

l’uso di cocaina malgrado il riconoscimento di una depressione indotta da

cocaina, oppure il bere malgrado il peggioramento di un’ulcera creatasi a causa

dell’assunzione di alcol).

DSM IV: “Tolleranza definita da:

a) il bisogno di dosi sempre più elevate per raggiungere l’intossicazione o gli

effetti desiderati;

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b) un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuato della stessa quantità

di droga.

Astinenza che si manifesta con:

a) la caratteristica sindrome da astinenza per il mancato uso della specifica

sostanza(*) ;

b) l’assunzione della sostanza per attenuare o evitare i sintomi di astinenza.

Persistente desiderio o tentativo/i infruttuoso/i di sospendere e controllare l’uso

di sostanza.

Assunzione della sostanza in quantità maggiori o in periodi più prolungati

rispetto a quanto previsto dal soggetto.

Grande quantità di tempo spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza,

ad assumerla o a riprendersi dai suoi effetti.

Sempre nel DSM si nota che: “ i maschi sono interessati più comunemente con

un rapporto maschio-femmina mediamente da 4 a 1”.

Da quanto fin qui analizzato, ben si evince quali siano i sintomi della

tossicodipendenza. Per tracciare un profilo per quanto possibile più delineato

del tossicodipendente, e per comprendere i motivi che, presumibilmente,

portano alla tossicodipendenza, L. Cancrini ci propone in ottica psicoanalitica

una classificazione delle forme di tossicodipendenza in ragione della loro

eziologia. Questa classificazione è intesa, dallo stesso Cancrini, come punto di

partenza di un possibile dibattito con i limiti di cui lui stesso fa cenno nel suo

lavoro (pag. 81, Capitolo 4.7).

(*) Ho osservato da testimone diretto che la crisi di astinenza da eroina ha effetti di notevole

disturbo a livello psicofisico. A livello fisico si manifesta in modo graduale e rapido con forti

crampi agli arti inferiori e al ventre, lacrimazione e sudorazione abbondanti, forti disturbi

addominali e renali con frequenti scariche diarroiche, dolori persistenti e generalizzati, insonnia

severa che può perdurare alcuni giorni. I disturbi a livello psicologico, contemporanei a quelli

fisici, consistono in un livello dell’ansia molto alto che influenza ancor di più i malesseri fisici,

portando spesso il p. a un totale smarrimento e a confusione mentale. Fragilità emotiva,

aggressività.

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Semplificando essenzialmente si possono considerare quattro tipi

fondamentali di tossicodipendenza che andrebbero considerati come forme

esemplari, difficilmente definibili nella pratica clinica in maniera precisa e

perfettamente delineata:

1) TOSSICOMANIA TRAUMATICA

Tossicodipendenza inscritta originariamente in una sindrome traumatica acuta

che nel tempo si è cristallizzata nella condotta d’abuso (violenze fisico-sessuali,

abbandono, lutti improvvisi)

2) TOSSICOMANIA SOSTITUTIVA IN NEVROSI ATTUALI

Tossicomania corrispondente a disturbo nevrotico attuale caratterizzato da un

conflitto attivo all’esterno della persona.

3) TOSSICOMANIE DI COPERTURA O DI COMPENSO

Copertura o compenso di un sottostante problema della personalità

preesistente e che assume carattere sociopatico (doppia diagnosi).

4) TOSSICOMANIE NUCLEARI DI OLIEVENSTEIN

Corrispondono a un disturbo borderline descritto come “dello specchio infranto”

da Olivenstein (C.Olievenstein “L’infanzia del tossicomane”).

Ad ognuna di queste forme l’autore riconosce specificità di prognosi e

indicazioni terapeutiche particolari. Delle ultime tre patologie possiamo dire che

l’aspetto individuale assume una grande rilevanza all’interno del sistema

familiare.

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1) Sulle tossicomanie traumatiche afferma Cancrini:

a pag. 51, cap. 2.2:

“Una persona che vive una vita simile a quella di molte altre…se si trova

sottoposta all’azione di un trauma psichico importante (violenze fisiche o

sessuali, morte di uno dei due genitori, loro separazione o divorzio, perdita

materiale e morale di un amico o di una persona comunque significativa, grave

delusione personale sul piano sentimentale, politico, di studio o di lavoro) può

scegliere la tossicomania a breve distanza dal trauma in rapporto evidente con

le difficoltà determinatesi”.

A volte il trauma è meno acuto, ma assume l’aspetto di una condizione

cronica di disagio, per es. nel caso di famiglie in situazione di disadattamento

economico-sociale prolungato.

A pag. 60, cap. 4.4:

“…quando il tossicomane segnala con la sua condotta una condizione di

disagio legata a fattori di ordine sociale e familiare al di là delle sue possibilità

di controllo. Il dato emergente della tossicomania non aiuta né lui né gli altri,

però, a impostare correttamente il problema segnalato in modo così allusivo.”

E ancora, a pag. 52, cap. 4.2:

“Il trauma assume una parte determinante del contenuto del sintomo, la cui

formazione non risente in modo particolare dell’azione di una struttura nevrotica

precedente; il quadro clinico si caratterizza per l’inibizione, più o meno

generalizzata, di tutta l’attività del soggetto, per la sua tendenza ripetitiva ad

assorbire e superare il trauma (rimuginamento e fantasie di annullamento

dell’evento, incubi, disturbi del sonno, ecc)…”.

A proposito delle tossicomanie traumatiche, e di quelle al punto 2,

caratterizzate da un conflitto esterno alla persona, Cancrini rileva che “…due

sono le condizioni necessarie e sufficienti perché qualcuno con tale tipo di

acquisizione diventi tossicomane. La prima è che incontri la droga, la seconda il

suo rapporto di fronte alla trasgressione della legge. Per legge intendiamo tanto

la legge immaginaria quanto la legge reale”.

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Contrariamente alle tossicomanie da copertura o di compenso, e a

quelle nucleari di Olivenstein, Cancrini afferma (pag, 55, cap. 4.3):

“L’evoluzione propria delle tossicomanie che abbiamo definito traumatiche può

essere considerata benigna in una percentuale di casi piuttosto elevata. In una

ricerca sulle guarigioni, svolta per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche,

il numero delle forma traumatiche in un campione di tossicomani guariti era

molto alto; la parte della casistica riferita in particolare ai quasi guariti con un

intervento di tipo individuale era composta quasi esclusivamente da casi di

questo genere”.

Questi tipi di disagi sono ben trattabili con lo strumento dell’ipnosi sia in

modo diretto che indiretto o con l’ipnosi regressiva.

2) Tossicomanie sostitutive di una nevrosi attuale: caratterizzate da

un conflitto attivo all’esterno della persona, si tratta di tossicomanie

“strumentali” che consentono l’omeostasi di un sistema familiare particolare;

per esempio nel caso di triangolazioni del sistema familiare, alleanza cioè del

soggetto tossicomane con uno dei due genitori; oppure quando il

tossicodipendente assume il ruolo “di paziente designato” in una famiglia

multiproblematica che rischierebbe lo sfascio o gravi conflitti.

Possiamo pensare che questo tipo di tossicodipendenza rappresenti un

sintomo inscritto in una sindrome nevrotica, quindi rappresenta una difesa

dall’emergenza di contenuti emotivamente critici (meccanismi di difesa quali

regressione, rivolgimento contro di sé, isolamento d’affetto, negazione,

proiezione, ecc…cfr. “I meccanismi di difesa” di Robert B.White e Robert

M.Gilliland – Casa Editrice Astrolabio, pag, 48, cap. 2).

Anche questo tipo di disturbi è trattabile con l’ipnosi in ambiente protetto

(setting) e con persone capaci di istruire un rapport costruttivo e duraturo. In

questo caso in particolare il bisogno di interventi analitici e strettamente

psicoterapeutici può essere soddisfatto da procedure ipnotiche di rilievo quali

regressioni, ipnoanalisi, analisi immaginativa ..

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3) Tossicomanie di copertura.

Di tutt’ altra complessità e di difficile soluzione sono tanto le

tossicomanie di copertura o di compenso, quanto le tossicomanie nucleari di

Olievenstein.

In merito alle prime, quelle di compenso o di copertura, Cancrini afferma

che “…l’ingresso nella tossicomania è legato alla possibilità, appresa dal

soggetto, di controllare con l’aiuto della droga i sintomi e le conseguenze,

personali o sociali, di una malattia psichica preesistente” (pag. 54, cap. 4.2).

In una comunità terapeutica, infatti, cessato l’uso di sostanze

stupefacenti e di metadone, utile per alleviare le crisi di astinenza, dopo breve

tempo questi soggetti spesso evidenziano gravi disturbi della personalità, tali

da non poter essere trattati con strumenti classici in uso in queste strutture, ma

necessitano di trattamenti farmacologici mirati, che questo tipo di comunità

terapeutica non è titolata a somministrare. La scelta d’obbligo è quella di

indirizzare questi pazienti a strutture adeguate, a meno che tali disturbi non si

presentino in maniera lieve e in una certa misura compensati, come nel caso di

Al, di cui parlerò più avanti.

4) Un quarto ed ultimo tipo di ingresso nella tossicomania è proprio della personalità descritta da Olievenstein. Le motivazioni che stanno alla

base di questo genere di tossicomania sono da ricercarsi in un periodo

localizzato tra i sei e i diciotto mesi di vita del soggetto. In estrema sintesi la

teoria di Olievenstein ci rimanda alla cosiddetta “fase dello specchio” (pag. 33,

cap. 3.3).

“In un periodo localizzato fra i sei e i diciotto mesi di vita, il bambino si

scopre altro, in uno specchio reale o simbolico, mettendosi nella condizione di

superare l’esperienza della fusione con la propria madre: immerso ancora in

uno stato di impotenza e di incoordinazione motoria, egli anticipa con

l’immaginazione la padronanza della propria unità corporea…Un’esperienza

che si pone in riferimento al passato del bambino, in termini di esperienza

anticipatoria, caratterizzata dal giubilo con cui viene accolta e

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dall’atteggiamento ludico con cui viene controllata; un’esperienza che si pone in

rapporto al futuro come fase costitutiva del suo Io ideale o come origine delle

sue identificazioni secondarie. Momento cruciale e obbligato dello sviluppo, la

fase dello specchio introduce un elemento di novità qualitativa

nell’organizzazione personale del bambino. Come accade in tutte le mutazioni

rapide e globali, assume su di sé tutti i rischi della fasi che la preparano e

definisce un momento di eccezionale vulnerabilità, esposta alla pressione di un

numero indefinito di fattori, in grado di provocarne lo slittamento.”

Proprio il riferimento alla delicatezza di questa fase costituisce il punto

cruciale della teoria di Olievenstein sull’origine psicologica delle tossicomanie.

Se la psicosi affonda le sue radici nell’impossibilità di realizzare la fase

dello specchio e nell’impossibilità, immediatamente collegata alla precedente di

superare liquidandolo lo stato fusionale, la tossicomania dipende dal verificarsi

di un qualcosa di “intermedio tra uno stadio dello specchio riuscito e uno stadio

dello specchio impossibile”. Un qualcosa di intermedio che si caratterizza per la

quasi contemporaneità del suo verificarsi e del suo fallire, nella misura in cui

l’azione dei fattori di disturbo non è tale da impedire che il confronto del

bambino con la propria immagine avvenga, ed è tuttavia tale da produrre il suo

slittamento e la sua cattiva riuscita.

Proprio nel momento del passaggio durante cui si sarebbe dovuto

costituire per il bambino un Io diverso da quello fusivo con la madre, “di fronte

allo specchio, nel flash della scoperta del sé, dell’immagine di sé”, ci si trova

infatti, di fronte all’esperienza (o alla visione) di uno specchio infranto: “uno

specchio che rinvia sì un’immagine, ma un’immagine frammentaria, incompleta,

carica e deforme di vuoti lasciati dalle assenze dello specchio e violentemente

ricondotta dunque, attraverso di essi, all’esperienza dello stato precedente: la

fusione con la madre, l’indifferenziazione del sé.”

Durante il trattamento in Comunità di questo tipo di disagio,

regolarmente si osserva come tale situazione emotiva interna si accompagna a

una configurazione relazionale caratteristica: relazione simbiotica con la madre,

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relazione distante affettivamente con il padre, relazione conflittuale più o meno

esplicita fra i coniugi.

