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STUDIUM RICERCA, FILOSOFIA
1 Anno 114 - mar./apr. 2018 – n. 2 - ISSN 0039-4130
STUDIUM Ricerca
Anno 114 - mar./apr. 2018 - n. 2
Sezione on line di Filosofia
STUDIUM RICERCA, FILOSOFIA
2 Anno 114 - mar./apr. 2018 – n. 2 - ISSN 0039-4130
STUDIUM
Rivista bimestrale
Direttori emeriti: Vincenzo Cappelletti, Franco Casavola
COMITATO DI DIREZIONE: Francesco Bonini (Università LUMSA, Roma), Matteo Negro
(Università di Catania), Fabio Pierangeli (Università Tor Vergata, Roma)
COORDINATORI DI STUDIUM RICERCA, FILOSOFIA (SEZIONE ON LINE): Massimo
Borghesi (Università di Perugia), Calogero Caltagirone (Università LUMSA, Roma), Matteo Negro
CAPOREDATTORE: Anna Augusta Aglitti
Abbonamento 2018 € 72,00 / estero € 120,00 / sostenitore € 156,00
Un fascicolo € 16,00. L’abbonamento decorre dal 1° gennaio.
e-mail: [email protected] Tutti i diritti riservati.
www.edizionistudium.it
Gli articoli della Rivista sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli
atti. Per consulenze specifiche ci si avvarrà anche di professori esterni al Consiglio scientifico. Agli
autori è richiesto di inviare, insieme all’articolo, un breve sunto in italiano e in inglese
Edizioni Studium S.R.L.
COMITATO EDITORIALE
Direttore: Giuseppe Bertagna (Università di Bergamo); Componenti: Mario Belardinelli (Università
Roma Tre, Roma), Ezio Bolis (Facoltà teologica, Milano), Maria Bocci (Università Cattolica,
Milano), Massimo Borghesi (Università di Perugia), Giovanni Ferri (Università LUMSA, Roma),
Angelo Maffeis (Facoltà teologica, Milano), Gian Enrico Manzoni (Università Cattolica, Brescia),
Fabio Pierangeli (Università Tor Vergata, Roma), Angelo Rinella (Università LUMSA, Roma),
Giacomo Scanzi (Giornale di Brescia).
CONSIGLIERE DELEGATO ALLA GESTIONE EDITORIALE: Roberto Donadoni
REDAZIONE: Simone Bocchetta
UFFICIO COMMERCIALE: Antonio Valletta
REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
Edizioni Studium s.r.l., via Crescenzio, 25 - 00193 Roma
Tel. 06.6865846 / 6875456, c.c. post. 834010
Stampa: mediagraf - Noventa Pad. (PD)
Finito di stampare nel mese di aprile 2018
Autorizzazione del Trib. di Roma n. 255 del 24.3.1949
Direttore responsabile: Vincenzo Cappelletti
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3 Anno 114 - mar./apr. 2018 – n. 2 - ISSN 0039-4130
INDICE
Massimo Borghesi, Calogero Caltagirone, Matteo Negro, Introduzione p. 5
Sezione monografica “Forme della libertà”
A cura di M. Borghesi, C, Caltagirone, M. Negro
I. Calogero Caltagirone, La libertà “forma” del realizzarsi umano” p. 8
II. Mario De Caro, “Libero arbitrio, indeterminismo e tradizione scotistica” p. 16
III. Luca Ghisleri-Massimo Tura, Della libertà e della responsabilità.
Un confronto tra Pareyson e Lévinas p. 25
IV. Fabrizio Grasso, La libertà nell’Unico p. 33
V. Matteo Negro, La volontà e i suoi atti p. 42
VI. Riccardo Rezzesi, Economia e Filosofia. La libertà di Croce, le libertà
di Einaudi p. 54
VII. Giacomo Samek Lodovici, Alle radici della responsabilità:
l’imputabilità morale p. 71
Sezione miscellanea
VIII. Antonio Allegra, Postumanismo e vitalismo. Alle radici di un nodo teorico p. 86
IX. Lourdes Velázquez, Il problema della certezza nel contesto
filosofico attuale p. 92
X. Shaban Zanelli, Per una ridefinizione del rapporto utopia-distopia p. 99
LA NOSTRA BIBLIOTECA p. 118
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A questo numero hanno collaborato:
CALOGERO CALTAGIRONE, professore associato di Filosofia morale, LUMSA, Roma. MARIO DE CARO, professore ordinario di Filosofia morale, Università di Roma Tre, e Visiting Professor,
Tufts University (Massachusetts).
LUCA GHISLERI, ricercatore di Filosofia teoretica, Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale (Vercelli).
MASSIMO TURA, professore di ruolo di storia e filosofia presso il Liceo Capirola di Leno (BS).
FABRIZIO GRASSO, cultore della materia in Filosofia teoretica, Università di Catania.
MATTEO NEGRO, professore ordinario di Filosofia teoretica, Università di Catania. RICCARDO REZZESI, dottorando in Filosofia (Université Catholique de Lyon, Università degli Studi di
Perugia).
GIACOMO SAMEK LODOVICI, ricercatore di Filosofia morale, Università Cattolica di Milano. ANTONIO ALLEGRA, ricercatore di Storia della filosofia, Università per stranieri di Perugia.
LOURDES VELÁZQUEZ, professore di Bioetica, Universidad Panamericana (Città del Messico).
SHABAN ZANELLI, dottore magistrale in Filosofia, Università di Trieste e Udine.
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Introduzione
di Massimo Borghesi, Calogero Caltagirone, Matteo Negro
La filosofia è interrogazione per eccellenza: un sapere “anomalo” che all’autorità e al metodo
antepone l’interrogazione come fattore di costituzione dell’esperienza, continuamente sospesa tra
immanenza e trascendenza. La trascendenza dell’essere è il primo dato dell’esperienza, e nel
medesimo tempo il suo limite. Esperienza e metafisica, in quanto interrogazione sull’essere, si
incontrano. Per dirla con le parole di un filosofo italiano del secolo scorso, Marino Gentile: «il
principio metafisico è assoluto relativamente alle esigenze dell’esperienza» (Trattato di Filosofia,
1987, p. 179): esso è necessario al suo svolgimento. L’oblio della metafisica, cioè del vertice
dell’interrogazione filosofica, conduce invece alla problematizzazione dell’essere, alla sua riduzione
ad un genere, e all’assolutizzazione dell’esperienza. Da qui la trasformazione statutaria della filosofia
in scienza tra le scienze, tipica dei nostri tempi, attuata non di rado “prelevando” contenuti o metodi
dalle discipline più disparate: la storia, la filologia, le scienze esatte e naturali, la psicologia, la
sociologia. Ma è proprio tale indeterminatezza a rendere la filosofia – spiace dirlo – gradualmente
irrilevante e marginale nel mondo della cultura e dell’educazione: è doveroso riconoscerlo prima
ancora di addebitare responsabilità a fattori esterni di varia natura. È non è un caso che per accedere
all’insegnamento della filosofia nelle scuole oggi si debba necessariamente acquisire un numero
sempre maggiore di crediti in discipline non filosofiche.
Per questa ragione non è sbagliato dare voce e testimonianza ad una prospettiva diversa e ad
un impegno filosofico comprensivo delle dimensioni originarie e fondative (in primis quella
metafisica), senza vivere però il presente con senso di frustrazione o con la nostalgia di un’inesistente
età dell’oro. Un tale impegno non può che farsi carico della riscoperta del valore intrinseco
dell’interrogazione filosofica nel dialogo continuo e insopprimibile con i saperi e le discipline
protagonisti del nostro tempo, su un piano di confronto critico e di scambio fecondo di contributi e
sollecitazioni.
Con questo primo numero di Studium Ricerca di filosofia, appendice semestrale on line alla
storica Rivista che vide la luce nel lontano 1906 e oggi si propone in modo più articolato all’attenzione
del pubblico, intendiamo offrire uno strumento di approfondimento disciplinare, forti delle
motivazioni che abbiamo tentato di esporre, e perfettamente in linea con la missione della Rivista
stessa sin dai suoi albori, resa ancora più nitida dall’ispirazione montiniana. Una testata radicata nel
mondo universitario degli studi e della ricerca con un’identità chiara e certamente non in crisi, aperta
senza alcuna reticenza alla città degli uomini, attenta a cogliere ovunque spunti per un dialogo
costruttivo con culture e identità di segno diverso, ma soprattutto interessata ad un vigoroso scambio
interdisciplinare tra le scienze naturali, le scienze umane e sociali, la teologia e la filosofia. Studium
Ricerca in filosofia intende pertanto caratterizzarsi come una piattaforma che mira
all’interdisciplinarietà come cifra essenziale, non fine a se stessa, ma propedeutica alla comprensione
del moderno e delle dinamiche che interagiscono nel nostro tempo, con lo scopo di pensarlo,
interpretarlo, comprenderlo e abitarlo responsabilmente. Con questo spirito intendiamo valorizzare il
coinvolgimento di studiosi di estrazioni e orientamenti culturali variegati, senza restringere gli
orizzonti o erigere anacronistici steccati.
Il fascicolo che presentiamo qui contiene una corposa sezione monografica dedicata alle
“forme della libertà”, in cui sono presenti saggi che a partire da angolazioni diverse presentano alcune
declinazioni fondamentali della questione della libertà. In particolar modo, il suo fondamento
antropologico (Caltagirone), il libero arbitrio e il nesso con l’indeterminismo (De Caro), il senso della
libertà politica ed economica (Grasso, Rezzesi), la relazione tra la volontà e l’azione (Negro), e la
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dimensione della responsabilità (Ghisleri-Tura, Samek Lodovici). Non si può non cogliere un
ulteriore elemento di grande significato, comune agli studi che abbiamo l’onore di ospitare:
l’attenzione alla storia del pensiero e alle tradizioni, da quella scotistica e tomistica sino a quelle a
noi contemporanee, coniugata con il rigore dell’analisi e l’originalità della teoresi. Un buon auspicio
per il lavoro futuro e per la ricerca in campo filosofico. Inizio di un percorso il quale, nell’ascolto e
nel dialogo tra differenti prospettive, converge, nell’unità dei distinti, con uno sguardo sinottico sul
reale che ci coinvolge in quanto umani alla ricerca e alla pratica del vero, del bene e del bello.
Massimo Borghesi, Calogero Caltagirone, Matteo Negro
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Sezione monografica “Forme della libertà”
a cura di M. Borghesi, C. Caltagirone e M. Negro
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I. La libertà “forma” del realizzarsi umano1
di Calogero Caltagirone
1. Introduzione
Il termine libertà, che nel lessico di ogni lingua occidentale è un vocabolo polivalente, indicativo di
un concetto complesso e di difficile definizione, e un termine analogico, in quanto viene predicato
diversamente, di volta in volta, rispetto a enti della più diversa specie, risulta essere espressione
linguistica particolarmente appropriata per indicare le forti tensioni che attraversano l’esistenza
umana nella sua strutturazione e articolazione pluridimensionale2. La libertà, dal punto di vista
dell’antropologico e dell’etico, appartiene alla struttura dell’umano della quale la sensibilità è la
condizione patica di fare esperienza del mondo, la razionalità la modalità che lo specifica nell’ordine
dei viventi e l’azione il luogo privilegiato di realizzazione e compimento. La sinonimia tra agire libero
e agire personale mostra che l’attuazione dell’evento personale non può aver luogo senza un concreto
riferimento alla dimensione intersoggettiva che costituisce la struttura della libertà, la quale si instaura
e si esercita solo in una trama di rapporti interpersonali, che sono sottesi all’esperienza vissuta di ogni
singolo soggetto. In quanto tale, la libertà è condizione imprescindibile per la definizione
dell’antropologico, dell’etico e di ogni discorso ad essi relativi.
Il concetto di libertà, cui fa riferimento la cultura occidentale, è il prodotto di una lunga storia
di eventi e processi. Questa ha dato al concetto di libertà una struttura polisemica, facendola, appunto,
una nozione analogica, dinamica e articolata tale da creare le condizioni per aprire il discorso sulle
molteplici forme del suo dirsi, darsi e concretarsi. Esso interessa l’ambito ontologico, perché pone il
problema del suo fondamento, il campo antropologico, perché interpella sulle condizioni interiori e
personali che la rendono possibile, la sfera etica, perché guida la scelta tra il bene e il male, l’orizzonte
politico, perché cerca di individuare le condizioni esterne (sociali, economiche, culturali, politiche)
del suo praticarsi, la prospettiva teologica, perché cerca di specificare e impostare il rapporto tra
l’autonomia umana e l’azione divina, la relazione tra la libertà finita e la libertà infinita.
Nella sua complessità articolata, la libertà è tale nella circolarità delle relazioni che essa
concreta nella struttura dell’umano, il quale è, a sua volta, relazione con se stesso, con gli altri, le cose
del mondo, l’Oltre/Altro. Essa è possibilità di apertura relazionale in quanto è la ragione sufficiente
dell’esistere reale delle relazioni. In quanto tale, essa è tensione ad essere, capacità di auto-
trascendimento, nell’esperienza dell’uscita da sé verso l’altro, per ritrovare se stessi. Questa
condizione esistentiva di possibilità, che caratterizza la libertà, deriva dal fatto che l’ente è
«positivamente libero nel grado in cui possiede se stesso ed ha interiormente in questo rapporto con
1 L’intento di questo studio, pur tenendo presenti le problematiche connesse al tema della libertà e del libero
arbitrio provenienti dalle indagini neuroscientifiche, dalle ricerche sociologiche, dalle analisi psicologiche,
dalle esplorazioni politologiche, dalle normazioni giuridiche, è quello di concentrarsi sulla determinazione di una antropo-etica fondamentale della libertà, in grado di costituirsi come orizzonte intenzionale per lo sviluppo
e coordinazione degli apporti provenienti da tutti gli ambiti disciplinari. 2 «Di nessuna altra Idea, come l’Idea della Libertà, è così universalmente nota l’indeterminatezza e polivocità; tutti riconoscono che essa è suscettibile di grandi fraintendimenti e che, di conseguenza, è realmente soggetta
ad equivoci. Poiché lo spirito libero è lo Spirito reale, i fraintendimenti che lo concernono hanno le
conseguenze pratiche più pericolose; infatti, una volta che gli individui e i popoli hanno colto a livello rappresentativo il Concetto astratto della Libertà essente-per-sé, non c’è altro che abbia forza altrettanto
irresistibile, appunto perché si tratta dell’Essenza propria dello Spirito, e, precisamente, della sua stessa
Realtà». G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), § 482, a cura di V. Cicero,
Bompiani, Milano 2000, p. 787.
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se stesso la condizione sufficiente di tutto il suo essere e atteggiarsi»3. Ciò significa che l’essere-
presso-di-sé dell’umano deve essere pensato non come indipendenza dagli altri enti, ma come
configurazione ed espressione relazionale della connessione dell’insieme nella totalità dell’intero che
permette di cogliere la relazione dell’umano in e con se stesso, spazio-temporalmente connotato, a
fondamento dello stare in sé, in un continuo processo di «messa in forma», grazie al suo «muoversi
verso» una pluralità di «forme» di libertà altre4. L’altro non è il limite alla propria libertà, bensì, al
contrario, la istituisce, dando un senso all’identità soggettuale di ciascuno soggetto della relazione,
facendo sì che la libertà si concreti nelle dimensioni della storicità e della socialità. Questo in ragione
del fatto che l’uomo nel suo essere in rapporto con altri crea con libere azioni le opere del convenire
e del convivere insieme tra gli umani, che sono, pertanto, opere della verità, bontà, bellezza, unità
della comunità umana, la quale mette in comune, in una reciprocità reciprocante, il dono e il compito
della libertà, del suo accadere e del suo realizzarsi.
2. Modulazioni della struttura formale della libertà
A partire dall’asse liberum arbitrium-grazia della concezione agostiniana, passando per l’asse
liberum arbitrium-metafisica della concezione tomista, fino a giungere all’asse liberum arbitrium-
autonomia della tradizione cartesiana e luterana, che si è sempre più rafforzata attorno all’idea di
soggetto, la nozione di libertà, esaltata come conquista tipicamente moderna, ha provocato una serie
di fenomeni positivi, come gli approfondimenti dell’autonomia e dell’attività trascendentale del
soggetto, e negativi, come gli eccessi della concezione astratta e formalistica che ha portato alla sua
relativizzazione funzionalista. Questa determinazione ha causato l’affermarsi di un soggetto libero
autoreferenziale, esclusivamente disposto a rivendicare piuttosto che a relazionarsi, impegnato ad
attribuire alla propria libertà il qualificatore dell’assolutezza per la determinazione del suo realizzarsi
e affermarsi, nell’assenza di legami costringenti e condizionanti. Ciò ha portato alla configurazione
della struttura formale della libertà espressa nelle locuzioni «libertà da», che fa riferimento ai limiti
da superare, e «libertà di» che definisce libero colui che è in grado di realizzare le proprie potenzialità
e possibilità. Tale struttura, sulla base della paradigmatica tesi di Isaiah Berlin, che riprende Kant, in
terminologia sintetica ed efficace viene distinta in «libertà negativa», significando l’assenza di
fenomeni di dominazione, per cui «si ritiene che io sia libero nella misura in cui nessun individuo o
società interferisce con la mia attività»5 e «libertà positiva», che, derivando «dal desiderio da parte
dell’individuo di essere padrone di se stesso»6, specifica la possibilità di formulare e conseguire scopi
consapevoli finalizzati alla propria autodeterminazione soggettiva.7 Da questo punto di vista, essere
3 M. Müller, Libertà. II. Sulla filosofia della libertà, in K. Rahner (a cura di), Sacramentum Mundi,
Morcelliana, Brescia 1977, col. 744. 4 «Io non posso diventare me stesso se l’altro non vuole essere se stesso; non posso essere libero se l’altro non lo è, non posso essere certo di me se non lo è l’altro. Nella comunicazione non mi sento solo responsabile di
me, ma anche dell’altro, come se egli fosse me ed io lui; avverto infatti che la comunicazione si stabilisce solo
quando l’altro mi viene incontro allo stesso modo in cui io vado incontro a lui». K. Jaspers, Filosofia, Utet,
Torino 1978, p. 527. 5 I. Berlin, Due concetti di libertà, in Quattro saggi sulla libertà, Feltrinelli, Milano 1989, p. 189. 6 Ibid., p. 197. 7 «La notorietà dell’articolo di Berlin dipende in buona parte dalla fortuna della distinzione concettuale tra “libertà negativa” e “libertà positiva”. Si tratta di una partizione che, pur essendo già nota agli studiosi, non
aveva ricevuto l’attenzione che meritava come strumento di interpretazione semplice e persuasivo. In tale
prospettiva è stata ampiamente utilizzata nella ben nota formulazione che distingue la libertà da qualcosa (negativa) e la libertà di fare o essere qualcosa (libertà positiva). A ben vedere, si tratta però di una
semplificazione che non rende giustizia della complessità di tale analisi. Per Berlin, la libertà negativa ha a che
fare con la domanda su quale sia lo spazio entro cui un agente può fare o essere certe cose senza interferenze
altrui. La libertà positiva, invece, riguarda la domanda su chi governa, cioè chi è o che cosa determina che un
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«liberi da» significa il non essere legati rispetto a un ente o a una specie, non vivere nella dipendenza
da qualcosa o qualcuno e dal non essere condizionati in relazione a un motivo di determinazione.
Intesa, perciò come «libertà da coazione» o «libertà da costrizione», indica l’assenza di impedimenti
o di costrizioni esteriori posti alla volontà e all’azione del soggetto umano, e si presenta sempre come
«libertà relativa», in quanto ogni uomo appartiene a un mondo e in esso si trova necessariamente in
relazione con altre realtà che fanno parte dello stesso mondo8. «Esseri liberi di», invece, significa che
ogni uomo è positivamente libero nel grado in cui possiede se stesso e ha interiormente in questo
rapporto con se stesso la condizione sufficiente di tutto il suo essere e atteggiarsi. In altri termini,
indica la capacità di un soggetto di governare se stesso, cioè di determinare autonomamente la propria
volontà in modo da operare scelte orientate a realizzare fini che sono coordinati con essa, a motivo
del fatto che il soggetto dispone in se stesso i criteri che autorizzano e legittimano le sue scelte. Libertà
significa, in questo modo, auto-possesso, essere-presso-di-sé, bastando a se stessi, perché riguarda la
condizione di autonomia e di autodeterminazione dell’uomo, in forza della quale esso è principio di
iniziativa e di scelta tra percorsi alternativi di azione finalizzata all’auto-appropriazione di sé.
Nell’ambito della caratterizzazione di questa «forma» della libertà, la questione che si pone
«è relativa alle condizioni ultime di possibilità dell’autodeterminazione. In questa prospettiva, alla
libertà positiva può essere riconosciuta un’ulteriore profondità, come automotivazione a fondamento
dell’autodeterminazione della scelta. Nella misura in cui si concepisce la libertà come strutturalmente
relazionata al bene umano, essa assume anche il significato di liberazione, in quanto nel suo esercizio
ideale è attuazione dell’umano»9. Ciò in ragione del fatto che, costituendo il mistero centrale
dell’essere umano, la libertà ha a che fare con il rapporto mobile e «drammatico» che lega l’uomo a
se stesso e agli altri e, dunque, con la struttura stessa della relazionalità10. In questo modo, la libertà
agente faccia una cosa piuttosto che un’altra. Quest’ultimo aspetto non deve essere sovrapposto a quello della capacità, nel senso di “avere il potere di fare qualcosa”, che pure si avvicina abbastanza all’idea di libertà di
fare o essere qualcosa. In un certo senso, si può dire che nel dibattito seguito alla pubblicazione del saggio di
Berlin si trovano due sensi diversi, anche se vicini, di libertà positiva. La prima si può chiamare “libertà di autodeterminazione” (il non essere eterodiretto), e la seconda “capacità” (cioè il potere di fare qualcosa). […].
Si potrebbe chiedere a questo punto se si tratta effettivamente di due concetti di libertà. La risposta a questo
quesito può essere affermativa. I due sensi di libertà positiva hanno in comune il fatto che descrivono
caratteristiche naturali o sociali dell’agente più o meno libero, mentre la libertà negativa pone l’accento sulle condizioni esterne a tale agente e, in particolare, sulle azioni di altri agenti che possono in qualche modo
interferire con la sua possibilità di agire. La fortuna della distinzione tra libertà negativa e positiva può essere
ricondotta al fatto che molti studiosi l’hanno considerata di grande utilità per mettere in luce le differenze tra liberali e socialisti. In particolar modo, si è detto che tra le caratteristiche di una teoria liberale della società
c’è quella di preferire una definizione negativa della libertà. Dal punto di vista di molti liberali, è essenziale
limitare, per quanto possibile, l’interferenza altrui nelle azioni di un individuo. Essi negano invece l’identificazione di libertà con l’autodeterminazione o con la capacità». I. Carter-M. Ricciardi, Introduzione,
in I. Carter-M. Ricciardi (a cura di), L’idea di libertà, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 8-9. Per una discussione
sulle due nozioni di libertà, cfr. G.C. MacCallum jr, Libertà negativa e positiva, in I. Carter-M. Ricciardi (a
cura di), L’idea di libertà, cit., pp. 19-42; J.N. Gray, Libertà negativa e positiva, ibid., pp. 43-74; I. Sciuto, Libertà e liberazione, in Seconda navigazione. Bene, male, libertà, Annuario di filosofia 1999, Mondadori,
Milano 1999, pp. 69-90. 8 «Tale significato della libertà trova la sua tipica affermazione come libertà di azione e si specifica, secondo la diversa natura dei livelli antropologici e il campo di operazione, in libertà di coscienza, di pensiero, di parola,
di culto, di iniziativa, di aggregazione, ecc., e quindi nelle forme sociali della libertà religiosa, economica,
civile, giuridica, politica, ecc.». F. Botturi, Libertà, in Enciclopedia filosofica, 7, Bompiani, Milano 2006, p. 6394. 9 F. Botturi, Libertà, cit., p. 6394. 10 Cfr. G. Marcel, Dal rifiuto all’invocazione. Saggio di filosofia concreta, Città Nuova, Roma 1976, pp. 84-
85.
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si definisce come il fatto dell’esistenza in quanto tale perché «l’“essere libero” non consiste […] nel
causare “liberamente” ma nell’essere-libero dell’esistenza»11.
Anche se i due significati di libertà sono suscettibili di essere posti in contrapposizione, in
realtà essi, effettivamente, in quanto ideali umani insieme degni, si richiamano reciprocamente in
ragione del fatto che l’idea di libertà evoca originariamente tanto la condizione di non schiavitù
quanto l’autonomia di un soggetto individuale o collettivo. Questo vuol dire che la libertà umana, non
equivalendo né alla libertà negativo-relativa né a quella positivo-assoluta, si costituisce come «forma»
originaria e originale dell’umano e del suo realizzarsi, in quanto lo istituisce nella sua soggettualità
in forza dell’esperienza del senso e della determinazione di sé che sa e decide di sé nella relazione
con l’altro. Proprio perché implicata nella relazione interpersonale o intersoggettiva, la libertà, che è
la costituzione essenziale dell’umano, è irriducibile all’arbitrarietà, in quanto, nel tramite di essa,
l’umano individua il suo diventare soggettivo quando riconosce la sua responsabilità di fronte alla
libertà dell’altro.
La libertà appare, in questo modo, strutturalmente, nella sua «forma» specificamente
relazionale perché dimensione costitutiva dell’umano «soggetto di-relazione-in-relazione» che
interagisce, nella distensione dei tempi e degli spazi, con altre soggettività «di-relazione-in-relazione»
altrettanto libere. Presentandosi come la qualità dell’essere dell’uomo, la libertà, nella sua
«drammatica relazionale», è un dono e un compito, in ragione del fatto che la sua distensione
drammatica, negli spazi e tempi della vita, connota l’esperienza del senso che si dà nella coscienza
umana. Essa avviene sempre nella forma di un dono che istituisce la libertà e di un appello per la
libertà e non si realizza se non in virtù di una decisione, finalizzata all’auto-appropriazione
dell’esistenza.
In quanto tale, la libertà è attributo ontologico e valore morale dell’uomo e per l’uomo. Il che
vuol dire che, superando una concezione naturalista e oggettivante di essa, la libertà si mostra come
una qualità strutturale dell’antropologico e dell’etico, per cui l’essere e l’agire umano non possono
essere veramente tali se non vengono qualificati come liberi per il valore da perseguire e realizzare.
Ciò spiega perché l’identità soggettuale dell’uomo è data dal suo agire libero, nel quale essa è
implicata. La libertà, infatti, consiste in quella proprietà fondamentale dell’uomo in virtù della quale
egli può dire di se stesso che egli «è», è capace di agire perché «ha da essere», nei confronti del quale
è chiamato a decidersi e a mettere in atto azioni qualificate per la definizione del suo «avere da
essere». In quanto tale, essa è condizione necessaria per la scelta e l’azione orientate a concretare ciò
che l’uomo vuole essere, cioè il progetto della «forma» fondamentale propria umanità.
3. Il concreto della libertà
Quanto finora detto orienta a considerare la libertà all’interno di un orizzonte intenzionale di
definizione che è dato dal dinamismo processuale del suo effettivo esercizio12. Infatti, prima di ogni
predicazione formalizzante e aggettivante, la determinazione della libertà, come «forma» del
realizzarsi umano, pur con la consapevolezza della presenza di una molteplicità di livelli e discorsi,
va colta nella «drammaticità» della condizione umana, distesa negli spazi e tempi della vita, in virtù
del fatto che essa ha un legame con le forme immediate di essa. Per poter realizzare questa
tematizzazione, è, però, necessario accreditare una teoria dell’agire che, evitando di essere ridotta
solo al momento morale, possa intervenire come principio unificante dell’antropologico e dell’etico
nella prospettiva del compiersi umano, il quale, nella correlatività di una reciprocità reciprocante di
11 J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino 2000, p. 104. 12 Cfr. F. Botturi, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano 2009, p.
125.
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tutte le sue dimensioni strutturali, è chiamato a «diventare ciò che è»13. Questo in ragione del fatto
che l’antropologico non approda al suo compimento se non per il tramite dell’etico, per cui l’etico,
che entra come costituente fondamentale dell’antropologico, sarebbe impossibile se non come
compimento dell’antropologico, altrimenti si scadrebbe nel moralismo più abietto e mortificante. Non
a caso, l’etico è il vissuto della dimensione relazionale della libertà che si concreta nella sua
dimensione riconoscitiva, responsoriale e responsabile14.
Effettivamente, poiché, nel tramite dell’agire, l’uomo viene a coscienza di sé e della sua
«verità» antropologica fondamentale, intessendo rapporti e relazioni con se stesso, gli altri, le cose
del mondo, l’Oltre/Altro nella distensione degli spazi e tempi della vita, la libertà, appunto perché il
suo essere data non può che essere donata da altre libertà15, non è solo autodeterminazione e
autorealizzazione. Essa è, primariamente, rapporto con altri/Altro, specificamente con altre libertà
che istituiscono l’umano, nella correlatività di una continua e permanente reciprocità reciprocante,
nella sua soggettualità. Avendo una struttura antropo-etica originariamente «evenemenziale», in
quanto la sua identità si realizza attraverso la mediazione di esperienze patiche e pratiche, l’umano
esiste nella «forma» di un essere che procede da un’origine, la quale costituisce la «genitura della
propria esistenza» ed è affidato a se stesso, affinché possa appropriarsi della propria umanità, cioè, in
altre parole, possa appartenersi16. In questo modo, la libertà è «dialettica» di passività e attività, di
passività che si converte in attività, in quanto è «iniziativa iniziata» che fa riferimento ad una
«dialettica di dono e consenso»17, per cui si esercita come atto di assenso o di rifiuto alla propria
umanità e umanizzazione. La libertà diventa, così, centro attivo e dinamico dell’umanità dell’uomo
che, per il tramite della sua «drammatica», si concreta nella sua specificità propriamente umana, in
quanto è finalizzata all’illimitata realizzazione personale, sociale e mondana, sostenendo il processo
di liberazione teso a liberare la propria libertà18.
Grazie alla sua configurazione «drammatica» e per il suo vitale articolarsi tra il patico e il
pratico, la libertà acquista, insomma, forma compiuta in un rapporto intrinseco con altra libertà che,
13 Cfr. C. Caltagirone, Diventare ciò che si è. La prospettiva etica come principio di umanizzazione, Aracne,
Roma 2008. 14 «La libertà si concretizza nella decisione, ma la scelta nasce da un sentirsi chiamati a esercitare appieno la
responsabilità della propria vita. La responsabilità non è un atto di natura giuridica, non è il peso che mettiamo
sulle spalle e che non vediamo l’ora di scrollarci di dosso, ma è la risposta che sentiamo di dover dare a un
appello che proviene dall’intimo a quella domanda che avvertiamo come nostra. La responsabilità ha una caratteristica intrinsecamente relazionale. […] Responsabilità e libertà sono intrinsecamente legate e sono al
cuore delle dinamiche più profonde dalla vita personale, di quelle dinamiche che muovono la persona: dalla
libertà alla grande decisione della vita, dalla libertà alle grandi scelte, ma anche alle piccole risposte che, giorno dopo giorno, la sostanziano e la rendono concreta, la trasformano in quotidianità, normalità della vita stessa».
F. Miano, Per una responsabilità generativa, in P. Gomarasca-P. Monti-G. Samek Lodovici (a cura di), Critica
della ragione generativa, Postfazione di F. Botturi, Vita e Pensiero, Milano 2017, pp. 41-42. 15 Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1985, pp. 22, 32, 255. Cfr.,
anche, L. Pareyson, Filosofia della libertà, Il Melangolo, Genova 1991, p. 20. 16 «Perché l’uomo possa conoscere, agire e addirittura volere, non basta che disponga delle facoltà naturali
corrispondenti; è invece indispensabile che a lui accada qualche cosa. Che si realizzino, più precisamente, quelle prime esperienze passive, mediante le quali soltanto è a lui annunciata una promessa e insieme un’attesa;
è addirittura ingiunto un imperativo categorico, o un comandamento – per usare la lingua biblica. Appunto
attraverso queste originarie esperienze passive il soggetto realizza la prima intuizione d’essere quel singolo, oggetto di conoscenza e insieme di desideri da parte di altri; vive in tal senso il presagio della propria innegabile
identità e nasce di conseguenza in lui il desiderio di corrispondere all’attesa che lo anticipa; nasce il sentimento
oscuro di dover corrispondere a quell’attesa, per accedere così alla conoscenza della propria identità e della ragione di valore della propria persona». G. Angelini, L’agire e l’identità del soggetto, in Teologia, XXXVI,
2011, 3, p. 335. 17 L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, cit., p. 168. 18 Cfr. J. De Finance, Saggio sull’agire umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.
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nelle dinamiche delle relazioni personali e interpersonali, è dotata di struttura dialogica che interessa
sia la sua genesi, sia il suo esercizio, sia il suo compimento. Pertanto, esistendo nella «forma» del
riconoscimento che riceve e sperimentando «la libertà dell’altro come beneficio per sé»19, in quanto
«la scelta di me si accompagna alla scelta dell’altro»20, l’uomo esiste da persona libera che attraverso
i suoi atti umani si cerca, ponendo la questione della propria «verità», si progetta, individuando il
«fine» della propria vita, si realizza, concretando la «forma» del proprio essere21.
La struttura dinamica ed evenemenziale dell’agire dispone lo spazio per intendere il concreto
della libertà come possibilità effettiva del realizzarsi umano attraverso le molteplici creative pre-
figurazioni, con-figurazioni e ri-figurazioni della «forma» del suo essere, nelle differenti contestualità
esistenziali e dei quartieri di vita all’interno dei quali costruisce la sua dimora (ethos). Questo vuol
dire che la configurazione dell’identità soggettuale dell’umano, dal momento in cui ogni uomo è
libero solo nella relazione, giacché è questa che istruisce gli spazi e i tempi delle scelte, prende
«forma» nel tramite dell’azione libera che vive di rapporti e istituisce rapporti. Questi intrecciano una
storia di incontri e testimoniano incontri che si fanno storia, attraverso un effettivo cammino di vita
che si nutre sempre degli eventi liberanti che gli sono accaduti. La libertà, da questo punto di vista, si
correla con la stessa biografia dell’umano, in quanto storia di soggetto attivo che, nel tramite della
libertà, definisce il proprio progetto di vita, dando corso ad una serie di azioni che lo concretano e lo
qualificano. In quanto tale, essa è il processo con il quale ciascun uomo dispone della propria
soggettivazione. In altre parole, è la forma e il modo tramite i quali l’uomo sceglie di diventare un
soggetto con un’identità ben definita, tale da connotare uno stile di umanità compiuta.
La libertà può diventare, realmente, quella che è solo grazie alle evidenze dell’esperienza
pratica effettiva. Queste la liberano attraverso la qualità delle azioni che l’uomo mette in atto lungo
il processo che conduce dal primo cammino spontaneo della vita alla decisione a proposito di sé. Ciò
in virtù del fatto che, nel proprio agire, l’uomo coglie integralmente se stesso e in rapporto con la
totalità della vicenda umana nel distendersi gli spazi e tempi della vita. La pienezza della libertà si
realizza, compiutamente e concretamente, come coincidenza tra il realizzarsi di sé e la piena
dedizione agli altri. In questo modo viene liberata la propria libertà e quella altrui, in un processo di
co-definizione della propria soggettualità grazie alla presenza dell’altro nel quale il soggetto trova la
propria libertà. Non a caso, la libertà dell’altro, lungi dall’essere un ostacolo alla propria libertà, in
realtà, è parte integrante della propria costituzione. Esistendo, infatti, per e con gli altri, l’uomo
diventa libero e conserva la propria libertà attraverso la libertà degli altri. Ciò rende ragione del fatto
che ad ogni persona va riconosciuto il diritto alla libertà e alla responsabilità, le quali, essendo
dimensioni costitutive dell’umano, conferiscono significato e qualità all’esistenza e
contraddistinguono l’agire che si connota come agire morale.
In questo modo, non essendo una delle facoltà umane, ma ciò che lo fa essere pienamente
uomo, giacché appartiene alla struttura fondamentale dell’umano, la libertà non si pone come realtà
esteriore rispetto a ciò che è il vissuto umano, ma costituisce la «forma» propria del suo concretarsi
19 F. Botturi, Formazione della coscienza morale: un problema di libertà, in L. Alici-F. Botturi-R. Mancini,
Per una libertà responsabile, a cura di G. Brena-R. Presilla, Messaggero, Padova 2000, p. 86. «Solo nel
reciproco riconoscimento giungiamo ad essere entrambi noi stessi. Solo insieme possiamo raggiungere ciò che ciascuno di noi cerca di raggiungere». K. Jaspers, Filosofia, cit., p. 527. 20 K. Jaspers, Filosofia, cit., p. 657. 21 «La libertà muove dalla capacità di accogliere se stessi, il proprio essere dati a se stessi; di accogliere, in altre parole, il grande dono della vita, della propria vita personale. Accogliere se stessi è il primo passo per
esercitare la propria libertà, è il germe di tutte le azioni future. La libertà è prima di tutto questo atto di relazione
con se stessi, a partire dal quale si cresce, si è coinvolti, si fanno passi avanti dal punto di vista delle scelte e delle decisioni. La libertà vera si esercita, si concretizza e si mette alla prova nella capacità di scegliere e di
decidere. Nella vita, scegliere e decidere vuol dire sostanzialmente anche assumere un orientamento, avere una
direzione, individuare un progetto, scoprire una finalità». F. Miano, Per una responsabilità generativa, cit., p.
41.
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e compiersi. Ciò perché essa si mostra nel suo darsi concreto come luogo della decisione di sé e di
cogliersi come un intero all’interno di una complessa trama di relazioni che, nella loro pluralità, lo
istituiscono, costituiscono, a volte lo destituiscono, nella esistenza in cui vive e da cui è determinata.
Pertanto, se la libertà si concreta nella «forma» della relazione, questa si dà come piena messa in atto
della libertà e della sua irriducibilità funzionale e strumentale. Sotto questo profilo, la libertà è il
risultato di un processo disteso nello spazio e nel tempo e proporzionalmente compiuto
nell’articolazione delle relazioni che intessono l’umano nella sua complessità. In questo senso, è
possibile dichiarare che l’uomo è, costitutivamente tale, perché «è» la sua libertà e non perché, come
solitamente si afferma, «ha» la libertà. La libertà specifica l’umano, ne è la cifra e il suo nome proprio.
In essa, iscritta nello statuto dell’antropologico, l’uomo si comprende, si definisce, si decide e si
rapporta con se stesso, con gli altri, con le cose del mondo, con l’Oltre/Altro.
4. L’«opzione fondamentale» della libertà
Alla luce di questo orizzonte comprensivo è possibile notare che la riflessione sulla libertà come
«forma» del realizzarsi umano, nella sua dimensione concretamente relazionale, introduce al cuore
stesso della soggettualità dell’umano e guida a una comprensione più articolata della stessa coscienza
che, in ambito etico, si definisce come coscienza morale. Questa, proprio nella dinamica relazionale
tra il valore e la libertà, consente di giudicare all’interno di un orizzonte polare che oscilla tra la
possibilità di decidere per il proprio realizzarsi e la consapevolezza del condizionamento che si
esercita, in forma diversa e con differente intensità, su tutto il suo agire. Non essendo costituito da
singoli atti tra loro giustapposti, bensì contrassegnato da un insieme di azioni connesse da una trama
relazionale sottesa alla struttura dell’essere personale e legato al suo progetto di compimento umano,
l’agire, configurandosi come processo continuo nel quale l’uomo dispone di sé nella sua totalità,
richiede il riferimento al nucleo più profondo dell’umano dal quale prendono forma e si dipartono
tutte le decisioni e le scelte fondamentali che lo impegnano in modo radicale nell’esercizio della
propria libertà. Conseguentemente, poiché non può esaurirsi alla semplice libertà di scelta, ma
evidenzia la qualità dell’essere umano, la libertà deve esplicitarsi come «opzione fondamentale» che
si esprime nella possibilità di determinarsi per il bene o per il male, per l’amore o per l’egoismo, per
l’apertura all’altro (altruismo) o per la chiusura in se stessi in termini radicalmente autoreferenziali
(egoismo)22. Tale esplicitazione, esprimendo la sua configurazione personale e impegnando la propria
dimensione soggettuale, mostra che l’uomo sperimenta la capacità di darsi una determinazione
finalizzata alla realizzazione dell’accadimento della positività dell’essere per sé e per gli altri, un
orientamento radicale verso la concrezione della sua verità e del suo bene23. Come «opzione
fondamentale» la libertà, che è caratterizzata dal suo essere in situazione, è un prendere posizione nei
confronti del proprio progetto di vita e delle modalità concrete per realizzarlo. Un prendere posizione
che influenza tutte le successive scelte che il soggetto umano compie nella condizionatezza della
propria esistenza e nell’apertura all’immenso campo di possibilità realizzative, in quanto definisce
l’orizzonte all’interno delle quali vanno collocate le singole scelte categoriali. L’«opzione
fondamentale» della libertà è, in questo modo, il tessuto che conferisce coerenza alla vita umana,
qualificata eticamente, in quanto unifica i singoli atti umani, non riducibili meramente alla loro
somma, in un contesto esistenziale situato e in costante relazione con gli altri e con il fine che intende
conseguire. Nella libera «opzione fondamentale» l’umano costruisce se stesso e si progetta, delinea i
propri piani di vita e definisce gli stili di umanità da realizzare, in risposta all’appello del «diventare
ciò che è», dirigendosi verso il bene del suo realizzarsi, secondo le sue capacità, potenzialità e
funzionamenti. Sotto questo profilo, l’«opzione fondamentale» della libertà, che non sorge
22 Cfr. K. Rahner, Teologia della libertà, in Nuovi Saggi, I, Paoline, Roma 1968, pp. 297-328. 23 Cfr. F. Totaro, Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi, Prefazione di V. Melchiorre, Vita e
Pensiero, Milano 2013, pp. 101-102.
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improvvisamente, ma si configura in un lungo processo di maturazione, oltre a consentire una
migliore comprensione dell’agire umano e del suo significato etico, a prestare particolare attenzione
alla struttura profonda dell’agire, a dare importanza alla qualità delle azioni, determina le condizioni
del realizzarsi umano ispirando le singole azioni categoriali in quanto mette le persone nelle
condizioni di concretare la propria capacità di potere per la «liberazione» della propria umanità, nel
tramite della quale l’uomo porta a compimento se stesso, dando, in un orizzonte di stabilità
esistenziale, pieno sviluppo alla propria identità personale.
Calogero Caltagirone
SOMMARIO
La libertà, dal punto di vista dell’antropologico e dell’etico, appartiene alla struttura dell’umano.
L’attuazione dell’evento personale non può aver luogo senza un concreto riferimento alla dimensione
intersoggettiva che costituisce la struttura della libertà. Essa si costituisce come «forma» originaria e
originale dell’umano e del suo realizzarsi. La libertà diventa, così, centro attivo e dinamico
dell’umanità dell’uomo, si correla con la stessa biografia dell’umano, che definisce il proprio progetto
di vita, dando corso ad una serie di azioni che lo concretano e lo qualificano. L’intento di questo
studio, pur tenendo presenti le problematiche connesse al tema della libertà e del libero arbitrio
provenienti dalle indagini sviluppati da altri saperi, è quello di concentrarsi sulla determinazione di
una antropo-etica fondamentale della libertà, in grado di costituirsi come orizzonte intenzionale per
lo sviluppo e coordinazione dell’agire umano.
SUMMARY
Freedom, from the anthropological and the ethical point of view, belongs to the structure of the
human. The implementation of the personal event can not take place without a concrete reference to
the intersubjective dimension which constitutes the structure of freedom. It is constituted as the
original and original “form” of the human being and of his fulfillment. Thus, freedom becomes the
active and dynamic center of mankind, it correlates with the same biography of the human, which
defines its own project of life, giving rise to a series of actions that concretize and qualify it. The
intent of this study, while keeping in mind the issues related to the issue of freedom and free will
coming from the investigations developed by other knowledge, is to focus on the determination of a
fundamental anthropological ethics of freedom, able to constitute itself as a horizon intentional for
the development and coordination of human action.
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II. Libero arbitrio, indeterminismo e tradizione scotistica
di Mario De Caro
Si sente spesso ripetere che il concetto del libero arbitrio può essere interpretato in due direzioni
diverse, a seconda di quale, tra due intuizioni prefilosofiche ad esso legate, si dà predilezione teorica.
La prima di queste è intuizioni è quella secondo cui la libertà presuppone che all’agente si prospettino
diversi corsi d’azione alternativi. Detto altrimenti: c’è un senso in cui, al momento di compiere
un’azione libera, un agente potrebbe compierne un’azione alternativa. È questa la cosiddetta
condizione delle “possibilità alternative” o “possibilità di fare altrimenti”, che richiama direttamente
la medioevale libertas indifferentiae. La seconda intuizione legata al concetto di libertà è quella
secondo la quale la scelta tra i corsi d’azione compiuti da un agente che agisce liberamente non
possono essere il prodotto di fattori completamente fuori dal suo controllo (come accade, invece,
quando siamo obbligati a compiere una determinata azione o quando stabiliamo cosa fare in base al
lancio di una moneta). In questa prospettiva, dunque, è necessario che un’azione, per dirsi libera, sia
determinata dall’agente o, almeno, che questi partecipi in maniera rilevante al processo che conduce
all’attualizzazione di uno specifico corso d’azione. Questa seconda intuizione pone alla libertà la
cosiddetta condizione “del controllo” o “dell’autodeterminazione” o dell’“autonomia”, che ricorda
assai da vicino la libertas spontaneitatis del pensiero medioevale. Tradizionalmente si è pensato che
le concezioni filosofiche potessero essere distinte a seconda di quale intuizione, tra quella delle
possibilità alternative e quella del controllo, privilegiassero. Oggi, tuttavia, la maggior parte degli
autori concorda nel ritenere che il libero arbitrio presupponga entrambe le condizioni – nel senso che,
prese individualmente, tali condizioni appaiono necessarie per il possesso del libero arbitrio (più
controverso è se esse, prese congiuntamente, ne siano anche condizioni sufficienti). In tale
prospettiva, nessuna concezione della libertà può dirsi adeguata se non è in grado di dare conto, in
qualche modo, tanto della possibilità di fare altrimenti quanto dell’autodeterminazione. In questa luce,
per esempio, Gary Watson, uno dei protagonisti della discussione contemporanea, ha scritto che «Any
adequate conception of free agency must provide for possibility and autonomy in some sense»1.
Questo articolo discuterà in particolare del “libertarismo”, la famiglia di concezioni che radica il
libero arbitrio nell’indeterminismo causale. In particolare, il primo paragrafo passerà in rassegna le
versioni contemporanee del libertarismo, mentre il secondo discuterà delle sorprendenti affinità tra
alcune di queste versioni e la posizione elaborata nel tredicesimo secolo da Duns Scoto.
1. Il libertarismo
Una parte importante del vasto e frastagliatissimo dibattito contemporaneo sulla questione del libero
arbitrio è dedicata alle prospettive la concezione del “libertarismo”, secondo la quale il possesso e
l’esercizio del libero arbitrio richiedono che nella catena causale che porta al compimento un
determinato agente a compiere le proprie scelte e azioni figurino in posizione causalmente rilevante
elementi indeterministici. All’interno di questa discussione, inoltre, sono sempre più numerosi gli
studi che approfondiscono la nostra comprensione delle concezioni libertarie sostenute in passato e
ciò sia nell’ambito della filosofia secolarizzata (in cui il libero arbitrio è minacciato o almeno limitato
dalla struttura causale del mondo) sia nell’ambito teologico (in cui al libero arbitrio si contrappongono
proprietà divine come la prescienza e la provvidenza). Nel primo senso, alla tradizione libertaria
1 G. Watson, Free Action and Free Will, in Mind, 96, 1987, p. 145. Per un inquadramento della discussione
contemporanea sul libero arbitrio, si vedano M. De Caro, Il libero arbitrio. Un’introduzione, Laterza, Roma-
Bari 20177 e M. De Caro (a cura di), Logica della libertà, Meltemi, Roma 2002.
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appartennero Epicuro, Carneade, Alessandro di Afrodisia, Machiavelli, Descartes, Reid, Kant, i
maestri del pragmatismo e Popper; nel secondo, Pelagio, Scoto Eriugena, Duns Scoto, Pico della
Mirandola, i protestanti armininiani, i cattolici molinisti nonché il vescovo anglicano John Bramhall,
accanito interlocutore di Hobbes in una famosa disputa su possibilità e modi della libertà umana. È
importante notare, tuttavia, che questi due ambiti di discussione sul libero arbitrio non sono irrelati,
perché la struttura del problema e le opzioni teoriche disponibili per affrontarlo presentano importanti
affinità strutturali. Per mostrare con un esempio il senso di questa affermazione, questo articolo si
occuperà considerando il lascito del maggior espondente della tradizione libertaria di ambito
teologico, ossia Duns Scoto, il Doctor subtilis della tarda scolastica oxoniense.
Entrando più nello specifico, il libertarismo è la concezione del libero arbitrio più vicina
all’immagine prefilosofica che ne offre il senso comune e si incentra su quattro tesi fondamentali: (i)
che in condizioni normali gli esseri umani godano della libertà; (ii) che tale libertà non si limiti
all’ambito dell’azione, ma concerna anche quello della volontà e della scelta; (iii) che la libertà sia
incompatibile con il determinismo; (iv) che nell’ambito dell’agire umano si dia un qualche spazio di
indeterminazione. Queste tesi sono di diversi tipi: la prima e la seconda riguardano la concezione
degli esseri umani in quanto agenti; la terza ha carattere concettuale; la quarta concerne, infine, la
struttura ontologica del mondo naturale.
Le varie forme di libertarismo si differenziano per il mondo in cui articolano le tesi
fondamentali di questa concezione, in funzione delle rispettive assunzioni ontologiche di fondo. Una
prima versione radica il libertarismo nel dualismo ontologico: e l’esempio più influente è il sistema
cartesiano, con la sua radicale cesura tra il regno dei corpi materiali e quello della sostanza pensante,
tra res extensa e res cogitans. Secondo Descartes, nell’ambito della res extensa il determinismo vige
in modo ferreo e dunque i corpi vanno considerati come meri meccanismi che obbediscono
ciecamente alle leggi di natura. L’ambito della res cogitans al determinismo sfugge, invece, per
definizione: la mente, infatti, si caratterizza proprio per la sua assoluta spontaneità, che è relativa
tanto al pensiero quanto (e questo è cruciale) alla volontà. Scrive in proposito Descartes: “è così
evidente che noi abbiamo una volontà libera, che può dare il suo consenso o negarlo, quando le piace,
che questa può essere considerata una delle nostre più comuni nozioni”2.
La concezione cartesiana incorpora in modo essenziale le quattro tesi fondamentali del
libertarismo sopra riportate: essa infatti assume che gli esseri umani – in quanto menti – godano del
libero arbitrio, che siano liberi non soltanto nell’agire ma anche nella volontà, che la libertà
presupponga l’indeterminismo e che il determinismo non viga nell’ambito della res extensa. Tuttavia,
pure se esemplarmente chiara, questa concezione apparve assai poco convincente già ai
contemporanei di Descartes. Il primo problema che essa incontra discende da una difficoltà che
affligge la filosofia cartesiana in quanto tale, ovvero la questione dell’interazione causale tra il mondo
mentale e quello materiale: se questi due mondi, infatti, sono per definizione ontologicamente distinti
e irrelati, come possono interagire causalmente l’uno sull’altro? D’altra parte, l’intuizione della
libertà presuppone la nostra capacità di causare, mediante le azioni, cambiamenti nel mondo
circostante: se, dunque, la mente non fosse in grado di interagire causalmente con il mondo fisico, il
concetto di libertà non potrebbe trovare alcuna applicazione. Inoltre, il cartesianismo incontrò anche
una difficoltà di altro genere: il rigido dualismo ontologico che esso presupponeva, infatti, parve
inaccettabile ai filosofi che preferivano il monismo, sia sulla base di argomentazioni metafisiche
(come Spinoza) sia in ragione di interpretazioni monistico-materialistiche della nuova scienza (come
Hobbes). Tuttavia, non sono mancati nei secoli successivi tentativi di riprendere la proposta
cartesiana, tentando di risolvere le gravi difficoltà che essa aveva incontrato: a parte il caso dello
spiritualismo – che, comunque, come detto, trattò della questione del libero arbitrio solo in senso lato
2 R. Descartes, Principia Philosophiae, Amsterdam 1644; trad. it. I principii della filosofia, Laterza, Roma-
Bari 1986, p. 41. Cfr. Anche M. Mori, Libertà, necessità, determinismo, Il Mulino, Bologna 2001, cap. 1.
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–, in proposito si possono menzionare le recenti proposte di John Eccles e di Karl Popper3.
Quest’ultimo, in particolare, ha esplicitamente difeso una visione “quasi cartesiana”, incentrata
sull’indeterminismo e sul dualismo ontologico.
Un diverso modo di difendere il libertarismo si fonda su un dualismo di carattere
trascendentale, piuttosto che ontologico. Il campione di questo indirizzo è Kant, il quale definisce la
libertà come la spontanea realizzazione della propria autonomia da parte del soggetto. Al pari di
Descartes, Kant riconosce l’incompatibilità tra la libertà e il determinismo delle leggi di natura: a suo
giudizio, i tentativi di coniugare la libertà con il determinismo implicano che dovremmo considerare
liberi anche i girarrosto meccanici!4 D’altra parte, per Kant tale incompatibilità ha come conseguenza
una notevole tensione concettuale o, per usare il suo termine tecnico, un’‘antinomia’: tanto la
necessità quanto la libertà, infatti, sono irrinunciabili per la nostra comprensione della realtà. Da una
parte, infatti, la scienza moderna mostra che nel mondo della natura tutti i fenomeni obbediscono a
leggi inderogabili, immutabili e universali: e questa non è una mera constatazione empirica, secondo
Kant, giacché la necessità delle relazioni causali gli appare essenziale affinché noi possiamo
concepire il modo in modo unitario e coerente. D’altra parte, anche l’idea di libertà è, per Kant,
indispensabile, in quanto è “vero e proprio fondamento dell’imputabilità dell’azione”: ovvero, essa è
condizione di possibilità delle attribuzioni di responsabilità agli agenti per le azioni che essi
compiono5. E tuttavia pensare che gli esseri umani siano liberi – che possano mettere spontaneamente
in atto la propria autonomia – sembrerebbe implicare che essi possiedano un misterioso potere
causale: la causalità mediante libertà, appunto, che per definizione deve sfuggire alle leggi naturali.
Come risolvere, allora, questo insanabile contrasto, senza impaniarsi nei gravi problemi del dualismo
delle sostanze, come era accaduto con il cartesianismo?
La soluzione offerta da Kant si fonda, invece, sul dualismo trascendentale. A suo giudizio,
quando guardiamo al mondo empirico e a noi stessi in quanto corpi fisici, non possiamo sfuggire alle
categorie della causalità naturale; in questa prospettiva, nulla può eludere la necessità delle leggi di
natura. Considerando le cose in questo modo, la libertà non può dunque che presentarsi come “una
facoltà anarchica”, come un’intollerabile rottura dell’ordine naturale, che renderebbe l’esperienza
“confusa e incoerente”6. E tuttavia, secondo Kant, noi possiamo, anzi dobbiamo, guardare agli esseri
umani anche da un altro punto di vista: ovvero in una prospettiva trascendentale che li sottragga alle
condizioni spazio-temporali e alla necessità della causalità naturale. Non che di un tale mondo si
possa fare esperienza, naturalmente (tutte le esperienze possibili sono date nel contesto spazio-
temporale); tuttavia, per la prospettiva trascendentale è sufficiente poter concepire gli esseri umani
in tal modo. In particolare, è sufficiente poter pensare che essi abbiano la capacità di iniziare nuove
catene causali spontaneamente, ovvero senza essere determinati.
Nella prospettiva kantiana, dunque, è soltanto quando consideriamo gli esseri umani in una
prospettiva trascendentale che possiamo attribuire loro una ‘causalità libera o incondizionata’, ovvero
la possibilità di agire senza essere determinati da cause antecedenti. Ed è solo da questa prospettiva,
inoltre, che per Kant possiamo considerare gli agenti come enti morali, ovvero come enti moralmente
responsabili delle azioni che compiono. La responsabilità, dunque, può essere predicata degli esseri
umani nella misura in cui li consideriamo in quanto noumeni: ossia in quanto enti che non sono
determinati dalla necessità naturale, ma si autodeterminano liberamente secondo ragione. Con la
3 K. Popper-J. Eccles, The Self and Its Brain, Springer Verlag, New York 1977; trad. it. L’io e il suo cervello. Dialoghi aperti tra Popper e Eccles, Armando, Roma 1981. 4 I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Riga 1788; trad. it. Critica della ragion pratica, in Scritti morali,
Utet, Torino 1970, p. 240. 5 Id., Kritik der reinen Vernunft, Riga 1781; trad. it., Critica della ragione pura, Laterza, Roma-Bari 1997, p.
502. Per una discussione del nesso libero arbitrio – responsabilità morale nella filosofia morale, cfr. M. De
Caro, A. Lavazza e G. Sartori (a cura di), Quanto siamo responsabili?, Codice, Torino 2013. 6 I. Kant, op. cit., p. 509.
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formula scolastica utilizzata da Kant, allora, si può dire che la libertà è ratio essendi (ovvero
condizione di possibilità) della responsabilità, mentre la responsabilità è ratio cognoscendi della
libertà (ovvero, nella misura in cui pensiamo di essere responsabili per le azioni che compiamo,
dobbiamo pensare che le compiamo liberamente).
Il piano sul quale la questione della libertà va posta, secondo Kant, è dunque quello trascendentale,
quello della pura pensabilità, che è svincolato dalle categorie spazio-temporali e della causalità. È
solo in questa luce che si può dare conto della libertà umana e si può sviluppare la discussione sulla
moralità e la responsabilità. In proposito, nella Critica della ragion pratica, Kant scrive:
«Lo stesso soggetto, che è peraltro consapevole di sé come cosa in sé, considera anche la propria esistenza in quanto essa non è sottoposta alle condizioni del tempo e guarda a se stesso come determinabile soltanto in
base a leggi egli stesso si dà mediante la ragione; in questa sua esistenza, niente precede per lui la
determinazione della propria volontà, ma ogni azione ... [va considerata] nella coscienza della sua esistenza intelligibile semplicemente come conseguenza, mai come motivo determinante, della sua causalità in quanto
noumeno»7.
La soluzione kantiana sfugge così ai problemi in cui incorreva la soluzione cartesiana; essa, tuttavia,
se ne trova di fronte di nuovi. Ci si può, per esempio, chiedere se sia veramente possibile concepire
gli esseri umani al di fuori delle categorie dello spazio-tempo; oppure cosa significhi attribuire loro,
sul piano trascendentale, poteri causali che sappiamo essere impossibili sul piano empirico. Infine, è
metafisicamente oscuro come la stessa nozione di causa-effetto possa essere concepita senza fare
riferimento alle categorie della temporalità. Va tuttavia ricordato che l’influenza delle tesi kantiane
sulla libertà è avvertibile ancora oggi in proposte di filosofi per altri versi vicini al naturalismo, come
P.F. Strawson e John McDowell8.
Nel 1788, lo stesso anno in cui Kant pubblicava la Critica della ragion pratica, usciva anche
un altro caposaldo del libertarismo: gli Essays on the Active Powers of the Human Mind di Thomas
Reid. Quest’opera è stata interpretata come l’inizio di un filone naturalistico moderato del
libertarismo, alternativo al filone kantiano; allo stesso tempo, però, essa si riconnette, sviluppandole
in modo originale, alle tesi aristoteliche sulle modalità dell’agire umano. Secondo Reid, gli speciali
poteri causali che l’attribuzione della libertà richiede non vanno attribuiti agli esseri umani sul piano
trascendentale: piuttosto, occorre riconoscere che gli agenti esercitano concretamente tali poteri
nell’ambito naturale. Ciò implica che gli agenti umano sfuggono al determinismo, rappresentando
così un’eccezione alla concezione meccanicistica.
