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LE POLITICHE ATTIVE PER IL REINSERIMENTO
LAVORATIVO DEGLI INVALIDI DEL LAVORO:
il modello sperimentale Inail
di
Maria Concetta Ambra
Tutors:
Prof. Massimo Paci
Prof. Enrico
Pugliese
Dottorato in Sistemi Sociali, Organizzazione e Analisi delle
Politiche Pubbliche
Sapienza Università di Roma
Anno Accademico 2009/2010

2
INDICE
Presentazione p. 6
I. Concetti, definizioni e quadro generale p. 10
1. La disabilità come concetto
multidimensionale
p. 10
2. Dall’etichettamento alla capacitazione:
l’approccio delle capacità applicato alla
disabilità
p. 16
3. Le persone con disabilità in Italia: i dati e le
fonti ufficiali
p. 20
II. L’evoluzione della protezione sociale delle
persone con disabilità in Italia
p. 32
1. Le società di mutuo soccorso e le prime forme
di assicurazione sociale contro il rischio
infortunio e invalidità.
p. 32
2. Nascita e consolidamento del sistema di
assicurazione obbligatorio
p. 38

3
3. Crisi e riforma del sistema di welfare italiano
di fronte ai nuovi rischi sociali
p. 43
III. Le politiche “passive” per le persone con disabilità in
Italia
p. 48
1. Prestazioni per le persone con disabilità civile p. 49
2. Prestazioni per i lavoratori con disabilità p. 53
3. Prestazioni per le persone con una invalidità
lavorativa
p. 54
IV. Il passaggio dalle politiche “passive” alle politiche
“attive” per l’inserimento lavorativo delle persone
con disabilità
p. 60
1. Alle origini delle politiche attive del lavoro:
dal welfare-to-work americano al work first
inglese
p. 63
2. L’approccio work first e le politiche attive del
lavoro per le persone con disabilità
p. 72
3. Verso il modello life first? p. 74

4
V. Le politiche per l’inserimento delle persone con
disabilità nel mercato del lavoro italiano
p. 78
1. Dal collocamento obbligatorio al
collocamento mirato
p. 78
2. Gli attori istituzionali per l’inserimento
lavorativo delle persone con disabilità
p. 81
3. La riforma dell’Inail: nuove politiche e
nuovo modello organizzativo
p. 85
VI. Analisi della sperimentazione Inail nei suoi
aspetti organizzativi e nei risultati conseguiti
p. 92
1. Obiettivi della ricerca e metodologia
utilizzata
p. 92
2. I risultati formativi e gli inserimenti
lavorativi delle persone con disabilità
p. 94
3. Conclusioni p. 100
Riferimenti bibliografici p. 106

5

6
Presentazione
Che cosa è la disabilità? Chi sono le persone con disabilità?
Qual è l’incidenza della disabilità sulla popolazione mondiale?
Quante sono le persone con disabilità nel nostro paese? Domande
semplici, ma di non facile risposta, dal momento che l’analisi della
disabilità per lungo tempo è stata complicata non solo dalla presenza
di una molteplicità di definizioni, ma anche dalla mancanza di dati
ufficiali, aggiornati e disponibili. Per avere una idea del problema, si
pensi che tra le vecchie stime globali sull’incidenza della disabilità
nella popolazione mondiale, la più accreditata, quella
dell’Organizzazione mondiale della sanità è del 1976, e calcolava
che circa il 10% della popolazione mondiale fosse affetta da
disabilità. Da allora, sono stati effettuati numerosi studi. Secondo le
ricerche più recenti, svolte all’inizio del 2000, l’incidenza della
disabilità sulla popolazione varierebbe tra lo 0,2% e il 21 %.
Quest’ampia oscillazione dipenderebbe più dai diversi metodi di
ricerca utilizzati per raccogliere i dati e dalle diverse definizioni di
disabilità adottate, che dal numero reale di persone con disabilità
presenti nei vari paesi. Ciò spiega il motivo e l’urgenza con la quale
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha puntato ad
elaborare una definizione standard e internazionalmente riconosciuta
di disabilità: quella contenuta nell’Internation Classification of
Functioning (ICF), di cui parleremo più approfonditamente nel par.
1.1, dopo aver ripercorso l’evoluzione del concetto attraverso le
precedenti definizioni di disabilità internazionalmente riconosciute.
A partire dalla nuova definizione di disabilità introdotta con l’ICF e
in seguito all’approvazione della Convenzione Onu sui diritti delle
persone con disabilità, ha iniziato a delinearsi un nuovo approccio
alla disabilità, incentrato sui diritti e sulle capacità delle persone. Nel
par. 1.2 illustreremo le caratteristiche del nuovo approccio,

7
sottolineando come sia possibile utilizzarlo per una più proficua
analisi del fenomeno della disabilità. Infine nel par. 1.3, dedicheremo
maggiore attenzione ai problemi di definizione della disabilità e di
raccolta dei dati nel nostro paese. L’Istat, infatti ha sottolineato che
le difficoltà di produrre informazioni e dati affidabili e confrontabili
relativi alla disabilità, sono derivate in particolare dalla
disomogeneità delle informazioni disponibili, soprattutto nel periodo
precedente al 2000. Negli anni successivi è stato possibile tuttavia,
raccogliere numerose informazioni sulle persone con disabilità, in
modo da fornire un quadro generale sul numero di persone con
disabilità presenti nel nostro paese e sulla loro inclusione nel mondo
del lavoro.
Nel secondo capitolo si è voluto ripercorrere la traiettoria che
ha condotto in Italia alla nascita di un sistema di protezione sociale
pubblico e obbligatorio, in modo da evidenziare i motivi a
fondamento della sua introduzione. Oggi infatti è in atto una
pericolosa tendenza alla “privatizzazione del rischio”, che sembra
ignorare le motivazioni storiche che hanno portato alla nascita dei
welfare states e che produce come risultato la reintroduzione di
formule private di tutela, inadeguate far fronte ai vecchi e ai nuovi
bisogni. Prima del sistema pubblico, era infatti possibile ricorrere ai
canali di protezione privati (il mercato assicurativo) e a quelli
tradizionali (la famiglia). A fronte dell’insufficienza di tali risposte
private e individuali sono state sperimentate forme collettive di
protezione sociale, come quella del mutualismo. Sono stati i limiti di
quest’ultimo a richiedere l’introduzione dell’intervento statale,
pubblico e obbligatorio.
Di fronte ai nuovi rischi sociali emergenti, tuttavia, l’attuale
sistema inizia a mostrare la sua inadeguatezza e nuovi percorsi di
riforma diventano sempre più urgenti. Nel terzo capitolo sono
descritte le attuali misure (passive) esistenti rivolte alle persone con
disabilità, sottolineando le differenze tra le prestazioni, in base alle
categorie di destinatari cui sono rivolte: invalidi civili, lavoratori con

8
disabilità e invalidi del lavoro. Nel capitolo successivo si analizza il
passaggio dalle politiche passive alle politiche attive. Dal modello
originario del welfare-to-work americano, al modello del work first
inglese, fino alla sua applicazione alle persone con disabilità. A
questo approccio si contrappone quello del life first, del quale
vengono illustrate le peculiarità, per metterne in evidenza le
differenze rispetto al più diffuso work first.
Infine la ricerca si concentra sul percorso di riforma
dell’Inail e sul nuovo modello di politiche sperimentali per il
reinserimento lavorativo degli invalidi del lavoro, evidenziando gli
aspetti normativi, istituzionali, funzionali e organizzativi del
processo di cambiamento e delineando le caratteristiche del nuovo
approccio adottato. In conclusione le politiche implementate
dall’Inail, vengono analizzate negli aspetti organizzativi e nei
risultati prodotti in termini di formazione e di reinserimento
lavorativo degli invalidi del lavoro coinvolti, sottolineandone i punti
di forza e di debolezza e in generale per la riforma del sistema di
protezione sociale italiano nel suo complesso.

9

10
CAPITOLO PRIMO
CONCETTI, DEFINIZIONI E QUADRO GENERALE
1. La disabilità come concetto multidimensionale
Il problema della quantificazione del numero di persone con
disabilità dipende in primo luogo dalla natura multidimensionale del
fenomeno stesso. Spesso la disabilità è stata concepita in modo
statico e per questo motivo, le persone che nel corso della propria
vita si sono trovate a far fronte ad un evento disabilitante, ancorché
temporaneo, non sono state incluse nell’universo rilevato, riducendo
in tal modo il numero di persone con disabilità.
“In qualunque momento della nostra esistenza possiamo
sperimentare, magari solo temporaneamente, una situazione di disabilità
causata da una malattia, un incidente, dall’invecchiamento, dall’ambiente
che ci circonda. A volte si tratta di una condizione che sappiamo essere
transitoria o che è possibile superare, a volte invece dobbiamo imparare a
convivere con il nostro limite, e trovare il modo per adeguarci” [Leonardi,
2008].
Sono inoltre escluse dalle rilevazioni, non solo le persone
con una disabilità temporanea, ma anche le persone che, per ragioni
legate all’invecchiamento o all’insorgere di malattie degenerative di
lungo corso, vanno incontro ad un progressivo processo di riduzione
dei livelli di autonomia nella gestione della propria vita quotidiana.
In questi casi infatti si parla di non autosufficienza più che di
disabilità.
Un secondo problema relativo all’analisi della disabilità
riguarda anche il modo in cui essa è valutata. In generale la disabilità

11
è verificata non in termini dicotomici (persona abile vs persona
disabile) ma all’interno di un continuum di possibilità e condizioni
diverse. Così come tutti gli individui si differenziano nelle loro
abilità e ognuno presenta capacità diverse rispetto agli altri, allo
stesso modo esistono anche vari tipi di disabilità (fisica, psichica o
relazionale), diversi livelli di disabilità (parziale, totale), oltre che
diverse evoluzioni della stessa (disabilità temporanea o permanente,
progressiva, recessiva o cronica).
Se la disabilità va analizzata all’interno di un continuum, è
anche vero che, per ragioni statistiche, ma anche per poter intervenire
sulla disabilità attraverso una serie di servizi, misure e politiche,
diventa cruciale stabilire dei limiti e delle soglie lungo questo
continuum individuando delle categorie esaustive e mutualmente
esclusive in grado di distinguere tipi e livelli di disabilità. Diventa
quindi estremamente importante stabilire i criteri secondo i quali la
disabilità è riconosciuta. Ecco perché la fase della valutazione della
disabilità e il metodo con cui essa è valutata diventano centrali, dal
momento che, in base al metodo di valutazione del tipo e del livello
di disabilità, si avranno variazioni nella sua definizione e di
conseguenza nell’accesso alle misure e agli interventi destinate alle
persone con disabilità.
Nei sistemi di welfare le persone con disabilità sono tutelate
e supportate attraverso una serie di misure e servizi sia di tipo
medico-riabilitativo, sia di tipo risarcitorio e di compensazione del
mancato guadagno, sia di tipo inclusivo e di promozione della
partecipazione sociale e lavorativa.
In alcuni sistemi di welfare, come accade per esempio in
quello italiano, le misure e le politiche rivolte alle persone con
disabilità si differenziano anche in base alla causa che ha
determinato un certo tipo o livello di disabilità. Per esempio alcune
misure di sostegno economico, sono rivolte esclusivamente ai
lavoratori dipendenti diventati invalidi a causa di un incidente sul

12
lavoro o ai pubblici dipendenti nell’esercizio delle loro funzioni per
cause di “servizio”, mentre la possibilità di accedere a tali misure,
interventi e politiche non è prevista per tutte le persone che
acquisiscano una qualche invalidità per cause accidentali o al di fuori
del contesto lavorativo.
“L’analisi dei dati evidenzia luci e ombre nel welfare italiano,
che si è dotato negli anni di buone leggi e buoni sistemi generali
organizzativi, ma che presenta ancora difficoltà applicative, vuoti
intrecci di competenze e sovrapposizioni di regole” [Leonardi, 2008, p.
10]
Fin qui abbiamo utilizzato le parole invalidità e disabilità come
fossero sinonimi, tuttavia nel nostro sistema legislativo i due termini
non coincidono, dal momento che l’invalidità civile è riconosciuta
dalla legge 118 del 1971, mentre la disabilità è certificata sulla base
di quanto stabilito dalla L. 104/1992.
In realtà il concetto di invalidità civile compare per la prima
volta nel 1939 (L. 636/1939) e fa riferimento all’assicurato la cui
capacità di guadagno, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, si
sia ridotta a meno della metà in modo permanente, per infermità o
difetto fisico e mentale.
Secondo la L.118/1971, invece, l’invalido civile è un cittadino
affetto da minorazioni (congenite, acquisite o progressive) o da
insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali, la cui
capacità lavorativa si sia ridotta di almeno un terzo, o - nel caso di
minori di 18 anni - con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le
funzioni della propria età. Come si nota, vengono quindi stabiliti due
diversi requisiti necessari per il riconoscimento dell’invalidità civile:
nel caso di persone in età lavorativa (da 18 a 65 anni) il criterio è
quello della compromissione della capacità di lavoro non inferiore ad
un terzo; nel caso di minori, invece il criterio è quello della difficoltà
a svolgere le funzioni proprie della loro età [Leonardi, 2008, p. 23].

13
Se non esistono criteri assoluti o definitivi per definire la
l’invalidità e la disabilità, e i concetti e le definizioni usate sono tutte
convenzionali e stabilite per ragioni pratiche, queste vanno anche
incontro a cambiamenti e variazioni nel corso degli anni e da paese a
paese.
Le due prime definizioni di disabilità internazionalmente
riconosciute sono state quella dell’Organizzazione mondiale della
sanità (OMS) nel 1980, e quella dell’Organizzazione delle Nazioni
Unite (ONU) nel 1993.
Secondo la definizione dell’OMS, basata sull’International
Classification od Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH):
“ la disabilità è la conseguenza di una menomazione, intesa come
perdita o riduzione di una struttura o una funzione fisica, fisiologica o
anatomica, che produce una significativa alterazione nelle capacità
dell’individuo indispensabili per condurre la propria vita quotidiana”.
Al concetto di disabilità si associa quello di handicap, ovvero di
svantaggio per l’individuo che è affetto (in maniera temporanea o
permanente) da un certo tipo o livello di disabilità. Se quindi la
disabilità è la conseguenza di una menomazione, essa tuttavia non
comporta necessariamente un handicap, ovvero una limitazione o la
perdita dell’abilità nello svolgimento delle attività quotidiane. Ma la
menomazione, la disabilità e l’handicap sono viste come tre fasi di
un processo, per cui “è necessario fare in modo che una
menomazione non diventi una disabilità e che questa a sua volta non
diventi un handicap, ovvero un ostacolo alla vita sociale di un
individuo”.
La prima versione dell’ICIDH viene approvata dall’OMS nel
1993. Nello stesso anno l’Organizzazione delle Nazioni Unite,

14
attraverso la risoluzione “Standard Rules on the Equalization of
Opportunity for People with disabilities”1, precisa che:
il “termine disabilità riassume una grande varietà di differenti
limitazioni funzionali che si verificano in tutte le popolazioni presenti in
tutti i paesi del mondo. Le persone possono essere affette da disabilità che
derivano da menomazioni fisiche, intellettuali o sensoriali, da condizioni
mediche o da malattie. Tali menomazioni, condizioni o malattie possono
essere di natura permanente o transitoria”.
Secondo l’ONU la perdita o la riduzione delle opportunità nel
partecipare liberamente alla vita della comunità allo stesso livello
degli altri costituiscono un handicap. In questo modo quindi il
termine handicap descrive l’incontro tra la persona con disabilità e
l’ambiente circostante. Una persona può essere affetta da un certo
tipo di disabilità sin dalla nascita, senza tuttavia esperire alcun
ostacolo o svantaggio. Gli svantaggi nascono infatti dall’interazione
con un contesto circostante in cui esistono barriere fisiche
(architettoniche), sociali e strutturali (barriere nell’accesso al mercato
del lavoro), culturali o psicologiche. Di conseguenza l’handicap non
esiste nei contesti privi di tali barriere e può essere eliminato -
laddove esiste- attuando delle politiche di “discriminazione positiva”,
ovvero delle misure che tengano in considerazione in particolare le
esigenze delle persone disabili in modo da bilanciare le pre-esistenti
situazioni di disuguaglianza.
Nel 2001 l’OMS elabora una ulteriore classificazione della
disabilità sulla base dell’International Classification of Functioning,
Disability and Health (ICF)2. Secondo tale classificazione la
1 The Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with
disabilities è disponibile on line su
http://www.un.org/esa/socdev/enable/dissre00.htm
2 ICF è disponibile su Internet all’indirizzo: www.who.int

15
disabilità non si basa più sulle conseguenze di una malattia, ma sul
più ampio concetto di salute, inteso da un punto di vista biologico,
individuale e sociale. Le precedenti dimensioni (menomazioni,
disabilità ed handicap) vengono quindi sostituite dalle più neutrali
funzioni/strutture, attività e partecipazione, nei loro aspetti positivi e
negativi. Le funzioni corporee sono intese in senso fisico e
psicologico. Le strutture corporee sono le parti anatomiche del corpo
umano, e le menomazioni sono quindi le limitazioni alle strutture o
alle funzioni del corpo di un individuo. Le attività dell’individuo
riguardano la possibilità di svolgere le azioni quotidiane e le
limitazioni sono tutte le difficoltà che un individuo può incontrare
nel compierle. La partecipazione è il coinvolgimento dell’individuo
nelle situazioni della vita in relazione alle sue condizioni di salute,
alle funzioni e strutture corporee, alle attività e ai fattori di contesto.
La restrizione della partecipazione è un problema che l’individuo
sperimenta nel modo in cui viene coinvolto nelle situazioni della
vita. La salute globalmente intesa (e la disabilità) dipende quindi
dalle funzioni e dalle strutture corporee, dalla capacità di svolgere le
attività quotidiane e dai fattori di contesto che facilitano o limitano la
partecipazione dell’individuo alle situazioni della vita.
La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della
Disabilità e della Salute (ICF) a partire dal maggio del 2001 viene
adottata all’unanimità dall’Assemblea Mondiale della Sanità3. In
questo modo si supera il modello medico di disabilità, che si fonda
sulle conseguenze della malattia e si mette invece al centro della
valutazione il funzionamento che deriva dall’interazione tra la
persona e l’ambiente. Nell’ICF, pertanto, la disabilità è il risultato
dell’interazione tra l’individuo e un ambiente non favorevole.
3 Successivamente, nel 2007, viene presentata ufficialmente la versione
ICF-CY (Children and Youth), che rappresenta una estensione della
classificazione per i bambini e i giovani.

16
2. Dall’etichettamento alla capacitazione: l’approccio
delle capacità applicato alla disabilità
La letteratura esistente ha classificato le politiche per le persone
con disabilità in base al tipo di intervento da esse previsto. In un
lavoro del 1985 Semlinger e Schimdt [in Bergeskog 2001] avevano
individuato tre tipi di politiche: a) le politiche di tipo regolativo; b)
le politiche di tipo compensativo; c) le politiche di tipo sostitutivo.
Le prime avevano lo scopo di regolare direttamente o indirettamente
il comportamento degli attori, attraverso condizioni, obbligazioni,
proibizioni. Ne sono un esempio le politiche che impongono una
quota di riserva, ovvero che stabiliscono una percentuale di persone
con disabilità da inserire nel mercato del lavoro. Le politiche
compensative puntano invece a rendere le persone con disabilità
uguali alle persone senza disabilità, attraverso risorse finanziarie,
materiali o umane che accrescano le loro competenze, migliorandone
la capacità. Questo è ciò che accade per esempio attraverso le misure
di formazione professionale o con le misure di abbattimento delle
barriere architettoniche, che puntano a riadattare il luogo di lavoro in
modo da renderlo accessibile alla persona con disabilità. Le politiche
sostitutive, invece sono un tipo di misure riservate esclusivamente
alle persone con disabilità e che puntano a creare particolari ambienti
protetti, per esempio nel caso delle misure di inserimento in
particolari cooperative sociali, nelle quali sono creati posti di lavoro
speciali per le persone con disabilità.
Bergeskog [2001] ha invece distinto le politiche per le persone
con disabilità in politiche speciali e politiche generali. Nel primo
caso (targeted programmes) le misure sono destinate esclusivamente
alle persone con disabilità e si distinguono perché prevedono dei
tempi più lunghi e sono più generose. Nel secondo caso (mainstream
programmes), le misure esistenti sono pensate per rispondere allo
stesso tempo alle esigenze di tutti, incluse le persone con disabilità.

17
In alcuni paesi le persone con disabilità possono accedere sia a
misure specifiche, sia a misure generali. Laddove invece le politiche
esistenti siano destinate esclusivamente alle persone con disabilità,
può sorgere il problema di discriminazione, o segregazione e quindi
di mancata inclusione sociale e partecipazione da parte delle persone
con disabilità alla vita della società.
Per evitare l’attuazione di politiche, misure e servizi ghettizzanti,
segreganti e discriminanti, recentemente è stato posto l’accento sulla
necessità di passare da un approccio passivo, in cui i requisiti di
accesso erano legati alla “etichetta della disabilità”, ad un approccio
attivo e abilitante, nel quale la persona possa essere considerata non
per le sue inabilità e con l’obiettivo di garantirle la sopravvivenza ma
sulla base delle capacità che possono essere rafforzate, in modo da
assicurarle la possibilità di vivere una vita piena e significativa.
Secondo Neil Crowther [2009, p. 67], direttore dei programmi
sulla disabilità presso la BEHCR - Britiskh Equality and Human
Rights Commission:
“per sostenere i diritti umani delle persone con disabilità non
basta eliminare gli ostacoli ma serve un’azione positiva per fornire
loro tutte le opportunità e i mezzi concreti e necessari per vivere
pienamente”.
Ogni essere umano e quindi anche le persone con disabilità
hanno il diritto di vivere la propria vita in modo libero ed eguale
rispetto agli altri, senza subire discriminazioni, limitazioni o
esclusioni. Per fare ciò quindi non basta assistere in modo “passivo”
una persona con disabilità, ma è necessario promuovere un approccio
attivo e abilitante che sia in grado di attuare quelle azioni necessarie
per inserire la persona con disabilità nel contesto sociale, relazionale
e lavorativo al pari delle persone senza disabilità.

