Tavole «a tavola»!

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Tavole... «a tavola»! Gianni Brunoro Se si deve dar credito all’antico adagio mens sana in corpore sano dovrebbe essere evidente che anche gli eroi dei fumetti, per mantenersi sani, devono nutrirsi. In realtà, nella finzione narrativa, non troppo spesso li vediamo intenti a questa attività. Ovvio, del resto, e vale specialmente per gli eroi dei fumetti avventurosi: nel loro inarrestabile attivismo, come possono avere il tempo di dedicarsi ad azioni bensì indispensabili ma banali, come nutrirsi o dormire o altre ancora più quotidiane, che nulla possiedono di avventuroso?... In effetti, di fronte a noi lettori essi devono sempre mostrare il loro volto attivo, “motorio”, impegnati come sono nell’“azione avventurosa”. Logico, insomma, che vedere gli “eroi” sedersi a tavola per “consumare un pasto” è un tipo di occasione per lo meno non frequente. Lo è magari meno, semmai, nei fumetti umoristici, dove tutto ciò che riguarda la tavola o comunque l’atto del nutrirsi, può più agevolmente essere oggetto narrativo: non tanto per l’importanza in sé, quanto piuttosto per tutto quanto il tipo di occasione può significare: ironie sulle ambientazioni, sulle modalità, sui tic, sul contesto (eventualmente sociale), sulla ritualità – e aspetti del genere – di questa “ordinaria” operazione. Insomma nei fumetti occasioni in qualche modo “mangerecce” si possono bensì rintracciare, ma l’aspetto interessante è quello di analizzarne, volta a volta, il senso nel corrispondente contesto narrativo. Sicché, da questo punto di vista del tutto generale, non c’è da stupirsi che rapporti con il cibo compaiano addirittura prima dei fumetti veri e propri, ossia in certi loro antenati. Già infatti all’inizio dell’Ottocento l’umorista svizzero Rodolphe Töppfer conseguì un qualche successo (addirittura presso intellettuali quali Johann Wolfgang Goethe e Xavier de Maistre) pubblicando certe storie costituite da

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Tavole... «a tavola»! Gianni Brunoro

Se si deve dar credito all’antico adagio mens sana in corpore sano dovrebbe essere evidente che anche gli eroi dei fumetti, per mantenersi sani, devono nutrirsi. In realtà, nella finzione narrativa, non troppo spesso li vediamo intenti a questa attività. Ovvio, del resto, e vale specialmente per gli eroi dei fumetti avventurosi: nel loro inarrestabile attivismo, come possono avere il tempo di dedicarsi ad azioni bensì indispensabili ma banali, come nutrirsi o dormire o altre ancora più quotidiane, che nulla possiedono di avventuroso?... In effetti, di fronte a noi lettori essi devono sempre mostrare il loro volto attivo, “motorio”, impegnati come sono nell’“azione avventurosa”. Logico, insomma, che vedere gli “eroi” sedersi a tavola per “consumare un pasto” è un tipo di occasione per lo meno non frequente. Lo è magari meno, semmai, nei fumetti umoristici, dove tutto ciò che riguarda la tavola o comunque l’atto del nutrirsi, può più agevolmente essere oggetto narrativo: non tanto per l’importanza in sé, quanto piuttosto per tutto quanto il tipo di occasione può significare: ironie sulle ambientazioni, sulle modalità, sui tic, sul contesto (eventualmente sociale), sulla ritualità – e aspetti del genere – di questa “ordinaria” operazione. Insomma nei fumetti occasioni in qualche modo “mangerecce” si possono bensì rintracciare, ma l’aspetto interessante è quello di analizzarne, volta a volta, il senso nel corrispondente contesto narrativo. Sicché, da questo punto di vista del tutto generale, non c’è da stupirsi che rapporti con il cibo compaiano addirittura prima dei fumetti veri e propri, ossia in certi loro antenati. Già infatti all’inizio dell’Ottocento l’umorista svizzero Rodolphe Töppfer conseguì un qualche successo (addirittura presso intellettuali quali Johann Wolfgang Goethe e Xavier de Maistre) pubblicando certe storie costituite da

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disegni in sequenza, corredati di testi, in cui egli ironizzava su aspetti della vita quotidiana. In uno di questi, Il signor Crépin, 1837, il suo beffardo sorriso si appunta proprio su una situazione del genere: i commensali si apprestano alla cena e il signor Crépin, maleducato, starnutisce sul cibo; allora i bambini, schifati, accampano una scusa per allontanarsi da tavola.

Per l’autore, è un’occasione idonea a sottolineare, sia pure tramite l’ironia, come anche quando si mangia le buone maniere vanno rispettate. Sempre in questi proto-fumetti, l’umorista tedesco Wilhelm Busch si rese celebre con certe storielle disegnate, la più popolare delle quali (1865, nel periodico Fliegende Blätter) rimane ancora oggi Max und Moritz: una sequenza di episodi che vede come protagonisti due fratellini monelli, i quali ne combinano di tutti i colori. In uno di questi episodi, per esempio, Busch racconta come una casalinga si appresti ad arrostire una fila di polli (bellamente esposti appesi a un filo, dopo che lei gli ha tirato il collo e li ha spennati), ma i due escogitano un trucco per sottrarglieli e mangiarseli.