Reid interpreta la realtà naturale come composta di due tipi di entità: gli oggetti materiali e gli
agenti liberi, i quali sono dotati della capacità di iniziare nuove catene causali. Si tratta dunque di una
sorta di dualismo moderato, che non incontra le difficoltà del cartesianismo nello spiegare
l’interazione causale tra le menti e il mondo materiale: secondo Reid, infatti, le menti fanno parte
dello stesso mondo degli oggetti materiali, anche se hanno proprietà peculiari. Nondimeno, nella
prospettiva reideana non esiste una sola forma di causalità – come immagina invece la concezione
canonica, di matrice humeana, secondo la quale ogni rapporto causale è un rapporto tra oggetti (o, in
termini più moderni, un rapporto tra eventi oppure tra proprietà). Quando sono gli esseri razionali ad
agire, entra in gioco un tipo di causalità del tutto peculiare e irriducibile a quella tra eventi, detta
appunto causazione agentiva: ogni volta che agiscono liberamente, gli agenti iniziano infatti nuove
catene causali, senza essere causalmente determinati a farlo9.
7 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., pp. 240-241. 8 P.F. Strawson, Freedom and Resentment, in Proceedings of the British Academy, 48, 1962, pp. 1-25; trad. it.
Libertà e risentimento, in M. De Caro (a cura di), Logica della libertà, cit., pp. 77-116; J. McDowell, Mind
and World, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1994; trad. it. Mente e mondo, Einaudi, Torino 1999. 9 Cfr. W. Rowe, Thomas Reid on Freedom and Morality, Cornell University Press, Ithaca 1991.
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Questa concezione ha conosciuto negli ultimi anni un vasto ritorno di interesse, con le
proposte di Roderick Chisholm, Richard Taylor, Timothy O’Connor e John Dupré10. Una grossa
difficoltà in cui questo tipo di teorie della libertà incorre è di tipo empirico: esse, infatti, postulano
che gli agenti razionali abbiano proprietà del tutto peculiari rispetto al resto del mondo naturale,
incluso un potere causale esclusivo. Ciò solleva però domande complesse: come si può conciliare
questa concezione con l’idea che tutto ciò che esiste nel mondo naturale obbedisce a leggi fisiche? E
la tesi del pluralismo causale è compatibile con principi scientifici quali i principi di conservazione?
Esistono, infine, riscontri empirici della tesi dell’eccezionalità della mente nel mondo naturale, della
sua presunta irriducibilità ontologica al mondo fisico? Su questi complessi temi il dibattito è oggi
molto vivace, anche se pare equo dire che i difensori della teoria della causalità agentiva
rappresentano una minoranza, sia pure teoreticamente combattiva.
Un’ultima forma di libertarismo, infine, è quella che radica la libertà nell’indeterminismo
simpliciter, senza postulare speciali poteri causali umani. L’origine remota di questa concezione si
trova nel mondo classico: nella teoria dell’azione aristotelica e nel De Fato di Cicerone, per esempio,
ma soprattutto nella teoria epicurea del clinamen. In epoca moderna, una posizione di questo genere
è il tichismo di C.S. Peirce, che incentra la teoria della libertà sulla presunta produzione spontanea di
infinitesimali processi indeterministici nei processi materiali (va comunque aggiunto che la posizione
peirceana sul tema della libertà non è esente da ambiguità, e forse da contraddizioni)11. Ma è
soprattutto in anni recenti, dopo l’affermazione delle concezioni indeterministiche nell’ambito della
fisica subatomica, che tali posizioni hanno trovato favore nell’ambito del dibattito sul libero arbitrio.
Oggi, perciò, non mancano autorevoli proposte – come quelle di Robert Nozick, Roger Penrose e
Robert Kane12 – che cercano di dare conto della libertà facendo riferimento a ipotetici processi
indeterministici che avrebbero luogo nel cervello.
Secondo questo genere di concezioni, nella catena di nessi causa-effetto che conduce al
compimento di una determinata azione, interviene un decisivo momento indeterministico (che molti
individuano nella fase deliberativa); ma tale momento indeterministico non è affatto ostacolo alla
libertà in virtù del suo peculiare carattere causale. In questo modo, le due condizioni della libertà
accennate sopra (la possibilità di fare altrimenti e l’autodeterminazione) parrebbero spiegate: la
possibilità di corsi d’azione alternativi sembrerebbe infatti garantita dall’elemento di
indeterminazione nel percorso causale che conduce all’azione, mentre il carattere causale di tale
elemento permetterebbe di spiegare come l’agente possa esercitare il controllo sulle proprie azioni
(nel senso che l’agente causa le azioni mediante i suoi rilevanti stati mentali, come i desideri, le
intenzioni, le deliberazioni).
Tuttavia questa concezione non è affatto immune da difficoltà. Due, in particolare, paiono
molto insidiose. La prima, su cui torneremo tra breve, è quella tradizionalmente sviluppata da chi
sostiene che radicare la libertà nell’indeterminismo equivale a farla coincidere con la casualità: e così
verrebbe meno la possibilità per l’agente di autodeterminare le azioni che compie (e, come si è detto,
l’autodeterminazione è condizione necessaria del libero arbitrio). La seconda obiezione taccia invece
il libertarismo di oscurità metafisica: frequentemente, infatti, i libertari fanno appello a peculiari
poteri o a meccanismi indeterministico-causali mediante i quali gli agenti eserciterebbero la loro
10 R. Chisholm, 1964, Human Freedom and the Self (The Lindley Lecture), Department of Philosophy,
University of Kansas, 1964, pp. 3-15; trad. it. La libertà umana e il sé, in M. De Caro (a cura di), Logica della libertà, cit., pp. 55-74; R. Taylor, Action and Purpose, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1966; T. O’Connor,
Persons and Causes: The Metaphysics of Free Will, Oxford University Press, Oxford 2000; J. Dupré, Human
Nature and the Limits of Science, Oxford University Press, Oxford 2001; trad. it. Natura umana: perché la scienza non basta, Laterza, Roma-Bari 2007, cap. 7. 11 Cfr. M. Mori, op. cit., pp. 192-197. 12 R. Nozick, Philosophical Explanations, cit., pp. 291-362; R. Penrose, Shadows of the Mind, Oxford
University Press, Oxford 1994; R. Kane, The Significance of Free Will, Oxford University Press, Oxford 1996.
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libertà, autodeterminandosi senza essere a loro volta determinati. Molti filosofi, però, trovano questa
idea metafisicamente obsoleta e incompatibile con la scienza moderna. Va tuttavia detto che la
discussione su questi temi continua vivace ed è ben lungi dall’aver raggiunto risultati definitivi13.
2. Duns Scoto e il libertarismo
Seguendo la tradizione volontaristica dell’ordine francescano cui apparteneva, Duns Scoto sostenne
la superiorità della volontà umana sull’intelletto14. In questa prospettiva, la volontà non è necessitata
a perseguire gli oggetti che l’intelletto individua come ottimali e ha la capacità di iniziare liberamente
sia il corso d’azione indicato dall’intelletto sia corsi d’azione alternativi. La concezione tardo-
scolastica che si oppose al volontarismo, ovvero l’intellettualismo della scuola aristotelica-tomistica,
concepiva invece la determinazione dei fini dell’agire da parte dell’intelletto come causa sufficiente
delle volizioni.
Duns Scoto, tuttavia, avvertì l’esigenza – che poi sarebbe divenuta tipica del dibattito moderno
– di conciliare le due intuizioni fondamentali della libertà, rispettivamente espresse dall’idea della
possibilità di fare altrimenti e da quella dell’autodeterminazione. Nella Lectura oxoniense, in
particolare, Scoto tentò di sviluppare una concezione che, pur privilegiando l’intuizione delle
possibilità alternative (più prossima al volontarismo), potesse riconoscere un ruolo anche alla
condizione dell’autodeterminazione (meglio espressa dall’intellettualismo): che è, appunto, la crux
del dibattito contemporaneo sul libero arbitrio. È in questa prospettiva che Scoto rifiutò le due
posizioni antitetiche che tradizionalmente radicalizzavano il dibattito. Consideriamo la questione più
da vicino.
La prima posizione è quella puramente volontaristica di Enrico di Gand, secondo il quale la
volontà è causa efficiente sufficiente del proprio atto: a suo giudizio, infatti, non c’è possibilità di
controllo da parte dell’intelletto razionale sulle volizioni (ma così, come nota Scoto, l’agente si
troverebbe in un perenne, e incontrollabile, stato volitivo). La seconda posizione è quella di Goffredo
di Fontaines, secondo il quale le volizioni sono invece causalmente determinate dall’intelletto: una
posizione, questa, che non lascia spazio alcuna per le possibilità di scelta alternative. Scoto, invece,
tenta di sviluppare una proposta che dia conto delle intuizioni, apparentemente antitetiche, che fanno
rispettivamente da sfondo a queste due concezioni del libero arbitrio. In particolare, egli formula la
celebre “dottrina delle cause parziali”, incentrata sull’ipotesi che, pur avendo natura diversa tra loro,
tanto la volontà quanto l’oggetto appetito dall’intelletto cooperino alla determinazione della
volizione; ovvero che, detto in termini moderni, l’intelletto e la volontà siano cause individualmente
necessarie e congiuntamente sufficienti della volizione. Ciò detto, in Scoto insiste – in maniera in
parte stridente con questa istanza teoreticamente irenica – sia tanto sulla tesi dell’intrinseca
contingenza del processo che porta al compimento dell’azione libera sia su quella del primato della
volontà sull’intelletto. E sono queste due tesi che fanno di questo filosofo uno dei primi proponenti
del “libertarismo.
La concezione di Duns Scoto, in particolare, ha molto in comune con le teorie contemporanee
della “agent causation”. In primo luogo, è evidente che la concezione scotistica ha un carattere che
oggi si direbbe indeterministico. In primo luogo, essa si oppone alla tesi -- sviluppata per esempio
nelle Sentenze di Pietro Lombardo – secondo cui la libertà di scelta non è mai sincronica, ma solo
diacronica: ossia alla tesi secondo cui sarebbe possibile per un agente compiere scelte diverse in
momenti diversi, mentre per ogni determinato momento è sempre del tutto determinato quale scelta
un agente compirà. Questa è evidentemente una concezione deterministica (e, più specificamente,
13 Sui problemi e le prospettive del libertarismo, cfr. R. Kane (ed.), Oxford Handbook of Free Will, cit., parte
VI; Mele, Autonomous Agents. From Self-Control to Autonomy, Oxford University Press, Oxford 2001. 14 Questa sezione riprende, in parte, M. De Caro, Temi scotistici nella discussione contemporanea sul libero
arbitrio, in Quaestio, 8, 2008, pp. 25-37.
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una forma di compatibilismo) che Duns Scoto rifiuta recisamente, perché a suo giudizio il libero
arbitrio implica la possibilità categorica della volontà di compiere scelte alternative hic et nunc. In
questa prospettiva, ogni volta che la volontà opera una volizione cui seguirà un’azione libera, essa
avrebbe potuto produrre una volizione diversa. La catena causale che precede la determinazione della
volontà è pertanto interrotta da un momento indeterministico: nel suo autodeterminarsi, infatti, la
volontà non è necessitata da null’altro da sé – e, anzi, è proprio per questo che la volontà è perfetta e
superiore all’intelletto, che invece è necessitato ad assentire a ciò che è vero. Giustamente, dunque,
la teoria scotista della possibilità di fare altrimenti è stata presentata come una «teoria sincronica della
modalità, una teoria che permetteva possibilità alternative in un dato momento»15. In questa luce,
inoltre, alcuni critici, tra cui Stephen Dumont, hanno ravvisato in ciò un’anticipazione della nozione
leibniziana di mondo possibile16. Consideriamo dunque i riflessi di tale concezione nella discussione
contemporanea.
In primo luogo, sebbene Duns Scoto concepisca il libero agire umano come fondato su un
presupposto radicalmente indeterministico, non ritiene che ciò possa porre un limite all’onniscienza
di Dio e, nel caso specifico, alla sua prescienza (un tema su cui la discussione sul libero arbitrio in
ambito teologico dedica molta attenzione ancora oggi). In secondo luogo, va notato che l’analogia
proposta da Dumont tra Scoto e Leibniz, sebbene non sia in sé scorretta (sotto vari rispetti nel sistema
scotistico vi sono anticipazioni alla teoria dei mondi possibili), nondimeno essa può essere fuorviante
proprio quando applicata alla discussione sul libero arbitrio. Leibniz, infatti, difende una concezione
compatibilistica del libero arbitrio: a suo giudizio, infatti, nel mondo attuale le azioni che compiamo
sono necessitate, oltre che dal presente stato del mondo, da leggi di natura che hanno carattere
deterministico. Ciò vuol dire che possiamo, sì immaginare, altri mondi possibili in cui noi
compiremmo azioni diverse da quelle che compiamo nel mondo attuale, ma solo perché in questi
mondi il passato sarebbe diverso dal passato dal nostro mondo o perché sarebbero diverse le leggi
naturali che vigono in quel diverso mondo possibile. In questa luce, come noteranno un’infinità di
altri autori, da Hume a Moore a Dennett a Lewis, la “possibilità di agire altrimenti”, che abbiamo
visto essere requisito essenziale della libertà, è condizionata: può cioè essere concepita soltanto
considerando un contesto in cui l’agente sarebbe determinato da un diverso passato o da diverse leggi
di natura. In questo senso, Leibniz – che naturalmente ha presente il quadro deterministico della
scienza moderna – non ritiene affatto che nel nostro mondo si possa dare assoluta contingenza. Per
Duns Scoto, invece, è proprio nel nostro mondo, hic et nunc per così dire, che alla libera volontà si
presentano le alternative possibili. Ed è questa la posizione assunta anche dal moderno
incompatibilismo libertario, che nella versione dell’“agent causation” contemporanea si richiama in
genere ad Aristotele, a Thomas Reid o ai maestri del pragmatismo, ma altrettanto (e forse più
correttamente) potrebbe richiamarsi proprio a Duns Scoto e presentarsi dunque come una forma di
neo-scotismo.
La forza dell’agent causation, pertanto, è che, al contrario del compatibilismo, questa
concezione può dare assai agevolmente conto della condizione delle possibilità alternative:
prioritariamente, infatti, la libertà consiste proprio nella possibilità di scegliere, e dunque di agire, in
diversi modi; e questa possibilità non richiede diversi passati o diversi insiemi di leggi naturali, in
quanto, semplicemente, è garantita dall’indeterminismo del mondo naturale (dalla sua contingenza,
direbbe Scoto). Nondimeno, il neo-scotismo incontra due grossi ostacoli. Il primo ha carattere
empirico e consiste nella necessità di dimostrare che nelle catene causale che si concludono con le
nostre azioni (almeno quando queste siano libere) sono presenti, in posizione rilevante, momenti
intrinsecamente indeterministici. Il riferimento alla meccanica quantistica è qui d’obbligo, ma non
15 C.G. Normore, Duns Scotus’s Modal Theory, in Cambridge Companion to Scotus, Cambridge University
Press, Cambridge 2002, p. 129. 16 S. Dumont, John Duns Scotus, in J.J.E. Grazia-T.B. Noone (eds.), A Companion to Philosophy in the Middle
Ages, Blackwell, Oxford 2003, pp. 353-369.
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basta a risolvere la questione. In primo luogo, infatti, potrebbero essere corrette le interpretazioni di
quanti ancora oggi interpretano la meccanica quantistica in senso deterministico. In secondo luogo, è
controverso che l’indeterminismo quantistico abbia ricadute significative al livello macroscopico, per
esempio al livello degli eventi neurali. Al di là di queste difficoltà empiriche, tuttavia, contro il neo-
scotismo si può ripetere soprattutto un argomento di carattere puramente concettuale, già sviluppato
da David Hume e ripetuto poi innumerevoli volte dagli avversari del libertarismo. Secondo questo
argomento, l’indeterminismo non può generare la libertà perché esso implica il caso, che della libertà
in realtà è l’opposto, perché non si può seriamente pensare che un’azione generata a caso possa essere
libera. Ecco una versione informale di questo argomento.
Si immagini che un’azione a venga compiuta da un agente A, senza che questi sia causato
deterministicamente a farlo. Ciò significa che, nella catena causale degli eventi che precedono il
compimento di a, c’è almeno un momento t, in cui nessuno specifico corso di azione è necessitato
(ovvero, non è determinato quale corso d’azione tra tutti quelli possibili verrà attualizzato). Perciò, al
momento t, oltre ad a, deve essere fisicamente realizzabile anche qualche altro corso d’azione. E ciò
significa che in un altro mondo possibile, W*, in tutto identico al nostro fino a t, ma retto da leggi
indeterministiche, A* – perfetto Doppelganger di A – potrebbe un’azione diversa da quella compiuta
da A. Ma il fatto che a sia radicalmente indeterminata in questo senso implica che nulla e nessuno
potrebbe mai fungere da fattore causale rilevante per far sì che, al momento t, venga effettivamente
compiuta l’azione a invece che una qualsiasi delle altre azioni fisicamente possibili, ad essa
alternative. E ciò dimostra, conclude il “Mind Argument”, che l’indeterminismo, lungi dal produrre
la libertà, può produce soltanto il caso, che della libertà è la completa negazione.
Per rispondere a questa obiezione, alcuni fautori del libertarismo (come Robert Nozick, Robert
Kane e John Searle)17 hanno tentato di modificare l’idea del puro indeterminismo ovvero dell’assoluta
contingenza scotistica, assumendo la possibilità di una “causalità indeterministica”, secondo la quale,
pur in ottemperanza alle leggi di natura, gli effetti sono resi soltanto probabili ma non necessitati dalle
rispettive cause. D’altra parte, sebbene la maggior parte della tradizione filosofica abbia identificato
causazione e necessitazione, la proposta di Nozick e Kane non è del tutto inedita, almeno nelle linee
essenziali e senza le sofisticazioni analitiche (si pensi, per esempio, alle teorie astrologiche secondo
le quali noi saremmo inclinati ma non necessitati dagli influssi zodiacali che agiscono su di noi).
Sfortunatamente, anche contro questa versione del libertarismo si può riformulare l’obiezione
secondo cui in sé l’indeterminismo, lungi dal generare la libertà, produrrebbe solo il caso18.
Le concezioni che maggiormente echeggiano oggi le tesi di Duns Scoto oggi si trovano
pertanto di fronte a due difficili ostacoli: uno di carattere empirico e uno di carattere concettuale. È
tuttavia equo osservare che, al pari delle varie versioni del libertarismo eredi dello scotismo, anche le
altre concezioni del libero arbitrio incontrano oggi notevolissime difficoltà. Non sorprenderà, allora,
che un autorevole osservatore come Thomas Nagel abbia potuto scrivere che, a sua conoscenza «nel
corso della vasta discussione pubblica sul tema, nessuno … ha proposto alcunché di credibile»19.
Il dibattito, pertanto, continua – e forse continuerà per sempre. E con esso continua, e
continuerà, ad essere ripresa la potente intuizione indeterministica di Duns Scoto.
Mario De Caro
17 R. Nozick, Philosophical Explanations, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)
1981, pp. 291-316; R. Kane, The Significance of Free Will, Oxford University Press, Oxford 1996; J. Searle, Freedom and Neurobiology: Reflections on Free Will, Language, and Political Power, Columbia University
Press, New York 2007. 18 Vedi De Caro, Il libero arbitrio, cit., cap. 1. 19 T. Nagel, The View from Nowhere, Oxford University Press, Oxford 1986, pp. 119-120.
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SOMMARIO
Uno dei problemi fondamentali affrontati nella veneranda discussione sul libero arbitrio è quello di conciliare
le sue due condizioni individualmente necessarie e congiuntamente sufficienti: la possibilità di fare altrimenti
e l’autodeterminazione del soggetto. La tradizione del libertarismo cerca di risolvere questo problema radicando il libero arbitrio nell’indeterminismo. In questo articolo dapprima si presenta una tassonomia delle
diverse posizioni libertarie e poi si approfondisce il contributo offerto da Duns Scoto, sottolineando l’attualità
di alcune componenti della sua proposta.
SUMMARY
One of the most fundamental problems of the long-lasting discussion on free will is that of reconciling its two
individually-necessary and jointly-sufficient conditions: the possibility of doing otherwise and the
autodetermination by the subject. The libertarian tradition tries to solve this problem by rooting free will on indeterminism. In this article, I will first present a taxonomy of the various libertarian views and then I will
discuss Duns Scotus’s contribution, noticing the newness of some of its components.
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III. Della libertà e della responsabilità
Un confronto tra Pareyson e Lévinas1
di Luca Ghisleri e Massimo Tura
1. La libertà prima della responsabilità: la prospettiva di Pareyson
Come ogni grande filosofo anche Luigi Pareyson, nell’intero arco della sua riflessione, pensa in
maniera sempre più radicale solo una questione che per lui si identifica con la libertà considerata in
relazione all’essere. In tale percorso teorico egli si inserisce in una lunga tradizione metafisica che fa
riferimento, in particolare, al neoplatonismo e all’esistenzialismo cristiano e, tra l’altro, ad autori
come Plotino, Schelling, Kierkegaard e Dostoevskij, senza dimenticare Cusano e Barth. Sulla scia di
questi autori Pareyson concepisce sempre la libertà2 come inizio e insieme come scelta: essa infatti
è, da una parte, indipendenza (libertà da) e autodeterminazione (libertà di) e, dall’altra parte, decisione
di un’alternativa (libertà tra). Ma il fatto che Pareyson pensi anzitutto la libertà non implica che non
pensi la responsabilità, anche se pensa questa sempre e solo alla luce di quella. Più precisamente si
potrebbe forse dire che egli stabilisca tra esse un intreccio fondamentale, ancorato nel punto di snodo
tra la libertà finita e la libertà infinita. Per lui infatti non ci può essere libertà (finita) senza
responsabilità, ma non ci può essere responsabilità se non sulla scia della libertà (infinita). La libertà
(finita) cioè è nella responsabilità perché la libertà (infinita) è prima della responsabilità. Esaminiamo
più distesamente la questione suddividendo la nostra analisi in due tappe.
1. Iniziamo dalla considerazione della libertà finita. Nel saggio del 1963 intitolato Situazione
e libertà3, Pareyson indaga le condizioni e i limiti in cui essa opera. A proposito della situazione -
che costituisce la condizione fondamentale della libertà umana e che indica la collocazione storica,
intesa come l’insieme delle circostanze in cui ognuno si trova ad esistere senza averle scelte - la
persona deve scegliere se considerarla solo come un “limite invalicabile” e un “destino ineludibile”
contro cui inutilmente ribellarsi o come un “appello alla nostra libertà” e una “proposta da svolgere
liberamente”, nella consapevolezza che il secondo corno dell’alternativa si pone solo perché la
situazione è “ciò per cui ogni persona è una prospettiva vivente sulla verità”4. La persona infatti è per
Pareyson – secondo la tesi fondamentale del suo personalismo ontologico di matrice esistenzialistica
– rapporto con l’essere (e interpretazione della verità), un rapporto che però non è mai oggettivo e
neutrale, ma che è sempre singolare e vivente, proprio perché è mediato e radicato nella situazione
esistenziale.
La libertà umana poi è caratterizzata da una necessità iniziale (costituente il suo limite): essa
è infatti una iniziativa che non ha in sé il proprio inizio. Questa necessità iniziale però “non significa
altro se non che la libertà è data”, ma, del resto, se ciò che è dato è la libertà, l’atto di riceverla è già
un atto di libertà. Quindi «il primo atto della libertà ch’io sono consiste appunto nel riceverla, ed io
1 L’articolazione del presente saggio – il cui obiettivo è quello di indagare il rapporto tra libertà e responsabilità
alla luce dell’analisi della configurazione che tale rapporto assume all’interno delle filosofie di Pareyson e di Lévinas – è stata pensata congiuntamente dai due autori, che da tempo si confrontano sui temi e sugli autori
proposti. Luca Ghisleri è autore dei paragrafi 1. (in cui mostra come Pareyson, a partire dalla libertà, prospetta
il nesso che essa intrattiene con la responsabilità) e 3. (in cui confronta la posizione di Pareyson – per il quale la libertà precede la responsabilità – con quella di Lévinas). Massimo Tura è autore dei paragrafi 2. (in cui
mostra come Lévinas, a partire dalla responsabilità, prospetta il nesso che essa intrattiene con la libertà) e 4.
(in cui confronta la posizione di Lévinas - per il quale la responsabilità precede la libertà - con quella di
Pareyson). 2 Per una analisi puntuale della riflessione pareysoniana sulla libertà mi permetto di rimandare al mio Inizio e
scelta. Il problema della libertà nel pensiero di Luigi Pareyson, Trauben, Torino 2003. 3 Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona (EP), Il Melangolo, Genova 19854, pp. 227-243. 4 EP, 236.
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comincio ad essere con un atto di consenso nel quale consiste il mio essere»5. Da una parte, Pareyson
sostiene qui – allontanandosi dalla prospettiva tomistica – che la libertà non è una caratteristica
dell’uomo o una sua qualità, ma la sua stessa essenza e il suo essere. Dall’altra, afferma che la liberà
comincia con un consenso al dono (della libertà) che le è offerto. Esistere – sostiene Pareyson –
«significa allora aver consentito a quel dono: l'uomo è libertà proprio perché alla base della sua
esistenza v’è una gratuità originaria»6. Come a proposito della situazione, anche a proposito della
necessità iniziale della libertà si tratta di scegliere se considerarla una chiusura limitante – che non
spiega però come da se stessa possa sorgere la libertà (cfr. infra) – o un’apertura dischiusa alla verità,
che dona se stessa (gratuità originaria) costituendo la libertà umana.
È evidente perciò come la situazione e la necessità manifestino di essere non istanze di
passività e di chiusura per la libertà, ma modalità di attività e di apertura ad altro. Più precisamente
esse indicano che la passività dell’esistenza è la recettività tra due attività (quella umana e quella
originaria), nel senso che l’attività della libertà umana “si pone sul prolungamento” dell’attività della
verità originaria. Proprio alla luce di questa analisi Pareyson può evidenziare il nesso tra libertà finita
e responsabilità.
Da una parte, la libertà finita è insieme inizio e scelta, proprio perché dà inizio a se stessa
mediante la scelta di considerare la propria situazione storica e la propria necessità iniziale come
apertura all’essere e non come confine mortificante. Dall’altra, essa è una “iniziativa che dispone di
sé” in modo sicuro, dal momento che la sua condizione d’essere è una attività originaria e quindi può,
anzi vuole accettare la responsabilità di tutto ciò che la persona è o fa7, anche di ciò che non dipende
da essa8. Si affacciano dunque qui due concezione di libertà e di responsabilità diverse da quelle
delineate dal soggettivismo moderno. La libertà finita infatti non consiste nella autodeterminazione
assoluta e nell’autonomia della coscienza trasparente a se stessa, proprio perché essa è piuttosto
concepita come attività coincidente con la recettività di un’attività più originaria. E la responsabilità
non coincide solo con l’atto mediante il quale la coscienza risponde delle azioni da essa liberamente
compiute, proprio perché la libertà finita si costituisce assumendo (rispondendo alle) le proprie
condizioni e i propri limiti costitutivi. La libertà finita è scelta di sé e quindi è libertà in quanto scelta
ed è responsabilità in quanto accettazione (assunzione) di sé stessa. Ma questa scelta di sé non è una
accettazione passiva della necessità, proprio perché il risvolto della necessità iniziale della libertà
finita è costituito dalla libertà infinita.
2. Soffermiamoci ora sulla libertà infinita e sul suo nesso con la libertà finita. Il passaggio
dalla libertà finita alla libertà infinita è dovuto al fatto che per Pareyson “solo la libertà precede la
libertà” e “solo la libertà segue la libertà”9. Se la libertà infatti fosse preceduta dalla necessità (cfr.
supra) non sarebbe più libertà. La necessità infatti è identità e continuità tra causa ed effetto e quindi
da essa non può che derivare altra necessità, mentre la libertà - proprio perché è scelta - è differenza
e discontinuità tra origine e originato e quindi solo da essa si può generare altra libertà. La libertà
finita quindi si nutre della libertà infinita, da una parte, perché, se non ci fosse questa, non esiterebbe
nemmeno quella e, dall’altra parte, perché una libertà finita (e quindi condizionata) non sarebbe
veramente e pienamente libera (e cioè incondizionata).
5 EP, 237. 6 EP, 238. 7 Cfr. EP, 200. 8 Sviluppando questo spunto, Claudio Ciancio (allievo di Luigi Pareyson) mostra che il superamento della
contraddizione della libertà finita (consistente nel fatto che essa è contraddittoriamente un incondizionato
condizionato, proprio perché, in quanto libertà, è per essenza sua incondizionatezza – cioè assenza totale di
condizioni ad essa esterne – e, in quanto finita, è condizionata) si radica proprio nella responsabilità e cioè nell’assunzione delle condizioni e dei limiti della libertà finita come istanze per il suo esercizio. Cfr. Del male
e di Dio, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 48-50 e anche Libertà e dono dell’essere, Marietti, Genova 2009,
passim. 9 EP, 27.
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Pareyson parla della libertà infinita in particolare in Ontologia della libertà10, opera in cui
emerge la sua concezione della filosofia come interpretazione del cristianesimo. Questa concezione
non fa che radicalizzare e dare contenuto ad una impostazione – di matrice esistenzialistica – da lui
sostenuta anche in precedenza, in base alla quale la filosofia è il chiarimento razionale e il tentativo
di universalizzazione di una scelta esistenziale (e ogni visione del mondo, sia essa religiosa o non
religiosa, è a suo avviso risultato di tale scelta). A suo modo di vedere, è possibile parlare della libertà
infinita solo a partire dall’esperienza storica del cristianesimo, caratterizzato dalla centralità di un Dio
che liberamente crea il mondo (e che lo può creare proprio perché è libertà originaria) e che
liberamente si incarna e redime l’uomo, dopo il suo peccato. Non ci è possibile approfondire
adeguatamente i singoli aspetti ora accennati11. Richiamiamone solo alcuni, essenziali al nostro tema.
All’atto mediante il quale Dio dà origine a sé - Dio infatti è libertà come inizio assoluto, coincidente
con la scelta dell’essere (il bene) e il rifiuto del nulla (il male) - segue la creazione, atto di liberalità
e di generosità, che evidenzia come la libertà sia talmente libera da generare anche ciò che le si può
opporre. Questo è evidente nel mito del “peccato originale”, il cui significato indica, da una parte,
che in qualche modo il male preesiste all’uomo (la tentazione del serpente) e, dall’altra, che l’uomo
stesso non accetta di essere ciò che è (e quindi non è responsabile nel senso sopra definito) e cioè
autore degli atti della propria libertà, ma non autore della propria libertà (come Dio).
Per Pareyson poi nella concezione biblica del “peccato originale” si mostra come tutti gli
uomini siano accomunati dal medesimo statuto di onnicolpevolezza. Con la caduta, infatti, il male è
entrato nel mondo e, da quel momento, tutti gli uomini sono peccatori e il loro destino è segnato da
una comune solidarietà nella colpa (cfr. OL, 167). Ma al male comune è connesso un comune dolore,
dal momento che solo il dolore è il mezzo adeguato di espiazione del male. In questa comunanza di
tutti gli uomini nella colpa e nel dolore nessuno può considerarsi innocente: l’innocenza è relativa
solo alle colpe strettamente personali ma, dal punto di vista della peccaminosità universale, tutti sono
peccatori e nessuno è innocente. Infatti, secondo il mito religioso una forte responsabilità accomuna
gli uomini chiamandoli a rispondere delle loro azioni malvage di fronte a tutti e rendendoli
responsabili non solo dei propri ma anche degli altrui misfatti. Secondo Pareyson, «v’é non solo la
responsabilità di ciascuno verso tutti, ma anche la responsabilità di tutti verso ciascuno; e ciascuno è
responsabile verso tutti non solo del male che individualmente ha compiuto, ma anche di quello
commesso da tutti gli altri» (OL, 250). Come si vede, l’uomo torna ad essere responsabile non solo
delle azioni che compie deliberatamente, ma anche di ciò che non dipende direttamente da lui. Il
“peccato originale” non fa che dare conferma contenutistica alla responsabilità verso la situazione,
connotata ora però da una “tendenza” al male, che accomuna tutti gli uomini fra di loro. Il male per
Pareyson è però presente nel mondo con una carica distruttiva talmente ampia e potente che per
sconfiggerlo non è sufficiente l’azione umana. Solo l’infinita onnipotenza di Dio, manifestantesi
nell’impotenza della croce, riesce a vincere l’infinità del male, proprio perché lo porta su di sé (il Dio
origine, che era irresponsabile proprio perché inizio, ora risponde – come Dio incarnato – al grido di
dolore dell’uomo), chiamando del resto l’uomo a con-soffrire con lui. La sofferenza è così l’unica
responsabile via umana verso la finale gioia escatologica, in cui si assiste per altro ad una liberazione
completa dal male e quindi alla sola libertà nel bene, guadagnata però attraverso la libertà della scelta
tra il bene e il male.
2. La responsabilità prima della libertà: la prospettiva di Lévinas
Per comprendere il senso dell’etica lévinassiana, del motivo per cui sia stata recepita come un’etica
della responsabilità, vale forse ricordare sinteticamente l’ordine problematico che il termine
“responsabilità” sottopone all’indagine della filosofia morale. Innanzitutto la sfera dell’imputabilità
connessa alle conseguenze di un’azione e alla riparazione dell’eventuale danno prodotto. Da subito
10 Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà (OL), Einaudi, Torino 1995. 11 Cfr. in proposito il mio Inizio e scelta, cit., pp. 203-293.
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emerge una componente teleologica, il fatto cioè che la moralità dell’azione sia riconducibile agli
effetti prodotti, al fine (télos); tale aspetto ci permette di cogliere il lato più peculiare della
responsabilità, inscritto nell’etimologia del termine latino spondeo e dei suoi derivati. Verbo da cui
deriva la solenne promessa (sponsum) reciprocamente scambiata tra il padre della sposa ed il futuro
sposo (sponsus), descritti nel loro impegno a mantenere le rispettive parole. La dimensione della
garanzia reciproca, il coinvolgimento di rapporti interpersonali rendono ragione dell’evoluzione del
termine latino nel derivato respondeo, in cui, da un lato, si sedimenta il senso di una risposta dovuta,
dall’altro, si apre la fiducia in una risposta di conferma rispetto a quanto promesso. Non sarà possibile,
in questa sede, seguire le ulteriori stratificazioni semantiche del termine; ci basta sottolineare come il
tema della responsabilità comporti l’allargamento della riflessione etica alla dimensione
intersoggettiva e all’implicito riferimento all’alterità, quale polarità del rapporto tra domanda e
risposta.
L’etica lévinassiana recepisce entrambi i momenti, interpretandoli tuttavia in una direzione in
cui la tradizione filosofica occidentale viene continuamente “provocata” dalla sapienza ebraica. Sarà
proprio la scoperta delle fonti di tale tradizione e del principio dell’interpretazione talmudica dei testi,
secondo cui “la Toràh parla il linguaggio degli uomini”; sarà la riscoperta di tale tradizione dopo la
Shoah, ad offrire quella lingua altra da quella dei Greci, quel pensare “altrimenti” dall’ontologia
occidentale avvertita sempre più come un pensiero totalizzante segnato da un’istanza di dominio e di
violenza, dalla connaturata volontà di ridurre l’Altro all’abbraccio soffocante del Medesimo. La
necessità filosofica di compiere un “parricidio” nei confronti del “padre greco che ci impone la sua
legge”12 rappresenta per Lévinas un dovere cui il pensiero non può sottrarsi se ancora avanza una
pretesa di credibilità dopo Auschwitz, non liquidabile come un incidente di percorso, ma inquadrabile
come sviluppo coerente e necessario della metafisica occidentale: “il totalitarismo politico riposa su
un totalitarismo ontologico”13. Le vie dell’enfasi e dell’iperbole acquisite dalla meditazione dei
maestri talmudici, la continua tensione ermeneutica cui è sottoposto il testo biblico provocato “al di
là (della letteralità) del versetto” costituiscono i presupposti di un pensiero che persegue “l’utopia
dell’umano” nell’apertura dell’Io all’altro, nella capacità di “rispondere dell’Infinito” al di là
dell’ideologia.
Per Lévinas “Etica” non è pertanto il nome di una branca della filosofia, né l’etica della
responsabilità una sua possibile variante; etica è piuttosto “la messa in questione”, occultata da tutta
la filosofia occidentale, “della spontaneità dell’Io attraverso la presenza d’Altri”14. La messa in
questione del Moi e del suo sforzo di perseverare nel proprio essere (conatus), attraverso
l’ingiunzione inassumibile che mi viene dal volto d’altri, è etica come responsabilità, l’etica in quanto
“non vi è alcun senso etico al di fuori della responsabilità verso altri”15. L’essere responsabile non è,
in altri termini, una possibilità dell’essere del soggetto, ma il suo stesso nucleo costitutivo, esprimibile
come essere in relazione. Siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma della filosofia moderna
in cui l’Io, che conquista la sua identità attraverso una negazione assimilante dell’altro, viene
sostituito da un soggetto decentrato, la cui intenzionalità è “attenzione alla parola o accoglienza del
volto, ospitalità e non tematizzazione”16. Non c’è dapprima la coscienza e in un secondo momento la
sua apertura all’altro, ma l’apertura all’altro, in quanto ospitalità dell’altro, è ciò che costituisce la
verità della coscienza. Nello sviluppo a partire dalle famose descrizioni husserliane
sull’intersoggettività17, Lévinas descrive tuttavia una relazione asimmetrica non riconducibile al
movimento gnoseologico che va dall’Io all’Altro nello sforzo dichiarato di ridurlo al Medesimo; la
relazione etica per eccellenza muove dall’Altro verso un soggetto che, incapace di comprenderlo nella
sfera neutra del concetto, si scopre essere in una condizione di passività senza possibilità di
12 Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica, in Id., tr. it. La Scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 113. 13 E. Lévinas, tr. it. Difficile libertà, Jaca Book, Milano 2004, p. 257. 14 Id., tr. it. Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1996, p. 13. 15 Ibid., p. 156. 16 Ibid., p. 308. 17 Cfr. E. Husserl, tr. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989.
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convertirla in attività ed impegno. Nella relazione con un’alterità che si ab-solve dalla relazione stessa
e che si mantiene in un’esteriorità assoluta, il soggetto si sorprende accusato, perseguitato dall’Altro
senza potervisi sottrarre. Al di là del rapporto ontologico, giocato sullo scambio reciproco tra identità
essenziali, Lévinas fa valere la paradossalità di una relazione in cui l’Altro mantiene la sua prossimità
irriducibile, deponendo il soggetto dal suo primato ed esponendolo all’offesa. Il soggetto lévinassiano
è, in questi termini, pensato come un “intrico che annoda l’Altro nel Medesimo”18. Si tratta di un
soggetto d’affezione che si singolarizza nella forma deponente; un soggetto che si individua come Sé,
non come declinazione di un nominativo, ma di colpo all’accusativo. Il paradosso di tale etica consiste
nel tentativo di far coincidere l’affezione dell’Altro come costitutiva dell’elezione del soggetto. Eletto
nella soggezione, il soggetto è assoggettato all’altro e in questa assegnazione, unico, il solo che possa
rispondere dell’invocazione che si traccia sul volto del prossimo. Nell’obbedienza (ob-audire)
all’appello, nell’essere-per-l’altro malgré moi, nella capacità di pensare ciò che non è ricomponibile
nel suo orizzonte, il soggetto si scopre come un essere etico. Da questo punto di vista l’etica significa
l’obbligazione dell’Io tenuto a rispondere d’altri senza che alcuna legge dell’essere lo obblighi. Solo
nella defezione dell’Io a Sé, solo scoprendosi incapace di pensare concettualmente l’Altro, solo
avvertendo d’essere pensato dall’Altro che sempre si sottrae, il soggetto è eletto, individuato come
unico ed insostituibile nel suo dovere di risposta. Qui si vede come, per Lévinas, l’etica non si fondi
sull’ontologia, come l’agire umano non sia successivo al suo essere, alla scelta di sé; come la
responsabilità lévinassiana cerchi di collocarsi al di qua della libertà in quanto categoria ontologica.
L’etica lévinassiana si presenta pertanto come un tentativo di coniugare ospitalità ed elezione.
In tal senso non è un’etica della volontà altruistica fondata sulla scelta successiva o contemporanea
di un Io. Non costruita sulla scelta voluta, ma su un’originaria coazione a rispondere all’estraneo,
essa coglie l’unicità-elezione del soggetto nella sua costitutiva relazione con l’Altro, la sua singolarità
nell’alterità. La sfida di quest’etica d’ispirazione “biblica” va cercata nell’enigma filosofico di un
Infinito che si contrae nel finito e in questo parla19, di un comandamento che si traccia sul volto
dell’altro uomo e che mi ordina di “non uccidere”. La voce dell’Infinito risuona nell’“unica” risposta
etica dell’uomo: “Eccomi”. Nella sua “responsabilità d’ostaggio”20, il soggetto non può restare
indifferente all’appello dell’estraneo; l’Eccomi è ordinato al rispetto di un impegno che non ha mai
preso, perché non prodotto dall’atto di una sua libera scelta, ma che gli impone di rispondere di colpe
che non ha commesse. Nella responsabilità infinita, il soggetto non può che farsi carico delle colpe
dell’altro e portarne le sofferenze fino all’eccesso contro-natura, in cui, “insostituibile, si sostituisce
all’altro secondo responsabilità”21.
3. Pareyson e Lévinas
Sia Pareyson sia Lévinas criticano l’antropologia sostanzialistica, che identifica e assimila l’altro al
medesimo, e pensano a partire dall’antropologia biblica, che descrive un rapporto asimmetrico in cui
un termine del rapporto (Dio) pone il rapporto (e quindi è ad esso trascendente), mentre l’altro termine
del rapporto (l’uomo) si identifica con questo rapporto. L’uomo si costituisce cioè a partire da una
chiamata e da una elezione di Dio e a questo proposito quindi Pareyson pare essere perfettamente
d’accordo con Lévinas. Per Lévinas Dio chiama alla responsabilità per l’altro (il non uccidere),
proprio perché l’altro - traccia di Dio - è infinitamente distante da me. Per Pareyson Dio dona la
libertà e chiama l’uomo a diventare ciò che è e cioè libertà finita. Ma la libertà finita, come si è visto,
è assunzione anche di ciò che non è da essa posto in essere (la situazione e il male preesistente) e
quindi pare di poter dire che essa stessa si costituisca a partire dalla responsabilità. Da questo punto
di vista sembra perciò avere ragione Lévinas. Ma per Pareyson la responsabilità è il diaframma tra la
18 E. Lévinas, tr. it. Altrimenti che essere (AE), Jaca Book, Milano 1983, p. 31. 19 Ho cercato di descrivere le modalità in cui si articola la relazione tra Infinito e finito nel mio Infinito e
molteplice. Etica e religione in Emmanuel Lévinas, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2015, passim. 20 E. Lévinas, tr. it. Al di là del versetto, Guida, Napoli 1986, p. 177. 21 AE, p. 143.
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libertà finita e la libertà infinita e quindi questa, solo alla luce della quale ha senso quella, precede la
responsabilità.
Il problema è che Lévinas considera la libertà (che per lui è solo finita) come autonomia e cioè
secondo la logica dell’identico che, a suo modo di vedere, connota la metafisica occidentale
dell’essere visto come totalità22. Ma, se la libertà23 è vista alla luce dell’identità, diventa necessità.
Mentre essa, da una parte, nella sua incondizionatezza e inesauribilità, è il vero nome dell’infinito e,
dall’altra parte, è l’unico principio assoluto costituito paradossalmente dalla relazione di unità e di
alterità. C’è infatti alterità tra libertà ed essere, proprio perché la libertà, in forza della sua
incondizionatezza, è origine dell’essere, ma c’è insieme anche unità tra essi, perché solo l’essere dà
consistenza alla libertà24.
Solo alla luce di questa relazione di unità e di alterità (presente nell’infinito e quindi anche in
tutto ciò che deriva da esso e cioè nel finito, nella relazione tra i finiti e nei rapporti tra il finito e
l’infinito) è possibile affrontare, tra l’altro, questioni che Lévinas sembra non poter tematizzare
adeguatamente. L’alterità assoluta – senza identità – pare presupporre infatti un essere come pluralità
ma, in mancanza di un momento di unità, si rischia la dispersione del senso (la verità) e la mancanza
della possibilità della connessione tra le diverse alterità (la comunità). Anche il bene e l’amore (con
il suo risvolto tragico, costituito dalla sofferenza) e quindi la responsabilità (cioè il rispondere
dell’altro uomo) sono forse pensabili solo come unità di alterità e quindi nella libertà. Insomma, per
Lévinas la responsabilità per l’altro si fonda sulla sua alterità infinita. Per Pareyson la responsabilità
verso sé e verso gli altri si fonda sulla libertà infinita. Ma, se la responsabilità si fonda sull’alterità e
la libertà infinita è la relazione di unità e di alterità, la libertà precede la responsabilità.
4. Lévinas e Pareyson
Le proposte filosofiche di Lévinas e di Pareyson muovono da un’istanza comune: la necessità di
rispondere agli esiti nichilistici della metafisica di stampo idealistico, frutto di una ragione
autosufficiente e totalizzante. La soluzione pareysoniana muove verso l’assunzione di un principio
originario individuato nella libertà come inizio e scelta. Da tale posizione la responsabilità, in quanto
accettazione della propria libertà, occupa una posizione successiva alla libera scelta d’essere. Da parte
nostra abbiamo definito la responsabilità nei termini di una relazione tra risposta ed appello; relazione
paradossale perché antepone la risposta alla chiamata, perché individua nella risposta l’unica traccia
possibile di una domanda che, per la sua alterità, rimane in-audita; solo nella risposta il soggetto è
eticamente individuato, solo nella paradossalità di una “relazione nella separazione” è eletto; una
relazione che non chiude l’Io nella sua identità, ma che lo ordina a rispondere dell’Infinito. In questo
senso l’agire responsabile si configura come un agire di secondo grado, una risposta che, de facto,
non può rivendicare un’origine che le è preclusa, una risposta che è sempre nel rinvio di un appello
che si nega. L’apparente convergenza con la posizione di Pareyson rispetto alla posteriorità della
responsabilità è subito smentita dal movimento di tale posteriorità che non è generata dal porsi
originario della libertà incondizionata, ma dal sottrarsi di quell’origine che rinvia continuamente alla
risposta. La domanda, di tenore lévinassiano, sarà allora: “quale appello, contenuto nella Libertà
originaria, può ordinare un dovere di risposta?”. Nella Libertà, secondo Lévinas, non c’è alcuna
chiamata, se non una proliferazione della libertà stessa che chiama ad essere liberi. La libertà
dell’uomo è, per Lévinas, un movimento spontaneo della coscienza, è un’arbitraria determinazione
dell’Altro da parte del Medesimo che per scegliere d’essere deve “perdersi e ritrovarsi”, deve
“distendere l’ordine dell’essere per reintegrarlo nella libera responsabilità”25. Prolungando la libertà
originaria, l’uomo sceglie d’essere libero, sceglie cioè di aderire alla “legge” della libertà: “sii libero”.
22 Si potrebbe discutere sulla validità di un giudizio così categorico! 23 Mi rifaccio qui liberamente a quanto sostenuto, sulla scia di Pareyson, da Claudio Ciancio. 24 La libertà infatti, se non si pone come esistente, rischia l’inconsistenza e l’impotenza della mera agilità e
della pura possibilità, che non diventa mai realtà fattuale. 25 AE, 143.
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Tale imperativo etico è, da questo punto di vista, subordinato a un atto conoscitivo della coscienza
che pretende di riconoscere nella libertà quella parola di bontà, al di là dell’essere necessario, che le
è preclusa in quanto sconosciuta. Il rapporto tra libertà e responsabilità resterebbe così compreso
all’interno di un’alternativa per cui solo la scelta d’essere liberi implica la possibilità d’essere anche
responsabili; il movimento contenuto nell’opzione pareysoniana rimarrebbe quello, tipico
dell’ontologia, che va dall’io all’altro. In Lévinas, per contro, il primato della responsabilità iscritta
nella passività costitutiva del soggetto investe la libertà di bontà e le assegna un compito d’esercizio.
Questa radicalizzazione appare anche nella diversa concezione della sofferenza, vista da Pareyson
quale mezzo d’espiazione del male. Nella “passività integrale”, in cui “l’accusa precede la colpa”, il
male viene ricondotto alla sfera della sensibilità e identificato con la sofferenza che, dal punto di vista
ontologico, risulta insensata ed inutile. Da questo punto di vista non si tratta di “trarre dalla sofferenza
una qualche virtù magica di riscatto”26 nel quadro di una teodicea ancora possibile. Nella sua
insensatezza, la sofferenza “non mi si addice, né essa, né la ricompensa ad essa legata”27. L’unica
giustificazione che possiamo riconoscere alla sofferenza è quella avvertita per la sofferenza dell’altro
uomo; la sofferenza in me è giusta solo se apre alla prospettiva etica dell’inter-umano, solo se è
“sofferenza per la sofferenza ingiustificabile d’altri”28.
Il quadro condiviso dei due pensatori è rappresentato dalla concezione di una responsabilità
reciproca di tutti verso tutti per una sofferenza inutile (secondo una comune lettura di Dostoewskij),
di una passività originaria che spinge l’uomo “a passare, nel trauma della persecuzione, dall’oltraggio
subito alla responsabilità per il persecutore”29. Ma nell’impostazione lévinassiana “la responsabilità
rimane anteriore ad ogni libero impegno”, una passività che non sceglie mai per sé e che incontra la
libertà solo negli altri. Solo spogliandosi della propria libertà di soggetto libero, solo nel suo essere-
per-l’altro, l’uomo si scopre responsabile per la libertà degli altri: “più sono giusto, più sono
colpevole”30. Alla scelta di sé, quale momento responsabile istitutivo della propria identità, Lévinas
contrappone la costituzione di un Sé eletto nella sua unicità di soggetto responsabile dell’altro, che si
fa carico della sua colpa fino alla sostituzione. In questo tentativo di pensare una “liberazione senza
libertà” si dispiega tutta la forza di un “giudaismo adulto” che, come non ritiene necessario ricorrere
ad alcun mito del peccato originale per pensare il male, così non si deve pensare ad alcun Messia cui
affidarne la sconfitta. La figura del servo sofferente di Isaia, 53 rappresenta l’orizzonte di questo
“umanesimo ebraismo” per il quale ognuno di noi è il messia atteso che attraverso la porta di ogni
risposta fa il suo ingresso nella storia31.
Luca Ghisleri e Massimo Tura
SOMMARIO
L’obiettivo del saggio è quello di indagare il rapporto tra libertà e responsabilità alla luce dell’analisi della
configurazione che tale rapporto assume all’interno delle filosofie di Pareyson e di Lévinas. Pareyson pensa
anzitutto la libertà, ma questo non implica che egli non pensi la responsabilità, anche se pensa questa sempre
e solo alla luce di quella. Egli stabilisce infatti tra esse un intreccio fondamentale, ancorato nel punto di snodo tra la libertà finita e la libertà infinita. Per lui non ci può essere libertà (finita) senza responsabilità, ma non ci
può essere responsabilità se non sulla scia della libertà (infinita). La libertà (finita) cioè è nella responsabilità
perché la libertà (infinita) è prima della responsabilità. Lévinas descrive il rapporto tra libertà e responsabilità soffermandosi sulla relazione etica nel suo essere dettata dal comando del volto d’Altri che elegge il soggetto
26 AE, 139. 27 E. Lévinas, tr. it. Tra Noi. Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 1983, p. 126. 28 Ibid., pp. 126-127. 29 AE, 139. 30 AE, 141. 31 E. Lévinas, tr. it. Il Messianismo, Morcelliana, Brescia 2002.
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nel dovere di risposta. Il primato assegnato in questa prospettiva alla responsabilità rispetto alla libertà spoglia
la scelta della sua autonomia e la investe di un altro compito: la liberazione della libertà altrui.
SUMMARY
The aim of the essay is to inquire into the relation between liberty and responsibility in the light of the analysis of the configuration this relation assumes inside Pareyson’s and Lévinas’s philosophies. Pareyson thinks first
of all the liberty, but this doesn’t involve he doesn’t think the responsibility, even if he thinks the latter only
in the light of the former. In fact, he sets between them an essential nexus that is clinged to the junction between
finite liberty and infinite liberty. According to him, there cannot be (finite) liberty without responsibility, but there cannot be responsibility unless in the light of (infinite) liberty. So (finite) liberty is in responsibility
because (infinite) liberty is before responsibility. Levinas describes the relation between liberty and
responsibility lingering over the ethical relation suggested by the injunction of the face of others that elects the subject in the duty of answering. The primacy assigned in this perspective to responsibility compared to liberty
strips the choice of its autonomy and invests it with another task: the liberation of liberty of others.
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IV. La libertà nell’Unico
di Fabrizio Grasso
Ciò che è sorprendente non è l’egoismo, bensì il suo permanente fallimento1
1. Premessa
Proporre una definizione unica e inappellabile della libertà è un’impresa ardimentosa, tanto è vero
che i secoli moderni ci hanno reso familiari diverse espressioni, quali “libertà giuridica”, “libertà
religiosa” e “libertà politica”, per fare solo qualcuno degli esempi possibili dell’uso che facciamo di
questo concetto al quale siamo oramai abituati ad associare un attributo per trovargli così un senso
tecnico e specifico, come quando discettiamo intorno alla libertà di stampa o di parola. Ogni
ragionamento aspirante a mettere al centro la libertà s’infrange pertanto sullo scoglio di questa
suscettibilità della parola e la prospettiva filosofica (sia moderna che contemporanea) ha contribuito
ad ampliare ulteriormente i significati e l’estensione di questo concetto.
A pensare la libertà in modo radicale è stato senza dubbio Max Stirner2, filosofo spesso
saccheggiato e poco citato3, considerato un’icona dagli anarchici, un precursore dai nichilisti e dagli
esistenzialisti e spesso iscritto malgré lui ai partiti totalitari che hanno devastato il secolo passato in
quanto fonte d’ispirazione per fascisti4 e nazisti. Del suo pensiero infatti come è evidente e noto si è
spesso privilegiato offrire una lettura politica, ragione che ha concorso in maniera determinante ad
oscurare più d’un nucleo del suo ragionamento e a porre l’accento soprattutto sugli esiti della sua
riflessione e non sui processi. È solo nella seconda metà del Novecento che gli studiosi hanno tentato
di mostrare la ricchezza di quel nucleo5 contenente una definizione originale e terribile della libertà.
Definizione interessante da approfondire per cogliere l’attualità di un autore per troppo tempo lasciato
ai margini della storia del pensiero.
L’ipotesi è che Stirner (spesso profetico nell’esposizione della sua filosofia) abbia
riconosciuto e scomposto il dispositivo teologico-politico operante all’interno della storia del
pensiero. La legittimazione a proporre questa tesi ci viene da quanto sostenuto dal filosofo Roberto
Esposito in un suo recente lavoro sulla teologia politica6. Rileggere il pensiero di Stirner sembra
1 N.G. Dávila, Notas I, Circolo Proudhon, 2016, pp. 90-91. 2 Pseudonimo di Johann Caspar Schmidt (1806-1856). L’unica biografia del filosofo è quella scritta dal poeta scozzese J.H. Mackay, Max Stirner – sein Leben und sein Werk, Schuster & Loeffler, Berlino 1898 (tr. it. Max
Stirner. Vita e Opere, Bibliosofica Editrice, Roma 2013). 3 Cfr. C.A. Bernoulli, Franz Overbeck und Friedrich Nietzsche. Eine Freundschaft, Jena, Eugen Diederichs
1908. 4 M. Veneziani, Max Stirner, unico per tutti e tutti per il suo «L’Unico», in Il Giornale, 9 giugno 2014. Scrive
il filosofo: «Sul piano politico il lettore più entusiasta in gioventù fu Mussolini». 5 «Ci sono alcune miniere di uranio nella storia dello spirito. […] Il povero Max vi rientra senz’altro». Così scrive C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano 1987, p. 83. 6 «Ciò che definisce, nella sua dinamica, la procedura teologico-politica non è tanto la giunzione, quanto il
dislivello che oppone ciò che pure unisce. E proprio tale sdoppiamento, o raddoppiamento, all'interno del genere umano ma anche del singolo uomo, a introdurci al cuore segreto del dispositivo teologico-politico. Fin
nel suo nome esso è costituito da due termini connessi ma mai del tutto corrispondenti, e anzi legati da una
sorta di eccesso dell’uno nei confronti dell’altro. Sia sul piano storico che su quello concettuale i due poli del
teologico e del politico si rapportano nel continuo tentativo di superarsi a vicenda. La tesi da me avanzata è che tale procedura di assimilazione escludente sia la prestazione fondamentale della “macchina teologico-
politica”. Essa funziona precisamente separando ciò che dichiara di unire e unificando ciò che divide mediante
la sottomissione di una parte al dominio dell’altra». R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013, pp. 4-5.
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possibile proprio per individuare i momenti salienti in cui è visibile in azione il dispositivo teologico-
politico. Non deve nemmeno sorprendere sia stato lui uno dei primi autori a svelare il meccanismo
della “secolarizzazione7” e forse proprio per il fatto che la sua proposta filosofica ha come premessa
la distruzione del pensiero occidentale tradizionale8.
Stirner è ovviamente consapevole che il cristianesimo ha impresso una direzione nuova alla
storia e al pensiero ed è convinto che specialmente da ciò dipenda l’insufficienza logica e ontologica
del linguaggio a svincolarsi dalle sue origini religiose. Ovviamente anche il concetto di libertà è preda
della sua furia demolitrice. Perché quella ipotizzata da Stirner è una libertà completamente diversa
da quella predicata dal cristianesimo e da quella che si va propugnando e imponendo in tutta Europa
dopo la rivoluzione francese. L’intuizione di Stirner è che la rivoluzione in Francia ha sprigionato
forze acceleranti il processo (che egli, come vedremo non esita a fare risalire alla riforma protestante9)
di cambiamento del mondo.
Una sensibilità questa, che lega Stirner ad autori controrivoluzionari quali sono Joseph de
Maistre e Donoso Cortés e infatti chi ha avuto occasione di leggere le opere dei due, non può che
rimanere impressionato dalle similitudini (seppur gli esiti del pensiero siano poi distantissimi) che si
trovano nelle pagine di questi ingegnosi pensatori.
Stirner negli anni turbolenti nei quali gli capita di vivere comincia a notare uno strano e curioso
fenomeno e cioè: più aumentano le libertà per tutti e più diminuisce la possibilità per il singolo di
esercitare la propria libertà. La contraddizione lo spinge a interrogarsi e sondare l’abisso per scoprire
una volta per tutte su cosa mai sia fondata la libertà. Nel tentativo di trovare una soluzione alla
contraddizione s’imbatte in un personaggio ripugnante e affascinante allo stesso tempo e cioè:
“l’Unico”, “l’egoista”.
2. L’Unico e la sua proprietà
Il solo libro che ha scritto è bastato a Stirner a renderlo «famigerato»10. Der Einzige und sein
Eigentum11 (L’Unico e la sua proprietà) fu pubblicato a Lipsia nel 1844 anche se il frontespizio forse
per una svista di stampa riporta la data dell’anno successivo. L’opera di Stirner è bene sottolinearlo
ha un bersaglio polemico manifesto e cioè Das Wesen des Christentums (1841) di Ludwig Feuerbach.
L’Unico è certamente un testo che mette alla prova chiunque lo legga e vale quindi il giudizio del
filosofo francese Michel Onfray: è un «manoscritto mostruoso» perché «Stirner confessa che,
rileggendosi, aggiungeva continuamente scritte e commenti».
