Sulla trilogia dei cattivi - nota di Alessandro Castellari

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Sulla trilogia dei “cattivi” di Alessandro Castellari Chi scrive queste note ama i romanzi polifonici, quelli in cui la voce narrante (dentro o fuori dalla vicenda, non importa) costruisce un universo narrativo in cui si intersecano le storie, le parole, le esperienze, i punti di vista di una piccola folla di personaggi fra i quali anche il più marginale ha motivo di “recitare” la sua parte. Un po' come avviene nel dramma giocoso di Mozart nel quale neppure al servitorello si nega la sua “aria”, un po' come avviene nei romanzi di Tostoj nei quali anche la mezza pagina dedicata al cocchiere o al fantaccino ti introduce ad una visione insolita e assolutamente singolare del mondo. Chi scrive si chiede allora perché, quando comincia a leggere un romanzo di Berselli, non si schiodi finché non abbia finito, un romanzo che più centrato su un'unica voce ed un unico punto di vista non si potrebbe. Quando lesse Io non sono come voi , cominciò a capire qualcosa di questa “attrazione innaturale”: che cioè in una società come la nostra in cui la lingua ha perduto la sua forza espressiva e la sua capacità comunicativa, in questa mucillagine linguistica (ah, la miseria degli sms!) le parole di Berselli esprimono efficacemente idee, sentimenti, situazioni e producono immagini che rimangono impresse. “Icastiche”, avrebbe detto Italo Calvino. Poi chi scrive ha letto Cattivo e, infine, Non fare la cosa giusta. Si è trovato di fronte ad una sorta di trilogia dei “cattivi” che trae la sua forza non tanto dallo sviluppo della vicenda (anche se lo sviluppo c'è e ti tiene avvinto), quanto dalla messa in scena di quel “nichilismo” che corrode dall'interno molti individui contemporanei. Quello che Nietzsche aveva prefigurato come “la morte di dio” e il declino della civiltà occidentale, non è altro che il vuoto prodotto dalla mancanza di un fine e della risposta ai perché, non è altro che la dispersione di ogni senso derivante dalla “perdita del valore di ogni valore”. E Baudelaire, giustamente citato da Berselli nell'epigrafe dell'ultimo romanzo, può gravemente cantare: “Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito...” La follia di Paolo Graziani, il vuoto di Luca Parmeggiani, l'ottusa rabbia di Claudio Roveri: forme icastiche di una contemporaneità che “picchia la testa sui soffitti marci”. Nell'ultimo romanzo Alessandro Berselli esaspera nel monologo tutto indirizzato alla figlia la visione ristretta e risentita dell'uomo qualunque, quello che troviamo ben vestito a prendere un drink con gli amici o a strombazzare impaziente al semaforo: il rappresentante non di medicinali, ma della mancanza di senso. Un “borghese piccolo piccolo” in preda a tutte le ossessioni del suo “particulare”, che nulla capisce della figlia e della moglie, che nulla sopporta dei colleghi e dei conoscenti, che nulla accetta dell'umanità che lo circonda: i cani dei vicini che abbaiano, i barboni che ostruiscono il passaggio, gli zingari che chiedono l'elemosina ai semafori. E la violenza nasce dall'aria culturale che si respira, dalla ineducazione sentimentale in cui si è cresciuti, dalla miseria relazionale in cui ci si intristisce. Così chi ama l'ampiezza sinfonica e polifonica del romanzo tolstojano rimane tuttavia avvinto da questo mondo chiuso di Berselli dove, appunto, “la Speranza, come un pipistrello, va battendo contro i muri / la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci”.

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Bella nota di Alessandro Castellari su "Non fare la cosa giusta"

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Sulla trilogia dei “cattivi” di Alessandro Castellari

Chi scrive queste note ama i romanzi polifonici, quelli in cui la voce narrante (dentro o fuori dalla vicenda, non importa) costruisce un universo narrativo in cui si intersecano le storie, le parole, le esperienze, i punti di vista di una piccola folla di personaggi fra i quali anche il più marginale ha motivo di “recitare” la sua parte. Un po' come avviene nel dramma giocoso di Mozart nel quale neppure al servitorello si nega la sua “aria”, un po' come avviene nei romanzi di Tostoj nei quali anche la mezza pagina dedicata al cocchiere o al fantaccino ti introduce ad una visione insolita e assolutamente singolare del mondo.

Chi scrive si chiede allora perché, quando comincia a leggere un romanzo di Berselli, non si schiodi finché non abbia finito, un romanzo che più centrato su un'unica voce ed un unico punto di vista non si potrebbe. Quando lesse Io non sono come voi, cominciò a capire qualcosa di questa “attrazione innaturale”: che cioè in una società come la nostra in cui la lingua ha perduto la sua forza espressiva e la sua capacità comunicativa, in questa mucillagine linguistica (ah, la miseria degli sms!) le parole di Berselli esprimono efficacemente idee, sentimenti, situazioni e producono immagini che rimangono impresse. “Icastiche”, avrebbe detto Italo Calvino.

Poi chi scrive ha letto Cattivo e, infine, Non fare la cosa giusta. Si è trovato di fronte ad una sorta di trilogia dei “cattivi” che trae la sua forza non tanto dallo sviluppo della vicenda (anche se lo sviluppo c'è e ti tiene avvinto), quanto dalla messa in scena di quel “nichilismo” che corrode dall'interno molti individui contemporanei. Quello che Nietzsche aveva prefigurato come “la morte di dio” e il declino della civiltà occidentale, non è altro che il vuoto prodotto dalla mancanza di un fine e della risposta ai perché, non è altro che la dispersione di ogni senso derivante dalla “perdita del valore di ogni valore”. E Baudelaire, giustamente citato da Berselli nell'epigrafe dell'ultimo romanzo, può gravemente cantare: “Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito...” La follia di Paolo Graziani, il vuoto di Luca Parmeggiani, l'ottusa rabbia di Claudio Roveri: forme icastiche di una contemporaneità che “picchia la testa sui soffitti marci”.

Nell'ultimo romanzo Alessandro Berselli esaspera nel monologo tutto indirizzato alla figlia la visione ristretta e risentita dell'uomo qualunque, quello che troviamo ben vestito a prendere un drink con gli amici o a strombazzare impaziente al semaforo: il rappresentante non di medicinali, ma della mancanza di senso. Un “borghese piccolo piccolo” in preda a tutte le ossessioni del suo “particulare”, che nulla capisce della figlia e della moglie, che nulla sopporta dei colleghi e dei conoscenti, che nulla accetta dell'umanità che lo circonda: i cani dei vicini che abbaiano, i barboni che ostruiscono il passaggio, gli zingari che chiedono l'elemosina ai semafori. E la violenza nasce dall'aria culturale che si respira, dalla ineducazione sentimentale in cui si è cresciuti, dalla miseria relazionale in cui ci si intristisce.

Così chi ama l'ampiezza sinfonica e polifonica del romanzo tolstojano rimane tuttavia avvinto da questo mondo chiuso di Berselli dove, appunto, “la Speranza, come un pipistrello, va battendo contro i muri / la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci”.