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Però, alla conclusione, alla coppia birichina spetta un destino drammatico. Dopo averne combinate di tutti i colori nel corso degli episodi, alla fine, per una serie di qui-pro-quo, capita a loro stessi di finire infarinati,

poi messi al forno, macinati e trasformati in bocconcini, passando dal ruolo di chi mangia a quello di chi... viene mangiato: nella circostanza, da un paio d’oche di passaggio. Pagano così il fio di tutte le proprie malefatte, diventando la metafora di una cupa pedagogia teutonica, inesorabilmente ligia al principio del “chi la fa l’aspetti”. Tutta l’opera di Bush è genericamente importante per i fumetti in quanto, secondo gli studi critici, essa starebbe a monte della loro nascita. Il fumetto vero e proprio è una forma espressiva – definita poi dalla semiologia mass medium, mezzo di comunicazione di massa – sviluppatasi come si sa nei quotidiani statunitensi a partire dalla fine del 19° secolo. Infatti i primissimi autori di fumetti si sarebbero ispirati a Busch e a vari umoristi analoghi, la cui tecnica narrativa era fiorente in Germania nell’Ottocento. E a Max und Moritz, nello specifico, si sarebbe ispirato nel creare la serie Katzenjammer kids – nota poi in Italia come Bibì e Bibò – il disegnatore Rudolf Dirks, che attraverso di essa praticamente inventò le fondamentali regole comunicative dei fumetti: soprattutto la narrazione attraverso vignette in sequenza e i balloon, definiti poi in Italia “nuvolette”, ossia gli spazi contenenti i dialoghi. L’ispirazione ai monelli di Bush da parte delle storielle dei Katzenjammer kids è abbastanza evidente: anche qui abbiamo due fratellini

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monellacci che ne combinano di tutti i colori e ogni volta vengono puniti per le loro marachelle. L’ambiente è poco realistico (una specie di isola in cui vivono strampalate famiglie di vaga origine tedesca) ma divertente grazie a una serie di bislacchi personaggi, fra le cui beffarde vicende non mancano rapporti col cibo.

Per esempio, in una fra le tante storielle (creata però nel nostro esempio da Harold Knerr, che per certe cause giuridiche sostituì in seguito Dirks), si vedono i due monelli mentre arraffano di nascosto una torta messa a raffreddare sul davanzale dalla madre, Tordella, per andarsela a mangiare in santa pace da soli. Scoperti, pagheranno naturalmente il fio della birichinata con una sonora sculacciata da parte di colui che nella sit-com cartacea è una specie di padre putativo, il burbero Capitano (Cocoricò, in italiano).

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A dire il vero, situazioni analoghe si ripetono in questo fumetto con una certa frequenza e con soggetti volta a volta diversi: ora le cibarie preparate per il pic-nic, ora le salsicce appena arrostite sul barbecue, ora i vassoi di popcorn... Tutte abitudini tipiche della società americana del tempo. C’è un caso particolare in cui un “cibo”, benché non sempre o non espressamente esibito, è il protagonista occulto della narrazione. Tutti conoscono, per esempio, Braccio di Ferro, il buffo e simpatico marinaio che, dal lontano 1929, è protagonista col nome originario di Popeye (“Guercio”) di una sterminata serie di avventure in cui, fin dall’inizio, manifesta una forza eccezionale.

Ebbene, tutti sanno ugualmente che, nella finzione narrativa, a conferirgli quel requisito è appunto uno specifico alimento: nei momenti in cui Popeye necessita di un apporto energetico di eccezionale qualità, si nutre di una bella “dose” di spinaci, ritenuti ricchissimi di ferro: magari da lui ingoiati spremendoli con la forza erculea delle sue dita schiacciando direttamente una lattina. Fu una trovata talmente originale di Elzie Crisler Segar, l’autore, che essa conferì al personaggio una straordinaria popolarità. Tanto che a Crystal City, una città statunitense a economia agricola, in particolare grazie alla coltivazione degli spinaci, gli fu eretto nel 1937 un monumento.

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E poco importa che i successivi studi scientifici sulla nutrizione abbiano chiarito che non sia affatto vero il requisito tanto decantato di quella verdura. La popolarità di Braccio di Ferro lo ha talmente diffuso e radicato nella convinzione popolare, che ancora oggi gli spinaci sono sinonimo –incredibile ma vero! – di “alimento ricco di ferro”...

Eppure non è questa l’unica presenza del cibo in questa serie. Come ben sanno i lettori, fra i comprimari di Popeye i due principali sono la fidanzata Oliva (Olive Oil, nell’originale) e l’amico Wimpy, non a caso chiamato dai

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traduttori italiani Poldo Sbaffini. Perché in effetti l’unico interesse di Poldo sembra essere quello per i panini, da lui ricercati e regolarmente “sbafati” con un piacere così evidente da... suscitare l’appetito anche nel lettore! Fra le tante occasioni ce n’è una, per esempio, idonea a dimostrare quanta e quale sia per lui la intangibilità del panino: un giorno, i tre vanno al mare per una vacanza sulla spiaggia e a un certo punto si sente Olivia chiamare aiuto perché, essendosi addentrata in acqua, le onde stanno pericolosamente per travolgerla. Ebbene, come una saetta, Poldo – uscendo a sorpresa dalla sua pigrizia – si precipita, ancora prima di Braccio di Ferro. Ma la sequenza di vignette evidenzia poi che la sua preoccupazione, l’unica!, non era per la salvezza di Olivia bensì per il cestino del pic-nic, affinché non si bagnassero i panini. E la disgraziata Olivia, salvatasi poi da sola, se la prenderà con Braccio di Ferro, stendendolo con un potente pugno in faccia. In sostanza, sembra comunque la dimostrazione che se nella serie Braccio di Ferro gli spinaci sono sacri, tuttavia non lo sono meno i panini. Comunque, per quanto riguarda la presenza nei fumetti, gli spinaci sono comunque l’unica cibaria che abbia fatto diventare proverbiale l’idea associata, per cui ancora oggi chi dice “spinaci” viene automaticamente rimandato al ricordo di Braccio di Ferro. Il quale se ne nutre in qualsiasi momento, indipendentemente dalla posizione canonica in cui il cibo viene consumato, che sarebbe appunto la tavola. Ci sono altre situazioni in cui i protagonisti si nutrono indipendentemente dal sedersi a tavola. Basterebbe pensare alla sterminata serie di storie western, moltissime delle quali sono – come dire? – vissute in esterni, in lunghe giornate a cavallo scorrendo le praterie e nelle corrispondenti nottate all’aperto. Lì, naturalmente, il pasto degli eroi viene cotto alla fiamma di un improvvisato fuoco di bivacco: molto spesso niente più che un po’ di lardo e fagioli, o eventualmente della carne secca che i cow-boy si portano dietro, mentre la quasi immancabile conclusione è un aromatico bricco di caffè. Aspetti del genere ne troviamo in abbondanza. Ne riscontriamo uno, per esempio, in un nobilissimo esempio di western, la serie Ken Parker iniziata nel 1977 presso le edizioni Bonelli. Il West è terra da uomini duri-rudi vite, a volersi concedere un bisticcio verbale. E anche la nutrizione segue norme “dure”, assai spartane. Per cui sedere attorno al fuoco è l’occasione ideale per raccontarsi delle storie o cantare insieme vecchie canzoni. Lo vediamo in La ballata di Pat O’Shane (maggio-giugno 1978), quando Ken Parker scorta a lungo una ragazza poco più che adolescente con la testa così piena di fantasie da correre inconsapevolmente dei pericoli.