7 Cfr. F. Bazzani, Stirner come segno della cesura nel paradigma della ragione moderna, in Individuo e
insurrezione, a cura di E. Xerri e V. Talerico, Il Picchio, Bologna 1993, pp. 189-198. Cfr. anche R. Balidissone,
The Multiplicity of Nothingness: A Contribution to a Non-Reductionist Reading of Stirner, in Max Stirner, a
cura di S. Newman, Palgrave Macmillan, 2011, pp. 67-88. 8 «Alcuni tratti del pensiero filosofico di Stirner sono stati messi in luce lentamente e con fatica. […] Proiettato
nell’ambito del pensiero occidentale, egli viene definito come l’anti-Socrate per eccellenza. Ritengo a riguardo
che il limitarsi a sottolineare la critica al pensiero occidentale che Stirner opera prima di Nietzsche non sia sufficiente per chiarire l’apporto originale del pensiero stirneriano». G. Penzo, Max Stirner: la rivolta
esistenziale, in Individuo e insurrezione, a cura di E. Xerri e V. Talerico, Il Picchio, Bologna 1993, p. 8. 9 «Non avverte nemmeno in quale misura lo ius revolutionis della Rivoluzione francese rappresenti una conseguente continuazione deteologizzata dello ius reformandi della Riforma protestante». Il soggetto della
frase è la modernità. Cfr. C. Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia
politica, Giuffrè, Milano 1992, p. 26. 10 F.A. Lange, Geschichte des Materialismus, Baedeker, Iserlohn 1866, p. 292. 11 La prima traduzione italiana dell’opera è quella di Ettore Zoccoli (che scrive anche un’interessante
introduzione) del 1902, edita dai F.lli Bocca a Torino, il titolo è monco e difatti è: L’Unico. La traduzione
presa a riferimento in questo saggio è invece quella fatta nel 1979 da Leonardo Amoroso per Adelphi, che più correttamente traduce l’intero titolo: L’Unico e la sua proprietà.
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A ciò si deve aggiungere una fantasia tipografica: Stirner scrive sistematicamente con la
maiuscola gli aggettivi possessivi, Mio, Mia, Miei, Mie, i pronomi personali Io, Me, Noi, Voi. Di
modo che la profusione esagerata di maiuscole nel corpo del libro contribuisce a rallentare la lettura12.
Peculiarità tipografiche e stile caotico che certamente hanno avuto un ruolo determinante nel salvare
Stirner dalla censura.
I funzionari che dovevano vigilare sulla circolazione delle idee ritennero l'opera
incomprensibile, frutto di una mente folle, malata o qualcosa del genere; decisero perciò di non
bloccarla, perché nessuna persona normale avrebbe potuto ricevere danno da questo professore di un
istituto femminile di 39 anni. Il quale, dopo l'uscita del libro, avrebbe perso il posto13.
Nonostante con L’Unico criticasse aspramente e dalle fondamenta l’impianto filosofico,
religioso, civile e politico della società fu con ogni probabilità grazie all’incomprensibilità che passò
indenne le maglie della censura. Quando uscì il libro non riscosse successo tra il grande pubblico.
Ebbe tuttavia illustri lettori14 che lo criticarono aspramente e ai quali Stirner non mancò di replicare15.
Tra questi c’è proprio Feuerbach16. Dell’Unico dopo pochi anni si perdono le tracce fino a quando
«Stirner viene riscoperto […] sulla scia dell’improvvisa fortuna di Nietzsche»17.
Sono comunque questi gli anni in cui la parola libertà è sulla bocca di filosofi e straccioni, proletari
e borghesi, aristocratici ed ecclesiastici e nel nome di questa in ogni dove vengono rovesciate le
istituzioni e cambiati i governi. L’illuminismo d’altronde aveva fatto più che rischiarare la ragione
coi suoi lumi. Esso aveva anche attizzato gli animi e preparato il campo alla comparsa degli spettri
delle ideologie.
3. Antichi e moderni
Si potrebbe affermare che è la storia a fare da levatrice al pensiero di Stirner. Da un lato perché ci
sono parti dell’Unico impossibili da leggere senza tenere presenti le trasformazioni politiche e sociali
nel continente europeo del XIX secolo (e infatti, una dopo l’altra nell’Ottocento le ideologie entrano
sul palcoscenico della storia ed esse sono destinate a mutarla, indirizzarla e qualche volta persino
correggerla), dall’altro perché egli principia la sua riflessione distinguendo tra gli uomini del tempo
antico e quelli del tempo moderno.
Ma è bene scoprire subito le carte. Dietro questa differenza all’apparenza neutra tra antichi e moderni
per Stirner se ne cela un’altra e cioè: la distinzione tra mondo precristiano e mondo cristiano. La
domanda posta da Stirner è schietta: «chi ha potuto soppiantarli (gli antichi N.d.A.) con la sua
12 Cfr. M. Onfray, Schopenhauer, Thoreau, Stirner. Le radicalità esistenziali, Ponte alle Grazie, Milano 2013, pp. 243-244. 13 A. Torno, La questione Stirner, in Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2016. 14 Occorre infatti ricordare che Karl Marx e Friedrich Engels quando tra il 1845 e il 1846 scrivono Die deutsche
Ideologie inseriscono nell’opera una parte intitolata San Max. Una critica feroce proprio al testo di Stirner. L’Ideologia Tedesca come è noto rimarrà abbandonata alla «critica roditrice dei topi» e sarà pubblicata per la
prima volta solo nel 1932. 15 Hess-Feuerbach-Stirner-Fischer-Szeliga, La questione Stirner, a cura di M. Montalto, Mimesis, Milano-Udine 2015. La pregevole opera raccoglie le prime e più importanti recensioni e critiche al libro di Stirner e le
successive riposte dello stesso. 16 R. Calasso, Accompagnamento alla lettura di Stirner, in M. Stirner, M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 2002, p. 394. Calasso riporta i contenuti di alcune lettere della fine del 1844 di Feuerbach al
fratello dalle quali si evince un repentino cambio di giudizio sull’opera di Stirner. Dapprima Feuerbach dopo
aver letto L’Unico è tentato di scrivere all’autore e di utilizzare un tono amichevole perché spiega al fratello
che Stirner è «lo scrittore più geniale e libero che abbia mai conosciuto». Ma poco tempo dopo si convince del fatto che «gli attacchi di Stirner tradiscono una certa vanità, come se volesse farsi un nome a spese del mio».
Alla fine Feuerbach non spedirà a Stirner nessuna lettera. Una sua recensione all’Unico uscirà anonima nel
1845 e Calasso nota che Feuerbach «appare intimorito e preoccupato soprattutto di difendersi». 17 Ibid., p. 409.
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presunta modernità?»18. La risposta è lapidaria: «Noi lo conosciamo bene l’innovatore rivoluzionario
[…] egli è - Cristo».
Procediamo con ordine. Stirner premette un excursus sul mondo antico e individua nei sofisti,
in Socrate e negli scettici, gli snodi essenziali che portano l’uomo antico «a conoscere se stesso […]
come spirito»19.
I sofisti apparvero in Grecia nella seconda metà del V secolo a.C. e facendosi «beffe» di ciò
che c’era di più serio riuscirono nell’impresa di risvegliare negli uomini «il sentimento di se stessi».
La diffusione dei sofisti fu implacabile fino a quando non apparve all’orizzonte Socrate: il moralista.
Al Sileno non bastava più che l’intelletto potesse giustificare ogni cosa, perché l’azione più turpe e
l’azione più virtuosa davanti al sofista pari erano e giustificabili entrambe. Socrate spiega Stirner «è
il fondatore dell’etica» perché a lui non basta più giustificare tutto tramite l’intelletto. Adesso bisogna
«vedere per quale causa lo si impegna» e questa causa la potremo trovare solo essendo «puri di
cuore». Così si impegnò l’intelletto alla ricerca delle cause morali: delle cause del cuore. Fino a
quando la filosofia scettica non arrivò per purificare ogni pensiero e così «scacciare dal cuore ogni
contenuto».
L’educazione sofistica ha fatto sì che l’intelletto non si arrestasse più davanti a nulla; quella
scettica, che il cuore non fosse più mosso da nulla20.
Gli antichi erano riusciti poco alla volta a rendere vuoto il cuore e a slegarsi progressivamente
ma non ancora totalmente dai rapporti col mondo. Erano però ormai finalmente pronti ad accogliere
il messaggio cristiano e vivere spiritualmente. A testimoniare della scomparsa del mondo antico
saranno gli ultimi pagani che dopo l’apparizione di Cristo nella storia continueranno a vivere una vita
mondana. Ma il loro tempo è comunque agli sgoccioli.
Se l’evo degli antichi era tutto rivolto al mondo quello dei moderni è tutto indirizzato e teso
verso lo Spirito. Per gli uni la verità era il mondo. Per gli altri la verità è lo Spirito. La frattura tra
mondo antico e moderno col cristianesimo diventa per Stirner insanabile e irrecuperabile. Il puro
Spirito e cioè il puro pensiero, l’intelletto: è finalmente separato dal mondo (oggettivato). È per dirla
filosoficamente: un’ipostasi. La predicazione di Cristo ha sprigionato lo Spirito nel mondo e le
citazioni evangeliche (come per esempio quella della seconda Lettera di Paolo ai Corinti 5,17)
servono a Stirner a rafforzare e dimostrare la sua tesi. Certo la rivoluzione cristiana è spirituale ma
paradossalmente è proprio questo a renderla ancora più pericolosa di una rivoluzione politica.
«Egli (Cristo N.d.A.) non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva incurante di quella autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada. E non meno indifferenti del
governo gli erano i nemici di questo […]. Egli era […] un ribelle che si sollevò al di sopra di tutto ciò che al
governo e agli avversari di questo sembrava sublime, che si sciolse da tutto ciò a cui quelli restarono legati e che al tempo stesso deviò il corso vitale delle sorgenti vitali del mondo pagano, facendo così appassire lo Stato
esistente: proprio perché non gli interessava il rovesciamento dell’esistente, egli ne era in realtà il nemico
mortale […] egli, infatti, lo murò edificandogli sopra, tranquillo e incurante, il suo tempio, senza far caso alle grida di dolore che venivano da quel che aveva murato»21.
Un giudizio pungente quello sul fondatore della chiesa cattolica. Nondimeno illustra alla
perfezione il ragionamento di Stirner. La frattura tra antico e moderno è segnata anche dal punto di
vista cronologico e lo Spirito oramai si è conquistato uno spazio sicuro nel cielo. È il cristiano infatti
a distinguere la vita mondana dalla vita spirituale.
È preoccupato di condurre una vita terrena che gli dia accesso a quella celeste, considerata:
vita vera. Corsi e ricorsi. Stirner nota immediatamente delle analogie tra storia antica e moderna e
osserva:
18 M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 2002, p. 25. 19 Ibid.., p. 29. 20 Ibid., p. 29. 21 Ibid.., p. 332.
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«Fino all’epoca che preparò la Riforma, l’intelletto rimase prigioniero del dominio dei dogmi cristiani, ma nel secolo precedente alla Riforma si ribellò con argomenti degni dei sofisti e porto avanti un gioco eretico con
tutti gli articoli di fede»22.
«L’umanesimo corrisponde alla sofistica». È questo cambio di passo dell’intelletto a disporre
nuovamente l’uomo alla causa del cuore. Sarà Lutero attraverso la Riforma a condurre poi l’umanità
alla libertà spirituale. Egli infatti inizierà un’opera di alleggerimento del cuore dal «grave peso della
cristianità».
Solo alla fine di questo processo:
«Il cristianesimo è compiuto, perché è diventato arido, intorpidito e vuoto di contenuto. Non c’è più alcun
contenuto che il cuore non respinga, a meno che non si insinui inconsciamente, ossia senza che vi sia
«autocoscienza» di esso. Il cuore critica a morte tutto ciò che vuole irrompere in lui, lo critica a morte con spietata crudeltà di cuore23 […]».
Per Stirner l’uomo riformato conquista tramite il progressivo alleggerimento del cuore l’agognata
“libertà spirituale” perché adesso riuscirà a oggettivare interamente lo Spirito: ponendolo totalmente
fuori dal mondo. Continuerà comunque per adesso a chiamarlo col nome di Dio.
Lo spirito si è semplicemente allontanato dal mondo si è fatto pura essenza, libera dal mondo,
senza poterlo annientare veramente24. Si potrebbe tranquillamente affermare (e Stirner lo fa25) che
l’operazione intellettuale sposta sempre più al di là lo Spirito (inteso ancora come oggetto
dell’intelletto).
Il comandamento nuovo del vangelo, “ama il prossimo tuo come te stesso”, è ora totalmente
trasfigurato. In questo abbandono dello Spirito (e cioè di Dio dal mondo) esso diventa: ama lo Spirito
degli altri come quello che ami in te stesso. Un pensiero questo cristallizzato dalla riforma di Lutero.
Come è noto la riforma prevede che solo la fede in Dio (e perciò nello Spirito) e non anche le opere
possano salvare l’anima dell’uomo.
In questi ragionamenti da filosofo del linguaggio ante litteram Stirner nota una contraddizione
terminologica perché adesso lo Spirito e quindi Dio (completamente oggettivato) viene a coincidere
con l’io dell’uomo (diventa perciò soggetto oltre che oggetto) e quindi con la sua essenza (che di
conseguenza è oggettivata ed è spostata al di fuori del corpo). L’essenza dell’uomo è ora nel mondo
puro della trascendenza. Per usare un eufemismo secondo Stirner ci troviamo di fronte ad una vera e
propria macchinazione26 dell’intelletto che gioca con lo Spirito. Ma l’intelletto così non fa altro che
ingannare se stesso.
È Ludwig Feuerbach ad avere pienamente sentore di quest’inganno. Il suo errore però è quello
di non negare radicalmente lo Spirito (e cioè Dio) e di produrre l’ennesimo slittamento di significato.
Infatti egli dimostra di continuare a giocare con l’intelletto attribuendo all’uomo tutti i predicati che
si riferivano a Dio. L’accusa di Stirner a Feuerbach è chiarissima: ha semplicemente sostituito
l’Uomo a Dio. Per questo motivo Feuerbach è “un ateo pio”.
È interessante guardare da vicino le argomentazioni usate da Stirner per dimostrare la sua tesi
anche perché nelle recensioni che seguirono all’Unico Feuerbach si preoccupò di ribattere e Stirner
di controbattere. In gioco in questi ragionamenti c’è il concetto moderno di libertà.
22 Ibid., p. 35. 23 Ibid., p. 35. 24 Ibid., p. 36. 25 Cfr. ibid., pp. 34-37. 26 Cfr. ibid., pp. 37-43.
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4. Disputa sui predicati
È lo slittamento di significato a permettere di sostenere a Stirner che nel mondo dei moderni
«religione e moralità concordano sul punto fondamentale»27 e cioè: nell’asserire che c’è qualcosa di
superiore all’uomo in carne e ossa (e Stirner quando parla dell’uomo ha sempre davanti questa
definizione materiale) e poco importa che l’Io chiami Dio o legge morale questo Spirito che è al di là
dell’uomo. A permanere infatti è il «comportamento religioso» anche se la «vecchia religione è stata
rifiutata».
Così Feuerbach c’insegna che «invertendo semplicemente la filosofia speculativa, cioè
mettendo sempre il predicato al posto del soggetto e facendone così, in quanto soggetto, l’oggetto e
il principio, si ha la verità senza veli, pura, nuda». A questo modo perdiamo certamente il punto di
vista religioso limitato, perdiamo il Dio che è il soggetto da questo punto di vista, ma in cambio
otteniamo l’altra parte dal punto di vista religioso: quella morale. Non diciamo più per esempio: «Dio
è amore», ma «l’amore è divino». Ma se sostituiamo il predicato «divino» col sinonimo «sacro», ecco
che le cose tornano esattamente come prima28.
Per Stirner l’ateismo di Feuerbach è limitato. Le accuse scagliate a Feuerbach sono
circostanziate e questi infatti tenterà di rispondere seppur in maniera anonima nel saggio di recensione
all’Unico pubblicato nel 1845. A proposito di quanto evidenziato Feuerbach scrive:
«Che resterebbe dunque, se non debbono più sussistere nemmeno i predicati di Dio? E perché mai in fondo dovrebbe rimanere qualcosa? […] In che modo Feuerbach lascia sussistere i predicati? È proprio questo il
punto! […] Egli li lascia sussistere in quanto sono predicati della natura e della umanità, ovvero proprietà della
natura e dell’umanità. Qualora essi passino da Dio all’Uomo, depongono anche il loro carattere divino, che potranno mantenere solo distaccandosi dall’uomo per sussistere nell’astratto, nella fantasia; in forza di questo
passaggio dall’oscurità mistica della fede religiosa alla limpida luce diurna della coscienza umana si fanno
popolari, “comuni”, “profani”»29.
La risposta però non convince Stirner che replica:
«Feuerbach si chiede: “In che modo Feuerbach lascia sussistere i predicati (divini, aggiungo)?”, e si risponde:
“Non a quel modo in cui sono predicati di Dio, bensì al modo in cui essi sono predicati della natura e dell’umanità - ovvero proprietà della natura e dell’umanità”».
Stirner ribatte:
«Feuerbach ne assume gli ideali – definizioni essenziali della specie, ancora “imperfette” nell’uomo individuo,
che conseguono invece per la prima volta la perfezione “nella dimensione della specie” come realizzazioni dell’ente Uomo perfetto”, cioè come ideali per l’uomo individuo. Non li conserva come divinità (associandoli
al loro soggetto, Dio), bensì come umanità, “trasferendoli da Dio all’uomo”».
Bene, Stirner muove proprio contro l’Uomo, mentre Feuerbach ripropone invece per l’ennesima
volta, nello stesso punto, con disinvoltura, «l’uomo», supponendo che se i predicati fossero solo
«umani», ovvero trapiantati negli uomini, sarebbero di conseguenza e subito del tutto «profani,
comuni». Tuttavia i predicati umani non sono affatto più comuni e profani di quelli divini: Feuerbach
è ben lontano dall’essere un «vero ateo», nel senso della sua descrizione sopra riportata, e nemmeno
vuole esserlo30.
In questa “disputa sui predicati” Feuerbach non si rende conto di un fatto: Stirner in realtà non
critica solo il suo ateismo monco ma porta lo stesso ateismo alle estreme conseguenze logiche e
27 Ibid., p. 56. 28 Ibid., pp. 56-57. 29 Hess-Feuerbach-Stirner-Fischer-Szeliga, op. cit., p. 92. 30 Ibid., pp.131-132.
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pertanto non è solo al Dio trascendente che l’Unico in carne e ossa nega qualsiasi consistenza
ontologica, la nega anche all’Uomo-Dio (proprio con gli stessi argomenti con cui l’ateismo nega Dio)
di Feuerbach che si è appropriato di quella trascendenza che per lui ormai è priva di qualsiasi senso
e significato. Non basta quindi sostituire l’Uomo a Dio perché così la trascendenza viene salvata.
Anzi peggio ancora: è rovesciata in immanenza. Lo slittamento di significato si fa ancora più chiaro.
Dice Stirner:
«Feuerbach adesso distrugge la sua dimora celeste (dello Spirito di Dio, N.d.A.) e lo obbliga a trasferirsi con
armi e bagagli da noi, ho paura che noi, suo alloggio terreno, saremo un po’ sovraffollati»31.
5. Le catene della libertà
L’operazione fondamentale di Feuerbach è soltanto uno spostamento fra soggetto e predicato, in cui
quest’ultimo viene privilegiato. […] poteva ben accorgersi che bisognava dar guerra ai predicati
stessi, all’amore e a tutte le cose sacre. Come ha potuto sperare di allontanare gli uomini da Dio se
lasciava loro il divino?32
Per capire come funziona l’argomentazione di Feuerbach basta fare un esperimento mentale:
associare all’Uomo uno di questi predicati. Per esempio: se prima dicevamo “Dio è libero”, ora
potremo affermare: “l’Uomo è libero”. Fermandosi un attimo prima di «dar guerra ai predicati»
Feuerbach ha lasciato all’Uomo la stessa libertà di creazione ex nihilo che era prerogativa di Dio. La
sopravvivenza dei predicati mantiene quindi viva come immanenza la trascendenza contro la quale si
scaraventa il pensiero di Stirner.
Ma in realtà è cambiato solo il Dio, il Deus; l’amore è rimasto: prima era amore per il Dio
sovrumano, adesso amore per il Dio umano, per l’homo in quanto Deus33.
È del tutto evidente che è rimasta attiva la relazione e cioè: il legame dell’uomo con l’Uomo deificato.
In una parola in senso etimologico è rimasta: la religione. Il dispositivo della teologia-politica può
adesso entrare pienamente in azione. Infatti è semplice per Stirner constatare che la morale non solo
sopravvive alla cacciata di Dio dal cielo ma si trasmuta in una nuova religione pronta a portare alta
la bandiera dell’Uomo. D’ora in poi spiega Stirner: le azioni saranno giudicate anche in base alle
intenzioni34. Se gli antichi avevano distinto tra vita mondana e vita spirituale adesso si potrà separare
la vita pubblica da quella vita privata perché l’Uomo in questa nuova religione si è anche fabbricato
un Dio immanente: lo Stato35. Coloro i quali trasgrediranno alla morale o alla legge (in quest’ottica
dobbiamo tenere presente che il diritto è solo la cristallizzazione dogmatica dell’etica di una
determinata epoca) saranno da considerarsi disumani o inumani.
Chi offende l’Uomo e cioè l’umanità deve infatti necessariamente essere condannato e punito
e Foucault aggiungerebbe anche sorvegliato.
Alla vecchia religione subentra così definitivamente la nuova. A dominare sul mondo è d’ora
in avanti lo Spirito libero dell’Uomo. La religione umanitaria fa il suo ingresso sul palcoscenico della
storia. Su questa nuova religione-relazione Stirner s’interroga:
«Perché certe opposizioni non riescono a svilupparsi? Esclusivamente perché non vogliono abbandonare il
tracciato della moralità o della legalità»36.
31 M. Stirner, op. cit., p. 43. 32 Ibid., pp. 67-68. 33 Ibid., p. 67. 34 Cfr. ibid., p. 60. 35 «Lo Stato non può sopportare che l’uomo abbia un rapporto diretto con un altro uomo: vuole fare da -
mediatore, deve intervenire. Lo Stato è diventato ciò che un tempo fu Cristo, ciò che furono i santi e la Chiesa:
un “mediatore”. Esso divide l’uomo dall’uomo, per mettercisi in mezzo come “spirito”». Ibid., p. 267. 36 Ibid., p. 61.
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Sarà proprio la tensione insistente che porta allo sfregarsi queste opposizioni a partorire l’Unico:
l’egoista. Stirner comprende che la modernità con questa nuova religione, poco a poco, volente o
nolente, consciamente o inconsciamente, spezzerà ogni legame. Perché lo Spirito Libero dell’Uomo
possa manifestarsi e dispiegarsi è necessario infatti che siano aboliti tutti i vincoli sacri, morali e
legali (Stirner utilizza spesso queste parole come sinonimi), anche quelli considerati
momentaneamente intoccabili. Come all’epoca in cui scrive Stirner per fare un esempio è considerato
il precetto che raccomanda d’avere amore per la patria. All’uomo in carne sangue ed ossa, all’egoista
quindi, che vede dispiegarsi questa potenza creatrice di libertà non resta altro che di diventare un
«protestante politico»37. È stato l’Uomo ad aver attivato questo dispositivo teologico-politico e ora
non potrà più impedire alle «opposizioni» di svilupparsi. L’uomo invece è così condannato a
muoversi senza interruzioni tra due estremi che fisiologicamente non possono far altro che rovesciarsi
continuamente l’uno nell’altro: da un lato il principio rivoluzionario, dall’altro quello di stabilità. È
opportuno per meglio comprendere, leggere le definizioni di Stirner a questi due principi.
«Fino al giorno d’oggi il principio rivoluzionario è rimasto fermo […] ha lottato contro questo o quell’ordine
stabilito, cioè è stato riformista. Per quanto si migliori, per quanto si mantengano le premesse del “progresso
ragionato”, non si farà che sostituire il vecchio padrone con uno nuovo e il crollo non sarà che -
ricostruzione»38.
Nel principio rivoluzionario definito non senza una certa ironia riformista Stirner riconosce la
tensione dello Spirito Libero dell’Uomo ad allontanarsi dal sentiero della morale. In quello di stabilità
invece egli individua la prevalenza del religioso:
«Il vero principio di vita della religione, la quale si dà da fare per creare “santuari intoccabili”, “verità eterne”,
insomma qualcosa di “sacro” e per sottrarti ciò che è tuo»39.
Sono questi due principi antitetici a regolare l’evo moderno. Tanto più s’amplifica l’uno quanto si
attenua l’altro. Come è stato possibile agli uomini attivare simultaneamente questo dispositivo che
mantiene evidente una matrice teologico-politica? Proprio grazie al rovesciamento metafisico operato
dall’ateismo di Feuerbach che trasferendo all’Uomo i predicati di Dio ha liberato la divinità che a sua
volta trasferendosi sulla terra e lasciando il cielo ha di fatto incatenato l’uomo all’Uomo e
incatenandolo ha anche diviso l’uomo dall’uomo40. Quale uomo potrà mai infatti essere all’altezza
dell’Uomo? Nessuno. Ecco che l’inumano, il disumano, adesso attende solo qualcuno che lo evochi.
6. La libertà
A evocare questo monstrum sarà proprio Stirner. È Carl Schmitt a cogliere in poche e celebri righe a
un secolo di distanza la cifra di questo Unico nato dallo strofinamento delle opposizioni che
percorrono la modernità. A proposito del filosofo di Bayreuth scrive:
«A considerarlo nell’insieme, Stirner è orribile, sguaiato, millantatore, smargiasso, un goliarda, uno studente
degenerato, uno zotico, un egomane, evidentemente uno psicopatico grave. Uno che a voce alta e sgradevole
va gracchiando: “Io sono io, nulla mi importa oltre me stesso”. I suoi sofismi verbali sono insopportabili. […] Eppure Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è un oggetto di pensiero»41.
37 Ibid., p. 112. 38 Ibid., p. 119. 39 Ibid., p. 352. 40 Cfr. Nota 33. 41 C. Schmitt, op. cit., p. 83.
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È questa infatti resta la scoperta fondamentale di Stirner. A questo io egli arriva eliminando in modo
spietato e sistematico dal suo orizzonte tutto quello che non può essere toccato con mano e il deposito
filosofico dell’Occidente può essere perciò demolito solo ripetendo come un ossesso:
«Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso
consuma, e io posso dire: io ho fondato la mia causa su nulla»42.
L’Unico e la sua proprietà alla fine può essere letto come una lunghissima nota a questo epigramma.
Nella prospettiva dell’Unico la libertà individuale che l’Uomo moderno acquista al prezzo di
sconvolgimenti politici o riforme pacifiche, attraverso quindi il movimento continuo dei due principi,
quello rivoluzionario e di stabilità, è falsa, perché in realtà essa è solo «indipendenza dall’arbitrio»43
e potremmo anche aggiungere che quello moderno è un arbitrio instabile.
Tendere verso una libertà determinata include sempre la prospettiva di un nuovo dominio;
così la rivoluzione poteva certamente «dare ai suoi difensori il senso esaltante di lottare per la libertà»,
ma in verità solo perché si tendeva verso una libertà determinata e perciò verso un nuovo dominio,
«il dominio della legge»44.
Alle pupille dilatate dell’Unico questa libertà conquistata dai moderni appare per quello che
è realmente. Essa è «vuota di contenuto». È un «permesso inutile»45. Per questa ragione egli la rifiuta
“senza pensarci” preferendo di gran lunga “la proprietà”. Infatti l’egoista, l’Unico: è se stesso in ogni
momento ed è irriducibile altrimenti. Anche quando la nuova religione umanitaria avrà eliminato ogni
legame tra uomo e uomo egli potrà continuare a gracchiare con la sua voce stridula: io sono me
stesso. L’egoismo stirneriano appare come un presagio tetro: è puro consumismo46. L’io si identifica
adesso totalmente con ciò che possiede: con la sua proprietà. A definirlo è una caratterista in
particolare: quella di consumare tutto.
Quando il mondo mi attraversa il cammino (e lo fa ad ogni momento), io lo consumo per
calmare la fame del mio egoismo. Tu non sei per me niente altro che il - mio alimento, così come
anche tu d’altronde, mi consumi e mi usi47.
Fabrizio Grasso
SOMMARIO
Il lavoro evidenzia il nucleo teologico-politico del pensiero di Max Stirner. In particolare analizza la “disputa sui predicati” tra Feuerbach e Stirner per mostrare in azione il dispositivo teologico-politico. L’ipotesi è quindi
che Stirner abbia riconosciuto e scomposto il dispositivo teologico-politico operante all’interno della storia del
pensiero. In questa prospettiva diventa possibile comprendere la critica di Stirner al pensiero occidentale e l’originale concetto di libertà da lui proposto.
SUMMARY
The work highlights the theological-political core of Max Stirner's thought. Particularly, he analyzes the
“dispute over predicates” between Feuerbach and Stirner to show the theological-political device in action.
Therefore the hypothesis is that Stirner has recognized and decomposed the theological-political device operating within the history of thought. Under this prospective, Stirner's critique of Western thought can be
understood as well as the original concept of freedom he proposed.
42 M. Stirner, op. cit., p. 381. 43 Ibid., p. 115. 44 Ibid., p. 170. 45 Cfr. ibid., pp. 165-181. 46 Cfr. R. Calasso, La rovina di Kasch, Adelphi, Milano 1994, pp. 360-361. 47 Ibid., p. 311.
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V. La volontà e i suoi atti
di Matteo Negro
1. Posizione del problema
Nel suo celebre How Brains Make Up their Minds il neuroscienziato Walter Freeman invita
apertamente a interpretare in modo nuovo i meccanismi neurali e il loro ruolo riguardo alla capacità
dei soggetti di operare delle scelte: «Spero di incoraggiare la credenza che le persone hanno il potere
di operare delle scelte. Lo farò spiegando i meccanismi neurali attraverso cui gli scopi emergono e
trovano espressione in azioni orientate ad uno scopo. Dal mio punto di vista questi meccanismi danno
luogo ad una concezione della causalità come tratto peculiare degli esseri umani. Non c’è nessun
bisogno di giustificare i concetti di libero arbitrio e di determinismo universale, poiché questi e la
loro irresolubile antinomia adesso sembrano le conseguenze logiche di erronee credenze attorno alla
causalità»1. Rispetto al problema della causalità in senso strettamente fisico Freeman riprende infatti
l’analisi di Hume, tendendo a rifiutare le generalizzazioni nomologiche. A rigore il rifiuto della
causalità lineare potrebbe essere avvalorato come il rifiuto di un modello nel quale la causalità sia
proprietà di parti e non piuttosto il comportamento di un intero sistema: in un sistema continuamente
in movimento è estremamente arduo prevedere, se non in modo convenzionale e statistico, dei punti
di attivazione e di arresto del movimento particolare. Quel che il neuroscienziato intende dunque
indagare è la tipicità del sistema neuronale, che sembrerebbe comportarsi in modo non lineare. Il che
appare perfettamente in accordo con quanto sostenuto da Aristotele, e ci stimola ad interrogarci sulla
natura dell’interruzione di linearità che però non interviene sulla conservazione della massa e
dell’energia. Rappresentare il funzionamento del cervello in termini dinamici implica l’introduzione
di una variabile che non deriva da quel sistema, alla luce di una certa capacità di auto-organizzazione,
e di salti o interruzioni della linearità deterministica. Si fa dunque strada l’ipotesi del “movimento
volontario”, cioè di un movimento fisico il cui soggetto (il self) interviene nel sistema fisico come un
attrattore di Lorenz, modificandone la traiettoria in modo impredicibile.
Raccogliamo qui la provocazione lanciata da Freeman nel tentativo di perlustrare il senso di
un’intenzionalità dell’agire che non sia spiegabile in senso disposizionale, ossia secondo un modello
che assimili l’azione volontaria ad un qualsiasi movimento corporeo causato da stati mentali
precedenti. La causalità intenzionale va considerata in modo circolare e ilemorfico, come quella di
un sistema che si modifica continuamente nello scambio informazionale e dinamico con il mondo,
re-ontologizzandosi, ricostituendosi come una totalità in movimento, e ridefinendo, entro certe soglie,
le proprie capacità. Le intenzioni, che emergono come espressioni concettuali all’interno di
descrizioni discorsive e schemi razionali2, sono pertanto i segni dell’attività stessa del soggetto che
nello spazio e nel tempo ricostituisce la propria totalità sostanziale, annettendo a sé, per via di una
sorta di re-afferenza, gli schemi (species) dello scambio percettivo. Azioni e capacità sono pertanto
correlati: come rileva Kenny, «[i] concetti di agentività (agency) e capacità (power) sono ovviamente
connessi: le azioni naturali di un agente sono esercizi delle sue capacità naturali»3.
* Le traduzioni dall’inglese e dal tedesco dei testi citati nel corpo del testo sono a cura dell’autore, salvo diversa
indicazione. Le traduzione dal latino della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino è tratta dall’edizione a
cura di P.Tito S. Centi o.p. e P. Angelo Z. Belloni o.p., 2009. 1 W.J. Freeman, How Brains Make Up their Minds, Columbia University Press, New York 2000, p. 6. Si veda anche W.J. Freeman, Nonlinear Brain Dynamics and Intention According to Aquinas, in Mind and Matter, 6
(2), 2008, pp. 207-234. 2 Cfr. A. Kenny, Will, Freedom and Power, Blackwell, Oxford 1975, p. 99. 3 Ibid., p. 46.
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Le azioni volontarie, diversamente da quelle riflesse, presuppongono una forma di controllo da parte
del soggetto che le compie. Il controllo, variamente traducibile con possesso, padronanza, comando,
è dunque il carattere essenziale dell’azione volontaria, e normalmente implica l’esercizio di una certa
intenzionalità. Condividiamo con Kenny il senso minimalistico dell’azione volontaria in quanto tale:
«Il senso di “volere” per il quale tutte le azioni volontarie sono azioni volute è un senso minimo: dire
che un agente vuole φ in questo senso equivale a dire semplicemente che è in suo potere astenersi da
φ se soltanto egli rinuncia ad uno degli scopi da lui scelti»4. Volere un’azione in vista di un fine e
agire non sono due stati separati: essi si sovrappongono nell’azione stessa cui l’agente dà in qualche
modo un consenso (anche implicito) non astenendosi5. La libertà di spontaneità (fare qualcosa perché
si vuol farla) non è incompatibile con la libertà di indifferenza (fare qualcosa perché si ha il potere di
farlo); nonostante i numerosi vincoli disposizionali o esterni, le due forme si implicano
reciprocamente, e documentano l’interazione profonda tra potenza e atto: «siamo liberi di fare
qualcosa se e solo se è in nostro potere il non farlo: agire liberamente è agire nel possesso della
capacità di agire altrimenti»6. Ciò ricalca in certo modo quanto già sostenuto da Tommaso nella
Summa theologiae: «E poiché soprattutto l’uomo conosce il fine del suo operare e muove se stesso,
soprattutto nei suoi atti si deve trovare la volontarietà»7. Certo in Tommaso è presente l’idea di un
voluntarium absque actu, ma in realtà, a ben vedere, in questa fattispecie viene individuato comunque
un potere che la volontà esercita, benché indirettamente, nell’astenersi dall’agire e persino dal volere
(un bene particolare): «Ora, dato che la volontà con il volere e con l’agire può eliminare l’assenza del
volere e dell’agire, e qualche volta è tenuta a farlo, il fatto stesso di non volere e di non agire viene
ad essa imputato, come determinato da essa. E in questo caso ci può essere volontarietà anche senza
atto: qualche volta senza l’atto esterno, ma con un atto interno, come quando si vuole non agire; altre
volte anche senza alcun atto interno, come quando ci si astiene dal volere […] È volontario non solo
ciò che deriva direttamente dalla volontà perché essa agisce, ma anche ciò che da essa dipende
indirettamente perché non agisce»8.
2. La volontà tra potenza e atto nella Summa theologiae
Tommaso, nella Summa theologiae, distingue gli atti volontari in atti eliciti e atti imperati: i primi
sono gli atti immediati della volontà stessa9, i secondi gli atti comandati dalla volontà (es.: “voler
camminare”, “voler saldare il debito”): «volontarium dicitur non solum actus qui est immediate ipsius
voluntatis, sed etiam actus a voluntate imperatus»10. Non possiamo però esimerci dall’analizzare più
4 Ibid., p. 58. E continua: «We can thus say that all voluntary action must be action which is performed willingly
in the sense that it must be accompanied with at least consent: but if not intentional it need not be accompanied by any other sort of wanting» (p. 59). 5 Ricordiamo che il consenso è, nella filosofia di Tommaso, è ultimativo rispetto all’azione: «Finalis autem
sententia de agendis est consensus in actum. Et ideo consensus in actum pertinet ad rationem superiorem :
secundum tamen quod in ratione voluntas includitur, sicut supra (a.1., ad 1) dictum est» (Summa theologiae, I-II, q. 15, a.4, c.). 6 Ibid., p. 122. Kenny cita Luis Molina: «Id liberum dicimus quod positis requisitis ad agendum in potestate
ipsius habet agere aut non agere» (Concordia Liberi Arbitrii 14, 13d2) (p. 123). 7 S. th., I-II, q.6, a.1, c. 8 S. th., I-II, q. 6, a. 3, c. e ad 1. 9 S. th., I-II, q.6, a.4, c.: «duplex est actus voluntatis: unus quidem qui est eius immediate, velut ab ipso elicitus, scilicet velle; alius autem est actus voluntatis a voluntate imperatus, et mediante alia potentia exercitus, ut
ambulare et loqui, qui a voluntate imperantur mediante potentia motiva» (corsivo aggiunto). 10 S. Th., I-II, q. 6, a. 5, c. Più in generale segnaliamo qui alcuni contributi utili alla comprensione del significato
della volontà in Tommaso, da diverse prospettive: A. Giannatiempo, Sul primato trascendentale della volontà in S. Tommaso, in Divus Thomas, 4 (1971), pp. 131-154; M. Gigante, Thelesis e boulesis in S. Tommaso, in
Asprenas, 3 (1979), pp. 265-273; G. Montanari, La distinzione tra ‘voluntas ut natura’ e ‘voluntas ut ratio’
nella dottrina tomista della libertà, in Aquinas, 1 (1962), pp. 58-100; P. Pagani, Tommaso: la libertà della differenza, in La libertà del bene, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 147-187; S. Pinckaers,
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a fondo una ramificazione che sembrerebbe legittimare l’idea (assai diffusa) che la volontà possa, in
quanto atto, distinguersi dalle azioni che essa stessa comanda. Tolte le azioni, che cosa resterebbe da
esercitare alla volontà? È una domanda di non poco conto, che ha suscitato ampi dibattiti dai quali
forse è derivata l’idea di un sottinteso dualismo della volontà nel pensiero di Tommaso. Molti
interpretano l’atto elicito come un altro atto, un atto implicito o interiore, che non si estrinseca nel
movimento che accompagna l’azione volontaria: come l’atto del decidere, dell’intendere, o del
deliberare. Va premesso che non tutte le azioni sono accompagnate dal movimento, così come non
tutte le azioni volontarie sono esplicitamente comandate dalla volontà. Il pensare, ad esempio, è
indubbiamente un’attività interiore, ma faremmo molta fatica a concepirla come un’attività anticipata
da un atto distinto. Certo, non è escluso che, in determinate occasioni, ci si sforzi di pensare a
qualcuno o a qualcosa (“Fammi pensare”, “Voglio pensarci meglio”, si dice in alcuni momenti);
tuttavia il più delle volte l’espressione “voglio pensare” suona incomprensibile, dal momento che
pensare è un’attività continua cui il soggetto acconsente implicitamente, pur in assenza di uno
specifico atto della volontà che lo richieda. “Voglio pensare” non è equiparabile a “voglio mangiare”,
né a “voglio dire”. Dobbiamo allora escludere che pensare sia un’azione volontaria per il solo fatto
di non conseguire da una specifica volizione? La risposta è negativa, ma le sue motivazioni vanno
cercate più in profondità. Per Tommaso l’atto elicito è incoercibile, esso cioè non può essere mai
conculcato o indebolito da un principio estrinseco. Nessuno può impedirmi di volere, mentre
qualcuno può impedire l’azione che la mia volontà richiede. Nessuno può impedirmi di volere
conseguire un certo risultato (una promozione, uno sbocco professionale, un impegno definitivo),
mentre qualcuno può impedirmi di agire (in modo più o meno violento) in vista di quel risultato, cioè
può impedire che la volontà ordini ad un’altra potenza (quella motoria, per esempio) quanto è
necessario al raggiungimento dello scopo. Potrei essere perseguitato e imprigionato, e dunque
coartato, ma non cesserei di volere. Indubbiamente non possiamo ignorare quanto i metodi coercitivi,
all’epoca di Tommaso, fossero di gran lunga meno invasivi ed efficaci di quelli odierni. Oggi non è
così difficile condizionare la volontà stessa di un individuo, agendo sui processi cerebrali e sulla
psiche con l’ausilio di sostanze e dispositivi, o servendosi dei mezzi di comunicazione di massa. Se
l’atto elicito fosse un atto separato, e se Tommaso l’avesse concepito in questo modo, oggi egli stesso
probabilmente non si esprimerebbe in questo modo: «Quantum igitur ad actum qui est immediate
ipsius voluntatis […] violentia voluntati inferri non potest: unde tale actum violentia involontarium
facere non potest»11. Diventerebbe molto arduo mettere in dubbio che il mio atto di volontà sia tale;
non di rado infatti la violenza agisce dandomi l’impressione che sono proprio io a determinare quello
che voglio (e non l’azione di un abile manipolatore tecnologico). Se invece l’atto volontario elicito
non è un atto separato, un atto “altro” o puro, ma la forma propria di ogni azione volontaria, in quanto
appunto voluta dalla volontà senza alcuna mediazione esterna, allora intuiamo il motivo per cui esso
non possa essere contrastato in alcun modo. L’azione volontaria è pertanto a) voluta immediatamente
dalla volontà e b) comandata dalla volontà. È fuor di dubbio che la volontà voglia quel che vuole e in
questo suo attuarsi immediato non trovi contraddizioni, mentre l’azione volontaria può essere
contraddetta. Ma come rendere compatibile la limitazione dell’azione (perché defettibile o coercibile)
con la libertà dell’atto elicito della volontà, e perché l’una non invalida l’altra? Il motivo è da trovarsi
nella concezione non deduzionistica che Tommaso intende presentare. La volontà vuole
immediatamente il bene12: il bene attua l’appetito razionale, cioè la voluntas ut potentia. La potenza
La structure de l’acte humain suivant S. Thomas, in Revue Thomiste, 55 (1955), 2, pp. 393-412; A.A. Robiglio,
L’impossibile volere. Tommaso d’Aquino, i tomisti e la volontà, Vita e Pensiero, Milano 2002; G. Samek
Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2002; G. Verbeke,
Le développement de la vie volitive d’après saint Thomas, in Revue Philosophique de Louvain, 3 serie, t. 56, n. 49, 1958, pp. 5-34. 11 S. Th., I-II, q. 6, a. 5, ad primum. 12 Senza la mediazione logica, al pari dei principi della dimostrazione. Tuttavia, nell’ordine temporale il bene voluto (l’intenzione) è posteriore, giacché è conseguito grazie alle scelte libere dell’agente, oggetto della
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appetitiva non si attuerebbe senza il bene, che tuttavia non può che essere il bene veicolato dalla
ragione e dall’esperienza. Non è possibile dedurre il bene pratico dal bene voluto, perché il bene
voluto non può che essere la forma del bene pratico, forma da cui l’azione volontaria dipende infatti
immediatamente (come il destinatario di un comando). Mangiare un gelato è un’azione volontaria
che dipende immediatamente dal bene voluto: se non volessi mangiare il gelato, non agirei di
conseguenza, a meno che qualcuno non mi obblighi a farlo13. L’azione volontaria è pertanto insieme
atto e movimento: è atto perché il bene voluto è indefettibilmente presente alla volontà, in quanto la
attua, ma al tempo stesso è movimento perché quel bene voluto sia conseguito dal soggetto, in quanto
bene pratico. Sono due ordini formali diversi ma coesistenti. Tuttavia, proprio perché non si tratta di
un’implicazione logica, potrebbe darsi il caso che non mangi il gelato, pur volendolo (perché mi
hanno rubato gli spiccioli, o qualcuno me lo ha impedito violentemente, o con un ricatto). L’atto
elicito della volontà non è dunque un atto mentale (come ad esempio abitualmente si suppone sia
l’intenzione) che preceda e causi l’azione, né la volontà in quanto atto può essere ridotta ad una
disposizione, nei termini in cui essa viene definita nell’ambito della scuola cognitivista
contemporanea. Più in generale la psicologia si occupa di capacità (o funzioni) cognitive o di capacità
volizionali, ed intende trattare le capacità come degli stati permanenti: si possono accrescere o
potenziare, ma rimangono pur sempre tali. Nella visione di Tommaso si accede alle capacità quando
esse cessano di essere tali, e si compiono negli atti: la finestra epistemologica sulle capacità è quella
che si apre sugli atti. La volontà, avendo come oggetto proprio il bene presentato dall’intelletto, si
attua nel volere beni particolari, e per tale ragione, prima che l’intelletto dia questa indicazione, la
volontà è solo in potenza volontà di quel bene (è cioè una potenza determinata e non pura); quel
volere, inteso qui in un senso particolare come disposizionale, non è tuttavia da comprendersi come
intenzione. Andrea A. Robiglio ha colto molto bene la relazione tra la potenza e l’atto, lì dove segnala
che «è corretto dire che l’individuazione delle facoltà dipende dagli atti. Ma anche l’oggetto della
volizione dipende dall’atto. L’intenzione viene espressa da ciò che è voluto (volitum), ma non è
prodotta da quest’ultimo. La causa, almeno in prima battuta, è dunque l’atto, mentre ciò che è voluto
sembra essere un effetto. […] Detto in altre parole, il volitum è, più che altro, un segno della volontà
e risulta dotato di senso solo in quanto rimanga correlato all’atto di cui è termine. Senza partire dagli
atti di volontà, insomma, si rischierebbe di non riuscire a delineare precisamente né la facoltà del
volere e neppure i fini voluti»14.
Che l’intenzione non sia per Tommaso una disposizione, emerge dall’accurata analisi svolta
nell’articolo 1 della quaestio 12, dove l’intenzione viene definita “l’atto proprio della volontà” che
muove tutte le facoltà verso il fine. Volontà in atto e intenzione sono la medesima cosa; ciò che le
differenzia è la modalità di rapporto al fine: la volontà è rapporto immediato con il suo oggetto (la
guarigione), mentre l’intenzione è rapporto con il fine, visto come termine della relazione con i mezzi
che ad esso conducono (la guarigione raggiunta con la cura, grazie ai medici, al ricovero, ecc.)15.
L’atto elicito della volontà è orientato al bene, nella sua ratio finis, e quindi non consiste in nulla che
non sia interno alla relazione intrinseca fra la volontà e il fine, nella sua attualità, cioè in quanto
compimento nell’esperienza di una pura tendenza (inclinatio). Tale fine non può che essere attuale,
cioè non può che consistere nella ratio boni di una realtà esistente o di un ens rationis, in quanto
deliberazione pratica: «Principium autem in inquisitione consilii est finis, qui quidem est prior in intentione,
posterior tamen in esse» (a. 5, c.). 13 S. Th., I-II, q.8, a.3, ad 3: «in executione operis, ea quae sunt ad finem se habent ut media, et finis ut terminus. Unde sicut motus naturalis interdum sistit in medio, et non pertingit ad terminum; ita quandoque operatur
aliquis id quod est ad finem, et tamen non consequitur finem. Sed in volendo est e converso: nam voluntas per
finem devenit ad volendum ea quae sunt ad finem; sicut et intellectus devenit in conclusiones per principia;
quae media dicuntur». 14 A.A. Robiglio, L’impossibile volere. Tommaso d’Aquino, i tomisti e la volontà, Vita e Pensiero, Milano
2002, pp.4-5. 15 S. Th., I-II, q. 12, a.2, ad 3: «consideratur finis secundum quod est terminus alicuius quod in ipsum ordinatur: et sic intentio respicit finem».
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oggetto di conoscenza, a prescindere dal fatto che tali enti siano realmente buoni o lo siano soltanto
in apparenza16. È un distinguo di non poco conto: l’inclinazione al bene in quanto tale si manifesta
come volontà di un bene particolare, cioè di un ente che il soggetto giudica buono a prescindere dal
fatto che lo sia realmente. La relazione tra la volontà e il bene particolare attua l’appetito razionale,
ma non è di per sé descrivibile, spiegabile o osservabile come un’azione, sia pur immanente. L’atto
proprio della volontà è pertanto il fine: «Si autem loquatur de voluntate secundum quod nominat
proprie actum, sic, proprie loquendo, est finis tantum»17. E Tommaso, richiamandosi ad Aristotele,
precisa puntualmente che per volontà si intende l’atto della volontà e non la potenza18. Essa però
implica anche la scelta di mezzi che il soggetto stima come necessari al conseguimento del fine (mezzi
conoscitivi e pratici): la loro necessità è decretata dalla volontà, che li vuole in vista del fine
immediato e li impone operativamente: «Ratio autem boni, quod est obiectum potentiae voluntatis,
invenitur non solum in fine, sed etiam in his quae sunt ad finem»19. Che non sia giustificabile l’ipotesi
di un dualismo della volontà, appare chiaramente dall’articolo 3, il cui intento è di perlustrare
l’eventuale difformità sostanziale tra l’atto della volontà diretto al fine e l’atto della volontà diretto ai
mezzi. Ebbene, per Tommaso, il movimento della volontà è il medesimo in entrambi i casi, dal
momento che in entrambi i casi l’atto porta sul fine. Ciò che muta è la modalità. In un primo modo,
la volontà vuole il suo oggetto immediatamente (secundum se), come ad esempio la salute. Nel
secondo modo, lo vuole volendo il mezzo per conseguirlo (che il medico ristabilisca la salute), e
quindi in modo mediato e temporalmente graduato, secondo l’ordine razionale delle azioni da
intraprendere in vista del risultato voluto. La volizione del mezzo implica necessariamente la
volizione del fine, mentre la volizione immediata del fine non implica che contingentemente la scelta
del mezzo. Se la volontà vuole adesso quello che prima non voleva, e quindi passa dalla potenza
all’atto, è perché non si muove da sé stessa ma è mossa dall’intervento del soggetto, inteso come
primo motore («Necesse est ergo quod ab aliquo moveatur ad volendum»20).
Sulla preminenza del soggetto su tutte le disposizioni e le appetizioni, non vi è dubbio che in
Tommaso rinveniamo una dottrina di spessore. La volontà in quanto potenza appetitiva che inclina al
bonum in communi è una disposizione (sempre nel senso sopra precisato) cui in qualche modo sono
ordinate tutte le disposizioni del soggetto: «Infatti con la volontà non desideriamo soltanto ciò che
appartiene alla potenza volitiva, ma anche quanto si addice alle singole potenze, e all’uomo tutto
intero. Quindi l’uomo vuole per natura non soltanto ciò che forma l’oggetto della volontà, ma anche
le altre cose richieste dalle altre potenze: vale a dire la conoscenza della verità per l’intelletto, e inoltre
l’essere, la vita e altre cose del genere connesse con l’esistenza naturale: tutte cose che rientrano sotto
l’oggetto della volontà come beni particolari»21. La relazione tra il soggetto e il bene universale non
è tuttavia esaurita dalla relazione tra la volontà e il bene determinato: il bene universale comprende
beni particolari verso i quali la volontà non è in alcun modo determinata («Sub bono autem communi
multa particularia bona continentur, ad quorum nullum voluntas determinatur»22). Come interpretare
quest’osservazione? Il modo migliore, a nostro avviso, è dettato appunto dalla considerazione che al
16 S. Th., I-II, q.8, a.I, c.: «Sed considerandum est quod, cum omnis inclinatio consequatur aliquam formam, appetitus naturalis consequitur formam in natura existentem: appetitus autem sensitivus, vel etiam intellectivus
seu rationalis, qui dicitur voluntas, sequitur formam apprehensam. Sicut igitur id in quod tendit appetitus
naturalis, est bonum existens in re; ita id in quod tendit appetitus animalis vel voluntarius, est bonum apprehensum. Ad hoc igitur quod voluntas in aliquid tendat, non requiritur quod sit bonum in rei veritate, sed
quod apprehendatur in ratione boni. Et propter hoc Philosophus dicit, in II Physic., quod finis est bonum, vel
apparens bonum». 17 S. Th., I-II, q.8, a.2, c.. 18 Cfr. S. Th., I-II, q.8, a.2, ad 1. 19 S. Th., I-II, q.8, a.2, c.. 20 S. Th., I-II, q.9, a.4, c. Altrove: «Et similiter non oportet quod voluntas, quæ de potentia in actum reducitur dum aliquid vult, semper actu velit : sed solum quando est in aliqua dispositione determinata» (1-2, q.10, a.1,
ad 2) 21 S. Th., I-II, q.10, a.1, c. 22 S. Th., I-II, q.10, a.1, ad 3.
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soggetto è preclusa la possibilità di volere alcuni beni, perché è preclusa, per natura, la possibilità di
inglobare nell’esperienza tutta l’ampiezza dell’essere, e quindi di determinarlo perfettamente in un
genere. Probabilmente qui si situa il cuore della lettura metafisica (e trascendentale) della volontà, e
nello stesso tempo la consapevolezza della fallibilità e della limitatezza del movimento della libertà
umana.
L’analisi della scelta ne è indubbiamente la controprova più significativa. Le scelte, in quanto
atti della volontà, atti cioè che determinano la potenza appetitiva intellettuale, inglobano la ragioni
delle scelte stesse, nella misura in cui esse sono elaborate dall’intelletto23. Le ragioni delle scelte, per
Tommaso, non sono disgiungibili dalle scelte stesse, ma ne costituiscono l’essenza. Ciò per molti
versi prefigura la lezione di Wittgenstein e si pone in implicito contrasto con le letture psicologistiche
e mentalistiche dell’azione. Tommaso non manca di fornire sin nei dettagli le giuste argomentazioni:
«Il termine scelta [electio], implica elementi che spettano alla ragione o intelligenza ed elementi che
appartengono alla volontà: infatti il Filosofo [Ethic. 6, 2] dice che la scelta è “un’intellezione appetitiva o
un’appetizione intellettiva”. Ora, se due elementi concorrono a formare una cosa, uno di essi è come formale rispetto all’altro. Per cui S. Gregorio di Nissa [Nemesio, De nat. hom. 33] afferma che la scelta “per se stessa
non è l’appetito, e neppure il solo consiglio, ma la loro combinazione. Come infatti diciamo che l’animale è il
composto di anima e corpo, non il corpo o l’anima soltanto, così anche la scelta”. Ora, bisogna considerare che negli atti dell’anima un atto appartenente sostanzialmente a una data potenza o a un dato abito riceve la
forma e la specie da una potenza o da un abito superiore nella misura in cui l’inferiore è subordinato al
superiore: se infatti uno compie un atto di fortezza per amore di Dio, materialmente quell’atto è di fortezza, ma formalmente è di carità. Ora, è evidente che la ragione è superiore in qualche modo alla volontà, e ne ordina
gli atti: in quanto cioè la volontà tende al proprio oggetto secondo l’ordine della ragione, essendo la facoltà
conoscitiva quella che presenta all’appetitiva il proprio oggetto. Quindi l’atto mediante cui la volontà tende a
una cosa presentata come buona, essendo ordinato al fine dalla ragione, appartiene materialmente alla volontà e formalmente alla ragione. Ora, in questi casi la sostanza dell’atto è come l’elemento materiale rispetto
all’ordine imposto dalla facoltà superiore. Quindi la scelta sostanzialmente non è un atto della ragione, ma
della volontà: infatti la scelta si compie in un certo moto dell’anima verso il bene prescelto. Quindi è chiaro che essa è un atto della potenza appetitiva»24.
L’intenzione, volontà del fine riconosciuto, in quanto ratio volendi della scelta, non è altro che
l’aspetto formale (e solo in un certo senso disposizionale) di quell’atto. Ma proprio per questo essa
trasferisce sull’atto la sua fallibilità; infatti posso volere un fine solo apparentemente buono, di cui
però ho una rappresentazione positiva, per quanto erronea o illusoria. L’esperienza del soggetto
veicola sempre una rappresentazione inevitabilmente parziale dell’essere alla volontà: la forma
dell’atto volontario (la scelta) è l’atto dell’intelletto (intentio). L’intellezione richiede l’atto volontario
e ne costituisce la ragione più profonda, e da esso è inseparabile ontologicamente e temporalmente,
sebbene sia separabile logicamente (come le premesse dalla conclusione). L’intenzione ha per
contenuto il fine, ma anche in questo caso si tratta del fine pratico, della realtà (aliqua res) che
l’azione umana produce, o di cui il soggetto gode (fruitur) o fa uso (utitur) nella sua sfera pratica. In
questo modo convergono la scelta dei mezzi e il bene voluto: essi sono proporzionati alle possibilità
(e non soltanto alle capacità) che il soggetto ha di intervenire sulla realtà25. La stima delle possibilità
è intrinsecamente intellettuale, e può essere dunque soggetta ad errore, senza che ciò infici la
determinazione della volontà nel dirigersi al fine, il quale potrà risultare di fatto irraggiungibile,
23 A questo proposito va ricordato come la volontà, in Tommaso, sia da considerarsi più una potenza
intellettuale che non razionale: essa richiede immediatamente e necessariamente il fine, mentre la ragione ha
per oggetto gli opposti, ovvero i mezzi che conducono al fine. Cfr. I, q.82, a.1, ad 2-3. La scelta è un atto
razionale, perché informato dalla ragione in ordine al mezzo da preferire, e nel contempo intellettuale perché l’agente vuole conseguire il bene intenzionale. 24 S. Th., I-II, q. 13, a.1, c. (corsivo aggiunto). 25 S. Th., I-II, q. 13, a.5, c.: «electiones nostrae referentur semper ad nostras actiones. Ea autem quae per nos aguntur, sunt nos possibilia. Unde necesse est dicere quod electio non sit nisi possibilium».
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obbligando così il soggetto a rivedere la sua rappresentazione; ciò però è ben altra cosa
dall’intenzionare un fine impossibile26. Se l’uomo intenziona fini possibili e opera scelte possibili e
contingenti, allora ciò esclude a priori che la scelta sia necessaria. Ciò che l’uomo vuole
necessariamente è la ratio boni di ogni oggetto di scelta, ma non l’oggetto stesso. Nello scegliere
liberamente i mezzi buoni per accidens, l’uomo vuole necessariamente il bene secundum se. Non c’è
apparentemente altra strada se non quella che passa per la contingenza e la possibilità, per raggiungere
la perfezione del bene cui la volontà tende. Non è questo il luogo per una trattazione specifica del
tema della coscienza e dei vincoli che essa pone al soggetto, ma non si può trascurare di ricordare che
è proprio in forza di quanto precedentemente evidenziato che la coscienza assume nel pensiero di
Tommaso una centralità indiscutibile. La coscienza vincola radicalmente ciascuno perché il nesso fra
la perfezione del bene e la scelta pratica passa per l’assenso a quel che nell’esperienza appare buono
e il soggetto concepisce sinceramente come buono, e dal quale non gli è lecito allontanarsi se non in
forza di un’ulteriore consapevolezza.
La libertà per Tommaso coincide con la volontà in quanto soggetto degli atti, ma ha nella
ragione la causa ultima: «Infatti la volontà può liberamente indirizzarsi a cose diverse perché la
ragione è capace di concepire beni diversi. Quindi i filosofi [Boezio, In Arist. de Int. 3, Comm. Maior]
definiscono il libero arbitrio “un libero giudizio dovuto alla ragione” [liberum de ratione iudicium],
come per indicare che la ragione è la causa della libertà»27. La ragione causa la libertà non
direttamente ma per il tramite della scelta: senza la scelta, il rapporto con il bene sarebbe di natura
disposizionale. Anche in questa fattispecie si rivela la prospettiva sostanzialistica (e non
nominalistica) dell’azione28; l’atto comandato e il comando della ragione sono un’unica realtà, di cui
la seconda costituisce l’elemento formale: «negli atti umani l’atto di una potenza inferiore sta a quello
di una potenza superiore come la sua materia, in quanto la potenza inferiore agisce in virtù di quella
superiore che la muove: infatti l’atto del primo motore è l’elemento formale nell’agire dello
strumento. È perciò evidente che il comando e l’atto comandato formano un unico atto umano: come
un certo tutto è una cosa sola, ma è molteplice per le sue parti»29. Viene rinsaldata la concezione per
la quale il principio intrinseco di ogni agire in vista di un fine sia propriamente in chi ha la conoscenza
del fine30. Intelletto e ragione si intersecano nel movimento della libertà che segue una direzione
circolare: da un lato essa è una potenza che si rivolge agli enti particolari per valutarli e riconoscerne
la loro relazione con il fine voluto, ne stabilisce l’ordine di preferenza e solo allora li sceglie.
