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ISSN 0039 - 2995 Prezzo del fascicolo 44,00 Anno LXII - NN. 1-4 Gennaio-Dicembre 2014 STUDI ROMANI RIVISTA TRIMESTRALE DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI DIREZIONE E AMMINISTRAZIONE ROMA - PIAZZA DEI CAVALIERI DI MALTA, 2 - TEL. 06/574.34.42 Anno LXII - NN. 1-4 STUDI ROMANI Gennaio-Dicembre 2014 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 - DCB - ROMA

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ISSN 0039 - 2995

Prezzo del fascicolo € 44,00

Anno LXII - NN. 1-4 Gennaio-Dicembre 2014

S T U D IR O M A N I

RIVISTA TRIMESTRALEDELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI

DIREZIONE E AMMINISTRAZIONEROMA - PIAZZA DEI CAVALIERI DI MALTA, 2 - TEL. 06/574.34.42

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STUDI ROMANIRIVISTA TRIMESTRALE DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI

ONLUSDIREZIONE E AMMINISTRAZIONE

00153 Roma - Piazza dei CavalieRi di malta n. 2 - telefono 06/574.34.42/5 - Fax 06/574.34.47www.studiromani.it

e-mail: [email protected]

Direttore responsabile:Paolo Sommella

Comitato Scientifico:SandRo Benedetti - vinCenzo de CaPRio - letizia eRmini Pani

daniela Gallavotti CavalleRo - ludoviCo Gatto - miChel GRaS JoSeP GuitaRt i duRan - BRuno luiSelli - maRio mazza

euGenio RaGni - Paolo Sommella - Romolo auGuSto StaCCioli

Redazione:maSSimiliano GhilaRdi - letizia lanzetta

Hanno collaborato alla redazione del fascicolo:

daniela Cavallo - RiCCaRdo montalBano

In copertina: Il chiostro dell’ex convento di S. Alessio sede dell’Istituto (disegno di A. tamBuRlini)

ABBONAMENTO 2014: € 40,00 (estero € 65,00)

L’abbonamento decorre dal primo fascicolo dell’annata - Per le rimesse in denaro effettuare iversamenti sul c.c.p. n. 25770009 intestato all’Istituto Nazionale di Studi Romani.

Stampa: Tip. «tifeRno GRafiCa» S. a R. L. - Città di Castello

Reg. Stampa Tribunale di Roma n. 172 del 20 aprile 1984

Per la scelta degli articoli da pubblicare la Rivista segue il metodo della revisione tra pari basata sull’anonimato, avvalendosi dei componenti del Comitato Scientifico integrato da esperti esterni.

I dattiloscritti, in edizione definitiva sempre accompagnati dal dischetto, e il materiale illustrativo non si restituiscono.

Gli articoli firmati esprimono il pensiero degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione della Rivista.

I volumi per recensione – possibilmente in doppia copia –, la corrispondenza e i datti-loscritti vanno inviati a: Istituto Nazionale di Studi Romani, Piazza dei Cavalieri di Mal-ta 2, 00153 Roma.

L’Istituto Nazionale di Studi Romani – onlus garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di chiederne la rettifica o la cancellazione previa comunicazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli abbonati nuove informazioni (L. 675/96).

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STUDI ROMANI

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SAGGI E STUDI

Raffaele faRina, Il primo imperatore cristiano. La svolta e la pace costantiniana . .

Daniele ManacoRDa, Marcella Minore e i sepolcri della sua familia (con le tavv. I-VI f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

GabRiele baRtolozzi casti, Le origini del pellegrinaggio. Egeria e Demetria donne in cammino (con le tavv. VII-XIV f.t.) . . . . . . . . . . . . . . .

RiccaRDo Montalbano - alessanDRa avaGliano, La cosiddetta domus Caeliorum in Piazza della Pilotta. Testimonianze d’archivio inedite sui ritrovamenti (con le tavv. XV-XXV f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

JoRDina sales caRbonell, Implantación de iglesias en edificios de espectáculos roma-nos: orígenes de un proceso de medievalización de la ciudad antigua . . . . .

Juan antonio cabReRa MonteRo, Dos episodios conflictivos entre el episcopado his-pano y la Sede apostólica de Roma durante el s. VII . . . . . . . . . .

salvatoRe fallica, Sviluppo e trasformazioni della chiesa e del monastero di S. Lorenzo in Panisperna a Roma (con le tavv. XXVI-XXXIII f.t.) . . . . . . . . .

fabRizio feDeRici, Battaglie per la tutela nella Roma barocca: Francesco Gualdi e la di-fesa delle «memorie antiche» (con le tavv. XXXIV-XXXIX f.t.) . . . . . . .

Giuliana zanDRi, La Liberazione di Pietro dal carcere: vicende di un’opera giovanile del Domenichino nella basilica romana di San Pietro in Vincoli (con le tavv. XL-XLI f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Giovannina annaRuMMa, Il convento dell’Annunziata (con le tavv. XLII-LI f.t.) . .

anGelo D’aMbRosio, Il cibo fra regole e bilanci. L’alimentazione dei gesuiti a Roma secoli XVI-XIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

JöRG GaRMs, Il ruolo dell’impero e degli stati tedeschi nella Roma barocca (con le tavv. LII-LV f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

MaRia baRbaRa GueRRieRi boRsoi, L’architetto e ingegnere Agostino Martinelli tra in-carichi amministrativi, produzione letteraria e attività professionale (con le tavv. LVI-LXIV f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

alessanDRo Mazza, Villa dei Tre Orologi a Roma: la vicenda di uno sconosciuto com-plesso seicentesco (con le tavv. LXV-LXIX f.t.) . . . . . . . . . . .

MaRiateResa Pace, Le “mazzarinette” alla Camera dei Deputati (con le tavv. LXX-LXXVII f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

GabRiele feDeRici, Giuseppe Rolandi a Roma: il viaggio di uno studente nella Città Eterna nel 1837 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Gianluca ManDatoRi, Un inedito autografo mommseniano alla contessa Ersilia Caeta-ni Lovatelli (con la tav. LXXVIII f.t.) . . . . . . . . . . . . . . .

Gianluca Kannès, Lo studio di Giulio Monteverde in Piazza Indipendenza a Roma (con le tavv. LXXIX-LXXXII f.t.) . . . . . . . . . . . . . . . . .

enRico silveRio, Il Convegno Augusteo del 1938 nel quadro del bimillenario della nasci-ta di Augusto attraverso i documenti d’archivio e le pubblicazioni dell’Istituto Nazio-nale di Studi Romani (con le tavv. LXXXIII-XC f.t.) . . . . . . . . . .

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PREMIO «CULTORI DI ROMA» 2014

la ReDazione, Filippo Coarelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

NOTE E INTERVENTI

Paolo soMMella, A proposito degli inventari dell’Archivio Storico dell’Istituto Nazio-nale di Studi Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Paolo soMMella - anna MaRia libeRati, Emissione di un francobollo commemorativo del Bimillenario della morte dell’imperatore Augusto (con le tavv. XCI-XCII f.t.) .

Daniele ManacoRDa, Fori Imperiali: temi e nodi per una riconciliazione delle prospet-tive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

fRancesco aRcaRia, Sacra privata e ius civile. A proposito di un libro recente sui rituali domestici e gli istituti giuridici in Roma antica . . . . . . . . . . . .

RECENSIONI

alessanDRo PeRGoli caMPanelli, Cassiodoro. Alle origini dell’idea di restauro (Gian-luca Pilara); anDRea lonaRDo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il gover-no temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752) (Gianluca Pilara); sofia boesch GaJano - toMMaso caliò - fRancesco scoRza baRcellona - lucRezia sPeRa, San-tuari d’Italia. Roma (Luisa Covello); anGelo Michele PieMontese, La Persia isto-riata in Roma (Maria Vittoria Fontana); Daniela canDilio - MatilDe De anGe-lis D’ossat (a cura di), La collezione di antichità Pallavicini Rospigliosi (Gianluca Mandatori); fabRizio vistoli (a cura di), Tomba di Nerone: toponimo, compren-sorio e zona urbanistica di Roma capitale. Scritti tematici in memoria di Gaetano Messineo (Luisa Chiumenti); fabRizio vistoli (a cura di), La riscoperta della via Flaminia più vicina a Roma: storia, luoghi, personaggi (Alessandro Locchi); ste-fano colonna, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento (Maurizio Calvesi); alessia liRosi, I monasteri femminili a Roma tra XVI e XVII secolo (Eleonora de Longis); GiusePPe antonio Guazzel-li - RaiMonDo Michetti - fRancesco scoRza baRcellona (a cura di), Cesare Baro-nio tra santità e scrittura storica (Eleonora de Longis); MaRia baRbaRa GueRRie-Ri boRsoi, Raccogliere “curiosità” nella Roma barocca. Il museo Magnini Rolandi e altre collezioni tra natura e arte (Giuseppe Finocchiaro); siMona beneDetti (a cura di), Architetture di Carlo Rainaldi nel quarto centenario della nascita (Mar-cello Villani); Renata sabene, La Fabbrica di San Pietro in Vaticano. Dinamiche internazionali e dimensione locale (Donatella Strangio); anDReina Rita, Bibliote-che e requisizioni librarie a Roma in età napoleonica: cronologia e fonti romane (Rosanna De Longis); MaRia RosaRia coPPola, La fabbrica del Vittoriano, Sca-vi e scoperte in Campidoglio (1885-1935) (Giuseppina Alessandra Cellini); luiGi alonzi, Economia e finanza nell’Italia moderna. Rendite e forme di censo (seco-li XV-XX) (Paolo Tedesco) . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Vita dell’Istituto Nazionale di Studi Romani: Corpo accademico e organi direttivi al 30 dicembre 2014 – Assemblee dei Soci – Il «Premio Cultori di Roma» – Il «Certamen Capitolinum»: l’esito del LXV e il bando del LXVI – L’LXXXVIII anno accademico dei Corsi – Nuove pubblicazioni (la ReDazione) . . . . . . . . . . . .

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Il prImo Imperatore crIstIanola svolta e la pace costantInIana

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I. - La svoLta costantiniana

1. Costantino il Grande e la “svolta costantiniana”

sull’Imperatore costantino il Grande (1) si possono in genere rite-nere acquisiti i punti fondamentali di quella che è stata la sua storia, la vita, l’azione, le scelte politiche e religiose, nel periodo che va dal 306, l’inizio dell’ascesa al potere, fino al 337, la data della sua morte. tale ristretto spazio di tempo è stato, a giusta ragione, definito “epo-ca costantiniana”, per i cambiamenti verificatisi, la pregnanza di essi e le conseguenze nello spazio e nel tempo in riferimento alla persona dell’Imperatore costantino. egli viene ritenuto dai contemporanei e dai posteri il primo Imperatore cristiano e fu onorato nella storia, a breve distanza dalla sua scomparsa, con il titolo di Grande (2).

(*) prolusione inaugurale dell’lXXXvII esimo anno accademico dei corsi superio-ri dell’Istituto nazionale di studi romani, sala della protomoteca in campidoglio, giove-dì 7 febbraio 2013.

(1) «costantino emerge così ancora una volta come figura centrale della tarda antichità, ma non solo e non tanto per la novità delle sue scelte, per la sua azione politica in sé e per sé, quanto per il “ritratto” e la caratterizzazione che ne diedero gli “immediati” successori, influenzando profondamente la percezione che di quell’Imperatore e del suo regno hanno avuto tutti i secoli a venire» (F. carLà - M. G. casteLLo, Questioni tardoantiche: storia e mito della “svolta costantiniana”, roma 2010, p. 29).

(2) Quanto al titolo di Grande (cfr. K. M. Girardet, Die Konstantinische Wende: Vor-aussetzungen und geistige Grundlagen der Religionspolitik Kontantins des Großen, Darmstadt 2006, pp. 153-155) questo gli è stato dato, in qualche maniera, già dai suoi contemporanei. Il panegirista del 313 lo definisce maximus imperator, Constantinus maximus (Pan. Lat. 9,26,5; 10,3,1; e sulle monete, a partire dal 329, Constantinus Max. Aug. [multipla d’oro della zec-ca di costantinopoli: l’aja, Koninklijk penning Kabinett]). e prassagora di atene, storico pagano contemporaneo di costantino, è stato, a dire di Fozio, il primo a dare questo tito-

SAGGI E STUDI

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Una ricerca su quelli che possono essere stati gli orientamenti, le scelte di governo (prima fra tutte l’unificazione dell’Impero), le scel-te religiose, la riforma amministrativa, e, chiamiamolo pure così, il pensiero di costantino, fa riferimento a pochi suoi scritti tramanda-ti, ai panegirici, alle vite arrivate sino a noi, opera di “storici” favo-revoli e non all’Imperatore, alla monetazione e ai reperti archeolo-gici. Il lavoro di valutazione e di interpretazione di queste fonti, in specie delle vite e dei panegirici (3), nonché del lavoro prodotto dal-la cancelleria imperiale, soprattutto nel pieno funzionamento di essa sia a roma che a costantinopoli, è impresa non da poco. e tuttavia alcuni tratti, almeno per l’argomento scelto, si possono delineare ed esporre in un quadro generale accettabile.

Il tema di questa conferenza è duplice: la svolta costantiniana e la pace costantiniana. In realtà i due temi confluiscono in uno solo; e vi spiego perché.

che cosa vuol dire “svolta costantiniana”? sono stati scritti libri su questa espressione. Gli storici di lingua tedesca preferiscono questa parola “svolta” (Wende); e gli storici anglosassoni preferiscono usare la parola rivoluzione, “rivoluzione costantiniana”. Io preferisco “svolta”.

cosa vuol dire “svolta” applicata a un personaggio o a un even-to storico importante? vuol dire: cambio radicale, in genere gradua-le, di strutture, situazioni, persone e cose, con effetti a largo raggio di spazio e di tempo. trattandosi di costantino potremmo elencare

lo all’Imperatore, in un panegirico tenuto dopo la vittoria su licinio, nel 324 (cfr. K. M. Gi-rardet, Die Konstantinische Wende, cit., pp. 153-154; id., Das Christentum im Denken und in der Politik Kaiser Konstantins d. Gr., in Kaiser Konstantin der Große. Historische Leitung und Rezeption in Europa, hrsg. von K. m. Girardet, Bonn 2007, p. 29, nota 2). È da nota-re come dal 325 in poi l’Imperatore viene raffigurato nella monetazione non più con la co-rona d’alloro, come i suoi figli, ma con il diadema (cfr. s. MaccorMacK, Arte e cerimoniale nell’antichità, torino 1995, pp. 282-283; a. aLFöLdi, Die konstantinische Goldprägung, mainz 1963, p. 93). eusebio conferma l’uso della porpora e del diadema da parte dell’Imperatore nella descrizione della salma esposta dopo la sua morte (Vita Const. 4,66: «[…] all’interno del palazzo, proprio al centro della reggia, in un’alta bara d’oro massiccio giaceva il cadavere dell’imperatore, adorno delle insegne imperiali, della porpora e del diadema, ed enorme era il numero delle persone che lo attorniava in una insonne veglia sia diurna che notturna»). la più incisiva epigrafe della grandezza dell’Imperatore nella considerazione dei contemporanei fu espressa dal panegirista nazario nel discorso, tenuto a roma per il quinquennale dei figli di costantino, crispo cesare e costantino II cesare: Una demum Constantini oblivio est hu-mani generis occasus (Pan. Lat. 4 [10] 12,4).

(3) trovo oltremodo fruibile e pertinente il capitolo Il mondo dei panegirici nel volume di s. MaccorMacK, Arte e cerimoniale nell’antichità, torino 1995, pp. 3-22.

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una serie di cambi da lui operati che possono dare ragione di que-sta definizione che lo riguarda, “svolta costantiniana”. per esempio, ha cambiato il regime dell’Impero romano, passando dalla tetrarchia voluta da Diocleziano (il governo cioè di quattro persone: due au-gusti accoppiati a due cesari) alla diarchia (costantino e licinio); e nel 324, all’unione in una sola persona di tutto l’Impero, in costan-tino; altri esempi: il rinnovamento del governo civile, accorpando le provincie in diocesi e istituendo le prefetture regionali, rinnovando la cancelleria imperiale, ammodernando l’esercito, costituendo una nuo-va capitale, costantinopoli … (4)

ora, se si prende un libro, e ce ne sono tanti, che tratti esclusiva-mente della “svolta costantiniana”, per esempio un volume di Klaus Girardet, uno storico di valore fuori da ogni schieramento polemico, non ci si trova niente di tutto quanto ho elencato; di che cosa trat-ta il libro? parla esclusivamente della conversione al cristianesimo di costantino e della cristianizzazione dell’Impero romano che ha fat-to seguito alla conversione di costantino.

parliamo dunque della conversione di costantino o, se volete, di costantino primo Imperatore cristiano, come si dice nell’invito che avete ricevuto. parleremo anche, in questo primo punto, del biogra-fo di costantino, coevo, morto due-tre anni dopo l’Imperatore nel 339-340, eusebio di cesarea: perché? perché egli ha dato un picco-lo contributo, importante però, alla “svolta costantiniana”.

la recente polemica sulle radici cristiane dell’europa ha posto il nostro Imperatore nuovamente, insieme a carlo magno, sul piedi-stallo, e le pubblicazioni in occasione dei centenari di York (2006) e soprattutto di treviri (2007) ne hanno fatto un protagonista, ricon-fermandogli il titolo di “Grande”, primo Imperatore cristiano della storia (5). Il congresso di Barcelona (che ho inaugurato con una pro-lusione, il 19 marzo del 2012), che ha aperto la serie dei molti con-gressi che si sono tenuti, soprattutto in europa, fino alla fine del 2013, ha posto a dibattito questa asserzione, apponendo un punto interrogativo al titolo stesso del congresso: Constantinus, ¿El primer Emperador cristiano?

(4) cfr. la recente imponente opera Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, soprattut-to il vol. I, roma 2013, pp. 319-386.

(5) cfr. K. M. Girardet, Die konstantinische Wende, cit., Darmstadt 2006, pp. 154-155.

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2. Costantino primo imperatore cristiano?

la risposta è positiva: sì, costantino è il primo Imperatore cri-stiano. noi però ci tiriamo fuori dalla polemica sulle radici cristiane dell’europa o sul mito di costantino nei secoli, dalla sua morte fino ai nostri giorni. rimaniamo coi piedi per terra, si fa per dire, nel-lo spazio dell’Impero romano nel secolo Iv e nei tempi della vita dell’Imperatore, dalla presa di possesso del potere, nel 306 in Britan-nia o, se volete, dal 312, dalla vittoria di ponte milvio, fino al 337, l’anno della sua morte.

cominciamo con una riflessione di metodo, facendo riferimen-to al rapporto tra religione e politica nel corso dell’intero secolo Iv.

In tale secolo spiccano alcune figure importanti, protagonisti del secolo e scrittori di fama: e tra essi certamente costantino è una figu-ra chiave del secolo visto nel rapporto tra religione e politica. In real-tà, non definirei, insieme ad altri autori, il secolo Iv complessivamente come quello del trionfo del cristianesimo. Definirei il secolo Iv piutto-sto come quello del prevalere del cristianesimo, che si è anche adatta-to e ha assimilato il tessuto sociale, religioso e politico del tempo; così che il secolo Iv è andato assumendo una, se pur rudimentale, tuttavia chiara identità cristiana, che si perfezionerà nei secoli seguenti, non dappertutto alla stessa maniera e con ricadute e ritorni, che del resto fanno parte del bagaglio storico del cristianesimo istituzionale.

In questo contesto vorrei sottolineare tre cose: 1) la gradualità non percepita e spesso non registrata della conversione al Cristianesi-mo in genere, nel corso del sec. Iv e in particolare nella prima parte di esso; in questa gradualità s’inserisce anche la conversione di co-stantino; 2) e dall’altra parte l’evidenza sfolgorante della crescita di esso, il cristianesimo, in numero, qualità ed estensione; 3) e tuttavia, nella “svolta epocale” (la svolta costantiniana) il persistere della for-ma delle istituzioni politiche romane e di quanto in esse è radicato del paganesimo, che ancora resiste alla forza della sostanza cristiana che si dilata e prevale.

In questo contesto di gradualità porrei la conversione di costan-tino (6). Gradualità non comporta necessariamente indecisione e calco-

(6) cfr. v. aieLLo, Costantino, il vescovo di Roma e lo spazio del sacro, in Costantino prima e dopo Costantino, a cura di G. Bonamente - n. lenski - r. lizzi testa, Bari 2012, p. 182.

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lo. considerando tutto l’arco della vita di costantino e degli eventi si-gnificativi di essa, indecisione e calcolo li escluderei del tutto. matura già all’inizio, se è lecito parlare di un inizio della conversione di co-stantino, nel 312, alla vigilia della battaglia di ponte milvio, una de-terminazione convinta e operativa della scelta cristiana (7), epperò con tutte le conseguenze compatibili con il suo munus imperii e la cari-ca di Pontifex Maximus (8).

Il processo di conversione inizia appunto nel 312 e fa riferimen-to alla visione, sulla quale l’Imperatore si era confidato con eusebio alcuni anni dopo. I segni della conversione si configurano e diven-tano visibili, storicamente, in diversi momenti. Il mancato sacrificio a Giove ottimo massimo potrebbe rappresentare uno di questi mo-menti, come hanno sottolineato Klaus martin Girardet e augusto Fra-schetti, due ricercatori di grande rigore ed equilibrio. Dopo una vit-toria, infatti, i trionfatori si recavano sul campidoglio e sacrificavano a questa divinità. costantino, dopo aver sconfitto massenzio, entra a roma, ma non si reca a celebrare il consueto sacrificio (9).

Dalle fonti emerge dunque che il cambiamento in costantino non si evidenzia in un momento preciso, ma si configura come un proces-so continuo culminato con il battesimo alla fine della vita; una con-versione graduale, come del resto aveva già fatto intendere eusebio di cesarea. a ben leggere la Vita Constantini, infatti, il processo di con-versione dell’imperatore ha un inizio e una fine: l’inizio coincide con la visione celeste del 312 ed è ancorato a una rivelazione divina (ri-ferita da fonti coeve cristiane e pagane) considerata fondamento del-

(7) cfr. G. Zecchini, Costantino è vivo, in «l’osservatore romano», 22 dicembre 2013, pag. 5: «la consapevolezza cristiana di costantino già fra 312 e 314 spinge ad anticipare il suo passaggio al cristianesimo; in effetti, a parte la posizione estrema e isolata, pur se autore-vole, del Barnes, che ritiene costantino già cristiano nel momento della sua proclamazione a imperatore in Britannia nel 306, cresce il numero degli studiosi, tra cui chi scrive, che indivi-dua in Gallia verso il 311 questo avvenimento». cfr. K. M. Girardet, Das Jahr 311: Galerius, Konstantin und das Christentum, in Costantino prima e dopo Costantino, cit., pp. 113-131.

(8) alessandro saggioro descrive bene l’ambiguità di questa situazione, nel suo articolo Il paganesimo: identità e alterità con paradigmi dell’età costantiniana, in Costantino I, Enciclo-pedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 682-686.

(9) confermo la mia adesione alla lettura delle fonti fatta da augusto Fraschetti, che ci ha lasciato un’opera magistrale su questo e dove si trova un quadro generale del dibattito sui segni della conversione di costantino. Guida la posizione contraria F. Paschoud, Zosime 2,29 et la version payenne de la conversion de Constantin, in «Historia», 20 (1971), pp. 334-371; id., Cinq études sur Zosime, paris 1975.

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la vittoria di ponte milvio. la conclusione del processo è sancita dal battesimo, ricevuto sul letto di morte il 22 maggio del 337 (10), con il quale costantino entra di fatto nella comunità cristiana (11).

3. Eusebio di Cesarea (12), vescovo e bibliotecario di Cesarea (13)

Ho accennato ripetutamente ad eusebio di cesarea e alla sua opera De vita Constantini (Sulla vita di Costantino). eusebio, vesco-

(10) sulle circostanze della morte e del battesimo di costantino, vedi r. W. BurGess, Mor-te e successione costantiniana, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 94-99; P. MaravaL, Battesimo di Costantino, ibidem, pp. 197-202.

(11) cfr. M. aMerise, Storie di conversione. Una visione e un sogno nel cammino dell’uo-mo, in «l’osservatore romano», 1 marzo 2009, pp. 4-5. vale la pena di aggiungere qui una nota metodologica. nella “questione costantiniana” bisogna distinguere due ambiti: uno in-terno, relativo alla personalità dell’Imperatore e alla sua fede, e uno esterno rivolto alla sua politica religiosa. «È bene evidenziare come i due punti siano radicalmente distinti, anche se l’idea della religiosità come fattore “privato” e tendenzialmente intimo sarebbe del tutto anacronistica nel Iv secolo». riaprire il discorso dell’onestà della conversione costantiniana vuol dire riproporre un problema insolubile, «perché posto in termini individuali e psicolo-gici e dunque non storici». cfr. F. carLà - M. G. casteLLo, Questioni tardoantiche, cit., p. 13 e p. 105, con le note e la bibliografia ivi citata.(12) sono importanti gli articoli su eusebio di cesarea apparsi nel secondo volume dell’Enci-clopedia Costantiniana della treccani, in particolare: e. PrinZivaLLi, Genere storico: la storio-grafia di Eusebio di Cesarea, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. II, roma 2013, pp. 59-76; a. Monaci castaGno, Eusebio biografo, ibidem, pp. 77-90; d. dainese, La “Vita” e le “Laudes Constantini”, ibidem, pp. 91-115; s. MorLet, L’opera apologetica di Eusebio di Cesarea, ibidem, pp. 117-127; M. siMonetti, L’esegesi di Eusebio e la figura di Costantino, ibidem, pp. 129-133; M. riZZi, Filosofia, teologia e potere in Eusebio di Cesarea, ibidem, pp. 135-145. Ugualmente importante è a riguardo della personalità di eusebio di cesarea la pub-blicazione a cura di o. andrei, Caesarea Maritima e la Scuola Origeniana: multiculturalità, for-me di competizione culturale e identità cristiana. Atti dell’XI Convegno del Gruppo di Ricerca su Origene e la Tradizione Alessandrina, 22-23 settembre 2011, supplementi adamantius III, Brescia 2013. In particolare si vedano nel volume gli articoli: M. riZZi, La scuola di Origene tra le scuole di Cesarea e del mondo tardo antico, pp. 105-119; P. carrara, Eusebio, un greco di età romano-imperiale in una città multiculturale, pp. 161-178; o. andrei, Ripensare Caesa-rea Maritima e ead. Conclusioni, pp. 8-23, 217-224.

(13) È un titolo volutamente insolito ed è stato usato da Benedetto XvI. Il papa, nell’Udienza generale a piazza s. pietro del 13 giugno 2007, come aveva già fatto per orige-ne il 25 aprile e il 2 maggio dello stesso anno, ha voluto riscattare la memoria di un grande erudito del secolo Iv, eusebio di cesarea: «egli fu l’esponente più qualificato della cultura cristiana del suo tempo, dice Benedetto XvI, in contesti molto vari, dalla teologia all’esegesi, dalla storia all’erudizione. eusebio è noto soprattutto come il primo storico del cristianesi-mo, ma fu anche il più grande filologo della chiesa antica» (Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. III, 1 [2007], città del vaticano 2008, p. 1079).

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vo di cesarea, è stato oggetto di attacchi già a due secoli dalla sua morte, condividendo in qualche modo la sorte dell’Imperatore che egli venerava come liberatore della chiesa dalla persecuzione e pro-tettore di essa. tali attacchi sono stati ripresi alla metà del 1800. la dissennata svalutazione operata contro eusebio, definito sbrigativa-mente “eretico” e “vescovo di corte” (14), attaccandogli questa etichet-ta per più di un secolo, parte dallo storico dell’arte e storiografo Ja-cob Burckhardt (15) con la sua opera Die Zeit Konstantin’s des Großen (1853) (16) fino a Henri Grégoire (1938) (17), per arrivare ad oggi, in cui si contano ancora, anche se pochi, detrattori di costantino e comun-

(14) sono altri i “vescovi di corte” e soprattutto uno, ossio di cordova (256-357), come si dimostra nella recente monografia Osio de Córdoba. Un siglo de la Historia del Cristianis-mo, madrid 2013: «la carta a ceciliano es el primer documento que acredita de manera ex-plícita la relación entre osio y constantino. Y aunque la carta no habla explícitamente de la presencia de osio en la corte, la datación de la misiva a ceciliano [inizio del 313] se ha al-zado como terminus ante quem para establecer la presencia de osio en la corte de constan-tino como consejero de confianza para asuntos religiosos» (pp. 399-401). Forse già dal 311 osio accompagnava l’Imperatore nei suoi spostamenti e sarà stato non solo una personali-tà di spicco nel concilio di nicea, ma certamente anche una presenza stabile e importante nella cancelleria imperiale (vedi le pp. 396-407). cfr. v. c. de cLercq, Ossius of Cordova. A Contribution to the History of the Constantinian period, Washington 1954 e altre pubbli-cazioni del medesimo autore. vedi anche r. teja, Quid episcopis cum Palatio?, in Costantino prima e dopo Costantino, cit., pp. 211, 216; v. aieLLo, Ossio e la politica religiosa di Costan-tino, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 261-273. cfr. anche Giuseppe Zecchini: «In seguito all’episodio della visione, un’esperienza mistica avuta in Gal-lia nel 311, costantino prese contatto con alcuni sacerdoti che cominciarono a istruirlo nel-la dottrina dell’Incarnazione. noi conosciamo anche il nome di questi sacerdoti: sono reti-cio di autun, marino di arles e soprattutto materno di colonia, i tre più importanti vescovi dei territori allora controllati da costantino, a cui si dovette aggiungere non molto dopo an-che ossio di cordova […] resta il fatto che costantino conobbe il cristianesimo grazie ad alcuni vescovi delle Gallie e quindi instaurò con loro un rapporto di particolare fiducia» (G. Zecchini, Costantino è vivo, in «l’osservatore romano», 22 dicembre 2013, p. 5). cfr. G. BonaMente, Per una cronologia della conversione di Costantino, in Costantino prima e dopo Costantino, cit., p. 97.

(15) la persecuzione contro eusebio era già cominciata con la damnatio memoriae ad opera di cirillo di alessandria (cfr. Reconsidering Eusebius. Collected Papers on Literary, Historical, and Theological Issues, edited by s. Inowlocki & c. Zamagni, supplements to Vigiliae Christianae 107, leiden-Boston 2011, p. 37) e Fozio (Reconsidering Eusebius, cit., pag. vii).

(16) j. BurcKhardt, Die Zeit Constantin‘s des Großen, Basel 1853.(17) La conversion de Constantin le Grand, in «revue de l’Université de Bruxelles», 36

(1930-31), pp. 231-272; traduzione tedesca in Konstantin der Große, hrsg. H. Kraft, Darm-stadt 1974, pp. 175-223.

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que negatori della sua conversione al cristianesimo (18). tutto ciò ha creato una idiosincrasia verso le opere di eusebio, così che esse non sono state né conosciute né lette, causando un pregiudizio di di-spregio su di lui, considerato inaffidabile storiografo, mediocre come pensatore e come scrittore, apologeta disonesto e servile cesaropa-pista.

Una rivalutazione di eusebio è cominciata nella seconda metà del secolo scorso e si sta imponendo in questi ultimi anni (19) soprattutto con la lettura e diffusione di tutte le opere di eusebio, ormai quasi tutte tradotte dal greco in italiano e in altre lingue.

Il servizio che eusebio intendeva prestare alla causa dell’Impe-ratore, che aveva liberato la chiesa dalla persecuzione, voleva essere di riconoscenza, di disponibilità per quel che la sua professione gli consentiva e la sua passione di scrittore lo spingeva a fare: una pro-fessione a largo raggio, prima di tutto di direttore di una scuola-ac-cademia e al contempo nella medesima di maestro e pedagogo (20); e inoltre, di direttore di una biblioteca e editore (21); e infine la sua passione di prolifico scrittore. costantino si rese conto di quanto il bibliotecario di cesarea valeva e lo espresse chiaramente nella let-

(18) satoshi toda, discettando della “cosiddetta” teologia politica di eusebio, è in pole-mica con coloro che non si limitano all’utilizzo esclusivo dell’opera De Laudibus Constantini come fonte di essa: cfr. Studies of religion and Politics in the Early Christian Centuries, ed. by D. luckensmeyer & p. allen, early christian studies 13, virginia, australia, 2010, pp. 123-135. Un’erudita accattivante veduta generale della Letteratura costantiniana e “conversione” di Costantino è quella di salvatore calderone in Costantino il Grande dall’antichità all’uma-nesimo: Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico, Macerata 10-20 dic. 1990, I, a cura di G. Bonamente - F. Fusco, macerata 1992, pp. 231-252.

(19) Undici giovani ricercatori si sono incontrati il 3 marzo del 2008 presso il cIerl-centro Interdisciplinare di studi delle religioni e della laicità, nell’Università libera di Bru-xelles, in un workshop dal titolo Reconsidering Eusebius (Riconsiderare Eusebio). l’équipe si è proposta, con severa obiettività e criticità, di esaminare per intero la produzione di euse-bio, non come semplice mediatore o compilatore, come è stato spesso considerato, ma nel suo specifico modo di costruire letteratura, storia, politica e teologia, tenendo ben conto del contesto e dell’eredità cristiano-mediterannea che studiava e in cui viveva. I risultati dell’in-dagine sono straordinari, come si può leggere nella pubblicazione: Reconsidering Eusebius. Collected Papers on Literary, Historical, and Theological Issues, edited by s. Inowlocki & c. Zamagni, supplements to Vigiliae Christianae 107, leiden-Boston 2011.

(20) Reconsidering Eusebius, cit., pp. 99-118.(21) «christian Impresario of the codex» lo definisce anthony Grafton: a. GraFton - M.

WiLLiaMs, Christianity and the transformation of the book, cambridge, mass.-london, engl. 2006, pp. 178-232.

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tera a lui indirizzata (22) e nella commessa a lui, esegeta (23), delle 50 Bibbie.

Il modello per eusebio era la Biblioteca di alessandria, dove si accumulavano libri senza fine. lo stesso si ripeteva, ma in crescita, a cesarea, la città in cui era vescovo. e gli scritti di eusebio, copia-ti e diffusi, erano per se stessi una biblioteca circolante. egli accu-mulava nei suoi scritti citazioni da libri pagani, giudei e cristiani; e ne facilitava la lettura organizzando le citazioni con gli stessi crite-ri con cui organizzava la grande Biblioteca di cesarea da lui diretta. a leggere i libri di eusebio, soprattutto l’opera Praeparatio Evange-lica, lo si nota (24).

Questo minuzioso e immane lavoro anticipa, per così dire, quello più sistematico e differenziato dei copisti monaci del medio evo. In realtà tutto ciò eusebio lo faceva per uno scopo superiore, che non era quello di descrivere, preservare e rendere fruibile la cultura gre-ca; il suo scopo era la diffusione del messaggio evangelico.

origene, che aveva fondato e diretto per anni la scuola di ales-sandria, si trasferì – per tutta una serie di problemi legati al clima politico ed economico ma anche e soprattutto per situazioni e fatto-ri legati alla sua personalità e alla sua fama nella chiesa locale (25) – a cesarea, dove fondò una nuova scuola, che diresse con il suo disce-polo panfilo che fu maestro di eusebio di cesarea. eusebio imparò molto da questa scuola, e quando toccò a lui di ereditarla e diriger-la vi portò tutta la sua esperienza di tecnica libraria, di amore al li-bro e di diffusione di esso, aggiungendovi l’ansia evangelizzatrice e apologetica, tonificata dalla novità della libertà di proclamare la pa-rola di Dio e di dimostrarne la superiorità (26).

c’è dunque una svolta, molto evidente nella Praeparatio Evange-

(22) «considerati per altro sommamente felice anche perché, per universale testimonianza del mondo intero, per così dire, sei stato giudicato degno di essere vescovo di tutta la chie-sa: se infatti tutti desiderano che tu rimanga presso di loro a svolgere le tue funzioni episco-pali, tutti incontrovertibilmente contribuiscono ad accrescere codesta tua piena felicità» (Vita Const. III 61,1). cfr. Reconsidering Eusebius, cit., p. 36.

(23) Reconsidering Eusebius, cit., p. 151.(24) Reconsidering Eusebius, cit., p. 204, nota 30.(25) cfr. G. rinaLdi, Pagani e cristiani a Cesarea Marittima, in Caesarea Maritima e la Scuo-

la Origeniana, cit., pp. 57-72; L. Perrone, Origene e la ‘Terra Santa’, ibidem, pp. 140-152.(26) cfr. Caesarea Maritima e la Scuola Origeniana, cit., pp. 15-17, 170-175, 218-220.

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lica, più che in tutte le altre opere di eusebio; quest’opera è, e con essa eusebio, un’interpretatio christiana dichiarata ad alta voce, o, se si vuole, un’interpretatio Caesariana dell’erudizione alessandrina, nel-la quale i giochi eruditi di alessandria sono stati rimpiazzati da una forte e ben strutturata strategia apologetica.

costruendo questa grande opera della Praeparatio Evangelica come un’accumulazione di citazioni, dove sono associati autori paga-ni, giudei e cristiani, eusebio presenta un quadro della cultura cri-stiana che alla fine vuole mostrare la sua superiorità e il trionfo su ogni altra alternativa. eusebio ha raccolto l’eredità della scuola ales-sandrina, trasferita e rinnovata da origene e panfilo a cesarea; eu-sebio, tramite i suoi scritti eruditi, storici, esegetici e teologici, tra-mite la scuola di cesarea che ha formato tanti personaggi chiave, e tramite tutta l’organizzazione editoriale e libraria, ha quasi provoca-to come una sostituzione di una antica istituzione con una nuova; e, mentre l’Impero cristiano sostituiva quello pagano, cesarea sostitui-va alessandria.

Una svolta culturale religiosa si affianca dunque a quella politica e costituisce con essa l’unica svolta costantiniana.

II. - L’ideoLoGia deLLa Pace

Ideologia della pace. so che il termine ideologia è ambiguo. Il mio uso è strumentale al discorso che sto per fare. Intendo con esso l’intuizione di un progetto; progetto, in questo caso, di una pacifi-cazione universale che si va precisando mano a mano che esso viene rea lizzato e che potrà essere definito nel momento stesso in cui sarà completato e non sarà più un progetto ma una realtà.

Ho scelto di parlare di questo argomento, già da me trattato, pur se superficialmente, qualche anno fa, per approfondirlo; e poi lo ri-tengo di grande attualità.

1. - l’idea di pace nel sec. Iv

l’idea di pace nel sec. Iv fa riferimento all’organizzazione genera-le del mondo in quel tempo. l’organizzazione della pace, allora, an-ziché essere una sovrastruttura dell’ordinamento internazionale, come

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possiamo pensarla oggi, era compito e prerogativa dell’Impero ro-mano, al quale, per il suo carattere etico e religioso, si pensava fos-sero affidate le sorti dell’umanità intera (27).

l’idea di pace si era evoluta fino ad assumere il significato va-sto e generale di eliminazione di ogni contrasto violento interno ed esterno.

nella concezione poi dell’investitura divina del potere imperia-le (l’Imperatore considerato come vicarius Dei), la pace e la concor-dia che dovevano regnare nel mondo erano frutto di un ordine che proveniva dall’alto, ai sudditi attraverso gli imperatori, agli imperato-ri dalla divinità (28). I gruppi di porfido della facciata della basilica di san marco a venezia e dei musei vaticani, che raffigurano i quattro principi (Diocleziano, massimiano, costanzo e Galerio) abbracciati insieme «unum in Rempublicam sentientes» (29), rappresentano tangi-bilmente l’immagine della concordia imperiale, sulla quale era fonda-ta l’unità dell’Impero e la pace nel mondo.

che l’Impero non fosse davvero universale, nel senso che esso non comprendesse materialmente tutto il mondo conosciuto, era evidente ai contemporanei. tuttavia, nel sentire comune, l’Impero veniva consi-derato il presidio della civiltà e l’Imperatore il patrono di tutte le gen-

(27) cfr. B. Paradisi, Pace e Impero alla fine del mondo antico, in «studia et documen-ta historiae et iuris», 24 (1958), p. 280; cfr. id., L’organisation de la paix aux IV et Ve siècle, in «recueils de la societé Jean Bodin pour l’Histoire comparative des Institutions», 14: la paix 1, Bruxelles 1961, pp. 231-395. «l’idea della pace ebbe un contenuto composito e non sempre identico, ora prevalendo in essa la tradizione dell’ “eirene”, cioè di uno stato pacifi-co indipendente dai mezzi per la sua attuazione, ora invece, secondo l’accezione prammati-ca romana, essendo intesa come la conclusione patteggiata o subita di un conflitto armato», insomma «una pace definitivamente imposta da roma alla restante umanità» (ibidem, pp. 280-281).

(28) In questo ambito si colloca la concezione delle virtù imperiali (come risultano dai pa-negirici, dalle iscrizioni, dalla monetazione, ecc.) a partire dall’aureus clipeus virtutis di augu-sto, con le quattro virtù cardinali (virtus, clementia, iustitia, pietas), legate ai titoli imperiali di propagator imperii, victor, ecc., fino a costantino, all’elenco di pietas, iustitia, clementia, pro-videntia, philantropia, megalopsychia, moderatio, indulgentia, ecc., che rendono degno l’Im-peratore del suo incarico e producono come effetto securitas, tranquillitas, hilaritas, pax. cfr. M. P. charLesWorth, Pietas and Victoria: The Emperor and the Citizen, in «Journal of roman studies», 33 (1943), pp. 2-10; id., The virtus of a Roman Emperor. Propaganda and the crea-tion of belief, in «proceedings of the British academy», 23 (1937), pp. 105-133.

(29) Quattuor sane principes mundi fortes, sapientes, benigni et admodum liberales, unum in rem p. sentientes, perreverentes Romani senatus, moderati, populi amici, persancti, graves, religiosi et quales principes semper oravimus. (Historia augusta, Vita Cari 18).

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ti (30). con costantino si giunge ad affermare la teoria secondo la qua-le anche la terra dei foederati apparteneva all’Impero. l’organizzazione del mondo si confondeva così con quella dell’Impero. l’organizzazione di una Pax Romana, l’unica che potesse essere allora concepita, suben-trò così gradualmente «al sistema dei trattati che roma aveva costruito nell’epoca precedente e che aveva avuto come presupposto piuttosto lo stabilimento di una superiorità politica in funzione di un’azione da sviluppare verso l’esterno che non la preoccupazione, fattasi in segui-to dominante, del mantenimento della pace ad ogni costo» (31).

2. costantino e l’ideologia della pace (32)

Questa ideologia della pace, che abbiamo appena accennata, è comune all’Imperatore costantino, pur con le peculiarità che il suo rapporto particolare con la chiesa cristiana necessariamente compor-tava (33).

la teoria imperiale da lui ereditata (34) comportava soprattutto tre cose: 1) l’imperium, cioè il controllo dell’esercito, e il potere tribuni-zio, cioè la supremazia legislativa; 2) la quasi-divinità dell’Imperatore, specificatasi poi esattamente come vicariatus Dei; 3) il genius dell’Im-peratore, apollo, e poi cristo (35). In questo ambito si colloca quella che costantino considera la doppia missione, politica e religiosa, pro-

(30) cfr. anche j. voGt, Orbis. Ausegewählte Schriften zur Geschichte des Altertums, Frei-burg-Basel-Wien 1960, pp. 309-311. Interessante il contributo di G. nocera sul problema del consensus universorum al tempo di Diocleziano e costantino, in Accademia Romanistica Co-stantiniana, atti del II convegno Internazionale, perugia 1976, pp. 119-153.

(31) B. Paradisi, Pace e Impero, cit., p. 288.(32) per la bibliografia su costantino: t. d. Barnes, Constantine and Eusebius, cambrid-

ge, mass.-london, engl. 1984, pp. 406-442.(33) p. sillo ha recentemente dimostrato l’esistenza nella cancelleria di costantino di uno

scrinium con competenza specifica di politica ecclesiastica: cfr. Mito e realtà dell’«aequitas chri-stiana». Contributo alla determinazione del concetto di «aequitas» negli Atti degli «scrinia» co-stantiniani, milano 1980. più direttamente sulla nostra tematica cfr. a. BarZanò, Costantino e la pax Dei, in «studium» 19 (2013), pp. 345-356.

(34) rimane valido, pur se con qualche riserva, il quadro generale tracciato da a. GraF schenK von stauFFenBerG, Der Reichsgedanke Konstantins, ristampato in Prinzipat und Frei-heit, Wege der Forschung, 135, hrsg. r. Klein, Darmstadt 1969, pp. 464-487.

(35) cfr. G. doWney, Theory of the Monarchy. lecture given at seminar at Harvard Uni-versity, Feb. 16, 1951.

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pria dell’Imperatore (36). essa consisteva in concreto nell’adempiere la sua missione di «servitore di Dio» (37) e, in quanto tale, di salvare la pace, di “insegnarla” e di procurarla ai suoi sudditi (38).

nell’idea che costantino ha della chiesa cristiana tre cose fanno parte certamente della sua sostanza: 1) il culto legittimo; 2) il pos-sesso del diritto e della verità; 3) e, non ultime, l’unanimità e la con-cordia (omnoia).

È proprio la concordia, che è il presupposto della pace (39), quel-la che ha attratto, soprattutto durante le persecuzioni, tanti proseli-ti alla chiesa; e la diffusione del cristianesimo non è stato altro che un miracoloso diffondersi tra i popoli di questa concordia.

Dagli scritti e dalla politica di costantino risultano evidenti alcu-ne caratteristiche che determinano l’ideologia della pace, che sinte-tizzo come segue:

1. la pace ha una data, il 324, e si configura come assenza di guerra, interna ed esterna, con la conseguenza dell’unificazione dell’Impero e la sicurezza dei confini. Idealmente la securitas, che è la parte visibile della pace, garantisce la continuità e come tale viene definita perpe-tua: securitas perpetua (40). oggettivamente però l’assenza della guerra, altrimenti detta «pace negativa», indica una situazione molto vicina a quella che noi chiameremmo oggi una lunga tregua.

2. Una tale situazione comporta all’interno l’esercizio della tolleran-za (41), ma non oltre un certo limite e lasciando sempre uno spazio al privilegio.

(36) cfr. h. dörries, Das Selbstzeugnis Kaiser Konstantin, abh. d. ak. d. Wissensch. in Göttingen. philol.-Hist. Kl., 3.F., 34, Göttingen 1954, p. 243. Una revisione critica degli scrit-ti di costantino è stata fatta da P. siLLo, Mito e realtà dell’«aequitas christiana», cit.

(37) h. dörries, Das Selbstzeugnis Kaiser Konstantins, cit., pp. 258-259.(38) Ibidem, pp. 256-257.(39) Omnoia è il «lieblingsbegriff» di costantino (h. dörries, Das Selbstzeugnis Kaiser

Konstantins, cit., p. 80). cfr. lettera ad alessandro di alessandria, in Athanasius Werke III 1: Urkunden zur Geschichte des Arianischen Streites, ed. H.-G. opitz, Berlin-leipzig 1934, nr. 32; agli antiocheni, in De Vita Constantini III 60,1.2.4.

(40) s. G. MaccorMacK, Arte e cerimoniale, cit., pp. 283-284. Felicitas perpetua, securitas perpetua, salus et spes, gaudium sono termini che trasmettono proprio l’idea di continuità.

(41) cfr. G. cLeMente, La religione e la politica: il governo dell’Impero tra pagani e cri-stiani fra III e VI secolo, in Costantino I, enciclopedia costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 708-709.

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3. la religione cristiana viene coinvolta in tale progetto e talvolta ne occupa lo spazio privilegiato (42).tuttavia, a proposito della tolleranza e dei privilegi, vorrei precisare che la maggior parte dei provvedimenti legislativi che li contempla-no, anche quelli volti a favore del clero, sono sempre ben attenti alla tutela dell’interesse dello stato (43).

4. l’Imperatore, come vicarius Dei e primo responsabile, ne è il pro-tagonista con tutte le sue titolarità di propagator imperii, victor, ecc., e l’elenco delle virtù da praticare: pietas, iustitia, clementia, providen-tia, philantropia, megalopsychia, moderatio, indulgentia, ecc., che ren-dono degno l’Imperatore del suo incarico e producono come effetto securitas, tranquillitas, hilaritas, pax (44).

5. Infine le “opere del regime”, il cerimoniale di corte, la propaganda (la panegiristica (45) e la monetazione (46), l’epigrafia (47) sono espressio-ne – almeno erano intese così a quel tempo – della prosperità, segno questo della benevolenza divina ed effetto della pace. si possono ri-cordare: la costruzione della nuova capitale costantinopoli (48), la co-struzione di edifici pubblici, le basiliche cristiane (49), gli archi di trion-

(42) cfr. r. teja, I vescovi, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 903-906; a. cariLe, L’Imperatore e la Chiesa, ibidem, pp. 919-921. Un esempio impor-tante: tutto quanto costantino ha fatto per il concilio di nicea lo ha fatto per preservare la pace all’interno della chiesa (d. dainese, Dio da Dio, in Costantino I, Enciclopedia Costanti-niana, vol. II, roma 2013, p. 153).

(43) cfr. F. carLà - M. G. casteLLo, Questioni tardoantiche, cit., p. 322.(44) vedi sopra note 27-28.(45) G. Marconi, La figura di Costantino nell’ “Ordo Panegyricorum”: I panegiristi e la

nascita del potere costantiniano, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. II, roma 2013, pp. 31-44.

(46) cfr. F. Guidetti, Iconografia di Costantino, in Costantino I, Enciclopedia Costantinia-na, vol. II, roma 2013, pp. 185-200.

(47) G. L. GreGori - a. FiLiPPini, L’epigrafia costantiniana: la figura di Costantino e la pro-paganda imperiale, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 517-541; F. carLà, Le iconografia monetali, ibidem, pp. 557-578.

(48) cfr. s. caLderone, La città di Costantino, in Spazio e centralizzazione del potere, Da roma alla terza roma, studi Iv, roma 1998, pp. 23-44; j. curran, Il governo di Roma e la Nuova Roma, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 133-149; c. Barsanti, Costantinopoli, ibidem, pp. 471-491.

(49) cfr. r. saLvarani, Il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Riti, testi e racconti tra Costanti-no e l’età delle crociate, città del vaticano, 2012, pp. 32-36; M. Losito, Il Santo Sepolcro e la

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Il prImo Imperatore crIstIano 19

fo (50). Una chiesa della Santa Pace fu costruita a costantinopoli, in cor-rispondenza (concorrenza?) con l’ara pacis di augusto a roma (51).

Questa pax illa sanctissimae fraternitatis è prima di tutto un dono interiore di Dio – riporto qui dagli scritti di costantino e da citazioni da costantino in eusebio di cesarea (52); e poi è un suo comandamen-to, un dovere nei riguardi della legge divina, di custodirla, la pace, e di ricomporla non appena si sia in qualche modo incrinata (53). essa è il desiderio primo dell’Imperatore (54), è il senso della sua azione nei riguardi della chiesa (anche, se è il caso, con l’aiuto dell’imposizione delle tasse) (55). la fede, la pace e la concordia (psti, eirnh, omnoia) sono come l’aria vitale del popolo di Dio (56). l’Impero stesso ne trae sicuro giovamento (57). È perciò del tutto incomprensibile compromet-tere un tale incomparabile dono in una lotta per il dogma (58).

naturalmente, leggendo tante espressioni di preoccupazione per la pace della chiesa (e dell’Impero), ci si domanda quanto di convin-

Gerusalemme celeste: da architettura costantiniana a modello universale, Bari 2011; M. sanna-Zaro, Costantino e le origini di un’architettura cristiana, in «studium», 109 (2013), pp. 357-377; a. carandini, Su questa pietra: Gesù, Pietro e la nascita della Chiesa, roma-Bari 2013. vedi tuttavia la presa di posizione contraria di v. aieLLo, Costantino, il vescovo di Roma e lo spazio del sacro, in Costantino prima e dopo Costantino, cit., pp. 181-207. cfr. anche F. Gui-doBaLdi, Leggere l’architettura costantiniana, ibidem, pp. 493-516; e. casteLLi, La Chiesa di Roma prima e dopo Costantino, ibidem, pp. 806-808.

(50) a. Bravi, L’arco di Costantino: Un monumento dell’arte romana di rappresentanza, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 543-556.

(51) vedi nota 63.(52) lettera di costantino ai cattolici dell’africa, in Urkunden zur Entstehungsgeschichte

des Donatismus, Kleine texte für vorlesungen und Übungen, 122, hrsg H. von soden, Berlin 1950, nr. 315; r. cristoFoLi, L’ “Oratio ad sanctorum coetum”: un Imperatore cristiano alla ricer-ca del consenso, in Costantino I, Enciclopedia Costantiniana, vol. I, roma 2013, pp. 247-260.

(53) Ibidem, nr. 15,23; 31,4.(54) cfr. De Vita Const. III 12 = Winkelmann 87,4-88,2.(55) cfr. Athanasius Werke 34, 39; al sinodo di tiro, in De Vita Const. Iv 42,2.5. = Win-

kelmann 137,11-18; 138, 2-8.(56) cfr. De Vita Const. III 20,2 = Winkelmann 93,2-3.(57) cfr. P.-P. joannou, La législation impériale et la christianisation de l’Empire romain

(311-476), orientalia christiana analecta, 192, roma 1972, p. 34-35, e testi ivi citati. cfr. per es. Discorso di apertura al Cons. di Nicea, in De Vita Const. II 56,1; III 12,4-5; Gelasio, Hist. Eccl. II 7,1-4.

(58) cfr. P.-P. joannou, La législation impériale, cit., p. 36. cfr. lettera di eusebio di ni-comedia e teognide di nicea al 2° sinodo di nicea, in Athanasius Werke III 1,31.

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raFFaele carD. FarIna20

zione religiosa e quanto di responsabilità (calcolo?) politica vi fosse-ro nell’Imperatore. Un punto di soluzione a questo problema, tipico del nostro tempo, sta nel fatto che, nella mentalità di quel tempo, e specificamente in quella di costantino, c’era sì una distinzione di pia-ni (religioso e politico), ma non di ambiti in cui si esercitava l’uni-co potere politico-religioso. e ciò per una ragione più profonda (59). le parole, le espressioni alllwn fila, sumfwna, agph, eirnh e omnoia indicano quella pax fraternitatis, che non è nient’altro che l’amore fraterno cristiano (60), e che, pur nell’approssimazione di una «Soldatenglaube» ( Josef vogt), come è quella di costantino (61), rima-ne tuttavia qualcosa di completamente nuovo e diverso dalla pax ro-mana, che tuttavia include e supera e sublima. Questa originalità mi pare il punto più importante di quella che abbiamo definito l’ “ideo-logia della pace” di costantino.

né è da sottacere, più che una contraddittoria politica religiosa della pace, un certo pragmatismo, tipicamente romano, di costan-tino a tal proposito. mi riferisco al suo atteggiamento nei riguardi di roma (62) dopo la fondazione della seconda roma, costantinopo-li. la monetazione successiva all’inaugurazione della nuova capitale dimostra chiaramente che quest’ultima è il centro ideale dell’impe-ro universale cristiano. essa è rappresentata come figura femminile, corrispondente a quella della dea roma, carica di simboli, che la de-finiscono Regina della Pace, della vittoria e dell’abbondanza. come tyche alata, sul cui scettro compare il globo al quale si sovrappone la croce di cristo, è la divinità che raccoglie in sé gli attributi tipici della pace: Rhea, Abundantia, Victoria e Ceres (63).

ma l’antica roma non veniva dimenticata, quasi ad attuare una specie di gemellaggio tra le due capitali. Infatti negli stessi anni, dal 330 in avanti, la Zecca imperiale metteva in circolazione monete com-

(59) Op. cit., pp. 319-320.(60) cfr. lettera ad ario e compagni, in Athanasius Werke III 1,34.(61) cfr. j. voGt, Die Bedeutung des Jahres 312 für die Religionspolitik Konstantins des

Großen, «Zeitschrift für Kirchengeschichte», 61 (1942), p. 190.(62) cfr. F. GuidoBaLdi, Roma Costantiniana, in Costantino I, Enciclopedia Costantinia-

na, vol. I, roma 2013, pp. 453-469.(63) cfr. a. aLFöLdi, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Bari-roma 1976, pp. 95-

96. sulla chiesa della santa pace a costantinopoli e l’Ara pacis di augusto a roma cfr. h. LietZMann, Geschichte der alten Kirche, II, Berlin 1953, p. 136.

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Il prImo Imperatore crIstIano 21

memorative con la leggenda Securitas Romae, dove si esprime, a ri-guardo dell’antica capitale, il medesimo messaggio di pace del poeta e panegirista pagano del 325, optaziano porfirio, dopo la sconfitta dei Goti nel territorio dei sarmati: «così possa tu, mentre le spade son piegate per fare vomeri, godere pieno riposo nella tua nivea roc-ca. la roma sorella, il decoro del ponto, esalta la roma dei tusci, che vediamo con i nostri occhi» (64). È messo così a confronto il ri-poso meritato e inattivo della vecchia città-madre con la promozione vittoriosa della pace da parte della nuova capitale (65).

raFFaeLe card. Farina

(64) Carmi di Publilio Optaziano Porfirio, a cura di Giovanni polara, torino 2004, XvIII, pp. 164-167: Tot freta pacis apex mutari munere gaudet, / India clavigeri Latium vult tange-re navi, / Nileus messor sua tradit castra, vel agmen / Arctos, quam Carpi noscet vix Haemus, in ora. / sic istis cultus in rem curvantibus enses / te nivea iuvat arce frui. ponti decus au-get, / roma soror, veteres tuscos, quos ore tuemur. / Alme, tuas lauro aetas sustollet in as-tra. publilio optaziano porfirio, esiliato per delle colpe non ben precisate, indirizza all’Im-peratore costantino la raccolta dei carmi, tra i quali il XvIII, dal quale si cita il passo di cui sopra. l’imperatore apprezza il libretto, a lui dedicato in occasione dei vicennali del 325, sgargiante per la tecnica della figurazione dei versus intexti accoppiata a quella dell’acrosti-co, e lo richiama a roma promuovendolo, nel giro di quattro anni, ad amministratore della campania, proconsole d’acaia, proconsole d’asia e prefetto della città. cf. j. curran, Il go-verno di Roma e la Nuova Roma, cit., p. 144. cfr. a. aLFöLdi, Die konstantinische Goldprä-gung, cit., p. 104. sulla monetazione cfr. anche P. M. Bruun, The Roman Imperial Coinage, vol. vII: Constantine and Licinius, london 1966, pp. 15-46 (beata tranquillitas), p. 36, n. 3; 49; 288; 314 (pax perpetua), p. 49 (saeculi felicitas), p. 51, n. 3; 165; 363 (pax aeterna), p. 45, n. 2; 568 (pax publica), ecc.

(65) peter Brown descrive in maniera suggestiva e con un pizzico d’ironia questa atmo-sfera politico-religiosa di una pace munifica e vittoriosa e tuttavia tollerante e indulgente, in qualche maniera innocente, dell’innocenza di chi improvvisamente gode di una insperata li-bertà; non solo, ma vede realizzato un regno terreno allontanando l’imminenza escatologica della seconda finale venuta di cristo. Durerà poco (P. BroWn, The long century of Constan-tine, in «l’osservatore romano», edizione inglese, 13 dicembre 2013, p. 12).

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MARCELLA MINORE E I SEPOLCRI DELLA SUA FAMILIA

L’edizione di una iscrizione proveniente da un ignoto sepolcro della Via Nomentana, costruito nell’area di necropoli che sorgeva nel tratto oggi compreso tra la chiesa di S. Agnese e il moderno cavalca-via, ha messo in evidenza l’esistenza di due distinti complessi funerari pertinenti ai liberti e ai servi di Marcella minore (1), figlia di Ottavia, sorella di Augusto: l’uno, appunto, sulla Via Nomentana, l’altro, noto da tempo, nell’area della Vigna Codini sulla Via Appia (2). Questa du-plicazione, che per quanto riguarda il monumento della Via Nomen-tana non può avvalersi di dati archeologici diretti, ha sollevato inter-rogativi circa i rapporti cronologici e funzionali tra i due sepolcri.

La nuova iscrizione, frammentaria, è incisa su un blocco di traver-tino, di cui restano due frammenti parzialmente combacianti (3). No-nostante la mancanza del quarto inferiore sinistro, gli editori hanno potuto ricostruire un testo unitario coerente, accompagnato da una ricostruzione grafica: Libertorum et / libertar (um) et famil(iae) / Mar­

(1) Prosopographia Imperii Romani ² (in seguito PIR ²), II, pp. 265-266, C1103.(2) Sul Secondo colombario Codini e i relativi problemi interpretativi cfr. d. Manacor-

da, Per l’edizione del secondo colombario Codini. Il problema epigrafico nel contesto archeolo­gico, in Atti dell’XI Congresso Internazionale di Epigrafia Greca e Latina, Roma, 18-24 set-tembre 1997, Roma 1999, pp. 249-261.

(3) Il frammento maggiore è conservato presso il deposito comunale in Via della Ferra-tella (reca il n. inv. VF 477). Il frammento minore si trova attualmente infisso nel marciapie-de della Via Nomentana, insieme ad altre iscrizioni antiche, di fronte al numero civico 236 (cfr. U. FUsco, Il territorio tra la via Salaria, l’Aniene e la Via Nomentana, in s. dinUzzi - U. FUsco, Il territorio tra il Tevere, l’Aniene e la via Nomentana, Roma 2010, pp. 101-232, in partic. p. 170, nota 254; per le iscrizioni cfr. G. L. GreGori, Definizione e misurazione dello spazio funerario nell’epigrafia repubblicana e protoimperiale di Roma. Un’indagine campione, in “Terminavit sepulcrum”. I recinti funerari nelle necropoli di Altino, Atti del Convegno, Ve-nezia, 3-4 dicembre 2003, a cura di G. Cresci Marrone e M. Tirelli, Roma 2006, pp. 77-126, in partic. p. 108, n. 1, figg. 4-5).

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MARCELLA MINORE E I SEPOLCRI DELLA SUA FAMILIA 23

c[e]llae Paulli / et Messallae et / Regilli / [qui in ho]c monume(ntum) [contuleru]nt quor[u(m) / nomina in]tro inscr (ipta) / [su]nt (4).

Il nuovo testo è stato opportunamente utilizzato per portare ar-gomenti decisivi circa la vexata quaestio dei matrimoni di Marcel-la minore (5), avvalorando la tesi di Ronald Syme (6), secondo la quale Marcella, nata attorno al 39 a.C. (7) come seconda figlia di C. Clau-dio Marcello (8), console nel 50 a.C., e di Ottavia minore (9), dopo un primo matrimonio, celebrato verso il 25 a.C. (10), avrebbe sposato in secondo nozze M. Valerio Messalla Barbato Appiano (11), console del

(4) U. FUsco - G. L. GreGori, A proposito dei matrimoni di Marcella minore e del monu­mentum dei suoi schiavi e liberti, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 111 (1996), pp. 228-231. Si vedano anche «Année Epigraphique», 1996, 253 e U. FUsco, Marcellae Pau­li libertorum et libertarum et familiae monumentum, in Lexicon Topographicum Urbis Romae. Suburbium, II, a cura di A. La Regina, Roma 2004, pp. 17-18, fig. 10.

(5) Il problema è ben sintetizzato in U. FUsco - G. L. GreGori, A proposito dei matri­moni, cit.

(6) r. syMe, Neglected Children on the Ara Pacis, in «American Journal of Archaeolo-gy», LXXXVIII (1984), pp. 583-589, in partic. p. 588; id., Paullus the Censor, in «Athenae-um», LXV (1987), pp. 7-26, in partic. pp. 16-21; id., Marriage Ages for Roman Senators, in «Historia», XXXVI (1987), pp. 318-332, in partic. pp. 329-330; id., L’aristocrazia augustea, Milano 1993, pp. 225-227.

(7) Se è vero che «le vere difficoltà hanno inizio con Marcella minore, che non viene no-minata da nessun autore antico» (R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 222), la definizione della sua data di nascita è tuttora problematica. Secondo R. Syme (Aristocrazia, cit., p. 218) «è possibi-le che il matrimonio di C. Marcello e Ottavia abbia avuto luogo verso il 54 a.C.» (cfr. Suet., Caes., 27, 1; PIR ², V, pp. 430-433, O66, in partic. p. 430). Ottavia e Marcello per lungo tem-po non avrebbero tuttavia avuto figli, che sarebbero nati in successione solo dopo dieci anni: Marcella maggiore verso il 43 (PIR ², II, pp. 264-265, C1102: «In titulis non omnibus Mar-cellae sorores inter se distinguuntur»; R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 224; ma T. P. WiseMan, Pulcher Claudius, in «Harvard Studies in Classical Philology», LXXIV (1970), pp. 207-221, in partic. p. 216 e M. Th. raePsaeT-charLier, Prosopographie des femmes de l’ordre sénatorial (Ier­IIe siècles), Lovanii 1987, pp. 220-221, n. 242 non ne escludono una nascita più precoce, nel 53 a.C.); Marcello nel 42 (PIR ², II, pp. 213-215, C925) e Marcella minore nel 39, perché sappiamo che Ottavia era incinta quando fu data in moglie a Marco Antonio (Dio., 48.31.3; R. syMe, Aristocrazia, cit., pp. 222-223). La ricostruzione lascia tuttavia alcuni punti oscuri. C. Claudio Marcello sarebbe morto infatti all’inizio del 40 a.C. (Real­Encyclopaedie [in segui-to RE], III, 2, 1899, coll. 2734-2736, s.v. Claudius 217 [Münzer]). Cfr. nota 15.

(8) RE, III, 2, s.v. Claudius 217, cit.(9) PIR ², V, pp. 430-433, O66.(10) Secondo R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 226, l’ignoto primo marito di Marcella potreb-

be essere stato un figlio di L. Marcio Filippo (cos. suf. 38 a.C.) oppure M. Appuleius Sex. f., console nel 20 a.C., il cui padre aveva sposato Ottavia maggiore.

(11) PIR, III, pp. 362-363, V89.

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DANIELE MANACORDA24

12 a.C. morto durante il consolato (12), e in terze nozze il vecchio Pao-lo Emilio Lepido (13), console del 34 a.C., dal 16 a.C. vedovo di Cor-nelia (14).

Quale che sia la data di nascita di Marcella minore (15), dal suo ma-trimonio con Messalla sarebbero nati Claudia Pulchra (16) e M. Valerio Messalla Barbato, morto poco prima di raggiungere il consolato, che avrebbe dovuto rivestire non oltre il 23 d.C. (17). Da quello con Lepi-do sarebbe nato, non prima dell’11 a.C., Paolo Emilio Regillo, morto probabilmente nel 23 (18). L’iscrizione attesterebbe dunque l’esistenza

(12) Prima del 6 marzo (Ovid., Fast., 3.419-420; Res Gestae Divi Augusti, 10; cfr. R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 229), quando Augusto assunse il titolo di pontifex maximus sotto il con-solato già di P. Sulpicio e C. Valgio.

(13) PIR ², I, pp. 62-63, A373.(14) PIR ², II, p. 368, C1475.(15) L’accordo di Brindisi tra Ottaviano e Antonio, che sancì tra l’altro il matrimonio fra

quest’ultimo e Ottavia ormai vedova, fu stipulato tra il settembre e l’ottobre del 40 (si veda il commento di e. Gabba, Appiani bellorum civilium liber quintus, Firenze 1970, ad 5.64, 272-273, 278). Il matrimonio fu celebrato poco dopo a Roma a seguito di un apposito sena­tusconsultum resosi necessario per lo stato di gravidanza di Ottavia (Plut., Ant., 31.3-5, che confonde Ottavia minore con la sorellastra maggiore). Secondo Plutarco (Ant., 33.5), Marco Antonio partì quindi dall’Italia nell’estate del 39 conducendo «in Grecia Ottavia, da cui nel frattempo era nata una bambina», che viene generalmente identificata con Marcella minore, figlia dunque postuma di Marcello (cfr. PIR ², p. 265, C1103). Antonio soggiornò quindi «ad Atene nell’inverno 39-38 con Ottavia e la figlia appena nata» (E. Gabba, Appiani, cit., ad 5.76, 322), che, sulla scorta di Plutarco (Ant., 33.5), viene però identificata non con Marcella mi-nore, ma con Antonia maggiore, che sarebbe dunque nata nello stesso anno 39 (PIR ², I, pp. 171-172, A884). La nascita delle due sorelle a meno di un anno di distanza l’una dall’altra non è tecnicamente impossibile: potremmo infatti collocare la data di nascita di Marcella nel gennaio del 39 (in tal caso C. Claudio Marcello non potrebbe essere morto prima dell’apri-le del 40) e quella di Antonia nel dicembre dello stesso anno; oppure dovremmo spostare al 38 l’anno di nascita di Antonia maggiore. Tutto sommato, sembra forse più plausibile rico-noscere nella figlia biologica di Marcello partorita da Ottavia nel 39 dopo il matrimonio con Antonio non tanto Marcella minore, quanto Antonia maggiore. Antonio l’avrebbe in tal caso accettata, dandole il proprio nome, in forza dell’accordo politico da cui era nato quel matri-monio, con un gesto di cui Ottavia gli sarà sempre riconoscente se, morto Antonio, volle cu-rarsi di tutti i suoi figli superstiti, come apprendiamo ancora una volta da Plutarco (Marc., 87.2; per l’atteggiamento di Ottavia verso i figli di Antonio cfr. anche Plut., Ant., 54.3; 57.4). Se così fosse, Marcella minore non potrebbe essere nata nel 39, e neppure nel 40, anno della quarta gravidanza di Ottavia, ma nel 41, un anno dopo il fratello Marcello.

(16) PIR ², II, pp. 268, C1116.(17) PIR, III, p. 362, V88; cfr. R. syMe, Aristocrazia, cit., pp. 226-227. La figlia di Mes-

salla, Valeria Messalina, nasce attorno al 20 d.C. (PIR, III, pp. 380-381, V161; cfr. M. Th. raePsaeT-charLier, Prosopographie, cit., pp. 606-608, n. 774).

(18) PIR ², I, p. 68, A396; cfr. R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 223.

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MARCELLA MINORE E I SEPOLCRI DELLA SUA FAMILIA 25

sulla Via Nomentana di un sepolcro destinato ai liberti, alle liberte e alla familia servile sia di Marcella che dei suoi due figli di diver-so letto, Valerio Messalla ed Emilio Regillo, e si daterebbe alla piena età augustea, certamente dopo il 12 a.C. (morte di Messalla Barbato Appiano) e anzi dopo l’11 (nascita presunta di Regillo).

Occorre innanzitutto interrogarsi sulla localizzazione del sepol-cro, che potrebbe essere legata a qualche praedium familiare esteso nell’areale della Via Nomentana (19). Per quanto riguarda la gens dei Claudii, è noto il loro antico stanziamento nel quadrante nord-orien-tale del suburbio di Roma nel corso del V secolo a.C., trans Anie­nem (20), più precisamente tra Fidenae e Ficulea (21), forse in relazio-ne con un’antica via Claudia in uscita dalla Porta Viminalis (22). Per quanto riguarda la gens dei Valerii, va segnalata invece la presen-za a breve distanza, sul lato sinistro della via nella zona dove sorge-rà la basilica di S. Agnese, di un notevole sepolcro, che ha re sti tui-to l’iscrizione funeraria (23) di M. Valerius Messalla, cos. suf. 32 a.C., nel quale si riconosce il padre adottivo di Appiano, marito di Mar-cella minore (24).

I più recenti dati archeologici (25) relativi al tratto di Via Nomen-

(19) Ringrazio di cuore Rita Volpe per i preziosi suggerimenti circa la topografia del su-burbio nord-orientale di Roma di cui è stata generosa e Ivan Di Stefano Manzella e Alfredo Buonopane per i loro preziosi consigli.

(20) Liv., 2.16.3-5; Suet., Tib., 1.1; Plut., Publ., 21.4-10.(21) a. aMoroso - P. barbina, L’istituzione delle tribù Claudia e Clustumina nel Latium

vetus. Un esempio di gestione del territorio da parte di Roma nel V secolo a.C., in «Bulletino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», CIV (2003), pp. 19-36; P. barbina, Le terre dei Claudii: ipotesi di collocazione topografica, in P. barbina eT aLii, Il territorio di Fide­nae tra V e II secolo a.C., in Suburbium II. Il suburbio di Roma dalla fine dell’età monarchi­ca alla nascita del sistema delle ville (V­II secolo a.C.), a cura di V. Jolivet et alii, Rome 2009, pp. 325-345, in partic. pp. 335-342.

(22) F. coareLLi, Claudiorum ager, in Lexicon Topographicum Urbis Romae. Suburbium, II, cit., pp. 113-114: l’esistenza di questa via arcaica giustificherebbe la denominazione della più tarda via Appia dal prenome del magistrato piuttosto che dal suo gentilizio.

(23) CIL, VI, 41060.(24) R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 232, nota 38 (secondo PIR ², II, p. 238, C982, Appia-

no fu adottato dal Messalla console del 53 a.C.).(25) I dati sono raccolti e discussi in s. MorreTTa, Via Nomentana/Via Sant’Angela Merici

(Municipio III), Edificio funerario e stele di Iulia Severa, in Roma. Memorie dal sottosuolo. Rin­venimenti archeologici 1980/2006, a cura di M. A. Tomei, Milano 2006, p. 214; U. FUsco - s. MorreTTa, Marcellae Pauli libertorum et libertarum et familiae monumentum, in Lexicon To­

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DANIELE MANACORDA26

tana interessato dalla necropoli cui apparteneva la tomba dei liber-ti e servi di Marcella non apportano sostanziali modifiche al qua-dro già noto. Nella non lontana necropoli Salaria, nell’area compre-sa oggi fra Corso d’Italia, Via Tevere e Via Aniene, abbiamo notizia di altri sepolcri collettivi (26) pertinenti ai servi di Ottavia e della sua famiglia (27), che allargano il quadro complessivo (28). D’altronde, non sarebbe questo il primo caso di una pluralità di sepolcri pertinenti a liberti e servi di famiglie aristocratiche dispersi nelle diverse necro-poli della città (29).

Un ritorno al documento epigrafico (30) permette di aggiungere al dossier qualche nuova osservazione, che non mette in discussione gli aspetti prosopografici del problema, ma rende più complessa la lettura del testo, aprendo la strada a possibili nuovi scenari interpretativi.

Sembra infatti a me che il testo epigrafico presenti due fasi di scrittura (tav. I). Considerata infatti l’ottima impaginazione centrata, sottolineata anche dai primi editori (31), colpisce a l. 3 la posizione del

pographicum Urbis Romae. Suburbium, IV, a cura di A. La Regina, Roma 2006, pp. 17-19; U. FUsco, Nomentana via, ibidem, pp. 96-113, in partic. pp. 109-110, per quanto riguarda il lato destro della via, dall’area di Vigna Ruffini, di fronte a S. Agnese, all’area di Villa Blanc; sull’area in generale cfr. U. FUsco, Il territorio, cit., pp. 101-232, in partic. pp. 188-191.

(26) c. cUPiTò, Il territorio fra la via Salaria, l’Aniene, il Tevere e la via “Salaria vetus”: Mu­nicipio II, Roma 2007, pp. 63-74, p. 145 fig. 67b: terreni della Società dell’Esquilino; UC 10.59: 4 cippi di travertino, uno ad ogni angolo dell’area (CIL, VI, 34792, 34838a, 35083, 35091); UC 10.60: cippo divelto fra la terra (CIL, VI, 33384: liberta di Ottavia); UC 10.61: sepolcro nello stesso luogo della UC 10.59; trovati cippi in travertino (CIL, VI, 33368-33372) e una lastra marmorea (CIL, VI, 33862); cfr. G. GaTTi, in «Notizie degli Scavi», 1887, pp. 283-290; id., in «Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma», XV (1887), p. 163.

(27) Le iscrizioni, pertinenti a servi e liberti di Ottavia e di un C. Ottavio (CIL, VI, 33364-33367a, 33369-33370, 33372-33375, 33378, 33383, 33385-33386), Marcella (CIL, VI, 33391), Marcello (CIL, VI, 33376, 33382), Antonia minore (CIL, VI, 33368, 33370a), Marco Anto-nio (CIL, VI, 33377, 33379, 33381, se non si riferisce ad Antonia, 33387), sono raccolte in CIL, VI, 4, 2, pp. 3439-3440.

(28) Un M. Claudius Pontius Pontianus Marcellus è attestato da una iscrizione rinvenu-ta a Castel Giubileo, forse in rapporto con un insediamento di lunga durata (L. chioFFi, I nomi dei proprietari dall’analisi epigrafica, in Suburbium, cit., pp. 437-484, in partic. p. 475 con bibliografia).

(29) Per il caso dei sepolcri della familia di Mecenate (CIL, VI, 21771 = ILS, 7848) si rinvia allo studio di A. Ferraro, di prossima pubblicazione nella rivista «Archeologia Classica».

(30) Ne ho potuto fare l’autopsia grazie alla cortese disponibilità di Marilda De Nuccio e delle assistenti Angela Favelli e Rosanna Sorella, che sentitamente ringrazio.

(31) U. FUsco - G. L. GreGori, A proposito dei matrimoni, cit., p. 226.

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MARCELLA MINORE E I SEPOLCRI DELLA SUA FAMILIA 27

nome di Paullus, che segue al genitivo (Paulli) quello di Marcella. Il nome sembra infatti aggiunto al testo originario, di cui rompe l’ar-monia dell’impaginato, ben disposto su di un asse centrale, nel quale viene ad inserirsi con qualche difficoltà. Le lettere con cui è scritto il nome Paulli sono assai simili a quelle con cui è scritto Marcellae; ma mentre queste ultime si aggirano tra i 48 e i 50 mm di altezza, quelle di Paulli sono leggermente più piccole (tra i 45 e i 48 mm), per non parlare della I nana finale (40 mm), che indica una eviden-te difficoltà del lapicida a rientrare in un campo epigrafico nel quale il resto dell’iscrizione sembra invece abbastanza accuratamente impa-ginato. Se cancelliamo la parola Paulli il nome Marcellae (distanziato dai bordi della lastra di 135 mm a sinistra e 205 mm a destra) ritro-va infatti la sua originaria centratura.

A l. 4 le due congiunzioni (et) che precedono e seguono il nome di Messalla sono invece ben centrate e così anche il successivo nome di Regillo a l. 5. Ma la presenza di quest’ultimo nome prevede a sua volta la citazione anche di Paolo, dal cui matrimonio con Marcel-la Regillo ebbe a nascere. Appare allora preferibile riconoscere non solo nel Paulli di l. 3, ma anche nel Regilli di l. 5 e quindi nei due et a l. 4 le parti di una più articolata integrazione del testo origina-rio. Se così fosse, questo farebbe pensare che l’iscrizione si limitasse in un primo momento alla citazione dei liberti e della familia della sola Marcella Messallae, secondo una formula di citazione del gamo-nimico e di ellissi del termine uxor ampiamente attestata.

Questa impressione è rafforzata dall’autopsia della pietra. A l. 4, infatti, gli et che precedono e seguono il nome di Messalla misurano tra i 45 e i 50 mm (così come le lettere di Messallae), ma il secondo et non risulta perfettamente complanare con la linea di scrittura del nome che lo precede e la E appare incisa in profondità in una lacuna della superficie del travertino, che in quel punto sembra aver soffer-to un danno, casuale o volontario che sia. In corrispondenza di ET risalta infatti ad occhio nudo l’erasione della superficie del traverti-no, dove infatti non sono più apprezzabili i segni dello spianamento a gradina altrimenti evidenti sul resto della pietra.

Ad una osservazione più ravvicinata, lo spazio compreso fra il nome di Messalla e il margine destro della lastra sembra attraversato da un segno diagonale con andamento dal basso verso l’alto compo-sto da una linea ondulata che termina con una incisione ovaleggian-te. Le fattezze del segno sembrano raffigurare una sorta di serpen-

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DANIELE MANACORDA28

tello, ma non escluderei che possa trattarsi di una semplice linea corrente ondulata, presente forse già nella minuta, tracciata per oc-cupare il campo epigrafico in fine di riga (32) (tav. II). Se così fosse, saremmo in presenza di una notazione epigrafica usata per indicare espressamente la fine del testo, coincidente con il nome di Messal-la. Come è noto, infatti, la prassi epigrafica romana prevede diver-se modalità di chiusura del testo, e in particolare un distanziamento delle lettere dell’ultima riga tale da occuparne l’intero spazio. Ma in alcuni casi sono presenti anche segni non alfabetici, nei quali è incer-to se si debba scorgere l’intenzione di una chiusura del testo o non semplicemente l’uso, a volte ridondante, della interpunzione figura-ta (come nel caso delle hederae distinguentes). In qualche raro caso sembra tuttavia di potersi riconoscere una chiara azione volontaria di sbarramento del testo (33).

La evidente sovrapposizione dell’asta della T di et alla linea on-dulata indica a sua volta, mi pare incontrovertibilmente, che la con-giunzione è stata incisa successivamente alla linea stessa: la E dopo

(32) Potremmo attribuire alla seconda fase solo il secondo ET di l. 4, ma in tal caso la scrittura non sarebbe più centrata. I due ET distano rispettivamente 70 e 94 mm dal lato del-la pietra, ma sono ben equidistanti dal nome di Messalla che inquadrano.

(33) Si vedano, a titolo d’esempio, due iscrizioni sepolcrali da Roma: nel primo caso un segno grafico corsivo chiude il testo ed è ripetuto in forme simili anche al termine di una riga intermedia più breve delle altre con indicazione dei destinatari del sepolcro (CIL, VI, 23608; Supplementa Italica Imagines, Roma (CIL, VI) 1. Musei Capitolini, a cura di G. L. Gregori e M. Mattei, Roma 1999, p. 509, n. 2017; tav. III, fig. 2); nel secondo caso nell’ultima riga il segno finale di interpunzione è seguito da due segni grafici di incerta interpretazione che po-trebbero aver assolto alla stessa funzione (CIL, VI, 8523; Supplementa Italica Imagines, cit., p. 437, n. 1522); si veda inoltre un’iscrizione frammentaria urbana con notazione finale costitui-ta da una barra diagonale dotata di un piccolo circolo alla base (e. d’aMbrosio, in La col­lezione epigrafica dell’Antiquarium comunale del Celio, a cura di G. L. Gregori, Roma 2001, pp. 226-227, n. 157, tav. LXVIII, 1; «Année Epigraphique», 2001, 371), ed anche, in am-biente municipale, un’iscrizione sepolcrale da Narnia il cui testo è chiuso da un tratto dia-gonale associato ad un semicerchio conformato a coroncina (CIL, XI, 4151; d. Manacorda, Epigrafi, in Museo della città in Palazzo Eroli a Narni, a cura di D. Manacorda e F. F. Man-cini, Firenze 2012, p. 221, n. 43). Anche la notazione numerica presente sui tituli delle an-fore betiche Dressel 20 conosce, specie nella resa della cifra 1 in finale di numero, un allun-gamento del tratto verticale che è stato interpretato come mezzo per impedire l’aggiunta di nuovi numeri alla cifra dipinta (e. rodriGUez aLMeida, Novedades de epigrafia anforaria del Monte Testaccio, in Recherches sur les amphores romaines, Rome 1972, pp. 109-211, in par-tic. p. 123; cfr. a. aGUiLera MarTín - P. berni MiLLeT, Las cifras hispánicas, in Calligraphia et Tipographia. Arithmetica et Numerica. Chronologia, Barcelona 1998, pp. 257-282, in partic. pp. 267-268). Tutto l’argomento meriterebbe comunque uno studio specifico che esula dal-le intenzioni di questa nota.

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un tentativo forse maldestro di abbassare il piano, la T direttamen-te sopra il segno precedente. Avremmo in tal caso la prova stratigra-fica della seriorità della seconda congiunzione e, di conseguenza, an-che della prima, e quindi anche del nome di Regillo e quindi anche di quello di Paolo. Anche il nome di Messalla era dunque scritto da solo, e abbastanza ben centrato, nel campo epigrafico, a 175 mm dal lato sinistro e a 210 mm dal lato destro. Alle prime quattro righe del testo perfettamente centrate (Libertorum et / libertar (um) et famil(iae) / Marc[e]llae / Messallae) potrebbe aver fatto seguito sin dalla prima stesura la seconda parte ([qui in ho]c monume(ntum) [contuleru]nt quor[u(m) / nomina in]tro inscr (ipta) / [su]nt), distanziata dalla pri-ma con il salto di una riga (34).

La prima stesura si daterebbe dunque entro il 12 a.C., data della morte di Messalla. La modifica del testo, quella che oggi leggiamo, sarebbe intervenuta solo a seguito della celebrazione delle terze noz-ze di Marcella con Lepido ed alla nascita di Regillo, quindi non pri-ma dell’11 a.C. (35). L’aggiunta del nuovo gamonimico (Paulli) avrebbe però causato un riuso del testo presente alla riga successiva, dove il precedente gamonimico (Messallae) sarebbe stato mantenuto per in-dicare non più il nome del primo marito, bensì quello del figlio mag-giore di Marcella (come infatti sostenuto dagli editori), mentre a l. 5 si inseriva il nome del figlio minore (Regilli).

Se questa interpretazione del testo coglie nel segno (tavv. III, fig. 1; IV), possiamo trarne alcune conferme e qualche nuova suggestione:

si conferma, innanzitutto, la recenziorità del matrimonio di Mar-cella con Paolo Emilio Lepido, come sostenuto da Syme e ribadito dagli editori (36);

(34) La seconda parte potrebbe anche attribuirsi eventualmente alla seconda fase del te-sto, specie se le due redazioni dovessero datarsi a breve distanza di tempo.

(35) Cfr. nota 18.(36) Una Marcella Paulli è attestata anche in CIL, VI, 9000 (Faustus / Marcellae Paulli /

pistor; già nella villa di Montughi a Firenze, ed oggi a Villa Corsini a Castello: cfr. Supplemen­ta Italica Imagines, Roma (CIL, VI) 3. Collezioni fiorentine, a cura di M. G. Granino Cecere, Roma 2008, p. 181, n. 3595; tav. V, fig. 1), proveniente probabilmente dall’areale della Vigna Codini (cfr. d. Manacorda, Archeologia e epigrafia: problemi di metodo a proposito di CIL, VI, 8960, in Archeologia w teorii i w praktyce (Festschrift S. Tabaczynski), a cura di A. Buko e P. Urbanczyk, Warszawa 2000, pp. 277-293); e in CIL, X, 5981: vista a Segni nel XVII se-colo, ma di possibile provenienza urbana). La cronologia relativamente tarda dell’iscrizione CIL, VI, 9000, desumibile in base alla tipologia decorativa del supporto, conferma ulterior-

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DANIELE MANACORDA30

si conferma – ma solo come risultato della parziale risemantizza-zione del testo – la compresenza dei due figli di Marcella nella tito-larità del sepolcro, al tempo entrambi in minore età;

si precisa il lasso cronologico nel quale datare l’iscrizione, entro il 12 a.C. nella sua prima stesura; tra l’11 a.C. (al più presto (37)) e gli anni immediatamente successivi nella sua seconda stesura, dal mo-mento che l’aggiunta del nome di Paolo indica che al momento egli fosse evidentemente ancora in vita (38).

Si conferma in tal modo una sicura cronologia relativa tra i due sepolcri della familia di Marcella, dal momento che il Secondo colom-bario Codini (quali che siano le persistenti difficoltà per accertare la definizione di Monumentum familiae Marcellae ad esso attribuita dal CIL (39)) sembra doversi datare con certezza al 10 d.C., dal momen-to che l’iscrizione che cita la distributio e la inscriptio delle olle pare potersi assegnare al novero delle lapidi pertinenti al monumento (40), mentre resta non dimostrata la pertinenza al sepolcro dell’iscrizione che ne commemora la dedica da parte del decurio C. Claudius Pha-sis, liberto di Marcella minore (41).

Resta il fatto che, mentre l’iscrizione da Via Nomentana cita la sola Marcella minore, le molte lapidi provenienti dal complesso del Secondo colombario Codini citano accanto a lei anche, sia pur mi-noritariamente, Marcella maggiore e le due Antonie (42).

Dopo la morte di Lepido, dunque, Marcella minore, priva ormai da tempo del fratello Marcello e della madre (43), agisce in autonomia

mente che quello con Paullus è l’ultimo dei matrimoni contratti da Marcella, di cui resta igno-ta la data di morte. Nell’iscrizione di Valeria Nama Marcelliana, liberta del figlio di Marcella Messalla (CIL, VI, 4501; tav. V, fig. 2), l’agnomen (h. chanTraine, Freigelassene und Sklaven im Dienst der römischen Kaiser, Wiesbaden 1967, p. 345, n. 363) potrebbe indicare l’avvenu-ta morte di Marcella minore, ma anche solo un passaggio di proprietà.

(37) La modifica dell’iscrizione potrebbe essere stata fatta anche subito, mentre il sepol-cro era addirittura ancora in costruzione.

(38) Cfr. R. syMe, Aristocrazia, cit., p. 225.(39) D. Manacorda, Per l’edizione, cit.(40) Ibidem, p. 253.(41) CIL, VI, 4421 (tav. VI, fig. 1).(42) CIL, VI, 2, pp. 909-910.(43) Ottavia minore muore nell’11 a.C. (Liv., per. 138; Sen., dial., 11.15.3; Dio, 54.35.4,

riferisce che il corpo fu portato in processione dai suoi generi, quindi Iullo Antonio e Paolo

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MARCELLA MINORE E I SEPOLCRI DELLA SUA FAMILIA 31

per ricostituire, almeno nell’ambito dell’edilizia funeraria, un nucleo familiare unitario, forse con la sorella maggiore, se ancora in vita (44), ed anche con le sorellastre, Antonia maggiore, ancora sposa di L. Do-mizio Enobarbo (45), e Antonia minore, anche lei ormai da tempo ve-dova di Druso (46). Marcella agiva ormai libera dalla tutela (47), proba-bilmente non solo in forza della recente attribuzione dello ius trium liberorum (48), ma di un costume che aveva dotato le donne della fa-miglia di Augusto di particolari privilegi. Già la madre Ottavia, dopo che Antonio l’aveva rispedita a Roma nel 35 a.C., era stata dispen-sata dalla tutela e aveva ottenuto, così come Livia, «il diritto di am-ministrare direttamente i propri beni, nonché la sicurezza e la invio-labilità di cui godevano i tribuni» (49); mentre le due Antonie, dopo la morte del padre, avevano avuto la possibilità di goderne parte del patrimonio (50).

Una concomitanza di fattori dovette indurre Marcella a scegliere come nuovo luogo di sepoltura per la sua familia allargata il terre-no prospiciente il lato sinistro della Via Appia, poco prima del pri-mo miglio, ma l’analisi di questo nuovo scenario esula dagli intenti di questo scritto.

danieLe Manacorda

Emilio Lepido, segno che il terzo matrimonio era stato già celebrato). Secondo Suet., Aug., 61, 2, Ottavia sarebbe morta quando Augusto aveva 54 anni, quindi tra il 10 e il 9 a.C. (ma cfr. PIR ², V, p. 432).

(44) Non conosciamo la data di morte di Marcella maggiore. Nel contesto epigrafico del Secondo colombario Codini è nominata esplicitamente solo nell’iscrizione di una sua liber-ta (CIL, VI, 4655; tav. VI, fig. 2), che non è sufficiente per affermare che la più anziana del-le figlie di Ottavia nel 10 d.C. fosse ancora in vita.

(45) PIR ², III, pp. 32-34, D128.(46) Val. Max., 4.3.3; Ios. Fl., Ant., 18. 180; PIR ², I, A885; M. Th. raePsaeT-charLier,

Prosopographie, cit., pp. 90-91, n. 73.(47) c. Fayer, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma 1994, p. 524 e

seguenti.(48) M. zabłocka, Il ‘ius trium liberorum’ nel diritto romano, in «Bullettino dell’Istituto

di Diritto Romano», XCI (1988), pp. 361-390; C. Fayer, cit., II, Roma 2005, p. 581 ss. con bibliografia a p. 582, nota 99.

(49) Dio, 49.38.1.(50) Plut., Ant., 87; Dio, 51.15.7.

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Le origini deL peLLegrinaggioegeria e demetria donne

in cammino

Il quadro storico

L’ultima persecuzione contro i cristiani fu quella ordinata dall’im-peratore diocleziano negli ultimi anni del suo potere tra il 303 e il 305. Fu molto cruenta e condotta con particolare ferocia su qua-si tutto il territorio dell’impero, ma particolarmente nel nord afri-ca, in egitto, in mauritania, in palestina, oltre che in italia e natural-mente in roma (1). Quando diocleziano rinunciò al potere e si ritirò nel suo palazzo di Spalato ne seguì la crisi della tetrarchia – ossia il potere a quattro, due augusti e due cesari dallo stesso diocleziano istituito – ed esplose la contrapposizione particolarmente violenta tra due membri, costantino e massenzio, entrambi proclamati imperato-ri dalle rispettive truppe.

nell’inevitabile conflitto che ne seguì, costantino, nel 312, sconfisse massenzio nella cruenta battaglia detta di ponte milvio, ma che sembra abbia avuto luogo in realtà un po’ più a nord in una località denomi-nata Saxa Rubra. L’anno successivo con l’editto di milano – è difficile dire quanto per vocazione religiosa e quanto per calcolo politico, o for-se per entrambi – costantino concesse libertà di culto ai cristiani (2).

(1) ne restarono fuori la gallia e la Britannia affidate a costanzo cloro. per le persecu-zioni contro i cristiani e i rapporti in genere tra cristiani e impero si veda M. Sordi, I cristia-ni e l’Impero Romano, milano 1987; A. FrASchetti, Tra pagani e cristiani, in Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma antica, a cura di a. giardina, roma-Bari 2000, pp. 307-327. per una visione fondamentalmente laica, ma storicamente attendibile: P. Gentile, Storia del Cri-stianesimo dalle origini a Teodosio, milano 1969.

(2) La letteratura sull’imperatore costantino è ovviamente vastissima. particolarmente di-battuto il tema della sua vocazione cristiana e del suo battesimo. per uno studio generale si

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Le origini deL peLLegrinaggio egeria e demetria donne in cammino 33

L’anno 313 d.c. fu una delle date più importanti nella storia dell’umanità. Si può dire che tutto cambiò: il costume politico, la morale che gradualmente si uniformò a quella cristiana, l’urbanistica e il paesaggio stesso delle città e dei suburbi. Basti pensare a roma, con la costruzione in particolare della basilica Lateranense, ma altre-sì delle altre basiliche, ed i riflessi sull’andamento viario.

ciò che non cambiò fu il senso eroico di vivere la religione, e la vita stessa, da parte dei cristiani. nessuno di loro poteva essere più sottoposto ai tormenti del martirio, ma i fedeli avevano ancora ne-gli occhi parenti, amici, confratelli che li avevano subiti, o lo aveva-no sentito narrare dai padri, e il culto delle sepolture sotterranee era sempre vivissimo. nascono allora altre figure di cristiani ferventi, che intendono consacrare l’intera vita a cristo, che danno luogo a movi-menti quali l’eremitismo, da cui nascerà il monachesimo, e il pelle-grinaggio. Questi movimenti, in certo modo succedanei del martirio, destinati a durare nel tempo, sono alle origini collegati e trovano il comune fondamento nell’ascetismo cristiano.

estensivamente, ma di importante rilevanza, si può considerare pellegrina antesignana Flavia giulia elena (tav. Vii, fig. 1), madre di costantino. Le sue origini, probabilmente furono molto umili, anzi sono da considerare, prescindendo da ogni romanzata fantasia (3), qua-si del tutto oscure. nacque intorno al 248 in Bitinia (4). Fu compagna

consiglia tra gli altri: A. GrAbAr, L’arte paleocristiana (200-395), milano 1967, pp. 160-204; Costantino il grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, a cura di a. donati - g. gentili, milano 2005, con ampia bibliografia; in particolare a proposito della sua conversio-ne: ibidem, M. Sordi, La conversione di Costantino, pp. 36-43; Costantino il Grande tra Me-dioevo ed Età moderna, a cura di g. Bonamente - g. cracco - K. resen, atti del convegno, trento 2004, Bologna 2008; P. deloGu, Costantino, Elena e il mausoleo sulla via Labicana, in Il mausoleo di sant’Elena - Gli scavi, a cura di L. Vendittelli, milano 2011, pp. 12-29; L’Edit-to di Milano e il tempo della tolleranza: Costantino 313, catalogo della mostra a cura di g. Sena chiesa, milano-roma 25 ottobre 2012-15 settembre 2013, milano 2012.

(3) ambrogio la definisce nel suo elogio (De obitu Teodosii, 42) stabularia, ossia addetta alle stalle, per esaltarne la successiva ascesa spirituale. gli storici anti-costantiniani Filostor-gio e Zosimo la promuovono, senza esitazioni, prostituta.

(4) per il personaggio di elena e le notizie delle fonti anteriori al 306 (avvento al trono del figlio), sintetico ma rigoroso lo studio di r. cAlzA, s.v. Elena (Flavia Iulia Helena), in En-ciclopedia dell’Arte Antica, iii, roma 1960, coll. 297b-299a; e. conde Guerri, El elogio de Helena, madre del emperador Constantino, en el “Historiarum compendium” de Jorge Cedre-no, in Memoriam sanctorum venerantes. Miscellanea in onore di Monsignor Victor Saxer, cit-tà del Vaticano 1992, pp. 132-146; P. deloGu, Costantino, cit., pp. 19-23; G. boliS, Elena e la santità, in L’Editto di Milano, cit., pp. 154-159.

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gaBrieLe BartoLoZZi caSti34

dell’imperatore costanzo cloro (5) e dalla loro unione nacque costanti-no. nel 293 cloro si allontanò da lei per sposare Flavia massima teo-dora, figlia di massimiano. elena si convertì al cristianesimo. nel 324 fu nominata da costantino augusta, titolo conferito anche alla moglie Fausta. dopo i cruenti e torbidi eventi familiari avvenuti alla corte del figlio, addolorata e sconvolta, fuggì a rigenerarsi in cristo nella ter-ra Santa. costantino aveva fatto uccidere il figlio crispo, avuto dalla prima moglie minervina, perché accusato di aver insidiato la seconda moglie Fausta. Sembra che l’istigatrice fu la stessa Fausta a sua vol-ta uccisa o fatta uccidere da costantino, secondo lo storico Zosimo (seconda metà V sec.) (6). tutta la vicenda resta oscura.

Si tramanda che elena abbia trovato sul golgota e portato con sé a roma tre chiodi e alcuni legni della croce di cristo (7). dopo il suo ritorno ispirò a costantino la fondazione della chiesa ad Hieru-salem, nota come Santa croce in gerusalemme, destinata ad acco-gliere le reliquie della croce. il santuario fu elevato utilizzando una grande sala entro il palazzo Sessoriano di proprietà della stessa ele-na (8). non fu una cappella palatina, ma aperta a tutti i fedeli e inol-tre si trattava di un luogo di culto a ciclo liturgico completo, prova ne sia l’esistenza del battistero, rivelato dalla scoperta del fonte (tav. Vii, fig. 2) (9). considerando il suo mistico viaggio e la denominazione data alla chiesa si potrebbe dire che l’idea della fondazione di geru-

(5) Le fonti tramandano talvolta uxor e talaltra concubina, generando confusione. Si trat-terebbe comunque di una forma legale di concubinato.

(6) Su questi avvenimenti e sull’ultima parte del soggiorno di costantino a roma si veda: A. FrASchetti, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana, roma-Bari 1999, pp. 76-127, con bibliografia precedente.

(7) Si tratta di una tradizione occidentale, mentre le fonti orientali parlano di ritrovamen-to ma non fanno il nome di elena. cfr. r. cAlzA, s.v. Elena, cit., p. 155.

(8) CIL Vi, i 1135, 1136. L’operazione di adattamento del grande ambiente a chiesa non fu semplice. il Krautheimer ha rilevato interventi successivi non molto posteriori all’epoca costantiniana. r. KrAutheiMer, Corpus Basilicarum Christianarum Romae (saec. IV-IX), vol. i, città del Vaticano 1937, pp. 191-192.

(9) per la prima notizia sulla scoperta del fonte battesimale: M. cecchelli, Scavi nel com-plesso di S. Croce in Gerusalemme, in «Forma Urbis», anno ii, n. 9 (1997), pp. 11-15; sul complesso monumentale: S. ArGentini - M. ricciArdi, S. Croce in Gerusalemme, in Materia-li e tecniche dell’edilizia paleocristiana a Roma, a cura di m. cecchelli, roma 2001, pp. 247-253; M. cecchelli, Santa Croce in Gerusalemme, in Roma dall’antichità al medioevo, vol. ii, Contesti tardoantichi e altomedievali, a cura di L. paroli - L. Vendittelli, milano 2004, pp. 344-348.

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salemme come città santuario risalga ad elena, prima che a suo figlio costantino e la basilica ne costituisca il simbolo romano.

elena ebbe in roma un suo mausoleo, tuttora visibile dalla via casilina in corrispondenza del civico 641 di recente restaurato (tav. Viii, fig. 1) (10), nel grande possedimento, proprietà certa della stes-sa elena augusta (11), denominato inter Duas Lauros, con all’interno un grande sarcofago di porfido rosso, che oggi è conservato presso i musei Vaticani (tav. Viii, fig. 2) (12). il mausoleo è sito nel sopratter-ra della catacomba dei Santi marcellino e pietro, in stretto collega-mento con la basilica agli stessi martiri dedicata (13).

era di necessità premettere al nostro discorso, per la sua miglior comprensione, alcune note sul personaggio femminile di elena, del tutto particolare nella sua grandezza. È tuttavia necessario precisare come la vicenda di cui fu protagonista la madre dell’imperatore co-stantino, pur di eccezionale rilievo storico e spirituale, rimane fuori dal movimento in senso proprio, che nascerà in roma da premesse diverse oltre un cinquantennio più tardi, ma è altresì innegabile che ne fu di fatto precorritore.

