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Storia dell’arte Einaudi T tabernacolo Dal latino tabernaculum, derivato di taberna nel senso di cas- sa composta da assi. Nicchia o edicola architettonica con una immagine sacra po- sta lungo la strada o entro la chiesa; con significato stretta- mente liturgico, la struttura chiusa avente varia foggia collo- cata sull’altare o nelle immediate vicinanze per custodire la pisside (t eucaristico). L’uso di t architettonici dipinti o scol- piti con soggetti religiosi risulta abbastanza frequente dal pie- no Trecento (si ricorda il grandioso t di Andrea di Cione det- to Orcagna impostato secondo la struttura dei cibori e realiz- zato in marmi e mosaici del 1355-59: Firenze, Orsammichele). Per il Quattrocento sono celebri gli esemplari del Beato An- gelico – il Tabernacolo dei Linaioli –, una nicchia a foggia di armadio chiusa da due ante terminanti in una mezza centi- na per corrispondere alla tavola centrale lunettata (1433, ca.: Firenze, msm) e di Domenico Veneziano, il t dei Carnesec- chi, del 1432-37, affresco trasferito su tela (Londra, ng). Circa i t eucaristici, che cominciarono a diffondersi all’ini- zio del sec. xii, si trattava inizialmente di edicole murarie a fianco dell’altare (in cornu Evangelii o nel coro), ornate di una mostra, in genere marmorea, con rilievi allusivi all’Eu- carestia mentre, sullo scorcio del sec. xiv, oltralpe si diffon- deva l’edicola eucaristica, un t isolato su un alto piede, de- rivazioni della quale si possono rinvenire anche in Italia (si veda l’esemplare cinquecentesco di Bartolomeo Neroni, det- to il Riccio, in legno intagliato e dipinto nella chiesa di San Michele arcangelo a Civitella Paganico, Grosseto). Non è in- frequente il caso di t eucaristici dipinti, soprattutto nello sportello, da artisti di rilievo. (svr).

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tabernacoloDal latino tabernaculum, derivato di taberna nel senso di cas-sa composta da assi.Nicchia o edicola architettonica con una immagine sacra po-sta lungo la strada o entro la chiesa; con significato stretta-mente liturgico, la struttura chiusa avente varia foggia collo-cata sull’altare o nelle immediate vicinanze per custodire lapisside (t eucaristico). L’uso di t architettonici dipinti o scol-piti con soggetti religiosi risulta abbastanza frequente dal pie-no Trecento (si ricorda il grandioso t di Andrea di Cione det-to Orcagna impostato secondo la struttura dei cibori e realiz-zato in marmi e mosaici del 1355-59: Firenze, Orsammichele).Per il Quattrocento sono celebri gli esemplari del Beato An-gelico – il Tabernacolo dei Linaioli –, una nicchia a foggia diarmadio chiusa da due ante terminanti in una mezza centi-na per corrispondere alla tavola centrale lunettata (1433, ca.:Firenze, msm) e di Domenico Veneziano, il t dei Carnesec-chi, del 1432-37, affresco trasferito su tela (Londra, ng).Circa i t eucaristici, che cominciarono a diffondersi all’ini-zio del sec. xii, si trattava inizialmente di edicole murarie afianco dell’altare (in cornu Evangelii o nel coro), ornate diuna mostra, in genere marmorea, con rilievi allusivi all’Eu-carestia mentre, sullo scorcio del sec. xiv, oltralpe si diffon-deva l’edicola eucaristica, un t isolato su un alto piede, de-rivazioni della quale si possono rinvenire anche in Italia (siveda l’esemplare cinquecentesco di Bartolomeo Neroni, det-to il Riccio, in legno intagliato e dipinto nella chiesa di SanMichele arcangelo a Civitella Paganico, Grosseto). Non è in-frequente il caso di t eucaristici dipinti, soprattutto nellosportello, da artisti di rilievo. (svr).

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tableau vivantIl termine indica scene e composizioni effimere realizzatedisponendo personaggi viventi in atteggiamenti, costumi,ambienti ed espressioni conformi ai modelli iconografici diopere pittoriche o scultoree particolarmente famose. Le ori-gini dei tv si possono rintracciare nelle composizioni di sce-ne del Vangelo impersonate dai fedeli, diffuse nel Medioe-vo in occasione di particolari ricorrenze religiose; tali com-posizioni si svolgevano sui sagrati delle chiese, oppurepercorrevano l’abitato su grandi carri. A questi ultimi van-no accostati anche i Trionfi «viventi» in uso nel sec. xv, ispi-rati a soggetti sacri, mitologici, allegorici, storici. La vera epropria affermazione del tv risale alla seconda metà del Set-tecento. In tale periodo si delinea con maggiore precisioneil riferimento alle opere d’arte in gruppi plastici viventi eimmobili, che troveranno numerosi esiti in manifestazionidi carattere privato; inoltre alla fine del secolo, durante laRivoluzione francese, si verifica il fenomeno di quadri vi-venti allestiti nell’ambito di cerimonie e feste, con la parte-cipazione di J. L. David, in una dimensione pubblica e co-rale, e secondo un’iconografia idealizzante densa di reciprociscambi con i soggetti degli exempla virtutis dei dipinti coevi.Tra le matrici culturali dei tv direttamente ispirati dalle ope-re, svolge un ruolo importante il rapporto pittura-teatro. Trai primi esempi di tv si ricorda infatti una scena della comme-dia di C. Bertinazzi, Les noces d’Arlequin (Paris 1760) che ri-produceva esattamente L’accordée de village di Greuze. Inol-tre, dalla recitazione teatrale derivava la gestualità di alcuniquadri che a loro volta divennero soggetti privilegiati dei tv.Nel primo Ottocento in Francia P.-N. Guérin traeva spuntiper i gesti delle figure, per le pose e l’ambientazione delle sce-ne dei suoi dipinti dal teatro e dalla recitazione contempora-nea; in particolare nella Fedra e Ippolito (1802) si riscontrava,stando alle recensioni dell’epoca, il riferimento alla Fedra eall’Andromaque di Racine nelle interpretazioni di M.lle Du-chesnois e di Talma, due attori che innovavano la recitazionecon interpretazioni espressive e drammatiche ispirandosi allapittura di David. Il coinvolgimento tra pittura e teatro era sta-to sostenuto da Diderot che suggeriva agli attori di ispirarsiai modelli della grande pittura di storia, per esempio di Pous-sin: pareri contrari si riscontrano invece in F. Milizia.

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In epoca neoclassica il genere si diffuse soprattutto come in-trattenimento di corti e salotti, a volte anche con l’intentodi educazione del gusto (come teorizzato da Grimm), confi-gurando la tendenza a un consumo mondano degli orienta-menti artistici piú in voga.Famosi furono infatti i tv di Lady Hamilton, che si diverti-va a presentare vari soggetti effigiati sui vasi greci e romanidella collezione del marito, a volte imitandoli con precisio-ne, a volte assumendoli come spunto di ispirazione per l’in-venzione di nuove pose; col nome di Attitudes i tv di LadyHamilton furono riprodotti nelle incisioni di Vivant Denone Frederik Reheberg (1794), e probabilmente contribuiro-no alla diffusione della moda, data la celebrità e i viaggi delpersonaggio. Goethe ricorda infatti nel Viaggio in Italia(1787) i tv organizzati da Lady Hamilton a Napoli; a Lon-dra nel 1800 riscosse grande successo il suo Agrippina con leceneri dello sposo.Lo stesso Goethe (che assume i tv come un elemento chia-ve nell’intreccio delle Affinità Elettive) nel 1813 allestì peril compleanno della granduchessa Maria dei tv dal Belisarioe dal Giuramento degli Orazi di David e dalla Fedra di Gué-rin; un analogo passatempo si usava durante il Congresso diVienna (1815). Già in precedenza a Parigi, alla vigilia dellaRivoluzione francese i pittori David e J.-B. Isabey avevanopartecipato all’allestimento dei tableau historiques di M.mede Geniis alla corte del duca d’Orléans, caratterizzati ancheda intenti didattici.Nel corso dell’Ottocento i tv, pur continuando ad essere uti-lizzati come intrattenimento privato, guadagnano una di-mensione sociale piú ampia assumendo il carattere di spet-tacoli popolari e accentuando il rapporto pittura-teatro. ALondra M.me Vestris organizzò nel 1835 all’Olimpic Thea-tre spettacoli di tv (The Court of Beauties) che riproduceva-no i quadri di P. Lely; l’impresario Tournour si ispirava aquadri di Rubens e Raffaello per i grandi tv del The AncientHall of Rome; di largo successo furono anche i tv di Mada-me Wartons, al Walhalla di Londra. A Parigi si allestironotv nel Cirque e nel Théâtre della Porte-Saint-Martin, ricor-dati da V. Hugo (1864). A Napoli del 1847 l’impresario L.Keller presentava sul palcoscenico del Teatro Re i «quadriplastici» che riproducevano dipinti e statue ispirati piutto-sto liberamente a celebri pittori e scultori (Le Grazie, Co-

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rinna, Caino che uccide Abele, Arianna sulla tigre). Alla vi-cenda storica del tv si possono accostare anche le scene e ipersonaggi in costume atteggiati come composizioni pitto-riche e fotografati dai pittori dell’Ottocento per costruire ilmodello dei propri quadri (per esempio in B. Celentano). Iltermine si ritrova usato in senso generico in rapporto alleesperienze della pittura-spettacolo del Diorama di Daguer-re (1835), e, variamente, a commentare le prime esperienzedella fotografia. Ulteriori riferimenti si possono riscontrarenel contesto delle sperimentazioni dell’arte contemporanea,come in alcuni esiti della performance-art, e nel cinema (peresempio in Pasolini). (sbo).

Tabley, John Fleming Leicester, lord di(Tabley House 1762-1827). Compì il grand tour in Francia ein Italia (1785-86), in parte in compagnia di sir Richard ColtHoare, ma in quest’occasione non acquistò però alcun’ope-ra di antichi maestri. Fu tra i fondatori della British Insti-tution nel 1805: in quegli stessi anni maturò in lui l’interesseper la pittura inglese contemporanea che cominciò a colle-zionare anche su consiglio di William Carey, il quale ne ste-se in seguito un catalogo. Tali opere vennero esposte nellagalleria della sua dimora londinese, al n. 24 di Hill Street,acquistata nel 1806 e aperta al pubblico dal 1818. La colle-zione comprendeva in particolare paesaggi, tra cui undiciTurner (Alba attraverso la nebbia: Londra, ng), tre Gainsbo-rough (La porta del cottage: San Marino, Cal., Huntingtonag), opere di Callcott, Collins, Romney, Northcote, Füssli,Harlow, Hilton, Hoppner, Opie, Owen, Thomson, West. Tpropose la raccolta al governo nel 1823 come fondo inizialedi una National Gallery di arte inglese, ma l’offerta fu de-clinata e oltre la metà delle opere venne venduta presso Ch-ristie’s nel luglio 1827, mentre altre andarono disperse in se-guito. Circa un quarto della collezione si trova tuttora a Ta-bley House nel Cheshire. (jh).

TabrizCittà dell’Iran nord-occidentale a ovest del Mar Caspio e ca-poluogo della provincia dell’Azerbaijan. T fu sede di im-portanti atelier di produzione e illustrazione del libro tral’inizio del xiv e la prima metà del sec. xvi. Ovviamente, ciò

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fu dovuto alla sua temporanea importanza politica e al suoruolo di capitale sotto le dinastie ilkanide e safavide.T fu scelta come nuova capitale degli Ilkhanidi (Mongoli diPersia) alla fine del sec. xiii e un grande impulso artistico eculturale fu dato dal visir (primo ministro) Rash¥d al-D¥n ilquale fece costruire un complesso di edifici atti ad ospitarevari laboratori artigianali e artistici nei sobborghi; tale com-plesso fu chiamato Rab‘-i Rash¥di, «il Quartiere di Rash¥d[al-D¥n]». Li vennero prodotti una famosa Storia Universaleillustrata (1307-14), opera letteraria composta dallo stessovisir, e quasi sicuramente una celebre copia dello ShÇh-nÇma(1330 ca.), opera epica in versi, entrambe celebrative delladinastia ilkhanide di Persia. Il nuovo influsso della pitturacinese e la loro monumentalità pongono le due opere tra icapolavori dell’epoca ilkhanide e della pittura persiana in ge-nerale.Durante il periodo gialairide (ca. 1335-1410) T fu una del-le due capitali insieme a Baghdad, sebbene in un periodo digrande instabilità poetica. Purtroppo non ci è rimasto alcunmanoscritto illustrato di quest’epoca il cui colophon lo at-tribuisca sicuramente a T, sebbene le fonti tramandino cheera una città culturalmente molto attiva. Sotto i Timuridi,nel sec. xv, T fu una città di secondaria importanza duran-te il regno di ShÇh Rukh, ma alcuni manoscritti della secondametà del secolo testimoniano l’attività e la qualità degli ate-lier di pittura. Uno di essi è un Khamsa del poeta Ni§Çm¥ co-piato e illustrato tra il 1475 e il 1481 durante il regno diSul<Çn ©usayn M¥rzÇ, in maturo stile timuride e sicuramentea livello delle migliori produzioni della capitale Herat.Il massimo periodo di splendore degli atelier del libro a T siebbe quando il safavide ShÇh IsmÇ‘¥l decise di nominare ilceleberrimo pittore BihzÇd di Herat quale direttore della Bi-blioteca reale della città nel 1522. I migliori artisti dell’epo-ca furono riuniti a T e il mecenate ShÇh Tahmasp (regnantedal 1524 al 76), figlio e successore di IsmÇ‘¥l fu il commit-tente o il destinatario di due tra i piú splendidi manoscrittiillustrati mai prodotti: uno ShÇh-nÇma, databile tra il 1520e il 1540, oggi purtroppo largamente disperso e un tempo il-lustrato da 250 miniature, e un Khamsa di Ni§Çm¥ del1539-43 ora alla bl di Londra. In aggiunta ad essi, altri splen-didi manoscritti devono essere menzionati: un D¥wÇn di M¥r‘Al¥ Sh¥r NawÇ´¥ del 1526, uno •afarnÇma di Yazd¥ del 1529,

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e un D¥wÇn di ©Çfi§ dipinto per un altro figlio di IsmÇ‘¥l,Sam M¥rzÇ, nel 1533. Tutti questi manoscritti testimonia-no la presenza a T dei piú grandi pittori dell’epoca, da SultÇnMu®ammad a Shaykh ZÇdeh, da AqÇ M¥rÇk a M¥r Sayyid‘Al¥; essi segnano l’età d’oro degli atelier reali di T, un pe-riodo che non fu mai piú sorpassato. Quando ShÇh Tahmaspdiventò un musulmano strettamente ortodosso verso la metàdel secolo, smise di interessarsi alla pittura e alle attività ar-tistiche e il suo atteggiamento spinse gli artisti all’abbando-no di T in cerca di nuovi mecenati, in Persia e nell’India mo-ghul. Da questo momento, T divenne una città secondarianella storia della pittura persiana. (sca).

Tabuchi, Yasukazu, detto Yasse(Fukuoka 1921). Studiò storia dell’arte dal 1946 al 1951all’Università di Tokyo; dopo un viaggio in Francia nel 1951vi si stabilì. Venuto in contatto con l’astrattismo lirico, tra-sformò il suo surrealismo in una ricerca di forme lussureg-gianti e colorate. Le sue tele, popolate di frutti, fiori e pae-saggi ampiamente trasposti, s’inscrivono nella tradizione ma-tissiana. I Tre sogni (1963) recano ancora le tracce di unespressionismo che scomparirà progressivamente (Piatti pieni,1965; Frutti di mare, frutti di montagna, 1965), lasciando sem-pre piú spazio al colore. L’opera di T, esposta dapprima inBelgio e Francia (Parigi, Gall. Lucien Durand, 1955) è sta-ta oggetto di numerose mostre nei paesi scandinavi e in Fran-cia (Parigi, Gall. Ariel, 1969); l’artista ha partecipato a col-lettive come Réalités nouvelles e il Salon de Mai. (jjl).

Tacconi, Francesco(notizie fra il 1458 e il 1500). Francesco T e il fratello, Fi-lippo, vennero definiti nel 1464 dai Deputati reggenti il Co-mune di Cremona «novissimis temporibus pictores»; tutta-via l’esiguo numero di opere rimasto a testimoniare dell’at-tività di Francesco non consente ancora una ricostruzionesoddisfacente della fisionomia dell’artista.Dai documenti emergono alcuni elementi che aiutano a pre-cisare l’attività e gli spostamenti del pittore: nel 1458 e nel1460 Francesco Sforza gli concede un lasciapassare per po-ter operare liberamente anche fuori del Ducato; nel 1464,Francesco e Filippo ottengono l’esenzione perpetua dai tri-

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buti per aver affrescato una loggia nel Palazzo comunale diCremona e si impegnano a realizzare un’Annunciazione: nel1475 riceve dei pagamenti per opere realizzate a Torrechia-ra (Parma), nelle chiese di Santa Maria della Neve e di San-ta Maria delle Grazie, e nella Rocca; nel 1489 dipinge unaMadonna col Bambino (Londra, ng), ripresa da una compo-sizione di Giovanni Bellini: nel 1490 esegue per la Basilicadi San Marco a Venezia le quattro ante dell’organo; verrannosaldate nell’anno successivo.Nel 1494 la moglie, Pietra di Riccarbone Caproni, revocal’adozione del pittore parmense Filippo Mazzola. L’ultimatestimonianza sull’artista risale al 1500, quando i magistra-ti cremonesi gli commissionano un Leone di San Marco euna allegoria della Giustizia, da realizzare sulla facciata delTorrazzo verso la piazza maggiore; l’opera sarà di lì a pocodistrutta da un fulmine.Ultimamente si è proposto di ampliare il catalogo del T, at-tribuendogli gli affreschi della Camera d’Oro della Rocca diTorrechiara (eseguiti tra il 1460 e il 1463), già assegnati aBenedetto Bembo e la decorazione pittorica delle lunette ditre archi della Loggia del Palazzo comunale di Cremona, pri-ma ritenuta opera di Tommaso Aleni detto il Fadino.La formazione di Francesco T si ritiene avvenuta nella scuo-la di Benedetto Bembo; l’iniziale adesione ai modi tardogo-tici lombardi sarebbe stata mitigata sia dall’influenza di mo-tivi squarcioneschi e mantegneschi, assunti attraverso il mae-stro, sia da una piú diretta informazione della pittura veneta,ravvisabile in particolare nelle quattro ante per l’organo diSan Marco a Venezia. (mbi).

Tachibana Fujinnozushi(Tabernacolo della Dama Tachibana). Opera giapponesedell’epoca Hakuhÿ, attualmente datata agli anni 670-80, untempo al Kondÿ del Hÿryji e oggi al Museo di Nara. Si trat-ta di un monumentale reliquiario in legno di m 2,8o di altez-za, che ha serbato le sculture in bronzo; sfortunatamente in-vece le pitture che lo decoravano sono molto deteriorate,senza dubbio perché i colori erano stesi su un’imprimiturabianca di carbonato di calcio ottenuto per calcinazione diconchiglie di molluschi. Si può però individuare su questatraccia una forte influenza indiana nelle ombre del model-lato che definiscono i corpi pressoché nudi delle divinità

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buddiste rappresentate (re guardiani, buddha, bodhisattvae triade di Amida). Queste figure, realizzate con espressivodisegno, piú realistico e piú spigliato di quello del Tamar-nushinozushi (→) preannunciano lo stile realistico alla cine-se dell’epoca di Nara. (ol).

tachismeIl termine fu proposto in senso dispregiativo dal critico Pier-re Guéguen nel 1953 su «Art d’Aujourd’hui» e, cambiato disegno, ebbe immediata fortuna in Francia, collocandosi ac-canto alle espressioni «art autre», «informel», «abstraction ly-rique» nell’articolato gioco di definizione dei fenomeni ricon-ducibili alla pittura di segno e di gesto. La polemica di Gué-guen, sostenitore dell’astrazione geometrica, era diretta controCharles Estienne, che aveva presentato in una mostra alla Gal-leria À l’Etoile schellée di Parigi i dipinti gestuali di Degot-tex, Duvillier, Loubchansky e Messagier. Estienne adottò econnotò positivamente l’espressione nel testo programmaticoUne révolution: le Tachisme, pubblicato nel ’54 su «Combat»:«la macchia [tache] è il grado zero della scrittura plastica, il gra-do zero della nascita dell’opera». Il termine dunque non solosi adattava a descrivere le nuove morfologie, ma, in un con-fronto a distanza con l’espressione americana Action Painting,consentiva di risalire alle intenzioni e alle modalità tecnicheche le determinavano – fattura spontanea, rifiuto della com-posizione, idolatria del gesto immediato. Esso venne applica-to alla pittura di Michaux, Wols, Bryen, Alechinsky, Götz,conoscendo una certa fortuna anche in area tedesca. Ma al suouso si opposero sempre in Francia alcuni sostenitori dell’infor-male quali Marchand, Restany, Tapié, che se ne servirono so-lo per segnalare i sintomi incipienti di un nuovo accademismoanti-formalista, speculare a quello neoplastico. (mtr).

tacuina sanitatisLocuzione latina medievale (taccuino della sanità), è sinoni-mo di Theatrum sanitatis e titolo generico per pubblicazionidi argomento medico-igienico che nello specifico potevanoad esempio intitolarsi tacuinum aegirtudinum o tacuinum defebribus.I ts sono le prime raccolte farmacopee europee nate sotto laspinta del nuovo interesse per le scienze proprio della se-

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conda metà del sec. xiii europeo: si fondano sulla traduzio-ne di un testo del sec. xi compilato a Baghdad da un medi-co cristiano, il cui nome «occidentalizzato» suona Albulka-sem, reso noto e illustrato per la prima volta presso la cortedi re Manfredi. I ts erano sempre ornati di miniature che il-lustravano in concreto le piante officinali, la verdura, la frut-ta, acque e cibi, descritti di volta in volta nel testo e che, colpassare del tempo, iniziarono a comprendere anche scenerealistiche inerenti ai temi della coltura e dell’uso medici-nale o alimentare di ciascuna specie botanica e infine sog-getti ancora piú generici di vita quotidiana, rievocatori at-tenti e precisi di occupazioni agricole o meno legate alloscorrere delle stagioni, al ciclo dei mesi ecc. Raccolte enci-clopediche di questo genere rientrano nella produzione di-vulgativo-scientifica tipica del periodo tardogotico, ma è in-teressante notarne la diffusione e la ricchezza e varietà illu-strativa piú significativa nell’area lombarda, al cui centroMilano funge da catalizzatrice della internazionalità di in-flussi e presenze che marcano così originalmente la sua vitaartistica e che lasciano la loro impronta anche nei ts.Per il Trecento si sono identificati due gruppi di tali mano-scritti, dei quali è oggi unanimemente accettata l’origine lom-barda almeno per il piú noto dei due, animato dal linguaggioprezioso e soave dell’ouvraige de Lombardie di seconda metàdel secolo. La prima è, come accennato, il Manfredus de Mon-te Imperiali (Parigi, bn, ms lat. 6823), da cui dipende l’Hi-storia plantarum (Roma, Bibl. Casanatense, ms 459), minia-ta molto probabilmente per esser data in dono all’imperato-re Venceslao di Boemia – in occasione della visita di questi,nel 1395, al genero Gian Galeazzo Visconti, a Milano – daGiovannino de’ Grassi e bottega. Ad essa possono accostar-si il Theatrum sanitatis (ivi, ms 4182), il Tacuinum sanitatis(Vienna, Österreichische bn, ms Series Nova 2644), steso pervolontà del veronese Cerruti tra il 1390 e il ’95, nelle cui ul-time sedici miniature può rintracciarsi la mano di Lanfrancoe Filippolo de’ Veris, che appare di importanza speciale es-sendo in seguito entrato a far parte della biblioteca del prin-cipe-vescovo di Trento Georg von Liechtenstein, dove fu disicuro stimolo al tuttora anonimo frescante del ciclo dei Me-si di Torre Aquila al Castello del Buonconsiglio. Anche il Ta-cuinum della Bibl. di Rouen, del sec. xv rientra in questo

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gruppo di codici. Il Tacuinum sanitatis (Parigi, bn, lat. 1673)appartiene invece a una corrente stilistica leggermente di-versa e vi si riconosce la maniera del Maestro del Lancillot-to. Fu miniato attorno al 1380 per la figlia di Bernabò Vi-sconti, Verde, andata in sposa a Leopoldo III d’Austria e che,rimasta vedova, lo portò forse con sé allo Schloss Tirol. Nelsecondo gruppo, di cultura veneziana, cui Schlosser avevasulle prime aggregato i ts lombardi, figurano un Herbier delBm di Londra e l’Herbier di Andrea Amadio nella Bibl. Mar-ciana di Venezia, datato 1419.La fortuna dei ts dell’Italia settentrionale fu immediata eper loro tramite il nuovo rivoluzionario interesse per una re-sa precisa del dato di natura, proprio della cultura lombar-da, così come lo stile e le scelte formali che questo stesso in-teresse sosteneva e rendeva possibile, ebbero modo di pe-netrare in una vasta area a nord delle Alpi, influenzandominiatori e affreschisti dalla Savoia (lunette del loggiato delcortile del castello di Issogne) al Tirolo (Tacuinum di Mar-tinux Opifex, 1440-50 ca.: Granada, bibl. univ.), passandoper l’area dell’alto-Reno e per la Svevia (Tacuinum miniatoin uno scriptorium alemanno per Ludwig I von Württemberge Metchild von Wittelsbach, 1435 ca.: Parigi, bn, lat. 9333;Bibbia di Toggenburg, miniata per Friedrich VII von Ton-nenburg: Berlino, kk, 78 E.I). (mr + sr).

Taddeo di Bartolo(Siena 1362 ca. - 1422). Citato per la prima volta nel 1383in rapporto alla coloritura di alcune statue per la Cattedra-le senese, divenne nel marzo 1389 consigliere nel cantieredella stessa Cattedrale. Nello stesso anno compare nel Ruo-lo dei pittori senesi ed esegue un polittico per l’Oratorio diSan Paolo a Collegalli, presso San Miniato al Tedesco (ubi-cazione ignota). Nel 1393 è documentato a Genova, dovedipinge due altari, oggi perduti, per la chiesa di San Luca;nel 1395-97 è a Pisa, dove restano di lui gli affreschi dellacappella Sardi (attuale sacrestia) in San Francesco. A un se-condo soggiorno genovese risale il Battesimo di Cristo (1397)della collegiata di Triora (Imperia). Dal 1400 lo troviamo dinuovo in Toscana, operoso, oltre che nella città natale, aMontepulciano (polittico del Duomo, 1401), a Perugia (1403:pala d’altare a due facce per San Francesco al Prato, ora

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smembrata, ma conservata in gran parte alla gnu; Penteco-ste per Sant’Agostino: ivi), a Volterra (due polittici, 1411).A Siena, oltre a numerose opere su tavola e ad alcuni affre-schi perduti, dipinse nel 1406-408 gli affreschi della cappelladel Palazzo Pubblico (Storie della Vergine) e nel 1414-17 quel-li dell’anticappella (Uomini illustri e Figure allegoriche, conla nota veduta di Roma). Tra il 1402 e il 1418 risulta ancheimpegnato nella vita pubblica, ricoprendo svariati incarichi,secondo una consuetudine comune a molti pittori senesi deltempo. Morì nel 1422, lasciando erede, oltre la moglie (diorigine genovese), il pittore Gregorio di Cecco di Luca, suofiglio adottivo. Ad onta dei temi protoumanistici degli af-freschi del Palazzo Pubblico, T può essere considerato l’ul-timo esponente della tradizione trecentesca senese: la suaformazione dipende soprattutto da Francesco di Vannuccioe da Luca di Tommé, ma risale fino a Simone Martini, fil-trato attraverso l’esempio di Jacopo di Mino del Pellicciaio.Acquista così un sicuro mestiere, che oppone preziosità disuperficie e di ornato agli ideali neogiotteschi prevalenti inToscana in quegli anni (impersonati anche a Siena da Spi-nello Aretino). La sua fertilissima produzione e l’intensa at-tività svolta anche fuori Siena ne fanno un pittore di vastarisonanza, certo ben lontano dalle sottigliezze del gusto in-ternazionale, ma importante per la diffusione del gusto se-nese e capace di arricchirlo con le esperienze compiute in al-tre città, come Genova, dove trasse da Barnaba da Modenal’uso arcaico delle lumeggiature dorate e il denso chiaroscu-ro. Non del tutto chiare sono le affinità con il veronese Tu-rone e con Altichiero, che sembra riecheggiato negli edificidi sfondo dei Funerali della Vergine di Palazzo Pubblico:Brandi le spiega recuperando la notizia del Vasari di un viag-gio a Padova, al tempo di Francesco da Carrara il Giovane,che dovrebbe essere avvenuto fra il 1389 e il 1393. I cicli diaffreschi (tra cui si citano anche quelli della controfacciatadella collegiata di San Gimignano, variamente datati 1393o 1413) e le numerose opere su tavola replicano spesso levirtù di un nobilissimo artigiano, che raggiunge talvolta li-velli piú alti, come nel monumentale polittico perugino (inparticolare nella faccia con San Francesco, che preannunciail Sassetta), nella preziosa cuspide di polittico con Crocifis-sione o nell’aspro Crocifisso, n. 55 (ambedue Siena, pn). (gra).

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Tadini, Emilio(Milano 1927). Esordisce nel 1961 con una personale allaGalleria del Cavallino di Venezia; come critico e teorico d’ar-te i suoi scritti compaiono sul «Verri», Dalla fine degli an-ni Cinquanta, momento in cui inizia la sua attività di pitto-re, T sviluppa un linguaggio figurativo che si contestualizzanelle contemporanee ricerche condotte a Milano da Adami,Guerreschi e Romagnoni, e nel clima della prima ricezionedella Pop Art americana, da cui peraltro si allontana già dal-la seconda metà degli anni Sessanta. Attraverso la sua pro-duzione, dalle opere più essenziali per segno e colore, vicineper esiti all’immagine del manifesto pubblicitario (Circuitochiuso, 1970; Interno con natura morta, 1970), a quelle piúpittoriche e aneddotiche (Museo dell’uomo, 1974; Profugo,1978), l’artista conduce con ironia una personale riflessionesulla condizione umana e sul tema della modernità. Spessoarticolando il suo discorso per cicli (Vita di Voltaire, serieesposta nel 1967 allo Studio Marconi di Milano; Città italia-ne, presentata nel 1988 alla Tour Fromage di Aosta), il suo èun mondo che appare disarticolato, privo di senso logico,spesso in bilico tra il comico e il tragico, incline al grottesco.È autore di alcuni romanzi: Le armi l’amore, 1963; L’Opera,1980; La lunga notte, 1988; La tempesta, 1993.Invitato alla Biennale di Venezia nel 1978 e nel 1982, haesposto in numerose personali all’estero, specie in Belgio, aParigi e Londra. Nella stagione 1991-92 la regione Lazio gliha dedicato una retrospettiva svoltasi a Palazzo Rondanini.(mal).

Taeuber-Arp, Sophie(Davos 1889 - Zurigo 1943). Frequentò le scuole d’arti e me-stieri di San Gallo, Monaco e Amburgo specializzandosi neitessuti. Nel 1915 a Zurigo incontrò Arp, col quale si sposònel 1922, e con lui partecipò al movimento Dada: in questianni (1916-29) insegnò alla Scuola d’arti e mestieri di Zuri-go. Dal 1926-28 realizzò insieme al marito e a Theo van Doe-sburg l’arredo e la decorazione del caffè l’Aubette a Stra-sburgo (progetto al Museo di Strasburgo). Dal 1928 al 1940abitò a Meudon, nei pressi di Parigi, in una casa da lei stes-sa progettata. Nel 1932, dopo aver esposto nel 1930 colgruppo Cercle et Carré, entrò nel movimento Abstraction-

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Création, fondando la rivista «Plastic» (1937-39). La guer-ra la condusse col marito in Dordogna, poi a Grasse(1941-43), dove incontrò Sonia Delaunay e Alberto Magnellie infine nuovamente a Zurigo. La sua produzione compren-de dipinti e rilievi, opere di scultura e d’arte applicata; si de-dicò anche alla danza (esibendosi in alcune rappresentazio-ni dadaiste al Cabaret Voltaire) e nel 1918 ideò le originalimarionette per il Re Cervo di Gozzi. Sin dal 1916 i sogget-ti delle sue composizioni sono forme essenziali, quadrati erettangoli vivacemente colorati, disposti perpendicolarmen-te (Composizione verticale-orizzontale, 1916: Parigi, coll. F.Arp). Negli anni successivi vi introdusse cerchi, poi curveasimmetriche raffiguranti animali od oggetti stilizzati; da al-lora tutta la sua opera alternò ondulazioni lineari al piú rigo-roso e chiaro geometrismo, avvalendosi di colori elementari(Composizione di circoli, piccoli circoli e rettangoli, 1930: Ber-na, km; Equilibrio, 1931: Basilea, coll. Müller-Widmann),accostandosi talvolta a van Doesburg. Dal 1936 realizzò ri-lievi in legno: forme geometriche semplici, applicate su fon-di rettangolari o circolari (Rilievo rettangolare, cerchi tagliati,rondelle su steli, 1936: North Field, Usa, coll. F. Witzinger).È rappresentata specialmente a Basilea (Museo), a Zurigo(kh e Museo delle arti decorative), Parigi (mnam), Phila-delphia (am, coll. Gallatin), Otterlo (Kröller-Müller) e aWinterthur. (bz).

TaglienteSito preistorico situato nel comune di Grezzana in provin-cia di Verona. I reperti finora rinvenuti documentano unapresenza umana di circa 80 000 anni. Da datarsi tra il 13 500e l’11 000 a. C. sono alcuni reperti di osso e pietra con raf-figurazioni animali. Tra le piú famose un leone inciso su unblocco che faceva parte di una sepoltura e un magnifico stam-becco, sicuramente uno dei piú belli di tutto il Paleoliticosuperiore, inciso su un ciottolo fluviale. (agu).

Tagore, AbanindranÇth(Jorasanko 1887 - Calcutta 1951). Fratello del pittore Go-gonendranÇth T e cugino di RabindranÇth T, prese lezionidi pittura da artisti europei che insegnavano nella Scuola dibelle arti di Calcutta (l’inglese Palmer e l’italiano Ghilardi).Cultore della tradizione indiana, tra le sue opere piú anti-

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che si trovano illustrazioni della vita di Krishna. Non tardòperò a trovarsi a disagio nel conciliare la propria formazio-ne artistica europea con l’ispirazione indiana: risolutivo ful’incontro con Havell (1897), nuovo direttore della Scuoladi belle arti di Calcutta, che gli rivelò la bellezza delle anti-che scuole di pittura dell’India moghul e rÇjput la cui in-fluenza, congiunta a quella dell’arte giapponese, è semprepresente nelle sue opere. Divenne egli stesso vice-direttoredella Scuola di belle arti e dipinse tele fortemente ispiratedall’arte moghul: la Costruzione del TÇj (1907) o La morte di√Çh JahÇn (1908); in seguito illustrò poesie di Omar Khayam.Nel 1914, le sue opere e quelle dei suoi allievi vennero espo-ste a Londra e poi a Parigi (Grand Palais). Svolse una fun-zione essenziale nelle attività dell’Indian Society of Orien-tal Art, impegnata nella rinascita delle tradizioni artistichee dell’artigianato indiano. Il suo uso dell’acquerello e la suatecnica attingono con eclettismo all’arte europea, partico-larmente alla pittura preraffaellita (L’ultimo viaggio di Ra-bindranÇth Tagore, 1941 richiama La morte di Ofelia di Mil-lais); l’artista rivela un animo incline al romanticismo e alleforme ideali, che inscena in un’atmosfera surreale. Suo mas-simo merito resta soprattutto il ruolo che svolse nell’affran-care l’arte indiana dall’accademismo della pittura britanni-ca. Scrisse numerose opere di estetica. (jfj).

Tagore, GogonendranÇth(? 1867 - Calcutta 1938). Membro della celebre famiglia ben-galese dei T. fu fratello maggiore del pittore AbanindranÇthT e cugino del poeta RabindranÇth T. Prese parte attiva almovimento di rinnovamento artistico nazionale e divenne ilgrande animatore dell’Indian Society of Oriental Art, isti-tuzione che svolse un ruolo importantissimo a Calcutta neiprimi anni del sec. xx. Le sue prime opere, schizzi di pae-saggi eseguiti intorno al 1905, tradiscono l’influsso degli ar-tisti giapponesi che frequentavano allora la famiglia T. Inparticolare si interessò alle teorie di Okakura Kakuzÿ. Rea-lizzò caricature per diversi giornali e riviste dopo il 1916; inseguito descrisse nei suoi acquerelli le scene della vita quo-tidiana bengalese. Eseguì studi di paesaggi himalayani e sog-getti leggendari della tradizione mitologica indiana. Artistaeclettico, fu personalità aperta alle suggestioni dei movi-

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menti artistici occidentali contemporanei come il simboli-smo, futurismo, ma soprattutto il cubismo che marca spe-cialmente le opere a inchiostro degli anni Venti. Tuttaviadell’esperienza cubista recepisce solamente le innovazioni ditipo formale, non tanto le problematiche teoriche. (jfj).

Tagore, RabindranÇth(Calcutta 1861 - ÂÇntiniketan (Bengala) 1941). Cugino diGogonendranÇth T, praticò la poesia dall’età di tredici an-ni. Fu uomo di lettere, e vinse il premio Nobel per la lette-ratura nel 1913. Spirito cosmopolita e grande viaggiatore,partecipò assai attivamente al movimento di rinascenza cul-turale indiano in ogni campo; si interessò anche all’arte scri-vendo testi teorici e dedicandosi – da autodidatta – alla pit-tura che coltivò in tarda età, specie dal 1928. La sua pittu-ra tratta spesso soggetti allucinati, ed è popolata da esseriche sembrano fantasmi creati dal suo inconscio; talvolta ildisegno e i colori, in uno sforzo di «primitivismo» e di spon-taneità, richiamano le creazioni infantili. L’influsso dell’ec-cezionale personalità di T è stato assai forte su parecchi ar-tisti, d’altronde sensibili alle sue idee estetiche piú che allasua tecnica. La famosa Università che T creò nel 1922 nel-la residenza del padre a ÂÇntiniketan fu luogo d’incontro perartisti di tutto il mondo e centro di diffusione del pensierodi RabindranÇth T. Molti suoi dipinti e disegni sono espo-sti nelle sale della ng of Modern Art di Nuova Delhi. (jfj).

Tahull(provincia di Lerida, Spagna). La valle di Bohi si apre nelcuore dei Pirenei, nella regione isolata e povera del nord-ove-st della Catalogna. Nel sec. xii era dominio dei signori diErill, vassalli dei conti di Pallars: arricchitisi con le vitto-riose campagne contro i musulmani del bacino dell’Ebro, fe-cero costruire a T le due chiese di San Clemente e di SantaMaria, consacrate rispettivamente il 10 e l’11 settembre1123. La cerimonia è ricordata da un’iscrizione dipinta suuno dei pilastri della chiesa di San Clemente, un edificio ar-caico, a tre navate con copertura lignea, concluse a est da treabsidi voltate. Notevoli sono soprattutto gli affreschi chedecoravano l’abside principale e una delle absidi minori, oraconservati al mac di Barcellona. Il grande catino recava l’im-magine del Pantocrator apocalittico circondato dagli anima-

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li del Tetramorfo, portati da angeli e serafini: l’apparizionesi distacca su un fondo blu che risalta con l’oro della man-dorla; gli animali scartano, come spaventati dalla teofania.Al di sotto di questa rappresentazione, una fila di arcate ine-guali protegge la Vergine e gli Apostoli; completano l’insie-me l’insolito Agnello dai sette occhi, dipinto nella chiavedell’arco di ingresso al coro, e la mano divina benedicenteche si scorge alla sommità dell’arco antistante l’abside. De-gli affreschi che decoravano le pareti restano soltanto le im-magini del patriarca Giacobbe e di Lazzaro, coricato davan-ti alla porta del ricco malvagio: essi mostrano un gusto nar-rativo piú spiccato rispetto a quelli dell’abside e confermanoil Maestro di T figura di primissimo piano nel quadro dellapittura romanica spagnola ed europea. L’espressione di mae-stà e gravità è ottenuta mediante l’impiego, spinto all’estre-mo, delle convenzioni stilistiche romaniche: geometrizzazio-ne delle pieghe delle vesti e dei tratti del viso, fondi ridotti abande parallele variamente colorate, cornici architettonichemolto piatte; la straordinaria ricchezza cromatica accrescel’effetto di irreale splendore.Il Maestro di T sembra si sia formato in ambiente lombar-do e piemontese, ma appare piú ardito nelle sue sistemati-che stilizzazioni, derivanti, secondo il Grabar, dalle tradi-zioni mozarabiche. La mano del medesimo frescante, che in-fluenzò numerosi artisti attivi nella regione, si riconoscenella decorazione di una delle absidi minori della vicina Cat-tedrale di Roda de Isabeña, il cui vescovo, Raymond de Dur-ban, consacrò le chiese di T.Fra i seguaci del Maestro attivo a San Clemente ricordiamoil frescante incaricato della decorazione del catino absidaledi Santa Maria, edificio il cui impianto era originariamentesimile a quello di San Clemente. L’abside principale è dedi-cata all’Epifania, affrescata sulla volta, mentre sulle paretisottostanti troviamo gli Apostoli, secondo una disposizioneanaloga a quella di San Clemente; medaglioni ornano il ba-samento inferiore. Sulla volta del coro si scorgono figure disanti, angeli, evangelisti e l’Agnello divino tra Caino e Abele(Barcellona, mac). L’autore, cui si attribuiscono general-mente gli affreschi castigliani di Maderuelo e una parte diquelli di San Baudel di Berlanga, utilizza i medesimi proce-dimenti e colori del Maestro di T, ma le sue forme sono piú

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pesanti e i volti meno riusciti. Un terzo pittore, assai mal-destro, ha lasciato sei figure d’angeli e qualche altro fram-mento nelle absidi minori di San Clemente, mentre sonoquasi del tutto perduti, a causa delle successive trasforma-zioni della chiesa, gli affreschi che aveva dipinto sui muri esul retro della parete occidentale di Santa Maria: restano laLeggenda di san Clemente, la Storia dei Magi, la Storia di Zac-caria, Davide e Golia e il Giudizio Universale. L’immagina-zione ingenua di questo artista riscatta un poco la medio-crità del suo lavoro. L’iscrizione dipinta su un pilastro di SanClemente di T ricorda la consacrazione dell’edificio nel1123: secondo alcuni studi questa iscrizione non fornisce néla vera data della chiesa, né quella della sua decorazione mu-rale. Si è pertanto proposto di far risalire quest’ultima al sec.xi, epoca in cui dovette cominciare a forgiarsi, partendo daapporti stranieri o mozarabici, l’arte pittorica catalana, prin-cipalmente negli scriptoria dei grandi monasteri, e in parti-colare in quello di Ripoli. Se si potesse verificare questa ipo-tesi, occorrerebbe rivedere l’intera cronologia generalmen-te accettata per la pittura romanica catalana: essa, in effetti,si fonda in parte sulla data di consacrazione del 1123, non-ché sull’epoca probabile della presenza del Maestro di Ma-deruelo in Castiglia. Resta tuttavia difficile precisare i lega-mi tra le miniature conservatesi e lo stile dei pittori di T.Un’altra interpretazione è stata proposta da S. Alcolea e daJ. Sureda: l’iscrizione del 1123 sarebbe stata dipinta dal fre-scante del Giudizio Universale e consentirebbe soltanto didatare la sua opera; il Maestro di T e quello di Maderueloavrebbero operato un poco piú tardi. (jg + sr).

Taiga(nome d’arte di Ikeno Arina; 1723-76). Iniziato giovanissi-mo alla calligrafia, con eccellenti risultati, il giapponese Taveva esordito illustrando ventagli nello stile Tosa quando,per influsso di precursori come Nankai, cominciò a studia-re lo stile cinese letterato dei paesaggi. Compì molti viaggiper studiare direttamente la natura del suo paese, percor-rendone a piú riprese le principali montagne (Monte Fuji, loHakusan). Oltre a paesaggi immaginari alla cinese, T eseguìnumerose vedute giapponesi dal vero, alcune a inchiostro ecolori leggeri, altre in oro e colori su carta. La sua libertà dispirito e il suo eclettismo ne fecero il riferimento per una

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plèiade di pittori che si rifacevano al nanga, pittura che eglisviluppò con Buson, suo amico, di cui condivideva la rea-zione contro il realismo accademico della scuola Maruyama.Tra i suoi discepoli i migliori, oltre sua moglie Ikeno Machidetta Gyokuran, furono Kaiseki, Kuwayama Shisan dettoGyokush (che fu soprattutto un teorico del nanga) e SatakeSeii detto Hÿhei (numerosi paraventi di paesaggi al mn diTokyo; Saggi nel loro ritiro in montagna, dieci fusuma alloHenjÿkÿin del Kÿyasan, Wakayama). (ol).

Tailandia o SiamL’arte pittorica tailandese comprende – oltre a pitture in lac-ca dorata, rilegature, manoscritti – pitture murali eseguite atempera, spesso molto deteriorate per cause climatiche e peril degrado degli edifici in cui si trovano. Di conseguenza, la lo-ro evoluzione non può essere seguita se non a partire dal pe-riodo di Sukhodaya (xiv-xv secolo), durante il quale si affer-mano le caratteristiche particolari dell’arte tailandese: flessi-bilità ondulata delle linee e dei contorni, penetrante sensibilitàdel modellato. Nella pittura, come nella scultura, si ritrovanogli stessi volti ovali dalle sopracciglia arcuate e l’estrema fles-sibilità delle mani. Influssi provenienti da Ceylon vi si pale-sano, precedendo altri apporti provenienti dalla Birmania.Svariate tendenze s’incontrano nelle opere del periodo diAyudhyÇ (1350-1767), con una preponderanza di elementiiconografici e stilistici tailandesi. Agli schieramenti deibuddha, disposti in una serie di registri, seguono composizionidai raggruppamenti piú complessi, i cui colori insoliti, soven-te uniti, corrispondono al gusto indigeno. A partire dal sec.xv compare qualche elemento cinese: è introdotto così l’usodi fondali montuosi. Dall’inizio del sec. xvii i dipinti muraliraggiungono eccellenti risultati per l’armonia delle tonalità el’estrema purezza delle linee. È stata segnalata un’affinità trai personaggi delle scene dipinte e quelli del teatro; le stesse ti-pologie, chiaramente prestabilite, si ritrovano nella descri-zione degli dèi, degli eroi e dei personaggi di alto rango. Il lo-ro aspetto stilizzato contrasta con quello delle persone di piúumili origini, trattati con realismo e sovente con vivacità. Unafauna mitologica si sovrappone a un bestiario familiare; gliepisodi, spesso inquadrati da una cornice architettonica, so-no talvolta accompagnati da elementi paesaggistici.

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La pittura del periodo di Bangkok dopo il 1782, pur rive-landosi una continuazione dello stile d’AuydbyÇ, introducealcuni elementi nuovi. Accanto ai temi buddisti abituali com-paiono soggetti letterari ed episodi della vita quotidiana.Durante la seconda metà del sec. xix, l’influenza europeacausò un impoverimento della pittura tailandese; dopo l’ini-zio del nostro secolo, essa ha attuato un recupero delle ten-denze nazionali tradizionali, dando così vita ad opere di ele-vata qualità.Paraventi e armadi, decorati con lumeggiature dipinte su lac-ca, su tela e su carta, così come le illustrazioni dei mano-scritti presentano gli stessi caratteri di stilizzazione e di ele-ganza, specie nelle figure principali e, occasionalmente, mo-strano un forte naturalismo e un accento caricaturale neipersonaggi secondari, gli esseri demoniaci e gli animali. So-no rappresentati episodi della vita del Buddha e delle sueesistenze anteriori ma anche scene popolari. Diversi insiemidi miniature del xvi e xvii secolo sono consacrati alla raffi-gurazione dei «Tre Mondi» (cielo, terra e inferno) e rivela-no un’evoluzione stilistica comparabile a quella della pittu-ra murale. Quest’iconografia e quest’estetica dominaronol’arte della Cambogia dopo il declino dell’impero khmer, se-guito, a partire dal sec. xv, da un crescente apporto d’in-fluenze culturali, e piú ancora religiose, di origine tailande-se. (mba).

Taillasson, Jean Joseph(Bordeaux 1745 - Parigi 1809). Allievo di Lavau e di Vien,studiò a Parigi (1764-71) e a Roma (1772-75). Accolto nel-le Accademie di Bordeaux (1766) e di Parigi (1764; Ulisse eNeottolemo sottraggono a Filottete le frecce di Ercole, 1764:Blaye, Musée d’Histoire et d’Art), esordì con la Nascita diLuigi XIII (1783: castello di Pau). Il Timoleonte (esposto alSalon del 1796, ora a Tours, mba; bozzetto al Museo diMontauban) attesta l’adesione al neoclassicismo di Vien. Sesi fa eccezione per Virgilio che legge l’Eneide (1787: Londra,ng) e Olimpia (1799: ivi), le sue opere principali si trovanopresso il Museo di Blaye (Gironde); in particolare la Mortedella moglie di Seneca (1793) ed Ero e Leandro (1798). Ha la-sciato uno scritto: Observations sur quelques grands peintres(1804). (mnv).

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Taima mandara(Mandara del Taima). Arazzo giapponese del sec. viii con-servato nel tempio Taimadera di Nara; è eseguito in filo diseta e rappresenta il Paradiso di Amida. Molto deteriorato, iframmenti sono oggi riportati su un dipinto che riproducelo stesso soggetto; seppur debolmente, consente di rievoca-re la pittura dell’epoca di Nara, ispirata alle grandi compo-sizioni cinesi dei Tang, quali possono vedersi in particolarea Tuen-huang. (ol).

Taine, Hippolyte-Adolphe(Vouziers 1828 - Parigi 1892). Frequenta la Scuola norma-le di Parigi, studia Hegel e Spinoza, si appassiona alle scien-ze naturali. L’apprezzamento del mondo accademico fran-cese giunge con la pubblicazione delle opere scritte tra il1856 e il 1863 (tra cui Les philosophes français du xixe siècle,1857; Essai de critique et de histoire, 1858; Histoire de la litté-rature anglaise, 1863). Visita l’Italia (oltre che Francia, In-ghilterra, Belgio, Germania) e ne riporta uno scritto (Voya-ge en Italie, 1865) in cui le osservazioni sulle opere d’artespesso si rifanno a quelle di Vasari e Ridolfi. Dal 1864 in-segna estetica e storia dell’arte all’Ecole des beaux-arts e du-rante i corsi perfeziona il suo sistema filosofico, improntatoal positivismo. Dai suoi scritti (Philosophie de l’art, 1865;Philosophie de l’art en Italie, 1866; De l’ideal dans l’art, 1867;Phitosophie de l’art dans les Pays-Bas, 1868) emerge la con-cezione deterministica di larga fortuna secondo cui tre fat-tori intervengono nella produzione di un’opera d’arte: la raz-za, l’ambiente, l’epoca, e non la creatività individuale. Se Tha il merito di non isolare l’opera d’arte, inserendola nell’am-bito della scuola e confrontandola con l’intero corpus dell’ar-tista, tuttavia secondo L. Venturi commette l’errore di con-siderare quel milieu la «causa» della pittura. Si avvertono inT i pregiudizi dell’idealismo, laddove egli considera perfet-ta la pittura rinascimentale, pur affermando di accettare tut-te le scuole e i gusti. Le idee di T hanno comunque contri-buito alla comprensione del rapporto tra produzione artisti-ca e vita sociale, mettendo in evidenza fenomeni primalasciati in disparte o non apprezzati, come quelli della pit-tura olandese. (ldm).

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Takanobu, Fujiwara(1143-1206). Poeta stimato e funzionario alla corte di Ka-makura, T fu qui uno dei collaboratori di Mitsunaga, per ilquale dipingeva le figure umane, suscitando scalpore per ilrealismo e la somiglianza delle sue rappresentazioni di cor-tigiani. Si dice eseguisse i ritratti dell’imperatore Go Shi-rakawa e dei quattro suoi ministri; lo Jingoji di Kyoto neconserva tre, il piú celebre dei quali è quello di Minamoto-no Yoritomo. L’opera di T venne ripresa e proseguita dal fi-glio Nobuzane. (ol).

Takanobu, Kanÿ(1571-1618). Fu allievo di Eitoku, suo nonno. Gli si attri-buisce il Paesaggio con ciliegi e fagiani che decora il castello diNagoya, eseguito nello stile tradizionale dei Kanÿ, nonché ladecorazione delle porte scorrevoli conservate nell’am di Seat-tle, sul tema delle Quattro distrazioni. Come il soggetto (temaclassico della pittura letterata cinese che rappresenta i nobilipassatempi del gentiluomo: calligrafia, pittura, musica e gio-co degli scacchi), anche la composizione e la decorazione de-rivano direttamente dalla pittura accademica e sono rivela-tori della forza degli influssi cinesi sui Kanÿ; tuttavia, l’ef-fetto sontuoso dei colori, stesi a vaste zone piatte, l’impiegodi un fondo oro, il trattamento decorativo dei rami di alberidenunciano a prima vista una mano giapponese. (ol).

Takeuchi, Seihÿ(1864-1942). Iniziato allo stile della scuola Maruyama-Shijÿ,docente alla Scuola di belle arti di Kyoto, T praticò il lavisa inchiostro monocromo cinese e subì l’influsso della pittu-ra occidentale, in particolare della prospettiva geometrica.Elementi questi che combina con intelligenza nelle sue ope-re di grande formato (Giorno di pioggia: Parigi, mnam).Fu inoltre dotato pittore di animali, eccellendo nel tratta-mento a linee sottili del pelame delle cerbiatte (Calda giorna-ta di primavera: paraventi della coll. imperiale, Tokyo). (ol).

Tal-Coat (Pierre-Jacob, detto)(Clohars-Carnoët 1905 - Saint-Pierre-de-Bailleul (Eure)1985). Autodidatta, è attivo dapprima come scultore, sottol’influenza di Rodin. I suoi primi pastelli, quadri e disegni

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(eseguiti in Bretagna tra il 1926 e il 1927) partecipano delrealismo espressivo del dopoguerra. A Parigi nel 1932, nel1935 entra in contatto con il gruppo Forces nouvelles (Roh-ner, Humblot, Lasne). Sono di questo periodo il Ritratto diGertrude Stein (1935: Parigi, Gall. Henry Bénézit) e i ciclidi figure femminili.Il periodo della guerra civile spagnola coinciderà con la sco-perta di una vena picassiana (serie di autoritratti, 1935-36;vari ritratti di Gertrude Stein; serie dei Massacri, 1936-37)caratterizzata dall’uso di un colore espressionistico e inten-so; nello stesso periodo produce sculture di piccolo formatodi impronta marcatamente giacomettiana.Per T-C sarà decisivo il periodo di Aix-en-Provence (1940-1954) intervallato da soggiorni parigini e in Borgogna; se-gnerà infatti una meditatissima fase di transizione verso unasensibilità differente di cui fanno fede i paesaggi per certiaspetti vicini a De Staël e assai prossimi all’informale. Pa-rallelamente è intensa l’attività grafica (litografie) e dise-gnativa.Gradualmente la tavolozza di T-C andrà smorzandosi, man-tenendo i bruni, i grigi e gli ocra che caratterizzano i suoipaesaggi (la serie delle Fonti e delle Cascate, 1947-48), finoa pervenire ad una austera monocromia la cui tattilità man-tiene la nostalgica risonanza di un’immagine non piú rico-noscibile (Pittura, 1967), Nel 1964 realizza un importantemosaico per la Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence.Nel 1976 gli viene dedicata una retrospettiva al Grand Pa-lais di Parigi dove è altresi rappresentato al mnam e al mam.(mas).

Tallard, Marie Joseph d’Hostun, duca di(Parigi? 1683-1755). Figlio di Camille d’Hostun, maresciallodi Francia e nominato duca di T nel 1715, successe al padrenelle sue funzioni di governatore della contea di Borgognae della cittadella di Besançon. Giuntovi nel 1728, svolse nel-la città un ruolo decisivo nel campo dell’arte e della culturaproteggendo e offrendo ospitalità ad attori e musicisti. Nel1752 fondò l’Accademia di Besançon, con sede nel PalazzoGranvelle, istituzione promotrice di opere letterarie. La suaprestigiosa collezione di dipinti crebbe sulle grandi venditepubbliche parigine (acquistò le raccolte della contessa de

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Verrue, del principe di Carignano, di Crozat): non ancoracaratterizzata dalla passione per gli intimisti olandesi (magià vi compare un Rembrandt, Ritratto di Saskia: oggi a Lon-dra, ng), la sua collezione era informata da uno spirito clas-sico. La pittura italiana del sec. xvi e del xvii era rappre-sentata da Veronese, Bassano, Andrea del Sarto, Pietro daCortona, Cignani, Fetti (del quale T possedeva repliche del-la Malinconia e della Vita campestre), Domenichino, Guerci-no, Reni. Oltre a questi, erano presenti alcune opere fran-cesi del sec. xvii e nomi fiamminghi: Rubens, van Dyck. Al-la fine della sua vita, T intraprese una raccolta di disegni divari maestri, il cui nucleo maggiore proveniva dalla venditaCoypel. La qualità del gabinetto del duca è attestata da Ma-riette, che probabilmente collaborò alla compilazione del ca-talogo della vendita, avvenuta il 22 marzo 1756: redatto daRémy e Glomy, il catalogo fu in ogni caso guardato con at-tenzione dal Mariette, il quale, nel suo Abecedario, ricordanumerosi quadri della Galleria. La vendita costituì un av-venimento la cui fama oltrepassò le frontiere; tra gli acqui-renti vi furono infatti il re di Prussia, collezionisti inglesi, ilduca di Parma. Quest’ultimo, in particolare, acquistò laCleopatra di Guido Reni e la Presentazione al Tempio del Ve-ronese, considerata da Mariette un capolavoro. Federico IIcomperò la Santa Cecilia di Rubens, che in seguito passò aBerlino (sm, gg), e un’Adorazione dei Magi dello stesso mae-stro. La stessa provenienza è attestata per Meleagro e Ata-lanta e il Ritratto di Marie Clarisse de Woverins di Rubens, oraalla gg di Dresda; infine, dello stesso pittore la ng di Lon-dra conserva l’Abbeveratoio, acquistato dai duca di Monta-gu. (gb).

Talpino, Salmeggia, Enea, detto il

Tamagni, Vincenzo(San Gimignano 1492-1530 ca.). Alla metà del primo de-cennio del Cinquecento il T è fra gli aiuti del Sodoma per gliaffreschi nel chiostro di Monte Oliveto Maggiore. Dal 1510al ’12 è a Montalcino, dove lavora a fresco – rivelando in-fluenze dal vercellese – nella chiesa di San Francesco e nelloSpedale di Santa Maria della Croce (nel 1511 è in carcere perun debito col Sodoma). Nel ’16 esegue, insieme a Giovannida Spoleto, un affresco (Storie della Vergine: Santa Maria ad

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Arrone) ove evidenti riflessi delle novità romane – accanto auna componente senese soprattutto di matrice peruzzesca– denunciano un precedente viaggio a Roma. Piú sicuro è in-vece il suo intervento, successivo ai lavori in Umbria, nelleLogge, già documentato dal Vasari, che informa anche di ta-lune decorazioni per facciate di palazzi. Tornato al paese na-tale, forse dopo la morte di Raffaello, Vincenzo dipinge nel1522 una Madonna in trono e santi per San Girolamo e nel1523 una Natività di Maria per Sant’Agostino. Di poco po-steriore dovrebbe essere a Siena l’affresco con la Guarigionedi Matteo Cenni nell’Oratorio di Santa Cateria in Fonte-branda (1525 ca.). Negli anni che lo separano dalla morte ilpittore lavora, a parte una nuova e breve puntata a Roma frail ’25 e il ’27 in cui è stata ipoteticamente collocata la sua par-tecipazione agli affreschi di Villa Lante al Gianicolo, quasisempre in provincia e in area d’influenza senese; del ’25 èuna Madonna e santi per Pomarance, del ’27 è una Vergine del-la cintola nella Madonna del Soccorso a Montalcino, del ’28è l’Incontro di Anna e Gioacchino a Istia d’Ombrone. Poi dinuovo incarichi nella sua città natale: un affresco nel mona-stero di Santa Caterina (1528) e ancora affreschi in Sant’Ago-stino (1529); tutte opere di qualità discontinua e con riferi-menti a culture figurative fra loro differenti: non solo roma-na e senese, ma anche fiorentina. (an).

Tamamushinozushi(Tabernacolo del Tamamushi). Opera giapponese dell’iniziodel sec. vii, conservata nel Hÿryji di Nara. Si tratta di unreliquiario, di m 2,10 di altezza, realizzato in cipresso giap-ponese a forma di tempio in miniatura montato su un altozoccolo; trae il nome dall’appellativo giapponese di un co-leottero, Chrysochroa fulgidissima, le cui elitre iridescenti ser-vivano un tempo da fondo alle lastre di bronzo dorato etraforato correnti sul bordo dei pannelli (tamamushi signifi-ca letteralmente «insetto prezioso»); le sculture che conte-neva sono andate perdute nel sec. x.Di grande interesse la decorazione, a cinque colori su un fon-do laccato nero. Le ante e le pareti esterne del tempio in mi-niatura sono decorate con guardiani celesti e bodhisattva; lozoccolo, che è la parte piú rimarchevole, è adorno di scenedi jÇtaka. I diversi pannelli non sembrano dovuti tutti alla

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medesima mano, e pare che nella decorazione del taberna-colo siano intervenuti artisti coreani; la gamma di colori– ocra rosso, ocra giallo, verde, bruno e bianco – come gliarabeschi delle tracolle, sono assai vicini allo stile cinese del-le Sei Dinastie. (ol).

Tamayo, Rufino(Oaxaca 1899 - Città del Messico 1991). Giovanissimo(1907), T si trasferisce con i genitori zapotechi a Città delMessico. Rimasto orfano nel 1911, segue segretamente deicorsi serali di pittura (1916-17), iscrivendosi poi all’Acca-demia, che lascia nel ’21 perché troppo conservatrice. Vie-ne nominato direttore del dipartimento di disegno etnogra-fico del Museo Nazionale di Archeologia, luogo dove trovadi che alimentare il suo interesse per le tradizioni artisticheprecolombiane. Nel ’26 la prima personale a Città del Mes-sico, seguita da una a New York: mostre in cui T già appa-re in contrapposizione rispetto all’allora imperante gustomessicano propagandistico e celebrativo, specie nei murales(Messaggeri del vento, 1928: Città del Messico, coll. priv.).Infatti, se nei primi lavori è ancora evidente l’influenza deitemi rivoluzionari di Diego Rivera (Musica, 1933, murale:Città del Messico, Scuola Nazionale di Musica), col passaredegli anni T si rivolge sempre di piú all’espressività lirica esimbolica del rapporto colore-forma, lasciando da parte il rea-lismo socialista (Cane urlante, 1942: Los Angeles, coll. priv.).A partire dal 1936, le permanenze a New York si fanno sem-pre piú lunghe e frequenti e T espone in diverse gallerie, ol-tre a insegnare alla Dalton School e alla Brooklyn MuseumArt School. L’influenza degli artisti presenti nei musei ame-ricani, da Picasso a Miró, porta T ad assimilare e reinterpre-tare le lezioni del cubismo e del surrealismo, conferendo aisuoi lavori un afflato simbolico non privo di un senso uni-versale, cosmico della storia (murale della Hillyer Art Library,1943: Northampton, Mass., Smith College; Musici addor-mentati, 1950: Città del Messico, mam). Finalmente, nel1948 il governo messicano riconosce l’importanza di T e glidedica una retrospettiva all’Instituto Nacional de Bellas Ar-tes. Gli anni ’50 sono forse i piú fertili e significativi per T,sia per quanto riguarda la sua vena espressiva, sia per le mo-stre cui partecipa e i murales che realizza (La nascita del na-zionalismo e Messico oggi, 1952-53: Città del Messico, Pala-

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cio de Bellas Artes; America, 1955: Houston, Bank of TheSouthwest; Prometeo porta il fuoco all’uomo, 1958: Parigi,Palazzo dell’Unesco). Dal 1957 al’64 vive a Parigi, interes-sando il mondo dell’arte per il suo personale uso dei colorivinilici, che donano ai quadri effetti di brillantezza. La ca-pacità di fondere le tradizioni messicane, come quella delleceramiche «Techichis» preispaniche (Animali, 1941: NewYork, moma), con il modernismo del sec. xx (Terra d’erosio-ne, 1972: New York, coll. priv.) lo rende sfuggente alle clas-sificazioni, situandolo allo stesso tempo ai primissimi postitra i pittori latinoamericani. T ha partecipato alle piú im-portanti manifestazioni artistiche a livello mondiale (Bien-nale di Venezia 1950 e 1968; Biennale di San Paolo 1953;Documenta 2, Kassel 1959) e varie sono le retrospettive de-dicate a lui (Tokyo 1963; Città del Messico 1968 e 1987; TheSolomon R. Guggenheim Museum, New York 1979; Centrode Arte Reina Sofia, Madrid 1988). Nel 1974 T ha donatoalla città di Oaxaca la sua importantissima collezione di ce-ramiche e sculture preispaniche (circa 1300 pezzi) e l’edifi-cio stesso del museo che la ospita. Inoltre, nel 1981, vieneaperto a Città del Messico il Museo Internacional de ArteContemporaneo a lui intitolato, costruito per ospitare la do-nazione di T di centinaia di opere di 168 artisti, oltre alleproprie (Omaggio alla razza indiana, 1952). (dc).

Tamburi, Orfeo(Jesi 1950 - Parigi 1994). Inizia la propria vicenda pittoricaa Roma sotto l’egida di Scipione e di Mafai. Il rifiuto costantedelle scuole gli permette però di sviluppare una ricerca auto-noma e libera da condizionamenti. Collabora a numerosi gior-nali e riviste, ed è presente nelle principali mostre della ca-pitale. Il suo primo viaggio a Parigi, dove si fermerà per unpaio d’anni, risale al 1935. Nel ’39 è presente alla Qua-driennale e alla seconda mostra di Corrente. Durante gli an-ni Quaranta i suoi soggetti preferiti saranno le figure e i pae-saggi. Nel ’47 è di nuovo a Parigi dove si stabilirà definiti-vamente entrando in contatto con numerosi pittori e scrittori,dal cui incontro nasceranno vari ritratti, raccolti poi da Wal-demar George. Passa adesso ai paesaggi urbani, alle visioniparigine, scandagliando i problemi della forma, i raffinamenticromatici e le modulazioni tonali. Alla sua formazione ro-

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mana si aggiungono gli influssi della pittura francese. Altreimmagini urbane sono ispirate anche dal suo soggiorno inAmerica. T ha dato sempre una importanza preponderanteal disegno come fece notare G. Severini, nella piccola mo-nografia che gli dedicò nel 1941. La sua produzione spazianell’uso di diverse tecniche quali la tempera e l’acquerello.Illustrerà l’opera di numerosi poeti (Ungaretti, Baudelaire,Dickinson) con incisioni su legno, puntesecche, litografie. Sidedicherà alla scenografia traendo spunto da opere di vari au-tori (Casella, De Falla, Pizzetti, Malaparte, Petrassi). La suamolteplice attività tocca anche la scrittura e traduzioni. Havissuto e operato tra Parigi e Roma. (chmg).

Tamm, Franz Werner (Varnertam, Francesco o Dap-per, da Tapfer «coraggioso», detto)(Amburgo 1658 - Vienna 1724). Allievo di Dietrich von So-sten e di Hans Pfeiffer ad Amburgo, si recò a Roma, doveè menzionato dal 1685 al 1695. Esordì come ritrattista e pit-tore di storia specializzandosi poi nella natura morta di sel-vaggina, fiori e frutta. Sostituì Karl von Vogelaer, detto«Carlo dei Fiori» per dipingere le ghirlande o i mazzi di fio-ri nei dipinti del Maratta (Amori e ghirlande, sopraporta: Pa-rigi, Louvre). Chiamato a Vienna dall’imperatore Leopoldo,vi divenne pittore di corte e operò per il principe di Liech-tenstein. Nel 1702 è attivo a Passau (Decollazione di san Pao-lo: chiesa di San Paolo). Mescolando spesso influssi setten-trionali (Weenix, Hondecoeter, J. Fyt e D. de Heem) e ita-liani, dipinse composizioni brillanti e fastose, talvolta susfondi di paesaggio ove la ricchezza di colore delle piante ra-re è resa mediante una fattura delicata e precisa. È rappre-sentato a Roma, Gall. Pallavicini (Fiori, frutta e pavone; Fio-ri, funghi e cacciagione), all’abbazia di Seitensteten (Naturamorta di fiori, 1703), a Praga (ng: Uccelli e frutta), ad Am-burgo (kh: quattro dipinti di Fiori e di Frutta) e al Museo diGotha (quattro dipinti di Uccelli). (jhm).

Tamuìn, ElNel 1946 gli esploratori dell’Istituto nazionale d’antropolo-gia e storia di Città del Messico portarono alla luce a El T(località del Messico, nello Stato di San Luis Potosì, anticaHuaxteca) un complesso insieme di strutture precolombiane

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huasteche, tra cui una piattaforma che serviva di supportoper un tempio di forma rettangolare (datata verso il 900-1500d. C. da R. Piña Chan). Tutto l’edificio era ornato da pittu-re murali, con un grande affresco su ogni parete, articolatein tre fasce raffiguranti personaggi e separate da un fregio or-namentale geometrico. La fascia di greche inferiore, alla ba-se delle pareti, è completamente cancellata; quanto ai perso-naggi del fregio inferiore, così come le figure di quello supe-riore, sopravvivono soltanto in stato frammentario e vi sidistinguono soltanto alcuni motivi di piume, qualche cerchio,qualche volto; entrambe le fasce erano dipinte di rosso sopraun fondo di stucco bianco. Soltanto il fregio centrale, dipin-to in verde, si è conservato quasi intatto: in esso si leggonododici personaggi in pose differenti, abbigliati con vesti bril-lanti. I primi cinque, seduti, reggono una serie di oggetti didifficile identificazione e portano grandi acconciature e cin-ture con fibbie molto lavorate. I personaggi successivi, in pie-di, avanzano in sequenza; le loro acconciature sono piú cari-che. Ciascuno di essi indossa una particolare maschera ed ècaratterizzato da una moltitudine di attributi: ventagli, so-nagli, paraorecchi, berretti a forma di cono tipici delle po-polazioni huasteche. È probabile che tutte queste figure vo-gliano rappresentare le differenti incarnazioni del «Serpen-te piumato», Quetzalcoatl. (sls).

tane(pittura al rosso-arancio). Termine relativo ad un’antica tec-nica giapponese che designava le prime stampe; tirate in ne-ro, esse vennero ravvivate con l’applicazione a pennello diun sale di piombo rosso-arancio, litargirio o minio. Moro-nobu, forse il primo a utilizzare questa tecnica, impiegavaanche il giallo e l’indaco; così, il termine t può designate,per estensione, le stampe colorate a mano (urushie), primadella comparsa delle tirature policrome. Al t si sostituì a po-co a poco il beni, colore vegetale rosa-rosso il cui impiego fusenza dubbio inaugurato da Masanobu. (ol).

Tanev, Nicola(Svilitov 1890 - Sofia 1962). A Parigi dall’età di dieci anni,frequenta in seguito i corsi dell’Accademia lavorando nelfrattempo in una tipografia. L’incontro con Monet a Gi-

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verny è per lui fondamentale. Al suo ritorno in Bulgaria (ago-sto 1914) restituisce il fascino idillico dei villaggi alle pen-dici dei Balcani con una tavolozza dai colori molto chiari:altri viaggi lo porteranno a visitare le città di Stoccolma, Ber-lino, Varsavia. (da).

TangLe principali testimonianze della pittura T (dinastia impe-riale cinese, 618-907) provengono dall’Asia centrale e atte-stano la fortuna della pittura di personaggi, religiosa o pro-fana. Le prove piú alte di questo periodo sono state rinve-nute a Dunhuang e riguardano un gruppo di bandierebuddiste su seta o canapa e alcuni rari dipinti su carta (Lon-dra, bm; Parigi, Musée Guimet); della stessa maniera sonoalcuni affreschi funerari ora al Museo Cernuschi di Parigi(Dame di corte).Nonostante le scarse testimonianze pervenuteci, sappiamoperò che la pittura ebbe in questo periodo uno sviluppo pro-digioso. Una corrente realistica caratterizza le scene di ge-nere, si tratti dei cavalli di Han Gan o dei personaggi de-scritti da Wu Daozi, ed è ispirata dal buddismo di ZhangXuan e di Zhou Fang, pittori di corte. Malgrado l’atmo-sfera fiabesca, un medesimo intento realistico domina lo sti-le di paesaggio «blu e verde», di cui Li Sixun fu il rappre-sentante; a questo si contrappone Wang Wei, teorico delprimato dell’idea e presunto inventore della pittura mono-croma, destinata a così brillante avvenire in epoca Song.(ol).

Tanguy, Julien, detto le père(Plédran 1825 - Parigi 1894). Faceva il fabbricante di colo-ri, nei primi tempi ambulante: sin da prima del 1870 avevaconosciuto Pissarro, Renoir e Monet. Volontario nelle trup-pe della Comune, venne deportato dai versaillais, ma riuscìa salvarsi grazie all’intervento di Rouart. Stabilitosi a Pari-gi in rue Clauzel, scambiava coi suoi amici impressionisti, dicui la sua bottega fu punto di incontro, colori e tele controquadri; soprattutto con Cézanne, che Vollard e i nabis sco-prirono presso di lui, e con van Gogh, che ne fece, nel 1887,due stupendi ritratti (Parigi, Musée Rodin e coll. Niarchos).I dipinti andarono dispersi dopo la sua morte. (sr).

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Tanguy, Yves(Parigi 1900 - Woodbury (Conn.) 1955). Di famiglia bre-tone di estrazione borghese, conobbe Jacques Prévert nel1920, durante il servizio militare. I due giovani scopriro-no ben presto il surrealismo a Montparnasse, e nel 1924 T,senza alcuna formazione artistica alle spalle, iniziò a di-pingere. Dopo le prime influenze di De Chirico e di MaxErnst, conosciuto Breton e divenutone grande amico, T silegò al gruppo surrealista partecipando alle mostre e fir-mandone i manifesti: si allontanò dal movimento solo nel1939 quando, conosciuta la pittrice americana Kay Sage,si trasferì a New York alla vigilia della guerra. Dal 1941visse nel Connecticut e nel 1948 ottenne la cittadinanzaamericana.I metodi automatici sono alla base delle sue prime opere:Genesi (1926), l’Uragano (1926), Suonano (1927), alcune del-le quali sono apparse su «La Révolution Surrèaliste», Suc-cessivamente i personaggi, gli animali bizzarri, i mostri ma-rini scompaiono gradualmente dalle tele e si precisa il temapreferito di T: in una luce lattiginosa, una pianura deserti-ca è separata dal cielo da un orizzonte evanescente; su que-sto «fondo marino» si collocano oggetti inidentificabili eproliferano creature organiche; rocce simili a menhir emer-gono da questo luogo senza limiti di spazio né di tempo evo-cando una dimensione onirica e ambigua fermata in silenziallusivi di avvenuti cataclismi. È il periodo nel quale T di-pinge il Ratto dei duchi (1929: coll. Jacques Ullmer), l’In-quisitore e il Nastro degli eccessi (1929-32: riprodotti in «LaRévolution Surrèaliste», n. 11). L’influsso passeggero deltachisme traspare in Numeri reali (1946: coll. priv.). La pia-nura invasa da una calca minerale è invece il soggetto delpenultimo quadro di T, Moltiplicazione degli archi (1954:New York, moma), che precede di poco Numeri immagina-ri. Nel 1955, poco dopo la morte, una grande retrospettivafu organizzata al moma di New York. T è rappresentato neimaggiori musei d’arte moderna, dalla Tate Gallery di Lon-dra all’Ateneumin di Helsinki, dal mnam di Parigi all’ArtInstitute di Chicago, oltre che in numerose collezioni pri-vate (Londra, coll. Penrose; Venezia, Peggy GuggenheimFoundation). (dc).

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Tang Yin(1470-1523). Figlio di un modesto mercante di Suzhou, su-però tanto brillantemente e precocemente gli esami provin-ciali ufficiali che venne adottato dai circoli letterati della suacittà natale, divenendo amico di Wen Zhengming. La suacarriera di funzionario fu spezzata a seguito di uno scanda-lo nella capitale (avrebbe beneficiato di indebite sortite du-rante gli esami nazionali); tornato a Suzhou vi condusse unavita dissipata tra l’alcool e le cortigiane, intrammezzata dabrevi ritiri nei monasteri buddisti dei dintorni. Benché co-stretto a vendere le sue opere per sopravvivere, TY conti-nuò a godere della stima dei suoi concittadini letterati. Eb-be d’altronde tanto successo che, per sopperire alle richie-ste, avrebbe firmato opere eseguite dal suo maestro ZhouChen.Prodigiosamente dotato, TY è di difficile classificazione: lasua maniera varia dal preziosismo accademico allo stile spo-glio dei letterati e pertanto è definito un «eclettico arcai-cizzante», o addirittura un «neoaccademico» scegliendo dioperare negli stili dei maestri del passato. La fama, comequella di Qin Ying, suo condiscepolo, gli derivò soprattut-to dai suoi dipinti di belle donne, permeate di graziosa ele-ganza (Personaggi nello stile Tang: Gu Gong); ma non si di-mostrò meno abile nell’illustrazione del classico tema dei let-terati in un giardino (Preparando il tè: Stoccolma, nm).I suoi fiori, al pari dei suoi paesaggi, vennero anch’essi ap-prezzati: specie i secondi ne rivelano appieno le doti di co-lorista raffinato e sottile (Pescatori su un fiume in autunno:Gu Gong), capacissimo peraltro d’ispirarsi al disegno saldoe preciso di Li Tang (Viaggiatori in un paesaggio d’inverno:ivi; Passeggiata lungo un torrente di montagna: Toronto, RoyalOntario Museum). (ol).

TanjoreCittà indiana nello stato di Madras, fu capitale della dina-stia Cola; conserva ancora un gran tempio sivaista che, conla sua celebre torre centrale (vimÇna), venne consacrato nel1010. Veri e propri tesori artistici, statue di bronzo e oro,sculture in pietra e pitture, arricchivano questo santuario:accanto all’antica decorazione scultorea, ampiamente con-servata, sussiste un complesso di pitture che orna i muri e il

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soffitto del passaggio che cinge la parte centrale del tempio.Malgrado i deterioramenti provocati dalle aggiunte del sec.xvii alcune scene che celebrano la divinità di Shiva e ilRÇjarÇja sono tuttora visibili. La precisione del disegno, lasaldezza del modellato, la morbida naturalezza dei perso-naggi, unitamente alla dolcezza del colore, sono altrettantielementi che ricollegano questi dipinti alla tradizione degliaffreschi piú antichi di SittannavÇsal. Tuttavia il tracciatodelle figure è qui piú nervoso e le composizioni presentanoun movimento piú accentuato che nelle pitture del periodopallava. (jfj).

tankaImmagini portatili tibetane (→ Tibet), spesso impropria-mente denominate «stendardi», le t si presentano sotto for-ma di rotoli. Per la maggior parte sono dipinte; tuttavia sene trovano alcune costituite da pezzi di tessuto uniti a for-mare una raffigurazione oppure interamente ricamati. Laparte dipinta, generalmente di forma rettangolare o qua-drata, misura mediamente tra i 60-80 cm d’altezza e i 40-60cm di larghezza. Esistono anche delle t molto grandi, ispi-rate dall’arte mongola, e altre sviluppate piú in larghezza chein altezza. Il supporto è costituito da una tela piú o menoordinaria, oppure da un pezzo di seta importato dalla Cinae, a volte, da un sottile foglio di cuoio. La parte dipinta è in-quadrata da due nastri di stoffa, il cosiddetto «bordo ad ar-cobaleno», larghi due o tre cm, generalmente rossi o gialli,simboleggianti il fascino spirituale emanato dai personaggirappresentati. Nella parte inferiore di questa «cornice», s’in-contra a volte un quadrato di broccato piú ricco, la cosid-detta «porta» della t, materializzazione del luogo spiritualeattraverso il quale passerà l’anima del devoto al momentodella meditazione per raggiungere la divinità rappresentatae penetrare così nel mondo della pittura, immagine del mon-do spirituale. Alle due estremità del rotolo sono inserite del-le bacchette di legno; attorno a quella inferiore, di dimen-sione maggiore, viene arrotolata la pittura, con un movi-mento dal basso verso l’alto. Per proteggere le immaginisacre appese dai fumi dell’incenso e dalle lampade, un sot-tile velo, decorato da macchie di colore, è cucito nella partealta.

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D’ispirazione essenzialmente religiosa, le t raffigurano le di-vinità del lamaismo, i presunti ritratti dei lama, i personag-gi santi e anche i mandala. Srotolate per la meditazione e du-rante le cerimonie, possono essere ideate per la decorazionedi santuari e, in questo caso, a volte vengono organizzatesotto forma di ciclo, rappresentando la vita del Buddha, i ri-tratti dei santi protettori di una particolare setta, oppure la-ma superiori di un determinato monastero.L’esecuzione delle t obbedisce a un complicato rituale reli-gioso e magico (sovente presentano sul retro formule magi-che, mantra). Si procede ricoprendo la tela da dipingere conun miscuglio di gesso e di colla e si leviga attentamente tut-ta la superficie con una pietra o una conchiglia. Poi, quan-do la tela è asciutta, la si tende su un telaio ligneo median-te un particolare sistema di allacciatura. L’artista – dise-gnatore e pittore possono non essere la stessa persona– traccia allora un reticolato molto sottile di linee affinchéla figura principale risulti correttamente disposta al centrodella composizione; in seguito vengono disegnate le figurepiú importanti. L’immagine può anche essere riportata tra-mite l’uso di calchi oppure lo spolvero. I contorni vengonoripassati con inchiostro rosso o nero, si riempiono le super-fici di colore e viene eseguito lo sfondo. Le materie colorantiutilizzate sono di origine minerale oppure vegetale (i coloriartificiali sono stati importati soltanto in tempi recenti). Ipigmenti colorati, mescolati con la colla, vengono applicatisulla tela e aderiscono alla preparazione di base che presen-ta, di conseguenza, una grande omogeneità. Per preservarela pittura da eventuali danni, talvolta, la si copre con un leg-gero strato di vernice protettiva che però risulta insufficientea proteggere le t dall’umidità poicbé la mistura di colore ecolla è solubile nell’acqua. Alcune parti possono essere rico-perte da polvere d’oro, ripetutamente lavata e infine secca-ta, mescolata con dell’urina prima dell’applicazione (esisto-no t dalle immagini completamente dorate). Una volta stesii colori, il disegnatore ripassa i contorni e i dettagli con in-chiostro nero, eseguendo per ultimi il volto e le mari.Una volta terminata la pittura, occorre procedere ad attri-buirle il suo valore sacro attraverso una cerimonia religio-sa (sgrub-byed: la «messa a punto», vale a dire l’equivalen-te del prÇna-pratisthÇ indiano, o «insufflazione del soffio divita»). (ghé).

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Tanning, Dorothea(Galesburg (Illinois) 1910/12). Studia al Knox College del-la sua città dove si appassiona al disegno e alla letteratura.Nel ’32 si iscrive all’Academy Art di Chicago che abbando-nerà presto insoddisfatta dell’insegnamento tradizionale,preferendo apprendere le tecniche pittoriche nei musei e la-sciare che il suo inconscio rappresenti l’unica fonte d’ispi-razione. Nel frattempo si mantiene come vignettista pub-blicitaria. Nel ’36 la mostra Fantastic Árt, Dada, Surrealismal moma di New York le apre gli orizzonti dandole confer-ma della validità della sua tendenza a rappresentare imma-gini oniriche descritte con quella nitida obiettività che affon-da le radici nel realismo magico americano di Hopper, Woodo Wyeth. Dopo un breve viaggio a Parigi nel ’39, interrot-to dall’incombere del conflitto mondiale, nel ’41 si stabili-sce a New York la città che ora ospita molti esponenti del-le avanguardie raccolti intorno a Peggy Guggenheim. Fraquesti vi è il pittore surrealista Ernst col quale stabilisce unsodalizio affettivo, oltre che artistico, che li condurrà, nel’46, al matrimonio. Del ’42 è Anniversario uno dei suoi qua-dri piú noti, che attesta la sua completa adesione al surrea-lismo. Nel ’44 la Galleria Julien Levy le dedica la prima per-sonale. I quadri della T sono visioni ossessive dove emergo-no i fantasmi dell’infanzia, le incertezze e i turbamenti delperiodo passato in collegio, l’educazione luterana ortodos-sa, la vita da bohèmienne come reazione alla giovinezza tra-scorsa durante il puritanesimo e il proibizionismo (Giochi dibambine, ’42, Palestra, ’47, La Morte e la Fanciulla, ’54, Ri-tratto di famiglia, ’52, I filosofi, ’52, Interno con la gioia su-bita, ’51). Nel ’52, dopo aver vissuto in Arizona, si trasferi-sce con Ernst a Seillans (Parigi) dove rimarrà fino alla mor-te di questi (’76). Dalla metà degli anni Cinquanta la suapittura perde l’originaria tendenza alla descrizione minu-ziosa delle apparenze veristiche per lasciare il posto a sago-me rarefatte avvolte da un’atmosfera nebulosa dalle qualiscaturisce un maggiore impatto espressivo (Il male dimenti-cato, ’55, Insonnie, ’57, Ospitalità, ’58). In opere come Ora-colo (’64) la pennellata si fa piú veloce e di maggiore spes-sore materico in una sintassi più aperta alle suggestionidell’informale. Nel ’59 J. Desville gira su di lei il film Le Re-gard ébloui. Negli anni Sessanta espone a Parigi, Colonia,

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New York, Torino (Gall. Galatea). Del ’71 sono le mostrealla Gall. Jolas e alla Libreria Einaudi di Milano. Da segna-lare, nel ’74, la grande personale al C.N.A.C. di Parigi. Diquesti anni sono le sculture che evocano forme umane conmateriali vari (gommapiuma, stoffa) le quali ben si accorda-no al resto della sua produzione artistica (Emma, 1970). Inol-tre è soprattutto nel balletto che la T si realizza come sce-nografa e costumista. Nel 1980 si ristabilisce a New Yorkdove attualmente vive senza mai aver smesso di dipingere.Nel 1987 pubblica Birthday, le memorie della sua vita conErnst. (chmg).

Tannyu (Tan’yu)(nome d’arte di Kanÿ Morinobu; 1602-74). Figlio e allievodi Takanobu, nominato pittore ufficiale all’età di sedici an-ni, T assunse la direzione della scuola Kanÿ, spostata da Kyo-to a Edo (Tokyo), con i fratelli Naonobu, detto Shÿei, e Ya-sunobu. La sua fama si consolidò dal 1626, data in cui do-vette realizzare in un tempo assai breve la decorazione delcastello Nijÿ di Kyoto, la splendida residenza conosciuta an-che come la «Versailles del Giappone». In essa la potenzadello shÿgun Tokugawa Iemitsu è esaltata dalla straordina-ria vastità delle composizioni di pini e uccelli policromi sufondi d’oro. A dimostrare tutta l’abilità e la sapienza com-positiva di T è la parete di fondo del salone delle udienze sucui è raffigurato un pino che si sviluppa su 14 m di lunghezzae 5 di altezza. L’eccesso stesso di questa realtà annuncia d’al-tronde la decadenza progressiva dei Kanÿ, nella cui scuolasi vanno affermando le tendenze piú accademiche e il cui sti-le decorativo si avvia a una stanca sclerosi generata dalla mo-notonia di grandi zone monocrome non modulate.Artista quanto mai eclettico, T è autore di numerosi dipin-ti e paraventi in stile cinese, per la maggior parte purtroppoandati perduti nel corso della seconda guerra mondiale (pa-ravento dei Cormorani: Tokyo, Museo œkura Shukokan),nonché di illustrazioni della vita dello shÿgun Ieyasu, ese-guite nello stile dei Tosa. (ol).

tantrismoLa definizione di t diffusa nel pensiero occidentale, come inquello dell’India moderna, per designare una forma tarda esnaturata del buddismo ortodosso non compare nei testi san-

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scriti. Tuttavia l’etimologia stessa del termine ricorda che que-sta dottrina è interamente fondata sui Tantra, testi rivelati,compendi di formule magiche, di descrizioni di esseri mito-logici e di pratiche che conducono alle vie della salvezza. Il tsi è sviluppato tardi (probabilmente a partire dal sec. vii) e haavuto una particolare diffusione nelle università del nord-este del nord-ovest dell’India, estendendosi al Nepal e al Tibetdurante il secolo successivo, infine in Cina e in Giappone. Ca-ratteristica dominante di questo nuovo buddismo è lo svilup-po dei poteri magici attraverso un rituale approfondito. Lenozioni del bene e del male divengono illusorie. Ne consegueche alcune pratiche degenerate possono spingersi fino al cri-mine; raggiungono la salvezza, la liberazione soltanto coloroche si sono svincolati da ogni morale. Oltre alla recitazione diformule magiche, la meditazione, guidata dalla rappresenta-zione dipinta del mandala, gioca un ruolo fondamentale nelraggiungimento della verità e della salvezza.Le sette, presto differenziatesi tra loro, conservarono tut-tavia una caratteristica comune che, a partire dal sec. viii,divenne sempre piú importante: il simbolismo sessuale pre-figurante l’unione estatica dell’uomo con la divinità. Talesimbolismo introdusse anche nella letteratura e nell’arte tan-trica un erotismo sublimato.Innumerevoli sono le scene d’unione del dio con la sua prajña(vale a dire la sua energia femminile, culto originato dal ∫ivai-smo), così come la raffigurazione di buddha, dèi, geni e de-moni dall’aspetto terribile o benigno del pantheon tantrico.Numerose sono le figure di divinità ornate di collane, di te-schi, di ossa umane, calpestanti dei cadaveri o danzanti trale fiamme, come un Hevajra del Musée Guimet di Parigi cheostenta le sue sedici braccia, le otto teste e le quattro gam-be, sconfiggendo così gli spiriti del male.In seguito all’invasione dell’India da parte dei musulmaninel sec. xiii, il t sopravvisse nel Kashmir fino al secolo succes-sivo accanto al sivaismo che, in seguito, l’assorbì completa-mente. (ea).

Tanzio da Varallo (Antonio D’Enrico, detto)(Riale d’Alagna (Vercelli) 1580/82 - Varallo Sesia 1632/33).Considerato artifex nel 1606, parte per Roma con il fratelloMelchiorre (già a Varallo nel 1607). Per il rientro di T si pen-

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sa al 1616-17, anno in cui lavora alla cappella XXVII del Sa-cro Monte (Prima presentazione di Cristo a Pilato), e data cer-ta per la pala della collegiata di Domodossola (San Carlo tragli appestati), la cui esecuzione un poco «sottotono» fa pen-sare a collaboratori di T o a un suo adeguamento al gustolombardo, non aggiornato sulle novità romane (come tra-spare anche nella tela San Gregorio, Nicola, Pantaleone: Va-rallo, San Gaudenzio).Un’Estasi di san Francesco (Rouen, mba; di discussa attribu-zione) potrebbe aprire la serie delle opere romane di T. A Ro-ma probabilmente lavora con G. Baglione al grande affrescoCostantino che offre doni al papa (San Giovanni in Laterano,transetto); la sua Battaglia di Sennacherib (1627: Novara, SanGaudenzio, cappella Nazzari) ricorda infatti la Resurrezione(Roma, chiesa del Gesú) dell’artista romano. I grandi lavorirealizzati tra 1600-16, sono la Circoncisione (Fara San Mar-tino, San Remigio), la Madonna del Colle (Pescocostanzo, col-legiata) ed i cinque frammenti della Pentecoste (Santa Resti-tuta, incorporata nel Duomo di Napoli). Per la Circoncisioneè stata proposta la data 1612-14; lo spazio sviluppato in sen-so verticale, l’illuminazione intensa, che pone in risalto le fi-gure, rivelano l’innesto dell’indirizzo naturalista centro-ita-liano (Caravaggio, Borgianni, Baglione) sulla formazione ma-nieristica e controriformata di T, sensibile all’interpretazioneemozionale delle immagini religiose, al patetismo contenutodi Gaudenzio Ferrari, Morazzone e Cerano. Per la pala diPescocostanzo, in Abruzzo, su un percorso frequentato dailombardi, sono emersi recentemente elementi per un’antici-pazione della data dal 1617 al 1614. Altri dati giocano a fa-vore dell’esecuzione in loco della pala; la Vergine appare co-me una trasposizione in pittura di una statua lignea miraco-losa di età tardoromanica, assai venerata nella collegiata;l’angelo che seda l’incendio ricorda il miracolo della Madon-na del Colle; la committente dell’ex voto è ritratta ai piedidi santa Chiara, tra altri santi. Dunque si può pensare – peri lavori abruzzesi – a un secondo viaggio di T dopo il 1611(un documento lo ricorda in questo anno a Varallo), a scapi-to dell’ipotesi che posticipa la datazione dei lavori al ritornodefinitivo (1616-17) a Varallo. Da una probabile sosta napo-letana (post 1611) è originata la Pentecoste, vicina alla pala diPescocostanzo e forse precedente, con probabilità prove-niente dalla cappella della Pentecoste in Duomo e conserva-

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ta solo in frammenti. Meno problemi presenta la sistemazio-ne cronologica dei lavori successivi al viaggio, da cui T ri-torna con maturata esperienza nella resa di invenzioni sce-nografiche, decorative e di costume. Alla cappella XXVII delSacro Monte (1616/17-1624), segue la XXXIV (Pilato che silavale mani), del 1628 e la XXVIII (Cristo presentato ad Ero-de). La cronologia delle sue opere è facilitata dalla testimo-nianza delle visite pastorali: tra 1617 e ’26 T realizza la pa-la con la Madonna del Rosario (Borgofranco, Santa Cristina,rubata nel 1971); tra 1616 e ’27 la Visitazione (Vagna, par-rocchiale); tra 1626 e ’28 la Processione del sacro chiodo (SanLorenzo a Cellio; il donatore somiglia al personaggio ritrat-to in età giovanile in un dipinto, ora alla Pinacoteca di Bre-ra di Milano). Nel 1630 T è a Varallo per sfuggire il conta-gio della peste; posteriori a tale data sono probabilmente gliaffreschi nel milanese: Cristo in gloria tra gli angeli (Milano,Sant’Antonio dei Teatini); Annuncio, Natività, Visitazionedei pastori (Milano, Santa Maria della Pace degli Zoccolanti,volta del coro) in cui T rende l’illuminismo naturalistico at-traverso scorci e contrasti tra luci e ombre; Crocifisso tra i san-ti Barnaba, Ambrogio e donatori (affresco strappato daSant’Ambrogio della Vittoria, Parabiago, dal 1941 su telanell’Ospedale Antonini, Limbiate). Successive al 1628 sonole pale Trinità adorata da santi (Fontaneto d’Agogna, parroc-chiale), Vergine adorata da san Carlo e san Francesco (Varallo,pc, già nell’Oratorio di San Carlo di Sabbia). Al 1631 risalela tela con San Rocco (ivi, già parrocchiale di Camasco). Do-po il 1632 T inizia l’affresco per la cappella Gibellini dedi-cata a San Francesco (Borgosesia, collegiata), terminato dalfratello Melchiorre, poiché entro il 1633 T scompare. Ri-guardo al vasto corpus grafico del pittore, si può pensare acopie da suoi disegni realizzati nella bottega o ad autografidestinati a collezionisti di grafica o a costituire un repertoriod’uso per la bottega. (ldm).

taoista, pitturaIl taoismo ha un ruolo fondamentale per comprendere ten-denze importantissime dell’estetica cinese. Assai piú che unareligione, esso è una mistica, e innanzi tutto una mistica del-la natura secondo la quale l’uomo, sottoposto all’onnipo-tenza dell’Universo incommensurabile e dei suoi elementi

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infiniti, non può che lasciarsi trasportare dalla vasta mareadella vita cosmica, umile e smarrito dinanzi alla bellezza delmondo. Quest’atteggiamento irrazionale e istintivo spiegasenza dubbio la diversità del sentimento della natura nell’uo-mo cinese, di intensità sconosciuta in Occidente, e che hatrovato la sua espressione piú alta nella pittura di paesaggio.L’atteggiamento t si contrappone pertanto radicalmente aquello razionale e morale del confucianesimo, secondo il qua-le l’uomo può e deve svolgere il suo ruolo nel mondo per ilfatto che è egli stesso un microcosmo in sintonia con l’Uni-verso e che il suo comportamento influenza lo sviluppo del-l’ordine delle cose. Ispirazione taoista e ispirazione confu-ciana approderanno dunque in linea di principio in dueespressioni pittoriche diverse, l’una intuitiva ed evasiva, l’al-tra ragionata e costruita; tali tendenze si esprimeranno ap-pieno nella pittura dei dilettanti la prima, nella tradizioneaccademica dei pittori ufficiali la seconda. In altri termini,l’artista taoista cerca di esprimere il proprio sentimento o lapropria visione spontanea senza peraltro curarsi della somi-glianza formale, conformità che invece l’artista confucianopretende, standogli a cuore il principio di imitazione.Può apparire un paradosso che pittori taoisti, confuciani pervocazione e con formazione di funzionari, nella scia di SuShi e di Ni Zan, rifiutassero ogni ricerca di somiglianza, mad’altronde la loro educazione ne regolava solo la personalitàsociale, mentre le mistiche del tao o del chan rispondevanoal loro intimo sentire che l’atto di dipingere concretava, af-fidando al gesto pittorico l’espressione dell’intuizione crea-tiva. Era insieme una reazione individuale contro il senti-mento talvolta oppressivo dell’obbligatoria appartenenza auna collettività ultra-organizzata, e un tentativo di evasio-ne e di unione mistica con la natura. Per questo molti teo-rici cinesi hanno potuto affermare che una pittura eseguita«con spirito» e contemplata con lo stesso sentimento offri-va, a colui che si fosse dimostrato degno, un’esperienza intutto analoga a quella che avrebbe provato se si fosse trova-to entro un paesaggio reale. (ol).

tapaTermine che designa, in Oceania, una stoffa vegetale (in po-linesiano siapo) ottenuta dalla scorza di gelso. È comune nel-le due Americhe, in Asia sud-orientale, in Africa e in Ocea-

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nia. La decorazione della t si pratica secondo tre metodi: tin-tura di un solo colore (rosso o nero); tintura a mano di mo-tivi geometrici; stampa. I pigmenti e i colori impiegati sonopoco numerosi: giallo (foglia di zafferano), rosso (grani del-le bacche di un arbusto), bianco (conchiglie calcinate). Piúrari, a causa della loro origine minerale, e quindi piú ricer-cati, sono il verde, l’azzurro e il nero. I pigmenti vengonostemperati in acqua o in liquidi vegetali agglutinanti; comepennello viene usato un ramoscello masticato. La decora-zione a stampa avviene mediante una matrice o un tampo-ne imbevuto di tintura scura; la matrice può essere una plac-ca vegetale o una foglia sulla quale sono cucite nervature dipalma o trecce di fibra. Piú diffusi i tamponi, sottili laminedi legno con motivi geometrici in rilievo.Ogni isola si contraddistingue per uno stile specifico: di-sposizione alternata di bande decorate e dipinte; diversi-ficazione dei motivi; trecce o spine di pesce in diagonale.Le piú belle sono quelle della Nuova Guinea e delle isoleHawaii: servono come tovaglie, coperte, capi di vestiarioo decorazione per le case. Alcune pezze piú grandi (lunghevarie decine di metri) fanno parte degli oggetti barattatinei circuiti di scambi cerimoniali. Esemplari molto belli sitrovano nel Museo e nell’Istituto etnografico di Ginevra.(jgc).

Tàpies, Antoni(Barcellona 1923). La sua famiglia di origine, liberale e col-ta, gli trasmette il gusto per la musica – prediletta è quellaromantica – e la lettura; il forte interesse per l’arte si ma-nifesta già nel 1942, ma solo nel 1946 vi si dedicherà pie-namente. Già dal 1945 esegue opere di vario genere di spi-rito dadaista, utilizzando scarti, collages, spaghi, terra, graf-fiti, nonché dipinti dagli impasti spessi, in cui la materiaacquista già un autonomo valore espressivo nel massimo ri-spetto, però, di una attenta misura compositiva. Due gli in-contri importanti nel 1947: il poeta catalano Joan Brossa eJoan Prats, intimo amico di Miró presso cui T verrà poi in-trodotto due anni piú tardi. Nella biblioteca di Prats l’ar-tista avrà occasione di conoscere molte pubblicazionidell’avanguardia internazionale. Il suo interesse, oltre cheal dadaismo, si estende alla lezione dell’arte non figurativa

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(Kandinsky, Malevi™, Arp, Mondrian). Nel 1948 esponeper la prima volta due sue opere, al Salone d’ottobre di Bar-cellona; nello stesso anno fonda con un gruppo di scrittorie pittori di Barcellona la rivista «Dau al Set», rivista d’ar-te d’avanguardia. Verso la fine del decennio il suo interes-se si volge all’arte e al pensiero orientali, che approfondiràulteriormente negli anni ’50; contemporaneamente si ac-centua il suo interesse per il surrealismo (in particolareMiró, Klee, Ernst), che lascia una traccia evidente nei qua-dri del periodo, inclini ai colori caldi, cui repertorio di for-me è comune a quello dei pittori amati (Desconsuelo Lunar,1949).È del 1950 la sua prima personale, presso le Galerias Laye-tanas di Barcellona; da allora si infittisce la sua partecipa-zione a importanti mostre quali il Carnegie Institute a Pitt-sburgh, la Biennale di Venezia; tiene personali a Chicago ea Madrid, la prima mostra alla Martha Jackson Gallery diNew York (1953), esposizioni negli Stati Uniti (importan-te retrospettiva al Guggenheim Museum di New York nel1962), a Parigi, in Germania e in Svizzera, a Torino e aLondra,La vincita di una borsa di studio gli offre l’opportunità, nel1950, di trascorrere un anno a Parigi, dove ritornerà piú vol-te e dove avrà modo di accostarsi all’informale, rappresen-tato in Francia da Dubuffet, Fautrier, Michaux, Wols; giàdal Notturno del 1951 tende a far scomparire ogni defini-zione prospettica a favore della macchia, e quindi della ma-teria, con ampie campiture cromatiche a scandire la compo-sizione. La sua pittura coniuga espressività della materia einteriorità. Dopo un breve periodo geometrico, ritorna allaricerca materica, alle terre, ai collages, ai graffiti e ai gratta-ges, all’uso di materiali poveri, agli impasti dei colori a oliocon sabbia, marmo polverizzato, lattice, colori in polvere,che conferiscono alla materia una particolare densità, unaconsistenza simile a quella di un muro: superficie che mar-ca il limite tra evidenza materiale e risonanza interiore (Rojo,1955; Negro y Ocre, 1955).Pur nelle asperità della materia, nel suo corrugarsi e nel suoritrarsi viene sempre mantenuto un ritmo interno al quadro,che nasce dalla sua costante attenzione a una precisa modu-lazione compositiva (Bianco fessurato e grigio su marrone,1961: Barcellona, coll. priv.).

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A partire dal 1966 intensifica la pubblicazione di scrittisull’arte; nel 1970 uscirà in volume La pratica dell’arte, nel1974 L’arte contro l’estetica (pubblicati entrambi in italianonel 1980) e nel 1977 l’Autobiografia (ed. it. 1982).Dal 1970 comincia a scolpire; alla produzione pittorica con-tinua ad affiancare, come in passato, quella di incisioni e didisegni. Nell’ultimo decennio, dopo lunghe ricerche sullospessore e la consistenza della superficie pittorica, la mate-ria si assottiglia per esaltare maggiormente il segno, che sidipana in una spazialità piú rarefatta. (mcm).

Tappert, Georg(Berlino 1880-1957). Frequentò l’Accademia di belle arti diKarlsruhe dal 1900 al 1903; nel 1906, anno in cui Paul Cas-sirer ne organizzò la prima personale, si unì agli artisti diWorpswede, nella Germania settentrionale, dove il gruppodi Otto Modersohn praticava un realismo espressionista poiriecheggiato nelle opere di Rilke e di G. Hauptmann. Nel1907 creò una scuola che gli consentì di diffondere il suoideale artistico e di divenire egli stesso un polo di attrazio-ne. Tornato a Berlino nel 1910, si dedicò alla creazione del-la Nuova Secessione, che raggruppò gli artisti espressioni-sti, in particolare i pittori di Die Brücke. Con la collabora-zione di Moritz Melzer fondò inoltre, sempre a Berlino, unaScuola moderna delle arti pure e applicate. Nel 1913 vennenominato docente nella Scuola nazionale di belle arti di Ber-lino. Dopo la prima guerra mondiale, nel 1918, organizzò laNovembergruppe, associazione di artisti che accoglieva an-che architetti e musicisti, e che contribuì intensamente allaformazione culturale del pubblico, finché il regime nazistanon lo costrinse a cessare l’attività. Tacciato di «progressi-smo», dovette abbandonare la Scuola nazionale di belle ar-ti, e i suoi dipinti vennero in gran parte distrutti. Altri an-darono perduti durante la guerra. Benché le rare tele, xilo-grafie e litografie conosciute attestino una qualità per nullainferiore a quella di Heckel, di Kirchner o di Pechstein (Au-toritratto, 1906: Wuppertal, von der Heydt Museum; Creo-la, 1911: Berlino, ng), l’importanza di T è legata alla sua at-tività di organizzatore delle principali tendenze artistiche eall’insegnamento. Per questo venne incaricato, nel 1945, diriorganizzare a Berlino una Scuola d’arte, che si trasformò

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presto in Accademia, nella quale insegnò fino al 1953. Solodopo la morte, la critica scoprì la personalissima vena espres-sionista dell’artista. (frm).

Tarchiani, Filippo(Castello (Firenze) 1576 - Firenze 1645). Allievo di A. Ciam-pelli e, dopo un primo viaggio a Roma (1590-93 ca.), di G. Pa-gani, il T si formò definitivamente in un secondo soggiornoromano (1601-607), a contatto con A. Commodi, A. Fonte-buoni e O. Gentileschi. Un marcato interesse luministico ca-ratterizza le sue opere intorno al ’20, specie se di soggettodrammatico (Pietà, 1620 ca.: Pistoia, Museo capitolare; Mar-tirio di santo Stefano, 1621 Capraia, Santo Stefano) o tradizio-nalmente caravaggesco (Cena in Emmaus: Los Angeles, CountyMuseum). Tra il ’20 e il ’30, una copiosa attività ad affresco,spesso di commissione medicea (Casino Mediceo, Poggio Im-periale, Palazzo Pitti), lo portò ad avvicinarsi a M. Rosselli an-che nei dipinti da cavalletto, adottando una pittura progressi-vamente piú ricca e decorativa (Apollo e Pan: Reggio Emilia,mc; Re David e Santa Cecilia, 1635: Firenze, Badia). (cpi).

Taricco, Sebastiano(Cherasco (Cuneo) 1641 - Torino 1710). Dopo una probabileformazione a Torino, nell’ ambito pittorico legato alla corte,l’affermazione in territorio cuneese ha inizio con le tele perl’altare della Santissima Trinità di Fossano (1671) e l’impor-tante commissione per la decorazione ad affresco della cupoladi Sant’Agostino a Cherasco (1676). Gli esiti piú alti della suaproduzione sono rappresentati dagli affreschi per la cappelladi San Benedetto nel Santuario di Vicoforte (1682), d’una spet-tacolarità che molto deve al vicino esempio di Andrea Pozzoa Mondovì, e dalla decorazione in Palazzo Gotti a Cherasco.La vena inventiva e la vivace gamma cromatica utilizzate inprovincia vanno progressivamente sparendo nelle opere suc-cessive, eseguite per committenti torinesi, dove adotta mac-chine compositive piú compassate e un’intonazione piú tene-brosa (Annuncio ai re Magi nella cappella dei Mercanti; Visio-ne di sant’Ignazio ai Santi Martiri; Allegoria sacra in PalazzoReale). Al suo rientro in provincia, T accosta alla consolidatapratica dell’affresco, l’attività di architetto in Santa Maria delPopolo a Cherasco e di regista della decorazione in stucco, nel-la citata chiesa cheraschese e nella Trinità di Bra. (cb).

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TarquiniaSita nel Lazio (provincia di Viterbo), 90 km a nord-ovest diRoma, T è un vero e proprio museo della pittura funerariaetrusca. Lo straordinario sviluppo delle sue necropoli dopoil periodo villanoviano (x-ix secolo a. C.) attesta lo splen-dore e l’importanza politica e commerciale della città in po-sizione geografica tale da consentire agevoli rapporti con ilmare e gli altri centri dell’Etruria. A partire dalla metà delsec. viii inizia l’occupazione della spianata calcarea di Mon-terozzi, dal sec. vi, la necropoli principale della città: circa150 tombe a camera, alcune ornate da pitture (un sessanti-na) isolate e raggruppate, scavate a una profondità che va-ria tra i tre e i sei metri e spesso sormontate da alti tumuli.Scoperte fortuite ne rivelarono l’esistenza sin dal sec. xv (visi ispirarono forse Michelangelo e l’Ariosto), e provocarono,nel xviii, l’entusiasmo di viaggiatori e studiosi. Intorno al1780 lo scozzese Byres disegna gli affreschi, oggi scomparsi,della tomba del Cardinale. A partire dal 1820 il comune e ladiocesi di T, poi il governo italiano, hanno intensificato le ri-cerche che sono progredite a ritmo sempre piú serrato finoalla fine del secolo scorso (1820-25: tombe delle Bighe, delBarone, del Triclinio, degli Auguri del Tifone; 1864-74: tom-be degli Scudi, dei Leopardi, dell’Orco, della Caccia e dellaPesca; 1892: tomba dei Tori). Tuttavia le camere sepolcrali,aperte a caso, spogliate del loro materiale a profitto di rac-colte locali o straniere, spesso abbandonate, sono andate indegrado o scomparse prima di essere state adeguatamente stu-diate e pubblicate, malgrado gli sforzi di mecenati e studio-si italiani e stranieri come Kestner, Stackelberg, L. Dasti,Gerhard, W. Helbig. Su una sessantina di tombe così sco-perte, appena una ventina erano accessibili nel 1958. I mez-zi moderni di prospezione geofisica (sondaggi elettrici, peri-scopio Nastri) impiegati dopo questa data dalla FondazioneLerici di Milano e dagli archeologi italiani hanno consentitoun’esplorazione sistematica della necropoli, che si estende su6 km di lunghezza e 1,5 km di larghezza e dove, in sette an-ni, sono state trovate seimila tombe e sono stati scoperti omessi in luce oltre sessanta ipogei (tombe della Scrofa nera,delle Olimpiadi, della Nave, del Cacciatore, dei Giocolieri,Giglioli, dei Charun); la ricerca prosegue, ma già la ricchez-za e la varietà, talora sconcertante, dei temi (solitamente sce-

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ne di vita quotidiana, meno ricorrenti gli episodi mitologici)e della composizione, il valore artistico di taluni affreschi,che si distribuiscono continuativamente dal sec. vi a. C. alsec. i a. C., ampliano, completano e trasformano la storia del-la pittura etrusca. Volendo delineare brevemente una perio-dizzazione si possono individuare diverse fasi della pitturatarquinese: la prima («ionica») è quella che maggiormente ri-sente delle influenze greche riscontrabili nelle tombe del Fiordi Loto (sec. vi), dei Tori (540 a. C.), della Caccia e della Pe-sca, delle Leonesse, degli Auguri, (tutte decorate nel 530 a.C.); la seconda illustra con le tombe dei Giocolieri (520-500a. C.), del Barone (500 a. C.), del Cardarelli, lo «stile seve-ro» (500 a. C. ca.), mentre di età severa sono le piú note tom-be dei Leopardi e del Triclinio (prima metà del sec. v a. C.).Al periodo classico ed ellenistico risalgono le tombe dell’Or-co, Giglioli, degli Scudi e del Tifone. (→ anche etrusca, pit-tura). (mfb + sr).

TarragonaCittà spagnola, antico centro iberico conquistato dai roma-ni e divenuto capitale della provincia tarasconense; vi sonostati ritrovati alcuni mosaici, conservati nei musei cittadini(Perseo e Andromeda, Ulisse nell’antro di Polifemo).Per la Cattedrale e il Museo diocesano, allestito dal 1935nell’antica Sala capitolare, T reca inoltre un importante con-tributo alla conoscenza della pittura catalana del Medioevo.A questo proposito vanno citati gli affreschi romanici di Pe-ralta (in particolare Adamo ed Eva), i dipinti murali goticidella cappella di San Hippolito (sec. xiv) e numerosi retablio pannelli dei principali maestri barcellonesi del sec. xv:Ramón de Mut (col Retablo di san Pietro, 1420, provenien-te da Vinaixa), Martorell (retablo della cappella di San Mi-guel, trasferito da Pobla de Ciervoles, e il pannello dei dueSan Giovanni), Juan Mates (col Retablo di san Giacomo diVallespinosa). (mjb + pg).

Tarrasa(provincia di Barcellona, Spagna). Il complesso vescovile di Tera centro della diocesi di Egara, separata nel sec. v da quel-la di Barcellona e probabilmente soppressa dopo l’invasionearaba; gli edifici che lo componevano divennero, nel sec. xii,sede di un priorato dipendente dall’abbazia di Avignone.

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Dei sei santuari che attorniavano l’antica domus ecclesiae re-stano oggi soltanto tre chiese: San Miguel, San Pedro e San-ta Maria, le ultime due profondamente rimaneggiate in epo-ca romanica.Le parti preromaniche, datate all’età visigota dalla maggiorparte degli studiosi, sono costituite dal catino triconco e daltransetto di San Pedro, dall’abside a ferro di cavallo, con-tenuta entro un basamento quadrato, di Santa Maria, dallaquasi totalità di San Miguel, costruzione a pianta centraleche servì da battistero.Gli affreschi ivi ospitati sono stati attribuiti ora al sec. vi(Puig i Cadafalch), ora al x e addirittura all’xi (Cook, Gu-diol). Grabar, sulla base di valutazioni stilistiche, e Ainaudde Lasarte, in considerazione del fatto che gli affreschi co-prono opere di epoca carolingia, optano per una datazioneal sec. ix.Sulla volta dell’abside di San Miguel è dipinta l’Ascensionedi Cristo, mentre in gran parte cancellata è la composizionedisposta in cerchi concentrici intorno a una stella che deco-rava la calotta absidale di Santa Maria; essa raffigurava, sem-bra, Scene della Passione.In San Pedro venne aggiunta una parete a chiudere il tondodel catino absidale, formando così una sorta di retablo ad ar-cate che inquadra Gesú, San Pietro, due serafini e quattro Evan-gelisti; piccole figure sono allineate su una specie di predella.La composizione circolare con vari motivi decorativi di que-sti dipinti, tutti riferibili a un’unica mano, sembrano deri-vare da modelli paleocristiani orientali, mentre la semplicitàdella tecnica e del colore – linea ocra o marrone su fondobianco – e lo stile sommario delle pieghe delle vesti e dei vol-ti consentono di stabilire rapporti con cicli carolingi, comequelli di Naturno in Tirolo e della cripta di San Massimo aTreviri.Un altro affresco decora una piccola abside ricavata nellatraversa nord del transetto romanico di Santa Maria. Il te-ma è quello del Martirio e ascensione dell’anima di san Tom-maso di Canterbury: nel catino il Cristo nella mandorla, toc-ca con due libri aperti l’arcivescovo e il suo diacono (EdwardGrim).Le figure allungate e dalle lunghe mani, dai profili privi dimorbidezza, vestiti di azzurro, giallo e verde, si distaccano

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su un fondo di bande gialle, rosse o bianche. Il medesimopittore è autore del frontale proveniente dalla chiesa di Espi-nelvas conservato nel Museo di Vich. (jg + sr).

tarsiaDefinizione e primi esempi di tarsie figurate Tecnica de-corativa affine al mosaico, ma che solitamente utilizza tes-sere di dimensioni maggiori, ritagliate seguendo un disegnopredisposto (cartone); la combinazione di queste tessere dicolore diverso, poi fissate a un supporto, porta alla costru-zione di una figura «intarsiata». Si possono utilizzare di-sparati materiali (osso, avorio, madreperla, pietre dure, ecc.),ma la t vera e propria è realizzata con legni di vario colorescelti secondo le esigenze cromatiche poste dal cartone dibase; per le ombre si ricorre alla brunitura a fuoco del legnostesso. Un tipo di t o «intarsio» meno prezioso è quello det-to «alla certosina» che si ottiene componendo con minutescaglie di legno a due colori, o con legno e osso, o legno eavorio, dei motivi geometrici a piccoli rombi, cerchi, stelle;visivamente ricorda molto da vicino i motivi ornamentalidella civiltà araba e i mosaici decorativi romani di tradizio-ne cosmatesca. Questa variante tecnica della t è frequente-mente usata per oggetti di piccole dimensioni, mentre la t agrande disegno trova la sua applicazione ideale nei mobiliecclesiastici maggiori: cori, armadi, leggii, banconi, sedili,candelabri, ecc.Il piú antico capolavoro della t figurata italiana è un fram-mento del coro del Duomo di Orvieto, con l’Incoronazio-ne della Vergine, ora all’Opera del Duomo; in questa ope-ra, sicuramente di un maestro senese e anteriore al 1357,la tecnica della t appare ancora debitrice del ricamo e del-lo smalto nella minuta descrizione dei particolari fisiogno-mici e dell’abbigliamento. Gli intarsiatori senesi furono fa-mosissimi nel Trecento e si assunsero le imprese piú im-portanti di quegli anni tra cui il coro del Duomo di Fiesole(1371), quello di Santa Maria del Fiore a Firenze (1390,ambedue di Pietro di Lando), quello di Santa Croce a Fi-renze (1355, di Francesco da Siena) e ovviamente quellodel Duomo di Siena, collaudato nel 1394 da Domenico diNicolò dei Cori. Nulla rimane dei maestri finora citati ec-cetto l’ultimo, Domenico di Nicolò, cui dobbiamo il corodella cappella interna del Palazzo Pubblico senese (com-

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messo nel 1415 e terminato nel 1428); in queste t raffigu-ranti gli articoli del Credo, le variazioni dei colori sono as-sai limitate e prevale sull’effetto cromatico il ritmo linea-re di un disegno di contorno molto vicino ai Lorenzetti.Simili alle t di Domenico di Nicolò sono i due soli esempiconservati nel Comune di Siena del maestro Mattia di Nan-ni: raffigurano la personificazione della Giustizia e l’Inter-cessione della Vergine in favore di Siena e furono eseguite,dal 1425 al 1430, per ornare un dossale della Sala delle Ba-lestre.Maestri di tarsia e maestri di prospettiva in Toscana e a Ur-bino Quando Filippo Brunelleschi e Leon Battista Albertidefinirono le corrette regole per la riproduzione sul pianodella terza dimensione iniziò per la t un lungo e fortunatoperiodo poiché, con la semplicità e nettezza dei suoi con-torni sul piano, e con la limitata gamma dei colori, essa sem-brò la tecnica ideale per illustrare concretamente alcuni ti-pici teoremi di prospettiva pratica (semplici nature morte,vedute urbane, solidi geometrici, ecc.). Non si sono conser-vati a Firenze che pochi esempi precoci di questa identifi-cazione tra maestri della prospettiva e maestri della t, tuttiraccolti nelle parti laterali degli armadi della sagrestia delleMesse in Santa Maria del Fiore: commissionate nel 1436 adAntonio Manetti e Andrea di Lazzaro, che le misero in po-sa negli anni successivi (tra i cartonisti figura anche lo Scheg-gia), sono talmente «mature» da non esser state distinte daquelle con scene cristologiche e figure di profeti eseguite inparte da Giuliano da Maiano (1463-65) e in parte da Bene-detto da Maiano su disegni di Alesso Baldovinetti e di Ma-so Finiguerra, se non per merito delle attente ricerche ar-chivistiche e, poi, tecniche di M. Haines (1981 e 1986). Laloro importanza, perdute le documentate t che ornavano lostudiolo di Piero de’ Medici (inizi degli anni ’50) è tanto piúnotevole in quanto uniche e perfette insieme, nei principîcostruttivi che le sostengono e negli aspetti tecnici. Giulia-no da Maiano, in collaborazione con Francesco di Giovan-ni detto il Francione, eseguì anche la porta dell’Udienza nelPalazzo della Signoria, con le figure di Dante e di Petrarcasu disegno di Botticelli (pagamenti nel 1481), e fuori di Fi-renze lo ritroviamo a Pisa (1471-79 ca.), per lavori di intar-sio nel coro del Duomo, nei quali gli succede temporanea-

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mente Baccio Pontelli; dopo sarà a Perugia (1491) dove ese-gue, insieme a Domenico del Tasso, il coro del Duomo consemplici motivi floreali. Soltanto dal 1479 al 1481 BaccioPontelli è a Urbino, in date cioè che tenderebbero ad esclu-dere la sua partecipazione, che pur è stata ipotizzata, a unadelle piú alte realizzazioni della t italiana: lo studiolo di Fe-derico da Montefeltro in Palazzo Ducale. Progettate e mes-se in opera tra 1474 e ’76, così come indotto da vari fattoristorico-documentari, le t dello studiolo di questo condot-tiero-umanista condensano nella loro ricchezza ed evidenzaprospettica, nella loro magica esattezza, l’alta cultura che siera andata sviluppando nella corte urbinate, ma il loro ca-rattere decisamente fiorentino e, piú precisamente, botti-celliano (leader, in questo torno di tempo, dei modelli pergli intarsiatori), lasciano in penombra le suggestive attribu-zioni dei cartoni a Piero della Francesca, Laurana e Bra-mante. Se è infatti possibile che alcuni dei disegni per le tdi Urbino, come quelli per alcune porte del Palazzo Ducalee per le t analoghe dello studiolo già a Gubbio e ora al mmadi New York, siano dovuti a Francesco di Giorgio Martini,è risultato palese, ad indagini stilistiche piú ravvicinate (Fer-retti, 1982) che il progetto complessivo dello studiolo deb-ba risalire alla bottega di Botticelli (per le parti di figura inparticolar modo), forse a quella dei Pallaiuolo (Piero?) e diGiuliano da Maiano. Le t occupano tutta la parte bassa del-le pareti dello studiolo con scansie simulate colme di stru-menti scientifici, di libri, di armi, con vedute della campa-gna urbinate e con figure allegoriche (in altri tempi eranocollocati al di sopra delle t i ritratti di uomini famosi dipin-ti da Giusto di Gand e Pedro Berruguete). Anche Siena siaggiorna tempestivamente sulle nuove tendenze prospetti-che della t e lo si può constatare nei frammenti del rinno-vato coro del Duomo (figure di santi e nature morte) ora con-servati nella collegiata di San Quirico d’Orcia; la commis-sione fu affidata nel 1482 all’architetto e intarsiatoreAntonio Barili che le portò a compimento nel 1502. Nel frat-tempo Antonio Barili eseguì in Duomo anche i sedili e i ban-chi, ora perduti, della Libreria Piccolomini.Per quanto di intarsio piú semplice vanno ancora ricordatiper l’Italia centrale, i dossali del coro di San Francesco inAssisi, terminati nel 1501 da Domenico Indovini da Sanse-verino.

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I fratelli Canozi da Lendinara e i loro primi collaboratori InToscana i maestri intarsiatori utilizzano di preferenza car-toni altrui, mentre nell’Italia settentrionale è piú consuetauna diversa organizzazione del lavoro che vede coincidereesecutore lignario e inventore del cartone. La bottega piúrappresentativa è quella dei fratelli Lorenzo e Cristoforo Ca-nozi da Lendinara, ambedue già in contatto con Piero dellaFrancesca e i suoi luminosi dettami prospettici, forse già almomento dei loro primi lavori di t nello studiolo di Belfio-re presso Ferrara (1449-53). In seguito li troviamo a Pado-va per l’esecuzione del coro di Sant’Antonio (1462-69) e del-le porte della sacrestia della stessa Basilica. Le fonti antichecelebrano altamente il coro di Padova, ma fu distrutto nel1749 e a noi non resta che immaginarlo attraverso gli esem-pi minori eseguiti dai Lendinara nelle Cattedrali di Mode-na (1461-65) e di Parma (1468-73), oltre che attraverso lariedizione aggiornata eseguita dal Platina per il Duomo diCremona (vedi oltre). I temi ripetuti nelle opere rimaste so-no al solito cristalline nature morte e silenziosi paesaggi ur-bani, alternati a poche solenni figure di santi.Dal 1469 i due fratelli si separano e Lorenzo sarà attivo so-prattutto in Veneto dove sono ancora reperibili poche testi-monianze lendinaresi, quali i dossali della sacrestia dei Fraria Venezia e il coro di Sant’Antonio in Polesine. La poetica ela perizia dei Canozi saranno diffuse nella regione anchedall’attività di Pietro Antonio degli Abati, cognato dei Len-dinara e loro collaboratore a Padova e a Modena; lo troviamoattivo autonomamente a Vicenza (coro di Santa Maria diMonte Berico, su disegno del Montagna, commesso nel 1484),a Padova (lavori vari di t in San Giovanni di Verdara, dal 1487al 1497) e forse anche in San Francesco a Treviso.Cristoforo da Lendinara resta invece in Emilia dove porta atermine il coro di Parma, con la collaborazione di LuchinoBianchino, ed esegue, nel 1477, le quattro grandi t con fi-gure di Evangelisti ora nella sacrestia del Duomo di Mode-na. L’aderenza all’insegnamento pierfrancescano, maestroal quale l’intarsiatore emiliano secondo la testimonianza diLuca Pacioli, era legato da fraterna amicizia, e l’altissimaqualità degli Evangelisti vi appare così forte che è stata ipo-tizzata, ma senza alcun fondamento scientifico, l’esistenzadi cartoni autografi di Piero della Francesca.

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Dal 1474 è attivo accanto a Cristoforo Canozi il figlio Ber-nardino cui si devono le spalliere della sacrestia di Modena(iniziate appunto nel 1474) e gli stalli del Battistero di Par-ma (1489-94); sarà il figlio a curare gli affari della bottegalendinarese nell’Italia settentrionale quando il padre verràchiamato a Lucca per lavori di t in Duomo (1484-88 ca.; re-stano cinque grandi t con figure e paesaggi al Museo di Vil-la Guinigi). Nel 1486 Cristoforo è attivo a Pisa al coro delDuomo e nel 1487 vince, facendosi rappresentare dal figlioBernardino, il concorso per i banconi della sacrestia dei Con-sorziati a Parma: la morte gli impedirà però di portare a ter-mine questa impresa e il completamento toccherà a Luchi-no Bianchino; intanto a Pisa il lavoro sarà continuato daGuido da Saravallino cui spettano alcune singolari t con ar-gani e ruote dentate di impressionante imponenza.Gli eredi di Cristoforo da Lendinara Come si è visto nellabottega dei Lendinara si educarono numerosi maestri intar-siatori che seguirono fedelmente le orme di Cristoforo, mal’unico erede veramente all’altezza del maestro fu Giovan-ni Maria Platina. Di origine mantovana fu però sempre at-tivo a Cremona dove restano di lui un grande armadio perreliquie (1477-80), già nella sacrestia del Duomo e ora nellapinacoteca locale, e il bellissimo coro del Duomo stesso(1483-90). Questo esempio culmine della t padana dovevaper contratto superare in bellezza il coro dei Lendinara a Pa-dova e per questa ragione verosimilmente fu scelto, controle rimostranze dei maestri locali, un forestiero che era statoallievo di Cristoforo. I dossali del Platina ospitano complessenature morte di nobile eleganza, vedute prospettiche di an-goli cittadini facilmente riconoscibili e alcune figure stilisti-camente legate alla produzione pittorica di Lorenzo Costa.Possiamo dire qualcosa anche dei due maestri che al con-corso per il coro del Duomo furono sconfitti: Pantaleone deMarchi e Tommaso Sacchi. I Sacchi erano una famosa fa-miglia di intarsiatori cremonesi di cui il piú noto è Paolo Sac-chi, autore del coro di Sant’Andrea a Vercelli (compiuto nel1511) e di quello di San Giovanni in Monte a Bologna (fi-nito nel 1537); altri documenti su Paolo Sacchi riguardanoil suo intervento nel coro di San Francesco a Cremona (com-messo nel 1531). Pantaleone de Marchi appartiene invece auna famiglia di intarsiatori cremaschi il cui capostipite è Ago-stino de Marchi autore del coro della cappella maggiore in

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San Petronio a Bologna (1467-77); per gli stalli figurati fornìdisegni Francesco del Cossa. La famiglia de Marchi lavoraal completo (compreso Pantaleone) anche nella cappella Va-selli, sempre in San Petronio (documenti di pagamento nel1494), e continuerà a soddisfare le richieste bolognesi finoai tempi di Fra Damiano Zambelli. Nel 1492 il solo Panta-leone de Marchi subentra a Bartolomeo da Polla (o Poli) nel-la esecuzione del coro maggiore della Certosa di Pavia, qua-si terminato nel 1498, su cartoni forniti da pittori lombar-di. Sono firmati da Pantaleone de Marchi e datati 1505anche alcuni stalli conservati parte al Musée Jacquemart-An-dré di Parigi e parte a Berlino (sm, gg), forse da identifica-re come frammenti dell’antico coro dei conversi, sempre nel-la Certosa di Pavia, pagato a Pantaleone de Marchi dal 1502al 1505.Il continuo andirivieni tra una regione e l’altra dei maestriintarsiatori, i loro incontri e scontri per accaparrarsi le com-missioni maggiori giustificano intensi scambi culturali trabottega e bottega, scambi che talvolta si risolvono in con-creti prestiti (o furti) di cartoni preparatori. Ad esempioBernardino Fossati da Codogno utilizza nel coro di San Lo-renzo ad Alba (1512-17) alcuni cartoni già usati a Vercellida Paolo Sacchi che, a sua volta, si era ispirato ai cartoni delPlatina per il coro di Cremona. Un fenomeno analogo av-viene per i cartoni di Pantaleone de Marchi, che ritroviamousati da Anselmo de Fornari Elia de Rocchi e Gian Miche-le de Pantaleoni nel coro del Duomo di Savona (1500-21).Questo è forse l’ultimo vero capolavoro autonomo della tnell’Italia settentrionale, affidato a maestri che sanno tenervalidamente testa ai loro colleghi pittori con invenzioni de-corative e cartoni figurati di grande qualità e sostenutez-za formale. Gli stessi maestri saranno chiamati a Genova, apartire dal 1514, per il coro della Cattedrale che, dopo uninizio promettente, sarà condotto avanti in modo molto stra-scicato fino al 1540 (anno di un nuovo contratto con Gio-vanni Francesco Zambelli). Nel frattempo la grande tradi-zione culturale padana è stata costretta ad arrendersi all’av-vento del manierismo e l’arte delle t, ridotta al rango diartigianato inferiore, risente di un pesante contraccolpo. Nel1529 ad esempio si liquida in Genova una somma di dena-ro a Gerolamo da Treviso per un disegno da tradurre in t:

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la fortuna della prospettiva ormai si è esaurita, sostituita daldiffuso feticismo per il disegno «di maniera».Fra Giovanni da Verona Si può considerare erede di Cri-stoforo da Lendinara, per quanto di cultura assai piú com-plessa, anche Fra Giovanni da Verona che poté conoscere latradizione emiliano-lombarda a Ferrara durante il suo novi-ziato (1475-78); sembra però che l’arte l’abbia appresa daFra Sebastiano da Rovigo collaborando con lui ai perduti la-vori di t in Sant’Elena a Venezia (1489-90). Negli anni1491-99 esegue il famoso coro di Santa Maria in Organo aVerona e si impone con questa impresa di grande impegnotra i piú abili intarsiatori del momento. In verità le sue ve-dute prospettiche mostrano caratteri precocemente diver-genti da quelle consuete nell’Italia settentrionale sono con-dotte sul filo dell’assurdo, eccessivamente complicate, pre-feribilmente di fantasia, ma con elementi riconoscibili attintida fonti disparate; anche per una via così eccentrica e per-sonale la t abbandona la strada maestra della veduta reali-stica e della corretta prospettiva. A tutto ciò si aggiunga cheFra Giovanni da Verona non si accontenta piú dei soli co-lori reperibili nelle gamme naturali dei legni e usa tingere va-riamente i legni stessi in una disperata gara di emulazionecon la pittura. I numerosi spostamenti del frate da un con-vento benedettino a un’altro fanno conoscere la sua periziaovunque e nel 1503 gli è commesso il coro di Monte Olive-to presso Siena. L’opera, terminata nel 1505, non è piú nel-la sua collocazione originale e la si può ammirare ora nelDuomo di Siena; a Monteoliveto Maggiore è invece stato ri-coverato il coro eseguito da Fra Giovanni per il convento diSan Benedetto fuori Porta Tufi presso Siena (1511-16). Dal1506 al 1511 fra Giovanni è impegnato nelle t del conven-to di Monteoliveto a Napoli (ora in Sant’Anna dei Lombar-di) e subito dopo tocca l’apice della sua carriera lavorandoalle spalliere intarsiate della Sala della Segnatura in Vatica-no (1511-12), purtroppo eliminate prestissimo per una di-versa decorazione. Le ultime opere di Fra Giovanni sono nuo-vamente da cercarsi nell’Italia settentrionale (a Verona e Lo-di), ma nell’Italia centrale e meridionale restano i suoi allievio i maestri intarsiatoti da lui influenzati: ad esempio GiovanniFrancesco d’Arezzo, autore del coro della Certosa di San Mar-tino a Napoli (ante 1524), o i fratelli Bencivenni che lavora-no, dal 1521 al 1530, al coro della Cattedrale di Todi.

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Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Capodiferro a Bergamo;Fra Damiano Zambelli a Bologna Mano a mano che dimi-nuisce l’interesse per i problemi prospettici e contempora-neamente si fa piú evidente la nuova caratterizzazione ari-stocratica della cultura figurativa, la tecnica della t perdesempre piú importanza e la figura del pittore che fornisce icartoni prevale sull’artigiano esecutore. L’ultimo esempio difelice accordo tra disegno ed esecuzione pratica è fornito dal-la collaborazione di Lorenzo Lotto e Giovan Francesco Ca-podiferro per le t e per gli sportelli di copertura del coro diSanta Maria Maggiore a Bergamo: storie bibliche e impreseallegoriche eseguite dal 1522 al 1532. Non fu impresa faci-le per il Capodiferro, preferito a Fra Damiano Zambelli perintervento personale del Lotto, tradurre in t i disegni chegli venivano inviati da Venezia: non si trattava piú di rea-lizzare nature morte e prospettive dominate dalla regolaritàdella geometria, bensì di restituire con i mezzi limitati delmateriale ligneo i disegni fittissimi di dettagli, i paesaggiaperti visti a volo d’uccello, gli interni ornati delle regge bi-bliche immaginati da uno dei pittori piú generosamente in-ventivi di quegli anni. Il Capodiferro fu all’altezza dell’im-presa e riuscì a riprodurre nel legno delle t bergamasche per-fino i vibranti effetti luministici della pittura lottesca.È assai meno felice cromaticamente la produzione di Fra Da-miano Zambelli che, almeno nelle prime opere bolognesi, de-nuncia senza mezzi termini di ispirarsi al modello lottesco;molto piú debole è invece il suo intervento (dal 1517 al 1526ca.) nel coro di Santo Stefano a Bergamo, ora trasferito in SanBartolomeo. I cartoni architettonici di Zenale, Bramantino ed’altri, che dovettero essere di notevole bellezza, sono realiz-zati con timidezza eccessiva e la parte figurata è sempre de-bolissima. Solo dunque la conoscenza delle t di Santa MariaMaggiore può giustificare la maggior sicurezza e l’ardire del-le t bolognesi. Inoltre è probabile che a Bologna Fra Damia-no abbia potuto giovarsi dei consigli del Serlio, del giovaneVignola e delle note sulla scenografia teatrale eli BaldassarrePeruzzi. È certo che le t cromaticamente povere di Fra Da-miano ostentano spesso complessi edifici classicheggianti con-cepibili solo da uomini veramente esperti d’architettura.Dal 1528 al 1530 Fra Damiano esegue storie agiograficheper le spalliere del presbiterio di San Damiano in Bologna,

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utilizzando in parte i cartoni già usati in Santo Stefano aBergamo; subito dopo passa alle spalliere per la cappella diSan Domenico nella stessa chiesa, ora portate in sacrestia,con Storie di san Domenico (1530-35); sono datati 1537 e1538 il leggio e la porta del coro, uniche opere eseguite inun periodo di stasi per i lavori bolognesi dovuto a contrastiinterni al convento e a reali problemi finanziari. Nel 1536troviamo lo Zambelli attivo in San Pietro dei Cassinesi a Pe-rugia, ma il suo intervento si limita alla porta del coro, men-tre il fratello Stefano si incarica del coro nel suo insieme.Nel 1540 presenzia a Genova alla stesura del contratto, fir-mato dal nipote Giovanni Francesco, per il compimento delcoro del Duomo e promette di intervenire personalmentenei seggi maggiori. In realtà non vi porrà mai mano perchéimpegnato dal 1541 all’anno della morte (1549) nelle storiebibliche del coro maggiore di San Domenico a Bologna.È significativo notare che Fra Damiano non eseguì solo t dainserire nei consueti mobili di arredo ecclesiastico, ma sicompiacque anche di comporre piccoli quadri a intarsio, an-cora una volta in gara con la pittura, per farne poi omaggioai potenti del momento. Nel 1530 sappiamo di una Croci-fissione donata a Carlo V; è del 1534 un Ritrovamento di Mo-sè, ora al mma di New York, che porta le armi di FrancescoGuicciardini (allora governatore di Bologna), e due anni do-po è documentata l’esecuzione di una piccola icona destina-ta a Paolo III. Ancora al mma si trovano le t eseguite nel1548 per il castello francese dell’ambasciatore di FranciaClaude d’Urfé.Appare evidente da questi fatti il mutamento dei tradizio-nali committenti degli intarsiatori che, per persone di que-sto rango, sono costretti sempre piú a compromettersi conle cerebrali difficoltà del disegno manierista. Nonostante ilsuccesso di Fra Damiano nella seconda metà del sec. xvi, lat giunge al suo tramonto e, nel giro di pochi anni, si ridurràa pura curiosità da museo o ad elemento decorativo secon-dario da inserire nei campi liberi di preziosi mobili privati.Il Vasari la giudica molto severamente, nel 1568, come la-voro che richiede «piú pacienza che disegno», e nei secolisuccessivi fino all’Ottocento si andrà a gara nel distruggerei capolavori di intarsio ritenuti «un altro fastidio per le no-stre chiese» (Milizia, 1781). Solo con la ripresa di interesseper le arti industriali, e per quelle forme di produzione arti-

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gianale che possono sembrare di origine popolare, la t ri-chiama nuovamente su di sé l’attenzione degli studiosi dimodo che, nella seconda metà dell’Ottocento, si cominciaad aver notizia di numerosi restauri a cori intarsiati delle cat-tedrali italiane: restauri di buona volontà, ma non sempresufficientemente rispettosi di quanto si era ancora conser-vato dell’opera originale. (gr).

Tasnière, Giovanni(Besançon ? - Torino 1704). Incisore a bulino, nato forse aBesançon dove risiedeva una famiglia con questo nome trail xvii e il xviii secolo, la sua produzione artistica mostra le-gami con incisori francesi come Claude Mellan e Françoisde Poilly tali da far supporre una sua educazione artisticaparigina. Qui lo avrebbe notato l’ambasciatore sabaudo chelo raccomandò alla corte torinese. La sua perizia fu moltoapprezzata in Piemonte, dove è documentato a partire dal1670 e fu ricercato incisore di soggetti religiosi e allegorici,di ritratti e di vedute, di illustrazioni librarie e di fregi. Lasua riconosciuta maestria nel trasferire su rame il linguaggiodegli artisti di corte gli valse l’incarico di illustrare, in col-laborazione con il disegnatore Baroncelli, l’opera di Ame-deo di Castellamonte dedicata alla Venaria Reale (Torino1674, ma 1679), vero capolavoro dell’editoria barocca. (ada).

Tassaert, Octave(Parigi 1800-74). Esordì come incisore e illustratore, attivitàche forse influì sulla sua predilezione per le scene di generecariche di sottintesi aneddotici, spesso traendo spunto da fe-ste e divertimenti popolari (Donna con bicchiere di vino,1850: Montpellier, mba). Resta celebre per i quadri che raf-figurano i miseri e i disperati, ritratti con un sentimentalismoun po’ superficiale (Una famiglia sventurata, 1849: Museo diPoitiers). Artista sensibile e abile, giocò spesso su chiaro-scuri bruni o, all’opposto, si abbandonò a una pittura dalbrillante colore. Le difficoltà economiche e il suo labile sta-to psichico lo portarono al suicidio. Numerosi sono i suoi di-pinti conservati a Parigi (Louvre: Interno di atelier, 1845; Nu-do di donna; i Bambini abbandonati, 1853; Pigmalione e Ga-latea, 1855); al Museo di Montpellier un’importante serie diquadri illustra la sua varia produzione. (ht).

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Tassel, Jean(Langres 1608 ca. - 1667). Confuso a lungo col padre Ri-chard (Langres 1582 ca. - 1660), autore di un manieristi-cheggiante Trionfo della Vergine (1617: Digione, mba), fu al-lievo del lorenese Jean Leclerc. A Roma nel 1634, entrò, co-me Bourdon, in contatto con i bamboccianti e realizzònumerose scene di genere (Concerto in un’osteria romana:Museo di Kassel; il Maniscalco e il Corpo di guardia: L’Aja,Museo Bredius; i Razziatori: Langres, Museo).Tornato in Francia prima del 1647, divise l’attività tra Lan-gres e Digione. Le chiese e i musei di queste città e il Mu-seo di Troyes sono ancor oggi ricchi di opere di questo mae-stro, sapiente colorista benché un poco goffo nell’esecuzio-ne. La composizione a zig-zag del Giudizio di Salomone delRingling Museum di Sarasota, l’austera verità del ritratto diCatherine de Montholon (Digione, mba), il profilo aguzzo, abil-mente illuminato, della Vergine col Bambino del Museo di Lio-ne sono altrettante testimonianze della varietà del suo stile.Altre sue opere si trovano a Parigi (Ratto di Elena: Louvre), aSète (Diana e Venere), a San Sebastián, in Spagna (Adorazio-ne dei Magi). (pr).

Tassi, Agostino(Ponzano Romano 1580 ca. – Roma 1644). Agostino Buona-mici, arrivato giovanissimo a Roma, entrò come paggio alservizio del marchese Tassi, del quale assunse il cognome.Sui vent’anni lasciò Roma per Firenze ed entrò al serviziodi Ferdinando de’ Medici. In questo periodo fece alcuni la-vori a Livorno (un fregio nel Duomo e affreschi sulle fac-ciate di alcune case), collaborò a Firenze con il Cantagallinanella decorazione di apparati per feste (1608). Viaggiò permare sulle galere granducali, secondo le fonti per scontareuna condanna per rissa, ma seppe volgere questa esperienzaa suo vantaggio, poiché ne trasse il gusto di raffigurare «Va-scelli, Navi, Galere, Porti, borasche, pescaggioni e simili ac-cidenti di Mare» (Passeri). Nel 1610 si recò a Genova, do-ve, secondo il Soprani, dipinse paesaggi marini nella casa diOrazio de Negro, collaborando con il senese Ventura Sa-limbeni. Tornato a Roma in quello stesso anno dipinse inPalazzo Firenze sotto la direzione del Cigoli (1610) un fre-gio con le imprese per mare di Ferdinando de’ Medici. Fu

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uno dei primi impegni della sua intensa attività di decorato-re, specialista nei paesaggi e nelle prospettive, svolta nei pa-lazzi delle grandi famiglie romane: nel Palazzo del Quirina-le per Paolo Borghese (Sala del Concistoro, 1611, con Ora-zio Gentileschi) e nel Casino del Palazzo Rospigliosi, alloradi Scipione Borghese, in cui le figure di Orazio Gentileschisi inseriscono armoniosamente nella complessa architetturaillusionistica creata da T (1611-12). Il rapporto con Gentile-schi si interruppe bruscamente quando Agostino fu accusatodi aver usato violenza alla figlia di questi, Artemisia. Dopoun anno di prigione T è di nuovo al lavoro nel casino dellaVilla Montalto, poi Lante, a Bagnaia, dove la decorazionedella volta della loggia finge con felice invenzione luminoseuccelliere; partecipa poi con Lanfranco, sin dalla fase pro-gettuale, alla grande impresa della Sala regia al Quirinale(1616-17), cui lavorarono molti altri artisti, ed esegue inun’altra stanza dell’appartamento pontificio un fregio conStorie di san Paolo. Agli anni successivi appartengono gli in-terventi di T nel Palazzo Lancellotti in via dei Coronari(1617-23), nel casino della Villa Ludovisi (1621-23), in en-trambi i casi collaborando con Guercino; in Palazzo Costa-guti (1621-23); nel Palazzo Ludovisi (1623-28); nel PalazzoPamphilj a Piazza Navona (1635). Sotto il pontificato di Ur-bano VIII, lavorò per i Barberini, di nuovo nel Palazzo delQuirinale; in Vaticano dipinse alcune tele celebranti la no-mina a prefetto di Roma di Taddeo Barberini (1631-33: Mu-seo di Roma; Banca di Roma). Nella pittura di paesaggiadottò un linguaggio nella tradizione del tardo manierismodi Paul Brill, che dovette conoscere quando operava in Pa-lazzo Rospigliosi e il cui influsso si avverte a pieno nelle Sto-rie di san Paolo del Quirinale. Parallelamente si mostra aper-to alla poetica di Elsheimer, che adattava alla pittura di ge-nere la visione caravaggesca, e ai suggerimenti di Saraceni.La sua modernità e la sua sensibilità agli effetti di luce e diatmosfera si rivelano anche nei dipinti da cavalletto a lui ri-conosciuti (va ricordato a questo proposito che sono statispesso confusi con opere di Filippo Napoletano, Pietro Pao-lo Bonzi, Lorrain), molti dei quali in collezione privata, raf-figuranti marine, paesaggi con rovine o con scene pastorali;T va ormai ben oltre gli schemi compositivi di HendrickVroom e si mostra sensibile anche al classicismo bolognese,

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in particolare del Domenichino. I suoi paesaggi e le sue ma-rine sono animati da giocatori di carte e indovine molto man-frediani, che preannunciano le bambocciate. Per aver sapu-to italianizzare interamente la lezione di Elsheimer, T occu-pa un posto determinante nella storia del paesaggio in Italia:la novità della sua visione, spesso piú che la qualità pittoricadelle opere, spiega l’importanza del suo influsso su pittori co-me Sinibaldo Scorza e A. Travi e anche su maestri come Pie-tro da Cortona e Claude Lorrain, il cui percorso prende ini-zio nella sua bottega nel 1620. T preannuncia le ricerche diluce e d’ombra di Codazzi e anche la freschezza di visione diSwanevelt, Jan Both e Dughet, ma soprattutto di Lorrain;inoltre, lo «stile furioso» delle sue tempeste si ritrova, tra-mite Bramer, in Salvator Rosa, poi in Magnasco e in Ricci.Della nuova, sottile perspicuità, così evidente nel suo pae-saggio, il T dà prova anche nella decorazione illusionistica,di cui alcune delle sale del Palazzo Lancellotti ai Coronariconservano esempi fra i piú memorabili. (sde + sr).

Tassi, Matteo(Assisi 1831 - Perugia 1895). A Roma si forma con A. An-gelini e A. Mantovani presso l’Accademia di San Luca(1858-59); in seguito è a Firenze (1860-64) dove è invitatoa esporre dalla locale Società Promotrice delle Belle Arti.Tornerà a Perugia all’inizio degli anni Settanta.Attivo come decoratore e scenografo (Esopo e i pastori del-l’Attica, 1862: sipario per il Collegio della Sapienza di Pe-rugia; soffitto del teatro di Todi, 1867-68), conosce un pe-riodo di notevole successo a partire dalla commissione di ot-to quadri con Vedute di Roma e i monumenti eretti da Pio IXper la terza loggia vaticana, lavoro affidatogli dal maestroMantovani. La sua capacità di adeguarsi al gusto del pub-blico, lo rende abile interprete dell’eclettismo: T passa in-fatti senza sforzo dal neoclassicismo (affresco per la Sala daballo di Palazzo Gallenga, Perugia) al realismo (Sala d’aspet-to e bar della stazione ferroviaria di Perugia), alla rivisita-zione di stili storici (uso delle grottesche, restauri neobi-zantini per la chiesa di San Costanzo di Perugia, 1889). No-to anche come paesaggista (Sogno, 1871: Perugia, Palazzodei Priori; Via del Castelluccio di Perugia, 1889), la sua ope-ra piú importante è il restauro (e in molti parti si tratta dirifacimento) della Sala dei Notari di Perugia (1885). (sr).

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Tatlin, Vladimir Evgrafovi™(Kharkov 1885 - Mosca 1953). Allievo di K. Korovin e V.Serov all’Istituto d’Arte di Mosca e del realista «ambulan-te» Afanas´ev a Penza, T interrompe a diciotto anni l’ap-prendistato artistico per imbarcarsi come nostromo su mer-cantili in rotta nel Mediterraneo. Rientrato a Mosca nel1907, stringe rapporti d’amicizia e discepolato con Larionove la Gon™arova, accanto ai quali partecipa al Salone inter-nazionale di Odessa (1910). Nel biennio successivo, che lovede attivo anche nel campo dell’illustrazione e in quello del-la scenografia (illustrazioni per i libretti futuristi Il mondoalla rovescia di Kru™ënych; Il Messale dei tre di Majakovskij;bozzetti per Una vita per lo zar di Glinka, 1913; Il vascellofantasma di Wagner, 1918), espone con l’Unione dei Gio-vani, il Fante di quadri e Mir Iskusstva, in un clima densodi sollecitazioni a un tempo neoprimitiviste e cubo-futuri-ste. In questo clima realizza i dipinti del 1911-13 che alter-nano moderate assunzioni da Matisse e Picasso, l’andamen-to curvilineo del segno e la scomposizione volumetrica allacitazione dell’icona e della stampa popolare russa, esplicitanella scelta cromatica (Marinaio, 1911: San Pietroburgo, Mu-seo russo: Mercante di pesci, 1911: Mosca, gall. Tret´jakov;Nudo seduto, 1913: ivi; Nudo su fondo rosso, 1912-13: SanPietroburgo, Museo russo). Si fa risalire alla primavera del1913 un viaggio che conduce T a Berlino e in seguito a Pa-rigi, dove fa la conoscenza diretta, se non delle opere di Boc-cioni in mostra alla Galleria La Boëtie, di Picasso e dei col-lages polimaterici esposti nello studio di Boulevard Raspail(Chitarra, 1912: New York, moma; Violino, 1913: Parigi,coll. Marina Picasso). L’assemblaggio di pittura e materialiaggettanti, reso in termini pittorici dallo spagnolo, si tradu-ce in T nei Rilievi (1914) ancora vincolati a una visione bi-dimensionale che assimila le valenze pittoriche alle testuredei materiali, ma che tendono tuttavia a rimuoverne ogni al-lusione figurativa sezionando gli oggetti secondo piani di-versi e ricavandone pure forme geometriche. Nei successiviControrilievi o Rilievi d’angolo (1915) gli elementi costituti-vi – legno, metallo, vetro, gesso, cartone, mestica e bitume– assumono un’investitura del tutto autonoma, preludio aquella «cultura dei materiali» di cui T è fautore convintotanto da intitolarle il laboratorio che, negli anni ’20, diri-

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gerà prima a Mosca e poi a San Pietroburgo (in gran parteperdute, queste opere sono state ricostruite da M. Chalk trail 1967 e il 1980, ed edite in diverse tirature dalla AnnelyJuda Fine Arts di Londra). Protagonisti, accanto alle primeprove suprematiste di Malevi™, di 0.10: ultima mostra futu-rista allestita da I. Puni a San Pietroburgo alla fine del 1915,i Controrilievi si configurano di fatto come «costruzioni» an-tirappresentative e controprospettiche, volte a coinvolgerelo spazio e la materia nella creazione di un nuovo oggetto;esse costituiscono un riferimento centrale nella poetica delmovimento costruttivista riunitosi nel 1916 attorno a T perpoi scindersi (1920) nelle correnti realista (Gabo, Pevsner)e produttivista (Rod™enko, Stepanova). L’indistinzione trale arti e la sintesi tra queste e la tecnologia sono i postulatisu cui si fonda il costruttivismo di T, evidenti nel modelloper il Monumento alla III Internazionale (mai realizzato) chel’Izo (Dipartimento Belle Arti del Commissariato per l’Edu-cazione del Popolo), commissiona nel 1919 all’artista, chefu a capo dell’Izo stesso e incaricato di sovrintendere al Pia-no Lenin per la Propaganda Monumentale. Nel periodo po-st-rivoluzionario T si dedicherà, oltre che all’insegnamento,alla progettazione di oggetti d’uso (arredi, vestiario), alla sec-nografia e alla grafica, senza tuttavia trascurare la vocazio-ne alla ricerca e alla sperimentazione, che trovano voce nelLetatlin (dal russo letat – volare – unito al cognome dell’ar-tista), macchina volante di leonardesca memoria presentataal mba di Mosca nel 1932. (lbo).

Tato (Guglielmo Sansoni, detto)(Bologna 1896 - Roma 1974). Partito volontario nella guer-ra del ’15-18, incontra Boccioni, Russolo e Sironi, con i qua-li stringe amicizia. Nel ’19, a Novara, scrive il manifesto Au-toritratto ombreggiante che suscita molti contrasti in ambitofuturista, ma viene poi accettato da Marinetti. Tornato aBologna, è l’anima del gruppo futurista emiliano, compostoda Giovannini, Fanelli, Longanesi, Caviglioni e Valli. Nel1920 organizza il suo funerale, con tanto di corteo ed ese-quie, presentandosi in carne e ossa sul carro funebre. Laperformance gli frutterà un fermo e una denuncia. Nasce co-sì il pittore T che inizia un’intensa propaganda dei temi fu-turisti e inaugura, con una mostra, una «Casa d’arte» bolo-gnese. Nel ’22, con l’aiuto di Marinetti, prepara una gran-

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de esposizione futurista presso il teatro Modernissimo di Bo-logna. Tra i partecipanti ci sono anche Balla, Depero e Can-giullo. Nel ’23 riesce ad allestire una propria mostra su unvagone del treno Bologna-Milano, allineando i suoi quadrinel corridoio e facendo pagare due lire ai passeggeri. L’an-no successivo a Roma entra in contatto con la Casa d’arteBragaglia. Espone nella collettiva futurista della III Bien-nale romana (1925). Organizza una mostra su una barca dapesca e naviga da Riccione ad Ancona. Nel ’26 è alla Bien-nale veneziana dove nel ’34 avrà una sala personale. Nel ’30T firma insieme a Marinetti il Manifesto della fotografia fu-turista e l’anno successivo è tra i firmatari del Manifestodell’aeropittura di cui organizza a Roma la prima mostra.Nel’34 scrive con Marinetti, Cocchia e Fillia il Manifestosull’arte africana e sempre insieme a Marinetti e altri, il Ma-nifesto sulla plastica murale. In questi anni è presente in tut-te le rassegne futuriste, in Italia e all’estero. Nel ’36 esponeuna grande vetrata ai mercati traianei romani, dal titolo Lecomunicazioni ferroviarie, in collaborazione con Benedetta eAmbrosi. Dopo un periodo di attività molto limitata a cau-sa della guerra, T ritorna ad esporre in diverse mostre e or-ganizza nel ’53-54 l’esposizione d’arte internazionale del«piccolo formato» a Roma, Milano, Palermo, Napoli, Ma-drid, Barcellona, Los Angeles. Tra i lavori di decorazione daricordare: il Palazzo delle Poste di Gorizia, Trento e Paler-mo, il Castello Douglas Scotti a Vigoleno, gli aeroporti diNicelli a Venezia e di Guidonia. (adg).

tatuaggio e pittura corporeaAzione mediante la quale si imprimono sul corpo umano se-gni indelebili.La decorazione del corpo umano si ricollega al mondo dellapittura perché spesso non è che un’applicazione particolaredi un’attività pittorica piú ampia, di cui riprende le tecni-che, i motivi e le giustificazioni. Occorre distinguere tra ilprincipio della pittura temporanea, ma rinnovabile, e i prin-cipi del t e della scarificazione, che sono permanenti. Taledifferenza tecnica corrisponde ugualmente a differenze nel-lo scopo e nell’espressione estetica. La pittura corporea èl’applicazione sul viso e/o sul corpo (per l’intera superficie oper parte di essa) di materie coloranti. Il t, invece, consiste

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nel fissare un colorante nell’epidermide allo scopo di trac-ciare motivi indelebili. La scarificazione è il risultato diun’incisione della pelle, che produce cicatrici in cavo o in ri-lievo.Ambito storico e geografico L’esistenza del t e della pittu-ra corporea è attestata sin dalla preistoria. Ne sono testi-monianza numerosi prodotti dell’arte parietale, nonché lescoperte, nelle tombe, di coloranti e di stampini. Anchenell’Egitto faraonico sono stati rinvenuti segni di t o scari-ficazioni su alcune mummie. Di fatto, se la pratica del t edella pittura corporea è pressoché universale, l’impiego fun-zionale a uso decorativo o sociale di tali tecniche è relativa-mente limitato, storicamente, geograficamente e socialmen-te. Le decorazioni corporee piú belle e piú significative so-no state prodotte dalle civiltà orientali ed estremo-orientali,e dai popoli detti «primitivi». Tra t e pittura corporea bi-sogna però distinguere: benché non si escludano mutuamen-te, le due tecniche raramente si trovano associate e prati-cate da una stessa popolazione. Così, il t è diffuso in quasitutta l’area dell’Oceano Pacifico (Polinesia, Nuova Zelan-da, Giappone, Sud-Est asiatico), mentre la pittura corpo-rea è piú sviluppata presso le popolazioni indiane d’Ameri-ca e in Africa. La civiltà occidentale ha conosciuto e prati-cato (e pratica tuttora) il t, ma esso è stato considerato quasiesclusivamente un marchio sociale, mentre i suoi scopi este-tici diventano del tutto secondari: così accadeva per il t de-gli schiavi nell’antichità, dei militari, della nobiltà inglesein epoche piú recenti, e infine dei forzati o dell’ambientemalavitoso.Contesto sociale e psicologico La ragion d’essere della de-corazione corporea può essere tanto sociale che ornamenta-le. A seconda delle varie società, hanno diritto a simili de-corazioni ambedue i sessi o uno solo. Nel Sud-Est asiatico ilt è pressoché esclusivamente maschile, mentre presso gli Ai-nu in Giappone è riservato alle donne. In generale, riguar-da piuttosto gli uomini, ma le celebri pitture facciali delledonne caduveo (indiane del Brasile) in origine erano t. Ledecorazioni corporee possono anzitutto sottolineare deter-minati caratteri permanenti o irreversibili dell’individuo:l’identità etnica, tribale o di clan; l’età della pubertà, dell’ini-ziazione o del matrimonio. Le scarificazioni presso i Tiv, iBa-kuba o i Senufo dell’Africa Nera, i t dei Berberi nell’Afri-

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ca settentrionale, le pitture facciali degli indiani della Co-lombia britannica erano vere e proprie «carte d’identità». Ilmoko dei Maori (Nuova Zelanda) contrassegnava lo statussociale di colui che lo portava e veniva annualmente com-pletato con l’elevarsi del rango sociale. Tuttavia, tali tecni-che potevano avere un significato, piú circonstanziale in oc-casione di cerimonie religiose, rituali o familiari, o nel loroimpiego magico a titolo profilattico e curativo. Esistevanocosì in India t correlati ai culti di Shiva o Vi#™u, e, pressogli indiani dell’America del Sud, il guaritore, quando ope-rava, si dipingeva il volto. Nell’Australia centrale, in occa-sione delle cerimonie che rappresentavano le imprese miti-che degli antenati, gli uomini si coprivano di lanugine d’uc-cello bianca o tinta di rosso, incollata alla pelle; un lutto, olo scadere di un’interdizione, in Africa e in Oceania sonomotivo di pitture facciali; in un certo senso, a volte, tali pit-ture assolvono la funzione delle maschere.Tali decorazioni funzionali non escludono in alcun modo unafinalità estetica di ornamentazione o di valorizzazionedell’individuo. L’intento di farsi notare, di sottolineare lapropria bellezza fisica o di sedurre l’altro sesso sono altret-tante occasioni di ornamentazione corporea: i t berberi, tivo hawaiani rientrano in tale categoria. Le pitture facciali ca-duveo, secondo Lévi-Strauss, avevano scopi esclusivamenteerotici. Presso i Figiani e certi indiani del Brasile, le pitturecorporee hanno persino una motivazione pratica: servono aproteggere dalle zanzare e dal sole.I principi della decorazione corporea Ogni decorazione cor-porea deve tener conto della disposizione e della forma del-le superfici del corpo umano, motivo che porta alla ricercadella simmetria, mentre il volto invita a sottolinearne le mol-teplici «aperture» (bocca, naso, occhi, orecchie). D’altro can-to, essendo fatta per essere vista, la decorazione corporeaprivilegia pertanto il viso, ma in alcune società riguarda l’in-tero corpo. A seconda del sesso o della parte del corpo de-corata, un tema o un motivo possono assumere significati di-versi, per questo è impossibile stabilire delle regole di ca-rattere generale e universale.In molte culture dove il t è praticato, le pitture corporee e it si ispirano assai spesso agli stessi principi estetici dell’artepittorica. Così accade per il significato dei colori presso gli

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indiani dell’America settentrionale e per i motivi berberi,che trovano uguale applicazione nel vasellame e sui tessuti.