Dall’altro essa ritorna al soggetto stesso dell’atto, che dalla scelta (e dall’uso) incrementa la potenza
26 S. Th., I-II, q. 13, a.5, ad 2: «cum obiectum voluntatis sit bonum apprehensum, hoc modo iudicandum est de
obiecto voluntatis, secundum quod cadit sub apprehensione. Et ideo sicut quandoque voluntas est alicuius quod
apprehenditur ut bonum, et tamen non est vere bonum; ita quandoque est electio eius quod apprehenditur ut possibile eligenti, quod tamen non est ei possibile». 27 S. Th., I-II, q. 17, a.1, ad 2. 28 S. Pinckaers, The Sources of Christian Ethics, The CUA Press, Washington DC 1995, p. 383: «St. Thomas’s
analysis of choice was unique in that it united and maintained in close relationship two dimensions that were later to be separated as a consequence of nominalism. One dimension related to the intellect: the dimension of
essence or specification, in regard to the object (the choice of this or that). The other dimension applied mainly
to the will: the dimension of existence or the order of execution, in regard to the subject (choosing to act or not to act). These two dimensions together constituted freedom and its exercise. Later on, theories of choice
would be styled existential, intellectual, or rational depending upon the emphasis: some would stress
practical judgment to the point of considering the execution of an action as a simple application or consequence, a pure act of obedience on the part of the will. Choice issued essentially from the will, from
the effort of the person who was attracted and moved by a good. This was the existential aspect of the choice
and action. Thus, theories in which choice depended chiefly if not solely upon free will could be called
existential. St. Thomas’s analysis was distinguished, therefore, by the joining and interaction of intellect and will in free choice, of judgment and willing, essence and existence, object and subject, all of which made up
human action as matter and form or body and soul». 29 S. Th., I-II, q. 17, a.4, c. 30 Cfr. S. Th., I-II, q.6, a.1, c.
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appetitiva del bene e il suo desiderio. Il libero arbitrio è pertanto formalmente una potenza appetitiva
razionale, il cui atto è la scelta, mentre la volizione è atto dell’appetito intellettivo del bene e del fine
dell’azione31. La circolarità (ilemorfica) del movimento della potenza appetitiva è il fondamento della
libertà dell’uomo rispetto ai suoi stessi atti (scelte e volizioni)32 e rispecchia il movimento circolare
della conoscenza che passa dai principi alle conclusioni e da queste ritorna ai principi primi:
«È necessario che le potenze appetitive corrispondano a quelle conoscitive, come si è detto sopra [q. 64, a. 2;
cf. q. 80, a. 2]. Ora, lo stesso rapporto che nella conoscenza intellettiva esiste tra l’intelletto e la ragione esiste
anche nell’appetito intellettivo tra la volontà e il libero arbitrio, il quale non è altro che la facoltà di scelta. E la cosa appare evidente dalle relazioni esistenti tra gli oggetti e gli atti. Infatti l’intellezione indica la semplice
apprensione immediata di una cosa: per cui si dice che propriamente sono oggetto d’intellezione i princìpi per
sé noti, senza illazione. Invece ragionare significa propriamente passare da una conoscenza a un’altra: per cui il ragionamento riguarda a tutto rigore le conclusioni raggiunte mediante i princìpi. Parimenti, per quanto
riguarda l’appetito, il volere indica l’immediata e semplice appetizione di una cosa: quindi si dice che la
volontà ha per oggetto il fine, il quale è voluto per se stesso. Scegliere invece è desiderare una cosa in vista di
un’altra: perciò in senso proprio la scelta ha per oggetto le cose che portano al fine. Ora, il rapporto esistente nel campo della conoscenza tra il principio e le conclusioni a cui diamo l’assenso in forza dei princìpi è analogo
a quello esistente nel campo appetitivo tra il fine e le cose che conducono al fine, e sono volute in ordine al
fine. È dunque evidente che come l’intelletto sta alla ragione, così la volontà sta alla facoltà di scelta, cioè al libero arbitrio. – Ma sopra [q. 79, a. 8] abbiamo visto che l’intendere e il ragionare spettano alla medesima
potenza, come alla medesima potenza spettano la quiete e il moto. Spetteranno quindi alla medesima potenza
il volere e lo scegliere. Quindi la volontà e il libero arbitrio non sono due potenze, ma una sola»33.
Senza le operazioni particolari, come scelte e le volizioni, però, la libertà non si eserciterebbe, ma
rimarrebbe una disposizione ad agire, e il rapporto con il bene, in ultima analisi, impossibile, giacché
il bene è la perfezione dell’ente che attraversa concretamente l’esperienza del soggetto e interroga la
ragione chiamata a formulare delle ipotesi su di esso in vista del giudizio34.
3. Anscombe e Wittgenstein su azioni e intenzioni
Elizabeth Anscombe interviene, com’è noto, sulla questione mettendo in luce alcuni criteri di
individuazione dell’intenzione sia in chiave antipsicologistica sia, ed è questo il fatto più rilevante,
nel segno di una differenziazione da un approccio di tipo motivazionale. In prima battuta emerge il
dato, già presente in Wittgenstein, che, con riferimento al soggetto, ci si interessi non alla sua
«intenzione di fare quello che fa, ma alla sua intenzione nel farlo, e questa molto spesso può non
essere vista dal vedere quello che fa»35. Il soggetto sa ciò che fa e sa descriverlo sotto un tipo di
descrizione, che è quella cui si vincola: in altre parole, «dire che un uomo sa che sta facendo X è dare
una descrizione di quello che sta facendo sotto la quale egli lo sa»36. Anscombe ritiene che le
motivazioni e le intenzioni appartengano a due ordini diversi: le prime possono spiegarci la causalità
delle azioni generalmente a partire dall’osservazione, mentre le seconde appartengono alla
descrizione dell’azione che l’agente privilegia, cui non è richiesta l’evidenza né l’attestazione della
causalità (compresa quella mentale):
31 S. Th., I, q. 83, a.2, ad 1: «consuetum est potentiam significari nomine actus. Et sic per hunc actum qui est
liberum iudicium, nominatur potentia quae est huius actus principium. Alioquin, si liberum arbitrium
nominaret actum, non semper maneret in homine». 32 Cfr. P. Pagani, Tommaso: la libertà della differenza, in La libertà del bene, a cura di C. Vigna, Vita e
Pensiero, Milano 1998, p. 159. 33 S. Th., I, q. 83, a.4, c. 34 Sottolinea bene A.A. Robiglio, op. cit., p. 111: «Gli atti e le operazioni dell’uomo, precisa Tommaso, avvengono sempre singolarmente (in singularibus) e riguardano cose concrete e particolari (sunt circa
singularia)». 35 G.E.M. Anscombe, Intention, Blackwell, Oxford 1957, p. 9. 36 Ibid., p. 12.
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«Le azioni intenzionali sono una sottoclasse di eventi nella storia di un uomo che sono a lui noti non soltanto
perché li osserva. In questa classe più ampia è incluso anche un solo tipo di azioni involontarie, che è
contraddistinto dal fatto che la causalità mentale vi è esclusa; e la causalità mentale è in sé caratterizzata dall’essere conosciuta senza osservazione. Ma le azioni intenzionali non sono contrassegnate soltanto
dall’essere soggette alla causalità mentale, dal momento che esistono azioni involontarie dalle quali la causalità
mentale non è esclusa. Le azioni intenzionali, quindi, sono quelle cui si applica la domanda “Perché?”, in un senso specifico che finora si spiega nel modo seguente: la domanda non ha quel senso se la risposta è l’evidenza
o attesta una causa, inclusa una causa mentale; positivamente, la risposta può (a) semplicemente menzionare
la storia passata, (b) dare un’interpretazione dell’azione, o (c) menzionare qualcosa di futuro. Nei casi (b) e (c)
la risposta si caratterizza già come una ragione per agire, ad esempio come una risposta alla domanda “Perché?” nel senso richiesto; e nel caso (a) è una risposta a quella domanda se le idee di bene o di danno sono
coinvolte nel suo significato di risposta; o ancora se l’indagine ulteriore elicita che è connessa con un motivo
‘interpretativo’, o con l’intenzione con cui»37.
La Anscombe in definitiva ha colto un aspetto spesso lasciato in ombra dalle ricognizioni precedenti.
L’intenzione, e questa è la differenza sostanziale rispetto alle semplici motivazioni, include, come
termine non osservativo (dall’esterno), l’intelligibilità dello scopo che solo l’agente può esprimere
coerentemente con la descrizione che intende privilegiare. L’intenzione, genericamente non un segno
(diversamente dal comando, che è stricto sensu un segno), viene espressa come forma intelligibile
che accompagna l’azione: è l’azione a rinviare all’intenzione e non viceversa38. In considerazione di
quanto sin qui dettagliato, sembrerebbe insufficiente connotare l’intenzione esclusivamente come una
predizione, come un atteggiamento rivolto ad un fatto o ad uno scopo futuro. Preminente è piuttosto
che «il concetto di azione volontaria o intenzionale non esisterebbe, se la domanda ‘Perché?’, con le
risposte che danno le ragioni per agire, non esistesse»39: una risposta su cui l’agente ha autorità
assoluta e che è l’espressione dell’intenzione, o meglio l’espressione dell’intenzione intesa come
contenuto della descrizione stessa. Riecheggiando Wittgenstein40, la Anscombe riassume: «possiamo
compendiare il punto dicendo ‘Grosso modo, un uomo intende fare quello che fa’. Ma naturalmente
questo è un modo molto grossolano di esprimersi. È legittimo farlo, tuttavia, come antidoto
all’assurda tesi che talvolta viene sostenuta: che l’azione intenzionale di un uomo è descritta
solamente descrivendo il suo obiettivo»41. L’intenzione è la forma intelligibile dell’azione nel suo
concreto svolgersi; non si può però direttamente astrarla dall’azione stessa, perché non ogni azione,
osserva giustamente la Anscombe, è in sé un atto di intenzione, né una “prova” dell’intenzione.
L’intenzione, d’altro canto, non è neppure un’operazione mentale (a performance in the mind).
Wittgenstein, per suo conto, riteneva che il soggetto dia conto dell’intenzione non grazie all’auto-
osservazione, ma “attraverso una reazione” (durch eine Reaktion)42. L’intenzione non è pertanto
conoscibile per il tramite dell’osservazione, ma solo in quanto forma del nesso tra il soggetto e la sua
azione: «quello che accade deve essere reso con l’osservazione; ma io ho argomentato che la mia
conoscenza di quello che faccio non deriva dall’osservazione»43. E qui ritorniamo a quanto già
argomentato in precedenza. L’intreccio di bene e di vero di cui l’atto dell’intenzione reca traccia in
qualche modo implica che il bene oggetto delle volontà assuma le connotazioni del vero, inteso come
37 Ibid., pp. 24-25. 38 Ibid., p. 5: «A command is essentially a sign (or symbol), whereas an intention can exist without a symbol;
hence we speak of commands, not of the expression of commanding; but of the expression of intention. This
is another reason for the very natural idea that in order to understand the expression of intention, we ought to consider something internal, i.e. what it is an expression of». 39 Ibid., p. 34. 40 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1995, p. 217: «§644. “Non di quello che ho fatto
allora, mi vergogno, ma dell’intenzione che ho avuto”. – E l’intenzione non stava anche in quello che ho fatto? Che cosa significa la vergogna? Tutta quanta la storia di quello che è accaduto». 41 G.E.M. Anscombe, Intention, cit., p. 45. 42 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 220, §659. 43 G.E.M. Anscombe, Intention, cit., p. 53.
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oggetto proprio della conoscenza. E, sottolinea opportunamente Anscombe, «non si può spiegare la
verità senza introdurre come suo soggetto l’intelletto, o il giudizio, o le proposizioni, e la verità
consiste in una qualche loro relazione con le cose conosciute e giudicate; la verità è ascritta a ciò che
detiene la relazione, non alle cose. Ma, ancora, la nozione di ‘bene’ che è stata introdotta nella
caratterizzazione del volere non è quella di ciò che è realmente buono ma di ciò che l’agente
concepisce essere buono»44. Vero è il discorso sull’oggetto, non l’oggetto, e questo suggerisce una
modalità di verifica immediata dell’oggetto dell’intenzione, in quanto oggetto conosciuto dal
soggetto come vero, che è buono solo in quanto il soggetto lo concepisce “veramente” come buono,
benché esso possa non essere buono per se. L’intenzione è reperibile pertanto dalla forma descrittiva
dell’azione che il soggetto individua, e, in quanto tale, non è osservabile: osservabile, entro certi
limiti, è l’azione oppure il suo effetto, ma il risultato osservato non giustifica l’individuazione
dell’intenzione se non come premessa del ragionamento pratico. Quindi,
«è la conoscenza dell’agente di ciò che sta facendo a offrire le descrizioni sotto cui quello che si sta operando è l’esecuzione di un’intenzione. Se mettiamo insieme queste considerazioni, possiamo dire che dove (a) la
descrizione di un evento è tipizzabile in modo da essere formalmente la descrizione di un’intenzione eseguita,
(b) l’evento è effettivamente l’esecuzione di un intenzione (secondo i nostri criteri), allora la spiegazione data da San Tommaso sulla natura della conoscenza pratica tiene: la conoscenza pratica è la ‘causa di quello che
comprende’, diversamente dalla conoscenza ‘speculativa’, che è ‘derivata dagli oggetti conosciuti’. Ciò
significa, ancora, che la conoscenza pratica si constata come una condizione necessaria della produzione di
risultati diversi; o che l’idea di fare questo e quello in questo e in quell’altro modo è una tale condizione»45.
Chi comanda la propria azione intende agire: è in grado di descrivere l’azione come l’esecuzione
diretta della propria intenzione. In fondo, è proprio l’azione volontaria a poter essere comandata46:
solo chi comanda sa di che cosa parla, quando descrive l’azione che comanda, e il suo sapere
(l’intenzione) informa l’azione47.
In definitiva, l’estensione dell’intenzionale quasi combacia con quella del volontario;
quest’ultima però assorbe tipologie di azione in qualche modo parassitarie rispetto alla prima: basti
pensare al consenso accordato ad un’azione che si compie senza intenzione, o a quelle azioni accettate
preventivamente solo perché ritenute inscindibili da quelle determinate da intenzionalità. Le
considerazioni sin qui svolte ci inducono a legittimare il sospetto che la lettura psicologistica e
mentalistica della volontà e della sua relazione con l’azione (una relazione tra tipi di eventi) di fatto
marginalizzi il soggetto della volizione, rendendolo superfluo. Il celebre aforisma wittgensteiniano
illustra il problema in modo efficace: «Ma non dimentichiamo una cosa: quando ‘io sollevo il mio
braccio’, il mio braccio si solleva. E sorge il problema: che cosa rimane, quando dal fatto che io alzo
il braccio tolgo il fatto che il mio braccio si alza?»48. Se ciò che rimane è un atto mentale slegato dal
movimento, allora esso stesso può essere oggetto di volizione, ma questo comporta un regresso
all’infinito. Se invece l’atto di volontà non è isolabile né descrivibile come un evento mentale, allora
vale la conclusione della Anscombe, perfettamente in linea con l’impostazione di Wittgenstein e le
sue radici schopenhaueriane, come ha mostrato egregiamente Peter Hacker: «l’atto di volontà è
indescrivibile, perché solo in quanto spettatori si è in grado di descrivere fenomeni. Ma Schopenhauer
ha mostrato che si è agenti e non spettatori delle proprie azioni volontarie, e che l’atto di volontà, il
quale è identico all’azione stessa e non un antecedente causale dei movimenti che si compiono, non
44 Ibid., p. 76. 45 Ibid., pp. 87-88. La Anscombe in nota fa riferimento esplicito a I-II, q.3, a.5. 46 Cfr. ibid., p. 33. 47 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 18, §20. 48 Ibid., pp. 211-212, §621.
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è un fenomeno»49. Il volere è l’azione stessa (muß das Handeln selber sein)50. La risposta migliore
alla questione posta dall’aforisma la fornisce lo stesso Wittgenstein, rafforzando la prospettiva
schopenhaueriana dalla quale muoverà anche la Anscombe: «Lo stesso fare sembra non avere nessun
volume d’esperienza. Sembra come un punto privo d’estensione, come la punta di un ago. Questa
punta sembra essere l’agente vero e proprio. E ciò che accade nel campo fenomenico [gli atti
osservabili e i loro effetti, ndr.], sembra soltanto una conseguenza di questo fare. «Io faccio» sembra
avere un senso determinato, indipendente da ogni esperienza»51. Il volere non è pertanto oggetto di
una possibile descrizione, esterna o interna che sia. Quella sottrazione non è equivalente alla
sottrazione aritmetica: il movimento del braccio non è un sottraendo e il risultato non è una differenza
in senso stretto. Hacker sottolinea che è una lettura lockiana a indurci a descrivere in questi termini
il sollevare il braccio: il braccio si solleva + qualcosa d’altro (una volizione, un'altra azione?): una
«congiunzione di condizioni necessarie e sufficienti dell’azione volontaria»52. Se la condizione
aggiuntiva fosse un fattore che il soggetto causa in ordine all’azione da compiere, diremmo che
l’agente muove il braccio, facendo qualcosa d’altro. Ciò però appare in netto contrasto con il fatto
che qualcuno muove direttamente il proprio braccio: il soggetto comanda l’azione, non causandola
né direttamente né indirettamente. L’azione viene compiuta in modo non causale e senza l’apporto di
stati mentali o azioni ulteriori53. Ed è di tutta evidenza, puntualizza opportunamente Kenny, che «[s]e
ci fosse un nesso causale tra il volere e l’azione, l’azione cesserebbe di essere volontaria»54.
In conclusione, qual è il ruolo delle intenzioni, alla luce delle considerazioni svolte? Per
Wittgenstein l’intenzione è una forma logica inserita in un gioco linguistico, non una costruzione
psicologica né uno stato mentale, e il contenuto cui rinvia è l’azione stessa: «È quello che A [il
soggetto, ndr] ha quando intende, e non il suo intendere, che ha un contenuto. Il suo intendere può,
tuttavia, essere detto avere un oggetto. L’oggetto del suo intendere è dato dalla stessa forma di parole
del contenuto della sua intenzione, poiché le parole sono risposte alla domande ‘Qual è (il contenuto
del) l’intenzione di A?’ e ‘Che cosa A intende fare?’, che equivalgono alla stessa cosa»55.
L’intenzione pertanto non spiega l’azione, ruolo che spetta alle ragioni, ma ha la funzione di indicarla:
l’intenzione è l’azione propria colta [festgestellt] nel gioco linguistico56. Essa suggella il fatto che il
volere non è un’azione, non ha durata, non ha spessore, non è effetto né causa, e non è descrivibile:
l’intenzione è un’espressione nel contesto del discorso. Il nesso tra l’intenzione e l’azione, come tra
il comando e la sua esecuzione, è garantito dalla comprensione del linguaggio57, che solo è in grado
49 P.M.S. Hacker, Wittgenstein. Mind and Will, Part. I: Essays, Blackwell, Oxford 2000, p. 203. L’influsso schopenhaueriano è marcato: «Jeder wahre Akt seines Willens ist sofort und unausbleiblich auch eine
Bewegung seines Leibes: er kann den Akt nicht wirklich wollen, ohne zugleich wahrzunehmen, daß er als
Bewegung des Leibes erscheint. Der Willensakt und die Aktion des Leibes sind nicht zwei objektiv erkannte verschiedene Zustände, die das Band der Kausalität verknüpft, stehn nicht im Verhältniß der Ursache und
Wirkung; sondern sie sind Eines und das Selbe, nur auf zwei gänzlich verschiedene Weisen gegeben: ein Mal
ganz unmittelbar und ein Mal in der Anschauung für den Verstand. Die Aktion des Leibes ist nichts Anderes,
als der objektivirte, d.h. in die Anschauung getretene Akt des Willens» (A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, DTV, München 1998, II, §18, p. 151). 50 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 210, §615. 51 Ibid., p. 211, §620. 52 P.M.S. Hacker, Wittgenstein. Mind and Will, cit., p. 213. 53 Cfr. ibid., p. 217. 54 A. Kenny, Will, Freedom and Power, cit., p. 120. 55 P.M.S. Hacker, Wittgenstein. Mind and Will, cit., pp. 241-242. 56 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 219: «§654. Il nostro errore consiste nel cercare una spiegazione
dove invece dovremmo vedere questo fatto come un ‘fenomeno originario’. Cioè, dove invece dovremmo dire:
si giuoca questo giuoco linguistico. §655. Non si tratta di spiegare un giuoco linguistico per mezzo delle nostre esperienze, ma di prender atto di un giuoco linguistico». 57 Ibid., p. 168, §431: «“Tra l’ordine e l’esecuzione c’è un abisso. Esso deve essere colmato dal comprendere”.
“Solo nel comprendere è detto che dobbiamo fare QUESTO. L’ordine – ebbene, non è altro che suoni, segni d’inchiostro”».
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di esprimere chiaramente (species expressa) il nesso tra l’azione e il soggetto; l’intenzione è così
l’espressione dell’azione stessa, in quanto voluta da qualcuno e non semplicemente accaduta:
«Perché, oltre a dirgli quello che ho fatto, voglio anche comunicargli un’intenzione? – Non perché
l’intenzione fosse anche qualcosa che ha avuto luogo allora. Ma perché voglio comunicargli qualcosa
su di me; qualcosa che va oltre ciò che è accaduto allora. Quando gli dico quello che volevo fare gli
dischiudo il mio intimo. – Non però sulla base di un’auto-osservazione, ma attraverso una reazione
(si potrebbe anche chiamarla un’intuizione)»58. Con queste parole Wittgenstein si inscrive
definitivamente nel solco di una tradizione filosofica che raggiunge il nostro tempo e ci invita a
prendere coscienza di un fondo abissale dell’azione umana, il mistero della libertà, che il pensiero in
definitiva può solo intuire59.
Matteo Negro
SOMMARIO
La causalità intenzionale va considerata in modo circolare e ilemorfico, come quella di un sistema che si
modifica continuamente nello scambio informazionale e dinamico con il mondo, re-ontologizzandosi, ricostituendosi come una totalità in movimento, e ridefinendo, entro certe soglie, le proprie capacità. Le
intenzioni, che emergono come espressioni concettuali all’interno di descrizioni discorsive e schemi razionali,
sono pertanto i segni dell’attività stessa del soggetto che nello spazio e nel tempo ricostituisce la propria totalità
sostanziale, annettendo a sé, per via di una sorta di re-afferenza, gli schemi (species) dello scambio percettivo. Azioni e capacità sono pertanto correlati. Le azioni volontarie, diversamente da quelle riflesse, presuppongono
una forma di controllo da parte del soggetto che le compie. Il controllo, variamente traducibile con possesso,
padronanza, comando, è dunque il carattere essenziale dell’azione volontaria, e normalmente implica l’esercizio di una certa intenzionalità.
SUMMARY
Intentional causality must be considered in a circular and ilemorfic way, like that of a system that continuously
changes in the informational and dynamic exchange with the world, re-ontologizing itself, reconstituting itself as a totality in movement, and redefining, within certain thresholds, its own abilities. Intentions, which emerge
as conceptual expressions within discursive descriptions and rational schemes, are therefore the signs of the
activity itself of the subject who in space and time reconstitutes his own substantial totality, annexing to himself, through a sort of re-afference, the patterns (species) of the perceptual exchange. Actions and capacities
are therefore correlated. Voluntary actions presuppose a form of control by the person who performs them.
Control, variously translatable with possession, mastery, command, is therefore the essential character of
voluntary action, and normally involves the exercise of a certain intentiona
58 Ibid., p. 220, §659. 59 Suggestive e pertinenti in proposito le considerazioni di Paolo Pagani tratte dalla sua analisi dell’opera di
Tommaso: «Non può essere messa tra parentesi la tensione costitutiva del volere: può però essere relativizzato
ogni atto in cui essa si esprime. E può esserlo, in quanto, non comparendo nella sua concretezza il termine cui la tensione è orientata, neppure le determinate forme del tendere potranno comparire come necessariamente
connesse con quello. In questo quadro, la riflessione giudicativa arretra fino ad investire l’atto stesso della
volizione: così, il rapporto volitio-electio […] viene considerato nel più ampio rapporto voluntas-volitio. In tal
senso si può allora parlare del volere – per suggestione kierkegaardiana – come di un “rapporto che si rapporta a se stesso”. Questa capacità di porsi a distanza da sé, fa sì che la volontà non sia – pur nella inevitabile tensione
al bene come tale – necessitata a volere sé secondo particolari condizioni: il possibile progetto della noluntas
– per stare all’esempio tommasiano – testimonia paradossalmente della effettiva trascendentalità dell’autonomia del volere» («Tommaso: la libertà della differenza», in La libertà del bene, cit., p. 156).
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VI. Economia e Filosofia
La Libertà di Croce, le libertà di Einaudi
di Riccardo Rezzesi
1. Liberismo, liberalismo. Introduzione a un’«anomalia» italiana
Il liberalismo è una teoria politica che riconosce un valore autonomo all’individuo1, mentre il
liberismo un sistema economico imperniato sulla libertà del mercato2. Liberale è chi rivendica la
preminenza della sfera privata su quella pubblica, riconoscendo al singolo individuo un insieme di
diritti (civili) inviolabili, liberista è chi sostiene l’autonomia del Mercato, difendendolo da eventuali
(e improprie) ingerenze da parte dello Stato. Le due figure possono coincidere, o divergere; sostenersi
reciprocamente, sul piano ideale e morale, o arrivare a scontrarsi a viso aperto; ci si può dichiarare
liberali senza dirsi liberisti, e argomentare la necessità di adottare, in un dato tempo storico, politiche
liberiste, senza per questo sposare gli argomenti cari alla tradizione di pensiero liberale.
Versione semplificata, abbozzata, quasi “caricaturale”, di un quadro profondamente ricco di
sfumature; solo lunghi anni di studio ne permetterebbero di cogliere la specificità, andando a sondare
il baricentro delle diverse posizioni, avvicendatesi nel corso degli ultimi quattro secoli (per intenderci,
dall’opera di Locke, di Montesquieu, passando per La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, fino a
quella di Hayek e di altri nel Novecento). Le pagine che seguono sono mosse da un intento molto più
modesto, “allettante” sul piano della riscoperta storiografica, ma privo di qualsiasi pretesa di
originalità.
Per circa vent’anni (molti dei quali compresi nel ventennio fascista), Benedetto Croce e Luigi
Einaudi dibatterono; e dibatterono senza risparmiarsi, convinti sostenitori di tesi vicine per sensibilità
politica, ma lontane sul piano della loro resa morale e filosofica. Fra i due vi era stima, garbo, ma non
deferenza. Il loro dibattito fu ricco e articolato, tanto fecondo da incidere sulla portata concettuale e
sulla «longevità» di un termine controverso e di non (così) facile definizione, in uso solo nel
vocabolario della lingua italiana: liberismo3.
1 Cfr. http://www.treccani.it/enciclopedia/liberalismo, consultato in data 19/01/2018; 2Cfr.http://www.treccani.it/enciclopedia/liberismo_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/, consultato
in data 19/01/2018. 3 Ricostruire l’origine storica del termine liberismo non è impresa di poco conto; si tratta di un termine «ambiguo», dal «carattere polisenso». Stando a quanto riferiscono A. Martino e N. Iannello, «a entrare per
primo in uso nella nostra lingua è piuttosto il sostantivo che si riferisce alla persona, “liberista” che quello che
si riferisce al sistema di idee, “liberismo”». A registrarlo è Costantino Arlia, linguista calabrese, nel
Supplemento al Lessico dell’infima e corrotta italianità [(1900), in Per la storia linguistica dell’Italia unita: Costantino Arlia, lessicografo, «Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria»,
XLII, 1977]. All’origine, il termine liberismo si pone così semanticamente in opposizione a termini come
«vincolismo» e «protezionismo». Il liberismo delle origini, sostengono Martino e Iannello, intrattiene una relazione sinonimica (o di equivalenza) con il termine liberoscambismo, caro a coloro che vogliono
“difendere” le industrie nascenti dalla protezione dello Stato. Nell’ottica della «particolarità italiana», la
coesistenza lessicale di due termini, liberalismo e liberismo, ha sollevato (e solleva) più di una questione: ad esempio, si può essere liberali e liberisti non tradendo le tesi e le preoccupazioni socialiste? Su questo punto,
oltre a sondare la posizione di Francesco Coletti, sarebbe interessante addentrarsi nelle pagine dell’opera di
Piero Gobetti, che si avvale della distinzione tra liberalismo e liberismo, misurandosi con uno scenario di
rimarchevole originalità: far coincidere un liberismo, rifondato e ripensato, «con le istanze rivoluzionarie del proletariato». Martino e Iannello citano anche Carlo Rosselli, che nel 1930 pubblica Socialismo liberale, nella
convinzione che il liberalismo come «metodo» (e non come «sistema») potesse incontrare pienamente il
socialismo. Metodo, o insieme di regole volto alla pacifica convivenza (liberalismo politico); sistema, o piena accettazione del regime capitalistico (riduzione del liberalismo a liberismo): si può dire che Rosselli anticipi
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Che il liberalismo dovesse essere ben distinto dal liberismo era la ferma convinzione di Benedetto
Croce, inamovibile nel sostenere che la sfera morale (liberalismo) non dovesse essere «confusa» con
quella economica (liberismo):
«viene di frequente ricordata – scrive Croce – nelle discussioni politiche ed economiche una mia teoria […]: che bene la lingua italiana distingue con due affini ma diversi vocaboli “liberalismo” da “liberismo”, perché
l’uno non è da confondere con l’altro, l’uno pertinente alla sfera morale e l’altro a quella economica»4.
Einaudi, dal canto suo, non riteneva che il liberismo dovesse essere elevato a principio. La sua
concezione del liberismo non si ancorava a ferrei presupposti teoretici; era piuttosto animata da un
«atteggiamento pratico», non riducibile – non fino in fondo, perlomeno – a uno schema astratto o a
un modello di riferimento. Lo sottolinea anche Paolo Solari che, nell’introdurre lo “scontro” fra Croce
e Einaudi, scrive: «in verità il liberismo di Einaudi […] trova il suo principale fondamento nella
tradizionale e rinnovata convinzione che soltanto una società nella quale abbia attuazione la premessa
della libera concorrenza possa essere una società sana e stimolatrice della creatività umana». Nessun
positivismo o utilitarismo si nasconde, secondo Solari, dietro il liberismo di Einaudi5. A dividere
quest’ultimo da Croce sembra essere così la tradizione di pensiero che traspare dagli interventi
dell’economista piemontese: la tradizione dell’empirismo anglosassone. E dietro Croce, cosa si cela?
Tutt’altra tradizione e tutt’altri riferimenti. Non è poi così difficile scorgere le pietre angolari del suo
pensiero: Vico e Hegel. In Croce, rivive una «tradizione storicistica e – nel miglior senso – romantica,
mai completamente estintasi nella cultura meridionale»6. Come si diceva, i due erano a un tempo
vicini e lontani, liberali di “fattura diversa”, che alle spalle avevano tradizioni di pensiero agli
antipodi.
Inutile cercare così la parola liberismo altrove, nei dizionari di altre lingue, o nel parlato di
altri popoli: non se ne troverebbe traccia. Se dovessi parlarne in francese, dovrei fare uso del termine
libéralisme7, o richiamarlo alla regola (o misura) del laissez-faire8. Lo stesso vale per l’inglese, per
lo spagnolo, per il tedesco. Quando si vuol parlare di liberismo, il dizionario inglese offre il termine
free trade9 (o il già citato laissez-faire), quello tedesco ci parla di Freihandel o Freie Wirtschaft; gli
il “tono” e i contenuti del dibattito tra Einaudi e Croce. Per Martino e Iannello, che non nascondono una certa
insofferenza nei confronti della «particolarità italiana», la distinzione tra liberalismo e liberismo ha prodotto
un esteso cortocircuito, con effetti distorsivi: «se il liberismo è una categoria economica e il liberalismo no, allora non possono darsi economisti liberali altrimenti si avrebbe all’interno dell’economia un’ulteriore
divisione tra ciò che è liberale e ciò che è liberista» (http://www.bibliotecaliberale.it/glossario/l/liberismo/,
consultato in data 14 marzo 2018; brano tratto dal Dizionario del liberalismo italiano, Tomo I, Rubbettino, Catanzaro 2011). 4 B. Croce, Due anni di vita politica italiana (1946-1947), Laterza, Bari 1948. Raccolto in P. Solari (ed.),
Liberismo e Liberalismo, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1957, p. 101, con il titolo Ancora di
liberalismo, liberismo e statalismo. Da questo volume, che raccoglie le riflessioni di Croce ed Einaudi sul liberalismo e sul rapporto che esso intrattiene con il liberismo, si citeranno tutti gli scritti dei due autori riportati
nel presente contributo, pur indicando il luogo di pubblicazione originaria. Di Croce, solo La filosofia di
Giambattista Vico verrà citato a parte. 5 P. Solari (ed.), Liberismo e Liberalismo, cit., p. X. 6 Ibid., p. VIII. 7 Si veda Le Robert. Dictionnaire historique de la langue française (A. Rey ed.), alla voce libéralisme, che recita: «ha all’inizio definito la dottrina dei liberali francesi prima di prendere il suo senso moderno in politica
e in economia in opposizione a statalismo e socialismo. Negli ultimi decenni del XXe s., libéralisme
corrisponde alla dottrina e al sistema del capitalismo finanziario» (tr. mia). 8Cfr.http://www.fondazioneluigieinaudi.it/Download/lezione_Scognamiglio_2011.pdf, consultato in data 19/01/2018, p. 3. 9 Termine che compare, per la prima volta in lingua inglese, nei Principles of trade di G. Whatley, B. Franklin,
Principles of trade: freedom and protection are its best support: industry, the only means to render manufactures cheap: of coins, exchange, and bountys, particularly the bounty on corn, Brotherton and Sewell,
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spagnoli lo indicano come librecambismo, o più semplicemente come liberalismo ecónomico. Come
scrive Sergio Romano, il liberismo può essere inteso, da un certo punto di vista, come un’«anomalia»
tutta italiana10. Anomalia linguistica, ma non solo. Anomalia che testimonia, negli scritti di Croce ed
Einaudi che prenderemo in esame, diverse concezioni della storia e della libertà.
2. Benedetto Croce: la storia della libertà
La storia, per Croce, è opera dello spirito; è la sua attualità, il suo farsi. O meglio, è un farsi che
conferisce ai singoli fatti il loro significato più pieno. I fatti sono le «forme», lo spirito il loro
“iniettore di sostanzialità”. Lo spirito è libertà, «opera della libertà». Vien da chiedersi, come
giustificare allora oppressioni, violenze, traversie, tirannie? Croce cita Vico, e risponde che tutto è
opera della libertà, «unico ed eterno momento positivo», che giustifica se stesso, giustificando le
forme, e giustificando l’«ufficio adempiuto dal momento negativo della illibertà». Ciò che può
apparire come una catena è in realtà, a ben vedere, la chiave con la quale potersi liberare dalla prigione
(illusoria) dell’illibertà; ciò che s’impone agli occhi dell’uomo come un’avversità, una disgrazia, una
tribolazione è, più propriamente, un’opportunità che lo spirito coglie per dispiegare, nella storia, i
prodromi delle libertà di domani. La libertà informa le libertà: è così che lo spirito opera, agisce,
mostra il suo volto nella storia. La libertà al singolare può esistere soltanto nelle libertà al plurale.
«Se non che essa – afferma Croce – non si adegua mai e non si esaurisce in queste o in quelle delle
sue particolarizzazioni, negli istituti [cioè] che ha creati»11. Detto altrimenti, la libertà è “affare di
coscienza”, che non si lascia schiacciare sul piano giuridico. Il diritto non può comprimere e riflettere,
mai del tutto, l’opera dello spirito. Al contrario, rinvia senza sosta lo sguardo dell’uomo al di là delle
molteplici forme che la libertà, per esistere, si decide ad assumere. La libertà è «assunto filosofico,
non giuridico»12; la libertà è «continua liberazione», impresa mai compiuta, una battaglia che non
vedrà mai la fine. Chi combatte in suo nome non potrà mai gridare a pieni polmoni “Vittoria!”,
«perché [ciò] significherebbe la morte di tutti i combattenti, ossia di tutti i viventi». La libertà è un
inesausto “definirsi per poi ridefinirsi”. È ideale morale, necessario «completamento pratico» della
storia come storia della libertà.
Croce ripercorre così, una a una, le tappe che hanno portato il pensiero moderno al
riconoscimento della libertà come «libertà spirituale»:
«la libertà stessa come ideale morale […] era concresciuto con tutto il pensiero e il moto della civiltà, ed era passato nei tempi moderni dalla libertà come complesso di privilegi alla libertà come diritto di natura, e da
London 1774 (Internet resource). 10 S. Romano, Prefazione, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Liberismo e Liberalismo, Laici cattolici. I maestri
del pensiero democratico (collana a cura di Marco Garzonio), Edizione speciale per Corriere della Sera,
Milano 2011, p. 5. 11 B. Croce, La religione della libertà. Questo e Le fedi religiosi opposte sono i primi due capitoli della Storia d’Europa nel secolo decimonono (Id., Storia d’Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari 1932). Raccolti
in P. Solari (ed.), Liberismo e Liberalismo, cit., pp. 23-24. 12 Le istituzioni possono così ricevere «assenso morale», tenendo ben presente che tale assenso non s’indirizza alla loro «forma astratta», ma alla loro «efficacia pratica» in date situazioni o circostanze. Scrive Croce a
riguardo: «perciò, per duraturo che sia, [l’assenso morale] è sempre condizionato e transeunte: tanto che
congegni di libertà che paiono perfetti giuridicamente possono essere effettivamente strumenti d’illibertà, e all’inverso». Id., Principio, ideale, teoria. A proposito della teoria filosofica della libertà. Scritto nel 1939, e
raccolto ne Il carattere della filosofia moderna, Laterza, Bari 1941. Lo si cita da P Solari (ed.), Liberismo e
Liberalismo, cit., p. 80. D’altro canto, uno degli «erronei concetti» che riconosce nei teorici del comunismo è
proprio quello di equivocare e confondere piano formale e piano reale, libertà giuridica e libertà di fatto: «or quella che si suol definire libertà giuridica e formale è, se ben si consideri, nient’altro che la libertà pura e
semplice, vera e propria, nella sua schiettezza di principio morale, l’unica libertà; e l’altra non è già libertà ma
ordinamento economico, e più particolarmente il vagheggiato ordinamento economico consumistico di eguaglianza» (ibid., p. 77).
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questo astratto diritto naturale alla libertà spirituale della personalità storicamente concreta; e si era fatto via
via più coerente e saldo, avvalorato dalla corrispondente filosofia, per quale quella stessa legge che è legge
dell’essere è legge del dover essere (corsivo mio)13. L’uomo deve imparare così a guardare dietro le forme, in modo da comprendere che la storia non è
“abbandonata a forze cieche o sorretta […] da forze estranee”, ma eternamente vivificata (e orientata)
dall’opera dello spirito. La storia non è un “deserto di spiritualità”; è opera dello spirito dell’uomo, che ha pieno diritto di riconoscersi come suo “infaticabile autore”. Se il razionalismo settecentesco aveva prodotto
una radicale spaccatura tra ragione e storia, l’Ottocento, secondo Croce, aveva ricucito lo strappo,
riconoscendo “il senso pieno” del detto vichiano: “la repubblica, cercata da Platone, non è altro che il corso
delle cose umane”»14.
3. La Libertà e i suoi profeti
Se la storia è (sempre) storia della libertà, e se la libertà come ideale morale ne è il suo completamento
pratico, che cosa si deve intendere quando si parla di liberalismo?
Per Croce, il liberalismo è una religione, che ha come culto quello della libertà. Una religione
che nulla ha a che vedere con il mito, le chiese, le sette; che prescinde da dogmi, leggende, riti, classi
sacerdotali, e «paludamenti pontificali e simili»; ma che presenta, come ogni altra religione, «una
concezione della realtà e un’etica conforme», sui quali poggia ciò che ha di essenziale e di intrinseco.
Purtuttavia, non si può confondere il liberalismo con le altre religioni. Il liberalismo è la Religione,
non una “qualsiasi”, una delle tante cioè susseguitesi nel corso dei millenni. È la religione della
libertà, le altre sono solo religioni particolari, astratte, alcune delle quali (come quelle dell’«avvenire,
escogitate nel secolo decimonono») cadute persino nel ridicolo. È nell’essenza religiosa del
liberalismo compendiare le «migliori esigenze» che le altre religioni, come il Cattolicesimo o il
Calvinismo, contengono ed esprimono: la religione della libertà, nel suo imporsi nella “storia delle
idee”, le compendiava e le superava.
«In verità – scrive –, si contrapponeva ad esse, ma, nell’atto stesso, le compendiava e proseguiva; raccoglieva al pari dei motivi filosofici, quelli religiosi del passato prossimo e remoto, accanto e sopra Socrate poneva
l’umano-divino redentore Gesù, e sentiva di aver percorso le esperienze del paganesimo e del cristianesimo,
del cattolicesimo, dell’agostinismo e del calvinismo, e tutte le altre, e di rappresentare le migliori esigenze, e di essere purificazione, approfondimento e potenziamento della vita religiosa dell’umanità»15.
E se il liberalismo è «religione della libertà», coloro che si riconoscono nella sua essenza, che si
rispecchiano nella sua concezione della realtà, che si conformano pienamente alla sua etica, tendono
ad assumere il volto di veri e propri profeti. Il liberale viene così indicato, nelle pagine de Le fedi
religiose opposte, come un «profeta della libertà». Per meglio dire, un «profeta disarmato». E con ciò
Croce non intende dire che il metodo liberale debba essere considerato «molle o mite». Tutt’altro.
Coloro che hanno “professato”, in passato, la religione della libertà si sono battuti a tal punto per il
13 B. Croce, La religione della libertà, cit., p. 22. 14 Ibid., pp. 20-21. Nella Vita scritta de se medesimo, Vico ci racconta che, con la lettura di Platone,
«incominciò in lui, senz’avvertirlo, a destarsi il pensiero di meditare un diritto ideale eterno che celebrassesi in una città universale nell’idea o disegno della providenza, sopra la quale idea son poi fondate tutte le
repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale che, in conseguenza della sua
metafisica, doveva meditar Platone, ma, per l’ignoranza del primo uom caduto, nol poté fare» (G. B. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, pp. 15-16). Di Vico, Croce dava una definizione
“entusiasta”, presentandocelo «né più né meno come il secolo decimonono in germe. Definizione – scrive –
che può […] contribuire a far intendere il posto che gli spetta nella storia della filosofia moderna». Nell’opera
vichiana, è presente una sorta di «abbozzo della nuova metafisica, che doveva essere svolto e determinato» (B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari 1922, p. 257). Compito poi assunto dalla filosofia
dell’Ottocento. Si veda M. Vanzulli, Caso e necessità in Vico, http://www.quadernimaterialisti.unimib.it/?p=267,
consultato in data 15/01/2018. 15 Ibid., pp. 28-29.
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suo riconoscimento da dimostrarsi ben «pronti e lieti al sacrificio». Per la libertà, ci si è battuti e ci si
deve battere, ma con i mezzi che le sono consoni. Cioè a dire, rispettando la legge che disciplina le
regole del suo gioco:
«Quella taccia di mitezza e mollezza [allora] accennava ad altro – afferma Croce –, che era invece la ragion
d’essere del liberalismo e sua ragione d’orgoglio: cioè alla legge, che esso osservava, di tener ferma bensì,
anche con la forza, quella cha abbiamo chiamata la regola del suo giuoco, ma avere per regola di giuoco appunto la libertà, che vuole rispetto delle altrui opinioni, disposizione ad ascoltare e imparare dagli avversari
e, in ogni caso, a ben conoscerli, e perciò a far sì che non debbano nascondersi nascondendo il loro pensiero e
le loro intenzioni»16.
La libertà è un gioco che non ha mai fine. Non si creda così di poter vincere, o portare a terminare la
partita: quando s’intavola il gioco della libertà, non ci sono né vinti né vincitori. Se ci fossero, se la
partita dovesse avere termine, i giocatori non potrebbero aspettarsi altro che morte. Come si diceva,
la libertà è «una continua liberazione», è un “farsi” che si realizza per “facendo”. Il suo gioco è un
gioco ideale che ha come regola costitutiva il non avere altra regola che la sua propria legge.
Per Croce, è quindi evidente che il liberalismo non possa coincidere con il liberismo: se il
primo poggia su un ideale (la libertà), il secondo è solo una regola empirica, stretta nelle logiche
ferree dell’altrimenti. Il realizzarsi della libertà nella storia prescinde da ogni sistema economico. Può
“fare uso” del regime della libera concorrenza, ma anche di altri, persino antitetici. La libertà non
dipende da nulla; e non dipende dalla libera circolazione d’idee e merci. Si è liberi ovunque, persino
se condannati all’impossibilità (fattiva) di poter esprimere liberamente le nostre più intime
convinzioni.
«Come oramai dovrebbe essere pacifico – scrive Croce –, il liberalismo non coincide col cosiddetto liberismo
economico, col quale ha avuto bensì concomitanze, e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e
contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse»17.
Il liberalismo non avversa, per principio, alcun sistema economico. E non fa di certo del liberismo la
sua “ancella prediletta”: valido in alcune circostanze, ma non in altre. Per esempio, la socializzazione
dei mezzi di produzione, deplorata dai sostenitori della massima del laissez-faire, non deve essere
contrastata idealmente, e vista (sempre) come un “mostro” che paralizza la crescita morale del singolo
e della collettività. Va avversata, dice Croce, solo in alcune circostanze, non in assoluto. E cioè,
quando si dimostra incapace di promuovere la «libertà e la vita», incidendo negativamente sulla
produzione della ricchezza. Ecco il criterio con il quale misurare la sensatezza e la bontà di qualsiasi
riforma: la promozione della libertà e della vita. Ed ecco perché non si deve guardare al contrasto fra
liberalismo e comunismo come a una «questione di esperienza». Il contrasto fra i teorici del primo e
quelli secondo è di natura ideale, e non ha nulla a che vedere con l’adozione di certe misure
economiche e il contrasto ad altre. Il liberalismo osteggia il comunismo non perché miri a difendere
la proprietà privata a discapito di qualsiasi forma di socializzazione dei mezzi di produzione. Siamo
di fronte a un contrasto ideale; e a scontrarsi sono due visioni irriducibili della storia e di “Dio”. Il
loro, per dirla nei termini di Croce, è un «contrasto religioso», che consiste sostanzialmente
«nell’opposizione tra spiritualismo e materialismo». Il Dio del liberalismo è la Libertà, puro ideale
disincarnato; il Dio del comunismo è invece «carne e materia», non spirito. Da qui, un’economia
ritenuta fondamento di tutte le altre realtà, che passano così a essere sue derivazioni o apparenze.
L’economia, «unica realtà», esautora la politica e la morale di ogni autonomia, le relativizza; e
relativizzandole “libera” la società da ogni forma di libertà. La società è un meccanismo, una
macchina. Non c’è vita al suo interno. È un corpo morto che ha bisogno di un soffio vitale per destarsi
16 B. Croce, Le fedi religiosi opposte, cit., pp. 45-46. 17 Ibid., p. 42.
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E, come ogni macchina, necessita di qualcuno che l’azioni e che sia vigile nel preoccuparsi della sua
“manutenzione”:
«una società – afferma Croce –, configurata secondo quel concetto materialistico [proprio del comunismo], non poteva esser mai altro se non un meccanismo; e poiché un meccanismo, diversamente dalla vita organica
e spirituale, non lavora da sé e ha bisogno di chi lo metta in moto e lo regoli, essa doveva necessariamente
venir regolata da una perpetua dittatura, che costringesse i suoi componenti ad aggirarsi in certi cerche segnati
e a professare certe credenze e a tenersi lontani da certe altre e a flettere o a comprimere i loro intelletti, i loro desideri e le loro volontà»18.
La società comunista «non lavora da sé»; c’è qualcuno che lavora per lei, al suo posto; è una macchina
eterodiretta, che non gode di alcuna autonomia. L’economia fonda tutto, schiaccia la politica, la
morale, e ogni ideale sotto di sé, compresa la libertà.
Croce, parlando di libertà, «vuol fare chiarezza»; per questo, ci invita a distinguere tre aspetti (o gradi)
nella teoria filosofica della libertà. Conviene accogliere la sua raccomandazione, e specificare i
diversi “volti” che la libertà può assumere:
La libertà come forza creatrice della storia. In tal senso, lo si è già detto, la storia può essere definita
storia della libertà. L’illibertà è così descritta come sterile, illusoria, impotente. La libertà crea;
l’illibertà partorisce solo fantasmi.
La libertà come ideale pratico. L’ideale viene a coincidere, per Croce, con la coscienza umana19. Per
questa ragione, non si può trattarlo come un fatto storico. I millenni passano, ma la coscienza non
cambia: rimane sempre identica a se stessa.
La libertà come concetto filosofico, che trova piena rispondenza in una filosofia «concepita come un
assoluto immanentismo: immanentismo dello spirito». Né materialismo, né naturalismo. Lo spirito,
sostiene Croce, è dialettica di distinzioni e opposizioni; lo spirito è «perpetuo crescere su stesso».
L’unica filosofia che è in grado di sostenere la libertà come concetto ha dunque le vesti di uno
storicismo assoluto.
I «figli primogeniti» del liberalismo non erano certo degli storicisti assoluti (si pensi a Stuart Mill e
al suo trattato On Liberty). E così i primi «teorizzamenti» intorno al liberalismo si dimostrarono,
secondo Croce, inadatti a sostenere filosoficamente la libertà come concetto, generando equivoci e
false credenze. Una su tutte: che il liberalismo coincida con l’individualismo utilitario. Per Croce, è
una coincidenza del tutto infondata, non giustificabile. Il liberalismo non chiede allo Stato di
subordinarsi agli interessi dei singoli; al contrario, vede nello Stato uno strumento per condurre
l’individuo a «più alta vita». Non individualismo utilitario quindi, ma individualismo morale. Lo
Stato non è al servizio dell’edonismo dei singoli; è piuttosto, nell’ottica crociana, il “luogo” in cui
l’individuo riesce a risolversi nell’«individualità del fare o dell’atto, ossia nella concretezza
dell’universalità». Detto altrimenti, l’individuo trova nello Stato la raison d’être e il senso pieno della
sua individualità20. L’autorità non deve essere così considerata l’opposto dell’individualità – come i
«figli primogeniti» del liberalismo sostenevano –, o un suo momento di «mortificazione, freno,
oppressione». L’autorità è, per Croce, il «completamento logico» dell’individualità, e il riconoscersi
in essa il preciso sintomo di un’individualità non astratta ma vivente. In quest’ottica, l’interesse
individuale viene a coincidere con quello comune; e l’individualità, superando la dimensione
18 Cfr. ibid., pp. 42-44. 19 La vita, per Croce, è soggetta a un’unica legge, suprema e decisiva; e questa legge prende il nome di coscienza morale, «la quale è coscienza ed esercizio di libertà in quanto ubbidisce solo a se stessa, legge non
scritta degli Dei, come l’avrebbe chiamata Antigone» (B. Croce, Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo,
cit., pp. 101-102). 20 Cfr. B. Croce, Principio, ideale, teoria, cit., pp. 69-74.
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dell’interesse e dell’utile, prende pieno «possesso di se stessa», acquisendo così il suo carattere
morale21.
Tra liberalismo e liberismo non c’è invece contrasto ideale, né un rapporto necessario. Solo
un’implicazione strumentale. Croce non si stanca mai di rimarcarlo: il liberismo, al variare delle
situazioni storiche, può essere accolto o rigettato dalla volontà morale, «perché a materia trapassa la
vita economica di fronte alla coscienza morale, e materia sono i vari sistemi che essa propone –
liberismo, protezionismo, monopolismo, economia regolata e razionalizzata, autarchia economica».
Tutti questi sistemi hanno carattere empirico, transeunte, contingente, e nessuno di loro può
rivendicare sugli altri alcun carattere morale. Nemmeno la proprietà, che sia d’ordinamento
comunistico o capitalistico, può essere «fissata» e pensata sotto un disegno generale che abbia come
suo scopo il benessere definitivo della società e dell’individuo. La proprietà, come i sistemi sopra
citati, non può vantare alcun carattere morale. È un “che” di empirico, un ordinamento privo (in sé)
di qualsiasi valore ideale22.
In uno scritto del 1931 (Le fedi religiose opposte, parte della memoria letta all’Accademia di
scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, poi confluito nella Storia d’Europa nel secolo
decimonono, 1932), già citato in precedenza, Croce sostiene però una posizione diversa sulla
proprietà, dicendo che essa assume un doppio aspetto, ed è passibile di un doppio senso. Dal un lato,
scrive, è semplice ordinamento economico, uno strumento «non fisso», che può variare in rapporto
alle varie circostanze; dall’altro, deve essere considerata come «necessario strumento e forma» della
personalità morale e umana, «che non è dato distruggere e conculcare senza distruggere e conculcare
la vita morale e progrediente; senza andare, come si dice, contro la natura dell’uomo»23. La proprietà
ha così carattere morale, un aspetto che la lega a doppio filo con il progresso della vita morale della
personalità umana. Ha un valore morale, per così dire, indiretto, derivato? Forse. “Resta il fatto” che
senza l’esercizio (empirico) della proprietà pare proprio che l’essere umano non possa guadagnare la
pienezza della propria vita morale: la sua umanità passa del resto dall’essere, in primo luogo,
proprietario di se stesso, e poi delle cose nelle quali si riconosce, che ricevono cioè il suo assenso
morale. È Croce stesso che sembra indicarcelo, in uno scritto (Le fedi religiose opposte) precedente
a Principio, ideale, teoria (1939), dove sostiene invece fermamente la sterilità morale della proprietà.
Che si tratti di un’evoluzione interna al suo pensiero? Una cosa è certa: è proprio quello che Einaudi
andava sostenendo, con rigore e coerenza, nel dibattito con il filosofo abruzzese-napoletano.
E poi, se davvero è un errore «congiungere le forze morali con quelle vitali», la morale con
l’economia, la libertà morale con quella giuridica, che dire quando manca, come scrive Croce,
l’«animo libero»24? Se manca l’«animo libero», se mancano i profeti, se mancano gli ispirati, si corre
il rischio che, in un dato tempo storico, le istituzioni – la legge stessa – si rivelino del tutto inutili,
inadatte cioè a servire la nobile causa della libertà. Per essere più chiari, se la Libertà “stenta a farsi
vedere”, che ruolo dobbiamo riservare alla politica e al diritto? È Croce stesso che per primo pone il
problema:
«se manca l’animo libero, nessuna istituzione serve, e se quell’animo c’è, le più varie istituzioni possono
secondo tempi e luoghi rendere buon servigio. Le concrete istituzioni liberali le crea di volta in volta il genio politico ispirato dalla libertà o (che è lo stesso) il genio liberale fornito di prudenza politica. E tener vivo questo
genio in un popolo è il supremo dovere, sebbene non si possa aspettare che ciò accada consapevolmente nei
più, richiedendo esso profondità di sentimento e forza sintetica del pensiero che è delle schiere elette, delle
legioni devote all’ideale»25.
21 Cfr. B. Croce, Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo, cit., p. 103 22 Cfr. B. Croce, Principio, ideale, teoria, cit., pp. 76-77. 23 B. Croce, Le fedi religiosi opposte, cit., p. 42. 24 B. Croce, Principio, ideale, teoria, cit., p. 80. 25 Ibid., p. 80.
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L’istituzione, senza che ci sia un genio politico che la modelli a immagine stessa della Libertà, rischia
di essere una scatola vuota, in grado di ospitare “qualsiasi cosa”, persino i fantasmi e le illusioni
partoriti dall’illibertà. Non sempre però il genio fa la sua comparsa nella storia; non sempre è lì pronto
a guidarci, illuminarci, conferendo la sua impronta a leggi e istituzioni. Fa parte cioè di «schiere
elette» e «legioni devote» che i più possono soltanto attendere con fiducia: quando un dato tempo
storico si presenta come «un deserto di spiritualità», persino le orme del genio antico scompaiono
sotto la polvere. Siamo di fronte a un possibile scacco della politica. Senza che ci sia un ispirato a
esercitarla, la politica si dimostra attività marginale, non certo agente di cambiamento o
emancipazione. Quando manca l’eletto, la politica serve a ben poco, come un tesoro inestimabile
nelle mani di un uomo ignaro del valore dell’oro, o del denaro. È supremo dovere, dice Croce, «tener
vivo» questo genio. Ma degli interrogativi urgenti sorgono e chiedono una risposta: si può educare
l’individuo a lasciarsi ispirare dalla Libertà? Se il genio non c’è, come si fa a tenerlo vivo? Ai più
manca consapevolezza e forza di pensiero, e non possono così sperare di auto-educarsi a servire, in
profondità, la Libertà. Sono posti così nella condizione di attendere qualcuno di cui non riuscirebbero
a identificarne le fattezze. Attendono, per così dire, un pedagogo che deve educarli a riconoscerlo
come genio politico. La loro è un’attesa al buio, e la luce può provenire solo da un’alterità assoluta e
immanente: un eletto devoto a un ideale (la Libertà) il cui vero valore sfugge a chi ne dovrebbe
beneficiare.
4. Dalla Libertà alle libertà: le obiezioni di Einaudi
Da un lato, il filosofo Croce; dall’altro, l’economista Einaudi. I due non potevano capirsi, se non in
modo sfocato, approssimativo. Croce ci parla della libertà en philosophie ed Einaudi “non riesce a
seguirlo”, non più di tanto perlomeno. Si arrende così a Croce, non avendo ben afferrato lo spessore
teoretico delle obiezioni che questi rivolge alla tradizione dell’economia politica moderna, insistendo
sulla distinzione fra liberalismo e liberismo. Sarebbe davvero troppo semplice metterla in questi
termini, e di certo non renderebbe merito all’alto valore (filosofico) esibito dal dibattito Croce-
Einaudi. In realtà, l’economista piemontese aveva ben capito il cuore teoretico del discorso crociano.
Non solo l’aveva pienamente afferrato, ma ne aveva rigorosamente soppesato le derivazioni sul piano
pratico (cioè, morale) e politico. Einaudi non era d’accordo con Croce; e il loro disaccordo poggiava
su delle ragioni di ordine filosofico, non su una differenza di linguaggi o di competenze. È Einaudi a
indossare le vesti del teoreta, e non Croce quelle dell’economista; e le indossa con cognizione,
severità e rigore.
Come si è anticipato nelle primissime pagine, Einaudi non vuole fare del liberismo un
principio, dotandolo della stessa dignità che va riconosciuta al liberalismo. Per lui, il liberismo è un
precetto, che non ha valore in sé, al quale si giunge dopo aver condotto coerentemente un
«ragionamento astratto». «Esiste – scrive – un nesso tra la concezione astratta, quella precettistica e
quella religiosa del liberismo economico. Si giunge di solito al precetto liberistico per mezzo di un
ragionamento astratto». La storia ne è testimone imparziale: «il credente nel liberismo arrivò alla fede
dopo essersi persuaso, con molti o pochi ragionamenti astratti, che le soluzioni diverse da quelle
liberistiche erano per tutti i problemi concreti a lui noti […] dannose alla collettività»26. È il problema
(«concreto») che chiama in causa la teoria, forzandola a doverose modificazioni se si rivela incapace
di approntare le corrette soluzioni. Per Einaudi, il liberismo si è rivelato così il sistema economico
storicamente più idoneo a favorire la libertà spirituale e la crescita morale dell’individuo. Facendo
perno sulla resa empirica di questo «ragionamento astratto», Einaudi non può che sorprendersi di
fronte ad alcune pagine crociane; in particolare, “non crede ai suoi occhi” quando ha modo di leggere
26 L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo. Pubblicato per la prima volta in La riforma sociale, a. XXXVIII, vol. XLII, fasc. 3-4 (marzo-aprile 1931), con il titolo: Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e
dei suoi rapporti con quello di liberalismo, è stato ristampato in Id., Il buongoverno. Saggi di economia e
politica, Laterza, Bari 1954 (ne esiste una nuova edizione, sempre per Laterza, del 2004). Raccolto in P. Solari (ed.), Liberismo e Liberalismo, cit., p. 127.