(10) Vedi l. Vendittelli, Il mausoleo di Sant’Elena, cit., pp. 19-29.(11) cfr. r. VolPe, Il suburbio, in Roma antica, a cura di a. giardina, roma-Bari 2000,

in particolare p. 209, con bibliografia precedente. (12) La circostanza che il sarcofago sia ornato con immagini a rilievo di battaglie ha fatto

sorgere il sospetto che fosse in origine destinato all’imperatore costantino stesso, ma non esiste documentazione che lo confermi. il delogu ha avanzato l’ipotesi che lo stesso mausoleo fosse stato costruito dall’imperatore per se stesso, in un’epoca (320 d.c.) in cui non aveva compiu-to le conquiste in oriente, né fondato costantinopoli, ove poi si sarebbe trasferito, e infine tu-mulato. cfr. P. deloGu, Costantino, cit., pp. 17-19, con bibliografia precedente. L’ipotesi, non del tutto nuova, non si può escludere a priori sebbene venga a porsi in contrasto con il Liber pontificalis (vd. seguente nota 13). Si tratta comunque di un mausoleo imperiale costruito nella concezione, del tutto costantiniana, dell’unione binata tra il mausoleo e una basilica a deambu-latorio in onore dei martiri, come altre nel suburbio romano. non a caso tali basiliche sono sta-te altresì denominate per la loro morfologia “circiformi”, in quanto il circo è simbolo cosmico di eternità, che per il cristiano diviene promessa escatologica di resurrezione. per quest’ultima complessa problematica si veda: Basiliche circiformi (Sessione tematica), in Ecclesiae Urbis, atti del congresso internazionale di studi sulle chiese di roma, roma, 4-10 settembre 2000, a cura di F. guidobaldi - a. guiglia guidobaldi, città del Vaticano 2002, pp. 1097-1261.

(13) il Liber pontificalis alla biografia di Silvestro scrive: «Eisdem temporibus fecit Augu-stus Constantinus basilicam beatis martyribus Marcellino presbitero et Petro exorcistae in ter-riturio inter duos lauros et mysileum ubi mater ipsius sepulta est Helena Augusta, via Lavica-na miliario III. In quo loco et pro amorem matris suae et veneratione sanctorum posuit dona voti sui […]» (l. ducheSne, Le Liber Pontificalis. Texte introduction et commentaire, vol. i, paris 1866, p. 182).

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Singolarmente dopo elena il pellegrinaggio, questo straordinario movimento che tutt’oggi pur in forme diverse perdura, ebbe in roma per iniziatrici straordinari personaggi, tutti di sesso femminile.

Eremitismo e pellegrinaggio

per seguire un percorso verso il pellegrinaggio rigorosamente cro-nologico e metodologicamente corretto è necessario introdurre l’ar-gomento accennando prima, pur sinteticamente ma compiutamente, all’eremitismo. Si tratta di un passo obbligato.

il movimento eremitico nasce in oriente: egitto, palestina e Siria. il rappresentante più noto e autorevole, pur se forse non il primo, fu antonio, che morì circa nel 356 (14). atanasio, discepolo, ammiratore e biografo di antonio, esule da alessandria ove era vescovo, venne in occidente e si recò dapprima in treviri, poi in aquileia. giunse a roma nel 341 e vi tornò nel 346. La presenza di atanasio nell’Urbe segnò l’avvio dell’ascetismo occidentale. Su richiesta dei fratelli ro-mani atanasio compose la Vita Antonii tra il 356 e il 357, che però scrisse nella sua lingua madre, la greca (15). Le due traduzioni in lati-no di questo fondamentale documento, composte tra il 370 e il 375, dovute ad evagrio pontico e ad un ignoto, rappresentano l’atto di nascita in occidente – roma in particolare – dell’anacoresi (16), con in sequenza il pellegrinaggio, come appresso vedremo. in sostanza avven-ne che il faticoso e pericoloso viaggio del pellegrino venne anch’esso inteso come penitenza e ascesi.

(14) A. cAcciAri, In principio era l’ascesi, in «primi secoli. il mondo delle origini cristia-ne», V (2002), pp. 5-11.

(15) Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J. p. migne, parisiis 1857 ss., vol. XXVi, coll. 835-976.

(16) l. dAttrino, Il primo monachesimo, roma 1984, pp. 34-37; S. Pricoco, Aspetti cultu-rali del primo monachesimo in Occidente, in Società romana e Impero tardoantico, iV, Le mer-ci, gli insediamenti, a cura di a. giardina, roma-Bari 1986, p. 193; id., Le trasformazioni del monachesimo occidentale tra tarda Antichità e alto Medioevo, in Morfologie sociali e culturali in Europa. XLV Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 3-9 aprile 1997, Spoleto 1998, pp. 751-752; P. bernArdini, Dall’Egitto alla Gallia: il monachesi-mo occidentale, in «primi secoli. il mondo delle origini cristiane» V (2002), pp. 22-25; l. K. little, Monasticism and Western Society: from marginality to the establishment and back, in «memoirs of the american academy in rome», XLVii (2002), pp. 83-94. per una visione complessiva del monachesimo antico: Dall’eremo al cenobio. La civiltà monastica in Italia dal-le origini all’età di Dante, a cura di G. pugliese carratelli, milano 1987.

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i seguaci in roma di atanasio praticarono una forma di ascetismo che non è eremitismo in senso tradizionale (17), ma piuttosto esercizio mistico della virtù praticato in seno alla comunità, unito alla preghie-ra e alla povertà delle vesti, costituite da un semplice saio (18). Questi personaggi, provenienti in genere dalle classi di rango elevato, pro-fondevano le loro ricchezze in favore dei poveri. Furono in assoluta maggioranza donne. È doveroso citare qualche nome di nobili matro-ne romane quali paola, melania Seniore, melania iuniore (19). in real-tà il loro numero fu elevato. tra gli uomini merita menzione pamma-chio, che fondò a proprie spese la chiesa dei Santi giovanni e paolo sul celio in roma e uno xenodochio a porto (20), presso ostia, ma che non risulta abbia mai compiuto pellegrinaggi.

avvenne che presso molti aderenti a questa forma di ascesi dome-stica, la grande fede e la forte spiritualità di cui erano pervasi fece-ro ricercare forme più eroiche di testimonianza, che li spinsero verso una unione in cristo là dove fu sepolto ed aveva subito il martirio, ossia il Santo Sepolcro, verso cui si mossero e in qualche caso resta-rono. ancora si trattò nella quasi totalità di donne e questo segnò la nascita del pellegrinaggio, che in questa prima forma ebbe come meta la terra Santa.

paola partì per l’oriente, compì un lungo pellegrinaggio fra ere-mi e monasteri, quindi si stabilì a Betlemme dove istituì un proprio monastero.

melania Seniore rimase vedova a ventidue anni e andò pellegri-na a gerusalemme ove fondò anch’essa un monastero, che non fu di sola preghiera ma anche di studio, e vi soggiornò anche il teologo evagrio pontico, già nominato.

melania iuniore, patrizia romana ricchissima, sposò il nobile pi-

(17) G. bArtolozzi cASti, La catacomba di Pianosa: scavi e indagini, posizione storica e con-testo, in Da Populonia a Massa Marittima: i 1500 anni di una Diocesi, atti del convegno di Stu-dio, massa marittima, 16-17 maggio 2003, a cura di a. Benvenuti, Firenze 2005, pp. 90-92.

(18) anche in Senato, se si trattava di senatori, ed altri luoghi pubblici. (19) G. Penco, Storia del monachesimo in Italia, roma 1961, pp. 16-19; Prosopographie

chrétienne du Bas-Empire, 2, Prosopographie de l’Italie Chrétienne (313-604), a cura di c. pie-tri - L. pietri, roma 1999-2000, ad voces.

(20) G. bArtolozzi cASti, Nuove osservazioni sulle basiliche di San Pietro in Vincoli e dei Santi Giovanni e Paolo. Relazioni strutturali, proposte di cronologia, in Ecclesiae Urbis, cit., pp. 693-695.

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niano e i due si fecero reciproco voto di castità. Vendé tutti i suoi cospicui beni e partì pellegrina alla volta dell’oriente. Fondò un mo-nastero presso ippona, la città di cui era vescovo agostino (430). pro-seguì per gerusalemme e fondò un monastero femminile.

È quindi tra la seconda metà del iV secolo e il V che si forma e consolida in roma, in assoluta prevalenza femminile come abbia-mo detto, il movimento del pellegrinaggio, che avrà per obiettivo la terra Santa. abbiamo visto come taluna di queste pellegrine finirà col rimanere in terra Santa (paola). ci sarà tra queste ultime persi-no un’imperatrice, elia eudossia, moglie di teodosio ii, imperatore d’oriente, che non farà mai ritorno da gerusalemme a costantino-poli. con il marito e la figlia Licinia eudossia fornirà sostegno finan-ziario al papa Sisto iii (432-440) per la costruzione della basilica di San pietro in Vincoli a roma (21).

altre invece tornarono a roma, in qualche caso portando al se-guito delle reliquie (come vedremo più avanti), e segnando l’inizio del pellegrinaggio in senso opposto, oriente – roma. i due obietti-vi e le due direzioni erano quindi il sepolcro di cristo (tav. iX, fig. 1), che nella tav. iX, fig. 2 è rappresentato entro la pianta del mosai-co pavimentale di madaba (22), e quello di pietro (tav. X, fig. 1) (23), il principe dei suoi apostoli.

in realtà in occidente e in particolare in roma la tomba di pietro era il principale, ma non il solo, obiettivo di devozione. non bisogna dimenticare che essa è la città dei martiri e delle catacombe, dove i

(21) G. bArtolozzi cASti, La basilica di San Pietro in Vincoli, roma 2013, con biblio-grafia precedente.

(22) madaba è una città del paese di moab, oggi in giordania. nel pavimento di una chie-sa di madaba fu scoperto questo straordinario mosaico, oggi mutilo. rappresentava in origi-ne in modo abbastanza fedele una zona molto vasta: è sopravvissuta la parte centrale costitui-ta in particolare da gerusalemme. Si distingue al centro il complesso costantiniano, visitato da egeria come vedremo, formato dalla basilica o Martyrium; il triportico (roccia del cal-vario); l’Anastasis costantiniana, con al di sotto i resti della grotta che elena avrebbe identi-ficato come luogo di sepoltura di cristo. M. AVi-YonA, The Madaba Mosaic Map, Jerusalem 1954; The Madaba map centenary, 1897-1998: travelling through the Byzantine Umayyad pe-riod, proceedings of the international conference held in amman 7-9 april 1997, a cura di m. piccirillo - e. alliata, Jerusalem 1999.

(23) L’immagine in figura appartiene al tempo dell’intervento di gregorio magno (590-604), ed è tratta da b. M. APollonj Ghetti et alii, Esplorazioni sotto la confessione di San Pietro in Vaticano eseguite negli anni 1940-1942, città del Vaticano 1951. il disegno è dello stesso apollonj ghetti.

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martiri furono sepolti. grande fu il concorso di pellegrini verso i se-polcri venerati, particolarmente visitata la Memoria Apostolorum, dal medio evo meglio nota come San Sebastiano sulla via appia, ove è tradizione che entrambi gli apostoli pietro e paolo abbiano riposato contemporaneamente per un certo periodo (24).

ci danno testimonianza di questa molteplicità di luoghi di vene-razione i cosiddetti Itinerari del pellegrinaggio. Vasto argomento sul quale non potrò che dare un breve cenno (25). molti colti pellegrini, spesso ecclesiastici, prendevano accuratamente nota dei luoghi e dei sepolcri dei martiri che andavano a visitare. rammenterò qualcuno di questi itinerari tra i più noti, compilati tra il Vii e l’Viii seco-lo: quello di Salisburgo, quello di malmesbury, quello di einsiedeln. essi hanno preso nome dalla località o dal monastero in cui è stato ritrovato il manoscritto che li ha tramandati. Si tratta di vere guide e costituiscono documenti veramente preziosi per l’archeologia e per la ricostruzione storico-topografica della roma tardoantica e altome-dievale. alcuni di questi pellegrini ebbero la cura e la preparazione culturale per copiare perfino le epigrafi che incontravano, e ne fece-ro delle raccolte, denominate sillogi (26), di interesse eccezionale tanto più se si considera che molte di esse non sono più esistenti. termi-nerò questo particolare argomento accennando a un documento sin-golare, anch’esso da considerare itinerario: la cosiddetta Notula oleo-rum, redatto per concessione di gregorio magno (590-604), quindi il più antico che conosciamo. La regina teodolinda inviò a roma l’abate (?) giovanni, che raccolse in apposite ampolle gli oli delle lampade dei martiri romani nelle varie catacombe, accompagnate da un pittacium, ossia un cartiglio con l’indicazione dei nomi dei marti-ri. Le ampolle sono tuttora conservate e visibili nel museo del duo-mo di monza (27).

(24) molte le ipotesi su questa circostanza. La più diffusa che fossero entrambi in attesa della ultimazione delle rispettive basiliche, per la definitiva sepoltura ad corpus.

(25) cospicua, ma dispersiva, la letteratura su questi documenti. Una comoda raccolta ragionata e unitaria, sempre attuale, in r. VAlentini - G. zucchetti, Codice topografico del-la città di Roma, ii, roma 1942.

(26) Una raccolta veramente cospicua di sillogi in G. b. de roSSi, ICUR, voll. i-ii, ro-mae 1857-1888.

(27) tra gli studi più aggiornati su questo personaggio regale: F. bonAluMi, Una regina per l’Europa, cinisello Balsamo 2006.

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rientrando decisamente in tema di pellegrinaggio femminile e del-la sua espansione, tratteremo di due pellegrine particolarmente rap-presentative, che abbiamo avuto cura di scegliere con personalità do-tate di caratteristiche diverse, come diversi furono i contributi che ognuna di loro dette alla spiritualità cristiana, anche in senso opera-tivo, e alla cultura specifica e generale. caratteristica comune e fon-damentale la fede in cristo formatasi fin dalla predicazione di pietro e di paolo e rafforzatasi in modo incrollabile attraverso le persecu-zioni, la predicazione dei successori dei due apostoli, la pratica reli-giosa e la esemplare memoria dei martiri.

Egeria

L’esempio romano – sul quale torneremo con il prossimo per-sonaggio femminile – non poteva certo rimanere circoscritto entro l’Urbe e non avere degna risonanza ed espansione nel resto dell’or-be cristiano antico.

egeria o eteria visse al tempo dell’imperatore teodosio che, come noto, fu prima imperatore d’oriente (379-392) e poi imperatore uni-co (392-395) (28). di lei, personalmente, non sappiamo molto. L’uni-ca ma significativa testimonianza oltre, naturalmente, al suo diario di viaggio di cui parleremo tra breve, ci viene da una lettera (ca. 680) del monaco Valerio, abate di San pietro in montes in gali-zia, per i suoi confratelli (29). essa poteva essere della galizia o più probabilmente dell’aquitania, ossia la gallia meridionale: si è pen-sato questo perché nel suo diario, guardando l’eufrate, lo parago-na al rodano. perfino il suo nome può essere interpretato in vario

(28) per il personaggio di egeria: A. VAccAri, Itinerarium Aegeriae, in «Biblica», XXiV (1943), pp. 388-397; F. cArdini, Egeria la pellegrina, in Medioevo al femminile, a cura di F. bertini, roma-Bari 1989, pp. 3-30. La letteratura sul suggestivo personaggio di egeria è al-quanto vasta, ma è difficile trovare testi di valido approfondimento critico sui contenuti di cristiana dottrina e di liturgia. cosa che abbiamo cercato di realizzare sia nel testo, pur stret-tamente sintetico, che nelle indicazioni bibliografiche.

(29) Patrologiae cursus completus. Series Latina, a cura di J. p. migne, parisiis 1844 ss., vol. LXXXVii, coll. 421-426; l. GArcìA, La lettre de Valerius aux moines du Vierzo sur la bien-hereuse Aetheria, in «analecta Bollandiana», XXiX (1910), pp. 377-385. L’abate, tra l’altro, così si esprime: «[…] la nostra ammirazione è tanto più provocata dalla fermezza perseverante di una fragile donna, come si narra nella meravigliosa storia della beatissima Egeria, che si di-mostrò più coraggiosa di qualunque uomo».

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modo, ma l’accezione più usata e accreditata è appunto quello di egeria.

affinché egeria e il suo prezioso diario venissero a conoscenza dei moderni bisogna giungere alla seconda metà inoltrata dell’ottocen-to. nel 1884 gian Francesco gamurrini scoprì in arezzo un codice membranaceo dell’Xi secolo, proveniente dall’abbazia benedettina di montecassino. il codice conteneva due tomi accorpati. Uno con te-sti di ilario di poitiers, l’altro un diario di viaggio in terra Santa che un’anonima autrice indirizzava alle sue consorelle, mutilo all’inizio e alla fine e con qualche lacuna interna. tuttavia la mancanza di queste parti non è pregiudizievole per la comprensione complessiva. il codi-ce era conservato nella biblioteca della Fraternità di Santa maria di arezzo. oggi si trova nella biblioteca della città. il gamurrini iden-tificò l’autrice del diario in una Silvia, sorella di Flavio rufino pre-fetto del pretorio in costantinopoli dal 393 al 395, e lo pubblicò nel 1988 (30). L’identificazione con Silvia è accolta da paul geyer (31).

con il Férotin nel 1923 è infine riconosciuta la sua identità con la egeria le cui virtù sono indicate ai monaci confratelli dall’abate Valerio (32).

certamente egeria apparteneva a una famiglia molto cospicua e facoltosa; si è perfino ipotizzata una sua parentela con l’imperato-re teodosio, che era spagnolo. non è ben chiaro se fosse membro laico di una comunità religiosa o una virgo sacrata, ossia una suora che aveva preso il velo. godeva comunque di grandi privilegi e mez-zi, se poté effettuare un viaggio tanto lungo e costoso, con un segui-to di persone. gregorio di nissa invitava le donne ad astenersi dal pellegrinaggio a causa dei pericoli che comportava. precauzione che certo non preoccupava egeria, che aveva scorta e guide, come risul-ta chiaramente dal testo. era ricevuta con deferenza da vescovi, aba-ti e monaci.

(30) G. F. GAMurrini, S. Silviae Aquitanae Peregrinatio ad loca sancta. Editio altera novis curis emendata, romae, ex typis Vaticanis 1888.

(31) P. GeYer, Itineraria Hierosolymitana saec. IV-VIII, in Corpus scriptorum ecclesiastico-rum latinorum, Vindobonae 1866 ss., vol. XXXiX, pp. 37-101.

(32) d. Férotin, Le véritable auteur de la “Peregrinatio Silviae”: la vierge espagnole Ae-theria, in Revue des questions historiques, XXXViii (1903), pp. 267-397. L’identificazione è certamente opportuna, ma resta da definire se fosse spagnola (galiziana), come egli afferma, o gallica (aquitana).

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il suo ricordo e tutta la sua notorietà, che non è certo immerita-ta, vivono e si fondano su quella solida e valida testimonianza storica, geografica e liturgica che è il suo diario di viaggio. da esso traspa-re la sua personalità di pellegrina coraggiosa, intraprendente e insa-ziabile di conoscenza.

il latino di egeria non è elegante, certo non appare classico, tut-tavia in alcuni punti rivela tratti di una certa proprietà linguistica, ma nel complesso è piuttosto vicino alla lingua parlata, ossia il sermo co-tidianus, senza che questo significhi scarsa cultura da parte di chi lo usa. Si è invero molto discusso sulla qualità del suo latino senza giun-gere a una vera conclusione (33), ma francamente questo aspetto non appare tra i più rilevanti ed esula dalle finalità del nostro studio. il diario appare dedicato a persone amiche a lei ben note, come si è detto, le sue consorelle. Si deve sottolineare che dimostra un’ottima e meditata conoscenza delle scritture vetero e neo testamentarie.

È con questo straordinario documento che si inizia a tratteggiare in modo attendibile la topografia leggendaria della terra Santa, che raggiungerà la sua maggior conoscenza in età di crociate.

egeria compì e descrisse quattro itinerari. il suo pellegrinaggio durò oltre tre anni, tra il 381 e il 384. La prima destinazione fu il monte Sinai, poi il monte nebo, dove morì mosè. Quindi si recò nel paese di giobbe e successivamente raggiunse gerusalemme. tutta la sua narrazione è pervasa da interesse per i motivi topografici, paesi-stici, geografici ed archeologici, sempre visti nella prospettiva di una fervente spiritualità cristiana. È stato detto che egeria osserva, anzi-tutto e soprattutto, con gli occhi della fede e del cuore (34). a questo proposito colpisce la sua descrizione dell’ascesa al monte Sinai, ove ella “vede” il roveto ardente che brucia e non si consuma (35), dal qua-le dio parlò a mosè e gli conferì il compito liberatorio di far uscire il popolo ebreo dall’egitto. Quindi aggiunge la visione di un giardi-no bellissimo fornito di abbondante acqua, il cui spunto è costituito da un complesso abitato e curato da monaci. il giardino è da lei in-

(33) cfr. F. cArdini, Egeria, cit., pp. 12-15. Una buona traduzione con critica obiettiva da j. WilKinSon, Egeria’s travels. Newly translated with supporting documents and notes, Lon-don 2002 (1a ed. 1971).

(34) F. cArdini, Egeria, cit., p. 24.(35) Esodo 3, in part. 1-7.

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terpretato, anche se non lo dichiara ma è certo implicito, come sim-bolo del paradiso. il tema del giardino paradisiaco è noto alla cultu-ra cristiana iconografica (biblia pauperum) fin dalle catacombe e nei sarcofagi: è quindi ben conosciuto da egeria (36). prosegue in modo ideale con l’affermarsi del monachesimo quando si trasfonde nel chio-stro come hortus conclusus, spazio definito e infinito a un tempo, de-limitato ma cristianamente simbolico di una realtà infinita paradisiaca. nel caso di cui trattiamo sembra di trovarsi cronologicamente sulla soglia della transizione (37).

L’autrice ci tramanda la descrizione di una quantità eccezionale di dati su fiumi, province, regioni, città fortificate, e inoltre monasteri, monumenti, rovine, tombe, santuari dedicati a martiri, basiliche.

La parte centrale del diario, forse la più importante, è dedicata a gerusalemme. egeria ci descrive la liturgia cristiana che vigeva nel-la città. La scansione della settimana, gli offici religiosi delle singole ore. poi prende in considerazione l’anno liturgico, scandito dalle fe-ste religiose che ripercorrono i fatti della vita di cristo, dall’epifania alla presentazione al tempio, dalla Quaresima alla Settimana Santa, dalla pasqua alla pentecoste. Segue la preziosa descrizione delle pro-cessioni che si celebravano ogni giorno.

Se ne conclude che da egeria è stata messa a nostra disposizione una fonte preziosa di dati e notizie per la storia della chiesa, in sen-so generale, geografico e liturgico, senza le quali la nostre conoscen-ze in proposito sarebbero più povere.

Annia Demetria (38) e la sua famiglia

nella planimetria in tav. X, fig. 2 è riportata una grande e lus-suosa villa, tra le maggiori del suburbio romano, sita entro un grande

(36) L’iconografia cristiana conosce anche altre forme di simbolo paradisiaco come il cie-lo stellato e i portali semiaperti di case e di città, che non entrano nel caso in esame.

(37) Sulla metafora paradiso-giardino cfr. F. cArdini - M. MiGlio, Nostalgia del paradiso. Il giardino medievale, roma-Bari 2002, con ampia bibliografia precedente.

(38) a proposito del nome di demetria esistono due tradizioni. Le lettere provenienti dai padri che hanno corrisposto con lei, tutte di provenienza direttamente o indirettamente orientale, usano riportarla per lo più come Demetrias. da Demetrias deriverebbe il genitivo anomalo Demetriadis dal quale a sua volta è derivato il nome tardo di Demetriade, recepito nella toponomastica moderna (via demetriade). per contro il Liber pontificalis romano, alla

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praedium. il fondo, proprietà demaniale fin dal tempo dell’imperato-re commodo (180-192), fu acquisito dalla gens Anicia, appartenente alla più alta aristocrazia romana, dalla seconda metà del iii secolo o agli inizi del iV (39). ci dà indicazioni l’epitaffio, qui ritrovato, di Se-sto anicio paulino console del 325 (40). i resti della villa, trasforma-ta in parco archeologico dotato di monumentali sepolcri classici (41), sono tuttora visibili tra le vie arco di travertino e demetriade. ma ciò che più conta ai nostri fini sono le sopravvivenze di una grande basilica a tre navate, in quanto tale luogo di culto, del quale tratte-remo meglio più avanti, è in diretto rapporto con la pellegrina de-metria, che ne è stata la committente dopo il ritorno dal pellegrinag-gio (42); demetria infatti apparteneva alla famiglia degli anici ed era figlia dei proprietari della villa. ma per ben comprendere il perso-naggio e il clima familiare in cui si era formata, reputiamo importan-te accennare ai suoi ascendenti più prossimi.

claudio petronio probo, nonno di demetria, apparteneva alla gens Petronia e si imparentò con la gens Anicia sposando anicia Falto-nia proba. L’imperatore petronio massimo era suo nipote. peraltro la famiglia anicia vanterà tra i suoi membri l’imperatore Flavio ani-cio olibrio, realizzando in tal modo l’unione tra due famiglie di ran-go imperiale. il cursus honorum di petronio probo è da considera-re tra i maggiori noti. nell’ultima impresa accompagnò a tessalonica Valentiniano ii contro il tiranno massimo. nel 388 tornò in italia al seguito degli eserciti vittoriosi di Valentiniano ii e teodosio, stabi-lendosi definitivamente a roma. ciò che a noi più interessa è che fu cristiano, amico e sostenitore di ambrogio di milano (43). ricevette il

biografia di Leone i (L. ducheSne, Le Liber Pontificalis, cit., p. 238), la denomina latinamen-te Demetria, senza la s finale, come giusto e corretto trattandosi di una nobildonna apparte-nente ad una gens, gli Anicii, prettamente romana.

(39) G. bArtolozzi cASti, s.v. S. Stephani basilica (via Latina), in Lexicon Topographicum Urbis Romae Suburbium, a cura di A. La regina, vol. V, roma 2008, pp. 106-109.

(40) CIL Vi 1680, 1681.(41) r. reA, Parco archeologico della via Latina. Interventi a tutela della basilica di Santo

Stefano, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. rendiconti», LXXXi (2009), pp. 222-228, con bibliografia precedente.

(42) G. bArtolozzi cASti, Basilica di Santo Stefano sulla via Latina. Nuove indagini sul battistero e ipotesi ricostruttive, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. rendiconti», LXXXi (2009) pp. 229-246.

(43) PAulinuS MediolAnenSiS, Vita Ambrosii, 5.

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Le origini deL peLLegrinaggio egeria e demetria donne in cammino 45

battesimo prima del 387, come sappiamo dalle epigrafi che gli furo-no dedicate, cui accenneremo più avanti (44).

Sposò anicia Faltonia proba, fervente cristiana. ebbe da lei tre fi-gli, tutti futuri consoli, tra cui clodio ermogeniano olibrio, padre di demetria. proba condusse una vita ascetica e fu in rapporti epistolari con padri della chiesa, come giovanni crisostomo. ma soprattutto è importante la sua corrispondenza con agostino, che toccò argomen-ti fondamentali d’importanza dottrinale e teologica, quale il rappor-to tra l’anima e il corpo (45). i proventi delle sue proprietà in oriente furono da lei devoluti ai poveri e ai monasteri. morì prima del 432 e i suoi figli le dedicarono una memoria epigrafica (46).

Questi coniugi, petronio probo e anicia Faltonia proba, edifica-rono un’opera di carattere sacro e devozionale di cui non si può non riferire, sia pure in stretta sintesi.

esistevano in immediata contiguità con la basilica di San pietro costantiniana tre mausolei, oggi scomparsi. nella tav. Xi presentiamo la sezione anteriore (ovest) dell’edificio basilicale costantiniano, tratta dalla pianta di tiberio alfarano. il mausoleo distinto in pianta dalla lettera “e”, unico preesistente alla basilica e appartenente al secondo decennio del iii secolo, fu detto di Sant’andrea, poi dedicato a Santa maria della Febbre, e infine divenne la sacrestia della basilica con gre-gorio Xiii (1752-1785). intorno all’anno 400 l’imperatore onorio fece costruire la rotonda simbolo della dinastia teodosiana (lettera “d”); in essa fece seppellire la prima moglie maria di cui restò vedovo, e la se-conda termanzia che gli premorì anch’essa. La rotonda assunse poi la dedica a santa petronilla da parte del papa Stefano ii (752-757).

il terzo mausoleo (lettera “k”) fu appartenente alla gens Anicia e altresì alla gens Petronia, in quanto fu fatto costruire, con grande sen-so di devozione e pietà cristiana dai coniugi petronio probo e Falto-nia proba, genitori di demetria come abbiamo visto, che vi furono sepolti. La posizione è in un luogo altamente privilegiato perché qua-si a contatto con la tomba di pietro (47). in realtà il termine mausoleo

(44) CIL Vi 1751, 1752, 1753.(45) AuGuStinuS, Epistulae, 130, 131.(46) CIL Vi, 1754, 1755, 1756.(47) il costume dei fedeli cristiani di cercare il luogo per la propria sepoltura accanto al

martire deriva dalle catacombe. Vediamo infatti nei pressi della sepoltura dei martiri un ad-

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gaBrieLe BartoLoZZi caSti46

non è appropriato in questo caso, e forse è entrato nell’uso per attra-zione da parte degli altri due. nell’accezione normale si intende con mausoleo un edificio, nella grandissima maggioranza dei casi a pian-ta centrale, che si informa al concetto di tomba monumentale, spes-so con caratteristiche dinastiche. in questo caso ci troviamo invece di fronte a una basilica, di piccole dimensioni ma di forma canonica post-costantiniana a tre navate, ove sull’aspetto funerario celebrativo prevale quello devozionale e liturgico. ne conosciamo la forma at-traverso la pianta dell’alfarano, che abbiamo visto, e la ricostruzione in elevato di domenico Fontana (48). entrambe eseguite dopo la sua demolizione, ma che abbiamo motivo di ritenere alquanto fedeli per-ché tracciate sulla base di disegni precedenti (49). L’edificio devoziona-le aniciano fu demolito al tempo di papa niccolò V (1447-1455), per la necessità di porre in sicurezza la statica nella parte anteriore della basilica Vaticana, molto compromessa da secoli di incuria (50). prezio-sa la descrizione della demolizione della basilichetta lasciata da maf-feo Vegio, che ne fu testimone oculare (51). il Vegio trascrisse le epigra-fi per i due coniugi, il cui testo oggi conosciamo per suo merito (52). inoltre ci rende nota una novità sorprendente: dalle rovine emerge un sarcofago ornato di immagini sacre, con all’interno i resti morta-

densamento di loculi cui è stato dato il nome di retro sanctos. di questo uso devozionale pro-bo e proba erano evidentemente memori e cultori. come abbiamo illustrato, senza l’elevato livello della gens di appartenenza non avrebbero mai potuto ottenere un tal privilegio in quel luogo particolare. Sulla materia dei retro sanctos in generale: V. Fiocchi nicolAi, Strutture fu-nerarie ed edifici di culto paleocristiano dal IV al VI secolo, città del Vaticano 2001.

(48) c. FontAnA, Il tempio Vaticano, 1694, a cura di g. curcio, milano 2003.(49) cfr. G. bArtolozzi cASti, La basililica Vaticana tra Medioevo e Rinascimento. La di-

struzione del mausoleo degli Anici, in «atti della pontificia accademia romana di archeolo-gia. rendiconti», LXXXiii (2010-2011), p. 442.

(50) L’assoluta necessità e urgenza dell’intervento fu segnalata a niccolò V da Leon Bat-tista alberti, che a quel tempo risiedeva presso la corte pontificia in qualità di abbreviato-re apostolico o segretario ai brevi. G. bArtolozzi cASti, Gli Anici e il mausoleo di famiglia presso la basilica Vaticana, in «palladio. rivista di Storia dell’architettura e restauro», XLV (2010), pp. 15-30; id., La basilica Vaticana tra Medioevo e Rinascimento. La distruzione del mausoleo degli Anici, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. rendicon-ti», LXXXiii (2011), pp. 429-455.

(51) De rebus antiquis memorabilibus basilicae S. Petri Romae, in Acta Sanctorum, Iunii, vol. Vii, append. 56; inoltre in r. VAlentini - G. zucchetti, Codice topografico della città di Roma, iV, roma 1953, pp. 375-398.

(52) CIL Vi 1751, 1752, 1753.

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Le origini deL peLLegrinaggio egeria e demetria donne in cammino 47

li di petronio probo e Faltonia proba (53). in tav. Xii, fig. 1, la scena centrale del lato frontale: cristo tra pietro e paolo. in tav. Xii, fig. 2 la scena centrale della parte postica, certo la più significativa, rap-presentando una dextrarum iunctio (unione matrimoniale) tra coniu-gi cristiani: manca infatti al centro la Iuno Pronuba, sempre presente nelle rappresentazioni pagane.

olibrio, loro figlio, sposò anicia giuliana. di olibrio sappiamo che da prefetto e console sostenne papa damaso (366-384) contro l’antipapa Ursino, e conosciamo la sua pubblica devozione in cri-sto testimoniata da prudenzio (54). Quanto a giuliana, cristiana fer-vente, dette il suo sostegno morale e finanziario a giovanni criso-stomo (55).

i loro figli furono tutti cristiani, tra essi demetria. abbiamo illu-strato il clima spirituale in cui crebbe. non conosciamo di lei le date di nascita e di morte, ma sappiamo da girolamo che era bambina (parvula) al tempo di papa anastasio (399-401) (56), dal Liber pontifi-calis che viveva al tempo di Leone magno (440-461): visse quindi si-curamente oltre i 40 anni. nella sua giovinezza si formò quindi con l’esempio di sua nonna, Faltonia proba, e di sua madre anicia giu-liana. certamente la vista della basilichetta costruita dai suoi nonni, nella devozione del principe degli apostoli, e dove devotamente si soffermò spesso a pregare, rimase nel suo animo e non restò senza sviluppi, come vedremo. come molte altre matrone, di cui abbiamo detto sopra, scelse la vita ascetica.

nondimeno sua madre e sua nonna non avrebbero desiderato per lei una vita di totale consacrazione. ma demetria si ritenne votata a cristo e disprezzava il lusso del suo rango, praticava il digiuno e in-dossava vesti improntate a povertà.

restò orfana di padre poco avanti il 410. in occasione della gran-de invasione gotica di alarico, che molto danneggiò la città di roma, con sua madre, sua nonna e un gruppo di altre pie donne denomi-nate da girolamo virgines Dei, si recò sul litorale arlesiano ove tut-

(53) per il sarcofago: g. bArtolozzi cASti, La basilica Vaticana, cit., pp. 446-450.(54) PrudentiuS, Contra Symmachum, i, versi 554-557. (55) joAnneS crYSoS., Ep., 169.(56) La maggior parte delle notizie su di lei ci provengono dalla lettera 130 di gerola-

mo. hieronYMuS, Ep. 130, in Corpus scriptorum, cit., LVi, pp. 187-197. altre fonti saranno citate di volta in volta.

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gaBrieLe BartoLoZZi caSti48

te s’imbarcarono per l’africa, e si fermò nel grande centro cristiano di cartagine.

in africa, nella loro casa le pie donne ascoltarono l’insegnamento di agostino (57). demetria rifiutò il progetto di matrimonio che pro-ba e giuliana avevano pensato per lei, approntando una dote degna del suo rango, e rispose loro di disprezzare i beni del secolo. dor-miva su di un cilicio e indossava una ruvida tunica. Si gettò ai pie-di di sua madre e sua nonna affermando di voler seguire l’esempio della martire agnese. Queste accolsero i suoi desideri e i beni della dote vennero devoluti in doni ed elemosine per i poveri. Sempre in africa prese il velo, come abbiamo testimonianza da agostino stes-so, che la appella virgo Christi (58). può quindi, a giusta ragione, esse-re considerata la prima agostiniana. È alquanto probabile che ricevet-te dallo stesso vescovo di ippona qualche reliquia del protomartire Stefano, la cui tomba era stata ritrovata presso gerusalemme in que-gli anni (415) dal prete Luciano (59). Questa opinabile circostanza sa-rebbe molto importante.

Fece ritorno a roma, non conosciamo bene quando, ma durante il pontificato di Leone i (440-461), probabilmente agli inizi. in merito alla situazione esistente a quel tempo nell’Urbe e nel suburbio è ne-cessaria una breve premessa. entro le mura, oltre le grandi basiliche patriarcali, esisteva un buon numero di nuclei parrocchiali detti tituli e retti da presbiteri, circa 25, ai quali i fedeli facevano riferimento sia dal punto di vista del sostegno spirituale e del culto, ma anche sotto il profilo assistenziale (60). La zona suburbana, interessata da insedia-menti in prevalenza contadini, si presentava in modo assai diverso. il

(57) AuGuStinuS et AlYPiuS, Ep. 188, 1, in Corpus scriptorum, cit., vol. LVii, pp. 119-120.(58) AuGuStinuS, De gratia Christi et de peccatu originali, in Corpus scriptorum, cit., vol.

XLVi, p. 196. (59) gli eventi furono narrati dallo stesso Luciano in lingua greca e tradotti in latino da

avito di Braga. Epistula Luciani, in Patrologiae series latina, cit., vol. XLi, coll. 805-818. (60) Sulla diffusione dei luoghi di culto nell’Urbe la letteratura è molto vasta. Si con-

siglia: l. reeKMAnS, L’implantation monumental chrétienne dans le paysage urbain de 300 à 850, in Actes du XI e Congrès International d’Archéologie Chrétienne, vol. ii, città del Vati-cano 1989, pp. 961-915; ch. Pietri, Région écclesiastiques et paroisses romaines, ibidem, pp. 1035-1067; G. bArtolozzi cASti, Battisteri presbiteriali in Roma. Un nuovo intervento di Si-sto III?, in «Studi romani», XLVii, 3-4 (1999), pp. 270-288; l. PAni erMini, Lo “spazio cri-stiano” nella Roma del primo millennio, in Christiana loca, catalogo della mostra, a cura di L. pani ermini, roma 2000.

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Le origini deL peLLegrinaggio egeria e demetria donne in cammino 49

numero dei centri parrocchiali rurali, detti ecclesiae baptismales, era molto esiguo ed era sentita la necessità di interventi (61). ed ecco che demetria, oltre la santità di una vita fatta di pellegrinaggi, rinunce, preghiera e sacrifici, rivela volontà e capacità operativa di provvedere cristianamente in modo concreto alle necessità dei confratelli, avendo-ne le possibilità. Secondo un progetto che probabilmente aveva preso le mosse in oriente, fondò una basilica all’interno della sua villa sul-la via Latina, come abbiamo visto all’inizio del capitolo e come atte-sta il Liber pontificalis alla biografia di Leone i (62), cui fu assegnata la dedica al protomartire Stefano. certamente era sempre presente alla sua mente il modello costituito dalla basilica di più ridotte dimensio-ni costruita dai suoi nonni, probo e proba, presso la grande basili-ca costantiniana. papa Leone vide certamente l’iniziativa con favore, considerata la carenza nel suburbio di chiese battesimali.

Le ultime notizie da considerare del tutto certe sull’esistenza del-la chiesa risalgono a Leone iii (795-815), che restaurò i tetti (63), e a Leone iV (847-855), che donò arredi liturgici (64). nel corso dei seco-li successivi, non sappiamo quando, la chiesa crollò, rimase interra-ta, e si perse la nozione del sito preciso. i suoi resti furono scoperti per caso nel 1857 da un ricercatore antiquario, Lorenzo Fortuna-ti (65). ne prese cura, per volere di pio iX, il Segretario della ponti-ficia commissione di archeologia Sacra, padre gesuita Felice profili,

(61) per la zona suburbana S. ePiScoPo, L’ecclesia baptismalis nel suburbio di Roma, in Atti del VI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, pesaro-ancona, 19-23 settembre 1983, Firenze 1986, pp. 297-308. per una visione topografica più ampia: c. ViolAnte, Le struttu-re organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale (sec. V-X), in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne dell’alto Medioevo: espan-sione e resistenze, atti della XXViii Settimana di studio, Spoleto, 10-16 aprile 1980, Spoleto 1982, pp. 963-988; Alle origini della parrocchia rurale (IV-VII sec). Atti della Giornata tema-tica dei Seminari di Archeologia Cristiana, a cura di p. pergola, roma, 19 marzo 1998, cit-tà del Vaticano 1999.

(62) «Huius temporibus fecit Demetria ancilla Dei basilicam sancto Stephano via Latina, miliario III in praedio suo»: in L. ducheSne, Le Liber Pontificalis, cit., vol. i, p. 238. Questa è la prima notizia in assoluto fornita nella biografia di Leone, dovremmo allora arguire che il papato era appena iniziato.

(63) L. ducheSne, Le Liber Pontificalis, cit. vol. ii, p. 29.(64) L. ducheSne, Le Liber Pontificalis, cit. vol. ii, p. 116. (65) l. FortunAti, Relazione generale degli scavi e scoperte lungo la via Latina, roma 1858.

Furono trovati tra l’altro i frammenti, poi ricomposti e conservati, di un’epigrafe che confer-ma l’asserto del Liber Pontificalis: ICUR nova series Vi 15842.

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g. BartoLoZZi caSti : Le origini deL peLLegrinaggio egeria e demetria50

che la studiò (66) e sottopose a un discutibile restauro (tav. Xiii, fig. 1) imitativo e sostitutivo della muratura originale (67). nel suo studio notò un’apertura foderata di marmo sulla fronte dell’altare, che giu-dicò una fenestella confessionis. in realtà un’apertura passante di se-zione rettangolare è tuttora visibile nel punto indicato (tav. Xiii, fig. 2). La situazione di degrado e i restauri imitativi rendono difficile l’in-terpretazione. La circostanza comunque non può non essere ricolle-gata, in via di un’ipotesi abbastanza fondata, alla possibilità della pre-senza di reliquie del protomartire Stefano (cfr. supra).

L’impianto icnografico della chiesa è quello a tre navi senza tran-setto, usuale nella maggior parte delle basiliche paleocristiane dalla fine del iV secolo in poi: pianta in tav. XiV, fig. 1 (68). Le dimensio-ni, di 29 × 19, sono abbastanza ragguardevoli. La navata centrale era delimitata da colonne poggianti su stilobati in opera cementizia e ter-minava con l’abside. era dotata di recinzione liturgica. nel proget-to si ebbe cura di anteporre un ampio portico, utile, come noto, per la prima accoglienza dei fedeli e dei pellegrini. al di fuori del peri-metro, sulla destra dell’abside, i resti di un vano quadrangolare con al centro una vasca ottagonale interpretabile come fonte battesimale. Questa interpretazione aveva però sempre lasciato il dubbio che po-tesse trattarsi di una precedente fontana della villa. il recente scavo, con l’ausilio dei disegni d’epoca, ha determinato con certezza l’esi-stenza di un battistero, con fonte di forma pressoché canonica con l’esterno ottagonale, eretto in fase con l’edificio ecclesiastico. Buona parte del complesso battesimale è stato ricostruito, sulla base dei resti archeologici reperiti, nell’assonometria in tav. XiV, fig. 2. ciò classi-fica la basilica nel suo complesso come luogo di culto a ciclo liturgi-co completo e tale voluto da demetria come centro cristiano di pre-ghiera e diffusione della fede, a vantaggio della popolazione, perlopiù di estrazione agricola, insediata nel territorio viciniore e nell’interno stesso del grande praedium familiare.

GAbriele bArtolozzi cASti

(66) F. ProFili, Relazione ed osservazioni artistiche ed archeologiche su lo stato attuale del-la basilica di S. Stefano protomartire situata al III miglio della via Latina, in «il giornale di roma» (Supplemento), cXXXiX (22 giugno 1858).

(67) Vedi g. bArtolozzi cASti, Basilica di Santo Stefano, cit., p. 232.(68) Si è data preferenza alla pianta del Brandenburg, essenziale e ben comprensibile. h.

brAndenburG, Le prime chiese di Roma (IV-VII secolo), milano 2004, tav. XLi-1.

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La cosiddetta domus Caeliorum in piazza deLLa piLotta

testimonianze d’archivio inedite sui ritrovamenti

(*)

Il contesto topografIco: domus e insulae nel settore merIdIonale della regio vii

il settore della regio vII compreso tra piazza della pilotta e via c. Battisti è tra i meno noti per quanto concerne la ricostruzione del tessuto urbanistico antico, sia di età classica sia di età tardoanti-ca. tale carenza documentaria è da ascrivere da un lato alla manca-ta realizzazione di alcuni importanti progetti urbanistici postunitari (come, per esempio, la realizzazione della cosiddetta via massima (1)), dall’altro al considerevole sviluppo edilizio promosso da importan-ti famiglie nobiliari. tra il cinquecento e il settecento nel quartiere si assistette, infatti, all’edificazione di numerosi palazzi, quali il pa-lazzo colonna, odescalchi, ciogni-Filippani, muti-savorelli-Balestra, salviati-mellini.

Frequenti ritrovamenti nella zona intorno a piazza della pilotta

(*) all’interno del seguente contributo i paragrafi il contesto topografico: domus e in-sulae nel settore meridionale della regio vii e la cd. domus caeliorum e la documentazione d’archivio sui ritrovamenti del 1856 sono a cura di riccardo montalbano; la statua di dog-matio a cura di alessandra avagliano.

(1) il progetto, presentato da Giovan carlo Laudi ma mai approvato, prevedeva l’esecu-zione di un’imponente via di connessione tra s. pietro e le mura aureliane, seguendo il per-corso da piazza navona, via della scrofa, piazza del pantheon, piazza capranica e la chiesa di sant’ignazio. da qui, attraversato il corso, la strada – in questo punto larga 28 m e por-ticata sui lati – avrebbe dovuto raggiungere piazza della pilotta, proseguendo, poi, per via panisperna fino a s. maria maggiore, raggiungendo le mura nel tratto fra porta maggiore e porta s. Lorenzo.

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riccardo montaLBano - aLessandra avaGLiano52

sono documentati, già a partire dalla fine del cinquecento (2), da reso-conti di scavo e da altri documenti d’archivio, connessi, questi ultimi, soprattutto a una frenetica attività edilizia; essi permettono di intuire la configurazione antica dell’area, costellata di strutture archeologiche la cui cronologia è compresa tra l’età augustea e quella tardoantica.

nonostante l’ausilio fornito dalle numerose fonti letterarie, ogni tentativo di conciliare tali notizie con la topografia reale o d’identifi-care i resti messi in luce appare notevolmente complicato dalla fram-mentarietà della documentazione disponibile.

prima di analizzare il dossier relativo alla scoperta delle basi iscritte e della statua onoraria di C. Caelius saturninus, punto focale del pre-sente contributo, si tenterà di presentare una panoramica delle prin-cipali scoperte avvenute nell’area in questione, relative a strutture di carattere abitativo (domus e insulae) (3).

come ricordato, le prime notizie di ritrovamenti archeologici «nel-la piazza dietro ai ss. apostoli» risalgono a F. vacca, che nelle me-morie (4) ricorda la scoperta di «molti marmi salini di molta grandez-za, tutte opere di quadro, ma consumati, gettati dalli nostri antichi moderni per l’impedimento che avevano delle gran ruine»; in un al-tro passo (5) l’autore descrive il ritrovamento di un colonnato nell’area di fronte la proprietà colonna (6), a via degli archi della pilotta: «mi ricordo che appresso al Frontespizio di nerone fu trovato un gran colonnato di marmi salini, il maggior dè membri ch’io abbia ancora visto: colonne grosse nove palmi, meravigliose, delle quali ne furono fatti vari lavori, tra quali la facciata della cappella del card. cesi a s. maria maggiore […]». si trattava, verosimilmente, di strutture perti-

(2) r. lanciani, storia degli scavi di roma e notizie intorno le collezioni romane di anti-chità, iii, roma 1990, pp. 216-217.

(3) non è possibile, in questa sede, affrontare analiticamente alcuni aspetti topografi-ci più problematici. per questo motivo non saranno incluse nella seguente trattazione né le notizie riguardanti importanti monumenti pubblici (porticus Constantini, statio cohors i vigi-lum), né quelle relative ai reperti mobili e alle iscrizioni. per la ricostruzione della viabilità antica della regio Vii cfr. r. montalbano, la viabilità della regio Vii via lata, in «Bollettino di archeologia» (in corso di stampa).

(4) F. vacca, memorie di varie antichità trovate in diversi luoghi della città di roma, roma 1594, p. 37.

(5) ivi, p. 32.(6) sulla storia di palazzo colonna e delle sue collezioni cfr. Palazzo Colonna. apparta-

menti. sculture antiche e dall’antico, a cura di m. G. picozzi, roma 2010, pp. 11-57.

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La cosiddetta domus Caeliorum in piazza deLLa piLotta 53

nenti alla porticus Costantini, citata nei cataloghi regionari e impor-tanti resti della quale furono individuati tra il 1879 e 1889, in occasio-ne degli scavi delle fondazioni del palazzo crostarosa in via Quattro novembre (7) (tav. Xv, num. 1).

tra la fine del cinquecento e per tutto il seicento intorno alla piazza si registrarono numerose scoperte, dovute in particolare alla costruzione e ai successivi ampliamenti del complesso conventuale dei ss. apostoli. Le carenti notizie relative al primo cantiere (1568-1583) sono compensate dalle preziose informazioni sui lavori svolti dal 1622, in occasione dell’allestimento – attorno all’area attualmente occupata dal terzo chiostro – di una serie di locali accessori (refetto-rio, biblioteca); il ricordo di tali attività si deve a padre Bonaventura malvasia, che in una sua monografia del 1665 (8) ricorda i lavori svol-ti quarant’anni prima, quando «[…] nel claustro superiore de’ ss. apostoli vicino alla pilotta nel 1625 […] fabbricando si le tre ali del medesimo claustro, nel fare li fondamenti si trovarono molte came-re adornate di mosaico e in particolare sotto la cantina di sopra, vi è un bellissimo lastricato antico che il tutto mostra essere stata fab-brica imperiale».

successive attività di scavo programmatiche condotte nell’area nel 1990 (9) hanno confermato la presenza di un imponente complesso edilizio costituito da un numero imprecisabile di ambienti (tav. Xv, num. 2) – al momento dello scavo solo dieci erano accessibili –, la cui

(7) g. Fiorelli, Notizie degli scavi. Gennaio, in «notizie degli scavi di antichità», 1879, pp. 14; 39; r. lanciani, regione i (latium et Campania), in «notizie degli scavi di antichi-tà», 1889, pp. 31-43 (33); g. gatti, Trovamenti riguardanti la topografia e la epigrafia urba-na, in «Bullettino della commissione archeologica comunale di roma», Xvii (1889), pp. 84-92 (84); c. Hülsen, Jahresbericht ueber neue Funde und Forschungen zur Topographie der stadt rom 1887-1889, in «mitteilungen des deutschen archäologischen instituts. römische abteilung», iv (1889), pp. 227-291 (275); r. lanciani, Codice Vaticano latino 13036, ff. 121-122.

(8) P. b. malvasia, Compendio Historico della ven. Basilica di ss. dodeci apostoli di roma, roma 1665, p. 20.

(9) i risultati degli scavi, condotti da s. Ferdinandi e m. s. Leonardi, sono pubblica-ti in: s. Ferdinandi, Quirinale. Piazza della Pilotta. ambienti sotto il chiostro dei Gesuiti, in «Bollettino di archeologia», i-ii (1990), pp. 185-189; id., ambienti romani presso Piazza del-la Pilotta, in «archeologia Laziale», X, 2 (1990), pp. 88-94; s. Ferdinandi - m. s. leonar-di, Contributo alla topografia classica ed altomedievale della Vii regio augustea dell’urbe, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. rendiconti», LXii (1989-1990), pp. 25-53.

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quota di calpestio giace a circa m 2-3 dal livello attuale della piazza (quota attuale: m 24,50-25,50 s.l.m.). Le murature, ancora ben con-servate al momento dello scavo, sono caratterizzate da cortine late-rizie con mattoni rossi o rosso-arancio disposti in maniera molto re-golare; una serie di bolli databili tra il 128-129 d.c.(10), rinvenuti in vari punti del complesso, forniscono come terminus post quem per la costruzione dell’edificio l’età adrianea (11). allo stesso complesso potrebbero appartenere anche le cinque basi di colonna (12) (tav. Xv, num. 3) documentate all’interno della basilica – poste ad un livello inferiore rispetto al piano di fondazioni della basilica pelagiana –, la cui quota è compatibile con quella dell’insula (13). Benché la natura e la funzione di questi ambienti, in mancanza di una planimetria com-pleta, non sia facile da definire, si può verosimilmente supporre che si trattasse del pianterreno di un’insula (14).

ulteriori ritrovamenti furono effettuati, a poche decine di metri, nel 1642, quando «in occasione della fabrica nuova che fa il sig. ca-vagliere Giovanni Battista muti», si rinvennero una serie di ambien-ti romani (tav. Xv, num. 4). L. olstenio, testimone diretto dello sca-vo, descrive ambienti molto sfarzosi «ornati con colonne, pedestalli e statue, parte incrostati intorno con marmo, parte intonicate con la calce, con sedili o muricciuoli da sedere, coperti pur con tavoloz-ze di marmo segato» (15). successivamente, durante i lavori di restau-

(10) e. m. steinby, lateres signati ostienses, roma 1978, p. 311, nn. 1052-1053; Cil Xv, 1434; 1435.

(11) La struttura continuò ad essere utilizzata durante il medioevo, come dimostrano le aggiunte di alcune strutture murarie successive che modificarono solo parzialmente l’impian-to planimetrico originario.

(12) su tre delle basi in situ che vennero in luce durante i lavori di sistemazione della cripta effettuati nel 1873 cfr. g. a. bonelli, memorie della Basilica costantiniana dei ss. Xii apostoli di roma, roma 1879; per le altre due, rinvenute nel 1983, cfr. i. mazzucco, scoper-te le vestigia della basilica «Giulia» della Vii regione?, in «alma roma», XXiii (1982), nn. 1-2, pp. 38-45.

(13) s. Ferdinandi - m. s. leonardi, Contributo alla topografia, cit. a nota 9, p. 51, propon-gono, per l’identità delle quote, di assegnarle all’impianto dell’insula piuttosto che alla basilica iulia; contra H. geertman, Forze centrifughe e centripete nella roma cristiana: il laterano, la ba-silica iulia e la basilica Liberiana, in hic fecit basilicam. studi sul Liber pontificalis e gli edifici ecclesiastici di roma da silvestro a silverio, a cura di s. de Blaauw, Leuven 2004, pp. 17-44.

(14) s. ePiscoPo, il titulus marcelli sulla via lata. Nuovi studi e ricerche archeologiche (1990-2000), roma 2003, p. 56.

(15) il passo di L. olstenio si cita da g. b. de rossi, le stazioni delle sette coorti dei vigi-

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ro effettuati nel settembre del 1844, «in quel lato che è a destra del-la via che conduce all’oratorio di san marcello» vennero in luce altri ambienti antichi «con archi e volte» e numerosi frammenti marmo-rei (16). oggi, nonostante recenti rilievi rimasti inediti abbiano docu-mentato ulteriori strutture in opera laterizia nei sotterranei del pa-lazzo (17), non è possibile restituire la planimetria dell’edificio, poiché sia i resoconti seicenteschi sia quelli ottocenteschi (18) sono sprovvisti di un’adeguata documentazione grafica. nonostante questa grave la-cuna, è tuttora considerato valido, anche per via di una cospicua se-rie di iscrizioni, il posizionamento in quest’area della statio i cohortis vigilum (19), come già del resto ben documentato nelle tavv. Xvi-Xvi della Forma urbis romae del Lanciani.

in un’area limitrofa, nel 1912, durante lo scavo di nuovi sotter-ranei del palazzo mellini aldobrandini tra le vie di s. marcello e dell’umiltà, venne in luce a m 4,50 di profondità un altro comples-so edilizio orientato in senso nord-est/sud-ovest (tav. Xv, num. 5). si trattava di cinque ambienti, ciascuno largo circa m 4 e con muri in opera laterizia, cui in una fase non determinabile furono aggiun-te altre strutture, forse in coincidenza di un cambiamento d’uso del complesso. È inoltre da segnalare che «un’ampia sala a muri laterizi di buona epoca imperiale» (20) fu successivamente, nel 1914, rinvenu-ta tra il battistero e la chiesa di s. marcello. tuttavia, i dati generi-ci forniti dai relativi rapporti di scavo (21) e l’assenza di una planime-

li nella città di roma, in «annali dell’instituto di corrispondenza archeologica», 30 (1858), pp. 265-297 (269).

(16) e. sarti, Note astigrafiche postume, in «archivio della società romana di storia pa-tria», iX (1886), pp. 433-508 (438).

(17) informazione desunta dalla conferenza scavi preventivi per la metro C in Piazza ma-donna di loreto. l’athenaeum di adriano, tenuta dal dott. r. egidi all’institutum romanum Finlandiae il 16 febbraio 2011.

(18) e. sarti, Note astigrafiche postume, cit. a nota 16, p. 438.(19) il dossier epigrafico relativo al corpo dei vigili è costituito dalle seguenti iscrizioni:

Cil vi, 223; 1056; 1092; 1126; 1144; 1157; 1180 = 1181.(20) La struttura fu rinvenuta nel 1914: cfr. g. mancini, roma. Nuove scoperte nella cit-

tà e nel suburbio, in «notizie degli scavi di antichità», 1914, pp. 168-172 (169), ed è questo il motivo per il quale non compare nella pianta di G. mancini, redatta nel 1912: id., roma. Nuove scoperte nella città e nel suburbio, in «notizie degli scavi di antichità», 1912, pp. 337-343 (338).

(21) i rilievi pubblicati sono parziali e non rispecchiano la totalità degli elementi descrit-

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tria generale aggiornata inducono ad una certa cautela nel collegare allo stesso impianto le strutture di palazzo muti (tav. Xv, num. 4) e quelle di palazzo mellini (tav. Xv, num. 5), che potrebbero invece appartenere a un altro edificio pubblico, il catabulum, cioè la sede dei carrettieri preposti al cursus publicus, luogo inserito nella lista dei cataloghi regionari e di cui è noto, peraltro, lo stretto legame con il martirio di papa marcello (22).

a un’importante dimora aristocratica potrebbe invece appartene-re l’interessante serie di ambienti (tav. Xv, num. 6), di cui purtroppo non ci è pervenuta la documentazione grafica, rinvenuta tra luglio e dicembre 1858 in occasione dei lavori di sistemazione delle fondazioni del palazzo potenziani, in via dei Lucchesi (23). nell’area delle scuderie fu possibile identificare un pavimento musivo con tessere in marmo bianco e porfido, delimitato da un muro in opera laterizia con archi di scarico. i bolli laterizi degli archi di scarico, anche in questo caso, indicano il ii d.c. come terminus post quem per la costruzione delle strutture (24). nelle vicinanze furono inoltre individuate tracce di un si-stema di riscaldamento: «erano fra i cementi pezzi di carbone, tegole uncinate, e nella parete i soliti tubi che servivano alla stanza per span-dere il calore» (25). non lontano, in un’altra area delle scuderie si scoprì un pavimento in signino sovrapposto a un ambiente che, per la pre-senza di anfore, contenitori per liquidi e di un’olla, si considerò riser-vato allo stoccaggio domestico. sul lato delle scuderie verso il vicolo del monticello si documentò un ambiente, ritenuto un oecus, con pa-

ti nelle relazioni; le datazioni sono molto generiche: antiche fabbriche o primi secoli dell’im-pero e le quotature risultano approssimative.

(22) F. coarelli, s.v. Catabulum, in lexicon Topographicum urbis romae (in seguito lTur), i, a cura di e. m. steinby, i, roma 1993, p. 256.

(23) a. Pellegrini, scavi di roma, in «Bullettino dell’instituto di corrispondenza archeo-logica», 1859, pp. 18-22; r. lanciani, storia degli scavi di roma e notizie intorno le collezio-ni romane di antichità, vi, roma 2000, p. 375; id., manoscritto lanciani, b. 116, f. 153 (con-servato presso la Biblioteca di archeologia e storia dell’arte in roma).

(24) il noto bollo era già riportato in r. Fabretti, inscriptionvm antiqvarvm quae in ae-dibvs paternis asservantvr explicatio et additamentvm vna cvm aliquot emendationibus grute-rianis & indice rerum, & verborum memorabilium, romae 1702, p. 514, n. 198. a. Pellegri-ni, scavi di roma, cit. a nota 23, p. 19, nota 1, ricorda il contestuale ritrovamento di resti di «costruzioni del iii e del iv secolo» che potrebbero indicare, anche in questo caso, un ria-dattamento della struttura in età tardoantica.

(25) a. Pellegrini, scavi di roma, cit. a nota 23, p. 19.

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vimento in opus sectile geometrico in giallo antico, pavonazzetto e ci-pollino rosso, di ottima tessitura (26). a giudicare dalle lastre di africa-no, di palombino, di breccia verde e di altri marmi colorati rinvenute al momento dello scavo, si può supporre che anche le pareti dell’am-biente fossero decorate in opus sectile. sul lato delle scuderie verso il cortile del palazzo si rinvenne un altro pavimento, formato da lastre di varie dimensioni, pertinente forse a un atrio (27) con un chiusino circo-lare al centro. a destra dell’atrio si disponevano alcune stanze: la pri-ma conservava ancora la volta con gli intonaci parzialmente crollati, mentre le pareti erano decorate con pilastrini dorici di stucco soste-nenti una cornice; una seconda stanza attigua e comunicante presen-tava la volta «minacciante rovina»; sulle pareti, in buono stato di con-servazione, era ancora leggibile il partito decorativo, caratterizzato da pilastrini corinzi che sostenevano una cornice e un fregio. due porte, decorate con mensole e cornici, davano accesso ad altri ambienti in-terrati, nei quali furono recuperati altri frammenti marmorei.

sul lato opposto della strada – come si desume da una relazione redatta il 28 settembre 1863 dall’architetto Busiri – in occasione di uno sterro effettuato «nel giardino annesso al fabbricato di propa-ganda Fide [n.d.a.: ossia il monastero già delle salesiane, oggi colle-gio nord-americano] verso la pilotta, nel lato orientale che costeggia il vicolo del monticello», furono messi in luce alcuni piedritti consunti dal fuoco ma su cui erano ancora visibili le imposte delle volte (tav. Xv, num. 7). Le strutture furono riferite dall’autore al’«l’antico cam-po di agrippa», con un riferimento verosimile alla porticus Vipsania, che all’epoca veniva collocata in quella zona (28) (tav. Xv, num. 7).

poco più a nord, il 7 ottobre 1921, in occasione di lavori neces-sari per abbassare il livello delle cantine del teatro Quirino, alla pro-fondità di m 2,50 rispetto al piano stradale, si intercettarono strutture laterizie (tav. Xv, num. 8), i cui muri avevano uno spessore oscillante tra m 0,80 e m 0,60. per quanto riguarda la datazione del comples-

(26) ivi, p. 20: «esse erano così ben commesse che facevano ricordare il precetto di vitru-vio, che non rimanessero denti […] ma che restassero le commessure a perfezione spianate».

(27) ivi, p. 20, nota 1, esclude potesse trattarsi del pavimento della porticus Constantini.(28) r. lanciani, Codice Vaticano latino 13036, f. 96v, conservato presso la Biblioteca

apostolica vaticana; id., l’itinerario di einsiedeln e l’ordine di Benedetto canonico, in «mo-numenti antichi pubblicati per cura della r. accademia dei Lincei», i (1890-1891), pp. 437-552 (470, nota 1).

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so, il terminus post quem, indicato dal bollo in situ Cil Xv, 1100 ri-cordato in una seconda relazione del 12 novembre dello stesso anno, è da porre in età domizianea (29).

in questo isolato compreso tra le vie dell’umiltà e m. minghetti, comunque, sono frequenti le attestazioni di strutture a carattere abi-tativo. Bisogna ricordare, ancora, quelle rinvenute in occasione de-gli sterri eseguiti nell’agosto del 1922 per la posa dei cavi telegrafici, in via delle vergini; da un dettagliato resoconto di scavo conservato presso l’archivio della soprintendenza archeologica di roma (tav. Xv, num. 9) (30) e un disegno di r. Lanciani (che già conosceva le struttu-

(29) Le notizie relative a questi scavi sono contenuti presso l’archivio storico della so-printendenza archeologica di roma (in seguito assar) di palazzo altemps, Giornali, 1921, f. 3753 (7-X-1921): «da uno di detto muri dello spessore di m 0,80 si distaccano in senso trasversale al medesimo, due altri piccoli muri a distanza uno dall’altro di m 10,18, i quali probabilmente dovevano formare le pareti laterali di un grande ambiente. distante m 2,70 dal primo, e in senso parallelo, si trova un altro muro dello spessore di m 0,75, sul quale, a tratti, si scorgono le traccie [sic] di tre archi, ora scomparsi, i quali archi erano costruiti con mattoni bipedali m 0,59 1/2. i muri di maggior spessore hanno tutti la direzione parallela alla via delle vergini (vedi rilievi del sig. Gatti)», f. 3711 (rilievo Gatti); f. 3786 (12-Xi-1921; con bollo in situ: «uno dei mattoni facenti parte delle dette costruzioni reca impresso un bollo di forma circolare con la seguente scritta: cn. domiti. amoeni valeat qui fecit ed una ghirlan-da con nastri svolazzanti nel centro»).

(30) r. lanciani, Codice Vaticano latino 13036, cit. a nota 28, f. 112r; assar, Giornali, 1922, f. 3892: «proseguendosi gli sterri di un cavo lungo la via dell’umiltà, per la posa dei tubi di canalizzazione per il servizio telefonico sono stati rinvenuti all’imbocco di detta via, venendo da quella della dataria, ed alla profondità di circa m 3 dal piano stradale, avanzi di antica costruzione. essi consistevano di un blocco di travertino a posto, nella parte di posa grezzo, ed in quella superiore squadrato e lavorato a martellina mis. m 1,20 × 1,10, altezza m 0,75. di altro blocco a posto, grezzamente lavorato, misura m 1,90 × 1,15 altezza m 0,90. i su detti due blocchi posavano sopra di una platea a sacco, ed erano uniti da un muro lun-go m 5,10, costruito parte a sacco e parte in cotto. il muro era orientato da nord-est a sud-ovest, nella parte che attaccava al blocco misurava m 1,10 di lunghezze e nella parte opposta m 0,60. alla distanza di m 0,95 dal blocco di travertino lato so vi era un blocco di pepe-rino di m 1,15 × 0,79 alto m 0,60, il quale posava sopra terra di scarico»; assar, Giornali, 1922, f. 3894: «tangente la strada suddetta, lato nord, si è rinvenuto alla profondità di m 1 dal piano stradale un muro scoperto per tutta la lunghezza del cavo stesso, e cioè per m 1,80, formato da due filari di parallelepipedi di travertino situati l’uno sopra l’altro nel senso della loro lunghezza. i blocchi misuravano m 1,80 × m 0,60 × 0,60. alla distanza di circa m 55 dal detto muro lato nord si è rinvenuto alla profondità di m 1,90 dal piano stradale un muro a cortina largo ad est m 0,80 e ad ovest m 0,60. il muro attraversava il cavo in linea diagona-le»; rt (registro dei trovamenti), iX, p. 67 (25.viii.1922): «negli sterri che si eseguiscono in via delle vergini, per la posa che dei tubi che racchiudono i fili telegrafici, sono stati sco-perti pochi avanzi di muri laterizi, di cui non fu possibile misurarne lo spessore. essi si tro-vano al piano dello sterro, cioè a m 3 sotto il moderno piano stradale»; c. Pietrangeli, Pa-lazzo sciarra, città di castello 1987, pp. 25, 28.

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re? (31)) si ricava che i muri erano in blocchi di travertino e in opera laterizia, di cui «alcuni neroniani» (32). si tratta dunque di strutture, probabilmente a carattere abitativo, databili al i secolo d.c.

scarse sono invece le notizie relative agli scavi compiuti nel mag-gio del 1954 nell’area di un edificio posto all’angolo tra via dell’umil-tà e delle vergini, scavi che portarono alla scoperta di alcuni am-bienti, uno dei quali con resti di decorazione pittorica e stucchi, pertinenti a un edificio di età imperiale (tav. Xv, num. 10) (33). infi-ne, di alcuni ambienti rinvenuti sotto largo di Brazzà (tav. Xv, num. 11) è stato possibile reperire unicamente la documentazione grafi-ca, conservata presso l’archivio della soprintendenza archeologica di roma (34).

all’occasionalità dei vecchi dati, in anni recenti sono venuti ad aggiungersi i risultati preliminari delle indagini stratigrafiche degli scavi per la costruzione della linea c della metropolitana di roma. Le recenti attività hanno permesso di individuare, nell’area compre-sa tra l’angolo sud-occidentale di piazza dei ss. apostoli e il tratto terminale di via cesare Battisti, strutture murarie e piani pavimen-tali in marmo di età antica (tav. Xv, num. 12, abc); le evidenze, che sembrano risalire al iv-v secolo, sono probabilmente pertinenti ad un complesso unitario, forse una delle ricche domus attestate nel-l’area (35).

pur nella difficoltà evidente di ricomporre sincronicamente i nuo-vi dati con le vecchie acquisizioni in un quadro d’insieme definito, sembra emergere ancor più chiaramente rispetto al passato la con-sistenza insediativa della regio vII, che del resto già traspariva dai dati statistici sulle abitazioni e sulle infrastrutture contenuti nei ca-

(31) Le strutture, infatti, compaiono già nella tav. Xvi della Forma urbis romae.(32) L’indicazione «resti di muri in mattoni di cui alcuni neroniani» compare nella legen-

da del Codice Vat. lat., 13036, f. 112r.(33) La scheda del ritrovamento, curata da B. m. Felletti maj, è pubblicata in «Fasti ar-

cheologici», 1954, p. 341, n. 4824.(34) assar, disegni, 286-288; 355-357; 2530-2531; 2795-2796; 3058.(35) per i dettagli sui ritrovamenti nell’area cfr. r. egidi, l’area di Piazza Venezia. Nuo-

vi dati topografici, in archeologia e infrastrutture. il tracciato fondamentale della linea C della metropolitana di roma: prime indagini archeologiche, a cura di r. egidi - F. Filippi - s. marto-ne, volume speciale del «Bollettino d’arte», roma 2010, pp. 93-124.

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taloghi regionari. il quartiere, in cui già dall’età giulio-claudia sono documentati complessi abitativi coerentemente allineati con il trac-ciato dell’aqua Virgo (tav. Xv, numm. 5, 8, 9, 10, 11), dall’età adria-nea sembra essere interessato da un’edilizia di tipo intensivo, testi-moniata dagli isolati rinvenuti in via del corso (36) (tav. Xvi, num. 13). alle soglie del iv secolo, il quartiere assunse una nuova fisio-nomia con la conversione di preesistenti insulae in lussuose abita-zioni unifamiliari di struttura innovativa, il cui carattere semipubbli-co comportò la necessità di disporre di ambienti di rappresentanza, come la grandi sale absidate funzionali alla celebrazione dei mem-bri della nuova aristocrazia. il fenomeno, ben documentato anche ad ostia (37), è attestato dalla fase costantiniana delle domus di pa-lazzo valentini (tav. Xv, num. 14), che appunto in questa fase fu-rono raggruppate in un’unica residenza e dotate di apparati di lus-so (38), nonché dagli edifici rinvenuti sotto l’ex cinema trevi (tav. Xvi, num. 15); anche in quest’ultimo complesso, indagato in anni recenti, è stato ben evidenziato il riadattamento, avvenuto nel corso del iv d.c., di un’insula (cosiddetto edificio nord) in una ricca domus aristo-cratica (39).

infine, un altro contesto che testimonia le frequenti trasformazio-ni degli isolati in ricche dimore aristocratiche è costituito dalla cosid-detta domus degli artemi (tav. Xvi, num. 16), rinvenuta tra il 1914 e

(36) i risultati degli scavi, pubblicati a più riprese nel Bullettino della commissione ar-cheologica comunale di roma e nelle notizie degli scavi di antichità, sono organicamente riorganizzati in g. gatti, Caratteristiche edilizie di un quartiere di roma del ii secolo d.C., in saggi di storia dell’architettura in onore di Vincenzo Fasolo, roma 1961, pp. 49-66.

(37) per le attestazioni del fenomeno a roma cfr. F. guidobaldi, le abitazioni private e l’urbanistica, in storia di roma dall’antichità a oggi. roma antica, a cura di a. Giardina, Bari 2000, pp. 133-161; id., le domus tardoantiche di roma come sensori delle trasformazioni cul-turali e sociali, in The transformations of urbs roma in late antiquity, a cura di W. v. harris, portsmouth 1999, pp. 53-68.

(38) P. baldassari, indagini archeologiche a Palazzo Valentini: domus di età imperiale ai margini del Foro Traiano, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. ren-diconti», lXXXi (2008-2009), pp. 343-384 (356).

(39) per quanto riguarda la cronologia dell’edificio si dispone unicamente di un termi-nus post quem in età neroniana, ricavato dalla presenza di un non meglio identificato bollo rinvenuto nelle strutture. a questa fase seguirono due importanti interventi in età adrianea e severiana. L’unica pubblicazione disponibile è costituita da a. insalaco, la città dell’ac-qua. ar cheo lo gia sotterranea a Fontana di Trevi, roma 2002 (per il bollo si veda in partic. p. 20).

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La cosiddetta domus Caeliorum in piazza deLLa piLotta 61

il 1916 (40). Le strutture «in laterizio di epoca posteriore» (41) furono at-tribuite dagli scavatori «alla fine del quarto o al principio del quinto secolo d.c.» (42), ma tutto l’edificio era stato rialzato «sopra costruzio-ni preesistenti» (43), queste ultime testimoniate anche dalla presenza di un mosaico in tessere bianche e nere con motivo a esagoni alternati a quadrati più piccoli, ben documentato nei tappeti musivi ostiensi di i e ii d.c.(44). L’interesse del monumento deriva dal ritrovamento, all’in-terno di uno degli ambienti (cosiddetto vano L), probabilmente un pic-colo ninfeo, di una fistula plumbea in situ con l’iscrizione: (dvorvm) Flaviorvum artemiorvm de rg. vii (45); potrebbe trattarsi del prefetto ur-bano artemio, che nel 359 d.c. successe a Giunio Basso in quella ca-rica. nonostante un recente tentativo di negare la proprietà della do-mus agli artemi (46), ritengo invece verosimile, anche in considerazione dei numerosi e limitrofi stringenti paralleli (47), che si tratti di un riadat-tamento, curato da un membro dell’élite prefettizia, di una precedente insula, trasformata in elegante dimora grazie all’inserimento di elementi tipici della tradizione architettonica del iv secolo d.c., come il protiro d’ingresso con coppia di colonne, l’accesso al tablino con triplice arca-ta e, soprattutto, l’inserimento di una fontana/ninfeo interna (48).

(40) s. ePiscoPo, il titulus marcelli sulla via lata, cit. a nota 14, p. 55; r. menegHini, la do-mus degli artemii, in «Bullettino della commissione archeologica comunale di roma», c (1999), pp. 229-234; contra F. cavallero, la via Lata e i suoi quartieri abitativi di età adrianea, in la gal-leria di Piazza Colonna, a cura di a. Lo monaco - v. nicolucci, torino 2011, pp. 177-186.

(41) l. cantarelli, Notizie di recenti trovamenti di antichità in roma e nel suburbio, in «Bullettino della commissione archeologica comunale di roma», XLiii (1915), pp. 218-234 (219).

(42) ibidem.(43) Gli orientamenti delle strutture non lasciano alcun dubbio rispetto alla fase origina-

ria del complesso: doveva trattarsi di uno dei sei grandi isolati rinvenuti in occasione dei la-vori per la costruzione di Galleria colonna e la sistemazione urbanistica di largo chigi.

(44) r. menegHini, la domus degli artemii, cit. a nota 40, p. 231.(45) l’année épigraphique, 1917-1918, n. 113.(46) F. cavallero, la via Lata, cit. a nota 40, p. 185, esclude, con labili argomentazio-

ni, che la proprietà appartenesse agli artemi poiché ritiene anomalo che «una ricca e poten-te famiglia senatoriale […] potesse abitare la piccola residenza appena descritta». tuttavia, come ricordato, la domus presenta tutte le caratteristiche tipiche dell’architettura residenzia-le di età tardoantica.

(47) solo per rimanere nella stessa regione urbana, basti citare il caso della domus di palazzo valentini.

(48) i confronti più immediati sono con le domus ostiensi, soprattutto quelle di amore e

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riccardo montaLBano - aLessandra avaGLiano62

ad altre importanti dimore di iv secolo d.c. appartengono, come già visto, i resti documentati sotto palazzo potenziani (tav. Xv, num. 6) (49), nonché quelli di palazzo ciogni Filippani (tav. Xv, num. 17), dove il rinvenimento in situ di Cil vi, 1704 (50), in associazione ad una statua di togato, ha permesso di attribuire la proprietà – come si vedrà nel paragrafo seguente – a Caelius saturninus, importante pre-fetto del pretorio d’età costantiniana.

la cosiddetta domus caelIorum e la documentazione d’arcHivio sui ritrovamenti del 1856

in assenza di notizie relative alle strutture e alle decorazioni del-la cosiddetta domus Caeliorum, la sua localizzazione è stata fondata sul ritrovamento delle basi iscritte e della statua di C. Caelius satur-ninus (51). al di sotto del palazzo ciogni-Filippani (oggi dipendenza del l’università Gregoriana) esistono tuttora due ambienti di epoca romana, comunicanti tra loro e affacciati a est sul probabile percor-so stradale, considerati botteghe e messi in connessione ora con l’in-sula sotto al chiostro dei ss. apostoli (52), ora con le strutture rinve-nute sotto palazzo potenziani (53).

alcuni documenti inediti conservati presso l’archivio di stato di roma – ministero del commercio, Belle arti, industria, agricoltura e lavori pubblici, sez. 5, tit. 1, art. 5°, “escavazioni”, buste (in se-guito b.) 402-403 – contengono lo scambio di lettere intercorso tra

psiche e del ninfeo, per il quale si rimanda al tuttora valido contributo di g. becatti, Case ostiensi del tardo impero, in «Bollettino d’arte», XXXiii, ii (1948), pp. 102-128.

(49) a. Pellegrini, scavi di roma, cit. a nota 23, pp. 18-22; F. guidobaldi, s.v. saturni-ni domus, in lTur, ii, roma 1995, p. 174.

(50) a questa va associata anche Cil vi, 1705.(51) sulla domus di Caelius saturninus cfr.: g. b. de rossi, iscrizioni onorarie latine, in

«Bullettino dell’instituto di corrispondenza archeologica», Xii (1852), pp. 177-184 (273); tH. mommsen, de C. Caelii saturnini titulo, in «nuove memorie dell’instituto di corrispondenza archeologica», ii (1865), pp. 298-332; s. b. Platner - tH. asHby, a topographical dictionary of ancient rome, London 1929, p. 174; g. lugli, i monumenti antichi di roma e suburbio, iii, roma 1940, p. 272; l. ricHardson jr., a new topographical dictionary of ancient rome, Baltimore-London 1992, p. 122.

(52) s. Ferdinandi, ambienti romani presso piazza della Pilotta, in «archeologia Lazia-le», X, 2 (1990), pp. 88-94 (93).

(53) F. guidobaldi, s.v. saturnini domus, cit. a nota 49.

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La cosiddetta domus Caeliorum in piazza deLLa piLotta 63

il sign. Benedetto Filippani e la commissione delle Belle arti e an-tichità in seguito al ritrovamento della statua.

La b. 402, foglio (in seguito f.) 1 (tav. Xvii, fig. 1), recante la data del 29 luglio 1856, contiene la prima comunicazione inviata in occasione del ritrovamento dal sign. comm.re Benedetto Filippani alla s. e. r. monsignor milesi, ministro delle Belle arti:mi faccio un dovere di significare alla eccellenza r.ma che nel farsi un cavo per nuovi fondamenti nel casamento da me acquistato sulla piazza della pilotta atti-guo alla mia attuale abitazione ho rinvenuto una statua togata di marmo colla te-sta sovrapposta dell’altezza di circa di circa [sic] dieci palmi. non manco per ogni effetto di ragione di darne pronta partecipazione alla eccellenza r.ma mentre con distinto ossequio ho l’onore di prostrami.

nella b. 402, f. 2 (tav. Xvii, fig. 2) è possibile leggere il rapporto redatto da un funzionario della commissione in data 2 agosto 1856, dal quale si evince che la statua era in situ sulla propria base (54):mi sono recato alla casa del sign. comm.re Filippani dove col medesimo ho osser-vato la statua ritrovata in situ sulla base al suo posto. È una statua togata ed ha la testa innestata. La statua ossia il suo panneggiamento mi sembra migliore della testa, che essendo innestata si vede cambiata dalla prima. vi sono nuove antiche e avanzi di ornati di marmi fini. La statua sarà cavata fuori dal sign. comm.re Filip-pani tra tre o quattro giorni e vi si tornerà per osservarla meglio.

Lo scambio epistolare (b. 402, ff. 3-4) prosegue con una relazio-ne della commissione del 19 agosto, redatta dopo il sopralluogo ef-fettuato presso la proprietà Filippani (tav. Xviii, figg. 1-2). nella lettera sono contenute le prime valutazioni critiche sulla statua avan-zate dai membri della commissione. viene anticipata, inoltre, la vo-lontà di acquisire la statua al fine di esporla presso i musei vatica-ni. si legge infatti:La sezione della commissione delle Belle arti e antichità si è condotta ad osser-vare la statua rinvenuta dal sign. comm.re Filippani nel cortile della sua casa del-

(54) per questo motivo mi sembra da escludere la provenienza dalla porticus Constantini, proposta da più autori, tra i quali da ultimo s. orlandi, dedica onoraria e carriera di Caius Caelius saturninus, in le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. materiali e contributi scientifici per una mostra epigrafica, a cura di i. di stefano manzella, città del vaticano 1997, pp. 267-269 (267). si precisa che l’uso del grassetto all’interno delle citazioni dei documenti d’archivio – qui come in seguito – è stato adottato da chi scrive per sottolineare passi di particolare inte-resse, utili nella valutazione critica delle informazioni che i documenti stessi offrono.

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la pilotta. sono intervenuti il sotto segretario Generale del ministero del com-mercio, Belle arti, industria e agricoltura e il sig. comm.re visconti commissario delle antichità romane.

La statua è togata di marmo bianco finissimo e di bel lavoro; la testa però è di altro marmo e di scalpello inferiore. si vede manifestamente essere stata infis-sa sul collo della statua che ha l’incastro appunto per cambiarsi il capo. sulla base della statua è scritto dogmatius che sembra il nome dell’ultimo personaggio, che ha rappresentata e di cui ne serbava il capo. La scultura di questo è, secondo me, de’ tempi di Costantino o in quel torno, e la statua, appo cui è un fascio di pa-piri, può riputarsi di oratore o di console. il nome di dogmatio non mi pare co-gnito cosiché [sic] o questa statua fornisce un personaggio nuovo o se avviene di rintracciarlo ne offre la effigie ed il nome. In ogni caso sembra si debba colloca-re nei musei Pontifici e la sezione prega l’e.s. r.ma di udirne il voto dell’inte-ra commissione.

interessante anche un estratto del processo verbale della commis-sione Generale consultiva di antichità e Belle arti, redatto in occa-sione di una riunione tenuta il 22 agosto 1856. nel documento (b. 402, f. 5), firmato dal cav. Luigi Grifi segretario Generale del mini-stero del commercio, si legge (tav. XiX, fig. 1):in ultimo data contezza della statua e altri marmi ritrovati dal cav. Filippani nel-la sua casa sulla piazza della pilotta e udito dal sign. commissario dell’antichità come si proceda ancora nei ritrovamenti di qualche iscrizione, se ne terrà propo-sito di nuovo con l’intendimento di scavare a conto del ministero nell’area pub-blica della piazza.

nella b. 403 è raccolta la documentazione relativa alla procedu-ra di acquisto dei reperti, come si legge in un estratto del processo verbale della commissione di antichità e Belle arti tenuta il giorno 17 agosto 1857 (tav. XiX, fig. 2), firmato dal cav. Luigi Grifi segre-tario Generale del ministero del commercio:Giudicandosi assai notabile la statua trovata dal sign. comm.re Filippani nel fare i racconciamenti della sua casa alla piazza della pilotta fu risoluto che se ne do-mandasse il prezzo.

segue, nell’incartamento, una lettera del 28 agosto 1857, invia-ta da Benedetto Filippani «al nobil uomo il sig. cav. Luigi Grifi se-gretario del ministero delle Belle arti», che contiene la proposta di prezzo del cav. Filippani (tav. XX, fig. 1): nel ringraziarla distintamente della fattami comunicazione a nome del ministro mi-lesi circa l’acquisto della statua da me offerta, […] faccio conoscere […] che limite-

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rei il prezzo della medesima statua, insieme con la base e analoga iscrizione, a scudi milleduecento. tanto mi affretto significarle, e pregandola altresì dei miei doverosi ringraziamenti all’encomiato sign. ministro, con ben distinta stima mi rasigno.

segue l’estratto del processo verbale della commissione del 4 gen-naio 1858, in cui vengono specificate le motivazioni che giustificano l’acquisto dei reperti (tav. XX, fig. 2):

udito il prezzo di scudi 1200 rimandato dal sig. cav. Filippani per la statua tro-vata negli acconciamenti della casa alla pilotta, e ponderata la importanza storica della statua cui è aggiunto nella base il nome del personaggio al quale era stata eretta, e l’essere stata trovata nel posto suo medesimo indussero e.s. monsignor ministro sul voto della commissione a deliberare che potesse essere acquistata per pubblici musei estendendone il prezzo fino anche ai mille scudi.

il buon esito della trattativa è testimoniato dalla missiva indiriz-zata al ministro Grifi, datata 21 gennaio 1858 (tav. XXi, fig. 1):

d’appresso la comunicazione […] per parte dell’ecc.mo monsignor ministro di es-sersi fissato il prezzo della statua da me scoperta a scudi mille, benché la mia di-manda fosse di 1200, per darsi una prova di rispetto, […] all’encomiato mons. mi-nistro mi dichiaro contento dell’indicato stabilito prezzo di scudi mille, aggiungendo che la statua con la relativa iscrizione è a disposizione del ministro e si attende con l’auspicio di consegnarla. Gradisca la presente della mia distinta fine amicizia.

segue una lettera del 22 gennaio 1858 inviata dal segretario L. Grifi al ministro che ratifica l’accettazione, da parte del sign. Filip-pani, della proposta di vendita (tav. XXi, fig. 2):

manifestata al sign. comm.re Filippani la risoluzione dell’e.v. r.ma sul voto del-la commissione di Belle arti per la compera della statua con iscrizione pel prez-zo di scudi mille, egli ha convenuto nell’offerta, come apparisce da autografo suo foglio e perciò si prega l’e.v. r.ma di dar ordine che si facciano le solite schede di contratto.

nello stesso foglio, in basso a sinistra, compare un appunto del ministro del 29 gennaio, che autorizza l’operazione di acquisto:

La seg. v a. apparecchi tutti gli atti opportuni affinché abbia luogo l’acquisto di cui si tratta per la convenuta somma di scudi mille.

seguono, in ordine cronologico, il contratto di acquisto del 4 feb-braio 1858 (tav. XXii, fig. 1), sottoscritto dal ministro milesi, il se-gretario Generale Grifi e il sign. comm.re Filippani e due lettere, in-

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riccardo montaLBano - aLessandra avaGLiano66

viate dallo stesso ministro, in cui si sottolinea la necessità di esporre adeguatamente il monumento. nella prima (tav. XXii, fig. 2), invia-ta il 23 febbraio, si legge:Questo ministero del commercio e Lavori pubblici ha comperato dal sig. cav. Filippani la statua antica togata di marmo colla base col nome scritto, trovata nei lavori delle fondamenta della casa dello stesso sign. cavaliere in via della pilotta. pertanto lo scrivente ministro prega e.za v. r.ma di dar ordine che sia collocata nei musei pontifici e ne sia fatta ricevere a chi ha l’onore di baciarle la s. porpo-ra, […] con umilissimo ossequio.

La seconda, invece, datata all’8 marzo, è indirizzata al diretto-re Generale dei musei e Gallerie pontificie Giuseppe de Fabris (tav. XXiii, fig. 1):il sottoscritto […] ha già ordinato al sig. comm.e de Fabris direttore Genera-le dei musei, e Gallerie di ricevere nei musei medesimi la statua antica di marmo, che codesto ministero ha comperata dal sign. cav. Filippani, rilasciandone a v. s. ill.ma e r.ma l’analoga ricevuta […].

La documentazione amministrativa relativa all’acquisizione della statua nelle collezioni dei musei vaticani è conservata, invece, pres-so l’archivio segreto vaticano (55).

riccardo montalbano

la statua dI dogmatio

La scultura (56) (tav. XXiii, fig. 2), conservata ed esposta nel mu-seo Gregoriano profano in vaticano (sala vii, n. 725), rappresenta un personaggio maschile in età matura, stante, che indossa una tu-

(55) asv, Titoli, 112: in copia presso l’archivio storico musei vaticani, b. 20, 211-212. cfr. s. orlandi, dedica onoraria, cit. a nota 54, p. 267.

(56) misura complessivamente m 3,10; senza la base m 2,19; la testa è alta m 0,28. nella testa sono di restauro il naso e le estremità dei padiglioni auricolari; nel corpo, la mano sini-stra con il rotolo e la mano destra; sono state risarcite anche piccole lacune della veste. sul-la statua cfr.: a. giuliano, Catalogo dei ritratti romani del museo Profano lateranense, città del vaticano 1957, pp. 81-82, n. 99, tavv. 59-60, con bibliografia pregressa; g. a. mansuel-li, la fine del mondo antico, torino 1988, pp. 84-85; milano capitale dell’impero romano 286-402 d.C., catalogo della mostra (milano, palazzo reale, 24 gennaio-22 aprile 1990), milano 1990, pp. 41-42, n. 1c.2b, 2 (s. maggi); u. geHn, ehrenstatuen in der spätantike. Chlamyda-ti und Togati, Wiesbaden 2012, pp. 498-504, n. W3, tav. 37.

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nica con maniche, un’ampia toga e ai piedi calcei equestres; alla sua destra quattro rotoli legati da una benda sono adagiati al suolo. La posizione delle braccia e delle mani (integrate) è corretta: la sinistra impugnava un rotolo, la destra reggeva un lembo della veste.

il monumento è composto da quattro elementi indipendenti, giu-stapposti in antico. si tratta di una base parallelepipeda iscritta, su cui poggia un plinto modanato sorreggente una statua togata in mar-mo pario; nel corpo è stata inserita in antico una testa-ritratto in mar-mo bianco a grana fine. il piedistallo (57), su cui è apposto l’impegna-tivo cursus honorum di dogmatio, è in posizione rovesciata, come si deduce da patera e urceus scolpiti sui fianchi; gli elementi figurativi appartengono alla precedente destinazione del monumento, ricavato dalla rilavorazione di un’ara funeraria. La testa-ritratto grande al na-turale (tav. XXiv, fig. 1), incorniciata dall’attaccatura “a cuore” dei capelli, costituisce una delle più alte espressioni della ritrattistica di epoca costantiniana (58); in essa si raggiunge un perfetto bilanciamen-to tra idealizzazione e individualità nella rappresentazione dei carat-teri del volto. La critica da tempo ha riconosciuto queste medesime caratteristiche in un busto-ritratto nel museo torlonia (59), verosimil-mente prodotto nella stessa bottega scultorea.

sin dalla scoperta della statua, l’evidente diversità di stile tra cor-po e testa ha indotto la maggior parte degli studiosi a considerare le due parti non coeve: il corpo è stato generalmente reputato più anti-co con proposte di datazione oscillanti tra l’età adrianea e la secon-da metà del iii sec. d.c.(60). decisamente fuori dal coro la posizione

(57) La base si conserva solo in parte sui fianchi, presentando estesi restauri integrativi realizzati nell’ottocento: cfr. s. orlandi, dedica onoraria, cit. a nota 54, p. 267.

(58) sul ritratto cfr. m. bergmann, studien zur römischen Porträt des 3. Jahrhunderts n. Chr., Bonn 1977, p. 152, nota 609, tav. 41.2; id., la ritrattistica privata di età costantiniana: l’abbandono del prototipo imperiale, in Costantino il Grande. la civiltà antica al bivio tra occi-dente e oriente, catalogo della mostra (rimini, castel sismondo, 13 marzo - 4 settembre 2005), a cura di a. donati - G. Gentili, cinisello Balsamo 2005, pp. 156-165 (159-160), figg. 1-2.

(59) H. P. l’orange, studien zur Geschichte des spätantiken Porträts, oslo 1933, p. 139, n. 93, figg. 168-169; a. giuliano, Catalogo dei ritratti romani, cit. a nota 56, p. 82. È da re-spingere, invece, l’ipotesi dell’identità tra i due personaggi rappresentati, sostenuta in g. a. mansuelli, la fine del mondo antico, cit. a nota 56, p. 84.

(60) F. W. goetHert, studien zur Kopienforschung, in «mitteilungen des deutschen ar-chäologischen instituts. römische abteilung», Liv (1939), pp. 176-219 (216) (prima metà ii sec. d.c.); H. blanck, Wiederverwendung alter statuen als ehrendenkmäler bei Griechen und römern, roma 1969, pp. 34-35, nota 33 (età adrianea); milano Capitale, cit. a nota 56, p.

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di a. Giuliano, che ha ritenuto torso e testa contemporanei, propo-nendo per entrambi una cronologia ad età costantiniana (61). alla luce della classificazione di h. r. Goette, il modello di toga in esame, ca-ratterizzata da umbus a forma di u di dimensioni ridotte, sinus mol-to ampio che circoscrive il ginocchio e lacinia che sfiora il suolo, ap-partiene ad un tipo (Goette B, variante B b) certamente databile nella prima metà del ii sec. d.c.(62).

Quanto al ritratto, il ribassamento dei piani facciali, ravvisabile con maggior evidenza nella mascella, e l’altezza sproporzionata della calotta cranica in rapporto al punto di innesto dei padiglioni aurico-lari sembrerebbero suggerire che la testa sia frutto di una rilavorazio-ne (63). a tal proposito si consideri che i ritratti costantiniani, di nu-mero drasticamente esiguo rispetto alle epoche precedenti, sono per la maggior parte ottenuti dal riutilizzo di teste più antiche (64). della prima fase del ritratto non resta nulla; l’accurato lavoro dello sculto-re costantiniano ne ha infatti eliminato ogni traccia.

nell’insieme l’opera costituisce un interessante esempio di crea-zione ex novo di un monumento a partire dall’assemblaggio di ele-menti scultorei già esistenti; esempi analoghi sono attestati nella poz-zuoli tardoantica: sia la statua togata di Quinto Flavio mesio egnazio Lolliano mavorzio (65) (tav. XXiv, fig. 2), sia quella di virio auden-zio emiliano (66) (tav. XXv, fig. 1), consularis Campaniae tra il 364 e il 378 d.c., insistono su piedistalli ricavati da are funerarie, in cui la facciata principale è stata erasa per poter accogliere una nuova iscri-zione di dedica, mentre le fiancate con patera e urceus sono state la-

42 (seconda metà del iii sec. d.c.); H. r. goette, studien zu römischen Togadarstellungen, mainz am rhein 1990, p. 134, n. 84 (età adrianea-prima età antoniniana).

(61) a. giuliano, Catalogo dei ritratti romani, cit. a nota 56, p. 82.(62) H. r. goette, studien, cit. a nota 60, pp. 49-50.(63) così anche m. bergmann, studien, cit. a nota 58, p. 160, che ritiene la testa di di-

mensioni troppo piccole rispetto al corpo; m. Prusac, From face to face. recarving of roman portraits and late-antique portrait arts, Leiden-Boston 2011, pp. 150-151, n. 377, tav. 94.

(64) sulle tecniche di rilavorazione cfr. m. Prusac, re-carving roman portraits: background and methods, in «acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia», XX (2006), pp. 105-130; ead., From face to face, cit. a nota 63.

(65) museo archeologico dei Campi Flegrei: catalogo generale, coordinamento di F. zevi, ii, napoli 2008, pp. 152-153 (r. marchesini).

(66) per cui cfr. museo archeologico dei Campi Flegrei, cit. a nota 65, p. 151 (F. dem-ma).

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sciate intatte (67). Questa noncuranza nei confronti degli elementi fi-gurativi secondari è sintomatica dell’epoca; d’altra parte nella statua di dogmatio non si bada nemmeno a incongruenze ben più rilevan-ti, ovvero al fatto che un personaggio di rango aristocratico porti ai piedi semplici calcei equestres (68). in questa scelta si riflette l’avvenu-to mutamento nel sistema di autorappresentazione delle élites al po-tere in età tardoantica; se il cittadino romano aveva affidato per seco-li la comunicazione del proprio status sociale alla puntuale citazione di elementi specifici dell’abbigliamento (toga, calcei), sapientemente combinati con attributi “parlanti” (patera, volumen ecc.) (69), ora que-sto aspetto viene trascurato. evidentemente, in quest’epoca il fatto stesso di dedicare una scultura acquisisce una rilevanza tale da far scivolare il resto in secondo piano.

La statua di dogmatio si ergeva a un’altezza di oltre tre metri; essa fu ritrovata in situ come si apprende dai resoconti di scavo. conte-stualmente, fu scoperto un blocco parallelepipedo (tav. XXv, fig. 2) su cui è apposta l’iscrizione di dedica di una seconda statua onora-ria eretta, come la prima, a saturnino per interessamento del figlio C. Caelius urbanus (70). il blocco presenta tutte e quattro le facce inqua-drate su ciascun lato da un listello liscio; il piano superiore è grezzo e presenta i segni della subbia. si tratta anche in questo caso di un elemento scultoreo di riutilizzo: esso costituiva lo zoccolo di appog-gio, lasciato incompiuto, di un basamento o di un altare funerario. La menzione della carica di prefetto del pretorio (71) permette di riferire

(67) per analoghi casi di reimpiego da pozzuoli cfr. museo archeologico dei Campi Flegrei, cit. a nota 65, pp. 153-155 (r. marchesini).

(68) a. ambrogi, una statua togata dal ‘Ginnasio romano’ di siracusa: un caso di reimpie-go nella sicilia tardoantica, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. ren-diconti», LXXXii (2009-2010), pp. 293-371 (366), nota 182.

(69) sul tema cfr. m. cadario, il linguaggio dei corpi nel ritratto romano, in ritratti. le tante facce del potere, catalogo della mostra (roma, musei capitolini, 10 marzo - 25 settembre 2011), a cura di e. La rocca - c. parisi presicce, roma 2011, pp. 209-221 (211-213).

(70) Cil vi, 1705. misure: alt. m 0,25, largh. m 0,70, prof. max. m 0,70. il blocco pre-senta l’angolo superiore sinistro spezzato; profonde scheggiature intaccano la superficie in più punti. attualmente è custodito nel cortile dell’ambasciata del messico presso la santa sede (via ezio, 49 - roma).

(71) sulla carriera di saturnino: P. Porena, le origini della prefettura del pretorio tardo-antica, roma 2003, pp. 442-443; id., Trasformazioni istituzionali e assetti sociali: i prefetti del pretorio tra iii e iV secolo, in le trasformazioni delle élites in età tardoantica, atti del con-

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r. montaLBano - a. avaGLiano : La cosiddetta domus Caeliorum70

questa seconda base onoraria agli anni finali del regno di costantino, mentre la prima, di poco anteriore, si data tra il 324 e il 337.

La dedica da parte del figlio lascia propendere per una colloca-zione delle attestazioni in una sfera privata, sebbene la critica abbia avuto qualche esitazione in merito, suggerendo una sistemazione del-le statue nella vicina Porticus Constantini (72). in realtà, le novità emer-se a proposito dell’edilizia abitativa tardoantica indicano la diffusione del fenomeno dell’esibizione di statue erette in onore dei proprietari negli ingressi o nelle sale di rappresentanza delle domus aristocrati-che (73). a tal riguardo è emblematico il caso della residenza dei Vale-rii sul celio, dove sono state ritrovate cinque basi di statua dedicate da collegi professionali di roma e pozzuoli a lucius aradius Vale rius Proculus (74), esponente di primo piano della gens degli aradii che lì risiedeva (75). Questa nuova utilizzazione dello spazio domestico ri-specchia il ruolo sempre più determinante assunto dai sontuosi alle-stimenti privati nella gestione di rapporti sociali e politici da parte delle élites tardoantiche.

alessandra avagliano

vegno internazionale, perugia, 15-16 marzo 2004, a cura di r. Lizzi testa, roma 2006, pp. 325-356.

(72) da ultimo s. orlandi, dedica onoraria, cit. a nota 54, p. 267.(73) sul tema cfr. F. guidobaldi, distribuzione topografica, architettura e arredo delle do-

mus tardoantiche, in aurea roma. dalla città pagana alla città cristiana, catalogo della mo-stra (roma, 22 dicembre 2000-20 aprile 2001), a cura di s. ensoli - e. La rocca, roma 2000, pp. 134-136 (135); i. baldini liPPolis, la domus tardoantica: forme e rappresentazioni del-lo spazio domestico nelle città del mediterraneo, imola 2001, p. 86; u. geHn, ehrenstatuen in spätantiken Häusern roms, in Patrons and viewers in late antiquity, a cura di s. Birk - B. poulsen, aarhus 2012, pp. 15-30.

