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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Corso di Laurea Specialistica in Biologia Marina Studio del potenziale genotossico del biossido di titanio TiO 2 su colture cellulari di tursiope (Tursiops truncatus) Relatori Candidata Prof. Marco Nigro Stefania Tendi Dott.ssa Giada Frenzilli Matr. 274061 Anno accademico 2010-2011

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di Laurea Specialistica in Biologia Marina

Studio del potenziale genotossico del biossido di

titanio TiO2 su colture cellulari di tursiope

(Tursiops truncatus)

Relatori Candidata

Prof. Marco Nigro Stefania Tendi

Dott.ssa Giada Frenzilli Matr. 274061

Anno accademico 2010-2011

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INDICE

RIASSUNTO...............................................................................................................................................4

ABSTRACT ................................................................................................................................................5

1 INTRODUZIONE ...............................................................................................................................7

1.1 BIOSSIDO DI TITANIO .............................................................................................................. 7

1.1.1 Biossido di titanio e la nanotecnologia .................................................................................11

1.1.2 Fonti naturali e antropiche....................................................................................................13

1.1.3 Caratteristiche morfologiche delle nanoparticelle e captazione cellulare. ..............................15

1.2 EFFETTI DEL TiO2 SUI SISTEMI BIOLOGICI ........................................................................17

1.3 ECOTOSSICOLOGIA NEI MAMMIFERI MARINI ..................................................................20

1.4 LO STUDIO DEL DANNO AL DNA .........................................................................................23

1.4.1 Mutageni diretti, indiretti e promutageni. .............................................................................25

1.4.2 Metodi per la valutazione del danno al DNA ........................................................................27

2 SCOPO DELLA TESI ...................................................................................................................... 35

3 MATERIALI E METODI ................................................................................................................ 37

3.1 ALLESTIMENTO DELLE COLTURE DI LEUCOCITI .............................................................37

3.2 ALLESTIMENTO DELLE COLTURE DI FIBROBLASTI ........................................................38

3.3 SOSTANZA UTILIZZATA ED ESPOSIZIONE .........................................................................39

3.4 TEST DEL TRYPAN BLUE PER LA VITALITA’ CELLULARE ..............................................41

3.5 COMET ASSAY .........................................................................................................................42

3.6 TEST DEL MICRONUCLEO .....................................................................................................43

3.7 VALUTAZIONE DELLO STATO DI AGGREGAZIONE DELLE PARTICELLE .....................45

3.8 ANALISI STATISTICA..............................................................................................................45

4 RISULTATI ...................................................................................................................................... 46

4.1 MICROSCOPIA ELETTRONICA A TRASMISSIONE ..............................................................46

4.2 VITALITA’.................................................................................................................................47

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4.3 DANNO AL DNA.......................................................................................................................50

4.3.1 Risultati leucociti .................................................................................................................52

4.3.2 Risultati fibroblasti ..............................................................................................................60

5 DISCUSSIONE ................................................................................................................................. 76

6 CONCLUSIONI ................................................................................................................................ 82

7 BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................................. 83

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RIASSUNTO

In questo studio viene valutato il potenziale genotossico di particelle di biossido di titanio (TiO2),

un materiale ampiamente utilizzato nella produzione di cosmetici, filtri solari, vernici, materiali da

costruzione ed impiegato in svariati processi quali, l’industria della carta ed il trattamento delle

acque reflue. Un così vasto impiego implica un altrettanto elevato rischio di rilascio nell’ambiente

acquatico, infatti il biossido di titanio è comunemente ritenuto un contaminante emergente nel

prossimo futuro. Tuttavia, la maggior parte delle informazioni presenti in letteratura riguardano i

possibili effetti del biossido di titanio sulla salute umana, mentre pochi dati sono disponibili sul

potenziale ecotossicologico di questa sostanza sugli ecosistemi acquatici, ad eccezione di alcune

indagini su invertebrati e pesci. Questa tesi ha lo scopo di valutare il potenziale genotossico del

TiO2, nelle due forme cristalline rutilo e anatasio, su un predatore terminale della catena trofica

marina, il cetaceo odontocete Tursiops truncatus. L’indagine è stata effettuata su leucociti prelevati

da 5 individui (4 maschi e 1 femmina) allevati presso il parco acquatico ―Oltremare‖ (Riccione) e su

fibroblasti isolati da biopsie cutanee (ottenute nell’ambito di una collaborazione con il Dipartimento

di Scienze Ambientali di Siena). Inoltre, sono stati indagati gli effetti del TiO2 anche su cellule

umane e murine al fine di valutare in modo comparativo la risposta del tursiope al TiO2, con quella

di altri mammiferi. Per il trattamento dei leucociti sono state usate tre dosi (20, 50 e 100 µg/ml) e

tre tempi di esposizione (4, 24 e 48 h), mentre i fibroblasti sono stati esposti a quattro dosi (20, 50,

100 e 150 µg/ml) e ai medesimi tempi di esposizione, per ciascuna delle due forme cristalline di

TiO2. La genotossicità è stata valutata mediante il Comet Assay (elettroforesi su singola cellula),

attraverso il quale viene misurato il grado di frammentazione del DNA (rotture a singolo e doppio

filamento, siti labili agli alcali). La vitalità cellulare è stata valutata mediante il test del Trypan

Blue. I risultati relativi ai leucociti hanno mostrato un effetto genotossico significativo di entrambe

le forme cristalline sulle cellule di tursiope, per tutti i tempi di esposizione e alle dosi di 50 e 100

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µg/ml, mentre non si osserva alcun effetto nei leucociti umani, ad eccezione della forma anatasio

che ha mostrato un effetto puntiforme solo ad una dose e tempo sperimentale (24 h). Per quanto

riguarda i risultati relativi ai fibroblasti, è stato osservato un effetto genotossico di entrambe le

sostanze in ogni specie trattata in questo studio. In particolare, entrambe le forme di TiO2 inducono

nei fibroblasti umani, di tursiope e murini un effetto genotossico significativo dopo 4 ore di

esposizione ad entrambe le forme cristalline. Questo effetto si riduce in maniera consistente fino a

scomparire dopo 24 h di trattamento, mantenendo elevati i livelli di integrità del DNA dopo 48 h nei

fibroblasti murini e di cetaceo. I risultati ottenuti indicano che il biossido di titanio è in grado di

indurre un effetto genotossico, alle dosi testate, e suggeriscono per le cellule di tursiope una certa

suscettibilità nei confronti del TiO2 in forma particellata.

ABSTRACT

In this study, we evaluated the genotoxic potential of titaniuim dioxide (TiO2) particles, a material

widely used for the production of cosmetics, sunscreens, paints, building materials and applied in

several processes such as paper production and waste water treatment. Such a wide exploit implies

an high risk for aquatic environmental release, since titanium dioxide is considered an emerging

pollutant in the next future. Nevertheless, many studies can be found in literature concerning

titanium dioxide effects on human health, while few data on potential ecotoxicity of this substance

on aquatic ecosystems are available, the only exception being some investigations on invertebrates

and fishes. The aim of this work was to evaluate the genotoxic potential of TiO2, in the two

crystalline forms rutile and anatase, on a top predator of the marine food web, the odontocete

cetacean Tursiops truncatus. The investigation was performed on isolated leukocytes taken from 5

specimens (4 males and 1 female) reared in captivity at the Adriatic SeaWorld ―Oltremare‖

(Riccione), and on fibroblasts isolated from skin biopsies of wild animals (kindly given by the

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Department of Environmental Sciences of University of Siena). Moreover, the effects of TiO2 were

also investigated on human and murine cell lines, in order to compare the bottle-nose dolphin

susceptibility to TiO2 with the one of the other mammals. Three doses (20, 50 e 100 µg/ml) and

three times of exposure (4, 24 e 48 h) were used for leukocytes, while fibroblasts were exposed to

four doses (20, 50, 100 e 150 µg/ml) for the same experimental times. In both cases, the two

crystalline forms were tested. Genotoxicity was evaluated by the Comet Assay (Single Cell Gel

Electrophoresis), to detect DNA fragmentation (single and double strand breaks, alkali labile sites).

Cell viability was evaluated through the Trypan blue exclusion method. A significant genotoxic

effect of both crystalline forms was detected in dolphin leukocytes, for every experimental time and

at doses of 50 and 100 µg/ml, while no effect on human leukocytes can be seen, with the exception

of the anatase form, which showed an increased DNA fragmentation at one dose and one

experimental time (24h). A genotoxic effect of both crystalline forms on each species investigated

in this study was detected in fibroblasts. Particularly, both powders induced a significant genotoxic

effect after 4hrs treatment in human, dolphin and murine fibroblasts. This effect consistently

decreased till disappearing after 24hrs exposure, still maintaining low levels of DNA fragmentation

after 48hrs both in murine and dolphin fibroblasts. These results show that titanium dioxide induces

a genotoxic effect, at the doses tested, and suggest a certain susceptibility of T. truncatus cell lines

towards TiO2 particles.

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1 INTRODUZIONE

1.1 BIOSSIDO DI TITANIO

Il titanio è un elemento metallico ben conosciuto per la sua resistenza alla corrosione e per il suo

alto rapporto resistenza/peso. È leggero, duro, con una bassa densità (il 40% in meno di quella

dell'acciaio). Il titanio è il nono elemento per abbondanza nella crosta terrestre (0,6% della massa)

ed è principalmente presente in molte rocce ignee e nei sedimenti da esse derivanti. All'incirca il

95% del titanio viene utilizzato in forma di biossido di titanio (TiO2), ottenuto per reazione diretta

del metallo con l’ossigeno ad alta temperatura. Il biossido di titanio (o ossido di titanio (IV) o

anidride titanica) è una polvere cristallina incolore tendente al bianco, è chimicamente inerte, non

svanisce con la luce solare ed è molto opaca, ciò le permette di impartire un colore bianco brillante

a prodotti come plastiche, vernici, fibre tessili, inchiostri, dentifrici e medicinali; Il TiO2 in natura è

presente in tre forme cristalline diverse, l'anatasio, brookite e il rutilo che rappresenta la forma più

comune. Anche se la forma metallica del titanio è relativamente poco comune, a causa dei costi di

estrazione, il biossido di titanio è economico, facilmente disponibile in grandi quantità, e

largamente utilizzato. Circa il 95% del titanio naturale è utilizzato come materia prima per

sintetizzare il biossido di titanio e il resto è usato in leghe metalliche. Nel 2004, il principale

fornitore di titanio è stato il Sud Africa (25%), seguita da Australia (21%), Canada (14%), Cina

(8%), Ucraina (7%) e Norvegia (7%) (Linak & Inoguchi, 2005). Il biossido di titanio viene

consumato in oltre 170 paesi e i maggiori esportatori sono le regioni del Nord America e dell’

Australia mentre i restanti paesi del mondo sono importatori. La maggior parte del biossido di

titanio commerciale è ottenuto dalla roccia naturale mediante dissoluzione del minerale madre che

viene fatto precipitare sotto forma di particelle fini di anatasio o rutilo.

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Il rutilo è la forma naturale più comune di TiO2, si origina all’interno di rocce metamorfiche

sviluppatesi ad alte pressioni; il nome deriva dal latino rutilus, rosso, ad indicare il colore che lo

caratterizza alla luce; ha struttura tetragonale, con ciascun atomo di titanio circondato

ottaedricamente da sei atomi di ossigeno. Questa sostanza possiede uno tra i più elevati indici di

rifrazione (2.605-2.616) tra tutti i minerali (Phillips & Griffen, 1981). Presenta il più basso peso

molecolare con densità pari 4.13 g/cm3 (Bafield & Veblen, 1992) , un indice di durezza secondo la

scala Moh pari a 6-6.5 (Harben, 1996) e risulta insolubile in acqua (Weast, 1985). I principali usi

del rutilo, descritti in dettaglio più avanti, sono come pigmento per la produzione di diversi

materiali e come componente di prodotti protettivi per assorbire le radiazioni UV.

L’anatasio appare sotto forma di cristalli piccoli e isolati. Può esistere in due forme cristalline, la

più comune caratterizzata da una forma a doppia piramide acuta, con un colore tra il blu indaco e il

nero; l’altra con più facce piramidali, di colore tra il giallo-miele e il marrone. L’anatasio, anche

detto ottaedrite, deriva il suo nome dal greco anatasis, estensione, ad indicare l’asse verticale del

cristallo, più lungo rispetto a quello del rutilo. Il suo indice di rifrazione è compreso tra 2.561 e

2.488 (Phillips & Griffen, 1981) mentre la sua densità è di 3.79 g/cm3 (Bafield & Veblen, 1992).

Secondo la scala di Mho la sua durezza è pari a 5-5.6 (Harben, 1996) ed è anch’esso insolubile in

acqua (Weast, 1985). Da studi effettuati sulle diverse forme, l’anatasio è risultata essere la più attiva

chimicamente. Esso viene sintetizzato artificialmente soprattutto per le caratteristiche fotocatalitiche

utilizzate nella progettazione di celle fotovoltaiche.

La produzione mondiale di biossido di titanio alla fine del 2005 è stato di 5187 migliaia di

tonnellate ed il suo utilizzo è stato distribuito nei seguenti settori merceologici : 58% utilizzato per

rivestimenti, il 23% per le materie plastiche e la gomma, l’ 11% per la carta e l’8% per le restanti

applicazioni (Linak & Inoguchi, 2005).

Il biossido di titanio è apprezzato per la sua forza opacizzante e luminosità. Altre importanti

caratteristiche dei pigmenti di TiO2 sono l’ottima resistenza agli attacchi chimici, buona stabilità

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termica e resistenza alla degradazione indotta da esposizione a raggi UV. In particolare il pigmento

rutilo è più resistente ai raggi UV rispetto all’anatasio e viene usato prevalentemente per le vernici,

materie plastiche e inchiostri. Il pigmento anatasio è meno abrasivo del rutilo ed è utilizzato

prevalentemente per vernici da interni, nella carta, ceramica, gomma e fibre sintetiche. Entrambi i

pigmenti, rutilo e anatasio, possono essere resi più resistenti alla fotodegradazione, migliorando così

la loro stabilità, opacità e lucentezza. Le vernici e le applicazioni di rivestimento sono i maggiori usi

a livello mondiale. Secondo l'American Society for Testing and Materials (ASTM, 1988)-D47684

standard, esistono quattro tipi di pigmento di biossido di titanio (Schurr, 1981; Fisher & Egerton,

2001):

Tipo I (94% min biossido di titanio) è un pigmento di TiO2 contenente anatasio che viene utilizzato

come gesso nelle vernici per gli interni e esterni delle case. Il pigmento in polvere, sciolto, forma

una pellicola sulla superficie della vernice alterata.

Tipo II (92% min biossido di titanio) è un pigmento di TiO2 contenente rutilo che ha una buona

resistenza a fenomeni di sfarinamento e viene utilizzato in quantità variabili in tutti i tipi di vernici

per interni e smalti.

Tipo III (80% min biossido di titanio) contiene pigmenti di TiO2 nella forma rutilo e ha una

resistenza media a fenomeni di sfarinamento e viene principalmente utilizzato nelle vernici da

utilizzare sui muri domestici.

Tipo IV (80% min biossido di titanio) è un altro pigmento di TiO2 nella forma di rutilo il quale ha

una elevata resistenza allo sfarinamento, è utilizzato in pitture per esterni ed ha una durata e

brillantezza eccellente.

