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PREMESSA
Con il seguente lavoro tento di dimostrare la possibilità di trattare
persone tossicodipendenti inserite in comunità terapeutica con lo strumento
dell’ipnosi, essendo l’ambiente terapeutico comunitario un setting
particolarmente favorevole a questa pratica.
Esistono pregiudizi in tal senso dovuti, credo, a tentativi di dare una
risposta terapeutica alla tossicodipendenza e all’acolismo con trattamenti di
ipnosi e suggestione che si sono spesso dimostrati vani e, in alcuni casi,
controproducenti. Mi riferisco alle terapie ipnotiche avversative al sintomo.
E’ mio desiderio dimostrare che l’uso dell’ipnosi è efficace per affrontare,
alleviare, e spesso risolvere, i traumi vissuti e le sofferenze intrapsichiche che
sono causa o concausa di forme di dipendenza acuta, a maggior ragione nel
caso di pazienti in trattamento nelle comunità e inseriti in un clima terapeutico.
Nei primi capitoli di questo lavoro, riferendomi soprattutto al testo di Luigi
Cancrini “Quei temerari sulle macchine volanti – studio sulle terapie dei
tossicomani”, sosterrò che la tossicodipendenza e l’alcolismo, nella maggior
parte dei casi, sono il sintomo di un disagio interiore; che questi disagi interiori
possono essere di grave o di più lieve entità, e che si possono trattare con
successo mediante lo strumento dell’ipnosi indipendentemente dal sintomo.
Nei successivi capitoli sintetizzerò il concetto di comunità terapeutica;
del clima terapeutico; del gruppo comunitario, e infine riassumerò due casi
trattati presso la comunità terapeutica “La Vernazza” di Alba (CN), iscrizione n.
2734/1996 all’albo enti ausiliari della regione, in attività dall’agosto 1989, con
tre strutture autonome operanti sul territorio piemontese.
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CAPITOLO I: IL CONCETTO DI TOSSICODIPENDENZA
Chi è il tossicodipendente?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo avvalerci di quanto afferma
l’Organizzazione Mondiale della Sanità e del DSM IV per un giudizio obiettivo
sui sintomi, e a L. Cancrini per scoprire e ragionare in merito ad alcune ipotesi
sulle cause che portano una persona alla tossicodipendenza.
Il concetto di dipendenza da una droga viene così indicato dall’
Organizzazione Mondiale della Sanità:
“Uno stato psichico, e qualche volta fisico, risultante dall’integrazione fra un
organismo vivente ed un farmaco, caratterizzato da comportamenti o reazioni
che includono l’uso compulsivo della sostanza, continuo o anche periodico,
dovuto all’esperienza dei suoi effetti psichici e, qualche volta, al malessere
caratterizzato dalla sua assenza”.
Dal punto di vista diagnostico il DSM-IV (American Psichiatryc
Association 1994) evidenzia che il disturbo da dipendenza è piuttosto
complesso.
DSM IV: “Interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative o
ricreative a causa dell’uso della sostanza.
L’uso continuativo della sostanza nonostante la consapevolezza di aver un
problema, persistente o ricorrente, di natura fisica o psicologica,
verosimilmente causato o esacerbato dall’uso della sostanza” (per esempio,
l’uso di cocaina malgrado il riconoscimento di una depressione indotta da
cocaina, oppure il bere malgrado il peggioramento di un’ulcera creatasi a causa
dell’assunzione di alcol).
DSM IV: “Tolleranza definita da:
a) il bisogno di dosi sempre più elevate per raggiungere l’intossicazione o gli
effetti desiderati;
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b) un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuato della stessa quantità
di droga.
Astinenza che si manifesta con:
a) la caratteristica sindrome da astinenza per il mancato uso della specifica
sostanza(*) ;
b) l’assunzione della sostanza per attenuare o evitare i sintomi di astinenza.
Persistente desiderio o tentativo/i infruttuoso/i di sospendere e controllare l’uso
di sostanza.
Assunzione della sostanza in quantità maggiori o in periodi più prolungati
rispetto a quanto previsto dal soggetto.
Grande quantità di tempo spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza,
ad assumerla o a riprendersi dai suoi effetti.
Sempre nel DSM si nota che: “ i maschi sono interessati più comunemente con
un rapporto maschio-femmina mediamente da 4 a 1”.
Da quanto fin qui analizzato, ben si evince quali siano i sintomi della
tossicodipendenza. Per tracciare un profilo per quanto possibile più delineato
del tossicodipendente, e per comprendere i motivi che, presumibilmente,
portano alla tossicodipendenza, L. Cancrini ci propone in ottica psicoanalitica
una classificazione delle forme di tossicodipendenza in ragione della loro
eziologia. Questa classificazione è intesa, dallo stesso Cancrini, come punto di
partenza di un possibile dibattito con i limiti di cui lui stesso fa cenno nel suo
lavoro (pag. 81, Capitolo 4.7).
(*) Ho osservato da testimone diretto che la crisi di astinenza da eroina ha effetti di notevole
disturbo a livello psicofisico. A livello fisico si manifesta in modo graduale e rapido con forti
crampi agli arti inferiori e al ventre, lacrimazione e sudorazione abbondanti, forti disturbi
addominali e renali con frequenti scariche diarroiche, dolori persistenti e generalizzati, insonnia
severa che può perdurare alcuni giorni. I disturbi a livello psicologico, contemporanei a quelli
fisici, consistono in un livello dell’ansia molto alto che influenza ancor di più i malesseri fisici,
portando spesso il p. a un totale smarrimento e a confusione mentale. Fragilità emotiva,
aggressività.
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Semplificando essenzialmente si possono considerare quattro tipi
fondamentali di tossicodipendenza che andrebbero considerati come forme
esemplari, difficilmente definibili nella pratica clinica in maniera precisa e
perfettamente delineata:
1) TOSSICOMANIA TRAUMATICA
Tossicodipendenza inscritta originariamente in una sindrome traumatica acuta
che nel tempo si è cristallizzata nella condotta d’abuso (violenze fisico-sessuali,
abbandono, lutti improvvisi)
2) TOSSICOMANIA SOSTITUTIVA IN NEVROSI ATTUALI
Tossicomania corrispondente a disturbo nevrotico attuale caratterizzato da un
conflitto attivo all’esterno della persona.
3) TOSSICOMANIE DI COPERTURA O DI COMPENSO
Copertura o compenso di un sottostante problema della personalità
preesistente e che assume carattere sociopatico (doppia diagnosi).
4) TOSSICOMANIE NUCLEARI DI OLIEVENSTEIN
Corrispondono a un disturbo borderline descritto come “dello specchio infranto”
da Olivenstein (C.Olievenstein “L’infanzia del tossicomane”).
Ad ognuna di queste forme l’autore riconosce specificità di prognosi e
indicazioni terapeutiche particolari. Delle ultime tre patologie possiamo dire che
l’aspetto individuale assume una grande rilevanza all’interno del sistema
familiare.
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1) Sulle tossicomanie traumatiche afferma Cancrini:
a pag. 51, cap. 2.2:
“Una persona che vive una vita simile a quella di molte altre…se si trova
sottoposta all’azione di un trauma psichico importante (violenze fisiche o
sessuali, morte di uno dei due genitori, loro separazione o divorzio, perdita
materiale e morale di un amico o di una persona comunque significativa, grave
delusione personale sul piano sentimentale, politico, di studio o di lavoro) può
scegliere la tossicomania a breve distanza dal trauma in rapporto evidente con
le difficoltà determinatesi”.
A volte il trauma è meno acuto, ma assume l’aspetto di una condizione
cronica di disagio, per es. nel caso di famiglie in situazione di disadattamento
economico-sociale prolungato.
A pag. 60, cap. 4.4:
“…quando il tossicomane segnala con la sua condotta una condizione di
disagio legata a fattori di ordine sociale e familiare al di là delle sue possibilità
di controllo. Il dato emergente della tossicomania non aiuta né lui né gli altri,
però, a impostare correttamente il problema segnalato in modo così allusivo.”
E ancora, a pag. 52, cap. 4.2:
“Il trauma assume una parte determinante del contenuto del sintomo, la cui
formazione non risente in modo particolare dell’azione di una struttura nevrotica
precedente; il quadro clinico si caratterizza per l’inibizione, più o meno
generalizzata, di tutta l’attività del soggetto, per la sua tendenza ripetitiva ad
assorbire e superare il trauma (rimuginamento e fantasie di annullamento
dell’evento, incubi, disturbi del sonno, ecc)…”.
A proposito delle tossicomanie traumatiche, e di quelle al punto 2,
caratterizzate da un conflitto esterno alla persona, Cancrini rileva che “…due
sono le condizioni necessarie e sufficienti perché qualcuno con tale tipo di
acquisizione diventi tossicomane. La prima è che incontri la droga, la seconda il
suo rapporto di fronte alla trasgressione della legge. Per legge intendiamo tanto
la legge immaginaria quanto la legge reale”.
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Contrariamente alle tossicomanie da copertura o di compenso, e a
quelle nucleari di Olivenstein, Cancrini afferma (pag, 55, cap. 4.3):
“L’evoluzione propria delle tossicomanie che abbiamo definito traumatiche può
essere considerata benigna in una percentuale di casi piuttosto elevata. In una
ricerca sulle guarigioni, svolta per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche,
il numero delle forma traumatiche in un campione di tossicomani guariti era
molto alto; la parte della casistica riferita in particolare ai quasi guariti con un
intervento di tipo individuale era composta quasi esclusivamente da casi di
questo genere”.
Questi tipi di disagi sono ben trattabili con lo strumento dell’ipnosi sia in
modo diretto che indiretto o con l’ipnosi regressiva.
2) Tossicomanie sostitutive di una nevrosi attuale: caratterizzate da
un conflitto attivo all’esterno della persona, si tratta di tossicomanie
“strumentali” che consentono l’omeostasi di un sistema familiare particolare;
per esempio nel caso di triangolazioni del sistema familiare, alleanza cioè del
soggetto tossicomane con uno dei due genitori; oppure quando il
tossicodipendente assume il ruolo “di paziente designato” in una famiglia
multiproblematica che rischierebbe lo sfascio o gravi conflitti.
Possiamo pensare che questo tipo di tossicodipendenza rappresenti un
sintomo inscritto in una sindrome nevrotica, quindi rappresenta una difesa
dall’emergenza di contenuti emotivamente critici (meccanismi di difesa quali
regressione, rivolgimento contro di sé, isolamento d’affetto, negazione,
proiezione, ecc…cfr. “I meccanismi di difesa” di Robert B.White e Robert
M.Gilliland – Casa Editrice Astrolabio, pag, 48, cap. 2).
Anche questo tipo di disturbi è trattabile con l’ipnosi in ambiente protetto
(setting) e con persone capaci di istruire un rapport costruttivo e duraturo. In
questo caso in particolare il bisogno di interventi analitici e strettamente
psicoterapeutici può essere soddisfatto da procedure ipnotiche di rilievo quali
regressioni, ipnoanalisi, analisi immaginativa ..
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3) Tossicomanie di copertura.
Di tutt’ altra complessità e di difficile soluzione sono tanto le
tossicomanie di copertura o di compenso, quanto le tossicomanie nucleari di
Olievenstein.
In merito alle prime, quelle di compenso o di copertura, Cancrini afferma
che “…l’ingresso nella tossicomania è legato alla possibilità, appresa dal
soggetto, di controllare con l’aiuto della droga i sintomi e le conseguenze,
personali o sociali, di una malattia psichica preesistente” (pag. 54, cap. 4.2).
In una comunità terapeutica, infatti, cessato l’uso di sostanze
stupefacenti e di metadone, utile per alleviare le crisi di astinenza, dopo breve
tempo questi soggetti spesso evidenziano gravi disturbi della personalità, tali
da non poter essere trattati con strumenti classici in uso in queste strutture, ma
necessitano di trattamenti farmacologici mirati, che questo tipo di comunità
terapeutica non è titolata a somministrare. La scelta d’obbligo è quella di
indirizzare questi pazienti a strutture adeguate, a meno che tali disturbi non si
presentino in maniera lieve e in una certa misura compensati, come nel caso di
Al, di cui parlerò più avanti.
4) Un quarto ed ultimo tipo di ingresso nella tossicomania è proprio della personalità descritta da Olievenstein. Le motivazioni che stanno alla
base di questo genere di tossicomania sono da ricercarsi in un periodo
localizzato tra i sei e i diciotto mesi di vita del soggetto. In estrema sintesi la
teoria di Olievenstein ci rimanda alla cosiddetta “fase dello specchio” (pag. 33,
cap. 3.3).