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quanto Croce sostiene in rapporto al presunto contrasto tra l’ordinamento della proprietà comunistico
e quello liberistico. In Liberismo e Liberalismo, cita direttamente il filosofo di Pescasseroli e,
riferendosi agli scritti crociani già evidenziati, scrive:
«il Croce quasi lascia supporre che se fosse vero “che il corso storico delle cose portasse al bivio o di
danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l’ordinamento capitalistico cioè della
proprietà privata […] il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quella abolizione”»27.
«Spaventevole ammissione» per Einaudi. E, anche se Croce (in parte) la ritratta, tende a eccitare una
catena di riflessioni che vanno a investire il rapporto tra liberalismo e liberismo. Il discorso crociano
solleva a Einaudi non pochi dubbi, che l’economista piemontese formula in questo modo:
«Un liberalismo il quale accettasse l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo in
ragione di una sua ipotetica maggior produttività di beni materiali, sarebbe ancora liberalismo? Può cioè
esistere l’essenza del liberalismo, che è libertà spirituale, laddove non esista proprietà privata e tutto appartenga
allo stato?»28.
È vero, Einaudi lo ammette, è impresa di non poco conto definire giuridicamente «dove finisca la
proprietà privata e dove cominci quella dello Stato». Ma ciò non intacca minimamente il dubbio
sollevato; il piano investito dalla riflessione einaudiana è di carattere teoretico, non giuridico. La
libertà spirituale può sopravvivere a condizioni materiali che ne contrastino apertamente l’esercizio
e lo sviluppo? È questo il dubbio di Einaudi. Ed è questo il senso dei “rimproveri” che l’economista-
filosofo indirizza al teorico dello storicismo assoluto. Se non esiste una società (materialmente)
libera, non può esistere liberalismo, il cui destino è legato all’esercizio fattivo delle «libertà al
plurale», che non devono incontrare alcun ostacolo o impedimento; perciò
«il liberalismo non può (nemmeno per figura rettorica) assistere concettualmente all’avvento di un assetto
economico comunistico, come pare ammetta il Croce. Esso vi ripugna per impossibilità assoluta [corsivo mio].
Non può esistere libertà dello spirito, libertà del pensiero, dove esiste e deve esistere una sola volontà, un solo credo, una sola ideologia. Se per libertà di pensiero non si intende solo quella di poter pensare e meditare
dentro a se stesso – ed anche la libertà di pensare con se stesso è mortificata in quelle condizioni – se essa
implica la libertà di comunicare ad altri il proprio pensiero, quella libertà non può esistere nel comunismo».
Dunque, l’essenza del liberalismo non può che contenere una «certa dose» di liberismo, che non viene
elevato a principio, ma che giunge ad assumere un «certo» carattere morale. Se lo spirito è libero,
sostiene Einaudi, non può che privilegiare un’economia che premi la diversità, e che non si lasci
asservire da un’unica volontà. Lo spirito libero vive di volontà diverse, e fa della molteplicità e della
diversità gli unici beni non negoziabili. Può esistere così «una società comunistica, al tempo stesso
nemica irreducibile del liberismo economico e del liberalismo»29.
Ai pochi, Einaudi preferisce i molti; agli «eletti» o agli «eroi» indicatici da Croce, una società
dove chiunque si possa dire libero: nello spirito, nel pensiero, nella parola. Possibilità concreta, certo,
ma conquista mai definitiva. Il pensiero trova il proprio nutrimento nell’incontro d’idee e tesi
contrastanti; e muore sotto l’ottundimento di un pensare organico, sempre identico a se stesso. Si può
anche “smettere di pensare” infatti, se le condizioni materiali arrivano a privare il singolo
dell’incontro con il diverso, con lo straniero:
«il che vale, per quasi tutti gli uomini, quanto cessare a poco a poco di pensare; poiché il pensiero nasce e
vigoreggia nel contrasto delle tesi, nel diniego delle idee altrui, nella lotta contro il male e per il bene. A poco
27 Il passo di Croce, citato da Einaudi, si trova in B. Croce, Le fedi religiose opposte, cit., p. 43. 28 L. Einaudi, Liberismo e Liberalismo, cit., pp. 127-128. 29 Cfr. ibid., pp. 129-131.
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a poco il pensiero si ottunde, vittima del conformismo universale. La libertà spirituale più non esiste, se non
nello spirito dei pochi eroi»30.
L’azione del conformismo poggia su quel «poco a poco». E, senza che ci si renda quasi conto,
smettiamo di pensare e iniziamo a usare parole che appartengono a tutti, e quindi a nessuno; a
compiere una missione che non appartiene al destino individuale del singolo, voluta da un “chi”
anonimo e totalizzante. In questo, per Einaudi, comunismo e capitalismo monopolistico si porgono
la mano, come stretti in un’alleanza segreta: entrambi tendono a uniformizzare il pensiero, le
deliberazioni e le azioni degli esseri umani, a distruggere la loro «gioia di creare, che è sensazione di
aver adempiuto a un dovere, che è anelito verso la libertà». Einaudi vuole una società di «uomini
egualmente liberi», dove la libertà non sia privilegio per pochi, dote spirituale coltivabile solo da eroi,
pensatori e anacoreti. Tutti devono poter essere liberi e misurarsi con la responsabilità morale che
deriva dal potersi dire libero. E, per farlo, occorre che il singolo possa fondare la propria azione su
dei presupposti materiali che consentano il libero adempimento della propria missione. La libertà
morale non è, per questa ragione, compatibile con qualsiasi regime economico; e non lo è di certo
con quello di matrice comunista. Scrive Einaudi:
«quando il filosofo dice che la libertà morale è compatibile con qualunque ordinamento economico dice il vero
per gli eroi, per i pensatori e per gli anacoreti. Costoro vivono spiritualmente e moralmente liberi entro qualunque ordinamento economico anche il più conformistico e mortificante».
Ma, «se la filosofia indaga la realtà, perché chiudere gli occhi al fatto che in certi ordinamenti
economici la libertà è l’appannaggio di pochissimi eroi o ribelli ?»31
La libertà come puro godimento di sé e delle trame del proprio pensare è appannaggio di
pochi, di pochissimi: esseri eccezionali, rari, liberi ovunque, indipendentemente dal tempo nel quale
vivono, al riparo dal fango della storia. Ma i più, gli altri? Per un operaio di una società comunistica,
libertà significa riconoscersi negli ingranaggi del meccanismo, «piccolissima ruota di una macchina
colossale; per quell’operaio, libertà significa credere di avere voluto quella macchina, «di avere
contribuito a crearla e di contribuire […] ad amministrarla»; per quell’operaio, libertà significa
dimenticarsi di sé, della sua missione, della sua crescita morale, svuotarsi di ogni ideale personale,
divenire parte di un tutto per poi scomparire come singolo32. È una libertà che somiglia molto al ferro
luccicante di pesanti catene, messe ai polsi e alle caviglie di prigionieri che s’illudono di respirare
aria di libertà.
Come su Croce, anche su Einaudi è il caso di far chiarezza: per l’economista piemontese, il liberismo
è la risultante storica di un ragionamento astratto che ha accolto il concreto di problemi, situazioni,
circostanze, epoche. Il liberismo non è dunque un principio, né Einaudi pretende d’investirlo tout
court di un’area ideale, o di un valore in sé; è però uno «strumento necessario»33 perché le idee liberali
trovino un terreno fertile nel quale radicarsi e poi germogliare. È una «creazione dell’uomo», che non
esaurisce l’idea di libertà (intraducibile, per lui come per Croce, sul piano dell’esperienza), ma che si
è dimostrata storicamente la più adatta a soddisfare le esigenze morali dell’uomo libero. O il
liberalismo conserva così nel suo DNA una «certa dose» di liberismo, o rischia di tradire la sua
essenza.
Il liberismo, che Einaudi difende come condizione di attuabilità del programma liberale, non
è il liberismo del tutto è lecito. Il liberismo non si riduce – come Croce invece pensava, secondo
30 L. Einaudi, Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico. Pubblicato in Rivista di storia
economica, a. II, n. 2 (giugno 1937). Raccolto in P. Solari, Liberismo e Liberalismo, cit., pp. 139-140. 31 Ibid., p. 144. 32 Ibid., p. 145. 33 Cfr. L. Einaudi, Le premesse del ragionamento economico. Pubblicato in Rivista di storia economica, a. VI,
n. 1 (marzo 1941) con il titolo Ancora su «le premesse del ragionamento economico», ristampato in Il buongoverno, cit. Raccolto in P. Solari, Liberismo e Liberalismo, p. 157.
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Einaudi – alla proposizione “tutto è lecito”. Se così fosse, non potrebbe rivelarsi «strumento adatto»
per impedire il sorgere di monopoli e guadagni illeciti:
«se tutto è lecito, è lecito anche, come accadde tra il 1870 ed il 1900 negli Stati Uniti, a talun astuto produttore di petrolio accordarsi con talun magnate di ferrovie per stabilire tariffe di favore per il suo petrolio e così
battere i concorrenti e sfruttare il monopolio proprio; è lecito assoldare ivi bande armate private per costringere
operai a recarsi al lavoro alle condizioni volute da industriali negrieri; è lecito corrompere od influire sui
legislatori per ottenere dazi protettivi, privilegi, premi e divieti di associazioni operaie; è lecito a queste di impedire colla violenza fisica o morale ad altri operai di recarsi al lavoro ecc. ecc.»
Il liberismo non è questo, né marca uno spazio d’incontrollata liceità che permette a pochi d’incidere,
direttamente o indirettamente, sulla vita e il benessere dei più. Il liberismo o è “liberale” o si rivela
dannoso, oltre che inutile; o la piena concorrenza è pensabile non solo in astratto ma anche in
concreto, oppure non ci resta che considerarla solo un’ipotesi di ricerca moralmente sterile:
«Se il liberismo del “tutto è lecito” – scrive Einaudi – fosse pensabile in concreto, gli economisti dovrebbero
constatare che la loro premessa astratta della piena concorrenza, pure conservando il proprio valore logico di strumento di ricerca, non troverebbe alcuna attuazione, anzi l’opposto, in un vivente ordinamento
liberistico»34.
Ma il liberismo di Einaudi è altra cosa. E i liberisti che ha in mente l’economista piemontese sono di
fattura ben diversa: il liberista, per Einaudi, non vede nella virtuale attuazione della premessa della
concorrenza un fine in sé, un valore assoluto, una pratica buona in se stessa, ma un mezzo volto alla
promozione della vita, della libertà e della creatività umana35. La morte dell’economia libera, per
Einaudi, viene a coincidere con la morte della libertà stessa, morale e politica; e tanto il «collettivismo
statale» quanto il «monopolismo privato» ci sono indicati come i cimiteri dove i funerali dell’uomo
libero vengono officiati, a volte nella più disarmante inconsapevolezza36.
34 Ibid., p. 156. 35 Ibid., p. 157. 36 L. Einaudi, La terza via sta nei piani?, pubblicato nel Corriere della Sera del 15 aprile 1948; ristampato in
Il buongoverno, cit., Raccolto in P. Solari, Liberismo e Liberalismo, cit., pp. 206-207. Appare così ingiustificata la distinzione fra il Liberalismo e un liberismo, che stenta a “consolidarsi”, ieri come oggi: «È
perfettamente possibile che un regime non liberale né democratico adotti politiche ispirate al laissez faire,
come è stato il caso del Cile di Pinochet, e come è il caso della Cina e del Vietnam; ed è parimenti possibile che regimi ispirati al liberalismo politico adottino politiche economiche non liberali, quale fu il caso del
protezionismo delle democrazie occidentali nel periodo fra le due guerre mondiali. Si tratta però di
contraddizioni episodiche e transitorie che, nella prospettiva storica, conducono alla resa dell’uno o dell’altro
termine della contraddizione: o muore la democrazia, se permane il regime economico autoritario (la Repubblica di Weimar docet) oppure muore il libero scambio se il regime politico resta autoritario (la NEP
della Russia sovietica docet); o, infine, se il regime di libero scambio permane, a soccombere sarà il regime
politico illiberale. Questo – sostiene l’autore – è stato il caso dell’Argentina e del Cile, della Grecia, del Portogallo, della Spagna, e così via, come anche di tutti i regimi comunisti dell’Est europeo»
(http://www.fondazioneluigieinaudi.it/Download/lezione_Scognamiglio_2011.pdf., p. 7).
Il caso della Cina è obiettivamente sui generis: un “corpo liberista” sembra sopravvivere senza un’anima liberale al suo interno. Ma quella cinese è davvero un’economia libera? In molti se lo chiedono, e le risposte
sono tante, a volte diversissime tra di loro. Per l’Europarlamento, ad esempio, l’economia cinese non può dirsi
ancora un’economia libera. Una sua risoluzione del maggio 2016 sottolinea, senza mezze misure, quanto
l’influenza dello Stato incida profondamente sulle dinamiche dell’economia cinese. «Le decisioni – recita la risoluzione – delle imprese in materia di prezzi, costi, produzione e fattori di produzione non rispondono a
segnali di mercato che rispecchiano l'offerta e la domanda»
(http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P8-TA-2016-0223+0+DOC+XML+V0//IT). Vedremo se anche Cina – ma non solo, anche in paesi come il Vietnam, dove
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Einaudi cessa di essere “solo economista” e diventa anche “filosofo”: tratta della libertà
teoreticamente, e del liberismo moralmente. Diventa una figura-ponte, che ci dice molto su cosa
l’economia dovrebbe essere, o ambire a diventare: non scienza “tecnica” ma morale, che tenga conto,
nel formulare le sue ipotesi di ricerca e nel forgiare i suoi strumenti di lavoro, delle esigenze (e dei
limiti) che traspaiono dall’umanità e dalla sua storia. L’economia non è solo analisi; è qualcosa
d’altro, di diverso:
«accanto alle tecniche analitiche, infatti l'economia deve recare in sé una concezione del mondo […] che in quanto tale non può non avere carattere filosofico. L'economista - o almeno il grande economista - è anche
filosofo. Il terreno su cui si misura la capacità dell'economista di essere filosofo è quello della Libertà, concetto
la cui definizione non spetta solo ai filosofi per così dire professionali (come Croce), ma anche agli economisti-filosofi (come […] intendeva essere Einaudi)»37.
Einaudi è convinto che l’economia, come «scienza analitica»38, non può bastare a se stessa; che
l’economia rischia di svuotarsi di ogni dimensione propriamente umana; sa che le occorre lo sguardo
della filosofia per ripensare le sue basi e scoprirsi (finalmente) scienza pratico-morale, e non analisi
astratta dove l’individuo scompare per lasciare spazio al “fatto economico”:
«Non voglio offrire – scrive – una soluzione al problema. Ma il problema esiste. Non noi, che la sentiamo, sì
coloro, che, al par di Benedetto Croce, sanno guardare al fondo delle cose, possono dirci le ragioni per le quali
sentiamo tanta ripugnanza morale a guardare con indifferenza alla scelta fra i vari mezzi economici che ai politici si offrono per promuovere l’elevazione spirituale dei popoli»39.
L’economia dovrebbe essere subordinata alla politica, e non viceversa. È la politica che deve
scegliere l’economia, e non l’economia a determinare la politica. Politica che dovrebbe essere
saggezza, pratica buona di discernimento dei mezzi economici più idonei al soddisfacimento dei
bisogni materiali e delle esigenze morali dei membri della comunità.
5. Per concludere: «non tutto è lecito». L’Economia come scienza morale
A distanza di molti anni, il dibattito Croce-Einaudi dovrebbe essere “rispolverato”, messo in vetrina
e consultato con un occhio di riguardo, perché ci aiuta a capire quanto il liberalismo e il liberismo
sono stati spesso equivocati, fraintesi, schiacciati su coordinate che, a ben guardare, interessano solo
in parte la formazione dei loro rispettivi statuti e le ragioni della loro comparsa nella “storia delle
idee”.
Si è visto, ad esempio, che per il liberista non «tutto è lecito» e non tutto deve essere lecito: ne va
della sua essenza, e del valore scientifico delle sue «ipotesi di ricerca». La crisi finanziaria del 2007-
2008, che ha provocato una più che legittima sfiducia nei confronti della finanza e dei mercati
borsistici, interroga da vicino non solo «la funzionalità dei mercati», ma anche i «principi
la “dinamicità del mercato” si accompagna a una non sporadica negazione dei diritti umani – a una «crescita
dell’economia» corrisponderà, volendo dar ragione a Einaudi, una conseguente «crescita della libertà»
(http://www.fondazioneluigieinaudi.it/Download/lezione_Scognamiglio_2011.pdf., p. 7). 37 R. Faucci, Einaudi, Croce, Rossi: il liberalismo fra scienza economica e filosofia, in Quaderni di storia
dell’economia politica, vol. 7, n. 1 (1989), p. 120. 38 Insomma, «Einaudi […] vede, o intravvede, che nell'economia politica, non si tratta di una scelta quale che
sia, ma di una scelta che deve mirare al migliore impiego dei mezzi limitati». Abbiamo a che fare quindi non soltanto con «un problema di razionalità, ma – in primo luogo – con un problema di fini e di valori: un problema
morale» [R. Melis, Dall’economia alla filosofia dalla filosofia alla politica: appunti sul tema, in «Il Politico»,
vol. 32, n. 1 (marzo 1967), cit., p.87]. 39 L. Einaudi, Le premesse del ragionamento economico, cit., p. 161.
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ordinatori»40 del liberismo; li interroga e li deve interrogare, come Croce e Einaudi hanno interrogato
le ragioni del liberalismo, del liberismo e della loro possibile (o impossibile) compatibilità.
Il loro interrogarsi ci ha dato l’occasione di gettare uno sguardo sulle diverse tradizioni di
pensiero che possono animare lo spirito liberale: liberale è Croce nel rivendicare l’abisso fra spirito
e materia, fra idea ed esperienza. Ma liberale è anche Einaudi, sensibile ai mezzi che possono
consentire al liberalismo di dare corpo e carne ai suoi ideali. La libertà è un’idea “che agisce”, nella
storia, nell’essere umano, nel suo spirito. Il punto è capire come accogliere la sua azione: se attendere
che si dispieghi nel concreto, religiosamente fiduciosi nell’opera dello spirito (Croce); o
accompagnare la sua azione, dando all’idea un suolo materiale sul quale poggiare i piedi e “iniziare
così a camminare” (Einaudi). La libertà è un ideale non traducibile integralmente sul piano giuridico
(e materiale); si pone sempre al di là delle aspirazioni e delle creazioni degli esseri umani. È questo
sia per Croce che per Einaudi. I due divergono nella ricezione della sua azione nella storia: il primo
“attende”, il secondo non aspetta che alla libertà venga impedito d’ispirare le intenzioni, le
deliberazioni e le azioni degli esseri umani, come accade in quei regimi (politici e economici) dove
le condizioni materiali dei più ci parlano di miseria, diritti negati, diversità messe a tacere.
Alle spalle di Croce, come si è detto all’inizio, Vico e Hegel; dietro quelle di Einaudi, la
tradizione dell’empirismo inglese, che il futuro Presidente rielabora e proietta nelle trame del suo
tempo, non così diverso dal nostro: Locke, Hume e Smith, che andrebbe rivisto, e non letto
unicamente sotto la luce accecante della metafora – di innegabile impatto – della mano invisibile del
mercato. Non «tutto è lecito», nemmeno per Adam Smith, dai liberisti di ieri e di oggi visto come
padre nobile, che non così di rado ci si ostina a leggere, ancora oggi, senza “bilanciare” La ricchezza
delle nazioni con La Teoria dei sentimenti morali. L’opera di Smith non è volta unicamente «a
sostenere il primato dell’economia di mercato su ogni altra forma di organizzazione dei sistemi
economici». Cerca anche di trovare un punto di equilibrio fra «il principio fondamentale della libertà
individuale, […] della libera scelta economica […], con il fondamento etico-morale degli individui
stessi (le virtù descritte nella “Teoria dei Sentimenti Morali”)». La libertà del singolo appare così,
nell’opera del pensatore scozzese, limitata dal «rispetto delle libertà altrui», attraverso l’istituzione di
regole (sempre aggiornate) che indirizzino l’azione della mano invisibile verso l’«interesse e il sentire
comune». Non tutti i beni possono essere negoziabili, oggetto di scambi intavolati da individuati
interessati ed egoisti. Il mercato non può produrre tutto, e non lo può fare di certo spontaneamente;
ci sono alcuni beni (pubblici) – come la sicurezza e la giustizia – che sfuggono alla sua orbita e
“scivolano via” dalla sua longa manus41. Smith lo sapeva, ed Einaudi non ne era meno consapevole.
Il rapporto tra l’ordinamento economico e la filosofia della libertà, tra il liberismo e il
liberalismo, non deve essere visto come un rapporto statico, perenne, immutabile. Su questo, non si
può dar torto a Croce: fra i due non si può instaurare un legame «necessario»; necessario è il liberismo
come «strumento», che si è dimostrato storicamente il più adatto a favorire il fiorire e il germogliare
di quelle libertà che vengono ritenute comunemente grandi conquiste del pensiero filosofico e politico
moderno. Senza una «certa dose» di libertà materiale, potremmo dirci davvero liberi di pensare e
agire? Potremmo esercitare, senza ostacoli o intralci, le nostre liberà politiche? Come ieri anche oggi,
pare proprio di no. In attesa di regimi economici «più adatti» di quello liberista, non ci resta allora –
seguendo la lezione di Einaudi – che radicare le condizioni delle nostre libertà nel cuore
dell’economia libera. È chiaro, il mercato tuttavia non può tutto, e la sua mano non può arrivare a
coprire l’intera gamma di beni di cui la società necessita per soddisfare le esigenze morali della
persona. Per questo, se il liberalismo non può “storcere il naso” di fronte a ciò che il liberismo offre
materialmente, un “liberismo non liberale” rischierebbe di perdere di vista il fondamento etico che
solo può fare del mercato un incontro di libertà, e non un luogo di miseria morale, dove tutto è lecito.
Volendo fare un passo nel solco della tradizione dell’economia civile, si potrebbe dire che il
liberalismo al quale dobbiamo guardare, per guadagnare pienamente una dimensione etica
40 Cfr. http://www.fondazioneluigieinaudi.it/Download/lezione_Scognamiglio_2011.pdf. 41 http://www.fondazioneluigieinaudi.it/Download/lezione_Scognamiglio_2011.pdf.
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compatibile con le esigenze morali dell’umanità, non è il liberal-individualismo, ma il liberal-
personalismo: tradizione di pensiero che considera come base oggettiva per l’attribuzione dei diritti
l’intrinseco valore della persona umana42. Non c’è alcun contrasto irriducibile fra Cristianesimo e
Liberalismo, come molti sostengono, o vorrebbero sostenere. Si pensi all’opera dell’economista
tedesco Wilhelm Röpke, fautore della social market economy43, al suo umanesimo liberale, a quanto
scrive in un passo del La crisi sociale del nostro tempo: «il liberalismo non è [...] nella sua essenza
abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale, e soltanto una straordinaria
riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalismo con il libertinismo. Esso
incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre
millenni del pensiero occidentale, l’idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il
senso dell’universalità»44. Oppure, si tenga conto della critica severa che Hayek rivolge al «fiero e
intollerante razionalismo» continentale, che secondo l’economista austriaco ha spinto fuori dal
movimento liberale molte persone «animate da religiosità». Così si esprime Hayek in una relazione
tenuta alla prima conferenza della Mont Pelerin Society45 (aprile 1947): «sono convinto che, se la
frattura tra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non ci sarà alcuna speranza
per la rinascita delle forze liberali. È questa la ragione per cui ho particolarmente desiderato che il
rapporto tra liberalismo e cristianesimo fosse considerato uno degli argomenti a parte della nostra
discussione; e, sebbene non possiamo sperare di andare lontano nell’esame di questo tema in un
singolo convegno, mi sembra essenziale porci il problema»46.
La cultura del libero mercato non deve necessariamente integrarsi con la cosiddetta «cultura
del contratto» e con il paradigma dell’homo oeconomicus47 per trovare una sua legittimazione
scientifica, una sua pensabilità. Il mercato può avocare a sé anche altro: forze morali che lo rendano
capace di “trasformarsi” in luogo e momento di fiducia e reciprocità. Da questo punto di vista, il
pensiero di Antonio Genovesi, punto di riferimento universale per chi si occupa di Economia civile,
si dimostra prezioso e illuminante. Per Genovesi, il mercato è una «faccenda di fides», di fiducia
42 Si veda la voce Liberalismo, a cura di F. Felice, nel Dizionario di economia civile (L. Bruni-S. Zamagni (edd.), Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, pp. 559-560). 43 Scrive Flavio Felice: «Con Ropke, secondo la terminologia che fu di Franz Oppenheimer e in parte di
Ludwig Erhard e in Italia recepita da Luigi Einaudi, la dottrina economico-sociale della Scuola di Friburgo
assunse la collocazione di “terza via”, tra un liberalismo nella versione del laissez faire e il collettivismo socialista». Il liberalismo di Ropke non vieta allo Stato d’intervenire sul piano economico, a patto che il suo
intervento non leda l’autonomia del mercato; così come prevede l’azione della politica per conformare il
sistema economico ai fini dell’organizzazione sociale (F. Felice, http://www.institutoacton.com.ar/articulos/247art030216-b.pdf, p. 165). 44 Cfr. W. Ropke, La crisi sociale del nostro tempo, trad. it. di E. Bassan, Einaudi, Roma 1946 (ed. or.: Die
Gesesellscha krisis der Gegenwart, Eugen Rentsch Verlag, Erlenbach-Zurich 1942), p. 90, citato da Flavio
Felice, cfr. L. Bruni-S. Zamagni (edd.), Dizionario di economia civile, voce Liberalismo. 45 Di cui fecero parte, tra l’altro, Bruno Leoni e lo stesso Einaudi. 46 F. A. von Hayek, Scritti di filosofia, politica ed economia, Rubbettino, Catanzaro 1998, pp. 286-287. 47 Per Stefano Zamagni, «è ingenuo pensare di fondare con successo tutti i tipi di transazione sulla “cultura del contratto”, cioè sul principio dello scambio di equivalenti». Pertanto, o la cultura del contratto s’integra con
quella della reciprocità o a risentirne «è la stessa capacità del sistema di assicurare livelli elevati di benessere»
[S. Zamagni (ed.), Non profit come economia civile, Il Mulino, Bologna 1998, p. 43]. Il paradigma dell’homo oeconomicus appare oramai limitato e incapace di dare risposte convincenti: il suo limite principale, scrive
Luca Crivelli, citando i lavori sul tema di Luigino Bruni e Stefano Zamagni, «è l’approccio esclusivamente
individualista del paradigma neoclassico. La razionalità economica presuppone – infatti –, nell’elaborazione
neoclassica, che un soggetto agisca sempre e comunque per soddisfare più che può i propri obiettivi individuali, qualunque essi siano, senza in questo considerare la situazione di altri soggetti e del tipo di rapporto esistente
nei loro confronti, se non come vincolo alle proprie decisioni». Cfr. L. Crivelli, Quando l’homo oeconomicus
diventa reciprocans, in L. Bruni-V. Pelligra (edd.), Economia come impegno civile. Relazionalità, ben-essere ed Economia di Comunione, Città Nuova, Roma 2002, p. 23.
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pubblica; il mercato è la diretta espressione di un diritto primitivo, quello del mutuo soccorso o della
mutua assistenza:
«Gli uomini – scrive – adunque per natura socievoli e obbligati a soccorrersi reciprocamente, quando si uniscono in vita compagnevole, per patti, espressi, o taciti, si obbligano più strettamente a uno scambievole
soccorso. E di qui è che nelle famiglie e nel corpo civile, ogni membra ha due diritti di essere soccorso dagli
altri; il primo dei quali è quello che gli dà la natura, il secondo quel che nasce da’ patti sociali»48.
E se è vero che lo sviluppo dei mercati è condizione dello sviluppo civile, non bisogna dimenticare
che, per la scuola napoletana (di cui Genovesi è illustre esponente), «la coltivazione della fede
pubblica è la pre-condizione di qualsiasi discorso di sviluppo economico e civile»49.
Come Smith, anche Genovesi si pone a favore della libertà del mercato, e come Einaudi ci
mette in guardia dal rischio monopolistico. La «libertà di trafficare» può essere limitata solo per
ragioni di pubblica utilità. Nelle sue Lezioni di economia civile (1765-1767), scrive:
«Si può paragonare il commercio ad un generoso cavallo, e la sua libertà, al rapido di lui moto. Ogni peso
anche piccolo, che gli si frappone fra i piedi, gli toglie la libertà del camminare; e i pesi anche gravi, che gli si
mettono in sul dorso, purché non superino le di lui forze, non sono da considerare come intoppi. Dunque quelle
cagioni, le quali conferiscono a mantenere in vigore la circolazione e l’attività del traffico, conferiscono eziandio alla sua libertà: e quelle, che ritardano questo moto, la distruggono».
Il commercio non va intralciato. Ciò non significa però che sia libero da «pesi», nel caso la loro
adozione si riveli misura accorta (e necessaria) per instradare e promuovere il «rapido di lui moto».
Da qui, la critica severa a ogni forma di regime monopolistico, che danneggia non solo il tessuto
economico, ma anche – e in primo luogo – la fitta rete di relazioni sociali che animano una comunità.
Si potrebbe dire che, per Genovesi, il monopolio è “diseducativo”. Di certo, contrasta apertamente
con le qualità incarnate dallo spirito del commercio:
«Che non si accordino […] privilegi esclusivi […], quanto monopoli legalizzati: conciossiaché questi privilegi
favoriscano sempre i particolari contro al ben pubblico. Inoltre essi tolgono l’emulazione, e impediscono la perfezione e la dilatazione delle arti; perché niuno si studia di migliorare o dilatare quel che non può esercitare:
e quelli che l’esercitano, e il posseggono, essendo sicuri del lor guadagno pel privilegio esclusivo, non solo
non s’ingegnano di diffondere e migliorare, ma restringono e peggiorano».
Tra Genovesi e Einaudi, verrebbe da dire, si palesa Antonio Rosmini, figura di spicco del
cattolicesimo liberale; nella sua critica radicale del monopolio e nella sua ferrea difesa della libera
concorrenza sembra risuonare l’eco delle Lezioni genovesiane. «La formola che io proporrei – scrive
il filosofo trentino – sarebbe questa: “la società civile mantenga inviolato il principio della libera
concorrenza universale, secondo il diritto di ragione, ed ella eviterà tutte le ingiustizie»50. Per
Rosmini, è preciso dovere (e non solo diritto) di ogni uomo farsi «innanzi col suo ingegno e con la
sua operosità»51. Non solo i monopoli pubblici, ma anche quelli privati meritano così una dura e
netta condanna. Il regime monopolistico, compromettendo il diritto-dovere di ogni uomo di avanzare
nella società con l’aiuto del proprio «ingegno», reca alla società un grande male: rischia di rendere i
cittadini «improduttivi e passivi». Il governo (o lo Stato) non si deve convertire in un’«azienda
48 A. Genovesi, Lezioni di economia civile (1765-1767), capitolo I, ∫ XIX, p. 23, intr. di L. Bruni e S. Zamagni,
testo e nota critica a cura di F. Dal Degan, Vita e Pensiero, Milano 2013. 49 L. Bruni-S. Zamagni, L’economia civile, Il Mulino, Bologna 2015, p. 31. 50 A. Rosmini, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, CEDAM, Padova 1967, 2271, p. 1472 (vol. VI),
citato da M. Baldini, Il liberalismo, Dio e il mercato, Armando, Roma 2001, p. 21. 51 Ibid., pp. 1430-1431 (vol. V), citato da M. Baldini, op. cit., p. 21.
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mercantile o industriale»52; il fine della istituzione è rivolto alla protezione della libertà dei singoli;
deve cioè garantire la libertà di commercio, non entrando esso stesso in concorrenza.
Rosmini ed Einaudi seguono la strada percorsa da Genovesi: il monopolio ha un impatto
sociale (e morale) enorme; paralizza le risorse e la creatività di coloro posti al di fuori dell’alveo dei
suoi «privilegi esclusivi»; e deprime così l’avanzamento nelle «arti» e il «gusto per i mestieri»53. In
questo, Genovesi non pare divergere dalla tradizione dell’empirismo inglese e dal liberalismo classico
(di Smith come di Stuart Mill). A dividerli un diverso valore attribuito alla sfera privata e alla
dimensione pubblica, che rinvia a radici piantate su terreni ben diversi: mentre nei paesi di lingua
inglese l’accento era posto sulla ricerca (individuale) della felicità, in Italia (non solo a Napoli, ma
anche a Milano, a Venezia) la preoccupazione degli economisti era di trovare la giusta ricetta per la
felicità pubblica. Genovesi (ma non solo54) la trovò andando a sfogliare i libri dell’antichità (in primo
luogo, Aristotele) e arrivò alla conclusione che la felicità si può guadagnare solo coltivando le virtù:
«la felicità è dopo le virtù, poiché ne è il loro senso e pieno compimento». L’aggettivo “civile” ci
dice però che gli economisti, che trovano nell’opera di Genovesi un solido punto di riferimento,
vogliono andare oltre il pensiero degli antichi greci: desiderano cioè lasciare la casa (l’oíkos), le mura
della città (pólis), per approdare ai popoli e alle nazioni, volendosi occupare della loro ricchezza e
della loro felicità55.
Liberalismo, liberismo, economia, mercato, capitale, lavoro: parole che dividono unendo, e
uniscono dividendo; che tracciano il profilo di tradizioni, correnti, personalità, opere, e dei loro
avversari, antagonisti, ideali e storici. Il confronto tra Croce ed Einaudi, le pagine di Smith, i
“rimproveri” di Hayek, il fiume carsico dell’Economia civile riemerso con vigore negli ultimi anni,
ci dicono di un rapporto essenziale tra Economia e Filosofia, tra idea e storia, tra morale e politica.
“Chi pensa” non può lasciare solo “chi agisce”, e l’azione non può essere mai svincolata dalla “fatica
del pensiero”. L’economia formula ipotesi che vorrebbero avere un’incidenza concreta sulla realtà
economica e sociale; la filosofia ha il compito di valutarne la sostenibilità etica e morale, di filtrarle
sotto luce delle imperfezioni che contraddistinguono la condizione umana, essendo ascoltata e
mettendosi in ascolto del concreto di problemi che solo “chi agisce” può incontrare sulla propria
strada. L’incontro tra Economia e Filosofia in passato si è sempre consumato, con differenti gradi di
consapevolezza. Poi, è venuto il tempo delle grandi specializzazioni e delle ristrette visioni del
mondo, dell’essere umano, e del suo “destino”. Le due discipline hanno smesso di parlarsi, e il loro
silenzio si è sentito echeggiare nelle scuole, nelle aule universitarie, nei luoghi della politica. Oggi,
devono tornare di nuovo a incontrarsi; e non per evitare che nuove crisi economiche e sociali si
ripetano (impresa destinata al fallimento), ma per scongiurare il rischio che il loro senso torni a
sfuggirci, per non rimanere più ciechi al «fondo delle cose».
Riccardo Rezzesi
SOMMARIO
Per circa vent’anni, Benedetto Croce e Luigi Einaudi dibatterono; e dibatterono senza risparmiarsi, convinti
sostenitori di tesi vicine per sensibilità politica, ma lontane sul piano della loro resa morale e filosofica. Al
centro del dibattito, lo statuto da accordare al liberismo: principio o regola? Per Croce, la sfera morale non può (e non deve) essere confusa con quella economica; il liberismo è regola empirica, priva in sé di ordinamento
ideale: il liberalismo deve essere distinto dal liberismo. Per Einaudi, la libertà spirituale può essere coltivata
solo tra fila di una società (materialmente) libera: al liberismo va così riconosciuto un (certo) valore morale.
52 A. Rosmini, La Costituzione secondo la giustizia sociale, in Id., Progetti di costituzione, a cura di C. Gray,
Bocca, Milano 1952, p. 143, citato sempre da M. Baldini, op. cit., p. 22. 53 Cfr. A. Genovesi, Lezioni di economia civile, cit., capitolo XVII, pp. 184-186. 54 Si pensi a Giacinto Dragonetti e al suo trattato Delle virtù e de’ premj (1768). Nel 2012, Carocci pubblica
una nuova edizione del Trattato di Dragonetti (a cura di M. Giovannetti, con prefazione di S. Zamagni). 55 Cfr. L. Bruni-S. Zamagni, L’economia civile, cit., pp. 32-34.
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Nel ricostruire il dibattito, l’articolo sfocia su una questione nodale: l’economia è una scienza morale? Per
tentare una riposta, l’economia e la filosofia devono tornare a incontrarsi, misurandosi in un dialogo serrato.
SUMMARY
For nearly 20 years, Benedetto Croce and Luigi Einaudi debated, didn’t hold back. They supported positions close as regards political awareness, but far for moral and philosophical rendering. The subject of debate was
the status to be given to liberismo: principle or rule? According to Croce, the moral sphere cannot be confused
whit economics one; liberismo is just an empirical rule: liberalism must be distinguished from laissez-faire
rules (liberismo). According to Einaudi, the spiritual freedom can be cultivated only where it is based on the exercise of economic freedom: this means that a certain moral value must be accorded to liberismo. In
reconstructing the debate, the paper opens the way to very key question: economics as a moral science? In an
attempt to answer, economy and philosophy need to move back to find each other in an intensive dialogue.
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VII. Alle radici della responsabilità: l’imputabilità morale
di Giacomo Samek Lodovici
Lo scopo del presente contributo è risalire alle radici della responsabilità, focalizzando (senza la minima
pretesa di completezza) alcune condizioni, alcuni lineamenti e alcune conseguenze dell’imputabilità
morale, che informa le nostre azioni ed omissioni, su cui pure, pertanto, bisognerà fare qualche breve
delucidazione. La questione dell’imputabilità rende opportuno partire da alcuni cenni sulla libertà e ci
porterà poi ad analizzare anche le principali declinazioni della coscienza (certa/dubbia, vera/erronea,
erroneamente vincibile/invincibile, colpevole/incolpevole, ecc.) e a provare inoltre a chiarire se si debba
o non si debba sempre seguire la propria coscienza, anche quando è erronea.
1. Cenni preliminari sulla libertà radicale
Prendiamo dunque avvio da alcuni cenni sulla libertà. L’essere umano non risponde in modo
necessitato agli stimoli che subisce ed è capace di non assecondare i propri istinti: per questa ragione
Scheler dice che, «paragonato all’animale, […] l’uomo è colui che sa dir di no, l’asceta della vita»1.
Egli è in grado di scegliere un’azione (o un’omissione) al posto di un’altra: invece di comportarsi
come la tessera di un domino che riceve un movimento e che lo ritrasmette, invece di rispondere
automaticamente ad uno stimolo, invece che reagire necessariamente alle sollecitazioni che riceve,
invece che essere un’entità che si limita a prolungare-trasmettere necessariamente ad un’altra entità
un dinamismo/processo/impulso/movimento fisico-biologico che gli arriva dall’esterno (da un’altra
entità) o dal suo interno (istinti, pulsioni, ecc.), è capace di interromperli e di iniziare nuovi processi,
dinamismi, attività, è capace di iniziare qualcosa di nuovo, cioè le sue azioni. Come dice la Arendt,
«Agire […] significa prendere un’iniziativa, incominciare», e la comparsa dell’uomo sulla scena del
mondo «non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore», cosicché «da lui
ci si può aspettare l’inaspettato»2.
Alla radice dell’umana capacità di introdurre il novum, di interrompere la necessità astronomica,
fisica, biologica, istintuale, ecc., si trova la libertà (senza ovviamente negare l’esistenza di condizionamenti
biologici, sociali, culturali, ecc., i quali, però, non sono totali3), nelle sue varie declinazioni (sulle quali non
ci soffermiamo), in particolare in quella sua dimensione fondativa e radicale in forza della quale la volontà
stessa può decidere di «velle, nolle e non velle»4, palesandosi come causa sui, non in senso entitativo5
1 M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, trad. it. Armando, Roma 1997, p. 159. 2 H. Arendt, Vita activa, trad. it. Bompiani, Milano 1958, pp. 187-188. 3 Non conosco argomenti stringenti per dimostrare l’esistenza della libertà, ma ritengo che sia possibile discutere
con una certa efficacia i determinismi (cfr., solo a titolo di esempio: R. Spaemann, Personen. Versuche über den Unterschied zwischen “etwas“ und “jemand”, J.G. Cotta'sche Buchandlund, Stuttgart 1996, trad. it. Persone. Sulla
differenza tra qualcosa e qualcuno, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 190-213; T. O’Connor, Persons and Causes. The
Metaphysics of Free Will, Oxford University Press, New York-Oxford 2000), in particolare le loro premesse. Peral-tro, i determinismi hanno l’onere di confutare convincentemente l’auto-esperienza della libertà che noi facciamo,
dimostrando che si tratterebbe di un inganno di cui siamo vittime. Come dice Kant, è indicativa l’esperienza di quel
Faktum der Vernunft che è l’esperienza del dovere, il quale è particolarmente evidenziato dall’esperienza del rimor-so esperito verso una propria pregressa colpa morale: il (vero) senso del dovere di fare X presuppone il potere-liber-tà di
farlo, cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. Bompiani, Milano 2000, I, I, I, pp. 85-87 e I, I, III, p. 163-165. 4 C. Fabro, Riflessioni sulla libertà, Maggioli, Rimini 2004, p. 34. 5 È impossibile che una cosa possa essere causa sui in senso entitativo, perché dovrebbe esistere e simultaneamente non esistere: dovrebbe esistere per poter causare il proprio cominciare ad essere e dovrebbe non esistere per poter cominciare
ad essere. Chi deplorasse di non aver potuto dare inizio a se stesso potrà dire con Sarte che «l’uomo è condannato ad
essere libero. Condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile», J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, trad. it. Armando, Roma 2006, p. 54.
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(dunque con Pareyson possiamo dire che l’uomo è «iniziativa iniziata»6), bensì operativo: può cioè
autodeterminarsi, cosicché il suo atto volitivo procede dalla sua stessa iniziativa. Ed è in questo significato
che Fabro riprende il concetto di Kierkegaard, il quale afferma che l’uomo «si rapporta a se stesso»7.
Ora, questo «scegliere di scegliere»8, questo «volere di volere»9 che non ha ancora un oggetto
particolare10 (quale che sia), talvolta questo «scegliere di non scegliere»11 (col risultato, non voluto, di
lasciarsi dunque manovrare dagli altri e dagli eventi12), è appunto la libertà radicale, che fonda tutte le
altre forme della libertà: libertà di scelta di un’azione o di un’omissione, libertà di esecuzione, libertà di
espressione, libertà di iniziativa, libertà politica, economica, religiosa, ecc.13.
Tale dimensione della libertà si coglie specialmente focalizzando il soggetto a cui essa manca,
almeno in parte: è il caso del depresso, a cui manca (o quasi) la capacità di volere, tanto che bisogna
spronarlo proprio a ricominciare ad essere volitivo, prima ancora che a scegliere l’azione X o l’azione
Y, ecc. Ora, la libertà è una delle condizioni imprescindibili dell’imputabilità morale nonché delle
azioni intese in senso stretto: così, adesso, proseguendo l’analisi dal punto di vista antropologico ma
aggiungendo anche quella dal punto di vista etico, passo alla considerazione (solo parziale e non
esaustiva: si noti bene) appunto delle azioni e anche delle omissioni per poi procedere a riflettere sulle
condizioni dell’imputabilità in senso etico (farò solo dei cenni circa quella giuridica).
2. Azioni e omissioni
Tanto per incominciare, l’imputabilità morale concerne non solo le nostre azioni, ma anche le nostre
omissioni. Ora, un’azione può essere definita come un evento di cui l’essere razionale e libero (quale che
esso sia) è non solo la causa14, ma anche il soggetto consapevole e volontario-libero15.
6 L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 15-17. 7 S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Id., Opere, trad. it. Firenze, Sansoni 1972, p. 625. 8 C. Fabro, Essere e libertà, Dispensa del corso di Filosofia teoretica 1966-67, Università degli studi di Perugia, pro manuscripto, Perugia 1966-67, p. 20 e p. 87. 9 Peraltro, nel voler volere non si retrocede all’infinito: alla base c’è il desiderio trascendentale (il desiderio di
un bene infinito) che non è a disposizione del soggetto, cfr. G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 89-110. 10 C. Fabro, Essere e libertà, p. 37. 11 C. Fabro, L’io e l’esistenza. E altri brevi scritti, Edusc, Roma 2006, p. 162. 12 Talvolta invece questo risultato è da noi voluto, quando cioè volutamente scegliamo di essere guidati da altri. 13 Cfr. anche F. Botturi, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale, Vita e Pensiero, Milano
2009, pp. 125-161 e a P. Pagani, Tommaso: la libertà della differenza, in C. Vigna (a cura di), La libertà del
bene, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 147-187. 14 Nel vasto dibattito sulla teoria dell’azione, per una fondazione dell’impostazione seguita in questo articolo,
cfr. M. Rhonheimer, The Moral Object of human Acts and the Role of Reason According to Aquinas. A
Restatement and Defense of My View, in Josephinum Journal of Theology, 18 (2011), 2, pp. 404-506, reperibile
anche on line http://www.pcj.edu/journal/essays/18-2%20Rhonheimer.pdf e Id., The Perspective of Morality Revisited. Response to Steven J. Jensen, in American Catholic Philosophical Quarterly, 87 (2013), 1, pp. 165-
196. (Mutatis mutandis cfr. anche E. Runggaldier, Was sind die Handlungen? Eine philosophische Ause-
inandersetzung mit dem Naturalismus, W. Kohlammer GmH, Stuttgart-Berlin-Köln 1996, trad. it. Che cosa sono le azioni? Un confronto filosofico con il naturalismo, Vita e Pensiero, Milano 2000 e S. Brock, Action
and Conduct. Thomas Aquinas and the Theory of Action, T&T Clark Ltd, Edinburgh 1998, trad. it. Azione e
condotta. Tommaso d’Aquino e la teoria dell’azione, Edusc, Roma 2002). Sulla connessione che sussiste, in qualche modo, tra le azioni di un soggetto che si susseguono l’una all’altra, cfr. A. MacIntyre, After Virtue. A
Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1981, 19842, trad. it. Dopo la virtù.
Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 244-258. Una prasseologia simile è anche quella di
Jeremy Bentham: cfr. G. Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequen-zialismo, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 41-58. 15 Qui di seguito intenderò il «volontario» come sinonimo di voluto e anche libero, anche se, a rigore, la volontà
non elicita liberamente qualsiasi volizione: la volontà non può non volere il bene infinito (almeno nella sua formalità, prima della sua identificazione concreta). In più ci sono cose intensamente volute per influsso di
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Perciò non sono azioni i seguenti eventi:
- né la caduta della pioggia, né lo scatenarsi di un terremoto, perché essi sono sì degli eventi, ma non
sono compiuti da un essere razionale;
- né il muoversi di una palla da me colpita, perché il suo muoversi è un evento che ha sì me come
causa, ma non come soggetto (piuttosto, la mia azione è «colpire»);
- né un movimento irriflesso della mia mano o il battito irriflesso di un mio ciglio, perché io ne sono
la causa, ma non ne sono consapevole (almeno finché non scelgo di muovere la mano e di sbattere le
ciglia);
- né la mia consapevole crescita fisiologica dei capelli, indipendente dal mio volerla/non volerla; né
il mio scivolare, consapevolmente ma mio malgrado, contro la mia volontà, lungo un pendio
ghiacciato; né il mio consapevole ma non voluto processo di invecchiamento; né il mio consapevole
ma involontario urtare X perché sono stato spinto da Y.
Insomma, un’azione si distingue sia dai miei accadimenti organici (le attività del mio
metabolismo, ecc.), sia da quelli irriflessi-istintivi (dondolare il piede, sbattere le palpebre, ecc.), e in
generale dagli eventi che produco involontariamente.
In effetti, per riconnetterci al tema, sopra accennato, della libertà, il volo è «l’atto di tutti gli atti»16,
perché attua ogni azione che possa essere propriamente chiamata tale e distinta appunto da un evento
che pur coinvolge un essere umano.
Ora, un’azione può essere interiore al soggetto, come accade con gli atti intellettivi o volitivi,
oppure esteriore-corporea, quando io agisco in un modo che comporta l’intervento del mio corpo.
In questo secondo caso, l’evento che ha me come causa è un’azione solo se il mio movimento fisico-
corporeo presuppone anche un mio atto intellettivo (o più di uno) e se incorpora un mio atto volitivo
(o più di uno).
Quanto alle omissioni, senza voler partecipare al dibattito sulla loro definizione in generale,
basti qui dire che un’omissione che può essere moralmente biasimata è l’astensione da un’azione che
siamo in grado di fare e che dobbiamo fare17 (compio un’omissione se non soccorro mio figlio ferito,
perché posso e devo farlo; non la compio se sono svenuto, perché non sono in grado di soccorrerlo;
non compio un’omissione se da studente di lingue non studio anatomia, perché posso, ma non devo
farlo, ma la compio se sono uno studente di medicina, perché devo farlo).
Ebbene, imputare significa ascrivere, attribuire un’azione/un’omissione ad un uomo quale suo
autore, così l’imputabilità morale è la qualità di quell’azione/omissione buona18/malvagia di cui
siamo autori consapevoli e volontari (o anche inconsapevoli e involontari nel caso di certe omissioni,
che nondimeno sono imputabili perché l’inconsapevolezza e l’involontarietà vengono da noi
provocate nei modi che stiamo per vedere nei prossimi paragrafi).
3. Le condizioni dell’imputabilità morale di un atto
L’imputabilità morale dei nostri atti è la condizione di possibilità della loro bontà o malvagità e del
nostro essere (più o meno, in modo maggiore o minore) lodevoli o deplorevoli. Quanto più
un’azione/omissione è imputabile, tanto più può essere buona/malvagia19 (anche se non lo è solo per
desideri violenti, ma che, proprio per questo influsso, sono volute assai poco liberamente. Inoltre, alcuni autori
(per es. già Aristotele, Etica Nicomachea, 1111a 20-35) impiegano il termine «volontario», diversamente da
noi, per designare un atto che è conosciuto dal suo autore e inoltre è meramente «non soggetto a violenza» e che può essere libero ma anche non libero. 16 C. Fabro, L’io e l’esistenza, cit., p. 89. 17 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 6, a. 3 e q. 71, a. 5. Alcune precisazioni in J. De Finance, Éthique
Générale, Presses de l’Université Grégorienne, Roma 1967, trad. it. Etica generale, Edizioni del Circito, Bari 1967, pp. 41-44. 18 Possono essere buone non solo le azioni, ma anche le omissioni, per esempio quando noi omettiamo di fare
delle azioni cattive che ci si prospettano fattibili, vantaggiose, piacevoli. 19 Può essere buona/malvagia in rapporto agli elementi-costitutivi del bene/male morale, quali che essi siano.
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la sua imputabilità), quanto meno è imputabile, tanto meno può essere buona/malvagia (anche se non
lo è solo per la sua ridotta imputabilità).
Le condizioni dell’imputabilità morale di un atto sono la volontarietà e la consapevolezza. Un
evento o un movimento fisico-corporeo di cui sono causa, ma che produco in assenza di volontarietà,
non è propriamente un’azione e non è moralmente imputabile (vengo spinto da X e, cadendo mio
malgrado, colpisco involontariamente Y; cfr. gli esempi fatti sopra al § 2: il battito irriflesso di un
mio ciglio, la crescita dei capelli, lo scivolare, ecc.); non è imputabile a meno che la mancanza di
volontarietà sia causata da un’ignoranza colpevole, di cui dobbiamo parlare al § 5 (per esempio,
investo un pedone senza volerlo minimamente e senza accorgermene, senza alcuna consapevolezza,
perché mi sono ubriacato).
Un evento o un movimento fisico-corporeo che da me scaturisce ma in assenza di
consapevolezza-avvertenza, cioè che non è consapevole, che è caratterizzato dall’ignoranza, in certi
casi può essere moralmente imputabile, in altri non è moralmente imputabile, anche quando la mia
volontà è intervenuta nel provocarlo. Vedremo quali sono questi casi nel prossimo paragrafo.
Prima però accenniamo al fatto che la mera consapevolezza che un soggetto possiede di essere
la causa di X non implica per forza la sua volontarietà nel causare-provocare X: può infatti esserci
consapevolezza di provocare X senza volontarietà di farlo20.
4. Oggetto dell’ignoranza
Abbiamo già detto che l’imputabilità morale è correlata anche alla consapevolezza o
all’inconsapevolezza-ignoranza che caratterizzano la coscienza dell’autore di un’azione o di
un’omissione.
A questo proposito, accenniamo alla nozione stessa di coscienza, che qui di seguito
intendiamo quale sinonimo della ragion pratica quando valuta l’identità e le circostanze di un’azione
ed emette un atto interiore (corretto/errato21, nitido/confuso, certo/incerto, ecc.) di giudizio morale
(accompagnato e seguito da sentimenti di serenità, rimorso, soddisfazione, insicurezza, ecc., ma non
coincidente con essi), esprimendosi circa il bene/male di un’azione che un soggetto valuta se
compiere o che sta già compiendo o che ha già compiuto22. Quando si parla di «voce della coscienza»
20 Per riprendere alcuni esempi già fatti e aggiungendone altri: sono consapevole che sto invecchiando, ma non
lo voglio; sono gravemente malato e immobilizzato e sono consapevole che sto contagiando i pazienti che sono stati messi vicino a me in ospedale, nonostante che io abbia recriminato per questo, dato che so di essere
molto infettivo; mi rendo conto che il mio peso mi sta facendo sprofondare, mio malgrado, nelle sabbie mobili;
mi rendo conto che il mio peso sta facendo precipitare un ascensore di cui ha finito per spezzare una fune; sto fuggendo da un luogo dove sono stato tenuto prigioniero e, mentre attraverso una porta, sono consapevole che
sto facendo scattare un allarme, cosicché ciò accade assolutamente contro la mia volontà, in quanto far scattare
l’allarme è proprio l’opposto di ciò che voglio. Si potrebbero aggiungere vari esempi di casi di voluntarium
indirectum, sulla cui nozione ed esistenza (contestata dal consequenzialismo) cfr. G. Samek Lodovici, L’utilità del bene, cit., pp. 149-152. 21 Per delle argomentazioni circa la possibilità che la coscienza cada in errore e per una disamina di alcune
concezioni circa la coscienza stessa cfr. G. Samek Lodovici, La coscienza può autorizzare deroghe alle norme?, in Anthropotes, 31 (2015), pp. 507-523. 22 Secondo alcuni eticisti, la coscienza giudica solo le azioni doverose future e passate, mentre quelle presenti
e non doverose appartengono alla sfera di competenza della phronesis, cfr. S. Pinckaers, Coscienza, verità e prudenza, in G. Borgonovo (a cura di), La coscienza, LEV, Città del Vaticano 1996, pp. 137-139; qui non ci
interessa esaminare queste distinzioni di competenza.
Interessante notare che la valutazione, a posteriori, della coscienza sui suoi atti passati, era già in uso presso
alcuni degli antichi, come esame di coscienza. Per esempio cfr. Seneca, De ira, 3, 36-37, che riferisce di aver appreso la pratica dal filosofo Sestio. Altri esempi in P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique,
Études Augustiniennes, Paris 1987, trad. it. Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005. Non
possiamo qui soffermarci sull’interpretazione di alcuni dei testi antichi segnalati da Hadot fatta, con alcuni distinguo, da M. Foucault in vari luoghi.
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a volte il termine coscienza designa la ragione umana quale principio di questi atti interiori di giudizio
morale, a volte designa la «voce» stessa, cioè il giudizio pronunciato dalla ragione.
Adesso aggiungiamo che, relativamente a quanto è eticamente rilevante (non consideriamo
altri e svariati oggetti di consapevolezza/inconsapevolezza), l’ignoranza può riguardare: a) l’identità,
gli elementi e le circostanze di un’azione già compiuta, o che si sta compiendo o che si sta per
compiere (per esempio, sposo mia madre come Edipo senza sapere che è mia madre o sposo mia
sorella senza sapere che è mia sorella, dato che alla nascita siamo stati dati in adozione a due famiglie
diverse23; non mi rendo conto che sto investendo un pedone perché sono ubriaco o pazzo; non
comprendo che sto acquistando una cosa rubata);
b) la moralità di un’azione già compiuta, o che si sta compiendo o che si sta per compiere (per
esempio, acquisto cose rubate e credo che non ci sia niente di male; reputo che la vendetta sia
eticamente giustificabile).
5. Tipi di ignoranza24
Ciò detto, aggiungiamo che l’ignoranza può essere di almeno quattro tipi, che in certi casi si
congiungono tra loro (in quanto segue mi ispiro da vicino a Tommaso d’Aquino25, talvolta facendo
degli approfondimenti o dei distinguo).
I) Ignoranza vincibile e accompagnata da dubbi, cioè quella condizione di erroneità della
coscienza che si verifica quando il soggetto, circa l’identità di un’azione (e circa i suoi elementi e
circostanze) e/o la sua moralità, è in errore ma non è del tutto certo-sicuro della sua convinzione
erronea, è in qualche misura incerto, ha anche un sentore diverso, avverte dei dubbi ed è inoltre
almeno parzialmente in grado (nella situazione concreta), in qualche modo, di emanciparsi
dall’ignoranza, di dissiparla.
II) Ignoranza invincibile, che è due tipi:
1. ignoranza invincibile non accompagnata da dubbi, cioè quella condizione di erroneità della
coscienza che domina il soggetto a tal punto da non lasciargli (hic et nunc, nella situazione concreta)
alcuna possibilità di diventarne consapevole26 e perciò in seguito di dissiparla, quella che si verifica
quando il soggetto è totalmente certo-sicuro, ma in errore, circa l’identità (e i suoi elementi e
circostanze) e/o la moralità di un’azione, quando non ha alcun dubbio.
Tale erroneità invincibile talvolta può concernere anche un soggetto che inizialmente era in
dubbio circa l’identità (nonché gli elementi e circostanze) e/o la moralità di un’azione e perciò si è
impegnato a raggiungere una certezza (attraverso letture, magari anche consultando persone sagge,
ecc.), ma nondimeno è pervenuto ad una conclusione errata;
2.27 ignoranza invincibile accompagnata da dubbi, cioè quella condizione di erroneità della coscienza
che si verifica quando il soggetto è sì in dubbio circa la correttezza delle proprie conoscenze-
convinzioni (su identità, elementi, circostanze e moralità di un’azione) o è addirittura consapevole di
23 Oggigiorno sposare una sorellastra o un fratellastro biologici senza saperlo non è del tutto improbabile se si
pensa che alcuni produttori di seme maschile che restano anonimi lo forniscono per decine e decine
fecondazioni artificiali eterologhe, e sono diventati padri anche di 50, 100 o 150 (sic) figli; cfr. J. Mroz, Vivere con 150 fratelli. Così dalla provetta nasce la maxi-famiglia, in la Repubblica, 7 settembre 2011, p. 21,
reperibile on line. 24 Il presente paragrafo e quello successivo mostrano che la questione etica dell’imputabilità è connessa (pur non essendo ad essa ridotta) anche alla situazione empirico-psicologica del soggetto agente. 25 Cfr., per esempio: Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 6, q. 19, aa. 5-6, q. 71, aa. 5-6, q. 73, aa. 6-7, qq.
76 e 77; Id., De Malo, q. 3, a. 8; J. De Finance, Etica generale, cit., pp. 360-385; A. Léonard, Le fondement de
la morale. Essai d’éthique philosophique, Les Éditions du Cerf, Paris 1991, trad. it. Il fondamento della morale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, pp. 263-271; A. Rodriguez Luño, Etica general, Eunsa, Pamplona
1991, trad. it. Etica, Le Monnier, Firenze 1992, pp. 150-154, 246-253. 26 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 76, a. 2. 27 A mia conoscenza Tommaso non menziona esplicitamente questa seconda forma di ignoranza invincibile.
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essere ignorante, ma non è in grado, nel lasso di tempo entro cui sarebbe necessario, di fugare la sua
ignoranza (per esempio, perché ci vorrebbe molto tempo per acquisire le conoscenze necessarie a
salvare hic et nunc, tramite un intervento chirurgico, una vita umana in pericolo imminente di morte
o perché il soggetto si trova in una località dove gli è impossibile acquisire le conoscenze necessarie
per praticare, per esempio, un massaggio cardiaco).