Spesso archetipi familiari e culturali, contribuiscono a sclerotizzare tale

configurazione (per esempio ruoli familiari “tradizionali” secondo culture

particolari: madre-femmina “nutrice”, “che si sacrifica”, ecc…, padre-maschio

sempre efficiente e adeguato, insensibile e “forte” di fronte al dolore

psicologico, dedito esclusivamente al lavoro, prevalente sulla donna o

dipendente da lei, senza scrupoli morali o di integrità adamantina…).

Non essendo questa la sede per approfondire ulteriormente, mi limito ad

affermare la grande difficoltà di curare con successo questo tipo di

tossicomanie: secondo Olievenstein “è un’impresa difficile ma possibile,

quando e se basata su un insieme coerente di luoghi e di persone capaci di

lavorare, in modo paziente ed articolato per garantire, attraverso

un’organizzazione flessibile delle risposte, la possibilità di crescere e

l’indipendenza del giovane tossicomane”.

In questo caso possono essere utili suggestioni ipnotiche dirette con

sogno guidato nel rafforzamento dell’Io e nell’integrazione della personalità sia

in sede propria di trattamento, sia successivamente nell’affrontare il

reinserimento sociale.

Infine, secondo J. Bergeret (*) , “la tossicomania può essere considerata

come un aspetto evidente di un problema più generale ovvero quello di

risolvere crisi di adolescenza e di rapporto con la società…”.

E ancora “la tossicomania appare agli occhi dei ricercatori come il

sintomo di un malessere che ci tocca tutti, avremmo cioè un’eccessiva

tendenza a rifiutare coloro che testimoniano, nel modo più doloroso, tale

malessere come se questi ne fossero i soli responsabili e perché

rappresenterebbero anche una parte inaccettabile e male integrata dei nostri

stessi problemi”.

*) Y. Bergeret “Chi è il tossicomane, tossicomanie e personalità” Ed. Dedalo 1992

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In conclusione, ritengo quanto detto finora sufficiente a definire la

tossicodipendenza come il sintomo di un disagio; e che, almeno i casi di

tossicomanie da trauma e di difesa nevrotica siano certamente trattabili con lo

strumento dell’ipnosi.

Lo stesso dicasi per le tossicomanie nucleari di Olievenstein, trattabili

con i metodi ipnotici suddetti, seppur con la necessaria cautela e sensibilità da

parte dell’ipnotista, a differenza delle tossicomanie da copertura o compenso

che ritengo azzardato trattare con questo strumento, a causa il rischio di

ulteriore dissociazione della personalità.

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CAPITOLO II:

IPNOSI: ALCUNE CONDIZIONI PER L’APPLICAZIONE

DIFFICOLTA’ DI OPERARE CON TOSSICODIPENDENTI IN FASE “ATTIVA”

POSSIBILITA’ DI INTERVENTO SUCCESSIVO

L’ipnosi costruttivista(*) suggerisce l’applicazione dell’acronimo SE

MOLTA FEDE quale condizione ottimale per stabilire una induzione ipnotica.

L’acronimo suddetto si sviluppa nella sua interezza con i seguenti

concetti: Sincronismo Emotivo; MOnoidea; Limitazione del campo di

consapevolezza; Trance; Attivazione potenziale mentale; FEnomenologia;

DEtrance.

Questi ordinati passaggi sono possibili, qualora l’ipnotista sia

sufficientemente abile, sia verso persone che non abbiano coscientemente

accettato di sottoporsi a pratica ipnotica, sia verso persone che abbiano scelto

coscientemente di sottoporsi all’induzione che viene loro proposta.

Il sincronismo fra le due persone è comunque alla base dell’ipnosi (*);

entrare in completa sincronia con l’altro, ricalcare e guidare verso una

monoidea, sono i presupposti senza i quali non è possibile iniziare alcuna

induzione, soprattutto se questa ha un obiettivo terapeutico.

Particolarmente difficile diventa stabilire un sincronismo emotivo (anche

per un tempo medio-breve) e guidare verso una monoidea soggetti

tossicodipendenti in fase “attiva”, anche qualora costoro volessero sottoporsi

volontariamente a induzione ipnotica.

Sono arrivato a convincermi, alla fine di varie esperienze, che ciò

avvenga perché la mente della persona tossicodipendente si trova in un

(*) “Manuale di Counselling in ipnosi costruttivista” di Marco Chisotti e Giuseppe Vercelli, anno

2003

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continuo stato di tensione emotiva dovuta all’idea fissa della sostanza, essendo

questa divenuta in breve tempo la monoidea dominante che la accompagna

ovunque con grande dispendio di energie, pensieri, umori...

La ricerca continua di sostanza, oppure delle risorse per l’acquisto, il

timore di imminenti crisi di astinenza, i continui problemi relazionali o di mera

sopravvivenza impediscono alla persona di “distrarsi” per un tempo sufficiente

a creare il sincronismo emotivo necessario; quando anche ciò accadesse, resta

il grave problema di scalzare dalla mente dell’interessato l’idea fissa della

sostanza, che presto diventa il VALORE ASSOLUTO per individui in questa

situazione, “valore” a causa del quale, il più delle volte, sono pronti a ingannare

e “tradire” anche le persone più care.

L’uso di tecniche ipnotiche e di induzioni suggestive può invece essere

adeguatamente impiegato qualora il soggetto sia in stato di disintossicazione –

anche temporaneo – dovuto all’uso di solo metadone, o sia stato forzatamente

impedito al consumo per un tempo ragionevole dall’intervento di agenti esterni

(carcere – ospedale – famiglia).

Queste ultime sono le condizioni in cui, di norma, la persona

tossicodipendente chiede di entrare in comunità e accetta di aderire ad un

contratto terapeutico. Trascorsi alcuni mesi dall’ingresso nell’ambiente

comunitario, create relazioni significative con gli operatori e i compagni, inserito

in un contesto di vita “normale” con cicli regolari di sonno/veglia e pasti regolari,

l’utente solitamente accetta volentieri di aderire alle proposte dell’educatore che

lo accompagna nel percorso di recupero, a cui si affida senza riserve.

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CAPITOLO III:

IL CONCETTO DI ISTITUZIONE TOTALE

Al fine di definire, se pur nelle sue linee essenziali, che cos’è la comunità

terapeutica, mi sembra opportuno analizzare le differenze sostanziali che si

possono osservare rispetto quelle organizzazioni che E. Goffman definisce

“istituzioni totali” (E. Goffman “Asylum.Le istituzioni totali: i meccanismi

dell’esclusione e della violenza” – Einaudi).

Con il termine istituzione totale Goffman si riferisce a organizzazioni

quali: caserme, riformatori, alcuni ospedali psichiatrici, carceri, alcuni conventi,

per finire con i campi di concentramento.

Le suddette organizzazioni si contraddistinguono per quattro punti

principali:

1) interventi standardizzati e non personalizzati;

2) pianificazione degli “internati”. Si sopprime cioè ogni possibile differenza

individuale;

3) sistema di regole volte a spezzare ogni autonomia e ogni affermazione

individuale;

4) formazione netta e ben distinta di due grandi gruppi così suddivisi:

a) internati; b) staff.

“Il secondo gruppo ha come compito il controllo del primo. Il primo

gruppo è in continuo tentativo di ritagliarsi momenti di autonomia

individuale…Un’istituzione totale, per essere tale, non ha la necessità di

condividere tutti i quattro punti…” (Goffman).

Una delle principali conseguenze di queste “macchine burocratiche”

viene ad essere la formazione di gruppi contrapposti: quello degli internati da

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un lato, quello dello staff dall’altro, la cui funzione è quella di controllare il primo

gruppo con un rigido sistema di punizioni e, non sempre, di premi.

Si tratta il più delle volte di istituzioni largamente fine a se stesse; la loro

azione, o finalità, non rimanda veramente a obiettivi ulteriori che ne

trascendano, al di là delle dichiarazioni ideali che talvolta si sentono. Per

esempio il carcere, che dovrebbe rieducare e reinserire, viene usato a tutti gli

effetti come contenimento sociale e di repressione.

In queste condizioni l’individuo tende a perdere rapidamente il controllo

sulla propria esistenza individuale e sul proprio mondo, sviluppa una forte

dipendenza psicologica unita ad un rifiuto razionale dell’istituzione e delle figure

che la rappresentano, e difficilmente potrà arrivare alla crescita di una

personalità autonoma e originale.

La comunità terapeutica non è nulla di tutto ciò. Nei capitoli successivi

tenterò di dimostrare questa tesi.

BREVI CENNI LEGISLATIVI

Passaggio da un’istituzione totale alla comunità terapeutica

Il Codice Penale italiano attualmente punisce con la pena del carcere sia

chi spaccia sostanze stupefacenti per soddisfare il proprio bisogno, sia chi, per

procurarsi il denaro necessario all’acquisto, commette reati contro il patrimonio

(furti, spaccio, scippi, piccole rapine, ecc…).

L’art. 47 bis della legge 309/90 sugli stupefacenti permette a questi

soggetti, in carcere per reati attinenti all’uso di sostanze con pene fino a quattro

anni, di accedere, tramite richiesta al Servizio pubblico, ad una comunità

terapeutica, purchè questa sia riconosciuta quale Ente ausiliario della regione

di appartenenza, allo scopo di svolgere una terapia di recupero.

Permette così di passare dall’istituzione totale del carcere ad un

ambiente terapeutico proprio di una comunità di recupero.

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CAPITOLO IV:

LA COMUNITA’ TERAPEUTICA E’ SETTING TERAPEUTICO

Oggetto di questo capitolo è la definizione del concetto di comunità

terapeutica residenziale per tossicodipendenti e in particolare dell’ ambiente

terapeutico (setting) che “naturalmente” viene a crearsi in seguito a particolari

condizioni di base che verranno esposte in sintesi.

Lo scopo primario di una comunità terapeutica per tossicodipendenti è

certamente quello di consentire ai suoi ospiti di rielaborare traumi e sofferenze

presenti da tempo, di sviluppare individualità autonome e originali, e di favorire

in ultimo il reinserimento sociale di persone rinnovate e autonome.

Va osservato, per altro, che non tutte le strutture che operano in questo

campo possono definirsi terapeutiche essendo alcune più simili ad istituzioni

totali, altre a proposte alternative di vita, altre ancora a comunità protette di

convivenza e di lavoro. (Cancrini, pag 171, cap. 9.3)

Considerando il concetto di tossicodipendenza esposto nel primo

capitolo, si deduce che la soluzione di problematiche interne e l’ integrazione

matura della personalità degli ospiti necessitano di interventi con metodologie

efficaci e sofisticate, di continue attenzioni, di un ambiente allo stesso tempo

materno e paterno con personale capace di usare strumenti idonei e originali;

perché non ci si limiti alla semplice astensione della sostanza, ma si arrivi a

comprendere i disagi di fondo che muovono alla tossicodipendenza e,

possibilmente, a risolverli.

Partiamo dal presupposto che l’assunzione di sostanze si sovrapponga a

un iter evolutivo caratterizzato da disadattamento e sofferenza, e che l’utilizzo

di tali sostanze abbia spesso una funzione “ansiolitica”, “anestetica” o di fuga

nei confronti del dolore intrapsichico esperito dal tossicodipendente, e sortisce

l’ effetto ingannevole e di breve durata, di ricomporre la frammentazione della

personalità dello stesso.

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L’ istaurarsi della tossicodipendenza in un percorso evolutivo già

instabile di per di sé, ha come ulteriore implicazione la compromissione dello

stesso percorso.

Si spiega, in questo senso, perché il tossicodipendente è considerato

nelle migliori delle ipostesi come un adolescente, indipendentemente dalla sua

età biografica.

Il compito che la persona tossicodipendente deve affrontare, quando decide

di intraprendere un qualsivoglia percorso che lo liberi dalla dipendenza,

consiste in tre punti fondamentali:

1) individuare e risolvere gli elementi psicopatologici della propria personalità

che possono considerarsi causa, o concausa della propria tossicodipendenza;

2) completare un percorso evolutivo interrotto;

3) dotarsi di strumenti adatti ad una sana integrazione sociale.

Poiché, a causa del proprio comportamento amorale, manipolatorio, e

spesso violento nelle parole e nell’ agito, il tossicodipendente viene allontanato

frequentemente sia dalla famiglia d’ origine, sia da persone “sane”, egli si trova

ai margini della società, a vivere di espedienti, con il principale obiettivo di

procurarsi la sostanza in dosi sempre maggiori (DSM IV, punto b), e il più delle

volte finisce in carcere per reati attinenti all’ uso della droga, come ci informa la

cronaca di tutti i giorni.

