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1 1. PREMESSA 1.1. Dinamica delle specie invasive Si considerano invasive quelle specie introdotte che hanno un impatto negativo sull’ambiente, sulle attività umane e sulla salute (Lee, 2002). Spesso sono responsabili di una riduzione della biodiversità nel territorio occupato (Human e Gordon, 1997), possono modificare l’organizzazione della comunità (Sanders et al., 2003) e arrecare danni ecologici anche non immediati e visibili, alterando, per esempio, il ciclo dell’azoto attraverso il cambiamento della comunità microbica nel suolo (Hawkes et al., 2005). Pimentel et al., (2005) hanno stimato che il costo economico delle migliaia di specie invasive negli USA, dannose soprattutto per l’agricoltura, la silvicoltura e la pesca, oltre che per la salute pubblica, ammonta a circa 120 miliardi di dollari l’anno. Negli ultimi secoli l’uomo ha favorito la dispersione, precedentemente limitata da barriere naturali biogeografiche, di popolazioni e specie anche a migliaia di chilometri dalle loro regioni d’origine in tutto il mondo, diminuendo l’isolamento geografico e aumentando il grado di omogeneizzazione delle specie (Olden et al., 2004). Diversi aspetti possono contribuire a determinare la probabilità di insediamento di una nuova popolazione in un territorio invaso. La dimensione del numero di individui rilasciati è importante ma, anche se con una probabilità più bassa, rilasci di soli 2 o 4 individui (più frequente in natura piuttosto che invasioni di massa) possono dare origine ad una nuova popolazione (Memmott et al., 2005). Il potenziale invasivo della specie è legato a caratteristiche quali un elevato tasso di accrescimento, la predisposizione ad essere trasportato (quando l’uomo è coinvolto nel processo) e la capacità di sopravvivere alle condizioni incontrate durante il trasporto stesso, l’introduzione e la diffusione (Suarez e Tsutsui, 2008). In alcuni casi si è notato che il successo di un’invasione può essere favorito dalla capacità degli individui invasori di sfruttare i mutualisti presenti nel nuovo territorio (Callaway et al., 2004). Anche le dimensioni corporee degli individui invasori possono influire sulla probabilità di insediamento di una nuova popolazione, come dimostrato da simulazioni in acquario utilizzando Poecilia reticulata come specie invasiva (Schröder et al., 2009). Nonostante le invasioni possano creare problemi di competizione con le specie locali e spesso comportino anche costi economici, offrono l’opportunità di studiare i processi evolutivi ed ecologici in tempo reale, su spazi e tempi difficili da sperimentare sulle popolazioni native (Sax et al., 2007). Durante un processo di invasione spesso è coinvolto un numero piccolo di invasori quindi si verificano effetti quali “l’effetto fondatore” o “collo di bottiglia” (Tsutsui et al., 2000; Dlugosch e Parker, 2008a; Colautti et al., 2005) che portano ad una riduzione della variabilità genetica. In popolazioni che hanno subito diversi e successivi eventi di fondazione si può osservare una perdita cumulativa di eterozigosità. In uno studio su Alces alces (Broders et al., 1999) è stata osservata una perdita dell’eterozigosita del 14%-30% nel primo evento invasivo fino al 46% in due eventi successivi. Questa riduzione della variabilità genetica può compromettere la capacità degli individui di far fronte a nuove pressioni selettive, portando per esempio un calo dell’immunocompetenza, come dimostrato in uno studio che ha messo a

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1. PREMESSA 1.1. Dinamica delle specie invasive

Si considerano invasive quelle specie introdotte che hanno un impatto negativo sull’ambiente, sulle attività umane e sulla salute (Lee, 2002). Spesso sono responsabili di una riduzione della biodiversità nel territorio occupato (Human e Gordon, 1997), possono modificare l’organizzazione della comunità (Sanders et al., 2003) e arrecare danni ecologici anche non immediati e visibili, alterando, per esempio, il ciclo dell’azoto attraverso il cambiamento della comunità microbica nel suolo (Hawkes et al., 2005). Pimentel et al., (2005) hanno stimato che il costo economico delle migliaia di specie invasive negli USA, dannose soprattutto per l’agricoltura, la silvicoltura e la pesca, oltre che per la salute pubblica, ammonta a circa 120 miliardi di dollari l’anno. Negli ultimi secoli l’uomo ha favorito la dispersione, precedentemente limitata da barriere naturali biogeografiche, di popolazioni e specie anche a migliaia di chilometri dalle loro regioni d’origine in tutto il mondo, diminuendo l’isolamento geografico e aumentando il grado di omogeneizzazione delle specie (Olden et al., 2004).

Diversi aspetti possono contribuire a determinare la probabilità di insediamento di una nuova popolazione in un territorio invaso. La dimensione del numero di individui rilasciati è importante ma, anche se con una probabilità più bassa, rilasci di soli 2 o 4 individui (più frequente in natura piuttosto che invasioni di massa) possono dare origine ad una nuova popolazione (Memmott et al., 2005). Il potenziale invasivo della specie è legato a caratteristiche quali un elevato tasso di accrescimento, la predisposizione ad essere trasportato (quando l’uomo è coinvolto nel processo) e la capacità di sopravvivere alle condizioni incontrate durante il trasporto stesso, l’introduzione e la diffusione (Suarez e Tsutsui, 2008). In alcuni casi si è notato che il successo di un’invasione può essere favorito dalla capacità degli individui invasori di sfruttare i mutualisti presenti nel nuovo territorio (Callaway et al., 2004). Anche le dimensioni corporee degli individui invasori possono influire sulla probabilità di insediamento di una nuova popolazione, come dimostrato da simulazioni in acquario utilizzando Poecilia reticulata come specie invasiva (Schröder et al., 2009).

Nonostante le invasioni possano creare problemi di competizione con le specie locali e spesso comportino anche costi economici, offrono l’opportunità di studiare i processi evolutivi ed ecologici in tempo reale, su spazi e tempi difficili da sperimentare sulle popolazioni native (Sax et al., 2007).

Durante un processo di invasione spesso è coinvolto un numero piccolo di invasori quindi si verificano effetti quali “l’effetto fondatore” o “collo di bottiglia” (Tsutsui et al., 2000; Dlugosch e Parker, 2008a; Colautti et al., 2005) che portano ad una riduzione della variabilità genetica. In popolazioni che hanno subito diversi e successivi eventi di fondazione si può osservare una perdita cumulativa di eterozigosità. In uno studio su Alces alces (Broders et al., 1999) è stata osservata una perdita dell’eterozigosita del 14%-30% nel primo evento invasivo fino al 46% in due eventi successivi. Questa riduzione della variabilità genetica può compromettere la capacità degli individui di far fronte a nuove pressioni selettive, portando per esempio un calo dell’immunocompetenza, come dimostrato in uno studio che ha messo a

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confronto due popolazioni di Petroica australis, una sorgente e l’altra fondata 33 anni prima da soli 5 individui (Hale e Briskie, 2007). Il numero limitato di individui fondatori potrebbe portare a depressione da inbreeding riducendo la crescita della popolazione e aumentando il rischio di estinzione (Nieminem et al., 2001). Questo aspetto produce un paradosso genetico: come possono popolazioni appena fondate superare la bassa variabilità genetica e l’atteso ridotto potenziale evolutivo, spesso associato con il rischio di estinzione, e diventare stabili fuori dai territori nativi? (Roman e Darling, 2007). Diversi studi dimostrano come la perdita di variabilità genetica non sempre comprometta il successo di un’invasione. Non ha impedito, per esempio, la rapida diffusione di popolazioni introdotte di Hypericum canariense, (Dlugosch e Parker, 2008a), mentre ha addirittura favorito l’introduzione in una specie di formiche invasive (Linepithema humile), perchè associata alla riduzione dell’aggressività intraspecifica tra nidi separati (essendo elevata la similarità genetica) (Tsutsui et al., 2000). Il vantaggio associato alla perdita di varianti alleliche può manifestarsi anche con la formazione di nuove interazioni epistatiche e nuovi genotipi (Brodie, 2000). È stato dimostrato che durante un processo di invasione la perdita di variabilità nei tratti quantitativi (lo sono molti caratteri sotto selezione) è minimo se comparato con la perdita di variabilità molecolare e molto spesso si è evidenziata un’evoluzione adattativa in tratti quantitativi (Dlugosch e Parker, 2008b). Novak e Mack (2005), eseguendo uno studio su diversi lavori su piante, hanno osservato che per le specie a riproduzione sessuale molto spesso durante un processo di invasione non si sperimenta una vera e propria riduzione della variabilità genetica, bastando pochi individui per rappresentarne la gran parte. La perdita di variabilità genetica può essere mitigata dall’avvento di più eventi invasivi, soprattutto quando le diverse introduzioni derivano da popolazioni native diverse (Novak e Mack, 2005; Kolbe et al., 2007). L’80% delle introduzioni di 8 specie del genere Anolis prese in esame da Kolbe et al., (2007) è derivata da più popolazioni native diverse, dimostrando quanto questo fenomeno sia frequente. Spesso quando non si verifica un significativo calo di variabilità genetica nelle popolazioni introdotte si assume ci siano stati più eventi di invasione da popolazioni native diverse (Chun et al., 2009). In un lavoro su Bythotrephes longimanus i risultati contrastanti tra l’evidenza di un “effetto fondatore” per una riduzione dell’eterozigosità e l’elevata variabilità allelica sono stati spiegati ammettendo introduzioni multiple da popolazioni native europee diverse e un elevato flusso genico che ha reso più omogenee le popolazioni introdotte in America (Colautti et al., 2005). Quando è nota la presenza di una sola sorgente è possibile attribuire la mancata perdita di variabilità genetica nelle popolazioni invasive assumendo una colonizzazione massiva e/o continua, come hanno concluso Wattier et al., (2007) in uno studio su Dikerogammarus villosus, che rapidamente si è diffuso nell’Europa occidentale dalla foce del Danubio.

Nonostante la variabilità genetica neutrale non sia un parametro che permette di determinare il successo di un’invasione (Dlugosch e Parker, 2008a; Tsutsui et al., 2000) rimane il primo metodo generalmente usato per studiare la dinamica delle specie invasive e meglio comprendere com’è avvenuto il processo.

