TEATRO TRECCANI - Unife

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1 TEATRO TRECCANI Edificio o complesso architettonico costruito e attrezzato per rappresentazioni sceniche. Spettacolo, sia come singola rappresentazione teatrale, sia come genere. TEATRO COME EDIFICIO 1. IL T. COME EDIFICIO: LANTICHITÀ In Grecia, nell’età omerico-micenea, riti dionisiaci e cori ditirambici si svolgono in appositi recinti che l’archeologia indica con l’espressione area teatrale: ed è qui che, nei secoli successivi, si enucleò l’edificio teatrale greco (fig. A). Di t., nel senso specifico di luogo destinato a rappresentazioni, si può parlare soltanto a par- tire dal 6° sec. a.C., dopo che Pisistrato, riorganizzate le feste dionisiache, affidò a Tespi l’incarico di ordinarne lo svolgimento e di sistemare un recinto adeguato in corrispondenza dell’antica orchestra dionisiaca, adiacente al tempio di Dioniso Eleuterio. Luoghi fondamentali erano: l’orchestra, di pianta trapezoida- le, richiesta dal tipo di rappresentazione ad azione centrale (cori danzati cui faceva da controparte un solo attore), e il kòilon, cioè un’assise, anch’essa trapezoidale, a gradoni di capacità limitata, in genere costruita in legno (come ad Atene) e par- zialmente addossata a un pendio naturale, oppure interamente scavata nella roccia (come a Siracusa). Fra il tempio e il recinto teatrale fu successivamente inserita la skenè, edificio stretto e lungo, a un piano, scenoteca più che palcoscenico, dove venivano conservati attrezzi, costumi, maschere. Su questi tre nuclei, sorti con au- tonome e precise destinazioni, si fonda l’edificio teatrale greco, perfezionato nei secoli successivi fino a raggiungere l’assetto unitario e monumentale degli esem- plari alessandrini, soli rimasti: Atene, Delfi, Epidauro, Eretria in Gre- cia, Efeso e Priene in Asia Minore, Taormina e Siracusa nella Magna Grecia. Da- vanti alla skenè venne sistemato il proskènion, pedana lignea destinata agli attori, due con Eschilo e tre con Sofocle, che vi accedevano dalle tre porte aperte sulla facciata della skenè, mascherata da elementi scenografici e architettonici. Tra 5° e 4° sec. a.C., ai fianchi della skenè vennero situati due avancorpi avanzanti verso l’orchestra (paraskènia), insieme a quinte ed elementi per celare macchine per ap- parizioni ed apoteosi. In età alessandrina l’edificio era in muratura, l’orchestra di- venne circolare (per poi assumere una pianta a forma di ferro di cavallo, dalle proporzioni monumentali), nel palcoscenico si concentrò la maggior parte dell’azione e la skenè si articolò maggiormente. L’edificio teatrale romano (fig. B) venne in uso negli ultimi anni della re- pubblica. Il primo costruito in pietra a Roma fu quello di Pompeo (55 a.C.).

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TEATRO TRECCANI

Edificio o complesso architettonico costruito e attrezzato per rappresentazioni

sceniche.

Spettacolo, sia come singola rappresentazione teatrale, sia come genere.

TEATRO COME EDIFICIO

1. IL T. COME EDIFICIO: L’ANTICHITÀ

In Grecia, nell’età omerico-micenea, riti dionisiaci e cori ditirambici si svolgono

in appositi recinti che l’archeologia indica con l’espressione area teatrale: ed è qui

che, nei secoli successivi, si enucleò l’edificio teatrale greco (fig. A). Di t., nel

senso specifico di luogo destinato a rappresentazioni, si può parlare soltanto a par-

tire dal 6° sec. a.C., dopo che Pisistrato, riorganizzate le feste dionisiache, affidò a

Tespi l’incarico di ordinarne lo svolgimento e di sistemare un recinto adeguato in

corrispondenza dell’antica orchestra dionisiaca, adiacente al tempio

di Dioniso Eleuterio. Luoghi fondamentali erano: l’orchestra, di pianta trapezoida-

le, richiesta dal tipo di rappresentazione ad azione centrale (cori danzati cui faceva

da controparte un solo attore), e il kòilon, cioè un’assise, anch’essa trapezoidale, a

gradoni di capacità limitata, in genere costruita in legno (come ad Atene) e par-

zialmente addossata a un pendio naturale, oppure interamente scavata nella roccia

(come a Siracusa). Fra il tempio e il recinto teatrale fu successivamente inserita

la skenè, edificio stretto e lungo, a un piano, scenoteca più che palcoscenico, dove

venivano conservati attrezzi, costumi, maschere. Su questi tre nuclei, sorti con au-

tonome e precise destinazioni, si fonda l’edificio teatrale greco, perfezionato nei

secoli successivi fino a raggiungere l’assetto unitario e monumentale degli esem-

plari alessandrini, soli rimasti: Atene, Delfi, Epidauro, Eretria in Gre-

cia, Efeso e Priene in Asia Minore, Taormina e Siracusa nella Magna Grecia. Da-

vanti alla skenè venne sistemato il proskènion, pedana lignea destinata agli attori,

due con Eschilo e tre con Sofocle, che vi accedevano dalle tre porte aperte sulla

facciata della skenè, mascherata da elementi scenografici e architettonici. Tra 5° e

4° sec. a.C., ai fianchi della skenè vennero situati due avancorpi avanzanti verso

l’orchestra (paraskènia), insieme a quinte ed elementi per celare macchine per ap-

parizioni ed apoteosi. In età alessandrina l’edificio era in muratura, l’orchestra di-

venne circolare (per poi assumere una pianta a forma di ferro di cavallo, dalle

proporzioni monumentali), nel palcoscenico si concentrò la maggior parte

dell’azione e la skenè si articolò maggiormente.

L’edificio teatrale romano (fig. B) venne in uso negli ultimi anni della re-

pubblica. Il primo costruito in pietra a Roma fu quello di Pompeo (55 a.C.).

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L’intero edificio continuò a organizzarsi attorno all’orchestra (platea), ridotta a

semicerchio. La cavea era appoggiata a robuste costruzioni, internamente articola-

te in gallerie, ed era divisa in settori orizzontali (ima, media, summa cavea), cui si

accedeva mediante aperture (vomitoria). In corrispondenza dell’ima ca-

vea poggiavano le tribune delle autorità e della giuria (tribunalia). Sul fondo del

palcoscenico, in luogo della skenè, si alzava la frons scenae, dietro la quale si co-

struì il post-scaenium destinato ad attori e macchinisti. I t. romani furono utilizzati

fino al 4° sec. d.C. Poi il declino di interesse per gli spettacoli pubblici per ragioni

soprattutto religiose, cui contribuì la mancanza di manutenzione, comportò che al

pari degli anfiteatri e dei circhi, anche i t. fossero abbandonati e ridotti a cave di

materiale da costruzione, con devastazioni e crolli delle possenti ossature murarie.

Soltanto nel Quattrocento furono riproposti, attraverso il De architectu-

ra di Vitruvio, come modello per gli architetti rinascimentali.

2. IL T. COME EDIFICIO: IL MEDIOEVO

Le rappresentazioni didattico-edificanti rilanciate sulle basi della dottrina cristiana

(dal 9° sec.) non sentirono la necessità di specifici luoghi spettacolari (uso di spazi

canonici quali il coro o la schola cantorum, la navata centrale delle chiese

ecc.).Ma con l’andare del tempo, caduto il monopolio clericale, la rappresentazio-

ne sacra venne a realizzare un momento collettivo diverso, quello della festa pub-

blica e religiosa, divenendo un fenomeno cittadino, promosso dalle confraternite

laico-religiose o dalle corporazioni delle arti e dei mestieri, da effettuarsi nelle

piazze e nei luoghi mercatali con l’appoggio dalle amministrazioni cittadine. Sor-

sero t. provvisori, anche adeguabili alla diversa topografia delle città, che si avval-

sero di elementi scenografici detti luoghi deputati, costituiti da scene riconoscibili

quali Paradiso, Bocca dell’Inferno, Calvario, mare, Case (Mansions, Häuser), sor-

ta di edicole stilizzate che potevano cambiare rapidamente connotazione mediante

mutamenti minimi di arredi. Due tipi fondamentali ricorrono con una certa regola-

rità: ‘alla francese’, con i luoghi deputati posti l’uno accanto all’altro su un’unica

fronte e sopra un unico palcoscenico che poteva occupare tutto il lato di una piaz-

za, e ‘alla tedesca’, in cui ogni luogo deputato disponeva di un palco o pedana in-

dipendente. In Cornovaglia è segnalato un terzo tipo di t. all’aperto, il plen an

gwary(«pianura del teatro»), consistente in un vasto spazio circolare (plen), cir-

condato da un terrapieno anch’esso circolare (hill) scavato a gradoni destinati al

pubblico. L’azione sacra si svolgeva nel plen.

3. IL T. COME EDIFICIO: L’ETÀ MODERNA

3.1 I primi t. da sala

Tra il 15° e il 16° sec. il t. rinascimentale si sviluppò in maniera estemporanea e

varia. L’aspetto teatrale dipese dagli ambienti in cui si organizzavano gli spettaco-

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li. Nel t. di piazza furono i comici dell’arte a prodursi prima sui ‘banchi’, poi, al

coperto, nelle stanze. Il t. da torneo ebbe ampia area con un campo centrale (con o

senza barriera, di tipo rettangolare, elissoidale o poligonale) attorno al quale erano

innalzate tribune digradanti a uso di cavea. Il t. da sala, con il quale cominciano a

diffondersi le prime sale stabili, si impone a partire dal 1530 circa. La prima e più

frequente soluzione, sia a corte sia nei luoghi di festa, fu la sala con scena rialzata

e assise su gradoni rettilinei, frontali alla scena. Il modello proposto da S. Ser-

lio nel Secondo libro dell’architettura (edito nel 1545 ma concepito prima del

1539), consisteva in una cavea semicircolare di ispirazione classica; il palcosceni-

co era diviso in due parti: in primo piano si trovava il proscenio largo 22 m e pro-

fondo 4, in secondo piano il declivio (profondo 5 m) sul quale si elevava la scena.

Alla metà del 16° sec. apparve tra sala e proscenio il prospetto scenico,

sorta di tramezza lignea dipinta con finte architetture, al centro della quale si apri-

va una grande boccadopera incorniciata dall’arco scenico e dai suoi portanti. Di-

verse erano le esigenze cui rispondeva la sua presenza: segnare una demarcazione

tra sala e scena, essere il supporto di tutta una serie di lumi o fiaccole che davano

luce alla scena, e chiudere infine entro una cornice scenica la prospettiva, convo-

gliando su di essa l’attenzione e lo sguardo degli spettatori. In questo tipo di solu-

zione rientrano i t. di ispirazione classica, costante obiettivo di accademici e archi-

tetti rinascimentali: ne resta esempio notevole l’Olimpico di Palladio

a Vicenza (1580-85). Un altro tipo di t. quattro-cinquecentesco, in uso sia a corte

sia in piazza (feste carnevalesche a Venezia ecc.) era richiesto da spettacoli ad

azione centrale. Le assise facevano perno sul palco assegnato alle autorità, e la di-

sposizione delle gradinate variava nel numero e nella composizione.

3.2 Il t. elisabettiano

Nel Cinquecento il t. si stabilizzò in una pianta con gradinate su tre lati, e un pal-

coscenico di tipo serliano sul quarto. In Inghilterra e in Spagna i t. all’aperto erano

derivati da architetture preesistenti che sfruttavano la pianta tipica dei cortili inter-

ni e la presenza delle balconate. Gli interluders inglesi organizzavano le loro rap-

presentazioni nei cortili delle locande (inn) che avevano pareti percorse in ogni

singolo piano da ballatoi di legno, oppure in arene per combattimenti di animali

(bear bainting). Il t. elisabettiano ebbe pianta anulare, o poligonale con pareti

esterne lisce, aperte solo da qualche finestra e dall’ingresso, e quelle interne arti-

colate in un sistema di gallerie sovrapposte e intercomunicanti mediante scale in-

terne. In corrispondenza della scena erano palchi riservati (gentlemen’s o lord’s

rooms). Il pubblico comune prendeva posto in un cortile centrale (iard), scoperto

(17 m ca. di diametro). Un settore verticale (tiring house) comunicante con il pal-

coscenico (stage) era riservato ad attori, orchestre e servizi. Lo stage si sviluppava

in due o tre piani di altezza. Elemento principale della struttura dello stage era il

palco, largo circa 13 m, profondo 8 m, alto 2 m. La metà circa era coperta da un

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baldacchino (canopy) appoggiato, sul davanti, a due colonne, e sul fondo, alla pa-

rete (rear wall). La sede principale dell’azione, nella parte anteriore del palco,

prendeva il nome di outer stage, e quella coperta dal canopy era l’inner stage. Il

terzo piano era usato solo occasionalmente, per qualche scena d’interno (cham-

ber); altrimenti era chiuso da cortine. Al di sopra del canopy era una specie di tor-

retta nella quale si tenevano dispositivi scenotecnici, macchine e strumenti per ef-

fetti acustici, pirici ecc. In alternativa a questo tipo di edifici erano sale chiuse o ‘t.

privati’, costretti all’inattività dopo l’instaurazione del governo puritano, e dopo la

restaurazione (1660) sostituiti con strutture diverse che riprendevano i modi del

teatro barocco ‘all’italiana’.

I corrales o patios de comedias iberici erano all’aperto, situati in cortili cir-

condati da quattro corpi di fabbricati civili, spesso abitazioni, con pianta regolare

e quadrilatera.

3.3 Il t. all’italiana

Alla fine del 18° sec. si imposero i t. all’italiana. L’evoluzione del t. da sala italia-

no avvenne nei primi anni del Seicento allorché si affermò il dramma per musica.

Inizialmente fu il palcoscenico a risentire maggiormente delle novità del nuovo

genere (mutazione a vista delle scene, vistosi effetti di apparizioni e sparizioni,

voli e apoteosi). Le strutture semplici e razionali del palco cinquecentesco si tri-

plicarono in tutte le dimensioni a tutti i livelli (sottopalco, piano scenico, soffitta,

per fare spazio alle macchine per le apparizioni e ai dispositivi per il cambiamento

delle scene). Non mutò invece l’impianto di fondo della sala, salvo nel caso di

pianta ‘ad azione centrale’.

Verso la metà del Seicento, quando lo spettacolo musicale passò dal priva-

to al pubblico, con un numero di spettatori assai più numeroso e di diversa estra-

zione sociale, si dovettero creare nuove strutture che sostituissero quelle, ormai

altrettanto inadeguate, del t. da sala e delle vecchie ‘stanze’ pubbliche della com-

media dell’arte. I nuovi t. per musica si rifecero a quelli cortigiani e accademici,

dal t. di sala ripresero le strutture architettoniche e scenotecniche del palcoscenico

e la pianta allungata, dal t. per torneo mutuarono l’idea delle assise sistemate con

più ordini sovrapposti di gallerie così come se ne erano già avute nelle gallerie del

t. elisabettiano. La diversificazione e caratterizzazione della sala all’italiana è la

disposizione dei palchetti ad alveare, con ordini che andavano da 3 a 5, e palchi da

20 a 30 per ogni ordine, con in più un loggione senza divisioni nell’ordine supe-

riore. In tal modo sala e palcoscenico erano corpi indipendenti, con accessi, servi-

zi e strutturazione degli spazi autonomi, il prospetto scenico con il sipario e la fos-

sa orchestrale ai piedi del proscenio. La divisione delle gallerie in palchi, con ac-

cessi indipendenti, permetteva di ospitare un pubblico indiscriminato, senza pre-

cludere la tradizionale separazione di spettatori di diversa classe sociale. I vari in-

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gressi, l’organizzazione delle scale e dei corridoi di accesso ai palchi agevolavano

l’afflusso degli spettatori.

Per oltre tre secoli, la sala all’italiana fornì all’architettura teatrale

in Europa le strutture di base che rimasero pressoché inalterate nella loro funzio-

nalità specifica, pur mutando nel tempo tipologie e stili architettonici, adeguando-

si inoltre ai nuovi problemi di acustica e di visibilità. Alla fine del Seicento la pla-

tea, condizionata dal giro dei palchi, era passata dalla primitiva pianta a U (un se-

micerchio raccordato in fondo sala da due pareti rette proseguenti, parallele o di-

vergenti verso il palcoscenico) a quella mistilinea, in cui il semicerchio di fondo

non si innestava direttamente nelle pareti laterali, ma mediante due raccordi mino-

ri frontali alla scena. Nel Settecento la pianta mistilinea si trasformò in quella a

campana adottata dai Bibiena e si modificò in quella a ferro di cavallo, che corri-

sponde geometricamente a un ‘ovato’ troncato. Agli stessi principi fondati su pro-

blemi di acustica risponde la pianta ellittica. Queste piante diedero origine a sale

più lunghe che larghe; l’assetto ricorrente restò quello ad alveare.

Avversi alla sistemazione a palchetti furono gli architetti francesi, che li-

mitarono il numero dei palchi (loges) a favore delle gallerie e adottarono la strut-

tura dell’amphithéâtre, comoda gradinata non a livello della platea ma su un piano

rialzato. A differenza dei palchi riservati alle classi più elevate, settori popolari

rimasero il loggione e la platea, con posti in piedi e file di panche.

3.4 Il t. nell’Ottocento

A partire dalla metà del 18° sec. l’efficienza complessiva degli edifici teatrali mi-

gliorò. Il palcoscenico conservò una posizione centrale e la distribuzione degli

spazi restò divisa in sottopalco, scena, soffitta, con foyers non necessariamente a

livello del palcoscenico, e laboratori e depositi. Un cambiamento notevole si ebbe

nel 1876 quando R. Wagner realizzò nel Festspielhaus di Bayreuth, insieme

all’architetto O. Brückwald, un t. concepito quasi come sede di un rito: aboliti i

palchi, e quindi il concetto di un uditorio privilegiato, la platea, di forma trapezoi-

dale, restò l’unico spazio destinato al pubblico. La fossa orchestrale sparisce sotto

il proscenio e occulta l’orchestra, celando al pubblico la fonte della musica e otte-

nendo la separazione tra «realtà e idealità», base della mistica wagneriana.

4. IL T. COME EDIFICIO: L’ETÀ CONTEMPORANEA

Con il tempo e con l’introduzione in architettura del cemento armato, che permet-

te strutture autoportanti di grande gettata, l’assetto a più ordini di palchetti fu so-

stituito da una o più balconate. Alle tipologie e agli assetti più tradizionali, seppu-

re variati e rinnovati dalle conquiste tecnologiche e dalle eterogenee esigenze (tea-

trali, musicali, cabarettistiche ecc.), l’avanguardia novecentesca propose nuove

soluzioni, elaborando organismi architettonici dimensionati e misurati sulle mute-

voli concezioni delle rappresentazioni e delle concezioni teatrali: progetti arditi

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sono stati formulati nell’Europa centrale da F. Kiesler, con un t. ovoidale senza

soffitto e senza pareti; dal Bauhaus, col t. sferico di A. Weininger, gli spazi poli-

valenti di O. Schlemmer (1922-23), e il Total Theater di W. Gropius (1927, non

realizzato) ecc. Ulteriori conformazioni tipologiche, suggerite o condizionate dalle

varibili funzionali derivate dalle più diverse esigenze, hanno continuato a scandire

i tempi e le fasi di trasformazione dell’aspetto del t., fornendo occasioni agli ad-

detti ai lavori, in collaborazione diretta o indiretta con architetti e ingegneri, di

produrre edifici che nel corso del 20° e 21° sec. sono riusciti a imporsi come vere

e proprie cattedrali dello spettacolo.

5. IL T. COME EDIFICIO: MEDIO ED ESTREMO ORIENTE

Nelle civiltà orientali e mediorientali, anche in tempi recenti, si è continuato a te-

nere gli spettacoli, come in antico, nei cortili dei templi e dei palazzi di governo, o

in aree aperte, delimitate e contrassegnate da scarni elementi simbolico-

scenografici. Non mancano esempi di rappresentazione al chiuso, in ampi spazi

quadrangolari divisi in parti destinate all’azione e al pubblico. In India lo spazio

riservato al pubblico era ulteriormente suddiviso da quattro grandi colonne dipinte

rispettivamente in bianco, rosso, giallo, azzurro, simboli delle caste, mentre altre

colonne delimitavano i posti dei ‘senza casta’. Nei paesi contigui la scena poteva

trovare posto nei palazzi reali, in luoghi sacri con altare, in aree aperte, riparate da

tettoie di stuoia rette da bambù.

In Cina e Giappone si ebbero edifici teatrali in legno, dalle sale rettangola-

ri, con un lato occupato dal palcoscenico e gli altri due percorsi da balconate so-

praelevate. In Cina, l’Imperatore prendeva posto di fronte alla scena e i cortigiani

di fianco. Nei t. moderni invece, il nuovo assetto è piuttosto simile ai cinemato-

grafi occidentali. In Giappone esistevano t., o meglio, palcoscenici, differenti a

seconda dei generi rappresentati. Il bugaku (danza accompagnata da musica) ave-

va uno spazio scenico sia al chiuso, sia all’aperto, sia sull’acqua. Quello del nō, di

estrazione cortigiana, risalente come il bugaku al 14° sec. e ancora oggi in uso, è

un palcoscenico costituito da una piattaforma di legno quadrata (5,50 per 5,50 m

ca.) sopraelevata di un metro sul livello degli spettatori, che assistono seduti attor-

no, sui tre lati. Il lato destro della piattaforma è rialzato, protetto da una balconata,

e occupato dal coro. L’orchestra è tradizionalmente sistemata in un retroscena a

vista, dal quale si parte anche un ponte che conduce alla ‘stanza dello specchio’, o

camerino unico degli attori. L’unico elemento scenografico è costituito da un fon-

dale dipinto con pini. Altro tipo di t. è quello del kabuki, spettacolo pubblico sorto

in Giappone nel 17° secolo. Dapprima si rappresentava all’aperto come il nō ma

sul finire del Settecento si stabilizzò: aveva una platea quadrangolare protetta da

tettoie e percorsa su tre lati da due ordini di gallerie, schermate da stuoie di bam-

bù, riservate in origine ai Samurai che non potevano mostrarsi in pubblico. Il

quarto lato era destinato al palcoscenico, versione semplificata di quello del nō,

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ma molto più largo e munito di due sipari, uno iniziale che si alzava, e uno inter-

no, per gli intervalli, che scorreva lateralmente. Dall’angolo sinistro del palcosce-

nico partiva una passerella larga circa 1,50 m, la «strada fiorita» (hanamichi), che

attraversava tutta la sala per lungo, passando sopra gli spettatori seduti in platea.

Nell’epoca attuale le forme del nō e del kabuki sono ancora vitali, ma

l’architettura teatrale tende a occidentalizzarsi.

Un fenomeno a parte è il t. delle ombre sorto in Cina ma anche, secondo

alcuni, in India o nel Tibet, e diffuso in Oriente e Medio Oriente, Africa setten-

trionale, Europa. Il t. delle ombre necessita di uno schermo, di una fonte di luce, e

di silhouettes articolate, manovrate da animatori (o mostratori) invisibili.

IL TEATRO COME SPETTACOLO

6. IL T. COME SPETTACOLO: L’ANTICHITÀ

6.1 Il t. greco

Tipica forma di celebrazione religiosa, il t. greco ha originaria connessione con il

culto di Dioniso, che non viene meno neanche nel 4° sec., allorché le rappresenta-

zioni teatrali, nate e sviluppatesi ad Atene, erano già diventate uso panellenico e si

erano legate al culto di altre divinità. Ad Atene, commedie e tragedie erano rap-

presentate nel corso delle quattro grandi feste dionisiache (v. Dioniso). Qui si in-

tonavano ditirambi in onore di Dioniso, che presero il nome di tragedie (ossia

«canti del capro») quando a essi si accompagnarono sacrifici di capretti. Da un

canto epico-lirico, di invocazione e narrazione di fatti, nasceva il dramma, ag-

giungendo ai versi pronunciati dal coro le risposte del nume. È dunque la proie-

zione dei personaggi invocati dal coro a determinare la nascita della tragedia.

Altri riti, sempre in occasione delle feste dionisiache, erano ‘falloforici’:

durante le processioni venivano esibiti simboli della procreazione. Ai canti si uni-

vano beffe per gli spettatori: si può vedere qui l’origine della commedia i cui pri-

mi poeti (commedia attica) fiorirono fra il 6° e il 5° secolo. Esponente della com-

media attica antica è l’ateniese Aristofane che, passando in rassegna e commen-

tando avvenimenti contemporanei, scrisse satire politiche, letterarie e morali (tipi-

che Lisistrata, Le rane, Le nuvole). Vi è poi una commedia attica di mezzo,

all’epoca della decadenza di Atene e di tutta la Grecia, dove scompaiono la satira

personale caratteristica delle commedie aristofanee e il coro, e si porta sulla scena,

con intenti realistici, la vita privata dei cittadini; infine la commedia attica nuova

(Menandro), che è una rappresentazione ridicola dei costumi e dei vizi della media

umanità.

Il senso originariamente religioso della rappresentazione va interpretato in

base al suo etimo, intendendo religio come «legame». L’assemblea del culto di-

ventò l’insieme degli spettatori che a questo culto assistevano; ma dalla pratica del

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culto e dalla prima tragedia (che la leggenda attribuisce a Tespi, 534 a.C., attore-

autore-nomade) si sarebbe arrivati, nel dramma satirico, nella commedia, nel mi-

mo (considerato genere inferiore), ad altri concetti che non sono necessariamente

connessi con la religione. La primitiva caratteristica di religiosità assunta dalla

rappresentazione si rivelava esteriormente nelle corone, simbolo d’autorità sacra-

le, portate dal corego e dai coreuti, e nello svolgimento della rappresentazione,

preceduta da una cerimonia nel corso della quale il sacerdote di Dioniso e i magi-

strati prendevano posto nei seggi loro destinati, e gli attori e i coreuti sfilavano

davanti al pubblico. Benché diminuito progressivamente nelle forme esterne e

pressoché scomparso nello spirito dei poeti e del pubblico, il carattere religioso

della rappresentazione teatrale sopravvisse a lungo nel mondo greco. Le rappre-

sentazioni avevano carattere di concorsi, nell’Atene classica, e si concludevano

con l’assegnazione di un premio al poeta apparso di maggior valore, e di altri

premi al corego e al migliore attore protagonista. L’uso decadde nel 4° sec. allor-

ché, trascorsa l’era dei grandi poeti drammatici, si fece ricorso alla ripresa di

drammi antichi già famosi. I premi erano offerti dai cittadini più ricchi e influenti.

Il concorso degli spettatori era imponente e arrivava a 15.000 (la cifra di

30.000 spettatori riferita da Platone è considerata troppo alta). Nel pubblico con-

venivano tutti i ceti e il t. di Atene, sia tragico sia comico, era una manifestazione

di massa e rispecchiava la vita democratica della città. Era stata istituita una spe-

ciale cassa dello Stato (theoricòn), che serviva a rimborsare il prezzo dell’ingresso

ai cittadini poveri (due oboli): fatto da interpretare come segno dell’essere, il t.

classico ateniese, non puro divertimento, ma solenne funzione pubblica. Con il

tempo, nel decadere delle città greche e l’affermarsi delle monarchie ellenistiche,

il t. divenne un fatto di corte, perdendo il carattere originale di spontanea espres-

sione dello spirito religioso civico, per farsi riflessa letteratura.

6.2 Il t. romano

Il carattere profano del t. ellenistico passò a Roma, dove il ricordo delle origini

sacrali del dramma era del tutto perduto, benché l’occasione delle rappresentazio-

ni fosse offerta anche a Roma da celebrazioni a carattere religioso, i ludi. La cele-

brazione di qualche importante avvenimento (politico o altro) veniva solennizzata

con l’offerta al pubblico di manifestazioni spettacolari (teatrali o circensi). L’anno

di nascita del t. romano si può considerare il 240 a.C., quando Livio Androni-

co portò per la prima volta sulla scena una tragedia e una commedia greca tradot-

te. Ma il carattere profano del t. romano fece sì che il mestiere dell’attore e del

poeta drammatico non fossero tenuti in alta considerazione. Erano disprezzati dal-

le classi elevate e coltivati prevalentemente da schiavi o liberti, di provenienza

cioè non dissimile da quella di coloro che avevano partecipato a giochi gladiatori

cruenti. I ludi scenici rimasero sempre parte integrante dei ludi, ma in età imperia-

le il t. tese a diventare una manifestazione cara, piuttosto che alle masse, al-

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le élites colte, mentre i giochi, nelle loro varie forme, restavano il divertimento

preferito del popolo romano.

Il connaturato spirito di beffa dà origine, nella terra italica, a primitivi spet-

tacoli comici di cui sono state indicate varie forme: il fescennino di origine etru-

sca e, come sua derivazione, la satira (satura), l’atellana (una fabula o farsa venuta

da Atella, città osca della Campania), il mimo, importato dalla Magna Grecia, do-

ve al mimus albus (specie di clown bianco) si aggrega il centunculus (o pagliaccio

col vestito dalle cento pezze, specie di Arlecchino). Autori delle tragedie sono

Andronico, Nevio, Seneca; Plauto si rifà, con grassa comicità, alla commedia atti-

ca nuova, e Terenzio, con più evidenti sfumature, a Menandro. Nella storia del t.

latino si distinguono tragedie e commedie di argomento greco, che nella classifi-

cazione erudita sono definite rispettivamente cothurnatae e palliatae, e tragedie e

commedie d’argomento romano, definite praetextae etogatae. Maggior successo

popolare ebbe spesso il mimo, non parlato, interpretato da un solo attore, con

l’accompagnamento di un’orchestra. I mimi più reputati guadagnarono la prote-

zione e il favore di Mecenate, Seneca, Augusto, Messalina, Nerone. La storia del

mimo fluisce ininterrotta fino ai secoli dell’Alto Medioevo.

7. IL T. COME SPETTACOLO: IL MEDIOEVO

Non si può cominciare a parlare di una vera e propria vita teatrale nel Medioevo

che al momento in cui il dramma sacro lascia l’interno delle chiese ed esce

all’aperto, recitato da studenti e artigiani uniti in confraternite. Gli spettacoli sacri,

allestiti in circostanze festive e senza fini di lucro, a edificazione della folla, rie-

vocavano gli episodi del ciclo della Passione o le vite dei Santi. In Italia (12° e

13° sec.) diedero vita alla lauda e alla rappresentazione sacra, in Francia ai mira-

cles, nella Penisola Iberica al tipico auto sacramental recitato il giorno del Corpus

Domini, in Germania ai quadri allegorici delle processioni e rappresentazioni bi-

bliche, in Inghilterra ai mysteries, di pari ispirazione, alle moralities edificanti e

allegoriche, ai miracle plays. La sacra rappresentazione ebbe parte rilevante nella

trasformazione dello spettacolo. Con i drammi della monaca Rosvita, vissuta

in Sassonia nel 10° sec., in cui erano previsti continui mutamenti di scena, nacque

la scena multipla e la rappresentazione acquistò caratteri pittorici.

Non cessò tuttavia di esistere, durante questo periodo, il t. laico. Mimi,

buffoni, istrioni, giullari, perseguitati dalla violenta polemica religiosa, ma anche

acclamati dal popolino come dai grandi nelle corti, mantennero viva per tutto il

Medioevo la vena satirica, frizzante e schiettamente comica, con scene recitate sui

banchi delle piazze e nelle fiere. Se le autorità ecclesiastiche ostacolarono e sco-

municarono questo tipo di spettacoli, non così fecero i principi, che spesso anzi se

ne giovarono a scopo di comunicazione, di satira, o semplicemente di svago.

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8. IL T. COME SPETTACOLO: DAL T. CINQUECENTESCO ALL’OTTOCENTO

8.1 La commedia dell’arte

Dal teatro erudito, sviluppatosi in opposizione al dramma sacro e alle rappresenta-

zioni dei giullari, nacquero in Italia nel Cinquecento, e si diffusero in Europa, il

dramma pastorale, la commedia umanistica, la tragedia, su modelli euripidei e se-

necani. È la fase ‘cortigiana’ del t. rinascimentale, come svago dei signori, princi-

pi, cardinali e papi. Autori e attori sono gentiluomini di corte, accademici, studen-

ti; il pubblico è formato dalla ristretta cerchia degli amici del principe.

La reazione più viva a questo t. dei letterati viene dagli attori di mestiere,

con compagnie costituite (la più famosa sarà quella dei Gelosi con Isabella e

Francesco Andreini), e ruoli fissi, che si identificano con le maschere (Pantalone,

Colombina, Corallina, il Capitano, Arlecchino, Brighella, Pulcinella ecc.). Questi

comici dell’arte recitano commedie ‘all’improvviso’, o ‘a soggetto’, o

‘all’italiana’, avvalendosi di copioni ereditati, manomessi, arricchiti, reinventati.

Gli argomenti delle commedie a soggetto erano tratti dalle stesse commedie erudi-

te cinquecentesche, così come da Plauto e Terenzio. Ma gli attori si abbandonava-

no all’estro del momento improvvisando, ricorrendo a repertori di formule lettera-

rie e a raccolte di lazzi, cioè atti (acti, actiones et inventiones, ossia invenzioni,

trovate).

Ottenuto grande successo nelle corti italiane, i comici dell’arte furono

chiamati anche all’estero e con le loro compagnie più celebri espressero personali-

tà di rilievo (tra cui T. Fiorilli detto Scaramuccia) ed ebbero discepoli in Fran-

cia, Austria, Boemia, Polonia, Russia. È con i comici dell’arte che nasce in Euro-

pa l’organizzazione, di tipo professionistico, del t. moderno. Le maschere, con il

tempo, scomparvero, ma rimasero al loro posto i ruoli, sostenuti da attori fissi, in

compagnie che formularono proprie regole e acquistarono un proprio pubblico,

dapprima nelle piazze e nelle ‘stanze’, poi nei t., dove il pubblico si trasformerà,

attirando spettatori più liberi, sempre meno vincolati dalle ragioni politiche o mo-

rali di minoranze elitarie. Le rappresentazioni danno spesso luogo, per la loro

spregiudicatezza e le abusate sconcezze, a proteste, divieti e scomuniche da parte

della Chiesa, specialmente in seguito al ritorno in scena, come interpreti, delle

donne.

8.2 La commedia scritta

La fortuna della commedia dell’arte e i positivi risultati da essa ottenuti proprio

nel campo della recitazione e dell’evoluzione dell’attore non escludono un ritorno

alla commedia costruita, completamente scritta, che definisce i caratteri e rinuncia

alle maschere, e che attua una riforma, anche contro la trivialità, che C. Goldo-

ni chiamerà «morale» ma che fu soprattutto artistica, e che portò nel t. una sorta di

realismo, quel realismo già anticipato dal t. di Molière fondendo la comicità ‘im-

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provvisata’ della commedia dell’arte con l’osservazione attenta e critica della real-

tà e lo studio psicologico dei personaggi. Insistita passionalità di gusto barocco,

unita a purezza formale e ad ambientazione classica, caratterizza, negli stessi anni

di Molière, il t. di Racine, raffinata espressione di un t. colto e aristocratico.

Alla fine del Cinquecento si inaugura in Inghilterra la grande stagione del

teatro elisabettiano, caratterizzato da autori di eccezione quali B. Jonson, C. Mar-

lowe e W. Shakespeare, al cui genio drammatico e linguistico il t. elisabettiano

deve il suo massimo sviluppo, ma anche dall’ampliamento del pubblico teatrale,

un pubblico che con il proprio gusto, le proprie fantasie e credenze partecipa alla

creazione e al successo dell’opera. Tra il Seicento e il Settecento il popolo diviene

elemento preponderante neicorrales madrileni, nei t. inglesi dell’epoca, e non al-

trettanto, ma sempre in misura crescente, nelle sale parigine miste (Hôtel de

Bourgogne), nei Théâtres de la Foire e in genere nelle rappresentazioni destinate

alle classi più umili.

Il melodramma, nuova forma letteraria e musicale tipicamente italiana, si

colloca nel t. settecentesco a palchetti, dove il pubblico si rinnova e amplifica, an-

che se rimangono sempre divisioni gerarchiche e di casta, con la plebe in platea, i

signori e gli assidui nei palchi, ai posti d’onore e fin sul proscenio.

8.3 Il t. romantico

Il concetto di un t. di corte per aristocratici e letterati decadde definitivamente

all’epoca della Rivoluzione francese di fronte all’affermarsi di un t. giacobino che

mirava ad assolvere compiti di discussione e di propaganda democratica. Napo-

leone non intese restaurare un t. di corte, ma la scena francese ricevette una con-

sacrazione sovrana col celebre decreto di Mosca (15 ottobre 1812) con cui

l’imperatore, appassionato di t., riordinò l’assetto della Comédie-Française, erede

della celebre commedia di Molière.