Altre applicazioni del biossido di titanio sfruttano le proprietà catalitiche di quest’ultimo. Alcune

ricerche dimostrano che catalizzatori a base di TiO2 permettono l'estrazione di idrogeno da

soluzioni acquose, se sottoposte a luce solare, in quanto esso è in grado di catalizzare reazioni di

idrolisi, scindendo le molecole d’acqua in idrogeno e ossigeno. Questa capacità promuoverebbe un

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metodo estremamente economico ed ecologico per la diffusione dell’utilizzo dell’idrogeno quale

fonte di energia alternativa ai combustibili fossili. Un altro importante utilizzo del biossido di

titanio è legato alle tecnologie industriali di depurazione delle acque di scarico, in quanto è un

catalizzatore che degrada per ossidazione numerosi composti organici. Sfruttando questa proprietà

si possono ottenere materiali che, per mezzo dell’attivazione indotta dalla luce UV, sono in grado di

distruggere i composti organici depositati su di essi. Esposte, infatti, alla luce le molecole del

biossido di titanio catalizzano l'ossidazione di residui organici (sporcizia, depositi dell'inquinamento

e microorganismi di vario genere). Questa proprietà potrebbe potenzialmente portare allo sviluppo

di una nuova classe di materiali dotati di proprietà autopulenti e disinquinanti. In virtù di questa

caratteristica fotocatalitica, sono in fase di sperimentazione dei vestiti autopulenti costituiti da

particolari fibre contenenti nanoparticelle (NP) di biossido di titanio le quali hanno la proprietà di

pulire gli indumenti dallo sporco e da agenti patogeni. Sempre per le sue caratteristiche

fotocatalitiche il biossido di titanio nella forma anatasio è già in uso come degradante di sostanze

tossico-inquinanti in quanto, per esempio, viene utilizzato per la rimozione degli ossidi di azoto dai

gas di scarico dei motori diesel, nelle centrali elettriche e a carbone (Linak & Inoguchi, 2005;

Swiler, 2005). Per quanto riguarda le ricerche sulle energie alternative, le NP di TiO2, essendo

ottimi fotocatalizzatori, trovano un’utile applicazione nella costruzione delle celle fotovoltaiche

impiegate per la conversione dell’energia solare in energia elettrica (Zhang et al., 2003; 2008).

Il biossido di titanio è poi presente in alcune creme di bellezza e in creme solari, dove protegge la

pelle dai raggi UV. In questo tipo di applicazione vengono utilizzate particelle nanometriche di

biossido di titanio, poiché queste hanno la proprietà di filtrare la luce solare, bloccandone la

componente UV. Esse sarebbero dunque in grado di filtrare le radiazioni UVA (290-320 nm) e

UVB (320-400 nm) prevenendo la comparsa di danni alle cellula della pelle.

Infine, il biossido di titanio viene utilizzato come additivo alimentare (colorante). E’ identificato

dalla sigla E171 ed è utilizzato come sbiancante in molti prodotti alimentari. La sua innocuità sul

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potenziale cancerogeno non è ancora stata stabilita. Tuttavia, la dose giornaliera accettabile

ufficialmente stabilita è attualmente «senza limiti» e «non quantificabile» in mancanza di NOEL

(No Observed Effect Level) per JECFA (Joint FAO/WHO Expert Committee on Food Additives).

1.1.1 Biossido di titanio e la nanotecnologia

Come illustrato nel precedente paragrafo, molte applicazioni prevedono l’impiego del biossido di

titanio in forma nanoparticolata. Più in generale, il termine ―nanotecnologie‖ sta acquistando

sempre maggiore popolarità: esso è infatti impiegato per descrivere una varietà di campi di ricerca e

sviluppo, spesso di carattere interdisciplinare, entro i quali si utilizzano strutture aventi dimensioni

caratteristiche inferiori a 100 nm. L’industria della nanotecnologia sta rapidamente crescendo con

l’aspettativa di benefici sostanziali che avranno un significativo impatto economico-scientifico,

applicabile in diversi campi che spaziano dall’ingegneria aereospaziale e nanoelettronica, al

ripristino ambientale e alla medicina. Il progetto e lo sviluppo dei nanomateriali sono stati di grande

importanza per l’industria per le caratteristiche fisico-chimiche che offrono. Alcuni di questi

benefici includono miglioramento nella conducibilità termica e/o elettrica, materiali più resistenti,

miglioramento dell’attività catalitica e proprietà ottiche più avanzate. Tuttavia, le loro piccole

dimensioni, oltre che delle proprietà chimico-fisiche, possono essere responsabili di effetti biologici

nocivi. Le vendite di questi prodotti hanno un valore economico pari a 147 miliardi di dollari nel

2007 e si stima un incremento nei prossimi anni fino a 3.1 trilioni di dollari per il 2015. Perciò

l’uomo è già esposto a questi materiali ed è prevedibile un aumento drammatico di esposizione

negli anni a venire. Di conseguenza negli ultimi anni l’utilizzo dei nanomateriali ha suscitato una

maggiore attenzione soprattutto per quanto riguarda la salute umana e la sicurezza ambientale, con

il primo report pubblicato nel 2004 dalla Royal society and Royal Academy of Engineering che

mette in evidenza la netta mancanza di informazioni su l’impatto dei nanomateriali ingegnerizzat i

sulla salute umana e ambiente. Molti altri report governativi sono successivamente emersi ma ad

oggi le considerazioni sulla sicurezza non sono andate di pari passo con lo sviluppo dei materiali da

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parte delle industrie nanotecnologiche. Tuttavia, la limitata informazione che sta lentamente

emergendo indica che queste sostanze inducono citotossicità, stress ossidativo e risposte

infiammatorie (Nel et al., 2006; Sayes et al., 2007; Stone et al., 2007; Xia et al., 2006). Perciò data

l’incertezza riguardo la sicurezza dei nanomateriali, è importante comprendere e minimizzare

qualsiasi potenziale rischio tossicologico associato ad essi, non solo per proteggere la salute umana

e l’ambiente ma anche per evitare il danneggiamento dell’industria nanotecnologica nel lungo

termine.

Attualmente le stime indicano che ci sono più di 800 prodotti di consumo che contengono nano

materiali. I settori coinvolti sono principalmente ―salute e benessere‖, ―casa e giardino‖,

―elettronica e computer‖, ―cibo e bevande‖, auto, strumenti e articoli per bambini. Prendendo in

considerazione solo la categoria ―benessere‖ troviamo prodotti come cosmetici, vestiario, articoli

sportivi, creme solari e filtri. Altri prodotti basati sulle nanoparticelle sono finalizzati a migliorare la

tecnologia dei chip dei computer, altri vengono usati come convertitori catalitici delle automobili,

altri ancora come rivestimenti o barriere termiche per l’industria aereospaziale. Inoltre, in futuro si

prevede un forte sviluppo nell’uso di nanomateriali nell’ambito della diagnostica e nei trattamenti

terapeutici per i pazienti. Ad oggi nessuna agenzia di regolamentazione ha fissato alcun parametro

per la concentrazione media nell’ambiente di nanoparticelle di biossido di titanio. Soltanto

nell’ambito lavorativo, la conferenza americana degli igienisti industriali governativi (ACGIH) ha

assegnato al TiO2 un valore limite soglia di 10 mg/m3

(polvere totale) per ogni 8 ore di esposizione

(giornata lavorativa). L’esposizione professionale al TiO2 in forma nanoparticellata può avvenire

durante la produzione/uso di queste particelle utilizzate come pigmenti per donare bianchezza,

opacità e brillantezza a prodotti come pitture, vernici, smalti e carta. L’esposizione a queste

nanoparticelle può anche avvenire utilizzando prodotti cosmetici, in cui il TiO2 è usato sia come

pigmento che come addensante, e creme solari in cui viene utilizzato per via dell’alto indice di

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rifrazione e la forte capacità di assorbire la luce UV. Nonostante il TiO2 in precedenza sia stato

considerato un materiale inerte e quindi non pericoloso, la IARC (Agenzia Internazionale per la

Ricerca sul Cancro) ha classificato il biossido di titanio come ―possibile sostanza cancerogena per

l’uomo‖ classificandola come gruppo 2B. Tuttavia rimane ancora incerto l’impatto che Il TiO2 NP

può avere sull’ambiente e sulla salute umana, soprattutto per una scarsità di dati ecotossicologici a

breve e a lungo termine.

1.1.2 Fonti naturali e antropiche

Le nanoparticelle sono da sempre presenti nell’ambiente poichè derivano da processi geologici

come l’erosione rocciosa da parte di agenti fisici (piogge, vento) e chimici (piogge acide) ed

eruzione vulcaniche che immettono direttamente nell’atmosfera polveri e ceneri ultrafini. Una volta

rilasciate nell’ambiente le NP si sono distribuite nelle diverse matrici ambientali, ovvero terra, aria e

acqua, come testimoniano i ritrovamenti nei ghiacciai e negli strati sedimentari profondi.

L’ambiente è stato quindi da sempre sottoposto a questo tipo di sostanze e nel corso dell’evoluzione

anche i sistemi biologici degli esseri viventi sono riusciti ad adattarsi sviluppando meccanismi di

tolleranza a questi tipi di materiali. Tuttavia con lo sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi

anni, l’avvento delle nanotecnologie ha determinato un aumento intensivo dell’utilizzo dei

nanomateriali da parte di molteplici industrie. Le nanoparticelle artificiali sono infatti ampiamente

usate in varie applicazioni e il loro rilascio significativo, accidentale o intenzionale, nell’ambiente

appare come una conseguenza inevitabile. Ciò che rende innovative le NP sono le loro esclusive

caratteristiche fisico-chimiche sfruttate nella progettazione di diversi prodotti. Le NP di TiO2 sono

per esempio impiegate in diversi settori, come la cosmesi, l’ottica, il tessile, le vernici e nelle

tecnologie di trattamento delle acque utilizzandole come catalizzatrici. Questo apporto antropico, in

aggiunta alle fonti naturali, determina l’immissione di TiO2 NP nei vari compartimenti ambientali ,

in particolare in quello acquatico in quanto la maggior parte degli scarichi industriali e domestici si

riversa nei fiumi e nei mari. Una difficoltà nella valutazione dell’impatto delle nanoparticelle è data

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dal fatto che le loro diverse proprietà chimiche e quindi la potenziale tossicità cambiano

nell’ambiente acquatico a causa di diversi fattori come la degradazione biologica e abiotica,

l’agglomerazione e l’aggregazione. L’aggregazione per esempio è una condizione che fa diminuire

l’energia libera superficiale e quindi la reattività delle particelle (He & Zhao, 2005). La tendenza

delle nanoparticelle ad aggregarsi condiziona il loro destino nei diversi ecosistemi acquatici, le

interazioni con gli organismi che in essi vivono e i possibili effetti tossici (Smith et al., 2007; Handy

et al., 2008). Il comportamento colloidale può aiutare, per esempio, a prevedere il comportamento

delle nanoparticelle rilasciate nell’ambiente acquatico. Le nanoparticelle insolubili possono formare

sospensioni colloidali, la cui stabilità è determinata dall’interazione tra forze attrattive e repulsive

tra le particelle cariche che interagiscono attraverso un mezzo liquido (Derjaguin & Landau, 1941;

Verwey & Overbeek, 1948). La riduzione o eliminazione della carica per esempio attraverso un

incremento nella forza ionica farà si che i colloidi si agglomerino o formino una matrice

interconnessa. In ambienti carichi positivamente come i sistemi acquatici marini e gli estuari, i

colloidi composti da NP, che includono TiO2, si aggregheranno formando degli agglomerati più

ampi (Dunphy Guzman et al., 2006; Hyung et al., 2007; Stople & Hassellov, 2007). Il grado di

aggregazione a sua volta dipende dalle caratteristiche fisico-chimiche delle particelle stesse

(comprese le caratteristiche dimensionali e di superficie) e l'ambiente locale (pH, forza ionica e

quantità di carbonio organico) (Dunphy Guzman et al., 2006; Hyung et al., 2007). Le particelle così

aggregate possono depositarsi sul fondo e venire in contatto con la superficie esterna degli

organismi acquatici, in particolare quelli bentonici. Inoltre, le nanoparticelle possono concentrarsi

nelle interfacce terra-acqua o in quelle aria-acqua come per esempio nel microstrato superficiale

oceanico, le cui proprietà viscose determinano una forza superiore a quella di diffusione delle

nanoparticelle che rimangono così intrappolate. Questo fenomeno rende particolarmente vulnerabili

gli organismi che vivono, anche solo per una parte del loro ciclo vitale, negli strati superficiali

dell’oceano come ad esempio zooplancton.

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Infine, altre proprietà fisico-chimiche, specifiche per ogni tipo di nanomateriale, sono tali da

rendere queste sostanze molto resistenti ad agenti fisico-chimici esterni (il TiO2 NP per esempio

viene utilizzato come pigmento in vernici da esterno proprio per la sua resistenza a fenomeni di

corrosione e sfarinamento) che potrebbero quindi rendere tali materiali molto persistenti

nell’ambiente una volta rilasciati.

1.1.3 Caratteristiche morfologiche delle nanoparticelle e captazione cellulare.

La tossicocinetica dei nanomateriali in generale e in particolare del TiO2 nanoparticellato non è

stata ancora ben compresa ma è sempre più evidente che le loro caratteristiche fisico-chimiche

svolgono un ruolo centrale nel determinare sia la modalità del loro assorbimento da parte

dell’organismo e l’ingresso nella cellula le successive conseguenze fisiologiche. Attualmente c’è

qualche incertezza circa i parametri che influenzano maggiormente le risposte tossicologiche, ma è

evidente che una serie di fattori diversi sembrano essere coinvolti nella modulazione delle

interazioni biomolecolari. Tre di questi parametri sono la dimensione, forma e area di superficie. La

dimensione sotto i 100 nm delle nanoparticelle è la prima caratteristica che fornisce loro proprietà

uniche rispetto a materiali della stessa composizione, in quanto con dimensioni ridotte aumenta la

superficie di contatto per unità di massa. Da un certo punto di vista questo aspetto potrebbe essere

vantaggioso ed è la forza motrice dello sviluppo di nuove nanomedicine e nanodispositivi per

applicazioni cliniche (Ferrari, 2005; Sahoo et al., 2007). Tuttavia, la dimensione di queste

nanoparticelle può rappresentare un pericolo per la salute, poiché potrebbero essere facilitate nel

superare le barriere biologiche, e successivamente influenzare la loro cinetica all’interno

dell’organismo tra cui assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione. Una volta

all’interno del corpo le NP possono essere sufficientemente piccole da penetrare facilmente nelle

cellule e le loro dimensioni possono promuovere interazioni con biomolecole destabilizzando il

normale funzionamento cellulare. Per quanto riguarda la captazione cellulare, la dimensione può

essere una caratteristica cruciale. Ci sono parecchi meccanismi differenti attraverso cui le NP

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possono essere internalizzate, questi includono la diffusione e l’endocitosi, un meccanismo energia-

dipendente. Se le NP sono di dimensione e forma giusta, possono attaccarsi sui recettori di

membrana facilitando l’endocitosi mediata da recettori. Ci sono diversi studi che dimostrano

chiaramente che le dimensioni incidono molto sui risultati di test tossicologici, molti dei quali si

concentrano sul confronto tra nano e microparticelle di carbonio, ossido di zinco e TiO2 . Nello

studio di Jiang et altri (2008), per esempio, è sta misurata la capacità di generare specie reattive

dell’ossigeno (ROS) da parte di particelle di TiO2 mediante un saggio di pre-screening (usando un

colorante fluorescente DCFH-DA) che non comporta l’utilizzo di materiale biologico (Venkatachari

et al., 2005): in un primo momento è stata misurata la quantità di ROS usando NP della stessa fase

cristallina ma con nove dimensioni diverse (da 4 a 195 nm). Dai risultati si evince che la maggior

generazione di ROS per unità di superficie è stata osservata nelle particelle con dimensioni di 30

nm; inoltre si è osservata una diminuzione di ROS diminuendo le dimensioni da 30 a 10 nm. Nella

seconda parte dell’esperimento è stata presa in considerazione la correlazione tra la fase cristallina e

la capacità ossidante a parità di dimensioni: in totale sono state testate undici diverse combinazioni

di fasi cristalline e dai risultati si è visto che più delle altre la fase amorfa genera maggiore quantità

di ROS, seguita dalla forma anatasio, poi dalla miscela anatasio-rutilo e infine dalla forma rutilo.