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2. INTRODUZIONE 2.1. Generalità della specie

Rhynchophorus ferrugineus (Olivier, 1790) è un coleottero appartenente alla superfamiglia Curculionoidea, che comprende circa 60000 specie e 6000 generi descritti, (Thompson, 1992), alla famiglia dei Curculionidae e alla sottofamiglia dei Dryophthorinae.

Di origine asiatica, il punteruolo rosso delle palme ha raggiunto il bacino del Mediterraneo all’inizio degli anni 90 (OEPP/EPPO, 2008) Sotto è riportata la sua distribuzione nel 2007, disponibile ai siti (http://www.redpalmweevil.com//; http://www.eppo.org)

Mappa di distribuzione del punteruolo rosso

In Italia il primo ritrovamento di Rhynchophorus ferrugineus risale al 2004,

quando esemplari allo stadio larvale e di pupa sono stati rinvenuti in Phoenix canariensis in un vivaio di Pistoia (Sacchetti et al., 2005). Oggi è presente in Campania, Lazio, Puglia, Sardegna, Sicilia, Calabria, Marche, Abruzzo, Molise, Liguria e, nel 2010, anche in Basilicata (http://ec.europa.eu/food/plant/organisms/emergency/docs/commission-survey-aspects_en.pdf).

R. ferrugineus è un parassita essenzialmente delle palme (Arecaceae); l’intero ciclo avviene all’interno della pianta dove le larve si nutrono dei tessuti teneri scavando gallerie, e, a completo sviluppo, tornano verso la base delle fronde per costruire il bozzolo, da cui emergono gli adulti che possono rimanere o meno sullo stesso ospite (Dembilio et al., 2009). Il punteruolo rosso è stato ritrovato in Areca catechu, Arenga pinnata, Borassus flabellifer, Calamus merillii, Caryota maxima, Caryota cumingii, Cocos nucifera, Corypha gebanga, Corypha elata, Elaeis

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guineensis, Livistona decipiens, Metroxylon sagu, Oreodoxa regia, Phoenix canariensis, Phoenix dactylifera, Phoenix sylvestris, Sabal umbraculifera, Trachycarpus fortunei, Washingtonia sp., etc. Può attaccare anche Agave americana e la canna da zucchero (Saccharum officinarum), quest’ultima in genere utilizzata per l’allevamento in laboratorio (OEPP/EPPO, 2008).

Il maschio adulto è lungo da 19 a 42 mm e largo da 8 a 16 mm. Il corpo è allungato e ovale, generalmente il colore varia dal rosso al nero così come le elitre e il rostro (solitamente color ruggine), con le zampe meno colorate del corpo. Il pronoto è

caratterizzato da macchie nere molto variabili per dimensione e numero. Il rostro (Fig. 1) è lungo circa quattro-cinque volte la lunghezza del pronoto, più largo alla base, appare di profilo diritto, liscio con minute punteggiature, mentre dorsalmente nella parte apicale o subapicale presenta grosse setole erette che si estendono più della metà della sua lunghezza (Wattanapongsiri, 1966).

Figura 1: Particolare del rostro del maschio di R. ferrugineus

La femmina adulta (Fig. 2) è lunga da 26 a 40 mm, larga da 10 a 16 mm. Simile al maschio per le caratteristiche morfologiche, tranne che per l’assenza di setole rostrali e femorali, e quelle davanti alla tibia sono più corte. Il rostro appare più lungo, esile e più cilindrico (Wattanapongsiri, 1966). Le misurazioni su esemplari trovati in Sicilia hanno evidenziato che il corpo dei maschi è lungo in media 31,38 mm e largo 9,99 mm, mentre quello delle femmine è lungo in media 33,34 mm e largo 10,31 mm (Longo e Colazza, 2008). Figura 2: Femmina di R. ferrugineus

Una femmina può arrivare a deporre dalle 125 alle 200 uova, seppur la fecondità vari anche in base alla dieta (Shahina et al., 2009; Salama e Abdel-Razek, 2002). Le uova, grandi in media 0.98 per 2.96 mm sono deposte nei tessuti teneri delle palme, alla base del rivestimento delle foglie, all’estremità del germoglio o in tagli o ferite del tronco (Wattanapongsiri, 1966). A 2-3 giorni dall’accoppiamento comincia la deposizione delle uova che continua fino alla morte della femmina, in

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genere circa fino a 5 mesi dopo (Al-Ayedh, 2008). La schiusa avviene dopo 4-5 giorni dalla deposizione (Shahina et al., 2009). Le larve (Fig. 3) sono apode, lunghe circa da 36 a 47 mm, larghe da 15 a 19 mm. La testa, che rappresenta un importante carattere tassonomico per distinguere le specie, è lunga da 8 a 9 mm e larga da 7 a 8 mm, è fortemente sclerotizzata e approssimativamente rotonda (Wattanapongsiri, 1966). Il periodo larvale dura circa 50-80 giorni e le larve attraversano fino a 9 stadi prima di mutare in pupe (Shahina et al., 2009).

Figura 3: Larva di R. Ferrugineus A maturità le larve smettono di nutrirsi e costruiscono un bozzolo con fibre e fasci vascolari dello stelo. La pupa è lunga da 27 a 40 mm e larga da 13 a 16 mm (Wattanapongsiri, 1966). Il periodo di pre pupa varia dai 2 ai 19 giorni mentre quello di pupa dagli 8 ai 50 (Wattanapongsiri, 1966; Salama e Abdel-Razek, 2002; Shahina et al., 2009) a seconda dell’ospite e delle condizioni ambientali. In Sicilia la permanenza degli adulti nel bozzolo pupale varia da 6-7 giorni in estate a oltre 30 in inverno in relazione alle temperature esterne (Longo et al., 2008). Per il tasso di emergenza la temperatura risulta essere il fattore limitante (Salama et al., 2002). L’emergenza degli adulti avviene durante tutto l’anno, essendo il range di sviluppo della pupa piuttosto ampio: -2.3°C e 44-45°C (Salama et al., 2002). 2.2. Metodi di individuazione e lotta

L’infestazione a stadi avanzati si manifesta con foglie ingiallite e gemme appassite. Si possono scorgere i piccoli buchi sullo stelo con fuoriuscita di fibre masticate e lo stillare di un liquido marrone, la presenza di bozzoli lungo l’asse delle foglie o alla base della palma (Siriwardena et al., 2010). Purtroppo molto spesso, quando sono manifesti i sintomi, è troppo tardi per un recupero. Le palme infestate muoiono in 4-8 mesi, a seconda dell’età e dell’entità dell’infestazione (Lo Verde e Massa, 2007).

Vari sono i metodi di diagnosi delle palme infestate che vanno dall’utilizzo di dispositivi acustici (non invasivi) in grado di rilevare i rumori prodotti dalle larve che si nutrono e quindi di riconoscere una palma infestata già ai primi stadi (Pinhas et al., 2008; Siriwardena et al., 2010; Gutierréz et al., 2010), all’impiego di cani addestrati a riconoscere tracce di essudati prodotti dalle larve (Nakash et al., 2000).

I metodi di lotta fanno uso di trappole di massa che sfruttano la natura gregaria della specie (Faleiro et al., 2002) che potrebbe essere dovuta sia alla scarsità di siti di riproduzione, sia alla possibilità da parte della femmina di deporre molte uova sullo

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stesso ospite (Soroker et al., 2005). Il ferruginolo (4 metil-5-nonanolo), prodotto dallo stesso rincoforo per attrarre altri individui della sua specie, è tra le sostanze attraenti più utilizzate (Hallett et al., 1999). Un altro metodo è l’uso di insetticidi, quali per esempio neonicotinoidi, organofosfati e carbammati (Kaakeh, 2006; Dembilio et al., 2009; Melifronidou-Pantelidou, 2009). Può essere attuata una lotta biologica usando nematodi parassiti dei generi Heterorhabditis e Steinernema che sono risultati più o meno efficaci in diversi studi (Abbas et al., 2001; Monzer e ABD El-Rahman, 2003; Dembilio et al., 2009) e funghi entomopatogeni (Güerri-Agulló et al., 2010). In laboratorio si è raggiunta una mortalità del 40-60% delle larve al 2° stadio trattate con varianti di Bacillus sphaericus, B. megaterium o B. laterosporus. (Salama et al., 2004) La SIT (Sterile Insect Technique) prevede la liberazione in natura di adulti, maschi e/o femmine, precedentemente irradiati con raggi gamma (Al-Ayedh e Rasool 2009; El Naggar et al., 2010).

In Italia è stato infine proposto anche l’uso di sostante repellenti naturali come estratti di Azadirachta indica e Hydnocarpus wightiana o di sintesi, oltre al comune naftalene (C. Littardi, comunicazione personale).

Nei paesi d’origine in estremo Oriente sono stati segnalati come predatori il Dermattero Chelisoches moris e il Rincote Reduviide Platimeris loevicollis, come ectoparassitoide di larve e adulti l’Acaro Tetrapolypus rhynchophory, mentre attivi parassitoidi larvali sono il Dittero Sarcophaga fuscicauda e l’Imenottero Scolia erratica. Predatori del punteruolo in Italia sono il ratto (Rattus rattus), i piccioni (Colomba livia) e le gazze (Pica pica) nonostante non siano in grado di arginare la crescita demografica. Oltre al rapporto di foresia che si instaura con l’Acaro Centrouropoda almerodai, artropodi eventualmente associati al punteruolo in Sicilia come potenziali predatori sono il Dermattero Euborellia annulipes e il Coleottero Carabide Laemostenus complanatus (S. Longo, comunicazione personale). Inoltre, da pupe tenute in allevamento, si sono ottenuti alcuni individui di un Dittero Tachinide Billaea maritima (Lo Verde e Massa, 2007). 2.3. I microsatelliti

I microsatelliti o Simple Sequence Repeats (SSRs) sono marcatori molecolari spesso utilizzati in studi di genetica di popolazione per avere informazioni relative alla biologia della specie in esame, alla storia evolutiva e ai processi che l’hanno coinvolta (Sunnucks, 2000). A differenza di altri marcatori, i microsatelliti sono più flessibili e informativi in quanto a singolo locus e forniscono un’informazione più precisa essendo codominanti, cioè permettono di discriminare individui eterozigoti da omozigoti (Sunnucks, 2000). I loci microsatellite sono ripetizioni in tandem di 1-6 nucleotidi trovati con alta frequenza nei genomi nucleari di molti taxa. Un locus microsatellite generalmente varia in lunghezza da 5 a 40 ripetizioni, ma sono possibili anche regioni più lunghe (Selkoe e Toonen, 2006). L’alto tasso di mutazione di queste regioni è stato attribuito principalmente a due meccanismi fondamentali: lo slippage (lo staccarsi del filamento e il suo riappaiarsi in modo scorretto durante la replicazione) e la ricombinazione per crossing over diseguali (Li et al., 2002). Differenze nella dimensione del genoma sono responsabili soltanto del 10% circa nel determinare la varianza della ripetitività delle sequenze tra le varie specie (Hancock,

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2002). La distribuzione dei microsatelliti nel genoma non è omogenea ed è taxon specifica. Si sono notate differenze anche tra regioni introniche ed intergeniche. Negli esoni prevalgono repeats tri o esanucleotidici che non spostano il reading frame (Tóth et al., 2000).