Le tecniche Pitture corporee I principi tecnici della pittura corporeasono semplici; il corpo viene coperto, con le dita o con l’au-silio di spatole o foglie, di colori scelti e preparati. Spessotale tecnica non richiede specialisti veri e propri, potendoricorrere all’impiego di sigilli o marchi in ceramica per im-primere sul corpo un motivo colorato (Canarie e Yucatan).Anche le tecniche di scarificazione sono poco complesse: siincide la pelle con uno strumento tagliente (lama, scheggiadi pietra o di vetro, pezzo di metallo) e si impedisce la cica-trizzazione immediata. Si ottengono così cicatrici in cavo(Mossi dell’Alto Volta), in rilievo (Sara e Ciad), o carnose,che producono costellazioni di punti (Ngala nello Zaire). Esi-stono inoltre tecniche speciali ma dolorose come quelle cheutilizzano il succo di una pianta che, applicato, brucia la pel-le lasciandovi un segno o come il t delle Figi, provocato me-diante carboni ardenti. Tatuaggi La tecnica piú elaborata della decorazione corpo-rea resta, evidentemente, il t. Il termine è di origine tahitia-na; fu il traduttore francese del Second Voyage di Cook inOceania (1772-75) a creare, nel 1778, il sostantivo tatouage,partendo dall’inglese tattooing, impiegato da Cook. Il princi-pio è semplice, ma le tecniche sono numerose quanto le so-cietà che lo praticano. I coloranti possono essere di origine as-sai varia (minerale o vegetale), ma devono possedere una to-nalità scura per far ben risaltare i motivi su una pelle biancao gialla. Può trattarsi di fuliggine, indaco, inchiostro di Chi-na, cinabro in polvere, resine. Spesso il disegno è abbozzatocon una lama o un pennello; in seguito, lo strumento copertodi colorante o meno incide la pelle (se non è usato il colore nelcorso di tale operazione, allora esso viene fatto penetrare me-diante frizione o massaggio successivamente). Lo strumentousato può essere un ago o un fascetto d’aghi, un pettine in os-so o avorio, o addirittura spine vegetali, fatte penetrare percirca 1 mm. Alcuni strumenti vanno affondati mediante unmartelletto. Gli Inuit sono gli unici a impiegare un altro pro-cedimento: introducono sotto la pelle un filo coperto di fu-liggine a seconda dei contorni del disegno. Il t moderno e com-merciale viene effettuato mediante un apparecchio elettrico.

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Teoricamente, il t non dovrebbe provocare la fuoriuscita disangue (perché questo porterebbe via il colorante), ma l’ope-razione, a seconda della parte del corpo trattata, resta tal-volta molto dolorosa (in Asia, il paziente fuma oppio perneutralizzare il dolore). Spesso si associano all’operazionedivieti alimentari o sessuali. I tatuatori non sono necessa-riamente specialisti (Madagascar, Hawaii); nelle isole Mar-chesi erano artisti appartenenti alla classe dei tahuna, mae-stri della decorazione incisa su pietra, legno e pelle umana,e possedevano persino insegne che ne indicavano la profes-sione. Anche i tatuatori maori piú illustri erano assai ben pa-gati e onorati, e firmavano le loro opere. Presso i Berberi, ilt è praticato dalla donna, perché l’uso delle tecniche opera-tive è di sua pertinenza.Decorazione: colori e motivi Le pitture corporee ricorronodi solito a colori vivi, valorizzati dalla disposizione a fasce oa raggera. Motivi semplici ma significativi (per esempio gliemblemi di clan dipinti sul volto degli indiani della Colom-bia britannica) possono essere monocromi. Il colore piú ap-prezzato è certamente il rosso, insieme al bianco e al giallo(in Africa e in Oceania) o al nero bluastro (in America e inAsia). Generalmente le pitture non hanno carattere figura-tivo: si riscontrano motivi stilizzati, come presso gli indianiKwakiutl, che applicano ai propri t il principio dello sdop-piamento della rappresentazione. Le scarificazioni sono ra-ramente figurative: una delle eccezioni piú belle, tuttavia, èfornita dai Tiv, la cui schiena è ornata da uccelli, lucertole,pesci stilizzati.Soggetti del t, astratti o figurativi, possono essere tanto pun-ti, tratti, croci, spirali, cerchi, volute, arabeschi, losangheche compongono una combinatoria infinita. Per la sua sim-metria e la sua perfezione, il moko dei Maori è un’opera d’ar-te vera e propria. Motivi figurativi d’impronta realistica so-no usati nel Laos dove si trovano magnifiche rappresenta-zioni di animali (elefanti, scimmie, leoni, tigri) incorniciateentro un reticolo di losanghe, tatuate sull’interno ed ester-no delle cosce. I motivi figurativi piú singolari e affascinan-ti si hanno in Giappone, dove taluni t dorsali impiegano laprospettiva e il gioco delle tonalità (scuro/chiaro) con vera epropria fantasia artistica per rappresentare scene con perso-naggi, draghi o paesaggi nello stile tradizionale della pittu-

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ra nipponica. Gli attuali t occidentali sono assai piú prosai-ci, e prossimi a un’ispirazione «naïve» (scene nello stile del-le immagini di Epinal, ritratti di donne, iscrizioni, ghirlan-de, fiori, ecc.). (jgc).

Taunay, Nicolas-Antoine(Parigi 1755-1830). Figlio di un chimico e pittore su smalto,entrò giovanissimo nello studio di Lépicié, poi operò pressoBrenet e Casanova. Dipinse coi suoi compagni Demarne, Bi-dauld, Bruandet e Swebach paesaggi dal vero; nel 1776 viag-giò con Demarne nel Delfinato e in Svizzera. Ammesso all’Ac-cademia nel 1784, ottenne, per intercessione del conte d’An-giviller, di essere convittore a Roma, restandovi fino al 1787.Fu membro dell’Institut de France dalla sua fondazione nel1795. Nel 1816 partì per il Brasile, insieme alla famiglia, conuna missione di artisti e scienziati francesi; fondò a Rio de Ja-neiro l’Accademia di belle arti (il Museo di Rio ne conservaancor oggi una bella serie di quadri). Tornò in Francia nel1824. La sua produzione, assai vasta, conta soprattutto paesag-gi con figure: scene storiche contemporanee (Bonaparte ricevealcuni prigionieri sul campo di battaglia, 1801; Entrata dell’eser-cito francese a Monaco, 1808: Versailles; I francesi in Italia, 1798e 1804: Versailles e Louvre), scene della storia di Francia (En-rico IV e Sully, 1822: Evreux, Museo), scene religiose (Predi-cazione di san Giovanni Battista, 1818: Nizza, prefettura) osemplicemente soggetti aneddotici (parate, ciarlatani, concer-ti), spesso trattati con un gusto all’olandese vicino a Demar-ne. Fu autore di brillanti ritratti (Van Spaendonck: Versailles).Colorista dotato, predilige le tonalità chiare e luminose, ani-mandole con note di vermiglio o di giallo chiaro. (jpc).

TavantLa chiesa di T, antico priorato dell’abbazia di Marmoutier(Indre-et-Loire), ha serbato in parte la sua decorazione ro-manica. Scene dell’infanzia di Cristo compaiono ancora sullavolta del coro. La fama di T è però soprattutto dovuta ai di-pinti della cripta, rimasti miracolosamente intatti. Una se-rie di personaggi isolati occupa i diversi spicchi della volta acostoloni formando una specie di processione fino al fondodella cripta, sul quale campeggia una grande figura di Cristo.Si hanno così, in successione, Atlanti, Angeli col loro cero,una Virtù che trafigge un Vizio, la Lussuria, il Sagittario, Da-

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vide che suona l’arpa, Adamo che vanga ed Eva che fila, ilSacrificio di Caino e Abele. Le uniche due scene di questocomplesso rappresentano Cristo al limbo e la Deposizione dal-la Croce. La scelta dei soggetti raffigurati è forse correlabi-le all’esiguità delle superfici da decorare: l’insieme appareinfatti, come ha notato André Grabar, un campionario deitemi piú classici dell’iconografia cristiana medievale. I pro-fili nervosi delle figure, collegabili ai caratteri della scuoladel Poitou, rammentano ancora la vivacità del disegno ca-rolingio di Reims e valgono soprattutto per il colore, insie-me vigoroso e delicato. (fa).

Tavaral, Jean-Hugues(Parigi 1729-85). Figlio di Guillaume-Thomas-Raphaél T,che fece carriera in Svezia, fu allievo di Pierre, vinse il grandprix dell’Accademia nel 1756, soggiornò in Italia dal 1759,venne accolto nell’Accademia nel 1769 col Trionfo di Bacco(soffitto della galleria di Apollo al Louvre di Parigi) e fu lo-dato come pittore di storia. Il bozzetto al Museo di Chá-lons-sur-Marne con Ercole bambino (1767; il quadro, termi-nato soltanto nel 1785, si trova al Louvre), di una sorpren-dente libertà di fattura, lo indica come uno degli artisti piúimpetuosi della sua generazione. Il Louvre conserva unTrionfo di Anfitrite (1777), dipinto per la serie degli «Amo-ri degli dèi» dei Gobelins. (pr).

Tavarone, Lazzaro(Genova 1556 ca. - 1641). Collaboratore di Luca Cambia-so, lo seguì a Madrid nel 1583 (dove non si conosce la suaattività) e, dopo la morte del maestro, negli anni 1585-89 èdocumentato nelle sale dell’Escorial insieme a Orazio Cam-biaso, Fabrizio Castello e Nicola Granello. Tornato a Ge-nova, fu affrescatore ricercato per la sua resa vivacissima delcolore e la sua abilità grafica nel rendere le figure entro ric-che inquadrature ornamentali. Le prime opere genovesi, incui emergono i ricordi spagnoli, sono gli affreschi nel Pa-lazzo Spinola (Trionfo di Cesare, 1592), nella Villa Doria aPegli e nel soffitto della chiesa di San Bartolomeo degli Ar-meni. Successivamente l’artista fu attivo nella chiesa di San-ta Maria della Consolazione (Martirio di san Vincenzo, 1605),nella facciata di Palazzo San Giorgio (1606-608), nella vol-

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ta di Santa Maria delle Vigne (1612) e per una serie di ope-re andate perdute per l’Oratorio di San Giorgio e per il con-vento di Santa Maria della Passione.La produzione piú notevole di T riguarda il ventennio1610-30, quando fu impegnato nella decorazione di presti-giosi palazzi genovesi: Villa Saluzzo di Albaro detta il Para-diso (1614), Palazzi Grimaldi (1615), Borsotto (1617), Spi-nola di Pellicceria, Cattaneo-Adorno (1624) e Belimbau (Vi-ta di Cristoforo Colombo, 1627-29). Nel 1622 eseguì ancheil Martirio di san Lorenzo e il San Lorenzo che indica i poverial prefetto Valeriano nel coro (volta e catino) della Cattedra-le con largo impianto scenografico. Appartengono alla fasefinale dell’artista gli affreschi dell’Oratorio dei Santi Naza-rio e Celso a Multedo (1634).T fu anche pittore di quadri e fecondo disegnatore (numerosidisegni sono conservati a Genova, Palazzo Rosso). (sde + sr).

Tavella, Carlo Antonio(Milano 1668 - Genova 1738). Nato a Milano da famiglia ge-novese, T fu allievo dapprima di Giuseppe Merati e in segui-to di Giovanni Gruembroech detto il «Solfarolo» dal qualeapprese i primi rudimenti sulla pittura di paesaggio. Nel 1688,all’età di vent’anni, lasciò Milano per compiere una serie diviaggi in Lombardia, Emilia e Toscana dove venne a contat-to con le opere di Salvator Rosa; inoltre la conoscenza del pae-saggismo lirico di Gaspard Dughet fa supporre un suo sog-giorno romano. A Genova tra il 1691 e il 1692 eseguì quat-tro paesaggi ad affresco nella Sala delle Arti Liberali delPalazzo Brignole Sale (Palazzo Rosso). Tornato a Milano nel1645 divenne amico e seguace dell’olandese Pieter Mulier det-to il «Cavalier Tempesta». Si stabilì definitivamente a Ge-nova nel 1701 pur mantenendo un vivo rapporto espistolarecon il bergamasco Francesco Brontino al quale inviò inoltrenumerosi dipinti. Nel capoluogo ligure T si legò a Magnasco,a Domenico e Paolo Gerolamo Piola e al Vaymer, i quali tal-volta eseguirono le figure che animano i suoi paesaggi, assaiapprezzati dai collezionisti genovesi e lombardi.I paesaggi decorativi e pittoreschi del T sono numerosi nel-le collezioni private e nei musei pubblici genovesi; la note-vole produzione del pittore è nota anche attraverso la riccaraccolta di disegni datati tra il 1692 e il 1735 (Genova, Pa-lazzo Rosso). (sr).

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Tavernier, Andrea(Torino 1858 - Grottaferrata 1932). Allievo alla torineseAccademia Albertina di belle arti di Andrea Gastaldi, PierCelestino Gilardi, Angelo Moja ed Enrico Gamba, T ap-prende soprattutto dal Gastaldi la solidità disegnativa e ilsicuro cromatismo. Esordisce nel 1884 con Rugiade prima-verili, esposto alla Promotrice; nel 1885, vi presenta Confi-denze e un Ritratto di bambina; nel 1888, alla XLVII Espo-sizione, il quadro di genere Contrasti; nel 1889 Nel parco.Ottobre e In montagna. È costante presenza alle mostre delCircolo degli Artisti dal 1885 al 1916 (nel 1889 Vegliardo:Torino, gam). La sua pittura affonda le radici nel naturali-smo paesistico piemontese, sviluppato nei suoi dipinti enplein air con sicurezza compositiva, robustezza cromatica evibrante luminosità. Alternando soggiorni a CastellamareAdriatico, dal 1890 T è a Roma. La rappresentazione delpaesaggio laziale, soffuso di una nuova malinconia, viene asovrapporsi alle vedute alpine (Campagna romana: Torino,gam) e segna l’avvicinamento dell’artista a una sensibilitàsimbolista, rivelandosi al corrente del dibattito figurativoromano, incentrato sull’interpretazione del paesaggio comestato d’animo (Lo stagno, 1908 ca.: ivi), come della praticadivisionista per la brillantezza del colore e la matericità del-la pennellata (Finita la messa - Zoldo Alto, 1897 ca.: ivi).Presente alle biennali veneziane dal 1899 al 1922, anno incui viene allestita una sua personale con trentasei opere(Mattino di primavera; Verso l’ovile; Dafni e Cloe), parteci-pa all’Esposizione Universale di Parigi nel 1900. Docentedi pittura dal 1897 al 1903 all’Accademia torinese nel 1906decide di ritornare a Roma: i dipinti realizzati d’ora innanziprendono spunto proprio dai paesaggi e dalle scene di vitaquotidiana nei dintorni romani (Frascati; Riposo festivo;Scanno Abruzzo). Sarà comunque la società Promotrice diTorino a dedicargli, nel 1934, una importante mostra po-stuma. Sue opere sono conservate, oltre che a Torino, allagnam di Roma. (eca).

tavolaSupporto ligneo di un dipinto; per estensione, il dipinto stes-so. Questo tipo di supporto, associato prevalentementeall’impiego della tempera, fu soprattutto diffuso nel perio-

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do medievale e nel primo rinascimento. Il legno utilizzatorisulta, in genere, il pioppo per il Sud Europa e la querciaper il Nord Europa; tra gli altri legni di maggiore impiego siricordano il noce per la Francia, l’abete per la Germania e ilpino silvestre per la Spagna. La preparazione del legno con-sisteva anzitutto nella eliminazione delle resine, delle gom-me e del tannino e anche in un trattamento anti tarlo. Il le-gno, scelto per quanto possibile compatto e privo di nodi,veniva spianato con asce di vario tipo (l’uso della sega com-pariva solo nel sec. xvii) senza tuttavia giungere a una li-sciatura totale in quanto la superficie scabra facilitava la pre-sa della imprimitura. Le assi venivano poi incollate tra di lo-ro con un amalgama di caseina e calce e le giunture taloraerano rinforzate con cavicchi di legno inseriti negli spesso-ri; piú raramente si applicavano doppie code di rondine inlegno mentre, in altri casi, il profilo degli spessori era pre-parato con sporgenze e incavi a incastro. Le assi erano fis-sate sul retro con cavicchi di legno oppure con chiodi pian-tati sulla faccia destinata a ricevere la pittura e battuti inprofondità; le teste dei chiodi venivano isolate con strati dicera o con tasselli lignei per evitare il formarsi della ruggi-ne. Ottenuta in questo modo una superficie della grandez-za utile, si passava alla copertura delle connessioni con stri-sce di lino, qualora la tela non venisse apposta su tutto il ri-piano. Su un primo piano di colla se ne passavano quindialtri di colla e gesso, successivamente livellati e ulteriormentericoperti da mani di gesso e di colla sempre piú fini. Al ter-mine dell’asciugatura, la superficie veniva definitivamenteraschiata e levigata sino a divenire del tutto liscia e com-patta.Nel periodo precedente alle innovazioni dello scorcio delDuecento, la tecnica pittorica si basava sulla sovrapposizio-ne successiva dei colori; nel Trecento e nel Quattrocento sulgraduale accostamento degli stessi e dopo la metà del sec. xvsul passaggio delle velature. Con il primo metodo i colorierano applicati localmente a partire da una tinta base e pro-cedendo per aggiunte, con una stesura pressocché uniformeentro i contorni lineari, eventualmente ripassati alla finedell’operazione: il procedimento è descritto nel trattato delmonaco Teofilo De diversis artibus.Dalla fine del Duecento, alle campiture uniformi e sovrap-poste subentra una stesura cromatica per accostamento e fu-

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sione su un disegno spesso preparato con un’ombreggiaturadi chiari e di scuri: il Libro dell’Arte di Cennino Cennini for-nisce la descrizione pratica di tale procedimento pittorico.Nella seconda metà del Quattrocento si diffonde l’impiegodella velatura che garantisce la gradualità cromatica e la va-rietà del riflesso luminoso; talora l’effetto della luce si ot-tiene facendo trasparire il bianco della preparazione; questatecnica rende possibile lo sfumare in lontananza dei paesag-gi, tipico di tante pitture dell’epoca, soprattutto di area fiam-minga.Dalla fine del sec. xv si introduceva l’emulsione a olio checomportava una maggiore consistenza materiale e cromati-ca del medium pittorico. Con il termine t si intende comu-nemente l’opera realizzata su t la quale, in base alla forma,può essere definita lunettata – con terminazione centrale alunetta – cuspidata – con terminazione a cuspide – dittico,trittico, polittico, secondo il numero degli scomparti.Prescindendo dalle tavolette dipinte, di carattere funerarioe votivo, risalenti alla civiltà egizia prima e greca poi, tra lepiú antiche testimonianze su t si citano le icone del v-vi se-colo di produzione orientale e romana realizzate ad encau-sto. La pittura su t fioriva in ltalia dal sec. xii con le grandicroci dipinte che avrebbero avuto largo sviluppo in epocagotica (la piú antica è la croce di Mastro Guglielmo del 1138nella Cattedrale di Sarzana); con la creazione dei crocifissidipinti, come anche per i grandi polittici, si resero necessa-ri lavori di carpenteria per irrigidire e connettere le t. Unapeculiarità medievale, sia in Italia, sia in area bizantina erussa, furono le t dipinte e scolpite a bassorilievo; la pittu-ra su t proseguiva sino al Cinquecento quando l’impiego del-la tela cominciò a soppiantare questo tipo di supporto piúpesante e soggetto alle trazioni insite nel legno. (svr).

Tchirin, Procopio(attivo tra il 1593 e il 1642). Fa parte della cerchia di arti-sti che operano per gli Stroganoff, ma fu attivo anche per lozar. Nelle figure dalle proporzioni allungate e dall’elegantedisegno, T ha dedicato cura speciale alla resa minuziosa deicostumi e delle armature (icona dei Santi Boris e Gleb, rap-presentati tra san Teodoro di Ancira e san Teodoro Strati-lata: Mosca, Gall. Tret´jakov). (sdn).

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teatro e pitturaI pittori scenografi Antichità e Medioevo Com’è noto Vitruvio s’interessò diprospettiva scenografica e conobbe trattati greci dedicatia quest’arte applicata nella decorazione dipinta dei fondo-scena dei teatri antichi. Le quinte, le botole e persino i fon-dali di scena e le macchine erano già utilizzati nell’anti-chità. Una pittura murale di Ercolano e un affresco di Bo-scoreale mostrano decorazioni illusionistiche che senzadubbio riproducono fondali teatrali. I periactes a tre fac-ciate dipinte di un palazzo, di una casa e di un bosco si al-lineavano sui due lati della scena e, ruotando solidalmen-te, potevano costituire una scenografia tragica, comica osatirica.Nei misteri sacri recitati alla fine del Medioevo, piccole log-ge, come le mansions francesi, allineate l’una a fianco dell’al-tra, costituivano i luoghi successivi dell’azione, secondo lapratica teatrale della molteplicità e simultaneità dei luoghiscenici. Erano fatte di materiali leggeri e dipinti. A destra,guardando dalla scena, un boschetto raffigurava il paradiso;a sinistra compariva la bocca dell’inferno, resa con tele di-pinte, dalla quale fuoriuscivano i diavoli o venivano in-ghiottiti i dannati. Macchine e botole consentivano di farcomparire in cielo personaggi sacri, ma di solito le scene siriducevano a qualche tela dipinta con un sole o una luna,stelle dorate o forse qualche albero. La «scena neutra», spo-glia di elementi descrittivi sarà una costante delle rappre-sentazioni profane, stabili o itineranti, ad eccezione dei ric-chi apparati per celebrazioni, cortei ufficiali e conviti. NelQuattrocento l’Italia riscopre l’opera di Vitruvio, la cui pri-ma edizione è del 1486. Sull’esempio dell’antichità vengo-no eretti teatri ad emiciclo. In quello di Vicenza, opera diPalladio, ancora intatto, la scena presenta una scenografiaarchitettonica fissa, che mostra la prospettiva di cinque stra-de, fiancheggiate da edifici in legno costruiti da Scamozziin prospettiva raccorciata, dipinti uniformemente ad imita-zione della pietra. Il xvi e xvii secolo: l’Italia e la Germania Progresso dellaprospettiva e scenografia teatrale sono legati indissolubil-mente. Le prime scenografie dipinte dei tempi moderni ven-nero costruite su apparati provvisori in occasione di feste.

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Leonardo disegnò nel 1496 una scenografia per la Danae delTaccone. Baldassare Castiglione narra di aver veduto a Ur-bino, nel 1513, una rappresentazione della Calandria del car-dinal Bibbiena con «la scena di una magnifica città con stra-de, palazzi e torri in rilievo accompagnati da una splendidaprospettiva». Lo stesso lavoro, messo in scena a Roma nel1518, aveva una scenografia di Peruzzi della quale restanonumerosi disegni, ed era, secondo Vasari, «di una tale ve-rità che si credeva di vedere gli oggetti reali e di trovarsi inmezzo a una vera e propria piazza, tanto era perfetta l’illu-sione». Si trattava qui di costruzioni volumetriche in legnoe di tele dipinte, che si concludevano con una prospettiva il-lusionistica rappresentata su un fondale.Lo sviluppo della scenografia è dovuto in gran parte ad ar-chitetti-pittori italiani come Bramante, Raffaello, Giulio Ro-mano e Peruzzi e alla circolazione dei loro modelli. Non es-sendo semplice smontarla rapidamente, un’unica scenografiaserviva per un intero spettacolo. Serlio illustra il suo tratta-to di architettura, pubblicato in Francia nel 1545, con tremodelli, destinati, secondo le indicazioni di Vitruvio, al ge-nere tragico, comico e satirico: strade e piazze, cinte per ilprimo tipo da nobili architetture, per il secondo da edifici piúmodesti, mentre nel terzo tipo compariva un boschetto.Secondo Daniele Barbaro, per il quale Palladio costruì la vil-la di Maser e che fece pubblicare e illustrare l’opera di Vi-truvio, il pittore e architetto Pedemonte avrebbe dipinto,nel 1569, dei fondali in prospettiva tanto abilmente che ilpubblico non riusciva a scorgere soluzione di continuità conle costruzioni volumetriche sui due lati della scena. A Fi-renze, Buontalenti avrebbe impiegato per la prima volta, nel1589, una scenografia a quinte scorrevoli che consentiva nu-merosi mutamenti a vista (scenografia delle Pieridi; disegnoa Londra, vam). Ma solo nel 1618, sembra, compare nel tea-tro Farnese di Parma un macchinario piú complesso, che con-sente di cambiare scena arrotolando i fondali, issando i fre-gi nella soffitta, e utilizzando il soppalco sotto il palcosce-nico, il cui boccascena era formato da un’inquadraturaarchitettonica e chiusa da un sipario dipinto, che si chiude-va soltanto al termine dello spettacolo.La scena dipinta farà man mano appello a tutti i procedi-menti illusionistici, imitando non soltanto le prospettive e i

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rilievi, ma anche i materiali, marmi policromi, bronzi e do-rature in breve utilizzando le molteplici risorse del trompe-l’œil, nel quale svolsero un ruolo fondamentale i quadratu-risti italiani. In età barocca gli scenografi creeranno archi-tetture fantastiche e ariose che faranno da fondale allesorprendenti «macchine». Possediamo la descrizione dei«prodigi» realizzati da Bernini, che nel 1638, per una sce-na dell’Inondazione del Tevere, fece precipitare una cascatasulla scena e nel 1639, per La fiera di Farfa, gettò il panicotra gli spettatori simulando l’impressione di un violento in-cendio. La luce artificiale infatti, e persino le meraviglie del-la pirotecnica creeranno effetti fantastici. Nasce in Italia ilteatro d’opera, con la sua musica, i suoi canti, i suoi ballet-ti che può dirsi uno spettacolo completo. L’Europa interaricorrerà a loro, agli scenografi italiani, come ricorrerà allecompagnie della commedia dell’arte. Nel 1637 Sabbatinipubblica la sua Pratica del teatro, che dedica uno dei capito-li principali alla scenografia.A Firenze, gli ambasciatori stranieri sono abbagliati daglispettacoli della corte, di cui Callot, il quale realizzò anch’eglialcune scene, ci ha lasciato delle incisioni (Solimano, 1620).Alfonso Parigi, uno dei principali scenografi del teatro ba-rocco, propone nel 1637 venti cambiamenti di scena in unsolo spettacolo. Dunque ormai si tratta soltanto di scene mo-bili, dipinte su quinte rivestite di tela e su cortine che pen-dono dal soffitto, oppure su fondali. Durante la secondametà del secolo Ferdinando Tacca è il piú rinomato sceno-grafo di Firenze. A Ferrara, le macchine di Andromeda fan-no sorgere dalle acque un mostro marino e discendere dalcielo Perseo sul suo cavallo alato. Il grande scenografo diParma è Domenico Mauro, che nel 1690 mette in scena Ilfavore degli dèi, con scene che rappresentano un’immensagrotta e un paesaggio di rocce fronzute.Ma la città italiana per antonomasia centro dell’opera liricaè Venezia. Quello di San Cassiano è stato il primo teatrod’opera aperto a un pubblico pagante, presto seguito da al-tri quattro. Il grande Jacopo Torelli mette in scena al teatroNovissimo, nel 1641, Il Bellerofonte. Su un fondale sono di-pinti Palazzo Ducale e la Piazzetta, mentre muraglie e navisi allineano faccia a faccia in ordine regolare. Si tratta inol-tre di una scena eccezionale, perché i fianchi della scena,convergenti, guidano l’occhio verso un unico punto di fuga

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posto al centro della capriata, con un effetto di lontananzaprospettica molto suggestivo.La maggior parte di questi architetti e scenografi viaggia dauna città all’altra, spostandosi anche nei centri europei. AVienna, che fu uno dei massimi centri del teatro barocco,Lodovico Burnacini approntò nel 1667 i modelli delle scenee dei costumi della celebre opera Il Pomo d’oro – volta scin-tillante di stelle, nuvole, piramidi, vasi e piatti d’oro del re-gno di Giove, rosso antro di Plutone – e nel 1678, per LaMonarchia latina trionfante, immagina una grotta, le cui roc-ce crollano repentinamente sul fondo della scena lasciandoapparire figure allegoriche issate sulle nuvole.A Monaco, Francesco Santurini mette in scena nel 1662 laFedra incoronata, in cui il pubblico può vedere, attraversouna cortina di tulle, una sezione del mare, in fondo al qua-le si nascondono le sirene, mentre una barca galleggia su unfinto mare. Peraltro è un tedesco, Johann Oswald Harms,che nel 1696 ad Amburgo monta Heinrich der Löwe con unastraordinaria scenografia di navi nella tempesta. Dipinte suenormi rotoli elicoidali di legno, fatti girare a braccia da al-cuni uomini, le onde sembrano muoversi, mentre un mac-chinario conferisce a una delle navi un movimento ondeg-giante. A Dresda, nel 1693, le scene del Camillo generoso so-no anch’esse opera di un tedesco, Martin Kletzel, che operaperò nell’ambito di un gusto puramente italiano. Il xvii secolo: la Gran Bretagna Londra era in netto van-taggio su Parigi con i suoi dieci teatri pubblici nel 1600, pre-sto divenuti, nel 1629, diciassette. Ma i teatri elisabettiani,con un palcoscenico di forma circolare o poligonale colloca-to all’interno di una corte loggiata, non lasciavano alcun po-sto alle scene, sostituite da semplici cartelli. Scene compar-vero, invece, nelle rappresentazioni date nei grandi colleges,cui talvolta assistevano la regina e la corte. Erano fondali eprospettive dipinte in base ai testi di Vitruvio e ai modellidi Peruzzi o di Serlio.L’introduzione della scena con palco girevole e quinte scor-revoli sull’esempio del teatro Farnese avvenne nel 1631 conClorida e nel 1635 con Florimene, per opera del grande ar-chitetto Inigo Jones. Possiamo farcene un’idea attraverso idisegni conservati a Chatsworth, così come per i costumi, dicui Inigo Jones lasciò dei modelli. Nel 1656 Davenant apre

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il Duke’s Theatre con L’assedio di Rodi, considerata la pri-ma opera lirica inglese, rimasta famosa per il lussuoso alle-stimento e le scene di John Webb, architetto e collaborato-re di Inigo Jones. Il xvii secolo: la Francia In Francia le scene trasformabilie l’illusionismo prospettico di gusto italiano vennero utiliz-zate in occasione dei balletti di corte per il cui allestimentodurante il regno di Luigi XIII fu incaricato il fiorentino Fran-cini. Queste scene sono documentate da alcune incisioni: lequinte di tela dipinta, raffiguranti una foresta, lasciano ap-parire un fondale che raffigura in trompe-l’œil portici, co-lonne, nicchie e statue antiche, inquadrando una specie di«palazzo incantato». Va ricordato per il suo carattere ecce-zionale, benché non riguardi l’opera lirica, il manoscritto il-lustrato di Mahelot, regista, macchinista e pittore dei Comé-diens du roi all’Hótel de Bourgogne, che illustra le scene im-piegate nel 1633 e 1634: piccoli padiglioni per le commedie,grotte, alberi e rocce per le pastorali, colonne e terme per letragedie. In La Folie de Clidamant si vede una scena simulta-nea con una sala di palazzo al centro, una camera aperta concortina a destra e un vascello che approda in porto a sinistra.Tuttavia, con le opere di Corneille, Racine e Molière, la ri-trovata norma aristotelica delle tre unità di tempo, luogo eazione impone alle tragedie e alle commedie una scena uni-ca: per la commedia la strada o la piazza (il quadrivium«all’italiana»); per la tragedia l’invenzione del «palazzo apiacere». Gli attori recitano entrando e uscendo da un latoo dall’altro. L’attenzione si concentra dunque sul testo e sul-la parola, comportando una riduzione del ruolo dello sceno-grafo, al quale il teatro d’opera affiderà il compito di pro-gettare i cambiamenti di scena, sempre «a vista», e di con-seguenza offrirà un campo propizio per mettere a fruttol’inventiva.Mazzarino chiamerà a corte, accanto agli scenografi france-si, numerosi italiani. Nel 1645 fa appello all’illustre JacopoTorelli per montare sul palcoscenico del Petit-Bourbon, lacui compagnia è italiana, La finta pazza, commedia che ave-va ottenuto grande successo quattro anni prima a Venezia.«La Gazette» documenta l’entusiasmo suscitato da La fintapazza con le sue macchine, «fino ad allora sconosciute inFrancia», e con il forte illusionismo delle scene. Olivierd’Ormesson annota nel suo diario: «Ho visto cinque facce

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[scene] diverse di teatro, l’una rappresentante tre viali di ci-pressi lunghi a perdita d’occhio, il porto di Chio o il Pont-Neuf e la place Dauphine [sicl erano rappresentati mirabil-mente, la terza una città, la quarta un giardino con bei pila-stri […]. La prospettiva era così ben rispettata che tuttiquesti viali apparivano a perdita d’occhio quantunque il tea-tro non avesse che quattro o cinque piedi di profondità (ciòsembra difficile a credersi)».A sua volta il teatro del Marais mette in repertorio, nel suojeu de paume della rue Vieille-du-Temple, lavori con macchi-nari di Denys Buffequin dal 1648 al 1670: i famosi pièces àmachines, riservati anch’essi a un pubblico aristocratico.Il giovane Luigi XIV, amante del teatro, fece installare nelsuo palazzo delle Tuileries, la Sala delle Macchine, così chia-mata per la presenza di ingegnosi macchinari teatrali. La sa-la poteva contenere tremila spettatori ed era una delle piúvaste d’Europa. Per la prima volta in Francia i palchi sonodisposti a semicerchio allungato. Gaspare Vigarani, che so-stituì Torelli tornato a Venezia nel 1656, fu uno degli auto-ri. Dispose di un palcoscenico profondo oltre 40 metri consoffitta e soppalco piuttosto ampi. La «Sala» venne inaugu-rata nel 1662 da un’opera di Cavalli, Ercole amante. Maquando il re e la corte lasciarono Parigi, definitivamente, nel1682, la sala non venne piú utilizzata. Nel 1721 verrà ria-perta per il balletto degli Elementi, danzato e cantato da tut-to l’Opéra intorno al giovane Luigi XV. Le scene vennerodipinte da Antoine Dieu e da Oudry, mentre Claude Gillotsi occupò dei costumi.Da lungo tempo s’imponeva la necessità di una sala pubbli-ca riservata al teatro d’opera. L’abate Perrin, ottenuto l’in-carico per la fondazione di un’Accademia reale di musica edanza, ebbe in concessione nel 1671 il grande salone del tea-tro del Palais-Royal. Nel 1672 cedeva la direzione a Lulli,fiorentino. Carlo Vigarani che, alla morte di Mazzarino erasuccesso al padre, creò nel 1675 le scene di Teseo e Atys; idisegni dei brillanti costumi sono di un francese, il giovaneJean Bérain, che presto diverrà scenografo di fama interna-zionale. Subentrato a Vigarani attorno al 1680, per l’operaProserpina di Quinault e Lulli, creò scene estremamente ric-che, cariche di ornamenti e di colori, e costumi che venne-ro riprodotti in incisioni e acquerelli. Una ricca documenta-

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zione grafica rende l’idea dell’imponente lavoro di Jean I Bé-rain, che produsse le scenografie di oltre cinquanta opere,con prospettive di architettura o visioni naturalistiche di im-pronta fortemente classica. Il gusto francese per la decora-zione fastosa spesso si impone sull’apparato prospettico ere-ditato dagli scenografi italiani: non a caso nessuno degli sce-nografi francesi del sec. xvii è architetto, e neppure, tranneGillot, pittore. Il xviii secolo Italia. Tutte le scene conservano fino alla fine del sec.xvii, e soprattutto in Francia, un asse centrale e un’assolu-ta simmetria, tranne qualche eccezione per i paesaggi, le fo-reste e le vedute marine. Questo impianto simmetrico finìper stancare. Nuove idee improntano la produzione di sce-nografie teatrali in Italia con Ferdinando Galli-Bibiena ap-partenente a una numerosa famiglia di architetti e scenografibolognesi. Poco prima del 1700 Ferdinando introduce l’usodi scene impostate non frontalmente, ma con un angolo di45° ca, cosa che consentiva di ampliare lo spazio scenico gra-zie a una seconda prospettiva che formava con la prima unaspecie di V, in ciascun ramo della quale altre prospettive siaprivano all’infinito. Numerosi sono i disegni dei Bibienatracciati rapidamente a penna e ravvivati soltanto con unpo’ di azzurro: disegni piú rifiniti, incisi nelle Varie opere deprospettiva, ne diffonderanno le invenzioni in tutta Europa.Spesso, sembra, la scelta dei colori veniva compiuta solo almomento dell’esecuzione delle scene dipinte su tela, o, al-meno al momento dell’allestimento del plastico. Tuttavia,un acquerello dell’architetto Filippo Juvarra per un’operamessa in scena a Roma nel 1709, mostra una sala di palazzoin marmo violetto e giallo, ornata con alti guéridons doraticon vasi color blu oltremare; ad Amburgo nel 1701 è notauna sua scenografia cinese dai colori squillanti. Architettofamoso, poté tuttavia realizzare in trompe-l’œil sulle scenedipinte tutto ciò che non poté costruire in pietra, edifici ver-tiginosi fatti di materiali preziosi, gallerie dalle prospettiveinfinite, in una parola i suoi progetti utopici.La Germania dimostrò la migliore accoglienza alle sceno-grafie fantastiche degli italiani. Quella creata da AlessandroMauro nel 1719 a Dresda per Teofano è di una ricchezza edi una fantasia stupefacenti. L’incisione ci mostra prospet-tive «ad angolo», scale su cui potranno dispiegarsi i cortei,

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colonne che recano architravi sui quali si levano gruppi eque-stri tumultuosi, e che sopra di sé sostengono drappeggi fra-stagliati.Si riallacciano al medesimo spirito le scene de La Medea, pro-gettate nel 1728 a Parma da Pietro Righini, con scale e grup-pi di atlanti al posto delle colonne, effetti spinti all’estremoche avranno grande fortuna a Vienna. Vi è chiamato Giu-seppe Galli-Bibiena, figlio di Ferdinando, che imposta nel1716 le scene straordinarie di Alcina: due grandi costruzio-ni in rovina, le cui colonne antiche sostengono arcate crol-late, torri merlate e un arco gotico che inquadrano uno spec-chio d’acqua e lasciano intravedere, sul fondo della scena,un porto gremito di vascelli. Draghi e figure infernali anima-no queste architetture fantastiche, evocatrici degli «incan-tamenti». A Vienna, Antonio Daniele Bertoli verrà prestonominato scenografo dei teatri imperiali. Anche numerosecittà tedesche possiedono teatri attrezzati con macchinariche consentono di rappresentare l’opera, utilizzando in granparte scenografi italiani.Qui il barocco si trasforma insensibilmente in gusto rococò,dando largo spazio alle caratteristiche piú peculiari di que-sto stile, dalle asimmetrie, alla tendenza al pittoresco. Lescenografie architettoniche, tanto fantasiosamente arricchi-te di elementi decorativi, vengono tuttavia risolvendosi sem-pre piú in grandi fondali pittorici che portano, sulla via giàaperta da Juvarra, alla diffusione della nuova «scena qua-dro» nella seconda metà del Settecento. In Italia ne sono ipiú significativi rappresentanti i fratelli Galliani, a Roma eTorino, e Fossati a Venezia. Francia. Le nuove correnti italiane sono introdotte inFrancia da Niccolò Servandoni che poco dopo il suo arrivoa Parigi, nel 1726, appronta per l’Opéra le scene di Piramoe Tisbe e, nominato nel 1728 primo pittore scenografodell’Opéra, quelle di Orione, seguite in diciotto anni di car-riera da una sessantina d’altre, di grande successo di pub-blico e critica. Introduce in Francia la prospettiva «ad an-golo» creata da Ferdinando Galli-Bibiena e illustrata da Ju-varra. Anziché diminuire l’altezza delle architetture, dalboccascena verso il fondo, ne rovescia le proporzioni. «Lascena appare assai piú alta nel fondo del teatro che davan-ti», secondo il cronista del «Mercure de France». In Teseo,

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«si vedevano due ordini di architetture alti in realtà trenta-due piedi che sembravano di piú di sessanta; fino ad alloranessuna scena sul fondo del teatro era alta piú di diciottopiedi». Nel Fetonte, «il palazzo del Sole, fulgente di colorimetallici e di dorature, è incrostato di settemila pietre pre-ziose», o piuttosto di cristalli. Così Servandoni si presenta co-me un vero e proprio innovatore. Il caso vuole che nel castellodi Champs e in collezioni private rimangano, ritenuti di suamano in base a una solida tradizione, una ventina di plasticie numerosi modelli di scene brillantemente colorati che atte-stano una straordinaria inventiva e sono d’altra parte gli uni-ci modelli del genere in Francia che risalgano all’Ancien Ré-gime. L’ornamentazione è di gusto decisamente rocaille. Com-pare un senso del paesaggio già romantico. François Boucher,che collabora con Servandoni per qualche tempo e partecipaalle scene di Atys, verrà indicato come «pittore che si è im-mischiato di architettura». Succeduto a Servandoni nel 1766,dipinse fondali bucolici con paesaggi. La tendenza a crearefondali meravigliosi, quasi autosufficienti rispetto al sog-getto rappresentato, raggiungerà effetti puramente ottici inspettacoli come il «diorama» di Servandoni, che, nel 1738,sulla scena della Sala delle Macchine, fino allora rimasta inu-tilizzata alle Tuileries, appronta il suo primo diorama, cherappresenta l’interno di San Pietro in Roma. Vi dipinge per-sonaggi; poi, a poco a poco, aggiunge ad altre scene fisse lamusica, e infine figuranti muti che mimano le avventure diUlisse o la discesa agli Inferi.Dal 1750 al 1764 i tre fratelli Slodtz si succederanno comeprimi scenografi dell’ufficio dei «Menus Plaisirs». In lineadi principio l’ufficio dei «Menus Plaisirs» si occupava sol-tanto delle scenografie e dei costumi degli spettacoli dati neipalazzi reali, ma comunque il re prestò talvolta all’Opéra isuoi scenografi.Gli Slodtz seguirono il gusto rocaille che Servandoni avevaintrodotto nel teatro ed essendo, di professione, scultori,preferirono spesso gli ornamenti in rilievo a quelli in trom-pe-l’œil. La loro scenografia di Issé risultò assai piú ricca diquella che Boucher aveva dipinto alcuni anni prima per lostesso Opéra.Jean-Baptiste Pierre non ignora l’antico. Nel 1754 fu inca-ricato dal duca di Orléans, di cui fu primo pittore, delle sce-ne per il teatro privato della sua «petite maison» in faubourg

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Saint-Martin. Collé, un protetto del principe, scrive nel suodiario: «Tutti hanno convenuto che si tratta di un piccolocapolavoro; la scena, che rappresenta la camera di rappre-sentanza, è unica per l’imitazione della natura. Nulla si pre-sta di piú all’illusione dell’azione, che avere le scene fatteapposta per i lavori che si dànno». È già un primo segnaledella reazione realistica che a fine Settecento si opporrà aglieccessi della messinscena barocca. Inghilterra. In Inghilterra, John Devoto si accontentò,intorno al 1720, di copiare le incisioni di Juvarra e i disegnidi Righini per il teatro dell’opera milanese. D’altra parte lescene di teatro d’opera sono spesso, durante la prima metàdel sec. xviii, ideazioni di italiani residenti a Londra per unperiodo piú o meno lungo, come Marco Ricci, Pellegrini,Clerici, Servandoni. L’epoca neoclassica Gli scavi di Ercolano e Pompei furo-no solo una delle suggestioni dall’antico riprese in epoca neo-classica. Nelle scenografie l’influsso dell’antico traspare darichiami al Palladio presenti nell’opera dei Bibiena. Panni-ni diffuse con le sue opere il gusto delle rovine romane, e Pi-ranesi vi mescolò citazioni etrusche ed egizie. A Roma, sindagli anni Quaranta del Settecento, teorici e artisti di ognipaese s’incontravano in un comune entusiasmo verso l’anti-co. Gli italiani vennero chiamati in tutta Europa come spe-cialisti di scenografie teatrali; francesi, inglesi, tedeschi tor-narono nei loro paesi riportando vive impressioni delle an-tichità romane. Lo studio dell’antico educò, un po’ alla volta,a un senso di precisione storica nelle ricostruzioni ambien-tali, per ora ancora limitate ai temi classico-archeologici. Maè da qui che si apre la via al verismo storico romantico, chesi rivolgerà a tutte le epoche passate (Medioevo, rinasci-mento, Oriente... ) per poi dare dignità anche al presente.La scenografia neoclassica accentua il gusto per l’antico deiBibiena, ma anche il sentimento del paesaggio, ricordandosia gli scenografici paesaggi di Vernet che gli accenti senti-mentali di Greuze.Giuseppe Piermarini, tra i principali architetti neoclassici,costruisce nel 1776-78 il teatro alla Scala. In quel periodo aMilano Paolo Landriani, teorico, Giacomo Quarenghi e Pie-tro Gonzaga saranno i veri creatori della scenografia neo-classica, in stretto contatto con l’Accademia di Brera. Nel

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1775, il secondo disegnerà un sotterraneo a colonne dorichee una grotta pittoresca. Al tempo della Repubblica cisalpi-na, Appiani fornì i modelli di altre scene e dipinse i siparidella Scala e del teatro della villa di Monza; nel 1827 pre-para alla Scala, per l’Ultimo giorno di Pompei, una scenogra-fia con un’immensa sala a volta che si apre su una veduta dicittà in fiamme. Nel 1831 il tempio antico che dipinge perNorma è ancora una ricostruzione archeologica. A Torino,Fabrizio Galliari ricrea nel 1773 un atrio del palazzo di Di-done; suo figlio Giuseppino, nel 1792, una tenda di Anni-bale; e infine Gaspare Galliari una scena in cui archi goticipoggiano su colonne classiche.La numerosa famiglia dei Quaglio è attiva in tutta l’Europacentrale. Lorenzo, il cui padre era scenografo a Vienna, creascene per l’Elettore palatino a Mannheim e a Schwetzingen,poi a Monaco. Inizialmente improntato allo stile di Bibie-na, abbandona presto la scenografia barocca per il piú seve-ro classicismo francese. I suoi discendenti continueranno fi-no al 1878 a porre il loro talento a disposizione del teatrodell’opera di Monaco.I Gaspari furono attivi nella stessa città – Giovanni-Paoloprogettò nel 1763, per Artaserse al teatro della Residenza,un tempio del Sole – e anche in Boemia. Un Sacchetti, ar-chitetto e pittore di scene, lasciò Venezia per Vienna, Pra-ga e Brno dove creò esotiche scenografie nelle quali è pale-se il riferimento a Bibiena.Quasi tutti gli scenografi francesi provengono da una atti-vità nel campo dell’architettura e della pittura di vedute.Michel-Ange Challe, che cominciò studiando architettura,è prix de Rome di pittura. Succede nel 1764, a Michel-An-ge Slodtz ai «Menus Plaisirs»; suoi modelli sono Bibiena,Juvarra, Piranesi. Come loro, Challe è un visionario che eri-ge sulla carta prodigiose costruzioni e fa grande uso degli or-dini antichi. Pierre-Adrien Pâris succede a Challe nel 1778.Lascerà i suoi disegni alla biblioteca di Besançon. È un ar-chitetto che a Roma ha approfondito il gusto per le rico-struzioni archeologiche e storiche. Per Numitore, messa inscena a Fontainebleau nel 1783, disegna una scena di salebasse e voltate dalle grevi colonne doriche, che si ritrova inPenelope e Calipso, dove la caverna di Prometeo e la grottadelle ninfe sono già di sapore romantico. Ma P.-A. Pâris creaoltre a scene esotiche, anche scene di grotte naturali e giar-

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dini che rievocano i disegni di Fragonard a Villa d’Este. PerIl diritto del signore erige un delizioso piccolo hôtel nel gustodi quello fatto da Ledoux per la Guimard.Negli ultimi decenni del Settecento la pittura si orienta ver-so soggetti di storia medievale e moderna. Per il teatro, Vol-taire esige lo stesso impegno di esattezza storica e di color lo-cale. La «goticomania» risale al 1765. Sin dal 1750-55 vienecompiuto dalla Clairon e da Le Kain, prima ancora che da Tal-ma, lo stesso sforzo a favore del costume storico. Ma a dire ilvero questa ricerca di autenticità resta ancora approssimati-va, sia nelle scene con costumi cinesi, turchi e persino inca.Ancora un francese, Philippe de Loutherbourg, appronta aLondra nel 1785 per Omai, la cui scena è situata nel Kam-chatka, una capanna monumentale e i corrispondenti costu-mi. Gli inglesi subiscono l’influsso di Robert Adam, e ancorpiú gli scenografi scozzesi, come Nasmyth che, nel 1819, di-segnerà le scene per Walter Scott, ormai di gusto romantico.Alla fine del sec. xviii tedeschi e austriaci sostituiranno gliitaliani nella sperimentazione di nuove invenzioni di sceneteatrali. Ramberg dipinge nel 1789 il sipario del teatro diHannover, un Apollo circondato da Muse drammatiche, enel 1794 le scene del Flauto magico, montato poi da Schwarza Lipsia nel 1793. Durante il primo quarto del sec, xix si ve-dranno scene concepite nello stile rigido e freddo del primoImpero, apprezzato in Germania. Le scene disegnate nel1815 da Friedrich Beuther a Weimar per la Demenza di Ti-to di Mozart mostrano una sala cinta da pesanti colonne do-riche; e quelle per il Flauto magico, dato a Braunschweig nel1824, presentano l’interno di un tempio vagamente egizio.A Vienna, dove è disegnatore dei teatri imperiali dal 1784alla sua morte nel 1806, ma anche a Praga sua città natale,e negli altri teatri boemi, Josef Platzer lascerà numerose sce-ne (disegni al teatro del castello di Litomyol). La sua sceno-grafia per le Nozze di Figaro nel 1786 farà epoca. Il suo gu-sto delle architetture immaginarie lascerà gradatamente ilposto a scene piú austere.Karl-Friedrich Schinkel si rivela a Berlino scenografo tra ipiú importanti; le sue opere illustrano perfettamente il pas-saggio dal neoclassicismo al romanticismo. Se nel 1818 iltempio dell’opera Die Vestalin non è che una fredda rico-struzione archeologica, Schinkel dal 1815 in poi, realizzerà

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il suo capolavoro con le scene del Flauto magico. I giardinidi Sarastro, con le file di torce che fiancheggiano una scalache discende a mare, l’isola su cui s’innalza, al chiaro di lu-na, un’immensa sfinge tra le palme, dovevano produrre uneffetto sorprendente, a giudicare dalle guaches conservatenello Schinkel Pavillon (Berlino, castello di Charlottenburg). L’epoca romantica In epoca romantica si darà spazioall’espressione dei sentimenti sia nella lirica che nel teatrodrammatico. La scenografia sarà strumento principe di sug-gestione espressiva e doveva essere perciò strettamente le-gata al testo e ai personaggi dello spettacolo. L’Ottocento èanche l’epoca delle rivisitazioni storiche: «Siamo stati di tut-ti i tempi e di tutti i Paesi, tranne il nostro», scriverà deMusset. All’immaginazione storica si accompagna un inte-resse per gli aspetti piú scenografici della natura e sarannoormai soprattutto i pittori – che soppiantano gli scenografi– ad affrontare questo compito immenso, con ogni mezzo.Il lungo periodo tra gli anni Venti dell’Ottocento e gli anniSettanta è contraddistinto infatti da importanti innovazio-ni tecniche, come l’installazione del gas sulla scena del Co-vent Garden a Londra e dell’Opéra a Parigi fra 1821 e 1822,il perfezionamento dei «trasparenti» e dei macchinari. A di-sposizione del teatro, frequentato da un vasto pubblico, ven-gono messi a disposizione ingenti mezzi finanziari. L’Opé-ra muta sede a piú riprese in questo periodo, fino alla suariapertura nel 1875 nel favoloso Palazzo Garnier. Definirelo spirito e lo stile della scenografia durante questi anni nonè semplice data la diversità delle personalità; è comunque ri-scontrabile un’acuta intenzione filologica delle ricostruzio-ni e dei costumi.Gli scenografi dell’Opéra furono attivi per altri teatri che,come l’Opéra-Comique, il Théátre Lyrique, la Porte-Saint-Martin, l’Odéon o il Théâtre-Français, davano grande rilie-vo, secondo un gusto tipicamente francese, all’allestimentoscenico: gli autori stessi delle opere liriche fornirono spessoistruzioni e talvolta disegni. Già Goethe disegnò una scenaper la Notte di Walpurga (Weimar, Museo Goethe) e un’al-tra per il Faust. Hugo ha lasciato i suoi disegni annotati perla scenografia di Ruy Blas e quella dei Burgravi. AlexandreDumas diresse le scene del suo teatro storico.Scenografo capo dell’Opéra durante il primo Impero fu J.-B. Isabey; il genero Luc-Charles Cicéri fu suo assistente, nel

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1809, come pittore di paesaggi, poi, dal 1815 al 1848, di-venne a sua volta scenografo capo. Quasi tutte le scene fu-rono, fino al 1833, concepite da Isabey e dai suoi collabo-ratori. L’opera di Cicéri è assai diversa. Nel 1822 si fece aiu-tare da Daguerre, cui affidò persino le scene di Aladino e laLampada magica, per le quali fece grande uso di trasparenti,illuminati, per la prima volta, a gas. Entusiasmò Dumas conla sua scena di Roberto il Diavolo 1831) con un chiostro ro-mano rischiarato dalla luna. La sala da ballo del Gustavo IIIfu decorata, in trompe-l’œil, con sculture e drappeggi vir-tuosistici.Autore delle principali scenografie del teatro romantico fran-cese fu Charles Séchan. Si sforzò di ricostituire in base adantiche incisioni la torre di Nesle, il vecchio Louvre o il re-tro di Notre-Dame, oppure, per Marino Faliero, di cui De-laroche disegnò i costumi (1834), la piazza San Giovanni ePaolo di Venezia, con la statua del Colleoni. Tutte le suescene per Enrico III e la sua corte, Lucrezia Borgia, gli Ugo-notti (1853) sono ricostruzioni storiche molto precise.Meyerbeer lamenterà che scene tanto ricche attirino, l’at-tenzione del pubblico a spese della musica e del canto. Lescene di Cambon per il Cavallo di bronzo, ad esempio, sonosovraccariche di monumenti e dettagli architettonici e pae-saggistici davanti ai quali l’occhio si smarrisce come in unaconfusa grammatica di stili.Lo stesso horror vacui scenografico segna le messe in scenadi tutta Europa. Alla fine del sec. xix Carlo Ferrario è, inItalia, lo scenografo delle grandi opere di Verdi e di Gou-nod con Angelo Parravicini e Antonio Rovescalli.In Germania le innovazioni strutturali portate da Wagneral concetto stesso di spettacolo teatrale non porteranno an-cora ad effettive e durature novità nel campo della messin-scena, nonostante proprio dalle imprese di Wagner fosseroscaturite nuovissime esigenze sceniche, intuite ed espresseda un teorico-scenografo, il ginevrino Adolphe Appia. L’au-spicato superamento del verismo pittorico, con tutto il suocarico di elementi descrittivi, e quindi l’eliminazione con-seguente della tecnica tradizionale delle scene dipinte, avràinvece echi fecondi durante tutto il Novecento.Le scene delle opere di Wagner restano di fatto concepite inuno spirito romantico e archeologico insieme, come i castelli

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di Luigi II di Baviera. Dal Tannhäuser a Dresda nel 1845 aL’oro del Reno a Monaco nel 1869, alle scenografie di Bay-reuth a partire dal 1876, non si hanno mutamenti profondi.Le rocce e gli alberi dipinti nel 1876 da Jose Hoffmann peril terzo atto della Walkiria, lo stupefacente meccanismo mos-so a braccia che, nello stesso anno, fa roteare le figlie del Re-no nell’acqua illusionisticamente evocata; le sontuose scenedella Sala del Graal, decorate da Paul von Joukowsky nel1882 per la prima del Parsifal, sono forse firmate da Cicério da Cambon.Il teatro visto dai pittori Soggetti teatrali Sovente sui vasi greci sono dipinte sce-ne del teatro di Eschilo, di Aristofane e di numerose pa-rodie dei tragici greci; un affresco presenta il Sacrificio diIfigenia, da un lavoro di Euripide; Plauto è rappresentatoin una scena comica di un mosaico trovato a Pompei; in va-ri affreschi sono rappresentate scene dipinte in trompe-l’œilcon raffigurazioni di recite. L’influsso del teatro sull’artedella fine del Medioevo è stato messo in luce da Emile Mâ-le: «Si può dire che tutte le nuove scene che entrarono al-lora nell’arte plastica, siano state recitate prima d’esser di-pinte». In effetti si constata che, nelle miniature (quelle diFouquet, che in una pagina del Libro d’ore di Etienne Che-valier mostra una rappresentazione del Mistero di santaApollina) e persino in dipinti su tavola, in prevalenza fiam-minghi (come la Passione di Memling: Torino, mc; o quel-la di Luca di Leida: Francoforte, ski; o ancora le tele di-pinte di Reims), le scene religiose in successione hanno luo-go in edifici dove è soppresso il muro di facciata: gli episodisi alleano fianco a fianco come nelle mansions dei misteri,oppure, come nel caso del Martirio di san Dionigi (Parigi, Lou-vre) sono presentati simultaneamente. L’influsso del tea-tro è evidente particolarmente sull’iconografia dell’arte delsec. xv.Le prime illustrazioni del teatro profano compaiono in alcu-ni dipinti della fine del sec. xvi e della prima metà del xvii efurono dedicate sempre alla commedia dell’arte: la compa-gnia dei Golosi a Parigi sotto Enrico IV (Parigi, Museo Car-navalet), lo spettacolo di attori di farsa italiani (Museo di Ba-veux), e un’altra illustrazione di soggetto teatrale attribuitaa Brunel il Giovane (Museo di Béziers). Una tela delle rac-colte della Comédie-Française, datata 1670, ci presenta in

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gruppo a Parigi, a uno spettacolo di piazza «gli attori di far-sa francesi e italiani», tra i quali Molière. Chiamate in tut-ta Europa, le compagnie italiane saranno soggetto, fino allafine del sec. xviii, di numerose composizioni. AlessandroScalzi dipinse intorno al 1568 per il duca di Baviera nel ca-stello di Trausnitz, le pareti e le false porte di una scala conun’allegra girandola dove si riconoscono Pantalone e il suoservo Zanne, Arlecchino, il Dottore bolognese e la bella Cor-tegiana. Per la decorazione di un castello francese, un arti-sta anonimo del sec. xvii compose una serie di tele – studiumoristici della vita errante di una compagnia di saltim-banchi – in base al Romanzo comico di Scarron (Mans, Mu-seo). Gli attori della Comédie-Italienne e quelli della Comé-die-Française furono spesso ritratti da Watteau che dedicòanche un quadro alla partenza dei commedianti italianiespulsi nel 1696. Anche Lancret illustrò soggetti analoghi eMagnasco raffigurò profili di cantanti e pulcinella nelle suearchitetture teatrali.Sin dalla fine del sec. xvii i personaggi della commedia dell’ar-te appaiono in profilo nei pannelli lignei decorati con arabe-schi e grottesche da Claude III Audran, Gillot e dallo stessoWatteau. Domenico Tiepolo a sua volta dipinse le avventu-re di Pulcinella, cui dedicò un album di 103 acquerelli. L’in-flusso del teatro sulla ricerca espressiva dei pittori è vasto eprofondo. Charles Le Brun non trascurò i gesti e la mimicadegli attori studiando e codificando l’«espressione delle pas-sioni», oggetto delle sue conferenze all’Académie Royale. Fumolto probabilmente la rappresentazione, nel 1665, dell’A-lessandro di Racine che lo incitò a intraprendere un ciclo ditele gigantesche consacrate alla vita di questo principe. Altropittore che accolse le suggestioni espressive della commediafu l’italiano Traversi. A sua volta Caylus, condividendo l’in-teresse di Le Brun per la teoria delle passioni creò nel 1759un concorso che premiava il miglior dipinto incentrato sullaresa delle passioni. Ducreux dipinse se stesso in atteggiamen-to beffardo, collerico, ilare, riferendosi ai diversi ruoli dellacommedia in un momento in cui la ricerca della resa del ca-rattere individuale nel ritratto era considerata prioritaria.Messerschmidt scolpirà i suoi volti contorti da smorfie, men-tre Lavater ideò un sistema di classificazione del carattere at-traverso lo studio della fisiognomica.

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Nel 1769 Dandré-Bardon, pubblicando i suoi Tableaux del’histoire, pretese di codificare per i pittori una disposizioneesatta dei personaggi, in breve una vera e propria «messa inscena» per ciascun tema prescelto. I soggetti drammatici ca-ri a taluni artisti del regno di Luigi XV, come un Deshays– che, secondo Diderot, si compiace «della macelleria ri-buttante offertagli dalla vita dei santi» – o uno Challe, so-no trattati e illuminati in modo del tutto teatrale, e Diderotironicamente immagina che tra il palcoscenico e lo studio deipittori possano avvenire scambi di invenzioni drammatiche.La scenografia e la pittura di paesaggio composito presenta-no numerose e indiscutibili relazioni. Le città immaginariedi Antoine Caron, i porti e le marine di Claude Lorrain etutti i quadri di architettura realizzati da Patel a Cocorran-te, da Pannini a Hubert Robert, si presentano come altret-tante scenografie, spesso inquadrate da «supporti» come lascena teatrale: alberi o colonne, torri o rocce fugono da quin-te sceniche. D’altra parte molti pittori scenografi sono an-che pittori di prospettive o di paesaggi come Servadoni oBoucher.L’Influsso del teatro sulla pittura si esercita in modo ancorpiú diretto nella scelta dei soggetti. Gabriel de Saint-Aubinrappresenta fedelmente, in una guaches all’Ermitage di SanPietroburgo, la sala e la scena dell’Opéra della rue Saint-Ho-noré durante una rappresentazione di Armida, Pannini la sa-la del teatro Ottoboni di Roma durante un concerto in ono-re della nascita del delfino (Parigi, Louvre), Olivero dipin-ge una grande tela che presenta la scena e la sala del teatrodi Torino in occasione di un’opera data nel 1740, un allie-vo di Bibiena organizza il palcoscenico del teatro di Parmacon una scenografia montata.Antoine Coypel è fedele spettatore: ci presenta gli amba-sciatori del Marocco nel loro palco all’Opéra nel 1682, for-nisce i cartoni di Esther e di Athalie per l’arazzo dei Frag-ments d’opéra tessuto ai Gobelins, studia l’eloquio gestualedel teatro e, come Le Brun s’interessa all’espressione dellepassioni. «Gli spettacoli – scrive – sembrano quanto mai ne-cessari per chi voglia perfezionarsi nella pittura». Un altrofamoso esempio è l’Isola di Citera dipinta da Watteau, pri-ma idea dell’Imbarco, direttamente ispirata alla scena fina-le dei Tre Cugini, commedia di Dancourt. Gillot dipinge nel1695 la Scena delle carrozze (Parigi, Louvre), in base a una

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commedia di Regnard: la Foire Saint-Germain. Frequenta as-siduamente i teatrini della fiera Saint-Laurent, dove ha tro-vato il modello del suo Arlecchino imperatore della Luna(Nantes, mba). Lancret è autore, nel 1727, di una tela chepresenta l’ultima scena del Filosofo maritato di Destouchese, nel 1732, una scena del Glorioso.A Beauvais si tessono quattro esemplari di un arazzo delleCommedie di Molière, su cartoni di Oudry. È noto infine cheDavid, assistendo nel 1782 alla rappresentazione di Orazioalla Comédie-Française, ne fu vivamente colpito e vi si ispirò,d’altronde liberamente, per il suo celebre capolavoro.Gli artisti inglesi frequentarono assiduamente i teatri e gliattori. Hogarth ha illustrato una scena della Beggar’s Opera(Londra, Tate Gall.) ed era amico di Garrick, al punto darecitare con lui in un teatro privato creando anche le scenecome a Drury Lane. Garrick d’altra parte è stato ritratto dauna dozzina di artisti, tra i quali J. B. van Loo, e PompeoBatoni. F. Hayman lo ha rappresentato in una scena del Ric-cardo III. J. Highmore scelse una scena della Pamela di Ri-chardson per un suo dipinto. La passione del pubblico per igrandi attori spiega perché Zoffany abbia rappresentatoGarrick e Mrs Gibber in una scena della Venice preserved diOttway e in The Provoqued Wife di van Burg, e James Ro-berts in The School for Scandal di Sheridan. Francis Whea-tley, Benjamin van Gucht dipinsero numerose scene e ri-tratti di attori nelle vesti dei loro personaggi teatrali. Allamorte di Garrick, John Caster ne rappresentò l’apoteosi difronte a diciassette attori nei loro ruoli shakespeariani: lecollezioni del Garrick Club attestano ancora quest’infatua-zione prodigiosa. Sarah Siddons è un’altra stella prediletta.Thomas Beach la rappresenta con Kemble in Macbeth.L’opera di Shakespeare è d’altra parte soggetto iconografi-co prescelto. Boydell, soprannominato «il Mecenate com-merciale», commissiona nel 1789 a diversi pittori, tra cuiReynolds, Barry, Füssli, Hoppner, Romney, trentanove di-pinti che illustrino scene shakespeariane per ornarne la suaGall. Shakespeare in Pall-Mall e le fa incidere nel 1805.Kemble è rappresentato da Lawrence nella parte di Corio-lano e, nel 1814, Kean è raffigurato da Samuel Drummondin quella di Riccardo III, mentre Mrs. Jordan è dipinta daHoppner in veste di Musa comica.

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In Olanda, Henning s’impegna a mostrarci la sala e il pal-coscenico del teatro Schonneburg di Amsterdam in occa-sione della rappresentazione, nel 1783, di una commedia diMonval I tre contadini.È nota l’importanza del teatro nella società borghese duranteil sec. xix. Boilly ci mostra la folla che fa ressa davantiall’Ambigu-Comique. Lami dedica parecchi dipinti e unaguaches che servirà a illustrare Un hiver à Paris, di Jules Jan-nin, alla rappresentazione della sala del Théâtre-Italien nel-lo splendore delle toilettes piú brillanti. Daumier frequentòmolto il teatro traendone non soltanto molti disegni e lito-grafie, ma anche quadri. Henri Monnier si è autorappre-sentato nelle parti che egli stesso scriveva e recitava. Degass’interessò, è vero, soprattuto di danza, nondimeno ha la-sciato numerose opere rappresentanti scene di teatro lirico.Toulouse-Lautrec dipinse sei tele che mostrano varie scenedell’opera comica di Armand Sylvestre (Messalina). Ritratti di attori La posizione sociale dell’attore ha acqui-sito prestigio e riconoscimento sociale nel corso dei secoli.Se, sotto Luigi XIV, gli attori vengono «ricevuti», sotto Lui-gi XVI ricevono a loro volta. Le attrici, le cantanti, spessomantenute da ricchi finanzieri o gran signori, si fanno co-struire meravigliose dimore. La società si apre agli attori, an-che se questi non hanno diritto ad essere sepolti in terra con-sacrata. Innumeri sono i ritratti di personalità del teatrospesso raffigurati nelle vesti dei loro personaggi principali;i costumi pittoreschi accrescono la gradevolezza di questi di-pinti, che documentano anche lo stile scenico di ciascunaepoca e di ciascun attore.Netscher ci presenta Poisson in veste di Crispino, NicolasMignard dipinge Molière nel ruolo di Cesare della Morte diPompeo («piú carico di alloro di un prosciutto di Magonza»,a dire di Boileau). M.lle Duclos nel ruolo di Arianna (Cor-neille) è rappresentata da Largillière. François de Troy di-pinge Baron, ma anche la deliziosa Sylvia, che recita Mari-vaux alla Comédie-Italienne, e Costantini come Mezzetino.Adrienne Lecouvreur nel ruolo di Cornelia (Morte di Pom-peo) ispira il pennello di C. A. Coypel. Watteau è di casa trai comédiens-italiens. Dipinge i ritratti della Desmares, di LaThorillière e di Poisson nei rispettivi ruoli. Ma il ritratto di-mensionalmente piú importante è quello di Le Kain e dellaClairon, rappresentati in piedi in una scena della Medea di

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Longepierre (a Potsdam). Lenoir raffigura Le Kain in vestedi Orosmane in Zaire, nell’Orfanello della Cina e Préville co-me Mascarille. M.lle Lange è vista da Colson in veste diArianna. Trinquesse è autore di grandi ritratti in piedi a noinoti dall’esemplare inciso con M.lle Saint-Huberty dipintaancora una volta in veste di Didone da M.me Vallayer-Co-ster, e persino da Reynolds. Numerosi sono poi i ritratti diattori inglesi. Ellen Swyme viene dipinta da Lely. Mrs Sid-dons è stata senza dubbio la piú raffigurata, da Gainsbo-rough, da Reynolds, da Romney in veste di Medea o di ladyMacheth in occasione dei suoi grandi successi a Drury La-ne, e infine da Lawrence.Nel sec. xix il numero di questi ritratti sembra moltiplicarsi.Il piú celebre soprano d’Italia, la veneziana Angelina Catali-ni, è ritratta da Appiani; la Giuditta Pasta, nel ruolo di Nor-ma (Bellini) da Gérard, cui si debbono anche i ritratti di M.lleMars e di M.lle Georges, mostri sacri. A Lehmann, artista di-menticato, dobbiamo il ritratto piú romantico, quello dellaMalibran nel ruolo di Desdemona, con una lira tra le mani sulbalcone di un palazzo veneziano (Parigi, Musée Carnavalet).Caroline Hetzenecker viene ritratta a Monaco da Schwind.Delacroix dipingerà addirittura un ritratto di Talma, in ve-ste di Nerone; Manet ci mostra, in veste di Amleto, Rou-vière, in una delle sue tele peggiori; nel 1888, Mounet-Sul-ly posa per Jean-Paul Laurens nel medesimo ruolo; GeorgesClairin, ha dipinto nel 1893 il ritratto piú straordinario eimmenso di Sarah Bernhardt in veste di Cleopatra. (jw).Le relazioni tra il teatro, coreografico o drammatico, e le ar-ti plastiche sono per loro natura ricche e complesse; infattiil teatro è il luogo di materializzazione della sintesi delle ar-ti (letteratura, musica, pittura e danza si alleano per crearel’opera teatrale); inoltre la scenografia, in quanto organiz-zazione plastica del volume della scena, partecipa dell’ar-chitettura e della scultura e in quanto figurazione grafica ecromatica di uno spazio, è legata alla pittura.Gli influssi tra la plastica scenica e la pittura sono dunquemutui e reciproci: la creazione teatrale significa per il pitto-re la possibilità di abbandonare la superficie piana e limita-ta del quadro, di conquistare uno spazio da animare in tut-te le sue dimensioni; è spesso l’occasione per spingere piú afondo le sue ricerche pittoriche o di verificarne la validità

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(esperienze limite di Malevi™ per Vittoria sul sole 1913, o diP. Picasso per Parade di Erik Satie 1917). Nella progetta-zione delle scenografie i pittori sperimentano nuove ricer-che che poi riportano in pittura come nel caso di: W. Kan-dinsky (Sonorità gialla), P. Mondrian (L’effimero è eterno,1926), O. Schlemmer (Balletto triadico), e piú recentemen-te Tadeusz Kantor con il teatro «Cricotz». D’altro canto ilpittore apporta sulla scena la sua visione, la sua sensibilità,il suo universo plastico e pittorico; contribuisce con i mezzia lui propri a tradurre il dramma interpretandola attraversolo stile della propria epoca.Per tutto il sec. xx si osservano diverse forme di collabora-zione tra pittura e teatro, che riflettono le poetiche dei gran-di movimenti artistici, degli apporti individuali dei creatorio della concezione stessa del teatro. È vero, ad esempio, cheil concetto di teatro povero, di «teatro nudo» da Jacques Co-peau a Grotowski, vale a dire il ritorno alla pura «teatra-lità», lascia poco spazio alla scenografia, mentre la conce-zione del teatro totale (sintesi assoluta tra suono, colore, pa-rola o gesto) è legato alle sperimentazioni delle arti visive eplastiche come pure le sperimentazioni di teatro astratto do-ve l’uomo-attore è assente a vantaggio dello spazio scenico.Piú recentemente, l’abolizione tra le diverse categorie arti-stiche e l’ampliamento del campo di attività della pittura so-no sfociate in una nuova formulazione dei rapporti pitturae teatro, che si realizza nell’happening.Il primo vero contributo dei pittori al teatro, che fu deter-minante per l’evoluzione del teatro stesso e della pittura,venne fornito dai Ballets Russes di Djagilev trasferitosi a Pa-rigi dal 1908, poi dai Ballets Suedois (dal 1920). Questi pro-getti differiscono per lo stile e non appartengono tutti allastessa poetica teatrale; la scena talvolta non è che uno sfon-do, un grande quadro che, con le sue armonie di forme e dicolori, si accorda con l’atmosfera generale del balletto. mapuò anche non aver rapporto diretto o logico col tema, inantitesi quindi con il conformismo naturalistico e descritti-vo ottocentesco: la scena è autonoma e si esprime parallela-mente agli altri elementi della realizzazione scenica. La stes-sa natura del balletto pretendeva che lo spazio del palcosce-nico restasse libero da ingombri di qualsiasi genere, perpermettere lo sviluppo del movimento coreografico.Vanno distinti i lavori individuali di alcune personalità crea-

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tive dalle ricerche estetiche generali di un movimento, poi-ché i grandi movimenti dell’inizio del secolo (espressioni-smo, futurismo, Dada, costruttivismo, Bauhaus) hanno avu-to particolari caratteristiche investendo tutte le forme d’ar-te e contribuendo al rinnovamento del teatro.In Germania, dopo la guerra, l’espressionismo conquista ilpalcoscenico, e vi si ritrovano le caratteristiche dello stile edell’atteggiamento espressionista: deformazioni accentuate,prospettive di fuga, illuminazione drammatica, e così via.Tuttavia pochi grandi pittori del movimento, se si eccettuaO. Kokoschka, insieme pittore e scrittore (Speranza, assassi-no delle donne, 1908), parteciparono alla vita teatrale; e lamaggior parte delle scenografie dei lavori espressionisti fu-rono affidate agli scenografi di professione, d’altro cantofortemente influenzati dai pittori.Le concezioni in materia di teatro dei futuristi italiani E.Prampolini, F. Depero e G. Balla s’inscrivono nel quadrodelle ricerche di un’arte di movimento. Nel 1915 Prampo-lini redige il Manifesto della scenografia futurista, nel quale ri-fiuta ogni realismo ed esige una sintesi assoluta nell’espres-sione materiale della scena: «I colori e la scena dovranno su-scitare nello spettatore valori emotivi che né la parola delpoeta né il gesto dell’attore possono fornire». Nell’insiemedelle realizzazioni di questi futuristi (E. Prampolini, Il tam-buro di fiamma di F. T. Marinetti, 1923, Progetto di teatromagnetico, 1925; F. Depero, Balletti plastici, 1918; G. Bal-la, Fuoco d’artificio di Strawinski, 1917) si caratterizzanoper il dinamismo vitale degli elementi scenici: effetti lumi-nosi modificano l’apparenza della plastica scenica; l’attore èassente a vantaggio della scena stessa, che diviene così l’ele-mento attivo dello spettacolo.Il problema della soppressione dell’elemento umano, attoreo danzatore, che è uno degli apporti maggiori dell’esteticateatrale dell’inizio del secolo, venne risolto dai pittori in va-ri modi: sia attraverso la deformazione del costume, sotto ilquale non è piú riconoscibile la figura umana – l’uomo di-viene forma astratta (O. Schlemmer) o assemblaggio di ele-menti cubisti, geometrici (Picasso per Parade) – sia con lacreazione di vere e proprie marionette (S. Taeuber-Arp, A.Exter) o di maschere (P. Klee), sia ancora attraverso la sop-pressione totale dell’uomo a profitto della scena. Tale mec-

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canizzazione dell’uomo compare negli spettacoli dada – Hu-go Ball per la serata dello Sturm, Sonia Delaunay per Cœurà gaz di T. Tzara (1923), F. Picabia per Relâche (1924) – etrova la sua sistematizzazione nei vari progetti di ballettomeccanico.Il rifiuto dell’individualismo e degli eccessi dell’espressioni-smo si manifesta nella Germania degli anni Venti col co-struttivismo e col teatro politico di Erwin Piscator. Paralle-lamente alle ricerche rigorose di un Baumeister (la Conver-sione, 1920) si trovano le esperienze costruttiviste di LaszloMoholy-Nagy (i Racconti di Hoffmann e il Mercante di Berli-no, 1929) che creano un universo fantastico moderno nelquale il meccanismo funzionale non esclude l’emozione.Il regista Piscator (il cui progetto è di mettere in scena unatotalità, vale a dire la storia) è indotto dai suoi obiettivi mi-litanti a ristrutturare lo spazio scenico: sostituisce l’eroe conla massa, introduce proiezioni su schermo, si serve delle tec-niche del collage e del fotomontaggio giustapponendo variluoghi scenici autonomi. Fa appello ad artisti come GeorgGrosz; (le Avventure del bravo soldato Schwejk, 1920; il Ba-teau ivre, 1926) e John Heartfield (l’Ora della Russia, 1920)per realizzare i suoi progetti. Al fine di realizzare in modoglobale il progetto di Piscator, Walter Gropius concepisceper lui il «teatro totale» (1927), che avrebbe dovuto con-sentire diverse combinazioni tra palcoscenico e platea.Al Bauhaus la sezione teatro è animata da O. Schlemmer, ilcui Balletto triadico (1922) è una vera apoteosi della trinitàforma-spazio-colore, danza-musica-costume... Nel 1928 aDessau Kandinsky crea i Quadri di una mostra, sedici quadrinei quali le forme mobili astratte giocano con la luce.Il teatro, essendo luogo privilegiato nel quale si cristallizza-no un’epoca e le sue contraddizioni, svolge un ruolo di pri-mo piano nella vita culturale nei periodi di turbamento po-litico e sociale (guerra, rivoluzione). Così il teatro russo de-gli anni Venti, sia per il calibro dei suoi creatori (A. Tairov,E. Vakhtangov, V. Meyerbold) che per gli apporti degli ar-tisti costruttivisti alla scenografia (V. Tatlin, Zanguezi, 1923;K. Malevi™, Mistero buffo, 1918; A. Exter, Salomè, 1917; A.Vesnin, Fedra, 1922, Uno chiamato Giovedi, 1923; V. Ste-panova, Morte di Tarelkin, 1922; L. Popova, Le Cocu magni-fique, 1922; ecc.) sarà in quegli anni una delle esperienze piúvivaci foriera di ulteriori sviluppi. Gli artisti costruttivisti

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respingono qualsiasi tentativo di figurazione e di ornamen-tazione decorativa; sostengono un’arte utilitaria e creanonuovi dispositivi scenici, costruzioni mobili trasformabilicon cui recitano gli attori. El´ Lisitckij giungerà a rappre-sentare l’insieme dello spazio teatrale nel suo plastico perVoglio un bambino (1926-30). Segnaliamo inoltre l’origina-lità in Russia del teatro ebraico Kamerny, per il quale MarcChagall concepì numerose scenografie.La partecipazione dei surrealisti al teatro è frutto piú che al-tro di collaborazioni occasionali: André Masson, che operòcon Jean-Louis Barrault, Salvador Dalì (Tristano pazzo,1944), Joan Mirò (Giochi infantili, 1932), Max Ernst (Tu-rangalila, 1968), che traspongono tutti il loro universo poe-tico, fantasmagorico e pittorico sulla scena.In Italia, l’esperienza teatrale che permise l’ingresso dellagrande pittura nell’allestimento di opere liriche, fu quelladel Maggio Musicale Fiorentino, la cui prima edizione risa-le al 1933. La caratteristica interessante di questo esperi-mento sta nell’aver scelto non tanto opere contemporanee orecenti, quanto opere popolari del repertorio melodramma-tico nazionale. All’apertura del festival, nel 1933, troviamoMario Sironi per Lucrezia Borgia di Donizetti, Felice Caso-rati per la Vestale di Spontini e De Chirico per I Puritani diBellini.Anche alcuni scultori hanno apportato le proprie modificheallo spazio scenico: Naum Gabo e A. Pevsner (La Chatte,1927), poi Henry Moore (Don Juan, 1967), Alexander Cal-der (Work in progress, 1968; Nuclea, 1952, lavoro per il qua-le crea un dispositivo costruttivista dominato da mobiles in-quietanti), Barbara Hepworth, F. Wotruba, E. Hajdu e mol-ti altri. Non è un caso, del resto, che gli scultori venganochiamati ad operare negli allestimenti moderni, in quanto siè venuta affinando, assieme a una tendenza plastico-volu-metrica (che risale ancora ad Appia), una complementaresensibilità per l’uso delle luci in scena.Negli anni Sessanta, la Pop Art e il Nouveau Réalisme daun lato, l’Op Art e l’Arte Cinetica dall’altro trovano espres-sione in realizzazioni coreografiche. Per i primi si tratta piúche altro di sottolineare il contenuto dell’azione teatrale conla loro scenografia: Jean Tinguely, Niki de Saint-Phalle,Martial Raysse (Elogio della follia, 1966), creazioni di Andy

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Warhol, Jasper Johns, John Cage per i balletti di Merce Cun-ningham (Walkaround-Time, 1968) ecc.; mentre per i se-condi si tratta essenzialmente di ricerche visive: giochi di lu-ce, proiezioni, sculture in moto che modificano la visionedel balletto (Victor Vasarely; J. R. Soto; N. Schöffer: CispI, 1960), costituendo uno spettacolo totale nel quale la dan-za e la musica si affiancano alla cibernetica e al luminodina-mismo. (mlbb).

TebeL’imponenza del complesso di resti monumentali concen-trati nell’area dell’odierna Luxor, in Alto Egitto, testimo-nia la magnificenza dell’antica Uaset, o T, come la chiama-rono i Greci. In origine città di provincia, intorno al 2100a. C. T assunse il ruolo di capitale, grazie all’intraprenden-za dei reggenti locali, fondatori della XI dinastia, e alla fa-vorevole posizione geografica, vicina alle risorse minerariedel Deserto Orientale e allo sbocco delle piste commercialiche collegavano l’Egitto al cuore dell’Africa e al Mar Ros-so. Da quel momento, anche quando le alterne vicende del-la storia spostarono altrove in Egitto il centro del potere (giàla XII dinastia aveva portato a nord la capitale, all’imboccodel Fayym), T mantenne intatto il proprio prestigio spiri-tuale e la propria importanza economica e politica, essen-zialmente legata al culto del dio Amon, in origine divinitàlocale e dinastica, presto assurta al ruolo di dio universale,nella forma solarizzata di Amon-Ra.La città conobbe l’apogeo durante la XVIII dinastia (1550-1307 a. C.), quando, capitale del piú potente Stato del ba-cino mediterraneo, attrasse, con le immense ricchezze af-fluitevi, le migliori maestranze e i piú raffinati artisti, in unfervore creativo senza precedenti. Non vi fu comunque fa-raone che non lasciasse a T memoria di sé, ingrandendone,abbellendone o restaurandone i templi e i monumenti. An-cora in età romana, quando T era di nuovo solo un borgosonnolento, l’imperatore Adriano le rese omaggio, restau-rando le gigantesche statue di Amenofi III, meglio note co-me «Colossi di Memnone».Il nucleo piú antico della città, con i grandi complessi tem-plari dedicati al culto divino, che ancora si ammirano a Kar-nak e Luxor, e i quartieri residenziali (di cui oggi restanoscarse tracce), sorgeva sulla riva orientale. Sull’altra riva, ac-

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canto ai piccoli nuclei abitativi del personale legato al cultodei morti, si stendevano le necropoli, con i templi funerariregali e le tombe: celate alla vista comune quelle regali, sca-vate in due wadi della montagna tebana comunemente noticome Valle dei Re e Valle delle Regine; disseminate sulla col-lina ai piedi della montagna quelle private, in agglomeratiche prendono il nome dai villaggi arabi attuali (Dra‘ Abu el-Naga‘, el-Khokha, ‘Asasif, Sheikh ‘Abd el-Qurna, QurnetMura‘i, Deir el-Medina). Su questa stessa riva, a sud del tem-pio di Medinet Habu, nella località nota con il nome mo-derno di Malkata, Amenofi III (1391-1353 a. C.) si fece eri-gere uno splendido complesso palaziale, allietato da giardi-ni e da un lago. L’indagine archeologica ha rinvenuto quiresti di pitture murali dai vividi colori, che anticipano il fre-sco e gioioso naturalismo di quelle provenienti dal PalazzoReale di Amenofi IV-Akhenaton ad Amarna.L’uniforme ocra che oggi accomuna i resti dei templi alle ca-se dei villaggi moderni non lascia intuire la rutilante poli-cromia che in origine rivestiva, geroglifico per geroglifico,centimetro per centimetro, la fitta decorazione scolpita del-le grandi architetture templari in pietra e mattoni, se nonper poche sbiadite tracce, lì dove l’intonaco di gesso, chefungeva da supporto al colore, ha retto alle intemperie. Male tombe private, soprattutto gli ipogei, dove la roccia fria-bile, poco adatta all’esecuzione dei rilievi, costringeva adadottare la tecnica della pittura murale, conservano ancorastupefacenti esemplari di dipinti murali dai colori luminosi.Grazie a tombe come quelle di Menna, Nakht, Kenamon,Ramose, Rekhmira, tutte datate al Nuovo Regno, T offreoggi un compendio insostituibile per lo studio delle tecnichepittoriche dell’antico Egitto. La preparazione della pareterocciosa alla pittura avveniva stendendo uno spesso stratodi limo sulla roccia, su cui veniva applicato un sottile stratodi stucco bianco; quest’ultimo, una volta essiccato, costi-tuiva il supporto della pittura. Nei settant’anni che corronodal regno di Amenofi II a quello di Amenofi III (secondametà del sec. xv a. C. – prima metà del sec. xiv a. C.) – pe-riodo che vide la particolare fioritura di questa tecnica – lapittura, meno impacciata dalle esigenze tecniche del rilievo,poté liberamente esprimere la propria vitalità e attitudinenarrativa. I temi prescelti dagli artisti, per noi purtroppo

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anonimi, attingono di preferenza al repertorio della vita nel-la natura, esprimendo con intensità mai piú ripetuta l’amo-re per la vita campestre. Si moltiplicano le rappresentazionidi giardini con alberi da frutto, vigne a spalliera, stagni po-polosi di pesci e uccelli palustri; le scene di caccia nel sel-vaggio paesaggio desertico. I soffitti sono ornati con motivigeometrici dai colori esuberanti, che attingono al repertorioprecedente, ma lo ampliano con nuovi festosi temi, come fio-ri di loto, pampini e uva. Per esprimere con maggiore viva-cità e realismo la bellezza di questa natura, gli artisti arric-chiscono la tavolozza tradizionale, tentano esperimentiespressivi inediti, come un nuovo uso della pennellata, ra-pida e fitta, dall’effetto quasi impressionistico, particolar-mente utilizzata per rendere le sfumature del piumaggio de-gli uccelli, il pelame dei felini o le scaglie dei pesci. Accan-to agli esperimenti cromatici, va sempre piú imponendosi unnuovo senso del movimento nelle scene, che abbandonanola tradizionale rigidità del disegno egiziano per accoglieremotivi dell’arte egea, come il galoppo sfrenato e, piú in ge-nerale, la varietà delle pose e dei movimenti dei personaggi,conferendo alle scene una maggiore tensione drammatica.(mcb).

tecniche della pitturaIl termine tecnica artistica indica nella cultura occidentalela complessità dei procedimenti, dei materiali e degli stru-menti finalizzati alla produzione delle opere. Intrinseci e ir-rinunciabili sono dunque i legami tra le operazioni e le con-cezioni tecniche e le articolazioni stilistiche e teorichedell’arte nel corso della sua storia. Identificata dagli antichiGreci con il concetto stesso di arte come attività manuale(téchnï), la t è stata in seguito considerata a lungo un aspet-to subordinato e inferiore del processo artistico, proprio inquanto collegata a operazioni manuali e servili. Tale svalu-tazione si consolida con la perdita progressiva dell’organiz-zazione policentrica della bottega medievale e con l’affer-marsi dell’idea come attività libera nel rinascimento: unaconcezione che condiziona l’atteggiamento dei teorici e de-gli stessi artisti, tesi a rivendicare all’arte uno status eleva-to, legato al pensiero piú che alla materia, lontano dalla con-notazione di lavoro «meccanico». La dicotomia tra teoricae pratica dell’arte e i relativi apprezzamenti si prolungano

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con vari esiti fino ai mutamenti indotti nelle operazioni ar-tistiche dalla rivoluzione industriale. Una frattura irreversi-bile rispetto alla tradizione tecnica è segnata infatti dall’uti-lizzazione di nuovi materiali e procedimenti, prodotti dal-l’industria e non piú controllati dall’artista, unitamenteall’affermarsi di nuove idee e valutazioni estetiche, e si svol-ge variamente tra sperimentazioni eterodosse e momenti dirivalutazione dell’artigianato, trovando soluzioni profonda-mente innovative e diversificate nell’ambito delle avan-guardie e delle correnti artistiche contemporanee.Per un lungo periodo il rapporto arte-t è stato perciò consi-derato dalla storia dell’arte e dalla critica (specie di stampoidealistico) come un aspetto marginale, quasi il semplice svol-gimento di un programma dato; se ne segnalavano superfi-cialmente solo le piú vistose modificazioni epocali, per esem-pio l’«invenzione» dell’olio nel rinascimento, e si sorvolavasulla ricchezza di valenze interpretative della sua ricogni-zione. Ma in tempi recenti – attraverso un itinerario criticocomplesso, che partendo dall’illuminismo si intreccia da unlato con l’insorgere delle esigenze del restauro e dall’altrocon determinati orientamenti teorici tra Ottocento e Nove-cento – si è affermata la consapevolezza che le t dell’artehanno una storia, una cultura, forme di elaborazione, di teo-rizzazione e di trasmissione in continua trasformazione, eche costituiscono gli elementi base dell’esistenza delle ope-re. Da esse dipendono largamente le condizioni di fondo del-la percezione, della trasmissione nel tempo, e in certa misu-ra della qualità stessa dell’oggetto artistico. Sono fattori de-terminanti della dialettica tra teoria e prassi, ben consapevolenell’esperienza e nelle intenzioni degli artisti, e profonda-mente calata nelle implicazioni percettive, estetiche, sim-boliche dei linguaggi visivi.Sapere come è stato fatto un dipinto contribuisce alla cono-scenza e alla comprensione dell’opera. Aiuta a ricostruire imomenti della genesi e della produzione, a ripercorrere quel-la che era stata l’esperienza creativa dell’artista nei confrontidella materia, individuando conoscenze, comportamenti,mentalità: dalla preparazione dei supporti alla colorazionedei fondi, dalla manifattura dei pigmenti alla composizionedei colori e dei leganti, dalla elaborazione del disegno allastesura degli strati pittorici, dalle pennellate alle velature,

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dai ritocchi alle verniciature. Cioè dalla materia all’immagi-ne, attraverso una vasta gamma di scelte, di possibilità e dicombinazioni sincroniche e diacroniche, in un incessantepercorso di ricerche e sperimentazioni, supportate anche dauna specifica trattatistica.Inoltre, in particolare, lo studio della t in quanto individua-zione dei materiali originali e degli impieghi consente di va-lutare lo stato di conservazione dell’opera, l’alterazione omeno delle sue componenti fisiche e del suo aspetto prodottedal tempo (a volte consapevolmente ipotizzata dagli artisti)o da successivi interventi; aiuta a determinare cosa è origi-nale e cosa è aggiunto (o tolto o modificato), a datare e inalcuni casi a stabilire l’autografia: ha pertanto una funzioneessenziale anche nella conservazione e nel restauro.Per quanto troppo spesso condotta solo in occasione di re-stauri o di grandi mostre, la ricognizione sulle t appare dun-que come una componente imprescindibile del bagaglio del-lo storico dell’arte: un metodo essenziale di analisi e di con-fronto, in cui gli stessi oggetti dell’indagine sono nello stessotempo anche strumenti di lettura di primaria importanza,ben oltre i confini della semplice documentazione. I mate-riali, i procedimenti, nelle scelte e nell’uso degli artisti, so-no i veicoli di un metodo analitico che permette di con-frontarsi con l’opera ricorrendo alla specificità dei suoi fat-tori costitutivi e al campo di ricerca storica della cultura chel’ha concretamente prodotta. Assumendo l’oggetto artisticocome dato primario e osservandone la struttura fisica e lastoria dall’interno, la riflessione sul fare permette di oltre-passare e insieme di illuminare il dato immediato dell’attualeconfigurazione visibile, quasi a colmare il tempo che separala nostra percezione dell’opera da quella dell’epoca della suarealizzazione. (sbo).I procedimenti esecutivi messi in opera dai maestri del pas-sato si caratterizzano sia dal punto di vista della rigorosa se-lezione dei materiali costituenti le opere, che per gli svariatimodi d’impiego di tali materiali adottati da ciascun artista.L’identificazione di questi ultimi risulta meno difficile diuna ricognizione storica sulla costruzione della pellicola pit-torica poiché, pur essendo la classe dei materiali estrema-mente ricca, si rivela in qualche modo circoscrivibile a ca-tegorie d’uso tra loro distinte (supporti, leganti, pigmenti ecoloranti, diluenti, resine per vernici, ecc.), mentre assolu-

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tamente limitata a pochi artisti è l’individuazione delle di-verse modalità d’uso dei vari materiali.Le piú antiche testimonianze pittoriche pervenuteci sonorappresentate dalle pitture rupestri di epoca paleolitica (Al-tamira, Lascaux) eseguite con colori stemperati in acqua onella caseina del latte e stesi direttamente sulle pareti dellegrotte con rudimentali pennelli o applicati con le dita.Dal tipo di legante (colla, gomma, uovo, caseina, olio) utiliz-zato per miscelare i colori in polvere, si determina la tecnicapittorica impiegata dall’artista che, nel caso delle pitture mu-rali (siano esse eseguite su parete, soffitto, cupola, volta, ecc.),vengono generalmente ed erroneamente accomunate sotto ladizione di affresco. In realtà il termine affresco (→) va rife-rito unicamente alla stesura su un intonaco umido di colorisciolti semplicemente in acqua, mentre per altre t di pitturamurale risulta piú corretto parlare di pittura a secco (→ sec-co), anche se gli studi piú recenti hanno evidenziato un pa-norama particolarmente variegato e complesso in cui convi-vono o si alternano procedimenti di pittura alla calce su in-tonaco umido o su intonaco secco, pittura a tempera, a olio,a cera su intonaco umido o piú o meno parzialmente secco.In particolare per quanto concerne l’età paleocristiana e il pri-mo Medioevo (fino al sec. xii), l’uso dell’affresco appare piúche altro un retaggio della raffinata tradizione tecnica grecae romana (oggi visibile solo nelle pitture pompeiane), risul-tando talvolta destinato alla sola resa dei toni di fondo, men-tre il resto della composizione veniva eseguita a secco con tem-pera di calce (Santa Maria Antiqua a Roma, vi-ix secolo) ocon leganti proteici (San Giovanni di Müstair, sec. ix).Non si trattava dunque di semplici ritocchi o rifiniture ap-portati per correggere eventuali errori di stesura dei coloriin affresco (la cui unica possibilità di correzione consistevanel tagliare e staccare la porzione d’intonaco dipinto e di ap-plicarne una nuova da realizzare correttamente), ma di unacompresenza di t la cui consuetudine è confermata dalla te-stimonianza delle fonti documentarie coeve (Manoscritto diLucca, Eraclio, Teofilo, Pietro di St. Audemar) (→ Lette-ratura artistica).Un esempio del tutto particolare è rappresentato dai restidel ciclo pittorico della chiesetta di Santa Maria foris por-tas a Castelseprio, eseguito ad affresco, in cui compare un

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graffito relativo ad Arderico, arcivescovo di Milano dal 938al 945, che fornisce il limite cronologico entro il quale i di-pinti vennero realizzati.La tecnica del graffito (→) impiegata generalmente nella de-corazione murale (ma anche su superfici vitree e sui fondidorati della pittura su tavola), consisteva nel graffiare conuna punta il primo strato superficiale d’intonaco fresco fa-cendo emegere lo strato sottostante variamente colorato.Analogamente inconsueta risulta l’applicazione di pigmentimiscelati alla cera, come quelli rinvenuti nella Basilica diSanta Maria Maggiore a Pavia (sec. xii), che appare come unrichiamo all’encausto dei romani.Nella tecnica a encausto (→) infatti, i pigmenti uniti alla ce-ra (presumibilmente cera punica) potevano essere stesi, se-condo Plinio, a spatola o a pennello. Nel metodo a spatola,la cera fusa al calore del fuoco era mescolata con altre so-stanze (resine o gomme) per consentirne la stesura con la spa-tola, anche a freddo. Nel metodo a pennello invece, il le-gante a base di cera era mantenuto liquido utilizzando unatavolozza metallica posta sui carboni ardenti.L’abbandono della pittura a encausto sembra situarsi alla fi-ne dell’epoca carolingia, anche se se ne può intravedere unaforma di sopravvivenza nel cosiddetto «stucco lustro» o nel«marmorino» veneziano, dove l’intonaco, cosparso da unamiscela di calce, sapone, cera od olio di lino cotto, venivalucidato con ferri caldi fino a raggiungere la levigatezza del-la pietra. Tale t aveva però poco a che fare con i dipinti mu-rali poiché veniva generalmente riservata a porzioni d’into-naco destinate ad imitare le venature del marmo, là dove lefigurazioni pittoriche erano quindi assenti.È a partire dalla fine del Duecento che avvengono dei fon-damentali mutamenti nell’ambito delle t di pittura murale,come stanno a testimoniare i cicli dipinti nella Basilica Su-periore di San Francesco ad Assisi in cui con Cimabue eGiotto si assiste al passaggio dalla lavorazione dell’intonaco«a pontate» a quella «a giornate», unitamente al totale re-cupero della t ad affresco («buon fresco»), forse sulla scor-ta dei procedimenti impiegati dai mosaicisti bizantini.Infatti, analogamente al buon fresco, l’esecuzione del mo-saico (→) richiedeva la stesura del disegno preliminare suuno strato di intonaco ruvido, che veniva poi ricoperto ascansioni giornaliere da uno strato di intonaco liscio. Su que-

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st’ultimo veniva nuovamente tracciato il disegno per collo-carvi le tessere prima che l’intonaco si asciugasse.L’arte musiva, largamente conosciuta fin dalla piú remotaantichità, riunisce sotto di sé sia il mosaico parietale (in pa-sta vitrea) che quello pavimentale (in pietra), generalmenteindicato con il nome di «litostrato». Tra i litostrati di epo-ca romana si distinguono tre principali t esecutive: l’opus tes-sellatum, costituito da tessere a dado di dimensioni variabi-li ma costanti in ciascuna opera e di colore bianco e nero;l’opus sectile, formato non da tessere ma da lastre marmoreedi forma irregolare, che va considerato come l’antesignanodella tarsia lapidea largamente diffusasi nel sec. xvi a Firenzesotto la corte medicea (commesso o mosaico fiorentino); einfine l’opus vermiculatum, costituito da tessere policrome,talvolta di dimensioni ridottissime e dalla forma irregolareper adattarsi alla minuzia del disegno.Dall’opus vermiculatum deriva presumibilmente il mosaico apasta vitrea utilizzato per decorare pareti e soffitti, dei qua-li uno degli esempi piú significativi dal punto di vista dellapolicromia è rappresentato dalla decorazione musiva delMausoleo di Galla Placidia a Ravenna (sec. v).Le tessere vitree erano ottenute tagliando lastre di vetro pre-cedentemente colorate e aggiungendo degli ossidi metallicialla pasta vitrea fusa. Dall’ossido di ferro derivavano colo-razioni giallo-verdastre e rosse; dal rame il rosso opaco, ilverde e l’azzurro chiaro e dal cobalto una tonalità di azzur-ro piú scura. Colorazioni purpuree e violette si ottenevanoinfine con l’ossido di manganese, talvolta utilizzato ancheper accrescere la trasparenza del vetro. Le tessere auree edargentee venivano invece ottenute fondendo le lamine me-talliche tra due strati sottili di pasta vitrea che, una voltaraffreddata, veniva tagliata nella forma e dimensioni desi-derate. Tale sistema di manifattura viene citato da Teofiloche nel II libro del suo trattato descrive accuratamente tut-ti i processi di lavorazione del vetro, fornendo così una pre-ziosa testimonianza sulle t di esecuzione delle vetrate (→) edella pittura a «smalto».Per quanto riguarda in particolare le vetrate romaniche, ve-niva dapprima realizzato un tracciato preliminare dell’ope-ra in dimensioni reali (inizialmente eseguito su tavola di le-gno ingessato e piú tardi su pergamena, o, in Italia su car-

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tone →) sul quale venivano montati i singoli pezzi di vetroper un controllo d’insieme. Successivamente si procedeva adipingere i vetri in grisaille (→; una miscela di vetro polve-rizzato e ossidi metallici di rame o ferro, stemperata dap-prima con vino o urina e successivamente con resine) per da-re risalto al modellato e delineare i tratti del disegno e, do-po un’ultima cottura, le lastre venivano incastonate in listellidi piombo, il tutto montato in una intelaiatura metallica.Sono un esempio magistrale di tale resa pittorica i pannellidella Cattedrale di Chalons-sur-Marne eseguiti probabil-mente entro il 1147.Particolarmente importante era, ovviamente, il momentodella stesura della grisaille che veniva eseguita dal maestrovetraio sulla scorta delle indicazioni fornite dal pittore neldisegno preparatorio. Ma, se nella realizzazione delle gran-diose vetrate gotiche francesi (a Chartres, Bourges, nella St.Chapelle di Parigi) le figure del pittore e del maestro vetraionon sembrano precisamente disgiunte, peculiare della pro-duzione italiana sembra invece essere una piú netta separa-zione dei ruoli con la realizzazione di cartoni per vetrate adopera di pittori famosi come Duccio di Buoninsegna, Simo-ne Martini, Cimabue.Un’analoga e netta divaricazione tra momento ideativo emomento esecutivo è presente nella tecnica di tessituradell’arazzo (→) la cui manifattura, conosciuta e praticata inMesopotamia e Grecia sin dall’antichità, appare in Europaintorno alla metà del sec. xi (a Bayeux 1040).Una vera e propria organizzazione del lavoro, con ruoli pre-cisamente codificati, si riscontra poi nell’ambito delle offi-cine scrittorie per la realizzazione dei codici miniati.Si distinguono infatti almeno tre diverse fasi esecutive, pre-sumibilmente affidate ad altrettante figure: 1) la redazionedel testo scritto ad opera dello scrivano o copista; 2.) l’esecu-zione del tracciato disegnativo, realizzata secondo modelli pre-stabiliti e talvolta ottenuta a ricalco; 3) la stesura pittorica.La suddivisione dei compiti e la specializzazione del lavoroderivava dalla maggiore complessità assunta dall’illustrazio-ne dei codici che da elaborazione calligrafica e ornata dellalettera iniziale dei fogli (realizzata generalmente con il mi-nio rosso, da cui appunto il termine miniatura (→), si tra-sformava in rappresentazione di intere scene figurative rea-lizzate in scala ridottissima all’interno delle singole lettere

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o accanto al testo scritto (e da cui, tramite il latino minus, -i, deriva l’applicazione del termine miniatura anche a quel-la pittura fine e minuta, generalmente di ritratti, diffusasi apartire dal 1600 utilizzando, oltre alla pergamena, supportiin avorio o in rame ed eseguita anche a olio).La miniatura dei manoscritti era infatti per lo piú realizza-ta su pergamena stemperando i colori in polvere in albumed’uovo. gomma arabica, colla di pergamena o di pesce, e fa-cendo largo uso di fondi e lumeggiature dorate.L’applicazione dell’oro era preliminare alla stesura del colo-re. La doratura consisteva infatti nel far aderire la laminad’oro – o anche d’argento o di stagno verniciate con una re-sina tinta in giallo per simulare l’oro, procedimento noto co-me meccatura (→) – sulla pergamena spalmata con chiarad’uovo e ricoperta dal bolo, una terra argillosa di colore ros-so (da cui la dizione di «doratura a bolo» o «a guazzo»), perpoi ritagliare esattamente i contorni della zona da dorare epassarvi il brunitoio (punta d’agata, diaspro, ematite o den-te di lupo, vitello, cinghiale) per renderla lucida.La doratura in lamina era generalmente destinata ai fondi(→ fondo oro) e a ricoprire zone piú o meno estese, mentreper la realizzazione di lumeggiature e sottili grafismi lineariera preferito l’oro in polvere steso a pennello (noto anchecome «doratura a conchiglia», dal nome del recipiente in cuiveniva tenuto l’oro) che aderiva al supporto utilizzando alposto del bolo una vernice resinosa, detta missione (da cuiil termine di «doratura a missione» o «a mordente»).Le medesime pratiche di doratura si riscontrano nella pit-tura su tavola che, dalla t a encausto delle piú antiche iconerisalenti al iv-viii secolo, come la Madonna della Clemenza(vii-viii secolo: Roma, Santa Maria in Trastevere), mutuatesull’esempio dei ritratti funerari del Fayym databili tra i eiv secolo d. C. (→ icona), mostra a partire dal sec. xii l’im-piego sistematico e preferenziale della t a tempera.La pittura a tempera su tavola vive il suo periodo di massimosplendore nei secoli xiii-xv, anche se va precisato che per i pit-tori di quell’epoca il termine tempera stava semplicemente aindicare la mescolanza dei colori con un legante quale che sia,per assumere solo successivamente l’attuale e piú ristretto si-gnificato di t con leganti acquosi d’origine animale o a costi-tuzione proteica (uovo, caseina del latte, colle animali di pel-

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le, di pergamena, d’osso o di pesce) e vegetale o di natura po-lisaccaride (gomma arabica, adragante, di ciliegio o di pruno).Tale mutamento di significato avvenne presumibilmente a se-guito dell’introduzione della pittura a olio che, dopo un nonbreve periodo di sperimentazione (dalla metà del Quattro-cento alla metà del secolo successivo circa) in cui i pittori adot-tarono le soluzioni piú varie impiegando simultaneamentetempere e olio per dipingere porzioni diverse della stessa ope-ra o miscelando i due tipi di legante in emulsione (temperagrassa), giunse a soppiantare totalmente la t a tempera.L’adozione dell’olio consentiva del resto di progredire nel-la ricerca di trasparenza ed effetti a un tempo plastici e sfu-mati verso i quali la pittura a tempera trecentesca e quat-trocentesca aveva già orientato i propri sforzi.Abbandonato infatti l’accostamento di campiture cromati-che uniformi piú o meno estese, il trapasso da un colore all’al-tro veniva realizzato oltre che a impasto, per velature suc-cessive, ovvero con pennellate molto ricche di legante e as-sai povere di colore, in modo da ottenere per trasparenza, latonalità cromatica desiderata.Gli olii normalmente utilizzati erano l’olio di semi di lino,l’olio di noce o, piú raramente, l’olio di papavero, che veni-vano resi siccativi mediante esposizione al sole o cottura sulfuoco, o anche addizionandoli a materiali essiccanti quali:allume, copparosa, litargirio e pigmenti come la terra d’om-bra, il minio, il verderame e la biacca.I colori impastati all’olio siccativo potevano essere applica-ti con una stesura minuziosa e dettagliata, accuratamente le-vigata, come nella pittura a emulsioni oleose quattrocente-sca, oppure a grandi pennellate cariche d’impasto, rilevatesulla superficie pittorica, come gli «sfregazzi» di Tiziano rea-lizzati con le dita intrise di colore puro.Tale resa pittorica dalla fattura particolarmente rapida, sidiffuse enormemente nel corso del Cinquecento anche perl’adozione del supporto in tela che andò progressivamente asostituire la tavola lignea.La pittura su tela, sebbene già praticata in età medievale perla realizzazione di gonfaloni, stendardi e palii processionali(quasi sempre di seta), era generalmente eseguita a temperao con succhi d’erbe (→), mentre è a partire dai grandi tele-ri veneziani del sec. xv (Carpaccio) che si diffonde l’uso disupporti maggiormente resistenti alle brusche variazioni

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d’umidità (tipiche del clima lagunare) e piú facilmente tra-sportabili.Le tele, inizialmente di lino e dalla trama molto sottile (fa-mosa era la tela «rensa», proveniente da Reims, utilizzatadal Mantegna), venivano tessute anche con fibre di canapae, a partire dal sec. xix, anche in cotone, con armatura di-versa a seconda del tipo di tecnica pittorica adottata. Le spes-se pennellate della pittura a olio risultavano infatti esaltateda una tramatura piuttosto grossa ad armatura «saia» (cioècon le fibre intrecciate in diagonale) o a «spina di pesce» (ca-ratterizzata da un disegno a zig zag), rispetto alla tradizio-nale armatura a «tela» in cui le fibre risultano poste per-pendicolarmente le une alle altre.L’impiego pressocché esclusivo della pittura a olio su tela sindalla fine del Cinquecento, comportò radicali mutamenti sianei metodi di costruzione della pellicola pittorica, sia nei pro-cedimenti sino allora impiegati nella realizzazione degli stra-ti preparatori.I dipinti su tavola richiedevano infatti un tipo di prepara-zione (→) che si rivelò ben presto inadeguato per un sup-porto in tela, maggiormente elastico e flessibile e perciò ina-datto ad ospitare degli spessi strati di gesso e colla.Vennero pertanto ridotti lo spessore degli strati e il loro nu-mero: generalmente a due, di cui quello superiore, a contat-to con la pellicola pittorica (l’imprimitura, →), spesso veni-va colorato (in beige, rosa, giallo, grigio, rosso e bruno) percontribuire all’effetto pittorico finale.Sulle preparazioni scure il tracciato preliminare era ovvia-mente eseguito con pigmenti chiari, anziché con il consue-to carboncino della pittura su tavola, anche se va sottoli-neato che si trattava piú di un «abbozzo» che di un disegnopreparatorio vero e proprio.Anzi si può dire che il progressivo abbandono da parte di al-cuni artisti (Tintoretto ad esempio), di accurati tracciati di-segnativi in favore di un piú largo impiego di abbozzi colo-rati che il pittore continuamente correggeva e modificavanel corso dell’esecuzione del dipinto, conduce a una sempremaggiore qualificazione del disegno (→) come opera d’artein sé compiuta.Inteso durante il Medioevo soltanto quale pratica prope-deutica all’esercizio della pittura, esso acquisisce a partire

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dall’età rinascimentale capacità espressive autonome che locondurranno in breve tempo «ad assumere il significato diorigine ideale e di fondamento di qualsiasi espressione figu-rativa, nonché di guida privilegiata nella formazione degliartisti» (Petrioli Tofani, 1991).Eseguito con punte metalliche, carboncino, matite (rossa onera), pastelli colorati (ottenuti impastando i pigmenti congomma arabica e cera e modellandoli in cilindretti; → pa-stello), a penna o a pennello, il disegno privilegia inizial-mente la pergamena e a partire dal Trecento, la carta (→).Ottenuta dalla macerazione degli stracci, la carta forniva unasuperficie luminosa in grado di accogliere in egual misura letracce sottili della punta di piombo, quelle piú dense dellamatita e del pastello, gli inchiostri, ecc.Aggiungendo poi alla pasta di stracci dei pigmenti mineralio vegetali, si ottenevano delle carte colorate particolarmen-te apprezzate dagli artisti cinquecenteschi (Dürer si servìspesso di carte azzurre) e largamente impiegate da molti di-segnatori del Sei e Settecento.La colorazione della carta poteva avvenire anche in un mo-mento successivo alla sua fabbricazione: o tingendo i singo-li fogli per immersione (Fra Bartolomeo), oppure dipingen-doli ad acquerello (Vasari, Veronese).La coloritura con soluzioni acquose, già nota nella praticamedievale come pittura «senza corpo» (Cennini), che «lasciapertanto intravedere sempre la qualità cromatica del sup-porto» (Petrioli Tofani, 1991), ma ancora, nel corso del Cin-quecento, impiegata con precise destinazioni funzionali, qua-li l’illustrazione scientifica (anatomica, botanica, ecc.), solonel Settecento assume una qualificazione autonoma.In particolare l’acquerello (→) si serve di colori sottilissi-mamente macinati alla gomma (generalmente arabica) e ste-si a velature trasparenti dopo averli diluiti in acqua, utiliz-zando a reserve il bianco del supporto. Mentre nella tecnicaa «guazzo» (→ gouache) le pennellate divengono maggior-mente coprenti e la resa cromatica risulta compatta e opale-scente, anche per l’uso di pigmenti bianchi, da soli o in unio-ne agli altri colori per schiarire le tinte.Con l’età dell’Illuminismo la tradizionale separazione tra at-tività intellettuale e realizzazione pratica viene rifiutata, an-che alla luce delle conoscenze tecniche degli antichi quali ri-sultavano dalle campagne di scavo archeologiche.

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Nell’ambito del recupero dell’antico va presumibilmente vi-sta la riproposizione della t romana dell’encausto che vedein Caylus, Cochin, Requeno, i piú ferventi sostenitori, an-che se non è da sottovalutare il ruolo sostenuto dalla coevapittura a olio che per la veloce degradazione cui talvolta giun-gevano i suoi materiali non si dimostrava piú in grado di for-nire manufatti durevoli nel tempo.In particolare, il continuo ricorso a sostanze bituminose, sianei fondi che all’interno della pellicola pittorica, per renderepiú veloce e sciolta la stesura del colore, insieme all’ormai con-sueto impiego di tele acquistate già pronte e di colori a olio intubetto (le prime rivendite di colori si segnalano in Inghilter-ra già dalla seconda metà dell’600 e, con la fabbricazione nel1704 del blu di Prussia, viene inaugurata l’era dei pigmentiottenuti in laboratorio per sintesi chimica), non consentivapiú al pittore un reale controllo della qualità dei materiali ar-tistici, la cui natura chimica finisce per divenire del tutto sco-nosciuta ed estranea alla quotidiana prassi pittorica.Un accorgimento sovente utilizzato per ravvivare le tinteoscurate da una eccessiva presenza di olio, era quello di sten-dere sulla superficie pittorica uno strato di vernice traspa-rente. Le vernici pittoriche si distinguono in magre o gras-se a seconda che la resina (molla o dura) venga sciolta in olioessenziale (olio di trementina, di spigo, di lavanda, petrolio)o siccativo (di lino, di noce, di papavero).Ma sull’uso di vernici in funzione estetica o protettiva, le no-tizie sono ancora troppo contraddittorie per poterne delinea-re un quadro preciso. La difficoltà nell’individuare riscontripuntuali nelle opere pittoriche a causa della sistematica rimo-zione degli strati di finitura nel corso dei procedimenti di re-stauro, unita alla non univoca interpretazione delle fonti do-cumentarie, consente per il momento solo di dubitare siasull’assenza di verniciature protettive nei dipinti a tempera sutavola, sia sulla costante presenza di strati di finitura a verni-ce nella pittura a olio su tela. Sembra infatti che l’uso di uni-re la vernice al legante a olio per la resa dei toni piú chiari ein particolare degli incarnati, venga sperimentato da Rubense van Dyck proprio per evitare la verniciatura dei dipinti cheil tempo avrebbe inesorabilmente ingiallito.In età moderna alla consapevolezza della progressiva e inar-restabile degradazione delle opere si accompagna dunque la

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perdita del sapere tecnico, alla quale, nell’Ottocento, «si cer-cherà rimedio, da un lato nei contributi della scienza e del-la tecnologia, dall’altro con l’approfondimento della ricercastorica» (Bordini, 1991). (sri).

Tegliacci (Nicolò di Ser Sozzo)(Siena, attivo alla metà del sec. xiv - † 1363). Il patronimi-co T, nobile famiglia senese, è frutto di un errore di letturadei documenti, che solo nel 1976 è stato confutato e chiari-to da Moran. In verità T è figlio di Ser Sozzo di Stefano,miniatore del quale nessuna opera ci è pervenuta, citato perla prima volta nel 1348, per esser debitore del Comune diSiena. Solo nel 1363 compare iscritto al Libro delle Arti, magià nel giugno dello stesso anno è dichiarato morto. La suaformazione si compie sotto la guida paterna: nel 1346-48,secondo Meiss (1951) o tra il 1336-38, secondo Chelazzi Di-ni (1983), firma l’Assunzione che compare quale unica mi-niatura del Caleffo Bianco (Siena, Archivio di Stato, Capi-toli 2) e nella quale evidenti appaiono i debiti con la correntemartiniana, mentre gli si possono per via stilistica attribui-re i minii, di altissima qualità, del Graduale della collegiatadi San Gimignano (Museo d’Arte Sacra, cod. LXVIII.1) edell’Antifonario I.I.8 della bc di Siena.Sul piano della produzione pittorica, bisogna prender le mos-se dall’unica opera firmata da Nicolò insieme a Luca diTommè, il polittico con la Madonna col Bambino tra santi del1462 (Siena, pn). Opera tarda, dunque, nella quale la manodi Luca è stata individuata, per via di confronto con sue ope-re documentate, specie nelle tavolette della predella (divisetra Roma, pv ed Edimburgo, ng of Scotland) e che si lasciacosì, per via di eliminazione, interpretare come opera con-dotta su impostazione generale di T. Lo stile di quest’ulti-mo è intriso di riferimenti alla cultura trainesca (dunque mar-tiniana in versione pisana) espressa dal polittico di San Do-menico (Pisa, mn), con riferimenti altrettanto determinantialle opere tarde di Pietro Lorenzetti, e non mostra tangen-ze di rilievo con quello del collaboratore Luca, che pure loaveva affiancato nel trittico oggi al Museo della Società diEsecutori di Pie Disposizioni di Siena. A una data inclusatra 1340-45, per risalire a opere precedenti, rimanda il po-littico con l’Assunzione della Vergine e santi del convento di

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Monte Oliveto a Barbiano (San Gimignano, mc); di pocosuccessiva la Madonna col Bambino (Firenze, Uffizi) prove-niente da Sant’Antonio in Bosco, presso Poggibonsi. (scas).

Teichlein, Anton(Monaco 1820 - Schleissheim 1879). Influenzato in un pri-mo tempo da Carl Rottmann, di cui fu il genero, T divennein seguito, con Dietrich Langko, il rappresentante a Mona-co della scuola di Barbizon. Alcuni suoi dipinti sono conser-vati a Monaco nelle sgs e nelle collezioni private bavaresi. Ilsuo libro su Louis Gallait e la pittura in Germania (Louis Gal-lait und die Malerei in Deutschland, 1853), nonché numerosisuoi articoli, difendono calorosamente quanto egli chiama«idealismo cromatico» da lui identificato con l’arte di T.Rousseau, per il quale nutriva la piú viva ammirazione. (pv).

Teige, Karel(Praga 1900-51). Pittore, storico e critico d’arte, figura trale piú rilevanti della cultura ceca degli anni Venti e Trenta,intellettuale marxista originale e creativo. Sostenne l’avan-guardia ceca e fu fervente sostenitore sia del costruttivismo,che ebbe modo di conoscere durante i suoi soggiorni a Mo-sca e San Pietroburgo (1925), sia del «poetismo», movi-mento letterario che anelava a un’espressione delle pulsionilibera da impegni ideologici, morali e politici. Verso la metàdegli anni Trenta, dopo aver frequentato il Bauhaus di Des-sau, aderì al movimento surrealista. T persegue un’autono-ma ricerca di realismo in campo artistico, che si differenziatanto dalla tradizione ottocentesca, quanto dalla vulgata so-cialista e totalitaria in genere. Di T, oltre agli spunti sui li-miti della produzione artistica capitalistica, appaiono inte-ressanti: la critica di ogni ipostatizzazione dei valori artisti-ci in quanto incongruente con la storicità del fruitore; le sueprese di posizioni contro la cosìddetta «arte proletaria» inquanto contraddittoria con la finalità socialista della societàsenza classi; il suo romanticismo rivoluzionario, che vede neipoeti maledetti gli inizi dell’arte d’avanguardia; il suo rifiu-to dello zdanovismo e della negazione della libertà nella crea-zione artistica. Un primo volume di suoi scritti è stato pub-blicato all’inizio del disgelo praghese (1964): raccoglie tresaggi su Il mercato dell’arte (1933), che dà il titolo alla tra-

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duzione italiana del 1973 (Torino), Gli intellettuali e la ri-voluzione (1933) e La produzione culturale sovietica e i pro-blemi dell’eredità culturale (1936). Nel 1982 sono uscite initaliano due raccolte di scritti degli anni Venti e Trenta: Ar-te e ideologia 1922-33, saggi sull’arte proletaria, sul costrut-tivismo, suprematismo e neoplasticismo, su Marinetti, LeCorbusier, sul cinema e sul poetismo e Surrealismo Realismosocialista Irrealismo 1934-1951, che comprende saggi su Ka-rel Mácha, Jind≈ich Honzl, Jan ZrzavØ, Bohumil Kubi∫ka,sul rapporto architettura e natura e sulla campagna nazistacontro la cosiddetta «arte degenerata». (ss).

telaSupporto in tessuto di un dipinto; per estensione, il dipin-to stesso. L’uso della t libera su telaio è praticato alla finedel sec. xv soprattutto in area veneta; in precedenza la t (→tavola) serviva spesso, in strisce o intera, come materiale dipreparazione per la tavola. L’impiego della t quale suppor-to pittorico fu reso possibile grazie a una imprimitura leg-gera e all’introduzione di resine molli nell’impasto dei colo-ri. Le fibre adottate furono principalmente il lino e la cana-pa perché garantivano maggiore resistenza alla azione degliolii e alle alterazioni climatiche. Il tipo di tessitura della t amaglie sottili e compatte oppure grandi ed evidenti, conun’accentuazione diversa della granulosità, costituiva di persé una scelta di indirizzo artistico e i veneti preferivano t in-tessute a spina di pesce che sottolineavano l’effetto granu-loso (→ telero). La preparazione effettuata dalle botteghevenete consisteva nella stesura sulla t – già bagnata e appli-cata al telaio – di una leggera mano di colla seguita da unaseconda di gesso e colla e da una terza distesa in senso or-togonale; si procedeva infine alla raschiatura per mezzo del-la spatola. Il fondo bianco, così preparato, poteva essere tin-teggiato di rosso o di bruno anche in considerazione dei co-lori da sovrapporre. Per la pittura su t venivano adoperatispecialmente i colori a olio che consentivano una pennella-ta piú rapida e sciolta, rifinita a completa essiccazione convernici e velature. L’uso della t e dei colori a olio affrancòdalla pesantezza del supporto ligneo e dalla lavorazione cheesso comportava, determinando uno snellimento delle pro-cedure artigianali e la massima diffusione dell’arte pittoricasino a tutto l’Ottocento. A seconda del formato, le t veni-

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vano correntemente definite t imperatore (di grandi dimen-sioni), t da testa, t da mezza testa. (svr).

Télémaque, Hervé(Port-au-Prince (Haiti) 1937). Dopo aver studiato con JulianLevi presso l’Art Students’ League di New York (1957-60)e aver scoperto l’espressionismo astratto (Gorky), T giungenel 1961 a Parigi. L’impatto è con il surrealismo, con la PopArt e la Nouvelle Figuration: il suo repertorio d’immagini at-tinge a «quel linguaggio internazionale comprendente la pub-blicità, il fumetto e i cataloghi dei grandi magazzini» (JoséPierre), e instaura una serie di rapporti e ambigue corri-spondenze tra l’oggetto, la sua rappresentazione e definizio-ne. Un meticoloso montaggio organizza slittamenti multiplidi significati, concatenando oggetti apparentemente etero-cliti (Banania n. 3, 1965: Roma, Gall. L’Attico), talvolta rea-li (Attendere, 1965; Le vertigini, 1966: Parigi, Gall. MathiasFels; Errare, 1966: Parigi, mnam), inducendo lo spettatore ariprodurre in sé il percorso, l’avventura mentale dell’artista.L’uso sistematico dell’allegoria, della metafora, del parados-so (la Scena [l’uomo con la cicatrice], 1970: Parigi, Gall.Mathias Fels) indica la dimensione fortemente ironica e con-traddittoria del suo immaginario che trova espressione ulte-riore nel collage dal 1967 e nella scultura dal 1968.Al collage dedica la sua principale attività esponendo nel1976 al mam di Parigi; nel 1978 completa una serie di col-lages sul tema della sella (mostra Gall. Maeght, 1979). Glianni Ottanta sono contrassegnati da un nuovo interesse perla pittura, collegato anche alla committenza di opere pub-bliche (La valle dell’Omo: Cité des Sciences de la Villette diParigi); continua comunque a dedicarsi agli assemblaggi e aicollages senza aver esaurito la sua carica dirompente e in-ventiva. (em + sr).

teleroAdattamento italiano dal veneto telèr, «telaio», indica unacomposizione a olio su tela facente parte, generalmente, diun grande ciclo storico-narrativo. Questo genere di pitturafu proprio dell’arte rinascimentale veneziana come alterna-tiva della tecnica ad affresco, poco consona alle particolaricondizioni ambientali della città di Venezia e dell’area la-

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gunare dove l’alta percentuale di umidità e la corrosione delsalino non consentivano una buona conservazione di tali la-vori.I t venivano fatti aderire con colla di segale sui muri conve-nientemente preparati contro l’umidità per decorare le pa-reti delle «scuole» veneziane. Tra la fine del sec. xv e pertutto il xvi la decorazione murale ricorrente fu quella rea-lizzata con t e talora ad affreschi antichi furono sovrappo-ste grandi composizioni su tele (come quelle di Gentile eGiovanni Bellini – distrutte – poste in Palazzo Ducale so-pra gli affreschi con Storie del Barbarossa).Tra gli esempi piú celebri si ricordano il ciclo per la scuoladi San Giovanni Evangelista, ora alle Gallerie dell’Accade-mia, con i Miracoli della Santa Croce (tre t di Gentile Belli-ni, due di Vittore Carpaccio, uno di Lazzaro Bastiani), i t diVittore Carpaccio per la Scuola di Sant’Orsola (1490-95),di San Giorgio degli Schiavoni (1502-507) e per la scuola de-gli Albanesi (1504) nonché quelli di Iacopo Tintoretto perla Scuola di San Rocco (1564-67). (svr).

Tell AghrabSito archeologico nella valle della Diyala in Mesopotamia,oggi in Iraq. Il sito fu scavato tra il 1935 e il 1937 dall’ar-cheologo Seton Lloyd nell’ambito di una campagna promossadalI’Oriental Institute dell’Università di Chicago a partiredal 1930. I risultati degli scavi furono pubblicati nel 1967insieme a quelli dei vicini siti di Khafaja e di Tell Asmar inun volume dedicato alle abitazioni private e alle tombe del-la regione di Diyala.In particolare, gli scavi della collina «C» di TA hanno por-tato alla luce una dozzina di frammenti di ceramica dipintain rosso vivace e tre frammenti policromi. Essi appartengo-no al tardo periodo Protoletterario e al primo periodo Di-nastico, tra la seconda metà del iv e la prima metà del iii mil-lennio a. C. e sono quindi da annoverare tra i piú antichiesempi di ceramica dipinta giunti fino ai nostri giorni, (sca).

Tell A®marSito mesopotamico dell’alta Siria (antica Till Barsip), situatosulla riva sinistra dell’Eufrate. Fu capitale dello stato aramai-co di Bit-Adini. F. Thureau-Dangin (1872-1944), guidandouna missione francese nel 1927-31, vi scoprì un palazzo assi-

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ro decorato con pitture murali dell’viii-vii secolo a. C., rile-vate da L. Cavro nel 1929-30 (copie a Parigi, Louvre). (asp).In origine il complesso presentava pareti affrescate per cir-ca 130 m. Cortei reali, scene di omaggio e di caccia, tribu-ti, prigionieri e nemici in atto di prosternazione o uccisi, car-ri, cavalli, figure di donne e animali mitici si dispiegano suimuri delle sale, dei corridoi, dei bagni, descritti con pochicolori su fondi bianchi: in particolare blu e rosso-bruno pergli abiti e gli attributi, nero per i capelli, le barbe, gli occhibistrati, ma anche rosa (Il cavallo rosa). (sr).

Teli ©alÇfIn questo sito della Mesopotamia settentrionale, sul KhÇbr(Siria settentrionale), affluente dell’Eufrate, archeologi te-deschi sotto la direzione di Oppenheim scoprirono nel 1911un vasellame dipinto protostorico simile a quello ritrovatoin seguito nella valle dell’alto Tigri (v millennio) e un palaz-zo, piú recente (x-ix secolo a. C.), ornato da un’importantecomplesso di sculture e rilievi. (asp).

Tell ‘UqayrIl dipartimento delle antichità dell’Iraq ha scoperto nel 1940e nel 1942 in questo sito mesopotamico a 6o km da Bagh-dad, le piú antiche pitture murali mesopotamiche note, ri-salenti all’inizio del iii millennio a. C. (→ Mesopotamia).(asp).

Tempel, Abraham van den(Leeuwarden 1622/23 ca. - Amsterdam 1672). Figlio del pit-tore di storia Lambert Jacobsz, fu allievo suo e di Joris vanSchooten e s’iscrisse alla gilda dei pittori a Leida nel 1648;dal 1660 si stabilì ad Amsterdam. Vicino a Nicolaes Helt-Stockade, col quale talvolta viene confuso, nonché a Jan vanNoordt, subì profondamente l’influsso di Bartholomeus vander Helst e, come quest’ultimo, lasciò grandi ritratti di im-postazione convenzionale, ma di fattura raffinata. Ripro-duce con grande abilità lo scintillio delle stoffe preziose, eutilizza una policromia ricca e delicata, mentre gli sfondi,che affacciano su parchi o architetture, aggiungono alla com-posizione una gradevole nota decorativa (l’Ammiraglio Janvan Amstel e la sua seconda moglie, 1671: Rotterdam, bvb).

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I suoi ritratti sono conservati al Rijksmuseum di Amsterdam(1671) e alla kh di Amburgo (la Famiglia Muyssart, 1672), alLouvre (Ritratto di donna, 1662) a Berlino (sm, gg: La cop-pia) e San Pietroburgo (Ermitage: La Vedova 1670).Come pittore di storia, T si espresse in uno stile enfatico,dalle forme ampie, derivante da quello di Salomon de Braye di Backer (tre monumentali tele allegoriche, 1650-51: Lei-da, sm). Tra i suoi allievi furono Michiel van Musscher e Ca-rel de Moor. (if).

Tempesta, Antonio(Firenze 1555 - Roma 1630). Allievo in patria di Santi di Ti-to, poi dello Stradano con il quale lavora alle pitture di Pa-lazzo Vecchio sotto la direzione di G. Vasari, si trasferisce aRoma al tempo di Gregorio XIII. Con Matteo Brill esegue ilTrasporto del corpo di san Gregorio Nazianzeno nelle LoggeGregoriane; partecipa alla decorazione della Galleria delleCarte Geografiche e della Sala vecchia degli Svizzeri in Va-ticano; con N. Circignani affresca con le celebri Scene di Mar-tirio la chiesa di Santo Stefano Rotondo. Si specializza nelcampo della pittura di paesaggio, di cui offre piacevoli esem-pi nella Palazzina Gambara di Villa Lante a Bagnaia, in Vil-la d’Este a Tivoli e nello scalone della Villa Farnesiana di Ca-prarola. Entro il 1600 affresca (Episodi dell’Apocalisse) la cap-pella di San Giovanni Evangelista nel Battistero lateranense.Fu anche fecondo autore di Battaglie e Cacce; un’importanteserie è in Palazzo Rospigliosi, dove intorno al 1613-14 ese-gue i Trionfi dell’Aurora e della Fama per Scipione Borghese,nel medesimo casino affrescato dal Reni e da Paul Brill, con-dotte in un gusto «nordicizzante»: ricchissima anche la suaproduzione come incisore. Artista versatile e ricettivo, regi-strò nella sua opera l’influsso esercitato su di lui dai maestricon i quali venne a contatto, dalla «maniera toscana» a quel-la romana, fino a un moderato classicismo, via via visibilenelle opere animate da piccole figure che gli diedero fama perla fantasia e la vivacità delle composizioni, ma delle quali giài contemporanei lamentavano la «secchezza», (lba).

Templon(Galleria Daniel). Daniel T esordì negli anni ’60 esponendogiovani artisti francesi; all’inizio del decennio successivo die-de una nuova impronta alla galleria aprendo al concettuale

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con Kosuth, Venet, Art Language; ciò nonostante prose-guì anche con mostre storiche dedicate principalmente al-la Minimal Art d’oltreoceano: Frank Stella, Ellsworth Kel-ly, Donald Judd, Carl Andre, Sol Lewitt. Anche la correntefrancese Support-Surface ha trovato posto nelle scelte del-la galleria con Louis Carie, Marc Devade, André Valeusi.L’attuale notorietà internazionale di Ben è dovuta in largamisura alla sua prima personale parigina nel 1970, proprioalla Gall. T. Le scelte, sempre di altissimo livello, spazianodall’Action Painting (De Kooning) alla Pop di Warhol (se-rie Falce e martello, 1977), Lichtenstein, Rauschenberg o Ro-senquist, all’Arte Povera italiana (Giulio Paolini). Recente-mente (1991) la galleria ha lasciato la ormai storica sede dirue Beaubourg, continuando a proporre artisti – anche fran-cesi – di fama mondiale: Daniel Buren, Bertrand Lavier,Jean Le Gac, Jean-Pierre Raynaud. (sr).

Tengnagel (Tynagel), Jan(Amsterdam 1584-1635). Padre del poeta Maithy GansnebT e cognato dei pittori Jacob e Jan Pynas, fu a Roma nel 1608e si sposò ad Amsterdam nel 1611. Fino al 1625 fu maestrodella gilda di San Luca di Amsterdam e, fino al 1625, pre-vosto della città. Tra le sue opere spicca il Gruppo di bale-strieri di Amsterdam (1618: Amsterdam, Rijksmuseum), nel-la tradizione dei grandi ritratti olandesi di corporazione. (jv).

TéniersDavid I o T padre (Anversa 1582-1649), allievo nel 1595 delfratello Juliaan, soggiornò in Italia tra il 1600 e il 1605; se-condo de Bie, Sandrart e J.-B. Lebrun, era discepolo di El-sheimer (giunto a Roma nel 1600; de Bie aggiunge, in mo-do meno convincente, che aveva avuto anche Rubens permaestro); nel 1605 era di nuovo ad Anversa secondo gli ar-chivi della gilda di San Luca, dove fu accolto tra i maestrinel 1606. Ebbe cinque figli, quattro dei quali pittori: DavidII (il piú noto della famiglia), Juliaan II, Theodoor, Abraham.In preda a costanti difficoltà finanziarie dopo il 1629 (datadalla sua ultima opera documentata) si dedicò sempre piú alcommercio di quadri; avrebbe anche fatto un viaggio a Pa-rigi per vendervi opere del figlio David II, verosimilmentenel 1635.

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Quasi completamente dimenticato ai nostri giorni, anchenella letteratura relativa a Elsheimer, di cui T il Vecchio fuperaltro tra gli imitatori piú brillanti e interessanti, è statoriscoperto grazie a J. G. van Gelder, Waddingham, Vlieghee Duverger. La sua opera è stata ricostituita a partire da al-cune opere firmate, come un’Adorazione dei Magi del 1609– già nella coll. Lighart a Ratshof (nel 1900) e assai simile aun’altra versione in prestito al Museo di Aix-la-Chapelle –,alcuni altari documentati, nonché un certo numero di com-posizioni conosciute in base a incisioni (dovute ad artisti co-me E. van Panderen, e soprattutto Cornelis Galle I, i cuiquattro Padri della Chiesa incisi in base a David I sono da-tabili tra il 1622 e il 1625, perché il committente GaspardRinckens, era priore delle carmelitane di Anversa in queglistessi anni). Nei dipinti d’altare l’artista si dimostra un po’inerte ma eloquente, molto vicino a Lastman o Tengnagel:la freddezza accademizzante dei Francken è qui rafforzatadalla lezione di Elsheimer, trasposta in scala monumentale.I principali esempi conservati sono l’Altare dei santi Eduar-do e Cristina nella chiesa della Vergine a Dendermonde inBelgio, dipinto intorno al 1617, il Trittico di sant’Amelber-gue nella chiesa di Temse (1615-18), e il Cristo nell’orto de-gli ulivi della chiesa di San Paolo ad Anversa (1617 ca.).David I si esprime meglio nei quadri da gabinetto con piccolefigure accuratissime e vasti paesaggi boschivi: i soggetti sonogeneralmente religiosi (Tentazione di Cristo, datata 1611: nel-la coll. Somerled Macdonald of Sleat; San Paolo a Malta: SanPietroburgo, Ermitage; Incontro tra Giacobbe e Labano: An-versa, Maagdenhuis) o ispirati all’antico (Alessandro e Dioge-ne: Londra, coll. Cevat). Il colore è vivo e fresco, la luce sidiffonde obliquamente con un piacevole effetto decorativo. Ilsuo senso già moderno del paesaggio si precisa in piccoli di-pinti a soggetto mitologico del km di Vienna, come Giove, Giu-none e Io, o Mercurio e Argo, che prefigurano quelli di DavidII, suo figlio, e confortano la teoria di una probabile collabo-razione tra i due. Opera piuttosto tarda dev’essere il Calvario,entrato al Louvre nel 1972, dal motivo tutto rubensiano, matipico di David I per la drammatica animazione del cielo. (jf).Julien I (Anversa 1572-1615), libero maestro ad Anversa nel1594, fu fratello maggiore di David I e zio di David II.Julien II (Anversa 1616-79), libero maestro ad Anversa nel1636, figlio di David I, è probabilmente autore dei due di-

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pinti firmati Julien T, conservati a Copenhagen (smfk): unInterno di taverna e una Vecchia che sbuccia mele. Imitò di-rettamente il fratello minore, David II.David II (Anversa 1610 - Bruxelles 1690), figlio e allievo diDavid I, influenzato da Rubens, fu celebre come pittore digenere, ma si dedicò anche al ritratto, al paesaggio e alla pit-tura di storia. Gli si possono attribuire migliaia di opere, ese-guite con grande virtuosismo. Numerosi arazzi, sia fiam-minghi che francesi, e grandi serie d’incisioni ne divulgaro-no le opere e ne diffusero l’influsso fino alla fine del sec. xviii.Libero maestro ad Anversa nel 1632, sposò nel 1637 AnnaBruegel, figlia di Bruegel dei Velluti e figlioccia di Rubens.Decano della gilda di San Luca ad Anversa nel 1645, vennenominato nel 1647 pittore di corte e conservatore delle col-lezioni dell’arciduca Leopoldo Guglielmo, governatore deiPaesi Bassi, che risiedeva nel palazzo di Coudenberg. Nel1651 si stabilì a Bruxelles. Venne incaricato della pubblica-zione di un album d’incisioni, con riproduzioni di 244 di-pinti italiani delle raccolte dell’arciduca, edito nel 1658 coltitolo Theatrum pictorium Davidis Teniers Antwerpiensis. Ilsuccessore di Leopoldo Guglielmo, don Giovanni d’Austria,lo confermò nelle sue funzioni. David II spediva inoltre lesue opere alla corte di Filippo IV di Spagna e allo statholderGuglielmo II di Nassau. Fondò anche l’Accademia di bellearti di Anversa, aperta nel 1665.Nelle prime opere (1633), David II s’impegnò a prosegui-re la maniera tradizionale dei Francken nelle sue rare scenedi genere (Corpo di guardia: Roma, gn, Gall. Corsini), con unchiaroscuro piú sfumato e piú caldo, e una maggior atten-zione all’organizzazione dello spazio. Divenne presto il pit-tore della vita borghese (Società a tavola, 1634: Berlino, sm,gg; il Cambiavalute e sua moglie: Londra, ng; i Cinque sensi:Madrid, Prado) e popolare (Scene d’albergo, 1634: Mannheim,Museo). Gli si attribuiscono alcune nature morte eseguitecon un’ampia gamma raffinata di grigi (Libri e globo: Bruxel-les, mrba; Violino, mappamondo e libro: Rouen, Museo). Ilmanierismo fantastico di Joos de Momper gli ispirò i primipaesaggi e le Tentazioni di sant’Antonio (Anversa, mmb; Pa-rigi, Louvre; Madrid, Prado; Dresda, gg). Tra il 1634 e il1640 ca., l’ascendente di Brouwer, i suoi soggetti popolari,le sue scene di taverna, il suo colore misurato dominarono

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la maniera di David II ispirandogli i Bevitori in osteria (Ro-ma, Gall. Borghese), dipinti in un chiaroscuro ravvivato dirosso e di azzurro, la Scena d’albergo (1634: Mannheim, Mu-seo), l’Osteria (Parigi, Louvre), i Pastori (Roma, gn di Pa-lazzo Corsini), i Giocatori di carte (Amsterdam, Rijksmu-seum). In tutti questi dipinti David II non raggiunge i suoirisultati migliori. In una terza fase (1640-50), considerata lamigliore, schiarisce la tavolozza con tinte argentate e lumi-nose, e rappresenta feste di paese, kermesse, paesaggi ani-mati, influenzati da Rubens. Il tono pastorale e idillico deidipinti spiega il successo dell’Angolo di villaggio alla fine delgiorno (Colonia, wrm), del Riposo campestre (Roma, Gall.Doria-Pamphilj) e della Capanna di pastori (Roma, gn di Pa-lazzo Corsini).Dipinse anche scene mitologiche: gli Amori alchimistici (Fran-coforte, ski) e «gabinetti di collezionisti» (Madrid, Prado;Monaco, ap), in particolare l’Arciduca Leopoldo Guglielmonella sua galleria di Bruxelles (Vienna, km), di considerevoleinteresse storico. Ideò scene d’interno i cui personaggi sonorappresentati da scimmie in costume (Monaco, ap; Madrid,Prado), genere la cui voga proseguirà fino al sec. xviii.Nell’ultimo decennio l’esecuzione si fa piú pesante e adottauna tavolozza piú cupa, con la quale tratta i medesimi sog-getti (L’alchimista, 1680: Monaco, ap; Feste di paese: Vien-na, km; Madrid, Prado). Si ritrae spesso con la famigliaall’aperto (Berlino, sm, gg; Londra, Buckingham Palace).David II rinnovò tutte le tendenze della pittura fiammingadi genere, contrapponendosi al patetico di Brouwer e apren-do la strada a moltissimi imitatori, tra cui si distinguono Gil-lis van Tilborch e David Ryckaert.I principali musei del mondo conservano serie intere di di-pinti del prolifico pittore: è il caso del Louvre (una quaran-tina), dell’Ermitage (una trentina), della nc di Londra e delPrado.Abraham (Anversa 1629-70), fratello di David III, liberomaestro ad Anversa nel 1646, fu pittore ufficiale dell’arci-duca Leopoldo, come ricorda il suo ritratto inciso da GérardEdelinck. Le sue opere, piuttosto numerose, sono spesso pe-santemente influenzate da quelle di David II, da cui si dif-ferenziano per l’esecuzione piú faticosa (Kermesse: Anversa,Museo, firmata «A. Téniers / F.»: Scena di taverna: già coll.Schloss; Fumatore: Genova, Gall. di Palazzo Rosso).

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David III (Anversa 1638-85), figlio di David II, svolse aBruxelles tutta la sua carriera; vi fu iscritto come maestronel 1675 col nome di David T il Giovane. Una Natura mor-ta con selvaggina (Roma, Palazzo Rospigliosi) reca la firma«David Téniers Junior». Si specializzò soprattutto in tele disoggetto religioso notevoli quelle per le chiese di Boort-meerbeeck (1666) e di Perck (1660 e 1666), nei dintorni diBruxelles. (php).

Tenjkoku Mandara(Mandara del paese dell’Immortalità celeste). Coppia di pan-nelli ricamati di m 4,50 di lato eseguiti per il tempio giap-ponese Hÿryji (→) nel 623 in memoria del principe Shÿ-toku, che favorì il buddismo nell’epoca Asuka. Di essi ci so-no pervenuti solo alcuni frammenti che, riuniti, raggiungonola lunghezza di m 0,80: la composizione d’insieme segue davicino il paradiso del tipo di quelli di Tuen-huang. In basea un’iscrizione rilevata prima della sua degradazione, il ri-camo sarebbe stato realizzato da artisti giapponesi, cinesi ecoreani. Come i dipinti del Tamamushi, di cui presenta lastessa gamma cromatica, possiede qualità decorative, unasincerità e una chiarezza che pare davvero fossero le carat-teristiche principali della pittura giapponese della primametà del sec. vii. (ol).

Tenniel, John(Londra 1820-1914). Illustratore e caricaturista, fu in un pri-mo tempo pittore di storia, orientandosi verso l’arte graficaper il suo stile incisivo, d’ispirazione tedesca. La sua venacaricaturale, impiegata nella satira politica, si espresse consuccesso nella rivista «Punch» – ne ricordiamo Sbarchiamoil pilota (1890), allusione al congedo di Bismark – ma oggi èpiú noto per le illustrazioni dell’opera di Lewis Carroll: Ali-ce attraverso lo specchio (1872) e Alice nel paese delle meravi-glie (1886). (wv).

TenochtitlanAntica capitale degli Aztechi (1325 o 1345 - 1521 d. C.), fucostruita su un’isola del lago di Texcoco (oggi nel Messico,Stato di Città del Messico). Sistematicamente rasa al suolodagli spagnoli, grazie ai disegni tramandatici dagli scritti di

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Sahagún e attraverso i racconti dei primi conquistatori è sta-to possibile ricostruire la fisionomia della città. La GrandePiazza dove si trovavano i templi e i palazzi costituiva il cuo-re di T e il centro dell’impero. La grandiosa piramide, sor-montata dai templi di Tlaloc e di Huitzilopochtli, le mag-giori divinità degli aztechi, dominava il complesso delle co-struzioni. Il tempio di Tlaloc aveva un tetto dipinto conbande verticali blu e bianche; il tetto del tempio dedicato aHuitzilopochtli era decorato con sfere e teschi dipinti inbianco su fondo rosso. Ai lati della grande piramide si tro-vavano gli edifici sacerdotali, le cui pareti sono ornate daserpenti dipinti in blu, verde, bianco e giallo su fondo ros-so. I cornicioni, gli zoccoli e le colonne di ogni costruzioneerano decorate nella stessa maniera. Ai piedi della muragliache circondava la cittadella imperiale si estendeva un lungoserpente di pietra, rivestito dagli stessi colori. Il resto dellacittà era costituito da isolotti artificiali costruiti sulle lagu-ne del lago. (sls).

Teodorico, Maestro(documentato a Praga 1359 - ante 1381). Le fonti docu-mentarie consegnano nell’anno 1359 la prima testimonian-za di «Magister Theodoricus» in qualità di «maler impera-toris». Segue, nel 1365, il pagamento della tassa d’apparte-nenza alla corporazione dei pittori di Praga, mentre, in data28 aprile 1367, un documento imperiale lo conferma pitto-re di corte e ne loda l’opera nella cappella della Santa Cro-ce nel castello di Karl∫tejn.Il percorso di formazione di T ci è ignoto, come altrettantooscura è la città d’origine: difatti oltre a poche illustrazioniall’inizio di un codice datato 1342 (Brno, bibl. dell’Univer-sità), a una Crocifissione, una Santa Elisabetta e un San Cri-stoforo su tavola (Praga, ng), l’attività nota di T resta quasiesclusivamente legata alla monumentale opera di decorazio-ne nella cappella della Santa Croce, luogo destinato alla con-servazione del tesoro imperiale e delle sacre reliquie dellaPassione. La prima menzione documentaria della cappellarisale al 1357 e s’ipotizza che T abbia iniziato a lavorarvi in-torno al 1359. Ben 133 tavole dipinte, ordinate sulle paretiin tre e quattro serrate file, sommesse alle volte dorate e de-corate a stelle, formano le impressionanti schiere di angeli,santi e profeti, che, disciplinate secondo una rigorosa ge-

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rarchia, si parano al di sopra dell’alto zoccolo incrostato dipietre dure. Sovrastano invece l’altare una tavola della Cro-cifissione e un’Imago pietatis. Le milizie celesti sono effigia-te a mezza figura, sul fondo oro fittamente punzonato, en-tro cornici che racchiudono le reliquie dei santi rappresen-tati. All’opera di T si devono inoltre ricondurre alcuniaffreschi negli strombi delle finestre: Storie dell’Apocalisse,un’Annunci azione, l’Adorazione dei Magi, forse momentoiniziale dell’arredo pittorico della cappella.Un accentuato senso di corporeità caratterizza le figuremassive delle tavole di Karl∫tejn, dense e rinserrate in unpanneggio vigoroso ma assai semplificato nelle linee; un ten-tativo di ricerca fisiognomica ne modella energicamente ivolti. Tali caratteri, nuovi nell’arte del primo Trecento boe-mo, trovano accordi con la decorazione scultorea per il trifo-rio della Cattedrale di Praga che impegnò Peter Parler qua-si negli stessi anni. Sebbene una parte della critica ipotizzidipendenze da formule già codificate nel milieu praghesedel Maestro della Genealogia di Karl∫tejn e del Maestro delCiclo di Emmaus, piú convincenti sembrano i confronti conla pittura trecentesca norditaliana, ben rappresentata aKarl∫tejn da due opere di Tommaso da Modena, forse ac-quisite da Carlo IV durante il suo primo viaggio italiano.Unico però resta l’ideale programma che sottende l’interoarredo della cappella. Il profondo sentimento religioso diCarlo IV e la sua politica di restaurazione imperiale, ne for-niscono le basi testuali per una piú accurata lettura: la pro-fusione di pietre dure e degli ori delle tavole, icone di un’im-mensa iconostasi trasposta sulle pareti dello spazio di cul-to, hanno radici nella tradizione orientale: la cappella dellaSanta Croce diviene così una rappresentazione terrena del-la Città Celeste, quale è descritta nell’Apocalisse di Gio-vanni.È certo che le innovazioni dell’opera di T, in cui convergeun’ampia varietà d’inflessioni, s’irradiano nella pittura boe-ma dei decenni successivi: il Maestro della Tavola di O™kovon Vla∫im e il Maestro di T≈ebongli dovranno molto e mol-ta della pittura gotica austriaca s’impadronisce dei suoi sti-lemi e dei suoi tipi fisionomici, che ricorreranno anche nel-le opere di Meister Bertram. (adl).

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Teodoro d’Errico → D’Errico, Teodoro (Hendricksz,Dirk)

Teofane il Greco(in russo: Feofan Grek; 1340 ca. - 1415 ca.). Artista verosi-milmente originario di Costantinopoli, fu attivo nella capi-tale bizantina, e in altre località dell’impero, (Calcedonia,Galata), nonché a Caffa in Crimea, prima che gli venissecommissionata la decorazione della chiesa della Trasfigura-zione a Novgorod, città al culmine della propria influenzapolitica in Russia, e per questo desiderosa di possedere mo-numenti artistici equiparabili a quelli della seconda Roma.La decorazione della chiesa della Trasfigurazione, portata atermine nel 1378, oggi in stato frammentario, è caratteriz-zata da uno stile personalissimo, che fa uso di una tavoloz-za molto ristretta, dominata dal marrone-rossastro; il con-torno scuro assume un ruolo, contrariamente alla prassi bi-zantina tradizionale, molto limitato, e tende a trasformarsiin un passaggio graduale di colore, mentre fondamentale èl’impiego di pennellate bianco-celesti nella trattazione dellebarbe, delle ciglia e dei capelli e nella resa delle ombreggia-ture di zigomi e naso, che dànno grande potenza espressivaalle figure dematerializzate degli asceti, da cui balumina sul-lo sfondo azzurro tutta l’intensità del loro travaglio interio-re in direzione di una superiore spiritualità.L’attività di T in Russia prosegue con la decorazione dellachiesa della Natività della Vergine (1395) a Mosca, della Cat-tedrale dell’Arcangelo (1399) e, insieme con Prochor di Go-rodec e con l’allievo Andrej Rublëv, della Cattedrale del-l’Annunciazione (1405), sempre a Mosca. Nella stessa cittàsappiamo che gli fu commissionato almeno un soggetto a ca-rattere profano, la Veduta di Mosca nel palazzo del principeVladimir Andreevi™. Altri affreschi furono eseguiti a Ni∆nijNovgorod (attuale Gor´kij); tuttavia, di tutta questa produ-zione nulla si è conservato. Attribuibili tuttavia a T sono leicone dell’ordine della Deisis dell’iconostasi della Cattedra-le dell’Annunciazione a Mosca: in queste si ritrova per laprima volta l’adozione delle icone a figure intere, che in-frangeva le norme bizantine sulle immagini d’epistilio, mache si era resa indispensabile per assecondare le caratteri-stiche strutturali degli edifici sacri russi, sempre piú svilup-

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pati in altezza. Anche in quest’opera, nella quale il legamecon le successive realizzazioni del Rublëv è evidente, T nonsi preoccupava troppo di infrangere le regole della pitturadei templa bizantini, per creare una composizione unitaria ecoerente dell’ordine della Deisis, mediante l’esaltazione del-le corrispondenze formali e semantiche fra le singole figure,e la vanificazione del significato delle cornici divisorie. Na-scono qui le basi di quel processo che renderà l’organizza-zione formale e compositiva dell’iconostasi sempre piú affi-ne a quella della pittura monumentale, e farà della barrierafra il bema e la navata un autentico muro di icone a cui è af-fidato il compito di visualizzare il sacro.La produzione di T eserciterà, tramite la sua scuola, un’in-fluenza profonda sulla pittura russa del sec. xv: tra i casi diopere piú direttamente affini alle sue (tanto che in passatopoterono essergli attribuite), ricordiamo gli affreschi di SanTeodoro Stratilate e di Volotovo a Novgorod; ma in gene-rale tutta la scuola di Novgorod, sia nel campo degli affre-schi che in quello della pittura di icone, mantiene echidell’opera del maestro bizantino. Inoltre, sulle soluzioni pro-poste da T, meditò l’allievo Andrej Rublëv, che tuttavia lesviluppò, contro lo spiritualismo del maestro, in direzionedi una presentazione umanizzante delle figure sacre. (mba).

Teofilo(xi-xii secolo). Il testo del trattato del monaco T, intitolatoDe diversis artibus schedula o Diversarum artium schedula,scritto probabilmente nel sec. xi, ci è stato trasmesso da nu-merosi manoscritti, i piú antichi dei quali risalgono al sec.xii. L’autore, insieme alla cultura teologica e letteraria, pos-siede precise conoscenze delle diverse tecniche artistiche.Scarse sono le notizie sulla sua vita e sull’epoca precisa incui visse tanto che i commentatori l’hanno collocato ora nelix, ora nel sec. x e anche nel xii o all’inizio del sec. xiii. Lostudio della lingua, del vocabolario e delle connessioni esi-stenti tra i procedimenti tecnici suggeriti nel suo trattato ela miniatura tedesca del sec. xi indica che T visse verosi-milmente nella prima metà del sec. xii nelle regioni dellaGermania nord-occidentale. Nel manoscritto conservato aVienna (Graphische Sammlung) compare la scritta «Theo-philus qui et Rogerus», e pertanto alcuni studiosi hanno pro-

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posto l’identificazione con Roger di Helmershausen, orefi-ce che ha firmato due altari portatili nel tesoro della Catte-drale di Paderborn e che è menzionato in un atto del 1100,emanato dal vescovo della stessa città.Il trattato di T si suddivide in tre libri, ciascuno dotato diuna prefazione. Il primo è dedicato alla pittura murale, aquella su tavola rivestita di gesso o su tavola non preparata,alla decorazione delle selle e alla miniatura. Vi si descrive lapreparazione dei colori, dei supporti, delle vernici, dell’oroin foglia e in polvere, dell’inchiostro, nonché l’uso di varimedia, compreso l’olio di lino. Il secondo libro si occupa del-la fabbricazione e della pittura su vetro. Le ricette di T cheriguardano la preparazione di questo materiale, la sua colo-razione, la produzione di lastre, i procedimenti di applica-zione della grisaille e la cottura, sono stati seguiti dai vetraidel sec. xii. Nel terzo libro, l’autore tratta, soprattutto del-la fabbricazione di oggetti liturgici in argento, rame e oro,descrivendo la produzione degli utensili e tutte le tecnichedecorative: smalto, niello, doratura, sbalzo, stampaggio. Iltrattato è stato pubblicato per la prima volta parzialmenteda Lessing nel 1774 e per intero nel 1843 a Parigi. (jg).

teorie del coloreNell’introdurre il corso sul colore tenuto al Bauhaus di Wei-mar nel 1923, Kandinsky afferma: «Come ogni altro feno-meno, il colore dev’essere indagato da diversi punti di vista,in diverse direzioni e con i metodi appropriati. […] questedirezioni si distribuiscono in tre settori: quello della fisica edella chimica, quello della fisiologia e quello della psicolo-gia. […] per l’artista questi tre settori sono ugualmente im-portanti e indispensabili».Con queste parole Kandinsky sintetizza efficacemente la com-plessità dei fenomeni cromatici, la cui natura e le leggi che neregolano la visione hanno dato luogo a numerose formulazioniteoriche, spesso notevolmente discordanti tra loro.La storia delle teorie cromatiche ha inizio ufficialmente conNewton che nel 1671 presentò alla Royal Society una me-moria nella quale dimostrava che la luce bianca è compostadalle radiazioni monocromatiche (di un solo colore) presen-ti nel suo spettro. Dall’individuazione delle sette radiazionimonocromatiche principali che, in base al loro differentegrado di «rifrangibilità» provocano le diverse sensazioni di

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colore, Newton elaborò il primo diagramma cromatico, diforma circolare, sulla circonferenza del quale dispose i settecolori principali dello spettro: rosso, arancione, giallo, ver-de, azzurro, indaco, violetto.La pubblicazione dell’Ottica (1704) determinò un’ampia dif-fusione di tali ricerche e J. Le Blon (1730) applicando la teo-ria newtoniana dei sette colori principali, dimostrò che erapossibile ottenere delle stampe colorate utilizzando tre solicolori principali (rosso, giallo, blu), come del resto avevanogià in qualche modo adombrato R. Boyle (1664) e A. Féli-bien (1679) per i pigmenti.Nel 1758 T. Mayer tentò di sistematizzare tali risultati pub-blicando un diagramma cromatico triangolare ai cui verticisi trovavano: vermiglione (rosso), orpimento (giallo), cene-re (blu).Tale diagramma venne successivamente corretto dal Lam-bert (1772) che riteneva le figure piane (cerchio o triango-lo) insufficienti a rappresentare la totalità delle sensazionicromatiche percepite dal sistema visivo. Propose, pertanto,di sostituire il triangolo con un tetraedro, la cui base avevaai vertici i tre primari: carminio (rosso); gomma gutta (gial-lo); blu di Prussia (blu).Da tali configurazioni risulta chiaramente come alla fine delSettecento fosse ormai consolidata l’idea che da tre coloriprimari (rosso, giallo, blu) si potessero ottenere tutti gli al-tri mediante miscelazione. Ciò che viceversa non risultavaaffatto acquisita era la profonda differenza, anche in termi-ni di risultati visivi, esistente tra la miscela di luci colorate(miscela di radiazioni monocromatiche di determinate lun-ghezze d’onda oggi quotidianamente riscontrabile nelle im-magini televisive) e quella di materiali pittorici (pigmenti co-me vermiglione, carminio, gomma gutta, blu di Prussia,ecc.).La pratica quotidiana dimostrava infatti ai pittori che me-scolando un giallo con un rosso si ottiene un arancione; dagiallo e blu si ha un verde; da rosso e blu si ha un violettopurpureo. Ma in nessun caso la miscela dei colori primariconduceva al bianco, così come insegnava la teoria newto-niana, quanto piuttosto a un colore nero-grigiastro, peraltropoco brillante. Ciò perché le miscele di pigmenti seguonoprincipalmente le leggi della sintesi sottrattiva, in cui i colori

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si mescolano assorbendo (cioè sottraendo) una parte delle ra-diazioni luminose che li colpiscono. Infatti, quando la lucebianca (per esempio solare) colpisce una qualsiasi superficiecolorata, questa assorbe una parte delle radiazioni mono-cromatiche di cui la luce è costituita, riflettendone altre, lacui lunghezza d’onda viene tradotta dal sistema visivo nel-la tonalità cromatica corrispondente. Così, gli oggetti cheappaiono bianchi riflettono tutte le lunghezze d’onda, quel-li neri, al contrario, le assorbono totalmente.Nel caso delle luci colorate si deve invece parlare di sintesiadditiva, poiché la loro mescolanza costituisce una somma(addizione), il cui risultato finale è la luce bianca.In entrambi i casi da tre colori primari è possibile otteneretutti gli altri per miscelazione, ma essi differiscono a secon-da che si tratti di composizione sottrattiva (rosso, giallo, blu)o additiva (rosso, verde, blu), cioè a seconda che ad esseremescolati siano pigmenti (o inchiostri, ecc.) oppure luci co-lorate.Ovviamente le tonalità cromatiche citate sono oggi misu-rate esattamente in tutte le loro caratteristiche e standar-dizzate a livello internazionale con un’accuratezza (anchestrumentale) prima impensabile, e benché chi operasse inpassato avesse ben chiaro la differente tonalità di rosso (ros-so-aranciato o rosso-bluastro) da impiegare per ottenere lamescolanza additiva o sottrattiva (così come il diverso tipodi blu: blu-violetto nel primo caso e blu-verdastro nel se-condo), la terminologia disponibile era ancora in embrionee si spiega così la confusione spesso notevole tra i due tipidi mescolanza.Le due serie di primari sono tuttavia strettamente legate traloro, poiché quando tre primari (ad esempio additivi) ven-gono miscelati a due a due, dànno luogo ai cosiddetti colorisecondari che altro non sono se non i primari dell’altra serie.Ad esempio sovrapponendo le luci di due faretti da discote-ca, uno rosso-aranciato e l’altro verde, si ottiene come colo-re secondario il giallo, che è uno dei tre primari sottrattivi.Il legame tra le due serie si fa piú complesso ma evidente nelcaso dei colori complementari.Due colori si dicono complementari quando combinati pro-ducono lo stesso risultato della miscela di tre primari, chenel caso delle miscele additive di luci è il bianco, mentre perle miscele sottrattive di pigmenti è il nero.

