Tesi Finale

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1 Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Laurea triennale in Scienze geologiche (DM270) Indagine sperimentale sulla cinetica di cristallizzazione dei magmi dell’eruzione di Pollena (472d.c.), Vesuvio Candidato: Paolo Martizzi MAT 427202 Relatore: Prof.ssa Claudia Romano Correlatore: Dott. Alessandro Vona Roma, 1 ottobre 2013 Anno accademico 2012/2013

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Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Laurea triennale in Scienze geologiche (DM270)

Indagine sperimentale sulla cinetica di cristallizzazione dei magmi

dell’eruzione di Pollena (472d.c.), Vesuvio

Candidato:

Paolo Martizzi MAT 427202

Relatore:

Prof.ssa Claudia Romano

Correlatore:

Dott. Alessandro Vona

Roma, 1 ottobre 2013

Anno accademico 2012/2013

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Sommario

Capitolo 1: Introduzione……………………………………………………………………………..3

1.1: Inquadramento geologico della pianura campana….................................................3

1.2: Morfologia e attività del Somma-Vesuvio…………………………………………4

1.3: La successione di Pollena e la ricostruzione dell’eruzione………………………...6

1.4: Esperimenti di cristallizzazione e stato dell’arte…………………………………..11

1.5: Nucleazione e crescita dei cristalli………………………………………………...12

1.6: Teoria della CSD (Crystal Size Distribution)……………………………………..17

Capitolo 2: Procedure e metodi di analisi…………………………………………………………...21

2.1: Fusione dei campioni………………………………………...................................21

2.2: Esperimento di cristallizzazione…………………………......................................23

2.2.1: Reometro a cilindri concentrici………………………………………………….23

2.2.2: Esperimento di cristallizzazione………………………………………………...24

2.3:Preparazione dei campioni…………………………………………………………25

2.4:Microscopio ottico…………………………………………………………………26

Capitolo 3: Presentazione dei dati…………………………………………………………………..27

3.1:Analisi sui campioni sperimentali………………………………………………….27

Capitolo 4: Discussione dei risultati……………………………………………………………...... 47

4.1:Introduzione………………………………………………………………………..47

4.2:Analisi di CSD……………………………………………………………………..47

4.3:Nucleazione e crescita……………………………………………………………...49

Capitolo 5: Conclusioni……………………………………………………………………………..52

Bibliografia………………………………………………………………………………………….54

Ringraziamenti……………………………………………………………………………………...57

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1.Introduzione

In questo lavoro di tesi triennale viene analizzato il processo di cristallizzazione dei magmi

dell’eruzione di Pollena, Somma-Vesuvio (472 d.c.) attraverso la realizzazione di esperimenti, al

fine di investigare la cinetica di cristallizzazione di questi magmi. Gli studi sulla cinetica di

cristallizzazione sono utili per migliorare l’interpretazione delle dinamiche di un eruzione e per

quantificare i tempi di residenza e di risalita di un magma.

E’ importante studiare l’eruzione di Pollena per fornire un ulteriore contributo alla delineazione

delle aree di rischio nell’area vesuviana; si pensa, infatti, che lo stile e la misura di questo evento si

avvicini a quello del massimo evento atteso nell’area del Somma-Vesuvio (Barberi et al. 1990).

La cinetica di cristallizzazione è stata misurata attraverso esperimenti di cristallizzazione effettuati

tramite un reometro a cilindri concentrici. I prodotti sperimentali sono stati analizzati al

microscopio ottico. Attraverso le analisi delle immagini acquisite sono stati misurati i parametri

tessiturali più importanti delle fasi cristallizzate, e utilizzando questi dati si è ricavato per i singoli

campioni il tasso di crescita e di nucleazione e le curve di Crystal Size Distribution (CSD) (Marsh,

1988; Cashman & Marsh, 1988). Combinando i dati di CSD e i valori del tasso di crescita, inoltre,

sono stati calcolati i tempi di residenza del magma. Dai risultati ottenuti è stato possibile notare

come i risultati delle misure effettuate su questi campioni siano fortemente condizionate dal

contenuto in cristalli differente nei vari campioni.

1.1Inquadramento geologico della pianura campana

La regione della pianura campana è situata in un graben delimitato dalle piattaforme carbonatiche

del Mesozoico. La sua origine è stata relazionata alla rotazione antioraria della penisola italiana e

alla contemporanea apertura del Tirreno con la conseguente subsidenza della piattaforma

carbonatica lungo la costa tirrenica (Scandone 1979). L’attività vulcanica avviene nelle aree di

subsidenza della piattaforma mesozoica, essa è avvenuta negli ultimi 50.000 anni e ha come

principali centri eruttivi i Campi Flegrei, il Vesuvio e l’isola di Procida.

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Figura 1.1.1: Foto satellitare dell’area campana.

1.2Morfologia e attività del Somma-Vesuvio

Il complesso vulcanico del Vesuvio (1281 m) comprende il semirecinto calderico del monte Somma

(1131 m, punta del Nasone) e l’attuale cono craterico (Gran Cono) del Vesuvio, che occupa la

porzione occidentale e meridionale della depressione calderica. La contemporanea presenza di

forme calderiche e crateriche testimonia la diversità tipologica ed energetica delle eruzioni che

hanno caratterizzato la storia del complesso vulcanico. La forma generale del complesso vulcanico

è tronco-conica, con versanti interni sub-verticali e versanti esterni acclivi e con profilo concavo. I

versanti del Somma, in quanto più antichi, presentano un reticolo idrografico ben sviluppato e

articolato; le linee di drenaggio sono troncate dalla calderizzazione. Al contrario la superficie

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topografica vesuviana, essendo di età più giovane, presenta un drenaggio molto meno sviluppato

rispetto al settore del Somma.

Sull’attività vulcanica antica del complesso si conosce poco, alcuni autori (Santacroce, 1987)

sostengono che l’attività iniziò con tipologie eruttive prevalentemente laviche ed in ambiente

verosimilmente sottomarino. Le vulcaniti affioranti non sono più antiche di 25.000 anni e

testimoniano un attività eruttiva parossistica di tipo esplosivo che solo negli ultimi tempi,

prevalentemente storici, si è accompagnata ad attività a carattere effusivo o misto. I prodotti più

antichi tendono a ricoprire l’Ignimbrite Campana e fanno parte della formazione di Condola di

composizione pomicea datata 25.000 anni fa (Alessio et al. , 1974). La più importante eruzione

pliniana del Vesuvio è datata circa 22.000 anni fa ed è chiamata “Eruzione di Sarno”. Dopo circa

17.000 anni si verificarono, sempre nel Vesuvio, una serie di otto eruzioni a carattere pliniano – sub

pliniano; le ultime tre sono avvenute rispettivamente nel 79 d.c., nel 472 d.c. e nel 1631. Dopo il

1631 il Vesuvio è entrato in una fase di attività persistente caratterizzata da eruzioni

a carattere effusivo - esplosivo con un limitato VEI (VEI=3) e con un trend ben definito. Le

eruzioni iniziano sempre con una fase effusiva caratterizzata da emissioni di lava da una frattura nel

cono o dal bordo del cono. Dopo pochi giorni l’attività, accompagnata da esplosioni stromboliane,

presenta una fase più esplosiva con fontane di lava alte 2 - 4 km. L’ultima fase, caratterizzata dalla

formazione di una colonna sostenuta con altezza compresa tra 5 e 15 km, è seguita da un collasso

nel cratere centrale e da un periodo di quiescenza che persiste per vari anni. L’emissione di lava

marca sempre l’inizio di una nuova attività. L’ultima emissione è avvenuta nel 1944 e ancora oggi

perdura una fase di quiescenza (Scandone et al. ,1991).

Recenti ricerche (G. De Natale et al., 2006) sul Somma - Vesuvio ci hanno dato informazioni sulla

conoscenza strutturale dell’edificio e sull’ambiente vulcano-tettonico. Possiamo dividere la struttura

di velocità al di sotto del vulcano in tre regioni fondamentali: zona superficiale nei primi 5 km di

crosta, zona intermedia compresa tra 5 e 15 km e una più profonda al di sotto della Moho. Le

tomografie sismiche ci danno informazioni importanti sulle strutture della zona superficiale, si

riscontra infatti un anomalia positiva delle Vp e Vs lungo l’asse del vulcano che indica la presenza

di un corpo rigido centrato al di sotto del cratere. Questa anomalia si propaga in direzione W-SW a

una profondità di 2-3 km ed è in contrasto con un anomalia di bassa velocità sulle rocce circostanti.

L’estensione dell’anomalia di alta velocità, nell’ordine di 5-7 km3, suggerisce la presenza del

magma residuale solidificato da uno o più cicli dell’attività del vulcano. Al di sotto dei 5 km

l’assenza di terremoti non ci da informazioni sulle strutture più profonde, le uniche informazioni ci

vengono date da onde riflesse e da onde P-S convertite. Questi dati attestano la presenza di un Sill

magmatico a una profondità di 12-15 km, mentre a profondità ancora maggiori (9-17 km) si trova

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una zona di diminuzione marcata della Vs. In base ai dati recenti si può, quindi, fare un quadro

completo che consiste nella presenza di tre profondità principali di accumulo del magma, il primo

molto superficiale (4-6 km) che alimenta le eruzioni pliniane e sub-pliniane, un altro localizzato a

una profondità maggiore (10-15 km) e che forma una struttura simile a un Sill e infine una zona di

bassa velocità a profondità superiore ai 15 km (15-30 km), che possibilmente indica le radici più

profonde del magma che alimenta i serbatoi della crosta superiore.

1.3La successione di Pollena e la ricostruzione dell’eruzione

Dalle mappe delle isopache e delle isoplete si possono ricavare i parametri fisici dell’eruzione

(volume, altezza della colonna eruttiva e MDR). Secondo alcuni autori (Sulpizio et al., 2005)

l’altezza della colonna varia tra 14 e 22 km con una velocità massima del vento di 30 m/s. Gli strati

di caduta di Pollena possono essere tutti classificati come Subpliniani, con l’unica eccezione dello

strato L1 che appartiene più a un campo classificativo Pliniano. Inoltre le mappe isopache

permettono la stima del volume dei depositi di caduta, che è di 0,44 km3.

La storia deposizionale della successione dell’eruzione di Pollena può essere ricostruita anche con

l’aiuto di alcune caratteristiche dei depositi esposti. La successione continua degli strati di caduta

L1-L7 costituisce la prima fase dell’eruzione. La seconda fase è rappresentata dalla successione

stratigrafica da S1 a L9, caratterizzata dall’alternanza di depositi di PDC e di caduta. La terza fase è

dominata dalla deposizione di PDC e comprende gli strati Sy e Fy.