L’evoluzione dei SSRs sembra non si possa spiegare con la sola composizione nucleotidica. Sono responsabili anche altri fattori, quali i sistemi di replicazione, riparazione e ricombinazione tipici di ogni specie (Katti et al, 2001). Usando modelli diversi di evoluzione dei microsatelliti è emerso che non solo ci sono diversi tassi di slippage tra diverse specie e tra tipi di ripetizioni (di-tri-tetra…) (Kruglyak et al., 1998), ma anche che il tasso di slippage aumenta esponenzialmente con l’aumento delle unità ripetute e per i microsatelliti più lunghi avviene più frequentemente una mutazione che porta a ridurne la dimensione (Lai e Sun, 2003).

Numerosi lavori, riassunti da Li et al., (2002) hanno dimostrato che la loro distribuzione nel genoma non è casuale e che possono essere sotto selezione essendo coinvolti in diverse funzioni:

- l’organizzazione della cromatina: nei cromosomi, nella struttura del DNA influenzata dalla formazione di loops, a livello dei centromeri e dei telomeri;

- la regolazione dei processi metabolici: aumentando la ricombinazione, influenzando enzimi coinvolti nella replicazione e nel ciclo cellulare, nella regolazione dell’attività genica e del livello di espressione, fornendo un sito di legame a proteine regolatrici, nel processo di traduzione.

La presenza di microsatelliti nei geni codificanti la subunità minore del sistema di riparazione del DNA, seppur possa sembrare un paradosso, ha portato a ipotizzare che una minor efficienza nella riparazione possa essere garante del mantenimento di un’alta variabilità genetica (Chang et al., 2001). 2.4. La tecnica dell’AFLP

I marcatori AFLP (Amplified Fragment Length Polymorphisms) sono frammenti di DNA amplificati casualmente con l’uso di primer selettivi a partire da DNA genomico digerito con enzimi di restrizione (Vos et al., 1995). Rispetto all’isolamento dei microsatelliti la tecnica dell’AFLP è meno laboriosa, richiede tempi e costi minori e il limite dovuto alla sua natura dominante (cioè non è possibile distinguere gli eterozigoti dagli omozigoti), è compensato in parte dalla possibilità di esaminare un maggior numero di loci distribuiti in tutto il genoma (Bensch e Åkesson, 2005). Assumendo l’equilibrio di Hardy Weinberg è possibile convertire la matrice di presenza/assenza delle bande in frequenze alleliche, e quindi nell’eterozigosità attesa (Bensch e Åkesson, 2005). Questa, spesso usata per la stima della diversità genetica, può essere influenzata dal tasso di mutazione dei loci presi in esame e i microsatelliti sembrano esserne particolarmente sensibili (Bensch e Åkesson, 2005).

L’AFLP può essere una buona alternativa all’uso di microsatelliti in studi di assegnazione di popolazioni, soprattutto quando la differenza tra le popolazioni è debole (Campbell et al., 2003). Questa tecnica è stata poco utilizzata negli animali rispetto alle piante (Bensch e Åkesson, 2005), tuttavia si possono trovare diversi lavori in letteratura volti a confrontare l’efficienza dei marcatori AFLP con i marcatori microsatellite negli animali. Ad esempio, in uno studio su Solea vulgaris

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nel Mediterraneo, in cui sono stati usati 15 SSRs e 153 loci da AFLP, gli autori hanno potuto concludere che la tecnica dell’AFLP è più efficiente sia nel distinguere individui appartenenti a popolazioni vicine, sia nella percentuale di assegnazioni corrette alle popolazioni d’origine (Garoia et al., 2007). Sønstebø et al. (2007) hanno comparato le due tecniche in un lavoro su 495 esemplari di Salmo trutta con 11 loci microsatellite e 178 loci polimorfici da AFLP ottenendo risultati simili nell’analisi di genetica di popolazioni ma discordanti nell’assegnazione degli individui alle popolazioni di origine. L’alto tasso di mutazione dei microsatelliti spesso rende questo marcatore incapace di preservare informazioni “storiche” a differenza degli AFLPs e inoltre risulta difficile separare gli effetti della sua evoluzione da quelli dei processi genetici delle popolazioni come dimostrato da uno studio su Clunio marinus (Kaiser et al., 2010). I marcatori dominanti ottenuti con l’AFLP sono stati utilizzati con successo anche nello studio di specie invasive per stimare riduzioni della variabilità genetica e per studiare la struttura delle popolazioni native e introdotte per meglio comprendere il processo di invasione (Amsellem et al., 2000; Grapputo et al., 2005; Chun et al., 2009). 2.5. Il Rhynchophorus ferrugineus in Sicilia

Il punteruolo rosso è stato trovato in Sicilia per la prima volta nell’ottobre 2005 e rapidamente si è diffuso in tutta l’isola. Parassita soprattutto la palma Phoenix canariensis, e in particolare gli esemplari maschili e più alti (Conti et al., 2008). Recentemente sono state riscontrate infestazioni anche su esemplari giovani di Sabal sp., e su piante adulte di Phoenix dactylifera, Washingtonia sp., Chamaerops humilis, Syagrus romanzoffiana, Jubaea chilensis e Livistona chinensis (Longo e Colazza, 2008). L’attività degli adulti, nella Sicilia orientale, risulta notevolmente ridotta nei mesi invernali e primaverili a causa delle basse temperature, mentre si registrano i valori più alti in tarda estate e in autunno (Conti et al., 2008). La fase di ovodeposizione sembra non interessare un definito periodo dell’anno, data la presenza di adulti e pupe in palme abbattute in diversi mesi (Lo Verde e Massa, 2007). Lo Verde e Massa (2007) scrivono che non risulta al momento possibile stabilire quante generazioni annue ci siano in Sicilia.

È ormai dimostrato che l’invasione del Rhynchophorus ferrugineus è dovuta all’importazione di palme da luoghi dove il fitoparassita era già presente. Dal momento dell’invasione è noto che alcune ditte importatrici avessero introdotto esemplari di Aracaceae, soprattutto di P. dactylifera, in gran parte dall’Egitto (Raciti et al., 2008). 2.6. Scopo della tesi

Per meglio comprendere il processo di invasione e diffusione del punteruolo rosso delle palme in Sicilia è stato eseguito uno studio di genetica di popolazione considerando individui raccolti in tre diverse città: Palermo, Ragusa e Catania. Sono state calcolate l’eterozigosità attesa, la variabilità genetica e la sua distribuzione tra e intra le popolazioni campionate, per determinare se il processo di invasione ha interessato una o multiple introduzioni. Con questo obiettivo sono stati isolati 13 loci microsatellite da un individuo di Rhynchophorus ferrugineus ed è stata eseguita la tecnica dell’AFLP sui campioni raccolti.

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3. MATERIALI E METODI

I 47 campioni di Rhynchophorus ferrugineus studiati sono stati raccolti in tre diverse città siciliane: Palermo (10 individui), Ragusa (11 individui) e Catania (26 individui) e conservati in etanolo al 99.5%. 3.1. ESTRAZIONE DEL DNA

Per l’estrazione del DNA ho seguito il protocollo per estrazione di DNA genomico da tessuti, con la tecnica delle colonnine Qiagen (Kit DNeasy Blood & Tissue Handbook, Qiagen), usando i loro specifici reagenti. La digestione di circa 25 mg di tessuto sminuzzato (prelevato precedentemente con pinze sterilizzate a fiamma dopo aver rotto l’esoscheletro chitinoso con un bisturi), in 180 µl di Buffer ATL e 20 µl di proteinasi K, ha richiesto la permanenza dei campioni in bagnetto a 56°C per almeno 3 ore. Ho vortexato ogni 30 minuti per facilitare il processo. Dopo aver aggiunto 200 µl di Buffer AL e altrettanti di etanolo assoluto e vortexato, ho trasferito il liquido nella colonna contenente la membrana di resina (che assorbe il DNA in presenza di elevate concentrazioni di sale caotropico contenuto nei buffer) e centrifugato a 8000 rpm per 1 min. Ho eliminato il liquido filtrato e ho eseguito altre due centrifugazioni a 8000 rpm per 1 minuto e a 14000 rpm per 3 minuti dopo aver aggiunto rispettivamente 500 µl di soluzioni di lavaggio AW1 e AW2, entrambi contenenti etanolo (eliminato con un’ulteriore centrifugazione a 14000 rpm per 1 minuto). Per l’eluizione del DNA sono stati aggiunti 100 µl di Buffer AE (10 mM Tris-Cl, 0.5 mM EDTA, pH 9.0) nella colonna trasferita in una eppendorf da 1.5 ml e, dopo aver incubato 1 minuto a temperatura ambiente, è stata eseguita l’ultima centrifugazione a 8000 rpm per 1 minuto. Gli estratti sono stati conservati a -20°C.