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In sostanza, quando vengono miscelati due colori primari, chenell’esempio precedente erano due luci, quindi si trattava diprimari additivi, per riprodurne la sintesi finale e quindi il bian-co, è necessario aggiungervi il terzo additivo, cioè il blu-vio-letto. Ma lo stesso risultato si ottiene aggiungendo il blu-vio-letto al secondario giallo (ottenuto dalle luci rosso-aranciato +verde), e quindi giallo e blu-violetto sono complementari.Per facilitare l’individuazione dei complementari, i dia-grammi cromatici (cerchi, triangoli, ecc.) elaborati nel tem-po, dispongono i colori in modo che gli opposti risultino com-plementari e siano immediatamente riconoscibili, come nelcaso di: verde/rosso-bluastro; blu-violetto/giallo; rosso-aran-ciato/blu-verdastro.Naturalmente queste sono solo le coppie di complementaripiú note, poiché esiste un intero ventaglio di tinte interme-die che risultano tra loro complementari, e la cui efficaciavenne ben presto sfruttata dai pittori, avendo riscontratoche l’accostamento di due complementari produce un’esal-tazione percettiva delle tinte (detta contrasto), purché la pen-nellata non risulti di dimensioni troppo ridotte, poiché inquesto caso i complementari, pur trattandosi di pigmenti, sicombinerebbero additivamente producendo un effetto cro-matico di baluginio percettivo.Quindi anche con i pigmenti pittorici si possono produrreeffetti legati alla sintesi additiva, i quali derivano essenzial-mente dal meccanismo su cui si fonda la percezione dei fe-nomeni cromatici.Fin dal 1801, grazie agli studi di T. Young sul modo con cuiil sistema visivo era in grado di produrre risposte cromati-camente differenti, si giunse a comprendere che la retinadell’occhio umano contiene tre diversi tipi di fotorecettori,ciascuno dei quali sensibile a uno dei tre colori primari.Young ipotizzò dapprima che i fotorecettori fossero sensi-bili alla terna dei primari sottrattivi, ma successivamente,studiando le miscele di luci colorate che si mescolano per sin-tesi additiva, stabilì che i tre fotorecettori presenti nella re-tina erano sensibili ai tre primari additivi, e quindi sostan-zialmente che la visione avviene per addizione di luci.Questa teoria venne ripresa e corretta da Helmholtz circasessant’anni piú tardi, che confermò la presenza nell’occhioumano di tre diversi tipi di recettori (coni) per la visione diur-

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na. Tuttavia, a differenza di quanto pensava Young, Hel-mholtz dimostrò che quando la radiazione luminosa colpiscela retina, tutti e tre i fotorecettori vengono stimolati simul-taneamente (e non uno solo di essi), ma in misura diversa aseconda della diversa lunghezza d’onda della radiazione.L’elaborazione della teoria tricromatica (o tristimolo) da par-te di Young e Helmholtz, basata sulla concezione del colorecome radiazione luminosa che si mescola in sintesi additiva,rende evidente il presupposto concettuale profondamente di-verso dei contemporanei filosofi e psicologi tedeschi e france-si che parlando di mescolanza di pigmenti, si riferivano in realtàa fenomeni principalmente legati alla sintesi sottrattiva.Diviene così facilmente comprensibile perché Goethe, rite-nendo che una t ovesse basarsi unicamente su un’esperien-za visiva diretta, non potesse accogliere la tesi newtonianadella natura composita della luce e tanto meno i fenomenilegati alla sintesi additiva. Effettuando personalmente unanotevolissima quantità di esperimenti, che descrive pun-tualmente nella su Farbenlehre (1808), Goethe dà conto dinumerosi fenomeni percettivi (ad esempio contrasti simulta-nei e successivi), giungendo a elaborare un cerchio cromati-co costituito dai tre primari sottrattivi, cui si accompagnano,nelle aree del cerchio opposte, i rispettivi complementari.Sulla stessa linea concettuale, P. O. Runge (1809) propose undiagramma cromatico tridimensionale a forma di sfera, con ilbianco e il nero ai poli e il cerchio dei colori puri all’equatore.Tale ordinamento, che persegue l’intento di classificare tuttele tinte percepibili viene ripreso e utilizzato da Paul Klee, ana-logamente a quanto fa Delacroix fin dal 1834, servendosi deicerchi cromatici elaborati da Chevreul a partire dal 1829.Il campionario di tinte disposte da Chevreul circolarmente,prevedeva infatti un primo cerchio di colori puri, costituitodai tre primari sottrattivi e dai relativi complementari, e danumerosi altri cerchi costruiti con quantità crescenti di bian-co e di nero, In sostanza, come è stato osservato (Borzone),Chevreul descrive un metodo per prevedere gli effetti dellasintesi sottrattiva e dei contrasti particolarmente utile incampo artistico e nella tintura dei tessili, nell’ambito dellaquale Chevreul poté effettuare le sue osservazioni essendostato a lungo direttore della manifattura dei Gobelins.A chiarire definitivamente la differenza tra mescolanze sot-trattive e additive dei colori, il fisico scozzese Maxwell con-

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dusse (1855) i famosi esperimenti con i dischi giranti (di-schetti colorati in rosso vermiglione, verde smeraldo, blu ol-tremare, fatti ruotare velocemente attorno a uno spillo) iquali consentivano di misurare la percentuale di ognuno deiprimari additivi necessari a riprodurre la tinta percepita perpoterla collocare esattamente in un diagramma cromatico.A tale impostazione si rifà O. N. Rood (1879), che individuai colori puri non piú tra i pigmenti, ma tra le tinte spettrali,selezionando quindi determinate lunghezze d’onda. La con-cezione del colore come lunghezza d’onda costituisce una svol-ta fondamentale, alla base della moderna colorimetria, poichéconduce Rood a individuare i tre parametri fondamentali perla definizione di una tonalità cromatica: 1) lunghezza d’ondadominante; 2) saturazione o purezza; 3) luminosità.Risulta finalmente chiaro che se si vogliono ottenere in pittu-ra determinati effetti cromatici non basta utilizzare pigmentidi colorazione complementare, ma è altrettanto necessario chetali pigmenti risultino analogamente puri e luminosi.Si comprende quindi perché l’accostamento di piccoli toc-chi di pigmenti complementari susciti particolari effetti pit-torici, verificandosi simultaneamente miscele additive e sot-trattive di colori. L’edizione francese del Rood ebbe gran-de influenza su Seurat, Signac e Pissarro e, in Italia, sullesperimentazioni divisioniste sollecitate e sostenute con ac-corato impegno da V. Grubicy e da Previati.Sfruttando il principio che per definire un colore sono ne-cessari tre parametri, lo statunitense A. Munsell pubblicò nel1915 il suo Atlante del colore, che divenne ben presto famo-so in tutto il mondo poiché consentiva (specialmente ai fab-bricanti di colori e vernici su scala industriale) di identifica-re facilmente mediante numeri e lettere il colore desideratoin base alla sua tinta (hue), purezza (chroma) e tono (value).In realtà l’Atlante di Munsell non si discosta molto dalle pre-cedenti classificazioni cromatiche basate unicamente sullemiscele sottrattive, se non per la sua concezione rigorosa-mente tridimensionale, la cui configurazione irregolare con-sente, almeno teoricamente, l’inserimento di nuovi campio-ni di colore.Piú o meno contemporaneo all’Atlante di Munsell è l’ordina-mento proposto dal tedesco Ostwald (1915-17), ugualmentebasato sui medesimi parametri. A differenza di Munsell che

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propone cinque tinte primarie (rosso, giallo, verde, blu, por-pora) e cinque intermedie, Ostwald seleziona quattro tinteprincipali (rosso, giallo, verde e blu), disposte a 90° su un cer-chio, alle quali ne aggiunge altre sei intermedie mediante latecnica dei dischi giranti. Per il centro del cerchio passa l’as-se verticale della luminosità che è calcolato su scala logarit-mica (e non con quantità crescenti, ma uguali, di bianco o dinero), tenendo conto quindi delle capacità percettive del si-stema visivo umano. Si configura così un doppio cono rego-lare basato sugli effetti della sintesi additiva, che tuttaviaOstwald ritiene derivante dalla miscela di quattro primari.Nell’Atlante di Munsell invece l’irregolarità del solido otte-nuto rende evidente ad esempio che i gialli disponibili sulmercato sono sempre piuttosto chiari (molto luminosi) men-tre i bluvioletti sono tendenzialmente piú scuri, a pari gra-do di purezza, il che spiega perché talvolta viene a mancarel’effetto di complementarietà. Tale fenomeno, che si riscon-tra anche con i dischi di Maxwell, deriva dal tipo di illumi-nazione utilizzato. Le normali lampadine a incandescenzaesaltano ad esempio le tonalità gialle, mentre la luce natu-rale di un paesaggio alpino innevato accresce la luminositàdei blu, contribuendo dunque in maniera notevole a modi-ficare la percezione visiva delle tinte.Per questo motivo la CIE (Commission International del’Eclairage) ha fin dal 1931 introdotto degli standard sia perl’illuminante che per la misura della luce riflessa (riflettanza)di campioni colorati, in base a tre coordinate di cromaticità:lunghezza d’onda dominante, saturazione, luminosità.Tali coordinate, che, mediante valori numerici, individua-no una ben precisa tonalità cromatica, sono state recente-mente poste in corrispondenza dei tre parametri indicati daMunsell nel tentativo di unire la sua classificazione, essen-zialmente ottico-percettiva, ai dati numerici della colorime-tria. Il fine è di attribuire un valore numerico a tutti i colo-ri prodotti industrialmente, che risulti facilmente indivi-duabile, ma soprattutto riproducibile, e quindi utilizzabile,in tutte le arti della visione, comprendendo dunque in que-ste oltre a pittura, grafica e fotografia anche la cinemato-grafia e la giovane computer art, superando finalmente l’im-postazione limitata ma ancor oggi largamente diffusa, for-nita dall’atlante cromatico di J. Itten, risalente al 1961 efondato sulle teorie di Goethe e Runge. (sri).

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TeotihuacánAntica città del Messico (Stato di Città del Messico) e sededi una civiltà precolombiana sviluppatasi attorno al 150 a.C. 900 d. C. (ma il periodo del suo massimo splendore fu trail iv e la metà del vii secolo d. C.). Il sito di T, in una pic-cola vallata a 50 km a nord-ovest di Città del Messico, siestende su una vasta superficie; soltanto il centro cerimo-niale e qualche complesso residenziale, le cui facciate e i cor-nicioni erano dipinti con colori brillanti, sono stati oggettodi scavi e restaurati; gli elementi decorativi comprendonogreche, figure serpentiformi, stilizzate, verdi con qualchetocco di bianco e di giallo su fondo rosso.Il centro urbano La decorazione scolpita e dipinta del Tem-pio di Quetzalcoad è costituita da serpenti piumati che com-piono evoluzioni nell’acqua, tra conchiglie e crostacei; le lo-ro teste s’alternano con altre, forse appartenenti a Tlaloc,dio della pioggia, emergenti da uno spazio stellato. Altre de-corazioni s’integrano con la struttura architettonica di que-sto tempio che doveva essere ornato con pitture murali an-che esterne, presumibilmente raffigurazioni animali e uma-ne o figure geometriche (dischi verdi su fondo rosso: simbolodella giada).Salendo verso nord, lungo il viale dei Morti, s’incontranouna serie di edifici sovrapposti, tra i quali il piú interessan-te è un piccolo tempio con le pareti interne lisce e intera-mente affrescate. Delimitate da fasce rosse, anch’esse orna-te da cerchi verdi, le pitture rappresentano volute e zanneche, probabilmente, alludono ai serpenti; dominano il gial-lo, il bianco e soprattutto il verde e il rosso. La piramide chesorregge il tempio detto dell’Agricoltura è decorata da af-freschi riproducenti delle greche rosse. Preceduto da un ve-stibolo con pareti decorate da pitture brillanti, al tempio siaccede attraverso una grande scala. La composizione che or-na la parete di fondo del vestibolo è composta da bande oriz-zontali, separate da strette fasce rosso-arancioni, rese aguz-ze, a intervalli regolari, da piccole punte di denti di sega. Lebande dipinte con motivi marini, verdi, rosso-arancioni,bianchi e gialli, oppure con motivi floreali, rosso cupo, ver-di e gialli, si alternano a strisce di colore uniforme, verdi obianche. Su una parete, al centro della parte inferiore è raf-figurato un motivo che ricorda una maschera, composta da

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volute verdi e gialle, da cerchi arancioni e gialli, su fondorosso; analogo motivo torna al centro della parte superioredella composizione. Ad eccezione delle maschere, gli affre-schi delle pareti laterali hanno soggetti identici.Nel santuario propriamente detto si trovano due grandi af-freschi. Il primo rappresenta una scena in cui numerosi per-sonaggi, sulla riva di un fiume, fanno offerte e libagioni al-le divinità personificate da due grandi forme monolitiche. Ifedeli, vestiti con semplicità, portano acconciature a formadi testa d’animale; il bianco dei corpi, il verde e il giallo del-le vesti e delle capigliature spiccano incredibilmente sul fon-do rossastro; il fiume, composto da strisce blu e verdi, scor-re alla base della parete. Il secondo affresco ha come moti-vo centrale una civetta con le ali spalancate, circondata dafasce composte da greche e da zanne.Attorno agli edifici del centro cerimoniale erano stati in-nalzati innumerevoli complessi residenziali ad uso dei nota-bili. I muri e i portici di queste costruzioni (palazzi di Ate-telco, Teopancalco, Tepantitla, Tetitla) erano decorati consplendidi affreschi: giaguari divinizzati, processioni di coyo-tes, divinità o sacerdoti officianti. I colori comportavano di-verse varietà di rosso, così come di azzurro-verde, caratte-ristico della pittura di T. Il giallo e il bianco erano utilizza-ti con minor frequenza. La costruzione e la decorazione diquesti edifici, effettuata probabilmente attorno al iii-iv se-colo d. C., segna il pieno rigoglio di una civiltà la cui in-fluenza s’estese fino al Guatemala.La ceramica Rinvenuta in abbondanza, si è evoluta nelleforme e nella decorazione in sintonia con le altre arti. Dalvi all’viii secolo i ceramisti modificarono gradualmente lostile delle loro creazioni, innestandovi elementi estranei al-la tradizione, senza mai giungere, però, a rompere i legamicon essa. I primi vasi (T I, 300-100 a. C.), accuratamentelevigati, immersi in un bagno di colore scuro, sono talvoltadecorati, prima della cottura, con motivi geometrici incisio dipinti. I motivi animalisti, molto sommari, compaionoancora di rado. La decorazione dipinta utilizza una combi-nazione di rosso, di bianco e di nero su una base gialla o ros-sa. La decorazione graffita, prima o dopo la cottura, si svi-luppa a poco a poco, mentre fa la sua apparizione una ce-ramica arancione, dalle superfici molto sottili (T II, 100 a. C.- 300 d. C.).

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La piena fioritura della ceramica (T III, 300-650 d. C.) è ca-ratterizzata da una grande varietà di forme, di tecniche e dimotivi decorativi: figure umane, divine o animali, piante,glifi trovano largo impiego. I vasi cilindrici tripodi, assai nu-merosi, sono decorati con colori vivaci, sia nella tecnica asmalto a incavo, sia a fresco. Un’analoga decorazione, di co-lore azzurro chiaro, verde, rosa pallido, giallo oro, torna, avolte, sui coperchi. Mentre la ceramica arancione si diffon-de con sempre maggior intensità, compaiono vasi antropo-zoomorfi. Gli invasori stranieri, tribú non identificate pro-venienti dal Nord, che occuparono T, mentre gli autoctonisi rifugiarono ad Atzcapotzalco (T IV, 650-900), tentaronoinvano d’imitarne l’arte; i loro vasi semisferici, senza sup-porto, sono decorati con ondulazioni incise e stampate.Esemplari di ceramica di T sono esposti presso il Museo Na-zionale di Archeologia, Storia ed Etnografia di Città delMessico.I quartieri residenziali: Atetelco Gli edifici di Atetelco, sot-terrati sotto le rovine delle costruzioni posteriori, furonoportati alla luce, studiati e restaurati a partire dal 1947. Di-sposti a formare due complessi, solo uno di questi ha potu-to essere ricostruito quasi integralmente. Il gruppo è for-mato da tre templi, i cui porticati si aprono su un cortile in-terno. Le facciate, abbellite da scale, cornici e plinti, sonoornate da ricche pitture nel piú puro stile di T (300-650 d.C.); l’insieme architettonico e decorativo data probabil-mente all’inizio di questo periodo. L’artista ha assunto co-me filo conduttore della composizione figure umane e ani-mali inscritti entro motivi geometrici e piume stilizzate. Unsolo colore, il rosso utilizzato puro, mischiato a calce bian-ca oppure diluito con acqua, è steso in tre tonalità differen-ti. I personaggi sono verosimilmente legati al culto di Tla-loc; le loro vesti sono ornate da frange e pendagli lussuosi;indossano un pettorale, fatto con una conchiglia di lumaca,e un copricapo composto da un pennacchio a forma di testad’uccello; tengono con una mano un bastone a sonagli enell’altra uno scudo di piume, dal quale spunta un fascio difrecce.Sulle scale, fiancheggianti ciascun muro, sono dipinte duetigri ricoperte di penne dalle cui fauci si generano motivi aforma di serpente che si ritorcono sul corpo degli animali.

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Le modanature che delimitano i muri alla base sono analo-gamente formate da corpi di serpenti intrecciati, le cui te-ste, piazzate vicino ai porticati, costituiscono maschere diTlaloc visto di prospetto.Tetitla Composto da sette camere e da due cortili interni,le pareti del palazzo sono interamente ricoperte da pitturedatabili all’apogeo della cultura di T. In una stanza, ai latidella porta, alcuni sacerdoti abbigliati con pelli di tigre e dal-le enormi acconciature di piume e ventagli avanzano su unalarga carreggiata circondata dall’acqua verso un tempio. Inun’altra camera, sui fianchi dell’entrata, sono raffigurati tresacerdoti col capo coperto da teste di giaguaro, mentre inuna parete vicina sono dipinte in mezzo a una flora acqua-tica tipica del culto di Tlaloc, acconciature di piume, scudie rappresentazioni di mani.La perfezione del disegno e della composizione, unita a unastilizzazione convenzionale, dona a questi personaggi unaforza accentuata dai colori: rosso o rossastro per il fondo ei corpi dei personaggi, verde-azzurro e giallo per le vesti egli ornamenti.Tepantida Gli edifici di Tepantitla furono anch’essi erettifra il iii e il vi secolo. Si tratta di una serie di costruzioni chesi aprono su cortili interni: i vestiboli e i muri sono ornatida imponenti affreschi, uno dei quali raffigura il «Tlalocan»,paradiso di Tlaloc (500 d. C.). Il dio, colto nel momento incui lascia cadere sulla terra gocce di pioggia, troneggia al cen-tro di un paesaggio fiabesco; attorno a lui una moltitudinedi personaggi cantano e danzano tra farfalle, piante e albe-ri in fiore. Su un’altra parete è dipinta una processione disacerdoti a lui votati riccamente vestiti e acconciati. In unodei cortili principali sopravvive un affresco, abbastanza de-teriorato, in cui è riconoscibile un fregio di aquile. Un’altraparete è coperta con rappresentazioni di Tlaloc. Tutte que-ste pitture, di disegno molto abile, sono eseguite a fresco ei colori (rosso, arancione, giallo, azzurro-verde) presentanouna grande varietà di sfumature, armoniosamente equili-brate. Le composizioni sono circondate da una cornice di-pinta raffigurante motivi acquatici.Teopancalco All’interno di uno degli edifici portati alla lu-ce, un altare di pietra era decorato con un affresco in cui do-minava il colore rosso con qualche tocco di verde, azzurroe giallo. Due sacerdoti ai lati di un simbolo del dio Sole, or-

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nati da ghiande e da ghirlande di piume, col capo copertoda teste d’animale sormontate da pennacchi piumati, ten-gono una borsa dalla quale fuoriescono delle sementi. Dal-le bocche dei due officianti si sprigiona una voluta ornatada fiori.Nello stesso edificio sono dipinte figure di guerrieri con com-plesse acconciature piumate; questi reggono con una manoun bastone e con l’altra uno scudo ornato da frecce. Il com-plesso delle pitture risale al ii-iv secolo. (sls).

Tepe GiyanSito dell’altopiano iraniano, a sud-ovest di Nihavand, sca-vato nel 1931 e 1932 dagli archeologi francesi G. Contenaue R. Ghirshman. I livelli piú antichi (V-IV) produssero va-sellame dipinto a decorazione monocroma in nero, sia geo-metrica che figurativa, che consentì una nuova classifica-zione della ceramica proto-iraniana tra il 3500 a. C. ca. el’età del rame. Le forme del vasellame e le sue decorazionisono infatti simili a quelle di Obeyd, di Susa I e I bis, di His-sar IB-IA e di Sialk IB, le quali erano considerate di piú an-tica data prima dei ritrovamenti di TG. La cronologia di TGappare invece chiara e consente una datazione piú recenteper tutto il gruppo. Caratteristici di questo periodo sono lebande di uccelli dal collo lunghissimo visti di profilo e i co-siddetti «animali-pettine», oltre a motivi geometrici a scac-chiera, a linee incrociate e ondulate di vari tipi, a simboli so-lari e altri.Tra il 2500 e il 1800 a. C. apparve a TG una nuova tipolo-gia ceramica, diversa dai ritrovamenti degli altri scavinell’area. Il livello III venne detto dei «vasi tripodi», dal ri-trovamento di molti vasi poggianti su tre piedi nelle tombe.Si tratta di terracotte rosse con semplici decorazioni geo-metriche in nero entro bande orizzontali. Oltre ai vasi tri-podi, furono scavati anche vasi panciuti con una piccola an-sa, marmitte e rhyton. Le forme richiamano la contempora-nea ceramica anatolica e quella delle zone egea e balcanica.Il livello II, databile tra il 1800 e il 1400 a. C., rivelò vasisferici poggianti su un basso piede circolare, crateri con unapiccola ansa, calici, bicchieri e tazze. Molti di essi hannoprofilo carenato. La terracotta è giallo-grigiastra con deco-razione in nero di due tipi diversi: uno è geometrico con pic-

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coli simboli solari e uccelli, probabilmente galletti, alterna-ti alle bande geometriche: il secondo tipo ha una decorazio-ne a linee orizzontali e a triangoli accostati che ricorda i va-si di epoca micenea.Il livello I, il piú recente, databile fino a circa il 1000 a. C.,rivelò vasi a forma di calice simili a quelli del livello II, de-corati con semplici bande orizzontali a decorazione geome-trica vicino al bordo. Tale decorazione si fece sempre menoevidente col passare del tempo, fino a sparire del tutto ne-gli strati piú superficiali. Il sito di TG pare sia stato poi ab-bandonato intorno al 1000 a. C. (sca).

Tepe SiyalkSito archeologico sull’altopiano centrale iraniano tra Tehe-ran e Isfahan, tre chilometri a sud-est della moderna cittadi-na di Kashan. Il sito fu scavato tra il 1933 e il 1937 dall’ar-cheologo R. Ghirshmann che pubblicò una monografia sugliscavi nel 1938. TS comprende due colline (tepe) a distanzadi 600 metri l’una dall’altra, gli scavi delle quali rivelaronodue necropoli che possono essere datate tra l’inizio del iii el’inizio del i millennio a. C., ma la cui civiltà fiorì special-mente nel ii millennio.Gli scavi di entrambe le colline rivelarono un gran numerodi manufatti ceramici color crema o rosso, alcuni monocro-mi ma molti decorati con disegni in nero. La decorazione èinvariabilmente dipinta sull’esterno del vasellame. Il piú an-tico periodo IV, intorno al 3000 a. C., comprende forme giàraffinate, come anfore, crateri e giare, decorate con sempli-ci linee orizzontali.Il periodo III del ii millennio rappresenta la migliore pro-duzione di ceramica dipinta proveniente dalla collina Sud:scodelle, bicchieri, calici, vasi a becco e zoomorfici prodot-ti a mano libera, senza l’uso della ruota, sono quasi tutti de-corati con disegni in nero. Il repertorio iconografico inclu-de motivi geometrici a scacchiera, triangoli neri, linee on-dulate sia verticali che orizzontali. Combinazioni di teoriedi uccelli, volute rappresentanti piante, serpenti e losangheformanti motivi «a scaglie» sono talvolta presenti in singo-li pezzi. Anche figure umane sono comuni, di solito rappre-sentate tra animali domestici, come l’asino. Montagne sti-lizzate formano alcuni sfondi e animali selvatici, quali il leo-pardo, completano il repertorio. In una seconda fase le figure

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divennero piú stilizzate ma allo stesso tempo la composizio-ne si fece piú complessa e raffinata, includendo scene di cac-cia con figure nude la cui testa e piedi sono visti di profilo,mentre il busto è frontale. In generale, si può dire che i pit-tori su ceramica del periodo III di TS riuscirono a produrreun vasto repertorio figurativo oltre a quello geometrico,emulando in questo i loro colleghi di Susa piuttosto che quel-li di ‘Ubayd. Dalla collina Nord, apparentemente di data piúrecente (ii-i millennio), vennero alla luce manufatti di piúsemplice composizione: nel periodo II animali stilizzati, pro-babilmente ovini, sono rappresentati in file orizzontali inuna composizione molto schematizzata; il repertorio piú am-pio è comunque quello geometrico del periodo I dove larghescodelle e vasi sono decorati con motivi a scacchiera, a reti-colato, con linee ondulate, spezzate e con ampie bande oriz-zontali. (sca).

Ter Borch, Gerard(Zwolle 1617 - Deventer 1681). Allievo del padre si dimostròassai precoce (il suo primo disegno è del 1625), ma non gli riu-scì facile liberarsi dalle molteplici influenze assorbite trovan-do uno stile personale. Dal 1632 soggiornò ad Amsterdam,poi fu attivo dal 1633 ad Haarlem presso Pieter Molyn; pri-ma del luglio 1635 è a Londra dove subirà l’influsso di vanDyck. A questa fase risalgono sicuramente i tre splendidi qua-dretti di genere militare, vicini a quelli di Blekker o di PieterPost, ciascuno rappresentante un Cavaliere visto di spalle (unesempio a Boston, mfa), di una finezza tecnica già caratteri-stica della sua opera matura. Va sottolineato questo gusto perle figure di spalle, che si esprime a pieno in quel capolavorodi psicologia che è il cosiddetto Ammonimento paterno delRijksmuseum (Amsterdam). Piú chiaro è l’influsso di Aver-camp nei Pescatori sulla riva di Copenhagen (smfk) e soprat-tutto quello di intimisti come Codde e Duyster nei Soldati chegiocano in una locanda (1636: Rouen, mba), opere che recanoin germe quel realismo discreto e impercettibilmente ironicodi cui è fatta tutta l’arte di TB.Dal 1636 al 1643 la sua attività non è documentata; pro-babilmente dovette però intraprendere lunghi viaggi: inparticolare in Italia, come attestano il sorprendente quadronotturno Processione di flagellanti (Rotterdam, bvb) – «ro-

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mano», se lo si paragona a consimili soggetti di Pieter vanLaer –, e un quadro di battaglia assai vicino a quelli di Aniel-lo Falcone (coll. del duca di Pembroke a Wilton House). Se-condo una fonte del tempo, una poesia di Roldanus a Zwol-le nel 1654, TB si sarebbe recato anche in Spagna, doveavrebbe eseguito un ritratto di Filippo IV, oggi noto soltantoda una copia (Amsterdam, coll. priv.).Documentano il suo ritorno in Olanda, verso il 1639-40, sce-ne militari (Londra, vam), e soprattutto un numero piutto-sto elevato di ritratti in miniatura, nei quali mette a puntola sua formula del ritratto frontale a figura intera su fondochiaro, con una secchezza che piú tardi scomparirà (Museodi Richmond in Virginia, e San Francisco, M. H. de YoungMemorial Museum). È verosimile che abbia operato perqualche tempo nei Paesi Bassi meridionali (Anversa), e for-se anche in Francia.Nel 1644 TB era di nuovo in Olanda, come dimostrano i ri-tratti della famiglia van der Shalcke (Amsterdam, Rijksmu-seum), tra i suoi lavori piú affascinanti; ma dalla fine del 1645si recò a Münster per impiegare il proprio talento di ritratti-sta presso i numerosi diplomatici allora riuniti per negoziarela famosa pace del 1648. Risale a questi anni una serie di pic-coli ritratti molto raffinati, spesso in forma di medaglioni co-me quelli di Godard van Reede di Utrecht (castello di Zuylenpresso Utrecht), del principale negoziatore francese il Ducadi Longueville (ritratto equestre all’Historical Society di NewYork), o dello spagnolo Conte di Peñeranda (Rotterdam, bvb),per non parlare del celeberrimo piccolo dipinto su rame (og-gi a Londra, ng), che rappresenta con minuzia estrema i ses-santa partecipanti alla seduta finale della ratifica degli accordidel 1648. Di grande formato, cosa un poco eccezionale perTB, ma di non minore importanza storica, è l’Arrivo del ne-goziatore Adriaen Pauw a Münster nel 1646 (Museo di Mün-ster), dipinto da due artisti in date differenti: il paesaggiodello sfondo e la veduta di Münster da G. Vander Horst pri-ma del 1629, e le figure da TB verso il 1646. Dimostrandole sue capacità interpretative TB realizzò un Gruppo di fa-miglia in un paesaggio (1645-50 ca.) di grandi dimensioni re-centemente acquisito dal Museo di Zwolle.Il ritorno in Olanda nel 1648 caratterizza anche una nettaripresa delle scene di genere, nelle quali TB dimostrerà ra-pidamente, negli anni Cinquanta, le proprie capacità stili-

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stiche. L’evoluzione si manifesta nella scelta dei soggetti,non popolari, ma tratti dal pacifico mondo borghese; i temigalanti sono trattati in modo sottile e raffinato, con l’uso diun chiaroscuro che nasconde dettagli troppo esatti e ap-profondisce lo spazio senza rinunciare all’intimità della vi-ta domestica. Così TB giunge a un equilibrio mai piú rag-giunto tra le esigenze dell’osservazione psicologica e quelledella poesia degli oggetti e dello spazio, evitando gli eccessiillusionistici di un Dou e aprendo la strada alla fortuna delgenere intimista alla metà del secolo. Notevole è la sua ca-pacità di resa psicologica, che tanto bene si fonde con la lu-ce vellutata, il colore dai grigi raffinati, l’equilibrato chia-roscuro. L’artista non superò mai i suoi primi capolavori,eseguiti intorno al 1650, come le Cure materne del Mauritshuis(L’Aia), la Filatrice del Museo van der Vorm a Rotterdam, laFanciulla allo specchio del Rijksmuseum (Amsterdam), il Fan-ciullo che spulcia il suo cane di Monaco (ap) dipinto su fon-do grigio vuoto e unito, la commovente Lezione di lettura delLouvre (Parigi) e il dipinto detto l’Ammonimento paterno delRijksmuseum (1654 ca.).Nel 1654 TB si sposò a Deventer, stabilendovisi perma-nentemente. La sua attività di ritrattista mondano, in par-ticolare presso famiglie nobili di Amsterdam come i Pancras,i Vicq (1670: Amsterdam, Rijksmuseum e Amburgo, kh), iGraeff (1674 ca., ritratti di Jacob de Graeff al Rijksmuseume di Cornelis al Mauritshuis), nonché l’esecuzione, dal 1650in poi, di quadri di genere, attestano una conoscenza per-fetta della moda e documentano l’evoluzione della societàolandese. Le sue forme mutano, se non nel dettaglio del co-stume, in un certo complicarsi degli accessori, nella maggiordelicatezza dei valori cromatici e dei «passaggi» dalla luceall’ombra, al punto persino di sfiorare talvolta il virtuosismotecnico. Esempi di questo periodo tardo, sono il Militare ga-lante (1662-63 ca.: Parigi, Louvre), il Gioco delle carte (LosAngeles, County am, i Duo della ng di Londra e del Louvre(1670 ca.), e la splendida Suonatrice di violoncello (1675 ca.:Berlino, sm, gg), la cui impaginazione sostiene il confrontocon quella di Vermeer. Tuttavia, intorno al 1660-70, i ri-tratti tendono a divenire la specialità principale del maestro,la cui eco giunse fino nella Firenze di Cosimo III de’ Medi-ci (Autoritratto su rame perduto). Oltre ai citati ritratti dei

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Graeff, ricordiamo il ritratto d’Ignoto del Ferdinandeum dilnnsbruck, il Giovane Signore del Louvre (Parigi), l’Autori-tratto del Mauritshuis (L’Aja), le Coppie dei Musei di Praga,di Colonia (wrm) e della coll. Lehman del mma di NewYork.Un certo numero di fratelli e sorelle di TB furono disegna-tori o pittori; il piú dotato fu Mozes (1645-77), di cui il Rijk-smuseum conserva, a parte i disegni, due Autoritratti e unaTesta di vecchia. Gesina (1631-90) fu autrice di numerosi ac-querelli e tele, in particolare ritratti piuttosto vicini a Ge-rard; Herman (1638 - ante 1677) si mostra pressoché insen-sibile all’influsso del fratello nei suoi numerosi dipinti. (jf).

Ter Brugghen, Hendrick Jansz(Deventer 1588 - Utrecht 1629). Con Baburen e Honthor-st, è tra i maestri del caravaggismo nordico. Stabilitosi gio-vanissimo a Utrecht, fu allievo di Abraham Bloemaert, maquasi subito partì per l’Italia, dove rimase dal 1604 al 1614.Soggiornò soprattutto a Roma, entrando in contatto con Ca-ravaggio e i suoi seguaci, come Orazio Gentileschi e CarloSaraceni. Non soltanto trasse da Caravaggio le caratteristi-che del proprio stile (illuminazione artificiale, contrapposi-zione tra ombra e luce), ma ne adottò anche la tecnica: valea dire che dipingeva direttamente, senza disegno prepara-torio. Nel 1615 era di nuovo a Utrecht, dove nel 1616-17era iscritto alla gilda di San Luca. Non possediamo alcun di-pinto certo del suo periodo romano; le sue opere datate van-no dal 1620 al 1629. Dipinse, a trentadue anni, il Cristo de-riso (Copenhagen, smfk; altra versione a Parigi, Museodell’Assistenza pubblica), prima opera firmata e datata, im-portante per la coesistenza di elementi caravaggeschi (op-posizioni tra parti chiare ed ombre, tipi plebei) e deliberatoarcaismo (figure influenzate da Luca di Leida, trattamentocontratto derivante da Marinus van Reymerswaele e vicinoa Woutersz Stap). Al 1621 ca. risalgono la Vocazione di sanMatteo (Utrecht, Centraal Museum; altra versione legger-mente precedente al Museo di Le Havre), che presentaun’analogia piú che tematica col dipinto di Caravaggio (Ro-ma, San Luigi dei Francesi), e i Quattro Evangelisti (De-venter, Municipio), la cui impaginazione fa pensare a Mari-nus van Reymerswaele, ma nella quale l’importanza assun-ta dalla descrizione mimica delle mani e dei volti è tipica del

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suo caravaggismo. La Decollazione di san Giovanni Battista(Edimburgo, ng), derivata da un’incisione di Dürer, vienetrattata con un’accentuazione emotiva che diverrà caratte-ristica della sua maniera. Opere come Davide salutato dalledonne (1623: Raleigh, North Carolina Museum), il PoveroLazzaro (1625: Utrecht, Centraal Museum), San Sebastianocurato dalle pie donne, probabilmente tra i quadri piú emo-zionanti del pittore (1625: Oberlin, Allen Memorial am),Giacobbe e Labano (1627: Londra, ng, altra versione, 1628?:Colonia, wrm), Davide che suona l’arpa (1628: Museo di Var-savia) mostrano un caravaggismo molto individualizzato;mentre la Crocifissione (New York, mma), ispirata a Grü-newald, è di un deliberato arcaismo. TB dipinse alcune sce-ne popolari di gusto quasi picaresco: il Soldato addormenta-to (Utrecht, Centraal Museum), i Giocatori di dadi (1623:Minneapolis, Institute of Arts), ma i suoi soggetti preferitifurono i Concerti (1621: Museo di Kassel; Vienna, km; Mu-seo di Bordeaux; 1624: Oxford, Ashmolean Museum; 1627:Museo di Augusta; 1628: Parigi, Louvre; 1628: Museo diBasilea; 1629: Roma, gn) nei quali descrive suonatori o suo-natrici che cantano a solo o in duo, accompagnandosi con ilflauto, il liuto la cornamusa. Tali dipinti, influenzati dallescene caravaggesche di Gentileschi ma soprattutto dalla man-frediana methodus, presentano figure illuminate su uno sfon-do chiaro, con prevalenza di linee curve e ondulate e larghepennellate di colori puri, specie in quelle maniche a sbuffo,ad ampie righe di azzurro o di bianco.TB è nel contempo uno dei piú acuti e uno dei piú persona-li tra i seguaci di Caravaggio. Non fece scuola, ma la sua ope-ra, parallela a quella di Baburen e di Honthorst, influenzòpittori come Bylert, Lievens, Bor, Bramer e forse persinoGeorges de La Tour. Tuttavia, l’eco piú alta del suo stile siha in Vermeer, che non dovette dimenticare la mirabile le-zione del suo luminismo chiaro e disteso, né le straordinariequalità della sua pastosa materia pittorica e del suo colore,a un tempo schietto e sottile. (iv).

Tériade (Efstratios Elefteriades, detto)(Mitilene 1897 - Parigi 1983). Sin dal 1915 T è a Parigi perseguire gli studi di diritto, ma molto presto entra in contat-to con l’ambiente di Montparnasse. Nel 1925 Christian Zer-

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vos gli affida la rubrica d’arte moderna dei «Cahier d’art»e dal 1928 al 1932 dirige con Raynal la cronaca settimanaledelle arti dell’«Intransigeant». In tali articoli T dà la paro-la agli artisti stessi tra i quali figurano Matisse, Rouault, Pi-casso, Le Corbusier, Léger, Braque e van Dongen; paralle-lamente organizza mostre (prima grande Mostra internazio-nale di scultura a Parigi, Gall. Bernheim, 1930). Nel 1930l’editore Albert Skira lo invita a collaborare alle Metamorfosidi Ovidio illustrate da Picasso, in seguito cura le Poésies diMallarmé illustrate da Matisse. Da questa collaborazione na-sce la rivista «Minotaure», nella quale poesia, pittura, tesiestetiche o etnologiche sono inserite in una struttura che,come sostiene egli stesso, «cerca [... ] di incastonare col gri-gio di qualche riga di testo la presentazione di queste im-magini». Calamitando intorno a sé personalità come Eluard,Tzara, Ernst, Michaux, Daumal, Duchamp, Giacometti,Breton, Le Corbusier, Masson, Lacan e Miró, la rivista «Mi-notaure» si configura così come l’eco del surrealismo trion-fante e senza prendere posizione nella polemica Breton-Ba-taille, T, pur prediligendo la pittura, consente a tutta unagenerazione di artisti di sfuggire alla «morsa del cubismo».In questo periodo, ma già dal 1933, La Béte noire (titolo diLeiris e disegno di Beaudin) aveva sostituito la rubricadell’«Intransigeant» accogliendo i dissidenti del surrealismoesclusi da «Minotaure» (R. Vitrac, Antonin Artaud). La ve-ra creatività di T si rivela nel 1937 quando un editore ame-ricano di periodici gli affida una rivista bilingue: «Verve».Prima rivista e in seguito casa editrice, «Verve», di cui T di-viene unico responsabile già nel 1938, riassume la maggiorparte dell’attività del personaggio. Aiutato solo da AngèleLamotte e in seguito da Marguerite Long, T realizza venti-sei fascicoli per i quali affida il lavoro litografico a Mourlote quello tipografico a Draeger. In questi fascicoli la paginaè architettonica: parola e immagine costituiscono un’unicarealtà e un unico ritmo emerge dall’unione di scrittura, co-lore e fotografia. Complessivamente T ha curato ventisei li-bri ciascuno dei quali costituisce un unicum originale: diChagall, tutti i libri ordinati dal mercante Ambroise Vollardoltre a Daphnis et Chloé del 1961 e Le Cirque del 1967; diMatisse, Jazz del 1945; di Picasso, Le chant des morts del1948 con il testo di Revery; di Le Corbusier, il Poème del’angle droit del 1955 e di Giacometti À Paris sans fin del

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1969. Tra gli altri si ricordano anche tre libri di incisioni xi-lografiche di Henri Laurens (1945, 1947, 1951). (cm).

Termonde, scuola diLa cittadina belga, a nord-est di Gand, fu frequentata ver-so il 1880 da un gruppo di pittori: Jacques Rosseels, forma-tosi ad Anversa, direttore dell’Accademia di T, IsidoreMeyers e Andrien-Joseph Heymans, ambedue allievi dell’Ac-cademia di Anversa e, a Parigi nel 1855-58, in contatto conRousseau, Corot, Millet, Daubigny, Adrien Le Mayeur. Ipittori di T, che si ispirarono molto anche ai siti della Cam-pine, piú a nord, furono i primi nel Belgio a scartare le to-nalità cupe, dipingendo dal vero. Le loro opere figurano nel-la maggior parte dei musei belgi. (sr).

terrettaDipinto monocromo eseguito ad imitazione di rilievi mar-morei o bronzei, da non intendersi nella ristretta accezionedel bianco e nero o del giallo dorato, ma come fantasiosa ri-produzione di pietre dei piú svariati colori. Il termine, chesi incontra per la prima volta in Vasari (Proemio, cap. xxv),trae il nome dalle terre argillose utilizzate come pigmenti.Due le tecniche di esecuzione: a fresco, per dipingere fregiistoriati sulle facciate dei palazzi; a tempera su tela (legan-te: colla), per gli apparati provvisori allestiti in occasione dicommedie o feste. Le due tecniche sono accomunate, oltreche dall’uso di pigmenti dello stesso tipo, anche dal modo diprocedere nella stesura del colore: si abbozza con terra perfare vasi e su quella si costruisce il rilievo aggiungendo all’ar-gilla bianco di travertino o nero di carbone per ottenere lu-ci e ombre. I pigmenti utilizzati sono, oltre ai precedenti:terra gialla e rossa per i finti bronzi; terra d’ombra per le tverde terra; terra verde e nero per il verdaccio. Talvolta lasi distingue dal chiaroscuro (Mancini), che, caratterizzatodall’uso di una tinta trasparente su intonaco bianco, sfruttail colore del fondo per ottenere le luci con un procedimentosimile a quello dell’acquerello, mentre la t è sempre lavora-ta con colore a corpo, piú o meno chiaro. Ciò potrebbe es-sere in relazione con la proprietà dei pigmenti argillosi – icui cristalli sono piccolissimi e lamellari – di dar luogo a su-perfici estremamente levigate, tali da consentire particolari

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effetti di lucentezza, dando ragione della specifica finalitàartistica delle t: simulare l’aspetto di rilievi antichi dal ma-teriale pregiato, quale marmo o bronzo. Note cave di terraargillosa erano nei colli di Monte Spertoli presso Firenze ein Roma vicino San Pietro.Perduti i fregi all’aperto e gli apparati provvisori, fonti let-terarie e incisioni testimoniano la grande, ma breve fioritu-ra del nuovo genere, che fra il secondo e il terzo decenniodel Cinquecento, a opera di Baldassarre Peruzzi, Polidoroda Caravaggio e altri pittori usciti dalla scuola di Raffaello,contribuì a trasfigurare le vie di Roma fingendo architettu-re e rilievi su palazzi e case delle nuove classi emergenti. (→anche graffito). Chiari esempi di t simulanti bassorilievi ininterni, sono nelle Stanze di Raffaello, sulla volta della Si-stina di Michelangelo, nelle cupole del Correggio e nella Gal-leria Farnese di Annibale Carracci. (co).

TeruelCittà aragonese, il cui interesse particolare per la storia del-la pittura spagnola è dovuto al soffitto dipinto della Catte-drale. Questo «artesonado» mudéjar del sec. xiv, che rico-pre tutta la navata, per lungo tempo celato da una volta delsec. xviii venne rimesso in luce e restaurato dopo la guerracivile. Costituisce un complesso di pittura popolare profanaunico nella Spagna medievale. Sui pannelli lignei rettango-lari si alternano, come i pezzi di una scacchiera, motivi or-namentali a racemi, stelle, figurazioni di animali sul model-lo dei bestiari araldici, guerrieri e cacciatori, operai e arti-giani, giocolieri e danzatrici, dal disegno un poco sommarioma di notevole potenza espressiva. (pg).

Tervueren, scuola diGruppo di paesaggisti belgi che si stabilirono negli anni trail 1860 e il 1870 a una ventina di chilometri da Bruxelles,nel villaggio di T, posto nella foresta di Soignes, ricca di al-te fustaie di carpini e di faggi, schiarite da anelli di stagni.Joseph Coosemans, consigliato all’inizio da Fourmois, se-gretario comunale di T, fu uno dei primi a trovare ispira-zione in questi luoghi silvestri, insieme a Jules Montigny.Hippolyte Boulenger vi giunse nel 1863 e fu lui a riunire sot-to questo nome i lavori inviati al Salon di Bruxelles del 1866dal gruppo, nel quale figuravano anche Alphonse Asselber-

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ghs, Jules Raeymackers, Arthur Bouvier, Edouard Huberti,Louise Héger, Théodore Baron e Isidore Verheyden. Nel1867 a Parigi, Boulenger ha occasione di vedere le opere del-la scuola di Barbizon (in particolare quelle di Rousseau) e diCorot; Coosemans e Asselberghs soggiornarono nella fore-sta di Fontainebleau e furono attenti alla lezione di Rous-seau. Di fatto gli esponenti della scuola di T, la «Barbizon»belga, si dibattono tra una concezione ancora romantica delpaesaggio e il plen air.Oltre quello di Coosemans (Raggio di sole dopo la tempesta:Museo di Bruges), il talento piú robusto e vario è Boulen-ger; quello che nei suoi compagni si risolve in una manieraprecisa e in diffuso sentimentalismo, dà vita in lui a una vi-sione piú ampia e serena, in cui lo studio dei fenomeni lu-minosi assume crescente importanza (la Valle di Giosafatte:Museo di Anversa). La precoce morte di Boulenger (1874)portò al dissolvimento del gruppo; due anni piú tardi Coo-semans si stabilì nella Campine. (mas).

Terwesten de Oude (Augustinus Snip, detto)(Ouwerkerk 1649 - Berlino 1711). Fratello di Elias (Ouwer-kerk 1651 - Roma 1724/29) e di Matthaus (L’Aja 1670-1757), allievo di N. Wieling, partì per l’Italia nel 1672, sog-giornando a Roma tre anni; poi si recò in Francia e in In-ghilterra. Nel 1678 era tornato nei Paesi Bassi, ove è docu-mentato all’Aja. Nel 1690 partì per Berlino, dove nel 1694fondò l’Accademia di belle arti. Se ne conoscono alcuni di-pinti, soprattutto allegorie, di stile insieme decorativo e gra-fico: la Primavera (Tarbes, Museo), la Justitia (1687: Leida,sm). (jv).

Tessai(nome d’arte di Tomioka Hyakuren: 1836-1924). Figlio diun ricco mercante di stoffe di Kyoto, T fu iniziato ai classi-ci in giovane età. La sua qualità di prete scintoista non gliimpedì affatto d’interessarsi al buddismo, in particolare al-lo zen, né di studiare a fondo la poesia e la storia giappone-se, ma soprattutto cinese. Compromesso dalle sue relazionicon i promotori della riforma Meiji, fuggì a Nagasaki, doveapprofondì la sua conoscenza degli individualisti Ts’ing, dicui si asserì erede diretto. Tornato in seguito alla salita al

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potere di Meiji, divenne nel 1876 superiore di due templiscintoisti nei dintorni di Kyoto; si dimise dal 1881 per con-durre vita libera e indipendente alla maniera dei letterati ci-nesi e fondò nel 1890 un’associazione di pittori nanga, di cuifu in realtà l’ultimo grande maestro letterato, in compagniadi una ventina di artisti di Kyoto. Le sue origini giappone-si si rivelano appieno nella carica umoristica e nel caratteregrottesco propriamente zen dei suoi personaggi, benché egliappartenga assai piú al mondo letterato cinese per la mae-stria e l’originalità esplosiva delle potenti inchiostrature edei lavis audaci. Una sua particolarità tecnica è l’impiego delbianco opaco mescolato ai colori trasparenti tradizionali, perconferir loro maggiore intensità. Assai libero nelle compo-sizioni classiche di paesaggio, il suo stile e il suo grafismo deltutto affrancato da ogni ricerca di somiglianza formale era-no significativi, a quanto egli stesso diceva, dello sforzo diperfezionamento morale che deve compiere ogni artista de-gno di questo nome (Tokyo, mn; collezioni private giappo-nesi, tra cui la piú importante è quella del vescovo Sakamo-to a Takakusa). (ol).

TessalonicaLa piú importante città dell’impero bizantino dopo la capi-tale, T (denominata in tempi moderni Salonicco), porto gre-co al fondo del golfo omonimo, fu un fervido focolaio arti-stico a partire dai tempi antichi e numerose sue chiese con-servano tuttora tracce di decorazione musiva oppure afresco.Chiesa di San Giorgio Il mausoleo – o Rotonda – dell’im-peratore Galerio, fu convertito in edificio cristiano duranteil regno di Teodosio I il Grande (379-95) e decorato con mo-saici che costituiscono la piú antica decorazione musiva pa-rietale cristiana dell’Oriente e gli unici esempi rappresenta-tivi dell’arte imperiale dell’epoca teodosiana. Fino alla finedella seconda guerra mondiale la decorazione era nota sol-tanto nel suo complesso e si era soliti datarla al sec. viii. Inseguito agli interventi di restauro e di pulitura è stato pos-sibile anticipare la data d’esecuzione dei mosaici tra la finedel sec. iv e i primi anni di quello successivo.I mosaici conservatisi si possono dividere in tre gruppi. Aiprimi due appartengono quelli delle sei nicchie inferiori edelle lunette d’illuminazione che si trovano alla base della

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cupola; il terzo gruppo è costituito dai mosaici della cupola,articolati in tre zone. Innanzitutto occorre sottolineare chela decorazione delle nicchie inferiori, nonostante sia soggettaad illuminazione indiretta, si distingue per vivacità di colo-ri e per la forza del disegno; invece le decorazioni delle lu-nette d’illuminazione, poste alla base della cupola, a direttocontatto con la luce, sono ornate da lievi motivi geometricie floreali. L’artista ha, dunque, cercato di sfruttare la luce aseconda della disposizione del mosaico.La decorazione musiva della cupola è contemporanea allatrasformazione dell’edificio romano in tempio cristiano,com’è stato sapientemente osservato da E. Dyggve. Dopogli interventi di pulitura la cupola si presenta divisa, oriz-zontalmente, in tre zone. Al centro, poco leggibile, è rap-presentato un Cristo entro un clipeo. Della figura non si con-serva che una parte dell’aureola, una parte della mano e delbastone crociato che Cristo teneva nella mano sinistra. Il cli-peo che circonda la maestosa figura è tripartito in una fasciadi stelle dorate a otto punte su fondo azzurro, una ghirlan-da di fiori e frutta, un cerchio formato dall’arcobaleno. Ilclipeo è sorretto da quattro Angeli, tra i quali alcuni sonoconservati in stato frammentario. La seconda fascia musivaè interamente distrutta: si distinguono soltanto alcuni trat-ti del suolo verde e i piedi degli Apostoli che circondano Cri-sto. La terza zona è decorata con rappresentazioni di com-plesse tipologie architettoniche che articolano otto settoridi uguale grandezza, suddivisi da pilastri rastremati sorreg-genti un ricco fregio ornamentale. Alcuni di questi edificicon ricche trabeazioni, derivano dalle decorazioni delle fac-ciate dei teatri antichi, ma le croci sui frontoni e gli altaricollocati sotto i baldacchini li hanno trasformati in santua-ri cristiani; gli edifici che compaiono nella zona centrale so-no invece di diversa origine, raffrontabili alle facciate delletombe di Petra, e in particolare di Khaszne e di Deir. In pie-di, davanti a queste eleganti architetture, sono raffiguratimartiri oranti: le teste hanno in comune la plasticità, la scor-revolezza della forma e la morbida rotondità dei volti; la ti-pologia dei singoli personaggi, particolarmente accentuata,è variata attraverso l’indagine psicologica, ricercando espres-sioni di nobiltà e di spiritualità attraverso la delicatezzadell’esecuzione. La tecnica di questi mosaici, assai vicina

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all’arte ellenistica d’Oriente, ha in sé elementi particolari ti-pici dell’epoca teodosiana.Le volte sono decorate con motivi ornamentali, uccelli e frut-ti. Del sec. ix è un’Ascensione dell’abside.Chiesa di Hosios Davìd (o della Trasfigurazione) La conti-nuazione della tradizione ellenistica d’Oriente è fortemen-te attestata dal mosaico absidale di questo Oratorio, un tem-po parte dell’antico monastero del Latomon. Il mosaico raf-figura una visione teofanica: Cristo imberbe, seduto entro unclipeo blu, circondato da quattro Animali apocalittici, appa-re ai profeti Ezechiele e Abacuc. Sulla sinistra, Ezechiele, inmezzo a un paesaggio montuoso eseguito con stile impres-sionista, non osa quasi volgere lo sguardo verso la visione di-vina; l’altro profeta, a destra, siede in atteggiamento profon-damente meditativo, con un libro aperto sulle ginocchia. Inprimo piano scorrono i Quattro fiumi del Paradiso, dove nuo-tano alcuni pesci e dove s’intravede anche il torso nudo diuna divinità fluviale. La figura del Cristo, diversa dalla fi-gura del Buon Pastore del Mausoleo di Galla Placidia a Ra-venna, presenta diversi punti di contatto con il Cristo in tro-no della cappella di San Aquilino nella chiesa milanese diSan Lorenzo: in primo luogo la forte caratterizzazione fi-sionomica, seppure ancora segnata da un’estetica trascen-dentale. Anche il paesaggio non manca di realismo e ricor-da il mosaico del Buon Pastore di Ravenna, sia per la confor-mazione delle rocce, sia per le superfici che si sovrappongonole une sulle altre creando così un senso di profondità spa-ziale. Come quello realizzato nella chiesa di San Giorgio, an-che l’arte di questo mosaico è ancora d’ispirazione antica,tale da ricordare i modelli ellenistici.Basilica di San Demetrio Questa basilica, nella quale era-no conservate le reliquie del santo patrono di T, è una «chie-sa reliquiario»: tutti i mosaici visibili prima dell’incendio del1917 e quelli che gli sono sopravvissuti hanno carattere diex voto. La loro esecuzione si data a partire dal vi fino al ixsecolo. I mosaici collocati nelle pietre angolari del colonna-to della navata laterale sinistra raffiguravano San Demetrioin preghiera, accompagnato da una folla di bambini e da di-versi personaggi a lui devoti, e la rappresentazione della Ver-gine in trono col Bambino, affiancata da due Angeli. Nel gran-de riquadro conservato sulla faccia nord del pilastro meri-dionale San Demetrio è in piedi fra un arcivescovo e il

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prefetto Leonzio, al quale il santo cinge amorevolmente lespalle. Datato al sec. vii, questo mosaico è connotato da unostile assai diverso rispetto ai precedenti; la pesante clamideindossata da san Demetrio e i drappeggi dei due dignitariappaiono alquanto schematizzati; le figure, in atteggiamen-to ieratico, sono prive di volume e di gravità, anche se i lo-ro volti, fortemente caratterizzati, paiono ritratti. Negli al-tri riquadri figurano San Sergio vestito con una clamide, SanDemetrio che protegge due bambini, la Vergine con un santoin abiti militari. Un affresco risalente al sec. vii rappresen-tava l’Ingresso a Tessalonica dell’imperatore vittorioso: proba-bilmente faceva parte di un piú complesso ciclo pittorico de-dicato alle gesta e ai miracoli del santo protettore della città.Chiesa di Santa Sofia La volta a botte davanti all’abside èdecorata da motivi rettangoli che contengono, alternativa-mente, croci formate da tessere d’argento e foglie d’edera.È uno dei rari casi in cui si fa uso del fondo argenteo, anzi-ché, com’è sovente nelle chiese di T, del fondo oro; la stes-sa tecnica compare anche nella chiesa di San Giorgio. I mo-nogrammi dell’imperatore Costantino VI, di sua madre Ire-ne e dell’arcivescovo Teofilo, permettono di datare questadecorazione agli anni 780-97. La grande croce che ornava laconca dell’abside fu sostituita nel sec. ix dalla raffigurazio-ne della Vergine in trono col Bambino (dove sono riscontra-bili le difficoltà dell’artista ad adattare la figura a una su-perficie concava), mentre nella cupola è rappresentatal’Ascensione con il Cristo portato da due angeli: nella zona anu-lare sono le grandi figure della Vergine tra due angeli e gli apo-stoli. Separati da alberi stilizzati, gli apostoli esprimono illoro stupore attraverso i gesti e gli atteggiamenti; alcuni so-no ritratti di profilo e quasi di spalle; sant’Andrea, in piediin posizione frontale, regge una grande croce che confermal’origine costantiniana del modello. Lo stile lineare dei pan-neggi, la resa schematica del terreno attraverso una succes-sione di curve, i pesanti tratti dei volti, indicano uno spic-cato gusto per gli effetti decorativi.Chiesa della Vergine dei Calderai (Panagia tou Chalkeou)Si tratta di una chiesa edificata e affrescata nel 1028.Nell’abside la Vergine orante è in piedi tra due Arcangeli, iVescovi sono raffigurati frontalmente sulla parete dell’emi-cielo e la Comunione degli apostoli, ripartita in due gruppi

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simmetrici, occupa la campata che precede l’abside. Nellevolte è il ciclo dedicato alle Feste solenni, dall’Annunciazio-ne alla Pentecoste e alla Dormitio della Vergine. Nella cupo-la, la scena dell’Ascensione deriva da quella della chiesa diSanta Sofia, ma la composizione generale, con i Profeti di-pinti nel tamburo, combina questo tema con quello del Cri-sto Pantocrator e dei profeti, utilizzato con maggior fre-quenza a partire dal sec. xi. Nei pennacchi sono rappresen-tati i Serafini. La grande composizione con il GiudizioUniversale, sviluppata nel nartece, è il piú antico esempio dipittura monumentale conosciuto finora. Lo stile severo chedominava le composizioni della chiesa di Santa Sofia, si èun po’ stemperato in queste pitture. I ritratti dei santi di-pinti sulle pareti, tra i quali ve ne sono parecchi ben con-servati, permettono di apprezzare la ricchezza del colore eil vigore del modellato.Chiesa della Vergine Acheropoietos Questa chiesa derivail suo nome da un’icona acheropita un tempo qui conserva-ta. La costruzione dell’edificio risale al sec. v e la decora-zione fu portata a termine poco tempo dopo la riconquistadi T da parte di Teodoro, signore dell’Epiro, che la sottras-se all’egemonia latina (1222). Le parti pittoriche sopravvis-sute, in particolare i ritratti dei santi a mezzo busto entromedaglioni che alternano fondi rossi e verdi, mostrano giàquelle tendenze che saranno sviluppate nelle opere pittori-che a partire dal sec. xiv: figure solide, con ampie forme edi larga fattura. La tradizione ellenistica sopravvive invecenei mosaici, contemporanei alla costruzione della chiesa, cioèalla prima metà del sec. v. Purtroppo, della ricca decorazio-ne musiva che un tempo ornava l’edificio soltanto pochissi-me parti si sono salvate, all’interno delle arcate dei colon-nati e delle navate. Comunque questi pochi lacerti testimo-niano che l’esecutore, o l’équipe che partecipò all’impresa,era padrona di una tecnica perfetta, resa attraverso la ric-chezza dei colori e il tentativo di fondere gli elementi me-ramente decorativi con le rappresentazioni simboliche delCristianesimo. I soggetti rappresentati sono quelli comuni:festoni e ghirlande fiorite che incorniciano i simboli paleo-cristiani (libro, pesce e pane), anche se la varietà dei motiviimpiegati è eccezionale. L’artista ha adoperato tessere di di-verse dimensioni, con l’intenzione di creare variazioni cro-matiche e seguire la curvatura del disegno: anche da tali ac-

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corgimenti è dunque possibile individuare l’alto livello arti-stico raggiunto dall’arte orientale, sviluppatasi a T, verso lametà del sec. v.Cappella di Sant’Eutimio Datate al 1303, le pitture di que-sta cappella, contigua alla Basilica di San Demetrio, sono pur-troppo molto deteriorate. La Vergine in trono col Bambino tradue angeli occupa la conca dell’abside; la Pentecoste, della qua-le non sussiste che qualche frammento, era raffigurata nellavolta di fronte all’abside; sull’arco trionfale si snoda l’An-nunciazione, con al centro la rappresentazione della Sacra Sin-done. Le altre scene sacre sono raffigurate sulle pareti, di-sposte in due registri, al di sopra della serie dei santi. Comenella chiesa della Vergine dei Calderai, la Comunione degliapostoli è suddivisa in due gruppi simmetrici. Fanno da sfon-do alcune architetture decorate da ampi drappeggi, secondoun tipo di decorazione di largo impiego a partire dal sec. xiv.La Guarigione dell’idropico e del paralitico, alcune scene raf-figuranti gli Ammaestramenti di Cristo, la Cacciata dei mercantidal Tempio e il Discorso alla Samaritana arricchiscono il ciclodelle Feste. Numerosi episodi relativi alla vita di sant’Euti-mio sono rappresentati sulla parete settentrionale. La gam-ma cromatica di queste scene, molto delicata, è probabil-mente dovuta al deterioramento della superficie pittorica chene ha smorzato i toni. Alcuni dei ritratti a mezzo busto di-pinti sugli intradossi degli archi, in uno stile un po’ piú rigi-do e con un’esecuzione piú lineare, tradiscono la sopravvi-venza dell’arte dei Comneni. Altrove, il modellato largo e vi-goroso, la vivacità dei movimenti apparenta queste pitture aquelle della chiesa dedicata agli Apostoli, che datano a un pe-riodo leggermente piú recente.Chiesa dei Santi Apostoli I mosaici furono eseguiti a spesedel patriarca di Costantinopoli Niphon I, ma la destituzio-ne di questi nel 1315 causò l’interruzione dei lavori primadel compimento del programrna decorativo. Purtroppo ilfondo dorato delle composizioni, rimosso in epoca successi-va e sostituito da un moderno intonaco dal colore tropposcuro, smorza la vivacità delle scene della Vita di Cristo e lemaestose figure dei Profeti e dei Santi. Ogni traccia di li-nearismo è scomparsa da questi mosaici, modellati attraver-so la contrapposizione di macchie di colore. Le forme dàn-no un’impressione di solidità, i volti sono espressivi, il mo-

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vimento è accentuato attraverso espedienti particolari, co-me quello del mantello sollevato dal vento nella Trasfigura-zione o nella Discesa al Limbo. Nell’Ingresso a Gerusalemme,una folla fitta e animata, raffigurata in una grande varietàdi atteggiamenti, accoglie Cristo.Poco dopo il 1315, il nartece esterno che circonda la chiesasu tre lati fu decorato con affreschi che non sono ancora sta-ti completamente ripuliti. Episodi della Vita di san Giovan-ni Battista sono rappresentati nel braccio settentrionale, lanarrazione apocrifa dell’Infanzia di Maria è illustrata nel brac-cio occidentale e, all’estremità orientale del porticato meri-dionale, una grande rappresentazione dell’Albero di Jesse or-na la parete di fondo, mentre alcune scene bibliche, prefi-gurazioni della Vergine e del mistero dell’Incarnazione, sonodipinte nella cupola e sulla pareti. Sia per lo stile, sia perl’iconografia, queste composizioni presentano numerose tan-genze con i mosaici di Kariye Djami. Infatti, nonostante al-cuni storici dell’arte tendano ad opporre l’arte sviluppatasia T a quella di Costantinopoli, insistendo sul vigore e il rea-lismo della prima contrapposto alla grazia e alla delicatezzadella seconda, malgrado qualche differenza apparente, i mo-saici della cappella dei Santi Apostoli hanno molti tratti incomune con quelli della chiesa di Kariye Djami a Costanti-nopoli e una sorprendente rassomiglianza accomuna i per-sonaggi della Dormitio rappresentati in questi due edifici.Chiesa di San Nicola Orfano Si tratta di una Basilica a trenavate, fondata nella prima metà del sec. xiv dal monaco Ni-con. Le pitture che ricoprono le pareti, snodandosi in una se-rie di registri offrono un eccellente esempio del programmapittorico sviluppato a quell’epoca. Nell’abside, al di sopra del-la Vergine orante tra due angeli, sono raffigurati i vescovi offi-cianti a lato di un altare sul quale compare Gesú Bambino,adagiato su una patena. Il registro inferiore è occupato dallaComunione degli Apostoli. Al ciclo delle Feste solenni (senzala Pentecoste e con la Passione che si articola in una serie discene) sono state aggiunte innumerevoli raffigurazioni di mi-racoli e l’illustrazione dell’Inno acatisto. Delle prefigurazionibibliche della Vergine, si è conservata soltanto la scena di Mo-sè davanti al roveto ardente. Nella navata meridionale com-paiono parecchi episodi della vita di san Gerasimo, un asce-ta del Giordano. La vita del patrono della chiesa è illustratanel nartece, dove era anche il Menologio (calendario liturgi-

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co), del quale rimangono soltanto alcuni frammenti. La fat-tura di queste pitture, dai colori vivaci, ricorda a ben guar-dare quella delle icone. Alcune composizioni sono impronta-te da un carattere popolare, soprattutto per quel che concer-ne la tipologia dei volti, lontana dall’ideale di bellezza classico.Chiesa di Santa Caterina Gli affreschi conservatisi sono pro-babilmente contemporanei a quelli della chiesa di San Ni-cola, pur differenziandosene per lo stile. La figura dipintaal centro della cupola è distrutta, ma gli angeli e gli arcan-geli che la circondano e i profeti del tamburo sono raffigu-razioni pregevoli dalle forme ampie e dall’atteggiamento vi-vace. Anche la decorazione della conca dell’abside è scom-parsa totalmente; sulle pareti dell’emiciclo si intravede laComunione degli apostoli e, piú in basso, alcuni Vescovi. Fat-ta eccezione per la Dormitio, le pitture del riquadro centra-le rappresentano i Miracoli di Cristo. (sdn).

Tessari, Gerolamo (Gerolamo del Santo, detto)(Padova 1490 ca. - 1561). Figura minore nel panorama dellapittura padovana del sec. xvi, prende il soprannome dalla con-trada in cui abitava. Coinvolto in tutte le imprese decorati-ve piú importanti di chiese e oratori cittadini, stenta ad ab-bandonare del tutto il retaggio tardoquattrocentesco che lar-gamente influenza la sua attività iniziale. I successivi contatticon Tiziano, Romanino e Domenico Campagnola lascianoin lui un riflesso solo parziale, ravvisabile in una certa ri-cerca di drammaticità espressiva. Prima opera documentataè il Miracolo del bicchiere dipinto nella Scuola del Santo(1511), cui faranno seguito, nella stessa sede, la Morte delsanto (1513) e il Miracolo della mula (15 24). L’affresco conla Deposizione dalla Croce, ora a Padova (mc) è quel che ri-mane degli interventi compiuti nel complesso di Santa Giu-stina: quasi illeggibili sono gli affreschi del coro. Altri ciclidi un certo rilievo sono le scene della Vita della Vergine nel-la Scoletta del Carmine e gli episodi della Passione di Cristonell’Oratorio del Redentore (1537). Da ricordare anche laDeposizione dell’abbazia di Praglia. (szu).

Tessin, Carl Gustaf(Stoccolma 1695 - Åkerö 1770). Figlio di un architetto, ri-cevette un’educazione artistica particolarmente accurata.

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Dopo la morte del padre diresse, dal 1728 al 1741, la co-struzione del Palazzo Reale di Stoccolma di cui curò princi-palmente l’arredo interno. Grazie ai suoi contatti con Pari-gi si rese protagonista, col suo collaboratore, l’architetto CarlHårleman, dell’introduzione del rococò in Svezia. Invitò ar-redatori di fama e diresse l’acquisto di opere destinate adabbellire il palazzo. Nel 1735 sostenne la creazione dell’Ac-cademia reale di disegno, divenuta successivamente Acca-demia di belle arti. Arricchì notevolmente la collezione delpadre facendo importanti acquisti durante le sue ambasce-rie a Parigi. Portò così in Svezia, dal 1739 al 1742, 4600 di-segni e incisioni, di cui 1600 provenivano dalla collezioneCrozat, in particolare opere del rinascimento italiano, dellascuola olandese del sec. xvi e di quella francese del xvi e xviisecolo. Acquistò anche opere di Boucher (il Trionfo di Ve-nere), Chardin, Desportes. Raccolse inoltre un’ampia colle-zione di medaglie e di libri d’arte.La sua attività di collezionista divenne, alla lunga, rovinosa,e tra il 1750 e il 1760 si vide costretto a vendere gran partedei pezzi raccolti. La regina Luisa Ulrica e il principe eredi-tario Gustavo III costituirono così i fondi delle collezionidel mn di Stoccolma (circa 70 quadri e 12 000 lastre).A Parigi venne intitolato a T un Istituto, fondato nel 1933,che ha lo scopo di favorire le relazioni culturali franco-sve-desi. L’Istituto ospita anche un museo con opere di Roslin,Wertmüller, Cogell, nonché francesi attivi in Svezia, comeBoucher, Desprez, Taraval. (mnv).

tessutoIl t è il prodotto di un’arte antichissima, sostanzialmente in-variata nel corso dei secoli, consistente nell’intrecciare adangolo retto due sistemi di fili: uno longitudinale, costitui-to dall’ordito e uno posto trasversalmente al primo, costi-tuito dalla trama. I fili di ordito, preliminarmente definitinel numero complessivo e nella lunghezza, vengono tesi, per-fettamente paralleli tra loro, da un’estremità all’altra del te-laio, avvolti su rulli cilindrici chiamati subbi e fatti passareattraverso determinati strumenti, licci e maglioni, che neazionano il movimento. Al sollevarsi di un determinato nu-mero di orditi si forma la cosiddetta bocca entro cui vienefatto passare orizzontalmente il filo continuo della trama,contenuto nell’apposita navetta. Il modo in cui orditi e tra-

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me si incrociano, secondo un ordine prestabilito detto rap-porto, costituisce l’armatura del tessuto. Sulla base del nu-mero di orditi e trame e dell’impiego di una o piú armaturediverse nella costruzione dell’intreccio, i t si distinguono indue categorie: lisci e operati. Appartengono alla prima il taf-fetas, il raso, il diagonale, con le loro varianti, tutte esegui-bili su un telaio a licci; della seconda fanno invece parte da-maschi, sciamiti, lampassi, broccatelli, velluti, eseguibili suun telaio apposito detto al tiro.La materia piú usata nella realizzazione degli antichi tessiliè la seta, importata in Europa dall’Estremo e Vicino Orien-te, connotata da un aspetto compatto ma morbido e lucen-te e dal peso relativamente leggero che ne rendeva agevoleil trasporto. Oltre a questa, sono state impiegate la lana e lefibre vegetali come canapa, lino e cotone. I coloranti usatiper la tintura dei t hanno, fino alla metà dell’Ottocento, ori-gine organica: porpora, chermes, cocciniglia per i rossi; pian-te ricche di tannino e limatura di ferro per i neri; foglie delguado e dell’indaco per gli azzurri; reseda o braglia e zaffe-rano per i gialli. Contribuisce alla cromia e alla preziositàdelle stoffe l’uso, nella definizione del disegno, di trame sup-plementari in oro e argento, fatte correre per tutta l’altezzadel t (lanciate) o limitate a zone circoscritte (broccate). Ri-spetto al loro impiego, i t possono generalmente suddividersinelle tre categorie dell’abbigliamento, dell’arredamento edei paramenti sacri: disegni e colori hanno, a seconda delleepoche, accomunato o differenziato tali destinazioni d’uso.Erede e centro diffusore delle antichissime e raffinate tec-niche di tessitura del Medio ed Estremo Oriente è Bisanzio,che, sotto Giustiniano I, diviene anche produttore di seta.Qui, alla tradizione iconografica locale si sommano motividerivati dall’Oriente sasanide e dal mondo ellenistico e si-riaco (lo strangolatore di leoni, l’elefante, lo stambecco, ileoni affrontati presso l’Albero della Vita, l’aquila araldica),riscontrabili negli esemplari rinvenuti nei Tesori di moltecattedrali occidentali: Colonia, Salisburgo, Auxerre, Bres-sanone. La ricchezza di Bisanzio e la vastità e densità deisuoi commerci portano a un consistente sviluppo della pro-duzione tessile nelle zone del bacino mediterraneo. NellaSpagna, le influenze bizantine si sommano alle ascendenzearabe, che caratterizzano tutta la produzione tra gli inizi del

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Duecento e il sec. xvi. Il disegno dei tessili riflette le solu-zioni formali proprie della coeva decorazione in stucco e ce-ramica, bidimensionale, costruita con moduli che si ripeto-no fittamente all’infinito utilizzando forme geometriche,variazioni stilizzate e astratte dell’arabesco, iscrizioni pura-mente ornamentali. Tale tipologia decorativa, che ha il suoculmine nell’Alhambra di Granada, ha dato il nome alla cor-rispondente produzione a telaio (seta d’Alhambra). I mag-giori centri produttori sono Burgos, Cordova, Siviglia e To-ledo. Queste stoffe, eseguite perlopiú con la tecnica dellosciamito, hanno larga diffusione in Europa e in Italia, do-ve appaiono sovente riprodotte negli affreschi e nelle tavo-le di Cimabue, Giotto, Duccio. A manifattura bizantina del-l’viii-ix secolo è attribuito il bordo figurato del Piviale di sanModeranno del Duomo di Berceto (Parma) e a maestranzeispano-moresche del x-xii secolo il Drappo di san Ciriaco delMuseo diocesano di Ancona.Motivi islamici e bizantini si fondono anche nei t sicilianid’epoca normanna, come nel corredo destinato alla cerimo-nia per l’incoronazione dell’imperatore del Sacro RomanoImpero (Vienna, Schatzkammer), eseguito tra il 1133 e il1181 presso l’opificio annesso al palazzo regio della corte diRuggero II a Palermo. Il disegno in oro, perle e smalti sufondo in raso di seta, segue lo schema ad animali affrontatidavanti all’Albero della Vita, disposti in sequenze orizzon-tali che si sovrappongono, riscontrabile nella stoffa, an-ch’essa siciliana, ritrovata nella tomba di Enrico VI, mortonel 1197.Nel sec. xiv, il disegno dei t evolve verso una costruzionepiú libera e rivela una nuova attenzione al dato naturalisti-co. L’origine del cambiamento è attribuita dalla critica allaconquista, da parte dei Mongoli di Gengis Khan, di buonaparte dell’impero persiano, evento che si ripercuote in Oc-cidente lungo i già consolidati canali commerciali. Racemi efiori prendono corpo, mentre compare un nuovo repertorioanimalistico tratto dalla simbologia cinese, realizzato congrande sensibilità per il colore, spesso arricchito dall’inseri-mento di trame broccate in oro e argento. I tesori di moltecattedrali dell’Europa settentrionale, ma anche alcuni cen-tri italiani, conservano stoffe cinesi, o persiane improntatea modelli cinesi, come il corredo funebre rinvenuto nel 1921nella tomba di Cangrande della Scala a Verona. La diffu-

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sione di questi particolari motivi decorativi è documentataanche da un gruppo di disegni eseguiti a Venezia alla finedel sec. xiv, conservati al Louvre (Cabinet des Dessins) e dadipinti di celebri artisti quali Paolo Veneziano (Incorona-zione della Vergine: Venezia, Accademia), dei Lorenzetti, diSimone Martini (San Ludovico di Tolosa: Napoli, Capodi-monte). Con la seconda metà del secolo si accentua la ten-denza alla rappresentazione narrativa, affidata alle straor-dinarie capacità di anonimi, colti disegnatori, impegnati aqualificare e diversificare i t giocando sull’impaginato, gliaccostamenti iconografici, gli effetti di colore. Si distingueLucca, il piú antico centro tessile italiano, produttore anchedi seta che commerciava attraverso compagnie mercantili efiliali stabilì (Università), installate nelle maggiori città d’Eu-ropa. Qui, sullo scorcio del Trecento si tessono stoffe figu-rate con soggetti tratti dal Nuovo Testamento, destinate aornare i paramenti sacri. Con la diaspora dei tessitori luc-chesi in Italia ed Europa, questa particolare produzione pas-sa, dalla metà del Quattrocento, a Firenze. I modelli per ibordi figurati sono da ricercarsi tra le opere dei maggiori pit-tori fiorentini del momento, alcune delle quali godono diparticolare fortuna, come l’Adorazione del Bambino con no-ve angeli nella ng di Londra, attribuita da Longhi al BeatoAngelico o la Resurrezione di Cristo di Raffaellino del Gar-bo agli Uffizi di Firenze (frammento raffigurante l’Adora-zione del Bambino, manifattura fiorentina, fine sec. xv; fram-mento raffigurante la Resurrezione di Cristo, manifattura fio-rentina, inizi sec. xvi: Milano, Civiche Raccolte d’ArteApplicata, inv. n. 2171 e n. 257). La trasposizione a t è me-diata da un disegno dell’artista o della sua bottega, talvoltaripreso e ripetuto piú volte anche in contesti figurativi di-versi e, nel periodo piú tardo, dall’arte della stampa e dell’in-cisione: in quest’ultimo caso, il risultato è una produzionepiú modesta e piuttosto ripetitiva. Allo stesso felice climarinascimentale di unità delle arti e alla considerazione di cuigodevano le tecniche cosiddette minori, va ricondotta l’at-tività dei medesimi artisti come disegnatori per ricami. NelLibro dell’Arte, Cennini dedica larga parte ai modi di «di-segnare in tela o in zendado, per servigio de’ ricamatori» eVasari ricorda che Botticelli eseguiva disegni per «stendar-di ed altre drapperie». Nelle commissioni piú prestigiose, il

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compito del pittore non si esauriva nella consegna dei dise-gni, ma proseguiva con il controllo del trasferimento di que-sti sul t da ricamare e sulla realizzazione, non sussistendo difatto separazione fra il momento intellettuale della proget-tazione e quello esecutivo. Tra gli esemplari piú noti, rea-lizzati in sete policrome ad agopittura, con profusione di fi-li e cordoncini d’oro, sono il capino di piviale con l’Incoro-nazione della Vergine, su disegno di Botticelli (Milano, mpp),il Trasporto del corpo del Battista (Firenze, Museo dell’Ope-ra del Duomo), parte d’un prezioso parato su disegni del Pol-laiuolo, destinato al Battistero di San Giovanni in Firenze,il Paliotto di Sisto IV con le due figure centrali dello stessoPellaiuolo, il cosiddetto Parato del Vescovo Vanzi (Orvieto,Museo dell’Opera del Duomo), i cui disegni per le parti fi-gurate sono attribuiti, sia pure non concordemente, a Bar-tolomeo di Giovanni e alla bottega di Botticelli; le Storie disan Giovanni Gualberto sulla tonacella nel Museo degli Ar-genti a Firenze, ricondotte al disegno di Bartolomeo di Gio-vanni. Inversamente, la pittura propone una raffigurazionedei t spesso tanto meticolosa da suggerirne gli effetti tatti-li. Il maestoso, fluente motivo della melagrana che dominaper tutto il Quattrocento, è usato, nelle due diverse costru-zioni della «griccia» e del «cammino», da Andrea del Ca-stagno a Gentile, dall’Angelico a Piero, da Benozzo Gozzo-li al Ghirlandaio, da Antonello a Crivelli, Butinone e Zena-le. Accuratissima è la resa di velluti e ricami nei quadri deifiamminghi. Di grande interesse in proposito sono anche ifogli con disegni di motivi tessili di alcuni artisti: da Gio-vannino de’ Grassi nei fogli della biblioteca di Bergamo, aJacopo Bellini nell’album del Louvre, a Pisanello nel codiceVallardi ancora al Louvre. Dello stesso Pisanello sono alcu-ni schemi di costumi nel Musée Bonnat di Bayonne, con ac-cenni alla decorazione delle diverse stoffe degli abiti. Nelcodice Zichy, presso il szm di Budapest, si conservano foglicon disegni, probabilmente di tessili, attribuiti al veneto An-gelo Cortino, dei primi del sec. xvi.Il primato spetta, dunque, in quest’epoca all’Italia, ma losfarzo di stoffe riccamente intessute con oro caratterizza an-che la produzione spagnola, nonostante gli editti contro illusso sfrenato delle vesti, emanati dai regnanti cattolici Fer-dinando e Isabella. Centri di maggiore diffusione sono Gra-nada e Siviglia.

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Alla fine del secolo il motivo della melagrana assume unaspetto meno naturalistico in favore di una resa piú minutae stilizzata che vede il frutto racchiuso entro uno schemacompositivo a maghe ovali, soluzione che individua pres-socché tutta la produzione del Cinquecento. La decorazio-ne della stoffa si differenzia in base all’uso cui il t è desti-nato e, se per i rivestimenti si prediligono effetti di granderilievo con ovali spesso legati da corone, nell’abbigliamentosi elabora un tipo di decorazione a motivi minuti, in voga fi-no al 1630 ca. Di particolare fortuna gode il disegno cosid-detto «a mazze», prodotto in innumerevoli varianti, grazieanche a innovazioni tecniche quali il velluto impresso e ilvelluto ricamo, in cui primeggiano le manifatture genovesi.Rari, invece, gli esempi ispirati alla tradizione pittorica clas-sicheggiante delle «grottesche», a causa del divario già in-stauratosi fra arti maggiori e artigianato, da cui il disinte-resse degli artisti e lo spazio dato alle stoffe ricamate comele uniche assimilabili alla pittura. Anche questo secolo regi-stra la preminenza delle manifatture italiane che esportanoin tutta Europa, mentre in Spagna, a causa della cacciata deiMori da parte di Filippo III, l’artigianato, e quindi la tessi-tura della seta, subisce una decisa decadenza.A partire dal 1630 il disegno dei tessili evolve in direzionenaturalistica e la sua impostazione si articola secondo diret-trici sinuose, mentre i rapporti di disegno tornano a ingran-dirsi. Nelle vecchie incorniciature a ovali compaiono mazzidi fiori realisticamente descritti, realizzati con armature leg-gere e lucenti come il raso, il damasco, il taffetas, rese piúpreziose dall’impiego dell’oro. Il velluto è circoscritto allestoffe per l’arredamento e ai paramenti sacri, anch’essi sog-getti ai dettami della Controriforma. Con questi nuovi ca-ratteri, l’ultimo quarto del secolo sancisce la supremazia del-la Francia, grazie al radicale riassetto economico e tecnolo-gico messo in atto da Colbert, ministro delle finanze di LuigiXIV, che all’interno del generale, ambizioso programma dicreazione di un grande Stato, rilancia la produzione di tes-sili di lusso attraverso le Manifatture Reali, che tutela conleggi protezionistiche. Nella nuova impostazione del rap-porto fra artista e struttura esecutiva, il disegno non è piúaffidato al tessitore o al singolo pittore, ma ad artisti di cor-te che, secondo il gusto del momento, creano una vera e pro-

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pria grammatica dell’ornamentazione valida per tutte le ar-ti decorative, dai tessili, alle porcellane, all’ebanisteria. Legrandi officine sono Lione e Tours. Lionese è il tessuto «apizzo» – ispirato alla predilezione per nastri e merletti del-la moda Pompadour e ricondotto dalla critica a J. CharlesDutilleu, pittore francese specializzato in fiori – che evol-verà, alla metà del secolo, nel piú rigido e stilizzato motivo«a meandri». Caratterizzano inoltre la prestigiosa produ-zione d’inizio Settecento le stoffe «bizarre», dal disegnoasimmetrico, in cui elementi del tutto fantastici si fondonoa motivi esotici di derivazione orientale. La nascita e la pron-ta diffusione di queste stoffe, anticipazione di quel gusto perle «cineserie» che accompagna, e non solo in campo tessile,tutto il sec. xviii, è documentata da alcuni disegni di cui unofirmato dal francese Daniel Marot e datato 1711, pubblica-to in Olanda, e altri negli albums del disegnatore di stoffeinglese James Leman, attivo tra il 1706 e il 1722; la fortunadegli originali t presso l’alta società trova conferma anchenei dipinti dell’epoca, tra cui il Ritratto del conte Giovan Bat-tista Vailetti di Fra Galgario (Venezia, Accademia). Precisaconnotazione raggiunge a questa data la figura del disegna-tore di stoffe, sempre piú specializzato nella conoscenza siadelle tecniche che dei diversi repertori decorativi, come at-testa il trattato di Joubert De L’Hiberderie Le Dessinateurpour les fabriques d’étoffes d’or, d’argent et de soie, pubblica-to a Parigi nel 1765 e, ancora prima, la creazione a Lione nel1756 della prima scuola in Europa per disegnatori tessili, di-retta dal pittore Donat Nonotte. Secondo il regolamento,gli allievi devono intrattenersi con pittori di fama, studiarenella biblioteca reale le raccolte grafiche, visitare i musei. Ildisegno a mano libera, corredato delle note sui colori e i fi-lati, viene passato a un tecnico che lo riproduce su carta mil-limetrata per consentire la preparazione del telaio. Al gene-re del dessinateur fleuriste appartengono i lionesi Ringuet,Courtois e Jean Revel, figlio d’un allievo di Le Brun e pit-tore egli stesso, cui si deve la massima affermazione del ge-nere naturalistico tra il 1730 e il 1740, grazie all’invenzio-ne d’un accorgimento tecnico, il point rentrè, che consentedi ottenere a telaio gli effetti sfumati e il modellamento chia-roscurale delle forme, propri della pittura. Nei nuovi stili ga-reggiano con la Francia i centri italiani maggiori produttoridi seta (Venezia, Torino) e la manifattura inglese di Spital-

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fields, sobborgo di Londra (disegni «à la manière de Revel»di Anna Maria Garthwaite si conservano nel suo albumpresso il vam di Londra). La ricerca degli effetti naturali-stici e plastici, in una sorta di gara con le possibilità espres-sive della pittura, anima l’attività di Philippe de Lasalle,pittore, poi celebre disegnatore-produttore degli anni Set-tanta, specializzato nei t da parato che esegue per le dimo-re reali francesi ma, anche, per la corte di Caterina di Rus-sia. Con l’impiego di innumerevoli trame policrome, lavo-rate apportando perfezionamenti tecnici al telaio, illustratinell’Encyclopedie, realizza in grandi moduli nature morte,putti, animali e scenette, di notevole resa pittorica.L’avvento di Napoleone comporta un incremento degli or-dinativi, determinato dalle nuove esigenze rappresentativedella monarchia. Tramontati già in età neoclassica i grandidecori dalla vivace policromia, si afferma lo stile impero,adottato dagli architetti Percier e Fontaine nell’arredamen-to delle residenze. I t si appropriano dei motivi greco-ro-mani, già diffusi a fine Settecento dai repertori a stampa,che vengono applicati in modo massiccio e con intenti chia-ramente celebrativi, specie nelle arti decorative. I disegni dariprodurre non sono piú strettamente studiati in funzionedella realizzazione tecnica, ma costituiscono un repertoriopolivalente cui attingere per le diverse necessità dell’orna-mentazione. Trofei di guerra, emblemi e iniziali dell’impe-ratore si ripetono sui pesanti t d’arredamento mentre gli abi-ti, abbandonate le stoffe leggere come la battista e la mus-sola e i colori chiari, tornano a prediligere il velluto e il rasoin tinte forti. Fra i progettisti che assumono un ruolo rile-vante, sono l’architetto Brongnart e J. Francois Bony, dise-gnatore formatosi nell’ambiente delle manifatture lionesi.La presentazione a Parigi nel 1801 del primo telaio mecca-nico, messo a punto da J. Maria Jacquard, è il primo passonel processo di industrializzazione dell’arte tessile. Il nuovosistema di schede perforate, che consente la realizzazioneperfetta e sempre ripetibile dei decori, crea un’immediatafrattura tra il momento dell’ideazione e quello dell’esecu-zione e pone il problema della serialità dei prodotti rispettoall’originalità artigianale del passato. Una prima risposta aquesto problema è data dai revivals che caratterizzano l’epo-ca almeno fino alla Grande Esposizione internazionale di

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Londra del 1851: si riprendono modelli decorativi di varieepoche, nel tentativo di assicurare ai prodotti dell’industriaquella qualità estetica che di per sé non possiedono. Mal’esposizione è anche l’occasione per impostare un diversorapporto fra industria ed eredità artistica del passato, in cuilo studio dei modelli antichi costituisce solo il primo passoper la formazione di nuovi progettisti. Su questa base nascea Londra il Museo dei Manufatti di South Kensington, og-gi vam, e ha inizio il rinnovamento dell’arte tessile, incen-trata sul disegno bidimensionale, chiaro e preciso. William,Morris, principale esponente del rinnovamento, riconoscela macchina come strumento utile al lavoro umano, ma nerifiuta il sopravvento, cerca una nuova unità delle arti e unafusione fra ideazione ed esecuzione, attraverso la consape-volezza del progettista delle diverse tecniche e la qualifica-zione artistica dell’artigiano. Nella ditta Morris MarshallFaulkner and Company, fondata nel 1861, larga parte han-no i tessili, soprattutto cotoni stampati e stoffe in seta daldisegno ad andamento ondulante verticale, mentre i t in la-na e seta propongono uno schema a ovali a doppia punta confiori e uccelli, ispirato ai t italiani di fine Trecento e Quat-trocento. Il movimento Arts and Crafts di Morris, Crane,Holiday, Mackmurdo, Voysey, Scott, Mackintosh e altri,porta avanti il tentativo di riqualificare sotto il profilo del-la qualità e dell’estetica gli oggetti di uso comune, mortifi-cati dalla produzione industriale, e di rimediare allo scadi-mento dello status del designer. Le linee programmatichenate in Inghilterra vengono immediatamente recepite in Eu-ropa da una nuova generazione di artisti che, tuttavia, ri-fiuta la dipendenza da modelli storicizzati, in favore d’unostile nuovo e razionale, aderente ai tempi. Con denomina-zioni diverse a seconda dei diversi paesi, Art Nouveau, Ju-gendstil, Sezession, Modern Style, Liberty, prende corpoquel movimento che va sotto la dizione generale di «mo-dernismo», efficacemente teorizzato dal belga Henry van deVelde. I t mostrano astratti giochi lineari, equilibri di for-me, colori naturalistici dalle tonalità fredde con accostamentiricercati. Analoghe istanze motivano il programma attuatonel laboratorio Wiener Werkstatte, fondato a Vienna nel1903 con la direzione artistica dell’architetto Josef Hoff-mann e del pittore Kolo Moser. In forma piú radicale, l’unitàarte-tecnica e il concetto dell’artista che in quanto tale si fa

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progettista di oggetti di produzione industriale, è alla basedella Bauhaus, fondata da Walter Gropius a Weimar nel1919: nel laboratorio di tessili nascono opere da rivestimentoe tappeti annodati in cui i materiali, scelti fra quelli di piúlargo consumo, e i colori sottolineano la struttura del t. Sul-la linea indicata dalla Bauhaus si collocano sia le ricerche aParigi di Raoul Dufy, autore di lampassi editi da Bianchi-ni-Férier, le prime composizioni astratte su t stampati fir-mate da Sonia Delaunay, che le realizzazioni in campo tes-sile delle avanguardie sovietiche. Una ripresa piú recente diqueste istanze, si registra negli anni Sessanta dove si collo-cano felicemente, a titolo di esempio, le stoffe bicolori a ef-fetto «optical», destinate alla sartoria, di Getulio Alviani.Una seconda chiave di lettura nella storia dei t del nostro se-colo è, invece, quella che trova ragione nella crisi delle tec-niche artistiche tradizionali e conduce a opere d’arte realiz-zate con materiali originariamente destinati a usi diversi: daicollages dadaisti con impiego di ritagli di stoffa, alle nume-rose, recenti sperimentazioni in ambito europeo tra le qua-li, per citare esperienze italiane, l’uso della tela in quanto te-la dei Sacchi di Alberto Burri, le sculture con «stracci» diMichelangelo Pistoletto, l’impiego di stoffe nelle ambienta-zioni di Giulio Paolini, i t rigonfi, imbottiti, trapuntati e di-pinti di Cesare Tacchi. (ld’a).

Testa, Pietro, detto il Lucchesino(Lucca 1612 - Roma 1650). Giunse giovane a Roma, proba-bilmente prima del 1630. Frequentò la bottega del Dome-nichino, poi, per breve tempo, quella di Pietro da Cortona.Incoraggiato da Cassiano dal Pozzo, eseguì per lui disegnidelle piú celebri antichità di Roma. Questa frequentazionedegli ambienti «antiquari» e la conoscenza approfondita deimonumenti romani determinarono tutta una parte della suaopera; presso Cassiano l’artista dovette assai presto cono-scere Poussin e lo scultore fiammingo Duquesnoy. I suoi pri-mi dipinti e le contemporanee incisioni ricordano Pietro daCortona: come il Paesaggio con satiri (Roma, Gall. Corsini)e il Paesaggio idillico (Roma, Gall. Doria-Pamphilj). Per ilmarchese Giustiniani esegue Mosè fa scaturire l’acqua dallaroccia e Rachele nasconde gli idoli di Labano: entrambi oggia Potsdam, Sans-Souci.

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Intorno al 1633 la Madonna di Loreto (Fermo, chiesa di SanRocco) appare prossima al Guercino, con un sorprendentepaesaggio naturalista; il Martirio di santo Stefano (BurghleyHouse, coll. Exeter) e l’Amor vincit omnia (Museo di Cle-veland) sono da collocare all’incirca alla stessa data. La Stra-ge degli innocenti della Gall. Spada di Roma (1635-37 ca.)rappresenta uno dei vertici della sua opera: il soggetto è trat-tato su un registro personalissimo, nel contempo fantasticoe drammatico. I due violenti quadri del Supplizio di Prome-teo e del Supplizio di Issione (1637 ca.: Lucca, coll. priv.) so-no invece debitori diretti di Caravaggio. Agli anni tra il 1640e il 1650 risalgono l’assai caravaggesco Miracolo di san Teo-doro (Lucca, chiesa di San Paolino), la Presentazione dellaVergine dipinta per la chiesa romana di Santa Croce dei Luc-chesi (San Pietroburgo, Ermitage) e la Visione di sant’Ange-lo carmelitano (1645-46: Roma, San Martino ai Monti), vio-lenta e romantica per l’effetto di luce artificiale. All’estre-mo periodo dell’attività di T appartiene probabilmentel’Allegoria di Monaco (ap), di impianto chiaramente poussi-niano. Sono le incisioni, spesso datate, e i magnifici disegni(molti dei quali un tempo attribuiti a Salvator Rosa o a Mo-la) che consentono di precisare la cronologia dell’opera di-pinta di questo artista complesso e sconcertante; alcune suetele dipinte con larghezza di colore cangiante, come Veneree Adone dell’Accademia di Vienna o il Morfeo di PalazzoMazzarosa a Lucca, preannunciano il Settecento. La di-scordanza profonda tra l’intento classico – ben manifestonegli appunti per un Trattato di pittura (tra il 1640 e il 1650),in cui si prefigge di «trattare della maniera ideale», ponen-do al culmine Raffaello e i Carracci – e le sue tendenzeprofonde, espressive e sentimentali, con un gusto costantedella stranezza e la predilezione per i soggetti bizzarri e untrattamento aspro e contratto della materia pittorica, met-tono in luce un temperamento malinconico e irrequieto, tal-volta ritenuto «romantico», ben esemplificato dai suoi di-pinti piú tardi, quali Alessandro Magno salvato dai suoi sol-dati (New York, mma) e la Morte di Didone (Firenze, Uffizi).La sua tragica morte nel 1650, per annegamento nel Teve-re, viene di solito considerata un suicidio, spiegabile conmolte cause dirette: incomprensione dei critici, decorazio-ne interrotta dell’abside di San Martino ai Monti, distru-zione degli affreschi che aveva dipinto intorno al 1642-44

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nella cappella di San Lamberto in Santa Maria dell’Anima,sostituiti piú tardi da altri, di J. Miel. (jpc + sr).

Testelin, Louis, detto il Vecchio(Parigi 1615-55). Allievo di Vouet e membro fondatore del-l’Accademia francese (1648), era intimo amico di Le Brun,con il quale aveva collaborato (Hôtel de Jars). Specializza-tosi in decorazioni a trompe-l’œil che imitavano la cultura,molte delle sue composizioni (in particolare soggetti infan-tili) ci sono note tramite incisione. Uno dei due quadri dimaggio da lui dipinti per Notre-Dame a Parigi, conservatoad Arras (mba: San Pietro resuscita la vedova Tabita, 1652),rivela una certa affinità con l’arte di Le Sueur.Il fratello Henri, detto il Giovane (Parigi 1616 - L’Aja 1695)fu allievo del padre e di Vouet. Fu membro fondatore dell’Ac-cademia nel 1648 e docente nel 1656: all’Accademia, di cuifu segretario dal 1650 al 1681, dedicò le sue migliori ener-gie. Accedendo all’Accademia dipinse, in particolare, due ri-tratti del giovane Luigi XIV (conservati a Versailles). Di luiè noto un grande ritratto di Luigi XIV protettore delle arti(1667: ivi). Nel 1680 pubblicò i Sentiments des plus habilespeintres... mis en tables de préceptes, riassumendo e divulgan-do le idee di Le Brun. Come protestante fu costretto ad espa-triare nel 1681; terminò i suoi giorni nei Paesi Bassi. (as).

Thán, Mór(Obecse 1828 - Trieste 1899). Studiò presso Barabás a Bu-dapest, poi a Vienna (1850), Roma e Parigi (1858-59), Pit-tore dell’esercito rivoluzionario ungherese, realizzò acque-relli, durante la guerra d’indipendenza del 1848-49, che ven-nero distrutti durante la repressione austriaca. Divenutopittore ufficiale dopo il compromesso del 1867, eseguì in-carichi importanti: affreschi del mng e del teatro dell’Ope-ra a Budapest, pale d’altare e composizioni storiche di stileaccademico. Le sue opere migliori (Incontro tra Ladistao IVd’Ungheria e Rodolfo d’Asburgo, 1873; Conquista di Arpád,1899) sono conservate nel mng di Budapest. (dp).

Thaulow, Frits(Christiania 1847 - Volendam 1906). Si forma presso l’Acca-demia di belle arti di Copenhagen tra il 1870 e il 1872, sot-

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to la guida del pittore di marine C. F. Sörensen, e a Karls-ruhe, dal 1873 al 1875, con Hans Gude. Recatosi a Parigi, virimane fino al 1880: da questa esperienza nasce la sua incli-nazione per la pittura en plein air e per l’impressionismo (pae-saggi, vedute urbane). Di questa fase i principali lavori di Tgli sono ispirati dalla città costiera di Kragerö, nella Norve-gia meridionale (1881-82). Nel 1892 tornò in Francia, dovesi specializzò nell’interpretazione idillica di cittadine del Nord(Dieppe, Montreuil, Etaples, Camiers) in tele il cui colore raf-finato gli valse notorietà internazionale. Visitò l’Italia (1885e 1894), gli Stati Uniti (1898), la Spagna (1903) e l’Olanda(1904-906). Tra le sue opere citiamo la Cascata di Haugsfoss(1883: Oslo, ng) e la Madeleine, Parigi (1893: ivi). (lo).

Thausing, Moriz(Tschischkowitz 1838-84). Studiò a Praga e poi a Viennacon Theodor von Sickel e Rudolph von Eitelberger. Dal1864 lavorò all’Albertina, di cui divenne direttore nel 1876;contemporaneamente insegnò all’Accademia di belle arti epoi dal 1873 storia dell’arte all’Università di Vienna. Tra lesue opere: Das natürliche Lautsystem der menschlichen Spra-che (Il sistema fonetico naturale della lingua umana, Leipzig1863); Albrecht Dürer. Geschichte seines Lebens und seinerKunst (AIbrecht Dürer, storia della sua vita e della sua arte,Leipzig 1876, 2ª ed. ampliata 1884) e Wiener Kunstbriefe(Corrispondenze artistiche viennesi, Leipzig 1883); che ri-porta ad introduzione la celebre prolusione con cui iniziòl’insegnamento universitario Die Stellung der Kunstgeschich-te als Wissenschaft (La posizione della storia dell’arte comescienza, 1873). Nel 1883 fu nominato direttore dell’Istitu-to Austriaco di Cultura di Roma. Qui cadde vittima di unamalattia mentale che lo costrinse al ricovero. Morì suicidanell’estate dell’anno successivo mentre trascorreva in patriaun periodo di riposo. T è stato tradizionalmente considera-to uno dei precursori della scuola viennese di storia dell’ar-te e di fatto colui che introdusse il metodo morelliano in que-sto ambiente; in lui si delineano alcuni dei caratteri fonda-mentali della scuola viennese.In particolare si ricorda la sua polemica contro i peintres di-recteurs, ovvero il tradizionale affidamento della direzionedei musei a dilettanti; la netta separazione tra estetica e sto-ria dell’arte, che si condensa nell’asserzione «Non posso im-

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maginare storia dell’arte migliore di quella in cui la parola“bello” non è contemplata» (contenuta nella prolusione del1873 sopra citata), che ritornerà nel motto di Riegl secondocui il miglior storico è colui che non ha predilezioni di gu-sto; l’analisi «formale» e «stilistica» del monumento/docu-mento; l’accentuazione dello specifico contributo dell’ana-lisi storico-artistica alla ricerca storica generale, pertantoconsiderata non coincidente con la storia della cultura nécon l’iconografia come storia illustrata. Anche nel campodella conservazione T tenne un atteggiamento lungimiran-te, schierandosi con anticipo contro snaturanti proposte direstauro del Duomo di Santo Stefano a Vienna. (ss).

Theodoros Apseudes(documentato a Cipro nel 1183). Pittore bizantino, uno deiprimi di cui ci sia rimasto il nome. Nel 1183 fu chiamatodall’asceta cipriota san Neophytos ad affrescare la sua cellacon l’annessa chiesa rupestre, l’Enkleistra, in un territoriosemideserto a settentrione di Paphos; di questo testimoniaun’iscrizione nella stessa cella, che recita: «L’Enkleistra...fu dipinta dalla mano di Theodoros Apseudes», vale a direil «degno di fede», «nell’anno 6691» dalla creazione delmondo, corrispondente al nostro 1183. Della decorazione diTA ci rimangono oggi gli affreschi della cella nonché quellisovrastanti la tomba del santo (di cui degni di nota sono laCrocifissione e la Deisis con San Neofito inginocchiato ai pie-di del Cristo) e gli affreschi del santo bema, in cui l’artistasi è trovato a dover adattare alla forma irregolare dell’edifi-cio rupestre gli schemi decorativi dello spazio absidale nelsistema classico bizantino, giungendo a compromessi comela disposizione in tre strisce sovrapposte dell’Ascensione edella Maria orante insieme con i Santi vescovi officianti. Sul-la parete opposta a quella con l’Ascensione, TA, a soddisfa-cimento della volontà del suo committente, ansioso per ilsuo destino oltremondano, ha rappresentato un tema unicoin tutta l’arte bizantina, quello dello stesso San Neofito fragli arcangeli Michele e Gabriele; soggetto che dimostra la ver-satilità dell’artista bizantino di fronte alla richiesta di unapittura religiosa «personalizzata». Lo stile degli affreschidella cella e del bema dell’Enkleistra non dimostrano affi-nità con la produzione pittorica cipriota del sec. xii; l’ado-

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zione di soluzioni peculiari del momento, quali la resa mol-to sciolta del movimento dei corpi, le ombreggiature elle-nizzanti dei volti e l’inserzione degli svolazzi dinamici deipanneggi, fa pensare a un’origine costantinopolitana di TA.Gli è stato attribuito anche il grande ciclo di affreschi, da-tato 1192, nella chiesa della Panayia Arakiotissa di La-goudera, nella catena dei monti Troodos, in cui l’organiz-zazione «ipotattica» della decorazione (mirante cioè allasubordinazione di tutte le singole figurazioni a quella delPantocrator nella cupola) e lo sviluppo degli elementi stili-stici e compositivi già sperimentati nell’Enkleistra tradisco-no un chiaro aggiornamento sulle tematiche della pittura me-tropolitana contemporanea. (mba).

Theon di Samo(fine del iv - inizio del iii secolo a. C.). È conosciuto solodalle fonti letterarie, e in particolare dalle opere di Quinti-liano, il quale riferisce (Inst., XII, 10, 6) che era celebre perla capacità di esprimere l’intensità dei sentimenti, concepi-re visioni fantastiche, composizioni animate e dai colori vi-vi. Dipinse così, in particolare, una Follia di Oreste e un Opli-ta all’assalto. Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 144) ricor-da che un suo ciclo che descrive come un «Bellum Iliacunipluribus tabulis» (con storie tratte dall’epos greco) era sta-to trasportato a Roma, e forse ispirò alcuni soggetti analo-ghi rinvenuti a Pompei. (mfb).

Theophanes Bathikas il monaco(inizi sec. xvi - 1559), Uno dei piú importanti pittori del-l’epoca post-bizantina; nato a Strelitza nell’isola di Creta neiprimi anni del Cinquecento, segue, per accedere al mestie-re di pittore, la prassi comune della sua epoca, cioè quella diprendere i voti di monaco. Sua prima opera documentata(1527) è la decorazione del katholikòn del monastero diAyios Nikolaos Anapausas alle Meteore (Epiro), dove TBcompie degli esperimenti in direzione del trasferimentoall’affresco di tecniche stilistiche e compositive proprie del-la pittura d’icone di età tardopaleologa (soprattutto mace-done-tessalonicese): tra questi, il tentativo piú riuscito èquello della resa monumentale dell’equilibrio tonale tra lesottolineature bianche di alcune zone del volto e l’incarna-to scuro. Nella sua successiva attività nel katholikòn del La-

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vra del Monte Athos (1535), i contrasti tra luce e ombra ven-gono notevolmente esasperati e si ha l’abbandono del rife-rimento alle tecniche dell’icona. Sempre in questo ciclo ven-gono accolti elementi iconografici e stilistici importatidall’arte occidentale, quali la resa dei capelli e degli atteg-giamenti del corpo ispirata a Raffaello, probabilmente per iltramite delle incisioni di Marcantonio Raimondi, e dall’arteveneziana, soprattutto dai dipinti a soggetto sacro di GiovanniBellini; questi elementi non stonano con l’insieme delle pit-ture, improntate a un elegante, ma austero, stile macedone.Sempre all’Athos TB esegue, insieme col figlio Symeon, la de-corazione ad affresco del katholikòn dello Stavronikita (1546):qui il contrasto tonale bianco/scuro riceve un’ulteriore esa-sperazione, che segna il definitivo prevalere dei toni scuri.Alcuni studiosi gli attribuiscono anche la decorazione dellaTrapeza del Gran Lavra, ancora all’Athos, attribuibile aglianni 1527-35, che segnerebbe il punto di passaggio tra la ri-presa delle tecniche dell’icona in scala monumentale e unacrescente accentuazione del contrasto tonale.Quello che TB propone è un rinnovato metro stilistico, cheraffredda l’eleganza delle pose e delle vesti e la ricchezza de-gli sfondi immergendo la figurazione in una superficie cro-matica dai toni forti ma estremamente austeri. La manieradel maestro cretese s’impone nella successiva produzione inMacedonia, in Tessaglia e alle Meteore: tra i maestri mag-giormente indebitati con TB troviamo il suo primogenitoNeophytos il monaco, Phrangos Katelanos e il contempora-neo Zorzis da Creta, che dànno una versione stilizzata e for-mulare dei contrasti tonali del maestro, talora esaltando i to-ni bianchi e chiari, e dando vita così a figurazioni caratte-rizzate da una forte austerità e schematicità. (mba).

Theotokopulos, Domenikos → El Greco

Therbusch-Liesiewska, Anna Dorothea(Berlino 1721-82). Fu allieva del padre Georg Liesiewski edipinse, soprattutto dopo il 1760, in uno stile spesso vicinoa quello di Pesne e Watteau, che peraltro copiò. In auge pres-so le corti principesche, nel 1761 decorò la galleria degli spec-chi nel castello di Stoccarda, e per la corte di Carlo Eugenioeseguì numerosi ritratti, genere in cui si specializzò. Attiva

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a Mannheim e a Berlino, dal 1765 al 1767 soggiornò in Fran-cia, divenendo membro dell’Accademia (il Bevitore, 1767:Parigi, enba), firmandosi «peintre du Roy de France». L’an-no successivo al suo ritorno da Parigi venne accolta nell’Ac-cademia di Vienna; nel 1771 e 1772, Federico il Grande lecommissionò alcuni ritratti e cicli decorativi (castelli di Pot-sdam e di Sans-Souci). Spesso di carattere borghese e reali-sta, i ritratti da lei dipinti sono conservati a Versailles e invari musei tedeschi (Dresda, Berlino, Mannheim, castello diSchleissheim a Monaco) T ha realizzato inoltre numerosi au-toritratti. (jpm).

Thévenet, Louis(Bruges 1874 - Halle 1930). Autodidatta, operò successiva-mente a Nieuport (1895-1902), a Bruxelles (1902-14: il suoperiodo piú felice), e ad Halle, ove terminò i suoi giorni inmiseria. Dal 1903 espose a Bruxelles, al circolo artistico LeLabeur e alla Libre Esthétique; ma, estraneo alle correnti in-novatrici del suo tempo, si dedicò a vedute d’interni e allanatura morta. Il valore di queste opere sta nel loro realismoingenuo, nella franchezza della fattura e del colore, nell’eco-nomia compositiva; il loro spirito è talora vicino a quello naïf(Uova sul piatto, 1911: Bruxelles, coll. van Healen; Casset-tone aperto, 1918: Bruxelles, coll. priv.). (mas).

Thiebaud, Wayne(Mesa (Arizona) 1920). Studia alla scuola pubblica e conse-gue il Bachelor e il Master of Arts al Sacramento State Col-lege. Dal 1938 lavora come pubblicitario, illustratore e de-signer. Nel ’50 inizia la sua attività di insegnante e si inte-ressa di didattica, produttore tra l’altro di cinematografiadidattica dal ’53 al ’55. Risale al 1951 la sua prima perso-nale alla Gall. Cocker-Art, nella sua città natale. È tra i fon-datori della Gall. Co-Op Artist, a Sacramento, dove esponenel ’57, e nel ’58. Dal ’62 incomincia ad esporre alla Gall.Allan Stone di New York, sua principale galleria di riferi-mento che gli dedica numerose personali e che nel ’65 col-labora all’organizzazione della mostra alla Gall. Schwarz diMilano. Nel 1967, T figura tra gli artisti che partecipanoall’importante rassegna Mixed Media and Pop Art alla Gall.Albright-Knox, a Buffalo. La sua arte, legata alla formazio-ne di grafico, si fonda sulla trasformazione e sulla manipo-

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lazione ironica e polemica del tema classico della natura mor-ta. T dipinge nature morte dei soggetti piú banali: macchinedistributrici di gomma da masticare, panini, coni gelato, etorte (Pie Rows, 1961: San Francisco, Gall. Campbell Thie-baud; Sandwich Group, 1961: ivi; Fruit stand, 1963: NewYork, Gall. Allan Storie) che richiamano ironicamente l’at-tenzione sul culto della civiltà del consumo. Collegata allaPop Art e alla scuola newyorkese e californiana, l’arte di Tappare come nuova sintesi tra figurazione e astrazione.Numerose sono le personali che gli dedicano i musei statu-nitensi, tra queste, le mostre al Phoenix am (Arizona) nel’76 e, nell’81, al San Francisco Museum of Modern Art. Sueopere figurano nelle collezioni del moma, del mma e delWhitney Museum, di New York, del Museo di Philadelphiae del mam di San Francisco. (gib).

Thiele, Alexander(Erfurt 1685 - Dresda 1752). Fu allievo di Franz de PaulaFerg, pittore di corte ad Arnstadt dal 1728 al 1738. Si sta-bilì a Dresda con il figlio Johann Friedrich Alexander (Dre-sda 1747-1803); entrambi furono pittori di paesaggio e in-cisori. Alexander è rappresentato nei musei di Dresda, Er-furt, Gottingen, Amburgo e a Monaco (np). Il figlio, apartire dagli anni 1770-75, si dedicò soprattutto all’incisio-ne, riproducendo quadri del padre e piú raramente compo-sizioni proprie. Una serie pressoché completa dei suoi dise-gni e incisioni è conservata nel Gabinetto delle stampe diDresda. (gmb).

Thielen, Jean-Philippe van(Malines 1618-67). Fu allievo ad Anversa prima di Théodo-re Rombouts, poi di Daniel Seghers, da cui fu notevolmen-te influenzato. Nel 1641-42 fu accolto come maestro; nel1660 si iscrisse alla corporazione dei pittori di Malines. Lesue opere firmate o documentate sono una quarantina (mu-sei di Amsterdam, Anversa, Bruxelles, Lisbona, Madrid, Mi-lano, Vienna), tra cui venticinque Ghirlande, datate dal 1645al 1667. Pur non possedendo l’eleganza delle opere di Se-ghers, nell’esecuzione appaiono piú vigorose, come nellaGhirlanda con la Vergine e il Bambino (1648: Vienna, km) ola Ghirlanda con Cristo (1650: Bruxelles, mrba). Si cono-

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scono anche una dozzina di Mazzi di fiori (musei di Lille, Di-gione, Oxford), alcuni nello stile di Seghers, altri piú esu-beranti, altri ancora di semplicissima composizione. (jl).

Thieler, Fred(Königsberg 1916). Dopo studi di medicina, ha frequentatol’Accademia di Monaco sotto la guida di Carl Gaspar, asso-ciandosi a Zen 49, perfezionandosi nel 1951-53 nello studiodi Hayter a Parigi. Ha abbandonato per l’informale, attor-no al 1950, un espressionismo derivante dalla scuola di CarlGaspar. Insegna dal 1959 all’Accademia di Berlino; nel 1987ottiene il premio Lovis Corinth a Regensburg. Vive e operatra Berlino e Radegast.Le sue composizioni policrome e dinamiche degli anni Cin-quanta rendono conto del suo interesse per la vita della ma-teria e dell’energia. La forma nasce dal movimento, con-trapposto, in quanto fenomeno fisico, al gesto soggettivo:analogamente ricorrono nella sua pittura le ricerche sulla re-sa di fenomeni naturali o indotti (atmosferici, elettrici, sul-la rifrazione cristallina: ricorrente il tema dell’esplosione).Tra i poli costituiti dal bianco e dal nero, da valori chiari evalori scuri che delimitano il campo d’azione, vari gradi dirapidità esecutiva si concretizzano mediante la rifrazione ditonalità dominanti (che raramente sono piú di due). T assu-me spesso come spunto il tema dell’esplosione, e la densitàformale varia a seconda che si tratti di suggerire l’elettricità,la rifrazione cristallina della luce, il metallo che vola in pez-zi oppure la progressione delle nuvole e le precipitazioni at-mosferiche. All’inizio degli anni Sessanta, l’artista passa dal-le incrostazioni a rilievo all’integrazione di collages. Neglianni Ottanta è una serie di dipinti su tela di vela ove colorivelati o compatti rincorrono armonici ma dinamici equilibri.Ha preso parte alle mostre dell’Organizzazione degli artistitedeschi (Künstlerbund) alle manifestazioni di Kassel e di SanPaolo. Ha esposto a Berlino, Wiesbaden, Monaco (1963-64),Bonn (1968) e alla retrospettiva su Zen 49 organizzata dalCentre d’art contemporaine Saint-Priest di Troyes nel 1989.(hm).

Thieme, Ulrich e Becker, FelixAutori dell’Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler vonder Antike bis zur Gegenwart (Dizionario generale degli arti-

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sti dall’antichità all’epoca presente, Leipzig 1907-50, 37voll.) di gran lunga l’opera piú importante di questo tipo, etuttora strumento indispensabile di ogni storico dell’arte. Levoci, in generale redatte dai migliori specialisti tedeschi diciascun argomento, contengono elenchi di opere e notiziebibliografiche assai estese che ne fanno una fonte d’infor-mazione senza pari soprattutto per quanto riguarda artistipoco noti o poco studiati.Il dizionario venne intrapreso nel 1898 da T (1875-1922) edalla casa editrice Wilhelm Engelmann di Lipsia dopo chela morte aveva posto termine, nel 1888, al troppo ambizio-so progetto di Julius Meyer e del medesimo editore (il terzoe ultimo volume di J. Meyer, apparso nel 1885 dopo dicias-sette anni di lavoro, riguardava le voci B-Bezzuoli). Felix B,principale collaboratore di T durante il lavoro preparatorio,si ritirò nel 1910 per motivi di salute. Alla morte di T la di-rezione venne assunta da Hans Vollmer. Nel frattempo l’im-presa, a partire dal vol. V (1911), era passata alla casa editri-ce E. A. Seemann, anch’essa di Lipsia, che riuscì a portarla atermine malgrado le due guerre e la grande crisi del 1929.Al dizionario di T e B fa seguito l’Allgemeines Lexikon derbildenden Künstler des 20. Jahrhunderts (Dizionario generaledegli artisti del xx secolo) di H. Vollmer, pubblicato an-ch’esso da E. A. Seemann a Lipsia (1953-62, 6 voll.), con-cepito e diretto secondo i medesimi principî.La casa editrice E. A. Seemann ha intrapreso da una quin-dicina d’anni una edizione completamente nuova di ambe-due le opere, progettata in ottanta volumi e comprendenteanche una parallela edizione computerizzata in grado di es-sere aggiornata in ogni momento e già disponibile alla con-sultazione (benché appena delineata) presso la sede edito-riale a Lipsia. Sino al 1993 sono apparsi cinque volumi. (pv+ sr).

Thiéry, Luc-Vincent(sec. xviii). Pubblicò dal 1783 un Almanach du voyageur àParis, che, ampliato di edizione in edizione, nel 1787 divenneGuide des amateurs et des étrangers voyageurs à Paris; vi si ag-giunse nel 1788 Guide... dans les maisons royales, châteaux,lieux de plaisance, établissements publics, villages et séjours lesplus renommés aux environs de Paris. L’autore, che si qualifi-

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ca «amatore d’arte», fornisce qui una preziosa descrizionedella città e della periferia, fatta sulla base di una ricerca mi-nuziosa di informazioni presso architetti, curati, superioridi istituti religiosi, collezionisti, le Accademie, la Bibliote-ca reale e l’Università. Sviluppando i dati forniti dai suoipredecessori, soprattutto Argenville e Jaillot, s’interessò inparticolare dei monumenti piú recenti, soffermandosi a lun-go sugli inventari dei gabinetti di curiosità e delle gallerie diquadri, per le quali le sue notizie sono spesso insostituibili.Rieditò l’intera sua opera nel 1796 col titolo Paris tel qu’ilétait avant la Révolution. Nel 1928 la sua guida fu dotata diuna tavola analitica redatta da Marc Furcy-Raynaud e pub-blicata da J.-J. Marquet de Vasselot. (jpb).

Thiéry, Thomy(isola di San Maurizio 1823 - Parigi 1902), Ricco proprieta-rio di piantagioni di canna da zucchero nell’isola di San Mau-rizio, si stabilì a Parigi nel 1876; tra il 1880 e il 1895 costi-tuì una collezione che legò al Louvre (ora al mo). Oltre a 146bronzi di Barye, comprendeva 121 dipinti francesi dellametà del sec. xix, in particolare paesaggi e pittura di gene-re. Della raccolta si citano dodici Corot (Strada per Sèvres,1860 ca.; Strada di Sin-le-Noble, 1873), altrettanti Dupré (leLandes; l’Abbeveratoio e la grande quercia; Tramonto su unapalude), dieci Théodore Rousseau (la Primavera, 1852; Grup-po di querce ad Apremont, 1852), tredici Daubigny (la Van-ne d’Optevoz, 1859), undici Troyon (Veduta dalle colline diSuresnes, 1856), sei Millet (i Mietitori, 1850; lo Spulatore, pic-cola replica del quadro distrutto del Salon del 1848), di-ciassette Decamps (l’Arrotino, 1840 ca.; i Campanari, 1841;la Scimmia pittrice) e undici Delacroix (Leone che divora unconiglio, 1856; il Ratto di Rebecca, 1858; Medea, 1862: re-plica del quadro di Lille, mba). (ic).

Thiry, Léonard(Bavay? 1500? - Anversa? 1550?). Forse identificabile conLeonaert Terey, citato nel 1533 ad Anversa nella Confra-ternita di San Luca, è menzionato a Fontainebleau con Ros-so Fiorentino per la la decorazione della Galleria FrancescoI (1536), poi tra il 1538 e il 1550 con Primaticcio per i la-vori alla Porta Dorata. Tornato ad Anversa, dove avrebbeintrodotto le novità della pittura di Fontainebleau, vi sa-

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rebbe morto nel 1550. Fu autore della Leggenda di Giasonee del Vello d’oro (1536), incisa da R. Boyvin (1563: disegnia Leida, Gabinetto dei disegni dell’Università, e a Parigi,enba). J. Androuet Du Cerceau incise, dall’artista, Rovineantiche (1550) e il Maestro L.D. (col quale lo si è talvolta, atorto, confuso) ha inciso in base ai suoi lavori una serie discene mitologiche inserite in ampi paesaggi (leggende di Pro-serpina e di Callisto), i cui soggetti rammentano la decora-zione (perduta) della camera del re a Fontainebleau: tutta-via, il fatto che T non sia menzionato nei conti a propositodi quest’opera ne rende assai improbabile la collaborazione.T realizzò motivi cui si ispirarono smaltatori (Pierre Ray-mond), e fornì progetti di vetrate (Parigi, enba). Nonostan-te si ispirasse evidentemente a Rosso Fiorentino, dimostranel paesaggio vera originalità. (sb).

Thode, Henry(Dresda 1857 - Copenbagen 1920). Direttore dell’IstitutoStaedel di Francoforte sul Meno, tra 1889 e 1891 regge la cat-tedra di storia dell’arte all’Università di Heidelberg dal 1904al 1911. Grande studioso dell’arte italiana, compie molti viag-gi nel paese ed è autore di numerosi saggi, tra cui monografiesu Mantegna (1897), Correggio (1898), Giotto (1899), Franzvon Assisi und der Anfang der Kunst der Renaissance in Italien(Berlin 1885, 1904: trad. it. Roma 1993), Michelangelo unddas Ende der Renaissance (Berlin 1902, 1903, 1912). L’unicosaggio dedicato alla pittura tedesca è Die Malerschule vonNürnberg (Frankfurt am Main 1891), in cui T illustra le ope-re di Dürer e del suo maestro M. Wolgemut. (ldm).

Thoma, Hans(Bernau (Foresta Nera) 1839 - Karlsruhe 1924). Autodidat-ta, nel 1859 entrò all’Accademia di Karlsruhe, subendo al-lora l’influsso di J. W. Schirmer e di Hans Canon. Nel 1866si recò a Düsseldorf; nella primavera del 1868 soggiornò bre-vemente con Otto Scholderer a Parigi, dove ebbe modo diconoscere l’opera di Courbet e della scuola di Barbizon (Alsole: Karlsruhe, Museo; le Nozze: ivi). Operò poi, fino al1870, a Bernau, poi a Monaco, legandosi a Scholderer, Vic-tor Müller, Leibl, Haider, Trübner e Böcklin. Durante unviaggio in Italia (1874), conobbe Hildebrand e de Marées.

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A partire dal 1876 operò a Francoforte, soggiornando nel1880 a Roma ed effettuando in seguito parecchi viaggi inItalia (nel 1887 visita Hildebrand a Firenze; nel 1892 è aVenezia, mentre nel 1897 percorre l’Italia). Nel 1899 ven-ne nominato direttore della kh di Karlsruhe e professorenell’Accademia. Nel 1909 venne inaugurato a Karlsruhe, inoccasione del suo settantesimo anno, un museo a lui dedi-cato. In quello stesso anno diede alle stampe Im Herbst desLebens e, due anni dopo, Im Winter des Lebens. Poco primadella sua morte (1924) gli viene dedicata a Basilea e a Zuri-go una grande retrospettiva.T fu tra i pittori piú importanti della fine del sec. xix in Ger-mania, autore di affreschi, quadri a olio, acquerelli, litogra-fie, incisioni e disegni. Suoi temi preferiti sono, oltre ai pae-saggi, il ritratto (numerosi gli autoritratti), e le scene di vitapopolare. Nella sua arte d’ispirazione realista, il suo sensoprofondo della natura si traduce in forme sicure e solide, incomposizioni semplici e fortemente equilibrate (le Cucitrici,1868: Essen, Museum Folkwang; la Serata: ivi). Seppe assi-milare, con stile assai personale, i molteplici influssi che su dilui esercitarono gli amici, Böcklin, Leibl e Marées. La saldez-za del disegno e un marcato senso plastico determinano l’ef-fetto monumentale prodotto dalle sue opere, che si accentuacon l’influenza simbolista (Suonatore di liuto, 1895: Zurigo,kh). Il Museo di Karlsruhe conserva l’insieme piú ricco di ope-re di T, che è ben rappresentato anche nei musei di Monaco(Neue sg), Berlino (ng), Basilea, Bonn, Brema (kh), Dresda(gg), Mannheim, Stoccarda (sg), Amburgo (kh). (hbs).

Thomas, Jan(Ypres 1617 - Vienna 1678). Divenne libero maestro ad An-versa nel 1639, dove rimane fino al 1654. Si recò poi allacorte di Magonza, quindi a Francoforte. Infine si stabilì aVienna nel 1661. Le sue opere datate vanno dal 1645 al 1677(il Baccanale: Vienna, km; i quadri di storia: musei di Yprese di Kendenich presso Colonia) s’ispirano direttamenteall’opera di Rubens, di cui T fu forse allievo. (php).

ThomassinPhilippe (Troyes 1562 - Roma 1622). Stabilitosi a Roma nel1585, eseguì alcune incisioni sotto l’influenza di Raffaello,Salviati, Barocci e realizzò, in cinquantadue stampe, una se-

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rie della Vita di san Benedetto. Durante il suo soggiorno ro-mano fu anche maestro di Callot e di Claude Deruet.Suo nipote Simon (Troyes 1655 ca. - Parigi 1733) frequentòl’Accademia romana dal 1676 al 168o. A Parigi eseguì alcu-ne incisioni al bulino riproducenti dipinti antichi o a lui coe-vi (L. de Boullogne, Hallé) con uno stile un po’ scabro, mavigoroso. Inoltre realizzò un’importante serie di stampe in-titolata La raccolta di figure... così come si vedono al presentenel castello e nel giardino di Versailles (1694).Suo figlio, Simon-Henri (Parigi 1687-1741), incisore di cor-te, fu ammesso all’Accademia nel 1728. Collaborò alla Rac-colta Crozat, portò a termine a bulino le Figure di moda diWatteau (acquaforti) e si dedicò, in modo particolare, alleriproduzioni di opere di artisti: il Magnificat di Jouvenet,Enea e Didone di Coypel, Coriolano di La Fosse, Peste a Mar-siglia (1727) di J. F. de Troy. (as + cc).

Thomson, Tom(Claremont (Ontario) 1877 - lago Canoe (Ontario) 1917).Disegnatore e pittore autodidatta, incontra nel 1908 J. E.H. MacDonald e si lega ai principali artisti di Toronto chenel 1920 formeranno il gruppo dei Sette. Influenzatodall’Art Nouveau e dal post-impressionismo, dipinge conuna tavolozza molto ricca i paesaggi del parco Algonquin edei suoi dintorni. Il quadro Il pino nero (1916-17: Ottawa,ng) è emblematico dei risultati a cui è pervenuta la sua per-sonalissima arte troncata nel suo sviluppo da una morte pre-coce (il Vento dell’Ovest, 1916: Toronto, ag of Ontario; leGole di Petawawa). (jro).

Thöny, Wilhelm(Graz 1888 - New York 1949). Nel 1907 si recò a Monaco perstudiarvi pittura sotto la guida di G. von Hackl e di A. Jank.Mobilitato dal 1914 al 1918, dopo la guerra risiedette in Sviz-zera, tornando nel 1923 a Graz dove fondò la Secessione. Col-laborò come disegnatore allo «Jugend» di Monaco e allo «Quer-schnitt» di Berlino. Trasferitosi dal 1931 a Parigi, nel 1933 vi-sitò gli Stati Uniti, dove si stabilì dal 1938. Nel 1948 l’incendiodi un deposito distrusse quasi un migliaio di sue opere.Sensibile all’arte di Kubin, Kokoschka, Bonnard e Dufy, Tha sempre cercato di rendere la drammaticità del vivere uma-

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no, mostrandosi in questo affine a Daumier, Grosz, Lautrec,Hofer o Beckmann. Dipinse soprattutto a olio, realizzandotele dai toni cupi. Durante i soggiorni a Parigi (1931-38) ea New York (1938-49) si volse al paesaggio, realizzando so-prattutto panorami urbani: in questo periodo schiarì la suatavolozza, ricorrendo talvolta al puntinismo, a dominanteazzurra e praticando l’acquerello. La ricerca prospettica chesvolge un ruolo decisivo nei dipinti parigini dell’artista, èmessa da parte negli acquerelli newyorkesi, nei quali sembrache i grattacieli abbiano due sole dimensioni e l’architettu-ra si dissolva in finestre.Il ciclo dei disegni dedicati a Beethoven (1924) e le trentasanguigne (1932-37) che illustrano La rivoluzione francese diCarlyle si collocano tra i migliori esiti della grafica di T. Ladissoluzione delle forme nei disegni e negli acquerelli rag-giunge talora il limite dell’astrattismo, mentre il loro im-pianto fa pensare a Cézanne. (jmu).

Thoré-Bürger (Etienne Joseph Théophile Thoré, detto)(La Flèche 1807 - Parigi 1869). Dopo studi di diritto, fumembro del foro di Parigi; venne nominato sostituto pro-curatore a La Flèche, ma presto preferì tentare la strada delgiornalismo a Parigi. Socialista umanitario come GeorgeSand, nutrito delle dottrine saint-simoniane, si entusiasmòper le «tre gloriose giornate» del luglio 1830, ma, deluso dal-la monarchia di luglio, divenne polemista repubblicano.Amico di Delacroix, di Ary Scheffer, di Decamps e di Théo-dore Rousseau, pubblicò articoli di critica d’arte; dal 1833al 1838, su «le Réformateur», difese l’arte romantica di im-pegno sociale; poi collaborò a «l’Artiste» e alla «Revue deParis», recensendovi, dal 1844, i salons e informando il pub-blico francese dei principali eventi artistici sulle pagine de«le Constitutionnel» e «le Siècle». Partecipò alla rivoluzio-ne del 1848, rifiutò la carica di direttore delle belle arti, ma,implicato nell’insurrezione del 15 maggio 1849, fu condan-nato a morte in contumacia e fuggì in esilio. Stabilitosi aBruxelles rinunciò alla politica e pubblicò, con lo pseudoni-mo di William Bürger, in Francia e all’estero, numerosi stu-di artistici. Nel 1857 visitò e commentò ampiamente l’im-portante mostra che raccoglieva a Manchester i principalicapolavori delle raccolte inglesi, pubbliche e private (Trésorsd’art exposés à Manchester en 1857). Nello stesso anno, in

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Nouvelles Tendances de l’art, espresse un apprezzamento peril realismo, senza peraltro poter aderire totalmente alle teo-rie di Courbet: T-B restava, come in gioventú, un socialistaidealista.Avendo compiuto numerosi viaggi nei Paesi Bassi duranteil suo esilio, tornato a Parigi dopo l’amnistia del 1859 re-dasse i primi cataloghi approfonditi dei musei da lui visita-ti (Musées d’Amsterdam e de La Haye, 1858; Musée van derHoop, à Amsterdam et musée de Rotterdam, 1860; Musée d’An-vers, 1862), e in particolare si dedicò allo studio di Vermeersul quale pubblicò nel 1866, sulla «Gazette des beaux-arts»,Notices sur van der Meer de Delft, breve sintesi che resta labase dei successivi studi sul pittore. (tb).

Thorma, János(Hollós 1870 - Nagybánya 1937). Allievo di Hollósy a Mo-naco, frequentò a Parigi l’Académie Julian; tornò da Holló-sy nel 1896. I Martiri di Arad (1896: Budapest, mng) segna-no il trapasso dall’accademismo degli esordi allo stile diNagybánya (Tra i cocchieri, 1901: ivi). Tuttavia, nella suapittura le tendenze di questa scuola penetrarono solo tardi-vamente. Rimasto solo a Nagybánya, T ne proseguì la tra-dizione con paesaggi felicemente sorprendenti, di atmosfe-ra primaverile. (dp).

Thornhill, James(Dorset 1675-1734). Apparteneva a un’antica famiglia delDorset; fece apprendistato presso Thomas Highmore dal1689 al 1697. Operò verosimilmente per Verrio ad Hamp-ton Court dal 1702 al 1704 e, attorno al 1706-707 dipinse laCamera delle Sabine a Chatsworth, orientandosi da questomomento verso una carriera di decoratore. Gli fu affidata,come primo incarico importante, la decorazione dell’anticorefettorio del Greenwich Hospital, cui lavorò dal 1708 al1727. Fu tra i primi a ispirarsi ad avvenimenti di storia con-temporanea (lo Sbarco di Guglielmo III in Inghilterra, dando-ne una versione drammatica alla stregua della grande pittu-ra di storia. Il suo quaderno di schizzi (pubblicato a Utrechtnel 1975; gli originali appartengono a una collezione priva-ta) che tracciò nel 1711 durante un viaggio nei Paesi Bassie in Belgio, ne attesta l’interesse per l’architettura: uno de-

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gli aspetti migliori del suo talento sta negli effetti di pro-spettiva architettonica. Nel 1715 decorò gli appartamentidel principe ad Hampton Court, nonché la cappella dell’AllSoul’s College a Oxford. Nello stesso anno fu incaricato didipingere la cupola di Wren in san Paolo, compito che portòa termine nel 1719 (Vita di san Paolo; schizzi nel St. Paul’sCathedral Museum). Succedette a Kneller nel 1716 alla te-sta dell’Accademia, fondata nel 1711; nel 1718 fu nomina-to pittore di storia del re e divenne nel 1720 Sergeant Pain-ter; nel contempo veniva fatto cavaliere. Nel 1723 la sceltadi William Kent per la decorazione del palazzo di Kensing-ton segnò una svolta nella sua carriera e T dedicò gli ultimianni a copiare i cartoni di Raffaello ad Hampton Court.Successore di Verrio e soprattutto di Laguerre, che aveva-no introdotto in Inghilterra la decorazione barocca, T seguìil loro esempio e quello di Pellegrini (a Londra nel 1708), diMarco (a Londra dal 1708 al 1716) e Sebastiano Ricci (a Lon-dra dal 1712 al 1716). Miglior colorista dei suoi predeces-sori, è però spesso debole, e un tantino molle nell’esecuzio-ne. Ha lasciato numerosi disegni (Londra, bm, Courtauld In-stitutes (Witt Coll.), vam; Cambridge, Fitzwilliam Museum;Bedford, Cecil Higgins Museum; Oxford, Ashmolean Mu-seum, All Soul’s College, Worcester College; Chicago, ArtInstitute; Amburgo, kh) e schizzi a olio (Londra, Soane’sMuseum, vam; Greenwich, nmm; Oxford, Ashmolean Mu-seum) che al contrario s’impongono per vivacità ed elegan-za compositiva. La vendita della sua collezione e dei suoi la-vori ebbe luogo il 24-28 febbraio 1735; oltre agli schizzi edisegni di sua mano, vi comparivano opere di Laguerre, Ver-rio, Sebastiano Ricci, Rubens, e soprattutto un Poussin digrande qualità, Tancredi ed Erminia (Birmingham, bifa), dalui acquistato nel 1717 durante un breve soggiorno a Pari-gi. Sua figlia Jane sposò William Hogarth. (jns).

Thorn-Prikker, Johan(L’Aia 1868 - Colonia 1932). Allievo dell’Accademia del-l’Aja dal 1883 al 1887, fu anzitutto influenzato dal suo com-patriota Breitner e dal pointillisme. In rapporto con l’am-biente simbolista belga, espose tra i Venti a Bruxelles e sisegnalò presto per uno stile assai spoglio, morbido e corsi-vo, confinante con l’astrattismo (la Madonna dei tulipani,1892: Otterlo, Kröller-Müller; la Sposa, 1893: ivi). Entrato

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in contatto con Henry van de Velde, che lo incitò a dedi-carsi alle tecniche decorative, nel 1897 T-P realizzò il suoprimo batik. Nella corrispondenza con Henri Borel (dal 1892al 1896) precisò la sua poetica: fissare l’essenza dei fenome-ni e non l’impressione che provocano. Dopo il declino delsimbolismo, subì per poco tempo l’influsso di van Gogh(Strada di Dahlem, 1904 ca., gesso a cera su carta: L’Aja, gm).Il suo talento, portato alla stilizzazione monumentale diedei propri frutti quando l’artista intraprese, come van de Vel-de, una carriera di decoratore e d’insegnante in Germania,a Krefeld (1904-910), ad Hagen (1910-19), a Monaco, a Düs-seldorf e infine a Colonia, dove si stabilì nel 1926. Gli si de-vono vetrate per la stazione di Hagen (1910), per San Gior-gio a Colonia e per la chiesa della Resurrezione a Essen(1930), nonché mosaici per il palazzo delle esposizioni diDüsseldorf (il Giorno e la Notte, 1926). (mas).

Thovez, Enrico(Torino 1869-1925). Letterato di vasta cultura, fu criticod’arte e di letteratura, poeta e pittore. Severamente auto-critico, limita a pochissimi saggi la sua produzione pittorica:sono conservati alla gam di Torino, oltre a un Autoritratto eal Ritratto dell’ing. Andrea Torasso (1916), il sensibilissimoRitratto della madre presso la finestra (1897). All’Esposizioneinternazionale di Venezia del 1901 presenta Palpiti di pri-mavera. Piú nota e di ampia risonanza è la sua attività di cri-tico d’arte, svolta sui maggiori quotidiani dell’epoca (riuni-ta nelle raccolte antologiche Il Vangelo della pittura, 1921 eIl filo d’Arianna, 1924). Partendo dall’idea che l’arte deveessere mimesi della natura e sintesi di reale e di «poesia», Tinserisce in parametri critici di matrice positivista una vispolemica nata da una lettura delle opere istintuale e talvol-ta contradditoria. Riguardo all’arte moderna, i suoi stralicolpiscono i realisti francesi e gli impressionisti, e in parti-colare Courbet e Renoir, e ancora Cézanne e van Gogh; a lo-ro predilige Böcklin e i preraffaelliti, non tanto Burne-Jonese Rossetti, secondo T rappresentanti di un simbolismo este-tizzante, estenuato e stereotipo, ma quelli della prima ora,come Holman Hunt. Fervido sostenitore fin dal 1889 delnuovo stile «decorativo», al quale riconosce quella funzio-ne sociale teorizzata da Crane e Morris, T fonda insieme a

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L. Bistolfi, D. Calandra, G. Ceragioli e A. Reycend il men-sile «L’arte decorativa moderna» (1902-907), lo stesso an-no della Esposizione internazionale di Torino. Fondamen-tale per il pensiero critico di T è anche la cultura tedesca(Nietzsche, Goethe, Wagner), il cui influsso si mostra rile-vante nell’ammirazione dell’ideale classico ellenico che, in-sieme al naturalismo, è a fondamento della lettura di Tdell’arte antica; tra i precursori del realismo, T ammira inol-tre profondamente l’arte dei fratelli van Eyck, di Caravaggioe del Seicento olandese e italiano. Spesso in dissenso con Lio-nello Venturi e Matteo Marangoni, i suoi interventi giornali-stici sono raccolti in Mimi dei moderni (1919), L’arco d’Ulisse(1921), Il viandante e la sua orma (1923) e La ruota d’Issione(1925). T ricopre dal 1913 al 1921 la carica di direttore del-la gam di Torino: sono questi gli anni in cui entrano nel mu-seo sculture di Medardo Rosso. (eca).

Thulden, Theodoor van(Bois-le-Duc (’s-Hertogenbosch) 1606-69). Apparteneva auna famiglia cattolica e borghese di Oirschot presso Bois-le-Duc. Apprendista di un certo Abraham van Blyenberch(1621-22), nel 1626 venne iscritto come maestro ad Anver-sa. Si formò forse presso Rubens, dal cui stile era già forte-mente influenzato quando dipinse a Parigi dal 1632 al 1634,per i Trinitari, le Scene della vita di san Giovanni di Matha(perdute). Sempre a Parigi, pubblicò due raccolte di incisio-ni dagli affreschi di Primaticcio a Fontainebleau. Tornatoad Anversa, lavorò con Rubens nella decorazione cittadinaper l’ingresso del cardinal-infante (1635), di cui eseguì an-che incisioni; poi a quella della Torre de la Parada (1636).Colpito da dissesti familiari ed economici, abbandonò An-versa nel 1643 per stabilirsi a Oirschot, poi a Bois-le-Duc,dove restò fino alla morte nel 1669. Qui realizzò, tra il 1648e il 1651, le sue grandi composizioni per la Huis ten Boschall’Aja, nonché, nel 1656, i cartoni delle vetrate per la Cat-tedrale di Santa Gudula a Bruxelles. Sono noti solo tre ri-tratti, nei musei di Bruxelles e di Tournai. Dipinse alcunetele religiose (Cristo alla colonna: ivi; le Province fiammin-ghe onorano la Vergine, 1654: Vienna, km) e diverse allego-rie e scene mitologiche (Perseo libera Andromeda, 1664:Nancy, mba; La Musica e l’Amore: Bruxelles, mrba, dovetenta, con qualche impaccio, di imitare van Dyck), una qua-

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rantina delle quali firmate e datate. In generale si mostrafedele a Rubens, senza possederne la forza, tendendo sem-pre al classicismo. Come disegnatore, dimostra di esser at-tratto soprattutto dal manierismo della prima scuola di Fon-tainebleau. (hl).

Thutmosi III, tomba diDegli ipogei identificati nella tebana Valle dei Re, la tombadi T III (1479-1425 a. C.) fu, in ordine di tempo, la terzaad essere scavata. Il potente re della XVIII dinastia scelseper la sua sepoltura un sito appartato, in fondo a un anfrat-to della montagna e a circa dieci metri d’altezza da terra.Benché la decorazione delle pareti (nella XVIII dinastia con-centrata sui punti focali della tomba: camera del sarcofago,anticamera e pozzo) fosse già stata introdotta con Thutmo-si I, le circostanze della conservazione, nella Valle partico-larmente minacciata dalle infiltrazioni d’acqua, fanno del-l’ipogeo di T il piú antico ad aver serbato le pitture della suadecorazione murale.Insieme alle tombe di Thutmosi I (1504-1492 a. C.) e di Hat-scepsut (1473-1458 a. C.), conserva ancora la pianta ad as-se incurvato, eredità del tardo Medio Regno: due corridoiin ripido pendio, interrotti da una piccola camera priva didecorazioni, portano a un pozzo profondo, superabile at-traverso un ponte, che conserva ancora tracce della decora-zione; da questo punto, l’asse della pianta vira ad angolo qua-si retto verso due camere, ambedue ricoperte di pitture a ca-rattere religioso, tratte dal libro dell’Amduat (Libro di Coluiche è nell’Aldilà). I soffitti delle due sale sono dipinti a imi-tazione del cielo stellato, con stelle gialle su fondo azzurro.Sulle pareti della prima ampia sala, a pianta rettangolare, siriconosce il catalogo delle 740 divinità dell’Amduat. Attra-verso una scala si raggiunge la sala del sarcofago, la cui pian-ta ovale riproduce la forma magicamente protettiva del car-tiglio, l’anello che rinchiudeva il nome del re. Sulle sue pa-reti si dipanano le lunghe teorie di esseri divini e barche cheaccompagnano il viaggio del dio solare nell’Ade: sul fondogiallino, le figure divine e gli esseri chimerici del mondo sot-terraneo sono delineati in nero, a mano libera e senza l’aiu-to delle griglie usuali, con tratto rapido e sicuro. Lo stile chene risulta è calligrafico ma ben lontano dall’essere inaccura-

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to o frettoloso come un semplice schizzo: la tecnica, consa-pevolmente impiegata dagli abilissimi artisti della tomba,mirava appunto a suggerire l’illusione di un gigantesco pa-piro srotolato, adattandosi duttilmente al mezzo diverso ealle ben maggiori dimensioni. Lo splendido disegno, ag-giunto a uno schema cromatico essenziale ma perfettamen-te armonico, ha dato vita a uno dei capolavori della decora-zione murale dell’antico Egitto. (mcb).

Thys (Tyssens), Pieter(Anversa 1624-77). Allievo di Artus Deurweerders nel 1636,libero maestro ad Anversa nel 1644-45 e decano della gildanel 1660, operò anche a Bruxelles, poi in Olanda, come pit-tore dello statholder Guglielmo I. S’ispirò direttamente a Ru-bens e van Dyck nei numerosi dipinti religiosi, conservati inBelgio nelle chiese di San Giacomo ad Anversa, San Pietroa Lovanio, della Vergine a Termonde, nella parrocchiale diArc-et-Serans (Madonna col Bambino e devoti), o ad Anver-sa (kmsk: Apparizione della Vergine a san Guglielmo), Bruxel-les (mrba: San Benedetto martire), Gand (mba: San Sebastia-no martire consolato dagli angeli e Conversione di sant’Uber-to). Celebre ritrattista, imitò l’elegante formula di van Dycknei suoi ritratti dell’Arciduca Guglielmo (Vienna, km), F.Diericx, abate del Santo Salvatore (Bruxelles, mrba) e piú an-cora nel Ritratto di David Téniers il Giovane (Monaco, ap).T eseguì i cartoni per arazzi su progetti di J. van Hoecke,attualmente a Vienna (Il Giorno e la Notte). (php).

Thyssen-Bornemisza, barone Heinrich(Mülheim 1875 - Castagnola (Lugano) 1947). Iniziata neglianni Venti, l’attività collezionistica del barone ungherese,amico di Wilhelm Bode e Max J. Friedländer, fu volta prin-cipalmente a raccogliere opere di antichi maestri dal sec. xival xviii al fine di comporre un panorama eclettico della cul-tura pittorica europea di tale periodo con un’attenzione par-ticolare al Cinquecento. L’importanza anche numerica ac-quistata dalla raccolta, organizzata anche in base ai suggeri-menti di Rudolf Heinemann, in un arco cronologico piuttostolimitato, indusse il collezionista prima ad esporre la collezio-ne al pubblico nella np di Monaco (1930) e in seguito ad ac-quistare nel 1932 la seicentesca Villa Favorita a Castagnolanei pressi di Lugano, dove (tra il 1933 e il 1937) fu annessa

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una galleria, progettata da Giovanni Geiser, destinata ad ac-cogliere in venti sale i dipinti sino a quel momento conser-vati nel castello di Rohoncz in Ungheria. Accanto alla straor-dinaria galleria di ritratti (Maestro di Flémalle, Ritratto diRobert de Masmimes; Rogier van der Weyden, Ritratto d’uo-mo; Domenico Ghirlandaio, Ritratto di Giovanna Torna-buoni; Pontormo, Ritratto di dama; H. Holbein il Giovane,Ritratto di re Enrico VIII d’Inghilterra), sono conservate ope-re tre-quattrocentesche da Duccio (Cristo e la samaritana), aJan van Eyck (Annunciazione). Il sec. xvi, sezione primariadella raccolta, è tra l’altro illustrato da opere di Vittore Car-paccio (Giovane cavaliere in un paesaggio, 1510-20), Dürer(Cristo tra i Dottori), Lucas Cranach il Vecchio (La ninfa co-ricata, 1526-30), Zurbarán, Joos van Cleve, Heemskerk, edi molti altri artisti. I secoli xvii e xviii, con i quali si con-clude il percorso collezionistico del barone Heinrich, testi-moniano inoltre dell’attività di Caravaggio (Santa Caterinad’Alessandria), Frans Hals (Ritratto di famiglia), Velázquez(Maria Anna d’Austria regina di Spagna), Ruisdael, Steen, Va-lentin, Tiepolo, Canaletto, Boucher, Fragonard.Alla morte del barone T-B, il di lui figlio Hans Heinrich hareso definitivamente accessibile al pubblico la galleria(1948), nella quale, per mancanza di spazio, era esposta so-lo una parte dei dipinti, numerosi dei quali conservati neidepositi continuando ad ampliare la collezione con opere del-la pittura europea e americana dell’Ottocento e del Nove-cento (Constable, La chiusa; Monet, La capanna a Trouville;van Gogh, Scaricatori ad Arles; Kandinsky, Bild mit dreiFlecken; Braque, Donna con mandolino; Picasso, Uomo colclarinetto, Arlecchino allo specchio; Mondrian, New YorkCity; Schwitters, Merzbild 1A; Balthus, La partita a carte; Da-vis, Pochade). La collezione è attualmente composta di cir-ca 1400 dipinti dal xiii al xx secolo (e numerose sculture coe-ve, mobili antichi, tappeti, oggetti in oro e argento, avori,ceramiche e arazzi). Circa 350 i dipinti esposti nella VillaFavorita fino al 1992; in seguito a un contratto firmato conil governo spagnolo per il prestito decennale sino al 2002,oltre 720 dipinti tra cui il Cristo e la samaritana di Duccio daBoninsegna e oggetti d’arte sono trasferiti nel Palazzo di Vil-lahermosa a Madrid. Frutto di un accordo separato con leautorità di Barcellona è il prestito di 82 opere al monastero

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di Pedralbes. A Lugano rimangono esposti circa 200 dipin-ti moderni di artisti europei e americani; nella sede storicadella collezione, a partire dal 1983 è stata anche inauguratauna attività espositiva. Innumerevoli i cataloghi scientificisistematici delle varie sezioni della collezione pubblicati ne-gli anni Ottanta; tra questi piú numerosi quelli dedicati al-le opere pittoriche (B. Novak, Nineteenth-Century AmericanPainting, 1986; C. Eisler, Early Netherlandish Painting, 1989;J. Gaskell, Seventeenth-Century Dutch and Flemish Painting,1989; I. Lübbeke, Early German Painting 1350-1550, 1991).(pgt).

TiahuanacoAntica città e civiltà precolombiana della Bolivia sviluppa-tasi nel corso del primo millennio, in particolare dall’viii alxiv secolo.Posta 24 km a sud del lago Titicaca, a 3900 m di altitudine,la città di T ha dato il nome alla piú importante civiltà del-le Ande centrali prima della dominazione inca. Le sue ori-gini sono ancora poco note.La ceramica si compone di scodelle, piatti, brucia-profumimonocromi, decorati con piccole incisioni e pitture dispostea zigzag o a gradini. Il bordo dei piatti per aromi, legger-mente svasati, coperti da una decorazione bicolore, si pro-lunga in una testa di puma o di condor. La civiltà di T, ca-ratterizzata da uno stile angoloso e convenzionale, raggiun-ge il suo apogeo a partire dall’anno 1000. I piatti per aromie i bicchieri molto svasati, presentano una migliore qualitàesecutiva; si fa piú frequente l’impiego di incensieri zoomorficon il capo realizzato a tutto tondo, estremamente definito,e con il corpo sommariamente dipinto. La decorazione po-licroma, in giallo, bruno, bianco, nero e grigio chiaro, vieneeseguita su ingobbio giallastro o rosso-bruno chiaro; lineebianche o scure circoscrivono i motivi stilizzati del puma, delcondor e della figura umana, iconografia a cui si unisce l’usodi segni simbolici e motivi geometrici disposti a gradini.La civiltà di T si estese alle regioni costiere del Perú, le cuitombe si sono rivelate ricche di tessuti di ogni sorta: arazzi,broccati, tessuti dipinti, ricami, garze la cui decorazione uni-sce forme geometriche a figure animali e umane stilizzate,dipinte in nero, bianco, rosso, ocra e verde. Tipico della pro-duzione ceramica della zona è un bicchiere alto, svasato in

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sommità, ornato con motivi in nero, ocra e bianco su fondorosso. Alle raffigurazioni di puma, condor, tridenti, gradinisi aggiungono alcuni elementi locali, con una tendenza geo-metrizzante piú accentuata.Prima di estinguersi nel corso del sec. xiv, alla fine del xii eall’inizio del xiii, T entra in una fase di decadenza e la suaimportanza si riduce. Nel campo dell’ornamentazione e del-la manifattura del vasellame, si afferma una maggior tra-scuratezza, un prevalere di motivi astratti e simbolici e i co-lori, limitati al nero, bianco e rosso, non hanno piú l’anticosplendore. Non si conoscono ancora i motivi della scompar-sa di T, che era ormai un mucchio di rovine quando i con-quistatori inca occuparono il bacino del Titicaca. Reperti so-no conservati nelle raccolte di Cuzco (Museo Arqueológico),di Washington (Textile Museum) e di Monaco (Museum fürVölkerkunde). (sls).

Tiarini, Alessandro(Bologna 1577-1668). Formatosi a Bologna, prima pressoProspero Fontana e poi all’ombra di Bartolomeo Cesi, pas-sò nel 1599 a Firenze. Qui venne a trovarsi tra gli epigonidella grande tradizione manieristica locale, seguitando a di-pingere in una maniera astratta e agitata, a colori freddi echiari (affreschi con Storie di san Marco: Firenze, San Mar-co). Tuttavia, tornato in patria si inserì con naturalezza nelgruppo dei carracceschi, ampliando la propria cultura e ac-cogliendo le nuove istanze naturalistiche. Su sollecitazionedi Ludovico Carracci eseguì il grandioso Martirio di santa Bar-bara (Bologna, San Petronio), cui seguirono un’Assunta perBudrio (1611) e il Miracolo di san Domenico (Bologna, SanDomenico). In breve tempo iscurì e addensò la propria ta-volozza fino a raggiungere effetti di tenebrosità espressividi un’autentica vena drammatica, scegliendo inoltre i sog-getti religiosi tra quegli episodi di storia sacra nei quali lacomponente umana risulta prevalente (San Gioacchino esant’Anna invitano Maria bambina a presentarsi al Tempio: Bo-logna, Santa Maria dei Servi; San Giuseppe chiede perdonoalla Vergine per aver dubitato della sua maternità divina: Bo-logna, Santa Maria della Pietà). I contatti con gli ambientipittorici di Parma, Venezia e Ferrara e la profonda riconsi-derazione dell’opera di Correggio ne arricchirono la tavo-

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lozza, mentre la composizione acquistò in monumentalità enaturalezza (Nozze mistiche di santa Caterina: Modena, Pi-nacoteca Estense; affreschi in Palazzo del Giardino a Par-ma, 1628; Rinaldo e Armida: Lille, mba). Dalla fine del se-condo decennio del Seicento fu assai attivo per Reggio Emi-lia, in particolare per Santa Maria della Ghiara (cappellaRuggeri, braccio maggiore, presbiterio e coro, 1618-29), perchiese di Modena e di Pavia. La sua fervida vena inventivadagli anni Trenta sembrò affievolirsi e il confronto con ilReni – del quale peraltro fu amico – lo convinse, a detta delMalvasia, a ritirarsi cedendo i propri pennelli ad Andrea Si-rani. Ma le sue opere eseguite entro i primi tre decenni delsecolo si collocano tra i portati piú significativi della civiltàpittorica avviata in Bologna dai Carracci. (eb + sr).

Tibaldi, Pellegrino(Puria di Valsolda 1527 - Milano 1596). Dopo i primi studia Bologna, T compì la sua formazione a Roma, dove prestoentrò nella cerchia di Perino del Vaga se il suo primo im-portante impegno di lavoro è la partecipazione alla grandeimpresa decorativa di Castel Sant’Angelo, nell’équipe di Pe-rino, che dal 1545 dirige i lavori. Negli affreschi, ideati daPerino, della Sala Paolina (San Michele arcangelo, Alessandrofa riporre in uno scrigno le opere di Omero, Alessandro scioglieil nodo di Gordio, Alessandro e la famiglia di Dario, 1547, masu questa data non tutti gli studiosi sono concordi) è evi-dente il rapido evolversi dello stile di T in direzione miche-langiolesca, dalle eleganze perinesche, vigorosamente inter-pretate, a un prorompente plasticismo mediato soprattuttoda Daniele da Volterra. Nel 1548 dipinge nella Sala di Apol-lo con Domenico Zaga, che, morto, Perino, aveva assuntola direzione dei lavori, e all’incirca nello stesso tempo rea-lizza l’Adorazione dei pastori (1548 o 1549: Roma, Gall. Bor-ghese), in cui T esprime in piena autonomia la sua aperta in-telligenza dello scultoreo gigantismo di Daniele. L’anno se-guente partecipa ai lavori per gli apparati funebri di PaoloIII. In questo periodo collabora agli apparati allestiti in oc-casione della morte di Paolo III (1549); dipinge nel Belve-dere vaticano la volta di un corridoio con lo stemma di Giu-lio III; lavora con Siciolante e Jacopino del Conte nella cap-pella Dupré a San Luigi dei Francesi e con Daniele daVolterra nella cappella Della Rovere a Trinità dei Monti.

