Sulla moralità nella Resistenza. Conversazione con Claudio Pavone

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    Sulla moralit nella ResistenzaConversazione con Claudio Pavone condotta da Daniele Borioli eRoberto Botta

    da "Quaderno di Storia Contemporanea numero", n. 10, 1991, pagine 19-42Speciale 25 aprile

    Come lo stesso Claudio Pavone racconta in questa intervista, il suo ponderosolibro (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralit nella Resistenza, Torino,Bollati Boringhieri, 199 1) ha avuto una gestazione assai lunga e travagliata e, peruna nuova ironia della storia, finalmente comparso nelle librerie proprio nellesettimane in cui tornavano a farsi pi acute le polemiche - e le strumentalizzazioni -sulla natura del movimento partigiano e sui suoi esiti nel dopoguerra.Forse anche grazie a quelle polemiche, trasformatesi in una felice contingenza,che il volume di Pavone ha ottenuto un successo editoriale inconsueto per un libro

    di grande spessore e impegno scientifico: Una guerra civile apparso per diversesettimane nelle classifiche dei libri pi venduti, mentre, a meno di due mesi dallasua uscita, gi in preparazione la seconda edizione. Tuttavia sarebbe assaisemplicistico cogliere solo in quella felice contingenza le ragioni di un esitoeditoriale quasi straordinario, che rappresenta invece il segnale vistoso di uninteresse ancora assai vivo intorno a vicende che hanno segnato profondamente iltessuto della societ italiana contemporanea.Il libro di Pavone non una nuova storia generale della Resistenza impegnata nellaricostruzione evenemenziale di quella vicenda, ma un saggio storico che riflette suquanto di quell'esperienza pu avere ancora un valore esemplare per l'oggi, ed suquesti temi che si articola questa conversazione: una rinnovata attenzione alprocesso che porta migliaia di giovani a ricercare una nuova moralit e nuovi valori,

    e al tentativo di operare una scelta politica capace di rompere con il totalitarismofascista; alla soggettivit dei protagonisti e all'intreccio tra movimento diLiberazione e societ italiana. ~ questa la linea di ricerca su cui si muove lastoriografia resistenziale pi recente e alla quale Pavone - sono sue parole - vuole"tentare di fornire un quadro generale", dal quale sar impossibile d'ora innanziprescindere.Ed , il libro di Pavone, anche un esempio di prim'ordine di come sia ancorapossibile coniugare impegno civile e rigore scientifico.A Claudio Pavone dobbiamo un ringraziamento particolare per l'attenzione e lapassione con cui ha rivisto il testo di questa intervista.Il tuo volume un lavoro impegnativo e complesso non solo per l'imponenza

    dell'affresco che offri (seicento pagine fitte di testo e duecento fittissime di note,pi due utilissimi apparati, l'indice dei nomi di persona e quello dei nomigeografici), ma anche per la vastit del materiale su cui costruito, un riccointreccio di documenti d'archivio, memorialistica, produzione storiograficaresistenziale, fonti orali.Due domande sono quindi d'obbligo; la prima, forse un po' scontata: in quantotempo e attraverso quale percorso hai realizzato la tua ricerca? La seconda: che

    problemi metodologici hai incontrato lavorando con una documentazione cos vastae variegata, da te utilizzata in un continuo gioco di intreccio tra le fonti?Il tempo impiegato stato molto, anche perch, in verit, io non sono partito perfare una ricerca esplicitamente indirizzata per la scrittura di questo volume. A un

    certo punto, dopo qualche anno in cui non mi ero occupato di Resistenza, forseperch la sentivo ancora troppo vicina temporalmente, ho ricominciato adinteressarmene accumulando materiale, esaminando documenti, leggendo volumi.

    http://www.isral.it/web/web/risorsedocumenti/25aprile.htmhttp://www.isral.it/web/web/risorsedocumenti/25aprile.htmhttp://www.isral.it/web/web/risorsedocumenti/25aprile.htm
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    Ma ci sono stati due stimoli specifici, cui accenno nella premessa.Uno si perde quasi nella notte dei tempi, e viene da Parri: era appena uscito il librodi Michel sulle correnti di pensiero nella Resistenza francese (1) e Parri mi disse:"Perch non facciamo anche noi una cosa di questo tipo?", e mi caric di questocompito. lo cominciai a lavorarci tenendo in grande conto soprattutto i datiistituzionali, e quindi i vari programmi per il riordinamento dello Stato e delle

    istituzioni in genere che percorrono il movimento di Resistenza, e poi i progetti diriforme della societ, della economia e cos via. Questa prima fase di ricerca mi hapermesso di accumulare molto materiale ma non mai stata conclusa, se si escludequel lungo saggio sulla continuit dello Stato (2) che si pu considerare una speciedi tappa intermedia in cui la parte istituzionale rappresentava il centro dell'analisi.Nicola Tranfaglia mi sugger poi di riprendere in maniera pi ampia quel saggio peruna collana dell'editore Feltrinelli poi scomparsa. Dapprima dissi s, poi per ragionivarie, comprensive della mia lentezza e del fatto di dividere il tempo tra Roma ePisa, questa idea non stata realizzata. Tuttavia continuavo ad accumularemateriale finch in un ciclo di seminari tenuti al Centro "Piero Gobetti" di Torino suEtica e Morale Franco Sbarberi e Norberto Bobbio mi invitarono a parlare diPolitica emorale nella Resistenza (3). Forse pu apparire un po' buffo, ma il testo sbobinato

    di quel seminario un po' all'origine di questo pesante volume, perch cominciai acorreggere la trascrizione pensando a qualche aggiustamento e a qualcheampliamento; alla fine quel testo si trasformato in questa gran massa di carta.Che forse troppa, perch resto convinto che il senso del mio libro lo si possarendere anche in meno pagine. Ebbi comunque la soddisfazione, e lo dico soloperch questo mi permise di recuperare anche il materiale precedentementeaccumulato sul tema istituzionale, che nel prendere appunti o nel leggere le fontiper il filone di storia delle istituzioni di cui ho detto, avevo finito con il capire cheanche le idee relative alle istituzioni e ai programmi politici e sociali, in unasituazione di quel genere in cui non c'era certo tempo di comporre dei trattati, sidovevano dedurre in larga parte dai comportamenti, e non solo da quanto iprotagonisti avevano scritto ed elaborato in forma compiuta. Era dai comportamenti

    che si poteva risalire a quelle idee che poi avevano alimentato, almeno in parte,anche i programmi di riforme istituzionali. Perci anche molto materiale raccoltonella direzione istituzionale mi risultato utile quando, alla fine, ho fatto questaspecie di torsione di interesse. Da quando avvenuta questa svolta saranno passatisette o otto anni, anche se non lo ricordo bene nemmeno io; ma da allora tutti isupplementi di istruttoria e tutte le letture le ho indirizzate nella nuova direzione.Questo percorso chiarisce anche la struttura e l'impostazione di alcuni paragrafi,come quello sul giuramento, che ci pare abbia la sua origine proprio in questoincontro tra un lavoro sul filone istituzionale e l'analisi dei comportamenti.S, il paragrafo sul giuramento era senz'altro connesso al tema istituzionale. Avete

    fatto bene a ricordarmelo perch proprio un esempio in cui l'aspetto puramentetecnico del giuramento, ossia quale sia l'autorit legittima, se il Re abbia traditoMussolini oppure se Mussolini abbia tradito il Re, e tutti gli altri problemi che icostituzionalisti fanno bene a porsi, mi sembrava importante riproporli in relazionecon tutti i problemi morali che stavano dietro al fatto di considerare pi valido ungiuramento piuttosto che un altro. Questo stato proprio uno dei terreni che mi hafatto capire che non ci si poteva fermare a un livello meramente formale-istituzionale.Per quanto riguarda la metodologia, devo dire che venuta fuori delineandosi unpo' da s, perch mi sembrato indispensabile (e non sono certo stato io a farloper primo) intrecciare documentazione di varia natura. Innanzitutto i documentidirettamente prodotti durante la Resistenza, e qui mi ha aiutato il fatto di essere

    stato, insieme a Giampiero Carocci, Gaetano Grassi, Gabriella Nistic, uno deicuratori dei tre volumi dedicati ai documenti delle brigate Garibaldi (4), esperienzache mi aveva permesso di esaminare anche molti altri documenti rimasti inediti

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    conservati presso l'Istituto Gramsci di Roma, relativi sia alle Brigate Garibaldi che alPartito comunista (documenti che scontano una divisione archivistica forse un po'artificiosa, fatta a posteriori, perch Longo e Secchia erano insieme capi del partitoe dell'organizzazione militare). Le fonti orali invece le ho utilizzate attingendo soloalla produzione gi edita, salvo rari casi di conversazioni che ho ricordato in nota.Non ho fatto io il lavoro sul campo; le ho utilizzate cio con i criteri con cui si

    utilizzano le tradizionali fonti scritte, tenendo naturalmente conto che erano natecome fonti orali. La memorialistica veniva un po' da s, come anche le lettere deicaduti, sia partigiani che della Repubblica sociale. Infine ho utilizzato anche laletteratura, ma devo dire che il confine tra memorialistica e letteratura, tranarrazione biografica e fiction, molto sfumato sul terreno resistenziale, perchmolti dei libri pi belli, a cominciare da Fenoglio e Calvino, sono in fondol'elaborazione in forma letteraria delle esperienze personali, e quindi si pu parlaredi memorialistica che poco alla volta diventa letteratura.In questa direzione ho privilegiato decisamente Fenoglio e Calvino, anche per unaantipatia (e non pretendo che sia un giudizio letterario) per Vittorini e il suo Uominie no, che sempre mi sembrato artificioso; cos come ho scartato un libro che pureha avuto grande successo, ma che a me non piaceva (e anche qui non porto altri

    argomenti), e cio L'Agnese va a morire di Renata Vigan. Ho utilizzato inveceMeneghello, anche se a volte questo autore si compiace troppo di una scritturaricercata ed ironica che pu scadere nel vezzo, ma indubbiamente sia I piccolimaestri che l'ultimo, Ba-set, sono libri importanti.