(74) Cil vi, 1690-1694.(75) per cui cfr. s. Panciera, due famiglie senatorie di origine africana e una di origine

italica: aradii, Calpurnii e suetrii alla luce di una nuova iscrizione urbana, in l’africa romana, atti del iii convegno di studio, sassari 13-15 dicembre 1985, a cura di a. mastino, sassari 1986, pp. 251-262; id., ancora sulla famiglia senatoria “africana” degli aradii, in l’africa ro-mana, atti del iv convegno di studio, sassari 12-14 dicembre 1986, a cura di a. mastino, sassari 1987, pp. 547-572.

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IMPLANTACIÓN DE IGLESIAS EN EDIFICIOS DE ESPECTÁCULOS ROMANOS:

ORÍGENES DE UN PROCESO DE MEDIEVALIZACIÓN DE LA

CIUDAD ANTIGUA

Introducción

En el marco genérico del estudio de la edilicia cristiana tardoanti-gua (1), y en el más concreto de una investigación que estamos llevan-do a cabo sobre la implantación de edilicia cristiana en las ruinas de anfiteatros, teatros, estadios y circos romanos, hemos creído oportuno desarrollar unas breves reflexiones que tienen como objetivo princi-pal ayudar a explicar la enorme dimensión simbólica que adquirió el sustrato lúdico en el que se producía una parte nada desdeñable de los martirios, según detallan las fuentes conservadas.

Aunque dicho sustrato no es el único factor a tener en cuenta, es el que permitió a los hagiógrafos componer relatos – algunos con

(1) Este texto se ha realizado en el marco de una estancia postdoctoral en el Institutum Patristicum Augustinianum (Pontificia Università Lateranense), tutelada por el profesor An-gelo Di Berardino, que ha sido posible gracias a la concesión de una beca Beatriu de Pinós-A por parte de la Generalitat de Catalunya, y se insiere en los proyectos de investigación HAR2010-15183/HIST del Ministerio de Ciencia e Innovación y 2009SGR-1255 de la Agèn-cia de Gestió d’Ajuts Universitaris i de Recerca, ambos dirigidos por el profesor Josep Vilella Masana (Universitat de Barcelona), y al proyecto Christian edilice in Roman buildings for public spectacles: historical genesis and archaeological implications que estoy llevando a cabo gracias a un contrato del ya mencionado programa Beatriu de Pinós-A, 2 ª fase (Secretaria d’Universi-tats i Recerca del Departament d’Economia i Coneixement de la Generalitat de Catalunya y programa COFUND de las Acciones Marie Curie del 7º Programa marco de investigación y desarrollo tecnológico de la Unión Europea). Agradezco a los profesores Di Berardino y Vilella sus siempre valiosas aportaciones, así como a los profesores Carlos Buenacasa Pérez y Juan A. Jiménez Sánchez la lectura atenta del manuscrito y sus oportunas precisiones.

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JORDINA SALES CARBONELL72

más veracidad histórica que otros – con escenarios arquitectónicos de fondo cargados de simbolismo, donde la victoria martirial de los “at-letas de Cristo” fue equiparada a la victoria en los juegos seculares. Todo ello contribuye en gran medida a explicar la ulterior relación entre edilicia cristiana y arquitectura lúdica acaecida a partir de finales del siglo IV e inicios del V, y detectada en la topografía tardoantigua y altomedieval de algunas ciudades romanas. Sin embargo, el asun-to pasa relativamente desapercibido a los ojos de la Arqueología, y cuando aparecen los dos elementos clave – edificio de espectáculos e iglesia –, salvo contadas excepciones, se consideran por separado en caso de ser objeto de algún tipo de estudio.

Edificios de espectáculos en decadencia y una religión en auge

El lento declive de los edificios de espectáculos originado por la entrada en crisis de las evergesías locales, y alentado en gran medida por la decadencia progresiva de los juegos gladiatorios y por las pro-pias acciones emprendidas por la Iglesia (2), conllevó también la cons-trucción, a partir de finales del siglo IV como fecha más temprana, de edilicia cristiana en arenas y estructuras de algunos de estos edificios públicos, la mayoría de los cuales ya habían caído en un manifiesto abandono fruto de la falta de uso para el que fueron originalmente concebidos (3).

A pesar de las excepcionales obras de reparación del anfiteatro de Pavia por parte de Theodorico (4), la “reapertura” de las Arenas

(2) Para una visión integral y profunda del papel jugado por el Cristianismo en relación a los espectáculos romanos, véase la monografía de J. A. Jiménez Sánchez, Los juegos paganos en la Roma cristiana, Treviso-Roma 2010.

(3) En Italia, por ejemplo, la documentación arqueológica señala que la mayor parte de abandonos de los edificios de espectáculos se produce entre los últimos decenios del siglo III y el siglo IV: P. BaSSo, Gli edifici di spettacolo nella città medievale, in Gli edifici per spettacoli nell’Italia romana, ed. G. Tosi, Roma 2003, p. 901; lo mismo constata en la Galia M. heiJ-manS, La place des monuments publics du Haut-Empire dans les villes de la Gaule méridionale durant l’Antiquité tardive (IVe-VIe s.), in «Gallia», LXIII (2006), pp. 38-39. Para el resto del Imperio, los datos no resultan muy divergentes.

(4) P. Pinon, Approche typologique des modes de réutilisation des amphitéâtres de la fin de l’Antiquité au XIX siècle, in Spectacula I. Gladiateurs et amphithéâtres, Actes du Colloque, Toulouse-Lattes, 26-29 mai 1987, eds. C. Domergue, Ch. Landes y J.-M. Paillier, Paris 1990, p. 159. Teodorico también había ordenado reparar el teatro de Pompeyo (Roma). Nótese

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de Lutetia en pleno siglo VI a instancias de Chilperico (5), y las repa-raciones del Coliseo (6), entre otras (7), lo cierto es que la mayor parte de los costosos edificios de espectáculos construidos durante los siglos de esplendor del Imperio se veían ahora abandonados a su suerte o, en el mejor de los casos, a la suerte de los obispos, nuevos patroni de la mayoría de ciudades tardoantiguas (8). Con su nuevo papel de líder local, el mitrado pasaba también a ser, en muchos casos, el gestor de los maltrechos bienes públicos y el principal evergeta en el caso de nuevas construcciones y reparaciones, acciones de las que se solía beneficiar ahora la edilicia cristiana en detrimento de las antiguas y costosas infraestructuras que habían definido el perfil de la ciudad ro-

la presencia de un anfiteatro en la representación de la ciudad de Ravenna contenida en el mosaico de Sant’Apollinare Nuovo, encargado por el mismo Teodorico, de lo que se infiere que la capital ostrogoda tenia un anfiteatro en buen estado en el siglo VI, o por lo menos era digno de aparecer entre los monumentos más significativos de la ciudad.

(5) a. Fierro - r. LaFFont, Histoire et dictionnaire de Paris, Paris 1996, p. 16.(6) CIL, VI, 32094.(7) Cfr. P. BaSSo, Gli edifici di spettacolo nella città medievale, cit. nota 3, p. 902.(8) Esta afirmación es válida, sobre todo, para anfiteatros y teatros. Es sabido que circos

e hipódromos escaparon un tiempo a esta tendencia, en parte por su estrecha vinculación con la escenografía del poder imperial – véase J. A. Jiménez Sánchez, La liturgie impériale et les jeux durant l’Antiquité tardive: entre paganisme et christianisme, in Figures d’empire, fragments de mémoire. Pouvoirs et identités dans le monde romain impérial (IIe s. av. n.è. - VIe s. de n.è.), ed. S. Benoist - A. Daguet-Gagey - C. Hoët-Van Cauwenberghe, Villeneuve d’Ascq 2011, pp. 181-193 –, en parte por no revestir sus espectáculos excesivo conflicto para la nueva moral cristiana (las carreras de cuadrigas, a pesar de ser también criticadas por los Padres de la Iglesia, resultaban poco problemáticas, en comparación con otro tipo de espectáculos como podían ser las luchas de gladiadores). En algunos lugares, incluso, se construían nuevos circos durante la baja romanidad, mientras que en otros como el de Arlés – M. heiJmanS, La pla-ce des monuments publics du Haut-Empire, cit. nota 3, p. 39 – y tal vez el de Zaragoza, si lo tuvo – se documentan ludi circenses pero no se ha localizado circo alguno hasta el momento: J. A. Jiménez Sánchez, Los últimos ludi circenses realizados en Hispania en época visigoda, in «Faventia», XXVIII (2006), 1-2, pp. 99-113 –, las fuentes aún constatan su uso original, ya anecdótico y puntual, en el siglo VI. Por el contrario, podían seguir siendo utilizados para celebrar coronaciones de reyes bárbaros, como la de Adaloaldo acontecida en el circo de Mi-lano en el año 604: m. cagiano de azevedo, Milano da Sant’Ambrogio a Desiderio, in Notizie dal chiostro del Monastero Maggiore, fasc. 3-4, Milano 1969, p. 44. Exceptuando estos casos, una vez caído el Imperio Romano de Occidente los circos perdieron su significación políti-ca, y corrieron la misma suerte que el resto de edificios de espectáculos. Mientras, en la pars Oriental muchos circos sobrevivieron hasta las incursiones islámicas, y el de Constantinopla siguió en uso hasta que la invasión de los cruzados en 1204 lo dejó en tal mal estado que nun-ca más se volvió a utilizar para las carreras: P. novara, Gli spettacoli nella Tarda Antichità, in Ravenna romana, ed. M. Mauro, Ravenna 2001, pp. 193, 197, notas 3 y 11; J. A. Jiménez Sánchez, Los juegos paganos en la Roma cristiana, cit. nota 2, p. 18.

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mana. Estas nuevas construcciones cristianas, a menudo, reutilizaron y/o ocuparon algunos de los antiguos edificios públicos ya en desuso, sea por conveniencia arquitectónica, sea por un significado religioso, o por ambos motivos a la vez. Se documenta así la cristianización de – o la construcción de edilicia cristiana en – templos paganos, basílicas civiles, bibliotecas, hórreos, termas, etc. Algo similar sucedió con los edificios de espectáculos, aunque a diferencia de los anteriores, sus enormes y particulares estructuras constructivas no resultaban siempre las más idóneas para ser reaprovechadas para levantar en ellas otros edificaciones (9) – en nuestro caso, cristianas – mediante unos pocos arreglos. Por ello, aunque se verán casos de adaptación y superposi-ción de edificios cristianos a las estructuras de las graderías – cunei y cauea –, aprovechando de este modo las estructuras preexistentes, se constata también la construcción ex nouo de algunas de estas iglesias en los espacios de las arenas y las spinae.

Pero desafortunadamente para la Historia del mundo romano, la suerte más común de estos edificios lúdicos será su lento desguace con el fin de abastecer de material a otras construcciones, tanto particulares como publicas. Formando parte de las construcciones públicas – bá-sicamente murallas pero también, como venimos diciendo, iglesias –, encontraremos materiales de expolio provenientes de circos, teatros, estadios y anfiteatros, que documentan el control del obispo sobre las edificaciones y obras públicas locales. Así, por ejemplo, en Roma el anfiteatro Flavio se convierte en un auténtico filón para contribuir a la construcción, entre otros tipos de edificios, de iglesias como la de San Giovanni in Laterano o la nueva fábrica de la basílica de San Pietro; era costumbre utilizar la fórmula «a cauar marmi a Coliseo» en los registros de pago pontificios (10). En Milano, parte del material de su anfiteatro era utilizado como cantera para la construcción de la basí-lica de San Lorenzo Maggiore en pleno siglo IV (11), cuando el edificio lúdico, parece ser, aún podía estar funcionando (12), uso ambivalente

(9) M. heiJmanS, La place des monuments publics du Haut-Empire, cit. nota 3, p. 38.(10) P. BaSSo, Gli edifici di spettacolo nella città medievale, cit. nota 3, pp. 904-905.(11) Bloques enteros del anfiteatro milanés conforman la espectacular cimentación de la

capilla de Sant’Aquilino y también la de Sant’Ippolito: L. Fieni, Indagine archeologico-archeo-metrica sulla basilica di San Lorenzo Maggiore a Milano: primi risultati sull’età tardoantica, in «Rivista di Archeologia Cristiana», LXXXI (2005), pp. 201 (figg. 3a y 3b), 218-219.

(12) P. BaSSo, Gli edifici di spettacolo nella città medievale, cit. nota 3, p. 904, aunque otros

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que tuvo también durante un tiempo el anfiteatro Flavio (13). En Ta-rraco, material del circo se emplea para construir el episcopium (14). Y en Teramo, la fábrica del siglo XII de su Catedral se levantó en par-te con material de sus antiguos teatro y anfiteatro, igual que sucedía en diversas iglesias de Catania, Bolsena o Venosa (SS. Trinità), entre otras ciudades (15). El obispo Hilario de Arlés encargó a un diácono llamado Cirilo la construcción de una basílica, y este se dañó un pié cuando le cayó un bloque de mármol durante el desmantelamiento del proscaenium del teatro para conseguir materiales para la nueva construcción (16). En el año 570, parte de los bloques del hipódromo de Gerasa se utilizaron para construir una iglesia en la ciudad dedi-cada por el obispo Mariano, en un momento en el que, de nuevo, parece que el edificio aún conservaba su uso lúdico, por lo menos por lo que a una pequeña parte de su estructura se refiere (17).

El de las iglesias implantadas específicamente dentro del perímetro de edificios lúdicos, sobre todo anfiteatros, constituye un fenómeno que se detecta ya en la Antigüedad Tardía, aunque disponemos sobre todo de ejemplos medievales (18) y modernos, la cronología establecida de los cuales, en no pocos casos, se podría retrasar. Sea como fuere, la presencia de la mayor parte de estas iglesias que hallamos sitas en edificios de espectáculos, al margen del establecimiento preciso de su cronología de fundación, entronca con los tiempos de las perse-

estudios ponen en duda esta doble funcionalidad del circo milanés: cfr. L. Fieni, Indagine archeologico-archeometrica sulla basilica di San Lorenzo Maggiore, cit. supra, p. 219.

(13) r. SantangeLi vaLenzani, La fine della città antica, in Atlante di Roma antica, ed. A. Carandini, I, Roma 2012, p. 118.

(14) P. diarte BLaSco, La configuración urbana de la Hispania tardoantigua. Transforma-ciones y pervivencias de los espacios públicos romanos (s. III-VI d.C.), Oxford 2012, p. 288.

(15) P. BaSSo, Gli edifici di spettacolo nella città medievale, cit. nota 3, p. 904.(16) honoratvS maSS., Vita s. Hil. Arel., 20, 11 (SC 404, p. 134); P. Pinon, Approche ty-

pologique des modes de réutilisation des amphitéâtres, cit. nota 4, p. 105.(17) ch. roueché, Spectacles in Late Antiquity: Some Observations, in «Antiquité Tar-

dive», XV (2007), p. 60.(18) Pinon sitúa la cronología general de presencia de Iglesias en anfiteatros a partir de

los siglos IX-X – P. Pinon, Approche typologique des modes de réutilisation des amphitéâtres, cit. nota 4, p. 110 –, pero en nuestras pesquisas hemos podido comprobar, sobradamente como se vera a continuación, que en realidad se trata de un fenómeno de raíces mucho más primitivas, que puede remontar, en una parte nada desdeñable de los casos, a la misma An-tigüedad Tardía.

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cuciones, cuando algunos de los seguidores de la nueva religión mo-noteísta encontraron la muerte, precisamente, en las arenas de estos edificios, como se desarrolla en el apartado siguiente. De hecho – y obviando, de momento, el factor martirial –, durante los primeros si-glos de nuestra era los apologetas cristianos rechazaban frontalmente el mundo de los espectáculos romanos, y la misma actitud mostraba la órbita hebraica antes que el Cristianismo empezara a tomar posi-ciones. Hasta tal extremo llegó la oposición hebrea que la construc-ción del anfiteatro y el teatro de Jerusalén acarreó una conspiración contra Herodes (19). Sin embargo, la conflictividad de los primeros cristianos con los espectáculos – e incluso, en determinados casos, con los mismos martirios (20) – no supuso ningún prejuicio para que los magníficos edificios lúdicos, una vez caídos en desuso, pasaran a engrosar el patrimonio de determinadas Iglesias locales, e incluso fueran reivindicados y convertidos en lugares sagrados mediante la edificación de edilicia cristiana en su interior. Si la tumba del mártir, antes de la Paz de la Iglesia, fue el lugar lógico y primero donde se detecta culto martirial, en un segundo momento se podía ya proce-der a la sacralización del escenario preciso donde había sido recluido o había perecido el mártir. Y así sucedió en determinados edificios romanos de espectáculos.

Efectivamente, una vez establecido el cristianismo por Teodosio I como única religión oficialmente permitida en el Imperio a finales del siglo IV, estos singulares marcos arquitectónicos, aunque en un inicio podían haber generado cierto rechazo entre los cristianos (y de hecho se constata como muchos de ellos son utilizados incluso como basureros (21)), lo cierto es que, una vez calmadas las aguas de los martirios, poseían el sustrato perfecto para convertirse en escena-

(19) FLavivS ioSePhvS, Ant. Iud., XV, 267-291 (Bibliotheca Scriptorum Graecorum et Ro-manorum Teubneriana, I-IV, Leipzig 1888-1896, pp. 130-132). Parece ser que cuando Josefo hablaba de este anfiteatro se estaba refiriendo en realidad al hipódromo, excavado entre 1982 y 1988: cfr. J. Patrich, Studies in the Archaeology and History of Caesarea Maritima. Caput Judae, Metropolis Palaestinae, Leiden-Boston 2011, p. 177, nota 2.

(20) i. dunderBerg, Early Christian Critics of Martyrdom, in The Rise and Expansion of Christianity in the First Three Centuries of the Common Era, ed. C. K. Rothschild & J. Schröter, Tübingen 2013, pp. 419-440.

(21) Por ejemplo, t. WiLmott, The Roman Amphitheatre in Britain, Gloucestershire 2008, pp. 183-184, para el caso británico, y P. diarte BLaSco, La configuración urbana de la His-pania tardoantigua, cit. nota 14, pp. 288-289, para el hispano.

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rios ideales e idealizados para determinadas comunidades cristianas locales que guardaban la memoria de sus mártires, valor que por otro lado ya habían adquirido desde tiempos de las persecuciones pero que ahora se podía materializar y concretar (y potenciar, por parte de las autoridades episcopales) con la construcción de templos en su recuerdo y memoria.

Algunos autores modernos han considerado que los edificios de espectáculos fueron aborrecidos por los cristianos por conllevar re-cuerdos de sufrimiento, mientras que otros autores creen que adqui-rieron un gran valor simbólico en clave positiva. Los autores actuales no nos ponemos de acuerdo respecto a este asunto, pero muy proba-blemente esta divergencia de opiniones, y sobre todo de sentimientos y sensaciones, ya existía entre los mismos cristianos de la época (22); por lo que, a nuestro entender, profundizar más en esta discusión re-sulta inútil porqué muy probablemente todo el mundo tiene su parte de razón y las dos situaciones, a juzgar por los indicios arqueológi-cos, se debieron producir en las diferentes comunidades en función de las peculiaridades e idiosincrasias locales. Sin embargo, es cierto que el paso del tiempo cura las heridas, y por ello vemos lógico que las generaciones de cristianos de finales del siglo IV y siglo V en adelante, más distanciadas de los hechos, hubiesen idealizado estos escenarios de sangre y horror con más facilidad que aquellos cristia-nos que fueron contemporáneos a los martirios o que oyeron hablar detalladamente de ellos a sus ascendentes directos. De hecho, las cronologías de implantación de edilicia cristiana en edificios lúdicos coinciden con esta idea evolutiva, con la dulcificación y mitificación de los recuerdos que confiere el paso del tiempo. Por otro lado, lo que sí resulta indiscutible es que, poco a poco, los edificios de es-

(22) Agustín respondía a los que se lamentaban de la ruina de los anfiteatros que tales monumentos eran testigos de los tiempos en los que reinaba la maldad, y que fueron cons-truidos por la lujuria: attendite enim, fratres, et uidete amphitheatra ista, quae modo cadunt. Luxuria illa aedificauit, avgvStinvS, Serm., 113 A, 13 (Miscellanea Agostiniana, Roma 1930, pp. 141-155); mientras que Isidoro de Sevilla recomienda a los cristianos alejarse de los circos (ya en desuso en aquellos momentos), por estar poseídos por divinidades inmundas, alienus erit tibi locus quem plurimi Satanae spiritus occupaverunt: iSidorvS, Etym., XVIII, 41, 3 (ed. W. M. LindSay, Isidori Hispalensis episcopi Etymologiarum siue Originum, I-II, Oxford 1911, sin paginación). La cuestión, tal vez, sea considerar entonces el valor personal que cada cristiano daba a estos testimonios de Agustín e Isidoro, y si en base a ellos se percibía finalmente el edificio de espectáculos como algo a dignificar y santificar – edilicia cristiana –, o como algo a despreciar y olvidar – vertederos y otros usos: domésticos, industriales, etc. –.

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pectáculos estaban perdiendo, a tenor de los cambios económicos y estructurales acaecidos a partir de la tardorromanidad, el uso lúdico para el que habían sido inicialmente concebidos, y con este estado de cosas el pragmatismo de los líderes locales – a menudo, obispos – debió de jugar un papel determinante para apoderarse de estas can-teras de material constructivo y del espacio urbano que conllevaban, convirtiendo, con el tiempo y la estrategia adecuada – composición de passiones y uitae –, algunos de estos antiguos escenarios de horror en escenarios de triunfo mediante la implantación de iglesias en su interior, tal vez por religiosidad, tal vez por interés económico, tal vez por la combinación de estos y otros factores.

Los anfiteatros, sin duda, son los edificios lúdicos preferidos para la implantación de edilicia cristiana, a juzgar por los porcentajes do-cumentados (vid. infra), pero la construcción de iglesias proliferó tam-bién, aunque en menor número, en las arenas de los circos y en las es-tructuras de teatros, los otros edificios de espectáculos por excelencia del mundo romano clásico. Pero, como se verá, su significado es muy diferente al de las iglesias construidas en anfiteatros. Para empezar, el momento de máximo esplendor en lo que concierne a la construcción de circos se produce a inicios del siglo IV (23), coincidiendo con una etapa en la que ya habían entrado en decadencia la mayor parte de los anfiteatros del Imperio. Pero también es cierto que en determina-dos casos, como el del circo Vaticano que se verá a continuación, se clausuraron más tempranamente, propiciando un precoz uso cristiano de parte de su espacio. Por otro lado, y debido a las grandes dimen-siones de circos y anfiteatros, se percibirá un fenómeno curioso: se levantarán iglesias en edificios de espectáculos que seguían funcionan-do, aunque parcialmente y con un perímetro más reducido.

El ejemplo de Tarraco conserva parte de todos los ingredientes identificativos de la problemática que tratamos: las estructuras de un anfiteatro en un estado relativamente óptimo de conservación; unas actas martiriales de indudable veracidad histórica que refieren, explí-citamente, que los mártires perecieron en el anfiteatro de la ciudad; y una primera iglesia o capilla paleocristiana de carácter martirial que testimonia el culto muy poco después del momento en que se

(23) Véase capítulo específico en J. h. humPhrey, Roman Circuses. Arenas for Chariot Rac-ing, London 1986, pp. 579-638.

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abandona el anfiteatro como lugar lúdico. La antigüedad y autentici-dad de las actas martiriales de Fructuoso de Tarragona y sus diáco-nos, que detallan explícitamente su ejecución en el anfiteatro de la ciudad, junto con el testimonio arqueológico de la capilla martirial construida en sus arenas, constituyen el paradigma de esta realidad histórica, pero desafortunadamente no siempre se han conservado indicios tan explícitos del fenómeno que estudiamos. Este ilustrativo caso, francamente único, no nos servirá, ni mucho menos, para afir-mar de manera inequívoca que toda la edilicia cristiana contenida en el interior de determinados edificios de espectáculos guarda relación con los sucesos martiriales acaecidos durante los primeros siglos: la realidad arqueológica imperante es que disponemos de muchos otros ejemplos de arquitectura cristiana, básicamente medieval, en marcos lúdicos donde, a priori, y por falta de datos textuales directos, esta relación con los martirios no está tan clara ni tan aceptada por la historiografía.

Por todo ello conviene acotar y ponderar qué significó para los primeros cristianos morir en las arenas, y qué repercusión tuvo este hecho en el imaginario de los cristianos nacidos con posterioridad a la Paz de la Iglesia. Estas reflexiones, junto con el elenco arqueoló-gico crítico que estamos elaborando – y del que ofrecemos un pe-queño avance a continuación –, tal vez nos lleven a aceptar que en realidad existieron muchos más casos de primitivas capillas martiria-les escondidas entre los restos de iglesias no sólo medievales, si no también modernas, presentes aún hoy en las ruinas de anfiteatros, teatros, circos, y estadios, y que tan desapercibidas pasan a los ojos de la arqueología, a juzgar por la bibliografía.

Mitos cristianos gestados en escenarios paganos

Desde el punto de vista pragmático de la sociedad romano-paga-na, las ejecuciones de cristianos conformaban una modalidad más – y no necesariamente la más apreciada (24) – de los variados espectácu-los que se ofrecían a la plebs (25); mientras tanto, la literatura cristiana

(24) d. g. KyLe, Spectacles of death in Ancient Rome, London 1998, p. 242.(25) Un estado de la cuestión en d. Potter, Martyrdom as Spectacle, in Theatre and So-

ciety in the Classical World, ed. R. Scodel, Michigan 1996, pp. 53-88. Un estudio reciente y

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antigua, en base a la ideología escatológica de sacrificio fundada en la para doja paulina de que morir en cristo es vivir (26), se refería es-pecíficamente y con orgullo al “espectáculo del martirio” (27). A esta particular visión de la muerte por parte de los cristianos se sumaba la obsesión por recoger los restos de los cuerpos, las cenizas y la sangre de los mártires, tal y como se describe a menudo y con detalle en la literatura (28), obsesión que, más allá de la voluntad de dar la debida sepultura como era preceptivo, constituía el germen de la veneración martirial y, muy probablemente se pueda interpretar también como una variante cristianizada de la vieja costumbre pagana consistente en recoger el aceite de los atletas y la sangre de los gladiadores, fluidos que, se suponía, curaban la fiebre y la epilepsia (29), respectivamente. El mártir cristiano, pues, era una suerte de gladiador de la fe a ojos de los cristianos, un gladiator perfectissimus (30), «un atleta vencedor en todos los combates de los juegos sacros» (31), y por ello si el cuerpo del gladiador tenía propiedades taumatúrgicas para la plebs pagana,

muy ilustrativo del contexto mediático que rodeaba los martirios acaecidos durante los juegos de anfiteatro, en a. carFora, I cristiani al leone. I martiri cristiani nel contesto mediatico dei giochi gladiatorii, Trapani (Sicilia) 2009.

(26) t. J. heFFernan - J. e. SheLton, Paradisus in carcere: The vocabulary of imprisonment and the theology of martyrdom in the Passio Sanctarum Perpetuae et Felicitatis, in «Journal of Early Christian Studies», XIV (2006), 2, p. 217.

(27) Naturalmente, el hecho de que al final el Cristianismo resultara vencedor reforzó aún más la idea de la victoria del mártir: cfr. d. g. KyLe, Spectacles of death, cit. nota 24, pp. 242-243.

(28) Por ejemplo LactantiuS, De mort. pers., 21, 7-11 (SC 39, pp. 101-102), o evSeBivS caeS., Hist. eccl., V, 1, 57-60 (SC 41, p. 21). Interesantes observaciones al respecto en d. g. KyLe, Spectacles of death, cit. nota 24, pp. 170-171, y en a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 120-123.

(29) ceLSvS, De medicina, III, 23 (ed. A. del Lungo, Aulo Cornelio Celso, De Medicina, Fi-renze 1985, p. 148). PLinivS, Hist. Nat., XXVIII, 4 (ed. A. Ernout, Pline l’Ancien. Histoire Natu-relle, Paris 1962). Para las propiedades mágicas y sobrenaturales atribuidas a los mártires, ya no sólo por parte de los cristianos, si no también por los paganos, cfr. J. E. SaLiSBury, The Blood of Martyrs. Unintended Consequences of Ancient Violence, New York-London 2004, pp. 58-62.

(30) tertvLLianvS, Ad mart., 1, 2 (Opuscula Patrum 2, Roma-Paris-Tournai-New-York 1963, pp. 98-100).

(31) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 11, 19 (SC 55, pp. 121-174). Llegados a este punto, procede recordar que en una de las primeras pasiones occidentales, Perpetua se convierte en atleta del anfiteatro en una de sus visiones premonitorias del martirio, e incluso es frotada con aceite antes de empezar un combate de pugilato: et coeperunt me fauisores mei oleo defricare, quomodo solent in agonem: Passio Perpet. et Felic., 10, 7 (SC 417, pp. 137-138).

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resulta lógico pensar que el del mártir lo tuviera también para la plebs cristiana. Así, ambos héroes de la Antigüedad – gladiador y mártir – compartían propiedades sobrenaturales, pero a menudo compartían también el escenario de su muerte. Marco el de los circos, hipódro-mos, anfiteatros, estadios, y teatros que, en el caso de los mártires, junto con el proceso judicial y las torturas (summa supplicia), no hacía más que amplificar la notoriedad adquirida previamente (32).

Debido a este carácter de espectáculo inherente a las ejecuciones, fueron muchos los cristianos, algunos célebres y otros anónimos, que perecieron en las arenas de los edificios de espectáculos, básicamente anfiteatros – pocos circos e hipódromos y ningún teatro documenta-do de manera directa, aunque con toda probabilidad se debieron dar casos (33) –, bajo la modalidad damnatio ad bestias (34) – ¡Christianos ad leonem! era el grito proferido por el público enloquecido (35) –, y

(32) a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 103, 47-49. Una síntesis reciente de los significados e implicaciones que conllevaba el concepto “martirio” en la sociedad romana, en a. di Berardino, Missione, conversione e diffusione del Cristianesimo prima di Costantino, in «Augustinianum», LII (2012), 1, 2012, pp. 41-50.

(33) Se puede suponer que el teatro pudiera haber sido escenario martirial en aquellas localidades que no disponían de otro edificio de espectáculos. A modo de ejemplo, resulta sorprendente pero significativo comprobar como en el teatro de Clunia (Hispania), en pleno siglo II, se celebraban espectáculos no precisamente relacionados con la comedia o la tragedia griegas, como por ejemplo juegos con toros, según nos señala la epigrafía hallada en el lugar; todo ello en un marco de “reconversión” del edificio para albergar todo tipo de espectácu-los: m. á. de La igLeSia - F. tuSet Bertrán, Colonia Clunia Sulpicia. Ciudad romana, Burgos 2012, pp. 62-63; P. diarte BLaSco, La configuración urbana de la Hispania tardoantigua, cit. nota 14, p. 272. Por otro lado, conviene tener muy presente la confusión terminológica de los escritores tardoantiguos a la hora de referirse a los diversos edificios de espectáculos, sobre todo en la Tardoantigüedad, cuando los hagiógrafos empiezan a referirse a estos lugares como marco de las ejecuciones martiriales – cfr. A. QuacquareLLi, Q. S. F. Tertulliani. Ad martyras, Opuscula Patrum, 2, Roma 1963, p. 121 – por lo que en las referencias a determinados circos y anfiteatros pueden esconderse también alusiones a teatros. Eusebio de Cesarea, por ejem-plo, emplea indistintamente los términos “estadio” y “teatro” para referirse al anfiteatro: De mart. Pal., 6, 3-5 (SC 55, p. 139). Además, no podemos perder de vista que muchos de estos edificios de espectáculos se reformaban y podían pasar, por ejemplo, de hipódromos a anfi-teatros, o de teatros a anfiteatros, lo que complica aun más la cuestión semántica. En la Edad Media dicha confusión terminológica se acentúa, y así, por poner un ejemplo, el anfiteatro de Verona es mencionado de dos modos diferentes cuando un fugitivo se refugia «in circum, quod Arena dicitur», y más tarde aparece dibujado en un códice del siglo X bajo el epígrafe theatrum: M. BoLLa, L’Arena di Verona, Verona 2012, pp. 57-58.

(34) d. g. KyLe, Spectacles of death, cit. nota 24, pp. 184-187.(35) TertvLLianvS, Apolog., 40, 2 (eds. C. Moreschini y P. Podolak, Tertulliano. Opere

apologetiche, Roma 2006, pp. 302-303). El león aparece asociado a los mártires cristianos

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de hecho, parece ser que entre los candidatos al martirio esta era la forma de morir preferida (36), modalidad para la que era imprescindi-ble una arena, como más adelante desarrollaremos. Aunque bien es cierto que los textos documentan también muchas otras formas de martirio para las que dicho marco arquitectónico no era imprescindi-ble, pero si recomendable si la afluencia de publico resultaba mínima-mente numerosa, como solía ser frecuente: la crucifixión, las rápidas degollación y decapitación (37), el ahorcamiento, el descuartizamiento instantáneo mediante métodos mecánicos, y el uiuicomburium (crema-ción en vida), especialmente aborrecida por una religión convencida de la llegada inminente del juicio final y que, en consecuencia, tenía como preceptiva la inhumación para garantizar la resurrección de los cuerpos. Otras modalidades de especial crueldad como la poena cullei, donde era imprescindible la presencia de el mar o un río, se reali-zaban fuera de los marcos arquitectónicos lúdicos que tratamos; de hecho, no tenemos constancia documental segura de ningún martirio cristiano bajo esta modalidad, hecho nada extraño si consideramos que el culleus se reservaba para los parricidas (38).

Aunque las ejecuciones de cristianos se solían publicitar (39), la ma-yor parte de estos mártires permanecen anónimos a los ojos de la His-

desde prácticamente sus inicios, aunque no siempre como ejecutor del suplicio: en su Hist. Rom. 67, 14, Dión Casio relata como Domiciano ejecuta al – posible – cristiano Glabrión, quien con anterioridad había matado un gran león, por orden del mismo emperador. Por otro lado, el episodio bíblico de Daniel en el foso de los leones tuvo su influencia en la literatura cristiana que se refirió a los martirios y en la propia iconografía del martirio – W. SaLomon-Son, Voluptatem spectandi non perdat sed mutet. Observations sur l’Iconographie du martyre en Afrique Romaine, Amsterdam-Oxford-New York 1979, pp. 79-90 –, por lo que, con toda seguridad, estaría muy presente en los últimos pensamientos de muchos de los cristianos condenados a las bestias.

(36) K. M. CoLeman, Fatal Charades: Roman executions staged as mythological enactments, in «Journal of Roman Studies», LXXX (1990), p. 57.

(37) Caso de Pablo, decapitado por ser ciudadano romano, de los mártires de Scillium (cerca de Cartago), degollados – H. A. Gärtner, Passio Sanctorum Scillitanorum. A Litera-ry Interpretation, in «Studia Patristica», XX (1989), pp. 9, 11 –, o de Ireneo de Sirmio – d. ruiz Bueno, Actas de los mártires, Madrid 19963ed, p. 1030 –. Sin embargo, ser ciudadano romano tal vez no fue garantía de una muerte rápida en algunos casos muy puntuales: cfr. a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, p. 38, quien se refiere, en el contexto del martirio cristiano, al “desclasamiento social” de los honestiores torturados en las arenas.

(38) E. CantareLLa, I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e Roma, Milano 2005, pp. 215-234.

(39) a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, p. 31.

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toria (40). Tan sólo de unos pocos tenemos noticias concretas, gracias a la literatura hagiográfica conservada (41). A continuación ofrecemos una breve relación de aquellos que murieron en el marco específico de edificios de espectáculos, relación que no pretende ser completa pero sí ilustrativa de cómo se producía este tipo de martirio en un espacio arquitectónico tan concreto:

– Pedro, crucificado bajo el reinado de Nerón, en el circo de Calí-gula y Nerón sito en el monte Vaticano (42) (a. 67), según reporta la tradición. Se trataría del primer martirio cristiano documentado en el marco de un edificio de espectáculos.

– Ignacio, obispo de Antioquia, sufrió martirio en Roma (a. 107), a dónde fue expresamente trasladado para su ejecución (43). Probable-mente, según algunos autores, fue uno de los primeros cristianos que murió en el Coliseo (44).

(40) Se contabilizan por millares los cristianos que sufrieron martirio durante la Antigüe-dad, aunque atendiendo a la naturaleza subjetiva y tendenciosa de parte importante de las fuentes, sigue siendo problemática la cuestión de consensuar una cifra ni que sea aproximada: cfr. a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 26-28.

(41) Para una visión integral de la literatura hagiográfica cristiana durante la Antigüedad, véase la reciente monografía de A. monaci caStagno, L’agiografia cristiana antica. Testi, con-testi, pubblico, Brescia 2010.

(42) En el célebre pasaje XV, 44, de sus Annales, Tácito describe la ejecución de multitud de cristianos por parte de Nerón a resultas del incendio de Roma, pero, como es sabido, en ningún momento se refiere específicamente a Pedro. En lo que concierne a Pablo, la antigua tradición cristiana apunta unánimemente que su muerte también se produjo en Roma, pero los escritos del Nuevo Testamento tampoco recogen el suceso; los Hechos de los Apóstoles terminan su relato aludiendo a la condición de prisionero del Apóstol, que sin embargo po-día recibir a todos aquellos que lo visitaban (cfr. Hch 28, 30-31). Sólo en la segunda carta a Timoteo encontramos estas palabras suyas premonitorias: «Porque yo estoy a punto de ser derramado en libación, y ha llegado el momento de desplegar las velas» (2 Tm 4, 6; cf. Flp 2, 17). Su martirio se narra por primera vez en los Hechos de Pablo (cf. 9, 5), escritos hacia finales del siglo II, los cuales refieren que Nerón lo condenó a morir decapitado. La eje-cución tuvo lugar lejos de cualquier escenario lúdico, pero no deja de ser curiosa y casual la expresión “desplegar las velas” (uela erunt) utilizada por Pablo cuando su muerte esta-ba próxima, en tanto que ésta era también la fórmula utilizada para anunciar espectáculos de anfiteatro: P. SaBBatini tumoLeSi, Gladiatorium Paria. Annunci di spettacoli gladiatorii a Pompei, Roma 1980.

(43) Según relata el propio Ignacio durante su viaje: «para ser trigo de Dios, molido por los dientes de las fieras» (Ad Rom., 4, 1).

(44) r. Luciani, Il Colosseo, Milano 1993, pp. 208-209. Es conocido el problemático si-lencio de las fuentes, que no reportan ningún martirio nominal en las arenas del anfiteatro Flavio.

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– Policarpo, obispo de Esmirna, en el estadio (o tal vez anfiteatro (45) o en el teatro (46)) de la ciudad (a. 155). Muere en la hoguera ya que, a causa de haber finalizado el tiempo para las uenationes, el asiarca Felipe no pudo soltar el león que le exigían hebreos y pa-ganos (47). El martirio de Policarpo fue particularmente importante e influyente para los escritores cristianos contemporáneos e inme-diatamente posteriores al suceso (siglos II-III) (48), por lo que cabe suponer que los elementos de su narración, incluido el escenario del edificio de espectáculos, constituirían un autentico paradigma que condicionaría toda literatura hagiográfica posterior.

– Carpo, Papilo y Agatónica, obispo y diácono los dos primeros (c. 161-180). Condenados a la hoguera en el anfiteatro de Pérga-mo (49).

– Mártires de Lyon y Vienne (Blandina, Maturo, Santo, Átalo, Alejan-dro, Póntico y otros), Lugdunum (a. 177): numerosos, alrededor de medio centenar (50), constituyen el martirio cristiano en el anfiteatro por antonomasia (51). Se explicita que los que sobrevivieron a a la cárcel e interrogatorios fueron ejecutados en el anfiteatro como

(45) Cfr. L. RoBert, Les gladiateurs dans l’Orient grec, Limoges 1940, p. 35; L. ThomP-Son, The Martyrdom of Polycarp. Death in the Roman Games, in «The Journal of Religion», LXXXII (2002), pp. 27-52.

(46) S. Ronchey, Indagine sul martirio di san Policarpo. Critica storica e fortuna agiografica di un caso giudiziario in Asia Minore, Roma 1990, p. 151, nota 23.

(47) Carta de la Iglesia de Esmirna a la iglesia de Filomelio, resumida e incluida en evSeBivS caeS., Hist. eccl., IV, 15 (SC 31, pp. 181-190); también se conservan versiones íntegras de la carta, C. Burini, Policarpo di Smirne: Lettera ai Filippesi, Martirio, Bologna 1998, pp. 35-993; d. ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, pp. 263-279. Véase también a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 106-111.

(48) C. R. MoSS, Polycarphilia. The Martyrdom of Polycarp and the Origins and Spread of Martyrdom, in The Rise and Expansion of Christianity in the First Three Centuries of the Common Era, eds. C. K. Rothschild & J. Schröter, Tübingen 2013, p. 417.

(49) Acta Carpi, Papili et Agatonicae, 36 (ed. B. Aubé, L’eglise et l’état dans la seconde moitié du IIIe siècle: 249-284, Paris 1885, pp. 404-411).

(50) G. ThomaS, La condition sociale de l’Église de Lyon en 177, in Les martyrs de Lyon (177), Actes du Colloque international, Lyon 20-23 septembre 1977, Paris 1978, p. 94. El mar-tirio es referenciado en la Carta de las Iglesias de Lyon y Vienne a las iglesias de Asia y de Frigia, escrita por Ireneo e incluida en evSeBivS caeS., Hist. eccl., V, 1, 37 (SC 41, pp. 6-23).

(51) Ello es no sólo por la gran repercusión que tuvieron sus actas durante la Antigüe-dad, sino también por convertirse en un icono en tiempos más recientes gracias al conocido cuadro de Jean-Léon Gérôme (uid. infra.).

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es referido constantemente en la fuente – con toda probabilidad el conservado anfiteatro de Trois Gaules, sito en Lyon –, durante unos ludi y mediante diversas formas de tortura, entre ellas la re-currente damnatio ad bestias.

– Perpetua, Felicidad y otros (52), en el anfiteatro de Cartago (capital de la Africa Proconsularis) (a. 203) (53). Martirio ad bestias median-te un leopardo, un oso, y una vaca brava. Se explicita que fueron ejecutados durante unos munera castrensia (54).

– En la Cesarea de Palestina, Prisco, Malco y Alejandro son entre-gados a las bestias (muy probablemente en su documentado hipó-dromo reconvertido en anfiteatro (55)), en tiempos de Valeriano (a. 253-260) (56).

– Fructuoso, obispo de Tarragona, y sus diáconos Augurio y Eulo-gio, mueren en la hoguera, en el anfiteatro de Tarragona, capital de la hispana Tarraconensis (a. 259) (57).

– Germán, según la tradición, martirizado en el anfiteatro de Pula (Istria, Croàcia) bajo el reinado de Numeriano (58) (a. 284).

– Una passio compuesta en el siglo V sitúa la muerte de Sebastián a palos, acaecida en Roma a finales del III o inicios del IV, en el hippodrimo palatii duci (59), que tradicionalmente se ha venido in-terpretando como el Circo Máximo.

(52) Passio Perpet. et Felic., 10; 18-21 (SC 417, pp. 135-143, 165-183).(53) W. H. C. Frend, Blandina and Perpetua: Two early Christian heroines, in Les martyrs

de Lyon, cit. nota 50, p. 167.(54) Este dato, ha permitido a algunos autores proponer la idea de que el martirio se

produjera en el anfiteatro castrense de Cartago – G. charLeS-Picard, Le Carthage de saint Augustin, Paris, 1965, p. 200 –, diferente del anfiteatro civil que ha llegado hasta nuestros días: un estado de la cuestión en a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 46-47.

(55) Efectivamente, el hipódromo de época de Herodes había sido reconvertido en anfi-teatro a principios o mediados del siglo III: J. Patrich, Studies in the Archaeology and History of Caesarea Maritima, cit. nota 19, pp. 107, 177-204.

(56) evSeBivS caeS., Hist. eccl., VII, 12 (SC 41, pp. 186-187). Probablemente, en el año 258: J. Patrich, Studies in the Archaeology and History of Caesarea Maritima, cit. nota 19, p. 260.

(57) Passio Fruct. (ed. Á. Fábrega Grau, Pasionario Hispánico, II, Madrid-Barcelona 1955, pp. 183-186 -BHL 3196-). Véase también P. P. Franchi de’ cavaLieri, Las actas de San Fructu-oso de Tarragona, in «Boletín Arqueológico de Tarragona», LXV-LXVIII (1959), pp. 3-70.

(58) G. CuScito, Cristianesimo antico ad Aquileia e in Istria, Trieste 1977, p. 150.(59) Passio S. Sebast., 104 (ed. Á. Fábrega Grau, Pasionario Hispánico, II, cit. nota 57,

pp. 148-176).

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– Durante la Tetrarquía, Aujencio es arrojado a las bestias en algún lugar de Palestina (60); Adriano y Eúbulo, procedentes de Batanea, son arrojados a las bestias en Cesarea (61).

– También durante la Tetrarquía, Silvano, obispo de Emesa, en Fe-nicia, perece por las fieras en la misma ciudad (62).

– Agapio y Tecla, en Gaza, comidos por las bestias (c. 304). De Aga-pio, se especifica que fue llevado en medio del anfiteatro y fue torturado por una osa, durante unas celebraciones ofrecidas por Maximino Daya (63) con motivo de su cumpleaños.

– Máxima, Segunda y Donatela, martirizadas en el anfiteatro in ciui-tatem Turbitanam (64), una de las africanas Thuburbo Maius o Thu-burbo Minus (65) (a. 304).

– Táraco, Probo y Andrónico, mártires en Cilicia (a. 304), son arro-jados a unos combates de fieras que ya estaban programados con anterioridad a la condena (66), en el anfiteatro ubicado a una milla de una ciudad indeterminada (¿Mopsuestia?) (67). Son atacados por varias bestias, una osa y una leona, pero finalmente perecen pasa-dos a filo de espada.

– Albano, el primer mártir documentado en Britania (denominado “protomártir de Inglaterra” por la tradición historiográfica), es eje-cutado durante las persecuciones de Diocleciano o tal vez con anterioridad, en el año 287 (68), en la harena de Verulamium (St. Alban’s), según el relato tardío de Beda (69).

– En el anfiteatro de Salona (Solin, Croacia) son martirizados va-rios cristianos, entre los más célebres: el sacerdote Asterio, cuatro

(60) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 7, 4 (SC 55, pp. 142-143).(61) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 11, 29 (SC 55, p. 168).(62) evSeBivS caeS., Hist. eccl., VIII, 13, 3-4 (SC 55, p. 28).(63) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 3, 1; 6, 3-7 (SC 55, pp. 126, 139-140).(64) Passio Max. Sec. et Donat., 6 (ed. M. Spinelli, Minucio Felice, Octavius. Atti e passioni

dei martiri africani, Roma 2012, pp. 328-337).(65) J. LeaL, Actas latinas de los mártires africanos, Madrid 2009, p. 362.(66) d. ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, pp. 1119, 1126, 1129, 1132.(67) Esta sería la hipótesis más probable – d. ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota

37 p. 1133 – atendiendo al hecho que el último de los interrogatorios a los mártires se cele-bra en esta ciudad.

(68) C. TeStore, Albano, in Bibliotheca Sanctorum, 1, Roma 1961, coll. 659-660.(69) Beda, Hist. Eccl., I, 7, 4-5 (SC 489, pp. 137-139).

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soldados de la guardia personal de Diocleciano – Antiochianus, Gaianus, Paulinianus y Telius –, y el obispo Domnio, sucesor de Venancio. Todos ellos en el a. 304 (70).

– A pesar de que su martirio, acaecido a mediados del siglo III o durante las persecuciones de Diocleciano, es conocido por los epi-gramas de Dámaso y los tratados de Ambrosio, es la tradición la que refiere que Inés fue martirizada en el estadio de Domiciano (Roma) (71).

– Aunque la passio de Acisclo de Córdoba sea tardía y la veracidad histórica de los hechos nula – excepto el propio martirio, acaecido en época tetrárquica y reportado por Prudencio (72) –, el hagiógrafo menciona su muerte en el anfiteatro de la ciudad (73).

– Y por último, cabe mencionar el caso tardío, singular, y segura-mente legendario, de Almaquio, después conocido como Teléma-co, un monje oriental que entre finales del siglo IV e inicios del V murió linchado en Roma cuando bajó a la arena para evitar la lucha entre los gladiadores e intentar hacer entrar en razón a sus congéneres (74).

De esta relación de martirios referidos por la hagiografía en el marco de edificios de espectáculos romanos, se infiere una serie de apreciaciones que incidirán en nuestro argumento arqueológico y ayu-darán a su comprensión. En primer lugar, las fuentes literarias suelen indicar que muchos de estos mártires fueron «comidos por las bes-tias» o «entregados a las bestias», lo que implica, aunque los textos no lo acostumbren a mencionar explícitamente, la presencia de una infraestructura cerrada que confiriera un mínimo de garantías de Se-

(70) F. BuLic´, Anno e giorno della morte, condizione e numero dei Martiri Salonitani, in «Bullettino di archeologia e storia dalmata», XXXIX (1916), pp. 126-139; J. J. WiLKeS, Dal-matia, London 1969, p. 429; G. V. MacKie, Early Christian Chapels in the West: Decoration, Function and Patronage, Toronto-Bufalo-London 2003, pp. 214-215, 218-219.

(71) P. P. Franchi de’ cavaLieri, S. Agnese nella tradizione e nella leggenda, Roemische Quartalschrift: Supplementheft, X (1899).

(72) Corduba Acisclum dabit: PrvdentivS, Peristeph., IV, 19 (CCSL 126, p. 286).(73) Sanctum uero Acisclum in anfitheatrum decollari precepit: Passio Aciscli et Vict., 17,

1-2 (ed. Á. Fábrega Grau, Pasionario Hispánico, II, cit. nota 57, pp. 12-18).(74) TheodoretvS, Hist. eccl., V, 26 (SC 530, pp. 453-455); cfr. J. a. Jiménez Sánchez,

El martirio de Almaquio y la prohibición de los espectáculos de gladiadores, in «Polis», XX (2008), pp. 89-165.

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guridad a los espectadores (75): ello es, básicamente, un anfiteatro o cualquier otro edificio de espectáculos previamente adaptado para tal cometido. Por otro lado, a pesar de que la damnatio ad bestias era ya una pena común en época de Augusto (76), resulta obvio que no to-das las ciudades disponían en todo momento de animales salvajes (77) – leones, básicamente –, por lo que las ejecuciones se podían llevar a cabo con otros métodos, como en el caso de Tarragona – mediante la hoguera – dónde, además, su cronología de mediados del siglo III nos lleva hasta unos tiempos ya no tan gloriosos del Imperio, dónde resultaba más difícil abastecerse de animales salvajes y organizar los fastuosos juegos de los siglos I y II; pesar de ello, la pena se cumple en uno de los tres edificios de espectáculos de la ciudad, como espe-cifica la fuente. Además, la ejecución de los mártires de Tarragona, relativamente tardía (a. 259) parece celebrarse fuera del marco de cualquier otro acontecimiento de carácter lúdico, o como mínimo su Actas no lo mencionan, lo que no impide que sean testimonios del martirio una gran muchedumbre tanto de cristianos como de paga-nos, estos último, parece ser, con un gran respeto hacía la figura de Fructuoso (78). Así pues, aunque en este caso tal vez no hubiera unos ludi donde enmarcar la ejecución, ni presencia de bestias, ni una turba enloquecida de público pagano, ni fuera necesaria una gran infraestructura para proceder a la cremación, sin embargo el marco

(75) K. M. CoLeman, Fatal Charades, cit. nota 36, pp. 51-52.(76) g. viLLe, La gladiature en Occident. Des Origines à la mort de Domitien, Roma 1981,

p. 236. Durante el último siglo de la República, el protagonismo de los espectáculos con ani-males salvajes estaba experimentado un gran crecimiento – K. M. CoLeman, Fatal Charades, cit. nota 36, p. 51 – que se consolidaría con la instauración del Imperio.

(77) Si se observa con atención la tabla precedente de los martirios, se percibe que, a partir del siglo III los cristianos comidos por las bestias salvajes son primordialmente los africanos y orientales, es decir, los mártires de las geografías más próximas a los hábitats na-turales de los leones y los grandes felinos depredadores (un signo más de la decrepitud de la economía y las grandes rutas comerciales, sobre todo marítimas). Por otro lado, a partir del siglo III parece que se hace más frecuente la presencia de toros, osos y jabalíes, en de-trimento de los felinos que, por otro lado, se habían casi extinguido en los siglos anteriores debido a su exagerada demanda. De este modo, las diversas formas de martirio en cada uno de los tiempos y lugares pueden también constituir un indicador más del pulso económico y ecológico del Imperio.

(78) Et quum ducerentur Fructuosus episcopus cum diaconibus suis ad anfitheatrum, popu-lus Fructuoso episcopo dolere cepit, qui talem amorem habebat non tantum a fratribus sed eti-am ab ethnicis: Passio Fruct., 3 (ed. Ángel Fábrega Grau, Pasionario Hispánico, II, cit. nota 57, p. 184).

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arquitectónico y el punto de referencia para la ejecución de los cris-tianos seguía siendo el anfiteatro.

Pero dejando de lado el caso de Tarragona, lo cierto es que una parte importante de los martirios celebrados en edificios de espec-táculos formaba parte del programa de unos ludi. Tomemos como ejemplo los de Lyon y Vienne, que tuvieron lugar en el marco de un gran espectáculo ofrecido en ocasión de la fiesta anual de las Tres Galias (79); o el martirio de Perpetua y Felicidad, en el marco de unos munera castrensia para celebrar el cumpleaños de Geta (80); o el de algunos mártires de Palestina con motivo del cumpleaños de Maximino (81); o el de Dasio, celebrado durante las Saturnalia (82). En definitiva, todos ellos imbricados en el marco de «los acostumbrados espectáculos» (83). Así, tenemos constancia de un número de testimo-nios nada desdeñable de ejecuciones de cristianos llevadas a cabo en las arenas, de tal modo que, en un contexto de espectáculo de masas, la entonces conocida como «minoritaria secta de los cristianos» iba ganando visibilidad con cada martirio, frecuentemente con el edifi-cio de espectáculos como escenario de fondo. Un buen ejemplo de la interiorización de la idea de la arena como escenario de la muerte heroica cristiana por antonomasia lo constituiría el suicidio de Pere-grino, un dudoso cristiano que en el año 165, después de ser liberado de la cárcel (precisamente por no ser reconocido como tal ni por la comunidad local ni por las autoridades), en un acto desesperado de autoreafirmación decide entregarse a las llamas al final de unos ludi celebrados cerca de una localidad de Olympia (84), acto que demuestra

(79) evSeBivS caeS., Hist. eccl., V, 1, 47 (SC 41, pp. 18-19).(80) Passio Perpet. et Felic, 7, 9 (SC 417, p. 131).(81) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 6, 1 (SC 55, p. 138).(82) En el relato del martirio de Dasio, quien pereció después del 304 en Durostorum

(Moesia Inferior) – H. MuSuriLLo, The Acts of the Christian Martyrs, Oxford 1972, pp. xL-xLi, 272-279 –, nada da a entender que se produjera en un edificio de espectáculos, exceptuando el hecho de que se ejecutó al final de las celebraciones paganas y por ello, muy probablemente, ante mucho público, lo que haría necesario un edificio con el aforo suficiente. De hecho, se documenta la celebración de ludi durante los Saturnalia – J. garrido moreno, El elemento sagrado en los ludi y su importancia en la romanización del Occidente romano, in «Iberia», III, 2000, pp. 58, 76-77 –, por lo que es lícito suponer que la celebración de martirios, como el de Dasio, no serían extraños durante a esta festividad.

(83) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 3, 2 (SC 55, p. 126).(84) Lvciano, Dialogi, 68, 14-21; a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 126-136.

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que era por todos conocido el lugar y ocasión más adecuados para el sacrificio de un mártir cristiano.

Por otro lado, es posible constatar también como algunos hagió-grafos muestran mucho interés en dejar constancia de cómo el edi-ficio de espectáculos formaba parte inherente del martirio. Ello es perceptible tanto en actas históricas, como en aquellas consideradas más alejadas de los hechos, así como en passiones y uitae. A nuestro entender, la no estricta historicidad de algunos de estos documentos, incluso su fantasiosidad e interpolaciones en algunos casos, resultan aún más valiosas para nuestro argumento, pues el topos tan recurrente consistente en mencionar el edificio de espectáculos romano como el decorado principal del escenario martirial – aunque sea mediante una interpolación posterior a los hechos – daría a entender que no sólo durante las persecuciones, sino también en los siglos inmediatamente posteriores a éstas, se daba mucha importancia a los edificios lúdicos como escenarios martiriales, con independencia, insistimos, de si el dato topográfico de la muerte era veraz o no. A modo de ejemplo la passio de Máxima, Segunda y Donatela sufrió varias interpolaciones y refracciones, en el marco de la pugna entre católicos y donatistas (85), sin que ello resulte un problema a la hora de determinar el valor sim-bólico del anfiteatro que aparece en dicha passio: si el edificio aparecía ya en las actas originales, tenemos un dato positivo; y si se interpoló posteriormente, el dato sigue siendo positivo para nosotros pues la interpolación mostraría un interés explícito en incluir este escenario, y esto es lo realmente importante para explicar y justificar la presen-cia de edilicia cristiana en los edificios de espectáculos.

Veamos otros ejemplos de textos donde se pone de manifiesto di-cho valor escénico a lo largo de la historia de las persecuciones. En la Esmirna de la época de Decio el mártir Pionio, después de pasar por el foro y el atrio, tuvo que ser llevado al teatro para que la plebe pudiera asistir sentada a la celebración de su juicio por profesar la fe cristiana, proceso que se estaba alargando demasiado (86). Más adelan-te, ante la negativa de Pionio a sacrificar, el director de los espectá-

(85) J. LeaL, Actas latinas, cit. nota 65, pp. 364-365.(86) Sed cum populus ad theatrum ire disponeret, ut in conscensu caueae multo melius bea-

ti martyris uerba posset audire: Mart. Pionii, 7 (ed. D. Ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, p. 620). Eusebio de Cesarea, erróneamente, fecha el martirio de Pionio en tiempos de Policarpo: d. ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, p. 611.

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culos le amenaza con reclamarlo a las autoridades para los combates de gladiadores (¿anfiteatro?), aunque finalmente es condenado a la hoguera, pena que se ejecuta en el estadio (87). Como se puede apreciar, la narración que ha llegado hasta nuestros días (88) parece no omitir ninguno de los escenarios lúdicos por los que transcurre el proceso y martirio de Pionio. Y a la vez se observa como la celebración de pro-cesos contra cristianos en escenarios lúdicos era también recurrente, pues estos edificios, de gran aforo, permitían dar cabido al numeroso público que se congregaba en tal tipo de eventos.

Incluso cuando la ejecución del mártir se producía en otro tipo de escenario, algunos narradores no desaprovecharon la ocasión de incorporar algún edificio lúdico en la trama literaria. Así, muy sig-nificativamente también a nuestro entender, en la Vita Cypriani es-crita por su propio discípulo el diácono Poncio, se menciona como el mitrado de Cartago atraviesa el estadio de la ciudad cuando es trasladado, para ser juzgado, desde la casa del oficial designado por el procónsul hasta el pretorio. El dato nos legitima para pensar que, muy probablemente, el redactor de la uita era perfectamente conscien-te del alto valor simbólico que revestían estos escenarios, reservados para ejecuciones de humiliores pero que paradójicamente otorgaban un prestigio insospechado al martirio. Aunque finalmente el honestior Cipriano es degollado en un valle boscoso – tipo de ejecución acorde a su status social –, Poncio, de un modo tal vez forzado a nuestro entender, se esmeraría por dejar muy patente la relación del martirio del obispo con el estadio – obsérvese que el detalle no aparece en las dos recensiones de la actas de Cipriano –, queriendo tal vez con ello el diácono conferir más legitimidad a la rápida y limpia ejecución del ilustre obispo cartaginés (89). Un proceso similar de inclusión posterior de edificio de espectáculos podemos sospechar en el relato transmi-

(87) Ad Asclepiadem uero munerum editor ait: Ego te quasi damnatum ad gladiatorum cer-tamina reposcam […] cumque ad stadium peruenisset: Mart Pionii, 18; 21 (ed. D. Ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, pp. 634, 638).

(88) Se trata de un texto griego que seguiría unas actas vistas por Eusebio y que éste utilizó para redactar su obra Antiguos martirios, hoy perdida: d. Ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, pp. 611-612.

(89) Eunti autem interfuit transitus stadii. Bene uere et quasi de industria factum, ut et locum congruentis certaminis praeteriret, qui ad coronam iustitiae consummato agone currebat: Pontio diac., Vita Cypr., 16, 4 (ed. A. A. R. Bastiaensen, Vita di Cipriano, Vita di Ambrogio, Vita di Agostino, Vite dei Santi, 3, Milano 1975, p. 43).

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tido por Beda relativo a la decapitación de Albano en la harena de Verulamium (vid. supra) Documentamos un caso, el de Rufina, cuyo cuerpo sin vida es llevado hasta anfiteatro de Hispalis para ser que-mado después de haber sido ejecutada en un lugar no descrito (90).

Potamiena, una de los denominados “mártires de Alejandría” do-cumentados bajo el reinado de Severo, muere en un lugar no espe-cificado y mediante un suplicio que no implica necesariamente un edificio de espectáculos (vertiendo por su cuerpo pez derretida), y sin embargo, según reporta Eusebio, es amenazada por el juez con ser entregada a los gladiadores para que la deshonren (91). Seis jóvenes de nombre desconocido se presentan ante el gobernador Urbano, en el anfiteatro de Gaza, para reclamar el martirio (92). Felipe, obispo de Heraclea en tiempos de Diocleciano, fue ejecutado en la hoguera, en un escenario indeterminado de Adrianópolis, pero en sus actas se describe como durante su cautiverio en Heraclea junto a algunos cristianos de la localidad, recibía en el teatro a la muchedumbre que le visitaba (93). E incluso en los sueños y visiones de los futuros már-tires son también recurrentes las apariciones de circos y anfiteatros como lugares premonitorios de su muerte: así, mientras permanece encarcelada, Perpetua tiene una visión de su cercano combate ad am-phitheatrum […] in media arena (94).

En un plano más legendario, pero no menos interesante para el argumento que nos ocupa, se conserva un relato según el cual Santa Columba de Sens fue conducida a la celda del anfiteatro de la ciu-dad homónima donde se hallaban recluidas las meretrices, lugar del que consiguió escapar antes de ser decapitada en las afueras de la localidad (95). Así mismo, en las apócrifas Acta Pauli et Theclae, la de

(90) Cuius corpus in anfiteatrum deferri mandauit, ut illic flamis atrocibus cremaretur: Passio Iuste et Rufine, 8 (ed. Á. Fábrega Grau, Pasionario Hispánico, II, cit. nota 57, p. 298).

(91) evSeBivS caeS., Hist. eccl., VI, 5 (SC 41, pp. 91-93).(92) evSeBivS caeS., De mart. Pal., 3, 3 (SC 55, pp. 126-127).(93) d. ruiz Bueno, Actas de los mártires, cit. nota 37, p. 1070. La cárcel donde perma-

necían presos los cristianos de Heraclea estaba unida al teatro mediante un túnel, y parece ser que hubo la acostumbrada permisividad por parte de las autoridades imperiales a la hora de permitir las reuniones entre los presos y no presos: ibidem, p. 1073.

(94) Passio Perpet. et Felic., 10, 4. Un análisis de estas visiones en a. carFora, I cristiani al leone, cit. nota 25, pp. 211-123.

(95) L. Réau, Iconografía de los santos. De la A a la F, in Iconografía del arte cristiano, 3,2, Barcelona 20002, pp. 325-326.

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Iconio sale indemne de un anfiteatro donde había sido arrojada a las bestias, mientras que el de Tarso escapa del estadio de Éfeso, jun-to a un león bautizado, gracias a la ayuda de una tormenta de gra-nizo (96).

Por otro lado, las ejecuciones de cristianos en el marco de edificios de espectáculos, se continuaron produciendo, aunque muy esporádi-camente, durante la Edad Media. Sirva como ejemplo la quema de doscientos cátaros en el anfiteatro de Verona en el año 1278 (97).

Una reseña arqueológica

A nivel arqueológico, y a partir de la elección del emplazamien-to de la edilicia cristiana, parece constatarse en determinados casos la voluntad de vincular simbólicamente el culto martirial con algún escenario lúdico. Lo que realmente nos interesa, y en ello estamos trabajando, es la edilicia cristiana implantada dentro del perímetro de los edificios de espectáculos, en tanto que testimonio en muchos casos de los martirios celebrados en sus arenas. Se ofrece a conti-nuación un avance de algunos de los datos más relevantes de nuestra investigación. Así, en relación al elenco de mártires antes ofrecido, y siguiendo el mismo orden cronológico, reseñamos muy brevemente algunos casos en que se documenta implantación de edilicia cristiana conmemorativa en los edificios de espectáculos donde fueron ejecu-tados estos cristianos, siempre según la tradición hagiográfica.

Resulta paradigmático el caso del martirio acaecido en Tarragona en el año 259, que tres siglos después conllevó la construcción de una capilla en las arenas de su anfiteatro para conmemorar la muerte del obispo Fructuoso y sus diáconos. El anfiteatro tarraconense fue el último de la Península Ibérica en perder su funcionalidad original (98), y lo hizo hacia mediados del siglo V. Ya en el siglo VI, hecha con materiales reaprovechados del mismo anfiteatro, se documenta una primera basílica, con toda probabilidad para conmemorar el martirio

(96) J. PerKinS, Fictional narratives and social critique, in Late Ancient Christianity, A People’s History of Christianity, 2, ed. V. Burrus, Minneapolis 2005, pp. 54, 60-61.

(97) M. BoLLa, L’Arena di Verona, cit., p. 59.(98) P. diarte BLaSco, La configuración urbana de la Hispania tardoantigua, cit. nota 14,

p. 284.

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de los tarraconenses (99). Una segunda iglesia, medieval (Santa María), que amortizó la iglesia tardoantigua y que, bajo una advocación dife-rente a la más primitiva (San Fructuoso) estuvo en uso hasta no hace tiempo, se perfila como significativa y enormemente ilustrativa, en tanto que muestra como muchas iglesias medievales sitas en edificios de espectáculos pueden estar escondiendo no sólo una iglesia más antigua, sino también una advocación anterior de carácter martirial. Este dato, que pasa siempre desapercibido, tiene profundas implica-ciones para el argumento que se está tratando.

En relación al martirio de Sebastián en el hippodrimo palatii duci, ya hemos apuntado con anterioridad que, tradicionalmente, dicho hi-pódromo se ha venido interpretando como el Circo Máximo, pero tal vez se debían considerar otras posibilidades. En concreto dos más: el ludus privado perteneciente al palacio de Domiciano (aun hoy visible pero tal vez descartable a la luz de las últimas interpretaciones del lugar como unos jardines imperiales), y un pequeño anfiteatro cons-truido también dentro del Palatino por Valentiniano III (100), del cual desconocemos su ubicación. Precisamente, a unos 150 m de distancia de las discutidas estructuras de época de Domiciano, se levanta una iglesia bajo la advocación del mártir: San Sebastiano al Palatino, do-cumentada desde el siglo X y que la tradición señala como el lugar exacto de la muerte de Sebastián. Habida cuenta que la iglesia con-memora, o al menos así lo afirma la tradición local, el lugar de un martirio, nos preguntamos si resulta muy arriesgado pensar que en el subsuelo de la iglesia podría encontrarse un edificio de espectáculos, sea el de Domiciano – si descartamos las estructuras hoy consideradas jardines – sea el levantado por Valentiniano III a mediados del siglo V durante su estancia en Roma. Respecto a esta segunda posibilidad, si bien es cierto que el martirio de Sebastián acaeció con anteriori-dad a la fecha de la supuesta construcción del anfiteatro por parte de Valentiniano III, lo importante en este caso (y si consideramos posi-

(99) La bibliografía sobre el Anfiteatro de Tarragona es amplísima. Véanse, entre las principales referencias de interés para nuestro argumento: L’Amfiteatre romà de Tarragona, la basílica visigòtica i l’església romànica, Memòries d’Excavació, 3, Tarragona 1990, y C. Godoy Fernández, La memoria de Fructuoso, Augurio y Eulogio en la arena del anfiteatro de Tarragona, in «Butlletí Arqueològic de la Reial Societat Arqueològica Tarraconense», XVI època 5 (1994), pp. 181-210.

(100) Atlante di Roma antica, ed. A. Carandini, Roma 2012, pp. 263-264.

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ble la hipótesis de que la iglesia está asentada sobre un anfiteatro) es que la passio se habría compuesto en un momento – 1/2 del siglo V como fecha más temprana (101) – en el que el anfiteatro ya existiría, y por lo tanto el redactor, como tantas otras veces sucedió en la litera-tura hagiográfica, no se ceñiría a la realidad histórica o bien estaría recogiendo el lugar señalado por alguna tradición local. Sin embargo, en esta caso, la construcción de edilicia cristiana conmemorativa sí se ceñiría al espacio señalado por la passio, lo que mostraría una vez más el poder y la influencia de los relatos hagiográficos en la socie-dad del momento. Todo ello, insistimos, sólo si la hipótesis de que bajo la iglesia de San Sebastiano al Palatino se emplaza un edificio de espectáculos es correcta, por lo que, como suele ser habitual, no nos queda más remedio que encomendarnos a labores arqueológicas futuras.

En el anfiteatro de la Salona romana, en uno de los corredores usado originalmente como capilla de culto a Némesis, se descubrie-ron en 1911 unos frescos atribuidos a la instalación de culto cristiano de carácter martirial (102). Dichos frescos, fechados a inicios del siglo VI por el estilo de la indumentaria de las figuras (103) – fecha que es también atribuida a la fundación de la capilla (104) –, contenían las representaciones de algunos de los mártires muertos en el mismo anfiteatro, con los correspondientes nombres inscritos; desafortuna-damente, los frescos desaparecieron en 1987 debido a problemas de conservación (105). El anfiteatro de Salona fue el escenario de la ma-yor parte de los martirios documentados en la localidad, por lo que nuevamente nos hallamos ante un espacio de memoria martirial, pero también ante un caso de cristianización de espacio religioso pagano,

(101) G. D. Gordini, Sebastiano, santo, martire di Roma, in Bibliotheca Sanctorum, XI, Roma, 1968, p. 778.

(102) F. BuLic, Escavi dell’anfiteatro romano di Salona negli anni 1909-12 e 1913-14, in «Bullettino di archeologia e storia dalmata», 37 (1914), pp. 3-48, partic. pp. 22-23; E. ma-rin, Salona Christiana, Split 1994, p. 80. El espacio donde encontramos estas trazas de culto cristiano también ha sido definido como la «capilla Este de los gladiadores»: G. V. MacKie, Early Christian Chapels in the West, cit. nota 70, pp. 214, 221.

(103) Ibidem, p. 222.(104) I. NiKoLaJevic, Images votives de Salone et de Dyrrachium, in «Zbornik Radova Vi-

zantoloskog Instituta», XIX (1980), pp. 59-70.(105) G. V. MacKie, Early Christian Chapels in the West, cit. nota 70, pp. 214-215, 221-

222.

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ya que recordemos que el lugar preciso de este edificio de espectá-culos donde se detecta culto cristiano había sido en origen la antigua capilla donde los gladiadores se encomendaban a Némesis antes de salir a la arena.

El anfiteatro de Corduba, del que se tenía constancia a través de la epigrafía y de la passio del mártir Acisclo redactada en época me-dieval, ha sido descubierto y excavado a principios del siglo XXI. Sus primeros indicios de reutilización o reocupación – como prefieren llamarlo sus excavadores –, diferentes a su función lúdica original, se detectan a inicios del siglo IV (106). Trabajos arqueológicos recientes ha puesto de manifiesto la presencia de un complejo arquitectónico tardoantiguo consistente en lo que sus excavadores describen como «dos conjuntos de edificaciones pertenecientes a un mismo proceso edilicio» fechado entre inicios del siglo IV y finales del V o inicios del VI: a) los fragmentos de dos edificios de planta indefinida, asen-tados sobre la arena, y b) tres edificios de idéntica planta, asentados sobre la proedria e ima cauea, consistentes cada uno de ellos en una estructura absidial de c. 8’30 m de diámetro adosada al podium y un cuerpo rectangular de más de 12 m de anchura y longitud indeter-minada (107). Otra estructura del anfiteatro es señalada como posible edificio de culto paleocristiano: se trataría de la adaptación de una estancia dispuesta junto a un uomitorium y con acceso desde el co-rredor (108). Todo ello configura un centro cultual complejo y muy pri-mitivo, pero recientemente la naturaleza cristiana de estas estructuras ha sido puesta en duda (109).

Sobresaliente a nivel de conservación estructural es el caso del anfiteatro de Dyrrachion (Durrës, Albania), donde se documentan dos capillas: la primera de ellas está compuesta de un ábside adosado al

(106) J. F. muriLLo et alii, El área suburbana occidental de Córdoba a través de las excava-ciones en el anfiteatro. Una visión diacrónica, in El anfiteatro romano de Córdoba y su entorno urbano. Análisis arqueológico (ss. I-XIII d.C.) eds. D. Vaquerizo y J. F. Murillo, Monografías de Arqueología Cordobesa, 19, Córdoba 2010, pp. 286-287.

(107) Ibidem, p. 290.(108) Ibidem, pp. 286-287.(109) r. hidaLgo Prieto, Sobre el supuesto centro de culto cristiano del anfiteatro de Cór-

doba, in «Habis», XXXXIII (2012), pp. 249-274. Debido a la complejidad y extensión de la discusión, nuestra opinión al respecto la hemos desarrollado parcialmente en un trabajo centrado en los casos hispanos: J. SaLeS carBoneLL, Arqueología e identidad religiosa en His-pania: edilicia cristiana y arquitectura lúdica, en prensa.

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pódium y de una nave sobre un uomitorium de la ima cauea; la se-gunda se asienta sobre la media cauea y presenta decoración a base de frescos; tal vez exista una tercera capilla, aún en fase de identifi-cación (110). Por otro lado se documenta un posible baptisterio y una extensa necrópolis ocupando la arena y otras partes del anfiteatro. A pesar de las dificultades propias de una excavación arqueológica que, parece ser, adoleció de muchas deficiencias, todo este programa edilicio cristiano se atribuye al último cuarto del siglo V y se pone en relación con la restauración de la ciudad por parte del empera-dor Anastasio I, que era natural de esta ciudad. Las capillas estarían consagradas al obispo Astion, a San Esteban y a un mártir local de nombre no indicado.

Por lo que concierne a Santa Inés, ya nos hemos referido antes a su martirio en el estadio de Domiciano, donde se emplaza actualmen-te una iglesia barroca, proyectada por Borromini, ocupando parte de las gradas del estadio; en el mismo lugar donde antes del siglo XII ya existía una iglesia. Efectivamente, en el año 1123 el Papa Calixto II amplió una capilla (111), construida en una de las bóvedas – de cryptis agonis (112) – del estadio durante la Antigüedad Tardía o la Alta Edad Media, que ya aparecería referenciada durante la segunda mitad del siglo VIII en el Itinerario de Einsiedeln (113). De hecho, se documentan tumbas de alrededor del siglo VI en el estadio, con toda probabili-dad relacionables con la presencia de un oratorio en estos momentos más tempranos (114).

Singular es el ejemplo del gran anfiteatro Flavio de Roma, lugar donde se presuponen multitud de ejecuciones cristianas – la primera y de hecho la única nominalmente conocida sería tal vez la de Ignacio de Antioquía, antes mencionada, pero en ningún caso confirmada por las fuentes –, y donde la implantación de edilicia cristiana parece ser muy tard Después de haber sido el Coliseo reconvertido en residen-

(110) K. BoWeS - a. hoti, An amphitheatre and its afterlives: survey and excavation in the Durres amphitheatre, in «Journal of Roman Archaeology», XVI (2003), pp. 380-394, fig. 4.

(111) M. ArmeLLini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 18912, p. 469.(112) En estos términos se denomina la iglesia en una bula del Papa Urbano III: ibidem,

p. 470.(113) e. JoSi, Agnese di Roma, in Bibliotheca Sanctorum, 1, Roma 1961, col. 399.(114) r. SantangeLi vaLenzani, La fine della città antica, cit. nota 13, p. 119.

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JORDINA SALES CARBONELL98

cia de familias nobles, en el siglo XIV el Senado hizo donación de un tercio del edificio al Hospital de San Giovanni (115), pero tal acto de generosidad por parte del poder público no fue devocional, sino que se produjo en aras a la prosaica finalidad de limpiar la zona de ladrones, prostitutas y maleantes (116). En 1675 Clemente X consagra-ba el Coliseo a los cristianos perseguidos (117), y en 1749 fue declara-do iglesia pública por parte de Benedicto XIV (118). También de los siglos modernos son las intenciones fallidas de construir iglesias de cierta monumentalidad: quedó pendiente la ejecución del proyecto de Gian Lorenzo Bernini de realizar, hacia 1670, un pequeño templo en el centro de la arena en honor a los mártires (119). Tampoco se llevó a cabo el proyecto de Carlo Fontana fechado en 1725 y consistente en levantar un Tempio ai Martiri en un extremo de las arenas (120), ni el de fundar una congragación laica que construyera un gran templo con motivo del Año Santo de 1750 (121). Sea como fuere, la intención y la advocación de estos proyectos demuestran, una vez más, el sig-nificado profundamente simbólico que para el Cristianismo seguían revistiendo las arenas de los anfiteatros. Y de hecho, actualmente exis-te una moderna y discreta capilla dedicada a Santa Maria della Pietà habilitada para el culto en una de las bóvedas inferiores del sector E del anfiteatro, y referenciada sólo en la documentación moderna pero que algún autor ha remontado a más de mil años de antigüedad (122) sin ninguna evidencia arqueológica firme, por el momento, que avale tal propuesta (123).

(115) C. NaPoLi, La chiesa di Santa Maria della Pietà al Colosseo, Roma 2007, p. 8.(116) r. Luciani, Il Colosseo, cit. nota 44, pp. 195-196. En recuerdo de este hecho, aun

subsiste un stemma con la imagen del Salvador en la llave del arco de ingreso del lado late-ranense.

(117) P. BaSSo, Gli edifici di spettacolo nella città medievale, cit. nota 3, p. 908.(118) r. Luciani, Il Colosseo, cit. nota 44, p. 204.(119) Ibidem, p. 203.(120) M. di macco, Il Colosseo. Funzione simbolica, storica, urbana, Roma 1971, pp. 82-

89; r. Luciani, Il Colosseo, cit. nota 44, p. 198.(121) Ibidem, p. 204.(122) C. NaPoLi, La chiesa di Santa Maria, cit. nota 115, p. 8.(123) Si bien es cierto que en los alrededores del anfiteatro se instalaron tumbas entre los

siglos V y VII – r. meneghini, r. SantangeLi vaLenzani, Sepolture intramuranee e paesag-gio urbano a Roma tra V e VII secolo, in La storia economica di Roma nell’alto Medioevo alla

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IMPLANTACIÓN DE IGLESIAS EN EDIFICIOS DE ESPECTÁCULOS ROMANOS 99

Quedaría fuera de nuestro argumento el caso particular de San Pedro del Vaticano: aunque se construyó una iglesia en el espacio del circo de Calígula y Nerón, ello no fue para conmemorar el lugar del martirio, si no por la presencia de una tumba martirial que, circuns-tancialmente, se emplazaba en la necrópolis contigua al circo, lo que motivo que cuando Constantino construyó su basílica, ésta invadiera buena parte del circo que, por otra parte, ya estaba en ruinas desde el siglo II y que el emperador se encargó de obliterar definitivamente antes de levantar la iglesia en honor a San Pedro. El escenario donde se produjo el martirio del Apóstol parece que pasó totalmente des-apercibido para Constantino: en ningún momento existió la voluntad de cristianizar un edificio de espectáculos por haber sido un escenario martirial, sino que sencillamente se planeó construir una basílica sobre una tumba santa que, casualmente, estaba justo al lado de las ruinas de un circo donde, a su vez, había sido ejecutado el Apóstol. En todo caso, originariamente los peregrinos veneraban, y siguen venerando aun hoy, la tumba de San Pedro, no el escenario de su martirio.

Por otro lado, se conserva edilicia cristiana, como mínimo, en más de medio centenar de edificios de espectáculos de ciudades romanas que la literatura hagiográfica conservada no menciona como esce-narios martiriales. Son los casos más abundantes, a menudo con las iglesias de fábrica medieval que podrían esconder una iglesia tardoan-tigua, como se ha visto en Tarragona: la denominada Catedral Vieja en el graderío del teatro de Cartagena, Santa María de las Arenas en el hipotético anfiteatro de Barcelona (124), Santa Maria dell’Arena en el anfiteatro de Ancona, el convento de San Donato y San Bernardo sobre la cauea del anfiteatro de Arezzo, Santa Maria al Circo y San Maurizio al Monastero Maggiore en el circo de Milano, la iglesia de St. John’s en el anfiteatro de Chester, los restos de una capilla en la

luce dei recenti scavi archeologici, Firenze 1993, pp. 89-109 –, el hecho tal vez se deba poner en relación con la hoy desaparecida iglesia de San Jacobo, que se ubicaba en el exterior del anfiteatro, a pocos metros de su fachada E, más si tenemos en cuenta que el Coliseo fue uti-lizado como edificio de espectáculos hasta el año 534, lo que a priori parece no favorecer la implantación de edilicia cristiana en el interior de su perímetro antes de esta fecha. Por otro lado, en 1895 aparecieron unos enigmáticos enterramientos en la arena (C. NaPoLi, La chiesa di Santa Maria, cit. nota 115, pp. 9-10), muy cercanos a la mencionada capilla de Santa Maria della Pietà, que creemos puedan pertenecer a cronologías plenamente medievales.

(124) J. SaLeS carBoneLL, Santa María de las Arenas, Santa María del Mar y el anfiteatro romano de Barcelona, in «Revista d’Arqueologia de Ponent», XXI (2011), pp. 61-73.

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JORDINA SALES CARBONELL100

spina del hipódromo de Tiro, o la Capilla en el sacellum del hipó-dromo de Caesarea Maritima, por poner sólo algunos ejemplos que estamos investigando. ¿Un indicio de que en estos anfiteatros y circos, teatros e hipódromos se ejecutaron cristianos, o que al menos así lo creían las tradiciones locales? Estamos ante el testimonio arqueoló-gico de martirios que la literatura hagiográfica no reportó, o cuyos textos no se han conservado?

Estas iglesias dentro del perímetro de los edificios de espectáculos constituyen casos particulares, dignos de ser estudiados, ya no sólo por el intenso significado intrínseco que tiene para el Cristianismo ocupar estos viejos espacios paganos, a menudo martiriales, si no por las implicaciones que conlleva también el fenómeno para la arqueolo-gía y el estudio del urbanismo antiguo: no pocos casos de necrópolis e iglesias de origen tardoantiguo que han llegado hasta nuestros días gracias a su uso prolongado en el tiempo, se pudieran haber asentado también en el interior de edificios de espectáculos hoy desaparecidos, o de los cuales resulta difícil detectar rastro arqueológico directo al-guno. En este sentido, dichas particulares iglesias, aún presentes en nuestro paisajes urbanos – no así ya los edificios de espectáculos –, a modo de indicador, constituirían el hilo del que empezar a tirar para recuperar la memoria de una anterior realidad constructiva pagana.

* * *

El arte también se hizo y se sigue haciendo eco de esta vinculación simbólica entre escenario lúdico y martirio. En un primer momen-to se representaron escenas relativas al martirio descontextualizadas de escenario arquitectónico alguno, principalmente en determinadas vajillas de lujo como las de Terra Sigillata Africana C – es célebre el plato de la forma Hayes 53 A, fechado en la segunda mitad del s. IV, con una mártir entre dos leones y la inscripción DOMINA VIC-TORIA (125) –, pero también en obras pictóricas como muestran las figuraciones contenidas en la excepcional ara de Thaenae (126); en los

(125) K. Weidemann, Spätantike Bilder des Heidentums und des Christentums, Mainz 1990, n. 13.

(126) El ara o altar en cuestión, proveniente de la necrópolis paleocristiana de Thaenae (Sfax, Túnez), tiene forma cúbica y contiene cuatro lados pintados, dos de los cuales corres-

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IMPLANTACIÓN DE IGLESIAS EN EDIFICIOS DE ESPECTÁCULOS ROMANOS 101

momentos tardoantiguos, especialmente los tardorromanos, todo el mundo sabía perfectamente cual era el escenario de dichas muertes tan concretas, por lo que ni tan siquiera se haría necesario represen-tarlo, como se evidencia en los ejemplos mencionados.

Más tarde, en los siglos medievales y modernos, cuando los restos arquitectónicos de los edificios de espectáculos estaban desaparecien-do progresivamente del skyline de las ciudades y de la memoria de sus moradores, empezaron a ser frecuentes las representaciones de determinados martirios con un anfiteatro de fondo. Tal es el caso del una ilustración del siglo X, donde dos leones devoran a Ignacio de Antioquía en un anfiteatro (127). Y más significativo aun si cabe para nuestro argumento resultan los casos de la pintura La muerte de San Sebastián ( Josse Lieferinxe, 1497) y de un curioso fresco/mural die-ciochesco con el martirio de Ignacio de Antioquía conservado en la iglesia de San Vitale (Roma), dónde ambos episodios se representan fuera del perímetro de un anfiteatro – el Flavio en ambos casos –. ¿Se perseguiría de este modo que el espectador, ahora ya muy lejano a los hechos, identifique rápidamente la presencia y preeminencia del escenario lúdico en la composición? Sea como fuere, la arquitectura romana pagana había dejado de ser el escenario y había adquirido la categoría de actor de reparto en el esquema compositivo del marti-rio cristiano.

En los tiempos contemporáneos, el fenómeno lo heredó la co-rriente pictórica historicista de finales del siglo XIX, con el cuadro de Gérôme representando las plegarias previas a la muerte en la are-na de los mártires de Lyon como paradigma de esta iconografía. Y se popularizó para las masas gracias a las producciones cinematográ-ficas, dónde nos resultaría francamente difícil no encontrar un anfi-teatro de fondo en los péplum de Hollywood que incluyen escenas de martirios cristianos.

ponden a sendos damnati ad bestias, muy probablemente mártires cristianos relacionados con la Passio Perpetuae et Felicitatis, según las interpretaciones iconográficas más recientes: cfr. R. Cacitti - g. LegrottagLie - g. PeLizzari - m. P. roSSignani, L’ara dipinta di Thaenae. Indagi-ni sul culto martiriale nell’Africa paleocristiana, Roma 2011, pp. 8, 71-136. Algunos autores, simplemente, interpretan las pinturas de Thaenae como escenas de anfiteatro, pero en todo caso hay unanimidad en señalar que la damnatio ad bestias, fuera aplicada a un pagano o a un cristiano, se producía en el marco de un edificio de espectáculos.

(127) Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1613, f. 258.

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J. SALES CARBONELL : IMPLANTACIÓN DE IGLESIAS EN EDIFICIOS DE ESPECTÁCULOS102

Así, mediante la literatura hagiográfica y las manifestaciones artís-ticas, la asociación física y simbólica entre martirio y anfiteatro – sien-do éste entendido como edificio genérico de espectáculos – se mantu-vo en el imaginario colectivo a lo largo de los siglos, llegando incluso a gestarse la leyenda decimonónica de que el anfiteatro por excelencia, el Coliseo de Roma, había sido proyectado por un arquitecto cristiano llamado Gaudencio, quien a su vez, siempre según la leyenda, habría muerto martirizado en las arenas de su propia obra (128).

En conclusión, desde las primeras persecuciones algunos juicios a cristianos, pero sobre todo muchos martirios y ejecuciones, se llevaron a cabo en edificios romanos de espectáculos. Y cuando no fue así, no pocos redactores de acta, uitae y passiones aprovecharon para aludir de un modo u otro a estos escenarios evocadores, de alta carga sim-bólica en el marco de la “lucha” cristiana: la victoria de los mártires se había producido en y con las arenas, y el mito no hizo más que crecer a partir de los tiempos de las persecuciones y hasta práctica-mente nuestros días. Y ello, como no podía ser de otro modo, tuvo también sus repercusiones en la nueva edilicia sacra que impregnó los vetustos monumentos romanos.

Jordina SaLeS carBoneLL

(128) La leyenda se originó a partir del hallazgo decimonónico de la lápida de un tal Gaudencio en las catacumbas de Santa Agnese, cuyo epitafio fue forzada y fantasiosamente interpretado como perteneciente al arquitecto del anfiteatro Flavio: A. J. o’reiLLy, The Mar-tyrs of the Coliseum, Toronto 1874, pp. 34-37.

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO Y

LA SEDE APOSTÓLICA DE ROMA DURANTE EL SIGLO VII

La IglesIa española del s. VII se presenta como una de las iglesias nacionales más brillantes de su época. La conversión del reino visigodo al catolicismo, oficializada en la sesión inaugural del III con-cilio de Toledo del año 589, unida a la perfecta organización eclesiás-tica y al cuidado de la formación del clero, como demuestra el am-plio número de autores eclesiásticos de este período, favorecieron la manifestación de una Iglesia nacional orgullosa de sí misma y cons-ciente de su puesto destacado dentro de la Iglesia universal en Oc-cidente. Sus relaciones con Roma fueron fluidas aunque no exen-tas de problemas. A continuación nos detendremos en dos episodios que muestran esta interacción. Aun siendo bastante diferentes entre sí, coinciden en el modo de ser afrontados: unidad episcopal, praxis común, autonomía dentro de la comunión con la sede petrina y or-todoxia fuera de toda duda.

La cuestión judía

Braulio, obispo de Zaragoza entre los años 631-651, no desta-có ciertamente a causa de su producción literaria, sí, en cambio, por su diligente actividad eclesiástica. Fue el centro de un tenso episo-dio que tuvo como protagonistas al episcopado español y a la sede de Roma, gobernada a la sazón por Honorio I. Éste había hecho sa-ber a los obispos reunidos en concilio, el VI de Toledo del año 638, mediante una carta que no se conserva, la perplejidad pontificia por lo que parecía una dejadez por parte de la Iglesia española en rela-

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JUAN ANTONIO CABRERA MONTERO104

ción a la deficiente solicitud que parecía mostrar en relación con la represión a la que debían ser sometidos los judíos que una vez con-vertidos habían vuelto a sus prácticas religiosas anteriores.

La respuesta del episcopado sí se conserva y está incluida en el epistolario de Braulio de Zaragoza (1). El fondo de la polémica se re-fiere a una cuestión disciplinar sin contenido teológico estricto (2). Nos interesa, por tanto, la reacción del episcopado español ante una in-jerencia de Roma que parecía motivada seguramente por falsas in-formaciones y bastante áspera en su contenido, algo similar a lo que ocurriría algunas décadas después a raíz del envío a Roma del primer Apologeticum de Julián de Toledo, que analizaremos posteriormente.

El tono empleado por Roma es duro y arrogante, llega a calificar a los obispos españoles «perros mudos que no pueden ladrar» (3) por no actuar con el debido celo en defensa de la verdadera fe y la co-rrecta praxis de los conversos. Braulio se defiende de las acusaciones en diferentes momentos de la epístola indicando que seguramente el Papa ha sido mal informado por intrigantes que no buscan sino mi-nar la credibilidad y la acción del episcopado español que, por otra parte, ya actúa colegialmente según lo establecido en los cánones de algunos de los concilios celebrados en España. Siempre en un tono

(1) Se trata de la epístola 21. Cfr. Epistolario de S. Braulio de Zaragoza, edición crítica se-gún el códice 22 del Archivo Capitular de León, con una introducción histórica e comenta-rio por J. Madoz, Madrid 1941. Cfr. también l. RIesco TeRReRo, Epistolario de san Braulio, introducción, edición crítica y traducción, Sevilla 1975.

(2) La bibliografía la respecto es muy amplia. Reseñamos aquí sólo alguna de las con-tribuciones más significativas entre las que destaca el reciente artículo de a. FeRReIRo, St. Braulio of Zaragoza’s Letter 21 to Pope Honorius I regarding lapsed baptized Jews, in «Sacris Erudiri», XLVIII (2009), pp. 75-95. Muy importante también la contribución de R. gonzá-lez salIneRo, Las conversiones forzosas de los judíos en el reino visigodo, Roma 2000, pp. 43-51. Además de los estudios clásicos de F. FITa, El Papa Honorio I y San Braulio de Zaragoza, en «La Ciudad de Dios», IV (1870), pp. 186-204, 206-278; V (1871), pp. 271-279, 358-365, 447-458; VI (1871), pp. 48-60, 101-107, 192-200, 252-260, 337-346, 403-417 (las referencias a este artículo son secundarias; no se trata de la más conocida revista agustiniana «La Ciudad de Dios», creada en 1881 bajo el nombre de «Revista Agustiniana»); a. cusTodIo Vega, El primado romano y la iglesia española en los primeros siglos, en «La Ciudad de Dios», CLIV (1942), pp. 23-56, 237-284, 501-524; c. H. lyncH - P. galIndo, San Braulio obispo de Zara-goza (631-651): su vida y sus obras, Madrid 1950, pp. 153-157.

(3) «Canes muti non ualens latrare», ep. 21, l. 56 (ed. Madoz, p. 127). Braulio, no sin ironía aunque en modo elegante, recuerda al Papa que tal cita no es de Ezequiel, como Ho-norio I había indicado, sino de Isaías, «aunque», añade, «todos los profetas profetizan con un solo espíritu».

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO 105

pausado y repleto de encomios a su interlocutor, que en ocasiones de lo exagerado que se presenta parece indicar justamente lo contrario de lo que escribe, Braulio ruega al pontífice que no se deje engañar más, que confíe en la buena práctica del reino y de la iglesia españo-les y que no insista en pedir la aplicación de medidas extremas aña-didas – que no se especifican – contra los conversos lapsos porque de eso ya se ocupan ellos conveniente y diligentemente. En definiti-va, acogen las palabras del Papa, responden a su escrito sin ocultar su malestar por el tono empleado, pero mantienen su praxis.

No se tienen noticias de posteriores repuestas por parte de Roma al respecto, aunque la polémica judía siguió en España, como por lo demás en el resto de los nuevos reinos surgidos tras la desaparición del imperio de occidente. Conviene resaltar que este episodio mues-tra por una parte la existencia de unas relaciones fluidas aunque no exentas de dificultad de las sedes episcopales nacionales, en este caso españolas, con Roma y, por otra, la afirmación de la autonomía de aquéllas que aun en comunión con la sede apostólica no renuncian a su independencia en materias disciplinares. Ni este episodio que tuvo como protagonista a Braulio ni el posterior que tuvo que afrontar Ju-lián, pusieron en peligro la comunión entre las iglesias de España y Roma por más que algunos autores lo hayan insinuado (4).

La cuestión cristológica

Julián de Toledo puede ser considerado el último gran represen-tante de la patrística española. El ejercicio de su ministerio episco-pal en la sede primada de Toledo, la participación activa en los con-cilios celebrados durante su pontificado, su intervención en la vida social y política del reino visigodo y la producción literaria que de-sarrolló, lo sitúan en la misma línea de otros autores coterráneos que contribuyeron a crear un verdadero siglo de oro eclesiástico en la Es-paña del siglo VII.

Durante su pontificado como primado de España y como quedó

(4) Cfr. J. M. lacaRRa, La iglesia visigoda en el siglo VII y sus relaciones con Roma, en Le chiese nei regni dell’Europa occidentale e i loro rapporti con Roma sino all’800, Atti delle Set-timane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 7-13 aprile 1959, Spoleto 1960, p. 381; P. B. gaMs, Die Kirchengeschichte von Spanien, II, 2, Graz 1956, p. 200.

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JUAN ANTONIO CABRERA MONTERO106

registrado en las actas del XIV concilio de Toledo, encontramos el se-gundo episodio conflictivo de envergadura que interesó al episcopado español con Roma. El motivo fue la reacción de los obispos hispanos ante la petición de la sede apostólica de suscribir lo acordado en el III concilio de Constantinopla. Reunidos en Toledo entre los días 14 al 20 de noviembre del año 684, los asistentes – diecisiete obispos, seis abades y diez representantes de los obispos de otras sedes – dan fe, por un lado, de la aprobación por parte de las diferentes sedes epis-copales españolas de las actas que habían sido enviadas desde Roma y, por otro, de la redacción de un escrito en el que se explicita más detalladamente el sentido de la fe del episcopado español (5). Se indica asimismo el contenido de aquel escrito ya enviado a Roma (6) y se de-clara que por parte del episcopado resta únicamente decidir por deli-beración conciliar acerca de las citadas actas y robustecer los pareceres particulares y aislados de cada obispo con la autoridad de los conci-lios. De este modo, una vez concluido el proceso de revisión, examen y aprobación de los concilios celebrados en cada una de las provincias eclesiásticas españolas, se podrá dar a conocer a todos la respuesta y la postura oficial de la jerarquía española sobre la cuestión (7).

A esta información contenida en las actas del XIV concilio de Toledo, se añade la ofrecida en el mismo texto de Julián y que fue incluido en las actas del siguiente. En diferentes lugares de las actas de este citado concilio, XV de Toledo celebrado en el año 688, se informa acerca del escrito enviado años atrás desde España a Roma que suscitó alguna perplejidad en la sede apostólica. El texto es de-nominado con diferentes títulos: liber responsionis et fidei nostra (8), responsionis et fidei nostrae opusculum (9), responsionis nostrae liber (10)

(5) Cfr. La Colección Canónica Hispana: VI, Concilio hispánicos: tercera parte, por G. Mar-tínez Díez y F. Rodríguez, Madrid 2002, p. 280 (en adelante, CCH VI).

(6) Ibidem, «allí se señala copiosa y claramente lo que es verdadero acerca de esta doble voluntad y operación de Jesucristo Hijo de Dios».

(7) Cfr. Ibidem, pp. 280-281. Sobre la cronología de los acontecimientos hay diversidad de opiniones entre los estudiosos que se han ocupado del tema, cfr. F. X. MuRPHy, Julian of Toledo and the condemnation of monothelitism in Spain, en Mélanges Joseph de Ghellinck, S. J., Tome I: antiquité, Gembloux 1951, p. 365, n. 13.

(8) CCH VI, p. 298.(9) Ibidem, p. 300.(10) Ibidem, p. 319.

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO 107

aunque siempre referido al mismo escrito surgido como respuesta y explicación de la fe por parte de los obispos españoles.

Hasta aquí las noticias contemporáneas al texto que pueden dar-se por ciertas. Se desconoce la suerte que corrió este primer escrito puesto que no ha llegado hasta la actualidad. El hecho de no haber-se incluido en las actas del XIV concilio de Toledo probablemente dificultó su transmisión, algo que no sucedió con el segundo Apolo-geticum, ampliamente difundido, si bien incompleto, en las diferen-tes colecciones de los concilios hispanos (11).

A la dificultad de centrar en modo adecuado la polémica entre los obispos españoles y la sede apostólica por no haberse conserva-do el primer Apologeticum, se une otra menos teológica, más meto-dológica, pero que complica igualmente el estudio de este episodio. Se trata de lo penoso que fue el diálogo entre los implicados. Julián se lamenta de que las críticas pontificias a la primera respuesta no hubieran sido puestas por escrito sino simplemente referidas verbal-mente al representante español ante la sede romana. Éste, por lo que se deduce de las palabras de Julián, redactó una nota no oficial en la que se detallaban las perplejidades del Papa. A todo ello respon-de ahora Julián, si bien a nosotros tampoco ha llegado la réplica en su totalidad, como se irá viendo a continuación.

La única documentación oficial que se había recibido en España databa de algunos años antes. Se trata de la correspondencia envia-da desde Roma con la que se invita al episcopado español a suscri-bir las determinaciones del III concilio de Constantinopla.

Llegaron a España cuatro cartas procedentes de Roma por me-dio del notario regionario, Pedro, cuyos destinatarios fueron: el con-junto del episcopado español (12), el rey Ervigio (13), el conde Simpli-cio (14) y Quirico, obispo de Toledo (15).

(11) Cfr. Sancti Iuliani Toletanae sedis episcopi opera: pars I, ed. J. N. Hillgarth, CCSL CXV, pp. lxiii-lxv.

(12) «Cum diuersa sint», Jaffé, 2119. La Colección Canónica Hispana: III, Concilios grie-gos y africanos, por G. Martínez Díez y F. Rodríguez, Madrid 1982, pp. 190-195, ll. 216-335 (en adelante, CCH III).

(13) «Cum unus exstet», Jaffé, 2120. CCH III, pp. 200-204, ll. 457-566.(14) «Cum singulare sit», Jaffé, 2121. CCH III, pp. 196-199, ll. 363-430.(15) «Ad cognitionem uestrae», Jaffé, 2122. CCH III, pp. 195-196, ll. 336-362. Quirico

había fallecido en enero del año 680, algo que, sorprendentemente, ignoraba Roma.