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Vasari ricorda alcune opere romane oggi perdute, fra le qua-li gli affreschi della loggia e della facciata del casino sul Pin-cio del vescovo bolognese Giovanni Poggi, committente alquale è legato un temporaneo ritorno di T a Bologna. Nelpalazzo del Poggi a Bologna l’artista dipinge con accesa fan-tasia il ciclo delle Storie di Ulisse, «dedicandosi ad una cor-diale divulgazione del “terribile” mondo michelangiolescoche lo condusse ad una variante originalissima della “ma-niera” in senso spregiudicato, giocoso, talvolta addiritturacaricaturale» (Briganti). Se la pittura ricca ed esuberante de-gli affreschi delle due Stanze dell’Odissea di Palazzo Pogginasce anche da forti suggestioni salviatesche combinate conla rimeditazione su Parmigianino, quella della cappella Pog-gi in San Giacomo è piú decisamente condizionata dall’in-fluenza di Daniele da Volterra. La datazione e la successio-ne di queste opere è da tempo oggetto di discussione, oscil-lando fra l’inizio e la fine del sesto decennio, ma è da tenereconto che le scarse indicazioni cronologiche che possonotrarsi da fonti e documenti orientano verso il primo dei duetermini. Dopo le Storie di Ulisse T eseguì, forse in tempi di-versi, in altri ambienti del Palazzo Poggi un fregio con Sto-rie di san Paolo; una Caduta di Fetonte entro una illusionisti-ca architettura e l’affresco sopra un camino raffigurante Pro-meteo che rapisce il fuoco. A Bologna T dipinse, inoltre, laSacra Famiglia del Museo di Indianapolis; la Sacra Famigliacon santa Caterina di Capodimonte; le due Sibille della pn diBologna. Tornato a Roma T dipinge in Palazzo Ricci, poiSacchetti, il fregio di una stanza (Storie di Mosè, 1553) e inSant’Andrea sulla via Flaminia.In questo periodo T riceve dal cardinale di Augusta OttoTruchsess l’incarico della decorazione della cappella del Bat-tista nella Basilica della Santa Casa a Loreto (1554-55), dicui restano due affreschi staccati ora conservati nel PalazzoApostolico, la Predica del Battista e la Decollazione. Questidipinti e ancor piú quelli eseguiti ad Ancona (Loggia dellaMercanzia, affreschi, 1558-61; Battesimo di Cristo: già inSant’Agostino e ora in San Francesco alle Scale; Palazzo Fer-retti, affreschi) introducono la grande maniera nelle Marchee avranno un ruolo non secondario nella storia pittorica del-la regione. Nelle Marche T svolge anche quella attività diarchitetto che sarà prevalente nel ventennio trascorso in

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Lombardia. La sua presenza a Ferrara, dove secondo Vasa-ri lavora per gli Olivetani, verso il ’62-63 è probabilmentein relazione con un ritorno a Bologna, che lascia per Mila-no, dove nel ’66 diviene architetto della Fabbrica del Duo-mo. Il soggiorno lombardo, nel corso del quale T lavora aPavia, a Novara, a Varallo, si protrae fino al 1588. Chia-mato in Spagna da Filippo II per lavorare all’Escorial, dopoFederico Zuccari e Luca Cambiaso, T lavorò fra il 1588 e il1596 alla realizzazione di due grandiosi cicli di affreschi: nelchiostro (46 scene della Vita di Cristo) e nella biblioteca, incui «la struttura compositiva della volta, le finte architettu-re e la divisione degli spazi figurati rappresentano il piú de-voto e ortodosso degli omaggi alla Sistina» (Briganti) ma lefigure sono il risultato di un processo di astrazione, di ridu-zione dei modelli michelangioleschi, tradotti in forme geo-metrizzanti dai colori freddi e immerse in una luce nitida euniforme. (sr).

TibetLa pittura, a carattere essenzialmente religioso, ha sempreavuto un posto importante nell’arte della regione del T: legrandi composizioni dipinte hanno incessantemente rico-perto le pareti delle biblioteche, delle sale di riunione e deisantuari dei conventi lamaici.Le tecniche delle pitture murali del mondo tibetano non so-no state studiate con precisione. La maggior parte delle de-corazioni sembra tuttavia essere stata eseguita a secco, su unintonaco piú o meno puro, che in certi casi ha aderito mala-mente alla parete. La tecnica dell’affresco pare sconosciuta.Il legno è stato utilizzato come supporto per ornare le paled’altare e i soffitti. Le pitture dei monasteri tibetani, diffi-cilmente accessibili a causa della loro ubicazione, sono tut-tora poco conosciute; tuttavia numerose affinità, per stile econtenuto, le collegano alle opere «mobili» di quest’area,pervenute in gran numero anche in Europa e in America.Queste, oltre alle illustrazioni dei manoscritti e delle loro ri-legature lignee, sono costituite principalmente da stendardidipinti su tela, qualche volta su seta, su carta o su cuoio. Latecnica impiegata ricorda quella della tempera: il supporto èapprontato e pulito con un corno o una conchiglia per rice-vere il disegno a inchiostro di china nera o rossa, disegnoche talvolta è tracciato con l’aiuto dello spolvero. Segue l’ap-

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plicazione dei colori minerali o vegetali mescolati a una col-la, poi la ripresa del contorno, l’apposizione dell’oro e deimolteplici dettagli. Sovente i toni sono vivaci e donano all’in-sieme un aspetto brillante, dai contrasti intensi; tuttavia cer-te pitture hanno colori piú sbiaditi oppure, a seconda delsoggetto, adottano tinte scure. Queste specie di stendardi,denominati tanka (→), sono inquadrati da nastri e seta broc-cata, le cui tonalità s’armonizzano con quelle dell’oggetto inquestione. Raramente anteriori al sec. xvi, le tanka risalgo-no in gran parte al Settecento, ma la loro datazione è diffi-cile: infatti la loro tipologia rimane invariata fino ai nostrigiorni e le varianti stilistiche nella produzione dei diversiconventi furono principalmente dovute all’influsso di areegeografiche, a seconda che fossero piú o meno vicini all’In-dia, al Kashmir oppure alla Cina.Le tanka, opere religiose e rituali I prodotti di quest’artesacra, fortemente conservatrice, si conformano a regole pre-stabilite estratte dai testi canonici del buddismo indiano, daitrattati d’iconografia o d’iconometria dove sono descritte legesta, le attitudini e gli attributi delle divinità, così come ilcolore della carnagione e dell’abbigliamento. Alla realizza-zione delle diverse parti delle tanka presiedono regole assairigide che insistono sullo stato di purezza fisica e mentaledel monaco artigiano e indicano gli incantesimi e le formu-le necessari al compimento del lavoro, alla fine del quale al-cuni riti di consacrazione assicurano al manufatto tutta lasua efficacia. Destinati ad essere appesi alle pareti, questistendardi erano, e sono ancora, eseguiti con diverse inten-zioni: acquisire dei meriti, raggiungere uno scopo magico,istruire i fedeli, orientare e sostenere la meditazione. Inol-tre possono essere allineati a gruppi di tre, cinque o sette ecostituire così, quando il soggetto è analogo, un ciclo narra-tivo. La diversità dei temi è conforme alla complessità delpantheon lamaico. Infatti la religione dei lama ha assuntoun carattere particolare: le credenze autoctone tibetane,quelle del bon di tendenza animista e dal rituale magico, sisono mescolate a forme evolute del buddismo (mahÇyÇna etantrismo) introdotte a partire dal sec. vii. In questo modo,l’iconografia buddista di origine indiana, spesso modificata,si è arricchita di nuove formule. I diversi buddha e bodhi-sattva (creature della benevolenza e della meditazione) so-

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no sovente rappresentati assieme alla loro controparte fem-minile, le tÇrÇ; quest’ultime hanno conosciuto un particola-re favore, poiché due di loro furono le spose deificate delprimo re del T (la tÇrÇ bianca e la tÇrÇ verde). Queste divi-nità mistiche sono spesso raffigurate con il loro aspetto idea-lizzato tradizionale, ma a volte sono rappresentate con aspet-ti terribili, considerati piú efficaci nella lotta contro le for-ze malefiche. A queste si sono aggiunte una serie di divinitàprotettrici (Dharmapala e Yidam): rappresentate con carna-gioni scure, in atteggiamenti dinamici, con lineamenti cor-rucciati e dalle innumerevoli braccia, brandiscono attributie armi simboliche e sono accompagnate da un macabro ar-mamentario (collane di teschi e teste tagliate, coppe colmedi sangue). Nel T sono state venerate anche alcune divinitàd’origine straniera come quelle di Lhassa e Lhamo a cavallodi un mulo, stagliate sempre contro un fondo scuro, simbo-lo della notte cosmica: molti di questi spiriti protettori ven-gono raffigurati abbracciati alla loro sposa, in un abbracciosimbolo dell’«energia dello slancio vitale» e sinonimo di bea-titudine. Un nuovo apporto venne fornito all’iconografiadalla rappresentazione di personaggi religiosi, in particolaredei grandi lama dai sontuosi costumi gialli o arancioni, a se-conda della setta d’appartenenza. Fra i santi figurano i sag-gi (arhat) e il poeta Milarepa che visse durante il sec. xi.Malgrado un’apparente monotonia iconografica, la varietàdei soggetti ha determinato quella degli effetti pittorici. Laparticolarità dell’arte tibetana risiede nel contrasto fra le di-vinità mistiche e i numi tutelari della legge buddista, dall’at-teggiamento terrificante, sovente associati nello stesso sten-dardo. Raffigurati in scala ridotta, gli uni e gli altri accom-pagnano una figura di grandi dimensioni (divinità, santo oessere demoniaco), considerata a «nocciolo spirituale» del-l’opera. Molte composizioni sono simmetriche; guidando lameditazione d’immagine in immagine, rispondono allo stes-so scopo dei mandala, schemi geometrici considerati comeuna proiezione dell’universo spirituale. Al centro è raffigu-rata una divinità, verso la quale l’attenzione del fedele siconcentra progressivamente per raggiungere la liberazione.Un altro tratto caratteristico della pittura tibetana è riscon-trabile nelle piccole scene secondarie, sovente raggruppateintorno alle figure principali, il cui aspetto è stato codifica-to nel corso dei secoli. A seconda della destinazione dell’ope-

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ra, gli episodi sono talvolta moltiplicati per illustrare le vitedel buddha, dei santi, degli eremiti e dei lama, oppure, piúeccezionalmente, degli eroi divinizzati. Le qualità narrativesi palesano in scenette pittoresche trattate sovente con umo-rismo.L’arte pittorica tibetana ha così assunto un aspetto netta-mente originale, malgrado il peso delle influenze esercitatesu di essa dall’arte dell’India e della Cina. Il Nepal è statospesso intermediario per gli influssi indiani, pervenuti so-prattutto nella raffinata forma dello stile pala del Bengala(viii-xii secolo): alle tendenze generali dell’estetica indianas’aggiunge così la preziosità dei movimenti e l’eleganza ne-gli atteggiamenti. D’altronde i pittori del Kashmir hannocontribuito alla formazione di alcuni ateliers della regioneoccidentale (del Guge). Gli apporti cinesi sono diventati ab-bondanti nella parte orientale del T a partire dal sec. xviii esi manifestano nella propensione a sfasare le composizioni ead introdurre talvolta il senso dello spazio attraverso pae-saggi, in cui compaiono gli elementi preferiti dai pittori ci-nesi: montagne, rocce, acque, nevi, peonie e architetture leg-gere dalle coperture incurvate. Qualche opera tarda sembrariflettere tendenze delle miniature rajpute, per esempio nelnaturalismo degli animali rappresentati e nel dissolversi del-le forme. Quanto all’illustrazione dei libri sacri, essa s’ispi-ra direttamente ai manoscritti indiani e nepalesi e le tavolelignee utilizzate per la loro impressione attestano l’alta qua-lità raggiunta da questa particolare tecnica. L’ascendentedella pittura tibetana si è fatto sentire nelle regioni vicine(Nepal e Bhutan) fino ai conventi lamaici della Mongolia.Le piú belle collezioni tibetane sono quelle del Museo Na-zionale d’Arte Orientale di Roma, del Museo Guimet (Pa-rigi), del Rjiksmuseum di Amsterdam, del bm e del vam diLondra, così come quelle dei grandi musei americani (Bo-ston, mfa; Philadelphia, Los Angeles). (mha).

Ticho, Anna(Brno 1894 - Gerusalemme 1980). A Vienna (1904-12) co-nosce la pittura dei secessionisti Klimt, Kokoschka e Schie-le, accanto a questi, è la pittura degli antichi maestri – spe-cie Dürer e Seghers, osservati nelle sale dell’Albertina – ainformare la sua arte. T utilizza quasi esclusivamente il bian-

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co e nero nei nudi, ma soprattutto nei paesaggi ispirati allacittà di Gerusalemme (dove vive dal 1912 fino alla morte,tranne un breve periodo tra il 1917 e il 1919 trascorso a Da-masco) e ad Israele (Tramonto su Gerusalemme, 1964, car-boncino su carta; Wadi, 1974 e Orizzonte lontano, 1977 en-trambi carboncino e pastello su carta).Nel 1932 è tra i fondatori di quella che diverrà l’AccademiaBezalel; la sua prima personale data al 1934 (Gerusalemme,Gall. Steimatsky). In seguito espone ad Amsterdam (sm,1959), Baltimore (am, 1962), Rotterdam (bvb, 1964), Chi-cago (Art Institute, 1964), Oxford (Ashmolean Museum,1972); sue opere sono presenti a Londra (ng), Amsterdam(sm e Rijksmuseum) e nei principali musei d’Israele. Citta-dina onoraria di Gerusalemme nel 1970, T ha donato i pro-pri disegni all’Israel Museum (che le aveva conferito nel1975 il premio Sandberg); la casa della pittrice, con le suecollezioni d’arte, è divenuta pubblico museo. (mt).

TichØ, Franti∫ek(Praga 1896-1961). Dopo un apprendistato in uno studio dilitografia, dove imparò a disegnare, entra all’Accademia dibelle arti di Praga 1917-23). T appartiene alla generazioneche vede l’affermarsi in Cecoslovacchia dei «poetisti», an-che se personalmente scelse di rimanere estraneo alle discus-sioni teoriche del suo tempo. Pittore e incisore, T crea unapropria morfologia in cui è evidente l’influsso di Daumier eSeurat. Dopo un periodo trascorso in Francia (1929-35), ab-bandona l’ispirazione realista per un mondo irreale, tra ilgrottesco e il melanconico (Prestigiatore, 1934: Praga, ng).Dal 1938, l’artista si è dedicato soprattutto alla litografia ealla puntasecca: lo contraddistingue un segno vibrante neglispazi percorsi da una luce diffusa (illustrazioni per S. T. Co-leridge, La ballata del vecchio marinaio, 1949). Nella sua ope-ra sono ricorrenti i temi del circo e dell’erotismo. (ivj).

Ticozzi, Stefano(Pasturo 1762 - Milano 1836). Dopo aver parteggiato per ilmovimento rivoluzionario, in età napoleonica fu nominatoprefetto del Dipartimento del Piave. Intraprese la sua ope-ra di erudito con la Storia dei letterati e degli artisti del Dipar-timento del Piave (Belluno 1813). Con la restaurazione do-vette abbandonare la vita politica ed ebbe la possibilità di

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intensificare i suoi studi, pubblicando successivamente la Vi-ta dei pittori Vecelli di Cadore (Venezia 1817, 4 voll.), il Di-zionario dei pittori dal rinnovamento delle Belle Arti fino al1800 (Venezia 1818, 2 voll.) e il Dizionario degli architetti,scultori, pittori... (Milano 1831, 4 voll.). T è noto soprattut-to per aver dato una nuova edizione accresciuta (Milano1822-25) della Raccolta di lettere sulla pittura, scultura edarchitettura... pubblicata nella seconda metà del Settecentoda G. G. Bottari e per aver tradotto la Storia dell’arte di-mostrata coi monumenti... (Prato 1826-29) del francese Sé-roux d’Agincourt. (sag).

Tidemand, Adolph(Mandal 1814 - Christiania (Oslo) 1876). Studiò a Co-penhagen (1832-37), poi a Düsseldorf (1837-41), infine aRoma (1841-42). Durante un soggiorno in Norvegia(1842-45) studiò la vita e i costumi dei contadini norvegesiche divennero soggetti preferiti dei suoi quadri apprezzatinon soltanto in Norvegia, ma anche a Düsseldorf, dove sistabilì nel 1849. Le sue prime opere sono caratterizzate daun idealismo idillico e solenne (Funzione in una chiesa nor-vegese, 1845: Oslo, ng; i Discepoli di Hauge, prima versione,1848: Düsseldorf, km, la Lettura della Bibbia, 1849: Oslo,ng) che lascerà spazio, piú tardi a una nota piú cupa e dram-matica (i Fanatici – dal tormentato misticismo religioso –1866: Stoccolma, nm). Al termine della carriera tornò an-che alla pittura di storia. Pittore prolifico, oltre un centinaiodelle sue opere sono conservate presso la ng di Oslo. (lo).

Tieffenthal (Tiefenthal, Tieffental), Hans(documentato a Basilea e in Alsazia 1395 ca. - 1448). È co-nosciuto anche come Hans von Schlettstadt (oggi su terri-torio francese: Sélestat), cittadina nella quale ebbe proba-bilmente i natali. È segnalato poi a Metz e a Thann, dovegli si sono voluti attribuire, pur senza nessun dato accerta-bile, i cartoni per le vetrate del coro della collegiata diSaint-Thiébaut (1445) così come, per via di confronto stili-stico e dell’evidente ispirazione borgognona, anche quelliper una vetrata del coro di San Giorgio a Schlettstadt (Leg-genda di santa Caterina, 1430 ca.). Dal 1413 al ’17 ca. si tra-sferisce, unitamente al compagno Henne Gutterolf da Fran-

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coforte a Digione, mettendosi al servizio di un werkmeister(ovvero un artista «prestatore d’opera», a sua volta dipen-dente dal Maestro titolare delle commissioni ducali, che si-no al marzo 1414 va identificato con Jean Malouel e da que-sta data in poi con Henri Bellechose, pittore di corte di Gio-vanni senza Paura) alla corte dei duchi di Borgogna. Questianni di nuovo «apprendistato» nel centro culturale piú pre-stigioso del tempo, debbono aver giocato favorevolmentenella decisione presa dal consiglio di Basilea di affidare nel1418 proprio a T la decorazione dell’interno della, cappellazum elenden Kreuz che si trovava di fronte alla Riehentor diBasilea (oggi non piú esistente). Nel contratto si richiamaesplicitamente la celebre e mirabile decorazione della Cer-tosa di Digione, ben conosciuta e studiata da T, quale mo-dello di riferimento per l’affrescatura della cappella basi-leense: un cielo tempestato di stelle, penetrato da nervatu-re e costoloni dorati, adorni di fogliame nella volta, sullepareti drappi di seta operata in oro e nello zoccolo pavoni ebestie esotiche tra ornamenti foliati. Nel 1420 T divieneborghese di Basilea, dipinge «di nuovo» una figura di cava-liere sulla Riehentor (perduta ma sommariamente riprodot-ta in una miniatura della Cronaca di Lucerna di D. Schilling,1507-13) e fornisce opere di soggetto «pagano» (stemmiecc.) per la dimora di Cuntzman von Ramstein, sindaco diBasilea. A T si è attribuita la scena, anch’essa perduta e sen-za alcun riscontro documentario, dell’Incontro dei tre vivi coni tre morti affrescata in San Giacomo a Basilea.Nel 1421 lo si trova a Schlettstadt, dove è ben presto no-minato pittore della città, mentre tra il 1433 e il 1448 sog-giorna a Strasburgo: citato accanto a Gutenberg, opera for-se insieme a questi come incisore. Qui gli si attribuisce an-che una vetrata proveniente da Saint-Pierre-leVieux e oggial Museo dell’Opera di Notre-Dame. Pittore fra i piú cele-bri del proprio tempo, ancora lodato in epoca umanisticanell’Elogio di Johannes Sapidus (1520), se ne è perduta poimemoria e a tutt’oggi non è possibile attribuirgli con cer-tezza alcun dipinto. Nonostante sia altamente probabile cheil suo stile risenta di influenze borgognone, resta soltantouna suggestiva ipotesi l’identificazione, spesso tentata, di Tcon il cosiddetto Maestro del Giardinetto del Paradiso(Francoforte, ski). Piú difficile ancora da accettare la pro-posta (Châtelet, 1987) di attribuire a T la Crocifissione con

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un donatore domenicano di Colmar (Unterlinden Museo)copiata a Schlettstadt ancora nel 1450 in una miniatura delcodice con testo di J. von Passau, Die minnende Seele (Col-mar, Bibl., ms 261), mostra di aver avuto una lunga fortu-na iconografica (venne forse dipinta per un committente cit-tadino), elementi entrambi che riporterebbero al solo nomeimportante del periodo: quello, appunto, di Hans von Sch-lettstadt. E tuttavia, la datazione precoce, tra 1400 e 1405,della tavola di Colmar riporterebbe agli anni giovanili dell’ar-tista, precedenti al contatto borgognone, certo troppo anti-cipati per un’opera stilisticamente matura e qualitativamentealta come questa. (scas).

TiepoloGiambattista (Venezia 1696 - Madrid 1770). Capostipitedella famiglia, padre di Giandomenico e Lorenzo, cognatodi Francesco Guardi, Giambattista T è uno dei massimi pro-tagonisti del rococò europeo. Con Giambattista T la deco-razione, interpretata secondo la piú pura tradizione vene-ziana di luminosità e di colore, si carica di un alto valoreespressivo. L’ardito plasticismo, l’audacia inedita della com-posizione, l’esuberanza formale rappresentano da un latol’estremo frutto del genio decorativo del Veronese e, d’al-tro canto, il prolungamento e l’apogeo della decorazione ba-rocca nel suo insieme. La grandiosità di T si manifesta intutte le forme della sua arte, dai disegni ai bozzetti, dai qua-dri di cavalletto ai grandi cicli di affreschi.L’educazione artistica di T si svolge nella bottega di Gre-gorio Lazzarini. Ben presto, però, il giovane pittore è at-tratto dalla pittura di Federico Bencovich e del Piazzetta,che opponevano la violenza di un drammatico chiaroscuroalla chiarezza del rococò. Risalgono a questo periodo la Ma-donna del Carmine (1720 ca.: Milano, Brera) e il Martirio disan Bartolomeo (Venezia, chiesa di San Stae), di una forzaespressiva che s’impone in modo del tutto personale attra-verso la nettezza del contorno grafico. A questo stesso pe-riodo risale un gruppo di Scene mitologiche (Venezia, Acca-demia) e l’esordio di T nel campo dell’affresco, in cui subi-to si palesa il riferimento a Paolo Veronese. Una vera svoltaè rappresentata dagli affreschi nell’Arcivescovado di Udine,equidistanti dal chiaroscuro piazzettesco e dai fragili arabe-

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schi rococò. La decorazione è caratterizzata da una perso-nalissima forza nella struttura, da un audace virtuosismo nel-la composizione e soprattutto dalla solare festosità dei cielispalancati dietro ai personaggi. La decorazione (Scene e per-sonaggi dell’Antico Testamento lungo la scala, un salone e lagalleria dell’Arcivescovado) è di fatto la prima realizzazio-ne completa ispirata a questo atteggiamento assolutamentenuovo, in cui protagonista del dipinto è ormai la luce natu-rale. Nell’Apparizione degli angeli ad Abramo colori chiari sidistaccano nel controluce; ma non mancano dettagli natu-ralistici che, come le figure dei contadini nell’episodio di Ra-chele e Giacobbe, caricano di un’affettività tutta umana lasolennità sacra delle scene bibliche. Nello stesso periodo Tdipinge per Palazzo Dolfin a Venezia una serie di dieci va-ste tele di storia romana, oggi divise tra San Pietroburgo (Er-mitage), New York (mma) e Vienna (km).Nel corso degli anni Trenta la fama di T si consolida a Ve-nezia e all’estero. L’artista può sviluppare la ricerca di lu-minosità atmosferica e approfondire il proprio genio deco-rativo. In questo periodo Giambattista opera ripetutamen-te in Lombardia. I soffitti milanesi di Palazzo Archinto(Trionfo delle arti, distrutto dai bombardamenti nel 1943) ePalazzo Dugnani (Storie di Scipione, 1731) sono occasionifondamentali lungo la conquista di una piena resa spettaco-lare delle immagini nello spazio. Negli affreschi della cap-pella Colleoni di Bergamo (Scene della vita di san GiovanniBattista, 1732-33) e di Villa Loschi-Zilieri, nei dintorni diVicenza, le figure allegoriche appartengono a un aulico clas-sicismo, non privo peraltro di accenti drammatici piú inti-misti. Tra le altre grandi decorazioni di questa fase della car-riera di T possono citarsi gli affreschi con Gloria di san Do-menico in Santa Maria dei Gesuati a Venezia (1737-39), legrandi tele (Caduta della manna; Sacrificio di Melchidesec) nel-la chiesa di Verolanuova, le tre scene della Passione inSant’Alvise a Venezia e la scenografica Corsa del carro del so-le in Palazzo Clerici a Milano (1740). Risale al 1743 uno deimassimi capolavori del maestro, le nove tele del soffitto del-la Scuola del Carmine a Venezia, imperniato sulla scena conl’Apparizione della Madonna del Carmine a san Simone Stock,con l’emozionante invenzione della veste bianca della Ver-gine contro un cielo di luce. Ha inizio la felice collaborazio-ne con il pittore di quadrature Mengozzi-Colonna, che com-

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porrà e dipingerà per T le decorazioni a finte architettureche inquadrano gli affreschi. Il punto di massima riuscita diquesto sodalizio è il complesso decorativo di Palazzo Labiaa Venezia (1747-50) con le Storie di Antonio e Cleopatra: ilfondo di architetture aperte sul cielo consente a T di realiz-zare una splendida coreografia laica, su un ritmo da melo-dramma, recitato da eroi vestiti con sontuosi costumi con-temporanei. La rievocazione dei fasti, veri o immaginari,della famiglia del committente dà qui luogo a una traduzio-ne artistica tra le piú straordinarie.La decorazione della scala monumentale e del salone (Kai-sersaal) della Residenza di Würzburg viene spesso conside-rata il momento piú felice della produzione di T. Eseguitadopo il 1750, la Storia di Federico Barbarossa, nel salone, rag-giunge un effetto solenne e fastoso sfruttando l’accordo trala pittura e gli stucchi bianchi e oro. Ancor piú grandiosa èla rappresentazione dell’Olimpo attorniato dalle quattro par-ti del mondo (bozzetto nella sg di Stoccarda) sul grande sca-lone d’onore: le folle multiformi e multicolori, ammassatesu due lati del soffitto, lasciano libero un cielo immerso nel-la luce. Qui la fantasia geniale dell’artista traduce mito erealtà in una cosmografia insieme pagana e sacra, la cui bel-lezza formale trasfigura la banalità allegorica del soggetto.Tornato a Venezia alla fine del 1753, T lavora senza posacome illustratore dei fasti della Repubblica (Venezia ricevedoni da Nettuno in Palazzo Ducale) o delle sue grandi fami-glie (Gloria della famiglia Rezzonico in Ca’ Rezzonico). Unadopo l’altra si susseguono le decorazioni: della chiesa dellaPietà a Venezia (1754-55); di Villa Valmarana presso Vi-cenza (1757: Sale di Ifigenia, dell’Iliade, della Gerusalem-me liberata, dell’Eneide e dell’Orlando Furioso nella palaz-zina; Sala dell’Olimpo nella Foresteria, in cui è attivo il fi-glio Giandomenico); di Palazzo Canossa a Verona (Trionfodi Ercole, 1761, gravemente danneggiato dalla seconda guer-ra mondiale); e di Villa Pisani a Stra (Apoteosi della famigliaPisani, 1761-62), l’ultimo grande lavoro eseguito in Italia.La tecnica dell’artista si fa sempre piú leggera, il tocco piúrapido e nervoso, la luminosità piú intensa, la composizio-ne piú abile e ricca di nuovi espedienti.Nel 1761 Carlo III di Spagna chiama T a Madrid per deco-rate con affreschi le sale del nuovo Palazzo Reale. Il pittore

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porta con sé i figli Lorenzo e Giandomenico. La produzio-ne spagnola appare segnata da un’intima inquietudine chesmorza la brillante fantasia delle composizioni precedenti,forse per il contrasto con l’atmosfera di cultura neoclassicaintrodotta da Anton Raphael Mengs, il personaggio piú invista di Madrid. Certo è che l’opera del veneziano non ri-scosse unanime favore. Pure, questo gusto di commossa in-timità poteva già essere percepito in qualche opera degli an-ni precedenti, come la mirabile pala con Santa Tecla che li-bera Este dalla peste (1759: Duomo di Este), che lasciatrasparire un ripiegarsi dell’artista su se stesso e una certatendenza drammatica, tradotta dall’atmosfera livida. Qual-che ritratto, dove la pompa degli abbigliamenti di circo-stanza non nasconde la vivacità acuta dell’espressione deipersonaggi, testimonia ulteriormente l’adesione del maestroalla realtà. Nel Palazzo Reale di Madrid T dipinge tre sof-fitti: l’Apoteosi di Enea, la Grandezza della monarchia spa-gnola e l’Apoteosi della Spagna nella vasta Sala del Trono (ter-minata nel 1764). T troverà soluzioni e strade nuove inun’epoca che volge chiaramente alla fine ma ha ancora inserbo aspetti emozionanti e suggestivi. Appartengono a que-sto spirito alcune tele, fra cui un gruppo di quadri d’altaredipinti tra il 1767 e il 1769 per la chiesa del convento diAranjuez, oggi divisi tra il Prado e il Palazzo Reale di Ma-drid, composti da figure solitarie di santi collocati in pae-saggi vuoti e realistici, di una nuova semplicità d’effetti maricchi di una piú profonda osservazione psicologica. Infine,negli episodi della Fuga in Egitto (Lisbona, maa e coll. priv.)l’artista attinge un’espressione di pungente intimità e di mi-sticismo profondo attraverso l’originale accostamento deicolori, smorzati da una luce cinerea, e dalle linee spezzate enervose della grafia.A parte i numerosi impegni «ufficiali», T lascia numeroseopere di minor formato, di soggetto sacro o profano, senzacontare gli schizzi preparatori e i bozzetti per le grandi de-corazioni. Tra le prime composizioni figura l’assai fresca Ten-tazione di sant’Antonio (1725 ca.: Milano, Brera), ancora pie-na di reminiscenze della pittura di Sebastiano e Marco Ric-ci (quest’ultimo soprattutto per il paesaggio, pennellato arapidi tocchi). Agar nel deserto e Abramo con gli angeli (Ve-nezia, Scuola di San Rocco), caratteristiche composizioni sa-cre improntate da una forte carica di sensualità, apparten-

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gono alla fase che segue il primo soggiorno a Milano (1733).Al 1736 risale Giove e Danae (Stoccolma, Università), nelquale la leggenda mitologica prende un tono umoristico didissacrante fantasia.Di T ritrattista rammentiamo il Ritratto di Antonio Ricco-bono (1745 ca.) all’Accademia dei Concordi a Rovigo. For-te è il contrasto tra quest’opera e il Ritratto di procuratore(1750 ca.: Venezia, Gall. Querini-Stampalia), col mantelloche si espande in chiazze di colore vivo, mentre lo spiritocaustico di T riappare nell’acuta analisi del volto. L’operagrafica di T è particolarmente importante sia per i disegni(1500 ca.) che per le acqueforti; tra queste ultime ricordia-mo i ventiquattro Scherzi e i dieci Capricci, di data incerta.I disegni sono per la maggior parte a Londra (vam), al Mu-seo Horne di Firenze, nel Gabinetto delle stampe di Stoc-colma, al mc di Trieste e nelle principali collezioni graficheitaliane o internazionali. Consentono di seguire l’evoluzio-ne stilistica del maestro continua e parallela alle incessanticonquiste nel campo della grande pittura decorativa. Nei di-segni giovanili il contorno delle figure è morbido e l’usodell’acquerellato determina effetti chiaroscurali. Intorno al1730 il tratto si fa piú incisivo e vibrante, come mostrano inumerosi schizzi per gli affreschi milanesi o di Villa Lo-schi-Zilieri, finendo per diventare un arabesco vaporoso ne-gli studi per le Storie di Cleopatra. Piú tormentati e ricchi diombre appaiono i disegni del periodo tedesco, mentre inquelli della fase successiva (schizzi preparatori per Villa Val-marana) riappare una straordinaria limpidezza, la scritturasi fa «a unghiate», e i personaggi s’impongono con maesto-sa gravità. Il decennio 1740-50 è comunque il periodo piúfecondo per l’attività grafica di T. A questi anni risalgonodisegni di cani e di paesaggi che dimostrano la varietà degliinteressi dell’artista, mentre le Caricature e la serie dei Pul-cinella (Milano, Castello Sforzesco; Trieste, mc) riflettonouna straordinaria fantasia e, nel contempo, una acuta venasatirica e caustica, nella quale si può scorgere una sorta dicontroparte della pittura ufficiale ed elogiativa delle grandidecorazioni su commissione.Giandomenico (Venezia 1727-1804). Figlio di Giambatti-sta, fu spesso collaboratore del padre in imprese monumen-tali; la sua attività è stata per questo a lungo ritenuta sem-

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plicemente un riflesso di quella paterna, mentre rivela ca-ratteristiche di grande novità e personalità inventiva. Nelleprime opere Giandomenico non si distacca dal modello pa-terno: tuttavia, già in alcuni dipinti eseguiti a Würzburg(1751-53), come Alessandro e le figlie di Dario (Detroit, In-stitute of Arts) se ne distingue per una fattura piú nervosae movimentata. Al ritorno dalla Germania cura le decora-zioni della chiesa bresciana dei Santi Faustino e Giovita.Nella Guarigione del cieco (1753: Los Angeles, coll. Loewi)il gruppo dei personaggi in primo piano conferisce alla com-posizione un originale ritmo drammatico, mentre nella sce-na notturna dell’Adorazione dei pastori (Stoccolma, nm) ri-vela una personalissima sensibilità nei confronti della luce.La vera svolta nella carriera di Giandomenico, l’occasioneper rivelare doti autonome e originali, cade nel 1757, quan-do viene chiamato insieme al padre a decorare la Villa Val-marana di Vicenza e gli viene affidata piena responsabilitàsugli affreschi delle sale della Foresteria. Una grande libertànarrativa e una sottile vena satirica caratterizzano le scenedi vita quotidiana (Il ciarlatano, Il mondo nuovo), inserite en-tro paesaggi di diafana delicatezza. Nelle Sale del Padiglio-ne gotico, delle Scene campestri e delle Cineserie Giandome-nico affronta con sicurezza temi e modelli decorativi diver-si e aggiornati. La rappresentazione realistica di episodi divita signorile o contadina appare in decisa evoluzione ri-spetto allo stile rococò. La stessa curiosità per la realtà con-temporanea si fa luce in una serie di quadri da cavalletto cherappresentano scene carnevalesche o la vita veneziana (IlBurchiello: Vienna, km).Durante il soggiorno in Spagna (1761-70), raccoglie l’ulti-mo retaggio del padre nell’espressione piú intima dei senti-menti e nel tratto nervoso (Predica di san Giovanni: Trevi-so, mc). Ma il soffitto di Palazzo Contarini a Venezia, ulti-ma grande opera ufficiale (1789), in cui riprende antichischemi decorativi, ha un aspetto freddo e non raggiunge piúquell’elegante sottigliezza di disegno, tranne che nei mono-cromi a chiaroscuro. Da questo momento Giandomenico siritira nella sua villa di Zianigo che, tra un incarico e l’altro,decora con affreschi. Fuori dei soggetti convenzionali, conun sentimento malinconico e satirico quasi crudele, orna lesale con scene di genere, pulcinella, satiri, centauri, conse-gnandoci un’ultima immagine tragicomica di un mondo or-

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mai crollante, ove solo la maschera di Pulcinella resta realtàvivente. Il complesso è stato ricostruito in Ca’ Rezzonico aVenezia. Interessante è anche l’attività grafica di Giando-menico, brillante incisore di teste di carattere e di scene nar-rative. La serie di stampe con la Fuga in Egitto è uno dei com-plessi piú affascinanti della grafica veneziana del sec. xviii.Lorenzo (Venezia 1736 - Madrid 1776). Secondo figlio pit-tore di Giambattista, a sua volta formatosi presso il padre,operò con lui e con Giandomenico nella decorazione dellaResidenza di Würzburg. Ancora giovanissimo trova una par-ticolare via espressiva nei ritratti a pastello, la cui delicatafattura ricorda Rosalba Carriera. Tale carattere è confer-mato nell’unica opera da lui firmata e datata, il Ritratto del-la madre Cecilia Guardi (1757: Venezia, Museo Correr). Illinguaggio si distingue da quello del padre per la cura di unapiú sottile rassomiglianza e per una tecnica meno salda, chealleggerisce il contorno delle figure. Nel 1762 segue il padree il fratello a Madrid, dove rimane fino alla morte, lavoran-do nell’ambiente della corte. Molte delle opere eseguite inquesto periodo risultano oggi scomparse, ma quelle super-stiti (specie le scene di genere) rivelano una personalità au-tonoma. Ritratti ed episodi carnevaleschi, sempre eseguiti apastello, sono conservati al Prado e nel Palazzo Reale di Ma-drid. Da non sottovalutare anche l’attività di incisore, spes-so impegnato a tradurre in stampa le celebri composizionidel padre (come la grande lastra con Santa Tecla che liberaEste). (fd’a).

Tietze, Hans(Praga 1880 - New York 1954). Storico dell’arte, allievo diWickhoff, prosecutore della tendenza analitica di Dvo≈ák edocente presso l’Istituto per la storia dell’arte dell’Univer-sità di Vienna fino all’avvento del nazismo, che lo costrinseall’emigrazione. Piú che nel ponderoso Die Methode der Kun-stgeschichte. Ein Versuch (Leipzig 1913), dedicato a Riegl eWickhoff, in cui tratta del contributo autonomo della sto-ria dell’arte alla ricerca storica generale e degli strumenti del-lo studio filologico delle opere, è nei successivi Geisteswis-senschaftliche Kunstgeschichte (in Die Kunstwissenschaft derGegenwart in Selbstdarstellungen, Leipzig 1924) in cui cor-regge l’impronta fortemente positivista del contributo pre-

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cedente, e Lebendige Kunstwissenschauft. Zur Krise der Kun-st und der Kunstgeschichte (Wien 1925) che T, pur confer-mando la sua concezione della storia dell’arte come investi-gazione delle grandi imprese degli artisti-eroi, riconosce ilproblema storiografico del contesto sociale e temporale del-la produzione artistica. Il rischio «fisiognomico» (l’opera diun autore come simbolo delle correnti di un’epoca) di unatale dicotomia analitica emerge in Tizian (Wien 1936 sul qua-le ritornerà successivamente nel 1950). Oltre agli scritti su-gli affreschi di Annibale Carracci nella Galleria Farnese, suibozzetti degli affreschi barocchi, su Pontormo, si ricordanoquelli su Domenico Martinelli (Wien 1922); sul disegno ve-neziano (New York 1944); sul Tintoretto (London 1948); suDürer (Wien 1951) e in particolare i suoi importanti contri-buti sui falsi: The psychology and aesthetics of forgery in art,del 1934 e Genuine and False. Copies, imitations, forgeries, del1948. (ss).

Tihanyi, Lajos(Budapest 1885 - Parigi 1938). Fu membro del gruppo de-gli Otto, poi degli Attivisti. Nelle sue composizioni lo spa-zio è espresso da forme chiare e concentrate (Nudo, 1917;Cactus, 1922: coll. priv.; Natura morta con boccale: Pécs, Mu-seo Janus Pannonius). Tali qualità costruttive si ritrovanonei ritratti, dove egli esprime gli elementi caratteristici delmodello attraverso le deformazioni dell’espressionismo (Ra-gazzo con camicia rossa: coll. L. Fábián; Autoritratto, 1912:Budapest, mng; Ritratto di Lajos Kassak, 1918: Budapest,Museo letterario). Dopo la prima guerra mondiale T si sta-bilì a Berlino, poi a New York e infine a Parigi, dove prati-ca l’astrattismo geometrico. È ben rappresentato a Budape-st (mng) e a New York (Brooklyn Museum). (dp).

Tikal, Václav(Ptenìn (Boemia occidentale) 1906 - Praga 1965). Dopo unesordio da autodidatta, completò i suoi studi presso l’Acca-demia di belle arti di Praga. L’incontro con le opere di DeChirico e Dalì, all’inizio della seconda guerra mondiale, loindirizzarono verso il surrealismo. I dipinti degli anni Qua-ranta, talvolta ispirati all’esperienza bellica (Lidice, 1944; Ildittatore, 1944), sono evocazioni melanconiche di paradisiperduti poste a confronto con la brutale realtà dell’epoca (Il-

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lusione di un’illusione, 1943; Paura, 1944). Dopo la guerraT fece parte del gruppo surrealista RA (1945-48). Attraver-so una trama di linee mutevoli, l’autore crea paesaggi irrea-li che qualche volta ricordano le selvagge vegetazioni di MaxErnst (Paesaggio incontaminato, 1945: Praga, ng); contem-poraneamente dà vita a un mondo fantastico di meccanismie di apparecchi insoliti, di costruzioni e di diagrammi enig-matici, ispirati al mondo della scienza (Omaggio ad Einstein,1946; L’osservatorio astronomico, 1947), proponendo unapropria visione mitica della civiltà. Verso la fine degli anniCinquanta, dopo un silenzio durato alcuni anni a causa del-lo sfavorevole clima culturale, riprende, senza grande suc-cesso, i temi della modernità di cui si era occupato in pre-cedenza, abbandonando definitivamente il principio dellarappresentazione verista per approdare a una sorta di liri-smo astratto che si concreta nell’universo dinamico e mute-vole delle Illusioni mobili (1963-65) e dei Fantasmi meccani-ci (1964-65), cicli in cui s’incontrano natura e cosmo, il rea-le e l’immaginario. (ivj).

Tilborch, Giffis van(Bruxelles 1625 ca. - 1678 ca.). Venne accolto tra i liberimaestri a Bruxelles nel 1654; la sua bottega attirò numero-si allievi. Nel 1966 fu incaricato di sovrintendere alle rac-colte di Tervueren. Probabilmente verso il 1670 soggiornòin Inghilterra. Le sue scene popolari si ispirano a G. Téniers(Banchetto di nozze: Dresda, gg; i Cinque sensi: Bruxelles,mrba e Digione, mba) e a Craesbeck, da cui trae temi, com-posizioni e uso del colore. Nei dipinti in cui raffigura scenedi società, introduce ritratti alla maniera di Gonzales Co-ques (Udienza accordata a Claude de Ligne: castello di Belœil,coll. de Ligne; Gruppo di famiglia: Bruxelles, mrba e L’Aja,Mauritshuis). (hl).

Tillemans, Peter(Anversa 1680 - Norton (Suffolk) 1734). Si recò a Londranel 1708 in compagnia del cognato Casteels, pittore di bat-taglie. Seguendo il genere ideato da John Wootton, T si spe-cializzò nella rappresentazione di cavalli in corsa in un par-co o dinanzi a un castello. I suoi dipinti erano molto ap-prezzati dall’aristocrazia inglese (Vedute del castello di

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Chatsworth: coll. del duca del Devonshire; Corse di cavalli: coll.del conte di Derby a Knowley Hall). Nei suoi quadri di bat-taglie imitò il francese Jacques Courtois (Attacco a un convo-glio: Bruxelles, mrba); realizzò anche vedute del Northamp-tonshire, incise da John Bridges e pubblicate a Oxford nel1791. Influenzò pittori inglesi, come Joseph Francis Nol-lekens. (php).

Tilman (Tilemann) (Simon Peter, Shenk, detto)(Lemgo 1601 - Brema 1668). Figlio del pittore Johann T, ilpittore, che si trovava a Brema nel 1614, appartenne a quel-la piccola cerchia di artisti barocchi tedeschi iniziati allo sti-le di Caravaggio dai caravaggisti di Utrecht, anche se è pos-sibile che durante i suoi viaggi in Ungheria e in Italia (Ro-ma), seguiti a un periodo di formazione a Utrecht, T abbiaavuto occasione di vedere direttamente opere di Caravag-gio. Svolse la maggior parte della sua attività a Brema, do-ve si rese noto come ritrattista. L’artista è rappresentato so-prattutto a Brema (kh C Focke Museum: Heinrich Meier,1667), al Museo di Kassel (la Buona ventura, 1633) e al Mu-seo di Budapest. (ga).

Timante (Timanthes)(isola di Cinto nelle Cicladi, fine del sec. v - inizio sec. iv a.C.). Dipinse quadri che furono celebri per la tensione dram-matica (Sacrificio di Ifigenia, Lapidazione di Palamede, Ciclo-pe dormiente), opere tutte scomparse. In un mosaico di Am-purias (Barcellona, ma) si ha forse un’eco del Sacrificio di Ifi-genia. Fu considerato il fondatore della scuola di Sicione.(mfb).

timuridiLa continuità dello stile tardo gialairide dell’epoca di Sul<ÇnA®mad fu assicurata dallo stesso T¥mr (Tamerlano) il qua-le fece trasferire il famoso pittore ‘Abd al-Hayy da Baghdadalla nuova capitale Samarcanda. Della produzione di questoperiodo, inizio del sec. xv, a Samarcanda non è rimasto nul-la, ma le fonti hanno tramandato una grande attività pitto-rica murale a opera dello stesso ‘Abd al-Hayy e di P¥r ‘Al¥BÇghshimÇl¥.Il periodo timuride comprende l’intero sec. xv e può esserediviso in due periodi. Il primo e piú importante è quello che

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coincide con il lungo regno di ShÇh Rukh (1405-47), duranteil quale i canoni estetici le cui basi erano state poste in epo-ca gialairide vennero codificati e un dinamico mecenatismofavorì la produzione di splendidi manoscritti illustrati. ShÇhRukh spostò la capitale da Samarcanda ad Herat e manten-ne un atelier di pittura nel quale i testi copiati erano so-prattutto di carattere storico, quali il rifacimento della Sto-ria Universale di epoca ilkhanide da parte di ©Çfi§-i Abr(ante 1427) e un’antologia storica (KulliyÇt-i tÇr¥khi del1415-16). ShÇh Rukh, infatti, intendeva proclamare la di-scendenza dei t dagli ilkhanidi e quindi il diritto dinasticoa governare sulla regione. Un importante manoscritto di ca-rattere storico-religioso probabilmente prodotto per ShÇhRukh è un Mi´rÇj-nÇma (Ascensione di Mu®ammad) com-pletato nel 1435. Altri manoscritti prodotti per ShÇh Rukhsono una raccolta poetica di Ni§Çm¥ (un Khamsa datato1431) e due volumi di poesie di ‘A<<Çr (uno dei quali data-to 1438).ShÇh Rukh favorì il decentramento delle attività artistichenei centri controllati dal nipote Iskandar Sul<Çn e dai pro-pri figli BÇysunqur, IbrÇh¥m Sul<Çn, Ìlgh Bïg e Mu®am-mad Jk¥, a Shiraz, Samarcanda e nella stessa Herat. Alcu-ni tra i piú grandi capolavori dell’illustrazione e della deco-razione del libro timuride furono prodotti per tali principi.Iskandar Sul<Çn fu governatore a Shiraz dal 1409 al 1414.Un gruppo di manoscritti può essere associato alla sua figu-ra in quegli anni: sono particolarmente interessanti perchéil loro stile sobrio e intimo può essere descritto come una fu-sione dello stile classico gialairide con quello locale muzaf-faride, in cui anche l’influenza della pittura cinese è moltoevidente. Due Antologie poetiche del 1410-11 sono i mano-scritti piú rappresentativi di tale stile. Anche un testo del1411 contenente il suo oroscopo finemente decorato è giun-to fino a noi.Il mecenate di maggior spicco dell’epoca di ShÇn Rukh è sen-za dubbio BÇysunqur (1397-1434), il quale fu governatoreprima a Tabriz e poi a Herat dove fece trasferire tutti i suoipittori, calligrafi e rilegatori. I dipinti prodotti nell’atelierdi BÇysunqur dimostrano un perfetto equilibrio compositi-vo e cromatico, un’ideale integrazione dei personaggi nelpaesaggio, una completa assenza di drammaticità che si av-

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vicina tuttavia a un puro accademismo, seppur di altissimolivello. I dipinti di manoscritti quali una copia delle poesiedel GulistÇn di Sa‘d¥ e di un’Antologia poetica, entrambi del1426-27, dell’HumÇy e HumÇyn del 1427-28, di un Kal¥lae Dimna del 1429 e di uno ShÇhnÇma del 1430 sono indivi-dualmente dei capolavori in cui il brillante e freddo croma-tismo fa quasi pensare che siano illuminati da una fonte diluce interiore. I manoscritti prodotti per BÇysunqur rag-giunsero una completezza armonica ottenuta dalla perfettafusione delle singole arti della calligrafia, della decorazione,della pittura e della rilegatura.Altri principi mecenati durante il regno di ShÇh Rukh furo-no IbrÇh¥m Sul<Çn (1394-1435) che succedette a IskandarSul<Çn a Shiraz, Ìlgh Bïg (1394-1449) a Samarcanda eMu®ammad Jk¥ (1402-44) governatore di Transoxiana eKhorasan. Durante il periodo di IbrÇh¥m, lo stile cosiddet-to «provinciale» di Shiraz continuò a fiorire: testimonianzadi ciò è soprattutto uno •afar-nÇma (Il libro del conquista-tore [T¥mr] oggi disperso, opera dello storico Vazd¥, un te-sto che ebbe molta fortuna in epoca timuride e del quale esi-stono circa trenta copie nel sec. xv. Ìlgh Bïg coltivò ungrande interesse per le scienze astronomiche e a lui si devela costruzione dell’osservatorio di Samarcanda nel 1428-29,la compilazione di importanti tavole astronomiche e di unacopia illustrata del $uwar al-kawakib al-thÇbita (Le rappre-sentazioni delle stelle fisse). Mu®ammad Jk¥ il figlio piùgiovane di ShÇh Rukh, sembra avere una parte minore inambito artistico, tuttavia una copia dello ShÇn-nÇma datata1440 e un Khamsa dedicato a sua moglie nel 1445-46 sonotestimonianza del suo mecenatismo.Quando ShÇh Rukh morì nel 1447, l’unico figlio ancora vi-vente era Ìlgh Bïg, il quale gli succedette al trono ma fuucciso nel 1149: l’epoca del grande mecenatismo principe-sco della famiglia di ShÇh Rukh si esaurì prima della fine de-gli anni ’40 del secolo.Dopo un ventennio di scarso interesse per la produzione dellibro illustrato in epoca timuride, dovuto soprattutto a mo-tivazioni di successione dinastica, si può aprire il secondoperiodo di attività artistiche di alto livello. Due pronipoti diT¥mr Sul<Çn ©usayn M¥rzÇ (regnante dal 1470 al 1506) esuo figlio Bad¥ al-ZamÇn († 1514), furono poeti essi stessi egli ultimi regnanti t a mantenere un atelier di illustrazione

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del libro a Herat, dopo il 1468. I piú celebri manoscritti pro-dotti alla fine del sec. xv sono i testi poetici del famoso vi-sir di Husayn, Mir ‘Al¥ Sh¥r NavÇ’¥ del 1485, il GulistÇn e ilBustÇn del poeta Sa‘d¥, copiati rispettivamente nel 1486 e1488, e una copia del D¥wÇn poetico dello stesso Sul<Çn©usayn (1490 ca.). L’epoca di Sul<Çn ©usayn fu largamen-te imitativa dei passati splendori delle corti di ShÇh Rukh;le composizioni delle miniature degli splendidi manoscrittiprodotti nell’ultimo ventennio del sec. xv si basano su in-dubbi modelli precedenti, sebbene il colorismo sia piú so-brio e meno brillante: buoni esempi sono una copia delMan<iq al-<ayr (Il discorso degli uccelli) del poeta ‘A<<Çr del1483 e un Kkamsa di Ni§Çm¥ del 1494-95.Durante il regno di Sul<Çn ©usayn fu attivo il piú celebra-to pittore persiano di tutte le epoche, KamÇl al-D¥n BihzÇd,il quale diresse l’atelier di Herat ed ebbe collaboratori di al-tissimo livello quali QÇsim ibn ‘Al¥ e M¥rÇk NaqqÇsh. L’epo-ca di BihzÇd può essere considerata come il superamentodell’accademismo dei pittori della prima metà del secolo tra-mite una maggior varietà compositiva e una partecipazioneemotiva alle scene illustrate, che molto spesso narrano sce-ne di vita quotidiana e si differenziano, in questo dalle sce-ne celebrative di tutti i dipinti dell’epoca di ShÇh Rukh.BihzÇd dipinse alcune miniature in quasi tutti i manoscrit-ti citati in precedenza, il GulistÇn, il BustÇn e il Khamsa; trai suoi primi lavori sono alcuni dipinti in un •afarnÇma del1467-68; egli completò anche le illustrazioni di un Kkamsacopiato nel 1442 e terminato nel 1493. BihzÇd è celebratoda QÇ£¥ A®mad nel sec. xvii come allo stesso livello arti-stico del leggendario Mani, «l’inventore della pittura per-siana», tuttavia egli fu con ogni probabilità solo il migliorrappresentante di una scuola artistica di altissimo livello adHerat alla fine del sec. xv: i lavori dei suoi compagni QÇ-sim e M¥rÇk, i quali produssero dipinti negli stessi mano-scritti in cui lavorò BihzÇd, sono di qualità molto vicina aquella del celebrato maestro. L’importanza della figura diBihzÇd si estende anche al fatto che ShÇh IsmÇ‘il, il fonda-tore della dinastia safavide che successe ai t, lo scelse comedirettore della Biblioteca reale a Tabriz nel 1522, assicu-rando così una continuità di stile pittorico nei due secolisuccessivi. (sca).

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Tinelli, Tiberio(Venezia 1580-1638). Allievo di Giovanni Contarini e Lean-dro Bassano, è uno dei protagonisti della pittura venezianafra terzo e quarto decennio del Seicento, sia nelle rare pro-ve nel campo della pittura devozionale (telero della Roton-da di Vicenza, 1636, dove inaugura un gusto sviluppato poida Forabosco e Carpioni) sia in quella mitologica, sia so-prattutto nella ritrattistica, dove dà le sue prove migliori edove raggiunge il massimo della fama (tanto che nel 1633 èinvitato in Francia da Luigi xiii). In questo campo alla le-zione bassanesca del naturale si aggiungono stimoli da An-ton van Dyck (in Italia dal 1622), dalla ritrattistica france-se (Vouet e Bourdon) e da Bernardo Strozzi (Ritratto di Ni-colò da Mula: Milano, mpp; Conte Ludovico Widmann:Washington, ng; Marcantonio Viaro, 1636: Hartford, Wad-sworth Museum). (elr).

Tinti, Giovan Battista(Parma 1558-1604). È uno dei piú interessanti rappresen-tanti della cosiddetta seconda «maniera parmense»: quellastagione cioè, che nel tardo Cinquecento, riprende e riela-bora tematiche e soluzioni stilistiche parmigianinesche e be-dolesche arricchendole con le soluzioni di volta in volta pro-poste da Orazio Sammacchini, Pellegrino Tibaldi, dai Pro-caccini.La sua prima opera nota è la decorazione della cupola dellachiesa delle Cappuccine a Parma (1588) in cui si ritrova unanotevole sintesi dei contenuti post-tridentini, giocati su uncromatismo brillante di derivazione fiamminga.Altre opere, sempre di soggetto religioso, sono conservatein alcune chiese di Parma e nella gn della stessa città. Si ri-cordano La lavanda dei piedi e lo stendardo processionale del-la Confraternita delle Cinque piaghe con Cristo risorto. (lfs).

Tintoretto Jacopo Robusti detto)(Venezia 1519-94). Il pittore deve il soprannome all’attivitàdel padre, tintore di panni di seta, e alle minute proporzio-ni del fisico. Protagonista del dibattito figurativo e dell’evo-luzione della pittura veneziana nel corso del sec. xvi, rap-presenta il versante eclettico e spettacolare della piú vivacestagione dell’arte lagunare. Pur senza aver compiuto lunghi

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viaggi di studio, T mostra un costante aggiornamento sullepiú avanzate espressioni della ricerca artistica, interpretan-do gli stimoli centro-italiani con personale padronanza de-gli effetti cromatici e luministici.Il percorso giovanile di T costituisce un capitolo particolar-mente complesso e importante, non solo per comprendere lebasi su cui si fonda l’evoluzione del pittore, ma anche perosservare la grande varietà di stimoli che offriva Venezia nelsecondo quarto del Cinquecento. A parte un brevissimo etempestoso alunnato presso Tiziano, T fonda il proprio ap-prendistato su una grande forza di volontà e su una strenuaautonomia. Nel 1539, a vent’anni, apre bottega: fanno giàparte della sua esperienza il confronto con le idee di Boni-facio de’ Pitati, del Pordenone, di Lorenzo Lotto. L’arrivoa Venezia di artisti toscani (Francesco Salviati, GiuseppePorta, Giorgio Vasari) stimola il giovane T al diretto con-fronto con il manierismo e in particolare con Michelangelo.Non è giunta alcuna testimonianza su un viaggio a Roma diT giovane: la sua ampia conoscenza dell’arte michelangiole-sca si formò anche grazie alla circolazione di stampe e di cal-chi. Fin dalle prime opere importanti (Episodi delle Meta-morfosi: Modena, Gall. Estense; Cristo fra i dottori: Milano,Museo del Duomo; varie versioni di Cristo e l’adultera) T sicimenta con composizioni di dichiarato virtuosismo pro-spettico, con pose forzate e torsioni innaturali. Le primecommissioni importanti cadono nel 1547, data che segnal’esordio ufficiale di T sulla scena veneta. Le due tele dellachiesa di San Marcuola sottolineano l’importante ruolo cheT affida alla luce: l’Ultima Cena, tuttora in situ, è la primaversione di un soggetto ripetutamente affrontato dal pitto-re; la Lavanda dei piedi (oggi a Madrid, Prado) è ambientatain una vasta scena architettonica in cui i gruppi di perso-naggi si dispongono in modo libero e asimmetrico. L’annosuccessivo T si impone all’attenzione generale con il mae-stoso Miracolo di san Marco (Venezia, Accademia), richiestodalla prestigiosa Scuola Grande di San Marco. La gestualitàaccentuata e il senso dello spettacolo si combinano con il fre-sco gioco delle luci e dei colori. È possibile che già in que-st’opera T abbia fatto ricorso a uno studio con modellini incera di un piccolo palcoscenico: secondo il biografo seicen-tesco Claudio Ridolfi, il pittore aveva l’abitudine di costruire

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veri e propri «teatrini» in cui disponeva manichini, illumi-nandoli con fonti di luce diverse.Nonostante la dichiarata avversione di Tiziano, la carrieradi T procede senza soste. A trent’anni il pittore comincia alavorare per la chiesa di San Rocco (la prima tela è il San Roc-co che risana gli appestati) e riceve numerose richieste di ri-tratti da parte dei membri delle piú influenti famiglie vene-ziane. Durante gli anni ’50 si avverte l’accostamento ai mo-di del Veronese, da poco trasferitosi a Venezia, specie nellescene di carattere mitologico o nei temi biblici trattati in mo-do profano. Risalgono a questi anni tele come La liberazio-ne di Arsinoe (Dresda, gg), Narciso alla fonte (Roma, Gall.Colonna), Marte, Venere e Vulcano (Monaco, ap), Susanna ei vecchioni (Vienna, km) e le vivaci tavolette con Storie bi-bliche del Prado. Toni vivacissimi caratterizzano anche SanGiorgio e il drago (Londra, ng). Incessante è l’attività per leistituzioni veneziane: per la Scuola della Trinità T dipingecon fantasia estrosa le Storie della Genesi (1550-53: oggiall’Accademia); spettacolari sono le ante d’organo con la Pre-sentazione di Maria al Tempio della chiesa della Madonnadell’Orto (1552); la pala con San Giorgio, la principessa e sanLudovico già nella chiesetta di Palazzo Ducale, ora all’Ac-cademia. L’affollata, e drammatica, Probatica Piscina dellachiesa di San Rocco (1559) conclude questa fase e proponein modo grandioso l’espressione violenta dei gesti e dei sen-timenti congeniale a T. Seguono imprese molto impegnati-ve, come le due immense tele per il presbiterio della Ma-donna dell’Orto (Giudizio Universale e Caduta della manna,1562-66). La conferma dell’altissimo prestigio raggiunto dalpittore viene dalla richiesta di Tommaso Rangone, Guar-dian Grande della Scuola di San Marco, che gli commissio-na tre vaste tele con episodi della vita del santo patrono,compiute tra il 1562 e il 1566. Rappresentano uno dei mo-menti di massimo impegno della carriera di T, specie sottoil profilo dell’elaborazione di ardite scenografie prospetti-che: due tele (Trafugamento del corpo di san Marco e San Mar-co salva un saraceno durante una tempesta) sono all’Accade-mia di Venezia, mentre il Ritrovamento del corpo di san Mar-co è a Brera.Il 31 maggio 1564 i consiglieri della Scuola di San Rocco in-dicono un concorso fra i pittori per assegnare l’ambìto com-pito di decorare le sale della sede. Tema da svolgere è il boz-

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zetto per una tela ovale con San Rocco in gloria. Con un riu-scito colpo d’astuzia T sconfigge la concorrenza di altri mae-stri e si aggiudica la commissione. Inizia così la lunga seriedi interventi del pittore nella Scuola di San Rocco, tanto fre-quenti e importanti da diventare il leit-motiv della fase avan-zata della sua produzione. Il risultato finale è uno dei piúimportanti cicli di pittura del tardorinascimento, conserva-to integralmente nella sede originaria. Il lavoro inizia con laStanza dell’Albergo (1565-67), con Scene della Passione diCristo, culminanti nella grandiosa Crocifissione. Seguirà (dal1576) l’ampia serie di tele per il soffitto (Storie bibliche) e lepareti (Storie del Nuovo Testamento) del Salone del Capito-lo. Negli anni che intercorrono fra l’una e l’altra serie si col-locano altre opere significative, sempre improntate alla ri-cerca di forti effetti chiaroscurali e di stravaganti ribalta-menti scenografici. Numerosi dipinti soddisfano richiesteufficiali del governo della Repubblica: i cinque Profeti dellaLibreria Marciana, pale votive per i procuratori, gli avoga-dori e la famiglia del doge Mocenigo, quattro Allegorie civi-li ora nella sala dell’Anticollegio di Palazzo Ducale (termi-nate nel 1577). Di poco successiva è l’esecuzione degli ottoFasti gonzagheschi (1579-80), tele storiche destinate alla, cor-te mantovana (Monaco, ap), T è in prima fila tra gli artistiimpegnati nella ri-decorazione di Palazzo Ducale, devasta-to da un incendio nel 1577. L’impresa ha un significato sim-bolico molto sentito: mentre la Serenissima si sta avviandoverso un lento declino, T ha il compito di celebrarne per im-magini il mito. Il maestro organizza il lavoro di una schieradi collaboratori e pone il proprio marchio sull’aspetto delleSale delle Quattro Porte, del Senato, del Collegio e delloScrutinio. Dalla necessità di procedere rapidamente e diuniformare lo stile dei dipinti nasce una certa monotoniaesecutiva, che diventa pesantezza inerte nelle opere dei piúmodesti continuatori. L’attività di T in Palazzo Ducale cul-mina con l’esecuzione delle tele ornamentali nella Sala delMaggior Consiglio: l’intera parete di fondo è occupata dalParadiso, iniziato nel 1588.Poco prima il maestro aveva portato a termine il terzo ciclodi grandi tele per la Scuola di San Rocco, le Storie dell’in-fanzia di Cristo nel salone a piano terra. Alla dichiarata spet-tacolarità dei dipinti al piano superiore fa ora seguito un at-

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teggiamento contemplativo, una fine ricerca sulla luce, unlirismo commosso. Le ultime energie creative di T sono de-dicate a importanti dipinti per la chiesa di San Giorgio Mag-giore (Caduta della manna, Deposizione, Ultima Cena). Insi-stendo sull’estremo tasto della sua inventiva, T dipinge sce-ne cariche di mistero e di intensa partecipazione. Famosa èsoprattutto l’Ultima Cena, con la tavolata disposta in diago-nale e un complicato gioco di luci fioche. (szu).

Tirolo → Trentino - Alto Adige

TischbeinAppartenenti a una famiglia di artigiani originaria dell’As-sia, operarono con successo tra la seconda metà del sec. xviiie l’inizio del xix. Tra gli esponenti di maggior rilievo:Johann Friedrich August, detto il T di Lipsia (Maastricht1750 - Heidelberg 1812), nipote di Johann Heinrich il Vec-chio e cugino di Johann Heinrich Wilhelm. Allievo del pa-dre, poi dello zio, divenne il protetto del principe von Wal-deck, che gli diede l’opportunità di studiare a Parigi (1772-77);si recò poi a Roma e a Napoli (1777-80) per tornare in Ger-mania dapprima al servizio del principe ad Arolsen, poi, nel1795, di Leopoldo III, principe di Anhalt-Dessau. Direttoredell’Accademia di Lipsia dal 1800 operò anche a San Pie-troburgo (1806-809). Fu ritrattista ufficiale e mondano: unìalla maniera francese, che poté apprendere a Parigi (guar-dando in particolare alle opere di M.me Vigée-Lebrun), lenovità iconografiche e stilistiche provenienti dall’Inghilter-ra (Dama che suona il liuto, 1786; Berlino, ng; Ritratto diM.me Dufour-Feronce col figlio, 1802: Kassel, Museo; Ri-tratto del duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimar, 1795: Wei-mar, Museo).Johann Heinrich, detto T il Vecchio o il T di Kassel (Haina1722 - Kassel 1789). Dopo l’apprendistato svolto presso unpittore di Kassel, fu notato dal conte Stadion che lo inviò aParigi, dove fu allievo di Carle van Loo (1744-48). Operò inseguito a Venezia, presso il Piazzetta, poi a Roma. Tornatoa Kassel nel 1752, passò al servizio del langravio GuglielmoVIII d’Assia e divenne docente, poi direttore, dell’Accade-mia della città. In uno stile che dimostra la solidità della suaformazione pur non approdando a risultati originali, trattòvari soggetti dalla storia antica (Contesa tra Achille e Aga-

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mennone, 1776: Amburgo, kh, dal quadro di A. Coypel con-servato nel Museo di Tours) alle scene di genere e familiari(Autoritratto con la moglie alla spinetta, 1769: Berlino, sm,gg). Tra i suoi lavori per il langravio, il piú famoso è senzadubbio il complesso di ritratti di donne costituenti la «gal-leria delle bellezze» nel castello di Wilhelmstal nelle vici-nanze di Kassel.Johann Heinrich Wilhelm, detto Wilhelm T o il T di Goethe(Haina 1751 - Eutin 1829). Cresciuto in un clima tardoba-rocco presso i due zii J. Heinrich a Kassel e Jacob ad Am-burgo, durante un viaggio nei Paesi Bassi scopre la pitturaolandese, mentre in Svizzera risente dello Sturm und Drang.Aderirà al classicismo a partire dal suo secondo soggiorno aRoma. Si stabilì nel 1777 a Berlino, dove conobbe un rapi-do successo come ritrattista. Nel 1779 l’Accademia di Kas-sel gli assegna una borsa di studi in Italia; in questa occa-sione il giovane T soggiorna a Monaco e Norimberga per stu-diare le opere di Dürer del quale copia gli Apostoli. A Zurigonel 1781 incontra Lavater che lo mette in contatto conGoethe; in questi anni realizza il Ritratto di Bodmer (Zuri-go, kh) immagine, istantanea che risente della «teoria deicaratteri» di Lavater, Götz e Weislingen (Weimar, GoetheNationalmuseum), in cui il soggetto medievale è in apparentecontrasto con la classica disposizione dei personaggi (l’ope-ra tradisce ancora le origini barocche dell’artista nella suaconcezione e nel pathos), e la Vista dal San Gottardo (ivi), trale prime interpretazioni romantiche del carattere selvaggiodel paesaggio svizzero. Nel 1783 Goethe convince il duca diGotha ad elargirgli una borsa di studio per un secondo viag-gio in Italia. Agli inizi T continuerà a trattare temi ispiratialla storia nazionale, ma presto si convertirà all’antichità gre-co-romana sull’esempio di David. Del 1787 è il celebre ri-tratto di Goethe nella campagna romana (Francoforte, ski),opera carica di simboli e allegorie che elevano il modello aldi sopra della sua sfera reale. Lo stesso anno si reca a Napo-li dove è nominato direttore dell’Accademia: la presa dellacittà da parte dei Francesi ne determinò il ritorno in Ger-mania, dove si stabilì ad Amburgo (1800) e poi a Eutin(1809), al servizio del duca di Oldenburg. La sua persona-lità è interessante soprattutto per i legami che intrattennecon la cerchia di Bodmer e con Goethe: della sua attività di

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grafico notevoli si dimostrano le incisioni di vasi della coll.Hamilton e le illustrazioni del testo di Omero. (pv + sr).

Tisi, Benvenuto → Garofalo

Tiso, Oronzo(Lecce 1726-1800). Di agiata famiglia leccese, riceve in gio-vane età la tonsura; tra il 1746 e il 1749 è a Napoli per stu-diare legge. La sua attività artistica è documentata dal 1757,anno in cui esordisce a Lecce con i teloni della Cattedralemostrando già una fisionomia ben definita (l’Assunta, 1757:Lecce, Cattedrale). Dominante risulta essere la componen-te solimenesca fusa ad echi del De Mura e del Giaquinto,rielaborati in un linguaggio autonomo affidato a una ricca ecangiante intelaiatura cromatica, che riscuote notevole suc-cesso fruttandogli commissioni in tutto il Salento. (ils).

Tissot, Jacques-Joseph, detto James(Nantes 1836 - Bullion (Doubs) 1902). Artista eclettico, dalcarattere complesso, divise la sua vita tra Parigi e Londra, do-ve riscosse immenso successo. Subì influssi opposti, che spie-gano l’aspetto eterogeneo della sua opera. Un viaggio in Bel-gio nel 1859 gli fece scoprire Henri Leys e i «prerubensiani»che non mancarono di esercitare un profondo influsso sullasua opera, evidente in numerosi quadri non alieni da certa pe-santezza d’ideazione: allegorie (la Danza macabra, 1860: Pro-vidence, Rhode Island School of Design) e scene di generecon personaggi in costume antico (Una storia interessante,1872: Melbourne, ng). L’influsso di Degas, suo intimo ami-co, è manifesto in molte tele (la Veste rossa, 1864: Parigi, Lou-vre; l’Acrobata, 1883 ca.: Boston, mifa). Oltre ad essere abi-le ritrattista della società elegante (il Circolo di rue Royale,1868: Parigi, coll. priv.), si dedicò anche all’incisione dal 1860lasciando un complesso di ca. 90 lastre. Dal 1886 si recò spes-so in Palestina per preparare l’illustrazione della Vita di Cri-sto (edita nel 1896) e poi della Sacra Bibbia (edita nel 1904). Isuoi dipinti sono numerosi nei musei inglesi (Londra, npg, Ta-te Gall.; Manchester), americani (New York, Brooklyn Mu-seum; San Francisco; Toledo; Worcester; Boston) e del Com-monwealth (Hamilton. Toronto, Ottawa, Auckland). In Fran-cia è presente nei musei di Nantes (serie di quattro quadri sultema del Figliol prodigo, 1880) e di Gray. (ht).

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Titi, Filippo(Città di Castello 1639-1702). Canonico della Cattedrale diCittà di Castello dal 1658 e protonotario apostolico, avevacondotto, probabilmente a Roma, studi universitari di di-ritto. In patria aveva appreso il disegno da Virgilio Ducci:ciò gli fu senz’altro utile quando scrisse lo Studio di pittura,scoltura et architettura nelle chiese di Roma, comparso a Ro-ma nel 1674 e ampliato a cura dell’autore, con il titolo diAmmaestramento utile e curioso di pittura scoltura e architet-tura nelle chiese di Roma nel 1686, con un’appendice conte-nente la descrizione del Duomo di Città di Castello. In es-so, T dava un quadro accurato ed esauriente delle opere edegli aspetti presenti nelle chiese utilizzando come princi-pale fonte informativa le Vite (1642) e Le nove chiese di Ro-ma (1639) di Giovanni Baglione, ma arricchendole con nuo-vi dati e osservazioni. L’esigenza di offrire a «forastieri ecuriosi» una guida di buona qualità fece sì che attraverso nu-merose ristampe aggiornate, le principali apparse nel 1708(a cura di Francesco Posterla), nel 1721 e nel 1763 (que-st’ultima dovuta a Giovanni Gaetano Bottari), l’opera delT rimanesse insuperata fino oltre la metà del sec. xviii. Il Tfu anche architetto e cartografo. (sag).

Tito, Ettore(Castellamare del Golfo (Trapani) 1859 - Venezia 1941). Ini-zialmente allievo a Napoli dell’olandese van Haanen, si sta-bilisce con la famiglia a Venezia, studiando all’Accademiacon Pompeo Molmenti. L’opera con cui esordisce nel 1887,Pescheria vecchia a Venezia, di ispirazione decisamente fa-vrettiana, riscuote un notevole successo e viene acquistatadal Governo per la gnam di Roma. Dopo aver presentato al-la I Esposizione internazionale veneziana, nel 1895, Fortu-na e Processione, T ottiene il primo premio all’edizione suc-cessiva con Sulla laguna; nel 1899, alla terza, è presente conOndine, San Marco, Sulla diga, In laguna, Chioggia, Pelatricidi noci (disegno) e tre studi. T parteciperà in seguito a qua-si tutte le edizioni della manifestazione, con mostre indivi-duali nel 1912 e nel 1922. Alle prime opere, che sulla sciadi Favretto ritraggono con stile realistico e virtuosismo tec-nico e luministico scene di ambiente popolare veneziano (Lacbiromante, 1886; Ragazza allo specchio, 1895: entrambi a

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Venezia, coll. T), fa seguito la produzione matura, impron-tata a un eclettismo la cui fonte di ispirazione è la fastosapittura veneta del Cinquecento e soprattutto del Settecen-to. Ai paesaggi, soprattutto marine (Sulla laguna, 1901: Udi-ne, gam; Chioggia dopo la pioggia: coll. priv.), vengono ad ag-giungersi scene allegoriche dal vago mitologismo, popolateda ninfe, veneri e amorini (Nascita di Venere, 1903: Vene-zia, Ca’ Pesaro; Baccanale, 1906: Milano, gam; Amore e leParche: Roma, gnam). L’artista sviluppa una tecnica dal co-lore brillante e dalla pennellata briosa che denuncia anchela suggestione della pittura di successo di Zorn, Besnard, So-rolla, Sargent. I suoi preziosi ritratti femminili (L’amazzo-ne, 1906: Genova-Nervi, gam; Donne: Trieste, Civico Mu-seo Revoltella) hanno tangenze con la pittura boldiniana. Tsi cimenta inoltre in ampi affreschi allegorici e religiosi, co-me quelli nella Villa Berlinghieri a Roma e quelli nella chie-sa degli Scalzi a Venezia (1933), che vanno a sostituire l’ope-ra tiepolesca distrutta nel 1915.La personale del 1919 alla Galleria Pesaro di Milano ne san-cisce definitamente il successo. Nel 1929 T, che già inse-gnava all’Istituto delle belle arti, è nominato Accademicod’Italia. Nel 1932, alla XVIII Biennale veneziana che gli de-dica una mostra retrospettiva, l’anziano T espone tra l’altroL’eterna storia, Quasimodo, La stalla, Alto Adige, Canefora.Alla Mostra dei Quarant’anni della Biennale (1935) sonopresenti quindici sue opere, tra le quali l’importante tondoallegorico del 1910 raffigurante Il trionfo di Venezia. Fu an-che scultore, con una totale adesione ai canoni classicistici(La sorgente, 1901: Venezia, coll. T). (eca).

Tito BustilloCaverna, denominata talvolta El Ramu, a Ribadesella inSpagna (Oviedo), decorata da dipinti preistorici scoperti nel1968 da un gruppo di giovani speleologhi, appartenenti perstile e composizione alle testimonianze parietali franco-can-tabriche.Dopo un difficile accesso e un percorso di gallerie con qual-che figura isolata, si apre una vasta sala la cui parete è ador-na di una serie di dipinti, alcuni di 2 m di lunghezza. L’in-sieme è impressionante per la qualità pittorica degli anima-li, per il colore, dalle dominanti viola, rosso e nero, e per ilnumero delle raffigurazioni organizzate in pannelli. La com-

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posizione centrale sviluppa, su una dozzina di metri di lun-ghezza, le consuete associazioni animali e i segni astratti ti-pici dell’ambito franco-cantabrico. Alla base della composi-zione e sul perimetro sono raffigurati dei cervi. Il centro èoccupato da una serie di magnifici cavalli sui quali si so-vrappongono teste di bovidi. Una renna è notevole per la fi-nezza del contorno della testa e del collo e per le tinte neree brune che realizzano effetti di rilievo nel pelame. L’insie-me è dominato da due grandi cavalli in sequenza, uno trac-ciato in nero con campitura viola, l’altro violetto, con ban-de parallele sulle zampe. Di fronte, mirabile è un contornoin nero con una testa di cavallo. A queste figurazioni si ag-giungono segni astratti, dipinti o incisi, nella tradizionedell’arte franco-cantabrica.In fondo alla grotta, a 500 m dalla sala dipinta, uno strettocorridoio è ornato da una serie di segni, tra cui vulve, pun-ti e bande rosse. Numerose incisioni di cervidi in particola-re, completano la decorazione parietale. Le qualità tecnichedei dipinti sono notevoli. Spesso i contorni sono risolti daun tratto scuro e campiti in uno o piú colori, le cui grada-zioni determinano il rilievo. I dettagli sono originali, comele barre dipinte sulle zampe dei cavalli, che si riscontrano inaltre grotte spagnole (Altxerri). Il viola, che nell’arte fran-co-cantabrica non è molto usato, qui compare in numerosesfumature. La preparazione dei fondi, le raschiature e l’usodi tratti incisi finemente sui dipinti indicano una certa evo-luzione stilistica. Sembra che il complesso appartenga allostile IV del Maddaleniano medio. (yt).

Tivoli, Serafino de → De Tivoli, Serafino

TizatlànLe rovine di un edificio precolombiano nel villaggio di SanEsteban a T (località del Messico, Stato di Tlaxcala), situa-to su una piccola collina a nord-est di Tlaxcala, furono rin-venute poco prima del 1927. Una larga piattaforma condu-ceva a un tempio, il cui ingresso era preceduto da un porti-cato di possenti colonne dietro al quale sono due altari dipietra dipinti a fresco. La parte superiore di questi altari èincavata e contiene un piccolo recipiente chiuso da un co-perchio dipinto di rosso, prolungato, frontalmente, da un

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canale dipinto di nero. Sulla parte anteriore dell’altare «A»,separate dal canale, si fronteggiano due figure divine: quel-la di destra rappresenta Tezcatlipoca, riconoscibile dal vol-to a strisce nere e gialle. La divinità della guerra, con la ti-pica acconciatura dei guerrieri e ornata da piume bianche,regge nella mano sinistra uno scudo decorato da piume e daun’insegna composta da tre bande nere e due dardi, nell’al-tra mano un simbolo composto da fasce e da dischi di colo-re azzurro. L’altra figura, Tlahuizcalpantecuhtli, personifi-cazione del pianeta Venere, ha il corpo rosso rigato di bian-co e una testa di morto con due bande nere. I suoi capelligialli, simbolo della luce aurorale, sono coronati da piumebianche e nere; due stendardi (uno azzurro e giallo, l’altrogiallo e nero) tenuti in una mano e una freccia di turchesinell’altra, completano gli attributi di questa divinità. La de-corazione delle parti laterali dell’altare presenta, al centro,uno scudo costituito da un cerchio blu, circondato da unanello rosso e attraversato da una striscia colorata; ai suoifianchi sono dipinti tre motivi in blu e in giallo un cuore, unteschio e un volto umano raffigurante il dio Xipe-Totec.La parte frontale dell’altare «B» è decorata da due scene di-pinte ai lati del canale che discende dalla parte superiore.Nella prima, una donna nuda, circondata da pesci, nuota inun bacino, mentre tre vegliardi barbuti, raffiguranti le divi-nità, le s’avvicinano. I tre vecchi compaiono nuovamentenella seconda scena accanto a un vaso colmo d’acqua in cuinuota un pesce in mezzo a conchighe e molluschi. I fianchidell’altare presentano delle bande orizzontali suddivise cia-scuna in tre quadrati, al cui interno è ripetuto lo stesso mo-tivo: uno scorpione. I colori – blu, giallo, nero, bianco e ros-so – sono distribuiti con giusto senso di equilibrio e di ar-monia.La decorazione di questi altari, che dovevano servire per isacrifici, è così prossima a quella del Codex Borgia per cui sipossono far risalire, senza esitazione, alla civiltà azteca. (sls).

Tiziano (Tiziano Vecellio)(Pieve di Cadore (Belluno) 1488/90 - Venezia 1576). Pitto-re «universale», tra i pochi che allora conquistarono un mer-cato dell’arte di portata europea, accorto imprenditore di sestesso e di una bottega impostata secondo inedite regole pro-duttive, in contatto con tutte le massime autorità culturali

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e politiche del suo tempo; autore di un profondo rinnova-mento della pittura basato sull’uso del colore, contraltarecritico del «primato del disegno» di Michelangelo, attentoa creare una rete di propaganda sostenuta da illustri lettera-ti, T è uno dei grandi protagonisti del sec. xvi. La vicendabiografica e creativa è molto ben documentata dagli scritto-ri d’arte contemporanei (l’epistolario di Pietro Aretino, ilDialogo di pittura di Ludovico Dolce, la seconda edizione del-le Vite di Vasari) e da numerose lettere inviate da T stessoai committenti, in particolare alla corte spagnola. Nel sec.xvii si moltiplicano le biografie (Anonimo del Tizianello, Bo-schini, Ridolfi) e gli studi critici.L’unico punto su cui le fonti antiche non trovano un con-vincente accordo è la data di nascita che ha a lungo oscilla-to tra il 1473 il 1490. La questione è complicata dal fattoche T stesso, in alcune lettere, sembra aver aumentato a bel-la posta la propria età, per sollecitare pagamenti ritardati eanche per circondarsi di un’aura mitica, da vero patriarcadell’arte veneziana. Nell’atto di morte, per di piú, il pitto-re viene registrato come defunto a 103 anni. La critica piúrecente sembra aver fissato la nascita del maestro, secondofiglio del notabile cadorino Gregorio Vecellio, al 1488/90 (siveda a tal proposito la grande mostra organizzata a Veneziae a Washington nel 1990, in occasione del presunto quintocentenario dalla nascita). La migliore ragione per sostenerequesta data, oltre ad alcuni importanti appigli forniti dallefonti cinquecentesche, è l’impossibilità di individuare concertezza opere di T anteriori al 1506-08. Lasciata Pieve diCadore ancora bambino, T si stabilisce a Venezia insieme alfratello maggiore Francesco. Il suo apprendistato di pittoreinizia presso Sebastiano Zuccato, specialista del mosaico.Ricevuti i primi rudimenti tecnici, l’adolescente T si spostanell’atelier di Gentile Bellini, e da qui passa a collaborarecon Giovanni Bellini, pittore ufficiale della Repubblica. Pos-siamo ipotizzare che questo trasferimento sia avvenuto nel1507, anno della morte di Gentile: T è dunque vicino ai di-ciott’anni, prossimo all’avvio di una carriera autonoma.Un’interessante testimonianza degli snodi della formazionedi T è la pala con Jacopo Pesaro davanti a san Pietro dei Mu-sei reali di Anversa, dipinta come ricordo votivo per una vit-toria sul mare del committente. Nel 1508 cade l’avveni-

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mento intorno al quale ruota tutta la giovinezza di T: il con-tatto con Giorgione, in occasione dell’esecuzione degli af-freschi ornamentali sulle due facciate del Fondaco dei Te-deschi, l’emporio dei mercanti nordici, vicino al ponte diRialto. Giorgione, titolare del contratto, si occupa della fac-ciata principale, sul Canal Grande, mentre a T viene asse-gnata la fronte verso le Mercerie. Degli affreschi rimango-no pochi frammenti, conservati nella Galleria Franchetti al-la Ca’ d’Oro: una serie di incisioni, realizzate verso la metàdel sec. xviii da Anton Maria Zanetti restituisce almeno unricordo delle figure che decoravano le due facciate. Da que-ste scarse testimonianze e dal confronto con altre opere diGiorgione e di T di questo periodo appare chiaro che il rap-porto fra i due pittori non segue la tradizionale gerarchiamaestro-allievo ma è un confronto reciproco di idee compo-sitive. Da parte di T sono già evidenti un temperamentodrammatico, un’animazione gestuale, una vivacità cromati-ca ben differenti dalla lirica serenità contemplativa e dagliaccordi tonali di Giorgione. Tuttavia, la collaborazione trai due è intensa fino alla morte di Giorgione nella peste del1510. T porta a termine la Venere di Dresda (Drescla, gg),esegue ritratti tanto simili a quelli giorgioneschi che lo stes-so Vasari ammette di essere stato tratto in inganno (si ve-dano il cosiddetto Ariosto e la Schiavona: entrambi a Lon-dra, ng, o il Gentiluomo con un libro: Washington, ng), ri-prende il tema delle «tre età dell’uomo», caro a Giorgione,nel Concerto (Firenze, Pitti), gli si avvicina tanto da confon-dersi con lui nel devozionale Cristo portacroce (o Cristo e ilmanigoldo: Venezia, Scuola di San Rocco) e nel ConcertoCampestre (Parigi, Louvre). Perfino composizioni religiosecome la Madonna tra i santi Francesco e Rocco (Madrid, Pra-do) hanno suscitato dubbi attributivi: e benché tutte questeopere siano oggi generalmente attribuite a T non mancanoimportanti opinioni contrarie. La prima grande, autonomadimostrazione di energica personalità è costituita dai tre Mi-racoli di sant’Antonio, affrescati nella primavera del 1511nella Scuola del Santo a Padova. Composizioni di ampio re-spiro, con un metro spaziale di ritmo classico, costruite in-torno ai volumi robusti dei gruppi di figure nel paesaggio,corpose masse di colore, dimostrano la completa acquisizio-ne di un lessico personale e variato da parte di T: le figuresi gonfiano nello spazio, lo conquistano con una presenza e

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una personalità fino ad allora sconosciute in Veneto. L’ag-gressività dinamica, l’esplosiva forza delle tinte, la gestua-lità accentuata (specie nel Miracolo del marito geloso) hannoimmediate conseguenze nell’arte locale: T si impone all’at-tenzione come vero erede di Giorgione, pronto a sostituirsiall’ultraottantenne Giovanni Bellini alla guida della scuolaveneta. Sebastiano del Piombo, travolto dall’impeto di T,lascia Venezia per Roma; la tradizione narrativa locale, rap-presentata da Carpaccio, invecchia di colpo. La pala votivacon San Marco in trono (1511: Venezia, Santa Maria dellaSalute) è la prima opera di T su un altare veneziano, dimo-strazione di pienezza cromatica e di spregiudicata concezio-ne delle luci. Il successo è immediato: su T, che ha ormaiaperto una bottega autonoma, piovono richieste di ritratti(come la Violante: Vienna, km), soggetti mitologici per cas-soni (Nascita di Adone e Favola di Polidoro: Padova, mc), pic-coli dipinti religiosi inseriti nel paesaggio (Noli me tangere:Londra, ng), composizioni allegoriche (Le tre età dell’uomo:Edimburgo, ng of Scotland). Nel 1513 arriva il primo inca-rico ufficiale, la Battaglia di Cadore commissionata dal Se-nato della Repubblica (sarà consegnata solo nel 1537: nel1577 la tela è bruciata nel rogo della Sala del Maggior Con-siglio e di gran parte di Palazzo Ducale).Con l’esecuzione della tela allegorica nota come Amor Sacroe Amor Profano (1514 ca.: Roma, Gall. Borghese), prendeavvio una nuova fase dell’arte di T. Superato in modo defi-nitivo il rapporto con le delicate atmosfere tonali di Gior-gione, il maestro procede verso l’affermazione di una mo-numentale forma classica. Le figure umane si dispiegano conserena maestosità in un paesaggio denso e corposo. Il suc-cesso commerciale del classicismo tizianesco è immediato etrova applicazione in un genere nuovo di dipinti: intorno al1515 escono dalla bottega del pittore numerose tele profa-ne, occupate da prorompenti mezze figure femminili natecon i pretesti piú diversi (Salomè con la testa del Battista: Ro-ma, Gall. Doria-Pamphilj; Donna allo specchio: Parigi, Lou-vre; Flora: Firenze, Uffizi). Ben presto questa stessa con-quista di una bellezza distesa e sicura si applica ai soggettireligiosi, destinati al collezionismo o alla devozione privata:emblematiche sono la Sacra Conversazione della FondazioneMagnani Rocca a Mamiano (Parma), la Madonna delle cilie-

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ge (Vienna, km) e la Madonna con i santi Ulfo e Brigida (Ma-drid, Prado), in cui si cela un autoritratto giovanile.T è ormai pronto a trasferire questa nuova concezione del-la pittura su scala monumentale. L’occasione viene con lapala dell’Assunta per la Basilica di Santa Maria Gloriosa deiFrari. Commissionata nel 1516 e consegnata nel 1518,l’enorme tavola segna una svolta nella pittura del rinasci-mento, non solo in Veneto. La composizione si sviluppa inaltezza, senza mai perdere un corposo contatto con la realtà:i colori, accesi e densi, colpiscono per l’aggressiva vivacità.Nel frattempo, T è diventato pittore ufficiale della Repub-blica, incarico assunto nel dicembre 1516, dopo la morte diGiovanni Bellini. Il ruolo è ben retribuito, godendo dellerendite delle imposte sul sale: su questa base T costruisceun’eccezionale fortuna economica, che lo condurrà presto adiventare l’artista forse piú ricco della storia. Il successocommerciale è legato al favore ricevuto presso i signori del-le corti italiane ed europee, grandi e piccole. Il primo a com-missionare opere importanti è il duca di Ferrara Alfonsod’Este: a partire dal 1518 il pittore si occupa di una serie ditele profane, note come «Baccanali», destinate al camerinoprivato del signore, completate nel 1521: queste tele com-pongono uno dei piú importanti cicli mitologici del Cinque-cento, penalizzato purtroppo dalla dispersione conseguenteallo smembramento dello studiolo. T esegue L’arrivo di Bac-co ad Andros, L’offerta a Venere (entrambe a Madrid, Prado)e Bacco e Arianna (Londra, ng); inoltre, ritocca il paesaggiodel Festino degli déi, dipinto nel 1514 da Giovanni Bellini.Al lungo rapporto con la corte estense risalgono altre opereimportanti, come il trepido e profondo Ritratto di VincenzoMosti (Firenze, Pitti), il raffinato Cristo della moneta (Dre-sda, gg) e il Trasporto di Cristo al sepolcro (Parigi, Louvre).Intanto, il raggio dei committenti si allarga: fra i signori de-gli stati confinanti con la Serenissima, agli Este si affianca-no i Gonzaga e il maestro riceve inoltre numerose richiestedi opere di grande formato. Intorno al 1520 nascono l’An-nunciazione, tuttora nella cappella Malchiostro del Duomodi Treviso, la spettacolare Pala Gozzi, così chiamata dal no-me del committente per San Francesco ad Ancona, e so-prattutto il Polittico Averoldi, commissionato dal legato apo-stolico Altobello Averoldi per la chiesa bresciana dei SantiNazaro e Gelso, terminato nel 1522 e tuttora in situ. Ope-

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ra fondamentale per il percorso di T e per la scuola brescia-na, il polittico presenta raffinati effetti di luce e un dina-mismo compositivo che supera di slancio l’invecchiata divi-sione in cinque scomparti. Nel 1523 viene eletto doge l’am-bizioso Andrea Gritti e il classicismo di T diventa il modelloper un piú vasto piano di rinnovamento dell’immagine edell’arte di Venezia, un progetto che riceverà particolare im-pulso nel 1527, con l’arrivo di intellettuali e artisti (fra cuiJacopo Sansovino) in fuga dopo il Sacco di Roma. Fra le ope-re eseguite da T per il doge è da ricordare l’affresco con SanCristoforo in Palazzo Ducale (1524). Risale a questo perio-do il compimento della Pala Pesaro (attorno al 1525), con lafamiglia dei committenti presentata alla Madonna dai san-ti protettori. La collocazione del dipinto su un altare late-rale dei Frari suggerisce a T un profondo rinnovamentodell’impostazione architettonica, simmetrica e centrale del-la tradizione: il gruppo di personaggi è infatti disposto inmodo nuovo, spostato verso destra, mentre gli unici accen-ni a una struttura spaziale sono due colonne che si perdononell’alto della pala. Le caratteristiche di novità e di energiadella Pala Pesaro pare fossero confermate dall’Assassinio disan Pietro martire dipinto fra il 1528 e il 1530 per la Basili-ca di San Zanipolo e purtroppo bruciato in un disastroso in-cendio nel 1867.L’incoronazione di Carlo V a Bologna (1529, replicata l’an-no successivo) consente a T di entrare in contatto con il piúpotente monarca europeo. Affiancato da Pietro Aretino, cheagisce come agente e tesse i rapporti con i committenti, Tdiventa il pittore preferito della corte spagnola. Riceve ono-rificenze e titoli di nobiltà, ma soprattutto richieste di ri-tratti e di dipinti, suscitando una concorrenza che ben pre-sto coinvolge molti stati e famiglie aristocratiche. La richie-sta di numerosi ritratti accentua i caratteri di ricercarealistica e, insieme, di posa nobilmente intonata, il coloresi fa sempre piú corposo e denso. Nel corso degli anni ’30 Tesegue per i Gonzaga la serie dei Dodici Cesari, ritratti im-maginari di imperatori romani andati dispersi e il Ritratto diIsabella d’Este (1536: Vienna, km); per la corte spagnola ilRitratto di Carlo V con un cane (1532: Madrid, Prado); perquella francese il Ritratto di Francesco I (1538: Parigi, Lou-vre). Inizia inoltre il rapporto con i duchi di Urbino, al qua-

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le si devono tre dipinti oggi a Firenze (Uffizi): i ritratti diFrancesco Maria Della Rovere e di Paola Gonzaga e la celebree sensuale Venere di Urbino (1538). La stessa modella ri-compare nella Giovane in pelliccia (Vienna, km) e nella Bel-la (Firenze, Pitti). All’attività internazionale corrisponde unrallentamento di produzione per Venezia, fino a suscitare imalumori del Senato, che contrappone a T l’emergente Por-denone. In ogni caso, T realizza anche in patria opere im-portanti, fra cui la Sacra Conversazione già in San Nicolò deiFrari e oggi nella pv di Roma, l’Annunciazione della Scuoladi San Rocco e la già citata Battaglia di Cadore per PalazzoDucale. Un posto particolare occupa la Presentazione di Ma-ria al Tempio (1536-38) rimasta nella Scuola della Carità, tra-sformata in una sala delle Gallerie dell’Accademia: si trattadi un raro dipinto di T nel genere narrativo, tanto caro allatradizione veneziana, impostato però in chiave teatrale, conuno scenario architettonico che confina con una forte pre-senza del paesaggio. I contatti internazionali di T si accen-tueranno nel decennio successivo, quando il maestro af-fronterà lunghi viaggi.Intorno al 1540 tutta la cultura veneta è chiamata a un con-fronto con la «maniera moderna», diffusa tra Roma e Fi-renze. Lo stile, che, partendo dal riferimento ai grandi mae-stri del primo Cinquecento e dalla rilettura dell’antichità cer-ca di suggerire una «natura artificiosa», viene importato aVenezia in prima persona da alcuni protagonisti, come Fran-cesco Salviati e lo stesso Giorgio Vasari. T, che, come scri-ve Pietro Aretino, sta cercando «una nuova natura», è coin-volto in prima persona: la sua arte cerca un accordo tra ilsenso del colore e della realtà e il disegno raffinato e cere-brale dei manieristi. Un compatto gruppo di opere, databi-li tra il 1540 e il 1544, consente di seguire l’evoluzionedell’esperimento: spiccano il San Giovanni Battista (Venezia,Accademia), l’Allocuzione di Alfonso d’Avalos (Madrid, Pra-do), le tre Scene bibliche già nel soffitto di Santo Spirito inIsola e oggi nella sacrestia di Santa Maria della Salute. Ilpunto di massimo contatto tra T e il manierismo toscano-ro-mano è la grande pala dell’Incoronazione di spine (già a Mi-lano, Santa Maria delle Grazie e oggi a Parigi, Louvre): unacomposizione violentemente drammatica in cui compaionorimandi al classicismo e a Michelangelo, filtrati però attra-verso la grana sempre piú spessa del colore di T. Nel 1545

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il pittore, da tempo in contatto con la famiglia Farnese, de-cide di compiere un lungo viaggio nell’Italia centrale, cul-minato in un soggiorno di alcuni mesi a Roma tra il 1545 eil 1546, ospite di papa Paolo III e dell’influente cardinal ni-pote Alessandro Farnese. Nel corso di questo soggiorno T siconfronta direttamente con Michelangelo, che ha appenaterminato il Giudizio Universale della Sistina. Per i Farnesedipinge la morbida Danae (Napoli, Capodimonte) e alcuniritratti, fra cui il Paolo III con i due nipoti (ivi), in cui moltiparticolari sono lasciati volutamente allo stato di abbozzo.Questa tendenza espressiva, chiave per la fase tarda dell’ar-te di T, sperimentata proprio nel periodo di piú diretto con-tatto con il manierismo, rappresenta la risposta piú decisa diT all’ambiente romano, del colore al disegno. Lo stesso Pie-tro Aretino stenta a comprendere la portata dell’operazio-ne, quando definisce il ritratto che T gli dedica (oggi a Fi-renze, Pitti) «piuttosto abbozzato che non finito». Al ri-torno a Venezia dal viaggio a Roma e a Firenze T trova lasituazione alquanto mutata: sta salendo alla ribalta il giova-ne Tintoretto, i maestri piú anziani sono in parabola di-scendente. T viaggia ancora per seguire l’imperatore CarloV alle sedute della Dieta di Augusta (1548 e 1551): è l’oc-casione per una rinnovata serie di ritratti di illustri perso-naggi della storia europea e di dipinti mitologici di caratte-re erotico come la Venere con l’organista (Madrid, Prado).Fra i ritratti è memorabile l’immagine equestre di Carlo Vvittorioso alla battaglia di Mühlberg (ivi), cui fa da contralta-re la penosa e fragile figura di Carlo V seduto (Monaco, ap).Si apre in questi anni il rapporto con il principe Filippo, fu-turo committente di numerose tele di soggetto sacro e mi-tologico.Durante gli anni ’50 T concepisce e realizza il capolavorocon cui si apre l’ultimo tempo della sua creatività: il Marti-rio di san Lorenzo della chiesa dei Gesuiti a Venezia. La ter-ribile tela, carica di presenze spettrali, costituisce la disgre-gazione finale della pala d’altare rinascimentale, trasforma-ta in un campo scuro su cui si agitano luci e personaggi, conun’instabilità compositiva che diventa forza espressiva. Nes-sun dettaglio è definito con precisione: i contorni sono mos-si, incerti, sgranati. A parte rare eccezioni (come le diverseredazioni dell’Addio di Venere ad Adone, il cui primo esem-

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plare, dipinto per Filippo II, è a Madrid, Prado, e la Vene-re allo specchio del 1555: Washington, ng), la pittura di Tprocede verso la disgregazione dell’immagine attraverso Asegno e il colore. Ogni singola pennellata lascia un’impron-ta, una traccia. Sintomi importanti di questo processo si no-tano nelle opere mitologiche della fine degli anni ’50, comele due Storie di Diana (Edimburgo, ng of Scotland), il Rattodi Europa (Boston, Isabella Stewart Gardner Museum), Per-seo e Andromeda (Londra, Wallace Coll.) e Diana saetta At-teone (Londra, ng). Altrettanto vale per le opere sacre in-viate nei primi anni ’60 in Spagna, per lo piú destinate almonastero dell’Escorial, dove tuttora si trovano: la secondaversione del Martirio di san Lorenzo, solo in parte ripresa dalcapolavoro veneziano, le due redazioni della Santa Marghe-rita, una piccola ma drammatica Crocifissione. Non ben va-lutabile è l’Ultima Cena del refettorio, mutila ai lati e ma-nomessa. Anche in opere meno intensamente caricate di pas-sione drammatica, come Venere che benda Amore (Roma,Gall. Borghese) o l’allegoria della Sapienza (Venezia, Libre-ria Marciana), si osserva lo stesso processo di disfacimentodella pennellata, qui esercitato su toni chiari. Non si inter-rompe la produzione di pale d’altare per le chiese di Vene-zia: al 1566 risale l’Annunciazione di San Salvador, addirit-tura esplosiva nell’impasto di luci e colori. Anche nel cam-po del ritratto T prosegue con successo la propria attività:al Ritratto dell’antiquario Jacopo Strada (1567: Vienna, km)si affiancano due Autoritratti, il primo nei Musei di Berlinoe il secondo di profilo, a Madrid (Prado). Ma ormai la ri-cerca del maestro è tesa alla conquista di un mezzo espres-sivo, un linguaggio fatto di macchie di colore e di grumi dimateria, steso in modo apparentemente grossolano, talvol-ta perfino con le dita. Simile, per effetto, al nonfinito mi-chelangiolesco, la pittura tarda di T perviene a capolavori dicommovente espressione interiore. Intorno al 1570 si data-no il Tarquinio e Lucrezia dell’Accademia di Arti Figurativedi Vienna, la Ninfa e pastore (Vienna, km), il San Sebastiano(San Pietroburgo, Ermitage). Di poco posteriori sono duegrandi tele in cui il supplizio dell’innocente, nelle due ver-sioni della religione e della mitologia, tocca accenti di sof-ferta tragedia: l’Incoronazione di spine (Monaco, ap) e il Sup-plizio di Marsia (Kromerìz, Residenza). Durante i suoi ulti-mi anni T sembra rileggere tutta la propria produzione,

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ritornando con una tecnica completamente mutata su temie soggetti già trattati in diversi momenti della carriera. Altermine di questo itinerario si colloca la grande Pietà (Ve-nezia, Accademia) dipinta da T per la propria tomba dei Fra-ri e rimasta incompiuta alla morte del maestro, il 27 agosto1576, nell’infuriare della peste. (szu).

Tkadlìk, Franti∫ek(Praga 1786-1840). Formatosi presso l’Accademia di pitturadi Praga, fu allievo di Josef Bergler. Nel 1817 divenne ispet-tore della Galleria Czernin di Vienna. Conseguita una borsadi studio per un soggiorno a Roma nel 1825, vi restò fino al1832. Le prime opere dell’artista sono ritratti dal disegno rea-lista, percorsi da un’aspirazione classica che ricerca la defi-nizione di un tipo universale. La sua tecnica, dapprima lega-ta al genere realista viennese, si modificò sotto l’influsso del-la pittura religiosa romana dell’epoca e, soprattutto, perl’adozione di quella materia densa e dell’operare tipico deipittori barocchi italiani (Il diluvio, 1832: Praga, ng). Nel1836, T venne nominato direttore dell’Accademia di pittu-ra praghese, per la quale s’adoperò nel tentativo di elevarel’insegnamento a livelli europei. Introdusse il programma deiNazareni, mise l’accento sui colori e sullo studio del corpoumano, la cui pienezza di forme è chiamata a conferire ca-rattere monumentale alle composizioni classiche. La sua ope-ra culminò con dipinti come Santa Rosalia (1837-39: Praga,ng) e la Comunione di san Venceslao (ivi), nei quali la severaforma classica è animata da un soffio di magico realismo, chel’artista deve al contatto con il romanticismo. (ivi).

Tobar, Alonso Miguel de(Higuera de la Sierra 1678 - Madrid 1758). Nato troppo tar-di per essere allievo di Murillo, ne fu l’epigono piú brillan-te e la sua importanza storica è innegabile; contribuì a diffon-dere l’opera e il culto del maestro, e nel contempo a com-plicare il compito dei suoi studiosi. Si fece conoscere concopie da Murillo, riproducendone le Immacolate, le Madon-ne col Bambino e l’Autoritratto (copia ridotta a Madrid, Pra-do) con tanta esattezza che le copie vennero confuse con glioriginali già a detta dei contemporanei. La sua Vergine del-la Misericordia con san Francesco e sant’Antonio (1720: Cat-

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tedrale di Siviglia) è tra i migliori dipinti religiosi del sec.xviii in Spagna. Fu anche buon ritrattista (Ritratto d’uomo,1711: Museo di Providence, Rhode Island).Filippo V e Isabella Farnese, ammiratori e collezionisti di Mu-rillo, lo notarono durante il loro soggiorno a Siviglia. Nomi-nato «pintor de Cámara» nel 1729, seguì la corte a Madrid,dove rimase attivo fino alla fine della sua carriera dedicando-si al ritratto (Ritratto di bambina: Museo di Meiningen). (pg).

Tobey, Mark(Centerville (Wisconsin) 1890 - Basilea 1976). Si trasferì conla famiglia a Chicago, dove iniziò a lavorare come disegna-tore di moda, poi a New York. La sua prima personale fu al-la Knoedler Gallery (New York) nel 1917. L’anno successi-vo aderì al bahaismo, la religione orientale che lo guidò at-traverso tutte le sue esperienze artistiche. T lasciò New Yorknel 1922 per tornare a Chicago, poi a Seattle, dove insegnòdisegno alla Cornish School per due anni; nel 1925 raggiunsea Parigi gli artisti americani che là risiedevano: viaggiò nelVicino Oriente per visitare i luoghi santi bahaisti, tornò perbreve tempo a Parigi ma nel 1926 era già di ritorno negliStati Uniti, tra New York e Seattle. Pur risiedendo in In-ghilterra tra il 1931 e il ’38 (a Dartington Hall, nel Devon-shire), visitò il Messico, tornò in Medio Oriente e finalmentecompì il viaggio che doveva avere i maggiori riflessi sulla suaarte: si recò in Cina, a Shangai (dove il pittore Teng Kisei,già conosciuto a Seattle, perfezionò con i suoi suggerimentile tecniche dell’acquerello e della calligrafia di T, fino ad al-lora quasi totalmente autodidatta) e in Giappone, dove inun monastero zen di Tokyo gli furono rivelati lo spirito uni-versale e il significato cosmico del percorso ininterrotto del-la linea calligrafica nello spazio. Tornato in America alla fi-ne degli anni Trenta, elaborò quanto egli stesso chiamò whi-te writing (scrittura bianca), di cui uno dei primi esempi è latempera Broadway (1937: New York, moma), alla quale se-guirono due serie parallele di lavori, alcuni piú calmi e de-scrittivi, altri ritmici e frenetici, spaccato della città moder-na. Gli anni Quaranta segnano una delle punte piú alte delpercorso di T: i disegni calligrafici coprono ormai l’intera su-perficie della tela: in questo suo all-over, T, si può dire, an-ticipò certe concezioni di Pollock. A partire dal 1944 T silegò artisticamente a Maryan Willard, ed espose regolar-

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mente nella sua galleria a New York; intanto, Jeanne Bucherlo fece conoscere a Parigi. Dopo una fase di transizione, ca-ratterizzata dall’uso preponderante di colori scuri, nel 1953il white writing riapparve in tutta la sua forza espressiva: lasua influenza sul tachisme non può venire ignorata, come arifiuto, da parte di T, dell’Action Painting, preferendo, co-me lui stesso ebbe a dire, la meditazione all’azione. La suacontinua ricerca fu indirizzata alla corrispondenza tra l’artee la vita vissuta, tra i suoi ritmi interiori e quelli cosmicidell’universo. Nel 1957, riconoscendo l’influenza sul suo la-voro dell’Estremo Oriente, denominò sumi alcune opere(Natura morta sumi; Calligrafia in bianco: Seattle, coll. Selig-man). Verso la fine degli anni Cinquanta si stabilì a Basilea,continuando una intensa produzione (Rosso sagittario, 1963:Basilea, km; Echi di tamburi, 1965: coll. priv.; Sei impromp-tus su Omar Khayyam, 1970, acquatinte). T incontrò ap-prezzamenti tanto in Europa che negli Stati Uniti, a parti-re dagli anni Cinquanta. Sue opere sono conservate in par-ticolare a New York (moma, mma), a Londra (Tate Gall.) ea Parigi (mnam). (rvg).

Tocqué, Louis(Parigi 1696-1772). Figlio del pittore di architetture Luc T,intorno al 1710 fu allievo di Nicolas Bertin e verso il 1718-24di Nattier, di cui sposò la figlia. Alcuni incarichi ufficialicontrassegnano il periodo intercorso tra l’ammissione all’Ac-cademia (Louis Galloche e Jean-Louis Lemoyne, 1734: Pari-gi, Louvre) e il viaggio nell’Europa settentrionale; la sua ar-te è allora caratterizzata da una franchezza di tratto che ri-corda A. S. Belle (il Delfino, 1739: ivi; Maria Liczinska,1740: ivi). Chiamato dall’imperatrice Elisabetta a San Pie-troburgo a prendere il posto del ritrattista Louis Caravaque,morto nel 1754, realizzò alcuni ritratti a corte (Elisabetta,1756-58: San Pietroburgo, Ermitage); la sua attività a SanPietroburgo fu interrotta da un soggiorno a Copenhagen do-ve tornò nel 1769.Una tavolozza sobria, un complesso di armonie smorzate eraccordate a uno sfondo austero attestano la grande sensibi-lità di un artista che s’impegnò nella resa dello splendore de-gli accessori (Contessa Loménie de Brienne, 1737: Strasburgo,mba; Madame Dangé, 1753: Parigi, Louvre), nello studio fi-

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sionomico (Madame Doyen: Parigi, Museo Carnavalet), del-l’autorità e del prestigio sociale dei personaggi che ritrae(Marchese de Lücker, 1743: Orléans, mba).Il suo stile è trasposizione addolcita di quello di Rigaud evenne imitato da artisti come Valade e Voiriot. (cc).

Todeschini, Giacomo Francesco, detto Cipper(prima metà del sec. xviii). Non se ne conoscono i dati bio-grafici; forse oriundo del Tirolo, fu attivo nell’Italia setten-trionale (soprattutto nel bergamasco e nel bresciano) nellaprima metà del Settecento. Alcune delle sue numerose ope-re, firmate Cipper, Zipper o Cipri affiancato dall’appellati-vo tedesco, sono datate tra il 1705 (Scena zingaresca della rac-colta Geri a Milano) e il 1736 (Pittore nel suo studio: Hamp-ton Court Palace). Pittore di genere, aderì alla culturanordica e guardò con interesse alle opere di Pietro Bellotto.La feconda attività del T si inserisce, con un tono di faciledivertimento, nella variegata corrente della pittura a sog-getto popolare che ebbe particolare fortuna in Lombardia enell’Europa centrale raggiungendo l’espressione piú schiet-ta e piú forte in Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto. (gp).

Toepffer, Adam Woffgang(Ginevra 1766 - Morillon 1847). Esordisce come incisore madal 1791 si dedica totalmente al disegno e alla pittura, la-vorando a Parigi nell’atelier di J. B. Suvèe (direttore dell’Ac-cademia di Francia a Roma dal 1792). Stabilitosi a Ginevra,produce una serie di disegni che hanno per tema lo studiodella natura. Professore di disegno e acquerello dal 1793,debutta al Salon di Ginevra come caricaturista. Tuttavia pre-dilige paesaggi, ritratti, scene di genere, ripresi soprattuttodurante lunghe escursioni in Savoia. Ormai celebre, è invi-tato a corte per impartire lezioni di disegno a GiuseppinaBonaparte (1807). Le sue opere vengono esposte ai salonsparigini (1804, 1812), alla ra di Londra (1816), a Ginevra(1798), a Berna (1830) e sono conservate presso il MuseoRath di Ginevra, a Lione, Zurigo, Narbonne.Rodolphe T (Ginevra 1799-1846) eredita dal padre AdamWolfgang la passione per la pittura e il gusto per le scene lo-cali e famigliari. Si dedica all’insegnamento del disegno e du-rante escursioni con gli allievi fissa su fogli di album la vitapopolare di campagne e paesi. I disegni litografati fanno da

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supporto al testo, e nel 1844 esce a Parigi la raccolta deglialbum prodotti tra il 1833 e il ’42, intitolata Viaggi a zig-zag,elogiata dal critico letterario C. A. Saint-Beuve. Nel saggiointitolato Réflexions et menus propos (1843) tratta del rap-porto tra uomo e natura nell’arte. Precursori del modernofumetto sono gli album di caricature, illustrati con uno sti-le che richiama quello di W. Hogart e T. Rowlandson (Il dr.Festus, 1829; Mr. Pencit, 1840; Storia del Signor Jabot; Mr.Crepin; Mr. Cryptogame; Mr. Vieuxbois, 1845). Oltre alle val-li svizzere, della Savoia e del Delfinato, visita l’Italia tra il1833 e il ’41 scrivendo memorie di viaggio. Negli ultimi an-ni ritorna alla pittura sotto la guida di A. Calame. (rl).

Toeput, Lodewijk (Ludovico) detto Pozzoserrato(Anversa? 1550 c. - Treviso 1604/605). Scarsi sono i dati bio-grafici relativi al periodo di formazione del pittore originarioprobabilmente di Anversa e che dovette iniziare il suo lungosoggiorno italiano negli anni Ottanta, con soste a Roma – do-ve realizza vedute della città con rovine (Interno del Colosseo,1581: Vienna, Albertina), note attraverso le incisioni che netrassero Joris Hoefnagel e Francesco Camocio – e Firenze (Au-tunno: Praga, ng). La critica tende a negare le possibilità di unsuo soggiorno veneziano anteriore al trasferimento a Treviso(1582: anno in cui data la Veduta di Treviso, disegno: Parigi,Fondation Custodia), città che di certo poteva dare maggiorioccasioni di lavoro. A cavallo tra l’ottavo e il nono decenniodel secolo lavora ai sei Paesaggi con scene bibliche che decora-no la cappella del Monte di Pietà di Treviso, agli affreschi diPraglia e alla villa Chiericati Mugna di Schiavon (allegoria deiMesi e dello Zodiaco); in essi è evidente la lezione veneziana,in particolare di Tintoretto e Veronese, modelli non ancorapienamente assimilati in opere quali la Torre di Babele, dipin-ta per Hans Fugger nel 1583 o 1587 (castello di Kirckheim).Verso la fine del Cinquecento inizia a dedicarsi al paesaggiocome genere autonomo, divenendo uno dei maggiori inter-preti del genere del paesaggio con i suoi vasti e suggestivipanorami. L’aspetto fantastico della Caduta di Fetonte (1599:Hannover, Niedersächsisches Landes-museum), o del Pae-saggio con eremita (1601: Monaco, sgs), la larghezza di con-cezione e la qualità cromatica del Paesaggio di Venezia (Ca’d’Oro) e della Veduta di una villa veneziana (Bergamo, Car-

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rara) trovarono un discepolo nel giovane Joos de Momper enei paesaggisti fiamminghi della generazione anteriore a Ru-bens. (sr).

Toesca, Pietro(Pietra Ligure 1877 - Roma 1962). Laureatosi all’Universitàdi Torino, alla scuola del «metodo storico», con una tesi su-gli scritti d’arte dal Tre al Cinquecento (Precetti d’Arte ita-liani, Saggio sulle variazioni dell’estetica nella pittura dal xiv alxvi secolo, Livorno 1900), T prosegue i propri studi a Roma,seguendo il perfezionamento venturiano. Fin dai primi anni(Gli affreschi della Cattedrale di Anagni, in «Le Gallerie na-zionali italiane», 1902; i numerosi articoli apparsi su «L’Ar-te», rivista di cui resse per un breve periodo la redazione), lesue ricerche si contraddistinguono per rigore filologico, me-todo, erudizione. Le sue qualità di fine conoscitore, che siesprimono in una lettura dell’opera sempre rispettosa dellasua natura, e l’apertura mentale con la quale, rifiutando l’ideadi progresso artistico, affronta, aggiornato sugli esiti piú at-tuali della ricerca, periodi storico-artistici o aree culturali qua-si inesplorate (La pittura e la miniatura nella Lombardia. Daipiù antichi monumenti alla metà del Quattrocento, Milano1912), costituiscono le premesse alle quali T si manterrà sem-pre fedele. Infatti, mantenendosi cautamente lontano dall’in-sorgere delle tendenze idealiste nella critica d’arte, T si col-loca tra i piú autorevoli rappresentanti della tendenza filolo-gica degli studi di storia dell’arte. I suoi interessi, seppurprivilegiando il Medioevo, spaziano dall’arte tardoromana alprimo Cinquecento e spesso approdano a opere di caratteregenerale (Storia dell’arte italiana: il Medioevo, Torino 1913-27,alle cui pagine introduttive è affidata l’enunciazione del pro-prio credo metodologico; Storia dell’arte italiana: il Trecento,Torino 1951). Tra le monografie: Masolino da Panicale, Ber-gamo 1908 e Giotto, Torino 1941. Ai numerosi interventisull’arte della miniatura, specie quelli relativi a Michelino daBesozzo e Giovannino de’ Grassi, si aggiungano i Monumentie studi per la storia della Miniatura Italiana (Milano 1929). Li-bero docente per un breve periodo a Milano (1906-907), glifu affidata la cattedra di storia dell’arte medievale e moder-na appena istituita presso l’Università di Torino (1907-14);in seguito si trasferì a Firenze (1914-26) e Roma (1926-48).Lo scritto Saper vedere (gennaio 1932, «Annali dell’Istru-

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zione Media») attesta la sensibilità e l’attenzione dello stu-dioso per problemi di tipo didattico e divulgativo, e ne rias-sume il credo. (mal).

Tÿhaku(cognome Hasegawa; 1539-1610). Originario del Giapponesettentrionale, assimilò così bene la tecnica monocroma diSessh che se ne proclamò discendente alla quinta genera-zione, filiazione certamente tutta spirituale e priva di at-tendibilità quanto quella di Unkoku, T visse a Kyoto, dovepassò breve tempo in una bottega Kanÿ, ma subì soprattut-to l’influsso del grande pittore cinese Mou-k’i, che studiòprobabilmente attraverso le opere di Ami. I suoi lavori mi-gliori sono infatti lavis monocromi, suggestivi e potenti, diuno spirito anticipatamente romantico, qualità che lo feceapprezzare dai monaci zen (Scimmie e bambú: paraventi del-lo Shÿkokuji di Kyoto; Pini nella nebbia: paraventi del mndi Tokyo, con una tecnica particolare nell’impiego di un pen-nello di paglia di riso). Fu comunque richiesto per opere didecorazione di palazzi privati e templi, fondando, assistitodal figlio Kyzÿ, una propria scuola. Realizzò i piú interes-santi complessi decorativi dell’arte Momoyama, unendo al-lo studio armonico della composizione l’intensità dei colori,abilmente combinati a lavis con gli ori dei fondi (Acero cir-condato da erbe d’autunno; porte scorrevoli del Chishakuin,Kyoto; Pini ed erbe: paraventi al mn di Tokyo). (ol).

tokonomaTermine giapponese che significa «alcova». Il t giapponesesvolge il ruolo che, in una casa cinese, è esercitato dall’am-biente principale di una dimora. In esso viene sospeso, inaccordo con la stagione e l’umore del momento, un rotoloverticale di calligrafia o di pittura, accompagnato spesso daun mazzolino di fiori oppure da un oggetto prezioso o pre-diletto, posati su un tavolino basso. Il t, la cui creazione fulegata all’evoluzione della casa giapponese avvenuta verso ilsec. xv all’epoca degli Ashikaga, si diffuse particolarmentedopo i Tokugawa (xvii-xix secolo), epoca nella quale, riva-leggiando col lustro dei guerrieri che esponevano le loro ar-mi o insegne piú belle, i borghesi esibirono il proprio lussoattraverso le opere d’arte. (ol).

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TokugawaPeriodo della storia del Giappone compreso tra il 1615 e il1868. La vittoria dello shÿgun Ieyasu sui rivali lo indusse atrasferire la capitale da Kyoto – che restò comunque sededell’imperatore – a Edo (l’attuale Tokyo), donde il nome diperiodo Edo talvolta conferito all’epoca dominata dagli shÿ-gun T. L’ascesa della classe borghese dei mercanti, che, an-che sul piano del mecenatismo artistico, sostituirono grada-tamente gli aristocratici decaduti, è il fenomeno sociale checaratterizza quest’età. Il gusto propriamente insulare deinuovi ricchi, comportò una rinascita della corrente nazio-nale di «pittura alla giapponese» (→ yamatoe), parallela-mente alla nascita dell’ukiyoe (→). Tali dipinti di genere era-no difatti piú accessibili dello stile decorativo dei Kanÿ, lacui accademia ufficiale cominciava a sclerotizzarsi nella ri-petizione. Il gusto borghese favorì inoltre il trionfo delle ma-niere colorate della scuola Sÿtatsu-Kÿrin, realisti della scuo-la Maruyama-Shijÿ.Fu sotto i T che la città di Nagasaki svolse il suo ruolo piúimportante: rifugio dei cinesi che fuggivano il dominio man-ciú dei Qing, divenne luogo privilegiato per i pittori giap-ponesi i quali poterono prendere conoscenza dell’arte dei let-terati (quello che, in termini nipponici, divenne il nanga).(ol).

Tol, Dominicus van(Bodegraven 1635 ca. - Leida 1676). Nipote e allievo di Ger-rit Dou, era iscritto alla gilda di San Luca di Leida nel 1664.Dipinse scene di genere (Donna all’arcolaio: Dresda, gg;Donna che prepara frittelle: Leida, sm; Vecchio che si taglia leunghie: Rennes, mba) imitando lo stile di Brekelenkam e so-prattutto dello zio. (jv).

ToledoNon si può parlare per T (Nuova Castiglia) di una scuola cit-tadina paragonabile per importanza e continuità con quelledi Valenza e di Siviglia. Un certo sviluppo locale si ebbe nel-la prima metà del sec. xvi con l’influsso di Juan de Borgoña,apportatore dell’influsso italianizzante, di marca fiorentina,che i pittori locali accolsero tiepidamente, e all’inizio del se-colo successivo con la geniale «meteora» di El Greco. Tut-

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tavia T, metropoli religiosa della Spagna, crocevia di artistie di influssi, occupa un ruolo importante nella storia dellapittura spagnola sin dai primi tempi della riconquista (af-freschi del sec. xii, nelle absidi di Cristo de la Luz, anticamoschea, e della cappella della chiesa di Cristo de la Vega)fino alla fine del sec. xviii con le decorazioni del chiostrodella Cattedrale di F. Bayeux, attraverso le grandi compo-sizioni celebrative sulla storia della diocesi e dei suoi santi.L’alternarsi di correnti italiane, francesi e fiamminghe,dall’età gotica al rinascimento, si manifesta eloquentemen-te nella Cattedrale, con la mirabile Bibbia francese donatada san Luigi (1250), con gli affreschi italiani della cappelladi San Blas (inizio del sec. xiv), con i retabli ispano-fiam-minghi del sec. xv nella cappella di Santiago (e con quelli diF. de Amberes nella chiesa di San Andrés), con i dipinti del-la Sala capitolare di Juan de Borgoña, artista francese cheintrodusse a T uno stile mediterraneo (in rapporto con lamaniera lombarda e con quella provenzale). Queste operedocumentano la fioritura della pittura toledana del sec. xvie dell’inizio del sec. xvii, prima della decadenza irrimedia-bile che seguì all’espulsione dei Mori. Dopo artisti italia-nizzanti come Correa e Comontes, fa la sua comparsa il ge-nio solitario ma fortemente radicato nella vita e nella spiri-tualità toledana di El Greco il quale sarà interpretedell’influsso veneto di Tintoretto e Bassano, rivisto attra-verso un sentimento religioso personale, ascetico e lirico, cheappartiene già al «secolo d’oro». Suoi discepoli diretti o in-diretti come Tristan, Orrente, Maino, Sánchez Cótan, vol-geranno il suo stile verso inflessioni piú realiste o piú tene-briste.Ma a parte Luis Tristan (retablo di Santa Clara), poche sonole opere che di questi pittori si conservano nelle chiese dellacittà. Dello stesso El Greco, mentre la cappella di San Tomé(Sepoltura del conte di Orgaz) è divenuta una sorta di luogo dipellegrinaggio, sono stati smembrati due suoi grandi com-plessi, quello di Santo Domingo el Antiguo, suo primo inca-rico a T, e quello della cappella di San José. A Santo Domingosi conservano ormai soltanto la Resurrezione e grisailles mi-chelangiolesche (San Giovanni Battista), mentre nella cappel-la di San José, fondata da santa Teresa, è ancora in loco ilgrande quadro di San Giuseppe e il Bambin Gesú.

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I quattro musei della città conservano, attorno al corposonucleo di opere di El Greco, dipinti di diversi artisti spa-gnoli. L’emozionante chiazza color porpora dell’Espolio do-mina la sacrestia della Cattedrale, che possiede anche unodegli Apostolados di El Greco, oltre a quadri castiglianidell’inizio, del sec. xvii (Orrente, B. González) e un emo-zionante Goya (Cattura di Cristo, 1799).I due grandi ospedali, capolavori del rinascimento toledano,sono stati trasformati in museo. Nel Santa Cruz il Museo pro-vinciale di belle arti presenta opere interessanti dei toledaniComontes e Correa (in parte depositi del Prado) e una SacraFamiglia di Ribera; in un braccio della sala cruciforme sonostati raggruppati tutti i quadri di El Greco reperiti nelle par-rocchie di T, ai quali si aggiunge il Retablo di Talavera la Vieja(1592), proveniente dai confini dell’Estremadura, opera chesegna l’esordio dello stile «visionario» dell’ultimio periodo.Tra i dipinti, di notevole interesse, spicca l’Assunzione di SanVicente, capolavoro della vecchiaia di El Greco.L’altro ospedale, fuori le mura, di «Tavera» o di «San JuanBautista», possiede l’ultima opera lasciata incompiuta dalmaestro (il Battesimo di Cristo), il ritratto del fondatore eun’interessantissima statuetta del Cristo nudo. Queste ope-re sono state integrate dai dipinti provenienti dalla dona-zione della duchessa di Lerma, morta senza eredi. Tra que-sti alcuni ritratti di famiglia di grande valore (opere di Sán-chez Coello, Pantoja, Zurbarán), e, tra l’altro, la celebreDonna barbuta di Ribera.Vanno poi citati il «museo» di El Greco, edificio restaura-to dal marchese de la Vega Inclan insieme al complesso del-le «Casas de Villena». Nel museo sono raccolte alcune ope-re importanti della vecchiaia del pittore: il singolare San Ber-nardino, gli Apostoli, e la grande Veduta di Toledo, di fatturasorprendentemente «moderna», che El Greco dipinse per ilcomune. Vi sono inoltre conservati numerosi e spesso ec-cellenti lavori (come la Pentecoste di Herrera il Vecchio, ilMonaco martire di Zurbarán, la Madonna d’Atocha di Car-reño). (pg).

Toledo (Ohio, Usa)The Toledo Museum of Art Fu fondato nel 1901 su inizia-tiva di Edward Drummond Libbey, che alla sua morte, nel1924, lasciò al museo tutta la sua collezione e cospicui fon-

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di per gli acquisti. Dopo la seconda guerra mondiale, una se-rie di acquisizioni ha dotato l’istituzione di un notevole com-plesso di dipinti del xvii e del xviii secolo; è particolarmen-te ben rappresentata la scuola francese con Blanchard, LeSueur (Annunciazione), Poussin (Didone ed Enea), Largilliè-re, Rigaud, Lorrain, Francisque Millet, Le Nain, Boucher(Mulino a Charenton), Fragonard (il Colin-Maillard). Vi figu-rano inoltre opere di Piero di Cosimo, El Greco, Bronzino,Primaticcio (Ulisse e Penelope), Velázquez, Salvator Rosa,Pietro da Cortona Preti (Festino di Erode), Rubens (Matri-monio di santa Caterina), Avercamp, Ter Borch, de Hooch,Maes e Rembrandt (Autoritratto, 1631). Rappresentano lapittura francese del sec. xix e dell’inizio del sec. xx Delacroix(Ritorno di Cristoforo Colombo), Courbet, Renoir, Manet,Degas, Cézanne, Matisse; mentre per il sec. xx domina lascuola americana. (jhr).

Toledo, Juan de(Lorca 1611 - Madrid 1665). Nato nel regno di Murcia, eformatosi presso il padre, fu un pittore itinerante e in qual-che modo fuori dalla norma. Fu soldato in Italia, raggiun-gendovi il grado di capitano di cavalleria. A Roma si sareb-be legato a Cerquozzi, il «Michelangelo delle battaglie», eda questi avrebbe appreso a dipingere soggetti militari, ben-ché le sue opere facciano piuttosto pensare a Salvator Rosae ai pittori dell’Italia meridionale. Tornato in Spagna si sta-bilì prima a Granada, ottenendovi il successo con quadri dibattaglie, terrestri e navali. Soggiornò in seguito a Murcia,collaborando con Gilarte nella cappella del Rosario di San-to Domingo, e dipingendovi la grande Battaglia di Lepanto,per la quale Gilarte lavorò solo alla parte decorativa. Si sta-bilì infine a Madrid, dove terminò la sua vita.Le opere conservate al Prado (con sei dipinti di combatti-menti navali tra Spagnoli e Turchi, sbarchi, naufragi), neimusei di Murcia e di Porto, nel Bowes Museum a BarnardCastle, nella coll. Harrach di Vienna lo accreditano – per leagitate figure abilmente raggruppate e la luce un po’ glauca– come pittore abile e sensibile, il migliore interprete spa-gnolo di questo genere. Ma non va dimenticato che T, nelsuo periodo madrileno, fu autore di importanti quadri reli-giosi: le sue opere alle Mercedarias di Madrid (Immacolata

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del grande retablo, San Pietro Nolasco), pur improntate dal-lo stile ancora un po’ rigido degli allievi di Carducho, apro-no al primo barocco madrileno. (pg).

TolentinoGli affreschi della cappella di San Nicola (nella Basilica in-titolata al santo) costituiscono uno dei testi piú importantinell’ambito della cultura pittorica marchigiana della primametà del Trecento. Sono espressione della frequentazionemarchigiana da parte dei pittori riminesi, i quali, partendodalla lezione giottesca, svilupparono un linguaggio con ca-ratteri autonomi che ebbe larga diffusione nelle Marche. Ilciclo di T è stato al centro di una dibattuta vicenda critica,che ne ha visto tra l’altro l’attribuzione a un Maestro di T,ma è ormai pressoché concordemente accettato che le pit-ture siano state realizzate da Pietro e da Giuliano da Rimi-ni – i due lavorarono insieme nel 1324 a un polittico per gliEremitani di Padova –, i cui caratteri sono ravvisabili in tut-to il ciclo, con aiuti marchigiani. Le pitture furono eseguitecon ogni probabilità tra il terzo e il quarto decennio del se-colo. Nella volta della cappella sono raffigurati gli Evangeli-sti e i Dottori della Chiesa; nelle pareti, su due registri, epi-sodi della vita di Cristo ed episodi della vita e miracoli disan Nicola. (mrv).

Tolmezzo, Domenico da (Domenico Mioni)(Tolmezzo 1448 ca. - Udine 1507). Pittore e soprattutto in-tagliatore, è allievo dal 1462 di Giovanni Francione che ap-punto in quell’anno aveva aperto bottega a Udine. Poichénulla ci resta di quest’ultimo, è difficile farsi un’idea preci-sa degli elementi che contribuirono alla formazione di Do-menico. Dalle due sole opere documentate pervenuteci, l’An-cona di santa Lucia per il Duomo di Udine firmata e datata1479 (oggi Udine, mc) e le figure di quattro Angeli adorantidipinti all’interno di un’edicola unite al gruppo ligneo dellaTrinità della chiesa della Trinità a Coltura Polcenigo (1494),se ne può dedurre la conoscenza dell’ambiente muranese everonese (Benaglio in specie). Se la sua attività principale– per la quale fu sempre molto ricercato da una clientela friu-lana di gusti «popolari» e conservatori – è senz’altro quelladi intagliatore di ancone lignee (attività che naturalmentecomprendeva l’elaborata operazione della policromatura e

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doratura finale delle sculture), è citato in alcuni documentianche come frescante: suoi erano gli affreschi, perduti, perDomegge di Cadore, del 1477 e per il Duomo di Venzonedel 1502. Gli si attribuiscono inoltre le due tavolette fram-mentarie con Davide penitente e un Angelo dei mc di Udine,così come il trittico con il Battesimo di Cristo tra i santi Gia-como e Francesco del Duomo di Udine, solitamente assegnatoad Antonio Vivarini.Il figlio Giovanni Mioni da T (notizie dal 1505 - † 1531) siforma nella bottega paterna e ne prosegue l’attività di inta-gliatore e di pittore, abbandonandone tuttavia le inclina-zioni e gli elementi piú fortemente gotici. Il suo linguaggiounisce acquisizioni rinascimentali a una vena piú espressiva,anche se assai semplice. Non ci sono pervenute opere pitto-riche certe. Lo stesso valga per il fratello, Martino Mioni daT (Udine, documentato dal 1483 - † 1507), del quale rima-ne un’unica opera scolpita (Madonna in trono col Bambino,1498: Udine, mc). Il figlio di quest’ultimo, Giovanni Mar-tini, dapprima quasi esclusivamente pittore, ne rileverà labottega nel 1507, che era poi quella del nonno Domenico,dedicandosi da allora in poi all’intaglio ligneo. Va conside-rato, in entrambi i campi, il vero protagonista di una svoltaartistica decisiva per l’arte friulana del sec. xvi. (scas).

Tolnay, Charles de (Karl von Tolnai)(Budapest 1899 - Firenze 1981). Formatosi a Budapest du-rante la prima guerra mondiale, frequentò la Libera scuoladi Scienze intellettuali e il Circolo della Domenica, anima-to tra gli altri da personaggi quali Arnold Hauser e FrederikAntal, oltre che da Lajos Fulep, direttore della rivista filo-sofica «Szellem» (Spirito), dal 1915 maestro di T introdu-cendolo allo studio dell’arte novecentesca (1924, saggio suCézanne). Iscrittosi nel 1918 alla Scuola di storia dell’artedell’Università di Vienna, dove alla fine del primo conflittomondiale insegnavano Max Dvo≈ák e Julius van Schlosser,T, dopo un biennio trascorso a Berlino per seguire i corsi delmedievalista Adolph Goldschmidt e un periodo a Fran-coforte con Robert Kautsch, si laureò nel 1925 con una te-si su Hieronimus Bosch di cui nel 1937 avrebbe pubblicatola monografia. Ad Amburgo T tenne i primi corsi universi-tari, frequentando altresì insieme a Saxl, Cassirer, Panofsky

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la Biblioteca Warburg. Lasciata Amburgo nel 1934 per Pa-rigi (1934-39), allo scoppio del conflitto mondiale T si tra-sferì a Princeton dove sino al 1948 fu membro dell’Institu-te for Advanced Studies e dove avrebbe ritrovato Panofsky.Nel 1965 T, quale eminente studioso dell’arte rinascimen-tale italiana e insigne michelangiolista, assunse la direzionedella Casa Buonarroti nella sede di via Ghibellina a Firen-ze, incarico che avrebbe mantenuto sino alla morte. Si di-stinse negli anni Trenta come autore di studi fondamentalisulla pittura fiamminga (Pieter Bruegel il Vecchio, 1935 e con-temporaneamente si afferma tra i maggiori studiosi di Mi-chelangelo. Dopo contributi in lingua tedesca sui disegni mi-chelangioleschi del Codex Vaticanus (Repertorium für Kun-stwissenschaft, 1927) e dell’Archivio Buonarroti (MünchnerJahrbuch der bildenden Kunst, 1928), a partire dal 1943, an-no di uscita di History and technique of old master drawings.A handbook, T avrebbe iniziato la pubblicazione di una se-rie di saggi volti a ripercorrere in ordine cronologico l’inte-ra vicenda del maestro. Gli anni che videro la genesi di talicontributi furono scanditi da interventi dedicati ai maestridell’arte del Quattro e Cinquecento italiano di area toscanae veneta. Negli anni della direzione di Casa Buonarroti Tcoordinò mostre quali I disegni di Michelangelo nelle collezio-ni italiane (1975), Brunelleschi e Michelangelo (1977), Miche-langelo e i Medici (1980). Il suo lavoro è confluito in ultimonei quattro volumi del Corpus dei disegni di Michelangelo (No-vara 1975-80). Oltre al riordinamento delle collezioni di Ca-sa Buonarroti, già parzialmente operato da Ugo Procacci nel1964, tra il 1965 e il 1970 T avrebbe trasformato notevol-mente l’assetto museografico dell’istituzione fiorentina conriguardo particolare per la sala delle opere giovanili di Mi-chelangelo con la Battaglia dei Centauri posta accanto ai boz-zetti in terracotta e la Madonna della Scala situata vicino alCrocifisso ligneo, opera tarda del maestro. Ha inoltre lascia-to una importante biblioteca acquisita nel 1982 dal Comunedi Firenze per Casa Buonarroti. (pgt).

TolosaMusée des Augustins La fondazione di un museo a T ven-ne decisa il 19 dicembre 1793 a garantire la salvaguardia de-gli oggetti d’arte provenienti dalle proprietà confiscate del-la Chiesa e degli emigrati. Le collezioni vennero ospitate nel-

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la chiesa del convento degli agostiniani, bell’edificio del sec.xiv, e nei corpi annessi, che tuttora le ospitano. Aperto alpubblico il 17 agosto 1795, assunse ben presto il nome diMuséum central du Midi de la République. Le chiese e i con-venti, allora numerosissimi, il municipio, l’antica Accade-mia di pittura fornirono tele di grande interesse: di esse unaparte illustrava la scuola locale, tanto fiorente tra la fine delxvii e l’inizio del sec. xviii da essere definita come l’«etàd’oro della pittura tolosana», Tali sono i Portraits des capitoulsdi Chalette e di A. Lebré, le grandi composizioni storichedestinate ad adornare le sale del municipio, le composizionireligiose (Papa Urbano II consacra la chiesa di Saint-Sernindi A. Rivalz), i ritratti (il Farmacista dei Cordiglieri, sempredi Rivalz) varie opere di Chalette, Fredeau (San Niccolò daTolentino), Pader, Tournier (Deposizione dalla Croce), Su-bleyras (Giuseppe spiega i sogni), i Ritratti dei de Troy. A que-sti si aggiungono un’opera del sec. xv, il Crocifisso del par-lamento di T, e dipinti «parigini» eseguiti per la città (Vouet,La Fosse).Tra le collezioni private confiscate, si possono citare quelledel cardinal de Bernis, di Jean du Barry, questa ben prestorestituita e sostituita da quella del vescovo di Montauban,di Marie Anne François de Breteuil, che raccoglieva in par-ticolare quadri fiamminghi e olandesi e interessanti dipintifrancesi del sec. xvii e del sec. xviii.Incluso nel decreto consolare del 14 fruttidoro anno ix checreava quindici musei dipartimentali, nonché nel decreto del15 febbraio 1811, che completava la prima distribuzione, ilmuseo ricevette 72 dipinti, tra cui alcune opere fondamen-tali, come Cristo tra i due ladroni di Rubens, numerosi Phi-lippe de Champaigne (Il Duca de Longueville accolto nell’or-dine dello Spirito Santo), opere fiamminghe e olandesi (Se-ghers, Gérard de Lairesse, Gaspard de Crayer), operefrancesi del xvii e del xviii secolo (Largillière; Oudry, Cac-cia al cervo), dipinti italiani (San Giovanni Evangelista eSant’Agostino del Perugino; Guercino, Crespi, Guido Reni,Solimena, Guardi). Tra i dipinti dell’Ottocento che hannoaccresciuto il fondo originario del museo, vanno citati lavo-ri importanti di Gros, Ingres, Corot, Courbet, tele di Tou-louse-Lautrec (Il giorno della prima comunione) e il mirabileSultano del Marocco mentre esce dal suo palazzo di Delacroix.

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Sono ben rappresentati i pittori tolosani (Valenciennes, Ro-ques) o della Linguadocia (Gamelin) del xviii e del xix se-colo. (gb).Capitole Il municipio di T, vero e proprio museo, è ornatoda numerose e interessanti decorazioni murali. Per la Sala de-gli Illustri (1892), Jean-Paul Laurens eseguì una vasta rievo-cazione storica, dallo stile preciso (la Muraglia, 1895) e ungrande paesaggio di un realismo di qualità (il Lauragais, 1897).Benjamin-Constant vi dipinse la lirica Entrata di Urbano II aTolosa (1900), dal colore fiammeggiante, e Alexandre Fal-guière un soffitto (Apoteosi di Clémence Isaure). Lo scalonefu ornato da Jean-Paul Laurens (i Giochi Floreali, 1915), edal figlio Paul-Albert (la Musica), mentre Paul Gervais rea-lizzava per il grande salone, in un colorato stile impressioni-sta, un interessante complesso (Citera). Henri Martin, infi-ne, coprì un’intera sala con pannelli divisionisti che, per l’abi-le composizione e le raffinate armonie, attingono una sicurapoesia simbolista (la Passeggiata, la Fienagione). (tb).

Tolstoj, Fiodor Petrovic(San Pietroburgo 1783-1873). Medaglista, pittore, disegna-tore e incisore russo, si formò nei laboratori di sculturadell’Accademia di San Pietroburgo, divenendo in seguitoprofessore (1824) e direttore della sezione medaglie. Ha la-sciato alcuni dipinti d’interni e disegni al tratto di stile neo-classico: Ritratto dell’artista con la sua famiglia (1830 ca.: SanPietroburgo, Museo russo), Interno con suonatrice di chitar-ra al chiaro di luna (1822: Mosca, Gall. Tret´jakov), disegniper il balletto Eco (San Pietroburgo, Museo russo) e inci-sioni come quelle per la Dugenka di Bogdanovic (1829), incui il tema mitologico della Storia di Psiche è trattato con li-ricità finissima benché conservi un’impronta classica. (bl).

ToltechiPopolazione e civiltà precolombiana del Messico centrale(800-1246 ca.), i T invasero lo Yucatan verso il 950 ed eser-citarono il loro dominio sulla quasi totalità degli altopianidella regione. La loro potenza fu scossa, a partire dal 1168,da popolazioni barbariche, forse azteche; alcuni gruppi fa-miliari toltechi sopravvissero nella città di Colhuacán e con-servarono la loro indipendenza fino al 1246, quando furonosottomessi da tribú guerriere provenienti da nord. La capi-

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tale dello Stato tolteco, Tula (Stato dell’Hidalgo), fondatanell’856, fu distrutta nel 1164 da conquistatori non identi-ficati. Dalla moltitudine di frammenti ritrovati si deduce chegli edifici fossero decorati da pitture; l’edificio piú interes-sante è una piramide a cinque corpi, detta «edificio B», cheaveva funzione di zoccolo per il tempio di Tlahuizcalpante-cuhtli. Un ampio vestibolo con colonne quadrate, ornate daguerrieri scolpiti e dipinti, precedeva la piramide; il fronto-ne era decorato con greche e animali, analogamente scolpi-ti e dipinti. Alcuni fregi zoomorfi, intagliati con leggero ri-lievo, ornavano la base della piramide propriamente detta:aquile, avvoltoi verdi e gialli, puma, tigri ocra o bianche, tut-ti dipinti su un fondo rosso sangue.La ceramica La ceramica, poco decorata, comporta diversitipi di oggetti: incensori e piatti con lunghi manici, vasi ecoppe tripodi, di colore ocra o crema. La considdetta cera-mica di «Mayapán» si compone di ciotole, di piatti e di gran-di vasi cilindrici rosso-brunastri, decorati con incisioni e pit-ture lineari bianche e ocra. La terracotta di Jalapasco, mo-dellata a mano, veniva dipinta, dopo la cottura, con colorirossi, blu e gialli.La decorazione della ceramica rinvenuta durante gli scavi ar-cheologici a Tenayuca (Stato di Città del Messico), dipintadi nero su fondo arancione, presenta una grande libertànell’esecuzione delle linee concentriche, collocate ai bordi deivasi, e delle linee curve disposte come a formare una frangia,interrotta da piccoli cerchi; i motivi geometrici e le grechedànno l’impressione di una treccia sottile che si posa sui va-si. Di colore nero con filettature bianche, la decorazione del-le coppe e delle ciotole, costituita da zanne, greche e piccolebande longitudinali, è dipinta sopra un fondo rosso scuro.Un’altra ceramica, tipicamente tolteca, è stata rinvenuta sol-tanto in cocci. La sua decorazione esterna s’articola in lineespezzate intrecciate, a forma di «X» oppure di figura (Cittàdel Messico, mn di Archeologia, Storia ed Etnografia). (sls).

Toma, Gioacchino(Galatina (Lecce) 1836 - Napoli 1891). Riceve i primi rudi-menti artistici presso l’Ospizio dei poveri di Giovinazzo.Trasferitosi a Napoli nel 1854, sotto la guida del Fergola èattivo come pittore ornamentista partecipando alle decora-

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zioni della villa reale della Favorita a Portici. Casualmentecoinvolto in una retata della polizia borbonica, nel 1857 vie-ne confinato per un anno a Piedimonte d’Alife dove si man-tiene dipingendo ritratti, nature morte e immagini sacre. Inquesto soggiorno forzato l’artista entra in contatto con i mo-vimenti di cospirazione antiborbonica che lo portano a par-tecipare inizialmente ai moti del 1859 e in seguito, nel 1860,all’avventura garibaldina come ufficiale. Nel 1859 esordiscealla Mostra napoletana di belle arti, con Erminia (Napoli,Palazzo Reale), un’opera ancora di derivazione romanti-co-accademica ispirata alla Gerusalemme liberata, ma già dal1861 i soggetti dipinti risentono della sua esperienza mili-tare e dei suoi ideali politici trattati attraverso un naturali-smo di marca palizziana (Figli del popolo: Bari, pc; Roma omorte, 1863: Lecce, mc). Nella produzione degli anni Ses-santa si riscontra ormai ben evidente la tendenza a trattareil tema storico senza accademismo, ma con umanità e natu-ralismo quieto. Tali caratteristiche pongono l’artista su diun piano di assoluta originalità, lontano dalla fantasiosità diMorelli e dal minuzioso verismo di Palizzi. Dopo un perio-do di assenza dalle esposizioni pubbliche in cui il pittore sidedica all’insegnamento nelle scuole municipali per l’arti-gianato creando mobili e modelli per ricami e merletti, nel1874 l’artista si ripresenta al pubblico esponendo la primaversione della Luisa Sanfelice in carcere (già Milano, coll.Giussani) a cui segue, nel 1877, la versione conservata nel-la gnam di Roma, opera unanimamente considerata il suocapolavoro. Di questo periodo sono anche Il viatico dell’or-fana, La guardia alla ruota dell’Annunciata (entrambi 1877:ivi) e La messa in casa (1877: Napoli, Palazzo municipale).Chiamato da Domenico Morelli, nel 1878 entra all’Accade-mia come professore di disegno ed esegue alcuni dei suoi la-vori migliori (La pioggia di cenere del Vesuvio, 1880: Firen-ze, gam; L’onomastico della maestra, 1879: Napoli, Galleriadell’Accademia; Luisa Sanfelice deportata a Palermo, 1884:Napoli, Museo di San Martino). Dopo il 1879 esegue anchealcune marine e ritratti (I sommozzatori, 1887 ca.: Lecce,mc; Ritratto di signora: Torino, gam). (apa).

Toma, Mathias Rudolf(Vienna 1792-1845). Paesaggista dell’epoca Biedermeier, fuallievo dell’Accademia di Vienna. Di carattere intrapren-

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dente e dotato di senso degli affari, fondò a Schaffhausen,in Svizzera, dove si trasferì nel 1820, una ditta per la ven-dita di opere d’arte e una stamperia litografica. Stampò an-che alcune sue opere: vedute litografate, in particolare deidintorni di Schaffhhausen. Altri paesaggi si ispirano ai din-torni di Vienna e alla regione stiriana di frontiera nella Bas-sa Austria. Nel 1830 tornò a Vienna e fino al 1843 esposeregolarmente nella mostra annuale dell’Accademia. La suapiccola Veduta di Vienna dal Krapfenwaldl (1834: Vienna,ög), ne illustra la vena realistica e l’accurata resa delle lumi-nose trasparenze atmosferiche. (g + vk).

Tomasini, Giuseppe(Vicenza 1652 - post 1730). Formatosi nella bottega di Giu-lio Carpioni, T fu, tra gli allievi del maestro il piú fedele tra-duttore della sua maniera, dalla quale derivò il peculiare tim-bro acidulo dei colori, la solidità delle strutture compositivee la compattezza degli incarnati. Documenta la sua adesioneall’insegnamento carpionesco la tela con Il regno di Hypnosdel Municipio di Dueville (Vicenza), ispirata al dipinto di sog-getto analogo di Giulio Carpioni del km di Vienna.L’influenza di Giulio è percepibile ancora nell’Apoteosi disan Nicola (1698) della chiesa del castello di Arzignano, nel-le tele con San Nicola e le melodie angeliche dell’Oratorio diSan Nicola da Tolentino di Vicenza e nella pala con la Ver-gine col Bambino, sant’Antonio abate, san Nicola e santa Rita(1714) della parrocchiale di Povolaro.T non rimase indifferente alle suggestioni della pittura «te-nebrosa», introdottesi a Vicenza già a partire dal settimo de-cennio del secolo. Nel telero, firmato e datato 1694, con laVergine di Monte Berico che, implorata dalla popolana Vincen-za Pasini, mette in fuga la Peste (Vicenza, Basilica di SantaMaria di Monte Berico), l’artista rivela di essere aggiornatodel naturalismo di derivazione veneziana, nella plastica cor-posità delle figure e nella drammatica intensità chiaroscura-le della composizione, sia della corrente neovetonesiana difine secolo, nella rappresentazione di impianti architettoni-ci arditamente scorciati.Altre opere di T sono segnalate nelle parrocchiali di Pieris(Gorizia), di Vigardolo (Vicenza) e di Lisiera (Vicenza) del1730. (mbi).

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Tomea, Fiorenzo(Zoppè di Cadore (Belluno) 1910 - Milano 1960). Si trasferi-sce dapprima a Milano (1922) poi nel 1926 a Verona dove siiscrive ai corsi serali dell’Accademia Cignaroli e conosceManzú e Birolli. Nuovamente a Milano nel 1928, approfon-disce l’amicizia con Birolli e Manzú, conosce Sassu, Cassina-ri, Messina e poi Edoardo Persico che lo invita nel 1932 adesporre alla Galleria Il Milione, dove terrà una personale didisegni due anni dopo, condotti secondo un primitivismo lon-tano da ogni intellettualismo che sarà una costante della suaispirazione. Dopo un viaggio a Parigi nel 1934-35 con Sassu,T si stabilisce definitivamente a Milano. Nel 1937 ottiene ilprimo premio alla VII Mostra del Sindacato interprovincialedi Bergamo (Candele e maschere) e nel marzo 1939 espone al-la prima mostra del gruppo di Corrente. Nel suo linguaggio,già maturo a partire dal 1937, è presente la lezione di Cézan-ne, Tosi, Carrà, Morandi, De Pisis. Dai primi paesaggi cado-rini e dalle prime nature morte, T è approdato a opere piú ri-gorose ed essenziali nella composizione, volutamente sempli-ci, dalla vena surreale, tra il grottesco e il macabro, con soggettiche diventano la sua cifra: le candele, le maschere, oltre ai te-schi, agli scheletri (Solitudine, 1937: Milano, coll. priv.), alleprocessioni (Corteo, 1940: Ferrara, coll. C. Tubi), alle danze,ai fiori appassiti. È una pittura amara, cupa, anche ossessiva,di sentimento romantico, in aperta rottura con l’ottimismo difacciata del Novecento. Stilisticamente, è sfatta, grumosa,screziata. Il profondo senso religioso lo accomuna a TullioGarbari e informa le opere della guerra («profughi», «emi-granti», «montanari»). Dopo la guerra introduce, all’internodei suoi temi abituali, un nuovo senso di malinconia che pit-toricamente si risolve in una perdita di corposità e di sostan-za pittorica dei soggetti, che appaiono ora radi simulacri (Can-dele, 1949: Laggio di Cadore, coll. N. Schiesaro), Il pittoreintensifica la rappresentazione dei paesaggi cadorini dal tonoelegiaco (Case di Cadore, 1945: Trieste, Civico Museo Revol-tella). La sua fama cresce e, tra gli altri riconoscimenti, ottie-ne il primo premio Auronzo nel 1947 e il secondo premio Mar-zotto nel 1954. Ha eseguito opere di stampo monumentalecome affreschi (San Pietro che fa l’elemosina, 1945: chiesa diMarzio presso Varese) e mosaici (Calvario nella chiesa di San-ta Barbara a Metanopoli). (eca).

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Tominz, Giuseppe(Gorizia 1790 - Gradiscutta (Gorizia) 1866). Nato da unafamiglia della piccola borghesia di origine slovena, nel 1803,dopo la morte della madre, abbandona la casa paterna sog-giornando in diverse località nei dintorni di Gorizia e forsericevendo le prime nozioni artistiche dal disegnatore vien-nese Johann Zeindl o dall’incisore Johann Kern. Tra la finedel 1808 e i primi mesi del 1809 il suo talento artistico vie-ne notato dalla sorella dell’imperatore Francesco I, l’arci-duchessa Marianna d’Austria, che promette il suo appoggioeconomico affinché T possa studiare a Roma. All’inizio delmarzo 1809 l’artista era già a Roma, ma nell’ottobre dellostesso anno l’arciduchessa morì lasciando T in gravi diffi-coltà. A Roma il giovane pittore viene aiutato dal nobile go-riziano Giuseppe della Torre e in seguito accolto alla scuo-la del pittore Domenico Conti Bazzani presso il quale stu-dia e abita sino al 1818. Contemporaneamente frequenta laScuola del Nudo dell’Accademia di San Luca dove vienepremiato nel 1814. Del periodo romano, in cui entra in con-tatto con teorici e maestri del neoclassicismo come Camuc-cini, Canova e Thorvaldsen, sono noti solamente un dipin-to e un disegno (La lettrice, 1812: Gorizia, Musei Provin-ciali; Studio di Apostolo: Roma, Archivio dell’Accademia diSan Luca) che dichiarano i due elementi caratteristici dell’ar-te di T: l’attenzione in qualche modo realistica e la linea in-cisiva. Rientrato a Gorizia nel 1818 ottiene la commissionedi una pala per la chiesa di San Carlo, annessa al SeminarioArcivescovile, e nello stesso anno esegue due ritratti uffi-ciali dell’imperatore Francesco I e il noto Autoritratto col fra-tello Francesco (Gorizia, Musei Provinciali). Tra il 1818 e il1821 si collocano i soggiorni a Venezia, Vienna e Lubiana everso la fine del terzo decennio l’artista è sempre piú spes-so a Trieste dove si stabilisce per soddisfare una commit-tenza facoltosa e a lui congeniale e dove consolida la sua fa-ma di ritrattista alla moda. Di questo periodo sono anche iritratti multipli, ambientati in interni o con sfondi paesag-gistici, una delle parti piú interessanti della sua produzione(Famiglia de Brucker: Trieste, Civico Museo Revoltella; Fa-miglia Moscon: Lubiana, ng). Intorno alla metà degli anniTrenta data una delle opere piú note e originali del T, l’ir-riverente Autoritratto (Trieste, Civico Museo Revoltella), di-

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pinto sulla porta della latrina della villa di Gradiscutta, daconsiderare il capolavoro assoluto dell’artista. Dopo la metàdel secolo, negli ultimi anni triestini e dopo il trasferimen-to a Gorizia (1855) e in seguito a Gradiscutta, le sue operesi fanno piú piatte e di maniera, mentre i ritratti sono spes-so derivati da originali in dagherrotipia. Prima che una ma-lattia agli occhi gli impedisse di continuare la sua attività,portandolo a morire quasi dimenticato, T realizza diverseopere di soggetto religioso per la chiesa di Gradiscutta e peraltre dei dintorni. (apa).

Tomlin, Bradley Walker(Syracuse (New York) 1899 - New York 1953). Conseguitoil titolo di bachelor in pittura preso l’Università di Syracuse(1917-21), si trasferì a Parigi nel 1923 iscrivendosi all’Acadé-mie de la Grande Chaumière. Qui venne in contatto con l’ar-te di Cézanne, van Gogh, Gauguin e dei cubisti, la cui im-pronta sulla sua opera fu di lunga durata. Tornato a NewYork, eseguì alcune nature morte nella scia dei precisionistiSheeler e Demuth, prima di essere iniziato da Motherwell al-le tecniche automatiche del surrealismo. Passando verso lafine degli anni Quaranta all’espressionismo astratto, T trovòinfine un proprio personale linguaggio: abbandonando il neo-cubismo per una vera e propria pittografia gigante, continuòa dare grande rilievo a una severa costruzione architettonicadello spazio pittorico. Le sue tele risultano suddivise in pic-coli spazi geometrici, specie di griglia sottesa, nei quali si in-scrivono in contrappunto grafie bianche o scure (Number 20,1949: New York, moma; Number 9: tribute to Gertrude Stein,1950: ivi). Gli ultimi lavori di T, nel periodo che segnò il cul-mine dell’espressionismo astratto, sono vaste tele dove for-me e linee, subitamente spezzate, si organizzano secondo unadinamica interna attenta a perseguire un effetto decorativo(Number 10, 1952-53: Utica, Munson-Williams-Proctor In-stitute). Fece parte del gruppo The Irascible Eighteen. IlWhitney Museum of American Art di New York ha dedica-to all’artista un’ampia retrospettiva postuma nel 1957. (em).