“In un periodo localizzato fra i sei e i diciotto mesi di vita, il bambino si
scopre altro, in uno specchio reale o simbolico, mettendosi nella condizione di
superare l’esperienza della fusione con la propria madre: immerso ancora in
uno stato di impotenza e di incoordinazione motoria, egli anticipa con
l’immaginazione la padronanza della propria unità corporea…Un’esperienza
che si pone in riferimento al passato del bambino, in termini di esperienza
anticipatoria, caratterizzata dal giubilo con cui viene accolta e
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dall’atteggiamento ludico con cui viene controllata; un’esperienza che si pone in
rapporto al futuro come fase costitutiva del suo Io ideale o come origine delle
sue identificazioni secondarie. Momento cruciale e obbligato dello sviluppo, la
fase dello specchio introduce un elemento di novità qualitativa
nell’organizzazione personale del bambino. Come accade in tutte le mutazioni
rapide e globali, assume su di sé tutti i rischi della fasi che la preparano e
definisce un momento di eccezionale vulnerabilità, esposta alla pressione di un
numero indefinito di fattori, in grado di provocarne lo slittamento.”
Proprio il riferimento alla delicatezza di questa fase costituisce il punto
cruciale della teoria di Olievenstein sull’origine psicologica delle tossicomanie.
Se la psicosi affonda le sue radici nell’impossibilità di realizzare la fase
dello specchio e nell’impossibilità, immediatamente collegata alla precedente di
superare liquidandolo lo stato fusionale, la tossicomania dipende dal verificarsi
di un qualcosa di “intermedio tra uno stadio dello specchio riuscito e uno stadio
dello specchio impossibile”. Un qualcosa di intermedio che si caratterizza per la
quasi contemporaneità del suo verificarsi e del suo fallire, nella misura in cui
l’azione dei fattori di disturbo non è tale da impedire che il confronto del
bambino con la propria immagine avvenga, ed è tuttavia tale da produrre il suo
slittamento e la sua cattiva riuscita.
Proprio nel momento del passaggio durante cui si sarebbe dovuto
costituire per il bambino un Io diverso da quello fusivo con la madre, “di fronte
allo specchio, nel flash della scoperta del sé, dell’immagine di sé”, ci si trova
infatti, di fronte all’esperienza (o alla visione) di uno specchio infranto: “uno
specchio che rinvia sì un’immagine, ma un’immagine frammentaria, incompleta,
carica e deforme di vuoti lasciati dalle assenze dello specchio e violentemente
ricondotta dunque, attraverso di essi, all’esperienza dello stato precedente: la
fusione con la madre, l’indifferenziazione del sé.”
Durante il trattamento in Comunità di questo tipo di disagio,
regolarmente si osserva come tale situazione emotiva interna si accompagna a
una configurazione relazionale caratteristica: relazione simbiotica con la madre,
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relazione distante affettivamente con il padre, relazione conflittuale più o meno
esplicita fra i coniugi.
Spesso archetipi familiari e culturali, contribuiscono a sclerotizzare tale
configurazione (per esempio ruoli familiari “tradizionali” secondo culture
particolari: madre-femmina “nutrice”, “che si sacrifica”, ecc…, padre-maschio
sempre efficiente e adeguato, insensibile e “forte” di fronte al dolore
psicologico, dedito esclusivamente al lavoro, prevalente sulla donna o
dipendente da lei, senza scrupoli morali o di integrità adamantina…).
Non essendo questa la sede per approfondire ulteriormente, mi limito ad
affermare la grande difficoltà di curare con successo questo tipo di
tossicomanie: secondo Olievenstein “è un’impresa difficile ma possibile,
quando e se basata su un insieme coerente di luoghi e di persone capaci di
lavorare, in modo paziente ed articolato per garantire, attraverso
un’organizzazione flessibile delle risposte, la possibilità di crescere e
l’indipendenza del giovane tossicomane”.
In questo caso possono essere utili suggestioni ipnotiche dirette con
sogno guidato nel rafforzamento dell’Io e nell’integrazione della personalità sia
in sede propria di trattamento, sia successivamente nell’affrontare il
reinserimento sociale.
Infine, secondo J. Bergeret (*) , “la tossicomania può essere considerata
come un aspetto evidente di un problema più generale ovvero quello di
risolvere crisi di adolescenza e di rapporto con la società…”.
E ancora “la tossicomania appare agli occhi dei ricercatori come il
sintomo di un malessere che ci tocca tutti, avremmo cioè un’eccessiva
tendenza a rifiutare coloro che testimoniano, nel modo più doloroso, tale
malessere come se questi ne fossero i soli responsabili e perché
rappresenterebbero anche una parte inaccettabile e male integrata dei nostri
stessi problemi”.
*) Y. Bergeret “Chi è il tossicomane, tossicomanie e personalità” Ed. Dedalo 1992
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In conclusione, ritengo quanto detto finora sufficiente a definire la
tossicodipendenza come il sintomo di un disagio; e che, almeno i casi di
tossicomanie da trauma e di difesa nevrotica siano certamente trattabili con lo
strumento dell’ipnosi.
Lo stesso dicasi per le tossicomanie nucleari di Olievenstein, trattabili
con i metodi ipnotici suddetti, seppur con la necessaria cautela e sensibilità da
parte dell’ipnotista, a differenza delle tossicomanie da copertura o compenso
che ritengo azzardato trattare con questo strumento, a causa il rischio di
ulteriore dissociazione della personalità.
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CAPITOLO II:
IPNOSI: ALCUNE CONDIZIONI PER L’APPLICAZIONE
DIFFICOLTA’ DI OPERARE CON TOSSICODIPENDENTI IN FASE “ATTIVA”
POSSIBILITA’ DI INTERVENTO SUCCESSIVO
L’ipnosi costruttivista(*) suggerisce l’applicazione dell’acronimo SE
MOLTA FEDE quale condizione ottimale per stabilire una induzione ipnotica.
L’acronimo suddetto si sviluppa nella sua interezza con i seguenti
concetti: Sincronismo Emotivo; MOnoidea; Limitazione del campo di
consapevolezza; Trance; Attivazione potenziale mentale; FEnomenologia;
DEtrance.
Questi ordinati passaggi sono possibili, qualora l’ipnotista sia
sufficientemente abile, sia verso persone che non abbiano coscientemente
accettato di sottoporsi a pratica ipnotica, sia verso persone che abbiano scelto
coscientemente di sottoporsi all’induzione che viene loro proposta.
Il sincronismo fra le due persone è comunque alla base dell’ipnosi (*);
entrare in completa sincronia con l’altro, ricalcare e guidare verso una
monoidea, sono i presupposti senza i quali non è possibile iniziare alcuna
induzione, soprattutto se questa ha un obiettivo terapeutico.
Particolarmente difficile diventa stabilire un sincronismo emotivo (anche
per un tempo medio-breve) e guidare verso una monoidea soggetti
tossicodipendenti in fase “attiva”, anche qualora costoro volessero sottoporsi
volontariamente a induzione ipnotica.
Sono arrivato a convincermi, alla fine di varie esperienze, che ciò
avvenga perché la mente della persona tossicodipendente si trova in un
(*) “Manuale di Counselling in ipnosi costruttivista” di Marco Chisotti e Giuseppe Vercelli, anno
2003
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continuo stato di tensione emotiva dovuta all’idea fissa della sostanza, essendo
questa divenuta in breve tempo la monoidea dominante che la accompagna
ovunque con grande dispendio di energie, pensieri, umori...
La ricerca continua di sostanza, oppure delle risorse per l’acquisto, il
timore di imminenti crisi di astinenza, i continui problemi relazionali o di mera
sopravvivenza impediscono alla persona di “distrarsi” per un tempo sufficiente
a creare il sincronismo emotivo necessario; quando anche ciò accadesse, resta
il grave problema di scalzare dalla mente dell’interessato l’idea fissa della
sostanza, che presto diventa il VALORE ASSOLUTO per individui in questa
situazione, “valore” a causa del quale, il più delle volte, sono pronti a ingannare
e “tradire” anche le persone più care.
L’uso di tecniche ipnotiche e di induzioni suggestive può invece essere
adeguatamente impiegato qualora il soggetto sia in stato di disintossicazione –
anche temporaneo – dovuto all’uso di solo metadone, o sia stato forzatamente
impedito al consumo per un tempo ragionevole dall’intervento di agenti esterni
(carcere – ospedale – famiglia).
Queste ultime sono le condizioni in cui, di norma, la persona
tossicodipendente chiede di entrare in comunità e accetta di aderire ad un
contratto terapeutico. Trascorsi alcuni mesi dall’ingresso nell’ambiente
comunitario, create relazioni significative con gli operatori e i compagni, inserito
in un contesto di vita “normale” con cicli regolari di sonno/veglia e pasti regolari,
l’utente solitamente accetta volentieri di aderire alle proposte dell’educatore che
lo accompagna nel percorso di recupero, a cui si affida senza riserve.
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CAPITOLO III:
IL CONCETTO DI ISTITUZIONE TOTALE
Al fine di definire, se pur nelle sue linee essenziali, che cos’è la comunità
terapeutica, mi sembra opportuno analizzare le differenze sostanziali che si
possono osservare rispetto quelle organizzazioni che E. Goffman definisce
“istituzioni totali” (E. Goffman “Asylum.Le istituzioni totali: i meccanismi
dell’esclusione e della violenza” – Einaudi).
Con il termine istituzione totale Goffman si riferisce a organizzazioni
quali: caserme, riformatori, alcuni ospedali psichiatrici, carceri, alcuni conventi,
per finire con i campi di concentramento.
Le suddette organizzazioni si contraddistinguono per quattro punti
principali:
1) interventi standardizzati e non personalizzati;
2) pianificazione degli “internati”. Si sopprime cioè ogni possibile differenza
individuale;
3) sistema di regole volte a spezzare ogni autonomia e ogni affermazione
individuale;
4) formazione netta e ben distinta di due grandi gruppi così suddivisi:
a) internati; b) staff.
“Il secondo gruppo ha come compito il controllo del primo. Il primo
gruppo è in continuo tentativo di ritagliarsi momenti di autonomia
individuale…Un’istituzione totale, per essere tale, non ha la necessità di
condividere tutti i quattro punti…” (Goffman).
Una delle principali conseguenze di queste “macchine burocratiche”
viene ad essere la formazione di gruppi contrapposti: quello degli internati da
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un lato, quello dello staff dall’altro, la cui funzione è quella di controllare il primo
gruppo con un rigido sistema di punizioni e, non sempre, di premi.
Si tratta il più delle volte di istituzioni largamente fine a se stesse; la loro
azione, o finalità, non rimanda veramente a obiettivi ulteriori che ne
trascendano, al di là delle dichiarazioni ideali che talvolta si sentono. Per
esempio il carcere, che dovrebbe rieducare e reinserire, viene usato a tutti gli
effetti come contenimento sociale e di repressione.
In queste condizioni l’individuo tende a perdere rapidamente il controllo
sulla propria esistenza individuale e sul proprio mondo, sviluppa una forte
dipendenza psicologica unita ad un rifiuto razionale dell’istituzione e delle figure
che la rappresentano, e difficilmente potrà arrivare alla crescita di una
personalità autonoma e originale.
La comunità terapeutica non è nulla di tutto ciò. Nei capitoli successivi
tenterò di dimostrare questa tesi.
BREVI CENNI LEGISLATIVI
Passaggio da un’istituzione totale alla comunità terapeutica
Il Codice Penale italiano attualmente punisce con la pena del carcere sia
chi spaccia sostanze stupefacenti per soddisfare il proprio bisogno, sia chi, per
procurarsi il denaro necessario all’acquisto, commette reati contro il patrimonio
(furti, spaccio, scippi, piccole rapine, ecc…).
L’art. 47 bis della legge 309/90 sugli stupefacenti permette a questi
soggetti, in carcere per reati attinenti all’uso di sostanze con pene fino a quattro
anni, di accedere, tramite richiesta al Servizio pubblico, ad una comunità
terapeutica, purchè questa sia riconosciuta quale Ente ausiliario della regione
di appartenenza, allo scopo di svolgere una terapia di recupero.
Permette così di passare dall’istituzione totale del carcere ad un
ambiente terapeutico proprio di una comunità di recupero.
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CAPITOLO IV:
LA COMUNITA’ TERAPEUTICA E’ SETTING TERAPEUTICO
Oggetto di questo capitolo è la definizione del concetto di comunità
terapeutica residenziale per tossicodipendenti e in particolare dell’ ambiente
terapeutico (setting) che “naturalmente” viene a crearsi in seguito a particolari
condizioni di base che verranno esposte in sintesi.
Lo scopo primario di una comunità terapeutica per tossicodipendenti è
certamente quello di consentire ai suoi ospiti di rielaborare traumi e sofferenze
presenti da tempo, di sviluppare individualità autonome e originali, e di favorire
in ultimo il reinserimento sociale di persone rinnovate e autonome.