Un’altra questione collegata agli effetti avversi delle nanoparticelle sul sistema cellulare è la loro

forma. Ci sono pochi studi che si focalizzano sulle relazioni tossicologiche associate soltanto a

questo parametro, ma una recente pubblicazione di Muller e al. (2008) ha dimostrato che la

rimozione di difetti strutturali dai nanotubi di carbonio (MWCNT) era sufficiente per ridurre

sostanzialmente la loro risposta infiammatoria e la complessiva tossicità. Inoltre, alcuni studi hanno

rilevato che la forma di una NP può fortemente influenzare il suo tasso di captazione. Le

nanoparticelle sferiche mostrano una più alta captazione rispetto a nanofilamenti, mentre

l’internalizzazione di questi ultimi materiali cilindrici è fortemente influenzata dalle loro

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dimensioni. In più la captazione cellulare delle NP dipende, a parità di massa, dalla dimensione e

morfologia superficiale. Con la diminuzione della dimensione della particella il numero di particelle

per unità di massa, e la superficie totale, aumenta. La forma delle NP contribuisce inoltre alla

superficie totale, dove le sfere hanno superfici leggermente più piccole di una struttura a forma

ottagonale della stessa dimensione. Questa maggior superficie aumenta l’attività catalitica del

materiale e inoltre è stato dimostrato che incrementa la sua reattività poiché gli atomi superficiali

hanno la tendenza ad avere i livelli energetici più alti e quindi sono meno stabili. Questi atomi per

raggiungere la stabilità reagiranno più rapidamente con altre molecole, perciò più grande è la

superficie più grande è il potenziale reattivo del materiale (Oberdörster et al., 1998). In conclusione,

l’attitudine delle NP ad entrare nelle cellule e la loro elevata reattività nei confronti delle

biomolecole sono alla base delle preoccupazioni per i potenziali danni alla salute umana e

ambientale e giustificano l’interesse per le indagini volte a verificare l’effettiva pericolosità dei

nanomateriali.

1.2 EFFETTI DEL TiO2 SUI SISTEMI BIOLOGICI

Il biossido di titanio di dimensioni nano o micrometriche è largamente usato nei prodotti industriali,

farmaceutici e cosmetici ad esempio nelle creme solari per attenuare la radiazione UV-B (Diebold,

2003). Possiede proprietà fotocatalitiche impiegate come disinfettante nell’ambiente e per le acque

reflue (Cho et al., 2004). Inoltre il TiO2 è usato come fotosensibilizzatore per la terapia

fotodinamica delle cellule di carcinoma del colon umano (Zhang & Sun, 2004). Quindi stanno

aumentando le possibilità di venire a contatto con queste particelle sia per gli umani che per

l’ambiente. Nonostante l’utilizzo di TiO2 nei vari settori e prodotti sia considerato sicuro, è nata una

forte preoccupazione poichè è stato dimostrato, mediante test in vitro, che il TiO2 in condizioni

particolari induce danno al DNA (Dunford et al., 1997). Infatti quando è esposto ai raggi UV, TiO2

catalizza la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) come l’anione superossido, il

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perossido di idrogeno, il radicale idrossilico e l’ ossigeno singoletto nel mezzo acquoso (Hirakawa

et al., 2004; Konaka et al., 2001). Una volta internalizzate nella cellula è stato dimostrato che queste

particelle si concentrano nella regione perinucleare e questa distribuzione è stata correlata con

un’induzione di ROS nella stessa area (Park et al., 2008). Tuttavia, altri studi in vitro hanno

dimostrato che, anche in assenza di fotoattivazione, particelle di TiO2 di dimensioni nanometriche

inducevano danni ossidativi al DNA, perossidazione lipidica, formazione di micronuclei,

formazione di perossido di idrogeno e produzione di ossido nitrico rispetto a particelle di dimesioni

maggiori (>200 nm) che al contrario non inducevano alcun danno in assenza di radiazione luminosa

(Gurr et al., 2005). Questi risultati suggeriscono che le dimensioni nanometriche possono essere

determinanti nell’induzione del danno ossidativo. Attraverso saggi di genotossicità è stato

dimostrato che TiO2 NP è in grado di indurre DNA strand breaks, formazione di micronuclei

(indicativa di alterazioni cromosomiche) e mutazioni puntiformi; questi effetti sono stati messi in

relazione all’istaurasi di una condizione di stress ossidativo (Rahman et al., 2002; Wang et al.,

2007; Kang et al., 2008). Diversamente, Theogaraj e colleghi (2007), non attribuiscono alcuna

genotossicità alle NP di TiO2 in quanto, nei loro studi, non è stato registrato alcun aumento della

frequenza di danno al DNA sia in presenza che in assenza di luce UV.

Oltre all’approccio in vitro, esiste anche un’ampia letteratura relativa alle indagini in vivo. Studi su

inalazione polmonare subcronica, utilizzando aereosol di TiO2 ultrafine a diverse concentrazioni

(0.5, 2.0 e 10 mg/m3), su topi, criceti e ratti hanno registrato un aumento dose-dipendente di

infiammazione, citotossicità, prolifrazione di cellule polmoneri e alterazioni istopatologiche in tutte

e tre le specie di mammifero (Bermudez et al., 2002). Altri studi in vivo su animali hanno

evidenziato che il grado della risposta infiammatoria e citotossica indotta dall’esposizione a TiO2

per via inalatoria dipende dalle dimensioni delle particelle e dalla loro chimica di superficie (Rehn

et al., 2003; Warheit et al., 2007).

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La maggior parte degli studi effettuati sia in vivo che in vitro sugli effetti delle particelle di TiO2 è

finalizzata ad evincere il rischio per la salute umana; ben pochi sono gli approcci rivolti alla

comprensione dell’ impatto della contaminazione da TiO2 sugli ambienti acquatici ed in particolare

sull’ecosistema marino. Inoltre, non esistono indagini volte a valutare la suscettibilità di specie a

rischio, come i mammiferi marini, nei confronti di questi contaminanti del futuro.

Tra i pochi studi effettuati sugli organismi acquatici possiamo riportare i seguenti risultati : test in

vivo di tossicità acuta e cronica su Daphnia magna hanno rilevato che le nanoparticelle si sono

concentrate nell’intestino dell’invertebrato dopo che questo è stato tenuto per 48 h in una

sospensione di TiO2, escludendo un assorbimento intracellulare della sostanza (Zhu et al., 2009).

Anche nei test in vivo sulla Trota iridea hanno mostrato che TiO2 NP non si accumulava negli

organi interni e solo a seguito di iniezione intravenosa le nanoparticelle tendevano ad accumularsi

nei reni, rimanendo rintracciabili per 90 giorni dopo la somministrazione (Scown et al., 2009). Test

in vivo su policheti intertidali, come Arenicola marina, hanno permesso di osservare un decremento

statisticamente significativo della stabilità lisosomiale dopo esposizione a TiO2, mentre non è stata

osservato nessun effetto genotossico significativo mediante il Comet Assay nei celomociti

(Galloway et al., 2010). La medesima instabilità della membrana lisosomiale è stata osservata negli

emociti di Mitylus galloprovincialis esposto a concentrazioni di TiO2 di 1-5mg/ml (Canesi et al.,

2010). Studi in vitro sono stati effettuati su cellule di pesce (RTG-2) esposte a NP di TiO2 sia in

presenza che in assenza della luce UV-A. Tramite il saggio del micronucleo non è stato osservato

nessun danno cromosomico mentre tramite il saggio della cometa è emerso un danno ossidativo al

DNA in presenza di radiazione UV-A, evidenziato dal co-trattamento delle cellule con endonucleasi

in grado di riconoscere specificamente le basi puriniche ossidate del DNA (Vevers & Jha, 2008).

Attualmente i pochi dati disponibili non sono sufficienti per avere un quadro completo circa i

meccanismi con cui queste particelle interagiscono con gli organismi e l’impatto che queste hanno

sull’ambiente. Inoltre, gli studi esistenti sulle specie acquatiche per valutare gli effetti dei

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nanomateriali sul DNA mancano di un quadro standardizzato, non solo per quanto riguarda i tipi di

test utilizzati, le modalità con cui vengono pretrattate le particelle, la tipologia di cellule analizzate

nei test, ma anche perchè spesso manca una caratterizzazione fisico-chimiche delle particelle prese

in esame. Infine, nella letteratura scientifica mancano studi ecotossicologici riguardanti predatori

marini terminali notoriamente soggetti a un bioaccumulo maggiore rispetto ad organismi che

occupano livelli inferiori nella catena trofica. In particolare, non sono disponibili informazioni

relative ai mammiferi marini, nonostante che questi organismi siano considerati particolarmente

―sensibili‖ alla contaminazione chimica in quanto scarsamente dotati di meccanismi di

detossificazione efficienti verso sostanze xenobiotiche rispetto ad altre specie poste al loro stesso

livello trofico.

1.3 ECOTOSSICOLOGIA NEI MAMMIFERI MARINI

Il termine ecotossicologia è stato coniato da Renè Truhaut nel 1969, il quale la definì come "la

branca della tossicologia che si occupa dello studio degli effetti tossici, causati da inquinanti

naturali o sintetici, sui costituenti degli ecosistemi, animali (inclusi gli umani), vegetali e microbi, in

un contesto integrale" (Truhaut, 1977). L'ecotossicologia integra i concetti di tossicologia ed

ecologia o, come ha suggerito Chapman (2002), "ecologia in presenza di tossici". Essa mira a

quantificare gli effetti dei fattori di stress sulle popolazioni naturali, comunità o ecosistemi.

L'ecotossicologia differisce dalla tossicologi ambientale in quanto integra gli effetti dei fattori di

stress attraverso tutti i livelli di organizzazione biologica da quello molecolare alle comunità ed

ecosistemi, mentre la tossicologia ambientale si focalizza sugli effetti a livello individuale (Maltby

& Naylor, 1990). Scopo ultimo di questo approccio è essere in grado di predire gli effetti

dell'inquinamento in modo che possano essere identificate le azioni più efficaci per prevenire o

porre rimedio a ogni effetto dannoso.

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Le fonti tipiche di inquinamento di acque interne e costiere, sono gli scarichi e i percolati derivanti

da processi produttivi, le pratiche agricole e la stessa urbanizzazione. Anche la deposizione di

inquinanti atmosferici contribuisce sensibilmente alla contaminazione dei corpi idrici, specialmente

in vicinanza di impianti a combustione; inoltre, fenomeni naturali come gli stessi processi

diagenetici possono modulare la concentrazione effettiva di composti chimici potenzialmente

inquinanti. L’elevata capacità inquinante e la persistenza di molti composti chimici hanno indotto

Agenzie Regolative ed Enti di ricerca a stabilire liste di contaminanti da considerare nelle

classificazioni di qualità e nella definizione degli obbiettivi per il monitoraggio e la protezione delle

acque. Queste liste comprendono molecole xenobiotiche come metalli pesanti, composti

organoclorurati (DDT) e diossine, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), policlorobifenili (PCB) e

altri contaminanti difficilmente degradabili indicati come POP (Persistent Organic Pollutants).

Nell’ambiente acquatico, fattori abiotici quali pH, la temperatura, la salinità, la quantità di materiale

organico disciolto e di particellato sospeso influenzano la biodisponibilità e la tossicità di questi

inquinanti. Anche altri fenomeni quali la foto-ossidazione o la metilazione da parte dei

microorganismi possono modificare la biodisponibilità degli inquinanti e interferire con la loro

assunzione. L’assunzione e il bioaccumulo degli inquinanti da parte degli organismi, sono fenomeni

complessi che dipendono dalle caratteristiche della specie in questione, oltre che dal tipo di

contaminante. Per esempio, i pesci hanno nelle branchie un’importante interfaccia con l’ambiente

acquatico, attraverso cui alcune classi di sostanze contaminati possono essere efficacemente assunte

e/o eliminate. Diversamente, nei mammiferi marini la via alimentare è prevalente nell’uptake di

alcune sostanze ed inoltre, l’assenza di branchie riduce una possibile via di escrezione. Inoltre

l’esistenza di relazioni trofiche tra organismi può determinare fenomeni di biomagnificazione che

implica un aumento di concentrazione dell’inquinante da un livello della catena alimentare a quello

superiore. Una categoria soggetta a questo tipo di accumulo sono proprio i mammiferi marini che

essendo predatori terminali sono spesso dei forti accumulatori di contaminanti persistenti; a questa

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caratteristica si aggiungono le già citate capacità di escrezione che, rispetto ai pesci, appaiono

limitate dalla mancanza delle branchie. Un esempio classico è l’accumulo di mercurio nei tessuti

degli odontoceti, in particolare nel fegato, dove il metallo può raggiungere concentrazioni

estremamente elevate, anche 2 ordini di grandezza superiori a quelle che comunemente si

rinvengono dei pesci predatori come il tonno e il pesce spada (Nigro & Leonzio, 1996). Tuttavia, è

stato mostrato che negli odontoceti il mercurio viene accumulato sotto forma di granuli minerali

composti da selenuro di mercurio (tiemannite) che, essendo altamente insolubile, previene la

comparsa di fenomeni di tossicità (Nigro & Leonzio, 1996). Inoltre, i mammiferi marini sono

particolarmente suscettibili all’accumulo di sostanze di natura organiche che passano facilmente

attraverso le membrane biologiche e mostrano una ripartizione preferenziale nei lipidi. Queste

sostanze così dette lipofile, possono accumularsi nello strato di grasso ―blubber‖ tipico di questi

mammiferi e passare nel latte materno trasmettendosi così alla prole. Nonostante numerose specie

di mammiferi marini siano considerate a rischio di estinzione, sono ancora relativamente pochi gli

studi tesi ad indagare la suscettibilità di questi animali nei confronti di inquinanti ―classici‖

dell’ambiente marini e particolarmente limitati sono i dati relativi al rischio associato alla diffusione

di nuove categorie di sostanze, definibili come ―contaminanti emergenti‖.

Le indagini che si propongono di studiare i possibili effetti dell’inquinamento sui mammiferi marini

presentano delle notevoli difficoltà e limitazioni legate alla ovvia necessità di utilizzare metodi non

invasivi. Pertanto, le indagini in vitro rappresentano di fatto l’unico approccio proponibile. Ad oggi

la maggior parte degli studi ha utilizzato cellule di mammiferi marini, per indagare l’induzione di

enzimi coinvolti nel metabolismo dei contaminanti organici (Marsili et al., 2008) o analizzare il

potenziale genotossico di alcuni noti contaminanti ambientali persistenti che tendono ad

accumularsi nei tessuti di questi mammiferi, come gli IPA, PCBs e metalli pesanti (metilmercurio

MeHg) (Betti e Nigro, 1996; Taddei et al., 2001). Per queste indagini sono stati utilizzati

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fondamententalmente due tipi cellulari, i linfociti isolati da sangue periferico di animali mantenuti

in cattività (Tursiops truncatus) e fibroblasti estratti da biopsie cutanee effettuate su animali

selvatici (Marsili et al., 2008). Oltre ad analizzare sostanze note come composti organici e metalli

pesanti, è importante ampliare la ricerca anche su quei contaminanti emergenti di cui ancora non

sono noti gli effetti, in quanto è presumibile un loro sensibile incremento nell’ambiente acquatico

nei prossimi anni.