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La comunità terapeutica risponde a necessità sociali e individuali

Diventa evidente, considerando quanto suddetto, la necessità

dell’esistenza di strutture specializzate alla cura, alla riabilitazione e al

reinserimento sociale delle persone tossicodipendenti che, a un certo punto

della loro esistenza, vogliono cambiare stile di vita.

Spesso queste persone non “reggono più” ai ritmi incessanti dei loro

malesseri e dei bisogni che si sono creati o, semplicemente, desiderano trovare

una sistemazione migliore al carcere.

E’ dunque la necessità di complessi residenziali, di strutture che siano in

grado di produrre interventi riabilitativi che non siano ispirati a immagini

stereotipate della tossicodipendenza, quanto all’attuazione di programmi e

metodologie di intervento proprie al trattamento delle singole problematiche sia

sul piano teorico che operativo.

E’ altrettanto necessario che la presenza degli operatori (educatori,

psicologi, assistenti sociali, ecc…) in queste strutture sia motivata sul piano

della loro professionalità ed equilibrio psichico.

Due sono le principali dimensioni su cui verte l’intervento in comunità

terapeutica e su cui si centra il funzionamento della stessa:

a) la dimensione individuale

b) la dimensione sociale.

Questo perché l’ospite va considerato nelle sue coordinate cognitive,

comportamentali, emotive, ma anche in relazione al contesto sociale in cui

agisce (la comunità), preludio di quel contesto più vasto in cui verrà inserito e di

cui sarà membro partecipe ed attivo: la società.

Bisogna dire che stiamo effettuando una semplificazione un po’

artificiosa di una struttura la cui complessità non si esaurisce in questi due poli,

tuttavia questo modo di procedere si rivela utile in quanto permette di

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individuare i principali processi su cui la comunità terapeutica si basa al fine di

raggiungere il suo scopo.

Bisogna tenere presente che le coordinate individuali e sociali, sia

durante la terapia che nel reinserimento sociale, sono interconnesse ponendosi

in costante rapporto di fusione.

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L’ambiente terapeutico, ovvero il setting terapeutico

Programmare e definire con cura il setting in una comunità terapeutica è

di estrema importanza. Nell’assicurare le condizioni fondamentali di setting

terapeutico, bisogna tenere in conto le esigenze di un trattamento il cui fine

esplicito ed implicito è accompagnare le persone ad un cambiamento evolutivo

portandole da uno stato di dipendenza e di non autosufficienza a uno stato di

autonomia e di responsabilità personale e sociale.

E’ essenziale soprattutto far certi gli utenti circa la coerenza tra il fine

dichiarato esplicitamente e il fine implicito, pena la perdita di credibilità

dell’istituzione da parte degli utenti stessi.

Il setting dell’ambiente terapeutico consta di cinque punti principali (*):

1) lo spazio strutturale, 2) il tempo, 3) il sistema delle regole, 4) il gruppo comunitario, 5) la presenza continua degli operatori fra gli ospiti.

A seguire illustrerò, in modo sintetico ed essenziale, il setting della

comunità terapeutica “La Vernazza” (già citata), dove opero.

1) Lo spazio dove avviene in trattamento è una casa in collina, posta su

due piani di circa cinquecento metri quadrati l’uno, i cui confini vengono

definiti, oltre che dalla struttura in muratura, da un grande cortile e da vari spazi

all’aperto utilizzati per attività lavorative non specialistiche. La casa può

ospitare fino a trenta persone. I “confini all’aperto” sono più simbolici che fisici,

in quanto non sono marcati né da mura, né da altro segnale esplicito.

*) La definizione e la distinzione netta fra “setting” e “rapport” in questo contesto è molto

complessa, densa di implicazioni ed intrecci. Mi limiterò a definire un quadro essenziale e

sommario finalizzato unicamente a darne un’idea di massima il più precisa possibile.

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Tuttavia il cuore della comunità è certamente la casa che contribuisce a

creare uno spazio protettivo e contenitivo, che consente all’ospite di isolarsi

dalle preoccupazioni dell’ordinario quotidiano, in cui è possibile di riflettere

anche in silenzio, sperimentarsi e dove può permettersi anche il “lusso” di

sbagliare.

Lo spazio è anche l’ambito in cui l’ “ombra” della persona può e deve

simbolicamente manifestarsi, dove l’ospite rimane protetto dalla distruttività dei

suoi vissuti alienati e alienanti, dalla violenza che avverte in sé.

Per non dilungarmi oltre, posso dire che lo spazio all’interno della casa è

suddiviso in modo tale da favorire il vivere in comune (refettorio, sale riunioni

polivalenti, laboratori, camere da letto di medie dimensioni) nel rispetto della

privacy di ognuno; sono compresi i luoghi dove si svolgono i colloqui con lo

staff, questi ultimi, nello specifico, arredati in modo essenziale e pratico.

2) Il tempo. Il processo di maturazione e di crescita degli ospiti si declina

nel tempo già dall’inizio del loro percorso, attraverso cicli regolari di sonno e di

veglia, l’orario in cui consumare i pasti, gli orari lavorativi, gli incontri

programmati per i colloqui con lo staff, ecc…

Questa scansione temporale riporta gli ospiti tossicodipendenti a dei cicli

di vita regolari spesso “dimenticati” e, soprattutto, al progresso temporale del

percorso terapeutico nel suo complesso. Il periodo in comunità viene

punteggiato da fasi terapeutiche precise, conseguenti la maturità raggiunta

dall’ospite.

Gli obiettivi terapeutici (per esempio, la capacità di mettersi in

discussione, l’acquisizione di un senso di responsabilità nuovo verso se stessi,

verso gli altri, la capacità di organizzarsi autonomamente il lavoro, ecc…)

vengono raggiunti progressivamente e i ruoli ricoperti aumentano di importanza

via via che l’ospite procede nella sua maturazione e in relazione alle

responsabilità che si assume e conduce a buon fine nel quotidiano.

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Simbolicamente e funzionalmente il percorso residenziale ripete e

riproduce il percorso evolutivo della persona, nell’intento pedagogico di fornirgli

quelle esperienze formative che possono essergli mancate nell’infanzia e

nell’adolescenza, o che possono essere state vissute in maniera inadeguata.

Contemporaneamente, sul versante più propriamente psicoterapeutico,

l’ospite viene impegnato nel tentativo di risolvere i meccanismi, gli

atteggiamenti ed i vissuti problematici cristallizzati precedentemente.

3) Le regole. Cancrini, a pag. 181 test. rif., dice circa l’importanza delle

regole in comunità terapeutica: “...sull’importanza decisiva del setting; del

rispetto di un corpo di regole cui la persona che riconosce a qualche livello di

essere in difficoltà, affida il compito di essere guidato alla ricerca di se stesso”.

E’ noto, per altro, che un sistema di regole, esplicite ed implicite, sono il

“collante” di un gruppo che abbia un obiettivo comune e che si forma per il

raggiungimento di quell’ esplicito obiettivo.

In comunità, oltre che un sistema di regole uguale per tutti, utile a una

dignitosa convivenza civile (pulizia, ordine, rispetto dell’altro, degli orari, ecc…),

vige una serie di regole che vengono richieste ad ogni ospite. Prima fra tutte

quella di essere coerente con quanto ha dichiarato all’atto del suo ingresso

circa la volontà di cambiare stile di vita e di affidarsi alla professionalità dello

staff. La comunità richiede all’utente inserito di sottoporsi alle varie attività

pedagogiche e terapeutiche, accettando così, in pratica, di far parte del gruppo

comunitario. Egli deve assicurare da subito la disponibilità a “mettersi in

discussione”, a rinunciare ai consueti atteggiamenti difensivi (con i suoi tempi,

ma lo sforzo deve essere ben percepito sia dai compagni che dallo staff), a

riferire i suoi vissuti nel quotidiano, a imparare a conoscere e “dare un nome”

ai propri sentimenti, a mostrare le proprie debolezze, le proprie difficoltà in

modo il più possibile autentico e genuino.

Condotto così per mano, l’ospite viene introdotto lungo un percorso in

cui, progressivamente, dovrà compiere delle scelte e assumersene le

responsabilità. In ogni caso egli è tenuto a rispettare le disposizioni che riceve

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dalla comunità fino all’ultimo mandato ricevuto, che comporta lo svincolo

completo dalla terapia e l’inizio di una vita autonoma.

4) Il gruppo comunitario.

Condizioni per l’ingresso in comunità:

L’ingresso in comunità terapeutica (1) avviene dopo specifica e chiara richiesta

da parte della persona tossicodipendente, e dopo il nulla osta da parte del

SER.T. di competenza territoriale. Il SER.T. è tenuto altresì a fornire ogni

informazione utile in suo possesso rispetto la personalità dell’utente tramite

documentazione riservata; ciò è possibile in quanto la comunità è riconosciuta

ente ausiliario della regione e autorizzata alla raccolta dei dati sensibili

dell’utenza.

Il futuro utente può venire integrato in comunità quando, ricevuto il nulla

osta del SER.T., si è reso disponibile a vari colloqui di conoscenza diretta

durante i quali:

a) deve riconoscere il suo stato di tossicodipendenza e che questa

dipendenza è più forte della sua volontà (2);

b) deve dimostrare di voler risolvere il suo stato di tossicodipendenza;

c) deve conoscere ed accettare in anticipo, o dopo una breve prova,

tutte le regole e lo stile di vita comunitario;

d) deve aver formulato un “contratto”, anche verbale, con il responsabile,

in cui il futuro utente si impegna a utilizzare tutte le sue energie e risorse

per aiutarsi ed aiutare gli educatori che si faranno in parte carico dei suoi

problemi.

(1) Per quanto riguarda l’ingresso e la permanenza dell’utenza in comunità terapeutica vedi

Cancrini “Quei temerari sulle macchine volanti” cap. 9 e seguenti.

(2) Sul significato cruciale di questo riconoscimento nella terapia per alcolisti e

tossicodipendenti vedi Bateson “Ecologia della mente”, capitolo sull’alcolismo.

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Nel caso la richiesta venga formulata da persona tossicodipendente

detenuta, per via epistolare, dopo i contatti di routine con il SER.T. di

competenza si stipula su carta un contratto terapeutico molto chiaro (anche

tramite colloqui presso il carcere). In ogni caso l’accettazione del contratto è

condizione primaria all’ingresso.

Il gruppo comunitario è formato da tutti i componenti della comunità, sia

essi ospiti in terapia che educatori. Si può definire gruppo in quanto alla sua

base ha le seguenti caratteristiche:

a) è presente un obiettivo comune;

b) esiste un leader riconosciuto;

c) esiste una batteria di regole condivise stabilite dallo stesso leader;

d) esiste un linguaggio comune;

e) ognuno ha un ruolo ben definito e compiti specifici. Questi compiti sono

distribuiti in base alle competenze per quanto riguarda il personale (educatori,

psicologi, economo, ecc...), mentre l’utenza ha come compito specifico il

rispetto dell’impegno preso, cioè di affrontare e, per quanto possibile, risolvere i

propri problemi di fondo accordando piena fiducia agli operatori, come detto in

precedenza.

5) Il rapporto educatori / utenza. Gli educatori, a turno sempre presenti

nel contesto comunitario, vivono praticamente il loro turno di servizio assieme

all’utenza, partecipano spesso ai lavori materiali del quotidiano, siedono al

tavolo con gli ospiti durante i pasti, alle frequenti riunioni di auto mutuo aiuto

assumono il ruolo di coordinatori e di guida... Gli abiti ed il linguaggio non si

discostano di molto da quelli dell’utenza (di cui l’operatore dovrebbe aspirare a

diventare modello), mentre la capacità di ascolto, di comprensione, di problem

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solving e l’assenza di giudizio devono investire l’operatore di autorevolezza

piuttosto che di autorità.

Il rapporto che in breve tempo viene così a svilupparsi, è di grande

fiducia da parte dell’utenza verso gli educatori e la comunità in generale; ciò

favorisce notevolmente il successivo rapport nella relazione d’aiuto.

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CAPITOLO V:

IL LAVORO CON L’UTENZA

L’ambiente comunitario fin qui descritto è favorevole ad interventi con

ipnosi diretti a persone che presentano una grande varietà di problematiche,

come accennavo nel primo capitolo trattando, in estrema sintesi, sulle possibili

cause di una tossicodipendenza. La comunità stessa nella sua interezza

diventa setting ideale.