    Ad appena due mesi dalla comparsa nelle librerie il tuo libro ha gi ottenuto unnotevole successo di vendita (si parla di oltre 6.000 copie) e ha fatto e fa moltoparlare di s, anche fuoridall'ambito degli specialisti. Pi diqualunque altro volume sulla Resistenza uscito negliultimianni, rappresentadunque un vero e proprio "evento culturale". Ora a noi pare che in questo successo possibile scorgere i sintomi di un interesse non ancora sopito intorno ai problemistoriograficilegati alla lotta di Liberazione, ma nello stesso tempo vi si intravedono

    anche i rischi di strumentalizzazione possibili rispetto alle tue ipotesi interpretative.Ti aspettavi una simile accoglienza? E fino a che punto questa attenzione legataallepolemiche recentiaproposito dei "crimini"partigiani del dopoguerra?Dal punto di vista di stretta soddisfazione personale potrei rispondere che mi fapiacere, ma a parte questa considerazione abbastanza ovvia, io direi senz'altro chenon me l'aspettavo, e soprattutto non me lo ero aspettato durante tutto il lungoperiodo di gestazione che ho appena cercato di raccontare. Anzi, in qualchemomento pensavo addirittura che sarebbe stato considerato come uno dei soliti librisulla Resistenza, letto solo da qualche reduce e da qualche giovane particolarmenteinteressato, ma non di pi. Direi che, a parte la bravura dell'editore, che ha intuitoil momento favorevole, sono stato fortunato, nel senso che il lavoro ha seguito nella

    sua preparazione ritmi del tutto soggettivi ma ha finito con l'arrivare in unmomento in cui, per tutt'altri motivi, si era ricreata un'attesa. Un attesa fattarinascere certamente anche da campagne scandalistiche di basso livello, come sonomolte delle polemiche sul "triangolo della morte" assunto ormai a simbolo, in veritsempre pi squalificato, di questa ripresa di interesse.Per definire complessivamente i venti mesi resistenziali io uso spessol'espressione resa dei conti", perch mi sembra particolarmente significativa.Questo vale anche a proposito del "triangolo della morte", perch non si pudimenticare che esso cade nella zona del peggiore squadrismo agrario: se sidimentica che nel 1920-1921 lo squadrismo agrario aveva imperversato proprio inquelle province emiliano-romagnole, suscitando odio di classe e odio verso gliagrari, difficile anche interpretare correttamente ci che avviene nell'immediato

    dopo guerra. Il "triangolo della morte" quello che perch ha all spalle unatradizione di violenza, diciamo pure reciproca, ma che comunque storicamente inprima istanza, di marca fascista-agraria.

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    Queste precisazioni sono molto importanti. Rispetto al "triangolo" non bastachiedersi perch successo, ma occorre anche cercare di capire perch successo

    proprio in quei luoghi.Eh s, perch molte zone bianche - ad esempio di piccola propriet - non hannoavuto quelle esperienze post liberazione poich le tensioni sociali avevano preso

    un'altra direzione e il fascismo non aveva avuto bisogno di essere cos aggressivo.Insomma, i motivi sono tanti, anche se poi il crimine rimane crimine, ovviamente; eun assassinio perpetrato due anni dopo ovviamente segnato da connotati diversirispetto a un assassinio che avviene due settimane dopo.Il titolo che tu hai scelto evoca immediatamente note polemiche a proposito dell'interpretazione politica e storiografica di quel periodo della storia d'Italia.Conosciamo, in questo senso, le autorevoli posizioni di Guido Quazza, che

    preferisce parlare di guerra di civilt piuttosto che di guerra civile (5), e sappiamoanche come il tentativo di applicare alla Resistenza il concetto di guerra civile abbiaincontrato forti opposizioni proprio nel mondo dei protagonisti, e non solo per unaovvia reazione all'uso strumentale che ne stato fatto da parte fascista.

    Come era immaginabile, il tuo Una guerra civile ha dato luogo a opposizioni diquesto genere, nonostante sia chiaro che tu non interpreti la Resistenza solo comeguerra civile ma anche come guerra civile. Lo stesso Nuto Revelli, che ha avuto

    parole di grande apprezzamento per il tuo lavoro, utilizzando anche immagini moltobelle - lo ha definito "un colpo di vento che ha liberato dalla nebbia un paesaggioantico e familiare, restituendolo in tutta la sua grandiosit e bellezza" -, in unaintervista concessa a "La Repubblica" afferma di non condividere sino infondo ilconcetto di guerra civile applicato alla Resistenza: "Non fu una guerra civile nelsenso pieno del termine dice Revelli - perch i fascisti per noi erano degli straniericome e forse pi dei tedeschi" (6).Perch permangono queste preoccupazioni e perch tu, al contrario, ritieni si debbaricorrere al concetto di guerra civile per studiare e capire quei mesi? E, prendendo

    ancora spunto dalla frase di Revelli, non pensi sia necessaria anche unaprecisazione del concetto dicollaborazionismo, che pu altrimenti prestarsi ainterpretazioni troppo semplicistiche della realt del biennio '43-45?E una domanda molto complessa. Bisogna innanzitutto dire che il mio libro ha

    dovuto subire come dire - uno stiracchiamento da destra. Nel senso che i fascisti,che hanno sempre utilizzato, ma a torto, questo concetto come strumento per farepassare una equiparazione tra le due parti, ora sembrano dire: ecco, lo dice uno diloro, e quindi vuol dire che noi avevamo ragione e le due parti erano uguali. Unesempio: sono stato intervistato con Giano Accame da "Il sabato" (7), e lui tendevaa riportare tutto su questo terreno, unendo ad argomenti storico-politici altri, di pers apprezzabili, quali: finalmente ci avete trattato come esseri umani.

    Da sinistra invece c' stato un malumore, che per va scemando. Lo stessoVendramini, che nella prefazione agli atti del convegno di Belluno aveva assuntouna posizione un po' difensiva a causa di tutte le obiezioni che aveva avuto in lococontro la sua lodevole iniziativa (8), poi mi ha detto: per tu sei riuscito a farpassare questo concetto anche nella cultura di sinistra e, una volta tanto, ci seiriuscito prima che ce lo imponessero gli altri.lo ho iniziato a proporre le mie riflessioni sulle tre guerre - patriottica, civile e diclasse -proprio a Belluno e prima ancora a Brescia, nel convegno della FondazioneMicheletti sulla Rsi (9). Ricordo che in quell'occasione Pajetta insorse e si sent indovere di contestare il concetto di guerra civile. Del resto io non ho mai detto,come voi avete ricordato, che fu solo guerra civile; ho detto che la guerra civile fuuno degli aspetti di quanto accaduto nei venti mesi resistenziali.

    Questa reazione di Revelli, al quale sono gratissimo per i suoi giudizi, che milusingano e mi onorano, data la sua personalit, in verit contraddittoria, perchlui in questo modo non fa che ribadire la correttezza del concetto di guerra civile:

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    se i fascisti non erano considerati nemmeno italiani questo conferma proprio quellepagine in cui cerco di chiarire come una delle caratteristiche della guerra civile quella di privare, in idea, l'avversario della nazionalit. Si tratta come di unacontraddizione in tema: io ti odio e ti disprezzo al punto che ti tolgo la qualit diitaliano, ma ti disprezzo e ti odio tanto proprio perch sei italiano. E qui si toccaproprio il nodo drammatico, perch non ci troviamo di fronte a una contraddizione

    logica, ma emotivo-esistenziale. Quindi Revelli praticamente finisce con il ribadire ilconcetto.Poi avete accennato al collaborazionismo. In questi giorni si svolto a Brescia unconvegno, sempre su iniziativa della Fondazione Micheletti, sul collaborazionismo(10), che stato molto interessante. Si visto che questa categoria molto ricca ecomplicata, ci sono stati interventi di storici di vari paesi che lo hanno dimostrato.Ma proprio in quella occasione, in un brevissimo intervento, ho ribadito che per laRepubblica sociale italiana la categoria di collaborazionismo non del tutto adatta,perch esistono collaborazionismi, diciamo cos, a posteriori, cio in paesi pi omeno democratici invasi dai nazisti e, nel loro piccolo, dai fascisti italiani. Gliinvasori creano in quei paesi governi a loro asserviti, fondati sui fascisti locali che,da soli, non avevano avuto la forza di conquistare il potere. In questi casi senz'altro

    la categoria di collaborazionismo funziona, ma per l'Italia purtroppo non cos,perch i fascisti sono nati proprio qui e il potere, nel 1922, se lo erano conquistatoda soli.L'anno scorso in Francia ci fu un convegno molto bello su Il regime di Vichy e ifrancesi(11), cui fui invitato per una relazione sulla Rsi. Quando arrivai vidi cheavevano messo la Repubblica di Sal nella sezione dedicata ai collaborazionismiminori, insieme alla Slovacchia. Fui costretto a precisare - direi, paradossalmente,per orgoglio nazionale - che non era corretto considerare l'ultimo atto del fascismoitaliano un collaborazionismo minore; forse non nemmeno uncollaborazionismo tout-court. Ma i francesi sono cos gallocentrici che alla finel'unico collaborazionismo "maggiore" sembrava essere il loro. Dovetti ricordare cheil fascismo era nato proprio in Italia e che si era concluso con una resa dei conti

    drammatica, un tragico epiIogo, mentre la loro era stata - cos la definii, e ladefinizione ebbe un certo successo - una falsa partenza. Questo per dire che lacategoria di collaborazionismo, che era stata usata da Marco Palla proprio a Bellunoper polemizzare contro la mia definizione di guerra civile (12), mi sembra che stiastretta alla repubblica sociale, la quale collaborazionismo ma non soltantocollaborazionismo.Poich il concetto delle tre guerre e il problema del loro intrecciarsi non solo ilfulcro del tuo libro e pi in generale della tua ricerca recente, ma anche l'aspetto sucui si sono addensate attenzioni e posizioni critiche, forse utile provare a definire,con un riferimento significativo, le fondamenta su cui costruisci il tuo ragionamento.Il riferimento forse pi significativo quello alla presenza di tre diverse figure dinemico; ma prima di dire alcune cose a questo proposito vorrei precisare perch iopreferisco, anche per la prima delle tre guerre, la definizione di guerra patriottica aquella di guerra di liberazione nazionale. Il motivo che nel dopoguerra in questomodo venivano definite proprio le guerre che univano la lotta di classe e la lottapatriottica, diventando quindi un'espressione forse ancora pi intrisa di significatoideologico e politico rispetto a quella di guerra civile. Per di pi nella formula"guerra di liberazione nazionale" resta qualcosa di imprecisato: da che cosa bisognaliberare la nazione?Dunque, il nemico nella guerra patriottica lo straniero invasore, e cio il tedesco.Certo, c' a monte il problema, cui nel libro accenno, che invasori erano anche gliinglesi e gli americani; ma allora bisognerebbe capire perch gli uni venivano

    percepiti come invasori e gli altri come liberatori, nonostante tutti gli sforzi incontrario della propaganda della Rsi; ma questo un tema che qui non possiamosviluppare. Il tedesco invasore per era anche nazista, non era un invasore privo di