FASE 1: il primo deposito (L1) è massivo, ben classato ed è un deposito di caduta a lapilli che

registra lo sviluppo di una colonna alta 13 km (MDR=9.10

6 Kg/s), i frammenti iuvenili altamente

vescicolati hanno una composizione chimica molto evoluta che indica lo svuotamento di magma da

una camera zonata composizionalmente, la scarsezza di litici accidentali indica una minore erosione

nella parte superiore del condotto. L’abbondanza di litici accidentali aumenta negli strati L2 ed L3,

ciò suggerisce un intensa erosione sulle pareti del condotto o fenomeni di evoluzione del cratere, si

nota anche un aumento della colonna eruttiva fino a 16 km (MDR=2. 10

7 Kg/s). L4 si trova al di

sopra dello strato L2-L3 e rappresenta un abbassamento della colonna eruttiva a 12 km (MDR=7. 10

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kg/s), inoltre presenta un piccolo aumento della componente di litici accidentali. Gli strati L5 ed L6

presentano un rapporto tra litici accidentali e frammenti iuvenili basso, l’altezza della colonna

eruttiva subisce un nuovo aumento a 14 km (MDR=1,2. 10

7 kg/s). La colonna convettiva subisce un

nuovo abbassamento nello strato L7 e la fase 1 termina con lo sviluppo dell’unità LRPF, che marca

la destabilizzazione della colonna convettiva; questa unità contiene frammenti di lava con patina

rossa che suggerisce la demolizione del condotto superiore.

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FASE 2: in questa fase l’eruzione entra in una fase più complessa caratterizzati da episodi di

generazione di PDC (S1, S2, NA e Fg), interrotti da due intervalli di colonne convettive sub-pliniane

(L8 e L9). Sono state fatte molte teorie sulla generazione di PDC, la più plausibile indica che il

meccanismo per la deposizione dello strato S1 è quello di un espansione radiale laterale di una

mistura pressurizzata, in questo modo si genera un PDC diluito, comunemente noto come base

surge (Moore 1967; Cas and Wright 1987; Carey 1991). I depositi S1 mostrano una distribuzione

radiale nei settori N ed E, mentre la mancanza di strati affioranti impedisce la tracciatura delle linee

isopache nei settori W e S. I depositi dell’unità NA sono esposti nei settori a N del Monte Somma,

con solo pochi affioramenti presenti nel settore a SE. L’unità NA consiste in depositi che riempiono

le valli, sono da massivi a poco stratificati, mal classati, ricchi in bombe, mostrano una transizione

laterale a depositi mal classati, neri e composti da cenere grossolana nel settore a NE. Queste

caratteristiche sedimentologiche indicano la deposizione da una PDC capace di sorpassare il bordo

della caldera nel settore a N e di riempire le valli nel settore a SE. Dopo la deposizione di NA si

sviluppa una colonna convettiva che registra la più alta intensità dell’intera eruzione con lo sviluppo

dello strato L8. Un importante aspetto di questa eruzione è la presenza di litici accidentali derivanti

da marmi, sieniti e skarn. Per le unità S2 e Fg la ricostruzione è molto più difficile, a causa della

mancanza di dati sperimentali e di terreno. E’ possibile che si siano originati dalla colonna sostenuta

dello strato L8 o da un espansione radiale, tuttavia la presenza di litici accidentali simili a quelli

delle unità precedenti suggerisce un collegamento allo sviluppo della colonna convettiva. Quindi

l’interpretazione migliore è che da una colonna sostenuta (L8) si sia generato un PDC radiale e

turbolento (S2) seguito da flussi concentrati che riempirono le paleo valli nei settori a N e SE (Fg).

La seconda fase si chiude con la messa in posto dello strato L9 che indica la formazione di una

nuova colonna convettiva simile a quella sviluppatasi nello strato L8.

FASE 3: la fase finale dell’eruzione di Pollena è caratterizzata da un estesa attività

freatomagmatica, dovuta alla presenza di serbatoi d’acqua. Sy identifica l’inizio dell’attività e

mostra significativi cambi litologici (lapilli accrezionali, cenere fine, frammenti più grossolani con

strati di colore giallino e abbondanza di cristalli sciolti). Tale unità è stata probabilmente deposta

come un PDC simile a quello relativo alle unità S1 ed S2 e mostra una dispersione areale limitata ai

settori E e SE. Fy mostra dei caratteri litologici simili a quelli dell’unità Sy con aggiunte localizzate

di blocchi litici e scorie nere iuvenili. I depositi sono sempre massivi e tendono a riempire alcune

paleovalli soprattutto nel settore a SE. Le caratteristiche litologiche e sedimentologiche delle unità

Sy ed Fy suggerisce che essi si siano sviluppati durante esplosioni vulcaniane, senza lo sviluppo di

alcuna colonna convettiva.

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Come dimostrato da Sulpizio et al. (2005) nella successione di Pollena si possono distinguere nove

depositi di caduta (da L1 a L9) con cenere, pomici, scorie e lapilli, quattro strati con solo cenere (da

A1 a A4) e depositi di PDC da massivi a strati di dune (S1, S2, Sy, NA, LRPF, Fg, Fy).

Gli strati L1-L9 ed A1-A4 sono letti di caduta e mostrano una variazione in spessore e litologia lungo

la sequenza stratigrafica. Tendono ad ammantare e sono generalmente dispersi nella zona a NE,

dove sono stati trovati anche a distanze di 45 km dal condotto. Gli strati L2-L9 consistono in scorie e

lapilli angolati e con contenuto in cristalli mentre lo strato L1 è dominato da lapilli e pomici di

colore chiaro, nelle zone prossimali L2 ed L3 sono separati da A1, che è composto da cenere

grossolana, mentre nelle zone distali tendono a convergere in un unico strato. Le isopache di L1, L4,

L5 ed L6 mostrano una curvatura verso est nelle zone mediali, mentre L2 ed L3 mostrano una forma

ellittica. Lo strato L7 è meno disperso e diventa rapidamente fine nelle zone mediali (4-10 km), da

questo punto avviene la transizione a una granulometria fine e a cenere vescicolata. Infine gli strati

L8 ed L9 sono i più estesi strati di caduta e mostrano una dispersione verso NE con isopache molto

allungate ed ellittiche. La vescicolarità lungo la sezione L1-L9 è un parametro molto variabile, in

quanto si trovano frammenti iuvenili poco vescicolati e molto vescicolati allo stesso tempo,

generalmente nelle pomici si presentano di forma poco allungata fino a tabulare mentre nelle scorie

le bolle sono di forma tipicamente sferica; nello strato L1 a volte si trovano frammenti di pomice a

bande. I frammenti di lava predominano su tutti gli strati con cenere e lapilli, alcuni di essi hanno

subito alterazione idrotermale e mostrano delle patine di ossidazione di colore rosso, esse sono

abbondanti negli strati L2 ed L3, inoltre nello strato L8 si trovano frammenti litici di rocce marine

(Carbonati, Sieniti e Skarn).

Per quanto riguarda gli strati A1-A4, essi come detto prima sono composti da cenere grossolana ma

si alternato con strati di lapilli nella parte basale della successione. Questi strati tendono ad

ammantare e hanno uno spessore molto basso (massimo spesso di 3-5 cm), sono inoltre massivi e

composti da cenere grossolana e lapilli da mediamente a ben classati. La transizione da lapilli a

cenere grossolana è generalmente gradazionale nei siti prossimali e medio-distali (più di 30 km

dalla sorgente).

Nella successione dell’eruzione di Pollena compaiono, come detto prima, due tipi di depositi di

PDC. I depositi con dune e stratificazione interna incrociata sono molto comuni nella parte

superiore della successione e sono identificati dalla loro posizione stratigrafia e dal colore della

cenere (grigia per S1 ed S2, gialla per Sy). Gli strati S mostrano variazione laterale nella

granulometria e strutture sedimentarie, inoltre diventano a granulometria fine e debolmente laminati

nella pianura circostante. Nel settore a nord, lo strato S1 è esposto alla base di NA mentre nel settore

a E e a SE si trova alla base dello strato L8; gli strati S1 ed S2 sono i più spessi nel settore NNW e

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ESE. Sy è esposto solo nel settore a SE alla base o interstratificato a Fy, mostra caratteristiche

sedimentologiche simile agli strati S1 ed S2 ma è generalmente a granulometria fine e contiene litici

accidentali abbondanti e ossidati con clasti iuvenili scarsi. I depositi di PDC controllati

topograficamente, ricchi in litici e cenere e massivi (strati F) affiorano in alcune paleo valli dei

settori a NW e SE, molti di questi strati sono Fy mentre i depositi di Fg hanno aree di esposizione

più piccole.

LRPF ed NA rappresentano due depositi litologicamente distinti nella successione statigrafica di

Pollena. Lo strato LRPF è esposto in un’area limitata del settore a NW, è massivo e contiene fino al

40-50% di blocchi di lava alterata idrotermalicamente, inoltre può presentare una transizione

laterale allo strato L7. Lo strato NA invece si trova a 20-50 m di altezza nel settore a NW oppure

nelle paleo valli e tende a riempire la topografia. NA è generalmente identificabile come uno strato

massivo o poco stratificato, che mostra una transizione a cenere grossolana nera con lenti di lapilli

grossolani nei settori N e NE.

Figura 1.3.1: Foto satellitare del Somma-Vesuvio in cui sono rappresentati i luoghi di

campionamento

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Figura 1.3.2: Log stratigrafico della Successione di Pollena (Sulpizio et al. 2005)

Fy: Depositi da flusso di cenere fine, massivi, topograficamente controllati. Generalmente contengono litici accidentali e

iuvenili dispersi. Alcune unità di flusso contengono frammenti di lava in una matrice cineritica. Nel settore meridionale,

sono presenti alternanze di depositi di surge all’interno delle unità di flusso.

Sy: Cenere giallastra con lenti di lapilli che forma dune con stratificazione incrociata interna. Nei rilievi dell’area prossimale

e negli affioramenti mediali mostrano una transizione a cenere fine e massiva con lapilli accrezionali.

L9: Unità massiva e ben classata di lapilli che comprende scorie nere e minori litici accidentali. I frammenti iuvenili sono

porfirici e contengono cristalli di Sanidino, Leucite, Biotite e Pirosseno.

Fg: Depositi di “Block & Ash flow” massivi e controllati dalla topografia. Hanno un contenuto variabile di iuvenili e

frammenti di litici accidentali. La matrice è composta da cenere grossolana, maronne-grigia

S2: Vedi la descrizione di S1

L8: Unità di lapilli massiva e ben classata che comprende scoria nera porfirica. I litici accidentali sono subordinati e

comprendono lave, carbonati, sieniti, skarn e rocce cumulitiche. Sono presenti clasti occasionali imbricati al top del

deposito che indicano la trazione esercitata dal soprastante S2.