1.4 LO STUDIO DEL DANNO AL DNA

Con il termine genotossicità si intende la capacità di una sostanza di indurre modificazioni

all’interno della sequenza nucleotidica o della struttura a doppia elica del DNA di un organismo

vivente. I tipi di danno al DNA possono generarsi attraverso alterazione chimica delle basi

(attraverso per esempio metilazioni o ossidazioni), formazione di addotti e rotture del doppio

(Double strand breaks, DSB) e singolo (Single Strand breaks SSB) filamento. Nel caso in cui le

suddette alterazioni non vengano riparate dai sistemi di riparazione del DNA, tali danni possono

fissarsi nel DNA a livello di mutazione. Le mutazioni possono avvenire a livello della linea

germinale o somatica; nel primo caso queste possono essere trasmesse alla prole, mentre nel

secondo interessano solo la linea cellulare mutata e possono portare a formazione neoplastiche. I

cambiamenti nel contenuto o nella disposizione dell’informazione nel DNA possono avvenire in

diversi modi e a diversi livelli, da un cambiamento di un solo nucleotide della sequenza del DNA a

cambiamenti nella struttura o nel numero di interi cromosomi in un genoma. A seconda quindi

dell’ampiezza del bersaglio le mutazioni possono essere geniche e cromosomiche, queste ultime

suddivise in strutturali (aberrazioni cromosomiche) o numeriche (poliploidia e aneuploidia). I

cambiamenti cromosomici strutturali, come le aberrazione cromosomiche (AC) possono derivare da

errori nella riparazione, replicazione o ricombinazione del DNA. Le aberrazioni cromosomiche

numeriche sono invece prodotte da errori nella segregazione cromosomica alla I o II divisione

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meiotica o dalla difficoltà di un cromosoma/cromatidio di allontanarsi dalla piastra metafasica.

Cromosomi in ritardo e frammenti acentrici, esclusi dai nuclei delle cellule figlie, portano alla

formazione di micronuclei (MN).

Gli agenti genotossici inducono essenzialmente due tipi di danno al DNA: la rottura dell’elica e il

danneggiamento delle basi. L’interazione di questi agenti con il DNA si manifesta primariamente

attraverso alterazioni strutturali della molecola stessa, attraverso quindi la formazione di addotti

(quando il composto, o i suoi metaboliti, si legano covalentemente alla doppia elica), rotture al

livello di singolo (Single Strand breaks SSB) e doppio filamento (Double strand breaks, DSB) o

basi alterate chimicamente (Shugart, 1995) attraverso metilazioni e complete sostituzioni ( come ad

esempio analoghi di base). Le rotture del doppio e singolo filamento possono avvenire mediante

diversi meccanismi: lesioni dirette possono essere indotte da agenti fisici come le radiazioni

ionizzanti, non ionizzanti come i raggi UV, i quali danno origine a fotoprodotti che distorcono la

molecola di DNA e agenti radiomimetici. Anche le sostanze chimiche possono interagire con il

DNA provocando SSB e DSB, attraverso ossidazioni (ROS), formazione di addotti più o meno

complessi e altri intermedi reattivi. La rottura del filamento può anche avvenire mediante l’azione

di taglio di enzimi dedicati alla riparazione del DNA. Tutti questi processi danno luogo ad

alterazioni strutturali che normalmente possono essere riparate, ma che producono una popolazione

transiente di DNA con bassa integrità. La risposta cellulare all’induzione del danno al DNA è

molto variabile, comprendendo una vasta gamma di effetti quali riparazione del danno, arresto

mitotico, tossicità, morte programmata (apoptosi), morte cellulare (necrosi). L’apoptosi avviene

quando alla cellula vengono a mancare tutta una serie di segnali di sopravvivenza che normalmente

inibiscono questo programma di ―suicidio cellulare‖ , ed è un meccanismo di controllo per impedire

la produzione di cellule il cui DNA risulti particolarmente compromesso.

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1.4.1 Mutageni diretti, indiretti e promutageni.

Le sostanze che possiedono una struttura che consente loro di interagire direttamente con il DNA

vengono chiamati mutageni diretti, mentre le sostanze che di per sé non sono reattive, ma possono

essere convertite da parte delle diverse vie metaboliche cellulari in derivati reattivi, sono dette

promutageni. Tra i mutageni diretti troviamo per esempio gli analoghi di base (composti chimici

dalla struttura molto simile alle normali basi del DNA), agenti alchilanti (composti altamente

elettrofili con affinità per i centri nucleofili presenti nelle macromolecole organiche), agenti cross-

linking (formano legami crociati tra le eliche che impediscono la separazione dei filamenti di DNA

bloccando così la replicazione e la trascrizione) e agenti intercalanti che inducono inserzioni e

delezioni di basi.

Le sostanze promutagente sono composti relativamente non polari (e quindi chimicamente poco

reattive) che possono essere attivate metabolicamente a forme più reattive in grado di interagire con

i centri nucleofili del DNA. Talvolta la mancanza di una detossificazione completa può portare alla

formazione di metaboliti elettrofili altamente reattivi (Harvey, 1982; Philips, 1993; Groopman &

Kensler, 1993). La bioattivazione di queste sostanze portano principalmente alla formazione di

addotti e rotture del filamento di DNA. Un esempio di questi composti sono le ammine aromatiche,

sostanze usate nell’industria chimica come antiossidanti o intermedi, sono presenti nella

combustione di materiale organico come ad esempio nella cottura degli alimenti o nel fumo di

sigaretta. Un’altra categoria di sostanze promutagene sono gli idrocarburi policiclici aromatici

(IPA) e nitroderivati, considerati inquinanti ambientali ubiquitari in quanto derivano da processi di

combustione incompleta. Il benzo[a]pirene è uno degli IPA il cui metabolismo è stato

maggiormente studiato: è un composto non reattivo, non polare, con una configurazione planare che

si lega al DNA formando addotti. Inizialmente si pensava che la sua azione mutagena fosse analoga

a quella degli agenti intercalanti, in seguito si è scoperto che alcuni prodotti del suo metabolismo,

essendo molecole particolarmente elettrofile, davano origine ad addotti al DNA. Infine un altro

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esempio di sostanze promutagene sono gli idrocarburi alogenati, utilizzati come solventi, intermedi

nell’industria chimica e in agricoltura; si possono inoltre formare durante i processi di

potabilizzazione dell’acqua, dove diversi prodotti conteneti cloro, usati come disinfettanti,

interagendo con acidi umici o fulvici, possono dare origine a composti organici alogenati.

Vi sono infine sostanze che possiamo definire mutageni indiretti in quanto, pur non reagendo né

direttamente né come derivati metabolici con il DNA, possono comunque causare modificazioni del

materiale genetico. Tali modificazioni possono essere indotte attraverso, ad esempio, la formazione

di specie reattive dell’ossigeno (ROS) o, più in generale, mediante l’interazione del composto con

molecole o strutture coinvolte nella sintesi, replicazione e il corretto mantenimento della struttura

del DNA (antimetaboliti e inibitori mitotici).

Tra i mutageni che agiscono mediante la promozione di uno stress ossidativo, fanno parte molti

mutageni diretti o promutageni in quanto la loro riduzione metabolica può dare origine a ROS in

grado di danneggiare il DNA causando rotture a doppia elica (DSB), a singola elica (SSB) e basi

ossidate con la possibilità di formazione di mutazioni puntiformi. Lo stress ossidativo, dovuto ad

uno squilibrio redox all’interno delle cellule, ha come risultato la formazione di specie reattive

dell’ossigeno (ROS) e la diminuzione di antiossidanti. I ROS sono molecole altamente reattive che

possono disturbare l’omeostasi intracellulare reagendo sfavorevolmente con macromolecole

cellulari incluso il DNA, proteine e lipidi. Il danneggiamento del DNA indotto da ROS è

caratterizzato da rotture a singolo e doppio filamento del DNA, modificazione di base (formazione

di addotti 8-OHdG), che se non riparati hanno la potenzialità di iniziare e promuovere la

cancerogenesi (Toyokuni, 1998). Le specie reattive dell’ossigeno sono definite ―primario‖ o

―secondarie‖. I ROS ―primari‖ possono essere generati attraverso processi metabolici o attraverso

l’attivazione dell’ossigeno, che portano alla formazione di una molecola di ossigeno reattivo

nucleofilo come per esempio l’anionene superossido O-2; questi radicali non reagiscono

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direttamente con il DNA o i polipeptidi. Tuttavia possono interagire con altre molecole come

metalli di transizione attivati da reazioni ossido-riduttive (es. ferro) o con enzimi dando origine ai

così detti ROS ―secondari‖ (es radicale ∙OH) che sono i responsabili primari del danno al DNA.

Infatti la maggior parte dei radicali ∙OH generati in vivo scaturiscono dalla rottura di perossido di

idrogeno, catalizzata da metallo, secondo la reazione di Fenton, dove 2O.-2+ 2H+→H2O2+O2

seguita da Mn+

+ H2O2→M(n+1)+

+∙OH+OH- (reazione di Fenton; M rappresenta il metallo di

transizione). Gli ioni dei metalli di transizione come il Cadmio, Cromo, Cobalto, Rame, Ferro,

Nickel, Titanio e Zinco hanno il potenziale di causare la conversione dell’ossigeno prodotto dal

metabolismo cellulare come H2O2 e anioni superossidi in radicali idrossilici (∙OH) che

rappresentano una delle principali specie reattive che inducono il danno al DNA.

1.4.2 Metodi per la valutazione del danno al DNA

La maggior parte dei test in vitro utilizzati per valutare il potenziale genotossico di alcune sostanze,

utilizzano come endpoint saggi del Micronucleo (MN), Aberrazioni cromosomiche (AC), scambi di

cromatidi fratelli (SCE) e Comet assay. Questi saggi possono essere usati in modo complementare

in quanto analizzano differenti tipi di danno al DNA, che possono avere sensibilità diverse a

seconda dei contaminanti ambientali presi in considerazione. In particolare il Comet assay rileva

danni primari al DNA come rotture DSB e SSB e siti labili agli alcali (siti apurinici/apiridinici

derivanti da processi intermedi di taglio e riparazione, che in condizioni alcaline , si traducono in

rotture). Tali danni sono di vita breve in quanto vengono velocemente riparati non determinando

perciò una mutazione permanente: per questo motivo il Comet assay viene detto anche ― test a

breve termine‖. Il saggio del MN rileva invece lesioni del DNA dopo che queste si fissano in

mutazioni cromosomiche: per questo viene chiamato test a lungo termine , in quanto queste

mutazioni non sono riparabili e permangono nel tempo. Studi pubblicati hanno confrontato i due

tipi di saggio testando vari mutageni (Vrzoc & Petras, 1997) come le ammine aromatiche

eterocicliche (Pfau et al., 1999), idrocarburi clorinati a catena corta (Tafazoli et al., 1998) o metalli

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(Van Goethem et al., 1997) concludendo che il Comet assay era in grado di identificare la

genotossicità delle sostanze chimiche con una sensibilità confrontabile al test del MN. Tuttavia, un

confronto esteso dei rislutati del Comet assay con quelli dei test citogenetici su studi di

biomonitoraggio, hanno concluso che il saggio cometa è probabilmente più sensibile dei test

citogenetici convenzionali (Kassie et al., 2000; Tice et al., 2000). Il saggio del MN, oltre alla

valutazione di eventi clastogeni consente di determinare anche alterazioni numeriche (dovute ad

agenti aneuploidogeni, detti anche aneugeni). Il saggio del MN è un’analisi in interfase che

permette la misurazione del danno cromosomico; è una tecnica veloce che si è sviluppata in

alternativa alle così dette analisi in metafase come il test delle aberrazioni cromosomiche strutturali

(AC), numeriche e scambi tra cromatidi fratelli (SCE), tecniche più complesse e meno veloci. Nel

complesso, se si tiene conto delle informazioni complementari derivanti dal Comet assay e MN,

diversi autori hanno suggerito che, nell’ambito di uno stesso studio, entrambi i test dovrebbero

essere impiegati parallelamente, dato le loro capacità di individuare diversi aspetti di genotossicità e

clastogenicità (Frenzilli et al., 2009).

Sia il Comet assay che il saggio del MN sono applicabili su diverse tipologie di cellule eucariotiche

nucleate, in particolare le analisi vengono eseguite principalmente su campioni di sangue periferico

o di tessuto epiteliale poiché la loro reperibilità implica tecniche non invasive . L’organo o il tessuto

di origine viene disgregato in cellule singole (spesso con l’uso di tripsina) : questo tipo di coltura,

definita primaria, può crescere in sospensione (come le colture di linfociti di sangue periferico) o su

un substrato solido, di plastica o di vetro (colture in monostrato, come fibroblasti o cellule

epiteliali). I linfociti di sangue periferico sono considerati la migliore fonte non invasiva di cellule

per analizzare il danno al DNA perché questi circolano attraverso tutti i tessuti e organi fornendo

così una stima dell’esposizione media dell’intero organismo ai contaminanti ambientali. I fibroblasti

sono cellule di tessuto connettivo di organi e tessuti e per questo sono onnipresenti nell’organismo.

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Una volta ottenuto il campione di tessuto attraverso una biopsia, i fibroblasti possono essere

facilmente isolati e fatti proliferare per alcune generazioni in colture cellulari. Le cellule di tutti i

vertebrati (linfociti, fibroblasti ecc.) una volta messe in coltura, hanno una capacità proliferativa

limitata, fenomeno noto come ―limite di Hayflik‖, o senescenza replicativa. Nei fibroblasti umani,

per esempio, questo limite si raggiunge dopo circa 60 replicazioni cellulari, le cellule diventano

quindi senescenti e cessano di dividersi. Durante questo periodo le cellule, dette coltura primaria,

mantengono abbastanza costantemente le caratteristiche di partenza.

1.4.2.1 Comet assay

Il Comet assay (Single Cell Gel Electrophoresis o SCGE) rappresenta un test di genotossicità di

facile allestimento, rapida esecuzione ed elevata sensibilità. Inoltre richiede quantità ridotte di

substrato ed è applicabile in vitro e in vivo a numerosi tipi di cellule e tessuti differenti. Il Comet

assay, allestito per la rilevazione delle rotture del filamento del DNA, prevede l’inglobamento delle

cellule da esaminare in agarosio, la loro lisi, la denaturazione del DNA nucleare in tampone alcalino

e la successiva elettroforesi. I filamenti di DNA che non hanno subito rotture migrano scarsamente

e tendono a rimanere concentrati in un nucleoide, mentre i frammenti generati da rotture del

filamento migrano in proporzione inversa alla loro lunghezza e peso molecolare. Al termine della

migrazione elettroforetica, i nuclei vengono colorati con bromuro di etidio e visualizzati tramite

microscopio a fluorescenza: il campione assume l’aspetto di una ―cometa‖, con una coda tanto più

lunga e più intensamente fluorescente quanto più il DNA è frammentato, quindi quanto più è

elevato il danno. L’entità del danno al DNA, in termini di rotture, viene stimata mediante

l’acquisizione di due parametri: % di DNA nella coda (misurabile come intensità di fluorescenza

dopo colorazione) e lunghezza della coda. A partire da questi è possibile calcolare il momento di

coda (tail moment - TM), definito come il prodotto dell’intensità di fluorescenza relativa della coda

per la sua lunghezza, che ingloba i due precedenti ed è anch’esso utilizzato come indice di danno al

DNA (Collins et al., 1997; Collins et al., 2001). Per ogni campione di cellule esaminato vengono

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scelte in modo casuale 50 cellule, acquisendone le relative immagini tramite telecamera collegata a

microscopio. Uno specifico software per analizzatore di immagini calcola per ciascuna cometa

considerata i valori relativi ai parametri citati.