Va osservato, per altro, che non tutte le strutture che operano in questo
campo possono definirsi terapeutiche essendo alcune più simili ad istituzioni
totali, altre a proposte alternative di vita, altre ancora a comunità protette di
convivenza e di lavoro. (Cancrini, pag 171, cap. 9.3)
Considerando il concetto di tossicodipendenza esposto nel primo
capitolo, si deduce che la soluzione di problematiche interne e l’ integrazione
matura della personalità degli ospiti necessitano di interventi con metodologie
efficaci e sofisticate, di continue attenzioni, di un ambiente allo stesso tempo
materno e paterno con personale capace di usare strumenti idonei e originali;
perché non ci si limiti alla semplice astensione della sostanza, ma si arrivi a
comprendere i disagi di fondo che muovono alla tossicodipendenza e,
possibilmente, a risolverli.
Partiamo dal presupposto che l’assunzione di sostanze si sovrapponga a
un iter evolutivo caratterizzato da disadattamento e sofferenza, e che l’utilizzo
di tali sostanze abbia spesso una funzione “ansiolitica”, “anestetica” o di fuga
nei confronti del dolore intrapsichico esperito dal tossicodipendente, e sortisce
l’ effetto ingannevole e di breve durata, di ricomporre la frammentazione della
personalità dello stesso.
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L’ istaurarsi della tossicodipendenza in un percorso evolutivo già
instabile di per di sé, ha come ulteriore implicazione la compromissione dello
stesso percorso.
Si spiega, in questo senso, perché il tossicodipendente è considerato
nelle migliori delle ipostesi come un adolescente, indipendentemente dalla sua
età biografica.
Il compito che la persona tossicodipendente deve affrontare, quando decide
di intraprendere un qualsivoglia percorso che lo liberi dalla dipendenza,
consiste in tre punti fondamentali:
1) individuare e risolvere gli elementi psicopatologici della propria personalità
che possono considerarsi causa, o concausa della propria tossicodipendenza;
2) completare un percorso evolutivo interrotto;
3) dotarsi di strumenti adatti ad una sana integrazione sociale.
Poiché, a causa del proprio comportamento amorale, manipolatorio, e
spesso violento nelle parole e nell’ agito, il tossicodipendente viene allontanato
frequentemente sia dalla famiglia d’ origine, sia da persone “sane”, egli si trova
ai margini della società, a vivere di espedienti, con il principale obiettivo di
procurarsi la sostanza in dosi sempre maggiori (DSM IV, punto b), e il più delle
volte finisce in carcere per reati attinenti all’ uso della droga, come ci informa la
cronaca di tutti i giorni.
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La comunità terapeutica risponde a necessità sociali e individuali
Diventa evidente, considerando quanto suddetto, la necessità
dell’esistenza di strutture specializzate alla cura, alla riabilitazione e al
reinserimento sociale delle persone tossicodipendenti che, a un certo punto
della loro esistenza, vogliono cambiare stile di vita.
Spesso queste persone non “reggono più” ai ritmi incessanti dei loro
malesseri e dei bisogni che si sono creati o, semplicemente, desiderano trovare
una sistemazione migliore al carcere.
E’ dunque la necessità di complessi residenziali, di strutture che siano in
grado di produrre interventi riabilitativi che non siano ispirati a immagini
stereotipate della tossicodipendenza, quanto all’attuazione di programmi e
metodologie di intervento proprie al trattamento delle singole problematiche sia
sul piano teorico che operativo.
E’ altrettanto necessario che la presenza degli operatori (educatori,
psicologi, assistenti sociali, ecc…) in queste strutture sia motivata sul piano
della loro professionalità ed equilibrio psichico.
Due sono le principali dimensioni su cui verte l’intervento in comunità
terapeutica e su cui si centra il funzionamento della stessa:
a) la dimensione individuale
b) la dimensione sociale.
Questo perché l’ospite va considerato nelle sue coordinate cognitive,
comportamentali, emotive, ma anche in relazione al contesto sociale in cui
agisce (la comunità), preludio di quel contesto più vasto in cui verrà inserito e di
cui sarà membro partecipe ed attivo: la società.
Bisogna dire che stiamo effettuando una semplificazione un po’
artificiosa di una struttura la cui complessità non si esaurisce in questi due poli,
tuttavia questo modo di procedere si rivela utile in quanto permette di
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individuare i principali processi su cui la comunità terapeutica si basa al fine di
raggiungere il suo scopo.
Bisogna tenere presente che le coordinate individuali e sociali, sia
durante la terapia che nel reinserimento sociale, sono interconnesse ponendosi
in costante rapporto di fusione.
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L’ambiente terapeutico, ovvero il setting terapeutico
Programmare e definire con cura il setting in una comunità terapeutica è
di estrema importanza. Nell’assicurare le condizioni fondamentali di setting
terapeutico, bisogna tenere in conto le esigenze di un trattamento il cui fine
esplicito ed implicito è accompagnare le persone ad un cambiamento evolutivo
portandole da uno stato di dipendenza e di non autosufficienza a uno stato di
autonomia e di responsabilità personale e sociale.
E’ essenziale soprattutto far certi gli utenti circa la coerenza tra il fine
dichiarato esplicitamente e il fine implicito, pena la perdita di credibilità
dell’istituzione da parte degli utenti stessi.
Il setting dell’ambiente terapeutico consta di cinque punti principali (*):
1) lo spazio strutturale, 2) il tempo, 3) il sistema delle regole, 4) il gruppo comunitario, 5) la presenza continua degli operatori fra gli ospiti.
A seguire illustrerò, in modo sintetico ed essenziale, il setting della
comunità terapeutica “La Vernazza” (già citata), dove opero.
1) Lo spazio dove avviene in trattamento è una casa in collina, posta su
due piani di circa cinquecento metri quadrati l’uno, i cui confini vengono
definiti, oltre che dalla struttura in muratura, da un grande cortile e da vari spazi
all’aperto utilizzati per attività lavorative non specialistiche. La casa può
ospitare fino a trenta persone. I “confini all’aperto” sono più simbolici che fisici,
in quanto non sono marcati né da mura, né da altro segnale esplicito.
*) La definizione e la distinzione netta fra “setting” e “rapport” in questo contesto è molto
complessa, densa di implicazioni ed intrecci. Mi limiterò a definire un quadro essenziale e
sommario finalizzato unicamente a darne un’idea di massima il più precisa possibile.
20
Tuttavia il cuore della comunità è certamente la casa che contribuisce a
creare uno spazio protettivo e contenitivo, che consente all’ospite di isolarsi
dalle preoccupazioni dell’ordinario quotidiano, in cui è possibile di riflettere
anche in silenzio, sperimentarsi e dove può permettersi anche il “lusso” di
sbagliare.
Lo spazio è anche l’ambito in cui l’ “ombra” della persona può e deve
simbolicamente manifestarsi, dove l’ospite rimane protetto dalla distruttività dei
suoi vissuti alienati e alienanti, dalla violenza che avverte in sé.
Per non dilungarmi oltre, posso dire che lo spazio all’interno della casa è
suddiviso in modo tale da favorire il vivere in comune (refettorio, sale riunioni
polivalenti, laboratori, camere da letto di medie dimensioni) nel rispetto della
privacy di ognuno; sono compresi i luoghi dove si svolgono i colloqui con lo
staff, questi ultimi, nello specifico, arredati in modo essenziale e pratico.
2) Il tempo. Il processo di maturazione e di crescita degli ospiti si declina
nel tempo già dall’inizio del loro percorso, attraverso cicli regolari di sonno e di
veglia, l’orario in cui consumare i pasti, gli orari lavorativi, gli incontri
programmati per i colloqui con lo staff, ecc…
Questa scansione temporale riporta gli ospiti tossicodipendenti a dei cicli
di vita regolari spesso “dimenticati” e, soprattutto, al progresso temporale del
percorso terapeutico nel suo complesso. Il periodo in comunità viene
punteggiato da fasi terapeutiche precise, conseguenti la maturità raggiunta
dall’ospite.
Gli obiettivi terapeutici (per esempio, la capacità di mettersi in
discussione, l’acquisizione di un senso di responsabilità nuovo verso se stessi,
verso gli altri, la capacità di organizzarsi autonomamente il lavoro, ecc…)
vengono raggiunti progressivamente e i ruoli ricoperti aumentano di importanza
via via che l’ospite procede nella sua maturazione e in relazione alle
responsabilità che si assume e conduce a buon fine nel quotidiano.
21
Simbolicamente e funzionalmente il percorso residenziale ripete e
riproduce il percorso evolutivo della persona, nell’intento pedagogico di fornirgli
quelle esperienze formative che possono essergli mancate nell’infanzia e
nell’adolescenza, o che possono essere state vissute in maniera inadeguata.
Contemporaneamente, sul versante più propriamente psicoterapeutico,
l’ospite viene impegnato nel tentativo di risolvere i meccanismi, gli
atteggiamenti ed i vissuti problematici cristallizzati precedentemente.
3) Le regole. Cancrini, a pag. 181 test. rif., dice circa l’importanza delle
regole in comunità terapeutica: “...sull’importanza decisiva del setting; del
rispetto di un corpo di regole cui la persona che riconosce a qualche livello di
essere in difficoltà, affida il compito di essere guidato alla ricerca di se stesso”.
E’ noto, per altro, che un sistema di regole, esplicite ed implicite, sono il
“collante” di un gruppo che abbia un obiettivo comune e che si forma per il
raggiungimento di quell’ esplicito obiettivo.
In comunità, oltre che un sistema di regole uguale per tutti, utile a una
dignitosa convivenza civile (pulizia, ordine, rispetto dell’altro, degli orari, ecc…),
vige una serie di regole che vengono richieste ad ogni ospite. Prima fra tutte
quella di essere coerente con quanto ha dichiarato all’atto del suo ingresso
circa la volontà di cambiare stile di vita e di affidarsi alla professionalità dello
staff. La comunità richiede all’utente inserito di sottoporsi alle varie attività
pedagogiche e terapeutiche, accettando così, in pratica, di far parte del gruppo
comunitario. Egli deve assicurare da subito la disponibilità a “mettersi in
discussione”, a rinunciare ai consueti atteggiamenti difensivi (con i suoi tempi,
ma lo sforzo deve essere ben percepito sia dai compagni che dallo staff), a
riferire i suoi vissuti nel quotidiano, a imparare a conoscere e “dare un nome”
ai propri sentimenti, a mostrare le proprie debolezze, le proprie difficoltà in
modo il più possibile autentico e genuino.
Condotto così per mano, l’ospite viene introdotto lungo un percorso in
cui, progressivamente, dovrà compiere delle scelte e assumersene le
responsabilità. In ogni caso egli è tenuto a rispettare le disposizioni che riceve
22
dalla comunità fino all’ultimo mandato ricevuto, che comporta lo svincolo
completo dalla terapia e l’inizio di una vita autonoma.
4) Il gruppo comunitario.
Condizioni per l’ingresso in comunità:
L’ingresso in comunità terapeutica (1) avviene dopo specifica e chiara richiesta
da parte della persona tossicodipendente, e dopo il nulla osta da parte del
SER.T. di competenza territoriale. Il SER.T. è tenuto altresì a fornire ogni
informazione utile in suo possesso rispetto la personalità dell’utente tramite
documentazione riservata; ciò è possibile in quanto la comunità è riconosciuta
ente ausiliario della regione e autorizzata alla raccolta dei dati sensibili
dell’utenza.
Il futuro utente può venire integrato in comunità quando, ricevuto il nulla
osta del SER.T., si è reso disponibile a vari colloqui di conoscenza diretta
durante i quali:
a) deve riconoscere il suo stato di tossicodipendenza e che questa
dipendenza è più forte della sua volontà (2);
b) deve dimostrare di voler risolvere il suo stato di tossicodipendenza;
c) deve conoscere ed accettare in anticipo, o dopo una breve prova,
tutte le regole e lo stile di vita comunitario;
d) deve aver formulato un “contratto”, anche verbale, con il responsabile,
in cui il futuro utente si impegna a utilizzare tutte le sue energie e risorse
per aiutarsi ed aiutare gli educatori che si faranno in parte carico dei suoi
problemi.
(1) Per quanto riguarda l’ingresso e la permanenza dell’utenza in comunità terapeutica vedi
Cancrini “Quei temerari sulle macchine volanti” cap. 9 e seguenti.
(2) Sul significato cruciale di questo riconoscimento nella terapia per alcolisti e
tossicodipendenti vedi Bateson “Ecologia della mente”, capitolo sull’alcolismo.
23
Nel caso la richiesta venga formulata da persona tossicodipendente
detenuta, per via epistolare, dopo i contatti di routine con il SER.T. di
competenza si stipula su carta un contratto terapeutico molto chiaro (anche
tramite colloqui presso il carcere). In ogni caso l’accettazione del contratto è
condizione primaria all’ingresso.