Dopo i ripetuti annunci di V. Alfieri, D. Diderot, G.E. Lessing, un’aria ve-

ramente nuova, rigeneratrice, con la riforma effettiva non soltanto del luogo tea-

trale e del pubblico, ma dell’arte stessa del t., si ebbe con il romanticismo, nato e

sviluppatosi con F.M. Klinger, autore del dramma Sturm und Drang (1776), il cui

titolo si estese a denominare il movimento nel quale confluirono J.G. Herder, i

fratelli Schlegel, F. Schiller (I masnadieri) e J.W. Goethe. Il t. romantico assunse

in Francia un aspetto combattivo e profetico, mentre faceva la sua apparizione nei

giornali quotidiani del 19° sec. un fenomeno che aveva avuto qualche precedente

soltanto nei giornali letterari: la cronaca-critica teatrale, di cui è considerato fon-

datore J.-L. Geoffroy, che la introdusse nel Journal des débats di Parigi. Animose

battaglie si accesero, nei t. e sulla stampa, intorno ai ‘drammi’ (fusione di com-

media e tragedia) di V. Hugo, con i clamori classicistici e rivoluzionari, reazionari

e libertari, sollevati dalla prima rappresentazione del romantico Hernani(1830).

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Sulla scena italiana il Romanticismo acquistò caratteri religiosi con A.

Manzoni, e patriottici con G.B. Niccolini e S. Pellico. I loro interpreti furono

spesso degni intermediari del nuovo spirito risorgimentale (G. Modena) o si reca-

rono all’estero con autentiche ambascerie di italianità in trionfali giri artistici (A.

Ristori, T. Salvini, E. Rossi).

8.4 Il t. borghese

Il crollo del regime autocratico segnò l’avvento del t. borghese. Si rivolsero a que-

sto ceto autori di sicuro mestiere, furbescamente spassosi, quali A.-E. Scribe ed

E.-M. Labiche, o moraleggianti come È. Augier e A. Dumas figlio, o duramente e

acremente oggettivi come H. Becque in Francia. Allo stesso pubblico si rivolse la

prima tragedia borghese contemporanea tedesca, la Maria Maddalena di F. Heb-

bel, autore di drammi robustamente problematici, mentre in Italia emersero P.

Giacometti e P. Ferrari, V. Bersezio e A. Torelli. La corrente verista italiana fu ra-

ppresentata da E. Praga, G. Rovetta, C. Bertolazzi, G. Verga. In Russia, dopo le

‘piccole tragedie’ di Puškin e le satire gogoliane, espressero atteggiamenti e con-

cetti della borghesia le commedie di A.N. Ostrovskij. L’ambiente e i costumi pic-

colo-borghesi della Scandinavia furono descritti daH. Ibsen, che combatté

l’ipocrisia acquiescente e il luogo comune livellatore e soffocante, rivendicando

all’individuo il diritto all’autodecisione. Dalla lezione di Ibsen derivarono scrittori

ragguardevoli del teatro dell’epoca, quali J.A. Strindberg, O. Wilde, G. Haupt-

mann, M. Maeterlinck, M. de Unamuno, G.B. Shaw, l’italiano R. Bracco.

8.5 I t. stabili

L’Ottocento ebbe attori titani (come F.J. Talma, E. Kean), dominatori e moltipli-

catori dispotici del personaggio drammatico; verso la fine del secolo subentrò a

essi una generazione di attori filosofi, colti, intelligenti e scrupolosi, ai quali non

si richiedeva potenza di mezzi esteriori ma aderente interpretazione dell’opera. In

Francia, in Germania, in Austria, in Russia, nei paesi scandinavi, nell’Europa da-

nubiana (il fenomeno in Italia si verificò con grande ritardo, forse per il protagoni-

smo, durato a lungo, di valide compagnie ‘di giro’) si fondarono grandi t. stabili.

A essi si affiancarono, quasi parallelamente, e con un peso sempre maggiore, i

piccoli t. d’arte di Parigi, Berlino,Dublino, Mosca, Londra. Nell’affermazione di

una nuova arte scenica, semplice e aderente al vero, il t. di corte del ducato

di Meiningen, di cui fu mecenate e animatore il duca Giorgio II (dal 1870 al

1890), ebbe ruolo preminente. Per la prima volta furono impiegati in t. gli apparati

elettrici, e le scene non furono più dipinte ma costruite.

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9. IL T. COME SPETTACOLO: IL T. DEL NOVECENTO

9.1 La figura del regista

A. Antoine (col Théâtre Libre a Parigi), la Freie Bühne di Berlino diretta da O.

Brahm, K. Stanislavskij del Teatro d’arte di Mosca, unitamente agli altri seguaci

del naturalismo, avevano considerato la messinscena e la scenografia con

l’ossessione dell’apparato storicamente fedele e del particolare archeologicamente

esatto. Ma l’avvento di una moderna regia non aderisce a questi principi, rifiuta la

copia della realtà per un processo di sintesi, di superamento e di trasfigurazione.

Partendo dall’opera teorica e musicale di R. Wagner, con la sua idea

del Totalendrama, hanno un ruolo fondamentale quali antesignani dello spettacolo

antiverista moderno lo svizzero A. Appia e l’inglese E.G. Craig, mentre G. Fuchs

e M. Reinhardt a Vienna, V.E. Mejerchol´d, A.J. Tairov e E.B. Vachtangov nel t.

russo, J. Copeau e altri metteurs en scène eminenti a Parigi, L. Simonson e N. Bel

Geddes a New York furono le personalità che divulgarono nuovi metodi registici,

e che operarono per una modernizzazione dell’arte e dell’attore.

L’Italia ebbe una figura di rilievo in A.G. Bragaglia, creatore a Roma, nel

1922, del Teatro degli Indipendenti. Convinto assertore dell’indispensabilità del

regista, che egli chiama anche corago (rifacendosi a una espressione dell’abate

Ferrucci, storico della commedia dell’arte), Bragaglia fu attento a tutte le correnti

innovatrici e sostenitore di ogni avanguardia, in un momento in cui la scena italia-

na, se si esclude la grande presenza di L. Pirandello, sembrava ancora incerta nel

trovare la sua strada, una volta esaurite le esperienze simboliste, naturaliste, del t.

di poesia (di cui il massimo esponente è stato G. D’Annunzio).

9.2 Il t. futurista

Non si eleva, nel complesso, al di sopra dei livelli del miglior t. consumistico, il

cosiddetto t. del grottesco né si impone il t. intimista, di influenza francese, né

hanno rilevanza i tentativi, nel periodo fascista, di t. di propaganda o politico, an-

che suggeriti dagli spettacoli di massa sovietici o tedeschi dell’epoca di Weimar,

dove emerse la personalità diE. Piscator. Fenomeno più significativo avrebbe po-

tuto essere il t. futurista di cui avevano posto le premesse specialmente i manifesti

del Teatro di Varietà (1913) e del Teatro Sintetico (1915), firmati il primo da F.

Marinetti e l’altro anche da E. Settimelli e B. Corra: un t. concepito come adog-

matico, privo di tradizione, nutrito di attualità, antiaccademico, inventivo e mera-

viglioso, che tende a distruggere la logica, la psicologia e il verosimile. Saranno

intuizioni sviluppate sia pure per vie diverse, dal t. dell’assurdo che produrrà E.

Ionesco, A. Artaud, A. Adamov, S. Beckett. Ma lo scarso appoggio ottenuto dalla

critica italiana che dapprima negò, quasi unanime, l’esistenza di un t. futurista (S.

D’Amico), la degenerazione delle serate futuriste in riunioni combattive ma chias-

sose, hanno fatto sì che del t. futurista si sia avuta una rivalutazione, e più per i

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suoi ‘procedimenti’ che per i ‘testi’ prodotti, soltanto alla fine degli anni 1960, nel

rinnovato fervore conoscitivo e analitico nato dallo studio delle avanguardie stori-

che, in tutti i campi espressivi.

9.3 Il t. del secondo dopoguerra

I t. stabili, finanziati dallo Stato, dalle regioni, dai comuni, trovano sviluppo in Ita-

lia dopo la Seconda guerra mondiale. Chiamati inizialmente Piccoli T., e solo

molto più tardiT. Stabili (solo il Piccolo T. di Milano ha conservato il nome origi-

nario), acquistarono in poco tempo un ruolo di primo piano nella rinnovata scena

italiana. Il primo di essi, il più prestigioso e il punto di riferimento di tutti gli altri,

è stato il Piccolo Teatro di Milano, cui seguirono il Piccolo T. di Roma nel 1948

(divenuto nel 1965 T. Stabile della città di Roma e più tardi T. di Roma), il Picco-

lo T. di Bolzano (1950), il Piccolo T. della città di Genova (1951), il Piccolo T.

della città di Torino (1955) ecc.

9.4 Il t. di sperimentazione, didattico, epico

Fenomeno nuovo che si colloca fuori delle sale tradizionali, e anzi preferisce le

‘cantine’ o le ‘tende’, il t. di sperimentazione dà vita, contro il decaduto t. borghe-

se definito ‘della chiacchiera’, a un t. del gesto e dell’urlo. Il t. gestuale nasce dal-

la teorica dello spettacolo di B. Brecht, secondo cui lo spettacolo teatrale si fonda

essenzialmente sulla recitazione, basata a sua volta su un effetto di straniamen-

to (che prescrive all’attore di rappresentare il personaggio come diverso da sé). Di

qui l’importanza del linguaggio, anzi dei linguaggi stilisticamente differenti, come

differenti sono le classi. Nei linguaggi si evidenzia il valore gestuale e il compito

di elaborare la gestualità del testo è precipuo dell’attore teatrale che realizza quin-

di il t. gestuale.

Da Brecht nasce anche l’idea del t. didattico (ma esisteva anche in secoli

precedenti) che mira ad avere efficacia d’insegnamento. Il t. didattico è di

un’estrema semplicità, povero nei mezzi, atto a uno scambio immediato tra attori

e pubblico. Non ha carattere imbonitorio o paternalistico e rientra nella concezio-

ne del t. epico, essendone però espressione più circoscritta. Per t. epico s’intende

un t. che immette, anche ibridamente, elementi narrativi nelle rappresentazioni

drammatiche: si può dire che l’epica si distingue dal t. per una maggiore possibili-

tà di trasformabilità di mezzi e impianti scenici, valendosi anche di didascalie da

manifesto, dipinte o filmate. Il poeta drammatico configura i fatti come assoluta-

mente presenti; il poeta epico come assolutamente passati. Il drammatico, il pas-

sionale, è respinto a favore dell’epico, ragionato e scientifico. Il t. epico si è svi-

luppato in polemica con l’espressionismo e si è ispirato al t. cinese,

al nō giapponese, alla commedia dell’arte e alla farsa paesana. Brecht cerca di ap-

prodare a un t. antiromantico, espresso da un collettivo di attori-narratori che mi-

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rano al divertimento che deriva dall’osservazione critica del comportamento uma-

no.

9.5 I grandi registi

Il contributo dei registi al rinnovamento del t. moderno, rivelatosi fin dai primi

decenni del secolo fondamentale attraverso le esperienze tedesche, austriache, rus-

se, francesi ecc., ha fatto sì che nella scena contemporanea abbia preso spesso ruo-

lo prevalente proprio la messinscena, non di rado oltrepassando perfino la funzio-

ne dell’autore. Anche in Italia la regia ha portato fecondi frutti, attraverso una ge-

nerazione di eminenti registi: L. Visconti, che ha dato una svolta alla messinscena

italiana portandola ai massimi livelli europei (data fondamentale è il 1945, al

T. Eliseo, con la direzione di I parenti terribili di J. Cocteau); G. Strehler, anima-

tore con P. Grassi del Piccolo T. di Milano, interprete moderno di Goldoni, Piran-

dello, Brecht; L. Ronconi, assertore di un t. di movimento (già teorizzato in Italia

specialmente nel manifesto marinettiano del T. totale) e di cui è stato primo gran-

de esempio l’Orlando furioso (palazzo dello Sport, Roma, 1969) in un fenomeno

di coinvolgimento che ha portato la rappresentazione in mezzo agli spettatori, ob-

bligandoli a seguire ora l’uno ora l’altro interprete o gruppo recitante, e dando

quindi una sorta di collaborazione allo spettacolo, come teorizzato dai futuristi.

Ricerche ed esperienze in qualche misura affini si sono avute anche in

Francia, con il gruppo del Théâtre du soleil, fondato da A. Mnouchkine alla metà

degli anni 1960, sorretto da una forte tensione politica e utopistica, e volto a rea-

lizzare un nuovo t. popolare in spazi non tradizionali. Negli USA, fin

dall’immediato dopoguerra il t. d’avanguardia acquistò connotazioni deliberata-

mente politiche, mediante la pratica dell’happening e la diffusione di un t. di stra-

da: presto assunse un ruolo di capofila ilLiving Theatre, fondato da J. Beck e J.

Malina (allieva di Brecht), assertori di un t. povero e di agitazione; fra i loro spet-

tacoli più rivoluzionari sono rimasti celebri The connection (1959), The ap-

ple (1961) e Paradise now (1968). P. Brook e I. Xenakis hanno dato in autorevoli

edizioni del Festival di Shiraz-Persepolis eccezionali spettacoli rispettivamente

con Orghast e Persepolis. Orghast (I e II) di T. Hughes (1971).

9.6 T. alternativo

Il luogo teatrale ha trovato negli ultimi decenni del 20° sec. altri sbocchi, in con-

seguenza dei notevoli cambiamenti che hanno coinvolto la vita e lo spettacolo.

Sono fioriti, anche in Italia, spazi alternativi ai circuiti ufficiali: i complessi, prin-

cipalmente giovanili e d’avanguardia, si sono trasferiti sia in luoghi come i t.-

cantine, sia in sale più ampie, capannoni, fabbriche, palazzetti dello sport, t. tenda,

a imitazione del circo. Al mutare dell’atteggiamento del pubblico e del luogo dove

si verifica la rappresentazione, si sono modificate anche la materia e la maniera

dello spettacolo esibito. Questo tipo di t., rivisitando le avanguardie storiche,

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nell’ambito di una interdisciplinarità delle arti, non pretende più dalla parola il

predominio nell’evento teatrale. Anzi, come futurismo, espressionismo, dadaismo,

surrealismo, Bauhaus, costruttivismo, e altri movimenti avevano trovato anche

nelle arti figurative nuove possibilità di teatralizzazione, si può dire che questo t.

sperimentale cerchi uno dei suoi fondamenti nella pittura, come anche nelle altre

arti, e dia importanza al gesto e all’immagine almeno quanto, e talvolta forse più,

che alla parola. Le neoavanguardie italiane, pur da differenti posizioni estetiche e

ideologiche, hanno realizzato un t. visivo e d’immagine di notevole suggestione,

prendendo a riferimento antiche e recenti forme spettacolari, come il t. delle ma-

rionette, gli happening, i collage, e nuovi linguaggi artistici come la videoarte.

Hanno altresì tenuto presente la lezione dei caffè letterari, delle serate di Marinet-

ti, del cabaret mitteleuropeo e parigino, ma anche italiano (L. Fregoli, E. Petroli-

ni), del surrealismo, del t. della crudeltà (Artaud), della derisione e dell’assurdo

(A. Adamov, Beckett, J. Genet, E. Jonesco, R. Vitrac), e le esperienze del Bread

and Puppet Theatre, dell’Open Theatre, del Living Theatre, il t. povero di J. Gro-

towski. Il t. di sperimentazione ha avuto un ruolo considerevole nella trasforma-

zione della concezione del t., almeno quanto la presenza dei registi. Il regista, an-

che guardando alla parallela pratica cinematografica, è divenuto sempre più

l’autore dello spettacolo, l’attore assai spesso oggetto e attrezzo, e il testo, anche

se desunto dai classici, pretesto. L’autore allora ha dovuto cambiare il proprio

modo di scrivere per il t., e l’attore, per riaffermare la propria personalità, è dive-

nuto esso stesso regista e autore. Si ricordano le esperienze di D. Fo e C. Bene,

come pure, in altra direzione, di V. Gassman.

10. IL T. COME SPETTACOLO: IL PANORAMA ITALIANO

In Italia, la nuova drammaturgia si muove su filoni diversificati ma non privi di

reciproche contaminazioni, individuabili a grandi linee nel teatro di poesia, nel re-

cupero del patrimonio dialettale, ancora parzialmente sulla traccia dell’opera ma-

gistrale di E. De Filippo, e in un inedito interesse per il mondo (e il linguaggio)

dell’emarginazione. Un capitolo a parte, ma tutt’altro che secondario è costituito

dalla presenza di talune individualità autonome, avviate ciascuna su un proprio

percorso coerente e originale, fra cuiG. Ceronetti, che affida i suoi testi a un tea-

trino di marionette, e M. Ovadia, che dopo lunga attività come cantante e musici-

sta folk, ha creato nei suoi spettacoli per voce e musica una sorta di cabaret yid-

dish. Molto seguiti anche i deliri verbali dell’autore e attore A. Bergonzoni, così

come i corrosivi monologhi di M. Paolini, artefice di un’inedita proposta di t. poli-

tico. Se però nuovi autori si impongono, i palcoscenici continuano a ospitare clas-

sici antichi e moderni rivisitati da più generazioni di maestri della scena, a testi-

monianza della perdurante vitalità del t. di regia. In questo ambito si sono eviden-

ziati, fra gli altri, M. Martone, che ha affiancato con esiti rilevanti l’attività cine-

matografica a quella teatrale, e il regista e drammaturgo M. Martinelli, artefice,

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con il T. delle Albe e quindi con Ravenna T., di un gemellaggio con l’universo

africano, che coniuga danza e favola, dialetti e percussioni, una poetica insieme

colta e popolare. Un fenomeno a sé stante, ma che ha inaugurato una strada, costi-

tuisce la Compagnia della Fortezza, ovvero un gruppo di detenuti del carcere cir-

condariale di Volterra che, nata sotto la guida di A. Punzo e A. Hanneman, a par-

tire dal 1989 allestisce spettacoli (spesso presentati anche fuori dalle mura del pe-

nitenziario) di fortissimo impatto emotivo. La tendenza dominante tra i gruppi

nuovi e nuovissimi, è però quella artaudiana del t. della crudeltà, che si associa

spesso al recupero della performance legata alle arti visive. Si tratta di un fenome-

no internazionale, di cui in Italia sono principali esponenti i componenti del-

la Societas Raffaello Sanzio (dal 1981), forte nucleo familiare riunito attorno al

regista R. Castellucci. Un altro gruppo che lavora su provocazioni estreme è il T.

della Valdoca (attivo dal 1980), animato da M. Gualtieri e C. Ronconi. A queste

principali tendenze si associano diversi percorsi individuali e di gruppo, a riprova

di una rinnovata vitalità creativa che spesso però non trova adeguato riscontro da

parte delle istituzioni, e che sopravvive radicandosi in realtà locali e operando per

lo più in occasione di rassegne e festival, sempre più numerosi, ma rivolti preva-

lentemente a un pubblico specializzato. Continuano la loro attività le compagnie

private, mentre i t. stabili si dibattono fra problemi di gestione e interrogativi di

fondo sul proprio ruolo.

11. IL T. DELLE SOCIETÀ DI INTERESSE ETNOLOGICO

L’insieme delle manifestazioni spettacolari che nel mondo occidentale vengono

considerate t., cioè azioni drammatiche cantate o recitate, danza, mimo, e altre

forme minori, è rappresentato nelle civiltà etnologiche da ciò che si intende nel

mondo arcaico per t. sacro, che non solo cioè attinge i suoi contenuti alle sfere del

sacro, ma in cui la stessa azione dei suoi esecutori è da considerare di per sé

un’azione sacra, rituale, non escludendone tuttavia del tutto la dimensione ‘profa-

na’, senza la quale non si comprenderebbe il fenomeno culturale profano che ne è

seguito. Una delle caratteristiche primarie dell’esecuzione spettacolare presso i

popoli di interesse etnologico è il principio di identificazione tra l’esecutore e le

figure mitiche impersonate. Le modalità dell’identificazione variano da caso a ca-

so, e comprendono livelli di partecipazione diversi. In alcune cerimonie sciamani-

stiche il cui svolgimento è caratterizzato dal dialogo, è il solo sciamano a sostene-

re le singole parti, talvolta in stato di trance. Il recitante, o narratore, può essere

assistito da un coro. La natura di riattualizzazione di eventi mitici è alla base della

seconda caratteristica primaria di questo tipo di t., cioè il suo aspetto festivo-

calendariale. La danza costituisce la materia primaria di queste cerimonie, mentre

la partecipazione comunitaria, come pubblico, ne è altro elemento indispensabile.

I travestimenti vanno dalla maschera facciale alla semplice pittura del volto, dal

nudo all’uso di indumenti. Nelle rappresentazioni mimiche il t. profano si affaccia

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attraverso atteggiamenti e movimenti che suscitano il riso (per es., un contorci-

mento mimato del recitante) in una forma elementare di comicità profana. La na-

scita e lo sviluppo di un t. profano presso i popoli di interesse etnologico prende

consistenza quando viene meno il principio di periodicità festivo-calendariale.

Nell’ambito degli studi antropologici l’interesse per il t. si è espresso in

due direzioni: da un lato lo studio delle tradizioni performative di differenti cultu-

re; dall’altro il ricorso, per l’analisi sociale, a termini e a concetti attinti dal lin-

guaggio teatrale. Per quanto riguarda il primo aspetto i lavori degli antropologi

hanno dedicato ampio spazio allo studio delle rappresentazioni teatrali del mondo

asiatico, quali il katakali indiano, le forme di danza-t. indonesiane, il nō e

il kabuki giapponesi, il t. delle ombre, anche se non sono mancate analisi di generi

appartenenti ad altri contesti culturali, nonché alla stessa realtà euro-americana. Il

problema che si pone immediatamente dal punto di vista comparativo è quello di

elaborare una definizione di t. che non rinunci a individuare una specificità ma

che sia in grado al contempo di includere generi assai diversi tra loro. Il t. può es-

sere considerato, alla luce degli studi di V. Turner e di R. Schechner

una performance culturale dalle peculiari caratteristiche; pur nella consapevolezza

dell’esistenza di casi di confine, è possibile individuare la specificità del t. rispetto

ad altre pratiche performative nella differenza di obiettivi (intrattenimen-

to versus efficacia), nel diverso ruolo del pubblico (osservazio-

ne versus partecipazione), nel peculiare agire degli attori (rappresentazione simbo-

lica versus rappresentazione del sé). Per quanto concerne il ricorso alla metafora

drammaturgica per l’analisi della realtà sociale – caratteristico anche di discipline

vicine all’antropologia culturale ed esemplificato dall’uso di termini quali ‘ruolo

sociale’ e ‘attore sociale’–, gli antropologi di riferimento sono C. Geertz e ancora

una volta Turner. Geertz interpreta lo stato balinese nei termini di uno Stato-t. il

quale mette in scena il potere attraverso uno sfarzoso apparato cerimoniale con il

quale finisce per coincidere, e nel suo studio sulla società balinese traduce per es.

con «paura del palcoscenico» il termine per il quale altri autori avevano suggerito

come equivalente la parola «vergogna». Mentre nella prospettiva interpretativa di

Geertz il t. rappresenta un commento alla società che lo produce, per Turner il t.

non è un metadiscorso sociale quanto un «testo agito», la cui potenzialità sta pro-

prio nel suo carattere performativo. Turner ha utilizzato il t. anche come strumen-

to didattico per la comprensione di pratiche e rituali di altre culture, introducendo

una metodologia impiegata a tutt’oggi in alcuni corsi universitari.

12. ASPETTI GIURIDICI

L’apertura dei t. è subordinata al rilascio di apposita licenza da parte delle compe-

tenti autorità. Nello specifico, ai sensi dell’art. 80 del r.d. 773/1931, il comune,

subentrato all’autorità di pubblica sicurezza sulla base del d.p.r. 616/1977, non

può concedere la licenza per l’apertura di un t. prima di aver fatto verificare da

Page 19: TEATRO TRECCANI - Unife

19

una commissione tecnica la solidità e la sicurezza dell’edificio e l’esistenza di

uscite pienamente adatte a sgombrarlo prontamente nel caso di incendio. Infatti, il

combinato disposto degli art. 141-141 bis del r.d. 6354/1940 e dell’art. 4 del d. le-

gisl. 3/1998 prevede che, prima del rilascio del relativo provvedimento, vengano

compiuti appositi accertamenti da parte della commissione comunale di vigilanza

proprio in ordine alla sussistenza dei relativi requisiti tecnici, di idoneità, di sicu-

rezza e di igiene.

Lo Stato promuove e sostiene le attività teatrali, sia definendone gli indi-

rizzi generali (d. legisl. 112/1998, art. 156), sia ponendo in essere norme ad

hoc sui criteri e le modalità di erogazione di contributi in favore delle attività tea-

trali.

Page 20: TEATRO TRECCANI - Unife

20

APPENDICE VI – 2000

Enciclopedia Italiana — VI Appendice — 2000

di Ferdinando Taviani, Raimondo Guarino, Mirella Schino, Nicola

Savarese, Raimondo Guarino, Franco Ruffini

Teatro

(XXXIII, p. 353; App. II, ii, p. 948; III, ii, p. 902; IV, iii, p. 583; V, v,

p. 480)

PARTE INTRODUTTIVA

di Ferdinando Taviani

Scorrendo le voci dedicate al t. nell’Enciclopedia Italiana (soprattutto le voci

complessive teatro, e poi: attori, commedia, commedia dell’arte, dramma, dramma

liturgico, farsa, giullari, mimo, scenografia, tragedia, varietà, e la vo-

ce regia introdotta nell’App. II, ii, p. 678, poi ripresa nella IV, iv, p.187) si posso-

no ricostruire sia alcune linee di sviluppo delle arti sceniche, sia il mutare dei cri-

teri per osservarle. È significativo che dal 1925 fino al 1948 (App. II) della reda-

zione dell’Enciclopedia facesse parte, per sovrintendere alle voci d’argomento

teatrale, Silvio D’Amico, che fu uno dei principali artefici del rinnovamento della

cultura teatrale italiana, fondatore dell’Accademia d’arte drammatica e più tardi

della grande impresa (senza eguali in altri paesi) dell’Enciclopedia dello spettaco-

lo. Altrettanto significativo è il fatto che nel vol. XXXIII dell’Enciclopedia il

lemma teatro sia suddiviso nei sottolemmi L’edificio del teatro e Vita teatrale, se-

gno d’una perdurante difficoltà a circoscrivere un ambito specifico dell’arte sceni-

ca. Di grande interesse anche l’ampia voce attori (nel vol. V), firmata dallo stesso

D’Amico, dove la scelta del plurale rappresenta l’impianto perlustrativo per am-

bienti e situazioni storiche, senza alcun tentativo di individuare uno specifico

dell’attore. Diversa la scelta che D’Amico adotterà per l’Enciclopedia dello spet-

tacolo, all’inizio degli anni Cinquanta, dove il lemma (affidato a G. Guerrieri)

comparirà al singolare, assumendo, sia pure con cautela, un andamento misto, da

un lato di ricapitolazione storica, dall’altro d’impostazione teorica, segno di un

auspicio di scienza dei teatri. Con il passar del tempo, da un’appendice all’altra

dell’Enciclopedia, si assiste a uno sviluppo che, partendo da una visione basata

sulla centralità del testo drammatico (appropriata alla cultura e alla pratica che an-

cora caratterizzavano la civiltà teatrale degli anni Trenta), conduce a una visione

che dà sempre più spazio all’autonomia dell’arte scenica; un’autonomia che si

manifesta anche attraverso il lemma regia, che viene inserito in maniera ancora

guardinga da D’Amico nell’App. II e che nella IV si dilata a opera di Luigi Squar-

Page 21: TEATRO TRECCANI - Unife

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zina, uno degli studiosi e degli artisti che più hanno contribuito a mutare il volto

del t. italiano nel secondo dopoguerra. La perdita della centralità della letteratura

non vuol dire che nell’ordinamento delle voci d’argomento teatrale vengano tra-

scurati gli apporti e le novità che caratterizzano la letteratura drammatica (i rife-

rimenti andranno cercati non solo nelle voci specificamente teatrali, ma anche in

quelle dedicate alle letterature nazionali e alle biografie degli scrittori), ma a essi

si accostano sempre più numerosi i riferimenti all’arte dello spettacolo in senso

stretto. La sezione dedicata al t. nella presente Appendice segue a una distanza di

tempo relativamente breve gli aggiornamenti dell'’pp. V: il suo compito quindi

non è tanto di fornire ulteriori notizie, quanto di delineare un quadro d’insieme

che tenti di indicare le linee maestre dell'’redità teatrale che il Novecento conse-

gna al Duemila. Le esperienze, le opere e le persone cui si fa riferimento in questa

sezione, anche quando i rinvii saranno impliciti e ridotti, sono sempre facilmente

reperibili nelle voci dei volumi precedenti. Già la voce teatro dell'’pp. V assumeva

a tratti un andamento da ricapitolazione. Essa andrà quindi presupposta, soprattut-

to per quel che riguarda le vicende di quei t. o di quegli artisti e scrittori dramma-

tici che nella propria avventura riassumono aspetti importanti del destino e delle

profonde metamorfosi del t. nel 20° secolo.

TEATRI, SOCIETÀ E MODI DI PRODUZIONE

di Ferdinando Taviani

I mutamenti avvenuti nel t. del Novecento sono radicali: all’inizio del secolo i t.

erano ditte per il commercio degli spettacoli, alla sua fine sono beni culturali sov-

venzionati; all’inizio, il t. era lo spettacolo per eccellenza, alla fine è divenuto

un’eccezione; all’inizio si poteva parlare di t. al singolare, alla fine Teatro è di-

ventato un singolare collettivo, e si può pensare solo in termini di Teatri. Il merca-

to teatrale non è più quello della produzione e distribuzione dei divertimenti: la

sua economia dipende dal valore che viene attribuito, nei diversi paesi, ai beni

culturali, al loro mantenimento e all’esercizio delle arti. Ciò che per il t. fu sempre

semplicemente ovvio (il carattere effimero dello spettacolo), assume, alla fine

del 20° secolo, il valore d’una rarità. Per la prima volta nella storia esistono spet-

tacoli non legati alla dimensione effimera, ma filmati, registrati e teletrasmessi,

immagini che, una volta fissate, perdurano relativamente immutate, oggetti d’arte

o d’intrattenimento alla stessa stregua d'’n libro o di un affresco: e i t. si distin-

guono come ‘spettacolo vivente’ o ‘al vivo’ Il loro carattere effimero o è sempli-

cemente arcaico oppure è la fonte di un particolare valore.

Il Novecento teatrale è stato un secolo di metamorfosi. Ma ciò che al suo

termine emerge non è tanto una scena tumultuosa e mutante, quanto un luogo dei

mutamenti, un laboratorio delle forme di relazione. Eppure, le metamorfosi teatra-

li profonde rischiano di scomparire dietro l’effervescenza delle cronache degli

Page 22: TEATRO TRECCANI - Unife

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spettacoli. Nel pensare il t. e la sua storia (e il t. nella storia) agiscono spesso pa-

radigmi non coscienti e quindi non padroneggiati, che sembrano coincidere con il

senso comune, il buon senso, ciò che è naturale pensare. In realtà, una volta porta-

ti alla luce, rivelano il loro valore relativo. I criteri che agiscono nel modo usuale

di pensare il t. e di selezionare quale tipo di avvenimenti, quali zone del lavoro

teatrale siano interessanti, sono quelli che si formarono, storicamente, per le esi-

genze del giornalismo teatrale. La memoria degli spettacoli, per es., sembra coin-

cidere con la memoria della '‘rima'’ e si perde il senso e la portata della continuità

che sta sotto le emergenze spettacolari. La storia del t. sembra coincidere con la

collana delle ‘prime’ importanti, così come a lungo sembrò coincidere con la sto-

ria dei testi della letteratura drammatica. Eppure, la storia — anche per il t. — do-

vrebbe essere consapevolezza delle lunghe durate in attrito con le trasformazioni

veloci; dovrebbe essere in grado di reperire e forse sciogliere il nodo di nessi ap-

parenti e nessi profondi, di mode che fanno molto parlare e movimenti strutturali

tanto più gravidi di conseguenze quanto meno sono visibili a occhio nudo. La sto-

ria del t. non funziona per collane (di spettacoli e di testi), così come spesso viene

esposta nei libri che proiettano nel passato l’ottica che presiede alle ‘pagine degli

spettacoli’ nei quotidiani e nei settimanali. Non funziona per spettacoli testa di se-

rie o capolavori. Funziona per microsocietà, per ambienti, per grandi e piccole

tradizioni che creano attorno alla produzione teatrale un contesto culturale e una

rete di relazioni. Ma, in genere, non furono le reti che costituiscono la cultura tea-

trale a essere interessanti. Interessanti sembrarono solo i loro spettacolari prodotti.

Nel corso del Novecento, quel che era nascosto, sotterraneo, è divenuto fonte di

valore. Si potrebbe dire che il t. ha cominciato a ‘farsi bello’ delle sue radici. Per

introdursi in questo paesaggio alla rovescia, converrà percorrere due vie esempla-

ri.

DALLA 42ND

STREET A RUE DU FAUBOURG SAINT-DENIS

Nell’anno 1900, nella 42a Strada di New York vennero eretti i t. Victor e Republic

(poi Victory); tre anni dopo vi sorse il New Amsterdam, che sarebbe divenuto,

nel 1914, la sede del più imponente t. di rivista del mondo, le Follies di F. Zieg-

feld (1868-1932). Egli fu, per il grande spettacolo musicale d’intrattenimento,

quel che S. P. Djagilev (1872-1929) fu per lo spettacolo d’arte del balletto; o quel

che D. Belasco (1852-1931) fu per il t. drammatico di grande impresa commercia-

le. Si potrebbe addirittura associarlo, per le sue doti di imprenditore, a quel che

per l’industria del divertimento circense era stato, alla fine del 19° secolo, Ph. T.

Barnum (1810-1891).

L’anno dopo la morte di Ziegfeld venne prodotto un film dal tito-

lo 42nd

Street (1933, regia di L. Bacon, 1889-1955), un capolavoro nel suo genere,

la cui efficacia dipende, secondo la critica, dall’aver raccontato la storia di

un’impresa spettacolare con i modi e i ritmi d’un film di guerra o d’una storia di

Page 23: TEATRO TRECCANI - Unife

23

gangster, dove la ricerca di capitali d’investimento, la musica, i testi, le maestran-

ze, le folle di ballerine e di cantanti sono armi e truppe per la conquista d'’n terri-

torio: il pubblico come massa. Trascorsi sessant’anni, un nuovo film mostra la

stessa 42ª Strada, la stessa inquadratura iniziale con l’insegna della strada (dal

bianco e nero si è passati al colore). Fra i passanti, le riprese isolano ora un picco-

lo gruppo di persone che si recano ancora a un appuntamento al New Amsterdam

Theatre, che oggi è vuoto e in rovina. Alcune di quelle persone — scopriamo —

sono attori con il loro regista, gli altri sono spettatori personalmente invitati. Tutti

insieme non superano di molto la decina. Il regista A. Gregory dirige una prova

di Zio Vanja di Čechov. Ma l’intimità della prova è già lo spettacolo: a fare la dif-

ferenza è la presenza o meno degli spettatori. Il piccolo gruppo degli attori e dei

loro spettatori si sposta qua e là nella caverna del t. in disuso, dove il dramma vie-

ne recitato senza scenografia, senza giochi di luce, in abiti quotidiani, senza ribal-

ta. E soprattutto senza che sia possibile discernere il punto preciso in cui la con-

versazione fra le persone convenute trapassa nel dialogo dei personaggi cecoviani.

Il film, di L. Malle, prende a soggetto lo spettacolo in progress di Gregory sul

dramma di Čechov (Vanya on 42nd

Street, 1994). Ha il t. come soggetto, ma è an-

che un film nella strada di un altro film. I riferimenti all’opera di Bacon sono

espliciti e significativi: nella stessa via dei t., nello stesso edificio teatrale, alla

sontuosità si è sostituita la semplicità; alla folla si sono sostituiti i piccoli numeri;

alla grande truppa, il gruppo ristrettissimo; alla massa di pubblico, i pochi spetta-

tori-testimoni. Il grande edificio non è più il territorio di un tumultuoso guerreg-

giare di personalità rivali e imprenditori arditi, è una tana in cui ritagliarsi un'’sola

nel cuore della metropoli. Ma non vi sono segni che facciano pensare a un impo-

verimento. Vi è piuttosto il nitore d’una dimessa eleganza, il senso inconfessato di

un’intensificazione della gioia e del valore. Il lavoro teatrale non ha più

l’intensità, la fatica, il cinismo, l’allegra e vitale violenza della rivalità e della

guerra di conquista. Al loro posto vi è il disincanto d’una sorta di sacralità irreli-

giosa, fondata sulla precisione professionale e sulle motivazioni personali. È anco-

ra lotta per la conquista d'’n territorio, ma il territorio è sottile, coincide con le re-

lazioni fra esseri umani. Come è stato giustamente notato, il film racconta una

“restaurazione del teatro, a partire dalla prima cosa che si è perduta, che è andata

in rovina, ben prima di parterre e balconate: lo spettatore teatrale”. Racconta,

cioè, qualcosa di raro e quasi inusitato: “la relazione teatrale, quel contatto fisico e

diretto fra attore e spettatore che proprio il cinema ha irrevocabilmente messo in

crisi” (Giacchè 1995).

Alla fine del Novecento, in quasi tutte le città, alcuni t. — e non sempre

quelli più marginali e meno noti — si sono insediati in fabbriche, magazzini, ga-

rage, chiese sconsacrate e vecchi edifici abbandonati. Infatti, in una fase culturale

in cui non esiste più un modello unico di t., anche gli edifici teatrali si insediano in

spazi diversi dai luoghi a essi deputati nel contesto urbano. È il caso del t. di P.