La corsa elettroforetica condotta in condizioni neutre permette di evidenziare solo rotture a doppia

elica (DSB), in condizioni alcaline (pH = 12,1) permette di rilevare i frammenti derivati da rotture

a singolo filamento (SSB), infine a pH maggiori (pH > 13) si evidenziano, oltre ai DSB e ai SSB, i

siti labili agli alcali, i quali vanno incontro a rottura solo se sottoposti a condizioni drastiche, come

ad esempio un pH molto elevato (Lindahl & Andersson, 1972). Una versione del Comet assay

modificata per rilevare il danno ossidativo al DNA è stata messa a punto da Collins et al. (1996) e si

avvale di enzimi quali formamido-pirimidin glicosilasi (Fpg) ed endonucleasi III. L’Fpg riconosce

specificamente e sottopone a clivaggio le basi puriniche ossidate del DNA, in particolare 7,8-diidro-

8-ossiguanina, 2,6-diamino-4-idrossi-5-formamidopirimidina, 4,6-diamino-5-formamido-pirimidina

e piccole quantità di 7,8-diidro-8-ossiadenina, producendo siti apurinici. Questi a loro volta sono

convertiti in rotture del filamento, grazie all’attività endonucleasica associata all’enzima. La

endonucleasi III converte in rotture del filamento i siti in cui sono presenti pirimidine ossidate. La

procedura di esecuzione del Comet assay modificato mediante l’uso dell’enzima Fpg è del tutto

analoga a quella del test convenzionale, con l’unica differenza che la migrazione elettroforetica del

lisato è preceduta dall’incubazione di quest’ultimo con l’enzima in oggetto. Il numero di frammenti

prodotti dal trattamento enzimatico risulta direttamente proporzionale al danno ossidativo arrecato

al DNA.

Il test può essere virtualmente applicato ad ogni tipo di cellula o tessuto (Sasaki et al., 2000). In

pratica, mentre gli studi tradizionali che utilizzano tecniche di citogenetica sono in gran parte

circoscritti ai linfociti circolanti e coinvolgono popolazioni cellulari proliferanti, il Comet assay è

idoneo anche per le cellule non proliferanti e per cellule di tessuti specifici che rappresentano i

bersagli diretti degli inquinanti ambientali: cellule della mucosa orale, della mucosa nasale, dei

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follicoli dei capelli, dell’epitelio interno del polmone, del lavaggio broncoalveolare, dell’esfoliato

del colon, dell’epitelio della mucosa cervicale, dell’urotelio, della linea germinale maschile,

provenienti da materiale bioptico etc. (Tice et al., 2000; Hartmann et al., 2003). È stato evidenziato

che il Comet assay rappresenta un approccio percorribile e solido per indagare la genotossicità in

vivo, dovuta alla somministrazione di composti specifici, a livello di numerosi tessuti ed organi nei

roditori da esperimento, inclusi fegato, mucosa gastrica, duodeno, digiuno, polmone e rene

(Hartmann et al., 2004).

Una delle limitazioni principali all’applicazione del Comet è data dall’assenza di risposta nei

confronti di agenti genotossici caratterizzati da alcuni specifici meccanismi d’azione. In primo

luogo il test non è in grado di rilevare (se non a dosi elevate) gli aneugeni, ossia i composti in grado

di indurre aneuploidia (aberrazioni del numero di cromosomi), attraverso per esempio l’interazione

con il fuso mitotico. Un’altra classe di agenti, in grado di formare legami crociati (crosslinkers) tra

DNA e proteine o all’interno del DNA (a livello di un solo filamento - intrastrand - o tra i due

filamenti - interstrand), furono inizialmente considerati come un potenziale problema, poiché, in

contrasto con gli agenti che causano rottura del filamento, essi inducono ritardo nella migrazione

del DNA. È intuitivo infatti che l’instaurarsi di legami crociati porta alla formazione di complessi

macromolecolari di dimensioni e peso maggiori, evento che comporta una diminuita migrazione

elettroforetica e una minore intensità di fluorescenza (riduzione del TM) rispetto ai valori basali

(Pfuhler & Wolff, 1996; Merk & Speit, 1999; Frenzilli et al., 2000).

La formazione di legami crociati DNA-proteine da parte della formaldeide coinvolge in primo

luogo le proteine istoniche ma si estende anche alle proteine della matrice nucleare. Queste lesioni,

che possono portare all’induzione di scambi tra cromatidi fratelli (SCE) e alla formazione di

micronuclei (MN), sono in genere rimosse entro 24 h, probabilmente da più di un sistema di

riparazione del DNA. Le ragioni non sono chiare ma sono certamente legate al meccanismo

d’azione di questi agenti: la formazione di frammenti di DNA di dimensioni maggiori (dovuta alla

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formazione di legami crociati a livello di uno o più filamenti di DNA) può da un lato ostacolare il

verificarsi di ulteriori rotture dell’acido nucleico (e quindi la migrazione) ma nel contempo

conferire ai frammenti un rapporto carica/massa tale da favorire in alcuni casi una maggior

migrazione degli stessi. La prevalenza dell’una o dell’altra tendenza potrebbe essere legata alla

concentrazione del crosslinker. Peraltro, uno stesso agente può agire inducendo legami crociati a

tutti i livelli (DNA-proteina, DNA-DNA all’interno del singolo filamento o tra i due filamenti),

sebbene in proporzione differente. Tuttavia sono state effettuate delle modifiche del Comet assay

tali da permettere anche la rilevazione dei crosslinker (Tice et al., 2000). Queste modifiche si

basano sul capovolgimento del principio del metodo, nel senso che dopo l’applicazione del

crosslinker (o del potenziale crosslinker) si registra il grado di riduzione del TM in cellule

pretrattate con un agente che determina aumento delle rotture del DNA e marcata migrazione del

medesimo, quali il metil-metansulfonato (Pfuhler & Wolf, 1996) e le radiazioni ionizzanti (raggi

gamma) (Merk & Speit, 1999). Tale versione modificata del Comet assay consente, dunque, di

valutare la formazione di legami crociati fra DNA e proteine (Merk and Speit, 1999). Per agenti

genotossici che presentano meccanismi d’azione misti si pone un terzo ordine di problematiche.

Alcune sostanze come metalli (es. Cromo, Cadmio, Piombo) evidenziano azione genotossica sia per

induzione di legami crociati DNA-proteine sia per la capacità di catalizzare in modo prolungato la

sintesi di specie reattive dell’ossigeno (ROS) formando rotture a singolo e a doppio filamento. È

chiaro infatti che la quota di danno legata ai meccanismi cui il test è meno sensibile potrebbe non

essere adeguatamente rilevata e condurre ad una sottostima del potere genotossico. Peraltro, come

correttamente ritenuto da alcuni autori (ad esempio Van Goethem et al., 1997) appare

raccomandabile la combinazione di due o più test (ad esempio Comet + micronucleo) negli studi

relativi al meccanismo d’azione degli agenti genotossici e al confronto della potenza genotossica di

due o più agenti.

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1.4.2.2 Test del micronucleo

Il test del micronucleo (MN) per la valutazione del danno cromosomico indotto o spontaneo è stato

proposto nel 1979 da P.I Countryman e J.A. Heddle come alternativa più rapida rispetto all’analisi

metafasica (test delle AC e degli SCE). Il test utilizza cellule in interfase che sono facilmente

analizzabili in elevato numero e in breve tempo, permettendo un rapido screening di un’ampia

popolazione cellulare. Queste caratteristiche hanno reso il test del MN una metodica complementare

e spesso sostitutiva della convenzionale analisi metafasica e può essere eseguita sia in linfociti

umani che in linee cellulari di mammifero (Fenech et al., 2000). I micronuclei appaiono nel

citoplasma come piccoli nuclei accessori, morfologicamente identici al nucleo principale ma di

dimensioni ridotte. Possono essere formati da frammenti che, privi di centromero, non segregano

correttamente alla divisione cellulare, o da interi cromosomi i quali, ritardano la migrazione

anafasica, restando esclusi dai nuclei principali: durante la telofase si riscostruisce l’involucro

nucleare anche intorno ai frammenti e ai cromosomi non migrati assumendo la tipica morfologia a

MN. Quindi i MN rappresentano un indicatore diretto sia di rotture a livello cromosomico dovuto

ad agenti clastogeni, sia di alterazioni dell’apparato del fuso mitotico dovuto ad agenti

aneuploidogeni: determinare la frequenza di MN significa valutare il danno cromosomico esistente.

Poiché si ritiene che lo studio ottimale per la registrazione di MN sia quella tra il completamento

della divisione nucleare e la citodieresi (Fenech, 1997), viene utilizzata la citocalasina B, una

sostanza estratta dal fungo Helminthosporum dematoideum in grado di bloccare le cellule senza

interferire con la divisione nucleare o con l’integrità cromosomica. Usata alle dosi appropriate, la

citocalasina B impedisce la citodieresi, agendo sui microfilamenti dell’anello contrattile ma non

sulla divisione nucleare, producendo così cellule binucleate che possono esprimere l’eventuale

danno. Il test del MN permette, inoltre, di valutare un altro parametro citogenetico: l’indice di

divisione nucleare (IDN), misurando la frequenza di cellule mono-, bi-, tri-, tetranucleate e quindi la

proliferazione cellulare. Questo indice fornisce informazioni importanti sugli effetti citotossici di

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agenti fisici o chimici e aiuta a identificare sostanze che possono stimolare la divisione nucleare;

approccio particolarmente utile per effettuare screening del potenziale genotossico di agenti

mutageni.

Poichè è stato dimostrato che il danno al DNA o dei cromosomi è solo uno dei numerosi eventi

critici che si verificano in seguito all'esposizione di cellule ad agenti xenobiotici (Evan e

Littlewood, 1998; Green e Reed, 1998 ), il test del MN permette anche di quantificare cellule

necrotiche e apoptotiche in base a criteri morfologici dei nuclei osservati (Kirsch-Volders et al.,

1997; Crott & Fenech, 1999; Fenech, 1999). Apoptosi e necrosi rappresentano un danno di tipo

cellulare e sono importanti per una descrizione completa dell'effetto tossico di un qualunque agente

chimico o fisico.

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2 SCOPO DELLA TESI

Dal momento che in letteratura sono ancora scarse le indagini che hanno per oggetto l’impatto dei

contaminanti sulle specie marine oggetto di tutela, si è ritenuto opportuno valutare la suscettibilità

di un cetaceo odontocete (Tursiops truncatus) verso il biossido di titanio (TiO2), con particolare

riferimento al potenziale genotossico di questa sostanza.

Con lo sviluppo di nuove tecnologie industriali, il TiO2 viene sempre più utilizzato sotto forma di

particelle micro e nano-dimensionate. Queste particelle sono impiegate in diversi settori e prodotti

industriali come per esempio nelle creme solari e nei pannelli fotovoltaici, inoltre vengono utilizzate

come pigmenti in smalti e vernici, infine come catalizzatori per depurare le acque reflue di origine

industriale e domestica. L’utilizzo intensivo di questo ossido di metallo ha come ovvia conseguenza

l’ immissione, diretta od indiretta, nell’ambiente acquatico e quindi anche in quello marino di TiO2 ,

tuttavia non esistono ancora dati attendibili concernenti i livelli ambientali di questo contaminante

emergente.

In questo studio abbiamo confrontato gli effetti indotti da due diverse forme cristalline di TiO2,

rutilo ed anatasio, su due differenti tipi cellulari di tursiope: leucociti e fibroblasti. La scelta è

ricaduta su questo particolare cetaceo in quanto è specie allevata in cattività e per questo è stato

possibile ottenere campioni di sangue (forniti dal Parco Oltremare di Riccione); mentre i fibroblasti

sono stati ottenuti nell’ambito di una collaborazione con il Dipartimento di Scienze Ambientali

dell’Università di Siena. Oltre a determinare il grado di suscettibilità di questa specie nei confronti

delle due forme di TiO2, le medesime sostanze sono state testate anche su cellule umane e murine

per avere così un confronto tra le suscettibilità di questi tre mammiferi diversi.

Essendo predatori terminali, i mammiferi marini tendono ad accumulare le sostanze inquinanti

attraverso un processo di biomagnificazione. Inoltre, a differenza di altri organismi acquatici, non

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dispongono di meccanismi di detossificazione efficaci, soprattutto verso quelle sostanze altamente

lipofile che tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo (blubber) e nel latte materno trasmettendosi

così alla prole. Per questi aspetti i cetacei odontoceti sono più sensibili verso sostanze inquinanti

rispetto ad altri organismi marini dello stesso livello trofico.

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3 MATERIALI E METODI

3.1 ALLESTIMENTO DELLE COLTURE DI LEUCOCITI

I campioni di sangue di tursiope sono stati prelevati da 5 delfini tenuti in cattività presso il

delfinario Oltremare srl di Riccione. I campioni sono stati ottenuti tramite prelievi da quattro

esemplari maschi e una femmina adulti . Il sangue prelevato, in quantità di circa 9 ml per ogni

animale, è stato conservato in provette eparinizzate con litioeparina, trasportate direttamente in

laboratorio in un contenitore isolato termicamente e mantenuto ad una temperatura di circa + 4°C.

Per quanto riguarda i campioni di sangue umano, questi sono stati prelevati da due volontari sani di

sesso maschile (24-30 anni).

Per le esposizioni, i leucociti sono stati isolati dal sangue intero attraverso un processo di lisi. La

soluzione di lisi in cui sono stati risospesi i campioni di sangue (proporzione 1:7) era composta da

NH4Cl, KHCO3 e Na2ETDA, con pH 7.4. La soluzione così ottenuta è stata centrifugata a 3000

rpm per 5 minuti. In seguito il precipitato è stato separato e sottoposto ad un lavaggio con 3.5 ml di

RPMI-1640. Dopo una seconda centrifuga a 3000 rpm per 5 minuti, il precipitato è stato

nuovamente isolato e risospeso utilizzando 3.5 ml di una soluzione composta da: RPMI-1640; FBS

(10%); PEN/STR (1%). Dopo isolamento, i leucociti sono stati posti in eppendorf nelle quali è stato

effettuato il trattamento con le sostanze. I campioni sono stati mantenuti per tutta la durata dei tempi

di esposizione a 37°C, al buio e in movimento costante tramite rotore. Al termine dei tempi di

esposizione le cellule sono state centrifugate a 1000 rpm per 10', in seguito è stato aspirato il

sovranatante ed è stato effettuato un lavaggio con RPMI per rimuovere il quantitativo di polveri

residue. Successivamente, a seguito di una ulteriore centrifuga, è stato possibile utilizzare il

materiale cellulare per condurre i vari test.

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3.2 ALLESTIMENTO DELLE COLTURE DI FIBROBLASTI

I fibroblasti di tursiope sono stati ottenuti tramite biopsia cutanea su esemplari selavatici; i campioni

sono stati forniti dal Dip. Scienze Ambientali presso l’Università degli Stusi di Siena. Dopo la

biopsia, il campione di epidermide è stato lavato accuratamente e in seguito conservato in una

soluzione (Mezzo di Coltura Completo) costituita da Mezzo Minimo Essenziale (MEM) con sali di

Earle e con L-glutamina (Invitrogen) arricchito con il 10% di siero fetale bovino gamma irradiato

(Invitrogen), con l’1% di soluzione di aminoacidi non essenziali 100X (Invitrogen), con l’1% di

Penicillina/Streptomicina 100X (Invitrogen) e con lo 0,1% di Amphotericina B 100X (Invitrogen).