Il gruppo comunitario è formato da tutti i componenti della comunità, sia
essi ospiti in terapia che educatori. Si può definire gruppo in quanto alla sua
base ha le seguenti caratteristiche:
a) è presente un obiettivo comune;
b) esiste un leader riconosciuto;
c) esiste una batteria di regole condivise stabilite dallo stesso leader;
d) esiste un linguaggio comune;
e) ognuno ha un ruolo ben definito e compiti specifici. Questi compiti sono
distribuiti in base alle competenze per quanto riguarda il personale (educatori,
psicologi, economo, ecc...), mentre l’utenza ha come compito specifico il
rispetto dell’impegno preso, cioè di affrontare e, per quanto possibile, risolvere i
propri problemi di fondo accordando piena fiducia agli operatori, come detto in
precedenza.
5) Il rapporto educatori / utenza. Gli educatori, a turno sempre presenti
nel contesto comunitario, vivono praticamente il loro turno di servizio assieme
all’utenza, partecipano spesso ai lavori materiali del quotidiano, siedono al
tavolo con gli ospiti durante i pasti, alle frequenti riunioni di auto mutuo aiuto
assumono il ruolo di coordinatori e di guida... Gli abiti ed il linguaggio non si
discostano di molto da quelli dell’utenza (di cui l’operatore dovrebbe aspirare a
diventare modello), mentre la capacità di ascolto, di comprensione, di problem
24
solving e l’assenza di giudizio devono investire l’operatore di autorevolezza
piuttosto che di autorità.
Il rapporto che in breve tempo viene così a svilupparsi, è di grande
fiducia da parte dell’utenza verso gli educatori e la comunità in generale; ciò
favorisce notevolmente il successivo rapport nella relazione d’aiuto.
25
CAPITOLO V:
IL LAVORO CON L’UTENZA
L’ambiente comunitario fin qui descritto è favorevole ad interventi con
ipnosi diretti a persone che presentano una grande varietà di problematiche,
come accennavo nel primo capitolo trattando, in estrema sintesi, sulle possibili
cause di una tossicodipendenza. La comunità stessa nella sua interezza
diventa setting ideale.
Molto spesso il percorso di crescita individuale dell’utente viene
rallentato, o reso estremamente arduo da difficoltà soggettive che possono
apparire anche “banali” alla ragione e al raziocinio, ma che per l’utente
diventano pesanti come macigni; solo a titolo di esempio elenco qui a seguire
alcune delle difficoltà soggettive più frequenti:
- difficoltà di apertura in merito ai propri vissuti personali e al confronto
sincero;
- difficoltà di riconoscere in sé ed esplicitare sentimenti “comuni” (sensi di
colpa, di inadeguatezza, invidia, ecc...);
- difficoltà di integrazione nel gruppo comunitario;
- non accettazione di sé a causa di sentimenti di inferiorità e disistima;
- ansia di tratto;
- difficoltà a sottostare alle regole;
- vergogna di sé (questo sentimento è comune in persone che abbiano
subito in età infantile molestie o violenze sessuali);
- eccessiva diffidenza verso l’altro (paura, aggressività);
- difficoltà di riconoscere ed accettare i propri errori nel quotidiano, per
quanto banali, ecc...
Questi, ed altri sentimenti, sono “ordinaria amministrazione” fra l’utenza
comunitaria e, sebbene si trovino frequentemente e regolarmente nella
26
popolazione di ogni agglomerato umano, dall’utenza comunitaria sono vissuti
personali portati all’eccesso, amplificati al punto di impedire, a volte, qualunque
tentativo di riscatto nonostante la volontà dell’utente e gli sforzi degli educatori.
Riporterò, a seguire, un esempio che chiarirà meglio quanto affermo e che
auspico possa rispecchiare le difficoltà che si possono incontrare nelle relazioni
d’aiuto con queste persone. La vicenda che illustrerò mi vede coinvolto
professionalmente in prima persona in tutti i passaggi principali; pertanto mi
troverò a svilupparla con un certo coinvolgimento professionale e umano.
AL, 28 anni, in carcere da tre mesi per aver rapinato una farmacia
armato di siringa, scrive alla comunità una lettera in cui chiede in modo diretto
di essere accolto per ricevere aiuto a risolvere il problema della sua
tossicodipendenza. Questa prima lettera, piuttosto superficiale, non dice molto
della sua personalità. Anche le informazioni del SER.T. non ci forniscono molti
particolari sulla storia del ragazzo, che viene definito “chiuso, asociale, dotato
di scarsi strumenti intellettivi”. Gli operatori del SER.T. si dichiarano sorpresi
dalla richiesta, ma concedono comunque il nulla osta per l’ingresso. Io stesso
rispondo ad Al, chiedendogli di essere più preciso circa i suoi vissuti,
specificando molto chiaramente quali siano le condizioni per essere accolto in
comunità.
Inizia così uno scambio di lettere settimanale, in cui la richiesta da parte
di Al diviene via via più pressante; rispondo ponendo domande tese ad
approfondire la conoscenza; Al, di rimando, si dice “disperato” e “pronto a
qualsiasi sacrificio” pur di risolvere i suoi problemi di tossicodipendenza e di
carcere. Alla quarta lettera dichiara di aver subito “violenza sessuale” all’età di
dieci/undici anni da parte di un parente: “dopo questa esperienza tutto è
cambiato”, scrive.
Nelle lettere successive scrive che il padre ha abbandonato la famiglia
quando Al è in tenera età; emerge un rapporto particolarmente intenso di
amore-odio verso la madre, che convive da vari anni con un uomo semplice,
operaio Fiat “a volte buono, ma sempre molto severo” per il quale Al prova, a
27
suo dire, “solo del nervoso ogni volta che mi parla anche se non mi ha mai
picchiato” e che “mi ha sbattuto fuori casa perché mi drogavo”. Al ha una
sorella minore di un anno che, appena maggiorenne, si è allontanata da casa e
da allora non ha più dato notizie di sé se non di rado.
Dopo circa due mesi di fitta corrispondenza, le lettere assumono toni
sempre più drammatici: Al scrive di essere al limite della resistenza, di sentirsi
oppresso dall’ambiente carcerario, disgustato dai discorsi sempre uguali ai
quali non partecipa, di pensare talvolta al suicidio. In allegato all’ultima lettera,
invia il contratto terapeutico da lui firmato contente la dichiarazione d’aver
attentamente letto e condiviso sia le regole che lo stile di vita comunitari.
Solo a questo punto invio al giudice la disponibilità ad accogliere Al
nella nostra struttura e, dopo una settimana, il ragazzo arriva in comunità
accompagnato dalla polizia penitenziaria e rilasciato. Nell’ordine di
scarcerazione, consegnatomi breve manu dai funzionari di polizia, il giudice
impone alla comunità di informarlo circa l’esito dell’inserimento: in caso questo
non andasse a buon fine, l’ordine di scarcerazione verrebbe revocato,
condizione della quale Al viene prontamente informato.
Nelle ore successive, gli viene assegnata, come di consueto, una
camera, tenendo conto delle esperienze di vita del ragazzo a noi note Al viene
presentato all’educatore di riferimento che valutiamo il più adatto e affiancato
ad un gruppo di lavoro formato da ragazzi particolarmente sensibili.
Tutto questo dopo un incontro di conoscenza diretta con me, durante il
quale Al si dichiara contento di essere riuscito ad entrare in comunità e
riconferma la sua volontà ad una piena collaborazione. Al viene inoltre
informato che, trascorse circa due settimane, incontrerà lo psicologo per essere
sottoposto ad una batteria di test sulla personalità (di cui allego una sintesi), ed
egli accetta di buon grado questa proposta, peraltro già preannunciata nel
corso della corrispondenza.
Dopo circa una settimana, ricevo alcune osservazioni da parte degli
educatori, i quali lamentano la marcata tendenza di Al all’isolamento, il suo
assentarsi per ore (chiuso nel bagno, non tanto per scansare i lavori, quanto
28
per evitare il confronto con i pari), il suo non aver “legato” con nessun
compagno, il suo mantenere un totale silenzio anche durante il pranzo (che in
comunità solitamente si svolge in un clima di chiassosa allegria).
L’atteggiamento di auto-isolamento viene confermato dai due compagni di
camera che, inoltre, si lamentano per il disordine e la poca pulizia del ragazzo.
Malgrado l’educatore di riferimento lo avvicini ogni giorno con chiare intenzioni
di supporto e giuda, Al non risponde in modo adeguato, limitandosi a frasi brevi
e chiuse, e senza mai esporre il proprio stato d’animo.
Ritengo opportuno un sollecito colloquio con Al, per cui lo cerco lo
stesso giorno, durante una pausa del lavoro. Lo trovo seduto da solo in un
angolo del grande cortile e, al mio richiamo, mi segue in silenzio fino in ufficio
dove, non appena si siede di fronte a me (senza scrivania frapposta), mi
dichiara, semplicemente, di voler tornare in carcere.
Inizia così un colloquio molto faticoso per entrambi; Al conferma
l’intenzione di voler tornare in carcere e, alla mia richiesta circa le motivazioni
che lo spingono a questa decisione, risponde più e più volte, in modo evasivo,
“non ce la faccio a stare qui, qui è bello ma io non ce la faccio a stare”. Al
termine di un lungo incontro in cui Al mantiene la sua posizione ed io gli illustro
ripetutamente le conseguenze della sua decisione, accetto apparentemente la
sua richiesta, proponendogli però di metterla in atto solo dopo dieci giorni di
meditazione, durante i quali Al sarà sistemato in una camera da solo, dove
consumerà anche i pasti. Unico compito che gli assegno è quello di riscrivermi
le lettere che lui stesso mi ha spedito dal carcere e di riassumere in tre righe,
alla fine di ciascuna, lo stato d’animo con il quale ricorda di aver scritto ogni
singola lettera. Il mio scopo è chiaramente quello di fargli “vivere” le differenze
ambientali tra carcere e comunità in modo emotivo per favorire il processo di
apprendimento, visti vani i miei tentativi di ottenere tale risultato in modo
razionale durante il colloquio.
Al accetta la mia proposta, restando nei giorni successivi nella stanza
assegnatagli e, come da accordi, venendo personalmente ogni mattina a
consegnarmi una lettera riscritta il giorno precedente. Questi incontri quotidiani
29
sono occasione per colloqui brevi ma intensi, e che mi offrono l’opportunità di
notare, in Al, segnali di una certa tranquillità. Nel contempo, mi confronto a
lungo con i colleghi circa il da farsi; in uno di questi confronti con lo psicologo,
azzardo l’ipotesi di sottoporre Al ad ipnosi, pur con una certa prudenza,
considerando anche che, durante i miei brevi colloqui con il ragazzo, ridonda
frequentemente la parola “paura”, pronunciata come negazione, e che,
nonostante i molti problemi, Al non dimostra scompensi dissociatici della
personalità tali da impedire induzioni semplici.
D’accordo con lo psicologo, propongo all’utente in questione di
sottoporsi ai test sulla personalità già preannunciati, ed egli accetta “per
curiosità”, come egli stesso ammette. Gli vengono così somministrati i seguenti
test:
- colloquio clinico;
- test 16 PF;
- test BANATI- FISHER;
- T.I.B.;
- TEST MMPI – 2
- TEST RORSCHACH;
- TEST BLACKY PICTURES.
Riporto, in sintesi, i risultati dei test, omettendo le parti non significative in
questo contesto:
Relazione assessment psicologico
Colloquio clinico con Al
Al colloquio Al. si presenta con un atteggiamento marcatamente chiuso e timoroso.
30
Di fondo appare possedere capacità comunicative nella norma, ma nella
relazione appare pesantemente influenzato da problematiche emotive.
Sia nel resoconto dei primi giorni trascorsi in CT, sia nel riferire delle sue
difficoltà passate, emerge la costante difficoltà ad affrontare la relazione con gli
altri e la conseguente fuga nell’isolamento e nell’alienazione.
Riferisce in proposito di essersi sentito a disagio in mezzo agli altri fin dai
primi anni di vita e di aver perciò iniziato ad avere comportamenti problematici e
distruttivi.
D’altro canto il bisogno di contenimento affettivo e di conferme personali è
cospicuo, e di qui sembrano originare il livello di ansia certamente elevato, la
frustrazione e il disorientamento che il racconto della sua esperienza paiono
evidenziare.
L’immagine percepita sembra testimoniare una grande fragilità del carattere
ed una relazione irrisolta con la figura materna.
In ciò, evidentemente, devono aver giocato una parte notevole il non disporre
di una figura di identificazione positiva e stabile nel ruolo paterno e, in certa
misura, anche le difficoltà economiche della famiglia.
La storia della tossicodipendenza denota sia la presenza di elementi
compulsivi nell’uso di sostanze, che compensativi del turbamento emotivo.
Incidentalmente Al. allude a specifiche esperienze traumatiche subite nel
passato, il cui vissuto non sembra essere stato ancora superato.