Molto spesso il percorso di crescita individuale dell’utente viene

rallentato, o reso estremamente arduo da difficoltà soggettive che possono

apparire anche “banali” alla ragione e al raziocinio, ma che per l’utente

diventano pesanti come macigni; solo a titolo di esempio elenco qui a seguire

alcune delle difficoltà soggettive più frequenti:

- difficoltà di apertura in merito ai propri vissuti personali e al confronto

sincero;

- difficoltà di riconoscere in sé ed esplicitare sentimenti “comuni” (sensi di

colpa, di inadeguatezza, invidia, ecc...);

- difficoltà di integrazione nel gruppo comunitario;

- non accettazione di sé a causa di sentimenti di inferiorità e disistima;

- ansia di tratto;

- difficoltà a sottostare alle regole;

- vergogna di sé (questo sentimento è comune in persone che abbiano

subito in età infantile molestie o violenze sessuali);

- eccessiva diffidenza verso l’altro (paura, aggressività);

- difficoltà di riconoscere ed accettare i propri errori nel quotidiano, per

quanto banali, ecc...

Questi, ed altri sentimenti, sono “ordinaria amministrazione” fra l’utenza

comunitaria e, sebbene si trovino frequentemente e regolarmente nella

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popolazione di ogni agglomerato umano, dall’utenza comunitaria sono vissuti

personali portati all’eccesso, amplificati al punto di impedire, a volte, qualunque

tentativo di riscatto nonostante la volontà dell’utente e gli sforzi degli educatori.

Riporterò, a seguire, un esempio che chiarirà meglio quanto affermo e che

auspico possa rispecchiare le difficoltà che si possono incontrare nelle relazioni

d’aiuto con queste persone. La vicenda che illustrerò mi vede coinvolto

professionalmente in prima persona in tutti i passaggi principali; pertanto mi

troverò a svilupparla con un certo coinvolgimento professionale e umano.

AL, 28 anni, in carcere da tre mesi per aver rapinato una farmacia

armato di siringa, scrive alla comunità una lettera in cui chiede in modo diretto

di essere accolto per ricevere aiuto a risolvere il problema della sua

tossicodipendenza. Questa prima lettera, piuttosto superficiale, non dice molto

della sua personalità. Anche le informazioni del SER.T. non ci forniscono molti

particolari sulla storia del ragazzo, che viene definito “chiuso, asociale, dotato

di scarsi strumenti intellettivi”. Gli operatori del SER.T. si dichiarano sorpresi

dalla richiesta, ma concedono comunque il nulla osta per l’ingresso. Io stesso

rispondo ad Al, chiedendogli di essere più preciso circa i suoi vissuti,

specificando molto chiaramente quali siano le condizioni per essere accolto in

comunità.

Inizia così uno scambio di lettere settimanale, in cui la richiesta da parte

di Al diviene via via più pressante; rispondo ponendo domande tese ad

approfondire la conoscenza; Al, di rimando, si dice “disperato” e “pronto a

qualsiasi sacrificio” pur di risolvere i suoi problemi di tossicodipendenza e di

carcere. Alla quarta lettera dichiara di aver subito “violenza sessuale” all’età di

dieci/undici anni da parte di un parente: “dopo questa esperienza tutto è

cambiato”, scrive.

Nelle lettere successive scrive che il padre ha abbandonato la famiglia

quando Al è in tenera età; emerge un rapporto particolarmente intenso di

amore-odio verso la madre, che convive da vari anni con un uomo semplice,

operaio Fiat “a volte buono, ma sempre molto severo” per il quale Al prova, a

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suo dire, “solo del nervoso ogni volta che mi parla anche se non mi ha mai

picchiato” e che “mi ha sbattuto fuori casa perché mi drogavo”. Al ha una

sorella minore di un anno che, appena maggiorenne, si è allontanata da casa e

da allora non ha più dato notizie di sé se non di rado.

Dopo circa due mesi di fitta corrispondenza, le lettere assumono toni

sempre più drammatici: Al scrive di essere al limite della resistenza, di sentirsi

oppresso dall’ambiente carcerario, disgustato dai discorsi sempre uguali ai

quali non partecipa, di pensare talvolta al suicidio. In allegato all’ultima lettera,

invia il contratto terapeutico da lui firmato contente la dichiarazione d’aver

attentamente letto e condiviso sia le regole che lo stile di vita comunitari.

Solo a questo punto invio al giudice la disponibilità ad accogliere Al

nella nostra struttura e, dopo una settimana, il ragazzo arriva in comunità

accompagnato dalla polizia penitenziaria e rilasciato. Nell’ordine di

scarcerazione, consegnatomi breve manu dai funzionari di polizia, il giudice

impone alla comunità di informarlo circa l’esito dell’inserimento: in caso questo

non andasse a buon fine, l’ordine di scarcerazione verrebbe revocato,

condizione della quale Al viene prontamente informato.

Nelle ore successive, gli viene assegnata, come di consueto, una

camera, tenendo conto delle esperienze di vita del ragazzo a noi note Al viene

presentato all’educatore di riferimento che valutiamo il più adatto e affiancato

ad un gruppo di lavoro formato da ragazzi particolarmente sensibili.

Tutto questo dopo un incontro di conoscenza diretta con me, durante il

quale Al si dichiara contento di essere riuscito ad entrare in comunità e

riconferma la sua volontà ad una piena collaborazione. Al viene inoltre

informato che, trascorse circa due settimane, incontrerà lo psicologo per essere

sottoposto ad una batteria di test sulla personalità (di cui allego una sintesi), ed

egli accetta di buon grado questa proposta, peraltro già preannunciata nel

corso della corrispondenza.

Dopo circa una settimana, ricevo alcune osservazioni da parte degli

educatori, i quali lamentano la marcata tendenza di Al all’isolamento, il suo

assentarsi per ore (chiuso nel bagno, non tanto per scansare i lavori, quanto

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per evitare il confronto con i pari), il suo non aver “legato” con nessun

compagno, il suo mantenere un totale silenzio anche durante il pranzo (che in

comunità solitamente si svolge in un clima di chiassosa allegria).

L’atteggiamento di auto-isolamento viene confermato dai due compagni di

camera che, inoltre, si lamentano per il disordine e la poca pulizia del ragazzo.

Malgrado l’educatore di riferimento lo avvicini ogni giorno con chiare intenzioni

di supporto e giuda, Al non risponde in modo adeguato, limitandosi a frasi brevi

e chiuse, e senza mai esporre il proprio stato d’animo.

Ritengo opportuno un sollecito colloquio con Al, per cui lo cerco lo

stesso giorno, durante una pausa del lavoro. Lo trovo seduto da solo in un

angolo del grande cortile e, al mio richiamo, mi segue in silenzio fino in ufficio

dove, non appena si siede di fronte a me (senza scrivania frapposta), mi

dichiara, semplicemente, di voler tornare in carcere.

Inizia così un colloquio molto faticoso per entrambi; Al conferma

l’intenzione di voler tornare in carcere e, alla mia richiesta circa le motivazioni

che lo spingono a questa decisione, risponde più e più volte, in modo evasivo,

“non ce la faccio a stare qui, qui è bello ma io non ce la faccio a stare”. Al

termine di un lungo incontro in cui Al mantiene la sua posizione ed io gli illustro

ripetutamente le conseguenze della sua decisione, accetto apparentemente la

sua richiesta, proponendogli però di metterla in atto solo dopo dieci giorni di

meditazione, durante i quali Al sarà sistemato in una camera da solo, dove

consumerà anche i pasti. Unico compito che gli assegno è quello di riscrivermi

le lettere che lui stesso mi ha spedito dal carcere e di riassumere in tre righe,

alla fine di ciascuna, lo stato d’animo con il quale ricorda di aver scritto ogni

singola lettera. Il mio scopo è chiaramente quello di fargli “vivere” le differenze

ambientali tra carcere e comunità in modo emotivo per favorire il processo di

apprendimento, visti vani i miei tentativi di ottenere tale risultato in modo

razionale durante il colloquio.

Al accetta la mia proposta, restando nei giorni successivi nella stanza

assegnatagli e, come da accordi, venendo personalmente ogni mattina a

consegnarmi una lettera riscritta il giorno precedente. Questi incontri quotidiani

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sono occasione per colloqui brevi ma intensi, e che mi offrono l’opportunità di

notare, in Al, segnali di una certa tranquillità. Nel contempo, mi confronto a

lungo con i colleghi circa il da farsi; in uno di questi confronti con lo psicologo,

azzardo l’ipotesi di sottoporre Al ad ipnosi, pur con una certa prudenza,

considerando anche che, durante i miei brevi colloqui con il ragazzo, ridonda

frequentemente la parola “paura”, pronunciata come negazione, e che,

nonostante i molti problemi, Al non dimostra scompensi dissociatici della

personalità tali da impedire induzioni semplici.

D’accordo con lo psicologo, propongo all’utente in questione di

sottoporsi ai test sulla personalità già preannunciati, ed egli accetta “per

curiosità”, come egli stesso ammette. Gli vengono così somministrati i seguenti

test:

- colloquio clinico;

- test 16 PF;

- test BANATI- FISHER;

- T.I.B.;

- TEST MMPI – 2

- TEST RORSCHACH;

- TEST BLACKY PICTURES.

Riporto, in sintesi, i risultati dei test, omettendo le parti non significative in

questo contesto:

Relazione assessment psicologico

Colloquio clinico con Al

Al colloquio Al. si presenta con un atteggiamento marcatamente chiuso e timoroso.

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Di fondo appare possedere capacità comunicative nella norma, ma nella

relazione appare pesantemente influenzato da problematiche emotive.

Sia nel resoconto dei primi giorni trascorsi in CT, sia nel riferire delle sue

difficoltà passate, emerge la costante difficoltà ad affrontare la relazione con gli

altri e la conseguente fuga nell’isolamento e nell’alienazione.

Riferisce in proposito di essersi sentito a disagio in mezzo agli altri fin dai

primi anni di vita e di aver perciò iniziato ad avere comportamenti problematici e

distruttivi.

D’altro canto il bisogno di contenimento affettivo e di conferme personali è

cospicuo, e di qui sembrano originare il livello di ansia certamente elevato, la

frustrazione e il disorientamento che il racconto della sua esperienza paiono

evidenziare.

L’immagine percepita sembra testimoniare una grande fragilità del carattere

ed una relazione irrisolta con la figura materna.

In ciò, evidentemente, devono aver giocato una parte notevole il non disporre

di una figura di identificazione positiva e stabile nel ruolo paterno e, in certa

misura, anche le difficoltà economiche della famiglia.

La storia della tossicodipendenza denota sia la presenza di elementi

compulsivi nell’uso di sostanze, che compensativi del turbamento emotivo.

Incidentalmente Al. allude a specifiche esperienze traumatiche subite nel

passato, il cui vissuto non sembra essere stato ancora superato.

La coscienza della situazione problematica per certi versi appare buona,

almeno ad un livello superficiale.

Il test 16PF mostra un quadro caratterizzato da alcuni elementi critici.

Dal punto di vista emotivo si segnala una notevole fragilità dell’Io di fronte

all’influenza delle emozioni e la debolezza dell’inibizione istintuale da parte della

coscienza morale.

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L’ansia, confermata piuttosto elevata, si traduce facilmente in un vissuto

soggettivo caratterizzato da sensazioni di insicurezza, di inferiorità, di indegnità

e propensione al senso di colpa.

Dal punto di vista sociale il Soggetto sembrerebbe incontrare diverse

difficoltà, sia di adattamento che nelle relazioni affettive.

Dal punto di vista più emotivo tali difficoltà, riferite alla debolezza del controllo

istintuale e dell’Io, l’impulsività delle reazioni, l’instabilità dell’umore, la difficoltà

a gestire la frustrazione e la mancanza di spirito di sacrificio e di onestà nelle

relazioni, paiono tali da porlo in una situazione di disadattamento sociale e di

alienazione emotiva.

D’altro canto il Soggetto pare porsi con un atteggiamento fortemente

assertivo di fronte agli altri, non sembra molto interessato alla vita in comune e

non emerge il bisogno di riconoscimento sociale.

La performance intellettiva risulta al test piuttosto scarsa.

Il test Banati-Fisher dimostra buone capacità di adattamento cognitivo ai

limiti ed ai ruoli sociali.