Page 24: TEATRO TRECCANI - Unife

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Brook (aux Bouffes du Nord) in rue du Faubourg Saint-Denis a Parigi, che co-

steggia una serie di negozi e magazzini che espongono mercanzie indiane. Le ve-

trine di rue du Faubourg Saint-Denis sono la migliore introduzione al t. di Brook,

che ha cancellato le impronte nazionali proprio per opporsi alla babele del nostro

tempo.

Il t. di Brook sorge in un vecchio edificio teatrale costruito nel 1886, cadu-

to in disuso a partire dal 1952. Brook vi si è installato con i suoi attori ventidue

anni dopo, restaurandolo il minimo necessario. Il t. non è illuminato in modo tra-

dizionale; quando vi si entra tutto appare pulito, efficiente, scarno. Sembra di en-

trare in un vecchio ‘guscio’ che manifesta in pieno il fascino del luogo teatrale; è

il fascino d’uno scheletro architettonico che conserva l’energia d’un modello tra-

smesso da secoli e non la disperde nel facile lusso della solennità. Le grandi mura

in materiali bruti’, le balconate, la cavea, lo spazio per la platea e per gli attori

senza l’elevazione e la barriera del palcoscenico, il colore superstite d’una decora-

zione non restaurata sono reliquie del passato e, al tempo stesso, scelte perfetta-

mente attuali. L’ensemble che vi lavora è fra i più apprezzati,

un ensemble d’eccezione, ma una paradossale eccezione, qualcosa di vivo rinato

in una rovina, quasi il modello d’un gran t. venturo: una sorta di Comédie Fra-

nçaise, o di Old Vic che si annida nella babele multiculturale.

La dimensione multiculturale del t. è endogena, prima d’essere una rispo-

sta ai grandi mutamenti della cosiddetta società multiculturale. Deriva dalla spinta

a organizzare legami transnazionali e transculturali fra i professionisti della scena,

come reazione alla perdita della centralità dello ‘spettacolo vivente’ dell’orizzonte

complessivo degli spettacoli. Nel t. di Brook, attori inglesi, francesi, indiani, afri-

cani, giapponesi, polacchi, balinesi si distribuiscono le parti non tenendo in alcun

conto il colore della pelle, la cultura, la tradizione teatrale o la lingua di prove-

nienza. A seconda dei casi, parlano tutti la lingua francese o tutti la lingua inglese.

L’arte scenica, che per secoli è stata l’esposizione della bella dizione, qui

ha parole nette e cristalline, ma colorate da cadenze e pronunce ‘barbare’.

L’ortoepia, che è ancora l’incubo di molti aspiranti attori, aux Bouffes du Nord è

come se non fosse mai esistita. Si rappresentano storie che appartengono o po-

trebbero appartenere al patrimonio comune d’una società senza frontiere: Shake-

speare; epopee asiatiche o africane; farse e storie sapienziali; la Carmen (che è

un’opera-archetipo); certe storie, evidentemente prodotte da comprovate anomalie

nel funzionamento del cervello, danno luogo a strambe vicende, eppure tali da su-

scitare sottili interrogativi in ciascun essere umano, capaci di aprire porte

sull’ultramondo (dopo L’homme qui..., da L’uomo che scambiò sua moglie per un

cappello di O. Sacks, nel 1994, è la volta di Je suis un phénomène, da Una memo-

ria prodigiosa di A.R. Lurija, in scena fra il 1997 e il 1999).

Ci si potrebbe chiedere cosa penserebbero coloro che nei primi anni del

Novecento avevano tentato di spingere in avanti i loro sguardi, immaginando una

Page 25: TEATRO TRECCANI - Unife

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palingenesi del t. adatta a resistere alle spinte della modernità, se potessero vedere

la pièce di Čechov nel grande t. dismesso della 42ª Strada di New York, o il t. de-

filato in rue du Faubourg Saint-Denis a Parigi. Penserebbero a una scena che ha

perso il suo baricentro culturale.

PERDITA DEL CENTRO

Nel pensiero comune, l’espressione perdita del centro si colora negativamente,

quasi fosse sinonimo di decadenza o di perdita del senso. Per il t. invece è stata la

salvezza. A partire dalla fine dell’Ottocento, molti avevano cominciato ad affer-

mare che il t. era destinato a sparire, a meno che non si fosse rinnovato nel suo

complesso, ridefinendo il proprio compito nella società alla luce delle profonde

trasformazioni delle moderne masse. Quando gli uomini di t. e gli intellettuali si

riunivano, finivano sempre con il parlare dell’imminente morte del teatro, molti

con paura, alcuni con allegria: era un’arte borghese e antiquata, aveva fatto il suo

tempo, lasciasse ora il posto ai grandi spettacoli di massa e al cinema. Ma il

t. non è morto. Eppure, non si è riorganizzato complessivamente alla luce d'un’

sua rinnovata funzione; non ha scoperto, in termini generali, una sua nuova anima;

non è affatto divenuto, nel suo insieme, quel luogo dell’autocoscienza e del dibat-

tito sociale e spirituale, quello specchio dell’anima, della classe sociale, del popo-

lo o della nazione che molti — sognando l’Atene dei tragici e d’Aristofane —

continuavano a sognare. Non s’è trasformato in una rete di nuovi templi dell’arte

o di tribunali morali, o di scuole della Ragione e della Storia. È restato, spesso,

un’arte attardata e ansimante che, per continuare a essere praticata, ha bisogno di

protezioni e sovvenzioni, una delle ‘specie a rischio’ della cultura. Ma non è spa-

rito.

Poiché, però, sembrava che logicamente sarebbe proprio dovuto scompari-

re, i discorsi sulla morte del t., iniziati alla fine dell’Ottocento, continuano a ripe-

tersi ancora oggi con le stesse parole e con punti di riferimento simili. Il cinema,

gli spettacoli dello sport, la televisione, il rock, le discoteche, il miracolo della

realtà virtuale sono alcuni dei fenomeni che di volta in volta sembrano decretare la

morte del teatro. Sicché i discorsi sulla sua fine imminente sono entrati a far parte

della routine teatrale esattamente come le stanche messinscene scolastiche dei

classici o i progetti pretestuosi sorti all'un’co scopo di attingere ai pubblici finan-

ziamenti.

A differenza delle profezie ripetute a proposito di altre arti (morte della

pittura, morte del romanzo ecc.), smentite anch’esse dai fatti, nel caso del t. la

previsione sfavorevole dipendeva non solo dal sorgere di forme espressive con-

correnti, dal mutare delle abitudini percettive e della mentalità, ma anche da cause

materiali: l’impossibilità di sopravvivere economicamente in un mercato domina-

to dagli spettacoli nati dalla rivoluzione tecnologica. E infatti il mercato teatrale si

è fortemente ridimensionato e, nel suo complesso, vive di sovvenzioni, non è più

Page 26: TEATRO TRECCANI - Unife

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un vero mercato, come ai tempi in cui la maggior parte del t. drammatico e dello

spettacolo leggero vivevano grazie al ricavato della vendita dei biglietti.

Le sovvenzioni diventano necessarie non solo per la concorrenza di altre

forme di spettacolo, ma soprattutto per l’inarrestabile crescita dei costi di produ-

zione dovuta a quella che gli economisti chiamano legge di Baumol. Soltanto in

apparenza sarebbero i t. più deboli a essere i più bisognosi. In realtà avrebbero

comunque bisogno di sovvenzioni innanzi tutto i t. che richiamano un maggior

numero di spettatori, nei quali si pagano i prezzi più alti per il biglietto. La ‘malat-

tia dei costi’, che la legge di Baumol interpreta, dipende dal crescere della forbice

fra il costo unitario di produzione nel settore degli spettacoli dal vivo, confrontato

con i costi nel settore manifatturiero. Poiché i salari dei settori con produttività

stagnante seguono gli incrementi retributivi del resto dell’economia, nell’industria

degli spettacoli il costo unitario finisce per essere sempre maggiore di quello dei

settori a produttività crescente (Baumol, Bowen 1966; Favaro 1998). Il dilemma

in cui si dibattono la vita e l’economia degli spettacoli in paesi dall’economia

avanzata si fa evidente assai prima dell’insorgere degli spettacoli registrati, alme-

no a partire dal sec. 18° e dal t. d’opera: attività che arricchiscono spiritualmente e

culturalmente una comunità sono però economicamente fallimentari e devono

quindi essere considerate quali pubblici servizi, oppure scomparire. Questo di-

lemma, al quale rispondono i finanziamenti al t., siano essi pubblici o privati (fon-

dazioni, sponsor ecc.), comincia a riguardare, nel corso del Novecento, anche il t.

drammatico e leggero, fino a che tutta l’economia dello spettacolo vivente viene a

dipendere, in maniera più o meno diretta, dai finanziamenti. Ma dovremmo chie-

derci se il t., almeno quello più povero, anche senza sovvenzioni sarebbe davvero

morto. È difficile crederlo. Si osservi, infatti, quel che accade in America Latina,

dove un’intensa vita di t. indipendenti si sviluppa senza alcun sussidio o con aiuti

molto modesti.

Le voci profetiche non parlavano solo del mercato. Quel che dicevano di

più definitivo era che il t. avrebbe perso di senso nella cultura moderna, nella so-

cietà dei grandi numeri, e che per questa perdita si sarebbe estinto. Ci si deve

quindi chiedere come abbia fatto a persistere, malgrado le condizioni avverse e

pur non realizzandosi quella sua palingenesi, quella nuova progettazione comples-

siva della sua funzione sociale che appariva la condizione necessaria per la sua

sopravvivenza. Invece di morire, o di mutare funzione nel suo complesso, si è dis-

seminato, adattandosi così alle nuove condizioni. La sua persistenza è legata al-

la perdita del centro, al crollo di un modello normativo centrale, cui uniformarsi o

al quale riferirsi per opposizione.

Osservando le tappe principali di questo processo, la perdita del centro è il

risultato di una serie di terremoti disseminatori. Ci sono state due grandi scosse:

una fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento; una nella seconda

Page 27: TEATRO TRECCANI - Unife

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metà del 20° secolo. E subito dopo, una disseminazione fuori dalle barriere, fuori

dai confini e dai canali tradizionali.

La prima scossa si originò dall’esigenza di liberarsi dal soffocamento pro-

vocato dal commercio teatrale, realizzando dei teatri d’arte. Il commercio teatrale

era per forza di cose tutto basato sul momento. Non permetteva incomprensioni

lunghe. Nel t. attivo non c’è l’equivalente del libro che quasi nessuno legge, del

quadro invenduto, della musica che quasi nessuno esegue, che invece permettono,

alla lunga, anche le innovazioni artistiche più ardite e sul momento incomprese.

Uno spettacolo che sul momento nessuno vuol vedere è semplicemente uno spet-

tacolo inesistente. L’idea di fondare dei t. d’arte nacque dall’esigenza di creare un

correttivo. Il t. d’arte non dipende dal grande pubblico, ma si rivolge a spettatori

scelti, vivendo — almeno nei progetti — non solo della vendita dei biglietti, ma di

sottoscrizioni e mecenatismo. È così che i diversi sistemi teatrali nazionali comin-

ciarono a essere punteggiati da enclaves, piccoli t. indipendenti, studi, atelier che

tendevano a ricostruire al loro interno il microcosmo teatrale, reinventandone ogni

componente, dalla cultura dell’attore alla pratica drammaturgica, dai modi di pro-

duzione allo spazio scenico, dalla definizione della leadership ai rapporti con gli

spettatori. Si presentavano come i prototipi del t. a venire. In realtà erano isole in

sistemi teatrali che non ne erano scalfiti. Si stagliano a posteriori nel panorama

storiografico, ma se li si va a vedere nella cronaca del loro tempo si constata quan-

to poco la loro differenza riuscisse a risaltare, quanto si confondesse con i nume-

rosi casi dei successi e degli insuccessi delle diverse vedettes del momento. Non è

solo l’ovvia incomprensione dei contemporanei. Sono i paradigmi stessi del modo

di osservare il t. a occultare la loro eccezionalità. La complessa attività sotterranea

messa in atto dai teatri-isola per la ricostruzione delle radici e della cultura profes-

sionale risultava invisibile alla visuale normale, fondata sull’ottica giornalistica,

che della vita teatrale osserva esclusivamente le punte emergenti, le novità, le

prime. Le isole più celebri possono essere considerate il Teatro d'Ar’e di Mosca

(fondato da K.S. Stanislavskij e V.I. Nemirovič-Dančenko nel 1898) e il Vieux

Colombier (fondato da J. Copeau a Parigi nel 1913), con gli ecosistemi teatrali

che si formarono loro intorno, a partire dagli studi e dalla scuola. Come è stato

acutamente affermato (Cruciani 1995), la ‘scuola’ apparentemente è una premessa

o una dependence del t. d’arte, in realtà ne è la quintessenza: è t. al massimo grado

di completezza, un t. globale dipendente dalle visioni di chi il t. lo fa, non da un

pubblico. Basti pensare alle scuole e agli atelier di V.E. Mejerchol´d, di Ch. Dul-

lin o di É.-M. Decroux. Un altro grande esempio di isola teatrale, alla metà del se-

colo, è costituito dal Berliner Ensemble, fondato a Berlino Est da B. Brecht e H.

Weigel, nel 1949 (dal 1954 ebbe la sua sede stabile al Theater am Schiffbauer-

damm). Ma non era più un vero e proprio t. d’arte, era un t. di Stato, come nel

frattempo era diventato anche il Teatro d’Arte di Mosca. Qualcosa che dal punto

di vista istituzionale partecipa d'un’ doppia natura, da un lato è paragonabile alla

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Scala o alla Comédie Française, dall’altro al Vieux Colombier o al primo Teatro

d’Arte di Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko (Meldolesi 1989). Gli esempi più

celebri hanno in qualche modo contribuito, proprio per la loro celebrità ed effica-

cia, calamitando l’attenzione, a distoglierla dal proliferare sempre più intenso del-

le enclaves. I grandi territori delle nazioni teatrali sono, a partire dall’inizio del

Novecento, sempre più fittamente bucati da piccoli e piccolissimi territori indi-

pendenti. I grandi territori delle nazioni teatrali non cessano d’esistere. Ma ora,

nella maggior parte dei casi, sono le enclaves a fare storia. Alla metà del secolo,

quando prese forma la grande eccezione del Berliner Ensemble, era ormai chiaro

che l’idea dei t. d’arte era trapassata nell’organizzazione dei t. di Stato, all’interno

del nuovo sistema di sovvenzioni che sostituisce il precedente sistema basato sulle

ditte-compagnie. I t. di Stato dipendono dalla tutela burocratico-politica. Sono ba-

sati su un mecenatismo spersonalizzato, che può essere incompetente, e che quin-

di può dimostrarsi peggiore, alla lunga, della tirannia del commercio. Dai teatri-

enclaves, pensati come avamposti di una trasformazione diffusa del sistema, si

passa ai teatri stranieri, stranieri in patria, che fanno parte per se stessi, la cui

identità consiste proprio nel non adeguarsi al sistema (su ciò v. teatro, App. V).

Basterà ricordare alcuni punti di riferimento: il Living Theatre, il Teatr-

Laboratorium di Grotowski, l’Odin Teatret, l’Open Theatre, il teatro di D. Fo, il

Bread and Puppet Theatre e la nozione di Terzo Teatro (Barba 1976; Schi-

no 1996).

Il rinnovamento del t. è avvenuto dunque per un processo di differenzia-

zione che ha visto l’affiorare di uno sciame di forme indipendenti, non omologhe

le une alle altre. Solo alcune di esse — spesso le più reclamizzate, le più finanzia-

te, ma non le più diffuse — discendono o paiono discendere dalla tradizione del t.

ottocentesco (detto anche teatro borghese). Ma accanto a esse sono sorti t. per po-

chissimi spettatori, t. dei più diversi tipi: t. di strada, politici, terapeutici, di massa

o d’isolamento, d’agitazione e propaganda, d’autocoscienza e di confessio-

ne, happenings e performances — molte funzioni e molte forme, sicché è divenu-

to ben presto impossibile dire “questo è teatro e questo non lo è”. In moltissimi

casi è divenuto altrettanto difficile dividere il t. amatoriale da quello professiona-

le. Il t., insomma, non ha affatto riscoperto una sua nuova funzione, ma le sue

possibili funzioni si sono moltiplicate.

Ciò che si è estinto, per le ondate della rivoluzione tecnologica e della cul-

tura di massa, non è stata la pratica teatrale, neppure la più passatista e la più vie-

ta, ma l’orientamento su un modello centrale. Il parcellizzarsi delle scelte non è un

impoverimento, un segno di dispersione; incrementa, al contrario, l’articolazione

delle idee e delle pratiche teatrali. Fa salire il numero delle differenze che genera-

no significati. In questa proliferazione di specie teatrali, distinguere fra t. regolari

e t. alternativi, oppure fra tradizione e avanguardia (o ricerca), come pretende un

vecchio paradigma storiografico e critico e come spesso pretendono i regolamenti

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delle politiche culturali, può facilitare il compito di coloro che amministrano il

pubblico denaro, ma non serve all’intelligenza.

All’inizio del Novecento esisteva un modello centrale di t. dal quale

le enclaves prendevano in maniera diversa le distanze. Nella seconda metà del se-

colo la consapevolezza dell’impossibilità di correggere il sistema teatrale attraver-

so riforme generali che si ispirassero ai teatri-prototipi si faceva sempre più diffu-

sa. Non si può cambiare il gioco — pensavano gli innovatori apparentemente più

bizzarri, in realtà più politicamente acuti -, bisogna dunque rifiutarsi di giocarlo. E

il rifiuto della routine tese a manifestarsi non più attraverso la creazione di model-

li riformati, ma come separazione dal sistema teatrale imperante. Un modello cen-

trale di t., insomma, non esisteva più neppure come bersaglio polemico. In sintesi,

perdita del centro ha voluto dire fine dell’egemonia del teatro di centro, del

t. normale. E questo determinava l’entrata in crisi di quel modello, tanto comodo

per pensare le differenze teatrali, che considerava semplicemente due emisferi:

quello del t. tradizionale e quello dell’avanguardia.

UNO SPERIMENTALISMO ‘DI CONDIZIONE’

Se le tensioni portanti del t. novecentesco vengono ricondotte sempre e solo a ca-

tegorie estetiche, riassumibili nella polarità tradizione/avanguardia, molti impor-

tanti aspetti della scena del 20° secolo restano in una penombra confusa. La storia

del t. novecentesco è infatti segnata da molte altre polarità, prima fra tutte quella

fra ordinamenti generali del t. ed enclaves; cioè fra t. che si orientano sui caratteri

e gli ordinamenti del sistema (magari auspicando rinnovati sistemi futuri) e t. che

si orientano invece prevalentemente all’interno di un loro territorio indipendente.

La distinzione fra ordinamenti generali del t. e teatri-enclaves va vista alla

luce di quel processo di disseminazione e di mutua differenziazione dei modelli

teatrali che ha permesso la persistenza del t. nel Novecento, e che dà luogo a nuo-

ve forme di sperimentalismo come invenzione di modi sempre diversi di adatta-

mento.

Il secondo Novecento vede il diffondersi di uno sperimentalismo teatrale

diverso da quello direttamente legato a poetiche o a intenzioni d’autore: uno spe-

rimentalismo per così dire di condizione, di situazione, frutto della marginalità e

dell’eccezionalità del t., quindi della sua necessità di reinventarsi in un’epoca in

cui lo spettacolo è prevalentemente cinematografico e televisivo. Nell’arcipelago

dei t. diversi, lo sperimentalismo è spesso uno sbocco, un risultato, più che

un’intenzione di partenza. Inoltre, mentre precedentemente lo spettacolo teatrale si

riferiva a un contesto culturale sostanzialmente omogeneo, nel secondo Novecen-

to esso deve fare i conti con forti dislivelli e forti differenze culturali anche

all’interno del proprio contesto d’appartenenza.

Muta anche la condizione viaggiante del t.: alle tradizionali tournée, ai giri

del teatro di giro presso pubblici sostanzialmente simili, tendono a sostituirsi, nei

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casi più significativi, veri e propri viaggi di t. che sono dappertutto ‘stranieri’. Le

vicende dell’Odin Teatret sono da questo punto di vista rappresentative d’una

condizione storicamente diffusa (v. teatro, App. V). Altri fenomeni diffusi, benché

di minore evidenza — come la trasmigrazione dei classici, gli incroci delle tradi-

zioni performative o le piccole tradizioni che si identificano con i t. che sorgono

fuori dai territori teatralmente organizzati — mettono in luce ulteriori aspetti dello

sperimentalismo di condizione.

Trasmigrazioni dei ‘classici’

Si pensi, per es., alle reinvenzioni sceniche delle tragedie greche, quasi tragedie

che risorgono dall’antico nel contesto della multiculturalità (come nel caso delle

reinvenzioni di opere tragiche greche da parte di R. Schechner, di T. Suzuki o di

W. Soyinka). Si pensi anche, per limitarci a un ulteriore esempio, alla trilogia di

Mozart-Da Ponte messa in scena da P. Sellars, con uno sperimentalismo registico

che sembra l’espressione d’una scoperta, più che d’una rivisitazione. In generale,

si può osservare il formarsi di una costellazione di classici che non corrispondono

più alle emergenze di repertori consolidati, e che neppure pongono in primo piano

la qualità letteraria delle opere, ma rispondono piuttosto all’esigenza di trovare un

insieme di archetipi dell’esperienza teatrale e drammaturgica. Costituiscono un

aspetto importante della tendenza al formarsi d’un paese del teatro virtualmente

unificato a livello planetario, che controbilancia lo stato di minoranza d’ogni sin-

golo t. nel proprio contesto.

Incroci delle tradizioni performative.

Non sono sempre sincretismo. Si è già detto come la progressiva marginalizzazio-

ne dello spettacolo vivente nell’orizzonte generale dello spettacolo in parte si

compensi con forti legami fra coloro che, nelle diverse parti del pianeta, praticano

professionalmente il teatro. Non solo aumentano l’interesse e la conoscenza reci-

proca, ma si creano forme stabili di contatto, di collaborazione e di produzione fra

esponenti di tradizioni precedentemente vissute ciascuna nell’autosufficienza del

proprio patrimonio artistico e culturale. In questo panorama virtualmente unificato

delle arti performative diviene vicino ciò che prima era sentito come distante o

addirittura estraneo. Nel mondo dello spettacolo occidentale si pensi alla distanza

fra t. in musica, t. di prosa e danza. Questa nuova contiguità fra tradizioni diverse

(che riguarda la cultura occidentale al suo interno e anche nei suoi rapporti con le

culture asiatiche o afroamericane) permette interferenze e quindi moduli espressi-

vi nuovi. A differenza di ciò che era accaduto in precedenza, tali interferenze non

sono il risultato di un programma di rinnovamento, ma il dato di fatto dal quale

partono il programma e il lavoro creativo, che non possono non tener conto d’un

mutato contesto professionale. L’ISTA (International School of Theatre Anthro-

pology), fondata da E. Barba, è la più lucida risposta a queste esigenze.

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Teatri che sorgono fuori dai ‘territori del teatro’

Questo fenomeno, che caratterizza fortemente il panorama teatrale soprattutto a

partire dagli anni Sessanta e soprattutto in Europa e nell’America Latina, consiste

spesso in una vera e propria reinvenzione del t., che solo in un secondo momento

si confronta con le tradizioni teatrali consolidate. In alcuni casi si tratta di un co-

sciente mettersi fuori, in altri casi questo è puramente e semplicemente il punto di

partenza obbligato. Assumono carattere sperimentale, in questo contesto, non solo

i modi espressivi, ma la globalità della cultura teatrale: dall’organizzazione

dell’ensemble alla drammaturgia; dall’economia alle modalità di rapporto con gli

spettatori; dal modo di organizzare l’alternanza stanzialità/viaggio al modo di de-

finirsi verso l’esterno e al proprio interno (identità culturale e artistica, ragione so-

ciale, senso della propria ‘necessità’). Particolarmente interessante è considerare

in che modo certe forme nate dalla reinvenzione del t. interagiscano con altre e, a

volte, con le grandi tradizioni, soprattutto quelle dei t. classici asiatici. Benché ab-

biano le dimensioni di una compagnia, la cultura e le visioni che si creano al loro

interno le configurano come piccole tradizioni indipendenti.

Le principali fonti di energia per la disseminazione e la mutua differenzia-

zione dei modelli sono, oltre alle teorie, i territori teatrali indipendenti

(o enclaves teatrali). Mentre il valore propulsivo delle teorie della scena è facil-

mente compreso, non altrettanto avviene per le enclaves: l’atto di circoscrivere un

territorio non viene capito come fondamento di un sapere. Eppure, a differenza di

ciò che sembra accadere quando la storia viene pensata in termini esclusivamente

libreschi, il t. muta in primo luogo entro quadri materiali, siano essi ordinamenti

generalizzati o territori separati. Non sono i metodi di lavoro, presi di per sé,

astrattamente intesi, che permettono i mutamenti. Un metodo è tale quando serve

per aprirsi la strada attraverso un territorio, un campo materialmente circoscrit-

to in cui lavorare.

Il fatto che alcune teorie sembrino restare sulla carta perché i loro autori

non hanno potuto o voluto tradurle in una continuità di lavoro, il fatto che restino,

per es., teatro-in-forma-di-libro (Taviani 1997²) non contraddice quanto appena

detto. Esse nutrono altri. È quando sono calate in una continuità di lavoro e di ri-

cerca all’interno d’un ben circoscritto territorio che divengono feconde. Ma

l’indipendenza del territorio non è solo la condizione necessaria o lo strumento

per la messa in pratica di nuovi valori. È in se stessa un valore. Quando si circo-

scrive un territorio e lo si separa dal continuum dell’organizzazione teatrale gene-

rale — dal sistema, nel senso corrente del termine — si realizzano le condizioni

per una reinvenzione profonda della pratica scenica, anche in assenza di teorie di

partenza, dato che il quadro d’un territorio autonomo diventa un luogo in

cui (non a cui) è necessario ricominciare a orientarsi escogitando soluzioni che, in

un secondo tempo, possono rivelare una portata estensibile ad altri e divenire teo-

rie — purché l’indipendenza resista un tempo sufficientemente lungo.

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Non si insisterà mai abbastanza sull’importanza che ha il separarsi per la

crescita della vita artistica e culturale, e quindi per l’incremento della socializza-

zione e dell’integrazione tramite differenze significative. La separazione, infatti,

non è mai assoluta. Le enclaves sono indipendenti, ma traggono le loro risorse

materiali e spirituali dal territorio circostante. Solo che di esso non sono semplici

porzioni e non ne assumono tutte le regole. Elaborano e conservano (quindi anche

trasmettono) propri ordinamenti, una propria peculiare risistemazione del reale.

Non propongono un’alternativa, ma sono alternativa. Le teorie offrono visioni a

cui orientarsi. I territori indipendenti sono luoghi in cui orientarsi. Quel paradig-

ma, o cliché del pensiero, che porta a pensare che ogni azione artistica innovativa

sia il risultato di una poetica non tiene conto del fatto che per orientarsi a una

nuova visione occorre un territorio sufficientemente separato dal t. ordinario, suf-

ficientemente indipendente per permettere la pratica della differenza, che altri-

menti si traduce solo nell’emergenza di qualche spettacolo dimostrativo e

d’eccezione ma senza alcuna continuità, senza le condizioni necessarie per speri-

mentare i principi e le ipotesi, coglierne le conseguenze impreviste, avere il tempo

di sbagliar strada e ricominciare da capo. Che l’opera nasca come realizzazione di

una poetica, come messa in pratica d’una teoria o d’una visione, è vero raramente

e soprattutto nell’ambito delle ricerche delle avanguardie storiche. In genere, si dà

il caso esattamente contrario. Sono le pratiche che, a volte, vengono messe in teo-

ria. Le poetiche, le teorie, i progetti possono essere visti come il seme dello spe-

rimentalismo quando vige un paradigma formale stabile e riconosciuto, quando

cioè la pratica teatrale si riferisce a un modello che definisce il teatro normale. Ma

quando questo modello centrale non funziona più, il cambiamento, lo sperimenta-

lismo non lo si progetta, non lo si pianifica: è frutto dell’esigenza di adattare i

propri bisogni e le proprie possibilità alle circostanze, si realizza spesso per prove

ed errori. Le poetiche quando vengono formulate lo seguono a fatica, spesso a

grande distanza: non lo guidano e, in genere, non lo capiscono. Ciò è vero non

soltanto per il t., tant’è che quel che qui si è applicato al t. ricalca volutamente

quanto è stato detto in maniera particolarmente sintetica e precisa per la letteratura

(Moretti 1994, p. 19).

La difficoltà a intendere lo sperimentalismo teatrale preponderante nel

passaggio fra 20° e 21° secolo fa parte d’una più generale difficoltà a tradurre in

nuovi paradigmi per l’osservazione le radicali metamorfosi del teatro. Tali diffi-

coltà non soltanto rendono problematico pensare il teatro in maniera appropriata

da un punto di vista critico, teorico o storico, ma hanno anche conseguenze prati-

che immediate e importanti, in un’epoca in cui i t. traggono il proprio sostenta-

mento dall’essere riconosciuti beni culturali da sovvenzionare.

Quando i t. non sono più ditte che vivono del proprio commercio, venden-

do spettacoli che gli spettatori stessi pagano; quando i biglietti degli spettatori non

bastano più e divengono una risorsa economicamente non essenziale; quando sono

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entità burocratiche, uffici o commissioni a sovvenire alle necessità di quel bene

culturale che è lo ‘spettacolo vivente’, allora assumono importanza centrale i cri-

teri adottati per selezionare le attività cui erogare denaro. Tali criteri in parte di-

pendono dalle emergenze che caratterizzano la pratica teatrale, ma in gran parte

contribuiscono a modellarla.

Suddividere i t., per es., nei due emisferi d’un t. supposto normale (sia esso

denominato di tradizione o primario) e un t. supposto diverso (sia esso di ricerca,

d’avanguardia, nuovo, sperimentale, scolastico; oppure tale da manifestarsi attra-

verso progetti speciali) vuol dire spingere la multiforme realtà dei t. a plasmarsi

più o meno sostanzialmente sui tracciati d’un panorama artificioso. È l’esempio

macroscopico d’un meccanismo stretto nella contraddizione fra l’intento di prov-

vedere e l’impossibilità di prevedere. È vero, infatti, che non si può provvedere a

un complesso di attività se non prevedendone e auspicandone un determinato svi-

luppo. Ma è altresì vero che nel campo delle attività artistiche gli sviluppi che

davvero contano, che hanno efficacia e valore, sono quelli imprevisti, sono quel

tipo particolare di risposte efficaci che, per così dire, fanno emergere e danno fon-

damento a domande cui quasi a posteriori rispondono. Tale paradosso solo appa-

rente normalmente caratterizza, invece, la vita delle arti, ma nel campo dell’arte

teatrale diventa pietra di inciampo, perché il t. non è quasi mai possibile farlo con

le proprie forze, e il sussidio economico non serve per finanziare la diffusione del

risultato raggiunto, ma appunto per permettere un processo che miri a un risultato.

In genere, esiste una sorta di soggettività nell’erogazione dei finanziamenti

ai teatri. I gusti delle commissioni, la loro maggiore o minore capacità di rendersi

conto delle trasformazioni in atto, le loro scale di valori culturali, sociali, estetici

finiscono per coincidere con le regole economiche che presiedono alla selezione

naturale nell’ambiente teatrale. D’altra parte, il desiderio — o il sogno — di indi-

viduare dei criteri oggettivi di selezione si rivela deleterio o vano. Deleterio e con-

traddittorio in se stesso, quando crea scale di valori basate sull’idea della diffusio-

ne del consenso, valutando, per es., il numero degli spettatori o dei lavoratori delle

compagini teatrali, e cioè trattando come ditte dedite al profitto quelle realtà e

quegli insiemi che attingono a un’economia del mecenatismo proprio perché ditte

non sono e non potrebbero essere. Poiché non producono beni o servizi di cui sia

possibile valutare con sufficiente chiarezza, in tempi brevi, il beneficio, la portata,

la rispondenza alle esigenze dei fruitori, i criteri di valutazione non potranno che

essere soggettivi. È anche vero che il mecenate pubblico non può comportarsi

come un vero e proprio mecenate o come un privato imprenditore: deve poter ren-

dere pubblicamente conto delle proprie scelte, non può semplicemente seguire le

proprie intuizioni, i propri gusti, la propria personale giustificazione a rischiare.

Al posto degli impossibili criteri oggettivi si avranno quindi tentativi di mediazio-

ne fra interessi e giudizi più o meno disomogenei, alla ricerca ogni volta di un in-

stabile equilibrio fra l’esigenza di non bloccare l’emergere del nuovo e

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dell’imprevedibile, e la necessità di operare un controllo che eviti l’eccesso di pa-

rassitismo e che permetta di regolamentare e giustificare le scelte. Non si può spe-

rare che si assesti in un sistema di regole davvero soddisfacenti. Anche se — co-

me alcuni auspicano — si sostituissero ai sussidi in denaro i cosiddetti sussidi in

natura o input subsidies (sede teatrale, apparecchiature tecniche, servizi ammini-

strativi, organizzazione di tournée ecc.), le contraddizioni fondamentali non cesse-

rebbero di ripercuotersi sui risultati. L’insieme delle contraddizioni potrebbe infat-

ti definirsi, in due parole, come esigenza di pensare correttamente le condizioni

adatte all’emergere dell’impensato. Il sistema delle sovvenzioni non va certo con-

siderato perverso. Quasi tutto quel che di importante è avvenuto nel t. del secondo

Novecento, quasi tutto ciò che ne ha incrementato il valore e ha concorso ad

aprirgli spazi e prospettive impensate e feconde, sia dal punto di vista della qualità

estetica sia da quello della sua incidenza sociale, non avrebbe potuto realizzarsi

fuori di tale sistema. Ciò non toglie che occorra dar conto anche della sua patolo-

gia.

Gli spettacoli sovvenzionati sono sempre esistiti (si pensi all’economia

dell’opera lirica dal 18° sec. in poi). Per trovare una diagnosi lucida e precoce del

tipo di censura che il sistema delle sovvenzioni comporta, basta leggere, per es., i

resoconti del processo (in app. al 1° vol. di V. Hugo, Théâtre complet, Paris 1963)

che oppose V. Hugo alla Comédie Française. Hugo individua nella censura che

opera sulle forme piuttosto che sui contenuti, nella censura “di gusto” piuttosto

che in quella politica o ideologica, la tendenza più deleteria del regime del t. sov-

venzionato.

La patologia del sistema delle sovvenzioni diventa però particolarmente

virulenta quand’esso regola la globalità dello spettacolo vivente. L’intera vita ma-

teriale del t. diventa così eterodiretta, innescando un tipo di competizione e una

lotta per la sopravvivenza che dipendono da elementi estranei all’efficacia o alla

qualità del lavoro. In questo modo, i criteri adottati per garantire la sopravvivenza

del t., inteso come bene culturale, possono perfino ritorcersi contro le loro stesse

finalità.

Poiché coloro che fanno t. traggono le proprie risorse non da coloro per i

quali lo fanno, ma da una commissione lontana, che non è in grado di controllare

direttamente le attività finanziate, il progetto in base al quale si ottengono i finan-

ziamenti tende a essere più importante del risultato. Non solo la qualità del proget-

to è più redditizia della qualità del risultato, ma gli echi

sui media (immediatamente rilevabili) possono divenire più importanti delle effet-

tive reazioni degli spettatori (che sfuggono alla verifica veloce). Gli uffici stampa,

cioè, producono più ricchezza degli spettatori appassionati e fedeli. Il sistema, in-

somma, tende a premiare più l’abilità nell’intessere relazioni con gli enti finanzia-

tori che non l’efficacia artistica, determina cioè un equivalente della selezione na-

turale che può essere del tutto estraneo alla competizione artistica. Fra un uomo di

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t. politicamente abile nelle relazioni pubbliche ma artisticamente senza seguito, e

un altro capace di aggregare spettatori ammirati ma inabile nei meandri burocrati-

ci, è infatti il primo a prevalere. Il fatto che la qualità del progetto diventi più red-

ditizia della qualità del risultato non è soltanto causa di storture (parassitismo, at-

tività esistenti solo sulla carta, clientelismo ecc.), ma incide su qualcosa di assai

più essenziale. I finanziamenti, nel migliore dei casi, premiano una qualità pensata

e realizzata all’ingrosso, per linee generali (l’organizzazione d’una stagione, un

repertorio, un festival, un progetto speciale, gli intenti generali d’una messinsce-

na), mentre l’efficacia d’una pratica artistica dipende in massima parte dalla quali-

tà dei dettagli. Basta questo a indicare come siano le basi stesse dell’arte teatrale,

le sue vene profonde, a essere di fatto svalutate da un regime generalizzato di sov-

venzioni. Il quale, inoltre, non crea condizioni adatte all’equilibrio (vitale per

l’esercizio d’ogni pratica artistica) fra produttori e fruitori competenti. Tende anzi

ad alterarlo e a renderlo impossibile proprio per rispondere alle sue stesse ragioni

sociali, che consistono nel provvedere alla sopravvivenza e alla diffusione d’un

bene culturale pubblico (per quest’ultimo punto, cfr. Gay 1998). Si aggiunga, poi,

che per il cosiddetto t. drammatico è assai debole e problematica quell’azione di

controllo organico e informale esercitata dai fruitori competenti. Mancano, infatti,

tradizioni precisamente codificate e quindi metri di giudizio fortemente condivisi

(al contrario di quanto invece accade per l’opera, il balletto o le forme classiche

dei t. e delle danze asiatiche). Si potrebbe dunque dire, per riassumere la questione

in maniera un po’ forte (ma solo perché in sintesi), che l’arte scenica non può es-

sere protetta che degradandola.