In laboratorio ogni operazione è stata effettuata sotto cappa UV a flusso laminare, con materiale

monouso sterile, per permettere di procedere con tecniche totalmente sterili. La prima operazione

consisteva nel lavaggio del campione con una soluzione bilanciata di Sali (EBSS) (Invitrogen), con

Penicillina/Streptomicina 100X (Invitrogen), e con Amphotericina B 100X (Invitrogen). Quindi la

pelle è stata sezionata con un bisturi monouso in piccoli parti, con taglio verticale per consentire di

ottenere sezioni dell’intero campione comprendenti tutti gli strati dell’epidermide, il derma ed una

piccola parte di grasso sottocutaneo. Le sezioni sono state poste in una piastra Petri sterile ed

incubate con una soluzione di Tripsina-EDTA 1X (Invitrogen) per 20 minuti a 37°C. Dopo un

ulteriore lavaggio con mezzo di coltura completo per togliere tutti i residui di tripsina, le sezioni

sono state poste in fiasche Falcon da 50 ml precedentemente bagnate con il mezzo completo. Dopo

24 ore in incubatore ad aria con il 5% di CO2, nelle Falcon è stato aggiunto 1 ml di mezzo

completo, che verrà sostituito dopo 24 h con mezzo fresco. Il mezzo è stato cambiato ogni giorno

per un periodo variabile da 5 a 15 giorni in cui avviene la proliferazione dei 49 primi fibroblasti. Da

questo punto in poi il mezzo è stato cambiato ogni 2-3 giorni in funzione dello stato della coltura

relativo sia al consumo dei nutrienti del mezzo e conseguente produzione di cataboliti sia allo

sviluppo di infezioni batteriche e/o fungine. Al 90% di confluenza cellulare, i fibroblasti sono stati

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messi in una Falcon da 150 ml trattandoli con 2 ml di Tripsina-EDTA 1X (Invitrogen) di cui 1 ml è

stato tolto dopo circa 20 secondi e l’altro millilitro è stato lasciato per circa 5 min. per permettere il

completo distaccamento delle cellule dal fondo della Falcon 50 ml. Quando tutti i fibroblasti si sono

separati, sono stati raccolti con 4 ml di mezzo completo e trasferiti nella Falcon da 150 ml, portando

poi il volume a 15 ml con mezzo completo. Alla confluenza nella Falcon da 150 ml, è stato

effettuato il passaggio nella Falcon da 250 ml con la stessa metodica precedentemente descritta,

cambiando solamente i volumi dei vari mezzi. Una volta raggiunta la confluenza in quest’ultima

fiasca è stato possibile procedere al loro utilizzo immediato per l’esperimento.

Per quanto riguarda i fibroblasti umani e murini, sono state utilizzate rispettivamente linee cellulari

HuDE e 3T3. Le prime sono state gentilmente fornite dalla Dottoressa Tatiana Armeni,

dell'Università Politecnica delle Marche. Le linee di fibroblasti murini sono state gentilmente

fornite dalla Dottoressa Antonella Cecchettini, CNR Pisa. Dopo lo scongelamento, entrambe le

linee cellulari sono state poste in fiasche da coltura T75 con 15 mldi mezzo DMEM a 37°C (

Euroclone Spa) a cui sono stati addizionati 10% FBS, 1% Pen/Strep e 1% L-Glutammina.

Raggiunta la confluenza, le cellule sono state staccate mediante Tripsina 2,5% per 10' a 37°C, in

seguito inattivata aggiungendo mezzo completo in rapporto 1:3; una volta recuperate, le cellule

sono state poste in pozzetti di piastre P24 in cui successivamente è stato condotto il trattamento. Al

termine dei vari tempi di esposizione le cellule sono state lavate con HBSS (Euroclone Spa) per

rimuovere eventuali residui di polvere di trattamento, staccate nuovamente con Tripsina 2,5% per

10' a 37°C e recuperate per andare ad effettuare i vari test.

3.3 SOSTANZA UTILIZZATA ED ESPOSIZIONE

Per quanto riguarda l’esposizione dei leucociti e dei fibroblasti sono state utilizzate due diverse

forme di biossido di titanio, il rutilo e l’anatasio, caratterizzate da strutture cristalline diverse.

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Fig.1. Struttura cristallina di una molecola di rutilo (A) e di una molecola di anatasio (B).

Entrambi i tipi di particelle sono stati acquistati da Sigma-aldrich: l’anatasio possedeva una

dimensione nominale inferiore a 25 nm (peso specifico/densità, 4g/cm3) mentre la forma cristallina

rutilo aveva una dimensione nominale inferiore ai 5000 nm (peso specifico / densità, 4.26 g/cm3).

Le polveri, prima della pesata, sono state sterilizzate ponendo le bottiglie di vetro pyrex in cui erano

contenute in stufa a 120° C per 120 minuti. Successivamente, è stata preparata una soluzione

―madre‖, in cui le polveri sono state disperse nel mezzo completo (costituito da 1% PEN/STREP,

10% TBS e RPMI fino a volume). In seguito, entrambi i tipi di polvere sono state sottoposte a

sonicazione a 35 kHz per 30 minuti utilizzando un sonicatore ―bath type‖ (transoning 460 ELMA)

per ridurre l’aggregazione tra le particelle prima dell’esposizione.

L’esperimento ha previsto l’utilizzo di due diverse tecniche di analisi del danno genetico: il Comet

assay, effettuato sia sui leucociti isolati (di tursiope e umani) sia sui fibroblasti (di tursiope, umani

e di topo) e il test del micronucleo, quest’ultimo effettuato solo su leucociti isolati di tursiope.

Per effettuare il test del micronucleo, i leucociti isolati di tursiope sono stati esposti (in due

repliche) a tre dosi differenti per entrambe le forme di biossido di titanio (20, 50 e 100 mg/ml), più

un controllo ed un controllo positivo (Mitomicina C). Per questo tipo di test la durata

dell’esposizione è stata, per tutti i campioni, di 48 ore.

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Per quanto riguarda invece l’analisi delle rotture nei filamenti di DNA (Comet assay), i leucociti

isolati di tursiope e umani, sono stati esposti (in due repliche) a tre dose differenti di entrambe le

polveri (20, 50 e 100µg/ml) e a tre tempi di esposizione (4, 24 e 48h) oltre ad un controllo. Come

controllo positivo è stato utilizzato perossido di idrogeno (H2O2, 100µM). I fibroblasti delle tre

specie (tursiope, HuDE, 3T3) sono stati esposti (in due repliche) a quattro dosi diverse di entrambi

le polveri (20, 50, 100 e 150 µg/ml) e a tre tempi di esposizione (4, 24 e 48 h) oltre ad un controllo.

Come controllo positivo è stata utilizzata la sostanza MMS, in quanto l’acqua ossigenata non

sempre ha avuto un effetto genotossico netto su questo tipo di cellule. L'introduzione della quarta

dose (150µg/ml) è stata motivata dal fatto che i fibroblasti tendono ad essere cellule resistenti,

risultava dunque interessante valutare il potenziale effetto di entrambe le sostanze a dosi elevate.

3.4 TEST DEL TRYPAN BLUE PER LA VITALITA’ CELLULARE

La vitalità cellulare , sia per i leucociti che per i fibroblasti, è stata valutata utilizzando il test del

Trypan Blue. Il test è stato effettuato sia prima dell’esposizione a entrambe le sostanze sia dopo,

prelevando 10μl di sospensione cellulare per ciascuna dose ad ogni tempo di esposizione (4, 24 e 48

h).

Il Trypan blue è un colorante vitale diazoico utilizzato per valutare la vitalità cellulare in quanto

colora selettivamente in blu solo le cellule morte, mentre non modifica la colorazione delle cellule

vive, che presentano membrane cellulari integre. Dal momento che le cellule sono molto selettive

riguardo ai composti che possono attraversare la membrana, in una cellula vitale il colorante non è

internalizzato, mentre risulta libero di attraversare la membrana di una cellula morta. Di

conseguenza, le cellule non vitali, se osservate al microscopio, risultano di colore blu. Per effettuare

questo test sono stati aggiunti alla sospensione cellulare 10 µl di colorante, e da questa soluzione

sono stati prelevati 10 µl, posti quindi in un emocitometro (camera di Bürker) al fine di effettuare

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un conteggio delle cellule vive e morte. La vitalità, espressa in percentuale, è stata ottenuta

dividendo il numero di cellule vitali per il numero totale di cellule.

3.5 COMET ASSAY

Le sospensioni di leucociti e fibroblasti, sono state centrifugate a 1000 rpm per 10 minuti, in modo

da separare precipitato e sopranatante. Una volta aspirato quest’ultimo, il sedimento risultante è

stato unito con 150 μl di Low Melting Agarose (LMA) 0,5% dissolto in PBS a 37°C, in modo da

avere 75 μl di soluzione per ogni vetrino impiegato. Per ogni punto sperimentale, sono stati

utilizzati due vetrini da analizzare attraverso il Comet assay. Lo strato di LMA contenente le cellule

è stato quindi stratificato su un vetrino da microscopia, adagiato su di una piastra metallica fredda e

precedentemente ricoperto con uno strato di Normal Melting Agarose (NMA) all’1% secondo Tice

et al., 2000. La deposizione sul vetrino di un coprioggetto ha lo scopo di far distendere lo strato di

gel. Il vetrino è stato posto a solidificare al buio per 5 minuti a +4°C. E’ stato quindi tolto il

coprioggetti, e sono stati aggiunti 85 μl di LMA. Il vetrino, di nuovo coperto con il coprioggetti, è

stato lasciato a solidificare ulteriormente a 4°C per 5 minuti. Dopo la solidificazione del terzo strato

di gel, è stato delicatamente tolto il vetrino coprioggetti ed i vetrini sono stati immersi nella

soluzione di lisi e tenuti in frigorifero, al buio, sempre a +4°C. La soluzione di lisi, che deve essere

pronta almeno mezz’ora prima rispetto al momento in cui vengono immersi i vetrini (fresca e

fredda), viene preparata a partire da una soluzione detta prelisi (NaCl 2,5 M, Na2EDTA 100 mM,

Tris HCl, pH 10) alla quale, poco prima dell’uso, vengono aggiunti dimetilsolfossido (DMSO) al

10% e Triton X 100 all’1%. I vetrini così preparati possono rimanere in lisi non meno di un’ora, e

fino ad un mese. La funzione della soluzione di lisi è quella di rompere le membrane cellulari e

nucleari, in modo da permettere al DNA di migrare durante l’elettroforesi. Tutte le operazioni sono

state svolte ad una temperatura di 20°C, ed in condizione di luce gialla, allo scopo di evitare un

danno aggiuntivo al DNA.

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I vetrini una volta tolti dalla soluzione di lisi sono stati disposti in una camera elettroforetica

orizzontale. Quindi sono stati ricoperti con una soluzione tampone alcalina fredda (NaOH 300 mM,

Na2EDTA 1 mM, pH >13), allo scopo di denaturare la doppia elica di DNA, per 20 minuti. E’ stata

scelta la versione alcalina (pH >13) del Comet assay per rilevare, oltre alle rotture a doppio e

singolo filamento, anche le rotture dovute alla presenza di siti labili agli alcali. Avvenuta la

denaturazione del DNA, è stata eseguita la corsa elettroforetica, della durata di 20 minuti a 25V e

300 mA. Dopo la corsa, i vetrini sono stati trattati per tre volte con 2 ml di una soluzione

neutralizzante (Tris-HCl, pH 7.5) al fine di ripristinare un pH quasi neutro e consentire la

successiva colorazione. Una volta asciutti, i vetrini così preparati possono essere conservati in

scatole portavetrini, in ambiente secco.

Al momento dell’osservazione, i vetrini sono stati colorati con 100 μl di bromuro di etidio (2 μg/ml)

ed analizzati al microscopio a fluorescenza (Jeneval) a 40 ingrandimenti. La migrazione del DNA

verso l’anodo, proporzionale al danno genetico, è stata valutata mediante un sistema di analisi

dell’immagine collegato al microscopio (Komet 4, Kinetic imaging, Ldt). Il parametro utilizzato per

valutare il danno al DNA è stato la percentuale di DNA migrato nella coda, dal momento che altri

parametri come la lunghezza della coda ed il tail moment si sono dimostrati influenzabili da

variabili sperimentali (McKelvey-Martin et al., 1993).

3.6 TEST DEL MICRONUCLEO

Per condurre il Test del Micronucleo, sono stati utilizzati 0,3 ml di leucociti di tursiope (due

repliche per ogni tipo di esposizione prevista dall’esperimento), posti in coltura per 72 ore in un

incubatore a 37°C, in tubi a fondo tondo da 10 ml contenenti: 1% di Pen/strep; 10% di siero bovino

fetale; 1,5% di PHA (fitoemagglutinina); RPMI-1640 con un volume finale di 5 ml.

Dopo 24 ore di incubazione, le cellule sono state trattate con tre dosi differenti (20,50 e 100µg/ml)

di entrambe le forme di biossido di titanio ottenendo due repliche per ogni trattamento oltre a due

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repliche per il controllo. Dopo 44 ore è stato effettuato un trattamento su tutti i campioni con 100 l

di Citocalasina B (6 g/ml), una tossina che inibisce l’actina impedendo la citodieresi durante la

mitosi, permettendo così di ottenere cellule binucleate, cellule che possono esprimere l’eventuale

danno con la formazione di MN.

Dopo 72 ore è stato effettuato il recupero delle cellule, trasferendo la sospensione cellulare in tubi a

fondo conico. Dopo centrifugazione a 2000 rpm per 5 minuti, è stato eliminato il sopranatante, e il

precipitato è stato trattato con 5 ml di soluzione ipotonica (KCl 0,075 M) a 37°C. Successivamente,

alla soluzione sono stati aggiunti 400 l di una soluzione di prefissativo fresco (metanolo e acido

acetico in rapporto 3:5), e si è proceduto ad effettuare una ulteriore centrifugazione per 5 minuti a

2000 rpm. E' stato quindi aggiunto metanolo puro e i preparati sono stati conservati in frigo a +4°C

per almeno un’ora.

In seguito sono stati allestiti i vetrini, utilizzando la seguente procedura: a seguito di una

centrifugazione a 2000 rpm per 5 minuti, il precipitato è stato trattato con una soluzione di fissativo

(metanolo e acido acetico in rapporto 7:1, in condizioni di umidità ambientale intorno al 65%).

Questo processo è stato ripetuto per due volte, e successivamente si è proceduto a risospendere il

precipitato finale (circa 0.5 ml), che è stato poi gocciato su vetrini (in genere 2 per tubo) freddi (-

20°C). Dopo averli fatti asciugare all'aria, i vetrini sono stati colorati con una soluzione di GIEMSA

al 4.5% in H2O deionizzata al buio per 10 minuti. Sono stati quindi risciacquati per eliminare il

colorante in eccesso con H2O distillata, e fatti asciugare. Per poter procedere alla lettura al

microscopio ottico, è stato necessario incollare vetrini coprioggetto su ogni vetrino, utlizzando il

collante istologico DPX.

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45

3.7 VALUTAZIONE DELLO STATO DI AGGREGAZIONE DELLE PARTICELLE

Al fine di valutare l’aggregazione delle particelle, subito dopo la sonicazione, si è provveduto ad

eseguire un’indagine con il microscopio elettronico a trasmissione 100 SX Jeol (TEM). In

particolare, la sospensione madre di ciascuna polvere è stata diluita 1:10 e deposta su retini di nickel

per TEM (150 mesh) ricoperti da una membrana di formvar.

3.8 ANALISI STATISTICA

Per quanto riguarda i risultati relativi al Comet assay, è stato stimato, per entrami i tipi di cellula,

l’effetto delle dosi di esposizione alle due forme di biossido di titanio e del tempo di esposizione.

Per ognuno di questi punti sperimentali sono stati allestiti due vetrini, dove per ogni vetrino, sono

state lette 25 cellule. Per ogni replica sono stati così ottenuti i valori medi e le deviazioni standard

della % di DNA migrato. Nonostante la distribuzione dei dati non fosse di tipo gaussiano, è stato

utilizzato un metodo statistico di tipo parametrico, secondo le indicazioni di Lovell e Omori (2008).