Nonostante da punto di vista emotivo il soggetto dia segni di conflittualità

interiore, riconosce correttamente la situazione sociale e, di fatto, si dispone

correttamente ed ordinatamente in essa.

Tuttavia il suo atteggiamento appare inibito e rigido, si nota un certo

imbarazzo, sintomo del timore per le emozioni che vengono trattenute.

Il timore e l’imbarazzo emergono nella maniera più visibile nelle situazioni più

informali, in cui il Soggetto si sente meno garantito e vincolato da limiti esterni e

ruoli sociali.

Le risultanze di questo test consentono di meglio precisare il tipo di difficoltà

emotiva riscontrato al 16PF: più di tipo emotivo che inerente le funzioni sociali

di base.

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Il test di intelligenza breve ha dato un risultato che stima le risorse

intellettive a livello medio basso (stima QIT 89.8/100; stima QIV 88.8/100; stima

QIP 86.1/100).

Tali risultati segnalano la possibilità di una certa inibizione dell’intelligenza a

base emotiva, su una dotazione intellettuale comunque medio- bassa, pur

nell’intervallo di normalità.

Il questionario di personalità MMPI-2 (profilo: 6”849’70-5213/ F”’-/L:K#)

applicato, ha invece offerto un quadro interpretabile in maniera più

problematica.

Le scale di validità segnalano infatti come le risposte siano difficilmente, o

solo in parte, rappresentative della reale situazione del Soggetto.

In ogni caso i dati sembrano in qualche modo confermare alcuni aspetti

rilevati al questionario 16PF.

Tra questi si ritrova il grave disagio nella sfera delle relazioni sociali con un

atteggiamento caratterizzato da asocialità, da comportamenti sociopatici,

pensiero paranoico, grave difficoltà a partecipare della vita in comune e ad

interagire emotivamente.

Oltre a ciò si segnalano problemi nella gestione degli impulsi aggressivi e

delle emozioni, bassa autostima e diversi sintomi di tipo nevrotico e depressivo.

Test di Rorschach

Il ragionamento appare poco preciso, piuttosto labile nel suo corso e poco

aderente ai problemi pratici.

Il soggetto sembra aspirare ad una performance di qualità, tuttavia con

risultati non corrispondenti alle ambizioni. L’attenzione sembra infatti oscillare

fra tentativo di comprendere tutti gli elementi percepiti in un'unica immagine

significativa e il concentrarsi su particolari non centrali per la questione, e

scarsamente significativi.

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Scarse appaiono le capacità creative e l’originalità della produzione

intellettuale, che rimane spesso convenzionale, banale e molto aderente

all’interpretazione che il Soggetto dà del senso comune socialmente condiviso.

Una componente di rilievo nel determinare i problemi nell’esercizio

intellettuale, ha sicuramente origine emotiva.

L’emotività appare soggetta ad un certo grado di repressione, soprattutto al

sopraggiungere di sollecitazioni originate dal contatto con l’ambiente.

In tali occasioni il Soggetto pare chiudersi e ricadere sotto il forte

condizionamento emotivo che si ripercuote, più o meno implicitamente, sulle

reazioni emotive evidenti nel comportamento.

Di fronte all’aggressività Al. sembra in effetti alquanto disarmato,

costantemente impegnato nel vano tentativo di reprimere la sua rabbia e tenerla

confinata al di fuori del comportamento e dalla coscienza.

Il contatto con l’immagine paterna si direbbe susciti timidezza e vissuti di

paura, mentre quello relativo alla figura della madre sembra maggiormente

investito di aggressività.

Complessivamente il mondo emotivo del Soggetto, per quanto tumultuoso

nelle reazioni rivolte verso l’ambiente, appare piuttosto povero e immaturo.

L’adattamento all’ambiente sociale è senz’altro superficiale e quasi

solamente a livello intellettuale.

Il Soggetto sembra aver acquisito comportamenti sociali limitati

principalmente all’acquisizione dei ruoli e degli atteggiamenti più convenzionali

e stereotipati.

Il test Blacky sembra evidenziare possibili criticità nella relazione simbiotica

primaria.

In essa si avverte la presenza di interferenze da parte di oggetti temuti come

aggressivi.

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Il processo di separazione-individuazione sembra possibile, ma tale da

suscitare reazioni di paura per la distruttività della rabbia suscitata.

...omissis... Il tentativo di affermazione di sé, come reazione alla paventata

distruzione degli oggetti primari, pare finire per assumere un carattere

aggressivo (impulsività e trasgressività sociale), quindi negativo rispetto alla

possibilità di recuperare gratificazione istintuale al di fuori delle stesse relazioni

primarie.

Tale situazione emotiva, si rende particolarmente evidente nella difficoltà ad

elaborare la situazione edipica. In essa gli oggetti sembrano ancora

intercambiabili e il Soggetto non sembra in grado di istituire con essi una vera

relazione con valore personale.

Il rapporto con il Sé appare fonte di ansia, scaturita dalla difficoltà ad

interpretare il senso della propria identità e dalla preoccupazione per la sua

integrità.

Il modello genitoriale interiorizzato appare di qualità parecchio aggressiva e

tale da suscitare paura. Di fronte a tale aggressività, nella parte più piccola del

Sé, sembra prendere piede un atteggiamento di profonda chiusura relazionale

(autistica) con significato difensivo.

Si evidenzia il profondo senso di insufficienza ed inadeguatezza di fronte alle

aspettative ideali interiorizzate (Sé ideale).

Tale differenza sembra proiettarlo in una posizione debole e svalutata nel

contesto delle relazioni familiari, sostanzialmente colpevole nella sua

identificazione negativa e quindi timoroso della punizione costituita

dall’abbandono emotivo.

Di fronte a tale prospettiva, il Soggetto non sembra in grado di intravedere

possibilità di integrare questi modelli infantili in un modello adulto, appare quindi

disperare e considerare illusorio il desiderio di appagare autonomamente i

propri bisogni emotivi personali (riguardo il Sé, l’autostima, la sicurezza

emotiva, ecc.) e di relazione (affettiva e sociale).

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Le difese attivate da questo stato di cose sembrano sempre di tipo primitivo,

quali la scissione e la negazione.

CONCLUSIONI

Il quadro che si delinea dall’indagine segnala, senza dubbio, la presenza di

problematiche psicologiche di una certa entità.

In questo senso il grave disagio nella sfera sociale sembra rappresentare un

sintomo di una problematica della personalità più profonda, oltre costituire un

elemento patologico di per sé.

Non si può escludere la possibilità che siano presenti elementi patologici più

gravi dal punto di vista psichiatrico, compensati o mascherati dietro la

consistenza dei sintomi rilevati.

Il tipo di sintomi descritti sono tali da rendere il successo nel trattamento un’

impresa non agevole, né a breve scadenza.

Dal protocollo di Rorschach si trae l’impressione che la percezione

soggettiva della sofferenza e dell’entità della sua situazione problematica possa

costituire un elemento motivazionale positivo, tuttavia questa “speranza” viene

ridimensionata dalla valutazione dei problemi nello sviluppo del pensiero

razionale e della difficoltà a rielaborare emotivamente questi contenuti.

A causa di essi, anzi, potrebbe scaturire un atteggiamento disperante, tale

da deprimere le possibilità di riuscita invece che incentivarle.

Viene inoltre molto ridimensionata la possibilità, discussa nei giorni

precedenti, che un trattamento psicoterapeutico di tipo rielaborativo possa

essere in grado di promuovere un cambiamento reale e profondo nella

personalità.

Si teme di essere alla presenza di una patologia tale da investire molte aree

psicologiche, e tale da evidenziarsi distruttivamente soprattutto a livello sociale

e nel vissuto emotivo.

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Fra le componenti del quadro, un maggior risalto sembrano aver acquisito i

segni di debolezza costituzionale della personalità, accanto alla notazione di un

certo livello di immaturità psicologica generale (protocollo Blacky pictures).

Nel breve periodo si ritiene necessaria una visita psichiatrica, allo scopo di

precisare meglio il quadro diagnostico, e di valutare la possibilità di stabilizzare

la situazione emotiva anche con rimedi farmacologici.

Nel lungo periodo si evidenzia l’esigenza di personalizzare il più possibile il

trattamento rispetto alle particolari esigenze del Soggetto: in primo luogo per

quanto riguarda il trattamento dei sintomi comportamentali specificatamente

individuati, in second’ordine in considerazione dell’esigenza di un’assistenza

continuativa nel tempo del processo di reinserimento sociale.

I test dimostrano una personalità borderline, con rischi di dissociazione solo

in particolari situazioni.

Rispetto alla classificazione proposta da Cancrini, possiamo considerare

questa tossicodipendenza come di copertura di un disturbo della personalità

(per quanto lieve e in parte compensato).

D’altra parte va tenuto presente il rapporto non risolto con la madre

(specchio infranto), mentre l’eventuale trauma dovuto alle molestie, che risulta

essere successivo, ha certamente aggravato un disturbo preesistente.

Questo caso dimostra chiaramente le difficoltà di inquadrare nettamente

l’eziologia di una dipendenza in una classificazione preordinata, e tuttavia

l’analisi di Cancrini è considerata, dagli specialisti in materia, quella più

affidabile e chiara fra tutti gli altri studi. Chi si occupa di tossicodipendenza

deve tener conto che non si può inquadrare totalmente una personalità in un

quadro preordinato artificialmente, proprio per la singolarità e l’unicità che

caratterizzano ogni essere umano.

La persona in questione rappresenta un caso limite fra quelli trattati in

comunità, nel senso che la maggioranza degli utenti in comunità non ha,

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fortunatamente, una personalità disturbata su più fronti (seppur non

gravemente) come quella di Al.

Il successivo confronto con lo psicologo/psicoterapeuta conferma la

possibilità di poter usare l’ipnosi alla scopo di favorire l’integrazione nel gruppo

e di far calare lo stato ansioso.

Il periodo di “meditazione” di Al, intanto, è terminato: lo chiamo nel

pomeriggio dell’ultimo giorno e , durante il colloqui, noto che il ragazzo non

esprime più la volontà di voler tornare in carcere. Gli faccio osservare che le

parole ricorrenti da lui usate in calce ad ogni lettera per descrivere i suoi stati

d’animo sono “disperazione”, “rabbia”, “solitudine”. Al ne è pienamente

cosciente e, alla sua domanda “cosa devo fare?”, gli propongo di restare un

mese ancora, durante il quale avrà colloqui con me a giorni alterni e la

compagnia di un ragazzo ogni giorni diverso del quale, al termine della

giornata, Al doveva impegnarsi a scrivere almeno tre qualità positive. Infine gli

propongo alcune sedute di ipnosi, utili a calmare l’ansia e a favorire il processo

di adattamento e integrazione nel gruppo. Al accetta senza esitazioni: ha

sentito parlare dell’ipnosi e si dichiara curioso. Concordiamo una serie minima

di tre sedute e massima di dieci, con i suddetti obiettivi dichiarati in modo

esplicito. Le induzioni, piuttosto semplici, sono dirette inoltre all’integrazione

dell’io; non sono previste, né si svolgeranno, induzioni di tipo rielaborativi.

Il giorno seguente ha luogo la prima seduta, che trascrivo di seguito.

PRIMA SEDUTA

Solitamente conduco le induzioni stando seduto a fianco dell’utente e,

quando lo stesso raggiunge uno stato di rilassamento, gli parlo sfiorandogli la

mano o il braccio. Con Al tengo conto delle molestie subite, quindi gli chiedo di

sedersi di fronte a me, ad una distanza di circa un metro. Comincio a parlare

piano, controllando la cadenza e usando il metodo del ricalco. Gli chiedo di

chiudere gli occhi e di ascoltare il suo respiro, cosa che fa subito, senza

esitazione...

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IPNOTISTA: “...e mentre ascolti il tuo respiro che scende piano, puoi

cominciare a rilassare le spalle, prima la destra... poi la sinistra... poi insieme...

e senti che diventano sempre più pesanti e rilassate... pesanti e rilassate... e

sarà facile per te rilassare anche il braccio destro che poggia sulla tua gamba...

sentirlo sempre più pesante e rilassato... e anche il braccio sinistro può

rilassarsi e diventare sempre più pesante... e puoi sentire il calore della mano...

delle dita... che passa attraverso la stoffa e scalda leggermente la gamba su

cui posa... e sarà facile per te rilassare anche le gambe, fino ai piedi... e sentire

il piede destro all’interno della scarpa, puoi sentire la consistenza della suola

tenendolo perfettamente rilassato... e quando il piede destro è rilassato... puoi

rilassare il piede sinistro, allo stesso modo... completamente rilassato...