Per accertare il successo dell’estrazione sono stati caricati 4 µl in un gel

d’agarosio 1% con il marcatore λ Hind III. Il DNA estratto è visualizzabile come una banda in corrispondenza dei 40 Kb. È possibile stimarne la bontà dall’assenza o dalla presenza in piccole quantità di uno “smear” a basso peso molecolare, che potrebbe rappresentare RNA o frammenti di DNA degradato (Glenn e Schable, 2005).

Prima di procedere con la digestione e la ligazione del DNA ho misurato la concentrazione dell’estratto con il fluorometro che assegna una concentrazione in funzione dell’assorbanza a 485-530 nm (Quant-iTTM dsDNA BR Assay Kits, Invitrogen). Per l’isolamento dei loci microsatellite è stato scelto il campione con concentrazione maggiore, circa 100 ng/µl. 3.2. ISOLAMENTO DEI LOCI MICROSATELLITE

Per la digestione con gli enzimi di restrizione, la ligazione e la successiva amplificazione del DNA è stato seguito il protocollo di Glenn e Schable (2005).

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3.2.1. Digestione del DNA con enzimi di restrizione L’uso di enzimi di restrizione ha come obiettivo la digestione del DNA

genomico in frammenti che siano approssimativamente di 500 bp. Questa misura risulta sufficientemente breve per il sequenziamento e abbastanza lunga da permettere il disegno dei primer necessari per l’amplificazione del marcatore microsatellite. Seguendo il protocollo è stata eseguita la digestione di 20 µl di DNA con due diversi enzimi di restrizione, RsaI e BstUI che riconoscono e tagliano rispettivamente in corrispondenza di GT^AC e CG^CG, lasciando estremità piatte.

2.5 µl 10x Buffer ligasi 0.25 µl 100x BSA 0.25 µl NaCl 5 M (50 mM finale) 1 µl XmnI (20 U/µl conc. stock) 1 µl RsaI o BstUI (10 U/µl conc. stock) 20 µl di DNA

La digestione completa ha richiesto 1 ora a 37°C.

Come verifica ho caricato 4 µl di DNA digerito in un gel d’agarosio 1% usando i marcatori λ Hind III e 1Kb. Ho ottenuto uno “smear” centrato sulle 500 bp, con la gran parte dei frammenti sotto i 1000 bp, senza evidenza di bande troppo nitide. 3.2.2. Ligazione

La ligazione dei linker o adattatori alle estremità del DNA digerito serve per fornire il sito di legame ai primer per la successiva amplificazione con la tecnica della reazione a catena della polimerasi (PCR), e permettere l’inserimento nel vettore per il clonaggio. La presenza nel SuperSNX di un GTTT “pig-tail” facilita l’aggiunta da parte della Taq DNA Polimerasi di A durante la PCR precedente il clonaggio. SuperSNX-24 Forward: 5’GTTTAAGGCCTAGCTAGCAGAATC SuperSNX-24+4P Reverse: 5’pGATTCTGCTAGCTAGGCCTTAAACAAAA

Per la preparazione del linker SuperSNX a doppio filamento ho mescolato uguali volumi di SuperSNX-24 e SuperSNX-24+4p primer (100 µl di 10 µM ognuno), ho aggiunto NaCl fino a raggiungere una concentrazione finale di 100 mM (4 µl di NaCl 5 M su 200 µl di primer) e ho lasciato che tornasse a temperatura ambiente dopo 5 minuti a 95°C. Per la ligazione ho aggiunto al DNA digerito i 10 µl della seguente mix:

7.0 µl ds SuperSNX linker 1.0 µl 10x Buffer ligasi 2.0 µl DNA ligasi (400 U/µl conc. stock)

La ligazione è avvenuta a 16°C overnight.

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3.2.3. Amplificazione Per verificare l’avvenuta ligazione ho eseguito una PCR usando soltanto uno

dei due primer, il SuperSNX-24 Forward, e ho caricato 4 µl dell’amplificato in un gel d’agarosio 1.8% usando il ladder 100 bp come marcatore. Se la ligazione è avvenuta con successo è visibile uno “smear” in prossimità dei 500 bp.

La soluzione di PCR era così costituita (25 µl totali): Reagente Conc. stock Quantità (µl) Conc. finale Buffer 5x 5 1x BSA 250 µg/ml 2.5 25 µg/ml

SuperSNX-24 10 µM 1.5 0.6 µM dNTP’s 2.5 mM 1.5 150 µM MgCl2 25 mM 2.0 2 mM

Taq DNA Polimerasi 5 U/µl 0.2 0.04 U/µl H2O 10.3

DNA digerito e ligato 2 La PCR è stata eseguita con il seguente protocollo: fase di pre-denaturazione: 95°C per 2 minuti 20 cicli: - denaturazione: 95°C per 20 secondi - annealing: 60°C per 20 secondi - estensione: 72°C per 1.5 minuti

Il gel d’agarosio ha permesso di escludere il BstUI come enzima di restrizione perché, oltre allo “smear”, era evidente la presenza di una banda nitida in prossimità dei 500 bp. 3.2.4. Arricchimento

Per l’arricchimento è stato usato il protocollo FIASCO (Fast Isolation by AFLP of Sequences COntaining repeats) (Zane et al., 2002) con qualche modifica.

Il DNA digerito e ligato è stato diluito di 10 volte ed è stata eseguita un’amplificazione con 12-14-17-20 cicli (PCR con concentrazioni e protocollo come nella tabella precedente) usando però 5 µl di DNA digerito, ligato e diluito (anzichè 2 µl) e portando ad un volume finale di 25 µl. L’obiettivo era quello di poter scegliere il numero di cicli adeguato in modo da avere sufficiente DNA, ma che non formasse nel gel d’agarosio bande troppo evidenti. Scelti i 20 cicli come ottimali, ho ulteriormente amplificato il digerito in 8 repliche, precipitato il volume totale in isopropanolo e risospeso in 50 µl d’acqua.

Per isolare soltanto i frammenti che contengono microsatelliti si ricorre all’uso di sonde di oligonucleotidi contenenti la sequenza complementare di repeats, precedentemente biotinilate all’estremità 3’. Spesso, come in questo caso, anziché

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singole sonde è stata usata una mix di sonde diverse con temperatura di melting simile (Glenn e Schable, 2005). La mix di sonde usata è una delle tre proposte dal protocollo di Glenn e Schable, (2005) Mix 2: (AG)17, (TG)17, (AAC)12, (AAG)8, (AAT)12, (ACT)12, (ATC)8

Sono state aggiunte le sonde biotinilate (0.5 µM la concentrazione finale per ogni sonda) a 250-500 ng di DNA amplificato in un volume finale di 100 µl di una soluzione al 4.2x di SSC e 0.07% di SDS. Dopo aver sottoposto il DNA a denaturazione a 95°C per 3 minuti, l’ho lasciato a temperatura ambiente per 15 minuti perché avvenisse l’ibridazione con le sonde.

La biotina legata alle sonde ha elevata affinità per la streptavidina, molecola fornita già legata a “beads” (particelle) magnetiche che possono essere catturate usando un Magnetic Particle Concentrator (MPC). Prima dell’uso, ho lavato 1 mg di “beads” con 4-5 lavaggi in 200 µl di TEN100 (10 mM Tris-HCl, 1 mM EDTA, 100 mM NaCl, pH 7.5), e le ho risospese in 45 µl di TEN100 e 5 µl di tRNA (100 mg/ml) per ridurre legami aspecifici. I 50 µl così ottenuti sono stati aggiunti al DNA ibridato alle sonde (diluito precedentemente con 300 µl di TEN100) e lasciato in costante movimento a temperatura ambiente per 30 minuti circa affinchè avvenisse il legame alle “beads”.

Sono stati eseguiti 8 lavaggi con la funzione di togliere i frammenti di DNA non legati alle sonde: 4 non stringenti con 400 µl, 450 µl e gli ultimi due con 500 µl di TEN1000 (10 mM Tris-HCl, 1 mM EDTA, 1 M NaCl, pH 7.5) e altri 4 stringenti con 400 µl, 450 µl e gli ultimi due con 500 µl di una soluzione 0.2x di SSC e 0.1% di SDS. Ad ogni passaggio ho catturato le “beads” con l’MPC e rimosso il supernatante. Dopo l’ultimo lavaggio le “beads” sono state risospese in 50 µl di TE (10 mM Tris-HCl, 1 mM EDTA, pH 8), incubate 5 minuti a 85°C, raffreddate in ghiaccio e ricatturate con l’MPC. Ho trasferito il supernatante con il DNA arricchito in un’altra provetta. È stata eseguita una seconda denaturazione delle “beads” con l’aggiunta di 12 µl di NaOH 0.15 M, 34 µl di acido acetico 0.166 M e 54 µl di TE. Infine ho precipitato il DNA in 1/10 di volume di sodio acetato 3 M e 1 volume di isopropanolo e l’ho risospeso in 50 µl di acqua.

Per accertarsi del successo dell’arricchimento e per avere sufficiente quantità di DNA per il clonaggio è stata eseguita un’amplificazione (con le stesse concentrazioni dell’amplificazione eseguita per verificare l’avvenuta ligazione pag. 11) seguendo il seguente protocollo (da Glenn e Schable, 2005): fase di pre-denaturazione: 95°C per 2 minuti 25 cicli: - denaturazione: 95°C per 20 secondi - annealing: 60°C per 20 secondi - estensione: 72°C per 1.5 minuti Fase di estensione finale: 72°C per 30 minuti

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Nel gel d’agarosio 1.8% usando come marcatore il ladder 100 bp, il successo è dimostrato dalla presenza di uno “smear” approssimativamente attorno ai 500 bp (Glenn e Schable, 2005). 3.2.5. Clonaggio

Per il clonaggio è stato seguito il protocollo del pGEM®-T Easy Vector Systems (Promega) che prevede la trasformazione di cellule competenti di E. coli dopo la ligazione dei frammenti di DNA ottenuti in vettori pGEM-T Easy con le seguenti quantità:

5 µl 2X Rapid Ligation Buffer, T4 DNA ligasi 1 µl pGEM®-T Easy Vector (50 ng) 1 µl DNA prodotto della PCR 1 µl T4 DNA ligasi (3 U/µl) 2 µl H2O (per un volume finale di 10 µl)

La ligazione è avvenuta overnight a 4°C.