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JUAN ANTONIO CABRERA MONTERO108

La epístola dirigida al episcopado recoge al inicio una serie de elogios a la Iglesia de España, de la que conoce y llena de satisfac-ción el celo religioso, la defensa de la doctrina divina y el fervor y la pureza de la tradición evangélica y apostólica (16). Pasa después a in-formar acerca del concilio celebrado en la ciudad de Constantinopla por voluntad del emperador Constantino IV (17). Tal asamblea, con-tinúa la carta, constituyó el sexto concilio ecuménico (18), al que se adhirió desde un principio el papa Agatón I (19), que no sólo envió a sus representantes sino también un escrito de contenido dogmáti-co (20). En Constantinopla, continúa la epístola a los obispos de Es-paña, se reafirmó la doctrina de las dos naturalezas y dos voluntades y operaciones en Cristo y se condenó a quienes sostenían lo contra-rio (21), entre ellos Honorio I que, en lugar de extinguir el error he-rético, como era su deber, lo alimentó despreocupándose de él (22). Seguidamente se detalla otra serie de intervenciones disciplinares (23). Tras lo cual se informa del envío de la traducción al latín no de las actas completas del concilio, que habrían recibido más adelante si así lo hubieran deseado, sino de tres textos: la definición conciliar (24), la aclamación o prosphoneticus dirigida por el concilio al emperador (25)

(16) CCH III, p. 190, ll. 227-230.(17) Ibidem, p. 191, ll. 240-254.(18) Recordemos que la Colección canónica hispana sitúa este concilio inmediatamente

después de Calcedonia, omitiendo el II concilio de Constantinopla, aun a sabiendas de su existencia y legitimidad.

(19) CCH III, p. 191, ll. 255-257.(20) Roma participó en el III concilio de Constantinopla a través de una delegación que

transmitió la profesión de fe suscrita por el papa y los obispos de las sedes dependientes de Roma. En tal profesión se condenaba de manera formal la doctrina monotelita. Cfr. l. BRé-HIeR, Les derniers Héraclides. Rétablissement de la paix religieuse. Guerres civiles et invasions (668-715), in Grégoire le Grand, les états barbares et la conquête arabe (590-757), par Louis Bréhier - René Aigrain eds., Paris 1947, pp. 184-185; F.-X. MuRPHy - P. sHeRwood, Constanti-nople II et Constantinople III, Paris 1974, pp. 191-194.

(21) CCH III, p. 192, ll. 265-269.(22) Ibidem, ll. 278-280. Sobre Honorio I, cfr. a. sennIs, Onorio I, en Enciclopedia dei

Papi, I, Roma 2000, pp. 585-590; a. dI BeRaRdIno, Onorio papa, in Nuovo dizionario patri-stico e di antichità cristiane, diretto da A. Di Berardino, II, Genova-Milano 2007, cc. 3623-3624 y la correspondiente bibliografía.

(23) CCH III, pp. 192-193, ll. 280-290.(24) Ibidem, pp. 181-189, ll. 2-202.(25) Ibidem, pp. 189-190, ll. 203-215.

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO 109

y el decreto imperial que sancionaba las determinaciones concilia-res (26). Es labor ahora del episcopado español, concluye la misiva, suscribir diligentemente lo acordado en Constantinopla y darlo a co-nocer al clero y al pueblo a él confiado (27), mostrando así su unión a la Iglesia universal.

La segunda carta que llegó de Roma estaba dirigida al rey Ervi-gio (28). En ella, tras una profusa introducción en la que se habla de la condición regia de Dios sobre todo lo creado y de la propia au-toridad de la sede apostólica (29), se informa al rey de la celebración del III concilio de Constantinopla (30). En dicho concilio, se mostró la doctrina ortodoxa cristiana acerca de las dos naturalezas de Cristo y sus dos voluntades y operaciones (31) a través de los testimonios de la tradición apostólica y de los concilios celebrados con anterioridad bajo la autoridad de los Padres. Le informa asimismo de las condenas decretadas por el sínodo constantinopolitano, incluida la de Honorio I (32). Le exhorta a que la doctrina conciliar sea proclamada a todo el pueblo fiel de su reino (33) y le informa de los documentos que lleva consigo el representante papal añadiendo, con el empleo de la mis-ma terminología que en la carta al episcopado, que deberán ser sus-critos por los prelados de su reino (34).

La epístola al conde Simplicio (35) es más breve que las dos anterio-

(26) Ibidem, p. 193, ll. 291-297.(27) Ibidem, pp. 193-194, ll. 302-314.(28) Existen dudas acerca de la atribución de esta carta al papa León II. La mayor parte

de los estudiosos adjudican su autoría a Benedicto II, sucesor de León II, entre ellos F. Aré-valo, editor del volumen de la Patrologia Latina que al incluirla en la colección canónica isi-doriana la sitúa después de una carta de Benedicto II a Pedro, el notario regionario enviado a España (PL 84, 148-150) y la última edición crítica de la Colección canónica hispana que si-gue el mismo criterio. Jaffé (cfr. 2120), por su parte, añade tras la descripción de la misma, su parecer contrario a atribuir la carta a otro que no sea León II.

(29) CCH III, pp. 200-201, ll. 458-487.(30) Ibidem, pp. 201-202, ll. 488-498.(31) Ibidem, p. 202, ll. 508-514.(32) Ibidem, p. 203, ll. 525-533.(33) Ibidem, p. 204, ll. 546-550.(34) Ibidem, ll. 551-565.(35) De este personaje existen únicamente las referencias que encontramos en este epi-

sodio. Ser considerado a la misma altura del rey, el obispo de Toledo y el resto del colegio episcopal español, da idea de la importancia que debió tener en la época.

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JUAN ANTONIO CABRERA MONTERO110

res. Tras una larga disertación sobre la misión de la Iglesia de conser-var y transmitir la tradición apostólica (36), le da noticia acerca del con-cilio celebrado en Constantinopla y el papel desarrollado en el mismo por la sede apostólica. Le informa del envío de la documentación con-ciliar idéntica a la vista en las anteriores epístolas y le exhorta a con-tribuir en su difusión y conocimiento en todas las regiones de Espa-ña (37). A la carta que recibe Simplicio va unida una reliquia: una cruz realizada con las cadenas que tuvieron prisionero al apóstol Pedro.

La última de las cartas atribuidas a León II que llegan a Espa-ña está dirigida al obispo de Toledo, Quirico. Éste, como se dijo an-teriormente, había muerto años atrás (38). Es la más breve de todas y lejos de entretenerse en amplias introducciones y discursos, se le in-forma de la misión del notario regionario en España: consignar a los obispos, al rey y al conde Simplicio la documentación pertinente re-lativa al tercer concilio constantinopolitano (39). Sin añadir datos más relevantes concluye informando también del envío de una reliquia si-milar a la recibida por el conde Simplicio (40).

Así pues, Roma encomienda al episcopado ibérico la aprobación y difusión de la doctrina conciliar y ruega a las autoridades civiles más representativas que velen por tal misión. Las cartas llegaron a Espa-ña cuando se acababa de celebrar el XIII concilio de Toledo, reuni-do en noviembre del año 683. Será en el siguiente concilio toledano, celebrado un año más tarde, el que informe de cómo se procedió a dar cumplimiento a la petición de la sede apostólica (41).

El procedimiento normal habría sido la convocatoria de una nue-va asamblea del episcopado, pero dado que una serie de dificultades prácticas lo impedía (42), el rey Ervigio decretó que al menos se reunie-ran los concilios provinciales para responder a la petición de Roma. Se debería comenzar con el correspondiente a la sede primada de Toledo

(36) CCH III, pp. 196-197, ll. 365-387.(37) Ibidem, pp. 198-199, ll. 400-423.(38) Quirico ocupó la sede de Toledo entre los años 667 y 680. Cfr. l. a. gaRcía MoRe-

no, Prosopografía del reino visigodo de Toledo, Salamanca 1975, p. 119.(39) CCH III, p. 195, ll. 337-347.(40) Ibidem, p. 196, ll. 355-362.(41) XIV concilio de Toledo, CCH VI, pp. 275-290.(42) Ibidem, pp. 279-280, ll. 70-87.

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO 111

de modo que se pudiera informar al resto de las sedes lo acordado allí y de este modo se lograran unas actas comunes a todos ellos (43).

Así pues, la Iglesia española había cumplido ya con la misión en-comendada por el papa León II con anterioridad a la celebración del XIV concilio de Toledo, por tanto antes de noviembre del año 684. Ese mismo año había muerto León II y su sucesor Benedicto II man-dó una epístola a Pedro, el notario regionario, para que agilizase el proceso de aprobación de las actas de Constantinopla (44). Sin duda, al inicio de su pontificado no habían llegado aún a Roma los docu-mentos enviados por el episcopado español que se detallan en las ac-tas del XIV concilio de Toledo (45).

Una vez recibida la documentación procedente de España se dio inicio al conflicto que enfrentó a las sedes españolas con la romana. El episcopado hispano había osado mandar, sin que Roma se lo hubiera requerido, una explicación o interpretación del tema tratado. Tal es-crito, el primer Apologeticum, no gustó en Roma y se pidieron expli-caciones aunque, por lo que se deduce del texto del segundo Apolo-geticum, no según el procedimiento más ortodoxo, esto es, por escrito, sino de palabra por medio del representante español en Roma.

A estas cuestiones puestas en entredicho por Roma se dio cum-plida respuesta en el año 686. Así, al primer Apologeticum enviado, como se ha visto, con anterioridad al XIV concilio de Toledo, se unió un segundo, escrito nuevamente por Julián. Sobre el número de las respuestas por parte de Julián y la cronología de las mismas hay di-versidad de pareceres entre los autores modernos. Así, F.-X. Murphy afirma la existencia de tres escritos redactados en los años 684, 686 y 688 (46). Hillgarth, por su parte, rebate esta tesis y afirma la existen-cia de dos únicas respuestas de Julián, una, el primer Apologeticum, redactada en el año 684, y otra, el segundo Apologeticum, escrito y enviado a Roma en el año 686, que más tarde sería incluido en las actas del XV concilio de Toledo del año 688 (47). Esta última hipóte-

(43) Ibidem, pp. 277-278, ll. 29-49.(44) CCH III, pp. 199-200.(45) «De responsis partis nostrae», CCH VI, pp. 280-281, ll. 88-105.(46) Si bien la primera de ellas, aun haciendo referencia a la polémica monotelista no es-

taba dirigida al Papa ni redactada por Julián cfr. F.-X. MuRPHy, Julian of Toledo and the con-demnation, cit. en la nota 7, pp. 366-367.

(47) Cfr. CCSL CXV, p. x, n. 2.

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JUAN ANTONIO CABRERA MONTERO112

sis parece ser la más razonable a tenor del testimonio de Félix en la biografía de Julián, que enumera sólo dos obras, y de lo que las ac-tas del propio XV concilio transmiten cuando hablan de una única respuesta de Julián «ante hoc biennium» (48).

Como se ha venido señalando en páginas anteriores, las actas del XV concilio de Toledo no contienen la totalidad del segundo Apolo-geticum. El texto está adaptado a las exigencias propias del contexto en el que está incluido. Es improbable que el inicio del texto origi-nal se correspondiera con el que aparece en la primera parte del que conservamos. El redactor de las actas, lógicamente, hubo de adaptar la introducción y retocar el texto para dar coherencia al texto con-ciliar. Aquí surge otro problema respecto a la presencia en las actas del concilio del segundo Apologeticum. No es probable que durante el desarrollo del concilio se leyera íntegramente el tratado, de haber sido así, los propios redactores de las actas lo habrían injerido tal y como fue enviado a Roma. Se presenta como posibilidad más lógica que el propio Julián, presidente de la asamblea, tomara la palabra y expusiera a los padres conciliares el contenido de su escrito. Esto ex-plicaría también el modo con el que despacha las otras dos cuestio-nes sobre las que no se detiene en el capítulo tercero y sobre todo el lenguaje y el tono empleados cuando Julián se dirige a quienes han puesto en duda la ortodoxia de su doctrina. Sabemos del carác-ter enérgico de Julián como primado de España y la habilidad mos-trada en cuestiones tanto eclesiásticas como políticas, pero el modo en que trata a sus críticos parece más fruto del ambiente conciliar que de una reposada redacción de un escrito de respuesta a Roma. Si quisiéramos seguir la narración del final de la crisis tal y como la presenta la Crónica mozárabe de 754, podríamos concluir que en el texto original seguramente no había rastro de lenguaje que pudiera resultar ofensivo:Roma lo recibió con respeto y devotamente; advirtió a todos que debía ser leído, y fue dado a conocer al nobilísimo emperador repitiéndose la aclamación: “Tu glo-ria, Señor, hasta los confines de la tierra”. El Papa con toda consideración y agra-decimiento envió a Julián por medio de los mismos legados un rescripto en el que manifestaba que todo cuanto había escrito era exacto y dentro de la fe (49).

(48) CCH VI, p. 298, l. 125.(49) Crónica Mozárabe de 754, edición crítica y traducción de J. E. López Pereira, Zara-

goza 1980, p. 41.

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO 113

Es la única noticia que tenemos de la conclusión de la polémica y como tal hay que considerarla. No obstante, sea como fuere, el duro tono empleado por Julián que aparece reflejado en las actas del XV concilio de Toledo parece más una herramienta retórica que segura-mente pretendía reforzar su autoridad como primado de España.

Detengámonos en algunas de las frases que reflejan claramente el malestar del episcopado español con una sede romana que no pare-cía estar a la altura teológica que se le presuponía.

a) «uoluntas genuit uoluntatem» (50)

El primer tema que exigió la segunda explicación por parte del episcopado español estaba muy relacionado con la polémica que ha-bía provocado la convocatoria del III concilio de Constantinopla: la cuestión de la voluntad en Cristo. Era normal que los textos que in-cluyeran el término uoluntas fueran sometidos a un control particular y así sucedió en la respuesta de Roma al primer Apologeticum.

La respuesta del Papa que cita Julián no se ha transmitido en ningún otro documento. Anteriormente, el mismo Julián se había la-mentado de que las explicaciones requeridas por la sede apostólica no hubieran sido puestas por escrito sino transmitidas verbalmente por medio del representante español en Roma. El empleo de uisum fuisset (51) antes de la cita que atribuye al Papa podría indicar dos co-sas: por una parte, la falta de seguridad acerca de la autoría exacta del texto; por otra, la coincidencia entre ambas proposiciones, la es-pañola y la romana, dado que el error no está en la frase sino en el modo de interpretarla, bien según la esencia, bien según la compa-ración de la mente humana o según lo relativo.

Lo importante es destacar la imagen que transmitía la sede roma-na en aquel tiempo. Julián intenta exculpar al Papa atribuyendo sus críticas a una lectura descuidada del primer Apologeticum. Más ade-lante, al final de este segundo Apologeticum, se verá cómo Julián ya no eximirá de culpa a la sede romana, antes bien, denunciará abrup-tamente la ignorancia de sus teólogos.

La Iglesia española tenía motivos para no fiarse de Roma. Reco-

(50) CCH VI, p. 299, l. 135.(51) Ibidem, p. 298, ll. 133-134.

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JUAN ANTONIO CABRERA MONTERO114

nocía, lógicamente, su autoridad apostólica, de no haber sido así no se habría preocupado siquiera en contestar a la solicitud acerca de la adhesión a las determinaciones del concilio de Constantinopla. No obstante, el aprecio por el nivel teológico de Roma había descendido en las últimas décadas debido, entre otros factores, al triste espectá-culo ofrecido por el papa Honorio I y su condena póstuma (52).

En el caso que nos ocupa, la crítica realizada por Roma a los plan-teamientos de Julián no es demasiado feliz. Denota, como se encarga-rá de denunciar Julián en los siguientes párrafos, una extraordinaria falta de agudeza, pues se refiere a temas que ya la tradición teológi-ca, incluso la occidental, había resuelto desde hacía mucho tiempo.

El hecho de que la queja papal se deba a una cuestión de posi-ble ignorancia y no a una cuestión teológica de fondo, muestra que ambos se movían en niveles bastante diferentes. Pareciera que Roma pretendía salvaguardar la ortodoxia evitando que se ahondara en te-rrenos supuestamente resbaladizos. A los de Toledo, sin embargo, les interesaba mostrar las cotas de esplendor cultural, religioso y teoló-gico que había alcanzado su Iglesia.

El método de respuesta empleado por Julián en este particular se apoya en tres fuentes principales: Agustín de Hipona, la tradición conci-liar hispana y un Atanasio de Alejandría que en realidad se corresponde con uno de los protagonistas de un diálogo de Vigilio de Tapso (53).

b) «quod uir ille incuriosa lectionis transcursione» (54)

Julián se queja en varias ocasiones del modo de proceder que ha mostrado la sede apostólica a lo largo de toda esta polémica. Al la-mento por la falta de una documentación que hubiera contenido las quejas, añade críticas al modo en que se ha entendido su primer es-crito. En esta ocasión la falta de atención empleada por Benedicto II en la lectura del primer Apologeticum. Seguirán otras expresiones que indican ese malestar:

(52) En dos de las cartas mencionadas anteriormente, la dirigida al conjunto del episco-pado y la remitida al rey Ervigio, se menciona explícitamente al papa Honorio y se le acusa de no haber estado a la altura de su puesto como defensor de la tradición apostólica.

(53) Cfr. J. a. caBReRa MonTeRo, La cita atanasiana del Apologeticum de tribus capitu-lis de Julián de Toledo, en «Augustinianum», LIV (2014), pp. 217-236.

(54) CCH VI, p. 299, l. 136.

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DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS ENTRE EL EPISCOPADO HISPANO 115

así pues, el que pueda entender que nosotros dijimos que la voluntad procede de la voluntad según la esencia, no se inquietará en modo alguno por la cuestión ex-puesta» (55); «esto mismo, en efecto, estaba claro para quien lo leyera atentamente y quisiera entenderlo en el ya citado opúsculo de respuesta de nuestra fe» (56); «así pues, quienquiera que sea instruido entenderá claramente que nosotros no nos he-mos equivocado en este punto sino que quizás ellos, a causa de una lectura des-cuidada, …» (57); «no nos avergonzará defender las cosas verdaderas, aunque qui-zás alguno se avergüence por el hecho de ignorarlas» (58); «¿quién, en efecto, ignora que todo hombre consta de dos sustancias?» (59); «vean ya finalmente y reconozcan quienes juzgan sin prejuicios partidistas» (60); «ahora bien, si alguno con desvergüen-za no se somete a estos Padres, y pregunta como insolente escrutador …» (61); «por tanto, de ahora en adelante, si alguno en contra de estas cosas no quisiera ser ins-truido sino que se mostrara contrario a este razonamiento que hemos aportado, haga frente a la condena del mencionado concilio [Calcedonia]» (62); «Pero si des-pués de esto y de las propias enseñanzas de los Padres de quienes estas cosas han sido tomadas, en algún modo disienten, no se debe discutir ya más con ellos sino que siguiendo directamente las huellas de nuestros predecesores nuestra respuesta será digna de elogio por el juicio de Dios para los amantes de la verdad aunque sea considerada indócil por rivales ignorantes (63).

c) «ab ignorantibus aemulis» (64)

Es precisamente el modo tan brusco con el que termina lo que se conserva del segundo Apologeticum, lo que hace pensar que proba-blemente este tercer capítulo no perteneciera al original, al menos en esta tesitura. Muy tensas habrían de ser las relaciones con Roma para tener que emplear palabras tan ásperas. Dado que no se ha conserva-do íntegramente este segundo escrito, lo más probable es que lo que la tradición ha conservado como tercer capítulo no sea sino la con-clusión de la exposición que tuvo lugar en el aula conciliar.

(55) Ibidem, pp. 299-300, ll. 153-155.(56) Ibidem, p. 300, ll. 156-157.(57) Ibidem, p. 303, ll. 211-212.(58) Ibidem, ll. 217-218.(59) Ibidem, ll. 219-220.(60) Ibidem, p. 313, ll. 369-370.(61) Ibidem, p. 317, ll. 433-434.(62) Ibidem, pp. 318-319, ll. 465-468.(63) Ibidem, pp. 319-320, ll. 480-485.(64) Ibidem, p. 320, ll. 484-485.

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J. A. CABRERA MONTERO : DOS EPISODIOS CONFLICTIVOS116

Podemos concluir que la polémica, aunque áspera y dura, no lle-gó a mayores consecuencias – como el temido riesgo de cisma – ya que fueron aportadas suficientes pruebas de la ortodoxia doctrinal española con el recurso no sólo a la Escritura – cuya eficiencia en temas polémicos es siempre ambivalente – sino sobre todo a la auto-ridad de los Padres y del Magisterio. La defensa de los logros cris-tológicos alcanzados en Calcedonia se presenta como el objetivo que debe salvaguardarse a toda costa, de ahí la larga cita final del segun-do capítulo que a simple vista parecería fuera de lugar.

El Apologeticum manifiesta una cierta firmeza, en ocasiones inclu-so agresiva, respecto a la sede romana. Podemos preguntarnos legí-timamente si éste fue efectivamente el tono del escrito enviado des-de España a Roma. Consideramos poder responder negativamente: la versión del Apologeticum que ha llegado hasta nosotros fue desti-nada, con toda probabilidad, a una circulación interna dentro de la península ibérica. No ha de olvidarse que Julián desempeñaba una misión no solamente pastoral sino también eclesiástica y política. Re-forzar su posición frente a Roma suponía también reafirmar su au-toridad en España.

El texto que la Colección Canónica Hispana nos ha transmitido refleja, sí, el contenido, si bien parcialmente, pero también el con-texto en el que se desarrolló la polémica. No se trata del mero in-serto en las actas del XV concilio de Toledo del texto que se envió a Roma, sino de una adaptación, en ocasiones resumida – el caso del tercer capítulo –, del tratamiento que se dedicó al tema durante las sesiones conciliares.

El aporte doctrinal no puede afirmarse que sea grande, pero en la historia de la teología no importan sólo las novedades sino también, y en gran parte, el modo en que se transmite el núcleo de tal o cual aspecto, en este caso la cristología. La originalidad de Julián, como por el resto de la práctica totalidad de los Padres españoles del siglo VII, reside, por tanto, no en los contenidos sino en la metodología empleada. Gracias a las síntesis y al modo de empleo de las fuentes tradicionales de la teología, se pudo avanzar y continuar la labor teo-lógica en épocas sucesivas. La aportación de Julián fue vital en este sentido y no podemos minusvalorar el esfuerzo realizado.

Juan anTonIo caBReRa MonTeRo

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SVILUPPO E TRASFORMAZIONI DELLA CHIESA E DEL MONASTERO DI S. LORENZO IN PANISPERNA A ROMA

Il presente articolo intende contribuire alla conoscenza del comples- so edilizio di S. Lorenzo in Panisperna sul colle Viminale a Roma, ripercorrendo le fasi di costruzione della chiesa e dell’intero comples-so monastico.

Il Viminale è uno dei colli memorabili di Roma che ebbe tal nome dai vinchi di salcio, d’olmo o pioppo che quivi crescevano, donde la denominazione dell’altare viminale dedicato a Giove; denominossi poi faguntale il sacrificio che vi si celebra-va, dai faggi ch’esistevano attorno al medesimo. Questo colle fino al secondo seco-lo di Roma restò coperto di piante e frequentato da immondi animali; poi Servio Tullio sesto Re, ampliando il recinto della città, lo racchiuse coll’Esquilino dentro le mura. Il Viminale fu celebre per le Terme Olimpiadi, e per i bagni di Agrippina, moglie di Claudio Imperatore e madre di Nerone; per i palazzi di Marco Crasso, di Quinto Catulo e di Publio Licinio Valeriano; e per le case di Cajo Aquilio e di Pudente Senatore. Lo storico Piazza vuole che vi sorgesse anche il tempio del Dio Silvano; e nel 1550 furono trovati due simulacri di Bacco dietro il Monastero.

Con queste parole, alla fine dell’Ottocento, Padre Andrea da Roc-ca di Papa iniziò la presentazione della chiesa e del monastero di S. Lorenzo in Panisperna (1).

Su quel colle, secondo una tradizione molto antica, il diacono Lorenzo fu arso vivo in graticola, per aver rifiutato di consegnare all’imperatore Valeriano le ricchezze della Chiesa destinate ai poveri.

(1) p. AndreA dA roccA dI pApA, Memorie storiche della chiesa e monastero di S. Loren-zo in Panisperna, Roma 1893, p. 3. L’opuscolo costituisce la guida fondamentale, a tutt’oggi insuperata, per la conoscenza di S. Lorenzo in Panisperna. Fu pubblicato nel 1893, in occa-sione del solenne giubileo episcopale del Sommo Pontefice Leone XIII, consacrato vescovo a S. Lorenzo in Panisperna il 19 febbraio 1843. Le figure del presente contributo vanno da tav. XXVI a tav. XXXIII e non sono indicati i rimandi precisi nel testo.

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SALVATORE FALLICA118

Era il 10 agosto 258 d.C. Il luogo del supplizio è identificato con il «Forno» conservato e venerato nella cripta della chiesa di S. Loren-zo in Panisperna (2).

Secondo Padre Andrea da Rocca di Papa, la devozione dei fede-li e la volontà del Pontefice portò alla costruzione di un tempio sul luogo del martirio ancor prima che fossero passati sessant’anni dalla morte di Lorenzo. Appena Costantino sospese le persecuzioni con-tro la Chiesa, il papa Silvestro I dedicò una delle sue prime cure alla santificazione di quel luogo (3).

Un manoscritto successivo al 1517 afferma che «fin dai primi se-coli del Cristianesimo, cessate le persecuzioni», sul colle Viminale fu eretto «il Sagro Tempio ad onore di detto santo». Un altare con un’inferriata, realizzato nel sotterraneo dell’edificio, racchiuse il luo-go dove si riteneva avvenuto il supplizio della “graticola”. L’autore del testo ritiene che quel luogo, in principio, dovesse essere aperto e che solo successivamente, per devozione o per qualche altro moti-vo, fu chiuso (4).

L’esistenza di S. Lorenzo in Panisperna alla fine del X secolo è at-testata dall’itinerario di Sigerico, arcivescovo di Canterbury, che sog-giornò a Roma dal febbraio al luglio 990. Nel testo appaiono due chiese dedicate a S. Lorenzo: «s. Laurentius in craticula», identifi-cata con S. Lorenzo in Lucina, e «Sanctum Laurentium ubi corpus eius assatus fuit», che conclude l’itinerario, forse coincidente con S. Lorenzo in Panisperna (5).

Alla metà dell’XI secolo il monaco e diacono Ludovico di Liegi descrisse il soggiorno romano del chierico «Godefridus», ospitato in un monastero che comprendeva una piccola chiesa con un pavimen-to marmoreo, ricca di mosaici ed ornamenti metallici. Essa era fre-quentata dai pellegrini, attratti da un’ampolla che conteneva il liqui-

(2) E. FollIerI, Antiche chiese romane nella Passio Greca di Sisto, Lorenzo ed Ippolito, in «Rivista di Studi bizantini e neoellenici», n.s. 17-19, XXVII-XXIX (1980-1982), pp. 43-71, in partic. 55. r. VAlentInI - G. ZucchettI, Codice topografico della città di Roma, Roma 1940-1953, II, pp. 179-180, 189: «Laurentii in Formonso, ubi ille assatus est»; «Sancti Lau-rentii in Formonso, ubi assatus est».

(3) p. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 5.(4) Archivio Generale dell’Ordine dei Frati Minori (in seguito AGOFM), Sign. D/4-53.(5) B. pescI, L’itinerario romano di Sigerico e la lista dei papi da lui portata in Inghilterra

(anno 990), in «Rivista di Archeologia Cristiana», XIII (1936), pp. 43-60.

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SVILUPPO E TRASFORMAZIONE DELLA CHIESA E DEL MONASTERO DI S. LORENZO 119

do uscito dal corpo di S. Lorenzo durante il supplizio della gratico-la. Nel testo furono citate cinque chiese denominate “San Lorenzo”: quella in cui alloggiò il chierico, S. Lorenzo fuori le mura, S. Lorenzo «ad Craticulam», identificata dagli studiosi come S. Lorenzo in Pani-sperna, S. Lorenzo in Damaso e S. Lorenzo in Lucina (6).

* * *

Dopo il IX secolo i monaci dell’Ordine di S. Benedetto edifica-rono un monastero accanto alla chiesa e vi rimasero fino alla fine del XIII secolo (7).

I primi documenti che attestano l’esistenza di un’abbazia risalgo-no al XII secolo. La lista di cardinali e preti che nel 1119 conferma-rono l’elezione di Callisto II, riporta il nome di «Heinricus Abbas S. Laurentii Pariparnae». Un’analoga lista del 1160, legata all’elezio-ne dell’antipapa Vittore IV, comprende l’indicazione «Cirengii», che l’Huelsen propone di leggere «[S. Lau]ren[c]ii», vale a dire “in Pa-nisperna”. Nel periodo intercorso fra quelle due date, Eugenio III (1143-54) concesse il complesso monastico all’abbazia di Cava (Saler-no), in sostituzione della precedente comunità benedettina autocefa-la, perché fosse riformato. Una bolla del 30 gennaio 1169, emanata da Alessandro III a favore dell’abbazia campana formalizzò il trasfe-rimento. Nel 1192 S. Lorenzo in Panisperna, insieme ad altre abba-zie della città, ricevette una forte donazione in denaro, attestata dal-la lista compilata da Cencio Camerario, il futuro papa Onorio III, in corrispondenza del “Presbiterio delle Litanie”: «Istis autem mo-nasterii in urbe dantur III sol. (…) Mon Panisperna». Una bolla del 4 febbraio 1195 indicò i nomi di due religiosi legati a «S. Laurentii Panisperne», «Johanni Priori» e «Egidium Yconomum». I medesimi nomi apparvero in altre tre bolle dello stesso anno, emesse a favore del monastero e confermate da Celestino III (8).

(6) C. huelsen, Le chiese di Roma nel medioevo. Cataloghi ed appunti, Firenze 1926, pp. lxx, lxxxVIII; E. FollIerI, op. cit., pp. 43-71, in partic. p. 55.

(7) P. AdInolFI, Roma nell’età di mezzo, Roma 1881, II, p. 250; cfr. G. M. crescIMBenI, Istoria della chiesa di San Giovanni avanti Porta Latina, Roma 1716, pp. 217-218.

(8) C. huelsen, op. cit., pp. 578-581; C. cecchellI, Le chiese di Roma dal secolo IV al secolo XIX, Roma 1942, pp. 56-59; r. VAlentInI - G. ZucchettI, op. cit., III, pp. 267, 277; P.

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Secondo Padre Andrea da Rocca di Papa, nei primi decenni del XIII secolo, sotto il pontificato di Onorio III (1216-1227), vi si fece qualche «piccolo restauro». La notizia non sarebbe sicura, mentre sa-rebbe certo, invece, che quello stesso papa si recasse «con un treno di gala» a consacrare solennemente la chiesa di S. Lorenzo (9).

* * *

All’inizio del XIV secolo il possesso del monastero di S. Lorenzo in Panisperna passò dai Padri benedettini alle monache di S. Chiara. In un primo tempo Bonifacio VIII affiliò la chiesa con tutti i suoi beni e possedimenti al Capitolo Lateranense, che avrebbe dovuto metterle a disposizione i suoi sacerdoti e provvedere ai necessari restauri per sollevarla dalla rovina. I canonici, però, dimostrarono noncuranza e disobbedirono agli ordini del pontefice, al punto tale che il cardina-le Giacomo Colonna, mosso da particolare devozione verso il santo martire, si offrì di restaurare la chiesa a proprie spese, a condizione che essa gli fosse concessa insieme agli edifici adiacenti. Il Capitolo accettò il progetto e il 26 (o 27) aprile 1308, durante il pontificato di Clemente V, il notaio Martino Francesco Paduli stipulò un appo-sito contratto di donazione fra il cardinale e Pietro Capoccia, vicario dell’Arciprete della Basilica Lateranense. Subito dopo padre France-sco di S. Egidio, a nome di Giacomo Colonna, prese possesso del-la chiesa, che sarebbe poi stata affidata alle cure delle monache di S. Chiara. Oltre alla ristrutturazione dei locali ridotti in pessimo stato, il contratto fissò anche un canone di «Libre due di cera, ridotto poi a baj 60» da pagare al Capitolo Lateranense in occasione della ricor-renza di S. Giovanni (10).

F. Kehr, Italia Pontificia, Roma-Berlino 1961, I, pp. 59-60; centro storIco BenedettIno ItA-lIAno, Monasticon Italiae. Repertorio topo-bibliografico di Monasteri italiani. I, Roma e Lazio, Badia di Santa Maria del Monte, Cesena 1981, pp. 59-60.

(9) p. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 8.(10) p. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 8 e seguenti. La notizia trova riscontro nei

documenti conservati nell’archivio del Monastero e catalogati nel «Repertorio generale del-le scritture esistenti nell’Archivio del Monastero» redatto fra il 1763-1768: AGOFM, Sign. D/8, sub lettera D («Donazione fatta dal Capitolo e canonici di S. Giovanni Laterano à fa-vore dell’E.mo. Sig.re Cardinale Giacomo Colonna della Chiesa di S. Lorenzo in Pane, et Perna, Mon.ro Vigna, Orti, Anticaglie, et altri annessi rogata in tempo di Papa Clemente V

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SVILUPPO E TRASFORMAZIONE DELLA CHIESA E DEL MONASTERO DI S. LORENZO 121

In seguito, la donazione venne confermata da Giovanni XXII con un nuovo atto notarile del 3 novembre 1318, stipulato presso la chie-sa di S. Maria Maggiore dal notaio Tommaso di Bartolomeo di Tom-masso di Obbiccione alla presenza di numerosi testimoni. Secondo la volontà del pontefice, il monastero fu consegnato in pieno posses-so alle clarisse «Suor Francesca di S. Eustachio Abbadessa di Gia-como del Signore Oddone Penestrina, e Margarita, Maddalena, An-gela, Giovanna, Agata, Agnese, Mattea, Giovannola, Lucia, Lorenza ed Andrea tutte suore prese da vari Religiosi Luoghi, e qui introdot-te dal Cardinal Giacomo Colonna». Le monache acquisirono anche il possesso della chiesa rurale di S. Angelo in Valle Arcese, nella dio-cesi di Tivoli, con il consenso di Guglielmo, abate cistercense di Pa-lazzola, al cui convento la chiesa apparteneva (11).

L’affidamento del complesso monastico alle Clarisse è testimoniato dal catalogo delle chiese di Roma compilato dall’ “Anonimo di Tori-no” in un periodo compreso fra il 1313 e il 1339, che riporta anche il numero delle monache residenti: «Monasterium Sancti Laurentii Panisperne habet moniales XVIII» (12).

Alcuni documenti esistenti nell’archivio del monastero menziona-no la successione degli eventi. Il primo di essi, successivo al 1517, ri-porta la notizia secondo cui, in una data imprecisata «fu di poi edifi-cato il Monastero contiguo, ed ambedue i Locali furono dati in cura dei Monaci Benedettini, quali ridottisi successivamente in piccolo nu-mero, non poterono più assistervi, e perciò il Papa Bonifacio VIII di Sa. Me. unì al Capitolo Lateranense la detta Chiesa, e Monastero ap-plicando ancora al medesimo tutti li Beni e Rendite annesse».

La notizia è riportata anche in un manoscritto redatto dopo il 1598, in cui «Fra Costatio da Roma», confessore delle monache, in-

li 26 aprile 1308, con condizione, che detto Sig.re Cardinale vi debba mettere dentro Mo-nache Claustrali, et altro, come pure Giovanni XXII per opera del med.mo Sig.re Cardinale Colonna unì al n.ro Mon.ro, e Chiesa di S. Lorenzo in Pane et Perna tutti li Beni della Chie-sa, e Convento di S. Angelo in Vall’Arcese di Tivoli sopresse da Papa Bonifacio VIII, come da diverse scritture annesse, e post’al Mazzo n. 9 al n. 4»); Sign. D/4-53.

(11) AGOFM, Sign. D/8, sub lettera I; Sign. D/4-53. Il testo originale dell’«Istromento» del 1318 è pubblicato in L. WAddInG, Annales Minorum seu Trium Ordinum a S. Francisco Institutorum, Tomo VI (1301-1322), Editio tertia, Ad Claras Aquas (Quaracchi), Prope Flo-rentiam 1931, Tom. VI, pp. 578 e seguenti.

(12) M. ArMellInI - C. cecchellI, op. cit., pp. 60-66; r. VAlentInI - G. ZucchettI, op. cit., III, p. 302.

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dicò S. Lorenzo in Panisperna come «il luogo proprio dove fu arro-stito su la craticola s. Lorenzo et fu fatta in honore del santo, co’ co-gnome di Panisperna». Il religioso affermò, inoltre, che la chiesa «di li a poco fu consegnata alli monaci di s. Benedetto, et l’Abbate era il duodecimo dei venti abbati ch’assistevano avanti al Papa quando cantava messa; mancarono poi li monachi, e fu fatto questo Mona-sterio di Monache di s. Fran.co sotto la regola di santa Chiara poco dopo la morte di s. Francesco» (13).

Il 23 luglio 1373 fra le monache di S. Lorenzo in Panisperna morì S. Brigida, presente a Roma in maniera stabile dal giubileo del 1350: «Questa chiesa haveva l’Ospitale come havev.o le altre Abba-zie, vicino a s. Lorenzo et si chiamava s.ta Venera, et è stata in pie-de sino al tempo di Papa Gregorio decimo tertio, e poi fu dirupa-ta». La santa morì proprio «In q.ta chiesa de santa Venere Verg.e et Martire (…) et fu sepolta a san Lorenzo in uno belliss.o sepolcro di marmoro, con figure di Angeli, scolpite d’intaglio, et altri belli lavo-ri». Poco tempo dopo la salma fu trasferita in Svezia, sua terra nata-le, e nel sepolcro rimase solamente una parte del corpo della santa, in onore della quale «Suor Steffana Savelli ha fatto una bella Cap-pella, lavorata a stucco, et oro» (14).

S. Lorenzo in Panisperna annovera fra le religiose Gregoria de’ Prefetti Di Vico, figlia di Francesco di Vico, prefetto di Viterbo dal 1375, prima monaca e poi badessa del monastero. Un’iscrizione per-duta lega il nome di suor Gregoria ad un ignoto manufatto: «HOC. OPUS. FECIT. FIERI(X). DOMINA. GREGORIA. DE. PRAEFEC-TIS. ANNO. MCCCCXX». Alcuni studiosi hanno collegato l’epigra-fe al restauro di una cappellina esistente nel chiostro, altri l’hanno riferita alla costruzione del campanile. Gregoria entrò a S. Lorenzo in Panisperna all’età di 9 anni circa. La sua presenza è confermata da numerosi documenti catalogati nel “Repertorio” del 1763-1768. Il primo di essi, un «Istromento di Donazione fatto sotto li 31 Luglio 1401» indica il nome di Gregoria fra le suore del monastero, governa-te dalla badessa Giovanna Conti. Altri tre documenti, rispettivamente del 1424, del 1426 e del 1437, la ricordano invece come «Abbades-sa». Il primo è una «Bolla di Martino V spedita sotto lì 4 dicembre

(13) AGOFM, Sign. D/4-53.(14) Ibidem.

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1424», relativa ad una «istanza di Gregoria Abbadessa di S. Lorenzo in Pane, et Perna». Il secondo è un «Istromento di Donazione fat-to sotto li 16 Luglio 1426 avanti le grate dell’altare»: esso richiama l’«Istromento» del 31 luglio 1401 e cede l’usufrutto di alcune case a «Suor Gregoria de Prefetti, et altre monache». Il terzo documen-to è un «Istromento rogato sotto li 23 Maggio 1437 da Paolo de Le-galibus Cittadino Romano, e Notaro», in cui compare nuovamente il nome di «Gregoria de Prefetti Abbadessa» (15).

* * *

Nel 1517 s’insediarono a S. Lorenzo in Panisperna nuove mona-che provenienti da un altro monastero romano, quello dei SS. Co-sma e Damiano in Mica Aurea (S. Cosimato). A quell’epoca le cla-risse che avevano abitato il colle Viminale sin dal XIV secolo erano ormai decadute «dall’antico fervore» e avevano perso «la buona vita spirituale». Per quel motivo, Leone X le allontanò dal monastero e dispose che esso, con la chiesa, i beni e le rendite, fosse consegnato a suor Violante Savelli, badessa del monastero dei SS. Cosma e Da-miano, perché lo riformasse, reggesse e governasse. Lo stesso ponte-fice stabilì, inoltre, che la comunità, così rinnovata, fosse sottomes-sa all’obbedienza dei Frati Minori Osservanti di S. Maria in Aracoeli ed osservasse la regola data da papa Urbano IV alle monache di S. Chiara. In osservanza agli ordini del pontefice, il 12 gennaio 1517, con atto del notaio del Vicariato Giovanni Antonio Buca, il cardi-nale Domenico Iacobacci (Iacovazzi, Iacobazzi o Iacovacci, indicato nei documenti del monastero come «Vescovo di Lucera, e Vicario del Papa»), primo titolare della chiesa, consegnò il monastero con i beni annessi a suor Violante Savelli, che vi si stabilì con tredici compagne: suor Giustina Rossi Romana, vicaria della badessa, suor Maria Savel-li, suor Gerolama da Subiaco, suor Pacifica Savelli, suor Teodora da

(15) AGOFM, Sign. D/8, sub lettere B ed I; G. cAlIsse, I Prefetti di Vico, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», X (1887), pp. 376, 390-391, 400, 590-591; P. AdI-nolFI, op. cit., II, p. 252; A. serAFInI, Torri campanarie di Roma e del Lazio nel Medioevo, Roma 1927, pp. 118-120, 246, 254. Un’altra epigrafe, ricorda un’altra opera ignota realizza-ta nel 1508: «SORA AGNESA DELI MATTEI. SORA. CLEMENTINA DELI NEGRI. HOC OPUS FIERI FECERUNT. ANNO D.M.D.IIX». V. ForcellA, Iscrizioni delle chiese e di altri edifici di Roma, Roma 1873, V, p. 418, n. 1121.

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Veroli, suor Anastasia da Subiaco, suor Battista Magliano Romana, suor Beatrice Scapucci Romana, suor Eufrosina Sapij Romana, suor Evangelista da Subiaco, suor Gregoria Carboni Romana, suor Filip-pa Conti Romana, suor Cecilia Vallatij Romana (16).

S. Lorenzo in Panisperna, così rinnovato ed onorato del titolo car-dinalizio, ebbe un ruolo importante nel corso del Sacco di Roma del 1527. Il 6 maggio di quell’anno, appena i Lanzichenecchi comincia-rono ad invadere la Città eterna, un religioso romano, «P.re frà An-gelo Leni Romano di nobiliss.ma casata primo di autorità, nella cit-tà, e nella Religione», organizzò tempestivamente il raggruppamento delle monache di S. Cosimato, di S. Apollonia dell’Oliva, di S. Mar-gherita della Scala e forse di altri conventi trasteverini, e provvide al loro trasferimento sul colle Viminale, dove sarebbero state protette in maniera migliore.

I manoscritti di S. Cosimato confermano la notizia che settanta monache dovettero lasciare il monastero trasteverino, saccheggiato e incendiato dai Lanzichenecchi, «con fiumi di lacrime», per rifugiar-si sul Viminale, dove restarono per dodici mesi. Le religiose giunsero nella nuova dimora a mezzogiorno, «quando sonava nona». L’incon-tro, nonostante la drammatica situazione, fu piacevole, perché le nuove ospiti rividero le compagne uscite da S. Cosimato dieci anni prima per rinnovare l’antica comunità delle Clarisse di S. Lorenzo in Panisper-na. Gli echi della lotta giunsero intanto fin lì e le monache «si messe-ro alla santa oratione una parte a man dritta, et l’altra a mano manca del coro a doi, a doi come si va in processione». Nel frattempo, mes-se le monache al sicuro, lo stesso «P.re frà Angelo di Roma» si recò al comando dell’esercito invasore per raccomandare al «Gran Capita-no del Campo» l’incolumità del monastero. «Fra Costazio» racconta che i soldati erano già entrati in chiesa per cercare le religiose, quan-do un araldo inviato dal comandante invasore interruppe immediata-mente la loro azione, piantò le forche davanti alla porta della chiesa e bandì la pena capitale a chiunque recasse molestia alle monache.

(16) AGOFM, Sign. D/4-53. Il manoscritto arricchisce il quadro storico di riferimento con il ricordo di un capitolo generale celebrato nell’Aracoeli, durante il quale fra Cristoforo da Forlì, futuro cardinale, venne eletto superiore generale ed il papa emanò la «Bolla dell’Unio-ne» per mettere ordine tra i frati osservanti e conventuali. Una conferma dell’evento è ripor-tata in suor orsolA ForMIcInI, Libro delle antichità del monasterio di S. Cosmato […], ms. cart. XVII secolo, p. 136 s., che comprende anche l’elenco delle suore trasferite.

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Non mancano le descrizioni particolareggiate di due eventi mira-colosi. Suor Beatrice, alzati gli occhi al SS.mo sacramento, ebbe l’im-pressione di vedere il cielo aperto, la Vergine Maria che le assicura-va la liberazione da quel flagello, S. Lorenzo e S. Michele Arcangelo. Suor Prudentia racconta che un soldato ebbe l’ardire di salire sull’al-tare del coro, dove era collocata un’immagine della Madonna, che gli diede una spinta e lo fece cadere a terra tramortito (17).

* * *

Sin dal loro insediamento, le monache provenienti da S. Cosima-to avviarono un’intensa attività edilizia nel comprensorio di S. Lo-renzo in Panisperna.

Un manoscritto successivo al 1598 riferisce che esse, tra le prime iniziative, «fabricorno anche il Campanile a Torre con la sua Pirami-de co’ tre belle campane». Nel corso degli anni successivi l’attività edilizia promossa dalle monache si estese a tutto il complesso di S. Lorenzo in Panisperna. Nel 1555 «Sor Marta Scapucci et altre Abba-desse» fecero «una bella fabrica per l’Infermaria» (18). Risale allo stes-so anno una «Misura, e stima de lavori fatti per la Fabrica del n.ro Mon.ro à t.o l’Anno 1555», attualmente dispersa, ma registrata nel «Repertorio» del 1763-1768 (19).

Fra il 1566 ed il 1574 la chiesa fu ricostruita dalle fondamenta: l’impresa fu portata a buon fine grazie ai contributi economici dei pontefici Pio V e Gregorio XIII, del cardinale titolare Guglielmo Sir-leto, di molte famiglie nobili romane, dei fedeli, ma soprattutto del-le stesse monache.

(17) AGOFM, Sign. D/3-85 («Memoria sopra il Saccho di Borbone»); Sign. D/4-53. A quell’epoca, S. Lorenzo in Panisperna era il monastero più popolato della città. Il censimento di Roma compilato tra il sacco dei Colonnesi e quello borbonico e, più precisamente, tra la fine del 1526 e l’inizio del 1527, aveva censito 85 «moniche de Sancto Laurentio in Palisperna». Cfr. M. ArMellInI, Un censimento della Città di Roma sotto il pontificato di Leone X, tratto da un codice inedito dell’Archivio Vaticano, in «Gli studi in Italia», IV-V (1882); D. GnolI, “Descriptio urbis” o censimento della popolazione di Roma avanti il Sacco Borbonico (Censimento di Roma sotto Clemente VII), in «Archivio della Società Romana Storia Patria», XVII (1894), p. 397.

(18) AGOFM, Sign. D/4-53. Per l’inquadramento cronologico del campanile in base alle date di fusione delle campane cfr. P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 11; A. serAFInI, op. cit., pp. 118-120, 246, 254.

(19) AGOFM, Sign. D/8, sub lettera M.

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I manoscritti conservati nell’archivio del monastero indicano il 1566 come data di inizio dello scavo delle fondamenta. Un docu-mento successivo al 1598 ricorda che «Queste sante Monache fon-datrici cominciorno a’ fabricare et assettare il monasterio, la chiesa antica di S. Lorenzo che havev.o dentro, fuora havevano un poco di chiesa vecchia per la stattione». In particolare, «fabbricarono la chie-sa ch’havev.o dentro a tre navi co’ delle colonne; in capo delle navi c’erano tre belli altari, a ogni nave c’era il suo altare, con belli cibo-rij sostentati da quattro colonne per altare, come s’usa in Roma nel-li altari antichi; il coro era in mezzo della Chiesa ed era di Marmo-ro lavorato a Musaico».

Inoltre, «fabbricorno un belliss.o coro con un’altra chiesa, acanto il coro che la chiamano la capella, dov’odono la messa, le prediche, i sermoni». Quest’ultima notizia è ribadita in un passo seguente: «Da queste monache dell’osservanza fu fatto il Coro. Le sedie del Coro e sonno di noce belle lavorate di tarsia, et a ogni sedia v’è la sua figura del predetto lavoro, e le figure sonno de santi, ci sonno sei altari, et li paramenti dell’altari stanno al pari delle prime chiese di Roma».

Un passo ulteriore riporta la notizia secondo cui «Nel guastare detti altari, ritrovorno li corpi delli santi Crispino et Crispiniano Mar-tiri, et fratelli carnali, la festa di detti santi viene alli venticinque d’ot-tobre, et vi trovorno altre reliquie co’ tre vetrine d’ossa di santi».

Durante le demolizioni furono rinvenuti innumerevoli resti sacri ed ossa di martiri. In particolare, proprio nel 1566 sotto l’altare mag-giore (nella navata destra secondo padre Andrea da Rocca di Papa) fu trovata una cassa contenente corpi dei santi Crispino e Crispinia-no, che in quell’occasione operarono due prodigi (20).

Nel 1566 il «Catalogo delle chiese di Roma sotto Pio V», alla voce n. 29, indica, fra le chiese del rione Monti, «Sto. Lorenzo in Pani-sperna monasterio di monache di sta. Chiara. Chiuso» (21).

(20) AGOFM, Sign. D/3-85: «Nel mille cinque cento sessantasei si cavarono li fondamen-ta di questa nostra Chiesa di S. Lorenzo in Pane e Perna e furono trovati in cassa di piombo li della nuova chiesa. Viene trovata una cassa con i Corpi de gloriosi SS. Martiri Chrispino e Chrispiniano con iscrittione che dicava Corpora Sanctorum Chrispini et Chrispiniano fra-trum a di 25 di ottobre»; Sign. D/4-47: «Nel 1566 cavandosi in Roma li fondam.ti della Chie-sa antica di S. Lor.o in Pane e Perna per ingrandirla come al presente si vede furono trovati li corpi di questi gloriosi Santi Crispino e Crispiniano in d.ti fond.ti sotto l’Altare maggiore di d.a Chiesa»; Sign. D/4-53; P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 11.

(21) C. huelsen, Le chiese di Roma nel medioevo, op. cit., pp. xIx, 96-97.

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SVILUPPO E TRASFORMAZIONE DELLA CHIESA E DEL MONASTERO DI S. LORENZO 127

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Secondo padre Andrea da Rocca di Papa, la chiesa fu rifabbri-cata più in alto, ridotta ad una sola navata e con la facciata arretrata di alcuni palmi. In corrispondenza delle antiche navate furono aper-te una porta centrale e due laterali. Queste ultime, più piccole, fu-rono chiuse da cancelli di ferro, asportati dai Francesi all’inizio del XIX secolo. L’opera fu portata a compimento da Guglielmo V, duca di Baviera, che, per adempiere un voto fatto al santo, fece pitturare ad affresco il muro e ricostruire l’altare maggiore. Il lavoro fu termi-nato nel 1574. La stessa data è riportata sulla lastra di marmo col-locata sulla facciata della chiesa: «DIVI LAURENTII M(ARTI)RIS. AEDES IN PANIS PERNA. MDLXXIIII».

Nel suo resoconto, il religioso fornì una traccia della primitiva strut-tura della chiesa. In base alle sue fonti, egli ipotizzò che fosse composta di tre parti: il «Narthex» per i penitenti e catecumeni, il «Naos» per i comunicanti e il «Bema» per i chierici che compivano le loro funzioni. Il ritrovamento di alcuni frammenti lasciava supporre che il «Narthex» esterno fosse composto di portico, atrio e vestibolo. Sembrava certo, comunque, che la chiesa fosse composta da tre navate. Secondo il re-ligioso, sin dal primo momento del loro insediamento le Clarisse, assi-stite dal cardinal Colonna, apportarono sostanziali trasformazioni alla chiesa conventuale, per conciliare la clausura con le necessità liturgiche e con l’apertura alla popolazione locale. Essa fu ridotta ad una sola na-vata, mentre una di quelle laterali fu trasformata nella cappella inter-na, nella sagrestia e nell’abitazione del cappellano, e l’altra nel parlato-rio e in altri locali a servizio delle monache. In quell’occasione apparve per la prima volta la divisione trasversale fra “chiesa interna” e “chie-sa esterna”, che in futuro avrebbe caratterizzato anche l’intervento di ricostruzione cinquecentesco, come base per l’affresco del Martirio di San Lorenzo di Pasquale Cati da Iesi: la parte “esteriore” fu destinata al culto dei fedeli, mentre l’«interiore» fu adibita a coro delle religiose, e furono realizzati altari interni ed esterni, laddove in precedenza ne esisteva solamente uno. L’intervento permise alle monache di assistere alle cerimonie liturgiche senza essere viste, non solo dalla popolazione civile, ma anche dal clero e dai ministri dei sacramenti (22).

(22) p. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 9-11, 15.

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SALVATORE FALLICA128

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I documenti registrati nel “Repertorio” del 1763-1768 assumono un’importanza particolare per approfondire la ricostruzione cinque-centesca di S. Lorenzo in Panisperna.

Il primo di essi, ancora conservato nell’archivio del monastero, è catalogato con il titolo di «Misure fatte dallo scarpellino per la Chie-sa, e sua facciata». Il secondo documento, attualmente disperso, è in-titolato «Misura, e stima de lavori fatti per la Fabrica della n.ra chie-sa per l’Anno 1574» (23).

Il primo manoscritto, non datato, è un verbale delle operazioni di misura e stima degli elementi in pietra realizzati per l’interno della chiesa e per la facciata. L’intestazione del manoscritto indica il nome di «m.ro Battista … da Como scarpellino alle Monache di S. Lorenzo Panisperna», esecutore «de lavori di scarpello […] Cioè lavoro fatto a manifattura di trevertini et marmi fatti nella chiesa e fuora alla fac-ciata di detta Chiesa». I puntini di sospensione che nella trascrizione del documento sono stati inseriti fra «m.ro Battista» e «da Como» indicano uno spazio vuoto realmente esistente nel testo originale. È possibile che il redattore non conoscesse il cognome dell’artigiano e si proponesse di aggiungerlo in un secondo momento.

Le operazioni furono seguite da «m.ro Bartholomeo d’Aless.ro Bassi scarpellino et m.ro Marchione di Pietro Chermoni intagliato-re M.ro Bartholomeo chiamato dalle sopradette Monache, et M.ro Marchione chiamato da m.ro Batta sopradetto». Le operazioni ini-ziarono all’interno della chiesa, con l’esame del rivestimento lapideo inferiore, suddiviso in tre fasce sovrapposte. La prima parte era co-stituita da «palmi 239 di scalino largo palmi 2 grosso palmi ¾ fatto di manifattura computandoci quello dell’Altar maggiore il detto scali-no passa sotto alli piedistalli di detta chiesa et corre dall’una all’altra cappella». Sopra lo scalino erano installati «palmi 200 di basamento […] alto palmi dua et mezzo» e «palmi cento e quattro di cimassa che posa sopra alli piedistalli […] grossa pal ¾». Il documento elen-ca ordinatamente «dodeci basse a dodici pilastri» e «quattro canti di basse», a cui corrispondono «dodeci capitelli dorecchi fanno di mo-

(23) AGOFM, Sign. D/3-56; Sign. D/8, sub lettera M.

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stra in faccia simile alle basse soprascritte» e «quattro canti di Capi-telli sopra alle quattro basse soprascritte».

Sono misurate «dodeci Cimase a pilastri et alle Capelle dove im-posono li archi delle Capelle» e «dodeci canti di cimase nelle Capelle della medesima manifattura di quelle delle imposte delli archi».

La trabeazione interna della chiesa è costituita da «pal. 121 di ar-chitrave sopra alli Capitelli» che girano «drento al choro colle mo-stre sopra a detti capitelli (…) grosso p. 2» e da «palmi 125 di cor-nice sopra al detto architrave grossa pal. 3».

Le voci relative a «tre finestre che danno lume a tre capelle a en-trare nella chiesa a mano destra con le sue serrature in arco» e «sei finestre che danno lume alla chiesa sopra alla cornice e nelle lunette con li suoi incastri per le invetriate», nonché quella relativa a «due porte di marmo statuale alte di vano pal. 12 1/3 larghe di vano pal. 6 lo stipito in faccia pal. 1 1/6 el vivo pal. 1, con le loro soglie», sem-brano descrivere una situazione identica a quella attuale. Le «sei fi-nestre […] sopra la cornice e nelle lunette» lasciano intuire l’esisten-za della volta della navata. Non appaiono elementi relativi alla volta e alle finestre del presbiterio. Il manoscritto riporta anche le voci re-lative a «pal. 20 di dado piano di marmo sotto allo altare maggio-re», «quattro pilastrelli di marmo servono a quattro canti dell’altare […] in faccia per dua bande a dua, et gli altri dua, una faccia sola», «la cimasa dell’altare maggiore […] di marmo statuale», «una sepol-tura di travertino in terra di vano pal. 3 quadra con le sue guide di travertino et li suoi incastri» e «una tavola di uno altare lunga pal. 8 larga pal. 4¼ grossa 2/3 fatto dinanzi uno smusso». Inoltre, la voce relativa a «palmi 497 di lastre di marmo infilate per le bande servono per guide nella chiesa cioè al mattonato» fornisce un’indicazione sulla tecnica di esecuzione del pavimento cinquecentesco, oggi sostituito.

Terminate le operazioni all’interno della chiesa, la “misura e stima” elenca i lavori eseguiti sulla facciata esterna. Si richiama l’attenzione sulle seguenti voci: «una porta che va al forno Cioè di manifattura di travertino», «una porta di travertino simile alla sopradetta che va et scende al forno fatta di tutta robba» e «la porta grande della chiesa stipiti architrave membretti cartelle frontespizio et tutti li ritagli che sono in detta porta». In particolare, si nota la diversa definizione e valutazione delle due porte laterali: una, fatta «di manifattura di tra-vertino […] vale scudi Cinque et baiocchi Cinquanta», l’altra, «simile alla sopradetta […] fatta di tutta robba […] vale scudi nove». Un’al-

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tra indicazione è quella relativa a «22 scalini di trevertino et marmo piani per faccia et per testa sono dua scale alle dua porte sopradet-te che scendono al forno». Non appaiono dati sugli scalini davanti la chiesa e sulle doppie rampe di collegamento con il cortile. Le misu-re di «una pietra di marmo lunga pal. 10 larga pal. 3 rotata pomicia-ta e fattovi in essa pietra lettere 43» coincidono con quelle dell’iscri-zione in marmo collocata sulla facciata della chiesa.

Il computo di «palmi 50 di cornice sono otto barbachani sosten-gono e muri della Chiesa per di fuora» consente d’individuare la pre-senza dei contrafforti e di confermare, sin dall’epoca di stesura della “misura e stima”, l’esistenza della volta all’interno della chiesa.

Degna di rilievo è la voce relativa a «quattro candelieri di trever-tino sopra alli quattro pilastri […] con li loro basamenti computan-doci la croce al frontespizio».

* * *

Un manoscritto successivo al 1598 ricorda che «L’anno mille cin-quecento settanta cinque, Sor Steffana Savelli co’ l’altre Abbades-se hanno fatta una belliss.a Chiesa» e che «sor Felice Valentini ha fatto un bellissimo tabernacolo per il sant.mo sacramento dell’alta-re maggiore, ha fatto ancora il Balaustrato, et l’invetriate della chie-sa». Anche padre Andrea da Rocca di Papa fornì un’indicazione si-mile ed affermò che «Suor Barbara Valentini fece fare il tabernacolo pel Santissimo Sacramento e la balaustra di marmo innanzi all’alta-re maggiore» (24).

La data di consacrazione della chiesa non è riferita in maniera concorde. Secondo l’Ugonio la chiesa fu rinnovata nel 1574, durante il pontificato di Gregorio XIII, e riconsacrata «circa i medesimi tem-pi» per ordine del cardinale Giacomo Savelli, vicario del papa, su ri-chiesta del cardinale titolare, Guglielmo Sirleto (25). Il Wadding fissa la fine della riedificazione al 1575 e colloca la consacrazione al 26 set-tembre dell’anno successivo (26). La stessa data è indicata dalle mona-

(24) P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 12.(25) uGonIo, Historia delle Stationi di Roma, Roma 1588, p. 76.(26) L. WAddInG, op. cit., p. 371.

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che in occasione della Visita Apostolica del 1824: secondo le loro ri-sposte, la cerimonia di consacrazione ebbe luogo il 26 settembre 1576 e fu officiata da «Mons. Gondivelli, suffraganeo dell’E.mo Card. Gia-como Savelli, Vicario di N.ro Signore», alla presenza del cardinal Sir-leto (27). Padre Andrea da Rocca di Papa, invece, ricorda che la chie-sa fu consacrata nel 1577, sempre su iniziativa del titolare, «non si sa però se da Papa Gregorio XIII o dal Vice-Gerente o da un vescovo Francescano. Da quest’ultimo fu certamente consacrato l’altare mag-giore, che si rifece di nuovo, perché l’altro non era riuscito giusto né simmetrico. E si consacrò il dì 26 aprile del 1590» (28).

Due documenti conservati nell’archivio del monastero, il primo successivo al 1577 e il secondo redatto nel 1610 da «Suor felice Va-lentini», confermano la data riferita dal Wadding, 26 settembre, ma riportano l’anno indicato da padre Andrea da Rocca di Papa, 1577. Alla cerimonia, oltre al Sirleto, furono presenti «il sig.re Curtio Fran-co Canonico di San Pietro, Primo Reformatore, il sig.re Francino Be-nefitiato di S.ta Maria Maggiore, et il n.ro Parrocchiano […], il n.ro Confessore, ch’era un santo vecchio chiamato Gio. Batta. Di Pola». Un’annotazione ricorda che pochi giorni prima della cerimonia fu pubblicizzato il ritrovamento dei corpi dei SS. Crispino e Crispinia-no, protettori dei calzolai, e il 20 settembre 1576 numerosi artigia-ni si radunarono alla scalinata dell’Aracoeli per avere conferma alla notizia e per attendere il passaggio del Confessore che si recava a S. Lorenzo in Panisperna per la celebrazione dell’Eucaristia (29).

Un altro manoscritto successivo al 1598 riporta una notizia total-mente diversa dalle precedenti e sposta la consacrazione della chie-sa al 1583. In quell’occasione il Sirleto depose la cassa dei SS. Cri-spino e Crispiniano sotto l’altare maggiore «entro a belliss.e casse, et veli di seta involti, li Capi stanno tra l’altre Reliquie in un beliss.o Tabernacolo d’Argento fatto da sor Battista Capranica, et sor Fran-cesca Farnese» (30).

Padre Andrea da Rocca di Papa annota che l’opera di ricostru-zione della chiesa fu compiuta da Guglielmo V, Duca di Baviera,

(27) AGOFM, Sign. D/5-3.(28) P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 11-12.(29) AGOFM, Sign. D/3-85; Sign. D/4-47.(30) AGOFM, Sign. D/4-53.

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che fece affrescare il muro di fondo del presbiterio e ricostruire l’al-tare maggiore per adempiere ad un voto fatto al santo. Il religioso sembrerebbe ricordare anche un affresco antecedente a quello attua-le, perché in seguito affermò che «in quest’epoca eravi già nel muro frontale dell’altare maggiore l’affresco di San Lorenzo fatto eseguire a proprie spese dal Duca di Baviera, come abbiamo detto di sopra; ma dipoi non confacendosi questo col nuovo disegno, commisero al pittore Pasquale Cati da Jesi, allievo di Michelangelo, di rappresenta-re in tutta l’ampiezza del muro il martirio di San Lorenzo, ed è quel-lo che presentemente si vede». Secondo padre Andrea da Rocca di Papa, il Cati «Vi spese a compir questo lavoro quattr’anni, avendo cominciato nel 1585, e finito nel 1589» (31).

Un atto rinvenuto presso l’Archivio di Stato di Roma e rogato dal Notaio Capitolino «Fuscus» ha recentemente permesso di posticipare la datazione dell’affresco. Il contratto stipulato tra il Cati e l’illustre canonico di S. Maria Maggiore «Curtio Cinquinis», in vece dell’emi-nente diplomatico «Minuzio», ambasciatore del Duca di Baviera, fu registrato il 7 maggio 1591. Secondo i patti convenuti, il pittore mar-chigiano promise all’insigne prelato di eseguire un affresco grandioso e imponente in tutta l’ampiezza del catino absidale, sull’altare della chiesa, impegnandosi a sostenere le spese dei colori, «tanto dei pon-ti come d’incollatura et in doratura». Il lavoro sarebbe stato ultima-to in quattro o cinque mesi. L’artista ricevette un acconto di trenta scudi («scuta triginta»), mentre il reverendo Curzio si riservò di sta-bilire a lavoro concluso l’intera somma dovuta, in base al lascito di-sposto dal Duca di Baviera «per sua devozione et pietà». La critica ha fatto risalire l’impostazione generale della composizione ai sugge-rimenti di una dotta autorità del tempo, identificata con il cardinale Domenico Pinelli, successore di Guglielmo Sirleto, che assunse il ti-tolo di S. Lorenzo in Panisperna nel 1585 e seguitò l’opera di restau-ro e di ristrutturazione avviata dal suo predecessore (32).

Oltre al Martirio di San Lorenzo, il contributo economico di Gu-glielmo V permise l’esecuzione di altri lavori di completamento ed

(31) p. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 11, 13.(32) S. MAnIello, Pasquale Cati. Un documento relativo al Martirio di San Lorenzo in San

Lorenzo in Panisperna e notizie sulla vita artistica del pittore, in «Alma Roma», V n.s., 2 (mag-gio-agosto 1998), pp. 93-108.

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abbellimento della chiesa. Nel corso del 1590, «col residuo delle li-mosine del Duca di Baviera e del nuovo titolare Cardinal Domenico Pinelli, sotto il Pontificato di Sisto V», fu ricostruito l’altare maggio-re, «perché l’altro non era riuscito giusto né simmetrico». In quell’oc-casione «si riconobbero e furono lavate con vino e riposte le reliquie dei Santi Martiri Crispino e Crispiniano». Esse furono rimosse il gio-vedì «in fra Ottava di Pasqua» su iniziativa del signor «Curtio Cin-quino». Il sabato “in Albis” le spoglie furono ricollocate all’interno della stessa cassa che le aveva conservate fino ad allora e la dome-nica successiva, 20 aprile, vennero nuovamente deposte sotto l’alta-re maggiore, finalmente consacrato il 26 aprile 1590 da un vescovo francescano (33).

* * *

Nella seconda metà del Cinquecento il monastero di S. Lorenzo in Panisperna continuò a subire modifiche. Durante il pontificato di Gregorio XIII fu demolito un edificio ecclesiastico compreso nel suo perimetro, l’«Ospitale» intitolato a «s.ta Venera». L’icona della santa, esposta sopra l’altare maggiore, che riproduceva il suo martirio «in figure piccoline», fu trasportata a S. Lorenzo in Panisperna, dove le monache continuarono a venerarla (34).

Nel corso dell’ultimo decennio del XVI secolo il complesso edi-lizio subì un intervento di ristrutturazione estremamente importan-te. Nel 1596 «sor Martia Vallatij» diede principio «ad un’altra bella fabrica congiunta co’ l’infermeria, et chesa per fenire un bell’ Clau-stro quanto vi sia in Roma de Monasterij de Monache». L’iniziati-va fu portata avanti anche dalla successiva badessa, «sor Cristina Pa-gani» (35).

La rinnovata attività edilizia è confermata dal «Libretto dell’En-trata, et Uscita, e Debito della Fabbrica» che contiene il bilancio del-la «Fabrica nova del Monasterio» dal 7 settembre 1597 al 29 otto-bre 1599, per una spesa complessiva di scudi 4910-11, a fronte di

(33) AGOFM, Sign. D/3-56; Sign. D/3-85, Sign. D/4-47; P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 10.

(34) AGOFM, Sign. D/4-53.(35) Ibidem.

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un’entrata di scudi 3379-08, dovuta principalmente alla vendita di «robbe trovate alle cave del scassato della vigna accanto il monaste-rio» (36).

Analizzando il manoscritto nel dettaglio, si rileva che nella sezio-ne delle “Entrate”, in relazione al «Badissato di Sor Martia Vallati», vennero registrati «scudi 440 […] per la valuta de tronchi, teste busti metalli bronzi, piombo, trevertino, tevolozze, marmi, et lastre di mar-mo, scaglia, cristalli dati all’Ill.mo Card.le Sforza, tutte robbe trovate, alle Cave del scassato […] secondo appare nel libro giornale».

Fra il 18 gennaio 1598 ed il 29 ottobre 1599, nel periodo inter-corso «Dal Badissato di Sor Cristina Pagana alla p.nte Abbadessa», fu registrata l’entrata di Scudi 417 – 08 «per robbe trovate alle cave del scassato della vigna accanto il monasterio […] cioè per robbe come di sopra di trevertini, colonne e marmi, piombo et altri robbe». In ordine vennero poi annotate le entrate di «scudi 80 per il prezzo di doi colonne venduti all’Ill.mo Card.le Caetano» e «scudi 98 per la valuta di 3 colonne gialde rotte vendute a ms.ro Paulo scarpellino all’archi di portogallo».

Nella sezione relativa all’«Uscita di tutto il valore della d.ta Fa-brica» vennero elencate le spese di Scudi 2673 Baiocchi 26 per «Li muri di d.a fabrica con i suoi fondamenti, et volte (…) di tutta rob-ba»; Scudi 129-34 per «Le Colle (…) rice.re e spicc.re di d.a Fabri-ca»; Scudi 63-65 per i «mattonati rustichi delle stanze»; Scudi 109-25 per i «mattonati rotati ord.ra»; Scudi 315-20 per il «Tetto novo impianellato sopra d.a Fabrica»; Scudi 229-80 per «Altri diversi la-vori di muro, et stime»; Scudi 325-34 per «Li lavori di scalpello fat-ti e misurati sino al p.nte giorno di manifatt.ra»; Scudi 263-90 per i «Ferramenti delle ferrate, et catene, messe in d.a fabrica sino al p.nte giorno compreso li cancani, et bandille»; Scudi 98 per i «Legniami grossi de trevi de i solari, et paradossi del tetto»; Scudi 207-40 per i «Solari di abeto a regolo per convento imbusolati (…) a tutta rob-ba»; Scudi 72 per le «Porte et finestre di abeto de doi pizzi et d’un pizzo, delle stanze del piano di mezzo et dell’ultimo piano a tetto n° 36 scorniciati ord.ni e parti senza cornice»; Scudi 35 per le «Por-te et finestre di abeto delle stanze a tereno, et finestre ins.e n° 14 scorniciati»; Scudi 66 per le «Porte di Albuccio n° 5 di tutta gros-

(36) AGOFM, Ristretto dell’Entrata e Uscita e Debito della Fabbrica, Sign. D/5-12.

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sezza scorniciate compreso la porta grande dell’entrata del monaste-ro»; Scudi 30 per «li canne di piombo, et chiavi di metallo per gli sciaquatori, vaschette e fontane ins.e». Tra l’altro, le monache forni-rono allo scalpellino «carett.e 150» di travertini necessari all’esecu-zione dei lavori in pietra della «Fabrica», per un valore complessivo stimato in Scudi 300. La somma di tutte le spese ammontò a Scudi 4910-11.

Dopo le entrate e le uscite, vennero registrati i «Debiti della Fa-brica che restano a pagarsi», fra i quali Scudi 135 «a’ muratori per resto saldo di tutta l’opera che hano fatta sino al di 29 ottobre 1599»; Scudi 230 «Al Fornaciaro per Robbe havute cioè, tivole, canali, per il tetto, pianelle et mattoni»; Scudi 155-34 «A Scarpellini per resto di tutta l’opera che han fatti fin al p.nte giorno»; Scudi 140-48 «Al Mercante di ligname per resto di lignami, di piani, palombelle, ar-carecci, paradossi, et travi de solari in tutto per resto»; Scudi 51-29 «Al Falegname per resto dell’opera di legname fatta e parti d’infis-so»; Scudi 10 «Al Ferraro per resto de ferramenti havuti per la fab-brica»; Scudi 4 «Al Stagnaro per resto delle canne di piombo et chia-ve di mettallo per le fontane, et vaschette e sciaquatoi»; Scudi 9 «Al Mercante di Ripa per resto di tavole di abeto per fare i solari»; Scu-di 30 «A Diversi lavoranti che hanno lavorato in cavar la pietra, e pozzolana, et altri per servizio di d.a fabrica per resto». L’ammonta-re complessivo del debito fu pari a Scudi 765-11.

Le ultime voci degne di nota riguardano la spesa di Scudi 88-80 per «diversi pezzi de pilastri, basamenti, cimase, et capitelli che van-no alla loggia nova da farsi drento il monasterio, et colonne n° 6 che vanno alla d.a loggia che detto lavoro di scarpello fatto che resta a mettersi in op.a per d.a loggia» e di Scudi 6 per «Tevoli e canali che restano per mettere in opera alla loggia».

In quello stesso periodo le monache di S. Lorenzo in Panisperna fornirono marmi di scavo per la “Nave Clementina” in Laterano, al-lora in costruzione. Il 26 aprile 1598 ricevettero 17 scudi per la forni-tura di «13 carrettate e mezzo di travertini», come risulta «dal Libro dei ‘conti del S. Giovanni Vaccarone per la Fabbrica di S. Giovanni da lì 5 maggio (1599) per tutto il mese di aprile 1600’» (37). La noti-zia è confermata dai registri contabili conservati presso l’Archivio di

(37) Ibidem, III, pp. 185-188.

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Stato di Roma (in seguito ASR), che riportano due annotazioni rela-tive al pagamento alle monache di 27 scudi per la fornitura di «cas-sette 13 et mezzo di travertini in pezzi 13» (38).

* * *

Durante il Cinquecento e il Seicento il monastero di S. Loren-zo in Panisperna conquistò una notevole fama nella società romana dell’epoca. Esso giunse ad ospitare settanta monache, molte delle qua-li provenienti da nobili famiglie romane. Un manoscritto elenca rap-presentanti di casa Savelli, Orsini, Colonna, Conti, Caetani, Farnese, Mattei, Capranica, Muti, Cesi, Serlupi, nonché due sorelle del cardi-nale Giacomo Savelli, tutte viventi nel 1598. La clausura accolse an-che due nipoti del papa Paolo IV, Barbara e Mariana Carafa, entra-te nella comunità religiosa prima del 1559, mentre lo zio pontefice era ancora vivente (39).

Molte clarisse contribuirono alla realizzazione ed all’abbellimento della chiesa e del monastero, facendo «gara spirituale» fra loro e pro-movendo interventi degni di memoria. La prima ad essere ricordata dalle fonti è «sor Steffana Savelli», responsabile, con altre badesse, della costruzione di «una belliss.a Chiesa per li secolari, per la como-dità delle stattioni, e delle feste che fanno le monache, co’ sei Cap-pelle, et l’altare grande, che sono sette, e dove s’ode la messa dalle monache otto. La chiesa piccola è sotto la chiesa grande, et ivi fu arrostito s. Lorenzo su la graticola vi sonno nove altari». In seguito, la stessa religiosa fece dipingere anche la cappella di S. Brigida «la-vorata a stucco, et oro in honore di questa santa». Alcune sue conso-relle contribuirono alla decorazione interna dell’edificio. «Sor Lavora Valentini» fece realizzare il Martirio dei Santi Crispino e Crispiniano, di autore ignoto. «Sor Camilla Petronij» fece ornare la cappella di S. Michele e realizzare il quadro del Crocifisso ed una croce d’argento, a cui «sor Eustachia della Molara» affiancò sei candelieri d’argento. «Sor Potentiana Badangeli» fece dipingere la cappella di S. Francesco.

(38) Cfr. ASR, Camerale I, Giustificazioni di tesoreria, b. 26, reg. 14, p. 5, 1598 apr. 26; anche Camerale I, Fabbriche, b. 1524, reg. 2, c. 101, 1598: citati in Fonti per la storia artistica romana al tempo di Clemente VIII, a cura di A. M. Corbo, Roma 1975, pp. 47, 57, 61.

(39) AGOFM, Sign. D/4-53.

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«Sor Violante Cecchini» commissionò un lampadario con tre lampade d’argento. «Sor Felice Valentini» («Barbara» secondo padre Andrea da Rocca di Papa), ancora viva nel 1610, fece realizzare il tabernaco-lo del Santissimo Sacramento, la balaustra di marmo dinanzi l’altare maggiore e le vetrate della chiesa. «Sor barbara Carafa», nipote del papa, fece ripulire ed ornare decentemente il «Forno» di S. Lorenzo. «Sor Lavinia Gioachini», invece, commissionò il fusto ed il capo d’ar-gento di S. Ippolito Martire. I lavori proseguirono anche nei decenni successivi. Nel 1602 Riccio Bianchini, a spese di «Suor Antonia Do-rologi», dipinse, all’interno del presbiterio e di fronte a San Raffaele Arcangelo, il quadro di San Michele Arcangelo, conservato anche dopo i restauri attuati alla metà del Settecento. Nel 1633 «Suor Daria An-tedoli» fece costruire le balaustre di marmo di due cappelle laterali. Nel 1671 la badessa «suor Anna Maria Vannuzzi» fece realizzare la cantoria esistente sulla controfacciata di S. Lorenzo in Panisperna («l’annessa grate che è appiè della chiesa», secondo le parole di padre Andrea da Rocca di Papa). Il tabernacolo del Santissimo Sacramento fu rinnovato nel 1680 da un artista anonimo per iniziativa della bades-sa «Suor Costanza Bonazzini». La sostituzione del manufatto sembra confermata da Ottorino Montenovesi, secondo cui il tabernacolo «di marmi diversi, sormontato da semi cupola» fu costruito a spese di una monaca nel secolo XVII. Nel 1684 suor Domenica Francesca Petroni fece realizzare la porta della chiesa, «come si legge tuttora nella me-desima». L’8 marzo 1725 il vescovo Battelli consacrò l’altare esistente nella Confessione di S. Lorenzo. La notizia è riportata negli atti del monastero e confermata anche da padre Andrea da Rocca di Papa, secondo cui «L’altare messo in principio era mobile o portatile, e poi nel 1725 ne fu fatto uno stabile, consacrato dall’Ill.mo Monsignore Vescovo Battelli». Forse la sostituzione fu promossa dal papa Bene-detto XIII (1724-1730), che «nel principio del XVIII secolo ordinò, che quel luogo del glorioso Martire San Lorenzo venisse visitato al pari di tutte le altre chiese di Roma» (40).

(40) AGOFM, Sign. D/3-85; Sign. D/4-53; Sign. D/5-3; P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 12, 14-15; O. MontenoVesI, San Lorenzo in Panisperna, in «Miscellanea France-scana», xxxIx (1939), 4, p. 664. Si annota che nel corso del 1726 la chiesa e il monastero furono visitati dal cardinale Alessandro Falconieri. L’evento è ricordato nel testo dei Decre-ti emanati il 28 marzo 1825 da Giuseppe Perugino, vescovo di Porfirio, a seguito della visi-ta compiuta il 27 ottobre 1824. Cfr. AGOFM, Sign. D/5-2.

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Un documento del XVII secolo utile ad approfondire l’indagine sullo stato della chiesa e del monastero è l’«Acta Sacrae Visitationis apostolicae S.D.N. Urbani VIII. Parte 2. Visitatio Ecclesiae S. Lau-rentii in Panisperna», particolarmente importante per la descrizione dei luoghi e le prescrizioni emanate in quell’occasione (41). La visita fu compiuta l’11 marzo 1627 da una commissione guidata da «Franci-scus Meula Sig. deput» ed iniziò dal presbiterio, dove venne rilevata la presenza dell’affresco del martirio di S. Lorenzo e del pavimento in pietra sotto il quale erano conservate le reliquie sacre. A quell’epoca il presbiterio era già delimitato da una balaustra in marmo e alla sua destra esisteva un vano munito di una grata in ferro attraverso la qua-le le monache partecipavano ai sacri riti. Dopo aver visitato la sacre-stia, accessibile dal presbiterio, l’ispezione proseguì nelle sei cappelle laterali, chiuse da cancelli in ferro: prima quelle «a latere Evangelii» e poi quelle «a latere Epistolae». Lungo il primo lato vennero iden-tificate le cappelle di S. Francesco, di S. Brigida ed una terza, pove-ra di ornamento e priva di dedicazione. Lungo il secondo lato furo-no indicate le cappelle del SS.mo Crocifisso, ornata da pitture sacre di «Horatio Petronio», ma carente di arredi liturgici, e quelle dei SS. Crispino e Crispiniano e della SS.ma Vergine Assunta. Venne poi an-notata la presenza dell’ ‘acquasantiera’ a destra dell’ingresso e il mo-numento sepolcrale del cardinal Sirleto.

Tornati nella Sagrestia, i visitatori presero nota di una «fenestra gemina» munita di grata attraverso la quale le monache ricevevano i sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, e della «rota». La vi-sita proseguì nel Forno di S. Lorenzo. Dopo aver ricordato la data anniversaria di consacrazione della chiesa («die 26 Septembris») e la stazione quaresimale celebrata il giovedì successivo alla prima Do-menica di Quaresima, venne visitata la «Chiesa dentro al Monaste-ro», dove «in una cassa vicino all’altar maggiore è riposto il corpo della Beata Margherita senza il capo quale è nel Monastero di S. Sil-vestro».

(41) AGOFM, Sign. D/4-50. Il manoscritto conservato nell’archivio del monastero è co-pia del verbale originale della visita, redatta il 14 novembre 1907.

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Terminata la visita della chiesa interna, i padri entrarono nel mo-nastero attraverso una porta reputata sufficiente a garantire la clau-sura ed ispezionarono il parlatorio, illuminato da quattro finestre e dotato della «rota lignea».

All’interno della clausura, i visitatori descrissero un’aula liturgica in cui trovavano posto numerosi altari. In corrispondenza di un lato erano disposti l’altare maggiore ed un altro altare utilizzato come “re-liquiario”. Lungo il perimetro erano collocati gli altari devozionali e tre sepolture di monache. Subito dopo fu ispezionato il coro, arre-dato con sedili in legno ed adibito agli uffici liturgici e all’adorazio-ne del SS.mo Corpo di Cristo. Successivamente i padri uscirono nel giardino coltivato ad alberi e vigneto e circondato da mura con cap-pelle ed edicole sacre. La visita proseguì nel refettorio, arredato con sedie, tavoli in legno, arredi e libri per la meditazione delle mona-che. Da lì fu possibile entrare in cucina ed ispezionare le dispense e le attrezzature. Poi la visita proseguì nei dormitori delle monache e delle converse, distinti fra loro. In conclusione, vennero ispezio-nati i locali del noviziato e i laboratori. Infine, venne indicato il nu-mero delle monache, 66, di cui 55 velate, e il reddito del monaste-ro, 4333 scudi.

Al termine della visita i padri verbalizzarono le disposizioni a cui le monache si sarebbero dovute attenere. Venne ordinato di ornare decentemente l’altare di S. Brigida, su cui mettere «una pietra sacra-ta, secondo la nuova forma», nonché la «cappella attaccata a quel-la di S. Brigida», che appariva povera di ornamento e priva di dedi-cazione, e quelle di S. Francesco, dei SS. Crispino e Crispiniano, e della SS.ma Assunta. Inoltre, si suggerì di concederle a persone che avessero la possibilità e la voglia di ornarle e mantenerle. Fu dispo-sta l’apertura di un arco nel muro della sagrestia, da sbarrare con cancelli di ferro o legno, «in modo che il celebrante nell’altare posto dentro di quella possa esser veduto dalla Chiesa». Fu, altresì, ordi-nato che «il fenestrino della communione si facci nel lato del Vange-lo dell’Altare maggiore, e nell’altro lato s’accomodi la Rota per la sa-cra suppellettile, e quelli che sono nella sagristia si serrino». Infine, venne disposto che una cappella posta nel giardino «o si riduca ad archi in modo che si possa vedere, o pure si demolisca» e che «Le iscrittioni fatte dalle Abbadesse si toglino».

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Dopo la visita apostolica del 1627 il monastero visse un periodo di rinnovato fervore edilizio. Nel 1629 le monache, guidate dalla ba-dessa suor Ippolita Cianti, spesero 5400 scudi per altri restauri alla chiesa, al cortile e al monastero (42). Il 22 gennaio 1630 «Cherubino Bonav.a Politi» firmò una «Misura et stima di lavori di mu.re fatti di tutta sua robba da ms.ro Fran.co di Rossi mr.re in fare il nuovo muro che divide la vigna delle RR.MM. di s. Lorenzo in panisperna dal orto delli Padri di s.ta Pudenziana qual’era ruvinato et fatto fare da dette RR.MM. misurato et stimato da me sotto scritto». «Ms.ro Fran.co di Rossi» venne compensato con la somma di scudi 274 e baiocchi 11, come risulta da una ricevuta del 13 luglio 1630 (43).

Il 24 maggio 1634 il muratore Francesco Rossi s’impegnò ad ese-guire «tutto il lavoro tanto di muratore come di stuccatore, intaglia-tore et altro che anderanno fatti sotto la volta e fianchi del Altare magg.re nella Chiesa delle […] Rev.e monache di S.o Lorenzo Pane-perna». Il lavoro sarebbe stato fatto «in conformità del Modello et a contentam.o del Architetto polito», probabilmente coincidente con il «Cherubino Bonav.a Politi» nominato quattro anni prima. L’artigiano promise di realizzare «lo sfondo att.o il quadro in conformità del modi-no dell’Arch.o et farvi at.o dell’incaglio di tronchi di palme che scher-zano att.o il d.o quadro fare il festone di fiori a mazzi att.o il putto di mezzo et dalle bande che regge la cartella nelli quattro fianchi dove impostano gli archi fare una cartella un intreccio di palme et corona di intaglio a fiori o vero quello piacerà al Arch.o fare li quattro arconi nelle facce et dalli fianchi con suoi modini del Arch.o che facci delle stampe a contentam.o del sud. nelli […] archi […] fare […] le mo-dine […] et farvici delli rosoni nel mezzo come meglio parerà a gu-sto del Arch.o sp.a li fianchi delli doi finestroni doverà fare una cimo-sa liscia o intagliata come parerà come sop.a con conchiglia e palme dalle bande et cascata di festoni dalle bande con […] il fondo et in fare att.o la sua cornice nel sesto dell’arco et che parim.e il s.to arco come è accennato nel Modello il tutto per accontentamto del Arch.o

(42) P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., p. 12.(43) AGOFM, Sign. D/3-54: «Misura e stima del muro divisorio che divide la vigna del

Monastero con l’orto dei PP. di Sta Pudenziana. Roma 13 luglio 1630».

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che detto lavoro sia ben fatto ben custodito bagnato lavorato polito ad uso di ben […] et a paragone di altri simili lavori fatti nella Città di Roma». Francesco Rossi prese l’impegno di eseguire i lavori a sue complete spese, «eccettuato la materia di ferro che la mettono le Sig.re Monache», per un compenso di «Scudi quattrocento mon.ta tan-to tutto il lavoro di muro come anco di stucco nominato come sopra obbligando me et tutti i miei beni nella più amplia firma» (44).

Nel 1637 il nome di «M.o Francesco Rossi Muratore» comparve ancora una volta in un «Conto di spese fatte per la fabbrica del Mo-nastero unitamente con il ristretto dell’entrate e uscite di detta fabbri-ca». Esso comprendeva «Il conto di m.o Francesco della fabrica fatta dintro al Monasterio ascendi alla somma di scudi doimila cinquecen-toottantaquattro – 28: Scudi 2584 – 28», confermato dall’annotazione relativa alla «Fabrica fatta da mas.o Francesco Rossi muratore dell’ora-torij verso l’orto, importa scudi doimila cinquecento ottanta quattro – 28 l’anno 1637: Scudi 2584:28». La somma aumentò di Scudi 228-30, per i «lavori fatti nelle case al Vicolo di Cartoni», e di Scudi 23-38, «per un conto della casa a S. Pietro in Vincola et allo scapinaro, che per errore nel tirar de conti non è stato cavato fuori». In tota-le, l’artigiano ricevette Scudi 2962-17. Per quei lavori, il «sig.r loren-zo oliviero Architetto» fu compensato con Scudi 20, cui si aggiunse-ro altri Scudi 149-59 «per diversi lavori fatti dintra al Monasterio et diversi Case per Roma». Complessivamente, le monache spesero «In tutto e per tutto d.tta fabbrica» Scudi 3230-76 (45).

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La veste interna attuale dell’edificio ecclesiastico risale al bien-nio 1756-1757, allorché le religiose spesero «più migliaia di scudi» e «fecero costruire i coretti laterali e aggiungere pitture, incrostare di

(44) AGOFM, Sign. D/3-46: «Obbligo del muratore per il lavoro della tribuna della chie-sa. 1634». Il Bertolotti ha pubblicato un altro documento che testimonia l’esecuzione dei la-vori di decorazione della chiesa: «Gio. Maria Sorosio, stuccatore romano e M.o Francesco de Rossi della Diocesi di Roma, muratore, promettono di fare nella chiesa delle monache di S. Lorenzo in Panesperna lavori, cioè a ‘stucco, oro e pittura’» (Not. Berettario, 1635-45, f. 311). A. BertolottI, Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI e XVII. Studi e ricerche ne-gli Archivi Romani, Milano 1881, II, p. 168.

(45) AGOFM, Sign. D/3-67.

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pietre mischie, stuccare e dorare la chiesa da certo Nicola Cartoni». Essa fu «tutta riabbellita dall’antica struttura, e ridotta al gusto mo-derno, con ornamenti bellissimi di marmi fini mischi, tanto nei pila-stri, che nelle colonne, coi suoi capitelli dorati, ed in ogn’altro bene adattato sito, per il che è stata resa al sommo decorosa, e vaga». I la-vori iniziarono nel 1756 e proseguirono nel corso dell’anno successi-vo, quando le monache, «sempre premurose d’abbellire la loro chie-sa», fecero dipingere la volta e rinnovare i quadri degli altari laterali. La direzione fu affidata all’architetto Mauro Fontana (46).

* * *

Il trasferimento della capitale del Regno d’Italia da Firenze a Roma fu determinante per il nuovo assetto urbanistico della città e, in par-ticolare, per le sorti del colle Viminale, a quell’epoca ancora occupa-to dalla vasta area di orti e giardini appartenuti per secoli al mona-stero di S. Lorenzo in Panisperna. Gli eventi di quel periodo incisero sul complesso edilizio in maniera forse più traumatica di quanto fos-se avvenuto nei secoli precedenti.

dopo il 20 settembre 1870, una commissione presieduta da Pie-tro Camporese ebbe il compito di studiare «progetti di ampliazione ed abbellimenti della città». La relazione conclusiva, consegnata alla Giunta di governo il 10 novembre 1870, propose chiaramente l’espan-sione verso i colli Viminale ed Esquilino e giudicò il monastero di S. Lorenzo in Panisperna idoneo ad accogliere i nuovi istituti scientifi-ci universitari. Nel 1871-72 Luigi Gabet, già membro della suddetta e di altre commissioni nominate per decidere l’assetto urbanistico di Roma, redasse un primo piano di adattamento del complesso edili-zio alle nuove funzioni universitarie (47).

Pochi mesi dopo, in base ai Regi decreti del 30 giugno 1872 e 26 gennaio 1873, furono espropriati in breve tempo l’orto, il campanile,

(46) Per approfondimenti si rinvia a S. FAllIcA, L’intervento di Mauro Fontana nella chie-sa di San Lorenzo in Panisperna a Roma, in «Studi Romani», LVI (2008), pp. 263-286.

(47) Cfr. M. T. BonAdonnA russo, Il primo decennio di Roma italiana, in «Archivio del-la Società Romana di Storia Patria», XCIII (1970), p. 257, n. 23; Gli archivi del IV Corpo d’Esercito e di Roma Capitale. Inventario, a cura di R. Gueze - A. Papa, Archivio Centrale del-lo Stato, Roma 1970; Gabet, Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, Volume 51 (1998), ad vocem.

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una parte del fabbricato e vari ambienti annessi alla chiesa. Il decreto di esproprio fu notificato alla madre badessa il 2 febbraio 1873.

Lo stato del monastero fu accuratamente descritto nel verbale stila-to dalla commissione incaricata della ricognizione del complesso edili-zio, guidata dal perito ingegnere Enrico Carlucci e dal notaro pubblico Alessandro Venuti. Essa si riunì per la prima volta l’11 febbraio 1873 ed eseguì i sopralluoghi fra l’8 e il 22 ottobre 1873. I periti iniziarono la visita dall’ingresso posto sul sagrato, a sinistra della chiesa, attraver-so l’attuale porta di collegamento con i locali del Ministero dell’Inter-no, e percorsero i locali adiacenti alle cappelle di sinistra della chie-sa. Superato il coro, visitarono il fabbricato successivamente demolito, impostato su un portico a pianta curvilinea ed ubicato fra il chiostro ed il futuro Istituto di Fisica, allora inesistente. Il sopralluogo proseguì nell’orto, nei piani superiori del corpo di fabbrica abbattuto, nell’edi-ficio collocato lungo il lato destro del sagrato e, infine, nel campani-le. Il verbale delle operazioni, accuratamente compilato, fu completato da tre planimetrie in scala 1:100, utilissime per ricostruire gli ambienti demoliti e lo stato dell’immobile prima delle trasformazioni (48).

Nel corso delle operazioni di riduzione ed adattamento ad Istitu-to di chimica l’edificio a pianta curvilinea fu demolito. Una eliotipia del 1879 mostra il Regio Istituto Chimico in Roma che appare come l’attuale palazzina in uso al Ministero dell’Interno, ancora preceduta da due scale di accesso, successivamente demolite (49).

I lavori erano già iniziati nel 1872 con la riduzione e l’adattamento dell’ex monastero ad Istituto di chimica. Il 17 settembre di quell’an-no venne pubblicato l’Avviso d’incanto e il 4 ottobre successivo un Avviso di miglioria. Il contratto d’appalto venne stipulato il 20 otto-bre con il signor Giuseppe Casarecci. Il conto finale porta la data del 26 agosto 1873, la relazione del collaudo quella del 13 aprile 1875. I lavori, attestati da numerosi documenti contabili compresero l’in-

(48) ArchIVIo centrAle dello stAto, LL.PP., Roma Capitale, busta 65, L 1/14; L 1/15, «Consegna al Demanio del convento e degli annessi orti»; busta 123, «Processi verbali di pre-sa in possesso del monastero di San Lorenzo in Panisperna»; Archivio della Direzione genera-le delle antichità e delle belle arti (1860-1890), busta 577, fasc. 938, «Roma, convento di San Lorenzo in Panisperna, 1878» (distruzione degli affreschi e lavori di adattamento per l’inse-rimento dell’orto botanico).

(49) roMA, BIBlIotecA Besso, Raccolta Consoni, inv. CO54, eliotipia, «R. Istituto Chimi-co in Roma. Cav. Mansueti Architetto 1879».

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tonacatura, la pavimentazione, il rialzamento della facciata, l’abbas-samento del piazzale davanti alla caserma, nonché le opere da stuc-catore, da scalpellino, da falegname, da muratore, da fabbro ferraio, da vetraio, da stagnaro, da asfaltista e da pittore (50).

Il chiostro fu chiuso da vetrate e sotto il portico furono ricavate le sale per le analisi e alcuni luminosi locali di lavoro. All’inizio l’aula principale fu sistemata in una stanza al pian terreno, nell’angolo su-doccidentale del palazzo, e soltanto dopo alcuni anni fu costruita una grande aula moderna in un avancorpo di nuova fabbricazione a nord del vecchio edificio. Il refettorio delle monache, con le pareti affresca-te, fu imbiancato e destinato alle ricerche di chimica organica. Altre due grandi stanze adiacenti furono destinate alle ricerche di chimica inorganica e come stanza di lavoro per il Cannizzaro. Nel corso degli anni successivi, in base alla disponibilità dei fondi, anche altri locali furono adattati a laboratorio e destinati alle ricerche di chimica biolo-gica, alle analisi tossicologiche e alle esperienze di chimica fisica.

Alcune foto pubblicate nel 1927 documentano i lavori eseguiti fino ad allora. Le facciate dell’Istituto Chimico si presentavano in manie-ra sostanzialmente analoga alla situazione attuale. L’accesso avveni-va da uno dei due portali gemelli aperti sul fronte di via Panisperna, ancora esistenti. La sopraelevazione di un piano, con le finestre mol-to più basse di quelle sottostanti, era stata realizzata solamente sul lato in corrispondenza dell’ingresso principale, mentre quello adia-cente conservava ancora la copertura a tetto. L’avancorpo costruito per contenere l’aula di chimica presentava ancora le due scale fron-tali successivamente demolite.

Spostandosi all’interno del chiostro, le arcate del portico e quel-le del loggiato superiore erano chiuse da vetrate, mentre i due pozzi si presentavano già nelle condizioni attuali.

La parete di fondo dell’ex coro, ormai adibito ad Istituto di chi-mica farmaceutica, era stata traforata da un finestrone ad arco, anco-ra esistente. Altre due foto illustravano l’aula per le lezioni e un am-biente a volta adattato a laboratorio (51).

(50) ACS, LL.PP., Roma Capitale, busta 63, L 1-6, «Documenti contrattuali per lavori di riduzione dell’edificio a laboratorio scientifico dell’Università di Roma»; busta 64, con altri do-cumenti contabili contemporanei.

(51) L’Università di Roma, con prefazione di G. del Vecchio, Roma 1927, pp. 206-213, figg. 101-104; pp. 252-255, fig. 121-122.

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Fotografie d’epoca pubblicate nel 1935 testimoniano puntualmen-te altre trasformazioni apportate all’ex edificio conventuale negli anni immediatamente precedenti. La prima foto mostra l’ingresso princi-pale dell’Istituto di chimica e, in particolare, le scale di collegamen-to con il loggiato superiore, oggi demolite. La seconda foto presenta una visuale del cortile dell’Istituto Chimico opposta rispetto all’im-magine pubblicata nel 1927. Le arcate del loggiato risultano ormai murate, forse proprio nell’arco di tempo trascorso fra la stampa dei due testi. Il tetto a falde resiste solamente sopra l’avancorpo adibi-to ad aula chimica e lascia il posto ad una copertura piana sul re-sto dell’edificio. Il parapetto del terrazzo sostiene un orologio, oggi scomparso. Le vetrate che chiudevano il portico del chiostro sareb-bero state totalmente soppresse dopo il trasferimento dell’Istituto di chimica nella nuova sede all’interno della Città Universitaria. La ter-za foto illustra la parte del complesso edilizio adibita ad Istituto di chimica farmaceutica, compresa fra l’avancorpo dell’aula di chimica e il campanile della chiesa (52).

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Le religiose si opposero in tutti i modi all’allontanamento e, con l’aiuto del padre confessore Anacleto da Velletri, ricorsero in giudi-zio contro il Ministero dei Lavori Pubblici e la Prefettura di Roma. Lo sforzo fu inutile e le Clarisse, spogliate dei loro beni, rimasero a S. Lorenzo in Panisperna solamente in virtù di una clausola della legge di soppressione degli ordini religiosi, che concedeva loro di ri-manere nel monastero finché la comunità si fosse ridotta a tre per-sone. Il loro timore per un’improvvisa partenza fu talmente grande che il 10 agosto 1873 annotarono sui loro registri: «Per la Madonna di Refugium Peccatorum in quest’anno non è stato fatto niente, atte-se le presenti circostanze dei tempi presenti».

Il 12 agosto 1877 le monache ricevettero dal Governo l’ordine di esproprio totale del monastero e il 31 ottobre successivo, per or-dine della Giunta liquidatrice, lasciarono S. Lorenzo in Panisperna e traslocarono nel vicino monastero del Bambin Gesù, in via Urbana,

(52) N. spAno, L’Università di Roma, Roma 1935, pp. 249-257, in partic. 252; 328-329.

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dove restarono circa sette anni. Tra il 27 ed il 30 agosto 1884 si tra-sferirono nel monastero di S. Lucia in Selci, vicino al quale possede-vano un giardino sorto sulle macerie di case rovinate. Nel dicembre del 1892 le sepolture delle religiose furono vuotate e i resti furono trasportati al cimitero del Verano, per permettere la realizzazione del-le condutture di scarico dell’Istituto di chimica (53).

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Il giubileo episcopale di Leone XIII, al secolo Gioacchino Pec-ci, consacrato vescovo proprio a S. Lorenzo in Panisperna il 19 feb-braio 1842 (1843, secondo Ottorino Montenovesi), segnò in manie-ra profonda il biennio 1892-93, che fu dedicato all’organizzazione dei festeggiamenti. Venne creato un apposito comitato presieduto dal cardinale vicario Lucido Maria Parocchi, assistito dal giovane mon-signore Radini-Tedeschi e formato, tra gli altri, da padre Anacleto di Velletri, rettore della chiesa da vent’anni a quella parte. Egli s’inte-ressò della ripulitura o del rinnovamento degli utensili e degli arre-di sacri, come reliquiari, candelieri ed anche l’organo. Il Fondo per il Culto, da parte sua, avviò numerosi restauri e costruì la gradinata e la facciata sulla via (54).