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    qualifiche politiche e ideologiche: e questo ci porta gi sul terreno della guerracivile, come grande guerra civile europea.Nella guerra civile il nemico era il fascista, proprio come figura politico-esistenziale,che era tale non solo per i garibaldini, ma anche per i GI, e per una parte almenodei liberali, dei moderati, dei cattolici. Il fascismo era un fenomeno globale cheandava combattuto anche se non se ne riconoscevano le radici o per lo meno le

    componenti di classe. Questo un concetto importante da tenere presente, perchaltrimenti si finirebbe con il riproporre l'ortodossia terzintenazionalista secondo laquale il fascismo solo un fenomeno di classe, per cui essere "antifascisticonseguenti" ed essere proletari e, soprattutto, comunisti coincide. E invece non hasempre coinciso, e sarebbe curioso che arrivassero a questa conclusione proprio gliantifascisti non comunisti, nella recente loro ansia di sbarazzarsi dell'antifascismo.La guerra di classe si pu considerare, da un punto di vista di rigorosa distinzionelogica, come un fenomeno che rientra sotto la categoria di guerra civile: la guerracivile dopo l'Ottobre anche guerra di classe. Esistono cio guerre civili checoincidono pienamente con la guerra di classe, ma non sempre cos. Comunque laguerra di classe, quando ha per nemici persone della stessa nazionalit, sicuramente riconducibile sotto la categoria generale di guerra civile. Conserva

    tuttavia, nel nostro caso, alcune specificit, che traggono origine dal fatto che,come ho detto, non tutti gli antifascisti erano socialmente proletari, n tutti eranoideologicamente disposti a far coincidere fascismo ed oppressione di classe. Qui sipotrebbe riconoscere quanto c'era di giusto nella storiografia operaista, e cio cheper un operaio politicizzato il padrone era una figura che trascendeva lo stessofascista: c'era cio un'oppressione di classe nel corso della quale i padroni s'eranoserviti del fascismo, e proprio per questo nel combattere i fascisti bisognavacogliere l'occasione storica per combattere anche i padroni, i quali, fascisti o nonfascisti, andavano Comunque combattuti: cosa che un liberale sinceramenteantifascista non avrebbe mai ammesso. La distinzione della terza guerra rispettoalla seconda dunque si ripropone. Nella guerra di classe la principale figura delnemico allora quella del padrone, e io, forse con una battuta troppo facile, ho

    scritto che l'ideale di un operaio politicizzato sarebbe stato quello di trovarsi controun padrone in camicia nera e sfacciatamente servo dei tedeschi, ma che il padronenon sempre lo accontentava. Anzi, i padroni erano abbastanza accorti peraccontentarli in misura sempre decrescente. E qui verrebbero alla luce tutti iproblemi relativi ai doppi giochi: finanziare i Chi e fare contemporaneamente buoniaffari con i tedeschi eccetera, ma si tratta di problemi che non rientranostrettamente nell'ambito della guerra civile, la lambiscono ma sono questionidiverse.Questa chiave di lettura della Resistenza in cui i tre livelli, della guerra patriottica,della guerra civile e della guerra di classe, si intrecciano e si sovrappongono,determinando all'interno della stessa vicenda aspettative, atteggiamenti e

    comportamenti differenti, la vai elaborando gi da alcuni anni, a cominciare dalleoccasioni che tu stesso hai ricordato. Nonostante questa precisa e rigorosadefinizione dei tre livelli, a noi pare che nell'attenzione accordata al tuo libro daimezzi di informazione sia possibile cogliere una tendenza alla semplificazione che

    porta a far coincidere il livello della guerra civile con quello della guerra di classe.Ed in sostanza a riproporre, certo con non poche forzature, una interpretazioneesclusiva e fuorviante della guerra partigiana come confronto armato tra dueideologie totalitarie, quella fascista e quella comunista.Soprattutto quest'ultimo punto emerso non solo in certe "interpretazioni" del miolibro, ma ha attraversato tutte le polemiche degli ultimi due anni: totalitari gli uni etotalitari gli altri. 1 venti mesi come una commedy of errors, insomma. Ma questo

    mi sembra veramente del tutto insufficiente come tentativo di spiegazione, e poi contraddittorio con l'interpretazione della Resistenza quale grande fatto unitarionazionale: se veramente la Resistenza, accettando e rovesciando il segno dello

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    slogan "la Resistenza rossa, non democristiana", stato questo scontro tra duetotalitarismi, chi caduto in un equivoco ancora maggiore, e direi grottesco, sonostati i cattolici, i moderati, e persino i GI, i quali, non essendo totalitari, si sono fattirisucchiare pi o meno per dabbenaggine in uno scontro tra opposti che erano nellasostanza uguali. La cosa mi pare quindi priva di qualsiasi possibilit euristica. Il chenon significante da altri punti di vista questo problema non possa e debba essere

    preso in considerazione: ad esempio, se e come il comunismo staliniano e ilfascismo e il nazismo possano rientrare tutti, pur con le ovvie differenze, sotto lacategoria generale di totalitarismo, ma questo un altro discorso. Interpretare laResistenza nel modo sopraddetto significherebbe per considerare la storia comeuna deduzione dei fatti dalle ideologie. Sarebbe davvero una operazione ideologica,mentre invece, nei limiti delle mie capacit e delle mie forze, ho cercato didimostrare per quali ragioni un partigiano poteva gridare "Viva Stalin e viva laLibert" senza contraddizioni. Oggi qualcuno potrebbe dire: ma come! Stalin eracontro la libert e quindi bisogna cassare uno dei due termini. No. Teniamo anchepresente che molti partigiani lo gridavano morendo, e quindi in quell'espressioneunificavano delle cose che in quel momento alle loro coscienze si presentavanocongiunte. Storicamente bisogna porre grande attenzione nel cercare di

    comprendere la concretezza dei singoli atti. Perci ricondurre la Resistenza, o anchesolo la sua componente classista, sotto il criterio di una lotta fra ideologie totalitarienon pu portare molto lontano, anche se, lo ripeto, resta aperto il problema deltotalitarismo come trista caratteristica del nostro secolo.

    A proposito del concetto di guerra civile, tu prima parlavi di una certa refrattarietdella storiografia e del mondo politico di sinistra a usare questo termine. t unatteggiamento che in qualche modo contraddice un uso ampio del concetto che

    possibile riscontrare non solo nella documentazione garibaldina e giellista, maanche in diversi prodotti della storiografia resistenziale - dove il termine perspesso utilizzato senza una precisa forza analitica - e nei discorsi politici postLiberazione di molti uomini della resistenza (13).Le fonti coeve hanno senz'altro molto minori scrupoli ad usare questa espressione.dopo che nasce la rimozione.Certo, ed hai anticipato in qualche modo la domanda: ci sembra infatti che questaimpreparazione e refrattariet postuma a confrontarsi con il concetto di guerracivile sia anche la spia di quanto la storiografia e la cultura resistenziale siano statesostanzialmente condizionate, sino a non molti anni fa, da esigenze e cautele

    politiche.Non c' dubbio. In un primo momento c' stata una specie di continuazionedell'unit di vertice ciellenistica, grosso modo sino alla cacciata dei comunisti e dei

    socialisti dal governo; sino ad allora, bene o male, l'unit era il concetto accettatoun po' da tutti o quasi, almeno a parole. Dopo quella cacciata c' stato unfenomeno che ha portato a rivendicare per molti anni il concetto di unit da partedella sinistra, in specie dai comunisti, proprio per qualificarsi come forza nazionale:poich i sovversivi e, di nuovo, soprattutto i comunisti, erano sempre statiqualificati come antinazionali, c'era ora l'esigenza politica di presentarsi come partelegittima del sistema repubblicano, anche se fuori dal governo, e di far ricadere lacolpa della rottura solo sui democristiani, riaffermando di contro la verapropensione unitaria del proprio schieramento. In quel contesto parlare di guerracivile quadrava poco: la Storia della Resistenza di Battaglia (14) rispecchia inqualche modo questa fase.Per facendo queste riflessioni a volte si dimentica la controparte, nel senso che

    nell'esorcizzare gli aspetti di guerra civile c' una responsabilit anche del centro-destra antifascista. Per questa parte politica glissare sul concetto di guerra civilerappresentava un'implicita polemica contro quel troppo di rosso che c'era stato