La coscienza della situazione problematica per certi versi appare buona,
almeno ad un livello superficiale.
Il test 16PF mostra un quadro caratterizzato da alcuni elementi critici.
Dal punto di vista emotivo si segnala una notevole fragilità dell’Io di fronte
all’influenza delle emozioni e la debolezza dell’inibizione istintuale da parte della
coscienza morale.
31
L’ansia, confermata piuttosto elevata, si traduce facilmente in un vissuto
soggettivo caratterizzato da sensazioni di insicurezza, di inferiorità, di indegnità
e propensione al senso di colpa.
Dal punto di vista sociale il Soggetto sembrerebbe incontrare diverse
difficoltà, sia di adattamento che nelle relazioni affettive.
Dal punto di vista più emotivo tali difficoltà, riferite alla debolezza del controllo
istintuale e dell’Io, l’impulsività delle reazioni, l’instabilità dell’umore, la difficoltà
a gestire la frustrazione e la mancanza di spirito di sacrificio e di onestà nelle
relazioni, paiono tali da porlo in una situazione di disadattamento sociale e di
alienazione emotiva.
D’altro canto il Soggetto pare porsi con un atteggiamento fortemente
assertivo di fronte agli altri, non sembra molto interessato alla vita in comune e
non emerge il bisogno di riconoscimento sociale.
La performance intellettiva risulta al test piuttosto scarsa.
Il test Banati-Fisher dimostra buone capacità di adattamento cognitivo ai
limiti ed ai ruoli sociali.
Nonostante da punto di vista emotivo il soggetto dia segni di conflittualità
interiore, riconosce correttamente la situazione sociale e, di fatto, si dispone
correttamente ed ordinatamente in essa.
Tuttavia il suo atteggiamento appare inibito e rigido, si nota un certo
imbarazzo, sintomo del timore per le emozioni che vengono trattenute.
Il timore e l’imbarazzo emergono nella maniera più visibile nelle situazioni più
informali, in cui il Soggetto si sente meno garantito e vincolato da limiti esterni e
ruoli sociali.
Le risultanze di questo test consentono di meglio precisare il tipo di difficoltà
emotiva riscontrato al 16PF: più di tipo emotivo che inerente le funzioni sociali
di base.
32
Il test di intelligenza breve ha dato un risultato che stima le risorse
intellettive a livello medio basso (stima QIT 89.8/100; stima QIV 88.8/100; stima
QIP 86.1/100).
Tali risultati segnalano la possibilità di una certa inibizione dell’intelligenza a
base emotiva, su una dotazione intellettuale comunque medio- bassa, pur
nell’intervallo di normalità.
Il questionario di personalità MMPI-2 (profilo: 6”849’70-5213/ F”’-/L:K#)
applicato, ha invece offerto un quadro interpretabile in maniera più
problematica.
Le scale di validità segnalano infatti come le risposte siano difficilmente, o
solo in parte, rappresentative della reale situazione del Soggetto.
In ogni caso i dati sembrano in qualche modo confermare alcuni aspetti
rilevati al questionario 16PF.
Tra questi si ritrova il grave disagio nella sfera delle relazioni sociali con un
atteggiamento caratterizzato da asocialità, da comportamenti sociopatici,
pensiero paranoico, grave difficoltà a partecipare della vita in comune e ad
interagire emotivamente.
Oltre a ciò si segnalano problemi nella gestione degli impulsi aggressivi e
delle emozioni, bassa autostima e diversi sintomi di tipo nevrotico e depressivo.
Test di Rorschach
Il ragionamento appare poco preciso, piuttosto labile nel suo corso e poco
aderente ai problemi pratici.
Il soggetto sembra aspirare ad una performance di qualità, tuttavia con
risultati non corrispondenti alle ambizioni. L’attenzione sembra infatti oscillare
fra tentativo di comprendere tutti gli elementi percepiti in un'unica immagine
significativa e il concentrarsi su particolari non centrali per la questione, e
scarsamente significativi.
33
Scarse appaiono le capacità creative e l’originalità della produzione
intellettuale, che rimane spesso convenzionale, banale e molto aderente
all’interpretazione che il Soggetto dà del senso comune socialmente condiviso.
Una componente di rilievo nel determinare i problemi nell’esercizio
intellettuale, ha sicuramente origine emotiva.
L’emotività appare soggetta ad un certo grado di repressione, soprattutto al
sopraggiungere di sollecitazioni originate dal contatto con l’ambiente.
In tali occasioni il Soggetto pare chiudersi e ricadere sotto il forte
condizionamento emotivo che si ripercuote, più o meno implicitamente, sulle
reazioni emotive evidenti nel comportamento.
Di fronte all’aggressività Al. sembra in effetti alquanto disarmato,
costantemente impegnato nel vano tentativo di reprimere la sua rabbia e tenerla
confinata al di fuori del comportamento e dalla coscienza.
Il contatto con l’immagine paterna si direbbe susciti timidezza e vissuti di
paura, mentre quello relativo alla figura della madre sembra maggiormente
investito di aggressività.
Complessivamente il mondo emotivo del Soggetto, per quanto tumultuoso
nelle reazioni rivolte verso l’ambiente, appare piuttosto povero e immaturo.
L’adattamento all’ambiente sociale è senz’altro superficiale e quasi
solamente a livello intellettuale.
Il Soggetto sembra aver acquisito comportamenti sociali limitati
principalmente all’acquisizione dei ruoli e degli atteggiamenti più convenzionali
e stereotipati.
Il test Blacky sembra evidenziare possibili criticità nella relazione simbiotica
primaria.
In essa si avverte la presenza di interferenze da parte di oggetti temuti come
aggressivi.
34
Il processo di separazione-individuazione sembra possibile, ma tale da
suscitare reazioni di paura per la distruttività della rabbia suscitata.
...omissis... Il tentativo di affermazione di sé, come reazione alla paventata
distruzione degli oggetti primari, pare finire per assumere un carattere
aggressivo (impulsività e trasgressività sociale), quindi negativo rispetto alla
possibilità di recuperare gratificazione istintuale al di fuori delle stesse relazioni
primarie.
Tale situazione emotiva, si rende particolarmente evidente nella difficoltà ad
elaborare la situazione edipica. In essa gli oggetti sembrano ancora
intercambiabili e il Soggetto non sembra in grado di istituire con essi una vera
relazione con valore personale.
Il rapporto con il Sé appare fonte di ansia, scaturita dalla difficoltà ad
interpretare il senso della propria identità e dalla preoccupazione per la sua
integrità.
Il modello genitoriale interiorizzato appare di qualità parecchio aggressiva e
tale da suscitare paura. Di fronte a tale aggressività, nella parte più piccola del
Sé, sembra prendere piede un atteggiamento di profonda chiusura relazionale
(autistica) con significato difensivo.
Si evidenzia il profondo senso di insufficienza ed inadeguatezza di fronte alle
aspettative ideali interiorizzate (Sé ideale).
Tale differenza sembra proiettarlo in una posizione debole e svalutata nel
contesto delle relazioni familiari, sostanzialmente colpevole nella sua
identificazione negativa e quindi timoroso della punizione costituita
dall’abbandono emotivo.
Di fronte a tale prospettiva, il Soggetto non sembra in grado di intravedere
possibilità di integrare questi modelli infantili in un modello adulto, appare quindi
disperare e considerare illusorio il desiderio di appagare autonomamente i
propri bisogni emotivi personali (riguardo il Sé, l’autostima, la sicurezza
emotiva, ecc.) e di relazione (affettiva e sociale).
35
Le difese attivate da questo stato di cose sembrano sempre di tipo primitivo,
quali la scissione e la negazione.
CONCLUSIONI
Il quadro che si delinea dall’indagine segnala, senza dubbio, la presenza di
problematiche psicologiche di una certa entità.
In questo senso il grave disagio nella sfera sociale sembra rappresentare un
sintomo di una problematica della personalità più profonda, oltre costituire un
elemento patologico di per sé.
Non si può escludere la possibilità che siano presenti elementi patologici più
gravi dal punto di vista psichiatrico, compensati o mascherati dietro la
consistenza dei sintomi rilevati.
Il tipo di sintomi descritti sono tali da rendere il successo nel trattamento un’
impresa non agevole, né a breve scadenza.
Dal protocollo di Rorschach si trae l’impressione che la percezione
soggettiva della sofferenza e dell’entità della sua situazione problematica possa
costituire un elemento motivazionale positivo, tuttavia questa “speranza” viene
ridimensionata dalla valutazione dei problemi nello sviluppo del pensiero
razionale e della difficoltà a rielaborare emotivamente questi contenuti.
A causa di essi, anzi, potrebbe scaturire un atteggiamento disperante, tale
da deprimere le possibilità di riuscita invece che incentivarle.
Viene inoltre molto ridimensionata la possibilità, discussa nei giorni
precedenti, che un trattamento psicoterapeutico di tipo rielaborativo possa
essere in grado di promuovere un cambiamento reale e profondo nella
personalità.
Si teme di essere alla presenza di una patologia tale da investire molte aree
psicologiche, e tale da evidenziarsi distruttivamente soprattutto a livello sociale
e nel vissuto emotivo.
36
Fra le componenti del quadro, un maggior risalto sembrano aver acquisito i
segni di debolezza costituzionale della personalità, accanto alla notazione di un
certo livello di immaturità psicologica generale (protocollo Blacky pictures).
Nel breve periodo si ritiene necessaria una visita psichiatrica, allo scopo di
precisare meglio il quadro diagnostico, e di valutare la possibilità di stabilizzare
la situazione emotiva anche con rimedi farmacologici.
Nel lungo periodo si evidenzia l’esigenza di personalizzare il più possibile il
trattamento rispetto alle particolari esigenze del Soggetto: in primo luogo per
quanto riguarda il trattamento dei sintomi comportamentali specificatamente
individuati, in second’ordine in considerazione dell’esigenza di un’assistenza
continuativa nel tempo del processo di reinserimento sociale.
I test dimostrano una personalità borderline, con rischi di dissociazione solo
in particolari situazioni.
Rispetto alla classificazione proposta da Cancrini, possiamo considerare
questa tossicodipendenza come di copertura di un disturbo della personalità
(per quanto lieve e in parte compensato).
D’altra parte va tenuto presente il rapporto non risolto con la madre
(specchio infranto), mentre l’eventuale trauma dovuto alle molestie, che risulta
essere successivo, ha certamente aggravato un disturbo preesistente.
Questo caso dimostra chiaramente le difficoltà di inquadrare nettamente
l’eziologia di una dipendenza in una classificazione preordinata, e tuttavia
l’analisi di Cancrini è considerata, dagli specialisti in materia, quella più
affidabile e chiara fra tutti gli altri studi. Chi si occupa di tossicodipendenza
deve tener conto che non si può inquadrare totalmente una personalità in un
quadro preordinato artificialmente, proprio per la singolarità e l’unicità che
caratterizzano ogni essere umano.
La persona in questione rappresenta un caso limite fra quelli trattati in
comunità, nel senso che la maggioranza degli utenti in comunità non ha,
37
fortunatamente, una personalità disturbata su più fronti (seppur non
gravemente) come quella di Al.
Il successivo confronto con lo psicologo/psicoterapeuta conferma la
possibilità di poter usare l’ipnosi alla scopo di favorire l’integrazione nel gruppo
e di far calare lo stato ansioso.
Il periodo di “meditazione” di Al, intanto, è terminato: lo chiamo nel
pomeriggio dell’ultimo giorno e , durante il colloqui, noto che il ragazzo non
esprime più la volontà di voler tornare in carcere. Gli faccio osservare che le
parole ricorrenti da lui usate in calce ad ogni lettera per descrivere i suoi stati
d’animo sono “disperazione”, “rabbia”, “solitudine”. Al ne è pienamente
cosciente e, alla sua domanda “cosa devo fare?”, gli propongo di restare un
mese ancora, durante il quale avrà colloqui con me a giorni alterni e la
compagnia di un ragazzo ogni giorni diverso del quale, al termine della
giornata, Al doveva impegnarsi a scrivere almeno tre qualità positive. Infine gli
propongo alcune sedute di ipnosi, utili a calmare l’ansia e a favorire il processo
di adattamento e integrazione nel gruppo. Al accetta senza esitazioni: ha
sentito parlare dell’ipnosi e si dichiara curioso. Concordiamo una serie minima
di tre sedute e massima di dieci, con i suddetti obiettivi dichiarati in modo
esplicito. Le induzioni, piuttosto semplici, sono dirette inoltre all’integrazione
dell’io; non sono previste, né si svolgeranno, induzioni di tipo rielaborativi.
Il giorno seguente ha luogo la prima seduta, che trascrivo di seguito.