Tommaso da Modena(Modena 1325/26 - documentato fino al 1368). La biogra-fia documentaria di T non offre informazioni riguardantispecificamente la sua attività di pittore, è solo un’utile gri-

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glia cronologica di riferimento (documenti lo attestano a Mo-dena dal 1340-44, e poi tra il 1366 e il 1368; a Treviso dal1349 al 1354) per una vicenda artistica che non ha ancoraraggiunto un definitivo assestamento e che presenta aspettidi particolare problematicità riguardo alla fase giovanile e,soprattutto, riguardo a quella piú tarda. Il primo apprendi-stato di T si svolse credibilmente presso la bottega paterna(il pittore Barisino de’ Barisini), ma gli stimoli culturali chediedero sostanza alla sua formazione gli derivarono dal di-retto confronto con le esperienze figurative del vivace am-biente artistico bolognese degli anni Quaranta. Le sue refe-renze culturali sono bene dichiarate nel trittichetto della Pi-nacoteca Estense di Modena che, con la sua firma «Thomasfecit» e la data lacunosa interpretabile come 1345, si ponea buon diritto come prima opera nota del catalogo. Vi è chia-ro, in particolare, il debito verso i modi di Vitale e il suo «te-nerissimo illusionismo d’epidermide», oltre che verso laproduzione miniata vivacemente descrittiva dell’«Illustra-tore»; nondimeno, pur trattandosi con evidenza di un di-pinto giovanile, vi sono già presenti gli aspetti piú tipici dellinguaggio tomasesco: la dolcezza del modellato, la lumino-sità dei colori, la naturalezza degli atteggiamenti e la liberainterpretazione della tradizione iconografica. Al trittichet-to si possono collegare, a date cronologicamente successive,ma non troppo lontane, la piccola cuspide con l’Annuncia-zione del mc di Modena e le due anconette della pn di Bo-logna e della wag di Baltimore. Nell’insieme configuranouna prima produzione che privilegia il lavoro su tavola e lapreziosità delle piccole dimensioni; una predisposizione cheha suggerito a molta parte della critica la possibilità diun’estensione dell’attività di T anche nel campo della mi-niatura trovando un suggestivo appiglio nella piccola Ma-donna col Bambino della coll. Longhi di Firenze.L’insieme della sua produzione d’ambito trevigiano rivelainvece la versatile capacità del pittore di passare dalle pic-cole dimensioni degli altaroli a quella «grande» degli affre-schi, senza perdere in qualità e coerenza. L’unica opera da-tata e firmata del suo soggiorno nella città veneta, oltre cheprima commissione di prestigio, è costituita dalla serie deiquaranta Domenicani illustri dipinta ad affresco nel capito-lo di San Nicolò e datata 1352. La gloria dell’ordine è affi-

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data alla semplice sequenza dei frati nei loro studi resa av-vincente da un’incisiva caratterizzazione fisionomica e psi-cologica di ognuno di loro: veri e propri ritratti, anche sesvincolati da qualsiasi pretesa di veridicità storica, qualifica-ti da una minuta osservazione del dettaglio, ma senza il mi-nimo interesse d’inserimento entro uno spazio praticabile ditradizione giottesca. Questo particolare naturalismo empi-rico, combinato a una felice vena narrativa, trova un’im-portante luogo d’espressione nel ciclo di affreschi con leStorie di sant’Orsola compiuto nella cappella absidale de-stra della chiesa di Santa Margherita (oggi nel mc di Trevi-so). L’intera decorazione è stata a lungo considerata comeeseguita durante l’ipotetico secondo soggiorno trevigiano,tra il 1360 e il 1366, ma trova maggiori ragioni una crono-logia entro il sesto decennio, precisabile intorno al 1355: siaper l’intonazione stilistica non troppo distante dagli affre-schi del 1352 nel capitolo di San Nicolò, che sulla base diun confronto incrociato con altre testimonianze figurativedi quegli anni in area trevigiana (per esempio, l’attività delcosiddetto «Compagno di Tomaso», probabile collaborato-re del maestro modenese in Santa Margherita, nel santuariodei Santi Vittore e Corona presso Feltre). Oltre ai due im-portanti cicli decorativi di San Nicolò e di Santa Margheri-ta, restano a Treviso altre opere ad affresco di T a docu-mentare il fitto intreccio di commissioni che lo impegnaro-no nei quasi dieci anni del suo soggiorno veneto. Si trattadei due Angeli reggi-cortina, affiancati a una ridipinta Ma-donna col Bambino della chiesa di Santa Lucia; la Madonnae santi della cappella Giacomelli in San Francesco; i Santidel secondo pilastro a sinistra della chiesa di San Nicolò; ilCristo Passo del Palazzo arcivescovile e i frammenti d’affre-sco provenienti dalla cappella maggiore della chiesa di San-ta Margherita (ora presso il mc), parti di un ciclo con Storiedi Cristo. Si riferiscono inoltre al tardo periodo trevigiano(ante 1358) sia il trittico firmato con la Madonna col Bam-bino tra i santi Venceslao e Giorgio, sia il dittico con la Ma-donna col Bambino e il Cristo Passo, commissionati dall’im-peratore Carlo IV e conservati nel castello di Karlstein inBoemia. Entrambe le opere, che non implicano necessaria-mente alcun viaggio oltramontano di T, presentano uno spic-cato carattere aulico, adeguato al prestigio della commissio-ne. La vena piú cordiale del pittore si smorza in un’insisti-

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ta ricerca di preziosità che combina eleganza lineare, dolcez-za di modellato e profusione di decorazioni dorate, secondoun raffinato formalismo affine a quello della tradizione se-nese. A prescindere dagli aspetti piú esornativi, la partico-lare ricerca di finitezza nella stesura pittorica delle due ope-re boeme individua una precisa linea di maturazione dellapittura tomasesca, distinta dall’incisività abbreviata che ca-ratterizza le forme nella serie dei Domenicani illustri o dellestorie ursulane. Uno sviluppo del suo linguaggio che apparebene documentato dal già citato Cristo Passo del Palazzo ar-civescovile e dai brani d’affresco (l’immagine di Cristodall’Apparizione alla Maddalena e due figure dall’Incontro aEmmaus) della cappella maggiore di Santa Margherita.Tanto il periodo trevigiano di T è, nel suo insieme, bene il-lustrato dalle molte pitture superstiti a lui riferibili o dai ri-flessi della sua opera nell’ambiente figurativo locale, quan-to il suo successivo soggiorno a Modena offre un quadro didisperante lacunosità sia per scarsità d’opere, sia per man-canza di significative risonanze. Le uniche opere ascrivibilia questa fase di T sono la Madonna col Bambino della chie-sa di Sant’Agostino e quella, di recente acquisizione, dellachiesa di San Biagio del Carmine, cui si può integrare il fram-mento d’affresco d’analogo soggetto sul pilastro del pulpitoin Duomo. Tali pitture murali si mostrano coerenti con la li-nea di ricerca avviata da T nel tardo periodo trevigiano, masono ben poca cosa per tentare di restituire un quadro coe-rente dell’ultima attività del pittore a Modena nel decenniotra il 1358 e il 1368, quando viene ricordato in vita per l’ul-tima volta, (tf).

Tommaso De Vigilia(noto dal 1444 al 1497). Verosimilmente di origine paler-mitana (si firma «civis Panormi», «Panormita» o «pictorisde urbe Panormi»), si impone nell’ambiente pittorico loca-le per oltre mezzo secolo. Perduti i lavori piú antichi ricor-dati nei documenti, scarse restano le notizie sulla sua for-mazione che si vuole svolta nella bottega di Gaspare da Pe-saro. Nel trittico con la Madonna col Bambino e santi, firmatoe datato 1486 (Palermo, Galleria regionale della Sicilia) sinota, accanto alla presenza di ricordi piú arcaici, la volontàdi inserirsi in quel nodo culturale che lega fatti marchigiani,

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provenzali e catalani. Caratteristica questa che si ritrova intutta la sua produzione arricchita talvolta da qualche sugge-stione antonelliana. Sue opere si conservano a Palermo: SanNicola di Bari (1488), San Giovanni Evangelista (1492: af-freschi staccati già a Risalaimo, Galleria regionale della Si-cilia); Madonna col Bambino, angeli musicanti e santi (coll. Ta-sca), e Battesimo di Cristo (coll. Santocanale). (rdg).

tondoQuadro a forma circolare, particolarmente in voga in Italianel rinascimento, specie a Firenze, dove, sin dall’epoca delgotico internazionale (Maestro del Giudizio di Paride al Bar-gello) appare nella forma di desco da parto (→). Masaccioutilizza questa forma di provenienza artigianale (Nascita del-la Vergine: Berlino, sm, gg) che sarà poi adottata da diversiartisti come Domenico Veneziano (Adorazione dei Magi: ivi),l’Angelico e Filippo Lippi (Adorazione dei Magi: Washing-ton, ng). Il tema della Vergine col Bambino è quello piú fre-quente. Nella scia di Filippo Lippi, Botticelli (Madonna delMagnificat: Firenze, Uffizi), Filippino Lippi, Ghirlandaio epoi Lorenzo di Credi e Piero di Cosimo illustrano la vogafiorentina del t nell’ultimo terzo del Quattrocento.Troverà la sua forma piú alta nel Tondo Doni (Sacra Fami-glia) di Michelangelo (Firenze, Uffizi) e in alcune delle Ma-donne di Raffaello, come la Madonna d’Alba (Washington,ng) o nella Madonna della seggiola (Firenze, Pitti). La sua for-tuna durante il manierismo continuò (cfr. Parmigianino, Au-toritratto allo specchio: Vienna, km; Beccafumi). (sr).

Tonitza, Nicolae(Barlad (Bîrland) 1886 - Jasi 1940). Studiò alla Scuola di bel-le arti di Jasi, presso Ch. Popovici, a Monaco (1907-909, nel-lo studio di Habermanns) e a Parigi (1909-11). Esordì comeillustratore satirico e teorico d’arte, dapprima collaborandoalle riviste «Furnica» e «Arta Romîna», poi al «Simplicissi-mus» e al «Jugend» monacensi, con uno stile grafico che mol-to deve a H. Daumier e A. Forain. Fu insegnante di disegnoa Jasi (dal 1911), giornalista, e decoratore di chiese (a Du-ran, Poeni-Vaslui ecc.), intensificando la sua attività di illu-stratore a partire dal difficile periodo della prima guerramondiale (ciclo su Guerra e Prigionia, 1919). Fondò con al-tri artisti il gruppo Arta românu (1920) che si opponeva al-

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la politica artistica dei salons rumeni, in favore di un’arte dalcarattere nazionale, legata alle radici popolari. Così, alle sce-ne di vita rurale, che predominano nelle opere degli epigo-ni di N. Grigorescu, T contrappone immagini di vita urba-na, la tristezza lancinante dei quartieri periferici, la grevestanchezza di chi ha perduto la speranza (Cimitero, Coda peril pane, Poveri: Bucarest, mn). Esprime la sua solidarietà peri diseredati mediante l’intensità del colore e la straziante bel-lezza del disegno dalla linea vibrante (ritratti di bambini: Lapiccola olandese; Katju∫ka; la serie di bambini della Valle diBicasu e del Neamt, 1934; quella dei tartari di Dobrugia,1935-37; quella dei Clowns). Negli ultimi anni la tavolozzadi T si fa quasi monocroma, le forme quasi trasparenti e, nel-la serie dei nudi, una linea ormai d’arabesco assumono tonipallidi per forme oniriche.T insegnò dal 1933 (e dal ’37 ne fu rettore) alla Scuola dibelle arti di Jasi; partecipò a numerose collettive, partico-larmente a Parigi, Amsterdam, New York. Sue opere si tro-vano in tutti i musei rumeni (Museo Zambaccian e mn d’Ar-te a Bucarest). (ij + sr).

tono → pittura tonale

Toorenvliet, Jacob(Leida 1635/36 - 1719). Documentato nel 1670 a Roma e aVenezia, e dal 1676 al 1679 a Vienna, operò soprattutto aLeida, dove nel 1686 era iscritto alla gilda di San Luca; nedivenne decano nel 1703. Come molti pittori dei Paesi Bas-si settentrionali, il suo viaggio in Italia non ne influenzò lostile; dipinse infatti scene di genere tipicamente olandesi,nella maniera precisa e fine di Dou e di Mieris (Lezione dimusica: Amsterdam, Rijksmuseum; il Mercante di selvaggina:Dresda, gg; Donna e uomo che bevono: Bordeaux, mba). (jv).

Toorop, Johannes Theodorus, detto Jan(Poerworedjo (Giava) 1858 - L’Aja 1928). Giunto in Olan-da frequentò le Accademie di Amsterdam (1880-81) e Bruxel-les (1882), dove fu membro dei Venti (1885); nel 1888 si sta-bilì all’Aja. Dopo un primo avvicinamento alla tecnica im-pressionista, due viaggi in Inghilterra (1884 e 1886) gli feceroconoscere l’arte di Blake e dei preraffaelliti, inoltre a Parigi

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(1889) i suoi contatti con Rops e Redon lo conquistarono al-la poetica simbolista nell’alveo della quale T maturò uno sti-le molto personale, sintetizzando le esperienze del momen-to, dal divisionismo di Seurat, al sintetismo di Gauguin. L’ar-tista sarà al suo ritorno in Olanda l’esponente principale delsimbolismo accanto a Thorn-Prikker. L’impronta essenzial-mente grafica stilizzata e dagli effetti ricercati dei suoi lavo-ri tradisce l’influsso di Beardsley (le Tre fidanzate, 1893: Ot-terlo, Kröller-Müller; manifesto per «Delftsche Slaolie», li-tografia, 1895: Amsterdam, sm).T tornò dopo il 1900 a una poetica piú semplice dove la le-zione del neo-impressionismo si fonde con quella di van Go-gh (Canale presso Middelburg, 1907: ivi). T affrontò diversitemi passando da una pittura di impegno sociale ad allego-rie monumentali a sfondo religioso dopo la sua conversioneal cattolicesimo (la Santa fuga: ivi); al pittore si devono inol-tre le vetrate per San Giuseppe a Nimega. È rappresentatonei musei olandesi dell’Aja, di Amsterdam e soprattutto diOtterlo. Contribuì idealmente alla prima formazione diMondrian. (sr).Sua figlia Charley (Katwijk 1891 - Bergen 1955) fece partedella scuola di Bergen, che dal 1915 aveva introdotto le ri-cerche espressioniste tramite il pittore francese Le Faucon-nier. Stabilitasi a Bergen nel 1921, praticò una pittura piut-tosto fluida (Guardiano notturno, 1922: Amsterdam, sm).L’ambizione monumentale, unita al vigore della descrizionerealista, ne caratterizzò lo stile prossimo alla Neue Sachli-chkeit tedesca (Pranzo tra amici, 1932: Rotterdam, bvb; Au-toritratto, 1944-45: Museo di Eindhoven). (mas).

Topor, Roland(Parigi 1938-1997). Studiò all’Ecole des beaux-arts di Pari-gi. Fondatore, con Jodorowsky, Arrabal e Olivier del grup-po Panic, va annoverato fra quanti rinnovarono radical-mente il linguaggio del fumetto e del disegno d’animazioneintroducendovi elementi colti derivanti da una frequenta-zione delle avanguardie storiche, in particolar modo del sur-realismo e dada. L’inventiva di T, fatta di humour nero, hor-ror, erotismo e fantascienza, nonché informata da una vio-lenta tendenza alla dissacrazione, si riversa in riviste epubblicazioni periodiche («Hara kiri», «Metal hurlant») co-me in album scritti e illustrati (Sogni diurni, 1975) per inte-

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ro da lui, sebbene i risultati piú convincenti li abbia raggiunticollaborando con altri. Ricevette nel 1973 a Cannes il rico-noscimento piú ambito nel campo del cinema d’animazioneper Il pianeta selvaggio (prodotto con Laloux, richiese quat-tro anni di lavorazione) così come per la paternità del ro-manzo da cui Roman Polansky trasse L’inquilino del terzopiano. Tale stile di lavoro (inauguratosi nel 1971 collabo-rando a Viva la muerte di Arrabal) rende arduo separare ilcreatore d’immagini (grafiche, cinematografiche e lettera-rie) dal provocatorio narratore di storie e inventore di nuo-vi e trasgressivi linguaggi che paiono convivere nella perso-nalità dell’autore. (rca).

Torbido, Francesco India, detto anche il Moro(Venezia 1482/85 - Verona 1561/62). Dalla città natale sitrasferisce attorno al 1500 a Verona per sottrarsi, a detta delVasari (1568), alle conseguenze di un violento litigio. Quientra a servizio del conte Zenovello Giusti, rimanendo inseguito legato a questo casato, e stabilisce un rapporto di la-voro e d’amicizia con Liberale da Verona. Nel 1516 firma ilRitratto di giovinetto con una rosa (Monaco, ap) da carattereancora giorgionesco quale si ritrova anche in altri ritratti unpoco piú tardi (quello firmato Milano, Brera e Padova, mc).Rispetto a quanto rivelano questi primi ritratti certi, chehanno fatto ipotizzare una sua formazione e permanenza ve-neziana, le opere successive appaiono di cultura piú com-plessa. Il Cristo morto sorretto da angeli (Montorio, parroc-chiale) lo mostra interessato alla cultura aperta alla Lom-bardia o all’Emilia della tradizione correggesca propria diG. F. Caroto. Con la Sacra Conversazione della Basilica diSan Zeno (1520 ca.), sviluppa una complessità formale qua-si protomanieristica, accentuata in seguito con le pale di SanFermo Maggiore del 1523 e della parrocchiale di Bagolino,mentre negli affreschi della cappella Fontanelli in Santa Ma-ria in Organo (1526) si fanno anche piú evidenti le accen-tuazioni cromatiche morettesche.Nella pala del 1533 con San Lorenzo Giustiniani, san Miche-le e san Giorgio (Verona, Castelvecchio) si avverte un dop-pio interesse sia verso l’ambito bresciano (Moretto), sia piúlimitatamente verso Mantova e il manierismo romanista diGiulio Romano. Quest’ultimo interesse diverrà piú forte a

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partire dal 1534 allorché, su commissione del vescovo di Ve-rona, Gianmatteo Giberti, accetta di eseguire gli affreschicon Storie della Vergine del presbiterio della Cattedrale ve-ronese avvalendosi dei cartoni già predisposti da Giulio Ro-mano. Con essi il T assume un’inedita magniloquenza for-male non priva di ricercate intemperanze, un poco decanta-ta dall’ampia risonanza paesaggistica nel ciclo di affreschidel 1535, sempre su commissione del Giberti, nell’abbazia-le di Rosazzo in Friuli. Su queste direttrici si muove anchela successiva attività del T segnata dagli affreschi di San Ze-no del 1538 e dalla pala in Sant’Eufemia o ancora piú tardidal ritratto firmato di Capodimonte (Napoli). Nel 1545 sitrasferisce a Venezia; vi esegue tra l’altro alcuni dipinti per-duti per la Scuola della Santissima Trinità con episodi dellacreazione del mondo, per il quale è pagato ancora nel 1550.Non è precisato l’anno del suo ritorno a Verona dove figu-ra dal 1557. (gf).

TorcelloIsola della laguna di Venezia, T è dominata dalla Cattedra-le di Santa Maria Assunta, basilica fondata nel 639, ampliatanell’824 e ricostruita agli inizi del sec. xi. L’edificio, di ti-po basilicale, è preceduto da un nartece del sec. ix, amplia-to a partire dal sec. xiv. Davanti alla facciata sono visibili iresti del Battistero del sec. vii. L’interno della chiesa, sud-diviso in tre navate da colonne in marmo greco con capitel-li corinzi (sec. xi) è decorato con magnifici mosaici. I piú an-tichi tra essi raffigurano gli Apostoli, allineati sull’emiciclodell’abside; al di sotto, è raffigurata la figura slanciata e leg-giadra della Vergine col Bambino, eseguita verso il 1190, pro-babilmente a sostituire il Cristo in trono (questa rappresen-tazione si ritrova, con un’esecuzione piú grossolana, nell’ab-side della chiesa di San Donato a Murano). Sull’arco trionfaleè raffigurata l’Annunciazione del sec. xiii; nell’abside late-rale di destra, il Cristo in trono tra gli arcangeli (sec. xiii); aldi sotto sono rappresentati dei Vescovi (del sec. xii forse suschema del ix), tra cui compaiono i santi latini Ambrogio,Agostino e Martino, mentre sulla volta quattro angeli reca-no un medaglione con l’Agnello. Sulla parete occidentalenella controfacciata, al di sotto della Crocifissione e dellaDiscesa di Cristo nel limbo, la vasta composizione del Giu-

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dizio Universale (secoli xii-xiii) si divide in quattro campi;la Vergine orante occupa la lunetta al di sotto della porta.Per iconografia e stile, questi mosaici, piuttosto restaurati,si rifanno alla tradizione bizantina.Il Museo di T, allestito nei palazzi trecenteschi dell’Archi-vio e del Consiglio, conserva reperti archeologici e opere me-dievali. (sdn).

Torelli, Felice(Verona 1667 - Bologna 1748). Allievo in patria di SantoPrunato, dopo il trasferimento a Bologna entrò nella botte-ga del Dal Sole sul cui esempio orienterà, dopo un primo mo-mento neocarraccesco (Cattura di Cristo, già Zambeccari: Bo-logna, pn), la sua vasta produzione. L’intonazione cromati-ca e la materia trasparente di gusto «neoveronesiano»,desunti dal Dal Sole, sono particolarmente evidenti nell’Im-macolata del Museo di Castelvecchio di Verona (1710 ca.) enei quattro ritratti dei Malvezzi (1711-13: Dozza Imolese,castello). A partire dagli anni Venti il pittore si allontanaprogressivamente dal suo maestro e, pur non abbandonan-do la materia contrastata e luminosa di timbro veneto, sce-glie modi piú severi e magniloquenti, particolarmente gra-diti alla committenza religiosa. Numerose saranno infatti an-che nei decenni successivi le opere di soggetto sacro,soprattutto grandiose pale d’altare, che il pittore invierà daBologna, dove risiede stabilmente, in varie sedi della Ro-magna (Bagnacavallo, Cesena, Imola), della Valle Padana(Ferrara, Reggio Emilia, Verona) e persino dell’Italia cen-trale (Pisa, Senigallia ecc.). (ff).

Torelli, Stefano(Bologna 1712 - San Pietroburgo 1784). Pittore, disegnato-re e acquafortista allievo del padre Felice, svolge la sua pri-ma attività a Bologna risentendo dell’influenza di France-sco Solimena. Trasferitosi a Venezia, di questo periodo ri-mane solamente la citazione del Moschini del 1815 relativaalle opere La Visitazione a santa Elisabetta e L’Angelo che ap-pare a Giuseppe che a tale data si trovavano nelle Galleriedell’Accademia. Attivo anche all’estero, nel 1740 è a Baye-ruth, nel 1747 a Dresda come collaboratore di Bernardo Bel-lotto e tra il 1758 e il 1761 dipinge dieci quadri allegorici

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per la Sala d’udienza del Municipio di Lubecca. Nel 1762viene chiamato a San Pietroburgo e nominato professore del-la locale Accademia divenendo l’artista preferito di Cateri-na Il e della sua corte. Tra le opere conservate figurano l’In-coronazione di Caterina II (San Pietroburgo, Accademia dibelle arti), due ritratti (Lubecca, Biblioteca statale) e pocheacqueforti, due delle quali derivate da opere di S. Conca eG. M. Crespi. (apa).

ToriiIl nome designa nel contempo un laboratorio di stampe giap-ponesi ukiyoe e una serie di stampatori il cui nome comin-ciava tradizionalmente con Kiyo, specializzati nei soggettidi teatro e nei ritratti di attori, riconoscibili per le loro cre-ste (mon). La scuola fu fondata da Kiyonobu I (1664-1729),che ne caratterizzò lo stile e che riuscì ad assicurare alla bot-tega dei T l’esclusiva ufficiale dei manifesti di teatro. La per-sonalità di Kiyomasu (1694-1716 ca.), suo successore, è an-cora poco nota, benché il nome dell’artista venga collegatoa una serie di ritratti di attori in bianco e nero. La storia dellignaggio dei T resta ancora da chiarire a causa delle fre-quenti omonimie e per la scarsa evoluzione stilistica che con-nota le diverse personalità artistiche di questa scuola. Le di-stinzioni attualmente compiute tra Kiyonobu I e KiyonobuII, tra Kiyomasu I e Kiyomasu II (attivo intorno al 1720-1750) si fondano piú su dati d’archivio che sull’analisi stili-stica e tengono semplicemente conto della filiazione direttada maestro a discepolo. La maggior parte dei T furono inrealtà pittori minori, ad eccezione di Kiyomitsu, che, comepiú tardi Kiyonaga, suo migliore allievo, eseguì ritratti didonne di buona qualità.La scuola T è a lungo sopravvissuta a se stessa; ancora nel1925 un certo Kiyotada II eseguiva ritratti di attori nellostile dei suoi predecessori. (ol).

TorinoXII-XIV secolo Del periodo della dominazione longobarda,carolingia e ottoniana della città non è rimasta nessuna te-stimonianza pittorica. Tuttavia, la lotta contro il culto del-le reliquie e delle immagini sacre condotta dal vescovo Clau-dio (a T dall’anno 818 all’anno 827) sembrerebbe attestarela presenza a quell’epoca, nelle chiese della diocesi torinese,

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di pitture parietali. Per quanto riguarda le età successive (xi,xii e xiii secolo) nessun ciclo a fresco è sopravvissuto, e ciòva ascritto principalmente alle demolizioni subite tra la finedel Quattrocento e la fine del Seicento dalle principali chie-se medievali cittadine, sostituite poi da nuove costruzioni:è il caso del monastero di Sant’Andrea (nel quale è però do-cumentato un «Atto pictor» nel sec. xii) del monastero deiSanti Solutore, Avventore e Ottavio, patroni della città, par-ticolarmente beneficiato nel Mille dai membri della dinastiaarduinica e del complesso della Cattedrale formato da trechiese contigue – dedicate al san Salvatore, a santa Maria «deDomino» e a san Giovanni Battista – distrutto nel 1490 perfar posto al Duomo nuovo del cardinale Domenico Della Ro-vere. L’antica chiesa di San Giovanni, sede del vescovato,era delle tre la piú importante. Per quanto riguarda il sec.xii, ci sono pervenuti alcuni manoscritti decorati e miniatiin area torinese: un Sacramentario e due Leggendari (conser-vati rispettivamente a Berlino, Deutsche sb, Ham 441 e aT, Archivio capitolare, codici A e B), probabilmente pro-dotti per il monastero di San Solutore (i Leggendari conten-gono la Passione dei martiri di T Solutore, Avventore e Ot-tavio), e un codice con Vite dei santi (T, Accademia delleScienze, ms 0186), scritto e decorato con iniziali a motivivegetali e geometrici di gusto transalpino verso il 1160nell’abbazia di San Michele della Chiusa (tra T e Susa), poipassato a San Solutore all’inizio del sec. xiii. Anche la bi-blioteca dell’antico Duomo possedeva nel Medioevo un con-siderevole numero di manoscritti (sessantasei nell’inventa-rio piú antico di cui disponiamo, redatto nel 1467, contro idieci conservatisi fino a oggi). Tra questi, anche se codiced’importazione, va segnalata una Bibbia atlantica, ricca diiniziali istoriate, opera del Maestro della Bibbia di Avila (T,Archivio Capitolare ms 2; datata alla seconda metà del sec.xii), per la quale è stato supposto un arrivo in Piemontedall’Italia centrale subito a ridosso della sua esecuzione. Mal’opera romanica di maggior rilievo è il mosaico pavimenta-le raffigurante La Ruota della Fortuna entro una Mappa delMondo, proveniente dal presbiterio della distrutta chiesa delSan Salvatore (oggi T, mc di Arte Antica). Il mosaico rite-nuto opera di maestro lombardo-piemontese, presenta alcu-ni caratteri stilistici che lo differenziano dai numerosi altri

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pavimenti istoriati realizzati in Italia settentrionale in etàromanica. Accanto a un linguaggio piú consolidato e tradi-zionale (usato per raffigurare i mostri della Terra e le cop-pie di grifi, leoni e gru affrontati araldicamente entro rotae),presenta infatti un secondo stile piú libero e sciolto, che staalla base dei panneggi mossi, morbidi, quasi classicheggian-ti del vento Septemtrio raffigurato in corsa, della Fortuna,e dell’uomo alla sua destra. Un mosaico, quindi, che conti-nua a fare riferimento a modelli bizantini (in primo luogo itessuti), ma che arriva a superare in certe sue parti – forsegrazie a un’eco dello «stile 1200» – lo stile lineare piú com-posto tipico degli altri mosaici del sec. xii.Ancora piú scarse le testimonianze figurative relative al sec.xiii: tra queste si devono annoverare due manoscritti deco-rati di origine inglese provenienti dalla biblioteca del con-vento di San Domenico (la Summa Decretorum di Stefano diTournai e l’Etica di Aristotele, rispettivamente datati allaprima metà e al terzo quarto del secolo, oggi ms D. IV.40 eE. IV.35 della bn di T); e una Bibbia parigina di metà Due-cento riccamente miniata – recentemente riferita all’atelierDu Prat – donata al Duomo alla fine del Quattrocento daAntonio da Romagnano, canonico e protonotario apostoli-co (nell’Archivio Capitolare di Torino fino a pochi anni fa,oggi irreperibile). Se in questo secondo caso non si conoscela data precisa di arrivo del manoscritto in Piemonte (primadel sec. xv), per i manoscritti di San Domenico sappiamodel loro ingresso nella biblioteca del convento (insieme adaltri sessantotto codici oggi dispersi), poco dopo la sua fon-dazione, nel 1278, in accordo con le disposizioni testamen-tarie del domenicano Giovanni da T appartenente alla co-munità milanese di Sant’Eustorgio.Per il Trecento le fonti d’archivio trasmettono numerose no-tizie di pittori attivi tanto nei castelli di Rivoli e Porta Fi-bellona (entrambi residenza dei principi d’Acaja, signori diT dal 1294), che nelle piú importanti chiese cittadine (SanGiovanni, San Domenico, San Francesco), come pure per ilComune (per bandiere, gonfaloni e pennoni dipinti con leimmagini dei santi patroni della città). Di questi artisti – del-la cui opera non è sopravvissuto nulla – va almeno segnala-to Giovanni Jaquerio, padre del piú noto Giacomo, impe-gnato nel 1375 nel rifacimento di un’antica tavola con l’im-magine del Precursore – presumibilmente in San Giovanni

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– e documentato dal 1380 in avanti al servizio del Comune.Recentemente è stata avanzata l’ipotesi che egli possa esse-re – ma per ora non ci sono documenti a confermarlo – l’au-tore dell’unico ciclo pittorico conservato di quest’epoca,quello della cappella delle Grazie in San Domenico, raffi-gurante la Maiestas Domini, l’Annunciazione, i dodici Apo-stoli e una scena di dedica, realizzato tra 1350 e 1360 ca. Èstato notato che il linguaggio del Maestro di San Domenicorimanda alle storie francescane di Assisi (per le incornicia-ture architettoniche in prospettiva entro cui si trovano gliApostoli) e a certi aspetti della pittura giottesca di inizio Tre-cento (per le fisionomie quasi caricaturali di alcuni perso-naggi, come l’angelo annunziante e i donatori presentati dasan Tommaso d’Aquino). L’opera di questo maestro (am-piamente documentata ma perduta) poté fare scuola tantoal Maestro di Vezzolano e Montiglio (attivo verso metà se-colo), che al Maestro di San Domenico, il che spiega i rap-porti stilistici tra il ciclo di San Domenico, quello dei Ri-valba nel chiostro di Vezzolano e quello del Castello di Mon-tiglio. Ed è significativo che lo stesso linguaggio si ritrovi inambito torinese sia a San Pietro di Avigliana in Val di Susa(affreschi trecenteschi recentemente attribuiti al Maestro diSan Domenico), che nelle miniature del cosiddetto Codicedelle Catene (136o), contenente gli Statuti di T (ArchivioStorico della Città). Accanto a possibili influssi d’oltralpe(all’origine dell’elegante silhouette delle figure e della resafortemente decorativa delle casacche a disegni stampati in-dossate dai santi guerrieri), si coglie anche qui – in partico-lare nel Sant’Avventore – quell’interesse a forzare le fisio-nomie che è un dato determinante del linguaggio del Mae-stro di San Domenico e che permette di saldare la culturafigurativa del sec. xiv, agli esordi di Giacomo Jaquerio, nel-la stessa T, sullo scorcio del secolo successivo. (sic).XV e XVI secolo Per quanto concerne il primo Quattrocen-to, risulta problematico individuare un’attività artistica uni-camente legata alla città per gli stretti rapporti che legano Tal Piemonte occidentale, alla Savoia e alle piú importanticorti europee, com’è dimostrato dall’attività di Giacomo Ja-querio. A T l’artista è presente – a meno che i documentinon riguardino il padre Giovanni – nel 1403 per dipingerele finestre del castello degli Acaja (attuale Palazzo Madama)

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e ancora, verosimilmente con lo stesso incarico, negli anni1407-408, ma la sua permanenza nella città dovette diven-tare piú stabile intorno al 1430 e fino alla morte nel 1453.L’apertura verso gli apporti esterni e l’arte franco-fiammin-ga non viene meno neanche nella seconda metà del sec. xv,pur mantenendosi vivo il dialogo con la cultura lombarda te-stimoniata dal passaggio nel Piemonte occidentale di Cri-stoforo Moretti, documentato a T tra il 1463 e il 1465, do-ve dipinge degli stemmi e la parte superiore della torre co-munale. Andata perduta la maggior parte delle opere, idocumenti testimoniano la vivacità e la ricchezza dell’atti-vità figurativa torinese. Personalità quali il friburghese Ni-colas Robert, pittore dei duchi, e Amedeo Albini rimango-no per il momento dei nomi, ma quanto dovette essere cen-trale la figura di quest’ultimo ci è testimoniato dalle fonti.Oltre alla commissione di importanti tavole per la cappellavescovile, sappiamo che nel 1463 Amedeo Albini si impe-gnò, in un documento redatto a Chieri in cui risulta abitan-te ad Avigliana, ad eseguire, per quattrocento scudi, la palaper l’altar maggiore del Duomo di T e a lui è stato propostodi ricondurre il codice Breve dicendorum compendium (T, bnD. VI.2) commissionato dalla duchessa Jolanda di Savoia nel1477. È inoltre da sottolineare che nell’anno 1462 risultaresidente ad Avigliana il tolosano Antoine de Lonhy (Anto-nio de Llonye) arrivato da Barcellona; pittore, miniatore,maestro di vetrate, è stata ricostruita la sua prestigiosa atti-vità tra T, la Valle di Susa, la Valle d’Aosta. La figura diquesto artista franco-fiammingo-catalano è andata megliodelineandosi con l’identificazione di Antoine de Llonye conil Maestro della Trinità di T (mc) e con il riferimento a luidella tavola di Sant’Anna con la Vergine e il Bambino nellasacrestia del Duomo. Entrambe le opere furono probabil-mente eseguite per il vecchio Duomo di T benché non si co-nosca l’ubicazione originaria nella chiesa; sempre per il Duo-mo è stata ipotizzata la presenza di Antonio de Llonye investe di miniatore; l’ipotesi si basa sul confronto tra un co-dice dell’Archivio capitolare e un Graduale dell’Institute ofArts di Detroit eseguito dall’artista per la chiesa torinese diSan Domenico, nella quale lavorò anche all’affresco con ilBeato Amedeo IX. La qualità della cultura figurativa tori-nese intorno all’anno 1500 è confermata dal Compianto sulCristo morto conservato presso la chiesa di Sant’Agostino: si

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tratta di un dipinto di un maestro savoiardo-piemontese ag-giornato sulle opere fiamminghe giunte a Chieri tramite lecommissioni dei Villa.Tra la fine del xv e l’inizio del xvi secolo la piú importanteimpresa artistica a T è la costruzione di un nuovo Duomoper volontà del vescovo Domenico Della Rovere. Il rappor-to privilegiato di Domenico con la corte pontificia permet-te un’importante innovazione del linguaggio artistico in di-rezione romana. Tra gli importanti doni fatti dal vescovo al-la Cattedrale torinese si conserva al mc di T il lussuosoMessale di Domenico Della Rovere illustrato da ricchissimeminiature tardoquattrocentesche di area emiliana, riferite alparmense Francesco Marmitta. La nuova chiesa, che ri-prende come modelli antiche architetture romane, simbolodel prestigio che il vescovo di T voleva conferire al suo Duo-mo, venne officiata nel 1505. Notevoli committenze sonoin questi anni dedicate all’arredo degli altari: l’altare dei cal-zolai (tuttora in loco) fu ornato dal polittico con i Santi Or-so, Crispino, Crispiniano e Teobaldo, realizzato verosimil-mente prima del 1504, che si deve a una probabile collabo-razione tra Martino Spanzotti e Defendente Ferrari. Sitratta di una importantissima testimonianza artistica a ca-vallo tra i due secoli che apre la pittura torinese, ancora for-temente legata alla cultura tardogotica, al nuovo linguaggiorinascimentale. Agli stessi due artisti si deve forse la tavolacol Battesimo di Cristo, già sull’altare della Consorzia di SanGiovanni Battista, commissionata nel 1508 a Spanzotti enon ancora terminata nel 1510, quando dovette subentrarela mano di Defendente. In competizione con la cultura orien-tata verso Roma di Domenico Della Rovere è probabilmen-te da leggere la committenza di Amedeo di Romagnanodell’Adorazione del Bambino a Macrino d’Alba (firmata e da-tata 1505) di gusto pinturicchiesco, già sull’altare di san So-lutore e ora in collezione privata. Nella sacrestia del Duomodi T si conservano inoltre la Genealogia della Vergine di Gan-dolfino da Roreto e il San Nicola di Gerolamo Giovenone,di cui non si conosce l’ubicazione originaria. Infine un’altratavola proveniente dalla sacrestia si trova attualmente allaGalleria Sabauda: si tratta di una Natività realizzata da Ja-copino Longo nel 1535 e arrivata a Torino nel 1542, ma diqualità inferiore rispetto alle altre opere. Per la chiesa di San

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Domenico fu probabilmente attivo intorno agli anni ’20Martino Spanzotti, di cui si conserva un affresco rappre-sentante L’elemosina di sant’Antonino Pierozzi, vescovo do-menicano di Firenze.L’occupazione francese di T (1539-59) rallenta notevol-mente le committenze figurative, ma con il duca EmanueleFiliberto nel 1563 T diviene capitale sabauda e acquista unnuovo prestigio artistico. La corte di Savoia si apre ai piúvari contatti esterni favorendo l’accoglimento della culturatardomanierista. I rapporti si fanno molto stretti soprattut-to con la Roma farnesiana: nel 1563 è nominato pittore dicorte Giacomo Rossignolo, di ritorno da un soggiorno ro-mano dove è da supporre a diretto contatto con la culturadelle grottesche di Castel Sant’Angelo e a lui viene com-missionata dal canonico Nicolò Calusio, nel 1574, la Resur-rezione per il Duomo di T. Nel 1568 diventa pittore ducaleil fiammingo Giovanni Carraca, decoratore, paesaggista, pit-tore di soggetti sacri, ma soprattutto conosciuto per i suoiritratti. È proprio la ritrattistica ad avere una particolarefortuna a corte, riflettendo un’etichetta rigorosa e austeradel cerimoniale, confrontabile con quella delle altre corti eu-ropee e in particolare con quella spagnola.XVII e XVIII secolo Con Emanuele Filiberto, ma soprattut-to con il figlio Carlo Emanuele I (duca dal 1580 al 1630), sicostituisce il primo nucleo della quadreria sabauda. Gli in-ventari compilati negli anni 1631 e 1635 testimoniano la ric-chezza della collezione, la predilezione per opere venete(quadri di Veronese, Palma il Giovane, Bassano) e lombar-de (opere di Morazzone, Procaccini e Cerano), il gusto perla cultura delle grottesche e l’aggiornamento sulla pittura ca-ravaggesca (dipinti di Gramatica, Caracciolo, Ribera, Ba-glione, Manfredi, Saraceni, Turchi e copie dal Caravaggio).Il primo arrivo caravaggesco a T si ha intorno al 1605 conl’Assunta di Orazio Gentileschi, eseguita per la chiesa dellaMadonna del Monte dei Cappuccini (dove le saranno af-fiancati i quadri del Cerano e del Moncalvo ancora legati al-la cultura tardomanierista); nel 1623 lo stesso artista invieràin dono al duca l’Annunciazione ora alla Galleria Sabauda;sarà inoltre richiesta la venuta di pittori caravaggeschi a T:nel 1619 del genovese Sinibaldo Scorza e nel 1621 di Anti-veduto Gramatica. La piú importante impresa decorativarealizzata negli anni di Carlo Emanuele I va individuata nel-

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la decorazione della Grande Galleria che doveva unire il Pa-lazzo Ducale al castello (attuale Palazzo Madama), andatadistrutta nel 1659. Il prestigioso incarico è dapprima affi-dato a Federico Zuccari, giunto a T nel 1605 (con il compi-to, poi passato a Francesco Pourbous, di ritrarre per il ducadi Mantova la futura consorte Margherita di Savoia); allasua partenza, nel 1607, i lavori continuano sotto la direzio-ne del lombardo Ambrogio Figino. È lo stesso Zuccari a for-nire una descrizione della Galleria in cui dovevano essereraffigurati trentadue principi sabaudi a cavallo, a partire dalmitico antenato sassone Beroldo, con le loro imprese piú si-gnificative sotto un cielo costellato di figure e grottesche. Imodelli per questa esaltazione genealogica sono stati indivi-duati in alcune imprese decorative spagnole quali quelladell’Alcazar di Segovia, conosciuta da Zuccari, e gli affre-schi del castello di Alvaro Bazan marchese di Santa Cruz alViso presso Cordova, dove è attivo anche Cesare Arbasia,successivamente presente nella Galleria di T insieme a unafolta schiera di collaboratori fra i quali Giacomo Rossigno-lo, Vincenzo Conti e Guglielmo Caccia detto il Moncalvo,a cui saranno affidati anche importanti incarichi per gli al-tari delle chiese torinesi. La Galleria doveva riflettere gli in-teressi enciclopedici del duca e doveva presentarsi come unasorta di Wunderkammer in cui si conservavano oltre a qua-dri, statue e oggetti antichi anche oggetti curiosi e strava-ganti e una ricchissima libreria con preziosi libri miniati an-tichi acquisiti o acquistati da Carlo Emanuele I a Bobbio,Vercelli, Staffarda, Mantova, e tuttora in parte conservatinella bn di T (degna di nota è per esempio l’importante ac-quisizione della raccolta libraria di Domenico Della Rove-re). Con il cardinale Maurizio di Savoia, in stretto rappor-to con Roma e con l’entourage dei Barberini, entra a corteil gusto per i classicisti bolognesi: le richieste del cardinaleper il proprio palazzo romano e per la villa di T si indiriz-zano verso opere di Reni, Domenichino, Padovanino, Se-menti, Guercino e Albani (Quattro elementi: Galleria Sa-bauda). L’accoglimento della linea filo reniana a Palazzo Du-cale è testimoniata dall’Aurora affrescata probabilmente daVittorio Bombarchi nella volta della Sala delle Province edai numerosi dipinti elencati negli inventari. Continua conVittorio Amedeo I (1630-37) l’apprezzamento per la pittu-

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ra veneta (nel 1633 vengono acquistate a Milano opere diGiorgione, Tiziano, Palma il Vecchio, Bassano) e il rappor-to con la cultura lombarda borromeiana, con l’arrivo a T diFrancesco Cairo, che riceve la nomina di pittore di corte nel1633. Il matrimonio di Vittorio Amedeo con Cristina diFrancia (1619), di cui un’interessante testimonianza sui fe-steggiamenti celebrati nella piazza del castello ci è fornitada un quadro di Antonio Tempesta alla Galleria Sabauda,apre nuovi orizzonti artistici verso la Francia. Parigi diven-ta dunque un importante referente figurativo: vengono ri-chiesti ritratti del pittore Ferdinand Elle, di cui si deside-rerebbe il trasferimento in Piemonte; giunge invece a T ilritrattista Philibert Torret detto Narciso, dal 1626 pittoredi corte. Un importante aggiornamento per la ritrattistica sipropone con il passaggio nel 1622 di van Dyck in Piemonteal seguito della contessa d’Arundel e l’invio a T nel 1635 delquadro con i figli di Carlo I d’Inghilterra e di EnrichettaMaria, sorella di Cristina di Francia, prima ancora del ri-tratto equestre del principe Tommaso.Sono anni, quelli intorno alla metà del secolo, di intenso fer-vore architettonico che coinvolge la città e i suoi dintorni(Palazzo Reale, castello del Valentino, Vigna di Cristina diFrancia, Villa della Regina, Venaria Reale, Rivoli, Monca-lieri) e che vedono impegnate nella decorazione importantischiere di artisti, tra le quali emergono le équipes di deco-ratori e stuccatori di provenienza lombarda o luganese (Bian-chi, Recchi, Casella). Nella Vigna della Madama Reale e inalcune stanze del castello del Valentino (sei gabinetti dell’ap-partamento orientato verso Moncalieri) trionfa il gusto fran-cesizzante di Cristina con immagini poetiche, allegorie divirtú, simbologie di fiori, puttini e raffinatezze dipinte, sot-to l’attenta regia di Filippo d’Agliè, dai fratelli Bianchi, aiquali viene affidata anche la decorazione del salone centra-le del castello con immagini genealogiche di ascendenza fran-cese. In altre stanze del Valentino dove lavorano i fratelliRecchi (gabinetti dell’appartamento verso T), nel castello diRivoli, nel cantiere di Palazzo Ducale e in quello di Venariaè invece di scena Emanuele Tesaure, attento direttore di unapittura fortemente retorica e arguta nell’esaltazione dina-stica della Casa Savoia. A Rivoli sono attivi il Morazzone ei Bianchi, nel palazzo di T sono presenti artisti quali iDufour, i Recchi, i Casella, Caravoglia, Dameret, Nuvolo-

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ne, Dauphin e Jan Miel. Protagonista dell’arte di corte, il lo-renese Charles Dauphin, allievo a Parigi di Vouet, diffondecon successo a T il suo linguaggio barocco divenendo nel1655 priore della Compagnia di San Luca, per la quale fusubito impegnato nella pala per l’altar maggiore della cap-pella del Duomo (ora nella chiesa di San Luca Evangelista aVallongo di Carmagnola). Nella decorazione della stessa cap-pella intervengono Torret, Carello, Caravoglia, GiovanniAndrea Casella e a questi ultimi due artisti, insieme alDauphin, si deve l’arredo moderno del Duomo. Nel 1659 imembri della Compagnia della Fede Cattolica affidano alDauphin la tela con l’Estasi di san Paolo (ora presso l’Istitu-to San Paolo di T), prima pala di una serie di quadri di variartisti per l’Oratorio di San Paolo a T; per Madama Realel’artista francese dipinge l’Apoteosi di san Francesco da Pao-la, destinata all’altar maggiore della chiesa (in loco). Gran-de successo anche per il piemontese Bartolomeo Caravoglia,attento studioso del Guercino (presente con una tela presti-giosa sull’altare della Compagnia del Rosario nella chiesa diSan Domenico a T), come dimostra il dipinto per l’altare diSant’Antonio da Padova nella chiesa di Santa Maria degliAngeli, richiesto da Cristina di Francia nel 1653. Per la stes-sa chiesa sarà attivo, negli anni ’70, Giovanni Francesco Sac-chetti, anch’egli con una pittura che dimostra una rimedi-tazione sulle opere del primo classicismo bolognese. Nel1658 giunge a T Jan Miel, artista fiammingo conosciuto aRoma come pittore di bambocciate; nominato pittore uffi-ciale di Carlo Emanuele II, gli vengono affidate, insieme alDauphin e al Caravoglia, imprese decorative alla VenariaReale ad esaltazione delle virtú venatorie: affreschi con Sto-ria di Diana, le Cacce e ritratti equestri di influenza berni-niana. Un modello per la disposizione dei ritratti è stato ri-conosciuto nell’arredo della sala grande della Vigna di Cristi-na di Francia, progettato dall’artista fiammingo BaldassarreMathieu, pittore di corte dal 1654. Il prorompente linguag-gio architettonico barocco di Guarino Guarini, presente aT dal 1668, trova uno straordinario parallelismo figurativonella presenza in Piemonte, tramite la committenza gesuita,di Andrea Pozzo, che dopo le novità apportate negli affre-schi della chiesa di San Francesco Saverio a Mondovì, è pre-sente a T per decorare la chiesa dei Santi Martiri (1678-

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1680). Alcune tele di padre Pozzo arrivano successivamen-te per l’arredo della cappella della Congregazione dei Mer-canti, mentre altre vengono realizzate da Sebastiano Taric-co e dal milanese Stefano Maria Legnani detto Legnanino,al quale è affidata nel 1694 la decorazione della volta. Il Le-gnani lavora anche a cicli figurativi nei palazzi della nobiltàtorinese: nel 1693 in Palazzo Barolo e dal 1695 al 1703 a Pa-lazzo Carignano.A corte, la predilezione per la grande pittura decorativa ge-novese, testimoniata dalla presenza di Bartolomeo Guido-bono e di Gregorio de Ferrari, interessa soprattutto la secon-da Madama Reale, Maria Giovanna Battista di Neumour,mentre le scelte di Vittorio Amedeo II si rivolgono versol’ambiente romano (un nuovo orientamento verso la pittu-ra accademica romana si era diffuso a T grazie alla presen-za di Giovanni Peruzzini, giunto in Piemonte nel 1675 tra-mite il ministro Caron di San Tommaso). Richiesta invanola presenza di Andrea Pozzo a corte e comunicata dal corri-spondente sabaudo a Roma l’impossibilità di avere a T pit-tori quali Maratta, Brandi e Ciro Ferri, nel 1687 l’amba-sciatore De Gubernatis è incaricato di ricercare un pittore;l’anno successivo arriva da Roma l’austriaco Daniel Seyter,importando nella capitale sabauda i suoi orientamenti versola pittura cortonesca. Seyter è attivo per importanti impre-se decorative a Palazzo Reale (dagli affreschi degli apparta-menti a pianterreno detti poi di Madama Felicita alla deco-razione della volta della Galleria, detta appunto del Danie-le, con l’Apoteosi di Vittorio Amedeo II, 1688-92) ed èimpegnato anche per l’Ospedale della Carità e in San Fran-cesco da Paola (altare di Santa Genoveffa). È stato inoltresottolineato il ruolo determinante svolto dall’artista vien-nese per l’arredo delle residenze reali e per la scelta di ac-quisti di opere che dovevano entrare a far parte delle colle-zioni sabaude.Il Settecento ha inizio con la commissione di Emanuele Fi-liberto di Carignano al pittore romano Carlo Maratta di unapala per l’altar maggiore di San Filippo. Il quadro, rappresen-tante la Madonna con il Bambino e i santi Giovanni Battista edEusebio con i beati sabaudi Amedeo e Margherita, arriverà a Tnel 1708, eseguito però da Giuseppe Chiari, Andrea Pro-caccini e Giuseppe Passeri sotto la direzione dell’anzianomaestro. È per la stessa chiesa di San Filippo che saranno

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richieste a Roma opere prestigiose quali il Martirio di san Lo-renzo di Francesco Trevisani, la Vergine con il Bambino e san-ti di Francesco Solimena e il San Giovanni Nepomuceno diSebastiano Conca. Sono gli anni di Filippo Juvarra, l’archi-tetto messinese voluto a T da Vittorio Amedeo II che ac-quista il titolo regio nel 1713. Sotto la direzione dello Ju-varra T si apre alla pittura moderna: Roma rimane il refe-rente artistico primo e le scelte avvengono nel clan di pittoridi cultura marattesca che si muovono intorno al cardinal Ot-toboni. La volontà di confronto architettonico con le gran-di corti europee (Venaria, Superga, Stupinigi) si riflette an-che nella scelta dei pittori e delle opere: per la cappella diSant’Uberto nel castello della Venaria Reale Juvarra fa arri-vare opere di Sebastiano Conca (Madonna col Bambino e sanCarlo e Madonna col Bambino e san Francesco di Sales: T, Pa-lazzo dell’Università) e di Francesco Trevisani (Beato Ame-deo e san Luigi Gonzaga che venerano l’Immacolata). È pres-so quest’ultimo maestro che viene inviato a Roma da Vitto-rio Amedeo II nel 1716 per un viaggio di aggiornamento ilpiú promettente artista piemontese: Claudio FrancescoBeaumont. Dopo un soggiorno a Bologna, a diretto contat-to con le opere del classicismo, Beaumont si può confronta-re con l’Arcadia del Trevisani ma anche con gli artisti fran-cesi dell’Accademia romana (Natoire, Lemoyne, Coypel).Ritornato a T, dove diviene nel 1731 pittore di corte, Beau-mont è impegnato per il castello di Rivoli (San Giovanni Bat-tista e san Pietro, 1724-25), per la Basilica di Superga (La bea-ta Margherita e san Carlo comunica gli appestati, 1730) e, nelventennio 1730-50, in importanti realizzazioni decorative aPalazzo Reale: dalle stanze per il maneggio segreto di CarloEmanuele III e per la regina, al Gabinetto Cinese, alla Gal-leria con Storie di Enea (1738-43), fino alla Galleria delle Bat-taglie (1748), con un linguaggio pittorico che rifulge di lucee di colore, nella grandiosità della composizione e nella bel-lezza quasi di porcellana dei personaggi. È una pittura cheavrà molta fortuna e che detterà il gusto negli anni succes-sivi con artisti quali Milocco, Franceschini, Molinari, Ra-pous. Anche per il Palazzo Reale la corte sabauda si era datempo preoccupata di aggiornarsi sul gusto europeo con lacommissione a Francesco Solimena di quattro tele con sto-rie bibliche per il Gabinetto, detto poi del Solimena, nell’ap-

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partarnento d’inverno del re (ora alla Gall. Sabauda), giun-te a T nel 1725. A partire dal 1733 sarà inoltre attivo a TCorrado Giaquinto, subito impegnato nell’ingrandimentosuperiore della pala di Sebastiano Conca in San Filippo conla Madonna della lettera. Negli stessi anni lavorerà nella Vil-la della Regina, ex dimora del cardinal Maurizio di Savoia,portandovi il nuovo gusto decorativo di pittura arcadica, do-ve, accanto a influenze giordanesche, il luminoso cromati-smo indica il contatto con la pittura di Sebastiano Ricci. Do-po una parentesi di alcuni anni romani, Giaquinto è nuova-mente a T nel 1736, questa volta attivo per Superga e perla cappella di San Giuseppe nella chiesa di Santa Teresa, perla quale dipinge due tele e la volta. Ancora nel 1741, ormaistabilitosi a Roma, Giaquinto invierà una pala con l’Imma-colata Concezione per la chiesa del Carmine su commissionedel marchese Turinetti di Priero. Accanto alla pittura di Gia-quinto nella Villa della Regina si esprime il linguaggio natu-ralista del veneziano Giovanni Battista Crosato. Venezia ri-sulta l’altro polo privilegiato della corte Sabauda da dove,grazie ancora alla sovrintendenza di Juvarra, arrivano tra il1724 e il 1734 importanti opere di Sebastiano Ricci per Ve-naria Reale, il castello di Rivoli, Superga e Palazzo Reale.L’attività del Crosato si deve leggere proprio in questa ten-denza di gusto che ha il suo culmine negli affreschi con il Sa-crificio di Ifigenia nella palazzina di caccia di Stupinigi (1733).La resa cromatica e la visione dell’evento mitologico tra-sformato in fatto quotidiano contrastano con le Storie di Dia-na dipinte a Stupinigi nello stesso 1733 dal francese Carlevan Loo che, formatosi a Parigi a contatto con Boucher eWleughels, si esprime con un linguaggio arcadico, raffinatoed elegante, così come si legge anche nelle scene della Ge-rusalemme Liberata eseguite per il Gabinetto del Pregadiodella Regina in Palazzo Reale. Un altro importante apportoesterno è da segnalare nell’arrivo nel 1741 del pittore napo-letano Francesco De Mura, che affresca la prima camera de-gli archivi in Palazzo Reale, costituendo il primo tentativodi rottura con la linea beaumontiana. L’attenta regia di Ju-varra interessa anche il castello di Rivoli, rappresentato inpittura da una serie di vedute esterne e interne affidate aGiovanni Paolo Pannini, Andrea Locatelli, Massimo Teo-doro Michela e Marco Ricci (ora conservate al mc di T e alcastello di Racconigi), che raffigurano la residenza ideata

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dall’architetto con una resa particolarmente dettagliata del-la vita nel castello. La sovrintendenza di Juvarra riguardainoltre l’intero arredo delle residenze reali: gli stucchi, le boi-series, la pittura decorariva. Grottesche, arabeschi, elemen-ti vegetali e floreali invadono gli appartamenti del castellodi Rivoli e della Villa della Regina, riprendendo il linguag-gio ornamentale di Jean Berain. Juvarra si rivolge a pittoriornamentistes quali il genovese Nicolò Malatto e Filippo Mi-nei, giunti a T intorno agli anni ’20. Parallelamente al gu-sto per la pittura decorativa (che coinvolge anche le chiese,come si nota nelle prospettive dipinte alla Consolata dall’Al-berone e dal Mengozzi accanto agli affreschi del Crosato) siafferma l’uso di papier peints e l’interesse per l’esotismo:maioliche, tessuti, carte da parati e lacche segnano il suc-cesso delle cineserie. Nel 1735 Pietro Massa completa il ri-vestimento delle lacche cinesi acquistate da Juvarra a Romaper un Gabinetto di Palazzo Reale e l’amore per l’esotismosi legge ancora negli anni ’50-70 nella palazzina di Stupini-gi dov’è presente Christian Wehrlin. Legato al fascino diuna terra lontana è il soggetto iconografico delle quattro par-ti del mondo presente a Palazzo Reale nell’affresco di Gre-gorio Guglielmi e a Palazzo Chiablese nelle sovrapporte di-pinte da Francesco De Mura.Per quanto riguarda il collezionismo sabaudo, venuto menol’acquisto della quadreria del principe di Carignano VittorioAmedeo, nel 1741 ci si assicura quella del principe Eugeniodi Savoia, una collezione molto prestigiosa che comprendeun consistente numero di opere fiamminghe e olandesi, oltrea importanti quadri del Seicento. Trasferita da Vienna a Tsotto il controllo dei pittori Giovanni Adamo Wehrlin e An-tonio Francesco Mayerle, ebbe un’importanza fondamenta-le per le scelte figurative tardosettecentesche e in particolarmodo nella ritrattistica per pittori quali la Clementina, i Du-prà, Mazzola, Wehrlin, Guttembrun e Porporati. Tra le im-portanti commissioni di Carlo Emanuele III per le collezio-ni reali vanno almeno ricordati il San Giovanni Nepomucenoche confessa la Regina d’Ungheria di Giuseppe Maria Crespi,le due vedute di T di Bernardo Bellotto e le serie di Teste dicarattere di Giuseppe Nogari (tutti alla Gall. Sabauda). (anb).XIX e XX secolo Il 10 aprile 1778, a distanza di un secolodalla prima fondazione, fu costituita a T la Reale Accade-

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mia di pittura e scultura. L’atto si inserì nel piano di rinno-vamento delle istituzioni culturali predisposto da VittorioAmedeo III di Savoia al fine di promuovere l’aggiornamen-to e il controllo diretto da parte del potere statale sia dell’Ac-cademia sia delle Manifatture Reali. A dirigere il processodi riorganizzazione dei corsi venne chiamato un francese ro-manizzato, l’accademico di San Luca Lorenzo Pécheux, giànominato nel ’77 primo pittore di corte. Pur dovendo supe-rare alcune resistenze locali, questi impostò l’insegnamentosulla copia dall’antico e sullo studio del nudo, promuoven-do la costituzione di una gipsoteca ricca di calchi provenientida Roma e Firenze. I suoi affreschi mitologico-allegorici perla volta della ex biblioteca di Palazzo Reale, completati nel1784, rappresentarono l’affermazione ufficiale a T del neo-classicismo di impronta mengsiana cui l’artista francese ispi-rava tanto la sua attività figurativa quanto il suo program-ma di insegnamento. L’ultimo intervento significativo inepoca Ancien Régime negli ambienti di Palazzo Reale ful’ammodernamento in stile Louis XVI dell’appartamento deiduchi d’Aosta, realizzato nel 1789 e diretto da GiuseppeMaria Bonzanigo, che vi dispiegò il suo talento di ornatista.Nel periodo napoleonico, divenuto il Piemonte dipartimen-to francese, attraverso riforme successive venne messa a pun-to l’unificazione dell’Accademia all’Università e all’Acca-demia delle Scienze. L’istituzione fu direttamente coinvol-ta nella vita pubblica attraverso commissioni ufficiali, chetuttavia, specie per quanto riguarda la pittura, sono diffi-cilmente documentabili a causa delle successive dispersioni.Dei vecchi docenti rimasero in carica solo Porporati e Pé-cheux, che pubblicò tra il 1801 e il 1810 i Discorsi sull’arte.Nel 1805 venne fondata la Scuola municipale di disegno, di-retta da Pietro Palmieri jr e strettamente legata all’Accade-mia, mentre nello stesso anno si inaugurò a Palazzo Mada-ma la prima esposizione artistica torinese, che, come le suc-cessive, dedicava la massima attenzione all’attività degliesponenti accademici.Di preminente importanza nell’ambiente artistico torinesetra Settecento e Ottocento fu la figura di Giuseppe PietroBagetti, nominato da Vittorio Amedeo III «disegnatore divedute e paesi», incaricato da Napoleone di fissare le imma-gini delle sue battaglie, reintegrato nelle cariche precedentida Vittorio Emanuele I e infine nominato da Carlo Felice

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professore all’Accademia. Influenzato dal metodo di osser-vazione diretta della natura introdotto a T tra il 1790 e il ’94da César van Loo, il paesaggismo di Bagetti si radicava nel-la tradizione cartografica del Piemonte illuminista, per aprir-si all’inizio del nuovo secolo ai valori atmosferici e, in epocadi restaurazione, alle suggestioni di un gusto protoromanti-co fatto proprio anche da Giovanni Battista de Gubernatis.Nel 1824 l’Accademia venne rifondata sulla base degli statu-ti del 1778 e posta sotto la direzione di Giovanni Battista Bi-scarra, che nell’impostazione dell’attività didattica si man-tenne fedele alla norma neoclassica cui era improntata la suaformazione. Ma nello stesso tempo il medievalismo e il gustoper il pittoresco giungevano ad affermarsi nelle litografie diFrancesco Gonin e nei dipinti giovanili di Massimo D’Aze-glio. L’ascesa al trono di Carlo Alberto, nel 1831, aprì un de-cennio di iniziative culturali tese a legittimare il primato sa-baudo in prospettiva nazionale. A T, per le cure del consi-gliere artistico del sovrano Roberto D’Azeglio, venne apertanelle sale di Palazzo Madama la Reale Pinacoteca; fu istitui-ta la Giunta di antichità e belle arti; fu installata nella sededefinitiva e intitolata al re l’Accademia di belle arti; fu chia-mato Pelagio Palagi con l’incarico di sovrintendere alla de-corazione di Palazzo Reale, così come delle residenze di Rac-conigi e Pollenzo. Nel 1834 Horace Vernet, da cinque annidirettore dell’Accademia di Francia, realizzò almeno in par-te nella capitale sabauda il Ritratto equestre di Carlo Alberto(T, Gall. Sabauda), influenzando pittori di storia locali qua-li Pietro Ayres e Giovanni Battista Biscarra. Notevoli con-vergenze documentano il parallelismo tra le commissioni ar-tistiche relative a Palazzo Reale e l’indirizzo didattico im-presso all’Accademia: per Pelagio Palagi fu creata la scuola diornato e a Carlo Arienti, autore dell’Amedeo VIII (1841) perla Sala del Caffè, fu affidata la cattedra di pittura. La volontàdi apertura nazionale che caratterizzò la fase conclusiva del-le iniziative carloalbertine è confermata dalle commissioni aFrancesco Hayez per La sete dei Crociati (1850) e all’Arientiper La cacciata del Barbarossa 1851), entrambe destinate a Pa-lazzo Reale, che segnarono l’affermazione a T del romantici-smo storico e degli ideali politici di cui esso era portatore.Fondata nel 1842 e diretta da Cesare Benevello, la SocietàPromotrice delle belle arti garantì annuali occasioni d’in-

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contro tra artisti locali e nazionali e rafforzò l’apertura delmercato dell’arte a una committenza privata che mostravadi prediligere il ritratto, la natura morta, la scena di genere,il paesaggio. L’Accademia continuava invece a privilegiarei temi storico-letterari, affidando tuttavia gli insegnamentiprincipali, grazie alla volontà riformista di Ferdinando diBreme, ad artisti che avevano completato la loro formazio-ne in Germania, come Enrico Gamba, o a Parigi, come Gae-tano Ferri e Andrea Gastaldi.Esauritesi le campagne risorgimentali – di cui il ticinese Car-lo Bossoli fu a T illustratore vivace – il 1863 registrò sial’inaugurazione del mc, primo in Italia a documentare perstatuto anche la produzione artistica contemporanea, sia iltrasferimento della capitale del regno unitario a Firenze, conla conseguente interruzione delle commissioni ufficiali. Il se-gretario dell’Albertina, Carlo Felice Biscarra, diede perciòun nuovo impulso alle discipline artistiche applicate alla pro-duzione industriale, sostenendo questo indirizzo anche dal-le pagine de «L’Arte in Italia» (1869-73), da lui diretta in-sieme al responsabile della Promotrice Luigi Rocca. Noneguale favore critico raccoglieva negli stessi anni un gruppodi artisti non solo piemontesi che si dedicava alla pittura dipaesaggio ispirandosi al naturalismo francese e che, dalla lo-calità canavesana nella quale era solito riunirsi, è definito«scuola di Rivara». Per Vittorio Avondo, Carlo Pittara, Er-nesto Bertea, Alfredo D’Andrade, Serafin de Avendaño,Ernesto Rayper fu punto di riferimento importante anche illirismo di Antonio Fontanesi, in quegli anni attivo a Gine-vra, ma presente alle mostre della Promotrice fin dal 1852.La diffidenza della critica locale nei confronti di Fontanesisi inasprì quando nel 1869 egli fu chiamato a reggere la nuo-va cattedra di paesaggio all’Albertina, incarico che manten-ne fino alla morte, con la parentesi del soggiorno in Giap-pone tra il ’76 e il ’78. Nel 1880, quando T ospitò la IVEsposizione nazionale di belle arti, Le nubi del maestro reg-giano (T, gam) non furono notate dalla giuria, che premiòinvece l’opera di Marco Calderini, suo allievo e biografo, in-sieme a quella di Filippo Carcano. Dopo due decenni di po-lemiche, si apriva la fase piú feconda del paesismo piemon-tese, che con Lorenzo Delleani ed Enrico Reycend si allineòalle coeve ricerche europee in direzione di un superamentodelle premesse veriste.

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Nel 1896 la Promotrice organizzò la prima Triennale, ac-compagnata da un «Giornale artistico-letterario» sulle cuipagine critici e artisti quali Giovanni Cena e Leonardo Bi-stolfi aprirono il dibattito sulle tematiche simboliste, enun-ciando la necessità di un’arte democratica e scientificamen-te aggiornata. Due eventi di rilievo nazionale costituirononel 1902 il punto d’arrivo di quelle discussioni: sul versantedelle arti applicate l’Esposizione di Arte Decorariva Moder-na, su quello pittorico la presentazione alla Quadriennale del-la Promotrice della redazione finale de Il Quarto Stato di Giu-seppe Pellizza da Volpedo (Milano, gam). Nella stessa occa-sione una sala personale era riservata a un Giacomo Grossoallora all’acme del successo e destinato a dominare il gustomedio torinese ancora per piú di un trentennio con la pro-duzione di ritratti e scene di genere dal naturalismo epider-mico, con l’insegnamento all’Albertina, con il controllo del-la presenza dei piemontesi alle Biennali di Venezia.L’arrivo a T di Felice Casorati, nel 1918, introdusse ele-menti di radicale novità: la Quadriennale dell’anno succes-sivo registrò non solo l’esordio cittadino dell’artista nova-rese, ma anche la presenza di opere di Gino Rossi, mentrequella del ’23 ospitò, accanto a Lo studio di Casorati, capo-lavoro oggi perduto, dipinti di De Chirico, Lorenzo Viani,Carlo Carrà, Arturo Tosi e dei torinesi Gigi Chessa, CarloLevi, Nicola Galante. Nel frattempo Casorati avviava unrapporto di feconda collaborazione con Piero Gobetti, conil finanziere e collezionista Riccardo Gualino e con Lionel-lo Venturi, che dal ’15 reggeva la cattedra universitaria distoria dell’arte ed era consulente artistico di Gualino. Nel’29 la Prima Esposizione Sindacale Fascista fotografò la si-tuazione artistica torinese divisa in schieramenti anche po-liticamente lontani. Alla presenza di Casorati e dei giovaniche ne seguivano il magistero di rigorosa misura compositi-va (si trattava in questo caso di Nella Marchesini, DaphneMaugham, Giorgina Lattes) e a quella del gruppo dei Sei pit-tori (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Carlo Levi, Nicola Ga-lante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci), che aveva esor-dito nel gennaio dello stesso anno richiamandosi, secondo leindicazioni di Venturi, alla lezione di libertà di Manet e de-gli impressionisti, si contrapponeva la pattuglia dei futuristiguidati da Fillia e impegnati a collegare contenuti moderni,

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formule linguistiche aggiornate, interventismo politico. Ope-rava a T dal ’28 anche Luigi Spazzapan, che innestava suuna formazione mitteleuropea una rilettura gestuale dell’im-pressionismo. Gli anni Trenta registrarono l’allontanamen-to da T di Gualino, di Venturi, del critico napoletano Edoar-do Persico che aveva difeso l’europeismo dei Sei, di CarloLevi, ma anche il temporaneo insediamento della redazionedel «Selvaggio» e la prima personale italiana di Alberto Sa-vinio, nel ’32. Così come Fillia in occasione del soggiornoparigino, anche Italo Cremona poté, grazie a Savinio, apri-re la sua pittura a suggestioni surrealiste, mentre l’astratti-smo approdò a T nel ’35, con la prima collettiva di astrattiitaliani ospitata nello studio di Casorati e Paulucci. Dopo lamorte di Grosso, nel ’38, toccò a questi due pittori il com-pito di sostituirlo nel magistero accademico all’Albertina.La volontà di rinnovamento culturale e artistico del dopo-guerra si espresse nel premio Torino 1947, organizzato daun comitato presieduto da Spazzapan e di cui facevano par-te Mattia Moreni e Umberto Mastroianni, esponenti tori-nesi del picassismo che dominava l’esposizione attraverso irappresentanti del Fronte Nuovo delle Arti. L’avvicina-mento al linguaggio astratto coinvolse numerosi pittori to-rinesi, tra i quali Albino Galvano, Annibale Biglione, Filip-po Scroppo, Adriano Parisot, Paola Levi-Montalcini, OlgaCarol Rama, che diedero vita nei primi anni Cinquanta allasezione torinese del Movimento Arte Concreta. Tra il ’51 eil ’61 le sette mostre Pittori d’oggi. Francia-Italia ripropo-sero, sviluppando le indicazioni di Lionello Venturi, il mo-dello dell’Ecole de Paris quale paradigma capace di evitarela contrapposizione rigida tra realismo e astrazione. In que-sto sforzo di informazione internazionale e di sostegno alrinnovamento locale giocarono un ruolo importante anchealcuni spazi espositivi privati, quali la Gall. La Bussola, di-retta dal critico Luigi Carluccio, e, negli anni dell’informa-le, le Gallerie Galatea di Mario Tazzoli e Notizie di Lucia-no Pistoi e l’International Center of Aesthetic Research fon-dato da Michel Tapié. Nel decennio successivo, in paralleloalle attività della rinnovata gam, la Galleria Il Punto di Re-mo Pastore e quella di Gian Enzo Sperone puntarono sulNew Dada e sulla Pop Art. Era così aperta la via alle espe-rienze poveriste e concettuali che hanno qualificato e lan-ciato internazionalmente la produzione artistica torinese dal-

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la fine degli anni Sessanta, attraverso le figure di GiovanniAnselmo, Mario Merz, Giulio Paolini, Giuseppe Penone,Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. (mtr).Museo Civico d’Arte Antica e di Arte Applicata all’Indu-stria Le raccolte del mc di Torino, riunite a partire dal 1860ed esposte nel 1863 in un palazzo di via Gaudenzio Ferra-ri, nacquero con l’intento di creare una «galleria con le ope-re de’ piú distinti pittori viventi, ed annettendovi una col-lezione di oggetti di ogni specie sia dei tempi di mezzo, siadi epoca meno remota, ma di utile applicazione alle arti e al-le industrie». Tale volontà inserisce T, in anni molto preco-ci, all’interno del dibattito europeo sul nuovo tipo di museo,che aveva preso le mosse dalla fondazione del Musée deCluny (1844) ed era proseguito con l’istituzione del SouthKensington Museum di Londra. Il marchese Emanueled’Azeglio, ambasciatore a Londra dal 1850 al 1868, donònel 1874 la sua raccolta ceramica e depositò nel 1877 la suacollezione, unica al mondo, di vetri dorati e incisi; nel 1879successe a Bartolomeo Gastaldi nella direzione, che man-tenne fino alla morte (1890). Solo nel 1909, durante la di-rezione di Vittorio Avondo, la donazione Fontana di tren-tacinque opere di pittori piemontesi dei secoli xv e xvi qua-lificò il mc anche come il luogo per eccellenza dedicatoall’antica pittura del Piemonte, segnando una nuova linea disviluppo. Pur essendo stata trasferita la sezione moderna(1895), la sede di via Gaudenzio Ferrari si rendeva, con l’ac-crescimento del patrimonio, sempre meno adeguata. Si do-vrà attendere il 1930 perché venga destinato ad accoglierele opere di arte antica il Palazzo Madama: l’allestimento, cu-rato dal neodirettore Vittorio Viale tenne conto delle esi-genze classificatorie tipiche dei musei artistico-industriali,ma conferì pari importanza all’idea di «ambientare» le ope-re in modo corrispondente alle strutture architettoniche,suggerendo l’illusione dell’arredo originale dell’edificio. Nel-le sale del castello degli Acaja, al piano terreno, furono col-locate le opere medievali e rinascimentali, negli appartamentidelle Madame reali, al primo piano, quelle sei e settecente-sche, mentre il secondo piano veniva dedicato alle arti de-corative e ordinato in vetrine di tipo ottocentesco. Tale si-stemazione museografica è stata sostanzialmente rispettatafino ad oggi: i lavori di adeguamento delle strutture tecno-

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logiche iniziati nel 1988 permetteranno di recuperare il sa-lone voltato del piano terreno: al primo piano sarà conferi-to l’aspetto di appartamento monumentale, con dipinti e ar-redi del museo, mentre per le raccolte di arte decorativa simanterrà la suddivisione per categorie e serie nelle vetrineesistenti. Le collezioni comprendono esempi di scultura pie-montese a partire dai frammenti lapidei dell’alto Medioevo,sculture lignee del Quattrocento il coro dell’abbazia di Staf-farda (primo quarto del sec. xvi), mobili dal Quattrocento alSettecento piemontese, vetri e vetrate, la collezione di circaduecento vetri dorati e graffiti e vetri dipinti, smalti, avori,tessuti e arazzi, ori e argenti, bronzi, grafica (tra cui il cor-pus dei quattro volumi di disegni di Filippo Juvarra e i 248disegni di scenografie dei fratelli Galliari), venti rami incisidel sec. xvii, oltre a una ricca collezione ceramica. Le rac-colte numismatiche, etnografiche e di arti orientali hanno re-centemente (1989) trovato collocazione in una palazzina divia Bricherasio. Per la pittura, sono conservate opere dei mag-giori maestri del Quattro e Cinquecento piemontese: Giaco-mo Jaquerio, il chierese Guglielmo Fantini, il cosiddetto Mae-stro della Trinità di T, recentemente identificato con Anto-nio De Llonye, Macrino d’Alba, Martino Spanzotti,Defendente Ferrari, Gerolamo Giovenone, Gaudenzio Fer-rari, Candolfino da Roreto, Pietro Grammorseo, GiovanniAntonio Bazzi (letto il Sodoma. Sono inoltre presenti unaMadonna col bambino di Barnaba da Modena 1370 ca.) e ilRitratto di Ignoto (1476) di Antonello da Messina, dall’anti-ca coll. Trivulzio, pervenuto al museo nel 1935 insieme allaparte del codice miniato delle Trés belles heures du Duc deBerry (conosciuta come Heures de Milan (1380-1450) Tra leopere del xvii e xviii secolo, di rilievo sono la serie di dieciCacce di Jan Miel provenienti dal castello della Venaria Rea-le, la grande tela di Gian Paolo Pannini raffigurante Il ca-stello di Rivoli (1724), i dipinti di Vittorio Amedeo Cignaro-li, Pietro Domenico Olivero e Giovanni Michele Graneri.Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea Il rego-lamento istitutivo del mc torinese (1863) si proponeva diraccogliere e conservare «pitture, sculture, ed incisioni an-tiche e moderne», dando vita di fatto alla prima collezionedi arte contemporanea che una città si sia data nell’Italia uni-ta. Separate dalle raccolte di arte antica nel 1895, quelle mo-derne furono sistemate nel padiglione di corso Siccardi (ora

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Galileo Ferraris) costruito nel 1880 da Guglielmo Calderi-ni per la IV Esposizione Nazionale di Belle Arti: vi rimase-ro fino al 1942, quando il padiglione fu distrutto da un bom-bardamento. Sul medesimo sito sorse l’attuale edificio, pro-gettato da Carlo Bassi e Goffredo Boschetti e inaugurato nel1959. Inagibile all’inizio degli anni Ottanta, è stato riaper-to nel 1993 dopo aver subito un profondo rinnovamentostrutturale che ne ha ampliato la superficie espositiva e lo hadotato di impianti d’avanguardia per la tutela e la conser-vazione delle opere. Del complesso museale fanno parte unospazio dedicato alle esposizioni temporanee, una sala per mo-stre a rotazione delle opere custodite nei depositi, locali perattività didattiche e di laboratorio, la biblioteca specializ-zata, la fototeca, una sala per conferenze. La parte espositi-va si sviluppa su tre piani e presenta una scelta del patrimo-nio artistico della Galleria, costituito di circa 5000 dipinti,400 sculture e migliaia di disegni e incisioni prodotti dallafine del Settecento ai nostri giorni. Fino ai primi anni delsec. xx la raccolta documenta in particolare la produzioneartistica piemontese. Se ancora nel 1913 il nuovo Regola-mento limitava lo scopo della Galleria alla storia della «scol-tura, pittura e architettura del Piemonte», nel 1928 il di-rettore Lorenzo Rovere ottenne di acquistare opere alla Bien-nale di Venezia. Vittorio Viale intraprese a partire dal 1930l’accrescimento del patrimonio, rivolgendosi sia al tessutolocale sia alle proposte delle rassegne nazionali, Nel 1959 siaprì una intensa campagna di acquisti collegata a importan-ti momenti espositivi, aggiornata sul dibattito contempora-neo e volta a colmare le lacune relative principalmente all’ar-te straniera, con riferimento privilegiato all’area francese, ealle avanguardie storiche. All’incremento delle collezioni uncontributo fondamentale, a partire dal 1982, è stato datodalla Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris. L’allesti-mento attuale segue, secondo un ordine cronologico, le tap-pe piú importanti dell’arte locale e italiana degli ultimi duesecoli, affiancata, in spazi paralleli, da presenze straniere;sono evidenziati inoltre i gruppi omogenei e le raccolte pri-vate giunte per dono o legato. Le sale dedicate all’Ottocen-to espongono nuclei di dipinti di Massimo d’Azeglio, Anto-nio Fontanesi (Aprile, 1872-73; Le nubi, 1880), Lorenzo Del-leani, Enrico Reycend. Fra i nomi di maggior rilievo sono

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quelli di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Lo specchio della vi-ta, 1895-98), di Giovanni Fattori e Telemaco Signorini, de-gli scultori Medardo Rosso e Vincenzo Gemito. Quanto alNovecento le collezioni registrano un ampio gruppo di ope-re di Felice Casorati e dei Sei pittori di Torino, capolavoridi Giorgio Morandi e Filippo De Pisis e un insieme di gran-de qualità di dipinti delle avanguardie storiche: Modigliani(La ragazza rossa, 1915), Balla, Boccioni, De Chirico, Dix,Ernst (Un peu malade le cheval..., 1920; Bozza di manifesto,1920), Klee. Sono documentati gli anni Cinquanta con Bur-ri (Bianco, 1952), Fontana, Mastroianni, Vedova, Guttuso,Moreni, Morlotti, Birolli, e gli anni Sessanta, ripercorribilinella sezione dedicata al «Museo sperimentale di arte con-temporanea» fondato da Eugenio Battisti e nello spazio de-dicato agli artisti legati all’esperienza dell’Arte Povera qua-li Penone, Pistoletto, Zorio, Anselmo, Gilardi, Kounellis,Paolini e Merz. L’arte contemporanea è rappresentata a rag-gio internazionale da Nevelson, Calder, Soto, Warhol, Ar-man, Manzoni, Novelli, Twombly, Pascali. (eca).Galleria Sabauda La pinacoteca nacque nel 1832, quando,su consiglio di Roberto D’Azeglio, Carlo Alberto decise diriunire e di esporre al pubblico i quadri collezionati dai Sa-voia a partire dalla metà del sec. xvi. La raccolta, collocatanelle sale di Palazzo Madama, fu donata allo Stato da Vit-torio Emanuele II nel 1860, e nel 1865 trasferita nell’attualesede al secondo piano del Palazzo dell’Accademia delleScienze, eretto nel 1678 su disegno di Guarino Guarini perospitare il Collegio dei Nobili. Gli accrescimenti ottocente-schi, costituiti da acquisti e donazioni come quelle dei mar-chesi Falletti di Barolo e di Emanuele D’Azeglio, furono mi-rati a colmare le lacune delle raccolte. Dopo vari riordini, lagalleria fu sistemata tra il 1952 e il 1959 da Noemi Gabriellie dall’architetto Sanpaolesi costruendo un piano intermedioe raggruppando le opere in sei sezioni sulla base delle scuo-le pittoriche di appartenenza. Tra il 1987 e il 1993 è statocondotto a termine un programma di riallestimento fonda-to sul criterio collezionistico: ne sono nati quattro settori, daEmanuele Filiberto a Carlo Emanuele I (1550-1630 ca.), daVittorio Amedeo I a Vittorio Amedeo, II (1630-1730 ca.),da Carlo Emanuele III a Carlo Alberto (173o-1832) e le rac-colte di pittura fiamminga e olandese del principe Eugeniodi Savoia Soissons. Il primo settore, introdotto dal ritratto

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di Emanuele Filiberto dell’Argenta, raccoglie i piú precociesempi del collezionismo sabaudo (la Visitazione e Un devo-to in orazione di Rogier van der Weyden, Madonna e santi diAndrea Mantegna e aiuto). Fu Carlo Emanuele I a incre-mentare maggiormente le raccolte ducali, nelle quali con-fluirono opere di Francesco e Leandro Bassano, del Vero-nese (di cui in galleria esiste anche La cena in casa di Simo-ne), del Bronzino, l’Annunciazione del Gentileschi, dipintidel Guercino, del Cerano, di Morazzone, Procaccini, Va-lentin, Ribera, Rubens. Il secondo include la raccolta del car-dinal Maurizio, figlio di Amedeo I (i Quattro elementidell’Albani, e opere di Reni, Domenichino, Lanfranco, Du-quesnoy), la quadreria di Cristina di Francia (Francesco Cai-ro, Charles Dauphin, Guercino, Caravoglia, nature mortefiamminghe e romane, paesaggi classicisti), esempi della ri-trattistica di corte (Il principe Tommaso di Savoia Carignanoe I figli di Carlo I d’Inghilterra di van Dyck) e quadri d’arre-do delle residenze sabaude (Sebastiano Ricci, Gaspar vanWittel, Francesco Solimena). Il terzo settore spazia dalle duevedute del Bellotto, volute da Carlo Emanuele III, al neo-classicismo di Pompeo Batoni, Angelica Kauffmann, Mengse Lorenzo Pécheux. Infine, della collezione fiamminga eolandese del principe Eugenio fanno parte opere di GerardDou, Bruegel dei Velluti, van Dyck, Griffier, Téniers; è in-vece un acquisto ottocentesco il Vecchio dormiente di Rem-brandt. Rimangono immutati rispetto alla sistemazione de-gli anni ’50 il settore degli italiani, che raccoglie le acquisi-zioni ottocentesche di opere del xv e xvi secolo (BeatoAngelico, Filippino Lippi, bottega del Botticelli, Sodoma,Bergognone, Bellini, Luca Cambiaso) e la sezione dei pie-montesi, costituita per lo piú da opere quattro e cinquecen-tesche provenienti dal territorio piemontese (Pitterio, Span-zotti, Defendente Ferrari, Gerolamo Giovenone, Gauden-zio Ferrari, Bernardino Lanino).Accademia Albertina Sorta nel 1678, trae origine dall’an-tica Università dei Pittori, Scultori e Architetti di T. Fu rior-dinata da Vittorio Amedeo III nel 1778 e da Carlo Felicenel 1822; ebbe nel 1833, da Carlo Alberto, la sede attuale.La storia delle raccolte pittoriche comincia nel primo Otto-cento, con le donazioni e i lasciti di insegnanti e privatipreoccupati di fornire materiale didattico agli allievi. Il nu-

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cleo iniziale della pinacoteca è rappresentato dal dono dellacollezione di monsignor Vincenzo Maria Mossi di Morano,arcivescovo di Alessandria: tra i suoi pezzi migliori i dueDottori della Chiesa di Filippo Lippi, ante laterali di un trit-tico conservato al mma di New York, il San Giovanni Batti-sta del Francia, opere di Spanzotti, di pittori fiamminghi(Cristo benedicente di artista cinquecentesco, dipinti di Mar-tin Heemskerk e Paul Brill, due nature morte di BeernaertsNicasius), Bernardino Lanino, Simon Vouet, Domenico Pio-la, Daniele Seyter, Francesco Beaumont, Franceschini, Ma-rieschi, Zuccarelli. Un secondo nucleo è costituito dai ses-santa cartoni di Gaudenzio Ferrari e scuola vercellese do-nati da Carlo Alberto, che li fece prelevare dagli archivi dicorte, sistemare provvisoriamente a Palazzo Madama e quin-di nella sede definitiva nel 1837. Collegati ai cartoni per unastessa provenienza regia sono due pastelli di Nicolas La-gneau, la cui donazione fu incoraggiata nel 1832 da Rober-to d’Azeglio, allora direttore della Regia Galleria.Palazzo Reale Sul luogo dell’attuale costruzione sorgeva nelMedioevo il Palazzo del Vescovo, residenza di Emanuele Fi-liberto a partire dal 1562; piú volte rimaneggiato, dal 1586fu esteso su disegno di Ascanio Vitozzi e successivamentemodificato da Vittorio Amedeo I e Cristina di Francia, fin-ché, dopo i danni subiti nell’assedio del 1640, venne sosti-tuito dal Palazzo Grande, l’odierno Palazzo Reale.Il letterato abate Tesauro fornì i temi allegorici per la deco-razione degli interni. Intervennero in questo primo periodostuccatori, intagliatori, pittori (Gian Francesco e AntonioFea, Bartolomeo Guidobono, Gregorio De Ferrari, Jan Miel,Charles Dauphin), marmisti e doratori, sotto la direzionedegli architetti di corte Amedeo di Castellamonte, Carlo eMichelangelo Morello, Giovenale Boetto e Bernardino Qua-dri. Negli anni ’20 del Settecento lavorarono alle decorazio-ni Francesco Beaumont, Carle van Loo, Francesco De Mu-ra, Piffetti e Ladatte. Architetto di corte sotto Carlo Ema-nuele III, Benedetto Alfieri diresse il rinnovamento in sensorococò di diversi ambienti del palazzo, decorati da Crosato,Nogari, V. A. Cignaroli, Olivero, Bernero, Collino, Marti-nez, Plura, Piffetti, Prinotto e Ugliengo. Vittorio AmedeoIII impresse invece una svolta neoclassica alla decorazione,eseguita da Bonzanigo. Con l’occupazione francese del 1799le vicende del palazzo subirono un arresto, per riprendere

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poi con il riammodernamento di Carlo Alberto: sotto la di-rezione di Pelagio Palagi, dal 1835 al 1842, lavorarono i pit-tori Carlo Bellosio, Francesco Gonin e Francesco Ayres.Gli appartamenti al primo piano si aprono con il Salone del-la Guardia Svizzera, affrescato nella fascia superiore dai fra-telli Fea. Seguono la Sala dei Corazzieri, con fregio del 1847del Gonin, la Sala degli Staffieri (soffitto del Dauphin), laSala del Trono del re, con soffitto di Jan Miel raffigurantela Pace, la Sala del Consiglio, detta anche dei Santi per i di-pinti che ritraggono i beati di Casa Savoia (soffitto del Miel),il Gabinetto Cinese, le cui pareti furono rivestite dal1734-35 con lacche cinesi acquistate da Juvarra a Roma nel1732 (soffitto di Beaumont, disegni delle cornici di Juvar-ra), la camera da letto di Carlo Alberto (volta di Seyter) e laSala della Colazione, che in epoca albertina conteneva unaserie di quadri di artisti contemporanei, tra cui Storelli, Go-nin, Ayres, Cusa, Marghinotti. La Galleria del Daniele fuaffrescata verso il 1690 dal Seyter e trasformata da CarloAlberto in quadreria delle glorie piemontesi con una serie diritratti di uomini illustri e santi.Gli appartamenti della regina comprendono la camera da let-to, con soffitto del Seyter, la camera da lavoro e il Gabinettodi toeletta con volte del Beaumont, il Gabinetto del Prega-dio (undici episodi della Gerusalemme Liberata di Carle vanLoo) e la Stanza della Macchina, affrescata da Francesco DeMura. La Sala da pranzo, ristrutturata sotto Carlo Alberto,è affrescata da Francesco Gonin; si continua con la Sala delCaffè, con volta di Seyter, la Camera dell’Alcova, con vol-ta di Bartolomeo Caravoglia e sovrapporte di Sebastiano Ric-ci, la Sala del Trono della regina (Trionfo delle Grazie delMiel), e la Sala da Ballo, con soffitto dipinto del Palagi. At-traverso la Galleria delle Battaglie, affrescata nel 1748 daBeaumont con il Trionfo della Pace e l’Apoteosi di Carlo Ema-nuele III, si accede all’appartamento dei quadri moderni, fat-to edificare dallo stesso sovrano nel 1733 come archivio par-ticolare della casata, e adibito a biblioteca a partire dallametà del Settecento. Delle camere degli archivi, la terza e lasesta sono affrescate da Francesco De Mura.Museo Nazionale del risorgimento italiano Istituito nel 1878e inaugurato nel 1899 nella sede iniziale della Mole Anto-nelliana, documenta il processo di unificazione del Paese at-

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traverso la piú completa raccolta di materiale illustrativo ita-liano del genere ed è l’unico che abbia la qualifica di nazio-nale. Nel 1936 fu trasferito nella sede attuale al piano no-bile di Palazzo Carignano, cominciato nel 1679 da GuarinoGuarini, e completato dall’ala ottocentesca progettata daDomenico Ferri (1863) e realizzata da Giuseppe Bollati(1864-71). Il salone delle feste guariniano, trasformato, ac-colse dal 1848 al 1860 la Camera dei Deputati del Regno diSardegna. Sono esposti nelle sale del museo busti e ritrattidi principi, politici, militari e scrittori (di F. Gonin, C. Bi-scarra), quadri di battaglie e di avvenimenti politici (G. In-duno, M. D’Azeglio, R. Pontremoli, G. P. Bagetti, V. Gia-comelli, F. Cerruti-Bauduc, L. Norfini, A. Trezzini), ban-diere, libri, stampe, caricature, fotografie, proclami, editti,statue, armi, uniformi del periodo compreso tra il 1815 e il1918 ca. (car).

TorloniaDi origine francese, i T si stabilirono a Roma durante il sec.xviii e ottenero titoli nobiliari e grande potenza economicacon Giovanni (1755-1829), che esercitò la professione dibanchiere. Questi fu il committente della decorazione delPalazzo T nell’area di piazza Venezia, demolito nel 1902.Alla ricca e sfarzosa decorazione, in stile impero, lavoraro-no V. Camuccini, F. Coghetti, G. Landi, P. Pelagi, F. Pode-sti e altri pittori attivi a Roma intorno al 1820, insieme a fa-mosi scultori e stuccatori. Alessando T (1800-86), figlio diGiovanni, ne proseguì l’opera di mecenate con la costruzio-ne della Villa T sulla via Nomentana, iniziata negli anni1832-33 sotto la direzione dell’architetto e pittore G. B. Ca-retti. I pittori impegnati nella decorazione della villa, alcu-ni dei quali avevano già lavorato nel palazzo, furono F. Co-ghetti, L. Massabò, F. Podesti, D. Tojetti e altri. Anche nelprogramma iconografico, nei temi mitologici, nelle decora-zioni a grottesche e nei mosaici (questi ultimi dovuti al mo-saicista C. Seni), venne ricalcato il gusto archeologico delPalazzo T. Al paludato classicismo delle decorazioni di que-sti edifici non fu estranea la volontà dei T di legittimare conla cultura e lo sfarzo la loro rapida ascesa nel novero dellepiú importanti famiglie romane. Mecenati di minore im-portanza, ma di gusti analoghi, furono Carlo e Marino T,proprietari rispettivamente delle ville di Castel Gandolfo e

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di Porta Pia a Roma. La famiglia T acquistò nel 1866 anchela Villa Albani a Roma, dove furono sistemate le collezionidi scultura antica e le pitture provenienti dalla tomba Fran-çois della necropoli etrusca di Vulci, tuttora possedimentodella famiglia. Le collezioni di pittura furono in gran partedonate allo Stato nel 1892. Si trattava di un cospicuo nu-mero di opere; alcune delle piú interessanti sono oggi siste-mate nella gnaa di Roma (Palazzo Barberini). Tra di esse siricorda il Ritratto di Enrico VIII attribuito a Holbein e lequattro vedute del Canaletto. Per il loro impegno di co-struttori, collezionisti, sostenitori delle arti, della musica edel teatro, i T possono essere considerati gli ultimi grandimecenati romani. (came).

Tormó, Elias(Albaida (Valenza) 1869 - Madrid 1957). Con l’amico Gó-mez Moreno fu tra i fondatori degli studi della storia dell’ar-te spagnola. Professore nelle Università di Salamanca(1902-904) e di Madrid (1904-36), alla sua scuola si forma-rono varie generazioni di storici; le funzioni ufficiali che ri-coprì non ne rallentarono mai l’attività di ricercatore. Il suoDesarrollo de la pintura española en el siglo xvi (1902) fu untesto di riferimento importante per quei tempi. Tra i fon-datori dell’«Archivo español de arte», è l’iniziatore di unacollezione di guide artistiche, Guias regionales Calpe, prestopurtroppo interrotta, per cui redasse la Spagna del Levante(1925) e una parte della Spagna centrale. Predilesse lo studiodell’iconografia cristiana e la pittura dal xv al xvii secolo. Isuoi libri su Jacomart (1913) e sul pittore benedettino FraJuan Rizi (1930), i grandi studi su Bermejo, Rodrigo de Oso-na, Pereda, sul tema dell’«Immacolata» nell’arte spagnola,su Velázquez e sul «Salon de Reinos» (raccolti in parte nelvolume Pintura escultura y arquitectura en España, 1949) so-no tra i suoi contributi piú interessanti. (pg).

Torner, Gustavo(Cuenca 1925). Dopo gli studi di silvicoltura, si dedicò allapittura. Dal 1953 risiede a Cuenca dove fonda nel 1966 ilMuseo d’arte astratta spagnola con Fernando Zóbel e Ge-rardo Rueda. La sua pittura, in un primo tempo figurativa,dal 1958 partecipa dell’estetica informale; in essa, l’abban-

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dono pressoché totale della forma si combina ad effetti dirilievo materico (terre, radici, gessi). I quadri realizzati a par-tire dal 1960 sono caratterizzati da una partitura in due zo-ne orizzontali, una carica di materia, l’altra praticamente li-scia, che ricercano l’equilibrio tra ordine e una sorta di di-sordine organizzato. Questa stessa tematica, una costantedella sua poetica, torna nella successiva produzione di rilie-vi metallici. Dal 1964 l’opera di T acquista le sue attuali ca-ratteristiche. Dotato di una vasta cultura classica e contem-poranea, nella quale svolgono un ruolo importante il manie-rismo e il surrealismo, l’artista sfrutta il procedimentodell’evocazione e della citazione colta. Ha così reso omag-gio a Quevedo, Antonioni, Ingres, Magritte (riprendendo-ne i procedimenti associativi), a Friedrich, Paolo Uccello,Zurbarán. Lo humor di T è di tipo cerebrale, difficile. L’ar-tista ama giustapporre materiali diversi, che riesce a rende-re omogenei: plastiche dai colori stridenti, legno, oggetti pre-ziosi, carte rare, cornici barocche rappresentato a Madrid(mac), a Bilbao, Cuenca (Museo d’arte astratta spagnola), aLondra (Tate Gall.), a Cambridge, Mass. (Fogg Museum); aNew York (Solomon Guggenheim Museum) e a Tokyo(mam). (abc).

Tornioli, Niccolò(Siena 1598 - Roma 1651/52). Nelle prime opere appare in-fluenzato da F. Rustici (Crocifissione, 1631: Siena, San Ni-colò in Sasso; Vocazione di san Matteo, 1634: Rouen, mba).Per la scarsità di commissioni pubbliche si rivolse al colle-zionismo privato, praticando con successo la pittura su mar-mo. Il conte Borromeo (a Siena dal 1623) lo condusse consé a Roma forse prima del 1637; qui il T conobbe lo Spada-rino e i piú tardi epigoni del naturalismo. Produsse un grannumero di dipinti «di genere» ispirati ai soggetti ancora lar-gamente praticati dai «caravaggeschi» francesi e fiammin-ghi, ma in modi assimilati a quelli dei fiorentini Coccapanie Dandini. Godette della protezione del cardinal Bernardi-no Spada e di suo fratello monsignor Virgilio, oratoriano,per i quali eseguì un’importante serie di dipinti, alcuni tut-tora conservati nella Galleria Spada (Gli Astronomi, 1643,Cristo scaccia i mercanti dal Tempio, Sacra Famiglia e altri). Èsua la decorazione ad affresco della volta dell’anticamera diSan Filippo Neri alla Vallicella. Nelle opere tarde appare sug-

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gestionato anche dai modi di Lanfranco e di Vouet, oltre chedi Pietro da Cortona. (sr).

Toroni, Niele(Muralto (Locarno) 1937). Dal 1959 residente a Parigi, T haesordito come artista nel 1967 al Salon de la Jeune Peintu-re dopo che nel dicembre dell’anno precedente aveva for-mato insieme a Buren, Mosset e Parmentier il gruppoBMPT. I lavori di T sono tele di grandi proporzioni con im-pronte di pennello di un solo colore, distribuite in sequen-za su una superficie piana, solitamente su fondo bianco, aintervalli regolari di 30 cm (Empreintes de pinceau n° 50: Gre-noble, Museo; Jardin de peinture, 1987: Tokyo, Meguro Mu-seum). Spesso l’artista si confronta con lo spazio circostan-te; la sua è una pittura ridotta all’estrema economia, mini-male, che non rinvia se non al proprio rigore e al diritto dellapittura di autoesporsi. T è stato oggetto di numerose mostre(1978: Berna, kh ed Eindhoven, Stedelijk van Abbemu-seum, personale; 1987: Nizza, Centre national d’art con-temporain; 1991: Parigi, Centre George Pompidou): è tragli artisti delle gallerie di Yvon Lambert a Parigi e la sua fir-ma compare in numerose collezioni private e musei. (sr).

Toronto

Storia pittorica → Canada. XX secoloThe Art Gallery of Ontario Il museo di T (Ontario) si è ac-cresciuto considerevolmente dal momento della sua fonda-zione avvenuta nel 1900, mediante donazioni e importantiacquisizioni. Ricco in particolare di opere canadesi, possiedeoltre 1500 tele di circa quattrocento pittori che ripercorro-no le varie tendenze dell’arte nazionale del xix e del xx se-colo. Accanto ad artisti come Paul Kane (Accampamento in-diano sul lago Huron), Cornelius Krieghoff (Settler’s Log Hou-se), O’Brien (A prospector Camp), Plamondon (la Chasse auxtourtes), ispirati alla vita e ai costumi locali, i paesaggisti del-la prima metà del sec. xx sono aperti alle sollecitazioni deinabis e dei fauves: Cullen, Morrice, Thomson (Il ventodell’Ovest), Milne, Emily Carr, il gruppo dei Sette. La pit-tura contemporanea è rappresentata da Borduas, Riopelle,Molinari. Il museo è ricco di dipinti europei di varie scuole:

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primitivi italiani e fiamminghi (Giovanni del Biondo, Barendvan Orley); scuole italiane dal xvi al xviii secolo (Tintoret-to, Lavanda dei piedi di Cristo agli apostoli; Bassano; Andreadel Sarto, Sacra Famiglia; Preti; Canaletto); fiamminghi eolandesi (Rembrandt, Giovane donna con cane; Hals; Cuyp);ritrattisti e paesaggisti inglesi del sec. xviii (Reynolds, Gain-sborough). La scuola francese è rappresentata da alcuni di-pinti del Seicento (Lorrain; Poussin, Venere chiede le armi aVulcano) e soprattutto da artisti del xix e del xx secolo (De-lacroix, Boudin, Monet, Renoir, Sisley, Vuillard, Bonnard,Picasso, Léger, Metzinger, Utrillo). Conserva un’importan-te raccolta di dipinti americani contemporanei (Sam Francis,Motherwell, Stella, Kline, Morrice, Indiana). (jro + gb).Royal Ontario Museum È il piú antico museo canadese. Ilprimo tentativo per costituirlo in museo provinciale risale al1851, ma il progetto è del 1833; ha assunto la denomina-zione attuale nel 1912. Nel 1948, è stato annesso all’Uni-versità di T. Le sue raccolte archeologiche e di arte decora-tiva riguardano l’arte di tutti i paesi, anche se è dotato diuna collezione particolarmente ricca di dipinti, acquerelli,disegni e stampe canadesi, eseguiti tra il xviii e xix secolo,che rappresenta una documentazione storica e topograficaunica per quanto riguarda la nazione. Il materiale è stato so-prattutto raccolto nel Novecento da un appassionato colle-zionista, il dottor Sigmund Samuel; comprende opere diLouis Dulongpré, Cornelius Krieghoff, Paul Kane (la Flot-tiglia). (gb).

Torre, Flaminio(Bologna 1620 - Modena 1661). Formatosi presso GiacomoCavedone, il T trascorse qualche tempo nella bottega del Re-ni, per poi trovare il suo piú vero maestro in Simone Can-tarini. Morto questi nel 1646, il T, insieme con l’altro allie-vo Lorenzo Pasinelli, ne ereditò la bottega. Rispetto al com-pagno, il T fu artista di assai piú rapida maturazione. Il suonaturale talento ne fece una vera e propria figura chiave inquei decenni di crisi che a Bologna segnarono il clima pitto-rico dopo la scomparsa di Guido Reni (1642).Nel 1658 la corte ducale di Modena gli offrì l’occasione pertrovare un luogo, per così dire istituzionale, alla prodigiosacapacità che la sua mano aveva di adattarsi alla copia e al re-stauro delle pitture antiche. Egli si trasferì nella città vici-

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na con il compito di curare specificamente la galleria di pit-tura del duca (ma solo il suo successore Francesco Stringa sisarebbe chiamato soprintendente).Disgraziatamente la sua opera poté durare solo tre anni. Coe-rentemente con le sue inclinazioni, di lui sono noti molti di-pinti destinati al collezionismo privato, mentre sopravviveintegro un unico dipinto d’altare: il Sant’Antonio dell’Os-servanza di Imola. (acf).

Torrentius, Jan Simonsz, detto anche van der Beeck(Amsterdam 1589-1644). Attivo ad Amsterdam, a Leida(1627) e infine ad Haarlem, T si recò in esilio nel 1630 aLondra, tornando nei Paesi Bassi nel 1641-42. Dipinse na-ture morte caratterizzate da una tecnica molto minuziosa eda un affascinante chiaroscuro. L’Allegoria della temperanza(1614: Amsterdam, Rijksmuseum), che fece parte della rac-colta di Carlo I d’Inghilterra, è l’unica opera oggi conosciu-ta di questo artista singolare, che fu lodato per il suo talen-to e che, membro della setta dei Rosa Croce, fu accusato diaver dipinto quadri scandalosi; venne piú volte perseguitodalla giustizia, al punto da morire per le conseguenze dell’in-terrogatorio cui venne sottoposto. (jv).

Torres, Clemente de(Cadice 1662-1730). Si formò a Siviglia, e fu tra i miglioriallievi di Valdés Leal, compagno di suo figlio Lucas. Conquesti collaborò alla decorazione murale del convento di SanPablo, dove la serie di Apostoli che dipinse sui pilastri dellanavata è tra le opere piú espressive della pittura barocca an-dalusa. In seguito soggiornò a Madrid e si legò a Palomino,cui dedicò un sonetto (1724); tornò infine, per morirvi, nel-la sua città natale, stimato sia come disegnatore che comepittore. Vari dipinti al Museo di Siviglia (San Dionigi l’Areo-pagita, San Nicola di Bari) e a Cadice (Incoronazione della Ver-gine) ne confermano le doti di pittore monumentale, e nelcontempo indicano una certa predilezione per le tonalità gri-ge o fredde, assai diverse da quelle del suo maestro. (pg).

Torres, Matias de(Aguilar de Campóo (Palencia) 1635 - Madrid 1711). Si recòa Madrid dal Nord della Castiglia, operando all’Alcázar con

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Coello e Donoso (le sue decorazioni a fresco o a tempera so-no andate perdute): fu noto come pittore di battaglie, pae-saggi, nature morte e apparati effimeri. Si caratterizza tra ipittori della seconda metà del secolo per la delicatezza mi-nuziosa, il colore raffinato, il senso della luce dei suoi pic-coli quadri religiosi: Erezione della Croce (1668: Madrid,Academia de San Fernando), Gesú tra i dottori (Vienna, Ac-cademia), la Purificazione (1697: San Pietroburgo, Ermita-ge). (aeps).

Torrès-Garcia, Joaquìn(Montevideo 1874-1949). Di padre catalano e madre uru-guayana, lascia il continente sudamericano all’età di dicias-sette anni e intraprende a Barcellona studi di pittura con Jo-sep Vinardell. Su richiesta di Gaudì esegue i disegni per levetrate della Sagrada Familia e per la Cattedale di Palma diMaiorca. Negli affreschi nel Palazzo della Diputación si av-verte l’eco di Puvis de Chavannes, del quale aveva visto ibozzetti per la decorazione del Panthéon nel 1907. Dopo unbreve viaggio in Francia e in Belgio (1910), un soggiorno ita-liano a Firenze e a Roma (1912), dove scopre il futurismo,torna a Barcellona e pubblica nel 1913 la sua prima operateorica. Nel 1920-22 a New York, espone al Whitney Stu-dio Club con Stuart Davis (1921); il suo periodo piú fecon-do fu però quello parigino (1924-32), segnato dall’esperien-za dell’astrattismo e del costruttivismo. Con Michel Seuphorfonda nel 1929 il gruppo e la rivista «Cercle et Carré» (1930)ed è attivo come animatore culturale. Nel 1932 torna defi-nitivamente a Montevideo, dove inaugura l’Asociación Ar-te Constructivo il cui influsso è decisivo per i giovani arti-sti uruguayani, e prosegue la sua attività di editore pubbli-cando la rivista «Circulo y Cuadrado», erede tra il 1936 e’43 di «Cercle et Carré», e in seguito «Renovador» (dal ’44).Pubblica la propria autobiografia, Historia de mi vida nel1939, poi un’opera teorica intitolata Universalismo con-structivo nel 1944.Profondamente segnato dall’arte precolombiana, combina ilneoplasticismo (Ritmi, 1932: Parigi, coll. priv.) con ideo-grammi e schemi ancora figurativi, inseriti in una griglia bidi-mensionale: nelle sue forme serrate, che circoscrivono i colo-ri terrosi con leggeri contorni neri, intervengono lettere e ci-fre (Composizione, 1936: Parigi, coll. J. Ulmann; Pittura, 1938:

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New York, Rose Fried Gall.). T-G è rappresentato partico-larmente a New York (moma), a New Haven (Yale Univer-sity, ag) e a Parigi (mnam): grave perdita ha subito il suo cor-pus in seguito all’incendio del mam di Rio de Janeiro nel 1978(una sessantina di opere è andata distrutta). Tra le piú impor-tanti retrospettive a lui dedicate è quella del Solomon R. Geug-genheim Museum di New York, 1970: la sua opera è raccoltain un museo a lui intitolato di Montevideo. (em + sr).

Torriti, Jacopo(Attivo a Roma intorno al 1291-1300). Pittore appartenentealla scuola romana, contemporaneo del Cavallini e operosonell’ultimo quarto del sec. xiii. Nel 1291 compie insieme conFra Jacopo da Camerino il mosaico absidale di San Giovanniin Laterano, oggi poco giudicabile perché completamente ri-fatto nel secolo scorso. Ad alcuni anni piú tardi (1295) appar-tiene l’altro grande mosaico con l’Incoronazione della Vergine,santi, angeli e tre storie della Vergine, con ricchi ornati (Roma,Santa Maria Maggiore, abside). A lui sono concordemente at-tribuiti gli affreschi della volta e alcuni degli affreschi delle pa-reti della seconda campata della Basilica superiore di San Fran-cesco ad Assisi, la cui incerta datazione è stata da recenti ri-cerche anticipata alla fine dell’ottavo decennio del Duecento.Il T si formò probabilmente a Roma nella cerchia di Cimabue,che nel 1272 era nella città papale intento a grandi opere didecorazione; negli affreschi della seconda campata di Assisi ilsuo lavoro è concomitante a quello del fiorentino, attivo neltransetto, ma il suo stile appare notevolmente piú arcaico. Nelmosaico di Santa Maria Maggiore, il suo tradizionalismo è evi-dente anche nei riferimenti iconografici e ornamentali a piúantichi mosaici romani, a cominciare da quelli che decorava-no la primitiva abside della Basifica, del sec. v. Il colore, usa-to con raffinatezza, dimostra intelligente dimestichezza conl’arte bizantina; il gusto del grandioso e la scelta dei motivi or-namentali derivano dal classicismo paleocristiano; la costru-zione salda delle figure offre un singolare parallelo pittoricodelle sculture romane di Arnolfo di Cambio. (bt).

TosaLa storia della famiglia giapponese dei T si confonde in unacerta misura con quella della corrente di pittura nazionale

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yamatoe. Infatti il primo membro conosciuto della serie èun certo T Yukihiro che, all’inizio del sec. xv, dirigeva giàl’Ufficio di pittura degli Ashikaga, accademia che sostene-va una tradizione di pittura giapponese profana dedita allerappresentazioni di temi classici scelti dal repertorio dellaletteratura nipponica. La fondazione della scuola è tradi-zionalmente attribuita al nipote di Yukihiro, Mitsunobu(attorno al 1430-1522), autore della maggior parte degli en-gi dell’epoca degli Ashikaga, pallide repliche degli origina-li antichi.I Kanÿ soppiantarono prestissimo i T, ma questa dinastia dipittori di corte (i Kanÿ erano legati a una clientela signoriledi guerrieri), mantenne vivace la tradizione aristocratica dirappresentazioni di soggetti letterari limitate alla produzio-ne di armoniose miniature colorate in uno stile piuttosto ri-gido.Adattandosi, piú tardi, ai gusti correnti, i T eseguirono il-lustrazioni di romanzi popolari conosciute come «immaginidi Nara» (Narae). Alla fine del sec. xvi ritrassero le scenedelle strade di Kyoto, poi del teatro kabuki. Un paraventodel mfa di Boston che descrive i quartieri chiusi e le lorocortigiane (databile circa agli anni 1630-40), mostra benequanto l’arte popolare dell’ukiyoe dipenda dai suoi remotiantenati aristocratici. (ol).

ToscanaGeografia artistica Mentre la regione geografica è grossomodo identificabile nel territorio fra Appennino e Tirrenocomprendente i bacini del Serchio, dell’Arno, del Cecina edell’Ombrone, quella amministrativa comprende anche ter-ritori sul versante adriatico dell’Appennino; inoltre i confi-ni con l’Umbria e, soprattutto, con il Lazio sono di naturaquasi esclusivamente storica e amministrativa.Il confine nord-occidentale appare molto debole, con unterritorio come la Lunigiana che gravita piuttosto verso laLiguria e comprende centri aggregati alla T solo recente-mente, come per esempio Pontremoli, ceduta al granduca-to dal re di Spagna nel 1650. Piú definito – anche dal pun-to di vista linguistico e culturale – appare il confine dinord-est che, grosso modo, corrisponde al bacino del Re-no e al crinale appenninico salvo che per i territori che sispingono sul versante adriatico (la così detta Romagna to-

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scana), frutto di conquiste militari nel Quattrocento e nelCinquecento.Per quanto riguarda i confini con l’Umbria (regione in anti-co compresa nella Tuscia delle suddivisioni imperiali) essisubirono continui mutamenti a partire dall’epoca longobar-da dipendenti soprattutto da guerre o acquisti, come peresempio quello dell’alta Valtiberina (venduta dal papa ai pri-mi del Cinquecento), o quello della Valdichiana (acquistatadal re di Napoli agli inizi del Quattrocento). Il confine conil Lazio, infine, corrisponde sostanzialmente a quello fral’antica repubblica di Siena e lo Stato Pontificio; confine as-solutamente convenzionale dal momento che non sono av-vertibili distinzioni geografiche o paesistiche fra la Marem-ma toscana e quella dell’alto Lazio.Altre caratteristiche geografiche hanno determinato nel cor-so dei secoli le influenze culturali nella regione. Infatti lapresenza di numerosi valichi nella dorsale appenninica sia anord verso la pianura padana (Cisa, Cerreto, Abetone, Por-retta) sia a nord-est verso la Romagna (Futa, Mutaglione,Mandrioli) ha costantemente facilitato contatti con le areelimitrofe. Inoltre l’esistenza di numerose dorsali montuoseinterne (dall’andamento parallelo a quella appenninica prin-cipale) che delimitano molte vallate (Lunigiana, Garfagna-na, Mugello, Casentino, Valtiberina, Valdarno superiore,Valdichiana) ha favorito l’affermazione e la persistenza diculture locali anche nel campo delle arti figurative, spessonettamente caratterizzate, anche se va detto che intensi con-tatti fra le varie zone e fra le principali città furono assicu-rati, fin dall’epoca romana, da un’importante rete stradale(Aurelia, Clodia, Cassia, Flaminia) ampliata nel corso dei se-coli a partire dalla medievale via francigena che attraversa-va tutta la T centrale.Questa struttura geografica ha favorito la formazione di cul-ture figurative differenziate, ma anche dinamiche di recipro-ci intensi contatti sia fra i diversi centri urbani che fra questiultimi e le varie zone periferiche anche al di là della tradizio-nale suddivisione in scuole pittoriche. Prima dell’età comuna-le il principale centro politico e culturale in T fu Lucca (veracapitale in epoca longobarda e franca); l’altra città di una qual-che importanza era Pisa, per la sua posizione privilegiata sulmare. Questi furono i soli centri di cultura urbana in un’epo-

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ca di profonda frammentazione feudale, punti di riferimentodella penetrazione della cultura «lombarda» nella regione.La rinascita dell’urbanesimo dopo il Mille e l’affermazionecrescente di altre città, soprattutto delle sedi vescovili (Fi-renze, Arezzo, Siena, Pistoia, ecc.) contribuì a delineare latendenza alla moltiplicazione dei centri di elaborazione cul-turale oltre che politica. Contemporaneamente al persisteredi una vasta influenza per tutta la T (ma anche oltre) di mo-delli stilistici pisano-lucchesi (in cui si fondevano elementilombardi, bizantini, arabi, armeni), cominciarono ad affer-marsi altre città, soprattutto Firenze e Siena, in potente asce-sa commerciale politica e culturale per tutto il Medioevo.Nel Trecento l’affermazione definitiva in tutta Italia di quel-lo che è stato definito il «paradigma» giottesco impose Fi-renze nel ruolo di città guida nell’elaborazione pittorica, con-trastata dall’affermazione di una specifica scuola pittorica aSiena che trovò diffusione (seppure mediata da interpreta-zioni locali) ben oltre i confini dello stato senese in luoghi(Pisa, Pistoia, il Casentino, la Valdichiana ecc.) in cui spes-so trovavano ospitalità e committenze anche artisti fioren-tini «periferizzati» dall’affermazione monopolizzante dellalinea giottesca (Buffalmacco, il Maestro di Figline, Lippo diBenivieni ecc.).La vocazione egemonizzante di Firenze troverà definitivaaffermazione nel periodo rinascimentale, quando la città di-venne il centro di riferimento fondamentale della nuova ar-te umanistica per tutta la cultura contemporanea, non soloitaliana. D’altra parte, è questo il periodo in cui soprattut-to Firenze, anche attraverso i rapporti di mercanti e ban-chieri con il Nord dell’Europa, dove spesso esercitavano iloro affari, si apre all’influenza dei grandi pittori delle Fian-dre; al punto che, tra Quattro e Cinquecento, eventi di ri-lievo nella pittura fiorentina (da Filippino Lippi e Ghirlan-daio, a Piero di Cosimo) risulterebbero non pienamente com-prensibili se non si tenesse conto delle assimilazioni dicaratteri peculiari del linguaggio figurativo fiammingo. Lapenetrazione dei modelli fiorentini nella regione fu capilla-re ma, nel corso dei decenni, originò frequenti fenomeni discuole minori in relazione con la persistenza di tradizioni lo-cali o con l’influenza di aree limitrofe (Pistoia ebbe relazio-ni con l’area emiliana, Arezzo e Valdichiana con quella se-nese e con l’ambiente umbro-marchigiano, Lucca fu teatro

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di eclettiche importazioni di artisti e opere da Liguria, Ve-neto, Emilia). Il fenomeno piú rilevante di autonomia dallacultura pittorica fiorentina (ma naturalmente non senzaprofonde influenze reciproche) è certamente costituito dal-la pittura senese che, per originalità di elaborazione e di con-tatti culturali, costituì una vera e costante alternativa allapittura del capoluogo.Il processo di egemonizzazione politica e culturale sulla Tda parte di Firenze si concluse con la formazione di uno sta-to regionale (compresa Siena, ma esclusa l’indipendenteLucca) alla metà del Cinquecento e anche se in quel perio-do è già avvertibile un reale declino del suo primato cultu-rale in campo europeo a favore di altre città (Roma, so-prattutto), la capitale del granducato mediceo continuò adesercitare il ruolo di guida all’interno della regione, mentregli altri centri si trovarono confinati in posizione netta-mente subordinata pur mantenendo molto saldo il senso del-le proprie tradizioni specifiche anche in virtú di contatticon culture pittoriche esterne (in particolare emiliane e ro-mane) intrattenuti da centri come Pistoia, Siena e Lucca inmodo anche indipendente dalla mediazione di Firenze, cittàche dal canto suo si apriva alle grandiose realizzazioni di ar-tisti «forestieri» come Luca Giordano, Pietro da Cortona,Sebastiano Ricci.Una simile vitalità è riscontrabile nei centri artistici tosca-ni anche nel corso dell’Ottocento e Novecento, secoli incui, accanto all’attività pittorica nella capitale della T pri-ma lorenese e poi sabauda, si collocano originali esperien-ze in città come Siena (Luigi Mussini e i suoi allievi), Arez-zo (Pietro Benvenuti), Livorno (i macchiaioli e le loro pro-paggini novecentesche), Pistoia (gli allievi di Bezzuoli e, nelNovecento, l’attività di un fervido gruppo di artisti). Espe-rienze che rendono particolarmente vivace e complesso l’in-treccio di rapporti fra Firenze e i rimanenti centri della re-gione.Strutture artistiche La produzione artistica in T è stata co-stantemente favorita dal supporto di un tessuto sociale, isti-tuzionale e culturale di grandissimo interesse. Nel Medioe-vo anche in T, naturalmente, la committenza religiosa fuprevalente rispetto a quella civile. Ma già in età comunalenei centri a piú forte vocazione egemonica (Firenze e Siena,

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soprattutto, ma anche centri minori come per esempio SanGimignano) si affermò in parallelo una committenza civile(i cicli decorativi e le opere destinate ai Palazzi comunali) ocomunque laica che troverà il suo culmine nel progressivoaccrescimento della committenza da parte delle potenti cor-porazioni (soprattutto a Firenze) e nell’aumentata commit-tenza privata di opere destinate a chiese o conventi. NelQuattrocento si verificò un altro fenomeno destinato ad as-sumere importanza determinante nel panorama artistico to-scano: quello del collezionismo (e di connesse committenze)praticato da intellettuali (per esempio Coluccio Salutati ePoggio Bracciolini) e soprattutto da membri della famigliaemergente dal punto di vista economico e politico: i Medi-ci, con Cosimo il Vecchio prima e con Lorenzo il Magnificopoi. Fin dall’inizio il collezionismo e la committenza medi-cei si posero su livelli praticamente irraggiungibili sia dallealtre famiglie fiorentine sia da quelle degli altri centri dellaregione. Solo a Siena, agli inizi del Cinquecento il signorePandolfo Petrucci si riterrà committente degno dell’appel-lativo di «Magnifico».L’affermazione di Firenze come capitale di uno stato regio-nale, naturalmente, provocò una accentuazione di questo fe-nomeno di accentramento anche dal punto di vista collezio-nistico. La committenza artistica di Cosimo I, per esempio,venne saldamente guidata (in particolare nel progetto di de-corazione di Palazzo Vecchio) da un vero e proprio pro-gramma ideologico elaborato dagli intellettuali di punta diquel momento (Vasari, Borghini e Varchi), teso ad esaltareil ruolo centrale di Firenze e dei Medici nei destini della Te il collegamento del moderno regime granducale con le tra-dizioni storiche antiche (gli Etruschi) e recenti (l’epoca re-pubblicana).Il momento iniziale del granducato è di eccezionale impor-tanza anche per altri motivi. Sul piano istituzionale è carat-terizzato dal tentativo (sostanzialmente fallito) di control-lare l’intera produzione artistica attraverso la fondazione diun’Accademia, quella vasariana delle Arti del Disegno, chetrovava i suoi mitici precedenti storici nella medievale Ac-cademia di San Luca; sotto il profilo culturale rappresentail momento piú alto dell’elaborazione storiografica sull’artedell’intera penisola (Vasari) e di quella piú specificamenteteorica (Varchi, Borghini ecc.), rinnovando radicalmente la

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letteratura artistica precedente fondata prevalentemente sul-la trattatistica tecnica delle «botteghe» medievali (Cenni-ni), sulle biografie artistiche memorialistiche (Ghiberti, Ma-netti ecc.) o sulla teoria artistica pura (Alberti, Francesco diGiorgio, Piero della Francesca ecc.). Sul piano del collezio-nismo e della committenza medicei, infine, segna il momentoin cui quelle attività da private cominciano a diventare pub-bliche, sia con l’istituzione di vere e proprie manifatture dicorte (la Fonderia, la manifattura degli Arazzi, quella delcommesso in pietre dure ecc.), sia con la realizzazione di unaWunderkammer (lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vec-chio) la cui evoluzione concettuale porterà all’allestimentomuseografico della Tribuna degli Uffizi, vero e proprio nu-cleo storico della futura Galleria pubblica.Da questo momento in poi il ruolo del collezionismo medi-ceo diviene centrale nella storia artistica toscana, originan-do e alimentando, per nuclei successivi, i due formidabilicomplessi della Galleria degli Uffizi e della Galleria Palati-na. Un momento particolarmente significativo di questa sto-ria è segnato dall’attività del cardinal Leopoldo de’ Medici,protesa verso acquisizioni sistematiche di opere d’arte, e so-prattutto di disegni, sulla base di articolatissimi elenchi (la«Listra») suddivisi per scuole italiane ed europee elaboratida F. Baldinucci in uno straordinario lavoro di sintesi chefrutterà la grande impresa storiografica delle Notizie; men-tre sul piano pratico sarà il prestigioso fondamento della fu-tura collezione del Gabinetto dei disegni degli Uffizi.Accanto al collezionismo mediceo avrà, nel corso del Sei-cento e del Settecento, notevole rilievo quello delle grandifamiglie fiorentine che darà origine a importanti raccolte ar-tistiche cittadine (quelle dei Bardi di Vernio, dei Capponi,dei Gerini, dei Corsini, dei Ginori, dei Martelli, dei Ric-cardi ecc.) e alla committenza di imprese pittoriche fonda-mentali per l’evoluzione del gusto pittorico locale (L. Gior-dano lavorò per i Riccardi, S. Ricci per i Marucelli).Nelle altre città toscane la committenza e il collezionismodelle grandi famiglie, pur ben presente e attivo, ebbe im-portanza sostanzialmente locale, anche se di grandissimo in-teresse soprattutto nel caso delle famiglie che ebbero papi aRoma, come i Chigi e i Rospigliosi, rispettivamente a Sienae a Pistoia.

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L’avvicendamento dei Lorena al regime mediceo ormai lan-guente segnò il vero rinnovamento istituzionale nel quadrodelle arti figurative toscane. La riforma dell’Accademia, letrasformazioni museografiche apportate agli Uffizi (ben pre-sto museo pubblico in senso stretto) e alla Galleria Palatina(galleria privata di rappresentanza dei granduchi, ma acces-sibile a un pubblico selezionato), il grande lavoro di raccol-ta storiografica svolto dal Pelli Bencivenni e poi dal Lanzi(che frutterà la sua Storia pittorica), l’attività dei primi di-rettori della Galleria (Pelli, Lanzi, T. Puccini, G. Degli Ales-sandri) si accompagnarono nella capitale a un piú generaleimpulso dato alle istituzioni artistiche nella regione, con lanascita (o la rinascita) di una serie di Accademie cittadine(importantissima, per esempio, quella Etrusca di Cortonache subito originò il locale museo) che rinsaldarono e vivifi-carono un mai del tutto interrotto tessuto di culture locali.Fra gli esiti principali di questa rinnovata nobilissima cul-tura artistica municipale saranno i molti testi dedicati all’ar-te e alla storiografia artistica locale (Gigli e Della Valle perSiena, Cambiagi e Da Morrona per Pisa, Marchiò per Luc-ca, Giachi per Volterra, Zucchini per Cortona, Ansaldi perPescia ecc.). In parallelo prese maggiore forma e consisten-za un collezionismo privato storico nelle principali città del-la regione che spesso sarà all’origine dei futuri musei pub-blici locali (la collezione Mazzarosa a Lucca, quella dell’aba-te Ciaccheri a Siena, quella del canonico Zucchetti e di C.Lasinio a Pisa, quelle di T. e N. Puccini a Pistoia ecc.). In untessuto di cultura locale così vivace è perfettamente spiega-bile la notevole proliferazione fino a tutta la metà dell’Ot-tocento di giornali e di riviste artistiche locali di notevoleinteresse. Fondamentale, naturalmente, fu a Firenze l’espe-rienza svolta dall’«Antologia» di Viesseux sia per il profon-do rinnovamento ideale e culturale che improntava i suoi ar-ticoli sia per la capacità della rivista di diventare il punto diriferimento fondamentale di un gruppo di intellettuali pro-gressisti di primissimo ordine (Giordani, Tommaseo, Ben-ci, Montani, Cicognara ecc.). Sul piano istituzionale la no-vità piú rilevante nel sec. xix è certamente rappresentatadall’incremento delle strutture museali. In T, a parte le col-lezioni storiche degli Uffizi e della Palatina, i musei appaio-no riconducibili a tre categorie fondamentali: quelli annes-si alle Accademie, alimentati anche dalle soppressioni con-

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ventuali leopoldine e poi napoleoniche e post unitarie (Ac-cademie di Firenze, di Carrara, di Siena ecc.); quelli diret-tamente originati dalle soppressioni conventuali a cui piútardi si aggiunsero altri nuclei collezionistici, spesso di pro-venienza privata (Museo di San Matteo a Pisa, pn a Lucca,Museo medievale e moderno di Arezzo, la crescente quan-tità di musei civici a San Giovanni Valdarno, Prato, Vol-terra, Pescia, Pistoia, Montalcino, Montepulciano, San Gi-mignano ecc.); e infine quelli, piú recenti e già appartenen-ti al nostro secolo, di specifica origine ecclesiastica (i MuseiCapitolari o quelli dell’Opera del Duomo fino a quelli stret-tamente conventuali o addirittura parrocchiali) che oggi for-mano una fitta rete museale che copre il territorio regiona-le in una diffusione capillare, anche a dimostrazione dellagrande vitalità nei secoli delle tradizioni artistiche locali. Ungenere particolare di musei, concentrato soprattutto a Fi-renze, è rappresentato da quelle istituzioni che trovano ori-gine in importanti collezioni artistiche prevalentemente for-matesi a cavallo degli ultimi due secoli, fra cui si dovrannoricordare almeno i musei Horne, Bardini-Corsi e Stibbert.Agli inizi del nostro secolo Firenze visse un momento di par-ticolare vivacità intellettuale che la rese luogo privilegiatod’incontro di esperienze culturali diverse che avrannoprofonda influenza sulla contemporanea arte figurativa re-gionale e che, sinteticamente, trovò espressione nella fon-dazione di riviste («Il Marzocco», il «Leonardo», la «Vo-ce», «Lacerba» fino a «Solaria» e a «Il Selvaggio»); con ri-flessi importanti anche nel dibattito delle idee checontemporaneamente si svolgeva in altre città della regionedi cui è testimonianza la notevole diffusione di giornali e ri-viste locali. (esp).Secoli XII XIV La T, priva di una cultura figurativa di tra-dizione paleocristiana o di primo Medioevo, fuori dalle rot-te bizantine che aprivano alla pratica del mosaico, esordiscein pittura, per quello che possiamo giudicare dalle scarsissi-me vestigia pervenute, nel sec. xii, cui appartiene un grup-po di opere su tavola di destinazione devozionale. Queste,non accomunate ancora in un maturo linguaggio «roman-zo», sebbene denotino anche la conoscenza dell’arte occi-dentale e transalpina, mostrano in rigide sigle grafiche la pra-tica della cultura bizantina che finisce per divenire, nella plu-

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ralità delle sue espressioni, una koiné linguistica mediterra-nea. I caratteri formali ovvero la vasariana «maniera greca»,ignorata dal Ghiberti non consentono di porle in parallelocon la contemporanea scultura, giunta a un maggior gradodi maturità stilistica ed elaborazione tematica e soprattuttogià indirizzata verso una propria autonoma fisionomia.Le prime testimonianze, favorite dalla presenza di scripto-ria, si hanno in ambito lucchese con la Croce del Duomo diSarzana, firmata da un Guglielmo nel 1138, prototipo di unaserie di Croci – largamente replicato per la sua destinazionesopra le iconostasi – in cui il Cristo, conformemente alla tra-dizione occidentale e transalpina, è rappresentato triumphans,e le scene della sua vita contenute nel tabellone ottempera-no a un intento didascalico con cui la Chiesa giustificava leimmagini sacre. Esempi analoghi e paralleli si hanno tra glialtri, sempre a Lucca con le Croci di San Michele e dei Ser-vi, a Siena con la Croce di Santa Chiara, ora in Pinacoteca,e a Pisa con quella di San Paolo all’Orto, a Firenze con laCroce del monastero benedettino di Rosano e con la Croce432 degli Uffizi e con la Croce che si trova dal sec. xvi nelconvento di Santa Caterina a Siena.A Pisa le influenze bizantine in accezione aulica, dopo la rea-lizzazione della Bibbia di Calci (Museo di San Matteo) fir-mata da Magister Viviano e Alberto da Volterra nel 1168,ma ritenuta per le miniature di esecuzione già duecentesca,si affermano nel sec. xiii, anche al seguito di artisti giunti inItalia presumibilmente in connessione con la conquista cro-ciata di Costantinopoli (1204), negli episodi scultorei di SanMichele degli Scalzi e del Battistero pisano, per consolidar-si nella raffinata Croce n. 20 del Museo di San Matteo e nel-le opere di Giunta Pisano.Giunta Capitini, la prima autentica personalità, perviene aun alto livello di originalità potenziando il senso plastico eaccentuando espressioni e sentimenti in chiave umanamen-te patetica (adozione dell’iconografia bizantina del Cristopatiens), che troverà particolare consenso presso gli ordinimendicanti, come attestano le Croci di Santa Maria degliAngeli ad Assisi e di San Domenico a Bologna, e non man-cherà di esercitare un’influenza significativa anche fuori del-la T. Nella stessa Pisa, tuttavia, sono presenti altre propo-ste, piú narrative e coloristiche, riassunte nell’opera di En-rico di Tedice (Crocifisso di San Martino).

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A Lucca, invece, la prolifica famiglia dei Berlinghieri perse-gue un linguaggio secco formalmente, ma di tendenza occi-dentale nella vivace resa illustrativa, secondo un formularioche avrà grande fortuna in T, come attestano non tanto leCroci firmate Berlinghiero (arcaica quella di Lucca, troppotarda quella di Fucecchio, per ragioni di stile non della stes-sa persona), quanto il dossale con San Francesco e fatti del-la sua vita in San Francesco a Pescia, uno degli archetipi fi-gurativi maggiormente replicati, datato 1235 e firmato daBonaventura Berlinghieri e, in parte anche il corpus delleopere attribuite a Marco Berlinghieri (Bibbia per il Duomodi Lucca, 1250).Fatta eccezione per Arezzo, che soltanto dalla metà del se-colo con Margarito e Ristoro acquisterà una propria fisio-nomia, in parte debitrice alla cultura fiorentina, con questidue capisaldi della cultura pisana e lucchese si confrontanotutte le personalità attive in altri centri della T. A Firenzenella prima metà del Duecento pittori piacevoli ma di sta-tura piú modesta quali il Maestro del Bigallo prediligono unfare piú narrativo e una tavolozza di colori brillanti e chia-ri (Dossale di san Zanobi: Museo dell’Opera del Duomo),mentre il Maestro della Croce 434 degli Uffizi e il Maestrodel San Francesco Bardi (talvolta identificati in una solapersonalità) registrano su un sottofondo giuntesco i primiinflussi della cultura lucchese. Proprio dalla tavola eponi-ma di quest’ultimo, in Santa Croce, sembra prender le mos-se, calcando la resa formale in senso plastico, una delle fi-gure di maggior spicco nel panorama toscano anteriormen-te a Cimabue, Coppo di Marcovaldo. Contemporaneo eparallelo di un’altra notevole personalità, Meliore, che sidistingue per uno stile piú grafico e sensibile a un cromati-smo acceso (Dossale degli Uffizi, 1271), Coppo, la cui atti-vità giovanile sarà da integrare con il corpus del Maestro diVico l’Abate, è attivo in vari centri toscani (e non toscani:Orvieto), in cui lascerà esempi determinanti. Così a Siena,dove firma la Madonna del Bardone nel 1261, che può con-siderarsi in parallelo con la pittura rinnovata (rispetto alleicone devozionali sul tipo del Maestro di Tressa) e piú so-fisticata del senese Guido (Crocifissione di New Haven; Ma-donna del Palazzo Pubblico di Siena, da porsi nell’ottavo de-cennio nonostante la data 1221), e del supposto Dietisalvi

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di Speme (Madonna Galli-Dunn: Siena, pn). Così a Pistoia,dove Coppo collabora nel 1274 con il figlio Salerno alla Cro-ce del Duomo, che, già impregnata di echi cimabueschi, puòrappresentare un punto di riferimento per la difficile cro-nologia delle opere del caposcuola fiorentino.Cenni di Pepo, detto Cimabue, la personalità piú significa-tiva e determinante per la formazione di un linguaggio pit-torico in Italia prima di Giotto, non ha lasciato né della suafase iniziale né di quella matura opere datate. È tuttavia pos-sibile che la sua formazione, fortemente segnata da Giunta,sia avvenuta nell’ambito di Coppo, come testimonia il Croci-fisso di Arezzo eseguito plausibilmente nel settimo decennioe prossimo ai modi proto-coppeschi; da questi forse, anchestimolato da una personale riflessione sulla pittura tardo-an-tica (è documentato a Roma nel 1272), la sua grammaticaformale si allontana progressivamente per una maggiore ur-genza di plasticismo, per un adeguamento piú sentito sullavia del naturale (si veda il mutamento dal Crocifisso aretinoa quello fiorentino di Santa Croce), per un comporre piúgrandioso (affreschi assisiati, Madonna di Santa Trinita a Fi-renze), memore di un classicismo meditato sulla cultura bi-zantina e piú latamente sull’opera scultorea di Nicola Pisa-no (Madonna del Louvre, proveniente da Pisa).I suoi riflessi in T e in Umbria sono stati avvertiti ovunque,anche se non al massimo grado o immediatamente, e talvol-ta contrappuntati da personalità meno note ma a lui paral-lele. Manfredino d’Alberto, pistoiese, ne sarà senz’altro in-fluenzato a partire dagli anni Ottanta (affreschi nell’absidedi San Bartolomeo in Pantano a Pistoia), visto che l’Ascen-sione di Santa Maria a Ripalta, datata 1274, mostra un lin-guaggio sostenuto e un comporre grandioso di vaglio cop-pesco, piú in parallelo che in dipendenza da Cimabue; cosìcome il Maestro pisano della Madonna di San Martino (Mu-seo di San Matteo), proveniente dalla chiesa omonima, incui il colore avvolgente e luminoso e la libertà figurativa sem-brano già annunciare una sensibilità gotica. Cimabuesco distretta osservanza, ma con un piglio piú narrativo, appareinvece il fiorentino Corso di Buono che firma nel 1284 gliaffreschi di Montelupo fiorentino, quindi i senesi Rinaldoda Siena (Crocifisso: San Gimignano) e Guido da Graziano(dossale con San Pietro in Cattedra: Siena, pn) e ancor piú Vi-goroso che, nella circolazione di idee e di committenze tra

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le città toscane e umbre, elabora nel dossale di Santa Giu-liana a Perugia (Pinacoteca) un’originale interpretazione delmaestro in accezione assisiate, mentre il prolifico Maestrodella Maddalena diviene cimabuesco alla fine di un ecletti-co percorso (tavola con San Luca: Firenze, Uffizi).Nodo centrale nella storia della pittura toscana del Duecen-to è il rapporto Cimabue-Duccio: sicuramente risolto allostadio iniziale in una dipendenza del secondo dal primo (chese non sembra provata nel cantiere assisiate è però confer-mata dalla Madonna dei Laudesi per Santa Maria Novella aFirenze, ora agli Uffizi), successivamente si articola in unostretto rapporto di dare e avere che genera tuttora irrisoltidubbi attributivi come nella Madonna di Castel-fiorentino.A Siena mentre la Madonna dei Francescani di Duccio (pn),smagliante nei colori, elegante nel linearismo, quasi monu-mentale a dispetto delle contenute dimensioni, è sintesi delleistanze gotiche oltramontane, pervenute attraverso gli smaltie l’oreficeria, il dossale di San Pietro (pn) rivela l’innesto delcimabuismo operato da Guido di Graziano (?) sulla tradizio-ne autoctona piú rappresentativa di Guido da Siena.Sintesi della pittura fiorentina del Duecento può conside-rarsi la grande impresa musiva della cupola del Battisterofiorentino, in cui si colgono ideazioni impaginative e co-strutti plastici riferibili ai maggiori artisti da Coppo (Giu-dizio Universale), a Cimabue, a Giotto, senza che però sipossano trarre conclusioni sicure a causa dei pesanti re-stauri. Sullo scorcio del secolo si affiancano a Cimabue, cheha costituito l’elemento catalizzante per umbri, senesi, fio-rentini e pisani, alcuni maestri ancora anonimi, colti di ri-ferimenti classicheggianti, che costituiscono una premessae poi un parallelo per Giotto giovane: il Maestro di SanGaggio (Madonna col Bambino: Firenze, Accademia); ilMaestro di Varlungo, nelle cui opere è adombrata la pre-senza del giovane Giotto (Madonna col Bambino: New York,mma) e il complesso e monumentale autore dell’Incorona-zione del Duomo fiorentino, il supposto Gaddo Gaddi. Lamaggiore conoscenza di queste personalità, che proprio pergli elementi classici presenti nella loro opera erano state an-che etichettate come Romanizing-Florentines, ha portato eporterà a meglio comprendere tutte quelle istanze culturalipresenti nella pittura fiorentina e da cui lo stesso Giotto

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trarrà materia e insegnamenti per operare, con la sua rivo-luzionaria concezione del naturale nella resa delle figure econ la sua nuova visione delle vicende umane nella rappre-sentazione dei fatti, una svolta determinante nella pitturatra Due e Trecento. Teatro di questa svolta è stata la nava-ta della chiesa superiore del San Francesco asissiate, in cuile maestranze fiorentine operano in un confronto stimolan-te e proficuo con i maestri romani. Quanto le due scuole, ro-mana e toscana, siano state mutuamente indebitate è anco-ra argomento di dibattito critico. Tuttavia la tavola con laVergine dell’Oratorio di Sant’Omobono a Borgo San Loren-zo, che tanto si lega al gruppo di opere del Maestro d’Isac-co, ovvero Giotto in una fase già influenzata dalla pitturaromana, testimonia colla provenienza decentrata e tutta to-scana la maturazione a cui era giunta la pittura giottesca, chenella chiesa superiore d’Assisi prima si affianca e poi sosti-tuisce quella romana sullo scorcio del Duecento.Il Trecento Tutta la Toscana nel sec. xiv vive uno dei pe-riodi artistici piú vitali e grandi della storia della pittura. Fi-renze, Siena e Pisa, i centri preminenti che esporteranno inItalia e fuori (Avignone, Boemia e Catalogna) i risultati e letendenze di questa crescita artistica prepotente, sviluppanouno stile indubbiamente peculiare che ha consentito sche-matiche classificazioni in scuola fiorentina, senese e pisana,cui si affiancano, anche se di portata minore, la pistoiese, lalucchese e l’aretina. Questi centri sono tuttavia in stretta re-lazione tra loro, grazie anche a un agile intrecciarsi di com-mittenze, che consente la circolazione delle idee artistiche.Nel campo della committenza il ruolo precipuo viene svoltodalla chiesa o per il tramite di essa. Gli ordini regolari, con-ventuali in specie, messa a punto in molti centri la costru-zione delle loro chiese, ne sollecitano la decorazione, spes-so assegnando a famiglie in ascesa nella fiorente economiadeterminatasi in T nel primo Trecento, l’ornamento dellecappelle con grandi cicli di affreschi che si rivelano innova-tivi anche sul piano iconografico e sono eseguiti con una tec-nica che nella T del Trecento raggiunge vertici di assolutaperfezione, codificata nel trattato di Cennino Cennini. Lapittura su tavola si esplica invece in una vastissima gammadi opere che vanno dai dossali e polittici di grandi dimen-sioni, talvolta sagomati a imitazione delle facciate goticheed esemplati sul prototipo costituito dalla pala di Duccio per

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l’altar maggiore del Duomo di Siena, alle piccole tavole, dit-tici, trittici, portatili, richiesti per devozione privata.Anche i Comuni non svolgono un ruolo secondario, affi-dando, come quelli di Firenze e di Siena, alla rappresenta-zione in affresco un monito morale o l’esaltazione di virtúciviche (si vedano i cicli del Palazzo Pubblico di Siena).Quanto poi il pittore pervenga a una considerazione mag-giore di quella riservata agli artigiani in genere, lo testimo-niano i riconoscimenti tributati a Giotto dai letterati con-temporanei e dai novellisti trecenteschi (Dante, Divina Com-media; Boccaccio, Decameron; Villani, Cronica; Sacchetti, IlTrecentonovelle). Agli inizi del secolo Firenze presenta unpanorama artistico molto variegato, in cui personalità di ri-lievo si affiancano in maniera autonoma alla bottega e allascuola di Giotto, il quale resta tuttavia la figura carismaticaincontrastata, offrendo con le sue opere una molteplicità dispunti, plastici, cromatici e spaziali, che saranno anche par-titamente approfonditi dai discepoli. Agli inizi del secolo,meditando su Arnolfo il senso della costruzione plastica del-la figura aggiornata in chiave gotica sul registro dell’acutez-za espressiva di Giovanni Pisano, Giotto dipinge il politti-co per la Badia fiorentina e soprattutto la vigorosa e umanaMadonna di Ognissanti (Firenze, Uffizi), pietra rniliare nel-la ricerca di un realismo rappresentativo e di valenze classi-che. Saranno questi i testi figurativi da cui partiranno Tad-deo Gaddi (Madonna di Castelfiorentino, 1320 ca.) e Ber-nardo Daddi (polittico diviso tra Parma, Pinacoteca, giàParigi e coll. priv.), sviluppando il primo l’interesse spazia-le-illusionistico (precoci esempi di nature morte) e figurati-vo (effetti luministici) negli affreschi Baroncelli in SantaCroce), perseguendo il secondo un plasticismo pittorico, cuinon sembra estraneo Andrea Pisano e che raggiunge il suoacme attorno al 1340 nel polittico già in San Pancrazio (Fi-renze, Uffizi). Il momento classico-cromatico che Giottosperimenta a partire da Padova (Cappella Scrovegni) si in-tensifica nel secondo periodo assisiate (cappella della Mad-dalena, 1309-10) ed è portato alle estreme conseguenze, infatto di pungente goticismo, nel polittico Stefaneschi (Ro-ma, pv), che trova nell’attività fiorentina del Parente diGiotto, per alcuni studiosi lo Stefano Fiorentino «scimia del-la natura» descritto dal Villani e interprete di quello che Va-

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sari definì il «dipingere dolcissimo e tanto unito», un origi-nale e fedele approfondimento (polittico di santa Reparata),per altro esperito in Assisi da Puccio Capanna e, sempre aFirenze, da quella personalità che, prossima anche a Jacopodel Casentino, chiameremo per comodità Pseudo-Capanna(pannelli nella pv, in coll. Berenson e in altre collezioni pri-vate).Dalla sterzata gotica del terzo decennio, che è ricerca di unospazio pittorico piú articolato e di rigore cromatico-tonale,proposta da Giotto nella cappella Bardi in Santa Croce (lacomplessità formale della precedente cappella Peruzzi tra-valicherà il Trecento, intesa da Masaccio, studiata da Mi-chelangelo), prende le mosse la personalità di piú alta statu-ra conosciuta nell’ambito giottesco, Maso di Banco, che sul-lo scorcio del quarto decennio dipinge le Storie di san Silvestroe di Costantino nella cappella Bardi di Vernio (Santa Croce),sperimentando le indicazioni del Maestro nel senso di unospazio meditato, contrappuntato da figure di pure volume-trie cromatiche. La supposta priorità di Maso in fatto di so-luzioni stilistiche e figurative rispetto al Gaddi e al Daddinon è confermata dai dati cronologici e tuttavia le forti tan-genze tra le opere di questi pittori testimoniano una loro fre-quentazione stretta e un dibattito serrato all’interno e aimargini della bottega giottesca nel corso del quarto decen-nio (si confronti Bernardo Daddi, Trittico del Museo del Bi-gallo, Firenze 1333, ma la data appare ridipinta; TaddeoGaddi, Trittico di Berlino 1334; Maso (attribuito a), Tritti-co Babbot: New York, Brooklyn Museum).Parallelamente a questi fatti, sul ceppo della pittura fioren-tina tardodugentesca crescono artisti di grande statura, aper-ti a influenze esterne, quali Lippo di Benivieni (polittico de-gli Alessandri autore anche di un gruppo di opere tra cui ilCristo deriso del Museo di Strasburgo a lungo ritenuto ope-ra umbra), e il Maestro di Figline che, presente nei cantierigiotteschi di Assisi e di Firenze (Crocifisso di Santa Croce),per la peculiarità della sua pittura, decisa nel contorno, digrande sottigliezza nel modellato, si può considerare un set-tatore a latere di Giotto, forse umbro (dubbia l’identifica-zione con il maestro di vetrate Giovanni di Bonino). In con-tatto con esiti senesi-avignonesi ma sostanzialmente di cul-tura fiorentina, come testimonia anche il suo esordio nelloscriptorium di Badia a Settimo, sarà da considerare invece il

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Maestro del Codice di san Giorgio, raffinato miniatore e pit-tore prezioso e sostenuto, a lungo rimasto apolide. Del re-sto l’estraneità alla corrente giottesca piú ortodossa ha untempo impedito di riconoscere in un plausibile corpus di ope-re, sostanziate di nuovo impegno tematico-illustrativo e ri-cerca di espressività, la personalità del fiorentino Buffal-macco, pittore esaltato e variamente citato dalle fonti cheesegue nel 1315 gli affreschi della cappella Spini a Badia aSettimo e, probabile refusé in patria, affresca poi nel Cam-posanto pisano la Tebaide e il Giudizio Universale. Mentre ilpiú anziano Maestro della Santa Cecilia, Jacopo del Casen-tino, Pacino di Bonaguida, pur costeggiando lo stile giotte-sco e da esso desumendo idee e spunti stilistici, si distacca-no per una maniera talvolta piú narrativa e accostante, pre-diligendo una visione pittorica che, dall’Offner classificatacome miniaturistica (si vedano rispettivamente Dossale del-la Santa Cecilia: Uffizi; Pala di san Miniato: San Miniato alMonte; Albero della Croce: Accademia), si palesa maggior-mente arcaizzante.Pur con questa messe d’artisti Firenze non è impermeabile acaptare novità esterne già nella prima metà del secolo, apren-do ai senesi (Simone Martini, Ugolino di Nerio, Pietro e spe-cialmente Ambrogio Lorenzetti) e in seguito anche a culturepiú estranee quali la bolognese (si veda «Dalmasio» nella cap-pella Bardi in Santa Maria Novella, da situarsi plausibilmen-te, dopo il soggiorno pistoiese, che cade nel quinto decennio).Alla metà del Trecento una concomitanza di circostanze (pe-ste, crollo finanziario delle maggiori famiglie di banchieri)determina o per lo meno può aiutare a comprendere il mu-tamento d’indirizzo verificatosi nella pittura: caduti gli in-teressi per la resa spaziale, si potenziano da un lato i risul-tati decorativi del colore (Puccio di Simone), dall’altro unaieraticità e solennità di rappresentazione iconica da cui esu-la ogni ricerca del naturale.Andrea Orcagna (polittico Strozzi, 1357) genialmente tra-duce in efficaci visioni pittoriche complessi temi dottrinalie crea un’Accademia di largo seguito (Iacopo di Cione, Gio-vanni del Biondo) che talvolta impoverisce l’ispirazione instilemi ripetitivi, frutto però di un eccellente artigianato.Chi si sottrae a questo potenziale inaridimento sono figureancora debitrici a Maso, quali lo stesso fratello di Andrea,

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Nardo di Cione (affreschi nella cappella Strozzi in Santa Ma-ria Novella) e il vigoroso Maestro di San Lucchese, o alla ri-cerca di una espressione personale, non orcagnesca (Maestrodella Misericordia) e piú grafica (Andrea da Firenze, cap-pellone degli Spagnuoli in Santa Maria Novella; GiovanniBonsi, polittico vaticano datato 1371). Ma è soprattuttoGiottino a dimostrare che la grande vitalità della pittura fio-rentina, in linea con la tradizione coloristica di Giotto chepassa per Stefano, non è venuta meno, come confermano lepurtroppo scarse opere situabili nel settimo-ottavo decennio(Compianto di san Remigio: ora agli Uffizi; Madonna: già invia del Leone) in cui lo scrutinio visivo fiorentino si affian-ca all’accostante curiosità nordica del naturale proposta daGiovanni da Milano (affreschi nella cappella Rinuccini, San-ta Croce, settimo decennio), portatore di nuove idee insie-me ad altre figure straniere, quali Antonio Veneziano. I rap-porti intessuti da questi con la Spagna (cappella di San Blasnella Cattedrale di Toledo alla fine del secolo) e ampliati dacolui che Vasari disse suo discepolo, cioè Gherardo Starni-na, saranno una tappa basilare nella crescita della cultura tar-dogotica a Firenze che culminerà nell’opera di Lorenzo Mo-naco. In questo iter un ruolo di domestico e precoce primopiano spetta inoltre ad Agnolo Gaddi con una grande pro-duzione su tavola e ancor di piú con i cicli di affreschi inSanta Croce e a Prato, Cattedrale, mentre di un revival giot-tesco e prototrecentesco si fanno portavoce Niccolò di Pie-tro Gerini (cappella Migliorati in San Francesco, Prato) e ilpiú goticamente pungente Spinello Aretino (Storie di santaCaterina nell’omonimo Oratorio dell’Antella).A Siena, crocevia e crogiolo di novità gotiche federiciane eoltramontane (Nicola Pisano è presente nel Duomo forse giànegli anni Cinquanta), dopo la realizzazione da parte di Duc-cio della pala per l’altar maggiore del Duomo (1308-11), incui la pittura bizantina, piegata ad eleganze gotiche vieneanche toccata dalla nuova concezione plastica di Giotto,s’impone la rivoluzionaria personalità di Simone Martini.La Maestà del Palazzo Pubblico (1315 con ulteriore inter-vento nel 1321), pur nell’alveo di una stretta tradizione duc-cesca, per la maggior distensione e il maggior equilibrio dirapporti figura-spazio, per l’elegante e sofisticata ricerca diperfezione umana delle figure, ottenuta con pari elezioneformale e illustrativa, mostra a confronto con la Maestà di

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Duccio, solo di qualche anno antecedente, la modernitàespressiva del suo autore, giunta all’acme nei poco posterioriaffreschi della cappella di San Martino in San Francesco adAssisi. La grandezza dell’opera di Simone, altra per risulta-ti intellettuali e formali da quella di Giotto, va ricercata inuna poetica colta e aristocratica particolarmente consona alclima delle corti nelle quali, in quella angioina prima, in quel-la avignonese poi, egli trovò una dimensione cosmopolita(propizia tra l’altro alla genesi del ritratto come genere au-tonomo in pittura) e acquistò una dignità pari a quella di unletterato quale Francesco Petrarca, a lui amico.La fortuna dello stile di Simone, fondamento del gusto tar-dogotico, fu incrementata anche dall’intensa attività dellabottega e della cerchia che si informarono strettamente aisuoi intenti stilistici. Tra le personalità: il supposto «Dona-to Martini» e Naddo Ceccarelli, ma soprattutto Lippo Mem-mi che firmerà con Simone nel 1333 l’Annunciazione ora agliUffizi ed esegue nel 1317 la Maestà di San Gimignano (cen-tro dove anche il padre, Memmo di Filippuccio aveva ope-rato con rari temi profani a fresco, dove il Barna (FedericoMemmi?) lascia l’imponente ciclo testamentario della colle-giata) e plausibilmente continua l’atelier senese del Maestroquando questi nel 1336 parte per Avignone.Anche se dopo la morte di Duccio il suo stile e i suoi stile-mi vengono perpetuati da una nutrita serie di seguaci, tracui si ricordano Segna di Bonaventura e Ugolino di Nerio(cui viene affidata nel 1325 l’esecuzione del polittico per l’al-tar maggiore di Santa Croce a Firenze), Pietro e AmbrogioLorenzetti si staccano presto dal ceppo duccesco: il primoinaugura con le Storie assisiati della Passione uno stile che èl’equivalente pittorico, intenso e contenuto, della dramma-ticità di Giovanni Pisano (si veda tra le opere giovanili il po-littico della pieve d’Arezzo verso il 1320), cui si accompa-gna una sempre piú meditata resa dello spazio (polittico deiCarmelitani del 1329: Siena, pn) e un attento scrutinio vi-sivo e suggestione d’ambiente e d’atmosfera (Natività: Sie-na, Opera del Duomo), che sarà ricco di sviluppi per la pit-tura nordica, boema e fiamminga in specie; mentre il se-condo sperimenta una sintesi tra cromatismo senese ecostruzione plastica fiorentina, grazie ai ripetuti soggiorninel capoluogo toscano che non mancheranno di avere riper-

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cussioni nella stessa Firenze, per culminare a Siena negli af-freschi del Buon Governo, incunabulo di moderne rappre-sentazioni urbane e paesaggistiche, e chiudere l’attività incollaborazione con il fratello, dando tra l’altro nell’Annun-ciazione del Palazzo Pubblico un exemplum di prospettivaintuitiva. È da far risalire ai Lorenzetti la produzione di ope-re di piccolo formato, preziose e sofisticate, sintomo anchedi una tendenza miniatoria che verrà praticata soprattuttoda personalità di sincretistica cultura lorenzettiano-marti-niana quali Niccolò di Ser Sozzo, Lippo Vanni, Luca diTommè e soprattutto dal Maestro d’Ovile, autore della ru-tilante Assunzione della Pinacoteca di Siena, del quale è sta-ta accertata l’identificazione con Bartolomeo Bulgarini.Il prosieguo del secolo vedrà invece il perpetuarsi di stilemimartiniani in un perseguimento di gotiche raffinatezze, ot-tenute con alto livello formale, ma prive di nuove propostee soluzioni, e impermeabili a sollecitazioni esterne: ne è an-tesignano Jacopo di Mino del Pellicciaio, seguito da AndreaVanni, Paolo di Giovanni Fei, Francesco di Vannuccio, in-dubbiamente il piú dotato, per valicare il Quattrocento conAndrea di Bartolo, Taddeo di Bartolo e Martino di Barto-lomeo.Pisa, dove muore Cimabue agli inizi del secolo, continuasull’eredità tardodugentesca con opere di qualità dovute alMaestro di San Torpè che apre alla cultura senese prima diMemmo di Filippuccio poi di Simone (Madonna di SanTorpè) con altre di buona tecnica prodotte da Deodato Or-landi (suoi gli affreschi di San Pietro a Grado del 1300 ca.).Eccezione altissima è Francesco Traini che coniuga nel dos-sale di San Domenico (Pisa, Museo di San Matteo) la tra-dizione del Maestro di San Torpè con le novità martinianepresenti a Pisa (polittico di Santa Caterina di Simone, oraal Museo di San Matteo; Gloria di san Tommaso di LippoMemmi in collaborazione ipotizzata con lo stesso Traini) edi riflesso anche avignonese, giungendo ad alti risultatiespressivi particolarmente graditi a Pisa, se qui si convo-gliano per la decorazione del Camposanto le figure piú rap-presentative dell’eccentricità pittorica toscana: Buffalmac-co da un lato, il Maestro della distrutta Assunta del Campo-santo dall’altro, ritenuta quest’ultima di maestro lombardoe di recente riattribuita a Stefano, come da fonti. Persona-lità quali Taddeo Gaddi, Andrea da Firenze, Antonio Ve-

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neziano improntano, con la loro presenza di frescanti nelCamposanto, una cultura che trova in seguito i suoi aspet-ti piú peculiari e dimessi nelle figure quali Turino Vanni oCecco di Pietro e allo scadere del secolo ricorre all’ausiliodi Piero di Puccio, rappresentante della immaginifica cul-tura orvietana.In un panorama così variegato anche i centri definiti mino-ri si distinguono per proposte aggiornate e personalità di al-to livello: ad Arezzo, agli inizi del secolo, Gregorio e Dona-to sono portatori di una cultura di fondamento assisiate au-tonoma e parallela ai fatti fiorentini (Maestro della SantaCecilia), mentre nella metà del secolo Andrea di Nerio as-sieme al Maestro del Vescovato costituisce con la sua sinte-si di elementi lorenzettiani e maseschi l’avant-propos per Spi-nello, portatore in tutta la T di un gotico ortodosso ma an-che fantasioso. A Lucca si affermano le singolari figure diGiuliano di Simone e di Angelo Puccinelli, mentre Pistoia,che all’inizio del secolo apre a un influsso fiorentino-senese(si vedano i problematici affreschi della cappella di San Ni-cola nel Palazzo dei Vescovi), per poi affermarsi nell’autoc-tono e umorale Maestro del 1310 (Madonna: Avignone, Pe-tit Palais), cresciuta durante il Trecento su influenze mase-sche (affreschi con le Virtú di Bonaccorso di Cino in Duomo,1347 ca.), sviluppa con Niccolò di Tommaso (Storie veteroe neotestamentarie nella chiesa del Tau), grazie anche all’ap-porto di personalità straniere quali gli emiliani «Dalmasio»e Paolo Serafini, una fertile stagione artistica, di cui sonoprotagonisti il supposto Antonio Vite e Giovanni di Barto-lomeo Cristiani, stagione che culminerà nel tardo-gotico fan-tasioso del Maestro della Cappella Bracciolini in San Fran-cesco. (enl).Secoli XV e XVI Un profilo rapido della pittura in T nei se-coli xv e xvi deve necessariamente postulare il primato diFirenze, che, fatta salva almeno in parte Siena, estese il suoraggio d’influenza un po’ su tutti i centri della regione. Ladiffusione di orientamenti artistici, sorti e cresciuti a Fi-renze, si connette ovviamente anche all’irradiazione del po-tere politico, che comportò spostamenti di capitali e trasferted’uomini, artisti compresi. E difatti Siena – come si diceva– essendo la città che piú seppe resistere all’espansione fio-rentina, proseguì per lungo tratto su una strada autonoma,

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coltivando nel Quattrocento, pure con una certa tendenzaalla conservazione, le premesse originali poste dai suoi gran-di maestri del Due-Trecento, senza peraltro disegnare le in-novazioni che maturavano a Firenze, e anzi assumendole ta-lora, ma con uno spirito critico di revisione e adattamento.Gli esordi del sec. xv sono connotati in T dal prolungamentodella cultura figurativa gotica, che al suo naturale illangui-dirsi si accende d’improvvisi fulgori. Proprio quando il nuo-vo umanesimo, con la rivoluzione brunelleschiana, principiaa dare i suoi frutti (subito cospicui), in parallelo nascono icapolavori d’un’espressione pervenuta appunto alla faseestrema: vi permangono i fondi d’oro, persiste e s’accentuail linearismo nelle falcate dei panneggi ridondanti, si disde-gnano i rapporti dimensionali, e l’aspirazione astrattiva im-pronta viepiú le composizioni. Mentre Masaccio mette spa-valdamente in pratica le teorie spaziali elaborate dal Bru-nelleschi, Gentile da Fabriano, campione del cosiddettogotico internazionale, dipinge per la cappella Strozzi in San-ta Trinita di Firenze l’Adorazione dei Magi (1423: Firenze,Uffizi). E ad allogargliela è Palla Strozzi, ricco cultore dellelettere classiche, e umanista dunque; a testimonianza diquanto sottile dovesse essere allora – contrariamente a quelche oggi appare – il discrimine fra le due espressioni, quellanuova e quella piú legata alla tradizione. Ma, a ben vedere,la loro stessa convivenza agli inizi del secolo altro forse nonè che una delle tante manifestazioni di quella varietas, di ma-trice ciceroniana, ch’è concetto fondamentale dell’umanesi-mo fiorentino, e non solo fiorentino. Varietas che vuol direcompresenza, financo in un medesimo contesto, di elemen-ti culturali eterogenei – esemplare in tal senso è la poeticadell’Angelico. Antico, moderno e tradizione, s’incontrano esi combinano. Se nel 1414 Lorenzo Monaco dipinge per lachiesa del convento fiorentino degli Angeli la grande Inco-ronazione della Vergine (Firenze, Uffizi), dove una corte disanti s’affastella sul fondo dorato ignara d’ogni rapporto pro-porzionale e di profondità, alla fine di quello stesso decen-nio il Brunelleschi con le tavolette prospettiche delinea lasua teoria innovativa dello spazio, da cui partirà fra gli altriPaolo Uccello per le sue personalissime indagini. E negli an-ni Venti poi si verifica l’incontro straordinario di Masolinoe Masaccio, raffinato esponente – seppure sui generis – del-la poetica tardogotica il primo, convinto sostenitore delle

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idee del Brunelleschi l’altro: a due mani dipingono la cele-bre Sant’Anna Metterza (1424-25: Firenze, Uffizi) e soprat-tutto insieme salgono sui ponti della Cappella Brancacci alCarmine per affrescare le Storie di san Pietro (cominciate al-la fine del ’24), entrambi fedeli alla propria linea, magari conqualche disponibilità ricettiva in piú da parte di Masolino.Ma non è da far risaltare troppo il divario delle due menta-lità, ché altrimenti sarebbe difficile spiegarsi il motivo percui Masolino avrebbe scelto un collaboratore tanto incomo-do, o addirittura per lui ostico da comprendere, come in al-tri tempi s’è voluto un po’ rigidamente presentare. Resta purtuttavia innegabile l’esistenza di un differente approccio al-le innovazioni che andavano maturando. Approccio che, sea Firenze fu graduale, ancor piú lento si dimostrò negli altricentri toscani, dove, secondo quanto s’è già detto, le novitàpervennero portate dagli artisti fiorentini. Difatti a Pisa,città in cui operavano anche pittori stranieri, iberici in spe-cial modo, latori di una cultura di corte, internazionale, Ma-saccio nel 1426 dipingeva l’oggi smembrato Polittico del Car-mine, proprio mentre Donatello e Michelozzo vi lavorava-no i marmi per la monumentale tomba, d’impianto giàumanistico, per il cardinal Brancaccio, da spedire per ma-re a Napoli nella chiesa di Sant’Angelo al Nilo. Lo stesso sipuò dire di Siena, dove la cultura gotica aveva allignato seguitando a dare risultati di altissimo livello in pittura, ma anche nell’oreficeria e nella scultura lignea, in tempi chesi spingono ben oltre gli inizi del Quattrocento. E anche quile trasferte dei fiorentini giovarono all’aggiornamentodell’espressione figurativa locale. Basti pensare agli inter-venti ghibertiani e donatelliani al fonte del Battistero nelterzo decennio. E poco piú tardi un suo ruolo l’avrà puregiocato il Vecchietta, che aveva lasciato giovane Siena pertornarci una decina d’anni dopo (1439), essendo venuto incontatto certamente con Masolino (affrescarono insieme aCastiglione Olona), ma forse anche col filone piú stretta-mente umanistico. Figure emblematiche dell’incontro delledue culture a Siena nella prima metà del secolo furono il raf-finato Sassetta (del quale, a titolo d’esempio, converrà cita-re la smembrata pala dell’Arte della Lana dipinta nel 1424e, fra i lavori eseguiti fuori Siena, il polittico del Museo dio-cesano di Cortona del 1435 ca. e quello per San Francesco

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a Borgo Sansepolcro finito nel 1444), il visionario Giovan-ni di Paolo (di cui a questo punto andranno ricordati i pre-ziosissimi scomparti di predella per un polittico dipinto in-torno al ’40, oggi conservati nella pn di Siena, e il piú tardoGiudizio Universale del medesimo museo), e Domenico diBartolo, che nella Madonna dell’Umiltà (1433), sempre del-la pinacoteca senese, si mostra assai vicino a contemporaneiesiti fiorentini, ma si rivela poi nei primi anni Quaranta vi-vace narratore nel ciclo del Pellegrinaio dello Spedale di San-ta Maria della Scala, al quale partecipò anche il Vecchiettacon una storia fantastica ambientata però in uno spazio dichiesa brunelleschiana seppur caricata decorativamente.Esemplare della linea piú legata alla tradizione locale è il fe-condo e longevo Sano di Pietro, la cui produzione – taloracommista dalla critica con quella del Maestro dell’Osser-vanza, che invece un’ipotesi recente propone d’identificarecon Francesco di Bartolomeo – si prolunga per tutto il Quat-trocento, ed è ampiamente rappresentata un po’ dovunquenell’area d’influenza senese: espressioni tipiche sono il Po-littico dei Gesuati del 1444, ancora nella pn di Siena, e ilPolittico di san Giorgio a Montemerano del 1458. Quanto alterritorio d’Arezzo, parimenti si registra all’inizio del Quat-trocento la presenza di opere importanti segnate da un’ele-gante sensibilità tardogotica: si tratta di lavori di SpinelloAretino – peraltro per ragioni anagrafiche piú legato a mo-duli trecenteschi, ma non certo ignaro nell’ultima attivitàdei piú recenti sviluppi della tendenza gotica – del marchi-giano Arcangelo di Cola da Camerino – già presente a Fi-renze negli anni cruciali fra il 1420 e il ’25 –, e poi ancoradell’eccitato Parri di Spinello, ma nel contempo non sarà dadimenticare che sui confini dell’area fiorentina verso Arez-zo in Valdarno nasce proprio Masaccio, che vi lascia la suaprima (anche se tuttora discussa) opera conosciuta: il Tritti-co di san Giovenale (1422). Né sarà stato privo di seguito ilsoggiorno dell’Angelico nel convento domenicano di Cor-tona (sul 1438), o l’arrivo di opere d’altri fiorentini di spic-co, quale Filippo Lippi (Incoronazione della Vergine, 1443-44per Arezzo: oggi della pv). Chi piú di tutti però dette un’im-pronta al nuovo secolo in queste terre fu Piero della Fran-cesca, che d’altronde a Firenze aveva assai presto speri-mentato le nuove teorie prospettico-geometrico-luminosecollaborando con Domenico Veneziano agli affreschi per-

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duti di Sant’Egidio (1439). Negli anni Quaranta Piero daràsubito prove altissime della sua elaborazione personale: nelBattesimo di Cristo (Londra, ng) e nel Polittico della Miseri-cordia, dipinti entrambi per Sansepolcro, e quest’ultimo tut-tora lì conservato nel mc; e poi nel ciclo fondamentale conla Leggenda della Croce (del decennio successivo) nell’absidedi San Francesco ad Arezzo. A Piero nella seconda metà delsecolo guarderà come a un maestro indiscusso, pur essendo-si da fiorentino formato nelle botteghe del Pollaiuolo e delVerrocchio, il monaco camaldolese, aretino d’adozione, Bar-tolomeo della Gatta; che in seguito arricchirà ulteriormen-te la sua cultura nel viaggio a Roma insieme al Perugino, colquale collaborerà nei lavori a fresco sulle pareti della Cap-pella Sistina (1481).Se a Firenze era stato Masaccio a battere per primo i per-corsi tracciati dal Brunelleschi, sono proprio le sue esempli-ficazioni a far scuola fin dal tempo della sua precocissimamorte (1428). Già dagli anni Trenta comincia il pellegri-naggio degli artisti alla Cappella Brancacci, diventata, qua-si al pari dell’antico, tappa irrinunciabile nella formazionedei giovani. Il Vasari nella biografia di Masaccio compila unlungo, e certamente incompleto, elenco dei pittori che so-starono per studio davanti agli affreschi del Carmine. La li-sta comincia con l’Angelico e annota un po’ tutti i protago-nisti dell’arte a Firenze, arrivando fino ai primi decenni delCinquecento. Dopo l’Angelico, ch’era partito con premessetardogotiche per poi accostarsi ai modi nuovi trovando unamisura del tutto personale (si vedano i numerosi affreschidel convento di San Marco, eseguiti fra il 1438 e la fine delquinto decennio), il biografo ricorda Filippo Lippi, che frai pittori affascinati dalla Brancacci fu certo quello ch’ebbepiú agio di copiarla, essendo frate proprio al Carmine, doveaffresca nel 1432 la Conferma della regola carmelitana. E ilfiglio di lui, Filippino, ancor giovane, ebbe il compito addi-rittura di concludere l’opera, lasciata incompiuta da Maso-lino e Masaccio. Giusto negli anni in cui l’Angelico e Filip-po studiavano le Storie di san Pietro, tornava da Venezia Pao-lo Uccello, che avrebbe speso gran parte del suo tempo ainvestigare, da ingegno bizzarro qual era, le possibilità del-la prospettiva (dal Monumento a Giovanni acuto in Duomodel 1436, alle Storie di Noè nel chiostro Verde in Santa Ma-

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ria Novella, alle tre celebri istantanee volumetriche della Bat-taglia di San Romano per Palazzo Medici, della metà del se-colo). Fra i prim’attori della fase centrale del Quattrocentoandrà ricordato, oltre a Domenico Veneziano (Pala di santaLucia dei Magnoli, 1445 ca.), Andrea del Castagno, altro pa-tito – come Paolo – della prospettiva, ma di lui piú lapideoe vibrato; lo si vede bene nell’Ultima Cena di Sant’Apollo-nia o nel ciclo degli Uomini illustri (Uffizi) per la villa di Le-gnaia vicino a Firenze, lavori che cadono entrambi intornoal ’50.Si avverte a partire da questi tempi, a Firenze, ma per con-seguenza anche altrove in Toscana, un mutamento di gusto– coincidente con la nuova committenza di Piero de’ Medi-ci, figlio del piú austero Cosimo – nel verso di un’eleganzapreziosa, e formalmente nel senso d’una piú spiccata pro-pensione al linearismo. Emerge la figura di Benozzo Goz-zoli, ch’era stato allievo dell’Angelico, ma – conforme allospirito mutato dei tempi – di lui meno severo nell’espressio-ne; e s’era poi mostrato attento alle lezioni di Domenico Ve-neziano e del Castagno. Nel 1459 affresca la cappella di Pa-lazzo Medici ed è successivamente attivo in altri centri del-la regione: da San Gimignano (1464-67), a Certaldo (1466),a Castelfiorentino (1466-67), quindi a Pisa, dove va nel 1467per lavorare nel Camposanto ad affreschi che lo terranno oc-cupato vari anni, nel contempo impegnandosi anche in altreallogagioni cittadine e dei dintorni. A Pisa lavorò pure, eall’incirca nel medesimo torno d’anni, Alessio Baldovinetti,altro pittore del momento; al quale si devono alcuni inter-venti d’un qualche rilievo a Firenze, tutti intorno agli anniSessanta: l’affresco con la Natività nel chiostrino dei Votiall’Annunziata, le pitture dell’abside di Santa Trinita, e par-te della decorazione della ricchissima cappella del Cardina-le del Portogallo in San Miniato al Monte; cappella che vi-de all’opera anche i fratelli Antonio e Piero del Pollaiuolo,esponenti di spicco delle moderne tendenze, che per essa di-pinsero la pala d’altare (oggi agli Uffizi) e affrescarono unalunetta. Dal ’70, con l’avvento di Lorenzo il Magnifico el’influenza esercitata dagli umanisti neoplatonici di cui egliamò circondarsi, s’impongono pittori colti e sofisticati, an-che loro a pieno titolo inseriti nella cerchia medicea, Botti-celli in primis, del quale in questo contesto si dovranno ci-tare opere cariche di significati simbolici come la Primave-

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ra, la Nascita di Venere, la Pallade col Centauro, tutt’e tre agliUffizi e databili intorno all’80. E intanto prosperava in cittàla bottega piú importante del secondo Quattrocento, quelladel Verrocchio: una scuola da cui uscirono, oltre al Botticellistesso, maestri come il Ghirlandaio, il Perugino, Lorenzo diCredi e Leonardo. Proprio con Leonardo, il Verrocchio con-dusse a due mani una delle poche pitture sicuramente ascri-vibili a lui, il Battesimo di Cristo degli Uffizi (cominciato ver-so il 1470). Poi entrambi negli anni Ottanta partiranno daFirenze: il maestro per Venezia, dopo che nel 1479 era sta-to incaricato del monumento a Bartolomeo Colleoni (e li mo-rirà nell’88), l’allievo intorno all’82 per Milano, lasciandoincompiuta l’Adorazione dei Magi (Uffizi) destinata a SanDonato a Scopeto, dove il pittore sarà sostituito una quin-dicina d’anni piú tardi da Filippino Lippi con una tavola disoggetto identico, oggi anch’essa agli Uffizi. E i due non fu-rono gli unici nel nono decennio a partire per imprese in al-tre città; una folta schiera d’artisti andò ad affrescare la Si-stina: vi lavorarono il Perugino, il Botticelli, Cosimo Ros-selli, Luca Signorelli – pittore cortonese, attivo in vari centrinon solo toscani –, e Domenico Ghirlandaio, che tornato aFirenze, esegue i cicli d’affreschi nella cappella Sassetti inSanta Trinita (1482-86) e nella cappella Tornabuoni in San-ta Maria Novella (1485-90). In questa stessa chiesa Filippi-no Lippi, lui pure presente a Roma tra la fine degli anni Ot-tanta e l’inizio dei Novanta per affrescare la Cappella Ca-rafa in Santa Maria sopra Minerva, dipinge le Storie dei santiFilippo e Giovanni nella Cappella Strozzi, portate a compi-mento nel 1502. Frattanto a Firenze nel 1483 era giunto dal-le Fiandre il celebre Trittico Portinari del van der Goes (Uf-fizi), che indubbiamente aveva suscitato grande impressio-ne, anche se la maniera che quell’opera esemplificava in scalacosì monumentale non doveva certo risultare nuova in unacittà già da tempo abituata agli scambi – anche artistici (fragli altri, Rogier van der Weyden e poi Memling) – col Norddell’Europa.Un mutamento chiaro d’indirizzo nell’arte fiorentina s’eb-be in concomitanza con la crescente suggestione del Savo-narola (ritornato nel 1490 e la morte di Lorenzo il Magnifi-co (1492). Le prediche del frate, segnate da toni apocalitti-ci che lo scadere del mezzo millennio alimentava, incisero

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sull’espressione figurativa nel verso d’una rigida austeritàmorale e formale, come pure d’un’esplicita comunicazioned’affetti mistici, che riguardò un po’ tutti gli artisti: dal Bot-ticelli al Perugino, da Lorenzo di Credi all’ancor giovane FraBartolomeo, e talora financo lo stravagante e capriccioso magenialissimo Piero di Cosimo. E i riverberi degli scarti di gu-sto e dei nuovi orientamenti stilistici che si registrano a Fi-renze nella seconda metà del Quattrocento, si avvertono an-che a Siena, che pure s’è detto centro dotato d’una propriaautonomia: nel Vecchietta (che anche in scultura manifestala sua attenzione per gli indirizzi fiorentini), in Matteo diGiovanni (che col suo spiccato e sovente iperteso linearismopersegue una poetica che si svolge quasi in parallelo al Pol-laiuolo), in Francesco di Giorgio Martini (che nel suo eclet-tismo desume elegantemente stilemi ora dal Verrocchio oradal Botticelli), in Neroccio (che condivide per un certo trat-to gli interessi del Martini, anche se piú decisa fu in lui l’aspi-razione a mantenere viva in squisitezze la tradizione figura-tiva senese), in Pietro degli Orioli – ex Giacomo Pacchiarot-ti – (che dopo una partenza prossima a Matteo di Giovanni,entra nell’orbita di Francesco di Giorgio e piú decisamenteprende a guardare all’ambiente fiorentino, al Ghirlandaioprima, a Filippino e a Piero di Cosimo poi).La crisi che segna il chiudersi del secolo e che fu politica (iMedici sono cacciati da Firenze nel 1494, ed entra CarloVIII), economica e religiosa, ebbe però sviluppi benefici perl’espressione figurativa. A Firenze forse proprio per la fogapuritana che fu violenta nella condanna dell’arte trascorsa– fino ai roghi d’opere – si determina, superati gli eccessi,una situazione di tabula rasa culturale che sarà fertile ancheper le indagini piú spregiudicate. Accanto alla «scuola di SanMarco» (la chiesa del Savonarola), con Fra Bartolomeo e Ma-riotto Albertinelli, cultori d’una figurazione piana e solen-ne per piú aspetti anticipatrice della pittura controriforma-ta, prenderà campo la «scuola dell’Annunziata», capintestaAndrea del Sarto, seguito dappresso dal «compagno» Fran-ciabigio, e dagli inquieti e geniali allievi Pontormo e Rosso.Agli inizi del nuovo secolo la Firenze della repubblica sode-riniana gode d’una congiuntura irripetibile, che è la con-temporanea presenza in città di Leonardo, Michelangelo eRaffaello. I cartoni dei primi due per gli affreschi con le bat-taglie di Anghiari (1503-04) e di Cascina (1504-505) desti-

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nati al Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio poi nonandati a buon fine, costituiscono i nuovi testi su cui studia-no tutti i giovani artisti, compresi gli stranieri, come lo spa-gnolo Alonso Berruguete (per una decina d’anni presente inItalia, dal 1508 al ’18 ca.). Raffaello d’altra parte, ancorchégiovane, avrà pure avuto il suo peso, se nei quattro anni delsuo soggiorno (1504-508) trovò tra le alte famiglie fiorenti-ne numerosi committenti. Comunque è certo che il classici-smo connotativo dei suoi lavori in questo periodo non eranuovo per Firenze, che l’aveva già sperimentato per esem-pio col Perugino, il quale in città aveva dipinto molte opereimportanti come l’affresco con la Crocifissione in Santa Ma-ria Maddalena dei Pazzi (1493-96). E d’altronde su quellastessa linea si muovevano anche Fra Bartolomeo, che difat-ti si legò d’amicizia coll’urbinate, e il suo socio Albertinel-li. L’arte del frate anzi rappresentò forse piú di altre un pun-to di riferimento per i pittori fiorentini e toscani. Lavori suoicospicui andarono a illustrare le chiese d’altre città della re-gione: nel Duomo di Volterra l’Annunciazione dipinta conMariotto (1497), e nella chiesa di San Romano a Lucca duegrandi e fervide tele, oggi nel mn di Villa Guinigi, col PadreEterno e due sante (1509) e con la Madonna della Misericordia(1515). E furono queste e consimili opere a far scuola, in-fluenzando in varia misura personalità fra loro differenti:dal fedelissimo Fra Paolino, esponente principale della pit-tura a Pistoia nella prima metà del secolo; ai divulgatori an-cor piú provinciali come Zacchia il Vecchio, attivo in arealucchese e per questo toccato anche da stilemi dell’Asperti-ni, che a Lucca aveva lavorato fra il 1507 e il 1509; fino aipiú quotati e originali Granacci, Bugiardini, Ridolfo delGhirlandaio, Sogliani. Nel 1512, col ritorno dei Medici aFirenze il clima figurativo non subisce contraccolpi e si con-tinua a respirare aria di libertà, che anzi viene alimentatacon la promozione di grandi apparati pubblici a cui s’invi-tano a partecipare artisti che amano l’eclettismo e lo speri-mentalismo formali. Comincia la stagione felice dei seguacidi Andrea del Sarto, pittore calibrato in un mite classicismoeppure caposcuola – per certe sue anticipazioni spegiudica-te trasmessegli forse anche dal maestro Piero di Cosimo – diquella generazione che per convenzione critica moderna siè chiamato «primomanierista». Nel chiostrino dei Voti

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all’Annunziata, dopo gli affreschi di Andrea con le Storie disan Filippo Benizzi (1509-10), il Viaggio dei Magi (1511) e laNatività di Maria (1514), Pontormo e Rosso imboccano la lo-ro autonoma strada: il primo con la Visitazione (1514-16), ilsecondo con l’Assunzione (che, finita nel ’17 fece subito di-scutere per il piglio troppo audace). Per quanto la loro espres-sione risultasse al pubblico ostica – specie quella del Ros-so –, i due rappresentarono comunque l’aspetto piú vitale e dinamico dell’arte fiorentina. E il Rosso anzi contribuì coisuoi spostamenti – di contro al melanconico Pontormo – afarla conoscere fuori dei confini cittadini: nel pisano lavo-rando a Piombino e a Volterra, poi a Roma, quindi a Peru-gia e in territorio aretino (Borgo Sansepolcro, Città di Ca-stello, Arezzo, dove cementò la sua amicizia col Lappoli pe-raltro allievo del Pontormo); infine addirittura in Francia,dove divenne massimo pittore di corte presso Francesco I.Sulla nuova linea formale s’indirizza, pur con tratti assolu-tamente personali, anche il Beccafumi a Siena, che però eracoetaneo di Andrea del Sarto (1486) e aveva dunque co-minciato a lavorare qualche anno prima dei «riformatori».La sua formazione – a parte un soggiorno romano verso il1510-12, in cui dovette frequentare il compatriota Peruzzich’era partito giovane da Siena – si collega all’ambiente fio-rentino, e non solo alla fucina della «maniera», ma anche, ein misura rilevante, alla cultura classicistica di Fra Bartolo-meo. Un percorso questo che lo accomunò in parte al Ber-ruguete e soprattutto al Maestro dei Paesaggi Kress, spigliatopittore tuttora anonimo, sicuramente attivo anche in pro-vincia (Fucecchio e Montopoli). Ma alla formazione del Bec-cafumi concorse anche la presenza a Siena del vercellese So-doma, pittore influenzato fin dai suoi esordi dai sensuosimodi leonardeschi. Al Sodoma, che fu determinante ancheper altri artisti senesi come Bartolomeo Neroni detto il Ric-cio, si devono gli importanti cicli d’affreschi eseguiti nel pri-mo decennio a Sant’Anna in Camprena (vicino a Pienza) ea Monte Oliveto Maggiore. Sempre a Monte Oliveto avevalavorato sul finire del Quattrocento con la sua fiera energiaLuca Signorelli, che educatosi sulla lezione di Piero dellaFrancesca era in seguito venuto a contatto con la cultura fio-rentina, dipingendo opere sottilmente ricercate per gli stes-si Medici; e anche il suo intervento nell’abbazia benedetti-na fu tra quelli ch’ebbero risonanza sull’espressione locale.