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    nella Resistenza. Era quindi un modo per respingere tutto quel filone interpretativo(storiograficamente da considerare certamente con occhio critico) che si basatosul tema della Resistenza tradita o di La Resistenza accusa, illibro di Pietro Secchia(15). Se invece, quando proprio non si poteva tacere, si diceva che la Resistenzaera stata unembrasson nous generale questo edulcorava ed esorcizzava gli aspettiinquietanti, utopici, drammatici della lotta di Liberazione. Alla Resistenza tradita

    veniva contrapposta cos una Resistenza beata e soddisfatta, al santino di sinistra siaffiancava un santino di destra.Poi c' stata una fase in cui l'establishment di governo ha capito - e questa naturalmente solo una mia schematizzazione - che lasciare il monopolio dellaResistenza, sia pure con quella bandiera unitaria, dietro la quale si ostinava peraltroa far capolino la bandiera rossa, alla sinistra poteva non convenire: forse convenivadi pi assorbirla per fame una tavola di fondazione un po' generica della democraziarepubblicana. t stata la fase in qualche modo connessa al cosiddetto disgelocostituzionale, in cui si comincia a non considerare pi la Costituzione una trappola,come diceva Scelba, ma un ambito entro cui confrontarsi. Ci comportl'assorbimento della Resistenza in un canone nazionale che tranquillizzava tutti, e losi pu vedere, ad esempio, nella sostanziale identificazione che venne fatta delle

    forze partigiane con l'esercito del sud. Ovviamente necessario il massimo rispettoper quelli che a fianco dell'esercito alleato hanno combattuto e sono morti. Per sitratta storicamente di due fenomeni diversi. Invece abbiamo potuto vedere, da uncerto periodo in poi, che erano i ministri della difesa e i generali ad essere incaricatidi celebrare il 25 aprile, un modo per far rientrare la Resistenza nella storia italianain maniera molto asettica.Sotto questo aspetto il Sessantotto fu salutare, per distinguere e spezzare, dopouna primissima fase quasi di rigetto, la unit oleografica della Resistenza, anche secon prese di posizione magari schematiche, come ad esempio il gi ricordato slogan"la Resistenza rossa, non democristiana". L'operaismo e il movimentismo furonoatteggiamenti che richiamavano l'attenzione su problemi reali ma li semplificavanooltre il lecito. Ma allora, nella storiografia successiva al Sessantotto, si sono poste le

    basi di quella nuova stagione che forse pu apparire ovvia: se la Resistenza va vistanella sua complessit, nelle sue contraddizioni e anche nelle sue lotte intestine, siprepara il terreno per riconoscere che il concetto di guerra civile non pu pi essereesorcizzato. E tengo a precisare che senza questo movimento post-sessantottesconemmeno a me sarebbe probabilmente venuto in mente il mio schemainterpretativo. Non lo dico certo come fatto personale, maper sottolineare comemolte volte le cose mutano per fattori complessi e per fortuna ancheextrastoriografici. Del resto la storiografia una disciplina che cerca di dare delpassato una spiegazione rispetto alle domande che pone il presente, e siccome ilpresente muta per mille motivi bisogna risalire anche a questi motivi.Queste tue riflessioni ci sollecitano un'altra domanda: non pensi sia ormai giunto il

    momento di una rivisitazione critica della storia della storiografia resistenziale,considerandola, per questi suoi stretti legami con le vicende politiche e sociali,come un'angolazione utile e privilegiata per capire come si sono evolute, in questiquarant'anni, la societ italiana e le forze politiche che all'esperienza del movimentodi Liberazione si richiamano - o si richiamavano?Indubbiamente, sarebbe uno spiraglio interessante, paragonabile, anche sel'avvenimento ben pi consistente, oltre che pi distante nel tempo, alla storiadella storiografia sulla Rivoluzione francese. Chi studi oggi la Rivoluzione francesenon pu non tenere conto dell'evoluzione della Francia e, direi, un po' di tuttol'Occidente; cos, nel suo piccolo, e lo dico non per sminuire l'evento ma perch,non foss'altro, passato meno tempo, anche rifare una storia delle interpretazioni

    della Resistenza non solo in Italia sarebbe senz'altro un'ottima spia per capire moltecose di una situazione in movimento. E questo credo valga anche per il mio libro:se qualcuno lo ricorder ancora fra qualche anno sar perch esso riuscito a

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    connettersi con il momento attuale, non certo nello specifico della polemicaalimentata dal "triangolo della morte", ma nel senso appunto che ognuno figliodel suo tempo.Il tuo libro riconferma ed esalta l'interpretazione della Resistenza come fenomenocomplesso, contraddittorio e vissuto a pi livelli: possiamo cio dire che sono

    esistiti diversi modi di intendere e condurre l'esperienza partigiana secondo leappartenenze politiche e il nemico che si intendeva combattere, ma anche chearticolazioni altrettanto profonde si possono rintracciare tra le elaborazioni e ledirettive dei vertici e i modi d'essere della base (le formazioni partigiane). Esistonocio forti connotazioni che potremmo definire regionali del movimento di liberazioneitaliano, il quale nacque e si svilupp secondo caratteristiche talvolta

    profondamente diverse da zona a zona (con connotazioni che solo in parte possonoessere ricondotte alle matrici politiche di appartenenza di ciascun gruppo armato),e quindi - probabile - anche molto diversamente graduato intorno agli elementi"nazionali" o a quelli pi strettamente "classisti" della guerra civile.Ora a noi pare che se l'attivit e l'elaborazione di vertice abbastanza conosciuta(si veda ad esempio il ricco repertorio di documenti elaborati dai comandi

    partigiani, dai Cln e dai partiti politici che si venuto accumulando con gli anni ealla cui pubblicizzazione tu stesso hai concorso), la situazione pi deficitaria perci che riguarda le articolazioni di base e i diversi sviluppi regionali del movimento.t cio ancora insufficiente, e caratterizzata da una situazione a macchia di leopardo,la conoscenza delle vicende - intese in senso ampio, e non solo da un punto di vista

    politico e militare - delle diverse formazioni, ma anche dei diversi luoghi in cui ipartigiani operarono. Tu cosa pensi a questo proposito?Credo che una rivisitazione della Resistenza in questa direzione non sia cheaugurabile, proprio per continuare il discorso in maniera pi analitica di quantopossa fare il mio libro, che pu essere considerato un manifesto della complessit edella scomposizione, ma non pu sostituire il lavoro di ricerca ancora da fare. Del

    resto anche il mio tentativo arriva dopo il lavoro di scavo che c' stato negli ultimianni. Penso al lavoro dei diversi Istituti storici della Resistenza, penso alle varieriviste locali, che spesso si sono dimostrati pi vivaci nel recepire esigenze nuovedello stesso Istituto nazionale. Ma c' ancora moltissimo da fare, proprio perintrecciare le diversit di vertice, che sono diversit di linea politica alta e quindianche di cultura politica alta, con il livello delle diversit di base, ancora picomplesse.Per quanto riguarda i vertici vorrei segnalare un problema interessante: la culturaterzintemazionalista di Togliatti certo diversa da quella di De Gasperi, ma idue leaders si incontrano, per cos dire, in un processo di reciproca legittimazionedei rispettivi partiti. 1 comunisti dovevano farsi legittimare come partito di governo,anche se al governo poi ci sono stati cosi poco; ma anche i cattolici dovevano

    impegnarsi in questo senso. Rossi e neri usarono il CIn per uscire dalla marginalitin cui li aveva posti l'Italia liberale. Voglio dire che non solo Togliatti ha usato DeGasperi per legittimarsi, ma che avvenuto anche il contrario: in fondo i cattolicinon erano mai andati al governo se non con truppe di complemento dellemaggioranze giolittiane e poi con qualche uomo prestato a Mussolini dopo la marciasu Roma. C'era, pi in generale, il problema della posizione della Chiesa, della suacompromissione con il fascismo attraverso i patti lateranensi. Aspirare alla"successione" significava utilizzare, ma anche far dimenticare quellacompromissione. Cos il Comitato di liberazione senz'altro servito ai comunisti, ma anche servito ai cattolici, proprio in questo senso di conquistare legittimazione. Equesto un primo livello.Poi c' un livello di base, che a sua volte si articola attraverso differenze regionali

    ma anche sociali, generazionali, eccetera, in cui si intrecciano le parole d'ordine chevengono dall'alto con motivazioni che sorgono dal basso e che sono diversissime.Ritrovare certi elementi comuni in queste motivazioni pu riservare delle sorprese,

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    perch esse possono coincidere ma anche non coincidere con l'unit dei vertici,anzi, alle volte possono persino essere in opposizione all'unit dei vertici. E questo un lavoro che bisogna senz'altro sviluppare, e che si pu fare in maniera analiticasu piccola scala, e voi in fondo avete cominciato a farlo con i vostri studi che sono ipi utili per capire queste apparenti contraddizioni.

    Anche perch ci sembra che proprio il livello di base sia quello nel quale simanifestano con pi evidenza gli intrecci fra le tre guerre a cui hai dedicato la tuaattenzione.Indubbiamente, ne sono convinto anch'io. Intrecciandosi poi con differenzeregionali, ma anche sub regionali, locali, di vallata; e poi ancora, come ho gi detto,con differenze sociali, generazionali, di grado di scolarit, eccetera. Non dico chi pine ha pi ne metta, ma insomma, se si comincia a guardare un fenomenocircoscritto le componenti sono tante anche in una zona limitata. In questadirezione c' da augurarsi che soprattutto giovani studiosi come voi sviluppinomolte ricerche; poi, quando sarete pi "grandi", le rifonderete in qualche operagenerale che superer quelle precedenti, come ovvio che accada, perch di

    definitivo non c' mai niente.Vorremmo ragionare un po' pi direttamente sulla questione della moralit, con unadomanda che ci sollecitata anche dalla comparazione con alcuni testi sulla Primaguerra mondiale particolarmente attenti alla soggettivit dei combattenti e alla loro

    percezione dell'evento, come quello, ultimo, di Antonio Gibelli (16). In quel libroc', forte, l'idea della guerra moderna come campo di applicazione di tecnologia esoprattutto come paesaggio straniante (al punto che i soldati quasi non trovanotermini per descriverlo) e all'interno del quale la morte anonima e quotidiana, lanorma. Insomma, un universo dal quale la moralit sembra respinta fuori: lavicenda resistenziale, probabilmente anche in ragione dell'ambito pi "raccolto" incui si combatte, e per la connotazione volontaria della scelta, sembra, al contrario,

    caratterizzata dal tentativo di ricercare all'interno della guerra un codice morale,pur con tutte le contraddizioni che ci comporta. Noi ad esempio ci siamo postiquesto problema per quanto riguarda i criteri della giustizia partigiana, che aquarant'anni di distanza possono sembrare di una rigidit difficile da comprendere.Vorremmo perci chiederti se anche tu rintracci nella Resistenza questecaratteristiche di guerra che impone a chi la combatte una ricerca sul terreno dellamorale. E', del resto, un tema di riflessione a cui rimanda anche una specificazionedel concetto di guerra civile che introduci nel tuo libro quando parli di guerrairregolare, cio di una situazione in cui, proprio sotto il profilo morale, i partigianidevono inventare o ritrovare in se stessi le regole e i codici di comportamento.Parto dalla fine: vorrei approfittarne per chiarire perch nel titolo del libro emerge

    sugli altri il concetto di guerra civile. t dovuto intanto a una scelta editoriale, perchil titolo originale era quello che diventato il sottotitolo, Saggio storico sullamoralit nella Resistenza. Mi fu fatto notare che era un titolo che tendeva asminuire la novit della trattazione e che al lettore frettoloso poteva far venire inmente le solite chiacchiere sulla "morale della Resistenza" intesa in sensoagiografico. Di qui la ricerca di un altro titolo. Per un po' ci eravamo fermati su Letre guerre; per poi sondaggi un po' occasionali hanno dimostrato che la gente noncapiva bene, al punto che una persona a cui ho chiesto cosa l'espressione glisuggerisse mi ha detto: "La guerra di Libia, la Prima guerra mondiale, la Secondaguerra mondiale", o anche le tre guerre del Risorgimento. Ecco perch, alla fine, venuto fuori Una guerra civile, che all'editore e a molti altri, fra i quali Vittorio Foa,sembrava pi provocatorio, pi esaltante. Per c' anche un motivo pi intrinseco -

    e passo cos a rispondere pi direttamente alla domanda - ed che indubbiamentenella categoria della guerra civile emergono meglio proprio i problemi morali chesono stati un po' il tessuto del libro. t nella guerra civile che si potenziano gli aspetti