PRIMA SEDUTA
Solitamente conduco le induzioni stando seduto a fianco dell’utente e,
quando lo stesso raggiunge uno stato di rilassamento, gli parlo sfiorandogli la
mano o il braccio. Con Al tengo conto delle molestie subite, quindi gli chiedo di
sedersi di fronte a me, ad una distanza di circa un metro. Comincio a parlare
piano, controllando la cadenza e usando il metodo del ricalco. Gli chiedo di
chiudere gli occhi e di ascoltare il suo respiro, cosa che fa subito, senza
esitazione...
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IPNOTISTA: “...e mentre ascolti il tuo respiro che scende piano, puoi
cominciare a rilassare le spalle, prima la destra... poi la sinistra... poi insieme...
e senti che diventano sempre più pesanti e rilassate... pesanti e rilassate... e
sarà facile per te rilassare anche il braccio destro che poggia sulla tua gamba...
sentirlo sempre più pesante e rilassato... e anche il braccio sinistro può
rilassarsi e diventare sempre più pesante... e puoi sentire il calore della mano...
delle dita... che passa attraverso la stoffa e scalda leggermente la gamba su
cui posa... e sarà facile per te rilassare anche le gambe, fino ai piedi... e sentire
il piede destro all’interno della scarpa, puoi sentire la consistenza della suola
tenendolo perfettamente rilassato... e quando il piede destro è rilassato... puoi
rilassare il piede sinistro, allo stesso modo... completamente rilassato...
E mentre sei così rilassato, puoi immaginare di camminare scalzo su un
prato verde... è il tuo prato verde, è come piace a te... e puoi camminare
piano... e puoi immaginare un’erba morbida e soffice... e quando senti l’erba
morbida sotto i piedi, puoi alzare il dito indice della mano destra, ed io saprò
che sei arrivato, perché ti sto aspettando.”
(Al alza quasi subito il dito come richiesto. Già durante la fase del
rilassamento delle gambe ho osservato alcuni segni generici di una trance
leggera: alcuni movimenti muscolari involontari ed un respiro un po’ alterato.
Ora questi segni diventano più marcati. Ho cura di mantenere una cadenza di
voce adeguata mentre proseguo l’induzione, e di usare termini d’unione:
“come”, “mentre”, “quando”, “via via”, “e”, ecc...)
IPNOTISTA: “...e mentre cammini piano sull’erba, vedi a breve distanza
un gruppo di alberi... ti fai incuriosire dal gruppo di alberi e cammini piano verso
di loro... e via via che ti avvicini puoi vederli meglio... sono tutti alberi simili tra
loro, i cui rami si toccano in vari punti... eppure, a guardarli bene, puoi vedere
che ognuno è diverso dall’altro... anche per piccoli particolari... sembrano tutti
uguali, ma in mezzo a tutti noti un albero... che ti sembra sia un po’ a disagio...
lo guardi meglio e puoi anche immaginare che quest’ albero sia stato
trapiantato da poco in questo posto... e che poco tempo fa era in un
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vivaio...messo in un vaso che era diventato stretto per lui e soffriva un po’... e
così è stato trapiantato all’aperto come lui voleva, in mezzo ad altri alberi... e tu
puoi immaginare che quest’ albero provi adesso un po’ di imbarazzo nello
stare... in mezzo a sconosciuti... anche se questi sembrano contenti della sua
vicinanza... e sembra che tendano i loro rami a lui, come a dargli il benvenuto...
ma lui ha un po’ paura... tiene i suoi rami un po’ distanti... e non si fida... mi sto
chiedendo come mai non si fida...”
AL: “...Ha paura...”
IP.: “Ha paura... Perché ha paura?”
AL: “...Non lo so...”
IP.: “Non lo sai... Pensi che potranno diventare amici?”
AL: “Si... fra un po’... devono conoscersi meglio... ci vuole tempo.”
IP.: “Ci vuole tempo... Ora, Al, puoi sederti tranquillo sotto quest’ albero
e guardare il cielo azzurro... C’è il sole?”
AL: “Si, ma sono all’ombra dell’albero...”
IP.: “Sei all’ombra... e guardi il cielo azzurro... e puoi cominciare a
respirare adagio... adagio e profondamente... respira quest’aria azzurra... che
entra nel tuo petto profondamente... e l’aria che entra porta dentro di te pace e
tranquillità... mentre quella che esce porta via da te l’ansia... e al suo posto
entra la tranquillità... esce l’ansia... e puoi dirmi, ora, di che colore è l’aria che
esce.”
AL: “Rossa...”
IP.: “E’ rossa. E ad ogni respiro entra con l’azzurro la pace e la
tranquillità... sempre più profondamente... mentre è rossa l’aria che esce e si
porta via l’ansia... la paura... l’aggressività... ed ora conto fino a tre e potrai fare
un lungo respiro e far uscire piano tutta la paura... e solo la paura... mentre
l’aria azzurra che entra ti darà una profonda tranquillità...”
(L’osservazione conferma la trance leggera già notata in precedenza. Al
ha il capo leggermente chino in avanti, ciò non impedisce di vedere
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l’espressione distesa di simmetria facciale, e un rilassamento muscolare
generalizzato. Lascio trascorrere cinque / sei minuti in silenzio.)
IP.: “ Ora che ti senti rilassato e sereno... puoi alzarti piano e guardare
l’albero che ti ha protetto dal sole e puoi immaginarlo più forte e sicuro di
prima... la tua presenza l’ha reso più forte e sicuro... e puoi abbracciarlo forte...
abbraccialo forte... e mentre lo abbracci, lo senti respirare... senti il suo respiro
e respiri con lui... con lo stesso ritmo... con la stessa calma... mentre la nuova
forza e la nuova sicurezza dell’albero diventano la tua forza... e la tua
sicurezza... Ora puoi staccarti, e unire il pollice e l’indice della mano destra,
formando con le due dita un anello...”
(Al forma adagio ma prontamente l’anello, come richiesto.)
IP.: “E tu sai che, ogni volta che vorrai tornare in questo stato di
tranquillità e di pace, basterà che tu unisca queste due dita come hai fatto ora,
e tornerai a sentire la stessa tranquillità che provi in questo momento... la
stessa... identica tranquillità che provi ora... Adesso puoi salutare il tuo
albero...”
AL: “Anche lui mi saluta.”
IP.: “...Presto vi rivedrete, l’albero lo sa, tu lo sai; ora, portando con te
tutte le emozioni positive, solo il positivo di questa esperienza, puoi ancora
calpestare l’erba e tornare indietro... portando con te tutto il positivo di questa
esperienza... solo le cose positive... e mentre ti avvicini al punto da cui sei
partito, con i tuoi tempi, senza fretta... puoi tornare piano piano al nostro
presente... al qui e ora... con i tuoi tempi, senza fretta... ricordandoti che sei
rilassato e tranquillo...”
Dopo circa due minuti, Al apre gli occhi. La prima frase che dice è
“pazzesco, è stato bellissimo”. La voce è calma, profonda e bassa; Al sembra
incredulo, mi guarda con stupore, si muove piano piano sulla sedia.
Spontaneamente dice “Mi sono rivisto in quell’albero”. Gli chiedo di tornare a
fare il cerchio con le dita (ancoraggio) tre volte al giorno, e di rimanere raccolto
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per almeno dieci minuti, al mattino appena sveglio, prima di pranzo (per
favorire la socializzazione a tavola) e prima di dormire, per tornare nello stesso
stato di tranquillità emotiva.
La seduta è durata complessivamente trenta minuti.
CONSIDERAZIONI
- La rapidità di Al ad abbandonarsi e ad entrare in trance dimostrano un
grado di fiducia notevole, utile anche a rafforzare il terapeuta
nell’autostima.
- L’immedesimazione emotiva con l’albero.
- Il colore rosso dell’aria espulsa.
Come da accordi, Al è stata affiancato da un compagno ogni giorno
diverso del quale, a fine giornata, egli deve mettere in risalto almeno tre
caratteristiche positive, compito che Al svolge regolarmente. Gli educatori
mi riferiscono che si muove in modo più sciolto tra i suoi compagni, con i
quali, tuttavia, comunica ancora poco.
Due giorni dopo ripetiamo l’esperienza. La prima induzione viene da me
considerata come una prova di fattibilità, mentre, in questa seconda seduta,
è mia intenzione inserire nella metafora degli animali che vivono in gruppo
per fare sì che l’esperienza sia più congrua a quanto Al sta vivendo.
SECONDA SEDUTA
Ripeto la fase di rilassamento completo chiedendo all’utente di “fare
l’anello con le dita” nel momento in cui immagina il prato, ed Al esegue
senza esitare, ma con calma.
IPNOTISTA: “... e quando arrivi sotto l’albero, lo guardi, guardi il tronco,
i rami, la chioma... e mi sto chiedendo se vedi qualcosa di diverso...”
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AL: “... il tronco mi pare un po’ più grosso di prima... e anche le foglie...”
IP.: “Anche le foglie, e fra tutte quelle foglie puoi osservarne molte
rivolte verso il sole, aperte, per poter assorbire meglio la luce...”
AL: “Sono le più belle...”
IP.: “Sono le foglie più belle, aperte al sole, forse così aperte respirano
meglio... sembra quasi che comunichino col sole.”
AL: “... Sì, e brillano di più...”
(Questa breve parte centrata sui vantaggi dell’aprirsi al mondo è una
“semina”. Per possibili future induzioni che affronteranno questo specifico
argomento.)
IP.: “E mentre queste foglie comunicano col sole, tu puoi sederti ancora
sotto l’albero... guardare il cielo azzurro... e cominciare a respirare l’aria
pulita... azzurra che, scendendo profondamente dentro di te, porterà
tranquillità... pace... come sai, mentre l’aria espirata avrà un colore diverso
e porterà fuori di te paure (respiro), aggressività (respiro), ansia (respiro), e
via via che queste negatività escono da te, lasciano il posto una profonda
tranquillità e pace... E mentre succede tutto questo, puoi guardare il
panorama... e se presti attenzione, una buona attenzione... puoi scorgere
sul piano dell’orizzonte un grande punto che pare avvicinarsi sempre più...
non c’è nessun pericolo... e puoi farti incuriosire, via via che questo punto si
avvicina sembra che si allarghi un po’... e puoi immaginarlo formato da tanti
punti simili tra loro che si avvicinano velocemente, come fosse un branco di
cavalli al galoppo... verso un’erba più fresca e tenera... un’erba qui vicino,
un’erba che conosci... e ora sono vicini e puoi vederli meglio... quanti
sono?”
AL: “Circa quindici... forse qualcuno di più... sono arrivati vicini... ora si
sono fermati e mangiano l’erba.”
IP.: “ Mangiano l’erba... sono tranquilli?”
AL: “Sì, non hanno paura di me... mi hanno visto, io sto fermo.”
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IP.: “E mentre tu stai fermo e li guardi, puoi vederne uno in particolare...
e ti sembra più timoroso e impacciato degli altri, se guardi bene puoi
individuarlo... Mi sto chiedendo se riesci a distinguerlo dagli altri... Forse è
un cavallo che è entrato per ultimo nel branco, forse gli altri non lo
conoscono bene.”
AL: “...Sì, lo vedo... ora si è messo in disparte e guarda gli altri cavalli
che mangiano.”
IP.: “Puoi descrivermi questo cavallo?”
AL: “E’ giovane... ha delle ferite vecchie rimarginate male... mi fa
compassione... è marrone come gli altri...”
IP.: “Ha un buon carattere?”
AL: “Sì, è buono, ma ha paura.”
IP.: “Ha paura... Perché ha paura?”
AL: “Ha paura di essere rifiutato...”
IP.: “Essere rifiutato...”
AL: “Si sente brutto... si sente sporco... diverso...”
IP.: “... a ben vedere non è molto diverso dagli altri... si confonde bene
là in mezzo... e se guardi bene vedi che i COMPAGNI lo hanno accolto
bene tra di loro, nessuno vuole fargli del male, neppure giudicarlo... infatti
sono tutti tranquilli che mangiano vicino a lui... hanno galoppato con lui... e
sembra proprio simile a tutti gli altri... e anche lui può mangiare
tranquillamente la stessa erba dei compagni.......”
AL: “Adesso mangia...”
IP.: “Adesso mangia... mi pare tranquillo, secondo te aveva ragione ad
avere paura?”
AL: “E’ una sua paranoia.” (parla nel gergo comunitario)
IP.: “E’ una sua paranoia, forse dovrebbe farsi conoscere meglio, farsi
degli amici... Cosa gli consigli?”
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AL: “...Farsi conoscere... essere meno nervoso... parlare...”
IP.: “...Parlare un po’ di più... di sé, dire quale erba gli piace di più e
quale meno, se gli piace galoppare di più al mattino o alla sera, avvicinarsi,
parlare... al cavallo che gli è più simpatico...”
AL: “Sì.”
IP.: “Potrebbe cominciare a brucare l’erba vicino al cavallo che gli è più
simpatico, e fare qualche commento sull’erba del prato...”