Il sistema delle sovvenzioni tende a funzionare per vie parallele rispetto a

quelle dell’effettiva crescita dei valori culturali e artistici. Fra l’economia dello

spettacolo vivente e il suo valore tende a svanire ogni rapporto. Il che vuol dire

che chi cerca nel t. un’alta qualità artistica, un valore intimo e sociale, una via per

trascendere le circostanze, deve farlo malgrado il sistema materiale nel quale è in-

globato, o indipendentemente da esso. E — per coloro che fanno t. in vista, oltre

che del guadagno, anche della qualità artistica e umana — diventa parte

dell’artigianato e dell’etica professionale la capacità di contrastare, attraverso il

proprio lavoro, le inclinazioni indotte dal sistema che lo sostenta.

LA STORIA ‘DENTRO’ IL TEATRO

Rivolgendosi ai paesaggi teatrali così come appaiono nella quotidianità della cro-

naca, sembra che affiori un panorama del tutto diverso, una normalità che non è

troppo lontana dal t. ‘com’è sempre stato’, spettacoli di successo, festival che fan-

no parlare di sé, messinscene di classici, persino — anche se assai raramente — il

breve clamore suscitato da una novità, un testo di particolare richiamo e forse di

grande qualità letteraria. Osservando il t. sempre alla vecchia maniera, è sempre il

vecchio assetto che naturalmente appare. La documentazione offerta dai media,

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che deve per necessità enucleare ciò che sul momento fa notizia, erige cortine che

in quest’ambito sono particolarmente difficili da penetrare. La difficoltà maggiore

consiste nel riuscire a distinguere, al di là delle apparenze e dei ‘chiassi’, la storia

dalle cronache: la storia che s’è mossa e si muove dentro il t. del 20° secolo, quel-

la che in qualche modo ne costituisce lo scheletro e non lo fa crollare. Questa dif-

ficoltà dello sguardo riverbera una scissione ben concreta. Ciò che collegava i di-

versi innovatori della prima metà del secolo non erano elementi comuni di poeti-

ca, o somiglianze ideologiche. Era il rifiuto.

Copeau diceva che l’indignazione contro la falsità e la volgarità delle sce-

ne era il primo motore della sua avventura e delle sue creazioni. Tant’è che la sua

storia può essere raccontata come un continuo “scappare dal centro” (Crucia-

ni 1995, pp. 245-71). E. Duse, benché fosse erede del tradizionale sistema delle

compagnie-ditte, fu anche l’antesignana d’una ricerca dell’arte scenica attraverso

il rifiuto del t. presente. E per questo, pur appartenendo alla cultura e alla pratica

dell’attore autosufficiente, poté trovarsi in profonda sintonia con gli inventori del-

la regia, i riformatori del t., da Stanislavskij a Copeau (Schino 1992).

Poiché si è diffusa lungo il 20° secolo una nuova specie di t. — che cerca o

reinventa visibilmente il proprio senso, numericamente ed economicamente mino-

ritario, ma egemone sul piano delle idee -, fra gli spettacoli teatrali ordinari e gli

avamposti che sembrano reinventare il t. veniva ad aprirsi una distanza che a poco

a poco è divenuta incolmabile, sicché a un certo punto è parso che fra i due ver-

santi non potesse esserci né paragone né rapporto. L’identità del t. novecentesco

sembra quindi perdersi nel momento stesso in cui si cerca di cogliervi un profilo

unitario.

Alla morte di Grotowski molti pensarono che per il t. si fosse conclusa

un’epoca. Il Novecento teatrale non è stato, per usare l’espressione di E.J. Hob-

sbawm, un ‘secolo breve’. Utilizzando estremi convenzionali, è durato proprio

cent’anni, dal 1898, da quando cioè Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko fonda-

rono il Teatro d’Arte di Mosca e aprirono la stagione della Grande riforma delle

scene, fino alla morte dell’ultimo grande riformatore, polacco e apolide (Grotow-

ski appunto), nel gennaio 1999.

I riformatori non furono utopisti. Hanno realizzato i modelli di isole teatra-

li ben concrete. Nei cent’anni del suo non-breve secolo, il t. ha mutato pelle. Ac-

canto allo sperimentalismo estetico ne è comparso un altro, legato alle zone di

frontiera, nato dalla necessità di rendere centrali i resti, cioè quel che i paradigmi

dominanti considerano marginale nella società e nell’individuo. È fuoriuscito dai

luoghi tradizionali. Ha spostato le sue funzioni sociali. Ha potuto assumere i con-

torni d’un laboratorio in cui sperimentare non solo le vie della scena, ma anche la

qualità di nuove relazioni fra individui e all’interno dell’individuo. Mentre passa-

va da un’economia di mercato all’economia delle sovvenzioni, mentre trasmigra-

va dall’etnocentrismo occidentale verso una dimensione multiculturale, e i t. clas-

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sici asiatici entravano a far parte del normale bagaglio del sapere scenico, il t. è

sfociato in ambiti che nella moderna civiltà europea gli erano stati di norma estra-

nei: la militanza politica, l’utopia sociale, la ricerca spirituale e persino la discipli-

na iniziatica. È divenuto a volte il luogo del riscatto e della rivolta non distruttiva.

In alcuni casi ha ripercorso le vie di antichi paradossi coniugando nichilismo e

dedizione, anarchia e autodisciplina, ascetismo e sensualità. Quando le cronache

ripercorrono i fasti del t. novecentesco occorre dunque saper vedere, dietro la fan-

tasmagoria dei nomi e delle imprese, altri fili più ruvidi ma storicamente più signi-

ficativi che tirano le vicende teatrali l’una lontana dalle altre e le pongono di volta

in volta in relazione a punti sempre diversi del panorama generale della cultura del

tempo. I fasti sono il riassunto di superficie di questa storia più complessa, che

converrà ricapitolare come in una cavalcata fra le figure.

Un immaginario Walhalla dei teatri.

Se si immaginasse un ideale pantheon o Walhalla del t., giunti nelle sale del 20°

secolo non vi troveremmo (come per i secoli precedenti) solo prosopopee d’autori

e d’attori, titoli di pièces e qualche data di festa memorabile, ma esse sarebbero

occupate soprattutto da figure d’un altro genere: autori di regie. ‘Regie’ e non

semplicemente ‘spettacoli’, perché uno spettacolo è un avvenimento, mentre la

regia è un’opera (un opus) che può persino mantenersi per decenni, mutando gli

attori ma conservando il disegno della partitura spettacolare. I registi sono i nuovi

autori teatrali, con tutti i crismi che hanno gli autori nelle altre arti.

Si troveranno, quindi, nel nostro scenico Walhalla novecentesco, registi-

profeti come A. Appia, G. Craig, G. Fuchs; maestri e fondatori di teatri come A.

Antoine e il capostipite Stanislavskij; Copeau e M. Reinhardt; A. Tairov, G.

Pitoëff; E. Vachtangov e le sue messinscene di Dibbuk e Turandot; Mejerchol´d,

circondato da uno sterminato ventaglio d’esperimenti e creazioni (il

suo Revisore può essere considerato l’impresa teatrale più alta del secolo); i gran-

di spettacoli politici di E. Piscator e le messinscene di Brecht al Berliner Ensem-

ble; gli spettacoli di L. Schiller al Teatro di Stato di Varsavia; l’Oreste e

la Locandiera di L. Visconti; El nost Milan, il Galileo e le Baruffe chiozzotte di G.

Strehler; Brook a Londra (le sue regie shakespeariane, il Marat-Sade o il civi-

le US) e Brook a Parigi, con i grandi paesaggi senza angustie di patria e di tempo

del suo Mahābhārata, composto assieme al drammaturgo J.-C. Carrière. E ancora

altri grandi come J. Vilar, P. Grüdgens e O.Welles, K. Swinarski e O. Krejča, A.

Mnouchkine e P. Stein, I. Bergman e A. Wajda, K.M. Grüber e P. Zadek, V. Gar-

cía, P. Chéreau, Ju. Ljubimov, A.Vitez, C. Peymann e L. Ronconi, esploratore dei

drammi abnormi, dei palcoscenici tradizionali e delle loro macchine, inventore —

come già Reinhardt — della teatralità di spazi non teatrali. Ma accanto alle regie,

che sono messinscena di testi letterari drammatici, si troverà un genere d’opere e

d’artisti ancor più estranei alle antiche configurazioni teatrali, spettacoli che non

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sono interpretazioni e messinscene di drammi preesistenti, ma frutti d’una ‘scrittu-

ra scenica’ ispirata ora a un testo, ora a una storia o a un’immagine. Si potrebbero

definire spettacoli autoctoni. Quasi sempre richiedono, per comporsi, un gruppo

stabile di compagni, una storia comune e condivisa, la capacità d’addentrarsi col-

lettivamente nel labirinto d’un processo creativo.

Quest’insieme di drammaturgie-messinscene autoctone abita quasi esclu-

sivamente la seconda metà del secolo: Oh, what a lovely war! di J. Littlewood e

del suo Theatre Workshop; Akropolis, Il principe costante, Apocalypsis cum figu-

ris di Grotowski e del suo Teatr Laboratorium di Wrocłav, in Polonia; La classe

morta di T. Kantor, anch’egli polacco; Mysteries and smaller pie-

ces, Antigone, Paradise now del Living Theatre, che fu l’antesignano; Ferai, Min

Fars Hus, Ceneri di Brecht, Il Vangelo di Oxyrhinco di Barba col suo Odin Tea-

tret; gli spettacoli del gruppo statunitense Bread and Puppet, quelli di J.Chaikin, di

R. Wilson, Orghast di Brook e T. Hughes a Persepoli, in una lingua originaria in-

ventata, Mistero buffo di Fo, e i molti altri che in ogni continente dimostrano

l’indipendenza di principio della drammaturgia teatrale dalla letteratura dramma-

tica (la dipendenza o addirittura la simbiosi era invece apparsa a lungo natura-

le). Mysteries (1964), Il principe costante (1965), Mistero buffo (1969), Min Fars

Hus(1972), La classe morta (1975), il Mahābhārata (1985) possono essere consi-

derati i punti salienti del t. autoctono del secondo Novecento. Non quelli che han

sollevato più clamori, ma quelli che più profondamente l’hanno segnato come ri-

velazione d’un modo d’essere del t. che trascende i suoi limiti e assume inaspetta-

te fattezze, inaspettata efficacia come profondo valore di vita. Fra gli spettacoli di

messinscena e gli spettacoli autoctoni non sempre la differenza è netta (un esem-

pio è il t. di Brook).

La sala dei libri.

Sarebbe davvero un errore limitare ai drammi la presenza attiva della letteratura

nel t. del Novecento. Esistono libri come Il teatro e il suo doppio di A. Artaud

(1938), o Per un teatro povero di Grotowski (1968), o anche opere che apparen-

temente seguono le convenzioni della critica letteraria o della storia delle arti, co-

meShakespeare nostro contemporaneo di J. Kott (1961) e Il trucco e l’anima di

A.M. Ripellino (1965), che hanno fatto t. non meno di certi grandi spettacoli o

certi grandi testi drammaturgici. I teatri-in-forma-di-libro, tra i caratteri originali

della civiltà teatrale del Novecento, sono “teorie che hanno la consistenza di

un’opera creativa non meno di un complesso di testi drammatici o di spettacoli.

Alcune di queste teorie (si ricordi che tale parola originariamente significava ‘vi-

sioni’) non vanno considerate come discorsi sul teatro ma vere e proprie opere di

teatro” (Taviani 1997², p.13). Il teatro e il suo doppio è l’esempio estremo della

necessità di tradurre con gli strumenti della letteratura un rinnovamento talmente

profondo da non poter far appello all’esperienza immediata del lettore. Artaud af-

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fida al suo libro l’esperienza d’un t. che rifiuta il predominio della letteratura, la

pratica della verosimiglianza, il lusso culturale. Parla in nome di un’arte necessa-

ria allo spirito come il pane al corpo, indica i sentieri dell’efficacia che può tra-

sformare il t. in “poesia nello spazio”, sortilegio capace di reintegrare l’individuo

al di là della dicotomia corpo-spirito e intenzione-azione (Ruffini 1996).

Una parte importante del rinnovamento teatrale della prima metà del seco-

lo si realizza attraverso teatri-in-forma-di-libro. Traducono le proprie visioni in

pagine di efficace letteratura proprio alcuni dei principali nemici della letteratura a

t.: Craig pubblicò The art of the theatre nel 1905 e Towards a new thea-

tre nel 1913; Appia pubblicò Die Musik und die Inszenie-

rung nel 1899 e L’Oeuvre d’art vivant nel 1921; Fuchs pubblicò nel 1909 Die Re-

volution des Theaters e nel 1911 Die Sezession in der dramatischen Kunst. Per

costoro, come poi per Artaud, il teatro-in-forma-di-libro fu la realizzazione prin-

cipale. Si deve sottolineare il termine realizzazione, per non cadere nell’illusione

che la scrittura sia per loro un ripiego, o la forma dell’utopia. E infatti, per altri,

realizzare t. in termini letterari è una via accanto a quella della realizzazione tra-

mite spettacoli, scuole o testi drammatici. La ricca produzione di scritti di Stani-

slavskij, che si sviluppa negli anni Venti e Trenta con vicende editoriali rese anco-

ra più complesse della fama di quegli scritti spesso tradotti e ridotti, o pubblicati

in traduzione prima che in originale, costituisce un insieme di opere che per lungo

tempo sono apparse d’interesse esclusivamente pratico, manuali a volte prolissi,

ricchissimi di dettagli, per l’addestramento dell’attore. In realtà, l’autore li ha pen-

sati come un’enorme architettura che con i suoi rinvii e le sue ripercussioni inter-

ne, con i suoi meandri e sdoppiamenti, tenta di coinvolgere il lettore all’interno di

un’idea, di un’ombra, un equivalente per iscritto di un reale processo di iniziazio-

ne al t. (Ruffini 1991). Fu teatro-in-forma-di-libro, accanto alla composizione

drammaturgica e prima delle regie al Berliner Ensemble, il t. di Brecht, che negli

anni del nazismo e dell’esilio aveva affidato a pagine teoriche e a versi didascalici

le proprie idee sulla messinscena, sul disincanto che dovrà dar sapore al rapporto

fra attori e spettatori, sulla funzione dialettica del teatro. Anche negli anni Cin-

quanta e Sessanta, gli scritti teorici di Brecht, la sua idea di t. anti-aristotelico, fu-

rono un fatto teatrale d’influenza più vasta degli spettacoli messi in scena al Ber-

liner Ensemble dallo stesso Brecht e dalla sua équipe. Persino i suoi drammi ven-

nero visti sovente come esemplificazione, piuttosto che vera e propria realizzazio-

ne, della sua visione: il t. come strumento scientifico (e quindi esteticamente gu-

stoso per la precisione e nettezza dell’analisi), capace di rivelare i reali rapporti di

forza che muovono nel profondo gli avvenimenti umani e si camuffano invece

sentimentalmente nelle traversie del t. borghese. E anche Per un teatro povero di

Grotowski ebbe un’influenza di per sé, per la sua forza di libro, quasi indipenden-

te dagli spettacoli realizzati dal grande artista e innovatore polacco. Alla tradizio-

nale autobiografia degli artisti di t. si sostituisce sempre più spesso il libro in cui

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l’artista traduce il senso della propria esperienza, la tecnica, le visioni, e cioè

un’immagine del t. come arte, artigianato e trascendenza: The empty space di

Brook; La vita del teatro e Theandric di J. Beck; La canoa di carta di Barba, dove

l’autore, quasi facendo propria l’oscillazione che caratterizza i teatri-in-forma-di-

libro, alterna capitoli autobiografici a meticolose disamine dei comportamenti ri-

correnti nelle diverse tradizioni europee e asiatiche. Un’oscillazione fra l’analisi

fredda e il racconto fervente che accenna al bisogno di trascendere il t. tramite il

teatro. Il teatro-in-forma-di-libro rappresenta in maniera particolarmente evidente

il processo di liberazione del t.: che comincia con l’essere liberazione dal com-

mercio e dalle sue regole e finisce con il divenire liberazione dal t. stesso, cioè da

alcune di quelle regole e convenzioni che sono a lungo apparse necessarie a di-

stinguere ciò che è t. da ciò che non lo è.

La sala Italia.

Osservando più da vicino ciò che accade nella ‘sala-Italia’ del pantheon teatrale

novecentesco appare in primo luogo la sala dominata da Pirandello e dalla Duse.

Per quanto riguarda la drammaturgia, essa è dominata dalle lingue regionali. Per-

sino Pirandello vi affonda le radici. Gli altri grandi drammaturghi novecenteschi

sono attori: R. Viviani, E. De Filippo, D. Fo. Quando, nell’ottobre del 1997, Fo fu

insignito del premio Nobel per la letteratura, molti (ma quasi soltanto in Italia)

reagirono scandalizzati. Dal loro punto di vista avevano delle ragioni: nelle moti-

vazioni del premio si menzionava sia l’uso politico del t. sia il valore della lettera-

tura orale, sancendo attraverso il più accademico dei riconoscimenti il meno acca-

demico mutamento del t. novecentesco. A questi attori-drammaturghi sono vicini

(malgrado l’enorme dissomiglianza d’aspetto) attori-autori che si allacciano alla

tradizione delle avanguardie artistiche del Novecento: C. Bene e L. De Berardinis,

autori di spettacoli e non di normali testi teatrali. Bene (anche importante autore

cinematografico e scrittore) a partire dai primi anni Sessanta

crea Pinocchio, Salomè, Nostra Signora dei Turchi. Nei decenni seguenti, le

sue performances vocali si impongono come concerti d’una sapienza difficilmente

eguagliabile. Gli spettacoli di De Berardinis sono anch’essi opere memorande per

se stesse, sia quando nascono senza l’appoggio di testi preesistenti, sia quando

reinventano un testo di poesia. A partire dall’inizio degli anni Settanta: ‘O zappa-

tore, Sudd, Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto, fino a Novecento e Mille alla fine

degli anni Ottanta e alla messinscena de I giganti della montagna. Oltre che alla

tradizione delle avanguardie storiche e a quella degli attori-drammaturghi (che in

Italia caratterizza quello che viene chiamato il teatro dialettale), Bene e De Berar-

dinis andrebbero ricollegati anche alla linea degli uomini-teatro, quelle personalità

che identificano in sé, nella propria persona più ancora che nei propri personaggi,

un’originale invenzione scenica.

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La sala degli scherzi della memoria.

Si pensi a E. Petrolini, L. Fregoli, Y. Guilbert, K. Valentin o persino a una perso-

nalità come F. Wedekind. In genere, le donne o gli uomini-teatro (quando non tra-

ducono la loro presenza in scrittura, come Wedekind), malgrado la potente in-

fluenza della loro presenza, restano poi in ombra nella memoria storica, e la loro

figura si appiattisce nel ricordo, come se non fossero stati nient’altro che virtuosi

o anomalie di successo. La loro arte e la loro intelligenza, che si manifestava in

sapienti ragnatele d’azioni, sparisce dentro la tomba d’un grande nome. La com-

plessità di figure come quella del ‘mago’ Houdini (nome d’arte di E. Weiss) o del

giocoliere E. Rastelli si riduce a nomi quasi proverbiali e privi di densità. È una

tendenza che corrode le ‘arti di persona’ e costituisce una delle più gravi remore

per lo sviluppo della cultura teatrale. Gravida di conseguenze negative, infatti, non

è la perdita di memoria, ma il fatto che la memoria si protragga attraverso la bana-

lizzazione. Si immagini — per farsi un’idea dell’incoscienza storica che deriva dai

processi di banalizzazione della memoria — a che cosa di ingenuo e buffo assoce-

remmo oggi al gran nome di Chaplin, se di quel comico non potessimo tornare

ogni volta a rivedere con stupore le opere, le contraddizioni, l’ardua lotta contro la

sua stessa fama. Vi sono poi figure che dovrebbero giganteggiare e che invece re-

stano nascoste per la loro stessa originalità. Uno dei più grandi maestri del t. del

Novecento gode d’una fama ancipite: venerato da alcuni, influente per vie sotter-

ranee sul t. quasi d’un intero secolo, capace di collegare la generazione dei Craig,

dei Copeau, dei Dullin, a quella di Fo e di Barba, resta ignoto ai più e malnoto an-

che a molti di coloro che sanno di teatro: É.-M. Decroux, allievo di Copeau, mae-

stro di J.-L. Barrault e di M. Marceau, codificatore del mimo moderno, vero e

proprio artista-scienziato dell’azione fisica. Ha tenuto scuola dagli anni Trenta

agli Ottanta, e i suoi allievi di diverse generazioni costituiscono una di quelle reti

sotterranee del t. internazionale che feconda la cultura scenica del 20° secolo. Un

suo libro, Paroles sur le mime (1963), trasmette la sua eredità in una lingua preci-

sa ed evocatrice, cartesiana e poetica.

La sala del teatro libero, ovvero della secessione.

Antoine fondò nel 1887 il Théâtre Libre e nel 1889 O. Brahm a Berlino aprì la

Freie Bühne; a Londra, nel 1891 venne aperto l’Independent Theatre (all’inizio,

l’emblema dell’indipendenza dal commercio e dalla routine prevale sul richiamo

diretto alla ricerca artistica). Nel 1893 Lugné-Poe aprì il Théâtre de l’Oeuvre.

Nel 1897, come s’è detto, inizia la storia del Teatro d’Arte di Mosca. E quin-

di: 1904, Abbey Theatre di Dublino diretto da W.B. Yeats e Lady Gregory; 1907,

a Stoccolma, J.A. Strindberg e A. Falk fondano l’Intima Teater. Con lo stesso

nome era sorto tre anni prima un piccolo t. d’arte a Barcellona: l’intimità nel rap-

porto fra scena e sala era legata all’idea di una recitazione sommessa e sensibile ai

piccoli mutamenti, e rispondeva al bisogno d’indipendenza dai gusti prevalenti fra

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il pubblico. Intanto, alcuni registi innovatori passavano a dirigere grandi t. ufficia-

li: Reinhardt nel 1905 assunse la direzione del Deutsches Theater; Antoine

nel 1906 passò a dirigere a Parigi l’Odéon e Mejerchol´d nel 1908 venne assunto

come regista per i t. imperiali di San Pietroburgo: sia Reinhardt che Mejerchol´d

aprirono accanto ai grandi istituti teatrali dei piccoli t. da camera protetti dalla

prepotenza normativa dei gusti maggioritari. Già da tempo, accanto al Teatro

d’Arte di Mosca si erano aperti degli Studi per rendere possibile la libertà di ricer-

ca di attori, giovani registi e dello stesso Stanislavskij: nel 1905 vi aveva operato

il trentenne Mejerchol´d, poi, negli anni e nei decenni seguenti, L.A. Suleržickij,

M. Čechov ed E.B. Vachtangov. A Parigi, nel 1913, Copeau fondò il t. del Vieux

Colombier, che con la sua attività, la sua scuola, e la sua stessa chiusura,

nel 1924 (quando il gruppo si trasferì in Borgogna), diede vita — direttamente e

indirettamente — alla generazione che creerà la civiltà teatrale francese del 20°

secolo. Copeau lanciò l’idea dei ‘piccoli teatri’ come cellule di un’arte rinnovata.

A quest’idea si riferirà la Duse negli ultimi anni della sua attività per contrastare i

progetti di un Teatro nazionale di Stato. Nel 1947, al programma di Copeau si ri-

chiamerà esplicitamente il programma di fondazione del Piccolo Teatro di Mila-

no, diretto da P. Grassi e G. Strehler. A esso si richiamerà anche il t. fondato dalla

Mnouchkine alla Cartoucherie di Parigi. Nel 1914 A. Tairov aprì a Mosca un t. da

camera; J. Osterwa fondò a Varsavia il Teatr Reduta nel 1919; nel 1921 Dullin

fondò il teatro dell’Atelier, ed ebbe fra gli attori e gli allievi personalità come Ar-

taud, Decroux, Barrault. Intanto Reinhardt alternava spettacoli per migliaia di

spettatori a spettacoli intimi, e F. Gémier, che aveva inscenato spettacoli di massa

e aveva fondato nel 1911 il Théâtre national ambulant, apriva a Parigi, nel 1920, il

Théâtre national populaire. Piscator nel 1924 era regista stabile alla Volksbühne.

Pirandello dirigeva, nel 1925, il Teatro d’Arte di Roma (un’esperienza dalla vita

breve, subito interrotta dall’esigenza di tournée in Italia e all’estero). Sempre a

Roma, A.G. Bragaglia aveva fondato il Teatro degli Indipendenti nel 1922 e

nel 1937avrebbe fondato il Teatro delle Arti, centri di diffusione — più che di ri-

cerca — delle esperienze futuriste e delle avanguardie artistiche. Nel 1927, a Pari-

gi, il Théâtre Alfred Jarry, fondato da Artaud, aveva vita brevissima. Di Artaud

avrà vita lunga e intensa, ed efficace influenza, il teatro-in-forma-di-libro Il teatro

e il suo doppio. Nel 1931, H. Clurman, L. Strasberg e Ch. Crawford fondarono il

Group Theatre di New York, e in Francia L. Chancerel, formatosi presso Copeau,

a sua volta creava il gruppo dei Comédiens Routiers. L’anno dopo F. García Lor-

ca fondò il gruppo La Barraca. Nel 1937 O. Welles e J. Houseman fondarono il

Mercury Theatre a New York. Dopo la guerra, il Berliner Ensemble, il Piccolo di

Milano, il Théâtre national populaire diretto da J. Vilar nel 1951 e la fondazione

nel 1957 del Théâtre de la Cité di Villeurbanne, presso Lione, diretto da R. Plan-

chon, chiusero la stagione dei tentativi di creare t. d’arte piccoli o grandi, intimi o

popolari ma capaci di reggere gli stessi ritmi produttivi dei normali t. borghesi

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(spettacoli quasi tutte le sere, repertorio variato, economia adeguata al normale

mercato teatrale, sia quello basato sugli incassi, sia quello basato sulle sovvenzio-

ni statali).

Ciò che comincia a ‘far storia’, nel t. del secondo Novecento, è la tradizio-

ne di teatri separati. Nel 1947 — l’anno in cui venne fondato l’Actors’ Studio e in

cui a Milano si aprì il Piccolo Teatro — a New York J. Beck e J. Malina davano

vita a un nucleo d’arte sperimentale, il Living Theatre, un piccolo centro

d’avanguardia che negli anni seguenti si trasformerà in un laboratorio teatrale di

grande originalità e coerenza, e quindi — a partire dagli anni Sessanta — in un

gruppo nomade ed esiliato che incarnerà il senso del legame fra t. e rivolta, fra ri-

gore artistico e anarchia. Uno dei t. che ha esercitato più profonda influenza sul t.

del secondo Novecento è così un t. senza sede e senza una posizione all’interno

del sistema ufficiale. Il Theatre Workshop, fondato a Manchester nel 1945 da J.

Littlewood, nel 1954 si trasferì alla periferia di Londra, dove iniziò un lavoro che

avrebbe formato una generazione di drammaturghi inglesi. Nel 1949, in Uruguay,

Atahualpa del Cioppo fondò il gruppo Teatro Galpón, che avrà lunghissima vita,

anche in esilio, e grande influenza sul t. latinoamericano. Nel 1955 Kantor, pittore

e scenografo d’avanguardia, fondò a Cracovia il teatro Cricot 2: un gruppo legato

alla tradizione del surrealismo che acquisterà una notorietà d’élite negli anni Ses-

santa e diverrà nei Settanta, a partire dallo spettacolo La classe morta, una delle

presenze più influenti del t. internazionale. Nel 1961, provenendo anch’egli dalle

arti figurative d’avanguardia, P. Schumann fondò il Bread and Puppet, che inau-

gurava una stagione di spettacoli itineranti e di strada, legandosi al radicalismo

politico e alla campagna contro la guerra americana nel Vietnam; esso ebbe una

grande influenza sui gruppi teatrali irregolari che — subito dopo il 1968 — in-

trecciarono azione politica, interventi sociali e ricerca artistica (quella stessa realtà

su cui sarà particolarmente forte l’influenza del Living Theatre, del t. di Fo e —

con più dialettica — dell’Odin Teatret). Nel 1959, a Opole, una cittadina polacca

ignorata dall’intellighenzia europea, in un teatrino con poche decine di posti, ini-

ziava l’avventura di Grotowski, che in poco tempo scardinò molti dei luoghi co-

muni del t. di quegli anni, a partire dal modo di pensarne la funzione sociale. E

soprattutto dimostrò con i fatti come un tipo di spettacolo e d’attore vicino ai vati-

cini di Artaud o di S.I. Witkiewicz — che parevano avulsi dalla realtà — fosse in-

vece possibile e per nulla utopico. Nel 1962, fuori dal sistema dei t. di New York,

E.Stewart aprì il Café La Mama, che diverrà il luogo di tutto il t. radicale ameri-

cano. L’anno dopo, sempre a New York, J. Chaikin, proveniente dall’esperienza

del Living, fondò l’Open Theatre. Nel corso degli anni Sessanta, un’altra espe-

rienza importante e di grande influenza si svolgeva in un’oscura cittadina nello

Jutland danese, Holstebro: quella dell’Odin Teatret, fondato nel 1964 a Oslo da

Barba, e poi accolto in Danimarca. Dopo aver conquistato il prestigio artistico con

i suoi primi spettacoli, Barba divenne con la sua azione e i suoi scritti la guida di

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un ampio movimento denominato Terzo Teatro nel quale si riconoscevano coloro

che, soprattutto in Europa e in America Latina, a partire dagli anni Settanta, face-

vano t. fuori dagli alvei tradizionalmente riservati al t. ordinario e a quello

d’avanguardia. Nel 1965, in seguito alle attività per uno sciopero dei braccianti

messicani in California, il chicano L.M. Valdez fondò il Teatro Campesino.

Nel 1969, a Cuba, iniziò la sua attività il Teatro dell’Escambray; in Colombia si

formò la Corporazione colombiana di teatro che si riconosceva soprattutto

nell’opera teorica e drammatugica di E. Buenaventura (teorico del ‘metodo di

creazione collettiva’) e nell’arte scenica del Teatro La Candelaria di Bogotá, gui-

dato da S. García. La tendenza alla separazione fra avamposti teatrali e t. ordinario

veniva controbilanciata da momenti di incontro in cui convergevano i t. dei diver-

si paesi. I festival teatrali non erano soltanto ‘feste’ per gli spettatori e gli estima-

tori, ma luoghi di incontro che permettevano ai t. più diversi di riunirsi per un cer-

to tempo in un solo villaggio, il cui éthos è definito dalla professione. Coniugava-

no l’idea delle grandi feste teatrali ateniesi (rinnovate dal wagnerismo del Fe-

stspielhaus di Bayreuth, inaugurato nel 1876) con la realtà meno nobile ma non

meno feconda, presto prevalente, delle fiere. Nel 1920, Reinhardt inventò il Festi-

val di Salisburgo. Nel 1933 si tenne il primo Maggio musicale fiorentino (dove fu-

rono ospitate anche opere di t. drammatico: Copeau vi allestì una famosa messin-

scena del Mistero di Sant’Uliva e R. Simoni, nel 1937, l’anno dopo la morte dello

scrittore, vi curò la prima rappresentazione del testo incompiuto di Pirandello, I

giganti della montagna). Nel 1934 si svolse il primo Festival del Teatro a Vene-

zia, e nel 1947 nacquero il Festival internazionale di Edimburgo e il Festival di

Avignone, fondato da J. Vilar. Nel 1954 iniziò il Festival del Théâtre des Nations

di Parigi, che in seguito si terrà in vari luoghi del mondo, nelle città sedi di festi-

val teatrali (Varsavia, Belgrado, Caracas ecc.). Negli anni Settanta, il Festival di

Nancy divenne il punto di riferimento mondiale e la grande fiera del t. non-

ufficiale, e negli anni Ottanta il Festival di Santarcangelo si propose come il prin-

cipale luogo di incontro dei t. indipendenti europei e latinoamericani, intrecciando

spettacoli, scambi di lavoro, momenti di ricerca teorica. Intorno al 1968, negli an-

ni della contestazione, rivolta e coraggio si diffusero anche nel mondo del teatro.

Il Festival del Théâtre des Nations, nel maggio, venne interrotto. Barrault abban-

donò la direzione dell’Odéon (lo aveva allontanato A. Malraux, ministro della

Cultura nel governo di De Gaulle); il Living rinunciò alla struttura chiusa dello

spettacolo e creò Paradise now, uno spettacolo che trasformava l’ingenuità in

semplicità ed estremismo, e fece appello agli spettatori per realizzare subito

un’azione di protesta non violenta; Strehler lasciò (per pochi mesi) il Piccolo Tea-

tro di Milano. Gravida di conseguenze, invece, fu la svolta impressa da D. Fo e F.

Rame alla loro carriera di attori satirici di successo, abbandonando i circuiti teatra-

li dei t. più ricchi d’Italia, dove erano i beniamini del pubblico borghese (auspice

la loro satira antiborghese), e creando un proprio autonomo circuito teatrale legato

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ai movimenti politici dell’estrema sinistra, liberi anche dalle organizzazioni cultu-

rali della sinistra tradizionale. Nel 1970 Brook lasciò Londra e la Royal Shake-

speare Company e inaugurò a Parigi il Centre international de recherche théâtrale

(divenuto poi il Centre international de créations théâtrales), che trovava la pro-

pria sede in un vecchio t. distrutto. In piccole città di provincia e alla periferia del-

le metropoli, quasi in tutta Europa e in America Latina, si costituivano gruppi tea-

trali. In Argentina nacquero il Libre Teatro Libre di Córdoba e la Comuna Baires

di Buenos Aires. Attraverso l’esilio e la diaspora dei propri componenti genere-

ranno nei decenni successivi innumerevoli t. nei diversi paesi dell’America Latina

e dell’Europa. In Perù si formarono i gruppi teatrali Cuatrotablas e Yuyachkani. In

Polonia venne creato il t. viaggiante di Gardzienice. C. Brie, argentino, dopo esser

stato membro della Comuna Baires, dopo anni di esilio in Italia, dove faceva t. nei

centri sociali, e dopo aver fatto parte del Gruppo Farfa (guidato da I.N. Rasmus-

sen) e dell’Odin Teatret, fondò il Teatro de los Andes, con sede nel villaggio di

Yotala, nei pressi di Sucre, in Bolivia. Mentre attorno al t. cresceva una comunità

artistica, negli anni Novanta i suoi spettacoli viaggiarono, in America Latina ed

Europa, diventando per molti un punto di riferimento. In Italia, sorsero il Centro

per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, il Teatro Due di Parma, il

Teatro Tascabile di Bergamo, il Teatro del mago povero ad Asti, il Laboratorio

Teatro Settimo presso Torino, il Teatro Potlach a Fara in Sabina, presso Rieti, che

spesso saldarono il proprio lavoro con i piccoli t. più strettamente legati alle espe-

rienze delle avanguardie (Magazzini, La Gaia Scienza, il teatro di Santagata e

Morganti, Teatro dei Mutamenti, Falso Movimento ecc.). Nacquero in seguito il

Teatro Le Albe a Ravenna, la Societas Raffaello Sanzio e il Teatro della Valdoca

a Cesena, il Teatro Due Mondi a Faenza. Il regista A. Punzo fondò la Compagnia

della Fortezza, i cui attori erano detenuti del carcere di Volterra. A partire

dal 1986, il Centro di Lavoro di Grotowski venne ospitato e sostenuto dal Centro

per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera. Grotowski ormai non fa-

ceva più spettacoli. Lavorava sul valore dell’azione per colui che agiva, non per

colui che lo vedeva.

Niente di tutto questo sembra corrispondere all’immagine della vita teatra-

le nella mentalità corrente e nei media. Ma questa è la storia che ha attraversato il

teatro. Sembra che il t., in questo modo, venga sopravvalutato. Non è così. È pro-

prio lo stato di degrado in cui spesso vive, il fatto d’essere o d’apparire socialmen-

te innocuo, a farne un territorio aperto alla rivolta. In tutto questo l’opera di Gro-

towski, il suo modo di appartenere al t. per secessione, è stata decisiva ed è un

emblematico suggello d’una storia secolare.

UNA STORIA EMBLEMATICA

Grotowski non aveva ancora quarant’anni, e il capitale di prestigio accumulato gli

permise di smettere con gli spettacoli. Le opere che gli avevano procurato fama di

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rivoluzionario e genio indiscusso — Akropolis (cinque versioni, 1962-67), Dr.

Faust (1963), Il principe costante (1965) e Apocalypsis cum figuris (tre versio-

ni, 1968-73) — le aveva composte in un arco di tempo relativamente breve. La

sua fama intanto cresceva anche tramite la diffusione di Per un teatro povero,

uscito nel 1968, in lingua inglese (Towards a poor theatre), pubblicato in Dani-

marca nelle edizioni dell’Odin Teatret.