E mentre sei così rilassato, puoi immaginare di camminare scalzo su un

prato verde... è il tuo prato verde, è come piace a te... e puoi camminare

piano... e puoi immaginare un’erba morbida e soffice... e quando senti l’erba

morbida sotto i piedi, puoi alzare il dito indice della mano destra, ed io saprò

che sei arrivato, perché ti sto aspettando.”

(Al alza quasi subito il dito come richiesto. Già durante la fase del

rilassamento delle gambe ho osservato alcuni segni generici di una trance

leggera: alcuni movimenti muscolari involontari ed un respiro un po’ alterato.

Ora questi segni diventano più marcati. Ho cura di mantenere una cadenza di

voce adeguata mentre proseguo l’induzione, e di usare termini d’unione:

“come”, “mentre”, “quando”, “via via”, “e”, ecc...)

IPNOTISTA: “...e mentre cammini piano sull’erba, vedi a breve distanza

un gruppo di alberi... ti fai incuriosire dal gruppo di alberi e cammini piano verso

di loro... e via via che ti avvicini puoi vederli meglio... sono tutti alberi simili tra

loro, i cui rami si toccano in vari punti... eppure, a guardarli bene, puoi vedere

che ognuno è diverso dall’altro... anche per piccoli particolari... sembrano tutti

uguali, ma in mezzo a tutti noti un albero... che ti sembra sia un po’ a disagio...

lo guardi meglio e puoi anche immaginare che quest’ albero sia stato

trapiantato da poco in questo posto... e che poco tempo fa era in un

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vivaio...messo in un vaso che era diventato stretto per lui e soffriva un po’... e

così è stato trapiantato all’aperto come lui voleva, in mezzo ad altri alberi... e tu

puoi immaginare che quest’ albero provi adesso un po’ di imbarazzo nello

stare... in mezzo a sconosciuti... anche se questi sembrano contenti della sua

vicinanza... e sembra che tendano i loro rami a lui, come a dargli il benvenuto...

ma lui ha un po’ paura... tiene i suoi rami un po’ distanti... e non si fida... mi sto

chiedendo come mai non si fida...”

AL: “...Ha paura...”

IP.: “Ha paura... Perché ha paura?”

AL: “...Non lo so...”

IP.: “Non lo sai... Pensi che potranno diventare amici?”

AL: “Si... fra un po’... devono conoscersi meglio... ci vuole tempo.”

IP.: “Ci vuole tempo... Ora, Al, puoi sederti tranquillo sotto quest’ albero

e guardare il cielo azzurro... C’è il sole?”

AL: “Si, ma sono all’ombra dell’albero...”

IP.: “Sei all’ombra... e guardi il cielo azzurro... e puoi cominciare a

respirare adagio... adagio e profondamente... respira quest’aria azzurra... che

entra nel tuo petto profondamente... e l’aria che entra porta dentro di te pace e

tranquillità... mentre quella che esce porta via da te l’ansia... e al suo posto

entra la tranquillità... esce l’ansia... e puoi dirmi, ora, di che colore è l’aria che

esce.”

AL: “Rossa...”

IP.: “E’ rossa. E ad ogni respiro entra con l’azzurro la pace e la

tranquillità... sempre più profondamente... mentre è rossa l’aria che esce e si

porta via l’ansia... la paura... l’aggressività... ed ora conto fino a tre e potrai fare

un lungo respiro e far uscire piano tutta la paura... e solo la paura... mentre

l’aria azzurra che entra ti darà una profonda tranquillità...”

(L’osservazione conferma la trance leggera già notata in precedenza. Al

ha il capo leggermente chino in avanti, ciò non impedisce di vedere

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l’espressione distesa di simmetria facciale, e un rilassamento muscolare

generalizzato. Lascio trascorrere cinque / sei minuti in silenzio.)

IP.: “ Ora che ti senti rilassato e sereno... puoi alzarti piano e guardare

l’albero che ti ha protetto dal sole e puoi immaginarlo più forte e sicuro di

prima... la tua presenza l’ha reso più forte e sicuro... e puoi abbracciarlo forte...

abbraccialo forte... e mentre lo abbracci, lo senti respirare... senti il suo respiro

e respiri con lui... con lo stesso ritmo... con la stessa calma... mentre la nuova

forza e la nuova sicurezza dell’albero diventano la tua forza... e la tua

sicurezza... Ora puoi staccarti, e unire il pollice e l’indice della mano destra,

formando con le due dita un anello...”

(Al forma adagio ma prontamente l’anello, come richiesto.)

IP.: “E tu sai che, ogni volta che vorrai tornare in questo stato di

tranquillità e di pace, basterà che tu unisca queste due dita come hai fatto ora,

e tornerai a sentire la stessa tranquillità che provi in questo momento... la

stessa... identica tranquillità che provi ora... Adesso puoi salutare il tuo

albero...”

AL: “Anche lui mi saluta.”

IP.: “...Presto vi rivedrete, l’albero lo sa, tu lo sai; ora, portando con te

tutte le emozioni positive, solo il positivo di questa esperienza, puoi ancora

calpestare l’erba e tornare indietro... portando con te tutto il positivo di questa

esperienza... solo le cose positive... e mentre ti avvicini al punto da cui sei

partito, con i tuoi tempi, senza fretta... puoi tornare piano piano al nostro

presente... al qui e ora... con i tuoi tempi, senza fretta... ricordandoti che sei

rilassato e tranquillo...”

Dopo circa due minuti, Al apre gli occhi. La prima frase che dice è

“pazzesco, è stato bellissimo”. La voce è calma, profonda e bassa; Al sembra

incredulo, mi guarda con stupore, si muove piano piano sulla sedia.

Spontaneamente dice “Mi sono rivisto in quell’albero”. Gli chiedo di tornare a

fare il cerchio con le dita (ancoraggio) tre volte al giorno, e di rimanere raccolto

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per almeno dieci minuti, al mattino appena sveglio, prima di pranzo (per

favorire la socializzazione a tavola) e prima di dormire, per tornare nello stesso

stato di tranquillità emotiva.

La seduta è durata complessivamente trenta minuti.

CONSIDERAZIONI

- La rapidità di Al ad abbandonarsi e ad entrare in trance dimostrano un

grado di fiducia notevole, utile anche a rafforzare il terapeuta

nell’autostima.

- L’immedesimazione emotiva con l’albero.

- Il colore rosso dell’aria espulsa.

Come da accordi, Al è stata affiancato da un compagno ogni giorno

diverso del quale, a fine giornata, egli deve mettere in risalto almeno tre

caratteristiche positive, compito che Al svolge regolarmente. Gli educatori

mi riferiscono che si muove in modo più sciolto tra i suoi compagni, con i

quali, tuttavia, comunica ancora poco.

Due giorni dopo ripetiamo l’esperienza. La prima induzione viene da me

considerata come una prova di fattibilità, mentre, in questa seconda seduta,

è mia intenzione inserire nella metafora degli animali che vivono in gruppo

per fare sì che l’esperienza sia più congrua a quanto Al sta vivendo.

SECONDA SEDUTA

Ripeto la fase di rilassamento completo chiedendo all’utente di “fare

l’anello con le dita” nel momento in cui immagina il prato, ed Al esegue

senza esitare, ma con calma.

IPNOTISTA: “... e quando arrivi sotto l’albero, lo guardi, guardi il tronco,

i rami, la chioma... e mi sto chiedendo se vedi qualcosa di diverso...”

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AL: “... il tronco mi pare un po’ più grosso di prima... e anche le foglie...”

IP.: “Anche le foglie, e fra tutte quelle foglie puoi osservarne molte

rivolte verso il sole, aperte, per poter assorbire meglio la luce...”

AL: “Sono le più belle...”

IP.: “Sono le foglie più belle, aperte al sole, forse così aperte respirano

meglio... sembra quasi che comunichino col sole.”

AL: “... Sì, e brillano di più...”

(Questa breve parte centrata sui vantaggi dell’aprirsi al mondo è una

“semina”. Per possibili future induzioni che affronteranno questo specifico

argomento.)

IP.: “E mentre queste foglie comunicano col sole, tu puoi sederti ancora

sotto l’albero... guardare il cielo azzurro... e cominciare a respirare l’aria

pulita... azzurra che, scendendo profondamente dentro di te, porterà

tranquillità... pace... come sai, mentre l’aria espirata avrà un colore diverso

e porterà fuori di te paure (respiro), aggressività (respiro), ansia (respiro), e

via via che queste negatività escono da te, lasciano il posto una profonda

tranquillità e pace... E mentre succede tutto questo, puoi guardare il

panorama... e se presti attenzione, una buona attenzione... puoi scorgere

sul piano dell’orizzonte un grande punto che pare avvicinarsi sempre più...

non c’è nessun pericolo... e puoi farti incuriosire, via via che questo punto si

avvicina sembra che si allarghi un po’... e puoi immaginarlo formato da tanti

punti simili tra loro che si avvicinano velocemente, come fosse un branco di

cavalli al galoppo... verso un’erba più fresca e tenera... un’erba qui vicino,

un’erba che conosci... e ora sono vicini e puoi vederli meglio... quanti

sono?”

AL: “Circa quindici... forse qualcuno di più... sono arrivati vicini... ora si

sono fermati e mangiano l’erba.”

IP.: “ Mangiano l’erba... sono tranquilli?”

AL: “Sì, non hanno paura di me... mi hanno visto, io sto fermo.”

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IP.: “E mentre tu stai fermo e li guardi, puoi vederne uno in particolare...

e ti sembra più timoroso e impacciato degli altri, se guardi bene puoi

individuarlo... Mi sto chiedendo se riesci a distinguerlo dagli altri... Forse è

un cavallo che è entrato per ultimo nel branco, forse gli altri non lo

conoscono bene.”

AL: “...Sì, lo vedo... ora si è messo in disparte e guarda gli altri cavalli

che mangiano.”

IP.: “Puoi descrivermi questo cavallo?”

AL: “E’ giovane... ha delle ferite vecchie rimarginate male... mi fa

compassione... è marrone come gli altri...”

IP.: “Ha un buon carattere?”

AL: “Sì, è buono, ma ha paura.”

IP.: “Ha paura... Perché ha paura?”

AL: “Ha paura di essere rifiutato...”

IP.: “Essere rifiutato...”

AL: “Si sente brutto... si sente sporco... diverso...”

IP.: “... a ben vedere non è molto diverso dagli altri... si confonde bene

là in mezzo... e se guardi bene vedi che i COMPAGNI lo hanno accolto

bene tra di loro, nessuno vuole fargli del male, neppure giudicarlo... infatti

sono tutti tranquilli che mangiano vicino a lui... hanno galoppato con lui... e

sembra proprio simile a tutti gli altri... e anche lui può mangiare

tranquillamente la stessa erba dei compagni.......”

AL: “Adesso mangia...”

IP.: “Adesso mangia... mi pare tranquillo, secondo te aveva ragione ad

avere paura?”

AL: “E’ una sua paranoia.” (parla nel gergo comunitario)

IP.: “E’ una sua paranoia, forse dovrebbe farsi conoscere meglio, farsi

degli amici... Cosa gli consigli?”

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AL: “...Farsi conoscere... essere meno nervoso... parlare...”

IP.: “...Parlare un po’ di più... di sé, dire quale erba gli piace di più e

quale meno, se gli piace galoppare di più al mattino o alla sera, avvicinarsi,

parlare... al cavallo che gli è più simpatico...”

AL: “Sì.”

IP.: “Potrebbe cominciare a brucare l’erba vicino al cavallo che gli è più

simpatico, e fare qualche commento sull’erba del prato...”