AL: “Sì.........” (Lascio passare circa un minuto)
IP.: “...E mentre loro mangiano tranquilli, e noi li guardiamo pascolare, ci
accorgiamo che il sole non c’è più, e il cielo si fa scuro all’improvviso... e
puoi vedere nuvole grigie e nere che si avvicinano... Ed ecco...
d’improvviso un temporale... un temporale estivo: tuoni, fulmini, pioggia
grossa e fitta, vento... e i cavalli si spaventano un po’, vedi, pare che si
accuccino uno vicino all’altro per proteggersi mentre cade la pioggia... che
dà loro fastidio, però a ben vedere lava il loro manto dal sudore, li rinfresca,
li rende più puliti e lucidi... E mentre tutto questo succede, il cavallo pensa a
come dovrà fare per farsi accettare dal gruppo... capisce che dovrà essere
gentile, non arrabbiarsi se un altro cavallo correndo lo spingerà
inavvertitamente, costruirsi rapporti di amicizia... E via via che pensa tutto
questo, sente il respiro degli altri cavalli, accucciati vicinissimi a lui, e si
rende conto che nessuno si è scostato dalla sua presenza e che le sue
paure possono diventare solo fantasie, se lui lo vuole... che può
spegnerle... restando in mezzo agli altri... e il temporale, così velocemente
com’è arrivato, smette, e mentre il sole rompe le nuvole, il branco si alza,
parte al galoppo e fra nitriti di gioia... di sollievo... sparisce veloce verso
l’orizzonte... Tu sai, sei sicuro che presto li rivedrai.”
AL: “Sì.”
IP.: “Ora puoi alzarti e guardare l’albero... è contento per la pioggia
caduta... lo ha rinfrescato... e puoi abbracciarlo...”
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(L’induzione continua per alcuni minuti e riguarda principalmente
l’aspetto dell’albero, viene poi rinnovato il segnale post ipnotico e si termina
con un’adeguata de trance. Alla fine della seduta, Al dice che quel cavallo
gli ha fatto “molta compassione”, che nel cavallo vede se stesso, e
“cercherò anch’io di essere più gentile e paziente, per farmi degli amici”, mi
dice spontaneamente di usare “l’anello” perché gli dà grandi benefici ogni
volta che si sente nervoso.
La seduta è durata complessivamente quaranta minuti.
CONSIDERAZIONI
- Ancora la velocità dell’entrata in trance.
- L’albero più robusto nel tronco, l’aumento delle foglie.
- Le ferite del cavallo, viste dal soggetto in modo autonomo
- L’intensa immedesimazione emotiva di Al con il cavallo, tale da
comprendere pienamente ogni emozione vissuta dal cavallo
(proiezione).
Da notare che la frase “devo essere meno nervoso” è un’affermazione
che Al usa spesso a proposito di se stesso quando si ripromette di essere
più socievole in comunità.
A queste due induzioni ne seguono altre otto, con il ritmo costante di
due alla settimana a giorni prefissati; in aggiunta bisogna considerare il
lavoro degli educatori sul campo e alla pazienza dei compagni che hanno
permesso ad Al di entrare, già dopo la seconda induzione, nel gruppo di
lavoro dove, pur con fatica, l’utente ha “legato” con diversi compagni se pur
in modo superficiale. In occasione di uno scontro verbale con uno di questi,
dovuto a problemi di lavoro, il contrasto viene rielaborato durante
un’induzione subito successiva. L’incidente, che agli occhi di Al doveva
essere causa di successive ripicche e vendette, è stato sdrammatizzato e
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ridimensionato da lui stesso dopo averlo proiettato sui rapporti tra cavallo e
branco. Anche la semina d’inizio è stata utilizzata successivamente.
Certo i complessi problemi di fondo non sono stati risolti, e peraltro non
era questo l’obiettivo che ci eravamo prefissati; possiamo comunque dire di
aver fatto un buon passo avanti nella relazione d’aiuto, considerata anche
la personalità del soggetto in causa.
UN SECONDO INTERVENTO DI RELAZIONE D’AIUTO PSICOLOGICO
Sono stati effettuati altri interventi ipnotici su diversi utenti,
soprattutto di carattere pedagogico (cura di sé, dell’ambiente, di relazione
interpersonale, di accettazione delle regole).
Il caso che descrivo qui a seguito conferma quanto detto da Cancrini
riguardo, essenzialmente, le due condizioni “necessarie e sufficienti ad una
tossicodipendenza” riportate in questo lavoro a pag. 5: la prima condizione
è che “il soggetto incontri la droga”, la seconda è il suo rapporto con la
trasgressione e la legge (per legge si intende tanto quella immaginaria che
quella reale).
Il percorso di vita dell’utente, che espongo brevemente a seguito,
non presenta dati drammatici come quello precedente; la persona in
questione (R.) è vissuto in una famiglia normale, ben inserita nel tessuto
sociale, ed è verosimile pensare che, se R. non avesse trovato la droga in
quel momento specifico della sua esistenza o se avesse interiorizzato un
concetto di legge più adeguato alla sua persona, avrebbe probabilmente
evitato l’esperienza tossicomanica iniziata presumibilmente come semplice
trasgressione, e arrivata, invece, al punto di governare negativamente
vent’anni della sua esistenza.
R., 39 anni, di cui venti passati all’estero, usa eroina dall’età di 17
anni. Di professione parrucchiere per signora, bravo a suo dire, non
presenta segni evidenti di disturbo della personalità. Nonostante sia di
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carattere introverso, si muove agevolmente tra i compagni in comunità,
comunica, è in buoni rapporti con gran parte di loro e con gli educatori.
Dopo la scuola media, ha seguito un corso di specializzazione per
parrucchiere alla fine del quale si è diplomato. Questo riconoscimento gli ha
permesso di intraprendere il mestiere già tra i 17 e i 18 anni, secondo i suoi
desideri. Si presenta educatamente, sempre in ordine nell’abbigliamento e
nella persona. Sia ai test psicologici cui è stato sottoposto, sia durante i
colloqui terapeutici, l’intelligenza viene percepita nella norma. Gli stessi test
testimoniano un sentimento di inferiorità e di disistima, ma nessun altro
accenno a particolari patologie.
R. è il secondogenito di due figli; ricorda in particolare la debolezza
caratteriale del padre, sempre attento a non urtare la madre, e la severità
della stessa “che quand’ero piccolo e facevo qualcosa che non dovevo,
informava la sera mio padre spingendolo a darmi uno o due schiaffi per
punirmi, e mio padre lo faceva senza chiedermi nulla, probabilmente per
evitare discussioni in famiglia”.
R. esclude categoricamente di aver subito violenze fisiche
prolungate: “ho preso qualche schiaffo di tanto in tanto quando forse lo
meritavo”. Disapprova decisamente l’operato sociale del padre anche
perché “è un buon sarto che poteva diventare qualcuno, aveva molto clienti
e invece, non so perché, è andato a lavorare in fabbrica come operaio, io
non vorrei mai diventare così”.
I genitori, durante i colloqui, non ricordano particolari problemi nella
sua infanzia se non qualche assenza ingiustificata da scuola durante la
terza media, scuola che il ragazzo finisce comunque bene, senza alcuna
difficoltà. Si presentano preoccupati per il futuro di R.: “che non promette
nulla di buono visto come si è sempre comportato a differenza del fratello
che è sempre stato a posto”, dichiara la madre rispetto la quale l’utente
dice solo: “è stressante, mi ha sempre rotto le scatole”.
Duramente i colloqui avuti con me, R. afferma di essersi sempre
sentito l’ultima ruota del carro in famiglia, considerato insufficiente a se
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stesso e sempre perdente agli occhi della madre, rispetto al fratello
maggiore che a suo tempo si diplomò a pieni voti alla scuola alberghiera,
ed ora è proprietario di due bar-ristoranti in Liguria dopo aver guadagnato
molto, lavorando all’estero. Nell’esporre i suoi rapporti in famiglia, R.
esprime spesso la rabbiosa impotenza nei confronti della madre in
occasione delle sue continue svalutazioni nei propri confronti, ma di non
essersi mai apertamente ribellato.
“Incontra” la droga incidentalmente verso i 15 / 16 anni, mentre
frequenta il corso per parrucchiere. Un compagno, che R. ammirava per la
sicurezza che dimostrava di sé, gli offre parte di uno spinello che stava
fumando da solo e lui -che già consumava sigarette di nascosto dalla
famiglia- accetta, gli piace, e nei giorni successivi, in compagnia dell’amico,
ripete l’esperienza per più volte; poi, tramite l’amico, conosce altri
consumatori di cannabis, alcuni dei quali maggiorenni, e con loro, appena
può, si ritrova per fumare ascoltando musica, in automobile o a casa di
qualcuno di loro...
Per procurarsi il denaro utile al consumo, comincia a vendere piccole
dosi di hashish, e con l’amico, in poco tempo, organizza un giro di
compravendita fra i suoi conoscenti, che gli consente di fumare
gratuitamente e in più di avere sempre qualche soldo in tasca; ciò lo
gratifica molto, facendolo sentire “grande” rispetto ai compagni.
La famiglia non si accorge di quanto stia succedendo, malgrado la
madre si lamenti di continuo per i ritardi ai pasti ormai abituali, e
somministri, per questi ritardi, qualche sporadica punizione soprattutto per
mano del padre. R. conduce una vita parallela. Abituato ai rimbrotti
svalutanti della madre, non ci fa più caso. Il padre è assente rispetto alla
sua educazione e non è mai tenuto in considerazione come un possibile
modello. Assente anche i fratello, da anni all’estero per lavoro.
R. finisce il corso per parrucchiere e, all’età di 17 / 18 anni, va a
lavorare come dipendente. Il mestiere lo appassiona e consegna a casa lo
stipendio per intero “tanto non avevo bisogno di quei soldi, me li
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guadagnavo diversamente”. La madre gli trova le sigarette e lui ammette di
fumare, mentre lei ribadisce che il fratello non ha mai fumato e “da ora in
poi ti controllerò meglio”.
R. frequenta sempre più assiduamente l’ambiente del piccolo
spaccio di hashish e, all’interno di questa popolazione, conosce dei
consumatori di eroina con i quali, dopo un po’ di tempo, fa amicizia, accetta
di provare a “tirarla con il naso per curiosità” e, nel tempo di pochi mesi, la
usa ogni fine settimana alternandola agli spinelli. La madre, nel frattempo,
trova nelle sue tasche, che controlla regolarmente, delle cartine e una
modica quantità di hashish; non capendo cosa sia, ma sospettando
qualcosa di negativo, si informa chiedendo ad alcune amiche finchè una di
queste, pratica dell’argomento avendo da tempo un figlio nelle stesse
condizioni, le dà l’informazione giusta.
R. ricorda con un amaro sorriso i giorni successivi... La madre va a
prenderlo fuori dal lavoro per riaccompagnarlo a casa dove R. si isola in
camera sua per non sentirla. Nasce così l’idea di andare dal fratello
all’estero. “Di fatto”, dice R., “i controlli di mia madre erano diventati
opprimenti, raramente riuscivo a frequentare la compagnia di amici”,
mentre la madre non perdeva occasione per definirlo “drogato”.
Dietro sua richiesta, il fratello accetta di aiutarlo; gli trova un lavoro a
Londra, dove si trova, e un bilocale in affitto nei pressi della sua abitazione,
dove R. potrebbe trasferirsi. La madre apparentemente approva questa
possibile partenza come soluzione del problema, pur dicendosi
preoccupata “perché tu non sei come tuo fratello, e chissà cosa
combinerai”. R. riconosce di essere andato all’estero perché avrebbe
potuto fare ciò che voleva senza alcun rigido controllo, e anche per sfuggire
ai continui rimbrotti della madre.
A Londra R., con l’aiuto del fratello, si ambienta presto e bene, sul
lavoro viene riconosciuto positivamente e frequenta assiduamente corsi
serali di lingua inglese. Non usa nessun tipo di sostanza “anche perché non
sapevo dove comprarla e poi non avevo il tempo di cercarla, non ci
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pensavo”. Dopo circa sei mesi il fratello torna in Italia definitivamente per
aprire un bar-ristorante. R., tramite il lavoro, conosce una donna più grande
di lui in età e ci va a convivere. Scopre quasi subito che questa signora usa
cocaina per via nasale, la prova e continua a usarla con lei. Accompagna la
donna più volte a comprarla, entrando così “nel giro”.
R. rimane all’estro circa vent’anni usando ogni tipo di droga
conosciuta; impara perfettamente la lingua, cambia innumerevoli posti di
lavoro e convive con varie donne, tutte tossicodipendenti, con le quali ha
storie di estremo degrado sia morale che fisico; spinge all’aborto più volte
le sue compagne, talvolta diventa violento finchè viene arrestato e
rimpatriato forzatamente dalla polizia.