Grotowski era allora trentacinquenne; Barba, fondatore dell’Odin e — per

l’occasione — editore, era un trentaduenne. Quel libro girò il mondo in numerose

traduzioni. “Teatro povero” fu l’ultimo grande slogan del t. novecentesco. Ma die-

tro quello slogan non c’è una poetica teatrale, o una teoria. C’è l’efficacia d’una

presa di posizione eversiva e adatta ai tempi: “Nessun libro sul teatro ha avuto, nel

nostro secolo, l’impatto fulmineo di Per un teatro povero […]. Si era all’indomani

del maggio 1968, con un bisogno di impegno, di rinnovamento e di ritrovare, nel

teatro, quel senso politico, etico o sociale che aveva caratterizzato la ricerca dei

riformatori teatrali dei primi trent’anni del Novecento. […] Per un teatro pove-

ro affronta i principali problemi tra i quali si dibatte un regista o un attore. Co-

mincia dal primo passo, la preparazione tecnica […]. Apre prospettive dramma-

turgiche radicali […]. Presenta la visione di un teatro che, superando il suo carat-

tere di spettacolo d’arte o intrattenimento, ribadisce la sua vocazione di rituale

collettivo, sacro e laico allo stesso tempo […]. È una visione che ridà all’attore e

al regista la possibilità d’un impegno assoluto, e dall’altro consente loro di ritro-

vare una libertà, al di fuori della cerchia dei mercanti, degli ideologi, delle mode.

Mai era stato scritto un libro del genere in cui trovassero posto sia le grandi osses-

sioni che gli aspetti concreti della professione” (Barba 1998, pp. 121-22).

Ma poco dopo aver lanciato il sasso del Teatro povero e aver compiu-

to Apocalypsis, Grotowski decise di “lasciar semplicemente cadere” l’arte. Su che

cosa Grotowski lavorasse lo si seppe alla fine degli anni Ottanta, quando riaffiorò,

trovando il modo di parlare accanto all’attore. Ciò che diceva non riguardava lo

spettacolo, perché non si trattava del lavoro per gli spettatori, eppure riguardava il

t., perché Grotowski lavorava nell’ambiente del t., si rivolgeva agli attori e indica-

va loro una prospettiva ulteriore. Definiva a posteriori qualcosa che già aveva

sperimentato. Parlava di Performer, con la maiuscola: “Il Performer, con la maiu-

scola, è uomo d’azione. Non è l’uomo che fa la parte di un altro. È uno che fa [he

is a doer], il prete, il guerriero: è al di fuori dei generi estetici” (The Grotowski

sourcebook, 1997, p. 374). Non spettacoli, ma azioni, il cui scopo consiste nel

mutare chi le compie, piuttosto che chi le vede. Una sorta di yoga le cui radici af-

fondano nel sapere attorico novecentesco e non direttamente nelle dottrine

dell’esoterismo tradizionale. Grotowski ha così compiuto un’azione doppiamente

importante dal punto di vista culturale: ha legato il suo yoga all’umiltà d’un arti-

gianato senza ‘parole’ dottrinarie, e d’altro canto ha inventato un valore per la

marginalità del t., facendone un resto, un ritiro laborioso capace di proteggere

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persino il seme d’una pratica iniziatica. Non ha costruito dottrine, sicché nessuno

potrebbe incapsularlo negli scaffali dell’esoterismo, così come nessuno potrebbe

classificarlo fra coloro che vengono chiamati gli utopisti del teatro.

Rivendicava per sé il sapere dello sperimentatore: “Il teatro è stata

un’enorme avventura nella mia vita. Ha condizionato il mio modo di pensare, di

vedere la vita. Direi che il mio linguaggio è stato formato dal teatro. Ma non ho

pensato a questo lavoro cercando il teatro. In realtà ho sempre cercato qualcosa

d’altro. Da giovane mi domandavo quale fosse il mestiere in cui potessi cercare un

essere umano, l’altro e me stesso, per cercare una dimensione della vita che fosse

radicata in ciò che è normale, organico, persino sensuale, ma che oltrepassasse tut-

to questo, che avesse una sorta di assialità, di asse, un’altra dimensione più alta,

che ci oltrepassa. Allora, a quell’epoca, mi sono detto: debbo studiare l’Induismo,

per lavorare sulle differenti tecniche di yoga; o devo studiare medicina, per diven-

tare psichiatra; o arte drammatica, per diventare regista. Era il periodo stalinista, la

censura era molto forte, pesante, si censuravano gli spettacoli, ma non le prove. E

le prove sono sempre state, per me, la cosa più importante. Là accadeva qualcosa

fra un essere umano e un altro essere umano, cioè l’attore e me, che toccava que-

sta assialità al di fuori di ogni controllo dall’esterno. Vuol dire che, nel mio lavo-

ro, sempre lo spettacolo è stato meno importante del lavoro nelle prove. Lo spet-

tacolo doveva essere impeccabile, ma tornavo sempre verso le prove, anche dopo

la prima, perché le prove sono sempre state la grande avventura. In fondo, è stato

questo interesse per l’essere umano, nell’altro e in me stesso, che mi ha portato al

teatro, ma avrebbe potuto portarmi alla psichiatria o agli studi di yoga” (da

un’intervista con M. Ahrne nel documentario televisivo Il Teatr Laboratorium di

Jerzy Grotowski, 1993).

Usando espressioni come secessione, scappare dal centro, rifiuto, non bi-

sogna dimenticare che la conquista dell’estraneità è una linea d’azione, e implica

una politica di intervento. Grotowski, per allontanarsi dal t., lo rimodellò. Seppe

realizzare le realtà di cui parlava. Trovava le persone, gli spazi, le giustificazioni

pubbliche e il denaro. Organizzava fin nei minimi particolari le situazioni che do-

vevano proteggere il proprio lavoro. Poiché si dedicava a compiti che difficilmen-

te avrebbero potuto ottenere sostegno senza l’avallo d’un prestigio assodato, usò,

per tenersi libero dal gioco politico, la competenza e le abilità di un politico con-

sumato. Per quanto riguarda gli anni Sessanta e la Polonia, occorre leggere la te-

stimonianza di Barba in La terra di cenere e diamanti (1998) per comprendere

come l’ardire artistico e sperimentale confinasse col rischio della vita. Il territorio

profondo e circoscritto della ricerca di Grotowski, che ha creato e crea mille equi-

voci, allora, negli anni Sessanta (e poi nei Settanta), nella Repubblica socialista di

Polonia, era gravido di conseguenze ben più pericolose.

Dall’intreccio fra le esigenze della propria ricerca e le possibilità offerte

dalle contingenze storiche nacque la carica eversiva e rifondatrice del libro Per un

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teatro povero e dei primi anni della carriera grotowskiana. La dimensione politica

è essenziale per comprendere la storia della dissidenza di Grotowski. Egli non ha

trovato nel t. un rifugio, ma al contrario, per usarlo come territorio adatto ai propri

bisogni, lo ha reinterpretato in maniera lucida alla luce delle meno appariscenti fra

le sue trasformazioni strutturali. In un'’poca in cui il t. socialmente vive come be-

ne culturale sovvenzionato, e in cui quindi cade la secolare necessità primaria —

quella economica — di coinvolgere numerosi spettatori paganti, in un'’poca in cui

il t. diventa spettacolo di minoranza nel sistema degli spettacoli di massa, Grotow-

ski non si è mai unito al coro dei lamenti e, profittando della marginalità, ha indi-

cato alcune strade maestre per sfuggire all’emarginazione. Ha mostrato come la

mutata situazione permettesse di far fiorire potenzialità che la dimensione tradi-

zionale del t. conosceva ma non aveva potuto sviluppare appieno; ha estratto il va-

lore insito nella relazione di prossimità fra attore e spettatore; ha sviluppato il va-

lore autonomo che può assumere la situazione delle prove; ha trasformato in vasto

e inesplorato terreno di indagine la constatazione (altrimenti ovvia) per cui il lavo-

ro dell'’ttore ha conseguenze non solo per chi lo vede, ma anche per colui che

compie l'’zione, dato che plasma anche la sua cenestesi, la sensazione fisica che

ciascuno ha di sé e cioè la percezione interna del proprio esserci materialmente.

L’esperienza politica ribelle aveva sempre caratterizzato la vita di Grotow-

ski, anche indipendentemente dal t.; ma fu proprio il t. che, nella situazione politi-

ca in cui si trovava la Polonia alla metà degli anni Cinquanta, divenne per lui il

modo per sfuggire all’alternativa fra divenire vittime del regime oppure integrar-

visi. Il t. non è clandestino: è mimetizzato. È arte di minoranza che può divenire

un lavoro d’impegno fatto attraverso la minoranza.

Con questo, ci ricolleghiamo alle immagini da cui siamo partiti nella 42ª

Strada di New York e alla rue du Faubourg Saint-Denis di Parigi. Pensando ai

percorsi complementari compiuti da Grotowski, dal Living Theatre, da Atahualpa

del Cioppo, da Barba, dalle generazioni teatrali che si sono accese scommettendo

sulla professione scenica (Schino 1992), saremmo tratti a pensare a un insieme di

storie che potrebbe essere raccontato solo nei termini di veri e propri racconti

d’avventura. Eppure, come è stato proposto con grande intelligenza storica (Mel-

dolesi 1986), i riformatori del t. dovrebbero essere visti come straordinari esempi

di una sociologia in atto, come costruttori di forme che interpretano la società e

forniscono risposte alle sue meno evidenti tensioni. Il che contribuisce a spiegare

perché, più che l’esame dei capolavori, più dei molti clamori, siano adatte a render

conto dell'’redità che il t. lascia al Duemila le domande difficili sul modo di pen-

sarlo, sul mutare delle sue geografie, su ciò che si sostituisce alla multisecolare

centralità della letteratura, sulla sua dimensione eurasiana, e — alla fin fine —

sulle ragioni della sua quasi imprevedibile persistenza.

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DRAMMATURGIA E SPETTACOLO

di Raimondo Guarino

Nel t. contemporaneo la parola drammaturgia riguarda il complesso processo di

creazione e composizione che tocca la sfera delle relazioni interne al lavoro teatra-

le, la sedimentazione e l’elaborazione dei materiali espressivi e delle tradizioni, la

rete delle identità professionali e degli assetti produttivi. In questo senso, acquista

un significato diverso — più specifico e parziale — la drammaturgia letteraria,

cioè la produzione e l’identità autonoma del testo scritto, riconoscibile e analizza-

bile come una proposta drammaturgica tra le altre.

La grande drammaturgia letteraria del pieno Novecento europeo (B. Bre-

cht, S. Beckett, E. Ionesco, J. Genet) non ha offerto un arricchimento del reperto-

rio funzionale al sistema dello spettacolo. Seppur riassorbita nel rinnovamento

delle tensioni letterarie della scena, essa è stata una vicenda multiforme di ‘rein-

venzioni’ del t. a partire dalla dimensione esterna, rispetto alla rappresentazione,

della pagina scritta. L’attivo e a volte esclusivo interesse di molti letterati per la

scena nell’ultimo Novecento è invece al tempo stesso consapevole di una distanza

e carico dei presupposti organizzativi e strutturali dello spettacolo colto, esistenti

nelle culture nazionali di appartenenza.

La problematica aderenza alle strutture e alle tradizioni nazionali e alle

culture locali emerge attraverso le personalità più caratterizzanti degli ultimi de-

cenni. Nell'’rea germanica la presenza dominante è stata quella di H. Müller, dap-

prima voce problematica e scrittore dissidente della Repubblica Democratica Te-

desca, poi Dramaturg della Volksbühne di Berlino Est; più volte attivo co-

me Dramaturg e come regista nella Germania Federale; direttore, nella Germania

unificata, del Berliner Ensemble fondato da Brecht. La scrittura di Müller si è

evoluta dagli anni Settanta verso la definizione di una parola teatrale totalmente

avulsa dalla forma del dialogo e dalla composizione dell'’zione proprie della

drammaturgia tradizionale, traducendosi nella coesistenza di una prosa poetica

fortemente espressiva e di una prescrizione di visioni consegnate dall’autore alla

concretezza scenica. Il narratore austriaco Th. Bernhard ha dedicato l’ultima sta-

gione della sua produzione drammatica all’invenzione di un registro discorsivo

che chiama in causa l’identità e la funzione recitante dell’attore, dal-

la pièce Minetti, scritta per l’omonimo novantenne mito della scena tedesca del

Novecento, ai drammi destinati al regista C. Peymann e ai suoi interpreti. Sulla

scia del ruolo di Dramaturg svolto per il regista P. Stein, si è affermato con sa-

piente equilibrio tra coralità e struttura dialogica B. Strauss, mentre è legata

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all’affermazione di un’autonomia regionale, culturale e produttiva, l’opera del ba-

varese H. Achternbusch.

In area francese la scrittura di V. Novarina ha esaltato l’ipertrofia

dell’invenzione verbale, in una concezione del luogo teatrale e dell’attore rispetti-

vamente intesi come luogo deputato e come virtuoso esecutore della parola lette-

raria. B.-M. Koltès, prematuramente scomparso nel 1989, portato in scena dal re-

gista P. Chéreau, è stato sensibile creatore di atmosfere e dialettiche estreme, non

estranee all’eredità di Genet. Nel t. britannico si è imposta, per qualità e unanimità

di consensi, la produzione di T. Stoppard, situata cronologicamente tra l’impegno

ideologico degli Arrabbiati della generazione di J. Osborne, J. Orton ed E. Bond e

le manifestazioni trasgressive della cultura metropolitana: una produzione lontana

dalla rarefazione lirica dei drammi di H. Pinter, contrassegnata da un’ironica at-

trazione per la conversazione teatrale di O. Wilde e da forme parodistiche che

coinvolgono la ripresa di temi e motivi shakespeariani. Sulla scia di J.A. Strind-

berg, e dei nodi stilistici e tematici dell’opera teatrale e cinematografica di I.

Bergman, il t. svedese ha trovato in L. Norén nuove varianti alla tematica del

dramma familiare. Nel contesto statunitense, invece, la produzione di S. Shepard e

D. Mamet è segnata dalla contiguità dello scrivere per la scena con la produzione

cinematografica e televisiva.

La situazione della drammaturgia italiana, del tutto particolare per la pre-

valenza della figura dell’attore-scrittore, delineatasi con R. Viviani, E. De Filippo,

D. Fo, è caratterizzata nel passato recente da un vasto arco di posizioni linguisti-

che: dall’espressione intenzionalmente alta e concettualmente sostenuta, rappre-

sentata dai testi di P.P. Pasolini e argomentata nel suo “manifesto” per un t. di pa-

rola, al dramma-conversazione (N. Ginzburg, F. Brusati), alla rinnovata vitalità

della drammaturgia dialettale. I centri attivi della drammaturgia dialettale corri-

spondono ad aree che per tradizione, o per fioritura recente, si situano

all’avanguardia dello sperimentalismo drammaturgico: Napoli, con una relazione

mista di continuità e di rotture rispetto alle contrastanti anime di Eduardo e Vivia-

ni, espressa da autori come A. Ruccello ed E. Moscato e anche nella molteplice

officina registica di M. Martone; la Romagna, dove al sostrato prevalentemente

lirico della letteratura in vernacolo hanno dato impulso teatrale, in un arco di

traiettorie diverse e di ibridazioni con altri universi culturali e artistici, gruppi af-

fermatisi negli anni Ottanta, come il Teatro delle Albe di Ravenna, con la marcata

personalità del regista-scrittore M. Martinelli, che ha coinvolto come attori e col-

laboratori immigrati senegalesi e ha fondato un t. a Dakar, e il Teatro Valdoca di

C. Ronconi, mosso dalle suggestioni della scultura di F. Melotti e convertito alla

rifondazione della parola con la poesia scenica di M. Gualtieri. Importante anche

la produzione in dialetto siciliano di F. Scaldati. La particolare oltranza espressiva

impressa al dialetto lombardo nell’ultima fase dell’opera drammaturgica di G. Te-

stori si è indirizzata negli anni Settanta e Ottanta alle doti e alle imprese di attori

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come F. Parenti e poi F. Branciaroli, ed è confluita successivamente

nell’intenzione di t. di poesia che ha caratterizzato progressivamente l’attività dei

Magazzini di F. Tiezzi e S. Lombardi, gruppo impegnato nei decenni precedenti

sul versante della performance a base visiva e musicale e nell’attraversamento di

Genet e Artaud. Oltre a dare corpo a Testori e a Pasolini, la ricerca dei Magazzini

su una drammaturgia capace di intercettare e incarnare i valori assoluti del dettato

poetico ha incontrato nel 1989-91 Manzoni e le tre cantiche del-

la Commedia dantesca, realizzate con la collaborazione dei poeti E. Sanguineti

(già attivo per la scena dai tempi della riduzione dell’Orlando Furioso per L.

Ronconi), M. Luzi e G. Giudici. Altri orizzonti della letteratura in scena sono

quelli aperti dall’ultima stagione di C. Bene, che ha concentrato la sua ricerca sul

conflitto essenziale tra la presenza dell’attore e l’immagine scenica, sulla ricon-

quista della centralità dell’attore nei confronti dell’egemonia registica, lavorando

sullo Shakespeare delle traduzioni e delle riscritture decadenti, sulla drammaturgia

musicale, e sul verso come parola restituita alla pienezza della sua natura recitati-

va.

Come originale fusione tra l’affermazione dell’autonomia drammaturgica

dell’attore e l’appello alle tecniche della narrazione teatrale va interpretato il suc-

cesso mondiale di Fo, l’attore drammaturgo italiano formatosi nel cabaret degli

anni Cinquanta, inventore di forme autonome di t. comico e politico. Insignito del

premio Nobel per la letteratura nel 1997, Fo ha esportato con successo sia la qua-

lità costruttiva delle sue pièces degli anni Sessanta, altamente traducibili in azione

teatrale, sia lo stile recitativo fortemente gestuale, la lingua inventata e la narra-

zione monologante, elementi improntati al mito del giullare, e realizzati piena-

mente nelle molteplici versioni di Mistero buffo. Il senso della narrazione ha costi-

tuito anche l’approdo dell’evoluzione di un multiforme scrittore di t. come G.

Scabia, legato prima alla convergenza di avanguardia letteraria e musicale e poi

alla stagione dell’animazione e della drammaturgia collettiva. E riemerge come

una feconda direzione nel lavoro individuale di attori-affabulatori di rilievo degli

anni Novanta, come M. Paolini e M. Baliani.

Esistono accezioni del lavoro drammaturgico che invece di insediarsi nelle

tradizioni nazionali germinano nell’alveo di soluzioni circoscritte e radicali, che

richiedono una scienza delle relazioni, e una conoscenza del contesto determinato

cui si rivolgono i due sensi prevalenti della parola drammaturgia: la composizione

delle azioni sceniche e l’invenzione della parola teatrale. Così la figura

del Dramaturg come consigliere letterario del t. istituzionale mitteleuropeo ha

trovato nuove declinazioni nell’apporto di L. Flaszen al Teatr Laboratorium diret-

to da J. Grotowski, o nella collaborazione di F. Taviani con l’Odin Teatret diretto

da E. Barba. Una combinazione di grande rilievo è quella che ha visto l’apporto di

J.-C. Carrière al t. del regista P. Brook dal 1978. Carrière è stato sceneggiatore di

L. Buñuel, e unisce requisiti di trasparenza stilistica e di funzionalità narrativa nel-

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la scrittura e nell’adattamento dei testi. La collaborazione con Brook si è espressa,

oltre che nelle rielaborazioni da Shakespeare e Čechov, con il ‘racconto teatrale’

della Conférence des oiseaux e con la drammaturgia epica del Mahābhārata.

Determinante la drammaturgia specifica del regista per spiegare la tra-

sformazione di questa figura egemone nel t. del Novecento, la sua conversione tra

il ruolo del rifondatore e del maestro, e l’attuale configurazione di autore del fatto

teatrale che rianima e attualizza il repertorio letterario. La drammaturgia registica

sostiene la conservazione nel repertorio del canone della drammaturgia europea,

da Eschilo a Brecht; consente, come in Germania, la convivenza dei classici con la

nuova drammaturgia; o provoca, come nella sistematica indagine di Ronconi, re-

visioni degli inventari della letteratura teatrale, con il recupero alla vita scenica di

testi obsoleti o mai rappresentati (Andreini, Holz, Kraus, l’Aminta di Tasso) e an-

nessioni dal territorio del romanzo (il Pasticciaccio da C.E. Gadda o I Fratelli

Karamazov da F.M. Dostoevskij). Il lavoro di A. Vitez su Molière, o le esperienze

— fondate su norme ed eccezioni dell’organizzazione teatrale tedesca, ma ispirate

a un’inconfondibile continuità d’autore — di P. Zadek, P. Stein, K.M. Grüber e C.

Peymann, hanno individuato nella composizione registica una nuova forma di

protagonismo intellettuale che, invece di agire immediatamente su un dato tecnico

come la regia cinematografica, opera sulla connessione tra materiale letterario, la-

voro dell’attore, spazi e tempi della rappresentazione.

Con Müller, Fo, con le sporadiche ma radicali incursioni teatrali di P.

Handke, con Bernhard, ma anche con l’uso della poesia da parte dell’artista napo-

letano A. Neiwiller, meteora della scena italiana, scomparso nel 1993, o con la vi-

sione dello spazio del regista belga, attivo prevalentemente in Italia, Th. Salmon

(tragicamente scomparso nel1998), la drammaturgia come arte della parola sceni-

ca si è estesa al di là dei confini formali della letteratura drammatica e ha mutato

gli orientamenti del mestiere di regista. Ma la drammaturgia come composizione

delle azioni estende le sue fonti e i suoi processi oltre i confini della letteratura.

Al di sotto delle distinzioni professionali, dei parallelismi con il cinema,

dei nessi con la produzione letteraria o delle relazioni con le arti visive, la dram-

maturgia è un livello del lavoro teatrale che sta tra le tecniche, i depositi della

memoria, le identità e la percezione dei contesti e degli ambiti delle attività di

rappresentazione. A partire dagli sviluppi della riflessione di K.S. Stanislavskij, è

stato possibile individuare, nel passaggio tra la costruzione della sequenza delle

azioni fisiche e la composizione dello spettacolo, un campo riferibile alla dram-

maturgia dell’attore. Questo campo ha valorizzato una realtà già esistente in ter-

mini diversi nell’autonomia artistica dell’attore ottocentesco. Ne ha sottratto le

potenzialità al confronto vincolante con il testo scritto della drammaturgia lettera-

ria. Ha proiettato il profilo dell’attore europeo su nuove dimensioni, a confronto

con altre aree del comportamento scenico, esplorate nella ricerca sull’attore asiati-

co e nel recupero della forma del mimo corporeo, nella originaria e rigorosa acce-

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zione di É.-M. Decroux, orientate a una critica e feconda relazione con la danza,

impiegate nel terreno di lavoro comune e continuo caratterizzante la relazione tra

regista e attore nel t. di gruppo che da V.E. Mejerchol´d e J. Copeau ha trovato in

Grotowski e Barba nuova linfa. L’enfasi dell’autonomia compositiva ha anche ca-

ratterizzato nuove fisionomie del danzatore e nuovi orizzonti della coreografia, nel

frastagliato territorio che, affondando le radici nell’Espressionismo, ha nutrito in-

venzioni e personalità del teatro-danza tedesco nell’ultimo scorcio del secolo, so-

prattutto con l’opera di P. Bausch, direttrice del Tanztheater di Wuppertal. Le in-

cursioni di Brook nella reinvenzione del t. musicale (La tragédie de Car-

men, Impressions de Pelléas) hanno nello stesso tempo infranto le barriere di con-

fine tra i generi di spettacolo e le categorie di recitanti (tra attore che canta e can-

tante-attore lirico) e il limite costituito dal vincolo del tempo e del testo musicale

sulla regia operistica; vincolo che aveva spesso relegato nelle attualizzazioni e va-

riazioni visive l’intervento interpretativo sul repertorio (ricordiamo la tetralogia

wagneriana diretta da Chéreau, le regie dell’americano P. Sellars o l’indefessa at-

tività di L. Ronconi nei t. d’opera).

Nel solco dell’arte della scena inaugurata dall’inglese G. Craig all’inizio

del 20° secolo va collocata la nitida composizione visiva e coreografica dello sta-

tunitense R. Wilson. Ispirata in una prima fase dallo studio sulla percezione auti-

stica, l’opera di Wilson si è mossa tra le sperimentazioni periferiche sulla combi-

nazione delle forme espressive e le ipotesi di riformulazione del grande spettacolo

musicale (A letter for the Queen Victoria, Einstein on the beach), e si è più volte

misurata con vertici della ricerca letteraria del Novecento, da G. Stein a H.Müller,

incontrato nel progetto internazionale degli anni Ottanta The civil wars. Livelli di

personale elaborazione poetica e di ricerca musicale, vocale e coreografica si in-

trecciano anche nella direzione autobiografica del t. di M. Monk.

Nell’ambito della cultura della performance americana, ha assunto un va-

lore primario l’elaborazione degli spazi e dei percorsi, e la drammaturgia, facendo

esplodere la fortunata e fragile formula della ‘scrittura scenica’, si è convertita in

un’attivazione diretta della percezione straniante e nella trasformazione dei tempi

e dei luoghi dell’esperienza quotidiana. L’eventuale elaborazione del-

lo script come componente letteraria è prevalentemente posteriore e determinata

dagli altri fattori, come nelle creazioni di R. Foreman, in cui testi e impiego dello

spazio si producono a contatto con la necessaria e personale collaborazione

dell’attore-performer.

La questione della drammaturgia contemporanea non riguarda la morfolo-

gia inafferrabile e gli incerti contorni di un genere letterario destinato a trascen-

dersi in materie eterogenee, ma risulta complessivamente pertinente alla tensione

verso la visibilità e l’oggettività dei processi creativi di una comunità, di una si-

tuazione di lavoro teatrale determinata. Più si accentua la varietà delle grammati-

che e l’arbitrarietà delle strutture, più la composizione dell’azione scenica acquista

Page 56: TEATRO TRECCANI - Unife

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la natura e la coerenza segreta di un linguaggio circoscritto, di una convenzione

ristretta e inusitata eppure efficace, di un dialetto che non solo è espressione della

lingua ma lavoro originale sul senso del corpo nello spazio e nel tempo e sulla

qualità della presenza. Nella ricchezza del contesto polacco, la figura appartata ed

eccezionale di T. Kantor e le creazioni del teatro Cricot 2, da lui fondato a Craco-

via nel 1955, conservando rapporti fitti con le premesse del t. polacco del Nove-

cento e con le avanguardie artistiche del 20° secolo, hanno realizzato, soprattutto

nell’ultima fase (da La classe morta del 1975 a Qui non ci torno più, ultimo spet-

tacolo di Kantor), una straordinaria sintesi tra confluenza delle memorie personali

e creazione contestuale dell’energia dell’attore e della composizione.

BIBLIOGRAFIA

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98).

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tès, in B.-M. Koltès, Il ritorno al deserto e altri testi, Milano 1991,

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trale italiana del Novecento, Bologna 1995, 1997²; per i testi: N. Ginzburg, Ti

ho sposato per allegria e altre commedie, Torino 1966, e Teatro, Torino 1990;

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no 1988; G. Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Roma 1973; G. Testo-

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Napoli, a cura di L. Libero, Napoli 1988; E. Moscato,L’angelico bestiario,

Milano 1991; F. Scaldati, Il teatro del sarto, Milano 1990.

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F. Quadri, Milano 1979-98.

Sull’invenzione registica nel teatro contemporaneo:

Page 57: TEATRO TRECCANI - Unife

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F. Quadri, Il teatro degli anni Settanta. i. Tradizione e ricerca, ii. Invenzione

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Su L. Ronconi:

F. Quadri, Il rito perduto. Luca Ronconi, Torino 1973; L. Ronconi, Inventare

l’opera. L’Orfeo, Il viaggio a Reims, Aida: tre opere d’occasione alla Scala, a

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Sulla composizione scenica nell’avanguardia degli anni Sessanta:

G. Bartolucci, La scrittura scenica, Roma 1968.

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L. Mango, Teatro di poesia. Saggio su Federico Tiezzi, Roma 1994.

Su P. Bausch e il Tanztheater:

L. Bentivoglio, Il teatro di Pina Bausch, Milano 1985; S. Schli-

cher, Tanztheater. Traditionen und Freiheiten, Reinbek 1987 (trad.

it. L’avventura del Tanztheater, Genova1989).

Su R. Wilson:

Il teatro di Robert Wilson, a cura di F. Quadri, Venezia 1976; S. Brecht, The

theatre of visions: Robert Wilson, Frankfurt a.M. 1978.

Su script e performance:

R. Bianchi, Autobiografia dell’avanguardia: il teatro sperimentale americano

alle soglie degli anni Ottanta, Torino 1980; R. Bianchi, Script e/o performan-

ce, Torino 1981.

Testi di e su Kantor, in Il teatro della morte, a cura di D. Bablet, Milano 1979;

T. Kantor, Wielopole/Wielopole, Kraków 1984; T. Kantor, Métamorphoses,

Paris 1982; D. Bablet, B. Eruli, Tadeusz Kantor, Paris 1983.

GEOGRAFIE DEL TEATRO

di Mirella Schino

La geografia del t. muta sensibilmente nel corso del Novecento: si modifica il

rapporto fra centro e periferia, molti t. riorganizzano il proprio territorio, si ridefi-

niscono i contorni delle mappe che distinguono aree e settori teatrali.

La geografia teatrale ereditata dall’antichità era caratterizzata da grandi

centri, situati nelle capitali nazionali o regionali, circondati da periferie più o me-

no ricche. Alla fine del 20° secolo, essa non si adatta pienamente alla vita delle

scene, e il Novecento lascia in eredità al secolo nuovo una geografia teatrale mo-

bile, una rete di relazioni, di aggregazioni, di influenze e distinzioni che tiene po-

co conto dei confini presenti nelle carte della geografia politica. Mutano anche i

territori che il t. occupa o nei quali è in grado di inoltrarsi.

Com’è illustrato partitamente in altri contributi di questa stessa voce, i mu-

tamenti della geografia teatrale vanno letti in stretta connessione con quelli

dell’economia e dei modi di produzione; con il diverso modo di pensare il t.; con

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l’affermarsi della sua dimensione ‘eurasiana’; con le nuove relazioni che si creano

fra drammaturgia e spettacolo e, più in generale, con la questione della persistenza

del t. in un’epoca che mette in crisi e ridefinisce il suo modo d’essere.

CENTRO E PERIFERIA.

I caratteri secondo cui, nei diversi paesi europei, fra il 17°e il 18° secolo il t. pro-

fessionistico si dispose nel territorio si conservano costanti, nelle loro grandi li-

nee, fino a buona parte del 20° secolo. Infatti lo schema francese vede un t. centra-

lizzato, parigino, circondato da t. periferici che aspirano a trasferirsi al centro, dal

quale traggono valore e ispirazione. Lo schema inglese è simile, orientato su Lon-

dra. Quello tedesco si basa sui t. di corte dei diversi piccoli Stati tedeschi, e si tra-

sforma, nella seconda metà del Novecento, nella rete di t. stabili regionali forti,

autonomi, ciascuno molto ben finanziato. Lo schema italiano è caratterizzato dalla

condizione itinerante delle compagnie, con giri ricorrenti, e con alcune città con-

siderate particolarmente significative sia per i guadagni sia per il formarsi del giu-

dizio critico: Napoli, Palermo, Venezia, Roma, Firenze, Bologna, Milano, Torino,

Genova. In Russia, invece, la vita teatrale si organizza attorno ai poli delle due ca-

pitali, Mosca e San Pietroburgo. In generale si può dire che lo schema più diffuso

anche nel resto dei paesi europei (l’Italia, come si è visto, costituisce in parte

un’eccezione) ha al centro i t. delle capitali — poli di attrazione e modelli — cir-

condati da un’orbita di t. periferici o itineranti. Lo stesso schema si impone negli

USA (il centro è Broadway, a New York). Simile è anche quello in cui si organiz-

zano le forme teatrali autoctone in Cina e Giappone. In Cina (dove per il t. classi-

co si usa comunemente il termine Opera) vi è una rosa di Opere regionali con al

centro l’Opera di Pechino; in Giappone, il centro della vita teatrale è costituito dai

t. kabuki a Tokyo. Il colonialismo ha disseminato nel mondo, in Asia, in Africa, in

America Latina, t. ‘provinciali’, imitazioni lontane delle capitali europee e, più re-

centemente, di Broadway.

Gli schemi di base che dettero forma alle diverse geografie teatrali non so-

no stati veramente intaccati dai tentativi di correzione, anzi tendenzialmente han-

no riassorbito gli elementi nuovi ed estranei. In Italia, per es., a partire dagli anni

Cinquanta, il tentativo di creare t. stabili secondo una distribuzione sul territorio

simile a quella tedesca ha dato vita, in realtà, a una riorganizzazione e moderniz-

zazione del ‘teatro di giro’. In Francia, il sorgere di t. regionali e di Centres dra-

matiques non ha scalfito la centralità di Parigi, ma l’ha semmai rafforzata: a Parigi

hanno trovato consacrazione, e si son fatte parigine, quelle forme ed entità teatrali

che erano cresciute nel decentramento. Il decentramento teatrale francese sorse in

reazione all’eclisse di Parigi, durante l’occupazione nazista, quando il paese era

spaccato in due e lo Stato francese aveva la sua capitale a Vichy. Nel dopoguerra

si è sviluppato come programma per un t. popolare, che naturalmente ha trovato a

Parigi la sua più influente espressione.

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Il t. delle capitali, che è stato a lungo la norma del Novecento, non fu tale

soltanto dal punto di vista dell’ufficialità e del commercio. Anche le avanguardie

celebrano nelle capitali le loro infrazioni e sperimentazioni. Appartengono, in ge-

nere, alle capitali anche i ‘teatri d’arte’ (da quelli parigini di A. Antoine e J. Co-

peau, a quello moscovita di K.S. Stanislavskij e V.I. Nemirovič-Dančenko) con la

loro volontà di ricreare l’ambiente del t. in tutti i suoi aspetti e le sue diverse stra-

tificazioni (nuovi attori, nuovi autori, nuovi spettatori). Vi sono state, nella prima

parte del 20° secolo, alcune significative eccezioni che confermavano la regola.

Sorsero, a volte, t. apparentemente decentrati, che contrapponevano, però, la loro

isolata centralità a quella delle capitali, come un santuario si distingue da una cat-

tedrale. Forse la più rappresentativa, fra queste eccezioni, è quella di É. Jaques-

Dalcroze e dell’Istituto da lui fondato a Hellerau nel 1911.

Jaques-Dalcroze (1865-1950) fu l’inventore di un sistema di movimenti,

l’euritmica, che traduceva in termini corporei il ritmo musicale. Collaborò con A.

Appia, uno dei fondatori della moderna concezione della regia teatrale, e affiancò

alla propria attività pedagogica e di ricerca la creazione di veri e propri spettacoli.

Ebbe grande influenza su tutti i protagonisti del rinnovamento del t. e della danza

nei primi decenni del Novecento. L’Istituto Jaques-Dalcroze di Hellerau è un tipi-

co esempio di teatro-santuario, antitetico, ma paradossalmente equivalente, a quel-

lo wagneriano di Bayreuth. La scelta della periferia invece di una grande capitale

derivava, per Jaques-Dalcroze, non da problemi economici, ma dal desiderio di

garantirsi una visibilità maggiore di quella che avrebbe potuto offrire una città

importante. Inoltre Hellerau, un sobborgo di Dresda, è un posto particolare, una

città-giardino edificata da un industriale filantropo e utopista, K. Schmidt, che fe-

ce costruire, a Hellerau appunto, un’industria-modello e una serie di case per gli

operai immerse nel verde e improntate a uno stile innovativo sobrio e funzionale.

La costruzione dell’Istituto si rese possibile per l’interessamento di un al-

tro industriale tedesco, W. Dohrn, che aveva lavorato al fianco di Schmidt per la

creazione della città-giardino, ed era forse già in contatto con il pittore russo A.

von Salzmann (che fu uno dei principali collaboratori di Jaques-Dalcroze). Dohrn

offrì a Jaques-Dalcroze la possibilità di creare l’edificio secondo i suoi desideri e

ne sostenne la quasi totalità della spesa. Come architetto venne scelto il giovanis-

simo H. Tessenow. L’edificio di Hellerau fu in seguito considerato uno dei suoi

capolavori, e uno dei massimi esempi della rivoluzione iniziata a metà Ottocento

per un’architettura funzionale. Aveva le linee pure e ascetiche, la simmetria tipica

di un classicismo atemporale. La differenza tra questo stile essenziale e i progetti

precedenti di Tessenow fa pensare a un’attiva collaborazione di Appia. Jaques-

Dalcroze e Appia, comunque, furono entusiasti dell’opera del giovane architetto.

Come tutti i teatri-santuari, Hellerau, nei suoi primi anni di vita, fu completamente

dipendente dal suo mecenate. Perciò, quando agli inizi del 1914 un incidente sugli

sci troncò inaspettatamente la vita di Dohrn, l’Istituto dovette chiudere.

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Nella seconda metà del Novecento, le mutate condizioni economiche del

t., passato quasi globalmente dall’economia di mercato a quella delle sovvenzioni,

configurano nuove possibilità. Le emergenze teatrali non coincidono più con quel-

le della geografia politica. È possibile, per i t., vivere lontani dai centri in cui sono

numerosi gli spettatori potenziali ed è possibile fare t. per spettatori che in altri

tempi non sarebbero stati sufficientemente remunerativi. Esperienze avventurose

ed economicamente donchisciottesche, come quella di Copeau, quando

nel 1924 chiuse il suo t. parigino e si recò con alcuni dei suoi attori in Borgogna

(Cruciani 1985), possono ora svolgersi in una condizione di quasi normalità.