AL: “Sì.........” (Lascio passare circa un minuto)

IP.: “...E mentre loro mangiano tranquilli, e noi li guardiamo pascolare, ci

accorgiamo che il sole non c’è più, e il cielo si fa scuro all’improvviso... e

puoi vedere nuvole grigie e nere che si avvicinano... Ed ecco...

d’improvviso un temporale... un temporale estivo: tuoni, fulmini, pioggia

grossa e fitta, vento... e i cavalli si spaventano un po’, vedi, pare che si

accuccino uno vicino all’altro per proteggersi mentre cade la pioggia... che

dà loro fastidio, però a ben vedere lava il loro manto dal sudore, li rinfresca,

li rende più puliti e lucidi... E mentre tutto questo succede, il cavallo pensa a

come dovrà fare per farsi accettare dal gruppo... capisce che dovrà essere

gentile, non arrabbiarsi se un altro cavallo correndo lo spingerà

inavvertitamente, costruirsi rapporti di amicizia... E via via che pensa tutto

questo, sente il respiro degli altri cavalli, accucciati vicinissimi a lui, e si

rende conto che nessuno si è scostato dalla sua presenza e che le sue

paure possono diventare solo fantasie, se lui lo vuole... che può

spegnerle... restando in mezzo agli altri... e il temporale, così velocemente

com’è arrivato, smette, e mentre il sole rompe le nuvole, il branco si alza,

parte al galoppo e fra nitriti di gioia... di sollievo... sparisce veloce verso

l’orizzonte... Tu sai, sei sicuro che presto li rivedrai.”

AL: “Sì.”

IP.: “Ora puoi alzarti e guardare l’albero... è contento per la pioggia

caduta... lo ha rinfrescato... e puoi abbracciarlo...”

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(L’induzione continua per alcuni minuti e riguarda principalmente

l’aspetto dell’albero, viene poi rinnovato il segnale post ipnotico e si termina

con un’adeguata de trance. Alla fine della seduta, Al dice che quel cavallo

gli ha fatto “molta compassione”, che nel cavallo vede se stesso, e

“cercherò anch’io di essere più gentile e paziente, per farmi degli amici”, mi

dice spontaneamente di usare “l’anello” perché gli dà grandi benefici ogni

volta che si sente nervoso.

La seduta è durata complessivamente quaranta minuti.

CONSIDERAZIONI

- Ancora la velocità dell’entrata in trance.

- L’albero più robusto nel tronco, l’aumento delle foglie.

- Le ferite del cavallo, viste dal soggetto in modo autonomo

- L’intensa immedesimazione emotiva di Al con il cavallo, tale da

comprendere pienamente ogni emozione vissuta dal cavallo

(proiezione).

Da notare che la frase “devo essere meno nervoso” è un’affermazione

che Al usa spesso a proposito di se stesso quando si ripromette di essere

più socievole in comunità.

A queste due induzioni ne seguono altre otto, con il ritmo costante di

due alla settimana a giorni prefissati; in aggiunta bisogna considerare il

lavoro degli educatori sul campo e alla pazienza dei compagni che hanno

permesso ad Al di entrare, già dopo la seconda induzione, nel gruppo di

lavoro dove, pur con fatica, l’utente ha “legato” con diversi compagni se pur

in modo superficiale. In occasione di uno scontro verbale con uno di questi,

dovuto a problemi di lavoro, il contrasto viene rielaborato durante

un’induzione subito successiva. L’incidente, che agli occhi di Al doveva

essere causa di successive ripicche e vendette, è stato sdrammatizzato e

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ridimensionato da lui stesso dopo averlo proiettato sui rapporti tra cavallo e

branco. Anche la semina d’inizio è stata utilizzata successivamente.

Certo i complessi problemi di fondo non sono stati risolti, e peraltro non

era questo l’obiettivo che ci eravamo prefissati; possiamo comunque dire di

aver fatto un buon passo avanti nella relazione d’aiuto, considerata anche

la personalità del soggetto in causa.

UN SECONDO INTERVENTO DI RELAZIONE D’AIUTO PSICOLOGICO

Sono stati effettuati altri interventi ipnotici su diversi utenti,

soprattutto di carattere pedagogico (cura di sé, dell’ambiente, di relazione

interpersonale, di accettazione delle regole).

Il caso che descrivo qui a seguito conferma quanto detto da Cancrini

riguardo, essenzialmente, le due condizioni “necessarie e sufficienti ad una

tossicodipendenza” riportate in questo lavoro a pag. 5: la prima condizione

è che “il soggetto incontri la droga”, la seconda è il suo rapporto con la

trasgressione e la legge (per legge si intende tanto quella immaginaria che

quella reale).

Il percorso di vita dell’utente, che espongo brevemente a seguito,

non presenta dati drammatici come quello precedente; la persona in

questione (R.) è vissuto in una famiglia normale, ben inserita nel tessuto

sociale, ed è verosimile pensare che, se R. non avesse trovato la droga in

quel momento specifico della sua esistenza o se avesse interiorizzato un

concetto di legge più adeguato alla sua persona, avrebbe probabilmente

evitato l’esperienza tossicomanica iniziata presumibilmente come semplice

trasgressione, e arrivata, invece, al punto di governare negativamente

vent’anni della sua esistenza.

R., 39 anni, di cui venti passati all’estero, usa eroina dall’età di 17

anni. Di professione parrucchiere per signora, bravo a suo dire, non

presenta segni evidenti di disturbo della personalità. Nonostante sia di

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carattere introverso, si muove agevolmente tra i compagni in comunità,

comunica, è in buoni rapporti con gran parte di loro e con gli educatori.

Dopo la scuola media, ha seguito un corso di specializzazione per

parrucchiere alla fine del quale si è diplomato. Questo riconoscimento gli ha

permesso di intraprendere il mestiere già tra i 17 e i 18 anni, secondo i suoi

desideri. Si presenta educatamente, sempre in ordine nell’abbigliamento e

nella persona. Sia ai test psicologici cui è stato sottoposto, sia durante i

colloqui terapeutici, l’intelligenza viene percepita nella norma. Gli stessi test

testimoniano un sentimento di inferiorità e di disistima, ma nessun altro

accenno a particolari patologie.

R. è il secondogenito di due figli; ricorda in particolare la debolezza

caratteriale del padre, sempre attento a non urtare la madre, e la severità

della stessa “che quand’ero piccolo e facevo qualcosa che non dovevo,

informava la sera mio padre spingendolo a darmi uno o due schiaffi per

punirmi, e mio padre lo faceva senza chiedermi nulla, probabilmente per

evitare discussioni in famiglia”.

R. esclude categoricamente di aver subito violenze fisiche

prolungate: “ho preso qualche schiaffo di tanto in tanto quando forse lo

meritavo”. Disapprova decisamente l’operato sociale del padre anche

perché “è un buon sarto che poteva diventare qualcuno, aveva molto clienti

e invece, non so perché, è andato a lavorare in fabbrica come operaio, io

non vorrei mai diventare così”.

I genitori, durante i colloqui, non ricordano particolari problemi nella

sua infanzia se non qualche assenza ingiustificata da scuola durante la

terza media, scuola che il ragazzo finisce comunque bene, senza alcuna

difficoltà. Si presentano preoccupati per il futuro di R.: “che non promette

nulla di buono visto come si è sempre comportato a differenza del fratello

che è sempre stato a posto”, dichiara la madre rispetto la quale l’utente

dice solo: “è stressante, mi ha sempre rotto le scatole”.

Duramente i colloqui avuti con me, R. afferma di essersi sempre

sentito l’ultima ruota del carro in famiglia, considerato insufficiente a se

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stesso e sempre perdente agli occhi della madre, rispetto al fratello

maggiore che a suo tempo si diplomò a pieni voti alla scuola alberghiera,

ed ora è proprietario di due bar-ristoranti in Liguria dopo aver guadagnato

molto, lavorando all’estero. Nell’esporre i suoi rapporti in famiglia, R.

esprime spesso la rabbiosa impotenza nei confronti della madre in

occasione delle sue continue svalutazioni nei propri confronti, ma di non

essersi mai apertamente ribellato.

“Incontra” la droga incidentalmente verso i 15 / 16 anni, mentre

frequenta il corso per parrucchiere. Un compagno, che R. ammirava per la

sicurezza che dimostrava di sé, gli offre parte di uno spinello che stava

fumando da solo e lui -che già consumava sigarette di nascosto dalla

famiglia- accetta, gli piace, e nei giorni successivi, in compagnia dell’amico,

ripete l’esperienza per più volte; poi, tramite l’amico, conosce altri

consumatori di cannabis, alcuni dei quali maggiorenni, e con loro, appena

può, si ritrova per fumare ascoltando musica, in automobile o a casa di

qualcuno di loro...

Per procurarsi il denaro utile al consumo, comincia a vendere piccole

dosi di hashish, e con l’amico, in poco tempo, organizza un giro di

compravendita fra i suoi conoscenti, che gli consente di fumare

gratuitamente e in più di avere sempre qualche soldo in tasca; ciò lo

gratifica molto, facendolo sentire “grande” rispetto ai compagni.

La famiglia non si accorge di quanto stia succedendo, malgrado la

madre si lamenti di continuo per i ritardi ai pasti ormai abituali, e

somministri, per questi ritardi, qualche sporadica punizione soprattutto per

mano del padre. R. conduce una vita parallela. Abituato ai rimbrotti

svalutanti della madre, non ci fa più caso. Il padre è assente rispetto alla

sua educazione e non è mai tenuto in considerazione come un possibile

modello. Assente anche i fratello, da anni all’estero per lavoro.

R. finisce il corso per parrucchiere e, all’età di 17 / 18 anni, va a

lavorare come dipendente. Il mestiere lo appassiona e consegna a casa lo

stipendio per intero “tanto non avevo bisogno di quei soldi, me li

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guadagnavo diversamente”. La madre gli trova le sigarette e lui ammette di

fumare, mentre lei ribadisce che il fratello non ha mai fumato e “da ora in

poi ti controllerò meglio”.

R. frequenta sempre più assiduamente l’ambiente del piccolo

spaccio di hashish e, all’interno di questa popolazione, conosce dei

consumatori di eroina con i quali, dopo un po’ di tempo, fa amicizia, accetta

di provare a “tirarla con il naso per curiosità” e, nel tempo di pochi mesi, la

usa ogni fine settimana alternandola agli spinelli. La madre, nel frattempo,

trova nelle sue tasche, che controlla regolarmente, delle cartine e una

modica quantità di hashish; non capendo cosa sia, ma sospettando

qualcosa di negativo, si informa chiedendo ad alcune amiche finchè una di

queste, pratica dell’argomento avendo da tempo un figlio nelle stesse

condizioni, le dà l’informazione giusta.

R. ricorda con un amaro sorriso i giorni successivi... La madre va a

prenderlo fuori dal lavoro per riaccompagnarlo a casa dove R. si isola in

camera sua per non sentirla. Nasce così l’idea di andare dal fratello

all’estero. “Di fatto”, dice R., “i controlli di mia madre erano diventati

opprimenti, raramente riuscivo a frequentare la compagnia di amici”,

mentre la madre non perdeva occasione per definirlo “drogato”.

Dietro sua richiesta, il fratello accetta di aiutarlo; gli trova un lavoro a

Londra, dove si trova, e un bilocale in affitto nei pressi della sua abitazione,

dove R. potrebbe trasferirsi. La madre apparentemente approva questa

possibile partenza come soluzione del problema, pur dicendosi

preoccupata “perché tu non sei come tuo fratello, e chissà cosa

combinerai”. R. riconosce di essere andato all’estero perché avrebbe

potuto fare ciò che voleva senza alcun rigido controllo, e anche per sfuggire

ai continui rimbrotti della madre.

A Londra R., con l’aiuto del fratello, si ambienta presto e bene, sul

lavoro viene riconosciuto positivamente e frequenta assiduamente corsi

serali di lingua inglese. Non usa nessun tipo di sostanza “anche perché non

sapevo dove comprarla e poi non avevo il tempo di cercarla, non ci

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pensavo”. Dopo circa sei mesi il fratello torna in Italia definitivamente per

aprire un bar-ristorante. R., tramite il lavoro, conosce una donna più grande

di lui in età e ci va a convivere. Scopre quasi subito che questa signora usa

cocaina per via nasale, la prova e continua a usarla con lei. Accompagna la

donna più volte a comprarla, entrando così “nel giro”.

R. rimane all’estro circa vent’anni usando ogni tipo di droga

conosciuta; impara perfettamente la lingua, cambia innumerevoli posti di

lavoro e convive con varie donne, tutte tossicodipendenti, con le quali ha

storie di estremo degrado sia morale che fisico; spinge all’aborto più volte

le sue compagne, talvolta diventa violento finchè viene arrestato e

rimpatriato forzatamente dalla polizia.

Torna a casa della madre e, dopo neppure un mese, chiede di

entrare in comunità.

Le motivazioni all’ingresso: chiudere definitivamente con la vita

passata; avere più sicurezza per il futuro; interrompere i rapporti con la

famiglia di origine e ricominciare tutto da capo.