III) Ignoranza colpevole, cioè quella forma di erroneità della coscienza che è/era possibile e
anche doveroso28 rimuovere (nei modi e nei tempi possibili), cosicché essa scaturisce da una colpa,
in quanto, nei casi di cui stiamo parlando, «dipende [o dipendeva] dagli interessati il non essere
ignoranti»29, come dice Aristotele.
Può essere di tre tipi, che sono i seguenti30.
1. Ignoranza voluta, quando (poiché non voglio avere remore morali e voglio potermi comportare
in un certo modo senza avvertire scrupoli morali) scelgo di non sapere, e talvolta voglio finanche
autoingannarmi e/o voglio farmi soverchiare dalle emozioni-passioni31 o dagli istinti, perché non
voglio sapere32:
a) l’identità (e gli altri elementi particolari e circostanze) dell’azione che sto compiendo, cioè scelgo
di non sapere quale atto io stia compiendo e i suoi elementi e circostanze33;
b) qual è la moralità dell’atto, cioè scelgo di non sapere se l’atto che sto compiendo, di cui comprendo
l’identità e gli altri elementi, è moralmente buono/cattivo34.
Quanto all’autoinganno, esso non è un processo istantaneo, bensì è il risultato di una sorta di dialogo
interiore della coscienza con se stessa, durante il quale la volontà sprona la coscienza a cercare delle
giustificazioni per poter compiere un’azione cattiva, durante il quale la volontà vuole oscurare le
ragioni per non compierlo e vuole dare invece sempre più peso alle ragioni per compierlo, rendendole
infine preponderanti.
In effetti, con la nostra volontà noi siamo in grado persino di negare a noi stessi un’evidenza,
distogliendo l’attenzione dell’intelletto da essa e inoltre dicendo a noi stessi che siamo vittime di
un’autosuggestione.
Questo è possibile perché, a monte, «intelligo enim quia volo et utor omnibus potentiis et
habitus quia volo»35, per esempio «studio questo o quello quia volo» e «sto attento quia volo»36:
l’intelletto presenta o prefigura alla volontà degli oggetti che le risultano attraenti, respingenti,
indifferenti e degli atti da compiere/omettere, ma è la volontà che sceglie di esercitare tutti gli atti, di
compiere tutte le azioni, comprese le azioni dell’intelletto. Così, come abbiamo anticipato al § 2, il
28 Se un certo X è doveroso è perciò stesso anche possibile-realizzabile: abbiamo già rilevato (alla nota 3), con
Kant, che il (vero) dovere di fare X presuppone il potere di farlo. 29 Aristotele, Etica Nicomachea, 1114a 2-3. 30 Su questa tripartizione seguiamo J. De Finance, Etica generale, cit., pp. 363-364 e Tommaso, De Malo, q.
3, a. 8. In qualche misura cfr. già Aristotele, Etica Nicomachea, 1110-1111b 3, 1113b 30-35-1114b 3, 1135a
5-9. 31 Peraltro, in G. Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, Vita e Pensiero, Milano 2010,
specialmente pp. 49-57, ho rimarcato che le emozioni e le passioni possono anche svolgere un ruolo
decisamente prezioso nella vita moralmente buona. 32 Fatte le debite distinzioni (soprattutto sulle premesse ontologiche), anche Hegel parla della coscienza che
vuole ingannare se stessa, ipocritamente affermando a se stessa la bontà di un’azione che essa inizialmente sa
essere cattiva, G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 140. 33 Non controllo se i libri della mia biblioteca mi appartengano per non doverli restituire, cioè non verifico se
l’atto che sto compiendo, tenendoli per me, sia un furto; non controllo se l’automobile che sto comprando sia
rubata, per non sapere se l’atto che sto compiendo sia ricettazione. 34 Per esempio, scelgo di non sapere se un atto di ricettazione sia moralmente buono/cattivo; mi rifiuto di cercare di capire se scaricare film dal web sia buono/sbagliato e, nel secondo caso, in quali casi lo sia. 35 Tommaso, De Malo, q. 6. 36 C. Fabro, L’uomo e Dio. Ristrutturazione antropologica dell'insegnamento filosofico, in Sapientia, 22 (1969), p. 310.
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volo è l’atto di tutti gli atti perché attua ogni azione che possa essere propriamente chiamata tale
(distinta cioè da un evento che pur coinvolge un essere umano)37.
Quanto al volersi fare soverchiare dalle emozioni e/o dagli istinti, il processo è, sovente, il
seguente: se alla volontà «non piace ciò che l’uomo ha conosciuto» (con la ragione-intelletto) come
buono e doveroso, non ne risulta sempre «che la volontà si metta subito a fare il contrario»38:
piuttosto, «la volontà lascia passare un po’ di tempo» tralasciando di fare ciò che a quel soggetto
risulta essere sì doveroso ma spiacevole, e, così, progressivamente, «l’intelletto si oscura sempre di
più e [per esempio] gli istinti più bassi prendono sempre più il sopravvento», finché, quando «la
conoscenza è divenuta abbastanza oscura, allora la conoscenza [la coscienza] e la volontà possono
intendersi meglio» e, infine, «vanno completamente d’accordo» attraverso una simbiosi di
compromesso e di complicità scambievole.
Per quanto detto, il bene, quando è doveroso, quando inoltre è spiacevole e costa fatica,
bisognerebbe «farlo subito, appena conosciuto»39, appena possibile40, senza lasciar tempo alla
volontà di escogitare i suoi sotterfugi41.
Ancora, per cercare di evitare l’errore della coscienza (onde conseguire il bene), se è vero che
non c’è un metodo indefettibile, bisogna però ascoltare nel modo più ‘coscienzioso’ possibile la
coscienza e non tacitarla ed essere disposti a sottoporne il convincimento all’esame di persone sagge
37 È vero che ci capita di subire passivamente il fantasticare, il ricordare, il percepire, ecc. o di essere costretti
dalla violenza altrui a vedere, a percepire, ecc. nostro malgrado e/o senza il coinvolgimento della volontà; ma
questi accadimenti non sono pienamente atti, piuttosto sono eventi che ci accadono, perlomeno finché non vi
acconsentiamo (almeno minimamente, come nel caso delle azioni miste di cui parla Aristotele, Etica Nicomachea, 1110a 1-19).
Si può però obbiettare a Fabro che noi acquisiamo almeno alcune conoscenze senza un previo concorso della
volontà, bensì meramente solo come effetto dell’impatto della realtà su di noi, quando alcuni stimoli dei sensi producono automaticamente nella nostra mente dei contenuti mentali. Sennonché, l’aver in mente un contenuto
mentale (quello relativo a una “casa”, a un “albero”, a una “pietra”, a un “triangolo”) a partire dai referti dei
sensi non è ancora l’acquisizione di una vera e propria conoscenza finché questo contenuto mentale non diventa un elemento costitutivo di un giudizio (per esempio: «questa cosa è una casa/una chimera/un triangolo, ecc.»,
«la casa è», «la casa non è», «la casa è gialla», «la casa non è gialla», «il triangolo è una figura con tre angoli»,
ecc.) circa il mondo reale, mentale o possibile. Ora, la formulazione di un giudizio sembra richiedere
previamente un assenso al suo contenuto da parte della ragione, mossa dalla volontà, quale presa di posizione nei riguardi degli stessi referti dei sensi. Infatti, come abbiamo poco fa anticipato, noi possiamo negare persino
le evidenze e rifiutarle reputandole illusorie, mendaci, giudicandole autosuggestioni, ecc. Peraltro, questo atto
di assenso da parte della ragione, previamente mossa dalla volontà, avviene spesso repentinamente senza che nemmeno ci accorgiamo di compierlo.
Ad ogni modo, se questo discorso non fosse vero, si può almeno dire che si conosce nitidamente solo ciò che
si vuole conoscere. 38 Certo, a volte, con buona pace dell’intellettualismo etico, compiamo subito il male sapendo che è male. 39 C. Fabro, Riflessioni sulla libertà, cit., p. 76. 40 Kierkegaard scrive con acutezza: «Immagina qualcuno che sia rimasto preso e schiavo di una passione.
Viene un momento [...] in cui [...] sorge una buona risoluzione. Supponi che costui (un giocatore per esempio) un bel mattino si dica: “Faccio voto solenne e sacro di non giocare mai più, mai più – questa sera sarà l’ultima
volta –” [ebbene,] quell’uomo è perduto! Per strano, o amico mio, che ciò possa sembrare, io preferisco il
proponimento opposto, ossia che il giocatore in un simile momento si dicesse: “D’accordo; tutto il resto della tua vita e tutti i giorni potrai giocare – ma questa sera, lascia perdere”. [...] costui è quasi sicuramente salvo!
La risoluzione del primo è un brutto scherzo che gli gioca la sua passione; quella del secondo inganna questa
passione; l’uno è preso in contropiede, è ingannato dal piacere, l’altro inganna il piacere. [infatti] Il piacere
[...] appena ottiene soddisfazione [o pur di ottenerla], non fa obiezioni a che si facciano promesse per la vita», S. Kierkegaard, Per l’esame di se stessi, in Opere, trad. it. Firenze, Sansoni 1972, p. 920. 41 Abbiamo menzionato il bene doveroso perché ci sono anche diverse azioni buone che, in un contesto
concreto, non sono obbligatorie: non solo gli atti supererogatori, ma anche diversi atti dell’amicizia, della socialità, dell’ordinaria quotidianità, ecc.
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che non ci vogliano blandire42. Fermo restando che poi ciascuno deve restare decisore razionale, e
non delegare ad altri questo ruolo: il phronimos, a cui si chiede consiglio, non deve avere l’ultima
parola, che spetta alla propria coscienza, che deve valutare anche il consiglio delle persone sagge
consultate.
2. Ignoranza dovuta a negligenza43, dovuta all’omissione del dovere di formarsi e informarsi,
il quale concerne44:
a) le conoscenze morali più fondamentali-generali, le leggi giuridiche45 più importanti di un Paese46;
b) le conoscenze della mia professione (le conoscenze che deve acquisire un medico, un ingegnere,
ecc.47);
c) l’identità (e gli altri elementi particolari e le circostanze) e la moralità dell’atto che sto compiendo48.
3. Ignoranza dovuta a voluntarium in causa49, quella che si verifica quando il soggetto non
vuole trovarsi in condizioni di ignoranza però vuole ciò che è causa di quell’ignoranza50.
IV) Ignoranza incolpevole-innocente, quando non risulta da una colpa (per esempio, sono
diventato pazzo per colpa di una malattia51; oppure sono stato drogato a mia insaputa, senza che me
ne potessi proprio accorgere e dunque in stato allucinatorio non mi rendo conto di quello che faccio).
Annotiamo che un’ignoranza colpevole può essere, talvolta, hic et nunc invincibile (per
esempio, ho voluto autoingannarmi e, ormai, mi sono autoconvinto circa una valutazione moralmente
erronea ed aderisco convintamente ad essa).
In effetti, correlativamente, un’ignoranza attualmente invincibile può a volte essere colpevole,
senza che venga meno il principio secondo cui «ad impossibilia nemo tenetur»: ci sono situazioni in
cui è sì attualmente impossibile ad un soggetto eliminare la sua ignoranza, e tuttavia gli era possibile
e doveroso non arrivare a trovarsi in tale condizione di inconsapevolezza (per esempio, se mi sono
ubriacato o drogato, la mia inconsapevolezza è invincibile per alcune ore, ma colpevole; se da
studente di chirurgia ho tralasciato di studiare alcuni argomenti fondamentali, in una certa situazione
di emergenza clinica che richiederebbe il mio intervento competente e urgente sono colpevolmente
in condizioni di impossibilità-incapacità di eliminare la mia ignoranza e perciò di salvare una vita
umana, giacché ci vorrebbero giorni per studiare un certo argomento e realizzare conseguentemente
un intervento chirurgico; se ho reiteratamente commesso delle malvagità che hanno oscurato-
inquinato la mia coscienza, non sono più in grado di comprendere la malvagità di certe azioni, ma ciò
accade per mia colpa).
E un’ignoranza vincibile non è sempre colpevole: se non è stata in precedenza voluta, causata
da negligenza o da voluntarium in causa, non è colpevole all’inizio, cioè non lo è quando il soggetto
42 R. Spaemann, Persone, cit., p. 170. 43 Cfr. già Aristotele, Etica Nicomachea, 1114a 1-5. 44 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 76, a. 2. 45 Aristotele, Etica Nicomachea, 1113b 35. 46 Per esempio, noleggio un auto in Inghilterra e guido a destra per ignoranza, causando una strage. 47 Per esempio, ignoro come costruire un ponte, che crolla perché, pur essendo ingegnere, non ho studiato statica e meccanica razionale. 48 Per esempio, se sono un medico e faccio una trasfusione devo appurare, se possibile, se il sangue della
persona a cui faccio una trasfusione è compatibile con quello del donatore; se sono un agente di polizia e sparo a qualcuno durante un attacco terroristico, devo cercare di capire, per quanto è possibile, chi è la persona
particolare a cui sparo: perciò se uccido per sbaglio un mio collega sono incolpevole o colpevole se ho fatto o
non ho fatto il possibile per conoscere tale aspetto particolare della situazione. Sull’ignoranza voluta e su quella causata da negligenza cfr. anche Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 6, a.
8. 49 Cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 76, a. 4, e q. 77, a. 7. 50 Per esempio, mi ubriaco e perdo la consapevolezza senza che sia questo il mio obiettivo; assecondo i primi sintomi di una passione che mi porta a non capire più quello che faccio: invece di stemperare l’ira verso un
interlocutore che mi offende per l’ennesima volta durante un alterco, la lascio invece montare e la alimento ed
essa finisce per accecarmi, e, spontaneamente, senza riflettere, lo colpisco. 51 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 77, a. 7.
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avverte i primi dubbi circa l’identità (gli elementi e le circostanze) e/o la moralità di un’azione;
diventa poi colpevole se il soggetto non si prodiga per fugarla e se ha il dovere (e dunque la capacità-
possibilità, cfr. Kant) di fugarla.
6. L’ignoranza scusa?
Abbiamo già detto che l’imputabilità dei nostri atti è la condizione di possibilità del nostro essere
buoni o malvagi, lodevoli o deplorevoli, moralmente ammirevoli o colpevoli.
Adesso, possiamo cercare di comprendere le situazioni in cui l’ignoranza scusa, cioè toglie la
colpa morale ad un atto che un soggetto consapevole della sua identità, dei suoi elementi e della sua
moralità non dovrebbe scegliere.
L’ignoranza invincibile e insieme incolpevole-innocente scusa il soggetto52, rimuovendo la sua
imputabilità morale53. Essa, però, non elimina sempre l’imputabilità giuridica54: un soggetto può
essere chiamato a risarcire un danno da lui provocato in modo inconsapevole e involontario e senza
alcuna colpa morale55.
L’imputabilità giuridica è assente perlomeno quando un soggetto è davvero e totalmente
incapace di intendere e volere.
L’ignoranza colpevole voluta secondo Tommaso aggrava la colpevolezza morale: voler
evitare di conoscere per agire liberamente in modo malvagio, è espressione di un grande amore verso
un certo atto malvagio56.
Però, dal canto nostro, aggiungiamo che, almeno in certi casi, se l’ignoranza voluta da un
soggetto è stata da lui desiderata-ricercata non per amore di un atto cattivo, bensì – per esempio –
perché preceduta da paura o da angoscia o da terrore, allora attenua la colpevolezza morale, in quanto,
previamente, paura o angoscia o terrore hanno diminuito la consapevolezza-lucidità e la volontarietà
connesse alla scelta di non sapere il bene/male di un proprio comportamento (per esempio, non voglio
sapere se è avvenuto un certo omicidio mafioso che sospetto essere accaduto, perché, se lo venissi a
sapere, dovrei – moralmente parlando – denunciare l’assassino e temo di subire gravissime ritorsioni,
per me e per la mia famiglia).
Del resto, retrocedendo a ritroso, la scelta di non sapere il bene/male di un proprio
comportamento è essa stessa più o meno imputabile, viene prospettata (più o meno lucidamente) dalla
ragione e appunto scelta (più o meno intensamente) dalla volontà, e le emozioni-passioni antecedenti
a questa prospettazione ed a questa scelta possono (anche nella logica dello stesso Tommaso), a volte,
indebolire la consapevolezza della ragione e la forza della volontà57 che intervengono in una certa
scelta di non sapere il bene/male di un’azione.
52 «Se la ragione o coscienza è erronea, per un errore direttamente o indirettamente volontario, riguardando
cose che uno deve sapere, tale errore non scusa dal peccato la volontà che segue la ragione o coscienza erronea.
Se invece si tratta di un errore che produce involontarietà, perché provocato, senza negligenza alcuna, dall’ignoranza di particolari circostanze, allora tale errore scusa la volontà dal peccato», Tommaso, Summa
Theologiae, I-II, q. 19, a. 6. 53 Per esempio, dico con tutta certezza una cosa falsa pensando che sia vera e la mia ignoranza non è dovuta ad una mia mancanza; scrivo in buona fede una cosa falsa in un articolo, perché sono stato ingannato,
nonostante abbia fatto diligenti ricerche; credendo di dargli un’aspirina, vendo ad un cliente della mia farmacia
una scatola di altri medicinali, che lo fanno morire, non sapendo che lo sto facendo, perché gli do una scatola di aspirina in cui, per errore, la casa farmaceutica ha inserito degli altri farmaci. 54 Perlomeno non in Italia. 55 Per esempio, quando un elettrodomestico nuovo e appena acquistato allaga il proprio appartamento e quello
sottostante. 56 Tommaso, De malo, q. 3, a. 8. 57 Anche nella logica di Tommaso perché egli dice, in generale, che la passione antecedente al giudizio della
ragione e alla scelta della volontà «fa diminuire la natura del merito e del demerito […] poiché obnubila oppure lega il giudizio della ragione», Tommaso, De malo, q. 3, a. 11 e dice, circostanziando, che «una passione che
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Ancora più a ritroso, a monte è imputabile se e come si è tentato o non si è tentato di gestire
una propria emozione (se era possibile farlo) che, a valle, in seguito, ha indebolito la consapevolezza
della ragione e la forza della volontà58.
Dal canto loro, l’ignoranza colpevole dovuta a negligenza e l’ignoranza colpevole dovuta a
voluntarium in causa attenuano la colpevolezza morale senza toglierla (per esempio, da un lato
l’ubriaco che uccide una persona è meritevole di duplice biasimo59, sia per essersi ubriacato, sia per
aver ucciso qualcuno, dall’altro l’uccisione che ha commesso è meno grave che se l’avesse commessa
da sobrio e lucidamente60).
L’ignoranza invincibile ma colpevole non scusa, perché è appunto a causa di una propria colpa
che il soggetto si trova in condizioni di inconsapevolezza morale61.
L’ignoranza vincibile-con dubbi (non importa se sia colpevole o incolpevole) non toglie la colpa
morale di un’azione moralmente cattiva se non abbiamo almeno cercato di dissiparli: se abbiamo dei
dubbi morali abbiamo il dovere morale di fugarli62. Però può attenuarla (per esempio, se sono in
dubbio circa la moralità della ricettazione e della vendetta, sono moralmente colpevole se le compio,
ma in modo meno grave che le avessi commesso sapendo lucidamente che sono malvagie).
Se l’ignoranza è vincibile-con dubbi dobbiamo prima risolvere i dubbi etici e solo dopo
possiamo agire. Ma come dobbiamo comportarci quando, pur avendo fatto diligenti ricerche e
tentativi di chiarificazione e dopo aver chiesto il consiglio di chi è saggio, non riusciamo a risolvere
i dubbi e rimaniamo incerti sul da farsi, sul bene/male di ciò che stiamo cercando di comprendere se
compiere o tralasciare?
La questione è controversa e ci sono diverse posizioni63 (per esempio tuziorismo assoluto e
mitigato, probabiliorismo, equiprobabilismo, probabilismo, compensazionismo). Qui si può solo
menzionare una plausibile opinione, quella di De Finance64 (e di Léonard65). Quando rimaniamo in
dubbio circa il valore/disvalore morale di un atto, se il nostro radicato e consolidato proposito di vita
è di cercare in ogni circostanza di fare il bene ed evitare il male, se abbiamo cercato, nei limiti delle
nostre possibilità (senza alcun lassismo66) di raggiungere la verità, ci è lecito compiere tale atto
tende al male, se precede il giudizio della ragione, diminuisce il peccato», Id., Summa Theologiae, I-II, q. 24,
a. 3, ad. 3 e q. 77, a. 6. 58 Circa la possibilità (sovente contestata dall’emozionalismo, nel solco – fatte le debite precisazioni – di Hume) di intervenire, in qualche misura, sulle proprie emozioni, e circa le modalità per farlo cfr. G. Samek
Lodovici, L’emozione del bene, cit., in particolare, pp. 69-75. 59 Come dice già Aristotele, Etica Nicomachea, 1113b 30-34. 60 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 74, a. 4, ad 4, Id., De Malo, q. 3, a. 8, ad. 3. 61 Tommaso invece, letteralmente, afferma che l’ignoranza invincibile è sempre incolpevole, Summa
Theologiae, I-II, q. 76, aa. 2-3; ma per ignoranza invincibile intende, in senso probabilmente più ristretto del
nostro, quella che «scilicet studio superari non potest» (a. 2), cioè (almeno così sembra) solo quella non dissipabile in se stessa nemmeno dopo lungo tempo e non anche quella non dissipabile per colpa del soggetto:
così sembra emergere anche in De malo, q. 3, a. 8, dove inizialmente egli spiega che l’ignoranza che scusa è
quella che lui denomina involontaria (usando il termine in un senso un po’ diverso da quello che ha oggi), poi aggiunge che è volontaria, in un certo senso, quella ignoranza che scaturisce colpevolmente nei tre modi messi
sopra in luce da noi e dallo stesso Aquinate, e infine conclude dicendo che è totalmente involontaria – dunque
scusa (come spiegato appunto all’inizio di questo articolo 8 del De malo) – quella che è invincibile ed inoltre non si è originata in nessuno di questi tre modi. 62 Sorge una domanda: non dovrebbe essere questo l’atteggiamento corretto (una sorta di principio di
precauzione, fatte le debite precisazioni) da tenere circa lo statuto personale/non personale di certi esseri
appartenenti alla specie umana e circa diverse decisioni bioetiche che da tale status discendono? 63 Su cui cfr. J. De Finance, Etica generale, cit., pp. 373-385. 64 J. De Finance, Etica generale, cit., pp. 380-383. 65 A. Léonard, Il fondamento della morale, cit., p. 270. 66 Un’altra distinzione relativa alla coscienza è infatti quella tra coscienza lassa o rigida.
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(evitando di cadere, all’opposto, nella rigidità67) se il suo possibile disvalore è controbilanciato dal
bene che abbiamo intenzione di conseguire grazie ad esso; dunque non ci è lecito compierlo, per
esempio, se l’atto su cui siamo in dubbio rischia, nel caso in cui fosse cattivo, di essere un atto
gravemente malvagio68.
7. Bisogna sempre seguire la coscienza?
La questione successiva che subentra è quella circa l’obbligo, oppure no, di seguire la coscienza:
bisogna sempre seguire la propria coscienza, bisogna sempre comportarsi come essa ci prescrive di
fare?
La coscienza che ci dice che un’azione è buona/malvagia ci obbliga sempre, cioè la dobbiamo
sempre seguire, anche se è in errore-ignorante, cioè è sempre sbagliato agire contro il suo responso:
se la coscienza mi dice che un’azione è un male, devo seguirla anche se essa si sta sbagliando perché
io ignoro che essa si sta sbagliando, quindi, quando non la seguo, quando cioè faccio ciò che essa mi
ha detto di non fare perché lo ha (erroneamente) considerato un male, con ciò stesso io voglio fare
una cosa pensando che sia un male, ma il male non bisogna mai volerlo fare e già questo mio voler
fare e questo mio mettermi69 a fare un (presunto) male mi rende cattivo (per esempio, per il cristiano
Tommaso credere in Cristo è un bene morale fondamentale, ma, precisa l’Aquinate, un soggetto X
non deve credere in lui se la coscienza gli dice che credere in Cristo è un male: in questo caso, se X
sceglie di credere in Cristo, vuol dire che vuole fare e si mette a fare qualcosa che pensa sia un male70).
Se faccio ciò che la coscienza erronea mi dice essere un male, agisco moralmente male anche se,
senza saperlo, sto provocando un effetto positivo (per esempio, volendo ingannare X per
danneggiarlo, gli dico una cosa vera, pensando però che sia falsa, finendo per giovargli: nel corso di
un incendio dico a X che lungo una certa scala c’è una via di fuga, pensando invece che per quella
scala l’incendio divampi, cioè lo indirizzo là per farlo morire, solo che, in realtà, quella scala è
effettivamente percorribile e X si salva grazie al mio consiglio): agisco moralmente male, anche se
produco un effetto positivo, perché la moralità è una proprietà degli atti umani, specialmente degli
atti della volontà, e non delle cose e degli stati del mondo71 e il mio volere (che, nell’esempio, vuole
67 Anche perché, in certi casi, il rischio è quello di restare vittime della propria scrupolosità, intesa in senso
deteriore e a volte persino vittime della sua espressione psico-patologica. 68 Per esempio, se resto in dubbio, dopo aver cercato di dissiparlo, circa il valore/disvalore morale dell’uccisione dei disabili da lungo tempo non responsivi, perché non riesco a capire se siano ancora esseri
umani, non devo ucciderli, in quanto, se ucciderli fosse un atto cattivo – nel caso in cui il disabile non
responsivo fosse ancora un essere umano, cosa che, nell’esempio, io non sono riuscito a capire –, ucciderli sarebbe non solo un atto cattivo, ma gravemente malvagio. 69 Dunque mi qualifica moralmente non già un mero desiderio passeggero bensì il volere che io alimento e/o
che diventa efficace, quello che comincia ad esplicare un’azione. 70 Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q. 19, a. 5. 71 Questa affermazione presuppone una concezione etica realista (su cui cfr. F. Botturi, Realismo morale, in
Hermeneutica, [2014], pp. 47-72) che sia non solo non consequenzialista (per una critica del
consequenzialismo cfr. G. Samek Lodovici, L’utilità del bene, cit.), ma anche non naturalista (diversa, per esempio, da quella di P. Foot, Natural Gooodness, Clarendon Press, Oxford,2001, trad. it. La natura del bene,
il Mulino, Bologna 2007, in particolare p. 39).
Così, possiamo sì dire, per esempio, che una situazione sociale di povertà è malvagia se è causata dalle azioni/omissioni dell’uomo; però, propriamente parlando, essa è negativa e non malvagia, perché sono
moralmente malvagie le azioni/omissioni, non le situazioni. Le cose non sono moralmente malvagie: non sono
malvagi nemmeno i lager, bensì gli atti di chi li ha costruiti e fatti funzionare. La malvagità non sta nelle cose,
che sono eticamente neutre, bensì nelle azioni umane che si rapportano alle cose. Per esempio, è possibile usare-esaminare in modo moralmente buono il cancro di una persona per conoscere le cause di questa malattia
e per cercare di debellarla ed è possibile sfruttare in modo moralmente buono l’esistenza di un lager (pur
aborrendola) per compiere eroiche e commoventi azioni d’amore verso i prigionieri. Ciò che è buono/malvagio è l’atto libero delle creature razionali, e, per quanto riguarda quegli esseri razionali che siamo noi, è
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ingannare X e farlo morire) nella situazione di cui stiamo parlando è cattivo. Del resto, il volere
comporta una (almeno parziale) approvazione del voluto (nell’esempio appena fatto un’approvazione
dell’azione/omissione voluta che è reputata malvagia).
Ciò detto, è vero che dobbiamo seguire la coscienza erronea, però (come argomentato al § 6),
essa ci scusa solo quando la sua ignoranza è invincibile ed incolpevole. Come dice già Aristotele72,
la coscienza del soggetto molto malvagio, molto orgoglioso, molto intemperante, ecc., è a volte
oscurata dalla sua vita inquinata dal male, dunque la sua coscienza, non di rado, per colpa di tale
soggetto si inganna sul bene/male73. Così, il fatto di seguire la coscienza non toglie la sua colpa
morale, perché è appunto per colpa del soggetto che la sua coscienza si è oscurata.
E ognuno ha il gravissimo dovere di rendere retta la sua coscienza, in modo da evitare qualsiasi
forma di ignoranza colpevole, per poter individuare correttamente il bene e il male e per poter di
seguito conseguire la vita buona e la fioritura morale umana.
Correlativamente, il rispetto della persona non toglie che si debbano vietare ed impedire alcuni
atti malvagi (per esempio assassinio, stupro, schiavismo, ecc.) anche a chi in coscienza ritiene
erroneamente che essi siano buoni74.
Infine, accenniamo che, per alcuni autori (ad es. Suarez75), chi segue la coscienza erronea invincibile
ed incolpevole compie degli atti buoni76, ancorché essa sia appunto erronea (per esempio, durante un
intervento chirurgico mi sforzo tenacemente per salvare un paziente, ma ne provoco la morte, perché
buono/malvagio l’atto libero con cui ci rapportiamo alle cose, le custodiamo, le usiamo, le produciamo, le
distruggiamo, eccetera: su questo tema ha molto insistito Rhonheimer, per esempio in M. Rhonheimer, La
prospettiva della morale. Fondamenti dell’etica filosofica, Armando, Roma 1994, pp. 79-136 e Id., The Moral Object of human Acts and the Role of Reason According to Aquinas. A Restatement and Defense of My View,
in Josephinum Journal of Theology, 18 (2011), 2, pp. 460-463, 474, 495. 72 Aristotele, Etica Nicomachea, 1113b 2-1114b 3. 73 Già Aristotele dice che certe emozioni-passioni ci fanno sembrare bene ciò che invece è male e ci fanno
reputare male ciò che invece è bene. Infatti, come recita la sua formula, «quale ciascuno è, tale gli appare il
fine», Etica Nicomachea, 1114a 31-32. Infatti, un soggetto può essere, in parte, modificato dalle sue disposizioni (verso alcuni fini cattivi) acquisite e consolidate, le quali fanno a lui sembrare buono ciò che a
loro si addice e cattivo quanto a loro dispiace, e come il gusto giudica i sapori dei cibi a seconda della propria
disposizione (così il malato può avere una percezione distorta dei sapori), così l’uomo giudica sul bene/male
a seconda della propria disposizione morale: per es., se sono iracondo, a volte non capisco proprio che non devo essere aggressivo (sul bene apparente e sulla dimensione cognitiva delle virtù in Aristotele, cfr. M.
D’Avenia, L’aporia del bene apparente. Le dimensioni cognitive delle virtù morali in Aristotele, Vita e
Pensiero, Milano 1998, specialmente pp. 269-334). Come dice con efficacia Iris Murdoch, «scelgo solo all’interno del mondo che vedo»: quando scelgo, parte
dell’operazione di scelta è già indirizzata dalla visione e, dunque, «la vita morale […] si svolge in maniera
continua, non è qualcosa a cui si stacca la spina fra una scelta morale esplicita e la successiva». Negli intervalli
tra tali scelte è infatti cruciale l’attività di coltivazione della capacità di vedere, legata a sua volta alla coltivazione del proprio carattere e delle proprie emozioni. Così, l’azione buona e la bontà morale delle scelte
presuppongono un previo lavorìo morale su se stessi, presuppongono «un discernimento giusto e paziente ed
un’esplorazione di ciò che ci si trova di fronte, che è il risultato non semplicemente dell’aprire gli occhi, ma di un genere […] di disciplina morale», I. Murdoch, The Idea of Perfection, in Yale Review, 53 (1964) 3, trad.
it. L’idea di perfezione, in Id., Esistenzialisti e mistici, il Saggiatore, Milano 2005, L’idea di perfezione, pp.
329-330. 74 Cfr. R. Spaemann, Persone, cit., p. 171, che fa l’esempio del dovere di fermare un terrorista che sia in
coscienza convinto che sia giusto eseguire un attentato.
D’altro canto, qui si aprirebbe anche la questione della legittimità/illegittimità dell’obiezione di coscienza e si
tratterebbe di distinguere quando è inaccettabile reclamarla e quando invece è doveroso riconoscerla, cfr. G. Samek Lodovici, Fondamenti etico-filosofici dell’obiezione di coscienza, in Studi cattolici, 681 (2017), pp.
746-753. 75 Suarez, De bonitate et malitia humanorum actuum, XII, 4, 8. 76 Cfr., similmente, anche J. De Finance, Etica generale, cit., p. 360 e 365.
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intervengo chirurgicamente su di lui in un modo dannoso, visto che, allo stato attuale della
conoscenza medica aggiornata, si pensa che quel tipo di intervento che ho eseguito sia benefico)77.
Anche per Léonard, «il paradosso […] è che il soggetto, in caso di errore invincibile e incolpevole,
agisce con una retta e virtuosa volontà», nonostante che il suo atto sia «oggettivamente contrario alla
retta ragione»78.
8. Conclusione
Il presente itinerario sulla libertà, sull’agire umano, sull’imputabilità, sulla coscienza (nelle sue
svariate declinazioni) ecc., da un lato, sul piano etico, ha espresso una serie di doveri, una serie di
richiami etici alla responsabilità (relativa non solo all’agire esteriore ma anche agli atti interiori della
ragione e della volontà, alla formazione della propria coscienza, relativa anche all’affinamento della
propria consapevolezza morale [onde evitare di cadere nell’ignoranza colpevole nelle sue varie
forme], anche alla coltivazione etica delle proprie emozioni), ha ripercorso una serie di esigenze
morali che devono essere rispettate per poter conseguire il bene e la propria umana fioritura morale;
dall’altro, sul piano antropologico, ha focalizzato alcune delle innumerevoli sfumature, dinamiche e
dimensioni dell’interiorità umana e della sua stupefacente profondità: del resto, anche questi stessi
richiami e queste stesse esigenze morali sono indice (non certo esaustivo) della grandezza e dignità
dell’essere umano e del suo io morale.
Così, il discorso fin qui svolto ci consente di concludere con la celeberrima considerazione di
Kant (fatte le debite e non irrilevanti differenze tra il suo discorso e quello fin qui svolto): «due cose
riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più
a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale [per noi: la
consapevolezza, la volontarietà-libertà, l’imputabilità, la coscienza, ecc.] in me». Se la prima
esperienza di ammirazione riguarda gli spazi siderali brulicanti di stelle e corpi celesti in cui osservo
e immagino con stupore «mondi sopra mondi, e sistemi di sistemi», la seconda concerne il «mio Io
invisibile». «La prima veduta, di un insieme innumerabile di mondi, annienta, per così dire, la mia
importanza di creatura animale, che dovrà restituire la materia di cui è fatta al pianeta (un semplice
punto nell’universo) […]. La seconda, al contrario, innalza infinitamente il mio valore, come valore
di un’intelligenza, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita
indipendente dall’animalità e perfino dall’intero mondo sensibile»79.
Giacomo Samek Lodovici SOMMARIO
Il saggio intende focalizzare alcuni aspetti del tema dell’imputabilità morale e delle declinazioni della
coscienza. Dapprima espone alcuni cenni preliminari sulla libertà radicale, che sta alla radice delle azioni e
delle omissioni. Poi riflette sulle condizioni dell’imputabilità morale di un atto o di un’omissione, cioè la
consapevolezza e la volontarietà. A quel punto tematizza gli oggetti dell’inconsapevolezza-ignoranza (per quanto essa è eticamente rilevante), e le sue forme: ignoranza vincibile, ignoranza invincibile, ignoranza
colpevole, ignoranza incolpevole. A quel punto il saggio considera le situazioni in cui l’ignoranza scusa, cioè
toglie la colpa morale ad un atto che il soggetto consapevole dell’identità (e dei suoi elementi) e della moralità
77 Tommaso accenna a questo aspetto della questione in Summa Theologiae, I-II, q. 19, a. 6 dove sembra dire, specialmente nell’ad. 1, che un atto che segue la coscienza invincibilmente e incolpevolmente erronea è sì
scusato e non malvagio, ma non buono. Tuttavia dato che, per Tommaso, ogni atto concreto (cioè non
considerato in astratto, bensì calato in precise circostanze), compiuto hic et nunc, è buono o cattivo, cosicché
non ci sono atti concreti eticamente neutri-indifferenti (Summa Theologiae, I-II, q. 18, a. 9), non avrebbe egli dovuto concludere che l’atto di cui stiamo parlando, in quanto non malvagio è buono? Resta d’altro canto da
interpretare il ragionamento fatto da Tommaso, In VII Ethicorum Aristotelis Expositio, l. 9, nn. 1437-1438. 78 A. Léonard, Il fondamento della morale, cit., p. 266. 79 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., Conclusione, p. 319.
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dell’atto non dovrebbe scegliere, e quelle in cui la aggrava o la attenua. Da ultimo, argomenta che bisogna
sempre seguire la propria coscienza, anche quando è erronea, e che ciò talvolta ci rende buoni, talvolta malvagi.
SUMMARY
The essay aims to focus on certain aspects of moral imputability and of the declinations of conscience. First of all, it gives some preliminary hints on radical freedom, which is at the root of actions and omissions. Then
it reflects on the conditions of the moral imputability of an act and of an omission, that is awareness and
voluntariness. At that point it then focuses on the objects of unconsciousness-ignorance (for what is ethically
relevant), and its forms: vincible ignorance, invincible ignorance, guilty ignorance, innocent ignorance. At that point, the essay then considers the situations in which ignorance excuses, that is it removes moral guiltiness
from an act that the subject aware of its identity, of its elements and of its morality should not choose, and the
situations in which ignorance aggravates or attenuates it. Finally, it argues that one must always follow one’s own conscience, even when it is erroneous, and that this
sometimes makes us morally good, sometimes evil
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Sezione miscellanea
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VIII. Postumanismo e vitalismo
Note su un nodo teorico
di Antonio Allegra
Trans- e postumanismo sono estremamente attuali e ormai ampiamente divulgati, ma non sempre le
analisi condotte nei loro riguardi sembrano in grado di individuarne le radici speculative. Le ragioni
di questo deficit sono varie e almeno in parte abbastanza evidenti. Precisamente l’ampia divulgazione
nonché innegabile urgenza del tema non depone necessariamente a favore dell’approfondimento.
Inoltre, nell’area propriamente transumana non si può dire che le riflessioni finora svolte siano sempre
latrici di spunti filosofici di livello adeguato: il transumanismo funziona soprattutto come un sintomo
ideologico ovvero un coagulo di inquietudini e speranze, rispetto al quale solo una lettura indiziaria
e per così dire contrastiva appare, eventualmente, in grado di enucleare schemi filosoficamente
rilevanti1.
Ma diversa la situazione per quanto riguarda il postumanismo. Tra i suoi riferimenti più significativi
non è difficile rinvenire Deleuze, Darwin, o Spinoza; e tra le intersezioni che è possibile individuare
in territori affini, talvolta producendo un curioso effetto di sovrapposizione, vi è tutta l’ampia
riflessione contemporanea sulla biopolitica, il cui ruolo cruciale (pur se anch’esso fin troppo
divulgato) non devo certo ricordare2.
È in questa prospettiva che cercherò di ragionare nel presente contributo. Postumanismo dunque, non
transumanismo; e la questione della vita come cartina di tornasole. Il fatto è che, pur senza concordare
con tutte le conseguenze che ne ricava Foucault, è difficile negare che tale questione sia diventata
oggi sotto vari profili il nodo teorico cruciale. E precisamente il postumanismo, anzi, offre, come
vedremo, un’ideale conferma di questo ruolo.
Per certi versi il contributo che segue si limita ad enucleare tesi piuttosto evidenti, senza pretesa di
originalità. Ho scelto inoltre di limitarmi ad un’esposizione più che a una compiuta articolazione,
quasi solo come l’indicazione di un programma di ricerca: anche perché un’indagine adeguata sul
tema a mio avviso richiederebbe spazi davvero notevoli. Ciò non toglie che riassumere sinteticamente
e mettere in evidenza tali tesi, e provare ad indicarne le conseguenze, possa essere piuttosto utile –
questo almeno spero.
1. La vita: istruzioni per l’uso (del concetto)
Di cosa parliamo quando parliamo di vita? È stato soprattutto Michel Foucault a mostrare che questa
domanda è niente affatto esornativa, anzi cruciale. Come recita il titolo di un bel libro, la vita è in
effetti un’invenzione recente3. Naturalmente l’espressione è paradossale. Vivere, nel senso di godere
di una peculiare condizione metabolica e di determinate proprietà dell’organismo, è un evento molto
antico sulla Terra. Ma vivere, nel senso dello specifico e preciso concetto moderno di “vita”, è un
1 È quanto ho cercato di fare nel mio Visioni transumane, Orthotes, Napoli-Salerno 2017 (che contiene anche
la necessaria distinzione tra trans- e postumano a cui nella presente occasione mi limito ad accennare). 2 La riflessione sulla biopolitica è incomprimibile in una nota. Mi limito a menzionare, perché per certi versi particolarmente complementare al nostro tema, nell’opera di Giorgio Agamben un testo come L’aperto:
l’uomo e l’animale, Bollati-Boringhieri, Torino 2002. Tra altri aspetti rilevanti l’autore individua in Linneo un
decisivo artefice della segmentazione delle forme di vita, segmentazione che colloca una serie di confini che
separano l’unità della vita soggiacente e permettono pertanto, a partire da operazioni costitutive, di definire l’umano (p. 34 e passim). È interessante che Agamben riconosca proprio in questa capacità di autocostituzione
riflessiva e ricorsiva la definizione dell’umano: una nozione non così diversa, come si vedrà, dalla mia stessa
più tradizionale visione umanistica. 3 D. Tarizzo, La vita: un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010.
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risultato che non ha alle spalle molto più di un paio di secoli di una determinata evoluzione delle idee.
“Vivere”, secondo questa analisi, significa in effetti essere soggetti, come l’autore francese disse
famosamente, ad una sorta di ontologia selvaggia: un’unità segreta, una forza che fluisce e che fa di
ogni particolare esistenza al massimo solo un nodo momentaneo di una realtà soggiacente molto più
radicale4.
Pertanto, qui non si tratta della conservazione di una particolare istanza di esistenza, ma al contrario
dell’affermazione, prima e dopo essa, di una realtà che le soggiace e che è molto più reale dell’istanza
particolare. “Vita”, in questo senso, sta dunque a monte e a valle, alimentando volta a volta la
formazione così come la deformazione dell’individualità.
«La parola stessa ‘vita’ non indicherà più, d’altronde, una singola esistenza, un singolo vivente, bensì la forza
astratta della vita che scorre nei viventi […] da un diagramma statico della vita, inchiodata alle forme naturali
che la contengono, si passerà a un diagramma dinamico della vita, ulteriore alle sue forme, che si limitano a esprimerla. La vita, dirà Darwin di lì a poco, è come una lingua, di cui le specie e le forme naturali
rappresentano altrettanti idiomi dialettali»5.
Dinamismo ed evoluzione sono, come si vede, i connotati principali di questa visione moderna,
portato irresistibile della progressiva identificazione della vita con la volontà, infine con la natura
stessa. Rispetto ad essa le singole esistenze non sono che approssimazioni assai manchevoli e in ogni
caso destinate a finire ovvero venire riassorbite entro quella. La realtà per eccellenza, in effetti la
realtà sostanziale, è questo alveo che permette la costante rigenerazione. Si tratta di una svolta che ha
conseguenze di grande rilievo. L’adempimento normativo della vita non potrà venire più identificato
con il compimento ovvero perfezione dell’esistenza dell’organismo, ma al contrario con il suo
tramontare, che permette di riaffermare la vita totale, capace di riesprimersi in una forma differente.
Anzi, sebbene resti vero che questa vita abbia bisogno di quelle degli organismi per trovare la sua
espressione reale ed effettiva, la sua peculiare eccellenza consiste nel fatto che è sempre capace, a
differenza dell’organismo individuale, di perdurare, proprio grazie alla sua aseità. La sua creatività
individua sempre nuove variazioni sul tema. (Bergson da questo punto di vista non è affatto un’eresia
del darwinismo, ma il chiarimento della sua intenzione o perlomeno della metafisica che ne deriva).
Segno della vitalità è molto più la variabilità, che permette alla vita di trovare sempre differenti
maniere di incarnarsi, che la capacità, comunque limitata, del singolo organismo di conservarsi in
qualche modo imperfetto e scarsamente durevole. È una peculiare e anomala teleologia, dotata solo
di una vis a tergo: la vita stessa, come tale. Entro questa potente metafisica alternativa trova, si noti,
una sorta di principio di spiegazione anche la mortalità. In effetti, perché la vita è mortale se il suo
principio è immortale? A causa, abbastanza ovviamente, del dislivello tra i due sensi, dell’equivocità
di “vita”, che apre la possibilità del diverso destino tra la vita e la Vita.
Da questa visione teorica si può ricavare una consistente serie di conseguenze. Una prima e
cruciale derivazione che attiene al nostro tema, è che quest’ontologia della vita e la selezione naturale
che è la sua divinità immanente, il dispositivo incaricato di indirizzare la successione delle forme,
sono intimamente impersonali. Come osserva efficacemente ancora Tarizzo, non è l’uno della forma
4 La descrizione migliore è, ritengo, ancora quella originale: «Dall’altro lato di tutte le cose che sono, ma al di
qua di quelle che possono essere, sostenendole per farle apparire, e distruggendole senza posa attraverso la
violenza della morte, la vita diviene una forza fondamentale […] la vita è la radice di ogni esistenza […] vi è essere solo perché vi è vita, e nel moto fondamentale che li destina alla morte, gli esseri dispersi e stabili si
formano per un istante, si arrestano, la rapprendono […] per essere a loro volta distrutti da tale forza
inesauribile. L’esperienza della vita si dà pertanto come la legge più generale degli esseri, la rivelazione della
forza primitiva a partire dalla quale essi sono; essa funziona come un’ontologia selvaggia […] ma questa ontologia non svela tanto ciò che fonda gli esseri quanto ciò che li porta un istante a una forma precaria e
segretamente già li insidia dall’interno per distruggerli. Nei riguardi della vita, gli esseri sono soltanto figure
transitorie» (Le parole e le cose, trad. it., Rizzoli, Milano 1967, p. 301). 5 D. Tarizzo, La vita, cit., pp. 93-94.
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di vita bensì il sé della forza di vita il bersaglio della selezione6: non la singolarità della forma bensì
la generalità programmaticamente indistinta della forza. In effetti il processo della selezione è
inconscio, come una volontà che non appartiene più a nessuno. Detto ancora in altro modo, il nucleo
sostanziale vero è il plasma che passa di generazione in generazione e che in profondità è costituito
dal mero vivere; non il soma, che lo esibisce temporaneamente. Ma forse la scelta lessicale di
maggiore spessore per il nostro tema è quella che riprende la venerabile, classica distinzione del
greco. Accanto alla individualità del bios, o, forse meglio, dei bioi al plurale (in realtà mi sembra che
parlare di un bios al singolare, come se non ve ne dovessero necessariamente essere altri accanto ad
esso, sia intimamente errato7), si profila il ruolo dominante, perché metafisicamente ormai
privilegiato, della zoé: la forza di un flusso dal cui punto di vista ha poco senso proteggere il valore
dell’individualità biologica, tantomeno biografica. Non a caso alla visione della vita i cui caratteri ho
cercato di tratteggiare si accompagna naturalmente l’ipotesi del tramonto dell’uomo8. Fine della storia
e del linguaggio sono indicatori affidabili di questo tramonto, laddove esso venga pensato seriamente.
Qui siamo, come è ovvio, già in direzione nettamente postumana avant la lettre.
Forse non è inutile neanche osservare almeno una seconda conseguenza, di tipo maggiormente
metafilosofico. Non è affatto vero che il vitalismo sia una metafisica tramontata o fuori moda.
Certamente è improponibile, entro il quadro schizzato, un vitalismo che affermi la radicale rilevanza
della vita del soggetto; ma, al contrario, qui si tratta della vita infinita per antonomasia, che
dall’esistenza individuale viene portata avanti, sia pure parzialmente e imperfettamente, e trova
dunque nella morte dell’individuo il modo di riaffermarsi in un altro soggetto ovvero organismo. La
vita, in quest’ottica, è una forza straordinariamente influente e significativa, a malapena camuffata
(o, se si vuole, contestualmente rivelata e camuffata) da un lessico che parla di evoluzione o di natura.
2. Vita postumana
Ebbene, è sufficiente avere una conoscenza anche molto parziale della letteratura postumanista per
ritrovare in essa le idee finora accennate. Haraway, Braidotti, o in Italia autori come Marchesini o
Caffo, con sensibilità e movenze parzialmente differenti, condividono questo pregiudizio basico e
fondamentale nei confronti della vita, intesa, dunque, come la matrice di aggregazioni e
riaggregazioni, di temporanee formazioni che in fin dei conti non fanno che certificare il potere
teologico del flusso9. Ecco allora che è possibile avviare la tipica insistenza su imitazioni, ibridazioni,
6 Ibid., p. 146. 7 Cfr. ad es. H. Arendt, Vita activa, trad. it., Bompiani, Milano 19913, p. 7. 8 Anzitutto, come è ben noto, in pagine celebri dello stesso Foucault; ma tesi simili si trovano senza difficoltà in Kojève così come in Deleuze (cfr. ad es. G. Agamben, L’aperto, cit., p. 13 ss.). 9 Abbastanza inevitabilmente l’apertura a questa visione della vita si coniuga con le tesi sempre più diffuse
degli animal studies. È il caso dei due autori italiani appena citati, ma cfr. anche una citazione davvero
esemplare, tra molte altre possibili, dalla Haraway: «By the late twentieth century in United States scientific culture, the boundary between human and animal is thoroughly breached. The last beachheads of uniqueness
have been polluted, if not turned into amusement parks —language, tool use, social behavior, mental events.
Nothing really convincingly settles the separation of human and animal […] Movements for animal rights are not irrational denials of human uniqueness; they are clear-sighted recognition of connection across the
discredited breach of nature and culture» (A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist Feminism
in the Late Twentieth Century, in Simians, Cyborgs, and Women: The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991, pp. 151-152).
Di Haraway vedi anche almeno Testimone_modesta@femaleman©_incontra_OncoTopo™. Femminismo e
tecnoscienza, trad. it., Feltrinelli, Milano 2000; di Braidotti soprattutto Il postumano: la vita oltre l’individuo,
oltre la specie, oltre la morte, trad. it., DeriveApprodi, Roma 2014; di Marchesini soprattutto Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati-Boringhieri, Torino 2002; di Caffo il recente Fragile umanità,
Einaudi, Torino 2017; di Marchesini e Caffo insieme Così parlò il postumano, Novalogos, Aprilia 2016.
Ribadisco la presenza tra gli autori menzionati di notevoli differenze – che attengono però, a mio avviso, più allo strato espressivo superficiale che alle conseguenze teoriche profonde.
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transizioni, assimilazioni, etc., che è una delle più caratteristiche cartine di tornasole del movimento.
Si comprende bene perché, come accennavo inizialmente, Spinoza, Deleuze, o Darwin, non sempre
tutti insieme ma indubbiamente in maniera sempre intimamente coerente, siano riferimenti filosofici
e ideologici necessariamente assidui. L’unicità della sostanza, affermata dal grande olandese e
aggiornata dal pensatore francese, fa il paio con l’unicità e la continuità dell’evoluzione della vita10.
Il punto è, dunque, che esattamente e necessariamente da queste premesse deriva la correttezza
dell’opzione postumana. Difatti la mossa teorica iniziale, che decide degli esiti del movimento,
consiste nel rifiuto postumano della singolarità umana. La vocazione antiantropocentrica rappresenta
il nucleo decisivo, forse più etico o ideologico che teoricamente motivato, del movimento. La verità
è che l’eccezionalità umana evoca una lettura gerarchica e differenziata del reale che risulta
preliminarmente inaccettabile a molta sensibilità contemporanea11; così come può sembrare una
forma di equivoca e futile resistenza di fronte alle ferite salutarmente inferte, in quest’ottica, da
Copernico, Darwin o Freud all’orgoglio umano. Per essere antiantropocentrico il movimento afferma
l’istanza di continuità tra le forme della vita, alla luce della zoé. In questo modo, come detto, esso
non può non negare l’istanza della singolarità umana. Profondamente ingranato nella tradizione
occidentale, a partire da una matrice classica ovvero cristiana, l’umanesimo afferma che qualunque
continuità genealogica dell’uomo rispetto agli altri viventi non rappresenta un’indicazione di una
continuità ontologica. Ove genealogicamente la zoé afferma e non può non affermare precisamente
tale continuità, il bios legge discontinuità e specificità. Il fatto è che ogni uomo possiede una storia,
che ne caratterizza l’identità. Il coefficiente che converte gli eventi in tale storia, presente negli uomini
a differenza della vita animale, è, classicamente, la riflessività. È un modo di designare il campo
interiore, privato e segreto, che ciascuno possiede individualmente. Lo spazio ripiegato, concavo
entro il quale nutriamo la nostra autocoscienza, qualunque sia la sua natura sostanziale, appartiene al
soggetto in maniera ricorsiva, nel senso che anche la sua comunicazione agli altri è sottoposta al
lavoro della riflessione, che ne fa ancora un fatto privato, e così via.
E a ben vedere non si tratta solo di questa discontinuità umana ma anche di tre ulteriori
fenomeni di differenziazione, a monte o a valle della discontinuità dell’uomo dalle altre specie.
Anzitutto vi è la differenza di ogni specie, che presenta una singolarità legata alle condizioni della
propria forma di vita (all’Umwelt, diceva l’analisi famosa di Uexkull). Vi è poi la storia individuale
ed esclusiva del vivente, segnata ad esempio dalla progressiva precisazione del proprio corredo
immunitario, precisazione che non può essere pensata fuori dal concreto insieme di eventi contingenti
dell’esistenza. Infine vi è ancora, innestata su questa storia individuale del vivente, lo spazio
propriamente biografico dell’essere umano, il quale diventa possibile grazie all’autonomia che ogni
organismo impegnato nella propria singolare avventura metabolica, rappresenta. Le biografie sono
per così dire sempre al plurale; ovvero non esiste una biografia dell’umanità ma le biografie degli
uomini. Come dice Aristotele, “vivere si dice in molti modi”12. Alla pluralità dei sensi dell’essere si
accompagna in effetti non casualmente la pluralità delle forme di vita, segnate anzitutto dalla triplice
tassonomia dell’anima e poi dalla ricchissima articolazione del vivente. Il punto di vista è invertito:
non si tratta di partire dalla vita come genere sommo ma dalle istanze entro cui vita effettivamente si
dà, ognuna a sé, ognuna indiscutibilmente differente dato l’articolarsi intersecato, come ho accennato,
delle forme. Mentre la zoé come grande nozione universale non può che essere l’equivalente della
vita o anima vegetativa, priva di ogni specificità.
10 La presenza di questi autori è costante nei testi postumanisti. Un saggio su Darwin postumanista è C.
Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica, Mimesis, Milano 2010. È evidente
che soprattutto rispetto ai due filosofi sono possibili anche letture in qualche modo alternative: il percorso
esegetico che traccio nella presente occasione andrà corroborato in una futura occasione. 11 Una recentissima lettura sottilmente critica dall’interno del campo postumanista, di questa pretesa
intimamente aporetica di decentramento è C. Peterson, Monkey Trouble. The Scandal of Posthumanism,
Fordham University Press, New York 2018. 12 De Anima, 413a, 20 ss.
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Certo, non si può negare che la dicotomia tra bios e zoé attraverso la quale ho cercato di delineare
le posizioni reciproche di umanesimo e postumanesimo, se può essere significativa, per certi versi
sembra anche parziale. Al proposito c’è un punto importante: il postumanesimo è aperto,
nell’intenzione di muovere oltre l’uomo, in direzione dell’ibridazione anche nei confronti di ciò che
vita non è. Fuori della biologia: dunque anche parti artificiali e inorganiche entrano nella
composizione del postuomo, all’insegna dell’immaginario del cyborg. Insomma, l’apertura per essere
pienamente tale ha bisogno di inaugurare un’interfaccia radicalmente eterogenea, tra carbonio e
silicio, cogliendo per così dire il meglio di due mondi. Ma appunto questo indica che la combinazione
ricercata obbedisce alle medesime istanze dell’apertura alle forme biologiche. Il fatto è che la vita
potenziata è in grado di integrare anche ciò che vita non è. In un certo senso proprio il proposito della
vita artificiale esprime meglio di ogni altra il progetto postumanista. La mescolanza radicale non
riconosce più distinzioni, confini, gerarchie. Tutto può venire mobilitato nel grande flusso del vivere,
che è valore in se stesso, assiologia cieca che non ha bisogno di giustificarsi, men che meno di elevarsi
in una direzione fuori dell’immanenza pura.
2. Un’osservazione conclusiva
In certo senso le conseguenze delle osservazioni appena svolte sono senza dubbio già abbastanza
evidenti, in modo tale da non richiedere, non necessariamente almeno, di essere esplicitate; come
detto inizialmente, inoltre, l’obiettivo di queste note è quasi esplorativo e propedeutico molto più che
in direzione di un approfondimento anche critico completo. Tuttavia, può essere opportuno
specificare almeno una conclusione forse più urgente – di taglio prettamente politico. (Ritengo in
realtà che i limiti dell’atteggiamento che ho cercato di delineare siano anzitutto speculativi, ma in
questa sede mi adeguo all’argomentazione latamente politica che spesso viene prediletta da questi
teorici). In questa direzione, a me pare che la Vita (nuda vita, zoé, plasma) è esattamente ciò che resta
quando abbiamo perso di vista la differenza umana (rectius: una differenza moltiplicata per il numero
dei soggetti)13; anzi come accennato sopra ogni differenza. Detto altrimenti gli uomini, o se non altro
gli intellettuali postumanisti, non sanno più dirsi almeno speculativamente umani perché hanno perso
di vista, sviati dal flusso darwiniano e dalla cattiva coscienza, il fatto stesso che vi sia qualcosa in
generale come l’umanità: la quale può venir colta solo da uno sguardo capace di riconoscere e
accettare la differenza14. Allora al posto dell’umanità non resta che l’assiologia della vita perdurante
(dato che un’assiologia, e non è questa un’ironia minore, non è possibile non proporla). Come nella
Lettera rubata di Poe, talvolta ciò che è perfettamente evidente riesce a passare inosservato, in
particolare se riusciamo a costruire un elaborato schermo di protezione dal suo accertamento.
Esattamente al contrario, a me pare preferibile, al posto dell’universale della Vita, non solo la
singolarità sui generis dell’umano, ma la singolarità ulteriore, potenziata, individualistica, della
persona.
Antonio Allegra
SOMMARIO
Il postumanesimo contemporaneo nasconde, tra le proprie valenze filosofiche più importanti, un'opzione
vitalista assolutamente cruciale. Il saggio ne prende in esame le premesse e conseguenze, di tipo metafisico e
latamente etico. Viene riaffermata, di contro all'insistenza sul flusso e sull'impersonale, la valenza della vita al
singolare, intesa come condizione di possibilità dello spessore biografico della soggettività.
13 G. Agamben, L’aperto, cit., p. 30; anche H. Arendt, Vita activa, loc. cit. 14 In realtà la differenza è ingrediente cruciale per riconoscere qualunque cosa, dato che un paesaggio omogeneo privo di salienti ed evidenze è perfettamente indecifrabile.
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SUMMARY
Contemporary posthumanism conceals, among its most important philosophical themes, an absolutely crucial vitalist option. The essay examines its premises and consequences, which are metaphysical and covertly
ethical. Contrarily to the posthumanist insistence on the flow and on the impersonal, the value of singular life
is reaffirmed, as the condition of possibility of the biographical depth of subjectivity.
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IX. Il problema della certezza nel contesto filosofico attuale
di Lourdes Velázquez
Oggi, la scienza e la tecnologia, che da essa dipende, hanno rivelato limiti teorici e pratici grandissimi,
sono entrate in una profonda crisi, hanno dimostrato di non essere capaci di offrire né una certezza
conoscitiva sul mondo né una certezza che porti sicurezza e prosperità per l’umanità. In poche parole:
stiamo vivendo oggi una nuova fase di “scetticismo” che periodicamente e con diverse sfumature
riappare nella storia del pensiero.