18
Un passo in avanti in questa direzione viene realizzato nel 2006,
con l’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone
con disabilità4. La convenzione sottolinea l’attenzione della comunità
internazionale al tema della disabilità, segnando la nascita di un
nuovo approccio basato sul riconoscimento dei diritti umani e sul
rafforzamento delle capacità. L’obiettivo è quello di:
“promuovere, proteggere e assicurare il pieno e uguale godimento di
tutti i diritti e di tutte le libertà da parte delle persone con disabilità. In
questa prospettiva, la condizione di disabilità viene ricondotta alla
esistenza di barriere di varia natura che possono essere di ostacolo a
quanti, portatori di minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a
lungo termine, hanno il diritto di partecipare in modo pieno ed effettivo alla
società” [Borgnolo G. et al.,2009, p. 8].
La convenzione viene sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007, e
ratificata dal Parlamento italiano nel 20095. La ratifica della
Convenzione nel nostro paese comporta la necessità di rivedere il
nostro sistema normativo e legislativo, in modo da renderlo
conforme ai principi stabiliti nella Convenzione. Ciò implica una
trasformazione culturale destinata ad introdurre un nuovo impianto
concettuale, basato sull’approccio dei diritti, volto ad orientare
l’erogazione di servizi sociali e l’implementazione di politiche nei
confronti delle persone con disabilità. In tal modo diventa cruciale
spostare l’attenzione da politiche di tipo assistenziale a politiche di
inclusione, le quali concepiscano la disabilità come una condizione
che ogni essere umano si trova prima o poi a vivere nel corso della
4 Approvata a New York, il 13 dicembre del 2006 dall’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite.
5 Si veda la legge 3 marzo 2009, n. 18, recante “Ratifica ed esecuzione della
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”.

19
propria esistenza. Si tratta quindi di un approccio universale e
destinato quindi a tutti i cittadini.
All’interno del nuovo approccio, viene assegnato un ruolo
importante alle politiche di prevenzione e alle politiche di
riabilitazione. Le prime hanno l’obiettivo di ridurre l’incidenza della
disabilità, rafforzando per esempio i controlli sulla sicurezza del
lavoro, monitorando i periodi di malattia dei lavoratori, in modo da
intervenire precocemente. Le politiche di riabilitazione invece
puntano a riabilitare la persona e permetterle di mantenere alti livelli
di autonomia. Non si tratta soltanto di un percorso di tipo clinico, ma
anche di un percorso di attivazione, di supporto psicologico, di
ricostruzione della propria autostima, di consulenza motivazionale,
di acquisizione di nuove competenze e capacità, e di ricerca delle
migliori soluzioni per partecipare alla vita sociale e lavorativa,
agevolando l’interazione tra la persone disabile e l’ambiente che lo
circonda. Rientrano in questa categoria anche le misure tese ad
intervenire sul luogo di lavoro in modo da riadattare l’ambiente
lavorativo alle mutate esigenze del lavoratore con disabilità,
evitandone quindi la fuoriuscita dal mercato del lavoro.
Con l’introduzione dell’ICF e con la ratifica da parte del nostro
paese della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità,
si delinea quindi un nuovo obiettivo: quello di realizzare un modello
dinamico e integrato di politiche e servizi socio-sanitari, in grado di
superare la frammentazione delle risposte, caratterizzato da una
offerta di interventi rivolti alla persona e alle famiglie, lungo tutto il
percorso della vita, e in grado di sostenere le fragilità, favorendo la
promozione e lo sviluppo di capacità individuali e di reti familiari.
E’ importante però che tale modello sia inserito all’interno di un
sistema di welfare, non discriminante e più rispondente alle diverse e
molteplici esigenze delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
Un welfare più di tipo comunitario, capace quindi di attivare in un
circuito virtuoso le famiglie, il volontariato e l’associazionismo
[Leonardi, 2008, p. 10].

20
Sulle attuali caratteristiche del nostro sistema di welfare, e sui
cambiamenti che sono intervenuti negli anni, ma anche sulle
resistenze che ancora ostacolano una sua compiuta trasformazione, si
rimanda al secondo capitolo.
3. Le persone con disabilità in Italia: i dati e le fonti
ufficiali
Per avere un quadro del numero di persone con disabilità e con
invalidità presenti nel nostro paese, è necessario far riferimento a
diverse fonti ufficiali, dal momento che, come già ricordato, la
definizione di disabilità utilizzata nella raccolta dei dati, cambia in
base alle diverse rilevazioni effettuate e ai diversi criteri in esse
utilizzati. E’ fondamentale però precisare che non è possibile unire
dati provenienti da fonti diverse per ottenere una stima complessiva
del numero delle persone con disabilità, poiché ciò significherebbe
considerare persone individuate con parametri diversi. Per esempio
spesso si usano in modo impreciso termini come disabile,
handicappato, invalido, inabile e così via. Ma la disabilità e
l’invalidità, per quanto possano apparire come sinonimi, in realtà
sono due concetti differenti. Infatti mentre l’invalidità riguarda il
diritto di percepire un beneficio economico in conseguenza di un
danno biologico, a prescindere dalla valutazione di autosufficienza, e
fa riferimento alla legge 118 del 1971, la disabilità si riferisce alla
capacità di una persona di espletare autonomamente (anche se con
ausili) le attività fondamentali della vita quotidiana e si riconduce
alla legge 104 del 1992.
Una fonte di dati che potrebbe essere utile a stimare il numero di
disabili in Italia è la certificazione dell'handicap, prevista appunto
dalla legge n. 104/92. In ogni ASL esistono infatti apposite
Commissioni mediche che hanno il compito di certificare la
disabilità. Purtroppo però tali dati non sono utilizzabili, per due

21
ordini di motivi. In primo luogo non vengono adottati criteri di
rilevazione e strumenti di registrazione uniformi. Esistono infatti
certificati diversi, da quello per la certificazione dell’invalidità civile
a quello per la definizione della situazione di alunni con handicap; da
quello per gli interventi assistenziali rivolti agli anziani non
autosufficienti a quello per l’individuazione delle capacità residue
delle persone con disabilità a fine lavorativo. Inoltre tali dati non
sono disponibili su supporto informatico, né si è cercato di effettuare
una rilevazione statistica a livello nazionale. Di conseguenza al
momento l’unica fonte di dati ufficiali cui è possibile far riferimento
per stimare il numero di persone con disabilità nel nostro paese, è
costituita dall’Indagine Istat [2007] sulle Condizioni di salute, fattori
di rischio e ricorso ai servizi sanitari del 2004-2005. Si tratta di
un’indagine campionaria, svolta mediamente ogni cinque anni, per
l’osservazione delle condizioni di salute della popolazione italiana.
Attualmente essa rappresenta l’unica fonte di dati organizzata,
informatizzata ed uniforme a livello territoriale in grado di fornire un
quadro abbastanza completo, sebbene non esaustivo6, sulle persone
con disabilità che hanno un età superiore ai sei anni e che vivono in
famiglia. Per rilevare il fenomeno della disabilità l'Istat ha utilizzato
una serie di quesiti predisposti da un gruppo di lavoro dell'Ocse
(Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico),
sulla base della definizione di disabilità proposta nel 1980
6 L’indagine Istat non è esaustiva in primo luogo perché esclude i bambini
con una età inferiore ai 6 anni, in quanto lo strumento utilizzato, ovvero la
scala di misurazione dell’autonomia nello svolgere le attività della vita
quotidiana, andrebbe a considerare disabili tutti i minori, anche quando non
lo sono. In secondo luogo, sono escluse anche le persone con disabilità che
vivono stabilmente in istituti (per i quali è necessario fare riferimento alla
rilevazione dei presidi socio-assistenziali). Infine è difficile rilevare i casi di
disabilità mentale, non solo a causa dello strumento, più basato sulle
capacità fisiche e sensoriali della persona che su quelle mentali, ma anche
perché molto spesso le persone tendono a non dichiarare le malattie mentali.

22
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella Classificazione
Internazionale delle Menomazioni, Disabilità e Handicap (ICIDH7).
Sono quindi considerate persone con disabilità coloro che,
escludendo le condizioni riferite a limitazioni temporanee, hanno
dichiarato di non essere in grado di svolgere le abituali funzioni
quotidiane, pur in presenza di un eventuale ausilio (protesi, bastoni,
occhiali, ecc..)8. Secondo le stime ottenute da questa indagine, le
persone con disabilità in Italia sarebbero circa 2 milioni e 600 mila,
pari al 4,8% circa della popolazione di 6 anni e più che vive in
famiglia. A queste vanno aggiunte le persone con disabilità o anziani
non autosufficienti residenti nei presidi socio-sanitari (190.134
persone secondo la rilevazione del 2003) arrivando quindi ad un
totale di circa 2 milioni 800 mila persone con disabilità. Se si
considerano infine anche le persone che dichiarano di svolgere le
attività della vita quotidiana con difficoltà, il totale arriva a 6 milioni
e 500 mila, pari all’11% della popolazione italiana, dato in linea con
le stime nei principali paesi europei. I dati Istat mostrano anche come
varia il tasso di disabilità tra le diverse aree geografiche del nostro
paese, sottolineando un tasso più alto nelle isole (5,7%) e nelle
regioni del mezzogiorno (5,2%) rispetto alle regioni del Nord (4,2%)
e del centro (4,9%)9. Tali dati non ci permettono però di distinguere
7 Il punto focale di tale classificazione è la sequenza di definizioni che porta
dalla menomazione all’handicap: la menomazione è il danno biologico che
una persona riporta a seguito di una malattia (congenita o meno) o di un
incidente; la disabilità è l’incapacità di svolgere le normali attività della vita
quotidiana a seguito della menomazione, l’handicap è lo svantaggio sociale
che deriva dall’avere una disabilità.
8 Le funzioni essenziali della vita quotidiana comprendono il sentire, vedere
e parlare, l’autonomia nel camminare, nel salire le scale, nel chinarsi, nel
coricarsi, nel sedersi, vestirsi, lavarsi, fare il bagno, ecc..
9 La regione con il tasso di disabilità più alto è la Sicilia (6,6% della
popolazione), mentre in Trentino si riscontra il tasso più basso (3%).

23
le persone con disabilità, dalle persone con una invalidità (sia essa
civile o lavorativa).
Per conoscere il numero di invalidi civili presenti nel nostro
paese è possibile fare riferimento al Casellario Centrale dell’Inps, nel
quale vengono raccolti i dati sui titolari di pensioni10
. Secondo tali
dati, nel 2005, i beneficiari di pensioni e/o indennità di
accompagnamento per gli invalidi civili erano circa 2,2 milioni. Di
questi, circa il 43% residenti nelle regioni meridionali, il 37% nelle
regioni del Nord e il restante 20% nel Centro.
Il numero di invalidi del lavoro è fornito invece dalla Banca dati
disabili Inail, aggiornati annualmente. Secondo tali dati, al 31
dicembre del 2007, gli invalidi del lavoro titolari di rendita sono in
tutto oltre 832 mila, la maggioranza dei quali uomini (oltre 714
mila). Anche in questo caso si rileva una percentuale maggiore di
invalidi del lavoro nell’area Sud e Isole, dove si concentra il 31% del
totale, e una percentuale minore nell’area Nord est, con il 21% del
totale. I dati Inail ci permettono anche di conoscere il dettaglio
regionale, individuando quindi le regioni che presentano un numero
maggiore di invalidi del lavoro. Nel 2007 (si veda il grafico 1
sottostante), le regioni che presentano percentuali maggiori di
invalidi del lavoro sono: Lombardia (con il 12,1% del totale di
invalidi del lavoro), Toscana (10,4%), Emilia Romagna (9,3%),
Veneto e Sicilia (entrambe con il 7,5%), Campania (6,5%), Piemonte
(6,3%) e Lazio (6,2%).
10
All’interno del casellario, i beneficiari di pensioni vengono distinti in
sette gruppi: 1) CIV invalidità civile; 2) SUP superstiti, 3) VEC vecchiaia,
4) SOC sociale, 5) GUE guerra; 6) IND indennitarie, 7) invalidità.

24
Graf. 1- Tasso di invalidità lavorativa nelle regioni italiane (2007)
Fonte: Banca dati disabili Inail, disponibile su http://bancadatidisabili.inail.it/
Poiché i dati Inail sono raccolti annualmente, è possibile anche
osservare quali siano stati i cambiamenti verificatisi nell’anno
successivo. Confrontando i dati del 2007 con quelli del 2008 (si veda
la tabella 1 sottostante), è possibile osservare che nonostante il
numero totale di invalidi del lavoro titolari di rendita al 31 dicembre
del 2008 sia diminuito, passando da oltre 832 mila a circa 795 mila,
tuttavia la distribuzione nelle diverse aree geografiche non si è
modificata. A livello regionale, invece, limitandoci alle otto regioni
sopra considerate, si notano tre diversi andamenti: una riduzione in
Toscana (dal 10,4% al 10,3%), Emilia (dal 9,3% al 9,2%) e Piemonte
(dal 6,3% al 6,2%); un aumento in Lombardia (dove si passa dal
12,1% al 12,2%) e Sicilia (dal 7,5% al 7,6%); una situazione stabile
in Campania e Lazio.

25
Tab 1- Invalidi del lavoro titolari di rendita Inail. Anni 2007-2008
2007
MASCHI FEMMINE TOT %
NORD-OVEST 164.783 24.881 189.664 23%
NORD-EST 149.076 26.000 175.076 21%
CENTRO 173.750 32.917 206.667 25%
SUD E ISOLE 227.243 33.387 260.630 31%
ITALIA 714.852 117.185 832.037 100%
2008
MASCHI FEMMINE TOT %
NORD-OVEST 157.478 23.929 181.407 23%
NORD-EST 142.394 24.957 167.351 21%
CENTRO 165.453 31.196 196.649 25%
SUD E ISOLE 218.590 31.834 250.424 31%
ITALIA 683.915 111.916 795.831 100%
Fonte: Banca dati disabili Inail, disponibile su http://bancadatidisabili.inail.it/
Sia la disabilità sia l’invalidità sono fortemente correlate
all’avanzare dell’età. Secondo i dati Istat [2004-2005] tra le persone
con una età superiore ai 65 anni, la quota di popolazione con
disabilità è di circa il 19%, mentre tra le persone con una età
superiore agli 80 anni si arriva al 45%. Inoltre poiché nel nostro
paese l’allungamento della speranza di vita ha riguardato in
particolare le donne, si osserva un tasso di disabilità femminile di
gran lunga superiore a quello maschile (il 6,1% vs il 3,3%). A fronte
di una maggiore percentuale di donne disabili, tuttavia, come rilevato
dai dati Inail, sono gli uomini i maggiori percettori di rendita per
invalidità lavorativa.

26
L’indagine Istat offre anche informazioni in merito alla
partecipazione delle persone con disabilità al mercato del lavoro.
Circa il 18% delle persone con disabilità con una età compresa tra 15
e 44 anni si dichiara occupato, contro il 62,5% delle persone senza
alcuna disabilità. Tale percentuale scende al 17% nella classe di età
compresa tra 45 e 64 anni, rispetto al 55% nel resto della
popolazione nella stessa classe di età. Attualmente la sfida dell’Istat
riguarda la possibilità di fornire informazioni attendibili sulla
disabilità utilizzando non la vecchia classificazione ICIDH ma la
nuova classificazione ICF, superando così la mera considerazione
delle limitazioni funzionali per valorizzare invece l’interazione tra le
condizioni di salute e i fattori ambientali [Solipaca A., 2009, p. 110].
Un’altra fonte di dati che ci fornisce una rilevazione sull’offerta
di lavoro in Italia, stimando anche il numero di persone con
disabilità11
in età lavorativa è l’Indagine campionaria Isfol-Plus
200512
, condotta su un campione di 40 mila italiani che vivono in
famiglia. Secondo questa indagine, nel 2005 le persone che
dichiarano di soffrire di una riduzione continuativa di autonomia
sono circa 526 mila (pari al 2,2% della forza lavoro). Risulta
confermata la stretta correlazione esistente tra disabilità ed avanzare
dell’età. Tra le persone con una età compresa tra i 50 e i 64 anni, la
11
Nella rilevazione Isfol- Plus 2005, la persona disabile è quella che
dichiara di avere una riduzione continuativa di autonomia, ovvero di patire
un problema di salute che dura da più di sei mesi e che crea difficoltà in
modo continuativo nelle attività di tutti i giorni, al punto da chiedere aiuto
ad altre persone.
12 L’indagine Isfol-Plus è una rilevazione campionaria alla sua terza
annualità, con l’obiettivo di costruire una base informativa per le analisi del
mercato del lavoro italiano, in un’ottica di complementarietà con le fonti
nazionali già disponibili (Istat e Inps) e secondo un approccio integrato.

27
percentuale di persone con disabilità (pari al 59,5%) è maggiore
rispetto alla popolazione italiana senza disabilità (23,6%).
Nella seconda annualità dell’indagine, Isfol-Plus 2006, viene
stimato un numero di persone con disabilità in età lavorativa minore
rispetto alla rilevazione precedente, ovvero di circa 426 mila persone
(pari all’1,8% della forza lavoro). La percentuale di occupati tra le
persone con disabilità (44,8%) risulta di gran lunga inferiore rispetto
a quella di occupati tra le persone senza disabilità (66,5%). Si rileva
inoltre una maggiore dipendenza delle persone con disabilità dai
trasferimenti monetari, per il sostegno e le pensioni, rispetto alla
popolazione non disabile. Tra le persone con disabilità, circa il 35%
riceve infatti una pensione (di vecchiaia o invalidità), rispetto all’8%
delle persone senza disabilità. Una lettura per area geografica degli
occupati mostra la maggiore possibilità di impiego delle persone con
disabilità nel Nord Italia ed in particolare nell’area del Nord Est dove
è occupato circa il 54% delle persone con disabilità. La ripartizione
in cui invece il numero di persone con disabilità impiegate è più
bassa è quella dell’Italia centrale (35,4%).
Le persone con disabilità, in età lavorativa che si iscrivono
presso i centri per l’impiego all’elenco del collocamento mirato
hanno la possibilità di accedere alle misure previste dalla L. 68/99 e
alle specifiche leggi regionali. E’ possibile conoscere il numero degli
iscritti ai Centri per l’impiego, sulla base dei dati forniti dal
Ministero del Lavoro e presentati nelle “Relazioni al Parlamento
sullo Stato di attuazione della L.68/1999”. Secondo tali dati il
numero di persone con disabilità iscritte ai centri per l’impiego è
cresciuto progressivamente e costantemente, fino al 200813
.
Particolarmente alto risulta il numero di iscritti nell’area Sud e Isole
(62,7% del totale), mentre l’area del Nord Est costituisce il bacino
13
Si è passati da circa 575 mila iscritti nel 2004 a 645mila nel 2005; da 699
mila nel 2006 a 768 mila nel 2007.

28
numericamente più ridotto (il 7,7%), seguita dall’area del Nord
Ovest (12%) e dal Centro Italia (18%). Per quanto riguarda gli
avviamenti le persone con disabilità trovano più facilmente impiego
nel settore della pubblica amministrazione, dell’istruzione e della
sanità (40,2%) e nel settore industriale (23,4%), rispetto ai settori
dell’intermediazione finanziaria e dei servizi alle imprese
(1,9%)[Ministero del Lavoro, 2007, p. 60]. Nel 2007 sono stati
realizzati oltre 31mila avviamenti al lavoro e per la prima volta, il
numero di avviamenti nel Nord Est (10.151) ha superato quelli del
Nord Ovest (9.692)[ibidem 2007, p. 91].
Secondo i dati più recenti, a partire dal 2008 si è verificata
invece una riduzione del numero di iscritti, che scende a circa 721
mila nel 2008 e si riduce ancora di oltre 15 mila unità nell’anno
successivo, arrivando a circa 706 mila persone nel 2009. Tale
contrazione risulta in particolare a carico della componente
femminile (-11.719 unità). Nonostante la riduzione del numero degli
iscritti nel biennio 2008-2009, la distribuzione geografica, con la
preponderanza di iscritti nelle regioni del Sud Italia e delle Isole,
resta invariata, attestandosi intorno al 60% del totale [Ministero del
Lavoro, 2010, pp. 66-67]. Nel 2009 su un totale di 706.568 persone
con disabilità iscritte ai Centri per l’impiego in tutta Italia (di cui
circa il 48% donne), soltanto il 3,2% è stato avviato al lavoro
(percentuale che scende all’1,3% per le donne). Ciò è dipeso non
solo dal fatto che nell’ultimo decennio la crescita complessiva
dell’occupazione è dovuta in gran parte all’aumento
dell’occupazione nei settori delle Costruzioni, dell’Intermediazione
finanziaria e dei Servizi alle imprese e alle persone [ibidem, 2010, p.
38], nei quali il reinserimento lavorativo delle persone con disabilità
è sempre stato più difficile ma anche dalla crisi economica del
biennio 2008-2009, la quale ha decisamente influito sull’inserimento
lavorativo delle persone con disabilità, come dimostrano infatti nel
biennio sia il calo del numero degli iscritti presso i centri per
l’impiego, sia la bassa percentuale di avviamenti al lavoro.

29
“Gli avviamenti al lavoro di persone disabili nel corso del 2008
e 2009 ripropongono le differenze di composizione tra le quattro
macroaree geografiche già evidenziate nell’ambito delle rilevazioni
precedenti. L’osservazione di maggior rilievo riguarda la evidente
flessione subita dall’insieme degli avviamenti nel corso del biennio
di riferimento, laddove si passa da 28.306 avviamenti registrati nel
2008 ai 20.830 del 2009”[…]. Il quadro che emerge, mostra una
tendenza pluriennale alla contrazione degli avviamenti. Nel caso del
Nord Ovest e del Mezzogiorno il trend negativo data almeno dal
2005, mentre negli altri due ambiti territoriali interrompe, a cavallo
tra il 2006 ed il 2007, una tendenza certamente più positiva. Il
numero di avviati nel 2009 risulta di fatto più basso di quello
disponibile per l’anno 2000, quello cioè di avvio del varo del
collocamento mirato, lasciando intuire ancora una volta la forza
dell’impatto della crisi, con particolare riguardo a quelli che prima
del 2008 erano considerati i mercati del lavoro più dinamici del
Paese” [Ministero del Lavoro, 2010, pp. 76].
Come è possibile osservare nel grafico 2, la percentuale di
avviamenti al lavoro durante il 2009 ha subìto della grandi variazioni
tre le diverse regioni, passando da percentuali molto basse, come
quelle registrate in Campania e Sicilia, a percentuali superiori al
20%, come nel caso del Trentino Alto Adige14
. In particolare è
possibile riscontrare una maggiore e diffusa difficoltà nel
reinserimento delle donne, con l’eccezione del Trentino15
.
14
Sul totale di persone con disabilità iscritte presso i centri per l’impiego al
collocamento mirato, la percentuale di avviamenti (obbligatori e non )
realizzati al 31 Dicembre del 2009, varia nelle regioni tra l’1% e il 28%.
15 Un caso che si distingue è quello della provincia di Bolzano, dove si
rileva una percentuale di donne avviate al lavoro pari al 44% delle iscritte.