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Del pari influenti furono gli affreschi nella Libreria Picco-lomini del Duomo di Siena eseguiti fra il 1502 e il 1507 dalPinturicchio, che pertanto contribuì alla diffusione in terrasenese della cultura umbra.Nel terzo decennio una nuova crisi investe l’Italia: del 1527è il Sacco di Roma, che provoca la diaspora degli artistidall’Urbe; e nello stesso anno i Medici vengono di nuovocacciati da Firenze. Nel 1530 però la città, cinta d’assedio,capitola, e i Medici tornano a ristabilirvi il loro potere. Unnuovo ordine s’instaura a tutti i livelli; l’assetto d’ora in poisarà stabile e meno dinamica la situazione culturale, che ruo-terà intorno al consolidato potere mediceo, specie con l’av-vento di Cosimo I, alle cui direttive si rimetteranno gli arti-sti. E risponderà in fondo a una sua volontà di omologazio-ne d’intenti espressivi la fondazione nel 1563 dell’Accademiadel Disegno, che auspicava la nascita d’un sodalizio profes-sionale nei cui propositi doveva rientrare la cooperazione fragli artisti in grandi imprese pubbliche, quali in effetti furo-no le esequie di Michelangelo nel 1564 o gli apparati per lenozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria l’an-no seguente. Al centro dei programmi di Cosimo sarà la ri-strutturazione di Palazzo Vecchio; la nuova reggia diventail luogo dove pittori e scultori si cimentano in prove im-pegnative: il Bronzino, formatosi col Pontormo, affrescacon sofisticata maniera la cappella di Eleonora di Toledo(1540-45); Francesco Salviati, dopo proficui soggiorni a Ro-ma e a Venezia, torna in patria e affresca le ridondanti Sto-rie di Camillo nella Sala delle Udienze (1543-45); vi lavoranoinoltre Ridolfo del Ghirlandaio (peraltro già attivo in Palaz-zo nel ’14), il Bachiacca e altre maestranze, che dipingonogrottesche. Alla metà del secolo principiano i grandi inter-venti coordinati dal Vasari, vero e proprio artista di corte.Nativo d’Arezzo, città a cui restò sempre legato influenzan-done anche la cultura figurativa, ma trasferitosi presto a Fi-renze, diviene l’uomo di fiducia di Cosimo: a lui il duca af-fida il compito di dar multipla espressione a tutta un’ideo-logia di regime, e il Vasari, pur senza eccellere nei resultatisoprattutto pittorici, seppe tener fede all’impegno, Appun-to i lavori di Palazzo Vecchio, con l’innumere concorso diuomini che per essi furono ingaggiati, sono la dimostrazio-ne piú chiara delle capacità organizzative dell’aretino, a cui,

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fra le ultime imprese alla residenza medicea (ma con Fran-cesco I committente), va scritto anche il merito – da sparti-re in questo caso col letterato don Vincenzo Borghini – delpreziosissimo Studiolo (1570-75), autentico florilegio del tar-do manierismo fiorentino. Alla decorazione dell’ambiente,tutto rivestito di opere – principalmente dipinti, ma puresculture – parteciparono molti allievi e collaboratori del Va-sari, in pratica gran parte degli artisti attivi nel secondo Cin-quecento, compresi Alessandro Allori (che legò il suo nomealle piú importanti allogagioni, toccando gli esordi del seco-lo successivo), Santi di Tito (che diventerà la figura di pri-mo piano della pittura controriformata in Toscana, dipingen-do testi fondamentali come la pala d’altare per l’Oratorio diSan Tommaso d’Aquino a Firenze, del 1573, col Miracolodel Crocifisso che approva i testi di san Tommaso), e poi gliesponenti piú raffinati del cosiddetto «secondo manieri-smo», quali furono Mirabello Cavalori, Maso da San Fria-no, Girolamo Macchietti, Giovan Battista Naldini, France-sco Morandini detto il Poppi, e altri ancora. La cultura fi-gurativa di cui essi erano esponenti si diffuse per la T sia peri soggiorni dei forestieri a Firenze sia per le commissioni cheloro stessi ricevettero di fuori. A sentirne il fascino, peresempio a Pisa, luogo a cui i Medici e soprattutto Cosimo Idedicarono particolari cure facendovi costruire monumentiinsigni, fu Aurelio Lomi, il pittore di maggior rilievo del se-colo in quella città, fratello del ben piú poetico Orazio Gen-tileschi, che invece pisano fu solo di nascita, perché, trasfe-ritosi giovanissimo a Roma, lì e non sui testi fiorentini fondòla sua poetica.Nel 1579 giunge ad Arezzo la Madonna del Popolo di Fede-rico Barocci, un testo che con la sua effusione pittorica esentimentale sarà influente sul percorso soprattutto della ge-nerazione di artisti toscani nati intorno alla metà del seco-lo. Fra quelli che subirono il fascino del pittore marchigia-no vanno ricordati a Siena (fra l’altro caduta nel ’55 sotto ildominio fiorentino) Alessandro Casolani, Francesco Vannie Ventura Salimbeni. Da Firenze si spostarono apposita-mente per studiare la grande tavola nella Pieve d’Arezzo (og-gi agli Uffizi) il Cigoli e Gregorio Pagani, pittori che condi-visero l’apprendistato nella bottega di Santi di Tito e chesvolsero un ruolo determinante per gli indirizzi espressividel tardo Cinquecento. E sempre da Firenze il Passignano,

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che giovanissimo aveva aiutato nella seconda metà degli an-ni Settanta Federico Zuccari a portare a termine gli affre-schi della cupola del Duomo fiorentino lasciati incompiutidal Vasari, parte – anche lui col Cigoli – per andare a vede-re a Perugia, dello stesso Barocci, la Deposizione. Uno deitratti che piú colpisce i toscani della poetica baroccesca è lastraordinaria musicale cromia. E d’altra parte a una mag-giore attenzione nei riguardi del colore sullo scorcio del se-colo a Firenze sembrano aver contribuito altri eventi, comeil viaggio a Venezia del Titi (1571-72), o la venuta in cittàdel veronese Jacopo Ligozzi (1577 ca.), o il ritorno dello stes-so Passignano dopo un lungo soggiorno nella laguna (1588).Intanto, un po’ per tutti, viene di moda riandare con lo stu-dio ai primi del Cinquecento, a rivisitare i maestri che ave-vano reso grande quel momento, Andrea del Sarto soprat-tutto, ma anche il Pontormo. Così fanno Alessandro Allori(cresciuto e formatosi nella bottega del Bronzino), Santi diTito, il Cigoli, l’Empoli (che piú di altri copiò le opere d’An-drea), il Poccetti (grande decoratore a fresco e a graffiti d’in-terni e di facciate), il Boscoli e il Commodi. E siamo ormaicon questi artisti alle soglie del nuovo secolo, e alcuni già lointaccano, e dànno anzi il via in un proprio modo toscanoalle indagini e alle espressioni che lo caratterizzeranno. (an).Secoli XVII e XVIII Avviato nell’ultimo trentennio del Cin-quecento sulla spinta del Concilio Tridentino, il processo diriforma pittorica teso al superamento della «maniera» trovòil suo assestamento all’inizio del Seicento. Esso si articolòessenzialmente su tre direttrici diverse, anche se accomu-nate nella ricerca di un linguaggio «naturale»: il recuperodella tradizione rinascimentale in chiave purista (cui non do-vettero essere estranei gli orientamenti dell’Accademia del-la Crusca nel campo del dibattito linguistico), ad opera so-prattutto di Santi di Tito e Jacopo Da Empoli; lo sviluppodelle tendenze baroccesche, prevalentemente a Siena conFrancesco Vanni e Ventura Salimbeni, ma anche a Firenzecon Gregorio Pagani e Lodovico Cigoli; la recezione dellapittura veneta, grazie alle esperienze di Domenico Passi-gnano, di Pietro Sorri, di Jacopo Ligozzi e dello stesso Ci-goli. Dalla fusione di questi elementi si costituì il caratteretipico dello «stile fiorentino» (riconosciuto come tale anchea Roma, dove, sotto il pontificato di Paolo V, molti artisti

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toscani godettero di gran fama) che, specie nel campodell’immagine sacra seppe tramandare di generazione in ge-nerazione, sull’arco del secolo, i modi di una pittura acco-stante e comunicativa, temperata eppure ricca. Scritte so-prattutto sulle pareti dei chiostri e degli oratori fiorentini(ad esempio a Santa Maria Novella, 1580-85 ca., o a San Pie-rino, 1585-90), le prime fondamentali pagine della pitturariformata trovarono in Bernardino Poccetti il loro autoreideale, capace di assumersi il compito di ereditare la grandetradizione quattro-cinquecentesca dell’affresco, adattando-ne gli impianti scenografici e il rigore disegnativo alle nuo-ve funzioni didascaliche che richiedevano una chiarezza nar-rativa esemplare e accattivante. I suoi svolgimenti delracconto sacro finirono per diventare il modello per le suc-cessive generazioni di decoratori: dal piú anziano Jacopo Li-gozzi (nelle Storie di san Francesco a Ognissanti, del 1600) aipiú giovani Matteo Rosselli (che dal 1614 proseguì il cicloiniziato dal Poccetti nel chiostro della Santissima Annun-ziata) e Giovanni da San Giovanni (che nel 1619 completòil ciclo francescano del Ligozzi).Ma toccò a Lodovico Cigoli, che pure inizialmente aveva da-to il suo contributo alla rigorosa tendenza poccettiana, se-gnare la svolta decisiva. Già nelle sue pale d’altare degli an-ni Novanta, e ancor piú nella sua successiva attività roma-na (1604-13), egli si orientò verso la ricerca di una materiapittorica ricchissinia applicata a un attento studio della rap-presentazione delle «nascose passion de’ cori»: una poeticadegli affetti che non aveva in sé i germi di una codificazio-ne classicistica, bensì quelli di un’espressione lirica, non de-finitoria, propria anche del contemporaneo teatro melodram-matico fiorentino. Tanto che, nelle mani dei suoi discepoliCristofano Allori e Giovanni Bilivert, questa sua ricercaportò a un vero e proprio trionfo dell’immagine ambigua:volti sospesi, specchi incerti di un’insondabile interiorità,come quello dell’esemplare e insuperata Giuditta dell’Allori(1618-20: Firenze, Pitti).A partire dal secondo decennio si aggiunsero nuovi fermen-ti. Ben presto cercò di trovare spazio una linea orientata sul-le ricerche luministiche e tematiche aperte dal Caravaggio.A Firenze questa via suscitò molta diffidenza benché la cor-te medicea avesse precocemente manifestato il proprio gu-sto per artisti caravaggeschi (Honthorst, Manfredi, Batti-

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stello Caracciolo, Artemisia Gentileschi) e benché alcuni pit-tori piú anziani, quali Andrea Commodi, Baccio Ciarpi (en-trambi attivi anche in area romana) e talvolta Jacopo Da Em-poli, avessero dimostrato, su indicazioni già offerte da San-ti di Tito, una propensione per effetti chiaroscurali moltomarcati. Di fatto, a Firenze nel corso degli anni Venti, si po-tranno rilevare episodi di «caravaggismo» (comunque per lopiú mediati dalla versione disegnativa del «toscano» OrazioGentileschi o da quella classicistica di Simon Vouet) solo inAnastagio Fontebuoni, in Filippo Tarchiani e, poco piú tar-di, in Giovanni Martinelli. Viceversa, a Pisa con Orazio Ri-minaldi, a Lucca con Pietro Paolini e Simone Del Tintore,e soprattutto a Siena con Rutilio Manetti, Francesco Rusti-ci e Niccolò Tornioli, andò radicandosi, forse anche per piúintensi e duraturi contatti con Roma, questa tendenza na-turalistica, fino a diventare un carattere distintivo contrap-posto alla scuola fiorentina.La quale cercò invece la propria modernità in un difficileprocesso di rilettura della tradizione alla luce di nuove ac-quisizioni. La cultura manierista (solo apparentemente soffo-cata dalla Controriforma, in realtà sempre custodita grazieanche alla straordinaria fioritura del teatro mediceo, guida-ta dalla fantasia «ghiribizzosa» di Giulio Parigi) tornò ad es-sere sondata. Dai suoi aspetti piú fantastici derivarono pri-ma le invenzioni di Jacques Callot e di Giovanni da San Gio-vanni (l’interprete piú personale ed eclettico della tradizionedell’affresco, che contemporaneamente andava esaurendosisotto la regia feconda ma scarsamente propositiva di Mat-teo Rosselli); poi quelle di Cecco Bravo e di Stefano DellaBella, che pure approdarono a soluzioni neovenete e baroc-che. Parallelamente alle espressioni piú preziose del manie-rismo (da quelle prettamente fiorentine, come il Bronzino,a quelle di origine nordica, come il Giambologna o lo Spran-ger) si ispirarono, sull’esempio di Cristofano Allori, sia Fran-cesco Furini che Cesare Dandini. Ciò non escluse tuttaviache si manifestasse anche un interesse classicistico (alimen-tato dal continuo arricchimento delle collezioni medicee diantichità): a parte il caso del pistoiese Giacinto Gimignani(sostanzialmente romano nella sua adesione al Poussin), ar-tisti quali lo stesso Furini e, soprattutto, Cesare e VincenzoDandini si portarono in stretta contiguità con gli esiti della

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pittura bolognese; al versante piú purista della quale, in par-ticolare al Domenichino, si affiancarono anche, pur con tem-pi e modi diversi, Ottavio Vannini e Carlo Dolci.Ma la svolta piú significativa per l’intera regione avenne in-torno alla metà del secolo, quando il grande stile europeo diPietro da Cortona cominciò a diffondersi in Toscana. Se l’ar-rivo di opere del Berrettini nella sua terra natale, tra Arez-zo e Cortona, ingenerò in quell’area un processo di adegua-mento condotto su livelli di mediocrità, solo di rado supe-rati dall’aretino Salvi Castellucci, a Firenze la risposta allapresenza del maestro fu di ben altra apertura. La sua atti-vità nella capitale medicea (fra il 1637 e il 1647, voluta so-prattutto dal granduca Ferdinando II), subito prolungata daquella di Angelo Michele Colonna, Agostino Mitelli e CiroFerri, trovò in Baldassarre Franceschini detto il Volterranoun seguace che seppe interpretarla nel modo piú critico (ediverso dalla contemporanea versione tenebrosa e prero-mantica di Livio Melius, che sembrava aver fatto tesoro del-la presenza e della voga fiorentina di Salvator Rosa), coniu-gandola cioè con la forte ma ormai statica tradizione decora-tiva locale. Così rinnovata, quest’ultima riprese uno slancioche attraverso Jacopo Chiavistelli, Pier Dandini, Giovan Do-menico Gabbiani, giunse sino alle soglie del Settecento, no-nostante la ferma opposizione di alcuni artisti, quali Loren-zo Lippi e i già ricordati Vannini e Dolci, che intenzional-mente si attestarono su un ritorno a forme semplici e talvoltaarcaizzanti, per lo piú ispirate alle purezze del primo Cin-quecento fiorentino.A Siena la penetrazione del cortonismo avvenne invece at-traverso Roma, dove, specie con il pontificato di Alessan-dro VII Chigi, gli artisti senesi trovarono ampi spazi di la-voro: così Raffaello Vanni, Niccolò Tornioli e BernardinoMei ebbero modo di accedere al piú ampio contesto roma-no, per cui la loro adesione al Cortona appare sempre con-giunta ad altri elementi, quali il classicismo di Andrea Sac-chi o il neovenetismo di Mattia Preti. E altrettanto si puòdire per Lucca, dove assai piú dell’ortodossia cortonesca diGiovanni Marracci o della coppia Giovanni Coli-FilippoGherardi, fu significativa la composita cultura romana diPietro Testa: formatosi col Berrettini, egli finì per accostarsial gusto archeologico del Poussin, con un marcato interesseluministico di eredità in parte caravaggesca e in parte neo-

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veneta. Quest’ultima, specie nei suoi aspetti veronesiani, fumolto sentita a Lucca anche da Pietro Ricchi (lungamenteattivo in Veneto) e da Antonio Franchi, il quale, succedutoa Giusto Sustermans come ritrattista ufficiale della corte me-dicea, diventò anche a Firenze un punto di riferimento peril suo cortonismo «senza abuso», fortemente filtrato da unorientamento classicizzante.Nel 1670 salì al trono Cosimo III, il cui dispotismo politicosi accompagnò ad ambizioni di grandiosità che, sul piano delmecenatismo artistico, finirono per ripercuotersi positiva-mente. Il suo gusto «internazionale» lo spinse ad offrire aigiovani artisti fiorentini un pensionato a Roma per studia-re con Ciro Ferri ed Ercole Ferrata. Ne sortì «una genera-zione di buoni pittori pratici cortoneschi», di cui può rite-nersi emblematico Anton Domenico Gabbiani, accademicoperfetto anche nella sua «virata» classicistica sulla dilagan-te scia del Maratta.Ma nell’ultimo ventennio del secolo fu ancora un «forestie-ro», Luca Giordano, a dare un nuovo impulso alla pitturatoscana. Le sue imprese fiorentine (principalmente la Cap-pella Corsini del Carmine, 1682, la galleria e la biblioteca diPalazzo Medici-Riccardi, 1685) diventarono il modello peruna rinnovata decorazione barocca, piú complessa nelle com-posizioni, ma anche piú ariosa e trasparente nei virtuosismiillusionistici e nelle scelte cromatiche. Si innescò così il pro-cesso di trasformazione in rococò, al cui decorso, conside-rato nel panorama nazionale, la scuola fiorentina dette uncontributo precoce e significativo. Alessandro Gherardiniin particolare, con la sua freschissima fusione tra l’esempiogiordanesco e il brioso ricordo di Giovanni da San Giovan-ni, ma anche Giovan Camillo Sagrestani e il gruppo dei suoiallievi, prepararono Firenze ai suoi ultimi grandi ospiti.Mentre Cosimo III predilesse ancora un canonico rapportocon Roma, il suo primogenito Ferdinando orientò la suaprofonda e colta passione per l’arte su Venezia, dove sog-giornò per due volte e dove prescelse il pittore Niccolò Cas-sana quale agente e consigliere nella sua raffinatissima atti-vità di collezionista. L’ambiente artistico fiorentino risentìdi questo spostamento di interessi. Entro il primo decenniodel Settecento giunsero in città, su invito del Gran Princi-pe, Sebastiano Ricci (forse accompagnato dal nipote Mar-

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co), Alessandro Magnasco, Giuseppe Maria Crespi. Il ve-neziano, che durante un soggiorno di studi correggeschi aParma aveva già stretto amicizia con il Sagrestani, ebbe aFirenze anni intensi, per la maturazione del suo stile e pergli impegni di lavoro: i suoi affreschi in Palazzo Marucelli,in Palazzo Pitti, alla Villa di Poggio a Caiano, diventaronoopere dalle quali nessun pittore fiorentino poté prescinde-re, dagli stessi Gherardini e Sagrestani, ai loro seguaci Mat-teo Bonechi, Ranieri Del Pace e, piú tardi, Giovan Dome-nico Ferretti. Quanto al Crespi, egli si fece conoscere in To-scana (con la decorazione, ora perduta, della chiesa pistoiesedi San Francesco di Paola), per una coincidenza forse nonpriva di significati, proprio nell’anno in cui moriva LivioMehus (1691), il pittore prediletto da Ferdinando. E il GranPrincipe instaurò con il bolognese un rapporto non occasio-nale, cogliendo forse in lui e nella sua pittura quello spirito«bizzarro» e «baioso» che aveva costituito, nel corso del Sei-cento, la vena piú autenticamente fiorentina, da Callot eGiovanni da San Giovanni insino a Stefano Della Bella. Sivennero così a stringere ulteriormente quei contatti tra Fi-renze e l’Emilia che, negli stessi anni, ma per loro conto, ein una diversa ottica, Gian Domenico Ferretti, SebastianoGaleotti, Vincenzo Meucci, Mauro Soderini, andavano in-trattenendo per raccogliere (soprattutto attraverso GianGioseffo Dal Sole) quell’eredità classicistica di cui Bolognaera custode per eccellenza.Tale orientamento del resto, avviandoci alla metà del seco-lo, diventa largamente diffuso in Toscana, sino a toccare ilsuo apice quando il lucchese Pompeo Batoni seppe occupa-re un ruolo determinante nelle evoluzioni dell’arte post-ma-rattesca. Una risonanza, quella del Batoni, che, sebbene ac-quisita nella piú composita e internazionale area romana,non tardò ad estendersi nella sua regione di origine, grazieanche all’influente interesse di molti committenti.Quanto al granducato, estintasi la dinastia medicea con GianGastone nel 1737, la conseguente perdita di centralità del-la corte nella guida culturale portò, durante gli anni dellareggenza lorenese, alla crescita di altri nuclei intellettuali, inparticolare quello che gravitava intorno alla nutrita comu-nità inglese, rappresentata esemplarmente dal suo amba-sciatore Sir Horace Mann. Dal gusto, anche collezionistico,di quell’ambiente derivarono da un lato un rafforzamento

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delle tendenze classicistiche già promosse dal Gabbiani e dal-la sua scuola (in cui si segnalava Ignazio Enrico Hugford);dall’altro, per certi versi piú significativo, lo sviluppo del ve-dutismo secondo i modelli, tanto cari all’Inghilterra, del Ca-naletto e del Bellotto. Con l’iconografia fiorentina (poi di-venuta canonica) proposta da Giuseppe Zocchi e da ThomasPatch sembra cioè prendere avvio quell’interpretazione ra-zionalistica della natura e della città che pochi anni dopo,sotto l’«illuminata» guida del granduca Pietro Leopoldo (dal1766), informerà il rinnovamento urbanistico di Firenze edegli altri centri toscani. Le antiche sedi medicee venneropresto adeguate al nuovo gusto, pienamente interpretatodall’architetto Paoletti: Poggio Imperiale, Palazzo Pitti, gliUffizi, Poggio a Caiano. Gli stessi luoghi che ospitaronoGiuliano Traballesi, Tommaso Gherardini e gli altri artistidell’ultima generazione settecentesca, quella che preparò laT alla piena fioritura del neoclassicismo nel segno di una piúampia cultura europea. (cpi).Secolo XIX La grande opera di rivitalizzazione della culturaartistica toscana svolta da Pietro Leopoldo (riforma dell’Ac-cademia, rinnovamento dell’Opificio delle Pietre Dure, pri-mo riordinamento degli Uffizi ecc.) contribuì potentementea rendere di nuovo Firenze città di interesse europeo e metadi soggiorni di eruditi e antiquari con i quali anche gli altricentri della regione hanno vitali scambi. Se i pittori e i de-coratori a Firenze furono presto impegnati nei cantieri arti-stici granducali (Poggio Imperiale, Pitti, la Crocetta, le villedi Poggio a Caiano, Petraia e Castello) altre città beneficia-rono di questo impulso generale, come Livorno (in quel mo-mento centro di produzione di vedute dipinte da Vernet,Zocchi, Cioci ecc.); mentre nel Duomo di Pisa (Corvi, Pé-cheux, Cavallucci, G. Gandolfi e altri) e nella chiesa di San-ta Margherita a Cortona (Pacini, Ferri, Fabbroni ecc.) si re-gistrano le imprese pittoriche piú significative del periodo. Questa la fase iniziale dell’attività dei piú importanti pitto-ri toscani del neoclassicismo: Luigi Sabatelli, e Pietro Ben-venuti formatisi a Roma in stretto contatto con Camuccini econ artisti nordici. Ancora in questo momento iniziò la suaattività Luigi Ademollo, per ora operoso soprattutto a Siena.L’arrivo nel 1793 a Firenze di artisti francesi reduci dai di-sordini romani antirivoluzionari (Boguet, Gauffier, Gagne-

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raux, Sablet e soprattutto Fabre che a Firenze si stabilì de-finitivamente) favorì la diffusione delle varie tendenze delneoclassicismo internazionale. Nel frattempo anche nel du-cato di Lucca, prima dell’arrivo di Elisa Baciocchi, opera-vano artisti di formazione romana (influenzati da Batoni, G.Hamilton, A. Kauffmann) quali Bernardino Nocchi, Stefa-no e Andrea Tofanelli.Durante il regno d’Etruria (1801-808) e sotto il granducatonapoleonico di Elisa Baciocchi (1809-14) l’affermazione delneoclassicismo nella regione fu generale, sostenuta dall’atti-vità dell’Accademia diretta da Pietro Benvenuti; accanto alui operavano eccellenti pittori (Luigi Catani, Giuseppe Ser-volini, Luigi Ademollo ecc.) impegnati soprattutto nel pro-gramma di rinnovamento della reggia di Palazzo Pitti, cheperò subì ritardi per difficoltà finanziarie.Ma il rinnovamento neoclassico dei centri toscani non si li-mitò alla sola Firenze. A Lucca, in particolare durante il prin-cipato di Elisa, il volto della reggia venne mutato in sensoneoclassico; mentre Carrara divenne centro importante so-prattutto per la produzione di ritratti in marmo dei napo-leonidi (il Banco Elisano diretto da Desmarais). A Siena, in-fine, per merito della committenza di G. Bianchi, si verificòun nuovo fervore e un deciso aggiornamento in senso neo-classico, in particolare attraverso l’attività in affresco di Ade-mollo.Il periodo di regno del restaurato Ferdinando III (1815-24)fu occupato in larga misura dal completamento dei cantierinapoleonici a Firenze; e soprattutto dalla decorazione dellareggia di Pitti secondo il progetto definito fin dal 1813. Gliartisti impegnati erano i pittori piú importanti del momen-to (Benvenuti, Sabatelli, Ademollo) e giovani allora nell’or-bita benvenutiana (Giuseppe Bezzuoli, Gasparo Martellini,Antonio Fedi, Luigi Catani, Giuseppe Collignon). Si veri-ficò anche un notevole risveglio nella committenza privatada parte della nobiltà cittadina che intendeva rinnovare ledecorazioni dei palazzi di famiglia (per esempio gli affreschiin Palazzo Pucci, di Bezzuoli, del 1819-21). L’episodio piúsingolare è costituito dalla rapidissima decorazione del pa-lazzo del principe Borghese, trasferitosi a Firenze, eseguitain emulazione con quella di Pitti con le stesse maestranzeimpegnate nella reggia. Altro evento artistico centrale delmomento fu il soggiorno fiorentino di Ingres (1820-24) du-

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rante il quale si rinsaldarono gli antichi legami parigini conlo scultore Lorenzo Bartolini. Dalla loro attività (folta an-che di committenze internazionali) dipende in buona misu-ra il purismo di impronta neoraffaellesca che avrà larga dif-fusione in T e che rappresenta il principale filone pittorico,accanto a quello del romanticismo storico inaugurato, percosì dire, dal Battesimo di Clodoveo di Bezzuoli (1823). Se aFirenze erano avvertibili notevoli germi di evoluzione, nel-le altre città della regione si assiste all’irrigidimento delletendenze artistiche precedenti. A Siena la figura dominan-te è ora Collignon, direttore dal 1816 dell’Accadernia e ar-tista fermamente neoclassico. Nel ducato di Lucca (passatonel 1817 a Maria Luigia di Borbone) si segnala soprattuttol’attività di completamento della decorazione della reggiainiziata da Elisa con artisti importati da Firenze (Collignon,Martellini, Fedi, Catani, Ademollo) piú alcuni pittori loca-li di formazione romana fra cui Bernardino Nocchi; mentrealcuni dipinti vennero importati direttamente da Roma (Vin-cenzo Camuccini e Gaspare Landi). Sotto il granducato diLeopoldo II (1824-59) si verificarono eventi molto signifi-cativi per la cultura figurativa toscana. Il nuovo sovrano fa-vorì un mutamento di gusto all’interno della corte recepen-do i fermenti piú vivi della cultura toscana (e non) del mo-mento. Il filone pittorico in ascesa, almeno fino agli anni’40, è quello riconducibile al romanticismo storico e al suocaposcuola locale, Bezzuoli, il cui sensuoso cromatismo neo-secentesco interpretava le aspirazioni della pittura storica euna sua lettura pacata e media. Emozioni piú forti, venatedi «terribilità» guerrazziana con venature democratiche,provenivano invece dai dipinti storici di Giuseppe e Fran-cesco Sabatelli, figli di Luigi, protetti dal granduca nono-stante molte loro opere fossero suscettibili di interpretazio-ni «eversive» da parte di Guerrazzi o di Mazzini.Continuava nel frattempo l’attività di decorazione di palaz-zi nobili o altoborghesi sia a Firenze (Giuntini, Gerini, Cor-sini ecc.) sia in altri centri come Pistoia (Palazzo De’ Rossi);città questa sede del complesso programma ideologico d’im-pronta democratica che guidò la committenza di dipinti mo-derni (Bezzuoli, Nicola Cianfanelli, Enrico Pollastrini, Mar-tellini, Sabatelli, Emilio Busi, Luigi Asioli ecc.) da parte diN. Puccini, spesso in diretta concorrenza con il granduca, e

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l’allestimento del suo giardino di Scornio dedicato al cultodegli uomini illustri. La piú notevole manifestazione nellacapitale di questo culto (insieme all’impresa scultorea dellestatue per il loggiato degli Uffizi) fu la decorazione della Tri-buna di Galileo per il primo Congresso degli scienziati ita-liani (1841) ad opera di Bezzuoli, Cianfanelli, dei Sabatelli,di Martellini, artisti impegnatissimi in questo momento incommittenze sia pubbliche che private. Il granduca, inoltre,destinerà una sala della Palazzina della Meridiana nel giar-dino di Boboli all’illustrazione di episodi dei Promessi sposiaffidata a Cianfanelli, a testimonianza della fortuna dell’ope-ra manzoniana nella cultura fiorentina anche ufficiale.Agli inizi degli anni ’40, assieme a una corrente naturalisti-ca evidente soprattutto in scultura (l’Abele del Dupré), sidiffonde un indirizzo pittorico improntato a un purismo neo-nazareno (Franz Adolph von Stürler, Antonio Marini, Lui-gi Mussini) di carattere nettamente conservatore sia rispet-to al romanticismo storico sia nei confronti delle tendenzenaturalistiche. A fronte del grande impulso artistico nellaFirenze ante 1848 risalta l’immobilismo di altri centri to-scani, ad eccezione della Pistoia di Niccolò Puccini. A Luc-ca l’avvento al trono ducale di Carlo Lodovico coincide conl’esaurimento della committenza pubblica; l’artista roman-tico locale piú noto è Pietro Nocchi, ma ben presto sarà do-minante la personalità del purista Michele Ridolfi, almenofino alla fine del granducato. A Siena la pittura tarda ad ag-giornarsi in senso romantico, trovando un serio limite neltradizionalismo classicista della locale Accademia diretta daCollignon e poi (dal ’27) da Francesco Nenci, entrambi ar-tisti rigidamente neoclassici.Gli eventi del ’48 segnarono profondamente anche la cultu-ra artistica toscana. Gli ultimi anni del granducato viderol’esaurimento della funzione promozionale delle istituzioniartistiche, accompagnato da una tendenza fortemente spe-rimentale nei pittori piú giovani, e da una precisa attenzio-ne verso la nuova cultura europea, soprattutto francese. Inparticolare i giovani toscani in soggiorno di studio a Roma(Puccinelli, Angiolo Visconti, Amos Cassioli) ebbero la pos-sibilità di contatti fecondi con i pensionnaires francesi di Vil-la Medici che diviene un importante punto di riferimentoper tutti gli artisti italiani in soggiorno a Roma.A Firenze l’evoluzione del quadro di storia condurrà artisti

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come Antonio Ciseri e Stefano Ussi lontano dalle premessedel romanticismo bezzuoliano, in direzione di una «verosi-miglianza» di matrice positivista che, soprattutto in Ussi,appare influenzata dalle opere storiche di Domenico Mo-relli. Frattanto nel caffè Michelangelo si formava una levadi artisti aperti verso la sperimentazione tonale, sollecitataanche da piú precise informazioni sulla contemporanea pit-tura francese. I progressi delle ricerche svolte da questo grup-po di pittori (Telemaco Signorini, Santi, Vincenzo Cabian-ca, Raffaello Sernesi, Stanislao Pointeau, Vito D’Ancona,Odoardo Bortani e poco piú tardi Fattori e Abbati) con-durranno alla fine degli anni ’50 alla nascita della «macchia».Ma anche a Siena, sia pure in altra direzione, si verificanoeventi evolutivi, connessi con il rinnovamento dell’Accade-mia imposto nel 1852 da un artista come Luigi Mussini, pit-tore in quel momento fortemente permeato dalla cultura in-gresiana e dall’evoluzione pittorica all’interno della sua scuo-la. A parte l’attività personale di Mussini appaiono di grandeinteresse le esperienze compiute dai suoi allievi Visconti (mor-to giovanissimo) e Cassioli, che nel loro soggiorno romano al-la fine degli anni ’50 ebbero contatti con gli allievi francesi diVilla Medici (Degas, Moreau, Henner, Bonnat, Delanoy ecc.)traendone esperienze notevoli per la loro pittura.Fra i primi atti del governo unitario vi fu il bando nel 1859per il concorso Ricasoli, dedicato a opere d’arte d’argomen-to storico (sia antico che contemporaneo), al quale parteci-parono praticamente tutti gli artisti notevoli del momento eche, in sintesi, segnò il tramonto della pittura storica d’ere-dità romantica in favore della pittura di storia contempora-nea svolta sia in senso celebrativo e cronachistico (CarloAdemollo, Norfini, Alessandro Lanfredini, Conti, Bechiecc.); sia in direzione antiretorica e, spesso esplicitamentedemocratica, da parte degli artisti piú sperimentali (Gio-vanni Fattori, Telemaco Signorini, Lega, Borrani, SaverioAltamura). La pittura di storia antica (e religiosa rimarrà an-cora per qualche tempo il campo privilegiato di ricerca for-malistica da parte di pittori aggiornati sull’evoluzione delpurismo francese (Pollastrini, Cassioli, Visconti ecc.).Altro evento fondamentale nella pittura toscana degli anni’60 è la formulazione matura della nuova sintassi mac-chiaiola, soprattutto nell’attività quasi di gruppo degli arti-

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sti frequentatori delle case di Diego Martelli a Castiglion-cello (Vincenzo Abbati, Borrani, Sernesi, Fattori, Lega); econ le prime avvisaglie degli sviluppi futuri, e molto diffe-renziati, di quell’esperienza: dalle opere che sono il fruttodell’intenso sodalizio Banti-Boldini all’attività quasi solita-ria di Fattori, al ripiegamento intimistico di Borrani, all’al-tissimo momento di Piagentina di Lega e di Signorini per fi-nire all’attività pittorica di Adriano Cecioni, fresco reducedalle esperienze napoletane a contatto con la scuola di Re-sina. Sul versante piú tradizionale non va dimenticata l’in-tensa e spesso elevata attività di pittori come Ussi e comeCiseri nei vari generi pittorici, ma soprattutto nel ritratto(in cui eccelse anche Michele Gordigiani) e nel moderno qua-dro di storia o d’argomento religioso; come anche la fitta at-tività di Annibale Gatti che, nella decorazione in affresco,caratterizzò il decoro alto borghese del rinnovamento edili-zio nella Firenze del Poggi. A Siena, nel frattempo, si con-solida la fama di Cassioli, assieme a quella del giovane Ce-sare Maccari, mentre comincia ad emergere la figura di Ales-sandro Franchi.Gli ultimi trent’anni del secolo sono caratterizzati dalla ma-tura evoluzione, molto differenziata, dei macchiaioli. Fat-tori continuerà a proporre in continuità sperimentazioni cro-matiche e spaziali spesso di altissimo livello e originalità; Si-gnorini in un primo momento si accostò al naturalismointernazionale (soprattutto francese) come del resto fece an-che Lega. Ma negli anni ’8o le esperienze di viaggio di Si-gnorini, l’influenza esercitata su Cristiano Banti dall’operaprima di Breton e poi del preraffaellismo (attraverso NinoCosta) contribuirono ad arricchire la cultura di questi pit-tori; mentre Lega proprio in questo periodo tende a rifu-giarsi in una pittura intimista in qualche modo influenzatadalle notizie sull’impressionismo che affluivano a Firenzeanche grazie all’attività critica di Diego Martelli.Contemporaneamente si diffondeva in tutta la T (in parti-colare nelle zone di Pisa e Livorno) la pittura illustrativa del-la vita campestre improntata da un naturalismo nobilmentedescrittivo che caratterizza le opere migliori di artisti qualiRuggero Panerai, Egisto Ferroni, Adolfo Bellimbau, Nic-colò Cannicci, Nicolò Cecconi, Francesco Gioli e, poco piútardi, di Holländer, dei tre Tommasi e di Luigi Gioli, mol-to influenzati dai loro contatti con Lega.

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Un evento certamente importante per la cultura artistica to-scana del momento è rappresentato dalla penetrazione dicorrenti del decadentismo europeo, rafforzate a Firenze dal-la presenza di Böcklin e dalla formazione del circolo puro-visibilista di Hildebrand e Fiedler; componenti che in pit-tura saranno determinanti per la formazione di un pittorecome Galileo Chini; mentre il versante preraffaellita del de-cadentismo troverà diffusione soprattutto a Siena con l’at-tività del Franchi maturo e, poco piú tardi, di RicciardoMeacci.Secolo xx La diffusione della conoscenza dell’arte impres-sionista francese favorì lo sviluppo di tendenze fortementeevolutive nella pittura toscana, in particolare in quella diarea livornese in cui furono particolarmente attivi allievi (di-retti o meno) di Fattori capaci di affrontare esperienze pit-toriche di notevole interesse: dai dipinti di Alfredo Müller(che fu in Francia) a quelli di Ulvi Liegi, di Edoardo Gor-digiani, di Giorgio Kienerk, di Leonetto Cappiello (che poisi stabilì a Parigi) per finire con l’opera di Plinio Nomellini,il piú importante del gruppo, che ben presto si impose fra icaposcuola del divisionismo italiano. Il merito fondamenta-le di questa generazione di artisti fu quello di risolvere po-sitivamente l’impasse tardomacchiaiola, chiusa in una cifracostantemente pericolante verso il vernacolo.A questa seguì di poco una seconda leva di pittori, ancorapiú aperta verso le piú attuali tendenze internazionali ancheper la costante attenzione rivolta alle secessioni europee ealla diffusione del cézannismo; si tratta di Oscar Ghiglia, diLlewelin Lloyd, di Antony De Witt, di Amedeo Modiglia-ni (fino alla sua definitiva partenza per Parigi), di Giovan-ni Costetti (operoso stabilmente a Firenze); esperienze con-divise dal versiliese Lorenzo Viani (anche lui ricco di cultu-ra francese di prima mano) e da quel solitario e colto pittoreche fu Alberto Magri.Il futurismo ebbe momenti assai significativi a Firenze, siaper i contatti diretti fra il gruppo fiorentino (Palazzeschi,Soffici, Papini) e quello «milanese» (Marinetti, Boccioni,Carrà) a partire dal 1913 dopo la famosa «scazzottata» alle«Giubbe Rosse» nel 1912; sia per lo sviluppo di una brevema intensa stagione toscana di quel movimento, interna alfuturismo nazionale, a cui parteciparono pittori come i fra-

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telli Nannetti, Mario Nannini, Maria Baccio Bacci, AchilleLega, Emilio Notte, Ginna e poi Antonio Marasco, tutti sot-to l’egida di Ardengo Soffici il quale tentava sue personalisintesi fra il cubismo francese e il futurismo. Vivi contatticon questo clima d’avanguardia ebbe Alberto Magnelli, fi-no al suo trasferimento a Parigi; ma la sua pittura prese mol-to presto indirizzi astratti che trovarono scarsissima eco nel-la cultura locale.Nel primo dopoguerra emergono due figure fondamentali:sul piano piú squisitamente operativo quella di Felice Care-na, maestro di molte generazioni di pittori toscani; sul pia-no teorico e promozionale quella di Soffici, attivi sta del «ri-torno all’ordine» secondo una tendenza dichiaratamente fa-scista e regionalista che troverà la sua tribuna privilegiatanel «Selvaggio» di Maccari (che però ospitò la produzionegrafica italiana piú importante del momento) e il suo sboc-co pittorico nella produzione di Ottone Rosai, Del Rigo,Achille Lega, oltre che dello stesso Soffici.La persistenza di germi di cultura francese è alla basedell’opera di artisti come il giovane Martinelli (presto emi-grato a Parigi ove espone con De Chirico, Savinio, Severi-ni ecc.), come Arturo Checchi o Bernardini (molto attential cézannismo internazionale) e (frammista però a elementispiritualisti di origine germanica) come F. Giorgi Levasti.Ma è soprattutto il clima di «Solari», verso la fine degli an-ni ’20, a generare una cultura pittorica tipicamente toscana(e che trovò aggregazione nel Novecento toscano di RaffaelloFranchi sorto anche in opposizione al Novecento sarfattia-no) che ebbe momenti tipici e molto elevati in opere di pit-tori (Giovanni Colacicchi, Franco Dani, Alberto Caligiani,Bruno Bramanti, Bacci, Ennio Pozzi, Silvio Pucci, GuidoPeyron, Gianni Vagnetti) la cui cultura mostra chiari debi-ti, oltre che con lo scultore Libero Andreotti, con Soffici econ Carena nonché con le ricerche cromatiche «impressio-niste» di Spadini, fiorentino operoso a Roma ma ben ap-prezzato nella sua città natale. Negli anni ’30, caratterizza-ti nel resto d’Italia dal monumentalismo celebrativo del re-gime al suo apice, gli artisti toscani preferirono rifugiarsi neigeneri pittorici tradizionali (ritratti, paesaggi, nature mor-te); e questa scelta coinvolse sia gli artisti già operosi nel de-cennio precedente sia quelli piú giovani, quali Bausi, Mar-cucci, Polloni, Zuccoli ecc. In pratica l’unica opera pittori-

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ca di regime a Firenze fu il ciclo di affreschi nel Palazzo del-la G.I.L. (1935 ca.) di S. Gemignani e D. Calastrini, stac-cati nel 1976 prima della demolizione dell’edificio. Il perio-do immediatamente posteriore alla seconda guerra mondia-le vide la rapida affermazione dell’astrattismo classico di V.Berti, Brunetti, Monnini, Nativi, Nuti che fra il 1947 e il1950 segnò un episodio significativo nell’aggiornamento del-la pittura toscana in senso sperimentale. Dopo questo even-to specifico l’evoluzione della pittura contemporanea tosca-na è riconducibile alla successione delle tendenze nel pano-rama nazionale e internazionale. (esp).

Toscanelli, Giuseppe(Pisa 1828 - Cava dei Tirreni 1891). Collezionista di dipin-ti italiani, non ancora trentenne comincia ad acquistare ope-re di primitivi per arricchire la collezione di famiglia, comerisulta dalla visita effettuata nel 1856 da Otto Mündler e sirCharles Eastlake. Guidato dall’artista e conoscitore fioren-tino Gaetano Bianchi, nell’arco della sua esistenza raccoglieun gran numero di dipinti di epoche e scuole diverse. Pochianni prima della sua scomparsa l’intera collezione, oggi ingran parte dispersa, viene venduta da Jules Sambon all’astafiorentina dell’aprile 1883, con un catalogo redatto da Gae-tano Milanesi che illustrava e riproduceva la maggior partedei dipinti. Di questa importante collezione facevano partela Presentazione al Tempio e il Cristo fra i dottori di Andreadi Giusto, ma venduti come opere di Masaccio, oggi nellacollezione Johnson al am di Philadelphia; la Madonna colBambino con santi e angeli di Francesco Botticini, già attri-buita al Ghirlandaio (New York, mma); il trittico della Ma-donna col Bambino e santi di Francesco d’Antonio, l’An-nunciazione di Niccolò di Pietro Gerini e la Crocifissione diPietro Lorenzetti, tutte e tre al Fogg Museum di Cambrid-ge (Mass). (eg).

Toscani, Giovanni di Francesco(Firenze 1370/80 - 1430). È lo stesso artista a definirsi «co-fanaio», cioè decoratore di cassoni, al catasto del 1427. Benpoco sappiamo invece della sua formazione. Alcuni riferi-menti agli artisti del tempo, e in particolar modo a Jacopodi Cione, sono riscontrabili nelle opere piú antiche: nella

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Santa Caterina (laterale del trittico conservato nel Museo del-lo Spedale degli Innocenti a Firenze) e nell’Incredulità di sanTommaso (1420 ca.), della Galleria dell’Accademia. In que-sti dipinti è evidente anche la dipendenza dalle cadenze rit-miche del Ghiberti con il quale T sembra abbia lavorato.Nei primi anni del terzo decennio, il pittore si avvicinò siaallo stile di Arcangelo di Cola da Camerino (Madonna giàHeim e Santi di Pontorme) che di Gentile da Fabriano, co-me si rileva nella Madonna di New York (mma), nel taber-nacolo ligneo di San Donato a Calenzano, nell’Adorazionedei Magi (già coll. Dodge di Londra), in certe parti degli af-freschi della cappella Ardinghelli in Santa Trinita (1423-24)e nel polittico per la stessa, quest’ultimo ricostruito ideal-mente sulla base di indizi tecnici (smembrato tra Firenze,Accademia; Philadelphia, coll. Johnson Baltimore, wag; aquesti si aggiunga l’Adorazione dei Magi sopra citata). I restidella decorazione parietale della cappella Ardinghelli, avvi-cinati, per evidenze stilistiche, alla Crocifissione (1426-29:New York, mma), meglio conosciuta come opera del Mae-stro della Crocifissione Griggs, hanno permesso al Bellosi(1966) di identificare l’anonimo autore con T. Il pittore siiscrisse alla Compagnia di San Luca nel 1424. Negli annisuccessivi, compresi fra il 1426 e il 1429, il suo stile subì ilfascino di Masolino e di Masaccio, come si può rilevare nel-la Madonna col Bambino (già Firenze, coll. Bellini) e nellacoppia di cassoni raffiguranti sul fronte la Festa di san Gio-vanni e la Corsa al Palio (1428-29). Conservati rispettiva-mente al Bargello di Firenze e nel am di Cleveland, rappre-sentano l’opera estrema del T. (ebi).

Toschi, Paolo(Parma 1788-1854). Alla precocissima formazione di pitto-re si affianca il contemporaneo tirocinio di incisore, cui se-gue fin dal 1807 la fondazione della Società Parmense degliincisori all’acquerello in compagnia di Tommaso Gasparot-ti, Antonio Isac e Vincenzo Raggio. Il lungo soggiorno pa-rigino (1809-19) vale ad affinarlo tecnicamente e ad aggior-narlo sul piano culturale, in contiguità col Gérard di cui èassiduo, preparandolo a svolgere subito dopo un ruolo es-senziale nella Parma della restaurazione. Qui fin dal ’20 co-pre la carica di direttore dell’Accademia come pure dellascuola di incisione fondata dal cognato Isac nel ’14. Alla spe-

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cializzazione nell’incisione, nella quale consegue risultati diinusitata finezza, si accompagnano gli interessi per la deco-razione, l’urbanistica e l’architettura, nonché l’assiduo eser-cizio del disegno. Il Cicognara riconobbe al T di «venir com-ponendo una quasi terza intelligenza» con la sua intensa at-tività di incisore di traduzione. Le quarantotto tavole adacquerello (1835-43), che preparavano l’incisione dei ciclipittorici correggeschi, si annoverano tra i capolavori del-l’eclettismo romantico italiano per l’intelligente emotivitàdell’interpretazione. (rg).

Tosi, Arturo(Busto Arsizio 1871 - Milano 1956). Giovanissimo compieil suo tirocinio all’Accademia di Brera ma il suo vero mae-stro è Vittore Grubicy che lo introduce nell’ambiente dellapittura lombarda tardo-ottocentesca.T esordisce nei primi anni dell’ultimo decennio del secolonella ritrattistica (Testa di fanciulla e Ritratto del padre), vi-cino al clima scapigliato di pittori lombardi come Ranzoni eCremona. A queste opere segue il cosiddetto periodo «alco-lico» (Nudo rosso, 1895), caratterizzato da un acceso colori-smo di ascendenza manciniana. Dal 1911 T si dedica al pae-saggio, traendo i suoi spunti poetici dalla Val Seriana. Sedapprima T pone l’accento sui valori luministici, via via ilsuo interesse si sposterà – anche con la mediazione delle ope-re di Cézanne – verso la costruzione geometrica delle sue ve-dute. Nel ’22 vince una medaglia d’oro del Ministero dellaPubblica Istruzione, con l’opera La terra. L’anno seguente è consigliere nel direttorio della Corporazione nazionale delle arti plastiche a Milano e nel ’24 espone circa ottantaquadri in una personale alla galleria di Lino Pesaro. Con le frequentazioni assidue del salotto milanese di Margheri-ta Sarfatti si guadagna un posto nel gruppo Novecento, subentrando, insieme a Salietti, a Dudreville, Oppi, Bucci,e Malerba dimissionari. Nel tempo, T diventerà uno degliartisti preferiti della Sarfatti, che apprezzava anche le suedoti di critico d’arte. È presente alla prima mostra del No-vecento italiano, inauguratasi nel febbraio del ’26 al Palaz-zo della Permanente di Milano (con opere come Strada di vil-laggio). Nello stesso anno riesce a vendere La messe alla gamdi Firenze. In seguito fa da tramite per i proficui scambi di

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mostre tra il gruppo degli italiani a Parigi e Novecento, fa-vorendone la divulgazione all’estero. T è presente a tutte leesposizioni di Novecento e nel ’29, nella mostra milanese,ha un’intera sala allestita con suoi paesaggi. Nonostante lasua fedeltà all’entourage della Sarfatti, T afferma di esserelontano dal concettualismo insito in molta pittura novecen-tista e preferisce ricordare le sue origini impressionistiche,ribadendo il suo credo in un’arte naturalistica, che ha la suaragion d’essere, prima che nel pensiero, nella sensazione enell’emozione. Nel 1931 espone alla I Quadriennale di Ro-ma e vince il premio della Fondazione Crespi; nello stessoanno gli viene consegnato anche il Gran Prix di Parigi. Ne-gli anni Trenta e Quaranta dipinge numerose nature morte,conducendo la sua visione del paesaggio sempre piú versouna scarnificazione di linee e colori, estremizzando una ri-duzione geometrica delle forme che assume i contorni di uncerto primitivismo. Nel ’51 il comune di Milano organizzauna sua grande antologica e, dopo la morte (1956), la Bien-nale di Venezia gli dedica una retrospettiva. (adg).

Toulouse-Lautrec, Henri de(Albi 1864 - Malromé 1901). T-L comincia a disegnare aquattro anni, nel 1868: segnale di una predisposizione pre-coce, accentuata da un precario stato di salute che lo co-stringeva a lunghi periodi di immobilità. Di questa attivitàresta memoria grazie alla madre, che conservò centinaia difogli, ancora oggi interessante testimonianza di disegno in-fantile.Nel 1872 la famiglia si trasferisce a Parigi, dove il padrestringe rapporti col pittore animalista René Princetau, benpresto ospite assiduo della casa dei T-L. Per Henri è la pri-ma occasione di confronto con un pittore di una certa leva-tura, che a sua volta è probabile abbia incoraggiato la sua in-clinazione. Dal 1879, T-L comincia a trattare soggetti eque-stri, tema su cui ritornerà con sempre maggiore frequenzanegli anni di apprendistato. In questi lavori, la mano di T-L risulta già piú sciolta e sicura rispetto alle prime prove.Valga da esempio, Alphonse de Toulouse-Lautrec alla guidadella sua carrozza (Parigi, Petit Palais) dipinto intorno al1880.Nel 1882, deciso ormai a dedicarsi alla pittura, si stabiliscea Parigi dove frequenta lo studio di Léon Bonnat, ritratti-

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sta e pittore di storia, noto per essere un buon insegnante.L’anno seguente, poiché Bonnat aveva deciso di chiudere isuoi corsi, T-L passa, come molti dei suoi compagni, nellostudio di Fernand Cormon, un artista che, pur senza essereconsiderato trasgressivo negli ambienti artistici ufficiali, pre-diligeva soggetti inconsueti, ad esempio quelli preistorici.Entrambi i maestri avevano privilegiato la descrizione mi-nuziosa, in linea con il naturalismo che dominava la culturaparigina dell’epoca, e tale orientamento influenza le operedi T-L intorno alla metà degli anni ’80, tra cui ad esempiola riuscita La blanchisseuse (1886 ca.: coll. priv.).Qualche segnale di novità comincia a manifestarsi nell’84,quando T-L lavora nello studio con Albert Grenier e strin-ge rapporti con un gruppo di compagni attenti alle ricerchepiú innovative, impressioniste e post- impressioniste, di que-gli anni. Tra questi Anquetin, Emile Bernard e Vincent vanGogh. Parallelamente, sulla scia delle idee anarchiche pro-fessate dall’amico Aristide Bruant, frequenta la bohème diMommartre e dimostra un certo interesse per le classi po-polari urbane, che rappresenta in illustrazioni che risentonodell’influenza di Raffaelli, Forain e Degas. Da queste fre-quentazioni derivano anche alcuni ritratti, tra cui Carmen(1884: Williamstown, Sterling and Francine Art lnstitute),dove il viso, di straordinaria intensità espressiva e vivacitàcromatica, contrasta con l’impianto coloristico scuro dellosfondo derivato dai suoi maestri. Si tratta dunque di un ac-costamento graduale a nuovi orizzonti culturali, che con-traddice le ricostruzioni biografiche piú tradizionali secon-do cui l’artista avrebbe manifestato all’improvviso, nel 1885,un rifiuto per le teorie accademiche.Al contrario la pluralità degli interessi entro cui si sviluppala ricerca di T-L si riconosce invece in dipinti come Polve-re di riso (1887: Amsterdam, Rijksmuseum Vincent van Gogh), acquistato da Theo van Gogh che all’epoca dirigevala Galleria Boussod & Valadon a Montmartre. In quest’ope-ra che rientra in una serie di ritratti di donne di basso cetocui T-L attende dal 1886 al 1889, l’insegnamento di Bon-nat e Cormon, ravvisabile nella solida struttura tonale, siconiuga con una pennellata piú frammentata e nervosa, econ un’attenzione del tutto inedita per l’utilizzo dei coloricomplementari.

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Questo è il periodo di maggior tangenza tra le ricerche di T-L e quelle dei neoimpressionisti e di van Gogh. Pennellatepiene e colori frammentari caratterizzano i ritratti, comequello della madre (La Comtesse Alphonse de Toulouse-Lau-trec dans le salon du Chateau de Malromé, 1886-87: Albi, Mu-sée T-L) e quello di François Gauzi (1886-87: Tolosa, Muséedes Augustins) dove T-L sperimenta una complessa compo-sizione spaziale e luministica; o ancora quello di Hélène Vary(1889: Brema, kh), uno dei rari casi in cui l’artista si con-fronta con un profilo bello e aristocratico, affatto diversodalle fisionomie deformi e caricaturali che si è abituati adassociare alla sua opera. La ricerca del tipo, la caricatura fuinfatti uno dei suoi principali indirizzi di ricerca che trovaespressione in una grande quantità di schizzi, disegni e illu-strazioni. Tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 in qualitàdi disegnatore umoristico collabora a diversi giornali, e co-mincia ad acquisire una certa notorietà. Se infatti in prece-denza si era limitato ad esporre in provincia oppure in ri-stretti circoli parigini, nel 1886 per la prima volta partecipaalla mostra di Les Vingts, segno che era già riconosciuto co-me un artista di punta.Tra il 1886 e il 1889 collabora saltuariamente a «Le Courierfrançais»: tra i disegni eseguiti per questa rivista figura nel1889 Le Moulin de la Galette che anticipa il soggetto di unadelle sue tele piú importanti (Bal au Moulin de la Galette,1889: Chicago, Art Institute) e testimonia la stretta corre-lazione che esisteva, per T-L, tra le diverse tecniche espres-sive. Quest’ultimo quadro, esposto in occasione della suaprima vera mostra, che si tiene al Salon des Indépendantsdel 1889, è eseguito con una tecnica particolare per cui il co-lore, a olio con sfumature ad acquerello, è applicato in mo-do da lasciar trasparire le linee del disegno sottostante. Ta-le tecnica, che conferisce un tono approssimativo al quadroe che venne accolta con perplessità, era già stata sperimen-tata in un dipinto di poco precedente Al Circo Fernando: Ca-vallerizza (1887-88: Chicago, Art Institute). Entrambi i di-pinti, insieme al manifesto per il Moulin Rouge e al quadroAddestramento delle nuove arrivate, appartengono a una del-le tappe piú importanti dell’iter pittorico dell’artista. Si trat-ta di immagini legate ai nuovi modi di divertimento urbano,spesso fortemente allusive e ricche di riferimenti simbolicitrasgressivi che trovano rispondenza, anche commerciale, nel

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mondo legato ai locali di Montmartre. Il Moulin Rouge, adesempio, non solo commissionò a T-L un manifesto, ma ac-quistò anche un dipinto quale La Goulou che entra al Mou-lin Rouge (1892: New York, moma) esposto al Salon desIndépendents, dove venne lodato da Felix Fénéon.Allo stesso anno risale il manifesto per Aristide Bruant no-tevole per la tecnica innovativa e per l’impianto grafico e co-loristico estremamente semplificato, che negava ogni somi-glianza fotografica.L’opportunità di presentare in pubblico un panorama com-pleto degli ultimi lavori – comprensivo della serie sul Mou-lin Rouge, sul Moulin de la Galette e dei primi manifesti elitografie – gli è offerta nel 1893 dalla Galleria Boussod &Valadon.All’inizio degli anni ’80 l’accentuarsi dell’interesse per lescene di vita moderna lo spinge a intensificare le collabora-zioni con giornali e riviste. Tra questi figura «L’Escara-mouche», che appare nel 1893 e sul quale T-L pubblica unaserie di litografie tra le quali la celebre Alla Gaieté Roche-chouart: Nicolle (Zurigo, kh), il cui segno rapido e incisivoha fatto evocare il nome di Daumier.La collaborazione con i giornali offre a T-L anche la possi-bilità di sperimentare nuove tecniche di incisione. È il casodelle serie di disegni eseguiti nel 1883 e nel 1884 per illu-strare gli articoli di Gustave Geoffroy su «Le Figaro Illu-stré». Per questo infatti T-L si avvale della cromotipogra-fia, una tecnica che consente l’inserimento di zone di colo-re vivaci e contrastate, con effetti non dissimili da quelli deimanifesti dell’epoca. Si veda, ad esempio, il disegno per Laruote (San Paolo, mac). Dalla collaborazione con Geoffroy,un giornalista che negli anni ’80 si era segnalato nella dife-sa della pittura d’avanguardia, nasce nel 1894 l’Album Yvet-te Guilbert, composto da sedici litografie.Accanto a questi temi T-L aveva sviluppato con particolareinteresse quello per le maisons closes, da cui trarrà spuntoper numerosi dipinti. Le notizie sulle date precise entro cuil’artista attese a questa serie, una quarantina di opere, maanche il numero non è sicuro, non sono concordi. Sappiamotuttavia che vi lavorò nella prima metà degli anni ’90. È pro-babile che le opere di dimensioni piú ridotte, spesso solo ab-bozzate, fossero state dipinte dal vero, mentre quelle piú

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complesse abbiano richiesto un lavoro di rielaborazione instudio. Si pensi, in questo senso, a un quadro come Au Sa-lon de la rue des Moulus (1884 ca.: Albi, Musée T-L), da mol-ti ritenuto sintesi espressiva del tema, che ha richiesto uncomplesso processo di preparazione documentato da nume-rosi bozzetti. Anche in questo caso tuttavia il particolareprocedimento tecnico adottato, che lascia emergere in tra-sparenza parti del disegno, conferisce al dipinto un senso diimprovvisazione che accentua l’impressione di immediatez-za della scena.Intorno alla metà degli anni ’90 si intensifica l’attenzioneper il teatro. Attori quali Henry Samary, Julia Bertet, Mar-guerite Moreno e Sarah Bernhardt diventano protagonistidi disegni e incisioni che si segnalano per la sintesi espressi-va con cui l’artista riesce a rendere le fisionomie. Non sologli attori catturano la sua attenzione ma anche il pubblicocon le sue reazioni, i suoi tic, i suoi comportamenti. È il ca-so della celebre litografia Il palco del mascherone dorato(1893) destinata a illustrare il programma del Missionaire diMarcel Luguet, messo in scena al Théátre Libre.Contemporaneamente, in T-L si manifesta un forte interes-se per le arti applicate, condiviso dall’ambiente che ruotavaintorno alla «Revue Blanche». A Bruxelles T-L aveva co-nosciuto l’architetto Henri van de Velde, esponente di ri-lievo dell’Art Nouveau, e sebbene non condividesse del tut-to il suo gusto, ne fu almeno in parte influenzato: tra l’altrodisegnò una rilegatura per la Tauromachia di Goya, esegui-ta da René Wiener ed esposta a Nancy nel 1894: nel 1895fu la volta di un cartone per una vetrata realizzata da Tif-fany a New York (Parigi, mo). All’interno della sua produ-zione i manifesti occupano uno spazio a parte, e di granderilievo. Nati con fini puramente promozionali, i manifestiartistici erano diventati, nell’ultimo decennio del secolo, og-getti da collezione e venivano pertanto tirati in un numeroridotto di esemplari. Nei manifesti di T-L colpisce la sicu-rezza e l’eleganza del tratto e la sua capacità di sfruttare ognipotenzialità espressiva della linea e di un cromatismo senzasfumature, a partiture contrastate.Nel 1895 T-L si reca in Spagna. Questo viaggio, insieme aquello compiuto l’anno precedente nei Paesi Bassi, sembralasciare un’influenza profonda sul suo modo di dipingere. Itoni scuri, talvolta quasi plumbei, i colori densi che caratte-

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rizzano le sue opere piú tarde potrebbero infatti riallacciar-si alla tradizione dei grandi maestri spagnoli e olandesi: Rem-brandt, Hals, Velázquez, Greco, Goya.Nel 1896 l’amico Maurice Joyant allestisce la prima perso-nale di T-L; in due salette separate, arredate con mobili gial-li e tappezzate di velluto color fragola e verde, secondo ungusto che evoca la casa di van der Velde, sono esposti anchei dipinti dedicati alle maison closes.Al volgere del secolo la sua salute andava peggiorando: all’ag-gravarsi della sifilide, causato dall’abuso di alcool e dell’inef-ficacia delle cure cui era sottoposto, si aggiungono crisi psi-chiche. Anche la sua attività espositiva, dopo la personaledel 1898 alla Goupil Gallery di Londra, subisce una battu-ta di arresto.Tuttavia non smette di lavorare, anzi la ricerca di nuovi mo-di espressivi si approfondisce. Le nuove ricerche trovanoespressione in un’opera come Un esame alla facoltà di medi-cina (1901: Albi, Musée T-L), probabilmente il suo ultimodipinto, interamente risolto entro una gamma cromatica scu-ra ed eseguito a pennellate larghe e pastose che contraddi-cono quel senso di facilità di esecuzione che caratterizzavala sua produzione precedente. (mpe).

TournaiIl carattere della scuola pittorica di T (Belgio) resta tuttoramal definito. Lavori di restauro architettonico nella Catte-drale hanno portato alla luce affreschi, i piú antichi dei qua-li risalirebbero al sec. xii. Resta peraltro impossibile trac-ciare la storia o persino individuare un gruppo coerente diopere anteriori al sec. xv. I registri della gilda dei pittori,sfortunatamente distrutti durante l’ultima guerra, attesta-vano l’importanza dell’attività di questa scuola, dominatadalla personalità di Robert Campin, il principale maestro diT. L’influenza del contesto figurativo nel quale questi operòè peraltro avvertibile nella trasposizione pittorica da luicompiuta delle sculture funerarie (intombements) tipichedell’area borgognona. Egli apportò inoltre il gusto di unadescrizione realista volutamente piuttosto grezza, che giun-ge ad adottare fisionomie non classiche, sostenuta da un rit-mo spezzato che conferisce alle sue composizioni una gran-diosità spesso un po’ rude. L’allievo piú importante di Cam-

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pin, Rogier van der Weyden, sfugge alle caratteristiche del-la scuola di T, sia perché si trasferì a Bruxelles, sia per laricchezza della sua arte, che seppe accogliere e rielaborarealtri influssi. Invece Jacques Daret, benché operasse a lun-go ad Arras, sembra restasse fedele alla tradizione del mae-stro, cui conferì peraltro una inclinazione piú aneddotica.Accanto a tali pittori, è difficile individuare altre persona-lità e legare le opere ai nomi indicati dai documenti d’ar-chivi. Tuttavia, la fioritura dei laboratori di arazzi comportòla realizzazione di cartoni probabilmente affidata ad artistilocali: così la Vita di san Pierre di Beauvais presenta uno sti-le che ricorda Campin, mentre i cartoni della Storia di Ales-sandro, di cui conosciamo due disegni preparatori, si acco-stano meglio a Daret. Tuttora ignoti, ma quasi certamentedi T, sono i pittori che realizzarono i cartoni di Robert Dary,Jean de L’Orty e Pasquier Grenier. Infine non si deve di-menticare che Le Tavernier è documentato nella città nel1434, il che consente di supporre l’esistenza di un labora-torio di miniatura a T, seppure non sia ancora stato localiz-zato. (ach).Dal sec. xvi, le opere dei maestri di T di cui ci sono perve-nuti i nomi non sono, generalmente, note; si deve attende-re il sec. xvii per incontrare quadri firmati, come quelli diMichel Boufflon, pittore di nature morte, che operava nel-lo stile dei maestri fiamminghi e che qui fondò una scuoladi pittura tra il 1638 e il 1670. Nel sec. xviii Théobald Mi-chau imitava ancora i paesaggi di Bruegel dei Velluti, men-tre Piat-Joseph Sauvage era uno specialista della miniaturae della pittura a grisaille.Il pittore francese Philippe Hennequin si stabilì a T sotto larestaurazione. Allievo di David e adepto convinto del neo-classicismo, direttore dell’Accademia di T dal 1827, fu mae-stro di Louis Gallait: quest’ultimo, benché nella sua operaconciliasse ancora classicismo e romanticismo, fu comunqueuno dei pittori romantici belgi piú rappresentativi. Hip-polyte Boulenger (nato a T) fu il capofila della scuola di Ter-vueren, che, sull’esempio della scuola di Barbizon, liberò lapittura di paesaggio dall’accademismo, ispirandosi diretta-mente alla natura. (wl).Musée des beaux-arts L’attuale museo, inaugurato nel 1928,deve la propria esistenza al mecenate Henri van Cutsem(1839-1904), che donò allo Stato la propria collezione di ope-

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re impressioniste (Manet, Monet, Seurat) e di disegni, com-missionando il progetto dell’edificio all’architetto belga Vic-tor Horta.L’amicizia che van Cutsem e lo scultore Guillaume Charlier(1854-1925), suo erede universale, nutrivano per il pittoredi T Louis Pion, loro consigliere, fece sì che la città posse-desse uno dei musei meglio impostati, e la miglior raccoltad’impressionisti francesi che possa vedersi nel Belgio. La col-lezione di dipinti è formata da un primo fondo acquistatonel 1848 a Equennez e dalle successive donazioni Fauquez(1843), van Cutsem (1904), del visconte Wissocq-Gallait edi La Fontaine, per citare solo le piú importanti. Vi si tro-vano: San Donato di Jan Gossaert, Madonna col Bambino, at-tribuita a Rogier van der Weyden, due Pieter Bruegel II,due Rubens, due Jordaens, l’Adorazione dei pastori di Ga-spar de Crayer. Una sala è dedicata ai dipinti a grisaille delpittore di T Piat Sauvage, un’altra ai disegni e dipinti diLouis Watteau. Gli Ultimi onori ai conti d’Eqmont e di Hor-nes, l’Abdicazione di Carlo V e notevoli ritratti illustrano lafeconda carriera del pittore di T Louis Gallait, uno dei mae-stri della pittura di storia del sec. xix.Infine, due celebri tele di Edouard Manet, Argenteuil e Dapapà Lathuille, opere di Seurat e di Monet, Fantin e BastienLepage, Ensor, Boulenger, de Braekeleer, Joseph Stevens,van Strydonck e Verstraete costituiscono la sezione moder-na del museo, completata da un’ampia collezione di disegnie incisioni del sec. xix, tra cui un van Gogh e due Toulou-se-Lautrec. Recentemente il museo si è arricchito di una se-zione didattica che ripercorre con una documentazione fo-tografica di tavole a grandezza naturale l’attività del Mae-stro di Flémalle e di Rogier van der Weyden. (lp).

Tournier, Nicolas(Montbéliard 1590 - Tolosa 1639?). Il problema della suaformazione è collegato a quello del padre, André T, anch’e-gli pittore, originario di Besançon che non può piú essereconsiderato l’autore dei ritratti dei consoli di Narbona(1600-603) che un tempo gli venivano attribuiti. Il suo sog-giorno a Narbona, come quello del figlio, pertanto non è cer-to, e resta dunque aperta la questione della formazione diNicolas. Vari documenti (tra il 1616 e il 1626) ne attestano

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il soggiorno a Roma; nel 1619 abita nella stessa casa del pit-tore caravaggesco di Liegi Gérard Douffet. A Roma T fu,secondo quanto trasmessoci dallo storiografo tolosano Ber-nard du Puy du Grez, allievo di Valentin. Di fatto, egli imi-ta il suo stile e quello di Manfredi (dal quale forse realizzaalcune copie; due Bevitori: Modena, Pinacoteca Estense):scene di taverna, tipi, maniera contrastata e drammatica, so-no tutti elementi tratti dai quadri di Caravaggio. Le opereromane di T, a lungo confuse con quelle di Valentin, se nedistinguono per la nettezza del disegno, che insiste sugli ef-fetti stilizzati e lineari, per la sobrietà nel trattamento delleforme, per lo spirito piú prosaico che differisce da quello mi-sterioso e lirico di Valentin: così il Sinite Parvulos (Roma, gn,Gall. Corsini), i due Concerti del Museo di Bourges e delCity Art Museum di Saint Louis, il Suonatore di flauto (Pi-nacoteca di Brescia) o la Negazione di san Pietro (Madrid,Prado). Tornato in Francia, lo ritroviamo dal 1627 a Car-cassonne e nel 1632 a Tolosa: divise da allora la propria vi-ta tra Tolosa e Narbonne. Accanto ai temi caravaggeschi,trattò soggetti storici e sacri. La sua maniera, avviata versouna stilizzazione ancor piú netta, divenne piú sobria affer-mando un austero classicismo in opere come Il trasporto diCristo al sepolcro, Madonna col Bambino, Deposizione dallaCroce, e soprattutto la prodigiosa Vittoria di Costantino suMassenzio (tutte a Tolosa, Musée des Augustins). Opere ana-loghe sono il Concerto, e il monumentale Calvario (1644?)conservato al Louvre, vicino a quello per la chiesa di Saint-Serge a Narbona. Le opere di T, sia del periodo romano co-me del francese pongono ancora agli storici dell’arte delica-ti problemi di attribuzione: così è per il Corpo di guardia diDresda (gg), prossimo a Manfredi, e per i Pellegrini di Em-maus di Nantes (mba) tuttora discussi. La datazione che com-pare sul Giuda e Giuseppe della Cattedrale di Narbona(1655), firmato Fournier anziché T, ha fatto per lungo tem-po ritenere che il pittore fosse morto dopo il 1655. (jpc).

Tournières (Robert le Vrac, detto)(Caen 1668-1752). Dopo studi nella città natale, fu allievoa Parigi di Bon Boullogne; venne accolto nell’Accademiaprima come ritrattista nel 1702 (Ritratto P. Mosnier: Ver-sailles), poi, nel 1716, come pittore di storia, con un picco-

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lo quadro (Dibutade: Parigi, enba). Si dimostra aggiornatosugli esiti della pittura dei contemporanei Raoux e Grimoue influenzato dagli olandesi (la Cantante: San Pietroburgo,Ermitage). Autore di ritratti allegorici con fiori (l’Estate,1717; l’Autunno, 1718: ambedue a Rouen, mba), dipinse an-che ritratti di famiglia (la Famiglia Maupertuis 1715, con al-tri esemplari, datati dal 1721 al 1724, al Museo di Nantes;M. de Cannat e i suoi figli: Museo di Marsiglia) dalla compo-sizione complessa ma piena di vigore. I ritratti individuali(musei di Caen e di Cherbourg; il Cancelliere d’Aguesseaucon la moglie: Parigi, mad; il Cancelliere Pontchartrain: Di-gione, mba), assai accurati, s’impegnano soprattutto a rile-vare gli effetti del drappeggio, fremente e decorativo. (as).

ToursPer ordine di Carlomagno, l’abbazia di San Martino a T di-venne tra 796 e 804, centro di studi ed edizioni bibliche af-fidato alla direzione del dotto anglosassone Alcuino. Le pri-me testimonianze artistiche della città sono di scarso inte-resse dal punto di vista qualitativo, soprattutto quandoconfrontate con lo splendore dei codici della corte palatina:la decorazione, assai povera, rivela soprattutto influssi daiLibri di Lindisfarne e di Kells dovuti agli illustratori che Al-cuino aveva portato con sé dalle isole britanniche. Dopo lamorte di Alcuino, sia il suo diretto successore, Fridugise(807-34) che gli abati susseguenti, mantennero la funzionedi T quale grande centro di studi di testi antichi ponendolain piú stretto contatto con gli ambienti di corte. Verso lametà del sec. ix furono due gli stili che qui si svilupparono.Nel primo, piú stilizzato, i personaggi si stagliano come om-bre cinesi, minuti e leggeri, su uno sfondo di colore chiaro(grigio, rosa, verde), secondo una tecnica sempre piú perfe-zionata i cui primi esempi si trovano in opere della scuolapalatina di Aquisgrana (Evangeliario di Saint-Médard di Sois-sons: Parigi, bn, ms lat. 8850, e Vangelo di Lorsch) e che mol-to deve allo studio della glittica e della numismatica antica.Sono decorati in questo modo i Vangeli di san Gauzelin (840ca.: Nancy, Tesoro della Cattedrale), eseguiti per Arnaldus,un dignitario della corte di Luigi il Pio, il Sacramentario diMarmoutier (850 ca.: Autun, bn, ms 19 bis), scritto per l’aba-te Rainaud (Raganaldus), la Bibbia di Alcuino (Bamberga,

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Staatliche Bibl., Misc. dass. Bibl. I). L’altro indirizzo stili-stico è invece piú monumentale e fortemente ispirato all’an-tichità classica: così la Bibbia di Moûtier-Grandval (840 ca.:Londra, bm, Add. 10546) e l’Aritmetica di Boezio (850 ca.:Bamberga, Staatlische Bibl., Misc. class. 5). La terza e piúfamosa tra le Bibbie dello scriptorium di T, non è, si potrebbedire, che la terza, arricchita e piú complessa «edizione» del-le Bibbie di Alcuino e di Moûtier-Grandval. Venne donataattorno all’845 dall’abate Vivien (843- 51) a Carlo il Calvoed è detta Prima Bibbia di Carlo il Calvo (846 ca.: Parigi, bn,lat. 1): tra i miniatori, che parteciparono alla decorazione sidistingue la mano dell’artista, formatosi probabilmente aReims, autore dei Vangeli di Lotario. Il manoscritto vennerealizzato a Saint-Martin tra l’849 e l’851, poi offerto daLotario all’abbazia stessa dove era stato approntato. Il sac-co di T da parte dei Normanni, nell’853, pose fine all’atti-vità dello scriptorium carolingio. (dg + sr).Musée des beaux-arts Le collezioni del museo si costituiro-no a partire dal 1790 con gli oggetti provenienti dalle pro-prietà ecclesiastiche e dai beni di emigrati confiscati a T enega regione (specie dai castelli Chanteloup, Amboise, Ri-chelieu e dalle abbazie di Marmoutiers Le Sueur, di Beau-mont-lès-Tours e della Visitation), messi in salvo da un pro-fessore della Scuola centrale di disegno, Antoine Rougeot, eda suo genero, Ravenot, che gli successe come conservatore.Benché il museo non fosse compreso nel decreto consolaredel 14 fruttidoro anno ix, che fondava quindici musei di-partimentali, l’esistenza di un museo a T venne ufficialmen-te riconosciuta un anno dopo, su istanza del prefetto, il ge-nerale de Pommereul, appassionato d’arte. Il museo benefi-ciò allora di assegnazioni governative, ricevendo, in piúriprese, trenta dipinti, tra cui due Rubens (Ex voto), una se-rie di lavori per l’ammissione all’Accademia di pittura (Re-stout, Sébastien Le Clerc, Nattier) e soprattutto due operefondamentali: i pannelli di predella provenienti dalla pala diMantegna dipinta per San Zeno a Verona, Cristo nell’orto de-gli ulivi e la Resurrezione (il terzo elemento, il Calvario, è alLouvre). Le collezioni si ampliarono di continuo, con parti-colare regolarità dalla seconda metà del secolo in poi, graziead eccellenti acquisti (come quello delle collezioni Catheli-neau nel 1858 e Schmidt nel 1874) e a numerose donazionie lasciti, che, fino ad anni recenti, sono affluiti regolarmen-

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te (lasciti Trobriaut, Foulon de Vaulx, 1952; lascito Linet,1963). Il museo trovò sede definitiva, nel 1910 nell’anticoarcivescovado, bell’edificio le cui parti principali risalgono alxvii-xviii secolo. Oltre alle opere citate, una parte importanteè costituita da dipinti del Settecento, che ben si armonizza-no con gli elementi architettonici, l’arredo e gli oggetti d’ar-te provenienti in gran parte da Chanteloup, feudo del ducadi Choiseul e poi del duca di Penthièvre. Così i quattro Pae-saggi di Houel, i sei pannelli mitologici dei Boullogne, i duemedaglioni di Boucher (Aminta, e Silvia fugge il lupo) hannoriacquistato il ruolo decorativo per il quale erano stati con-cepiti; a questi va aggiunta una bella serie di ritratti (Largil-lière; Raoux; Perronneau, Autoritratto; Tocqué, il Duca di Ri-chelieu; Vestier, il Veterano Jean Theurel; Roslin) e di quadridi storia (Restout, Morte di santa Scolastica; F. Lemoyne; Nat-tier). Costituiscono altri gruppi interessanti i primitivi ita-liani del lascito Linet, una rara serie di quadri del. sec. xviiiitaliano (Magnasco) e dell’Europa centrale (Maulbertsch), uncomplesso caravaggesco (Vignon), qualche quadro olandesedel sec. xvii (Rembrandt, Fuga in Egitto). Tra gli artistidell’Otto-Novecento sono rappresentati Delacroix, Chassé-riau, Degas, Vulliard, Denis, Bauchant e pittori locali. (gb).

Towne, Francis(Exeter? 1739/40 - Londra 1816). Si formò con Shipley econ William Pars e, nel 1759, ottenne un premio alla So-ciety of Arts, presso la quale espose dal 1762 al 1773. Ben-ché la maggior parte delle sue opere sia stata eseguita a olio(Veduta di Haldon Hall, presso Exter, 1780: Londra, TateGall.; la Valle della Teign nel Devonshire, 1780: Leicester-shire Museum ag), è noto soprattutto come acquerellista.Espose per la prima volta alla ra nel 1775. Visitò il Gallesnel 1777, l’Italia nel 1780 (importante serie di acquerelli ro-mani a Londra, bm) e nel 1786 la regione dei Laghi (la Val-le di St John dal lato di Keswick, 1786: Leeds, City ag). Il suoperiodo piú interessante – gli anni trascorsi in Svizzera – ècaratterizzato da una tecnica sintetica, da zone di colore piat-to, delimitate da un tratto incisivo (la Sorgente dell’Arveironcon veduta sul Monte Bianco, 1781: Londra, vam). La sensi-bilità che mostra nel disegno è affine a quella orientale (Hy-de Park, studio di un albero, 1797: Toledo, Ohio, am). (ins).

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Toyen (Maria Ωermínova, detta)(Praga 1902 - Parigi 1980). Compiuti gli studi alla Scuolad’arti e mestieri di Praga, incontra nel 1922 J. √tyrsky colquale si trasferirà per quattro anni (1925-29) a Parigi e ade-rirà nel 1923 al gruppo Devûtsil. Partita da una ricerca cu-bista, con √tyrsky sceglie la via di una pittura piú astratta-mente lirica (artificialismo). Di questo periodo sono i dipintiToboggan (1926: Praga, ng), di piú marcato geometrismo,Fata Morgana (1926: Hluboká, Gall. Alès), dove il colore èreso autonomo dal soggetto, appena suggerito da qualche se-gno sobrio, Fumo di sigaretta (1927: Praga, coll. priv.), tes-suto immateriale di luci e ombre. Presto (dal 1931) la sua ri-cerca si orienta verso forme surreali: paesaggi evocatori, not-turni o sottomarini (Gobi, 1931: Hradec Kralové, Museo),proiezioni del subconscio. Nel 1934 è tra gli artisti cecoslo-vacchi che abbracciano la poetica del surrealismo. Le suecomposizioni sono visioni e combinazioni suggestive di ir-reale e di dejá-vu, improbabili accostamenti di oggetti e ap-parizioni (ciclo dei Fantasmi del deserto, 1937); il senso di an-goscia che trasmettono si andrà amplificando fino al paros-sismo nel ciclo Nasconditi guerra! (1944), immagine di unmondo devastato e desolato. Su questa linea si collocano an-che le opere realizzate nel dopoguerra: l’Avvenire della libertà(1946), Canto del giorno (1950). Trasferitasi definitivamen-te in Francia dopo l’esposizione del 1947 da Denise René(Parigi), T ha partecipato a tutte le principali mostre sur-realiste a livello internazionale. Della sua collaborazione con√tyrsky si ricorda il ciclo di collages fantastici dedicati allamemoria del poeta K. H. Mácha. (ok + sr).

ToyuqComplesso monastico in rovina, nella regione del TurfÇn(Turkestan cinese, o Serindia), le cui mura, un tempo, eranoricoperte di pitture del v-x secolo d. C. ca. Presenta ancoraqualche opera vicina a quelle del Qyzy1, ma la maggior partedelle testimonianze pittoriche appartiene alla scuola di TurfÇnnella sua fase tarda, contraddistinta da una decorazione cheripete instancabilmente la figura del Buddha, secondo unaspecie di litania propizia al donatore. Motivi di origine ira-niani si ritrovano nell’ornamentazione (medaglioni imperlaticon testa di cinghiale, merli, foghe polilobate). (mha).

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Tozzi, Mario(Fossombrone (Pesaro) 1895 - Saint-Jean-du Gard 1979).Frequenta l’Accademia di belle arti di Bologna con Mo-randi e Licini. A contatto con il clima della Secessione, de-dica le sue prime ricerche allo studio dei primitivi e dellagrande pittura italiana. Una linea di ricerca piú personaleha inizio nel 1919 con il suo arrivo a Parigi. Qui incontranuovamente Licini e si lega con gli artisti italiani presenti,con i quali forma il «gruppo dei sette» (Campigli, De Pi-sis, Paresce, De Chirico, Savinio, Severini). Frequenta labohème di Montparnasse, in particolare Ozenfant. Lo stu-dio di Seraut da una parte e di Cézanne dall’altra orienta-no l’artista verso l’analisi della luce e l’approfondimentodella struttura e della composizione. Nel 1921 aderisce aValori Plastici. Tra i capolavori di questo periodo ricor-diamo La toeletta del mattino (1922 ca.: coll. priv.). Dal1923 è presente in tutte le esposizioni piú famose. Nonmanca a nessun appuntamento del Novecento italiano; in-tensifica la sua collaborazione a riviste d’arte di letteratu-ra italiane e straniere; è infaticabile la sua opera di criticoe organizzatore di mostre per diffondere la pittura italia-na all’estero.Alla fine degli anni Venti inizia una nuova fase della pittu-ra tozziana espressa in una rielaborazione della metafisicasovrapposta all’intellettualismo cubista. Segna questo pe-riodo un’opera come L’officina dei sogni, (1930: Firenze,Museo Internazionale d’arte contemporanea). All’arrivo aRoma intorno al 1934 e all’interesse per le pitture murali,dove trova la possibilità di esprimere il suo spirito costrut-tivo, fa seguito un lungo periodo di silenzio dovuto a moti-vi di salute, durante il quale dipinge solo nature morte. Tor-na ad esporre nel 1958. Il motivo dominante della sua pit-tura saranno ora le figure femminili. Mentre nel periodoprecedente erano vere e proprie figure monumentali, co-struite architettonicamente, ora diventano simboli, archeti-pi della memoria che richiamano pitture egiziane e mosaicibizantini. Aumentano i motivi geometrici e anche il coloreva rarefacendosi e smaterializzandosi. La sua pittura giungequindi a una sorta di stilizzazione che ancora una volta è ri-torno all’antico. Gli anni Sessanta vedono anche il suo de-finitivo ritorno in terra francese. (chmg).

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Traballesi, Giuliano(Firenze 1727 - Milano 1812). Formatosi a Firenze, alle di-pendenze di Antonio Galli Bibbiena, è attivo nella decora-zione del teatro di Siena. Nel 1764 vince il concorso indettodall’Accademia di Parma con il quadro Furio Camillo liberaRoma dai Galli Senoni (Parma, pn). Fino ad allora poco noto,dopo tale successo espande rapidamente la sua attività in To-scana volta di Santa Maria della Misericordia a Siena e ilTrionfo di Maria nella cupola del Santuario della Madonna diMontenero presso Livorno, 1771-74). In tali opere si ricono-sce il persistere della grande tradizione barocca, sia pur conelementi di semplicità compositiva che preludono al neoclas-sicismo. Queste ultime caratteristiche si accentuano nel pe-riodo lombardo, quando le sue scene mitologiche si allegge-riscono notevolmente senza però riuscire completamente a li-berarsi dagli echi delle grazie rococò. Chiamato dal conteFirmian a Milano nel 1775 per decorare il Palazzo Ducale (poiReale), l’anno seguente viene nominato professore di pitturanella nuova Accademia delle belle arti, mantenendo tale in-carico sino al 1807. A Milano svolge un’intensa attività difrescante per palazzi privati (Serbelloni, Fontana-Silvestri Ne-groni-Prati) e per le chiese di San Francesco e San Gottardo.Purtroppo molte delle decorazioni sono state distrutte daibombardamenti del 1943 e se ne conservano per lo piú solo ibozzetti e i disegni preparatori (Gloria di san Francesco da Pao-la: Milano, gam; L’Aurora fuga la Notte, 1778-80 ca.: Mila-no, Brera; Mercurio e le Tre Grazie: Milano, Ambrosiana). Unautoritratto di T è nella milanese Pinacoteca di Brera. Va ri-cordata anche la sua attività di incisore (Venticinque quadri diMaestri eccellenti incisi da Giuliano Traballesi, 1796). (apa).

Trachsel, Albert(Nidau (Berna) 1863 - Ginevra 1929). Frequentò la Scuola dibelle arti di Ginevra; seguì corsi di architettura al Politecni-co di Zurigo e all’Ecole des beaux-arts di Parigi dove fu al-lievo di J. Gaudet. È l’autore delle Fétes réelles, album che rac-coglie tavole di «architettura visionaria», edito da «Le Mer-cure de France» nel 1897. Nel 1900 abbandonò il simbolismodedicandosi alla pittura di paesaggio raffigurando laghi, pia-nori, montagne, eseguiti ad acquerello e poi a olio con una gra-fia spontanea, sottilmente ritmata, e con vivaci colori. (jbr).

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Traini, Francesco(Pisa, notizie dal 1321 al 1345). Scarse le notizie sulla vitadell’artista attivo soprattutto a Pisa secondo quanto si evin-ce dai pochi documenti a noi pervenuti. «Franciscus olimTraini», ricordato in due regesti del 1321, è stato identifi-cato con quel «Franciscus pictor» che nel 1322 ricevette ilsaldo per alcuni lavori compiuti nel Palazzo degli Anziani.Viene menzionato poi in un documento del 1340 dove si ac-cenna a un pagamento effettuato dalla Fraternita delle Lau-di per la realizzazione della Bandinella che, probabilmente,è da identificarsi con quella della pv in cui è raffigurata laFlagellazione. Altre notizie che lo riguardano provengono dalVasari che gli riferisce due pale d’altare della chiesa pisanadi Santa Caterina: San Domenico con otto storie della sua vi-ta (ora Pisa, Museo di San Matteo, firmato e datato 1345)e il discusso Trionfo di san Tommaso, realizzate entrambe perdue cappelle della chiesa intitolate ai santi omonimi e la se-conda attribuibile all’ambito di Simone Martini. I referen-ti principali della sua cultura sono stati certamente la pittu-ra e la scultura pisana del primo Trecento e il «gotico» di Si-mone Martini (circolante a Pisa già nel 1319 con il politticodella chiesa di Santa Caterina) e della sua bottega. Il pitto-re mostra di conoscere lo stile di Pietro Lorenzetti e le ope-re avignonesi di Matteo Giovannetti delle quali si scorgonoimpronte evidenti nelle storiette del polittico di san Dome-nico. Peculiari dei dipinti di T sono però la resa drammati-ca delle composizioni e la caratterizzazione espressiva deipersonaggi. Al periodo giovanile risalgono: San Michele ar-cangelo (Lucca, Museo di Villa Guinigi); la Madonna col Bam-bino (già Pisa, coll. Schiff), connessa a Santa Caterina (Auck-land Museum of the University of North Carolina); QuattroSanti (Pisa, Museo di San Matteo), nonché il polittico smem-brato che comprendeva Sant’Anna Metterza (Princeton, NewJersey, ag); San Paolo (Nancy, mba); San Gregorio (NewYork, ex coll. Wildenstein). A T sono state assegnate anchele miniature del manoscritto con il commento in latinodell’Inferno dantesco del 1430 ca., scritto dal frate carmeli-tano Guido da Pisa (ora Chantilly, Museo Condé, n. 1424),dove si rilevano quelle innovazioni formali che sono la pre-messa per le opere più tarde. Al T, ritenuto dagli studiosil’esponente di maggior rilievo della pittura pisana del Tre-

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cento, furono assegnati fin dalla fine dell’Ottocento gli af-freschi del Camposanto, tra i quali il Trionfo della Morte. Maaccertato (Bellosi, 1974) che questo appartiene a Buffal-macco, la paternità del T va limitata alla drammatica Croci-fissione.Il catalogo del pittore, che si è andato progressivamente am-pliando, comprende, tra l’altro, una Santa Caterina (Pisa, Mu-seo di San Matteo); un San Paolo (Siena, coll. Chigi Saraci-ni) e una Madonna col Bambino della chiesa pisana di San Ni-cola. L’ultima fase del T è rappresentata dal trittico di sanDomenico, intorno al quale sono stati raggruppati i mosaicidel Duomo (Annunciazione e Assunzione, rispettivamente neltransetto destro e sinistro); un Cristo Benedicente (ChapelHill, Auckland Museum of the University of North Caroli-na) e due tavole con la Madonna col Bambino, conservate neimusei del Prado (Madrid) e di San Matteo (Pisa). (ebi).

tramezzoLa tipologia dei t dipinti rappresenta una particolarità lega-ta alle esigenze edilizie dell’ordine francescano dell’Osser-vanza, e in particolare al momento della predicazione di sanBernardino in area lombardo-piemontese. Si tratta di gran-di pareti che dividevano, all’interno della chiesa, lo spaziodedicato alla predicazione dall’area riservata ai monaci perla celebrazione eucaristica. Con il venir meno della fase piúrigorista dell’Osservanza, si pose il problema della decora-zione dei t, con una tipologia omogenea tra l’ultimo quartodel sec. xv e i primi trent’anni del successivo, per la cui ori-gine è stato fatto riferimento ai Fastentücher di area tede-sca. Il primo caso, identificato attraverso i documenti, èquello del San Giacomo di Pavia dove il contratto con i pit-tori Foppa, Bonifacio Bembo, Zanetto Bugatto, Costantinoda Vaprio e Giacomo Vismara (pagati nel 1477), prevedevaventuno scene della Passione, con al centro la Crocifissionesu un’area pari a quattro delle altre scene (affreschi distrut-ti nel sec. xviii). Proprio questa precisione del documentoconsente di ipotizzare una diretta derivazione da questo mo-dello per due tra i piú importanti cicli tuttora conservati:quello di Spanzotti nella chiesa di San Bernardino a Ivrea equello di Gaudenzio Ferrari in Santa Maria delle Grazie aVarallo. Lo svolgimento di un capitolo generale dell’ordineproprio in San Giacomo, nel 1478, fornì un effettivo im-

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pulso alla diffusione di questa tipologia, che comunque su-birà presto delle variazioni. Infatti a Caravaggio (nella chie-sa di San Bernardino, affreschi di Fermo Stella), a Borno(chiesa dell’Annunciata) e a Bellinzona (Santa Maria delleGrazie) il rapporto strutturale tra le scene e la Crocifissionecentrale è variamente interpretato, fino a giungere all’ela-borazione di un’unica scena da parte di Bernardino Luini aSanta Maria degli Angeli di Lugano, esempio ripreso da unsuo seguace nella omonima chiesa di Cravenna di Erba. Trai cicli tuttora conservati, il ciclo di Martinengo (chiesadell’Incoronata) testimonia la persistenza di questo model-lo fino al sec. xvii. Le fonti ricordano t affrescati, distruttiin massima parte tra il xvii e il xviii secolo, in molte altrechiese dell’Osservanza, sparse capillarmente sul territoriolombardo. Tra questi va citato almeno quello del Sant’An-gelo fuori le mura di Milano, ricordato nel Cinquecento co-me una delle opere piú importanti della città. (sba).

TramullasLa fioritura della pittura catalana nel sec. xviii, iniziata daViladomat, ha seguito nella produzione dei suoi migliori al-lievi, i fratelli T, Manuel e Francisco.Manuel (Barcellona 1715-91) si orientò piuttosto verso la pit-tura decorativa e «prospettica». Incaricato di dipingere la na-vata di Santa Maria del Mar (distrutta nel 1936) e la sala delteatro dell’Opera, affidatagli dal capitano generale marche-se de la Mina, ha lasciato anche alcuni quadri (Carlo III pren-de possesso del suo canonicato: Barcellona, Cattedrale).Francisco (Perpignan 1718 - Barcellona 1773), che sembra ilpiú dotato, fu attivo in diverse località e centri catalani. Com-pletò gli studi a Parigi, poi a Madrid (1746), dove restò dueanni, e venne eletto accademico di San Fernando (1754). Eb-be una commissione per tre grandi dipinti per la Cattedraledi Perpignan. Lavorò per le chiese di Gerona e di Tarragona.I dipinti della cappella di San Esteban nella Cattedrale di Bar-cellona (Vita di santo Stefano) costituiscono uno dei risultatimigliori cui giunse la sua maniera agile e brillante. (pg).

transavanguardiaMovimento artistico italiano sorto tra la fine degli anni Set-tanta e gli inizi degli anni Ottanta. La denominazione e la

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definizione teorica del movimento risalgono al testo criticodi Achille Bonito Oliva, La Transavanguardia Italiana (1980),testo nel quale vengono analizzate le principali caratteristi-che del nascente movimento e vengono presentati al pub-blico quelli che l’autore considera i rappresentanti della nuo-va tendenza: Sandro Chia (Ossa, carne, fossa, 1978: NewYork, Sperone Westwater Fischer), Enzo Cucchi (Lingue Fe-roci, 1980: Amsterdam, sm), Nicola De Maria (Musica-oc-chi, 1978-80: installazione Venezia, Biennale, 1980), Fran-cesco Clemente (Trasformazione in lei, 1983: New York, mo-ma), Mimmo Paladino (Silenzioso, pieno di stelle, 1979:Amsterdam, sm; Senza titolo, 1988, 65 elementi in rame, 13sculture in bronzo: New York, Sperone; Londra, Gall. Wad-dington). All’origine, secondo quanto teorizzato da BonitoOliva è la «catastrofe», cioè la capacità dell’arte di creareuna rottura degli equilibri linguistici e ideologici presenti neltessuto culturale degli anni Sessanta e Settanta. Di fronteall’impossibilità di una visione unitaria e lucidamente pro-gressiva del mondo, di fronte alla crisi di determinati siste-mi di pensiero, ideologici, politici, economici e scientifici siassiste a una crisi parallela della concezione progressista ine-rente la natura sperimentale delle avanguardie storiche e del-le neoavanguardie. Rispetto dunque ai movimenti artisticiche la precedono, la t si distingue per un rifiuto di quella cheBonito Oliva chiama «l’isteria del nuovo», vale a dire l’ideadi progresso implicita nel continuo sperimentare nuove tec-niche e nuovi materiali che, all’inizio degli anni Settanta,aveva portato a un netto rifiuto dei linguaggi tradizionali ea un tipo di ricerca che privilegiava l’uso di mezzi extraar-tistici.Attraverso una «mutazione» del panorama artistico si attua,con la t, un superamento del «darwinismo linguistico», cioèdella linea evolutiva che dalle avanguardie storiche alle neoa-vanguardie degli anni Sessanta aveva caratterizzato lo svi-luppo dell’arte. La t non soltanto si situa volontariamentefuori da questa linea di sviluppo, rivendicando la possibilitàdi assumere un atteggiamento «nomade» di reversibilità di tutti gli stili del passato (partecipando in tal modo a unclima culturale nel quale trovano posto anche i pittori «citazionisti» o «ipermanieristi»), ma si caratterizza anchee soprattutto, rispetto all’arte smaterializzata o impersona-le degli anni Settanta, per un ritorno alla pittura, all’uso di

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metodi e tecniche tradizionali, a tempi di esecuzione lenti,alla figurazione. Viene dunque ripristinata la «tradizionedella pittura» attraverso una rinnovata attenzione al campodella manualità e alla dimensione del «piacere» inerente iltempo dell’esecuzione pittorica. Se infatti, spiega BonitoOliva, non è piú possibile per l’arte darsi come progetto diuna visione unitaria del mondo, se è crollata la fiducia nel-la possibilità, da parte dell’azione artistica, di un interven-to modificatore della realtà esterna all’opera, allora viene acadere anche la fiducia nel valore della sperimentazione co-sì come essa era stata intesa sin dalle avanguardie storiche.L’artista della t è libero allora di assumere una posizione di«eclettismo», di spaziare cioè nel territorio dell’arte e deglistili senza alcun tipo di preclusione. Assistiamo dunque auna contaminazione di tutti i livelli della cultura, da quelli«alti» dell’arte e delle avanguardie storiche a quelli «bassi»delle correnti minori e di tutto l’ambito della cultura popo-lare fino ai prodotti dell’industria dei mass-media. Si fa stra-da il concetto di «nichilismo compiuto» o «attivo» (libera-to cioè dalla componente di disperazione nietzchiana) comequell’atteggiamento proprio dell’artista della t che vede l’ab-bandono della fiducia nel carattere in un certo qual modoutopico della tradizione dell’avanguardia, nelle sue possibi-lità progettuali, a favore di una condizione di precarietà ed’incertezza svincolata da ogni centralità. La dimensione incui si situa questo operare è dunque priva di riferimenti, diqualsivoglia ancoraggio teorico o direzione prefissata. A unafrantumazione di ogni visione unitaria del mondo corri-sponde parallelamente la frantumazione di una possibile ideaunitaria dell’opera d’arte la cui unica ragione sta ora nel cam-po della sensibilità individuale ed espressiva dell’artista. Ri-spetto al cosmopolitismo avanguardista, all’espansione ver-so lo spazio esterno, all’opera delle neoavanguardie paralle-la all’ideologia socializzante e comunitaria di queste ultime,l’arte della t si colloca in una dimensione volutamente «mi-noritaria» dove acquista nuovo rilievo il campo della sog-gettività individuale. Essa inoltre si caratterizza per una rin-novata attenzione verso le radici culturali specifiche del ter-ritorio e dell’ambiente in cui l’artista si trova a operare (ilgenius loci). A questo proposito Achille Bonito Oliva ri-scontra una tendenza analoga alla t italiana in Germania e

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negli Stati Uniti. In Germania, sotto il segno soprattutto diuna ripresa di radici surrealiste a livello letterario ed espres-sioniste a livello pittorico, con un’apertura anche verso ap-porti astratti (Vedova, Klee, Beuys), Bonito Oliva vede unrecupero di un’identità nazionale in particolare nell’operadi Georg Baselitz, Jorg Immendorf, Per Kirkeby, MarkusLüpertz e A. R. Penck. Negli Stati Uniti, a fronte di un ana-logo recupero dei motivi pittorici delle culture locali, si as-siste a una svolta che privilegia il recupero della pittura le-gata all’elemento soggettivo e personale. Una svolta apertaa molteplici e differenziati apporti, ma preparata, secondoil critico, dall’opera di artisti come Frank Stella (1936) e CyTwombly (1928) e i cui rappresentanti sarebbero artisti ca-liforniani e newyorchesi: Jean Michel Basquiat, David Deut-sch, David Salle, Juhan Schnabel e Robert S. Zakanitch.(are).

trasportoSostituzione del supporto originario di un dipinto con unonuovo, flessibile o rigido. Il termine, di origine francese (tran-sport), viene soprattutto usato in relazione ai dipinti su ta-vola e su tela, pur non escludendo altri tipi di supporto (peri dipinti murali: → anche stacco e strappo). L’invenzione delmetodo risale alla prima metà del Settecento e se la sono con-tesa francesi e italiani: il lorenese Roxin sembra aver inizia-to nel 1736 e il parigino Picault nel 1740 (Marot), ma si hanotizia dal La Lande di un Domenico Michelini attivo a Ro-ma già nel 1729 e da de Brosses di un artigiano operoso, sem-pre a Roma, nel 1740. Comunque sia è in Francia che la tec-nica viene sviluppata e affinata e la sua rinomanza è così stret-tamente collegata all’operato di Robert Picault – si pensi, adesempio, allo scalpore suscitato dal suo t su tela nel ’49 del-la Carità di Andrea Del Sarto esposta al Luxembourg con afianco, integro, il supporto ligneo originario – da averlo fat-to ritenere l’inventore di un metodo che, tenuto segreto, al-tri hanno solo imitato. Ben presto, infatti, nuovi operatori,celebri M.me Godefroyd e Louis Haquin, gli contenderannola fama, tra polemiche aspre e annose poi perpetuate da Pi-cault e Haquin figli. Poco sappiamo dei primi sistemi di t, senon che potevano anche essere inutilmente brutali: azionedel fuoco o dell’acquaforte per disfarsi del vecchio supporto,oppure rimozione a strappo della pellicola pittorica per con-

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servare integro il supporto a testimonianza dell’intervento odella propria capacità tecnica; e, inevitabilmente, le grandisperanze riposte nel metodo, che si riteneva potesse «assicu-rare alla posterità la conservazione delle opere dei pittori ce-lebri, garantendole dall’oltraggio del tempo» (Encyclopedie,1765, XII, 272), andarono deluse nel giro di pochi lustri.L’Ottocento si apre con la dettagliata relazione tecnica del-la Commissione che vigilò sul memorabile t della Madonna diFoligno di Raffaello, eseguito da François Haquin nel 1801;è quasi un manifesto della politica del nuovo mn, tangibileinversione di tendenza che sarà propria di tutto il secolo: dalsegreto di bottega verso un’impostazione metodologica,«scientifica», degli interventi. Oltre che alla pubblicazionedella prima manualistica europea dedicata al restauro, assi-stiamo a vere e proprie novità in ambito operativo, tra cui,ad esempio, significativo è il corso a carattere nazionale te-nuto a Firenze da Secco Suardo nella primavera del ’64 sult, appunto, dei dipinti e delle pitture murali.L’operazione era molto diffusa, anche se piú voci già nel se-colo scorso si levarono a favore del t come pratica da riser-vare ai casi disperati, finché, man mano, nel Novecento cisi affiderà sempre piú all’intervento di foderatura per i di-pinti su tela, limitando il t a quelli su tavola, e spesso ridu-cendone la portata, ovvero conservando un sottile strato del-la tavola originaria (semi-transfer). Il t oggi è pratica quasidel tutto desueta. (mni).

Traut, Wolf(Norimberga 1486 ca. - 1520). Figlio del pittore Hans (Hein-rich) T von Speyer, fu allievo di Dürer, al cui stile restò sem-pre fedele, tanto che già nel 1606 la tavola centrale di unodei suoi altari piú caratteristici, quello per San Giovanni diHeilsbronn (1516-17: Norimberga, gnm), venne offerto aRodolfo II come opera presunta del maestro. La formazio-ne e la successiva collaborazione all’interno della «fucina»norimberghese di Dürer trovano una delle prime mature ma-nifestazioni nel cosiddetto Altare Artelshofen (tavola cen-trale: Sacra Parentela, 1514: Monaco, Bayerisches nm), di-pinto per la cappella del drappiere Cunz Hom in St. Lorenza Norimberga, mentre T collaborava con Dürer alle incisio-ni per le Porte trionfali di Massimiliano (1514-15). Qui, co-

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me del resto nel citato altare di Heilsbronn, possono osser-varsi i debiti contratti da T verso il proprio maestro nellascelta di toni chiari e puri, ammorbiditi soltanto in funzio-ne plastica, nelle soluzioni del panneggio e nella costruzio-ne del paesaggio «prospettico», particolarmente arioso e lu-minoso nel Battesimo, che consente allo sguardo di spinger-si molto in profondità. Tuttavia, tutto è filtrato, in T, dauna speciale sensibilità per il paesaggio e per gli aspetti na-turalistici della composizione in genere, acquisita anche at-traverso un contatto con la parallela produzione del grandeallievo düreriano Hans Süss von Kulmbach durante l’assen-za di Dürer per il secondo soggiorno veneziano; analoga-mente si considerino le numerosissime incisioni (specie algnm di Norimberga, molte delle quali hanno portato a lun-go l’attribuzione a Dürer) e il buon numero di disegni, an-che preparatori per vetrate (Oxford, Ashmolean Museum;Parigi, Gabinetto dei disegni; Erlangen, bibl. dell’Univer-sità) condotti da T.La vivacità narrativa che caratterizza le opere fin qui citate(a cui vanno aggiunte l’Altare del due san Giovanni per St.Johannes di Norimberga, del 1511; l’altare mariano per St.Lorenz; l’Altare delle Undicimila Vergini del 1513, per il mo-nastero di Heilsbronn), dal cromatismo acceso, chiaro e va-riopinto – ove i gruppi figurali si inseriscono senza eccessiveforzature in ampi paesaggi, mentre difficoltose appaiono leimpaginazioni architettoniche –, così come l’adozione, nelcaso di tavole per altari, di strutture tipologiche rinascimen-tali (come quella del trittico fisso con cornice rotondeggian-te) non sono però riscontrabili in tutta la sua produzione, chein verità appare di qualità assai variabile e che registra, nel-le opere tarde, un ritorno alle proprie radici «gotiche» (alta-ri dei Santi Maurizio e Vincenzo, 1516-17 e dei Santi Pietro ePaolo, 1517-18: monastero di Heilsbronn). T fu anche un pe-netrante ritrattista, ancora una volta fortemente legato al mo-dello düreriano (l’Abate Sebald Bamberger, 1516-18: Heil-sbronn, Heimatmuseum; Ritratto di gentildonna: coll. Thys-sen-Bornemisza, già Lugano, Castagnola). (scas).

Traversi, Gaspare(Napoli 1722-ca. - Roma 1770). È il più acuto spirito pitto-rico del Settecento napoletano. La sua posizione di assolu-ta originalità rispetto ai contemporanei è dovuta alla corag-

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giosa ricerca di valori narrativi e psicologici che, pur pren-dendo l’avvio dalla tradizione della grande pittura napole-tana e caravaggesca del primo Seicento, si dilata in una va-stità di interessi sconosciuti all’arte di allora.Il linguaggio solimeniano, che si coglie nella Crocifissione(1748: Roma, coll. Escalar) e nelle giovanili tele di SantaMaria dell’Aiuto (1749), è volto al recupero di piú reali si-gnificati di vita; la rievocazione di ordine intellettualisticodiventa acuta notazione di una realtà che non sfiora mai ilvolgare. Tale rigore si mantiene anche nelle composizioni re-ligiose: le Scene bibliche di San Paolo fuori le mura (1752),eseguite a Roma per i carmelitani di San Crisogono dove ilT si trasferisce in quell’anno stesso; il Miracolo di san Rai-mondo Nonnato per Sant’Adriano (Roma, curia generaliziadei Mercedari), le tre tele di Castell’Arquato e quelle delDuomo di Parma, le Stazioni della Via Crucis di Borgotaro,commissionate all’artista nel 1753 e in origine destinate aSanta Maria di Castellarquato presso Parma. Suo maggiorcommittente in quegli anni era Padre Raffaello da Luga-gnano, che egli aveva conosciuto a Napoli e del quale eseguìalcuni bellissimi ritratti.Il denominatore comune di questa produzione è da ricercarsinel clima artistico romano, che è fondamentale per la defini-zione della personalità del T. Sul suo temperamento napole-tano, sensibile ai richiami piú vari, dal Preti, al Cavallino, alGiordano, si sovrappone l’azione di rottura con gli schemi tra-dizionali, dovuta soprattutto al Benefial, come sembra sug-gerire la splendida Santa Margherita da Cortona (New York,mma). Attraverso l’opera di questo pittore, suscitatore di unneocarraccismo inteso in senso moderno, ma ricco di interes-si umani e sociali, si rafforza nel T la vena di osservatoreprofondo della vita quotidiana, che caratterizza la sua pittu-ra di genere profano (La poppata: Roma, coll. priv.; La lezio-ne di disegno: Kansas City, Museo). Nei brani della cronacache egli registra con assoluta fedeltà – tra le tante tele posso-no citarsi La rissa (Napoli, Capodimonte), il Mendicante cieco(Boston, mfa) e La vecchia ubriaca (Milano, Brera) – il T nonindulge al «genere», ma analizza con rigore, anche se velatodi ironia, l’indole del personaggio, piegando al reale tutti glispunti, offertigli dalla sua coltissima, anche se apparentementesvagata, lettura dei grandi maestri del passato. (sde + sr).

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Travi, Antonio, detto il Sestri(Sestri Ponente 1608 - Genova 1665). Si formò nella botte-ga del maestro Bernardo Strozzi adottando un linguaggio an-cora improntato di reminiscenze tardomanieristiche (Nozzedi santa Caterina, 1629: Sestri Ponente, chiesa di Santa Ca-terina). L’interesse per la cultura nordica appresa dalloStrozzi e l’avvicinamento nella resa delle figure ai modi diGiovanni Andrea De Ferrari si fa evidente nella pala conl’Adorazione dei pastori della Galleria di Palazzo Bianco. Fon-damentale per il T fu il contatto a Genova con il pittore te-desco Gottfried Waals che lo portò a dedicarsi interamentea scene di genere o religiose trattate in modo aneddotico en-tro paesaggi quotidiani (Scene della vita di sant’Antonio: giàGenova, coll. Baldi). Il notevole successo ottenuto dal Tpresso i collezionisti genovesi fu determinato dalla sua abi-lità nella resa dei paesaggi – nei quali spesso introdusse l’ele-mento delle rovine – attraverso un tocco rapido e una gam-ma di colori calda e sfumata. Resta ancora da definire partedella sua attività e un catalogo piú preciso delle sue opere.(sde + sr).

TrebisondaCittà dell’Asia Minore, sul Mar Nero, nel territorio dell’an-tico tema bizantino della Caldia. Ha notevole importanzaper tutto il Medioevo perché è qui che confluiscono le mer-ci dall’Oriente trasportate attraverso la via della Seta. Nel1204 vi si costituisce, per iniziativa dei nipoti dell’ultimoimperatore della dinastia dei Comneni, Alessio e David, ap-poggiati dalla regina di Georgia Thamar, il cosiddetto Im-pero di T, che non cessa di proporsi come l’unico legittimoanche dopo la riconquista di Costantinopoli da partedell’imperatore niceno Michele VIII Paleologo nel 1261, eche sopravvive fino al 1461, quando è travolto dalla con-quista di Maometto II. Nel corso dei due secoli della sua sto-ria, la capitale del piccolo impero viene abbellita nei propriedifici pubblici con decorazioni ad affresco a cui è affidatoil compito di fornirle un decoro adeguato a una vera cittàimperiale, a una «nuova Roma».Naturalmente, così come nel vecchio impero, anche la Cat-tedrale di T viene dedicata a Santa Sofia, dall’imperatoreManuele I Comneno poco dopo la metà del sec. xiii. La mag-

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gior parte degli affreschi che la decorano è stata datata da-gli studiosi agli anni 1263-70: presenta la singolarità dellamoltiplicazione dei cori angelici intorno al clipeo col CristoPantocrator nella cupola, e la combinazione dei ritratti ico-nici dei Quattro Evangelisti nei pennacchi con altrettante Sce-ne della vita di Cristo. Il nartece mostra un ricco ciclo narra-tivo dei Miracoli di Cristo, mentre nell’atrio settentrionalecompare il tema poco diffuso in precedenza delle scene bi-bliche prefiguranti la storia della Vergine, con la Scala di Gia-cobbe e l’Albero di Jesse.Quel che rimane degli affreschi della chiesa di Sant’Anna,fondata nell’884-85, risale all’epoca tra xiv e xv secolo. Es-sendo stati eseguiti in momenti diversi, non sembrano ri-spondere a un programma decorativo coerente, e l’internodella chiesa assume piuttosto l’aspetto di un’esposizione di-sordinata di soggetti diversi: tra questi si annovera anche iltema inedito della Dormizione dei santi Anna e Gioacchino.Al 1376 risalgono le pitture della chiesa rupestre del mona-stero della Panayia Theoskepastos, caratterizzate da una for-te interpretazione liturgica nella scelta dei temi, quali la rap-presentazione del Tropario del Venerdì Santo con un clipeosorretto da angeli al cui interno sono rappresentati la Vergi-ne col Figlio, e ancora la Comunione degli Apostoli e il Cristocome pane liturgico (amnòs) nell’abside. Presenta inoltre unaelaborata suddivisione dei soggetti sacri su quattro livelli: leDodici Feste dell’ortodossia nel soffitto; quindi le scene del-la Passione; i clipei con santi e martiri, e in fondo dei santia figura intera; col che si dimostra l’accresciuta importanzache il racconto della Passione, per il quale viene ritagliatouno spazio apposito, assume nella decorazione dell’edificioculturale ortodosso.Gli imperatori di T proseguono la tradizione bizantina del-le fondazioni monastiche imperiali, e in quanto patroni deisanti luoghi si fanno rappresentare ad affresco nell’ingressodegli edifici sacri: ci è rimasto un ritratto monumentale delbasileus Alessio III (1349-90 e di sua moglie Teodora nelmonastero della Vergine, nei dintorni di T. Tuttavia di ana-loghi ritratti imperiali abbiamo notizia da alcuni viaggiato-ri del secolo scorso, che menzionano (e talora trasmettonotramite disegni) i ritratti di Manuele Comneno (1238-63) edi alcuni suoi successori in Santa Sofia.

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Gli affreschi della cappella rupestre di San Savas sono da-tati al 1411; la conca absidale presenta la peculiarità di mo-strate, anziché la Madonna orante come nella tradizione bi-zantina, l’immagine della Deisis, come in molte chiese dellavicina Georgia. L’Imago Pietatis è andata a occupare la nic-chia della prothesis, mentre le macroicone delle Feste sonostate proiettate sulle volte, lasciando le pareti alle figure iso-late dei santi. Alla scelta di singolarità iconografiche si ac-compagna anche una notevole scioltezza nel trattamento del-le figure, di impronta popolare, caucasica.Nel 1443 vengono eseguiti gli affreschi della torre della Cat-tedrale di Santa Sofia, che nella decorazione della navata ri-prende la dislocazione di scene e ritratti iconici già presen-te in San Savas, nonché la singolarità dell’inserimento del-la Deisis nella conca absidale.Dopo la conquista turca (1461) dobbiamo attendere due se-coli prima che l’attività decorariva riprenda a T, per inizia-tiva essenzialmente delle comunità monastiche armene iviinsediate: così ad esempio in Hoja Stephanos di Kaimaklinei dintorni della città, con affreschi datati 1622. (mba).

Trebius Iustus, ipogeo diCamera sepolcrale scoperta agli inizi del secolo sulla via La-tina, a sud-est di Roma. Il cubicolo, costruito dai genitoriper il giovane TI detto «Asellus», è particolarmente ricco dipitture. Di difficile interpretazione la scena della parete difondo, con il defunto in cattedra affiancato dai genitori inatto di compiere un’offerta; lo stesso TI nella pittura dell’ar-cosolio è circondato da oggetti simbolici legati alla scrittu-ra, probabilmente a indicare il mestiere del defunto (forseuno scriba) come si usa nelle lapidi funerarie, mentre nellozoccolo sottostante prende visione del raccolto mostratoglidai suoi servi. Traggono invece spunto dalla vita quotidia-na gli altri affreschi, come quello che «fotografa» l’attivitàin un cantiere durante la costruzione di un edifico, mentrenella lunetta di fronte un personaggio di dubbia identifica-zione, forse il padre di TI, controlla il lavoro assieme al ca-pomastro. Tali pitture sono eseguite con uno stile piuttostoimmediato e uso non eccessivo del chiaroscuro; alcune riso-luzioni adottate – come la disposizione degli oggetti, sim-bolicamente sospesi nel vuoto, nella raffigurazione dell’ar-cosolio – indirizzano a ricercare la matrice culturale di que-

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ste opere nella corrente «plebea» dell’arte romana. Contra-sta con queste caratteristiche soltanto l’affresco del Pastore,nella volta, realizzato in modo molto raffinato e con gustopienamente ellenistico. La critica è oramai concorde su unadatazione del complesso ai primi due decenni del sec. iv d.C.; non è ancora chiarito se si tratti di un ipogeo cristiano,ma è possibile nutrire legittimi dubbi in proposito. (aa).

Treccani, Ernesto(Milano 1920). Figlio del fondatore dell’Enciclopedia Trec-cani, indirizzato in un primo momento agli studi di inge-gneria, entra in contatto, giovanissimo, con i movimenti pit-torici italiani d’avanguardia. Già nel ’38 fonda a Milano larivista quindicinale «Vita giovanile» che poi muterà nomein «Corrente di vita giovanile», spostando anche l’area digravitazione culturale, da fascista in progressista, con l’ade-sione di numerosi intellettuali anti-regime e soprattutto an-ti-novecentisti. Nel ’40, T espone per la prima volta pressola Bottega di Corrente insieme a Birolli, Guttuso, Migneco,Sassu. Risalgono a questi anni opere come l’Autoritratto(1940), Ritratto di Beniamino Joppolo (1941), Fucilazione(1943), Violette e coltello (1943-44), che evidenziano uno sti-le realista, sintetico, dato per larghi piani sfaccettati, dagliintenti provocatori. «Il quadro – dice T – deve essere pernoi un modo di comprometterci».A favore di un’arte che sia impegnata e moderna, T firmaanche due manifesti, mai pubblicati però, insieme a Mor-lotti «contro quanti guardano all’antico, quanti guardano al-la realtà con gli occhi di tutti per compiacere tutti».Dopo la guerra e dopo aver partecipato attivamente alla re-sistenza, T diventa redattore con De Grada, De Micheli eVittorini di «45», animatore del gruppo Pittura e infine re-dattore della rivista «Realismo». Negli anni Cinquanta, puravendo esposto già a Parigi, alla Biennale di Venezia, a Lon-dra e a New York, T s’interessa alla realtà contadina di Me-lissa, paese della Calabria da lui visitato in piú occasioni, acui dedica diverse opere. Contemporaneamente ritrae il pae-saggio industriale delle metropoli del Nord, soffermandosi suMilano e Parigi. Nel decennio successivo, dopo essersi ispi-rato a Pavese per alcune sue tele (La luna e i falò, 1962-63),presenta il ciclo Da Melissa a Valenza (1964-65) e infine si

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concentra sul tema del giardino. Intanto viaggia molto, ri-porta una serie di acquerelli da Cuba, espone nell’ex Urss ecompleta il suo panorama sui contadini, abbracciando anchel’Ucraina. Sempre piú spesso si è ispirato ai capolavori let-terari per i suoi quadri (dal Don Chisciotte al Decameron).Nel 1978 T ha battezzato la Fondazione Corrente, dove rac-coglie documenti e opere appartenenti al movimento arti-stico. Nel 1992 ha avuto un’antologica a Palazzo Guarnieri(Feltre). (adg).

Treeck, Jan Jansz(Amsterdarn 1606-52). Cognato di Juan Jansz Uyl il Vec-chio, fu attivo ad Amsterdam come pittore di nature mor-te. Se ne conoscono poche opere: la Natura morta del Rijks-museum ad Amsterdam (1647), e la Brocca di stagno di Lon-dra (ng: 1649), che per l’aspetto accurato e preciso dellatecnica si collocano nella tradizione di Haarlem, propria diHeda e di Pieter Claesz. (jv).

Treml, Friedrich(Vienna 1816-52). Fu tra i numerosi pittori di genere for-matisi in quel periodo all’Accademia. Protetto da Peter Fen-di, ne sposò la nipote. I suoi dipinti hanno come soggettoesclusivo la vita militare, interpretata però in modo con-templativo: rare sono le scene che dedica ai momenti di com-battimento, come nel piccolo Corazziere ferito in un granaio(1840 ca.: Vienna, og), nel quale, comunque, la battaglia,che si scorge in lontananza, è ambientata in un clima dal to-no idillico. Molti suoi dipinti e acquerelli sono conservatinel Museo dell’Esercito a Vienna. (g + vk).

Trémolières, Pierre-Charles(Cholet 1703 - Parigi 1739). Con C. van Loo e Dandré-Bar-don, fu allievo di J. B. van Loo al suo ritorno dall’Italia(1719); partecipò poi all’illustrazione della storia di Don Chi-sciotte (1724) e soggiornò a Roma (1728-34). Operò a Lioneper numerosi istituti religiosi: Adorazione dei Magi, Adora-zione dei pastori, Circoncisione (1736: chiesa di Sainte-Blan-dine), Assunzione, Ascensione (1737: chiesa di San Bruno).Fu accolto nell’Accademia nel 1737 (Ulisse salvato dal nau-fragio: Museo di Montpellier), poi eseguì alcuni grandi in-carichi a Parigi, in particolare, nel 1737-38, numerosi so-

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praporta per l’Hôtel de Soubise (oggi Archives nationales):Minerva insegna l’arte dell’arazzo, la Sincerità e tre geni, Er-cole ed Ebe, Diana disarma Amore. Le sue composizioni rag-giungono l’effetto decorativo piú attraverso l’armonia chia-ra del colore (la Tragedia, 1736, e la Commedia, due sopra-porta: Cholet, Musée des Arts) che col disegno, talvolta unpo’ fiacco. È rappresentato con numerose tele al museo del-la sua città natale (Venere e Amore, 1738; Alfeo e Aretusa) econ disegni nei musei di Besançon, Cholet, Rennes, nonchéa Parigi (Louvre) e al Museo di Darmstadt. Nel 1973 gli èstata dedicata una mostra al Museo di Cholet. (cc).

Trentino - Alto AdigeLa regione T.AA occupa dal punto di vista geografico il ba-cino della media e alta valle dell’Adige. Vari accadimentistorici hanno portato nel corso dei secoli all’espansione delterritorio verso i bacini fluviali aperti sulla pianura padana,cioè ad occidente la valle del Sarca fino al lago di Garda ela valle del Chiese fino al lago d’Idro (Giudicarie); ad orien-te la Valsugana e il Primiero. Dobbiamo por mente che, dalpunto di vista amministrativo, il segmento compreso traBorghetto e le Chiuse di Verona appartiene alla provinciadi Verona e che la valle di Fassa solo nell’Ottocento entròa far parte del Trentino, poiché antecedentemente si trova-va sotto la giurisdizione del principe-vescovo di Bressano-ne/Brixen, così come il Primiero. D’altra parte, nelle epo-che passate, i confini delle diocesi non corrispondevano conquelli geografici e politico-amministrativi (quasi completa-mente inclusi nel dominio dei conti di Tirolo, vassallidell’imperatore dell’impero germanico), talché la zona infe-riore della valle dell’Adige era in diocesi di Verona, la Val-sugana e quella del Cismon in diocesi di Feltre, mentre ladiocesi di Trento si allungava fin quasi a Merano e Chiu-sa/Klausen. Inoltre il cosiddetto Alto Adige è parte inte-grante, in senso culturale e linguistico, del Süd Tirol, zonameridionale del Tirolo, fortemente legato alle vicende poli-tiche e, nel nostro caso, estetico-figurative, della Germaniameridionale. Fino al 1919-20, inoltre, esso, com’è noto, fe-ce parte, insieme a una porzione dei Trentino, dell’imperoasburgico (e, in seguito, della sola Austria), particolare sto-rico che, insieme alla costantemente tormentata storia di

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questa vera e propria terra di confine e di passaggio tramondo del Nord e terre mediterranee, costituisce ragionedi fondo del suo specifico e contraddittorio profilo artisti-co, ancora soltanto in parte decifrato.Tali premesse appaiono necessarie, quando si voglia stende-re un succinto panorama della pittura in T-AA, perché spie-gano come le manifestazioni artistiche della regione sianocaratterizzate da una sorta di «plurilinguismo» dovuto agliinflussi provenienti dalle zone circonvicine. Troveremo co-sì, coll’andar del tempo, contatti significativi con l’arte ve-neta tramite la zona veronese a sud di Trento, con l’arte lom-barda (nella direzione Bergamo-Brescia) tramite le Giudica-rie, o tedesca (a Trento, valli di Fassa, Primiero, Fiemme e,in misura naturalmente ancor maggiore, a Bolzano, Mera-no, Bressanone), quest’ultima del resto favorita, in partico-lar modo sino a metà del Cinquecento, dalla stessa politicaculturale di molti principi-vescovi di estrazione nordica.La regione ha costituito per molto tempo e costituisce tut-tora una notevole zona di transito, il che può render suffi-cientemente ragione della grande varietà di espressioni arti-stiche in essa presenti, espressioni che probabilmente sol-tanto in epoca rinascimentale, negli anni del vescovado diBernardo Clesio, portarono ad approdi stilistici di una cer-ta unitarietà.Alto Medioevo Mentre non esistono, in Trentino, testi-monianze importanti di pittura altomedievale, la zona al-toatesina e, segnatamente, la val Venosta/Vinschgau, ci haconservato due importantissimi cicli di affreschi di alta qua-lità: quelli di San Procolo a Naturno/Naturns, e di San Be-nedetto a Malles/Mals.Se nei primi, piú semplificati rispetto al modello aulico ca-rolingio a cui attingono, si possono forse distinguere due di-verse mani, una piú incline alla geometrizzazione delle for-me in senso antinaturalistico e astratto e l’altra, che stese ladecorazione di navate, piú vicine alle fonti tardoromane ti-piche delle maestranze longobarde attive in un vasto terri-torio al di qua e al di là dell’arco alpino, nei secondi, risa-lenti anch’essi all’età carolingia (inizio del sec. ix), si espri-me una piú singolare reviviscenza delle forme «classiche».Essi, o per meglio dire, il ciclo presente sulla parete setten-trionale di San Benedetto (probabilmente all’origine cap-pella gentilizia di dignitari carolingi), si mostrano vicini in

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qualche misura e a quelli altissimi di Castelseprio (800 ca.)e a quelli di Torba sia per la naturalezza che per l’estremavitalità del segno pittorico: costituiscono un esempio diquanto le maestranze padane, in particolare lombarde, fos-sero volte al recupero e alla rielaborazione di un patrimonioche sembrava estinto con il periodo delle invasioni barbari-che, confortate e sorrette dagli stretti rapporti intrattenuticon la corte carolingia. Una maggior compassatezza e rigi-dità stilistica, caratterizza invece il ciclo del monastero SanGiovanni di Müstair/Münster (databile post 818), soltantooggi geograficamente incluso in territorio svizzero, ma inogni caso non disgiungibile, e anzi dipendente, da quello diMalles e testimonianza del largo raggio d’azione di tali bot-teghe itineranti.Romanico Con il consolidarsi del potere dei principi-ve-scovi, la pittura del T-AA entra in una fase di grande svi-luppo. È ancora nella val Venosta che possiamo rinvenirnele tracce piú notevoli, che raggiungeranno però posizioni diconsapevole conversione al linguaggio romanico soltanto conl’inizio del Duecento. Gli affreschi della cripta del santua-rio benedettino di Montemaria presso Burgusio (Marienburgbei Burgeis), databile a poco prima del 1180, uniti a quellidella sottostante chiesa di San Nicolò a Burgusio (1199),opera della medesima bottega, creano l’immediato prece-dente degli affreschi di fase romanica a Müstair, e si rivela-no impregnati di elementi renani, in particolare, elaboraticon padronanza assoluta della forma e con risultati qualita-tivi molto alti, tanto da farne modello imprescindibile pergli sviluppi successivi della pittura in Venosta e dell’alta Vald’Adige.Il loro influsso si riscontra nel ciclo della cappella del castellodei turbolenti conti di Appiano/Eppan, eseguito nel secon-do decennio del sec. xii ca., che dispiega un tema già trat-tato a Montemaria, la parabola delle Vergini savie e delleVergini stolte, eleganti fanciulle colte in atteggiamenti piúmondani che meditativi. Qui la maestranza, forse vene-to-venostana, è di formazione comunque bizantina. Il li-nearismo gotico si fa invece sempre più strada di contro al-la tradizione romanica e aquileiana in un gruppo piuttostoomogeneo di opere leggermente successive: nei frammenta-ri brani di affresco con Storie di Cristo eseguiti tra 1231-35

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su commissione di Berthold di Taránt nella cappella del suocastello (Dornsberg) presso Naturno e dalla finissima Ma-donna in trono tra due sante della cappella del castello di Rei-negg, presso Bolzano (1240 ca.), anch’essa opera di un pit-tore d’Oltralpe. La parabola delle Vergini è ripresa piú tar-di nella chiesa di Santa Margherita a Lana, in affreschidebitori all’arte bizantina d’area forse piú lombarda, così co-me i cicli di San Giacomo a Grissiano e san Giacomo a Ter-meno/Tramin.Al 1220 ca. risale il primo cielo di affreschi a tema profanoche si conosca in Europa, raffigurante il primo episodio delpoema di Iwein, secondo la versione datane da Hartmannvon Ave: esso orna una sala del castello di Rodengo/Rode-neck, presso Bressanone, allora proprietà di Konrad von Ro-dank, ministeriale dei conti del Tirolo e vescovo di Bressa-none. Appunto per questo, il suo autore è stato identificatocon il pittore di corte del vescovo, Ugo, il quale attorno al1208-13 affrescava la chiesa dell’Ospizio degli Apostoli aChiusa/Klausen; attorno al 1216, l’Oratorio privato al pri-mo piano della cappella capitolare della U. L. Frau (Madonnadel chiostro), annessa al Palazzo vescovile (ciclo di complessosignificato allegorico sulle pareti laterali, sopra le volte, esull’arco di trionfo), e la cappella palatina di San Giovanni,anch’essa annessa al chiostro del Palazzo vescovile di Brixen(Trono di Salomone e Trono di Sophia, circondati dalla Virtúe dai Profeti). Tale artista si dimostra di formazione nordica(Chiemzee), ma sensibile in seguito al contatto con le testi-monianze d’arte veneta presenti in ambiente atesino, non-ché curiosamente edotto sull’opera del miniatore del Carmi-na Burana di Monaco (Bayerische sb, Chm. 4660), particola-re che apre uno spiraglio avvincente sulla vivace circolazioneculturale dell’epoca nella nostra regione. La lotta accanitaper il predominio sulla Val d’Adige e sulle sue vitali vie dicomunicazione, scatenatasi attorno al 1220 tra i principi-ve-scovi di Trento e Bressanone da un lato e i conti del Tirolodall’altro, interruppero bruscamente l’evolversi di una viagià così riccamente tracciata in tutto il Tirolo meridionale etestimoniata dalle vestigia di pittura altomedievale a noigiunte. In un sempre piú desolato panorama di devastazio-ni e annichilimento reciproco si fanno timidi portavoci diuna lenta ripresa culturale, nell’ultimo quarto del Duecen-to, i due cicli, estremamente frammentari, delle pareti occi-

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dentali (Ruota della fortuna, Santi) e meridionale (Martirii diapostoli) del chiostro dell’abbazia di Novacella/Neustift, dimano di artisti nordici di gran temperamento e qualità. InTrentino, grazie alla piú accentuata dipendenza da Verona,le tendenze lineari si fanno invece strada alquanto lenta-mente e su strutture formali e compositive spesso ancora so-stanzialmente romaniche: è così per il San Cristoforo del pri-mo strato di affreschi del transetto meridionale del Duomodi Trento e per vari altri frammenti del Santuario di San Ro-medio, in val di Non. Compiutamente romanici (1276-1288)sono gli affreschi rinvenuti nel sacello della Basilica di San-zeno; legata a correnti lombarde sembra invece l’Ultima Ce-na affrescata sulla parete a sera nella parrocchiale di VigoCavedine così come, con accenti venostani, i cicli di San Bar-tolomeo a Romeno e di Terres.È lecito poi riservare almeno un accenno allo scriptorium,probabilmente di estrazione tedesca, che lavora al serviziodel vescovo Federico Vanga (1207-18) e che produce alcunicodici di estrema raffinatezza, interessantissimi anche perl’iconografia (ad esempio un Ordo missae pontificalis, un Lec-tionarium, l’Historia Scolastica di Petrus Comestor).Trecento Anche se la tradizione romanica tende, nelle zo-ne piú isolate del T.AA, a resistere ancora durante il Tre-cento, nei centri maggiori iniziano a penetrare le novità delgusto gotico. È Bolzano a beneficiare per prima, grazie al-la sua posizione geografica, della nuova pace ristabilita al-la morte di Mainardo II (1295), che riavvia il traffico di col-legamento tra Nord e Sud lungo l’Adige e la strada del Bren-nero, creato dalla fluidità delle fiere, di merci e denaroliquido, a vantaggio della borghesia cittadina. Tutto ciò fa-vorisce a Bolzano un fervore costruttivo davvero impres-sionante, sostenuto anche dall’acquisita posizione strategi-ca e dal benessere degli ordini minori dei francescani e do-menicani, anch’essi nodi politici e territoriali dei rapportitra Italia e Germania. Nel primo quarto del secolo i pittoriappaiono giungere sia a Bolzano che a Merano, sede dei con-ti del Tirolo, al seguito degli architetti chiamati d’Oltralpee benché ai nomi riportati dalle fonti non si possa adattarealcuno dei frammenti giunti sino a noi, lo stile lineare e spez-zato (Zackenstil) di questi ultimi, spesso di elevata qualità(lunetta della porta meridionale della parrocchiale di Bolza-

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no; affreschi absidali di Santa Maddalena; cappella di Ca-stel Cornedo, presso Bolzano; affreschi in Santa Maria delConforto di Merano, 1330-35 ca.) parla in questo senso. Su-bito dopo, il panorama bolzanino si fa coerentemente e com-pattamente giottesco, adottando la nuova concezione stili-stica che Giotto aveva espresso attraverso i suoi affreschidella Cappella degli Scrovegni a Padova, subito diffusasi intutto il Veneto. Il principato di Trento, invece, come quel-lo di Bressanone, stentano a riprendersi dalla crisi fine due-centesca e reagiranno piú lentamente ai rivoluzionari stimoliprovenienti dall’ambiente padovano e veronese. Bressano-ne si presenta anzi come la corte vescovile piú conservatri-ce dell’intero T.AA, adesso come in tutta la sua storia suc-cessiva: per la decorazione del presbiterio della cappella diSan Giovanni nel chiostro del Duomo viene chiamato, tra1330-1340, un frescante ancora legato agli stilemi duecen-teschi, anche se affrancati dallo Zackenstil, già operoso aSanta Caterina di Matrei e a Millan. Allo stesso ambito for-male appartengono il Ciclo dei re Magi della cappella di SanVittore a Novacella, 1360 ca., e gli affreschi tardivi (finesec. xiv) in San Lorenzo di Sebato/St. Lorenzen, in val Pu-steria. Quivi, unica eccezione a questo panorama, straordi-naria e toccante per tensione espressiva e qualità pittorica,spicca l’affresco con una Crocifissione, databile forse al1320-40, di mano di un veneto, forse della cerchia di PaoloVeneziano.Trento, come si diceva, stenta ad aggiornarsi, piú per ca-renza effettiva di commissioni che per volontà di chiusura.Un pittore veronese affresca la chiesa di Santa Cecilia aChizzola e Due sante nell’abside settentrionale del Duomo(1310-20), nonché altri cicli, altrettanto deboli, in chiese val-ligiane. Una svolta promettente si deve all’arrivo in città,nel 1320, di Nicolò da Padova, che opera in Sant’Apollina-re a Piedicastello, appena ricostruita (1319) per cura del-l’abate benedettino Piero, familiare dell’allora vescovo diTrento Enrico di Metz. Anche se questi affreschi, docu-mentati, sono andati quasi completamente perduti, se ne rie-sce a rintracciare il segno energico e plastico, affine a quel-lo del pittore castrobarcense di Verona, nella sopravvissutaMadonna col Bambino a mezza figura, oggi staccata dall’edi-cola sepolcrale degli abati sulla facciata e conservata all’in-terno della chiesa. Ma Trento riprecipita, verso il 1340, in

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una crisi dovuta alle lotte tra potere vescovile e ducale, chene blocca così nuovamente le potenzialità di investimentoed evoluzione artistica. Spiccano appunto per questo conpiú vivida luce le imprese decorative dei potenti conti diCastelbarco, che lasciano tra l’altro decorare, attorno al1330-35, a un pittore veronese vicino al Maestro del Trionfodella Morte dei domenicani di Bolzano, la camera alta dellatorre del proprio castello di Sabbionara d’Avio con un cicloaffrescato (da poco restaurato) il cui sofisticato tema corte-se-amoroso si intreccia a sottili e non ancora del tutto chia-rite implicazioni filosofico-morali, e poi, verso il 1350-60,la Casetta delle guardie del medesimo castello, interamentedecorata con Scene di battaglie tratte, con fedeltà cronachi-stica, dalle imprese della famiglia e narrate con rustico, ar-caico e fresco gusto realista da un ignoto frescante, forsetrentino.A Riva del Garda intanto, legata ancor piú strettamente al-le vicende veronesi, opera la famiglia di Maestro Federicodi Bonanno Oddone da Riva: della documentata attività diquesti pittori e della loro cerchia si conserva una Madonnafirmata dal figlio Giacomo nel 1388 (Verona, Santo Stefa-no) e due cicli di affreschi in San Martino e Sant’Apollina-re a Prabi, presso Arco (seconda metà del secolo). Accantoa questi, l’attività pittorica trentina della seconda metà delsecolo si rivela piuttosto frammentata: maestri veronesi mi-nori decorano alcune chiese valligiane (ciclo di Storie di san-ta Lucia in Santa Lucia presso Fondo, vicino a Martino daVerona, così come Storie di sant’Antonio della Sala capitola-re di San Francesco a Bassano); Monte da Bologna affrescaattorno al 1365 le pregevoli Storie di san Giuliano nel tran-setto settentrionale del Duomo di Trento, senza trovare pe-raltro seguito locale, mentre altri affreschi del transetto me-ridionale (Sant’Antonio abate e Santo francescano) mostranoall’opera, così come quelli che decorano varie zone della chie-sa di San Vigilio a Cles, maestranze lombardo-bergamasche.Diversa è la coerenza del panorama bolzanino ove il verbogiottesco è adottato con entusiasmo e convinzione dagli or-dini minori e, di conseguenza, dall’intera clientela, che vitrovava una matura compenetrazione tra illusionismo spa-ziale e adesione realistica ai gesti e attitudini dei personag-gi raffigurati. L’esempio piú significativo è costituito dagli

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affreschi della cappella di San Giovanni ai Domenicani, fat-ta erigere dalla famiglia fiorentina filo-imperiale dei Rossi,rifugiatasi a Bolzano. I Rossi chiamarono in un primo mo-mento un pittore tedesco locale, ma attorno al 1330 questifu sostituito da vari artisti padovani formatisi sulle pare-ti degli Scrovegni. Tratti riminesi (della cerchia di Neri eGiuliano da Rimini) si osservano nella Madonna fra due san-ti della cappella, forse dello stesso autore dell’affresco oggiframmentario sulla facciata della parrocchiale di Cologna-Gavazzo/Glaning (d’altronde non è difficile pensare alla pe-netrazione in T-AA di divulgatori riminesi-giotteschi: nel1323 operava ad esempio a Ledro un Puscenino di Busti-ghello da Rimini); un frammento da una Madonna in tronocol Bambino, un tempo parte della decorazione del sepolcrodi Vannino di Bamba de’ Rossi († 1324), è così raffinato daesser stato attribuito (Rasmo, 1971) a un diretto allievo diGiotto; un altro padovano decora l’ingresso della cappellanel 1329. Ma la vera affermazione del linguaggio toscano sidispiega nell’affrescatura delle lunghe pareti della cappella(Storie dei santi Giovanni Battista ed Evangelista, di San Ni-colò e di Maria), intrapresa da una maestranza nella quale so-no attivi quattro distinte personalità, benché legate al pro-getto unitario di decorazione e tutte di formazione padova-na. Tra di esse spicca per originalità compositiva e intensitàdrammatica il Maestro del Trionfo della Morte (autore an-che di una parte delle Storie di san Giovanni Evangelista), api-ce espressivo dell’intero ciclo e uno dei vertici di tutta la pit-tura italiana trecentesca. Un’altra compagnia di padovani,alla quale si legano forse due dei pittori attivi nella cappelladi San Giovanni, si occupa, negli anni ’40, della decorazio-ne della cappella di Santa Caterina, sempre nel chiostro deidomenicani, ove ancora, nella cappella Brandis (oggi di-strutta) è attivo un altro padovano (frammenti). Verso il1330-40 un giottesco influenzato anche da maestri riminesiaffresca un’ampia scena di Crocifissione nel chiostro dei fran-cescani. L’influsso dei cantieri giotteschi in Bolzano pene-tra nell’area circostante, sebbene con risultati meno con-vincenti. Spicca, in tale contesto, la decorazione dell’absidedella chiesa di San Giovanni in Villa, opera di un valente ar-tista nordico tra 1325-50, che combina il proprio tempera-mento drammatico con la ricerca chiaroscurale-volumetricadei giotteschi. Altra tappa importante è segnata dall’arrivo

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di Guariento, giunto a Bolzano con il collaboratore Semi-tecolo, che viene incaricato dai Botsch del decoro della pro-pria cappella di San Nicolò ai Domenicani, tra 1360-65,purtroppo demolita nell’Ottocento. Guariento sembra averreclutato sul posto anche due aiuti che, una volta partito ilmaestro, resteranno al servizio dei Botsch e aggiungerannoal ciclo del padovano una Tebaide e Storie di san Cristoforo,decorando piú in là una parete di navata a San Giovanni inVilla. L’eco delle eleganze e dello spigliato estro narrativodi Guariento si ritrova con piú intelligente adesione nellostile del Maestro delle Storie di Maria a San Vigilio al Vir-golo, che la arricchisce attraverso una approfondita rifles-sione dei modi di Giusto de’ Menabuoi, ricollegandosi perquesta via alla fonte fiorentina del giottismo. Secondo Ra-smo, un pittore tedesco collaboratore di quest’ultimo Mae-stro al Virgolo è autore di vari cicli d’affreschi della zonabolzanina, tra cui quelli nelle chiese della Maddalena e diSan Nicolò a Bolzano, Storie della Passione e Santi in SanCipriano a Sarentino/Sarntal, una Madonna in trono tra san-ti al chiostro dei Domenicani. Allievo del Maestro di Vir-golo fu fors’anche Konrad im Tiergarten, attivo alla finedel secolo, la cui tavola centrale di un trittico ad ali mobili(perduto) con l’Incoronazione della Vergine dipinta nel 1400su commissione dell’abate Johannes I per il Volksaltar nel-la navata della chiesa abbaziale di Stams, è esemplata sulmodello dell’altarolo di medesimo soggetto di Giusto de’Menabuoi (1367: Londra, ng). Konrad era pittore di cortedi Leopoldo III a Merano (documentato 1379-1406) e atti-vo anche come miniatore (Speculum humanae salvationis do-nato nel 1380 al convento di Stams: coll. priv.): gli vieneattribuita la pala con il Cristo in trono tra i santi Maria Mad-dalena e Giovanni Battista commissionata dal farmacista me-ranese Hans Austrunk per il monastero cistercense di Alle-rengelsberg im Schnalstale (Bolzano, mc), mentre è in ge-nerale respinta la proposta di ritrovarne la mano nel latoesterno (Adorazione dei Magi e Presentazione al Tempio) del-le portelle del Flügelaltar mariano (perduto), della chiesa ab-baziale di Wilten (1415 ca.: Innsbruck, Tiroler Landesmu-seum Ferdinandeum), opera ipotetica di Hans von Wilten,operoso per il duca Friedrich von Tirol e influenzato daKonrad.