Perché avvenisse la trasformazione ho aggiunto 2 µl della soluzione di ligazione a 50 µl di cellule competenti di E. coli e le ho sottoposte ad uno shock termico a 42°C per 45-50 secondi dopo una permanenza in ghiaccio per 20 minuti. I successivi 2 minuti in ghiaccio sono stati necessari per il recupero dell’integrità cellulare, dopo la trasformazione. Sono stati aggiunti poi 200 µl di SOC e si sono lasciati crescere i batteri per 1.5 h a 37°C. Piastrati 50-80 e 100 µl di soluzione batterica in piastre precedentemente preparate con LB, ampicillina, IPTG e X-Gal, ho lasciato crescere le colonie overnight a 37°C.

L’enzima β Galattosidasi, se funzionale, scinde X-Gal che dà una colorazione blu, permettendo così di discriminare le colonie in cui è avvenuta la trasformazione del solo vettore (blu), da quelle in cui invece è presente anche l’inserto che appaiono bianche (per inattivazione inserzionale della regione codificante il peptide α della β Galattosidasi). Ho prelevato le colonie bianche, le ho trasferite in 50 µl d’acqua e sottoposte a 95°C per 10 minuti per lisare le cellule e permettere la fuoriuscita in soluzione del DNA.

Per la successiva PCR (modificato da Glenn e Schable, 2005) sono stati usati i primer specifici (M13 e T7) complementari alle regioni localizzate alle estremità del vettore, così da amplificare soltanto l’inserto.

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La soluzione di PCR era così costituita (25 µl totali): Reagente Conc. stock Quantità (µl) Conc. finale Buffer 5x 5.0 1x BSA 250 µg/ml 2.5 25 µg/ml

M13 Rev. primer 10 µM 0.5 0.2 µM T7 For. primer 10 µM 0.5 0.2 µM

dNTP’s 2.5 mM 1.5 150 µM MgCl2 25 mM 2.0 2 mM

Taq DNA Pol 5 U/µl 0.1 0.02 U/µl H2O 10.9 DNA 2

La PCR è stata eseguita con il seguente protocollo: fase di pre-denaturazione: 95°C per 3 minuti 35 cicli: - denaturazione: 95°C per 20 secondi - annealing: 50°C per 20 secondi - estensione: 72°C per 1.5 minuti

Per visualizzare la dimensione degli inserti sono stati fatti correre 2 µl dell’amplificato in un gel d’agarosio 1.8% per 30-40 minuti a 80 Volts, usando come marcatore il ladder 100 bp. Sono stati scelti per il sequenziamento i frammenti aventi una dimensione superiore ai 400 bp. 3.2.6. Purificazione e sequenziamento

Prima del sequenziamento è necessaria la purificazione. Il protocollo prevede l’aggiunta di 1 µl di ExoSAP-IT (Exonuclease I e Shrimp AlKaline Phosphatase; USB) a 5 µl di DNA amplificato, l’incubazione per 15 minuti a 37°C (duranti i quali l’esonucleasi e la fosfatasi degradano rispettivamente i primer e i dNTP’s in eccesso) e per altri 15 minuti a 80°C (per inattivare gli enzimi). Un µl di DNA purificato è stato seccato a 70°C per circa 40 minuti e mandato al servizio di sequenziamento fornito dalla ditta BMR di Padova (http://www.bmr-genomics.com). 3.2.7. Disegno dei primer e test delle condizioni di amplificazione

Prima del disegno dei primer sono stati rimossi dalle sequenze i primer usati per l’inserimento nel vettore e il frammento di sequenza relativa al vettore stesso con il programma CodonCode Aligner (CodonCode Corp., USA). Per le sequenze contenenti microsatelliti sono stati disegnati i primer con l’uso del programma Primer3Plus (Untergasser et al., 2007).

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I primer sono stati testati con le seguenti condizioni di PCR (20 µl totali): Reagente Conc. stock Quantità (µl) Conc. finale Buffer 5x 4.0 1x

Rev. primer 5 µM 1.0 0.25 µM For. Primer non marcato 5 µM 0.9 0.225 µM

For. Primer marcato 5 µM 0.1 0.025 µM dNTP’s 2.5 mM 1.6 200 µM MgCl2 25 mM 2.0 2.5 mM

Taq DNA Pol 5 U/µl 0.2 0.05 U/µl H2O 8.2 DNA 2

La PCR è stata eseguita con il seguente protocollo: fase di pre-denaturazione: 95°C per 3 minuti 30 cicli: - denaturazione: 95°C per 30 secondi - annealing: Temperatura di annealing per 30 secondi - estensione: 72°C per 1 minuti Fase di estensione finale: 72°C per 5 minuti 3.3. AFLP Per la tecnica dell’AFLP sono stati consultati due protocolli disponibili ai siti:

http://docs.appliedbiosystems.com/pebiodocs/00100509.pdf http://biologi.uio.no/FellesAvdelinger/DNA_KAFFE/Kaffe_Resources/AFLP.html

3.3.1. Digestione e ligazione

L’ AFLP è una tecnica che consiste nella digestione e ligazione del DNA estratto con gli enzimi di restrizione MseI ed EcoRI e i rispettivi adattatori. MseI, che taglia frequentemente nel genoma (5’-T↓TAA-3’), ed EcoRI, i cui siti di riconoscimento sono meno frequenti (5’-G↓AATTC-3’), permettono l’uno la formazione di frammenti di piccole dimensioni che facilitano l’amplificazione, l’altro la selezione di un minor numero di questi (Vos et al., 1995). Per la digestione e la ligazione è stata preparata la seguente mix:

3 µl 10x Buffer ligasi 0.15 µl BSA (10 mg/ml conc. stock) 0.1 µl MseI (1 U) 0.25 µl EcoRI (5 U) 0.6 µl MseI adattatore (1 µM conc. finale) 0.6 µl EcoRI adattatore (0.1 µM conc. finale) 0.05 µl T4 DNA ligasi (400 U/µl conc. stock) 5.25 µl H2O 20 µl di DNA

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La digestione e la ligazione hanno richiesto 3 ore a 37°C.

Per la preparazione degli adattatori è stato necessario mescolare pari quantità dei due filamenti singoli (portando a volume con acqua se necessario per raggiungere la concentrazione desiderata), scaldare a 95° per 5 minuti lasciando poi che tornassero a temperatura ambiente. MseI adattatore = 50 µM 5-GACGATGAGTCCTGAG TACTCAGGACTCAT-5 EcoRI adattatore = 5 µM 5-CTCGTAGACTGCGTACC CATCTGACGCATGGTTAA-5 Il DNA digerito e ligato è stato diluito 1:10. 3.3.2. Amplificazioni

Per la prima amplificazione, detta pre-selettiva, sono stati usati 2 primer contenenti, oltre alla sequenza corrispondente agli adattatori, un nucleotide in più, per selezionare soltanto una parte dei frammenti ottenuti (Vos et al., 1995).

La tabella riporta le condizioni della PCR pre-selettiva (25 µl finali): Reagente Conc. stock Quantità (µl) Conc. finale Buffer 5x 5.0 1 x

MseI-N primer 5 µM 1.0 0.2 µM EcoRI-N primer 5 µM 1.0 0.2 µM

dNTP’s 2.5 mM 1.2 0.12 mM MgCl2 25 mM 1.5 1.5 mM

Taq DNA Pol 5 U/µl 0.1 0.02 U/µl H2O 12.2 DNA 3

Sotto sono riportate le sequenze dei primer (i nucleotidi selettivi sono indicati con NNN): MseI 5-GATGAGTCCTGAGTAA-NNN-3 EcoRI 5-GACTGCGTACCAATTC-NNN-3

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La PCR è stata eseguita con il seguente protocollo: fase di pre-denaturazione: 72°C per 2 minuti 30 cicli: - denaturazione:94°C per 30 secondi - annealing: 56°C per 30 secondi - estensione: 72°C per 1 minuti Fase di estensione finale: 72°C per 2 minuti e 60°C per 15 minuti.

Ho caricato 2 µl di DNA nel gel d’agarosio 1.8%. L’intensità dello “smear” ha permesso di capire quanto diluire l’amplificato prima di procedere con la PCR selettiva (1:7).

La seconda amplificazione, detta selettiva, prevede l’uso del primo amplificato come templato e di primer aventi ulteriori due (o più) nucleotidi oltre quello precedente. Nella PCR selettiva generalmente si usa come primer marcato l’EcoRI, che amplifica i frammenti EcoRI-MseI e EcoRI-EcoRI, più rari rispetto a MseI-MseI. L’obiettivo è quello di ottenere nel gel di elettroforesi in poliacrilamide una serie di bande ben separate corrispondenti ognuna ad un diverso frammento amplificato e avente il primer marcato EcoRI ad almeno una delle due estremità (Vos et al., 1995).

La tabella riporta le condizioni della PCR selettiva in cui è stato usato EcoRI come primer marcato (20 µl finali)

Reagente Conc. stock Quantità (µl) Conc. finale Buffer 5x 4.0 1x

MseI-NNN primer 5 µM 0.8 0.2 µM EcoRI-NNN primer 5 µM 0.16 0.04 µM

dNTP’s 2.5 mM 0.96 0.12 mM MgCl2 25 mM 1.6 2 mM

Taq DNA Pol 5 U/µl 0.1 0.025 U/µl H2O 9.38 DNA 3

La PCR è stata eseguita con il seguente protocollo: fase di pre-denaturazione: 94°C per 2 min, 12 cicli (riducendo la T di annealing 0.7°C per ciclo): - denaturazione: 94°C per 30 secondi - annealing: 65°C per 30 secondi - estensione: 72°C per 2 minuti 23 cicli: - denaturazione: 94°C per 30 secondi - annealing: 56°C per 30 secondi - estensione: 72°C per 2 minuti Fase di estensione finale: 72°C per 10 minuti

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Anche in questo caso è stato fatto correre un gel d’agarosio 1.8% per verificare il successo dell’amplificazione, nonostante lo “smear” non fosse rappresentativo di quei frammenti che contenevano il primer marcato.