A quell’epoca, a causa dell’abbassamento del culmine di via Pa-nisperna legato all’apertura di via Cesare Balbo, il cortile della chiesa era diventato accessibile solamente grazie ad una scala di legno qua-si impraticabile ed attraverso un’apertura disagevole ed indecorosa. Inoltre, l’atrio era ridotto a ricovero di povera gente. Le effettive con-dizioni dello spazio antistante la chiesa furono chiaramente descritte dall’allora rettore, don Alessandro Civitani, all’«Ingegnere Capo ad-detto per i monumenti pubblici, appartenenti alla Istruzione pubblica del Regno», in una lettera senza data, ma protocollata dal destinata-rio il 27 marzo 1892. Il sacerdote, dopo aver ricordato la fondazio-ne antichissima del tempio, «che rimonta al 3° secolo della Chiesa ai tempi del grande Imperatore Costantino», chiese «che sia rinnovato il piancito, mentre il presente neppure si addice ad un granaro»; che

(53) p. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 19-20; O. MontenoVesI, op. cit., pp. 669-670, in partic. nota 23.

(54) P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 19-21; O. MontenoVesI, op. cit., p. 664.

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l’organo fosse collocato «sopra ai coretti delle Monache»; che fosse realizzata una bussola alla porta della chiesa; che gli venisse concessa una stanza al pian terreno, «onde formarvi un armadio, ossia un cre-denzone grande» per la conservazione delle reliquie; che fosse siste-mato il Forno di S. Lorenzo, compreso il rifacimento delle due por-te di accesso, fradice; che fosse aperta una porta di comunicazione al pian terreno per accedere al campanile e suonare le campane, «es-sendo la presente incomodissima, oltragiante e spendiosa»; che fosse-ro rimossi «due grandi credenzoni» dall’altare maggiore. Secondo il religioso, quasi tutte le problematiche sarebbero state superate qua-lora «il Ministero cedesse o togliesse un tramezzo a pianterreno per andare al Campanile, quivi si possano collocare le S. Reliquie, qui-vi i credenzoni e tutto il legname che sta nel Forno, e quivi avesse a ritornare al culto della Chiesa le sepolture delle Monache defunte prima dell’occupazione». Infine, dopo aver fatto cenno alla necessi-tà «di dare un restauro alla facciata della Chiesa, gradinata, inferria-ta etc.», il rettore richiamò l’attenzione sul «portone lasciato in aria fin dal 1872», sulla «scala indecente» e sulla «sconcezza del cortile e piazzale innanzi al monumento, ove si tiene un lavatojo, si stendo-no panni fino sopra ai gradini e le galline che passeggiano, scavano e imbrattano tutto il giorno, cosa schifosa, eccita meraviglia a chiun-que ha buonsenso» (55).

Successive disposizioni furono dettate con due note del 19 aprile e del 4 maggio 1892, attualmente non rintracciabili. La risposta giun-se il 6 giugno successivo: l’Architetto Direttore del Regio ufficio re-gionale per la conservazione dei monumenti delle provincie di Roma, Aquila e Chieti, fece presente al Ministro di aver «già preso gli op-portuni accordi coll’Ingegnere delegato del Fondo per il Culto» e si riservò di presentare al più presto il preventivo delle spese da soste-nere per l’esecuzione di lavori che comprendevano «il locale da de-stinarsi al Rettore di quella Chiesa per riporre gli arredi sacri». La lettera era accompagnata da una «pianta della Chiesa di S. Lorenzo in Panisperna e dei locali attigui, conforme agli ordini ricevuti colla nota controcitata» (56).

(55) ArchIVIo centrAle dello stAto, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Ge-nerale dell’Antichità e Belle Arti, II vers., II serie, busta 403, fasc. 4499.

(56) Ibidem.

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S. FALLICA : SVILUPPO E TRASFORMAZIONE DELLA CHIESA148

Il 30 giugno 1892 l’Architetto Direttore scrisse nuovamente al Ministro e, dopo brevi cenni sull’origine della chiesa, ricordò l’in-carico assegnato al suo ufficio «di esaminare quel fabbricato unita-mente ad un funzionario della Direzione Generale del fondo per il Culto e vedere quali lavori di restauro debbono eseguirsi a cura di quella Direzione Generale e quali a spese di codesto On.le Ministe-ro». Affermò che «tutti i lavori a farsi alla Chiesa sono a tutto cari-co della nominata Direzione Generale, mentre quelli che riguardano le pareti esterne delle abitazioni degli Uscieri debbono essere soste-nuti da codesto On.le Ministero, ed il restauro del Cortile, non che quello dell’ingresso e la nuova scala, essendo in comune il passag-gio a mio parere la spesa dovrebbe sostenersi per metà, tra il fondo Culto ed il Ministero stesso». Tra l’altro, propose «di demolire l’an-tico ingresso rimasto in aria per l’abbassamento della Via costruen-dovi una più comoda ed ampia scala in travertino, chiusa da cancel-lata in ferro». La lettera comprendeva cinque allegati, non reperiti, fra cui «due tipi, uno che dimostra lo stato attuale, l’altro il proget-to di restauro con i suoi relativi preventivi non che una pianta sulla quale sono segnati gli ambienti A. B. C. ora ritenuti dal R.o Istituto Chimico e che questo ufficio propone di assegnarli al Rettore locale per la custodia degli arredi sacri» (57).

Alla fine del 1892 vennero avviati i restauri della chiesa. A spese del Fondo Culto, o Asse Ecclesiastico, venne rifatto il pavimento del-la chiesa, della «Segreteria» e di un ambiente contiguo con mattoni bianchi e neri di cemento; furono ripristinati ed imbiancati il muro esterno della chiesa ed il «Forno» di S. Lorenzo; fu restaurata la par-te di casa destinata al rettore andata a fuoco la notte fra il 20 e il 21 giugno 1892, estendendo la ripulitura anche alle altre abitazioni adia-centi; furono rinnovati i calici e gli altri oggetti sacri distrutti dall’in-cendio. Infine, fu rinnovato il cortile, venne costruita la doppia scali-nata di travertino esterna e il portale esterno fu decorato con cinque stemmi a rilievo, fra cui quello di papa Leone XIII. I lavori furono conclusi da un solenne Triduo di ringraziamento (58).

sAlVAtore FAllIcA

(57) Ibidem. Per gli elaborati grafici, cfr. ACS, M.P.I., Dir. Gen. Antichità e Belle Arti, II vers., II serie, all. B 13, f. 603, estratte da busta 403, fasc. 4499.

(58) P. AndreA dA roccA dI pApA, op. cit., pp. 19-21.

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Battaglie per la tutela nella roma Barocca:

Francesco gualdi e la diFesa delle «memorie antiche»

anche nella roma seicentesca in tumultuosa trasformazione, in cui Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini, vi fu chi portò avanti istanze di tutela del patrimonio storico e artistico. se non man-carono, da un lato, provvedimenti delle autorità che andavano in que-sta direzione (1), dall’altro i collezionisti ricoveravano nelle loro raccol-

(1) Fin dal medioevo le magistrature capitoline, interpretando il forte sentimento identi-tario dell’antica nobiltà cittadina, si pronunciarono in favore della tutela dei monumenti del-la roma imperiale, come dimostra specialmente il noto editto sulla colonna traiana emesso dal comune il 27 marzo 1162, con il quale si prescriveva la condanna a morte per chiunque osasse danneggiare l’opera (cfr. S. Romano, Arte del Medioevo romano: la continuità e il cam-biamento, in Roma medievale, a cura di a. Vauchez, Bari 2001, pp. 267-289, in part. 267-269). nel cinquecento l’attività delle magistrature in questo ambito si intensificò (cfr. m. FRance-Schini, La magistratura capitolina e la tutela delle antichità di Roma nel XVI secolo, in «ar-chivio della società romana di storia patria», ciX (1986), pp. 141-150), fino a giungere allo scontro frontale con il pontefice sisto V in merito alla paventata, e poi scongiurata, demoli-zione del mausoleo di cecilia metella (cfr. a. antinoRi, Il rapporto con l’antico nella Roma di Sisto V: la controversia sulla demolizione della tomba di Cecilia Metella, in «architettura. storia e documenti», 1989, 1-2, pp. 55-63). i pontefici, da parte loro, emanarono provvedi-menti in difesa dei monumenti antichi, istituendo in particolare la figura del «commissario alle antichità» (cfr. c. FRanzoni, «Urbe Roma in pristinam formam renascente». Le antichità di Roma durante il Rinascimento, in Roma nel Rinascimento, a cura di a. pinelli, roma-Bari 2001, pp. 291-336; R. t. Ridley, To protect the Monuments: the Papal antiquarian, in «Xenia antiqua», i (1992), pp. 117-154; F. FiSchetti, Giovan Pietro Bellori commissario delle anti-chità, 1670-1694: documenti per una storia della conservazione del patrimonio artistico romano, in «Bollettino d’arte», Xciii (2008), p. 144, allegato); notevole fu pure l’attività legislativa tesa a ridimensionare l’emorragia di antichità ed opere d’arte dalla città (molti dei provvedi-menti sono raccolti in a. emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artisti-ci e culturali negli antichi Stati italiani 1571-1860, Bologna 1978, nuova ediz. Bologna 1996, pp. 55-115). per una puntuale panoramica sulla storia della tutela a roma tra medioevo ed età moderna e per un’approfondita analisi dei suoi sviluppi nei primi decenni dell’ottocen-

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FaBriZio Federici150

te opere d’arte e frammenti di città che altrimenti sarebbero andati dispersi, ed antiquari e appassionati promossero campagne di docu-mentazione intese a tramandare l’aspetto di anticaglie, mosaici ed af-freschi (2). di fronte agli scempi, si levarono spesso voci critiche, come dimostra la celebre pasquinata (3); ma ben pochi furono coloro che allo sdegno fecero seguire azioni concrete a difesa delle testimonian-ze del passato (4). una clamorosa eccezione è costituita dalle iniziative condotte dal cavalier Francesco gualdi (1574 ca - 1657) (tav. XXXiV, fig. 1), che in più occasioni fece pressioni sulle autorità o agì in pri-ma persona affinché le «memorie» fossero salvate dalla distruzione e restaurate; e se anche vi dovettero essere altri che fattivamente si adoperarono per la tutela, gualdi fu senz’altro il più importante pa-

to cfr. V. cuRzi, Bene culturale e pubblica utilità: politiche di tutela a Roma tra Ancien Régi-me e Restaurazione, Bologna 2004.

(2) i rimandi d’obbligo sono al Museo Cartaceo di cassiano dal pozzo (cfr. i. heRk-lotz, Cassiano dal Pozzo und die Archäologie des 17. Jahrhunderts, münchen 1999 e i volu-mi dell’imponente impresa del catalogue raisonné, london 1996 e sgg.) e alle copie di affre-schi e mosaici paleocristiani e medievali commissionate dal cardinale Francesco Barberini (cfr. S. Waetzoldt, Die Kopien des 17. Jahrhunderts nach Mosaiken und Wandmalereien in Rom, Wien-münchen 1964).

(3) si deve probabilmente a giulio mancini il primo seme dell’indignazione contro la decisione di urbano Viii di asportare e fondere i rivestimenti bronzei delle travi del porti-co del pantheon (cfr. G. BoSSi, La pasquinata “Quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini”, roma 1898; l. Von PaStoR, Storia dei papi, Xiii, roma 1931, pp. 866-869, 940-941; G. Gi-Gli, Diario di Roma, a cura di m. Barberito, roma 1994, pp. 151-153; l. Rice, Urbano VIII e il dilemma del portico del Pantheon, in «Bollettino d’arte», Xciii (2008), 143, pp. 93-110; ead., Bernini and the Pantheon bronze, in Sankt Peter in Rom 1506-2006, a cura di g. sat-zinger - s. schütze, münchen 2008, pp. 337-352). alla rimozione dei «maravigliosi travi del-la rotonda» (e alla distruzione del «sontuoso, e magnifico frontespicio del tempio del sole, che stava nel giardin de’ signori collonnesi») accenna polemicamente gualdi in una lette-ra a peiresc del 28 giugno 1630; cfr. F. FedeRici, Alla ricerca dell’esattezza: Peiresc, Francesco Gualdi e l’antico, in Rome - Paris 1640. Transferts culturels et renaissance d’un centre artisti-que, atti del convegno a cura di m. Bayard, roma, 17-19 aprile 2008, paris 2010, pp. 229-273, pp. 254 e 272.

(4) a buona parte degli eruditi seicenteschi si può estendere questo giudizio sui loro pre-decessori dei secoli XV e XVi: «agli interessi economici che spingono ad una continua di-struzione e spoliazione dei monumenti antichi non si contrappone d’altronde nemmeno da parte degli studiosi una chiara coscienza della necessità di preservare i resti di roma antica, nonostante le proteste ed il rammarico ripetutamente espressi. non c’è antiquario che sia sta-to in qualche modo attivo al di fuori del ristretto ambito degli studi che non si sia reso re-sponsabile di distruzioni […]» (G. WataGhin cantino, Archeologia e «archeologie». Il rap-porto con l’antico fra mito, arte e ricerca, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, a cura di s. settis, i, torino 1984, pp. 169-217, p. 198).

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Battaglie per la tutela nella roma Barocca 151

ladino della salvaguardia nella roma del tempo, per la frequenza e l’incisività delle iniziative messe in campo e per l’ampiezza del rag-gio d’azione del nobiluomo, che si spese per manufatti di vario ge-nere e di epoche diverse, dall’antichità al rinascimento, passando – è bene sottolinearlo – per il medioevo.

la memoria, nella duplice e inscindibile accezione di rimembran-za dei fatti del passato e di ricordo di sé da tramandare ai posteri, fu il tema centrale della riflessione e dell’azione di gualdi. sin dall’età giovanile, e soprattutto grazie alla lunga frequentazione con il cardi-nale alessandro de’ medici (5), egli sviluppò una particolare sensibi-lità nei confronti della conservazione delle vestigia del passato, che ebbe modo di concretizzare attraverso le due modalità richiamate più sopra: il collezionismo (il suo fu uno dei musei eruditi più celebrati della roma barberiniana, in cui trovarono posto reperti antichi, pa-leocristiani e medievali e naturalia) (6) e la documentazione, di cui dà prova soprattutto l’ampio trattato Delle memorie sepolcrali, dedicato alle lastre tombali medievali delle chiese romane ed illustrato da un centinaio di xilografie che riproducono manufatti in molti casi andati perduti (7). alla forte consapevolezza di gualdi del fatto che le «me-

(5) Quello con il cardinale (poi brevemente papa nel 1605 con il nome di leone Xi) fu per gualdi un rapporto fondamentale; a detta dello stesso cavaliere, fu il prelato a trasmet-tergli l’amore per le antichità di roma e la premura per la loro salvaguardia (cfr. nota 40). gualdi lo nomina sia nel passaggio delle Memorie sepolcrali relativo agli stemmi anguillara (dove, in una nota marginale, leone Xi è detto «zelantissimo nella conservazione delle me-morie»), sia nel discorso sul ponte di rimini (cfr. infra). sul cardinale e le arti cfr. G. moRo-ni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXXVii, Venezia (1840-1861) 1846, s.v. «leo-ne Xi» (in part. p. 47, dove si narra l’episodio delle colonne che medici donò a clemente Viii per evitare che questi ne asportasse altre dalla chiesa di sant’agnese fuori le mura); a. zuccaRi, Arte e committenza nella Roma di Caravaggio, torino 1984; c. acidini, Il cardina-le Alessandro de’ Medici e le arti: qualche considerazione, in «paragone, arte», XlV (1994), 529/533, pp. 134-140.

(6) sul museo del nobiluomo cfr. c. FRanzoni - a. temPeSta, Il museo di Francesco Gual-di nella Roma del Seicento tra raccolta privata ed esibizione pubblica, in «Bollettino d’arte», lXXVii (1992), 73, pp. 1-42; c. FRanzoni, Ancora sul museo di Francesco Gualdi (1576-1657), in «annali dell’istituto storico italo-germanico di trento», XVii (1991), pp. 561-572; F. Fe-deRici, Alla ricerca dell’esattezza, cit. per la biografia di gualdi cfr. m. e. maSSimi, s.v. Gual-do, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, lX, roma 2003, pp. 154-156.

(7) il trattato, redatto con l’ausilio di collaboratori tra il 1640 e il 1644, è rimasto inedi-to; i materiali manoscritti si conservano in massima parte alla Biblioteca apostolica Vaticana. cfr. F. FedeRici, Il trattato delle memorie sepolcrali del cavalier Francesco Gualdi: un collezio-nista del Seicento e le testimonianze figurative medievali, in «prospettiva», 110-111, 2003, pp. 149-159; id., Edizione del trattato delle memorie sepolcrali di Francesco Gualdi, tesi di per-

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morie antiche devono conservarsi, e non distruggersi» (8) queste due sole attività, tuttavia, non potevano bastare; ed egli affiancò loro una serie di iniziative sul campo, che si situano significativamente intorno al 1640, quando il prestigio dell’ormai anziano cavaliere e la sua in-fluenza all’interno della «famiglia» barberiniana avevano raggiunto il culmine (9) e nello stesso periodo in cui prese forma il progetto delle Memorie sepolcrali. gualdi si batté per la conservazione e il restauro di celebri monumenti classici, di tombe antiche e medievali, di stem-mi ed affreschi; a questa varietà tipologica e cronologica corrispose una molteplicità di ragioni che venivano di volta in volta invocate a sostegno della tutela, e che andavano, come si vedrà, dal valore sto-rico-genealogico dei manufatti, alla loro importanza da un punto di vista antiquario, al loro pregio artistico e al richiamo esercitato su-gli «oltramontani» (10). le azioni del nobiluomo trovarono spesso una “sponda istituzionale” nel cardinale Francesco Barberini: dalle vicen-de qui ripercorse emerge quell’attenzione verso le testimonianze figu-rative del passato che fu tipica del prelato, come dimostrano le note copie di affreschi e mosaici delle chiese di roma da lui commissio-nate, e che lo distinse dal ben più disinvolto zio, contro cui si indi-rizzarono gli strali di pasquino (11).

fezionamento, scuola normale superiore di pisa, rel. prof. s. settis, aa. 2006/2007. Quan-do si citano nell’articolo brani del trattato, si rimanda a questa edizione del testo, e alla rela-tiva suddivisione in capitoli e paragrafi.

(8) cfr. Capitolo VI, nota marginale al § 15 (è una nota al brano sugli stemmi anguilla-ra, che si riporta più avanti).

(9) gualdi fu uomo di curia: «cameriere segreto» di leone Xi, fu «aiutante di bussola» sotto i tre pontefici successivi (paolo V, gregorio XV, urbano Viii). cfr. m. e. maSSimi, s.v. Gualdo, cit., e F. FedeRici, Edizione, cit., Introduzione, p. XXVii.

(10) pare inoltre che il battagliero gualdi si esponesse pubblicamente anche in ambiti che con la storia dell’arte hanno poco a che vedere, come lascia intendere un frammento di una sua minuta, di difficile lettura, in cui il nobiluomo protesta contro il fatto che nei terreni di un ospedale di roma (non specificato) non si coltivassero «i suoi erbarij medicinali», ma «si piantano i cavoli et insalate ricorendosi bene e spesso a’ semplicisti di piaza navona con ingredienti d’erbe et radiche», pericolosi per la salute dei degenti (Biblioteca apostolica Va-ticana, d’ora in avanti BaV, cod. Vat. lat. 8251, iii, f. 542v).

(11) non mancarono veri e propri contrasti tra i due, come dimostra la vicenda del mau-soleo di cecilia metella, in cui il pontefice autorizzò la spoliazione del monumento ad ope-ra del suo «statuario favorito» e il cardinale la bloccò (cfr. infra). su Francesco Barberini e le testimonianze storico-artistiche cfr. s. Waetzoldt, Die Kopien, cit.; J. zahlten, Barocke Freskenkopien aus SS. Quattro Coronati in Rom: der Zyklus der Silvesterkapelle und eine ver-lorene Kreuzigungsdarstellung, in «römisches Jahrbuch der Bibliotheca hertziana», XXiX

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Battaglie per la tutela nella roma Barocca 153

Memorie medievali, «sì sacre, come profane»

prendiamo le mosse da un’iniziativa del cavaliere che fu probabil-mente di poco anteriore alle altre. due armi quattrocentesche degli anguillara, poste sulla facciata dell’ospedale lateranense a testimo-niare che un esponente di quella famiglia, everso ii, aveva amplia-to l’edificio, furono rimosse nel corso dei lavori di rifacimento pro-mossi da papa urbano Viii, datati – nell’epigrafe celebrativa affissa all’angolo della facciata dell’ospedale verso Via di san giovanni in laterano – al 1636 (12). il cavaliere si mosse subito per rimediare al misfatto, indirizzando al cardinale Barberini e ai guardiani dell’ospe-dale un discorso purtroppo andato perduto, ma di cui gualdi ci for-nisce un rapido sommario nel capitolo delle Memorie sepolcrali dedi-cato agli anguillara (13):Queste due armi dette di sopra, essendo state gli anni addietro levate dal lor luo-go, coll’occasione della nuova fabrica dello spedale, mossero me (il cavalier gual-di), spinto a ciò dal proprio genio verso la conservatione delle antiche memorie, sì sacre, come profane, a rappresentare al signor cardinale Francesco Barberini, et a’ signori guardiani dello spedale suddetto, quanto sia sconvenevole nella città di roma il privar le famiglie, o viventi, o vero estinte, della gloria giustamente meri-tata, la quale non si può lungamente conservare, se non ne’ bronzi, e ne’ marmi, o nelle publiche scritture. apportai l’esempio di lotrecco, generale in italia di car-lo Viii re di Francia, il quale volendo pigliar la città di rimini mia patria, difesa allhora da sigismondo malatesta, signor di quella, fece intendergli, che lasciasse di rovinar il ponte celebre d’ottaviano augusto, fabricato sulla marechia […], il qual ponte era già destinato dal malatesta ad esser demolito, per tagliar da quella parte il passo al nemico; eleggendo quel magnanimo capitano, più tosto che la rovina di

(1994), pp. 19-43; i. heRklotz, Francesco Barberini, Nicolò Alemanni, and the Lateran tricli-nium of Leo III: an episode in restoration and Seicento medieval studies, in «memoirs of the american academy in rome», Xl (1995), pp. 175-196; id., Vätertexte, Bilder und lebendi-ge Vergangenheit. Methodenprobleme in der Liturgiegeschichte des 17. Jahrhunderts, in Visua-lisierung und Imagination. Materielle Relikte des Mittelalters in bildlichen Darstellungen der Neuzeit und Moderne, a cura di B. carqué - d. mondini - m. noell, göttingen 2006, i, pp. 215-251. si vedano inoltre alcuni dei contributi raccolti in I Barberini e la cultura europea del Seicento, atti del convegno a cura di l. mochi onori - s. schütze - F. solinas, roma, 7-11 dicembre 2004, roma 2007.

(12) sull’ospedale lateranense cfr. G. cuRcio, L’ospedale di San Giovanni in Laterano: funzione urbana di una istituzione ospedaliera, p. i, in «storia dell’arte», 1978, 32/34, pp. 23-39; p. ii, in «storia dell’arte», 1979, 35/37, pp. 103-130.

(13) Capitolo VI, §§ 13-18.

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quell’eccelsa fabrica, il tentar l’entrata nella città per passi più malagevoli, et espo-sti a qualsivoglia pericolo (14). apportai anche l’esempio della nobile città di Fioren-za, nella quale per antica legge vien ordinato, che rifacendosi nuova fabrica in qual-che sito, dove fusser poste o armi, o altra memoria antica di famiglie, quelle stesse memorie, così vecchie, e così semplici, come anticamente si solevan fare, si ripon-gano nell’istesso luogo, dov’eran già collocate (15). addussi finalmente l’esempio di leone Xi, di memoria eterna, di cui fui attual servitore per lo spazio di quattor-dici anni nel cardinalato, e per 27 giorni, che piacque a dio di darlo, o pure mo-strarlo al mondo, pontefice; al quale essendo toccato il titolo di santa prassede, e volendo perciò ridurre in migliore stato quella chiesa, ne’ risarcimenti che vi fece, ornandola di pitture, volle che colle armi sue si ponessero quelle ancora del cardi-

(14) l’episodio che ha per protagonista il capitano francese odet de Foix, conte di lau-trec, ricordato da gualdi anche nel Discorso sulla conservazione delle memorie (cfr. Appendi-ce, ff. 3v-4r), è ripreso da c. clementini, Raccolto istorico della fondatione di Rimino, rimini, per il simbeni, 1627, pp. 708-709: «hebbe sigismondo da principio pensiero di difender-si […] tenendo anco di tagliare il superbo ponte d’augusto, e per tirare più presto a fine la pazzia, diede fuoco all’ultimo arco, sì come anco hoggi si vede con dolore de’ viventi, poiché per la caduta col tempo d’alcune grosse pietre, minaccia precipizio al resto. il conte rango-ni sendo avvisato di tali preparamenti, sconsigliò sigismondo, e trattò accordo col generale francese, il quale poi per una trombetta fece sapere a sigismondo, che s’astennesse di gua-star opra rara, assicurandolo di non passar sopra detto ponte […]». agostino martinelli, nel-le Notitie, e delineatione del famoso ponte d’Ottaviano Augusto nella città di Rimini, roma, per il tinassi, 1681 (ed. anast. rimini 1993), ritiene che si tratti di un racconto d’invenzio-ne: «è oppinione anche de’ più conspicui osservatori di quelli luoghi, che sotto detto pon-te nell’anno 1527 pandolfo malatesta, e sigismondo suo figlio facessero ardere il fuoco in specie sotto all’arco contiguo al Borgo [san giuliano] […] appresso di me ciò non ha pun-to del probabile; sì perché pandolfo malatesta haveva così buona testa, che ben poteva co-noscere che la rottura di detto arco non era bastante a far argine per trattenere la corrente impetuosa dell’armi vincitrici di lotrecco; oltre di che se havesse egli attaccato il fuoco sot-to il detto ponte è cosa certa, che l’haverebbe fatto con la maggior vehemenza, che fosse sta-ta possibile […]; e pure, quando sono andato a trattenere le ruine imminenti di detto ponte, come vedrassi qui avanti, ho trovato molti gran sassi del tutto intieri, e gl’altri, che erano la-ceri, conservavano nelle loro ruine la propria connatural sodezza […]» (p. 11). È vero però che il fatto che le pietre non siano state ‘cotte’ dal fuoco potrebbe giustificarsi con l’abban-dono dell’opera di distruzione a seguito della promessa di lautrec, se quanto raccontato da clementini corrisponde a verità.

(15) si fa riferimento alla «legge contro chi rimovesse o violasse armi, inscrittioni o me-morie existenti apparentemente nelli edifitii così publici come privati» emanata dal granduca di toscana il 30 maggio 1571, nella quale si accenna peraltro a «l’uso et inveterata consue-tudine della città [scil. Firenze] (della quale non è memoria alcuna in contrario)», secondo cui «non era lecito a chi comperava, o per qual si voglia modo acquistava alcuno edifitio, ri-muovere, estinguere o violare le dette armi et memorie de’ construttori o fondatori d’esso» (il provvedimento è riportato in a. emiliani, Leggi, bandi, cit., pp. 23-24). anche teodoro amayden è entusiastico ammiratore della tradizione fiorentina, cfr. t. amayden, Storia delle famiglie romane, con note ed aggiunte del Comm. Carlo Augusto Bertini, ii voll., roma 1910-1914, rist. anast. roma 1987, i, p. 395: «siano per mille volte benedetti i Fiorentini, che non cancellano mai né inscrizione, né arme».

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Battaglie per la tutela nella roma Barocca 155

nale san carlo Borromeo, già benefico titolare della medesima chiesa, accioché col-la presente sua memoria si conservasse ancora quella del suo antecessore (16).

il memoriale si presentava dunque come un repertorio di exempla di rispetto verso le memorie del passato e doveva essere simile, benché forse di dimensioni più contenute, al discorso sul ponte di tiberio a rimini, di cui si parlerà più avanti. l’appello di gualdi raggiun-se il suo scopo e i due stemmi anguillara furono rimessi al loro po-sto: uno di essi è ancora visibile sulla facciata dell’ospedale verso la Basilica lateranense, corredato di un’iscrizione fatta incidere al mo-mento della sua ricollocazione, in cui si specifica che lo stemma fu rimesso eodem in loco in cui si trovava in origine (tav. XXXiV, fig. 2) (17); l’altro, già murato sulla facciata posteriore (verso san clemen-te), si trova ora in un ambiente del nosocomio, inserito in un tramez-zo (tav. XXXV, fig. 1) (18).

un altro intervento di gualdi di cui ci informa il trattato Delle memorie sepolcrali (19), unitamente ad uno scritto del cavaliere indiriz-

(16) una diversa ricostruzione dei fatti si legge in G. maRanGoni, Delle cose gentilesche, e profane trasportate ad uso, e adornamento delle chiese, roma, nella stamperia di niccolò, e marco pagliarini, 1744, p. 400, a proposito del fatto che san carlo Borromeo era contraris-simo all’esposizione del proprio stemma gentilizio: «Vero è, che nella chiesa di santa prasse-de in roma, di cui il santo fu titolare, e di suoi ordine fu ristorata, e dipinta, molte sue armi si veggon dipinte. ma alcuni suppongono, che fossero delineate senza sua saputa, e dopo d’averle egli vedute, per alcune difficoltà, che gli furono esposte, tollerasse, che vi si lascias-sero: e che il simile succedesse del suo nome scolpito sopra alcune porte del palagio de’ prin-cipi colonna, ov’egli facea in roma la sua dimora».

(17) Hoc insigne repertum / affixum muro veteri / d(omini) custodes / in muro novo eodem / in loco affigi mandarunt. cfr. cfr. V. FoRcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edificii di Roma dal secolo XI fino ai nostri giorni, i-XiV, roma 1869-1884, Viii, p. 133, n. 347.

(18) in tal modo entrambi i lati della lastra sono visibili ed è possibile notare come, per la realizzazione dello stemma quattrocentesco, si riutilizzasse un pluteo altomedievale, decorato con croci e motivi geometrici. la vicenda dei due stemmi e il ruolo rivestito da gualdi sono ricordati in B. mellini, Dell’oratorio di San Lorenzo nel Laterano, hoggi detto Sancta Sancto-rum, roma, nella stamperia di Fabio Falco, 1666, p. 183 («delle quali armi, una, a persuasi-va del cavalier Francesco gualdi ariminese, gran promotore, ed instauratore delle memorie antiche, fu affissa nel muro laterale dello spedal nuovo degli uomini, in faccia alla guglia col-la seguente iscrizione: […]»; da questo passo parrebbe dunque che l’altro stemma degli an-guillara, di cui non si fa menzione, fosse già stato rimosso dalla collocazione che aveva otte-nuto grazie a gualdi) e in G. maRanGoni, Istoria dell’antichissimo oratorio, o cappella di San Lorenzo nel Patriarchio Lateranense comunemente appellato Sancta Sanctorum […], roma, nel-la stamperia di san michele, per ottavio puccinelli, 1747, p. 290.

(19) Capitolo I, §§ 1-7: «[…] nell’ultimo risarcimento di questa chiesa, fatto a’ tempi no-stri dal cardinale paulo emilio sfondrato, il deposito suddetto, che era in isola, col coper-

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FaBriZio Federici156

zato al cardinale Francesco Barberini (tav. XXXV, fig. 2) (20), riguar-dò il monumento sepolcrale del cardinale adam easton († 1397) in

chio sostentato su quattro colonne, fu levato dal suo luogo, e nel collocarlo poi dove hora si vede, non vi fu rimesso il suo coperchio; ma, con alterazione d’architettura, fu posta nella parte inferiore dell’arca, in carattere moderno, l’infrascritta memoria: […] essendo stato, al-cuni anni sono, venduto il detto coperchio, e trasportato altrove, il signor cardinale France-sco Barberini, singolar protettore (mi sia lecito di così chiamarlo) delle antichità ecclesiasti-che, ordinò a me, cavalier gualdi, che lo ricomprassi, come feci, e volle che fusse riportato sotto ’l porticale di questa chiesa, accioché si vedesser almeno le parti di tal memoria intere; poiché in questo coperchio, ancorché fusse stato riposto al suo luogo, con esser hoggi sta-to il monumento risarcito, e ristretto al muro, non si sarebbono i suddetti versi dell’epitafio potuti più leggere compiutamente al dintorno, come prima, quand’era separato dal muro. si può dunque al presente vedere nell’istesso portico alzato, e posto in isola, per sodisfare alla curiosità di chi vorrà leggere essa antica inscrizzione nel marmo stesso». in apertura del ca-pitolo è inserita una xilografia che riproduce il monumento. per un altro accenno di gualdi alla vicenda cfr. Appendice, f. 3r.

(20) BaV, cod. Barb. lat. 3084, f.n.n.: «il cardinal sfondrato, dal 1591 di poi il cardi-nale di santa cecilia chiamato per essere titolare di detta chiesa, con l’occasione di risarcir-la fece trasportare il presente monumento a’ piedi della chiesa, che di prima tutto intero sta-va in isolato nella cappella della madonna vicino alla tribuna; e per quanto si vede il sito ov’è posto di presente non era capace di riponerlo in isolato come prima, et anco havreb-be discordato con l’intiero adornamento in accompagnare un altro monumento del cardina-le nicolò Fortiguerra cardinale pistolese, per esser posto l’uno alla sinistra, et l’altro alla de-stra mano nell’entrar dentro la chiesa. Fece dunque il cardinal santa cecilia levar, come si crede per i sudetti rispetti, le quattro colonne superiori, che regeva il coperchio a modo di baldacchino, come nel presente disegno fo apparire, conforme l’uso di quei tempi. et nel-la moderna base del monumento fece riportare l’inscrittione cavata dai soprascritti quattro versi, che si conservano in carattere longobardo d’intorno al medesimo coperchio di che si tratta. riferisce il scarpellino haverlo compro [scil. il coperchio] al giardino de’ ludovisi, as-sieme con un pillo, che [scil. al quale il coperchio] li serviva di coperchio, come facilmente potrebbe ritornare al medesimo uso, senza curare sia letta la memoria di sì celebre cardina-le creato da urbano Vi, con non poco scandalo de’ tramontani, e d’altri, che li possano ca-scar nella mente, come ha fatto sua eminenza, che il rimanente del monumento sia stato le-vato. Facendone sua eminenza dono alle moniche, le quali se ritrovano in quel lor cortile quattro colonne di granito mal trattate, ma molto al proposito per reggere detto coperchio, con far riponerlo in un fianco del portico in isolato, rispetto di poter leggere li quattro versi d’intorno. crederò che sua eminenza honorandomi d’incaricarmi la mente sua, commenda-ta da tutti gli antiquarij, che si debbano conservare simili memorie ecclesiastiche, con la de-bita decentia sarà accomodato, conforme la sua approvata sodisfatione». il progetto, redatto nella grafia minuta ed elegante di un segretario, non è firmato da gualdi ma è a lui sicura-mente riconducibile sulla base di quanto si racconta nelle Memorie sepolcrali (già G. de ni-cola, Il monumento Adam a Santa Cecilia in Roma, in «l’arte», X (1907), pp. 305-307, arri-vò a questa conclusione); allo stesso modo il destinatario non è esplicitato nel testo, ma non può essere che il cardinale Barberini. lo scritto è corredato di un disegno in cui sono com-binati l’aspetto del sepolcro prima della sua rimozione dal sito originario e quello successi-vo al suo riposizionamento, quando la tomba fu dotata di un nuovo, imponente basamento, sul quale ancora oggi si innalza.

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santa cecilia in trastevere (tav. XXXVi, fig. 1) (21). il monumento era stato rimosso dalla sua sede originaria all’epoca dei lavori di trasfor-mazione della basilica promossi dal cardinale paolo emilio sfondrati negli ultimi anni del cinquecento; spostato dalla «cappella della ma-donna vicino alla tribuna», dove era posto «in isolato» ed era coper-to da un baldacchino sostenuto da quattro esili colonne, il sepolcro fu addossato alla controfacciata della chiesa, a far da pendant al mo-numento funebre del cardinale niccolò Forteguerri (22). il baldacchi-no della tomba easton e le colonne che lo sorreggevano andarono perduti, sinché verso il 1640 il primo non ricomparve nella bottega di uno scalpellino, dove venne notato e riconosciuto come pertinente al sepolcro di santa cecilia (grazie all’iscrizione che correva intorno ad esso) dall’attento cavalier gualdi. lo scultore raccontò di averlo comprato dai ludovisi, che lo tenevano nel giardino della loro villa, dove era stato riusato come coperchio di un sarcofago antico. gual-di propose al cardinale Barberini di acquistare il manufatto e di re-stituirlo alla chiesa da cui esso proveniva, suggerendo nel contempo la sistemazione che gli si sarebbe potuta dare. non lo si poteva più erigere al di sopra del sepolcro del prelato, perché le colonnine che lo sostenevano erano andate perdute e soprattutto il monumento era stato spostato e, addossando anche il coperchio alla controfacciata, non sarebbe stato possibile leggere integralmente l’iscrizione che cor-reva intorno ad esso. il cavaliere suggeriva pertanto di erigere il co-perchio nel portico, utilizzando quattro colonne di granito «mal trat-tate», ma adatte alla bisogna, che giacevano nel cortile della chiesa, e il cui reimpiego avrebbe contenuto i costi dell’operazione. il cardi-nale Barberini accolse la proposta di gualdi e il coperchio fu «alza-to, e posto in isola»: il restauro “erudito”, che mirava alla completa

(21) su cui cfr. J. GaRmS - a. SommeR - W. teleSko, Die mittelalterlichen Grabmäler in Rom und Latium vom 13. bis zum 15. Jahrhundert, ii: Die Monumentalgräber, rom-Wien 1994, pp. 31-36 e G. kReytenBeRG, Das Grabmal für Kardinal Adam Easton in Santa Cecilia in Trasteve-re und seine Bildhauer Giovanni d’Ambrogio und Lorenzo di Giovanni aus Florenz, in «mittei-lungen des Kunsthistorischen institutes in Florenz», liii, 2009 (2011), 2/3, pp. 197-216.

(22) sul monumento, le cui vicende furono in parte simili a quelle della tomba di adam easton, cfr. S. e. zuRaW, Mino da Fiesole’s Forteguerri Tomb: A ‘Florentine’ Monument in Rome, in Artistic Exchange and Cultural Translation in the Italian Renaissance City, a cura di s. J. campbell - s. J. milner, cambridge 2004, pp. 75-95 e F. FedeRici - J. GaRmS, “Tombs of Illustrious Italians at Rome”. L’album di disegni RCIN 970334 della Royal Library di Windsor («Bollettino d’arte», Volume speciale - 2010), Firenze 2011, pp. 165-166 e 232-235.

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intelligibilità dell’iscrizione sepolcrale, ebbe la meglio su un interven-to che rimediasse all’«alterazione d’architettura», restituendo l’aspet-to originario del sepolcro; e, d’altra parte, vi erano anche condizio-ni oggettive, come la perdita delle colonne gotiche e l’angustia del nuovo sito in cui il monumento funebre era stato posto, che rende-vano impraticabile questa seconda opzione. non sappiamo quanto la “musea lizzazione” del coperchio easton nel portico di santa cecilia abbia resistito: probabilmente non si trattò che di pochi anni, visto che le fonti successive quasi non ne parlano (23).

sempre dalle Memorie veniamo a sapere di altri due esempi della pietas del cavalier gualdi nei confronti dei marmi sepolcrali: la ricom-posizione e la ricollocazione dei frammenti dell’epitaffio di «paulus lictor» in san gregorio al celio ed il recupero e il riposizionamen-to, di nuovo in santa cecilia in trastevere, dei frammenti della lastra tombale di maria Frangipane, finiti a fare da soglia ad una porta (tav. XXXVi, fig. 2) (24). l’impegno di gualdi in favore di una tipologia di manufatti come quella delle lastre terragne figurate, bistrattata come nessun’altra e che a lui stava particolarmente a cuore, andò tuttavia ben al di là dell’intervento di recupero di una singola lastra: alla do-cumentazione delle lastre tombali medievali di roma egli consacrò, come già si è detto, il suo opus magnum, l’ampio trattato Delle me-morie sepolcrali; e, proprio mentre il trattato prendeva forma, il no-biluomo riuscì ad ottenere un provvedimento legislativo che mirava alla protezione di questi manufatti. il 2 ottobre 1640 il cardinale an-tonio Barberini seniore emanava un editto in cui si intimava «a tutti i superiori delle chiese, tanto secolari, quanto regolari» di non far ri-muovere «memorie, inscrittioni, e lapidi» «senza il consenso delle par-ti, e nostra licenza in scritto» e nel quale si prescrivevano severe pu-

(23) cfr. J. GaRmS et al., Die mittelalterlichen Grabmäler, cit., p. 33. il baldacchino è andato perduto.

(24) entrambi i marmi sono andati perduti; per l’epitaffio di paolo, lettore della chiesa di santa cecilia, di cui nel trattato si propone una datazione al iX-X secolo (forse da antici-pare al Vii), cfr. Capitolo I, § 14; per la lastra della Frangipane (+1422) cfr. Capitolo XXXII («Questo frammento di lapide sepolcrale si ritrova hoggi in tre pezzi dentro ad una cappel-la dietro la sagrestia della chiesa di santa cecilia nel rione di trastevere, e fatta ivi da noi riporre, che altrimenti per poca cura se ne perdeva la memoria, poiché già serviva per so-glia di una porta»). in questi casi, in realtà, si tace nelle redazioni finali dei capitoli il con-tributo di gualdi alla sistemazione dei frammenti, e se ne trae notizia dai materiali prepa-ratori.

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Battaglie per la tutela nella roma Barocca 159

nizioni per i trasgressori (25). sebbene – com’è ovvio – nell’editto non si faccia il nome di gualdi, è molto probabile che sia stato lui (per il suo ineguagliato interesse per le «memorie sepolcrali» e per la sua appartenenza alla cerchia barberiniana) a «presupporre» al cardinale antonio che era il caso di mettere un freno alla distruzione di lastre ed epitaffi, in virtù del loro valore storico (come prove «dell’antichi-tà delle famiglie» e della munificenza dei benefattori) e per il rispet-to dovuto ai defunti. dell’effettiva efficacia del provvedimento è le-cito dubitare (26); e tuttavia l’editto costituisce un affascinante caso di intreccio tra ricerca erudita ed attività legislativa, per il quale è diffi-cile trovare termini di confronto nella roma seicentesca.

Antichità romane (e riminesi)

dalle tombe medievali ai sepolcri antichi: in almeno due casi il cavalier gualdi si erse a difensore anche di monumenti funebri di età

(25) «editto / Frater antonius Barberinus miseratione divina tituli sancti petri ad Vin-cula sanctae romanae ecclesiae presbyter cardinalis sancti honuphrij nuncupatus, sanctis-simi domini nostri papae provicarius generalis, romanaeque curiae eiusque districtus iudex ordinarius, etc. / essendoci stato presupposto, che in alcune chiese, e luoghi pij contro ogni debito di giustitia, e pietà christiana, siano state levate de fatto molte memorie, inscrittioni, e lapidi, che li pij fedeli si sono eretti per se stessi, o per mezzo de’ loro heredi, e successori in grave pregiuditio dell’antichità delle loro famiglie, e delli beneficij fatti, e da farsi all’istessi. / e volendo noi per il debito del nostro offitio rimediare, e provedere, che per l’avvenire non seguano tali disordini. con il presente publico editto ordiniamo, e comandiamo a tutti [i] su-periori delle chiese, tanto secolari, quanto regolari, che per l’avvenire non ardischino di muo-vere né far muovere quelle che hoggi vi sono, sotto qualsivoglia pretesto, o colore, senza il consenso delle parti, e nostra licenza in scritto, sotto pena alli regolari dell’uno, e l’altro sesso, di privatione di voce attiva, e passiva da incorrersi ipso fatto, la reintegratione della quale ri-serviamo a noi: et a’ preti secolari sotto pena di cento scudi, et altre pene a nostro arbitrio. / Volendo, che il presente editto publicato, et affisso nelli soliti luoghi astringa tutti, come se li fosse personalmente intimato. dato in roma li 2 d’ottobre 1640. / ioannes Baptista episcopus camerinensis Vicesgerens / ioseph palamolla secretarius / in Roma, nella stamperia della reve-renda camera apostolica 1640» (esemplare consultato: Biblioteca casanatense, perest. 18/6, n. 413). un antecedente del provvedimento può essere ravvisato in una bolla di papa sisto iV del 1474, in cui si prescriveva di non spogliare le chiese dei loro marmi, con particolare riferi-mento, tuttavia, a quelli antichi (la bolla è riportata in curzi, Bene culturale cit., pp. 152-153). in F. maRtinelli, Roma ex ethnica sacra, romae, typis romanis ignatij de lazaris, 1653, pp. 47-50, sono riportati sia la bolla di sisto iV che l’editto del cardinale antonio Barberini.

(26) il fatto che nel testo delle Memorie sepolcrali (1640-1644) si inseriscano passaggi in cui si reclamano con forza provvedimenti legislativi in difesa di epitaffi e sepolcri (cfr. Capi-tolo XXVII, §§ 6-9; Appendice IV, 1, § 1) induce a pensare che l’efficacia dell’editto sia sta-ta trascurabile.

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FaBriZio Federici160

classica, molto diversi tra di loro. uno di essi fu il maestoso Sarcofa-go delle Muse in san paolo fuori le mura, riusato alla metà del Xii secolo per le spoglie del patrizio romano pietro leone, capostipite della famiglia dei pierleoni (tav. XXXVii, fig. 1) (27). analogamente a quanto avvenne per il monumento easton, l’intervento di gualdi ri-guardò il coperchio dell’opera, su cui è inciso, entro una tavola epi-grafica, l’epitaffio di pietro (28); coperchio «che alcuni di quei monaci venderono per farne scalini» e che «già si era cominciato a segare» (29). come nel caso della tomba in santa cecilia, gualdi individuò il ma-nufatto – presumibilmente presso la bottega di uno scalpellino (30) – e «procurò che il cardinal Francesco Barberini il facesse riportare al suo luogo, acciocché non perisse sì bella memoria» (31). gualdi inter-venne giusto in tempo: un esame del coperchio pare confermare che lo si era già iniziato a segare per poterne riutilizzare il marmo (tav. XXXVii, fig. 2) (32).

(27) sul sarcofago (ii metà del iii sec. d. c.) cfr. m. WeGneR, Die Musensarkophage, Ber-lin 1966, p. 72. naturalmente agli occhi di gualdi, interessato alla storia delle famiglie nobi-li romane e alle sepolture medievali, il prestigioso riuso doveva apparire di non minore im-portanza del pregio artistico del monumentale sarcofago.

(28) cfr. V. FoRcella, Iscrizioni, cit., vol. Xii, p. 11, n. 7(29) la prima citazione è tratta da G. m. cReScimBeni, Istoria della Basilica Diaconale,

Collegiata, e Parrocchiale di San Niccolò in Carcere, BaV, archivio di santa maria in cosme-din, Xiii – 9, f. 619r (dove si definisce gualdi «gelosissimo delle cose antiche»); la seconda da F. cancellieRi, Notizie sulla storia dell’Accademia dei Lincei, BaV, cod. Vat. lat. 9683, ff. 450r-452r. Queste sono le uniche fonti note sulla vicenda; entrambe dipendono da una sto-ria della basilica di san nicola in carcere scritta da Francesco maria torrigio, sinora non rintracciata. in entrambi i casi si riferisce erroneamente l’intervento di recupero di gualdi all’intero sarcofago, e lo si data al 1640. sicuramente avvenne prima della stesura del discor-so sul ponte di rimini, dove all’episodio si fa un rapido accenno (cfr. Appendice, f. 3r). pro-blematico è il fatto che nelle Memorie sepolcrali si descriva il sarcofago al suo posto, ma pri-vo del coperchio originale, benché la stesura del capitolo risalga a dopo il 1640 (cfr. Capitolo LII, § 17); probabilmente furono riversati nel testo appunti scritti in precedenza, senza pre-occuparsi di aggiornarli.

(30) i due interventi di recupero inducono a pensare che gualdi frequentasse con una certa assiduità le botteghe di tagliapietre e scultori, in cerca sì di antichità e per commissio-nare o acquistare pezzi moderni, ma forse anche con lo scopo di controllare che non vi si smerciassero o rilavorassero marmi erratici di una qualche importanza storica.

(31) g. m. cReScimBeni, Istoria, cit.(32) sul coperchio si distinguono chiaramente fessure e rotture riconducibili all’azione

dell’uomo. si era cominciato a segare il marmo da sinistra, come dimostra un taglio netto, preciso, che va dalla maschera di sinistra fino al culmine della copertura a tetto, dove il ta-glio si interrompe. Forse inerente al tentativo di distruzione del pezzo è anche la rottura sul

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Battaglie per la tutela nella roma Barocca 161

di ben altra scala fu il secondo sepolcro antico di cui il cavalie-re impedì la distruzione. si trattò infatti del celebre mausoleo di ce-cilia metella sull’appia (tav. XXXViii, fig. 1), che già sul finire del cinquecento aveva rischiato l’abbattimento (33). nell’estate del 1640 la tomba poco fuori porta san sebastiano, «fabbrica eretta molto inanzi la venuta di christo, e che fra tutte le altre antichità si è conservata fin a’ nostri giorni maravigliosamente bella ed intatta», corse «peri-colo non picciolo d’essere in parte demolita» (34). come si ricava dal diario di teodoro amaydenil Bernini statuario favorito dal papa per suo utile si è posto in consideratione di fare una facciata sontuosa all’acqua Vergine detta di trievi, ottenne un breve di poter buttare a terra quella machina sì bella, et incominciò a metterlo in essecu-tione, ma fu dal popolo romano avvedutosene impedito, e l’opera cessa per non caggionare rumori (35).

urbano Viii, intenzionato a fornire di una sontuosa «mostra» la Fontana di trevi, ne commissionò la realizzazione a gian loren-zo Bernini (tav. XXXViii, fig. 2), autorizzando l’artista a procurar-si i travertini necessari mediante la demolizione della tomba di ceci-lia metella (36). al malcontento sollevato dall’iniziativa diede voce una delegazione di quattro «gentilhuomini amatori delle antichità», che

fronte posteriore del coperchio, dove la frattura è meno precisa ma sembra comunque dovu-ta all’azione umana, come suggerisce soprattutto il suo andamento a zig-zag (la frattura sfocia sul culmine del coperchio in una rottura più ampia, mentre sullo spiovente posteriore costi-tuisce due lati di un’apertura a forma di losanga, chiusa – al momento del recupero seicen-tesco del manufatto? – con una integrazione in marmo).

(33) allora la ferma opposizione dei magistrati capitolini ai propositi demolitori dei pro-prietari del terreno su cui sorge il monumento, assecondati dal pontefice sisto V, era riusci-ta ad impedire la distruzione, facendo appello alla precedente legislazione pontificia a difesa delle antichità; sulla vicenda e, più in generale, sull’approccio “spregiudicato” di papa pe-retti ai monumenti antichi cfr. l. Von PaStoR, Storia dei papi, vol. X, roma 1928, pp. 444-457; Autobiografia del cardinale G. A. Santori, a cura di g. cugnoni, in «archivio della r. società romana di storia patria», Xii (1889) e Xiii (1890), pp. 327-372 e 151-205; J. a. F. oRBaan, La Roma di Sisto V negli avvisi, in «archivio della r. società romana di storia pa-tria», XXXiii (1910), 3-4, pp. 277-312; a. antinoRi, Il rapporto con l’antico, cit.

(34) Appendice, f. 2v.(35) annotazione del diario di teodoro amayden dell’agosto 1640, in Biblioteca casana-

tense, ms. 1831, f. 1r. non è chiaro se a fermare la demolizione fosse il comune di roma, come scrive amayden, o il cardinale Barberini, come riportato nelle altre fonti sulla vicenda.

(36) sul progetto berniniano per la Fontana di trevi cfr. J. Pinto, The Trevi fountain, new haven-london 1986, pp. 41-52.

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FaBriZio Federici162

si appellarono al cardinale Francesco Barberini, facendo leva sul va-lore “turistico” dei monumenti antichi di roma:

sendo stato proposto a questi signori padroni che la fontana di trevi haveva bi-sogno di qualche superba facciata, si era risoluto di demolire capo di Bove et il sepolcro di cecilia metella, due antichità bellissime fuori della porta di san se-bastiano, acciò con quelle grossissime pietre si facesse tal facciata; ma quattro gen-tilhuomini amatori delle antichità rappresentando al signor cardinale Barberino che questo era un aprire la strada alla destruttione dell’altre antichità, la cui fama in-vita quasi tutto il mondo di venire a vederle e così non vi sarebbe più il concor-so de’ forastieri, per lo che detto signor cardinale Barberino che non ha altra mira che la grandezza e buon governo di questa città ha ordinato che si sospendesse tal demolitione, e si crede che non se ne farà altro (37).

che gualdi abbia fatto parte o meno della delegazione, fu sicu-ramente lui ad alimentare i «rumori» e a premere affinché il monu-mento venisse prima risparmiato e poi restaurato, «con farvi riporre i marmi levati, che di presente all’intorno si conservano per terra» (38); lo si ricava da una lettera che il nobiluomo scrisse ad un cardinale a noi ignoto (antonio Barberini seniore, o antonio juniore?):

eminentissimo et illustrissimo signore mio padrone colendissimo, / essendosi pro-curata da certi la demolitione del famoso sepolcro di cecilia metella a capo di Bove, ne venne ritardata l’essegutione dal signor cardinale Barberino in riguardo della qui aggionta scrittura la più breve, la qual vien hora da me accompagnata con la seconda più diffusa per procurare affatto la ristauratione. partecipo il tutto a Vostra eminenza sicuro d’incontrare il suo gusto, affinché veda quanto pericolo corrano le cose antiche, e tanto più volentieri il fo quanto che di presente corrono giorni lugubri, ed in queste scritture si tratta di monumenti. riconosca però il tut-to per segno alla continuata mia divotione, ed a Vostra eminenza humilissimo mi inchino / di roma 3 novembre 1640 / di Vostra eminenza reverendissima / hu-milissimo e divotissimo servitore il cavaliere Francesco gualdj (39).

(37) Avviso secreto dei primi di settembre del 1640, riportato in o. Pollak, Die Kunst-tätigkeit unter Urban VIII, i, Wien-augsburg-Köln 1928, pp. 14-15. È probabile che la de-legazione fosse formata, del tutto o in parte, da membri dell’antica nobiltà capitolina, che si sentivano legati alle antichità dell’urbe da un forte sentimento identitario (cfr. nota 1) e si ritenevano gli eredi delle gentes della roma repubblicana ed imperiale, spesso autorappre-sentandosi come tali. da questo punto di vista, la loro fu una premura per la tutela di segno ben diverso rispetto a quella di cui diede prova gualdi, il quale non apparteneva alla nobiltà municipale romana, e anzi non era neppure romano di nascita, ma riminese.

(38) Appendice, f. 3r.(39) BaV, cod. Barb. lat. 4307, f. 5r. non sappiamo se e quando il restauro del monu-

mento ebbe luogo. al momento della stesura del Discorso del conservare le memorie, di poco

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un altro monumento antico in difesa del quale gualdi si batté fu la perduta fonte nei pressi del colosseo, nota come Meta sudans. di questo episodio sappiamo molto poco: dapprima il cavaliere denun-ciò lo stato miserevole del monumento, spogliato dei materiali che lo costituivano ad opera di alcuni scalpellini intenti a rifare la pavimen-tazione di una strada vicina (40); quindi promosse il restauro dell’ope-ra, come ci rivela un passaggio della Descrittione di Roma di Bene-detto mellini (41).

se le due «scritture» («la più breve» e la «più diffusa») redatte da gualdi per la salvaguardia della tomba di capo di Bove sono an-date perdute, così come quella relativa agli stemmi lateranensi degli anguillara, ci è pervenuto – in due versioni leggermente differenti tra di loro – un ampio Discorso del cavalier Gualdi del conservare le me-morie, et edificij antichi, et in particolare per risarcire il ponte di Ri-mini, che si riporta integralmente in appendice. l’Ariminensis eques gualdi fu sempre molto legato alla sua città d’origine: con questo scritto, indirizzato a cardinali che facevano probabilmente parte del-la congregazione del Buon governo, egli esortava al restauro di uno dei più celebri monumenti romani di rimini, il ponte iniziato da au-

successiva all’interruzione dello smantellamento della tomba di cecilia metella, il ripristino della tomba ancora «s’attende con immenso disiderio de’ buoni, degli amatori delle cose an-tiche, e degli oltramontani, i quali oltre a’ tempij sacri a questo fine corrono a roma» (Ap-pendice, f. 2v); nemmeno all’epoca in cui furono redatte le versioni finali dei capitoli del trat-tato Delle memorie sepolcrali (1644) il restauro era stato eseguito (cfr. Capitolo XXIX, § 3: «[il mausoleo] di cecilia metella moglie di crasso posto nella Via appia degno per la bella opera di ogni ristoramento»).

(40) di questo ci informa un malconcio frammento di una minuta del cavaliere, di dif-ficile lettura: «il cavalier Francesco gualdi servitore di leon Xi mentre fu cardinale [canc. et di poi papa cameriere secreto partecipante] è restato onorato da detto pontefice di quan-ta oservatione si deve al’antichità di roma per la concorentia che fanno in questa alma cit-tà [i forestieri] […] oggi da pochi intendenti […] memorie pelegrine fra’ quali rapresenta il detto signore la meta sudante fra l’arco di costantino e il coliseo ove li asetati delli giochi del teatro di detto coliseo si recreavavano [sic] con l’occasione di rasetar quelle strade per avanziare i calcineli tolti ad asiopir [?] i costi bassi suplico Vostra signoria […]» (BaV, cod. Vat. lat. 8252, i, f. 126v). non si può tuttavia escludere, data la difficoltà di interpretazione del documento, una lettura diversa, ovvero che gualdi chieda, in vista del restauro, di poter utilizzare materiali avanzati dal rifacimento di alcune strade.

(41) La “Descrittione di Roma” di Benedetto Mellini nel codice Vat. Lat. 11905, a cura di F. guidobaldi - c. angelelli, città del Vaticano 2010, p. 102: «i poveri vestigij di questo fonte furono, nella maniera che si vede, restaurati dal cavalier Francisco gualdi ariminese, il qua-le ben poteva dire di se stesso: Ipse animo saltem vixi nec regibus impar».

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gusto e terminato da tiberio, che versava allora in cattive condizio-ni (tav. XXXiX, fig. 1) (42). a questa finalità immediata non è tutta-via riservato che uno spazio ridotto, nella parte conclusiva del testo; il Discorso è piuttosto un’appassionata illustrazione della necessità di difendere le vestigia del passato, condotta, come e ancor più che nel perduto scritto a tutela degli stemmi lateranensi, mediante il ricorso ad una parata di exempla antichi e moderni di rispetto verso le «me-morie», che formano nel loro insieme un vero e proprio arsenale cui attingere per sostenere e giustificare un’azione di salvaguardia. sotto i nostri occhi scorre quasi un’embrionale storia della tutela a roma dall’antichità al seicento, certo condotta per episodi scelti e con salti amplissimi, e senza rispettare sempre la successione cronologica degli eventi e, tuttavia, del massimo interesse (43). dopo un avvio dedicato ad alcuni casi antichi, con un bel balzo si passa da teodorico ai re-stauri di edifici sacri promossi da papa urbano Viii e da suo fratello antonio, cardinale di sant’onofrio e, soprattutto, alla pietas verso le testimonianze del passato dimostrata dai cardinal nepoti Francesco ed antonio Barberini, di cui si riportano diversi esempi (44). alla sensibi-lità nei confronti della tutela dimostrata dagli antichi e dai Barberi-ni si contrappone l’atteggiamento di segno opposto che ha contrad-

(42) il degrado riguardava soprattutto l’arco più vicino al Borgo san giuliano (cfr. a. maRtinelli, Notitie, cit., pp. 10-13), danneggiato secondo alcuni da sigismondo malatesta per sbarrare il passo a odet de Foix (cfr. nota 14).

(43) si è tentati di leggere il Discorso in relazione a successive e ben più mature ricogni-zioni sulla storia della tutela a roma, e dunque di scorgervi come un’anticipazione in chiave minore dell’operazione condotta da carlo Fea in scritti quali la Dissertazione sulle rovine di Roma (1783) e la Relazione di un viaggio ad Ostia (1802), su cui cfr. V. cuRzi, Bene cultura-le, cit., pp. 18-37. occorre inoltre sottolineare che la stesura del Discorso (1640-41) fu coe-va all’avvio dell’impresa delle Memorie sepolcrali, il grande trattato nel cui titolo, come in quello dello scritto sul ponte di rimini, ricorre il termine attorno al quale ruotò tutta l’azio-ne di gualdi. le due opere non solo presentano forti affinità di fondo, per le istanze di tu-tela che le animano entrambe, ma anche somiglianze più stringenti in certi passaggi, come quelli del trattato incentrati sulla necessità di salvaguardare le vestigia del passato (cfr. Capi-toli X, §§ 6-7 e XXVII, §§ 6-9) e quelli riguardanti episodi di cui si parla anche nel Discor-so (cfr. infra, note all’Appendice).

(44) anche ai Barberini il cavaliere ricordò l’urgenza del restauro del ponte, e non solo a parole: nell’inventario dei beni del cardinale Francesco del 1649, infatti, è menzionato «un qua-dretto in carta tirata in tela con cornice di pero tinta negra col disegno d’un ponte datto dal ca-valiere gualdi alto palmi uno e mezzo longo palmi doi d’avantaggio» (cfr. m. a. laVin, Seven-teenth-Century Barberini Documents and Inventories of Art, new York 1975, p. 236, n. 521; nel volume è scritto «disegno d’un parte», ma si tratta sicuramente di un errore di trascrizione).

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distinto «i romani a noi più vicini»: poggio Bracciolini vide prima in piedi e poi atterrato il tempio della concordia e testimonia dei danni che ai suoi tempi furono arrecati al mausoleo di cecilia metella, che – gualdi sottolinea – ha da poco corso il rischio di venire demoli-to. i pontefici si mostrarono tuttavia solerti nel punire i danneggia-menti inflitti alle vestigia del passato: prova ne sono l’ira di clemente Vii contro lorenzino de’ medici che levò le teste ad alcune scultu-re dell’arco di costantino e l’iniziativa di paolo V di riportare sullo stesso arco pezzi di marmo giallo antico che da lì erano stati presi. a questo punto il discorso torna sui Barberini: urbano Viii è esaltato per il fatto di «ristorar le memorie degli antichi con rinovarle», come ad esempio è accaduto alla «gloriosa matilde»; del cardinal France-sco si ricordano le iniziative riguardanti la tomba di adam easton e il sarcofago delle muse, nelle quali gualdi, come si è visto, giocò un ruolo di primo piano. ai cardinali nepoti, inoltre, si rinnova l’invito a provvedere al restauro della tomba di capo di Bove.

si giunge così, dopo un accenno all’amato leone Xi, alla conclu-sione dello scritto, in cui è contenuto l’appello al restauro del ponte di rimini: l’invito che gualdi fa ai cardinali destinatari dell’opera è di «farli assegnar una convenevol tassa dalle comunità della provin-cia Flaminia per risarcirlo, mediante la congregatione de Bono re-gimine». le parole del nobiluomo non vennero tuttavia ascoltate e dovettero passare altri quarant’anni prima che si provvedesse al re-stauro, eseguito nel 1680 (45).

Progetti per la Cappella Bufalini

agli episodi sin qui ricordati si può infine accostare una vicen-da di poco successiva, e piuttosto diversa dalle altre, ma da cui con pari evidenza risalta la premura di gualdi nei confronti della salva-guardia delle testimonianze storico-artistiche. rimasto privo, alla mor-te di urbano Viii (1644), del favore dei Barberini, il cavaliere cercò un nuovo protettore nel cardinale giulio mazzarino e, tra le iniziati-ve che egli promosse per ingraziarsi il prelato, rientra il suo coinvol-gimento nel progetto di sistemazione della cappella Bufalini all’ara-

(45) a. maRtinelli, Notitie, cit.

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FaBriZio Federici166

coeli (1646) (tav. XXXiX, fig. 2), di cui si è recentemente occupata silvia Bruno in un puntuale articolo sui progetti romani del porpora-to (46). dapprima il nobiluomo aiutò il padre del cardinale, pietro maz-zarino, nelle trattative per l’acquisto del giuspatronato della cappel-la; quindi, in due relazioni indirizzate all’agente del prelato a roma, elpidio Benedetti, avanzò proposte in merito all’«adornamento» del sacello e alla realizzazione del monumento sepolcrale della madre di mazzarino, ortensia Bufalini, evidenziando i pregi artistici della cap-pella e la necessità di preservarli, evitando un ammodernamento ra-dicale. in apertura della prima relazione gualdi sottolinea l’importan-za del pavimento in stile cosmatesco della cappella, «la qual dimostra la sua antichità dal pavimento d’essa, per esser delle dure pietre di porfidi e serpentini con vaghi adornamenti lavorato in forma di mo-saico […]; quanto poi venghino stimati questi pavimenti [lo dimo-stra il fatto che] il cardinal Baronio ottenne da papa clemente Viii un breve il quale sta registrato in una lapide fatta sul muro dentro la chiesa di san gregorio, [il quale] contiene che non si possino guasta-re tali pavimenti, per porvi lapidi sepolcrali etiam di persone grandi, attestando essi una certa antichità ecclesiastica, che in molte chiese di roma ad onta del tempo si ritrovano, e che da centinaia d’anni in qua si siano conservati» (47). gualdi passa quindi a descrivere gli af-freschi del pinturicchio (1482-1485) che rivestono le pareti, ritenu-ti degni del massimo riguardo, sia per la loro «vaghezza», che per la loro importanza da un punto di vista antiquario («molto bene sua eminenza se nel puol ricordare per la bizzarria degli habiti de quei tempi») (48). le nuove decorazioni della cappella, in stucco e in metal-

(46) cfr. S. BRuno, Progetti romani di Giulio Mazzarino, in Rome - Paris 1640, cit., pp. 275-326.

(47) evidentemente gualdi ritiene il pavimento neo-cosmatesco della cappella, risalen-te alla fine del Quattrocento, molto più antico ed autenticamente cosmatesco. sul revival di questa tipologia di pavimentazione in epoca rinascimentale cfr. a. naGel - c. S. Wood, Ana-chronic Renaissance, new York 2010, pp. 185-194.

(48) riprova del valore antiquario attribuito da gualdi a questi affreschi è il fatto che tra le xilografie realizzate per il trattato Delle memorie sepolcrali si annovera una stampa che ri-produce la figura di niccolò Bufalini accompagnata da un paggio, tratta dall’affresco raffi-gurante i funerali di san Bernardino; ad attrarre l’attenzione di gualdi e dei suoi collabora-tori fu la sontuosa veste del nobiluomo, in un primo momento interpretata come ammanto senatorio, ma in realtà relativa alla carica di avvocato concistoriale da lui ricoperta. cfr. F. FedeRici, Il trattato, cit., p. 154.

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lo dorato, avrebbero dovuto interessare soltanto le due facce, ester-na ed interna, dell’arco di accesso, in modo tale da non intaccare le pitture (49); e realizzando questi apparati permanenti si sarebbe potu-to evitare di montare decorazioni effimere in occasione di particola-ri feste e così «si sfuggirà la spesa delli festaruoli et disordini delle lor scale e chiodi et altri accidenti di guastare pitture, stucchi et al-tro, come è occorso pel passato nella medesima cappella, nella quale con diligentia si potrà fare ristorare le pitture». dallo stesso proposi-to di evitare che gli affreschi vengano distrutti o comunque danneg-giati deriva la proposta di gualdi di erigere il sepolcro della Bufalini non all’interno della cappella, ma all’esterno, addossandolo alla por-zione di controfacciata compresa tra l’arco di ingresso al sacello e la porta di accesso alla navata destra della chiesa, «senza guastar di den-tro le pitture, che per le qualità scritte a sua eminenza cercarassi di farle diligentemente accomodare» (50).

alla fine del progetto di rinnovamento del sacello non se ne fece nulla; in tal modo la cappella Bufalini è potuta giungere a noi quasi intatta, a differenza di tante altre cappelle medievali e rinascimenta-li romane che ebbero in epoca barocca una nuova, magnifica veste, con la perdita della totalità o di buona parte del loro apparato de-corativo precedente (51). e tuttavia, se anche la cappella dell’aracoeli fosse stata rinnovata seguendo le indicazioni fornite da gualdi, oggi ne potremmo apprezzare ugualmente la facies quattrocentesca, gra-zie alla sensibilità nei confronti della tutela di cui il nobiluomo die-de prova anche in questa occasione.

(49) gualdi allegò alle sue relazioni vari disegni, raffiguranti gli affreschi di pinturicchio, le decorazioni da fare all’arco di ingresso, ipotesi progettuali per il monumento sepolcrale; ci sono giunti due schizzi relativi all’arco e un progetto per la tomba. cfr. s. BRuno, Proget-ti romani, cit., pp. 294-295.

(50) per questa e le citazioni precedenti cfr. ivi, pp. 304-306.(51) si pensi ad esempio, per restare nell’ambito dei sacelli affrescati dal pinturicchio

e dalla sua bottega, alla cappella cybo in santa maria del popolo, ricostruita su disegno di carlo Fontana tra il 1682 e il 1687; cfr. in proposito, da ultimo, h. haGeR, La Cappella Cybo, in Santa Maria del Popolo. Storia e restauri, a cura di i. miarelli mariani - m. richiel-lo, roma 2009, vol. ii, pp. 639-658 e S. caRBonaRa PomPei, L’apparato decorativo della Cap-pella Cybo, ivi, pp. 659-672.

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appendice

il Discorso del cavalier Gualdi del conservare le memorie

il Discorso si conserva in BaV, cod. Barb. lat. 4307, in due versioni, una più am-pia (ff. 1r-4r, che si riporta qui) e una leggermente più breve (ff. 6r-7v, di cui si segnalano in nota le differenze rispetto alla redazione più estesa), tra le quali è in-serita la lettera di gualdi relativa al restauro del monumento sepolcrale di cecilia metella (cfr. supra). non è possibile identificare le due «scritture» sul monumen-to di capo di Bove menzionate nella lettera con queste, che si focalizzano sul re-stauro del ponte di rimini; evidentemente l’unione di questi documenti fu dovuta all’arbitrio di un bibliotecario di casa Barberini. la stesura del Discorso risale co-munque ad un’epoca molto vicina a quella in cui si svolse la vicenda della sventata demolizione del mausoleo (cfr., a f. 2v: «benché [la tomba] hora habbia corso pe-ricolo non picciolo d’essere in parte demolita»), e quindi al 1640-41. entrambe le versioni sono di pugno di gauges de’ gozze, letterato ed antiquario pesarese che fu protetto da gualdi e collaborò alla stesura del trattato Delle memorie sepolcra-li ; come la prosa elegante denuncia, egli partecipò attivamente all’elaborazione del Discorso, curandone la veste formale e intervenendo probabilmente anche a livel-lo di contenuto, nelle parti più ricche di riferimenti antiquari (52). nel manoscritto sono annotate, lungo i margini, le fonti antiche da cui sono desunte le informazio-ni; le annotazioni marginali si riportano in nota (53).

[sul foglio di guardia] Discorso del cavalier Gualdi del conservare le memorie, et edificij antichi, et in particolare per risarcire il ponte di Rimini

[f. 1r] eminentissimi e reverendissimi signori,roma già trionfante, perduto l’imperio, altro in sé non ritenea di maestoso per te-stimoniar la sua prodigiosa grandezza, che alcune poche fabbriche, dalle quali an-corché mezzo distrutte e rovinate dall’ingiurie del tempo, raccorre ottimamente si potea, quale stata fosse negli antichi secoli. mentre fiorì la repubblica marco Ful-vio nobiliore censore l’anno dlXVi tre anni dopo il trionfo degli etoli dirizzò ad

(52) su gozze cfr. F. FedeRici, Edizione, cit., Introduzione, pp. cxxxii-cxli.(53) una trascrizione del Discorso è pubblicata in appendice a c. FRanzoni, Ancora sul

museo di Francesco Gualdi, cit., pp. 568-571.

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hercole musagete un famoso tempio (54), il qual per la vecchiaia rovinando, fu ri-fatto da marcio Filippo padrigno d’augusto. a. postumio dittatore l’anno cclVii dall’edificata città nella guerra latina per voto fabbricò una casa, o tempio a casto-re e polluce, la qual parimente rovinata per colpa del tempo, venne con le spo-glie de’ nemici rifatta da l. metello doppo haver soggiogati i dalmatini (55). numa pompilio principe religiosissimo fu il primo che alla Fede consecrasse un tempio, il qual pure dal tempo annichillato, venne nel suo primo essere ritornato per at-tilio calatino (56), onde si raccoglie quanta diligenza usassero i romani in conservar sì fatti edifici antichi col restituir loro il primiero splendore rovinati che fossero; e talhora a questo medesimo fine crearono i triumviri, sì come fecero nel rifar il tem-pio della speranza abbruciato nel Foro olitorio, hoggi piazza montanara (57).

[f. 1v] il re teodorico essendo venuto a roma, deputò gran somma di denari (58) per la conservatione delle sue meravigliose mura, con altre provisioni, ed a’ no-stri tempi (59), ne’ quali è spenta affatto ogni vana superstitione, e regna il culto del vero dio, habbiamo veduti rifatti da’ fondamenti diversi tempij sacri, ed altri in gran parte ristorati, e dalle future rovine preservati dalla somma pietà di nostro signore urbano Viii, eminentissimi signori cardinali di santo honofrio, France-sco, ed antonio Barberini: fra le altre opere singolari concernenti la conservatione dell’antichità fatte dal cardinal Francesco, s’ammira la pristina restitutione del mu-saico del famoso triclinio lateranense di leone iii dal tempo sommamente de-teriorato (60), e la cura presa di far riportar a palestrina, e risarcire gli altri famosi musaichi indi levati dal celebre tempio della Fortuna (61); e la conservatione d’una stanza sotterranea ornata di pitture antiche, ritrovata dietro la tribuna di san gre-gorio, altramente soggetta all’ignoranza de’ cavatori pronti a demolirla: ed oltre a ciò conserva un numero grandissimo di medaglie antiche da lui alla sua famosa li-braria unite (62).

l’eminentissimo cardinale antonio oltre a’ tempij di sant’agata, trasportatione della stanza intera di santa caterina da siena dalla sua antica [f. 2r] habitatione contigua alla casa pia, riposta nella nobile sacristia della minerva, con l’occasione dell’accre-scimento del qual convento si trovaron ne’ suoi fondamenti alcuni idoli, fra’ quali

(54) a lato liv. lib. 4, plin. l. 35 c. X svet. in aug.(55) a lato cic. 3 Verr. et pro m. scauro.(56) a lato dionys. halic. l. 2 liv. et plut. in numa.(57) a lato liv. lib. 24; 25.(58) a lato cassiod. in fi. chron. et Var. lib. 3 ep. 31.(59) Seconda redazione […] meravigliose mura, e fece diligente inquisitione di coloro, che

le haveano spogliate de’ suoi ornamenti: ed a’ nostri tempi […].(60) cfr. i. heRklotz, Francesco Barberini, Nicolò Alemanni, cit.(61) cfr. m. calVeSi, Francesco Barberini e Preneste. Il mosaico del Nilo, in I Barberini e

la cultura, cit., pp. 83-86.(62) Seconda redazione [da ed oltre a unite] manca.

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uno di serapi, ovvero osiride (63), ed in altri luoghi frammenti d’una guglia ornata di geroglifici egittij, oltre le statue, ed altre cose di molta erudittione, che si con-servano nel rinomato museo Barberino (64), ha procurato parimente di conservare alcune celebri opere di chiaro oscuro di polidoro, facendo trasportar pezzi intieri di muraglie nel palazzo Barberino alle Quattro Fontane (65).

i romani a noi più vicini doppo l’inondation degli stranieri, vedendo haver perdu-ta la maestà dell’imperio, non si curarono conservar que’ vivi segni della lor passa-ta grandezza, a’ quali gli stessi nemici perdonato havevano; quindi è che a’ nostri tempi poche memorie sopravanzano delle infinite che prima per la città, e fuori si scorgevano. sotto il pontificato di martino V testimonia il poggio chiaro lettera-to di quel secolo (66), haver veduto il tempio della concordia con l’atrio intero an-chor in piedi, e che i romani il demolissero poi, la cui grandezza si può conget-turare da quelle poche colonne, che anchor vi si veggiono: e nello stesso tempo deteriorarono [f. 2v] parimente la base, o piedestallo del maraviglioso sepolcro di cecilia metella (67), fabbrica eretta molto inanzi la venuta di christo, e che fra tut-te le altre antichità si è conservata fin a’ nostri giorni maravigliosamente bella ed intatta dalle mani degli huomini, e del tempo; benché hora habbia corso perico-lo non picciolo d’essere in parte demolita; e la cui ristauratione s’attende con im-menso disiderio de’ buoni, degli amatori delle cose antiche, e degli oltramontani, i quali oltre a’ tempij sacri a questo fine corrono a roma.

Quanto si mostrasse severo clemente Vii contra chi levò le teste alle statue dell’ar-co di costantino, si può leggere nella storia degli huomini illustri della casa de’ medici (68), scritte in francese dal medico della regina caterina.

nel pontificato di paolo V furono levati alcuni rincontri di colonne di marmo gial-lo dall’arco sudetto, ma intesosi dal pontefice, fu commesso si riportasse al suo luogo, per imitar forse i romani, che fecero lo stesso in caso simile, come lassò

(63) si tratta del cosiddetto Osiride Barberini, ora a monaco di Baviera, che subito dopo il suo ritrovamento venne raffigurato da crescenzio Bindi in una xilografia dedicata a gual-di; cfr. F. FedeRici, Alla ricerca dell’esattezza, cit., p. 231.

(64) Seconda redazione l’eminentissimo signor cardinale antonio oltre a’ tempij di santa agata, convento della minerva, ove ne’ fondamenti furon ritrovati alcuni idoli di serapi, ov-vero osiride, con altri geroglifici, che si conservano nel rinomato museo Barberino […].

(65) le pitture di polidoro, già poste su una facciata in piazza madama, furono traspor-tate a palazzo Barberini nel 1633, e ancora oggi si conservano in due sale del palazzo; cfr. m. maRini, Polidoro da Caravaggio: l’invidia e la fortuna, Venezia 2005, pp. 21-23.

(66) a lato pogg. lib. de variet. fort. urb. romae.(67) cfr. a. Villa, Due umanisti sul Campidoglio. La descriptio romae del de varietate

fortunae tra storiografia e ‘archeologia’, in Senso delle rovine e riuso dell’antico, a cura di W. cupperi, in «annali della scuola normale superiore di pisa», Quaderni, s. iV, XiV (2002), pp. 55-76, (64). un’ampia citazione da poggio è inserita nelle Memorie, in apertura del Ca-pitolo XXIX, §§ 2-3.

(68) a lato Vit. huom. ill. di casa medici.

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scritto livio in questa guisa (69): “Q. Fulvius Flaccus censor templum iunonis la-ciniae tegulis marmoreis spoliavit, ut aedem quam dedicaverat tegeret, tegulae ex s. c. reportatae”.

[f. 3r] di più noi veggiamo giornalmente la santità di nostro signore urbano Viii ristorar le memorie degli antichi con rinovarle, come ultimamente fece alle ossa ho-norate della gloriosa matilde, ergendo loro un sontuoso monumento nella basilica di san pietro, e nel palazzo Vaticano una stanza dipinta rappresentante le sue he-roiche attioni; ed in quella di santa maria maggiore nella sacristia all’ambasciatore d’obbedienza modernamente del re di congo (70); ed in altri vari luoghi, come in avi-gnone avvenne del sepolcro del cardinal corsino; venendo in ciò imitato dall’emi-nentissimo signor cardinale Barberino, con far riportare a propij luoghi le memo-rie levate, come fu di quella del cardinale adamo inglese titolare di santa cecilia, e di uno della nobilissima stirpe de’ pierleoni a san pavolo, le quali memorie al-tramente perivano, e dalla cui benignità, e del signor cardinale antonio si atten-de ordine al popolo romano pel ristauramento del monumento di cecilia metel-la, con farvi riporre i marmi levati (71), che di presente all’intorno si conservano per terra: e di questo sepolcro è notabile memoria appresso cicerone nelle sue tusco-lane, mentre parla della via appia, per cui soleva andar a diporto.

nella sommità del monte Quirinale dietro i colossi di Fidia, [f. 3v] e prassitele eravi il tempio del sole, leone Xi mentre vivea cardinale lo ridusse in giardino propio, e fece impernare con non poca spesa alcuni marmi di maravigliosa gran-dezza, e grossezza per mantenerli uniti, che sopra ad un alto frontispicio giaceva-no; ultimamente per le ingiurie del tempo che il tutto dissolve, giacciono in terra, e ’l signor cardinale colonna vuol che nel medesimo luogo si conservino a perpe-tua memoria per sodisfare alla curiosità delli stranieri (72).

l’antichità è sempre mai venerabile, in guisa che si fa dagli stessi nemici rispettare, i quali perdonano cortesemente a fabbriche tanto eccellenti. sigismondo malatesta per timore delle armi francesi passate in italia sotto la condotta di lautrech comin-ciò a rovinar il ponte di rimini opera illustre d’augusto (73): inteso ciò da lautrech, mandò a dire al malatesta, che desistesse dal rovinarlo, perché intendeva penetrar nella città non per esso, ma per la più forte parte di quella (74). Questo memorabil ponte singolar ornamento di rimini, patria di me cavalier gualdi corre al presente

(69) a lato liv.(70) a queste iniziative del pontefice si dà ampio spazio nelle Memorie sepolcrali (cfr. Ca-

pitolo XXIV, § 31-40).(71) Seconda redazione […] benignità, e del signor cardinale antonio camerlengo si spe-

ra ordine al popolo romano pel ristauramento del monumento di cecilia metella con ripor-vi i marmi levati […].

(72) Seconda redazione [da nella sommità a stranieri] manca.(73) a lato clementini, hist. di rimini.(74) cfr. nota 14.

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F. Federici : Battaglie per la tutela nella roma Barocca172

manifesto rischio di rovina (75), se la singolare humanità di loro eminenze non vi porge la mano con farli assegnar [f. 4r] una convenevol tassa dalle comunità del-la provincia Flaminia per risarcirlo, mediante la congregatione de Bono regimine: del tutto rimini divotissima al nome di loro eminenze e di santa chiesa (ne’ cui bisogni ultimamente concorse sopra ogni altra città nell’imposta contributione, ad esempio di quel che già operò in servigio della romana repubblica come attesta-no livio, e silio italico) ed io insieme (76) viveremo obligatissimi alla vigilanza, che mostrano in conservar opere sì riguardevoli, ed egregie (77).

FaBRizio FedeRici

(75) Seconda redazione […] ornamento di rimini mia patria corre al presente manifesto rischio di rovina […].

(76) Seconda redazione […] del tutto rimini che più d’ogni altra città soggetta alla sede apostolica, ne’ bisogni di santa chiesa concorse ultimamente in X mila scudi di contribu-tione, divotissima al nome di loro eminenze, ed io insieme […].

(77) Seconda redazione […] sì riguardevoli, ed egregie. / humilissimo e divotissimo ser-vitore [non c’è la firma].

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La Liberazione di Pietro daL carcere: vicende di un’opera

giovaniLe deL domenichino neLLa basiLica romana di

san pietro in vincoLi

nella basilica di san pietro in vincoli, il secondo altare della na- vata destra, posto tra il monumento funebre del cardinale mar-gotti e quello del cardinale girolamo agucchi, conserva un dipin-to raffigurante la Liberazione di Pietro dal carcere (tav. XL, fig. 1). il soggetto, molto diffuso nelle raffigurazioni delle storie di san pietro (immediato è il riferimento a raffaello nella stanza di eliodoro), de-riva dal racconto della condanna di pietro e della sua liberazione dal carcere di gerusalemme descritto negli atti degli apostoli (1): l’ange-lo inviato dal signore libera l’apostolo dalle catene, le porte si apro-no miracolosamente e il prigioniero viene accompagnato fuori dalla prigione superando, senza ostacoli, i nuclei delle guardie.

L’episodio è in rapporto con l’antica e venerata reliquia delle sa-cre catene, oggi posta in un’urna nell’altare della confessione. secon-do una tradizione letteraria fortemente apologetica queste reliquie fu-rono ritenute i ferri della prigionia di pietro a roma. La narrazione successiva si arricchisce di nuovi episodi, per cui la catena romana si sarebbe miracolosamente unita alla catena con cui fu tenuto prigio-niero pietro a gerusalemme, quando questa fu portata da quei luo-ghi a roma e donata al papa da eudossia (2).

(1) at. 12,1-11.(2) sulle vicende della reliquia in rapporto con l’esistenza (edificazione) della basilica, cfr.

G. bartolozzi casti, Le catene di S. Pietro in Vincoli e la Prefettura Urbana. riscontri stori-ci e topografici, sviluppo della leggenda, in «archivio della società romana di storia patria», cXX (1997), pp. 5-34 (con ampia bibliografia).

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come riferisce nicola signorili (3) (secondo/terzo decennio del sec. Xv), il luogo di conservazione della reliquia era sub tribuna, circostanza confermata anche da un’epigrafe musiva, oggi perduta, ma nota dalle sillogi (4): «la storia del carcere di s. pietro» (5) è una delle due scene che ornava l’altare (oggi non più visibile) dedica-to alla conservazione della reliquia commissionato da nicola cusa-no (morto nel 1464) (6), il quale si fa raffigurare inginocchiato davanti a san pietro fiancheggiato dall’angelo che sostiene la catena spezza-ta. La storia dell’arresto, della condanna, della prigionia di pietro a gerusalemme è ricostruita nei due pannelli, eseguiti nel 1477, con stemmi ed emblemi rovereschi (7), che chiudevano la teca della reli-quia nel medesimo altare. più concisamente, le tre scene dipinte da Jacopo coppi nel 1577 nella fascia absidale della tribuna, tra due grandi finestre, fondano il racconto della liberazione di pietro, con il ritrovamento delle catene gerosolimitane consegnate ad eudossia dal patriarca di gerusalemme e del dono che ella ne fece al papa a roma (8).

(3) biblioteca apostolica vaticana (in seguito bav), Vat. lat. 3536, de reliquiis ecclesiæ Sti Petri ad Vincula, f. 61v: «[…] item est sub tribuna dictae ecclesiae una cathena 32 malle-aru cu collario, qua fuit ligatus s petrus aplus, et cum modica cathena, qua fuit ligatus san-ctus paulus […]»; G. zandri, in G. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, roma 1999, p. 103.

(4) G. bartolozzi casti, epigrafi scomparse di S. Pietro in Vincoli, in domum tuam di-lexi. Miscellanea in onore di aldo nestori, città del vaticano 1998, pp. 55-69 (64-65); id., in G. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. supra, pp. 241-242.

(5) bav, Vat. lat. 11905, f. 216v.(6) G. zandri, Sull’altare delle Sacre catene e sulla tomba di nicola cusano in San Pietro

in Vincoli, in «studi romani», XLviii (2000), 1-2, pp. 118-125.(7) oltre alla data 1477, le iscrizioni si riferiscono a papa sisto iv della rovere e al car-

dinale giuliano della rovere, titolare della basilica dal 1471 fino al 1503. oggi, le primitive portelle del reliquiario sono state adattate nell’altare della confessione a chiusura della sede in cui è sistemata la teca dell’antica reliquia. cfr. G. zandri, il reliquiario delle Sacre catene; Le portelle, in La basilica di San Pietro in Vincoli, a cura di g. bartolozzi casti, città di ca-stello 2013, pp. 37-39.

(8) Le tre scene raffigurano San Pietro liberato dal carcere; il patriarca di Gerusalemme, Giovenale, consegna le catene all’imperatrice eudossia; eudossia dona le catene al papa. sul-la decorazione dell’abside cfr. G. zandri, La decorazione pittorica dell’abside, in La basilica di San Pietro in Vincoli, cit. supra, pp. 62-64; sulla figura di eudossia cfr. G. bartolozzi ca-sti, Le catene di S. Pietro, cit. a nota 2, pp. 24-26.

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La Liberazione di Pietro daL carcere 175

Gli altari delle navate

oggi, in ognuna delle navate laterali, sono collocati due altari posti simmetricamente e alternati a monumenti funebri. proceden-do dall’ingresso della basilica, i primi due altari con le immagini di Sant’agostino in meditazione (navata destra) e della Pietà (navata sini-stra) hanno uno stesso disegno: si ergono sorretti da due colonne con capitello corinzio poggianti su plinti obliqui, frontone spezzato inne-stato su duplici cornici arricchite da fregi. L’altare privilegiato con la raffigurazione in mosaico di San Sebastiano (navata sinistra) e quello simmetrico con la Liberazione di Pietro dal carcere, nella navata de-stra, più ricco di marmi il primo, stucchi dipinti a finto marmo con inserimenti di fasce marmoree per il secondo, hanno uno stesso sche-ma che li distingue da quello dei primi due sopra descritto. nel 1765 durante i lavori di rinnovamento e restauro all’interno della basilica sostenuti dal cardinale galli «la pittura a marmi mischi alli quattro altari» è stata rifatta dal pittore giovanni mezzetti (mezetti?) (9).

nella visita apostolica del 2 febbraio 1628 (10) si annotava che en-trambe le navate erano prive di altari, fatta eccezione per i due alta-ri posti, all’inizio delle navate, rispettivamente ai lati sinistro e destro dell’ingresso principale della basilica, dedicati l’uno alla beata ver-gine e l’altro a sant’agostino: «discurrit longa planities altaribus va-cans usque ad postremum ecc.æ partem apud januam, ubi adest al-tare sub invocazione s.ma virginis […] ab latere dextero eiusdem portæ maioris adest altare sub invocne s.ti augustini cuis imago ho-norifice depicta ampla coronide lignea circumdata, ibi extat pro ico-na»; non lontano dall’altare della «s.ma vergine» (11) c’era il deposito provvisorio del cardinale cinzio aldobrandini (12) «humi tradendum».

(9) archivio di stato di roma (in seguito asr), congregazioni religiose maschili cano-nici Lateranensi di san pietro in vincoli, busta (in seguito b.) 1-5, b. 3, ff. 18-19; g. barto-lozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. a nota 3, p. 134 (con refuso «moretti»).

(10) archivio segreto vaticano (in seguito asv), congreg. visita apostolica, miscella-nea, arm. vii, 3: acta Sacrae Visitationis S.n.d. Urbani Viii - Pars Seconda - continet eccle-sias regulares utriusque sexus (1624-1630), ff. 430, 435: Visitatio ecclesiae S. Petri ad Vincu-la die ii Februarii 1628.

(11) L’altare è denominato anche «della s.ma vergine e di san sebastiano».(12) cinzio aldobrandini (passeri) (1551-1610), nipote di ippolito aldobrandini (poi papa

clemente viii), referendario delle due segnature e segretario di stato affiancato in quest’ul-

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per la navata destra vengono ricordati, dopo la memoria funebre di giulio ii di michelangelo, i più semplici monumenti funebri dei car-dinali girolamo della rovere (13), girolamo agucchi (14) e Lanfranco margotti (15).

La sistemazione dei quattro altari (due per ciascuna navata come oggi si vedono) risale agli anni 1681-1683 (16). dopo una lunga tratta-tiva condotta nel novembre 1674 (15 novembre 1674) (17) l’abate ales-sandro maria salardi si rivolge direttamente alla sacra congregazio-ne per ottenere il permesso di trasferire «[…] due altari laterali alla porta maggiore che stimerebbe più decentemente collocare nel mez-zo delle navate spogliate d’altari … per questi[one] di maggiore cul-

tima carica dal cugino pietro. creato cardinale nel 1593 con il titolo diaconale di san gior-gio, nel 1605 Leone Xi lo nominò titolare di san pietro in vincoli. sul personaggio e la sua carriera politica, e. Fasano Guarini, s.v. aldobrandini, cinzio, in dizionario biografico degli italiani (in seguito dbi), 2, roma 1960, pp. 102-104. per il monumento funebre g. barto-lozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. a nota 3, pp. 210-211; G. zandri, France-sco Fontana e il soffitto di San Pietro in Vincoli, in «storia dell’arte», c (2000), pp. 123-144 (124).

(13) girolamo della rovere (1530-1592), titolare di san pietro in vincoli dal 1587 alla sua morte. e. stumpo, s.v. della rovere, Girolamo, in dbi, 37, roma 1989, pp. 350-353.

(14) girolamo agucchi, titolare della basilica dal 9 giugno1604 alla sua morte (27 aprile 1605); su g. agucchi cfr. l. testa, riflessioni sul ruolo dei fratelli Girolamo e Giovan bat-tista agucchi nella formazione della quadreria di Pietro aldobrandini, in dal razionalismo al rinascimento. Per i quaranta anni di studi di Silvia danesi Squarzina, a cura di m. g. auri-gemma, roma 2011, pp. 218-222.

(15) Lanfranco margotti (1559-1611) compiuti gli studi giuridici esercitò la funzione di notaio presso il cardinale Filippo sega, nunzio apostolico a praga; fu al servizio di pietro e cinzio aldobrandini e in loro assenza fu responsabile della segreteria di stato. ebbe un ruo-lo importante nella trattativa per il rientro in curia del cardinale cinzio aldobrandini nel 1599. nel 1608 creato cardinale con il titolo di san callisto, nel 1609 vescovo di viterbo e, l’anno successivo, titolare di san pietro in vincoli e protettore dei canonici Lateranensi: cfr. m. maiorino, s.v. Margotti, Lanfranco, in dbi, 70, roma 2008, pp. 180-183. Lasciò un lega-to gestito da Leonardo colonnello per la celebrazione quotidiana di una messa (asv, con-greg. visita apostolica, miscellanea, arm. vii, 76, stato temporale delle chiese di roma, f. 222); asr, archivio dei trenta notai capitolini, notaio giovanni battista ottaviani, uff. 13 vol. 171, 23 giugno 1614, ff. 738-740v; g. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vinco-li, cit. a nota 3, pp. 164-165.

(16) attualmente, procedendo dall’ingresso, al primo altare della navata destra vediamo: Sant’agostino in meditazione, dipinto attribuito a g. F. barbieri (guercino); al secondo la Liberazione di Pietro dal carcere (copia di p. santi da domenichino). nella navata sinistra al primo altare la Pietà; al secondo il pannello in mosaico raffigurante San Sebastiano e, sopra-stante, la Madonna con il bambino.

(17) asv, congreg. visita apostolica, arm. vii, 7, ff. 210v-211, 15 novembre 1674.

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La Liberazione di Pietro daL carcere 177

to divino […]» (18). un breve di innocenzo Xi del 1683, il cui testo inciso – oggi – si può leggere al lato destro dell’altare privilegiato di san sebastiano, ne evidenzia le ragioni.

Le annotazioni fornite dall’archivio di san pietro in vincoli in-dicano nel dicembre del 1681 l’inizio dei lavori per il trasporto dei due altari dal fondo della chiesa (19) e contemporaneamente la co-struzione di due nuovi altari nelle navate – in cui trasferire i dipin-ti sopra citati –, che risultano pagati allo stuccatore domenico rosa-ti centonovanta scudi nel mese di marzo 1682 (20). sul secondo altare della navata sinistra (21) viene collocato l’antico mosaico con l’imma-gine di San Sebastiano sovrastato dall’affresco raffigurante la Vergine con il bambino riunendo così le due immagini provenienti dall’altare della s.ma vergine e di san sebastiano voluto da teseo aldrovandi (1575-1576) (22). nello stesso mese il pittore pietro santi aveva rifo-

(18) si tratta dell’altare di sant’agostino – al lato destro dell’ingresso principale – e del-la beata vergine, simmetricamente posto sul lato sinistro, descritti nella visita apostolica del 1628 (v. supra p. 175). cfr. g. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. a nota 3, pp. 124-125, 206-209 e g. zandri, i dipinti degli altari, in La basilica di San Pietro in Vin-coli, cit. a nota 7, pp. 65-66.

(19) archivio di san pietro in vincoli (in seguito aspv), b. a 955, notae historicae, mss. secc. Xviii-XiX, f. 63v «[…] Furono fatte delle casse di olmo p. trasportare le imagi-ni di s. sebastiano e della madonna e l’imagine della madonna fu trasportata sotto la navata a muro del palazzo del titolare fol. 85 a t.° vac.ª 1681 […] Furono ambedue queste imagi-ni trasportate sotto la navata nell’altare nuovo fol. 85 vac.a 1681».

(20) aspv, b. a 955, f. 63v, «[…] in Xbre del 1681 furono principiati gli altari nuovi e allo stuccatore a buon conto si diedero 65 s. vac.a 1681 fol. 84 a t°, e fol. 85 […] al d° stuc-catore dom.co rosati furono dati 190 scudi p. aver fatti due altari nuovi di stucco in chie-sa con le colonne isolate alli quali altari vi son poste le imagini della b.v. e di s. sebastiano che erano nella muraglia vicino alla porta maggiore della chiesa e il quadro di s. agostino che era dall’altra parte. questa spesa si è fatta p.che essendo detti altari voltati al contrario dell’altare del ss.mo fu fatto decreto che si levassero e così se li sono levati questi due altari ne quali dette imagini stanno con più decoro - vacc.ª 1681 f. 85 a t.° al mese di marzo del 1682». vedi nota 18. i quattro altari odierni sono stati elevati pressoché contemporaneamen-te: domenico rosati eseguì quelli, che oggi vediamo, dedicati a san sebastiano e a san pie-tro, che hanno uno stesso disegno.

(21) per il succedersi degli altari vedi nota 16.(22) g. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. a nota 3, p. 124; su teseo

aldrovandi commendatore di santo spirito in sassia dal luglio 1575 al 1582: asr, ospedale s. spirito, instrumenti, v. 252, ff. 1-3; v. 255, f. 71; G. G. trombelli, Memorie istoriche con-cernenti le due canoniche di S. Maria di reno, e di S. Salvatore insieme unite, bologna 1752, pp. 256-257; roma di Sisto V. Le arti e la cultura, a cura di m. L. madonna, roma 1993, pp. 268-272, 293-294; a. pampalone, “Sedente Sisto V”: arte e committenza a roma in S. Spirito in Sassia, in «rassegna degli archivi di stato», Lv (1995), 2-3, pp. 268-303 (274-278); il pa-

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derato il quadro di sant’agostino (Sant’agostino in meditazione, at-tribuito al guercino (23)) ripulendolo e applicandovi una vernice (24). il dipinto avrebbe dovuto collocarsi sull’altare simmetrico della navata destra.

riferibili all’anno1683 (25) emergono altri pagamenti «[…] per due altari nuovi fatti sotto le navate in fondo della chiesa […]» allo stuc-catore pompeo gentili per un costo complessivo di centoventi scu-di (26). La costruzione di due nuovi altari affidati ad un altro stuccatore, insieme con la notizia dello spostamento del deposito del cardinale margotti (27), l’ultimo dei tre collocati nella navata destra verso l’uscita dalla chiesa (secondo la descrizione della visita apostolica del 1628), fanno intendere una revisione nel numero degli altari da innalzare per la sistemazione di altri (o nuovi) dipinti. sorprende infatti il pagamen-to, nel 1683 al pittore pietro santi, di scudi venticinque per aver di-pinto una tela con l’episodio della liberazione di pietro dal carcere: «pagati al sig. pietro santi pittore scudi 25 moneta p. aver dipinto

lazzo del commendatore di Santo Spirito. i. Le collezioni storico-artistiche, a cura di L. car-dilli, roma 1998, pp. 167-168; s. alloisi - l. cardilli, Santo Spirito in Saxia, roma 2002, p. 107 (con bibliografia precedente). sul culto di san sebastiano e sul mosaico: G. bartolozzi casti - m. t. mazzilli savini, il culto parallelo a S. Sebastiano nelle chiese di S. Pietro in Vin-coli di roma e di Pavia, in «atti della pontificia accademia romana di archeologia. rendi-conti», LXXvi (2003-2004), pp. 345-448.

(23) sul dipinto attribuito al guercino cfr. g. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. a nota 3, p. 163; G. zandri, i dipinti degli altari, in La basilica di San Pietro in Vincoli, cit. a nota 7, pp. 65-66 (con bibliografia).

(24) una simile pulitura fu eseguita dallo stesso pietro santi per il dipinto raffigurante la Pietà: aspv, b. a 955, ff. 63v, 83v, «[…] il quadro di s. agostino e della pietà fu poli-to fol. 113 a t.°».

(25) La decisione di costruire altri due nuovi altari, che differiscono nel disegno dai pri-mi due costruiti, potrebbe risalire nel corso dell’anno 1682.

(26) aspv, b. a 955, f. 83v, «pagati a mro pompeo gentili stuccatore s [scudi] 120 mo-neta e sono p fattura delli due altari nuovi sotto le navate in fondo della chiesa a ragione di s 60 l’uno» [1683]; ibidem, b. m 131, chronachae variae, vacchetta di san pietro in vinco-li, sag. iii 1683 (ff. non numerati), «[…] altari nuovi stuccatore s [scudi] 129.70» (aggiun-ta di altre spese relative all’altare).

(27) aspv, b. a 955, f. 83, «del 1683 vac.ª fol iii a t.° si fabbricavano due altari nuovi in chiesa si trasportò il deposito del card.le margotti dal suo luogo […]»; ibidem, b. m 131, «1683 sag.a iii deposito del card. margotti posto più in su per dar luogo all’alt.a nuovo (di s. ag.o) s [scudi] 6»; ibidem, b. a 955, f. 83v, «nel mese di agosto [1683] mro domenico cavalli muratore trasportò tutti li depositi che erano in fondo della chiesa dalla parte destra nell’entrata essendosi mossi dal suo luogo p. causa dell’altare nuovo, e debbe s 26».