Utilizzando il programma informatico SGWIN di Windows è stata quindi condotta l’analisi

multifattoriale della varianza (MANOVA) considerando le variabili ―sostanza‖, ―dose‖, ―tempo

sperimentale‖ e ―replica‖ (vetrino) e valutando la variazione del parametro ― % di DNA migrato‖ in

funzione di queste variabili. Per rilevare le differenze statisticamente significative nella migrazione

del DNA, nell’ambito del modello statistico scelto, è stato utilizzato il Multiple Range Test (MRT)

ponendo p < 0.05.

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4 RISULTATI

4.1 MICROSCOPIA ELETTRONICA A TRASMISSIONE

L’analisi tramite microscopia elettronica a trasmissione delle sospensioni ottenuti per le due forme

di biossido di titanio ha mostrato che sia le particelle di anatasio che quelle di rutilo si associavano

tra loro nella soluzione (RPMI) utilizzata per l’esposizione, formando aggregati di diverse

dimensioni anche dopo il trattamento mediante sonicazione. La distribuzione di frequenza delle

dimensioni evidenziava un limitato numero di particelle singole e/o piccoli aggregati < 100 nm e un

grande numero di aggregati con dimensioni variabili da pochi a molti μm, sia nella sospensione di

anatasio che in quella di rutilo (Fig. 2).

Fig. 2. Immagini ottenute tramite TEM di particelle di rutilo (A) e anatasio (B).

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In entrambi i casi si nota un elevato grado di aggregazione anche in seguito a sonicazione delle

sospensioni utilizzate per l’esposizione in vitro. Pertanto, sebbene la dimensione nominale dei due

tipi di particelle usate in questa tesi sia diversa, anatasio e rutilo formano aggregati di dimensioni

simili quando le due polveri sono sospese nel mezzo utilizzato per gli esperimenti di esposizione.

4.2 VITALITA’

La vitalità, stimata mediante il test del Trypan blue, è stata ottenuta dividendo il numero di cellule

vitali per il numero totale di cellule. Di seguito sono riportati i valori percentuali di vitalità cellulare

calcolata dopo ogni dose e tempo di esposizione per ciascuna forma di TiO2 (Tab. 1–5).

LEUCOCITI TURSIOPE

ANATASIO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml

4h 90.08% 87.66% 85.48% 79.13% 77.40%

24h 73.33% 69.76% 77.23% 76.69% 71.5%

48h 69.71% 71.2% 83.72% 76.47% 57.4%

RUTILO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml

4h 90.08% 87.66% 86.46% 85.04% 84.25%

24h 73.33% 69.76% 72.22% 77.06% 80.1%

48h 69.71% 71.2% 75.42% 64.46% 71.74%

Tab. 1. Vitalità cellulare (%) in leucociti di tursiope per ogni dose e tempo di esposizione per

ciascuna forma di TiO2. ND= dato non disponibile.

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LEUCOCITI UMANI

ANATASIO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml

4h 100% 100% 100% 100% 100%

24h 100% 100% 100% 100% 100%

48h 100% 100% 100% 100% 100%

RUTILO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml

4h 100% 100% 100% 100% 100%

24h 100% 100% 100% 100% 100%

48h 100% 100% 100% 100% 100%

Tab. 2. Vitalità cellulare (%) in leucociti umani per ogni dose e tempo di esposizione per ciascuna

forma di TiO2. ND= dato non disponibile.

FIBROBLASTI TURSIOPE

ANATASIO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml 150µg/ml

4h ND ND ND ND ND ND

24h 83.33% 87.5% 50% 50% 85.71% 55.55%

48h 60% 55.55% 50% 60% 50% ND

RUTILO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml 150µg/ml

4h ND ND ND ND ND ND

24h 83.33% 87.5% 66.66% 50% 78.26% 83.33%

48h 60% 55.55% 59.37% 83.33% 66.66% 77.77%

Tab. 3. Vitalità cellulare (%) in fibroblasti di tursiope per ogni dose e tempo di esposizione per

ciascuna forma di TiO2. ND= dato non disponibile.

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FIBROBLASTI HuDE

ANATASIO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml 150µg/ml

4h 98.50% 94.82% 90% 100% 83.72% 69.23%

24h 95.95% 97.62% 95.23% 84.4% 84.84% 81.11%

48h 96.87% 94.33% 96.63% 80.30% 90.09% 91.30%

RUTILO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml 150µg/ml

4h 76.92% 92.30% 76.92% 60% 77.77% 87.5%

24h 95.95% 97.62% 86.27% 86.48% 68.29% 48.48%

48h 96.87% 94.33% 96.29% 84.61% 94.29% 73.91%

Tab. 4. Vitalità cellulare (%) in fibroblasti umani per ogni dose e tempo di esposizione per ciascuna

forma di TiO2. ND= dato non disponibile.

FIBROBLASTI 3T3

ANATASIO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml 150µg/ml

4h 82.35% 52.38% 91.89% 92.30% 95.23% 57.14%

24h 89.04% 92.10% 97.75% 87.75% 95.74% 82.35%

48h 81.39% 69.23% 93.33% 97.61% 93.87% 90.47%

RUTILO C C+ 20µg/ml 50µg/ml 100µg/ml 150µg/ml

4h 94.89% 87.32% 63.63% 92.45% 94.28% 78.26%

24h 83.33% 60.20% 56.83% 85.36% 73.28% 76.12%

48h 85.84% 94.36% 80.64% 87.13% 96.08% 96.81%

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Tab. 5. Vitalità cellulare (%) in fibroblasti murini per ogni dose e tempo di esposizione per ciascuna

forma di TiO2. ND= dato non disponibile.

I valori di vitalità dei leucociti, sia umani che di tursiope, ottenuti dopo i vari trattamenti sono

risultati molto elevati, compresi tra l’85 e il 100 % di cellule vitali, anche dopo esposizione alle

dosi più elevate (50, 100 μg/ml) di biossido di titanio, per tutti i tempi di esposizione. La vitalità dei

fibroblasti risulta elevata sia nelle cellule murine che in quelle umane, mentre si registrano valori

inferiori di vitalità (50-60 %) nei fibroblasti di tursiope esposti ad alcune dosi per entrambe le forme

di TiO2 per tutti i tempi di esposizione.

4.3 DANNO AL DNA

Per ciascuna tipologia cellulare , sono stati valutati gli effetti dovuti all’esposizione a concentrazioni

crescenti di entrambi le forme di TiO2 (rutilo e anatasio) e a tempi crescenti. In particolare l’entità

del danno al DNA, in termini di rotture, è stato stimato in base alla % di DNA migrato durante

l’elettroforesi per ciascun punto sperimentale. Prima di valutare l’effetto di ciascuna sostanza è stato

valutato il grado di frammentazione basale del DNA per ciascuna tipologia cellulare, i cui risultati

sono mostrati in Fig. 3.

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Fig. 3. Grado di frammentazione basale del DNA rispettivamente nei fibroblasti murini, fibroblasti

di tursiope, fibroblasti umani, leucociti di tursiope e leucociti umani. Le lettere indicano differenze

significative (p < 0.05) tra i livelli basali di frammentazione dei diversi tipi cellulari.

Dall’ANOVA emergono differenze statisticamente significative tra i livelli basali di danno genetico

nei diversi tipi cellulari indagati. In particolare, i leucociti di tursiope sembrano avere livelli basali

di danno più elevati rispetto ai fibroblasti e ai leucociti umani. Pertanto al fine di poter meglio

valutare l’effetto dei trattamenti in vitro, i valori basali sono stati sottratti al valore medio di danno

al DNA indotto dalle varie sostanze. In questo modo è stato possibile confrontare l’effetto netto di

ciascuna sostanza tra le diverse tipologie di cellule.

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4.3.1 Risultati leucociti

Per quanto riguarda i leucociti di tursiope e umani sono state riportate (Fig. 4-7) le medie e le

deviazioni standard relative alla % di DNA migrato dopo l’esposizione a tre dosi crescenti di

entrambe le polveri di TiO2 (20, 50 e 100µg/ml), e a tre tempi di esposizione (4, 24 e 48 h). Tali

valori sono stati ottenuti sottraendo i livelli basali di danno al DNA ottenuti dai controlli per

ciascuna tipologia cellulare. Inoltre sono state riportate le medie e le deviazioni standard relative

alla % di DNA migrato nel controllo positivo (trattamento con H2O2 indicato con C+) e nel

controllo (0).

LEUCOCITI TURSIOPE

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Fig. 4. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

leucociti di tursiope dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione alla forma cristallina anatasio.

L’asterisco indica una differenza significativa rispetto ai rispettivi controlli (* = p < 0.05).

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Fig. 5. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

leucociti di tursiope dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione alla forma cristallina rutilo.

L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (* = p < 0.05).

Come si può notare dai grafici (Fig. 4a, 4b, 4c e Fig. 5a, 5b, 5c) i leucociti di tursiope rispondono

all’esposizione a entrambe le forme di TiO2 mostrando in generale un incremento del grado di

frammentazione del DNA rispetto ai relativi controlli. Un effetto genotossico risulta osservabile già

dopo 4 ore di esposizione a tutte le dosi per il rutilo ed alla dose più elevata per l’anatasio. Alla

24esima ora di trattamento entrambe le sostanze hanno indotto un incremento significativo del

danno, rispetto ai controlli, a tutte le dosi utilizzate. Alla 48esima ora entrambe le sostanze

continuano a mantenere un effetto genotossico alle due dosi più elevate (50-100µg/ml).

LEUCOCITI UMANI

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Fig. 6. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

leucociti umani dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione alla forma cristallina anatasio.

L’asterisco indica una differenza significativa rispetto ai rispettivi controlli (* = p < 0.05).

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Fig. 7. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

leucociti umani dopo 4 (a), 24 (b) e 48(c) ore di esposizione alla forma cristallina rutilo. L’asterisco

indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (* = p < 0.05).

Nei grafici (Fig. 6a, 6b, 6c e Fig. 7a, 7b, 7c) relativi ai leucociti umani non si osserva alcun effetto

significativo di entrambe le forme di TiO2 per tutti i tempi sperimentali, ad eccezione di un effetto

puntiforme osservato per la dose 20 indotta dalla forma nanometrica anatasio dopo 24 ore di

trattamento.

4.3.2 Risultati fibroblasti

Per quanto riguarda i fibroblasti di tursiope, umani e di topo sono state riportate le medie e le

deviazioni standard relative alla % di DNA migrato dopo l’esposizione a quattro dosi crescenti ad

entrambe le polveri cristalline di TiO2 ( 20, 50, 100 e 150 µg/ml) e a tre tempi di esposizione (4, 24

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e 48 h). Tali valori sono stati ottenuti sottraendo i livelli basali di danno al DNA ottenuti dai

controlli per ciascuna tipologia cellulare. Inoltre sono state riportate le medie e le deviazioni

standard relative alla % di DNA migrato nel controllo positivo (trattamento con MMS indicato con

C+) e nel controllo (0).

FIBROBLASTI TURSIOPE

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Fig. 8. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

fibroblasti di tursiope dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione a biossido di titanio nella forma

cristallina anatasio. L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (*

= p < 0.05).

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Fig. 9. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

fibroblasti di tursiope dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione a biossido di titanio nella forma

cristallina rutilo. L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (* = p

< 0.05).

Come si può notare dai grafici ( Fig. 8a, 8b,8c e Fig. 9a, 9b, 9c) i fibroblasti di tursiope rispondono

all’esposizione a entrambe le forme di TiO2 incrementando il grado di frammentazione del DNA.

Tuttavia, gli effetti più marcati sono osservabili in seguito a 4 ore di trattamento, laddove entrambe

le sostanze risultano avere un effetto significativo soprattutto a dosi medio-basse (20, 50 e

100µg/ml) dopo 4 ore di esposizione. In seguito a 24 ore di trattamento, l’anatasio mantiene un

effetto genotossico alla dose 20, mentre il rutilo non mostra alcun effetto statisticamente

significativo. Alla 48esima ora entrambe le forme non mostrano alcun effetto genotossico, ad

eccezione della dose più elevata (150) da parte del rutilo.

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FIBROBLASTI UMANI

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Fig. 10. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

fibroblasti umani dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione a biossido di titanio nella forma

cristallina anatasio. L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (*

= p < 0.05).

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Fig. 11. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

fibroblasti umani dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione a biossido di titanio nella forma

cristallina rutilo. L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (* = p

< 0.05).

I grafici ( Fig. 10a, 10b, 10c e Fig. 11a, 11b, 11c) relativi ai fibroblasti umani mostrano un effetto

significativo di entrambe le forme di TiO2 ai tempi di esposizione di 4 e 48 ore. In particolare le

cellule trattate con la forma anatasio mostrando un incremento del danno al DNA alle dosi più alta

(150µg/ml) e più bassa (20µg/ml) rispettivamente alle 4 e 48 ore. I fibroblasti esposti alla forma

rutilo sono sensibili a tutte le dosi (20, 50,100 e 150µg/ml) alle 4 ore e alle dosi medio alte (50, 100

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e 150µg/ml) alle 48 ore. Entrambe le sostanze non hanno mostrato effetti statisticamente

significativi in seguito a 24 ore di trattamento.

FIBROBLASTI MURINI

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Fig. 12. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

fibroblasti murini dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione a biossido di titanio nella forma

cristallina anatasio. L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (*

= p < 0.05).

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Fig. 13. Grado di frammentazione del DNA (espresso come percentuale di DNA migrato) nei

fibroblasti murini dopo 4 (a), 24 (b) e 48 (c) ore di esposizione a biossido di titanio nella forma

cristallina rutilo. L’asterisco indica una differenza significativa rispetto al rispettivo controllo (* = p

< 0.05).

I grafici ( Fig. 12a, 12b, 12c e Fig. 13a, 13b, 13c) relativi ai fibroblasti murini mostrano un effetto

significativo di entrambe le forme di TiO2 dopo 4 ore di esposizione. In particolare la forma

anatasio induce danno genetico a concentrazioni pari a 20,50 e 150µg/ml, mentre la forma rutilo

mostra un effetto significativo a tutte le dosi (20, 50, 100 e 150µg/ml). Alla 24esima ora permane

un effetto significativo solo ad una dose medio-alta per entrambe le forme. Nessun effetto

significativo è osservabile dopo 48 ore di trattamento.

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MICRONUCLEO

Non è stato possibile analizzare i risultati del test del micronucleo, in quanto le particelle

di TiO2 tendevano a precipitare in aggregati, coprendo parzialmente le cellule e rendendo illeggibili

i vetrini (Fig.14). Inoltre, le sostanze saggiate si confondevano con il materiale genetico in quanto

il Giemsa tendeva a colorare in parte anche sugli aggregati di TiO2 rendendo impossibile la

determinazione dei micronuclei. Per questo motivo la lettura dei vetrini è stato molto difficoltosa e

per evitare di avere dati incompleti o poco attendibili si è deciso di non includerli nei risultati.