NA: Unità di bombe e lapilli moderatamente classata e da massiva a poco stratificata, con abbondanti scorie nere non

vescicolare e altamente porfiriche. Il deposito mostra uno spessore di 4-5 m nel settore a NW e mostra una transizione a

cenere nera, grossolana e di spessore decimetrico nei settori a N-NE. I litici accidentali sono subordinati (soprattutto lave).

S1: Cenere grigia con lenti di lapilli che formano dune spaziate (spaziatura metrica) con stratificazione incrociata interna.

LRPF, L7: Unità di caduta di cenere e lapilli massiva, moderatamente classata e ricca in litici accidentali, soprattutto

frammenti di lava con alterazione idrotermale. I frammenti iuvenili sono subordinati e comprendono scorie nere porfiriche

e moderatamente vescicolare. Nel settore a NW mostra la transizione a un deposito di flusso piroclastico di spessore deca

metrico e molto grossolano, ricco in massi di lava alterata (LRPF).

L6, A4,L5: Unità massiva e ben classata di lapilli che comprendono scorie nere-grigie e porfiriche. I litici accidentali,

soprattutto lave, sono subordinati. Uno strato di cenere grossolana separa le due unità con i lapilli.

A3, L4, A2: Unità di lapilli di caduta da ben a moderatamente classata che mostra una variazione di granulometria dovuta

all’alternanza di strati di lapilli e cenere grossolana. I frammenti iuvenili sono scorie verdastre-grigie, moderatamente

vescicolate e porfiriche. I litici accidentali sono subordinati e consistono soprattutto in frammenti di lava con patine

rossiccie dovute all’alterazione idrotermale. Due strati di cenere grossolana e lapilli si trova alla base e al top dello strato

principale di lapilli.

L3, A1, L2: Unità massive e ben classate di lapilli che comprendono abbondanti frammenti di litici accidentali e scorie nere-

grigie, porfiriche e da moderatamente a poco vescicolare. I litici sono particolarmente abbondanti nello strato L3 e

comprendono frammenti di lava ossidata. Negli affioramenti prossimali i due strati di lapilli sono separati da uno strato di

cenere grossolana, che manca in affioramento nelle zone distali, dove L2 ed L3 formano uno strato unico.

Unità massive e ben classate di lapilli che comprendono pomici e scorie di colore verde-grigio, da moderatamente a ben

vescicolate e porfiriche. I litici accidentali sono subordinati (soprattutto lave).

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1.4 Esperimenti di cristallizzazione e stato dell’arte

Lo studio della nucleazione e crescita dei cristalli ha origine agli inizi del ‘900. Tamman nel 1925

fu il primo a compiere delle analisi su dei cristalli di BaTiO3 in relazione alla pressione, alla

temperatura e al tempo. Dagli anni ’70, con l’aumentare delle conoscenze teoriche sulla cinetica di

cristallizzazione dei magmi, si osserva un vero e proprio incremento di studi sulla nucleazione e la

crescita. Alcuni autori hanno compiuto esperimenti sulla velocità di crescita di alcuni minerali

(clinopirosseni e pirosseni) in fusi monofasici (Kirkpatrick, 1974; Kirkpatrick et al. 1976) o in

sistemi bifasici (Kirkpatrick et al., 1979) nonché esperimenti di raffreddamento (Kirkpatrick et al.

1978); le stesse conoscenze sono state applicate da Kirkpatrick a studi di cristallizzazione di corpi

ignei o di nucleazione e crescita all’interno delle lave. I primi esperimenti in laboratorio di

cristallizzazione indotta e a pressione costante di 800 MPa furono compiuti da Swanson (1977). Il

suo esperimento ebbe una durata tra le 24 e le 144 ore, con intervalli di raffreddamento di 50° per

temperature comprese tra 900° e 600° e 100° per temperature comprese tra 600° e 400°, su fusi

granitici e granodioritici. Con queste procedure Swanson riuscì a ricavare la velocità di crescita dei

feldspati alcalini. Anche Fenn (1977) effettuò misure sulla densità di nucleazione e la crescita, con

un esperimento simile ma di durata (6-240 ore) e pressione (250 MPa) diversa applicato su una

miscela di Albite, Ortoclasio e Acqua. Successivamente a questi due esperimenti, lo studio sulla

nucleazione e la velocità di crescita è continuato con lo sviluppo di prove di cristallizzazione per

decompressione e a temperatura costante come quella di Geschwind et al. (1995) sulle daciti del Mt.

St. Helens.

Recentemente Zieg e Logfren (2006) hanno effettuato esperimenti di raffreddamento dinamico a un

tasso costante di 92°C/h su condrule sintetiche a composizione olivinica, quantificando l’evoluzione

tessiturale con l’ausilio della Crystal Size Distribution (CSD). Iezzi et al. (2008) hanno svolto due

set di esperimenti di raffreddamento a pressione atmosferica su due fusi anidri di composizione

trachitica e latitica. L’esperimento è stato condotto a una temperatura compresa tra 1300 e 800 °C,

usando cinque tassi di raffreddamento diversi (25, 12.5, 3, 0.5 e 0.125 °C/min). Iezzi et al. (2011)

hanno compiuto esperimenti di solidificazione su un fuso di composizione andesitica, scegliendo gli

stessi tassi di raffreddamento utilizzati nell’esperimento del 2008. Infine Vona e Romano (2013)

hanno svolto un esperimento di cinetica di cristallizzazione su dei campioni basaltici di Stromboli e

dell’Etna. L’esperimento è stato effettuato a una pressione di 1 atm e in un forno scaldato da

elementi in MoSi2, e la cristallizzazione è stata sviluppata a diversi gradi di sottoraffreddamento in

un range di temperatura di T = 1157 – 1187 °C per i campioni di Stromboli e di T = 1131 – 1182 °C

per i campioni dell’Etna.

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1.5 Nucleazione e Crescita dei cristalli

Le rocce magmatiche sono in origine dei fusi silicatici variabili in composizione, temperatura,

contenuto in cristalli e contenuto in volatili. La forte variabilità strutturale e tessiturale dei magmi

riflette la loro storia evolutiva. Dopo la formazione i magmi, infatti, possono subire dei

cambiamenti notevoli prima di arrivare in superficie. In questi cambiamenti sono compresi

fenomeni di cristallizzazione e frazionamento dei magmi oltre a reazioni con le rocce circostanti

(assimilazione magmatica). La struttura di una roccia magmatica si realizza quando avviene il

raffreddamento del sistema, questa struttura può essere sia ordinata e in questo caso si formeranno

fasi solide cristalline o disordinata e in questo altro caso avremo la formazione di vetri vulcanici

naturali. Come si può, quindi, dedurre, la velocità di raffreddamento è il parametro fondamentale

che condiziona l’evoluzione del sistema magmatico. La cristallizzazione di un fuso avviene in due

passaggi fondamentali: nucleazione (formazione di un germe cristallino) e crescita (nuclei che si

accrescono a spese delle fasi reagenti). In un sistema monofasico, ad una data pressione, esiste una

temperatura d’equilibrio (Te) in cui la fase solida e la fase liquida sono in equilibrio; i primi nuclei

di fase solida si formano quando esiste un certo grado di sottoraffreddamento (ΔT), che è definito

come la differenza tra la temperatura di liquidus di una fase cristallina e la temperatura del sistema

(ΔT= Te-T). I tassi di nucleazione e crescita sono connessi strettamente alla pressione e alla

temperatura, e sono fortemente influenzato anche dal ΔT. Per basso ΔT il processo di

cristallizzazione è dominato dalla crescita, mentre per valori più alti di ΔT la nucleazione prevale.

Ad alti ΔT i tassi di nucleazione e crescita sono entrambi bassi e portano alla formazione di piccoli

cristalli e/o vetro.

Figura 1.5.1: Curve di nucleazione e crescita di cristalli da un fuso, rispetto al ΔT (Arzilli 2012)

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NUCLEAZIONE

La nucleazione è un processo submicroscopico che avviene come primo step della cristallizzazione

e consiste nella formazione di germi cristallini attraverso l’aggregazione di atomi, ioni e gruppi di

ioni che, grazie alla loro mobilità nel fuso, possono unirsi e formare nuclei con volume e superficie

limitata (Kirkpatrick, 1981). Durante il processo di nucleazione, gli atomi di una fase reagente si

riuniscono insieme in una parte della fase prodotta grande abbastanza da essere

termodinamicamente stabile (Kirkpatrick, 1981). La visione tradizionale della teoria di nucleazione

è che ammassi di atomi, che posseggono le proprietà fisiche e chimiche dei solidi cristallini

macroscopici, si formano per fluttuazioni casuali nel fuso, quando si trova al di sotto della sua

temperatura di liquidus (Volmer and Weber, 1926). La nucleazione può essere omogenea ed

eterogenea. La nucleazione omogenea avviene tramite aggregazione spontanea di particelle in una

condizione di stato costante ed è causata da fluttuazioni termiche, mentre nella nucleazione

eterogenea l’arrangiamento degli atomi è aiutato dalla presenza di un’altra fase in contatto con il

fuso, che da un punto di vista energetico facilita la formazione di germi cristallini (Arzilli, 2012).

Nel corso della nucleazione omogenea, la formazione del germe cristallino causa una diminuzione

di energia libera, infatti le particelle in contatto tra loro e organizzate secondo un reticolo cristallino

hanno un energia potenziale minore. Tuttavia la formazione di superfici cristalline implica anche la

presenza di legami liberi, che comportano uno stato energetico superiore. Avremo, quindi, una

tendenza di aumento dell’energia libera in relazione all’aumento delle superfici cristalline e una

tendenza di diminuzione dell’energia libera in relazione all’aumento del volume del cristallo.

All’interno di un sistema fluido la variazione di energia libera totale durante la nucleazione (ΔGt) è

uguale alla somma di energia libera di volume (ΔGv) ed energia libera di superficie (ΔGs), come

detto prima un valore negativo di ΔGv favorisce la diminuzione dell’energia libera e quindi

favorisce la cristallizzazione.

Page 14: Tesi Finale

14

Figura 1.5.2: ΔGv, ΔGs e ΔG in un sistema liquido, durante la nucleazione omogenea di un seme

cristallino, assunto di forma sferica (Campagnola 2009).