30
Graf. 2 - Avviamenti al lavoro di persone con disabilità iscritte ai CPI
nelle regioni Italiane alla fine del 2009.
Bassa %
Sicilia,
Campania, Puglia,
Calabria
Sardegna, Lazio, Molise
Basilicata
Abruzzo
Media %
Toscana,
Marche, Piemonte,
Friuli,
Lombardia, Valle
D’Aosta
Liguria, Emilia,
Veneto
Alta %
Trentino
Fonte: V Relazione al Parlamento sullo Stato di attuazione della L.68/1999.
Per contrastare gli effetti della crisi economica e favorire
l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro, di lavoratori
svantaggiati e con disabilità, nella manovra finanziaria del 2010 sono
state introdotte e finanziate nuove disposizioni sperimentali16
. Si 16
Tali misure, finanziate dalla manovra finanziaria del 2010, (Legge 191
del 23 dicembre 2009) saranno gestite da Italia Lavoro Spa, d’intesa con la
Direzione Generale degli ammortizzatori sociali e incentivi all’occupazione
del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

31
tratta di misure che incentivano le agenzie per il lavoro autorizzate e
gli intermediari speciali a prendere in carico i lavoratori svantaggiati
e con disabilità, erogando loro un bonus compreso tra i 2500 e i 5000
euro, per ogni lavoratore iscritto nelle liste, ricollocato e assunto con
contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato o a termine, ma
di durata non inferiore a dodici mesi [Ministero del Lavoro, 2010,
p.55-56].

32
CAPITOLO SECONDO
L’EVOLUZIONE DELLA PROTEZIONE SOCIALE
DELLE PERSONE CON DISABILITA’ IN ITALIA
1. Le società di mutuo soccorso e le prime forme di
assicurazione sociale contro il rischio infortuni e
invalidità.
All’inizio dell’ottocento le uniche forme di protezione contro i
rischi di infortunio, invalidità e morte prematura erano quelle private.
Gli individui potevano infatti ricorrere a due canali di sostegno in
caso di necessità: quello tradizionale della famiglia, contando sul
supporto materiale, economico e di cura offerto da parenti o amici, e
quello privato del mercato assicurativo, che garantiva un
risarcimento economico sulla base della stipula di una polizza, previo
pagamento di un premio commisurato al proprio profilo di rischio.
Già alla fine del settecento in tutta Europa operavano diverse società
private di assicurazioni, prevalentemente nei rami trasporti, vita e
incendio17
. Con il passaggio da un economia prevalentemente
agricola ad un economia industriale si verifica però un
peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai delle
fabbriche e in particolare nel nord del paese, crescono in modo
significativo gli infortuni sul posto di lavoro. Nella pressoché totale
assenza di una moderna legislazione sociale in grado di garantire
17
Per un approfondimento si veda Cassandro P.E. [1963], Le gestioni
assicuratrici e Padoa Schioppa A. [1962], Le assicurazioni in Milano dal
1815 al 1915, entrambi in Galli A. M., a cura di [1992], La Formazione e lo
sviluppo del sistema bancario in Europa e in Italia. Letture scelte, Vita e
Pensiero, Pubblicazioni della Università del Sacro Cuore, Milano, pp. 587-
613.

33
protezione e assistenza e a fronte dell’aumento dei rischi collegati al
lavoro in fabbrica, gli operai iniziano ad organizzarsi, dando vita alle
prime società operaie di mutuo soccorso. Il principio su cui esse si
basano è quello del mutuo aiuto in caso di bisogno, attraverso la
costituzione di una cassa comune, finanziata volontariamente dagli
aderenti con i versamenti prelevati dai propri salari. In questo modo
gli operai iniziano a tutelarsi contro i rischi che avrebbero potuto
annullare o limitare la propria capacità lavorativa. Secondo
Tomassini [1999] il mutualismo nella sua larga diffusione, ha
rappresentato un fattore importante di articolazione della società
civile e un fertile terreno di coltura delle concezioni della solidarietà
e della rappresentanza tra le classi popolari. Inizialmente il fenomeno
mutualistico era concentrato in particolare in Piemonte, essendo
questo l’unico stato in cui lo Statuto Albertino aveva mantenuto i
principi dello stato liberale, inclusa la libertà d’associazione18
. Nel
resto del paese invece, e fino al 1848, l’associazionismo di mutuo
soccorso era stato invece ostacolato dalle limitazioni alla libertà di
associazione. Inizialmente quindi la distribuzione del mutualismo nel
territorio nazionale si presentava molto squilibrata. Nel sud in
particolare si registrava non solo una minore presenza di associazioni
ma anche una minore efficienza delle stesse [Tomassini, 1999]. Già
a partire dalla metà dell’Ottocento le società di mutuo soccorso
avevano però iniziato a diffondersi notevolmente nell’Italia centro-
settentrionale [Paci, 1989]. Ma la svolta vera e propria su scala
nazionale si ebbe nel 1861 con l’unità d’Italia, l’estensione a tutto il
regno dei nuovi principi liberali e la veloce diffusione delle società
operaie di mutuo soccorso. Questo momento rappresenta un
importante fase di cambiamento per le tradizionali modalità di
protezione esistenti, poiché inizia a delinearsi una modalità collettiva
- ancorché categoriale - di protezione sociale e di solidarietà tra i
lavoratori, basata sul meccanismo di tipo assicurativo. E’ importante
18
Fra il 1800 e il 1850 le società di mutuo soccorso esistenti in Italia erano
circa 824, la maggior parte delle quali in Piemonte.

34
sottolineare che rispetto al sistema di protezione privato, dove gli
assicurati dovevano pagare un premio commisurato al proprio profilo
di rischio, nel sistema mutualistico gli aderenti versavano un
contributo proporzionale al salario percepito.
All’inizio tra le varie forme di tutela offerte dalle società di
mutuo soccorso, quella contro le malattie è la più diffusa. Tutte le
società infatti, erogano un sussidio in denaro per un certo periodo di
tempo ai soci che si ammalano. Successivamente a questo obiettivo,
si aggiungono, anche se in misura minore e più variabile, anche altre
finalità classiche del mutualismo quali: “i sussidi per le vedove e gli
orfani dei soci, i sussidi per i malati cronici o gli invalidi permanenti,
le pensioni di vecchiaia e i sussidi nei casi di disoccupazione forzata”
[Tomassini, 1999]. Le due principali tipologie di società di mutuo
soccorso sono le società miste o territoriali, spesso chiamate anche
“generali” cui possono iscriversi i lavoratori occupati in settori
diversi ma operanti nella stessa realtà locale e quelle professionali, in
cui i soci svolgono lo stesso mestiere e che possono ulteriormente
differenziarsi in società professionali territoriali, di fabbrica o di
categoria19
. In generale le società di mutuo soccorso sono costituite
da una base sociale molto larga e diversificata, che coinvolge operai,
artigiani e, anche se in misura ridotta, anche gli agricoltori. Sono
invece esclusi i lavoratori poveri del sottoproletariato urbano, i quali
probabilmente non erano in grado di versare la quota associativa in
modo regolare e continuo20
. Gli iscritti sono per la maggior parte
uomini con una età massima compresa tra i 45 e i 50 anni21
.
19
Nel 1863, le società miste o “generali” sono 267, con 85.495 soci, mentre
quelle professionali sono 115 con 26.113 soci. Nelle statistiche del 1885 su
3.900 società, il 77% dei soci apparteneva a società territoriali, e solo il 17%
a società professionali [Tomassini, 1999].
20 Nei quartieri più poveri delle città più grandi spesso si creavano reti di
relazioni e di solidarietà e associazioni informali e temporanee, che
assolvevano funzioni analoghe a quelle del mutualismo. In questi casi, i soci

35
Le principali caratteristiche del modello mutualista italiano, che
lo differenziano da quello di altri paesi sono: a) la prevalenza dei
sussidi di malattia acuta rispetto agli scopi più “pesanti” e strutturati
come l’assistenza medica, l’erogazione di farmaci e la previdenza
pensionistica, molto più sviluppati per esempio in Francia; b) la
flessibilità nella determinazione di contributi e sussidi e la possibilità
di un loro adeguamento in caso di necessità; c) le ridotte spese di
amministrazione; d) l’agilità e la snellezza organizzativa del modello
territoriale. Le società infatti erano per la maggior parte di piccole
dimensioni e distribuite capillarmente su tutto il territorio. Il numero
medio di soci era estremamente basso e vi era un alto ricambio
interno. Secondo Tomassini, proprio questa forma organizzativa di
base leggera e non vincolata ai problemi derivanti dal cronicismo,
dalle pensioni e dai sussidi a vedove ed orfani costituirà uno dei
punti di forza del mutualismo italiano. Tra il 1873 e il 1874 iniziano
a sorgere anche società di mutuo soccorso cattoliche22
che si
distinguono da quelle laiche, fino a quel momento prevalenti, per la
maggiore attenzione nei confronti delle categorie più marginali e in
generale agli aspetti caritativi e assistenziali. Le società cattoliche
sono composte da un numero maggiore di soci agricoltori,
presentano un numero di donne iscritte più che doppio rispetto alle
società laiche e infine anche le quote dei soci onorari e benefattori
sono sensibilmente maggiori [Tomassini, 1999].
si tassavano per quote “da sborsarsi ogni qualvolta si verificava l’infermità
di uno degli iscritti” con quote fisse, generalmente più basse di quelle medie
delle società organizzate [Tomassini, 1999].
21 Nel 1862 la percentuale di donne iscritte è inferiore al 10% e nel 1904
scende all’8,3% [Tomassini, 1999].
22 Nel 1891, anno dell’enciclica Rerum Novarum, le società operaie
cattoliche arrivano a 284 con 73.796 iscritti, la maggior parte dei quali
(circa il 71%), anche in questo caso si concentra nel Nord del paese

36
Nel 1883, mentre le società di mutuo soccorso continuano a
crescere23
, nasce su base volontaria, la Cassa nazionale infortuni.
Inizia quindi ad emergere un interesse pubblico nei confronti del
tema della protezione sociale. Tre anni più tardi, nel 1886 viene
approvato infatti il primo intervento legislativo organico dello Stato
italiano in materia di mutuo soccorso: la “legge Berti”, che stabilisce
la possibilità per le società di mutuo soccorso di essere riconosciute
giuridicamente ed ottenere così delle agevolazioni pubbliche. Si
tratta di un primo intervento pubblico in materia di mutuo soccorso,
il quale tuttavia lascia la più completa libertà alle società che non
chiedono il riconoscimento e non affronta la questione delle pensioni
di invalidità e vecchiaia.
Intanto il numero delle società di mutuo soccorso raggiunge il
suo picco più alto24
, anche se si abbassa la media di iscritti per
società e cresce il tasso di ricambio interno. Si iniziano quindi a
intravedere le prime difficoltà. Sono gli anni delle grandi migrazioni
dal sud, durante i quali il numero di scioglimenti delle società
esistenti continua a crescere ed iniziano ad emergere anche i limiti di
una struttura organizzativa così “leggera e flessibile”. Infatti con il
passare degli anni e in assenza di una allargamento consistente della
base sociale, gli iscritti iniziano a raggiungere età più elevate
caratterizzate da una maggiore morbilità e questo elemento inizia ad
influire sulle spese.
Nel 1898 si stabilisce che l’assicurazione contro gli infortuni sia
obbligatoria e non più volontaria, ponendo in tal modo le basi in
23
Si stima che nel 1885 le società di mutuo soccorso erano 4896 [Marucco,
in Paci, 1989].
24 Nel 1904 si contano oltre 6535 società , con oltre un milione di iscritti, su
un totale di tre milioni e mezzo di operai dell’industria all’epoca [Marucco
in Paci, 1989, p. 79]

37
Italia della tutela antinfortunistica sull’esempio tedesco25
. Se fino ad
allora la nozione di rischio professionale aveva costituito la
giustificazione del primo intervento in tema di infortuni sul lavoro,
adesso invece, si stabilisce il principio in base al quale le
conseguenze del verificarsi di certi eventi sfavorevoli per i lavoratori
devono essere sopportate anche dai datori di lavoro che traggono
vantaggio dallo svolgimento del lavoro dei propri operai. Tale
cambiamento rappresenterebbe quindi il “tentativo di elaborare un
concetto di solidarietà limitata ai prestatori e ai datori di lavoro”
[Paci, 1989, p. 84-85].
Nello stesso anno, il 20 aprile 1898 viene approvata anche la
legge che istituisce una Cassa nazionale di previdenza per la
vecchiaia e l’invalidità degli operai, anche se l’adesione è ancora
volontaria. L’istituzione della Cassa segna una svolta e le
organizzazioni che rappresentano il mutualismo, iniziano a
concentrarsi sulla revisione e sul miglioramento della legge. Nel
1900 si costituisce la Federazione nazionale delle società di mutuo
soccorso allo scopo di premere sul governo per l’ottenimento di una
migliore legislazione sociale. Nel 1912 il presidente del consiglio
Giolitti pone il problema del monopolio delle assicurazioni sulla vita,
con l’obiettivo di realizzare un sistema previdenziale statale. Intanto
alla vigilia della prima guerra mondiale la base di assicurati contro la
invalidità e vecchiaia era diventata consistente, rendendo in tal modo
più agevole la transizione verso un sistema di assicurazioni sociali
direttamente controllato e organizzato dallo Stato [Tomassini, 1999].
E’ infatti proprio durante la guerra che con la cosiddetta
“mobilitazione industriale” si estende l’intervento statale in settori
prima lasciati alla libera regolazione del mercato e delle forze sociali
e con due provvedimenti (d.l. 29.4.1917 e d.l. 24.7.1917) viene
introdotto il principio della assicurazione obbligatoria di invalidità e
25
Il sistema di assicurazione obbligatorio contro gli infortuni viene istituito
con la legge n. 80 del 17 marzo 1898.

38
vecchiaia. Inizialmente l’obbligo riguardava soltanto circa un
milione di operai degli stabilimenti mobilitati, ma successivamente
(con il d.l. 29.4.1919) si istituisce un sistema di assicurazione
obbligatoria con contributi paritetici di imprenditori e operai e con il
concorso dello Stato. Da questo momento nasce un sistema
previdenziale obbligatorio, organizzato e controllato dallo Stato,
destinato ad oltre 10 milioni di lavoratori dipendenti [Tomassini,
1999].
2. Nascita e consolidamento del sistema di assicurazione
obbligatorio durante il fascismo
Nel 1919 con l’istituzione del sistema di assicurazione sociale
obbligatoria, si passa da un sistema di protezione sociale di tipo
mutualistico e volontario ad un sistema di protezione sociale
pubblica e obbligatoria. Il modello italiano di protezione sociale si
struttura sin dall’inizio sulla base del modello bismarckiano adottato
in Germania, collegando la tutela dai rischi alla condizione di
lavoratore e alla posizione lavorativa occupata. Si tratta di un sistema
in cui la protezione pubblica asseconda le linee di demarcazione e le
disuguaglianze che si strutturano all’interno del nel mercato del
lavoro, in quanto le prestazioni erogate dallo Stato non sono
destinate a tutti i cittadini, ma riservate esclusivamente ai lavoratori
“assicurati” che versano i contributi. La realtà ancora molto presente
e vitale delle società di mutuo soccorso, con circa 5.719 società
esistenti al 1924 e 885.393 soci, viene sempre più confinata al settore
dell’assistenza alla malattia. Nel 1925 la Federazione italiana delle
società di mutuo soccorso viene abolita e l’anno successivo con un
intervento legislativo le funzioni assistenziali vengono attribuite ai
sindacati fascisti, i quali possono stabilire contenuti e limiti delle
politiche assistenziali all’interno dei contratti collettivi di lavoro. Nel
1927 inoltre ai sindacati fascisti viene affidato il compito di stabilire

39
le strutture per avviare l’assicurazione generale contro le malattie,
così come stabilito dalla Carta del lavoro del 21 aprile.
Il fascismo cerca di favorire l’assorbimento delle società di
mutuo soccorso nelle mutue sindacali organizzate su base
professionale26
. Nel 1929 viene creato il Ministero delle
Corporazioni e l’assicurazione obbligatoria viene estesa in modo da
proteggere i lavoratori anche contro il rischio di malattie
professionali (R.D. 13-5-1929 n. 928).
Nel 1933 la Cassa nazionale infortuni viene sostituita
dall’Istituto nazionale di assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro”(R.D.L. n. 264 del 23-3-1933) e nel 1935 viene istituita la
Federazione nazionale casse mutue di malattia dell’industria. Nello
stesso anno viene inoltre approvato il testo unico (R.D. 17-8-1935 n.
1765) che stabilisce alcune caratteristiche fondamentali del sistema,
che permangono ancora oggi, tra cui il principio dell’automaticità
delle prestazioni (che garantisce che le prestazioni vengano erogate
dallo Stato, anche se il datore di lavoro non è in regola con il
versamento dei contributi) e l’erogazione delle prestazioni sanitarie
oltre a quelle economiche. Sono due ulteriori garanzie da parte dello
Stato, che differenziano il sistema di assicurazione pubblica da
quello privato e dal sistema delle mutue.
Nonostante l’introduzione di un sistema pubblico di protezione
sociale abbia comportato un notevole passo avanti nella protezione
contro i rischi professionali, esso tuttavia non presenta le
26
Le casse mutue sindacali sono1107 con 682.356 iscritti e si distinguono in
mutue sindacali aziendali (per le aziende con più di 100 operai); mutue
sindacali territoriali (per lavoratori di più aziende inquadrati dal medesimo
sindacato) e mutue sindacali categoriali (per l’intera categoria di lavoratori).
Esistono anche molte altre mutue sindacali intermedie con notevoli disparità
di fisionomia e di funzionamento .

40
caratteristiche dei sistemi di sicurezza sociale, nei quali
l’assicurazione contro i rischi è destinata a tutti i cittadini a
prescindere dalla loro condizione lavorativa. Il sistema italiano infatti
distingue e privilegia i lavoratori la cui protezione è assicurata dal
versamento dei contributi, rispetto tutti gli altri cittadini che non
lavorano o che non possono vantare alcuni anni di versamento dei
contributi richiesti. Il dualismo insito nel sistema italiano di welfare è
individuato anche da Paci [1989, p.85], secondo cui:
“Il sistema di welfare che l’Italia repubblicana eredita dal
fascismo era caratterizzato dall’operare di due principi o logiche
generali: da un lato la logica assicurativo-corporativa, espressione
di una solidarietà limitata ai soli lavoratori e datori di lavoro e
riproducente in quanto tale la stratificazione dei gruppi socio-
professionali operata dal mercato; dall’altro la logica della
discrezionalità burocratica nell’attuazione di programmi di
assistenza, fonte di dipendenza politico-clientelare di singoli gruppi
e categorie. Tali due logiche di fondo hanno in comune la stessa
tendenza all’espansione dell’intervento pubblico, tramite la
creazione di regimi, enti e istituti differenziati, volti a soddisfare i
bisogni di singoli o di categorie e l’interesse della classe politica per
il mantenimento del consenso sociale, lasciando intatta la struttura
delle disuguaglianze sociali create dal mercato”.
Progressivamente l’obbligo di assicurazione viene esteso per
inclusioni successive e incrementali ad altre categorie di lavoratori,
quali gli impiegati, i lavoratori agricoli, i lavoratori autonomi. La
progressiva estensione delle copertura assicurativa su base
categoriale, resterà un elemento immutato di path-dependency
all’interno del sistema di welfare italiano, il quale si presenta tuttora
come un sistema frammentato e costituito da schemi differenti in
base alle diverse categorie occupazionali.
Dopo la caduta del fascismo il primo tentativo di riformare la
previdenza sociale fu quello della Commissione D’Aragona dal

41
nome dal parlamentare socialista che la presiedette, istituita
nell’aprile del 1947. I lavori della commissione furono influenzati
dai principi universalistici che avevano cominciato a diffondersi e a
trovare applicazione nel governo laburista inglese del dopoguerra.
La Commissione puntava a proporre una riforma del sistema di
welfare italiano in direzione di un sistema di sicurezza sociale,
all’interno del quale fosse quindi stabilito un livello di protezione di
base in prestazioni e servizi destinata a tutti i cittadini e su basi
egualitarie. Si tratta di un approccio innovativo ed egualitario che
tuttavia non venne adottato.
“le proposte della commissione non furono adottate dal governo
e si procedette invece attraverso interventi legislativi omogenei al
modello duale (assicurativo-corporativo e assistenziale-clientelare)
ereditato dal fascismo, all’espansione incrementale e
particolaristica del modello pre-esistente” [Paci, 1989, p. 87].
All’indomani della caduta del regime fascista, le caratteristiche
strutturali del sistema di welfare italiano vengono riaffermate nella
carta costituzionale del 1948, la quale sancisce la distinzione tra
l’assicurazione sociale obbligatoria per tutti i lavoratori e l’assistenza
sociale per il diritto al mantenimento dei tutti i cittadini inabili al
lavoro e sprovvisti di mezzi. Il sistema di welfare italiano continua
dunque a mantenere un carattere duale di tipo assicurativo-
previdenziale per i lavoratori che contribuiscono al sistema e di tipo
residuale e assistenziale per tutti i cittadini inabili al lavoro e
sprovvisti di mezzi. L’evoluzione legislativa successiva per almeno
due decadi, lascia inalterata la funzione originaria dell’assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, che è quella
di offrire una tutela economica privilegiata al lavoratore in
considerazione dell’origine lavorativa dell’evento lesivo occorso al
lavoratore.
A partire dalla metà degli anni settanta la spesa pubblica per le
prestazioni pensionistiche inizia a crescere in maniera squilibrata.