Gli amplificati dei microsatelliti, così come quelli ottenuti dalla PCR selettiva dell’AFLP, sono stati inviati alla ditta BMR di Padova (http://www.bmr-genomics.com) per la genotipizzazione, dopo aver seccato 1 µl di ognuno a 70°C. I profili sono stati visualizzati con il programma GeneMapper 3.7 (Applied Biosystem). 3.4 ANALISI DEI DATI

La variabilità genetica delle popolazioni di Rhynchophorus ferrugineus in Sicilia è stata determinata calcolando il grado di polimorfismo ai loci AFLP e l’eterozigosità attesa (Nei, 1978) con il programma AFLP-SURV 1.0 (Vekemans et al., 2002). Le frequenze alleliche sono state stimate con il metodo Bayesiano con una distribuzione delle frequenze alleliche a priori non uniforme (Zhivotovsky, 1999) e assumendo l’equilibrio di Hardy Weinberg. Lo stesso programma è stato utilizzato per calcolare la differenziazione genetica totale tra le popolazioni (Fst) seguendo l’approccio di Lynch e Milligan (1994). La confidenza dell’intervallo di Fst è stata ottenuta mediante 1000 ripetizioni di Bootstrap sui loci.

La struttura genetica di popolazione è stata ulteriormente investigata utilizzando l’analisi molecolare della varianza da una matrice di distanza ottenuta per semplice corrispondenza dei profili di AFLP (Apostol et al., 1993) e l’Analisi delle Coordinate Principali (PCA) utilizzando il programma GenAlEx (Peakall e Smouse, 2006). La significatività dei valori di Φst dei confronti a coppia è stata ottenuta con 1000 permutazioni.

Per verificare se gli esemplari di Rhynchophorus ferrugineus raccolti in Sicilia fossero strutturati, indipendentemente dalla località dov’erano stati raccolti, ho eseguito l’analisi con il programma Structure 2.3 (Pritchard et al., 2000) che calcola, attraverso un sistema bayesiano, quale sia il valore più probabile di popolazioni (K) in cui è diviso un intero gruppo di individui. La stima di K è stata ottenuta applicando il modello Admixture con frequenze correlate in cui ogni individuo contiene una frazione del suo genoma da ognuna delle K popolazioni. Non conoscendo a priori l’origine e il grado di isolamento delle tre popolazioni in esame questo modello è considerato il più adatto in queste situazioni (Pritchard et al., 2000). Cinque prove per ogni valore di K (da 1 a 5) sono state condotte con 5,1 e 10 milioni di simulazioni con uno scarto iniziale rispettivamente di 100000 e 1 milione di simulazioni. Ho valutato il più probabile numero di popolazioni usando la probabilità a posteriori di ogni K data dalla media del valore del Ln Pr(X|K) come suggerito dagli autori.

Infine per determinare l’esistenza di gruppi di individui un albero di Neighbour joining in Mega 4 (Tamura et al., 2007) è stato ottenuto dal confronto a coppie del numero di differenze tra profili AFLP (matrice di distanza).

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4. RISULTATI 4.1. ISOLAMENTO DEI MARCATORI MICROSATELLITE

Dalla trasformazione delle cellule di E. coli sono state ottenute circa 237 colonie. I 111 frammenti di DNA amplificati che sono risultati di circa 200-500 bp dal gel di elettroforesi al 1.8% sono stati mandati a sequenziare e di questi 21 avevano ripetizioni. Per i 15 più lunghi sono stati ordinati i primer e testati per diverse condizioni di PCR. Si sono ottenute bande più nitide con concentrazioni finali di 2.5 mM di MgCl2 e 200 µM di dNTP’s. Per due loci microsatellite non sono state trovate le condizioni ottimali per l’amplificazione. Tabella 1: I 13 loci microsatellite isolati con riportati i primer, le dimensioni e la temperatura di melting

Repeat Primer (Forward e Reverse) Dim (bp) T melt (°C) (AGT)8 F TGCACTAAGACATCAAACCA

R GCAGAATCACAATCTTCAGTT 359

53

(TGC)6 F TTGCCTTATTGCATTGTCCA R GCTTGTCTGGATTTGCGATT

266

53

(TCA)6 F GCATCCCAAAAGAATACAGA R AATATTTGGGTGTGAGGAAG

301

53

(TG)6G(TG)3 F GAAAAGCGATAGTTGGTGAC R ATCTTTGGTCTCCGAAACTT

196

53

(TG)4TA(TG)3 TT(TG)6

F CAGTGTTTTCAGTTCTCGTG R AAGTTGCAAGTATTTTTCGAC

228

53

(AC)10 F TCGATCAGTTTTCTTTGGAC R GATCTAAGCTGTTGGTGGAG

195

53

(TG)22 F GGGTTCAACAACATTTTCAC R TAACTGCCCAACTTGTTCTT

188

53

(GA)9 F GTGTTCGCTCCGTTCCTAAG R ATCAGAAACAACGCCAGCAG

284

56

(TCA)7 F CTTTTTATGCAGAAGCGAACAC R TGGCAGCAACTCTGACTACG

190

56

(CAT)6(CGT)2 (CAT)CAG(CAT)

F CTGTAGGTGGGAGAGGCAAG R TCTTCCTGCACAACGAACAC

381 56

(GA)12 F CGAGGACAAATTGCGTAAAAC R ATTTCAAGTCGCCGGATAAG

248 55

(TGA)4TGG(TGA)2 F CCTAGAGATCAGAGCAGTCG R CGTGTTTTGAACTTGATTGA

305 50

(CA)3TT(CA)7 F GCTTTTGCTTTCAGCTTTTA R GGCTCTCCCTTTATACCAGT

380 50

Dopo aver testato le condizioni giuste per l’amplificazione è stata eseguita una

prova con i primer marcati per 8 individui provenienti da tutte e tre le popolazioni. La

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genotipizzazione ha evidenziato la presenza di soltanto un microsatellite polimorfico, il (TG)22, quindi non si è proceduto con tutti gli altri campioni. Nella figura (4) dove sono visualizzate le bande per gli 8 individui con il microsatellite (TG)22, è evidente il polimorfismo nei campioni 5 e 7 dove si notano due bande vicine.

Figura 4: Bande di 8 individui per il microsatellite (TG)22

4.2. ANALISI DEI MARCATORI OTTENUTI CON LA TECNICA DELL’AFLP

Per l’AFLP è stato eseguito uno studio pilota su 7 individui. Per le due amplificazioni preselettive ho usato come coppie di primer MseI-A e MseI-C con EcoRI-A. I primer EcoRI-AGA e ACT marcati con fluorofori diversi (Fam e Tamra) sono stati testati nelle successive amplificazioni selettive con 4 diversi primer MseI: AGA, ACT, CGA e CGT (per un totale di 8 coppie). Dai risultati della genotipizzazione sono state individuate le quattro coppie migliori usate poi su tutti gli individui: MseI-CGA EcoRI-AGA MseI-CGA EcoRI-ACT MseI-CGT EcoRI-AGA MseI-CGT EcoRI-ACT

I profili dei 132 loci ottenuti con l’AFLP sono stati valutati e corretti con il programma GeneMapper e le matrici sono state convertite in sistema binario con il programma GenAlEx.

Per valutare quanto il procedimento fosse ripetibile sono stati riamplificati 8 campioni. I valori di distanza genetica calcolati con GenAlEx per le 8 coppie sono risultati molto più bassi rispetto a tutti gli altri confronti a coppie degli individui e inferiori al 5%.

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4.2.1. Analisi dell’esistenza di omoplasia e differenza tra sessi con il programma AFLP-SURV

Ho eseguito l’analisi con AFLP-SURV per le quattro matrici formate ognuna dai loci marcatori ottenuti da una sola coppia di primer, fornendo la lunghezza dei frammenti, per stimare la presenza o meno di omoplasia. Il coefficiente di correlazione di Pearson tra la dimensione dei frammenti e la loro frequenza viene calcolato considerando tutti gli individui come appartenenti alla stessa popolazione. Nessuna delle correlazioni è risultata significativamente diversa da zero dopo la correzione di Bonferroni (Tab. 2).

Tabella 2: Coefficiente di correlazione tra dimensione e frequenza dei frammenti Coppia

di primer

N loci

Lunghezza media (bp)

S.D. (Deviazione Standard)

Coefficiente di

correlazione

P-value

MseI-CGA EcoRI-AGA

35 177.20 86.77 -0.1182 0.49891

MseI-CGA EcoRI-ACT

35 138.83 67.88 -0.0428 0.80703

MseI-CGT EcoRI-AGA

35 131.37 55.36 -0.0646 0.71257

MseI-CGT ECORI-ACT

27 175.96 91.07 -0.4141 0.03178

Il valore di significatività dopo la correzione di Bonferroni P ≤ 0.0125

Inoltre non sono state riscontrate, dall’analisi con il programma AFLP-SURV, differenze significative nella distribuzione delle frequenze alleliche tra maschi e femmine. 4.2.2. Analisi dell’intera popolazione campionata in Sicilia considerata come un unico gruppo - Analisi con il programma AFLP-SURV

L’analisi con AFLP-SURV ha rilevato una media di 87.2 frammenti per individuo, 71 loci polimorfici al livello del 5% (loci con frequenza allelica compresa tra 0.05 e 0.95), e corrispondenti al 53.8% dei loci totali, e un’eterozigosità attesa sotto equilibrio di Hardy Weinberg equivalente a 0.23556 (Tab. 3).