Che le emergenze teatrali non coincidano più con quelle della geografia

politica lo si vede chiaramente non appena si osservi come alcune delle più impor-

tanti capitali della scena del secondo Novecento, luoghi in cui si irrobustiscono e

diventano influenti i modelli del nuovo t., sorgano in contesti decentrati, appar-

tengano alla geografia delle periferie e delle province. Cessa, cioè, il legame ob-

bligato fra la centralità culturale di un t. e la centralità della sua città. Negli anni

Sessanta, due di queste capitali del nuovo t. si trovano nella cittadina polacca di

Opole, dove vive il Teatr Laboratorium di J. Grotowski, e nella cittadina danese di

Holstebro, dove opera l’Odin Teatret di E. Barba.

In Italia, la cartografia teatrale dagli anni Settanta in poi deve registrare

come centrali, accanto alle città abituate a essere capitali culturali, anche luoghi

che per la geografia politica sono marginali: Pontedera, dove si radica il Centro

per la sperimentazione e la ricerca teatrale; Cesena, dove lavora la Societas Raf-

faello Sanzio; Bergamo, dove operano il Teatro Tascabile e l’Accademia delle

forme sceniche; Ravenna, con il Teatro Le Albe; Settimo Torinese, con il Labora-

torio Teatro Settimo; Prato, dove ha a lungo lavorato L. Ronconi in condizioni la-

boratoriali; Fara in Sabina, un paesino presso Rieti da cui s’irradia l’attività inter-

nazionale del Teatro Potlach; Brescia, dove il Teatro della Loggetta s’impone co-

me un modello di t. pubblico; Ferrara, nei cui dintorni lavora il Teatro Nucleo, na-

to attorno a due artisti argentini esiliati (Schino 1996).

La dislocazione dei t. al di fuori dei territori segnati come ‘centrali’ carat-

terizza l’intero panorama internazionale e predomina soprattutto in America Lati-

na, dove un’influente rete di gruppi teatrali s’impone senza mettere radici nelle

città importanti o vivendo in esilio, com’è il caso del Teatro Galpón di Atahualpa

del Cioppo (originario dell’Uruguay), della Comuna Baires e del Libre Teatro Li-

bre (originari dell’Argentina).

Alcuni fra i più importanti esempi del t. della seconda metà del Novecento

— si pensi al Living Theatre e al Centre international de créations théâtrales di P.

Brook — assumono, sia per la collocazione sia per la propria composizione inter-

na, la figura di t. apolidi. Questo non vuol dire che sparisca lo statuto dei t. citta-

dini e la centralità di istituzioni come la Comédie Française, il Piccolo di Milano,

il Berliner Ensemble, l’Old Vic e i molti altri t. centrali nei diversi paesi. Ma alla

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polarità fra centro e periferia, tipica della geografia teatrale tradizionale, si sosti-

tuisce quella fra t. che vivono radicati in un ben circoscritto territorio e t. extrater-

ritoriali. L’idea di ‘teatro nazionale’ (che in alcuni paesi rappresenta la solidità di

una tradizione e in altri — come l’Italia — poco più di un sogno, o di una ‘fisi-

ma’, come si disse già negli anni Venti) viene sostituita dall’immagine-guida di t.

che sono cittadini del mondo, che possono trasferirsi e trapiantarsi in differenti

zone del pianeta, rompendo il legame istituzionale e culturale con un ben preciso

territorio e una sola lingua. Emblematica, da questo punto di vista, la storia

dell’Odin Teatret (per la nozione di t. extraterritoriale e per una panoramica più

circostanziata, v.teatro, App. V).

Questo allontanarsi di un’ampia porzione del t. del secondo Novecento dal

legame con un territorio preciso, e persino da quello con una lingua, procede pa-

rallelamente all’uscita dai consueti luoghi teatrali. Si crea, così, una geografia in

movimento, dove il t. abbandona i luoghi cui tradizionalmente era deputato, ed

esplora ambienti e modi d’essere che fino a poco prima avrebbero dovuto essergli

estranei. La geografia in movimento implica, infatti, nuovi processi di territoria-

lizzazione.

TERRITORIALIZZAZIONE

I geografi usano il termine territorializzazione per indicare quell’insieme di ope-

razioni che organizzano a diversi livelli, sia fisico sia mentale, lo spazio in cui si è

inglobati. Parlano dunque dei modi in cui l’uomo trasforma

lo spazio in territorio modificandolo materialmente (edifici, strade, dighe, canali,

scavi ecc.); pensandolo in maniera gerarchizzata e distinta secondo i contorni del-

le frontiere, delle amministrazioni e dei valori; intessendovi reti di relazioni che

uniscono zone spazialmente non contigue (come le diverse proprietà di uno stesso

ente, il coordinamento degli spazi con funzioni simili ecc.). L’insieme di queste

operazioni di territorializzazione dà luogo alla ‘geografia complessa’. Tutto que-

sto ha un preciso corrispettivo nelle complessità teatrali.

Chi si accinge a far t. trova davanti a sé uno spazio già organizzato, ‘luoghi

teatrali’ già pronti, una rete di legami, di occasioni, di incontri. Trova, insomma,

una tipologia delle attività consolidata dagli usi e dalla tradizione. La tipologia dei

luoghi teatrali confermati dalla tradizione riguarda sia l’aspetto materiale

dell’assetto scenico sia i contesti di riferimento o la geografia delle tournée. Un

tale modo di organizzare il territorio rispondeva al sistema economico che ha a

lungo regolato il commercio degli spettacoli.

L’avvento delle sovvenzioni, la necessità o la volontà di sottolineare ciò

che distingue lo spettacolo teatrale dall’insieme degli spettacoli più diffusi (cine-

ma e televisione), e cioè il suo carattere di spettacolo ‘al vivo’, l’affermarsi di vi-

sioni estetiche e politiche che suggeriscono al t. nuovi valori e nuovi compiti so-

ciali hanno premuto contro le forme dei luoghi teatrali, codificate e trasmesse dal-

Page 62: TEATRO TRECCANI - Unife

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la tradizione. I luoghi in cui far t. non possono più essere soltanto quelli organiz-

zati dall’architettura del ‘teatro all’italiana’. Diverse istanze teatrali obbligano a

organizzare diversamente il terreno atto ad accogliere spettacoli. I luoghi per lo

spettacolo a volte aboliscono la divisione canonica fra palcoscenico e platea; op-

pure si restringono alla dimensione di una sala in cui raccogliere attori e spettatori

in numero ridotto; rifiutano la nozione stessa di pubblico come massa indifferen-

ziata o, al contrario, invadono ampi spazi in cui costruire paesaggi teatrali dalle

grandi dimensioni. Divengono t. certi spazi cittadini desueti, ex fabbriche ed ex

chiese, palestre, nude sale in cui organizzare ogni volta diversamente il rapporto

fra coloro che fanno t. e coloro che ne fruiscono. I territori pronti per lo spettacolo

e gli edifici teatrali tradizionali in molti casi appaiono un ostacolo alla vita del t.

così come essa si manifesta alla fine del 20° secolo (Cruciani 1992).

La diversa organizzazione del territorio, rispetto a quella tradizionale che

recintava gli spazi preordinati allo spettacolo, rende in molti casi il t. un fenomeno

pervasivo, che si instaura nei luoghi marginali e abbandonati della città, del suo

centro e delle sue periferie. Alla fine del Novecento diventa cioè normale quel che

nei primi decenni caratterizzava lo sperimentalismo di un creatore di spettacoli

come M. Reinhardt, che esplorava con le sue messinscene spazi sempre diversi.

La non appartenenza di una parte significativa del t. di fine secolo ai luoghi teatra-

li tradizionali si rende particolarmente evidente con il fiorire di spettacoli itineran-

ti in spazi aperti, dove sia gli attori sia gli spettatori compiono un percorso che

esplora e spettacolarizza un territorio più o meno vasto, cittadino o immerso nella

natura. In queste ‘Opere’ teatrali itineranti l’operazione di territorializzazione vie-

ne spesso tematizzata (Cruciani, Falletti 1989). I nuovi territori che i t. si ritaglia-

no nel continuum dello spazio cittadino non sono delle semplici fuoriuscite dai

luoghi deputati, non sono infrazioni o invasioni festive, o provocazioni politiche o

di propaganda (Casini Ropa 1988). Sono il segno di un vero e proprio riassestarsi

della topografia teatrale.

Se dalla topografia passiamo a una scala geografica più ampia, osserviamo

il crearsi di uno spazio delle relazioni teatrali che modella in maniera diversa i le-

gami che normalmente stringono il territorio teatrale. I mutamenti ai quali faccia-

mo qui riferimento non sono complessivi: non si tratta di una geografia dei t. che

non ha più nulla a che vedere con la precedente. Al contrario, l’assetto tradiziona-

le continua a mantenersi sostanzialmente intatto; è quello del t. non sempre di

maggiore rilevanza storica, ma sempre di maggior celebrità nel sistema dei media.

Ad alcuni dei suoi caratteri si è già accennato; occorre aggiungere ciò che dà for-

ma al territorio teatrale in una dimensione internazionale. I t. tradizionali girano in

luoghi sempre simili. Le tournée li conducono in altri t., spesso in altre capitali o

in centri culturali corrispondenti a quelli cui appartengono. Si incontrano in grandi

festival. Viaggiano, cioè, in un territorio unitario, i cui luoghi sono lontani nello

spazio, ma vicini per morfologia e costumi. I t. che non possono adattarsi comple-

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tamente a questo sistema, a ciò che esso indica o permette, sono costretti a cam-

biare l’assetto del proprio territorio d’appartenenza, cioè non solo a cambiare la

struttura del ‘luogo teatrale’, ma anche a modificare la rete delle affinità e il modo

in cui pensare i confini del mondo teatrale. Devono, cioè, rielaborare a loro uso i

criteri della territorializzazione.

Si creano così due mappe teatrali compresenti e sovrapposte: l’una coeren-

te rispetto all’organizzazione tradizionale dei t. nazionali e regionali, l’altra orga-

nica alle novità dei t. apolidi, extraterritoriali, adatti a vivere in una società multi-

culturale. Da un punto di vista strutturale, questa seconda geografia sostituisce

l’alternanza fra t. stabili e t. in tournée con una condizione di nomadismo, dove si

alternano momenti in cui prevalgono forze centrifughe a momenti in cui preval-

gono forze centripete, tempi in cui ogni t. tende a lavorare per suo conto a tempi

in cui due o più t. lavorano di conserva, costruiscono progetti comuni, riempiono

di vita teatrale una città o una regione, trasformando un festival, per es., in una ve-

ra festa che coinvolge direttamente le diverse componenti della cultura locale. Al-

la geografia tradizionale delle tournée corrisponde il puro scambio di spettacoli;

all’altra geografia, basata su legami sempre nuovi e multiformi, corrisponde, oltre

al girare degli spettacoli, la creazione di ‘progetti speciali’ di carattere artistico,

attività culturali, pedagogiche e di introduzione alla pratica teatrale. Anche per

quanto riguarda la pedagogia teatrale, si potrebbe fare un discorso simile: alle

scuole stabili si aggiunge, nella seconda parte del Novecento, l’esistenza di una

rete di rapporti e pratiche pedagogiche continuative ma non legate a una sede sta-

bile (La scuola degli attori, 1980; Schino 1996; The performers’ village, 1996).

Dal punto di vista culturale, i nuovi fenomeni di territorializzazione teatra-

le instaurano legami con istituzioni non teatrali. Sintomatici, da questo punto di

vista, i rapporti organici con le università, il sorgere di un settore del t. legato

all’organizzazione scolastica e l’emergere di una rete internazionale di t. che lavo-

rano stabilmente in istituzioni carcerarie (v. teatro, App. V; Meldolesi 1994). Dal

punto di vista economico, le nuove forme di territorializzazione rispondono

all’esigenza di accedere alle risorse lungo linee trasversali rispetto ai sistemi che

regolano localmente le sovvenzioni teatrali. Inutile dire che le strategie per rag-

giungere tali risultati appaiono chiare solo a posteriori, mentre nella pratica si

configurano come una serie di scelte adeguate alla spinta delle circostanze e al bi-

sogno di porre di volta in volta rimedio a condizioni insoddisfacenti. Ma nel loro

complesso e nel loro insieme tali strategie contribuiscono a configurare un territo-

rio unitario e transnazionale del t., dai contorni e dalle caratteristiche profonda-

mente diversi rispetto a quelli assolutamente dominanti nella prima metà del 20°

secolo.

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I CONTORNI DELLE MAPPE TEATRALI

Il rapporto con l’ambiente di quanti praticano il t. alla fine del 20° secolo spesso è

profondamente diverso da quello di coloro che li hanno preceduti: una parte con-

sistente del t. non si sente più strettamente legata a una lingua o a una nazione.

Non sarebbe stato immaginabile in altri tempi, quando i t., anche i meno legati a

un pubblico particolare (si pensi all’antico caso della Commedia dell’arte), si de-

finivano pur sempre per le terre e le culture di provenienza. Sia per chi pratica il t.,

sia per chi lo sperimenta come spettatore, il luogo teatrale, nella sua oggettività

fattuale e geografica e nella sua soggettività culturale e umana, ha spesso connota-

zioni interculturali. Il che vuol dire che quanto più diventano deboli le radici che

legano i singoli t. alle loro località, tanto più forti si fanno i legami che uniscono i

t. sparsi nelle diverse parti del pianeta, indipendentemente dalle loro appartenenze

culturali, dalle tradizioni che incarnano o dalle scelte estetiche che praticano.

L’intreccio dei legami crea un vero e proprio territorio transnazionale e transcon-

tinentale, che mette in ombra l’appartenenza dei singoli t. a un luogo geografico

preciso (Barba 1996; Schechner 1983).

Tali caratteri del t. del secondo Novecento non sono stati ancora del tutto

recepiti dalla storiografia teatrale, che perpetua quasi sempre il modello di una

storia del t. divisa per paesi, con il risultato di sminuire, nel giudizio storico, pro-

prio quei t. la cui grandezza consiste nello sfuggire alle vecchie regole

dell’organizzazione del territorio. Un solo esempio: una personalità come P.

Brook, centrale per la storia del t. del secondo Novecento, risulta svalutata e sbia-

dita quando ci si ostina a osservarla all’interno di un panorama nazionale, sia esso

inglese o francese. Persino il t. di T. Kantor, profondamente radicato nella cultura

d’avanguardia polacca, viene privato di gran parte del suo peso, se si fa della Po-

lonia lo sfondo principale della sua azione. Simili inconvenienti, che derivano dal

perdurare di punti di vista inadeguati o impropri, spiegano il ritardo con cui si fa

strada la consapevolezza dei mutamenti avvenuti nella geografia teatrale della se-

conda parte del Novecento.

Per comprendere quale idea della sua geografia il t. del Novecento lasci in

eredità al 21° secolo occorre valutare in tutta la loro insufficienza le mappe teatra-

li che tracciano i confini nazionali. Un esempio macroscopico di tale mutamento

di prospettiva si può individuare nell’unità del ‘teatro eurasiano’ al quale è dedica-

to un apposito contributo in questa stessa voce. Altrettanto significativi gli esempi

sempre più numerosi di ensembles teatrali multiculturali e caratterizzati dal poli-

linguismo.

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IL TEATRO ‘EURASIANO’

di Nicola Savarese

La nozione di t. ‘eurasiano’ recentemente proposta da E. Barba (v. oltre), non è da

intendersi in senso geografico; essa designa piuttosto l’insieme di esperienze cul-

turali in cui i più recenti risultati della ricerca teatrale occidentale si trovano a

convivere con le forme classiche dei teatri asiatici. È una visione che agli inizi del

terzo millennio supera, per quel che attiene al t., la tradizionale distinzione fra

Oriente e Occidente. L’ingresso dei t. asiatici nella cultura teatrale dell’occidente

ha posto infatti alcuni problemi storiografici di fondo che si sono scontrati con il

paradigma dell’opposizione Oriente-Occidente, a lungo utilizzato, più o meno

consapevolmente, nelle sistemazioni della storia delle arti e del pensiero. Tale pa-

radigma ha fatto sì che i t. asiatici venissero in genere collocati nella categoria

‘teatri orientali'’ una zona liminare delle storie del t., spesso vista come sopravvi-

Page 66: TEATRO TRECCANI - Unife

66

venza arcaica, paragonata alle ere antiche del t. d’Occidente, vivente reliquia del

passato, legata a una visione rituale, quando non magica, del t. (Cruciani, Tavia-

ni 1988).

Tali impostazioni, quand’anche attente e sobrie, hanno spesso svisato la

continuità delle tradizioni classiche asiatiche interpretandola impropriamente co-

me una sorta di immobilità astorica, dimenticando che ogni tradizione vive della

dialettica fra conservazione e pulsione al rinnovamento, e che partiture spettacola-

ri che continuano a essere interpretate e messe in scena non possono essere viste

come semplici reperti o permanenze del passato, così come non lo sono Shake-

speare ed Eschilo nel t. del Novecento, né lo è la florida tradizione dell’opera, pur

fondata su un repertorio che è in larga parte sette-ottocentesco.

Il quadro fisso e nebuloso in cui spesso sono stati costretti i t. asiatici, la

categoria, cioè, di un ‘teatro d’Oriente'’ è un miscuglio di favola e realtà, da ri-

condurre al più generale problema dell’orientalismo, che — come è stato spiegato

da alcuni studiosi — è un derivato dell’età coloniale. In realtà, “non c’è nessun

Oriente. Ci sono popoli, paesi, regioni, società, culture innumerevoli sulla Terra.

Alcune hanno caratteri comuni (durevoli o momentanei). Ogni studio che acco-

muni una o più di tali entità deve essere giustificato solo in base ad alcune caratte-

ristiche comuni in un periodo dato” (Rodinson 1980, p. 143).

E dunque quello di ‘teatri orientali’ è un concetto che può essere usato per

designare non tanto le diverse culture dello spettacolo dei paesi asiatici, quanto un

complesso di suggestioni ora profonde, ora diffuse, provenienti dai t. asiatici più o

meno ben conosciuti, il quale ha agito nella cultura teatrale di matrice europea a

partire dalla fine del 18° secolo. Da questo punto di vista, i ‘teatri orientali’ sono

una delle costellazioni mitiche del pensiero teatrale occidentale, come la Comme-

dia dell’arte o il t. greco, il t. popolare o quello dei cosiddetti primitivi. Gli scambi

culturali fra gli orizzonti dello spettacolo in Europa e in Asia risalgono

all’antichità greco-romana e si sono evoluti, seguendo fasi alterne, fino alle con-

quiste coloniali (dal 17° al 19°secolo); ma per trovare un primo diretto rapporto

fra il t. europeo e i t. dell'’sia occorre arrivare alla metà del Settecento, quando un

dramma cinese tradotto dai gesuiti col titolo L’orfano della Cina fu imitato da

molti drammaturghi occidentali, fra i quali P. Metastasio e Voltaire, e subito ap-

prezzato da un vastissimo pubblico. Attraverso queste prime traduzioni di drammi

(vanno ricordate innanzitutto le numerose versioni romantiche di Śakuntalā del

poeta indiano Kālidāsa) si diffusero rapidamente in Europa le notizie

sull’esistenza di un ‘teatro’ anche presso i lontani popoli d’Oriente. Conosciute

all’inizio attraverso il filtro della letteratura drammatica, solo nel 20° secolo le

complesse civiltà teatrali dell'’sia si sono imposte all’attenzione anche per i loro

aspetti scenici e rappresentativi, ma pure qui il paradigma del t. d’Oriente ha agito

a lungo, velando gli aspetti più professionali e meno esotici. La differenza di at-

teggiamento potrebbe in fondo sintetizzarsi in questa formula: da una parte vi so-

Page 67: TEATRO TRECCANI - Unife

67

no coloro che vedono i t. asiatici come un esempio di t. esotico, arcaico e orienta-

le; dall’altra vi sono coloro che li vedono come esempio di una problematica uni-

taria del t., sia essa teorica o tecnica.

L’esempio forse più significativo di questo doppio atteggiamento che con-

sidera gli stessi fenomeni in modi diversi e incomparabili lo si può trovare nella

Parigi del 1931, nel corso dell’esposizione coloniale. Basti paragonare

l’atteggiamento esotista tipico del pubblico che assisteva agli spettacoli asiatici

presentati in quell’occasione con l’atteggiamento di A. Artaud nei confronti dello

spettacolo balinese. Da quella visione nacque un articolo ancor oggi rivelatore,

considerato un manifesto del nuovo t., intorno al quale crebbe uno dei libri più in-

fluenti e innovatori del t. del Novecento, Le théâtre et son double (la vicenda della

presenza a Parigi del t. balinese nel 1931 è esaminata in Savarese 1997).

Nella prima metà del Novecento, gli incontri di G. Craig con il t. indiano,

di A. Artaud con il t. di Bali o di B. Brecht con il t. cinese; l’influenza del t. clas-

sico giapponese kabukisu V.E. Mejerchol´d e S.M. Ejzens ̆tejn, dell’antico e anco-

ra rigoglioso t. giapponese nō su W.B. Yeats e P. Claudel da una parte, e dall’altra

su É.-M. Decroux, sono vicende ormai esemplari. Sono tutti incontri caratterizza-

ti, fra l’altro, dall’elusione del paradigma illusorio che contrappone Oriente a Oc-

cidente.

Ai loro livelli più avanzati, le culture teatrali occidentali e quelle asiatiche

non sono più da separare. Alcuni t. classici asiatici hanno avuto una tale influenza

e un tale fascino per gli uomini di t. occidentali che nel corso del 20° secolo le di-

verse conoscenze e i diversi motivi si sono intersecati, tant’è che si può parlare di

una cultura teatrale unificata ed ‘eurasiana’.

Alla fine del 20° secolo, le tradizioni classiche del t. e della danza asiatiche

appaiono importanti punti di riferimento per la cultura e la pratica teatrale, non

meno presenti e attivi, non meno ‘contemporanei’ di quanto non lo siano i modelli

di t. elaborati dai teorici della regia, a partire dagli ultimi anni del 19° secolo. Non

solo è possibile constatare una presenza abbastanza continuativa dei t. classici

asiatici nelle stagioni e nei cartelloni dei t. europei e americani, ma alcuni artisti

occidentali operano come se t. di tradizione europea e t. di tradizione asiatica ap-

partenessero a un orizzonte culturale unificato.

Il carattere recente della nozione di t. eurasiano non vuol dire che sia re-

cente ciò che essa designa. A proporla è stato il regista e studioso E. Barba in al-

cuni scritti (1988, 1993) in cui identifica un nucleo comune del sapere professio-

nale attraverso la comparazione di principi tecnici di differenti civiltà teatrali pre-

senti nell’Eurasia. Afferma Barba: “teatro eurasiano non indica i teatri compresi in

uno spazio geografico, nel continente di cui l’Europa è una penisola. Suggerisce

una dimensione mentale, un’idea attiva nella cultura teatrale moderna. Racchiude

quell’insieme di teatri che per coloro che sono concentrati sulla problematica

dell’attore sono divenuti punti di riferimento classici per la ricerca […]. Questa

Page 68: TEATRO TRECCANI - Unife

68

enciclopedia si è formata attingendo al repertorio delle tradizioni sceniche europee

e asiatiche. Ci piaccia o no, sia giusto o ingiusto, questo è quanto è accaduto”. E

aggiunge: “Parlando di teatro eurasiano constatiamo un’unità sancita dalla nostra

storia culturale. Possiamo infrangerne i confini, ma non possiamo ignorarli. Per

tutti coloro che nel Novecento hanno riflettuto in maniera competente sull’attore, i

confini fra teatro europeo e teatro asiatico non esistono” (Barba 1993, p. 74).

L’approccio di Barba al ricco patrimonio dei t. asiatici è semplice e diretto.

Come all’inizio del suo apprendistato il viaggio in India e lo studio

del kathākali erano stati il modo di accostarsi a una tecnica di rappresentazione

per carpirne il segreto professionale e tentare di adattarne alcuni aspetti alla prepa-

razione dell’attore occidentale (Barba 1998, pp. 90-91), così ogni altro attraver-

samento degli stili degli attori asiatici diventa per Barba un interrogativo intima-

mente connesso ai dubbi che giorno per giorno sorgono dalla professione. Questa

pratica costante di acuto spettatore gli permette di vedere oltre le barriere culturali

e gli consente il dialogo e il confronto con realtà teatrali altrimenti troppo distanti

nello spazio e nel tempo. E tuttavia: “oggi il termine stesso di ‘confronto’ mi pare

inadeguato, perché separa le due facce d’una stessa realtà. Posso dire che ‘mi con-

fronto’ con le tradizioni indiane o balinesi, cinesi o giapponesi se paragono le epi-

dermidi dei teatri, le diverse convenzioni, le molte maniere degli spettacoli. Ma se

considero ciò che sta dietro quelle luminose e seducenti epidermidi e scorgo gli

organi che le tengono in vita, allora i poli del confronto si fondono in un unico

profilo” (Barba 1996, p. 246).

Dunque, l’approfondimento del mestiere può collocare i t. asiatici non più,

come in passato, sul piano, pur importante, degli stimoli creativi: essi non appaio-

no soltanto una fonte per rinnovare l’universo immaginario e le consuetudini più

stanche della routine teatrale, ma diventano interlocutori privilegiati per analizzare

quei processi, come la formazione dell’attore e le tecniche della rappresentazione,

che precedono la creazione e le conferiscono maggior vita. Così i t. asiatici, al di

là dei secolari malintesi, delle suggestioni esotiche, delle influenze e dei compro-

messi, assumono il valore di un patrimonio culturale che trascende le barriere del-

le singole culture per approdare sul piano, più ristretto ma essenziale, del mestiere

e della professione.

Al di là del modello teatrale occidentale, imposto alle culture asiatiche dal

colonialismo e neocolonialismo, o da esse assorbito come risposta a un’esigenza

di modernizzazione, l’influenza delle visioni teatrali di Stanislavskij, di Brecht, e

più tardi di Artaud, di Grotowski, del Living è paragonabile all’influenza dei

grandi esempi dei t. classici asiatici sul t. occidentale. Quei t. che nei primi decen-

ni del secolo erano una scoperta, alla fine del secolo fanno parte, in Occidente, del

canone consolidato dell’arte teatrale. Il fatto che la consapevolezza di un tale ca-

none sembri chiara solo ai livelli alti e sperimentali della cultura teatrale non smi-

nuisce quanto abbiamo appena affermato. Sarebbe un errore credere che la routine

Page 69: TEATRO TRECCANI - Unife

69

delle cronache teatrali possa essere considerata una ‘norma’. A ben guardare, es-

ser consapevoli dell’esistenza dell’orizzonte teatrale ‘eurasiano’ e identificare il

nucleo di una cultura professionale comune a differenti civiltà significa non sol-

tanto trasmettere un patrimonio di conoscenze, ma anche incarnare l’ansia e la lo-

gica di un viaggio per nulla concluso.

Alla fine del secolo, dell’atteggiamento esotico e orientaleggiante nei con-

fronti dei t. classici asiatici restano ben poche tracce e poco significative. Si pos-

sono invece osservare i modi diversi e complementari in cui i t. asiatici e le ricer-

che teatrali eredi della riforma teatrale della cultura di radici europee si innestano

come componenti di un alveo culturale e di mestiere unitario. Nel vasto panorama

del t. eurasiano spiccano alcuni esempi particolarmente significativi. Ma prima di

elencarli velocemente, alla maniera di altrettanti primi piani, occorre ricordare

l’importanza che l’una o l’altra tradizione dei t. classici asiatici ha avuto su altri

maestri del t. occidentale del secondo Novecento, che qui non trovano spazio, da

J. Beck e J. Malina a J. Grotowski; da R. Wilson a P. Schumann e al Bread and

Puppet Theatre; da H. Müller a R. Lepage.

Il superamento dello iato fra cultura di radici europee e culture asiatiche

corrisponde all’esigenza di superare un dislivello interno alla cultura scenica di

matrice europea: la frattura fra t. e danza. Il risvolto scientifico di questa doppia

esigenza sono gli studi di antropologia teatrale sorti intorno all’ISTA (Internatio-

nal School of Theatre Anthropology), fondata da Barba nel 1979 assieme a mae-

stri di t. occidentali e orientali — prima fra tutti la grande attrice-danzatrice india-

na S. Panigrahi — e a studiosi di differenti discipline e differenti paesi, fra cui lo

storico del teatro F. Cruciani. L’ensemble dei maestri dell’ISTA, guidati da Barba,

ha tradotto nell’evidenza di un grande spettacolo il proprio modo di concepire la

collaborazione delle diverse tradizioni teatrali nella reciproca autonomia. Questo

spettacolo d’eccezione, dal titolo Theatrum mundi, è una grande rappresentazione

che, ruotando attorno ai temi di Don Giovanni, Amleto o Faust, compone in un

tutto organico di grande impatto emotivo le presenze sceniche degli attori e danza-

tori provenienti da differenti paesi e culture (le principali rappresentazioni si sono

tenute a Copenaghen nel 1996 e a Lisbona nel 1998; cfr. Schino1996-97).

Uno degli spettacoli più importanti degli ultimi decenni del Novecento è

il Mahābhārata del regista P. Brook e del drammaturgo J.-C. Carrière. Andato in

scena nel 1985, poteva durare da nove a dodici ore, o dividersi in tre diverse sera-

te. Un ensemble di attori provenienti dai diversi continenti interpretava i diversi

personaggi dello sterminato poema indiano senza servirsi delle peculiarità stilisti-

che delle rispettive tradizioni d’origine, in una messinscena che teneva altrettanto

conto delle convenzioni teatrali europee e di quelle dei t. asiatici, soprattutto in-

diano e balinese (Di Bernardi 1989).

Di tutt’altro tipo il carattere ‘eurasiano’ di alcuni celebri spettacoli di A.

Mnouchkine, che da un lato affronta sempre più frequentemente temi asiatici, in

Page 70: TEATRO TRECCANI - Unife

70

collaborazione drammaturgica con H. Cixous (L’histoire terrible mais inachevée

de Norodom Sihanouk, Roi de Cambodge, 1985; L’Indiade ou l’Inde de leurs rê-

ves, 1987; L’Inde, de père en fille, 1993), e dall’altro, negli anni Ottanta, ha più

volte percorso la via delle messinscena di testi shakespeariani, utilizzando le con-

venzioni spettacolari dei t. kabuki e nō e del t. classico india-

no kathākali (Richard ii, 1981; La nuit des Rois, 1982; Henri iv, 1984).

Esperimenti simili ha compiuto il teorico e regista teatrale statunitense R.

Schechner, sia utilizzando attori e stilemi asiatici in regie americane, sia mettendo

in scena classici del t. europeo, in Cina, con attori e convenzioni dei t. classici ci-

nesi. Un’attività sperimentale che fa da corollario alle ricerche sulla ‘teoria del-

la performance’ che Schechner conduce tenendo conto di un orizzonte culturale in

cui Asia, Europa, America e Africa contribuiscono a creare un unitario universo

performativo (Schechner 1983, 1985).

Anche nei diversi paesi asiatici, al di là della diffusa importazio-ne dei

modelli teatrali ‘occidentali’, vi sono numerosi esempi di cosciente integrazione

in una visione unitaria. Si pensi, per limitarsi al Giappone, alle ricerche di un ca-

poscuola come T. Suzuki, oppure, in un ambito meno innovatore, alle esperienze

di M. Watanabe, professore universitario esperto di letteratura francese, che mette

in scena Eschilo, Seneca e soprattutto Racine utilizzando le forme e alcuni grandi

attori del t. classico giapponese nō. E si pensi, soprattutto, all’invenzione della

danza butō, sullo spartiacque fra cultura tradizionale giapponese e cultura post-

moderna di stampo europeo e americano. La danza butō è molto più di un nuovo

stile. Incarna un modo di pensare e di reagire, basato sul rifiuto degli aspetti tradi-

zionali, raffinati e dalle radici feudali, delle forme classiche giapponesi, e

sull’ambivalente contemplazione della violenza. È stata creata negli anni Cin-

quanta da T. Hijikata (1928-1986) e K. Ōhno (n. 1906). Hijikata parlava di una

“danza delle tenebre” (ankoku butō; cfr. Butō: la danza sulla linea di confi-

ne, 1997).

Questi esempi non sono però che alcune emergenze di un uso sempre più

diffuso, che percorre sia i t. occidentali sia quelli asiatici. Tanto che ormai si può

dire che l’unità del t. eurasiano non costituisce più un problema. Potrebbe essere

visto come un sintomo di una tale nuova ‘normalità’ il recente Peony Pavilion del

regista P. Sellars, che fra il1990 e il 1993 ha diretto il Los Angeles Festival, carat-

terizzato dall’approccio interculturale e interdisciplinare alle arti dello spettaco-

lo. Peony Pavilion (1998) è il tentativo di creare una forma transculturale di opera

lirica. È basato su un classico cinese della fine del 16° secolo, Il giardino delle

peonie di Tang Xianzu, messo in musica dal compositore cinese moderno Tan

Dun (n. 1957), interpretato da attori e attrici americani, da cantanti d’opera e da

due attrici di uno dei t. classici cinesi, fra cui la celebre Hua Wenyi, della Shan-

ghai Kun Opera. Si intersecano nello spettacolo gli effetti multimediali, musica

postmoderna e neopucciniana, musica classica cinese, antiche melodie gregoriane,

Page 71: TEATRO TRECCANI - Unife

71

la recitazione ‘realistica’ tipica delle attuali scuole teatrali, le convenzioni recitati-

ve dei cantanti d’opera e le straordinarie partiture gestuali degli attori classici ci-

nesi. L’impasto trasforma la poesia del testo cinese in una costellazione di inter-

pretazioni e di immagini provenienti da un orizzonte artistico in cui le differenti

culture si intrecciano alla pari, senza che esista alcuna particolare o significativa

separazione fra il cosiddetto Occidente e il cosiddetto Oriente. L’esempio di Sel-

lars, non solo in Peony Pavilion, ma nel complesso della sua opera, è particolar-

mente significativo perché mostra un modo di reagire al degrado culturale, al mi-

scuglio, al sincretismo facile e di mercato, attraverso un’equivalente varietà di

prospettive, ma controllate dalla serietà e dal rigore culturale.

All’altro estremo, complementare a tale varietà di prospettive, vi è la serie-

tà e il rigore di chi si fa esperto in tradizioni artistiche che un tempo erano ritenute

estranee. Nei paesi occidentali sono ormai numerosi gli artisti che si specializzano

in una tradizione classica asiatica di musica, danza o teatro. Alcuni degli esempi

migliori sono italiani: si pensi a I. Citaristi, ammirata danzatrice dello sti-

le orissi dell’India, e soprattutto al complesso di attori e attrici che, sotto la dire-

zione di R. Vescovi, si radunano nell’Accademia delle forme sceniche di Berga-

mo, dove, in un continuo scambio fra India ed Europa, vengono da tempo coltiva-

te le forme classiche dell’orissi, del bhārata nāṭyam e del kathākali. Si tratta, in

tutti questi casi, non di artisti imitatori, non di dilettanti di generi esotici, ma di ve-

ri e propri maestri accettati e apprezzati come tali sia in Europa sia in India, non

diversamente dal modo in cui dai paesi asiatici provengono artisti che eccellono

nella musica classica europea o nel ‘bel canto’ o nell’arte del balletto classico.

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LA PERSISTENZA DEL TEATRO

di Raimondo Guarino

La sopravvivenza del t. comporta il problema della conservazione di una realtà ar-

tistica e sociale ‘archeologica’; di un’economia e di un contesto istituzionali che

mantengono in vita relazioni e consuetudini inattuali; di una forma di comunica-

zione che continua a sostenere profili professionali e impieghi del tempo libero,

pur avendo perduto la posizione egemonica nella creazione del consenso di cui è

stata investita nei secoli passati e nelle sue discontinue rinascite. Per essere ele-

mento di contraddizione rispetto alla modificazione tecnologica dello spettacolo e

della comunicazione nell’epoca dei mass media, e per le sue peculiari relazioni

con le strutture della vita quotidiana, la sopravvivenza del t. si esprime con mutate

fisionomie e associazioni, ma in una persistenza di significati, di valori, di condi-

zioni materiali.

Page 73: TEATRO TRECCANI - Unife

73

Nella prima metà del 20° secolo, la questione della specificità del t. si è

imperniata sul confronto con il linguaggio cinematografico e con le ipotesi e le

realtà dello spettacolo di massa. Il confronto ha determinato oscillazioni di avvici-

namento e di differenziazione, nonché rilevanti influenze sulla concezione dello

spettacolo come opera esteticamente coerente, sui procedimenti tecnici della com-

posizione e sulla considerazione delle implicazioni ideologiche dell’evento sceni-

co. Un esempio è l’avvento dell’istanza unitaria del regista nella creazione dello

spettacolo. Ma il mutamento del t. si è prodotto più per contrasto che per scambio.

Le diverse condizioni di localizzazione, di distribuzione, di riproducibilità e di ac-

centramento produttivo dello spettacolo cinematografico hanno ricondotto il t.

verso altre fonti dello spettacolo dal vivo e verso tradizioni esclusive e difformità.