42
Importanti trasformazioni economiche e la crescente disoccupazione
influisce sul numero di lavoratori che versano i contributi con una
conseguente riduzione delle entrate pubbliche. Allo stesso tempo
cambiamenti demografici quali l’allungamento della speranza di vita
e l’invecchiamento della popolazione influiscono sull’aumento del
numero dei pensionati facendo crescere le uscite.
Dal 1950 al 1980 le pensioni di invalidità destinate ai lavoratori
assicurati, in particolare nel mezzogiorno, crescono in modo
esponenziale, passando da circa 501 mila ad oltre cinque milioni e
300 mila nel 1980. Come ricorda Ferrera [2006, p. 256] la crescita
del numero di destinatari di pensioni di invalidità è da attribuirsi alla
“dilatazione del concetto di invalidità, avvenuta a causa delle
pressioni provenienti dal mercato assistenziale e dai circuiti
clientelari”. I lavoratori diventati invalidi a causa di un infortunio
sul lavoro, venivano infatti assicurati per la perdita, anche parziale
della capacità di guadagno. Spesso le ridotte capacità di guadagno
venivano ricollegate alle condizioni socio-economiche dell’area di
residenza, determinando un incremento del numero dei destinatari
nel mezzogiorno. In sostanza le pensioni di invalidità in assenza di
misure di sostegno del reddito e di adeguate misure di contrasto della
povertà, venivano utilizzate come equivalenti funzionali delle
politiche di assistenza sociale. In tal modo il diritto previdenziale,
legato al versamento dei contributi, si trasformava in un vero e
proprio mercato assistenziale. Per porre rimedio a tale situazione, si
rende quindi necessaria una riforma. Un primo intervento sulle
pensioni di invalidità viene attuato nel 1984 attraverso l’abolizione
del riferimento alla capacità di guadagno e mantenendo
esclusivamente il riferimento alla capacità di lavoro. Tale riforma
però, non riguardando anche le pensioni di invalidità civile, non
risolve il problema e dal 1984 al 1990 si verifica una “sindrome di
sostituzione”, ovvero a fronte della riduzione delle prestazioni di
invalidità di tipo contributivo, aumentano le pensioni di invalidità
civile.

43
3. Crisi e riforma del sistema di welfare italiano di fronte ai
nuovi rischi sociali
A partire dalla metà degli anni novanta il sistema di welfare
italiano non riesce più a rispondere in modo adeguato ai bisogni della
popolazione. Con il passaggio da una società basata su un economia
industriale ad una post-industriale, si verifica un importante
cambiamento della domanda di protezione sociale, e si rendono
necessarie nuove trasformazioni del sistema di protezione sociale
esistente. Secondo Esping-Andersen [2000] i welfare states
contemporanei rispecchiano una società che non è più quella di una
volta. La crisi dei regimi di welfare dipenderebbe a suo avviso dal
disallineamento tra la configurazione istituzionale esistente e i
cambiamenti endogeni ed esogeni quali: i) i cambiamenti
demografici; ii) le trasformazioni nella natura e durata dei rischi; iii)
all’interno del mercato del lavoro; iv) i cambiamenti intervenuti nella
famiglia; v) la crescita della spesa pubblica e i nuovi vincoli
finanziari.
I cambiamenti demografici, ovvero l’allungamento della vita,
l’invecchiamento della popolazione, la riduzione della natalità,
hanno influito sulle caratteristiche della popolazione e sulla domanda
di nuove politiche e servizi. Grazie ai progressi della medicina e al
prolungamento della vita le persone colpite da malattia o con
disabilità vivono più a lungo, anche se in molti casi in uno stato di
duratura dipendenza dai servizi sanitari e di prolungata esigenza di
cura e assistenza. L’allungamento della vita collegato al processo di
invecchiamento della popolazione determina inoltre un aumento del
numero di anziani non più auto-sufficienti e per i quali i tradizionali
sostegni (come l’indennità di accompagnamento) non sono più
adeguati. Inoltre poiché la disabilità è correlata all’età, al crescere
della popolazione anziana aumentano le persone con disabilità che
necessitano di misure, servizi e interventi specifici. Infine anche se
gli incidenti sul lavoro sono diminuiti, e con essi anche il numero
degli invalidi del lavoro, la necessità di estendere la copertura anche

44
ai soggetti prima esclusi fa crescere la domanda individuale di
protezione.
Anche il cambiamento della natura dei rischi tradizionali, nei
confronti dei quali il sistema delle assicurazioni obbligatorie offriva
una protezione, rende necessario un cambiamento nelle misure negli
interventi e nelle politiche adottate in risposta. Secondo Rosanvallon
[1997], il cambiamento della natura dei rischi che da “aleatori e
circostanziali” diventano stabili e duraturi, richiede il passaggio ad
una concezione diversa di rischio e un analogo cambiamento nel
sistema di protezione sociale e nell’offerta di politiche adeguate.
Oggi, di conseguenza diventa urgente passare da un sistema di
politiche che punta alla compensazione di un disfunzionamento
passeggero ad un insieme di politiche in grado di far fronte a rischi
non più congiunturali
A queste trasformazioni, si aggiunge anche la flessibilizzazione
del mercato del lavoro e la destrutturazione delle caratteristiche
standard del lavoro dipendente e a tempo indeterminato. Le persone
con disabilità, che già incontrano numerose difficoltà nell’ingresso
nel mercato del lavoro, di fronte alla moltiplicazione di tipologie di
lavoro atipiche e prive delle tradizionali tutele esistenti, sono
maggiormente esposte ai rischi di disoccupazione e alle difficoltà
connesse ai periodi di non lavoro.
Per quanto riguarda le trasformazioni all’interno della famiglia,
in un sistema sociale come il nostro, in cui il supporto offerto dallo
Stato è sempre stato residuale e prevalentemente in trasferimenti
monetari, i servizi di cura per le persone con disabilità hanno gravato
principalmente sulla famiglia, ed in particolare sulle donne, le quali
oggi, a causa della crescita del numero di anziani non autosufficienti
o con problemi di disabilità multiple con un bisogno continuativo di
assistenza, ma anche nel caso di giovani con disabilità poiché anche
in questi casi si rileva una loro maggiore permanenza nel nucleo
familiare, si trovano sempre più strette tra il desiderio e la necessità

45
economica di lavorare e il compito di cura dei familiari. La
mancanza di una fitta rete di servizi in risposta a bisogni complessi e
diversificati delle persone con disabilità e i tagli alla spesa pubblica
destinata alle famiglie, hanno reso queste ultime sempre più esposte
alle difficoltà, indebolite e isolate nel sostenere compiti sempre più
impegnativi.
La pressione esercitata dai fattori fin qui descritti sul sistema di
welfare esistente, dipende anche dal fatto che tali cambiamenti si
intrecciano e si rafforzano tra loro. Per esempio l’invecchiamento
della popolazione, la crescita del numero di anziani non
autosufficienti e l’aumento dell’incidenza della disabilità, in un
sistema di welfare come quello italiano che non prevede programmi
pubblici di assistenza, finisce per gravare totalmente sulle famiglie
[Ranci, Da Roit e Pavolini, 2008]. A ciò si aggiunga che il sistema
sanitario è inadeguato ad affrontare i problemi della cronicità e dalla
non auto-sufficienza (le risposte sono inappropriate e i costi
eccessivi), rendendo necessaria una ri-articolazione pubblica di
servizi integrati e territoriali maggiormente in grado di offrire
risposte mirate.
La richiesta di risposte sempre più personalizzate e a lungo
termine - dal momento che i rischi sono maggiormente diffusi,
colpiscono in maniera personale e comportano un prolungamento
dello stato di bisogno – rendono necessario un ampliamento dei
destinatari da tutelare e un offerta di servizi, interventi e politiche
sociali mirate, personalizzate e individuali. Per rispondere ai nuovi
bisogni il sistema di welfare entra in una nuova fase di
sperimentazione e vengono avviate riforme parziali in particolare in
materia di pensioni, politiche sociali e dell’occupazione [Ferrera,
Hemerjick e Rhodes, 2000; Paci, 2004, p. 195].
Una possibile risposta al dilemma di nuovi e maggiori servizi,
ma con sempre meno risorse pubbliche, proviene dal contesto
americano, con il diffondersi di nuovi paradigmi di policy, come ad

46
esempio il welfare-to-work. In tale approccio viene posta una
maggiore enfasi sull’importanza di adottare politiche in grado di
favorire il passaggio da programmi di protezione sociali a programmi
di inserimento al lavoro. L’obiettivo è quello di ridurre la “costosa”
dipendenza dal welfare, indotta dai programmi di protezione sociale.
Al loro posto vengono quindi introdotti nuovi programmi, nei quali
viene ampliata la “condizionalità”. In sostanza i destinatari vengono
vincolati al rispetto di requisiti più stringenti e sottoposti ad una serie
di controlli e sanzioni, in modo da collegare l’ottenimento di un
beneficio economico al mantenimento di un posto di lavoro,
qualunque esso sia. Si ritiene infatti che “qualsiasi lavoro sia
migliore di nessuno” e sulla base di questo approccio vengono ridotte
le spese in politiche “passive”. Tale strategia si diffonde anche in
Europa, e il modello di “politiche attive” viene adottato, a
prescindere da una sua valutazione complessiva nei risultati ottenuti.
Nel quarto capitolo approfondiremo le caratteristiche di questo
approccio e la sua applicazione anche nei confronti delle persone con
disabilità. Per concludere questo breve riferimento al welfare
americano, possiamo riportare l’opinione di Hacker [2004], secondo
il quale va sottolineato il processo di privatizzazione del rischio che
si è innescato negli Stati Uniti. Si tratta di un processo di
frammentazione e indebolimento degli strumenti di assicurazione
collettiva che offrono una protezione meno costosa, nei confronti
anche dei più alti rischi e verso tutti i cittadini, inclusi quelli con i
redditi più bassi. Al posto di questo sistema, e attraverso una serie di
aggiustamenti, si è arrivati invece ad una situazione in cui gli
individui e le famiglie vengono lasciati soli nell'affrontare i nuovi
rischi sociali emergenti. Secondo Hacker il declino nella protezione
collettiva, sta diventando sempre più comune anche in altri paesi,
facendo dell'esperienza americana una guida in merito agli effetti a
lungo termine di queste emergenti ma potenti tendenze. Anche nel
nostro paese, infatti esiste il rischio di un ritorno alle vecchie opzioni
privatiste e di mercato, ignorando le motivazioni storiche che hanno
portato alla nascita dei welfare states. Di questo e dei cambiamenti

47
necessari e possibili nel nostro sistema, parleremo ancora nel
capitolo conclusivo.

48
CAPITOLO TERZO
LE POLITICHE “PASSIVE” PER LE PERSONE CON
DISABILITA’ IN ITALIA
L’attuale sistema italiano di protezione sociale per le persone
con disabilità è estremamente frammentato e categoriale e differenzia
notevolmente le misure di sostegno economico destinate ai disabili
civili, rispetto a quelle riservate ai lavoratori con disabilità o alle
persone che hanno acquisito un certo livello di invalidità per cause di
lavoro o di servizio.
La protezione di tipo assicurativo-contributivo è destinata
esclusivamente ai lavoratori che possono vantare almeno cinque anni
di iscrizione all’Inps e tre anni di versamenti contributivi. Per il
ricevimento dei trasferimenti economici sono inoltre previste soglie
di accesso diverse per le persone gli invalidi civili rispetto agli
invalidi del lavoro.
Per i primi la protezione sociale esistente è di tipo assistenziale,
ovvero un sostegno discrezionale, condizionale e soprattutto
insufficiente, se si osserva che i trasferimenti monetari erogati sono
insufficienti a permettere alle persone affette da disabilità la
possibilità di condurre una vita adeguata, esponendoli quindi,
nonostante l’assistenza ricevuta, al rischio povertà. Inoltre l’accesso
ai trasferimenti assistenziali è possibile soltanto a partire da livelli di
disabilità molto gravi (pari al 74%) e solo in seguito al
riconoscimento dello stato di bisogno.

49
1. Prestazioni per le persone con disabilità civile
Nel nostro sistema di welfare i cittadini disabili che non hanno
mai lavorato o non sono iscritti all’Inps da cinque anni (avendo
versato almeno tre anni di contributi) hanno diritto esclusivamente
alle prestazioni di natura assistenziale, finalizzate ad assicurare a tutti
gli individui con un reddito insufficiente, un livello di vita
dignitoso27
. Si tratta di un insieme composito di trattamenti che fanno
riferimento a provvedimenti normativi differenziati e, in origine,
fortemente frammentati, finanziati generalmente attraverso la
fiscalità generale e i cui destinatari sono sottoposti alla prova dei
mezzi.
L’istituto dell’invalidità civile si basa sull’art. 38 della Carta
Costituzionale, che stabilisce che “Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento
e all’assistenza sociale”. Nel 1971, con la legge 118, si è proceduto
ad una prima razionalizzazione della materia, unificando l’assistenza
agli invalidi civili in un testo unico, a esclusione di ciechi e
sordomuti per i quali esisteva già una normativa a tutela della loro
minorazione (l. 66/1962 e l. 381/1970). Quindi nel 1992 ulteriori
27
Il sistema italiano prevede cinque tipologie di prestazioni previdenziali a
seconda della natura istituzionale della prestazione e dell'evento che ha
determinato l'erogazione della stessa: 1) vecchiaia; 2) invalidità; 3)
superstiti, 4) indennitarie, 5) assistenziali. La maggior parte delle
prestazioni è erogata dall’Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale)
per il settore privato e dall’Inpdap (Istituto nazionale di previdenza per i
dipendenti delle amministrazioni pubbliche) per quello pubblico. Accanto a
questi enti di maggiore dimensione numerosi altri enti previdenziali erogano
prestazioni sostitutive di quelle di base o integrative di queste.

50
interventi normativi hanno disciplinato il settore dell’invalidità civile
regolamentandone specifici aspetti28
.
Le prestazioni economiche continuative previste a favore di tutti
gli invalidi civili sono la pensione di inabilità e l’assegno sociale. La
loro erogazione ha un carattere “discrezionale” in quanto
strettamente dipendente dal riconoscimento da parte delle
commissioni mediche integrate delle Asl di un certo livello di
disabilità (almeno il 74% di disabilità) e dall’impossibilità di far
fronte allo stato di bisogno autonomamente (dimostrando di non
avere un reddito sufficiente). Oltre al requisito medico sanitario, il
disabile civile in età da lavoro (compresa tra i 18 e i 65 anni) deve
mostrarsi disponibile ad iscriversi alla lista unica per il collocamento
mirato ed essere quindi disposto ad accettare un posto di lavoro
ritenuto idoneo alle proprie capacità residue. L’obbligo di iscrizione
alla lista unica presso i centri per l’impiego provinciali è un requisito
che sottolinea il carattere dell’erogazione monetaria. Solo le persone
che veramente ne hanno bisogno e che tuttavia, nonostante le proprie
limitazioni si dichiarino disposte a lavorare possono accedere alla
misura. L’assegno viene infatti sospeso nel caso in cui la persona con
disabilità gravi rifiuti di accettare il posto di lavoro, perché magari lo
ritiene non adatto alle proprie capacità. Per ricevere l’assegno
mensile di assistenza deve presentare all’Inps entro il 31 marzo di
ogni anno, una dichiarazione che attesti l’iscrizione nelle liste
speciali dei centri per l’impiego. Se la dichiarazione non viene
consegnata, l’Inps sospende temporaneamente il pagamento
dell’assegno al fine di controllare il possesso dei requisiti.
Le persone con una disabilità totale, che a causa delle loro
condizioni di salute, pur essendo in età lavorativa (18-65 anni) non
possono svolgere alcuna attività e che hanno un reddito annuo
personale non superiore ad una certa soglia possono richiedere la
28
Attraverso la legge n. 104 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione
sociale e i diritti delle persone handicappate” che riconosce il diritto alle
provvidenze per invalidità civile.

51
pensione di inabilità, il cui importo29
è equivalente all’assegno
ordinario di invalidità erogato alle persone con disabilità superiore al
74%. Tale pensione è incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi
tipo di attività lavorativa, sia essa dipendente o autonoma, ma è
reversibile ai familiari.
Nei casi di disabilità totale è possibile che la persona non sia
auto-sufficiente e in grado di muoversi o spostarsi autonomamente.
In tal caso, il disabile civile ha diritto a richiedere un sostegno
aggiuntivo alla pensione di inabilità, ovvero l’indennità di
accompagnamento, istituita nel 1980 ed erogata dall’Inps30
. Si tratta
di una misura assistenziale di natura monetaria alla quale hanno
diritto tutti i cittadini italiani cui sia stata accertata una inabilità al
100% ed è generalmente riconosciuta a tutte le persone che non sono
più in grado di camminare o di compiere autonomamente le normali
attività della vita quotidiana. Questa prestazione monetaria ha
carattere universalistico ed è quindi erogata indipendentemente dalla
condizione reddituale del beneficiario o del nucleo familiare di
appartenenza attraverso procedure automatiche e standardizzate. Tale
prestazione, pur essendo inizialmente destinata esclusivamente alle
persone in età da lavoro ma non in grado di lavorare (inabili), grazie
al suo carattere universale è stata estesa anche agli anziani inabili. Si
stima che la quota di cittadini anziani che fruisce di una indennità di
accompagnamento è del 9%, ma almeno un 2% della popolazione
anziana in condizioni di disabilità molto gravi è esclusa dalla misura
29
La pensione di inabilità e l’assegno ordinario di invalidità, di tredici
mensilità entrambi, sono passati da 247 euro nel 2008 a 260 euro nel 2011.
30 L’indennità di accompagnamento, introdotta dalla L. 18/1980 comprende
l’indennità di accompagnamento a favore di invalidi civili totali, quella di
frequenza per minori di 18 anni, di comunicazione per i non udenti, le
indennità speciali per i ciechi parziali, le indennità di accompagnamento per
i ciechi assoluti e infine le indennità di assistenza e di accompagnamento ai
grandi invalidi di guerra.

52
pur avendone bisogno e diritto. Sono inoltre escluse le persone con
invalidità di ordine psichico e cognitivo, in forte espansione con
l’avanzare dell’età dei richiedenti. Uno dei limiti recentemente
evidenziati, in merito all’indennità di accompagnamento riguarda la
sua impossibilità di rispondere in modo differenziato a bisogni
diversi. L’indennità infatti, prevede l’erogazione di una somma
fissa31
non modulata in base alle diverse condizioni economiche dei
beneficiari o in base al grado e tipo di invalidità e bisogno. Questo
genera:
“l’effetto paradossale che la tutela pubblica viene offerta in
modo eguale a cittadini che, per condizioni di salute o situazione
economica, fronteggiano bisogni completamente diversi e
sproporzionati. Il bisogno non costituisce in alcun modo un criterio
utilizzato per regolare la distribuzione dell’indennità, che ubbidisce
a una logica totalmente amministrativa, che non trova riscontro nei
programmi europei più avanzati” [Ranci, Da Roit e Pavolini, 2008,
p. 12-13].
Al compimento dei 65 anni di età le persone con disabilità grave
o totale, con un reddito inferiore ad un certo livello, possono
richiedere in sostituzione al sostegno monetario ottenuto, l’assegno
sociale di importo più alto32
.
31
L’indennità di accompagnamento di dodici mensilità è passata da 465
euro nel 2008 a 487 euro nel 2011.
32 Per il 2011 l’assegno sociale è di 417 euro.

53
2. Prestazioni per i lavoratori con disabilità
I lavoratori iscritti all’Inps da cinque anni e che almeno negli
utlimi tre anni abbiano versato i contributi, in caso di invalidità
hanno diritto, così come previsto dall’art.38 della costituzione a
ricevere “l’assicurazione dei mezzi adeguati alle loro esigenze di
vita”. Le prestazioni previste, di natura previdenziale sono la
pensione di inabilità e l’assegno di invalidità. Si tratta di prestazioni
economiche erogate ai lavoratori cui è accertata la ridotta capacità
lavorativa a meno di un terzo a causa di infermità fisica o mentale o
l’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività
lavorativa. A differenza delle misure di tipo assistenziale, a somma
fissa, previste per i disabili civili, queste misure dipendono dai
contributi versati e non sono richiedono requisiti di reddito.
L’assegno ordinario di invalidità è erogato dall’Inps ai
lavoratori con una disabilità parziale, dopo l’accertamento da parte
dei medici dell’Istituto, delle condizioni di disabilità. I medici in
particolare sono tenuti a verificare che la disabilità acquisita dal
lavoratore pregiudichi la sua capacità di lavoro e ciò significa che
deve essere riscontrato un livello di disabilità superiore al 66%.
L’assegno ordinario ha una durata temporanea di tre anni (e non
di un anno come per il disabile civile) e può essere rinnovato su
richiesta del lavoratore. Solo dopo tre rinnovi consecutivi diventa
definitivo. Esso non è reversibile e poiché il suo importo è calcolato
sui contributi versati, nel caso in cui sia troppo basso è possibile fare
richiesta di una “integrazione al minimo”, ovvero dell’aumento
dell’assegno di una cifra non superiore all’assegno sociale. Se la
persona che lo riceve si dedica ad una attività lavorativa dipendente o
autonoma, tale assegno viene ridotto.
In caso di disabilità totale, così grave da impedire lo svolgimento
di qualunque attività lavorativa, il lavoratore ha diritto alla pensione
di inabilità, erogata dall’Inps, il cui importo è calcolato aggiungendo
ai periodi di contribuzione precedentemente versati dal lavoratore un
“bonus contributivo”, pari agli anni mancanti per il raggiungimento

54
dell’età pensionabile. In questo caso, oltre alla pensione di inabilità, i
lavoratori con disabilità possono richiedere l’assegno di assistenza
per gli invalidi non auto-sufficienti non condizionato dai limiti di
reddito.
3. Prestazioni per le persone con una invalidità
lavorativa
Fin qui abbiamo fornito un quadro generale sulle misure di
sostegno economico e monetario (di tipo assistenziale e
previdenziale) erogate dall’Istituto di previdenza sociale alle persone
con disabilità. Esistono però anche prestazioni di tipo “indennitario”,
rivolte esclusivamente ai lavoratori diventati invalidi a causa di una
malattia professionale o di un infortunio lavorativo. Tali prestazioni
sono erogate dall’Inail a tutti i lavoratori dipendenti che svolgono
attività a rischio, anche nel caso in cui i datori di lavoro non abbiano
versato regolarmente il premio assicurativo. Inoltre sebbene tali
misure non siano cumulabili con quelle offerte dall’Inps, il lavoratore
può tuttavia scegliere il trattamento economico più favorevole. Nel
2000, in seguito alla riforma dell’Inail (si veda in particolare su
questo il par. 5.3), viene introdotto un nuovo regime indennitario,
con il quale, la soglia minima di invalidità riconosciuta per ricevere
un risarcimento si abbassa dal 10% al 6%. Allo stesso tempo si
procede ad allargare la platea dei destinatari delle prestazioni Inail,
per cui ai dipendenti, agli artigiani, ai lavoratori agricoli e ai
pescatori, si aggiungono anche i lavoratori parasubordinati, i
dirigenti, gli sportivi professionisti dipendenti e le casalinghe33
[Inail,
33
L’assicurazione obbligatoria per le casalinghe era già stata introdotta
dalla legge n. 493/99 “Assicurazione contro gli infortuni domestici”, allo
scopo di tutelare la persona, donna o uomo, di età compresa fra i 18 ed i 65
anni, che svolge in via esclusiva una attività finalizzata alla cura del proprio
nucleo familiare. Tuttavia alle casalinghe non è assicurato il principio della

55
2008]. Con il nuovo regime indennitario, oltre all’indennizzo del
danno in termini patrimoniali, viene riconosciuto anche quello per il
danno biologico permanente. L’introduzione del danno biologico alla
persona si deve al D. Lgs. 38 del 23 febbraio 2000 (art.13), il quale
stabilisce che le menomazioni conseguenti ad un infortunio o ad una
malattia professionale devono essere valutate e indennizzate in
ambito medico-legale come “lesioni all’integrità psicofisica della
persona”. Tra le altre misure offerte dall’Inail, le più importanti sono:
l’indennità per la mancata retribuzione, l’integrazione della rendita,
l’assegno di incollocabilità, l’assegno mensile per l’assistenza
personale continuativa, l’assegno per le spese funerarie e lo speciale
assegno continuativo mensile.
L’indennità per la mancata retribuzione (o indennità per
inabilità temporanea assoluta) è una indennità giornaliera
riconosciuta nei casi di astensione dal lavoro per più di tre giorni a
causa di una invalidità temporanea. E’ erogata al lavoratore, a partire
dal quarto giorno successivo alla data di infortunio o dalla
manifestazione della malattia professionale, fino alla guarigione
clinica, ed è calcolata sulla retribuzione giornaliera34
. L’integrazione
della rendita è erogata dall’Inail in caso di revisione del danno,
quindi a distanza di dieci anni dall’infortunio e di quindici anni in
caso di malattia professionale. Altre misure economiche integrative,
automaticità delle prestazioni, per cui in caso di infortunio domestico dal
quale derivi una inabilità superiore al 27%, se non si è in regola con il
pagamento del premio, non si ha diritto alla tutela fornita dall’Inail [Inail,
2008].
34 Per una assenza di tre mesi dal lavoro, si ha diritto al 60% della
retribuzione. Oltre il terzo mese (e fino alla guarigione clinica) il
risarcimento sale al 75% del salario. Tale indennità non è riconosciuta alle
casalinghe, cui è erogata una rendita solo in caso di invalidità uguale o
superiore al 27%. In questo caso la rendita è calcolata sulla retribuzione
convenzionale nel settore industria e varia in relazione al grado di invalidità.