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    di scelta, di non garanzia a priori, di necessit di considerare il nemico in un mododiverso da quello in cui il combattente regolare vede il nemico anonimo. Ilriferimento alle opere di Leed, di Fussel (17), oltre a quella gi ricordata di Gibelli, qui d'obbligo: dalla tecnica alla follia, per cos dire, senza quasi nessuna via dimezzo, cio soldati che combattono anonimamente e rassegnatamente oppureimpazziscono. In questa direzione il libro di Padre Gemelli Il nostro soldato (1917)

    era stato un capolavoro (18). La guerriglia, specie quando condotta contro propriconnazionali, impone invece una presa di posizione personale che in qualche modo in contraddizione con la guerra tecnologica moderna. L'anonimato non c' pi, c'una umanizzazione che non esclude affatto la ferocia, ma una ferocia che pi"fisica", quasi da uomo a uomo. Ci troviamo cos di fronte a una detecnicizzazionerispetto al modello proposto dagli storici che abbiamo citato: da questo punto divista sarebbe inesatto parafrasare il titolo di Gibelli in L'officina dellaguerriglia,perch la guerriglia pi, per cos dire, movimentistica e artigianale,mentre la guerra statolatrica, industrializzata e istituzionale.Ci sembra che quel complesso di problemi che tu analizzi in paragrafi come Lapolitica e la morale, e Pubblico e privato, siano quelli che pi mettono in evidenza la

    dicotomia che spesso si crea tra vertici e base, tra direttive e comportamentieffettivi, e che ci sia rivelatore anche dei complicati e a volte contraddittori

    percorsi attraverso cui si realizza il processo di educazione dei partigiani, il quale caratterizzato, a nostro avviso, da uno straordinario intreccio di elementi arcaici edi elementi moderni, da una contaminazione tra la tradizione e la nuova esperienzadi "irregolari" alla ricerca di comportamenti e di valori nuovi che segna come trattodistintivo e originale l'esperienza partigiana. Tu sei d'accordo con questo modo diinquadrare il problema?Sono d'accordo senz'altro. In linea generale si pu sempre dire che la lunga duratasi intreccia in vario modo con l'evento, quale che sia l'oggetto della ricerca storica.In particolare, in una situazione come quella della guerriglia resistenziale l'evento

    porta alla luce elementi di lunga durata con molta maggior chiarezza di quantopossa avvenire in altre situazioni. Questo mi sembrato un terreno di ricercaparticolarmente ricco di fascino.Questo intreccio pu aprire la strada a interessanti sviluppi. Con due miei allievi,Marco di Giovanni e Agostino Bistarelli, avevamo pensato ad esempio di fare unaricerca (poi non realizzata) sui partigiani dopo la Liberazione, per vedere cioquando i partigiani cominciano a diventare ex partigiani, e, correlativamente,esaminare i tentativi esperiti per cercare di rimanerlo ancora, trasportando nellavita civile la nuova identit acquisita nella lotta. Nell'immediato dopoguerra ilproliferare fra ex partigiani di cooperative di autotrasportatori e di altra natura, chepoi sfioriscono abbastanza rapidamente, per esempio un episodio abbastanzaindicativo. Del resto, mentre scrivevo il libro mi venuto il dubbio di essere stato

    troppo "idealista", di avere cio concentrato lo sguardo su un momento troppo altoe di aver cos finito con l'enfatizzare il reale, ricadendo in qualche forma di retorica.E da questo rischio di semplificazione si pu uscire anche proseguendo la ricercasugli ex partigiani. Alcuni sono diventati uomini politici di rilievo, mentre altri, i pi,sono del tutto scomparsi dalla vita pubblica, e sarebbe molto interessante vederese erano azionisti o garibaldini, se erano intellettuali, operai o contadini. Nelcomplesso la mia impressione, ed solo una impressione, perch su questo terrenosarebbero necessarie ricerche puntuali, che il grosso del partigianato si sia ritiratodalla vita politica attiva. C' stato insomma uno squilibrio tra l'eredit sostanziale,ora fin troppo ostentata, ora nascosta, ora degenerata, lasciata dalla Resistenza, el'impegno pubblico successivo dei resistenti.

    L'accento che tu poni sul concetto di moralit, sul percorso faticoso econtraddittorio di costruzione e di pratica di nuovi valori rimanda, implicitamente, alproblema di quanto il movimento partigiano ha lasciato in eredit non solo nella

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    mentalit e nei modo di essere dei cosiddetti "militanti politici", ma sull'interasociet italiana post Liberazione: la Repubblica italiana, in sostanza, davvero natadalla Resistenza? In una recensione al tuo libro comparsa sul "Corriere della Sera"Piero Melograni propenso a rispondere no, traendo conforto proprio dalla letturadelle tue pagine (19). In effetti diversi passi, isolati dal contesto, possono darequesta sensazione. Un esempio per tutti: quando tu ricordi che Il una provincia

    partigiana e molto giellista come quella di Cuneo dar poi la maggioranza deisuffragi alla monarchia e alla Democrazia cristiana" (p. 247), si pu maturare lasensazione che quello scontro riguard solo due minoranze e non lasci traccevistose sulla popolazione.

    Devo dire che questa considerazione sulla situazione della provincia di Cuneo, chetra l'altro l'eco di una conversazione che ho avuto con Revelli, l'ho citata comesegnalazione di un problema estremamente complesso e non come una prova diuna verit generalizzabile. In verit io credo che esistano dei fatti che influisconoanche su chi non vi ha partecipato. Quindi che la Resistenza sia stata opera di unaminoranza, tra l'altro pi cospicua di quella fascista, fuori discussione. Il ruolodelle minoranze attive nella storia non si pu per valutare solo in rapporto al

    numero delle persone che costituivano la minoranza e nemmeno soltanto dalle lorobiografie, cio dal fatto che siano o no diventati influenti personaggi politici. Laricerca pi complicata: ricordo che nel finale di una comunicazione fatta anni fa aMilano, dal titolo Tre governi e due occupazioni (20),dicevo che forse,paradossalmente, la Resistenza stata frustrata pi sul piano politico (inteso comerisultati) che sul piano socio-culturale. Essa ha infatti lasciato in eredit alcunegrandi esperienze di massa, come quella della disobbedienza, ossia l'insegnamentoche in determinate circostanze bisogna sapersela cavare rintracciando radici antichedelle proprie scelte. E qui il paragone con il Sessantotto assai pertinente, perchanche quel movimento ha influito pi sul piano del costume che sul piano politico,dove si proponevano slogan presto smentiti del tipo "fascisti, borghesi, ancorapochi mesi". Ma sul piano della "presa del potere" il Sessantotto non solo fallito,

    ma qualche suo minoritario rivolo ha avuto anche strascichi terroristici, con ilrischio che al potere arrivassero davvero i fascisti e i servizi segreti. Sul pianosociale invece i giovani di oggi, magari senza neanche rendersene conto, si trovanosistemati su un terreno assai diverso rispetto a quello che c'era prima delSessantotto. Se analogamente si provasse a confrontare sotto tutti gli aspettil'Italia del dopo Resistenza con l'Italia del fascismo si vedrebbe che le differenzesono grandi, e le si possono tuttora considerare tali. Esistono cio elementi dirinnovamento profondo, che non fruttificano solo a breve termine. Naturalmente,quanto st dicendo non intende porre fra parentesi n l'eredit positiva di caratterepi propriamente politico istituzionale, cio la Costituzione, che la pi studiata, nil sostanzioso residuo negativo che la Resistenza non e riuscita ad intaccare, cio lacontinuit dell'apparato amministrativo.A proposito delle recensioni che avete citato, trovo che Melograni fa un discorso unpo' asfittico, prima ancora che fazioso, perch dire che la guerra contro la Germanianazista stata vinta dagli eserciti alleati e sovietico una cosa del tutto ovvia,perch nessuno ha mai pensato che le armata naziste potessero essere sconfitte dapochi partigiani italiani male armati. Ma questo non dimostra affatto l'irrilevanzadella scelta partigiana. Proviamo ad abbozzare una storia controfattuale, proviamocio a immaginare cosa avrebbero detto i moralisti italiani se nessun italiano sifosse mosso. Oggi facile dire - lo ha detto anche un eminente filosofo come DelNoce - che i resistenti erano una specie di esercito di opportunisti che saltavano sulcarro del vincitore, ma immaginiamoci cosa si sarebbe detto se non si fossesviluppato un movimento di Resistenza. Oggi ci troveremo di fronte a considerazionidi questo tipo: "Mentre tutti gli altri popoli non hanno aspettato che arrivassero glieserciti alleati, ma sono insorti per libera iniziativa e hanno rischiato, i soliti italiani,

    figli dell'uomo del Guicciardini, hanno soltanto atteso l'arrivo dei vincitori". Sipotrebbe cio rovesciare completamente il discorso, e basta questo per mostrare