La profonda crisi di certezza in cui si versa il nostro tempo è l’espressione di una sorta di
disinganno: la civiltà occidentale aveva creduto di trovare nella scienza (e più concretamente nelle
scienze “esatte”) al tempo stesso l’ambito e gli strumenti per ottenere la verità sicura e indubitabile.
L’ambito scientifico era cioè percepito come il terreno sul quale verità e certezza si sovrappongono
completamente. Perciò quando certe difficoltà molto profonde sono state scoperte nella validità di
teorie fisiche e matematiche all’inizio del ventesimo secolo, ciò è stato interpretato come
l’indicazione che tali teorie non erano più vere e che la certezza a loro riguardo, che si era mantenuta
per molto tempo, era una mera illusione senza fondamento. È chiaro che si trattava di un’autentica
crisi della certezza scientifica, però è importante notare che è stata presentata, interpretata e vissuta
come una crisi della nozione di verità scientifica e questo perché, come abbiamo detto, si era
generalizzata una specie di identificazione di verità e certezza nell’ambito della scienza. Perciò non
ci sorprendono le famose parole di Henri Poincaré, il quale, davanti al fenomeno delle geometrie non
euclidee, affermava: «Non esistono geometrie più o meno vere ma più o meno comode».
Prima di arrivare a questo, ci interessa sottolineare che il secondo passaggio ingiustificato è
consistito nel prendere la crisi della certezza scientifica come il segnale dell’impossibilità di ottenere
la certezza in generale. Questo è in realtà il punto focale, quello che esprime meglio lo “spirito del
tempo” della nostra epoca. In effetti i filosofi della scuola distinguevano tre tipi di certezza:
metafisica, fisica e morale. Essi aggiungevano anche che la certezza più forte, assoluta, è quella
metafisica e non quella fisica e nemmeno quella morale. Per ragioni storiche, che sarebbe troppo
lungo presentare qui, questa distinzione classica ha perduto il suo significato proprio perché, in primo
luogo, la metafisica, lungi dal presentarsi come la sede più sicura della certezza, è tornata a essere
considerata come il campo delle discordie senza uscita, cioè come l’ambito da cui meno ci si può
aspettare una qualunque certezza. Nelle due Prefazioni alla Critica della ragion pura, Kant esprime
questo modo di vedere e lo formula dicendo che la metafisica non ha ancora trovato il modo di
mettersi “sulla strada sicura di una scienza”1.
Con ciò è già chiaro che la certezza è riservata all’ambito scientifico e, sebbene Kant non
dichiari che la matematica e la fisica esauriscono tale ambito, è molto significativo che esse
costituiscano i due esempi paradigmatici di scienza da lui considerati e che la metafisica (intesa nel
suo significato tradizionale) risulti esclusa da questo ambito. Kant, come sappiamo bene, rendendosi
perfettamente conto dell’importanza esistenziale, per l’uomo, dei problemi metafisici cerca di
riconquistare qualcosa come una certezza metafisica facendo dipendere la fiducia in alcune tesi
metafisiche fondamentali dalla forza della certezza morale, cioè una certezza fondata sulla
dimensione pratica della ragione, che tuttavia non ha validità di conoscenza intellettuale. Se
esaminiamo questa critica alla metafisica possiamo vedere che questa non era considerata una
conoscenza dei principi più fondamentali dell’essere ma uno sforzo di conoscenza che pretende di
* Le considerazioni relative alla conoscenza scientifica contenute in questo articolo sono ispirate al saggio di Evandro Agazzi, Temi e problemi di filosofia della fisica (Abete, Roma 1969) e agli altri contributi scientifici
di questo autore. A lui va la mia più sincera riconoscenza per il valore e l’utilità dei suoi suggerimenti. 1 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, traduzione e note a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1976.
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sollevarsi al di sopra di tutti gli insegnamenti dell’esperienza, utilizzando come suo materiale di
lavoro solamente concetti e pretendendo in tal modo di raggiungere l’ultra-sensibile.
Che una metafisica così intesa non potesse garantire la certezza era abbastanza naturale, però
non era questo il senso della “certezza metafisica” secondo la scuola.
Considerando ora le scienze esatte, è normale per il filosofo classico che esse non potessero garantire
una certezza assoluta, dal momento che esse possono offrire soltanto una certezza fisica che non è
mai totale. Però, che significa certezza fisica? Quasi tutti penserebbero che si tratti di una
certezza circa il mondo materiale cosicché, se facciamo molta attenzione a non mescolare elementi
“soprasensibili” nel nostro modo di pensare e parlare, il cammino verso la certezza ci si offre aperto.
Perciò si è prodotta quasi inavvertitamente una serie di identificazioni: quella della certezza con
scientificità, quella della scientificità con scientificità naturale, quella di scientificità naturale con
l’indagine del mondo materiale. Il filosofo classico invece, come abbiamo visto, definisce la “certezza
fisica” come quella che si basa sulle “leggi del mondo fisico” e che non è assoluta perché queste leggi
non sono state perfettamente conosciute nella loro universalità di validità. Perciò il filosofo classico
non è scandalizzato dalla crisi della certezza scientifica che si è prodotta all’inizio del ventesimo
secolo: è qualcosa che corrisponde alla natura propria di questo tipo di certezza. Al tempo stesso, il
filosofo classico non ha alcuna difficoltà ad accettare che i contenuti delle osservazioni e i risultati
degli esperimenti ottenuti nelle scienze naturali possiedano una certezza molto forte e quasi assoluta
perché tali contenuti godono di certezza metafisica, sebbene riguardino il mondo materiale2.
Si possono trarre quindi queste prime conclusioni: come risultato di un lungo processo storico
si era ridotto l’ambito della certezza a quello delle scienze esatte, però mescolando in questo concetto
di certezza (senza rendersene conto) le caratteristiche di due differenti certezze che la scuola aveva
distinto: il carattere assoluto della certezza metafisica e il carattere problematico della certezza fisica.
Venendo meno la certezza scientifica, la reazione che si produsse fu quella di una crisi di sfiducia
che sarebbe giustificata se si trattasse di una certezza metafisica e proprio questo si è verificato,
cosicché la crisi (parziale) della certezza fisica si è convertita in una crisi (totale) della certezza in
quanto tale. Si è trattato quindi di una reazione ingiustificata.
Bisogna anche aggiungere un’altra osservazione: si è detto che la crisi della certezza si è prodotta
scoprendo che era falso ciò che era stato considerato vero per molto tempo. Però, se analizziamo
meglio questo problema, constatiamo che rivela una mancanza di esattezza nella localizzazione della
nozione di verità. Ancora una volta le distinzioni dei classici risultano molto utili: essi concordemente
hanno precisato che la sede propria della verità è il giudizio. Chiediamoci dunque: “quali giudizi delle
scienze matematiche o fisiche passate si sono rivelati falsi”? In realtà nessuno, dato che tutto quel che
affermavano positivamente rimane valido e risulta solo che mancano della pretesa universalità
le teorie più generali che dette scienze avevano elaborato. Tuttavia nessuna ricerca nella filosofia
della scienza attuale ha potuto chiarire in modo soddisfacente che cosa significhi affermare che
una teoria è vera o falsa e sembra che in realtà si debbano utilizzare concetti differenti (come quello
della teoria più o meno “adeguata”) per esprimere questo tipo di valutazione. Inoltre risulta che nelle
scienze passate si trovi una quantità enorme di proposizioni vere, come quelle che descrivono
osservazioni, risultati di esperimenti, leggi empiriche, una volta che le si consideri dentro i loro limiti
di applicazione3.
Di conseguenza, la pretesa falsità concerne unicamente certe costruzioni teoriche che erano
state proposte per spiegare tali contenuti di giudizi veri.
1. Crisi della certezza e crisi della verità
La “crisi dei fondamenti” è stata considerata come la prova che non si poteva continuare a parlare di
verità nella scienza e questo perché alcune delle teorie scientifiche più accreditate si erano rivelate
2 Cfr. Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, trad. it., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2000. 3 Cfr. L. Velázquez, Verità e Certezza: La crisi dello scientismo e il realismo del senso comune, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
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imprevedibilmente false. Fino a dove, allora, si può giustificare questa affermazione? Certamente
presuppone una chiarificazione del concetto di verità (e in particolare di verità di una teoria) che gli
epistemologi del tempo sono stati ben lontani dal produrre. In secondo luogo, la scoperta dell’errore
imprevisto non mette in dubbio la capacità di conoscere la verità ma eventualmente quella di ottenere
la certezza. La mancanza di distinzione tra verità e certezza si trova alla base di tante critiche della
verità scientifica e in particolare costituisce un punto debole del falsificazionismo popperiano. Una
delle ragioni di tale mancata distinzione è stata, in alcuni casi, il fatto che il problema della certezza
è stato confuso con un mero problema psicologico legato alle credenze del soggetto e che, allora, non
è di interesse per il filosofo della scienza per il quale vale solo la conoscenza “oggettiva”.
Una questione, in certo senso preliminare, che si deve affrontare prima di entrare nell’analisi della
crisi della certezza scientifica, è quella di sapere se davvero la scienza moderna si caratterizzasse per
la pretesa di una conoscenza certa. In effetti, è molto comune oggigiorno descrivere lo spirito della
scientificità moderna come uno spirito di modestia e prudenza critica, cosicché sembrerebbe
storicamente ingiustificato caricare la scienza della responsabilità di aver indotto l’Occidente a
coltivare l’illusione di poter ottenere certezze assolute. Andiamo quindi a considerare come la scienza
moderna concepisca se stessa.
La crisi della certezza (che è un puro e semplice fatto) è stata percepita e vissuta come una
crisi della verità: se non c’è certezza questo significa che non c’è nemmeno verità. Su questo punto
tutta la tradizione classica, e anche i tomisti contemporanei che abbiamo considerato, hanno indicato
distinzioni al tempo stesso semplici e fondamentali. La verità o falsità è una proprietà intrinseca del
giudizio che esprime la sua conformità o non conformità con il reale mentre la certezza è uno tra i
differenti stati della mente di fronte alla verità, in particolare lo stato più perfetto nel quale la verità
del giudizio è riconosciuta con fiducia totale. Tutto questo ci indica che verità e certezza sono
connesse, però senza che tra di loro sussista una connessione di conseguenza logica.
Cioè:
a) La verità non implica la certezza, dato che non solo si può ignorare che un certo giudizio è vero
ma si può, in perfetta buona fede, dubitare della sua verità fino a che non sorgano elementi che
permettano all’intelligenza di avere sicurezza.
b) La certezza non implica la verità, dato che molte volte gli esseri umani sono stati certissimi di
giudizi poi risultati falsi (come il giudizio che la terra sia immobile al centro dell’universo e il sole le
giri intorno, e molto altro) e questa situazione è lontana dall’essere anormale. In poche parole, la
coincidenza di verità e certezza non è una relazione necessaria ma un ideale regolativo di ogni ricerca,
di ogni conoscenza. Scoprendo un errore in cui si è caduti, le nostre certezze si indeboliscono, però
al tempo stesso ci viene confermata l’esistenza della verità perché, se non esistesse nessuna verità,
non esisterebbe nemmeno l’errore e non ci sarebbe nessuna ragione per cambiare le nostre certezze4.
Il vero problema che si presenta, quindi, è quello di intendere come sia stato possibile avere
la certezza circa un giudizio erroneo, però questo non è altra cosa che analizzare le ragioni dell’errore
le quali quasi sempre consistono nel riconoscere che nel nostro giudizio si trovavano almeno elementi
parziali di verità, che sono stati presi come se fossero il tutto. La scuola, molto opportunamente, evita
di parlare di “verità apparente” perché tutto ciò che appare è, in un certo senso speciale, “vero” se lo
si prende limitatamente a quello che è il suo apparire (si tratta sempre di una rivelazione dell’essere
all’intelletto).
Però nel giudizio è facile affermare (o negare) più di ciò che strettamente appare e aggiungere
fattori (tipicamente generalizzazioni) che non sono giustificate. Tutto questo equivale a dire che, se
si tiene conto che la verità è sempre relativa agli oggetti che l’intelletto conosce, non è troppo
problematico ottenere questa verità a proposito di tali oggetti particolari e delimitati e ancora ottenere
una certezza quasi definitiva al riguardo. Così, di fatto, è successo nelle scienze esatte. La pretesa
scoperta della falsità di una certa teoria non è stata in realtà niente di più del riconoscimento del
carattere limitato del suo ambito di validità. Però, per esempio, nell’ambito di applicazione dei criteri
4 Cfr. ibid.
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di osservazione, di misurazione e applicazione della meccanica classica, questa continua ad essere
vera e in un senso ragionevole si può affermare che continuerà a esserlo sempre. La sua pretesa falsità
significa semplicemente che sono stati scoperti ambiti del reale in cui non potevano adeguatamente
essere utilizzati i suoi criteri di osservazione e di misura e anche i concetti che erano stati elaborati in
relazione ad essi. Il risultato di queste riflessioni è la conferma che nella scienza attuale
necessariamente continua a valere ciò che con eloquenza particolare Balmes ha affermato ai suoi
tempi, cioè che non è concepibile una scienza (in senso ampio) senza accettare l’idea di verità; che
ripugna all’intelletto accettare o applicarsi a studiare qualcosa di falso. Tutto questo corrisponde
all’atteggiamento spontaneo dello scienziato “al lavoro”, dello scienziato, che ha l’intenzione e la
convinzione di cercare la verità sebbene sia disposto a riconoscere che difficilmente ottiene una
certezza assoluta nonostante i suoi sforzi5.
2. Ragioni della mancanza di certezza
Le ragioni della mancanza di certezza che rimangono praticamente inspiegate nella maggior parte
delle posizioni epistemologiche attuali, si riconoscono facilmente se si tiene conto di ciò che i
pensatori classici hanno detto rispetto ai criteri della certezza e, in particolare, sottolineando che tali
criteri possono essere intesi come modulazioni di un unico tema cioè l’evidenza. A questo proposito
è opportuno distinguere il ruolo dell’evidenza immediata da quello dell’evidenza mediata.
Lasciando da parte la questione delle discipline matematiche e concentrandoci sulle scienze
empiriche non c’è dubbio che in queste, anche senza ammetterlo esplicitamente, si riconosce un
valore decisivo a un tipo di evidenza immediata, cioè a quell’evidenza immediata che non si limita
alla percezione sensibile del soggetto singolo ma che consiste nel captare dati grazie all’utilizzo di
strumenti specifici e standardizzati per ogni scienza particolare. Questo significa che il fisico
considera come sua evidenza immediata ciò che mostrano certi strumenti di osservazione e di misura
ben definiti e che questa non è la stessa evidenza immediata che accetta, per esempio, lo storico, il
quale si basa su ciò che registrano direttamente i documenti, o quella che accetta lo psicologo che
utilizza i risultati di certi test, e via dicendo. In poche parole: ogni scienza empirica si basa su
un’evidenza immediata, sebbene ciascuna delimiti tale evidenza secondo certi criteri specifici. Quel
che abbiamo detto è sufficiente per dimostrare che in realtà si accetta comunemente nelle scienze la
presenza di evidenze immediate che sono al tempo stesso garanzia di certezza e di verità (non
dimenticando che si tratta sempre della verità parziale che si ottiene utilizzando i criteri parziali e
specifici menzionati sopra).
La tradizione c’insegna che, quando non si dispone di evidenza immediata, si può a volte
ottenere la certezza grazie a un’evidenza mediata che consiste nel dedurre la verità di certi giudizi
non immediatamente evidenti dalla verità immediatamente evidente di altri giudizi. Nel caso delle
scienze empiriche i giudizi per i quali si cerca tale fondamento sono tipicamente le ipotesi teoriche e
queste non si possono dedurre dai dati che, in tali scienze, sono gli unici giudizi basati sull’evidenza
immediata. Come sappiamo bene, il processo che si adotta è quello inverso: si tratta di mostrare che
i dati risultano deducibili dalle ipotesi ma la stessa logica elementare c’insegna che la verità delle
conclusioni non è garanzia sufficiente della verità delle premesse e così non si può dire che le ipotesi
ricevano una riduzione (mediata) all’evidenza ma semplicemente che ricevono un certo grado di
conferma o probabilità6.
Si vede quindi molto chiaramente che per le scienze empiriche la concezione classica ci porta
a riconoscere che:
a) In esse si verificano molti casi di evidenza immediata e pertanto di certezza e verità.
5 Cfr. E. Agazzi, Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno, Fondazione Achille e Giulia Boroli, Milano
2008. 6 Cfr. ibid.
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b) In esse si verificano anche vari giudizi che non godono di evidenza immediata e nemmeno di
evidenza mediata, però che possono essere basati su differenti gradi di probabilità che si avvicinano
alla certezza senza raggiungerla completamente.
Se adesso consideriamo il fatto che l’evidenza immediata offerta dai criteri specifici di ogni
scienza si ottiene grazie a criteri standardizzati e anche che le conferme sperimentali che
incrementano la probabilità delle ipotesi hanno un carattere intersoggettivo, possiamo concludere che
il criterio del senso comune di Balmes, opportunamente inteso come lo sforzo di valorizzare il
contributo della ricerca intersoggettiva, offre un elemento di modernità proprio per apprezzare il
livello di certezza e di verità (mai assoluta né totale, però significativa) che si può ottenere nelle
scienze, senza lasciarsi scandalizzare da certi insuccessi dovuti essenzialmente a un eccesso di pretese
circa ciò che esse possono offrire.
3.Una visione realista della scienza
Riconoscendo che l’evidenza immediata gioca un ruolo indispensabile nelle scienze empiriche, si
sono gettate le fondamenta per affermare la portata realista di tali scienze, sempre che si sfruttino le
fini analisi della tradizione. In effetti, come abbiamo visto, mentre la certezza è un atteggiamento o
stato della mente di fronte alla verità, l’evidenza è una proprietà dell’oggetto e perciò si riferisce
all’altro polo, rispetto all’intelletto, cioè al polo del reale verso cui l’intelletto è aperto. Inoltre
l’evidenza immediata è tale che non può ridursi a una questione di coerenza logica dato che questa
non risulta immediatamente ma può essere il risultato di un complicato processo di analisi e
concatenamento logico.
Abbiamo già visto nell’Introduzione che la “svolta linguistica” della filosofia della scienza
attuale ha facilitato questo tipo di errore. Se tutto rimane all’interno del linguaggio, il massimo che
un’analisi di esso ci possa offrire è un quadro di coerenza logico-sintattica tra le sue proposizioni e
non c’è né criterio né ragione per privilegiare una di esse più che un’altra. In particolare, non esiste
la possibilità di dire, in base a criteri linguistici, che una proposizione sia evidente. Però, se per
giustificare il modo di procedere delle scienze empiriche siamo obbligati a dare spazio all’evidenza
immediata, con ciò siamo anche obbligati a rompere il circolo del mero linguaggio e perfino del mero
pensiero e riconoscere (come ogni scienziato spontaneamente pensa) che nelle scienze cerchiamo di
conoscere il reale e che abbiamo abbastanza successo in questo lavoro7. Questa conclusione è
confermata dalla seguente riflessione: se non esistesse una realtà rispetto alla quale confrontare le
nostre affermazioni scientifiche per giudicare fino a che punto siano adeguate ad essa, sarebbe
possibile affermare nella scienza qualunque cosa sotto l’unica condizione minima di rispettare la
coerenza logica. Si vede però che questo modo di pensare equivarrebbe puramente e semplicemente
alla svalutazione della scienza, a sopprimere ogni distinzione tra scienza e finzione, tra conoscenza e
invenzione.
Conclusioni
Ricapitolando ciò che la considerazione della crisi della certezza scientifica, alla luce di certe analisi
classiche, ci ha permesso di riconoscere, risulta possibile affermare che:
a) Non è vero che nelle scienze non c’è certezza: non si ha certezza totale e assoluta però ci sono
molti giudizi che possono fondarsi sul criterio basilare della certezza cioè sull’evidenza immediata.
Per molti altri giudizi si può ottenere un livello di giustificazione sufficientemente elevato in quanto
a probabilità e questo giustifica l’affidabilità della scienza presa nel suo insieme.
b) Non ha senso una ricerca che non presupponga la capacità dell’intelligenza di attingere il reale. Il
dualismo gnoseologico del quale si è parlato nell’Introduzione costituisce un errore che rende ancora
difficile intendere il senso vero dell’attività scientifica, che continua a essere una ricerca della verità.
7 Cfr. L. Velázquez, Verità e Certezza, cit.
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a) Non è necessario, per continuare questa ricerca, essere sicuri di conseguire certezze indubitabili.
L’essere umano è limitato e fallibile, però è sufficiente per lui sapere che non gli è precluso l’accesso
alla verità e che molte volte può raggiungere verità parziali con certezza o con sufficiente probabilità.
Questo è lo spirito della ricerca scientifica.
b) È vero che le scienze, prese nelle loro espressioni più generali, nella loro teorie, non presentano il
carattere di sapere certo in senso assoluto e che quasi tutte le affermazioni scientifiche sono in linea
di principio “confutabili”. Questo corrisponde al fatto, riconosciuto dalla tradizione, che nella scienza
si ha solo una certezza fisica che non è mai assoluta: allora non bisogna cercare nelle scienza una
certezza più elevata di quella che essa è capace di offrire.
c) Da questo segue che, se l’uomo vuole trovare certezze assolute, deve impegnarsi nella ricerca
metafisica dato che questa sola si delinea come uno sforzo di sapere incondizionato e radicale.
d) Per arrivare a questo tipo di certezza è necessario ammettere forme di evidenza più generali delle
evidenze parziali e specializzate delle scienze empiriche e sfruttare evidenze non strettamente
sensibili (per esempio di ordine morale).
e) Più importante ancora è riscoprire la forza del giudizio analitico nel suo significato autentico, il
quale, come indica Balmes, mentre da un lato sottolinea il fatto che tale giudizio non può essere
negato senza contraddizione, dall’altro non si riduce a una semplice ripetizione di ciò che già si
conosce perché l’analisi del soggetto permette di scoprire predicati che in esso esistono
necessariamente sebbene si richieda un lavoro intellettuale non facile per esplicitarli. Perciò potremo
dire che la ragione possiede un uso sintetico (nel senso kantiano di essere capace di produrre nuova
conoscenza) uso che le permette di aggiungere alla nostra conoscenza contenuti che oltrepassano il
livello del sensibile. Però essa lo fa già mediante un lavoro analitico che le garantisce il suo cammino
senza che questa analiticità significhi puramente e semplicemente comporre e scomporre concetti
senza scoprire nulla che non fosse già dentro l’esperienza. Solo recuperando questa fiducia nella
forza della ragione risulterà possibile vincere il relativismo scettico del nostro tempo, occasionato da
un’interpretazione arbitraria della crisi della certezza scientifica.
Lourdes Velázquez
BIBLIOGRAFIA
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J. Balmes, Obras completas, 8 Tomos, B.A.C., Madrid 1948.
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A. Livi, Filosofia del senso comune: logica della scienza e della fede, Ares, Milano 1990; nuova
edizione interamente rielaborata: Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010.
- Senso comune e logica aletica, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2005.
- Metafisica e senso comune, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010.
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I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, trad. it. di A. Pala, UTET, Torino 1997
Platone, Tutte le opere, trad. it., Newton Compton, Roma 2009.
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, trad. it., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2000.
L. Velázquez, Verità e Certezza: La crisi dello scientismo e il realismo del senso comune, Casa
Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
SOMMARIO
Questo lavoro non ha la pretesa di affrontare, in tutta la sua ampiezza, il problema della crisi della certezza nel pensiero filosofico contemporaneo; si cercherà semplicemente di considerare brevemente certe caratteristiche
più specifiche (rispetto ad altre forme di scetticismo che già sono apparse nella storia della filosofia). Durante
questa analisi ci renderemo conto di come molti dei risultati relativisti e scettici, che abbondano nell’epistemologia contemporanea, derivino dal fatto che sono stati mescolati piani di differente
considerazione, che avrebbero dovuto essere mantenuti separati (per esempio, il piano della verità e del
significato, della verità e della certezza, della certezza e della credenza, della soggettività e dell’oggettività,
ecc.). Risulterà quindi utile vedere se alcune riflessioni elaborate all’interno della teoria “classica” della conoscenza, e in particolare certe distinzioni che in essa erano state evidenziate, non siano in grado di apportare
luce e chiarezza anche dentro il dibattito contemporaneo.
SUMMARY
This work does not pretend to face, in all its breadth, the problem of the crisis of certainty in contemporary philosophical thought; one will simply try to briefly consider certain more specific characteristics (compared
to other forms of skepticism that have already appeared in the history of philosophy). During this analysis we
will realize how many of the relativistic and skeptical results, which abound in contemporary epistemology,
derive from the fact that plans of different considerations have been mixed, which should have been kept separate (for example, the plane of truth and meaning, truth and certainty, certainty and belief, subjectivity and
objectivity, etc.). It will therefore be useful to see if some reflections elaborated within the “classical” theory
of knowledge, and in particular certain distinctions that had been highlighted in it, are not able to bring light and clarity even within the contemporary debate
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X. Per una ridefinizione del rapporto utopia-distopia
di Shaban Zanelli
Chiunque voglia accostarsi a un problema di filosofia politica non può, in via preliminare, evitare di
fare i conti con il quesito relativo alla pregnanza pratica del nodo che è intenzionato a sciogliere
mediante la sua indagine. Questo dubbio risulta quanto mai legittimo qualora egli decida di occuparsi
di quella particolare forma di teoria politica rappresentata dalla progettazione utopica. Dunque,
perché cimentarsi in uno sforzo di ridefinizione teoretica di quel particolare modo di ragionare che è
usualmente considerato appannaggio dei soli sognatori, l’utopia, e del rapporto che intercorre tra il
prodotto di tale “vuoto raziocinio” e la sua controparte paranoide, la distopia?
In primo luogo, l’analisi che qui si cercherà di compiere, utilizzando come riferimento
soprattutto l’opera di Eric Voegelin, porterà a identificare l’utopia come fenomeno essenzialmente
moderno1. Tale dimostrazione verrà condotta mostrando come essa sia, prima di tutto, una città
dell’Uomo. Questo carattere sarà, infatti, in grado di mettere in luce la totale rottura con le varie forme
classiche dei viaggi nell’impossibile.
Secondariamente, parlare della sua primigenia componente gnostica, termine che tra breve
andremo a chiarire, ci mostrerà la sua inscindibile unità con quella particolare opera che dovrebbe
invece rappresentarne l’opposto: la distopia. Vedremo come proprio l’impostazione dell’escatologia
operata dalla nuova gnosi e i conseguenti metodi argomentativi che ne discendono siano intimamente
e indistricabilmente connessi con il fenomeno dei totalitarismi. Anticipo già che la tesi che intendo
sostenere è che utopia e distopia raccontano la medesima realtà: quello che cambia è solamente il
punto di vista scelto per raccontarla.
Concludendo questa introduzione occorre far notare come la nuova comprensione di questo
rapporto riveli la sua fecondità nel fornire un ulteriore elemento per rispondere efficacemente alla
crisi contemporanea. Infatti, se risulterà chiaro come proprio quella linea di pensiero contenente fin
dal suo apparire i semi della Weltanschauung contemporanea, che possiamo identificare con
l’immanentismo, ha generato quel fenomeno intrinsecamente totalitario che è l’utopia, potremo
meglio render ragione di quella particolare condizione del nostro tempo per cui a una estensione delle
libertà corrisponde un sempre crescente sentimento di impotenza. Unendo questo risultato alla
consapevolezza che il pensiero alla base della nostra epoca è nato dalla decomposizione (e non da un
superamento) del marxismo2, punto terminale del pensiero immanentista, nelle sue due componenti
principali allora ci troveremo nella posizione di comprendere i motivi della nostra impossibilità
all’azione. Infatti, il materialismo dialettico confluisce necessariamente nei fenomeni totalitari che
altro non sono che un tentativo di tradurre l’utopia nella realtà ed è proprio in quanto utopie che
vengono vissuti come incubi dagli uomini a essi soggetti; proprio questa connessione verrà suggerita
dalla nostra indagine. A livello puramente programmatico, in quanto lo sviluppo di questo argomento
richiederà un contributo ad hoc centrato sul pensiero di Aldous Huxley, possiamo accennare all’altro
1 L’utilizzo del termine moderno viene qui a indicare una categoria concettuale che si discosta, parzialmente, dall’indicazione storica a esso sottesa. Vogliamo riferirci a quella particolare linea di pensiero che,
opponendosi consapevolmente alla tradizione classica, rifiuta il pensiero trascendente e le concezioni
antropologiche che da tale metafisica discendevano. La funzione temporalizzatrice del termine moderno è solo parzialmente rifiutata poiché, certamente per quanto riguarda la filosofia politica, è indubbio che proprio nella
modernità storica tale linea di pensiero si è andata affermando, giungendo a ricoprire il ruolo di
Weltanschaunng dato che, se non esplicitamente accettata, comunque sottesa alla prassi politica
contemporanea. A questo proposito cfr. De Anna 2012a, De Anna 2012b, Del Noce 2010, Del Noce 2015. 2 È questa la tesi fondamentale da cui Augusto Del Noce prende avvio per il suo lavoro di interpretazione
transpolitica della storia contemporanea e per la sua impostazione della storia della filosofia come problema.
Per il primo aspetto, fondamentale per le osservazioni di carattere programmatico che verranno tra poco espresse, testo capitale, seppur spesso dimenticato, risulta essere Del Noce 1978.
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corno che discende da questo problema: il materialismo storico, costituendosi come relativismo
radicale, si nega la possibilità di rifiutare ogni realtà che il mondo gli impone non potendo che
limitarsi all’indignazione morale - quella stessa reazione che non salvò l’Europa dai nazi-fascismi3.
1. Definizione di un fenomeno gnostico4
Il politologo Eric Voegelin è noto soprattutto per la teoria, presentata nel 1952, contenuta nel suo The
new science of politics. In tale testo egli identificava una particolare corrente di pensiero, diventata
preponderante proprio nell’evo moderno, che poggerebbe le sue radici sull’antica tradizione
gnostica.5 Questa linea avrebbe rappresentato un moto di reazione ai principi dell’inconoscibilità
divina e del peccato originale emersi con la speculazione cristiano-paolina e con la teoria, da essi
derivante, della storia mondana intesa come saeculum senescens proposta da Agostino d’Ippona. Al
di là del suo sorgere storico, dobbiamo porre l’accento su due caratteristiche del fenomeno gnostico,
accomunate da un iniziale rifiuto del mondo.
Il primo punto della nuova gnosi che attira il nostro interesse è l’immanentizzazione
dell’eschaton cristiano, operata per la prima volta dall’abate calabrese Gioacchino Da Fiore. Tale
operazione teoretica, importando lo stato di perfezione ultraterreno all’interno della storia mondana,
ha come sua diretta conseguenza il rifiuto del peccato originale. Infatti, affinché l’uomo possa
raggiungere la beatificazione mediante le sue azioni deve essere in grado di farlo, deve essere
concepito come dotato nel suo intimo della capacità di tale perfezione e della possibilità di scorgere
la direzione attraverso la quale raggiungerla. La speculazione gioachimita darebbe cioè via al
perfettismo6, che viene figurato nell’idea di un’imminente e necessaria terza età: l’età della pienezza
dello spirito, il regno della libertà, ecc.…
Secondariamente è utile porre l’accento sul risultato conseguente agli schemi di
argomentazione gnostici: l’inibizione del pensiero critico. Se il fine ultimo dell’azione umana,
conseguentemente all’assunto perfettista, si trova a essere posto in una progressiva opera di
autoredenzione, il pensiero speculativo verrà investito del compito di mostrare la via attraverso cui
questo compito dovrà essere compiuto. Ma, poste queste premesse, ogni nuova concezione del
mondo, ogni rottura rispetto alla tradizione precedente, dovrà essere presentata come figlia di un
3 Non posso non anticipare come, a mio avviso, l’unica risposta a questa mancanza contemporanea sia da
vedersi nella riaffermazione del pensiero trascendente, l’unico in cui si possano riscontrare dei valori in grado di direzionare l’azione e di essere coerentemente considerati veri. «La vita - ti sto parlando di quella vita
umana che non è mai fatto puramente biologico - non possiede la prodigalità che le permetterebbe di donare
l’essere ai valori; al contrario essa ha fame e sete di essere; i valori sono le mammelle dell’essere, attraverso le quali la vita sugge il nutrimento senza il quale essa sarebbe vuota ed inutile». Sarti 1986, p. 55 (il corsivo è
nel testo). 4 La discussione dell’utilizzo da parte di E. Voegelin del termine gnosticismo, di per sé argomento essenziale,
non può essere condotta in questa sede. Nonostante questo, ritengo che un’analisi approfondita delle mitologie gnostiche e delle soluzioni al problema della trascendenza da esse ricavabili sia in grado di mettere in luce
diversi punti a favore della scelta dello studioso tedesco. Per quanto concerne la presente analisi basti
comprendere cosa si intenderà in seguito con il termine gnosticismo poiché proprio la tesi di Voegelin, relativa al carattere della modernità, costituisce lo schema concettuale da cui l’indagine prenderà le mosse. 5 Una tradizione che nell’interpretazione di Voegelin legherebbe, come un sotterraneo fil rouge, gli antichi
gnostici con la ripresa di alcuni loro temi in ambito medievale da parte di Scoto Eriugena. La sopravvivenza di alcune sette in grado di garantire un’effettiva continuità tra le manifestazioni del II e del IX secolo d.C. è
ancora in attesa di essere dimostrata. Un lavoro quanto mai arduo se pensiamo al carattere prettamente orale
del sapere esoterico. 6 Il rifiuto del peccato originale è alla base della corrente del razionalismo che A. Del Noce identifica, appunto, con l’assunzione che la ragione umana sia, in linea di principio, in grado di penetrare ogni mistero. Proprio lo
sviluppo coerente del razionalismo così inteso porterebbe a quell’irreligione naturale che è la morte di ogni
trascendenza (cfr. Del Noce 2010). Sul fecondo rapporto che intercorre tra i percorsi di Augusto Del Noce, Sergio Sarti ed Eric Voegelin non mi è, purtroppo, consentito soffermarmi.
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sapere superiore, come direttamente discendente dalla vera conoscenza; una conoscenza così nuova
da non poter essere discussa con i criteri della vecchia e che per questo assume un forte carattere
postulatorio.
Il pensatore gnostico (che Voegelin definisce, non a caso, profeta) e i suoi adepti non potranno, in
ragione dei loro stessi presupposti, accettare nessun confronto che non sia svolto sul terreno della
loro nuova rivelazione. In altre parole, il possesso della gnōsys, una conoscenza considerata tale da
poter garantire il passaggio a un nuovo eone, a un mondo nuovo, è considerato un fenomeno in grado
di legittimare una mutazione dello stesso criterio di verità. Non si può opporre al nuovo ordine
un’obiezione basata sul vecchio7.
A supporto della verità rivelata interviene poi la stesura di quello che può essere definito un corano
gnostico, ovvero un testo (o anche una raccolta antologica caratterizzata da un’ermeneutica
canonizzata) in cui il sapere del profeta sia condensato e che rappresenti l’unica fonte ammessa per
cercare la verità. Ogni considerazione che metta in dubbio la verità gnostica verrà sistematicamente
bandita tramite la riprovazione morale, un metodo coercitivo assai efficace, in base alla dichiarazione
profetica che interviene a dichiarare morti determinati quesiti. Di più, una volta che la rivelazione
gnostica viene rappresentata come l’unica via per estirpare il male8 dal mondo, ne consegue
direttamente che l’opposizione a essa non può che essere concepita come un ostacolo al necessario
affermarsi del bene, una barricata da infrangere senza remore e con qualsiasi mezzo: non c’è spazio
per una mediazione con il male. Si comprende a questo riguardo il giudizio del Voegelin secondo cui
“il totalitarismo, inteso come dominazione esistenziale di attivisti gnostici, è la forma conclusiva alla
quale approda ogni civiltà votata al culto del progresso”9. Ma cosa ha a che fare tutto questo con il
pensiero utopico?
Vorrei innanzitutto avanzare l’ipotesi di considerare le splendide vedute di Utopia come un
banco di prova. Come lo scienziato, volendo dimostrare le proprie teorie, crea ad hoc un apparato
sperimentale tentando di eliminare ogni variabile di disturbo, allo stesso modo il filosofo che crea un
modello politico mette alla prova le sue convinzioni con un esperimento mentale in cui ogni uomo
sia già passato, senza resistenze, al nuovo mondo da lui progettato. Come abbiamo visto, infatti, non
si può confutare il nuovo eone mediante i criteri del vecchio; la resistenza dei retrogradi va esclusa
fin da subito nelle sue pretese di validità al fine di mostrare l’esito di quel processo che verrà poi
definito rivoluzione10.
Chiarita la direzione dell’analisi mi si consenta di iniziare con un rilievo etimologico. È noto che la
parola utopia sia stata coniata inizialmente per indicare l’isola che, nella finzione letteraria, un
marinaio portoghese avrebbe descritto a Thomas More. Questo racconto venne pubblicato nel 1516
7 Si noti l’affinità, non solo casuale, con le categorie oggi comunemente utilizzate per valutare i pensieri: progressivo e reazionario. Due categorie concettuali della contemporaneità, quelle appena citate, che rivelano
una profonda dipendenza dalla filosofia della storia discendente dal pensiero di Gioacchino Da Fiore. 8 L’assunzione, in via di principio, della possibilità di eliminare il male nel mondo attraverso opera dell’uomo
è intrinseca a quel rifiuto del peccato originale proprio dello spirito della modernità. Ma è proprio questa posizione a costringere l’uomo a costruire utopie le quali, poggiando su questo fragile piedistallo, non possono
che imporre, totalitaristicamente, la propria idea. 9 Voegelin 1999, pp. 166-167. Val solo la pena di notare come il culto del progresso discenda da un’accettazione più o meno implicita dell’immagine del Terzo regno. Se tale accettazione è sottesa tanto alla
nuova gnosi quanto al nostro mondo (la dimostrazione della loro coincidenza è qui lasciata in sospeso) ne
consegue che queste società sono destinate a quel totalitarismo che riscontreremo nelle utopie. 10 Mi riferisco qui a quella che Del Noce definisce Rivoluzione totale, ovvero quell’atto unico e traumatico in
grado di mettere definitivamente termine al regno della necessità ed instaurare il regno della libertà verso cui
è proteso il razionalismo come suo fine ultimo. La Rivoluzione che è atto ultimo della filosofia del primato
del divenire. Vi è un altro modo di concepire la rivoluzione che non sia quello gnostico. Parliamo di quel particolare processo in grado di fondare, attraverso l’autentica critica filosofica, una nuova comprensione della
Verità. È questo l’orizzonte espresso in maniera organica in Sarti 1969. Sarebbe interessante affrontare
l’estrema affinità e la distanza di questi due pensatori italiani per comprendere perché Del Noce non giunge mai, e non pare poterlo fare, ad incontrare Sarti.
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con il titolo Relazione dell’eccellentisimo Raffaele Itlodeo sulla migliore forma di repubblica.
Nell’intenzione di More, la parola utopia veniva fatta derivare da ou-topos, come si evince dalla
lettera a Erasmo del 3 settembre dello stesso anno, e «aveva propriamente il significato di “non
luogo”, o “nessun luogo”, essendo il corrispettivo del latino nusquam»11. L’attenzione verso la non
esistenza dei luoghi è riscontrabile inoltre nella costruzione dei vari nomi che si incontrano nel corso
del testo: così, ad esempio, il fiume che passa per la capitale di Utopia è chiamato Anidro ovvero
“senz’acqua”. Ma il fatto di essere un non-luogo, di essere una realtà non incarnata e non incarnabile
non esaurisce il senso attribuibile al termine coniato da More.
Infatti è da notare come “già nella prima edizione del «libellus» moreano […] si trova un
breve componimento poetico di sei senari giambici (hexasticon) in cui si dice che Utopia, chiamata
così dagli antichi a causa del suo isolamento (ob infrequentiam), può emulare e forse superare la
costituzione delineata da Platone e per questo merita di essere chiamata col nome più adatto di
Eutopia”12. Il non-luogo che è il regno del bene, del massimo benessere possibile, si contrappone
dunque al luogo reale, al mondo che è costitutivamente permeato dal male.
In questo accostamento di bene e non-esistenza ci troviamo di fronte al tipo di risoluzione
gnostico del problema del male. Alla consapevolezza che il bene non può essere mai totalmente
presente nel mondo materiale, gli gnostici antichi e quelli moderni rispondono attraverso una
negazione della realtà effettuale. I pensatori del II secolo d.C. basarono questo rifiuto del mondo sulla
loro loro cosmologia che considerava l’uomo fondamentalmente estraneo ad esso. Diversamente, i
filosofi che, accettando i risultati di Voegelin, possiamo definire gnostici partono, nella loro
negazione del mondo, dalla considerazione che esso sia essenzialmente un’opera imperfetta,
manchevole, bisognosa di essere soccorsa dall’intervento umano e di essere sostituita dal mondo
nuovo.
L’utopia risulta infatti essere una rielaborazione della perfezione edenica che, collocandola in
uno spazio lontano, ha la funzione di portarla all’interno della contemporaneità. Trasporre lo stato di
perfezione all’interno della storia, infatti, vuol dire metterlo alla portata dell’uomo; immaginare
l’esistenza di alcune comunità di uomini puri implica concepire la caduta come un evento
contingente, figlio di un determinato sviluppo sociale proprio solamente ad alcuni popoli; vuol dire
ridurre il peccato originale a fatto storico, a errore da cui l’uomo può redimersi in virtù di quella sua
natura essenzialmente buona che si è andata corrompendo con il tempo. Portare l’Eden sulla terra è
diretta conseguenza dell’immanentizzazione dell’eschaton.
Che l’utopismo sia il frutto di questo processo di secolarizzazione dei simboli religiosi risulta
indubbio. Se ci rivolgiamo all’idea cristiana di perfezione, troveremo come la sua immanentizzazione
ci restituisca il perfetto quadro dei modi essenziali con cui il profeta del nuovo eone crea la visione
destinata ai suoi adepti.
Iniziamo con il notare che per il cristianesimo l’unica perfezione possibile è situata oltre il
tempo stesso ed è rappresentata dalla visio beatifica garantita dalla Grazia nella morte. La vita del
credente cristiano è modellata da questa idea di perfezione alla stregua di un unico viaggio in
preparazione dello stato di perfezione finale. Questo processo di santificazione della vita può essere
visto sotto due diversi punti di vista: “la prima componente è quella di un movimento teso alla
perfezione, […] in quanto movimento verso un fine, essa prende il nome di componente teleologica
[…]; e, poiché il fine è uno stato di altissimo valore, si definisce axiologica questa seconda
componente”13.
Dal peso relativo dato a ciascuna di queste due componenti nel processo di
immanentizzazzione prendono vita i modi peculiari dell’annuncio di ogni profeta gnostico. Così, “al
primo tipo di derivazione, quella teleologica, appartiene il progressismo in tutte le sue varianti.
Quando viene immanentizzata la componente teleologica, l’idea gnostico-politica pone l’accento
11 C. Quarta, Paradigma, ideale, Utopia: tre concetti a confronto in: Colombo 1993, p. 189. 12 Ibid. (il corsivo è nel testo). 13 Voegelin 1976, p. 23 (il corsivo è nel testo). I due termini derivano rispettivamente dal greco télos (τέλος) fine, scopo; e dal greco axios (άξιος) valido, degno.
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essenzialmente sul movimento in avanti, sul movimento verso una perfezione nell’ambito di questo
mondo”14, dando vita in questo modo a quella particolare condanna al movimento perenne che è un
indizio della stasi, della miticità, contemporanea che troviamo ben esposta nel mito del progresso15.
Per quanto riguarda il secondo tipo di derivazione, in quella axiologica “si insiste soprattutto
sullo stato di perfezione nel mondo. Le condizioni per un perfetto ordine sociale sono descritte ed
elaborate in maniera dettagliata e assumono la forma di un’immagine ideale”16. È chiaro come
l’utopia letteraria derivi proprio dall’immanentizzazione della componente axiologica dell’idea
cristiana di perfezione e come sia l’espressione più completa di questa modalità. Non sono però da
escludere da questa categoria tutte quelle visioni in cui lo stato finale viene presentato come un mondo
in cui sia stato definitivamente vinto un aspetto della realtà che viene a identificare il male tout court
(la proprietà privata, la nobiltà, la religione ecc.) e che costituiscono la gran parte di questo insieme.
Questa definizione dell’utopia letteraria ci permette di mostrarne la sostanziale unità con le visioni
partorite in seno agli innumerevoli movimenti millenaristi che infiammarono l’Europa per l’intera età
moderna, e di riscoprirne per altra via la comune radice gnostica17.
Il tipo di approccio che stiamo adottando è in grado di illuminare questa affinità alla luce del
comune errore dello gnosticismo. La stessa dinamica propria ai movimenti rivoluzionari gnostici, con
il profeta che crea le sue visioni a uso e consumo della massa dei fedeli, ci permette di scindere in
due componenti ogni formazione popolare rivoluzionaria. All’interno di essa possiamo infatti
distinguere un certo materiale di partenza, l’insoddisfazione degli individui oppressi nei confronti
della propria condizione, che viene spinto all’azione dal desiderio di affermazione del profeta che
attraverso la visione del mondo nuovo, o la rivelazione dei mezzi per ottenerlo, è in grado di
direzionare verso i suoi intenti le speranze generate dal malcontento. Tale meccanismo conferma,
rovesciandolo, il ruolo che Sarti rivendica all’intellettuale: se solo una nuova visione del mondo figlia
dello spirito critico porta alla Rivoluzione autentica, allora un’immagine visionaria, frutto di un falso
intellettuale, muoverà gli uomini ingannando i loro animi verso una rivoluzione destinata a fallire18.
Occorre, infine, soffermarsi brevemente su come ogni visione di questo tipo derivi i suoi
caratteri propri, che abbiamo lasciato per ultimi in questa esposizione, dal rifiuto della realtà tipico
della gnosi. Lo gnostico moderno, come quello antico del resto, non può che costruire la realtà di
sogno rovesciando i caratteri della sua esperienza concreta.
All’imprigionamento dello gnostico antico, straniero perché appartenente al Dio nell’abisso,
fa da contraltare il mondo vagheggiato dallo gnostico moderno come meta realizzabile, inversione
della realtà effettuale: “prosperità, libertà dal bisogno nella disponibilità dei beni; assenza della
proprietà; libertà dal lavoro come fatica; semplicità e naturalità del vivere, cui si connette la salute,
14 Ibid., pp. 23-24. 15 Il concetto di mito viene qui utilizzato in modo particolare, riferendoci a quanto sviluppato in Sarti 1969.
Riassumendo brevemente uno scritto assai prezioso possiamo qui dire che in questa prospettiva, basata sul
lavoro di Mircea Eliade e Vintilia Horia, il mito è concepito come un momento ciclico dello sviluppo di ogni
forma culturale. Tale fase interverrebbe nel momento terminale delle varie Weltanschauungen in cui esse, non riuscendo a rispondere alla propria epoca, si sclerotizzano condannando il loro mondo alla stasi. Si parla di
mito del progresso in ragion del fatto che, seguendo il principio di inerzia, anche il moto convulso e perpetuo
dei nostri tempi è, a ben vedere, immobilità. 16 Voegelin 1976, p. 25. Si noti che, come specifica Voegelin stesso, i diversi tipi di immanentizzazione sono
difficilmente rinvenibili in forma pura. Proprio da questa considerazione egli è indotto a identificare un terzo
tipo di derivazione in cui “entrambe le componenti risultano immanentizzate, e sono compresenti in essa sia la concezione dell’obbiettivo finale, sia la conoscenza dei metodi grazie ai quali è possibile raggiungerlo.
Possiamo definire i casi di questo terzo tipo come casi di misticismo attivistico.” Ivi, p. 26 (il corsivo è nel
testo). 17 Tale idea si contrappone tanto alle prospettive espresse in Colombo 1993 quanto a quelle presenti in Servier 2002. Purtroppo, nei limiti di questo lavoro, non mi è concesso entrare nel dettaglio di queste posizioni per
poter rendere ragione di questa contrapposizione. 18 Sull’inganno come componente necessaria alla speculazione gnostica cfr. Voegelin 1976, pp. 85-100. Il fallimento necessario a ogni rivoluzione totale è filosoficamente dimostrato in Del Noce 1978.
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l’assenza di malattie; uguaglianza, giustizia, amore, pace tra gli uomini; perciò, anche, assenza
dell’istituzione e della legge, superflue; e infine felicità”19.
Dunque la definizione che alla fine di questa panoramica potremmo tentare non potrebbe che
essere la seguente: ogni forma di progettazione utopica, non limitando questa al solo episodio
letterario, è frutto dello sforzo gnostico di figurare il nuovo eone, il mondo nuovo che sorgerà dalla
fine di quello presente.
2. Una città dell’Uomo: considerazioni su Utopia e Bensalem
Abbiamo precedentemente notato come al rifiuto del mondo si accompagni, nello gnosticismo
moderno, una fiducia smisurata nelle capacità umane. Al fine di mostrare in maniera più convincente
il carattere gnostico delle costruzioni utopiche moderne dimostreremo, nel presente paragrafo, la loro
componente perfettistica, il loro essere opere di autosalvazione in cui l’homo faber dimostra la sua
potenza.
Se le utopie elleniche20 avevano già compiuto un primo passo verso la scoperta della
perfettibilità umana, consentito dalla possibilità di intendere la caduta come un evento storico
contingente a seguito del ritrovamento (seppur immaginario) di popoli che, nella contemporaneità,
vivevano ancora nell’età dell’oro, le utopie moderne accolgono già dal loro inizio la definitiva
immanentizzazione dell’escatologia tipica dello gnosticismo.
A differenza del modello antico, in cui l’isolamento geografico era la condizione fortuita
grazie alla quale il popolo in questione era stato escluso dal processo di degradazione che aveva
coinvolto il resto dell’umanità potendo così mantenere l’originaria perfezione divina, le utopie
moderne prevedono un isolamento volontario, cercato affinché la corruzione del resto del mondo non
possa distruggere una perfezione creata artificialmente dalla giusta legislazione.
Possiamo quindi notare come, a dispetto delle pochissime restrizioni normative presentate nel
testo di More (ad esempio le punizioni nei confronti dell’adulterio o le limitazioni relative agli
spostamenti degli abitanti tra le città) e dell’insistenza portata sulla spontaneità degli atteggiamenti
giusti degli abitanti, le caratteristiche straordinarie dell’isola derivino in toto dall’opera del fondatore
Utopo che “conquistandola dette il nome all’isola, chiamata prima Abraxa, e che ne condusse le
popolazioni rozze e selvagge a quello stato di civiltà e cultura in cui superano ormai quasi tutti gli
uomini del mondo”21.
Non credo possa essere considerato casuale che questa profonda svolta in senso
immanentistico sia riscontrabile per la prima volta in un autore che era certamente a conoscenza
dell’opera di Marsilio Ficino22, il quale fondò nel 1459, per volere di Cosimo de’ Medici, l’accademia
platonica dando così vita all’Umanesimo italiano. Bisogna a questo punto notare un elemento
importante: «Cosimo de’ Medici aveva chiesto a Marsilio Ficino di tradurre le opere di Platone e di
Plotino; tuttavia, nel 1460, il principe acquistò un manoscritto che fu chiamato in seguito Corpus
hermeticum. Ficino lasciò perdere Platone per intraprendere la traduzione del Poimandres […] Il
Corpus hermeticum fu il primo testo tradotto e pubblicato da Marsilio Ficino»23.
L’influenza di Ficino nella formazione moreana ci permette dunque di far derivare il suo
pensiero da un platonismo interpretato con una forte connotazione gnostica: l’opera di un uomo in
19 A. Colombo, L’utopia, il suo senso, la sua genesi come progetto storico in Colombo 1993, p. 144 20 Intendo qui gli antichi resoconti di popoli straordinari e irraggiungibili come ad esempio la descrizione degli
Iperborei a opera di Ecateo di Abderia. A rigore il termine utopia è usato in maniera impropria per indicare
quelli che, più correttamente, possiamo definire viaggi nell’impossibile. 21 More 2007, p. 56. 22 Così ad esempio il curatore dell’edizione italiana dell’Utopia, Tommaso Fiore, lo definisce: «uomo dei suoi
tempi, rivolge però la sua ammirazione al Savonarola e poi al Pico», ibid., p. XL. Oltretutto lo stesso Fiore
nota come le citazioni di Platone riportate da More sono derivate dalla traduzione di Ficino. 23 Servier 2002, p. 70 (il corsivo è nel testo).
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grado di espellere il male dal mondo può esser considerata una logica conseguenza della
divinizzazione umana compiuta negli stessi anni dal filosofo italiano.
Insomma, l’accento posto da More sulle capacità poietiche dell’uomo, in grado di sostituirsi
a Dio stesso nell’opera di salvezza, potrebbe essere connesso all’antropologia ficiniana, per cui
«nessuno è divino che non sia umano, nessuno è umanissimo che non sia divino»24. Tale
divinizzazione dell’uomo mediante le sue potenzialità tecniche viene rappresentata da More
nell’azione di Utopo che, dopo aver conquistato una landa che «una volta […] non tutta era circondata
dal mare; […] fe’ tagliar la terra per 15 miglia dalla parte dov’era unita al continente e vi trasse il
mare tutt’intorno»25.
Che Utopia sia una città dell’uomo (una federazione di città in realtà) è provato inoltre dal
modo di concepire ciò che rende gli utopiani così degni di nota: le loro virtù.
More identifica, infatti, la radice di ogni sentimento contrario allo spirito di comunione e fratellanza
nella situazione di indigenza che certamente l’Inghilterra del suo tempo non mancava di presentargli.
«Ai suoi occhi, infatti, ciò che spinge gli uomini a compiere il male verso i propri simili, che è furto,
rapina, violenza, omicidio, è il bisogno»26.
In riferimento a questa considerazione iniziale il complesso di norme che strutturano
rigidamente il lavoro degli abitanti, in modo da consentire il massimo dell’abbondanza con il minimo
sforzo possibile, e l’abolizione della proprietà privata possono essere concepite come un rudimentale
apparato di condizionamento sociale il cui esito sarebbe proprio la moralità degli utopiani, un
meccanismo di passaggio a una nuova umanità priva del male.
Non possiamo dunque farci ingannare dal fatto che More presenti la situazione realizzata,
grazie ad un condizionamento sociale già concluso e perfettamente compiuto, in cui gli utopiani non
solo non sono più in grado di avvertire il peso della costrizione ma anzi ne portano fieramente il
giogo. Rendere la fine del male un effetto, un risultato, richiede un periodo transitorio in cui i
dissidenti dovranno essere immolati sull’altare della verità gnostica.
La stessa mitezza apparente delle pene, per cui i pochi che non possono essere amorevolmente
condotti verso la verità della città non sono costretti a forza ma semplicemente interdetti dal
“sostenere le proprie opinioni, ma soltanto presso il volgo”27, porta il segno di una caratteristica tipica
delle rivoluzioni che, per usare un termine coniato da Del Noce, si suicidano: “un fenomeno ignoto
all’antichità, che permea di sé le nostre società moderne in maniera così totale che la sua ubiquità non
ci dà quasi la possibilità di renderci conto di esso: il divieto di fare domande”28. Il dissidente non è
soppresso ma inibito in quanto, qualora parlasse, potrebbe minare la fede nella verità difesa
strenuamente dalle istituzioni.
Oltretutto, laddove More si impegna nel definire le virtù proprie degli utopiani, nonostante
affermi che «abbracciano dunque quelli di Utopia anzitutto i piaceri dell’animo, che giudicano primi
primissimi»29 egli impiega le pagine del suo scritto soprattutto nella descrizione del loro rapporto con
il piacere fisico, cimentandosi in una dettagliata classificazione delle varie tipologie di quest’ultimo,
e delle abitudini sessuali e matrimoniali degli abitanti dell’isola. Si comprende questa sproporzione
nell’osservare come «definiscono infatti virtù vivere secondo natura, giacché a questo noi siamo stati
24 La citazione è riportata da T. Fiore in: More 2007, p. XXXIX. La derivo quindi di seconda mano. Ulteriore
esempio dell’importanza dell’Umanesimo italiano nella scoperta della potenza creatrice dell’uomo è senza dubbio il riconoscimento, nell’opera di Pico della Mirandola, del proprio antecedente storico da parte del
moderno movimento Postumanista. La connessione del filosofo toscano con lo gnosticismo antico lumeggiata
poc’anzi costituisce certo un elemento a favore della teoria di Voegelin e delle sue scelte terminologiche. 25 Ibid., p. 56. 26 Corrado 1988, p. 45. 27 Ibid., p. 119. 28 Voegelin 1976, p. 77. 29 More 2007, p. 91.
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da Dio conformati; e che poi segue la guida della natura colui che nel bramare o fuggire le cose
obbedisce a ragione»30.
Compaiono dunque chiaramente nel testo di More i momenti chiave propri della nuova gnosi
e del razionalismo analizzato da Del Noce: 1) essenziale rifiuto del peccato originale e conseguente
rivalutazione positiva della natura umana; 2) esaltazione della ragione umana come strumento per
cogliere sia la possibilità della perfezione insita nella natura sia i mezzi per raggiungerla.
Basandoci sui risultati finora raggiunti possiamo affermare non già che “Utopia” a causa del
carattere impositivo della sua legislazione «[…] non risponde a pieno ad uno dei requisiti di base
dell’utopia: l’essere luogo perfetto»31 ma, al contrario, che essa ci si rivela nella sua essenza proprio
nel suo tentativo mancato di essere una società perfetta, poiché la stessa ricerca della perfezione
poggia sugli errori teorici rappresentati dai postulati di matrice gnostica.
Il carattere decisivo per l’identificazione dell’utopia in quanto momento in cui il razionalismo si
cimenta nella progettazione sociale, in cui esso figura il fine della sua opera politica, ovvero la
redenzione dell’umanità storicamente realizzata, apparirà in maniera ancora più chiara rivolgendo
l’attenzione all’opera in cui Francis Bacon tentò di immaginare uno Stato retto dai principi della sua
filosofia, una società conseguente la sua Instauratio Magna32: la Nuova Atlantide33.
Anche la società ideale immaginata da Bacon si situa su di un’isola sperduta e irraggiungibile
in maniera tale da poter essere incontrata dal gruppo di navigatori di cui fa parte la voce narrante
solamente a seguito di un naufragio.
Tale isola prende il nome di Bensalem, “nome che evoca insieme Betlem e Jerusalem,
alludendo così alla Nuova Gerusalemme, simbolo dell’escatologia millenaristica”34. Ma i riferimenti
espliciti o allusivi ad una cultura di tipo esoterico-gnostico non si fermano qui. Così, ad esempio, la
navigazione che porterà alla scoperta di Bensalem comincerà sotto l’auspicio di “buoni venti da
Oriente”35; il primo messaggero a venire incontro ai naufraghi «aveva in mano un bastone di canna
gialla coperto alle due estremità di blu»36 reca con sé una pergamena «suggellata da un timbro con
ali di cherubino, non aperte ma pendenti verso il basso, e una croce»37: tutti simboli di derivazione
rosacrociana38. Oltre a confermare la tesi della derivazione gnostica, questi simbolismi ci informano
riguardo alla “speciale fede religiosa in uso a Bensalem, secondo la quale si intendeva la scienza
come la migliore via per conoscere Dio e attuare il suo regno (che è anche il regno dell’uomo) sulla
terra”39.
30 Ibid., p. 84. Proprio questo accento vitalistico rivela l’inclinazione di More verso una filosofia
dell’immanenza. 31 Corrado 1988, p. 60 (il corsivo è nel testo). Faccio qui uso di una citazione del testo di A. Corrado rovesciandola però completamente di senso. La posizione qui sostenuta è infatti in contraddizione con quanto
da lei sostenuto nella sua opera, come già anticipato in precedenza. 32 Si noti che alla base dell’intera opera di Bacon vi è la convinzione che l’indagine scientifica della natura sia
la chiave per poter operare una restaurazione cosmica, una vera e propria opera di salvazione del mondo naturale che, senza l’azione umana, è condannato alla definitiva morte per senescenza. 33 Dobbiamo a William Rawley la pubblicazione postuma, nel 1626, di tale opera incompiuta. 34 G. Schiavone, Introduzione in: Bacon 2015, p. XIII, n. 7. 35 Ibid., p. 9. Ogni buon principio viene da Oriente e si conclude ad Occidente secondo la dottrina rosacrociana. 36 Ibid., p. 11. 37 Ibid., p. 13. 38 Sul rapporto tra l’ordine dei Rosa-Croce e lo gnosticismo basti qui ricordare come l’humus culturale
riscontrabile nei manifesti rosacrociani sia fortemente permeato delle speculazioni di matrice ermetica.