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In maniera più efficiente riscontriamo delle funzionali chiacchiere attorno al fuoco di bivacco nell’episodio Storie di soldati (agosto 1982) in cui, nella finzione letteraria, a Ken Parker viene ad accompagnarsi uno straordinario raccontatore di storie: qui parafrasate a fumetti.

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Ma soprattutto è l’occasione, per l’eccellente autore Giancarlo Berardi, di parafrasare alcuni dei racconti del famoso scrittore Ambrose Bierce: vale a dire colui che, nella finzione narrativa, si unisce in quel caso al gruppo di cowboy che accompagnano Ken Parker. Quando però si parla di western, è assolutamente impossibile prescindere da quella serie (italiana ma famosa nel mondo: anzi oggi la più longeva di tutte, in questo filone narrativo). E qui, francamente, i bivacchi – si può dire – si sprecano. Lo riscontriamo, per esempio, in uno dei mille episodi di Tex Willer (nello specifico, quello intitolato Deadwood, maggio 2010) in cui il figlio di Tex, Kit Willer, conversa con il pellerossa Alce Grigio che, pur essendo suo prigioniero, lo intrattiene pacatamente con lunghi sermoni informativi sulla propria tribù, i Dakota. Un’occasione che ha il sapore di metafora per quella valenza anti-razzista che caratterizza l’intera saga di Tex Willer, un atteggiamento presente in essa da sempre.

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Al di là, comunque di questa occasione singola, e proprio perché quella di Tex è una saga sterminata (certo la più lunga al mondo, con le sue migliaia e migliaia di pagine in 65 anni di vita editoriale, sostanziata da varie serie, sotto-serie ed edizioni differenti), c’è contestualmente in essa una vera... enciclopedia di bivacchi, “leggibili” sotto differenti profili. In fondo il bivacco viene sfruttato dagli autori, sul piano narratologico, anche come espediente utile per inserire diversioni, o flash back, o ricordi dell’uno e dell’altro fra i protagonisti e possibilità similari. Ma essenzialmente, è ovvio, ora come momento elitario della nutrizione nel West, quasi una metafora della necessità, per i protagonisti, di nutrirsi allo scopo di rimanere vivi e attivi; ora il bivacco come indispensabile pausa, ossia la sosta come momento indispensabile alla sopravvivenza: c’è per esempio un momento, nell’episodio Il passato di Tex, (p.292-vol.I della serie Tex Story, di cui si dirà fra un momento) in cui, dopo aver cavalcato a lungo insieme all’amico Dick, è scesa la notte e Tex suggerisce “Che ne diresti di fare una sosta di un paio d’ore?”, e davanti al nicchiare di Dick egli afferma “Ai nostri poveri cavalli occorrono ben più di un paio d’ore per riprendere fiato, e in quanto a me, beh, prova a darmi una pacca sulla schiena e vedrai le mie ossa sparpagliarsi lungo tutta la riva del fiume”.

È una dimostrazione “dall’interno” che anche gli eroi non sono inossidabili ma hanno limiti umani. Che viene addirittura sottolineata nel fascicolo-volume n.500 della serie, intitolato Uomini in fuga (testo di Claudio Nizzi, bellissimi disegni a colori di Giovanni Ticci). Qui (pp.32, 33, 34) ha luogo un prolungato battibecco fra Tex e il suo amico Carson, il quale comincia col dire “avremmo dovuto ricordare a Kit e Tiger di prendere anche della scorte di cibo”; e continua “con me ho gallette e pemmicam”. Concludendo poi “rischiamo di dover mangiare carne di serpente a sonagli”. Ma “gli indiani la trovano buonissima” ribatte Tex, che poi chiede “il caffè, almeno, lo hai portato?” e Carson, mugugnando: “quello sempre”.

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E dopo un po’ chiede “com’è venuto?”; “sei il solito artista”, riconosce Tex. “bah – continua a brontolare Carson – riscalda lo stomaco ma non riempie la pancia”. E Tex “abbi fede vecchio affamato, vedrai che i ragazzi arriveranno con un bel cervo grasso da fare allo spiedo”. Battibecco interessante, perché ci mette anche al corrente di quali potessero essere le... portate degli spartani menù nei bivacchi. I quali si concludevano inevitabilmente con una fumata: come si vede chiaramente in un successivo bivacco durante questo stesso episodio (pp.88, 89), con Tex che, dopo essersi bevuto la tazzona di caffè continuando a chiacchierare con Carson, si arrotola una sigaretta.