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Di marca bolognese è lo stile di un anonimo maestro cheoperò a lungo con la sua bottega, nell’ultimo terzo del Tre-cento, nella zona bolzanina e al quale si devono l’Annuncia-zione di San Valentino a Termeno/Tramin; la Battaglia di SanMaurizio e la Crocifissione a Sella/Söll presso Termeno; le Sto-rie di papa Urbano V nella parrocchiale di Bolzano; Pietà, Sto-rie di san Sebastiano nella cappella di San Govanni ai Dome-nicani e ancora altre opere che rimasero punto di riferimen-to per tutta una serie di pittori locali, attratti dall’accattivantevarietà dei motivi ornamentali, dalla franca espressività e dal-la convincente volumetria delle sue composizioni. Piú diffi-cile da evidenziare è invece la presenza, accanto a questa bot-tega, di artisti formatisi sui testi padovani di Altichiero, perle forti perdite subite dal patrimonio pittorico bolzanino. Ditale tendenza rimane soltanto, ma altamente eloquente, laMadonna votiva Castelbarco, datata 1379 (ai Domenicani).Non ancora sufficientemente indagato è il versante dell’in-tervento dei maestri tedeschi in Alto Adige, benché del lorooperato siano rimaste tracce sia documentarie che figurati-ve, come per l’interessante Maestro che decora San Valenti-no a Siusi allo Sciliar/Seis o per Hans Stotzinger, cittadinodi Bolzano, che affresca la chiesa di San Martino a Campill.Il suo percorso, benché di ferma aderenza svevo-tirolese, siarricchisce di elementi assorbiti con il contatto con i maestriveronesi attivi in Alto Adige allo scadere del secolo, che gliinsegnano ad ammorbidire il proprio colorito e lo attrezzanodi nuovissimi modelli compositivi che Stotzinger non temedi ricalcare alla lettera, riversandoli ad esempio nell’affrescoai Domenicani di Bolzano (1400), in quelli della cappella diRunkelstein (Castel Roncolo) e nel ciclo della navata mag-giore della parrocchiale di Terlano/Terlan, datato 1402 e fir-mato: un felice e raro esempio di armonica fusione di animatedesca e struttura italiana.Per Merano, residenza dei duchi di Tirolo sino al 1420 (da-ta del trasferimento di questi a Innsbruck che avrà pesanticonseguenze per le sorti economiche e culturali della città)e fortemente indirizzata verso il Nord, si può parlare di pe-netrazione del giottismo soltanto per gli ultimi decenni delTrecento, per tramite di artisti formatisi nell’ambiente bol-zanino. Ne è buona prova la recente riscoperta della deco-razione, interna ed esterna, della chiesa di Santa Maria delConforto nonché altri frammenti in chiese circonvicine.

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Il periodo tardogotico La sconfitta di Sempach (1386) e lamorte di Albrecht von Ortenburg (1390) portano a un tem-poraneo indebolimento del potere degli Asburgo nel Tirolomeridionale, immediatamente controbilanciato da una ri-presa del predominio politico, economico e territoriale siada parte dell’appena eletto principe – vescovo di Trento,Georg von Lichtenstein Nikolsburg, che della nobiltà dellaregione. Pochi anni di autonomia – conclusisi con l’esauto-razione del vescovo e di altri potenti feudatari nel 1407, neiquali l’aristocrazia locale fece a gara nel decorare i propri ca-stelli e le proprie dimore, quasi a rinnovare fasti e splendo-ri d’altri tempi, nell’illusione, presto bruciata, di poter co-noscere una nuova stagione di predominio cavalleresco. Ilsignore di Runkelstein (Castel Roncolo), Niclaus Vintler, in-traprende una campagna di decorazione che si conclude sol-tanto qualche decennio dopo e nella quale furono impiegatipittori veneti, prima, e svevo-tirolesi poi, che ornarono ognisala del castello (oggi tali cicli dalle trame epico cortesi sep-pur esistenti, risultano penalizzati dalle pesanti ridipinture);così è per il castello di Leuchtenburg presso Caldaro/Kaltern(quasi interamente scomparsi), per quello di Schrofenstein,presso Bolzano e per quello di Lichtenberg (Montechiaro)in val Venosta (affreschi staccati e conservati al Ferdinan-deum di Innsbruck) di un pittore influenzato dal Venceslaodi Riffian. In questo contesto spicca per la prima volta daitempi del vescovo Federico Wanga, la personalità colta e de-cisa del principe-vescovo Georg von Lichtenstein che, pre-se le redini amministrative ed economiche del Principato,volle fare di Trento una residenza degna di un grande prin-cipe qual egli era, arricchendo la buona ma piccola bibliote-ca vescovile, ereggendo la Torre Aquila accanto al castellodel Buonconsiglio quale sua dimora personale e circondan-dosi di un ristretto manipolo di artisti, in gran parte prove-nienti dalle sue terre boeme d’origine (ricamatore dei raffi-nati paramenti liturgici, 1390-1400 ca.: Trento, Museo dio-cesano) o precedentemente attivi a Vienna – città nella qualeegli aveva carica di preposto della collegiata di Santo Stefa-no, prima dell’elezione a vescovo di Trento – o reclutati sulposto (orefici, ad esempio). A un valentissimo artista ancoroggi noto sotto il nome di Maestro dei Mesi, e da taluni iden-tificato con Maestro Venceslao (pittore che si dichiara al ser-

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vizio del vescovo nelle liste del libro della Confraternita diSan Cristoforo all’Arlberg, in data non precisabile), Georgvon Lichtenstein affidò l’incarico di decorare, tra 1410 e1407, le sale piú alte della Torre Aquila con cicli dal saporeschiettamente profano e cortese. Benché pesantemente ri-toccato e dilavato da un intervento restaurativo dovuto aFogolino, gli affreschi che decorano interamente la sala delsecondo piano e dedicati alla raffigurazione dei Mesi ac-compagnati dalle attività contadine e dagli svaghi nobiliaripropri a ciascuno di essi, sono i primi che si conoscano inEuropa a trasporre in dimensioni monumentali questo te-ma, con uno spirito di rigore naturalistico assoluto, dispie-gato nell’aderenza schietta al dettaglio sia esso di moda o ar-chitettonico o tecnico strumentale o vegetale. Il loro auto-re, intriso di cultura boema, mostra di conoscere molto beneanche testi figurativi del tardo gotico lombardo, forieri diun’attenzione tutta nuova verso il reale, così come testimo-niato dalle miniature dei vari Tacuina sanitatis, dei quali unoera entrato a far parte della biblioteca del vescovo. Non èfacile dire quale altro impegno abbia coinvolto l’autore deiMesi: Rasmo (1983) gli attribuisce le quattro scene d’affre-sco del 1400 ca. ritrovate nella chiesa di San Carlo a Pergi-ne, un tempo sede della Confraternita dei Battuti, che es-sendo composta in maggioranza da miniatori boemi e po-lacchi, è possibile si sia rivolta appunto a un connazionale,e un San Sebastiano in Palazzo Thun a Trento in verità se-mi-illeggibile. Che il Maestro dei Mesi di Torre Aquila siail Venceslao dell’Arlberg è probabile anche se non certo, mache egli possa identificarsi con il «Venchlaus» che nel 1415si firma nella cappella superiore del cimitero di Riffian (valPassiria), e che forse ebbe bottega a Merano, è assodato an-che sulla base del piú semplice confronto stilistico.Nel Trentino piú meridionale, intanto, gli avvenimenti sisvolgevano a favore dei veneziani che nel 1405 conquista-vano la conca roveretana. Nel 1411-15 la Serenissima com-missionava, probabilmente al veronese Giovanni Badile, pit-tore già legato ai Castelbarco, una Crocifissione entro il ta-bernacolo eretto nella piazza di Besagno per festeggiarel’annessione dei Vicariati di Ala, Avio e Brentonico conces-sile dai Castelbarco. A Badile vanno ricondotti anche gliEvangelisti, i Padri della Chiesa (volta) e la Crocifissione (pa-rete di fondo) del presbiterio (piú altri sulla parete destra di

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navata) della parrocchiale di Pieve di Bono. Come altre te-stimonianze ancora ci mostrano (Trento, Palazzo Belenza-ni, frammento di affresco con Dama; tavola con Madonna eBambino da Vallagarina: Trento, Museo Provinciale d’arte),la dominazione veneziana di questa parte del Trentino nonconduceva a un parallelo cambio di rotta nelle preferenzeper lo stile veronese della regione. Ne è esempio primo la pe-riodica permanenza di Stefano da Verona, al servizio, nonsolo con incarichi diplomatici ma anche pittorici (cicli pro-fani perduti), di alcuni feudatari trentini (1434: presso i con-ti Thun e Spaur a Castel Bragher; 1438: in qualità di lega-to dei Castelcampo, nel loro castello e a Castel Romano, nel-le Giudicarie), nonché la tavola con Madonna in trono tra isanti Sisinio e Vigilio firmata da Cecchino da Verona per ilDuomo trentino nel 1454. La caduta del vescovo Giorgio diLichtenstein (1407, voluta dal duca Federico Tascavuota percontrastare con la presa di Trento la penetrazione venezia-na in val d’Adige), che pure rimase, impotente, a Trento perqualche tempo, prima di ritirarsi nel proprio castello mora-vo di Nikolsburg, e la dispersione e rapina della sua biblio-teca e tesoro, portava a un lungo periodo di torbidi in città,accompagnata da una stasi delle committenze artistiche cheritrovano fiato e coerenza di disegno solo con l’avvento diJohannes Hinderbach (1466-86), altra personalità di acutopolitico e colto umanista, che diede impulso all’edilizia sa-cra nella regione (Trento: riedificazione della chiesa di SanPietro nel quartiere tedesco; Val di Non: Basilica di Sanze-no ecc.) e richiamò preferibilmente artisti nordici al suo ser-vizio diretto, come il poco definibile Michael Tanner daTittmoning nel Salzach (diocesi di Salisburgo; documenta-to a Trento 1467-88) impegnato in vari lavori in San Pietro(tutti perduti). Il numero della «forza lavoro» pittorica diorigine tedesca a Trento doveva essere comunque ristrettoe soprattutto variabile, così come d’altronde anche la di-sponibilità di Hinderbach a impiegare nei lavori di decora-zione e rinnovo dei locali di Castelvecchio (al Buonconsi-glio) e del Palazzo vescovile (oggi Palazzo pretorio) anche imodesti fratelli Sacchetto, veronesi (Bartolomeo, Cristofo-ro e Giacomo) e un certo Valerio, benché personalmente le-gato al gusto del tardo gotico svevo. Le rare e consunte trac-ce d’affreschi rimastici di tale fervore d’opere, a cui può for-

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se esser aggiunta la decorazione della sala maggiore di Ca-stelpietra a Calliano (1469-75 ca.) non rende buoni uffici aiSacchetto, rispetto alle altre presenze veronesi del Trentinomeridionale, di qualità assai piú alta. Scomparsa la paladell’altar maggiore del Santuario di Santa Maria delle Gra-zie ad Arco, di mano di Domenico e Francesco Moroni(1496), rimangono vari affreschi (Rovereto, San Marco) co-me sempre frammentari a testimoniarlo; alcuni di essi pos-sono accostarsi al nome di Gaspare da Verona, cittadino ri-vano, che si firma sotto un San Rocco a Volano nel 1496.Maestranze lombarde, o meglio bresciane, si incuneano nelTrentino occidentale e nella Valsugana, condizionandone laproduzione (Castel Tesino, San Rocco: affreschi della vol-ta, 1494), mentre un ruolo predominante quali decoratorivaganti di chiese, in un gergo divulgativo popolaresco e sapo-roso, ebbe fin entro il Cinquecento la famiglia bergamascadegli affrescatori Baschenis da Santa Brigida in valle Ave-raria. Un ramo di questa scelse le valli Giudicarie: troviamoCristoforo, ad esempio, in Sant’Antonio di Pelugo (Sant’An-tonio abate in trono, 1474), poi Angelo, Dionisio, Cristofo-ro di Simone (cicli di Dorsino, 1500; di San Felice a Bononel Bleggio, 1496); mentre un altro ramo dei Baschenis, conGiovanni e Battista, si recò in Anaunia (Ultima Cena, 1471:Corte di Rumo; 1470: Pellizzano; 1483: Sant’Antonio diMastellina; 1448: abside di Sant’Agata di Piano di Com-mezzadura) dove mostrarono di poter raggiungere buoni li-velli e ricercatezza nella scelta e conduzione dei dettagli, co-me negli affreschi della cappella di castel Valer presso Tas-sullo (1496), nelle delicate scene con Sant’Orsola e nelleNozze mistiche di santa Caterina di Tres (1475). Alla loro mor-te (1502 ca.) sarà il primo ramo della famiglia a sostituirlianche in queste valli.Di fronte a tale fervore pittorico, deludono le valli orienta-li del Trentino, certamente anche a causa delle condizionieconomiche, piuttosto misere, in cui versavano (se si eccet-tuano le zone minerarie, in mano tirolese). Qui, ripetute edissennate distruzioni del patrimonio pittorico gotico la-sciano un vuoto maggiore che altrove. Solo nella secondametà del sec. xvi vi si trovano eleganti prove dovute a fre-scanti della cerchia di Leonhard von Brixen (volta di SantaGiuliana a Vigo di Fassa; abside della chiesa di Casatta inValfloriana) che vi avevano facile accesso essendo, ricordia-

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molo, la Val di Fassa dipendente dalla diocesi di Bressano-ne. Uno di questi interviene, con mano felicissima, nell’af-frescatura della cappella di San Celestino in Castel Bragher(1461) dimora dei Thun, mentre un pittore affine ai modidi Haug Spengler (ovvero al secondo pittore della bottegadi Potsch) è autore delle Storie di san Giovanni Battista in unacampata del coro della parrocchiale di Vigo di Fassa, com-missionate dalla figlia e dal genero di Pacher.Con una datazione ormai precisata tra 1488 e 1493, l’im-portanza e l’impatto degli splendidi affreschi (oggi restau-rati) a tema storico e allegorico apposti alla facciata di Pa-lazzo Geremia, residenza dei Pona a Trento, ove si alludeanche al soggiorno di Massimiliano d’Austria nel palazzostesso, risaltano in tutto il loro fascino sottile fatto di sa-pienza compositiva e luministica, di allusività leggera e pe-netrante. Da Rasmo attribuite alla cerchia di Foppa, sonooggi piú ragionevolmente collocate in area veronese. Con es-si si apre la grande e felice stagione del rinascimento trenti-no, resa possibile dalla ferrea e puntigliosa volontà del gran-de vescovo e mecenate Bernardo Clesio, primo principe tren-tino a spezzare la catena di presenze germaniche sul sogliovescovile del Principato e responsabile di una netta svoltain senso «italiano» dell’arte nella regione. Un cenno va de-dicato alla presenza di pittori di formazione e «lingua» te-desca in Trentino intervenuti (esclusi appunto quelli già ci-tati e altri di cui nulla è sopravvissuto) quali decoratori del-le parti dipinte degli altari a portelle tardogotici prodotti dabotteghe di intaglio che è a tutt’oggi difficile localizzare conprecisione, non essendovene rimasta traccia documentaria aTrento. Ricordiamo le delicate Scene della vita di Maria e iQuattro Padri della Chiesa dell’altare della chiesa, meta dipellegrinaggi, di Madonna di Campiglio (1465-70), che tra-ducono in gergo popolare l’eloquio altissimo del Maestro del-le Portelle dell’altare di Sterzing (1456-58) sulle cui orme siincammineranno molti dei pittori attivi in Tirolo e del qua-le si ritrova una eco piú risentita nelle Sante e Annunciazio-ne dell’altare di Santo Stefano a Fornace (1480-85 ca.: Tren-to, Museo diocesano). L’altare interamente dipinto diSant’Anna di Sopramonte (1490-1500 ca.: ivi) è invece af-fine alla tavola con Madonna in trono e i santi Giustina eOpriano della antica parrocchiale dei Santi Filippo e Giaco-

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mo a Dermulo (1490-95 ca., da Egg attribuita a Tanner) eal trittico di Caltron (1495 ca.). Un Gerolamo da Bamber-ga, capitano di Torre Aquila sotto il vescovado di Georg vonNeydeck, si firma nel 1513 nell’affresco della parete inter-na della torre stessa (Santi Vigilio e Giorgio con lo stemmaNeydeck): lo stile sciolto e sicuro, le corporature robuste ela tendenza al gioco ornamentale sono forse rintracciabili inpoche altre opere, come la portella sinistra da un perduto al-tare dell’antica parrocchiale di Levico (Trento, Museo dio-cesano), mentre assai problematica rimane la tavola di Dar-dine del 1492.Il controllo, ristabilito dal duca del Tirolo sul territorio dival d’Adige e la strozzatura delle vie di collegamento conVerona e l’Italia operata a sud dalla Serenissima avevanoprovocato a Bolzano un’interruzione di quel fertilissimoscambio di idee e artisti che ne aveva caratterizzato la sto-ria trecentesca. Costretta a trovare altri sbocchi, la città sirivolge alle risorse di pittori vaganti giunti dalla Svevia o dalsalisburghese, che vi trovarono libero campo d’azione, mala mancanza di confronti e aperture finirà per mortificare laqualità e l’evoluzione stessa della produzione pittorica, ri-ducendola a caratteristiche locali, esplicitate in opere digni-tose ma compilatorie che continuano a servirsi alternativa-mente delle fonti padovane o veronesi e dei repertori tede-schi (Leggenda dei sette dormienti e altre scene, 1424, firmatedall’altorenano Konrad Erlin, nella parrocchiale di Bolzano;abside della parrocchiale di Termeno, con Storie dei santiQuirico e Giulitta; San Valentino a Termeno, con Storie disant’Orsola, memori del ciclo dei Mesi a Torre Aquila). Im-mensa dovette essere la risonanza (affreschi di San Valenti-no a Falzes/Pfalzen, 1440 ca.) dell’altare a portelle creatodallo stiriano Hans von Judenburg (alias Hans von Tübin-gen?) per l’altar maggiore dell’appena rinnovata parrocchialedi Bolzano (1421-24: parte dipinta perduta) e sopravanzatasoltanto da quello commissionato a Michael Pacher perGries, presso Bolzano (1471-75), a sua volta di quello anco-ra debitore. Documentato dal 1491 a Bolzano è KonradWaider da Straubing, che opera sino al 1517 in T-AA spe-cie in qualità di affreschista in uno stile formatosi probabil-mente a contatto con la cerchia augustana di Holbein il Vec-chio, ma di tratti popolareschi, quasi ignari delle conquistepacheriane (Storie di Cristo, 1492 ca.: chiesa di San Mauri-

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zio in Val d’Ultimo/Ultental; parrocchiale di Burgusio in ValVenosta, 1497; chiostro dei Francescani e chiostro dei Do-menicani di Bolzano). La produzione di altari a portelle, ti-pici del gusto e delle consuetudini liturgiche tedesche e nor-diche in genere, è monopolizzata quasi del tutto dai centrialtoatesini, che servono anche la zona trentina. A Bolzanoopera dal 1474 al 1517 la bottega di Narciso da Bolzano,ampiamente presente in Trentino: in toni aspri e tratti an-golosi, i pittori in essa attivi (tra cui Narciso stesso) tradu-cono mediocremente modelli tratti dai repertori incisorii piúusuali dell’epoca (Maestro E. S., Schongauer). Folgorante èla collaborazione di un pittore di stretta aderenza altdorfe-riana alle portelle dell’altare eretto dal bolzanino Jörg Arztin Santa Giuliana di Vigo di Fassa (Scene dalla Passione,1517: Trento, Museo diocesano) e del quale non pare esser-ci piú traccia in T-AA, mentre profondo e duraturo influs-so avrà il soggiorno di Hans Schaüfelein a Merano, tra1507-508, presso la bottega di Hans Schnatterpeck (portel-le dell’altare della parrocchiale di Lana, con Scene dalla Pas-sione) che trasmetterà ai pittori sud- tirolesi modelli, tipolo-gie, scelte cromatiche e impaginazioni del maestro Dürer (al-tare di San Mauro di Pinè; di San Vigilio a Tassullo, 1520:Trento, Museo diocesano). Scoordinate sono invece le cita-zioni rinascimentali (quasi tutte confinate alle parti piú or-namentali delle tavole) che si incontrano spesso in questogenere di opere; esemplare in questo senso è il caso di Sil-vester Müller (o Miller), che le introduce all’interno del suoidioma bolzanino, manierato e acceso da qualche prestitodüreriano, oppure quello delle parti dipinte dei Flügelaltardi Dambel (1520), un curioso e grazioso impasto di elemen-ti tratti dal repertorio incisorio di Dürer, da Pacher, Reich-lich e da un quaderno di modelli ornamentali italiani, nellequali va presumibilmente ritrovata la mano autografa di JörgArzt, pittore a capo di una delle botteghe piú attive di Bol-zano nel primo terzo del Cinquecento.Il panorama della pittura brissinese del sec. xvi si apre conlo stiriano Jakob von Seckau, pittore di corte del vescovo diBressanone, dallo stile violentemente espressivo e dalle com-posizioni drammaticamente movimentate (tavola votiva conil Martirio di sant’Orsola, 1448, dal convento di Sonnenburg:Innsbruck, Ferdinandeum) e prosegue, sino agli anni ’70,

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con la dominante personalità di Leonhard Scherhauf vonBrixen, che riporta in esso una dolcezza un po’ sognante estatica, fondata sulla prevalenza di una linea di contorno piúsciolta, di una narratività distesa e ingenua, priva di soste-gni prospettici e spaziali e dai colori accesi e gai. Il suo sti-le, che si farà col tempo sempre piú conservativo e manie-rato si distende per tutta la Pusteria e val d’Isarco, in altaVenosta (cripta della chiesa di Montechiaro/Lichtenberg) si-no alle valli di Fiemme e Fassa, raccolto da una schiera dipittori locali che vi mescolano le suggestioni sveve dell’alta-re multscheriano di Sterzing. Non va inoltre dimenticatoche maestro Leonhard dirigeva a Bressanone una bottegaspecializzata nell’intaglio ligneo e che dunque una parte con-siderevole della sua attività era riservata alla realizzazionedi Flügelaltäre, tra i quali spicca quello a tema mariano crea-to forse per l’altar maggiore del Duomo (oggi frammentario,1470 ca.) e le cui portelle dipinte sono oggi divise tra Vien-na (km) e Budapest (mng), nonché le deliziose portellinedell’altare mariano della parrocchiale di Velturno/Feldthurns(1460 ca.) con l’Annunciazione (Bressanone, Museo dioce-sano) e l’Adorazione dei Magi (Bolzano, mc). Alla morte diLeonhard non è il figlio Marx (Markus) Scherhauf, che pu-re ne eredita la bottega e che ne proseguirà la tradizione si-no alla morte (1484-86), a imporsi come pittore migliore epiú richiesto della città, ma il cosiddetto Meister von Ut-tenheim (Villa Ottone, dalla tavola con la Madonna in tronoe santi dipinta per la chiesa di questa località, presso Bruni-co; opera tarda del 1480-85: Vienna, ög), forse identifica-bile con il pittore Hans von Hirsau, citato piú volte dai do-cumenti brissinesi dal 1462 in poi. Educatosi su Leonhard,sul Multscher di Sterzing e sulle incisioni d’ambito svevo,viene poi travolto dalla personalità di Pacher, dal quale cer-cherà di assorbire, al limite delle proprie forze espressive edi comprensione, la padronanza spaziale e la sapienza com-positiva dei gruppi figurali, come appare soprattutto nelleopere piú tarde quali l’altare mariano per Novacella, oggi di-sperso tra Monaco (Incoronazione della Vergine e predella coni Santi Agostino e Monica: Bayerisches nm), Norimberga(gnm) e Vienna (ög) e l’Altare degli Apostoli del Duomo diBressanone (Innsbruck, Ferdinandeum). La sua produzione,con quel misto di aggiornamento attutito dalla fedeltà allefonti stilistiche native, la preziosità dei dettagli (che paiono

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riecheggiare Witz o Moser, cosa che non stupirebbe se l’ar-tista provenisse davvero da Hirsau) e la serietà pensosa emonumentale dei suoi personaggi piacquero al vescovo diBressanone e ai suoi canonici, che lo preferirono sempreall’«eccentrico» Pacher. Accanto al Maestro di Uttenheimva ricordato Hans Klocker, uno dei piú grandi intagliatoritardogotici tirolesi. Nella sua bottega, che serve anch’essaun ampio territorio e fornisce altari a battenti anche al Tren-tino, operano pittori (tra cui il maestro stesso) di buona qua-lità, di tradizione svevo-schongaueriana. Nelle botteghe bris-sinesi di primo Cinquecento opereranno infine il pittore dicorte del vescovo Christof, Philipp Diemer (1516 ca.), cheaveva verso il 1506 sostituito il ruolo un tempo di Jakob, eche però è anche responsabile dei dipinti degli altari prodottidalla bottega di Ruprecht Potsch e Haug Spengler da St.Gallen, introducendovi una conoscenza di prima mano delDonaustil del Vorarlberg. Ma la rivolta dei contadini del1525, che ha in Bressanone il suo centro e il suo punto mas-simo di furia devastatrice, blocca violentemente, e per de-cenni, ogni possibile via alla produzione d’arte in città.A Merano incontriamo un Maestro Venceslao che opera si-no al 1425, quando la sua bottega è ereditata dall’allievo Pie-tro (forse autore dei cinque Santi nel chiostro delle Clarissee di una Salita al Calvario a Maria Steinach, presso Merano)e che molti vorrebbero forzatamente identificare con il Ven-ceslao pittore di corte del vescovo Gorgio di Lichtenstein aTrento. Ma se l’affascinante e consunto affresco del porti-co del campanile di Merano, già citato, richiama parzial-mente l’immersione paesaggistica del ciclo dei Mesi, non ècosì per la decorazione del santuario mariano di Riffano/Rif-fian, del 1415, firmata da «Wenzlaus», opera di tipico sa-pore tirolese. L’eredità del maestro meranese è ancora viva,ma del tutto scolorita, nell’opera del successore di Pietro,Gaspar Blabmirer, che firma nel 1434 un affresco nella cap-pella del Castello Thun di Castelfondo, e opera nel merane-se e nella Venosta (Vinschgau), dove pure sono attivi pitto-ri engadini. Soltanto il trasferimento, a metà Quattrocento,di un dotato allievo di Johann von Bruneck a Merano, Am-brogio Gander, ridonerà fiato e qualità alla pittura di que-ste valli, arricchendola del respiro spaziale e dello spiritoclassicheggiante d’ascendenza italiana assorbito negli anni

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di formazione presso il maestro (Crocifissione della chiesadell’Ospedale di Merano; ciclo con la Sacra Stirpe della par-rocchiale di Gudon, 1465 ca.).Come traspare dalle menzioni sin qui fatte, è la stessa si-tuazione politico-viaria creatasi in T.AA dopo il 1405-407ad eleggere Brunico a centro di scambi commerciali e cultu-rali importante e indispensabile alla vita stessa della vald’Adige superiore. La stessa decadenza e il torpore del vici-no principato vescovile di Bressanone, all’inizio del sec. xv,fanno rilucere ancor piú l’attività di Johann (Hans) e poi diErasmus e Christof von Bruneck. Johann porta in Alto Adi-ge la conoscenza, acquisita in lunghi anni di apprendistato(1385-95) a Padova, delle opere altichieresche, delle quali sifa interprete fedele e nello stesso tempo originale per sceltecromatiche e delicatezza disegnativa, giungendo a una sin-tesi formale che poco piú in là sarà raggiunta con altri mez-zi e finalità da Pacher. Dagli affreschi della chiesa dell’Ospe-dale di Vipiteno/Sterzing (1402) e della chiesa del Salvato-re di Hall in Tirol (1406), si giunge ai capolavori della quartacampata del chiostro di Bressanone (1417) e del chiostro del-la Novacella (1418). Di poco piú giovani sono Erasmus e Christof da Brunico, che rappresentano invece la tradizio-ne del weicher Stil stiriano, informata anche sui modelli boe-mi presenti in tutto il Tirolo e Austria: a loro possono forseattribuirsi gli affreschi della X, XI e XII campata del chio-stro del Duomo (1410 ca.) e quelli della parrocchiale di Nie-der Vintl / Vandoies di Sotto. Nella seconda metà del seco-lo giganteggia la figura di Michael Pacher, artista che fungeda catena di collegamento tra la lezione sveva di Multscher,quella stiriano-tirolese di Leonhard e il rinascimento pada-no (padovano in primis), poli di confronto e di stimolo en-tro i quali il piú grande maestro tirolese del Quattrocentogiocherà una partita solitaria che apporrà sempre piú con-vincentemente la limpida materia italiana, prospettica e spa-ziosa, al linguaggio tardogotico così caro alle valli tirolesi, inuna sintesi strabiliante per equilibrio e padronanza di mez-zi tecnici ed espressivi mai più raggiunta da alcun artista «diconfine» (se si fa eccezione per alcune opere di Reichlich).Accanto alla parte dipinta dell’altare bolzanino di Gries, chemostra la fresca conoscenza di modelli fiamminghi, spicca-no l’Altare dei Padri della Chiesa già nel coro dell’abbazia di

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Novacella (1477-79: Monaco, ap), quello per la parrocchia-le di Sankt Wolfgang (1481) e quello della Cattedrale di Sa-lisburgo, lasciato incompiuto alla morte (1498) e che sarà pa-lestra per molti suoi allievi, poi ritornati in T-AA, ove nespargeranno l’eredità un po’ dovunque. Tra di essi va alme-no citato il figlio di Michael, Hans, morto assai giovane, alquale però non si può collegare nessun dipinto documenta-riamente accertato, e Friedrich Pacher (che non gli era pa-rente). Allievo e collaboratore a più riprese di Michael, Frie-drich aveva però bottega propria e copriva i livelli medi dicommittenza della regione lasciati scoperti da Michael Pa-cher, solitamente oberato di impegni di maggior respiro, conuna fedeltà «vernacolare» allo stile del maestro commisura-ta alla propria personalità sanguigna e rude, in uno stile fram-misto di elementi anche ferraresi, crivelleschi e carpacceschiassorbiti negli anni di formazione in Italia (altare di San Pie-tro a Vipiteno, oggi disperso tra Innsbruck, Ferdinandeume Gerusalemme, convento dei Francescani; affreschi conMessa di san Gregorio a St. Martin presso Sebato; affreschinella parrocchiale e nel chiostro dei Domenicani di Bolza-no, tutti degli anni ’90; affreschi in San Valentino a Fu-nes/Villnöss), Max Reichlich, formatosi nella bottega di Frie-drich e poi transitato da quella di Michael, affronta con piúintelligente intuito e capacità la sfida pacheriana, in opereche si collocano in un primo Cinquecento una volta tanto«aggiornato» su entrambi i versanti espressivi e formali del-le Alpi.Rinascimento e manierismo La fioritura dell’arte rinasci-mentale in Trentino è favorita, come abbiamo visto, a par-tire dalla seconda metà del Quattrocento, dall’illuminata po-litica culturale dei vari principi-vescovi, che chiamano dalleregioni limitrofe molti artisti, in particolare veneti e lom-bardi: Georg von Neydeck (1505-14) commissionerà a Gio-vanni Maria Falconetto le portelle dell’organo del Duomodi Trento. Ma è con l’avvento del grande principe-vescovoBernardo Clesio (1514-39) che la città raggiunge artistica-mente il livello delle piú prestigiose corti europee, in unostraordinario fiorire di iniziative. L’impresa della decora-zione del Magno Palazzo nel Castello del Buonconsiglio, al-lora residenza vescovile, dove lavorano fianco a fianco arti-sti quali Marcello Fogolino, Bartholomäus Dill Riemensch-

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neider e, soprattutto il Dosso e il Romanino costituisce cer-tamente l’episodio piú eclatante, in cui lo splendore rinasci-mentale si attua in forme opulente e spregiudicate di abba-gliante originalità (→ Trento). Al di fuori di Trento le ope-re degli autori piú insigni giungono di rado, ma la vitalitàdell’epoca trova ugualmente terreno per manifestarsi nellezone di tradizionale cultura italiana: così a Rovereto, dovea una iniziale diffusione del mantegnismo subentra un ac-coglimento dell’arte di Domenico e Francesco Morone, op-pure ad Arco, in cui incontriamo la figura di un artista an-cora misterioso ma importantissimo, il MonogrammistaF.V., presente anche a Riva del Garda. Nella zona sud-oc-cidentale della regione si manifesta piú forte l’influsso bre-sciano, con la presenza di Clemente e Ippolito da Brescia edi Callisto Piazza, i cui dipinti testimoniano l’adesione allostile del Moretto e del Romanino. Accanto al linguaggio au-lico e colto dei centri maggiori è possibile poi seguire, nellezone maggiormente isolate, l’affermarsi di un filone popo-laresco, che divulga le novità rinascimentali con una cifrastilistica certamente piú rozza, ma efficace nel suo narrati-vismo semplice e immediato, volto a intenti didascalici. Ta-le matrice popolare è rappresentata esemplarmente dalla di-nastia di pittori vaganti Baschenis, dei quali si è già detto.Nella seconda metà del Cinquecento la corrente manieristi-ca è validamente rappresentata dai cicli di affreschi del Pa-lazzo delle Albere e di Palazzo Lodron a Trento e da quellodella villa di Margone, opere tutte nelle quali i vari sogget-ti, sacri o profani, sono inscenati su sfondi paesistici che di-latano lo spazio secondo una consuetudine assai diffusa inquesto periodo. Sempre nella seconda metà del secolo ilTrentino può del resto registrare le presenze, isolate maquanto mai significative, di pittori quali Jacopo e FrancescoBassano (le splendide pale di Civezzano), Paolo Farinati,Marco Vecellio, Andrea Vicentino, Palma il Giovane, men-tre tra i locali si segnalano Paolo ed Elia Naurizio e, in mo-do precipuo, Orazio Giovanelli, il maggior rappresentantedel manierismo in terra trentina unitamente a quel MartinoTeofilo Polacco che, formatosi sugli esempi di Palma di Gio-vane, divenne pittore di corte del vescovo Carlo GaudenzioMadruzzo e contribuì alla diffusione capillare, su tutto il ter-ritorio, delle norme iconografiche stabilite per l’arte sacradal Concilio di Trento.

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L’Alto Adige fino alla seconda decade del Cinquecento ap-pare «attardato» ancora sugli schemi tardogotici. I canonidel rinascimento maturo, già prefigurati in molte opere diMichael Pacher e di Reichlich, entrano con tutta la loro ef-ficacia mediante l’opera di Bartholomäus Dill che, stimola-to dagli esempi del Romanino e del Dosso, con cui era ve-nuto a contatto alla corte di Trento, abbandona il vecchiostile per una nuova espressività, fungendo da stimolo pertutta la generazione di artisti che lo seguiranno, benché nes-suno tra questi sappia elevarsi al suo livello.Dopo un periodo di ristagno culturale a cavallo tra la primae la seconda metà del secolo, intorno al 1580 alla corte ve-scovile di Bressanone attua la ricostruzione della residenzaed erige a Velturno/Feldthurns un castello per il soggiornoestivo, affidandone la decorazione al bresciano Pietro Ma-ria Bagnadore e ad un gruppo di artisti suoi conterranei.Quest’impresa segna l’inizio di una rivitalizzazione, intro-ducendo il manierismo lombardo non solo a Bressanone, maanche nelle zone limitrofe. Assai fruttuosi risultano peraltroanche i contatti con le esperienze di alcuni artisti veneti oformatisi in ambito veneto. Tra i primi non vanno dimenti-cati il veronese Felice Brusasorci (autore della pala dell’al-tar maggiore della chiesa dei Cappuccini di Bolzano) e FraSanto da Venezia (che eseguì tra l’altro la pala della cappel-la del Castello di Trotsburg). Con essi la cultura locale si ar-ricchisce ulteriormente mediante gli esempi della manieraveneta, in quella particolare accezione nella quale il trattointellettualistico si stempera in una visione piú umana, esal-tata dalla forza del medium cromatico. Tra gli artisti che siformarono nel Veneto dobbiamo ricordare i già citati Ora-zio Giovanelli e Martino Teofilo Polacco, che avevano la-vorato anche a Trento (come del resto gli stessi Brusasorcie Fra Santo da Venezia). Il Polacco, in particolar modo, do-po un soggiorno a Innsbruck, si stabilì a Bressanone, dovelasciò numerose opere di alta qualità (tra cui la pala conl’Adorazione dei Magi nella parrocchiale) che manifestano lasua adesione ai modi del tardo manierismo palmesco, taloraaccompagnati da singolari accenti prebarocchi.Barocco e rococò La grande stagione dell’arte seicentesca(→ Trento) viene aperta in Trentino dalla presenza di unpittore che, dopo svariate esperienze vissute in Francia, in

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Lombardia, nel Veneto, attua nella sua produzione il pas-saggio dalle concezioni tardomanieristiche a quelle baroc-che: Pietro Ricchi, detto il Lucchese, il quale sia a Trento(in Santa Maria Maggiore e nella cappella del beato Simo-nino in San Pietro) che a Riva del Garda (decorazione del-la chiesa dell’Inviolata) ha modo di far conoscere uno stiledi grande espressività, che costituirà motivo di stimolo ed’impulso per l’arte locale. Appare caratteristica, nel Sei-cento, la venuta di artisti provenienti dalle regioni vicine,tra i quali possiamo menzionare i bresciani Carlo Pozzi ePompeo Ghitti o i veneti Andrea Celesti e Sebastiano Maz-zoni, mentre alcuni tra i maggiori esponenti della pitturatrentina operano per lo piú fuori regione. Ricordiamo in par-ticolare Pietro Strudel e, soprattutto, Andrea Pozzo che po-trà far valere anche a Roma e a Vienna la sua somma abilitàdi prospettico e colorista divenendo uno dei massimi rap-presentanti del decorativismo scenografico barocco.Inizia a svilupparsi nel Seicento la scuola pittorica della valdi Fiemme, che culmina nella figura di Giuseppe Alberti, lacui formazione veneziana e romana e la cui vasta cultura sor-tiscono una maniera che sa equilibrare sapientemente le sug-gestioni del colore veneto con le nuove istanze derivantidall’esperienza caravaggesca, contribuendo a fare del pitto-re di Tesero il protagonista principale della politica artisti-ca della corte vescovile (affreschi della cappella del Croci-fisso in Duomo e decorazione della Giunta Albertina al Ca-stello del Buonconsiglio). Nel Settecento prosegue e siaccentua la presenza di autori di altre tradizioni pittoriche.Dal Veneto giunge Francesco Fontebasso, mediatore delleesperienze riccesca e tiepolesca, come si nota negli affreschidell’Annunciata di Trento; Giambettino Cignaroli, prove-niente da Verona, può far conoscere i modi emiliani rivis-suti attraverso il colorismo della tradizione veneta; KarlHenrici, originario della Slesia, formatosi proprio sotto Ci-gnaroli, saprà far tesoro di varie esperienze orientandosi ver-so uno stile brillante, ormai rococò. Né si potrà tacere dellasia pur episodica attività di due artisti come Giannantonioe Francesco Guardi, originari della val di Sole, destinati adiventare tra i massimi protagonisti della pittura venezianadel Settecento; o come Giambattista Pittoni, che esegue unasplendida pala per la parrocchiale di Borgo Valsugana. A Ro-vereto, centro particolarmente vitale in questo secolo, ope-

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rano personalità di spicco come Antonio Balestra, mentrefra gli artisti del luogo, si pongono in evidenza Gaspare An-tonio Baroni e Adamo Chiusole. Prosegue poi l’attività del-la scuola fiemmese, che attraversa un periodo di enorme for-tuna con la dinastia degli Unterperger: il primo, Michelan-gelo, formatosi con l’Alberti, risentirà degli influssi di NicolaGrassi e del Pittoni; il fratello Francesco per leggerezza ditocco ed eleganza si confermerà come uno dei piú rappre-sentativi artisti rococò; il nipote Cristoforo, spingendosi aRoma, entrerà in contatto con Maratta e con Mengs, indi-rizzandosi a un accademismo di stampo pre-neoclassico. Tragli artisti che operarono fin dentro l’Ottocento non si pos-sono trascurare Domenico Zeni, ultimo pittore di corte aTrento (il governo austriaco esautorò i principi-vescovi ver-so la fine del Settecento) e Giambattista Lampi, uno deimaggiori e piú ricercati ritrattisti dell’epoca, che ebbe mo-do di lavorare anche a Vienna, in Polonia e presso la cortedi Caterina di Russia.In territorio altoatesino la situazione artistica è, nella primametà del Seicento, non particolarmente interessante, perl’attardarsi della tradizione tardomanieristica dei seguaci dipittori come Giovanelli e Polacco. Nella seconda metà delsecolo fanno sporadiche apparizioni l’Alberti, il Balestra,Gregorio Lazzarini, Paolo Pagani, ma senza particolare se-guito. È a cavallo tra Sei e Settecento, con l’opera di Mat-tia Pussjäger e Ulrich Glantschnigg che l’ambiente sembrarianimarsi. Perfezionatisi entrambi a Venezia alla scuola diCarl Loth, seppero rielaborare in maniera originale la lezio-ne appresa, dominando soprattutto a Bolzano e Merano. Al-cuni artisti che si erano educati in Alto Adige lavorarono aldi fuori del territorio: è il caso di Paul Troger, Johann Hol-zer e di Johann Georg Grasmair, senza dubbio una delle per-sonalità piú originali dell’arte rococò. Tra coloro che, vice-versa, presero dimora in Alto Adige, troviamo Francesco eMichelangelo Unterperger, la cui brillante vena decorativaè testimoniata da numerosissimi dipinti, stilisticamente oscil-lanti tra sensualità, enfasi barocca, leggiadria e scioltezza ro-cocò. Quanto a Karl Henrici, che aveva lavorato anche aTrento, egli lascia proprio in Alto Adige, con gli affreschi diPalazzo Menz a Bolzano, la prova piú alta del suo raffinatodecorativismo di matrice veneta, introducendo in territorio

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atesino l’esperienza tiepolesca. Altri abilissimi affrescatorifurono Mattia Günther, di Augusta, dotato di straordinariainventiva, e ancora Anton Mayr e Josef Adam Zoller i qua-li contribuirono con le loro opere (a Vipiteno, Novacella,San Candido, ecc.) alla diffusione di uno stile che rivelavatutte le sue possibilità a livello sia iconografico che espres-sivo. Verso la fine del Settecento iniziano a diffondersi ten-denze volte al classicismo e si va attenuando la vena piú sco-pertamente decorativa, come possiamo vedere nell’opera diMartin Knöller e del suo albevo Josef Schöpf, che dall’am-biente romano riportarono in patria un patrimonio di ideee di forme destinato a maturare in direzione accademica.(scas).L’Ottocento Nell’Ottocento anche in Trentino prende pie-de la cultura neoclassica, già prefigurata da personalità co-me Cristoforo Unterperger e Giambattista Lampi. Per la dif-fusione delle nuove concezioni stilistiche è assai notevolel’apporto di Antonio Longo, vissuto per molto tempo a Ro-ma e ritornato in patria nel 1799; con la sua vasta produ-zione egli impose soprattutto a Trento il classicismo acca-demico, che informava peraltro nei medesimi anni anche l’at-tività di Domenico Zeni (decorazione ad affresco di VillaTambosi presso Trento), di Giuseppe Unterperger, il figliodi Cristoforo, anch’egli vissuto a Roma e di Domenico Udi-ne, di Rovereto, nel quale si fa chiaramente avvertibile an-che un accostamento alle tematiche del romanticismo. Lapersonalità piú spiccata nella prima metà del secolo è certa-mente quella di Giuseppe Craffonara di Riva del Garda ilquale, dopo un soggiorno veronese, ebbe modo di speri-mentare a Roma tutte le possibilità dello stile neoclassico,lavorando per Pio VIII ed eseguendo tra l’altro un Ritrattodi Antonio Canova. Ritornato definitivamente nel suo luogonatale all’inizio del quarto decennio, lavorò per tutta la re-gione con notevole intensità, distinguendosi sia nelle paled’altare (come quelle dell’Assunzione e della Pietà nella par-rocchiale di Riva del Garda), che nell’affresco o nel ritrat-to. La seconda metà dell’Ottocento vede l’affermazione diartisti le cui espressioni si mantengono in bilico tra le istan-ze neoclassiche e quelle romantiche, come Giustiniano de-gli Avancini e Ferdinando Bassi, mentre un sentore di veri-smo è presente nei dipinti di Eugenio Prati, colorista di unacerta efficacia e notevole ritrattista. La personalità princi-

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pale, seppure la sua attività si svolse fuori dal T-AA, fu Gio-vanni Segantini: la sua opera ebbe comunque notevole riso-nanza sui pittori locali.In Alto Adige l’arte dell’Ottocento non ha dato general-mente frutti degni di particolare nota: a parte una breve ap-parizione del Craffonara, alcuni artisti del luogo come An-tonio Psenner o Michele Andersagg, legati al movimento deinazareni, non hanno molto da dire. Qualcosa di piú validoappare nella produzione di autori provenienti da fuori, adesempio Dusi di Venezia, oppure Friedrich Wasmann, am-burghese stabilitosi a Merano, buon rappresentante dell’im-pressionismo. (pa).Novecento Se ai primi del Novecento il T-AA vive una bre-ve ma feconda stagione di armonico incontro e scambio diesperienze tra mondo italiano e tradizione nordica, fondatain buona parte dalla condivisione dei medesimi luoghi di for-mazione, convergenti sulle Accademie di Innsbruck, Mona-co e Vienna (senza dimenticare l’allora fondamentale ruolopropositivo svolto dalla Kunstgewerbeschule di Vienna), latraumatica annessione dell’Alto Adige all’Italia (1919-20)ruppe politicamente i legami naturali e storici del Tirolo me-ridionale con la «madre» germanica, creando situazioni diforte contrasto tra le due etnie e chiusura reciproca. Le Se-cessioni di Berlino, Monaco e Vienna (1897) stimolavanoanche sul versante alto-atesino e trentino (per gli artisti chequi scelgono di concludere l’iter formativo nelle Accademieimperiali, pur non ignorando le coeve esperienze di Ca’ Pe-saro a Venezia, in particolare, ma anche di Milano o Roma)la maturazione di artisti che si distaccano dalla tradizionedello storicismo e del post-impressionismo ottocentesco peraderire alle proposizioni decorativo-astratte, simboliste ogeometrizzanti della secessione tedesca. Tra di essi spicca lafigura di Leo Putz che opera nella cittadina di Merano, di-venuta rinomato centro imperiale di cure termali e di svaghisignorili: plenairismo e «salda concezione strutturale dellaforma» (G. Belli, 1991) si completano vicendevolmente nel-le sue composizioni, come nella nota serie di figure femmi-nili colte entro paesaggi. Accanto a Putz vanno ricordatiEduard Thöny, graffiante ed elegante collaboratore del sa-tirico «Simplicissimus», e Anton Hofer, che operò alle Wie-ner Werkstätten, in piena aderenza ai canoni dello Jugend-

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stil viennese (paramenti pontificali per la collegiata dei ca-nonici agostiniani di Klosterneuburg, 1912). Piú isolato, etuttavia importante presenza del momento, è Alexander Kö-ster, che operò a Chiusa: i suoi paesaggi e immagini trattedal mondo animale combinano con accenti di soffusa e com-partecipe poesia la trattazione luministica fedele ai canonipost-impressionistici con una fermezza realistica derivante-gli dall’influsso di Leibl e della sua cerchia. Ruolo di leaderdelle tematiche e degli ideali estetici Jugendstil in area tren-tina è Luigi Bonazza, allievo nel 1897 della Kunstgewerbe-schule. La sua operatività è soprattutto legata alle tecnicheincisorie (cicli all’acquaforte: Iovis amores e Allegorie del gior-no) ove le tematiche mitologiche sono immerse nelle raffi-nate e sensuali atmosfere esplorate per prime da Klimt eFranz von Stuck. Ritornato a Trento nel dopoguerra, Bo-nazza vi costruisce e decora la propria casa (tuttora visita-bile) e rifonda, con indirizzo ovviamente secessionista, ilCircolo artistico trentino che accoglie artisti di formazionemitteleuropea, come Camillo Bernardi, Oddone Tomasi,Gustavo Borzaga.Gli artisti di generazione successiva continueranno a rife-rirsi alle esperienze dello Jugendstil, interpretandole in chia-ve o più sommessa o meno decisa (Camillo Rasmo), o inve-ce legata a piú personale scelta di percorso, come nel casodel paesaggista e acquerellista Hans Weber-Tyrol, dal sicu-ro intuito compositivo (dal 1915 membro attivo della Se-cessione a Monaco) e di Josef Keim, o ancora applicate a te-matiche simboliste, come in Luigi Ratini – che si richiamaai francesi Puvis de Chavannes e Moreau, calati in struttu-re compositive debitrici a loro volta di fonti addirittura neo-classiche, come Ingres, o, piú avanti, al «classicismo» di No-vecento – o Dario Wolf, che raccoglie i frutti della sua dop-pia formazione, presso Lipinsky e attorno alla cerchia di DeCarolis e Sartorio. Altra figura di spicco della regione è Car-lo Moser, bolzanino, che vi introduce, con risultati interes-santi anche in campo grafico e linoleografico, le tendenzenabis, specie francesi (Gauguin, Valloton, M. Denis), as-sorbite in lunghi soggiorni parigini e bretoni (1901-907) erielaborate su una solida base «realista» che si avvale anchedella conoscenza dei piú importanti artisti delle correnti flo-reale e simbolista. Consimili atmosfere si ritrovano nelle bre-vi parabole creative dei trentini Umberto Maggioli e Tullio

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Garbari: personalità quest’ultima, ardentemente etica, cheravvisa nella semplicità delle espressioni dell’arte popolaredella sua terra le fonti prime della sua ispirazione. Gravi-tanti intorno a Ca’ Pesaro, dove a suo tempo Giovanni Se-gantini s’era fatto primo interprete della corrente divisioni-sta, furono Attilio Lasta (divisionismo applicato alla naturamorta), Luigi Pizzini e Mario Disertori. Accanto a questispicca per rilievo nazionale l’incisore Benvenuto Disertori:formatosi a Venezia e Monaco, predilige linguaggio e lezio-ne dei maestri cinquecenteschi italiani e tedeschi, nonché diPiranesi, interpretati in simbiosi colta e compositivamentesicura con il fluire ondulante del segno liberty. Unica zonaad esser toccata dal fenomeno futurista è invece il Trentinomeridionale, con centro in Rovereto, che associa a questascelta stilistica anche un piú sotterraneo bisogno di riacco-starsi a dettati piú «italiani», così come è anche per la sce-na letteraria e artistica nel suo insieme. Ciò si deve alla for-za trascinante di Fortunato Depero, attorno al quale gravi-ta un gruppo di accesi futuristi-irredentisti. A causa dei fattibellici sia Depero che gli altri (Umberto Maganzini, DiegoCosta, Baldessarri) finiranno peraltro per operare in altrecittà italiane. Roberto Marcello Baldessarri (detto Iras), inparticolare, aderirà al cubo-futurismo di Soffici a Firenze,ove si trasferisce, e che non manca di arricchire con viaggie contatti con alcuni dei protagonisti delle avanguardie eu-ropee: Kurt Schwitters e il suo astrattismo in primis. In-tanto, Depero svilupperà la sua personalissima interpreta-zione del futurismo in chiave sì di rappresentazione dina-mica del reale, ma ottenuta con un procedimento di astrattasincronia spazio-temporale che riunisce sulla tela un sogget-to visivamente scomposto, con risultati assai simili, benchénon funzionalmente analitici, a quelli cubisti. Con questobagaglio d’avanguardia, ritorna nel 1919 a Rovereto e vi aprela Casa d’arte futurista (oggi Galleria Museo Depero), fuci-na progettuale per arredi, arazzi e tessuti, nonché centro dianimazione di artisti d’estrazione e tendenze diverse, che viconviveranno in anni di fertili speranze, culminate e subitospente nella Veglia futurista del 1923.Ciò che Depero rappresenta per il Trentino, sarà in questidecenni il tirolese Albin Egger-Lienz, trasferitosi nel 1913presso Bolzano, per l’Alto Adige. Lontano da ogni suaden-

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te linearismo, sia esso piegato a cifra simbolica o a gioco or-namentale, della secessione, Egger-Lienz si riallaccia alle ra-dici native e guarda semmai al van Gogh «contadino», ope-rando una scelta di campo chiara quanto isolata durante ilperiodo bellico, intesa a dar voce al mondo degli umili, mon-tanari o contadini della sua terra, in uno stile dal toccoespressionista, ma sempre applicato a un realismo asciutto,quando non addirittura volutamente scarno (La Croce, 1901;Il seminatore e il diavolo, 1909). Monumentalità silenziosa,toccata da un’amarezza cupa e sofferta traspaiono dai po-tenti cicli dedicati alla guerra (Messa eroica, 1917; Donne du-rante la guerra, 1918-21), precorritrici di tematiche care allaNeuesachlichkeit. Al seguito dell’artista si pongono altri pit-tori altoatesini, con un ruolo di epigoni, dal quale emergo-no i fratelli Ignaz e Rudolf Stolz. Gli anni ’30 e ’40 non so-no comunque, in Alto Adige, stagione di vere sterzate for-mali o estetiche, conformandosi piuttosto la produzionepittorica a un patteggiamento piú o meno creativo con le cor-renti secessioniste o appunto con le tematiche «alpine» afondo etico, alle quali si rifarà anche l’isolato emergere, neldopoguerra, di Karl Plattner.In Trentino invece, Gino Pancheri riuscirà a trasmettere lenuove linee guida del dibattito che si andava dipanando at-torno agli anni ’30 negli ambienti della Milano artistica (Bre-ra, Politecnico, ecc.) e di Novecento: le tesi del classicismoitaliano coinvolgono così in misura diversa Guido Polo, Tul-lio Garbari, Carlo Bonacina, mentre Pancheri si volge a una«pittura di pura materia cromatica, risolta nello studio dinuovi rapporti spaziali tra luce e forma» (Belli, 1991) tragi-camente interrotti dalla morte sotto i bombardamenti diTrento nel 1943. La lezione novecentista rimarrà valida an-che per la generazione operante a guerra conclusa: Marghe-rita Sarfatti piegherà gli insegnamenti di Pancheri ad effet-ti naturalistici, Cesarina Seppi svilupperà una sua interpre-tazione visionaria dei paesaggi dolomitici, che dalla serie dei«crateri» del ’64, diverrà sempre piú astraente e materica si-no all’impiego indifferenziato di vari metalli, vetro soffia-to, plastica. Il crepuscolarismo di Guido Polo, fatto di sto-rie di umili e di vinti, spesso affrontati con il rigore stilisti-co e tonale appreso da Schiele e Kokoschka, si tinge diserenità e quiete nelle nature morte dell’ultimo periodo, incui la luce si fa preponderante oggetto d’analisi. Un tono

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espressionista vicino a quello di Groz pervade l’enorme pro-duzione xilografica di Remo Wolf, noto internazionalmen-te, mentre fonte d’ispirazione per Mariano Fracalossi, ap-plicata specialmente a una tecnica d’affresco mista, rimanela tradizione popolare, la cui semplice narratività viene scom-posta in toni primari e figurazioni geometrizzanti, già av-vertite del concettuale. Presenze, queste, emergenti in unTrentino alquanto chiuso in se stesso, incapace di collegar-si vitalmente al circuito nazionale e internazionale, che da-gli anni ’60 si volge tutto all’informale o allo sperimentali-smo dell’Action Painting americana. La consapevolezza del-la necessità di un aggiornamento diretto degli artisti trentini,capace di riannodare lentamente tali legami, spinse Ines Fe-drizzi, già attiva dal 1957 con le sue Evocazioni informali,ad aprire a Trento la Galleria L’Argentario, nel 1962, chediventa centro di collegamento e di promozione. La Fedriz-zi proseguirà con la serie delle Impronte (1960-65), e dei Man-dala (1967-80), patterns simmetrici e moltiplicabili che trat-tengono e rilasciano una materia pittorica e cromatica mo-bile e come segretamente fluente attraverso di quelli. Ilpunto di partenza di Enrico Sartori sarà invece lo spaziali-smo di Fontana: colori tenuissimi, tinte pastello, fremonosu superfici libere, cercando accordi come musicali, aggre-gazioni monotoniche che dagli anni ’80 si arricchiscono diintermittenze multicolori. Egualmente «mistica» potrebbedefinirsi l’opera di Carlo Andreani, del quale va ricordataanche l’importante e colta attività di restauratore. Punto dipartenza è ancora una pagina «bianca» sulla quale nasconoe fermentano segni all’apparenza indecifrabili, tracce di mes-saggi perduti: l’atto del creare li visibilizza e forse riesce atrattenere. Sulla scia informale si pongono anche Ivo Fruet,Giancarlo Vittorini e Bruno Colorito. Quest’ultimo ne rac-corda i presupposti a referenti concreti, ricercati nel pae-saggio montano della regione. Il 1976, sulla scia delle emo-zioni lasciate dalla mostra del 1967 all’Argentario, Illumi-nation, guidata da Nobuya Abe, è l’anno del manifestoprogrammatico di astrazione oggettiva, compilato a Trentoda un gruppo di artisti che variamente aspirano a confron-tarsi con i presupposti stessi del proprio fare pittorico, scru-tando in primis la materia stessa che lo compone, la sua strut-tura interna piú intima, i supporti che questa sostengono

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(sulla linea del gruppo francese Support-Surface), perve-nendo a una matematica o «grammaticale» analisi delle cro-mie (sulla linea analitica di Stella e Noland, o del minimali-smo di Tuttle e Irwin): così Aldo Schmid, Luigi Senesi,Mauro Cappelletti, Diego Mazzonelli, teorico del gruppo.Gli anni ’80 vedono in Trentino l’affievolirsi e infine lo spe-gnersi, con la crisi del concettualismo, di tali ricerche e ilpolverizzarsi della produzione pittorica in multiformi dire-zioni di ricerca non piú aggregabili a una corrente specificae delle quali l’importante mostra Situazioni del 1980, a Pa-lazzo delle Albere, cercò di dar testimonianza anche critica,sottolineandone, insieme ai risultati migliori (Romano Fur-lani, Franco Zibotto, Renato Pancheri, Umberto Savoia,Riccardo Schweizer, Paolo Vallorz) anche la carenza croni-ca di un piú profondo e vitale collegamento degli operatoritrentini e altoatesini con la ricerca e il dibattito estetico di-panantesi in Italia e all’estero.Museo Civico di Bolzano Nato con il passaggio, nel 1882,delle raccolte della Società per l’arte cristiana, fondata daKarl Atz, a una società del Museo di Bolzano, fu diretto si-no al 1940 dal barone Eyrl, che ne curò il nuovo allestimentonelle sale della sede attuale (1905), un tempo residenza no-biliare Hurlach. Il secondo conflitto mondiale portò, tra1940 e ’43, a una spartizione delle opere in esso conservatee accresciutesi con varie donazioni tra Italia e Germania:quelle rimaste in proprietà del museo si salvarono dai gran-di bombardamenti che colpirono l’edificio museale tra 1944e ’45, perché ricoverate altrove. Soltanto nel 1952 si riuscìa riaprire al pubblico tutti i piani espositivi, ricchi di pre-ziose raccolte archeologiche, storicoartistiche e d’arte po-polare, a carattere prevalentemente locale. Oltre l’impor-tante sezione di scultura lignea tirolese, spicca il patrimoniopittorico, che vanta tavole del Maestro di Uttenheim, di Mi-chael Pacher e di scuola bolzanina tardogotica; opere di Loth(Ebbrezza di Noè), Troger, Michelangelo Unterperger (LaGiustizia di Salomone, 1726), Glantschnigg, Lampi; una sa-la dedicata a Karl Henrici e altre a pittori dell’Otto e No-vecento. Costante e significativa è, in questi ultimi decennil’attività di restauro e recupero delle opere giacenti nei de-positi museali. Per il 1994 è prevista l’uscita del catalogoscientifico della sezione storico-artistica. Nel museo stessoha sede, oltre a una biblioteca, anche la fondazione N. Ra-

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smo - A. von Zallinger, che raccoglie importanti materiali distudio e la fototeca dei due studiosi dell’arte del T-AA.Museion - Museo d’Arte Moderna (Bolzano) Benché at-tualmente ancora a conduzione privata e utilizzato soltantocome sede espositiva d’arte contemporanea, sarà tra breveattrezzato per esporre in permanenza la notevole collezioned’opere, non solo di pittura, andatasi accumulando dal 1987in poi, anno in cui si costituì l’associazione di cultori d’artecontemporanea. La raccolta comprende artisti d’area italia-na e tedesca, ponendosi come ponte ideale e interrelaziona-le tra queste due culture.Museo Civico di Chiusa/Klausen Recentemente ristruttu-rato, ha sede nel chiostro dei Cappuccini e possiede una pic-cola ma significativa raccolta di sculture lignee e dipinti tar-dogotici e barocchi (Franz von Defregger, Hans Piffrader,Koester), nonché il cosiddetto «Tesoro di Loreto» donato al-la cittadina dalla regina Maria di Spagna per intercessione delsuo confessore, padre Gabriele Pontifesser (1701). In esso sicontano paramenti e arredi sacri, e una rara quadreria conopere di Carlo Dolci, Cignani, Luini e della scuola di Rubens.Galleria Museo Depero Con sede a Rovereto, pur dipen-dendo, come l’Archivio del Novecento, egualmente con se-de a Rovereto, dal Museo d’Arte Moderna di Palazzo delleAlbere a Trento, fu allestita nel 1957 da Fortunato Deperostesso in locali medievali del centro storico e rappresenta atutt’oggi l’unico museo di arte futurista in Italia. Vi è cu-stodito il ricco ed eclettico lascito Depero, nella disposizio-ne da questi voluta, nonché altre opere nate sotto la guidadel maestro o da lui raccolte nei lunghi anni di attività ro-veretana.Museo Civico di Rovereto Fondato nel 1851 per interes-samento di Fortunato Zeni, fu aperto al pubblico nel 1855con sede nell’ex Palazzo Piomarta. Arricchitosi col tempo,si trasferì nel 1942 a Palazzo Jacob; oltre a collezioni di ar-cheologia, numismatica, folklore e scienze naturali possiedeparecchi dipinti, scalati soprattutto dalla fine del sec. xvi inpoi (Bernardo Strozzi, Giambattista Langetti, Girolamo Co-stantini).Museo Pinacoteca Magnifica Comunità di Fiemme Con se-de nell’antico Palazzo vescovile di Cavalese, nasce nel 1935.La sezione dei dipinti, in gran parte recentemente restaura-

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ti, è ospitata nelle antiche sale dell’appartamento vescovile,ricche di affreschi; essa documenta soprattutto le vicendedell’unica vera e propria «scuola» pittorica trentina, la scuo-la di Fiemme, sviluppatasi nel Seicento attorno al magiste-rio di Giuseppe Alberti e comprendente le personalità di Do-menico Bonora, Michelangelo e Francesco Unterperger, An-tonio Longo e i Vanzo.Museo Civico di Riva del Garda Sorto negli anni ’50 conl’intenzione di render fruibili al pubblico le varie collezioniaccumulatesi nel tempo presso il municipio, trovò sede na-turale nella Rocca della città, edificio del sec. xii già adibi-ta a caserma durante il governo austriaco. Di carattere ete-rogeneo, comprendendo raccolte etnografiche, paleologiche,storiche e artistiche, è in via di ristrutturazione interna, al-lo scopo di presentare le diverse sezioni sotto criteri mu-seografici aggiornati. Per la pittura, sono presenti opere dalxvi al xx secolo: spiccano le tele di Pietro Ricchi e del riva-no Giuseppe Craffonara, il maggiore esponente del neo-classicismo del Trentino.Museo diocesano di Bressanone/Brixen Con sede nellosplendido Palazzo vescovile della città, resosi completamen-te disponibile con il trasferimento della sede vescovile a Bol-zano, nel 1964, si inaugura nel 1973 con il nuovo allestimentofrutto dell’impegno del direttore, monsignor Karl Wolfsgru-ber, che a tutt’oggi lo gestisce. Ne fanno parte le collezioniprovenienti dal territorio dell’antica diocesi brissinese rac-colte e salvate dall’incuria, dalle svendite o dalla distruzioneattraverso l’opera di un’associazione di cultori d’arte costi-tuitasi nel 1897, che aveva per sede alcuni locali del Palazzovescovile stesso. Estremamente ricca la sezione dei dipinti,che testimoniano della fertile stagione gotica e tardogoticaalla quale le botteghe brissinesi parteciparono attivamente(Leonhard von Brixen, Pacher, Mastro di Uttenheim, Rei-chlich, Nikolaus von Bruneck), del passaggio al rinascimen-to nordico (Paul Zwinger, Bartholomäus Dill, Paul Luckner),al manierismo e barocco (Teofilo Polacco, Stefan Kessler, Ul-rich Glantschnigg, Johann G. D. Grassmair, Nikolaus Weiss,ma soprattutto il grande pittore del barocco austriaco PaulTroger, al quale è dedicata un’intera sala). Il panorama pit-torico prosegue senza soluzione di continuità sino ad alcuneopere di pittori contemporanei impegnati su temi sacri, co-me Egger-Lienz, Rudolf Stolz e Karl Plattner. (scas).

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TrentoBenché non perfettamente precisabili, le origini di T si col-locano in età mesolitica: il primo insediamento viene rin-tracciato nella zona attorno e sul cosiddetto Dos T, il pro-montorio del Verruca, sulla sponda destra dell’Adige, che diper sé costituiva un sicuro baluardo naturale e che andò «ac-culturizzandosi» nell’età del ferro, con l’arrivo di gruppi cel-tici (forse galli cenomani) e retici. In epoca romana, Augu-sto ne fece un oppidum strategicamente impiegato per sfer-rare attacchi contro i Reti, fino alla linea del Danubio. Giànel 46 d. C., T è definito, certo in un’enfasi legata a ragio-ni politiche, «splendido municipio» dall’imperatore Claudio(editto bronzeo di Baia, cosiddetta Tavola clesiana) e nodoessenziale dei traffici, militari, economici e culturali tra Norde Sud; una posizione che manterrà praticamente sino allaprima guerra mondiale e che, nel bene e nel male, finì, persegnarne caratteristiche e storia.Del periodo romano resta, in campo pittorico, il solo mo-saico pavimentale a motivi ornati e figurali di una villa su-burbana (Sorbano) della zona del pomerio occidentale, da-tabile al sec. iv ca. e legato ad analoghe produzioni di Aqui-leia: la sua qualità ci indica il buon livello al quale si attenevala produzione artistica del municipium, confermato d’al-tronde da manufatti di altre tecniche. La penetrazione delcristianesimo, fortemente avversata, deve alla personalitàdecisa del vescovo Vigilio e al suo martirio (tra 400 e 405)la sua affermazione, simbolizzata tra l’altro con la fonda-zione della prima chiesa battesimale di T, Santa Maria Mag-giore. T subì, in tutti i sensi, il passaggio degli Unni, dei Go-ti di Teodorico (489) e dei Longobardi (568), che ne feceroun ducato-frontiera, esteso su un territorio che sarà anche,approssimativamente, quello del futuro principato vescovi-le. Per ritrovare testimonianze pittoriche bisogna spingersisino agli anni della prima fase costruttiva del Duomo, dedi-cato a san Vigilio, la cui semplice aula rettangolare era rico-perta da un mosaico oggi assai frammentario, risalente ai pri-mi decenni del v sec., ricco di motivi ornamentali e affineai coevi litostrati ravennati e gradesi d’epoca giustinianeacosì come ad altri reperti ritrovati nell’area di Santa MariaMaggiore e dei sacello sul Verruca. Nel 744 T passò ai Fran-chi, che la aggregarono alla marca tridentina e sotto Ottone

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I entrò nei territori del Sacro Romano Impero. Da allora furetta da un principe-vescovo dai doppi poteri, sia nello spi-rituale che nel temporale, che fungeva da raccordo tra po-teri feudali locali, strategie papali e interessi imperiali, daiquali ultimi dipendeva in sostanza l’elezione stessa del prin-cipe-vescovo tridentino. Questo stesso particolare tipo didoppio regime, perpetuamente conteso dalle parti in causa,giocò da freno potente al definirsi del regime interno citta-dino sotto regole comunali autonome e «democratiche» ti-piche del panorama politico italiano medievale: una situa-zione che lasciò anche la committenza artistica quasi inte-ramente nelle mani del vescovo, del Capitolo e degli abatidei maggiori ordini religiosi presenti in T. Assenti, in epo-ca romanica, testimonianze pittoriche (eccezion fatta perquei resti di affreschi riscoperti nell’annesso nord del Duo-mo pochi decenni orsono e sconsideratamente distrutti, e ilresto di una grande figura di San Cristoforo, di metà Due-cento, nel transetto meridionale del Duomo. d’impronta ve-ronese), restano alcuni preziosi codici miniati a testimonia-re interessi e direzioni di gusto dei vescovi tridentini. Sa-rebbe importante poter stabilire se il Sacramentario gregorianodi inizio sec. ix, sia un’acquisizione originale, come lo èl’Evangeliario purpureo (sec. vi, oggi deprivato di tutti i fo-gli contenenti miniature) o se pervenne in Duomo soltantonel Duecento, quando se ne fa esplicita menzione. Esso con-tiene poche iniziali anamorfiche e, usata come fodera inter-na, un ritaglio in seta bizantino-sasanide con la figura di San-sone e i leoni, del sec. vii ca. Al regno di Uldarico II (1022-55)appartiene il Sacramentario uldariciano, con modeste e rareiniziali miniate, mentre al secondo decennio di FedericoWanga (Vanga: 1207-18) risale, in una felice parentesi di pa-ce tra i sanguinosi episodi della guerra per le investiture,l’apertura a T di un piccolo scriptorium, animato da minia-tori di cultura renana che decorarono il Codex wangianus (Ilvescovo Wanga in trono, f. 1v), il Lectionarium (Museo dio-cesano, Il vescovo Wanga entro l’iniziale P, f. 1) e l’Ordo Mis-sae (iniziali aniconiche), t solo con l’avvio del Trecento chesi può cominciare a seguire il corso degli eventi artistici conuna certa continuità, incomparabile tuttavia con la coeren-za e la ricchezza della produzione bolzanina, reggentesi suben altre premesse sia finanziarie che socio-politiche. InDuomo, al San Cristoforo duecentesco ne fu sovrapposto

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un’altro, monumentale quanto il precedente, databile alla fi-ne del xiii o inizi dei sec. xiv, di forme bizantineggianti. Ladeturpata Crocifissione dell’absidiola settentrionale indica,nella sua intensa espressività, l’influsso veneziano, mentrele due Sante ritrovate poco piú a destra, così come il fram-mento con l’Incoronazione della Vergine della cripta, vannoattribuite all’autore, veronese, della decorazione di SantaCecilia a Chizzola (1310-20). È però la committenza bene-dettina di Sant’Apollinare a immettere la fresca linfa del piúconvinto e maturo giottismo espressosi nel capolavorodell’Arena padovana nell’esangue vocabolario veronese ar-ticolato dai citati affreschi del Duomo: attorno al 1320 è in-fatti attivo nella chiesa abbaziale Niccolò da Padova. Unicosegno della sua attività è per noi la Madonna col Bambino amezza figura un tempo affrescata nella lunetta al di sopradel sepolcro degli abati in facciata e oggi ricoverato all’in-terno. Alla sua mano vigorosa Rasmo (1982, 1987) vuole an-che attribuire l’affresco votivo Castelbarco dell’arco trion-fale di San Fermo a Verona (1314 o 1319-20), da altri asse-gnato al «Maestro del Redentore». Che il piú energico erealistico giottismo padovano sia stato recepito anche da al-tri maestri variamente impegnati a T lo proverebbe anchela Crocifissione un tempo sovrapposta a quella già citata inDuomo e ora conservata in sagrestia, databile verso il 1330,così come, nel transetto settentrionale, in prima fascia, lescene della Natività e della Morte della Vergine. Al di sopradi esse, l’intera seconda fascia fu dedicata a illustrare le leg-gendarie Storie di san Giuliano, firmate dall’emiliano Mon-te da Bologna, di cultura vitalesca, verso il 1365: opera trale piú aggraziate e cortesi, esprime un’inclinazione realistae mondana insieme forse persin troppo convinta, se si tienconto dello spazio sacro nel quale questi si colloca, ma cer-to non ignota in Trentino (si pensi al ciclo della Camera al-ta della torre del Castello di Avio) e sicuramente molto piúusuale di quanto non ci sia dato oggi conoscere. Lo stessoMonte, della cui attività il ciclo del Duomo appare comel’unico reperto sopravvissuto, deve certo la scioltezza delsuo tono narrativo e la precisione dei dettagli di costume al-la frequentazione di ambienti di corte dell’Italia settentrio-nale. Tracce del suo influsso si ritrovano nei sottostanti af-freschi con la Decollazione del Battista, la Madonna lactans e

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la Trinità, lo Sposalizio mistico di santa Caterina. La docu-mentata presenza a T dei bergamaschi Giovanni (1380-85ca.) e Giacomino (fine Trecento), viene figurativamente rin-tracciata negli affreschi della parete orientale del transettosud del Duomo, per il loro diverso debito con Giovanni daMilano (fascia superiore: Madonna in trono e otto santi, Cro-cifissione; fascia inferiore: Sant’Antonio abate e donatrice,Santo francescano). Uscendo dal Duomo, è invece di scuolaturoniana il maestro operoso presso il convento francescanofuori Porta Nuova, mentre del cospicuo incarico da partedegli agostiniani di San Marco, documentato dal 1364, cheaffidavano a Federico del fu Bonanno Oddone da Riva, as-sistito dal figlio, la decorazione della cappella di San Gio-vanni, nonché l’esecuzione della pala per il suo altare, nonè rimasto alcunché, se si voglia rinunciare ad attribuirgli an-che il bel, e unico, frammento con la Disputa di santa Cate-rina.Uno spiraglio visivo sulla produzione profana di fine secoloè offerto dal ciclo dei Mesi fortuitamente scoperto in un lo-cale terreno affacciantesi su via Oriola (ora al Museo Pro-vinciale d’arte). Nella fresca ingenuità del tratto e d’impa-ginazione, esso testimonia la versione «popolare» di quellanuova attenzione al reale, alla scansione quotidiana del tem-po lavorativo e stagionale, ai suoi connotati umani, al suodiversificato spettro sociale che con ben altra autocoscien-za e padronanza struttiva e descrittiva verrà splendidamen-te decantata nel celebre ciclo dei Mesi di Torre Aquila, al ca-stello del Buonconsiglio. Insieme agli ormai fatiscenti affre-schi della stanza superiore, essi vanno datati al primodecennio del Quattrocento, negli anni cioè del breve prin-cipato di Georg von Lichtenstein (1390-1419, ma in verità1407, data nella quale fu esautorato). Anni di chiusura ver-so il Veneto, di piú stretti contatti con il ducato visconteoe di rinnovamento anche culturale per la città che si apre– tramite il seguito di artisti e di collaboratori scesi con ilpresule moravo dalle sue terre d’origine – al gotico di mar-ca internazionale centro-europeo, nonché ai fermenti che suquesto terreno aveva gettato la presenza documentata nonsolo di orefici milanesi ma anche di pittori di cultura lom-barda, attirati a T dalla speranza di nuove commesse. Nonaltrimenti sembra possa spiegarsi il carattere ambiguamen-te, ma non per questo meno convinto e compiuto, multilin-

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guistico (internazionale, appunto) del ciclo dei Mesi, solita-mente attribuito al maestro boemo Venceslao, documenta-to pittore della corte del Lichtenstein (da non associare alVechlaus che si firma negli affreschi poco piú tardi di Rif-fian), che per comporne i vari episodi attinge a piene manial patrimonio di osservazioni realistiche sino al documenta-rio, presenti ad esempio nei Tacuina sanitatis lombardi, unodei cui esemplari piú vivaci era passato appunto nella bi-blioteca di Georg von Lichtenstein. È questa commistionecon la cultura padana cortese che impedisce di attribuire alMaestro dei Mesi i disegni preparatori per gli incantevoli ri-cami, di indubitabile marca boema, che un tempo ornavanoi paramenti in velluto turchino ordinati dal vescovo più omeno in contemporanea con la decorazione delle camere del-la propria residenza privata a Torre Aquila. Dal quarto-quin-to decennio del secolo, capovoltisi nuovamente gli equilibripolitici della Valdadige, si riaffacciano i veronesi, come quelmodesto Cecchino che firma una tavola per il Duomo nel1454, e i veneti, come il maestro muranese, di cultura squar-cionesca che alla metà circa del secolo arricchisce l’anconalignea per la chiesa dei minoriti di San Bernardino con le fi-gure dei dodici esili Santi nelle edicole laterali.L’elezione dell’assiano Johannes IV Hinderbacb (1466-86)riporta in città artisti nordici, in maggioranza svevi, che fu-rono impiegati dal vescovo in tutta una folta serie di operedecorative, interessanti in specie la chiesa di San Pietro, cuo-re del quartiere alemanno di T con l’annessa cappella dedi-cata al beato Simonino, l’antico palazzo vescovile (oggi Pre-torio) e il rinnovato Castelvecchio. Di quel fervore d’operee d’artisti, così puntualmente documentato dalle fonti, og-gi non rimane quasi nulla: degli unici pittori italiani, i vero-nesi Bartolomeo di Cristoforo Sacchetto e i figli Cristoforoe Giacomo, spesso affiancati da un Valerio forse trentino,rimane appena il fregio rinascimentale a festoni e putti delcortile in Castelvecchio. Al salisburghese Michael Tanner,probabile pittore «di corte» del principe, presente in cittàdal 1467 al 1488, si può attribuire con buona verosimiglianzala tavola-epitaffio, che un tempo ornava il monumento se-polcrale di Hinderbach in Duomo (1480-85 ca.: Museo dio-cesano) e che raffigura la Vergine in trono col Bambino trasanti, ai cui piedi si inginocchiano lo stesso vescovo accom-

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pagnato dal proprio segretario Ortwein. L’Epitaffio mostrainfatti di partire dallo stile maturo del salisburghese KonradLaib e dalla sua cerchia, ma reca tracce evidenti dell’influs-so penetrante che sul pittore ebbe il contatto con le fontiitaliane, venete in particolare. Al 1490 ca. risale l’Epitaffiodel canonico Nothaft, opera probabilmente anch’essa d’am-bito salisburghese (e di Passau) ma della cerchia di RuelandFrueauf der Altere. Anche un terzo Epitaffio, quello del ve-scovo Ulrich IV von Liechtenstein, ante 1504, ha un mar-cato accento svevo-augustano, ma rivela fortissimo l’impat-to dei modelli veneti e belliniani sul suo autore, ormai comespaesato in se stesso. Altra coerenza mostra l’affresco, inperfetto stile massimilianeo, sulla Porta Aquila, datato 1513e firmato da un Hieronimus variamente presente in note do-cumentarie come pittore alemanno residente a T, così come,stavolta con un timbro svevo-danubiano, la tavola votiva,datata 1517, con Sant’Apollinare e il preposto Zullnhart, suuna faccia, e sull’altra uno Schmerzensmann (oggi divise) an-cor oggi nella chiesa di Sant’Apollinare. Emergenze scarnedi una presenza nordica in T certo piú folta e qualitativa-mente buona spesso sottaciuta dagli storici, ma già indebo-lita non già sul territorio del principato ma proprio in cittàgià nell’ultimo decennio del sec. xv, quando (1490-93 ca.)un pittore d’arca veronese decora la facciata di Palazzo Ge-remia con specifici temi politico-allegorici. Ad apertura delnuovo secolo, il vicentino, ma di formazione peruginesca,Francesco Verla, esegue una Sacra Conversazione per il Duo-mo (1515: Museo diocesano) dopo che il Capitolo avevachiamato Gian Maria Falconetto, veronese, a dipingere, conil fratello Tommaso, le grandi ali del nuovo organo della Cat-tedrale, compiute nel 1508 (oggi in Santa Maria Maggiore).Citazionismo archeologico e padronanza prospettica presi-diano quest’opera dal pretto stile tardo umanista, che do-vette incontrare il favore dei trentini. I Falconetto rimase-ro attivi (resti) anche sotto Bernardo Cles (1514-39), figuraquest’ultima straordinaria di mecenate, politico e intellet-tuale, fautore del Concilio e artefice della decisa svolta insenso italiano e rinascimentale di T. Sotto di lui, la residen-za del Buonconsiglio acquistò nuove ali (il Magno Palazzo),alla decorazione delle quali Cles chiamò dapprima (1530)Marcello Fogolino, assistito dal fratello Matteo (stanza ter-rena del torrione: Scene di storia romana; salone: Ritratti dei

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vescovi tridentini e Carlo Magno in trono, 1534-36), che sem-pre ricevette il suo favore e che riuscì, data la sperimentataabilità diplomatica esercitata ai tempi del Clesio, a confer-marsi pittore stabile del successore Cristoforo Madruzzo(1539-67), il vero animatore e celebratore del Concilio tri-dentino, per il quale affrescò un ciclo di Arti liberali e di Virtúnella residenza delle Albere (oggi mam). Fogolino operò, conottimi risultati, e con libero estro, arricchito da una natura-le quanto prodigiosa facilità di assimilazione di formule nonsue (desunte cioè da Romanino e dai Dossi, che gli lavora-rono affianco, dal Pordenone ecc.) sulle volte di due sale diPalazzo Sardagna (Storie di Costantino; Segni dello Zodiaco)e in altri ambienti poi distrutti; sulla facciata di casa Cazuf-fi (exempla romani in elegantissimo monocrorno) nonché peraltri centri periferici e palazzi clesiani, quasi sempre affian-cato da un folto stuolo di altri artisti, sia trentini, che vero-nesi, e persino tedeschi, di cui si sono conservati i nomi epochissime tracce figurative. L’unico, fra questi ultimi, atrovare corrispondenza in opere conservatesi sino a noi èBartholomäus Dill Riemenschneider, figlio del celebre scul-tore Tilman di Würzburg, scappato dalla città francona du-rante i torbidi del 1525 per sfuggire alla susseguente re-pressione e che aveva chiesto la protezione del potente Cles.Il cardinale gli conferì un salario mensile e Bartholomäus col-laborò variamente alle decorazioni a fresco del Magno Pa-lazzo (Torre del Falco), ma si dedicò in specie alla maiolica,carpendone i segreti tecnici dagli artigiani faentini attivi aquel tempo a Ferrara e riuscendo presto ad appaiarli per abi-lità disegnativa. Egli fornì così al castello stufe a maiolica eformelle per pavimenti ricche di composizioni a tema sacroe profano dalle morbide, manieristiche forme, di cui si sonoconservati alcuni esemplari.Diverso il soggiorno di Romanino e di Dosso Dossi, accom-pagnati dal fratello Battista. Entrambi rimasero attivi alBuonconsiglio soltanto tra 1531 e ’32, ma la loro presenza,specie quella di Romanino, non solo donò agli ambienti delcastello il sensuale, rigoglioso profluvio di raffigurazioni trale piú gioiose e libere ed equilibrate dell’intero rinascimen-to italiano, ma fu determinante per la decisiva impronta chela loro arte, qui al vertice massimo di concentrazione pro-gettuale e felicità di riuscita, lasciò sulla città e sugli artisti

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che vi si succedettero o che la visitarono. Dosso, ferrarese(ma oriundo trentino), esponente di una pittura colta, sofi-sticata e aggiornata quale quella praticata alla corte di Alfon-so d’Este, si trovò respinta buona parte dei progetti pre-sentati all’approvazione del cardinale e si concentrò allorasulla camera del Camin Nero, sul contiguo refettorio «Stuade la fameia», di invenzione unica, giocato sulla moltepli-cità potenziale dell’illusione pittorio-materica, nonché su al-tri ambienti, dove a tratti prevale la bottega. Altra eccezio-nale e molto lodata decorazione doveva esplicarsi nella«Stua» grande, con temi dalla Creazione, dallo Zodiaco e dal-le Metamorfosi ovidiane. Considerate «libertine» e sconve-nienti per una residenza ecclesiastica, vennero eliminate nelSettecento. Il bresciano Girolamo Romanino ebbe invececarta bianca dal Cles. Sfondi di un lapislazzulo intenso, car-ni opulente e luminose, pose meditative, dettagli naturali-stici, simbologie colte e insieme sorridenti, ricchezza cro-matica e plastica si riconcorrono dalla Loggia alla Sala delleUdienze nella piú compiuta e dispiegata creazione della suacarriera.E mentre, nel corso del secolo, anche le sale e soprattutto lefacciate dei palazzi delle famiglie migliori di T si arricchi-vano, in misura certo modesta ma positivamente sollecitatadalla straordinaria congiuntura offerta dai lunghi anni di di-battito conciliare (casa Cloz-Salvetti: facciata affrescata nel1551 da Domenico Ricci detto il Brusasorci; Villa Magone:ciclo delle Battaglie di Carlo V, fondato su incisioni di vanHeemskerck; cicli nel Palazzo madruzzesco delle Albere,1558-66 prossimi a Gualtiero Padovano; Palazzo Lodron:cicli degli ultimi decenni del secolo, che mostrano influssivarianti dal manierismo veneto allo stile rudolfino), al car-dinale Madruzzo riusciva di farsi ritrarre da Tiziano (1552:Washington, ng) e Giovanni Battista Moroni, alle sue pri-me commissioni pubbliche, dipingeva un’Annunciazione,una Santa Chiara (1548: Museo diocesano) e i Dottori dellaChiesa (1551-52: Santa Maria Maggiore), distinguendosi co-me ritrattista di talento naturale e dal tocco cromatico me-tallico nei due ritratti a figura intera dei nipoti del cardinale,Lodovico (Chicago, Art Institute) e Gian Federico (Wa-shington, ng). Accanto a queste presenze piú o meno presti-giose, emerge sempre più, grazie anche a nuove ricerche sulcampo, un livello meno clamoroso, ma certo non disprezza-

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bile di buone pale di artisti in specie veronesi, come quelledel manierista Paolo Farinati, operoso per i Cazuffi (Depo-sizione, 1589: dalla Villa Cazuffi, oggi a San Bernardino) eper i Madruzzo (Sacra Conversazione, 1591: Museo Provin-ciale d’arte), ma anche veneziani, sempre piú richiesti e in-fine egemoni ad apertura del Seicento. La scarsa affezionedei primi Madruzzo per T, determinata dalla cura gelosa deipropri interessi dinastici, li portò sempre piú a prediligere lasede papale come luogo di residenza: anche per questo T nonconobbe piú le cure e l’impronta plasmatrice che le aveva sa-puto dare il suo mecenate d’elezione, il cardinal Clesio. Dalnono decennio del sec. xvi, si impone in città il talento cer-to non eccelso di Paolo Naurizio, di origini norimberghesi,che riceve una commissione per il Duomo (1583: Madonnaincoronata e santi) iniziando così una proficua serie di com-messe che lo vedranno attivo in tutto il Trentino.La compiaciuta sonnolenza di inizio Seicento si tramutòspesso in senso di impotenza verso quella pressione econo-mica e amministrativa che la Casa d’Austria andava con-certando con sempre maggior forza man mano che il Sette-cento avanzava e che portò certo, contornata come fu da ca-lamità naturali e dalle razzie delle truppe di passaggio, a unristagno delle committenze di piú alto profilo. D’altro can-to va dato il giusto rilievo alle attese, anche formali, che laControriforma aveva suscitato e che portarono a una ri-chiesta infinita, lunga due secoli, di nuove pale per i nuovialtari barocchi che vengono eretti un po’ dovunque e alle at-tenzioni che il cardinale Carlo Gaudenzio Madruzzo (1600-1629) tornò a tributare alla città di T, in quanto convintosostenitore dei principi controriformistici elaborati dal Con-cilio e, tra l’altro, della preziosa funzione didattica di unacorretta iconografia religiosa quando resa partecipe di un piúampio piano di rinnovamento dei costumi e della vita reli-giosa. Il Madruzzo chiamò perciò a risiedere nel suo stessocastello (già dal 1599) il pittore Martino Teofilo Polacco,formatosi nell’ambiente manierista veneto di Palma il Gio-vane, istruendolo e promuovendone la produzione sino al1621, anno nel quale il Polacco interrompe il suo rapportocon il cardinale e si reca a Salisburgo, senza piú far ritornoa T. Quivi l’artista lascia due predelle d’impianto fresco edequilibrato, così come la tavola votiva, postuma, di Bernar-

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do Clesio, per il Duomo, nonché gli affreschi della voltadell’abside di Santa Maria Maggiore. Altri pittori gli si af-fiancano presto nell’opera di illustrazione delle nuove ico-nografie riformate: Giovan Battista Rovedata consegna ilCrocifisso e santi alla chiesa delle Orfane (terzo decennio delSeicento: Museo Provinciale d’arte), in uno stile veroneseattardato ancora sui moduli cinquecenteschi, proprio ancheal bresciano Carlo Pozzi, attivo a T dal 1632. L’arrivo diPietro Ricchi, detto il Lucchese, dovette certo portare ven-to nuovo in città: la sua pala dell’Assunta per Santa MariaMaggiore (1644) si discosta, nel suo sfolgorante, lombardobarocchismo, dai drammatici o abbaglianti cangiantismi tar-domanieristici che ancora impregnano la splendida decora-zione dell’Inviolata di Riva (dal 1642) e mostra dunque, aquelli unita, tutta una possibile parabola espressiva che re-stò a lungo ineguagliata e che trova una postilla degna di que-sto artista errabondo e irrequieto nella decorazione delle ve-le della cappella del Beato Simonino in San Pietro, compiu-ta in un nuovo passaggio a T nel 1669. Di Andrea Pozzo lacittà natale conserva poche opere: il numero di repliche delsuo giovanile Riposo durante la fuga in Egitto (1665 ca.: par-rocchiale di Lasino), dipinto per i carmelitani di T, attestaperaltro il favore del pubblico per le sue invenzioni.Trasferito a Roma, gli subentrò l’allievo Gaudenzio Mi-gnocchi, che decora le volte di San Marco e San FrancescoSaverio (distrutte) e quella della biblioteca dei Gesuiti (og-gi Archivio di Stato); in Duomo era sua la pala votiva po-stuma per il Beato Adelpreto, posta al di sopra del sarcofagomedievale del vescovo (Museo diocesano). Di un altro tren-tino, Francesco Marchetti, benvoluto dal vescovo e attivofino alla lontana Boemia, rimane la bella tela sul soffitto delPalazzo Thun (1673 ca.), mentre distrutta è la decorazionedella chiesa del Carmine dovuta al quadraturista AntonioGresta (1720 ca.), emigrato dipoi a Bruchsal. Quasi un’ec-cezione, in un epoca di ristagno della Val d’Adige superio-re, il talento dell’atesino Obermüller che decora nel 1693l’ospedale alemanno di San Pietro e fornisce due paleall’Oratorio dell’Annunciata. Su tutti, spicca in ogni casoGiuseppe Alberti di Tesero, attivo non solo per T: nel SanVigilio del 1673 (Museo diocesano), sua prima opera dopo ilrientro dagli studi padovani e dalla bottega, probabilmente,di Pietro Liberi a Venezia, così come nel Beato Simonino del

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1677, su commissione del vescovo Alberti Poia, egli intrideun chiaroscuro caravaggesco di luminose tonalità veneziane.Un lungo soggiorno a Roma lo arricchì sia di conoscenze tec-niche che stilistiche. Al suo ritorno, nel 1682, il vescovo loincaricò del progetto e decorazione pittorica (1685, ove èpresente quella «rinuncia al colorito veneziano» che dove-va farsi marcata al ritiro dell’artista, dopo il ’90, a Cavale-se) di una cappella dedicata al Crocifisso, che doveva aprir-si sul fianco meridionale della Cattedrale; le due tele latera-li furono commissionate a Carl Loth. Nel 1684 dipinge lapala votiva con i Santi Francesco e Antonio da Padova, d’ac-cento murillesco. Infine, sue sono le allegorie e i temi mito-logici affrescati sulle volte di due sale del primo piano dellaGiunta albertiana al Buonconsiglio. La sua bottega si confi-gurò sempre piú come vero luogo di formazione per tuttauna generazione di pittori detti della «scuola fiemmese», tracui spiccheranno Johann Georg Grasmair, Michelangelo Un-terperger e Paul Troger, attivi soprattutto in Alto Adige.Come può ravvisarsi da questi rapidi cenni, il panorama pit-torico di T nel Settecento si configura come un indolore maprogressivo spegnersi di ogni iniziativa di significato pro-positivo, sia da parte della committenza vescovile, in prati-ca esautorata dalla corte viennese, che da parte di una qual-che scuola o personalità artistica emergente. Tutte le operecreate per la città saranno, nel migliore dei casi, riflessi diciò che viene elaborato altrove o prodotti minori di svaria-te correnti stilistiche del tempo, riproposte da modesti pit-tori locali. Tra questi ultimi citiamo Antonio de Romedis diBorgo (affreschi e pala dell’altar maggiore della chiesa delleOrsoline, 1735) e Valentino Rovisi da Moena, formatosi suRicci prima e poi su Tiepolo, che specie dopo il 1750 diffon-de lo stile di quest’ultimo in numerose opere. Il vescovo Al-berti d’Enno scelse il veronese Francesco Fontebasso per de-corare nel 1759 alcune sale del Castello del Buonconsiglio.Qui il frizzo tiepolesco si distende con una leggerezza nonpiú ritrovabile nella produzione locale: anche GiambettinoCignaroli consegna belle pale a varie chiese trentine, di cuila migliore, per San Martino, è andata distrutta nel 1944.Un suo dotato allievo fu il bolzanino Karl Hendrici, autoredella decorazione di Palazzo Salvadori, che solo nelle tele dacavalletto elabora un tocco piú personale, grasso, madre-

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perlaceo, ricco di eleganti accordi cromatici, per narrazionispigliate d’influsso tiepolesco. Pittore di corte dell’ultimoprincipe-vescovo di T, Pietro Vigilio Thun, fu DomenicoZeni da Bardolino, convertitosi dal possente barocchismodei dipinti del presbiterio della chiesa di Sardagna, presso T(bozzetti al Museo Provinciale), della serie dei Vescovi tren-tini in Castelvecchio (1780) o del Ritratto del vescovo Thun(Museo diocesano) al neoclassicismo integrale degli affreschidi Villa Tambosi. Ma il pittore piú celebre e amato di finesecolo fu Giambattista Lampi, formatosi nell’ambiente delCignaroli e richiestissimo ritrattista – prima di convolare apiú alte mete, da Vienna a Varsavia e Pietroburgo – dell’ari-stocrazia locale, per la quale egli stende con cura minuziosafino al puntiglio ritratti un po’ enfatici e carenti nell’inda-gine psicologica, utili testimonianze dei costumi e delle pre-tese di una classe sociale dignitosamente acquiescente al pro-prio tramonto.L’Ottocento rappresenta anche per T la perdita totale di po-tere economico e della sua antica importanza politico-stra-tegica. L’Austria, stremata dalle guerre napoleoniche e irri-tata dagli episodi insurrezionali (1809), lesina contributi,mentre un nuovo pietistico fervore religioso, conseguentealla restaurazione, unito all’ascesa della classe borghese chesubentra a nobili e clero, porta allo sviluppo di una pitturadai temi intimi, sommessi, in composizioni piú raccolte e conpochi personaggi. Don Antonio Longo, formatosi sotto ilvincente neoclassicismo romano, ritorna a T nel 1799 e di-viene l’esponente piú importante di questa corrente: sue leVie Crucis per il Duomo e San Pietro (1805 ca.: ora a Ci-vezzano), tipologia nella quale si era specializzato. Un altroneoclassicista, Domenico Zeni, decora sale della Villa Tam-bosi, presso T e dipinge la Rassegna della Guardia Naziona-le (1806) per il Municipio. Come ritrattista preciso e atten-to, si afferma Giovanni Pock, mentre indirizzata ai temi sto-rici della nuova corrente romantica è l’attività di DomenicoUdile (pala della cappella Galasso, 1831) e di Giustinianodegli Arancini. Giuseppe Craffonara va considerato il mi-gliore artista della prima metà del secolo: suoi dipinti e af-freschi si trovano in tutto il Trentino, oltre che in città. Ametà secolo, T cambia radicalmente il proprio volto con ladeviazione del corso dell’Adige (1858) ed è pervasa da fre-miti irredentisti. Vi lasciano opere importanti Michelange-

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lo Grigoletti (Pala dell’Annunziata, 1857) e Francesco Hayez(Venere dalle colombe, per il barone Malfatti: Raccolte del-la Cassa di Risparmio). Figura centrale, che già sfiora il No-vecento, è quella di Eugenio Prati, che riesce a coniugarecon buon equilibrio neoclassicismo e romanticismo: forma-tosi a Venezia e Firenze, diventa alfiere locale del verismo:lievità cromatiche e delicatezza di sentimento si lasciano ap-prezzare maggiormente nelle opere «minori». Ad aperturadel secolo, T è penetrata dalle varie tendenze stilistiche ela-borate nei centri accademici maggiori italiani o tedeschi, mavi è impossibile trovare espressioni di portata paragonabilea quelli. Unica personalità ad ergersi con dignità europea èquella di Giovanni Segantini di Arco, del quale T non sep-pe trattener nulla. Il suo divisionismo è però di stimolo a in-cisori come Benvenuto Disertori e pittori come Attilio La-sta e Luigi Pizzini. Luigi Bonazza sviluppa conseguente-mente la lezione divisionista a contatto con la Secessioneviennese (Klimt) e tedesca in genere, seguito da Dario Wolf,Camillo Rasmo, Luigi Ratini. La forzata annessione delTrentino e del Tirolo meridionale all’Italia all’indomani delprimo conflitto mondiale e l’esasperata politica nazionali-stica del fascismo, acuiscono da un lato le posizioni autono-miste e dall’altro il rimpianto del ponte naturale che un tem-po univa T all’area culturale tedesca, definitivamente di-strutto dalle vicende dell’ultimo conflitto. Anche gli artistisembrano in qualche modo risentire della situazione di smar-rimento e frattura culturale così determinatasi: alcuni tran-sitano ancora dalle Accademie di Vienna, Monaco, Inn-sbruck, alimentandosi alle fonti della secessione prima edell’espressionismo poi (Tuillo Garbari, Gigiotto Zanini),ma i piú prendono la via di Milano, Venezia o Roma, le-gandosi in specie alle correnti di Novecento e di «Corren-te», della quale Gino Pancheri darà una sua personale e in-tensa versione, finendo per coinvolgere nella ricerca ancheGarbari, che gli era stato maestro, Carlo Bonacina – espo-nente del realismo magico appreso in laguna e trasposto conottimi risultati soprattutto nelle serie all’acquaforte degli an-ni ’30 e ’40 – e Guido Polo, unico a superare con intatta edolente lucidità espressiva la prova della guerra. Suggestio-ni nabis si ritrovano nell’opera di Umberto Moggioli, men-tre neppure il futurismo riesce a convincere T: Depero e il

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gruppo da questi animato ha sede a Rovereto (1919-23) e dalì muove in direzione sud. Il panorama della produzione pit-torica a T si adegua, dagli anni ’50 in poi – sebbene con ri-tardi e debolezze intrinseche dovute soprattutto alla scarsaattenzione di un pubblico fondamentalmente conservatoree delle istituzioni preposte per le manifestazioni dell’arte«moderna» che ne frenano gli slanci e il confronto su scalanazionale – al dibattito estetico e programmatico delle cor-renti figurative elaborate altrove. È un panorama composi-to, poco propositivo e molto ricettivo, che solo nei casi piúfelici trova una sua forza nel confronto aperto e non piú pas-sivo tra radici linguistiche locali e lezioni europee (→ Tren-tino - Alto Adige), avendo T perso col mutare della sua con-figurazione storico-politica, la qualità di centro propulsore,e divenendo invece piú centro di raccolta e di presentazio-ne di ciò che viene creato in tutta la provincia. Ruolo cen-trale di analisi, presa di coscienza e suscitatore di dibattitoe confronto costante e concreto tra le peraltro vivacissimepresenze di operatori artistici trentini ha assunto nell’ulti-mo decennio il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea,che si sforza di colmare così il divorzio tra produzione figu-rativa locale e quasi volontariamente periferizzata e qualitàe autoconsapevolezza dimostrati dai maggiori movimenti opersonalità artistiche nazionali e internazionali.Museo Provinciale d’arte Sede del museo – che presto pren-derà la denominazione «Castello del Buonconsiglio. Monu-menti e collezioni provinciali» – il piú ricco e importantedella città, è il Castello del Buonconsiglio, residenza dei prin-cipi-vescovi tridentini dal 1255 sino alla caduta del princi-pato stesso. Il castello è in verità articolato in tre distinticorpi architettonici, testimoni delle successive fasi di co-struzione e utilizzo dello stesso: la fondazione di Castelvec-chio risale alla prima metà del Duecento (Torre d’Augustoe cinta muraria via via ampliate, sopraelevare ecc.), ma ac-quista l’aspetto odierno sotto Johannes Hinderbach, tra1470 e ’86, che lo fa ampiamente affrescare (quasi tutto per-duto). A Georg von Lichtenstein si deve invece, già nell’ul-timo decennio del Trecento, la costruzione della Torre Aqui-la, sovrastante la civica Porta Aquila, aperta in direzione delPerginese. Al suo piano superiore vi si può ancor oggi am-mirare l’incantevole ciclo gotico internazionale dei Mesi(1400-407). A partire dal 1528, addossato a Castelvecchio,

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il cardinal Clesio fece erigere la nobile residenza del MagnoPalazzo, terminato nel 1536 e splendidamente affrescato intutte le sue parti da alcuni tra i maggiori pittori rinascimen-tali lombardo-veneti. Tali cicli rimangono tra quelli di mag-gior spessore qualitativo di tutto il rinascimento italiano eparte integrante della visita del Museo del Buonconsiglio.Sul finire del Seicento il vescovo Alberti Poja fece erige-re una Giunta albertiana che servì da congiunzione tra il medievale Castelvecchio e il Magno Palazzo del Clesio. Epatrimonio per così dire «mobile» del museo si è andato costituendo nell’Ottocento, attraverso lasciti e donazionipubbliche e private. Comprende una sezione archeologica(attualmente al primo piano di Castelvecchio e in deposito),una di arte medievale e moderna, che raccoglie oltre a bron-zetti, ceramiche, maioliche, porcellane, sculture lignee, col-lezioni numismatiche e lapidarie, anche una buona messe didipinti, specie fine cinquecenteschi e oltre. Fanno partedell’Archivio alcuni tra i piú preziosi codici dell’antica bi-blioteca vescovile, nonché codici musicali quattrocenteschie la raccolta grafica.Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Ro-vereto Si articola in tre sezioni, due delle quali a Rovereto(→ Trentino - Alto Adige). Quella trentina, nata come sot-tosezione delle collezioni del Museo Provinciale, ha potutousufruire, dall’inizio degli anni ’80, della prestigiosa sede delPalazzo delle Albere, completamente restaurata e ristruttu-rata nel corso degli anni ’70. Villa suburbana, rinascimen-tale, edificata verso il 1535 per conto dei principi-vescoviMadruzzo, era un tempo riccamente affrescata, ma le vi-cende storiche successive hanno portato al deperimento oalla scomparsa di molti dei suoi cicli murali; tra i piú signi-ficativi si ammirano ancora quelli lasciati da Fogolino. Il mu-seo ospita un’eccellente raccolta di opere (comprendente an-che sezioni di scultura e grafica) di artisti operanti in Val-dadige dal romanticismo in poi (Moggioli, Rezzi, L. Fontana,Carlo Belli, Osvaldo Licini, sino ai contemporanei) e da piúdi un decennio si propone validamente come centro di do-cumentazione, raccolta, valorizzazione e studio dell’arte ot-to-novecentesca non solo trentina, ma europea e internazio-nale. Le mostre organizzate dal museo possono considerar-si tra le piú attente e propositive dedicate al contemporaneo

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di tutto il territorio nazionale, tenendo anche conto in uncontesto strettamente nazionale della posizione perifericadella città.Museo diocesano Fondato all’inizio del secolo, aveva ini-zialmente sede presso il Seminario Vescovile, oltre che nel-la sagrestia del Duomo. Già dall’inizio si poneva come obiet-tivo primario quello di fungere da centro funzionale di te-stimonianza didattica sull’arte sacra della regione e diricovero e cura di tutti i manufatti artistici e archeologicidella diocesi che, per ragioni di sicurezza e conservazione,si fosse deciso di rimuovere dalle sedi parrocchiali o religio-se non piú in grado di assolvere a tali compiti. Dopo la sta-si bellica, il museo riaprì nel 1963 le porte nella sua nuovasede di Palazzo Pretorio, appositamente rinnovato. Sino alsec. xiii esso era stato residenza dei vescovi tridentini, fun-gendo da sede giuridica della città: nel palazzo trovarono co-sì posto buona parte delle diverse sezioni di cui si compo-neva il museo e che si sono sempre piú arricchite. Con la-vori di restauro piú filologicamente avvertiti rispetto a quellidel 1963, iniziati nel 1991, il museo si propone di aprire nel1995 al pubblico l’intero complesso architettonico del pa-lazzo inclusa la cappella palatina e il sovrastante castelletto,corpi che fungono tra l’altro da legame fisico tra palazzo eDuomo, e di offrire le sue varie sezioni (pittura, scultura li-gnea e in pietra, sezione archeologica paleocristiana, orefi-ceria, paramenti, tessuti e ricami, sigilli, incisioni e stampe)scientificamente ordinate e articolate secondo i piú moder-ni criteri museali. Vanno segnalati almeno la prestigiosa se-rie degli arazzi con il ciclo della Passione, realizzati nell’ate-lier di Pieter van Aelst a Bruxelles verso il 1511-20 e acqui-stati da Clesio ad Anversa nel 1531; il trittico ad ante mobilidi Sopramonte, del 1490 ca.; le portelle altdorferiane da Vi-go di Fassa; tele di Naurizio, Giambattista Lampi, Fonte-basso, Giuseppe Alberti, Teofilo Polacco e molti altri. (scas).

TreviriColonia romana fondata da Augusto (l’antica Augusta Tre-verorum), fu un centro fiorente durante l’impero. Nei suoidintorni sono stati riportati alla luce resti di edifici e nume-rose ville decorate con pavimentazioni a mosaico figurato diun’epoca compresa tra il 1 e il sec. iv d. C. (conservati alRheinisches Landesmuseum della città). Sotto la Cattedra-

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le sono state ritrovate tracce di un antico palazzo tradizio-nalmente considerato residenza di Sant’Elena, che ha resti-tuito pannelli di soffitti dipinti (Amori danzanti, busti di don-ne con in mano le insegne imperiali). (mfb).

Trevisani, Francesco(Capodistria 1656 - Roma 1746). Fu scolaro di Antonio Zan-chi a Venezia; piú che trentenne, verso il 1678 si stabilì aRoma entrando presto in rapporto con il cardinale FlavioChigi, che gli affidò due tele per il Duomo di Siena (Cristocon i santi Filippo e Giacomo, 1687, e Il martirio dei santiQuattro Coronati, 1688) e Il martirio di sant’Erasmo per ilDuomo di Porto. Ma il suo massimo mecenate fu il cardi-nale Pietro Ottoboni, il quale lo nominò suo primo pittoree gli assegnò un appartamento nel palazzo della Cancelleria(1698), dove T restò probabilmente fino alla morte del suopatrono (1740): il pittore venne così introdotto nell’Acca-demia dell’Arcadia, che dopo la morte di Cristina di Svezia(1690) aveva appunto nell’Ottoboni il suo principale riferi-mento. T fu arcade (il Pascoli testimonia anche sue notevo-li capacità poetiche) insieme a Giuseppe Ghezzi, Carlo Ma-ratta, Giovanni Odazzi e Giovanni Maria Morandi, e rag-giunse presto una posizione di rilievo nell’elaborazione diquella maniera pittorica oggi definita «rococò arcadico» cheprivilegiava la composizione semplice, l’idillio, l’intonazio-ne patetica e il colorito delicato. Di questa produzione «ar-cadica» di T restano numerosi esempi: le piccole tele (Esaúvende la primogenitura; Caino e Abele) in Palazzo Barberini aRoma, dipinti su rame (Madonna del cucito: Roma, coll. priv.;Sogno di Giuseppe: Firenze, Uffizi), le molte redazioni dellaMaddalena penitente e soprattutto la serie, quasi un’antolo-gia della sua pittura, per il principe vescovo Lothar Franz diSchönborn (Betsabea, Giuseppe e la moglie di Putifarre e altrisoggetti): quasi trasposizioni pittoriche delle «ariette» e deimelodrammi di Metastasio.Dopo il complesso di tele e affreschi per la cappella della Pas-sione in San Silvestro in Capite (1695-96) T fu impegnatoin commissioni chiesastiche per Roma e altre località: le te-le (Miracolo del Corporale e Natività della Vergine, 1699-1704)per Santa Cristina a Bolsena, Madonna col Bambino, santi ele anime del Purgatorio per Santa Maria del Suffragio a Por-

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to San Giorgio (Ascoli Piceno), Martirio di santa Lucia per lachiesa delle Anime del Purgatorio a Messina. In queste im-prese di maggior respiro T corregge il tardo barocco roma-no addolcendone l’enfasi in una piú contenuta espressionedei sentimenti, moderandone le «intemperanze» cromatichee compositive in favore di una maggior compostezza dell’im-pianto e in piú delicati rapporti cromatici; forse anche perinflusso dell’ultimo Maratta, rispetto al quale tuttavia ap-parirà sempre meno rigoroso e severo. L’estrema finitezzadei suoi dipinti, caratterizzati da un colorito porcellanato eda una grazia talvolta estenuata, li rese assai apprezzati alsuo tempo, ma ne decretò la sfortuna nella seconda metà delsecolo. Anche le sue maggiori composizioni religiose (adesempio la Crocifissione di sant’Andrea, ante 1708: Roma,Sant’Andrea delle Fratte; la Morte di san Giuseppe, 1712-13,per la cappella Sacripanti in Sant’Ignazio a Roma, e le tele,1714-15, della cappella della Beata Lucia nel Duomo di Nar-ni, ugualmente di committenza Sacripanti) rispondono aimedesimi criteri di misura e di grazia, maggiormente evi-denti nei numerosi bozzetti e modelletti finiti. L’influsso delrococò arcadico nell’accezione espressa da T fu rimarche-vole, soprattutto nei confronti dei pittori francesi a Romanella prima metà del secolo; le sue tele inviate a Torino (Mar-tirio di san Lorenzo, 1721 ca., per San Filippo Neri; Immaco-lata con il beato Amedeo di Savoia e san Luigi, 1724, per lacappella della Venaria Reale) contribuirono ad alimentare ilclima di uno dei maggiori centri del rococò europeo.Prese parte alla decorazione della navata centrale di San Gio-vanni in Laterano (Baruch, 1718), all’importante ciclo pit-torico di Palazzo De Carolis (La fucina di Vulcano; Minervastrappa l’Adolescenza dalle braccia di Venere, 1720-25) e fornìi cartoni per mosaici in San Pietro. Nelle opere piú tarde(Estasi di san Francesco: Roma, Santa Maria Aracoeli; Co-munione degli Apostoli: Foligno, chiesa di Betlem), una mag-giore robustezza e monumentalità subentra alla levità dellasua precedente maniera, ma con esiti non sempre altrettan-to felici.Fu anche ritrattista, richiesto, oltre che dalla società roma-na (Ritratto del cardinale Ottoboni: Barnard Castle, BowesMuseum), dagli inglesi del grand tour (Henry Beaufort: Bad-minton, coll. duca di Beaufort). (lba).

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Trévise (Edouard Napoléon César Edmond Mortier)(Parigi 1883-1946). Pronipote del maresciallo dell’impero,uomo di gusto ed egli stesso pittore, arricchì notevolmentela collezione di famiglia. I suoi interessi si volsero soprat-tutto alla pittura della prima metà del sec. xix, specie all’ope-ra di Géricault, Delacroix, Gros, Prud’hon e David, ma nel-la sua collezione figuravano anche autori come G. D. Tie-polo, di cui possedeva un nucleo di diciotto disegni.Nel 1938, una vendita alla Gall. Charpentier disperse par-te della raccolta. Fu allora smembrata la serie dei Géricault,molti dei quali entrarono nei musei: la Folla al Louvre, il Fol-le ladro di bambini al Museo di Springfield, il Cavallo Isabellaspaventato dal fulmine alla ng di Londra, il Mercato dei buoial Fogg Museum di Cambridge (Mass.), Alfred de Dreux bam-bino al mma di New York, senza contare i disegni (schizzoper la Zattera della Medusa; Episodi dell’assassinio di Fualdès).La vendita comprendeva il Ritratto del Dott. Johnson diPrud’bon (Washington, ng) e un quadro di Michelin Solda-ti in una locanda, acquistato dal Louvre. Una seconda ven-dita (Hôtel Drouot, 1947) ebbe come oggetto altri Géricault,i disegni di G. D. Tiepolo, quadri di S. Vouet e una bellaPietà di Liberale da Verona.La sua intraprendenza e competenza lo portarono, oltre atenere conferenze e a scrivere saggi, a organizzare impor-tanti mostre a Parigi: quella dei Marescialli di Francia nel1922 al Palazzo della Legion d’onore, due mostre di Géri-cault, tra cui quella del centenario alla Gall. Charpentier nel1924, e un’importante esposizione di Gros nel 1936 al Pe-tit Palais.Fondatore della Sauvegarde de l’art français, nel 1921, fuattivo nel campo della tutela dei beni artistici. (sr).

TrevisoLa situazione di T è piú fortunata rispetto a quella di altricentri: malgrado le cospicue perdite, ci restituisce infatti an-cora oggi un quadro ampio e variato della cultura figurativad’età medievale con testimonianze pittoriche, quasi esclusi-vamente ad affresco, rappresentative non solo della produ-zione a soggetto sacro, ma anche di quella a carattere pro-fano e ornamentale. Varie decorazioni di facciata, databilitra xiii e xv secolo, mostrano come la città avesse fin dall’an-

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tico quella facies dipinta che la caratterizzerà nel tempo, an-che se in questa fase si tratta per lo piú di semplici parati di-pinti a motivi geometrici e vegetali.L’ormai scomparsa decorazione esterna del Palazzo dei Tre-cento, risalente al sec. xiii, presentava invece fregi dipintipopolati di animali, combattenti, scene amorose e varie drô-leries. Gli stessi motivi, legati a modelli miniati d’origine ol-tremontana, si ripetono all’interno e si ritrovavano nella de-corazione duecentesca della Loggia dei Cavalieri. Tale edi-ficio ricevette nel primo Trecento una nuova smagliantedecorazione con scene tratte dal Roman de Troie: un di-chiarato e non isolato omaggio a quella cultura cavallerescae cortese che a T trovò particolare fortuna e diffusione, co-me testimonia anche il frammentario affresco del mc conepisodi della Chanson d’Otinel.La produzione sacra è rappresentata da un maggior numerodi testimonianze, a partire dalle decorazioni absidali d’in-tonazione bizantineggiante delle chiese di San Giovanni edi San Vito. Un Maestro Uberto, mosaicista veneziano, èdocumentato operante nel Duomo di T già nel 1171 e arti-sti di formazione lagunare risultano ancora attivi sia nellescene del Martirio di san Tommaso Becket e dell’Anastasi nelPalazzo Arcivescovile, eseguite poco oltre la metà del Due-cento, sia nella Crocifissione del Capitolo di San Nicolò, data-bile già al primo decennio del Trecento. Le vicende pittori-che di questo secolo sono ampiamente documentate da qual-che tavola dipinta, ma soprattutto da una ricca serie diaffreschi realizzati in prevalenza per le importanti chiesemendicanti di San Francesco, San Nicolò e Santa Marghe-rita. Le pitture della prima metà dei Trecento mostrano ilradicarsi dei modi giotteschi secondo una versione facile edecorativa, in parte mediata dalle esperienze della tradizio-ne riminese che aveva un prestigioso punto di riferimentonella perduta decorazione della cappella vecchia del non lon-tano castello di San Salvatore di Collalto. È tuttavia sullametà del Trecento che la cultura artistica cittadina trova ilsuo momento di maggiore vitalità e la tradizione locale sirinsangua grazie all’attività di un certo numero di pittori«foresti», in particolare emiliani, tra i quali spicca la pre-senza di Tommaso da Modena. L’artista è documentato a Ttra il 1349 e il 1354, ma il suo soggiorno dovette prolungarsiancora di qualche anno; vi eseguì varie opere tra cui si pos-

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sono ricordare la serie dei Domenicani illustri nel Capitolodi San Nicolò, datata 1352, e il ciclo con le Storie di sant’Or-sola della cappella absidale destra di Santa Margherita (orapresso il mc). La sapida vena narrativa, il naturalismo em-pirico e frammentario, il colorismo schiarito e luminoso del-la pittura di Tommaso diventarono precocemente un inevi-tabile modello di riferimento per l’ambiente artistico trevi-giano, anche se quasi sempre secondo un’interpretazioneriduttiva ed esteriore. Nella seconda metà del Trecento, pre-vale in città questo filone di riecheggiamento tommasesco,ma sono pure attestate altre esperienze di diversa intona-zione stilistica. I documenti registrano d’altronde a T pit-tori di varia provenienza e, in particolare, si possono citarele presenze di Giovanni da Bologna tra il 1377 e il 1382 edi Stefano di Giovanni di Francia, identificabile con Stefa-no da Verona, tra il 1399 e il 1410. La presenza documen-tata di quest’ultimo non trova riscontro in alcuna pittura,ma è sintomatica di un clima figurativo di rinnovata viva-cità all’insegna del gusto tardogotico. Le testimonianze piúrilevanti, ma non uniche, di questo momento si hanno nel-la chiesa di Santa Caterina: alcuni affreschi (Madonna in tro-no tra due santi, La tentazione di sant’Eligio, Storie di san Cri-stoforo) riferibili al secondo decennio del Quattrocento mo-strano la precoce diffusione dei modi di Gentile da Fabrianoe un livello qualitativo così elevato da rendere suggestiva laproposta attributiva al giovane Pisanello. L’organica deco-razione della cappella degli Innocenti, nella stessa chiesa, at-testa come la medesima tendenza di gusto imperasse ancoranel corso del quarto decennio, ma in forme ormai di manie-ra, destinate a essere presto soppiantate dalle ormai immi-nenti novità padovane e lagunari. (tf).A metà Quattrocento spetta a Dario da T, formatosi pressoFrancesco Squarcione, di esprimere pur in modo contrad-dittorio e acerbo il rinnovamento rinascimentale della pit-tura padovana. Dagli anni Settanta anche Girolamo Straz-zaroli da Aviano, detto Girolamo da T il Vecchio, dimostraun interesse per questa cultura, ma si orienta poi sul man-tegnismo di Bartolomeo Vivarini, ad esempio nella cosid-detta pala della Madonna del fiore del Duomo di T del 1487.Accanto a lui è attivo anche Girolamo Pennacchi che in so-cietà con Giovanni Matteo Teutonico esegue alcune faccia-

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te affrescate trevigiane, caratterizzate da un repertorio an-tiquario lombardesco, da una analitica restituzione prospet-tica dei dettagli decorativi. Il piú giovane fratello, Pier Ma-ria Pennacchi, eccelle nell’ultimo ventennio del secolo perun personalissimo svolgimento della lezione antonelliana eper uno spirito anticlassico. È probabile che spetti a lui ladecorazione del Monumento Onigo della chiesa di San Ni-colò, altrimenti assegnata a Giovanni Buonconsiglio o a Lo-renzo Lotto. Questi esordì proprio a T, essendovi presenteforse prima del 1498 e fino al 1506 o al 1508, sotto l’egidadel vescovo Bernardo de’ Rossi del quale realizzò anche ilritratto (Napoli, Capodimonte), impegnandosi altresì perchiese del territorio: Santa Cristina del Tiveron e Asolo.Dopo una parentesi che vede la presenza in città di epigonibelliniani, del Carpaccio, che esegue nel 1515 per San Fran-cesco l’Incontro di Gioacchino ed Anna (Venezia, Accademia)o del veneziano Domenico Capriolo, eccentricamente aper-to allo stile giorgionesco e di Palma il Vecchio, un punto no-dale per la cultura figurativa trevigiana si fissa al 1520. IlPordenone esegue gli affreschi della cappella del Duomo diT dedicata all’Annunciata, che fu rinnovata in senso rina-scimentale per impulso del canonico Broccardo Malchiostro,mentre Tiziano Vecellio vi esegue la pala d’altare raffigu-rante l’Annunciazione. Nel 1521 si registra la presenza diGiovan Girolamo Savoldo che porta a compimento la gran-de tavola dell’altare maggiore di San Nicolò, intervenendoin luogo del modesto belliniano Fra Marco Pensaben. È diquesti anni anche l’esordio di Paris Bordon, formatosi allabottega di Tiziano. Egli fu attivo nel corso del Cinquecen-to per la sua città d’origine, portando le istanze della cultu-ra manieristica veneziana, su cui aggiornano le più modestepersonalità locali di Francesco Beccaruzzi e Ludovico Fiu-micelli. Nel 1561 Jacopo Bassano eseguirà per la chiesa diSan Paolo di T una importante Crocifissione, nodale nel suopercorso stilistico; in questo momento Paolo Caliari, il Ve-ronese, esegue nel territorio, a Maser, gli affreschi della pal-ladiana Villa Barbaro. Tra Cinque e Seicento sono presentia T artisti locali o di provenienza foresta, rappresentanti del-le piú importanti botteghe veneziane del Vecellio, del Tin-toretto, del Bassano e del Veronese, impegnati specie nell’ar-te sacra. Benedetto Caliari esegue altresì gli affreschi del ve-scovado e, specie nel genere paesaggistico, si distingue il

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fiammingo Ludovico Pozzoserrato. Si supera il clima del tar-domanierismo instaurato in chiave palmesca specie dai lo-cali Bartolomeo Orioli o Ascanio Spineda col ciclo di dipin-ti di San Teonisto (ora mc) in cui intervengono dapprimaMatteo Ingoli e Matteo Ponzone, quindi Alessandro Varo-tari detto il Padovanino e infine Pietro della Vecchia. Lapoetica dei «tenebrosi» è espressa a T da Antonio Zanchicon i ragguardevoli teleri di San Nicolò degli anni Settanta,mentre diverse aperture di recupero neoveronesiano mani-festano Giovanni Carboncino con le tele di san Nicolò del-la fine degli anni Ottanta, Simone Forcellini con i teleri diSanta Maria Maddalena, o i foresti Giovanni Antonio Fu-miani, al quale spettano i teleri di Sant’Agostino, e AndreaCelesti, autore dei perduti teleri del Duomo.Gregorio Lazzarini con la pala per San Paolo del 1696 (T,mc), Nicolò Bambini con gli affreschi di Villa Valier Lore-dan di Vascon di Carbonera, alle porte della città, Luigi Do-rigny con gli affreschi di Palazzo Giacomelli segnano l’av-vio al Settecento. Sebastiano Ricci è almeno attivo nel ter-ritorio con qualche opera di inizio secolo. Jacopo Amigoninel 1715 esegue le tela per l’Oratorio di Villa Lattes a Istra-na. È recente il risarcimento nel territorio trevigiano di dueprove giovanili di Giambattista Tiepolo, nella vecchia par-rocchiale di Biadene e nella chiesa di Carbonera. Nelle vil-le del suburbio si incontrano opere dei Tiepolo: Giambatti-sta è attivo a Merlengo in Villa Corner, Giandomenico, poiattivo anche nella chiesa di Casale sul Sile, esegue qui la pa-la della parrocchiale. Il ciclo della chiesa di Roncade vedeattivi Francesco Zugno, Gaspare Diziani, Gaetano Zompi-ni, Giovanni Scaiaro. Nel 1748 il Diziani è attivo in cittàcon gli affreschi di Palazzo Spineda. Per avere riscontro del-la lezione piazzettesca si deve invece giungere a Cison diValmarino dove è attivo Egidio Dall’Oglio. A T opera ilGuarana, che esegue il soffitto di San Teonisto, perduto nel1944. Di lui si conserva il soffitto di San Cassiano di Quin-to. Guarana, Brusaferro e Fontebasso avevano dipinto inPalazzo Pola a T opere disperse. Il Fontebasso affresca laSala da ballo di Villa Zenobio a Santa Bona forse dopo il1760. Giovanni Battista Canal esegue affreschi in moltechiese e palazzi di città a partire dal 1770 fino al 1825, as-sumendo un gusto neoclassico. Tra Sette e Ottocento ope-

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rano Bernardino Bison in Villa Tivaron a Lancenigo e in Vil-la Spineda a Breda, e Basilio Lasinio che decora il salone diPalazzo Spineda in città. Medoro Coghetto fu in questi an-ni il vedutista di T.Nel primo Ottocento è attivo a T Giancarlo Bevilacqua eGiovanni Busato; nel territorio Giovanni Demin. Dalla metàdel secolo operano Rosa Bortolan di cultura romantica eMarco Moro che fu soprattutto vedutista; piú tardi ancheEugenio Moretti Larese e Ippolito Caffi. È legato alla cul-tura trevigiana Guglielmo Ciardi che ebbe come soggetto lacampagna trevigiana soggiornandovi dal 1868. Noè Bordi-gnon si dedica prevalentemente alla pittura monumentale edi storia aggiornato su un gusto romantico europeo. Sullestesse premesse culturali perfeziona uno stile neopurista En-rico Reinhart. La pittura del realismo è invece interpretatada Luigi Serena. La pittura trevigiana tra Otto e Novecen-to è caratterizzata dalla fortuna della bottega famigliare deiCiardi, dalla presenza in particolare di Beppe e della sorellaEmma. La pittura del primo Novecento è legata alle perso-nalità di Alberto Martini e di Arturo Martini. L’amiciziacon quest’ultimo renderà presente in città anche Gino Ros-si con cui condivise l’esperienza del Gruppo di Ca’ Pesaro.Vi sono operanti artisti legati alla tradizione ottocentesca:Giovanni Apollonio, Bordignon, Giulio Ettore Erler, GinoPinelli, Guiscardo Sbrojavacca. Segnano un rinnovamentoagli inizi degli anni Venti, Aldo Voltolin, Bepi Fabiano, Ni-no Springolo, Juti Ravenna, le sorelle Anna Maria e TinaTommassini, Teodoro Wolf Ferrari. Negli anni Trenta eQuaranta emergono Mario de Luigi, poi trasferitosi a Ve-nezia, Giovanni Barbisan, Luigi Stefani, Giuseppe Maz-zotti, Attilio Tonion, Carlo de Roberto, Renzo Biasion, Ar-mando Tonello, Renato Nesi.Museo Civico La pinacoteca fu fondata nel 1851 e annes-sa istituzionalmente alla Biblioteca Comunale. Trovò postoin un palazzo di Piazza dei Signori e inaugurata nel 1879.Nel corso dell’Ottocento si aggiunsero i depositi dell’Am-ministrazione dell’Ospedale Civile, importanti legati tra cuiquelli di Sante Giacomelli, di Emilio Sernagiotto di Casa-vecchia (1891). Dal 1879 in una sala della biblioteca ospi-tata nell’area dell’ex chiesa e monastero dei carmelitani scal-zi di Borgo Cavour si era formata la raccolta di antichità ro-mane ad opera dell’abate Luigi Bailo, divenuto direttore

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della Biblioteca dal 1873. Si aggiunsero in seguito raccol-te eterogenee, compresi gli affreschi staccati nel 1883 dal-la chiesa di Santa Caterina con le Storie di sant’Orsola diTommaso da Modena, esposti nel 1887. Il museo, dotatodi statuto dal 1883, fu aperto al pubblico nel 1888. Nel pri-mo Novecento il Bailo si occupò della costituzione degliedifici museali annessi alla biblioteca, in stile neomedie-vale e neorinascimentale. A causa dello scoppio della pri-ma guerra mondiale l’accorpamento dei materiali del mu-seo e della pinacoteca poté attuarsi solo con l’opera delConservatore degli Istituti di Cultura Luigi Coletti cheinaugurò il nuovo museo e pinacoteca nel 1938, istituendoparallelamente il Museo della Casa Trevigiana presso Ca-sa da Noal. Gli edifici museali furono gravemente colpitinel bombardamento del 1944: la ricostruzione e il riordi-no furono ultimati nel 1953. Nell’attuale sede del museoin Borgo Cavour è ospitata la raccolta archeologica al pia-no terra, la pinacoteca al primo piano, con un’esposizionepermanente di pittura dell’Otto e Novecento. In occasio-ne della mostra dedicata a Tommaso da Modena nel 1978,il ciclo con le Storie di sant’Orsola è stato riordinato nellachiesa di Santa Caterina, destinata a divenire con il re-stauro dell’antico convento, secondo un progetto inizialedi Carlo Scarpa, la futura sede museale. La pinacoteca com-prende affreschi staccati di rilevante importanza che illu-strano la pittura trevigiana dal Duecento al Quattrocento,tra essi una Madonna col Bambino già attribuita a Gentileda Fabriano. Sono esposte opere di artisti trevigiani del se-condo Quattrocento: Girolamo da Treviso il Vecchio, PierMaria Pennacchi, Cima da Conegliano. Di particolare ri-lievo il Ritratto di domenicano di Lorenzo Lotto firmato edatato al 1526, la Crocifissione di Jacopo Bassano, il Ri-tratto di Sperone Speroni attribuito a Tiziano Vecellio, di-pinti sacri di Paris Bordon, il ciclo di pitture seicentescheproveniente da San Teonisto, l’affresco staccato di Giam-battista Tiepolo raffigurante Flora proveniente da VillaCorner a Merlengo.Presso il Museo della Casa trevigiana di Ca’ da Noal sonostati esposti dal 1978 affreschi esterni staccati in diverseepoche da case trevigiane. Presso il mc di T è depositata lavastissima collezione Salce di manifesti pubblicitari. (gf).

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Trier, Hann(Kaiserwerth (Düsseldorf) 1916). Frequentò l’Accademia dibelle arti di Düsseldorf, dal 1934 al 1938. Durante la guer-ra (1941-44) svolse l’attività di disegnatore tecnico a Berli-no. Le opere del dopoguerra combinano forme ancora figu-rative con scomposizione cubista dell’oggetto, inserendosicosì nel clima dell’espressionismo astratto (Zerberus, 1948:coll. priv.). In seguito, la scelta del non figurativo approdaa composizioni di macchie di colore e linee nere, richiami auna trasposizione di tensioni psichiche, come bene attesta-no i titoli: Spezzare lo specchio (1953), Corrida (1955). In que-sto periodo, al quale risalgono i viaggi in America Latina(1952-55) e negli Stati Uniti (1955), l’artista schiarisce la ta-volozza e la casualità trasforma il tracciato lineare in unastruttura cellulare libera che ricopre la tela di scuri reticoli(Vibrazione VII, 1957). Le opere successive abbandonano ta-le rigidità compositiva per un’esuberanza di tratti che nonrispetta, se non raramente, la simmetria (Primavera, 1964).Al suo ritorno in Germania venne incaricato di tenere cor-si presso l’Accademia di belle arti di Amburgo e fu nomina-to professore in quella di Berlino nel 1957.Numerose personali hanno rafforzato la fama di T sia in Ger-mania che all’estero (VIII Biennale di San Paolo, 1965). Èrappresentato in particolare nei musei e collezioni private diBerlino, Essen, Darmstadt, Colonia, Amburgo, Hannover.Vive e opera a Mechemich-Vollem. (frm).

TriesteDi T (dal nome paleoveneto Tergeste) si ha notizia sindall’età del bronzo, grazie ai reperti rinvenuti nel castellie-re sul colle di San Giusto. Con l’arrivo dei Romani e la fon-dazione di T come colonia nel 46 a. C., la città raggiunge ilmassimo splendore economico fra il i e il ii secolo d. C. Al-la metà del sec. ii fa parte della Regio Decima, Venetia etHistria. Dopo la caduta dell’impero si susseguono le inva-sioni barbariche di Goti, Unni e Longobardi e infine, dopola conquista dei bizantini del sec. viii, subentrano i Franchidi Carlo Magno.Represso nel sangue un tentativo di instaurare una signoria,la città, preoccupata delle continue lotte con Venezia per ilpredominio nell’alto Adriatico, chiede la protezione all’Au-

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stria e nel 1382 stipula un atto di dedizione. Di questo tra-vagliato periodo poche, anche se di non trascurabile interes-se, sono le testimonianze artistiche attualmente conservate incittà, quasi tutte nell’edificio «simbolo», la Cattedrale di SanGiusto. Scoperti circa vent’anni fa, i pavimenti musivi del ve vi secolo della Basilica Madonna del Mare – a carattere pre-valentemente geometrico – riflettono gli stretti collegamenticulturali con le vicine Grado, Pola e Parenzo. Influssi piúespressamente bizantini e in particolare legati all’ambito ra-vennate e greco di Dafni sono rintracciabili nei mosaici pa-rietali dell’abside dell’Assunta, nella navata sinistra della Cat-tedrale di San Giusto. Raffigurante la Madonna in trono e, piúsotto, nel catino le dodici figure degli Apostoli, la decorazio-ne rappresenta un’importante espressione artistica a cavallotra xi e xii secolo. Nella navata destra della stessa Cattedralel’antico sacello dedicato a san Giusto (patrono della città) con-serva un mosaico – con Cristo al centro e i santi Giusto e Ser-volo ai lati – di riferimento prevalentemente veneziano, da-tabile tra la fine del xii e i primi del sec. xiii.Piú sotto gli affreschi con la «passio» del martire triestino,opera del cosiddetto primo Maestro di San Giusto, sono da-tabili alla metà del sec. xiii. Pure a dopo il 1234 sono riferi-bili le storie di Maria e altre scene cristologiche in parte an-cora visibili nella Basilica di Santa Maria Assunta di Mug-gia presso T.Con riguardo al sec. xiv, può segnalarsi anzitutto il tritticodi santa Chiara, già nel convento delle clarisse e ora conser-vato al Museo Sartorio di T. Le portelle laterali e la partecentrale (eseguite tra il 1328 e il ’30) sono opera di PaoloVeneziano e di un collaboratore – forse il fratello Marco, latavola fu probabilmente commissionata dall’ordine religio-so stesso ed è un importante esempio di pittura venezianadel periodo.A una tradizione emiliana e incline alla lezione tardovitale-sca sono riferibili gli affreschi della prima cappella a destradella Cattedrale di San Giusto, che ricoprivano a loro voltaquelli del cosiddetto primo Maestro di San Giusto, ora stac-cati e posti su pannello nel Battistero della chiesa stessa. Da-tabile intorno al 1380, prima dell’annessione di T all’Au-stria, ed eseguito probabilmente per volere del patriarca diAquileia Marquardo di Randeck, il ciclo narra gli episodi del

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martirio di Giusto, che si presenta stante con il modello del-la città nella mano sinistra, una delle prime raffigurazioni diT, ancora ristretta nella cinta muraria del colle.Dopo il 1382 continui conflitti con la Serenissima releganoT a un piccolo centro di pescatori, fino a che l’impero Asbur-gico con Carlo I, ai primi del sec. xviii, riconosce l’impor-tanza di T quale prevalente sbocco al mare di tutta la po-tenza austriaca. Così, nell’arco di tempo che va sino allo scor-cio del sec. xviii, T vede realizzate poche opere, tra le qualila decorazione dell’abside maggiore della Cattedrale di SanGiusto, quasi completamente distrutta nel sec. xix. Posso-no menzionarsi singole opere: la Madonna col Bambino e isanti Giusto e Sergio di Benedetto Carpaccio (1500-60 ca.:opera del 1540), la pala con i Santi Andrea, Martino e Nicolòdi Matteo Ingoli (1626) e lo Sposalizio della Vergine di San-te Peranda, tutti nella Cattedrale di San Giusto.Con la proclamazione del porto franco, nel 1719, inizial’espansione urbanistica e commerciale di T, assecondatadall’imperatrice Maria Teresa (1740-80) e da suo figlio Giu-seppe II (1780-90). La città cresce, allargandosi nella zonadelle saline in riva al mare e si avvia quello sviluppo edilizioche vedrà l’arrivo di popolazioni da tutte le parti dell’Euro-pa continentale e del Mediterraneo.Alla fine del sec. xviii, nel 1797, ha luogo la prima occupa-zione francese ad opera di Napoleone Bonaparte, cui fannoseguito altre due (1805-806 e 1809-13). Restaurato il pote-re austriaco, la città acquista sempre maggiore importanzaeconomica e commerciale.Saranno il sec. xviii e poi, in particolare, il xix e la prima metàdel xx i momenti di maggior fioritura culturale e artistica perT, che esprimerà personalità di livello europeo. Se, dapprima,gli artisti saranno stranieri, via via si formerà una generazio-ne autoctona che si affermerà non solo in ambito locale.Lo scorcio del secolo vede l’inizio dell’attività di GiuseppeBernardino Bison – nativo di Palmanova e formatosi primaa Brescia e poi a Venezia presso l’Accademia – che a T de-corerà l’interno degli edifici che si distinguono tra il 1801 eil 1866 come i più importanti «monumenti» neoclassici del-la città. Quasi in bilico tra tradizione tiepolesca e principîpiú propriamente romantici, Bison esprime grande capacitànarrativa su ampia scala con le scene dell’Iliade nella sala cu-polata del palazzo del ricco commerciante Demetrio Car-

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ciotti, opera dell’architetto Matteo Pertsch (1801) e, anco-ra, nel grande affresco della sala principale del Palazzo del-la Borsa di Antonio Mollari, raffigurante in toni quasi cari-caturali la concessione da parte di Carlo VI delle franchigieportuali a T.Attivo fino al 1831 in città, Bison decora i pennacchi dellacupola di Santa Maria Maggiore con i quattro evangelisti, lesovrapporte di Villa Sartorio, nonché molte opere da caval-letto conservate presso i mc di Trieste.Tra il 1828 e il 1849 verrà costruita nel cosiddetto borgo te-resiano l’unica chiesa cattolica della «città nuova», che di-verrà il grande tempio neoclassico, spostando così il bari-centro artistico, sino ad allora nella Cattedrale di San Giu-sto, che rimarrà il luogo dei ricordi passati. Eseguito suprogetto del 1808 – rielaborato nel 1823 – di Pietro Nobi-le, Sant’Antonio conserva al suo interno una serie di seigrandi pale d’altare e una decorazione ad affresco, opera diartisti – professori e allievi – di formazione accademica ve-neziana e romana: l’udinese Odorico Politi (1785-1846) di-pinge la Gloria di Sant’Antonio (1842); il bolognese Ludovi-co Lipparini (1800-56) Le sante martiri aquileiesi (1840); ilpordenonese Michelangelo Grigoletti L’educazione della Ver-gine Maria (1838); il triestino Felice Schiavoni (1803-81) Lapresentazione di Gesú al Tempio (1841); l’austriaco JosephErnst Tunner (1792-1877) Il Crocifisso (1838), il vienneseJoseph Schonmann (1799-1879) San Giuseppe (1839). Il mu-ranese Sebastiano Santi (1789-1866) con L’ingresso di Cri-sto in Gerusalemme (1836) riscuote consensi tra i fedeli perla composizione della scena e la felice soluzione spaziale, ri-cavata nell’abside dietro l’altare maggiore. Lo stesso Santidecorerà nel 1841 l’abside della chiesa di Santa Maria Mag-giore – già dei Gesuiti, costruita nel sec. xvii – con l’imma-gine dell’Immacolata e, ancora nella Cattedrale di San Giu-sto, la cappella dell’Addolorata con scene di Cristo (1857).Una menzione a parte meritano i pittori che lavorano all’in-terno dei ricchi palazzi triestini, come Giuseppe Gatteri(1799-1878), con le sue decorazioni per la coeva casa Pan-cera di Matteo Pertsch (1808 ca.), o Lorenzo Scarabellotto(1796-1847?), il quale propone a casa Hierschel (1834) unaserie di Capricci, caratterizzati da giochi naturalistici di unacerta spettacolarità. In una città ormai così borghese e lega-

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ta alle fortune dei facili commerci riscuote grande successoe notorietà il goriziano Giuseppe Tominz, che ritrae la ric-ca società triestina. In lui si trova il dato naturalistico uni-to a una certa vena ironica, che esprimerà nel famoso Auto-ritratto, ora al Museo Revoltella. Non manca, però, la pittu-ra di storia con l’istriano Cesare Dell’Acqua (1821-1905),che avrà poi grande fama a Bruxelles. Il ciclo con la storiadel sito di Miramare, voluto per il castello che fu di Massi-miliano d’Asburgo (1832-67), le grandi tele con la Procla-mazione del Porto franco e l’Apoteosi di Trieste, la decora-zione della chiesa ortodossa di San Nicolò dei Greci e altreimportanti opere commissionate da privati segnano l’atti-vità di un pittore, padrone della composizione naturalisti-ca e di una non comune inclinazione narrativa. In sintoniacon Dell’Acqua si pone Ludovico Lipparini con il dipintoraffigurante La morte di Marco Botzaris (1841) per la sala neogotica di Casa Sartorio, raro esempio integralmente con-servato di un’ambientazione di pieno Ottocento. Ben si affiancano ad essa le decorazioni di interni del castello diMiramare (1858-70), di Palazzo Revoltella, di Casa Sarto-rio e, piú tardi, di Casa Morpurgo, che sono testimonianzadi varie tendenze alla moda nell’arredo di metà Ottocento.Svilupperà con modi accademici, di tradizione tiepolesca,temi piú propriamente «moderni», legati alla descrizio-ne delle nuove scoperte scientifiche, Eugenio Scomparini(1845-1913), in particolare nel ciclo dei dipinti per il caffèalla stazione di T (1897, ora presso la Galleria nazionale d’ar-te antica di T), celebrativi del progresso nel commercio enell’industria. E sarà ancora Scomparini, con il suo inse-gnamento nella scuola d’arte industriale, ad aprire la via al-la tradizione pittorica triestina che, sempre in bilico tra stu-di accademici italiani, austriaci e tedeschi, costituirà un pe-culiare linguaggio finalmente proprio agli artisti locali. Apartire da Umberto Vetuda (1868-1904) – alla ricerca con-tinua di nuove ispirazioni negli ambienti monacensi, vien-nesi o francesi che svilupperà in maniera anticonformistafondendo realismo e impressionismo – Isidoro Grunhut(1862-96) si allinea ai modi del realismo di Liebermann,mentre il ritrattista Giuseppe Barison segue ancora i detta-mi dell’Accademia viennese. Particolarmente prolifica laproduzione di Carlo Wostry (1865-1934), fondatore del Cir-colo Artistico Triestino.

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Con la prima guerra mondiale T passa, nel 1918, all’Italia.Dopo le tristi vicende del secondo dopoguerra, solo nel 1954ritorna nuovamente nel territorio nazionale, ma la città ve-de gravemente decurtato il proprio retroterra istriano e car-sico, assegnato all’allora Repubblica di Jugoslavia.In questo periodo gli artisti, particolarmente attivi, ricerca-no linguaggi a loro piú congeniali: Artuto Rietti (1863-1943)con i suoi pastelli unisce gli insegnamenti monacensi agli in-flussi francesi; Arturo Fittke (1873-1910) sviluppa motiviprevalentemente tedeschi; Adolfo Levier (1873-1953) guar-da in particolare ai fauves; Gino Parin (1876-1944) si avvi-cina ai modi dello Jugendstil, cui poi si indirizzano ArgioOrell (1884-1992), Vito Timmel (1886-1949) e ancora, an-che se operanti per poco in città, i cartellonisti Marcello Du-dovich e Leopoldo Metlikovitz.Con Piero Marussig, profondamente influenzato dalla cul-tura francese, e via via, con Vittorio Bolaffio (1883-1931),Arturo Nathan, Carlo Sbisà elementi simbolisti e metafisi-ci entrano nella cultura triestina che si sintonizza così con ilmovimento novecentista.Galleria Nazionale d’arte antica di Trieste La galleria haprovvisoriamente sede al secondo piano di Palazzo Economo,nel centro della città, in attesa del suo trasferimento presso leScuderie del parco di Miramare. È una galleria di natura com-posita, costituita inizialmente da una serie di pezzi provenientidalla collezione di Piero Mentasti e via via arricchita nel cor-so degli anni con nuove acquisizioni, donazioni e deposititemporanei. Motivazione iniziale che guidò la volontà di for-mare la Galleria d’arte antica fu la costatazione che T, pur ric-ca di ben sedici istituzioni museali, non possedeva una rac-colta di pittura ove fossero riassunti i principali movimentiartistici italiani dalla fine del Quattrocento al Settecento. Ilpercorso museale è articolato secondo un criterio strettamen-te cronologico. Tra le opere esposte sono da ricordarsi gli af-freschi su pannello di Girolamo Romanino, provenienti da unedificio nel bresciano, una tavola attribuita con buon fonda-mento a Lucas Cranach il Vecchio e raffigurante Diana e At-teone, una Natura morta di Pier Francesco Cittadini, lo sten-dardo di San Nicolò dipinto su due facce da Gianantonio eFrancesco Guardi, l’Ovalino della Passione di Giuseppe Ma-ria Crespi. Inserito nel circuito di visita è il cosiddetto salone

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piemontese della prima metà del sec. xviii, proveniente da unpalazzo torinese e costituito da un rivestimento parietale a ric-che ed elegantissime boiseries e tele. Seguono, nell’ampia sa-la conclusiva, una serie di opere di artisti triestini – eseguitetutte nel 1879 – provenienti dall’antico caffè della stazione eraffiguranti L’Elogio del Progresso.Museo Storico del castello di Miramare È la residenza diMassimiliano d’Asburgo, da lui voluta e fatta costruire in ri-va al mare, ai margini di un promontorio poi trasformatodall’arciduca in un parco ricco di preziose essenze arboree.Costruito da Carl Junker (attivo a T tra il 1850 e il 1860) edecorato al suo interno da Franz e Julius Hofmann (attivi aT tra il 1850 e il 1870), il castello è oggi il museo piú visi-tato della regione Friuli – Venezia Giulia, grazie alla buonaconservazione dei suoi ambienti, che conservano quasi deltutto intatta l’atmosfera di una casa di metà Ottocento. Visi segnala la ricca raccolta di quadri, spesso creati per il luo-go da pittori italiani, austriaci e tedeschi: così è per la salastorica, con tele di Cesare Dell’Acqua (1821-1905), o per laSala del trono con opere di Geiger ed Heinrich.Civico Museo Revoltella e Galleria d’arte moderna Da po-co nuovamente riaperto al pubblico, il complesso musealecomprende la residenza del barone Revoltella – un ricco im-prenditore e tra i principali finanziatori dell’istmo di Suez– che chiama il tedesco Hitzig per edificare un palazzo se-condo i dettami schinkeliani. Alle sue raccolte d’arte, visita-bili per volontà testamentaria subito dopo la sua morte(1872), si aggiungono via via le collezioni che oggi formanouno dei nuclei piú importanti per la storia della pittura di Ot-tocento e Novecento. L’acquisizione nel 1907 dei vicini pa-lazzi Brunner e Basevi e i successivi lavori di riadattamento,inizialmente progettati da Carlo Scarpa, consentono ora diapprezzare appieno lo sviluppo della pittura triestina fino ainostri giorni, presente nelle nuove sale espositive.Civico Museo Sartorio Conserva al suo interno una cospi-cua serie di raccolte di dipinti e alcune sale decorate che te-stimoniano lo stile degli arredi di metà Ottocento. Oltre al-la sala neogotica, tutta perfettamente unitaria nella decora-zione e negli oggetti, e al salotto di musica, il museo presentavari pezzi di pittura su tavola – dal sec. xiii in poi – e nu-merose opere, tra gli altri, di Bison e Tiepolo, che testimo-niano il gusto raffinato del collezionismo triestino. (rf).

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Trillhase, Adalbert(Erfurt 1859 – Niederdollendorf (Königswinter) 1938). Losi può considerare tra i primi pittori naïf tedeschi in rap-porto con gli artisti moderni contemporanei. Figlio di unostimato mercante, fu avviato al commercio. Fu Otto Pankok,che lo conobbe intorno al 1920, a incoraggiarlo alla pittura.Da quel momento T eseguì numerosi quadri, dedicati in par-ticolare a temi tratti dal Vecchio Testamento, spesso rappre-sentando figure dall’aspetto minaccioso, dai volti bordati dinero che con i loro occhi cupi sembrano divorare lo spettato-re. Le sue composizioni rappresentano scene drammatiche cuisi uniscono motivi onirici. Grazie al figlio e a Pankok, entròin rapporto col gruppo Mutter Ey, la punta avanguardisticadello Junges Rheinland di Düsseldorf, al quale apparteneva-no, in particolare, Max Ernst e Otto Dix (Ritratto della fami-glia Trillhase, 1923: Berlino, ng). Il Museo Clemens-Sels diNeuss possiede alcune sue tele importanti: Gesú al Tempio, laStrega di Endor. Interdetto nel 1933 dal regime nazista, T siritirò, nel 1935, a Niederdollendorf. (wh).

Trinquesse, Louis-Roland(Parigi? attivo tra il 1745 e il 1800). Allievo della scuoladell’Accademia reale nel 1770, è forse da identificare col Tsegnalato come membro della gilda dei pittori dell’Aja nel1767. I suoi ritratti (dipinti conservati a Parigi, Louvre, enei musei di Amiens, Digione, Varsavia; disegni al MuseoCarnavalet di Parigi), di autentica sensibilità, ricercano – unpo’ al modo di quelli della Vigée-Lebrun o di Vestier – ef-fetti graziosi ed eleganti. Le sue scene galanti, assai brillan-ti (dipinti al Louvre, 1789, e a Tours, mba; disegni a Pari-gi, Museo Carnavalet), sono state talvolta attribuite a Fra-gonard (Offerta a Venere, Giuramento all’Amore, 1786:Digione, mba); con una punta di gusto troubadour e un re-siduo della «grazia» del sec. xviii sono tipiche del gusto fran-cese alla vigilia della rivoluzione. (cc).

Tristán, Luis(Toledo 1586 ca. - 1624). Formatosi presso El Greco e le-gato alla famiglia del maestro, dovette soggiornare qualchetempo in Italia tra il 1606 e il 1613, poi si stabilì definiti-vamente a Toledo. La sua pittura si ricollega stilisticamen-

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te al cretese, soprattutto per gli schemi compositivi e l’al-lungamento ancora manierista dei personaggi (Trinità, 1624:Cattedrale di Siviglia; Retablo, 1623: Toledo, convento diSanta Clara), ma nel contempo, e forse per influsso di altriartisti toledani e alcuni italiani che operavano all’Escorial,maturò stilisticamente volgendosi verso il naturalismo. Mo-dificò la gamma dei colori freddi caratteristica di El Grecoe impiegò tonalità calde con preparazioni rossastre e un im-pasto spesso, mentre accentuava i contrasti di luce secondoil linguaggio dei «tenebrosi» (Retablo di Yepes, 1616; SanLuigi distribuisce l’elemosina: Parigi, Louvre).Complessivamente la sua opera mostra chiaramente il tra-passo dal manierismo al naturalismo; le opere piú intense epiú realiste dell’artista (San Francesco: ivi; San Domenico pe-nitente: Toledo, Museo di El Greco) si riallacciano natural-mente agli aspetti piú caratteristici della pittura spagnola delsec. xvii. Come ritrattista (Cardinal Sandoval, 1619: Catte-drale di Toledo), T costituisce un ponte fra El Greco e Veláz-quez, per la profonda obiettività e la tecnica semplice e si-cura. (aeps).

Trivulzio(principi). Il maresciallo Gian Giacomo T, governatore diMilano al servizio di Luigi XII di Francia, è il principale ani-matore della stagione artistica milanese dei primi due de-cenni del Cinquecento, subito dopo la caduta degli Sforza.Mosso da una forte ambizione personale, il maresciallo T av-via una serie di iniziative celebrative, solo in parte portatea termine, che vedono come principale protagonista il Bra-mantino (Sacra famiglia: Milano, Brera). Rimasto allo statodi progetto il monumento equestre commissionato a Leo-nardo e immaginato come ripresa del «cavallo» per France-sco Sforza, anche il mausoleo iniziato dal Bramantino davanti alla facciata di San Nazaro Maggiore non è statoportato a termine secondo i piani iniziali. Perfettamente conclusa è invece l’impresa dei dodici Arazzi dei Mesi, tes-suti tra il 1504 e il 1509 nel castello di Vigevano dall’araz-ziere Bernardino da Milano, su cartoni del Bramantino (Mi-lano, Castello). (szu).Soltanto con l’abate don Carlo T (1715-89) e suo fratello, ilmarchese Alessandro (1763) prende consistenza l’omonimacollezione, che comprendeva dipinti, sculture antiche, avo-

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ri, bronzi, smalti, medaglie e monete, nonché numerosi ma-noscritti miniati acquistati in occasione della chiusura deimonasteri. Don Carlo lasciò la raccolta al nipote, il marche-se Giorgio Teodoro; nel sec. xix essa fu divisa tra gli ultimieredi di quest’ultimo, il marchese Giangiacomo e il conteGerolamo. Il principe Luigi Alberico T (1868-1938) propo-se di venderla simultaneamente alle città di Torino e Mila-no. Nel 1935 si giunse a un accordo: la maggior parte dellaraccolta entrò nel Museo del Castello Sforzesco a Milano,mentre qualche pezzo andava a Palazzo Madama a Torino(mc di arte antica). Tra le opere ora al Castello Sforzesco,citiamo una serie di ritratti di famiglia dalla fine del sec. xv,la pala di Mantegna proveniente da Santa Maria in Organoa Verona (Madonna col Bambino, angeli e quattro santi), unatavola di Filippo Lippi (Madonna col Bambino e santi), unaMadonna col Bambino di Giovanni Bellini, una lunetta di-pinta da un artista vicino a Masaccio e un Ritratto di giova-ne uomo con in mano un libro di Petrarca, attribuito dallacritica al Bronzino, ma per alcuni opera di Pontormo.Il famoso Ritratto d’uomo di Antonello da Messina è conser-vato a Torino; era entrato nella collezione T nel sec. xix,quando Marianna Rinuccini, figlia del marchese Pierfrance-sco Rinuccini di Firenze, sposò Giorgio Teodoro T. (eg + sr).