Tabella 3: Statistica descrittiva per marcatori di AFLP Popolazione N. N. loci N. loci_P PLP Hj S.E.(Hj)

Sicilia 47 132 71 53.8 0.23556 0.01450 N. = Numero di individui N. loci_P = Numero di loci Polimorfici al livello del 5% PLP = Percentuale di Loci Polimorfici (livello del 5%) Hj = Eterozità attesa sotto l’equilibrio di Hardy Weinberg S.E.(Hj) = Errore Standard di Hj

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-Analisi con il programma Structure Il programma Structure permette di verificare se la popolazione nel suo

complesso è strutturata, quindi non sono state considerate le informazioni a priori, cioè l’originaria suddivisione nelle tre popolazioni. Anche dopo l’aumento del numero di simulazioni fino a 10 milioni (con uno scarto iniziale di un milione), soltanto per K pari a 1 e 2 l’analisi è giunta a convergenza. La media del valore del Ln Pr(X|K) per la simulazione con K=2 (-1732.98) è risultata significativamente più alta di quella ottenuta ipotizzando la mancanza di struttura (-1848.95). La figura (5) fornita dal programma stesso permette di identificare gli individui appartenenti ai vari K assunti. In questo modo ho escluso i 10 individui che risultavano appartenere al gruppo meno numeroso (rosso in Fig. 5) e rifatto le analisi con Structure sui 37 individui rimasti con gli stessi parametri e 10 milioni di simulazioni per K da 1 a 3. Quest’analisi ha confermato l’ipotesi dell’esistenza di due popolazioni essendo per K=1 l’unica analisi che ha raggiunto la convergenza e anche quella con la media del valore del Ln Pr(X|K) più alto.

Con i dati a disposizione si può concludere che gli esemplari di Rhynchophorus ferrugineus raccolti in Sicilia risultano divisi in due popolazioni. Di quella meno numerosa fanno parte 3 dei 10 individui di Palermo (corrispondenti ai numeri: 74, 76 e 77) e 7 degli 11 di Ragusa (corrispondenti ai numeri: 82, 84, 86, 87, 89, 91 e 92), mentre non c’è neanche un individuo di Catania (Fig. 5). Figura 5: Struttura genetica stimata per K=2 ottenuta con Structure. Ogni individuo è rappresentato da una barra verticale divisa in 2 segmenti colorati (rosso e verde), corrispondenti al numero K di popolazioni. La proporzione Q dei colori rappresenta la percentuale di loci assegnati ai diversi K.

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- Analisi con il programma Mega I due raggruppamenti individuati nell’albero costruito con il metodo del

Neighbour joining (Fig. 6) sono gli stessi di quelli ottenuti precedentemente con il programma Structure. Figura 6: Albero risultato dall’analisi con Neighbour Joining, rappresentante della relazione tra gli individui ottenuta con la distanza di semplice corrispondenza dei profili di AFLP. Ai nodi sono presenti i valori di bootstrap >40%.

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4.2.3. Analisi dei campioni divisi in base alle tre popolazioni d’origine - Analisi con il programma AFLP-SURV

Fornendo come input una matrice in cui gli individui erano suddivisi nelle tre popolazioni d’origine (Palermo, Ragusa e Catania), il numero di loci polimorfici al livello del 5% è risultato pari a 114 (86.4%) per Catania, 118 (89.4%) per Ragusa e 119 (90.2%) per Palermo con un’eterozigosità attesa sotto l’equilibrio di Hardy Weinberg che va da un minimo di 0.23485 per Catania a un massimo di 0.25512 per Palermo (Tab. 4).

Tabella 4: Statistica descrittiva per marcatori di AFLP Popolazione N. N. loci N. loci_P PLP Hj S.E.(Hj)

Palermo 10 132 119 90.2 0.25512 0.01301 Ragusa 11 132 118 89.4 0.25199 0.01354 Catania 26 132 114 86.4 0.23485 0.01471

La differenziazione tra le popolazioni ottenuta con l’indice di Wright (Fst) è risultata significativa : Fst = 0.0331, P < 0.01 (Tab. 5).

Tabella 5: Struttura genetica della popolazione ottenuta con AFLP-SURV N. Ht Hw Hb Fst Limite

Superiore 95%

Limite superiore

99% 3 0.2558 0.2473 0.0085 0.0331 0.0023 0.0133

S.E. 0.006298 0.000000 0.075906 N. = Numero di popolazioni Ht = diversità genetica totale Hw = media della diversità genetica attesa entro popolazioni Hb = differenziazione genetica media tra le popolazioni Fst = indice di fissazione di Wright S.E. = Errore Standard Limiti superiori al 95 e 99% della distribuzione nulla dei valori di Fst ottenuti con 1000 permutazioni

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- Analisi con il programma GenAlEx Il valore Φst (corrispondente a Fst) ottenuto dal test Amova con il programma

GenAlEx, considerando le tre popolazioni originali, è risultato pari a 0.096 con P < 0.001. Nonostante diversi, i valori di Fst e Φst, calcolati con i due programmi AFLP-SURV e GenAlEx con metodi differenti, sono risultati entrambi significativi.

Figura 7: Distribuzione percentuale della varianza molecolare

Un 10% della varianza molecolare tra le popolazioni è rappresentativo della presenza di una certa struttura nella popolazione (Fig. 7). Nella tabella (6) sono riportati sotto la diagonale i valori di Φst che variano da 0.063 (tra Palermo e Ragusa) a 0.106 (tra Ragusa e Catania). La probabilità basata su 1000 permutazioni (sopra la diagonale) indica che tutti i valori sono significativi essendo la significatività assegnata per valori di probabilità inferiori a 0.05.

Tabella 6: Φst tra popolazioni a coppie Palermo Ragusa Catania 0.000 0.022 0.001 Palermo 0.063 0.000 0.001 Ragusa 0.098 0.106 0.000 Catania

Dall’Analisi delle Coordinate Principali (PCA) (Fig. 8) si notano solamente due gruppi separati che corrispondono esattamente a quelli ottenuti con le analisi precedenti di Structure (Fig. 5) e del Neighbour Joining (Fig. 6).

Tra popolazioni 10%

All’interno delle popolazioni90%

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Figura 8: Analisi delle Coordinate Principali (PCA) con GenAlEx

Coordinate Principali

P-69M

P-70F

P-71M

P-72M

P-74F

P-76M

P-77MP-78MP-79M

P-80MR-81F

R-82FR-83F

R-84F

R-85F

R-86M

R-87F

R-89M

R-90M

R-91M

R-92F

C-46F

C-47F

C-48FC-61M

C-62M

C-63M

C-136MC-137M

C-138F

C-139F

C-140FC-187M

C-188M

C-189M

C-190M

C-202F

C-203FC-204F

C-205F

C-320M

C-321M

C-322M

C-323M

C-342F

C-343F

C-345F

Coord. 1

Coo

rd. 2 Palermo

Ragusa

Catania

4.2.4. Analisi dei campioni divisi in base alla struttura evidenziata in analisi preliminari

Come ulteriore conferma sono state eseguite nuovamente le analisi con AFLP-SURV e GenAlEx dividendo l’intero gruppo nelle due popolazioni individuate, costituite da 37 (A) e 10 (B) esemplari rispettivamente. Sono risultati 115 loci polimorfici (87.1%), al livello del 5% per il gruppo più numeroso (A) e 108 (81.8%) per quello minore (B), con un’eterozigosità attesa sotto l’equilibrio di Hardy Weinberg pari a 0.23237 e 0.20443 rispettivamente (Tab. 7).

Tabella 7: Statistica descrittiva per marcatori di AFLP Popolazione N. N. loci N. loci_P PLP Hj S.E.(Hj)

A 37 132 115 87.1 0.23237 0.01464 B 10 132 108 81.8 0.20443 0.01420

Il valore di Fst (0.1319) (Tab. 8) è molto maggiore rispetto a quello calcolato considerando gli individui divisi in base alla città dov’erano stati raccolti, nonostante fosse comunque significativo; così come è aumentato anche il valore di Φst (0.207 con un P value pari a 0.001), rappresentato nel grafico (Fig. 9) da una percentuale del 21% di varianza molecolare tra le popolazioni.

Tabella 8: Struttura genetica della popolazione ottenuta con AFLP-SURV N. Ht Hw Hb Fst Limite

Superiore 95%

Limite Superiore

99% 2 0.2517 0.2184 0.0333 0.1319 0.0104 0.0254

S.E. 0.013968 0.000000 0.055321

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Figura 9: Distribuzione percentuale della varianza molecolare

Anche dopo la rimozione dei 10 individui appartenenti ad una delle due popolazioni individuate dalle varie analisi, il test AMOVA evidenzia ancora una struttura, seppur debole, all’interno del gruppo formato dagli altri 37 individui con una varianza molecolare percentuale tra le popolazioni del 6 % corrispondente ad un valore di Φst di 0.059 con un P value pari a 0.008. Nella tabella (9) sono riportati sotto la diagonale i valori di Φst che variano da 0.017 (tra Ragusa e Catania) a 0.096 (tra Palermo e Ragusa). La probabilità basata su 1000 permutazioni (sopra la diagonale) indica che il valore di Φst calcolato del confronto tra gli individui di Catania e quelli di Ragusa non è significativo, essendo il valore di probabilità superiore a 0.05. Questo risultato è da considerare con cautela essendo la popolazione di Ragusa, in questo caso, rappresentata soltanto da 4 esemplari.