Un significativo esempio di molteplici presenze di bivacchi è agevole constatarlo grazie a una recente riproposta: in una serie di quattro grossi tomi intitolati Tex Story nella collana degli Oscar Mondadori, sono stati selezionati e raccolti vari episodi della saga, idonei a focalizzare i momenti nodali della biografia di Tex. Ebbene, in essi figurano varie di quelle “occasioni” in cui i protagonisti si intrattengono “a cena” in un bivacco; anzi, tali occasioni sono qui talmente numerose da costituire quasi una elegia del bivacco, o sicuramente da testimoniare vari degli aspetti secondo cui gli autori sfruttano narrativamente questo tipo di situazione. Nel caso

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specifico, dunque (vol.I, p.17), comincia Carson col raccontare come, da giovane, Tex non fosse che un comune cowboy, però campione di rodeo; su questo momento iniziale si innestano poi (pagine e pagine del racconto...) varie vicende che lo hanno portato, per vendicare certi torti subiti, a farsi giustizia da sé e a diventare quindi un fuorilegge.

Non finisce qui, del resto. Tutto questo volume è impostato in maniera tale da raccontare vicende passate, senza però interrompere la continuità narrativa. E allora, l’espediente è proprio quello di mettere questa volta (vol.I, p.209) non al bivacco bensì a tavola i protagonisti, ai quali ancora una volta Tex racconta una sua lunga vicenda passata, quando fu costretto a combattere Fra due bandiere (titolo dell’episodio) avendo a che fare in modi diversi con i militari: lui, un convinto antimilitarista.

Come direbbero poi gli imbonitori, “altro giro, altro regalo”... Ossia: un altro gran bel “racconto di bivacco” si incontra nel successivo volume di questa

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proposta editoriale. Particolarmente interessante perché in esso Tex inizia a raccontare (vol.II, p.372), e lo fa per l’intero episodio, un momento esiziale della propria vita.

Si avvia cioè Sul sentiero dei ricordi (titolo dell’episodio) e racconta di quando, nel breve periodo del proprio matrimonio, egli accompagnasse la moglie indiana con Lilyth a trovare un anziano frate presso una missione francescana dove era stata educata da bambina; e in quell’occasione la missione viene assaltata dai pellirosse, che rapiscono Lilyth. Sicché lui, per liberarla, è costretto a una strenua lotta irta di pericoli. Qui, detto per inciso, il testo è di Claudio Nizzi, il più importante “erede” storico del grande Gian Luigi Bonelli, “inventore” di Tex e l’episodio si avvale dei disegni di uno dei migliori collaboratori dell’équipe, Fabio Civitelli, suggestivo illustratore delle tante scene notturne di vario genere su cui si regge il racconto: il quale fra l’altro è costituito da un frequente alternarsi di flash-back e di scene di bivacco, in cui i protagonisti continuano a mangiucchiare, mentre viene illustrato ciò che il protagonista – Tex, ovviamente – continua a raccontare.

Pertanto, in questi volumi Tex Story viene nel contesto significativamente sottolineato che il bivacco è bensì una “occasione” mangereccia, ma è anche in maniera inscindibilmente contestuale la situazione – narrativa e storica – di approfondimento dei rapporti umani, di travaso di esperienze e idee, di eventuali confronti ideologici...

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È insomma talmente un topos il bivacco, per cui anche nei fumetti umoristici esso si presta a impostarci delle situazioni narrative. Per esempio, una “portata” assai gradita nei bivacchi è la selvaggina, se e quando la si trova. Proprio questa presenza più o meno occasionale della medesima offre lo spunto a Benito Jacovitti per una delle sue tante trovate spassose e surreali. Fra le decine delle sue creature, quella da lui più amata e forse più popolare è Cocco Bill, cow-boy del tutto controcorrente: egli chiacchiera col suo cavallo Trottalemme (autentico co-protagonista dei racconti), non beve il tradizionale whisky bensì la tranquillante camomilla e affronta vicende fra le più strampalate e bizzarre che si possano immaginare. E anche al momento di fermarsi a bivaccare egli ricorre a metodi a dir poco surreali.

La selvaggina, infatti, non sempre è così facile da trovare. Ma non per Cocco Bill. È quanto risulta, per esempio, nell’episodio intitolato Coccobillevolissimevolmente (edizione originale in Maxivitt, 1978/89, poi ristampato più volte), dove il nostro eroe, dopo aver perentoriamente dichiarato di aver fame, si mette a sparacchiare all’impazzata e un volatile, già bell’e spennato e pronto per la cottura, cade in padella, dove Trottalemme – qui in paradossale versione cuoco – si appresta a prepararglielo per colazione. Pur però nel suo sistematico atteggiamento grottesco, non sempre Jacovitti tratta il cibo in maniera comica. C’è per esempio un caso in cui il suo discorso si fa nella sostanza serissimo. Nel racconto Mandrago (Il Vittorioso, 1946) c’è un povero, comunissimo “uomo della strada” che acquisisce per caso dei poteri magici.