Per nuclei cristallini piccoli caratterizzati da elevato rapporto superficie/volume prevale l’effetto

energia di superficie che inibisce l’aggregazione delle particelle, mentre nel caso di nuclei di

dimensioni più grandi prevale l’effetto volume. Si può definire, quindi, un valore critico di volume

(pari a quello di una sfera di raggio Rc) che rappresenta la condizione limite tra lo sviluppo del

cristallo e la sua dissoluzione: per valori superiori si ha lo sviluppo del cristallo mentre per valori

inferiori si ha la disgregazione dei semi cristallini e la dispersione delle particelle. Interessante è il

comportamento dell’energia libera totale del sistema al variare del valore critico del raggio del

nucleo che si forma, per bassi valori di R l’energia libera assume valori positivi mentre al

raggiungimento di un raggio critico del nucleo (Rc), l’energia libera inverte il suo andamento. Il

valore di Rc è fortemente influenzato dal grado di sottoraffreddamento e diventa infinito quando la

temperatura supera il liquidus, mentre raggiunge valori molto piccoli per elevati valori di ΔT.

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15

Figura 1.5.3: Andamento delle curve di equilibrio secondo il ΔT (Campagnola, 2009)

La nucleazione eterogenea assume una notevole importanza nelle pareti magmatiche e nei condotti,

seppur limitata dall’alto rapporto volume/superficie, in quanto un magma non è mai privo di

materiale in sospensione, quindi assume una rilevante importanza nella cristallizzazione dei magmi;

in particolare i germi di fasi pre-esistenti sono un contributo notevole alla generazione di fasi

cristallografiche simili.

CRISTALLIZZAZIONE

Dopo che la barriera per la formazione di un nuovo cristallo viene sormontata (nucleazione), il

sistema tende ad equilibrarsi in una fase più stabile attraverso un processo di crescita, le

considerazioni sui tassi di crescita diventano rilevanti quando il nucleo raggiunge la sua taglia

critica (Cashman, 1990). Il processo di crescita, quindi, avviene per la crescita di questi nuclei e

passa attraverso la formazione delle facce dei poliedri cristallini. Avviene una deposizione di strati

paralleli e successivi su ciascuna faccia e, poiché le facce mostrano ciascuna una struttura

superficiale differente, si formerà un abito cristallino con facce cresciute a velocità diverse. Quindi,

in sintesi, si può dire che la crescita di un cristallo avviene per aggiunta di atomi e/o molecole su un

nucleo stabile. Questo processo è il risultato di diffusione di atomi e ioni nel sistema e della loro

organizzazione in gruppi poliatomici che rappresentano le unità strutturali dei minerali. Nella

crescita di un cristallo dobbiamo considerare quattro processi fondamentali: le reazioni

all’interfaccia tra solido e liquido, la diffusione degli elementi nel fuso, la rimozione del calore

latente generato all’interfaccia e i movimenti di massa nel fluido. Tra questi fattori è molto

importante la diffusione in quanto, attraverso questo meccanismo, la materia, in forma ionica e

molecolare, viene trasportata da un punto a un altro del sistema sotto l’azione di un gradiente del

potenziale chimico. Il movimento degli elementi del fuso che porta alla formazione delle fasi

cristalline è proprio frutto dei meccanismi di diffusione. La diffusione fa sì che atomi, ioni e

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molecole vengano adsorbite sulle superficie, la stessa velocità di crescita di una faccia dipende dalla

velocità relativa di questi processi. Si può dire, quindi, che all’interno di un fuso silicatico i processi

più importanti sono quelli all’interfaccia solido-liquido e di diffusione degli elementi nel fuso. Da

queste considerazioni possiamo riconoscere due condizioni fondamentali: la prima è quando i

processi di diffusione sono sufficientemente veloci da mantenere costante la composizione

all’interfaccia rispetto a quella del fuso totale, viene detta “crescita controllata all’interfaccia”; la

seconda quando i processi di dissoluzione o aggregazione alla superficie del cristallo sono più

veloci rispetto a quelli di diffusione nel fuso, la composizione del fuso rimane costante e questo tipo

di crescita viene detto “crescita controllata dalla diffusione”. Entrambi i processi sono influenzati

dal tasso di sottoraffreddamento, per piccoli sottoraffreddamenti prevale, infatti, la crescita

controllata all’interfaccia (crescita lenta e diffusione più efficace), mentre per sottoraffreddamenti

alti prevale la crescita controllata dalla diffusione (crescita alta e diffusione meno efficace).

CRESCITA CONTROLLATA ALL’INTERFACCIA:

La crescita controllata all’interfaccia avviene quando l’attaccamento degli atomi alla faccia è lento

rispetto alla migrazione degli elementi compatibili attraverso il mezzo circostante sulla superficie e

la migrazione degli atomi emessi dalla superficie (Hammer, 2008). La prima teoria sul tasso di

crescita controllata all’interfaccia è stata sviluppata da Turnbull e Cohen (1960) e considera i tassi

a cui i gruppi molecolari e atomi si attaccano o si distaccano da una superficie cristallina. Secondo

questa teoria si avranno, quindi, due tassi che sono il tasso di attaccamento (ra) e il tasso di

distaccamento (rd). In base a questa teoria, se un atomo o una molecola si muove dal fuso al

cristallo, lascia il suo stato di energia nel fuso e passa prima attraverso uno stato attivato e poi

decade nello stato cristallino (Kirkpatrick, 1975). Inoltre i tassi di crescita sono funzione della forza

termodinamica e dell’energia di attivazione per l’attaccamento, che è simile alla barriera cinetica

per la nucleazione. Quindi l’espressione del tasso di crescita è di solito scritto come un bilancio tra

il tasso di attaccamento e il tasso di distaccamento moltiplicato per lo spessore di ogni strato

aggiunto e la frazione di sito sulla superficie del cristallo per l’attaccamento (f):

Y = f α ν exp ( -ΔG+/RT ) [1- exp ( -ΔGc/RT )] eq 1.1

In questa equazione (Cashman, 1990), il termine ΔG+ è l’energia di attivazione per l’attaccamento,

ΔGc è la forza termodinamica e α indica la distanza interatomica. Sembra giusto uguagliare

l’energia di attivazione ΔG+ con la rottura dei legami, che dovrebbe essere relazionata alla viscosità

del fuso, in questo caso possiamo citare l’equazione di Stokes-Einstein (Cashman, 1990) che

riformula il tasso di crescita in questo modo:

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Y= Yr/η[1- exp (ΔHf ΔT/RT Tl)] eq 1.2

dove η è la viscosità e Yr è il tasso di crescita ridotto e rappresenta la dipendenza della crescita dalla

temperatura, quindi la frazione dei siti di crescita disponibili sulla superficie di un cristallo. Il

controllo all’interfaccia è il caso prevalente a bassi gradi di sottoraffreddamento, dove alte

temperature (e/o alti contenuti in H2O) permettono la rapida diffusione all’interno del fuso.

CRESCITA CONTROLLATA DALLA DIFFUSIONE:

Questo tipo di crescita prevale ad alto ΔT dove il potenziale chimico, che guida la solidificazione, è

grande ancora a basse temperature o in caso di fusi multicomponente, che cristallizzano con un

grande cambio di composizione e/o di contenuti in acqua (Cashman, 1990; Hammer, 2008). Se la

mobilità dei componenti è molto lenta rispetto al tasso di attaccamento, allora il tasso di crescita

evolve nel tempo secondo questa formula:

Y= k √D/T eq 1.3 (Arzilli, 2012)

k è un termine di correzione, D è il coefficiente di diffusione e T è il tempo di cristallizzazione.

Le morfologie dei cristalli cresciuti in questo regime sono generalmente anedrali e includono forme

tabulari, aghiformi, dendritiche e scheletriche (Sunagawa, 1981). Per esempio le forme dendritiche

tendono a svilupparsi a grandi ΔT. Queste equazioni trovano la loro applicazione in casi molto

particolari, cioè quando negli esperimenti si trattano sistemi monofasici; per questo motivo è stata

sviluppata la teoria CSD che trova applicazione anche nei sistemi a più fasi. La teoria della CSD

verrà descritta sommariamente nel paragrafo successivo.

1.6 Teoria della CSD (Crystal Size Distribution)

La teoria della Crystal Size Distribution (Marsh, 1988; Cashman e Marsh, 1988) fornisce un

formalismo per lo studio macroscopico della cinetica di cristallizzazione e dei processi fisici che

influenzano la cristallizzazione e assume che la distribuzione delle taglie dei cristalli in una roccia

dipende dai tassi di nucleazione e crescita e dal tempo di residenza nella camera magmatica. Questa

teoria permette, quindi, l’estrapolazione di dati quantitativi su alcuni parametri fondamentali come

il tasso di crescita cristallina, la densità di nucleazione e il tasso di nucleazione; inoltre è importante

nella valutazione di alcuni processi molto importanti come l’accumulo di cristalli e il frazionamento

all’interno dei sistemi petrologici. Combinando i dati della CSD con altri fattori è possibile

ricostruire l’evoluzione dei sistemi ignei.

Page 18: Tesi Finale

18

Figura 1.6.1: Esempi di CSD dei pirosseni delle rocce vulcaniche. La densità di popolazione (ln

n) è espressa come numero di cristalli per taglia (L) per il volume contro la taglia dei cristalli L

(mm) (Marsh, 1988).

Il cuore della CSD è la creazione di un’equazione che governa la conservazione del numero dei

cristalli quando nucleano o crescono all’interno di un ambiente liquido o solido. Questa equazione è

bilancio di popolazione che descrive il cambio nel numero e nella taglia dei cristalli come una

funzione dei loro tempi di residenza nel sistema e come una funzione che indica l’afflusso e la

perdita di cristalli nel sistema. Questa equazione varia a seconda che il nostro sistema sia chiuso o

aperto. Nel caso di un sistema aperto l’equazione è:

dn/dt + Go dn/dL + n/tr = 0 eq 1.4

dove il primo termine rappresenta la variazione del numero di cristalli (nucleazione o J), G0 è il

tasso di crescita iniziale, il secondo termine indica la variazione del numero di cristalli sulla

lunghezza (crescita o G) e l’ultimo termine indica il numero di cristalli in uscita dopo un certo

tempo di residenza. In un sistema stazionario (steady-state) l’equazione considera costanti i termini

G e J, in questo modo il termine dn/dt diventa nullo è l’espressione assume una forma diversa:

dn/dL = - n/G0tr eq 1.5

questa espressione può essere riscritta, infine, con un ulteriore modifica

ln (n) = ln (n0)- L/G0tr eq 1.6

Nel caso di un sistema chiuso l’equazione assume invece la forma di:

dn/dt + G0 dn/dL=0 eq 1.7

Per una popolazione cristallina che ha un processo di crescita semplice (senza mixing e senza

ricarica del sistema), ci si aspetta una relazione lineare tra il logaritmo naturale della densità

cristallina e la dimensione dei cristalli.