56
sono quelle destinate ai grandi invalidi con una invalidità superiore
all’80% (e dal 2007 anche agli invalidi del lavoro con invalidità
superiore al 60%), se non superano un tetto di reddito stabilito
annualmente, e - a prescindere dal reddito - anche alle persone
totalmente invalide che ricevono l’assegno mensile per l’assistenza
personale continuativa (l’accompagno) e ai figli minori di 12 anni35
.
L’assegno di incollocabilità è versato ai lavoratori in età
lavorativa e con una inabilità superiore al 34%, (a partire dal 1
gennaio del 2007 anche in caso di invalidità superiore al 20%),
riconosciuti “incollocabili” dagli organismi competenti.
L’assegno mensile per l’assistenza personale continuativa (di
487,39 euro nel 2010) spetta invece ai lavoratori con invalidità totale.
In caso di morte per infortunio o malattia professionale, l’Inail
assicura ai supersiti un assegno per le spese funerarie36
e una rendita
mensile, erogata a decorrere dal giorno successivo alla morte. Se la
morte di un lavoratore già titolare di rendita diretta, si verifica per
cause indipendenti dall’infortunio, l’Inail riconosce ai superstiti, in
base al loro reddito, uno speciale assegno continuativo mensile, pari
al 65% della rendita percepita dal titolare con un grado di inabilità
permanente non inferiore al 65% (a partire dal 1° gennaio 2007anche
in caso di invalidità superiore al 48%).
Oltre alle prestazioni economiche, l’Inail fornisce
periodicamente anche strumenti e mezzi tecnologici necessari per lo
svolgimento della vita quotidiana e di relazione, come ad esempio le
protesi, progettate e realizzate su misura dall’Inail presso il Centro
35
Nel 2007 l’integrazione per i grandi invalidi era di 187,28 euro, quella per
i titolari di assegno per assistenza personale continuativa era di 232,64 euro,
quella per i figli con età inferiore a 12 anni era di 54,68 euro.
36 L’assegno per le spese funerarie è erogato ai superstiti o a chiunque
dimostri di averle sostenute. Nel 2007 era pari a 1.725,47 euro.

57
Protesi di Vigorso di Budrio (Bologna) e la filiale di Roma. Infine,
allo scopo di garantire ai lavoratori assicurati il massimo recupero
possibile della salute e delle potenzialità lavorative, se il medico
dell’Inail lo richiede, il lavoratore può usufruire di cure
idrofangotermali e soggiorni climatici. In questo caso l’Inail paga le
spese di viaggio e di soggiorno in alberghi convenzionati sia
all’invalido sia ad un accompagnatore, nel caso sia accertata dal
medico la necessità della sua presenza.
In chiusura di questo paragrafo dedicato alle prestazioni Inail, ci
preme sottolineare l’esistenza di una ulteriore differenziazione
prevista dal nostro sistema di protezione sociale e riservata
esclusivamente ai dipendenti della pubblica amministrazione.
Anch’essi sono infatti soggetti all'assicurazione contro gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali, tuttavia mentre la tutela Inail
copre solo gli infortuni o le malattie strettamente connessi all'attività
lavorativa, la normativa pubblica invece, tutela anche i fatti
occasionali (cadute, incidenti, ecc.) purché in relazione
all'espletamento del servizio. Secondo il DPR 461/2001 (art.1), tutti i
lavoratori dipendenti pubblici, siano essi dirigenti o impiegati o
operai alle pubbliche dipendenze (inclusi quindi anche i magistrati
ordinari, amministrativi e della giustizia militare; gli avvocati e i
procuratori dello Stato; i militari delle forze armate, dei corpi ad
ordinamento militare; le forze di polizia, compresa quella
penitenziaria e del corpo forestale dello Stato e i vigili del fuoco)
possono richiedere l’invalidità per causa di servizio. Si tratta di una
pensione privilegiata erogata ai dipendenti pubblici, in caso di
lesioni o infermità temporanea o permanente, acquisita durante lo
svolgimento del pubblico servizio. Tale pensione non è calcolata in
base alla durata effettiva del servizio prestato, e non è proporzionale
all'entità della contribuzione versata. Anche in questo caso è
necessario il riconoscimento medico, attestante l’invalidità, la sua
entità e il nesso causale tra questa e l'attività di servizio. Oltre alla
pensione privilegiata, i dipendenti pubblici possono ricevere anche

58
l’equo indennizzo, ovvero una indennità "una tantum" variabile a
seconda della gravità della malattia e commisurata alle funzioni e al
livello retributivo del lavoratore. I due trattamenti non si escludono
l'un l'altro, anche se chi riceve la pensione privilegiata può ottenere
soltanto un equo indennizzo ridotto. Anche questa distinzione tra
dipendenti pubblici e privati sottolinea la natura “categoriale” e il
carattere incrementale della protezione sociale nel nostro sistema di
welfare.

59

60
CAPITOLO QUARTO
IL PASSAGGIO DALLE POLITICHE “PASSIVE” ALLE
POLITICHE “ATTIVE” PER L’INSERIMENTO
LAVORATIVO DEI DISABILI
Nei primi anni Ottanta del secolo scorso diversi paesi
dell’Europa occidentale per far fronte alla considerevole perdita di
posti di lavoro nel settore industriale hanno introdotto strumenti di
assistenza pubblica e politiche passive (come gli schemi di pre-
pensionamento) per attenuare i costi sociali della forte riduzione
dell’occupazione. Dalla metà degli anni Ottanta, la costante crescita
della spesa pubblica in politiche passive si arresta, anche se con una
significativa differenza da paese a paese. A partire dal 1993 il
governo americano decide di adottare una nuova strategia: il
“welfare to work”, la quale punta a riformare il sistema di welfare
americano, sostituendo le politiche passive con le politiche attive del
lavoro. Tale approccio viene diffuso nel 1994 dall’Oecd a tutti i paesi
membri, attraverso una serie di raccomandazioni raccolte nella “Job
Strategy”. Tali tendenze di riforma e in particolare il nuovo
paradigma di policy si diffondono presto, dapprima nel Regno Unito,
con la sperimentazione del New Deal e in seguito anche in Europa,
dove nel 1997, viene lanciata la “Strategia Europea
sull’Occupazione”, con lo scopo di aumentare la partecipazione al
mercato del lavoro e promuovere il reinserimento lavorativo di
donne, disoccupati di lungo periodo, giovani e persone scarsamente
istruite.

61
Secondo alcuni autori la strategia per l’occupazione
elaborata in ambito europeo, combacia per diversi aspetti con quella
elaborata nell’ambito dell’Oecd, in particolare per l’enfasi data alle
politiche attive per migliorare l'occupabilità. Mentre le due strategie
apparirebbero discordanti sul ruolo dei sistemi di protezione sociale,
che è residuale secondo l’Oecd e centrale secondo l’Unione Europea
[Beraldo e Patalano, 2003].
Altre ricerche hanno evidenziato che la strategia dell’Oecd
del 1994, la Strategia Europea per l’occupazione dell’Unione
Europea del 1997 e il Summit di Lisbona del 2000 rappresentano la
prima generazione di politiche di attivazione [Da guerre ed
Etherington, 2009]. Queste politiche hanno l’obiettivo di ridurre la
disoccupazione e l’inattività, attraverso la sostituzione delle misure
di politica passiva con politiche attive del lavoro, in particolare
quelle che pongono una maggiore enfasi sulla formazione.
Nonostante tali politiche di prima generazione siano supportate da
una serie di raccomandazioni e principi guida (dell’Oecd e
dell’Unione Europea) la loro efficacia tuttavia non sembrerebbe
dimostrata da studi e ricerche.
In seguito all’entrata in vigore nel 1996 negli Stati Uniti del
Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act
(PRWORA), gli Stati hanno la possibilità di definire in modo più
flessibile programmi innovativi di welfare-to-work. Molti elementi
contenuti nella nuova norma - inclusi i limiti di tempo per l’ingresso
ai programmi e i requisiti più esigenti ed impegnativi - premono
perché gli stati possano realizzare programmi su vasta scala in grado
di aiutare effettivamente i destinatari del welfare a trovare e
mantenere un lavoro. Molti Stati nel ridisegnare i loro programmi
utilizzano la strategia work first, che ha l'obiettivo di far trovare ai
partecipanti un lavoro non sussidiato nel minor tempo possibile,
attraverso misure di ricerca al lavoro, brevi corsi di formazione o di
esperienze di lavoro.

62
Nel 1997 viene pubblicata la guida “Work first: How to
implement an employment-focused approach to welfare reform”,
nella quale si descrive appunto la filosofia di fondo dei programmi di
questo tipo:
“Quello che definisce tali programmi è la loro filosofia
complessiva secondo la quale qualsiasi lavoro è un buon lavoro e
che il miglior modo per avere successo nel mercato del lavoro è
entrarci, sviluppando abitudini e competenze sul lavoro” [Brown,
1997, p.2]
I programmi di tipo work first puntano a fare in modo che i
destinatari di programmi di sussidio erogati dal welfare, possano
trovare un lavoro nel minor tempo possibile, veicolando un forte
messaggio, ovvero che il lavoro per i partecipanti non deve essere
soltanto un obiettivo ma anche una aspettativa. Ad ogni modo tale
guida non intende suggerire che il modello work first sia il più
efficace tra le strategie di welfare-to-work, poiché la possibilità di
individuare un modello migliore dipende dagli obiettivi specifici,
dalle risorse disponibili e dalle condizioni locali. Nonostante tale
premessa, il modello work first inizia a diffondersi, diventando il
modello prevalente in Europa nell’orientamento delle riforme delle
politiche sociali e del lavoro e dei sistemi di protezione sociali.
Vengono quindi condotte numerose ricerche per valutarne l’efficacia.
Malgrado i primi studi pubblicati, mostrino risultati contrastanti,
tuttavia nel 2003 l’Oecd, rivedendo la Job strategy lanciata nel 1994,
suggerisce di estendere l’approccio work first anche ad altri
destinatari, tra cui le persone con disabilità e le persone multi-
problematiche.
Nel paragrafo seguente esamineremo con attenzione
l’approccio del welfare-to-work e l’adozione del modello work first,
illustrando, sulla base della letteratura esistente e delle ricerche
effettuate, le sue caratteristiche e i limiti. Infine nell’ultimo paragrafo

63
proveremo a individuare gli elementi centrali di un nuovo alternativo
approccio, definito life first.
1. Alle origini delle politiche attive del lavoro: dal
welfare-to work al work first
A partire dalle riforme del sistema di welfare realizzate dal
governo Clinton negli Stati Uniti inizia a diffondersi la tendenza a
modificare le politiche sociali e del lavoro, legando il ricevimento
dei sussidi del welfare alla partecipazione a programmi di politica
attiva del lavoro. L’obiettivo del governo democratico era infatti
quello di riformare l’assistenza destinata ai gruppi più disagiati della
popolazione americana attraverso la riduzione dei trasferimenti a
pioggia e l’ampliamento di incentivi di natura fiscale per coloro che
accettavano un’occupazione, per quanto mal pagata. In tal modo si
puntava a rendere il sistema di welfare americano più work-oriented.
Lo slogan di Clinton era “Make work pay”. Da qui il concetto di
“welfare-to-work” [Bertoldi, 2006]. E’ possibile comprendere la
natura dei cambiamenti in atto, dalle parole di Clinton in un suo
discorso del 1992, nel quale afferma:
“Continueremo ad aiutare le persone che non sono in grado di
farcela da sole e coloro che hanno bisogno di educazione,
formazione e servizi per i bambini. Ma coloro che sono in grado di
lavorare dovranno farlo. Noi daremo loro tutto l’aiuto di cui hanno
bisogno per almeno due anni. Dopodiché se sono in grado di
lavorare essi dovranno accettare un lavoro nel settore privato, o
iniziare a guadagnarsi da vivere attraverso la community service i
servizi della comunità” [citato in Bertoldi, 2006].
La più importante di queste riforme è la massiccia espansione
dell’Earned Income Tax Credit (EITC), uno strumento originale e
innovativo di sostegno del reddito. Nei casi di salari molto bassi, i

64
contribuenti americani ricevono una riduzione che può superare
l’ammontare delle imposte versate. E’ chiaro che in questo caso
l’EITC si trasforma in un sussidio salariale presentato, per ragioni di
convenienza politica, come una riduzione d’imposta.
All’EITC fu affiancato nel 1996 il Personal Responsibility and
Work Opportunity Act, che definiva limiti temporali per certi benefici
del welfare ed imponeva obblighi occupazionali a coloro che
usufruivano di programmi di welfare. L’impatto di queste misure sul
mercato del lavoro fu positivo: il numero di persone nei programmi
di assistenza sociale si ridusse considerevolmente; il tasso di
disoccupazione scese sotto il 4%; per la prima volta in più di
vent’anni le differenze di reddito si ridussero, seppur lievemente e
infine diminuì anche il numero di persone con un reddito al di sotto
del livello di povertà.
Il nuovo sistema di welfare-to-work sembra aver funzionato bene
in un periodo di forte crescita economica, assorbendo senza
eccessive tensioni il rallentamento dell’inizio degli anni Novanta. Il
suo principale limite è di natura sociale piuttosto che economica.
Come notano Blank ed Ellwood [citati in Bertoldi, 2006], coloro che
non hanno successo nei loro tentativi di trovare e mantenere un
lavoro e coloro che si ritrovano disoccupati a causa del ciclo
economico più severo di quello recentemente attraversato, rischiano
di essere i perdenti di una riforma che nel suo complesso sembra
essere coronata da un considerevole successo. Tuttavia è importante
precisare anche che durante il ciclo economico recessivo del 2001,
seguito dalla jobless recovery del 2002-2003, alcune categorie di
disoccupati hanno scarsamente beneficiato delle nuove misure. In
particolare, ex-lavoratori (principalmente maschi) precedentemente
occupati nel settore manifatturiero o in settori in declino o esposti ai
processi di globalizzazione hanno avuto notevoli difficoltà a ritrovare
un’occupazione che corrispondesse alle loro abilità lavorative. Molti
di essi si sono semplicemente ritirati dal mercato del lavoro una volta

65
esaurito il sussidio di disoccupazione e dunque non appaiono nelle
statistiche come disoccupati [Bertoldi, 2006].
In conclusione quindi nonostante il welfare-to-work abbia
contribuito a far entrare nel mercato del lavoro persone che prima ne
erano escluse (o si autoescludevano), esso non sembra essere stato in
grado di offrire incentivi sufficienti a certe categorie di disoccupati
per farle restare nel mercato del lavoro [Bertoldi, 2006].
Il nuovo sistema sembra adattarsi alle esigenze della “nuova
economia”, generando un circolo virtuoso nel quale la rapida crescita
attira sul mercato del lavoro gruppi che precedentemente basavano la
propria sussistenza sui sussidi forniti dal welfare. L’afflusso di
questa forza-lavoro addizionale ha contribuito a contenere la
dinamica salariale, senza però che i lavoratori con bassi salari
risentissero significativamente di questa dinamica, poiché i loro
salari erano sostenuti dall’Earned Income Tax Credit. L’economia ha
potuto così continuare ad espandersi senza significative tensioni
inflazionistiche.
Se a prima vista non sembra che il sistema di welfare-to-work
abbia bisogno di correzioni significative, tuttavia esso rischia di
funzionare bene soltanto se l’economia cresce a ritmi sostenuti e la
disoccupazione resta relativamente bassa. Esso infatti, allentando
parte della rete di assistenza di base, poggia sulla scommessa che il
rallentamento della crescita economica sia temporaneo e di breve
durata [Bertoldi, 2006].
Il modello statunitense di workfare, rielaborato con
l’introduzione di alcuni aspetti tipici del modello scandinavo,
configurerebbe la strategia d’intervento inglese, dando vita, secondo
Beraldo e Patalano [2003] all’approccio work first. Esso punta a
convertire, nel minor tempo possibile, i beneficiari del sistema di
protezione sociale in lavoratori-contribuenti, utilizzando misure a
carattere d’incentivo che mirano ad eliminare la cosiddetta rational

66
dependency degli individui dal sistema di protezione sociale. Queste
misure, infatti, da un lato, tramite la previsione di obblighi cui è
necessario ottemperare, riducono l’appetibilità dei benefici erogati, e
dall’altro, tramite l’introduzione di agevolazioni di tipo fiscale e la
disponibilità di servizi all’impiego, tendono ad incrementare i
rendimenti che gli individui possono ottenere dal lavoro (making
work pay). Tale modello inoltre propone un sistema di protezione
sociale che si contraddistingue per la temporaneità delle prestazioni
erogate e per l’assenza di una rete di assistenza residuale, che
dovrebbe garantire una protezione a quegli individui che mancano di
adempiere alle obbligazioni previste [Beraldo e Patalano, 2003].
Il nucleo centrale delle riforme attuate in Gran Bretagna a partire
dal 1998 è costituito dal New Deal, un programma che, in linea con il
modello del work first approach cui s’ispira, è strutturato in modo da
fornire agli individui la necessaria assistenza per migliorare la
propria occupabilità e la prospettiva di trovare e mantenere un
lavoro.
“uno degli obiettivi del New Deal è quello di assicurare che le
persone si trovino meglio senza i benefici piuttosto che
ricevendoli”[Beraldo e Patalano, 2003, p. 21-22].
Il programma è gestito su base locale dai Jobcentre Plus,
coinvolgendo anche imprenditori, autorità amministrative, società di
formazione, centri del lavoro (jobcentres), associazioni di
volontariato, ed altri enti o organizzazioni interessate. Dopo un certo
periodo iniziale, durante il quale le persone senza un lavoro
beneficiano dell’assistenza pubblica ricevendo un sussidio di
disoccupazione (Jobseeker Allowance, JSA) diventa obbligatorio
partecipare al programma. Esistono quattro schemi di intervento
destinati a quattro gruppi diversi di destinatari: a) i giovani (New
Deal for Young People);b) idisoccupati di lungo periodo (Enhanced
New deal for long-term Unemployed people); c) i genitori soli (New
deal for Lone Parents); d) i disabili (New deal for Disabled People).

67
Questi ultimi due schemi si distinguono per la natura volontaria della
partecipazione ed in tal senso sembrano meno orientati verso il
modello work first.
Il “New Deal for Disabled People”(NDDP) in particolare è stato
introdotto sperimentalmente nel 1998 ed è tuttora il principale
programma (su base volontaria) per promuovere il reingresso al
lavoro delle persone disabili che percepiscono gli income benefits.
Esso permette ai partecipanti non solo di ricevere un sostegno di tipo
economico, ma anche di fruire, con il supporto di un consulente
personale di una serie di servizi per la ricerca di un lavoro, per la
formazione, per il riadattamento del luogo di lavoro.
Oltre al New Deal, sono stati promossi nel Regno Unito ulteriori
programmi destinati alle persone con disabilità: l’access to work e il
patways to work. Il primo ha permesso di stanziare dei fondi destinati
ai datori di lavoro in modo da permettere loro di affrontare le spese
necessarie per il riadattamento dell’ambiente di lavoro e renderlo
accessibile alle persone con disabilità. Il secondo è un programma
pilota introdotto nel Regno Unito a partire dall’Ottobre del 2003 e
destinato a circa il 10% dei beneficiari di Income Benefits (IB). Un
elemento centrale del programma è la possibilità per il beneficiario di
scegliere una serie di servizi destinati a migliorare le sue capacità,
come ad esempio i servizi di riabilitazione e di supporto, gli in-work
benefits erogati come premio durante il programma di preparazione
per il reingresso al lavoro, gli out-of-work benefits e i return to work
credit (RTWC37
), il Management Programme (CMP) per aiutare le
persone disabili che non lavorano a comprendere e gestire la propria
condizione di salute. Secondo alcuni esperti, il programma pathways
to work non ha funzionato in particolare nei confronti delle persone
37
I return to work credit consistono in un rimborso di 40 sterline al mese
(fino ad un anno) a coloro i quali ritornano a lavorare per almeno 16 ore la
settimana ma percepiscono un salario inferiore a 15,000 £.