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A quel punto, qual è la maggior parte delle magie cui si dedica? Proprio quella di procurarsi del cibo. E in una pagina esilarante, dopo aver fatto magicamente apparire una tavola imbandita, eccolo impegnato, insieme al suo assistente Pappotar, in una sequenza di golosi rapporti con appetitose portate di ogni genere. Pur nel suo registro comico, la pagina evidenzia un problema, in quel momento, esiziale per l’Italia: si era nel 1946, e in un Paese come il nostro, uscito umiliato e distrutto dalla guerra. In quelle condizioni, procurarsi un pasto era ancora una faccenda di urgenza basilare, più fondamentale di qualunque altra esigenza... L’episodio fumettistico, pur tragicomico, è tuttavia esemplare come parafrasi del ruolo centrale, per i rapporti umani, del “mettersi a tavola”. E anche per gli eroi del fumetto resta comunque indubitabile che essa ne è il luogo deputato. È quanto era in certo senso sintomaticamente espresso in una serie di storielle di Marco Biassoni nelle brevi animazioni pubblicitarie di Carosello, diventate così famose da rifluire a suo tempo anche in una serie di fumetti cartacei.

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Lì, la tavola era protagonista “in prima persona”, trattandosi della... tavola rotonda di Re Artù, alla quale era sempre in ritardo Lancillotto. E quando finalmente egli arrivava, ecco la conclusione rituale di ogni breve avventura: “morale della favola, in tavola”. Che se magari era funzionale allo specifico scopo pubblicitario (trattandosi dello spot di un prodotto alimentare, i biscotti Pavesi), tuttavia era anche la metafora di una situazione, appunto, universale. Nel senso che spessissimo è a tavola che si affrontano e a volte si risolvono faccende di ogni genere. Anche nei fumetti è sintomatica la diversità delle condizioni che gli autori ci descrivono nel contesto narrativo e i differenti significati assunti da quel momento del racconto. Ecco per esempio, una presenza a tavola del tutto corrente. Fra il 2008 e il 2009 la casa editrice Bonelli ha pubblicato una serie di albi intitolata Jan Dix, creati da Carlo Ambrosini. Il protagonista eponimo è un famoso critico d’arte – quindi una persona di cultura alta e in un settore specifico – al quale, nella propria città, Amsterdam, si presentano casi polizieschi connessi a opere d’arte, nei quali egli è costretto a indagare per venire volta a volta a capo di un mistero da risolvere.

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E per esempio nell’episodio intitolato Una tragedia americana lo vediamo, nel corso di un’inchiesta, seduto a un tavolo di ristorante, mentre discute tranquillo con una sua cliente. Una situazione quindi che ci relaziona su una composta rispettabilità borghese, nella quale il sedersi insieme a tavola – quasi una “colazione di lavoro” – è una delle maniere tradizionali in cui ci si comporta nel nostro mondo reale. A volte, tuttavia l’apparenza inganna... Dipende dal contesto. C’è per esempio una serie fumettistica molto amata (tant’è vero che è sulla breccia da decenni e addirittura con sempre maggiore successo, invece che con stanchezza) incentrata sul personaggio Zagor, che ha come spalla un buffo ometto di mezza età, Cico: il quale è basso e grassottello non per caso, bensì perché ama molto indulgere a quelli che vengono definiti i piaceri della tavola. E benché quella di Zagor sia una serie avventurosa, proprio la presenza di Cico offre frequenti siparietti comici. C’è per esempio un episodio, intitolato L’ombra del vampiro, nel quale i nostri eroi e un loro amico capitano in un tetro castello abitato appunto da un vampiro: anche se questo lo sa soltanto il lettore, non i personaggi. I quali vengono invitati a cena e, sia prima sia durante la tavolata Cico si produce non solo in una delle sue consueta mangiate, ma anche in una serie di conoscenze gastronomiche da lasciare ammirati. Quando però nel seguito dell’avventura

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si farà un piccola ferita, dalla quale esce del sangue, i rapporti fra lui e il padrone di casa – vampiro! – si produrranno in una sequenza esilarante, degna di un film di Stanlio e Ollio. Non sempre, però, è così. In un altro episodio intitolato La prova del fuoco, i nostri eroi sono a cena dal comandante del Forte Bravery e in una lunga sequenza di vignette che li vede a tavola, si dimostrano di una urbanità quale magari da loro – così adusi a eventi rudi e perfino selvaggi – sembrerebbe difficile aspettarsi. Forse è una dimostrazione che, almeno nei fumetti, quando si è a tavola non ci si può comportare che compitamente. Ci sono infatti altri casi in cui la prospettiva è diversa, come nell’episodio di Corto Maltese L’angelo della finestra d’oriente. Nello specifico, il dipanarsi di una vicenda avventurosa conduce come altre volte Corto Maltese a Venezia, per cui l’autore Hugo Pratt ne approfitta per un ammiccamento – tecnicamente, quel che si definisce un inside joke – al proprietario, nella realtà, della sua trattoria preferita. Sicché si vede il famoso e super-attivo Corto Maltese del tutto rilassato, in tranquilla attesa al tavolo del ristorante, nella quiete ombrosa di una pergola.

E a un certo punto la inserviente, dopo avere arrostito a puntino un pesce alla brace, chiama per nome: “...Scarso! È pronto lo «sfogio» per Colto Maltese!”, e Scarso, proprietario e amico di Corto, lo serve con un soddisfatto: “Ecco, Corto, guarda che meraviglia di «sfogio» che ti abbiamo preparato...”. Qui traspare magari il concetto che a volte “anche gli eroi

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dell’avventura si rilassano”, ma contestualmente è anche un interessante esempio, quasi un’occasione metafumettistica, di interazione tra fantasia (quella del racconto) e realtà (quella dei rapporti interpersonali dell’autore). A volte si riscontra che a tavola si possono discutere anche problemi quotidiani o perfino esistenziali... Nella recentissima serie Il piccolo Pierre (ed. Tunué, 1° volume 2013, autori Corrado Mastantuono e Stefano Intini) il bambino che risponde a quel nome, di esuberante fantasia e un po’ sventato ma anche coraggioso, proprio per tutte queste ragioni dà dei grattacapi al padre. Il quale, per capire la situazione, chiede aiuto a chi meglio possa conoscere il bambino, ossia alla sua tata.