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La Liberazione di Pietro daL carcere 179

un quadro rappresentante s. p.o in vincoli da ponere in un altare di d.ª chiesa. La tela del quadro costò 2 scudi […]» (28).

dunque, la costruzione di due nuovi altari è stata decisa per col-locare un nuovo quadro, cioè la Liberazione di Pietro dal carcere (so-pra citata), a cui avrebbe dovuto corrispondere, nell’altra navata, un dipinto già presente nella basilica, la Pietà (29), appena restaurata dal-lo stesso santi (30). in questa occasione si cambiò anche la collocazio-ne delle tele: il quadro di s. pietro nuovo fu posto in corrisponden-za dell’altare di san sebastiano, come oggi si vede nel secondo altare della navata destra vicino a quello di sant’agostino (31) (tav. XL, fig. 1). La ragione di questa improvvisa e particolare commissione trova una spiegazione leggendo con maggiore attenzione una nota relativa all’anno 1682: «il sig.r gio: pietro bellori donò un quadro dove è dipinto s. pietro in carcere alto palmi 5½ e largo palmi 6 e ¼.vacc.ª 1682 fol. 85 a t.°» (32). Questa notizia permette un accostamento di-retto tra l’incarico dato a pietro santi e il dipinto indicato, nelle note d’archivio, come copia antica o come originale del domenichino (do-menico Zampieri, 1581-1641). oggi sappiamo il nome del donatore: giovan pietro bellori, allora commissario delle antichità di roma (33),

(28) aspv, b. a 955, f. 83v; ibidem, b. m 131, «1683 sag.a iii scudi 25 dati al sig pie-tro santi pittore per un quadro nuovo di s. p. in v. da porre in chiesa s 25»; Memorie delle S. catene di S. Pietro apostolo. dissertazioni del ch. abate Michelangelo Monsacrati, a cura di L. giampaoli, prato 1884, p. 66 (pietro sanzi); r. e. spear, domenichino, new haven-Lon-don 1982, i, p. 32, nota 20 (pietro sanzi).

(29) il dipinto proveniva dalla «cappella del ss.mo» (cappella della navata sinistra late-rale alla tribuna).

(30) vedi nota 24.(31) aspv, b. a 955, f. 83v: «[…] il quadro di s. pietro nuovo da ponere incontro a

quello di s. agostino […]».(32) aspv, b. a 955, f. 65; b. m 131, «1682 sag.ia fol. 82.to. Quadro di s. pietro in vincoli

donato dal sig. pietro bellori; [fol. 85] Quadro donato dal sig. pietro bellori di s. p. in vin. alto palmi 5½ e largo 6 e un 4°». cfr. g. bartolozzi casti - G. zandri, S. Pietro in Vincoli, cit. a nota 3, pp. 166-167: la grafia della nota può determinare confusione tra il nome bello-ri/belloni. La stessa confusione è in Memorie delle S. catene, cit. a nota 28, p. 66. sul cano-nico g. b. belloni, alcune notizie in aspv, b. a 956, notae historicae (sec. XiX), f. 13r/v.

(33) F. Fischetti, Giovan Pietro bellori commissario delle antichità (1670-1694). docu-menti per una storia della conservazione del patrimonio artistico romano, in «bollettino d’ar-te», Xciii, allegato al n. 144, aprile-giugno 2008, pp. 3-74. sulla figura di letterato e inter-prete delle arti figurative vedi: K. donahue, s.v. bellori, Giovanni Pietro, in dbi, 7, roma 1970, pp. 781-789; L’idea del bello. Viaggio per roma nel Seicento con Giovan Pietro bellori, catalogo della mostra, a cura di e. borea - c. gasparri - L. de Lachenal, roma, palazzo del-

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con atto di generosa liberalità, ne fece dono alla basilica proprio in quell’anno (1682; tav. XL, fig. 2).

si può ipotizzare che l’abate innocenzo calisti volesse esporre il dipinto in chiesa per la prestigiosa donazione e, forse, per una pro-babile menzione fatta dallo stesso bellori sulle vicende del dipinto originale e sulla storia che legava quel soggetto alla basilica. come si legge nella Vita di domenico zampieri (34), giovan battista agucchi – che vedeva nel domenichino un interprete del linguaggio della poe-sia nella pittura e in annibale carracci e negli allievi della sua scuola le premesse per un’interpretazione della pittura moderna che accol-ga le diverse espressioni regionali nel linguaggio ideale della classi-cità elevandosi dalle forme puramente naturalistiche e fantastiche – aveva suggerito il tema e fatto eseguire il dipinto dal giovane pittore bolognese molto stimato da lui, ma non dal fratello girolamo, titola-re della basilica di san pietro in vincoli dal giugno del 1604 (35). con un “inganno” e senza comunicare il nome del pittore fece affiggere sopra la porta di una stanza (o esporre nella basilica secondo g. b. passeri) la tela «quasi di misura d’imperatore» (36). L’opera fu molto ammirata e ritenuta «buona e di maestro»; per alcuni «opera di an-nibale carracci»; ne convenne anche il cardinale girolamo ricono-scendo con questa «prova» il valore del domenichino (37).

le esposizioni, 29 marzo-26 giugno 2000, roma 2000; d. l. sparti, La formazione di Giovan Pietro bellori, la nascita delle Vite e il loro scopo, in «studi di storia dell’arte», 13 (2002), pp. 177-248; t. montanari, bellori and christina of Sweden, in art History in the age of bello-ri: Scholarship and cultural Politics in Seventeenth-century rome, a cura di J. bell - t. Willet-te, cambridge 2002, pp. 94-126; id., bellori, trent’anni dopo, postfazione a g. p. bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, a cura di e. borea, introduzione di g. previtali, ii, torino 2009 (19761), pp. 657-729.

(34) G. p. bellori, Le vite, cit. supra, i, pp. 302-373 (309-310).(35) a. pampalone, “Sedente Sisto V”, cit. a nota 22, p. 294. girolamo agucchi fu car-

dinale titolare di san pietro in vincoli dal 26 giugno del 1604; era stato commendatore di santo spirito dal settembre del 1601 fino alla nomina cardinalizia (9 giugno 1604); per que-sta chiesa aveva commissionato ad annibale carracci il battesimo di Gesù. muore il 27 apri-le 1605. L’inizio della festività delle sacre catene decorre dal 1 agosto.

(36) L’espressione è in G. b. passeri, Vite de’ pittori scultori ed architetti che hanno lavo-rato in roma, morti dal 1641 fino al 1673, di Giambattista Passeri Pittore e Poeta, roma 1772, Leipzig 19342 (a cura di J. hess), pp. 1-48 (24). il biografo scrive che il dipinto fu esposto nella ricorrenza della festività delle sacre catene, il 1 agosto. Questa indicazione permette di precisare l’anno dell’esecuzione del dipinto (1604).

(37) sul dipinto: G. baGlione, Le Vite de’ pittori, scultori, et architetti. dal pontificato di Gregorio Xiii del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano ottavo nel 1642, roma 1642, pp. 381-

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La Liberazione di Pietro daL carcere 181

Le dimensioni della tela donata dal bellori non si adattavano alla struttura di una pala d’altare (38): da ciò si ritiene derivi la commissio-ne a pietro santi, che sviluppa in senso longitudinale la scena dell’in-terno della prigione, con pietro scosso dall’angelo e le guardie assopi-te. il pittore elimina la parte sinistra della composizione che si coglie dalla porta aperta: una veduta esterna con altri soldati addormenta-ti sulle scale massicce; sullo sfondo la luna su un cielo con nubi leg-gere, i tetti e un campanile, una torcia illumina l’arco di accesso alle mura merlate; «e ben lungi su l’entrata un lanternino co’ riflessi del-la luna» (39) (tav. XLi, fig. 1). nella descrizione bellori coglie l’aspet-to letterario dell’evento, la luce ultraterrena del miracolo, l’incredu-lità e la meraviglia del santo: ricorre agli schemi dell’antica fisiologia degli umori o temperamenti per spiegare l’età dei due soldati addor-mentati, l’uno giovane, più maturo l’altro (40).

La copia del santi era stata considerata una buona esecuzione da Filippo titi (41). Fu tradotta da Luigi cunego (1750/57-1803) che ne fece il disegno e la incise nel 1799; ritenuta fra le prime opere dell’in-cisore rivela attenzione nei particolari con alcune personalizzazioni

385 (382); G. b. passeri, Vite de’ pittori, cit. supra, pp. 1-48 (24); G. p. bellori, Le vite, cit. a nota 33, i, pp. 309-310; Felsina Pittrice. Vite de Pittori bolognesi, ii, bologna 1678, pp. 309-343 (313-314); Malvasia’s Felsina Pittrice Lives of the bolognese Painters, a cura di e. crop-per, London 2013, 13, pp. 50, 156, 289.

(38) Le dimensioni indicate nella nota d’archivio dovrebbero corrispondere a cm 123,4 × 140 circa (palmo romano = m 0,2234) e sono vicine, per approssimazione, a quelle di una tela «[…] quasi di misura d’imperatore […]». La copia di san pietro in vincoli do-nata da bellori ha le seguenti misure: cm 117 × 147; in r. e. spear, domenichino, cit. a nota 28, i, pp. 133-134 e ii, fig. 14, si riconosce nel dipinto di san pietro in vincoli una copia in-dicando le misure di cm 119,5 × 147; e. borea, domenichino, s. l. 1965, p. 17, fig. 2b, ritie-ne l’opera originale e riporta le dimensioni cm 147 × 114; ead., Lo specchio dell’arte italiana. Stampe in cinque secoli, pisa 2009, i, cap. XXi, p. 385, nota 43, concorda nel ritenere il di-pinto in questione una copia.

(39) La parte qui descritta e mancante dalla tela del santi si può vedere osservando con attenzione il dipinto donato dal bellori da cui la tela deriva (con molta difficoltà per le at-tuali condizioni conservative. un positivo contributo è offerto dall’incisione di pierre daret (1615/10-1675/1678): istituto nazionale per la grafica (in seguito ing), gabinetto dei di-segni e delle stampe, Fc 118069, vol. 57n30 (cm 47,8 × 42,2).

(40) si nota un’imprecisione nella descrizione del volto del soldato in piedi, «[…] rag-grinzato e senza peli […]», che invece mostra folta capigliatura e barba.

(41) nuovo studio di pittura, scoltura, ed architettura nelle chiese di roma […] dell’aba-te Filippo titi […], roma 1721, p. 257; id., Studio di Pittura, Scoltura, et architettura, […] (1674-1763), Firenze 1987, i, p. 248 (nota sulla incisione).

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giuLiana Zandri182

nella resa dei volti (tav. XLi, fig. 2) (42). È probabile che la tela dona-ta da bellori sia stata conservata in sagrestia o in ambienti del mo-nastero (43) fin da quella data, dal momento che nel 1692 si annota la spesa di una cornice per questo dipinto lì collocato (44).

nota sul dipinto originale

domenichino, partecipe a roma della “squadra” di annibale car-racci, aveva dato prova di sé negli affreschi della Loggia del giardino

(42) ing, gabinetto dei disegni e delle stampe, Luigi cunego, cL 2224/3116: domi-nicus Zampieri pinxit / aloisius cunego del. et sculp. 1799 (iscrizione sottostante alla tavo-la): «surge velociter / et ceciderunt catene de manibus eius / act: apost: cap. 12 vers. 7 / ex tabula in templo s. petri in vinculis / romae ex calcografia r.c.a.»; c. a. petruc-ci, catalogo generale delle stampe tratte dai rami incisi posseduti dalla calcografia nazionale, roma 1953, p. 48, n. 1071 (cm 28 × 45); G. l. Kannès, s.v. cunego, Luigi, in dbi, 31, roma 1985, pp. 359-360.

(43) roma del Settecento. itinerario istruttivo di Mariano Vasi romano, con note di g. mat-thiae, roma 1970, p. 148; così anche in c. p. landon, Vies et oeuvres des peintres les plus cé-lèbres de toutes les écoles. Vie et oeuvre complète de dominique zampieri, dit le dominiquin, paris 1803-1804, pp. 22-23.

(44) il dipinto risulta collocato negli ambienti della sagrestia da una nota in aspv, b. a 955, f. 84v: «1692 agosto per una cornice di legno, con oro, e tinta di nero di palmi sette e cinque di s. p.to in vincoli che sta in sagrestia s [scudi] 2 v fol. 108 a t.». da una relazio-ne sullo stato della basilica negli anni 1798-1799, aspv, b. m 690, carte sciolte, memorie e carte autentiche riguardanti lo stato della canca sotto la rivoluzione francese all’esordire di questo secolo XiX […]: «replica romana anno pmo/ nota delle robbe delle qli si doman-da l’alienazione p pagare li debiti e p la sussistenza dei citt.ni canci[canonici] di s. p. in v.: copia del s. pietro del domenichino esistente in chiesa qual copia conservasi in sagri-stia». il dipinto è segnalato nello stesso luogo nell’inventario richiesto dal cittadino giusep-pe capocci, commissario del rione monti nel marzo 1849 (asr, camerale iii, b. 1914, fasc. 6): «seconda sagrestia Quadro in tela delle dimensioni di palmi sei per quattro avantaggiati rappresentante s. pietro in carcere liberato dall’angelo opera di domenico Zampieri». stes-sa collocazione in un altro inventario (aspv, b. a 733, inventario di chiesa e casa di san pietro in vincoli), sec. Xviii-XiX: «sagrestia nella seconda camera n. 85.30 un quadro so-pra la porta rappresentante s. p. in carcere creduto copia dello stesso domenichino cornice di legno». nel 1869 il dipinto di «s. pietro» – di cui si danno le dimensioni 135 × 170 (som-marie?) – appare insieme con altri due «s. agostino» (forse da identificarsi con la tela assai deteriorata attualmente nella sala antistante la sagrestia) e «il figliol prodigo» (copia dal di-pinto di giovanni battista benci) in uno pseudo contratto di vendita, redatto da mons. an-tonacci, auditore presso la real casa d’austria, e firmato dal procuratore raffaele chifenti. il prezzo indicato per il dipinto è di £ 500 (aspv, b. a 780, ff. non numerati). per la tela di g. b. benci (roma, galleria borghese) cfr. roma al tempo di caravaggio 1600-1630, catalo-go della mostra, a cura di r. vodret, roma, museo nazionale di palazzo venezia, 16 novem-bre 2011-5 febbraio 2012, milano 2012, Xi, 16, p. 328.

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La Liberazione di Pietro daL carcere 183

Farnese, nei paesaggi composti e immaginati, di grande delicatezza, ricordati anche dal mancini e da molteplici disegni, in alcuni dipinti ancora con contaminazioni carraccesche. con queste prime prove ac-cresceva la stima e protezione di giovan battista agucchi a cui si può aggiungere il favore della famiglia aldobrandini, nella cui collezione figuravano alcuni suoi dipinti (45). secondo bellori, il quadro di «su-sanna», insieme con tre piccoli rami (46), fu eseguito mentre era ospi-tato in casa agucchi e, sicuramente, il ritratto del cardinale girola-mo (Firenze, uffizi), commissionato (dal fratello?) in occasione della sua nomina, oltre alle Storie di san Girolamo nelle lunette del porti-co della chiesa di sant’onofrio (ufficiale riconoscimento del suo va-lore), così come il disegno per il monumento funebre del cardinale realizzato in san pietro in vincoli, in cui pose al centro del timpano il ritratto di chiara derivazione dal dipinto fiorentino e, si dice, scolpì uno dei bucrani che fiancheggiano l’arme alla base del monumento.

passeri ricorda i giorni in cui domenichino si era recato nelle stanze vaticane, aveva a lungo guardato e studiato quelle immagini di raffaello: sicuramente aveva osservato l’uso della luce (47) con cui raffaello aveva costruito negli interni le figure irradiate da una fon-te divina, con i riflessi creati dalle faci sulle armature e dalla luce lunare: alcuni disegni presenti nell’inventario dell’allievo Francesco raspantino (48) indicano l’interesse e lo studio particolare per il sog-

(45) cfr. appendice i. inventario aldobrandini, in domenichino 1581-1641, catalogo del-la mostra, a cura di c. strinati - a. tantillo, roma, palazzo venezia, 10 ottobre 1996-14 gen-naio 1997, milano 1996, pp. 567-571 (570); l. testa, riflessioni sul ruolo dei fratelli Girola-mo e Giovan battista agucchi, cit. a nota 14, pp. 218-222.

(46) G. p. bellori, Le vite, cit. a nota 33, i, pp. 310-311: ascensione di San Paolo, San Girolamo, S. Francesco in adorazione del crocifisso (disperso). di quest’ultimo bellori conser-vava un disegno in «carta verde lumeggiato di biacca»; c. p. landon, Vies et oeuvres, cit. a nota 43, tavv. LXXXviii, Xcii, Xciii.

(47) d. benati, Per Guido reni “incamminato”, tra i carracci e il caravaggio, in «nuovi studi», 11 (2005), pp. 231-247 (235).

(48) g. b. passeri, Vite de’ Pittori, cit. a nota 36, pp. 22-23; r. e. spear, domenichino, cit. a nota 28, pp. 337-346, pubblica l’inventario del raspantino: n° 95 «disegni dell’historia di s. pietro, mano di raffaelle fatta dal domenichino n°1» (p. 343); n° 44 «un involto d’hi-storia di Lapis rosso s. pietro in carcere, e la pietra de saraceni di raffaello n°2» (p. 344); alla p. 339 dell’elenco figura anche [f. 25r] «un quadro di mezza testa, quando l’angelo li-berò s. pietro dalle carceri, mano di pietro pesce, con cornice indorata». domenichino ave-va ereditato disegni provenienti dal fondo di annibale carracci che insieme ad altri della sua collezione lasciò al suo allievo e collaboratore Francesco raspantino. cfr. s. prosperi valen-ti rodinò, Gli artisti romani collezionisti di disegni, in L’artiste collectionneur de dessin. i. de

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getto della liberazione di pietro. domenichino poteva vedere, nella fascia absidale della basilica romana, come il toscano Jacopo coppi, nel 1577, aveva interpretato il tema, una derivazione dalle immagi-ni raffaellesche e, nel folto gruppo di soldati, una libera esercitazio-ne compositiva.

Le notizie del dipinto si perdono dopo il racconto dei biografi. La scarna annotazione dell’archivio (v. supra) non sembra essere suf-fragata – fino ad ora – da qualche documento che ne attesti la pre-senza nella basilica. È probabile che il dono del domenichino si unis-se alla collezione del cardinale (49) e dopo la sua morte (aprile 1605) passasse al fratello giovan battista che, come fa intendere Francesco angeloni nella Historia augusta, possedeva manoscritti e libri lascia-ti a giovanni antonio massani, letterato, collezionista e suo segreta-rio, che lo sostituì ad interim nella carica di nunzio a venezia dopo la sua morte (1632). nella sua collezione figuravano molti dipinti spe-cie dei carracci e di domenichino. resta il dubbio se massani ebbe per sé, oltre ai manoscritti, anche dipinti dell’agucchi o li prese in consegna per restituirli agli eredi (come suppone sparti) (50).

un riferimento (probabile) al dipinto originale si trova in una let-tera del 6 novembre 1659, scritta da Leonardo agostini (1593-1676) a carlo di tommaso strozzi, responsabile delle antichità fiorentine, nella quale l’antiquario e collezionista toscano lo invitava a sottopor-re all’attenzione del granduca un libro «con li disegni rappresentan-ti le arte mechaniche di bolognia» (di annibale carracci) che egli comprò e poi vendette a monsignor massani ed ora, dopo varie vi-cende, era in possesso di un suo amico che intendeva rivenderlo. in attesa di una risposta l’avrebbe conservato insieme con «un belliss.

Giorgio Vasari à aujourd’hui, sous la direction de c. monbeig goguel, rencontres internatio-nales du salon du dessin, 22 et 23 mars 2006, milano-paris 2006, pp. 67-88 (73-74).

(49) Felsina Pittrice, cit. a nota 37, p. 319: «il quadro di s. pietro in vincoli per una pro-va, donatosi al cardinal agucchi e in termine di gratitudine per il ricetto di quella casa».

(50) La Historia augusta da Giulio cesare insino a costantino il Magno. illustrata con la verità delle antiche Medaglie da Francesco angeloni […], roma 1641, pp. 260-261; d. mahon, Studies in Seicento art and theory, London 1947, pp. 143-144; d. L. sparti, il musaeum ro-manum di Francesco angeloni. La quadreria, in «paragone/arte», XLiX, iii s., 17 (1998), pp. 46-79; G. sapori, risfogliando le “arti di bologna” carracci agostini, Massani, algardi, Guil-lain, in nuova luce su annibale carracci, a cura di s. ebert-schifferer - s. ginzburg, atti del congresso internazionale, roma, società geografica italiana - palazzetto mattei a villa celi-montana, 26-28 marzo 2007, roma 2011, pp. 227-253 (229).

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La Liberazione di Pietro daL carcere 185

cartone di domenichino, grande come sopra porto che rappresen-ta st º pi[e]tro con 4 figure conservatiss et originale sicura». mahon (convincentemente) mette in relazione il cartone con il dipinto che domenichino eseguì su richiesta di agucchi nel 1604 (51). dagli in-ventari degli eredi di elisabetta agucchi e Francesco Fioravanti non sembrano emergere indicazioni precise che possano ricondurre al no-stro dipinto (52).

il dipinto, che fu inciso da pierre daret (1605/10?-1675/78?) (53), stampato ed edito cum privilegio regis da François poilly (1623-1693), allievo di daret (che fu a roma dal 1648 al 1655) (54), ha fatto pen-sare che fosse passato in Francia «molto presto». daret era torna-to dall’italia all’inizio degli anni trenta: si era dedicato, da princi-pio, all’incisione di frontespizi e stampe. L’incontro con simon vouet aveva determinato, nella traduzione dai suoi dipinti iniziata verso la metà del secolo, una felice corrispondenza interpretativa della figu-ra, della resa delle atmosfere, della sensibilità del colore e della luce attraverso una modulazione di tagli rettilinei e incrociati. nel foglio

(51) d. mahon, addenda to “Seicento Studies”, in «the burlington magazine», 92/564 (1950), pp. 80-81 (80). Le dimensioni del cartone indicate come «un sopra porto» trovano corrispondenza con quanto bellori e malvasia dicono sul luogo in cui il dipinto fu collocato come sovra porta per mostrarlo al cardinale g. agucchi.

(52) s. GinzburG, the Portrait of agucchi at York reconsidered, in «the burlington magazine», 136/1090 (1994), pp. 4-14.

(53) un foglio di pierre daret con la Liberazione di Pietro dal carcere è conservato nel-le collezioni ing, gabinetto dei disegni e delle stampe, Fc 118069, vol. 57n30: «domini-que pinxit / p. daret sculp. / de poilly ex. cum / privil. regis». il foglio, inciso in contro-parte, è stato pubblicato in e. borea, Lo specchio dell’arte italiana, cit. a nota 38, iii, cap. XXi/56. su p. daret cfr. abecedario de P. J. Mariette et autres notes inédites de cet amateur sur les arts et les artistes, ii, paris 1853-1854, pp. 58-60; p. J. mariette, Les grands pein-tres. i. Écoles d’italie. notices biographiques et catalogues des oeuvres reproduites par la gravu-re, XVi e-XViii e siècle, préface par d. Wildenstein, paris [1969], p. 523; c. p. landon, Vies et oeuvres, cit. a nota 43, pp. 22-23, tav. cXXXvii; a. bertolotti, artisti francesi in roma nei secoli XV, XVi e XVii, mantova 1886, pp. 153-154; r.-a. WeiGert, inventaire du fonds français. Graveurs du XVii e siècle, iii, paris 1954, p. 297, n. 397; a. schnapper, raphaël, Va-sari, Pierre daret; à l’aube des catalogues, in “il se rendit en italie”. Études offertes à andré chastel, roma-paris 1987, pp. 285-241; o. bonFait, La renommée et la réception: domini-quin et la France au XVii e siècle, in «bulletin de la société de l’histoire de l’art français», 1997, pp. 63-84; s. lhopiteau, Les tableaux Historiques (1652) de Pierre daret, une entre-prise audacieuse de célébration des grands hommes, in «bulletin de la société de l’histoire de l’art français», 2009, pp. 29-43.

(54) J. lothe, L’œuvre gravé de François et nicolas de Poilly d’abbeville: graveurs parisiens du XVii e siècle, catalogue général […], préface de m. Fumaroli, paris 1994.

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dedicato al dipinto del domenichino c’è un fittissimo gioco di tagli modulati e intensi per tradurre la luce bianca che avvolge l’angelo e illumina pietro, si attenua nei panneggi e nelle vesti, contrasta con il buio degli interni e della notte.

daret nel 1651 aveva pubblicato una biografia di raffaello (abrégé de la vie de raphaël Sansio d’Urbin), derivata dalla Vita del vasari: l’aveva illustrata con stampe di marcantonio raimondi, seguendo l’in-teresse per l’arte di raffaello e per la pittura italiana, in particolare di correggio, dei carracci e dei pittori veneti, che si diffonde in Fran-cia nel pieno seicento. attraverso le stampe si portano a conoscenza documenti dell’antichità, cicli decorativi, sculture, dipinti non sem-pre disponibili, si pubblicizza il nome dell’artista, si amplifica l’azio-ne del mercato artistico, che offre all’ambiente del collezionismo ari-stocratico oggetti autentici o presunti tali, provenienti da collezioni prestigiose italiane (romane, fiorentine, venete) (55). in Francia erano pervenuti alcuni rami del domenichino, con soggetti sacri (ascensio-ne di San Paolo, San Francesco in adorazione del crocifisso, San Giro-lamo) (56) come il rame (perduto) con la crocifissione di cristo («cri-sto in croce con la madonna e s. maria maddalena con s. giov. e due angeli in aria») ritenuto del domenichino, consegnato da nicolò Francesco della valle, uno dei figli di pietro della valle, a Louis al-varez nel 1681, perché lo vendesse sul mercato francese e finito nel-le collezioni del re di Francia l’anno successivo (57).

(55) v. meyer, Les peintres-graveurs français en italie (1617-1650), in rome-Paris 1640. transferts culturels et renaissance d’un centre artistique, a cura di m. boyard, atti del conve-gno di storia dell’arte, roma, villa medici, 17-19 aprile 2008, paris 2010, pp. 109-125.

(56) cfr. nota 46: bellori (Le vite, cit. a nota 33, i, pp. 310-311) ne dà la descrizione. dal S. Francesco in adorazione del crocifisso pietro dal po aveva tratto un’incisione nel 1663; nel 1642 eloi rousselet aveva inciso l’ascensione di San Paolo. o. bonFait, La renommée et la ré-ception, cit. a nota 53, p. 84; e. borea, Lo specchio dell’arte italiana, cit. a nota 38, i, p. 385; c. p. landon, Vies et oeuvres, cit. a nota 43, tavv. LXXXviii, Xcii, Xciii.

(57) asv, arch. della valle - del bufalo, n. 65, fasc. 21, ff. 144-148. in tre fogli sciolti è spie-gato l’accordo fatto con Louis alvarez: 29 marzo1686-25 giugno 1689. sembra dal complesso accordo fatto con l’intermediario nel 1681 che l’abate n. F. della valle avesse comprato il di-pinto dai fratelli Lutio, valerio, Lilio, mario, giuseppe della vetera [dalla vecchia?] il 16 set-tembre 1670 per duecento scudi documentati da un ordine di pagamento dell’abate della valle a favore dei fratelli della vetera che ne danno ricevuta. Questi documenti e notizie relativi alla famiglia della valle - del bufalo (già a me noti per uno studio in corso sulla figura di ottavio rinaldo del bufalo della valle) sono stati considerati da K. Wren christian, Mummies, Scimi-tars, and a Lost crucifixion by domenichino: the collections of Pietro e nicolò Francesco della

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La Liberazione di Pietro daL carcere 187

pierre Jean mariette riferisce che suo padre Jean mariette (1660-1742) vide il dipinto quando era ancora di proprietà di bersan (per-san?) bauyn (v. infra), ne fece il disegno da cui trasse l’incisione. tut-tavia, manifesta il dubbio che il quadro non fosse l’originale ritenendo quello romano di san pietro in vincoli di gran lunga superiore (58).

La storia del dipinto, oggi perduto, è nota ed è stata indagata in particolare da e. borea (1965) e da r. spear (1982): la studiosa, ana-lizzando la versione di san pietro in vincoli, riconosce nei contrasti di luce che mettono in risalto la naturalezza dei corpi un’interpreta-zione del naturalismo caravaggesco non disgiunta dalla lezione «de-gli incamminati» (59). insieme con altri critici, aveva ritenuto il dipin-to come originale del domenichino. spear, dopo un’attenta analisi critica, ritiene il dipinto romano (60) donato da bellori una copia no-tando certe semplificazioni nei panneggi e la durezza delle forme del giovane soldato addormentato, figura fortemente scorciata, che ave-va colpito anche stephen Weston, il quale giudicò il dipinto disar-monico (61).

Lo studioso ha aggiunto un contributo a quest’opera giovanile del domenichino individuando un disegno per la figura di pietro (mia n. Weimer, norkfolk, connecticut) che trova riferimenti con un altro studio di una figura a mezzo busto con barba conservato a Windsor castle (62). nella monografia dedicata al pittore compie una ricostru-

Valle in Seventeenth-century rome, in reinassance Studies in honor of Joseph connors, a cura di m. israëls - L. a. Waldman, i, Firenze 2013, pp. 591-596; a. breJon de laverGnée, L’inventaire Le brun de 1683. La collection des tableaux de Louis XiV, paris 1987, p. 393, n. 397.

(58) abecedario de P. J. Mariette, cit. a nota 53, vi, paris 1859-1860, pp. 152-153; p. J. mariette, Les grands peintres, cit. a nota 53, pp. xvii, 517, n. 25, «S. Pietro liberato dall’an-gelo del Signore inciso all’acquaforte e terminato in seguito al bulino da Jean mariette».

(59) e. borea, domenichino, cit. a nota 38 (con bibliografia precedente); ead., Lo spec-chio dell’arte italiana, cit. a nota 38, i, nota 43, p. 385.

(60) r. e. spear, domenichino, cit. a nota 28, pp. 133-134. e. henschel-simon, die bilder-galerie von Sanssouci, berlin 1930, p. 15, tav. 12: l’autore ritiene originale il dipinto di potsdam e ne pubblica la foto. La copia di san pietro in vincoli è apparsa recentemente nell’esposi-zione roma al tempo di caravaggio 1600-1630, cit. a nota 44, iii, 4, pp. 72-73.

(61) s. Weston, Viaggiana: or, detached remarks on the buildings, Pictures, Statues, in-scriptions, ecc. of ancient and Modern rome, [London o cambridge 1776], p. 105: «s. pe-ter in prison, by domenichino a very disagreeable picture. one figure is remarkably fore-shortened».

(62) r. e. spear, i primi dipinti e disegni del domenichino, in Una gloriosa gara nelle pagine di Francesco arcangeli. L’oratorio di San colombano, bologna 2002, pp. 159-167 (161-162).

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giuLiana Zandri188

zione sulla provenienza del dipinto originale dai cataloghi di vendita di collezioni francesi a partire dal 1725 (e. de La tour d’auvergne 1725, principe di carignano 1742). individua dipinti con il nostro soggetto ritenute copie, come quella conservata in spagna provenien-te dall’inventario di isabella Farnese a la granja (63) e quella romana (ora sappiamo pervenuta alla basilica nel 1682). il dipinto origina-le appare in Francia nel catalogo di vendita taillard (1761). vi è an-notato il nome del possessore, bersan (persan?) bauyn: passa nelle collezioni del re di prussia ed è stato conservato a potsdam (staatli-che schlösser sanssouci) fino alla sua dispersione durante la secon-da guerra mondiale. pertanto la copia romana, proveniente (proba-bilmente) dalla collezione bellori, rimane la testimonianza della fase di “momentanea adesione” al caravaggismo di domenichino.

La figura di giovan pietro bellori, erudito, antiquario, scrittore e collezionista, membro di prestigiose istituzioni (ma anche disegna-tore e paesaggista), è stata indagata con l’apporto di efficaci contri-buti (64). bellori vive con Francesco angeloni dal 1630 circa fino alla morte del suo maestro: viene a contatto con un ambiente di intel-lettuali, di artisti e appassionati dell’arte, aperti agli incontri e agli scambi culturali, alla conversazione e alle visite di collezioni private come quella del Musaeum dell’angeloni. in questo ambiente si for-ma l’educazione culturale di giovan pietro, allievo del domenichino insieme con giovan angelo canini. di quest’ultimo, nella collezio-ne angeloni descritta da richard symonds, risultano alcuni dipinti e copie da due tele di annibale carracci e dal discusso ritratto di Giovan battista agucchi (York city art gallery) di domenichino (65).

(63) a. e. pérez sánchez, Pintura italiana del siglo XVii en españa, madrid 1965, p. 15; nelle note si cita la versione romana in san pietro in vincoli, ritenuta come originale («pin-tada en 1602»).

(64) per una sintesi bibliografica, cfr. nota 33 e “bellori 1976”, dal saggio introduttivo di g. previtali in G. p. bellori, Le vite, cit. a nota 33 (edizione del 1976). aggiornamento bi-bliografico a cura di p. barocchi - t. montanari, in L’idea del bello, cit. a nota 33, i, pp. 165-182; d. l. sparti, Giovan Pietro bellori and annibale carracci’s self-portraits. From the vite to the artist’s funerary monument, in «mitteilungen des Kunsthistorischen institutes in Flo-renz», 45, 1/2 (2001), pp. 60-101.

(65) s. prosperi valenti rodinò, La collezione di grafica di Giovan Pietro bellori: traccia per una ricostruzione, in Hommage au dessin. Mélanges offerts à roseline bacou, a cura di m. t. caracciolo, rimini 1996, pp. 357-378; d. l. sparti, il musaeum romanum di Francesco angeloni. La quadreria, cit. a nota 50, pp. 76-78 (inventario parziale dei dipinti); ead., il mu-saeum romanum di Francesco angeloni. Formazione e dispersione, in «paragone/arte», XLiX,

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La Liberazione di Pietro daL carcere 189

bellori, che non poté ereditare il patrimonio dell’angeloni, aveva co-struito nel tempo una propria collezione composta di antichità, di-segni, dipinti. alcuni visitatori la videro: philip skippon (1663) cita dipinti di tiziano, tintoretto, carracci e van dick; carlo cartari (66) ricorda la disposizione «di quadri buoni» in due stanze e il ritratto fattogli da carlo maratta. non è finora noto come la Liberazione di Pietro dal carcere sia giunta a bellori; in questo senso ci si propone di proseguire nella ricerca.

Giuliana zandri

iii s., 22 (1998), pp. 47-80; ead. La formazione di Giovan Pietro bellori, cit. a nota 33, pp. 177-248; angeloni fu segretario di g. b. agucchi. un elenco dei quadri e disegni conservati nell’abitazione dell’angeloni, annotato da richard symonds, viene pubblicato da l. spezza-Ferro, Le collezioni di “alcuni gentilhuomini particolari” e il mercato: appunti su Lelio Guidic-cioni e Francesco angeloni, in Poussin et rome, actes du colloque à l’académie de France à rome et à la bibliotheca hertziana, rome, 16-18 novembre 1994, sous la direction d’o. bon-fait - ch. L. Frommel - m. hochmann - s. schütze, paris 1996, pp. 241-255.

(66) d. l. sparti, il diario di viaggio (1663-1666) di Sir Philip Skippon. arte e società nell’italia del Seicento, in «bollettino del centro interuniversitario di ricerche sul viaggio in italia», XiX, 37/38 (1998), pp. 103-200; asr, cartari Febei, v. 185, f. 281r ; e. vaiani, Le antichità di Giovan Pietro bellori: storia e fortuna di una collezione, in «annali della scuola normale superiore di pisa», vii, 1 (2002), pp. 85-152.

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Il Convento dell’AnnunzIAtA

Premessa

l’individuazione di una serie di disegni originali realizzati dal Go-vernatorato di Roma durante la “liberazione” del Foro di Augusto, diretta da Corrado Ricci tra gli anni venti e trenta dello scorso se-colo, ha permesso di acquisire un ulteriore tassello del mosaico dei Fori Imperiali in via di progressiva ricomposizione. Il materiale grafi-co, conservato presso l’Archivio della u.o. Monumenti Antichi, Me-dievali e Moderni della Sovrintendenza Capitolina, riguarda il Con-vento dell’Annunziata, all’interno del Foro di Augusto, e consiste in una serie di planimetrie dettagliate e munite di quote s.l.m., che co-stituiscono una documentazione puntuale dell’edificio scomparso. le tavole grafiche, assieme al materiale fotografico (recentemente pub-blicato dal Museo di Roma a Palazzo Braschi), consentono di rico-struire questo complesso architettonico, come si sta peraltro tentando per molti altri fabbricati e monumenti scomparsi durante il radicale intervento fascista. l’analisi dei rilievi ha permesso, come dimostra il presente saggio di Giovannina Annarumma, di restituire con la mag-gior precisione i volumi e gli interni dell’edificio oltre che di riper-correre la vicenda storica della comunità di religiose che l’occupava. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i colleghi dell’Archivio assie-me a Paola Chini, Gabriella Cimino, Giovanni Caruso e Francesco Giovanetti per la loro disponibilità.

RobeRto Meneghini

1. La nascita della comunità neofita a Roma

la nascita della confraternita dei Catecumeni e neofiti si deve alla volontà di sant’Ignazio di loyola (1491-1556) di istituire un’attività

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Il Convento dell’AnnunzIAtA 191

missionaria dedicata alla conversione e alla tutela dei fedeli di origi-ne ebraica. Il progetto ottenne il consenso pontificio di Paolo III che con la bolla Illius qui del 19 febbraio 1543 sancì la costituzione del-la «casa dei Catecumeni» situata presumibilmente presso Santa Ma-ria della Scala, in via degli Astalli (1).

la prima sede ufficiale della confraternita fu una casa situata nei pressi della chiesa – oggi distrutta – dedicata a San Giovanni del Mer-cato detta volgarmente «in Mercatello», acquisita grazie all’interme-diazione tra il priore Giovanni da torano e papa Paolo III (2).

lo stabile, situato presso l’odierna piazza d’Aracoeli, era infatti di proprietà di Antonio Frangipane e venne ceduto in affitto a segui-to di un Breve pontificio dell’11 marzo 1542 che concesse inoltre alla neonata comunità molte grazie, privilegi, esenzioni e indulgenze.

In questa sede “subcapitolina” i neofiti dimorarono per circa un ventennio, durante il quale la confraternita si ampliò notevolmente divenendo persino teatro di uno scandalo che portò alla conseguen-te scissione tra catecumeni e novizie (3).

(1) g. b. Rossi, Sant’Ignazio di Loyola. Orazione panegirica, Piacenza 1868; R. CaliMa-ni, Storia degli ebrei italiani. Dalle origini al XV secolo, II, Milano 2013. la missione di ca-techizzazione della comunità ebraica promossa da Paolo III fu in parte anticipata dalla bolla Cupientes Judaeos del 21 marzo 1542. Con questo documento il pontefice tutelava i neofi-ti ponendo fine alla prassi della confisca dei beni, imponendo loro, tuttavia, di vivere isolati dai loro antichi correligionari, di acquistare i diritti di cittadinanza cristiana e di sposarsi con cristiani di nascita; b. segRe, Gli Ebrei in Italia, Firenze 2001, pp. 52 e seguenti.

(2) la chiesa di San Giovanni in Mercatello, situata nei pressi dell’Aracoeli, viene una-nimemente riconosciuta quale prima sede ufficiale della comunità neofita, cfr. M. aRMellini, Le chiese di Roma dal secolo IV al XIX, Roma 1891, p. 147; W. H. Rudt de CollenbeRg, Le baptême des juifs à Rome de 1614 à 1798 selon les registres de la “Casa dei Catecumini”. Pre-mière partie: 1614-1676, in «Archivum Historiae Pontificiae», 25 (1987), p. 93; M. B. gueR-RieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, in «Bollettino d’Ar-te», lXXXIII (1998), 105-106, pp. 33-48; F. bellini, I collegi e gli insediamenti nazionali nella Roma di Gregorio XIII (con una nota su Sant’Atanasio dei Greci e la Trinità dei Mon-ti), in «Città e storia», II, 1 (2007), La città cosmopolita, a cura di d. Calabi, p. 116. Alberto zucchi riporta la notizia dell’apertura di un primo ospizio da parte dello stesso Sant’Ignazio. la notizia tuttavia non viene supportata da alcun riferimento bibliografico rendendo di con-seguenza impossibile l’identificazione della sua localizzazione, si veda A. ZuCChi, Roma Do-menicana, II, Firenze 1940, p. 3. Federico Alessandro Rossi ritiene plausibile l’ipotesi di una prima sistemazione dei catecumeni presso Santa Maria della Strada, primo centro di tutte le attività apostoliche dei gesuiti a Roma, F. A. Rossi, Ignazio e i Gesuiti: vita e opere del fonda-tore della Compagnia del Gesù, Milano 1999, p. 87.

(3) R. d. Giovanni di torano, prete secolare e parrocchiano di S. Giovanni in Merca-tello – la cui funzione di oratore e mediatore si dimostrò cruciale nell’affermazione dei di-

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GIovAnnInA AnnARuMMA192

le spese relative ai costi di mantenimento della sede catecume-nale gravarono inizialmente sulla stessa comunità ebraica: nel 1554, infatti, papa Giulio III impose una tassa annua di dieci ducati d’oro a tutte le sinagoghe situate sul suolo pontificio.

nel 1562 la principessa Giulia Colonna acquistò in piazza Mar-gana uno stabile destinato alla fiorente Confraternita dell’Annunzia-ta, sita in Santa Maria sopra Minerva.

Successivamente, venuta a conoscenza delle precarie situazioni in cui versavano le neofite, la nobildonna si adoperò affinché il fondo fosse ceduto proprio a queste ultime. Il 26 gennaio dello stesso anno Pio Iv, con la sua Cum inter caeretas, sancì la nascita del monaste-ro che in virtù di tale cessione venne dedicato alla SS. Annunziata e consacrato alla regola di S. Agostino (4).

ritti della nascente comunità neofita – divenne il protagonista di un processo il cui esito ne eclissò per sempre il prestigio. Spinto probabilmente dalla gelosia nei confronti di alcuni pa-dri della Compagnia, il sacerdote iniziò a diffondere calunnie nei loro riguardi al fine di al-lontanarli dall’istituzione. Alle ingiurie seguì persino un libello diffamatorio Cose proposte da Don Joanne da Thorano, Rettor della Chiesa di San Giovanni in Mercato contro la Compagnia al Papa Paolo III (Biblioteca nazionale Centrale vittorio emanuele II - Roma, Fondo Ge-suitico, 1235) indirizzato all’attenzione del pontefice. Fu istituito un regolare processo che, nonostante i tentennamenti iniziali, fece decadere tutte le accuse condannando Giovanni di torano all’ergastolo, successivamente commutato nell’esilio da Roma. la comunità si tro-vò suo malgrado al centro di uno scandalo e per questo la custodia delle battezzande e del-le neofite venne affidata ad una vedova romana, cfr. P. taCChi VentuRi, Storia della Compa-gnia di Gesù in Italia: pte. 1. La vita religiosa in Italia durante la prima età della Compagnia di Gesù. 2 a ed., notevolmente accresciuta, 1930, Roma 1939, p. 20; A. ZuCChi, Roma Dome-nicana, cit. a nota 2, p. 7.

(4) Si veda l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali: demolizioni, dispersione del patri-monio artistico, in l. baRRoeRo - a. Conti - a. M. RaCheli - M. seRio, Via dei Fori Imperia-li, venezia 1983, p. 173: liliana Barroero sostiene che l’ordine sarebbe «sorto nel 1542 per iniziativa di Giovanni di torano, approvato nel 1543 da Paolo III e protetto da Giulia Co-lonna che aveva concesso come prima sede alcune sue case in piazza Margana». la donazio-ne di Giulia Colonna non si limitò solo alla sua residenza di Piazza Margana: la nobildonna infatti fece anche una ingente «donazione alla compagnia di scudi quattro mila, cioè scudi due mila in tanto Monte della Fede, e altri due mila di censi, acciocché li frutti essi si deb-bano distribuire à zitelle vergini miserabili, di buona fama, e onesta vita, che per ispirazione divina, vogliono entrare in monastero approbato: ma che per la povertà loro, non possono conseguire siffatto desiderio. Però si ordina, che le zitelle che vorranno detto sussidio, siano visitate diligentissimamente, con visite doppie, e debbano havere tutte le qualità, che si ricer-cano alle altre, che si vogliono mariare; però quanto all’età basti che abbino il tempo che vo-gliono i Sacri Canoni». Si veda Statuti della venerabile archiconfraternita della S.ma Nuntiata, Roma 1614, pp. 64 e ss.: tale sussidio veniva erogato entro due anni dalla sua approvazione e poteva raggiungere «la somma di cento fiorini, che sono scudi 35 baiocchi 25 per ciasche-duna».

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Il Convento dell’AnnunzIAtA 193

Ben presto anche le dimensioni di questo edificio si rivelarono as-sai esigue, al punto da intenerire papa Pio v che il primo dicembre 1566 con la bolla Sacrosanctae Catholicae Ecclesiae ordinò al cardina-le Saracino, vescovo di Sabina e protettore del monastero, e al car-dinale Giovanni di Montepulciano, cardinale titolare di Santa Maria in trastevere, di trovare una sede più consona ad ospitare il crescen-te numero di monache.

la scelta ricadde sul cenobio di San Basilio, situato nel Rione Monti e appartenente al Priorato di San Giovanni Gerosolimitano, commenda del cardinale Bernardo Salviati del titolo di Santa Prisca.

2. La munificenza di papa Pio V e lo spostamento presso l’Arco dei Pantani

l’imponente monastero dedicato alla SS. Annunziata, realizzato grazie alla munificenza di papa Pio v (1566-1572), fu demolito nel 1924 a seguito alla campagna di lavori mussoliniani atti a ripristina-re le antiche strutture dei Fori Imperiali.

Sebbene cancellasse per sempre la memoria del complesso tardo-cinquecentesco, l’impresa si dimostrò tuttavia un’interessante occasio-ne di studio e di analisi della complessa stratigrafia del sito.

Il monastero dell’Annunziata si era infatti articolato piuttosto di-sordinatamente a ridosso delle mura romane assimilando ben tre im-portanti insediamenti che verranno in questa sede analizzati breve-mente (5).

Il più antico è il foro eretto dall’imperatore ottaviano Augusto (23 a.C. - 14 d.C) in seguito alla vittoria riportata a Filippi sui cesari-cidi Bruto e Cassio. la grande piazza porticata (m 125 × 118) sorgeva nell’area compresa tra la Suburra e il Foro di Cesare. Al centro del lato orientale era collocato il tempio dedicato a Marte ultore (6). l’edi-

(5) oggi della chiesa rimane solamente il portale d’ingresso, situato lungo il muraglione del Foro di Augusto, sormontato da un bassorilievo recante una rappresentazione dell’Annun-ciazione, cfr. l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, pp. 171 e seguenti.

(6) R. Meneghini, I Fori Imperiali nell’antichità. Il Foro di Augusto, in R. Meneghini - R. santangeli ValenZani, I Fori Imperiali. Gli scavi del Comune di Roma (1991-2007), Roma 2007, pp. 43-60. ultore, ossia “vendicatore” del cesaricidio, in ricordo del voto fatto dall’im-peratore al dio Marte che con la dea venere fu progenitore della stirpe romana e soprattutto della gens Julia dalla quale Augusto discendeva in quanto figlio adottivo di Giulio Cesare.

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GIovAnnInA AnnARuMMA194

ficio, dalle dimensioni colossali, presentava in facciata otto colonne di marmo bianco di luni alte 15 metri e sormontate da un frontone recante statue dipinte, tra le quali campeggiavano quelle di venere e Marte. Il complesso era chiuso da un imponente muro in blocchi di peperino e pietra gabina con copertura in travertino. la parete, alta 30 metri e tuttora visibile dalla retrostante via tor de’ Conti, era sta-ta eretta al fine di proteggere la piazza dai frequenti incendi della Su-burra, con la quale comunicava grazie a due archi (7). Ai lati maggiori della piazza due grandi emicicli ospitavano tribunali dei pretori, con-notando quindi il foro come un immenso palazzo di giustizia (8).

nonostante l’importante funzione civile svolta dal sito, verso la fine del v secolo il complesso versava già in uno stato di totale ab-bandono, a tal punto che il tempio di Marte ultore divenne una cava di marmo di proprietà della gens senatoria dei Flavii Caecina Basi-lii Deci (9).

tra il IX e il X secolo, l’antica area imperiale vide lo stanziamen-to della comunità di monaci di san Basilio di Cesarea di Cappadocia, giunti a Roma presumibilmente a seguito delle invasioni saracene della Sicilia (10). Il monastero aveva un orientamento nord-sud e fu costrui-

(7) l’arco destro in particolare è oggi noto come “Arco dei Pantani”. Questa denomina-zione fu assunta nel corso dei secoli precedenti a seguito del progressivo allagarsi dell’area dei Fori Imperiali, come si ricorda in M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima An-nunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, p. 33, «nel corso del Medioevo infatti, l’occlusione della cloaca massima aveva impedito il regolare deflusso delle acque provenienti dai vari col-li e si era creato un vasto pantano che fu bonificato con un enorme opera di sopraelevazione del terreno (sino a quattro metri) e di creazione di condutture di deflusso. Questi interven-ti erano normalmente riferiti al pontificato di Pio v». Successivamente, Roca de Amicis ha proposto di posticipare l’esecuzione di tali lavori agli inizi degli anni ottanta; si veda A. RoCa de aMiCis, I Pantani e la Suburra: forme della crescita edilizia a Roma tra XVI e XVIII secolo, in Inediti di storia dell’urbanistica, a cura di M. Coppa, Roma 1993, pp. 103-145.

(8) e. CaRnabuCi, I luoghi dell’amministrazione della giustizia nel Foro di Augusto, na-poli 1996.

(9) Cfr. R. Meneghini - R. santangeli ValenZani, Episodi di trasformazione del paesaggio urbano nella Roma altomedievale attraverso l’analisi di due contesti; un isolato in Piazza dei Cinquecento e l’area dei Fori Imperiali, in «Archeologia Medievale», XXIII (1996), pp. 53-99 (78-91); Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana, Catalogo della mostra, a cura di S. ensoli - e. la Rocca, Roma 2000, p. XvII.

(10) Cfr. R. Meneghini - R. santangeli ValenZani, Episodi di trasformazione, cit. a nota 9, pp. 87 ss.; g. biaMonte, L’area tra tarda antichità e Medioevo, in La città assente. La via Alessandrina ai Fori imperiali, a cura di B. toscano, con la collaborazione di P. di Benedet-ti e P. Picardi, Sarzana 2006, pp. 175-228.

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Il Convento dell’AnnunzIAtA 195

to all’interno del santuario di Marte: il refettorio (m 15,30 × 13,10) occupava infatti il pronao del tempio, l’ambiente subito ad est era il cortile del convento, mentre la chiesa era stata edificata a ridosso della cella del tempio (11). data la sua vicinanza ad una scala che col-legava il Foro di Augusto al Quirinale – l’odierna salita del Grillo – il convento veniva detto in schola o scala mortuorum (12).

tra il XII e il XIII secolo la proprietà dell’impianto abbaziale pas-sò ai Cavalieri di San Giovanni Battista di Gerusalemme, divenendo sede romana dell’ordine. I lavori di ristrutturazione interessarono l’in-tero complesso: fu eretta una struttura ospedaliera e nuovi ambienti residenziali. venne anche costruita una nuova chiesa dedicata a San Giovanni e decorata ad affresco (13). Il nuovo piano di calpestio sul quale fu fondata la chiesa dei Giovanniti si trovava ad oltre 6 m dal livello della precedente fondazione basiliana. Fu proprio questa so-praelevazione a far sì che l’edificio venisse letteralmente murato du-rante i lavori cinquecenteschi. tale chiesa infatti riemerse solo in oc-casione delle demolizioni operate nella prima metà del XX secolo. I Cavalieri di Malta inoltre provvidero alla costruzione di un campani-le, il quale poggiava sul tratto di architrave, ancora oggi in situ, del-la peristasi del tempio di Marte ultore e sul corrispondente muro della cella. la sua struttura ad archi poggiava esattamente sulla co-lonna centrale, sulla prima – partendo dall’Arco dei Pantani – e sul muro della cella (14).

(11) Archivio Colini, FA 107 doc. 22660. Si veda G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi al Foro di Augusto, Roma 1951, p. 36; il Fiorini riteneva che la chiesa fosse stata costruita «entro la maglia trapezoidale di muratura che anticamente conteneva l’abside della cella del tempio e con ogni probabilità le favisse».

(12) R. Meneghini - R. santangeli ValenZani, Episodi di trasformazione, cit. a nota 9, p. 83. non siamo in grado di stabilire con certezza l’origine di tale denominazione. È stata ipotizzata la presenza d’ipogei funerari rivelatisi successivamente resti di una cantina cinque-centesca, cfr. C. RiCCi, Foro di Augusto. La Scala Mortuorum, in «Capitolium», II, 1 (1926), pp. 4-9; G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, pp. 36-42; C. PietRangeli, La casa dei Cavalieri di Rodi a Roma, in C. PietRangeli - a. PeCChioli, La Casa di Rodi e i Cavalieri di Malta a Roma, Roma 1981, pp. 23-24; l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperia-li, cit. a nota 4, p. 172.

(13) Queste pitture staccate si trovano oggi nella Casa dei Cavalieri di Rodi insieme ad altri reperti della medesima provenienza.

(14) Corrado Ricci, promotore e coordinatore degli scavi, riteneva che il campanile fos-se da attribuire al monastero basiliano, cfr. C. RiCCi, Il foro d’Augusto e la casa dei Cavalieri di Rodi, in «Capitolium», vI, 4 (1930), pp. 157-189 (177).

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non è nota la modalità con cui l’ordine cavalleresco di Malta sia subentrato ai monaci basiliani. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che in un primo momento le due comunità sarebbero coesistite all’inter-no del monastero basiliano (15).

I Giovanniti non rimasero a lungo nel Foro di Augusto: alla fine del XIv secolo la sede del priorato fu trasferita all’Aventino e nel 1426 le case ai Pantani furono concesse da papa Martino v al car-dinale Ardicino della Porta e alla morte di questi (1434) tornarono all’ordine.

nel 1466 papa Paolo II ne affidò l’amministrazione al cardinale Marco Barbo – il “cardinale di venezia” al quale si deve la costru-zione dell’omonimo palazzo – che restaurò ed in parte rifece la casa dei Cavalieri, aggiungendovi la loggia ad arcate e le finestre crociate che conferiscono all’edificio l’aspetto che in linea di massima possia-mo vedere ancora oggi.

Alla fine del Xv secolo i Cavalieri di Malta abbandonarono nuova-mente la loro sede ai Pantani, la quale venne ceduta in locazione a Mar-cantonio Cosciari, un mercante di legname (o di grano, le fonti sono discordanti) il quale organizzò gli ambienti a scopo utilitario (16).

Sebbene tale scelta potesse apparire quasi “degradante” per l’im-portanza e la sacralità del sito, in realtà andava interpretata come una oculata operazione di tutela: nella stipula del contratto venne imposto al Cosciari di provvedere alla «reparatione dicti palatii» (17).

(15) Ibidem, p. 180.(16) Cfr. R. u. Montini, L’Ordine di Malta in Roma. La casa dei Cavalieri di Rodi al Foro

di Augusto, in «Capitolium», XXX, 11 (1955), p. 330; C. PietRangeli, La casa dei Cavalie-ri di Rodi a Roma, cit. a nota 12, p. 30; l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, p. 173; M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augu-sto, cit. a nota 2, p. 33.

(17) R. lanCiani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di an-tichità, Iv, Roma 1910, p. 25; notaio Pellegrini, prot. 1453 c. 631 in data 3.4.1567; I, 1902, p. 185. Questa non fu la prima volta in cui venne adottata una simile politica di tutela. nel-la seconda metà del trecento, infatti, la preoccupante situazione della fabbrica di San Ba-silio attirò l’attenzione di papa Martino v. Il pontefice affidò al neoeletto cardinale Ardici-no della Porta l’uso del complesso vita natural durante, imponendo come unica condizione quella di provvedere ai necessari lavori di restauro. Come da accordi, alla morte del cardina-le San Basilio ritornò di proprietà dell’ordine. Probabilmente questa prima campagna di la-vori non ricoprì tutti gli interventi necessari, per questo papa Paolo II, assegnando il priora-to di San Basilio al nipote Marco Barbo, cardinale di vicenza, ottenne che «ex provehentibus Prioratus […] aedes vetustate collapsas augustore ornatu» risorgessero a quello splendore ar-

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la bolla Sacrosanctae Catholicae Ecclesiae del 1566 sancì il rilan-cio del complesso: papa Pio v s’impegnò infatti a realizzare una nuo-va sede per la comunità delle neofite stanziando, probabilmente egli stesso, la somma di 5.000 scudi, necessaria per i lavori (18).

Il 30 dicembre del 1566 il pontefice emanò un breve concedendo grazie, privilegio, esenzione, immunità e indulgenza, in quanto nuo-va sede del Monastero della Santissima Annunziata dei Catecumeni dell’ordine di san domenico.

I lavori terminarono il 27 aprile 1568, seguirono poi le operazioni di trasloco dalla sede precedente in piazza Margana. Al momento del trasferimento si contavano circa settanta persone, numero che aumen-tò celermente in pochi anni: nella sua visita pastorale urbano vIII ne contò infatti novanta, esattamente cinquanta monache e quaranta fan-ciulle alle quali era assegnato un dormitorio separato e vigilato (19).

3. Il Monastero dell’Annunziata tra il XVII e XIX secolo

oggi del complesso monastico della Santissima Annunziata non rimangono che due portali, visibili in via di tor de’ Conti e addossa-ti al grande muro che divideva il Foro di Augusto dalla Suburra.

Il primo ingresso, che permetteva l’accesso al monastero, pre-senta sulla sinistra frammenti di un affresco con al centro lo stemma abraso di Pio v. Grazie ad una incisione di Alò Giovannoli (1616) (tav. XlII) siamo in grado di ricostruire quale fosse il suo aspetto originario: il portale bugnato era infatti sormontato da un riquadro decorato ad affresco e suddiviso in tre moduli, uno grande centrale con una Annunciazione, e due laterali con figure di santi (20). Sebbene

chitettonico, che ammiriamo ancora oggi, cfr. G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 60.

(18) P. C. hoFFMan, Un contributo alla storia della missione cattolica per gli Ebrei e i Mao-mettani, Muster 1923, pp. 34 e seguenti. Cfr. P. a. M. bonuCCi, Compendio delle Grazie e favori conferiti da S. Pio V agli ordini religiosi, Roma 1713; Bonucci ricorda che papa Pio v donò inoltre alle monache alcune grandi pissidi e stabilì per loro un’elemosina perpetua di 100 scudi d’oro annui.

(19) A. ZuCChi, Roma Domenicana, cit. a nota 2, p. 13.(20) th. ashby, La “Roma antica” di Alò Giovannoli, in «la Bibliofilia», XXIv (1922),

pp. 101-113. Si veda in merito anche l’incisione proposta da M. d’oVeRbeke, Les restes de l’ancienne Rome, la Haye 1763.

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GIovAnnInA AnnARuMMA198

l’identità dell’autore rimanga ad oggi ancora ignota è possibile circo-scriverne la realizzazione agli anni compresi tra il 1567, anno di pre-sa di possesso del monastero da parte delle monache, e il 1572, ter-mine del pontificato di Pio v, ricordato dallo stemma attiguo. unico frammento superstite dell’intero ciclo è la figura del santo, colloca-ta nel riquadro sinistro, chiaramente identificabile con S. domenico, patrono dell’ordine.

l’ingresso alla chiesa avveniva attraverso il secondo portale, che, rispetto al precedente, presentava dimensioni assai più ridotte ed era impreziosito da un’elegante cornice architettonica composta da due colonne ioniche culminanti in un piccolo timpano spezzato, al cen-tro del quale si trova un rilievo dell’Annunciazione attribuibile a do-menico Castelli (1630 ca.) (21).

I due portali rimangono quindi l’unico segno tangibile di quel-lo che fu uno dei più vasti complessi monastici della Roma rinasci-mentale. tuttavia, grazie ai dati emersi dai libri mastri dell’ordine, alle planimetrie realizzate dal Governatorato e alla bibliografia pre-

(21) l’incisione del Giovannoli del 1616 mostra l’aspetto originario del portale, assai più scarno in quanto coronato semplicemente da uno stemma roveresco, riferibile tanto a Si-sto Iv (1471-1483) quanto a Giulio II (1503-1513), cfr. G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 42; R. u. Montini, L’Ordine di Malta in Roma, cit. a nota 16, n. 10, p. 336. l. Barroero attribuisce questo emblema araldico a papa Sisto Iv, cfr. l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, p. 171. dal punto di vista cronologico, i due pon-tificati precedono l’insediamento delle neofite, pertanto lo stemma deve essere riferito a un intervento promosso dai della Rovere nell’allora Casa dei Cavalieri di Rodi. Giuseppe ZiP-Pel, Ricordi romani dei Cavalieri di Rodi, in «Archivio della R. Società Romana di Storia Pa-tria», XlIv (1921), p. 198, ricorda in particolare il forte legame tra i Cavalieri di Rodi e la figura di Sisto Iv: «non mancano testimonianze della padronanza esercitata negli affari dei Rodiani dall’energico papa della Rovere, al quale l’ordine gerosolimitano pur deve le solle-citate cure, con cui Sisto [Iv] venne in soccorso quando l’Isola [di Rodi] sosteneva il tre-mendo assalto di Mao metto II nel 1480. […] Si vedano le bolle di questo papa in prò dei Rodiani (anni 1480 e 1481), in Reg. vatic., 674, cc. 200 ss., 206 ss., 485 ss., 489 ss. I volu-mi 13, 14, 15 dei Brevia (Arch. vatic.) contengono copiose testimonianze dell’interessamen-to di Sisto Iv alle vicende dell’ordine e della intensità di rapporti fra la vita dei Cavalieri e la vita italiana durante codesto pontificato». uno stemma di Sisto Iv (1471-1484) è oggi vi-sibile sulla casa dei Cavalieri di Rodi, esattamente nell’angolo compreso tra via Alessandri-na e via di Campo Carleo tuttavia una lastra marmorea ricorda come esso appartenesse alla facciata della casa situata in via Alessandrina al civico nn. 110-111. la Barroero, ibidem, ascrive l’attuale decorazione dell’ingresso al restauro barberiniano della chiesa. la Guerrie-ri Borsoi la colloca negli anni 1608-1614, sostenendo che una simile datazione non entrereb-be in contrasto con la stampa del Giovannoli «che solo all’incirca documenta la situazione al 1616», cfr. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, p. 38.

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cedente si tenterà in questa sede di realizzare una ricostruzione del complesso (22).

nel corso della demolizione del convento, avvenuta a partire dal 1924, vennero realizzati diversi rilievi planimetrici, conservati presso il Fondo Colini dell’Archivio disegni della Sovrintendenza Capitoli-na (23) (tav. XlIII; tavv. XlvI, fig. 2 - l).

Grazie al doc. 22705 FA 107 (tav. XlIII) siamo finalmente in grado di conoscere le dimensioni esatte della chiesa dell’Annunzia-ta e soprattutto di far luce sulle questioni relative alla sua struttura interna.

Questo disegno, infatti, documenta il pianterreno del monastero e dimostra come il santuario fosse di modeste dimensioni, misuran-do circa m 14,90 × 8 (24). Il suo asse era esattamente parallelo alla stra-da ed entrando era necessario voltarsi a sinistra per individuare l’al-tare.

una fotografia realizzata nel gennaio del 1925 mostra come l’au-la risultasse assai luminosa grazie alla presenza di due bifore, tutto-ra visibili, risalenti alla campagna di lavori del cardinale Barbo, del quale recano lo stemma (tav. XlIv, fig. 1) (25).

Gli affreschi di Marco tullio Montagna (1594-1649) e le decora-zioni in stucco ne ritmavano l’architettura. Il presbiterio in particolare ospitava quattro figure di santi, realizzate tra il 1604 e il 1607 dallo stuccatore Giovanni Casolano: ai lati dell’altare vi erano S. domeni-co e S. Caterina, mentre due nicchie sopra le due porticelle latera-

(22) Per le notizie relative ai libri mastri del monastero: Roma, Archivio Storico del vica-riato, Arciconfraternita dei Catecumeni e neofiti, Compendio di tutto quello ritrovasi nell’ar-chivio della Madonna Santissima de Monti … fatto nell’anno1694, n. 173, c. 1 e seguenti. Fo-tografie, relazioni e planimetrie del complesso al momento delle demolizioni sono conservate presso il Fondo Colini dell’Archivio del Comune di Roma.

(23) Ringrazio il dottor Roberto Meneghini per avermi segnalato l’esistenza di queste im-portantissime fonti d’archivio e per tutto l’appoggio dimostratomi durante la redazione di questo articolo.

(24) le dimensioni della chiesa sono state ricavate direttamente dalla planimetria del pian-terreno del monastero doc. 22705 FA 107 Fondo Colini, già citato alla nota 22. Queste mi-surazioni smentiscono i dati riportati dal Fiorini in La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 42: «la Chiesa della SS. Annunziata ai Monti, ad unica navata, composta a volta pre-sentava una lunghezza di m. 14,90 per una larghezza di m. 8 ed una altezza di m. 10,60 fino all’imposta delle volte».

(25) Fori imperiali: demolizioni e scavi. Fotografie 1924-1940, a cura di R. leone - A. Mar-giotta, con la collaborazione di F. Betti - A. M. d’Amelio, Milano 2007, p. 59.

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li ospitavano le figure di S. tommaso d’Aquino e della beata Agne-se da Montepulciano (26).

Probabilmente successivi dovevano essere i due grandi angeli con stemma che coronavano l’arcata centrale sopra il presbiterio (27).

l’abside ospitava sin dalla sua fondazione una tela raffigurante l’Annunciazione, in virtù della sua stessa dedicazione. nel XvIII se-colo a questo dipinto originario subentrò l’opera analoga del marchi-giano Gaetano lapis (1706-1776), oggi custodita nella nuova sede del-le domenicane in via G. lanza 142 (28).

Questo lavoro si collegava concettualmente con la lunetta sovra-stante, nella quale il Montagna aveva affrescato l’Assunzione della vergine: il programma iconografico del santuario quindi non si li-mitava a porre l’accento sulla titolazione del monastero, ma era teso ad un preciso messaggio soterico. le due opere infatti mettevano in evidenza la natura umana di Maria, figura chiave nel passaggio tra Antico e nuovo testamento, la sua missione e la conseguente ascesa alla dimensione celeste.

I libri mastri ricordano come l’ordine avesse inoltre concordato con il Montagna la realizzazione di un piccolo ciclo di storie: esatta-mente quattro affreschi nella parete laterale nord e due nella parete laterale sud (29). le testimonianze fotografiche novecentesche mostrano tuttavia al loro posto semplici riquadri a campiture colorate. Gli unici

(26) M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, pp. 38 e seguenti.

(27) la fotografia mostra uno stemma troncato la cui cromia risulta inevitabilmente fal-sata dal bianco e nero della pellicola. Il primo bandato tuttavia presenta al centro un picco-lo simbolo che potrebbe essere identificato, a mio avviso, con il rocco di scacchiera presen-te nello stemma della casata fiorentina dei Carnesecchi.

(28) Questa bella tela è stata a lungo ritenuta una copia di un’opera di Guido Reni un tempo conservata al Quirinale, si veda F. titi, Descrizione delle Pitture, Sculture e Architetture esposte al pubblico in Roma, Roma 1763, p. 235. Il venuti fu il primo ad attribuirla alla mano del lapis, cfr. R. Venuti, Accurata, e succinta descrizione topografica e istorica di Roma moder-na, Roma 1766, p. 34. oggi la critica è concorde nello smentire una derivazione da un modello reniano, attribuendo quindi la genesi dell’opera allo stesso lapis. Persistono ancora forti dub-bi circa la sua datazione: la Guerrieri Borsoi la colloca intorno agli anni trenta del Settecento, mentre la Barroero propone al contrario una datazione più avanzata al 1763-1766; a tale pro-posito, cfr. M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, pp. 42-43 e l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, p. 179.

(29) Archivio Storico del vicariato, Arciconfraternita dei Catecumeni e neofiti, Instru-menti 1639, n. 113, cc. 453 e ss., in data 28 novembre 1639.

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frammenti superstiti di questo importante ciclo di affreschi sono oggi conservati presso il Museo di Roma. Si tratta di tre frammenti della lunetta in controfacciata raffigurante la Natività di Maria, ovvero un santo a destra della Madonna (cm 114 × 119), la testina di un santo (cm 80 × 55,5) e la figura di un angioletto (cm 99 × 68) (30).

le fonti sono pressoché concordi nel ricordare la presenza sulla parete destra di una cappella, voluta «a istanza di Catt(eri)na Albe-rini» e dedicata a san Basilio, la cui venerazione nel monastero sug-geriva un senso di continuità con la tradizione cultuale del sito (31). l’altare, decorato nei primi anni del Seicento, ospitava un S. Basilio e Santi opera del romano Cristoforo Casolani (1587-1629) (32).

l’erudito Giovanni Antonio Bruzio (1610-1692) ricorda anche la presenza di una seconda cappella, contenente una vergine con la tri-nità e i Ss. Carlo Borromeo, Francesco, Giuseppe, vincenzo Ferrer, Pietro Martire e Antonino (33). Il doc. 22705 FA 107 conferma l’effet-tiva presenza delle cappelline, incassate entro le pareti laterali in ma-niera del tutto simmetrica.

Grazie all’analisi incrociata dei documenti con la planimetria no-vecentesca siamo quindi in grado di identificare con certezza la cap-pella destra con quella di S. Basilio e quella sinistra con l’oratorio

(30) M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, n. 40, p. 46.

(31) Archivio Storico del vicariato, Arciconfraternita dei Catecumeni e neofiti, Mastro 1603-1614 n. 305, c. 277.

(32) una descrizione dell’affresco ci viene fornita dal Baglione, che colloca erroneamen-te l’opera nel coro, cfr. G. baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti, Roma 1642, pp. 306-307: «un santo vescovo in mezo, e S. Gio. Battista e S. Gio. evangelista da lati, figure a fresco dipinte». Questa stessa collocazione viene inizialmente riportata anche dal titi, che tuttavia si corregge qualche anno dopo, localizzando l’opera nell’altare destro, si veda F. titi, Studio di pittura, scoltura, et architettura, nelle chiese di Roma (1674-1763), ed. a cura di B. Contardi - S. Romano, Firenze 1987, pp. 128, 129. dello stesso avviso anche il Bruzio, diret-to osservatore dell’affresco, il quale individua al posto del Battista la figura di S. Giacomo maggiore: cfr. Biblioteca Apostolica vaticana, ms. Vat. lat. 11884; G. A. bRuZio, Theatrum Romanae Urbis, c. 157 (post 1655-ante 1679). Concordano con lui anche il Moroni e il Ro-magnoli, cfr. G. MoRoni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai no-stri giorni, 47, venezia 1848, p. 106; e. RoMagnoli, Biografia cronologica de’ Bellartisti Sene-si, ed. in facsimile, X, Firenze 1976, p. 271.

(33) Cfr. Biblioteca Apostolica vaticana, ms. Vat. lat. 11884; G. A. bRuZio, Theatrum Ro-manae Urbis, c. 157 (post 1655-ante 1679); l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, p. 176; C. PietRangeli, La casa dei Cavalieri di Rodi a Roma, cit. a nota 12, p. 42; G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 45.

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descritto dal Bruzio, celebrante l’ordine domenicano. l’esistenza di quest’ultima cappella in particolare è infine confermata dalle tracce lasciate dalla stessa sulla muratura augustea (tav. XlIv, fig. 2), osser-vabili ancora oggi passeggiando lungo via Alessandrina.

Questa “parete palinsesto” mostra, in corrispondenza dell’area occupata dal tempio di Marte, l’ostruzione con muratura di quattro cavità, due superiori e due inferiori. nelle due aperture in alto van-no individuate le due bifore citate. In basso a sinistra, perfettamen-te in asse con la prima finestra, vi è l’occlusione dell’ingresso della chiesa, mentre nell’incavo a destra va identificata la nostra cappella. Il doc. 22671 FA 107 (tav. Xlv, fig. 1), una fotografia realizzata nel corso delle demolizioni, mostra chiaramente le due cappelle: in pri-mo piano si osserva infatti l’arcata della nicchia dedicata a S. Basilio, mentre sullo sfondo è ancora visibile la gemella con i resti dell’anti-co altare.

l’arredo della chiesa era infine completato da stemmi ed iscrizio-ni. Ricordiamo in particolare il simbolo del cardinale Antonio Barbe-rini, fratello di papa urbano vIII e protettore della confraternita dei catecumeni intorno alla prima metà del Seicento (34).

la parete opposta al presbiterio ospitava invece due iscrizioni marmoree, ricordate dal Forcella e dal Fiorini (35). la prima, risalen-te al 1748, ricordava un atto notarile con il quale il mastro muratore Giacomo Ingami assicurava suffragi «a sé e ai suoi».

(34) la presenza dello stemma Barberini all’interno della chiesa viene interpretata dalla Barroero come una testimonianza dei lavori di restauro promossi da papa urbano vIII, cfr. l. baRRoeRo, Le chiese dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, p. 176. la Guerrieri Borsoi, al con-trario, riferisce verosimilmente lo stesso stemma al cardinale Francesco Barberini, protettore dell’ordine domenicano, cfr. M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, p. 42: «dai libri mastri non risultano lavori specificatamen-te pagati dal cardinale per la chiesa […] ma si ricordi che come protettore della confraterni-ta il cardinale fu soprattutto il munifico patrocinatore della costruzione del collegio adiacen-te alla Madonna dei Monti, eseguito dal suo architetto di fiducia, Gaspare de vecchi. A ciò si aggiunga che nel testamento del porporato era espressamente indicato un lascito perpetuo per le povere monache catecumene di 20 scudi al mese, come integrazione per il loro vitto. Questi motivi giustificano a sufficienza la presenza del suo stemma».

(35) Cfr. v. FoRCella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edificii di Roma dal secolo XI fino ai giorni nostri, XII, Roma 1878, pp. 205 e seguenti; G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 43.

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vt In HAC eCCleSIA BIS In

HeBdoM ∙ FIAt ∙SACRvM PRo Se

SvISQve IACoBvS InGAMI

HS lvII CC ASSIGnAvIt

PeR ACtA SvCCeSSoRIS

BeRtI not ∙ CAP ∙ nono KAl ∙ SeX ∙

A ∙ d ∙ MdCCXlvIII

Al 1768 risaliva invece l’atto donativo, con cadenza quadrienna-le, stabilito da Clemente XIII, il quale sanciva l’offerta al monastero di un calice d’argento da parte del Senato Romano.

CleMentI ∙ XIII ∙ P ∙ o ∙ M ∙

ARGentevM CAlICeM Iv ∙ CeReoS

HvIC eCCleSIAe

Ad S ∙ P ∙ Q ∙ R ∙ PIetAteM RelIGIoneMQve eXPlendAM

QvARto QvoQve Anno donARI IndvlGentI

BARone PetRo teStA PICColoMIneo

eQvIte IoAnne PAvlo de CInQve CoSS.

HYeRonIMo CvRtI

PAvlo CIoGnI C ∙ R ∙ P ∙

PRIoRISSA et MonIAleS M ∙ P ∙

Anno MdCClXvIII

Questo, quindi, doveva essere l’aspetto della piccola chiesa del-l’Annunziata, configuratosi in maniera sempre più precisa e dettagliata grazie all’analisi comparata delle fonti e dei documenti d’archivio.

Assai scarse risultano invece le notizie relative alla struttura e all’organizzazione interna del monastero a causa della sua natura clau-strale: l’unica analisi conoscitiva del complesso è stata realizzata, pa-radossalmente, al momento della sua demolizione.

Il dossier relativo ai lavori e le numerose planimetrie conservate presso l’Archivio disegni non si limitano solo a riportare dati e di-mensioni degli ambienti, ma rivelano anche piccoli dettagli di vita, abitudini e consuetudini delle “nunziatine”.

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Il documento 22705 FA 107 relativo al pianterreno del monaste-ro mostra innanzitutto la presenza di una cinta muraria che – par-tendo dalla muratura augustea – percorreva via Alessandrina cingen-do la Casa dei Cavalieri di Rodi. l’area settentrionale del complesso era occupata principalmente dalla chiesa, dai confessionali, dal coro e dal parlatoio, al cui interno si trovava probabilmente il Crocifisso recentemente attribuito all’artista romano Cristoforo Casolani (36).

Gli ambienti di servizio si trovavano a sud del monastero: qui era-no infatti situati i depositi per i materiali (legno e carbone), un por-cile e il pollaio (37). l’ambiente compreso tra il muro di recinzione del Foro e quello in conglomerato, costruito per contenere la spinta del sovrastante terreno del Quirinale, fu utilizzato dalle monache dappri-ma come lavanderia e poi come fabbrica del sapone. Il piccolo for-no attiguo venne distrutto nel 1940 durante i restauri della Casa dei Cavalieri di Rodi: al suo posto si trova oggi la piccola chiesa dedica-ta a S. Giovanni Battista (38).

una fotografia scattata nel 1924 (doc. 22730 FA 107; tav. Xlv, fig. 2) ritrae il pozzo del convento, un tempo situato all’interno del cortile. un appunto leggibile sul retro della foto, risalente al marzo 1977, ricorda come la vera cisterna fosse stata «trasportata nella de-legazione comunale di ostia»: essa si trova ancora oggi nel giardino interno del Palazzo della delegazione Municipale (39).

(36) l’affresco è stato a lungo attribuito a Sebastiano del Piombo e identificato con il Cro-cefisso che il Cosciari s’impegnava a tutelare al momento del contratto d’affitto del comples-so. Recentemente la Guerrieri Borsoi ha riferito l’opera al Casolani basandosi su pagamenti riportati dai libri mastri del convento. Per questo affresco infatti l’artista ricevette un picco-lo compenso nel 1602, cfr. M. B. gueRRieRi boRsoi, La chiesa della Santissima Annunziata al Foro di Augusto, cit. a nota 2, p. 37.

(37) Il Bullettino Comunale del 1889 ricorda che il Comune di Roma demolì tettoie e granai entro l’emicliclo sud-est del foro. Probabilmente quegli stessi granai realizzati dal Co-sciari furono sino ad allora impiegati anche dalle monache, G. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 47. Si veda a tale proposito il disegno a sanguigna dei granari, rea-lizzato da Hubert Robert nel 1769, A. Conti, Storia di una distruzione, in l. baRRoeRo - a. Conti - a. M. RaCheli - M. seRio, Via dei Fori Imperiali, cit. a nota 4, pp. 1-60 (10).

(38) Fori imperiali: demolizioni e scavi. Fotografie 1924-1940, cit. a nota 25, p. 51.(39) Il trasferimento a ostia del pozzo del Convento dell’Annunziata avvenne sicuramente

poco dopo il 1924, data dell’inizio dei lavori. In quegli stessi anni infatti vincenzo Fasolo sta-va lavorando alla costruzione del Palazzo della delegazione Municipale, che terminò intorno al 1928, come testimoniano le prime foto dei lavori pubblicate dalla rivista Architettura e arti de-corative, II, 7 (1928-1929), alle pp. 322 ss. (Il Palazzetto della Delegazione Municipale a Ostia).

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Il Convento dell’AnnunzIAtA 205

una delle soluzioni più curiose, a mio avviso, tra quelle adottate dalle monache fu l’utilizzo della grotta scavata nel fianco settentrio-nale dello stilobate del tempio di Marte ultore. Questa serie di pic-coli cunicoli, profondi m 1,20 × 1,50 e con una larghezza pari a m 1,40 × 1,53, fu infatti identificata dall’architetto G. Battista Giovena-le, membro della Commissione archeologica dei Fori Imperiali, come cantine in cui veniva conservato il vino: «ciò non deve scandalizzare alcuno se si pensi che queste monache per sostentarsi, oltre che far il bucato per gli altri monasteri, fornivano pure particole e vino da messa» (40) (tav. XlvI, fig. 1).

Salendo al primo piano (doc. 22706 FA 107; tav. XlvI, fig. 2) si accedeva al refettorio, decorato con una tempera dell’Ultima Cena, all’antica cucina delle monache e ad un ambiente classificato come «camera del lavoro». Su questo stesso piano si trovava anche l’anti-ca Aula Capitolare dei Cavalieri di Malta.

Il disegno relativo al secondo piano del convento (doc. 22707 FA 107; tav. XlvII, fig. 1) localizza infine la chiesa basiliana (secc. XII-XIII), la cui presenza venne messa in luce solo in seguito alle demo-lizioni (41).

Il doc. 22710 FA 107 (tav. XlvII, fig. 2) si riferisce al terzo pia-no (nord) e individua la «superba loggia» i cui archi furono chiusi in muratura per ospitare i dormitori delle monache (42).

Ricordiamo infine la presenza all’interno del monastero di un cam-panile romanico che serviva la chiesa basiliana. la torre campanaria si ergeva sull’architrave, ancora oggi in situ, della peristasi del tem-pio di Marte ultore e sul corrispondente muro della cella e poggia-va esattamente sulla colonna centrale, sulla prima (partendo dall’Arco dei Pantani) e sul muro della cella (43). nel 1828 «scollegamenti […]

(40) doc. 22692 FA 107. Questi ambienti furono identificati erroneamente dal Ricci con le favisse del tempio, si veda C. RiCCi, Per l’isolamento e la redenzione dei resti dei Fori Im-periali, in «Bollettino d’Arte», v (1911), XII, pp. 445-455.

(41) Cfr. doc. 22672 FA 107. Cfr. Fori imperiali: demolizioni e scavi: fotografie 1924-1940, cit. a nota 25; W. angelelli, Affreschi medievali dalla perduta chiesa di San Basilio ai Pantani nel Foro di Augusto, in «Bollettino d’Arte», lXXXIII (1998),105-106, pp. 9-32.

(42) g. FioRini, La casa dei Cavalieri di Rodi, cit. a nota 11, p. 73: «Fra l’altro gli archi della superba loggia furono chiusi in muratura, fu realizzato internamente un solaio interme-dio e i due piani risultanti destinati a dormitori monacali; solaio che portò alla conseguente apertura di vani sulla parete affrescata che venne tinteggiata a calce».

(43) Idem, figg. 16-17, pp. 36-39.

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GIovAnnInA AnnARuMMA206

sui naturali punti di giunzione dell’architrave e l’esame delle stesse colonne», oramai danneggiate, cominciarono a destare preoccupazio-ni circa la sua stabilità (44).

ne seguì una diatriba tra chi sosteneva un urgente intervento di messa in sicurezza dell’area e chi, al contrario, promuoveva l’abbatti-mento della struttura. lo stesso Stendhal partecipò a questo dibattit-to, facendone menzione anche all’interno delle sue Promenades dans Rome: «C’est contre ce clocher que sont dirigés les voeux de tous les antiquaires de Rome. Je ne doute pas qu’il n’ait donné des idées liberales à plusieurs de ces messieurs. tous dèsirent qu’il soit dèmo-li, mais il appartient à l’eglise de l’Annonciation. Quand aurons-nous un pape assez philosophe pour permettre qu’un edifice consacré au culte soit démoli, et cela pour augumenter le plaisir profane des di-lettanti?» (45).

la demolizione del campanile avvenne nel 1839, in seguito al crollo di una parte del monastero nel quale sette religiose trovaro-no la morte (46).

Il Giornale dei Lavori 1924-1934, redatto da A. Paroli, ricorda il ritrovamento «a mezzogiorno della chiesa medievale», nel settem-bre del 1925, di una struttura in mattoni, probabilmente riferibile al campanile, che venne quindi definitivamente distrutto nel marzo del 1926 (47).

4. Il Trasferimento presso S. Lucia in Selci

«Il mio progetto porta quindi un minimo di demolizioni e un mas-simo di risultato, dirò così, archeologico e monumentale»: con queste parole il senatore Corrado Ricci presentò nel 1911 il suo progetto di scavo dei Fori Imperiali nel quale sollecitava il radicale “isolamento”

(44) Idem, p. 37.(45) stendhal, Viaggi in Italia. Roma, Napoli e Firenze. Passeggiate Romane. Illustrati dai

pittori del Romanticismo, introduzione di M. Colesanti, Firenze 2002, p. 204: «Contro questo campanile si scagliano oggi tutti gli antiquari, e non dubito che molti siano divenuti liberali proprio per questo motivo. tutti vorrebbero demolirlo, ma il campanile appartiene alla chie-sa dell’Annunciazione. Quando avremo un papa abbastanza liberale da permettere che sia de-molito un edificio consacrato al culto per aumentare il piacere profano dei dilettanti?».

(46) a. ZuCChi, Roma Domenicana, cit. a nota 2, pp. 22 e seguenti.(47) Archivio Colini, A. PaRoli, Giornale dei Lavori 1924-1934.

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Il Convento dell’AnnunzIAtA 207

dell’area (48). Gli interventi relativi al ripristino del Foro di Augusto si sarebbero “limitati”, a suo dire, alla sola demolizione del monaste-ro delle neofite, conservando la memoria dell’antica sede giovannita: «Al di là di Campo Carleo, oltrepassate due case […] si trova il lar-go orto delle monache dell’Annunziata ai Pantani e il modesto loro convento, gran parte del quale occupa la costruzione già ricordata, eretta pei Cavalieri di Rodi dal cardinale Barbo al tempo di Paolo II e da mantenersi e ripristinarsi. le demolizioni, in questo grandis-simo tratto, sarebbero quindi limitate, e relativamente di poco co-sto quando tornasse possibile trasferire altrove il predetto conven-to» (49) (tav. lI).

Questo ambizioso progetto venne accolto con entusiasmo dal Go-vernatorato e nell’aprile del 1924, in occasione del natale di Roma, l’allora Regio Commissario Filippo Cremonesi sancì l’inizio dei lavori, affidandoli ad un gruppo di esperti coadiuvati dall’ufficio Comunale Antichità e Belle arti e al Comitato di Storia e Arte antica, preposto alla tutela dei monumenti considerati artisticamente pregevoli.

Allo scopo di portare alla luce il tempio di Marte ultore si proce-dette ben presto alla demolizione del convento della SS. Annunziata e il 28 agosto del 1924 le monache furono trasferite presso il mona-stero di S. lucia in Selci, concesso dal Comune di Roma.

Il Governatorato dell’urbe sollecitò la pratica dell’esproprio, of-frendo la somma di tre milioni di lire alla Santa Sede che, tuttavia, anziché accettare l’indennità, preferì una permuta. In quegli anni in-fatti due monasteri, S. lucia in Selci e S. Gioacchino erano stati messi all’asta, in quanto le quattro comunità che vi risiedevano – le Agosti-niane, le vergini, le Francescane riunite a S. lucia in Selci e le Sa-cramentate dimoranti a S. Gioacchino – rischiavano di essere espro-priate a causa della vigente legge di soppressione. Il vaticano optò

(48) C. RiCCi, Per l’isolamento e la redenzione dei resti dei Fori Imperiali, cit. a nota 40, pp. 445-455.

(49) Ibidem. la scarsa considerazione di cui godeva in quegli anni il monastero dell’An-nunziata non deve affatto stupire, in quanto già a partire dal XIX fu teatro di demolizioni e distruzioni. durante il periodo della Repubblica Romana il convento venne infatti preso di mira dai rivoluzionari, inizialmente con minacce, poi con atti vandalici. nel 1849 le mona-che furono addirittura allontanate ed il convento fu trasformato in avamposto militare. dopo circa sei mesi di occupazione il complesso fu restituito alle legittime proprietarie che dovet-tero far fronte ad importanti lavori di ricostruzione, cfr. a. ZuCChi, Roma Domenicana, cit. a nota 2, pp. 29-32.

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G. AnnARuMMA : Il Convento dell’AnnunzIAtA208

quindi per uno scambio di locali. Accettata dal Governatorato la pro-posta, con la cessione del monastero, furono salvati S. lucia in Sel-ci e S. Gioacchino, che da allora passarono sotto l’opera de’ Cate-cumeni (50).

le fasi che sancirono il trasferimento delle “nunziatine” presso la nuova sede esquilina vengono descritte da padre Alberto zucchi, che collaborò attivamente con l’allora priora, suor vincenza Greco, vigilando sulla equa divisione dei locali e dell’orto (51).

Il parroco della Provincia Romana dei domenicani ricorda, inol-tre, come tutte le spese del trasloco fossero state sostenute dal Co-mune, così come stabilito dal governatore Filippo Cremonesi, e che la cifra stimata si aggirò intorno a trentamila lire.

la nuova sede purtroppo si rivelò immediatamente troppo esigua, obbligando papa Pio XI a promuovere una serie di lavori mirati so-prattutto alla costruzione ex novo della chiesa e del coro. A questa prima somma superiore a centomila lire si aggiunsero le trentasette-mila lire necessarie all’ingrandimento del noviziato, nel quale venne inoltre inserito un nuovo parlatoio.

In ricordo dell’antica sede ai Pantani, ancora oggi S. lucia in Sel-ci custodisce entro l’altare maggiore in marmo l’Annunziata firmata da Gaetano lapis (1706-1773). All’interno del coro furono adatta-ti gli antichi stalli, e nella sagrestia furono sistemati tutti gli arredi e i paramenti sacri che, assieme al mobilio, appartenevano al vecchio monastero (52).

gioVannina annaRuMMa

(50) A. ZuCChi, Roma Domenicana, cit. a nota 2, p. 34.(51) Ibidem, pp. 33 e seguenti.(52) Ibidem.

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCIL’ALIMENTAZIONE DEI GESUITI A ROMA

SECOLI XVI-XIX

A scorrere i titoli della produzione bibliografica degli ultimi de- cenni, – è agevole rilevare, fra l’altro, come nell’ambito dei va-riegati percorsi delineati dalla storiografia alimentare, la cucina e i menù delle mense religiose, riguardo agli ordini maschili e a quelli femminili, hanno costituito, seppur da angolature e impostazioni di-verse, un punto d’osservazione privilegiato per lo studio dei contesti territoriali in età moderna (1), sia per le stimolanti prospettive d’analisi e sia – soprattutto – per la cospicua e specifica disponibilità docu-

(1) Senza avere la pretesa di essere esaustivo, in proposito mi limito a segnalare solo al-cuni contributi emblematici dei temi in discussione: G. colombas, Dietetica monastica, in Di-zionario degli Istituti di Perfezione, III, Roma 1976, pp. 492-495; m. montanari, Diete mona-stiche, in id., Alimentazione e cultura nel medioevo, Bari 1988, pp. 63-104; c. casaGrande, Gola e preghiera nella clausura dell’ultimo ’500, Foligno 1989; G. l. masetti Zannini, Quel che passava il convento. Tavola e cucina dei monasteri femminili nei secoli XVI-XVIII in Roma-gna, in «Romagna Arte e Storia», XI (1991), fascicolo monografico 32; a. d’ambrosio, «Ex abundantia parcitatis». L’alimentazione nei conventi francescani in Puglia tra XVII e XIX se-colo, in Per Benigno Perrone da Salice, storico francescano (1914-1995), Lecce 1997, pp. 118-133; a. d’ambrosio - m. spedicato, Cibo e clausura. Regimi alimentari e patrimoni monastici nel Mezzogiorno moderno (sec. XVII-XIX), Bari 1998; G. m. nardelli, Alla tavola del mo-naco. Il quotidiano e l’eccezionale nella cucina del monastero tra XVII e XVIII, Perugia 1998; a. priGionieri, Comunità religiose e regimi alimentari nella Capitanata moderna, Bari 2002; Ci desinò l’abate. Ospiti e cucina nel monastero di Santa Trinita, Firenze, 1360-1363, a cura di R. ZaZZeri, Firenze 2003; l. parZiale, Per il vivere di una monaca. I consumi alimentari nei monasteri milanesi fra Cinque e Seicento, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2 (2008), pp. 257-275; m. a. Fabbri dall’oGlio, Pranzi e cibi golosi in convento: diario di un anonimo cappellano sulla cucina, gli usi e i costumi conventuali nella Venezia della secon-da metà del Settecento, Palestrina 2009; a. d’ambrosio, Il cibo dei chiostri. Piatti e dolci del-la tradizione monastica, Terlizzi 2011.

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ANGELO D’AMBROSIO210

mentaria, organica ed omogenea, che non sempre è invece agevole intercettare con riguardo ad altri ambienti e ceti sociali (2).

Il presente contributo è da collocarsi pertanto sulla scia contestua-lizzata di questo filone d’indagine, soffermandosi in breve sull’alimen-tazione che si delinea in alcune comunità della Compagnia di Gesù (3), dove le questioni legate al cibo costituiscono un aspetto di non tra-scurabile rilevanza, tenuto ben evidente dallo stesso sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali (4) e soprattutto nelle costituzioni dell’Ordine

(2) Per rendersene conto è sufficiente dare uno sguardo all’abbondanza dei dati e delle fonti archivistiche configurate in relazione alle istituzioni monastiche e religiose, così come emergono da Gli archivi per la storia dell’alimentazione, a cura di P. Carucci, Atti del Conve-gno Potenza-Matera, 5-8 settembre 1988, 3 voll., Roma 1995. È opportuno infatti ricordare in proposito che, grazie alle specifiche disposizioni emanate nel corso del Concilio di Trento (1545-1563), monasteri e conventi (cfr. in particolare la Sessione XXV) furono obbligati, fra l’altro, a curare diligentemente la tenuta dei propri archivi con la redazione puntuale e perio-dica della contabilità amministrativa (“libri mastri”, “d’introito”, “d’esito”, ecc.); questa ric-ca documentazione, seppur pesantemente decimata a seguito delle varie “soppressioni” sus-seguitesi a cavallo fra XVIII e XIX secolo, rimane perciò, nella parte superstite, un corpus di fonti importantissimo da cui non si può prescindere per entrare nelle pieghe della configu-razione alimentare dei vari territori italiani.

(3) Con riguardo all’argomento specifico relativamente a quest’Ordine segnalo: m. m. breccia Fratadocchi, S. Ignazio di Loyola e la Compagnia di Gesù. En ces tables vous etes assis tous les jours … Il refettorio e i luoghi della vita comune della Compagnia di Gesù, in Il cibo e la regola, Catalogo della Mostra, Roma, Biblioteca Casanatense 14 novembre 1996 - 15 febbraio 1997, Roma 1996, pp. 219-223; l. martinoli santini, S. Ignazio di Loyola e la Com-pagnia di Gesù. I Gesuiti e il cibo, ivi, pp. 222-223; A. d’ambrosio, “Meglio eser macro e eser di Dio che eser grasso e eser del demonio”. I Gesuiti e il cibo nelle missioni, in “… nelle Indie di quaggiù”. San Francesco de Geronimo e i processi di evangelizzazione nel Mezzogiorno mo-derno, a cura di M. Spedicato, Atti del Convegno di Studio Grottaglie 6-7 maggio 2005, Ga-latina 2006, pp. 275-286; D. Gentilcore, The Levitico, or How to Feed a Hundred Jesuits, in «Food & History», 8.1 (2010), pp. 87-120.

(4) Vi si trovano delle indicazioni, fra l’altro, anche sull’assunzione del cibo, come quella che l’astenersi dal mangiar pane non è così importante essendo il pane alimento «su cui la ten-tazione non è forte come per gli altri cibi»; infatti sant’Ignazio raccomandava che, con riguar-do all’alimentazione, «si deve osservare la maggiore e più completa astinenza […] e dunque l’astinenza nei cibi, per evitare disordine, si può praticare in due modi: uno con l’abituare a mangiare cibi ordinari, l’altro, a mangiarne, se raffinati, in piccole quantità». Negli Esercizi vi è ancora un forte richiamo all’imitazione di Cristo, nel senso di non dimenticare di rivolgere un pensiero a lui, prendendolo come modello nei momenti in cui egli stesso s’intratteneva a mangiare con i suoi discepoli, suggerendo così che «mentre uno mangia, faccia conto di vede-re Cristo nostro Signore mangiare con i suoi discepoli, e come beve, e come guarda, e come parla, e cerchi di imitarlo; in modo tale che la parte principale dell’intelletto sia occupata nel pensiero di Cristo nostro Signore, e invece la minore nel sostentamento del corpo, perché così si possa raggiungere un maggior equilibrio e ordine sul come comportarsi e regolarsi»; nelle esortazioni ignaziane non manca, inoltre, un forte richiamo al controllo di sé, evitando

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCI 211

dove, come vedremo in seguito, non solo nell’organigramma funzio-nale vengono istituzionalizzati incarichi specifici per la somministra-zione del vitto quotidiano, ma sono pure dettate precise disposizio-ni circa la conformazione strutturale di cucine, refettori e dispense, per assicurare alla comunità un servizio efficiente, in sintonia con le esigenze della vita comunitaria. L’indagine, utilizzando prevalente-mente documenti d’archivio, si dipana a Roma, fra le mura di quat-tro importanti e significativi luoghi di vita e di formazione cultura-le dei Padri, cioè il Collegio, la Procura Generale, il Seminario e la Casa Professa (5).

1. Il primo approccio, d’ordine amministrativo, riguarda l’analisi di alcuni bilanci maturati nell’ambito delle attività svolte nel Collegio Romano (6), con un occhio particolare, fra l’altro, alle caratteristiche del vitto e all’incidenza delle spese alimentari sul totale delle uscite.

Il periodo preso in esame riguarda il trentennio fra il 1670 e il 1699 che evidenzia in larga parte saldi positivi, con oscillazioni ab-bastanza marcate, determinate evidentemente anche dall’altalenante andamento della gestione patrimoniale e, in particolare, dai profili di ciascuna annata agricola. Le quote più alte si riscontrano sul fini-re del secolo, nel 1697 e 1699, rispettivamente con 13.563 e 11.322 scudi d’attivo; quelle più basse le ritroviamo, invece, in corrispon-denza del 1681, con 686 scudi, e del 1674, con 786. Quanto ai sal-di negativi, le annate chiuse con il segno meno sono in tutto otto e vanno da un passivo minimo di 151 scudi del 1696 ad un massimo di 5.502 del 1690; particolarmente sfavorevole appare il quinquennio compreso tra il 1687 e il 1691 che fa registrare saldi costantemente negativi.

che «l’animo sia tutto intento a ciò che si mangia, e così pure di mangiare in fretta, sotto la spinta dell’appetito», di essere, invece, «padroni di sé, così nel modo di mangiare, come nel-la quantità in cui si mangi» e facendo in modo che «se uno sarà tentato di mangiare di più, mangi di meno» cfr. M. M. breccia Fratadocchi, S. Ignazio, cit. a nota 3, p. 221.

(5) Per la genesi e le vicende di queste istituzioni rinvio a: P. P. Galletti, Memorie stori-che intorno alla Provincia Romana della Compagnia di Gesù dal 1814 al 1824, I, Prato 1914; P. tacchi Venturi, La casa di S. Ignazio di Loyola a Roma, Roma 1923; R. G. Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Roma 1954.

(6) Cfr. Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (in seguito, BNCR), Fondo Gesuiti, ms. 1363/1.

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ANGELO D’AMBROSIO212

Ad ogni modo, sull’intero arco cronologico preso in esame, le rendite del Collegio sviluppano una media annuale di 22.630 scudi che, pur riuscendo a coprire il fabbisogno della comunità – oscillan-te da un minimo di 130 ad un massimo di 160 persone fra sacerdo-ti, studenti e una ventina di coadiutori –, ad un esame dei relativi va-lori percentuali lasciano invece trasparire, almeno dal 1680 al 1694, una certa sofferenza economica, soprattutto nel considerare la dimi-nuizione dell’indice di riferimento che dal 22% circa del quinquen-nio 1675-79 passa al 14,74% del 1685-89. Non si spiegherebbe al-trimenti il contemporaneo piano di contenimento della spesa che i responsabili del Collegio tentano di portare avanti progressivamente, riuscendo a ridurre le uscite dal 19,34% del primo quinquennio al 16,02%. Solo negli ultimi anni del secolo la situazione denota chia-ri segnali di miglioramento, con un recupero abbastanza significati-vo del saldo positivo.

Entrando nel dettaglio di alcune voci delle entrate, le quote più importanti derivano innanzitutto dai possedimenti fondiari e, fra tut-te, quelle più remunerative provengono dalle «masserie di Puglia» che garantiscono il 18% dell’introito totale, seguite dalle «contribuzioni» degli alunni che raggiungono una percentuale di poco inferiore al 7. Le rendite delle aziende pugliesi (7) non hanno però un andamento costante, ma presentano pur esse delle oscillazioni abbastanza consi-stenti, spaziando da un minimo di 359 scudi del 1691 ad un non tra-scurabile massimo di 16.686 scudi nel 1672, con un indice percentua-le che dal 51,63 del 1670-79 scende poi al 18,20 degli anni successivi (1680-89). Meno marcata, ma altrettanto significativa appare anche la contrazione delle rette degli alunni che, sempre nel corso del secondo decennio, passano dal 41,90% del 1670-79 al 24,85 del 1680-89.