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    lainfondatezza di una considerazione come quella di Melograni, da ridimensionareanche sul terreno strettamente militare, come dimostrano fra l'altro le fontitedesche.E poi non di sola guerra guerreggiata si trattava, ma di lotta, e qui si pudavvero assumere il termine caro a Guido Quazza, tra due civilt, tra due modi diintendere l'avvenire dell'Italia e dell'Europa. IL quanto addombrato nella copertina

    del mio volume. Quel quadro cinquecentesco sulla battaglia fra Dario ed Alessandro(tengo a sottolineare che l'ho suggerito io) pu simboleggiare, almeno nella nostratradizione occidentale, lo scontro per antonomasia fra due civilt (21), uno scontroepocale in un senso che si ripropone anche nella Seconda guerra mondiale, dove in gioco molto di pi che la semplice sconfitta di un esercito. Anzi, l'esercito non erache lo strumento principale di un'altra versione del moderno Infatti il nazismo e ilfascismo sono stati dei tentativi di dare una soluzione ai problemi della modernit,tentativi certo aberranti e per fortuna sconfitti, ma non si trattava di pura reazione,di un semplice tornare all'antico. Il fascismo e il nazismo rappresentavano untentativo di risolvere i numerosi problemi della societ di massa con certe soluzioniche potevano anche riuscire vittoriose. lo su questo punto insisto sempre anche coni miei studenti, perch bisogna avere ben chiaro che non vi mai nulla di

    predeterminato, i rischi ci sono sempre e il farsene carico un atteggiamentomorale prima che militare.Tu hai ora insistito molto sui lasciti post Liberazione in termini di costume, ciosulla vita quotidiana; ma ci sono lasciti anche su un piano pi "alto", sul piano deivalori?Sui valori - che non contrapporrei alla "vita quotidiana" - credo che indubbiamenteun lascito lo si possa individuare nella scoperta della pluralit delle voci, anche sepoi questo valore ha subito, nella vita politica, delle degenerazioni sino atrasformarsi in "lottizzazione". Se andiamo a vedere come venivano disegnate atavolino le composizioni delle giunte e degli altri organismi di governo al momento

    della Liberazione, facile notare che c'era un complesso patteggiamento in basealle forze reali o presunte dei diversi schieramenti politici. Se noi osserviamo quellasituazione da un punto di vista politologico, ci viene da dire che la lottizzazionenasce li. Per una interpretazione di questo tipo sarebbe troppo condizionata dalsenno di poi, perch allora rappresentava soprattutto la rottura del monopoliototalitario del potere: prima erano tutti fascisti, e ora tutti noi che abbiamopartecipato alla Liberazione abbiamo diritto ad essere rappresentati. E questo halasciato una eredit, che non solo lo strascico degenerato attuale, anche il fattoche si affermata l'idea che tutti hanno diritto di parlare e di farsi sentire.Nonostante tutti i tentativi di eversione di destra, e nonostante l'assurda pretesadei terroristi di spingere la situazione alle estreme conseguenze con l'illusione che sisarebbe fatta strada una nuova lotta finale, bene o male quel tessuto nato dalla

    Resistenza ha retto. E lo dico non per fare dell'ottimismo di maniera, ma perchattraverso questa acquisizione abbiamo vissuto una forma di acceleratamodernizzazione, non solo tecnica ma anche civile.Questo concetto ha trovato largo spazio anche nelle prime pagine del libro di PaulGinsborg -Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi (22) -, anche se forse lui esageradicendo che l'Italia della Seconda guerra mondiale era rimasta pi o meno uguale aquella di Cavour. Resta comunque il fatto che la Resistenza stato anche ungrande evento modernizzatore. Certo, sulle modificazioni nel costume si poisovrapposto un riflusso dovuto all'egemonia cattolica: io nel libro ne parlo poco, mase si leggono le autobiografie di donne contenute nel volume La Resistenza taciuta(23)non difficile cogliere la convinzione di aver conquistato uno spazio che poiviene nuovamente tolto, ad esempio con il matrimonio, anche quando il marito

    magari un ex partigiano o un dirigente del Partito comunista. Resta per il fatto chesi lascia in eredit l'idea che le cose possano cambiare.A proposito dei lasciti non va dimenticato che tutto il Sud non partecipa alla

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    Resistenza, anche se in quelle regioni l'equivalente costituito in qualche modo daimoti contadini per la terra e per la revisione dei patti agrari, rispetto ai quali idecreti Gullo sono forse il maggiore tentativo di tradurre in provvedimenti digoverno una spinta che veniva dal basso.Anche i moti contadini nascevano dalla sensazione che ci si trovava in un momentoin cui si poteva tentare, in cui si poteva provare a fare cose che prima erano

    inimmaginabili.Quanto rimanga di tutto questo allorch nella immediatezza politica questa spintaviene sconfitta o per lo meno accantonata, questo ce lo dovranno dire gli storicidella Repubblica.Tu riporti una celebre frase di Marc Bloch, secondo il quale "esistono generazioni

    cortee generazioni lunghe" (24), e collochi decisamente tra queste ultime quella"nata dall'incontro fra gli antifascisti del ventenni o e i giovani resistenti di varie

    provenienze e ispirazioni" (p. 552). Ma, sempre per dirla con Bloch, i giovanipartigiani furono solo il limite estremo di questa generazione lunga o diventarono aloro volta i primi esponenti di un'altra generazione lunga che li vide qualiPiccolimaestri dei nuovi giovani dei primi decenni dell'Italia repubblicana? Tu hai gi dettoqualcosa a questo riguardo, con dei s e con dei no che pensiamo non vadano presialla lettera: s nei costumi, no nella politica, anche perch molti di loro in realt

    politici attivi non furono. Forse per opportuna qualche ulteriore specificazione, ed

    anche in questa direzione probabilmente lo sviluppodelle ricerche sulle situazionilocali potrebbe aiutarci non poco a conoscere meglio la valenza educativa delmovimento partigiano.Probabilmente sono stato davvero un po' schematico, perch anche nella politica,se guardiamo soprattutto al Partito comunista e al Partito socialista, o ai sindacati,possiamo vedere che ci sono molti quadri intermedi che si sono formati nellaResistenza, ed anche quadri di vertice, a cominciare da Luciano Lama e da Vittorio

    Foa. Per di pi il costume politico che pu sintetizzarsi nella parola politica"rnilitanza" ha molte radici nella Resistenza.Per quanto riguarda la generazione lunga forse bisogna rifarsi al modo in cui neparlava Bloch e in cui io lo citavo, nel senso che non una generazione puramenteanagrafica, una comunanza di esperienze che pu andare molto al di l dei datianagrafici. Quindi i giovani della Resistenza se si sono saldati in qualche modo agliantifascisti, a loro volta possono avere trasmesso qualche cosa alle generazionifuture, ma fino a un certo punto. La mia ipotesi che la generazione lungadell'antifascismo finisce con il Sessantotto, perch effettivamente allora succedequalche cosa in un contesto profondamente mutato. Si ha cio la sensazione didover ricominciare, e io credo che una generazione lunga finisca quando si ha lapercezione che si ricomincia e che le esperienze precedenti sono esaurite. 1 vecchiantifascisti operanti nella Resistenza, cio gli uomini di mezza et, come Longo eParri, erano tutta gente che aveva maturato la convinzione che il fascismo avevacreato una frattura tale che bisognava ricominciare da capo. t su questo terrenoche si incontrano con i giovani nati sotto il fascismo e spesso gi fascisti almeno pereducazione passiva: l'ipotesi che li accomuna che bisogna voltare pagina. NelSessantotto si arriva in qualche modo all'idea che se l'Italia nata dalla Resistenza questa, allora tanto peggio per la Resistenza. Uno schema un po' semplicistico, sevogliamo, ma che per presente in una prima fase che tende al rigetto dellaResistenza, recuperata poi dalla riscoperta della Resistenza rossa.Una guerra civile pi che offrire delle interpretazioni organiche al groviglio - terminericorrente nel tuo libro, e rivelatore della prospettiva da cui leggi quel biennio dei

    problemi connessi alla vicenda dei venti mesi pone e precisa dei temi di riflessione,

    focalizza nodi fondamentali per la ricerca futura. Non a caso l'ampia recensione diNorberto Bobbio apparsa su "La Stampa " del 15 ottobre (25) zeppa di punti

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    interrogativi che ripropongono i quesiti che tu stesso indichi o che il tuo schemainterpretativo sollecita. Anche se a proposito del tuo libro stato usato, in pi diun'occasione, l'aggettivo "definitivo", a noi sembra dunque che il tuo sia un lavoroaperto, capace di individuare nodi su cui si dovr tornare a produrre ricerca.Innanzitutto io credo senz'altro che il libro non sia definitivo, al contrario di quello

    che qualcuno, per eccesso di bont verso il mio lavoro, ha scritto, perch nulla definitivo e assoluto, in particolare nella storiografia. E' naturale che ogni tantoqualcuno interroghi il passato con domande diverse.In secondo luogo, devo dire che proprio questo carattere problematico e perargomenti ha probabilmente dato l'impressione del groviglio, come giustamentesottolineate, cio della complessit e dell'impossibilit di ridurre ad unit il tutto conformule pi lapidarie che forse potrebbero, almeno in prima istanza, dare adito ameno equivoci. Non so, forse mostrando sfaccettature e sfumature si determina ilrischio che il lettore effettivamente ci si perda dentro; ma, se questo procedimentocontribuisce a dare l'impressione che la riflessione rimane aperta, io credo che cisia positivo. Era questa la mia intenzione, anche se la volont di lasciare aperte lequestioni non avrebbe mai dovuto andare a scapito della chiarezza. Mi auguro

    comunque che ci sia qualcuno che sappia dipanare il groviglio.I problemi che restano aperti siamo venuti in parte ricordandoli in questaconversazione, come ad esempio l'esigenza di verificare con ricerche analitiche sealcune ipotesi abbozzate a grandi linee corrispondano davvero alla realt. Sar poiil confronto fra queste ricerche analitiche a dar luogo a sintesi magari moltodiverse.Responsabile di una sensazione di provvisoriet forse anche la tecnica espositivache ho adottato, fatta tutta, o quasi, per esempi. L'esempio non una prova, equindi non c' nel libro un andamento scientifico. Anche per questo ho insistitoperch rimanesse nel sottotitolo la definizione Saggio storico. Sitratta infatti di unsaggio e non di un libro scientifico di storia, nel quale andrebbero poste in evidenzaanche cose che io non ho trattato dandole per scontate o semplicemente perch