Il percorso terapeutico procede a fasi alterne, dovute principalmente

a una certa insicurezza e alla poca stima di se stesso che gli rende difficile

prendersi delle responsabilità e, quando lo fa, il timore di sbagliare (e di

essere quindi ripreso in modo svalutante) lo rende maniacalmente

perfezionista e intollerante verso chi collabora con lui. Ricorre spesso alla

negazione, alla proiezione e allo scherzo quando deve giustificare un errore

commesso per quanto banale.

Dietro sua richiesta viene inserito nel gruppo di psicodramma con lo

scopo dichiarato di elaborare il rapporto con i genitori e con la

trasgressione. Poiché durante i gruppi di autoaiuto gli viene più volte

ripetuto dagli stessi compagni di fare qualcosa di più per accettarsi e

accettare di poter sbagliare senza squalificarsi troppo, mi chiede di poter

essere aiutato, si dice disposto a sostenere alcune induzioni ipnotiche per

affrontare il problema dell’accettazione di sé e di disistima. R. insiste,

nonostante gli faccia presente che di norma i problemi di disistima hanno

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origini lontane, e che non sono sicuro sia opportuno affrontarli in quel

momento con sedute rielaborative, considerando la sua attiva

partecipazione alle sedute di psicodramma settimanali.

Dopo un confronto con lo psicologo, propongo a R. di fare alcune

sedute centrate sui sintomi. Evito di riportare il resoconto di tali sedute per

non appesantire questo lavoro, riassumendole qui di seguito nei loro tratti

essenziali.

La prima induzione viene condotta nel tardo pomeriggio e

concentrata sull’accettazione di sé. Poiché esiste da tempo un buon

rapporto terapeutico con il soggetto, basta un breve colloquio per stabilire

la sincronia necessaria all’induzione, e posso sedermi al suo fianco per

iniziarla.

R. chiude gli occhi alla mia richiesta e già nella fase del rilassamento

entra in una trance leggera. In seguito uso la metafora del diamante

visualizzato attentamente alla luce del sole. Esso appare bellissimo a

causa di particolari riflessi multicolori di luce. Queste particolarità sono

dovute ad alcuni piccoli difetti che, osservati al microscopio uno ad uno,

appaiono all’occhio enormi e brutti ma nell’insieme sono quelli che danno

carattere e quella luce particolare che rendono la pietra unica al mondo,

irripetibile proprio per la luce da loro riflessa.

Segue un’adeguata de trance. Il tempo complessivo della seduta è di

trenta minuti circa. R. si dice meravigliato e soddisfatto.

La seconda induzione, avvenuta dopo una settimana alla

precedente, ha lo scopo di rinforzare l’autostima e portare alla coscienza

possibili risorse interiori. Dopo il rilassamento iniziale, viene fatto

visualizzare il mare calmo di una calda giornata estiva; in questo mare R. si

immerge con muta e attrezzatura subacquea, e decide di nuotare fino ad

una boa da sub che vede in lontananza (alcuni giorni prima R. mi aveva

detto di essere un buon nuotatore). Arrivato alla boa, vede che la corda che

la tiene ancorata al fondo ha dei nodi equidistanti tra loro; dietro mio

suggerimento, discende facendo scorrere la corda tra le mani, arrivando a

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contare piano dieci nodi (è la mia voce che conta per lui). Questo gli

permette di entrare in una trance più profonda via via che supera tutti i

nodi... Alla fine della corda, chiedo ad R. di cercare una grotta tra le rocce

in fondo al mare... “Troverai un cofanetto che contiene un tesoro... il tuo

tesoro...”. Dopo una breve ricerca, R. trova la grotta e all’interno di essa

rinviene un cofanetto che apre con una certa difficoltà anche con l’aiuto di

un coltello, dietro mio suggerimento. All’interno trova una grande perla che

“... quando la prendo fra le mani pare respirare meglio... come fosse stata

liberata... è una perla grossa e molto bella...”. Dico a R. che la perla è di

sua proprietà: l’ha trovata lui, può portarsela a riva e tenerla fra i suoi

oggetti più preziosi...

Segue la de trance. Il tempo complessivo della seduta è di 45 minuti.

A queste due induzioni, ne segue una terza di “connessione” di tutti i dati e

di rinforzo.

Non posso affermare con certezza quanto queste sedute possano

aver aiutato R. nelle settimane successive, anche perché, come dicevo

dianzi, il soggetto è molto attivo e partecipe durante le sedute settimanali di

psicodramma: per questo motivo risulta difficile definire l’efficacia di ogni

singolo intervento; certo la sinergia di tutti questi elementi ha dato a R. una

maggior sicurezza di sé, riscontrabile e riscontrata nel quotidiano dagli

stessi compagni che lo affiancano e confermata dagli educatori.

L’origine di questa tossicodipendenza, volendo proprio darle una

classificazione, potremmo collocarla nella seconda ipotesi descritta da

Cancrini “Tossicomanie sostitutive di una nevrosi attuale caratterizzate da

un conflitto esterno alla persona”. Contrariamente al caso precedentemente

descritto, non tocca minimamente le altre tre ipotesi descritte.

Non mi pare opportuno invocare come causa assoluta di questa

tossicodipendenza il rapporto con i genitori, quanto il suo rapporto con la

legge e la trasgressione; è pur vero che la madre, con il suo continuo

atteggiamento svalutante, può avere inculcato ad R. l’insicurezza e la

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disistima che emergono sia dai test che dalla vita quotidiana; che l’assenza

del padre e, il mancato riferimento dello stesso come modello positivo,

possano aver influito in qualche misura, spingendo R. verso la

trasgressione fin dalle scuole medie. E’ altrettanto vero, però, che è difficile

trovare, fra le famiglie che compongono il tessuto sociale, dei genitori che

non abbiano in qualche modo proiettato sui figli le loro insicurezze e le loro

paure.

Entrambe le persone citate sono presenti oggi, gennaio 2005, in

terapia presso la comunità.

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CAPITOLO VI:

CONCLUSIONI

Nel cominciare questa breve tesi, mi sono posto gli obiettivi di dimostrare:

1) che la tossicodipendenza va considerata come un sintomo di un disagio

psicologico;

2) che su questo disagio si può intervenire con l’ipnosi –poste alcune

importanti condizioni di base-;

3) di essere io stesso in grado di usare l’ipnosi per favorire una migliore

qualità della vita e un maggior benessere alla persona.

Per quest’ultimo motivo ho trascritto, nei tratti puramente essenziali, le sedute

portate avanti con Al, in cui metto in essere una buona sincronia emotiva, la

suggestione di una monoidea utile, in quel momento, a “rompere” i vecchi

schemi di riferimento che impedivano ad Al. rapporti interpersonali, anche

minimi, perfino con i suoi pari.

Metto anche in evidenza l’importanza e l’uso del ricalco, della guida, della

metafora, e di termini di transizione (come, mentre, quando, via via...).

Per poter raggiungere questi obiettivi, mi sono trovato nell’obbligo di tentare

un’analisi delle cause della tossicodipendenza. E’ questa impresa ardua e

comunque destinata a rimanere insufficiente, in quanto non è possibile, come

già dicevo, classificare a priori, tramite schemi preordinati, problemi di questa

portata; il tentativo di generalizzare e portare in uno schema fisso risposte a

problemi che possono sembrare simili, si scontra con la soggettività, la

sensibilità, l’unicità di ogni persona.

Questa soggettività non permette di prevedere anzitempo, né in modo

assoluto, quale sarà la risposta personale di un individuo di fronte al disagio.

Per mia esperienza professionale, ho incontrato persone che hanno vissuto

disagi familiari e sociali fortissimi, dando risposte esistenziali positive e diverse;

altre, come il caso di R., che stanno spendendo malamente gran parte della

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loro vita pur non avendo alla base disturbi tali da andare oltre quella che può

essere considerata la norma: un sentimento di inferiorità, di disistima non

risolto che trova la sua soluzione nella trasgressione ricercata e vissuta come

conferma del sé. Sono così entrato, per dare completezza a questo lavoro, in

un terreno che definirei minato, in cui ancor più “la mappa non è il territorio”.

Il testo di Cancrini, che ho usato come maggior riferimento, è considerato,

assieme allo studio di C. Olievenstein, ancora valido da molti studiosi del

fenomeno; altri lo considerano “superato”. Questi ultimi, però, non portano, che

io sappia, soluzioni né visioni analitiche nuove del problema; qualcuno di loro si

limita a definirlo “come un problema che può interessare persone di qualunque

strato sociale, ecc...”; altri suggeriscono soluzioni farmacologiche o di

prevenzione primaria (in famiglia, nella scuola dell’obbligo, ecc...), e

quest’ultima è certamente una risposta giusta, per quanto di difficile attuazione

nel pratico.

Il testo di Cancrini rimane, così, unico nel suo genere; i suoi limiti vengono

riconosciuti (pag. 81 e seguenti del testo) in primis dall’autore stesso, e

successivamente da chi si occupa ogni giorno di dare risposte terapeutiche al

problema. Malgrado ciò, serve a dare un minimo di orientamento, una base di

partenza che prima non c’era, consente, dice l’autore, “di superare una visione

generica e confusa del problema fornendo argomenti e spunti di riflessione”

(pag. 82 del testo).

Nel corso dell’ultimo anno sono state da me messe in atto svariate sedute di

ipnosi rivolte a circa venti utenti diversi; altre con persone esterne al gruppo

comunitario. Tutte sono state indirizzate a offrire nuove risposte a vecchi

problemi, a far emergere le potenzialità e le risorse proprie delle persone

sottoposte a questo tipo di aiuto psicologico. Alcune sedute con utenti in

comunità hanno affrontato in modo rielaborativo disturbi come attacchi di

panico, disistima, acufene di origine psicosomatica, ecc... Per dette sedute mi

sono avvalso della supervisione continua dello psicologo/ psicoterapeuta/

ipnologo in servizio a orario pieno e continuativo presso la struttura

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comunitaria, il quale usa con una certa regolarità l’ipnosi come ulteriore

strumento terapeutico per trattare questo tipo di problemi.

Chiudo così questo lavoro nella speranza di aver centrato gli obiettivi che mi

ero proposto all’inizio.

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INDICE DEI CAPITOLI

1) IL CONCETTO DI TOSSICODIPENDENZA

(secondo DSM IV, secondo ICD – 10, e secondo Luigi Cancrini)

2) IPNOSI: PRINCIPI DI APPLICAZIONE – BREVE SINTESI SU ALCUNE

CONDIZIONI PER L’APPLICAZIONE

Importanza del sincronismo e della monoidea; difficoltà di applicazione e

trattamento con monoidea dominante; possibilità e ipotesi di intervento

successivo

3) CONCETTO DI ISTITUZIONE TOTALE

La legislazione italiana permette il passaggio dei tossicodipendenti dalle

istituzioni totali (carcere) alle comunità terapeutiche

4) LA COMUNITA’ TERAPEUTICA E’ SETTING TERAPEUTICO

La comunità terapeutica risponde a necessità sociali e individuali

a) L’ambiente terapeutico: il setting dinamico: spazio, tempo, regole, il gruppo

comunitario

b) il rapporto con gli educatori in sincronia con gli utenti

5) IL LAVORO CON L’UTENZA E POSSIBILITA’ DI USO DELL’IPNOSI

Integrazione nel gruppo di un utente con problemi di personalità: la relazione

d’aiuto del counsellor in ipnosi costruttivista presso la comunità terapeutica

6) CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA

- “Quei temerari sulle macchine volanti / Studio sulle terapie per tossicomani”

di Luigi Cancrini - La Nuova Italia Scientifica – 1982

- “L’infanzia del tossicomane” (citato da L. Cancrini nel suo testo)

di C. Olievenstein – Arch. Di Psicologia Neurologia e Psichiatria

- “I meccanismi di difesa”

di Robert B. Wite e Robert M. Gilliland – Astrolabio – 1998

- “Chi è il tossicomane, tossicomanie e personalità”

di Y. Bergeret – Edizione Dedalo – 1992

- “Manuale di counselling in ipnosi costruttivista”

di Marco Chisotti e Giuseppe Vercelli – 2003

- “Istituzioni totali – i meccanismi dell’esclusione e della violenza”

di G. Goffman – Einaudi – 1975

- “Verso un’ecologia della mente”

di Gregory Bateson – Adelphi - 1972

- O.M.S. (Organizz. Mond. Sanità), capitolo sulle dipendenze da alcol e droga

- D.S.M. IV American Psichiatryc Association 1994

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