Troger, Paul(Welsberg 1698 - Vienna 1762). Grazie a un impiego pro-curatogli dalla famiglia Firmian, T ebbe occasione, prima del1716, di frequentare la bottega di Giuseppe Alberti. Unaconsistente borsa di studio messa a disposizione dal princi-pe-vescovo di Gurk, Johann Maximilian Graf Thun, gli con-sentì di visitare l’Italia dove ebbe modo di esercitarsi nellacopia dei maestri italiani contemporanei (disegni a Vienna,Albertina e Accademia) e acquistare così una fattura rapidainsieme a una grande padronanza compositiva. Si dimostreràparticolarmente attento all’opera del Ricci, Pittoni e Piaz-zetta. A Roma si eserciterà in studi dall’antico e sentirà l’in-fluenza del classicismo del Maratta, di Conca e Trevisani.Durante il suo soggiorno napoletano incontra Solimena.Alla fine del 1725 o all’inizio del 1726, T venne richiamatodal principe-vescovo di Gurk, per dipingere la cupola dellachiesa dei Teatini (Kajetanerkirche) di Salisburgo (Glorifi-

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cazione di san Gaetano, 1728), da lui pensata come una se-quenza di personaggi in cerchi concentrici. Nel 1728 si tra-sferì a Vienna, entrando qui in contatto con i grandi affre-scatori Altomonte, Rottmayr e Gran. La sua prima granderealizzazione si dispiega in sei comparti che esaltano ilTrionfo della Fede sulla volta della chiesa di Sankt Andrä ander Traisen (1730-31 ca.). Le tinte opache delle prime ope-re lasciano il posto ai colori chiari e assai vivi che animanola Saggezza divina circondata dalle Virtú e dalle Scienze sul sof-fitto della grande biblioteca dell’abbazia benedettina diMelk (1732). I gruppi si organizzano intorno a figure es-senziali, lo spazio vuoto assume rilevanza maggiore, si ac-centua il plasticismo delle forme e i toni vengono modulatinel dispiegarsi delle numerose pieghe delle vesti.Nelle cinque scene del soffitto della biblioteca dell’abbaziadi Zwettl (Combattimento e vittoria dell’Ercole cristiano,1732-33) compaiono motivi paesaggistici di ispirazione ve-neziana, spesso impiegati da T, a differenza dei suoi prede-cessori. Per tutta la sua carriera, l’artista riutilizzò compo-sizioni e figure già in precedenza sperimentate. L’abbaziabenedettina di Altenburg lo chiamò piú volte tra il 1732 eil 1752; nell’Incarnazione di Cristo attraverso la Vergine e lapersecuzione del dragone (1733-34) sull’ampia cupola dellachiesa, T adottò lo schema circolare già utilizzato a SanktPölten (chiesa degli Inglesi, 1728-29) per il medesimo tema.La Moltiplicazione dei pani di Geras (convento dei Premo-stratensi, sala di marmo, 1738), riprende una composizionedello stesso soggetto a Hradi∫tko (cappella dell’Ospedale,1731) nella quale figure assai semplici si dispiegano sul bor-do del quadro. I religiosi apprezzarono oltremodo la rapiditàesecutiva di T, tanto che si meritò l’appellativo di «favori-to dei prelati» e, per sopperire alle richieste, l’artista dovettesempre piú spesso ricorrere ad aiuti, tranne che nell’Apo-teosi di Carlo VI, eseguita da solo sul soffitto della scaladell’abbazia di Göttweig (1739): l’affresco, dall’originale im-pianto asimmetrico, è dominato da quell’armonia splenden-te di azzurri e gialli che caratterizza buona parte delle sueopere. Nel 1740-41, al culmine della gloria, nell’Adorazionedell’Agnello da parte dei ventiquattro vegliardi (abbazia di Sei-tenstetten, soffitto della biblioteca) si verifica un notevolemutamento stilistico: da un impianto potente e massiccio Tpassa a corpi gracili e allungati; le pieghe, da spezzate e an-

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golose, divengono lineari; i colori si schiariscono. Dal 1748al 1751 T intraprese, con cinque aiuti, la realizzazione di unvasto programma nella Cattedrale di Bressanone/Brixen.Sull’incrocio del transetto, l’Adorazione dell’Agnello si arti-cola intorno a una grande nuvola serpeggiante a forma di S,su cui è spiegata una moltitudine di personaggi in un cielotempestoso. La tonalità argentata e senza contrasti che uni-fica l’ultimo affresco dell’artista (Maria, angeli e santi nellagloria della Santa Trinità, 1752), contrassegna la scomparsadel pathos barocco. Alcune repliche dei suoi bozzetti saran-no eseguite da J. G. Wägniger e T. Valtiner, che lavoraro-no con lui alla cupola della chiesa di Sant’Ulrico di Lavant(presso Linz) nel 1771.Per alcuni anni T svolse un ruolo notevole all’internodell’Accademia di Vienna, di cui è nominato assessore (1752)e poi rettore (1754), influenzando l’operato dei giovani al-lievi che qui si formavano (J. J. Zeiller, F. Zoller, Cristofo-ro Unterperger, F. Sigrist; piú forte fu il suo ascendente suMaulbertsch e Mildorfer). Dal 1755 la sua produzione, disbalorditiva abbondanza e unicamente riservata alle abba-zie e alle chiese, registra una netta caduta, determinata cer-tamente dalle cattive condizioni di salute.La pittura di cavalletto di T conta un minor numero di ca-polavori rispetto a quella a fresco. L’influsso degli italiani ein particolare dei veneziani (Piazzetta e Bencovich), è quipiú sensibile; l’esecuzione è spesso lasciata ai numerosi al-lievi. I primi dipinti comportano drappeggi molto rigidi (SanBernardo e la Vergine, 1722-25: Klagenfurt, Residenza epi-scopale) e sono dominati dal chiaroscuro, cui T resterà sem-pre fedele (Martirio di san Massimiliano, 1727: Salisburgo,Kajetanerkirche), La Crocifissione di sant’Andrea (1731 ca.:chiesa di Sankt Andrä an der Traisen) presenta il martire inpiena luce, in un stile narrativo caratterizzato dal plastici-smo dei corpi, dalla luminosità dei colori, dalla semplicitàdei drappeggi e dalla riduzione della scena all’essenziale. Du-rante il periodo 1730-40 compaiono una digradazione sfu-mata, un ritmo lineare e un melodico collegamento tra le fi-gure che palesano l’avvenuta assimilazione del linguaggio diMaratta e Trevisani (chiesa di Platt bei Zellerndorf; Mortedi san Giuseppe, 1739-42; Vittoria della Vergine, 1740-45). LaLapidazione di santo Stefano (1745: chiesa di Baden bei Wien)

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ha in comune con queste il medesimo fervente sentimentodi pietà, ma la tensione drammatica imprime un ritmo pos-sente ai corpi dei personaggi e un movimento di singolare ef-fetto contrassegna San Giovanni Nepomuceno mentre conso-la gli oppressi (1748: Wiener Neustadt, Neuklosterkirche;bozzetto a San Pietroburgo, Ermitage).I numerosi abbozzi a olio, dal colore splendente, dal toccovibrante, dagli effetti violenti e dalle forme lacerate (Marti-rio di san Sebastiano: Museo di Graz), ebbero grande successoe vennero spesso copiati dagli allievi. I disegni, il cui fondopiú cospicuo è conservato presso l’Albertina di Vienna, si ri-fanno alla tradizione veneziana. Gli schizzi sono eseguiti conun tratto nervoso e corsivo, senza indicazione d’ombre (I reMagi dinanzi a Erode: San Pietroburgo, Ermitage), mentrenei disegni, i progressivi passaggi dall’ombra alla luce ven-gono indicati delicatamente a tratteggio incrociato (Putti chegiocano: Vienna, Albertina), tratto a cui ricorse anche in unaventina di incisioni ad acquaforte e a puntasecca. (jhm).

Trois-Frères (Les)La caverna dei T-F, posta a Montesquieu-Avantés, localitàdell’Ariège, fu scoperta nel 1912 dai tre figli di uno studio-so francese di preistoria, il conte Bégouen (1863-1956), chestavano esplorando il corso sotterraneo del Volp, il cui let-to ha scavato il sistema di gallerie delle caverne dei T-F edel Tuc d’Audoubert. La possibilità di collegamento tra ledue parti della rete sotterranea in epoca paleolitica e i nu-merosi ingressi, non facilitano la comprensione dell’ordinedistributivo delle pitture scoperte, che appartengono a duediversi periodi di esecuzione. Al periodo piú antico risalgo-no numerosi gruppi di linee accavallate poste nella galleriaaurignaciana. Linee dorsali di animali, palchi di corna, te-ste incerte tracciate nell’argilla si estendono a fregio, me-scolate a linee sinuose digitali. Al di sopra di quest’insiemeconfuso, qualche bisonte, piú recente, è stato inciso e di-pinto a contorno nero. La ricchezza ornamentale della ca-verna si rivela nella sala detta «santuario». In un corridoioa forma d’abside, una straordinaria accumulazione di ani-mali incisi è disposta a grandi strati composti di centinaia dibisonti, renne, cavalli, stambecchi, e anche esseri mitici, vol-ti enigmatici e segni astratti. Secondo l’abate Breuil, i nu-merosi segni sono da porsi in relazione con la raffigurazio-

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ne del «Dio», rappresentato come un essere composito, mez-zo uomo e mezzo animale che riunisce in sé tutti i simbolimaschili, collocati solitamente, secondo A. Leroi-Gourhan,ai piedi e ai margini delle composizioni principali. I corri-doi che portano alla sala presentano figurazioni sul tema ca-vallo-bisonte e su quello dello stambecco o della renna, inuno stile assai vicino a quello delle Combarelles o di Niaux.L’abate Breuil datava il complesso parietale, eccetto la gal-leria aurignaciana, al Maddaleniano IV. A. Leroi-Gourbanprecisa che la presenza della renna e del mammut consentedi datare la decorazione piú recente alla stessa epoca delledecorazioni di Rouffignac e di Font-de-Gaume (Maddale-niano IV e V). (yt).

Trökes, Heinz(Hemborn (Duisburg) 1913). Allievo della Scuola di arti de-corative di Krefeld, ebbe come insegnante Itten (1933).L’insegnamento di quest’ultimo, l’incontro con Kandinskya Parigi (1937) e i lavori eseguiti sotto la direzione di Mu-che (1940) lo avvicinano al Bauhaus della cui lezione si ri-corderà nel periodo di lavoro alla scuola d’arte di architet-tura di Weimar (1947-48). I molteplici aspetti della sua ope-ra arricchiscono peraltro l’eredità artistica del pittore, i cuimezzi essenziali sono linee e superfici di colori sovrappostiaccanto ai quali compaiono isolati elementi figurativi (Co-reografia, 1952: Zurigo, coll. Löffler). Il disegno conferiscealla linea dipinta un carattere segnico (Per gli artisti, 1954:Hannover, Niedersächsisches Landesmuseum), che traspo-ne così le impressioni e i ricordi dei viaggi effettuati dall’ar-tista in Europa, Africa, America e Asia in numerose com-posizioni. Piú tardi i punti, le linee e le superfici acquiste-ranno maggior precisione: nel contempo simboli e ornamentisi fonderanno in dipinti bidimensionali a carattere surreali-sta (Pesci volanti: Berlino, Gall. Schüler). Dopo aver inse-gnato ad Amburgo (1958-60), T venne nominato professorepresso la Scuola di belle arti di Stoccarda nel 1961 e ottennenel 1965 una cattedra in quella di Berlino. È rappresentatoin varie collezioni private e pubbliche: Berlino, Cincinnati,Amburgo, Copenhagen, Monaco, New York, Stoccarda,Wuppertal, Duisburg. Divide il suo tempo tra Berlino e SanAntonio di Ibiza. (em).

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Trombadori, Francesco(Siracusa 1886 - Roma 1961). Trasferitosi a Roma nel 1907,si forma presso l’Accademia di belle arti. Qui segue i corsidi Giuseppe Cellini attraverso cui si tramanda la tradizionepurista e preraffaellita della «scuola Etrusca» di Nino Co-sta. La sua evoluzione pittorica passerà attraverso varie fa-si. Gli anni 1912-13 lo vedono legarsi al pittore divisionistaE. Lionne. Il capolavoro del periodo divisionista sarà Sira-cusa mia (1919: Roma, coll. A. Marchini), esposto nel 1922alla XC Esposizione di belle arti di Roma. Il suo esordio èperò nel 1913 nell’ambito della Secessione romana del cuiclima risentirà molto. Nel 1917 entrerà in contatto con ilmusicista futurista Balilla Pratella, operando un proficuocompito di raccordo tra artisti e situazioni diverse. Nel1919-20 si stabilisce a Villa Strohl-Fern dove rimarrà pertutta la vita. Il momento piú importante della sua forma-zione risale proprio a quegli anni, quando entra in contattocon gli scrittori della «Ronda» e con i critici e gli artisti di«Valori Plastici». La sua ricerca ha ora effetti neopuristi.Partecipa con i «venti artisti italiani» alla mostra a loro de-dicata alla Galleria Pesaro di Milano, iniziativa che avrà ilsuo sbocco nel Novecento. Sono insieme a lui, tra gli altri,De Chirico, Casorati, Carrà, Guidi, Sironi e Tosi. Nel 1927è chiamato da Margherita Sarfatti nel gruppo del Novecen-to, alla XCIII Esposizione di belle arti di Roma. Nel 1930rappresenterà ancora il Novecento italiano a Buenos Aires.L’ultima fase della sua pittura, dal 1945 al 1961, è in chia-ve neometafisica e morandiana. Risalgono a questo periodole numerose vedute di Roma, in cui la struttura geometricadella veduta, la pulizia dei toni, e la compostezza dei pianisi riconfermano le sue prerogative piú importanti. Artistaclassico nel vero senso della parola, copista nei musei, predi-lesse, tra i suoi temi, la figura, la natura morta e soprattut-to il paesaggio. Ricordiamo nella sua carriera di critico d’ar-te, le segnalazioni di Scipione e di Mafai, nonché la scoper-ta di Guttuso. (chmg).

Trometta (Niccolò Martinelli, detto il)(Pesaro 1540 ca. - Roma 1611). La rivalutazione del pittorepesarese è legata al lungo lavoro di messa a punto del cata-logo dei disegni di Taddeo Zuccari, nel quale erano confluiti

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anche fogli di T. La ricostruzione della sua personalità di di-segnatore ha implicato un nuovo interesse anche per i suoirari dipinti.Dovette entrare presto nella bottega di Taddeo Zuccari, segià nel 1561-63 collabora col fratello di questi, Federico, nelcasino di Pio IV, come dimostrerebbe un disegno con unprogetto per un soffitto con lo stemma di quel pontefice(Berlino, sm, gg). Pochi anni dopo lo troviamo impegnatonella sua piú importante impresa, la decorazione del coro diSanta Maria in Aracoeli, ricostruita dopo la demolizione,voluta da Pio IV, dell’antica abside con gli affreschi del Ca-vallini. Negli affreschi, commissionatigli nel 1565 da Fla-minia Margani ma compiuti nel 1568, raffigurò Augusto e laSibilla, Augusto sacrifica sull’altare, Storie della Vergine, Evan-gelisti, Santi, Virtú e al centro della volta la Vergine in gloria.Vi è evidente la stretta dipendenza dallo stile di Taddeo Zuc-cari, in particolare del periodo degli affreschi in Santa Ma-ria alla Consolazione, che egli addomestica ora addolcendoora forzando tipi ed espressioni. Alcuni anni separano la lar-ghezza di impostazione dell’Adorazione dei pastori di SanGiovanni in Laterano dalla maniera piú minuta e insistita,ma non priva di suggestioni baroccesche, della Ultima Cenaper la chiesa del Sacramento a Pesaro (Tavullia, San Loren-zo) e della Madonna e santi per Santa Maria della Scala delPorto nella stessa città (oggi Budapest, szm). Alla tarda at-tività romana appartengono gli affreschi nel Palazzo di Pier-donato Cesi in Borgovecchio, eseguiti in collaborazione conTommaso Laureti e un Antono Bardi (1585), non giudica-bili a causa delle ridipinture, e quelli in Santa Maria dell’Or-to. (gsa).

trompe l’œilIl termine indica la ricerca di illusione mimetica in pitturaspinta fino a voler confondere questa con la realtà; il signi-ficato estetico piuttosto ampio e complesso, è qui trattato inparticolare per quanto riguarda la pittura di cavalletto e ladecorazione pittorica che intenzionalmente hanno come fi-ne lo scamhio tra pittura e realtà.L’impiego del t sembra aver avuto inizio con lo svilupparsidi ricercate tecniche scenografiche nel teatro greco. Alla fi-ne del sec. v a. C., Apollodoro, in particolare, avrebbe fat-

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to uso in modo convincente della prospettiva razionale e delrilievo per ottenere effetti mimetici che potessero soddisfa-re il bisogno di illusione nella rappresentazione; l’ipotesi tro-verebbe conferme dagli scavi intrapresi dopo gli anni Set-tanta che hanno permesso una migliore conoscenza dello sti-le strutturale greco.I dipinti della tomba di Kizilbel, in Turchia (525 a. C.), co-stituiscono uno dei primi esempi di t, presentando pittureche imitano marmi o la copertura di un tetto tramite l’usodel colore. Nell’Heraion di Samotracia (verso il 325 a. C.),la galleria a pilastri dipinta fa presupporre un intento di il-lusione di profondità presente nell’arte ellenistica. La tom-ba di Lyson e Kallikles a Lefkadia in Macedonia (metà delsec. iii a. C.) presenta delle nicchie in cui sono dipinti illu-sivi pilastri e plinti a imitazione del marmo. Ci si trova quin-di in presenza, come per la falsa loggia della casa detta di«Dioniso» a Delos (sec. i a. C.), di un intento illusivo chesarà poi sviluppato appieno dal II stile pompeiano.Il gusto per il t sarà sfruttato appieno dalla pittura romana.Fin dal primo stile pompeiano si trovano, accanto a motividecorativi dipinti, elementi architettonici fittizi che conti-nuano quelli reali (casa del Fauno a Pompei), o la creazionedi simmetrie illusive come una porta finta dipinta che ri-produce quella reale (casa di Caius Julius Polybius a Pom-pei). A quest’epoca sono poi comuni pitture che imitano di-versi tipi di marmi.Una delle caratteristiche tipiche di quello che viene defini-to II stile pompeiano è l’illusivo sfondamento della parete,talvolta attraverso finte porte o creando, tramite la pittura,uno spazio architettonico fittizio con colonne in prospetti-va (casa di Augusto sul Palatino a Roma). La decorazione diun cubicolo a Boscoreale (New York, mma) appare come laricostruzione di una scenografia greca. Vengono dipinti pae-saggi visibili da una falsa finestra aperta e talvolta il giocoillusivo è così spinto da annullare l’intera parete di una stan-za. In seguito (alla fine del II e nel III stile), il t si concen-tra su oggetti particolari (si veda l’asaroton oikos del mn diNapoli) che risaltano su un fondo dipinto con sobrie deco-razioni geometriche piatte.All’epoca di Nerone (IV stile), la pittura romana oscilla trail principio della «parete sfondata» e del t di oggetti.T sono usati per le sontuose decorazioni scenografiche di Er-

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colano (Napoli, mn), qui la prospettiva presenta diversi pun-ti di fuga in modo da consentire il massimo effetto di illu-sione per uno spettatore che si aggiri nella stanza.In seguito, nella pittura medievale sarà frequente un tipo didecorazione a motivi architettonici dipinti – anche se nonsi può parlare di un intento propriamente illusivo, quantodel trapassare da una tecnica all’altra. L’imitazione di ma-teriali, ad esempio a Saint-Savin (finti marmi), non provo-ca un gioco illusivo, ma si limita ad arricchire la decorazio-ne dell’interno con linee sinuose colorate. Sarà la pittura ita-liana intorno al 1300, con Giotto, nel modo piú evidente, aricercare effetti illusivi che ricordano l’antica pittura roma-na anche se in un contesto completamente diverso. Nel ci-clo francescano di Assisi Giotto dipinse false cornici den-tellate che «ingannano» perfettamente l’occhio dello spet-tatore, a condizione che ci si ponga al centro di una delledue scene giustapposte su ciascuna delle pareti della navata.Ma il risultato piú affascinante venne attuato da Giotto nel-la Cappella degli Scrovegni di Padova, meritandosi l’epite-to di «Giotto spazioso» (Longhi) per l’invenzione dei coret-ti su ciascuno dei lati dell’arco trionfale che chiudeva la na-vata, e per l’imitazione in pittura di finte sculture delbasamento rappresentanti i Vizi e le Virtú. Soluzioni spazialidi inaudita novità trovano poi buon gioco alla corte di Avi-gnone con Matteo Giovannetti (si veda la scena della Ma-donna col Bambino venerata da Innocenzo VI: Villeneuve,Certosa, cappella di Innocenzo VI).La ricerca pittorica, soprattutto in Italia e nelle Fiandre, rag-giunse nel sec. xv rispetto ad altre regioni europee, risulta-ti illusionistici assai ricercati. In Italia l’illusivo scambio trapittura, architettura e scultura presenta come nelle Fiandrenumerosi esempi, tra cui la sorprendente Presentazione alTempio di Gentile da Fabriano (Parigi, Louvre) o Pippo Spa-no di Andrea del Castagno in Sant’Apollonia a Firenze, incui il piede sinistro e la sciabola del personaggio sembranosconfinare oltre la cornice simulata, o ancora va citata la Ca-mera degli sposi di Mantegna nel Palazzo Ducale di Manto-va (1474), che non solo mette in scena la corte dei Gonza-ga, ma apre un illusionistico oculo centrale con una balau-stra circolare dal quale si affacciano nuvole e putti.Nelle Fiandre l’illusionismo è particolarmente evidente nel-

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la ricerca mimetica, attraverso la pittura a olio, di preziosimateriali e tessuti o di minuti particolari naturalistici (unodegli esempi piú noti è la mosca che sembra aggirarsi sul da-vanzale di pietra del Ritratto di monaco di Petrus Christus:New York, mma).Le raffinate tecniche pittoriche messe a punto nel Quattro-cento e lo sviluppo di una sensibilità per la mimesi pittoricada parte di pubblico e artisti, poteva, nel xvi e nel xvii se-colo avvalersi ormai di sperimentati strumenti di «inganno»visivo. Compaiono così effetti di raffinato virtuosismo, qua-li i riflessi di una finestra negli occhi dei personaggi ritrattidai pittori fiamminghi.Al di là delle polemiche sull’arte e sui generi artistici la pit-tura e soprattutto il colore erano considerati strumenti attia «ingannare l’occhio e imitare la natura», scopo che Bla-chard dichiarò nel 1671, in una conferenza all’Accademiareale francese, essere prioritario per il pittore. Il gioco illu-sivo in senso stretto, lasciando da parte le teorie mimetichesulla pittura, sarà utilizzato nella decorazione, spesso fa-cendo uso delle grisailles per imitare la scultura o simulareun bassorilievo o ancora il mosaico, fino ad arrivare all’illu-sionismo barocco della decorazione di soffitti e volte (→).Vanno ricordati a titolo d’esempio: l’illusiva costruzione spa-ziale degli affreschi della Sistina di Michelangelo, o ancora,negli anni Sessanta del sec. xvi, l’opera del Veronese in col-laborazione con lo scultore Alessandro Vittoria (Villa Bar-baro a Maser), la decorazione di Annibale Carracci, intra-presa alla fine del sec. xvi nella volta della galleria di Palaz-zo Farnese a Roma, superando l’esperienza rinascimentale(le Stanze vaticane di Raffaello, le volte del Correggio a Par-ma), in una ricchezza compositiva che mette in scena figu-re dipinte a imitare bronzi o marmi, e motivi inquadrati dafinte cornici, ormai di sensibilità barocca.Uno dei generi in cui l’illusionismo ottenne risultati tra i piúconvincenti, fu la pittura di natura morta, dove l’inganno èfacilitato inoltre dall’assenza di movimento e, come ha no-tato Gombrich, in essa «piú difficilmente si noterà il carat-tere di immutabilità dei rapporti interni». In una naturamorta di scuola tedesca (1770-80), si vedono al di sopra diun insieme di bottiglie, brocche e altri oggetti cui sono me-scolati libri, due sportelli di un armadio, uno dei quali semiaperto. La decorazione dei ferri e il mazzo di chiavi che pen-

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de dalla serratura si presentano come un t perfetto. Vannoricordati i t delle tarsie lignee toscane e urbinati (Urbino,studiolo di Federico da Montefeltro), le opere dei Lendina-ra (Padova, Basilica di Sant’Antonio) e di Fra Giovanni daVerona (Verona, Santa Maria in Organo) o quelle su dise-gno del pittore Lorenzo Lotto a Bergamo (Santa Maria Mag-giore). All’inizio del sec. xvii è noto il virtuosismo dei pit-tori olandesi nell’imitare stoffe e tessuti, oggetti e frutti, co-me la buccia di un limone la cui spirale crea un effetto divolume che sembra sfondare il piano del dipinto (D. deHeem, Natura morta con limone sbucciato: Parigi, Louvre).La finalità illusiva della pittura divenne un vero e propriogenere a sé nel xvii, xviii e xix secolo. Possono essere con-siderati dei veri e propri t dipinti che riproducono oggettipiatti come fogli di carta, buste, penne, nastri, strumentimusicali geometrici resi tridimensionalmente su un tavolo.Piccole irregolarità sottolineate, come una carta gualcita,dànno la sensazione del rilievo che diventa tanto piú effica-ce nei soggetti «di ferma» che riproducono una situazionereale. Tra questi si possono citare i dipinti di J. F. de Le Mot-te verso il 1650, di Gabriel-Gaspard Gresly, di François Vi-pré, di Jean Cossard e altri. C. N. Gysbrecht nel sec. xviiad Anversa ha dipinto curiose nature morte in t dove adesempio dispone su un drappo numerosi oggetti in ordinesparso (Copenhagen, smfk). Il t di Antonio Forbera (1686:Avignone, mba) è particolarmente interessante. La formadel pannello, delimitata dagli oggetti, contribuisce a raffor-zare l’illusione di essene in presenza di un reale che sostie-ne gli strumenti professionali del pittore.In alto viene imitato un disegno a sanguigna che rappresen-ta Il Regno di Flora tratto da Poussin, di cui riproduce in bas-so, sulla finta tela, una replica incompiuta. La citazione didipinti in pittura è assai comune: L. L. Boilly dipinse una se-rie di venti dipinti che imitano incisioni incorniciate sottoun vetro la cui presenza è sottolineata da un’incorniciatura,e a questo proposito vanno ricordati i dipinti che riprodu-cono gabinetti d’amatori e di mercanti come la famosa Inse-gna di Gersaint di Watteau o il dipinto di J. E. Liotard conla riproduzione di una tela di Rembrandt. Nell’Europa delNord nel xviii e xix secolo finalità illusive connotano il ge-nere particolare della silhouette dipinta (→ silhouette).

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Questo genere di finalità illusionistica in pittura, che ebbenell’Ottocento interpreti come gli americani Peto e Harnettè stata poi utilizzata da Braque, Picasso e Gris, nel periodocubista nelle nature morte che imitano il legno o caratteri ti-pografici. I cubisti giungeranno anche a introdurre nei qua-dri frammenti reali di giornali utilizzando la tecnica del col-lages, mentre i surrealisti «sfidarono la pittura», in partico-lare Magritte (Prospettiva di Madame Récamier di David,1951; La condizione umana, 1934: coll. priv.), mirando a con-ferire a oggetti immaginari e assemblages di cose reali la mas-sima credibilità (Miró, Table à moustaches - Object, 1927:coll. priv.; M. Duchamp, Why not sneeze?, 1921; J. Cornell,Soap Bubble Set?, 1947-48; S. Dalì, Dormeuses, cheval, lioninvisible, 1932).Le tendenze realiste che appaiono periodicamente nella pit-tura contemporanea si riappropriano spesso del genere illu-sionistico del t. Ad esempio Henri Cadiou, fondatore delgruppo dei Pittori della Realtà (1955), si assume il ruolo didifensore di una tradizione che è riuscito a rinnovare appli-candone i principi a dei soggetti estratti dalla realtà con-temporanea, come il suo vestiario di fabbrica. Un altro mem-bro di questo gruppo, Gilou, ha realizzato emozionanti t co-me la Finestra accanto a opere che sembrano piuttosto deipastiches dalla pittura olandese del sec. xvii.Per reazione all’astrattismo la Pop Art ha recuperato il va-lore dell’immagine nella produzione artistica. In ogni caso ilcarattere brutale di uno stile che concede troppo agli effet-ti simili a quelli della pubblicità, non porta questo movi-mento i verso il t in pittura, il quale non vi appare se nonepisodicamente (falso legno di fondo della Donna curiosa diAllen Jones, 1964-65), dato che l’originalità della Pop Artin questo campo era soprattutto orientata verso la creazio-ne di falsi oggetti reali, se si può dire, come il Pantalone gi-gante blu di Claes Oldenburg e le scatole di conserva in bron-zo dipinto di Jaspes Johns. Nato in America alla fine deglianni Sessanta, l’iperrealismo a sua volta trova piú spesso lasua ispirazione nella fotografia; lo si chiama altrettanto be-ne fotorealismo. I procedimenti di trasposizione dalla foto-grafia sfociano spesso in immagini piuttosto crude che ri-cordano la Pop Art. Un precursore di questa corrente, Do-menico Gnoli, ha tuttavia lasciato delle tele come la Vestoncroisé (olio e sabbia su tela, 1965) che si può considerare co-

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me un vero e proprio t. Lo stesso si può dire di Sally T diJohn Kacere (1972), dell’Automa di Marcel Maeyer (1973)e delle composizioni di Howard Kanowitz, tra gli altri. Il tnell’iperrealismo ha il merito di farci toccare con mano il ca-rattere mimetico della pittura che in fondo non inganna nes-suno e il cui fascino deriva dall’abilità della mano (il tocco ela campitura) deliberatamente privata della sua spontaneità,che si differenzia proprio per la presenza attiva dell’artista,dalla fotografia che è semplice registrazione. (jd).

Tronchin, François(1704-98). Collezionista ginevrino, uomo politico, amico diVoltaire, di Grimm e di Diderot. Raccolse nella sua casa del-le Délices, a partire dal 1740, una prima «galleria» di qua-dri di varia scuola (vi predominavano quelle nordiche) chenel 1770 fu venduta a Caterina II, andando a costituire unodei fondi dell’Ermitage di San Pietroburgo. In seguito T sicostituì una nuova collezione comprendente oltre 200 ope-re, soprattutto fiamminghe e olandesi, la maggior parte del-le quali andò dispersa all’asta di Parigi nel 1801. T non fusolo collezionista, ma incoraggiò i pittori ginevrini del suotempo (De La Rive, Huber, Saint-Ours); il Ritratto a pa-stello che ne fece Liotard (1757: Ginevra, coll. priv.) può es-sere considerato uno dei capolavori dell’artista. Gli credi diT serbarono una trentina di quadri, che costituirono piú tar-di parte del gabinetto di Bessinge (oggi coll. Givaudan); unamostra dedicata alle sue collezioni, intitolata Da Ginevraall’Ermitage, è stata organizzata al Museo Rath di Ginevranel 1974. (rl).

Trono, Alessandro(Cuneo ? - Torino 1781). Nato forse a Cuneo nella primametà del Settecento (Paroletti, 1819), è documentato a To-rino a partire dal 1731 fino al 1781, anno in cui viene regi-strata la sua morte. Attivo per la corte con ruoli comprima-ri, ha lasciato diverse opere sparse nelle chiese di Torino edel Piemonte dove coniuga iconografie e modelli romani conuna tersa luce lombarda. Fra i dipinti torinesi da ricordarel’interessante Cristo nell’orto nella sagrestia di San Filippo,nitida traduzione di un olio su rame di Sebastiano Concaconservato nella Gall. Sabauda di Torino; la Predica di san

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Vincenzo de’ Paoli dell’Arcivescovado; le due Storie di san-t’Omobono in San Francesco d’Assisi. Importante la pro-duzione nel cuneese (Pala del Suffragio: Cuneo, Santa Cro-ce; Crocifissione tra san Domenico e la Vergine: Racconigi, SanDomenico; tele nella cappella di San Sebastiano e stendar-do di Santa Croce a Cavallermaggiore; decorazione dellaConfraternita di San Sebastiano a Cuneo, in collaborazionecon il quadraturista Pietro Antonio Pozzo). (cb).

Troost, Cornelis(Amsterdam 1697-1750). Allievo di Arnold Boonen, auto-re di numerosi ritratti di gruppo (genere che anch’egli pra-ticò: Lezione di anatomia del professor Roell, 1729: Amster-dam, Rijksmuseum; Reggenti dell’Aalmoezeniersweeshuis,1729: ivi; Gilda dei chirurghi, 1731: ivi), lavorò soprattuttoad Amsterdam. Fu l’unico artista olandese che si rese indi-pendente dalla tradizione del secolo precedente per realiz-zare scene di genere ispirate alla nuova moda francese e adHogarth, con uno sguardo divertito e satirico ai costumi del-la società e della vita teatrale olandese nel Settecento. Ope-re come gli Ispettori del Collegium Medicum (1724: ivi), Riu-nione tra amici presso Biberis (serie di cinque dipinti: L’Aja,Mauritshuis), gli Innamorati intirizziti (1738: ivi), il Maritobeffato (1739: ivi), il Gioco della moscacieca (Rotterdam,bvb), rivelano una tecnica minuziosa e raffinata, talora mol-to personale; amava, infatti, in alcune opere, mescolare pa-stello e guazzo (esempi al Rijksmuseum, Gabinetto delle stam-pe, e ad Haarlem, Museo Teyler). A T si devono inoltre ec-cellenti ritratti, come quelli di Jan Lepeltak (1729: AmsterdamRijksmuseum), di Jeronimus Tonneman e suo figlio (1736: Du-blino, ng) e Autoritratti (1720: Haarlem, Museo Frans Hals;1737: Amsterdam, Rijksmuseum; 1745: L’Aja, Mauritshuis),nonché scene di genere intimiste, in cui si ispira a P. de Hoo-ch (il Giardino: Amsterdam, Rijksmuseum). (iv).

Tropinin, Vassilij Andrejeviã(Karpovka (governatorato di Novgorod) 1776 - Mosca1857). Servo del conte ucraino Morkov che lo inviò a SanPietroburgo per far apprendistato all’Accademia, vi diven-ne professore (1823) e membro (1824) dopo essere stato li-berato nel 1823. Ha lasciato paesaggi, ritratti amabili e unpo’ sentimentali (I fratelli Morkov, 1813; Bulacov, 1823: en-

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trambi Mosca, Gall. Tret´jakov), ricchi di notazioni psico-logiche, il piú celebre dei quali è quello del poeta A. Pu∫kin(1827: San Pietroburgo, Museo russo). Un posto particola-re nella sua attività ebbero i dipinti di genere (La filatrice,1823; il Suonatore di chitarra, 1823; la Cucitrice d’oro, 1826:tutti a Mosca, Gall. Tret´jakov; Mendicanti, 1823: San Pie-troburgo, Museo russo), che lo mostrano particolarmente at-tento alla vita del popolo e agli aspetti realistici che sarannouno dei punti di forza della scuola pittorica moscovita dellametà del sec. xix. (bl + sr).

Troppau, Johannes von(Boemia, seconda metà del sec. xiv). Noto anche, specie ne-gli studi in lingua céca, come Jan da Opava (o Oppavia), la-vorò verosimilmente a Praga, forse al servizio di Johann vonNeumarkt (Jan da St≈eda), cancelliere di Carlo IV. L’Evan-geliario d’Albrecht III, duca d’Austria (Vienna, bn), scritto efirmato dall’autore, contiene numerose pagine piene minia-te, soprattutto quelle con episodi della Vita degli Evangeli-sti. Secondo ricerche recenti, Johannes von T si sarebbe ser-vito di un discreto numero di collaboratori, tra i quali figu-ra anche l’anonimo miniatore del Messale di Praga. Lacomposizione e la decorazione sono probabilmente ispiratiai codici carolingi, ottoniani o anche romani; l’aspetto ar-caico dell’Evangeliario è giustificato dal suo utilizzo duran-te le cerimonie d’incoronazione improntate, come ovvio, daun rituale fissato secolarmente. Fa parte di quel gruppo dimanoscritti imparentati con il Liber Viaticus di Jan da St≈eda.Altre due opere, l’Orationale Arnesti (prima del 1364: bibl.del Museo di Praga) e il Messale di Jan da St≈eda (1364: Pra-ga, bibl. del Capitolo) sono in stretta relazione con l’Evan-geliario. In armonia con l’evoluzione della pittura su tavolae della pittura murale, Johannes von T sviluppò fino alleestreme conseguenze lo stile del Maestro del Liber Viaticuse la sua opera annuncia lo stile dei miniatori del re Vence-slao IV. (jho).

Trotti, Giovan Battista, detto il Malosso(Cremona 1555 - Parma 1919). Allievo di Bernardino Cam-pi, fu influenzato anche da altri protagonisti dell’ambienteartistico cremonese, come Bernardino Gatti e Antonio Cam-

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pi; si accostò poi alla pittura di Correggio, di cui ebbe di-retta esperienza a Parma. Scarse le notizie sulla prima atti-vità di T (Annunciazione, 1580: Casalmaggiore, Oratorio diSanta Chiara), che dalla metà degli anni Ottanta diviene viavia piú intensa. Operò soprattutto a Cremona (Decollazio-ne del Battista, Miracolo di san Giacinto, San Pietro martire, Ma-donna e santi: Cremona, mc; Circoncisione: Parigi, Saint Phi-lippe de Roule, tutte provenienti da San Domenico) ma an-che a Lodi (San Francesco, Sant’Antonio ed Ezzelino daRomano: Duomo, tele), a Milano, dove è presente a piú ri-prese fra 1593 e il 1599 (San Pietro Celestino: Cena in casadel Fariseo), a Pavia (chiesa del Carmine: Crocifissione, 1593).Il suo stile, caratterizzato da effetti plastici e luministici e daun patetico tono espressivo, si arricchisce di suggestioni daBarocci, dai Carracci, da Calvaert, e forse anche dell’espe-rienza di un soggiorno a Roma. Nel 1594 ottiene l’incarico dicompletare la decorazione ad affresco di Sant’Abbondio aCremona, lasciata interrotta da Orazio Samacchini. Nel 1604si trasferisce a Parma, dove aveva già operato negli anni pre-cedenti, per entrare al servizio di Ranuccio Farnese. Pittoree architetto nella corte farnesiana esegue, oltre che dipinti disoggetto sacro, alcuni ritratti, partecipa alla decorazione delPalazzo del Giardino e del Teatro della Pilotta, allestisce fe-ste e apparati, fornisce disegni per incisioni e suppellettili. (sr).

troubadourCon questo termine, impiegato forse per la prima volta dal-lo scrittore e critico Théophile Gautier, si usa definire quelparticolare genere di pittura storica, sviluppatasi in Franciatra la fine del Settecento e gli anni ’30 dell’Ottocento e spe-cialmente in voga sotto l’impero e la restaurazione, volta arievocare con inediti intenti di verosimiglianza e ricostru-zione il fascino e l’atmosfera della vita medievale, sia essalegata a temi puramente fantastici o letterari come ad epi-sodi effettivi della storia. Un Medioevo quindi quanto maigenerico, inteso ancora nei termini di un gusto narrativo eaneddotico assai distante, nello spirito come nei modi, dal-le successive istanze della filologia; Medioevo eclettico e po-sticcio, «di cartone e di terracotta» – ebbe a dire ancoraGautier – «che di medievale non ha che il nome», e che spa-zia da remote quanto vaghe ambientazioni gotiche all’epo-ca di Luigi XIII e XIV.

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Si è spesso associata la comparsa dello stile t – specie in pre-cedenza di piú recenti indagini critiche, che hanno provve-duto a ricollocarne correttamente le coordinate di svilup-po cronologico (mostra a Bourg-en-Bresse, Francia, 1971;Chaudonneret 1980; Pupil 1985) – alla passione e al fanati-smo per il revival medievaleggiante esplosi con il romantici-smo storico. Ma assai prima di raggiungere, con i successi diDelaroche e di Scheffer, la predominanza all’interno dellacultura ufficiale e dei salons, lo stile t nasce come pitturad’«élite», al tempo stesso ingenua e raffinata, privilegiatadai circoli neoaristocratici e snobistici raccolti intorno allacorte dell’imperatrice Joséphine, alla Malmaison; senza conquesto precludersi una straordinaria diffusione popolare at-traverso la litografia e le pubblicazioni a stampa, tanto dapotersi individuare, tra il 1800 e il 1820, come una vera epropria «corrente sotterranea» del gusto, parallela alle eroi-che rievocazioni del «grande stile; della pittura di storia.E d’altra parte, l’insorgenza del gusto t non può farsi coin-cidere tout-court con la riscoperta della cultura medievale.L’interesse per il Medioevo, infatti, si risveglia anche inFrancia – nonostante non poche approssimazioni e vandali-smi – sin dalla metà del sec. xviii; e già dal 1729 Bernard deMontfaucon intraprende la sua raccolta di documenti sullecattedrali e le chiese di Francia, fondamentale, specie dopole distruzioni rivoluzionarie, per gli storici come per gli ar-tisti. Anche in teatro e in musica si comincia a «parlar tro-badorico». A Parigi si mettono in scena drammi cavallere-schi come l’Ines de Castro di La Motte (1723) o il Gabriel deVergy di Du Belloy (1777), Ducis recita al Théâtre-Françaisadattamenti da Shakespeare, mentre Grétry mette in musi-ca, nel 1784, il Riccardo Cuor di Leone di Sedaine. Anche gliartisti non potevano rimanere insensibili alle nuove ten-denze; e se le prime tele affrontano i soggetti medievali conalquanta fantasia (si veda la Spedizione di Guglielmo I il Con-quistatore in Inghilterra di Lepicié, del 1765), piú tardi si ten-tarono le prime ricostruzioni storiche come nel San Luigi af-fida la reggenza a Bianca di Castiglia, firmato da Vien nel1773. Nel 1774 il re e il suo Direttore generale alle belle ar-ti, il conte d’Angiviller, commissionano all’allora AcadémieRoyale il celebre ciclo sulle gesta della storia di Francia, e alSalon del 1777 dominanti saranno ancora gli episodi esem-

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plari e le scene nobili della storia, dall’antichità al Medioe-vo (e in abiti medievali Brenet vi espone La morte del con-nestabile Du Guesclin, Durameau la Continenza di Bayard).A Berthélemy si deve un Atto di valore di Eustache deSaint-Pierre all’assedio di Calais (1779) e una Parigi riconqui-stata agli Inglesi, datata 1787, già quasi t negli accenni di co-stumi o nel profilo vago e nebuloso della città turrita che gio-ca a far da quinta, sullo sfondo; Vincent realizza, infine, ilsuo celebre Presidente Molè sorpreso dai faziosi nel 1779, e unEnrico IV e Sully oggi distrutto. Neanche il rinascimento vie-ne risparmiato se Taillasson dipinge nel 1783 la Nascita diLuigi XIII, e Ménageot sembra anticipare Ingres nella suaMorte di Leonardo (1781). Tutte queste opere, tuttavia, seda una parte dimostrano – nella messa in scena di un décora suo modo accurato, attrezzato di elmi e armature, piaz-zeforti e castelli – un’insorgente attenzione per la defini-zione atmosferica, dall’altra si trattengono su di un ecletti-smo che ben fa trapelare la propria origine teatrale e lette-raria. Manca a queste rievocazioni proprio quel che farà ilpeculiare «sapore» t: la verosimiglianza effettiva ma so-prattutto affettiva, d’altra parte del tutto estranea all’in-tento eminentemente retorico e didascalico di una pitturavolta a indicare, attraverso la scelta di exempla virtutis nontroppo dissimili da quelli privilegiati poi dalla rivoluzione,l’assoluto di un’asserzione morale e non già il precipuo diun’occasione singolarmente emotiva.Il trionfo del neoclassicismo e della scuola davidiana, spin-to sull’onda del fervore rivoluzionario, come arte radical-mente «etica» e garante, attraverso il recupero del modelloclassico, delle nobili virtú repubblicane sembra interrompe-re ogni interesse per il piú recente passato nazionale e cat-tolico. Ma con l’insorgere dell’impero si assiste a un nuovomutamento del clima: mentre il Concordato del 1801 sanci-sce un primo ritorno alla tradizione e alla fede storica, dopogli orrori del terrore, l’enorme successo del Génie du Chri-stianisme e del suo «profeta» Chateaubriand, nel 1802, con-sacra l’avvento di una sensibilità piú indulgente, incline al-la commozione, e il rinnovarsi di un sentimento religiosonon privo di malie e di malinconie. La stessa auto-celebra-zione napoleonica non disdegna di riallacciare i rapporti conl’Ancien Régime e la storia illustre del casato di Francia: esono spesso i pittori imperiali piú celebri a resuscitare gesta

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e memorie dei grandi sovrani del passato (si pensi a Gros eal suo Carlo V ricevuto a San Dionigi da Francesco I, del 1812,o a Gérard con L’entrata di Enrico IV a Parigi, 1817). Tut-tavia è su differenti accenti, prossimi a un universo piú in-timo e lirico, appena venato di patetico, dove l’eroismo sitinge di toni amorosi e il dramma ritorna al recinto dome-stico, che si forma e consolida il gusto t. È un’atmosfera gen-tile, piú affine a uno stile da petits-maîtres olandesi che ai fa-sti della pittura imperiale, che all’evocazione coniuga e me-scola una pacata nostalgia, l’immagine vagamente arcadicadi un passato perduto, piú ingenuo e piú puro. Alla precisa-zione di questo universo semplice e quotidiano, nutrito didettagli sottili e di una minuziosità diligente, «da orolo-giaio», concorre in gran parte la rinnovata moda per le mi-niature, cresciuta all’ombra proprio di quella «riscoperta tro-badorica» che aveva segnato già il sec. xvii e che aveva tro-vato nelle incisioni di Moreau le Jeune per il Gérard deNevers, o di Marillier per il Petit Jehan de Saintré del de Tres-san (1788), una sua squisita interpretazione. Il gusto per leminiature sa bene accordare l’esigenza di un’esattezza a suomodo erudita, scrupolosa e nitida nei particolari, che sappiarestituire l’immagine fresca e credibile di un Medioevo sen-timentalmente prossimo, con l’autenticità di un ricorso tec-nico, con il fascino prezioso di colori brillanti o smaltati co-me porcellane. Ma non va ignorata l’influenza che sul de-clinarsi di questo «gotico da salotto» ha paradossalmentegiocato l’arte, precisa e purista, «neoprimitiva» dei nazare-ni; così come un ruolo importante al comporsi non solo diun’iconografia verosimile, ma al sollecitarsi stesso di una fan-tasia visiva, va ascritto al celebre Museo dei MonumentiFrancesi, fondato da Alexandre Lenoir, artista, appassiona-to ed erudito, ai Petits Augustins nel 1790, che costituì permolti il primo impatto di una «rivelazione». Prima ancorache stabilirvi l’esatto decorso di una cronologia, Lenoir viseppe infatti creare un’atmosfera ancor oggi vivida nelle pa-role di un viaggiatore inglese, William Shepherd: «la sugge-stione religiosa della raccolta penombra degli appartamenti,destinati ad accogliere le figure giacenti di santi e guerrieridel Medioevo, conferisce a questi rozzi tentativi artistici uninteresse che in se stessi non possiedono». Nasce così il Me-dioevo pittorico e gentile dei maestri t, Camus, Menyer,

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Laurent, Bergeret o il «monastico» Granet, amico di Ingres;ma saranno, imprevedibilmente, due allievi lionesi del vec-chio David a trasportare nei panni gotici l’amore erudito eraffinato per il dettaglio antico del grande neoclassico:Fleury-Richard, il piú intimista e «cortese», e soprattuttoPierre Revoil che nel suo celebre Torneo (esposto al Salondel 1812, con una lunga didascalia in francese arcaizzante)sembra consegnare al genere t il suo «manifesto». Sono que-sti tutti artisti, lo si è detto, di casa alla Malmaison e parti-colarmente amati e favoriti dall’imperatrice Joséphine, cheacquisterà tra gli altri per la sua collezione nel 1806 l’Omag-gio a Raffaello dopo la sua morte, di Bergeret, e nel 1808 Ladeferenza di Luigi IX verso la madre di Fleury-Richard. D’al-tra parte, il Medioevo seduce tutte le persone «di gusto»:sono molti i viaggiatori a scoprire i tesori dell’Europa delNord, il collezionismo si espande, e Percier e Fontaine vi siispirano per le loro decorazioni in stile per le sagre religio-se, a Notre-Dame.Il clima era pronto per la fiammata medievaleggiante del ro-manticismo. E se la moda ossianica, come è noto, o la ri-scoperta di Shakespeare e di Dante (tradotto da Artaud deMontor già nel 1811-12) sono in Francia relativamente pre-coci, è soltanto dopo la restaurazione che appaiono le tra-duzioni di Goethe, Schiller e dei romantici tedeschi (1822ca.). Ma ad imprimere un suggello nuovo, nel segno di unostoricismo emotivamente avvincente e verosimile, dove per-sonaggi e caratteri risultino convincenti e l’affresco d’am-biente vivido e rivivibile nei particolari, sono le opere diWalter Scott; che sin dalle prime traduzioni (1821) vedonoesplodere un’autentica «passione scottesca» fondamentaleper il futuro orientamento del romanzo francese, comedell’arte figurativa (i salons degli anni ’20 sono dominati daisoggetti scottesques) come pure del melodramma, fino allaDonna del Lago di Rossini. È attraverso la retorica rico-struttiva, assai piú persuasiva, di Walter Scott che si affac-cia nella pittura una nuova ispirazione, strenuamente lette-raria e al tempo stesso piú attenta alla caratterizzazione nar-rativa e psicologica. A rafforzarla notevolmente contribuiràl’entusiasmo per i nuovi drammaturghi francesi, da Delavi-gne (i Figli di Edoardo, del 1833, ispirerà l’omonima tela diDelaroche) ai riformatori del dramma storico, AlexandreDumas (Enrico III e la sua corte, 1829) e soprattutto Victor

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Hugo (Hernani e la sua celebre Prefazione, 1830) che diverràfonte principale – e quasi oggetto di un’autentica devozio-ne – per il cosiddetto stile t «1830». Capofila riconosciutodi questa tendenza, Eugène Devéria, talora pittore di talento(Nascita di Enrico IV, 1827) quanto, piú spesso, facile sia purabile illustratore (Morte di Giovanna d’Arco, 1831), prestosurclassato in fama da Paul Delaroche (il già ricordato Figlidi Edoardo farà parlare, un po’ esageratamente, Henry Ja-mes di «una ricostruzione della storia piú antica con la piúraffinata psicologia moderna») e da Ary Scheffer, il cui idea-lismo un po’ frigido va a servire Dante, Schiller o Goethe(Paolo e Francesca; Margherita all’arcolaio, 1831). E ancoraLouis Boulanger, devoto e sagace illustratore di Hugo (Mor-te di Hernani, 1836) anche sulla scena teatrale (si vedano icostumi per Ruy Blas o per i Burgraves, 1843), Horace Ver-net, già affermato pittore di battaglie, e piú tardi le rievo-cazioni «alla moschettiera» e gli interni di genere di Meis-sonier. Né manca inoltre la schiera dei «minori», da Lethiè-re (l’Eroica fermezza di san Luigi a Damiette, 1827), a Gigouxe Poterlet (la donizettiana Lucia di Lammermoor), a TonyJohannot ed Eugène Lami, piú felici nella grafica e nell’il-lustrazione. Al fervido gusto per l’evocazione romantica estorica corrisponde anche un paesaggio t: chiostri e campa-te ogivali di Isabey, gli acquerelli delicati di Bonington e icastelli renani che si ergono, fantastici e «arruffati» controcieli minacciosi, negli inchiostri di Hugo.Di chiara ispirazione t, preziose e smaltate come le pagine diun messale e spesso deliziose nelle torsioni goticheggianti deicolli o nell’arcaismo arabescato del tratto, le tele «medieva-li» di Ingres, a metà via tra morbidezze raffaellesche e rigi-dità alla Fouquet: da Raffaello e la Fornarina e il Fidanzamentodi Raffaello, del 1813-14, alle delicate versioni di Paolo e Fran-cesca sorpresi da Gianciotto a partire dal 1814, fino al Moliè-re alla mensa di Luigi XIV – poeticamente «ideologico» – del1857. Lascia piú controversi invece la definizione di «t» perl’esuberanza cromatica, la potenza espressiva e la solida li-bertà d’impasto delle opere letterarie di Delacroix, quan-tunque il maestro si sia ampiamente ispirato ai soggetti me-dievali per eccellenza di Dante, Shakespeare (tra i molti esem-pi Il ballo in casa Capuleti, 1824) e Walter Scott (Il ratto diRebecca, 1846). Ma in quegli anni, il clima parigino era or-

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mai tutto medievale: la storia di Francia suscita nuove pas-sioni (da Barante a Thierry), i Voyages pittoresques tra fore-ste, cattedrali e rovine si moltiplicano (e trovano il propriointerprete di genio, assecondato da illustratori sensibili co-me Isabey, Johannot e Lami, nel barone Taylor e nelle sueedizioni dei Voyages Pittoresques et Romantiques dans l’An-cienne France), fa furore la moda di mobili e arredamenti «dacattedrale» o di scenografle «gotiche» come quelle disegna-te ancora da Lami per la «quadriglia di Maria Stuarda», or-ganizzata nel 1829 a Greffuhle. Sarà sempre Théophile Gau-tier a riassumere i sapori di quest’atmosfera nel suo EliasWildmanstadius o ne Le Jeune-Homme-Moyen-Age (1833).Ma proprio le arti grafiche, già principi nel Medioevo – ac-quaforte, incisione su legno, e soprattutto la litografia – con-voglieranno alcuni tra gli esiti piú delicati, vivaci e personalidello stile t. Esclusa la produzione a stampa, suggestiva madi qualità corrente, a larga diffusione popolare come quelladi Almanacchi e Keepsakes (che pur contribuiscono in ma-niera notevole alla volgarizzazione del bric-à-brac t su cuitanto si accanirà Flaubert in Madame Bovary), la gran partedelle pubblicazioni dell’epoca è illustrata con gusto e abilitàda incisori di rango come Gigoux (Gil Blas), Bonington eMonnier (Contes du Gay Scavior) o Trimolet (Chants popu-laires de la France). Achille Devéria incide, per le sue illu-strazioni, vignette affascinanti e accurate nella resa degli ab-bigliamenti e degli arredi. Alfred e Tony Johannot adorna-no di incisioni le opere di Walter Scott, di Eugène Lami(Histoire des ducs de Bourgogne, 1838) e Lasalle (Hystoire etcronicque du petit Jehan de Santrè). Célestin Nanteuil, fede-le seguace di Hugo, incide i frontespizi di Nostra Signora diParigi (1832), Maria Stuarda e Lucrezia Borgia (1833), e un ri-tratto assai bello del poeta, in acquaforte, circondato da unasontuosa cornice gotica irta di pennacoli e nicchie (1832).Nel medesimo stile, di sollecita finezza miniaturistica, è rea-lizzata la sua splendida incisione della Jolie Fille de la Garde(1836), incorniciata da medaglioni e banderuole, capolavo-ro dell’arte t. Ma tra i piú sapienti e intelligenti interpretidella grazia trobadorica, nello stile come nel recupero di pe-culiarità tecniche, non va trascurato il bresciano Gigola, mi-niaturista acclamato tra Milano e Parigi e ritrattista alla cor-te di Eugenio Beauharnais, che con le preziose edizioni delDecameron, del Romeo e Giulietta (1819) e delle gesta della

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storia patria seppe far «risorgere le delizie della vita medie-vale e rinascimentale» ai circoli colti della nobiltà lombarda(Mazzocca, 1978, 1991) e introdusse il gusto t in suolo ita-liano. (fca).

TroyJean III, detto Jean de T (Tolosa 1638 - Montpellier 1691),allievo del padre Antoine I, si stabilì a Montpellier, dovefondò un’Accademia (1680-88) e dove dipinse i soffitti delPalazzo della Tesoreria (oggi Società Archeologica) e del Tri-bunale per le cause civili e penali in materia fiscale (1688,oggi Palazzo di Giustizia). Negli stessi anni eseguì innume-revoli disegni per apparati (Montpellier, Musée Atger), co-me quelli per le esequie di Maria Teresa (1683: Parigi, bn),poi da lui stesso incisi (Biblioteca di Tolosa). A Montpelliereseguì anche ritratti, come quello del Cardinale di Bonzi (coll.priv.), del Marchese di Castries (Montpellier, Musée Fabre) edi Padre Lagreffe (Narbonne, Musée d’Art et Histoire), guar-diano del convento dei frati Minori. Conservò sempre il suoatelier a Tolosa, sua città natale, dove dipinse Fontanelle(1674: Musée du Vieux Toulouse) e la Signora di Mondon-ville (coll. Latécoère), considerato il suo capolavoro. Tra lesue opere una particolare menzione meritano i dipinti reli-giosi: il Sogno di san Giuseppe, La Maddalena nel deserto,L’Immacola Concezione della santissima Madre di Dio (Tolo-sa, mba).Suo fratello François (Tolosa 1645 - Parigi 1730) fu an-ch’egli allievo del padre e si perfezionò con Nicolas Loir econ Claude Lefebvre. Genero di Jean I Cotelle, si stabilì aParigi verso il 1662. Con Mercurio e Argo (Parigi, enba) fuammesso all’Accademia reale nel 1674, della quale divennedirettore nel 1708 e vice rettore nel 1722. Fu protetto daitolosani, come Montespan e Crozat, non soltanto presso gliscabini, per i quali dipinse La nascita del duca di Borgogna(1682: disegno a Parigi, Museo Carnavalet), ma presso lacorte stessa, dove eseguì i ritratti di Mademoiselle di Nan-tes (1690: Chantilly, Museo Condé), del Conte di Tolosa edi Mademoiselle di Blois (1691: Parigi, Louvre), della Du-chessa del Maine (1694: Sceaux, Museo dell’Île-de-France)e della Principessa de Conti (Versailles). Oltre al suo Autori-tratto (1696: Firenze, Uffizi), si annoverano tra i suoi lavo-

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ri piú riusciti i ritratti del Liutaio Mouton (1690: Parigi,Louvre), di Mansart (1699: Versailles), di Jullienne (1722:Valenciennes, mba), di Jeanne Coutelle, sua sposa (1704:San Pietroburgo, Ermitage), di Padre Blaise (coll. priv.) edel Padre abate dei Foglianti (Bordeaux, mba), così come idisegni (Stoccolma, nm; Parigi, Louvre e Tolosa, MuseoPaul-Dupuy) che Dézallier d’Argenville poneva allo stessolivello di quelli di van Dyck. I suoi ritratti sono stati ripro-dotti in incisioni attribuite a Largillière, a Rigaud e a Wat-teau. (rm).Suo figlio Jean François (Parigi 1679 - Roma 1752), fu suoallievo. Dal 1699 al 1706 visitò l’Italia riportando un vivi-do ricordo della pittura veneziana. Rientrato a Parigi fu am-messo (1708) all’Accademia con il dipinto raffigurante Apol-lo e Diana che saettano i figli di Niobe (Montpellier, mba), di-pinto ancora sotto l’influsso di La Fosse. Le sue prime prove,Susanna e i vecchioni (1715: Mosca, Museo Puskin), Loth ele figlie e un’altra versione della storia biblica di Susanna(1721: San Pietroburgo, Ermitage), influenzate dal Guerci-no, costituiscono i momenti fondamentali della sua carrie-ra. Pittore di scene galanti, allegorie, mitologie e scene reli-giose, scelse di preferenza un’iconografia che potesse per-mettergli l’introduzione di nudi femminili (Betsabea al bagno,1727: Angers, mba; Le figlie di Loth, 1727: Orleans, mba;La morte di Lucrezia e La morte di Cleopatra, 1731: Stra-sburgo, mba; Apollo e Dafne, La nascita di Venere, Giove eLeda e Giove e Callisto: tutte a Berlino, Charlottenburg).Nominato vice professore nel 1716 e professore nel 1719,Jean François de T fu principalmente pittore di storia, maeseguì anche alcuni paesaggi e ritratti. Fra le opere della gio-vinezza, vanno ricordate le scene di genere mondane e ga-lanti (La giarrettiera, La dichiarazione nel boudoir: New York,coll. Wrightsman; Lo spavento: Londra, vam; La lettera diMolière: coll. della marchesa di Cholmondeley; La riunionenel parco, 1731: Berlino, Charlottenburg). Ricevette nume-rose commissioni da parte dei grandi personaggi dell’epocae anche dallo stesso sovrano; a Versailles dipinse, nel 1734,una sovrapporta per la camera della regina; partecipò alla se-rie delle Nove cacce esotiche, commesse nel 1736 (Caccia alLeone: Museo d’Amiens) per gli appartamenti del re e di-pinse, per la sala da pranzo la Colazione d’ostriche (Chantil-ly, Museo Condé), pendant della Colazione al prosciutto di

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Lancret (ivi). A Fontainebleau, eseguì per la sala da pranzola Colazione da caccia e il Cervo senza via di scampo (1737:bozzetti a Londra, Wallace Coll.).Tra il 1737 e il 1740 preparò alcuni cartoni (oggi suddivisifra il Louvre e il mad) per la manifattura dei Gobelins, di-pinti fra Parigi e Roma: la serie riscosse grande successo, so-prattutto la tela con il Trionfo di Mardocheo, per le ampiecomposizioni teatrali, trattate con virtuosismo e senso delcolore derivato da van Dyck e dall’impaginazione movi-mentata ripresa da Rubens.Morto nel 1737 Vleughels, direttore dell’Accademia di Fran-cia a Roma, l’artista fu sostituito da Jean François de T chesi stabilì nella città papale nell’agosto del 1738. Nel 1740portò a termine il Corteo di Ester e nel 1744 fu eletto prin-cipe dell’Accademia di San Luca grazie all’opera raffiguranteRomolo e Remo (Roma, Accademia di San Luca). Il succes-so del Corteo di Ester l’indusse a preparare una nuova seriedi cartoni per arazzi: nel 1743 inviò a Parigi sette schizzicon la Storia di Giasone e di Medea che furono vivacementecriticati (Londra, ng; Birmingham, Barber Institute; coll.priv.), come quelli (musei di Puy, di Clermont-Ferrand, diTolosa e d’Angers) esposti al Salon del 1748. Lavorò ancheper i circoli romani e dipinse una Resurrezione (Roma, SanClaudio dei Borgognoni) e Il beato Gerolamo Emiliani e laVergine (Roma, Santi Alessio e Bonifacio); le sue ultime ope-re furono una Via Crucis, una Lapidazione di santo Stefano eun Cristo nell’orto degli ulivi destinate alla Cattedrale di Be-sançon, dove si trovano tuttora. (jv).

Troyen, Rombout van(Amsterdam 1605 ca. - 1650). Allievo di Jan Pynas ad Am-sterdam, la sua opera presenta però affinità con pittori dirovine come Poelenburgh e Breenbergh: soggetti favoritidelle sue opere, per i quali è stato spesso confuso con il piúaccademico Cuylenborch, sono grotte ornate da strane sta-tue-colonne e piccole figure irreali, con effetti d’illumina-zione fantastica. Opere di T sono conservate a BraunschweigHerzog-Anton-Ulrich-Museum), nei musei di Kassel (sks:Caverne) di Lille (mba: Sacrificio in una catacomba) e di Got-tigen (sm: Cristo e la Cananea), nonché ad Haarlem (Museovescovile: Battesimo dell’eunuco). (jf).

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Troyon, Constant(Sèvres 1810 - Parigi 1865). Riceve una prima formazioneda Riocreux, conservatore del Museo della manifattura diSèvres. Esordisce infatti come decoratore di porcellane, se-guendo le orme dei genitori, ma dedica il tempo libero a di-segnare e ritrarre paesaggi dal vero, con grande precisione.Espone al Salon del 1833 una veduta di Saint-Cloud e tre diSèvres, città ripresa in maniera convenzionale nei dipintiche, fino al 1838, figurano ai salons accanto ai paesaggi ri-tratti da Argenton-sur-Creuse, Limousin, Loiret, Orne. Nel1840 viene premiato per studi sul paesaggio bretone, rea-lizzati l’anno precedente. Il Salon del 1841 ospita l’unicopaesaggio storico di T, Tobia e l’angelo (1841: Colonia,wrm). Affina la propria formazione di paesaggista dipin-gendo il bosco di Fontainebleau, non lontano dalla cittadi-na di Barbizon, luogo eponimo della scuola, che ospitava tragli altri T. Rousseau e J. Dupré, conosciuti da T nel 1843.L’ammirazione per il paesaggio olandese del sec. xvii, con-divisa con la scuola, porta T in Olanda (1847) sulle traccedi P. Potter, A. Cuyp, Rembrandt e da questo momento in-troduce nei suoi quadri mandrie e greggi, ripresi soprattut-to in Normandia. I paesaggi, piú descrittivi che espressivi,riscuotono enorme successo al Salon del 1848 e ispirano nu-merosi imitatori, come Rosa Bonheur. Assai rappresentati-vo dell’arte matura è il Rientro del gregge, esposto nel 1859(1856: Parigi, mo) dipinto con tocchi di colore puro giu-stapposti, ricerca dei riflessi, dei giochi di luce. Intorno al1860 soggiorna sulla costa della Manica, dove E. Boudin di-pinge paesaggi marittimi; in essi trova ispirazione per gli ul-timi lavori. È rappresentato nei musei di Parigi (mo, Lou-vre), Bordeaux, Digione, Limoges, Marsiglia, New York,Boston, Chicago, Amburgo, Lipsia, Monaco. (ht).

Trübner, Wilhelm(Heidelberg 1851 - Karlsruhe 1917). Formatosi come orafo,nel 1867-68, su consiglio di Feuerbach frequentò la Scuoladi belle arti di Karlsruhe; in seguito fu allievo di Hans Ca-non a Stoccarda (1869-70) e di Wilhelm von Diez a Mona-co (1870-72). La sua pittura risentì dell’influsso di Leibl, checonobbe nel 1871, di Courbet e di Thoma; il suo realismo èstemperato, comunque, dai numerosi viaggi di studio com-

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piuti in Italia (1872-73, compagnia di Carl Schuch), Belgioe Olanda (1874). Nel 1873 dedicò al castello di Heidelberge ai suoi dintorni una serie di tele (Nel castello di Heidelberg:Darmstadt, Museo); l’anno seguente il lago di Chiemsee inBaviera gli ispirò opere che sono tra le migliori di questo pe-riodo (l’Imbarcadero di Herreninsel: Karlsruhe, Museo). Ri-tornò a Monaco nel 1875, risiedendovi fino al 1890; si recòpiú volte a Parigi (1879 e 1889) e soggiornò a Londra (1884-1885). Aderì alla Secessione nel 1892; il trapasso verso l’im-pressionismo avvenne verso il 1890. La sua vasta opera com-prende paesaggi, ritratti (Signora in grigio, 1876: Essen,Folkwang Museum), dipinti di storia, scene di genere e na-ture morte. Le sue composizioni sono costruite da accordidi colori sordi (la Rissa infantile, 1872: Hannover, Nieder-sächsisches Landesmuseum), a volte connotate da inqua-drature impreviste (Sul canapé, 1872: Berlino, sm, gg). Pro-fessore a Francoforte (1895-1903) nel 1903 venne nomina-to docente nell’Accademia di Karlsruhe, città il cui museoconserva i suoi dipinti piú rappresentativi; sue opere si con-servano presso i piú importanti musei tedeschi, particolar-mente a Berlino (ng), Brema (kh), Dresda (gg), Essen(Folkwang Museum), Francoforte (ski), Monaco (np), Wup-pertal (von der Heydt Museum). (hbs).

Trumbull, John(Lebanon (Connecticut) 1756 - New York 1843). Nel 1773ottenne il diploma presso l’Università di Harvard, dove in-contrò J. S. Copley dal quale la sua produzione fu fortementeinfluenzata. Aiutante di campo di Washington e cartografodurante la guerra d’indipendenza, nel 1780 divenne allievodi Benjamin West a Londra, dove fece ritorno alla fine del-le ostilità, nel 1784. Lo stile di T trae insegnamenti sia daWest che da Copley; l’artista consacrò il suo talento a im-mortalare le grandi battaglie della rivoluzione americana, as-sociando alla verità documentaria un affiato epico. La pri-ma di queste otto composizioni, la Morte del generale War-ren a Bunker’s Hill (New Haven, Yale University ag), ricordala Morte del maggiore Peirson di Copley (Londra, Tate Gall.).I bozzetti dei dipinti, conservati a Yale, hanno un accentoimpetuoso che anticipa l’arte di Gros, e furono incisi e pub-blicati grazie a una sottoscrizione. Nel 1785, invitato da

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Thomas Jefferson, primo ambasciatore americano a Parigi,T riportò un vivo ricordo di David e del neoclassicismo.Svolse un ruolo di rilievo nella vita artistica americana e ri-cevette la commissione di una serie di decorazioni per il Ca-pitolium di Washington (1816-24). Nel 1817 fondò a NewYork l’Accademia americana di belle arti che diresse poi fi-no al 1836 (fu sciolta nel 1839). Sue opere sono conservatea New Haven; nel 1831 donò all’Università di Yale, in cam-bio di una rendita vitalizia, cinquantacinque dipinti e cin-quantotto miniature. Alcune sue opere si conservano anchepresso il Museo di Cincinnati e al mma di New York. (sc).

Trutat, Félix(Digione 1824-48). Allievo di Cogniet, la sua opera fu for-temente influenzata dai pittori veneti, che copiò nelle suevisite al Louvre. La Donna distesa (1844: Digione, mba) at-testa la precoce maturità del linguaggio di T, morto in gio-vane età. Il pittore ha lasciato soprattutto ritratti nei qualipuò essere accostato a Courbet; in essi combina alla lezioneveneta il suo senso del realismo (Ritratto di donna: Parigi,Museo Henner; Madame Hamour: Parigi, Louvre; serie a Di-gione, mba). (ht).

Tschudi, Hugo von(Jakobsdorf (Bassa Austria) 1851 - Cannstadt 1912). Dopogli studi all’Università di Vienna, nel 1884 divenne assi-stente di Bode a Berlino, poi direttore della Nationalgaleriedal 1896 al 1909 e svolse un ruolo fondamentale nel rinno-vamento dei musei di Berlino e di Monaco. S’impegnò nelfar conoscere in Germania la scuola di Barbizon e gli im-pressionisti, nonché l’arte tedesca contemporanea. La galle-ria si arricchì così di opere di Millet, Daubigny, Daumier(Don Chisciotte, proveniente dalla coll. Viau), Courbet, Ma-net (la Serra, il Giardino di Rueil), Monet, Degas, Renoir,Cézanne e, per la Germania, soprattutto Menzel. L’acqui-sizione della coll. van Eeghen di Amsterdam (Dupré,Troyon, Rousseau, Daubigny) non fu gradita dall’imperato-re, determinando l’allontanamento di T; sostituito daLudwig Justi, rifiutò la direzione dell’Ermitage e si stabilì aMonaco, dove il principe reggente gli offrì nel 1909 la dire-zione generale dei musei bavaresi. Riorganizzò l’ap rag-gruppandovi quadri dispersi nei castelli reali e nelle gallerie

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di provincia (Crocifissione di Cranach, proveniente dalla gal-leria di Schleissheim). Fece acquistare per Monaco opere diEl Greco e presentò al pubblico la collezione Nemes di Bu-dapest, ricca di dipinti del maestro spagnolo. Tra i suoi scrit-ti principali sono: il primo catalogo del Maestro di Flémal-le, il catalogo monumentale dell’opera di Menzel, quello peril centenario del Museo di Berlino (1906), e un notevole sag-gio su Manet (Berlin 1902). (law).

Ts’ien Siuan(1235-1301 ca.). Musicista e illustre poeta, letterato rima-sto fedele alla dinastia dei Song, che l’aveva eletto nella suaAccademia, TS condusse una vita ritirata dopo la rottura delrapporto con l’amico e allievo Chao Mêng-fu, che aveva ac-cettato di servire i Mongoli. Non sono note sue opere auto-grafe certe, se non qualche verosimile attribuzione, ma sap-piamo che dipinse nello stile arcaico. I suoi personaggi fu-rono imitati sia dallo stile bai-miao di Li Kung-lin, sia dallostile colorato di Tcheou Fang; i suoi paesaggi con vedute fia-besche sono vicine allo stile «azzurro e verde» trasmesso daTchao Po-kiu. Fu soprattutto celebre per i suoi «fiori e uc-celli» dipinti nello stile di Tchao Tch’ang, di raffinata sem-plicità (Passeri su un ramo: Museo di Princeton; Scoiattolo suun ramo di pesco: Gu Gong). Il famoso rotolo di fiori e in-setti intitolato Inizio d’autunno (Detroit, Institute of Arts)che gli era stato attribuito, è invece autografo di SouenLong, pittore-miniatore attivo nei primi anni della dinastiadei Ming che seguì fedelmente lo stile di TS. (ol).

Ts’ing-lingImportanti cicli di pitture murali risalenti al sec. xi sono sta-ti rinvenuti nelle tombe imperiali di T (località archeologi-ca della Mongolia orientale, vicino a Pai-t’a-tzu), mausoleiconsacrati ad imperatori Qïtan d’origine mongola, fondato-ri della dinastia dei Leao, che dominarono sulla Mongolia esul Nord della Cina e della Corea dall’inizio, del sec. x allaprima metà del 1100. Le vaste composizioni pittoriche chericoprivano le pareti sono di qualità assai elevata; i colori so-no vivaci e armoniosi. Comprendono ritratti, paesaggi e unadecorazione architettonica ispirata agli edifici contempora-nei e alle loro decorazioni. Suddivisi in diversi gruppi, sono

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rappresentati, l’uno a fianco dell’altro e a grandezza natu-rale, diversi personaggi che accompagnano il loro sovranodefunto: cortigiani, soldati, musicisti, dame di corte e per-fino gente del popolo, come alcuni pescatori. Fra i perso-naggi maschili compaiono due tipologie, i Qïtan e i cinesi,diversificati dai dettagli del loro abbigliamento.I paesaggi di T rappresentano le quattro stagioni dell’anno;alcuni animali (soprattutto uccelli e daini) popolano le mon-tagne, le rocce, i ruscelli e gli alberi. Il tema, gli elementi, laprospettiva a strapiombo con la sovrapposizione di crestemontagnose a suggerire le lontananze denunciano la loro af-finità con le opere cinesi, ma da queste si differenziano; ac-centi realistici che si ritrovano non solo nei paesaggi, ma an-che nelle raffigurazioni degli animali, dalle forme e dagli at-teggiamenti sempre ben osservati. (mha).

Tuccio di Andria(attivo negli ultimi venti anni del sec. xv). Di origine pu-gliese, nel 1487 firma e data la pala con lo Sposalizio misti-co di santa Caterina e santi per la cappella di San Bonaventu-ra nella chiesa di San Giacomo di Savona (oggi Museo del-la Cattedrale), la cui cimasa è perduta, mentre la predellacon Cristo e gli apostoli si trova oggi nel Musée d’Art et d’Ar-chéologie di Toulon. In essa sono ritratti, con aspro e insie-me edulcorato realismo, anche i membri della famiglia delcommittente, che può forse provarsi ad identificare con quel-la dei Raimondi. Pareti e volta erano un tempo, affrescateforse dallo stesso T. L’anno seguente, questi si impegnavacon l’Ospedale di Savona per una Maestà (perduta) destina-ta all’altar maggiore della medesima chiesa francescana diSan Giacomo. Nell’unica opera superstite, T si dimostrapreoccupato di arricchire gli elementi fiorentini desunti daGhirlandaio e Filippino Lippi (nonché motivi dal TritticoPortinari di Hugo van der Goes) con il gusto fiammingheg-giante, decorativo, attentissimo alla resa del dettaglio, chetrovava largo consenso nell’ambiente figure del tempo. Tor-nato molto probabilmente nella terra d’origine, T non riu-scì a influenzare con le sue opere savonesi il corso della pit-tura locale, mentre è probabile che il trittico con Sant’An-tonio da Padova tra Caterina d’Alessandria e Zosimo, già inSanta Maria Vetere ad Andria (Bari, Pinacoteca provincia-le), orientato verso i modi del Maestro di San Severino No-

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ricense, sia testimonianza della sua rinnovata attività pu-gliese. Lascia perplessa l’attribuzione a T di una Madonnaoggi in coll. priv. (rn + sr).

Tuculescu, Ton(Craiova 1910 - Bucarest 1962). Studiò scienze naturali emedicina. Autodidatta come pittore, s’ispira all’arte popo-lare rumena e particolarmente ai tappeti di Oltenia. E suostile ne possiede la ricchezza, la vivacità cromatica e la ric-chezza materica dei tessuti. Partendo da forme naturali sti-lizzate, T crea un universo mitico che riflette tanto il suotormento interiore quanto le antiche credenze popolari inun mondo soprannaturale. La profusione di occhi in talunisuoi quadri (specie dal 1956 in poi), che sembrano lampeg-giamenti di spiriti fiabeschi, il carattere ardente della suafattura e la spinta interiore che coinvolge le forme in un tur-bine fantastico, conferiscono al suo lavoro un originale ca-rattere surrealista. Postuma è stata la presentazione dellaBiennale di Venezia nel 1966, al mam della città di Pariginel 1967; nel 1969 gli fu dedicata un’esposizione itinerantenegli Stati Uniti. T è rappresentato al mn d’Arte a Bucare-st, in numerosi musei rumeni, e in collezioni private rume-ne, francesi, belghe e statunitensi. (ij).

Tuen-huangPunto di partenza della «via della seta», ultimo insedia-mento cinese ai confini del deserto del Gobi, T (città dellaCina) era un’oasi situata sul punto d’incontro di due stradecarovaniere del Nord e del Sud del bacino del Tarim; laggiúconfluivano il mondo indo-iraniano dell’Asia occidentale eil mondo cinese dell’Asia orientale. La località ospitava, altempo stesso, una guarnigione, un mercato e un centro reli-gioso.All’inizio della nostra era, i cinesi penetrati in Asia centra-le entrarono qui in contatto con le importanti comunità bud-diste che vi erano state fondate e con l’arte della regione delbacino del fiume Tarim. Il primo e il piú famoso dei santuaridi T, il Ch’ien fo tung (grotte dei mille Buddha), fu fonda-to nel 366 a una trentina di chilometri a sud della città pro-priamente detta. Sull’esempio dei templi rupestri sorti sul-la via delle oasi, il santuario è formato da una serie di grot-

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te, disposte su vari piani sul fianco della montagna (celle dadue a cento metri quadri di superficie). Le immagini delBuddha e dei suoi assistenti animano le pareti con grandevarietà di temi, evocanti la vita e le predicazioni di questipersonaggi. Non tutte le pitture hanno significato religioso:qualche volta l’artista ha riprodotto scene di vita quotidia-na, offrendo così una prodigiosa testimonianza storica checopre un periodo compreso tra il vi e il xiii secolo. Infatti ilsantuario, in piena attività durante il dominio dei Wei delNord, che occuparono la regione di T alla fine del sec. iv,non cessò d’ingrandirsi fino alla fine della dinastia Tang.Malgrado l’occupazione da parte delle tribú uighuriche ametà del sec. ix, poi dei tibetani, sotto il cui influsso le for-me s’irrigidirono in un conformismo stereotipato dovuto so-prattutto al generale declino del buddismo, la vita spiritua-le e artistica del santuario proseguì fino all’epoca mongola.Le grotte piú antiche testimoniano la fusione dei modi stra-nieri, dei paesaggi, delle architetture e dei costumi cinesi.Le pitture combinano felicemente la cenere verde, il nero eil vermiglio; la linea slanciata dei corpi aumenta la loro spi-ritualità. Durante la dinastia Tang le forme subirono un pro-cesso d’umanizzazione e una forte influenza d’origine in-diana pose l’accento sulla sensualità: i pittori conoscevanooramai tutte le sfumature dei toni caldi e dei toni freddi, co-sì come l’uso delle ombre per sottolineare il modellato. Sem-pre in questo periodo fecero la loro comparsa le raffigura-zioni dei paradisi buddisti. La decorazione consisteva in par-ti dipinte e a rilievo, ma data la scarsa modellabilità dellapietra che non si confaceva alla scultura, le effigie erano mo-dellate nella creta.A lungo trascurata, quasi caduta nell’oblio, la località di T furiscoperta dalle spedizioni archeologiche all’inizio del sec. xx.I primi scavi furono diretti dall’esploratore inglese AurelStein, le cui collezioni furono donate al bm, poi dal grandeorientalista francese Paul Pelliot che riportò da T, oltre all’ec-cezionale complesso di manoscritti conservato alla bn di Pa-rigi, le insegne e le pitture esposte al Musée Guimet. (ve).

t˙ugra

Questa parola turca, designante l’emblema grafico del sul-tano regnante, è una sorta di monogramma apposto comefirma ufficiale sugli atti della cancelleria. Utilizzata molto

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presto dagli Oghz e dai Selgiuchidi, presso i quali ebbe per-fino forma di uccello, la t

˙divenne un capolavoro di calli-

grafia arricchito di miniature soprattutto durante l’imperodegli Ottomani.Le prime t

˙ottomane (a partire dal sec. xiv) furono eseguite

con inchiostro nero oppure in oro, senza alcuna aggiunta or-namentale. La ricchezza della loro decorazione era dovutasoltanto allo sviluppo degli elementi grafici: allungamentodelle aste dei caratteri, arricchite da curve ovali o da ellissinon chiuse. Un secondo periodo è contraddistinto dalla com-parsa di alcuni elementi miniati e da qualche tocco di colo-re. La t

˙di Beyazit II, in un firmano del 1502, presenta qual-

che lettera dipinta in blu e una decorazione dorata nella qua-le si distinguono tre zone: quella delle aste, fra le quali sonodisegnate delle nubi cinesi o delle palmette; la linea esternadi alcuni caratteri, da cui si sviluppano fronde fogliate; la li-nea interna delle lettere diverse dalle precedenti che origi-na degli arabeschi, delle fronde a palmette o a rosette.Alla fine del sec. xvi la decorazione s’estende al di là dellacifra. Così nella t

˙di Murad III (1575-95), rami di loto e di

rosette ondulati ornano la zona delle aste. La parte inferio-re è occupata da fronde a palmette intrecciate e la parte su-periore da garofani. Le linee interne sono decorate con spi-rali di loto. La policromia diviene abituale. La cifra resta inoro, ma gli elementi della decorazione sono dorati, blu, ros-si e neri. Nel sec. xviii la tavolozza dei colori si arricchiscedi rosa, lilla, verde, grigio, bianco e azzurro e, al tempo stes-so, si semplifica la decorazione. L’ultima t

˙miniata è datata

al 1720. (so).

TulumLa città di T (città maya del Messico, Stato di Quinta Roo,ix-xi secolo), costruita su un promontorio che domina il Mardei Caraibi, è delimitata da una cinta quadrangolare al cuicentro si trovano numerosi edifici sovrapposti; l’ingresso ècostituito da un porticato le cui colonne, a forma di serpen-te, sono realizzate nel piú puro stile tolteco. Le mura dei lo-cali di quello che doveva essere un luogo di residenza sonostate ricoperte, nel corso dei secoli, da parecchi strati pitto-rici. Uno dei piú antichi, tipicamente maya, raffigura unagrande scena di caccia; il piú recente, contraddistinto dai ca-

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ratteri dell’arte tolteca, rappresenta un sacerdote che indossauna maschera di turchesi e un’acconciatura serpentiforme.Tutta la composizione, dipinta in blu e arancione su fondochiaro, è sottolineata da un tratto nero.Le mura esterne del Tempio del Dio Tuffatore (raffiguratoin una statua in stucco collocata in una nicchia dipinta dirosso sopra l’entrata) sono dipinte con piccole scene rap-presentanti le divinità della Pioggia, del Sole e del Mais, in-quadrate in rettangoli delimitati da serpenti intrecciati. Lecirconda una cornice blu, sormontata da una fascia rossa.Altre divinità ornano la modanatura inferiore della cornice,mentre alcuni «rosoni» ricoprono la modanatura superiore.All’interno del tempio, la parete orientale è decorata da di-vinità maya, ma eseguite nello stile dei codici mixtechi, raf-figurate tra offerte, serpenti, stelle e soli. I colori utilizzatisono, oltre al bianco, il rosso e il verde; per il fondo il cele-ste.Il Tempio degli Affreschi è costituito da due costruzionid’epoca differente. Sulla facciata del tempio propriamentedetto, compare un fregio composto da cerchi e festoni. L’in-gresso è sormontato da una nicchia e da una scultura analo-ghe e quelle del tempio precedente. La parete dell’antica-mera è ornata da registri paralleli in cui compaiono scene vo-tive dipinte su fondo nero. Varie divinità (tra le quali Chacdio della Pioggia e la dea lunare Ixchel) ritratte in azzur-ro-verde e incorniciate da serpenti allacciati di colore blu,compiono rituali sacri fra una profusione di frutta, di fiorie di granoturco: pitture di stile analogo sono venute alla lu-ce nella vicina località di Tancah. La decorazione della se-conda costruzione, una sorta di galleria che circonda il tem-pio, si compone di figure in stucco policromo, di modanatu-re, di cornici scolpite con rose e stucchi dipinti. I bassorilievi,anch’essi in stucco policromo, raffigurano alcuni personaggiallacciati a dei glifi. (sls).

Tura, Cosmè(Ferrara 1430 ca. - 1495). Cosimo (o Cosmè) T, figlio di uncalzolaio, è il principale esponente della scuola ferrarese del-la seconda metà del sec. xv. La sua formazione e carriera so-no favorite dall’appoggio dei duchi estensi della cui corte Tfu a lungo intrinseco. In ossequio ai committenti, egli ela-bora un’espressione figurativa di assoluta originalità, in cui

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riferimenti aggiornatissimi a Mantegna, Piero della France-sca e Leon Battista Alberti si combinano con il persistere diun gusto per il bizzarro e il prezioso di origine gotico-corte-se. Scarsi sono i documenti che lo riguardano; i pagamentipervenuti si riferiscono per lo piú ad opere effimere (para-menti, vestiti, decorazioni varie) e solo di rado a dipinti.L’impegno richiesto dagli Este per iniziative ornamentalid’occasione può in parte spiegare la rarità dei dipinti di T edegli altri maestri ferraresi a lui coevi.È molto probabile che prima del 1456 T abbia trascorsoqualche anno a Padova nell’ambiente squarcionesco, unosnodo fondamentale nella sua formazione. Risale a questoprimo periodo la Madonna col Bambino addormentato (Wa-shington, ng). Rientrato in patria, T viene coinvolto nei la-vori di decorazione dello studiolo estense di Belfiore, a fian-co di maestri come Angelo Maccagnino, Galasso di MatteoPiva e Michele Pannonio, e in questo contesto Cosmè T nontarda a imporsi, diventando il capofila della scuola ferrare-se. Le tavole con le Muse sono ora divise in vari musei: a Tspettano la cosiddetta Primavera (Londra, ng) e in parte laTersicore, nota anche come «Allegoria della Carità», del mppdi Milano. Panneggi aguzzi e profili acutamente segnati, det-tagli fantasiosi mostrano l’acquisizione di un linguaggio for-male maturo, complesso e personale. Simili osservazioni val-gono per la Pietà (Venezia, Museo Correr), di violenta edeformante forza espressiva.Nel 1469 il pittore realizza le ante d’organo del Duomo diFerrara, ora conservate nel Museo della Cattedrale. La sce-na dell’Annunciazione si svolge entro una rigorosa inqua-dratura prospettica, arricchita da elementi decorativi di sva-riata origine; l’episodio con San Giorgio che libera la princi-pessa è un’invenzione di geniale fantasia, realizzata con unsegno secco e pungente, che fissa i personaggi in pose dram-matiche. Nella sua qualità di pittore di corte degli Este, Tsi occupa della decorazione di alcune residenze ducali: tuttii cicli sono andati distrutti, tranne quello del Palazzo di Schi-fanoia. Gli affreschi, divisi in scomparti secondo i dodicimesi dell’anno, sono frutto collettivo della scuola ferrarese,con il contributo di Francesco del Cossa, Ercole de’ Rober-ti e altri maestri. La mano di T non è riconoscibile in alcu-na scena, ma è presumibile che il pittore abbia avuto un ruo-

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lo determinante nell’organizzazione generale del ciclo e nel-la sovrintendenza ai lavori.Al 1474 risale il piú importante complesso su tavola di T, ilPolittico Roverella: parzialmente distrutto da un ordigno nelsec. xviii, è ora diviso in vari musei. Opera tormentata, ric-ca di spunti e di proposte, rivela l’insoddisfazione dell’arti-sta per le tradizionali regole compositive umanistiche. La ta-vola centrale presenta la Madonna in trono (Londra, ng), im-postata secondo un modulo vertiginosamente allungato; lacimasa con la Pietà è al Louvre; lo scomparto laterale di de-stra (i Santi Maurelio e Paolo col donatore) è nella Galleria Co-lonna di Roma; un frammento di quello di sinistra è nel Mu-seo di San Diego (California). Nella stessa chiesa di San Gior-gio si trovava un altro polittico, di cui non rimangono chedue tondi (Cattura e Martirio di san Maurelio: Ferrara, pn).Intorno al 1480 i rapporti fra la corte estense e T comincia-no a incrinarsi, anche se il pittore continua a lavorare a rit-mo serrato negli ambiti piú eterogenei. Nel 1483 si vede co-stretto a ricorrere in giudizio per ottenere il pagamento del-le pitture eseguite vent’anni prima nello studiolo ducale diBelfiore. Nel 1486 lascia il servizio di corte e va ad abitarein un torrione delle mura cittadine; al suo posto, il duca Er-cole chiama Ercole de’ Roberti. Nel 1487 redige per la se-conda volta un testamento e probabilmente la sua salute s’in-crina: l’8 gennaio 1490, rivolgendosi per lettera al duca Er-cole, T scrive di essere «maximamente infermo de taleinfermitade che non senza grandissima spesa e longeza ditempo mi potrò convalere». Nonostante la mancanza di si-curi punti di riferimento per l’estrema attività del T, anchenel corso degli anni ’80 si contano alcuni dipinti significati-vi, come l’elegante e nervoso San Nicola di Bari del Museo diNantes, la Sacra Conversazione del Musée Fesch di Ajaccio ealcune piccole tavole, forse parti di piú vasti complessi, fracui il San Maurelio del mpp di Milano. L’ultimo capolavoroè il Sant’Antonio da Padova, grande quasi al vero, conserva-to nella Galleria Estense di Modena, compiuto nel 1484. (rr).

turca, pitturaI primi dipinti turchi furono quelli prodotti nei vasti impe-ri del Turkestan, o «Paese dei Turchi», in particolare du-rante i regni degli Uighuri, a partire dal sec. ix e sono statistudiati nel quadro delle scuole dell’Asia centrale. Attratte

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all’inizio dal buddismo, le popolazioni turche si avvicinaro-no ben presto al manicheismo, che teneva la pittura in altaconsiderazione. Conobbero l’islamismo a partire dal sec. viiie gradatamente tra il ix e il x secolo tutte le tribú si isla-mizzarono. Apprezzati per il loro valore militare, arruolatinella guardia personale del califfo, poi prescelti ad occupa-re posti importanti nell’esercito e nell’amministrazione, iTurchi o Tlmundi a poco a poco si affrancarono dalla tu-tela del sovrano e, da governatori, divennero rapidamentedinasti semi-indipendenti: Tlnidi (868-905) e lkhchiditi(935-69) nell’Egitto-Siria, Gharznavidi (962-1191) e Ghu-ridi (1100-1215) nell’Iran orientale fino alle frontiere conl’India. Poco ci resta delle realizzazioni pittoriche sotto ta-li dinastie: in Egitto sono stati trovati esemplari di vasella-me dipinto e alcuni frammenti di affreschi, risalenti aiTlnidi. La loro parentela con i dipinti di SÇmarrÇ, cometestimonia il fondatore della dinastia, si sposta dall’Iraq ver-so il Nilo: tali realizzazioni denotano nella scelta degli ap-parati, degli ornamenti personali, delle armi e delle barda-ture usate dai soldati rappresentati, un gusto turco. Alcunidipinti sono stati scoperti nel palazzo ghaznavide di LachkariBazar: in uno stile tributario degli affreschi sasanidi, sonoraffigurati 48 personaggi ritratti frontalmente.Periodo selgiuchide (XI-XII secolo) Con i Selgiuchidi, di-scendenti delle tribú Oghuze dell’Asia centrale, comincia lagrande epopea turca alla conquista del Vicino Oriente. Il po-tere centrale dei «grandi Selgiuchidi» durò peraltro solo fi-no al 1157; il loro impero si disintegrò rapidamente in nu-merosi piccoli principati semi-indipendenti, ma il perdura-re della civiltà selgiuchide venne assicurato dalle spettacolariinnovazioni che questi costruttori prodigiosi operarononell’architettura, e dalla perfezione della loro arte decorati-va. Quasi nulla ci è noto della pittura di questo periodo. Inseguito all’invasione dei Mongoli, sono andati interamentedistrutti tutti i manoscritti illustrati del tempo. La testimo-nianza piú antica che possediamo della pittura anatolica isla-mica risale all’inizio del sec. xiii: è il Kitab f¥ ma ’rifat al-hiyÇlal-handasiya (Libro della scienza degli apparecchi meccani-ci), illustrato per il sultano artuqide di Amida (DiyÇrbakir).L’originale è scomparso, ma ci è giunta una copia realizzataa ©i#n Kayfa nel 1254 (Istanbul, Topkapi Sarayi, Ahmet

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III, 3472). Le illustrazioni di quest’opera dovevano aiutareil lettore a comprendere il funzionamento degli automi e de-gli apparecchi meccanici fabbricati sulla base delle scopertedi Archimede, divulgate da compilazioni greche. Vi si trovala rappresentazione delle macchine, azionate da piccoli per-sonaggi; spesso un animale mitico sormonta l’insieme. Taleiconografia è ancora fortemente influenzata dalla pitturaclassica, ma già abbastanza vicina alla scuola di Baghdad, co-me attestano le vesti musulmane indossate dai personaggi.Periodo ottomano All’inizio del sec. xiv una nuova dina-stia turca, quella del sultano Osman (1332-59) si stabiliva aBrussa (Bursa) in seguito al crollo del potere centrale diKonya, capitale dei Selgiuchidi dell’Anatolia. Gli «Otto-mani» (in turco Osmanlì), conquistata gran parte dell’Ana-tolia, con Maometto II, presero d’assalto Costantinopoli(1453), che divenne centro del loro impero con il nome diIstanbul. Cinquant’anni dopo, Selim I s’impadroniva di Ta-briz, conquistando successivamente la Siria, la Palestina el’Egitto e facendosi nominare protettore delle due città san-te dell’Islam, la Mecca e Medina. La disfatta della flotta tur-ca a Lepanto (1571) pose termine all’espansione ottomanaverso ovest.La potenza e la ricchezza dell’impero ottomano favorirono ilfiorire delle arti; anche la pittura, ancora oggi poco nota, tras-se vantaggio da questa rinascenza. Alcune pubblicazioni tur-che hanno posto l’accento su una raccolta di miniature e di-segni della seconda metà del sec. xv realizzati in uno stile deltutto originale (Album del Conquistatore: Istanbul, TopkapiSarayi). Rappresentano molto realisticamente mostri, geni,animali, principalmente cavalli e asini, senza cornice archi-tettonica né paesaggio di sfondo, in tonalità scure, grigie obrune. Ignoriamo l’esatta provenienza e l’autore della mag-gior parte delle illustrazioni se si esclude la menzione diUstÇdh Mu®ammad SiyÇ® Qalam che firma alcuni disegni.Le figure potenti e tozze dei personaggi, ammantati da vestipesanti, le scene di violenza, il modo di vita nomade potreb-be rivelare una loro provenienza dal Turkestan. Si tratta didipinti unici nel Vicino Oriente, particolarmente affascinantiper la loro singolarità e il cupo mistero che sprigionano.Volendo credere allo storico turco Elvia Tchelebi (sec. xvii),gli artisti turchi si raggrupparono in corporazione alla fine

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del sec. xvi. Un laboratorio, riservato ai pittori legati al pa-lazzo imperiale, era situato in un edificio chiamato Ar-slanhÇne (Casa del leone). Il loro numero raggiungeva il mi-gliaio; esistevano inoltre nella città un centinaio di labora-tori e botteghe di pittura. Lo stesso autore scrive che, nelcorso di una parata organizzata dagli artigiani, i pittori sfi-larono dinanzi al sultano esibendo opere di artisti celebri,persiani, indiani o europei.Gli inizi della pittura ottomana. Influssi persiani La primapittura ottomana si ispira ampiamente alla persiana: sononumerosi gli artisti persiani, deportati nel corso delle cam-pagne in Iran di Selim I, che lavorarono nei laboratori im-periali turchi, dai quali sono stati prodotti nel sec. xv alcu-ni manoscritti miniati simili per stile ad esemplari persiani.Sarebbe peraltro erroneo considerare la miniatura ottoma-na una semplice versione provinciale della pittura iraniana.I paesaggi e le figure sono trattati in uno stile peculiare; lagamma dei colori è piú ridotta e i pigmenti sono piú scuri;non vengono tuttavia esclusi contrasti arditi. Il vermiglio,lo scarlatto e il porpora eclissano le tonalità delicate dellaminiatura persiana. Anche la scelta dei soggetti indica mar-cate differenze: anziché gli eroi leggendari delle epopee na-zionali e i racconti romantici di avventure amorose propridelle miniature persiane, i turchi predilessero la cronaca con-temporanea, in cui l’attualità politica si mescola alla realtàquotidiana. L’artista ottomano preferisce il documento edeccelle nelle scene realistiche e pittoresche quali la descri-zione di pubbliche piazze formicolanti di gente e feste po-polari.Contatti con l’Europa Oltre che dallo stile persiano, da cuiben presto si affrancò, la pittura ottomana fu influenzata danumerosi elementi europei. Nel 1479 Maometto II il Con-quistatore, grande mecenate, invitò alla sua corte di Istan-bul il pittore veneziano Gentile Bellini, che dipinse il ritrattodel sultano (Londra, ng) nel corso di un soggiorno di quin-dici mesi al palazzo imperiale. Melchior Lorichs di Flen-sburg, discepolo di Dürer, fu invitato da Solimano il Ma-gnifico nel 1555 e rimase in Turchia piú di tre anni. Peral-tro alcuni pittori turchi, come SinÇn Bey, che si recò aVenezia (fine del sec. xv), studiarono in Europa, il che con-tribuì a conferire alla pittura ottomana un’apertura verso

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concezioni stilistiche nuove. Tra le opere ottomane piú rap-presentative di tali influssi sono da ricordare i manoscrittiillustrati conservati a Istanbul. Tra questi, notevoli i testi diMatrakci Nasuh, celebre storico e geografo che dalla sua pri-ma spedizione in Persia (1534-36) redige un diario di viag-gio, Beyan-i Menazil-i Sefer-i Irakeyn. Il libro è accompagna-to da 128 miniature che raffigurano i luoghi in cui il sovra-no poneva il campo, con descrizione minuziosa delle strade,delle città, delle campagne e della natura con risultati a metàstrada tra l’obiettività di un topografo e la fantasia decora-tiva di un miniatore. L’artista per descrivere il territorio sce-glie una prospettiva arbitraria, cui rimane fedele in tutti ifogli: immagina un punto elevato dal quale può cogliere unaveduta d’insieme e, con segni convenzionali, raffigura le ca-se, i corsi d’acqua, i giardini. Opere affascinanti, dai colorivivi ma sobri, queste tavole costituiscono preziosi documentiper la topografia di alcune città orientali del sec. xvi.Di genere del tutto diverso sono le illustrazioni, eseguite nelsec. xvi, dello HünernÇmta (Libro delle gesta), illustrato daMirza Ali e da Osman, e del ShÇhanshÇh-nÇma (Libro del redei re: Istanbul, Topkapi Sarayi), dipinto da un turco del-l’AzerbajdÏan di cui si ignora il nome. In essi è ritratta la vitadei grandi sultani, e particolarmente di Solimano il Magni-fico: le composizioni piú notevoli illustrano le campagne mi-litari. Esponente significativo della miniatura turca del sec.xviii è Levn¥ autore del SurnÇma (Libro delle feste, 1703-30:ivi) in cui vengono rievocate le feste indette dal sultano perconsolare il suo popolo dal terribile terremoto che distrusseparte di Istanbul. Curiosi i modi di presentazione dei mem-bri delle varie professioni, con le loro insegne e utensili, re-si con senso dell’umorismo.Il ritratto ottomano L’arte del ritratto costituisce l’aspettopiú originale della pittura ottomana, ed è manifestazionequasi unica dell’arte islamica. Dobbiamo ad autori turchiuna lunga galleria di ritratti di sultani e di membri della fa-miglia imperiale. Il primo sultano che fece eseguire il pro-prio ritratto dal vero fu Maometto il Conquistatore: nel pa-lazzo di Topkapi a Istanbul si conserva l’opera di SinÇn Bey.L’artista recupera dai suoi studi veneziani alcune nozioni delritratto italiano, riscontrabili nell’effetto di rilievo ottenu-to con zone d’ombra tra i panneggi delle vesti e sul volto;tratti specificamente turchi sono invece la scelta della posa

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(il sultano seduto, con le gambe incrociate; il gesto orienta-le dell’odorare il profumo di una rosa) e i colori freschi (az-zurro, bruno ocra e rosso). Numerosi ritratti successivi me-ritano menzione: quello di Selim II (Istanbul, Galleria dei ri-tratti), dipinto da Re¥s Hadar detto Nigari, in cui il sultanoè rappresentato in abbigliamento lussuoso nell’atto di tira-re con l’arco; il ritratto di Ahmet III, di stile assai diverso:opera di Levn¥, uno degli ultimi grandi artisti assegnati alpalazzo, si lega al gusto barocco europeo per la complessitàdegli sfondi colorati – tappeto, trono, parete – e per la de-corazione sovraccarica.Meritano menzione anche alcuni altri aspetti dell’arte pit-torica, come la doratura e, in particolare, la calligrafia (→),di alta qualità artistica. A differenza degli Arabi, che spes-so utilizzarono unitamente alla calligrafia altri elementi de-corativi, i Turchi le riservarono sempre un ruolo separato ela considerarono la piú nobile delle arti perché strumentoper la diffusione delle parole sul Corano. Gli Ottomani sispecializzarono in un genere di disegno calligrafico che as-sume veste ufficiale nei t.ug.ra (→) e veste popolare nelle scrit-te decorative, che evocano figure zoomorfe (cicogna, leone,aquila), immagini molto apprezzate dai collezionisti. (so).

Turcato, Giulio(Mantova 1912 - Roma 1995). Trasferitosi con la famiglia aVenezia, frequenta la Scuola libera del nudo, dove dipingei primi paesaggi e nature morte. Nel ’37 va a Milano e la-vora presso l’architetto Muzio, disegnando prospettive e mo-saici. Ammalatosi ai polmoni alla fine del ’40, soggiorna perun anno nei sanatori. Al microscopio osserva i batteri el’esperienza sarà proficua dal punto di vista artistico. Nel’43, insieme a Scialoja e Vedova espone alla Galleria Lo Zo-diaco di Roma ed è presente alla Quadriennale con una na-tura morta. In questo periodo dipinge sotto l’influsso di Ma-fai e della scuola romana, ascendenza che poi rinnegherà,ispirandosi a Magnelli e a Matisse (Natura morta con pesci,1945). Durante la Resistenza si trasferisce a Roma e nel ’45fonda il gruppo Art Club, insieme a Prampolini, Fazzini,Mafai, Dorazio, Corpora, Perilli, Consagra. Compie nume-rosi viaggi a Parigi dove ha modo di approfondire la cono-scenza dell’astrattismo europeo. Nel ’46 partecipa alla

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XXIII Biennale di Venezia e con Maternità vince il premioCassa di Risparmio. Nel dibattito del dopoguerra, T inter-viene in favore dell’astrattismo, contro ogni «nefasto nove-centismo» (nell’articolo «Crisi della pittura», pubblicato in«Forma 1» nell’aprile del ’47). Sottoscrive il manifesto del-la Nuova Secessione Artistica Italiana e l’anno successivo,nel ’47, è nel gruppo fondatore di «Forma 1» e aderisce alFronte Nuovo delle Arti. Di fede comunista, di fronte allacondanna del partito dell’arte astratta, T difende la sua li-bertà d’artista, pur trattando temi sociali in opere come Co-mizio e Rovine di Varsavia. Nascono in questi anni le Com-posizioni, dapprima di ascendenza neocubista (1947), poisempre piú libere da griglie e contorni (Composizione di ro-vine di guerra, 1949). Nel ’52 partecipa al gruppo degli Ot-to di L. Venturi. I titoli delle opere di questi anni manife-stano un impegno ideologico (Fabbrica, 1954). Dopo diver-si soggiorni a Parigi, nel ’56 compie un lungo viaggio inEstremo Oriente, ed espone in varie città del mondo parte-cipando a Documenta 2 a Kassel (1959). Nel ’60 fa parte delgruppo Continuità con Novelli, Perilli, Dorazio, Consagra,Pomodoro e l’anno successivo è a Londra per esporre le sueopere alla New Vision Galery, tra cui Astronomica, con for-me pulviscolari e rarefatte. Nello stesso anno presenta nel-la Galleria Il Canale di Venezia i Tranquillanti (tele dipintecostellate di pasticche). Comincia ad inserire materiali ex-tra-artistici, come monete, e pezze di pelle. Nel ’66 esponealla Biennale le prime Superfici lunari (in gommapiuma). Al-la metà degli anni Settanta inizia la serie dei Cangianti, com-posizioni cromatiche in espansione, fluorescenti, che utiliz-zano i colori industriali e che nel tempo diventeranno mo-nocrome. Ha numerose personali all’estero e nell’80 il Muséede l’Athenée di Ginevra gli dedica un’antologica, cui seguirànell’84 il pac di Milano, nell’85 la np di Monaco, nell’86 lagnam di Roma, nel ’90 il Castello dell’Aquila. (adg).

Turchi, Alessandro, detto l’Orbetto(Verona 1578 - Roma 1649). Allievo insieme a Pasquale Ot-tino di Felice Brusasorci, ne completò le opere alla morte dicostui (1605) insieme al compagno. La sua prima attività inpatria è documentata dall’Assunta (1610: Verona, San Lu-ca) e da un cospicuo gruppo di dipinti su rame. Si stabilì aRoma intorno al 1615; con Carlo Saraceni, Marcantonio

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Bassetti e altri caravaggeschi prese parte nel 1616-17 alla de-corazione della Sala regia del palazzo di Montecavallo (Qui-rinale). Sotto il loro influsso eseguì le sue opere piú dichia-ratamente naturalistiche (Storie di Ercole: Monaco, ap e ca-stello di Schleissheim). Combinò il luminismo di marcacaravaggesco-gentileschiana con un cromatismo tizianesco(sembra del resto che avesse soggiornato a Venezia tra il1605 e il 1610) e con una volumetria composta e idealizza-ta di derivazione bolognese (Venere e Adone: Firenze, Gall.Corsini; Fuga in Egitto: Madrid, Prado e Napoli, Capodi-monte; I santi Quaranta: Verona, Santo Stefano). Un piú de-ciso orientamento verso il classicismo reniano e l’attenzio-ne per Guercino caratterizzano l’ultimo periodo della suaattività (Ratto d’Europa: 1630, coll. Molinari Pradelli; In-coronazione della Vergine con sant’Ubaldo e san Carlo Borro-meo: Camerino, San Venanzio). La commissione da parte diLouis Phélipeaux de la Vrillière di un dipinto di grandi di-mensioni (Morte di Antonio e di Cleopatra, 1640: oggi al Lou-vre) per la galleria del suo palazzo parigino a fianco di operedi Reni, Poussin, Guercino e Pietro da Cortona, ne sancì lafama europea. Del resto, egli aveva saputo rappresentare unavalida alternativa sia al naturalismo dei caravaggeschi, ormaisuperato, sia al cortonismo; fu perciò singolarmente vicino algusto francese, e le sue opere erano presenti nelle collezioniMazzarino e Richelieu. Tra i suoi numerosi dipinti possiamoancora ricordare il San Pietro liberato dal carcere (Modena, Pi-nacoteca Estense), la grande Battaglia di Noventa (Verona,Castelvecchio), l’Estasi di san Francesco (Verona, Santa Ma-ria in Organo), l’Assunzione della Vergine con sant’Antonioabate e san Francesco (Trevi, Pinacoteca) e la Madonna colBambino tra i santi Carlo Borromeo e Francesco (Roma, SanSalvatore in Lauro). In tutte queste opere, la maniera seve-ra e monumentale del T attinge una connotazione quasi «sen-za tempo», pur nel recupero di un robusto naturalismo cin-que-seicentesco, da Savoldo a Honthorst. Nel 1637 fu elet-to Principe dell’Accademia di san Luca. (grc + sr).

TurfÇnLe città della regione del T (antica oasi del Turkestan cine-se), ubicate sulla strada carovaniera del Nord, sono state im-portanti centri amministrativi, militari e commerciali. In

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uguale misura centri di cultura, gli innumerevoli monasteribuddisti situati sia nella città d’Idiqut-∫ahri (Qo™o), sia nellevallate vicine, furono focolai d’intensa attività artistica perlungo periodo (v-xi secolo d. C.). Molteplici pitture muralisono state rinvenute nei santuari scavati sui fianchi delle mon-tagne e negli edifici sacri, sovente in condizioni di conserva-zione migliori rispetto ai dipinti murali della zona piú occi-dentale del bacino del Tarim. Nel territorio sono stati rinve-nuti alcuni frammenti di decorazioni parietali che siricollegano ai due stili di Qyzyl (dal iv al vii secolo): essi di-mostrano che le tendenze particolari, sviluppate in questo luo-go, erano penetrate nella regione, propagandando tanto l’ico-nografia e le influenze artistiche d’origine indiana, quanto gliapporti iranici che vi si erano mescolati. Tuttavia le pittureantiche sono state sovente coperte da pitture piú recenti e,inoltre, sono state distrutte durante gli scavi e la costruzionedi nuovi santuari. Dunque, è la produzione posteriore al sec.vii a dare la piú attendibile testimonianza della scuola del T.Attraverso questi dipinti è possibile conoscere il rinnovatoaspetto dell’arte pittorica elaborata precedentemente nelle di-verse località: a loro volta ci permettono di comprendere latarda evoluzione, durante la quale influssi provenienti dallaCina si associarono, o si sovrapposero, alle antiche tradizio-ni, mentre le reazioni locali e la trasformazione delle creden-ze contribuirono alla creazione di forme nuove.Dopo l’occupazione della regione da parte della potente di-nastia cinese dei Tang (sec. vii), la dominazione dei turchiUighuri alla fine del sec. viii, diede nuova vitalità all’arte.Furono favoriti i contatti con la Cina e, di conseguenza, l’in-troduzione di modelli che orientarono le opere in altre di-rezioni, in quanto i nuovi conquistatori avevano abbraccia-to il manicheismo prima di convertirsi al buddismo attornoal sec. ix. Le forme evolute del buddismo (mahÇjÇna e tan-trismo) avevano conquistato la regione, apportando profon-de modifiche, soprattutto iconografiche. Innumerevoli leg-gende devote furono illustrate e le benevoli divinità dimahÇjÇna, buddha e bodhisattva condivisero il primato finoad allora accordato al buddha ÇÇkyamuni. Le scene narra-tive nello stile di Qyzyl vennero abbandonate, soppiantateda parecchie grandi composizioni pittoriche consacrate allaglorificazione degli esseri celesti e metafisici; ricorrente erala raffigurazione di un buddha di grandi dimensioni, con

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l’aureola, circondato da un bodhisattva, da divinità secon-darie, da monaci, da asceti e da donatori dei piú diversi ti-pi etnici (principi turchi, carovanieri). La breve occupazio-ne tibetana nel sec. viii, contribuì a moltiplicare la raffigu-razione di divinità dall’aspetto spaventoso.L’evoluzione dell’arte pittorica del T, dalla metà del sec. viifino all’inizio del sec. ix, può essere seguita attraverso l’ana-lisi delle diverse zone archeologiche della regione: Idi-qut-∫ahri, Murtuq, Sängim e Toyuq.Le opere del periodo migliore (fine sec. vii - inizio sec. ix)sono connotate da una composizione sapiente e armonica edall’uso di colori chiari. La tecnica è abile; il disegno mor-bido ha attinto dal grafismo cinese il gusto delle linee, cosìcome, alla stessa fonte, si possono ricondurre numerose for-me: la bellezza un po’ greve – canone ideale dell’epoca del-la dinastia Tang – della divinità, il lieve alzarsi in volo degliesseri celesti, il realismo di certi personaggi secondari, la ric-chezza, infine, della decorazione floreale. La qualità delleopere varia a seconda della mano d’opera impiegata, ma, nelcomplesso, a realizzazioni di estrema bellezza, fortementeinfluenzate dall’arte cinese dei Tang, fece seguito una pro-duzione di stampo artigianale. Durante la fase tarda dellascuola, verso il x-xi secolo, gli stessi temi e gli stessi schemi,instancabilmente ripetuti, vennero eseguiti in maniera gros-solana con colori violenti: alcuni personaggi furono esaspe-rati fino al grottesco.Accanto alle opere parietali buddiste, la produzione pittori-ca della scuola del T annovera alcuni dipinti d’ispirazionemanichea e nestoriana, stendardi dipinti con magnifici ri-tratti di donatori e di donatrici turche, qualche tessuto di-pinto rinvenuto nel cimitero d’AstÇna e alcune miniaturemanichee. Innumerevoli oggetti, scoperti all’inizio del sec.xx grazie alle spedizioni tedesche di von Le Coq e Grünwe-del, sono conservati a Berlino (Indische Abteilung der Staa-tliche Museen). (mha).

Turner, Joseph Mallord William(Londra 1775-1851). Figlio primogenito di un acconciatore,rivela per la pittura un precocissimo talento sul quale co-struirà una brillante carriera accademica e artistica, nonchéuna ingente fortuna economica. In una vicenda biografica

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improntata a grande riservatezza e priva di avvenimenti ecla-tanti, l’unico elemento fortemente correlato alla produzio-ne artistica è la precoce e costante passione per il viaggio.Sono viaggi di studio condotti prima sul territorio inglese e,dopo il trattato di Amiens, anche sul continente. T ne rica-va una grande quantità di schizzi e acquerelli dal vero, cheal ritorno sviluppa in incisioni (La costa meridionale, 1811;Porti d’Inghilterra, 1826-28; la serie su Inghilterra e Galles,1827-38; i Turner’s Annual Tour, 1833 sgg.) o in dipinti aolio. Da tale abitudine dipende la varietà dei soggetti af-frontati da T e la scelta del paesaggio come tema dominan-te di una pittura che pure non disdegna soggetti storici (An-nibale e il suo esercito attraverso le Alpi, 1812: Londra, TateGall.), mitologici (La storia di Apollo e Dafne, 1837: ivi, daOvidio), biblici (La quinta piaga d’Egitto, 1800: Indianapo-lis, am) o letterari. Significativa testimonianza dello studiometodico condotto sullo scenario naturale è il Liber Studio-rum, una pubblicazione in fascicoli che, su consiglio di W.F. Wells e sul modello del Liber Veritatis di C. Lorrain, Telabora dal 1806 e avvia nel giugno 1807. Ogni fascicolo rac-chiude cinque incisioni a mezzatinta o acquaforte tratte daquadri a olio. Interrotta nel 1819 dopo la realizzazione disettantuno tavole, l’opera suggerisce una divisione del pae-saggio in generi: storico, pastorale, pastorale-raffinato, mon-tano, marino, architettonico.Tanto la formazione scolastica quanto la carriera accademi-ca di T si svolgono nell’ambito della Royal Academy. T en-tra in Accademia come allievo nel dicembre 1789; l’annosuccessivo espone il primo acquerello all’annuale mostra del-la scuola e nel 1796, nella stessa sede, espone il primo olio(Pescatori in mare: Londra, Tate Gall.). Raggiunta l’età mi-nima necessaria viene eletto membro associato (1799), e do-po tre anni membro effettivo, rivestendo dal 14 luglio 1845anche le mansioni di presidente vicario. Nel 1807 è nomi-nato professore di prospettiva, ma dopo soli quattro anni dàrealmente corso a una attività didattica per la quale ha scar-sa disposizione e che abbandona nel 1828. La sua forma-zione nell’ambito della Academy, come del resto il suo in-segnamento, sono perfettamente in linea con le direttive diReynolds. Anche la ricerca di T prende avvio da una espli-cita ammirazione per Lorrain e per Poussin, che si accrescein occasione della sua prima visita al Louvre nel 1802. Ma,

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al di là del temporaneo allineamento a una maniera che sa-prà ben presto sovvertire, T eredita dalla generazione diReynolds e Gainsborough un atteggiamento assai piú signi-ficativo per la sua evoluzione, ovvero quello che F. Arcan-geli, nel suo saggio sullo Spazio romantico (1972), ha defini-to un «tranquillo ma radicale amore per il mondo», un «pa-ziente, penetrante accostamento al reale». Molte altre sonole fonti cui T attinge per avviare la sua rivoluzionaria tra-sfigurazione del paesaggio settecentesco. Sul piano teoricoè fondamentale l’incontro con la poesia «stagionale» di J.Thomson (1700-48), a cui si ispira esplicitamente in quadricome L’arpa eolia di Thomson (1809: Manchester, City ag).Negli anni ’90 T utilizza spesso, come commento ai propridipinti, versi tratti dalle Stagioni thomsoniane (1726-30),opera che egli tenta di emulare anche sul piano letterario,componendo Inganni della Speranza, un poema epico rimastoincompiuto. Grande interesse T dimostra per gli studi sulpittoresco di William Gilpin (1724-1804), sulle cui illustra-zioni compie esercizi di copiatura. In ambito strettamentepittorico è rilevante l’attenzione per Joseph Vernet, artistaspecializzato in vedute marine, che T copia e studia atten-tamente. Da non dimenticare anche l’influenza esercitata suT dalla pittura di Richard Wilson.Altre due fonti, una teorica e una figurativa, devono esseremenzionate in relazione al problema della luce. Innanzi tut-to la Teoria dei colori di Goethe, che T conosce presumibil-mente nella traduzione di Eastlake e che gli ispira a quadroLuce e colore (la teoria di Goethe). Il mattino dopo il DiluvioMosè scrive il libro della Genesi (1843: Londra, Tate Gall.).In secondo luogo una attenta e personale rivisitazione diRembrandt, da cui prendono vita opere quali La figlia diRembrandt (1827: Cambridge, Mass., Fogg Museum), Pila-to si lava le mani (1830: Londra, Tate Gall.), I tre fanciullinella fornace di fuoco ardente (1832: ivi), Cristo scaccia i mer-canti dal Tempio (1832: ivi). Il tema della luce è centrale nel-la ricerca turneriana e già un taccuino giovanile testimoniaun attento studio delle teorie elaborate sull’argomento daG. P. Lomazzo. Ruskin arriva a definire T un «adoratorezoroastriano» del sole.Come è naturale per un artista fortemente concentrato sul-la specificità del fare pittorico, l’episodio forse decisivo per

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la evoluzione di T avviene in ambito strettamente tecnico,ed è l’incontro con le sperimentazioni acquerellistiche di J.Robert Cozens, volte a ottenere una resa completa non so-lo dei pieni, ma anche dei vuoti atmosferici della scena pae-saggistica. T, che già aveva intrapreso lo studio dell’acque-rello sotto la guida del pittore topografo Thomas Malton(1748-1804), dalla fine del 1794 partecipa a incontri seralinella abitazione di Thomas Munro dedicandosi, con Tho-mas Girtin ed Edward Dayes (1763-1804), alla copia di va-ri paesaggisti tra cui, appunto, Cozens. La tecnica poi uti-lizzata da T per la pittura a olio rimane strettamente legataalle ricerche sull’acquerello, ed egli è tra i primi a usare unfondo bianco piuttosto che terroso. La prima fase dell’atti-vità di T è strettamente legata alla pittura topografica e, piúprecisamente, alla scuola di paesaggisti inglesi che fanno ca-po alla Old Water Colour Society. Ne è testimonianza par-ticolarmente significativa la ricca produzione di immaginidestinate all’illustrazione di testi letterari: ad esempio i di-segni per la Storia del Richmondshire di Whitaker, quelli perle Antichità Scozzesi di Scott e, soprattutto, le illustrazioniche portano al successo, nel 1830, il testo di Samuel Rogerssull’Italia, già pubblicato otto anni prima. Occorre però ri-cordare che la pittura topografica coltivata dagli artisti del-la Old Water Colour Society si rivela il punto di avvio didue linee di ricerca estremamente innovative. Da un lato pit-tori come S. Palmer o i preraffaelliti, che proseguono sullastrada del realismo o addirittura dell’iperrealismo, asso-ciandolo però a una concezione figuralista e quindi carican-do di complessi simbolismi la realtà fedelmente rappresenta-ta; dall’altro lato chi, come è appunto il caso di T, utilizzala raffigurazione realistica come strumento per impadronir-si di una profonda conoscenza della realtà naturale e si av-ventura poi alla ricerca di verità piú profonde e non imme-diatamente visibili. I risultati, al limite dell’astrattismo,dell’ultimo T, ovvero la sua produzione oggi piú nota, sonoappunto il frutto di quella scelta, giunta a maturazione neisoggiorni a Petworth (1829-37) presso l’amico e protettoreLord Egremont. Le opere esposte alla Academy nel 1836(Giulietta e la balia: coll. priv.; Roma dal colle dell’Aventino:coll. Earl of Rosebery; Mercurio e Argo: Ottawa, ng of Ca-nada) procurano a T durissimi attacchi da parte della criti-ca e moti di perplessità da parte del pubblico. Il primo a com-

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prendere e difendere la nuova maniera è un giovanissimoJohn Ruskin che, in Pittori Moderni (1834-60), subito ponel’analisi dell’opera di T al centro del proprio impegno di ri-valutazione dei paesaggisti contemporanei. Ruskin rovesciale accuse mosse all’artista: ciò che ai critici malevoli apparecome un tradimento della natura e una mancanza di veridi-cità è in realtà, a suo parere, l’espressione in forma visibiledi una verità piú specifica ed essenziale, una nuova meta perla comprensione della verità ultima di cui la natura è cifra.T viene così a incarnare la figura dell’artista veggente e pro-feta dotato di una seconda vista, non alterata dalla malattia,come era arrivato a sostenere qualche oppositore contem-poraneo, ma piú potente e penetrante. Il giudizio, formula-to da Ruskin sulla base di una puntuale analisi della tecnicae dei metodi operativi di T, anticipa le linee piú interessan-ti della critica moderna. Non se ne allontana poi molto il giàcitato Arcangeli quando parla di una pittura volta a indaga-re la realtà in una radicale tensione al «primordio o alla fi-ne delle cose». Di tale atteggiamento sono esplicita testi-monianza le opere tumeriane dedicate alla Genesi e al Dilu-vio (Ombra e tenebre. La sera del diluvio, 1843: Londra, TateGall.). (gil).

Turone(Verona, documentato dal 1356 al 1387). Nel 1356 risultaessersi stabilito a Verona da poco tempo e viene citato co-me «Turonum quondam domini Maxii de Camenago dio-cexis mediolanensis». La sua formazione avvenne con buo-na probabilità in ambito lombardo, a contatto con le espe-rienze dei Maestri di Viboldone, nel clima che vide gli inizidi Giusto de’ Menabuoi. La sua attività nota è comunquetutta veronese nel momento che precede l’affermarsi di Al-tichiero; l’unica opera autografa è il polittico, datato 1360,oggi al Museo di Castelvecchio, ma proveniente dal con-vento veronese della Santissima Trinità, che può essere in-tegrato da due piccole cuspidi con l’Annunciazione di colle-zione privata. L’insieme si caratterizza per una vena acco-stante e per un’animata volumetria delle figure, di chiaramatrice giottesca, combinata a un colore in campiture net-te e smaglianti e a un gusto minuto per la finitura del det-taglio. Attorno a quest’opera si è andato raggruppando un

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esiguo numero di dipinti, di cronologia circoscritta al setti-mo decennio: la Crocifissione sopra il portale maggiore di SanFermo, quella sopra il portale laterale della stessa chiesa(1363), e le Madonne col Bambino e santi di Santa Maria del-la Scala (1362) e di San Pietro Martire. La tradizionale at-tribuzione al pittore e alla sua bottega delle numerose mi-niature dei diciassette corali della Cattedrale veronese va in-vece limitata solo a un gruppo assai esiguo, databile intornoal 1368 – secondo l’anno riportato da due dei manoscritti inquestione –, agli inizi di una campagna decorativa, stilisti-camente variata, che proseguì fino allo scorcio del Trecen-to. (tf).

Turpin de Crissé, Lancelot-Théodore, conte di(Parigi 1781-1859). Figlio di un pittore dilettante rovinatodalla rivoluzione, si formò artisticamente grazie alla prote-zione del conte de Choiseul-Gouffier. Viaggiò in Italia eSvizzera, e di questi suoi itinerari ci sono giunti schizzi dipaesaggi e vedute architettoniche. Vinse la medaglia d’oronel 1806 al Salon, dove espose regolarmente fino al 1835.Ciambellano dell’imperatrice Giuseppina dopo il suo divor-zio, membro libero dell’Institut nel 1816, fu nominato daCarlo X ispettore generale delle belle arti nel 1825. Illustròopere pittoresche, come Souvenirs du golfe de Naples (1826),Souvenirs du vieux Paris (1835, disegni originali alla bibl.dell’Institut). Dopo il 1830, ritiratosi, si costituì una colle-zione di antichità e di quadri che lasciò alla città di Angers.I suoi paesaggi eroici, come il Cacciatore dell’Appennino(1822: Angers, mba), Apollo scacciato dal cielo insegna la mu-sica ai pastori (1824: Carpentras, Musée d’art sacré) rivela-no finezza di tocco e grazia. Nella sua produzione tarda ab-bondano i paesaggi e le vedute, spesso ripetute quelle di Ve-nezia e del Vesuvio. Il Gabinetto dei disegni del Louvreconserva numerosi bozzetti di T. (cd).

Tuscher, Marcus(Norimberga 1705 - Copenhagen 1751). Pittore, incisore earchitetto, si formò a Norimberga, poi in Italia (1728-41),dove operò principalmente per il barone Stosch. Risiedevaa Londra quando, nel 1743, venne chiamato a Copenhagena illustrare il Viaggio in Egitto e in Nubia di L. Norden (1755).Divenuto pittore di corte e docente all’Accademia della

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città, si vide affidare numerosi lavori di architettura e di pit-tura (serie di ritratti per il castello di Ledreborg). Un consi-derevole numero di suoi disegni è a Copenhagen (smfk).(hb).

Tutankhamon, tomba diScoperta nel 1922, dopo anni di tenaci e pazienti ricerche,dall’archeologo Howard Carter (1873-1939), capo della mis-sione finanziata da Lord Carnavon (1866-1923), la tombadi T (1333-1323 a. C.) è la sola sepoltura regale il cui splen-dido corredo funebre, oggi esposto al Museo del Cairo, cisia pervenuto integro. Non perché non avesse subito essastessa i consueti tentativi di effrazione: i sigilli della tombae le tracce lasciate dai ladri mostrano inequivocabilmenteche la tomba fu oggetto delle attenzioni dei ladri nel corsodella XX dinastia (1196-1070 a. C.), tentativo che, fortu-natamente per noi, fu spento sul nascere dalla polizia dellanecropoli.Le piccole dimensioni della tomba di T, anomale se messe aconfronto con quelle degli ipogei dei suoi predecessori nel-la Valle, si spiegano forse con la difficoltà, in seguito allamorte prematura del giovanissimo re, di trovargli un sepol-cro adeguato in un periodo che aveva visto, con la rivolu-zione amarniana e il trasferimento della capitale ad Akhe-taton («L’Orizzonte-Del-Disco», odierna Tell el-Amarna),la brusca interruzione della tradizione di seppellire i re a Te-be e la precisa volontà di Amenofi IV – Akhenaton di por-re fine alla crescente monumentalità delle tombe reali. Qual-che studioso suppone che la tomba fosse in realtà preparataper Eje, che doveva succedere a Tutankhamon come farao-ne ma all’epoca era solo un alto dignitario. Non si può esclu-dere comunque che re e artisti, ancora imbevuti dell’espe-rienza amarniana, fossero essi stessi alieni dalla megaloma-ne magnificenza delle sepolture tebane. In effetti, benchéspettasse proprio a T, figlio di una moglie minore di Akhe-naton e al tempo stesso suo genero, dare inizio alla reazioneortodossa contro l’ideologia paterna e abbandonarne la ca-pitale Akhetaton in favore di Menfi, l’arte del suo tempo se-gue con maggiore lentezza la traumatica marcia indietro ver-so il classicismo di Amenofi III e il ritorno alla religione am-moniana. Le pitture della sua tomba, di stile mediocre, forse

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frettolosamente eseguite da maestranze locali, non mostra-no la dolcezza delle forme rotonde e femminee che invecesono ben visibili nella scultura e nelle raffinate raffigurazioniistoriate sugli oggetti del corredo funebre, evidente ereditàdell’arte amarniana; ma ancora conservano i nuovi temi in-trodotti da Akhenaton e insoliti nell’iconografia regale te-bana, ibridamente miscelati alle scene classiche dell’Amduat:nella piccola camera del sarcofago, la sola decorata, sulla pa-rete est sono rappresentati i funerali del re, con il catafalcotirato dai grandi personaggi di corte e i riti funebri del-l’«apertura della bocca» eseguiti dal successore Eje; su quel-la ovest, la barca solare sovrasta i dodici cinocefali della pri-ma ora della notte mentre a sud T, introdotto dal dio cani-de Anubi, riceve dalla dea dell’Occidente, Hathor, il simbolodella vita. (mcb).

Tutundjian, Léon(Amasya 1905 - Parigi 1968). Si stabilì a Parigi alla fine del1923, partecipando attivamente alle tendenze astratte tra ledue guerre. Fu co-fondatore di Art Concrét nel 1929 convan Doesburg, Hélion e Carlsund, poi membro di Abstrac-tion-Création nel 1930. Dopo esordi espressionisti, scoprìper tempo soluzioni poi proprie del tachisme (colori, proie-zioni, effetti di assorbimento da parte del supporto) in unaserie di guazzi datati attorno al 1925. Assimilato il linguag-gio geometrico-astratto, frequentando le tecniche del colla-ge e dell’assemblaggio, fu vicino al surrealismo. Le sue ope-re successive al 1958 si distinguono per una piú libera ade-sione all’astrattismo. È rappresentato specialmente a Lille(mba) e Parigi (mnam). (sr).

Twachtman, John(Cincinnati (Ohio) 1853 - Gloucester (Massachusset) 1902).Tra i rappresentanti piú significativi dell’impressionismoamericano, studiò disegno prima all’Ohio Mechanics Insti-tute e alla McMicken School of Design con Duveneek, chegli chiese di accompagnarlo a Monaco (1875-77). Quindi fuallievo di Ludwig Loefftz: dopo aver insegnato a Firenze nel-la scuola fondata da Duveneck ed aver frequentato a Parigil’Académie Julian dal 1883 al 1885, ritornò negli Stati Uni-ti. Si dedicò con altri artisti americani alla pittura en plan airdipingendo con Duveneck a Venezia e con Childe Hassam

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sulla costa normanna. Il suo stile divenne allora piú fluido eil colore piú unito, come in una delle sue tele migliori, Ar-ques-la-Bataille (1885: New York, mma), che dimostra unadattamento della poetica di Whistler e del japonisme entrol’armonia sottile dei grigi e dei verdi e la leggerezza calli-grafica del disegno. Stabilitosi nel 1889 a Greenwich, rea-lizzò esclusivamente paesaggi, anche ad acquaforte. Insegnòa Newport, Cos Cob, presso la Cooper Union Institution el’Art Students’ League: tra i suoi allievi va ricordato Erne-st Lawson. Nel 1898, infine, T fece parte del gruppo deiTen. I musei di Chicago, Cleveland, New York (mma, mo-ma e Whitney Museum) conservano numerose sue opere.(jpm).

Twombly, Cy(Lexington (Virginia) 1928). Risulta difficile collocare T inuna corrente precisa, dato lo sviluppo personalissimo dellasua pittuta. Uno dei punti nodali è in ogni caso il soggiorno,nei primissimi anni Cinquanta, al Black Mountain College(Nord Carolina) in un ambiente stimolantissimo dal puntodi vista artistico per la presenza di De Kooning, Pollock,Barnett Newman, Merce Cunningham, John Cage: qui T silegò a Ben Shahn, a Motherwell e in particolare a Kline. Cer-to in questo clima egli venne a conoscenza di tutte le espe-rienze dell’Action Painting, dall’automatismo ai collage diMotherwell, ma in lui la nozione di scrittura automaticagiunse alle estreme conseguenze, e ciò viene dimostrato dal-la sua personale interpretazione del valore della linea inquanto scrittura significante. Infatti, la sua appartenenzapiú alla generazione di Jasper Johns e di Robert Rauschen-berg che all’espressionismo astratto lo portò a rifiutare sem-pre piú l’idea tradizionale di composizione, e la sua conce-zione di all-over painting è molto piú povera e disorganizza-ta di quella, per esempio, di Pollock. Così Lala (1951: NewYork, coll. Rauschenberg) mostra ancora una grafia serratache partecipa del metodo del «non-sapere»; ma già i disegnidel 1953-54 presentano la linea quale protagonista di unaimmediatezza esecutiva al tempo stesso giocosa e decisa. Tdirà: «La linea non illustra, è percezione del proprio realiz-zarsi». Nel 1955 il gesto trasferito sul supporto sembra dav-vero non significare altro che una testimonianza di vita, o

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meglio di esistenza nel tempo presente: forse non ancora co-scientemente «minimal», piuttosto autobiografico, T tra-sferisce dal pensiero alla tela o, piú spesso, alla carta, lette-re, cifre e parole che popolano la sua mente. I riferimenticlassico-mitologici o letterari sono sempre mediati dalla suapersonale emotività, filtrati dalla memoria. Il segno di T hasubito una evoluzione costante negli anni: ai primi «graffi-ti» nervosi e al caos degli anni Cinquanta (Poems to the Sea,1959) sono seguiti ritmi piú controllati (Letter to Resigna-tion, 1959-64) ma sempre piú rarefatti e immediati nel trac-ciato (Beyond a System for Passing, 1971 e 24 Short Pieces,1973), dove la linea si fa puro segno, di valore piú ritmi-co-musicale che visivo. Negli Stati Uniti, dove ha espostofin dal 1951, a partire dal 1964 – anno della prima perso-nale da Leo Castelli a New York – e sono state dedicate im-portanti personali (Milwaukee Art Center, 1968) e ha par-tecipato a collettive di grande rilievo (Guggenheim Museum,New York 1964; mostre annuali del Whitney Museum, dal1967; Indianapolis Museum of Arts, 1969). In Europa l’ac-coglienza è stata invece mutevole: in Italia viene apprezza-to dalle gallerie di punta già dalla fine degli anni Cinquanta(La Tartaruga a Roma, Notizie e Sperone a Torino), parte-cipando alla Biennale di Venezia nel 1964; subito dopo co-nosce un grande successo nell’Europa centrale (Palais desbeaux-arts, Bruxelles 1965; sm, Amsterdam 1966; Lenba-chhaus, Monaco; kh, Berna; km, Basilea 1973; Kestner-Ge-sellschaft, Hannover 1976). In Francia, invece, dopo una ti-mida apparizione nel 1961 a Parigi (Galerie J), è stata ne-cessaria la presenza di un gallerista intraprendente comeYvon Lambert (1971 e 1974) perché T venisse compreso egli fosse dedicata una grande mostra retrospettiva all’ARCdi Parigi (mam) nel 1976. (alb).

Tworkov, Jack(Biala (Polonia) 1900 - Provincetown 1982). Emigrò nel1913 negli Stati Uniti e studiò alla Columbia University pri-ma di frequentare la National Academy of Design. Nel1925-26 fu all’Art Students’ League: in particolare, con GuyPène du Bois. In quel periodo realizzò quadri figurativi diimpegno sociale. Negli anni Trenta, quando partecipa al Fe-deral Art Project, i suoi lavori attestano la sicura conoscen-za dell’opera di Cézanne, che T aveva avuto modo di vede-

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re esposta alla mostra di pittura francese organizzata dalBrooldyn Museum di New York (1921). Successivamente,l’incontro con De Kooning (1934) lo avviò verso l’esperienzaastratta della New York School (Duo I, 1956: New York,Whitney Museum; East Barrier, 1960: Buffalo, Albright-Knoxag). Alla fine degli anni Cinquanta le sue composizioni di-vennero piú rigorose e calibrate, ridotte a larghi campi pres-soché monocromi (grigio, rosa, malva) che conferiscono aldisegno, anch’esso semplificato, un valore piú puro e geo-metrico (Bloonfield, 1969; Compression and Expansion of theSquare, 1982: coll. priv.). T ha insegnato in numerose uni-versità, particolarmente al Black Mountain College nel 1952e alla Yale University. Si trova rappresentato nei musei diBaltimore (am), a New York (moma) e al Museo di Cleve-land. (jpm).

Tytgat, Edgar(Bruxelles 1879-1957). Dopo una prima formazione comelitografo nel laboratorio paterno, studiò all’Accademia dibelle arti di Bruxelles (1897). A Watermael, dal 1907 al1914, si legò a Wouters e incise i primi legni con un gustonarrativo e ingenuo, tipico di tutta la sua opera (l’Indomanidella festa di Saint-Nicolas, 1913). Soggiornò a Londra du-rante la guerra (1914-19), pubblicandovi numerose incisio-ni (Qualche immagine della vita di un artista, 1917, omaggioa Rik Wouters; Caroselli e baracche, 1919). I suoi quadri era-no allora dipinti a colori chiari con tocco leggero, eredidell’impressionismo (La mia camera-studio, 1922: Bruxelles,coll. priv.). Tornato in Belgio nel 1920, si stabilì a Woluwe-Saint-Lambert nel 1924 e per influsso dell’espressionismofiammingo semplificò il disegno e limitò l’uso dei colori,spesso giocati su tonalità tenui e uniformi. I suoi temi favo-riti si ispirano alla vita quotidiana e ad episodi storici cheinscena con un candore umoristico molto personale (Dome-nica mattina in campagna, 1928: Bruxelles, coll. priv.; Loschizzo, 1929: Anversa, Museo). Nel 1926 pubblicò Prome-nades foraines e l’anno successivo realizzò ventotto disegni ainchiostro ispirati al Faust goethiano. Dopo il 1930, la suaproduzione è meno interessante, la parte piú originale stanelle illustrazioni di testi da lui stesso inventati e commen-tati (Huit Dames et un monastère, 1947, 5 voll. con 200 ac-

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querelli e disegni). Dal 1949 dipinge scene mitologiche o divario genere (Dal male alla carità, 1953: Bruxelles, coll.priv.); è autore, inoltre di una Via Crucis (1955) per la chie-sa di Gaasbeek. Oltre che all’acquerello (praticato dal 1925)e all’incisione si dedicò anche alla decorazione di oggetti invetro e ceramica e alla realizzazione di disegni per arazzi.(mas).

Tzanes, Emmanuìl(Rhetymno (Creta) 1610 - Venezia 1690). Come la maggiorparte dei pittoti d’icone dell’epoca, appartiene all’ambienteecclesiastico (era stato ordinato sacerdote prima del 1637,come sappiamo dalle sue opere firmate come hiereus). Fuggìa Corfú probabilmente durante l’assedio turco di Creta nel1646, e di lì passò nel quartiere greco di San Giorgio a Ve-nezia, dove la sua presenza è documentata a partire dal 1655.Si conoscono di lui numerose icone firmate, di cui una buo-na parte si conserva nella collezione di San Giorgio dei Gre-ci a Venezia, mentre altre si trovano al Museo Bizantino diAtene, nel monastero di San Giovanni a Patmos, nella ng eal Kaiser-Friedrich Museum di Berlino. Attento alle inno-vazioni dell’arte veneziana del Cinque-Seicento, lo T tentaun aggiornamento delle convenzioni figurative dell’icona ainuovi parametri dell’arte italiana: agisce in lui fortemente lasuggestione delle opere di Tintoretto. L’icona-ritratto è rein-terpretata da T nel senso di una caratterizzazione piú pla-stica dell’incarnato e di una maggiore accuratezza nella ri-produzione delle parti anatomiche, dell’introduzione di par-ticolari decorativi desunti dal ricco repertorio barocco, diuna resa piú sciolta dei panneggi e dei movimenti del corpo:in particolare, T cerca di intervenire sulla convenzionale po-situra frontale dei ritratti, che egli sente come troppo rigi-da e innaturale, modificandola tramite la leggera rotazionedel corpo, verso destra o verso sinistra rispetto al volto, cherimane frontale in ottemperanza alla sua funzione cultuale.Per quanto riguarda invece le icone delle Feste o dei fattievangelici, l’artista cretese va alla ricerca di un difficile equi-librio fra la resa della centralità dei personaggi sacri all’in-terno della scena, ottenuta mediante l’uso calibrato di sim-metrie e parallelismi, e lo sviluppo dell’icona nella terza di-mensione mediante l’introduzione del paesaggio e dellaveduta. Nell’icona con Cristo e la Samaritana a San Giorgio

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dei Greci, un vasto paesaggio collinare si apre al di là delpozzo con i due personaggi sacri, la cui centralità devozio-nale è salvaguardata mediante l’impiego del primo piano sce-nico; una soluzione originale viene raggiunta nell’icona conla Guarigione del paralitico di Bethesda (ivi), dove l’arco chefaceva da cornice alle antiche icone delle Feste sull’epistiliosi è trasformato in un moderno arco veneziano; al di là diquello si apre la visione in profondità, con tanto di pavi-mento reticolato e portico rinascimentale, con cui l’artistasoddisfa la sua volontà di adozione dei modelli italiani. L’ico-na tuttavia non perde la propria funzionalità, in quanto ilSalvatore, il paralitico e alcuni apostoli sono presentati al diqua dell’arco e reinseriti così in una sorta di proscenio bidi-mensionale. Ancora a T si deve l’introduzione del tema ico-nografico delle figure di santi assise in trono (l’Apostolo An-drea: ivi e la Vassilissa Theodora con l’icona della Madre diDio, 1671: Museo Bizantino di Atene). (mba).

Tzanes, Konstandinos(documentato dal 1670; † ante 1685). Fratello del piú cele-bre Emmanuìl, artista eclettico, medita sulle soluzionidell’arte veneziana, sulla reinterpretazione delle icone tra-dizionali promossa dal fratello, e sui nuovi mezzi artistici,quali le incisioni, le cui nuove possibilità espressive cerca dicombinare con le convenzioni figurative dell’icona. I risul-tati delle sue operazioni (icone con Sant’Alipio, Maria Mad-dalena e I santi del 22 gennaio: nella raccolta di San Giorgiodei Greci a Venezia) non riescono ad approdare a una sin-tesi originale delle varie fonti che animano la sua pittura;l’artista cretese oscilla fra la riproduzione rigida di modulicompositivi e stilistici della tradizione bizantina e la tra-sposizione schematica sulla superficie dorata dell’icona deimodelli occidentali. (mba).

Tzanfournaris, Emmanuìl(attivo tra la fine del xvi e gli inizi del sec. xvii). Si formòalla scuola del compatriota Tommaso Bathàs, che lo con-dusse con sé nel quartiere greco di San Giorgio a Venezia elo menzionò nel testamento del 1599 designandolo come ere-de di tutti i suoi disegni, sia quelli «grechi» che quelli di sti-le «italiano». Insieme col suo maestro, è il principale porta-

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voce di quella corrente della pittura veneto-cretese che pro-muove la piú stretta fedeltà possibile all’uso antico della pit-tura d’icone bizantina, contro le tendenze che, soprattuttocon Michele Damasceno negli anni ’70-80 del sec. xvi, ave-vano portato a una parziale assimilazione di modelli occi-dentali. In conseguenza di questo, le icone di T sono carat-terizzate da una forte stilizzazione, e da un netto rifiuto del-la fuga prospettica: emblematico è il caso celebre dell’iconacon la Dormizione di sant’Ephrem alla pv, dove il paesaggioè realizzato come una stratificazione di colline lungo l’asseverticale del quadro. Nell’icona con la Dormizione di san Spi-ridone nella raccolta di San Giorgio dei Greci a Venezia o laNatività del Museo Benaki di Atene introduce elementi diorigine occidentale, quali i particolari architettonici e il sen-so narrativo che anima le scene laterali, ma subito sa ritra-durli in un linguaggio figurativo di marca schiettamente bi-zantina. (mba).

Tzara, Tristan (Tristan Sami Rosenstock, detto)(Moinesti (Romania) 1896 - Parigi 1963). Fu il teorico el’animatore del movimento Dada a Zurigo dal 1916, dovestudiava filosofia e fu costretto a rimanervi dalla guerra. Del1918 è l’incontro con Francis Picabia. A Parigi dal 1920 al1922, gli interventi su «Sic», «Nord-Sud», «le Cabaret Vol-taire» e la redazione dei manifesti del dadaismo spingono lacontestazione dei valori tradizionali fino alla negazione ra-dicale della ragione e, in ultima analisi, di ogni arte. Stac-catosi da Breton nel 1921, nel 1928 s’integrò nel movimen-to surrealista, di cui divenne uno dei teorici. Nel 1931 curòla prima mostra collettiva dedicata ai collages, allora non an-cora considerati una vera forma d’arte. Nello stesso spiritopartecipò alle realizzazioni collettive dei cadavres exquis’ sur-realisti (Paesaggio, 1933, con Breton, Hugo, Knutsen). Perlui la poesia non è un semplice mezzo espressivo, ma un’at-tività dello spirito, letteraria o pittorica che sia, un modo diesistere totale e libero, espressione della propria personalità.Legatosi, durante l’occupazione, al partito comunista fran-cese, si allontanò dal surrealismo, senza peraltro aderire alrealismo socialista. In Italia sono stati raccolti col titolo Ma-nifesti del dadaismo e lampisterie (Torino 1964 e 1975) alcu-ni suoi scritti. (rp + sr).

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Elenco degli autori e dei collaboratori.

aa Andrea Augentiabc Antonio Bonet Correaabl Albert Blankertabo Alan Bownessacf Anna Colombi Ferretiach Albert Châteletacl Annie Cloulasacs Arlette Calvet-Sérullazad Anne Distelada Antonietta Dell’Agliadg Arianna Di Genovaadl Alessandro Della Lattaaeps Alfonso Emilio Pérez Sánchezafh Antoinette Faÿ-Halléag Andreina Griseriagc Alessandra Gagliano Candelaagu Antonio Guerreschialb Agnès Angliviel de La Baumelleamm Anna Maria Muraan Antonio Natalianb Annamaria Bavaap Alessandra Ponenteapa Alfonso Panzettaapp Anne Prache-Paillardar Artur Rosenauerare Alessandra Restainoas Antoine Schnapperasb Antonella Sbrilliasp Agnès Spycketaz Adachiara Zeviaze Andrea Zezza

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bdm Brigitte Pérouse de Montclosbdmo Bernard de Montgolfierbl Boris Losskybp Béatrice Parentbt Bruno Toscanobz Bernard Zumthorca Célia Alegretcame Carlo Meliscar Clelia Arnaldicb Camilla Barellicc Claire Constansccv Claudia Cieri Viacd Christian Derouetcg Charles Goergchmg Chiara Maraghini Garronechp Charles Pietricm Claire Marchandiseco Carla Olivetticpe Claude Pecquetcpi Claudio Pizzorussocsm Costanza Segre Montelcv Carlo Volpeda Dimitre Avramovdb Davide Banzanodc Davide Cabodidg Danielle Gaboritdk Dirk Kocksdp Denis Patakydr Daniel Robbinsdv Dora Vallierea Egly Alexandreeb Evelina Boreaebi Enza Biagieca Elisabetta Canestrinieg Elizabeth Gardnerejpse Elise J. P. Seguinelr Elena Ramaem Eric Michaudenl Enrica Neri Lusannaer Elisabeth Rossiererb Elena Rossetti Brezziesp Ettore Spalletti

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et Emilia Terragnifa François Avrilfb Federica Boccifc Françoise Cachinfca Francesca Castellanifcc Francesca Campagna Cicalafd’a Francesca Flores D’Arcaisfdo François Donatienff Fiorella Frisonifir Fiorenza Rangonifrm Frieder Mellinghofffv Françoise Viattega Götz Adrianigb Germaine Barnaudgbé Gilles Béguingbo Geneviève Bonnefoigc Giuseppe Caritàgf Giorgio Fossaluzzagh Guy Habasquegib Giorgina Bertolinogibe Giordana Benazzigil Giovanni Leonigl Geneviève Lacambregmb Georges M. Brunelgp Giovanni Previtaligr Giovanni Romanogra Giovanna Ragionierigrc Gabriella Repaci-Courtoisgsa Giovanna Saporigv Germain Viatteg+vk Gustav e Vita Maria Künstlerhb Henrik Bramsenhbf Hadewych Bouvard-Fruytierhbs Helmut Börsch-Supanhl Hélène Lassallehm Helga Muthhn Henry Nesmehs Hélène Seckelht Hélène Toussainthz Henri Zerneric Isabelle Compin

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ij Ionel Jianouivj Ivan Jirous e Vera Jirousovajaf José-Augusto Françajbr Jura Brüschweilerjd Jacques Depouillyjdlp Joaquín de la Puentejf Jacques Foucartjfj Jean-François Jarrigejg Jacques Gardellesjgc Jean-G. Copansjh John Hayesjhm Jean-Hubert Martinjho Jaromir Homolkajhr James Henry Rubinjjl Jean-Jacques Lévêquejl Jean Lacambrejle Jules Leroyjmu Johann Muschikjns John Norman Sunderlandjpb Jean-Pierre Badelonjpc Jean-Pierre Cuzinjpm Jean-Patrice Marandeljro Jean-René Ostiguyjv Jacques Vilainjw Jacques Wilhelmka Katarina Ambroziclaw Lucie Auerbacher-Weillba Liliana Barroerolbc Liesbeth Brandt Corsiuslbo Luisa Boriolcv Liana Castelfranchi Vegasldm Lella di Muccild’a Laura D’Agostinolfs Lucia Fornari Schianchilh Luigi Hyeracelm Laura Malvanol° Leif \stbymal Monica Aldimas Marcel-André Staltermast Margaret Alison Stonesmat Marco Tanzimba Michele Bacci

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mbé Marie Bécetmbi Margaret Binottomc Marco Collaretamca Marco Cardinalimcb Maria Carmela Bertòmcm Maria Celeste Meolimcv Maria Cionini Visanimd Marcel Durliatmdb Marc D. Bascoumdc Marco di Capuamdp Matias Diaz-Padronmfb Marie-Françoise Briguetmfe Massimo Ferrettimfv Marianne Fuentes-Villegasmgm Maria Grazia Mesinamha Madeleine Hallademhi Michael Hirstmk Michaël Kitsonmlbb Marie-Laure Besnard-Bernardacmlc Maria Letizia Casanovamn Maria Nadottimni Mara Nimmomnv Monique Le Noan-Viziozmo Marina Onestimp Mario Pepempd Madeleine P. Davidmpe Maria Perosinomr Marco Roscimri Monique Ricourmrv Maria Rosaria Valazzimt Miriam Talmtf Marie-Thérèse de Forgesmtmf Marie-Thérèse Mandroux-Françamtr Maria Teresa Robertomvc Maria Vera Crestimwb Michael W. Bauernb Nicole Barbiernmi Nicoletta Mislernr Nicole Reynaudns Nicola Spinosaok Old≈ich Kulìk

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ol Olivier Lépinepa Paolo Ambroggiopdbe Patrizia di Benedettipfo Paolo Fossatipg Paul Guinardpgt Piera Giovanna Tordellaphp Pierre-Henri Picoupr Pierre Rosenbergprj Philippe Roberts-Jonespv Pierre Vaissepz Patrizia Zambranorbm Robert e Bertina Manningrca Riccardo Cavallorco Raffaella Cortirdg Rosanna De Gennarorf Rossella Fabianirg Renzo Grandirl Renée Locherla Riccardo Lattuadarm Robert Mesuretrn Riccardo Naldirp René Passeronrpa Riccardo Passonirr Renato Rolirs Roy Strongrse Renata Serrart Rossana Torlontanorvg Roger van Gindertaelrvp Rosalia Varoli-Piazzasag Sophia A. Gaysb Sylvie Béguinsba Simone Baioccosbo Silvia Bordinisc Sabine Cottésca Stefano Carboniscas Serenella Castrisde Sylvie Deswartesdn Sirarpie Der Nersessiansgh Silvia Ghisottisic Simonetta Castronovosk Stefan Kosakiewiczsl Sergio Lombardi

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sls Serge L. Strombergso Solange Orysr segreteria di redazionesri Simona Rinaldisro Serenella Rolfiss Sandro Scarrocchiassk Salme Sarajas-Kortesst Stefania Stefanellisvr Sandra Vasto Roccaszu Stefano Zuffitb Thérèse Burollettc Thérèse Charpentiertf Tiziana Francotp Torsten Palmervb Victor Beyervc Valentina Castellanive Vadime Elisseeffwh Wulf Herzogenrathwj Wladyslawa Jaworskawl Willy Laureyssenswv William Vaughanwz Walter Zaninixm Xénia Muratovayt Yvette Taborin

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Elenco delle abbreviazioni.

Accademia Gallerie dell’Accademia, VeneziaAccademia Galleria dell’Accademia, Firenzeag Art GalleryAlbertina Graphische Sammlung Albertina, Viennaam Art Museum, Museum of Art, Musée d’art,

Museu de Arte, Muzeul de artaam Altes Museum, BerlinoAmbrosiana Pinacoteca Ambrosiana, Milanoap Alte Pinakothek, Monaco di Bavieraba Bibliothèque de l’Arsenal, Parigibc Biblioteca civica, Biblioteca comunalebifa Barber Institute of Fine Arts, Birminghambl British Library, Londrabm British Museum, Londrabm Biblioteca municipalebn Biblioteca nazionaleBrera Pinacoteca di Brera, Milanobv Biblioteca Vaticana, Romabvb Museum Boymans-van Beuningen,

RotterdamCapodimonte Museo e Gallerie nazionali di Capodimon-

te, NapoliCarrara Galleria dell’Accademia di Carrara, Ber-

gamoCastello Museo del Castello Sforzesco, MilanoCastelvecchio Museo di Castelvecchio, VeronaCloisters The Metropolitan Museum of Art - The

Cloisters, New Yorkcm Centraal Museum der Gemeente Utrecht,

Utrechtenba Ecole Nationale des Beaux-Arts, Louvre,

Parigi

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Escorial Monasterio de San Lorenzo de El Escorial(prov. di Madrid)

Fogg Museum William Hayes Fogg Art Museum, Har-vard University, Cambridge, Mass.

gam Galleria d’Arte Modernagg Gemäldegaleriegm Gemeentemuseum, L’Ajagn Galleria Nazionalegnaa Galleria nazionale d’arte antica, Romagnam Galleria nazionale d’arte moderna, Romagnm Germanisches Nationalmuseum, Norim-

bergagnu Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugiahm Historisches Museumkh Kunsthalle, Kunsthauskk Kupferstichkabinett, Musei Statali, Ber-

linokm Kunstmuseum, Museum für Kunst, Kun-

sthistorisches Museumkmsk Koninklijk Museum voor Schone Kun-

sten, Anversaknw Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen,

DüsseldorfKröller-Müller Rijksmuseum Kröller-Müller, Otterlo

(Olanda)ma Museo Archeologicomaa Museu Nacional de arte antiga, Lisbonamac Museo Español de Arte Contemporáneo,

Madridmac Museo d’arte contemporaneamac Museo de arte de Cataluña, Barcellonamac Museu Nacional de arte contemporânea,

Lisbonamac Museum van Hedendaagse Kunst, Gandmac Museo de arte contemporânea, San Paolo

del Brasilemad Musée des arts décoratifs, Parigimam Museo d’arte moderna, Musée d’art mo-

derne, Museo de arte modernomamv Musée d’art moderne de la ville de Pa

ris, Parigi

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Marciana Biblioteca Nazionale Marciana, VeneziaMauritshuis Koninklijk Kabinet van Schilderijen (Mau-

ritshuis), L’Ajamba Musée des Beaux-Arts, Museo de Bellas Ar-

tesmbk Museum der bildenden Künste, Lipsiamc Museo Civico, Musei Civicimfa Museum of Fine Artsmm Moderna Museet, Stoccolmamm Museo Municipale, Musée Municipalmma Metropolitan Museum of Art, New Yorkmmb Museum Mayer van den Bergh, Anversamn Museo Nazionalemnam Musée national d’art moderne, Centre na-

tional d’art et de culture Georges Pompidou,Parigi

mng Magyar Nemzeti Galéria, Budapestmo Musée d’Orsay, Parigimoca Museum of Contemporary Art, Los Angelesmoma Museum of Modern Art, New Yorkmpp Museo Poldi Pezzoli, Milanomrba Musées Royaux des Beaux-Arts, Bruxellesmsm Museo di San Marco, VeneziaMuseo Wilhelm-Lehmbruck-Museum, DuisburgMuseo Musée de peinture et de sculpture, GrenobleMuseo Groninger Museum voor Stad en Lande,

GroningaMuseo Museo provinciale (sez. Archeologica e Pi-

nacoteca), LecceMuseo Musée-Maison de la culture André Malraux,

Le HavreMuseo Malmö Museum, MalmöMuseo Westfälisches Landesmuseum für Kunst und

Kulturgeschichte, MünsterMuseo Musée Saint-Denis, ReimsMuseo Musée d’Art et d’Industrie, Saint-EtienneMuseo Musée de l’Hôtel Sandelin, Saint-OmerMuseo Museo di storia ed arte, SondrioMuseo Museo Provinciale d’arte, TrentoMuseo Ulmer Museum, Ulmmvk Museum für Völkerkunde und Schweizerisches

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Museum für Volkskunde Basel, Basileancg Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagenng Nationalgalerie, National Gallery, Národní

Galerienm Nationalmuseum, National Museum, Ná-

rodní Muzeumnmm National Maritime Museum, Greenwichnp Neue Pinakothek, Monaco di Bavieranpg National Portrait Gallery, Londraog Österreichische Galerie, Viennapac Padiglione d’arte contemporanea, Milanopc Pinacoteca Comunale, Pinacoteca CivicaPetit-Palais Musée du Petit PalaisPitti Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenzepml Pierpont Morgan Library, New Yorkpn Pinacoteca Nazionalepv Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano, Romara Royal Academy, Londrasa Staatliche Antikensammlungen, Monaco di

BavieraSans-Souci Staatliche Schlösser und Garten, Potsdamsb Stadtbibliotheksb Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Ba-

vierasg Staatsgalerie, Staatliche Galeriesgs Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Mo-

naco di Bavieraski Städelsches Kunstinstitut, Francofortesks Staatliche Kunstsammlungen, Städtische

Kunstsammlungenslm Schweizerisches Landesmuseum, Zurigosm Staatliches Museum, Städtisches Museum,

Stedelijk Museum, Staatliche Museensm, gg Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz,

Gemäldegalerie, Berlino (Dahlem)smfk Statens Museum for Kunst, Copenhagenszm Szépmüvészeti Mùzeum, Budapestvam Victoria and Albert Museum, Londrawag Walters Art Gallery, Baltimorewag Walker Art Gallery, Liverpool

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wag Whitworth Art Gallery, Manchesterwrm Wallraf-Richartz-Museum, ColoniaYale Center Yale Center for British Art, New Ha-

ven, Conn.

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