    non le conoscevo. Se si volesse fare una vera opera di storia generale dellaResistenza troppe cose in pi si dovrebbero mettere e troppe altre tagliame.L'uso delle prove indispensabile per un libro che narri i fatti, che ricostruisca seriedi prezzi, o che voglia accertare responsabilit di tipo giudiziario. Se io dico: statoHitIer, o Kesselring, o Kappler a dare l'ordine delle fosse Ardeatine, devoeffettivamente trovare le prove per corroborare la mia affermazione e renderlaattendibile. Se si lavora invece sulla moralit, o sulle convinzioni etiche piprofonde, ecco allora che la ricerca delle prove comincia ad essere pi difficile, efinisce che le pezze d'appoggio abbiano pi le caratteristiche dell'esempio che dellaprova. Ci significa che io ho deciso, certo arbitrariamente, che tra i tanti esempiche si sono accumulati e che si potevano portare, qualcuno parlasse meglio deglialtri, parlasse in qualche modo da s, rimandando direttamente al problema che

    c'era dentro e che era il problema che pi mi interessava.Insomma, chi mi assicura che la pensassero tutti cosi? Nessuno. Semplicemente mi parso che alcuni, spesso quando non parlavano per i posteri ma per s e perquelli che erano loro contigui, esprimessero con particolare evidenza quei sottofondietici e politici che a me sembravano rilevanti. Quindi, scusandomi se uso paroletroppo grosse, io ho cercato di rifarmi pi alla conoscenza simbolica che a quellaargomentativa e scientifica. Questa l'intelaiatura. Per se si riuscir a trasformarein discorsi pi analitici quelli che nel mio libro sono salti troppo rapidi, sar unlavoro di grande interesse e utilit, almeno finch non muti il quadro di riferimentoproblematico. Ripeto, voi con le vostre ricerche mi sembra che vi muoviate inquesta direzione, e perci quando parlaste a Belluno (26), mi incoraggiaste aproseguire in un lavoro di questo tipo. Vidi infatti che la generazione pi giovane simuoveva in una direzione alla quale valeva la pena tentare di fornire un quadrogenerale, anche se poi ognuno si sarebbe mosso con le proprie ipotesi, magarianche completamente contrastanti con le mie.

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    Vorremmo porti un altro ordine di riflessioni sui possibili sviluppi di ricerca, anchericollegandoci alle considerazione che andavamo facendo prima di iniziare questaconversazione a proposito del recente libro di Marco Di Giovanni sui paracadutistidella Seconda guerra mondiale e della Rsi (27): ci sembra che assumendo ilconcetto di guerra civile nella sua accezione pi logica, cio come una ipotesi dilavoro rispetto alla quale continuare ad avviare ricerche, sia assai importante

    sviluppare analisi pi specifiche anche in direzione degli avversari dei partigiani;perch se non tutto stato fatto a proposito della storia della Resistenzacertamente riguardo al campo avverso le ricerche mancano quasi del tutto.Questo verissimo, e io nel mio libro sono stato a questo riguardo deficitario. Lefonti fasciste le ho usate in maniera molto limitata, anche se persino Giano Accame,come ho gi ricordato, mi ha riconosciuto di aver trattato, come lui disse, condignit l'avversario. Ho utilizzato pochissimi documenti d'archivio, qualche giornale,le lettere dei caduti della Repubblica sociale e qualche volume di memorialistica,come il romanzo di Mazzantini A cercar la bella morte (28), che gi nel titolo misembrava assai significativo. Bisogna ricordare che i reduci della Repubblica sociale,o ex repubblichini, hanno costituito un centro di documentazione vicino ad Arezzo.

    Bisognerebbe utilizzarlo, accanto a quanto conservato negli Archivi di Stato,perch sicuramente su quel materiale c' da lavorare molto, proprio sulla questionedei vari livelli, integrando il livello deibig di Sal con la ricerca su coloro che stavanosui gradini pi bassi.Si dovrebbe poi lavorare meglio anche sull'amministrazione della repubblica di Sal,che puo rientrare con maggior pertinenza sotto il concetto di collaborazionismo,perch tutti i collaborazionisti hanno detto: ma noi l'abbiamo fatto per salvare ilsalvabile, la popolazione aveva pur bisogno di qualcuno che amministrasse i servizie gli approvvigionamenti essenziali, per cui dovreste esserci riconoscenti. Questo un tema che andrebbe studiato meglio, in connessione al problema di quella cheviene definita la "zona grigia" e all'altro della pubblica amministrazione dellaRepubblica sociale come canale di continuit dello Stato.Aproposito della zona grigia, a noi sembra - e ci pare di trovare una conferma aquesta ipotesi anche nel tuo libro - un territorio che in realt finisce conl'attraversare i due campi. In uno degli ultimi numeri della nostra rivista abbiamo

    pubblicato un saggio che ricostruisce la vicenda negli anni del secondo conflitto diun gruppo di famiglie di Tortona le cui abitazioni si affacciano sullo stesso cortile.-tutte famiglie popolari, con caratteristiche sociali simili, ma alcune antifasciste ealtre fasciste (29). Esse vivono dunque una conflittualit anche intensa, ma alla finetendono a riprodursi meccanismi di solidariet e di reciproco sostegno tra i duegruppi. In questa vicenda gi complicata agiscono poi anche coloro cheapparentemente non prendono parte ma che in realt si trovano a vivere - e nonsempre solo di riflesso - il conflitto che si svolge in quel cortile. t solo un piccolo

    esempio, ma facilmente generalizzabile: insomma, la cosiddetta zona grigia non cisembra si possa definire, sbrigativamente e semplicisticamente, come la rilevantequota di coloro che non si schierano per uno dei due contendenti.Questo vero. Non so, famiglie contadine che ospitavano i partigiani e poi, il giornodopo, ospitavano i tedeschi. Quindi a rigore dovrebbero essere classificati comeresistenti passivi contro i tedeschi e/o collaborazionisti con essi. Esistono in effettiun'infinit di sfumature e di atteggiamenti, in cui in certi momenti prevale unsentimento di solidariet umana, in altri l'opportunismo.Per ragioni anche ovvie, data la complessit e la ponderosit del tuo lavoro, labibliografia da te utilizzata sembra arrestarsi, almeno come organicit del materiale

    proposto, alla produzione di tre o quattro anni orsono. Cio proprio alla vigilia deituoi primi contributi in cui proponevi il concetto delle tre guerre, che ha ispirato espinto a verifiche almeno una parte delle ricerche pi recenti: tu prima dicevi di

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    aver trovato una conferma alla tua elaborazione in lavori recenti, ma avvenutonaturalmente anche il contrario. E' allora forse il caso di sentire il tuo parere a

    proposito di questa ultimissima fase della storiografia resistenziale, sui suoi*orientamenti e sulle sue direttrici di lavoro.Questo un discorso molto interessante, perch vero che la storiografi a pi

    recente in larga parte rimasta fuori dalle mie note: una deficienza del libro, nonci sono dubbi, quali che siano le attenuanti o le motivazioni personali che lapossano spiegare. Ma questo processo di dare e avere si certamente verificato, eda questo punto di vista mi pare che nella rete degli Istituti storici della Resistenzalocali (anche se solo in alcuni, non in tutti) e anche al di fuori, a cominciare dalleUniversit, si sia avuto in questi ultimi anni un tentativo di affrontare tematichenuove. Ad esempio, l'influsso dell'antropologia, che come noto si riversato pisulla storia moderna che sulla storia contemporanea, tranne che sulle tematicherelative alle due guerre mondiali, ha visto sul terreno della storiografia dellaResistenza il tentativo da parte di giovani ricercatori di appropriarsi di nuovetecniche, di ricercare nuove fonti, a partire dalle fonti orali.Altri risultati significativi possono arrivare da un utilizzo delle tecniche sociologiche.

    lo cito ad esempio il lavoro di Ardig sul partigianato emiliano, un volume che hacertamente un impianto sociologico piuttosto rigido (30); per indubbio che lecorrelazioni stabilite da Ardig e dai suoi collaboratori possano risultare utili (anchese alcune, a dire il vero, appaiono abbastanza ovvie).Devo dire che c' tutta un'ala di ambiente resistenziale che sembra recalcitrare difronte a questi tentativi, non solo i vecchi partigiani ma anche la storiografia pitradizionale; ma questo fa parte del movimento delle generazioni.Vorremmo concludere con due domande che almeno in parte prescindono dal tuolibro.La prima riguarda quella tendenza a cui gi abbiamo accennato e che in questiultimi anni si imposta sui mass media: ci riferiamo a una certa storiografia

    sensazionalistica e a un certo modo sensazionalistico di leggere la storia, in cui simescolano tentativi di rilettura falsificante del passato, poco cristalline motivazioni

    politiche, una tendenza a usare lo scandaloso come vettore delle vendite edell'audience. Anche tu ne sei stato vittima forse a causa di un titolo per certiaspetti "rischioso": nella recensione del "Corriere della Sera" di cui parlavamo, che un po' stupefacente non solo nelle considerazioni che sviluppa, ma ancor pi neltitolo: Fu guerra civile, ecco i documenti; oppure, pi recentemente, in unarecensione-intervista comparsa su '71 Giorno", nella quale il tuo interlocutore nontrova nessun incipit migliore di questa frase lapidaria: "Aveva ragione Pisan" (31).Che giudizio dai di questa vera e propria degenerazione del dibattito storico - cui si

    prestano anche studiosi illustri, come colui che ha firmato la recensione del"Corriere della Sera" -e che spazi esistono ancora per arginare questa sorta di corsa

    orwelliana alla riscrittura del passato?Pensarne non posso che pensarne male, come credo ne pensiamo tutti. Non sifanno cos passi avanti: anche la campagna sul "triangolo della morte", di cui

    abbiamo gi parlato, nonfa che riproporre fatti che gi si sapevano rileggendoli inchiave scandalistica e strumentale. Non per cavare il bene a tutti i costi anche dalmale, ma se servono per riattualizzare queste tematiche, al limite si pu dire benvengano anche queste strumentalizzazioni, nel senso che mostrano che questeproblematiche non sono ancora assimilabili alla guerra civile tra Cesare e Pompeo,ma suscitano ancora emozioni forti. In questo senso, ad esempio, le proposte diabolire la disposizione finale della Costituzione che vieta la ricostituzione del Partitofascista sotto qualsiasi nome, dovrebbero secondo me avere una risposta pi che

    mai negativa, perch non vero affatto che la norma superata. Se infatti essaancora pu essere utilizzata come strumento di battaglia politica vuol dire che

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    continua a esistere un problema politico.L'accanimento nell'utilizzare la storia come strumento di lotta politica, rivela chec', appunto, ancora una controversia politica intorno a queste cose. Gli storici pi omeno professionali se ne dolgono, per non basta: debbono infatti anche porsi ladomanda perch questo avvenga e cercare di dare una risposta, che deve collocarsiovviamente a livello storiografico, senza paura e senza tab.Tu non sei solo uno storico ma, per lunghi anni, sei stato anche un funzionario degli