Torna a casa della madre e, dopo neppure un mese, chiede di
entrare in comunità.
Le motivazioni all’ingresso: chiudere definitivamente con la vita
passata; avere più sicurezza per il futuro; interrompere i rapporti con la
famiglia di origine e ricominciare tutto da capo.
Il percorso terapeutico procede a fasi alterne, dovute principalmente
a una certa insicurezza e alla poca stima di se stesso che gli rende difficile
prendersi delle responsabilità e, quando lo fa, il timore di sbagliare (e di
essere quindi ripreso in modo svalutante) lo rende maniacalmente
perfezionista e intollerante verso chi collabora con lui. Ricorre spesso alla
negazione, alla proiezione e allo scherzo quando deve giustificare un errore
commesso per quanto banale.
Dietro sua richiesta viene inserito nel gruppo di psicodramma con lo
scopo dichiarato di elaborare il rapporto con i genitori e con la
trasgressione. Poiché durante i gruppi di autoaiuto gli viene più volte
ripetuto dagli stessi compagni di fare qualcosa di più per accettarsi e
accettare di poter sbagliare senza squalificarsi troppo, mi chiede di poter
essere aiutato, si dice disposto a sostenere alcune induzioni ipnotiche per
affrontare il problema dell’accettazione di sé e di disistima. R. insiste,
nonostante gli faccia presente che di norma i problemi di disistima hanno
51
origini lontane, e che non sono sicuro sia opportuno affrontarli in quel
momento con sedute rielaborative, considerando la sua attiva
partecipazione alle sedute di psicodramma settimanali.
Dopo un confronto con lo psicologo, propongo a R. di fare alcune
sedute centrate sui sintomi. Evito di riportare il resoconto di tali sedute per
non appesantire questo lavoro, riassumendole qui di seguito nei loro tratti
essenziali.
La prima induzione viene condotta nel tardo pomeriggio e
concentrata sull’accettazione di sé. Poiché esiste da tempo un buon
rapporto terapeutico con il soggetto, basta un breve colloquio per stabilire
la sincronia necessaria all’induzione, e posso sedermi al suo fianco per
iniziarla.
R. chiude gli occhi alla mia richiesta e già nella fase del rilassamento
entra in una trance leggera. In seguito uso la metafora del diamante
visualizzato attentamente alla luce del sole. Esso appare bellissimo a
causa di particolari riflessi multicolori di luce. Queste particolarità sono
dovute ad alcuni piccoli difetti che, osservati al microscopio uno ad uno,
appaiono all’occhio enormi e brutti ma nell’insieme sono quelli che danno
carattere e quella luce particolare che rendono la pietra unica al mondo,
irripetibile proprio per la luce da loro riflessa.
Segue un’adeguata de trance. Il tempo complessivo della seduta è di
trenta minuti circa. R. si dice meravigliato e soddisfatto.
La seconda induzione, avvenuta dopo una settimana alla
precedente, ha lo scopo di rinforzare l’autostima e portare alla coscienza
possibili risorse interiori. Dopo il rilassamento iniziale, viene fatto
visualizzare il mare calmo di una calda giornata estiva; in questo mare R. si
immerge con muta e attrezzatura subacquea, e decide di nuotare fino ad
una boa da sub che vede in lontananza (alcuni giorni prima R. mi aveva
detto di essere un buon nuotatore). Arrivato alla boa, vede che la corda che
la tiene ancorata al fondo ha dei nodi equidistanti tra loro; dietro mio
suggerimento, discende facendo scorrere la corda tra le mani, arrivando a
52
contare piano dieci nodi (è la mia voce che conta per lui). Questo gli
permette di entrare in una trance più profonda via via che supera tutti i
nodi... Alla fine della corda, chiedo ad R. di cercare una grotta tra le rocce
in fondo al mare... “Troverai un cofanetto che contiene un tesoro... il tuo
tesoro...”. Dopo una breve ricerca, R. trova la grotta e all’interno di essa
rinviene un cofanetto che apre con una certa difficoltà anche con l’aiuto di
un coltello, dietro mio suggerimento. All’interno trova una grande perla che
“... quando la prendo fra le mani pare respirare meglio... come fosse stata
liberata... è una perla grossa e molto bella...”. Dico a R. che la perla è di
sua proprietà: l’ha trovata lui, può portarsela a riva e tenerla fra i suoi
oggetti più preziosi...
Segue la de trance. Il tempo complessivo della seduta è di 45 minuti.
A queste due induzioni, ne segue una terza di “connessione” di tutti i dati e
di rinforzo.
Non posso affermare con certezza quanto queste sedute possano
aver aiutato R. nelle settimane successive, anche perché, come dicevo
dianzi, il soggetto è molto attivo e partecipe durante le sedute settimanali di
psicodramma: per questo motivo risulta difficile definire l’efficacia di ogni
singolo intervento; certo la sinergia di tutti questi elementi ha dato a R. una
maggior sicurezza di sé, riscontrabile e riscontrata nel quotidiano dagli
stessi compagni che lo affiancano e confermata dagli educatori.
L’origine di questa tossicodipendenza, volendo proprio darle una
classificazione, potremmo collocarla nella seconda ipotesi descritta da
Cancrini “Tossicomanie sostitutive di una nevrosi attuale caratterizzate da
un conflitto esterno alla persona”. Contrariamente al caso precedentemente
descritto, non tocca minimamente le altre tre ipotesi descritte.
Non mi pare opportuno invocare come causa assoluta di questa
tossicodipendenza il rapporto con i genitori, quanto il suo rapporto con la
legge e la trasgressione; è pur vero che la madre, con il suo continuo
atteggiamento svalutante, può avere inculcato ad R. l’insicurezza e la
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disistima che emergono sia dai test che dalla vita quotidiana; che l’assenza
del padre e, il mancato riferimento dello stesso come modello positivo,
possano aver influito in qualche misura, spingendo R. verso la
trasgressione fin dalle scuole medie. E’ altrettanto vero, però, che è difficile
trovare, fra le famiglie che compongono il tessuto sociale, dei genitori che
non abbiano in qualche modo proiettato sui figli le loro insicurezze e le loro
paure.
Entrambe le persone citate sono presenti oggi, gennaio 2005, in
terapia presso la comunità.
54
CAPITOLO VI:
CONCLUSIONI
Nel cominciare questa breve tesi, mi sono posto gli obiettivi di dimostrare:
1) che la tossicodipendenza va considerata come un sintomo di un disagio
psicologico;
2) che su questo disagio si può intervenire con l’ipnosi –poste alcune
importanti condizioni di base-;
3) di essere io stesso in grado di usare l’ipnosi per favorire una migliore
qualità della vita e un maggior benessere alla persona.
Per quest’ultimo motivo ho trascritto, nei tratti puramente essenziali, le sedute
portate avanti con Al, in cui metto in essere una buona sincronia emotiva, la
suggestione di una monoidea utile, in quel momento, a “rompere” i vecchi
schemi di riferimento che impedivano ad Al. rapporti interpersonali, anche
minimi, perfino con i suoi pari.
Metto anche in evidenza l’importanza e l’uso del ricalco, della guida, della
metafora, e di termini di transizione (come, mentre, quando, via via...).
Per poter raggiungere questi obiettivi, mi sono trovato nell’obbligo di tentare
un’analisi delle cause della tossicodipendenza. E’ questa impresa ardua e
comunque destinata a rimanere insufficiente, in quanto non è possibile, come
già dicevo, classificare a priori, tramite schemi preordinati, problemi di questa
portata; il tentativo di generalizzare e portare in uno schema fisso risposte a
problemi che possono sembrare simili, si scontra con la soggettività, la
sensibilità, l’unicità di ogni persona.
Questa soggettività non permette di prevedere anzitempo, né in modo
assoluto, quale sarà la risposta personale di un individuo di fronte al disagio.
Per mia esperienza professionale, ho incontrato persone che hanno vissuto
disagi familiari e sociali fortissimi, dando risposte esistenziali positive e diverse;
altre, come il caso di R., che stanno spendendo malamente gran parte della
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loro vita pur non avendo alla base disturbi tali da andare oltre quella che può
essere considerata la norma: un sentimento di inferiorità, di disistima non
risolto che trova la sua soluzione nella trasgressione ricercata e vissuta come
conferma del sé. Sono così entrato, per dare completezza a questo lavoro, in
un terreno che definirei minato, in cui ancor più “la mappa non è il territorio”.
Il testo di Cancrini, che ho usato come maggior riferimento, è considerato,
assieme allo studio di C. Olievenstein, ancora valido da molti studiosi del
fenomeno; altri lo considerano “superato”. Questi ultimi, però, non portano, che
io sappia, soluzioni né visioni analitiche nuove del problema; qualcuno di loro si
limita a definirlo “come un problema che può interessare persone di qualunque
strato sociale, ecc...”; altri suggeriscono soluzioni farmacologiche o di
prevenzione primaria (in famiglia, nella scuola dell’obbligo, ecc...), e
quest’ultima è certamente una risposta giusta, per quanto di difficile attuazione
nel pratico.
Il testo di Cancrini rimane, così, unico nel suo genere; i suoi limiti vengono
riconosciuti (pag. 81 e seguenti del testo) in primis dall’autore stesso, e
successivamente da chi si occupa ogni giorno di dare risposte terapeutiche al
problema. Malgrado ciò, serve a dare un minimo di orientamento, una base di
partenza che prima non c’era, consente, dice l’autore, “di superare una visione
generica e confusa del problema fornendo argomenti e spunti di riflessione”
(pag. 82 del testo).
Nel corso dell’ultimo anno sono state da me messe in atto svariate sedute di
ipnosi rivolte a circa venti utenti diversi; altre con persone esterne al gruppo
comunitario. Tutte sono state indirizzate a offrire nuove risposte a vecchi
problemi, a far emergere le potenzialità e le risorse proprie delle persone
sottoposte a questo tipo di aiuto psicologico. Alcune sedute con utenti in
comunità hanno affrontato in modo rielaborativo disturbi come attacchi di
panico, disistima, acufene di origine psicosomatica, ecc... Per dette sedute mi
sono avvalso della supervisione continua dello psicologo/ psicoterapeuta/
ipnologo in servizio a orario pieno e continuativo presso la struttura
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comunitaria, il quale usa con una certa regolarità l’ipnosi come ulteriore
strumento terapeutico per trattare questo tipo di problemi.
Chiudo così questo lavoro nella speranza di aver centrato gli obiettivi che mi
ero proposto all’inizio.
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INDICE DEI CAPITOLI
1) IL CONCETTO DI TOSSICODIPENDENZA
(secondo DSM IV, secondo ICD – 10, e secondo Luigi Cancrini)
2) IPNOSI: PRINCIPI DI APPLICAZIONE – BREVE SINTESI SU ALCUNE
CONDIZIONI PER L’APPLICAZIONE
Importanza del sincronismo e della monoidea; difficoltà di applicazione e
trattamento con monoidea dominante; possibilità e ipotesi di intervento
successivo
3) CONCETTO DI ISTITUZIONE TOTALE
La legislazione italiana permette il passaggio dei tossicodipendenti dalle
istituzioni totali (carcere) alle comunità terapeutiche
4) LA COMUNITA’ TERAPEUTICA E’ SETTING TERAPEUTICO
La comunità terapeutica risponde a necessità sociali e individuali
a) L’ambiente terapeutico: il setting dinamico: spazio, tempo, regole, il gruppo
comunitario
b) il rapporto con gli educatori in sincronia con gli utenti
5) IL LAVORO CON L’UTENZA E POSSIBILITA’ DI USO DELL’IPNOSI
Integrazione nel gruppo di un utente con problemi di personalità: la relazione
d’aiuto del counsellor in ipnosi costruttivista presso la comunità terapeutica
6) CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA
- “Quei temerari sulle macchine volanti / Studio sulle terapie per tossicomani”
di Luigi Cancrini - La Nuova Italia Scientifica – 1982
- “L’infanzia del tossicomane” (citato da L. Cancrini nel suo testo)
di C. Olievenstein – Arch. Di Psicologia Neurologia e Psichiatria
- “I meccanismi di difesa”
di Robert B. Wite e Robert M. Gilliland – Astrolabio – 1998
- “Chi è il tossicomane, tossicomanie e personalità”
di Y. Bergeret – Edizione Dedalo – 1992
- “Manuale di counselling in ipnosi costruttivista”
di Marco Chisotti e Giuseppe Vercelli – 2003
- “Istituzioni totali – i meccanismi dell’esclusione e della violenza”
di G. Goffman – Einaudi – 1975
- “Verso un’ecologia della mente”
di Gregory Bateson – Adelphi - 1972
- O.M.S. (Organizz. Mond. Sanità), capitolo sulle dipendenze da alcol e droga
- D.S.M. IV American Psichiatryc Association 1994
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