Fig.14. Fotografie di vetrini preparati per il test del micronucleo (leucociti di tursiope). A: controllo;

B: trattamento con 50 μg/ml di anatasio, in cui si può osservare come la presenza di TiO2

precipitato interferisca con la valutazione del test del micronucleo. Barra = 18 µm

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5 DISCUSSIONE

In questo studio abbiamo indagato il potenziale genotossico delle due più comuni forme cristalline

del biossido di titanio (rutilo e anatasio) su differenti tipi cellulari di tursiope, umani e murini,

essendo particolarmente interessati nel verificare la suscettibilità di specie marine sensibili, come i

cetacei odontoceti, verso il TiO2, confrontandola con quella di altri mammiferi. In generale, i

risultati mostrano un tasso di vitalità cellulare molto alto, sia per i leucociti che per i fibroblasti,

dopo ogni dose e tempo di esposizione ad entrambe le forme cristalline del biossido di titanio. Nei

leucociti infatti, i valori percentuali di vitalità risultano compresi tra l’85% e il 100% anche dopo

esposizione alle dosi più elevate di TiO2 (50, 100 μg/ml) di cellule umane e di tursiope. Anche nei

fibroblasti la vitalità risulta elevata, sia per le cellule murine che quelle umane, registrando tuttavia

valori inferiori di vitalità (50-60%) nei fibroblasti di tursiope esposti ad entrambe le forme

cristalline. In accordo con questi risultati, Hackenberg e colleghi (2010a;b) non hanno registrato

alcuna significativa riduzione della vitalità (valutata mediante il metodo del Trypan blu) in cellule

epiteliali nasali umane e in linfociti di sangue periferico umano trattate con nanoparticelle di

anatasio. Anche cellule epiteliali bronchiali BEAS-2B mostrano una certa resistenza all’insulto

citotossico da parte di TiO2 (Battacharya et al., 2009); tuttavia, gli stessi autori riportano un effetto

citotossico in fibroblasti umani (IMR90) esposti a dosi elevate di TiO2. Con la stessa tecnica,

Shukla e colleghi (2011) hanno evidenziato una alta vitalità (90%) in cellule epidermiche umane

(A431), in seguito a trattamento con anatasio nanoparticellato. Tuttavia, nel medesimo studio sono

state condotte analisi in parallelo attraverso il MTT assay e neutral red uptake assay (NRU)

registrando un lieve effetto citotossico della sostanza. Questo dato può suggerirci che il Trypan Blu

assay, se confrontato con altri saggi utilizzati in letteratura, possa sottostimare l’effetto citotossico

della sostanza analizzata. In generale alcuni autori, utilizzando saggi diversi dal Trypan Blue,

riportano che TiO2 NP induce una riduzione della vitalità cellulare (Hussain et al., 2005; Wang et

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al., 2007; Jin et al., 2008; Simon-Deckers et al., 2008; Di Virgilio et al., 2010). In alcuni casi,

l’effetto citotossico indotto dall’esposizione a TiO2 micro e nanoparticellato, è risultato essere dose

dipendente in fibroblasti HFF-1 (Lai et al., 2008) e in cellule epiteliali polmonari A549 umane

(Park et al., 2007). Dall’insieme dei dati disponibili in letteratura, i fibroblasti risultano essere

maggiormente suscettibili – in termini di citotossicità – all’esposizione a TiO2.

I risultati relativi al potenziale genotossico del TiO2 sui leucociti mostrano una diversa suscettibilità

delle due specie indagate ed un effetto paragonabile delle due forme cristalline. In particolare è

evidente come entrambe le sostanze abbiano un effetto significativo sui leucociti di tursiope, per

tutti i tempi di esposizione alle dosi di 50 e 100 µg/ml, mentre non si osserva alcun effetto nei

leucociti umani, ad eccezione della forma anatasio che ha mostrato un effetto puntiforme solo ad

una dose e tempo sperimentale (24 h). I risultati osservati nei leucociti umani sono in accordo con

quelli riportati da Hackenberg et al. (2010b), in cui non è stato mostrato alcun effetto genotossico

evidente su una linea primaria di linfociti di sangue periferico umano. La moderata suscettibilità dei

linfociti umani al TiO2 sembra confermata dai risultati di altri autori che hanno descritto la

comparsa di danni genetici solo a dosi assai elevate (100 – 130 µg/ml), rispettivamente in cellule

umane linfoblastoidi (WIL2-NS) (Wang et al., 2007) ed in cellule isolate da sangue periferico

(Kang et al., 2008).

Dai nostri risultati, relativi ai leucociti, emerge dunque una maggiore suscettibilità del tursiope

verso entrambe le forme di TiO2 rispetto alla specie umana. Tuttavia, questo dato non è

generalizzabile ad altre classi di contaminanti ambientali; infatti, studi precedentemente svolti

presso il nostro laboratorio, hanno messo in evidenza che i leucociti di tursiope sono molto più

resistenti al danno genetico indotto dall’esposizione a metilmercurio (la forma assunta con la dieta)

rispetto a quelli umani, mostrando una maggior capacità riparativa del DNA (Betti et al., 1996;

Taddei et al., 2001). Una ulteriore strategia di difesa cellulare attuata dai cetacei odontoceti nei

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confronti del metilmercurio consiste nella trasformazione di questa sostanza in una forma insolubile

e quindi non tossica (selenuro di mercurio – HgSe) che si accumula prevalentemente nel fegato

(Nigro et al., 1996;). Sebbene quindi la specie tursiope, nel corso dell’evoluzione, abbia adottato

tecniche di detossificazione più efficaci rispetto all’uomo, verso il metilmercurio, i nostri risultati

dimostrano una maggiore suscettibilità di questo odontocete nei confronti di un contaminante

emergente come il TiO2.

Per quanto riguarda i risultati relativi ai fibroblasti, è stato osservato un effetto genotossico di

entrambe le sostanze in ogni specie trattata in questo studio. In particolare, entrambe le forme di

TiO2 inducono nei fibroblasti umani, di tursiope e murini un effetto genotossico significativo dopo

4 ore di esposizione ad entrambe le forme. Questo effetto si riduce in maniera consistente fino a

scomparire dopo 24 h di trattamento, mantenendo elevati livelli di integrità del DNA dopo 48 h nei

fibroblasti murini e di cetaceo. La genotossicità del TiO2 è stata riscontrata anche in cellule

epiteliali bronchiali BEAS-2B (Gurr et al., 2005; Falck et al., 2009), in fibroblasti murini (Jin et al.,

2008), e in cellule epidermiche umane A431 (Shukla et al., 2010). Tuttavia dalla letteratura

emergono risultati contrastanti in cui TiO2 NP non ha indotto alcuna frammentazione del DNA

rispettivamente in cellule della mucosa nasale umana (Hackenberg et al., 2010a), in cellule epiteliali

bronchiali umane BEAS-2B (Battacharya et al., 2009), in fibroblasti umani IMR-90 (Battacharya et

al., 2009) e in cellule di fegato di ratto BRL-3A (Hussain et al., 2005).

In generale i nostri dati evidenziano che i fibroblasti, rispetto ai leucociti, subiscono gli effetti

genotossici di entrambe le forme cristalline principalmente ai tempi di esposizioni brevi (4h)

mostrando una forte capacità riparativa del DNA nei tempi di esposizione successivi. Dalla

letteratura si evince che la maggior parte degli effetti genotossici indotti da TiO2, prevalentemente

in forma nanoparticellata, sono in gran parte dovuti alla formazione di specie reattive dell’ossigeno

(ROS) e conseguente stress ossidativo (Gurr et al., 2005; Long et al., 2006; Nel et al., 2006; Eom &

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Choi, 2009) il quale può portare all’alterazione strutturale e funzionale di proteine, lipidi di

membrana e DNA (Federici et al., 2007; Reevers et al., 2008). Inoltre, Kang e colleghi (2008)

hanno mostrato che TiO2-NP può indurre l’accumulo di p53 nei linfociti umani, associata ad

aumento di ROS e genotossicità. Il gene p53, soppressore di tumori, è responsabile dell’arresto del

ciclo cellulare e, attivando la trascrizione dei geni per la riparazione del DNA, previene la

conversione del danno in mutazione; tuttavia se il danno è esteso, la proteina p53 innesca l’apoptosi

al fine di eliminare la cellula (Lane, 1992).

Un altro aspetto interessante evidenziato dai dati è che, mentre non ci sono differenze in termini di

genotossicità tra la forma anatasio e rutilo sia nei leucociti che nei fibroblasti di tursiope , nelle altre

tipologie cellulari sembra risultare più genotossica la forma rutilo. Nel nostro caso la forma rutilo ha

una dimensione nominale di 5000 nm, mentre la forma anatasio ha una dimensione nominale di 25

nm. Nonostante entrambe le forme rutilo e anatasio siano state riportate come genotossiche (cfr.

Cheng-Teng et al., 2010), diversi studi hanno dimostrato che la forma anatasio in presenza di UV

risulta essere più citotossica e infiammatoria della forma rutilo in diverse colture cellulari, a

prescindere dalla dimensione delle particelle (Shi et al., 2010). Inoltre, è stato riportato che, anche

in assenza di fotoattivazione, la forma anatasio induce maggiori danni al DNA del rutilo (Falck et

al., 2009; Duan et al., 2010). Tuttavia, in conformità con i nostri risultati, Gurr e colleghi (2005),

dimostrarono che le forme nanometrica di anatasio (10-20 nm) e submicrometrica di rutilo (> 200

nm) possedevano una maggiore efficacia dell’indurre danno ossidativo al DNA in cellule epiteliali

bronchiali umane, in assenza di fotoattivazione rispetto all’anatasio sub-micrometrico (> 200 nm).

Oltre alla fase cristallina, dalla letteratura emergono opinioni contrastanti circa il ruolo che le

dimensioni delle particelle hanno in relazione alla genotossicità. Wamer (1997) associa la ridotta

dimensione delle NP a una maggiore captazione cellulare della sostanza, aumentandone

potenzialmente la genotossicità. Tuttavia, altri autori suggeriscono che danni al DNA possono

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verificarsi indipendentemente dalla captazione cellulare delle particelle e dall’interazione diretta

con il DNA; potendo essere mediati da alterazioni che coinvolgono processi di membrana, inclusa

la perossidazione lipidica e l’interferenza con la trasduzione del segnale (Trouller et al., 2009;

Moon et al., 2010). È comunemente ritenuto che particelle di piccole dimensioni siano più efficaci

nell’indurre danno cellulare/genetico a causa della estesa superficie complessiva che conferisce loro

una elevata reattività nei confronti dei bersagli cellulari ed una maggiore efficacia nella generazione

di ROS ( Karlson et al., 2009; Oberdörster et al., 2000). Inoltre, uno studio condotto da Warheit et

al. (2007) rileva che non vi erano differenze significative di tossicità tra particelle micro e

nanometriche di TiO2, confermando che non vi è ancora sufficiente chiarezza nell’individuazione

delle caratteristiche chimico-fisiche delle particelle più rilevanti nell’induzione del danno. Infine,

fattore di ulteriore confondimento riguarda l’aggregazione delle particelle nel mezzo di coltura.

Infatti, la forte tendenza delle NP di TiO2 a formare aggregati in sospensioni acquose è stata

osservata in molti studi (Hackenberg et al., 2010a,b; Shukla et al., 2011), e può dipendere da

condizioni fisiche come il pH e la fase ionica del mezzo (French et al., 2009;). Anche nei nostri

esperimenti abbiamo osservato una tendenza dell’anatasio nanodimensionato ad associarsi in

aggregati di dimensione micrometrica, come illustrato nelle micrografie al TEM; questo

comportamento potrebbe essere parzialmente responsabile dell’effetto genotossico osservato che

risulta paragonabile per le due forme cristalline indagate. Pertanto la tendenza di aggregazione

insieme alla carica di superficie, micromorfologia e la presenza di sostanze inorganiche (metalli) o

organiche sulla superficie delle particelle sembrano giocare un ruolo più importante della

dimensione di per sé nell’induzione di alterazioni genotossiche (Warheit et al., 2007).

Inoltre, è importante tener conto delle forme chimiche che il biossido di titanio può assumere una

volta raggiunto l’ambiente marino e che dalla tendenza ad accumularsi nei sedimenti può dipendere

la biodisponibilità, la persistenza e la tossicità di questa sostanza (Galloway et al., 2010). Questi

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aspetti sono ancora assai poco esplorati, tuttavia importanti per prevedere il reale impatto che un

livello di contaminazione da TiO2 potenzialmente crescente potrebbe avere sull’ecosistema marino.

Infine, oltre a determinare la capacità genotossica di questa sostanza , sarebbe opportuno valutare se

queste particelle una volta raggiunto il compartimento acquatico , tendono a persistere nella colonna

d’acqua piuttosto che depositarsi sul fondo sotto forma di aggregati, Questa informazione potrebbe

indirizzare studi futuri su organismi pelagici piuttosto che bentonici.

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6 CONCLUSIONI

In conclusione, è stato osservato che entrambe le forme cristalline del biossido di titanio (rutilo ed

anatasio) inducono un effetto genotossico in tutte le linee cellulari indagate ad eccezione dei

leucociti umani in cui il danno genetico è risultato assente. Inoltre, i due tipi cellulari impiegati

nell’esperimento, leucociti e fibroblasti, hanno mostrato una differente risposta al danno genetico

indotto dalle sostanze. Risulta infatti che i fibroblasti, a differenza dei leucociti, subiscono gli effetti

genotossici principalmente ai tempi di esposizioni brevi (4h) riducendo in maniera consistente il

danno genetico nei tempi di esposizione successivi.

Dai risultati ottenuti sui leucociti è emersa una differenza significativa in termini di suscettibilità tra

la specie tursiope e quella umana verso entrambe le forme cristalline di TiO2. Da questi dati il

tursiope risulta più suscettibile rispetto all’uomo a questo contaminante emergente, riportando

danni genetici evidenti per tutti i tempi e per la maggior parte delle dosi di esposizione.

Le due forme cristallina della sostanza indagata non sono risultate diversamente efficaci

nell’indurre danno al DNA, nonostante la differente dimensione nominale delle particelle. Questo

dato potrebbe essere parzialmente legato alla spiccata tendenza delle due sostanze ad associarsi nel

mezzo di esposizione, dando vita ad aggregati di dimensioni paragonabili. Poichè la tendenza delle

nanoparticelle di TiO2 ad aggregarsi condiziona il loro destino nei diversi comparti dell’ecosistema

acquatico e le interazioni con gli organismi che in essi vivono, questa caratteristica può influire

sulla biodisponibilità del TiO2 nell’ambiente.

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio prima di tutto il professor Marco Nigro e la dottoressa Giada Frenzilli per avermi dato

l’opportunità di fare questa bellissima esperienza e per avermi seguito e consigliato nello sviluppo

di questo lavoro.

Un ringraziamento speciale va a Margherita , Patrizia e Vittoria che oltre ad avermi dato consigli

utili, mi hanno sostenuto moralmente con la loro simpatia in tutti questi mesi, grazie ragazze!

Ringrazio con tutto il cuore i miei genitori che oltre ad aver finanziato questi anni di studio, mi sono

stati sempre vicino anche nei momenti più duri, credendo in me e sostenendomi. Grazie.

Ringrazio Diego che mi ha dovuto sopportare per tutto questo periodo e credetemi non è stato

facile! Grazie per essermi stato vicino e per avermi capita sempre.

Un grazie alle mie ―colleghe‖ che mi hanno accompagnato per tutti questi anni in questo percorso

universitario bellissimo, un grazie quindi a Serena, Mariel, Ilarina, Ilaria, Federica e ai miei ex

compagni di avventura di Scienze Ambientali Marco e Giulia. Questi anni trascorsi con voi

resteranno sempre con me, sono stati momenti bellissimi che non scorderò mai.

Un grazie alle mie ―bimbe‖ Alice, Madda, Martina, Elena, Eleonora, Rossella e Alessandra con cui

passo momenti divertenti e spensierati. Mi avete aiutato a trascorrere questo periodo più serena e

spensierata.

Infine un saluto all’altra metà della mia vita, a tutti i miei amici di Ivrea; se sono riuscita ad arrivare

fin qui è stato anche grazie al vostro contributo, alla fine sono scresciuta con voi! Un grazie

soprattutto a Giulio ma anche ad Anselmo, Luca, Paolo, Davide, Matteo.

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