68
con problemi di salute mentale o con difficoltà di apprendimento38
.
Tali destinatari sono infatti risultati “difficili da raggiungere” e di
conseguenza in luogo di un percorso di inserimento lavorativo queste
persone hanno ricevuto poche risorse finanziarie a titolo di
compensazione [Crowther N., 2009, p. 75].
Numerosi studi di valutazione hanno mostrato i limiti
dell’adozione del modello work first in generale. In primo luogo esso
finisce per negare il diritto alla protezione e all’assistenza, In
secondo luogo ricorre ad un tipo di formazione troppo breve, in
modo da realizzare un rapido reinserimento nel mercato del lavoro,
con il rischio che la persona sia costretta ad accettare più facilmente
un cattivo lavoro. Infine ciò si traduce in bassi salari, nel rischio di
svolgere lavori precari e instabili, e con la possibilità di ritrovarsi in
quello che è definito carrousel effect, ovvero la possibilità di
fuoriuscire nuovamente e facilmente dal mercato del lavoro
[Daguerre ed Etheringhton, 2009, p.22].
A partire dal 2000-2001, iniziano a diffondersi studi e ricerche
per il monitoraggio e la valutazione dell’efficacia delle politiche
attive del lavoro implementate nei diversi paesi. L’obiettivo è quello
di verificare quali politiche funzionano e quali no, quali destinatari
rispondono meglio a certi programmi, e quali elementi permettono ai
programmi di funzionare. I principali programmi analizzati sono stati
quelli americani, dove il loro monitoraggio è obbligatorio. Poche
sono state invece le valutazioni rigorose su programmi di politiche
38
E’ importante ricordare che nel Regno Unito, se il tasso di disoccupazione
per le persone con disabilità è del 48%, tra le persone con problemi mentali
esso arriva all’80% e nel caso delle persone con difficoltà di apprendimento
sale all’83%.

69
attive realizzate in Europa (Regno Unito, Svizzera, Germania,
Belgio, Irlanda e Paesi Nordici).
Le ricerche condotte sulle politiche americane di tipo
workfarista, che sono riuscite a ridurre i beneficiari del welfare,
introducendo controlli e sanzioni hanno mostrato che le sanzioni
dovevano essere utilizzate con cautela, poiché secondo uno studio
condotto nel 1999 da Schott, Greenstein e Primus, esse tendevano a
colpire in particolare proprio le persone che avevano più difficoltà ad
accedere al mercato del lavoro [in Bertoldi 2006]. Inoltre coloro i
quali venivano sanzionati, il più delle volte mostravano delle
difficoltà a comprendere le regole e i requisiti richiesti dai
programmi e le conseguenze della mancata partecipazione agli stessi.
Alle stesse conclusioni giungono Hasenfeld et al. [2004], in uno
studio in cui si sottolinea come paradossalmente venivano sanzionate
proprio le persone più svantaggiate. Inoltre tali persone in alcuni casi
non avevano neanche compreso i motivi per cui erano state
sanzionate.
Esistono poche prove sugli effetti a lungo termine delle politiche
attive del lavoro. La maggior parte delle ricerche di valutazione
condotte in modo rigoroso sono in grado di mostrare esclusivamente
gli effetti nel breve termine, nel migliore dei casi a distanza di uno o
due anni dalla conclusione dei programmi [Martin e Grubb, 2001]. Si
tratta comunque di un periodo troppo breve comunque per poter
valutare il ritorno privato e sociale degli investimenti pubblici in
misure attive del lavoro.
Molti programmi sono stati implementati in scala sperimentale e
di conseguenza anche se si riscontra una valutazione positiva di tali
programmi, non è possibile stabilire quali possano essere i costi e
l’efficacia dell’estensione del programma su vasta scala [Martin e
Grubb, 2001, p. 11]. Inoltre sulla base della letteratura esistente sulla
valutazione dei programmi, non è ancora chiaro come sia possibile
estendere i risultati ottenuti sull’efficacia del programmi individuali,

70
al livello macro [Martin e Grubbs, 2001, p. 13-14]. In definitiva
l’approccio work first, che utilizza misure di formazione
relativamente economiche e che puntano ad un veloce reinserimento
nel mercato del lavoro, sembra possa portare le persone ad accettare
lavori di bassa qualità, contribuendo alla creazione di “bad job” e
“working poor”.
Un altro problema è relativo alla eterogeneità dei risultati in aree
geografiche diverse, anche se in media, il programma risulta
funzionare [Martin e Grubb, 2001, p. 12].
Questo aspetto è stato ulteriormente analizzato da due studiosi
italiani, Altavilla C., Caroleo F.E., [2006] i quali, utilizzando un
modello econometrico, hanno esaminato gli effetti delle politiche
attive del lavoro sulle dinamiche dell'occupazione nelle diverse
regioni italiane. I risultati mostrano che le politiche attive del lavoro
producono effetti asimmetrici dovuti alle differenze economiche
strutturali che caratterizzano le diverse regioni italiane. In particolare
l'uso dei contratti a causa mista (formazione e lavoro) tende a ridurre
maggiormente la disoccupazione nelle regioni del nord più che nelle
regioni del mezzogiorno. Lo stesso accade per le misure di
stabilizzazione dei lavoratori a termine. Al contrario invece i sussidi
all’occupazione sembrano funzionare maggiormente al sud piuttosto
che al nord. Inoltre la diminuzione del tasso di disoccupazione in
risposta all'adozione di identiche misure di politiche attive del lavoro
in regioni diverse avviene con velocità diverse e con intensità diverse
nelle regioni del nord rispetto a quelle del mezzogiorno. Ciò dipende
dal fatto che nelle regioni del Nord il numero dei disoccupati è
minore ed esistono maggiori posti di lavoro a differenza delle regioni
del sud. In generale le politiche attive del lavoro sembrano produrre
dei risultati maggiori al nord piuttosto che al sud.
Infine Kluve [2006] analizzando i risultati di oltre 100 studi di
valutazione dell’efficacia delle politiche attive del lavoro in tutta
Europa conclude che l’efficacia delle politiche attive del lavoro non

71
dipende da fattori istituzionali o dalle condizioni economiche del
paese in cui sono state realizzate, ma dal tipo di programma
implementato. L’analisi si basa sulla correlazione tra l’efficacia del
programma (positivo, negativo, nessuno) rispetto ad un set di
variabili quali il tipo di programma, il contesto istituzionale e il
background economico del paese nel momento in cui il programma
veniva implementato. I tipi di misure analizzati sono stati suddivisi
in quattro categorie: 1) programmi di formazione (in classe o sul
posto di lavoro, generale o specifica), al fine di aumentare la
produttività e l’occupabilità dei partecipanti, rafforzandone le
competenze ed il capitale umano; 2) incentivi per la creazione di
lavoro nel settore, con l’obiettivo di incoraggiare i datori di lavoro ad
assumere nuovi lavoratori o a mantenere posti di lavoro nei settori
potenzialmente a rischio. Tali misure sono dirette generalmente ai
disoccupati di lungo periodo o agli individui più svantaggiati; 3)
programmi di creazione diretta dell’occupazione nel settore
pubblico diretti ai soggetti più svantaggiati, con l’obiettivo di evitare
che le persone perdano il capitale umano e relazionale; 4) servizi e
sanzioni, che include tutti i programmi che aumentano l’efficienza
della ricerca del lavoro, con misure come l’assistenza nella ricerca di
un lavoro, il tutoraggio, il monitoraggio e le corrispondenti sanzioni
nel caso in cui il destinatario non rispetti le regole del programma
[Kluve, 2006, p.5]. Secondo Kluve i programmi che aumentano la
probabilità dei partecipanti di reinserirsi nel mercato del lavoro, sono
questi ultimi. Mentre i meno efficaci sarebbero i programmi che
creano lavoro direttamente nel settore pubblico.
In definitiva, nonostante le significative variazioni tra i paesi,
molti stati membri dell’Oecd utilizzano l’approccio work first,
implementando quindi politiche attive del lavoro basate
sull’approccio del bastone e della carota, alternando le sanzioni agli
incentivi economici e riservando i servizi di supporto alle persone
che ne hanno più bisogno [Da guerre ed Etherington, 2009].

72
2. L’approccio work first e le politiche attive del lavoro per le
persone con disabilità
I risultati contrastanti sull’efficacia delle misure ispirate al
principio del work first hanno però spinto l’Oecd nel 2003 a rivedere
la strategia lanciata nel 1994. L’edizione del 2006 dell’Employment
Outlook dell’OECD propone infatti una rivisitazione generale della
precedente strategia sull’occupazione. L’enfasi è ora posta su come
rendere più efficaci le politiche attive del lavoro, piuttosto che sulla
crescita della spesa in misure attive e la nuova strategia si concentra
in particolare sul reinserimento dei disabili nel mercato del lavoro. Il
primo paese che ha intensificato gli sforzi per attivare tutte le
persone in età lavorativa, inclusi i destinatari di incapacity benefits è
stato il governo inglese, paese più all’avanguardia nell’adozione
della strategia work first [Daguerre ed Etherington, 2009]. Alle
persone con disabilità in cambio di un sostegno al reddito, viene
richiesto di rendersi disponibili a lavorare, introducendo quindi delle
sanzioni nei confronti di quanti non si attengono ai requisiti richiesti
dai nuovi programmi. L’approccio del bastone e della carota,
applicato alle persone che hanno più difficoltà ad acceder al mercato
del lavoro non solo nega il diritto all’assistenza, ma non sembra
funzionare nei casi più problematici.
Daguerre ed Etherington [2009] hanno recentemente esaminato i
programmi di politica attiva che sono stati adottati a livello
internazionale con l’obiettivo di comprendere quali siano state le
politiche attive del lavoro che hanno funzionato meglio. Secondo la
loro analisi è importante tenere in considerazione quattro elementi
cruciali:
1) utilizzare i programmi di attivazione erogando un sostegno di
tipo personalizzato e intervenendo precocemente nei casi di
persone maggiormente svantaggiate.
2) E’ importante che il rapporto tra lo staff all’interno dei centri
per l’impiego e i destinatari delle politiche sia adeguato, in

73
quanto questo fattore influisce effettivamente sulle
performance del programma.
3) E’ necessario offrire un supporto maggiore e specifico alle
persone multi-problematiche
4) I lavori sussidiati combinati con programmi di formazione al
lavoro permettono di ottenere risultati occupazionali
sostenibili.
Gli approcci che prevedono servizi, misure ed interventi
personalizzati, incluso il tutoraggio, in modo da seguire la persona
soprattutto nelle fasi iniziali, ottengono risultati migliori. E’
importante quindi che il personale addetto all’erogazione di tali
misure di politica attiva del lavoro sia in numero adeguato rispetto al
numero dei beneficiari e sia qualificato a svolgere tale lavoro di
supporto.
La tendenza ad offrire un sostegno mirato e personalizzato è
stato riscontrato sia in Olanda nel programma Obligation to Learn
and Work Initiative for Youth e in Australia nel programma Job
Capacity Assessment for people with disabilities. In entrambi i casi si
riscontra però una rafforzamento della condizionalità dei programmi
applicata anche ai gruppi più difficili da reinserire come i giovani e i
disabili. L’assistenza personalizzata è sicuramente più costosa e
richiede l’utilizzo di un piano di azione personale il quale deve
riflettere sia i bisogni individuali in termini di competenze, sia le
specifiche aspirazioni personali.
Le ricerche condotte sulle politiche attive destinate a disabili,
soggetti multi-problematici e persone svantaggiate hanno mostrato la
necessità di ricorrere a sostegni economici maggiori, tempi più
lunghi e minori condizionamenti in termini di sanzioni.
L’importanza di tali fattori risulta confermata anche dalla nostra
ricerca sul programma sperimentale di politiche attive del lavoro
implementato in Italia dall’Inail e destinato esclusivamente agli
invalidi del lavoro (si veda par. 6.2).

74
Infine è stato riscontrato che le politiche di formazione al lavoro
in combinazione con la creazione di lavori sussidiati, ha permesso
l’ingresso nel mercato del lavoro di soggetti, come i disabili o gruppi
di persone più vulnerabili, che non avrebbero altrimenti avuto
accesso ad un mercato del lavoro. Un esempio di successo è il
programma implementato in Danimarca per i disabili e il programma
Olandese per i giovani. Si tratta di programmi costosi ma che
sembrano produrre buon risultati per le persone più svantaggiate
[Daguerre ed Etherington , 2009]
3. Verso il modello life first?
Anche se non esiste un unico sentiero di riforma delle politiche
sociali e del lavoro e dei sistemi di welfare, l’approccio che ha
orientato i policy makers nell’ultimo decennio è stato quello del work
first [Brown 1997], attraverso il quale è stato possibile ridurre gli alti
e persistenti tassi di disoccupazione in Europa attraverso l’adozione
di politiche attive del lavoro che hanno subordinato l’erogazione dei
benefici del welfare all’accettazione di un lavoro qualsiasi.
Diverse sono state le critiche rivolte a tale approccio. Secondo
van Oorschot e Hvinden [2000] il limite principale è stato quello di
restringere l’accesso alle misure passive di tutela e sostegno al
reddito, introducendo controlli più severi e sanzioni nei confronti dei
destinatari che rifiutano di prendere parte ai programmi di politica
attiva del lavoro perché non li considerano adeguati ai loro bisogni e
capacità, negando in modo il diritto alla protezione sociale.
Oltre a negare il diritto alla protezione sociale, l’approccio work
first, secondo alcuni autori [Dean et al. 2005] rafforzerebbe gli utenti
del welfare in quanto consumatori, piuttosto che in quanto cittadini.
Gli investimenti in formazione sembrano infatti finalizzati a
migliorare il funzionamento di una persona in termini di attore
economico e non invece ad accrescere le sue capacità di scegliere la
vita che vorrebbe vivere [Sen 1987]. In tal modo il concetto di

75
capacità verrebbe declinato nella sua accezione di «rafforzamento del
capitale umano», restringendo il concetto dei diritti umani ad una
interpretazione liberal-individualista [Dean et al. 2005].
Dean invece propone l’adozione di un approccio di tipo life first
secondo il quale non solo è fondamentale garantire il diritto
all’assistenza e alla protezione sociale, e tale diritto non può e non
deve essere in alcun modo condizionato. Ma è anche importante
puntare al rafforzamento delle capacità umane, in modo da ampliare,
piuttosto che restringere le possibilità di una persona di scegliere e
agire liberamente. Dean fa riferimento al concetto di capacità umane
di Sen, sottolineando la differenza esistente tra questo concetto e
quello di capitale umano. Lo stesso Sen [1997] affermava che il
capitale umano costituisce solo una faccia della medaglia dello
sviluppo umano, quella che fa riferimento alle risorse materiali, ma è
necessario tenere presente anche l’altra faccia, quella delle capacità
umane, perché gli esseri umani non sono soltanto mezzi di
produzione, ma anche l’obiettivo ultimo del produrre [Sen 1997].
Se la scelta tra uno dei due approcci può non essere rilevante in
termini di riduzione della disoccupazione, in quanto entrambi
contribuiscono alla sua decrescita, tuttavia essa è cruciale
nell’aumento o nella diminuzione dei livelli di disuguaglianza
sociale. I dati Oecd [2006, 16] dimostrano infatti che entrambi gli
approcci ottengono buoni risultati sul piano della crescita
dell’occupazione, ma mentre la strategia work first, nel contrastare la
disoccupazione, abbassa la spesa pubblica, riduce il livello di tutela
del lavoro e accresce le disuguaglianze sociali, di contro la strategia
life first riesce a promuovere un’ampia partecipazione al mercato del
lavoro e contiene la crescita delle disuguaglianze sociali, pur se con
costi economici più alti [Oecd 2006, 16].
Sintetizzando i due approcci è possibile evidenziare quindi tre
differenze principali tra l’approccio work first e quello life first:
1) nell’approccio work first il sostegno al reddito è vincolato alla
sottoscrizione di un patto tra beneficiario e assistente sociale. Chi

76
non collabora o rifiuta un lavoro, perde il beneficio mentre
nell’approccio life-first il sostegno al reddito non è condizionato alla
sottoscrizione di un patto o alla partecipazione ad un programma. Il
beneficiario può scegliere in aggiunta al sostegno economico, anche
di intraprendere un percorso formativo adatto al rafforzamento delle
proprie capacità e che meglio si concilia con i propri bisogni e con il
proprio percorso di vita. Il rifiuto di un lavoro ritenuto non adatto o
inconciliabile con le proprie esigenze di vita non è penalizzato
2) nell’approccio work first la partecipazione al programma è
obbligatoria. I percorsi formativi possono essere più o meno
personalizzati ma sempre obbligatori, pena l’esclusione dal
programma e dal sostegno al reddito, mentre nell’approccio life first
la partecipazione ai vari corsi di formazione è volontaria. Il diritto
delle persone che si trovano in stato di bisogno (disoccupati, disabili,
ecc…) a ricevere un sostegno al reddito non è in alcun modo ridotto,
limitato o condizionato dalla mancata partecipazione ai programmi.
I percorsi formativi non sono “calati dall’alto” ma co-progettati con
i beneficiari, in modo individuale e personalizzato in base a bisogni e
capacità.
3) differenze nei risultati: con l’approccio work first si persegue
una politica di riduzione della spesa pubblica ma anche di riduzione
dei diritti umani e della libertà di scelta; spreco delle risorse umane.
Il limite è che esso contribuisce alla crescita delle disuguaglianze
sociali, e all’aumento di bad jobs e working poor. Con l’approccio
life first si persegue una politica di interpretazione dei bisogni umani,
di rafforzamento delle capacità, di ampliamento della libertà di scelta
di creazione di nuova e buona occupazione e di riduzione delle
disuguaglianze sociali. Anche se tale approccio influisce
sull’aumento della spesa pubblica.
Il modello Inail di politiche attive per il reinserimento degli
invalidi del lavoro sembra avere adottato un approccio di tipo life
first, non solo perché le politiche attive di formazione e

77
reinserimento non escludono le misure di sostegno economico (quali
l’indennizzo per danno permanente, l’integrazione della rendita, lo
speciale assegno continuativo, l’integrazione di fine anno, ecc.), ma
soprattutto perché il reinserimento socio-lavorativo dell’invalido è
realizzato nella logica della valorizzazione delle capacità
dell’individuo. L’invalido del lavoro che riceve un sostegno di tipo
economico, può candidarsi volontariamente a partecipare ad un
progetto di formazione individuale, costruito insieme alla équipe
locale Inail, in modo da rafforzare le proprie capacità residue e
reinserirsi nel mondo del lavoro. Chi non partecipa ai progetti non
perde i benefici economici.

78
CAPITOLO QUINTO
LE POLITICHE PER L’INSERIMENTO DELLE
PERSONE CON DISABILITA’ NEL MERCATO DEL
LAVORO
1. Dal collocamento obbligatorio al collocamento mirato
Fino alla fine degli anni sessanta non esisteva in Italia una
specifica normativa che agevolasse in modo chiaro l’accesso delle
persone con disabilità nel mondo del lavoro, ad eccezione delle
persone che avevano riportato delle menomazioni a causa della
guerra.
Nonostante la Carta Costituzionale stabilisse la pari dignità di
tutti i cittadini (art.3) e il diritto al lavoro per tutti i cittadini (art.4) è
solo nel 1968 che si arriva a disciplinare con la legge 482 “le
assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le
aziende private”.
Si tratta di una norma a carattere impositivo e assistenzialistico
che stabilisce l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità,
attraverso l’avvio numerico sulla base di una graduatoria e quindi
senza alcuna attenzione nei confronti dell’adeguatezza della
mansione lavorativa da svolgere. Il cosiddetto sistema delle quote
infatti stabiliva per le aziende pubbliche e private con almeno 35
dipendenti, il collocamento obbligatorio del 15% di persone con
disabilità39
, etichettate come “categorie protette” e che comprendeva
i disabili civili, gli invalidi del lavoro, di guerra e per servizio, le
39
Tale percentuale doveva poi essere ripartita tra le varie categorie di
persone con disabilità.

79
vedove e gli orfani degli stessi, e i sordomuti. L’assunzione era
vincolata all’esistenza di uno stato invalidante intesa come riduzione
della capacità lavorativa.
La facile eludibilità dell’obbligo e dei controlli, l’estrema
burocratizzazione dei processi, il carattere assistenziale del
collocamento obbligatorio e la poca chiarezza nella definizione dei
requisiti di invalidità all’interno delle commissioni mediche, resero
tale riforma poco efficace e solo il 3-4% delle persone con disabilità
riuscirono con questo sistema ad essere inserite nel mercato del
lavoro.
Nonostante i risultati fallimentari, si deve attendere l’inizio degli
anni novanta per individuare nuovi provvedimenti legislativi in
favore delle persone con disabilità. Nel 1991 con la L. 381 vengono
definiti gli ambiti di intervento delle cooperative sociali, le quali
attraverso la possibilità di stipulare convenzioni con gli enti pubblici,
possono sviluppare imprese per l’inclusione delle persone
svantaggiate. Nel 1992 entra in vigore la legge 104, fondamentale
per la costruzione di un quadro di insieme dei diritti delle persone
con disabilità. In questa legge vengono infatti stabiliti gli indirizzi
fondamentali per un approccio integrato alla disabilità, mettendo
insieme una sera di temi che fino a quel momento erano stati trattati
in modo disaggregato e disfunzionale. Nella legge viene anche
considerato il tema del lavoro, ma nei fatti soltanto l’inserimento
nelle cooperative sociali e i “laboratori protetti” sembrano costituire
gli unici canali di accesso al lavoro, mentre il mercato regolare resta
ben lontano dall’integrare al suo interno le persone con disabilità
Nel 1999 con la legge 68 si decide quindi di introdurre nuove
norme per il diritto al lavoro dei disabili. In luogo del collocamento
obbligatorio la legge istituisce il “collocamento mirato”, che consiste
in una serie di servizi di sostegno e di politiche volte a favorire
l'inserimento lavorativo della persona giusta nel posto giusto. A tale
scopo si stabilisce un nuovo metro di valutazione della disabilità di

80
tipo “medico-sociale”, tale da permettere di individuare le “capacità
residue” della persona con disabilità che opportunamente rafforzate,
possano favorirne il reinserimento lavorativo. Si passa quindi da una
valutazione dei bisogni della persona per fini esclusivamente
economici, ad un’analisi valutativa multi-disciplinare e multi-
dimensionale, in grado di tenere conto dei possibili progressi grazie
anche all’inserimento nel mondo del lavoro.
Il vecchio sistema delle quote viene mantenuto, ma modificato e
l’obbligo di assunzione viene esteso anche alle aziende con almeno
15 dipendenti. In base alle modifiche introdotte, le aziende
(pubbliche e private) che occupano da 15 a 35 dipendenti devono
assumere almeno una persona con disabilità; quelle con un numero di
lavoratori compreso tra 36 e 50 addetti, sono tenute ad impiegarne
due; le imprese con un numero di lavoratori superiore a 50, devono
riservare il 7% dei propri posti alle persone con disabilità. Le aziende
che non presentano la richiesta di avviamento al lavoro di persone
con disabilità ai competenti uffici del lavoro vengono sanzionate con
il pagamento di una multa proporzionale al numero di persone non
assunte e moltiplicato per il numero di giorni di mancata assunzione.
Se nei confronti dei datori di lavoro, l’obbligo di impiegare i
lavoratori con disabilità viene mantenuto, la nuova legge cerca
invece di individuare per la persona con disabilità, sul fronte
riabilitativo-occupazionale, un nuovo percorso di reinserimento più
attento alle capacità della persona. Si delinea quindi un nuovo
modello di politiche attive del lavoro, applicato alle persone con
disabilità.