E dove/come avvengono questi dialoghi? Esattamente a tavola, mentre lei gli serve tutta una serie di succulente portate. Nel frattempo il bambino si è allontanato da casa ma è stato raccolto da un vecchio saggio, il quale ha ben capito la situazione. Pertanto lo accompagna a casa propria per inculcargli un po’ di ragionevolezza. E qual è il primo passo? Dargli da mangiare, cioè metterlo a tavola...

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Altro interessante esempio di personaggi fumettistici a tavola è quello che compare nella recentissima (16 aprile 2013) storia di Topolino dal titolo La promessa del gatto, scritta e illustrata rispettivamente da Francesco Artibani e Giorgio Cavazzano: i quali “mandano” Topolino e Minni in vacanza in Sicilia, dove la vicenda li porta a conoscere Topalbano. Vale a dire un personaggio che è l’amabile parodia di Salvo Montalbano, il celebre protagonista dei non meno celebri romanzi di Andrea Camilleri. È l’ammiccamento a una serie di gialli in cui l’approccio al cibo è abbastanza fondamentale. Montalbano, si sa, è un buongustaio, un davvero raffinato gourmet che non esita ad abbuffarsi dei cibi che ama. E anche la parodia non rifugge da questo momento, facendoci vedere Topolino insieme a Topalbano, intenti a mangiare al tavolo del ristorante e con tutti i tic di quest’ultimo: dalla scelta specifica di una portata piuttosto che un’altra, al sacrosanto silenzio durante il pasto.

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Dando così un senso di quasi sacra ritualità a un tipo di occasione – appunto, lo stare a tavola – presente anche magari nei racconti di Topolino, dove però il mangiare è soltanto un momento uguale a tutti gli altri. Ma siamo altrettanto lontani dall’edulcorata visione di un mondo topolinesco dal forzato ottimismo, in cui i personaggi “recitano” una spensieratezza che si concretizza nei rituali del picnic. Qui no, qui Topolino – sia pure nella impostazione umoristica del racconto – è immerso in una curiosa realtà, quella dei romanzi di Andrea Camilleri. Ossia una realtà che non rifugge dal parlare di argomenti drammatici reali, come quello dei rapimenti, o dello strapotere della criminalità mafiosa, o delle prevaricazioni da parte delle cosche, o del diffuso vizio a-sociale dell’omertà... Una piccola occasione, dunque – Topolino a tavola con Topalbano – che riporta il piccolo eroe disneyano alla sua personalità classica, quella del personaggio integralmente d’avventura, impegnato magari su argomenti di valenza sociale. Qui è invece di particolare interesse, perché rileviamo una situazione abbastanza diversa da quelle del mondo Disney e nello specifico anche dal mondo di Paperopoli. È, quest’ultimo, l’ambiente in cui, tante volte, Nonna Papera si esibisce nella convenzionale preparazione delle sue torte di mele. Una situazione talmente canonica da figurare sulla copertina di un volume incentrato su di lei, dal quasi ovvio titolo Manuale di Nonna Papera. E se in questa

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immagine essa figura alquanto seccata perché i nipotini Qui, Quo, Qua le stanno scippando una torta, tuttavia subito nelle prime pagine interne la si vede mentre è lei stessa che, amorevolmente, porta il dolce appena sfornato ai golosi nipoti. E qualche pagina ancora più in là, eccola intenta a prepararne un’altra: sembra quasi che questa sia la sua unica attività nella vita... Ma il fatto è probabilmente molto più sottile e anche più semplice: Nonna Papera è la versione paperinesca di una figura tradizionale dell’iconografia americana, quella dell’anziana matriarca della famiglia o – nello specifico – della fattoria.

Che Nonna Papera sia un simbolo non insignificante, lo si deduce anche da una delle storie presenti nel “mitico” Topolino n.3.000, uscito il 28 maggio 2013, nella insolita consistenza di 322 pagine, appunto per celebrare il raggiungimento di quell’eccezionale traguardo. Ebbene, fra i numerosi racconti in esso presenti, uno – intitolato Qui, Quo, Qua e le prelibatezze a km 3000 (testo di Teresa Radice, disegni di Stefano Turconi) – è proprio incentrato su un argomento “alimentare”, tanto da esordire con la didascalia “Questa storia inizia col profumo di sugo fatto in casa, con verdurine e spezie dell’orto”.

E naturalmente vede come fondamentale protagonista “l’energica Nonna Papera, che di «verde» ha il pollice perché è brava a coltivare ortaggi, piante e fiori [...] della sua fattoria tra una torta di mele e un racconto intorno al

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fuoco”. E poi il testo del fumetto è disseminato di allusioni a ricette le più varie, da “ravioli fatti a mano con ripieno di spinaci e ricotta di capra, tutto autoprodotto”, a “minestroni di verdure fresche” , al “bel piatto di spaghetti con il pesto della nonna”, o “le tagliatelle al ragù vegetariano cotto a puntino”, uno dei tanti contenuti nei “vasetti di sughi vari”, preparati con “ingredienti genuini”, a “un secondo profumato di spezie appena colte”, a “una bella fetta di crostata, farcita di marmellata di frutta di stagione”, ai “biscotti con le nocciole della fattoria”; insomma quei tesori di “latte, formaggi, frutta”, con cui preparare “Pasta fresca, torte, biscotti e marmellate” preparati con le sue mani, come la “crostata con composta di mele” che sarebbe magari l’ideale dessert con cui concludere ogni pasto. Pasti sempre e solo rigorosamente vegetariani: essendo questo il principio a cui si ispira tutto intero il racconto, anche per sensibilizzare i lettori alla utilità di una scelta alimentare del genere.