Per una fase nel sistema:

n’

v (L) = n’ v (0) e

- L/Gtr eq 1.8

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19

dove n’

v (L) è la densità di popolazione dei cristalli per la misura L, n’ v (0) è la densità di

nucleazione finale, G è il tasso di crescita e tr è il tempo di residenza. Il parametro n’v (L) può essere

espresso anche in un altro modo, derivando questo rispetto a L.

n’v (L) = dNv (L)/dL eq 1.9

Ancora, questo calcolo può essere esteso a un solo intervallo di taglia cristallina e chiameremo

questo parametro n’v (Lj). La densità di popolazione può essere scritta quindi facendo il rapporto tra

la number density dei cristalli in un intervallo dimensionale e lo spessore dell’intervallo (Wj).

n’v (Lj) = nv (Lj)/Wj eq 1.10

La lunghezza caratteristica C è definita come C = Gtr ed è uguale alla lunghezza media di tutti i

cristalli in una CSD retta che va da zero a infinito. Questa distribuzione in un grafico ln (population

density) su taglia L, ha un andamento lineare. L’intercetta è ln (n’ v (0)) mentre lo slope è definito

come 1/C. Sostituendo al posto di C il termine descritto sopra:

slope = -1/Gtr

dove G indica sempre il tasso di crescita e tr il tempo di residenza del magma all’interno della

camera magmatica o nel condotto.

Figura 1.6.2: Relazione linerare tra ln(densità di popolazione) e la misura dei cristalli (Higgins,

2006).

Lo slope identifica il sorting delle dimensioni dei cristalli: se è alto, i cristalli hanno un range

limitato di dimensioni (sorting dei cristalli scarso), mentre se lo slope è basso i cristalli si

sviluppano bene e avremo un range di dimensioni molto più grande. Una variazione dello slope

indica una variazione della velocità di nucleazione (J). Questo modello di cristallizzazione spiega la

CSD di un sistema steady-state, modelli più complicati dimostrano come i parametri si disperdano

nel sistema. Per esempio, se il tempo di residenza rimane costante ma avviene un incremento nella

densità di nucleazione, le CSD saranno parallele. Un incremento di densità di nucleazione può

verificarsi per l’aumento del tasso di sottoraffreddamento. Invece nel caso in cui la densità di

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20

nucleazione rimane costante e avviene un incremento del tempo di residenza, le CSD scivoleranno

su un punto vicino all’asse verticale.

Figura 1.6.3: Dispersioni teoriche delle CSD in sistemi di cristallizzazione continuamente

alimentati. Nell’immagine a sinistra aumenta la densità di nucleazione, nell’immagine a destra

aumenta il tempo di residenza.

Cambi nei parametri di cristallizzazione durante la solidificazione, come il tasso di raffreddamento,

possono cambiare le caratteristiche della CSD. Il sistema avrà bisogno di tempo per ristabilirsi in

base alle nuove condizioni e durante questo tempo l’andamento della CSD subirà un curvamento

(Marsh, 1988b; Maaloe et al., 1989; Armienti et al., 1994). Questa transizione cambierà il tasso di

nucleazione del magma e produrrà nella CSD un primo tratto più curvo per piccoli valori di taglia

dei cristalli. Cashman (1993) ha ipotizzato che il primo tratto curvo delle CSD potrebbe essere

prodotto per un tasso di raffreddamento costante, se si verifica un cambio nella natura delle fasi

precipitate. Marsh (1998) ha dimostrato che il modello applicato nei sistemi steady-state può essere

utilizzato anche in altri sistemi chiusi sotto alcune condizioni, sebbene la CSD, in caso di alti

contenuti in cristalli, presenti un andamento non lineare per i piccoli cristalli. In questo sistema la

correlazione logaritmico-lineare è prodotta dall’incremento esponenziale della densità di

nucleazione nel tempo.

Figura 1.6.4: Sviluppo delle CSD all’interno di un sistema chiuso con aumento nel contenuto in

cristalli (Higgins, 2006).

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2. Procedure e metodi di analisi

In questo capitolo vengono esposte le procedure sperimentali adottate in questo lavoro.

2.1 Fusione dei campioni

Il materiale di partenza è stato macinato il più finemente possibile con l’aiuto di un martello da

geologo per aumentare la superficie di reazione (nel nostro caso per rendere il più possibile

omogeneo il nostro campione e facilitare così la sua fusione e il suo mescolamento).

L’esperimento di fusione è avvenuto attraverso l’utilizzo di un forno ad alta temperatura della

Nabertherm.

Questo forno è costituito da:

- un’isolante a bassa massa termica che assicura un riscaldamento rapido della fornace.

- apertura della fornace attraverso un portellone a maniglia di sicurezza per proteggere gli operatori

dalla vampata.

- un dispositivo di sicurezza applicato al portellone che consente di interrompere la tensione

all’apertura del portellone della fornace.

- una doppia parete metallica attorno alla fornace che consente di creare un flusso d’aria per

mantenere fredde le pareti all’esterno della fornace (EN61010).

- un programmatore a rampe su 8 o 16 segmenti.

- Temperatura massima di lavoro di 1750°.

- una camera da 16 litri.

- elementi riscaldanti in disiliciuro di molibdeno disposti sui due lati verticali della fornace, che

assicurano una buona uniformità termica, sono stati creati per resistere ad utilizzi frequenti della

fornace garantendo la longevità dello strumento.

- contatore di corrente applicata.

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Figura 2.1.1: forno di fusione della Nabertherm usato nell’esperimento.

Figura 2.1.2: Foto del campione portato a fusione

La polvere del campione, dopo essere stata macinata, è stata alloggiata all’interno di un crogiolo di

platino, dapprima inserito all’interno del forno per essere scaldato. La sintesi è avvenuta per tappe,

aggiungendo ad ogni intervallo un lieve quantitativo di materiale e creando una sovrapposizione di

strati con la polvere finché il nostro campione fuso non è pronto per essere colato. Una volta

raggiunta la temperatura in cui il campione è tutto fuso questo è stato colato all’interno di un piatto

di acciaio. Il piatto di acciaio poi è stato inserito all’interno di un beaker di acqua fredda

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per accelerare il raffreddamento del materiale di fondo. Il risultato finale ottenuto da questa sintesi è

un vetro omogeneo, materiale di partenza per tutte le misure sia di viscosità che di cristallizzazione

e fattore fondamentale per una valida reattività del campione e per eliminare il contenuto in volatili.

La durata di questa sintesi dipende dalla temperatura, poiché si è osservato che quanto più questa è

bassa tanto più lentamente il sistema raggiunge una fase di equilibrio.

2.2 Esperimento di cristallizzazione

Il vetro ottenuto dalla precedente sintesi è stato inserito all’interno di un crogiuolo cilindrico

(Pt80Rh20, altezza di 5,1 cm, 2,56 cm di diametro interno, 0,1 cm di spessore) ed è stato portato a

fusione all’interno di un reometro a cilindri concentrici, per l’effettuazione dell’esperimento di

cristallizzazione.

2.2.1Reometro a cilindri concentrici

Lo strumento utilizzato è chiamato Reometro a cilindri concentrici Anton Paar RheolabQC e si

trova presso il laboratorio di vulcanologia sperimentale di Geologia dell’università di Roma Tre.

Lo parte sommitale dello strumento è costituita da un’asta (spindle) che ruota su sé stessa a una

velocità angolare costante. Il crogiuolo di platino viene inserito all’interno di un forno tubolare e

l’asticella di platino viene inserita lei stessa all’interno del crogiuolo e fatta ruotare a velocità

desiderata. Lo strumento misura il momento torcente, cioè la resistenza opposta dal fuso al

movimento dell’asticella, e converte tale misura in viscosità. La velocità angolare dell’asticella di

platino viene sempre stabilita all’inizio della misura e viene variata durante la misura stessa(da 0,5

a 100 rpm). Di seguito viene riportata l’equazione di funzionamento dello strumento con cui si

ricava la misura di viscosità:

η = torque . (- r2

spindle/r2crogiuolo)/4πlΩr

2spindle (eq 2.1)

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24

Figura 2.2.1.1: Nelle due immagini è rappresentato il Reometro a cilindri concentrici. La foto a

sinistra mostra le componenti principali e le misure.

2.2.2 Esperimento di cristallizzazione.

In questo lavoro si è effettuato un esperimento di cristallizzazione a partire da un fuso di

composizione fonolitica - tefrifonolitica derivante da pomici dell’eruzione del 472 A.D. di Pollena

(Vesuvio).

L’esperimento è stato condotto a 1200 °C per una durata complessiva di circa 3 ore.

Al termine dell’esperimento il crogiuolo di platino è stato estratto dal forno e raffreddato

velocemente in acqua.

Il prodotto sperimentale è stato di seguito carotato in un carotiere verticale e sono state preparate

sezioni longitudinali e laterali del campione per la successiva analisi tessiturale del prodotto.

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2.3 Preparazione dei campioni

Le analisi tessiturali effettuate sui campioni hanno richiesto una fase di preparazione del materiale

che consiste, in generale, in una fase di inglobamento dei campioni e in una di lucidatura. I

campioni sperimentali ottenuti dall’esperimento di quenching sono stati prima carotati e poi

inglobati in resina epossidica. Il carotaggio ha permesso di isolare tre parti diverse del campione,

rispettivamente al tetto, alla base e al centro del crogiuolo di platino (Pn2 = top, Pn3 = middle,

Pn4 = bottom).

Il campione così preparato è stato inglobato in resina epossidica. Dopo aver colato la resina

all’interno del porta campione si è aspettato un giorno, in modo che il campione si possa solidificare

perfettamente. Le pasticche ottenute sono state, poi, abbassate per fare sì che le superfici cristalline

fossero ben visibili. L’abbassamento può essere fatto a mano tramite una carta abrasiva oppure con

una macchina lucidatrice in cui è sistemata la carta abrasiva. La procedura successiva è consistita

nella lucidatura ed è stata effettuata con la macchina lucidatrice, l’obiettivo è rimuovere l’effetto

opaco causato dall’inglobamento. La macchina lucidatrice a panno (Struers Labopol-5) è costituita

da:

- una testa porta campione (LaboForce)

- un giradisco dove viene alloggiato il panno per la lucidatura

- una manopola per regolare la velocità da 0 a 500 rpm

- tre tipologie di panni per la lucidatura

- diversi lubrificanti per ottenere migliori risultati

La procedura è avvenuta in 3 step utilizzando tre panni a di dimensione abrasiva sempre minore, il

primo con particelle abrasive in allumina della dimensione del micrometro, il secondo con le

dimensioni di 0,3 micrometri e il terzo con dimensioni di 0,1 micrometri accompagnando questi

step con l’utilizzo di paste lubrificanti in allumina.