Importante è anche sottolineare che i manifesti rosacrociani sono un esempio di quell’ansia escatologica tipica
dello gnosticismo moderno nel loro annuncio di un prossimo rinnovamento delle scienze in grado di riportare l’umanità all’età dell’oro. Sul complesso problema della nascita del mito dei Rosa-Croce cfr. Yates 2011. In
particolar modo, per il rapporto con l’opera di Bacon si veda il capitolo Francis Bacon «all’ombra delle ali di
Jehova», ivi, pp. 155-167. 39 G. Schiavone, Introduzione in Bacon 2015, p. XLVI.
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Anche qui troviamo, come a Utopia, la figura del legislatore leggendario, responsabile con le sue
azioni della prosperità del luogo: Salomone. Egli «ordinò le interdizioni e le proibizioni all’ingresso
degli stranieri»40, esasperando così il tema dell’isolamento che aveva trovato spazio anche nel testo
di More. Utopia veniva separata dal mondo per motivi di difesa, lasciando però che i contatti con
l’esterno avvenissero in una qualche misura, seppur sotto il controllo delle autorità; anzi «in Utopia
viene accolto a braccia aperte chiunque vi arrivi per osservare il paese»41 Al contrario Bensalem, che
prima dell’intervento legislativo era coinvolta in vasti traffici commerciali, interrompe i contatti con
l’esterno vietando ogni sbarco agli stranieri, eccezion fatta per i naufraghi a cui è concesso di ristorarsi
tra gli agi, e il controllo totale, delle Case dei Forestieri. Gli stessi viaggi verso l’esterno sono impediti
tranne che ad alcuni individui particolari di cui parleremo tra poco.
Si può anche notare come non vi sia, da parte delle autorità di Bensalem, alcuna intenzione di
esportare la propria conoscenza superiore, di agire per la salvezza del mondo intero. Si intravede in
questo il tema della predestinazione di matrice puritana42, riscontrabile per altro in alcune sette dello
gnosticismo antico. Al contrario, gli utopiani, pur rinnegando la guerra, «ritenevano giusto
combattere per pietà di un popolo oppresso da tirannide, allo scopo di liberarlo con le proprie forze
(e lo fanno per filantropia) dall’oppressione e dalla schiavitù»43 concependo inoltre il loro modello
come essenzialmente esportabile, riuscendo a formare con gli abitanti delle terre in cui si espandono
“una comunanza di istituzioni e di vivere sociale”44.
Nella concezione di Bacon l’unica via verso la salvezza, verso la rigenerazione del cosmo, era
individuata nella scienza e infatti non conosciamo, salvo pochi esempi, provvedimenti relativi
all’ordine sociale dell’isola da lui immaginata. Di fatto l’intero racconto presta attenzione solamente
all’unica, centrale e mirabile opera del fondatore: la misteriosa e straordinaria Casa di Salomone.
Tale istituzione, una sorta di ordine monastico dedicato al culto della scienza, venne eretta per
indagare il mondo. È uno dei Padri appartenenti a essa a svelarcene lo scopo: «il Fine della nostra
Fondazione è la conoscenza delle Cause e dei segreti moti delle cose e l’allargamento dei confini
dell’Umano Impero, per effettuare tutte le cose possibili»45. I suoi membri, scelti tra gli abitanti più
dotati, dedicano la vita a questo scopo, costituendo così una casta privilegiata rispetto al resto degli
uomini che, infatti, non trova posto nella narrazione di Bacon. La separazione è netta, contrassegnata
nel testo anche dallo splendore degli abiti e dagli atteggiamenti che segnano l’apparizione del Padre
dell’ordine di Salomone che, dopo dodici anni, si reca presso una città
Egli, leggiamo, «aveva l’aspetto di chi ha pietà per gli uomini. Era avvolto in una toga di
pregiata stoffa nera […] indossava degli strani guanti, con pietre preziose, e scarpe di velluto color
pesca. […] Era portato in una lussuosa carrozza senza ruote, […]. Mentre procedeva, levava in alto
la mano nuda, benedicendo il popolo, ma in silenzio»46.
Scompaiono dunque le immagini di egualitarismo dell’opera di More; Bensalem è una società il cui
progresso è in itinere. L’indagine scientifica garantisce il futuro possesso di quella perfezione non
ancora raggiunta e chi è in grado di consentire questo sviluppo ha piena coscienza della sua posizione
di preminenza.
Solamente i Padri della Casa di Salomone, infatti, possono viaggiare fuori dall’isola, sotto
mentite spoglie, al fine di poter captare eventuali scoperte del mondo esterno che possano aiutarli
40 Bacon 2015, p. 51. 41 More 2007, p. 96. 42 Proprio l’analisi del movimento puritano, condotta attraverso la testimonianza del teologo e presbitero inglese Richard Hooker (1544-1600), è alla base della descrizione delle modalità d’azione gnostiche in
Voegelin 1999. La vicinanza di Bacon con il puritanesimo inglese è sostenuta sia in Yates 2011 che in Giglioni
2011. 43 More 2007, p. 106. Si noti come la figura di una società che si assume il compito di esportare il modello della rivoluzione mondiale sia presente in More diversi secoli prima di Marx. 44 Ibid., p. 69. 45 Bacon 2015, p. 83. 46 Ibid., pp. 77-79.
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nella loro impresa. Ma, cosa ancora più importante, solamente loro sono a conoscenza di tutto il
sapere scientifico accumulato dal loro ordine. In effetti, risulta essere essenziale per il funzionamento
della società lo svolgersi di «consulti su quale delle invenzioni e degli esperimenti che abbiamo
scoperto sarà reso pubblico e quale no; e comunque tutti facciamo un giuramento di segretezza, al
fine di celare quelli che reputiamo opportuno tenere segreti»47.
Gli uomini si sottomettono a questo dominio di buon grado poiché sanno che il loro benessere
e la speranza della perfezione futura derivano dal progresso scientifico assicurato dal buon
funzionamento della Casa. Tanto basta per garantire la loro totale soggezione.
L’opera di Bacon rappresenta, a differenza di quella di More, anche un esempio di
immanentizzazione della componente teleologica e, mostrando la via verso la perfezione e non il
nuovo eone totalmente realizzato, ci aiuta a comprendere meglio la presenza di un necessario
momento di condizionamento nella realizzazione della rivoluzione gnostica.
Rispetto a quel condizionamento costrittivo che, come abbiamo visto, diede inizio a Utopia,
l’imposizione delle leggi di Utopo, troviamo qui all’opera un condizionamento subliminale operato
attraverso il controllo delle notizie: un totalitarismo morbido in pieno Seicento.
Possiamo infine notare che Bacon descrive gli abitanti di Bensalem come dei buoni cristiani
ma, in realtà, la vera Religione che aleggia nelle pagine della Nuova Atlantide è una religione umana,
immanente: la scienza.
«Come il Dio delle religioni rivelate è circondato di mistero, e solo con un atto di fede si può credere in lui,
anche questa strana cittadella della scienza è circondata di mistero, è inaccessibile, e l’unica verità è il racconto che ne viene fatto. Lo scienziato che parla ai naviganti è il profeta della nuova religione, lui sa perché ha visto,
gli altri, invece, credono, o debbono credere, perché hanno fede»48.
La soppressione dell’opinione (o della sua condizione, l’accesso alle informazioni) appare
necessaria sia per Utopia che per Bensalem. Il maggiore grado di consapevolezza raggiunto da Bacon
trova la sua ragion d’essere nella progressiva radicalizzazione dell’immanentismo operatasi durante
il secolo che lo divide da More. Infatti, ad una religione inessenziale, limitata al rispetto di alcuni
dogmi universali come l’esistenza e l’immortalità dell’anima, priva di qualsiasi contenuto positivo
come il deismo razionale presentato dal suo predecessore, Bacon sostituisce una religione dell’uomo,
nonostante celi il suo volto presentando il suo fine come il raggiungimento della conoscenza di Dio
mediante le sue opere, secondo una linea di evoluzione dell’emergere dell’immanentismo che può
agilmente essere tracciata nella storia della filosofia. La scelta per un principio di immanenza, inoltre,
impone a tutte le utopie di rivolgersi alle condizioni materiali in grado di restaurare (o, una volta
liberate dalla metafisica, di creare ex novo) la natura umana; se non vi può essere esperienza
dell’anima non vi sarà alcuna possibilità di azione su di essa.
Pare così chiaro perché sia More che Bacon, qui analizzati come capostipiti dell’utopismo,
«insistono solo sui beni materiali, non c’è spazio per la felicità intellettuale […] né libertà
intellettuale»49. Il soprannaturale è stato ridotto all’immanente, la via della perfezione è stata
intravista, la contrapposizione è netta: non c’è libertà se non quella di ostacolare la marcia dell’intero
genere umano (o della propria isola) verso la felicità ultima. Una libertà la cui liquidazione si impone
quindi come un dovere morale. L’unica felicità ammessa è quella dell’uomo nuovo rigenerato dalla
rivoluzione, l’uomo che vive nel nuovo eone; non sorprende che chi resti ancorato alla vecchia
47 Ibid., p. 103. L’idea dell’ignoranza necessaria per accettare il proprio posto gerarchico è elaborata già in ambito gnostico. «L’idea gnostica di predestinazione ha però anche un secondo aspetto assai interessante. Essa
non determina, in base al piano della prescienza divina, le modalità della salvezza che alle anime è segnata a
seconda della loro natura, ma anche il fatto che ognuna spontaneamente si accontenterà della posizione
escatologica da essa raggiunta senza avvertire in nessun modo l’ambizione a passare ad una posizione diversa o superiore. […] questa beata ignoranza che per uno strano paradosso coincide con la massima conoscenza,
cioè con il raggiungimento della propria (relativa) identità», Magris 2011, p. 405. 48 Corrado 1988, p. 71. 49 Ibid., p. 76.
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concezione della vita non riesca a comprendere le grandi gioie del mondo nuovo: è cosa risaputa che
quanti vivono nel passato si impediscono le gioie più sublimi.
Costrizione e riduzione ontologica appaiono dunque, dopo aver analizzato alcuni aspetti delle
opere utopiche di Thomas More e Francis Bacon, momenti essenziali alla società perfetta proprio in
ragione del suo essere concepita come città dell’uomo. Lo sono proprio in ragione del suo appartenere
al mito della modernità, del suo esser prodotto della ragione gnostica che si propone di creare un
uomo nuovo50, che aspira ad una felicità e ad un modello di vita inconcepibili fuori dal mondo di
sogno.
3. Una splendida prigione: la distopia
Nell’arco temporale che separa Bacon dal Novecento il genere utopico subì certamente un processo
evolutivo, che lo mutò in due aspetti fondamentali: nel suo rapporto con il tempo e nel suo carattere
fideistico.
Per quanto concerne il primo, una volta che il riferimento alla purezza delle origini, nella sua duplice
declinazione rivolta al passato o al presente dei luoghi sconosciuti (si pensi alla convinzione di
Cristoforo Colombo di aver scoperto il Paradiso Terrestre), non fu più in grado di influenzare
l’elaborazione concettuale, la fiducia nella perfettibilità umana iniziò a essere proiettata in avanti: la
storia venne così concepita come un progresso lineare al cui culmine si situerebbe la fondazione di
Utopia. «Questo ottimismo trova infine la sua espressione maggiore nell’invenzione, da parte di L.S.
Mercier, dell’ucronia. In effetti, concependo nel 1771 l’universo de L’An 2440, Mercier, a differenza
dei suoi predecessori, non propone più una storia di ricambio, un “possibile laterale”, secondo
l’espressione di R. Ruyer: egli precorre il divenire storico»51.
Tale invenzione esplicita ancora di più la fede nella possibilità di raggiungere l’obbiettivo: la
perfezione non è più rappresentata come appannaggio di una ristretta élite geograficamente connotata;
è il futuro dell’intera umanità, bisogna solo trovare la strada giusta e percorrerla fino in fondo.
Lo spostamento dell’attenzione non già verso un passato perduto ma verso il da-venire può
essere sintetizzato da questa frase di Saint-Simon: «L’Età dell’Oro della razza umana non è dietro di
noi ma davanti a noi; essa si trova nella perfezione dell’ordine sociale. I nostri antenati non l’hanno
mai vista, i nostri figli vi arriveranno un giorno e spetta a noi spianar loro la strada»52.
Così, come ai tempi della diffusione dell’attesa millenaristica, le immagini del sogno vengono
nuovamente riconosciute come prefigurazioni della realtà, vengono inseguite, cercate, volute e, una
volta asciugato il sangue delle rivoluzioni, l’impegno e le speranze vengono puntualmente
ricompensate con un inevitabile pugno di mosche.
Questa insoddisfazione generale verso i crescenti fallimenti nella realizzazione della città perfetta
incrinarono la fiducia verso l’utopia in maniera così profonda da influenzare la stessa produzione
letteraria. Nel 1846 vide infatti la luce il romanzo Le monde tel qu’il sera di Émile Souvestre, il primo
esempio di distopia. In questo racconto, ambientato nell’anno 3000, le aspettative di progresso sono
state ampiamente disattese e, lungi dal consentire la fioritura dell’umanità, l’avanzamento tecnico
conclude nella creazione di uomini-ingranaggi all’interno di un ordinamento sociale.
50 Interessante riguardo al parallelismo tra gnosi antica e moderna notare quanto scrive Magris riguardo al
raggiungimento del sé: «Raggiungendo il mio Sé io non sono più «io», non sono più quello che ero secondo la mia umanità fattuale e mondana. L’identità gnostica di Salvatore e salvato sta a significare questo passaggio
radicale, questo salto che ognuno deve fare fuori di sé per trovare la propria identità autentica». Magris 2011,
p. 430. 51 R. Trousson, La distopia e la sua storia in: Colombo 1993, p. 21 (il corsivo è nel testo). 52 Citata in: Kumar 1995, p. 21. La citazione è tratta da: H. Saint-Simon, The Reorganization of European
Community, 1814 in F. Markham (a cura di), Henri de Saint-Simon: Social Organization, the Science of Man
and Other Writings, Harper and Row, New York 1964 (trad. di L. Gunnella). Non viene, purtroppo, riportato il riferimento relativo alla pagina.
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Tale approccio di esasperata sfiducia era destinato ad accrescersi enormemente dopo gli
sconvolgimenti causati dalle due guerre mondiali, dal sorgere dei totalitarismi e dall’impatto
devastante sull’immaginario mondiale rappresentato dal primo ordigno nucleare.
Ma che cos’è propriamente una distopia? Come cercare di definirla? Essa si contrappone
all’utopia? O piuttosto è, come l’utopia, un tentativo si sfuggire al presente condotto attraverso un
certo pessimismo di fondo? Credo che la risposta non sia così netta come può sembrare; non ci resta
che tentare di trovarla. A questo scopo ci aiuteremo con una breve analisi di due opere distopiche. La
prima è un romanzo del 1907: Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson.
In via del tutto preliminare ci sia consentito osservare come, in tutti i testi monografici
consultati, questo testo sia stato escluso dalle storie del genere. Effettivamente, a ben guardare,
l’intera trama non ruota attorno alla descrizione di un ordine perverso e già affermatosi nel mondo
bensì si rivolge alle sfortunate vicende della Chiesa cattolica in un immaginario futuro.
Il mondo descritto da Benson si presenta diviso in tre grandi sfere d’influenza: Occidente,
Oriente e Americhe, delle quali solamente la prima viene presentata all’interno del romanzo.
L’ambientazione principale è infatti Londra, che attorno al duemila si presenta trasformata dallo
sviluppo industriale e dalla vittoria del comunismo che parrebbero aver effettivamente garantito un
accresciuto benessere sociale.
L’aspetto che più interessa l’autore, piuttosto che un insieme di questioni politiche, è la
definitiva accettazione del principio di immanenza il quale, impostosi nel suo futuro immaginario, ha
causato la decadenza e la scomparsa di due istituzioni del vecchio mondo.
Il primo retaggio del passato a essere cancellato era stato quello delle università «un fatto
simile alla caduta dei monasteri sotto Enrico VIII, con gli stessi risultati, i medesimi argomenti e gli
stessi incidenti. Le università erano le fortezze dell’individualismo, come i monasteri del papismo, e
sono state guardate con diffidenza e paura. […] Eppure vi era più di una ragione perché continuasse
l’esistenza delle case religiose; se ammettiamo il soprannaturale, ammettiamo anche queste, direi
quasi per necessaria conseguenza. Gli istituti di educazione secolare devono invece offrire qualche
cosa di concreto e visibile per quantità e qualità; invece le università non sono riuscite a dimostrare
di aver prodotto qualcosa di notevole da tutti i punti di vista»53.
Benson comprese la stretta relazione tra la scomparsa della trascendenza e la scomparsa della
Verità tradizionalmente intesa nei suoi caratteri di eternità e oggettività. Una volta che tale processo
sia definitivamente avvenuto non vi sarà più spazio per la ricerca della conoscenza in quanto tale,
simboleggiata dalle vecchie istituzioni universitarie, ma solamente per la scoperta misurabile,
quantificabile; una misurazione che non può che avvenire secondo i criteri dell’utilità pratica.
La seconda istituzione destinata a scomparire nel corso del romanzo è la Chiesa, considerata
come esempio della religione trascendente. Sotto la pressione della secolarizzazione attuata sulla scia
della direzione politica, il cristianesimo si è riunificato, non riuscendo ad arrestare la progressiva
sconfitta nei confronti della nuova religione atea, coerente espressione dell’immanentismo in via di
totale affermazione.
«L’umanitarismo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sta per divenire esso stesso una religione, una religione però antisoprannaturale: […] l’uomo è Dio».
Negazione della trascendenza, fede nell’uomo, sua divinizzazione e sottintesa negazione del peccato
originale: uno schema che non può che portare alla soppressione della morale54.
53 Benson 2015, pp. 20-21. 54 Questa correlazione tra scomparsa della trascendenza e impossibilità dell’obbligazione morale è sviluppata
ampiamente in Del Noce 1978. Proprio in questo aspetto il filosofo italiano rinviene l’insuperabile rigore a cui
giunge, all’interno dell’immanentismo, la purificazione dagli influssi positivisti della filosofia della praxis marxiana operata da Giovanni Gentile.
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Gli sviluppi di questi due mondi contrapposti sono incarnati nelle vicende dei due personaggi
principali, entrambi dotati di un forte carisma: l’avventuriero politico Julian Felsenburg e il prete
cattolico Percy Franklin.
Il primo viene presentato, sempre in maniera indiretta, attraverso le notizie frammentarie delle
sue imprese fuori dal comune e, dopo il suo arrivo in Inghilterra, attraverso l’impatto che la sua
presenza causa negli uomini che accorrono ad ascoltarlo durante le sue apparizioni pubbliche.
Felsenburg può essere visto, a mio avviso, come l’incarnazione di quello spirito pratico che risulta
essere l’unico ammissibile dopo la vittoria dell’immanenza. Egli costruisce la propria fortuna sul
proprio carisma che lo rende in grado di incantare le folle e sulle vittoriose azioni politiche in giro
per il mondo, divenendo progressivamente oggetto di spontanee offerte di incarichi da parte degli
uomini politici del suo tempo; offerte che culmineranno nella sua nomina a Presidente del Mondo.
Non possono che colpire, soprattutto se si considera la data di uscita del romanzo, la precisa
prefigurazione dell’ascesa dei leader totalitari che nel giro di qualche decennio avrebbero popolato
l’Europa e l’importanza riservata al culto della personalità: Julian Felsenburg il Cristo degli atei55.
L’altro protagonista, le cui azioni sono narrate direttamente, sondandone così le emozioni e le
inquietudini, è invece destinato a diventare, con il nome di Silvestro III, l’ultimo Papa, in esilio a
Nazareth.
Durante tutto il romanzo, l’espansione dell’immanentismo, concepito come indispensabile al
progresso, alimenta, verso quei pochi retrogradi superstiziosi che ancora ostacolano il benessere
dell’umanità, un odio tale da culminare nell’evento traumatico della distruzione della città eterna.
Come in tutti i torbidi eversivi, basta infatti una scintilla, nel caso particolare del racconto la scoperta
di una congiura di cattolici, a causare l’incendio della rappresaglia. In questo caso, oltre che alla
cancellazione di Roma, la rivolta porta anche alla ratifica dell’ordine di eliminazione attraverso
l’eutanasia di chiunque si professi cristiano. Un caso limite che ben esemplifica il tipo di rapporto
usuale tra il seguace gnostico ed i suoi avversari.
Anche Percy/Silvestro, tradito da uno dei 12 cardinali che lo accompagnavano nel tentativo di far
rinascere la chiesa verrà infine eliminato, in una moderna rievocazione della passione a cui non segue
alcuna speranza di salvezza.
Il padrone del mondo parrebbe quindi essere un testo di denuncia, una messa in guardia della
possibile deriva autoritaria di quella particolare interpretazione del problema religioso che stava
guidando il processo di liberazione dell’uomo56. Un testo che quindi potrebbe essere visto
esclusivamente come una critica del presente storico vissuto da Benson.
Dunque possiamo intendere la distopia come mera critica del presente? Proviamo ad
accumulare ancora del materiale per la nostra indagine prima di accingerci a formulare una
definizione della distopia in grado di soddisfarci; lo faremo guardando brevemente all’opera più
conosciuta di George Orwell: 1984.
Anche qui, l’autore mette in scena un pianeta Terra diviso in tre sfere d’influenza: l’Oceania, l’Eurasia
e l’Estasia.
Al contrario di quanto abbiamo visto nel romanzo di inizio secolo, però, nella creazione
orwelliana la rivoluzione è un fatto già avvenuto, il cambiamento epocale realizzandosi con la già
avvenuta vittoria della nuova ideologia del Socing, simboleggiata dalla figura mitica e onnipresente
del Big Brother. Tale avvento salvifico ha finalmente posto fine alla proprietà privata e donato a tutti
un’occupazione per il bene della collettività; ora la popolazione appare suddivisa in tre caste in base
alle proprie attitudini: i membri del Partito Interno, i membri del Partito Esterno e la grande
maggioranza costituita dai Prolet.
55 “«Oh! Avere finalmente un salvatore!» esclamò Francis. «Un salvatore che si può vedere, pregare faccia a
faccia! È come un sogno, troppo bello per crederci»”. Benson 2015, p. 184. 56 Credo che proprio da questo modo di vedere il romanzo discenda la sua esclusione dalle varie storie
dell’utopia. Il padrone del mondo è considerato testo minore in quanto espressione di un più o meno accentuato
spirito di reazione cattolica, di una religione autoritaria e ormai destinata a essere sorpassata dai tempi; questa è proprio l’opinione che intendiamo rifiutare.
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Eppure, l’avvento del nuovo mondo non è accompagnato, come nelle visioni ottimiste di
More, dal benessere. Anzi, lo scenario appare tragico: «c’erano sempre state queste distese di case
ottocentesche fatiscenti, con i fianchi sorretti da travi di legno, le finestre rattoppate col cartone, i tetti
ricoperti da fogli di lamiera ondulata, i muri dei giardini che pericolavano, inclinandosi da tutte le
parti? E le aree colpite dalle bombe, dove la polvere d’intonaco mulinava nell’aria e le erbacce
crescevano disordinatamente sui mucchi delle macerie?»57 Questo lo spettacolo che si mostra alla
finestra del protagonista Winston Smith.
Egli, seppure impiegato all’interno del Ministero della Verità58, vive infatti in uno squallido
complesso di appartamenti, degna controparte di una vita segnata dagli svaghi collettivi, dalle
sigarette scadenti, dal gin che “sapeva di acido nitrico”59, dalla soppressione dei rapporti umani e,
soprattutto, dal controllo.
Per poter mantenere i risultati della rivoluzione, infatti, ad Oceania si applica una forma stringente di
controllo e di condizionamento degli appartenenti al Partito. Solo a loro è richiesta l’ortodossia
politica in quanto i Prolet, tenuti in uno stato di inferiorità culturale e di deprivazione costante, non
hanno semplicemente tempo per essere pericolosi.
Il livello totale raggiunto dal controllo ha certamente il suo simbolo privilegiato nel
teleschermo, l’apparecchio che non può mai essere spento e che ripete incessantemente in ogni casa
la propaganda preparata dal Ministero apposito osservando, allo stesso tempo, le reazioni, le
conversazioni, i gesti, di chiunque vi si trovi davanti. Il terrore e la metodicità delle forme di
repressione del dissenso sono spinte all’estremo fino alla condanna del pensiero stesso di rompere
l’ordine, fino a «quel reato fondamentale che conteneva dentro di sé tutti gli altri. Lo chiamavano
psicoreato»60.
L’onnipervasività del controllo distrugge inoltre gli stessi legami familiari: il matrimonio e la
procreazione sono dei doveri nei confronti del partito e null’altro, non deve esistere nessun amore se
non quello per la collettività, non deve esserci spazio per le emozioni ma solo per una lucida e fredda
razionalità.
Orwell è certo cosciente che non possa esistere una società fondata sull’isterismo collettivo,
sulla continua ansia e sulle continue frustrazioni ed infatti questo primo momento del controllo non
è che una parte totalmente funzionale al livello più raffinato di condizionamento.
Il saggista inglese, volontario durante la guerra di Spagna e spettatore attento degli eventi
della seconda guerra mondiale, imparò dalla sua epoca che «l’energia che dà veramente forma al
mondo scaturisce dalle emozioni (l’orgoglio razziale, il culto del comando, la fede religiosa, l’amore
per la guerra) che gli intellettuali liberali liquidano automaticamente come anacronismi»61. Appare
ovvio quindi come la sistematica repressione, così degli appetiti sessuali come delle emozioni
propriamente umane (amore, amicizia ecc.), sia un momento propedeutico all’esercizio rituale dei
Due Minuti d’Odio, in cui la frustrazione viene sapientemente proiettata verso la figura di Goldstein,
l’incarnazione del male, verso il nemico grazie al quale, per contrasto, viene sviluppato l’amore verso
il Grande Fratello62.
57 Orwell 2016, p. 7. 58 Erano presenti «quattro Ministeri fra i quali era distribuito l’intero apparato governativo: il Ministero della Verità, che si occupava dell’informazione, dei divertimenti, dell’istruzione e delle belle arti; il Ministero della
Pace, che si occupava della guerra; il Ministero dell’Amore, che manteneva la legge e l’ordine pubblico; e il
Ministero dell’Abbondanza, responsabile per gli affari economici». Ibid., p. 8. 59 Ibid., p. 9. 60 Ibid., p. 21 (il corsivo è nel testo). 61 Kumar 1995, p. 176. Kumar cita il brano da: G. Orwell, Wells, Hitler and the World State, 1941 in S. Orwell;
I. Angus (a cura di), The Collected Essays, Journalism and Letters of Goerge Orwell, Penguin, Harmondsworth 1970, II, p. 168 (trad. di M. Montecchi). 62 «Il significato del Puritanesimo del partito. Non era soltanto per via che il sesso, come credeva Winston,
creava nell’individuo un mondo proprio, al di fuori delle possibilità di controllo del Partito, e che, quindi doveva essere distrutto, quando fosse stato possibile. Quel che era più importante capire era che l’astinenza
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Ed infatti proprio per la soddisfazione degli appetiti sessuali passa la rivolta di Winston e di
Julia, una rivolta che si scoprirà fin dall’inizio orchestrata da un alto funzionario del Ministero
dell’Amore; non solo illusoria dunque ma perfino indotta dal sistema, con il solo scopo di curarla
per dimostrare la sua forza.
Eppure, è successo a Winston come a Julia, i tratti dell’umanità possono tornare a galla. Sotto
la scorza dell’irreggimentazione forzata cova ancora qualcosa che somiglia seppur vagamente a un
essere umano. Una qualche forma di libertà, di contestazione, parrebbe ancora possibile.
Per scongiurare questa eventualità il Partito è in fase di elaborazione febbrile di una nuova
forma di espressione, la Neolingua, in grado di scongiurare alla radice la possibilità di uno psicoreato;
non può esistere qualcosa che non si è in grado di formulare attraverso i propri pensieri.
«Il principale intento della Neolingua consiste nel semplificare al massimo le possibilità del
pensiero. […] Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni sarà
sempre più ridotta»63. Il nuovo apparato linguistico corona l’opera di condizionamento mentale che
passa per altri due momenti, l’adozione del bispensiero e la distruzione del passato, che sono
strettamente dipendenti l’uno dall’altro.
La riscrittura costante della storia è infatti essenziale al Partito per poter difendere sempre e
comunque la propria infallibilità; è proprio questo il lavoro che Winston svolge al Ministero della
Verità. Ma non solo, cancellare la storia collettiva, eliminare o falsificare ogni tipo di documento
scritto, vuol dire cancellare anche la storia individuale, vuol dire mettere in dubbio anche i dati più
immediati della memoria del singolo uomo. Contraddire una verità accettata da tutti quando ogni
possibile fonte attesta il contrario non può che portare il singolo a convincersi della sua stessa pazzia.
Un uomo senza passato è un uomo costretto ad accettare il presente.
«Quando la memoria faceva cilecca, e i documenti scritti erano falsificati […] quando avveniva tutto
questo, la pretesa del Partito d’aver migliorato le condizioni di vita doveva essere accettata, perché
non era mai esistito, né sarebbe più potuto esistere, alcun parametro per operare raffronti»64. Ma, se
questo può ragionevolmente funzionare per tutti quelli che erano all’oscuro del condizionamento, per
i Prolet e per quei membri del Partito Esterno che non svolgessero in prima persona il ruolo della
riscrittura del passato, per tutti gli altri occorre invece il soccorso del bispensiero.
«Bispensiero sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinioni palesemente
contraddittorie e di accettarle entrambe»65. Autoinganno cosciente che permea la società fino al suo
ultimo individuo per convincerlo che “La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è
forza”. L’unico spazio possibile per una ribellione sarebbe quello della Verità, ma la Verità non esiste
più, esiste solo quello che dice il partito. Siamo dunque ora in possesso di qualche elemento in più
per comprendere la distopia?
Certamente anche l’opera di Orwell è stata accolta e analizzata come una critica della società
del dopoguerra, in particolar modo dello stalinismo. Nonostante ciò sappiamo per certo che
l’intenzione dell’autore non era quella di criticare una data situazione storica o un particolare
sessuale produceva l’isterismo, un fenomeno da favorirsi, perché lo si poteva facilmente trasformare nell’infatuazione per la guerra e nell’adorazione dei capi. […] “Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio
di bandiere, queste grida di giubilo, non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido”». Orwell
2016, p. 139. 63 Ibid., p. 56. 64 Ibid., p. 98. Il tema dello sradicamento forzato dalla propria storia come preludio alla manipolazione degli
uomini, al loro asservimento a dei modelli di vita imposti dall’alto, ritorna in una parte della produzione letteraria contemporanea. L’interpretazione della Seconda Guerra Mondiale come di un evento in grado di
separare gli uomini dalla propria storia e il tentativo di evitare che ad essa segua necessariamente l’imposizione
di un unico modello globale di vita fu, nel mio modo di vedere, uno dei grandi motivi che mosse la penna di
Mario Rigoni Stern. Per comprendere questo aspetto della sua scrittura Cfr. M. Rigoni Stern, Sentieri sotto la neve, Einaudi, Torino 1999. «Guarderemo in silenzio il fuoco e a un tratto Carlo mi chiederà: “Ma tu, Mario,
scrivi ancora?” “Così. Racconto storie vecchie che andrebbero dimenticate”. Staranno zitti Carlo il pastore e
Barba Matío il mandriano. Staranno zitti e io mi unirò al loro silenzio». Ibid., pp. 62-63. 65 Orwell 2016, p. 220 (il corsivo è nel testo).
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fenomeno politico bensì quella di diffondere «una denuncia delle perversioni alle quali va soggetta
un’economia centralizzata»66 che facesse presente ad un vasto pubblico il fatto «che il totalitarismo,
se non è combattuto, può trionfare ovunque»67.
Capiamo, dunque, come 1984 debba in realtà essere letto come una critica dell’utopia fattasi
mondo, come il fine di Orwell fosse quello di mettere in guardia verso quel condizionamento degli
esseri umani che abbiamo visto essere elemento fondamentale alla costruzione di quell’organismo
collettivo che è la società perfetta gnostica.
Ma ancora di più, la distopia può apparirci ora nella sua reale essenza: è una critica portata
alla società totalizzante dal suo stesso interno, volta a mostrare quel carattere impositivo di utopia
che agli occhi dei viaggiatori rinascimentali non poteva apparire. Winston Smith è un uomo su cui il
condizionamento sociale e la visione gnostica non hanno attecchito fino in fondo, egli rappresenta la
rivoluzione vista dagli occhi di chi appartiene alla parte degli sconfitti; è un uomo che non è riuscito
a passare al nuovo eone ed il Partito manifesta tutta la sua umanità nel manovrare la sua psiche fino
a fargli dimenticare sé stesso e amare il mondo nuovo. Potremmo dire, senza pensare di azzardare
troppo, che, in fin dei conti, 1984 rappresenta Utopia vista da un cittadino dissidente, da un cittadino
che non essendo stato piegato dal suo apparato condizionante ne patisce i meccanismi estranianti.
Il limite di Orwell, a mio avviso, è stato quello di non riuscire ad intendere fino in fondo la
portata della minaccia totalitaria. Egli, dimostrandosi in questo un autore appartenente alla modernità,
si muove infatti all’interno di un mondo in cui la trascendenza non viene nemmeno chiamata in causa
come speranza di cambiamento. Anzi, la religione, lo si è visto, viene da lui inclusa in quelle forze
irrazionali che sono uno strumento del totalitarismo.
In aggiunta, e il suo coinvolgimento diretto all’interno dei fatti non potevano permettergli
nulla di diverso, egli si muove all’interno dell’interpretazione irrazionalista del fenomeno totalitario,
vedendo cioè il fenomeno dei fascismi come una sospensione della razionalità e non come il
coronamento del razionalismo68. Basti, a questo proposito, leggere quanto notato da Krishan Kumar:
«Le persone come Wells e Huxley, disse Orwell, «sono troppo equilibrate per comprendere il mondo
moderno». Il razionalismo impedisce loro di vedere le radici profondamente irrazionali, ancestrali,
del totalitarismo moderno»69. Egli imposta la ribellione dei suoi antieroi su quella stessa liberazione
vitalistica che si trova in realtà alla base dei fascismi.
Proprio qui entra in gioco Benson con la sua distopia non pienamente riconosciuta come tale, con il
suo romanzo di fantascienza apocalittica che, sebbene tacciato di essere reazionario, si dimostra in
grado di guidare la nostra analisi molto più di alcune sedicenti opere visionarie70.
Mentre 1984 rappresenta la critica, operata dall’interno, di un progetto utopico axiologico, Il
padrone del mondo costituisce il racconto di un mondo in cui il nuovo eone, concepito
teleologicamente, è in corso di realizzazione; è il racconto della battaglia finale della simbologia
gnostica vissuto dai perdenti, visto dalla parte del “male”.
66 Kumar 1995, pp. 162-163. Il testo citato è tratto da: G. Orwell, Lettera alla duchessa di Athol del 15
Novembre 1945, in S. Orwell; I. Angus (a cura di), The Collected Essays, Journalism and Letters of George
Orwell, Penguin, Harmondsworth 1970, IV, p. 49 (trad. di M. Montecchi). 67 Ibid. 68 È questa la tesi di Augusto Del Noce che, pur non potendo discutere qui, ho posto alla base della mia
comprensione del rapporto utopia-distopia (cfr. Del Noce 1978). 69 Kumar 1995, p. 175. 70 E, a ben vedere, l’etichetta di reazionario, concetto gramsciano che assume significato solamente all’interno
di una lettura gnostica del corso storico, ci dà un’ulteriore conferma del nostro giudizio. Reazionario è ogni
scritto, ogni pensatore, che ardisce opporsi al mito del progresso. Spesso una tale opposizione è invece motivata da un impegno per la verità. Non si vuol certo sostenere che ogni opera reazionaria sia depositaria di
questo valore culturale ma, certamente, si vuole raccomandare il lettore di analizzare criticamente cosa si celi
dietro ad un giudizio di tale sorta, al fine di non farsi sviare tralasciando, così, ciò che solo uno gnostico potrebbe voler confinare nell’oblio.
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Percy non è un anti-eroe, non combatte una battaglia di per sé fallimentare, ma è destinato alla
sconfitta a causa dell’inarrestabile potenza che il sogno è in grado di esercitare sugli uomini. Si noti
bene, la strada identificata dai suoi avversari per il realizzarsi della nuova umanità è l’imposizione di
un immanentismo radicale per tutti gli uomini. Quale nome risulta più adatto per l’utopia vissuta in
prima persona dall’ultimo Papa di Benson se non quello di modernità?
Benson dimostra di cogliere, ben più dei suoi più famosi colleghi posteriori, l’intima
connessione tra immanentismo e totalitarismo, tra assassinio di Dio e divinizzazione dell’uomo
espressa nel culto personale del leader. La sua superiorità su Orwell fondandosi sul fatto che ogni
visione del mondo che tenti di farsi strada dopo la scomparsa della metafisica, esito ultimo dello
gnosticismo, non può che portare al totalitarismo, che il bispensiero è necessario ad ogni gnostico, ad
ogni razionalista, nel momento in cui, decretando la fine della Verità, proclama sé stesso come il
profeta dell’unica realtà accettabile.
Quindi, coerentemente con quanto abbiamo appena affermato, possiamo in questa sede notare
come il mondo contemporaneo, che abbiamo visto essere identificato dall’adesione al principio di
immanenza, inizia a dimostrare alcuni punti di contatto con l’utopia. Il condizionamento intrinseco
alla nostra prassi sociale, infatti, pare derivare necessariamente dagli stessi principi teoretici da cui
prende le sue mosse il pensiero utopico. Possiamo dunque comprendere come la distopia,
denunciando i limiti del discorso utopico, possa apparire una critica del momento storico del suo
autore. Lo fa proprio perché è il mondo moderno ad essere sorto sulle basi del pensiero gnostico-
utopico, ad essere esso stesso un’utopia. La distopia è sempre in primo luogo un fatto vissuto, una
contraddizione sperimentata da chi, in modo più o meno conscio, continua a credere alla Verità eterna
ed oggettiva e all’importanza di salvaguardare la libertà che solo da essa discende, alla necessità di
impedire una decostruzione tecnica dell’uomo. La distopia è la verità gnostica dell’utopia guardata
dagli occhi degli uomini che non hanno ancora rinunciato alla libera ricerca aperta alla dimensione
della trascendenza.
4. Concludendo
Abbiamo iniziato il presente contributo enunciando la tesi secondo cui utopia e distopia si
rivelerebbero, ad uno sguardo attento, come due facce della stessa medaglia. Siamo riuscit i a portare
sufficienti elementi a sostegno di questa nostra opinione?
Analizzando il genere utopico attraverso l’opera di Eric Voegelin siamo stati in grado di
mostrare la fallacia delle premesse da cui muove. Basandosi, infatti, sull’arbitraria
immanentizzazione dell’escatologia cristiana, il pensiero utopico appare ora ai nostri occhi viziato da
un errore che non può non condizionarlo. Accettando la perfettibilità dell’uomo come suo postulato
iniziale, infatti, non fa altro che disconoscere le reali caratteristiche del mondo, condannandosi così
all’errore.
Allo stesso tempo, imboccando la strada che porta alla negazione della verità trascendente, esso si
vede costretto ad utilizzare i metodi gnostici del condizionamento e dell’imposizione totalitaria.
Ma, stando così le cose, appare ovvio che la distopia, lungi dall’opporsi all’utopia dall’esterno
o dal limitarsi a criticare degli erronei tentativi di traduzione della teoria utopica nel corso storico,
stringe con essa un rapporto di affinità ancora maggiore. Se intendiamo correttamente la portata del
carattere gnostico-totalitario di ogni modello politico che adotti i presupposti dell’immanentismo e
del perfettismo, non possiamo non notare come ogni tentativo di realizzarlo non possa che rivelare i
caratteri dell’incubo a chi non è ancora stato piegato alla logica del nuovo eone. Ogni utopia sarà
sempre una distopia guardata dagli occhi, e compresa attraverso le categorie concettuali ed i valori,
di chi è stato sconfitto, ma forse non superato, dal corso storico, dal seducente ed illusorio progresso
da essa rappresentato.
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Dovrebbe inoltre apparirci chiaro che una distopia è possibile solamente quando si consideri
fallibile il processo di condizionamento dell’utopia71, quando si pensi che l’uomo non possa essere
pienamente controllato, che in qualche modo un uomo riesca a non passare alla nuova umanità.
Abbiamo ottime ragioni per pensare che una ribellione, una critica anche magari priva di
riscontro effettuale, verrà sempre portata ad ogni imposizione totalitaria perché l’uomo fino a quando
non cesserà di essere uomo proverà insoddisfazione verso la sua condizione mortale. Se l’uomo è
uomo in quanto in grado di concepire la sua finitudine, in quanto capace di immaginarsi in confronto
all’eterno, ed era uomo anche prima che la cultura fiorisse oltre ogni aspettativa, quando decise di
incidere il suo mondo sulle pareti delle grotte di Lascaux non meno di quando il linguaggio consentì
a Dante di stendere le sue terzine, allora dobbiamo concludere che vi saranno sempre distopie vissute
fino a quando il modo di ragionare gnostico, rifiutando il mondo, costringerà a risolvere le sfide
dell’oggi immaginando utopie.
Shaban Zanelli
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71 In questa sede non posso che rivolgere un accenno ai problemi morali connessi all’idea di un
condizionamento potenzialmente infallibile come quello prospettato da Aldous Huxley in Brave New World.
Su cosa potremmo fondare il rifiuto di un totalitarismo che non lascia nessun uomo insoddisfatto se non argomentando nei termini di bene e male, se non adottando una prospettiva aperta al pensiero trascendente?
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SOMMARIO
Il presente articolo ha come suo scopo principale l’analisi del rapporto tra i due generi, apparentemente opposti, dell’utopia e della distopia. Le acquisizioni relative alla loro connessione rivelano la loro fecondità grazie ad
una loro possibile applicazione alle contraddizioni della prassi politica e sociale contemporanea.
Prescindendo dagli aspetti letterari, vi si mettono in luce gli snodi teoretici che hanno portato alla nascita di questi due particolari modelli di teoria politica utilizzando come principali guide i fenomeni dello gnosticismo
e del razionalismo così come vengono identificati, rispettivamente, da Eric Voegelin e da Augusto Del Noce.
Infine, centrale si rivela l’opposizione tra il pensiero trascendente e quello immanentista per poter comprendere
l’unità sostanziale dei due generi letterari.
SUMMARY
This paper analyzes the relationship between the opposite genders of utopia and dystopia, showing that their
opposition is only apparent. Moreover, the results achieved highlight some contradictions of contemporary
society and of its political praxis. The paper attempts at understanding the theoretical principles both utopia and dystopia by leaving out their
literary traits. The main tools of analysis are the concept of gnosis, as defined by Eric Voegelin, and the concept
of rationalism, in the particular interpretation given by Augusto Del Noce. The punchline is that the conflict
between the transcendent thought and the philosophy of immanence is the key to understand the substantial unity of the two genres.
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Pierre Aubenque, La prudenza in Aristotele. Prefazione di Enrico Berti, Traduzione di Faber Fabbris,
con un’inetrvista inedita all’autore, Edizioni Studium, Roma 2018, pp. 240.
La Prudence chez Aristote è uno dei più importanti contributi della letteratura aristotelica del XX
secolo, e indubbiamente fra quelli che hanno suscitato vasto dibattito sull’opera dello Stagirita. Se
Aristotele ha presente l’intellettualismo etico di matrice socratica (evocato nell’incipit dell’Etica
Nicomachea), si spinge anche molto al di là. Fra i punti più salienti dell’opera di Aubenque, c’è
l’interpretazione dell’etica aristotelica in termini di “intellettualismo esistenziale”: l’incertezza,
l’incompiutezza del mondo sublunare, rendono decisivo l’intervento della phrónēsis individuale (il
termine è tradotto dall’autore con prudenza, sulla scorta della terminologia ciceroniana). La virtù
scaturisce quindi dal ruolo e dalla scelta dell’uomo rispetto alle condizioni varie e mutevoli del reale,
piuttosto che dalla definizione ideale (platonica) del comportamento virtuoso. Indagando i rapporti
tra metafisica, cosmologia ed etica aristoteliche, Aubenque fornisce una chiave di lettura rinnovata e
convincente della riflessione morale dello Stagirita.
Massimo Borghesi, Hegel. La cristologia idealista, Edizioni Studium, Roma 2018, pp. 144.
Oggetto costante della riflessione di Hegel, dagli scritti “teologici” giovanili sino alle tarde lezioni
sulla filosofia della religione, l'interpretazione della figura di Cristo accompagna l'evoluzione del suo
pensiero: dal Gesù maestro di morale, alla maniera di Kant e degli illuministi, sino a quello
“panteistico”, di Francoforte e Berlino. Il risultato è una formulazione complessa per la quale il Gesù
storico dei Vangeli viene “superato” nel Cristo ideale e la croce del Golgota si trasforma nel “Venerdì
santo speculativo”. Il Calvario esprime la morte di Gesù e del Dio trascendente degli ebrei. Anche
Dio “muore”. E' da questa doppia negazione che sorge il “nuovo” Assoluto, il Logos universale
destinato a governare il mondo. Unendo finito e infinito il cristianesimo diviene la religione della
libertà, toglimento della differenza tra divino e mondano, premessa della secolarizzazione moderna.
In tal modo, come scrive Feuerbach, «La filosofia hegeliana è l'ultimo tentativo di restaurare con la
filosofia, il cristianesimo perduto, tramontato, e ciò, secondo un procedimento tipico dell'età
moderna, identificando col cristianesimo la negazione del cristianesimo».
Il volume, diviso in tre parti, ripercorre la cristologia hegeliana, dagli scritti giovanili a quelli della
maturità, mostrandone le svolte, i ripensamenti, le connessioni con l'insieme del sistema filosofico.
Esso analizza criticamente le interpretazioni della cristologia idealista, da quelle che la leggono come
la più imponente «cristologia gnostica» (Löwith) dell'era moderna; alle letture ateistiche dalla sinistra
hegeliana; alle suggestioni che segnano il pensiero teologico contemporaneo. Nella terza parte viene
indagata la christhologie idéaliste di Xavier Tilliette.
Fabio Corigliano, I nodi della trasparenza, Edizioni Studium, Roma 2018, pp. 2018
È utile (e necessario, o urgente) oggi, intraprendere una riflessione sul concetto di trasparenza? Può
essere vantaggioso che questa riflessione venga svolta con gli strumenti concettuali propri dell’analisi
gius-filosofica?
Il volume I nodi della trasparenza cerca di rispondere a queste domande, proponendo uno studio
dedicato al rinvenimento dei nodi di un concetto che pare essere veramente riferibile a tutti gli aspetti
della vita dell’uomo e della società contemporanea al fine di delimitarlo, di tracciarne, se possibile, i
confini. Nell’epoca della trasparenza e dell’assoluta visibilità è proprio la filosofia del diritto che deve
farsi carico di indicare l’intramatura teoretica della trasparenza nei luoghi in cui si manifesta con
maggior vigore, al fine di condurre all’osservazione dei suoi effetti etici, politici e giuridici.
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Il senso dell’operazione è questo: nella media dell’uso e delle pratiche quotidiane, si tratta di un
termine che appare superficialmente neutro, e addirittura neutralizzato dall’inflazione dell’utilizzo
medesimo. Sotto quella “scorza variopinta” dell’uso e delle pratiche dimora però un concetto a cui
non si fa attenzione, e che deve essere invece necessariamente e urgentemente sviluppato per
coglierne i motivi, i modi e i nodi, possibilmente per delimitarne il significato e scoprire che cosa può
effettivamente nascondersi sotto una parola a volte così lievemente pronunciata e impiegata, spesso
per ragioni molto contingenti di promozione politica.
Il volume parte dalla genealogia delle immagini architettoniche che hanno contribuito a fondare il
mito della trasparenza nel Novecento e si concentra quindi sull’individuazione del suo montaggio
istituzionale, mettendo in luce da un lato l'essenza della funzione di potere alla quale è associata, e
dall'altra la composizione immaginale del sistema nel quale si estrinseca. Soprattutto nel secondo e
nel terzo capitolo, quindi, l’analisi della trasparenza dell’amministrazione corrisponde
all’individuazione di una “pratica” all’interno della quale si manifestano al più alto grado i nodi
problematici della questione. La trasparenza dell’amministrazione non viene infatti mai trattata dal
punto di vista del discorso specialistico, della disciplina positiva che la contrassegna, ma sempre e
solo in quanto concetto utile e necessario a illustrare una certa tendenza fondamentale del nostro
tempo. In alcune parti del libro, infatti, si entra nell’analisi di alcuni termini specialistici, di alcune
parole chiave del vocabolario tecnico-giuridico, ma solamente per far emergere con più forza il
concetto, la chiave di lettura di uno dei momenti più caratteristici dell’attuale modo di essere
dell’amministrazione, del governo, della comunicazione, della società, dell’uomo, della
rappresentazione, dell’interpretazione.
Il volume pare avere come epilogo una domanda che non può ricevere una risposta diretta, ma che
vuole perlomeno avvertire dei possibili rischi derivanti da una trasformazione della politica del diritto
e dell’etica pubblica nel senso dell’ipervisibilità, della trasparenza totale: quali sono gli spazi riservati
all’intimità dell’uomo, alla sua libertà, in un regime di visibilità totale, in cui tutto parrebbe
subordinato alle imperative esigenze della trasparenza?
Vincenzo Filippone-Thaulero, Il darsi dell’origine nell’esperienza sociale e religiosa, Edizioni
Studium, Roma 2018, pp. 500.
“Il darsi dell’Origine nell’esperienza sociale e religiosa” raccoglie gli scritti sociologici, filosofici,
religiosi che Vincenzo Filippone-Thaulero ha pubblicato su rivista a partire dal 1956 al 1972, anno
della sua morte prematura. Questo primo volume dell’Opera omnia non solo ci restituisce il dibattito
vivo e polemico che muove gli studi delle nascenti scienze sociali in un’Italia attraversata dai
problemi della ricostruzione economica post-bellica e dal tumultuoso passaggio verso una società
industrializzata, ma delinea altresì il profilo di uno studioso che si confronta con la maggiore
tradizione del pensiero filosofico e sociologico (Comte, Marx, Durkheim, Weber, Simmel, Scheler,
Hartmann, Jaspers, Merton), lasciando una traccia indelebile del suo appassionato e “insistente” stile
di ragionamento.
La prima parte è dedicata alla lezione del suo maestro Luigi Sturzo. Il prete siciliano, dopo il ritorno
dall’esilio americano, vuole dar vita ad un istituto di ricerche per la divulgazione degli studi sociali.
Filippone-Thaulero è al suo fianco fin dal primo momento; commenta e illustra la “sociologia
storicistica” di Sturzo che si propone in alternativa alle filosofie idealistiche, marxiste, funzionaliste
in auge nel secondo dopoguerra. La difesa dello spirito religioso – come momento essenziale della
vita sociale dell’uomo – diventa il punto di riferimento obbligato in un frangente storico nel quale la
resa alla secolarizzazione e al disincanto dei valori sembra aver ridotto la ricerca di Dio ad una vuota
insensatezza.
La seconda parte introduce ai temi portanti della “sociologia dell’esperienza religiosa”. Filippone-
Thaulero partecipa a congressi e convegni internazionali sui problemi scottanti della presenza sociale
dei cattolici, del pregiudizio religioso e del rinnovamento della fede. Pur nella consapevolezza della
crisi che attraversa il mondo delle chiese e della vita religiosa, sospinto però dalle novità introdotte
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dal Vaticano II, Filippone-Thaulero mette a punto una analisi critica del momento storico per ritrovare
nel “darsi dell’Origine del Dio cristiano” il fondamento delle ragioni eterne e veritative andate perdute
nel confuso ribellismo di questi anni turbolenti. All’avanzare del relativismo e dell’indifferentismo
ideologico egli non reagisce con le armi del tradizionalismo conservatore. Anzi, affronta di petto i
problemi della modernizzazione sociale e del conflitto culturale in atto con l’acutezza dell’analista
che assiste al declino dell’autorità morale della società contemporanea.
La terza parte affronta da vicino il dibattito sociologico dei classici e degli studi recenti. In particolare
si segnalano le riflessioni sul problema del “risentimento” analizzato da Max Scheler, sull’autorità
in Weber e sull’Etica di Hartmann. La conoscenza sociologica, che il sapere tecnico-scientifico ha
ridotto a puro costruttivismo, a cognitivismo formale, non può evitare il confronto con l’analisi
dell’esperienza vissuta e con i gradi delle varie “aperture” ontologiche (l’altro, il mondo, Dio). Solo
questi ambiti conoscitivi predispongono ad una sapienza più rispondente alla pienezza valoriale e
metafisica della persona umana. In questi saggi vengono anticipati, in una sorta di confronto a
distanza, i temi dell’ontologia esistenziale di Heidegger, dell’alterità del volto umano di Lévinas e
della fenomenologia della donazione di Marion.
Queste brillanti anticipazioni, che Filippone-Thaulero persegue pur nella costante fedeltà alla
tradizione agostiniana e tomista, conducono l’autore su posizioni che vanno oltre il dettato
fenomenologico, per giungere finalmente alla valorizzazione della conoscenza come receptio, ascolto
della parola divina, in un atteggiamento di “puro abbandono” alla Sapienza di Dio. La “costruzione”
soggettivistica del sapere è insufficiente per affrontare la complessità della vita sociale e promuovere
la dignità profonda della persona umana. Solo la meditazione adorante della divina oblazione può
prefiggersi questo compito e allontanare nel contempo i rischi di una esistenza relegata al puro
contingente.
Calogero Caltagirone, Amartya K. Sen. Tra economia ed etica, Edizioni Studium, Roma 2017, pp.
176.
La necessità di tornare a formulare le esigenze etiche anche nel campo economico ha richiesto la
rimessa in discussione della relazione tra etica ed economia. Infatti, l’individuazione e la definizione
degli elementi assiologici della teoria etica in relazione all’economia, allo scopo di costruire un
modello etico globale per discernere e trasformare le diverse situazioni della realtà socio-economica,
ha determinato l’esigenza di individuare la possibilità di discernere la coerenza morale della vita
economica, incominciando dalla valutazione dei sistemi economici visti come quadri nei quali si
configura l’economia e di giungere, infine, al discernimento etico di situazioni economiche concrete
nelle quali si realizza il sistema economico globale. Questa considerazione è di estrema importanza
nell’attuale contesto culturale perché la maggioranza degli economisti, anche se non nega
l’importanza dell’etica, sia a livello individuale, sia a livello sociale, ritiene ancora che economia ed
etica siano da considerarsi come due campi completamente separati, in ragione del fatto che, secondo
loro, l’introduzione di una «contaminazione» dell’etica nell’economia equivarrebbe a mettere in
discussione il carattere scientifico dell’economia stessa.
Tuttavia, il riconoscimento dell’autonomia della realtà economica non necessariamente porta a
contraddire la possibilità del giudizio morale, anzi, conduce a comprendere, anche, come la ragione
etica, lungi dal menomare l’autonomia e il dinamismo progressivo della scienza economica, aiuta a
trovare la via di un’economia più umana e, quindi, più autentica. Questo perché la correlazione tra
economia ed etica sussiste e il problema della legittimità di tale relazione acquista una sua consistenza
riflessiva imprescindibile e non più procrastinabile nell’attuale contesto socio-economico. Infatti, ciò
che emerge, nell’oggi, con sempre maggiore evidenza, è la necessità di riproporre e rimodulare il
rapporto tra economia ed etica, sviluppato nelle forme di una reciproca correlazione, orientato a far
emergere la consapevolezza che l’economia, non potendo essere ridotta a pura economicizzazione, è
caratterizzata dalla presenza di un insieme di variabili che vanno attentamente valutate nella
prospettiva di una promozione umana globale.
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Un contributo significativo, che si colloca nell’ambito della ridefinizione dei rapporti tra etica ed
economia, teso a conferire alla visione della «ricchezza» e dello «sviluppo» una declinazione
antropologica ed etica, è certamente quello di Amartya K. Sen, economista indiano, premio Nobel
nel 1998. Questi, grazie alla valorizzazione della capacità di fare e di essere di ogni uomo, propone
una prospettiva etico-economica configurata non solo in termini di utilità e benessere, bensì nei
termini di un ideale ampio di «fioritura umana» (human flourishing), orientato alla realizzazione
piena e compiuta della vita umana intesa, aristotelicamente, come vita riuscita. Il confronto con la
visione di Amartya K. Sen, sviluppata in questo libro, intende contribuire alla elaborazione di una
proposta teorica in grado di rendere conto della prospettiva dello sviluppo umano sulla base di
principi non esclusivamente economici.
Antonio Sabetta, Un’idea di teologia fondamentale tra storia e modelli, prefazione di G. Lorizio,
Studium, Roma 2017, pp. 458.
Una delle peculiarità della fede cristiana da sempre è stata l’esigenza avvertita, e presente già nel
Nuovo Testamento, di “rendere ragione della speranza” (cf 1Pt 3,15ss); accanto al credere, i cristiani
hanno sempre tentato di dire sia a loro stessi sia soprattutto a quanti non credevano, i motivi per cui
avevano aderito a quella fede. Questo dare ragione ha attraversato i secoli, articolandosi in categorie,
sottolineature ed accenti diversi a seconda dei contesti e degli interlocutori a cui si cercava di mostrare
la ragionevolezza e la plausibilità della fede cristiana.
Il cristianesimo ha sempre rifiutato l’idea del “credo quia absurdum”, sostenendo invece che la fede
cerca l’intelligenza (fides quaerens intellectum), cioè può essere compresa ed è intellegibile. Accanto
al tentativo dei singoli cristiani, è nata anche una disciplina teologica che nel cuore del suo riflettere
ha messo a tema le ragioni della fede rispondendo alla domanda circa il perché un uomo, quale che
sia la sua cultura o collocazione storica, dovrebbe credere, e perché la rivelazione cristiana si
autocomprende come l’esperienza che incontra il bisogno d’infinito e il desiderio di Dio che gli
uomini hanno permanentemente manifestato nella storia. Allo stesso tempo, la teologia fondamentale
– questo il nome della disciplina un tempo meglio nota come “apologetica” – si è impegnata a
rispondere alle obiezioni di chi ha visto o la religione in generale o la rivelazione cristiana in
particolare se non una menzogna quanto meno qualcosa senza valore veritativo e senza utilità per
l’uomo.
Il volume di Antonio Sabetta ricostruisce come i teologi hanno dato forma scientifica ed accademica
alle ragioni della fede. La prospettiva è prettamente storica: si comincia con l’età patristica e con
autori quali Tertulliano, Giustino, Clemente, Origene, Eusebio, Agostino per poi proseguire con il
medioevo dove campeggiano le figure di Anselmo, Bonaventura e Tommaso d’Aquino. Segue la
sezione più ampia del volume dedicata alla modernità, epoca in cui prende forma un’apologetica
duratura profondamente condizionata dalla critica della rivelazione di stampo deista e illuminista, da
Spinoza e Locke fino a Lessing, e segna autori tanto protestanti quanto cattolici come Grozio,
Abbadie, Clarke, Hooke. Ci si sposta quindi sul Novecento teologico dove sono analizzate le
prospettive di alcuni modelli ed autori significativi per la disciplina, da Blondel a Rousselot, Rahner,
Balthasar, Alfaro, Verweyen, Waldenfels. Infine l’autore raccogliendo le istanze emerse nel percorso
storico, riprende e rielabora l’idea di teologia fondamentale della Scuola Lateranense
(originariamente formulata dal teologo G. Lorizio) e che in definitiva si può riassumere attribuendo
alla disciplina il compito di mettersi in ascolto del proprio tempo per comunicare nei contesti della
contemporaneità la fede, affinché, ancora oggi, possa aver senso credere. Il volume in questione
formula solo l’istanza, ne seguirà un altro che declinerà l’idea articolata.