Un racconto tutto disseminato di vignette “in cucina” o “a tavola” e ispirato soprattutto alla difesa del cibo “bio” e alla opportunità, alla utilità, se non alla necessità, di mangiare “biologico”.

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Se non biologico, anche magari ampiamente vegetariano... E magari per... opportunità sociale. Mi spiego. C’è una curiosa circostanza nell’episodio Filo spinato sulla prateria appartenente alla serie Lucky Luke: la quale, sia detto qui per informazione minima, è una serie western umoristica iniziata nel 1947 dal belga Morris (pseudonimo di Maurice de Bevere), il quale, in seguito, si fece scrivere i testi dal grande René Goscinny (celebre autore, fra l’altro, di Astérix). Ebbene, l’episodio di cui sopra è incentrato su un ben noto fatto storico: la contesa, nel West americano, fra gli allevatori di bestiame e i coltivatori. E quando l’eroe della serie, Lucky Luke, viene chiamato a far da paciere fra le due parti in lotta, egli viene invitato a un pranzo conviviale presso i coltivatori. Pranzo di singolare coerenza – almeno sul piano narrativo – con la loro condizione sociale, in quanto tutte le portate, dalla prima all’ultima, sono costituite da piatti vegetariani, che rispecchiano la condizione ideologica di chi intende dedicarsi alla coltivazione di ortaggi: e quindi i commensali, ben distribuiti attorno alla tavola, potranno gustare per esempio portate che vanno dalla “zuppa di verdure” al “pollo ai piselli” alla “insalata di lattuga e pomodori”, alla “crostata di zucca”. Che saranno poi anche le portate della gran tavolata finale, alla quale siederanno – pacificati da Lucky Luke nell’episodio – gli ex nemici allevatori e agricoltori. È dunque un altro di quegli esempi in cui il fumetto assolve una funzione formativa, entrando nel ruolo della educazione sociale.

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È l’ennesima occasione in cui una storia a fumetti può dimostrarsi capace di affrontare problemi reali. E se si pensa che questo possa avvenire solo tramite storie realistiche più o meno dure in ambito avventuroso, piuttosto che in “oziose” sedute di fronte a una tavola ben imbandita, ebbene, ci possono essere esempi idonei a smentire tale idea. Un esempio inquietante è quello presentato da Will Eisner nel suo graphic novel Affari di Famiglia (1998). Occorre ricordare che di quella evoluta forma narrativa fumettistica che è il graphic novel, lo stesso Eisner è considerato l’inventore, avendo pubblicato nel 1978 il romanzo Contratto con Dio, prototipo del citato filone. Dunque, in Affari di famiglia vediamo riunirsi tutto un numeroso parentado – figli, loro coniugi, nipoti, loro fidanzate... – per celebrare in un gran pranzo collettivo il compleanno dell’anziano genitore. Il quale, colpito da ictus, è assistito dall’anziana moglie ma è incapace di comunicare e al banchetto partecipa quasi abulico seduto in carrozzella, come vive ormai da tempo.

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L’occasione vorrebbe essere festosa, visto che la tavolata è un’eminente momento di socializzazione. In realtà essa si rivela qui invece la spia di un devastante insieme di rapporti parentali aggressivi, di insofferenze, di morbosità, di invidie... Al punto che il ricco pranzo conviviale induce il vecchio genitore – che, pur non parlando, ragiona lucidamente – a una nausea generale per la vita, che egli conclude qui con una drammatica azione estrema, suicidandosi. È come dire che a volte i cibi possono dimostrarsi, anche metaforicamente, indigesti. Però è vero in genere proprio il contrario. La gran tavolata e l’eventuale abbuffata che essa comporta, è sintomo e occasione di allegria. Così si configura, per esempio, in una serie avventurosa intitolata Il piccolo ranger, creata nel 1958 dallo sceneggiatore Andrea Lavezzolo e dal disegnatore Francesco Gamba (ma continuata poi per anni da altri scrittori e disegnatori). E benché le avventure di questo giovanetto fossero spesso

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drammatiche, tuttavia la conclusione era all’insegna dell’ottimismo. E spesso addirittura l’happy end veniva celebrato con una gran tavolata, alla quale partecipavano tutti i membri importanti del forte, che era la guarnigione western in cui vivevano.

E secondo Lavezzolo questo era un aspetto così importante, che non di rado lo faceva vedere ai lettori anche nel caso che si trattasse delle lunghe traversate carovaniere. In certo senso per sottolineare l’importanza, dal punto di vista del vivere civile, dello stare insieme a tavola, quasi una filosofia di vita...

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È un concetto – questo “star bene a tavola” – che riceve una esemplare conferma anche in una storia a fumetti di Martin Mystère. Personaggio dell’editrice Bonelli, esso è stato creato nel 1982 da Alfredo Castelli (coadiuvato in seguito da diversi collaboratori, sia per i testi sia per i disegni) ed è un “detective dell’impossibile”: sostanzialmente, una specie di archeologo con una singolare vocazione per i casi misteriosi, da lui però affrontati anche alla luce di una notevole competenza scientifica. Proprio per questa ragione, il personaggio ha uno “zoccolo duro” di pubblico pure fra le persone di cultura, anche perché non di rado le sue avventure si destreggiano fra autentici argomenti scientifici.