Figura 2.3.1: La figura mostra le sezioni inglobate per l’acquisizione delle immagini, dopo

essere state lucidate. Da destra a sinistra Pn2, Pn3, Pn4.

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2.4 Microscopio Ottico

Dopo aver lucidato i campioni, cercando di eliminare il più possibile i graffi che potrebbero essere

molto visibili ad ingrandimenti più alti, si è provveduto a mettere i campioni sotto al microscopio

ottico per ottenere delle immagini ingrandite delle sezioni inglobate ed ottenere più facilmente i

parametri tessiturali. Lo strumento usa come sorgente la luce, ha tre ingrandimenti 10 x, 50 x e

100 x e uno strumento di messa a fuoco. La procedura consiste nello scegliere, inizialmente, un

transetto da effettuare con il microscopio e poi orientare il campione e muovere la luce nel

microscopio in direzione del transetto scelto. Partendo dalla prima foto si sceglie un punto di

riferimento da seguire tra la foto precedente e quella successiva in modo da avere un transetto finale

con la giusta sovrapposizione tra le varie foto. Si è deciso, quindi, di fare sui tre campioni (Pn2, Pn3

e Pn4) vari transetti, rispettivamente uno per il campione 2, due per il campione 3 e tre per il

campione 4.

Figura 2.4.1: La figura mostra il microscopio che è stato utilizzato per ricavare le immagini dei

campioni sperimentali.

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3. Presentazione dei dati

3.1 Analisi sui campioni sperimentali

Alla fine dell’esperimento il campione è stato raffreddato in aria, poi carotato a diverse altezze (top,

middle e bottom) e preparato per le successive analisi tessiturali. Questo paragrafo descrive le

analisi tessiturali effettuate sui campioni realizzati nell’esperimento del Reometro a 1200°. Le

analisi tessiturali sono fondamentali per ricostruire le dinamiche eruttive e hanno come fine la stima

dell’abbondanza, della distribuzione e della forma dei cristalli presenti all’interno dei campioni,

nonché la velocità di crescita di queste fasi cristalline. Per le analisi tessiturali sono state utilizzate

le foto dei transetti ottenute attraverso il microscopio ottico, queste immagini sono state processate

prima attraverso il programma “Adobe Illustrator” che ha permesso di estrarre le foto e di realizzare

delle strisce continue dei transetti realizzati. Poi per digitalizzare le immagini e misurare i parametri

geometrici delle varie componenti è stato utilizzato il software “Image J”. Per misurare i parametri

occorre per prima cosa convertire le immagini dei transetti in immagini binarie in bianco e nero.

Questa procedura può essere effettuate attraverso un’operazione di filtrazione automatica

(thresholding), isolando le tonalità necessarie e cercando di eliminare il più possibile i difetti

contenuti nell’immagine precedente (per esempio graffi rimasti dalla lucidatura), o ricalcando

semplicemente le aree dei cristalli presenti nel transetto. Prima di ogni operazione con le immagini

binarie è necessario impostare la barra della scala di riferimento immettendo nel software la

risoluzione dell’immagine in rapporto tra pixels e millimetri. Le immagini acquisite dal

microscopio ottico sono state impostate con una risoluzione di 1121,83 pixels/mm.

Figura 3.1.1: Esempio di immagini trattate con ImageJ, l’immagine superiore è il transetto

originale mentre quella inferiore rappresenta l’immagine binaria dopo il trattamento con ImageJ.

Per ottenere i dati per le analisi tessiturali sono state realizzate due immagini binarie dello stesso

transetto in modo da isolare le fasi cristalline presenti nel transetto ed avere così i dati separati di

entrambe le fasi; nella prima sono presenti solo leuciti mentre nella seconda sono presenti solo

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pirosseni. Nei dati ottenuti dalle analisi tessiturali sui campioni Pn2, Pn3 e Pn4 si nota come il

contenuto cristallino vari notevolmente andando dal campione Pn2 al campione Pn4. Nel campione

Pn 2 (top) vengono contate 659 leuciti e 7936 pirosseni, nel campione Pn 3 (middle) vengono

contate circa 550 leuciti e 3654 pirosseni, infine nel campione Pn 4 (bottom) vengono contate 89

leuciti e 186 pirosseni.

Al fine di ottenere in un unico prodotto sperimentale, campioni a diverso grado di cristallinità, si è

scelto di inserire il crogiuolo di platino ad un’ altezza all’interno del forno leggermente dislocata

rispetto al punto caldo del forno (hot spot), soggetta quindi a un certo gradiente termico, di circa

30°C. L’esistenza di questo gradiente termico ha permesso infatti di avere, all’interno dello stesso

campione sperimentale, diverse sezioni di liquido sottoposte a temperature diverse, quindi a diversi

gradi di sottoraffreddamento e quindi a diversi gradi di cristallizzazione.

La presenza di una termocoppia interna ed esterna al crogiuolo di platino permette di conoscere con

esattezza il gradiente di temperatura lungo la verticale del forno e quindi di assegnare ad ogni punto

all’interno del liquido il preciso valore di temperatura e di sottoraffreddamento.

Sulla base di ciò, le temperature reali a cui il liquido di Pollena è stato sottoposto durante

l’esperimento di cristallizzazione sono le seguenti:

Pn2 – Top = 1184 °C

Pn3 – Middle = 1200 °C

Pn4 – Bottom = 1216 °C

Figura 3.1.2: Nella figura a sinistra è rappresentato l’esperimento a 1200°C mentre nella figura a

destra è rappresentata la collocazione dei campioni Pn2, Pn3 e Pn4 all’interno dello strumento.

Pn2

n2

Pn3

Pn4

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29

Figura 3.1.3: Nell’immagine in alto sono rappresentati i campioni sperimentali mentre

nell’immagine in basso sono evidenziati i transetti realizzati con le immagini acquisite dal

microscopio ottico.

2 3 4

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30

4A 4B 4C

Figura 3.1.4: Nella figura sono

rappresentati i transetti del campione Pn4

(Bottom).

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31

4C 4A 4B

Figura 3.1.5: Nella figura sono

rappresentati i transetti delle sole leuciti

del campione Pn4 (Bottom).

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32

4B 4C

Figura 3.1.5: Nella figura sono

rappresentati i transetti dei soli pirosseni

del campione Pn4 (Bottom).

Page 33: Tesi Finale

33

3A (1) 3A (2) 3B

Figura 3.1.6: Nella figura sono

rappresentati i transetti del campione Pn3

(Middle).

Page 34: Tesi Finale

34

Figura 3.1.7: Nella figura sono

rappresentati i transetti delle sole Leuciti

del campione Pn3 (Middle).

3B 3A (2) 3A (1)

Page 35: Tesi Finale

35

Figura 3.1.8: Nella figura sono

rappresentati i transetti dei soli Pirosseni

del campione Pn3 (Middle).

3B 3A (2) 3A (1)

Page 36: Tesi Finale

36

Figura 3.1.9: Andando dall’alto verso il basso, nella prima e seconda immagine è possibile

vedere il campione Pn2 in cui sono messi in evidenza prima i cristalli di Leucite e poi quelli di

Pirosseno, nella terza e quarta è presente il transetto in Image J con i cristalli di Leucite e quelli di

Pirosseno isolati.

L’analisi delle immagini con Image J ci ha permesso di ricavare i parametri fondamentali delle fasi

cristalline come: l’area del cristallo, i valori dell’asse maggiore e dell’asse minore, l’angolo, la

circolarità, l’area fraction, la rotondità, la solidità e l’aspect ratio.

Il primo parametro utile è stato ricavato dall’analisi delle forme cristalline che, data la loro

complessità, è stato necessario trattare attraverso l’utilizzo del software CSD SLICE (Morgan and

Jerram, 2006). CSD SLICE incorpora al suo interno un database con le forme cristalline e

,attraverso il confronto con 703 abiti cristallini, trova la curva che approssima in modo migliore la

forma in 2D della popolazione di cristalli che si sta analizzando. I dati ottenuti da CSD SLICE

verranno utilizzati per la costruzione delle curve di CSD (crystal size distribution).

Page 37: Tesi Finale

37

0.0000

0.0200

0.0400

0.0600

0.0800

0.1000

0.1200 0

.04

0.1

2

0.2

0.2

8

0.3

6

0.4

4

0.5

2

0.6

0.6

8

0.7

6

0.8

4

0.9

2

1

no

rma

lis

ed

fre

q

2D sa/la

Best fit shape curve

Leuciti Pn4

1.00 1.25 1.40

0.0000

0.0200

0.0400

0.0600

0.0800

0.1000

0.1200

0.0

4

0.1

2

0.2

0.2

8

0.3

6

0.4

4

0.5

2

0.6

0.6

8

0.7

6

0.8

4

0.9

2

1

no

rma

lis

ed

fre

q

2D sa/la

Best fit shape curve

Pirosseni Pn4

1.00 1.70 6.00

B

A

Page 38: Tesi Finale

38

0.0000

0.0200

0.0400

0.0600

0.0800

0.1000

0.1200 0

.04

0.1

2

0.2

0.2

8

0.3

6

0.4

4

0.5

2

0.6

0.6

8

0.7

6

0.8

4

0.9

2

1

no

rma

lis

ed

fre

q

2D sa/la

Best fit shape curve

Leuciti Pn3

1.00 1.15 1.60

0.0000

0.0200

0.0400

0.0600

0.0800

0.1000

0.1200

0.0

4

0.1

2

0.2

0.2

8

0.3

6

0.4

4

0.5

2

0.6

0.6

8

0.7

6

0.8

4

0.9

2

1

no

rma

lis

ed

fre

q

2D sa/la

Best fit shape curve

Pirosseni Pn3

1.00 1.60 3.60

C

D

Page 39: Tesi Finale

39

Figura 3.1.8: Andando dall’alto verso il basso vengono mostrati i grafici (A, B, C, D, E, F),

realizzati col software di Morgan e Jerran, che indicano la forma dei cristalli in 3D di Pn4, Pn3 e

Pn2. Il foglio di calcolo di Morgan e Jerran permette una stima oggettiva dell’abito di un cristallo,

da prime misurazioni in 2D. La linea tratteggiata rappresenta il modello ideale e le linee continue

colorate sono relative ai dati delle analisi.