    Archivi di Stato. Facendo appello a questa tua esperienza vorremmo chiederti ungiudizio a proposito dello stato della documentazione relativa alla guerra e albiennio 1943 -1945, e soprattutto sullo stato di conservazione e di consultabilit delmateriale depositato presso gli Archivi di Stato provinciali, dove sono conservatifondi importanti che spesso sono difficilmente accessibili.Questa domanda richiederebbe un'altra intervista, perch si tratterebbe di passarein rassegna quanto sta negli Archivi di Stato e negli altri archividell'amministrazione dello Stato, poi tutta la documentazione conservata presso gliIstituti storici della Resistenza, poi ancora in archivi come quello fascista di Arezzo,

    infine in archivi privati e in archivi di partito, di cui l'unico aperto per quegli anni quello del Partito comunista: nasconderanno ancora qualche cosa, pu darsi, per ilgrosso consultabile, mentre ad esempio le carte di De Gasperi stanno ancora acasa sua. Quindi sarebbe un discorso molto ampio.Qui vorrei dire una cosa come presidente della commissione archivi dell'Istitutonazionale: prima che muoiano tutti i protagonisti, o almeno prima che muoiano iloro figli, tanto per allargare un po' di pi l'arco temporale a disposizione,bisognerebbe salvare il salvabile, perch c' ancora molto materiale che magari perdiffidenza verso lo Stato non venne dato agli Archivi di Stato, e che per diffidenzaancora pi raffinata non viene dato nemmeno agli Istituti storici della Resistenza.L'esperienza insegna che la conservazione di questo materiale in genere non siprotrae per pi di due generazioni. Se voi siete figli di qualche partigiano

    conservate ancora con amore le sue carte, e tanto le amate che non le datenemmeno al locale Istituto storico della Resistenza, ma gi i nipoti allentano questolegame. 0 sono persone molto politicizzate, o fanno di mestiere lo storico (maquesti sono casi statisticamente di scarsa rilevanza), oppure il materiale vadisperso. Bisognerebbe rastrellare (la parola brutta!) quanto possibile di questecarte, e questa sarebbe una iniziativa molto utile.Per quanto riguarda la parte avversa, certo che una notevole quantit delle cartedella Rsi stanno negli Archivi di Stato: parte stanno a Roma nell'Archivio Centrale,ma ci sono anche carte, come quelle dei comandi provinciali della Guardia nazionalerepubblicana, gi esaminate da Pansa, da Calandri, da Corsini, solo per fare alcuninomi, che stanno negli Archivi di Stato dei capoluoghi di provincia. Secondo lalegge attuale dopo 50 anni tutti i documenti sono visibili, tranne gli atti dei processi

    penali, e quelli relativi a situazioni private, mentre quelli che riguardino la sicurezzainterna dello Stato lo divengono dopo 70 anni. In entrambi i casi possibilesuperare questo limite con la concessione di un permesso. Ci troviamo dunque difronte a criteri largamente discrezionali. Alcuni direttori d'Archivio, per tagliarecorto e non avere seccature, tendono a nascondere tutto. L'Archivio Centrale delloStato si comporta con maggiore liberalit. Comunque c' una possibilit data dallalegislazione di poter accedere anche ai fondi pi recenti: si tratta di farla applicaremeglio e con pi scrupolo.

    NOTE

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    L'intervista stata realizzata a Pisa il 12 novembre 1991 e successivamente rivistada Claudio Pavone e dai conduttori. Questi ultimi sono invece responsabilidell'apparato di note che la correda.(1) Cfr. Henri MICHEL, Boris MIRKINE-GUETZEVITCH, Les ides politiques etsociales de la Resistnce, Paris, Buf, 1954.(2) Cfr. Claudio PAVONE, La continuit dello Stato: istituzioni e uomini, in AA.VV., Italia 1945-48. Le origini della Repubblica, Torino, Giappichelli, 1974, pp. 137-289.(3) Il testo dell'intervento di Claudio Pavone, pronunciato nell'ambito del seminarioil 28 aprile 1980, inedito.(4) Le brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, Milano, Feltrinelli, 1979.L'opera, in 3 volumi, stata pubblicata per iniziativa dell'Istituto nazionale per lastoria del movimento di Liberazione in Italia e dell'Istituto Gramsci.(5) Il concetto, proposto da Guido Quazza in numerose occasioni, trova una suacompiuta esposizione nella sua Introduzione al volume Guerra Guerra di liberazioneGuerra civile, a cura di M. Legnani e F. Vendramini, Milano, Angeli, 1990, inparticolare le pp. 19-22.(6) Cfr. l'intervista di Antonio Gnoli a Nuto Revelli, Fucilavamo ifascisti e non me ne

    pento, in "La Repubblica", 16 ottobre 199 1.(7) L'intervista a Claudio Pavone e Giano Accame stata condotta da G. Frangi e M.Manisco ed comparsa con il titoloAchille compagno di storia di Ettore in "IlSabato" del 16 novembre 1991.(8) Cfr. Ferruccio VENDRAMINI, Premessa, in Guerra Guerra di liberazione Guerracivile, cit., pp. 7-11.(9) Il convegno 1943-'45. Repubblica Sociale Italiana sitenne a Brescia il 4 e 5ottobre 1985. Se ne vedano ora gli atti, La Repubblica sociale italiana 1943-45, acura di P. P. Poggio, Brescia, Annali della Fondazione "Luigi Micheletti", n. 2, 1986.In quell'occasione Pavone propose la relazione La guerra civile, pp. 395-415 degliAtti. Il convegno di Belluno Guerra Guerra di liberazione Guerra civile, di cui sonogi stati citati gli Atti, si svoltonella citt veneta nei giorni 27-29 ottobre 1988. Pavone svolse la relazione

    introduttiva, dal titoloLe tre guerre; patriottica, civile e di classe, che si pu leggerenel volume degli Atti alle pp. 25-36.(10) Si tratta del seminario internazionale Il collaborazionismo con le potenzedell'Asse in Europa 1939-1945, svoltosi a Brescia il 24-25 ottobre 199 l.(11) Il convegno, di cui sono in corso di pubblicazione gli atti, si svolto a Pariginel giugno 1990.(12) Cfr. Marco PALLA, Guerra civile o collaborazionismo?, in Guerra Guerra diliberazione Guerra civile, cit., pp. 8398.Alcune considerazioni critiche sulle tesi proposte da Marco Palla in quell'occasione sipossono leggere nell'articolo di Mario GIOVANA, Guerra Guerra di liberazione

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    Guerra civile. Alcuni temi di un dibattito, pubblicato in questo stesso numero dellarivista.(13) Un utile ed attento esame della fortuna e della sfortuna del concetto di guerracivile nel secondo dopoguerra nel saggio di Cesare BERMANI, Guerra diliberazione e guerra civile, in "L'Impegno. Rivista di storia contemporanea", Istituto

    per la storia della resistenza e della societ contemporanea in provincia di Vercelli,anno X, n. 1, pp. 10- 16.(14) Cfr. Roberto BATTAGLIA, Storia della resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1 ed.1953.(15) Cfr. Pietro SECCHIA, La Resistenza accusa, Milano, Mazzotta, 1973.(16) Cfr. Antonio GIBELLI, L'officina della guerra. La Grande Guerra e letrasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.(17) Cfr. Paul FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, ilMulino, 1984 (ed. originale: 1975); e Eric J. LEED, Terra di nessuno. Esperienzabellica e identit personale nella prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1985(ed. originale: 1979).(18) Cfr. Agostino GEMELLI, Il nostro soldato. Saggio di psicologia militare, Milano,Treves, 1917.(19) Piero MELOGRANI, Fu guerra civile, ecco i documenti, in "Corriere della Sera",30 ottobre 199 1.(20) La si veda ora nel volume che raccoglie gli Atti del convegno, L'Italia nella

    Seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di F. F. Tosi, G. Grassi, M.Legnani, Milano, Angeli, 1988.(2 1) Nella sovracoperta e nell'astuccio di Una guerra civile sono riprodotti duediversi particolari del quadro del pittore e architetto tedesco Albrecht Altdorfer(1480?- 1538), La battaglia di Alessandro e Dario a Isso Monaco, BayerischeStaatsgemldesammlungen, Alte Pinakothek).(22) Cfr. Paul GINSBORG, Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Societ epolitica1943-1988,Torino, Einaudi, 1989.(23) Cfr. Anna Maria BRUZZONE, Rachele FARINA, La Resistenza taciuta. Dodici

    vite di partigiane piemontesi, Milano, La Pietra, 1976.(24) Mare BLOCH,Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969,p. 157.(25) Cfr. la recensione di Norberto BOBBIO, Resistenza. Le guerre erano tre, in "LaStampa", 15 ottobre 199 1.(26) Il riferimento ai contributi presentati al convegno di Belluno Guerra Guerra diliberazione Guerra civile dai conduttori di questa intervista: La percezione delnemico. Ipartigiani di fronte al nazifascismo; e Il senso del rigore. La giustizia

    partigiana traprassi e ricerca di un nuovo codice morale. Li si veda ora, oltre che nelvolume degli Atti, cit., in Daniele BORIOLI, Roberto BOTTA, Igiorni della montagna.Otto saggi sui partigiani della Pinan-Cichero, Alessandria, WR Edizioni, 1990.

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    (27) Marco DI GIOVANNI, Iparacadutisti italiani. Volontari, miti e memoria dellaseconda guerra mondiale, Gorizia, Goriziana, 199 1.(28) Carlo MAZZANTINI,A cercar la bella morte, Milano, Mondadori, 1986.(29) Cfr. Bruno CARTOSIO, Memoria e storia: una famiglia tortonese nella guerra(1940-1945), in "Quaderno di storia contemporanea" , 1990, n. 8, pp. 57-81.(30) Cfr. Societ civile e insorgenza partigiana: indagine sociologica sulla diffusionedell'insorgenza partigiana nella provincia di Bologna, a cura di A. Ardig, Bologna,Cappelli, 1979.(3 1) Cfr. La recensione-intervista a Claudio Pavone di Marco NOZZA, S, fu unaguerra civile, in "Il Giorno", 17 novembre 1991.