81
2. Gli attori istituzionali per l’inserimento lavorativo
delle persone con disabilità
Nel 1999 vengono introdotte nuove disposizioni, (L. 144)
riguardanti gli incentivi all’occupazione, il riordino degli enti
previdenziali e la normativa che disciplina l’Inail. In particolare con
l’art. 55 si procede a modificare il sistema di assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro e le malattie professionali, conferendo all’Inail il
compito di sperimentare nuove politiche attive per il reinserimento
degli invalidi del lavoro. Per sperimentare un nuovo modello di
politiche attive per le persone con invalidità lavorativa, nel triennio
1999-2001, si stabilisce che l’Inail possa destinare 150 miliardi di
vecchie lire provenienti dalla lotta all’evasione contributiva, per la
realizzazione di progetti formativi e di riqualificazione professionale
“sperimentali” destinati esclusivamente agli invalidi del lavoro.
E’ da questo momento che ha inizio una differenziazione tra le
politiche attive del lavoro realizzate dall’Inail per gli invalidi del
lavoro e quelle implementate dai centri per l’impiego per il
collocamento mirato delle persone con disabilità (e in generale
quindi sia per i lavoratori disabili che per i disabili civili).
La già sancita distinzione tra disabili civili, lavoratori disabili e
invalidi del lavoro, in merito alla diversa protezione economica
offerta dal sistema di protezione italiano si amplia. Si tratta di un
elemento di resistenza insito nel sistema italiano di welfare di stampo
“lavorista”, che offre una maggiore protezione ai lavoratori (e quindi
anche agli invalidi del lavoro), in quanto contribuiscono al
finanziamento del sistema di protezione sociale. Il netto dualismo
esistente tra “i beneficiari forti” e “i beneficiari deboli” discende
dall’art.38 della Costituzione italiana, che distingue la protezione
sociale offerta ai lavoratori, dall’assistenza destinata a chi non
lavora, al fine di garantire a questi ultimi esclusivamente il diritto al
mantenimento e all’assistenza sociale.

82
Agli invalidi del lavoro oltre ad un più favorevole trattamento
economico, vengono destinate in via esclusiva le nuove politiche
attive sperimentali promosse dall’Inail con l’obiettivo di rafforzare le
capacità residue degli invalidi del lavoro e reinserirli nel mercato del
lavoro. A ciò si aggiunga che la legge 68 del 1999, introducendo
nuove norme per il collocamento mirato delle persone con disabilità,
aveva confermato la differenza tra gli i disabili civili e gli invalidi del
lavoro, stabilendo per questi ultimi una soglia di invalidità più bassa
per l’accesso alle politiche di re-inserimento nel mercato del lavoro.
Gli invalidi del lavoro infatti possono accedere ai progetti di
formazione e reinserimento promosse dall’Inail, se hanno un livello
di disabilità medio-grave (ovvero superiore al 33%), mentre i disabili
civili possono accedere ai servizi di collocamento mirato gestiti dai
centri per l’impiego, solo con un livello di disabilità superiore al
45%.
Con la possibilità di prendere parte ai progetti di formazione
Inail, gli invalidi del lavoro non solo possono continuare a ricevere
un sostegno economico da parte dell’Inail (per esempio attraverso la
rendita per il danno patrimoniale e per il danno biologico), ma
possono – se vogliono – anche partecipare ai percorsi individuali per
la formazione professionale e il reinserimento lavorativo.
Si crea quindi un doppio sistema di valutazione della disabilità:
uno per i disabili civili gestito dalle commissioni mediche integrate
presenti nelle Asl, e uno per gli invalidi del lavoro gestito dalle
equipe multidisciplinari Inail40
.
Il percorso di valutazione dei disabili civili presso le Asl si
caratterizza come una valutazione medico-sociale realizzata con
40
Le commissioni mediche integrate per la valutazione della disabilità sono
state introdotte dalla L.104/ 1992 (art.4).

83
l’obiettivo di ottenere un certificato attestante il livello di disabilità,
utile sia per ottenere dall’Inps (solo in presenza di determinati
requisiti di disabilità e di reddito) un sostegno economico, sia per
iscriversi alla lista unica per il collocamento dei disabili, presso i
centri per l’impiego.
Nel capitolo terzo abbiamo già sottolineato le differenze esistenti
tra i requisiti richiesti ai disabili civili e quelli richiesti ai lavoratori
con disabilità e agli invalidi del lavoro per l’ottenimento di un
supporto economico. Qui invece ci interessa precisare quali siano le
differenze che riguardano la valutazione delle capacità residue,
realizzata dalle Asl rispetto all’Inail.
Nelle Asl la valutazione è effettuata dalle commissioni mediche
integrate, le quali considerano la disabilità in termini di percentuale e
la certificano compilando una scheda, contenente le informazioni
sulla natura e il grado della disabilità. A tali informazioni si
aggiungono quelle riguardanti le attitudini personali, il livello
d’istruzione e capacità lavorative, in modo da facilitare presso i
centri per l’impiego (CPI) il percorso di collocamento mirato. Presso
i CPI al certificato di disabilità rilasciato dalle Asl, si aggiunge una
scheda personale, nella quale vengono presi in considerazione diversi
altri parametri, tra cui l’anzianità di iscrizione al collocamento, la
condizione economica, il carico familiare, la difficoltà di
spostamento sul territorio. In questo modo è possibile creare una
graduatoria unica ai fini delle assunzioni, in grado di facilitare
l’eventuale richiesta di lavoro proveniente delle imprese e consentire
un inserimento mirato nel mercato del lavoro.
Se il percorso attuato dal disabile civile per ottenere un sostegno
economico e per cercare di inserirsi nel mercato del lavoro ha
previsto il confronto con diversi attori istituzionali (Asl e CPI),
quello dell’invalido del lavoro è invece gestito interamente ed
esclusivamente dall’Inail. L’Inail infatti “prende in carico” l’invalido
assicurandogli un sostegno completo e integrato che include sia le

84
prestazioni di tipo economico, sia un percorso riabilitativo
individuale, sia un percorso di formazione professionale e di
reinserimento lavorativo. Anche la valutazione dell’invalidità è
gestita in via esclusiva all’Inail, che a partire dal 2001 ha reso
operativo un nuovo modello organizzativo quello delle equipe
multidisciplinari. Si tratta di equipe composte da tre diverse figure
professionali: il medico legale, il funzionario e l’assistente sociale e
che lavorano in maniera integrata e coordinata. La presenza di figure
professionali diverse permette di realizzare una valutazione medico-
sociale dell’invalidità, nella quale, vengano considerate allo stesso
tempo, sia le conseguenze mediche dell’infortunio o della malattia
professionale che ha comportato un certo livello di invalidità, sia le
conseguenze sociali dello stesso.
Nel concludere questo paragrafo, ci sembra importante
sottolineare la differenza esistente tra l’approccio di politiche attive
seguito dall’Inail per gli invalidi del lavoro e quello seguito dai centri
per l’impiego nei riguardi dei disabili civili.
L’approccio dell’Inail si avvicina maggiormente ad un approccio
di tipo life first, in quanto gli invalidi del lavoro hanno accesso sia
alle politiche passive, sia alle politiche attive e queste ultime non
condizionano o riducono i diritti e le possibilità di scelta dei
destinatari, ma anzi arricchiscono il ventaglio delle opzioni a loro
disposizione.
L’approccio utilizzato dai centri per l’impiego per il
collocamento mirato dei disabili civili, invece, non solo condiziona il
ricevimento di un sostegno economico a requisiti più stringenti, ma
obbliga anche le persone con disabilità all’accettazione di un lavoro
che sia ritenuto dall’operatore del CPI idoneo alle capacità trascritte
nella scheda individuale. I disabili civili inoltre, non sono soltanto
esclusi dalle misure economiche previste invece per gli invalidi del
lavoro (come l’eventuale assegno di incollocabilità dell’Inail), ma

85
sono esclusi anche dall’accesso alle politiche di formazione e
reinserimento promosse dall’Inail.
3. La riforma dell’Inail: nuove politiche e nuovo modello
organizzativo
Nel 1999 ha inizio il processo di cambiamento e di riforma
dell’Inail. Le nuove disposizioni in materia di assicurazione contro
gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, introdotte con la
L.144, avevano conferito all’Istituto il compito di sperimentare la
realizzazione di politiche attive per gli invalidi del lavoro, in modo
da facilitarne il reinserimento lavorativo.
Per una “macchina” complessa e articolata come quella dell’Inail,
si tratta di un grande cambiamento, che rende necessario anche un
riadattamento funzionale e organizzativo dell’Istituto e che introduce
interessanti elementi di novità.
Il riadattamento funzionale ha inizio con l’individuazione da
parte del consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inail di indirizzi
programmatici per la promozione e il finanziamento dei progetti di
reinserimento. Successivamente il consiglio di amministrazione
dell’Istituto, stabilisce la tipologia e la finalità degli interventi, i
criteri e le modalità per la formulazione dei progetti, per la loro
ammissione e l’entità delle risorse da destinare, ripartendo i
finanziamenti stanziati (150 miliardi di vecchie lire, per il triennio
1999 -2001, pari a circa 77.469 euro) tra le tipologie di progetti
realizzabili.
Gli interventi vengono distinti in: 1) progetti formativi di
riqualificazione professionale degli invalidi del lavoro; 2) progetti di
incubazione di nuove attività imprenditoriali (artigianali, agricole o
di servizi, gestite, sia pure in forma non esclusiva da lavoratori

86
disabili, anche sotto forma di cooperative sociali); 3) progetti per
l’abbattimento delle barriere architettoniche; 4) progetti sperimentali
regionali.
Tutti i progetti attuabili hanno in comune la finalità di favorire il
reinserimento dei lavoratori invalidi nell’azienda di provenienza,
preferibilmente nelle mansioni già svolte in precedenza. Nel caso in
cui il reinserimento nella stessa azienda, non sia praticabile, i progetti
possono puntare ad agevolare l’inserimento lavorativo in un’altra
azienda.
In questo modo ai tradizionali compiti svolti dall’Inail, quali la
presa in carico dell’assistito, la gestione della pratica per il
riconoscimento del supporto economico, e la formulazione di un
progetto riabilitativo personalizzato si aggiunge (art. 24 del D. Lgs.
38 del 2000), anche quello di promuovere progetti formativi e di
riqualificazione professionale, che favoriscano il reinserimento
lavorativo degli invalidi del lavoro.
Parallelamente l’Inail intensifica la tutela erogata e la estende
anche a nuovi destinatari. L’assicurazione contro gli infortuni e le
malattie professionali viene offerta anche alle casalinghe, ai
parasubordinati, ai dirigenti e agli sportivi. La protezione contro i
rischi derivanti da un infortunio o malattia professionale, viene
riconosciuta anche nei casi di infortunio in itinere (ovvero durante il
tragitto casa - lavoro - casa). Infine con l’introduzione del concetto di
“danno alla persona”, vengono riconosciute e risarcite le
conseguenze di un eventuale infortunio non solo in termini di danno
patrimoniale (perdita di guadagno) ma anche come danno alla
persona.
A partire dal 2001 l’Inail rende operativo anche un nuovo
modello organizzativo, in grado di gestire sia la fase di valutazione
delle capacità residue attraverso una valutazione medico-sociale, sia
la fase di reinserimento al lavoro, attraverso la sperimentazione di

87
progetti formativi e di riqualificazione professionale. Per uniformare
la realizzazione di tali progetti, la direzione centrale dell’Inail invia a
tutte le sedi Inail le linee guida, la cui analisi ci ha permesso di
individuare alcuni elementi di particolare interesse del nuovo
modello organizzativo, tra cui: 1) l’istituzione delle equipe
multidisciplinari e multilivello e della valutazione medico-sociale
delle capacità residue; 2) l’integrazione tra le politiche passive e le
politiche attive del lavoro; 3) la centralità dell’utente nella
costruzione del proprio progetto formativo; 4) il sistema di tipo
bottom-up nella formulazione dei progetti; 5) il decentramento
amministrativo e l’importante ruolo attribuito agli attori Inail di
livello locale.
Le equipe multidisciplinari Inail composte dal medico legale, da
un funzionario amministrativo e dall’assistente sociale, gestiscono
tutte le fasi dell’intervento previsto. Quella della presa in carico,
della valutazione della disabilità, dell’erogazione dei benefici e dei
servizi previsti, ecc.. Il medico verifica le conseguenze
dell’infortunio e certifica la eventuale invalidità; l’assistente sociale
considera le implicazioni dell’infortunio sulla mutata situazione
personale dell’utente e della sua famiglia. Il funzionario porta avanti
le pratiche burocratiche per l’ottenimento di un sostegno economico
laddove previsto. Le equipe sono presenti anche nella fase di
definizione insieme all’utente di un percorso individuale e
personalizzato di riabilitazione e in quella di formulazione di un
adeguato progetto formativo e di reinserimento lavorativo. Tali
equipe sono operative non solo in tutte le sedi locali Inail (equipe
multidisciplinare di primo livello), ma anche nelle direzioni regionali
(equipe multidisciplinare di secondo livello) e nella sede centrale
dell’Inail (equipe multidisciplinare centrale)41
.
41
Le equipe locali gestiscono la fase di valutazione medico-sociale, la
formulazione del piano riabilitativo personalizzato, e quella di formulazione
e proposta del progetto formativo e di reinserimento; le equipe regionali,

88
Un secondo elemento di novità del modello Inail è l’integrazione
tra le misure di tutela economiche e riabilitative e gli interventi di
formazione, riqualificazione professionale e reinserimento
lavorativo. L’integrazione è concretamente attuata dalle assistenti
sociali, che svolgono un ruolo di coordinamento all’interno delle
equipe multidisciplinari, conciliando le misure passive (come il
risarcimento, in rendita o in capitale del danno subito, l’eventuale
assegno di incollocabilità) con gli interventi attivi (come i corsi di
formazione e riqualificazione professionale e l’inserimento
lavorativo). La partecipazione ai progetti formativi non condiziona
quindi i diritti dell’invalido, né questi è obbligato a partecipare ad un
progetto qualsiasi, pur di ricevere un sostegno economico.
Questo punto si collega al terzo elemento caratteristico del
modello Inail: la centralità dell’utente. L’invalido del lavoro
partecipa alla costruzione del proprio percorso formativo e di
reinserimento. Anche gli strumenti operativi utilizzati nella
formulazione del progetto puntano a tenere conto non solo delle
abilità residue dell’invalido che possono essere valorizzate, ma anche
delle aspettative dell’utente e dei suoi familiari. Il progetto formulato
al livello locale, viene quindi inviato al livello regionale per la fase
della valutazione dei criteri di ammissibilità dello stesso, dei
finanziamenti necessari a realizzarli, e del rispetto dei criteri stabiliti
nelle linee guida.
La formulazione del progetto formativo dell’invalido preso in
carico, procede quindi dal livello locale al livello centrale (modello hanno il compito di valutare i progetti, esprimendo un parere sulle spese da
sostenere. In caso di parere negativo il progetto può essere respinto o
rimandato alla sede locale per una variazione sui contenuti o sulle modalità
di realizzazione, mentre in caso di approvazione il progetto viene inviato
alla direzione Centrale Riabilitazione e Protesi. L’equipe multidisciplinare
centrale, infine monitora l’andamento dei progetti e fornisce su richiesta,
consulenza alle strutture regionali.

89
bottom-up) e questo rappresenta un quarto elemento di novità del
modello Inail42
. Ogni progetto, per essere realizzato deve essere
approvato anche dal cda dell’Inail, cui viene inviato dalla sede
centrale, dopo che la direzione regionale ha espresso un parere
favorevole sulle spese da sostenere43
.
Infine è importante sottolineare, un quinto elemento innovativo
del modello Inail: il forte impulso dato al decentramento. Non solo si
attribuisce un ruolo di primo piano alle sedi locali nella formulazione
di progetti formativi, ma viene anche favorito il contatto tra le
assistenti sociali Inail e gli attori istituzionali esterni all’Istituto. Le
assistenti sociali Inail per la prima volta sono infatti chiamate a
relazionarsi con i centri per l’impiego, gli enti di formazione, le
imprese, in modo da individuare il posto di lavoro adatto per
l’invalido preso in carico. Tale contatto tra gli attori esterni all’Inail e
l’assistente, e tra questa e l’utente, facilita la formulazione di un
progetto di riqualificazione professionale rispondente sia alle
capacità dell’utente e sia ai profili richiesti dai datori di lavoro e dalle
imprese, permettendo così al tempo stesso, la valorizzazione delle
capacità dell’individuo e la costruzione di progetti formativi in linea
con i profili professionali richiesti nel mercato del lavoro locale.
42
Per la precisione si tratta di un modello di tipo bottom-up, relativamente
alla fase di progettazione, che diventa un modello a rete nella fase di
implementazione dei progetti.
43 In caso di parere negativo il progetto può essere respinto o rimandato alla
sede locale per una variazione sui contenuti o sulle modalità di
realizzazione. Tutti i progetti approvati sono costantemente monitorati
infine dalla equipe multidisciplinare centrale della direzione centrale
riabilitazione e protesi, che fornisce su richiesta, anche una consulenza alle
direzioni regionali.

90
A partire dal 2007, i progetti formativi, che erano accessibili
esclusivamente agli invalidi del lavoro con un livello di disabilità
medio-grave (ovvero superiore al 33%) sono diventati accessibili a
tutti gli invalidi. L’Inail infatti, con una nuova delibera del Consiglio
di Amministrazione, ha esteso le politiche di formazione e
reinserimento lavorativo anche ai disabili con livello di invalidità
lieve (inferiore al 33%) che rischiavano di perdere il proprio posto di
lavoro. In tal modo la platea dei potenziali fruitori delle politiche
attive di formazione e reinserimento al lavoro si è estesa.
Sulla base dei dati della Banca Disabili Inail, alla fine del 2008,
gli invalidi del lavoro in età lavorativa in Italia erano
complessivamente 328 mila persone. Tra questi, quelli con una
disabilità grave (superiore al 33%) erano circa 83mila, mentre quelli
con una invalidità lieve erano circa 245 mila. Stando a tali dati, si
sarebbe passati quindi da una platea di 83 mila invalidi ad un totale
di 328 mila potenziali partecipanti alle misure di politica attiva
promosse dall’Inail.