È appunto questo uno dei casi che ci interessa nel presente contesto. Nell’episodio uscito nel n.326 della serie, aprile/maggio 2013, intitolato Il paradosso di Fermi (testo di Luigi Mignacco, disegni di Paolo Ongaro) c’è una lunga sequenza di pagine in cui alcuni scienziati sono a tavola (“questi discorsi non ci portano da nessuna parte, signori, ma i nostri piedi ci hanno portato a Fuller Lodge, dove potremo nutrire i nostri cervelli con bistecche e insalata!”) e, durante quella che si definirebbe una colazione di lavoro, discutono di fatti scientifici, di teorie evolutive, di possibilità di vita

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nell’universo e via discorrendo, coinvolgendo anche il “paradosso di Fermi” (“quante civiltà tecnicamente evolute ci potrebbero essere nella nostra galassia?”, o “quanti granelli di sabbia ci sono nel deserto del Sahara?” e via discorrendo; ma “proprio così, cari colleghi. Noi non abbiamo tutti i dati del problema”). Dopo di che, a fine pranzo, fra un dato scientifico e l’altro, ma anche fra una battuta e l’altra,: “dieci minuti dopo essere stato formulato, il paradosso di Fermi è stato risolto!”. Conclusione sarcastica, evidentemente, visto che le loro sono state nient’altro che chiacchiere.

Bensì colte, ma solo chiacchiere. Però l’esempio è divertente, funzionale e didascalico!, perfino con un sapore storico. In sostanza, è la metafora di una situazione effettiva importante: ossia che spesso, a tavola, si risolvono importanti problemi.

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Del resto, sempre nello stesso episodio, si assiste un po’ dopo a un altro fatto interessante: uno scienziato riceve di notte una notizia di valore scientifico. Talmente importante, che lui sente la cosa come una comunicazione ansiogena. E qual è la sua reazione? Corre al frigorifero, travolto da una specie di fame ansiosa. Quasi a evidenziare che il cibo può avere una valenza... medica non inferiore a quella di un tranquillante. C’è però una serie fumettistica in cui la gran tavolata, il banchetto rituale e chiassoso, figura come una vera e propria apoteosi e lo stare insieme gozzovigliando sembra una scelta di vita vera e propria, irrinunciabile. Si tratta della notissima serie Astérix, intitolata al piccolo Gallo che come si sa vive nella Bretagna di qualche decennio avanti Cristo e insieme a tutto il suo piccolo villaggio non intende accettare di essere sottomesso all’invasione romana. Situazione generatrice di una serie incessante di scaramucce, in cui i Romani hanno sistematicamente la peggio. E perché? Proprio per una ragione “alimentare”, in quanto quella rude popolazione ingurgita una pozione magica dalla formula segreta, preparata dal loro sacerdote-druido Panoramix, grazie alla quale le persone assumono una forza prodigiosa.

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Ma Obélix – il più forte di tutti loro, grazie al fatto di essere caduto da piccolo dentro il calderone della pozione magica – è anche un formidabile ingordo: e in varie occasioni lo vediamo a tavola a sbafarsi qualche cinghiale... Però il vero tripudio della tavola è alla conclusione di ogni episodio, quando cioè la immancabile vittoria di questi irriducibili Galli contro qualunque tipo di nemici (non solo i Romani, ma anche altri popoli o altre entità, come per esempio i pirati) viene celebrata con una gran baldoria alimentare: tutto il villaggio in una tavolata notturna finale alla luce delle torce, fra canti e gozzoviglie di ogni genere. Con un’unica nota stonata, alla lettera: cioè, il povero bardo del villaggio, Assurancetourix, il cui canto stentoreo e disarmonico disturberebbe insopportabilmente la tavolata, viene preventivamene legato, imbavagliato e magari appeso a un ramo di quercia, alla larga dai banchettanti.

Al di là di questa vera e propria apoteosi dello stare a tavola, anche i fumetti sembrano comunque a modo loro sottolineare quel vecchio adagio che recita “a tavola non s’invecchia”. E la tavolata si dimostra un momento di particolare aggregazione sociale. Mi piace concludere questa “passeggiata” fra le TAVOLE A FUMETTI CON

PERSONAGGI A TAVOLA (se mi si concede il bisticcio verbale) con un vero campione, fra gli autori che hanno trattato questo tema. In effetti, non altrimenti si può definire Quino (il famoso autore anche del celebre fumetto Mafalda), il quale, nella sua carriera di umorista, ha dedicato ad argomenti alimentari una quantità sia di vignette sia di tavole a fumetti. Tante e tali che, una volta raccolte, esse hanno dato adito a ben due volumi: Peccati di

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gola (Pecados de gola, 1990) e Odissea a tavola (La aventura del comer, 2007), costituenti una autentica apoteosi del rapporto cibo/vignettistica, in quanto Quino vi ha raffigurato una quantità di possibili situazioni, qualunque tipo di significato e insomma rimandi “mangerecci” di ogni genere. Peccati di gola è addirittura suddiviso in capitoletti, dal cui semplice elenco, qui di seguito, si può avere una chiara idea di quanti e quali siano gli approcci – grotteschi o realistici, surreali o di semplice gioco grafico, e via discorrendo – da parte dell’umorista: Le provviste; I cuochi; Le bevande; La scelta dei piatti; Il servizio; L’ambiente; I posti esotici; Gli spuntini; Le diete; e non manca, alla fine, Il giudizio dell’esperto.

Quanto a Odissea a tavola, il volume non è nemmeno suddiviso in capitoli, si tratta di cento pagine contenenti una sequenza ininterrotta di vignette e tavole, sempre sulle stesse tematiche del volume precedente, ma con una tale sequela di “variazioni sul tema” da lasciare sbalorditi. Un po’ per la ricchezza di fantasia manifestata dall’autore. Ma soprattutto come documentazione su quanti e quali siano i possibili rapporti psicologici intrattenuti nei confronti del cibo, da parte di chiunque di noi, i cosiddetti “consumatori”.