I rimanenti redditi del Collegio sono legati ad altri cespiti che ven-

(7) In proposito, ricordiamo la positiva evoluzione e affermazione della presenza gesuitica in Puglia dove, fra l’altro, la Compagnia, sul principio del sec. XVII, sperimenta per la pri-ma volta la singolare iniziativa della conduzione diretta di alcune residenze rurali. Infatti, tra il 1600 e il 1611, proprio i padri della Provincia Romana acquistano varie masserie in Capi-tanata, a Stornara, Stornarella, Ordona e Orta, integrandosi perfettamente con quelle popo-lazioni coinvolte pure nella conduzione delle stesse aziende agricole. Sull’argomento: F. iap-pelli, Masserie gesuitiche in Capitanata (1601-1767) come fondazione del Collegio Romano, in «Societas», 6 (1986), pp. 162-172; B. pelleGrino, I Collegi Gesuitici e la strategia della Com-pagnia nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, in Per la ricerca e l’insegnamento. Studi in onore di Fausto Fonzi, a cura di O. Confessore e M. Casella, Galatina 1999, pp. 87-101.

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCI 213

gono così indicati: le «Masserie di Napoli», «l’abbadia di Piastra», «l’eredità Giattina in Sicilia», «le vigne di Albano, Frascati, Balbi-na, Pariola e Porta Pia», alcune «pigioni di case», «censi e legati», «frutti di luoghi di Monte», «la spezieria senza le medicine», «il ca-sale dell’Ospedaletto», «le elemosine che si ricevono» e, infine, «la donazione Coppone».

Soffermandoci sull’analisi delle spese sostenute per il manteni-mento del Collegio, esse vengono contabilizzate attraverso 29 voci che, nel complesso, determinano un’uscita media annuale attestata su poco più di 19.611 scudi. L’annata più onerosa è quella del 1672, quando si spendono 23.927 scudi; la più economica coincide con il 1690 con 17.855 scudi, per uno scarto dell’1,03%.

Fra tutte le singole voci, l’esborso maggiore deriva dal raggruppa-mento costituito da «censi, canoni e pesi», con una percentuale che sfiora il 26, che lascia supporre alcune difficoltà incontrate dal Colle-gio nella gestione di questo specifico comparto, la cui situazione, però, va migliorando sensibilmente soprattutto sul finire del trentennio.

Aggregando omogeneamente le voci relative all’alimentazione («forno e pane», «vino», «olio», «carne fresca e salata», «pesce fre-sco e salato», «cacio, ricotta e uova», «riso, patate e legumi», «frutta fresca e secca», «erbaggi», «vitto vario»), si profila che nell’insieme le spese per la mensa comunitaria assorbono la quota più consisten-te delle uscite, con una media annuale pari al 39,67% del totale. Un dato, quest’ultimo, che – occorre ricordarlo – non tiene conto del va-lore di quei generi provenienti direttamente dai possedimenti agricoli del Collegio e che erano pure destinati alla dispensa.

Allargando lo sguardo all’intero periodo si coglie che i valori per-centuali della spesa per la tavola sono nel tempo in progressivo au-mento, passando dal 34,16% del primo quinquennio al 37,63% del secondo, dal 38,79% del terzo al 39,50% del quarto, dal 41,97% del quinto al 44,57% del sesto e ultimo quinquennio. Un incremento su cui non si posseggono dati espliciti ma che può essere stato determi-nato da alcune variabili come il numero dei commensali presenti in refettorio, l’andamento produttivo delle aziende agricole, la capacità di spesa del Collegio.

All’interno delle spese per la mensa, la somma più cospicua in termini percentuali, col 26,35, viene impiegata per l’acquisto di vino la cui incidenza complessiva nel tempo è abbastanza costante, con un lieve rialzo durante l’ultimo decennio; i consumi estremi si segnalano

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col minimo nel 1670 pari ad un’uscita di poco più di 1.766 scudi, e col massimo del 1691 quando la quota assorbe circa 2.360 scudi.

Dopo il vino, sono i consumi della carne («fresca» e «salata»), col 20,05%, a rappresentare la voce di spesa più importante che, tranne per la contrazione di alcuni anni (1684-85), delinea un andamento di costante crescita, che raggiunge l’apice proprio nell’ultimo decen-nio del secolo, in particolare nel 1699, quando in proposito vengono contabilizzati in uscita più o meno 2.084 scudi.

Per il pane e voci correlate (farina, preparazione, cottura), il Col-legio spende in media annualmente il 13,20% del bilancio alimentare e anche in questo caso il trend degli esiti è piuttosto lineare, interrot-to solo da isolati picchi in calo segnalati nel 1674 e 1684, rispetti-vamente con 772 e 829 scudi, a fronte dei 1.610 scudi impiegati nel 1680 per l’indice percentuale massimo del 7,80.

Con la quota del 10,03% la frutta è in quarta posizione rispet-to alla percentuale totale della spesa alimentare, seguita da vicino da pesce «fresco» e «salato» con il 10,01% e poi da «cacio, ricotta e uova» con il 9,10%, olio con il 4,19%, vitto «vario» (straordinario) con il 3,27%, verdure e ortaggi con il 2,72% e, infine, da «riso, pata-te e legumi» con l’1,08%. Per tutti i comparti, esclusi quello dell’olio e di «riso, patate e legumi» che lasciano una traccia di spesa lieve-mente in flessione nella seconda parte del trentennio, il volume del-le uscite registra un progressivo aumento con i picchi più alti sul fi-nire del secolo.

Lasciando da parte il bilancio della mensa, è possibile ora ritor-nare sull’analisi delle altre voci di spesa, in ordine di rilevanza, per inquadrare meglio la situazione in cui si trova il Collegio in questo periodo. Dopo vitto e debiti, le uscite più cospicue sono quelle de-stinate alla «Residenza» di Frascati e ai «contributi rettorici», rispet-tivamente col 4,68% e il 3,43%. Nel primo caso la somma più alta viene elargita nel 1687 con 1.725 scudi, quella più bassa nel 1699 con solo 287 scudi, a conferma di un trend evolutivo in discesa, a diffe-renza, invece, di quello che si registra per le rettorie in lieve ma co-stante salita in termini di valori percentuali con un + 5 dell’ultimo decennio rispetto al precedente.

Il vestiario («sartoria») incide, invece, in media per il 3,87%, pas-sando dal minimo del 1674 con 276 scudi al massimo del 1679 con 1.228 scudi: nella lunga durata questo impegno di spesa è piuttosto oscillante, con alti e bassi determinati evidentemente dall’usura di

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vestiti e abbigliamenti vari. Un’altra spesa abbastanza significativa è quella per il servizio liturgico e per la sacrestia (soprattutto per l’ac-quisto di cera, suppellettili, ostie e vino e per le celebrazioni eucari-stiche): l’impiego complessivo ammonta al 4,73% del totale, mentre le punte estreme della spesa sono annotate nel 1682 con 602 scudi e nel 1686 con 1.736 scudi. Per le elemosine, l’indice è del 2,36% con una media di circa 600 scudi all’anno e con un andamento che è rapportato alla situazione complessiva di bilancio. Per i lavori di re-stauro – presumibilmente ci si riferisce sia alla chiesa che alle strut-ture del collegio – la percentuale media è del 2,80. La spesa mag-giore risulta affrontata nel 1685 con 1.739 scudi, quella minore nel 1680 con 545 scudi.

Le altre uscite del Collegio sono ripartite fra varie voci, fra le quali, in sintesi, ricordiamo quelle per l’infermeria (1,43%), per le-gna (1,12%), per la biancheria 2,13%), per la calzoleria (0,34%), per la «carta da scrivere» (0,53%), per «libri e scritture» (1,42%), per le «masserizie di casa» (1,38%), per la stalla (0,80) e per gli impre-visti (1,39).

2. Il secondo sondaggio prende in esame il bilancio della Procura Generale (8) dal 1727 al 1742, durante cui solo in un anno, nel 1734, emerge un saldo negativo di appena 24 scudi, mentre per l’intero arco cronologico il quadro nel complesso presenta consuntivi sempre in attivo, sebbene con margini che dopo un evidente periodo di stagna-zione dal 1732 al 1736, segnano una decisa ripresa solo a partire dal 1737 e sino al 1742 con l’indice medio percentuale che, infatti, s’in-nalza dal 5,86% al 7,74%. L’anno le cui rendite percentuali tocca-no i livelli più alti è il 1741 (9,61%), con un introito di 13.923 scu-di; quello con minori risultati economici è il 1729 (4,62%) con circa 6.703 scudi; frequentemente le voci relative fanno capo ad «elemosi-ne», «alimenti», «legati», «prestiti» e «varie». A tali valori si posso-no aggiungere anche quelli elaborati sull’andamento stagionale del-la contabilità che evidenzia, in sintesi, come dicembre e settembre, rispettivamente con l’11,84% e il 10,86%, rappresentano i mesi più redditizi, contrapposti a maggio (6,08%) e novembre (6,93%) che appaiono quelli meno remunerativi.

(8) Cfr. Archivum Romanum Societatis Iesu (in seguito, ARSI), Procura Generale, ms. 168.

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Quanto alle uscite, il trend percentuale non subisce grosse oscilla-zioni mentre, confrontando i valori assoluti dei due estremi, si passa dal minimo dei 6.420 scudi del 1736 ai 9.734 del 1728. Pure per gli esiti dicembre rappresenta il mese con l’indice più elevato (11,11%) insieme a ottobre (col 10,58%); di contro, maggio e marzo presenta-no i livelli meno incidenti col 6,22% e il 6,34%.

Le spese che la Procura sostiene sono essenzialmente quelle per il proprio mantenimento come si evince dalle varie voci contabiliz-zate mese per mese, secondo il seguente schema che prevede quasi costantemente «vitto, pane e forno», «cantina», «dispensa», «ripara-zioni», «calzoleria», «sartoria», «canoni», «salariati», «bucato», «bar-beria», «esercizi», «infermeria», «artisti», «orto», «legna», «bianche-ria», «chiesa», «masserizie», «manutenzioni» ed «elemosine».

Anche nel caso della Procura, dopo aver omogeneamente accor-pato i generi del comparto alimentare, è stato possibile verificare che gli esiti del bilancio annuale sono in gran parte assorbiti dal vitto co-munitario che, durante i 17 anni presi in considerazione, comporta in media dal 51% al 68% del totale. Accanto alla spesa ordinaria quo-tidiana, attestata tra il 10% e il 15%, comprensiva degli oneri per la preparazione e cottura del pane, le uscite più consistenti deriva-no, però, dalle esigenze di assicurare il periodico rifornimento della dispensa, il cui inventario viene rinnovato ogni trimestre e che, per fare un solo esempio, nel marzo del 1740 presenta la seguente di-sponibilità: 1.230 barili di vino «fra vecchio e nuovo», 2.400 bocca-li di olio, 86 rubbie di grano, 20 rubbie di farina, 3 vitelli, «legumi diversi», 30 tomoli di riso, 30 tomoli di lardo, 70 tomoli di baccalà, 20 tomoli di tarantello, «frutta e droghe diverse», 15 barili di mosto cotto, 350 fra piatti e scodelle e 1.100 bicchieri.

3. Come già anticipato, le regole che disciplinano la vita comuni-taria e la struttura organizzativa della Compagnia di Gesù, prevedo-no – fra l’altro – norme specifiche per assicurare il buon andamento dei servizi di cucina e refettorio. Utilizzando un’edizione delle Regu-lae communes del 1567 (9) (cfr. Appendice), provenienti proprio dalla biblioteca del Collegio Romano, si può avere in proposito un quadro abbastanza significativo sull’articolazione dei vari incarichi istituzio-

(9) Cfr. BNCR, Fondo Gesuiti, mss. 41.9.C/32/5,7,19 e 590.

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nalizzati che si svolgono sinergicamente, sotto le direttive del Supe-riore. In particolare, le relative funzioni fanno capo allo «Spendito-re», al «Dispensiero», al «Cuoco», al «Prefetto del Refettorio» e al «Sottoministro» (10).

Al primo, fra gli altri, spetta il compito di provvedere alla spe-sa quotidiana «con discrezione e modestia», ispirandosi a criteri di qualità e convenienza e rendicontando poi, nelle mani del «Procu-ratore», il denaro impiegato e i generi acquistati da consegnare «per tempo al Dispensiero». Questi è responsabile della dispensa, da te-nere ben pulita e in ordine, da custodire con accortezza per evita-re che i cibi si esauriscano prima del tempo o che vadano a male; ha cura di consegnare diligentemente al cuoco il cibo da preparare, con equità, senza eccezioni, tranne che a favore degli infermi, qualo-ra vi fossero disposizioni in merito. Ha inoltre particolare attenzione nell’“annacquare”, secondo misura, il vino da portare a tavola, desti-nato soprattutto ai più giovani del Collegio; è incaricato poi di pre-parare («acconciare») le botti della cantina prima della vendemmia, per predisporle ad accogliere il vino «nuovo».

Un ruolo evidentemente importante è quello ricoperto dal cuoco. Dalle sue capacità dipendono in gran parte i livelli di soddisfazione della mensa. Perciò le Regole gesuitiche gli raccomandano la scrupo-losa osservanza di alcuni principi fondamentali: innanzitutto la puli-zia e l’igiene della cucina, evitando per quanto possibile, di maneg-giare gli alimenti ed esortando, invece, all’uso di forchette e coltelli; il rispetto e la puntualità dei tempi di preparazione dei pasti; la cor-rispondenza della qualità e quantità delle porzioni in base agli ordi-ni ricevuti; la tenuta di un inventario dell’utensileria e degli arnesi utilizzati; il divieto che altri – escluso l’infermiere debitamente auto-rizzato – possano cucinare o approntare pasti senza il permesso del Superiore; l’accortezza, infine, di contenere i consumi nel limite del necessario e di accantonare per i poveri gli eventuali avanzi.

Altrettanta predisposizione organizzativa viene richiesta per il «Prefetto» del refettorio, al quale spetta la soprintendenza del luo-go dove appunto vengono consumati i pasti comunitari (11). Egli è te-

(10) Cfr. D. Gentilcore, The Levitico, cit. a nota 3, pp. 118-120.(11) Essendo uno spazio importante di convivialità identitaria, l’organizzazione gesuitica

poneva particolare cura e attenzione nell’allestimento dei refettori, che dovevano essere suf-

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nuto alla custodia e alla pulizia di posate, stoviglie, tovaglie, salviet-te e quant’altro necessario per apparecchiare la tavola; d’intesa col cuoco, preavvisa al suono di campana il tempo dei pasti, procuran-do, fra l’altro, di portare in tavola acqua e vino, ma non con mol-to anticipo; assegna i posti per tutti i commensali, così per gli infer-mi e per i sacerdoti che avranno, però, «luogo distinto da gli altri»; su indicazione del Ministro, con turni settimanali, incarica i deputa-ti al servizio della tavola, senza trascurare di annotare gli assenti e coloro che, eventualmente, rompono il silenzio durante la consuma-zione o che assumono comportamenti «poco modesti». Come per il cuoco, anche per il Prefetto del refettorio è previsto inoltre l’obbli-go di tenere l’inventario di «tutte le cose che servono», conservando-lo in luogo idoneo. Spetta sempre a lui, infine, segnalare – al suono di campana – il termine della ricreazione che dura un’ora, sia dopo pranzo che dopo cena.

L’organico è completato dal «Sottoministro» che svolge un inca-rico che potremmo definire di supervisione, di verifica dell’osservan-za degli ordini impartiti dal Ministro. Egli deve, in altri termini, ap-purare che tutto si svolga nel migliore dei modi, facendo rispettare la puntualità e soprattutto l’igiene, con riguardo all’obbligo «che nei luochi dove si magna, le immondizie si nettono spesso»; un occhio particolare è rivolto all’esigenza di procurare le provviste quotidia-ne e di dispensa in base anche alla stagionalità dei prodotti. Non a caso, a margine delle sue prerogative, vengono pure indicati i periodi

ficientemente confortevoli, arredati secondo le esigenze di comunità spesso abbastanza nu-merose, senza trascurare l’arredo iconografico delle pareti con quadri e scene della vita di Gesù: per esempio, in quello della residenza di S. Andrea al Quirinale non a caso si rinven-gono opere che ritraggono le Nozze di Cana, il Miracolo dei pani e dei pesci, Cristo servito da-gli angeli nel deserto, il Banchetto alle nozze del re, ecc.

Anche gli aspetti logistici avevano la loro importanza e se ne può avere un’idea leggen-do la descrizione del refettorio della Casa Professa del Gesù in Roma fatta nel 1847: «[…] vè la rota per la Cucina […] il vano nel quale scendesi al locale con Forno, ove si faceva il pane, ed incontro mette alle cantine e grotte …»; la cucina, oltre a vari camerini, ha «un gran focolare addosso al muro che tramezza la medesima cucina colla retrostanza, ove esi-ste la Rota; il Refettorio è grande con innanzi un Camerone, ove esistono due lavamani con sei chiavette per ciascuno»; si trovano ancora porte, scale, sottoscale, camerini, uno dei qua-li «con la Fontanella e Vasca per lavarvi i bicchieri, ove è la scaletta che mette al Pulpitino del Refettorio»; la dispensa ha, invece, «due retrocamere coi mezzanini a volta che sorreg-gono il pavimento della Cappelletta del S. P. Ignazio, ed un camerino o piccolo vano ov’è l’acqua e vasca per uso della medesima», cfr. M. M. breccia Fratadocchi, S. Ignazio, cit. a nota 3, pp. 219 e 221.

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dell’anno e i generi corrispondenti da poter acquistare: a giugno fieno; in agosto lenticchie, ceci, farro, grasso e biada; a settembre castagne, pere, mele e uva passa; in ottobre mandorle, tonnina, alici, farinella, riso, vermicelli, vino, fichi, noci, olive, olio, zucche e cipolle.

Al Sottoministro è affidato anche il compito di trasmettere al cuoco gli ordini dettagliati per la quantità delle razioni e degli ingre-dienti nelle seguenti proporzioni, da intendersi riferite a 100 «boc-che»: 90 libbre (12) quando si tratta di carne di castrato, 30 se di vac-cina, 58 se preparata in arrosto; 6 libbre per il farro da minestra, 7 per riso, farinella e vermicelli; per un «brodetto» si possono utiliz-zare 100 uova, per un «antipasto di carne» 12; per una frittata sem-plice 180; per una frittata di riso e pan grattato o latte, 130 uova; per un tortino di zucchine o altre verdure unite a latte o ricotta, 50 uova; per una «torta in acqua» si possono impiegare 70 uova e 3 lib-bre di cacio; per la «minestra d’amandole» 4 libbre di frutti; le por-zioni del cacio stagionato sono commisurate a 7 libbre; la quantità d’olio da condimento per una «minestra di legumi» si aggira intorno alla «foglietta e mezzo» (13) (per una minestra di zucchine o di verdu-ra, 2 «fogliette»; per una di cavoli, 3).

Oltre alla quantità degli ingredienti, le competenze del Sottomi-nistro riguardano pure indicazioni gastronomiche riferite ad antipa-sti, minestre e postpasti. Per i primi si suggerisce frutta («quando è tempo») come «melloni, fichi, cerase, melangoli dolci», oppure, al-ternativamente, «prima ricotta, salami, sopressate, lasagne, capretto o vitello, polli arrosti o in guazzetto, piedi, animelle, fegatelli e cer-vella, fegato o trippa». Le minestre possono consistere in «brodet-ti con essenza di surbe» o in piatti di farro o farinella o piselli o an-che a base di carne lessa «con sapore di mostarda», o ancora polli, carni salate e «lingua». Le portate conclusive sono varie, «secondo il tempo», come «cacio buono», «fructi», «pomi», «carcioffole» e an-che «torte».

(12) Tenuto conto che la libbra romana corrisponde a circa 0,339 gr. possiamo, conte-stualmente, calcolare in chilogrammi la quantità di alcune pietanze per ciascuna singola por-zione che varia a seconda anche della diversa modalità di cottura: 300 gr. di carne lessa, se di castrato; se di vaccina 100 gr.; se arrostita poco meno di 200 gr.; quanto al riso e alla pa-sta (vermicelli) circa 25 gr.; il pesce bollito (palombo o orata) 85 gr.; la tonnina 40 gr.; il for-maggio stagionato per condire la pasta, 25 gr.

(13) La «foglietta» riferita all’olio corrisponde a 0,513 l., al vino a 0,456 l.

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Spostandoci in avanti nel tempo di circa un secolo rispetto alla stesura delle prescrizioni sopra esaminate, ulteriori elementi di valu-tazione sulla conformazione dei piatti approntati per la mensa gesui-tica romana pervengono da un regolamento collocabile fra il 1659 e il 1665 (14) che, in un calendario giornaliero, ripartito in quattro pe-riodi (ottobre e novembre, dicembre sino alla quaresima, da Pasqua sino a metà giugno, dalla seconda metà di giugno sino a settembre) fissa le pietanze suddivise fra antipasto, minestra, postpasto e cena serale, stabilendo nel contempo anche la relativa quantità in rappor-to ad un determinato numero di commensali.

L’antipasto, previsto solo per tre volte alla settimana (domenica, mercoledì e venerdì), è costituito alternativamente da fegato (fritto o in guazzetto), trippa, lingua, stufato d’interiora, salsiccia, salsicciot-ti, «presutto», uova, maccheroni, torta di favetta, torta di «cocuzza», piedi (di agnello o di vitello), carne (tritata o «fredda» o a guazzet-to), telline, frutta di stagione (prugne o meloni o fichi), latte.

La minestra, servita ogni giorno, configura la seguente lista di piatti che si avvicendano a tavola nell’arco delle settimane a base so-prattutto di verdure cotte, lesse e condite con olio o in altro modo: «herbe con olio», «brodetto di herbette», cavoli, boragine, finocchi, cicorie, lattughe, bietole «con cucuzza, butirro et ova o con man-dole», «agresta con fette di pane»; non mancano però altre pietan-ze di pasta come i tagliolini o i vermicelli al «cascio», il riso, e i le-gumi (piselli).

Il postpasto è caratterizzato generalmente da porzioni di «cascio con mele o pere o uva», cacio fresco, stagionato, ricotta, frittata d’uo-va, pesce «scarsa» e frutta.

La cena, infine, è composta da due portate, di cui una quasi sem-pre a base di verdure, come si evidenzia scorrendo l’elenco del calen-dario: finocchi lessi e «cascio duro», invidia e arrosto, insalata e pol-pette di carne; zuppa «franzese» o pancotto lesso e castagne al forno, insalata e frittata d’uova, carciofi e arrosto di carne, stufato di carne e frutta, «minestra d’agresta, cascio e frutti».

Ad integrazione e a margine dei menù settimanali, questo regola-mento detta poi ulteriori disposizioni, sia in ordine alle porzioni che alle modalità del condimento di alcune ricette. Si stabilisce così la

(14) Cfr. D. Gentilcore, The Levitico, cit. a nota 3, pp. 110-117.

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quantità (15) delle alici sotto sale: due o tre a testa; delle aringhe: una intera ogni due commensali; del tarantello: circa 70 gr.; dei macchero-ni (conditi con formaggio o burro): 60gr.; dei legumi freschi (fagioli, piselli e fave):100 gr.; della carne (polpettone): 110 gr.; del prosciutto cotto: 110 gr.; della ricotta (con le mele): 80 gr.; del pesce (secondo la qualità): da 100 a 150 gr.; uova: due pro capite. E ancora, fra l’altro, si prescrive che per confezionare 30 porzioni di «ravioli di carneva-le» occorrono poco più di 2 kg di ricotta fresca, 15 uova, 150 gr. di burro («butirro») e 650 gr. di «cascio»; per le frittelle «di Quaresi-ma»: 330 gr. di uva passa, 700 gr. fra olio e mosto cotto; per la mi-nestra di zucca: 9 uova, 120 gr. di formaggio e di burro; per la torta di «herbe»: poco meno di 1 kg di ricotta «overo latte colato di bo-cale» e 330 gr. di mele grattugiate; per la torta riso: 330 gr. di man-dorle e di mele; per i tortelli di ceci: 100 gr. di mandorle, 330 gr. di uva passa, 330 gr. di mele e circa mezzo kg di mosto cotto.

4. Ancora altre informazioni sulle caratteristiche del vitto osser-vato tra le fila gesuitiche provengono con riguardo al Seminario Ro-mano (16), nel periodo in cui esso era affidato ai Padri della Compa-gnia, intorno al 1586. Sono proprio gli Statuti compilati da Giacomo Lainez a ribadire, fra l’altro, la necessità di un vitto abbondante, con due ricreazioni giornaliere, ogn’una di un’ora, dopo pranzo e dopo cena, un giorno di riposo settimanale, oltre la domenica, da trascor-rersi «passeggiando o cantando o in qualche modesto giuoco e que-sto, se sarà possibile, in qualche vigna o orto, ricordandosi sempre della modestia o edificazione».

Più in dettaglio, però, in un’altra fonte (17) si fa esplicito riferimen-to anche alle pietanze da assumersi nella scansione dei pasti e delle cene. Così, per esempio, nel mese di gennaio, la domenica si mangia-no «corate» (antipasti), «brodetto» o «mostarda» (minestre), «alesso, la sera arrosto di porco o altro» (carne), «cascio di sera, castagne» (postpasti), e sempre infine insalata; il lunedì: «salsiccia» (antipasti), «riso» (minestre), «alesso mattina e sera» (carne), «ricotta» la sera;

(15) Anche in questo caso, per uniformità di lettura, l’unità di peso utilizzata nel testo originale (libbra) è stata trasformata in chilogrammi; cfr. nota 12.

(16) Cfr. S. martinoli santini, S. Ignazio, cit. a nota 3, pp. 222-223.(17) Cfr. Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 5524, cc. 69-81.

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il martedì: «salsiccia, vermicelli, alesso la sera stufato, cascio, insala-ta»; il mercoledì: «salsiccia, cavoli, agliata e mostarda, alesso la sera, cascio, mela o castagna»; il giovedì: «fegatelli, corate, farro, alesso la sera o arrosto, ricotta la sera, mela, insalata»; il venerdì: «ricotta o al-tra cosa, herbe, occhi di bue la sera uova in scorza, fichi la sera, ca-stagne, insalata»; il sabato: «alici, legumi, stufato la sera, ricotta e la sera mela, insalata».

Tuttavia le suddette indicazioni non sono da applicarsi con estre-ma rigidità e, infatti, sempre con riguardo al mese di gennaio, si ag-giunge che «le suddette cose si potranno variare secondo le moda-lità delle robbe che si trovano in detto mese, come nelli antipasti si potria dare alcune volte salsicciotti, nelle minestre pangrattato o al-tra cosa, la carne con dare alcune volte le polpette, li postpasti con olive, pane grosso quando ce ne sarà, o altra cosa supplemento delli postpasti, la torta del sabbato si suol dare solo due volte il mese».

In alcune particolari ricorrenze le variazioni erano sicuramente consentite per migliorare il menù, come nel caso del carnevale:Il giovedì grasso la mattina due antipasti, uno di corate, l’altro di capretti, il postpa-sto doppio et la sera torta. La Domenica di carnevale la matina due antipasti l’uno d’interiori delle galline, l’altro delle istesse galline o arrosto o coperti con macca-roni, per postpasto doppio la torta. Lunedì mattina due antipasti, l’uno di corate, l’altro di capretti arrosto, et postpasto doppio, la sera torta. Martedì grasso, la ma-tina e la sera come la Domenica soletta, et si alcuno delli sodetti giorni non vi fos-se antipasti di corate, si suol dare salsicce o altra cosa. La sera delli soddetti gior-ni si dà antipasto cioè domenica, lunedì e martedì.

Altri giorni particolari erano quelli della Candelora, dei Ss. Pie-tro e Paolo, il primo agosto, il giorno di s. Luca e di Tutti i Santi, di s. Martino e naturalmente le feste di Pasqua e Natale. Per la conclu-sione del periodo quaresimale è previsto:La matina ovo benedetto, antipasti due, cioè uno di capretto o vitello mongana, l’altro di corate ordinario; la minestra brodetto et la carne alessa et il postpasto carcioffoli o cascio; la sera arrosto, torta di altro postpasto. La seconda festa due antipasti, l’uno di salsicciotti, l’altro di corate ordinario, minestra di farro, cascio, la sera carne alessa, torta et postpasto; la terza festa la matina due antipasti, mine-stra cocolle, carne alessa, la sera arosto et postpasto.

Per Natale:La vigilia per la collazione della sera si piglia robbe dalla spezieria, cioè libbre 28 di corsaletti, libbre 20 di copeta, libbre 70 di nocchiata, libbre 16 di confetti bian-

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chi; la sera si da solo copeta et gli confetti et nocchiata, con una ciambella, et la matina di natale si dà gli corsaletti con gli altri antipasti. Il giorno di Natale la ma-tina due antipasti, l’uno di galline o capretti, l’altro dell’interiori delle galline o ca-pretti sodetti, postpasto la sera torta; nel secondo et terzo giorno due antipasti et la sera del terzo giorno la torta.

5. Il quadro sui consumi alimentari della Compagnia si definisce e si completa con un cenno finale al secolo XIX, sfogliando, a titolo esemplificativo, le pagine di un registro cibario compilato nel 1824 dallo «spenditore» della Casa Professa (18), dove sono annotati i gene-ri alimentari acquistati quotidianamente nel corso dell’anno che – in-tegrati da quelli della dispensa – contribuiscono a delineare i menù giornalieri. L’analisi dei prodotti di giornata, con le indicazioni rela-tive alla quantità e al prezzo di vendita, ci rende conto, seppur con una certa approssimazione, del regime alimentare osservato da questa comunità. Qualche sondaggio settimanale, magari diversificato secon-do i cicli stagionali, appare in proposito abbastanza indicativo.

Cominciando da gennaio, a partire dal giovedì, primo giorno del mese, si dispiegano i seguenti schemi che sono evidentemente distri-buiti tra pranzo e cena: carne di vaccina e di maiale, galline, salsiccia di cervella e fegato; venerdì: carne di vaccina e di vitello, merluzzi, baccalà, alici, verdura e pollanche; sabato: carne di vaccina, corate, merluzzi, uova, baccalà e verdura; domenica: carne di vaccina e di maiale, pollanche, abbacchio, mele e verdura; lunedì: carne di vacci-na, abbacchio, cervella, pollanche, caciotte e butirro; martedì: carne di vaccina e di vitello, pollanche, ricotta e verdura; mercoledì: carne di vaccina, testa di maiale, pollanche, uova, ricotta e cacio.

In aprile, dal 5 all’11, nel corso della settimana, dal lunedì, la mensa è così caratterizzata: carne di vaccina e vitello, pollanche, ce-fali, piccioni e latte; martedì: carne di vaccina e vitello, baccalà, pol-lanche, caciotta e verdura; mercoledì: carne di vaccina, capretto, sar-delle, alici e verdura; giovedì: carne di vaccina, abbacchio, galline, uova e ricotta; venerdì: carne di vaccina e di vitello, pollanche, bac-calà, cefali e verdura; sabato: carne di vaccina e di vitello, pollanche, sarde, lucci e alici; domenica: carne di vaccina e di vitello, piccioni, verdura e latte.

Dal 14 al 20 giugno le portate comprendono, di lunedì: carne di

(18) Cfr. ARSI, Casa Professa, ms. 1139.

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ANGELO D’AMBROSIO224

vaccina e di agnello, uova, parmigiano e verdura; martedì: carne di vaccina, fegato, pollanche, piselli freschi, verdura e ciliegie; merco-ledì: carne di vaccina e di manzo, piccioni, piselli freschi e ciliegie; giovedì: carne di vaccina e di vitello, agnello, parmigiano, verdura e ciliegie; venerdì: carne di vaccina e di vitello, pesce palombo e ver-dura; sabato: carne di vaccina e di vitello, baccalà, tonno e pollan-che; domenica: carne di vaccina e di vitello, salsiccia di cervella, ver-dura e latte.

Spostandoci ad ottobre, fra il 4 e il 10, gli acquisti procedono in tal modo. Lunedì: carne di vaccina, cervella, pollastri, verdura e frut-ta; martedì: carne di vaccina, fegato, pollanche, piccioni, parmigia-no e frutta; mercoledì: carne di vaccina, pollanche, merluzzi, verdu-ra e pere; giovedì: carne di vaccina, pollanche, cervella, uova e pere; venerdì: carne di vaccina e di vitello, pollanche, pesce «squatrolino» e frutta; sabato: carne di vaccina, prosciutto, parmigiano pesce «ma-narelli» e frutta; domenica: carne di vaccina, vitello, pollanche, dol-ci e frutta.

Infine dicembre, dal 21 al 27. Martedì: lepri, caciotte, mortadella, «cecifranti», galline e farinella; mercoledì: carni varie (vaccina, maia-le, manzo), galline, uova, verdura e pere; giovedì: carni di vaccina e vitello, abbacchio, galline, cervella e caciotte; venerdì: carni di vacci-na, «corate», cefali, merluzzi, alici, uova e latte; sabato (Natale): car-ni vaccina e maiale, galline, cervella, parmigiano, verdura e torrone; domenica: carne di vaccina, galline, capponi, abbacchio, salami, pe-sce, pasta e semola; lunedì: carni di vaccina e maiale, galline, piccio-ni, cappellini, semola, verdura e burro.

Non sappiamo con precisione quanti sono i commensali a tavo-la ma, più o meno, dalle quantità degli alimenti acquistati si possono ipotizzare dalle 30 alle 40 unità. Complessivamente, per la spesa quo-tidiana, nel corso dell’intero anno si registra un esborso di 4.141 scu-di, con le due punte mensili estreme che si collocano rispettivamente a novembre con 228,16 scudi e a febbraio con 433,45 scudi.

I menù appaiono sostanziosi e vari, sebbene la carne di vaccina costituisca una costante quasi quotidiana, unitamente ad altri tagli che risentono evidentemente anche della tradizione culinaria romana (come l’«abbacchio», le «corate», la «cervella», ecc.); settimanalmen-te non manca mai il pesce, come pure i formaggi e le verdure, men-tre l’assenza delle voci relative ai legumi e ai condimenti è da porsi in relazione al fatto che questi sicuramente sono prelevati all’occorren-

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCI 225

za dalle scorte di dispensa; così, per la frutta, non sempre menziona-ta, e per altri generi è ipotizzabile che il relativo approvvigionamen-to fosse garantito a volte direttamente anche dalle tenute agricole di proprietà. Qualche perplessità suscita invece il costante richiamo alla carne anche di venerdì, giorno generalmente deputato all’astensione e a una mensa di «magro»: non è da escludersi, però, che le quanti-tà acquistate in tal giorno fossero destinate solo ai religiosi infermi, per i quali vigeva la dispensa del superiore.

6. In conclusione, riannodando le fila dei dati sin qui esposti, possiamo ritenere che il regime alimentare osservato fra i gesuiti ro-mani, si basa – come da tradizione italiana – oltre che sulla colazio-ne mattutina, anche su due pasti quotidiani, con il pranzo di mezzo-giorno costituito ordinariamente da due/tre piatti (antipasto, minestra e postpasto) e la cena allestita con due portate, mentre nelle ricor-renze festive, o in presenza di ospiti di una certa rilevanza, la mensa si arricchisce di ulteriori piatti e contorni vari; quanto alle astinen-ze, come per quasi tutti gli ambienti comunitari religiosi, vige la pre-scrizione di mangiar di magro il venerdì, in alcune vigilie e duran-te la quaresima.

La spesa quotidiana è legata in gran parte ai mercati locali e alla stagionalità dei prodotti; quella di dispensa e da conservazione (legu-mi, olio, pesce salato, ecc), attinge, invece, anche da fiere e da for-nitori all’ingrosso.

I piatti che ne derivano rispecchiano evidentemente le caratteri-stiche della cucina del territorio, risultano sufficienti nella quantità delle porzioni stabilite dai regolamenti, appaiono variamente abbina-ti, appetibili, ben distribuiti nell’arco delle settimane e, con riguar-do soprattutto alla fine del XVI secolo, risentono degli influssi e dei gusti di una certa gastronomia d’elite.

L’accurata organizzazione della mensa, le adeguate attrezzature di cucina, l’approvvigionamento giornaliero delle derrate primarie, il rispetto delle norme igieniche, la puntualità dei pasti e dei tempi di cottura, rappresentano in sintesi i capisaldi del sistema alimentare gesuitico che rimane, ad ogni modo, aperto agli eventuali accomo-damenti in progress per assecondare le particolari esigenze di ciascu-na singola comunità.

Non a caso, a considerare le spese sostenute per l’intero compar-to della mensa, la linea di tendenza si attesta sui medesimi termini

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ANGELO D’AMBROSIO226

percentuali di altre similari comunità religiose, dove appunto la voce del bilancio alimentare costituisce un’uscita molto importante, desti-nata ad assorbire quasi sempre dal 40% al 60% circa dell’intero bud-get disponibile (tranne eccezioni determinate da specifiche situazioni economiche e carismatiche). Per fare solo qualche raffronto, i dome-nicani del convento di S. Domenico Maggiore a Napoli nel corso del sec. XVII spendono per il loro vitto il 54,7% del totale delle uscite, quelli di S. Maria della Porta a Salerno il 63,2%, quelli di S. Gio-vanni al Palco di San Severino il 45,2%; ed ancora, passando in Pu-glia ad un altro ordine religioso nel corso del ’700, i francescani del convento di S. Matteo di San Marco in Lamis impiegano il 47%, i frati riformati di Francavilla Fontana il 65%, quelli di S. Maria degli Angioli in San Bartolomeo in Galdo il 55% (19).

Nel complesso l’entità delle risorse finanziarie che più o meno tutte le comunità regolari impiegano per soddisfare le esigenze della mensa, esprimono potenzialità d’acquisto superiori a quelle di altri gruppi sociali. Le comparazioni possibili, sia sul piano quantitativo che su quello qualitativo, collocano le cucine delle residenze religio-se su tenori dietetici medio-alti, caratterizzati, come abbiamo visto, da pietanze ben variegate, apprezzabili per gusto e modalità di pre-parazione.

La divaricazione con le fasce sociali più deboli appare perciò evi-dente, considerando che, com’è noto, in molte regioni dell’Italia mo-derna, larghi strati della popolazione vivono ogni giorno con difficol-tà il problema della fame (20), tanto da far pensare al vitto quotidiano come ad una conquista stentata e faticosa che si carica di incognite pesanti e comunque molto meno rassicuranti rispetto alla tipologia dei piatti alternati sulle tavole dei refettori degli ordini regolari.

Del resto, a ben valutare, anche durante i giorni di astinenza e digiuno, il vitto quaresimale osservato da molte comunità religiose a

(19) I dati e le fonti relative sono in A. d’ambrosio - m. spedicato, Cibo e clausura, cit. a nota 1, pp. 209-213.

(20) Sono ben note le questioni sul tappeto che si acuiscono soprattutto in concomitan-za con carestie e recessioni: cfr. P. camporesi, Il paese della fame, Bologna 1985 e M. mon-tanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Bari 1977. Con riguardo alla situazione romana: J. reVel, Les privilèges d’une capitale: l’approvisionnement de Rome à l’époque moderne, in «Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Age, Temps moder-nes», 87,2 (1975), pp. 461-493.

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCI 227

base di pesce, non è affatto da disprezzare (21) ed è evidente, inoltre, che le norme alimentari, pur raccomandando in genere una certa au-sterità, dispiegano nel contempo la preoccupazione di evitare deleterie ed eccessive restrizioni e di assicurare, invece, un equilibrio psicofisi-co che anche a tavola trova una determinante fonte di garanzia.

APPENDICE

Biblioteca Nazionale Centrale, Roma, Fondo Gesuiti, mss. 41.9.C/32: Regulae com-munes, Romae, in Collegio Societatis Iesu, 1567

«Regole del Dispensiero

1. Nelle cose che si hanno à dispensare, seguiti l’ordine del Superiore. E, ben-ché per ordinario si deve trattare tutti ugualmente, haverà nondimeno riguar-do à gli infermi, secondo che gli sarà ordinato.

2. Il vino che si deve mettere in tavola l’adacquerà quanto e quando parrà al Su-periore.

3. Le cose che avanzano in tavola le conserverà diligentemente, ricordandosi del-la povertà, acciò possino servire per uso dei poveri, si di casa, come di fuori, secondo l’ordine del Superiore.

4. Habbia cura di conservare le cose necessarie al vitto che gli saranno date in governo e le tenga serrate, avvertendo che non si guastino. E se vi fosse pe-ricolo di guastarsi, avvisi il Superiore; e per meglio far questo, visiti spesso la dispensa e gli altri luoghi ove tali cose si ripongono.

5. Tenga netta la dispensa e l’altre cose che sono in quella. 6. Avanti che totalmente vengono a finire i cibi i quali si serbano in casa, avvisi

il Superiore, acciò per tempo se ne possano comprare de gl’altri. 7. Nella cantina procuri che ci acconcino le botti, si lavino quando bisogna met-

tervi dentro il vino nuovo, del che quando si avvicina il tempo avviserà il Su-periore.

Regole dello Spenditore

1. Sia diligente in comprare quelle cose le quali al parere del Superiore s’hanno a portar a casa per servirsene alla giornata e le dia per tempo al dispensiero. Compri cose buone et a miglior mercato che potrà, ancorché bisognasse pro-cacciarle di più lontano.

(21) Cfr. P. Zacchia, Il vitto quaresimale, Roma 1636.

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ANGELO D’AMBROSIO228

2. Noti la somma dei danari che riceverà di giorno in giorno dal Procuratore e le cose nelle quali gli spenderà, et ogni giorno gli renda conto dello speso et avuto; e s’informi dal Ministro di quanto havrà da comprare il giorno seguen-te.

3. Procuri quanto potrà di edificare con la discrezione e modestia a quegli con quali tratterà e quanto comporta l’uffitio sino aiutarli in spirito con parole re-ligiose.

Regole del Cuoco

1. In tutte le cose dell’Uffitio suo habbia cura della nettezza e la medesima cura farà che habbiano gli altri, e attenda ad apparecchiare bene e a tempo tutte le cose, specialmente quelle che appartengono a gl’infermi.

2. Non maneggi con le mani la carne, il pesce e l’altre cose che s’hanno a por-tare in tavola quando le taglia e distribuisce, ma adopri una forchetta, ovvero il coltello.

3. Per una mezz’hora ò almeno un quarto prima che s’habbia d’andare a tavola debbono essere tutti i cibi apparecchiati.

4. Intorno alla qualità e quantità delle porzioni, seguirà l’ordine datogli dal Su-periore.

5. Non permetterà che alcuno, fuor dell’infermiere, cuocia ò apparecchi cosa al-cuna per alcun particolare, ne ciò farà egli stesso senza licenza del Superio-re.

6. Habbia segnate in un libro le cose che tiene in cucina, delle quali egli deve aver cura.

7. Habbi gran cura che non s’abbrucino più legne che non bisogna, e la mede-sima cura habbia nell’altre cose che consuma, acciò non se ne spenda più del necessario, come conviene alla povertà religiosa.

8. Le cose avanzate in tavola e che a lui si danno, le conserverà, ricordandosi della povertà, acciò se ne possa poi servire per uso dè poveri, si di casa, come forestieri, secondo l’ordine del Superiore.

9. Havendo alcuno che l’aiuti, procuri d’edificarlo con parole e con l’esempio suo, specialmente novitii.

Regole del Prefetto del Refettorio

1. Habbia cura che il Refettorio e tutte le cose che in esso si adoprano siano net-te quanto si può.

2. Avvertischi che non manchi acqua per lavare le mani, né asciugatoi per asciu-garle, i quali si muteranno almeno due volte alla settimana, e siano distinti quei dè Sacerdoti da quei de gl’altri.

3. Le tovaglie si mutino almeno una volta la settimana, ma le salviette, metten-dosi ad ognuno la sua, due volte; e pigli e restituisca tutti li panni à conto.

4. veda che non manchino i vasi e l’altre cose necessarie per il refettorio, e sia ogni cosa molto netta e farà arrotare i coltelli.

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCI 229

5. Tenga preparata la tavola piccola. 6. Darà segno con la campana à i suoi tempi per venire à tavola, tanto alla pri-

ma, quanto alla seconda; ma innanzi al primo tocco, il quale deve essere per un quarto d’hora avanti del secondo, intenda dal cuoco se ogni cosa è prepa-rata.

7. Le tavole con l’altre cose necessarie debbono essere preparate quando si darà il primo tocco, ma l’acqua e il vino si metterà intorno al secondo e i boccali del vino e dell’acqua si mettino sopra dè tondi.

8. Sia un luogo assegnato a quelli che stanno sotto la cura dell’infermiero, à i qua-li non darà cosa alcuna se non quello che da lui gli sarà ordinato. Li Sacerdo-ti nondimeno haveranno un luogo distinto da gli altri. E tratti tutti ugualmen-te se altro per qualche necessità non gli fusse dal Superiore ordinato, senza la cui volontà ancora non darà corretione.

9. Avanti che alcuno si levi da tavola, si mettono alcuni tondi in tavola, acciò ogn’uno netti il suo luogo, e subito che havrà ogni cosa in ordine per la se-conda, darà segno con la campana e provvegga che non manchino quei che hanno à servire.

10. Raccoglierà quello che avanza in tavola e lo darà a colui che ha l’uffitio di con-servarlo, o sia il Cuoco, o sia il Dispensiero.

11. Siano scritti in una tavoletta i nomi di quelli che mangiano in casa tanto in Refettorio, quanto fuori, e segnerà quei che haveranno mangiato, acciò possa sapere quei che restano e ne avvisi il cuoco che fa le porzioni.

12. Finite le tavole, piegherà le tovaglie e scoperà il refettorio e se alcuno mentre mangia romperà il silenzio o farà qualche cosa poco modesta, avviserà il Su-periore.

13. Il sabato sera dimanderà il Ministro chi deve la settimana seguente servire e chi leggere, si alla prima, come alla seconda tavola, e gli avviserà.

14. Habbia il catalogo di tutte le cose che servono per il refettorio, acciò quando si glie ne chiederà conto l’habbia in ordine, e le serbi in un luogo a ciò depu-tato.

15. Sonerà con due segni distinti il fine della ricreatione, la quale deve durare un’hora dopo la prima tavola e un’altra dopo la seconda, tanto dopo desina-re, quanto dopo cena.

Avvisi per il Sottoministro

Habbi cura che il vino quanto meno avanti si può, si cavi, et si dia in tavola se-condo exvuole il superiore; non si magni il pane del istesso giorno per quanto si possa, ma del passato.Haverà cura di esserci l’ordine della cucina, et avisare quando non si potesse.Procuri che li officiali habbino le cose a tempo, et che non spendino troppo legne o specie o altro secondo l’ordine.Avendo paura che si guasti, avvisi.Facci mangiare li officiali avanti, nel giorno di digiuno vada al superiore per la di-spensa dalli cibi.

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ANGELO D’AMBROSIO230

Quando il ministro mangia attenda al refettorio et veda che la 2ª sia apparecchia-ta doppo la prima.Quello che avanza in tavola o si conservi o si dia alli poveri.Passate le tavole procuri che li officiali stiano con li altri alla ricreatione. Nel girare potrà fare et far fare un poco d’oratione o exame per quello che si è mancato.Doppo veda la sera lo medesimo che la mattina et ogni sera che non manchi lo necessario: pane, acqua, come si habbi l’ova delle galline et orto.Ricordi al superiore la provisione per tutto l’anno et alcuni giorni avanti et secon-do alcuna cosa, et nel giorno del mercato per spendersi più facilmente.Tempo della provvisione:Giugno: fieno;Agosto: lenticchie, ceci, farro, grasso, biada;Settembre: castagne, passe, peri, meli;Ottobre: amandole, tonnina, alici, farinella, riso, farro, vermicelli, vino, fichi, noci, nocetti, olive, olio, cocuzze, cipolle.Habbi cura che li vasi stagni rame si tengano netti et che li luochi dove si magna, le immondizie si nettono spesso et così tutto l’altro procuri la sera avanti.Ordine di pasti pel cuoco. Per cento.Castrato alesso, libbre 90;Vaccina, libbre 30;Arosto, libbre 58;Farro per minestra, libbre 6;Riso, similmente, libbre 7;Similmente di farinella et vermicelli;Brodetto con ova, ova 100;Brodetto per la sera d’inverno, ova 17; d’estate 20;Nell’antipasto di carne, ova 12;Pesci: alesso: palombo, orata, libbra una per quattro; fritto: grosso, cinque once, piccolo, tre;Tonnina per antipasto, libbre 10;In frittata per cento, senza altra cosa, ova para 90; aggiuntovi un poco di riso et pan grattato o latte, ova para 65; in torta di cocuzze o d’erbe, ova 50 insieme con latte o ricotta; senza, ova 80; torta in acqua, libbre 3 di cacio e ova 70:Per minestra d’amandole, libbre 4 di amandole; per ammalati quattro amandole per minestra;Cacio secco, per una volta, libbre 7;Fogliette 12 di latte in torte di cocuzze di ricotta; 10 nel pan grattato, libbre 2 di butirro;In minestra di legumi d’olio una foglietta e mezzo, cocuzze di herba due fogliet-te, di cauli 3 fogliette;Antipasti potranno essere: frutti quando è tempo, come melloni, fichi, cerase, prima ricotta, melangoli dolci, salami o sopressate, lasagne, capretto o vitello o polli arro-sti o in guazzetto, piedi, animelle, fegatelli colli cervella, fegato o trippa.Minestre: brodetto con surbe essenza, farro, farinella, piselli, alesso con sapore mo-starda; vitella, pollo, vaccina, carne salata, lingua; doppo pasticci.

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IL CIBO FRA REGOLE E BILANCI 231

Postpasti: torta, cascio buono, fructi, pomi o altro secondo il tempo, carcioffole et altro.Quando vengono forestieri persone d’importanza a magnare, si metta in ordine tut-ta la casa et l’altri luochi come la chiesa, cortili, horto, cappelle; si adorni il refet-torio con immagini et fondi e poi con caraffe et bicchieri et piatti tondi».

anGelo d’ambrosio

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Il ruolo dell’Impero e deglI StatI tedeSchI nella

roma barocca (*)

Il barocco a roma si inclina al tramonto quando, viceversa, comin- cia a fiorire a Vienna. Il gran secolo del barocco romano è il se-colo più buio nella storia moderna dell’Impero, povero anche di arte.

Il “teatro del mondo” nel Seicento è anche teatro del contenzioso franco-spagnolo, con baruffe nelle strade e prepotenti manifestazioni di potere, mentre l’Impero è quasi assente dalla scena. nel 1690 il ministro bavarese alla corte pontificia annota: «ci vorrà molto tem-po per ristabilire qui la reputazione dell’Imperatore. non se ne par-la qui a roma, se non nella liturgia del Venerdì Santo».

(*) Questo testo è stato elaborato in occasione della mostra Roma Barocca del 2006. Si rimanda complessivamente alla seguente bibliografia: F. Noack, Das Deutschtum in Rom seit dem Ausgang des Mittelalters, 2 voll., Stuttgart 1927; g. kNopp - W. HaNsmaNN, S. Ma-ria dell’Anima: die deutsche Nationalkirche in Rom, mönchengladbach 1979; J. Garms, Les activités artistiques des confraternités germaniques, in Les fondations nationales dans la Rome pontificale, atti del convegno, roma 1978, collection de l’École française de rome, 52, rome 1981, pp. 47-60; e. Garms-corNides, Scene e attori della rappresentazione imperiale a Roma nell’ultimo Seicento, in La Corte di Roma tra Cinque e Seicento: “teatro” della politica euro-pea, a cura di g. Signorotto e m. a. Visceglia, roma 1998, pp. 509-533; I. Fosi, Roma e gli “ultramontani ”: conversioni, viaggi e identità, in «Quellen und Forschungen aus italienischen archiven und bibliotheken», 81 (2001), pp. 351-396; S. Maria dell’Anima: zur Geschichte einer “deutschen Stiftung” in Rom, a cura di m. matheus, bibliothek des deutschen historischen Instituts in rom, 121, berlin-new York 2010; t. maNFredi, Architettura della gloria – architet-tura della memoria: la committenza asburgico-praghese per la festa di canonizzazione di Giovanni Nepomuceno e l’eredità del progetto di Borromini per la facciata di San Giovanni in Laterano, in «römische historische mitteilungen», 43 (2001), pp. 561-586. per il camposanto teutonico: Der Campo Santo Teutonico in Rom, a cura di e. gatz, in «römische Quartalschrift für christ-liche altertumskunde und Kirchengeschichte», 43, Supplementheft, vol. 1, rom-Freiburg-Wien 1988; a. WeilaNd, Der Campo Santo Teutonico in Rom und seine Grabdenkmäler, vol. 2, rom 1988; a. TöNNesmaNN - u. V. FiscHer pace, Santa Maria della Pietà. Die Kirche des Campo Santo Teutonico in Rom, rom-Freiburg-Wien 1988. le figure del presente contributo vanno da tav. lII a tav. lV e non sono indicati i rimandi precisi nel testo.

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Il ruolo dell’Impero e deglI StatI tedeSchI nella roma barocca 233

l’Impero come istituzione politica è troppo debole per farsi sen-tire e solo l’ascesa dell’austria dopo l’assedio di Vienna del 1683 e la successiva cacciata degli ottomani gli restituirà qualche forza e lu-stro. anche i singoli Stati tedeschi dopo le devastazioni della guer-ra dei trent’anni (1618-48) solo lentamente si riprendono, disturba-ti per di più dalle incursioni di luigi XIV. nel corso del Seicento i pae si bassi settentrionali e la Svizzera cessano di far parte dell’Im-pero; i vari vescovati e abbazie con rango principesco non hanno il peso politico ed economico per autorappresentarsi fuori dei propri confini; tra gli Stati rimasti fedeli alla chiesa di roma, soltanto ba-viera e austria possono contare nel nostro contesto.

ma già nel cinquecento l’imperatore non poteva disporre di una chiesa di patronato effettivo, a differenza del re di Francia (con San luigi e la trinità dei monti) e del re di Spagna (con San giacomo e San pietro in montorio). non c’era un palazzo di ambasciata né un ambasciatore residente nell’urbe e nemmeno un proprio cardina-le in curia.

le tre chiese “tedesche” – Santa maria dell’anima, Santa maria della pietà in campo Santo e Santa elisabetta dei Fornai – apparte-nevano alle rispettive confraternite, cioè agli esponenti anche non te-deschi delle varie parti dell’Impero residenti in città: soprattutto arti-giani, curiali e qualche mercante. Solo nel 1699 l’ambasciatore conte martinitz con un’irruzione militare convertirà Santa maria dell’ani-ma in chiesa “imperiale”.

In conformità con tale stato di debolezza e di generale povertà, quasi inesistenti sono a roma gli interventi artistici dell’Impero al di fuori delle chiese nazionali.

nel 1590-93 il cardinale alberto d’austria fa restaurare e rideco-rare la cappella di Santelena in S. croce in gerusalemme; ma l’arci-duca, arcivescovo di toledo e governatore dei paesi bassi è da con-siderarsi piuttosto nella sequenza dei titolari spagnoli della basilica (come sottolinea anche la committenza a rubens delle tre pale d’al-tare sotto il suo successore).

nel 1629-30 l’imperatore Ferdinando II – al culmine del suo po-tere e cosciente dei suoi meriti nei confronti della chiesa, conseguiti con la riconquista della boemia e l’editto della restituzione – si of-fre di donare l’altare di Sant’Ignazio nella chiesa del gesù e una cap-pella dedicata al neo-beato Felice di cantalice in Santa maria della concezione. tutte e due le iniziative del monarca, fedelissimo fauto-

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re della compagnia e dei cappuccini, vengono peraltro respinte da urbano VIII, filofrancese e nepotista.

bisogna aspettare cent’anni per un’altra manifestazione di rappre-sentazione religiosa, questa volta effettiva e spettacolare: la ricchissi-ma facciata posticcia a San giovanni in laterano per la canonizza-zione di giovanni nepomuceno ad opera di Ferdinand reiff. Il culto era fortemente voluto da carlo VI, che segretamente contribuì anche per il processo e i festeggiamenti, ufficialmente a carico del capito-lo di praga e dei paesi della corona boema. promotore del processo era stato il cardinale michael Friedrich von althan, viceré di napo-li e prima uditore di rota, che nel 1731 fa erigere la statua del San-to a ponte milvio, tuttora esistente, opera di cornacchini, reduce da una lunga attività nei paesi germanici.

la presenza dell’Impero si fa sentire piuttosto indirettamente nel-le celebrazioni e rappresentazioni delle due grandi vittorie imperia-li al servizio della causa cattolica: la battaglia alla montagna bianca fuori praga nel 1620, con la successiva cacciata degli eretici, e la di-fesa di Vienna contro i turchi nel 1683, con la succesiva riconquista di parte dei paesi balcanici.

massimiliano I, duca di baviera, aveva chiesto al papa di delegare all’esercito cattolico in boemia come sostegno spirituale il carmelitano domenico di gesù e maria, il quale svolse un ruolo davvero decisi-vo nella grande battaglia. al suo ritorno, il quadretto della Madonna di Praga, che come talismano aveva portato al collo, nel 1622 viene trasferito con grande solennità nella chiesa carmelitana di S. pao lo, recentemente ricostruita, e vi si appendono altresì 45 drappelli degli sconfitti. la chiesa, che prese poi il nome di Santa maria della Vitto-ria (vi si celebravano anche le vittorie di lepanto e di Vienna), con-servava in un ambiente secondario sei tele della battaglia della mon-tagna bianca, una di Sebastiano conca con il duca massimiliano che nella battaglia offre il suo cavallo a padre domenico (sfortunatamen-te non si conosce il committente di questa versione bavarese della ti-pologia della Pietas austriaca).

altre “sedimentazioni” indirette degli avvenimenti boemi sono due dipinti.

Il primo, di pietro da cortona databile al 1625 circa, alla galleria harrach a rohrau, celebra un rampollo della famiglia, ernst adalbert, nel 1620 studente al collegio germanico e due anni dopo arcivescovo di praga: la legatio oboedentiae del 9 maggio 1620, in occasione della

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quale il giovane harrach (raffigurato nel quadro dietro l’ambasciatore cesareo paolo Savelli) pronuncia nella Sala regia l’orazione davanti a urbano VIII. la cerimonia è anteriore alla battaglia, ma l’importan-za storica attribuita a quell’anno e le conseguenze per la carriera del prelato sono certamente ragioni per la commissione del quadro (da arcivescovo di praga e cardinale titolare di San lorenzo in lucina, anticipando di molto la beatificazione di giovanni nepomuceno dona alla chiesa una tela che lo raffigura davanti a re Venceslao).

Il secondo dipinto, di angelo caroselli, in un altare del transet-to destro di San pietro (oggi in mosaico) presenta San Venceslao, in conformità al desiderio del capitolo, ma contrariamente al voto del collegio cardinalizio (che avrebbe preferito San carlo borromeo): ri-prende soggetto e modello dell’affresco donato nel trecento da carlo IV e dall’arcivescovo di praga, andato distrutto nel 1606; la decisione è di urbano VIII, certamente sotto l’effetto degli avvenimenti boe mi (la battaglia del 1620 e nel 1627 la nuova costituzione che conferma il possesso ereditario alla casa d’austria).

anche la chiesa del Santissimo nome di maria si ricollega alla seconda vittoria. una libera associazione preesistente sotto tale tito-lo, dopo la liberazione di Vienna raggiunta nel nome di maria, gode di una rapida fortuna, diventando confraternita nel 1688 e arcicon-fraternita nel 1689; leopoldo I vi s’iscrive come sodale e conferisce il suo patrocinio, l’ambasciata prende parte alle processioni il gior-no della festa indetta da Innocenzo XI. divenuti troppo stretti i lo-cali a Santo Stefano del cacco, si trova una nuova sede nell’abban-donata San bernardo, della quale nel 1728 si decide la riedificazione con il titolo del Santissimo nome di maria. dell’iniziativa s’impa-dronisce il cardinale protettore pico della mirandola, imponendo il suo architetto derizet, attorno al quale si forma un gruppo di arti-sti di prevalenza francesi. del legame con l’Impero praticamente non resta traccia.

Innocenzo XI, filoimperiale, aveva sostenuto con forza le guerre contro i turchi e nel rilievo sul sarcofago della sua tomba in San pietro sussiste almeno un ricordo della battaglia sotto le mura di Vienna.

a partire da questo momento la partecipazione della germania al “teatro” di roma cambia di qualità, e lo si vede non soltanto con il costosissimo spettacolo della canonizzazione di San giovanni nepo-muceno nel 1729, ma già prima del 1715, quando soprattutto i prin-cipi tedeschi rispondono all’appello di “adottare” le colossali statue

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degli apostoli nella navata dell’omnium urbis et orbis ecclesiarum ma-ter et caput: i vescovi di paderborn e di Würzburg nonché il duca di baviera pagano ciascuno una statua da 5000, mentre i vescovi di Salisburgo e di breslavia, il gran maestro dell’ordine teutonico e il conte palatino investono somme consistenti per altre statue e l’arci-vescovo di magonza finanzia i dipinti ovati sopra le statue.

l’Imperatore invece investì – o fece investire in sua vece – in ma-nifestazioni di un altro ordine, spettacolari, di immediato rendimen-to politico e indirizzate a tutti gli strati sociali: nell’effimero. Sono poche le grandi occasioni, ma espresse con raro fasto. abbiamo già menzionato l’ultima, la canonizzazione del 1729, preceduta nella sua magnificenza da due entrate di ambasciatori laici: nel 1638 il duca di eggenberg e nel 1692 il principe di liechtenstein. la prima era una ambasciata straordinaria d’obbedienza, la seconda segnò l’inizio di una residenza durata cinque anni (e continuata con un’altra di cinque anni, del conte martinitz). per la prima disponiamo di una relazione stampata e dell’ammirata tesimonianza del gigli. nella «descrittio-ne della cavalcata» si legge tra l’altro: «sessanta muli con li cariaggi e coperte ricchissime, distribuiti in cinque ordini di mai più vedute portiere in numero di sessanta li cui muli, che portavano i cariaggi, erano tutti con tortoni, e ferri d’argento, e corde di seta, e altre d’oro fino […] quali prime dodici portiere erano di scarlatto rosso ricama-to di raso e di seta, con imprese, et armi di Sua eccellenza […] nel quarto luogo seguitavano altre dodici portiere di rilievo puro […]»; nella «grande cavalcata verso il palazzo apostolico» invece s’ammi-rò «la bella e non mai più vista carrozza fatta di raro intaglio, tutta dorata, e coperta di velluto nero […] tirata da sei bellissimi, e smi-surati cavalli con li suoi finimenti». alcune delle coperte dei muli si conservano nel castello eggenberg presso graz, la carrozza nel ca-stello di cesky Krumlov (Krumau). la memoria della non meno fa-stosa entrata del liechtenstein viene affidata a due stampe.

Se questi sono gli apici, la celebrazione di feste dinastiche – l’ele-zione e incoronazione dell’Imperatore, la morte e la nascita dell’ere-de – e altre vittorie si celebrano lungo tutto il secolo con addobbi di facciate, macchine pirotecniche e concerti nelle chiese; se ne occu-pano anche artisti come carlo rainaldi, ciro Ferri, lodovico gemi-gnani e soprattutto carlo Fontana. a un vero bombardamento di fe-ste si assiste il 1° febbraio 1637 per l’elezione di Ferdinando III “re dei romani”: a cura dell’ambasciatore di Spagna in piazza di Spa-

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gna, dell’ambasciatore imperiale in piazza navona, del protettore del-la germania in piazza dell’orologio, del collegio germanico, di San giacomo degli Spagnoli e di Santa maria dell’anima.

dopo il 1683 e nell’atmosfera concorrenziale della guerra di Suc-cessione spagnola, però, il ritmo aumenta e non si tralasciano neppu-re compleanni ed onomastici, e più spesso di prima oltre alla “rela-zione” a stampa si producono immagini incise. un peso particolare viene attribuito alla diffusione dell’effigie dell’Imperatore: dopo la vit-toria a Slankamen, nel 1691, viene portato in giro su un carro trion-fale; l’apice si raggiunge ai tempi della guerra di Successione, quando nel 1702 i ritratti in costume spagnolo di giuseppe I e del preten-dente carlo III sono esposti prima in S. maria dell’anima e – dopo un monito del papa – nel salone di palazzo caetani (ruspoli), affit-tato dall’ambasciatore, su un podio e sotto un baldacchino. dopo queste feste in piazza, a partire dall’incorporazione di Santa maria dell’anima, anche l’interno della chiesa diviene luogo di rappresen-tazione dinastica: si vedano l’apparato funebre per leopoldo I (car-lo Fontana, 1705) e quello per il figlio giuseppe I (1712, quasi una replica del precedente).

delle tre chiese “nazionali”, Santa maria dell’anima è sempre la più importante, dato che Santa maria della pietà in campo Santo si trovava dentro le mura vaticane e Santa elisabetta, già accanto a Sant’andrea della Valle, era assai modesta (parte dell’arredo attual-mente si trova nella chiesa del campo Santo). ma è piuttosto nelle cappelle e nei monumenti sepolcrali – depositari della vita comunitaria – che bisogna cercare il meglio della produzione artistica tedesca.

Sono tre le cappelle decorate in Santa maria dell’anima nella pri-ma metà del Seicento: le prime due, simmetriche a destra e a sinistra, vantano splendide tele d’altare di carlo Saraceni, il Miracolo di San Benno e il Transito di San Lamberto. la cappella di San benno, ve-scovo di meißen, è frutto del lascito testamentario del tirolese Johan-nes lambacher, agente dei Fugger in Spagna, quella di San lamber-to, vescovo di maastricht, della donazione del liegese lambert ursin du Vivier, protodatario pontificio e provvisore-reggente della chiesa (dopo vi si aggiungono affreschi di Jan miel con la vita del Santo). la cappella di Sant’anna, seconda a destra, risulta dalla donazione di un altro liegese, Jean Savenier, anch’egli protonotario e secretario apostolico, con una prima tela d’altare di theodor van loon (Istru-zione della Vergine, attualmente in sagrestia) e l’attuale Sant’Anna con

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la Vergine e il Bambino di giacinto gemignani (affreschi della vita della Santa di giovan Francesco grimaldi). dal 1635 al 1644 paolo maruscelli costruì la sagrestia, con una Assunzione della Vergine del romanelli nella volta e sei statue in stucco dei papi tedeschi. abbon-dano i monumenti sepolcrali, soprattutto di liegesi, che per un lungo periodo dominarono le sorti della confraternita: nelle cappelle lam-bert ursin († 1619) e suo nipote gilles († 1647), anch’esso datario e provvisore oltre che canonico di S. pietro e patriarca di gerusalem-me; Jean Savenier († 1638) e suo cugino Walther Waltheri du cha-steau († 1658), entrambi provvisori di Santa maria dell’anima, e il cardinale Jean gautier de Sluse († 1687).

numerosi altri piccoli monumenti sui pilastri caratterizzano l’inter-no della chiesa: basti menzionare quelli dell’olandese adrian Vryburch († 1628) e di Ferdinand van den eynde di anversa († 1630), opere qualificate dai famosi putti di duquesnoy; la memoria del celebre amburghese luca holstenius († 1661), eretta dal cardinale Francesco barberini; e quella del papa clemente II, donata dal conterraneo ve-scovo di bamberga nel 1613.

prima del 1700 un prelato di bamberga provvisore di Santa ma-ria dell’anima, georg meisel, si preparò il sepolcro, ma dopo una lite se ne andò erigendone un altro, assai fastoso, in Santa maria del campo Santo, che dotava inoltre di nuovo altare maggiore. nella me-desima chiesa si trova un altro putto di duquesnoy nel monumento del pittore anversese Jacobus de hase (†1634).

un ultimo capitolo si deve dedicare agli artisti, affluiti a roma in così gran numero, che ancor oggi riesce difficile valutare l’importanza del fenomeno. Si pensi, per esempio, che sui cinque pittori premia-ti ai concorsi dell’accademia di San luca fino al 1730 quattro siano poco conosciuti e il solo cosmas damian asam (1° premio di I clas-se, 1713) se ne stacchi come nome di gran rilievo. tutti arrivano per istruirsi e per ammirare le meraviglie dell’urbe, ma molti anche per lavorare (sebbene perlopiù per una clientela di stranieri come loro).

tra questi artisti spicca giovanni paolo tedesco, il tirolese Schor, divenuto sotto la guida e a fianco di bernini il grande decoratore della roma barocca. come pittore lavora sotto pietro da cortona alla galleria di alessandro VII nel palazzo del Quirinale (1656-57) e in diverse altre occasioni (dal 1656 anche nei palazzi Vaticani) sen-za grande distinzione (viene ammirata però la sua Arca di Noè); nel-la galleria colonna non solo affresca la volta, ma progetta probabil-

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mente gli stucchi e forse partecipa allo schema decorativo generale, poi ribaltato dal bernini; è autore di elementi decorativi della Cat-tedra in San pietro; disegna il “teatro” delle fontane del giardino di palazzo borghese e il portale sul giardino del palazzo del grillo. ar-rivato a roma intorno al 1640, nel 1654 entra nell’accademia di San luca. la sua fama si deve tuttavia a lavori oggi difficili da immagi-nare, perché raramente conservati, conosciuti alcuni da disegni e la maggior parte solo da fonti scritte. dispiega una rara versatilità e in-venzione – lodata anche dal bernini – in un campo che comprende, per esempio, il carro carnevalesco del principe borghese e la carroz-za per l’entrata a roma di cristina di Svezia; letti per diversi principi (il più straordinario per il primo parto di maria mancini, principes-sa colonna, 1663); fasce benedette per l’infante di Spagna, ricami e arazzi, candelabri e orologi; trionfi da tavola in zucchero per il ban-chetto in onore di cristina di Svezia; le decorazioni per la canoniz-zazione di San tommaso da Villanova in San pietro (1658) e per la nascita del delfino a trinità dei monti (1662). nel 1656-66 viene sup-portato nei suoi molteplici lavori dal fratello aegyd; i figli Filippo e cristoforo continuano nella sua scia come pittori e decoratori (il se-condo si spinge fin all’architettura con la parte superiore della fac-ciata di Sant’antonio dei portoghesi).

I tedeschi a roma si distinguono come specialisti in discipline decorative o tecniche piuttosto che nelle grandi arti del disegno. un altro di questi personaggi nell’ambiente del bernini è il fino a poco tempo fa misterioso “signor abramo”, abraham paris (nato nel 1641 a Würzburg e morto nel 1726): nel 1676 diventa accademico di San luca, dalla fine degli anni ottanta è documentato quale ingegnere camerale. un suo “allievo” lo chiama «agrimensore pontificio, pit-tore e architetto»; anche se non si conosce alcuna opera veramente sua (eccetto schizzi), ha avuto parte nei progetti architettonici di al-tri oltremontani.

uno di essi è Fischer von erlach, che gli rimane molto legato; d’altra parte Fischer, all’arrivo nell’urbe, entrò probabilmente nello studio di giovanni paolo Schor, diventando dopo collaboratore del figlio Filippo. Si costituisce una rete di tedeschi, fra i quali emerge il gesuita athanasius Kircher, a roma dal 1633 fino alla morte nel 1680. erudito universale e fantasioso, concepisce il suo museo nel colle-gio romano come theatrum mundi al centro di quel teatro ch’è l’ur-be. I ritratti degl’imperatori asburgici Ferdinando III e leopoldo I

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vi occupano un posto d’onore – hanno contribuito alle sue numerose pubblicazioni e ne hanno ricevuto le dediche. Il primo lavoro datato di Schor a roma è il frontespizio della Musurgia Universalis (dedica-to da Kircher nel 1650 all’arciduca leopold Wilhelm) e ancora nel 1662 inventa lo splendido frontespizio per il primo volume del Mun-dus Subterraneus. come Schor, al servizio dei colonna troviamo i fra-telli intagliatori dominik e Franz Stainhart, artefici di un grandioso scrigno (nella galleria, 1678-80). nello studio dell’incisore matthäus greuter e del figlio Johann Friedrich lavorano diversi tedeschi. nel-la cappella-altare del Santo fondatore nella chiesa del gesù, il tren-tino andrea pozzo (come tale, suddito dell’Impero) impiega almeno sei tedeschi di varie specialità, soprattutto nei lavori di metallo.

la situazione dei pittori si presenta diversamente: se nella prima metà del Seicento non sono percepiti come tedeschi, ma accorpati alla vasta e generica categoria dei “fiamminghi”, ciò corrisponde alla loro inclinazione artistica e integrazione sociale (Schilderbent). I maggio-ri: adam elsheimer (a roma 1600-10), Joachim Sandrart (1629-35), heinrich Schönfeld (1633-37, con ritorni da napoli fino al 1651), Jo-hann Wilhelm baur (1633-37), Karel Skreta (1634-35), Johannes lin-gelbach (1644/47-50). probabilmente tutti potevano appoggiarsi an-che su collezionisti della nobiltà romana: quadri di elsheimer sono menzionati nelle collezioni aldobrandini, barberini e pamphilj; di Schönfeld nelle collezioni chigi, pallavicini-rospigliosi e odescalchi; baur eseguì le ben note vedute romane su pergamena per il principe borghese e Sandrart fece l’«intendente delle collezioni del marchese ed editore del manuale di incisioni tratte dalle più famose statue an-tiche del giustiniani». più difficile da valutare è la committenza dei connazionali, ma sappiamo che Schönfeld eseguì una Visitazione per l’altar maggiore di Santa elisabetta dei Fornai.

le loro opere sono quasi esclusivamente di piccolo formato e destinate alle collezioni. una tarda eccezione è costituita dal vien-nese daniel Seiter (1682-88) che, dopo aver studiato a Venezia con carlo loth, s’inserisce rapidamente nelle grandi committenze eccle-siastiche con quadri d’altare e tele laterali in almeno cinque cappel-le, prima di ripartire, chiamato al palazzo reale di torino. accanto e dopo di lui una compagine mista: gli ottimi pittori di nature mor-ti, entrambi nati nel 1658 ad amburgo, Franz Werner tamm, chia-mato da roma alla corte di Vienna, e christian berentz, protetto da niccolò maria pallavicini, nonché christian reder, pittore di batta-

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glie, e il figlio giovanni, già nato a roma, che per i rospigliosi di-pinge scene della vita del casato.

Seguirà la svolta “tedesca” con la riforma neoclassica, legata so-prattutto ad anton raphael mengs: al suo seguito troviamo pittori come anton von maron, cristoforo unterbergher, lodovico Stern e angelica Kauffmann, nonché l’intagliatore di gemme giovanni pich-ler.

Si potrebbe dire, in conclusione, che se il contributo dei tede-schi, committenti ed artisti, all’arte romana del periodo barocco fu tutto sommato modesto, nessun altro paese invece ha derivato con altrettanto fervore la sua ispirazione dall’urbe.

JörG Garms

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi

tra incarichi aMMinistrativi, produzione Letteraria e

attività professionaLe

Il Cavaliere Dottore Don Agostino Martinelli

non furono rari nel seicento i personaggi eclettici, con una sor-ta di propensione alla conoscenza enciclopedica, allora evidentemen-te ancora perseguibile o comunque considerata raggiungibile.

agostino Martinelli (1632-1687) è un buon esempio di questa ca-tegoria di individui, tanto che è piuttosto faticoso chiuderlo in una definizione univoca. Basti dire che tra le più usate vi sono quelle di architetto, esperto di problemi idrostatici, ingegnere, matematico, cia-scuna delle quali è insieme corretta e parziale. per brevità di comu-nicazione useremo la prima che almeno in parte comprende le altre, sebbene trasmetta un’impressione generale del personaggio non del tutto esatta. nei suoi scritti Martinelli abbonda con i titoli “sociali” che riporta di solito nell’ordine indicato – cavaliere, dottore, sacer-dote, a volte agente di ferrara – e si presenta con forza come archi-tetto, ingegnere e giurista.

un primo profilo dell’architetto è stato proposto in tempi recenti, in concomitanza con il rinvenimento di alcuni suoi disegni, ma il repe-rimento di molte notizie inedite, o non comprese in quel contributo, induce a tratteggiarne di nuovo il percorso biografico e operativo (1).

(1) a. Dallaj, Origini e conservazione della collezione Sardini-Martinelli al Castello Sforze-sco, in Domenico Martinelli architetto ad Austerlitz; i disegni per la residenza di Dominik An-dreas Kaunitz (1691-1705), a cura di a. scotti tosini, catalogo della Mostra, Milano, 15 di-cembre 2006 - 25 febbraio 2007, Milano 2006, pp. 45-56, soprattutto pp. 49-52. i disegni nella

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 243

agostino Martinelli nacque a ferrara il 20 luglio 1632, come si ricava dall’inedito atto di battesimo, da francesco e Barbara unga-relli, residenti nella parrocchia di s. romano (2). gli importanti pa-drini – il marchese giovanni rondinelli, giudice dei savi, e la mar-chesa Barbara calcagnini gonzaga – attestano l’appartenenza ad una «onorevole» famiglia, tanto che conosciamo l’arma di agostino Mar-tinelli (leggermente diversa da quella in uso nella sua famiglia), ri-prodotta in uno dei suoi libri (tav. Lvi, fig. 1), con un leone in piedi su tre monti, accompagnato dal motto «non horret inermis», inseri-ta in uno stemma ornato con la croce di cavaliere (3).

Qualche notizia su sé stesso Martinelli la fornì in un suo testo, in cui affermò di essere un sacerdote, di aver rinunciato ad un im-portante canonicato nella sua città, di essere stato auditore di monsi-gnor (giovanni antonio) Melzi, vicelegato a ferrara (ricoprì l’incari-co nel 1657-63), e di aver avuto altri compiti dal legato, il cardinale (Lorenzo) imperiali (ricoprì l’incarico nel 1657-1660) (4).

collezione sardini-Martinelli a Milano sono visibili in www.lombardiabeniculturali.it/opere-arte/schede. essi sono relativi al ponte di rimini e ad una cupola. sull’architetto si vedano anche la scheda di S. PaScucci, Martinelli Agostino in In Urbe architectus, a cura di B. con-tardi - g. curcio, catalogo della Mostra, roma, 12 dicembre 1991-29 febbraio 1992, roma 1991, p. 397; M. M. Segarra laguneS, Il Tevere e Roma: storia di una simbiosi, roma 2004, ad indicem. La pascucci cita un disegno di Martinelli relativo alle chiane, conservato nel-la busta d’archivio dove sono reperibili quasi tutti i documenti qui in seguito analizzati, dei quali non fa alcun cenno né cita il lavoro di Martinelli svolto in quel contesto.

(2) ferrara, archivio della soppressa parrocchia della cattedrale, registro dei Battezzati, 1632, c. 36v. il documento è stato rintracciato per me da valentino sani, al quale rivolgo un sen-tito ringraziamento, partendo dal nome del padre e dalle date presumibili di nascita (1631-32), che avevo ricavato dagli stati delle anime a roma e dall’atto del decesso di agostino. La ricer-ca in questo archivio ferrarese, normalmente non aperto al pubblico, è stata resa possibile dal cortese aiuto di monsignor enrico peverada, che ugualmente ringrazio. per i documenti romani si veda archivio storico del vicariato, roma, s. prassede, Morti 1596-1720, f. 87v: il decesso è registrato il 10 marzo 1687 e a Martinelli si attribuiscono 55 anni; nello stato delle anime della stessa parrocchia dell’anno precedente (f. 93v) gli si attribuiscono ugualmente 55 anni.

(3) Lo stemma figura nel suo testo Descrittione di diuersi ponti […], roma 1676, tra le pp. 42-43; lo stemma è leggermente diverso da quello visibile in a. libanori, Ferrara d’oro im-brunito, iii, ferrara 1674, pp. 7-8, 266, la cui descrizione araldica di alfonso Maresti è: «un leone d’oro in campo d’azzurro, che tiene li due piedi di dietro uno al piano, e l’altro sopra tre Monti verdi, e sta in atto di ascendervi sopra; nelle zampe davanti stringe una Mazza di ferro spinosa in atto di combattere». È Libanori che cita il termine «onorevole».

per i suoi libri si veda l’opac del sBn e l’elenco riportato in appendice.(4) a. Martinelli, Notizie, e delineatione del famoso ponte d’Ottaviano Augusto nella cit-

tà di Rimini, roma 1681, p. 7; c. Weber, Legati e governatori dello Stato Pontificio (1550-1809), roma 1994, p. 252.

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Maria BarBara guerrieri Borsoi244

Le fonti della sua città lo accreditano di capacità poetiche e ad-dirittura di «cognizioni in quasi tutte le scienze» (5).

probabilmente arrivò a roma nella prima metà degli anni sessanta poiché Libanori, che scrive nel 1674, lo ricorda attivo nella città pa-pale da un decennio. Benché dovesse avere competenze da tecnico, nel 1668-70 tenne lezioni di istituzioni di diritto civile e dal 1673 al 1686 di diritto canonico e civile extra ordinem (6). È probabile che già allora si occupasse in qualche modo di rapporti diplomatici perché scrisse nel 1669 un’orazione funebre in onore di francesco estense tassoni ambasciatore a roma, morto in quell’anno, e nel 1681 ricor-dava di essere stato nei dieci anni precedenti al servizio di ferrara, come «agente» presso la corte pontificia, con eccellenti risultati (7). si conserva anche un suo manoscritto, presso la Biblioteca ariostea di ferrara (classe i, 308), intitolato «Prattica per li SS.ri Ambasciato-ri della città di Ferrara al Nostro Signore» (8).

fu membro dell’accademia degli intrecciati, fondata da giusep-pe carpano, suo collega alla sapienza, e per essa scrisse vari compo-nimenti. aveva una vasta attività di promozione culturale, tanto da organizzare un congresso accademico negli orti farnesiani per dimo-strare che non si poteva «praticare l’architettura senza l’intelligenza delle legali discipline» (9).

Ben presto, sin dal 1668, cominciò a lavorare come esperto di problemi relativi al controllo delle acque e alla costruzione di tutti

(5) a. libanori, Ferrara d’oro, cit. a nota 3, pp. 7-8; L. ughi, Dizionario storico degli uo-mini illustri ferraresi, i, ferrara 1804, p. 58.

(6) I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al 1787. I rotuli e altre fonti, a cura di e. conte, roma 1991, pp. 869-870. varie disposizioni del testamento di Martinelli (cfr. infra) riguardano la restituzione di volumi che gli erano stati prestati da diversi personaggi illustri, per esempio il cardinale (carlo) pio (di savoia) e paolo falconieri, e in qualche caso si dice esplicitamente che gli erano serviti «per la lettura in sapienza».

(7) tra l’altro è citato in a. Frizzi - c. laDerchi, Memorie per la storia di Ferrara, ii, fer-rara 1848, p. 369: a. Martinelli, Orazione funerale in lode del Marchese Francesco Estense Tassoni ambasciatore per Ferrara presso il S. P. Clemente IX, roma, tinassi, 1669; non figu-ra però nell’opac del sBn.

(8) B. eMich, Territoriale Integration in der Frühen Neuzeit: Ferrara und der Kirchenstaat, Köln 2005, p. 1003. una copia di questo testo è stata venduta da christies, sale 2224, Auto-grafi e manoscritti, 11 marzo 1992, lot. 368a.

(9) Fasti dell’Accademia de gl’Intrecciati, roma 1673, pp. 82, 84, 87, 91, allegato a a. s. cartari, Discorsi sacri e morali detti nell’Accademia degli Intrecciati, roma 1673. a. Marti-nelli, Il Monte Testaceo o Testacio, roma 1686, p. 4.

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 245

i manufatti ad esse connessi (restauro di ponti, passonate, pennelli, ecc.), diventando in questo campo un’autorità molto nota, continua-mente attivo sino alla morte.

È probabile che avesse maturato delle competenze in questo set-tore già prima del trasferimento a roma, anche in considerazione del fatto che il territorio ferrarese era afflitto da frequenti inondazioni. Martinelli stesso fa riferimento generico a lavori ai quali aveva «as-sistito» e partecipato nel po detto di Lombardia nel ferrarese, senza precisare in quale epoca fossero avvenute tali esperienze (10).

nello stato pontificio, al servizio della congregazione delle ac-que, seguì moltissimi lavori, dal 1671 come «perito deputato» sulle acque a Magliano sabina e dal 1677 come architetto «per le palifi-cate di ponte felice». si occupò in particolar modo del tevere nel-la zona di Magliano sabina e del ponte felice (tav. Lvi, fig. 2; tav. Lvii, fig. 1), ma restaurò anche i ponti di s. antonio a san severi-no e di augusto a rimini nel 1680 (11).

i documenti visionati presentano un uomo scrupoloso, solerte e metodico che le autorità dovevano volentieri utilizzare soprattutto con funzioni di controllo, operativo ma anche amministrativo. i mol-ti anni di lavoro al servizio dello stato lo fecero entrare in contatto con i massimi architetti del tempo, seppur certamente in una posi-zione subordinata, da Bernini a carlo rainaldi, da Mattia de rossi a carlo fontana, e naturalmente conobbe cornelis Mejer, sul quale espresse giudizi positivi.

Martinelli si distinse per la sua dedizione e competenza, che si palesò «in tutti gli aspetti dell’arte: disegno, gestione del cantiere, rendicontazione, gestione dell’archivio, pubblicazione delle memorie tecniche» (12).

(10) a. Martinelli, Continuatione dello stato del ponte Felice, roma 1682, p. 67; iD., L’esperienza maestra per le operationi da farsi per l’auenire in riparare alle ripe del Teuere dal ponte Felice sino alla Gabelletta nelli Piani di Magliano, roma 1685, pp. non numerate, p. terzultima.

(11) S. PaScucci, Martinelli, cit. a nota 1, p. 397. per il restauro a rimini si veda il rela-tivo libro di a. Martinelli, Notizie, e delineatione, cit. a nota 4; per quello a s. severino a. Martinelli, I fiumi in libertà, roma 1686, p. 160, dove si dice che l’intervento fu concluso nove anni prima (c. 1677).

(12) p. buonora, Cartografia e idraulica del Tevere (secoli XVI-XVII), in Arte e scienza delle acque nel Rinascimento, a cura di a. fiocca - d. Lamberini - c. Maffioli, venezia 2003, pp. 169-193, in particolare pp. 185 e 189 per la nomina ad architetto.

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Maria BarBara guerrieri Borsoi246

nel frattempo la sua attività si esplicava anche per diversi com-mittenti o in contesti differenti.

È noto che quando si dovette realizzare la decorazione pittorica della cupola del gesù, Baciccio volle eliminare i costoloni interni e tale scelta fu considerata con timore dai farnese, mecenati della chiesa, che temevano per la stabilità della copertura, cosicché furono consultati vari architetti per dare pareri in merito (13). fra questi vi fu Martinelli, intervenuto per parte del duca di parma, come conferma l’esistenza di una sua perizia del 1672 conservata nel fondo farnese presso l’ar-chivio di stato di napoli (14). L’architetto stesso ricorda questo impe-gno nel suo testamento, quando ordina di restituire «un libro grande in foglio delle Macchine di agostino ramelli questo si dovrà dare al Ministro, o sia residente in roma di a.s. di parma, essendo di s.a.s. et a me lo prestò il signor residente cesarini, quando era in roma, in occasione che servij a s.a. ser.mo per le differenze insorte quando si doveva dipingere la cupola del giesù, come si vede in un libretto in-titolato cupola del giesù, e per havere fatte altre funtioni» (15).

La sua attività nel biennio 1672-73 è illuminata da un piccolo ma-noscritto in dodicesimo pervenuto alla biblioteca angelica di roma nel quale raccolse testi e appunti su lavori eseguiti (16). tra l’altro vi figurano uno scritto sul modo di costruire le passonate a fiumicino, correlato ad una pianta; una relazione sulle saline di ostia il cui fun-zionamento era stato alterato dalla costruzione di un fosso a Bagnuo-lo, associato ad una pianta; una relazione sull’acqua di trevi che ar-rivava alla mola di ripetta, illustrato da una pianta; misure di varia natura, comprese alcune relative a lavori fatti eseguire dal cardinale (francesco Maria) Brancacci a porto; un testo sul porto di traiano.

(13) J. curzietti, Giovan Battista Gaulli. La decorazione della chiesa del SS. Nome di Gesù, roma 2011, pp. 71-73.

(14) M. g. D’aMelio, I Farnese e la Compagnia Ignaziana: le modificazioni alla cupola del Gesù di Roma per la decorazione secentesca, in Vignola e i Farnese, a cura di ch. L. from-mel - M. ricci - r. J. tuttle, atti del convegno internazionale, piacenza 18-20 aprile 2002, Mi-lano 2003, pp. 84-98, soprattutto pp. 92, 97 nota 19. La perizia è nell’archivio farnese, 1348 ii/b. i fatti risalgono al 1672 e il residente era carlo cesarini.

(15) il libro è a. raMelli, Le diverse et artificiose machine, parigi 1588. per il testamen-to si veda infra.

(16) roma, Biblioteca angelica, ms. 1547; non si hanno notizie sulla provenienza del testo schedato in a. Sorbelli, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d’Italia. Biblioteca Angelica, XXii, firenze 1915, pp. 6-7. Le piante ricordate nei testi non figurano nel volume.

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 247

Ben due «discorsi» sono dedicati alla laguna di venezia, uno dei quali datato 1 febbraio 1673. a questo proposito sappiamo che aveva tale fiducia nelle proprie competenze da proporre il 28 ottobre 1672 alle magistrature veneziane un progetto per la costruzione di chiuse atte a regolare l’entrata delle acque in laguna, accompagnato da un testo esplicativo (17). doveva aver avuto altri contatti con la società la-gunare perché si conosce un suo scritto intitolato «Ragioni e notizie su l’operazioni intraprese dai Veneziani nel Po», conservato nella bi-blioteca di pistoia; scrisse anche un sonetto per la partenza da roma dell’ambasciatore veneziano, il cardinale grimani (18).

nel 1673 redasse una descrizione del giardino ginnetti a velletri e dette dei pareri per la sua sistemazione, insieme a carlo fontana, unica parte già citata del piccolo manoscritto dell’angelica (19).

ancora una volta, la testimonianza resa da Martinelli ci presenta un suo sconosciuto lavoro relativo al convento e alla chiesa dei ss. Bonifacio e alessio sull’aventino. Qui don angelo francesco porro lo utilizzò «per direttione di molte fabbriche aumentando conforme alli miei disegni il Monastero, abbellendolo con giardini e prospetti-ve, fabbricando la capella consacrata alla Miracolosa imagine di Ma-ria sempre vergine, che in edessa parlò a detto santo (girolamo), e si ridusse a concertata armonia la chiesa» (20).

Questa notizia è relativa ad uno dei momenti meno testimonia-ti della storia della basilica, il cui archivio è andato quasi totalmen-te distrutto, cosicché non è possibile interpretarla in modo analitico. L’impegno di porro è testimoniato da varie fonti, per esempio nel 1703 si attesta che «È questa chiesa ora molto sontuosa, e magnifi-ca, ridotta nello splendore presente, dalla sollecitudine generosa, del p. angelo porri Milanese, che fu generale di questa nobil congre-gazione (girolamini), il quale vi abbellì gli altari, tolti di mezzo dal-

(17) M. f. tiePolo, Laguna, lidi, fiumi: cinque secoli di gestione delle acque, venezia 1983, p. 71. il testo di accompagno si intitola Prodromus ad revocandam lacunam inclytae civitatis Venetiarum ad primam profonditatem ed è conservato presso l’archivio di stato di venezia, savi e esecutori alle acque, filza 123, disegno 6.

(18) g. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, i, firenze 1890, p. 273; a. Dallaj, Origini e conservazione, cit. a nota 1, p. 55 nota 60.

(19) V. roMani, Il palazzo e il giardino dei Cardinali Ginnetti a Velletri in due descrizioni del sec. XVII, velletri 1972; il testo è nei ff. 105-127 del ms. 1547.

(20) a. Martinelli, Il Monte Testaceo, cit. a nota 9, p. 5.

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la chiesa gli antichi impedimenti, ha trasferita l’antica e venerabilissi-ma immagine di Maria vergine in una vaga cappella e restituito con nuove fabbriche a questo monastero […]» (21).

una preziosa raffigurazione del complesso sull’aventino ci è for-nita da una pianta di carlo fontana del 1700, recentemente rintrac-ciata, ben confrontabile con quella contenuta nel noto libro di nerini (tav. Lvii, fig. 2), specificatamente dedicato a questa casa dei girola-mini (22). il giardino si sviluppava sul lato sinistro della chiesa nonché tra l’abside e il ciglio del colle, in posizione certamente molto pano-ramica, scompartito in semplici riquadri, mentre non si conoscono descrizioni analitiche del convento.

La cappella in questione fu costruita ex novo sul lato destro della chiesa, sconfinando nel terreno dell’orto di s. sabina, e consacrata nel 1674 come attestano le iscrizioni. il piccolissimo vano ha pianta ester-na rettangolare mentre all’interno è ellittico e risulta coperto da una piccola cupola con lanternino, illuminato da due finestre ovali e con le pareti senza alcuna articolazione. certamente la cappella è stata in-teressata da restauri posteriori, forse nel settecento, come fa pensare la decorazione in stucco, in coincidenza con una generale trasforma-zione dell’edificio, e sicuramente nel primo ottocento per volontà di carlo iv di spagna, che viveva esule nell’annesso convento.

secondo il Moroni il sovrano «decorò la cappella con belli mar-mi e con due colonne», mentre una visita apostolica del 1825 affer-ma che l’altare precedente non sussisteva più «avendo s. M. il re car-lo iv innalzata una nuova cappella di marmo da lui comprata nelle passate vicende, e che apparteneva ad una chiesa distrutta» (23). Le co-

(21) c. B. Piazza, La gerarchia cardinalizia, roma 1703, pp. 673-674.(22) M. g. D’aMelio, Le pendici dell’Aventino in una perizia di Carlo Fontana: archeolo-

gia e meccanica pratica, in L’Aventino dal Rinascimento a oggi. Arte e Architettura, a cura di M. Bevilacqua - D. gallavotti cavallero, roma 2010, pp. 112-119, in partic. tav. Xii (a colo-ri); f. M. nerini, De Templo et Coenobio Sanctorum Bonifacii et Alexii Historica Monumen-ta, roma 1752, pianta a p. 57.

(23) g. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, Xi, venezia 1841, p. 281; archivio segreto vaticano, s. c. visitationis apostolicae, n. 143, fasc. 142, c. 2, citato in s. carbonara, La chiesa: ricerca storica e lettura architettonica dai restauri settecenteschi agli in-terventi del XIX secolo, in La storia e il restauro del complesso conventuale dei Santi Bonifa-cio e Alessio all’Aventino, a cura di p. Barbato - o. Muratore - M. richiello, roma 2004, pp. 56-81, in partic. p. 75 e nota 82; per altri riferimenti alla fase ottocentesca della cappella cfr. anche s. Muratore, Opere all’interno della chiesa dal XVII al XX secolo, ivi, pp. 115-125,

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lonne dovrebbero essere quelle poste ad incorniciare il vano di ac-cesso al locale dal transetto destro della chiesa, sulle cui basi ci sono gli stemmi reali in bronzo, mentre non abbiamo dettagli su eventua-li modifiche dell’involucro murario interno.

dunque, a Martinelli spettò la scelta della pianta del locale, mo-deratamente originale ma derivante da ben più importanti struttu-re barocche contemporanee, mentre l’articolazione interna originaria della cappella è ingiudicabile.

La notorietà acquisita con tutti questi impegni gli procurò nel 1675 l’associazione alla congregazione dei virtuosi al pantheon come «Mattematico» (24). Questa particolare definizione credo acquisti mag-gior senso quando si consideri il seguente fatto: vitale giordani, aven-do saputo delle cattive condizioni di salute di Martinelli, fece do-manda per ottenerne il posto presso la congregazione delle acque e presentò come suoi “titoli” la carica di ingegnere esercitata per vari anni a castel sant’angelo, il fatto di essere professore di matematica alla sapienza, la pubblicazione dell’Euclide restituto (1680) e l’indi-ce di un nuovo lavoro che voleva produrre, come da foglio a stam-pa allegato, articolato in otto punti diversi. in uno dei tomi previsti si legge che sarebbero stati analizzati i moti delle acque, come misu-rarle e distribuirle, come rettificare il corso dei fiumi e difenderne le rive, scavarne il fondo senza svuotarli dall’acqua e addirittura come eliminare le lagune (25).

probabilmente verso la fine del 1676 Martinelli ottenne il titolo di cavaliere che già usa in uno solo dei suoi volumi editi quell’anno. dovette essere un anno importante per l’architetto anche perché per la prima volta pubblicò un libro di carattere tecnico, staccandosi dai testi devoti prodotti sino ad allora (26).

probabilmente intorno al 1678 Martinelli fu incaricato di ristrut-

pp. 121-122. ringrazio sabina carbonara per avermi fornito la trascrizione della visita apo-stolica citata.

(24) v. tiberia, La Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta da Gregorio XV a Innocenzo XII, galatina 2005, p. 363.

(25) archivio di stato di roma (in seguito asr), congregazione delle acque, busta (in seguito b.) 253, fasc. 661.

(26) a. Martinelli, Deliciosi trattenimenti dell’anima amante con il suo sposo Giesu […], roma 1676, la dedica è in data 24 ottobre e non usa il titolo di cavaliere che invece figura in Descrittione di diversi ponti, cit. a nota 3.

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turare la piccola chiesa di s. Barbara dei Librai a roma ed elaborò vari progetti, soprattutto per la sistemazione della cappella maggiore (tav. Lviii, fig. 1). egli stesso, in un piccolo testo del 1679, raccon-ta di aver dovuto abbandonare l’opera per dissapori con il commit-tente. La relazione a stampa rivela soprattutto lo sforzo di risolvere i problemi tecnici posti dalla presenza di strutture preesistenti irre-golari e modeste, ma anche una ricerca di decoro con piccole con-cessioni al gusto barocco nella decorazione, probabilmente da realiz-zarsi in stucco (27).

accade di trovarlo citato anche in documenti d’altro tipo, per esempio in una ricognizione eseguita nel 1679 con carlo fontana al dormitorio del convento di s. sabina a roma. per i domenicani di questa casa aveva già lavorato, dopo il 1671, allorché vi fu uno crol-lo di parte del colle verso il fiume, per consolidare il terreno (28).

tra la fine del 1682 e il 1684 fu coinvolto in sopralluoghi e pro-getti per la bonifica delle chiane romane, come vedremo meglio in seguito. nel 1683 partecipò, con altri architetti, ad una ricognizio-ne dei lavori eseguiti dagli orsini che avevano immesso nuove ac-que nell’antico condotto dell’acqua paola; tale intervento, denuncia-to all’attenzione delle autorità da carlo fontana, fu reputato dannoso e fu ordinata la distruzione dei manufatti (29).

Stampe e libri

nel 1675 Martinelli fece pubblicare due grandi stampe, per i tipi di [tommaso] Moneta e di niccolò angelo tinassi, con il quale co-operò lungamente, corredate da lunghi e complessi testi, che sono

(27) M. b. guerrieri borSoi, L’architetto Giuseppe Passari: la chiesa di Santa Barbara dei Librai e il manoscritto 350 della Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma, in «Bolletti-no d’arte», Xcvii, 16 (2012), pp. 87-106. Qui è trascritto l’intero volumetto di Martinelli e sono riprodotte tutte le incisioni che lo decorano.

(28) asr, trenta notai capitolini (in seguito tnc), uff. 33, a. de Blanchis, vol. 303, ff. 155 e ss., in data 1 febbraio 1680: i padri domenicani chiedono il permesso di prendere soldi in prestito per completare dei lavori tra i quali quello al dormitorio del convento e un testimone attesta che tali lavori erano stati «visti» dai due architetti. a. Martinelli, Il mon-te Testaceo, cit. a nota 9.

(29) c. Fea, Storia delle acque antiche sorgenti in Roma, perdute e modo di ristabilirle, roma 1832, p. 164.

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una sorta di prova generale prima di affrontare i veri e propri libri tecnici, intitolate Distinta esposizione delli ripari fatti nel Tevere den-tro le Ripe delli Piani di Magliano, qual resta delineato sopra l’ultime colline e Corografica descrittione dello stato in cui si trova di presente il fiume Tevere dal luogo detto le Bavucche d’Orte sino al Ponte Feli-ce con l’espositione di quanto si crede possi seguire dalla detta situatio-ne (30). Le dimensioni di queste opere (33 × 55 e 23 × 35 cm), formate da diversi fogli incollati insieme, sono tali da supporre che dovesse-ro essere appese.

sono dedicate agli interventi eseguiti nell’area del ponte felice, con dettagliate informazioni su tutti i lavori svolti, doverosi ringra-ziamenti agli illustri cardinali della congregazione delle acque, nella prima con speciale riferimento all’altieri, nipote del papa regnante.

sempre nella prima, Martinelli ricorda con orgoglio che eliminan-do «le superfluità» è riuscito a ridurre a poco più della metà il costo dei lavori e vi si legge addirittura una rettifica a quanto scritto in un volume di Libanori, in cui Martinelli era stato citato come segretario della congregazione delle acque (carica riservata solo ad un prela-to) mentre egli stesso si presenta come «ingegniere in materie d’ac-que della s. sede apostolica». non va trascurata questa definizione che enfatizza le capacità tecniche dell’uomo, frutto di un approccio basato sulle conoscenze scientifiche.

al centro di queste grandi opere si trovano due incisioni (tavv. Lviii, fig. 2; LiX, fig. 1), non firmate, ma naturalmente disegnate da Martinelli. La prima mostra le opere difensive fatte nel letto del fiu-me nella zona pianeggiante di gallese e Magliano, in prossimità della memoria di urbano viii, mentre la seconda comprende un ben più ampio tratto del fiume, che in quest’area dava vita a meandri profon-di, con isolotti sabbiosi tra i vari rami del corso d’acqua.

come accennato, accanto all’attività professionale concreta Marti-nelli ne svolse una parallela come fecondo scrittore. i volumi serviva-no ad autopromuoversi dinnanzi ad un pubblico colto e nel contempo

(30) c. p. ScaVizzi, Fonti per uno studio sulla regolazione del Tevere dal Cinquecento al Set-tecento. Fra teoria e pratica, in «archivio della società romana di storia patria», 102 (1979), pp. 273-313, in particolare nn. 59-60, pp. 278-279, conservati in asr, disegni e Mappe, i, 118, 84 e 85. nello studio di scavizzi c’è la schedatura dei disegni di Martinelli relativi al tevere. La prima si trova anche nel volume di a. Martinelli, Descrittione di diversi ponti, cit. a nota 3.