0.0000

0.0200

0.0400

0.0600

0.0800

0.1000

0.1200

0.0

4

0.1

2

0.2

0.2

8

0.3

6

0.4

4

0.5

2

0.6

0.6

8

0.7

6

0.8

4

0.9

2

1

no

rma

lis

ed

fre

q

2D sa/la

Best fit shape curve

Leuciti Pn2

1.00 1.30 1.60

0.0000

0.0200

0.0400

0.0600

0.0800

0.1000

0.1200

0.0

4

0.1

2

0.2

0.2

8

0.3

6

0.4

4

0.5

2

0.6

0.6

8

0.7

6

0.8

4

0.9

2

1

no

rma

lis

ed

fre

q

2D sa/la

Best fit shape curve

Pirosseni Pn2

1.00 1.15 1.60

E

F

Page 40: Tesi Finale

40

Come si può vedere dai grafici, i dati di CSD SLICE suggeriscono la presenza di abiti cristallini

diversi nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 ,sia nelle leuciti sia nei pirosseni, nonché andamenti delle

popolazioni di cristalli diversi. Di seguito sono riportati i dati sugli abiti cristallini esaminati,

ottenuti dal rapporto tra l’asse maggiore e minore degli oggetti:

Leuciti Pn4 = 1.0 : 1.25 : 1.40

Leuciti Pn3 = 1.0 : 1.15 : 1.60

Leuciti Pn2 = 1.0 : 1.30 : 1.60

Pirosseni Pn4 = 1.0 : 1.70 : 6.0

Pirosseni Pn3 = 1.0 : 1.60 : 3.60

Pirosseni Pn2 = 1.0 : 1.15 : 1.60

I dati di CSD SLICE sono stati fondamentali per la realizzazione delle curve di CSD. La

realizzazione delle curve di CSD è avvenuta con l’utilizzo del programma “CSD Corrections” in cui

sono stati inseriti alcuni dati ottenuti dall’analisi delle immagini in Image J. Come fatto

precedentemente, sono state realizzate per ogni campione sperimentale due CSD, una per le leuciti e

una per i pirosseni.

Nelle figure successive vengono riportate le CSD dei campioni sperimentali esaminati:

Figura 3.1.9: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione

Pn4.

0

1

2

3

4

5

6

7

8

0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

Page 41: Tesi Finale

41

Figura 3.1.10: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione

Pn4.

Figura 3.1.11: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione

Pn3.

0

2

4

6

8

10

12

0 0.05 0.1 0.15 0.2

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m- 4

)

L (mm)

0

2

4

6

8

10

12

0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

Page 42: Tesi Finale

42

Figura 3.1.12: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione

Pn3.

Figura 3.1.13: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di leucite (CSD) nel campione

Pn2.

0

2

4

6

8

10

12

14

0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m- 4

)

L (mm)

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L(mm)

Page 43: Tesi Finale

43

Figura 3.1.14: Grafico relativo alla distribuzione dei cristalli di pirosseno (CSD) nel campione

Pn2.

Per evidenziare meglio le eventuali differenze tra i campioni, nelle due figure successive vengono

mostrate le curve di CSD di leuciti e pirosseni per tutti i campioni esaminati.

Figura 3.1.15: Grafico che mette a confronto le CSD delle leuciti nei campioni Pn 2, Pn 3 e

Pn 4.

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

0 0.05 0.1 0.15 0.2 0.25 0.3 0.35

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

0

2

4

6

8

10

12

0 0.2 0.4 0.6 0.8

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

Lct Pn4

Lct Pn3

Lct Pn2

Page 44: Tesi Finale

44

Figura 3.1.16: Grafico che mette a confronto le CSD dei pirosseni nei campioni Pn 2, Pn 3 e

Pn 4.

Come si può vedere dai grafici l’andamento della CSD, sia nei pirosseni che nelle leuciti, è

semilogaritmico ed è quindi in accordo con la teoria generale. Per ottenere dei buoni andamenti per

le CSD sono state considerate solo le taglie cristalline inferiori a 0,006 mm in quanto si è notato che

i valori minori di 0,006 mm non appartenevano alle fasi cristalline ed erano, quindi, dati da

escludere dal conteggio delle aree. Questo è ben visibile nella figura 3.1.13 dove gli spot gialli e

quelli arancioni rappresentano l’intervallo di taglie cristalline della CSD prima dell’esclusione.

Successivamente i dati, ricavati dall’analisi delle immagini, sono stati utilizzati per ricavare i tassi

di nucleazione e crescita di leuciti e pirosseni nei tre campioni. I tassi di nucleazione (J) e crescita

(G) sono stati calcolati seguendo la formulazione riportata in Vona e Romano (2013). I tassi di

crescita sono stati calcolati usando i dati di lunghezza e spessore dei dieci cristalli più grandi

presenti in ogni campione, secondo la seguente formula:

G = (l x w)0,5

/(2 x Δt) eq 3.1

dove l e w sono rispettivamente lunghezza e spessore, mentre Δt rappresenta il tempo

dell’esperimento che nel nostro caso è di circa 3 ore.

Sotto sono elencati i tassi di crescita media (GM) nei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4:

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

px Pn4

px Pn3

px Pn2

Page 45: Tesi Finale

45

GM leuciti Pn 4 = 1.16 . 10

-8 m/s

GM leuciti Pn 3 = 8.29 . 10

-9 m/s

GM leuciti Pn 2 = 5.12 . 10

-9 m/s

GM pirosseni Pn 4 = 2.02 . 10

-9 m/s

GM pirosseni Pn 3 = 3.34 . 10

-9 m/s

GM pirosseni Pn 2 = 2.19 . 10

-9 m/s

Il tasso medio di nucleazione può essere espresso come:

J = Nv/Δt eq 3.2

dove Nv è il volume number density e Δt indica sempre il tempo sperimentale. A sua volta il volume

number density può essere espresso come:

Nv = NA/Sn eq 3.3

dove NA è l’area number density e Sn indica la taglia cristallina caratteristica. NA e Sn sono

facilmente ricavabili dai dati dell’analisi delle immagini. NA si ottiene dividendo il numero totale di

cristalli per l’area occupata da essi e Sn dividendo l’area fraction per Na ed elevando tutto a un

fattore 0,5 (Sn = (φ/NA)0.5

). Con tutti i dati a disposizione si sono quindi ricavati i tassi di

nucleazione (J) per i campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 come riportato di seguito:

J leuciti Pn 4 = 7,50 . 10

6 (m

-3/s)

J leuciti Pn 3 = 2,35 . 10

7 (m

-3/s)

J leuciti Pn 2 = 1,77 . 10

8 (m

-3/s)

J pirosseni Pn 4 = 8,60 . 10

7 (m

-3/s)

J pirosseni Pn 3 = 4,17 . 10

8 (m

-3/s)

J pirosseni Pn 2 = 7,63 . 10

9 (m

-3/s)

I tassi di nucleazione e crescita sono stati, poi, messi in relazione con il tasso di sottoraffreddamento

(ΔT = Tliq – Tsistema). Quindi abbiamo stabilito con l’utilizzo del software MELTS (Ghiorso and

Sack, 1995; Asimow and Ghiorso, 1998) che la temperatura di liquidus sia di 1285°C e abbiamo

sottratto ad essa rispettivamente i valori di 1184 °C per il campione Pn 2, 1200°C per il campione

Pn 3 e 1216°C per il campione Pn 4. Queste temperature corrispondono alle temperature

sperimentali a cui il liquido di Pollena è stato sottoposto alle diverse altezze all’interno del

crogiuolo sperimentale. I valori del tasso di sottoraffreddamento (ΔT) sono dunque: 69°C per il

campione Pn 4, 85°C per il campione Pn 3 e 101°C per il campione Pn 2. Unendo tutti i dati in un

Page 46: Tesi Finale

46

grafico, tasso di nucleazione e crescita contro tasso di sottoraffreddamento si ottiene il seguente

risultato:

Figura 3.1.17: La figura rappresenta il tasso di nucleazione e crescita contro il tasso di

sottoraffreddamento, sopra per le leuciti e sotto per i pirosseni.

Page 47: Tesi Finale

47

4. Discussione dei risultati

4.1 Introduzione

Dai campioni ottenuti durante l’esperimento di cristallizzazione, si può notare come il fattore

temperatura abbia fortemente influenzato le caratteristiche tessiturali e il contenuto in cristalli. I tre

campioni analizzati (Pn 2, Pn 3 e Pn 4) hanno cristallizzato a una temperatura diversa, grazie ad un

gradiente di temperatura tra il top e il bottom dello strumento di circa 32°C. Il campione Pn 2 (Top)

ha cristallizzato alla temperatura minore (1184°C) e presenta un contenuto in leuciti e pirosseni

notevole (leuciti: 659; pirosseni: 7936). Il campione Pn 3 (Middle) ha cristallizzato a una

temperatura media tra il top e il bottom (1200°C) e il contenuto in cristalli è abbastanza alto ma

comunque inferiore a quello del campione Pn 2, soprattutto nei pirosseni (leuciti: 550; pirosseni:

3654). Infine il campione Pn 4 (Bottom) ha cristallizzato alla temperatura più alta (1216°C) e ha un

contenuto in cristalli molto basso sia nel caso delle Leuciti che in quello dei pirosseni (leuciti: 89;

pirosseni: 186); da sottolineare è il fatto che in questo campione l’unico transetto che permette di

notare una discreta presenza di pirosseni è il 4C.

4.2 Analisi di CSD

Gli abiti cristallini dei campioni Pn 2, Pn 3 e Pn 4 sono stati valutati attraverso il software CSDslice

(Morgan and Jerram, 2006). I dati in 2D, espressi come asse maggiore e minore dell’ellisse meglio

rappresentato, sono stati confrontati a un database che contiene le curve di forma, e sono stati

convertiti nell’abito 3D con il miglior fitting in termini di asse minore, asse intermedio e asse

maggiore. Il range di valori per le Leuciti è tra 1.0 : 1.15 : 1.40 e 1.0 : 1.30 : 1.60, mentre per i

Pirosseni è tra 1 : 1.15 : 1.60 e 1 : 1.70 : 6.0. Sia nelle leuciti che nei pirosseni l’asse minore ha un

valore costante, l’asse intermedio ha il suo valore massimo nelle leuciti del campione Pn 2 e nei

pirosseni del campione Pn 4 e l’asse maggiore ha il suo valore maggiore nelle leuciti dei campioni

Pn 2 e Pn 3 e nei pirosseni del campione Pn 4. Inoltre l’asse intermedio ha il suo valore minimo

nelle leuciti del campione Pn 3 e nei pirosseni del campione Pn 2 e infine l’asse maggiore ha il suo

valore minimo nelle leuciti e nei pirosseni di Pn 2.