La revisione dei rapporti tra arte del t. e usi dello spettacolo ha portato

all’approfondimento dei fattori essenziali delle tecniche e delle condizioni di crea-

zione, di cui sono testimonianza libri di teatranti di notevole importanza nel se-

condo Novecento come Alla ricerca del teatro perduto (1965) di E. Barba, Per un

teatro povero di J. Grotowski (1968), La vita del teatro (1972) di J. Beck, accanto

alla vasta produzione saggistica di R. Schechner, il regista e antropologo america-

no fondatore del Performance Group e teorico della performance. Questi testi

hanno sostanziato e supportato forme originali di trasmissione diretta, ispirate alla

resistenza e allo svelamento del t. come pratica eccentrica. L’indagine sugli stru-

menti si è collegata alla mutata collocazione del fare t. tra le attività umane, nella

revisione delle fonti e delle funzioni, nella cognizione più ampia dei diversi conte-

sti etnici in cui siano reperibili, e in cui ha senso reperire, pratiche analoghe a

quelle del t. occidentale.

Nel secondo Novecento la persistenza del t., a parte la riproduzione scola-

stica e istituzionale dello spettacolo teatrale alimentato dal repertorio della dram-

maturgia letteraria, felicemente battezzata teatro mortale dal regista inglese P.

Brook, è segnata dalla continuità dei principi di autonomia estetica, etica e orga-

nizzativa che hanno caratterizzato le esperienze fondamentali del primo Novecen-

to. La continuità percorre il solco dei laboratori e degli studi, cantieri di progetti e

utopie che hanno coltivato il lavoro teatrale, oltre le diverse inclinazioni estetiche

e stilistiche, come possibilità specifica di una sperimentazione pratica sulle rela-

zioni interpersonali (in primis gli studi facenti capo a K.S. Stanislavskij e le rela-

tive diramazioni europee e americane, il lavoro di J. Copeau e il t. in forma di

scrittura di A. Artaud). All’aspetto dell’autonomia le esperienze di punta sviluppa-

tesi negli anni Cinquanta e Sessanta hanno aggiunto la sistematica ricerca del mo-

vimento non solo oltre i confini dell’istituzione teatrale, ma anche oltre i confini

sociali ed etnici. L’uomo di t. ha esteso il suo raggio d’azione e i suoi interessi co-

noscitivi in termini paragonabili alla figura dell’antropologo impegnato nella ‘ri-

cerca sul campo’.

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74

Registi come Brook (fondatore a Parigi nel 1970, dopo gli esordi britanni-

ci, del Centre international de recherche théâtrale) e Barba (fondatore dell’Odin

Teatret nel 1964 e dell’ISTA, International School of Theatre Anthropology,

nel 1979) hanno praticato, con metodi e intendimenti diversi, lo scambio tra gli

strumenti e le abilità dell’attore europeo, l’esperimento della spedizione in ambiti

eterogenei o remoti (Barba in Italia meridionale e in America Latina,

dall’Amazzonia ai sobborghi delle metropoli; Brook, con un gruppo di attori già

originariamente provenienti da diversi continenti, in Iran e in Africa) e il dialogo

con pratiche di t. extraeuropee, principalmente con le grandi tradizioni del t. asia-

tico. La militanza anarchica del Living Theatre, fondato da J. Beck e J. Malina a

New York nel 1947, ha percorso una traiettoria di conflitti contro lo Stato e

l’ordine economico, dai processi e l’esilio dagli Stati Uniti alla presenza a Parigi

durante i moti del maggio 1968, alle carceri brasiliane nel 1971. La ricerca

dell’identità transculturale del t. ha creato una traccia parallela ai processi di glo-

balizzazione economica e antropologica. Il fare t. trova i suoi fondamenti attraver-

so la cognizione della differenza culturale. Restituito a se stesso il t. diventa uno

strumento di mutamento per chi lo pratica e per chi ne è testimone, ben oltre la re-

lazione consueta tra spettacolo e spettatore. In questi termini il t. ha anche conser-

vato il senso di un’inquieta esperienza personale all’interno delle convenzioni e

dell’organizzazione delle singole culture.

Nel 1956 E. Goffman dedicò un libro fondamentale per la sociologia con-

temporanea alla rappresentazione del sé nella vita quotidiana (The presentation of

self in everyday life, trad. it. La vita quotidiana come rappresentazione). A parte

le risonanze pirandelliane, e l’uso e l’abuso delle metafore drammaturgiche e tea-

trali, le argomentazioni di Goffman sulla strutturazione delle forme di comporta-

mento costituiscono un parallelo significativo per la definizione dell’azione in t.

come azione reale, risultato cui s’ispirano la riproposta radicale e il senso trascen-

dente impressi da Grotowski (il regista polacco fondatore del Teatr Laboratorium

nel 1959) agli elementi della tecnica teatrale desunti da Stanislavskij e sottratti

progressivamente all’esito e all’universo di riferimento dello spettacolo pubblico.

La verità del t. si è identificata con il lavoro del teatrante. La verità del teatrante

può fare a meno dell’esibizione pubblica dello spettacolo. Il t. è quindi

un’esperienza della verità, capace di rompere la crosta delle convenzioni compor-

tamentali nelle quali si attua la rappresentazione della finzione sociale, e capace di

liberare risorse individuali ed energie collettive. Legato alla tradizione della ricer-

ca sulla condizione creativa dell’attore, tale indirizzo ha generato esperienze ori-

ginali, a partire dalla mutata posizione del t. nel rapporto tra espressioni, istituzio-

ni, simboli.

Se si cercano i fattori essenziali di una tradizione del nuovo che si sviluppa

nel 20° secolo e perviene a conseguenze estreme nella persistenza del t., si tocca-

no le situazioni legate alla pedagogia, alla formazione del teatrante, al dilatarsi

Page 75: TEATRO TRECCANI - Unife

75

delle situazioni che definiscono la condizione e il mestiere di uomo di teatro. Il

divenire attore, le relative situazioni di creazione collettiva e di affermazione

d’identità, si possono studiare come uno dei riti di passaggio della civiltà moder-

na, perfezionato in senso tecnico e in termini sistematici da alcune esperienze atti-

nenti al t., ma valido come dimensione autonoma e manifestazione di una crisi

generale del contratto sociale. La consistenza della cultura latente così rivendicata

rovescia i criteri di efficacia del lavoro teatrale, spostandoli dal terreno degli spet-

tatori come osservatori di uno spettacolo alla strategia delle vite nel t.,

all’individualità e socialità del teatrante, e ai diversi atteggiamenti con cui il grup-

po dei teatranti crea relazioni con l’esterno.

La cognizione del valore e l’indagine sul senso del t. si sono trasferite dalle

categorie estetiche riguardanti il testo, la scena, l’architettura del luogo teatrale,

dal senso del t. come contenitore di spettacoli-opere, ai fattori latenti della cultura

teatrale: al tempo delle prove, al terreno degli esercizi preparatori, allo spessore

della comunità coinvolta, alla faccia nascosta della professione. Il t. si è ridefinito

come un’azione collettiva premeditata, capace di generare una situazione di lavoro

e di costruzione d’identità specifica, del tutto riconoscibile ed eterogenea rispetto

alla produzione e al consumo d’intrattenimento alto corrispondenti all’economia

dello spettacolo. Pertanto, se è giusto considerare minoritario il t. in relazione alle

altre forme di spettacolo contemporanee, è più interessante valutarne l’imponente

diffusione oltre la convenzionale barriera tra il professionismo e il dilettantismo,

oltre i confini delle classi e delle etnie come insieme di pratiche altrimenti non de-

finibili, prossime ma non conformi all’arte e al rito, come segnale ed elemento

d’instabilità ai confini e all’interno della presunta coerenza degli insiemi culturali.

Il disordine e i nuovi ordini del t. presente coniano concetti che rispecchia-

no e riqualificano il dato dell’esistenza concreta del t., il suo annidarsi in spazi

non convenzionali, tra la strada e la galleria d’arte, il centro sociale e

l’appartamento, l’ospedale psichiatrico e i monumenti dell’archeologia industria-

le. Opzioni di spazio che selezionano pubblici di diverse dimensioni e motivazioni

e presuppongono molteplici criteri d’intervento.

L’idea e la pratica della performance negli anni Sessanta e Settanta hanno

registrato negli Stati Uniti e in Europa forme d’intervento e presenza nel sociale

dissidenti e alternative rispetto alle modalità di produzione e consumo negli spazi

tradizionali del teatro. La nozione di performance è entrata nella prassi e nel lessi-

co teatrale attraverso i varchi aperti nel secondo Novecento tra territori artistici e

analisi delle società. La performance culturale è la nozione comprensiva di situa-

zioni e azioni simboliche che cambiano, instaurano, ricompongono le funzioni, i

valori e le tradizioni concrete di una comunità, definendo nello stesso tempo la

collocazione e le identità di chi le compie. Con questa parola lo spettacolo ritrova

e trasferisce la sua complessità materiale in nuovi orizzonti di significato. La no-

zione di performance, oltre l’accostamento all’analisi funzionale delle società,

Page 76: TEATRO TRECCANI - Unife

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implica anche una connessione ambigua con il dominio dell’arte, nel suo coesiste-

re e intrecciarsi — costituendone insieme un superamento — con il concetto

di happening delle avanguardie euro-americane, così contiguo alla musica e alle

arti visive (fondamentali in tal senso possono essere considerate le multiformi

esperienze di J. Cage, A. Kaprow, W. Vostell, J.Lebel, J. Beuys, e dell’identità

collettiva di Fluxus). Derivata dal titolo di un’azione dell’artista statunitense Ka-

prow (1959), la nozione di happening è stata considerata sinonimo di atto o even-

to non ripetibile, di azione non condizionata da un testo preesistente, come nega-

zione della ripetizione in ambito teatrale, e in genere come rottura dei confini spa-

ziali e della staticità materiale dell’opera in ambito artistico. Il concetto

di performance, per parte sua, trasferisce il discorso sul t. dal dominio dell’arte a

quello degli usi, nel momento in cui le azioni artistiche raggiungono l’aderenza e

l’identificazione con gli atti della vita quotidiana, e mettono in evidenza la frizio-

ne tra comportamenti particolari e dimensione pubblica. La persistenza del t. na-

sce dalle rinnovate asprezze di questa dialettica. La nozione di '‘estauro del com-

portamento'’ formulata da Schechner, ne è un corollario. La cultura teatrale viene

ridisegnata come funzione leggibile nel quadro generale delle azioni culturalmente

rilevanti. Si abolisce il privilegio di alcuni materiali culturali (il testo drammatico,

lo spazio scenico). Si afferma che i presupposti dell'’zione teatrale sono altre

azioni pertinenti nella definizione delle identità e delle relazioni di una comunità.

Ciò costituisce un passo in avanti rispetto alla visione ricorrente del t. come som-

ma delle arti. Testi, racconti, gesti, immagini divengono pertinenti in quanto azio-

ni soggette a procedimenti di ristrutturazione e rimontaggio che definiscono le

proprietà della performance.

La nozione e la pratica della performance hanno consentito di annettere al

t. forme e situazioni di azione pubblica i cui procedimenti e contesti possono esse-

re osservati, rispetto alla forma delle azioni, in termini analoghi alle situazioni di

rappresentazione, dilatando all’interno di una stessa cultura la cornice dei compor-

tamenti e dei fatti pertinenti alla visibilità e alle articolazioni della cultura teatrale.

Uscendo dalle sedi convenzionali dello spettacolo dal vivo e dalle sue

normali frequenze di produzione ed esibizione, la ricostruzione dei principi essen-

ziali dell'’zione si è proiettata — e rifugiata — in nuovi fronti d’intervento e di

applicazione. La diversità culturale che il t. materializza e mobilita ha aperto rela-

zioni necessarie con la marginalità e la subalternità sociali. La reclusione e la fol-

lia, da temi e direzioni del lavoro drammaturgico e della metafora scenica, presen-

ti in J. Genet, in S. Beckett, nelle creazioni del Living Theatre intorno agli anni

Sessanta, nel Marat-Sade di P. Weiss allestito da Brook nel 1964, sono diventate

campi affini e punti di riferimento concreti per riformulare il significato del fare

teatro.

In quanto veicoli di forme di vita alternative e subalterne, gli sconfinamen-

ti del t. hanno intercettato aree nevralgiche come le istituzioni totali, trasforman-

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dole in nuovi spazi di agibilità creativa, di dialettica tra costrizione e libertà.

Nell’Italia degli ultimi decenni, si possono citare esperienze-guida, dalle officine

di drammaturgia collettiva di G. Scabia nell’ospedale psichiatrico di Trieste, in

coincidenza con l’azione innovativa e la riflessione radicale dello psichiatra F.

Basaglia, al lavoro della Compagnia della Fortezza nel penitenziario di Volterra

negli anni Novanta. Ma c’è da considerare soprattutto la creazione di un tessuto

connettivo di iniziative e progetti nelle carceri e intorno alla malattia mentale, che

ha costituito l’alimento e la giustificazione dell’attività di molti dei t. che si sono

chiamati negli anni Settanta gruppi di base.

Ha scritto lo storico F. Braudel che la depressione legata alla crisi delle

fonti di energia nei primi anni Settanta, lo spegnersi dello slancio seguito al se-

condo conflitto mondiale, hanno fatto sì che proliferassero e acquistassero nuova

evidenza scambi e attività al di sotto o al di fuori dell’economia di mercato.

Nell’organizzazione e nella vita dello spettacolo la deflagrazione di nuove risorse

e nuove povertà ha investito e moltiplicato le condizioni del fare t., imprimendo

svolte analoghe a diversi punti di partenza: il t. sovvenzionato prevalente in Euro-

pa, e la sua tensione tra avallo della mediocrità, eccezioni dell’avanguardia e spazi

vitali delle forme laboratoriali; il t. americano spaccato tra mercato e prossimità al

consumo limitato degli oggetti e degli eventi artistici; l’oscillazione asiatica tra

forme e generi altamente codificati e l’attrazione esotica di contenuti e convenzio-

ni dello spettacolo occidentale. Osservata dal punto di vista economico,

l’inferiorità industriale del t. si identifica con un’alternativa di principio, si carat-

terizza come scelta di comunicazione alternativa e progetto di diversità dei valori.

La resistenza e il proliferare di realtà teatrali al limite della sussistenza o finanzia-

te da altre attività negli anni Novanta (realtà che non si confondono con le limitate

ambizioni e la discontinuità o il riferimento ad altre istituzioni, requisiti della di-

mensione del t. dei dilettanti) rendono pensabile il t. non più, principalmente, qua-

le ambito di una tradizione di forme e fatti di rappresentazione ma quale sede pla-

stica e strumento duttile di culture marginali e minoritarie, accessibile alternativa

alle forme di espressione egemoni. I mutamenti profondi e l’adattamento vitale

del t. negli ultimi decenni non riguardano perciò aspetti stilistici e formali difficili

da ricondurre a orientamenti comprensivi, ma aspetti della vita materiale, zone

della sensibilità e del comportamento, postazioni di acquisizione e scambio delle

esperienze.

Nei nuovi equilibri di universalità e localismo, la situazione dell’America

Latina vive la drammatica coincidenza tra ragioni di sussistenza artistica e so-

pravvivenza culturale: una situazione che ha visto ramificarsi esiti di indirizzo an-

tropologico del t. politico e ha animato l’intreccio di radicamento e nomadismo di

gruppi come i peruviani Cuatrotablas e Yuyachkani, che coniugano ricerca etnica

e trasformazioni originali delle influenze europee. Altre sintesi risultano dal rin-

novamento dei t. asiatici; dalla traduzione giapponese dell’espressionismo euro-

Page 78: TEATRO TRECCANI - Unife

78

peo formulata dalla danza butō, alla ricerca del regista giapponese T. Suzuki tra

grammatiche tradizionali, repertorio europeo e tensione interpretativa della regia

occidentale. Sono esempi di processi diffusi, che rivelano la consistenza mondiale

dei fili che connettono una segreta circolazione. Il concetto di interculturalismo,

che ha investito l’indagine sulle risorse della creazione teatrale, identifica vaga-

mente il rinnovato respiro della mobilità e i modi eterogenei dello scambio, della

fusione e dell’alchimia, riconoscendo in quella che è possibile definire la microet-

nia del gruppo e della compagnia teatrale, nelle sue capacità di mediazione e sin-

tesi, un soggetto culturale specifico della contemporaneità.

Un sintomo della persistenza del t. è la longevità delle capitali esperienze

di rifondazione materiale e ideologica maturate dopo la frattura bellica, come il

Living Theatre e l’Odin Teatret. Un altro esempio sono le trasmutazioni e le riper-

cussioni del lavoro di Grotowski dentro il t. e poi nella ricerca sull'a’ione e

il performer sviluppata nel ‘parateatro’, al di fuori della relazione con lo spettato-

re.

Tra l’Europa e l’America meritano di essere segnalate alcune proposte

esemplari, che nell’ultimo ventennio si sono sovrapposte alla longevità o alla dis-

soluzione delle esperienze precedenti. Il gruppo catalano Fura dels Baus, fondato

a Barcellona nel 1979, coniuga il lavoro acrobatico sul corpo con forme di solleci-

tazione tecnologica avanzata dell’attenzione del pubblico, intrecciando immagini

e comportamenti di culture etniche e subculture metropolitane. Il gruppo polacco

Gardzienice si è costituito nei pressi di Lublino nel 1977, su un progetto fortemen-

te legato da una parte all’esperienza del t. di gruppo di Grotowski e Barba,

dall’altra alla cultura tradizionale contadina polacca, indagata seguendo il modello

della spedizione etnografica per attingerne le forme espressive superstiti (canto,

musica e gesto). A New York il Wooster Group, diretto da E. LeCompte e deriva-

to per immediata filiazione dal Performance Group di Schechner, ha affrontato,

imitato da diverse compagnie europee, la relazione con gli strumenti, i miti e le

modalità della comunicazione mediatica e l’impervio dialogo tra esperienza indi-

viduale e assemblaggio deformante dei linguaggi, che ripropone nel t. la con-

fluenza tra soggettività e somma delle arti. La Societas Raffaello Sanzio di Cesena

è la formazione di punta del t. italiano dai primi anni Ottanta, guidata dal riferi-

mento costante ed estremo a forme narrative mitiche, a suggestioni zoomorfiche,

all’esperienza iniziatica preteatrale dei culti misterici.

Queste realtà non partecipano di un orizzonte comune se non in quanto in-

staurano un rapporto ambiguo di competizione e di emancipazione rispetto alle

tecniche più aggiornate di modificazione della percezione e di codificazione

dell’immagine pubblica e del comportamento. Hanno individuato nelle cornici e

nelle frequenze, nelle possibilità suscitate dal t., il territorio di realizzazione di

universi irriducibili. Il t. vivo è nella cultura contemporanea il luogo dove si in-

contrano, e si misurano con i fattori essenziali ed elementari della presenza, pro-

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getti di contaminazione tra linguaggi e convenzioni, azioni che producono interfe-

renze epocali, memoria di sopravvivenze e ipotesi di sapere alternativo.

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PENSARE IL TEATRO

di Franco Ruffini

‘Pensare il teatro’ vuol dire pensarlo dal Novecento; il che significa, più precisa-

mente, pensarlo a partire dall’esperienza del presente. Il t. non è riducibile a nes-

suna delle sue componenti (attore, scenografia, drammaturgia, regia), e nemmeno

alla loro somma: è un organismo, e in quanto tale va considerato nel suo insieme.

È possibile, e talvolta utile, studiare isolatamente una o più delle compo-

nenti, ma per pensare il t. è conveniente considerarlo nella sua articolazione in li-

velli, da quelli più evidenti a quelli relativamente più nascosti. Ogni livello di or-

ganizzazione interseca trasversalmente tutte le componenti del teatro. Livelli evi-

denti sono quelli che si correlano più o meno direttamente alle forme con cui il t.

si manifesta, come il livello dell’ideologia, della poetica, fino a quello

dell’estetica. Livelli nascosti sono quello economico, sociologico, antropologico,

e insomma quei livelli che più o meno direttamente determinano i principi di fun-

zionamento del teatro. I livelli più evidenti non sono per questo i più importanti,

anzi è vero il contrario. Il livello fondamentale per il funzionamento del t. è quello

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più nascosto, ed è il livello in cui si definisce il rapporto tra t. e spettacolo. Pensa-

re il t. significa innanzitutto interrogarsi su questo rapporto. Per non pre-giudicare

il rapporto teatro-spettacolo come un’identità (il t. coincide con lo spettacolo) o

come un’implicazione (il t. implica lo spettacolo), è necessario giudicarlo assu-

mendo l’ipotesi concreta — e non puramente speculativa — che ci sia autonomia

reciproca fra i due termini.

Si afferma giustamente che con l’avvento del cinema viene sancita la mar-

ginalizzazione del teatro. Ma parlare di marginalizzazione del t. significa concet-

tualizzare la situazione, finendo col nasconderne il materiale nucleo dinamico.

Materialmente, il cinema non ‘marginalizza’ il t.; quello che materialmente fa è

amputare dal t. il mercato dello spettacolo, rendendo il t. assolutamente non com-

petitivo rispetto al mercato del film. Proprio nella consapevolezza attiva di questa

crisi consiste l’esperienza del presente, ovvero la crisi del t. del Novecento.

La distinzione tra t. e spettacolo non ha carattere teorico o ideologico; è la

realtà oggettiva del Novecento. Lo spettacolo è l’elemento socializzabile — e

commerciabile — del teatro. L’amputazione del mercato dello spettacolo separa il

t. dalla sua componente — o prodotto — spettacolo (senza tuttavia contrapporli,

in linea di principio). Il fatto che la distinzione tra t. e spettacolo sia la realtà og-

gettiva del Novecento non vuol dire che tutti gli uomini di t. ne siano stati e ne

siano coscienti e che, in tal caso, vogliano farsene protagonisti creativi, anziché

semplicemente rassegnarsi a esserne vittime o beneficiari.

Nel Novecento, di fatto convivono e s’intrecciano due storie del t.: quella

dei protagonisti più o meno creativi della crisi, e quella delle sue vittime (o bene-

ficiari) più o meno rassegnate. A parte le parole ereditate — e poi ‘imbalsamate’

— per parlarne, queste due storie non hanno quasi niente in comune tra loro. Ci si

chiede se possa esistere il t. a prescindere dallo spettacolo e, se sì, cosa sia il t. ‘di-

stinto’ dallo spettacolo. Simili domande erano teoricamente legittime anche prima

del Novecento; solo che potevano non emergere alla riflessione perché occultate

dalla presenza del mercato dello spettacolo.

Con la parola mercato non deve intendersi la pura e semplice situazione di

compravendita dello spettacolo, situazione che in realtà può sussistere anche lad-

dove il ‘giro’ e soprattutto le sue implicazioni non mercantili siano deboli o, al li-

mite, inesistenti. Il mercato dello spettacolo è molto di più che il contesto e la ga-

ranzia economica del teatro. È il motore di ogni sua dinamica esistenziale, produt-

tiva, organizzativa, funzionale e creativa: e tale era proprio al passaggio nel Nove-

cento, nel momento di massimo rilievo delle compagnie professionistiche, vere e

proprie ditte che avevano in comune non solo una pratica economica, ma anche

una cultura.

Pensare il t. prima di questo passaggio poteva confondersi col pensare lo

spettacolo; dopo, il pensiero sul t. diventa un pensiero autonomo rispetto a quello

sullo spettacolo. Lo diventa di diritto, ma non sempre di fatto. Si pensi alla regia,

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che in molte ricapitolazioni storiche continua a essere descritta come la naturale

evoluzione della direzione di scena di matrice ottocentesca. E si pensi alle strate-

gie messe in atto per supplire economicamente all’amputazione del mercato dello

spettacolo che — come nel caso delle sovvenzioni — vengono tuttora considerate

e vissute da molti uomini di t. come una naturale evoluzione del mercato dei bi-

glietti, basato sulla legge della domanda e dell’offerta. Di tali strategie si dirà in

seguito.

Nel cosiddetto Manifesto del terzo teatro, pubblicato nel 1976, E. Barba

proponeva di considerare accanto al t. ufficiale o maggioritario (primo) e al t.

d’avanguardia (secondo), anche un ‘terzo’ t., definito solo per negativo, nel non

riconoscersi né nell’identità del primo né in quella del secondo. In quel documen-

to è stata vista una classificazione del t. in termini di estetica e/o di poetica, o

un’opposizione tout-court tra estetica (e/o poetica) da un lato ed etica dall’altro: e

c’è del vero in ognuna di queste interpretazioni. Ma il cuore del Manifesto è altro-

ve, e precisamente nell’aver distinto un t. — primo e secondo — che si vive in

continuità col passato, nell’accettazione acritica delle sue ‘naturali evoluzioni’; e

un altro t. — terzo — che si vive in discontinuità col passato. Cercheremo, dun-

que, di pensare il t. assumendo l’amputazione del mercato dello spettacolo come

una sorta di origine del sistema di riferimento teatrale, come il ‘punto-zero’ dal

quale considerare posizioni e dinamiche dei fatti che lo abitano nel presente e che

lo hanno abitato nel passato. Sul piano del concreto operare nel presente, la rea-

zione al venir meno del mercato dello spettacolo è stata (ed è) quella di creare un

mercato sostitutivo rispetto a quello della pura e semplice compravendita del pro-

dotto spettacolo. Quelle che seguono sono, al riguardo, alcune strategie tra le più

praticate.

LA LINEA DELLE SOVVENZIONI

Con linea delle sovvenzioni deve intendersi non tanto il fenomeno specifico delle

sovvenzioni al t. da parte dello Stato e/o degli enti locali, quanto quella linea di

condotta che opera nel senso di sostituire il pubblico pagante con altri erogatori di

finanziamento, naturalmente in base a criteri che non sono più quelli del gradi-

mento diffuso del prodotto scenico. Tale linea trova nel regime delle sovvenzioni

il suo esito fisiologico e, allo stesso tempo, la sua enormità patologica.

Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che i primi protagonisti del ‘teatro

senza (mercato dello) spettacolo’ sono in grande maggioranza dei dilettanti. Dilet-

tanti sono A. Antoine e J. Copeau, dilettanti a loro modo sono A. Appia e G.

Craig, dilettante è K.S. Stanislavskij, per fermarsi ai primi decenni del Novecento.

Comunque lo si voglia pensare, certo è che alla radice dell’essere dilettante c’è la

disposizione — e l’assuefazione — a concepire il t. in assenza di mercato dello

spettacolo (mercato, ripetiamo, nel senso forte e pervasivo in cui l’abbiamo defi-

nito). L’amputazione del mercato, mentre scardina il t. dei professionisti, è in cer-

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ta misura compatibile con il t. dei dilettanti, soprattutto quando si tratti di dilettan-

ti ricchi.

Nella vicenda del Teatro d’Arte di Mosca, fondato da Stanislavskij con

V.I. Nemirovič-Dančenko nel 1898, si è posto più che altro l’accento

sull’impegno per il recupero di una dignità dell’attore. L’attore doveva avere a di-

sposizione un camerino con stufa, samovar e libri, essere sottratto al ritmo massa-

crante dei giri, e così via. Ma una componente di almeno pari importanza nel pro-

getto del Teatro d’Arte era il mecenatismo. Senza il danaro del ricco industriale

Savva Morozov (ricco industriale, del resto, era lo stesso Stanislavskij), il Teatro

d’Arte non avrebbe potuto durare e, crediamo, senza il contesto di potenziali ‘Sa-

vva Morozov’, il Teatro d’Arte non sarebbe stato neanche concepibile. È ingene-

roso verso l’intelligenza di Stanislavskij attribuirgli l’idea che la dignità avrebbe

potuto garantire la sopravvivenza dell’attore contro il mercato. Di fatto, la ‘digni-

tà’ dell’attore è una condizione che favorisce la qualità, non il commercio dello

spettacolo. Ancor prima del materiale collasso del mercato, Stanislavskij poté pri-

vilegiare la qualità dello spettacolo — e dunque la dignità dell’attore — perché a

ciò lo disponeva il suo status di ricco dilettante (senza con questo voler sminuire

l’apporto della vocazione, e/o dell’etica).

LA DILATAZIONE DEL MERCATO

Dilatare il mercato teatrale significa costruire un mercato in cui lo spettacolo entri

come una voce accanto ad altre voci, in modo che a essere attive non siano le sin-

gole voci (e tanto meno la voce spettacolo), ma il loro insieme. Lo spettacolo vie-

ne innestato in una più ampia offerta di ‘prodotti’, che complessivamente consen-

tono di fare t. in assenza di mercato dello spettacolo. Va detto che molto spesso le

voci attive — o il complessivo bilancio attivo — sono tali non grazie all’esborso

diretto e personalizzato dei consumatori, ma grazie al flusso derivante dalla linea

delle sovvenzioni (e infine dal regime delle sovvenzioni). Il che tuttavia non cam-

bia l’identità della strategia, che resta comunque quella di dilatare il mercato tea-

trale. Per molti t. appartenenti al cosiddetto t. di gruppo, la produzione di spettaco-

li è solo una delle attività, accanto a seminari, stages, ospitalità ad artisti, editoria,

iniziative culturali apparentemente anche distanti dal teatro. Si pensi al peruviano

Cuatrotablas o all’italiano Teatro Tascabile, solo per citare due gruppi non a caso

tra i più longevi. Ma non è molto diversa nella sostanza la vicenda del Vieux Co-

lombier, fondato nel 1913 da J. Copeau.

L’aspetto più interessante è che la dilatazione del mercato — quando tale

strategia non sia semplicemente subita in atteggiamento da vittime — si rivela alla

fine come una dilatazione dei confini stessi del teatro. Il prodotto culturale di sup-

porto finisce col non proporsi più come finanziatore dello spettacolo, ma come

un’altra componente del t., diversa ma non estranea alla componente spettacolo.

La dilatazione del mercato mostra che lo spettacolo non è l’unico prodotto del t.:

Page 84: TEATRO TRECCANI - Unife

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lo mostra, naturalmente, a chi sia incline a vederlo e a utilizzarne creativamente le

implicazioni. Per gli altri, si configura come una pura questione di marketing. Di

fatto, è difficile dire se sia la dilatazione del mercato a provocare una dilatazione

dei confini del t. o se, viceversa, sia la percezione di un orizzonte più vasto del t. a

determinare la dilatazione del mercato (la confusione di cause ed effetti, del resto,

testimonia dell’organicità del processo, contro ogni visione meccanicistica del

rapporto tra mercato e prodotto).

IL PUBBLICO FUORI MERCATO

Accanto al pubblico di mercato, che del t. consuma solo il prodotto spettacolo,

esiste da sempre un pubblico fuori mercato, costituito da quegli spettatori che, in-

sieme (e spesso più che) al prodotto spettacolo, sono interessati agli aspetti del

processo che conduce allo spettacolo, compresi quelli che implicano una parteci-

pazione diretta e persino fisica. Per tali spettatori, il consumo dello spettacolo è

più che altro il momento conclusivo — ma non per questo il principale — di una

lunga e variegata attività di partecipazione al lavoro teatrale. L’offerta di stages,

seminari, incontri, oltre a dilatare il mercato, agisce dunque anche nel senso di ac-

crescere nel numero e nella qualità partecipativa gli spettatori fuori mercato, che

consumano spettacolo per trascinamento da parte del processo che lo precede. Va

detto che la programmatica confusione dei ruoli di attore e spettatore, fuori del

contesto riconosciuto dello spettacolo amatoriale, è uno dei sintomi più rivelatori

della crisi del t. del Novecento.

In questa prospettiva materiale, e non come una misticheggiante proposta

comunitaria, dev’esser visto il progetto di Stanislavskij e L. Suleržickij (direttore,

per incarico di Stanislavskij, del Primo studio, fondato nel 1912) di costruire un

laboratorio teatrale a Evpatorija, un luogo isolato sulle rive del Mar Nero, in cui

gli spettatori invitati avrebbero dovuto vivere e lavorare alcuni giorni insieme agli

attori prima di concludere la loro permanenza con la visione dello spettacolo.

E che un gruppo di t. desideri fare spettacolo solo per se stesso, come non

di rado capita di sentir dire, esprime non tanto una volontà di escludere il pubblico

di mercato, quanto quella — magari inconscia — di miniaturizzare fino alle di-

mensioni minime compatibili, cioè a quelle dello stesso gruppo dei protagonisti

dello spettacolo, il pubblico fuori mercato.

Le strategie di cui si è detto rispondono a un fatto oggettivo, com'’

l’imputazione del mercato dello spettacolo, e dunque anch’esse sono in certo mo-

do oggettive. È molto difficile che un uomo di t. vi si possa sottrarre, quale che sia

l’atteggiamento — da protagonista o da vittima — nei loro riguardi. Ma è proprio

l’atteggiamento che conta, non solo rispetto al presente, ma soprattutto rispetto al

passato. Guardando appunto al t. del passato, possiamo domandarci quali dinami-

che siano state offuscate, o addirittura sepolte, dalla presenza del mercato. Quelli

che seguono sono alcuni significativi campi di applicazione della domanda.

Page 85: TEATRO TRECCANI - Unife

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OPERA/GRUPPO

L’assimilazione di superficie tra t. e cinema sotto la comune etichetta di ‘arte col-

lettiva’ sembra legittimare questo sillogismo: nel cinema si costituiscono gruppi

allo scopo di creare opere; il t. è come il cinema; anche nel t. la priorità nel rap-

porto opera/gruppo spetta all’opera. Il gruppo di t. si forma dunque per creare

opere e non si creano invece opere (magari non avendo il desiderio né riconoscen-

dosi un'’levata capacità di farlo) per consentire al gruppo di formarsi e, una volta

formato, di continuare a esistere. Di fatto, in presenza del mercato le due alterna-

tive possono apparire indifferenti, dato che è comunque l’opera a garantire il fi-

nanziamento: sia che nelle intenzioni esso venga primariamente destinato

all’opera e indirettamente al gruppo, sia che venga primariamente destinato al

gruppo con la mediazione strumentale dell’opera. Ma in assenza del mercato le

due alternative non sono affatto indifferenti. Qui, come in molti altri casi, è il pre-

sente a far luce sul passato: ricevendone poi, di riverbero, ammaestramento per il

futuro. L’esperienza mostra che, malgrado le somiglianze di superficie, il rapporto

opera/gruppo di t. è esattamente opposto a quello del cinema: nel t. è il gruppo ad

avere la priorità sull’opera. Per il passato come per il presente, il t. non è storia di

opere ma è storia di persone e gruppi, spesso in conflitto contro la logica

dell’opera, la quale se consente di sopravvivere impone per questo di sottostare

alle leggi del mercato.

MESTIERE/ARTE

Il mercato ha bisogno prima di tutto di garantire il livello medio dei suoi prodotti,

e dunque dipende dal mestiere. Ma proprio in quanto ne dipende tende a svalutar-

lo, individuandolo come il nemico dell’arte. Ciò che appare nel t. del passato, at-

traverso il diaframma condizionante del mercato, è un rapporto di opposizione tra

mestiere e arte. In assenza di mercato, si attenua la dipendenza dal mestiere, e

proprio grazie a questo se ne scoprono la necessità e la forza ai fini dell’arte. Si

svela che l’apparente rapporto di contrapposizione era (ed è) in realtà un rapporto

di lotta, dove a contare non è l'’sito ma sono le regole e le dinamiche.

Nel suo atelier, operante a Parigi dai primi anni Venti — atelier che era in-

sieme t. e scuola — Ch. Dullin indicava agli allievi la tecnica sofisticata

dell’attore giapponese ma, insieme, il mestiere praticone dell’attore del mélo. Al-

trettanto faceva V.E. Mejerchol´d, più o meno negli stessi anni, rispetto all’attore

del t. forain. Punti di riferimento per il suo ‘attore del futuro’ sono l’arte eversiva

di E. Duse e insieme — allo stesso livello di importanza — il mestiere ‘popolare’

di un attore come G. Grasso. Arte e mestiere non sono termini che si escludono,

ma che si danno reciprocamente vita nel lottare l’uno con l’altro.

Page 86: TEATRO TRECCANI - Unife

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CONVENZIONE/TRADIZIONE

Il mercato dello spettacolo si avvantaggia della specializzazione, che garantisce

rapidità di produzione e un relativamente elevato standard del prodotto. Per que-

sto, in presenza di mercato, la tradizione tende ad appiattirsi, fino a identificarsi

con l’insieme di convenzioni che regolano la creazione e il commercio del parti-

colare prodotto. In assenza di mercato, si scopre che la convenzione è solo un

primo livello della tradizione, e precisamente il livello delle forme. Sbloccando il

vincolo con la convenzione, l’assenza di mercato libera gli ulteriori livelli della

tradizione: quello dei principi (oltre le forme) e quello del valore (oltre i principi e

le forme). Questa catena di passaggi nella tradizione è uno dei processi vitali del t.

del Novecento.

In tal senso, l’ISTA (International School of Theatre Anthropology), fon-

data da Barba nel 1979, può autenticamente essere definita un laboratorio del No-

vecento. In questa ‘scuola’ si ricerca e si trasmette conoscenza, che è tutt’altra co-

sa dall’insegnare. Vi operano maestri delle tradizioni più consolidate — partico-

larmente quelle dei t. asiatici — e uomini di t. senza tradizioni condivise; dal con-

fronto del loro lavoro è sorta e si è sviluppata l’antropologia teatrale, scienza

pragmatica dei principi dell’arte dell’attore; e il sentimento di una trascendenza

del t. è la spinta tacita che fin dal principio accomuna artisti e studiosi nella loro

ricerca.