91

92
CAPITOLO SESTO
ANALISI DELLA SPERIMENTAZIONE INAIL NEI
SUOI ASPETTI ORGANIZZATIVI E NEI RISULTATI
CONSEGUITI
1. Obiettivi della ricerca e metodologia utilizzata
La presente ricerca nasce con l’obiettivo di analizzare le
caratteristiche delle politiche attive del lavoro promosse dall’Inail per
la formazione e il reinserimento lavorativo degli invalidi del lavoro. I
primi contatti con l’Inail, sono avvenuti alla fine del 2006 e la ricerca
si è conclusa alla fine del 2009. L’analisi è stata condotta in tre
diverse fasi, utilizzando una metodologia di ricerca mista, con
tecniche qualitative e quantitative.
Nella prima fase, iniziata con l’incontro dei dirigenti della
Direzione Centrale Riabilitazione e Protesi, sono state raccolte le
informazioni disponibili sui progetti in corso, le diverse circolari
dell’Ente e tutte le normative di riferimento al fine di definire un
quadro iniziale. Durante questa prima fase sono stati raccolti diversi
documenti: le Linee guida Inail [2001] le Guide alle prestazioni Inail
[2008, 2010] e si è proceduto all’approfondimento della normativa
esistente [L. 482/1968; L. 68/1999, D.Lgs 38/2000]. I documenti
raccolti, sono quindi stati analizzati con l’obiettivo di comprendere e
descrivere le caratteristiche dell’approccio adottato dall’Ente.
Particolare attenzione è stata rivolta alle Guide alle prestazioni Inail
[2008, 2010], per verificare quali erano stati i cambiamenti introdotti
dal processo di riforma dell’Ente (per es. l’introduzione del danno
biologico, l’ampliamento dei destinatari assicurati, l’abbassamento
delle soglie di invalidità per l’accesso alle prestazioni erogate;
l’introduzione del nuovo regime indennitario); e alle “Linee guida”,
fondamentali per osservare il funzionamento del nuovo modello

93
Inail. Per iniziare la sperimentazione dei progetti di formazione e
reinserimento lavorativo degli invalidi del lavoro l’Inail ha infatti
dovuto modificare il proprio modello organizzativo ed elaborare un
nuovo modello. Quest’ultimo, messo a punto dalla Direzione
Centrale Riabilitazione e Protesi è stato quindi trasmesso a tutte le
sedi locali e regionali nel maggio del 2001, al fine di uniformare
regole, pratiche e politiche. La sperimentazione quindi, ha avuto
inizio soltanto in seguito al ricevimento delle Linee guida, ovvero nel
momento in cui era stato stabilito che la sperimentazione si sarebbe
dovuta concludere. Tuttavia l’Inail ha portato avanti
l’implementazione delle politiche come previsto nel modello e ha
proceduto ad attivare tramite protocolli e circolari le procedure
necessarie per la realizzazione dei progetti. In questa prima fase
quindi gli attori Inail hanno operato seguendo le linee guida e
confrontandosi con le situazioni che di volta in volta si presentavano.
Nella seconda fase, sono state condotte interviste in profondità
alla Dirigente della Direzione Centrale Inail Riabilitazione e Protesi,
agli assistenti sociali Inail in due regioni (Sicilia e Lazio) con
l’obiettivo di comprendere come era stato implementato il modello
delineato nelle linee guida e se erano state adottate delle modifiche
non previste per andare incontro ad eventuali situazioni o esigenze da
parte dei beneficiari delle politiche in esame. Questa fase si è
conclusa con un focus group presso la Direzione Centrale, cui hanno
partecipato la dirigente nazionale e i responsabili delle Inail regionali
di Piemonte, Emilia Romagna e Toscana. In tal modo è stato
possibile verificare quali progetti sono stati effettivamente realizzati,
confrontando il modello stabilito nelle linee guida con le pratiche
attuate e le politiche concretamente implementate, individuando
anche limiti e punti di debolezza del modello.
Infine nella terza e ultima fase sono stati valutati gli esiti dei
progetti realizzati, attraverso l’analisi dei dati del Monitoraggio
conclusivo dell’Inail [2009]. In particolare ci siamo soffermati sul
risultato della formazione e del reinserimento degli invalidi del

94
lavoro che avevano partecipato ai progetti in tutta Italia. Oltre al dato
complessivo, è stato possibile distinguere i risultati ottenuti nelle
quattro aree geografiche: Nord Ovest, Nord Est, Centro e Sud e Isole.
Non è stato invece verificato l’esito dei progetti in ogni singola
regione, dal momento che, in particolare nelle regioni del Sud e nelle
Isole sono stati realizzati pochi progetti (in alcuni casi come nel
Molise o in Basilicata nessuno) oppure i pochi, a volte singoli,
progetti realizzati, non hanno permesso la riqualificazione o il
reinserimento degli invalidi coinvolti.
L’analisi di dati secondari provenienti da diverse fonti è stata
utilizzata non soltanto nella fase finale della ricerca, ma anche
inizialmente. Infatti facendo ricorso ai dati contenuti nella Banca dati
Disabili Inail [2008, 2009] è stato possibile definire il numero degli
invalidi del lavoro titolari di rendita Inail e attraverso i dati
dell’indagine Istat sulle condizioni di salute della popolazione
italiana [2004-2005], conoscere anche il totale delle persone con
disabilità presenti nel nostro paese. Infine i dati del Ministero del
Lavoro e delle Politiche sociali [2005, 2007, 2010] ci hanno fornito il
totale delle persone con disabilità iscritte alla lista unica per il
collocamento mirato presso i centri per l’impiego e la percentuale di
avviamenti al lavoro realizzati dal 2004 al 2009.
2. I risultati formativi e gli inserimenti lavorativi
In questo paragrafo presenteremo una valutazione dei risultati
delle politiche attive di formazione e reinserimento al lavoro, che
l’Inail ha realizzato dal 2001 al 2008 su tutto il territorio italiano. Per
l’analisi sono stati utilizzati i dati del monitoraggio finale dell’Inail
[2009] riguardanti il numero e la tipologia di progetti promossi e il
numero di invalidi coinvolti, riqualificati e reinseriti.

95
Complessivamente l’Inail ha realizzato in tutta Italia 269 progetti
di riqualificazione professionale, che hanno interessato 1.390 invalidi
del lavoro. Per valutare la riuscita della formazione abbiamo
rapportato il numero degli invalidi del lavoro che hanno concluso
positivamente la formazione al totale dei partecipanti ai progetti. La
percentuale di invalidi formati è del 72%, (998 persone) e tra i
formati, la percentuale di invalidi reinseriti nel mercato del lavoro è
del 56% (556 persone).
Gli invalidi del lavoro che hanno concluso il progetto formativo
sono, dunque, quasi i tre quarti dei soggetti coinvolti e quelli
reinseriti nel lavoro sono oltre la metà di quelli che hanno concluso
la formazione. Un risultato tutto sommato positivo, tenendo presente
che stiamo esaminando la fase di sperimentazione del programma.
Per dare una idea più precisa del quadro reale e delle differenze
territoriali emergenti dall’implementazione dei progetti, abbiamo
approfondito l’analisi per aree geografiche (Nord- Ovest, Nord-Est,
Centro, Sud e Isole), in modo da confrontare i differenti esiti
formativi e di reinserimento ottenuti nelle quattro aree individuate44
.
Dalla comparazione sono emerse evidenti differenze tra le aree
geografiche. Per quanto riguarda l’esito della formazione, i progetti
realizzati nelle aree centrale e nordorientale del nostro paese hanno
ottenuto risultati migliori in termini formativi rispetto ai progetti
promossi nelle aree del Nord-Ovest e del Sud e Isole (cfr. tab. 1).
Il dato peggiore è quello del Sud e Isole dove solo il 60% dei
partecipanti ha concluso la formazione, mentre il risultato migliore è
quello dell’area del Nord-Est dove ben il 90% dei partecipanti è stato
riqualificato. Per spiegare tale differenza, abbiamo formulato
l’ipotesi che l’esito della formazione dipenda dalla personalizzazione
dei progetti “individuali” realizzati. In base al modello Inail, definito
dalle linee guida, i progetti realizzati sono stati sostanzialmente tre:
44
Non si è proceduto ad una comparazione tra le regioni, in quanto in
alcune di esse (in particolare quelle del Sud Italia) non è stato proposto
alcun progetto formativo o non è stato reinserito alcun invalido.

96
1) i progetti locali individuali; 2) i progetti locali non individuali; 3) i
progetti regionali sperimentali (collettivi).
Dall’analisi dei dati del monitoraggio Inail, sul totale di 269
progetti realizzati, ben il 90% è stato promosso dalle sedi locali. (Ciò
significa che il decentramento stabilito nelle linee guida è stato
effettivamente praticato). Il dato più interessante però riguarda la
differenza tra i progetti locali individuali e quelli regionali collettivi.
I primi, quelli «individuali», costruiti cioè a partire dalle esigenze del
soggetto coinvolto e richiedendo la partecipazione del destinatario
alla fase di elaborazione del progetto stesso, sono stati 184 pari al
68% del totale dei progetti45
. I progetti collettivi organizzati dalle
direzioni regionali e definiti dall’Inail «sperimentali», invece hanno
coinvolto più invalidi contemporaneamente in un unico corso di
formazione. Per esempio in Calabria, la direzione regionale Inail, ha
promosso un unico progetto sperimentale, denominato «Centro
territoriale nuova occupazione», nel quale sono stati coinvolti 176
invalidi del lavoro46
.
45
Il restante 22% dei progetti locali realizzati hanno coinvolto più invalidi
contemporaneamente.
46 I progetti sperimentali regionali sono stati realizzati soltanto in sei
regioni: Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana, Liguria e Calabria.

97
TAB. 1 Esito della formazione Inail per area geografica. Anno
2009 (valori assoluti e percentuali)
Aree
geografiche
Progetti
realizzati
(v.a.)
Invalidi
coinvolti
(v.a)
Invalidi
Formati
(v.a)
Invalidi
Formati
(%)
Nord –Ovest 58 556 375 67%
Nord-Est 126 290 260 90%
Centro 62 243 181 74%
Sud e Isole 23 301 182 60%
Italia 269 1390 998 72%
Fonte:elaborazione su dati del monitoraggio conclusivo Inail 2009.
In ogni area geografica il livello di personalizzazione dei
progetti è stato uno dei fattori che ha influito sulla riuscita della
formazione. Al crescere della percentuale di progetti individuali
infatti, è aumentata la percentuale di invalidi formati tra i
partecipanti. Nell’area centro orientale, dove sono stati realizzati una
percentuale maggiore di progetti individuali e personalizzati, si
riscontra pertanto una percentuale maggiore di invalidi riqualificati,
rispetto alle aree del Nord-Ovest e del Sud e Isole.
È anche vero però che, se la formazione ottiene più successo
al crescere della personalizzazione dei progetti, la riuscita della
formazione non risulta l’unico fattore in grado di influenzare il
reinserimento lavorativo.
Come si nota nella tab. 2, sebbene i progetti realizzati
nell’area centro-orientale si siano conclusi con un’alta percentuale di

98
formati tra i partecipanti, tuttavia il maggior numero di reinserimenti
è stato ottenuto invece nell’area Nord del paese. Abbiamo ipotizzato
quindi che la più alta percentuale di reinserimenti lavorativi nelle
aree del Nord (Ovest ed Est), rispetto alle aree del Centro-Sud e Isole
dipendesse dalla diversa capacità dei mercati di assorbire l’offerta di
lavoro. In tal caso sarebbe la maggiore domanda di lavoro nel Nord
del paese ad influire sul reinserimento lavorativo delle persone con
una invalidità.
Per verificare tale ipotesi abbiamo analizzato, sulla base dei
dati Istat [2009], come varia la distribuzione delle imprese sul
territorio italiano. Infatti la domanda di lavoro «obbligata» per i
disabili varia, in base a quanto stabilito dalla legge, al crescere del
numero delle imprese presenti nelle diverse aree geografiche e
all’aumentare della grandezza delle aziende. Distinguendo queste
ultime in: 1) piccole: con meno di 50 addetti, tenute ad assumere da
uno a due disabili; 2) medie: con un numero di lavoratori compreso
tra 50 e 99 e con l’obbligo di impiegare da 4 a 7 disabili; 3) grandi:
con oltre 100 dipendenti e con l’obbligo di assumere oltre 7 disabili,
i dati Istat ci permettono di osservare che la percentuale di imprese
presenti al Nord Ovest (38%) e nel Nord Est (26%) è maggiore
rispetto a quella delle altre aree (il 22% al Centro e 14% al Sud), e
aumenta anche al crescere della grandezza delle imprese (43% di
grandi imprese al Nord Ovest contro il 28% al Nord Est, il 17% al
Centro e il 12% al Sud).

99
TAB. 2 Esito del reinserimento per area geografica. Anno 2009
(valori percentuali)
Aree geografiche Invalidi Formati (%) Invalidi Reinseriti (%)
Nord –Ovest 67,4% 62%
Nord-Est 89,7% 73%
Centro 74,5% 46%
Sud e Isole 60,5% 30%
Italia 72% (998) 56% (561)
Fonte: elaborazione su dati del monitoraggio conclusivo Inail, 2009.
Al Nord del paese non solo esiste un numero maggiore di
imprese «obbligate» ad impiegare i disabili, ma sono anche più
numerose le aziende di grandi dimensioni, tenute ad assumere al loro
interno un numero maggiore di disabili. Questo dato spiegherebbe
perché le politiche attive del lavoro che puntano a rendere più
occupabili gli invalidi attraverso corsi formativi personalizzati, non
producono i risultati attesi in termini di reinserimenti nelle aree con
una bassa domanda di lavoro.
Nel concludere questo paragrafo, è utile soffermarci su
alcuni elementi di criticità che possono aver ulteriormente influito
sul numero complessivo dei progetti di inserimento realizzati e sulle
differenze osservate nell’implementazione dei progetti nelle diverse
aree geografiche del nostro paese47
.
Anzitutto va notato che dei circa 150 miliardi di vecchie lire
stanziati per il finanziamento dei progetti formativi e di
47
Questi elementi di criticità sono emersi in gran parte nel corso delle
interviste effettuate con dirigenti locali e assistenti sociali dell’Inail.

100
reinserimento lavorativo, al 30 giugno 2006, solo circa il 20% era
stato effettivamente speso e per la maggior parte nelle regioni del
Nord.
Un altro limite che può avere influito sull’esito dei progetti
riguarda la carenza nel personale dell’Inail, di assistenti sociali, che
svolgono un importante compito di coordinamento all’interno
dell’équipe multidisciplinare. Solo alla fine del 2009 infatti è stato
bandito un nuovo concorso per ripristinare l’organico di assistenti
sociali presenti in ogni sede. È chiaro che nei casi in cui un’unica
assistente sociale si trova a dover svolgere il compito di coordinare i
progetti promossi in diverse sedi locali, la capacità organizzativa
dall’Inail è più bassa rispetto alle regioni in cui in ogni sede è
presente una o più assistenti sociali. Potrebbe essere utile quindi non
solo verificare come varia la spesa per i progetti realizzati tra le aree
individuate, ma anche controllare se e come cambia l’esito della
sperimentazione al crescere del numero di assistenti sociali Inail
presenti nelle diverse regioni e sedi considerate.
3. Conclusioni
Questa ricerca è nata inizialmente con l’obiettivo di analizzare e
descrivere la sperimentazione di politiche attive per la formazione e
il reinserimento lavorativo degli invalidi del lavoro. Successivamente
essa ci ha permesso non soltanto di conoscere le caratteristiche del
nuovo modello implementato dall’Inail, e verificarne i risultati, ma
anche di individuare i limiti e i punti di forza nel processo di riforma
dell’Ente, fornendoci anche l’occasione di ripensare al sistema
sociale italiano nel suo complesso.
Per quanto riguarda i risultati della sperimentazione Inail a
livello nazionale è emerso che laddove la formazione è stata attuata
in modo personalizzato, e i progetti sono stati individuali o hanno
previsto la partecipazione di un ristretto numero di partecipanti,

101
questo ha prodotto dei migliori risultati formativi, nel senso che il
numero dei partecipanti ai progetti che hanno concluso la formazione
è stato più elevato. Tuttavia la personalizzazione e il buon esito della
formazione, sebbene siano stati fattori importanti, non sono stati
determinanti nei reinserimenti lavorativi. E’ vero che la percentuale
reinserimenti, pari al 40% tra i partecipanti, sale al 56% se si
considerano esclusivamente gli invalidi del lavoro riqualificati,
ovvero quelli che hanno portato a termine il progetto formativo.
Approfondendo l’analisi nelle diverse aree geografiche, si è potuto
notare che nell’area centrale, dove i progetti formativi hanno ottenuto
un buon esito, tuttavia la percentuale di reinseriti è stata più bassa,
rispetto all’area del Nord Ovest, dove è accaduto il contrario. In base
ai dati contenuti nelle relazioni al parlamento sullo stato di attuazione
della L.68/1999, la quota di posti di lavoro obbligati scoperti per il
reinserimento degli invalidi del lavoro formati è maggiore nel Nord
del paese, dove infatti sono stati realizzati il maggior numero di
reingressi al lavoro. Le disuguaglianze territoriali ed in particolare le
differenze tra i mercati del lavoro hanno quindi influito sull’esito
degli inserimenti e ciò significa che non solo le politiche che puntano
all’offerta di lavoro, ma anche quelle che ne stimolano la domanda,
sono fondamentali.
Rispetto al secondo punto, ovvero ai punti di forza e di
debolezza emersi dall’analisi del processo di riforma dell’Inail, la
ricognizione delle diverse misure e prestazioni esistenti ha
evidenziato che uno dei principali limiti consiste nella mancanza di
una protezione sociale universale, riconosciuta a tutti i cittadini, a
prescindere dalla propria condizione lavorativa. In realtà questo
elemento è sempre stato peculiare nel nostro sistema di welfare, il
quale a partire da un modello di tipo bismarckiano, è andato
modificandosi, secondo una logica incrementale, con l’aggiunta di
misure e prestazioni destinate a diverse categorie di destinatari.
Nonostante i cambiamenti, il fondamento lavorista non è mai stato
messo in discussione. Come abbiamo visto, in particolare nel

102
capitolo 3, tuttora, la tutela offerta è fortemente differenziata. Le
forme di protezione previste vanno dall’assistenza, residuale e
discrezionale nei confronti dei cittadini privi di mezzi e in stato di
bisogno, all’assicurazione e previdenza per i lavoratori che
contribuiscono al finanziamento del sistema con il versamento dei
contributi. Una ulteriore distinzione si evince dal trattamento
privilegiato riservato ai dipendenti pubblici rispetto a quelli privati.
La mancanza di strumenti di sostegno universale, ha comportato, a
volte, l’utilizzo improprio di strumenti previdenziali a scopo
assistenziale, come nel caso delle pensioni di invalidità erogate come
equivalenti funzionali di misure di sostegno al reddito, provocando
una opaca commistione tra previdenza e assistenza, oltre che la
sovrapposizione tra Inps e Inail nell’offerta delle prestazioni.
Un secondo limite, riguarda l’incapacità del sistema attuale a
rispondere al cambiamento della natura dei rischi, non più
temporanei e contingenti, ma durevoli e prolungati, di fronte ai quali
la protezione sociale esistente, oltre ad essere differenziata e quindi
iniqua, diventa sempre più insufficiente e inadeguata. I bisogni
sociali si moltiplicano, si differenziano, richiedono forme di
intervento e di risposta più estese, personalizzate, offerte localmente
e in grado di adeguarsi tempestivamente ai cambiamenti in atto.
A ciò si aggiungono ulteriori processi di cambiamento. La
fragilizzazione della famiglia, sempre più in difficoltà nell’offrire il
proprio tradizionale sostegno di cure e assistenza nei confronti dei
componenti affetti da disabilità, in particolare a causa dei tagli alla
spesa pubblica, che colpiscono i trasferimenti monetari destinati alle
famiglie e a causa dell’insufficienza dei servizi territoriali e
domiciliari. Anche le trasformazioni del mondo del lavoro, con
l’introduzione di nuove forme contrattuali instabili e atipiche che non
prevedono l’assicurazione contro i principali rischi della vita, come
la disoccupazione, la malattia, l’infortunio aggravano ulteriormente
la condizione delle persone con disabilità, già difficilmente in grado
di inserirsi nel mercato del lavoro e oggi ancora più instabili e

103
insicuri se occupati attraverso le nuove e più precarie forme
contrattuali; Infine i nuovi vincoli di bilancio posti dall’adesione
all’Unione Europea, con l’imposizione del mantenimento del
rapporto tra deficit pubblico e prodotto interno lordo e spingono in
direzione di una ulteriore riduzione della spesa pubblica, in
particolare in una fase di recessione economica mondiale e di
conseguente diminuzione del prodotto interno lordo.
Il processo di cambiamento dell’Inail, ci ha permesso non solo di
individuare i punti deboli ma anche di cogliere tre punti di forza: a)
l’estensione della protezione a destinatari prima esclusi, come i
lavoratori parasubordinati e le casalinghe. Anche la riduzione della
soglia di invalidità minima riconosciuta per ottenere un risarcimento
monetario va in questa direzione, così come il riconoscimento
dell’infortunio in itinere, durante il tragitto casa-lavoro-casa e
l’indennizzazione del danno biologico alla persona, oltre che di
quello patrimoniale; b) l’introduzione di un sistema di tutela globale
e integrato, in grado di prevenire gli infortuni e l’insorgere di
malattie professionali, ma anche di sostenere economicamente
l’utente, offrirgli cure mediche e piani individuali di riabilitazione; c)
la promozione di un intervento pubblico, partecipato e abilitante, che
nei progetti Inail ha permesso la compartecipazione del destinatario
alla definizione del proprio progetto formativo, il rafforzamento delle
sue capacità residue e il successivo reinserimento sociale e
lavorativo.
Il primo punto di forza individuato nel processo di riforma
dell’Inail, ovvero l’estensione della protezione, richiama la necessità
di rivedere i requisiti di accesso alla protezione sociale offerta dal
nostro sistema, in modo da estendere la tutela alle persone
attualmente escluse. In questo senso va interpretata la proposta di
adottare un approccio di tipo life first, basato sul riconoscimento dei
diritti e sul rafforzamento delle capacità, in luogo del modello work
first, nel quale soltanto chi dimostra di “meritare” protezione può, a
determinate condizioni, ottenerla. L’estensione della protezione

104
sociale, andrebbe ad incidere su uno degli elementi forti di path
dependency del nostro sistema di welfare, ovvero quello della tutela
forte solo per i lavoratori forti e della tutela debole o assente per le
componenti più marginali all’interno del mercato del lavoro. Inoltre
ciò permetterebbe di eliminare i casi di utilizzo improprio di misure
previdenziali, di commistione tra previdenza e assistenza e di
sovrapposizione tra Inps e Inail.
Il secondo punto di forza: l’introduzione di un sistema di tutela
globale e integrato, sottolinea l’importanza di stabilire non solo
standard minimi di assistenza di tipo universale, ma di introdurre
anche un sistema di protezione pubblica di secondo livello, in grado
di erogare di volta in volta servizi e prestazioni aggiuntive e
proporzionali al diverso grado di bisogno dei cittadini. Mentre
l’erogazione dei servizi e delle misure standard di primo livello
potrebbe essere finanziato dalla fiscalità generale, per il secondo
livello di tutela si potrebbero invece introdurre finanziamenti
addizionali, prevedendo la compartecipazione dei destinatari sulla
base della loro capacità di contribuzione (utilizzando come strumento
l’Isee). In tal modo si andrebbe incontro all’esigenza di costruire un
sistema di tutela globale e integrato, in grado di offrire localmente
servizi e prestazioni pubbliche, personalizzate e quindi adeguate non
solo ai diversi bisogni dei cittadini beneficiari, ma anche alle loro
possibilità economiche.
Infine il terzo punto di forza: la promozione di un intervento
pubblico, partecipato e abilitante. In primo luogo si sottolinea la
rilevanza del pubblico (come meglio evidenziato nel capitolo
secondo) senza che ciò comporti l’esclusione di una
compartecipazione da parte dei privati del mercato o del terzo
settore. Nel modello Inail le linee guida sono state predisposte infatti
per uniformare standard, pratiche e procedure. Anche se le risorse
sono state rese disponibili a livello regionale e le misure e i servizi
erogati localmente, il coordinamento, il monitoraggio e la
valutazione delle politiche realizzate sono rimaste in capo al livello

105
centrale, pubblico e statale, in modo da garantire livelli minimi ed
essenziali di intervento e la disponibilità dei servizi a tutti i cittadini
su tutto il territorio nazionale.
I tre punti di forza rilevati nel processo di riforma dell’Inail, se
estesi al sistema di protezione sociale nel suo complesso, potrebbero
quindi permettere la costruzione di un sistema non più limitato
all’offerta di un sostegno economico differenziato per categorie
diverse di destinatari, ma in grado di fronteggiare rischi sociali
sempre più individualizzati attraverso prestazioni, servizi e politiche
attive rivolte a tutti i cittadini e in grado di tutelare e al tempo stesso
riqualificare e reinserire nel mercato del lavoro.

106
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