Tabella 9: Φst tra popolazioni a coppie Palermo Ragusa Catania 0.000 0.026 0.001 Palermo 0.096 0.000 0.268 Ragusa 0.076 0.017 0.000 Catania

Tra popolazioni21%

All’interno delle popolazioni79%

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5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

Il Rhynchophorus ferrugineus è un fitoparassita che infesta le palme ornamentali in tutta l’area mediterranea causando la morte delle palme e gravi danni economici. Si è diffuso in Europa probabilmente a causa del commercio delle palme e nonostante sia inserito nella lista A2 dell’EPPO (European and Mediterranean Plant Protection Organization) per gli organismi da quarantena, questo è il primo lavoro che cerchi di analizzare il processo di invasione in Sicilia, con l’uso di metodi molecolari. Le analisi molecolari condotte con i marcatori microsatellite e di AFLP hanno messo in evidenza che la Sicilia è stata invasa almeno due volte da individui provenienti da popolazioni diverse. I miei risultati confermano l’utilità delle analisi genetiche per identificare e descrivere i processi di invasione e la loro importanza per la gestione e il monitoraggio delle specie invasive. 5.1. Analisi sui loci microsatellite

È noto che i SSRs tendono ad essere meno frequenti e più brevi negli invertebrati rispetto ai vertebrati (Chambers e MacAvoy, 2000), quindi probabilmente anche meno variabili. I 13 loci microsatellite isolati nel presente lavoro (con una media di 9 ripetizioni circa) sono abbastanza conformi a quelli isolati su altre specie appartenenti alla stessa famiglia dei Curculionidae (Patt et al., 2004; Davis et al., 2008; Dhuyvetter et al., 2002; Kim e Sappington, 2004) in cui però il numero di alleli per locus variava da 2 a 14. Benché preferibili in quanto codominanti, mancando di polimorfismo, i microsatelliti isolati in questo lavoro non hanno fornito dati da analizzare. In uno studio di Kaiser et al. (2010), invece, i marcatori microsatellite avevano mostrato un elevato tasso di mutazione che rendeva difficile separare gli effetti della loro evoluzione da quelli dei processi genetici delle popolazioni e gli autori avevano ottenuto una maggior efficienza dall’uso della tecnica dell’AFLP. La drastica riduzione di variabilità genetica che si osserva nello studio del polimorfismo dei loci microsatellite negli esemplari di rincoforo rivenuti in Sicilia potrebbe essere il risultato del sommarsi cumulativo di fenomeni di “effetto fondatore” successivi (Broders et al., 1999). Un basso polimorfismo e ridotta eterozigosità di marcatori microsatellite sono stati osservati in specie con un alto tasso di inbreeding, in popolazioni piccole o con frequenti o drastici fenomeni di “collo di bottiglia” (DeWoody e Avise, 2000). Nota la presenza di un solo aplotipo mitocondriale in tutto il bacino del Mediterraneo (J.-F. Silvain, comunicazione personale), si può ipotizzare che il processo di invasione del Rhynchophorus ferrugineus in Europa sia dovuto a pochi individui con lo stesso aplotipo, derivati da una o poche introduzioni, che poi hanno colonizzato i paesi limitrofi. I risultati ottenuti con l’uso di marcatori microsatellite possono essere spiegati assumendo una colonizzazione della Sicilia da parte di individui derivati da popolazioni già stabilizzate nei paesi bagnati dal Mediterraneo, che avessero già subito un “effetto fondatore”. Sarebbero necessarie ulteriori informazioni relative sia a queste ipotetiche popolazioni d’origine nelle regioni vicine, sia a quelle native nel continente asiatico, per confermare questa interpretazione. Non è possibile infatti stabilire se il basso livello di polimorfismo

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individuato nei campioni di Rhynchophorus ferrugineus in Sicilia conservi effettivamente la traccia di un processo di invasione particolare, come ipotizzato, oppure se sia dovuto ad una caratteristica intrinseca dei loci isolati o ad un basso grado di variabilità tipico della specie (dovuto a bassi tassi di slippage e/o di mutazione). 5.2. Analisi sui loci ottenuti con la tecnica dell’AFLP

Le analisi eseguite sull’intero campione di individui di Rhynchophorus ferrugineus, individuano due gruppi (denominati A e B) non corrispondenti all’originaria suddivisione in base alla città di raccolta e suggeriscono che ci siano stati almeno due eventi di introduzione diversi in Sicilia. È significativo che coincidano i risultati forniti dal programma Structure, particolarmente attendibile in quanto non considera l’originale provenienza dei campioni, l’albero costruito con il Neighbour Joining e l’Analisi delle Coordinate Principali (PCA) in GenAlEx. Gli elevati valori di Fst e Φst calcolati con due diversi approcci dai due programmi AFLP-SURV e GenAlEx, considerando gli individui divisi negli stessi due raggruppamenti individuati dalle analisi precedenti, confermano l’ipotesi di due introduzioni multiple. Invasioni multiple sono state riportate per varie specie invasive tra cui Heracleum mantegazzianum in Svizzera (Henry et al., 2009), in cui i valori di Fst calcolati a coppie tra le popolazioni invasive, più alti rispetto a quelli tra le popolazioni native, (anche se l’area considerata era dieci volte più piccola), sono stati interpretati come più eventi di invasione, nonostante l’evidenza di un “effetto fondatore” per il calo della variabilità genetica. Spesso sono state ipotizzate introduzioni multiple in casi in cui ci fosse nelle popolazioni invasive una variabilità allelica elevata o simile a quella delle popolazioni native (Kolbe et al., 2007; Colautti et al., 2005). In tutti i lavori citati però si fa sempre riferimento anche alla variabilità genetica riscontrata nelle popolazioni native e alla sua distribuzione all’interno e/o tra le popolazioni. Da uno studio sulla diffusione di Leptinotarsa decemlineata in America e in Europa è emerso che l’invasione in Europa è avvenuta una sola volta (Grapputo et al., 2005). Lo hanno dimostrato sia la presenza di un solo aplotipo di DNA mitocondriale in Europa (come riscontrato nel R. ferrugineus), rispetto ai 20 trovati in America, sia l’analisi con i marcatori di AFLP in cui, nell’albero costruito con il metodo del Neighbour Joining, tutte le popolazioni europee sono state raggruppate insieme e nettamente separate da quelle americane (Grapputo et al., 2005). Da questa conclusione è evidente quanto sia importante avere informazioni relative sia alle popolazioni introdotte che a quelle native per poter meglio interpretare i risultati, anche se, mentre l’invasione di Leptinotarsa decemlineata in Europa risale agli anni 1920 circa, per quanto riguarda il Rhynchophorus ferrugineus in Sicilia il fenomeno è molto più recente. Dal primo ritrovamento nel 2005 sono passati soltanto tre anni, essendo stati esaminati esemplari raccolti nel 2008, quindi non c’è stato il tempo necessario affinché potesse crearsi una struttura così netta tra le popolazioni, ipotizzando un solo evento di invasione. Il gruppo meno numeroso (gruppo B) individuato dalle analisi è costituito da individui di Palermo e Ragusa, città più lontane tra loro di quanto non siano Ragusa e Catania; indicando che la distribuzione delle frequenze geniche non è in funzione con la distanza geografica.

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Nel caso preso in esame, il fenomeno di dispersione della specie non è associato soltanto ad un processo naturale legato alle capacità di volo del curculionide, ma è favorito soprattutto dal commercio delle palme infestate, che quindi è il maggior responsabile dell’attuale distribuzione delle frequenze geniche tra le tre città. Nonostante questo, il breve intervallo di tempo trascorso dal primo ritrovamento e l’individuazione di due gruppi diversi all’interno di Palermo e Ragusa, suggeriscono che le popolazioni siciliane di Rhynchophorus ferrugineus siano derivate da almeno due eventi invasivi diversi. Il fatto che tutti i 26 esemplari di Catania, invece, appartengano al gruppo A, lascia spazio ad altre ipotesi circa la diffusione del punteruolo rosso delle palme in Sicilia. L’intera popolazione di Catania potrebbe manifestare un ulteriore “effetto fondatore” dovuto a pochi individui simili derivati da una delle altre due città. In alternativa questa distribuzione delle frequenze potrebbe essere spiegata ipotizzando che il secondo evento invasivo abbia interessato solo Palermo e Ragusa. La seconda ipotesi sembra essere più plausibile essendo noto che la prima segnalazione del fitoparassita in Sicilia risale al 2005 ad Acireale, nella costa orientale dell’isola (Lo Verde e Massa, 2007; Raciti et al., 2008), mentre a Palermo la prima palma attaccata dal curculionide è stata osservata e abbattuta nel febbraio 2006 (Lo Verde e Massa, 2007). Tuttavia, le segnalazioni del ritrovamento del fitoparassita nelle diverse località sono separate da pochi mesi e probabilmente forniscono un dato impreciso circa la reale diffusione temporale del rincoforo; essendo noto che la sopravvivenza delle palme, così come la manifestazione dei primi sintomi, sono influenzate dal grado di infestazione e dallo stato di salute della pianta.

Più eventi invasivi possono contribuire ad una diluizione dell’“effetto fondatore”, riducendo il rischio di depressione da inbreeding e, nel caso in cui si abbia mescolanza di individui da popolazioni native diverse, potrebbero addirittura formarsi per ricombinazione nuovi genotipi su cui possono agire le pressioni selettive dell’ambiente colonizzato (Hänfling, 2007). Quindi l’elevato potenziale invasivo dimostrato dal Rhynchophorus ferrugineus, nota la sua rapida espansione, può essere legato anche al processo di introduzione in sè, oltre che alle caratteristiche biologiche della specie, tra le quali, per esempio, l’elevato tasso riproduttivo. 5.3. Conclusioni

La distribuzione della variabilità genetica tra e intra popolazione di Rhynchophorus ferrugineus attualmente presente in Sicilia conserva le traccie di due eventi di introduzione da località diverse, e probabilmente successive su scala temporale. Nonostante il breve intervallo di tempo trascorso dalla prima introduzione, dalle analisi eseguite sui 37 campioni rimasti dopo aver rimosso i 10 appartenenti al gruppo B, è emersa una leggera differenziazione tra le tre popolazioni, anche se il dato è da considerare con cautela essendo Palermo, e in particolare Ragusa, rappresentate da un numero limitato di esemplari. Quindi sembra essere attualmente in atto un processo di differenziazione del punteruolo nelle tre città campionate. La mancanza di polimorfismo nei loci microsatellite isolati e la presenza di un solo aplotipo mitocondriale in tutto il bacino del Mediterraneo, suggeriscono che gli individui di Rhynchophorus ferrugineus che hanno invaso l’isola siano originari da

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popolazioni sorgenti europee che avessero già subito un “effetto fondatore”, piuttosto che dalle regioni native nel Sud-Est asiatico.

Per quanto riguarda l’origine geografica degli individui invasori, sarebbero necessarie ulteriori ricerche per confermare questa interpretazione, prendendo in esame un maggior numero di individui per popolazione, (riducendo così il rischio di un campionamento non rappresentativo), un maggior numero di loci e considerando anche altre popolazioni europee e asiatiche.

I processi di invasione, che spesso vedono l’uomo responsabile attraverso i suoi commerci, offrono l’occasione per studiare aspetti che regolano anche i fenomeni naturali di diffusione delle specie attraverso la colonizzazione di nuovi habitat. Comprendere quali siano le caratteristiche, biologiche e genetiche, coinvolte nel determinare l’origine di una nuova popolazione stabile è importante anche nella gestione della biodiversità laddove si mettessero in atto, per esempio, progetti di reintroduzione di specie in via di estinzione.

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