Privi di un mercato che imponga l’appartenenza predeterminata a una par-

ticolare tradizione, gli uomini di t. del Novecento ‘in crisi’ cominciano col cercar-

ne una in quel ‘magazzino del nuovo’ (Cruciani) che è il passato (e l’altrove). Può

essere la commedia dell’arte, l’Oriente, l’antica Grecia, a cui si rivolgono un po’

tutti, da Copeau ad Artaud, a Craig. Ma come non è un vincolo a priori, la tradi-

zione non è neppure un vincolo a posteriori; non è obbligata ma neppure obbliga,

dato che in assenza di mercato non è in grado di garantire. Diventa possibile e alla

fine usuale il passaggio da una tradizione a un’altra. Se praticato con rigore e pas-

sione di ricerca, l’eclettismo sfocia nel sincretismo, in cui tradizioni con forme di-

verse dialogano in base ai principi comuni. Stupisce la pluralità di tradizioni alle

quali, con apparente disinvoltura, fanno ricorso gli uomini del t. senza (mercato

dello) spettacolo; ma stupisce solo ove non si percepisca, per ragioni oggettive o

soggettive, quel livello dei principi in cui le differenti forme diventano alla lettera

indifferenti. La biomeccanica di Mejerchol´d e il ‘movimento espressivo’ di S.M.

Ejzenštejn sono nient’altro che il livello dei principi in cui convergono la tradizio-

ne del kabuki, quella della commedia dell’arte, la tecnica stanislavskiana della re-

viviscenza, perfino, o quella basata sul ritmo di É. Jaques-Dalcroze, al di là dei

suoi manierismi.

Oltre il livello dei principi, il lavoro rigoroso e appassionato nella tradizio-

ne può giungere a un livello ulteriore, in cui il dialogo tra tradizioni si integra in

un dialogo con se stessi — un ‘lavoro su se stessi'’- come risposta a una sfida che

Page 87: TEATRO TRECCANI - Unife

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non è più sul come ma è sul perché fare teatro. È il livello del valore. Il valore è il

vero e ultimo problema del t. del Novecento. Il percorso di J. Grotowski, dalla

creazione di spettacoli all’arte come ‘veicolo’ illustra esemplarmente il passaggio

forme-principi-valore nella tradizione. Il valore del t. è la vera sfida storiografica

della storia del Novecento.

Nella ricerca dal presente al passato fanno da guida quei maestri anomali

(ma meglio è dire: eccezionali) che hanno vissuto l’imputazione del mercato come

impossibilità, consegnando il loro fare t. a visioni senza spettacolo. Artaud è il

primo di questi maestri. Artaud arriva al livello del valore bruciando nella rinun-

cia — deliberata o meno — allo spettacolo i precedenti livelli della forma e dei

principi. Il suo fare t. è immediatamente un confronto con il valore, e con ciò che

fa del valore del t. un problema più grande del t., un problema di vita. Ma non è

diverso il percorso della Duse: è più segreto e più tormentato, perché fatto in pre-

senza del mercato e nella piena coscienza del suo potere di ricatto.

La distinzione tra presente e passato è solo per comodità di analisi. Nella

realtà dei fatti, si ha interazione reciproca: e al principio c’è la consapevolezza del

presente. È la priorità del gruppo rispetto all’opera nel presente che ce la fa risco-

prire nel passato; reciprocamente poi, è la coscienza di una storia del t. come sto-

ria di persone e gruppi, prima che come storia di opere, che ammaestra per il pre-

sente e il futuro. Analogamente, l’importanza del mestiere ai fini dell’arte risulta

nel presente, e però prende consistenza operativa dal riesame del passato. E il va-

lore del t. non è un’invenzione del Novecento; piuttosto l’imputazione del mercato

dello spettacolo libera il valore del t. all’esperienza aperta e consapevole, e solle-

cita a ricercarlo anche laddove l’esperienza è costretta a restare segreta, persino a

chi la vive.

Per chi ne vive creativamente la crisi, è questo il t. del Novecento: una

reinvenzione del passato come fondamento del presente e come progetto per il fu-

turo. La crisi del Novecento ristabilisce la giusta prospettiva tra storia e insegna-

mento della storia. La storia procede dal prima all’adesso al dopo, come il calen-

dario; l’insegnamento della storia, come il tempo, procede dall’adesso, già impre-

gnato dal dopo, verso il prima. Si può pensare al t. come vincolato al calendario, e

ci si ritrova con la storia dei manuali in cui i fatti si susseguono per forza di date e

non per necessità organica; oppure si può pensare al t. come vincolato al tempo:

vale a dire al presente, che è il suo solo sinonimo. Ci si ritrova allora con quella

che sembra una storia alla rovescia — dall’adesso e qui al prima e altrove — e che

è in realtà il dritto dell’insegnamento della storia, come sa ogni persona che si sia

rivolta alla storia per imparare e non per imparare la storia.

Ove non lo si reinventi, il passato del Novecento non ha niente da insegna-

re se non se stesso: è una storia-da-imparare, appunto, e non una storia-da-cui-

imparare. Reinventare il passato vuol dire conquistare la (propria) storia: una sto-

ria piena di vuoti rispetto alle ordinate successioni da calendario, ma anche di pie-

Page 88: TEATRO TRECCANI - Unife

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ni, laddove quelle ordinate successioni sacrificano al blasone della cultura, dimen-

ticando gli uomini che la fanno. Mélo, cabaret, varietà, circo, giullari, attori come

Grasso, così come danzatori balinesi, attori kabuki o dell'’pera di Pechino, riem-

piono questa storia-da-cui-imparare, mentre la storia-da-imparare appena si scusa

delle omissioni additando i rischi del facile esotismo o postulando gerarchie cultu-

rali (lingua/dialetto, colto/popolare, e così via) con diritti di esclusione.

Il passato reinventato dal Novecento non è più vuoto del passato da calen-

dario, è pieno di cose diverse. E soprattutto è percorso da un soffio diverso, che

spira a dilatare e a superare, infine, i confini del t., gonfiato dalla domanda sul va-

lore del t., al di là di ogni sua quotazione di mercato.

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Page 90: TEATRO TRECCANI - Unife

90

APPENDICE VII – 2007

Enciclopedia Italiana — VII Appendice

TEATRO

di Antonio Audino

Nel momento storico in cui i generi dello spettacolo si sono dissolti o mescolati

con altro, ovvero tra l’ultimo scorcio del 20° sec. e l’inizio del successivo millen-

nio, al t. spetta un posto del tutto particolare. In un’epoca dominata dalla media-

zione e dalla virtualità, nella quale la comunicazione è decisamente regolata dalla

fruizione di grandi masse di spettatori, nella dimensione attuale in cui intratteni-

mento, informazione e cultura entrano in canali di diffusione globali, il t. ritrova la

sua più specifica peculiarità proprio nel suo non essere medium. In questo modo

esso pone in evidenza il suo statuto di fondo che è quello di costituire un luogo e

un tempo di comunicazione irripetibile, di costruire uno spazio reale dove indivi-

dui diversi si incontrano, mossi dal desiderio di un rapporto diretto, intellettuale e

umano. Pertanto il t. costituisce una delle poche circostanze relazionali in cui en-

tra direttamente in gioco la fisicità dell’individuo, sia nel caso dell’osservatore sia

in quello del soggetto agente, rappresentando ormai l’unico territorio nel quale

rimangono esclusi, appunto, una mediazione, un filtro, uno schermo fra chi si

esprime e chi fruisce di questa esperienza artistica.

Non si può dunque dire che l'’poca della mediazione di massa abbia messo

in ombra il t., che lo abbia fatto diventare uno strumento antiquato, un passatempo

per nostalgici o un semplice intrattenimento borghese, come, per certi versi, si sa-

rebbe tentati di credere. Lo dimostra il fatto che il genere gode di grande vitalità in

tutto il mondo e che sono molti i giovani che decidono di confrontarsi con questo

mezzo artistico piuttosto che con il cinema oppure con la televisione, indubbia-

mente più diffusi. Naturalmente tale considerazione sull’assenza di medialità co-

me caratteristica comunicativa non riguarda soltanto il t., ma tutto lo spettacolo

dal vivo, i concerti e anche lo sport. Va preso in considerazione, però, che

l’espressione scenica prende forma in un diverso ambito, giacché il suo fonda-

mento è lo scambio di parole, di storie, di idee, di riflessioni e tutto questo ne raf-

forza la capacità di relazione rispetto alle altre forme di spettacolo dal vivo. Dun-

que, nonostante le infinite linee di sperimentazione che hanno fatto incrociare la

scena con tecnologie ed estetiche della contemporaneità, il t. resta comunque il

luogo privilegiato di un’espressione diretta e immediata della parola e del movi-

mento, il luogo in cui prende forma la trasmissione di un senso e di un pensiero

Page 91: TEATRO TRECCANI - Unife

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attuato secondo la formula di relazione più specifica e più antica dell’essere uma-

no, che è appunto l’espressione verbale e fisica messa in gioco in presenza

dell’interlocutore, per quanto passivo questi possa essere. Proprio queste caratteri-

stiche hanno rafforzato l’idea che il t. costituisca un canale artistico particolare, un

territorio unico dove possa realizzarsi uno scambio di idee tra individui, realizzato

con una forza e un’immediatezza comunicativa che sarebbe difficile ottenere con

forme di relazione mediate e mediatiche.

Non è certo un caso che tutta la riflessione sugli ultimi cambiamenti della

nostra società sia passata per le sale teatrali, in angoli diversi e lontani del nostro

pianeta. Basti osservare, solo per fare un esempio, l’importantissima elaborazione

di temi e considerazioni politici e sociali che ha preso corpo nella produzione

drammaturgica inglese degli anni Ottanta, messa in atto da un gruppo di giovani e

dimostrazione più che evidente della capacità della lingua teatrale di rispecchiare

la realtà circostante, oltre che indicatore significativo della sala teatrale come luo-

go di discussione collettiva, particolarmente vivace per le ultime generazioni. Ul-

teriori elementi di dimostrazione di ciò possono essere considerati la rivoluzione

cecoslovacca della fine degli anni Ottanta, alimentata dall’opera del drammaturgo

futuro capo dello Stato, V. Havel (n. 1936), come pure la motivazione

dell’assegnazione, nel 1997, del premio Nobel per la letteratura a D. Fo (n. 1926)

la cui opera è stata considerata meritevole del prestigioso riconoscimento non sol-

tanto per il suo valore culturale, ma anche per la capacità di mettere in luce i con-

trasti della società contemporanea.

Per queste sue specifiche e caratteristiche dimensioni il t. appare, in manie-

ra inequivocabile, un luogo politico, nel senso più evidente, ovvero uno spazio in

cui la società si confronta con sé stessa. Le espressioni sceniche contemporanee

più rappresentative sono infatti proprio quelle che riflettono sul tempo presente o

che elaborano estetiche capaci di sviluppare un pensiero nuovo su modi e tempi

del nostro esistere quotidiano. Mentre il t. come semplice luogo di intrattenimento

ed evasione, seppur ancora presente e vitale da un punto di vista commerciale,

sembra destinato a ripetere formule e riti piuttosto stanchi, e in molti casi tenta di

rivitalizzarsi con atmosfere, personaggi, linguaggi provenienti dall’ambito cine-

matografico e televisivo, facendo in modo che la sala teatrale si trasformi soltanto

in una variazione ‘in presenza’ di situazioni ideate per il piccolo o il grande

schermo, a tutto discapito della specificità linguistica dei moduli drammaturgici e

scenici.

Il t., per come viene largamente inteso al di fuori delle formule più corrive,

appare dunque un luogo privilegiato di elaborazione intellettuale di nuove genera-

zioni, di gruppi politici, di sperimentatori artistici; si mostra come l’unico perime-

tro entro cui si possano mettere alla prova nuove possibilità estetiche e culturali, e

verificare la capacità di queste nel suggerire un pensiero innovativo e stimolante

per la società civile in cui nascono.

Page 92: TEATRO TRECCANI - Unife

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A riprova di quanto sia cambiata l'’dea di t. agli inizi del 21° sec., valga la

dimostrazione del fatto che, ormai sottratta alla necessità e alle formule del mero

intrattenimento, la durata stessa dello spettacolo teatrale è divenuta imprevedibile,

con estensioni e restringimenti una volta inimmaginabili. Si pensi a certe narra-

zioni sceniche dilatate nella loro durata, dal tramonto all’alba come per

il Mahābhārata (1985) di P. Brook o estese a un’intera settimana come per

il Faust (2000) di P. Stein. E anche quando lo spettacolo si esaurisce in una serata,

il suo arco temporale può procedere per cinque o sei ore, come molti lavori di L.

Ronconi. Su un altro fronte, più arditamente sperimentale, la durata media di uno

spettacolo è quella di un'’ra, lunghezza temporale che si sbriciola in frammenti più

brevi nel caso di performances e installazioni, per cui un'’zione teatrale può avere

un suo svolgimento completo in mezz’ora, quaranta minuti o ancor meno, presen-

tandosi spesso in forme non definitive come ‘studio’ o tappa di avvicinamento a

una formulazione finale. Questo indica in maniera inequivocabile che la necessità

di una durata canonica di una serata teatrale è divenuta secondaria rispetto alla ne-

cessità dell’esposizione di un contenuto, allo svolgimento di un ragionamento o al

racconto di una storia.

È stato ancora una volta un attento osservatore della società e delle sue

modalità di elaborazione culturale come R. Barthes ad aver percepito l’ampio ven-

taglio di possibilità comunicative del t. rispetto ad altri riti collettivi. Interessanti

sono pertanto alcune riflessioni del pensatore francese a proposito del palcosceni-

co come luogo in cui prende corpo un'’mozione extraindividuale e sociale, e in cui

la scena non si trova soltanto a essere degradata, com'’ accaduto peraltro dal Ro-

manticismo in poi, a luogo di piccole tragedie personali, di passioni e battaglie

tutte interiori, di conflitti e sofferenze confinate nello stretto spazio dell'’nima del

protagonista del dramma. “a commozione moderna, quando per puro caso si pro-

duce, risulta sempre di origine introspettiva” scrive Barthes (1953), “l pubblico

piange sul genere di drammi inclusi nel suo orizzonte coniugale o familiare; il tea-

tro ha soltanto il compito di fornirgli un riflesso sbiadito delle sue possibili sven-

ture” (trad. it. 2002, p. 52). Non era così per la tragedia classica, ci indica l’attenta

analisi del critico, sottolineando come quel senso della rappresentazione sembri

perduto. “Tra gli spettacoli”- prosegue Barthes — “oggi abbiamo una sola forma

di rappresentazione da cui è esclusa la passione individuale: lo sport. Il pubblico

di una grande partita di calcio certamente non piange, ma si avvicina a un turba-

mento collettivo espresso senza falsi pudori; accetta una partecipazione del pro-

prio corpo allo scontro cui assiste. Contrariamente al pubblico del teatro borghese,

inerte, riservato, che vive lo spettacolo solo attraverso lo sguardo (spesso, peral-

tro, critico o assonnato), gli spettatori sportivi sono fisicamente capaci di fare pro-

pri i gesti dello scontro”(p.52). Ma, nota ancora Barthes, “a venerazione mostrata

per lo sport moderno lascia, purtroppo, intravedere tutta la distanza che lo separa

dalle grandi tragedie antiche. Lo sport suscita unicamente una morale della forza,

Page 93: TEATRO TRECCANI - Unife

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mentre il teatro di Eschilo (Orestea) oppure di Sofocle (Antigone) provocava nel

suo pubblico una vera emozione politica, esortandolo a piangere l'’omo invischia-

to nella tirannia di una religione barbara o di una legge civica disumana"”(p. 53).

Tale riflessione sembra voler anticipare proprio il solco della ricerca apertosi negli

anni Settanta, con quella tensione a uscire appunto da un t. di taglio individualisti-

co e psicologico, verso una dimensione scenica che proponga un’avventura intel-

lettuale, metta in gioco un pensiero, accampi un dubbio, ma sempre in un ambito

allargato, in una dimensione collettiva, facendo passare da quel canale aperto e di-

retto, che è costituito appunto dal palcoscenico, le crisi interiori di una società, le

sue perplessità etiche, le sue tensioni civili.

Il termine teatro sembra suggerire così una modalità comunicativa piutto-

sto che una serie di rituali, di parametri artistici, di formulazioni estetiche oppure

un vero e proprio luogo specifico. Appare chiaro, di conseguenza, che il termine

stesso, inteso come indicazione di un luogo, non faccia pensare a uno spazio defi-

nito, a una tipologia di sala stabilita una volta per tutte, sulla forma della quale si

moduli il pensiero del creatore artistico che sa di dover soddisfare le necessità

compositive e soprattutto logistiche di quello spazio. Tutto questo avveniva fino a

poco tempo fa, quando pensare a un t. riportava alla mente una sala ‘all’italiana’

con palchi, con platea e con palcoscenico, o comunque una dimensione che con-

trapponesse un pubblico seduto con la visione frontale di uno spazio in cui agisse-

ro gli attori. La situazione scaturita dall’abbattimento della ‘quarta parete’ è il ri-

sultato finale di un lungo cammino inaugurato dalle tante rivoluzioni delle avan-

guardie storiche e reso definitivo dai fermenti creativi degli anni Settanta, per cui

la percezione sia ideale, sia fisica dello spazio scenico risulta completamente e ir-

reversibilmente cambiata.

‘Andare a teatro’ significa, dunque, soprattutto recuperare una dimensione

di relazione e non più entrare in un luogo ben determinato nel quale sappiamo già

quale sarà la nostra funzione, il nostro compito, la nostra aspettativa, regolati dal

posto e dalla posizione che occuperemo in quella particolare struttura architettoni-

ca. ‘Andare a teatro’ significa altresì predisporsi a un accadimento che si compirà

in nostra presenza, ma nulla ci dice dove e come questo potrà manifestarsi. Un ca-

pannone industriale, uno spazio urbano da dover attraversare, una casa privata, un

luogo naturale, una discoteca. Non vi è spazio dell’esistenza collettiva e privata

che non sia stato animato in questi ultimi anni da performances, readings, instal-

lazioni, ovvero dalle molteplici e diverse forme in cui si esprime l'’zione artistica

e teatrale.

Tutto questo ha cambiato radicalmente il modo di concepire e quindi di

progettare e costruire i teatri. Persino le grandi utopie di una sala modulare e mo-

bile sul modello di quella disegnata da W. Gropius (1883-1969) nel 1927, con la

possibilità di far ruotare la platea creando punti di vista nuovi, magari ponendo la

scena al centro dell’assemblea, appaiono superate. Pensare all’edificazione di un t.

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significa immaginare soltanto un contenitore il più mobile e il più modificabile

possibile. Pertanto è necessario non soltanto fare in modo che in quello spazio sia

fattibile presentare il repertorio delle opere del passato, riproponendo il rapporto

fra platea e palcoscenico per come è stato lungamente inteso, ma anche, e soprat-

tutto, considerare forme e soluzioni più attuali, creare sale attrezzate in modo tale

da soddisfare le esigenze degli artisti contemporanei e, infine, immaginare le ne-

cessità di chi vi lavorerà in futuro. Tutto questo non può che produrre strutture

quanto mai semplificate nell’impianto di base ed estremamente versatili nella loro

utilizzazione. Questa problematica si riflette su due piani, sia su quello della crea-

tività artistica sia su quello della partecipazione del pubblico, con infiniti riflessi.

L’edificio teatrale resta comunque un elemento importante della dimensio-

ne cittadina, un luogo particolare dello spazio urbano. Nella progettazione di un t.

moderno si cerca anche di integrare l’edificio con lo spazio circostante, mettendo

in luce l’importanza sociale e culturale di quel luogo. Di questo si è tenuto conto,

per es., nel recuperare alcune sale storiche, soprattutto dedicate alla lirica, come il

Carlo Felice di Genova o, come nel caso del nuovo corpus di uffici e spazi di ser-

vizio realizzati nella ristrutturazione del Teatro alla Scala di Milano, con soluzioni

che hanno dato vita a dibattiti e polemiche, dove su un fronte si sono collocati gli

‘innovatori’ aperti ai cambiamenti delle strutture presenti e alle modificazioni del-

lo spazio cittadino, dall’altro i ‘conservatori’ per i quali ogni minima variazione

volumetrica o formale di realtà architettoniche già esistenti costituiva un attentato

all’identità del luogo. Eppure tutte queste discussioni a proposito dell’interno e

dell’esterno dello spazio scenico non sembrano aver prodotto esiti particolarmente

interessanti o innovativi, almeno nel nostro Paese. Si pensi per lo meno al Piccolo

di Milano che ha realizzato la nuova grande sala del Teatro Strehler secondo mo-

dalità che sembrano rispondere soltanto a un bisogno di maggior capienza di pub-

blico e di maggior funzionalità di palcoscenico, così com'’ accaduto anche per la

sala più piccola della prestigiosa istituzione milanese, il Teatro Studio, progettato

secondo criteri e con soluzioni non proprio ottimali per lo spettatore e con una

gamma poco articolata di possibili punti di vista, dove, al di là di qualche varia-

zione più eccentrica che sostanziale, la sala appare ancora troppo tradizionale. Al-

tra grande occasione mancata per una rinnovata riflessione sugli spazi della rap-

presentazione è apparsa la soluzione finale adottata a conclusione di un acceso di-

battito apertosi dopo l’incendio della sala settecentesca del Teatro La Fenice di

Venezia, ricostruita poi ‘dov’era e com’era'’ con il risultato di un dubbio falso

d’epoca che non conserva l’aura dell’originale e ha fatto perdere un’importante

opportunità per la progettazione di un nuovo spazio. Fortemente interessante ap-

pare, invece, l’esempio del Teatro Nuovo Giovanni da Udine (1997, G. Parmigia-

ni e L. Giacomazzi Moore) nella città friulana, realizzato su misure auree, o i pa-

diglioni di una vecchia fabbrica di Roma recuperati per dare vita al Teatro India

(1999), oppure ancora, sempre nella capitale, le nuove sale dell’auditorium Parco

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della musica (2002, R. Piano). Dal punto di vista burocratico e di politica dello

spettacolo, l’Italia restituisce l’immagine di una gestione confusa e imprecisa

dell’attività scenica, così come di tutte le attività culturali, sottoposte spesso alle

dominanti logiche dei particolarismi e degli interessi, sempre molto distanti dai

territori dell’arte.

Una specifica legge sul t., per es., non è mai esistita e il settore continua a

essere perlopiù regolato per decreti. Soppresso il Ministero del Turismo e dello

Spettacolo, in virtù del risultato del referendum popolare del 1993, la funzione di

coordinamento di questa area fu affidata al Ministero per i Beni culturali e am-

bientali, dopo Ministero per i Beni e le Attività culturali. L’unica normativa uffi-

ciale che restituisca un'’dea del sistema teatrale italiano è quella che regola il fi-

nanziamento pubblico di questa branca di attività, la l. 30 apr. 1985 nr. 163. La

spina dorsale del sistema teatrale italiano dovrebbe essere costituita dai Teatri sta-

bili, creati tutti sul modello del Piccolo di Milano, ideato da P. Grassi (1919-1981)

e G. Strehler (1921-1997) nel 1947 su esempio di alcune realtà francesi come il

Théâtre national populaire fondato da J. Vilar (1912-1971), perseguendo il proget-

to di dar vita a centri di cultura e di spettacolo in stretto contatto con la società,

regolati attorno a un'’dea di servizio pubblico e impostati sull’espressione di un

alto livello creativo mirato a fare del t. un luogo di riflessione per la collettività.

Proprio per questo Strehler e Grassi si batterono affinché tali strutture fossero so-

stenute dallo Stato, rendendo così possibile progettare ed eseguire un'’zione cultu-

rale a lungo termine. La battaglia condotta dai due operatori culturali milanesi ri-

sultò vincente e fortemente innovativa rispetto alla pratica ottocentesca, ancora

viva nei primi anni del Novecento, seppur già fortemente usurata, delle compa-

gnie di giro, ospitate di volta in volta in varie sedi, costrette a un nomadismo che

non consentiva una riflessione più approfondita e, soprattutto, non creava un con-

tatto con il territorio né riusciva ad ascoltare le esigenze di un particolare contesto

sociale e urbano, non potendo sviluppare su un arco di tempo più vasto le linee di

un progetto artistico. L'’dea di mettere in piedi un polo di riflessione teatrale fi-

nanziato con denaro pubblico e con esplicite finalità collettive e di diffusione

dell’arte scenica apparve assolutamente rivoluzionario ed è innegabile la funzione

che queste strutture hanno avuto nella storia dello spettacolo e della cultura in Ita-

lia. Ma, agli inizi del 21° sec., il ruolo degli Stabili appare fortemente in crisi e da

più parti si avverte la necessità di ridefinire il profilo e di rimettere a fuoco le fun-

zioni di queste istituzioni.

Dal punto di vista economico, il maggior canale di sostentamento per il t.

italiano, pubblico e privato, è costituito dal finanziamento statale erogato secondo

le norme stabilite dal FUS (Fondo unico per lo spettacolo) e regolato dalla

l. 30 apr. 1985 nr. 163. La legge fa in modo che l’investimento sullo spettacolo sia

una voce fissa del bilancio dello Stato, stabilendo le direttive secondo cui i fondi

devono essere erogati. Questo canale elargisce, su giudizio di una commissione di

Page 96: TEATRO TRECCANI - Unife

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esperti, una sovvenzione a tutte le realtà, sia pubbliche sia private, che siano con-

siderate interessanti, secondo parametri che tengono conto sia del livello artistico

delle produzioni, sia del volume di affari del soggetto che chiede di essere soste-

nuto economicamente.

Agli Stabili va una parte cospicua del FUS dedicato al t., e ognuno di que-

sti enti aggiunge alle proprie entrate i finanziamenti delle istituzioni locali. Gli

Stabili, dunque, continuano a essere le istituzioni teatrali più fortemente sostenute

dal denaro pubblico. Il punto più acceso del dibattito intorno all’organizzazione

dello spettacolo in Italia, tuttavia, tocca proprio tale questione. Si è, infatti, arrivati

a una vera e propria paralisi nella gestione di molte di queste strutture e al totale

svuotamento delle istanze sociali e culturali per le quali erano state create e pub-

blicamente riconosciute con una formula giuridica e un cospicuo sostegno econo-

mico. Un buon numero di queste potenti fortezze istituzionali non si preoccupano

affatto di stimolare la vitalità della drammaturgia nazionale e di incentivare la

produzione e la messa in scena di nuovi autori, non curano alcuna politica di dif-

fusione dell’arte teatrale, non concedono spazio a formazioni emergenti, non adot-

tano misure di allargamento della propria attività a zone periferiche o al tessuto

urbano e regionale circostante. Eppure tutti questi punti appaiono rigorosamente

elencati nella legge che stabilisce i criteri secondo cui si può affidare a un t. la de-

finizione di Stabile, ammettendolo al livello più elevato del finanziamento pubbli-

co.

Il modello del Teatro stabile non appare superato storicamente. Lo dimo-

stra il fatto che l’espressione scenica all'’stero si basa su una formula analoga, con

una rete di t. nazionali ben finanziati dallo Stato che funzionano come centri pro-

pulsori dell’attività culturale del Paese, e non vi è dubbio che proprio da questi

siano passati e passino le esperienze più interessanti degli ultimi anni. Un tipico

caso è costituito dalla Schaubühne di Berlino, luogo storico del grande repertorio

drammaturgico non soltanto tedesco, nel quale hanno lavorato figure prestigiose

del t. internazionale. Questo vero e proprio tempio teatrale è stato sempre forte-

mente finanziato anche dopo la riunificazione della città e ha sostenuto per anni

un centro di ricerca, la Barake, divenuto punto di incontro di nuove realtà artisti-

che della capitale tedesca, nel quale sono nate personalità di spicco come il regista

T. Ostermeier (n. 1968) e la coreografa S. Waltz (n. 1963). Proprio a questi due

giovani, nell'’nno 1999, è stata affidata la direzione dell’intera struttura della

Schaubühne, creando lo straordinario effetto di un rinnovamento generazionale

nella gestione di uno degli spazi più importanti per la cultura di tutto il mondo,

aprendo le porte a esperienze fortemente innovative e a linee di pensiero originali,

e dando anche l’occasione a due giovani talenti di confrontarsi con modalità ge-

stionali e produttive di più largo respiro, con esigenze di pubblico e di program-

mazione ben più impegnative di quelle di una sala di ricerca.

Page 97: TEATRO TRECCANI - Unife

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Altre categorie riconosciute in Italia dallo Stato nonché ammesse al finan-

ziamento pubblico sono gli Stabili di iniziativa privata, istituzioni radicate nel ter-

ritorio in cui sono nate e di consolidato prestigio, gestiti da imprenditori autonomi,

con unà di livello artistico elevato, solidità economica e un notevole seguito di

spettatori. Accanto a questi vi sono i centri di ricerca, ovvero quei palcoscenici sui

quali si indagano nuove possibilità dell’estetica teatrale, legati in massima parte a

compagnie e figure della sperimentazione.

Un’altra realtà piuttosto discussa è quella dei circuiti teatrali, organizza-

zioni che, con un sostegno pubblico, provvedono a far girare una serie di spettaco-

li in un determinato territorio in cui è presente una rete di luoghi teatrali oppure

una serie di spazi idonei alla rappresentazione. I circuiti servono a garantire la dif-

fusione dello spettacolo dal vivo in zone in cui la scarsità della popolazione lascia

intendere che non sarebbe possibile dare vita a delle strutture attive durante tutto

l’anno, e dovrebbero risolvere il risaputo problema della disomogenea diffusione

delle attività di palcoscenico in Italia, concentrate nei grandi capoluoghi e con zo-

ne largamente scoperte come il Veneto, la Valle d’Aosta, l’entroterra campano, la

Basilicata e la Calabria. Ma anche questo sistema, piuttosto complesso, appare

oramai sclerotizzato e si è dimostrato, con l’andar degli anni, scarsamente vitale.

A cambiare l’aspetto piuttosto statico della geografia teatrale italiana hanno prov-

veduto, invece, nuove realtà creative e centri di ricerca fortemente innovativi, nati

in maniera spontanea e spesso non sostenuti da alcuna forma di finanziamento

pubblico. Negli ultimi anni, soprattutto nei centri urbani, formazioni emergenti,

ma già capaci di una produzione di notevole validità artistica, continuano a creare

e a esporre i risultati della loro ricerca nei centri sociali, nuovi luoghi di aggrega-

zione giovanile dai quali vengono fuori i fermenti più vivaci della musica, dello

spettacolo, dell’arte e anche del teatro.

Un esempio di rapporto particolare fra istituzione locale e nuove dimen-

sioni creative resta quello di una città come Bologna, dove il Comune ha affidato

alcuni spazi alle formazioni emergenti, la cui prima necessità era appunto quella

di avere una sede nella quale lavorare, piuttosto che quella di un finanziamento in

denaro. Da questa intelligente politica è nata una nuova ondata di sperimentazione

teatrale che ha attraversato tutta Italia mostrando risultati senza dubbio interessan-

ti. Ciononostante, questa politica non è servita da esempio ad altre amministrazio-

ni locali.

Da un punto di vista più strettamente artistico bisogna registrare quanto in

questi ultimi anni il t. abbia allargato i propri orizzonti incontrando altri generi e

perdendo sempre di più il confine di un’identificabile peculiarità creativa e di

esposizione spettacolare definita. Anche in questo caso la questione assume aspet-

ti terminologici interessanti. Certo, esiste ancora un ‘teatro di prosa’, anche se

questa espressione risulta piuttosto superata, intendendo un’azione scenica che si

muove sulla traccia di un testo drammaturgico precostituito non legato alla musi-

Page 98: TEATRO TRECCANI - Unife

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ca, ma anche in questo ambito apparentemente ristretto molte sono state le novità

e gli sconfinamenti di campo (v. drammatica, letteratura). Essendo ormai piuttosto

desueto il rapporto della drammaturgia con la musica secondo quella formula

molto diffusa fino alla metà del Novecento che è stata la lirica, ed essendo la scrit-

tura teatrale pensata per il canto oramai fortemente sperimentale e non certo di

larga accoglienza, come accadeva per l’opera o l’operetta, l’incontro più interes-

sante e innovativo del t. strettamente inteso con un altro territorio della riflessione

e della pratica spettacolare è senza dubbio quello con la coreografia e il movimen-

to che ha dato vita alla fortunata definizione di ‘teatro danza’, filone produttivo

ricchissimo e di successo. In questo nuovo genere, che ha raccolto immediati con-

sensi soprattutto grazie al lavoro della coreografa tedesca P. Bausch (n. 1940), av-

viene una singolare intersezione tra elementi di provenienza diversa. Da una parte

il movimento resta centrale nell’azione scenica, mentre quello che cambia radi-

calmente è l’atteggiamento narrativo. La storia o gli accenni di storia che emergo-

no nel corso del lavoro non sono più un pretesto per la creazione di numeri regola-

ti secondo le norme del balletto classico e resi più efficaci o espressivi dalla fanta-

sia e dall’intelligenza di un coreografo, ma il gesto nasce insieme al racconto che

si vuole proporre, la relazione fra gesto e pensiero, fra elemento narrativo ed

espressione fisica si fa indissolubile. E, anche se la parola resta spesso in secondo

piano, si avverte una più evidente necessità di discorso, l’esposizione di concetti

oppure l’indagine su linee interiori dell’individuo. Tuttavia la riflessione sul gesto

e sul movimento si è infinitamente ampliata, così come si sono diversificate le ne-

cessità e i modi della scrittura per la scena, dando luogo a innovative calligrafie

pensate appositamente per lo spazio scenico e costruite con materiali e con mezzi

diversi. E per quanto sia stato fatto moltissimo al fine di arricchire il linguaggio

teatrale con elementi di provenienza diversa, molto sembra ancora dover accadere

e la gamma creativa degli artisti della scena sembra avere ancora infinite possibili-

tà di scoperta. Il video, dopo un momento felice di sperimentazione che ne faceva

fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta un elemento molto presente in

t., appare messo da parte, o usato, spesso in forme estreme, soprattutto quando il

palcoscenico cerca un confronto con i mezzi di comunicazione di massa o con cer-

te tematiche della società contemporanea.

Ma certamente lo spazio della rappresentazione si è definitivamente allar-

gato non soltanto a nuovi linguaggi, ma anche a nuove figure, includendo

nell’azione teatrale persone e non attori, esperienze individuali e non finzioni. Per

questo il t. è andato a cercare nuova linfa confrontandosi con i territori del disagio

sociale, della detenzione, della disabilità, portando in scena segni veri, espressioni

e volti della realtà. Rivendicando così la forza tutta particolare di questa forma

comunicativa rispetto alle problematiche più diffuse e difficili del nostro tempo.

Sulla produzione teatrale si vedano anche le voci attore, regia: Teatro,

e scenografia: Teatro.

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BIBLIOGRAFIA

R. Barthes, Pouvoir de la tragèdie antique, in Theâtre populaire, 1953, 2 (trad.

it. Sul teatro, Roma 2002,pp. 51-59);

M. Panizza, Edifici per lo spettacolo, Bari 1996;

L. Trezzini, P. Bignami, Politica & pratica dello spettacolo: rapporto sul teatro

italiano, Bologna 2004.

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Sommario Teatro Treccani ............................................................................................ 1

Teatro come edificio ................................................................................ 1

1. Il t. come edificio: l’antichità ........................................................... 1

2. Il t. come edificio: il Medioevo ....................................................... 2

3. Il t. come edificio: l’età moderna ..................................................... 2

4. Il t. come edificio: l’età contemporanea .......................................... 5

5. Il t. come edificio: Medio ed Estremo Oriente ................................ 6

Il teatro come spettacolo .......................................................................... 7

6. Il t. come spettacolo: l’Antichità...................................................... 7

7. Il t. come spettacolo: il Medioevo ................................................... 9

8. Il t. come spettacolo: dal t. cinquecentesco all’Ottocento ............. 10

9. Il t. come spettacolo: il t. del Novecento ....................................... 13

10. Il t. come spettacolo: il panorama italiano ................................... 16

11. Il t. delle società di interesse etnologico ...................................... 17

12. Aspetti giuridici ........................................................................... 18

appendice vi – 2000 ................................................................................... 20

Parte introduttiva ................................................................................... 20

Teatri, società e modi di produzione ...................................................... 21

Dalla 42nd

Street a rue du Faubourg Saint-Denis ............................... 22

Perdita del centro ............................................................................... 25

Uno sperimentalismo ‘di condizione’ ................................................ 29

La storia ‘dentro’ il teatro .................................................................. 35

Una storia emblematica ..................................................................... 45

Bibliografia ........................................................................................ 49

Drammaturgia e spettacolo .................................................................... 51

bibliografia ......................................................................................... 56

Geografie del teatro ............................................................................... 57

Centro e periferia. .............................................................................. 58

Territorializzazione ............................................................................ 61

I contorni delle mappe teatrali ........................................................... 64

Page 101: TEATRO TRECCANI - Unife

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bibliografia ........................................................................................ 64

Il teatro ‘Eurasiano’ ............................................................................... 65

bibliografia ........................................................................................ 71

La persistenza del teatro ........................................................................ 72

bibliografia ........................................................................................ 79

Pensare il teatro ..................................................................................... 80

La linea delle sovvenzioni ................................................................. 82

La dilatazione del mercato ................................................................ 83

Il pubblico fuori mercato ................................................................... 84

Opera/gruppo ..................................................................................... 85

Mestiere/arte ...................................................................................... 85

Convenzione/tradizione ..................................................................... 86

bibliografia ........................................................................................ 88

appendice VII – 2007 ................................................................................ 90

Teatro .................................................................................................... 90

Bibliografia ........................................................................................ 99