Gli stessi dati in 2D sono stati utili per ricavare le crystal size distribution (CSD) dei tre campioni,

la conversione stereologica è avvenuta, come spiegato nel capitolo precedente, attraverso l’utilizzo

di CSDCorrections. I diagrammi di CSD ottenuti sono semilogaritmici e mostrano in generale una

concavità verso l’alto. Essi mettono in relazione la densità di popolazione, n(L) (mm-4

), che è il

Page 48: Tesi Finale

48

numero di cristalli di taglia L contenuti nell’unità di volume, con la lunghezza caratteristica dei

grani. Di seguito sono riportati i diagrammi delle CSD riassuntivi dei campioni Pn2, Pn3 e Pn4 sia

per le leuciti che per i pirosseni.

Il diagramma descrive bene le caratteristiche dei campioni sperimentali. Le leuciti dei campioni

Pn2 e Pn3 hanno un andamento abbastanza inclinato nei valori piccoli di taglia, non a caso

osservando l’analisi delle immagini si può verificare la presenza di Leuciti soprattutto di piccola

taglia che sono probabilmente cristalli di quenching. Nel caso del campione Pn4, si può notare

come l’andamento della curva sia molto più blando rispetto a quello degli altri due e si spinga a

valori di taglie cristalline molto più grandi. Questo è riscontrabile, di nuovo, dall’analisi delle

immagini che testimonia la formazione di cristalli di leucite molto grandi, che probabilmente si

sono formati durante la fase sperimentale principale.

0

2

4

6

8

10

12

0 0.2 0.4 0.6 0.8

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

Lct Pn4

Lct Pn3

Lct Pn2

Page 49: Tesi Finale

49

Anche questo diagramma conferma le caratteristiche dei campioni sperimentali. L’andamento della

curva del campione Pn 2 presenta un inclinazione notevole per i pirosseni di taglia piccola, mentre

assume un inclinazione più blanda andando verso le taglie maggiori (0.29 mm). Da questo grafico si

può notare l’andamento incompleto del campione Pn 4, che in realtà non è da considerare affidabile

data la scarsità del numero di pirosseni all’interno del campione.

4.3 Nucleazione e crescita

I tassi di nucleazione e crescita delle leuciti e dei pirosseni sono stati calcolati a partire dall’analisi

tessiturale del prodotto sperimentale e sono stati analizzati rispetto al tasso di sottoraffreddamento.

Il grafico realizzato mette in relazione il GM dei 10 cristalli di leucite e pirosseno più grandi dei tre

campioni sperimentali, il tasso di nucleazione per la leucite e il pirosseno degli stessi campioni

sperimentali e il tasso di sottoraffreddamento. Il tasso di sottoraffreddamento è stato calcolato

utilizzando le temperature del campione Pn2, Pn3 e Pn4 e la temperatura di liquidus ricavata dai

calcoli del software MELTS (Ghiorso and Sack, 1995; Asimow and Ghiorso, 1998) in cui sono

state inserite le composizioni di Giordano et al. (2009). Gli ordini di grandezza dei GM variano per

le leuciti tra 8.29 . 10

-9 m/s (Pn3) e 1.16

. 10

-9 m/s (Pn4) e per i pirosseni tra 2.02

. 10

-9 m/s (Pn3) e

3.34 . 10

-9 m/s (Pn4). Per quanto riguarda gli ordini di grandezza dei J invece, le leuciti hanno valori

compresi tra 1.77 . 10

8 m

-3/s (Pn2) e 7.50

. 10

6 m

-3/s (Pn4) mentre i pirosseni hanno valori compresi

tra 8.60 . 10

7 m

-3/s (Pn4) e 7.63

. 10

9 m

-3/s (Pn2). Gli ordini di grandezza dei GM per le Leuciti hanno

valori leggermente superiori a quelli calcolati da Shea sull’eruzione del 79 d.c. (Shea et al. 2009).

Mentre per quanto riguarda i Pirosseni, i valori sono inferiori a quelli calcolati da Campagnola

(2009) e da altri autori (Piermattei, 2005; Agostini 2009).

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

0 0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.6

ln p

op

ula

tio

n d

en

sity

(m

m-4

)

L (mm)

px Pn4

px Pn3

px Pn2

Page 50: Tesi Finale

50

Di seguito viene riproposto il grafico che mette in relazione il tasso di nucleazione e crescita e il

sottoraffreddamento.

Nei grafici sono rappresentate le campane di nucleazione e crescita di leuciti e pirosseni. Come si

può vedere per bassi valori di sottoraffreddamento viene favorita la crescita, la campana di crescita

ha il suo picco a ΔT = 60°C nelle leuciti e a ΔT = 80°C nei pirosseni. Per valori medi di

sottoraffreddamento viene favorita la nucleazione, la campana di nucleazione ha il suo picco a

Page 51: Tesi Finale

51

ΔT = 120°C nelle leuciti e a ΔT = 110°C nei pirosseni. Infine per valori di sottoraffreddamento alti,

si ha nucleazione e crescita scarsa o nulla.

Inoltre combinando i valori delle velocità di crescita di Leucite e Pirosseno con i parametri delle

analisi di CSD effettuate sui campioni naturali di Pollena, è stato possibile ricavare il tempo di

residenza del magma. I grafici di CSD dei campioni naturali sono mostrati sotto:

9

11

13

15

17

19

21

0 0.01 0.02 0.03 0.04 0.05

ln p

op

ula

tio

n d

en

sit

y (

mm

-4)

L (mm)

CSD Leucite Po3(L4t)

Po5(L4b)

Po8(L3)

Po10(L2)

Po11(L1t)

Po13(L1b)

Page 52: Tesi Finale

52

Figura 4.3.1: Nei grafici a e b sono rappresentate le CSD dei campioni naturali, per le Leuciti e

per i Pirosseni. Con le sigle L1 - L4 sono indicati gli strati analizzati mentre con Po (3, 5, 8, 10, 11,

13) sono indicati i rispettivi campioni. Le linee nere indicano le rette di interpolazione usate per

calcolare lo slope.

Il tempo di residenza del magma è facilmente calcolabile attraverso questa relazione, già

precedentemente definita:

slope = -1/Gtr

Il valore dello slope è ricavabile direttamente dal grafico, calcolando il coefficiente angolare della

retta di interpolazione. Unendo questo valore a quelli delle velocità di crescita calcolati in

precedenza si ottiene il tempo di residenza. Per le Leuciti il tempo di residenza calcolato è di circa 2

ore. Per i Pirosseni di taglia inferiore ai 0.05 mm il tempo di residenza è di circa 4 ore, mentre per i

Pirosseni di taglia superiore ai 0.05 mm il tempo di residenza è di circa 28 ore.

5. Conclusioni

L’obiettivo di questa tesi è stato quello di ottenere, con degli esperimenti, la cinetica di

cristallizzazione dei magmi dell’eruzione di Pollena (472 d.c.). Studiare la cinetica di

cristallizzazione in varie condizioni, permette di ottenere dati utilizzabili per investigare la storia

5

7

9

11

13

15

17

19

0 0.05 0.1 0.15

ln p

op

ula

tio

n d

en

sit

y (

mm

-4)

L (mm)

CSD Clinopyroxene

Po3(L4t)

Po5(L4b)

Po8(L3b)

Po10(L2b)

Po11(L1t)

Po13(L1b)

Page 53: Tesi Finale

53

evolutiva del magma, i processi di risalita e la dinamica eruttiva. Un ulteriore risultato è quello di

relazionare la formazione dei cristalli con la viscosità che è uno dei fattori fondamentali per definire

l’esplosività di un’ eruzione vulcanica. L’esperimento svolto a 1200°C ha permesso di ottenere dei

campioni sottoposti a un gradiente di temperatura. E’ stato possibile, quindi, mettere a confronto

questi tre campioni a diversa temperatura in termini di contenuto in cristalli e di velocità di crescita

e di nucleazione degli stessi. La realizzazione dei diagrammi CSD ha permesso di avere una stima

sulla distribuzione delle taglie cristalline dei tre campioni.

Le velocità medie di crescita (GM) sono state stimate dagli esperimenti di cristallizzazione. Di

seguito, sono riassunte nuovamente le velocità di crescita di leuciti e pirosseni nei tre campioni:

GM leuciti Pn4 = 1.16 . 10

-9 m/s; T = 1216°C

GM leuciti Pn3 = 8.29 . 10

-9 m/s; T = 1200°C

GM leuciti Pn2 = 5.12 . 10

-9 m/s; T = 1184°C

GM pirosseni Pn4 = 2.02 . 10

-9 m/s = 1216°C

GM pirosseni Pn3 = 3.34 . 10

-9 m/s = 1200°C

GM pirosseni Pn2 = 2.19 . 10

-9 m/s = 1184°C

Come precedentemente sottolineato, questi valori hanno un ordine di grandezza confrontabile a

quello dei risultati di altri studi di cinetica di cristallizzazione.

Oltre alle velocità di crescita si è ricavato anche il tasso di nucleazione J, i risultati nelle leuciti e nei

pirosseni dei tre campioni sono riassunte sotto:

J Leuciti Pn4 = 7.50 . 10

6 (m

-3/s); T = 1216°C

J Leuciti Pn3 = 2.35 . 10

7 (m

-3/s); T = 1200°C

J Leuciti Pn2 = 1.77 . 10

8 (m

-3/s); T = 1184°C

J Pirosseni Pn4 = 8.60 . 10

7 (m

-3/s); T = 1216°C

J Pirosseni Pn3 = 4.17 . 10

8 (m

-3/s); T = 1200°C

J Pirosseni Pn2 = 7.63 . 10

9 (m

-3/s); T = 1184°C

Relazionando questi dati al tasso di sottoraffreddamento, si è riuscito a realizzare un grafico che

riproduce, in accordo con la teoria generale di nucleazione e crescita, l’andamento del tasso di

nucleazione e crescita con il sottoraffreddamento.

Infine utilizzando questi dati, in congiunzione con analisi tessiturali effettuate su campioni naturali

dell’eruzione di Pollena, si sono ricavati i tempi di residenza del magma in camera magmatica e il

tempo di risalita, parametri molto importanti per determinare le dinamiche eruttive.

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Ringraziamenti

Al termine di questo lavoro tesi, è per me doveroso ringraziare la mia relatrice, la professoressa

Claudia Romano per avermi dato la possibilità di svolgere questo lavoro.

Ringrazio il Dott. Alessandro Vona per l’aiuto che mi ha fornito durante la tesi e per la sua simpatia

che ha alleggerito questo percorso.

Ringrazio la mia famiglia e tutti gli amici che mi hanno accompagnato in questo percorso.

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