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a procurargli i favori dei potenti ai quali, di volta in volta, dedicava i suoi scritti o che menzionava nelle opere (31). aveva ben compreso l’importanza delle immagini, che spesso disegnava personalmente, re-sponsabili di aumentare i costi dei suoi libri, ma anche di accrescer-ne la chiarezza e il pregio; e quanto gli stessero a cuore queste sue crea zioni lo dichiarò egli stesso nelle sue ultime disposizioni.

dal punto di vista delle illustrazioni, il testo dedicato ai ponti sul tevere e sul nera e al problema della navigabilità del tevere (1676) è abbondantemente illustrato, seppur con immagini di contenuta quali-tà. Martinelli affermò in proposito «vedrai le figure delineate, e scul-pite nella durezza de rami, da diversi autori; ma ciò è stato effetto della necessità di terminare il Libro in fretta».

Molte incisioni furono realizzate dallo stesso Martinelli (tav. LiX, fig. 2), mentre altre sono siglate dal suo concittadino alberto gnoli; ma neanche quelle sono di qualità molto elevata (tav. LX, figg. 1-2). Lo gnoli è presentato da fonti ferraresi come architetto, disegnatore e incisore, e sappiamo che morì a soli trenta anni nel 1677 (32).

in questo libro sono segni di notevole ambizione l’antiporta con il ritratto di innocenzo Xi (tav. LXi, fig. 1) e lo stemma dell’autore inserito tra la prima e la seconda parte dell’opera. Martinelli potreb-be aver disegnato almeno la seconda di queste due composizioni che però mi paiono trascendere la sua abilità di incisore.

Martinelli ricorse successivamente ad un diverso professionista, certamente più efficace, ovvero il poco noto Michel angelo Marina-ri, attivo a roma sino dal sesto decennio del secolo (33). costui inci-

(31) un elenco di stampati e manoscritti è contenuto in g. Fantini, Biblioteca de’ scritto-ri ferraresi, vol. ii, ff. 128r-131v, in ferrara, Biblioteca ariostea, ms. antonelli 362, segnalato da a. Dallaj, Origini e conservazione, cit. a nota 1, che non ho potuto visionare. un elenco di suoi scritti editi e inediti era stato approntato da (ProSPero) ManDoSio nella sua opera Bi-bliotheca Equestris, mai stampata, come è stato segnalato da g. cinelli calVoli - D. a. San-caSSani, Biblioteca volante, venezia 1734-47, iii, 1746, p. 284.

(32) L. ughi, Dizionario storico, cit. a nota 5, i, p. 20. per i dati biografici si veda M. roSSi, Gnoli Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 57, roma 2002, pp. 453-454 (per alberto gnoli, p. 454). S. c. Martin, in Allgemeines Künstler-Lexikon, München-Leip-zig, saur, 56, 2007, p. 309 (senza riferimento alle stampe incise per Martinelli). Morì a na-poli dopo un probabile passaggio a roma. una sua relazione in data 25 ottobre 1673 è con-tenuta nel manoscritto Disegni corografici di Ferrara conservato nella Biblioteca apostolica vaticana, chig.p.vi.2.

(33) si conoscono una stampa dell’isola tiberina adibita a lazzaretto del 1656, il «vero disegno della nova e solennissima cavalcata fatta in roma con occasione del possesso preso

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se, su disegno di Martinelli, la bella immagine del ponte di rimini, prima e dopo il restauro eseguito dal nostro, che fu inserita nel li-bro del 1681 dedicato a questo argomento (tav. LXi, fig. 2). L’anno dopo uscirono i due volumi dedicati al ponte felice. nel primo, ol-tre a modeste illustrazioni quasi tutte anonime o provenienti dall’ope-ra sui ponti, fu inserita la grande e bella pianta incisa da Marinari, intitolata Corografia del fiume Tevere, forse la più elegante composi-zione tra quelle visibili nei volumi di Martinelli (tav. LXii, fig. 1). La veduta dall’alto è ora più convincente, grazie alle alture di Magliano che si innalzano alle spalle della piana fluviale, e sono stati assai cu-rati gli aspetti decorativi, come il putto che sostiene la scala con le catene romane, il cartiglio con l’arma papale e la tavola esplicativa. Martinelli non solo appose il suo nome come dedicatario dell’opera, ma ribadì che suo era il disegno (34).

diversa da queste opere è l’iconografia dell’opuscolo dedicato ai progetti per s. Barbara dei Librai, con sette immagini, non firmate ma probabilmente spettanti a Martinelli anche per l’incisione, che il-lustrano la pianta dell’edificio preesistente con le proposte di modi-fica e, in dettaglio, alcuni dei lavori previsti.

Interventi di bonifica nelle Chiane

Martinelli fu coinvolto nel secolare e complicato lavoro di bo-nifica delle chiane sul finire del 1682. per comprendere le vicende è necessario cercare di chiarire almeno i termini essenziali del pro-blema con specifico riferimento a quanto era avvenuto nel corso del Xvii secolo (35).

dalla s.tà di nostro signore clemente iX …» del 1667; una pianta del distretto di roma di-segnata da innocenzo Mattei e incisa nel 1674. fu probabilmente figlio (o parente) di ora-zio Marinari avente la bottega «alla valle».

(34) La stampa, oltre che nel testo indicato, si trova anche sciolta, in due esemplari, in asr, disegni e Mappe, i, 118, 94, qui riprodotta.

(35) La bibliografia su questo argomento è amplissima. Mi limito a segnalare Atlante del-la Val di Chiana cronologia della bonifica, a cura di g. f. di pietro, Livorno 2006, e soprat-tutto, per l’oggetto di questo studio, S. FuSchiotto, Architettura di un territorio. La bonifi-ca della Val di Chiana Romana dalla Sacra Congregazione delle Acque al Consorzio, consorzio per la Bonifica della val di chiana romana e val di paglia, stampato a grotte di castro nel 2007, con amplia bibliografia precedente. La fuschiotto cita ampiamente i testi di Martinel-li e ne riproduce le immagini, ma non illustra la personalità dell’autore.

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Maria BarBara guerrieri Borsoi254

Le chiane, come erano normalmente chiamate in antico, sono la val di chiana, collocata al confine tra il granducato di toscana e lo stato papale, zona soggetta ad inondazioni e impaludamenti. L’area, infatti, riversava le sue acque parte verso l’arno, parte verso il teve-re e nella zona centrale, di oltre una decina di chilometri, era pratica-mente in piano e quindi le acque vi stagnavano. il controllo dei corsi d’acqua che la interessavano avrebbe richiesto gli sforzi congiunti de-gli stati confinanti, mentre ciascuno dei due fu invece attento a riget-tare da sé i problemi più gravi, semmai danneggiando il vicino.

dopo la grave alluvione del tevere del 1598, clemente viii or-dinò la costruzione di un argine, che da lui prese nome, per impe-dire il deflusso delle acque verso il suo stato. successivamente, nel 1600 e 1607, si sottoscrissero accordi con i toscani, relativi soprat-tutto alla gestione del torrente astrone. tra guerre e distruzioni, la situazione non subì alcun reale miglioramento sino al 1664, quan-do gli accordi precedenti furono ribaditi, con un’impostazione deci-samente sfavorevole per lo stato della chiesa. i lavori nella zona ro-mana non furono di fatto eseguiti perché eccessivamente costosi, da realizzarsi su un terreno particolarmente instabile e quindi destinati a rapido decadimento.

con riferimento agli interventi nell’area ricordata, Martinelli non solo produsse una serie di atti d’ufficio, per esempio le numerose let-tere che scrisse ai suoi interlocutori, ma anche molto materiale rea-lizzato per sé, donato alla congregazione al momento della morte, come vedremo in seguito. si tratta soprattutto di sei volumetti, tutti dello stesso formato, cinque rilegati e uno sciolto (36).

i primi sono stati contrassegnati con numeri romani, segnati a matita sulla prima carta dei volumi, oggi privi della copertina. con-tengono una quantità molto ampia e varia di testi, alcuni relativi an-che ad avvenimenti dell’inizio del seicento, ma prevalentemente re-lativi al periodo di alessandro vii e di innocenzo Xi. di particola-re interesse sono i diari delle due diverse visite eseguite nelle chia-ne e alcune riflessioni tecniche che furono pensate come corredate da disegni esplicativi.

È probabile che Martinelli pensasse di pubblicare un libro anche su questo argomento, come aveva già fatto in occasioni precedenti, e

(36) asr, congregazione delle acque, b. 71, fasc. 213 (cinque volumetti); b. 72, fasc. 214.

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 255

come fa pensare la frase del testamento relativa alla consegna alla con-gregazione de «i libri che si trovano appresso di me, o manoscritti, o stampati, che trattano sopra all’importante affare delle chiane».

La vicenda che vide coinvolto Martinelli non fu di particolare ri-lievo, ma dimostra bene la competenza e il prestigio del nostro che, pur mostrandosi sempre molto deferente nei confronti delle superio-ri autorità, operava con autonomia negli aspetti tecnici e che fu il ri-ferimento principale di tutti i partecipanti, con l’esclusione di Mattia de rossi nella seconda missione.

nell’autunno del 1682 arrivò notizia che i toscani avevano co-struito argini nei pressi del fiume astrone che avrebbero deviato le sue acque e quindi danneggiato i territori papali. Martinelli ricevet-te l’ordine di recarsi in loco, accompagnato da francesco sforzini, e partì da roma il 15 dicembre (37).

il 2 gennaio la piccola comitiva raggiunse città della pieve, la città papale più vicina alle chiane. i due tecnici erano accompagna-ti dal capitano fausto Monaldi, già da anni attivissimo commissario delle chiane, e cominciò la ricognizione del territorio.

effettivamente nei pressi dell’astrone i Minutelli di cetona ave-vano costruito degli argini per difendere alcuni loro campi, ma si di-chiararono disponibili a demolirli, come poi effettivamente avvenne. successivamente, messi toscani dichiararono che costoro avevano agi-to di loro iniziativa e addirittura affermarono di averli arrestati; ma probabilmente il governo granducale era a conoscenza di tali lavori o, più verosimilmente, li aveva promossi.

i rappresentanti toscani, guidati da Bernardino de vecchi, ricor-darono soprattutto che il granduca voleva mantenere gli accordi del 1664, rispetto ai quali il governo papale era inadempiente. Martinel-li e sforzini continuarono i sopralluoghi e le livellazioni del territo-rio sino a rientrare a perugia il 18 gennaio. praticamente non si av-viò nessun lavoro, tanto che il caporale antonio giacomo Bernardini, assoldato per gli interventi idraulici, fu invece incaricato di fare la-vori alle strade del territorio e ricevette un piccolo indennizzo per il mancato lavoro.

(37) asr, congregazione delle acque, b. 71, fasc. 213, volumetto i: «Diario delle opera-tioni fatte dal Cav.re Dottore D. Agostino Martinelli ferrarese per la sua andata l’anno 1682 e 1683 alla Visita delle Chiane deputato a tal effetto dalla S.ta di N. Sig.re Innocentio XI e dalla S. C. sopra le Chiane con le Relationi e misure fatte dal med.o per simile affare».

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Maria BarBara guerrieri Borsoi256

all’inizio del marzo 1683 Martinelli presentò a roma la sua re-lazione davanti alla congregazione delle acque, mostrò le piante ap-positamente realizzate e addirittura campioni di terra che aveva pre-levato nelle chiane per dimostrarne «l’insussistenza», concetto che gli era particolarmente caro, e concluse riferendo di aver ottenuto il consenso di tutti gli importanti partecipanti all’incontro.

naturalmente il parere espresso da Martinelli era avverso agli in-terventi auspicati dai toscani e ne nacque una querelle che si trasci-nò per mesi, con un’imponente produzione di documenti scritti.

ancor più interessante il diario del secondo viaggio, soprattutto dal punto di vista storico, come testimonianza della socialità seicen-tesca e delle difficoltà logistiche che simili missioni comportavano (38). infarcito di citazioni – oltre ogni livello sopportabile per la sensibilità moderna –, il diario non solo descrive i lavori del drappello di tecni-ci, ma i luoghi attraversati e la vita della comitiva, spesso veramente scomoda. d’altro canto, il viaggio supera il valore della semplice rico-gnizione tecnica per diventare anche pellegrinaggio all’impervio san-tuario della verna, accuratamente descritto da don Martinelli.

per aderire alle richieste del granduca, il governo papale mandò una piccola commissione composta dal nostro, da sforzini e da Mat-tia de rossi, scelto per la sua importanza e competenza. de rossi benché «inviluppato» in molti e complessi lavori riuscì a strapparsi ad essi e a raggiungere Martinelli a Magliano sabino, dove il ferra-rese disponeva di una casa per seguire i costanti lavori al tevere, ac-compagnato dal suo scolaro antonio valeri. da lì la compagnia rag-giunse città della pieve, esaminò nuovamente il territorio attraversato nel viaggio precedente, sempre eseguendo controlli e disegni, nono-stante imprevisti e malori che afflissero soprattutto il de rossi. dopo il pellegrinaggio al santuario francescano, i tecnici visitarono perugia, todi e a terni si separarono.

il volumetto i contiene, alle cc. 115-135, le «Raggioni del Marti-nelli sopra le operationi da proporsi per l’escavationi fatte alle Chiane, et altre», in cui si confutano vari modi di costruire i «ripari» nell’area in questione e illustrano altri problemi connessi (39).

(38) asr, congregazione delle acque, b. 71, fasc. 213, volumetto iv: «Visita delle Chia-ne fatta d’ordine d’Inn.tio XI dalli Sig.ri Mattia de Rossi Fran.co Sfozini [sic] e Agostino Mar-tinelli demost.a dal med.mo cav.re Agostino Martinelli li 10 Gun.no [sic] 1684».

(39) asr, congregazione delle acque, b. 71, fasc. 213, volumetto i.

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 257

il testo contiene precisi rimandi alle tavole illustrative raccolte nel v volumetto, ove sono 24 disegni (tavv. LXii, 2 - tav. LXiv). Ben-ché si tratti di elaborati tecnici, su “soggetti” figurativamente poco at-traenti, sono condotti con grande cura, con dettagli decorativi come i cartigli svolazzanti e accartocciati. sui fogli si notano alcuni pen-timenti e la volontà di curare l’aspetto dell’impaginazione, dotando il disegno di una cornice che è però talvolta interrotta da un effet-to di “fuori gabbia” della parte figurativa. un’oculata coloritura, che differenzia il terreno dai manufatti e dalle acque, con attenzione agli elementi vegetali, conferisce un carattere quasi paesaggistico agli ela-borati più complessi come quelli dedicati al Muro Grosso detto de Ro-mani o alla Ortografia delli Ponti di Arezzo o, ancora, alla Ortografia delle Torri delle Chiane.

i disegni non sono appunti di lavoro ma elaborati definitivi, pro-babilmente pronti per una trasposizione incisoria, ed è verosimile che Martinelli li abbia realizzati personalmente, anche se sappiamo che talvolta si giovava di collaboratori.

L’eredità

Martinelli scomparve il 10 marzo 1687 e il rinvenimento dell’ine-dito testamento consente di avere numerose altre informazioni sul suo conto (40).

negli atti ricorre più volte il nome di pier filippo Bernini, fi-glio di gian Lorenzo Bernini, con il quale l’architetto ferrarese ave-va stretto ottimi rapporti poiché questi era stato per anni segretario della congregazione delle acque. La sua presenza è giustificata dal fatto che tale ufficio ereditò parte dei beni di Martinelli.

oltre alle «determinazioni di me agostino Martinelli» fu allega-to anche un testo «per dare lume del mio testamento» (41).

agostino lasciò erede usufruttuario il fratello dottor girolamo e

(40) per l’atto del decesso, cfr. nota 2.(41) asr, tnc, uff. 22, M. f. vanni, vol. 544, ff. 670-674/685-690, per il testamento e

atti connessi; vol. 226, ff. 288-290/309-312 per l’inventario dei beni, iniziato il primo maggio, nonché altri atti collegati all’eredità. pier filippo Bernini fu incaricato, con altri, di occupar-si dei beni ferraresi di Martinelli. Qui sono state riportate solo alcune delle notizie deduci-bili dal testamento, prevalentemente quelle relative all’attività professionale del personaggio. Queste disposizioni sostituirono le precedenti redatte a ferrara nel 1680.

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Maria BarBara guerrieri Borsoi258

veri eredi i tre nipoti alfonso, ignazio e giuseppe Martinelli, chie-dendo loro di consegnare 150 scudi alla sorella rosa. gli esecutori testamentari per i beni romani furono Benedetto castellotti e Leo-nardo retti, lasciando al primo sei «libri delli miei di roma» e due quadri di fiori e al secondo due grandi dipinti con storie di tasso. costui era un noto stuccatore, come attestano le indicazioni relative al padre e al paese d’origine, e Martinelli potrebbe averlo conosciu-to quando si occupava della cupola del gesù, chiesa ove retti aveva realizzato parte della bella decorazione a stucco della navata, ed en-trambi appartennero alla compagnia dei virtuosi al pantheon.

i legami di Martinelli con la città d’origine erano rimasti for-ti poiché ordinò di mandarvi tutti i suoi manoscritti e quattro stru-menti matematici, la cui natura non è precisata, nel caso qualcuno degli eredi sapesse usarli, nonché due dipinti «essendo memorie an-tiche di casa».

alla biblioteca dell’università romana dove aveva insegnato la-sciò «il modello di fortificazione esistente in mezzo la sala, se bene non fosse terminato […] con il libro intitolato Martinelli fortificazio-ne ma miniato legato alla francese con oro, che è dentro al creden-zino dalli vetri». tale modello dovrebbe essere una riproduzione di una torre con cannoncini di bronzo, conservato nella stanza grande della sua abitazione, piuttosto che l’altro modello «da tirar peso», en-trambi citati nell’inventario.

Martinelli dichiarò di aver seguito molti affari per la reverenda camera apostolica e soprattutto quello relativo «all’opera del pon-te felice» ed essendo timoroso di aver commesso qualche irregolarità o errore involontario, per la salute della sua anima, si propose di ri-parare a tale eventualità lasciando alla sacra congregazione sopra le acque i suoi libri legati e sciolti «quali trattano della descrittione de ponti esistenti sopra al tevere, al fiume nera, a tutti gl’altri, che trat-tano dello stato del ponte felice da me stampati in diversi tempi, e i libri manoscritti, scritture, e piante spettanti al medesimo ponte feli-ce, come quelli del ponte di narni, di s. severino, di rimini, et altri di simil materie», ed ancora i rami (ovvero le matrici per le stampe) relative ai ponti e «una stampa di legno delle passonate».

allo stesso modo ingiunse di consegnare alla congregazione «i libri che si trovano appresso di me, o manoscritti, o stampati, che trattano sopra all’importante affare delle chiane, con tutti i disegni e piante […]. in oltre voglio che se si trovaranno in casa alla mia morte libri

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 259

stampati intitolati i fiumi in libertà, o altri, che stampati che trattas-sero del ponte felice, e non fossero qui espressi si diano a la medesi-ma s. congregazione sopra le acque». dispose addirittura di conse-gnare 200 scudi come compensazione per eventuali errori «quando però dalla pietà del sommo pontefice non fosse rimessa e condona-ta tal somma a me, et alli miei heredi in riguardo alle gravi infirmità da me patite e spese fatte per servizio di detta opera del ponte feli-ce nelle stampe delli suddetti libri».

al pontefice (innocenzo Xi) lasciò un quadro della Madonna con le mani incrociate sul petto, ed altri legati furono destinati a perso-ne che lo avevano assistito.

La consegna del materiale alla congregazione delle acque avven-ne certamente come dimostrano i molti testi conservati in quel fon-do d’archivio (42).

L’inventario dei beni contenuti nella casa romana attesta la pre-senza di un gran numero di dipinti, ma anche di un cembalo e di parecchi strumenti musicali, nonché nello studio di molte scritture private e libri tra i quali ben 130 copie della «descritione di Monte di staccio» (testaccio) che aveva fatto pubblicare l’anno prima. Lo stampatore tinati è infatti citato tra i suoi creditori e Martinelli or-dinò di pagarlo quel che richiedeva, pur defalcando il valore delle «due stampe di legno, et altri miglioramenti lasciati nella casa della Minerva» dove lo aveva fatto subentrare.

tra coloro che dovevano avere soldi dai suoi eredi ricorda altresì il «signor cornelio Meyer olandese», al quale si doveva saldare una croce di diamanti che Martinelli aveva acquistato da lui, piccola te-stimonianza di rapporti umani oltre che professionali. sappiamo d’al-tro canto che l’olandese era stato in difficoltà economiche per molto tempo e aveva ripetutamente venduto suoi gioielli e beni per mante-nersi in attesa di essere pagato dalle autorità pontificie (43).

Quanto fosse ambita la carica di soprintendente al ponte felice detenuta da Martinelli ci è testimoniato dall’esistenza di un elenco as-sai nutrito di coloro che proposero la propria candidatura o furono tenuti presenti per sostituirlo. sono diciannove persone tra architetti

(42) negli studi sono segnalati alcuni dei suoi documenti presenti in questo fondo, sen-za che sia mai precisato perché vi siano pervenuti.

(43) asr, congregazione delle acque, b. 253, fasc. 661, contiene una causa a stampa che l’olandese promosse per essere pagato, da cui risulta questo dato.

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veri e propri, intellettuali e impresari di costruzioni, e alcuni erano tra i principali professionisti del tempo. ricaviamo da questo mate-riale documentario che accanto a Martinelli dovettero lavorare do-menico Legendre, che si definisce architetto assistente alle palificate del ponte felice, sebastiano giannini che dichiara di aver fatto as-sistenza per la costruzione delle stesse, e soprattutto romano cara-pecchia (44). Questi affermò che Martinelli «nella soprintendenza che aveva del ponte felice si è sempre servito dell’opera di romano ca-rapechia […] tanto nel fare tutti i disegni e piante, quanto nel man-darlo fuori, già che il detto romano è architetto di professione», fra-se che palesa anche una non velata nota polemica (45).

Benché sia possibile pensare che carapecchia volesse accrescere la sua importanza, l’ipotesi che Martinelli si avvalesse di professioni-sti almeno per alcune delle sue produzioni grafiche deve essere te-nuta presente.

L’incarico del ferrarese passò a francesco sforzini (1638-1711), che si era occupato del problema delle chiane ove aveva cooperato con Martinelli. anzi, una biografia ottocentesca afferma che lo sfor-zini sarebbe stato nominato architetto delle chiane per diretto inte-ressamento di Martinelli e vi avrebbe conseguito, senza «strepiti», significativi successi. il lauto stipendio pari ad uno scudo al giorno, che ricevette come architetto del ponte felice, probabilmente analo-go a quello del suo predecessore, spiega perché questa carica fosse tanto ambita (46).

(44) asr, congregazione delle acque, b. 253, fasc. 661. Le carte sono in parte richieste inoltrate dagli interessati e in parte appunti compilati da terzi. complessivamente vi figurano gli architetti camillo arcucci, carlo francesco Bizzaccheri, girolamo caccia, romano ca-rapecchia, domenico Legendre, sebastiano giannini, paolo picchetti, carlo rainaldi, anto-nio ronca, alessandro di cinzio sbrega, giovanni francesco zannoli; vitale giordani e pa-ris degli alessi; come «matematici», giovanni antonio Morettini impresario delle passonate. sono solo citati, senza dati sull’attività svolta, giovanni Maria Bolina, antonio del grande, vincenzo della greca, giovanni antonio de rossi, Mattia de rossi. su questo cfr. la sintesi di s. PaScucci, Gli architetti delle ripe, in In urbe, cit. a nota 1, pp. 299-300.

(45) B. contarDi, Carapecchia Romano Fortunato, in In urbe, cit. a nota 1, p. 333, con rimando errato a asr, congregazione delle acque, b. 251, fasc. 661.

(46) s. PaScucci, Martinelli, cit., in In urbe, cit. a nota 1, p. 744. per la biografia ottocen-tesca, a. roSSi, Vita di Frascesco Sforzini architetto civile todino, in «giornale di erudizione artistica», iv (1875), pp. 342-347, in partic. p. 346. appena arrivato a roma, sforzini gua-dagnava solo 15 centesimi di scudo al giorno.

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L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi 261

appendice docuMentaria

elenco dei disegni conservati presso l’archivio di stato di roma, congregazione delle acque, busta 71, fasc. 213, volumetto v, senza titolo [le lettere che indicano i disegni sono presenti sull’originale ma non la numerazione]:

1. a vena della chiana senza alcun riparo 2. B vena della chiana con Banchine, et antifossi 3. c vena della chiana con banchine, et antifossi 4. d vena della chiana con ripari 5. e vena della chiana con ripari 6. f terreno escavato ad angolo retto con passonata 7. g vena della chiana con ripari 8. h vena della chiana con ripari 9. i passonata, a linea diagonale e catene intaccate10. L alveo del peruzzi nel sito dove è la bocca11. M pianta della Bocchetta del alveo del peruzzi12. n alveo del peruzzi con la Bochetta13. Bocchetta del alveo del peruzzi perfettionata14. p alveo de romani nel sito dove è il regolatore15. Q alveo de romani con suo regolatore16. r Bocchette, del Butterone con suo profilo17. s torre del Butterone18. t demostrasioni degl’effetti delle piene dell’astrone19. v chiaro alimentato da vive sorgenti20. X ortografia delle torri delle chiane / torre di Beccati Questo / torre di Bec-

cati quest’altro21. Y ortografia delli ponti di arezzo22. z casa de sig.ri gualtieri / casa di rincontro interrita23. Muro grosso detto de romani24. corografica delineatione dell’astrone, e sito dove scorre.

elenco dei libri a stampa di agostino Martinelli tratto dall’opac del sBn:

1. In laudem Leonis 10. pont. opt. max. alma vrbis archigymnasij liberalis restituto-ris oratio inter anniuersarias eiusdem pontificis exequias. Habita in eiusdem Ar-chigymnasij Sacello die 14 feb. 1670 ab Augustino Martinello ferrariensi I.V.D. & publico iuris caesarei interprete, romae, typis tinassij, 1670 (è segnalata an-che un’edizione del 1673).

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M. B. guerrieri Borsoi : L’architetto e ingegnere agostino MartineLLi262

2. Deliciosi trattenimenti dell’anima amante con il suo sposo Giesu distribuiti con-forme l’ordine delle quarant’hore correnti riuerentemente consegrati al gran me-rito della santità di nostro signore Innocentio 11. da d. Agostino Martinelli Fer-rarese, roma, a spese del tinassi, 1676.

3. Descrittione di diuersi ponti esistenti sopra li fiumi Nera, e Teuere con vn discor-so particolare della nauigatione da Perugia a Roma. Del cau. D. Agostino Mar-tinelli ferrarese, …, roma, per nicolò angelo tinassi, 1676.

4. Disegni di cappelle, et altre Fabriche da construirsi nella Chiesa di S. Barbara de’ signori librari di Roma dal C. dottor don Agostino Martinelli ferrarese, in roma, per il tinassi, 1679

5. Notitie, e delineatione del famoso ponte d’Ottauiano Augusto nella città di Ri-mini inuiate alli ss. consoli di detta città dal dottor cau. d. Agostino Martinel-li …, roma, per il tinassi, 1681.

6. Stato del ponte Felice rappresentato alli eminentissimi, e reuerendissimi signori cardinali della S.C. dell’acque. Dal caualier D. Agostino Martinelli ferrarese …, roma, per nicolò angelo tinassi, 1682.

7. Continuatione dello stato del ponte Felice già descritto dal caualiere D. Agosti-no Martinelli ferrarese. All’eminentissimi e reverendissimi signori cardinali del-la Sacra Congregazione dell’acque, roma, per nicolò angelo tinassi, 1682.

8. Raguaglio alli emin.mi e reu.mi signori cardinali della Sacra Congregatione so-pra le Acque. Humilmente inuiato dal caualiere dottore D. Agostino Martinel-li …, roma, nella stamperia della reu. cam. apost., 1684.

9. L’esperienza maestra per le operationi da farsi per l’auenire in riparare alle ripe del Teuere dal ponte Felice sino alla Gabelletta nelli Piani di Magliano. Consa-grata … Dal Caualiere d. Agostino Martinelli ferrarese, … roma 20. decembre 1685, roma, nella stamperia della reu. cam. apost.

10. I fiumi in libertà overo nuovo modo di regolare con molto frutto, e poco dispen-dio le acque correnti … del Cavalier D. Agostino Martinelli …, roma, per dom. ant. ercole, 1686.

11. Il monte Testaceo o Testacio risposta del caualiere D. Agostino Martinelli ferra-rese professore del Ius Cesareo nell’Vniuersità di Roma, & agente per la sua pa-tria. Ad un uirtuoso suo amico, da cui è stato ricercato di notitie sopra al detto monte, roma, per dom. ant. erc., 1686.

Maria barbara guerrieri borSoi

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma:la Vicenda di unO scOnOsciuTO

cOmplessO seicenTescO

Orografia e territorio: il sistema delle residenze fra Valle Giulia e Pa-rioli

la Villa dei Tre Orologi, denominata anche Villa parodi delfi-no dalla famiglia che la possedette a partire dagli anni Venti del XX secolo, si costituisce a partire dalla metà del ’600 all’interno di una rete di residenze suburbane, in una continuità orografica e topogra-fica di ville e casini di “delizia” (1).

il nostro studio è stato condotto nel segno di un’articolazione del territorio, centrata sulla presenza emergente della Villa giulia, del plesso culturale della Valle giulia (2) e della continuità fra residenze storiche e casini nobili ubicati sulla collina dei parioli.

(1) gli studi sulla villa in questione ne hanno affrontato finora la presenza all’interno del-la continuità geografica della collina dei parioli, e degli insediamenti su quest’area di casali e residenze, ma con lo sguardo rivolto alle trasformazioni di epoca postunitaria di comples-si ben più antichi, a partire quindi dalla prima delineazione moderna dell’assetto dell’area, costituita dal catasto gregoriano. per la fase che dal catasto gregoriano (circa 1818) arriva alle trasformazioni postunitarie e novecentesche di ville e casini nobili in residenze urbane di pregio e rappresentanze, talvolta, come nel caso della Villa qui studiata, con vere e proprie ricostruzioni, rimandiamo in particolare allo studio di A. MAzzA, Ville e casali nell’area dei Parioli, in Roma - Il verde e la città. Giardini e spazi verdi nella costruzione della forma urba-na, a cura di r. cassetti - m. Fagiolo, atti del convegno, roma 2002, pp. 124-169; per la Vil-la dei Tre Orologi si veda segnatamente, oltre alla parte generale del testo suddetto, anche la scheda sull’edificio e il complesso, alle pp. 156-157.

(2) lo sviluppo degli insediamenti lungo la Valle giulia e le pendici collinari che la de-limitano è oggetto di uno studio diacronico, che dall’antichità romana arriva al contempo-raneo assetto dell’area; è contenuto in Valle Giulia 1911-2011. La valle delle Accademie tra storia e progetto, a cura di s. garano, roma 2006, nella sezione La storia insediativa, segna-tamente alla Cronologia generale (pp. 48-79), a cura di m. Fagiolo, con la collaborazione di a. mazza, che ripercorre le fasi di sviluppo dell’area a partire dal XVi secolo.

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alessandrO maZZa264

un complesso di episodi che sovrappone alla naturalità dell’oro-grafia (una valle che a partire dal fiume Tevere si insinua fra gli spro-ni collinari della Villa strohl Fern, appena fuori della porta del po-polo, e dei monti parioli) la riscrittura operata dalla Villa di giulio iii e culminata nella destinazione a Valle delle accademie, attraver-so gli interventi che, a partire dall’esposizione del 1911, hanno ra-dicalmente segnato la valle stessa, obliterandone le originali relazioni fra percorsi di fondovalle e crinale, nel segno di una costruzione de-gli spazi esterni, piazzali, scalinate, rampe e terrazzamenti, architet-tonicamente ridefiniti in senso monumentale.

per quanto riguarda la Villa oggi denominata dei Tre Orologi (via ulisse aldrovandi, 25), proponiamo qui una ricostruzione della ge-nesi e della successione delle proprietà che ne hanno segnato le dif-ferenti fasi di sviluppo.

lo sguardo d’insieme rivolto a una “rete”, ovvero a un complesso di residenze permette di rileggere l’unitarietà di una configurazione del territorio, successivamente frantumata dall’edificazione novecen-tesca, e dal progressivo imporsi, fra XViii e XiX secolo, della Vil-la Borghese come polo centralizzante di questo settore urbano, per la vastità e il numero dei possedimenti che è andata inglobando, co-stituiti da vigne preesistenti di altri proprietari, ma anche da casini di delizia con una storia e uno sviluppo indipendente (come il cin-quecentesco casino del graziano, o la demolita villetta doria, frutto delle sperimentazioni più precoci e avanzate sul giardino paesistico a roma, ad opera di Francesco Bettini intorno al 1790 (3).

l’analisi qui proposta ripercorre il complesso degli episodi ar-chitettonici – ville, vigne e casini, con relativi giardini e pertinenze – all’interno di una più complessa e bilanciata compresenza di epi-sodi, ricostruendo il sistema Valle giulia - Villa strohl Fern - muro Torto - monti parioli - Villa Borghese. a emergere è quello che ho definito come “paesaggio murato” delle vigne e delle ville (4), aperto sugli scorci improvvisi di portali d’ingresso solenni e paludati, ani-

(3) sulla figura e l’opera del Bettini, eclettico sperimentatore di apparati effimeri per fe-ste, decorazioni da banchetto e giardini nel gusto esotico “anglocinese”, cfr. la relativa voce biografica di C. BenoCCi, in Atlante del giardino italiano 1750-1940, a cura di V. cazzato, roma 2009, ii, pp. 700-704.

(4) cfr. A. MAzzA, Ville e casali, cit. all’interno del testo, si segnala la sezione concernen-te Il paesaggio murato, alle pp. 150-152.

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma 265

mato dalle macchie di vegetazione e dalle spalliere irrompenti al di là dei muri di recinto, in un affascinante richiamo tra la delimitazio-ne operata dall’architettura e la vastità nascosta – leggibile per squar-ci e frammenti – della natura, casuale o strutturata, della vigna o del giardino.

ai lati della Valle giulia e nel fondovalle, all’ingresso della valle stessa lungo la via Flaminia (palazzina di pio iV e Villa cesi, poi po-niatowski), nel suo fulcro (Villa giulia) come nella sua testata conclu-siva (casino del graziano), là dove la valle viene riassorbita nell’alto-piano poi inglobato da Villa Borghese, si dispone una variata sequenza di episodi e architetture.

in alto, sullo sprone roccioso di Villa strohl Fern e sui monti pa-rioli, le architetture appaiono contrappuntate dal sistema dei “luoghi eminenti”, belvedere aperti sul panorama del Tevere e di monte ma-rio. da Villa Balestra, con la sua loggia perduta, alla Vigna cartoni dominante la valle lungo il crinale della collina, per internarsi progres-sivamente con il casino della Vigna modetti (poi Villa sacchetti) (5) alle spalle della galleria nazionale d’arte moderna, vanno allinean-dosi, in una singolare contaminazione, spazi formalmente organizzati e disordine del selvatico e del naturale (come per l’area circostante al casino dipinto afferente a Villa Balestra lungo la via ammannati).

il sistema delle residenze, di produzione e delizia, prosegue alla sommità della valle, lungo il decisivo percorso, oggi parzialmente obli-terato del vicolo delle Tre madonne, corrispondente all’attuale via al-drovandi, al breve tronco della via Tre madonne, che curva in cor-rispondenza di piazza pitagora, per ricalcare il percorso del tratto iniziale di via Bertoloni e successivamente della via paisiello, riunen-dosi in prossimità del casino di grotta pallotta alla via pinciana, pro-veniente dall’omonima porta. all’estremità opposta, il vicolo proveni-va dal muro Torto, attraversando le vigne fra quest’ultimo e la Valle giulia, oggi inglobate nell’ampliamento ottocentesco di Villa Borghe-se. Quest’ultimo tratto dell’asse delle Tre madonne, oggi cancellato e interrato, in quanto divenuto interno alla villa stessa, gioca un ruolo significativo nello sviluppo della Villa dei tre Orologi.

(5) cfr. a. MAzzA, Ville e casali, cit., alle schede relative su Villa Balestra (pp. 153-154), sulla vigna all’epoca ginnasi, poi cartoni (p. 158), su Villa modetti (p. 159).

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La Villa nel Catasto Gregoriano

prima di spingerci a ritroso nella lettura del sito, sarà bene par-tire dal momento decisivo segnato dalla mappa 153 del catasto gre-goriano - agro romano, che intorno al 1818 fissa lo stato dell’arte della villa e dei suoi dintorni (tav. lXV, fig. 1).

la villa vi viene descritta come appartenente all’eredità del mar-chese Francesco maria piccaluga, amministrata da agostino rampie-ri (6). si tratta di una vigna-villa di considerevole estensione, ubicata lungo il vicolo delle tre madonne (attuale via aldrovandi), che in-globa il sito della villa attuale (sua porzione ridotta e superstite), e si estende verso l’interno, lungo il vicolo vicinale, che da via aldrovan-di ricalca il percorso della via di Villa sacchetti per svoltare subito prima dell’odierna via domenico cirillo.

lungo l’asse delle tre madonne, ricalcato dall’omonima strada, la proprietà prosegue in direzione di piazza pitagora, venendo a confi-nare con la Villa dei gesuiti, poi riganti, ubicata lungo la strada stes-sa e il vicolo dell’imperiolo (attuale via Bertoloni).

Oltre alla vigna, che occupa la gran parte dello spazio (particella 432), è chiaramente identificato il casino nobile della villa (443), in-dicato come «casa con corte ad uso di villeggiatura». si tratta di un lungo volume, disposto sul lato corto dello spazio rettangolare del giardino (442), con parterre ad arabeschi. il casino si salda a un cor-po allungato ad esso ortogonale, indicato come «casa per uso della vigna» (441), venendo a formare un edificio a forma di l.

alle spalle dell’edificio, verso l’interno, compare uno spazio, de-scritto nei documenti come stazzo per il suo corredo di sculture, vasi e statue. Quasi alla confluenza del vicolo vicinale con il percorso del-le Tre madonne è ubicato l’«Oratorio privato sotto il titolo di s. Fi-lippo neri» (440). proseguendo lungo il vicolo delle Tre madonne verso i confini del fondo, troviamo un volume allungato, costituito da una «casa per uso della vigna» (433), da una «casa con corte per uso della vigna» (435), da un giardino intermedio che collega i due (434), anch’esso con parterre ad arabeschi, e da una sorta di cortile

(6) archivio di stato di roma (in seguito asr), catasto gregoriano, agro romano, map-pa 153 e relativo Brogliardo. il complesso viene rubricato nella mappa, e nel Brogliardo di descrizione, con i numeri di particella dal 432 al 444.

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma 267

murato, oltre la particella 435, come pure un’altra «casa ad uso del-la vigna» compare lungo il vicolo vicinale (439).

due edifici di carattere rurale e utilitario sono anche lungo il con-fine con la proprietà dei gesuiti (436 e 437, quest’ultimo al fondo del recinto). lungo il recinto, opposto alla strada delle Tre madon-ne, troviamo il bottino dell’acqua Vergine, acquedotto che lambisce la proprietà nel suo percorso attraverso i parioli prima di rientrare in città fino alla Fontana di Trevi (7).

sul lato opposto, all’interno del vicolo vicinale, alla svolta di quest’ultimo in prossimità dell’attuale via cirillo, si allinea il volume allungato di una «casa ad uso di delizia» (438), caratterizzata da una scala di accesso a doppia rampa, delimitante uno spazio ad emiciclo. È questo il Coffeehouse (denominato Caffeaus), già in rovina all’epo-ca del catasto gregoriano, risalente al XViii secolo (8).

di notevole interesse i percorsi interni. Troviamo un asse che si prolunga direttamente dal corpo dell’edificio parallelo al vicolo del-le Tre madonne, penetrando nella vigna fino ad incontrare un altro percorso ortogonale che si spinge all’interno a partire dal vicolo con ingresso sulla strada coincidente al «portone verso la vigna dell’apol-linare», citato nel testamento. la «Vigna dell’apollinare» è la Vigna del collegio germanico ungarico (9), di fronte e al di là del percor-so delle Tre madonne.

dall’ingresso principale del complesso, adiacente alla chiesina, parte un altro viale, che fiancheggia il casino, in direzione delle due case con giardino intercluso già citate.

un altro asse, partendo dallo stazzo posteriore, punta verso il Cof-

(7) per la ricostruzione del percorso dell’acquedotto sulla collina dei parioli prima del suo arrivo in prossimità del muro Torto si rimanda alle piante dell’area all’interno del volume Val-le Giulia 1911-2011, cit., nella sezione della Storia insediativa alle pp. 47, 51, 55, 59, 63, 67, 71 e 79, con l’acquedotto raffigurato in relazione alle specifiche situazioni storiche dell’area.

(8) per il Coffeehouse avanziamo la datazione del XViii secolo poiché, pur esistendo un manufatto in situ, esso non compare con questa denominazione nel documento più antico in cui la villa viene menzionata, vale a dire il Testamento di carlo Valle (della Valle) del 1666, con relativo Inventario dei Beni stabili. cfr. più oltre, alla nota 15.

(9) la definizione si spiega con il fatto che il collegio germanico ha sede a roma nel complesso di s. apollinare. la Villa del collegio germanico diviene Villa Taverna a seguito dell’acquisto di questa famiglia attorno al 1921. a questa data infatti risale il progetto di re-stauro e ricostruzione del manufatto ad opera di carlo Busiri Vici, su commissione di ludo-vico Taverna. cfr. a. MAzzA, Ville e casali, cit., con scheda relativa a p. 157.

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feehouse, in un contesto reso monumentale dalla presenza di scultu-re e reperti che animavano gli spazi esterni e il porticato della villa stessa, visibile in una pianta del 1824 (10).

separato dal resto della proprietà, al di là del vicolo vicinale, lun-go la strada delle Tre madonne, si stende il canneto (mappa n. 444) delimitato all’estremo opposto da un altro tronco del vicolo delle Tre madonne (attuali via mangili e via de notaris), altrove indicato come «Vicolo de’ greci» (11), dalla proprietà del collegio greco affacciata su di esso, di fronte alla Vigna ginnasi (12). ritroviamo il canneto in tutti i documenti concernenti i passaggi di proprietà della villa.

lo stato del complesso, come emerge dalla mappa del catasto gre-goriano, è quello di una villa-vigna, dove la predominanza dello spazio utilitario agricolo si accompagna a manufatti (casino nobile, cappella, Coffeehouse), spazi costruiti (il grande giardino e il giardino minore fra le due casette) e assi di percorrenza e di ingresso (viali e stazzo).

il progressivo sviluppo di queste residenze, con i loro giardini e spazi esterni configurati ad usi di delizia e di “villeggiatura”, va articolandosi dal XVi secolo a partire dalla determinante presenza dell’acquedotto Vergine, che lambisce la Villa dei Tre Orologi, come si evince dal catasto gregoriano, provenendo dalla contigua Vigna dei gesuiti (riganti) in direzione del muro Torto. l’acquedotto deve aver giocato un ruolo decisivo nell’antropizzazione di questo settore del suburbio, fra parioli, salaria e nomentana: non a caso, nei pres-si si allinea una sequenza di residenze suburbane e vigne, sovente di notevole qualità, spesso attestate sul filo stradale, in una fitta relazio-ne con la trama dei giardini segreti, e con la continuità dei prospet-ti murati intervallati da portali.

citiamo lungo la salaria la Villa amici, la Villa simonetti, oggi trasformata in albergo, e decorata da delicati cicli pittorici di vedu-te e di grottesche (13), il complesso degli edifici, casino nobile, edifi-

(10) asr, 30 notai capitolini, uff. 18, notaio successor contucci, atto del 14/8/ 1824, ff. 147r-180v. la pianta in oggetto è ai ff. 160-161. pianta e documento sono relativi a un passaggio di proprietà (vedi più oltre nel testo).

(11) l’indicazione «Vicolo de’ greci» compare nella pianta succitata del 1824 (cfr. nota 10).(12) per i casali del «colleggio greco» indicato nel Brogliardo 153 del catasto gregoria-

no, cfr. la scheda relativa, in a. MAzzA, Ville e casali, cit., pp. 158-159.(13) per la Villa simonetti, ubicata in via salaria al civico 241, rimando allo studio di a.

MAzzA, Villa Digne e Villa Simonetti a Roma: due “casini nobili” fra demolizioni e alterazioni,

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma 269

ci rustici e chiesina, della Villa gangalandi poi lancellotti, il casino saliceti, la Villa pallavicini (nucleo della futura Villa ada), il casale del cardinal Filomarino.

XVII secolo: la proprietà Valle

la Villa dei Tre Orologi compare, sullo sfondo, in una vedu-ta della Villa Borghese di simon Felice delino (1676), quasi in asse con il viale tangente al casino della villa stessa. Qualche anno dopo viene raffigurata in una veduta a volo d’uccello del casino Borghese di giovanni Battista Falda (circa 1680) (14), con l’inequivocabile pian-ta a due bracci disposti ortogonalmente, chiaramente al di là del ter-zo recinto della proprietà Borghese, il «Barco di Borghese» già cita-to nel testamento del 1666.

nel testamento (15), come detto datato 10 aprile 1666, il fondo, de-nominato «Vigna detta il giardino» apparteneva a carlo Valle (in real-tà Vallius, ossia della Valle), esponente dell’importante famiglia roma-na, che annovera oltre al cardinal andrea (1463-1534), anche pietro della Valle (1586-1652), studioso, archeologo ed esploratore (16).

dal documento (17) emerge la consistenza di un cospicuo patrimo-nio immobiliare, gravato tuttavia da una pesante situazione debitoria.

in La Festa delle Arti. Scritti in onore di Marcello Fagiolo per cinquant’anni di studi, a cura di V. cazzato, s. roberto, m. Bevilacqua, roma 2014, ii, pp. 880-887.

(14) G. B. FAldA, Li Giardini di Roma con le loro Piante Alzate e Vedute in prospettiva disegnate ed intagliate da Gio. Battista Falda, roma [1680?]. all’interno del volume, la raffi-gurazione della Villa dei Tre Orologi è sullo sfondo della Veduta e Prospettiva del Giardino dell’Ecc.mo Sig. Prencipe Borghese fuori di Porta Pinciana.

(15) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 194, not. domenico Valentini, atto del 10/4/1666. il testamento è ai ff. 329r-331v e ff. 344r-346r. il testamento viene redatto da carlo Valle. la citazione del «Barco di Borghese» come confine della villa è al f. 376r.

(16) a pietro della Valle dobbiamo un importante resoconto della sistemazione urbana di isfahan, della sua piazza, ritenuta la più grande del mondo antico, e dei suoi giardini. le sue descrizioni dell’assetto urbanistico, dei viali e dei giardini di isfahan vengono riportate con ampi stralci nel volume di l. zAnGheri - B. lorenzi - n. M. rAhMAti, Il giardino islami-co, [Firenze] 2006, alle pp. 86 e 90-92. nello stesso volume, alla sezione Appendice di scritti, si segnala lo scritto di p. dellA VAlle, Le ghiacciaie in Persia (pp. 170-172).

(17) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 194, cit., f. 346r. il Testamento di carlo Valle viene siglato nella sua casa, «paulo longe ab ecclesia s.ti andreae de Valli», nella regione di s. eustachio, chiaramente identificabile come il palazzo che si trova oggi sul corso Vittorio emanuele ii, che fiancheggia la chiesa omonima dedicata a s. andrea.

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per sanare quest’ultima, carlo Valle dispone la vendita di alcuni beni, fra cui «la Vigna detta il giardino fuor de porta del popolo o sia pinciana in loco detto le Tre madonne» (18). carlo Valle nomina come esecutore testamentario Fioravante martinelli, fra i suoi creditori per la somma di 175 scudi. la figura di martinelli è quella di un colto prelato, bibliotecario ed erudito, amico e committente del Borromini per la propria residenza a monte mario. carlo Valle appare collegarsi all’entourage di riferimento della committenza borrominiana: oltre alla figura del martinelli troviamo un’esplicita dichiarazione di devozione indirizzata al cardinal Francesco Barberini, della cui benevolenza il Valle ha sempre goduto, affinché protegga i suoi figli (19).

sempre allo scopo di sanare la consistente esposizione finanziaria gravante sull’eredità, carlo Valle ordina che la casa dove abita con i suoi eredi venga data in affitto, al fine di ricavarne una «grossa pi-gione», e i suoi eredi vadano ad abitare nella «casa grande incontro alla guglia di s. maria magiore» (sic) (20). il testatore istituisce come suoi eredi universali i figli maschi Francesco, antonio, michelange-lo, paolo, giovanni e matteo, e il figlio che deve nascere dalla mo-glie incinta se sarà maschio (21). Tutrice e curatrice dei figlioli viene nominata la moglie, assieme al fratello raniero Valle e al figlio mag-giore Francesco, che però è minore di venti anni.

(18) Ibidem, f. 344r. le altre vigne da vendersi sono «la Vigna vicino la porta di s. lo-renzo, il giardino a s. maria magiore (sic) incontro s. antonio, la Vigna fuor di porta ma-giore chiamata la Vigna del Torrione». la «Vigna detta il giardino […] in loco detto le Tre madonne» va identificata con il sito dell’attuale Villa dei Tre Orologi, ed è riportata nella sua consistenza di villa per tutti i documenti successivi. sempre al fine di saldare i propri debi-ti, il testatore dispone di vendere anche i tre cavalierati, pio, giglio e lauretano. Qualora la vendita, anche di altri frutti di censi e luoghi di monte, non soddisfi i debiti, egli ordina che si vendano le gioie e gli argenti presenti nella sua eredità (f. 344v).

(19) È stato evidenziato il ruolo di Francesco Barberini (1597-1679) come committente di Borromini per il rifacimento di una residenza di famiglia, oggi distrutta, anch’essa a monte ma-rio, sulle pendici del colle che guardano verso roma. cfr. S. SAntolini, Dalla Villa Barberini alla Villa Mazzanti, in Monte Mario dall’antichità ai Piani di Marcello Piacentini, roma 2014, c.d.s.

(20) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 194, cit., f. 344v.(21) Ivi, passim. la destinazione dell’eredità di carlo Valle ai figli maschi comporta l’ulte-

riore precisazione, che se qualcuno di loro morirà senza eredi maschi legittimi si sostituiscano uno all’altro, per ordine successivo e ad infinitum, escludendo sempre le femmine, e mancan-do a qualcuno di loro la discendenza mascolina, che succedano loro gli altri discendenti ma-schi degli altri suoi figli. carlo Valle lascia alle tre figlie femmine prudenzia, clara e Felice e alla figlia che deve nascere dalla moglie maria candida Vigilante (incinta), se sarà femmina, la somma della dote, senza che esse possano pretendere altro dalla sua eredità.

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma 271

all’interno del testamento si trova l’inventario dei beni di carlo Valle (22). una specifica sezione dell’inventario è dedicata alle «robbe ritrovate nella Vigna grande incontro il Barco di Borghese, che con-fina con il collegio romano» (23). si tratta di un’accurata descrizione della villa ai parioli, identificata dai suoi confini: «incontro il Barco di Borghese», ossia di fronte al Terzo recinto (il Barco della Villa), al di là di quella che nei documenti viene identificata come la «strada pub-blica» delle Tre madonne (attuale via aldrovandi), e confinante con il «collegio romano», ossia la Vigna dei gesuiti, poi riganti (24).

in questa sezione sono descritti arredi e mobili, singoli spazi e am-bienti, dal casino nobile agli altri edifici del complesso. Oltre alla chie-sa posta all’inizio del Vicolo vicinale (attuale via di Villa sacchetti), qua-si all’angolo di questo con la via delle Tre madonne, viene analizzato il casino nobile, denominato «casa della d.a Vigna», quindi la grotta.

gli spazi aperti, un «Boschetto sopra la grotta», e lo «stazzo in-contro la casa grande», presentano sculture e arredi in marmo e pe-perino, collocati anche all’ingresso principale alla villa, «incontro al cancello attaccato alla chiesa» e all’altro ingresso, «incontro al por-tone verso la vigna dell’apollinare». si tratta di statue e sculture, sia antiche che moderne, assemblate in originale sincretismo fra collezio-nismo antiquario e reinterpretazione del giardino classico, nel segno della riscoperta dell’antico inaugurata dalle grandi collezioni cinque-centesche nei giardini romani.

iniziando dalla chiesa, troviamo al suo interno, oltre agli arredi sacri, dagli inginocchiatoi ai paramenti, «un’urna antica di marmo intagliato sopra l’altare».

la «casa della d.a Vigna», ossia il casino, presenta una sequenza e un apparato di sale di tono paludato. nella sala troviamo un com-

(22) nell’inventario sono esaurientemente descritti gli arredi dell’abitazione romana, chia-ramente identificabile come il palazzo della Valle vicino alla chiesa di s. andrea (fra le stan-ze ve n’è una denominata «[…] stanza contigua alla sud.a verso s. andrea» (f. 359r), e un’al-tra «[…] ultima stanza verso s. andrea» (f. 372r). nelle sale sono numerosi quadri, arazzi, e «Banchi p. il palco della comedia» (f. 373v), verosimilmente uno spazio destinato a rap-presentazioni teatrali private.

(23) Ibidem, ff. 376r-381v. le successive descrizioni degli ambienti interni ed esterni del-la villa sono contenute in questa sezione.

(24) sulla vigna-villa dei gesuiti del collegio romano, poi casale riganti, si rimanda ad A. MAzzA, Ville e casali, cit., alla parte generale dello studio e nella scheda relativa, pp. 159-162.

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plesso di sculture, variamente accostate e assemblate, dagli «otto pie-di stalli alti sopra sei a ciascuna una testa di statua con mezzo busto, sopra dui con petto e busto», al «vaso di marmo col suo cuperchio antico», ai soprapporte «sopra le quattro porte nelle nicchie a cia-scuna un busto di statua».

alle pareti, quadri di soggetti storici («quattro quadri in tela d’im-peratore con cornici filettate d’oro con l’istorie uno di muzio sce-vola, l’altro di cleopatra, e gl’altri dui diverse istorie antiche tutti d’una mano d’un istesso pittore») e di paesaggio («quattro altri qua-dri longhi dieci palmi in circa con le cornici finte di pietra mischia delle quattro stagioni»).

nella stanza successiva alla sala, «che segue verso la vigna del collegio romano», destinata a camera da letto, ancora «tre quadri di tela d’imperatore con le cornici filettate d’oro una madonna, l’al-tro un s. gio. l’altro d’un ballo diverse donne et homini, e un qua-dro di tela d’imperatore d’un profeta».

il casino dispone di almeno tre logge, una coperta posta «a po-nente» di una camera da letto, con a sua volta altra loggia soprastan-te, una «verso il barco di Borghese», posta quindi a levante, e oppo-sta quindi alla precedente, e un «anito [andito] o sia loggia che esce a piano della vigna alla pergolata».

la loggia coperta «a ponente» va identificata con il porticato sor-retto da quattro pilastri, e affacciato sullo stazzo posteriore, che tro-viamo raffigurato nella pianta del 1824, con relativo terrazzo (la log-gia soprastante). la loggia «verso il barco di Borghese» è chiaramente la terrazza che nella mappa del catasto gregoriano e nella pianta del 1824 comparirà rivolta verso il giardino più basso, raccordata ad esso da una scalinata a due bracci.

più complessa rimane l’identificazione della «loggia che esce a piano della vigna alla pergolata». sulla base della mappa del grego-riano e della pianta del 1824 la pergolata coincide a mio avviso con l’asse che dal prospetto nord-est del casino attraversa la vigna, in po-sizione quasi parallela al vicolo delle Tre madonne.

la loggia «a ponente» ospita «diversi pezzetti di marmo di frag-menti di statue et anticaglie». si tratta dunque di uno spazio filtran-te, decorato secondo la tradizione della villa-vigna romana da fram-menti e reperti. la loggia-terrazza soprastante ospita a sua volta «dui arpie di peperino rotte», mentre nella loggia rivolta «verso il barco di Borghese» troviamo «dui leoni, e tre cani di peperino».

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piuttosto controversa appare l’ubicazione, nella «loggia verso la grotta», di «dui leoni di peperino». Questa loggia rivolta alla grotta, nominata assieme agli arredi di quella rivolta verso la proprietà Bor-ghese, dovrebbe trovarsi sul sito della loggia opposta, rivolta all’in-terno della Vigna, se si considera che la grotta, nella pianta del 1824, compare in un angolo dello stazzo posteriore. potrebbe trattarsi tut-tavia di una grotta diversamente orientata, rispetto a quella indicata nella pianta, abbandonata e distrutta nel secolo e mezzo intercorso fra il documento in esame e la pianta stessa. in altre parole, il boschet-to di statue seicentesco – di cui più oltre – avrebbe potuto occupa-re il sito poi regolarizzato a giardino formale. ma si tratta di un’ipo-tesi che attende conferme documentarie.

l’«anito o sia loggia che esce a piano della vigna alla pergolata», identificabile anch’esso come uno spazio coperto affacciato sull’ester-no, ospita «dieci vasi grandi, e sei piccoli». i vasi di agrumi sono un topos ricorrente nell’arredo di giardini e porticati nelle ville suburbane.

al piano superiore, «nell’appartamento superiore nella stanza so-pra la sala», troviamo un ambiente con funzioni di rappresentanza. le pareti sono riempite di quadri: «cinque quadri cioè dui in tela di testa di dui vasi di fiori li altri tre un poco più grandi de frutti senza cornici», e ancora «un quadro in tela mezza d’imperatore con cor-nice fiorata, e filettata d’oro di un, che suona un ciufolo, et altre fi-gure, che sonano e cantano, un altro quadro in tela poco più gran-de da testa di un ritratto d’un vecchio», e il reperto adattato ad un mobile: «un piede di marmo con la sua Tavola […]».

come pure di rappresentanza, destinata a sala della musica, è la «stanza bislonga verso il cancello della vigna», ossia rivolta verso l’ac-cesso dal Vicolo vicinale (via di Villa sacchetti). Qui troviamo «Tre quadri in tela da testa, un solo con la cornice filettata d’oro, dui altri quadretti uno di una testa tagliata, l’altro d’un retrato», e «un cem-balo a spinettone foderato di pelle». la lettura dell’inventario rivela dunque la presenza di almeno tre sale di rappresentanza, la «sala», la «stanza» dell’appartamento superiore, e la «stanza bislonga»: am-bienti fittamente decorati da quadri a soggetto sacro, storico e di pae-saggio, animati da busti, frammenti e reperti adattati e reimpiegati.

nell’andito «della casa grande» troviamo «dui statue piccole, una d’una Venere ignuda, e l’altra d’un putto con un ucello in mano, item d’un Busto d’una donna, dui sedie d’appoggio a stecca», infine «un busto di romano».

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sculture e frammenti, nel porticato e nelle logge, che dilagano nel «Boschetto sopra la grotta». Qui il selvatico si contamina con l’arti-ficio della pietra e con la sequenza delle sculture che irretiscono lo spazio naturale in un complesso di immagini: vediamo sfilare «quat-tro busti di statue, dui statue di peperino, item un’altra statua di pe-perino, item un fusto tondo gambe di peperino d’una donna senza braccie», e «quattro scabelli di peperino». il fascino di questo spa-zio, insieme naturale e artificiato, arredato con sedute come un in-terno, rimanda alla serrata dialettica, presente in molte ville romane, tra il selvatico – luogo della caccia, della ragnaia, del roccolo – e l’ar-tefatto della scultura e delle immagini di pietra, come contrappun-ti o sfondi di assi visivi e percorsi. Qui, tuttavia, i due termini, non più pertinenti a contesti separati, appaiono fondersi e contaminarsi all’interno di uno stesso spazio, sorta di bosco sacro insieme caotico e architettonico.

colpisce l’affastellarsi di busti e statue attorno a quello che è uno spazio (la grotta) dal carattere utilitario, di rimessa e conserva per i vini e gli attrezzi. uno spazio non magniloquente di per sé, attorno al quale l’affabulazione scultorea disegna una sorta di accrescimento, di climax spaziale e simbolico. renata ago ha esplicitamente parla-to, per il collezionismo romano cinque-seicentesco, di una volontà di accesso al mondo invisibile, contrapposta alla circolazione commer-ciale dei beni (25), che sottrae le collezioni – sculture, reperti, dipin-ti, biblioteche – al flusso economico, per consegnarli a uno spazio atemporale ed eterno. È forse allora possibile mettere in relazione lo squarcio della grotta, come accesso al mondo sotterraneo, al profon-do, alle cose che stanno sotto il visibile, con la materializzazione di questa volontà di “oltrepassamento”, metafisica e simbolica. la fore-sta di statue veglia accanto alla discesa degli inferi, in un rimando al tema delle grotte, fortemente tributario della cultura manierista.

il boschetto è dunque insieme bosco sacro, iter iniziatico da per-correre in vista di una comprensione superiore, nella dialettica tra visione dall’alto (qui il casino della Villa, con le sue logge) e visione dall’interno (l’attraversamento) individuata da marcello Fagiolo (26).

(25) cfr. r. AGo, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, roma 2006, segnatamente al paragrafo Il sacrificio dell’utile (pp. 123-125).

(26) sul tema della comprensione del bosco e del giardino come visione rivelata (attra-verso il dominio di uno sguardo ordinatore) o avventura travagliata (percorso iniziatico) si

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il confronto fra autonomo disporsi delle statue, esteticamente col-locate come poli attrattori di ordine e forma, e il disordine del sel-vatico rimanda a più di un illustre paradigma coevo nelle ville roma-ne: si pensi al bosco, denominato labirinto, punteggiato di statue che ne articolano e contengono l’irriducibile esuberanza, all’interno della Villa Orsini, nucleo della perduta Villa ludovisi (27).

Busti, sculture e vasi che articolano anche lo spazio dello «staz-zo incontro la casa grande» (28). Qui troviamo «dui leoni di peperino, dui cani di peperino, quattro busti di statue di marmo, sei vasi di terra p.[er] piante». presso l’ingresso principale della Villa, «incon-tro al cancello attaccato alla chiesa», ancora «dui statue vecchie di marmo», e «dui cani di peperino». come pure lo spazio «incontro al portone verso la vigna dell’apollinare» compare ornato da «dui sta-tue di peperino», e «un […] piccolo di marmo di rilievi».

una collezione scultorea che ritroviamo anche presso un edifi-cio minore, la «casetta a piedi alla vigna incontro al pasqualoni» (29), che allinea «dui statue grandi di peperino», e «quattro altre picco-le di peperino».

il nome pasqualoni sembra indicare la vigna omonima, che nella mappa del catasto gregoriano compare alle spalle della villa, al di là del vicolo vicinale e all’interno dei parioli (30). la «casetta a pie-di alla vigna» non può che essere allora il piccolo edificio all’angolo estremo della proprietà, raffigurato con la doppia rampa d’ingresso e descritto «ad uso di delizia»: si tratta di quello che nella pianta di

veda M. FAGiolo, Il giardino sulla scena del manierismo e del Barocco, in M. FAGiolo - M. A. GiuSti - V. CAzzAto, Lo specchio del paradiso. Giardino e teatro dall’Antico al Novecento, mi-lano 1997, p. 58.

(27) giovanni Battista Falda nella legenda della sua pianta definisce il bosco della Villa Orsini, poi ludovisi come un «labirinto in forma di bosco adornato di statue». Questa de-finizione è ripresa da A. CAMpitelli, nel capitolo Dal classicismo alle innovazioni barocche: i nuovi modelli di villa, in Atlante storico delle ville e dei giardini di Roma, a cura di a. cam-pitelli - a. cremona, roma 2012, p. 143.

(28) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 194, cit., ff. 381r-381v.(29) Ibidem, fol. 381v.(30) asr, catasto gregoriano, agro romano, cit. la Vigna pasqualoni (denominata vi-

gna dell’«eredità del fu pasqualoni domiziano prete amministrata da stazzi luigi») è descrit-ta con le particelle n. 445 per la vigna, nn. 446 e 447 per i due edifici posti a filo del vicolo vicinale, prospicienti sul lato opposto il confine della Villa già di carlo Valle. su questo con-fine, all’interno della villa nella svolta del vicolo, troviamo raffigurato l’edificio denominato Coffeehouse nella pianta del 1824.

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poco successiva (1824) comparirà indicato come Coffeehouse. Questa destinazione va a mio avviso ricondotta a una modifica intervenuta in una fase settecentesca del complesso: tuttavia, l’ubicazione di un parco di sculture in prossimità di questo edificio già nel ’600, por-ta a individuarlo come il secondo polo a vocazione villereccia e mo-numentale della «Vigna detta il giardino», in relazione al complesso costituito dal casino, dallo stazzo e dalla grotta.

le sculture della villa sono dunque in marmo, scultura antica o «all’antica», e peperino, pietra laziale. le sculture di animali, come cani e leoni, attestate in posizione strategica agli ingressi, nelle logge, e nello stazzo, sovrintendono simbolicamente alla tutela e alla pro-tezione del sito (31), vero e proprio mondo «cosmizzato», recinto di uno spazio sacro e rituale, che si pone come «ricostruzione del mon-do» (32).

Va sottolineato come, accanto agli spazi esterni descritti nell’in-ventario (la pergolata, il boschetto, lo stazzo, l’ingresso avanti al can-cello) non ve ne sia nessuno definito come «giardino», e questo no-nostante la denominazione di «Vigna detta il giardino» riportata nel testamento. se ne deduce che, alla data del 1666, non esistesse al-cuno spazio configurato come tale, ma che il carattere di «giardino» della proprietà emergesse dalla presenza cospicua di sculture, statue e frammenti, disseminati in relazione alla vegetazione e ai percorsi, e non concentrati in uno spazio specifico. il giardino appare essere al-lora lo spazio connotato da simboli, teatralmente invaso dalle scene di pietra, in una circolarità fra giardino e teatro nel segno della rap-presentazione (33). per il giardino va quindi ipotizzato un impianto suc-cessivo alla data del testamento, verosimilmente settecentesco.

(31) il tema delle statue di animali, poste simbolicamente a guardia di un giardino o di un edificio, e più in generale della ricca presenza di un repertorio zoomorfo nelle ville lazia-li, viene discusso da cecilia mazzetti di pietralata, in C. MAzzetti di pietrAlAtA, Giardini storici. Artificiose nature a Roma e nel Lazio, roma 2009, segnatamente nello studio La scul-tura in giardino, pp. 77-84.

(32) riprendiamo questa affascinante definizione di mircea eliade (M. eliAde, Tratta-to delle religioni, Torino 1954, pp. 381-382), citato da M. FAGiolo, nella sua interpretazione degli Elementi del giardino. Il Recinto, in M. FAGiolo - M. A. GiuSti - V. CAzzAto, Lo spec-chio del paradiso, cit., p. 127.

(33) per il tema del giardino come teatro e di converso, della scena teatrale come giardi-no, rimandiamo all’analisi di M. FAGiolo, Il giardino sulla scena del manierismo e del Barocco, in M. FAGiolo - M. A. GiuSti - V. CAzzAto, Lo specchio del paradiso, cit., pp. 58-77.

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la residenza accoppia il carattere monumentale e villereccio a spazi destinati alle incombenze produttive: la grotta (34) ospita «undi-ci botticelle di cinque barili in circa cerchiate di ferro, sei però pie-ne di vino». «Botti, barili e bigonzi» corredano il Tinello. al «piano terreno» del casino troviamo una «stalla con un somaro vecchio», e nella «stanza contigua una carozza vecchia», «quattro forbici da to-sare spalliere», e «dui pali da piantar la vite p. trattare», in una me-scolanza di attrezzi destinati allo spazio di «delizia» (le spalliere) e a quello di produzione (i pali per le viti).

accanto all’inventario delle «robbe ritrovate nella Vigna gran-de», la descrizione dei beni stabili dell’eredità di carlo Valle enume-ra il complesso del patrimonio immobiliare del testatore, oltre al pa-lazzo nel rione s. eustachio (35).

la rassegna di immobili e vigne prosegue con una sequenza di vigne: «un’altra vigna in pariolo in loco detto le tre madonne di sei pezze in circa circondata di muro confinante con il pnpe Borghese, e Vermiglioli. una Villa circondata tutta di muri con la chiesa dedi-cata alla ss.ma madonna della assunta con casa grande, et altre di-litie confinante con li beni del collegio romano.

un’altra Vigna con canneto sotto la sud.a Vigna mediante solo il Vicolo confinante con li beni [nel documento originale spazio bian-

(34) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 194, cit., f. 381r.(35) Ibidem, ff. 384r-385v. per quanto riguarda i beni immobili dell’eredità di carlo Val-

le, diamo di seguito una sintesi dell’elenco complessivo. la descrizione inizia con «il palaz-zo nel rione di s. eustachio cantonata nella strada che dalla sapienza va a s. andrea del-la Valle da una parte confinante con li sig.ri massimi salvis» (f. 384r). segue una casa alla minerva, «un’altra casa grande che fa facciata nella piazza di san lorenzo in lucina confi-nante dall’uno, e l’altro lato li beni detto q. sig. carlo nella quale hoggi habita il sig. angelo andosilla con le botteghe sotto» (f. 384v). Tra le altre, una casa nella strada del pellegrino, e «un’altra casa alli monti nella strada detta dè serpenti con giardinetto dietro comprata dal d.o sig. carlo dalli sig. merli, quale dal d.o sig. carlo è stata venduta al […] al sig. giusep-pe (senza cognome) eccetto le due botteghe sotto una delle quali è stata venduta dal d.o sig. carlo pacto redimendi, e l’altra resta libera all’heredità» (f. 384v). «un’altra casa nella piazza di s. maria maggiore incontro la guglia comprata da d.o sig. carlo dal sig. Bonifazio lucidi» (ff. 384v-385r). «un’altra casa sotto la scenta contigua alla sud.a con le stanze sotto all’una, e l’altra casa che sogliono locarsi separatam.[ente]» (f. 385r). «due altre casette p. la salita di s. maria maggiore p. s. lorenzo in panisperna che confinano dietro con li giardini della sud.a casa» (f. 385r). «un giardino con una casetta posta incontro a s. antonio nella strada che va all’arco di s. Vito. una vigna dentro le mura di roma vicino la porta di s. lorenzo di sei pezze in circa. un’altra Vigna fuori di porta maggiore chiamata la Vigna del Torrione di ventiquattro pezze in circa la maggior parte sodiva».

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co, senza cognomi] di sei pezze incirca. un’altra Vigna posta a muro Torto di sei o sette pezze in circa con muri novi, e casa nova fatta fabricare da d.o sig. carlo confinante con li beni di sig. michelange-lo sammarugo» (36).

Troviamo dunque ben quattro proprietà, tre vigne e una villa, nell’area fra i parioli e il muro Torto. la «Villa circondata tutta di muri, con chiesa, et altre dilitie», va identificata, per la tipologia (casa grande) e il riferimento ai confinanti (collegio romano) con la nostra villa.

la «Vigna con canneto sotto la sud.a Vigna mediante solo il Vi-colo» è chiaramente il canneto allineato lungo il percorso delle Tre madonne, confinante con il Vicolo (attuale via di Villa sacchetti), che nel catasto gregoriano compare come delimitata da quest’ultimo e dal Vicolo de’ greci, attuale via mangili. se si pone però attenzio-ne alla dicitura «sotto la sud.a Vigna», la relazione della Vigna con canneto non va ricercata con la Villa dove è ubicata la casa grande, ma con la prima Vigna enumerata, ossia quella «di sei pezze in circa circondata di muro confinante con il pnpe Borghese, e Vermiglioli». se quest’ultima confina con i Borghese, deve allora trattarsi di una vigna al di qua del Vicolo delle Tre madonne, all’interno di quello che oggi è il complesso della Villa Borghese. stante la contiguità con i Borghese di questa vigna, il riferimento al Vicolo in posizione me-diante fra canneto e Vigna va inteso allora come riferimento al per-corso delle Tre madonne, e non alla via di Villa sacchetti.

la proprietà di carlo Valle, alla luce di queste descrizioni, appa-re pertanto estendersi su entrambi i lati del vicolo delle tre madonne, sconfinando in un’area contigua al casino del graziano. il complesso di queste proprietà (inclusa quella definita Vermiglioli, non meglio in-dividuata) allude dunque a una costellazione di vigne e casini, origi-nariamente indipendenti, di cui una parte verrà assorbita dall’espan-sione di Villa Borghese.

a confermare questa lettura è la descrizione dell’ultima Vigna, «posta a muro Torto di sei o sette pezze in circa». i «muri novi» e la «casa nova», opera di carlo Valle, fanno propendere per una costru-zione assai recente, immediatamente precedente la morte del suddet-

(36) Ibidem, le vigne ai parioli con relativi confini vengono elencate ai ff. 385r-385v. Qui termina la lista dei beni stabili e comincia quella dei canoni.

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to, posteriore probabilmente di due o tre lustri alla «Villa con casa grande» (37). l’indicazione del confinante sammarugo ci riporta ad un altro documento, datato 17 marzo 1685 (38).

nell’ambito della divisione dei beni ereditari fra i figli di carlo Valle, si tratta dell’atto di acquisto per 1.500 scudi da parte di mat-teo Filippo Valle di una vigna venduta dai pp. di s. lorenzo fuori le mura, dell’estensione di circa 7 pezze, ubicata fuori porta Flaminia in luogo denominato muro Torto, «cum domo in ea existens et do-muncula contigua iuxta a duobus lateribus bona ioannis Baptiste sa-marucci [?] ab alio latere vicolum, et ante viam publicam, salvis alijs […]». la vigna in oggetto riporta la medesima pezzatura («sei o set-te pezze in circa») di quella indicata nell’inventario del 1666. ana-loga è l’ubicazione (muro Torto), e l’indicazione del confinante (ap-prossimativamente samarucci, analogo al sammarugo del 1666), come pure ritorna l’indicazione della «domus», una casa di sicura impor-tanza, contrapposta a una «domuncula» dal carattere più evidente-mente utilitario, «domus» che richiama la «casa nova» di recente fabbricazione del precedente documento.

rimane da comprendere come mai la stessa vigna venga nomina-ta venti anni dopo essere comparsa nell’inventario dei beni ereditari, come acquistata da uno dei figli di carlo Valle. dal contesto dell’atto del 1685 sembra di arguire che i pp. di s. lorenzo vendano la vigna a matteo Filippo Valle come libera di pesi, e canoni, saldando dunque il diretto all’utile dominio. deve pertanto trattarsi dell’affrancazione di una vigna enfiteutica, che nell’inventario del 1666 era soggetta a cano-ne nei confronti dei monaci stessi, o di altro proprietario diretto (39).

(37) per questa ipotetica datazione anteriore della “Villa con casa grande”, cfr. più oltre in questo studio, nella disamina del documento di vendita dell’1 settembre 1746.

(38) asr, 30 notai capitolini, ufficio 37, vol. 225, notaio stephanus ioseph ursinus, atto del 17 marzo 1685, ff. 176r-179v e ff. 184r-187r. il «vicolum» su cui confina la proprietà potreb-be essere identificato come il vicolo delle Tre madonne, poi interrato in quel tratto, e in questo caso la «viam publicam» posta davanti alla vigna sarebbe il percorso del muro Torto, prove-niente da porta Flaminia. ma tale lettura topografica potrebbe agevolmente venire rovesciata: la «via publica» nei documenti concernenti la villa di carlo Valle è chiaramente il percorso delle Tre madonne, e allora il vicolo sarebbe il vicolo del muro Torto. comunque lo si consideri, il risultato non cambia: si tratta di una vigna, posta presumibilmente ad angolo fra il vicolo delle Tre madonne e il vicolo del muro Torto, in prossimità dell’ingresso alla Vigna ceuli, poi con-fluita nel complesso di Villa Borghese, il cui casino è l’aranciera, oggi museo Bilotti.

(39) Ibidem; la vendita dei monaci viene fatta a favore dei fratelli Valle, Francesco, anto-nio, giovanni e matteo Filippo, e i primi tre conferiscono il fondo a quest’ultimo. Viene ac-

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per inciso, la «Vigna Vallea» al muro Torto viene riportata dal Tomassetti (40), che ricorda la presenza di un reperto, indicato dalle fonti all’interno della vigna stessa. lo studioso corregge l’ubicazione di muro Torto, riferendo di aver visto una scritta indicante «carolus Vallius» all’ingresso della Villa dei Tre Orologi, all’epoca abitata dal principe Orsini. se ne deduce che il Tomassetti ignorasse l’esistenza di una ulteriore proprietà della famiglia in prossimità delle mura di roma, e che quindi ritenesse di correggere l’ubicazione del reperto, collocandolo nella villa tuttora esistente.

la villa rimane all’interno dell’eredità Valle, ed è oggetto di suc-cessive transazioni fra gli eredi di carlo. il 31 ottobre 1687 France-sco, giovanni e matteo Filippo vendono al fratello, l’abate antonio Valle, la Vigna, «seu ruris», per il prezzo di 6.000 scudi. si tratta del-la «Vigna grande», in quanto tale atto viene riportato in un successi-vo documento di acquisto del 1746 della villa stessa (41). nell’atto del 1687 la Vigna viene descritta dell’estensione di 18 pezze circa, cir-condata da muri, «cum cappella, domo magna, domuncula, Tinel-lo». i confini, quelli consueti: la vigna del collegio romano, il vico-lo vicinale, la via pubblica (delle Tre madonne) (42).

in precedenza (17 agosto 1687) matteo Filippo aveva acquistato dai fratelli Francesco, antonio e giovanni il canneto «iuxta a duo-

ceso un cambio di 1.500 scudi per coprire la spesa, a favore di tal pompilio preosti, cambio che matteo Valle si impegna ad estinguere nell’arco di 3 anni dalla data del 1685.

l’istromento di accensione di questo cambio è preesistente alla data dell’atto di acqui-sto, segno che i contatti intercorsi tra i Valle e i pp. di s. lorenzo in merito all’affrancazione della vigna duravano già da tempo. l’istromento è in asr, negli atti del notaio «ora pelusij not. a. c.» (con «ora» si intende alla data del 1685, e dunque l’atto va ricercato negli atti del predecessore del pelusij al medesimo ufficio), e viene rogato in data 30 novembre 1677.

(40) G. toMASSetti - F. toMASSetti, La Campagna romana antica, medioevale e moderna, roma 1910-26; una nuova edizione a cura di l. chiumenti - F. Bilancia, redatta sugli appun-ti dei Tomassetti, roma 1977, Vi, p. 60.

(41) asr, 30 notai capitolini, uff. 27, vol. 321, not. marcantonio grazia, atto dell’1/9/1746, ff. 478r-483v, ff. 516r-516v, ff. 518r-521v. il documento riporta erroneamen-te, per la vendita ad antonio Valle, la cifra di 8.000 scudi e non di 6.000, come indicato nel documento del 1687.

(42) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 229, notaio stephanus Joseph ursinus, atto 31 Ottobre 1687, ff. 360r-366v. nel documento si precisa che antonio per l’acquisto deve corrispondere al fratello matteo Filippo la porzione di 2.000 scudi in soddisfazione di due cambi che matteo Filippo si è accollato, uno di 1.500 scudi per l’acquisto della succitata vi-gna al muro Torto (17 marzo 1685), e l’altro di 500 scudi per l’acquisto di un canneto (arun-dineto).

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bus lateribus viam publicam, ante Vicum Vicinali, et ab alio bona d. augustini Blanchetti» (43).

dagli atti succitati si evince chiaramente come il complesso delle proprietà dei Valle fra muro Torto e parioli venga smembrato, con il conferire le vigne a carattere prevalentemente agricolo – la vigna a muro Torto e il canneto – a matteo Filippo, mentre ad antonio va il pezzo forte dell’intera area, la «Vigna detta il giardino».

Fra XVIII secolo e 1824: le modifiche nell’impianto e i passaggi di pro-prietà

il complesso rimane proprietà di antonio Valle per il successi-vo mezzo secolo, fino alla sua morte (3 novembre 1737) (44). in data 29 settembre 1737 egli redige il proprio Testamento, istituendo come erede universale il fratello matteo Filippo (45).

alla morte di quest’ultimo dovrà subentrare Francesco antonio del pozzo, nominato da antonio Valle economo e amministratore dell’eredità stessa. il Valle nomina nel Testamento i debiti gravan-ti l’eredità, sia quelli contratti dal fratello Francesco, sia quelli con-tratti per «la compra del palazzo di s. pantaleo» (verosimilmente un immobile il cui acquisto è andato ad ampliare l’insula posseduta dal-la famiglia nell’area della chiesa di s. andrea) (46).

(43) asr, 30 notai capitolini, uff. 37, vol. 229, notaio stephanus Joseph ursinus, atto 17 agosto 1687, ff. 149r-150v e ff. 179r-180v. le vie pubbliche su due lati sono i tronchi del vicolo delle Tre madonne, corrispondenti alle vie aldrovandi e mangili, il vicolo vicinale ri-spetto al quale, ante, viene orientato il canneto stesso, è via di Villa sacchetti. la proprie-tà retrostante Blanchetti è la vigna Bianchetti, poi modetti e infine sacchetti, retrostante il canneto e posta all’interno rispetto a via aldrovandi, nominata nei vari documenti qui pre-si in esame. il prezzo sborsato da matteo Filippo per l’acquisto del canneto è infatti di 500 scudi, che i tre fratelli corrispondono agli eredi di pompilio preosti per altro cambio acceso da matteo il 26 luglio 1677, rogato per atti del malvezzi notaio a. c.

(44) a notizia della morte dell’abate antonio Valle è in un documento, datato 13 novem-bre 1737, contenuto all’interno del Testamento di antonio Valle stesso, di cui alla seguente nota 45. nello stesso documento, si dà notizia della rinuncia all’eredità da parte del fratel-lo superstite, matteo Filippo.

(45) asr, 30 notai capitolini, uff. 23, Testamenti, atti not. Bernardini, 29 settembre 1737, pagine non numerate.

(46) per i palazzi dell’insula dei della Valle rimandiamo allo studio di Ch. l. FroMMel, Der Römische Palastbau der Hochrenaissance, 3 voll., Tubingen 1973, i, pp. 336-353, e al contributo, con relativo regesto documentario, di p. Brunori - A. GrASSiA, I palazzi dell’iso-

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il del pozzo ha facoltà di «andare, stare, pernottare nella sud.a Vigna grande con la sua carrozza, quando, e quanto gli parerà e pia-cerà, e godere il comodo dell’abbitazione, anche ad effetto di assi-stere alli lavori, e colture, di essa, benché vi continuasse ad abbita-re anche l’infr.o suo fratello […]». matteo Filippo Valle abita infatti la Vigna, pur potendo disporre della propria abitazione nel centro di roma (47).

il passaggio successivo di proprietà della Vigna e del complesso risale al 1° settembre 1746. Francesco antonio del pozzo, suben-trato nella proprietà della Villa a matteo Filippo Valle (48), la vende ad alderano Vinciguerra (49). si tratta dell’atto di acquisto per scudi 5.300 delle due vigne, «maioris et minoris» da parte del Vinciguer-ra stesso.

il documento presenta un riepilogo delle vicende della Villa, ri-portando come «la bo.me. carlo Valle possedesse tra gl’altri Beni una cioè di pezze diciotto in circa da lui acquistata in più rate et in di-versi tempi, liberata da esso dal canone, e circondata da mura, con avervi fatto edificare un casino nobile per abitazione dè padroni con molti, e diversi commodi ed un casino di prospetto, come anche un Fenile vicino la casetta del Vignarolo, e la chiesuola sulla strada contigua al cancello di d.a Vigna confinante da due lati colla Vigna spettante al Ven. collegio romano da una parte il Vicolo vicinale ed avanti la strada publica salvi […]» (50).

la della Valle in Roma, in «architettura, storia e documenti», 5 (1989), pp. 64-83. i suddet-ti contributi sono citati in M. C. pAoluzzi, La famiglia della Valle e l’origine della collezione di antichità, in Collezioni di antichità a Roma fra ’400 e ’500, a cura di a. cavallaro, roma 2007, pp. 147-186.

(47) asr, 30 notai capitolini, uff. 23, Testamenti, cit. antonio Valle fa inserire un co-dicillo in data 2 novembre 1737, dunque alla vigilia della morte, in cui prescrive al fratello di lasciare la Vigna grande dove abita, con grande suo incomodo, stante l’età molto avanza-ta, e di venire ad abitare a roma, pena la decadenza dall’usufrutto dell’eredità. nello stes-so documento, antonio Valle ordina inoltre che per soddisfare i creditori dell’eredità stessa, si provveda a vendere il palazzo a s. pantaleo, del quale «anco presentemente si sta trattan-do la vendita».

(48) pochi giorni dopo la morte del fratello, matteo Filippo Valle rinuncia (12 novembre 1737) all’eredità di antonio, per i debiti dai quali è gravata: l’atto è in asr, 30 notai capitoli-ni, uff. 23, vol. 600, notaio sebastiano Bernardino, atto 12 novembre 1737, ff. 151r-151v.

(49) asr, 30 notai capitolini, uff. 27, vol. 321, cit. alla nota 41.(50) Ibidem, ff. 478r-478v. il «casino di prospetto» nominato, accanto al casino nobi-

le, come l’altro edificio significativo del complesso, potrebbe venire identificato con il volu-

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l’acquisto «in più rate et in diversi tempi» suggerisce alcune ipote-si per la formazione del complesso e l’edificazione del casino nobile. se infatti il Valle muore nel 1666, lasciando incinta la moglie e con il figlio maggiore Francesco di età inferiore ai 20 anni, si può ipotizza-re che egli alla data della morte non superasse i 50 anni. la sequen-za di acquisti delle porzioni della proprietà e l’edificazione del casi-no nobile potrebbe allora venire datata a non oltre il 1660, stante la Casa nova della Vigna al muro Torto fatta edificare sempre da carlo, e quindi posteriore, in quanto definita come nova, al casino nobile della Villa. una datazione attendibile da proporre per il casino no-bile va a nostro avviso retrodatata attorno al 1640 o poco dopo, por-tando a ipotizzare che carlo Valle morisse in età più avanzata dei 50 anni, e che comunque il casino stesso sia stato da lui fatto costruire in una età decisamente giovanile, secondo i parametri odierni.

il motivo per questa datazione dell’edificio va ricondotto al suo prospetto disegnato, inserito nel radicale progetto di ricostruzione del-la villa stessa, proposto da Tullio passarelli e poi realizzato nel 1926-27 (51) di cui parleremo più avanti.

il prospetto del manufatto ante operam evidenzia una facciata in cui il ritmo irregolare delle aperture, unitamente a tre coppie di le-sene (o colonne?) a differente interasse, appena graficamente rileva-te sulla superficie muraria, fanno propendere per un’impaginazione ancora tardo rinascimentale (tav. lXV, fig. 2).

il secco articolarsi delle lesene accoppiate, lontano dalla plasticità del barocco maturo, porta a ipotizzare per l’edificio di carlo Valle una datazione al quinto decennio del ’600 (52). sembra di poter ritenere che

me allungato, composto di due case con giardino intercluso e cortile murato oltre la secon-da casa, che compare sul catasto gregoriano come allineato sul Vicolo delle Tre madonne, quantunque discosto da quest’ultimo e ubicato all’interno della proprietà, per il carattere vil-lereccio conferito dalla presenza del giardino. ma potrebbe trattarsi invece dell’edificio poi definito Coffeehouse, che abbiamo visto ospitare alcune sculture. di fatto, quest’ultimo pro-spetta, è rivolto, verso l’interno della Vigna, alle spalle del casino.

(51) il progetto di restauro e ricostruzione della Villa è in archivio storico capitolino, i. e., prot. 13578/1926 e prot. 5882/1927. per la discussione del progetto si rimanda allo stu-dio di chi scrive, Ville e casali, cit., sia nel testo generale, che nella scheda specifica sulla Vil-la dei Tre Orologi, cfr. supra nota 1.

(52) riprendiamo qui un’analoga lettura proposta in G. MAtthiAe, Villa Costaguti, in «roma. rivista di studi e di vita romana», XX (1942), giugno, pp. 249-251, sulla datazione del casino nobile di Villa costaguti, dal matthiae riportato, sulla scorta di un disegno otto-

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il casino Valle sia più il frutto di una fase storica attardata, realizzato verosimilmente con un occhio alle consolidate proprietà urbane della famiglia, e nel richiamo a un’immagine e a un prestigio di aristocrati-ci e collezionisti di antichità, che rimontava già al XV secolo.

delle vigne vendute da del pozzo al Vinciguerra, la Vigna gran-de di 18 pezze è circondata da muri, e ha un «palazzino di stanze dieci abitabile, ed altre terrene stalletta, sito per rimessa, Tinello, e pozzo, un altro casino di prospetto, e grotte, casetta per il Vigna-rolo con altra stalletta, stanze terrene e cortiletti annessi alla medesi-ma, e con il Fenile ivi contiguo, come anche compresa la chiesuola, o cappelletta vicino al cancello della strada […]» (53).

l’altra Vigna, definita come «minor» accanto alla «maior» qui di-scussa, è «l’altra più piccola quasi di contro alla suddetta parim.te acquistata da d.o carlo di pezze cinque, in circa, e libera di canone confinante da una parte colla Vigna della sig.ra Bianchetti, da capo, e da un lato, e da piedi colle strade publiche, e da un’altra parte il soprad.o Vicolo vicinale salvi poste ambedue [ossia questa minore e la villa con il «palazzino»] fuori di porta del popolo, e pinciana ri-spettivam.te in luogo detto li monti di pariolo» (54). i confinanti di questa vigna minore – le strade pubbliche, la proprietà Bianchetti e il Vicolo vicinale – portano a identificare chiaramente questa vigna con il canneto, posto fra le attuali via di Villa sacchetti e via man-gili. già appartenente a matteo Filippo Valle, esso appare a questa data ricongiunto con la «Vigna detta il giardino».

il prezzo della vendita al Vinciguerra è di 5.300 scudi, dei qua-li 5.000 scudi per la vigna grande e 300 scudi per la vigna picco-la (55). il Vinciguerra concede al venditore del pozzo di poter fare la prossima raccolta nella Vigna, permettendogli di utilizzare il Tinel-

centesco dell’archivio di stato di roma (asr, Fondo disegni e mappe, cart. 89, n. 642) a una medesima data ante quem, nel riferimento a modi tardocinquecenteschi.

(53) asr, 30 notai capitolini, uff. 27, vol. 321, cit., f. 480r.(54) Ibidem, ff. 478r-478v.(55) Ibidem. il Vinciguerra paga immediatamente 640 scudi, a soddisfazione di innocenzo

sassetti figlio del fu antonio, procuratore testamentario di antonio Valle, a saldo delle spese legali da lui fatte in più e diverse cause dell’eredità Valle, e per la conservazione dei beni di antonio Valle dal 1734 al giugno del 1746. altri 80 scudi vengono pagati dal Vinciguerra a saldo di Teodosio roccardi per riconoscimento delle molte fatiche adempiute in questo e in altri trattati di vendita. i restanti 4580 scudi verranno pagati dal Vinciguerra, parte accollan-dosi i censi già esistenti sulla proprietà, parte nel termine di sei mesi dall’acquisto.

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lo, e vendere il vino, ma non oltre il mese di dicembre. accanto alla Vigna, il compratore acquista tutti i mobili esistenti nel casino no-bile, inclusi gli stigli.

in data 20 agosto 1757 i documenti ci informano di un annuo perpetuo censo di 140 scudi, venduto dal proprietario della villa e della vigna, il marchese giovan Battista piccaluga, a favore del prin-cipe girolamo pamphili aldobrandini Facchinetti, per il prezzo di 5.000 scudi (56). in altre parole, il marchese piccaluga riceve questa somma, impegnandosi a pagare per tale dazione il suddetto onere annuo, salvo riscattare, quando vorrà, l’intero ammontare della som-ma erogata (57).

(56) asr, notai ac, vol. 3831, notai lancioni e monti in solidum, atto del 20 agosto 1757, ff. 861r-865v e ff. 884r-886v. nell’atto il marchese piccaluga nomina Bernardino pe-tricca quale suo procuratore. sempre nel medesimo atto troviamo un ulteriore accenno al complesso, con relativo «palazzo, casini, et altri edificij ed annessi appo li suoi noti confi-ni» (f. 865r).

(57) nel documento di vendita del censo, il complesso è descritto come ubicato «super rurem posit. romae, extra portam populi, et portam pincianam, in loco dicto li monti di pa-riolo cum palatio, domibus, alijsque eius edificijs annexis, et connexis […]». segue l’indica-zione dei confinanti già altrove descritti: il casino della Villa è dunque definito «palatio», a ribadirne l’importanza. all’interno di questo atto troviamo una sequenza di documenti, che ci informano sui contraenti e sull’entità e la derivazione dei censi che compongono il prezzo della vendita del censo di 5.000 scudi realizzata nel 1757.

essi risultano nell’ordine, il Testamento del principe don camillo aldobrandini Facchi-netti in cui viene istituito come erede il principe don girolamo pamphili aldobrandini Fac-chinetti, aperto e pubblicato in atti lancioni notaio a.c., il 14 settembre 1747.

segue un «atto da rogarsi in questo giorno» (20 agosto 1757), con il quale il m.se gio-van Battista piccaluga estingue il censo di 1157.60 scudi, che si era accollato nell’istr.o della Vendita di d.a Villa, stipolato per gli atti di grazia not. cap. il 1 settembre 1746 (f. 865r). da questo documento accluso abbiamo la notizia dell’acquisto della villa da parte del picca-luga nel 1746: viene così confermata l’ipotesi che vede il Vinciguerra come procuratore all’ac-quisto stesso da parte del marchese.

i censi da estinguere attraverso la vendita dell’unico censo di 5.000 scudi al principe girolamo pamphili costituiscono un complesso di obblighi, accesi sia da Francesco, antonio e dagli altri fratelli Valle, sia da Francesco del pozzo quale erede di antonio Valle, dei qua-li la somma più cospicua (3195.79 scudi) è il capitale erogato dalla principessa Teresa gril-lo pamphili al m.se giovan Battista piccaluga il 28 agosto 1749.

la composizione dei pagamenti è la seguente: 600 scudi vanno al monastero, e ai pa-dri di s. pudenziana in estinzione di un censo imposto da Francesco, antonio e altri Valle a favore del detto monastero il 2 marzo 1674. 300 scudi vengono pagati a giuseppe mariet-ta in estinzione di un censo del 31 luglio 1745, imposto da Francesco del pozzo a favore di Francesco giansimoni, e da questi ceduto a favore di giuseppe marietta il 15 novem-bre 1754. 162 scudi destinati al convento e padri di s. maria dè miracoli a roma per altro censo imposto dal del pozzo a loro favore il 4 luglio 1742. scudi 95.60 corrisposti agli ere-di del fu abate scipione Boncompagni per altro censo imposto da antonio Valle il 13 ago-

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il nome del marchese piccaluga non compare nell’atto di acquisto del 1746: tuttavia la proprietà piccaluga, citata nel catasto gregoria-no come eredità del defunto marchese, si protrarrà fino al 1824. in assenza di un documento comprovante l’acquisto del complesso da parte del piccaluga in prima persona nel 1746, è lecito inferire che il Vinciguerra, non altrimenti evidenziato dai documenti, sia stato un procuratore deputato all’acquisto da parte del piccaluga. la proprietà piccaluga permane per tutto il XViii secolo e per il primo ventennio del XiX, come risulta dalla descrizione del catasto gregoriano.

il 14 agosto 1824 il complesso viene ceduto al principe luigi gio-vanni andrea doria pamphili, per transazione in solutum con la m.sa Felicina piccaluga (58). il principe ottiene la proprietà del complesso a saldo del cumulo di censi annui decorsi a partire dal 1782, e non più pagati dai piccaluga dopo quella data.

il documento del 1824 è di importanza decisiva, per fissare lo stato della villa, con il casino nobile e la configurazione del suo in-torno, dopo la descrizione seicentesca del Testamento di carlo Valle. all’interno dell’atto troviamo una perizia e stima del complesso, redat-ta il 20 giugno 1824 da alessandro ricci, con la relativa pianta che descrive minutamente le coltivazioni, le piante e il giardino presenti nella proprietà. da questa perizia è possibile inferire i cambiamenti intervenuti rispetto all’impianto documentato nel 1666. Quantunque non venga riportata la datazione di tali cambiamenti, si può ragione-volmente proporre per questi ultimi una datazione post 1746, dovuta cioè all’avvento della proprietà piccaluga. Questo tenendo d’occhio soprattutto l’impianto del giardino murato, non menzionato dal Te-stamento Valle, e qui chiaramente descritto, nell’assetto e nell’ubica-zione destinata ad arrivare fino all’inizio del ’900.

sto 1715. la somma residua di scudi 3842.40 a completamento dei 5.000 scudi si compone di scudi 3195.79 da pagarsi alla principessa Teresa grillo pamphili, ad estinzione del capi-tale di un cambio contratto dal m.se giovan Battista piccaluga il 28 agosto 1749, e i rima-nenti scudi 646.61 da pagarsi ad antonio Zecchini ad estinzione di analogo capitale di cam-bio, contratto dal m.se piccaluga il 20 luglio 1753.

per ognuno di questi censi e cambi viene riportato nel documento il relativo istromen-to, rogato alle date succitate, che qui si omette per brevità, rimandando al documento stes-so del 1757.

(58) asr, 30 notai capitolini, uff. 18, notaio successor contucci, atto del 14 agosto 1824, cfr. supra, nota 10. nell’atto, assieme alla venditrice, compare il di lei marito, car-lo piuma.

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Va del resto considerato, a nostro avviso, che durante la proprietà Valle, ossia fino al 1737, non è ragionevole ipotizzare un mutamento nell’assetto di pergolato, stazzo, boschetti e spazi di delizia, rispetto alla descrizione di settant’anni prima. la presenza di un giardino di sculture si legava ai vasti interessi antiquari della famiglia, costituen-do un elemento di lustro e qualificazione.

il «caffeaus» nella pianta e nella descrizione del 1824, che mo-difica la «casetta a piedi alla vigna» menzionata nel 1666 è, di con-tro, un elemento spiccatamente legato alla cultura settecentesca del giardino.

la pianta allegata all’atto del 1824 permette di collocare spazi esterni, manufatti e arredi vegetali descritti nella perizia (tav. lXVi, figg. 1-2) (59). Vi compaiono chiaramente raffigurati lo stazzo posteriore (rubricato in pianta, assieme ai viali, col n. 10), e il casino (in pianta definito «palazzo, Tinello e stalla», col n. 1). i viali sono i medesimi quattro riportati nella mappa del catasto gregoriano e già discussi. il percorso proveniente dal corpo allungato del casino parallelo al vi-colo delle Tre madonne, parte da quella che appare essere la «pergo-lata» descritta nell’atto del 1666; uno spazio aperto e bordato di due ali di muro a costituire quasi una stanza all’aperto, in continuità con il prospetto laterale del casino. l’ultimo viale è quello che dallo staz-zo posteriore punta diritto verso il Coffeehouse (indicato col n. 4).

il giardino fra le due ali del casino, introdotto dalla scalinata a dop-pia rampa proveniente da quest’ultimo, rispetto al disegno ad arabe-sco del catasto gregoriano si presenta scompartito in quattro semplici rettangoli verdi. le grotte (n. 11 della pianta) sono ubicate su un lato dello stazzo posteriore, occupando verosimilmente lo spazio al di sot-to del boschetto popolato di statue, descritto nel Testamento del 1666. sul prospetto dello stazzo, il casino presenta quattro pilastri, con ogni evidenza quelli del portico, la «loggia coperta» riportata nel documento.

la perizia descrive i soprassuoli vegetabili, ossia terreno vignato, canneto, alberi da frutta, altri alberi, vasi, spalliere. la villa viene ce-duta ai doria pamphili assieme al canneto, compreso quest’ultimo nei confini già altrove descritti (60).

(59) Ibidem, ff. 160-161. la descrizione e stima di edifici e spazi esterni (riportata di se-guito nel testo) è ai ff. 155r-159v, e ai ff. 162r-173v.

(60) Ibidem. il canneto è posto tra i due vicoli laterali (attuale via di Villa sacchetti e via mangili), e la proprietà già modetti. il ricci descrive la Vigna come facente corpo col can-

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di particolare interesse la descrizione degli «agrumi nella Vigna, e nel giardino». Troviamo agrumi (3 portogalli mezzani), una spal-liera di 5 lustrati grandi (strutture di vegetazione compatta, articola-ta o appoggiata su un muro a chiudere giardini o a fiancheggiare via-li); altri 2 lustrati grandi ricoprono il muro del Tinello, oltre a essere collocati in vasi. Vi sono vasi di fiori di diversa specie, ed è menzio-nata una Vasca, bordata di fichi d’india (forse la vasca alla base del-la scalinata a due bracci che dal casino scende in giardino, descritta più oltre). Viene menzionata una «spalliera di rosmarino longa (sic) palmi 35», e ancora 13 «cipressi mezzani», e 6 «piante grandi di al-loro, ed altre avanti la grotta».

la descrizione degli agrumi e delle essenze vegetali non permet-te di collocarli esattamente in uno spazio definito, sia esso quello del giardino murato, più oltre descritto, o lo spazio aperto della vigna. presso la grotta troviamo il boschetto di piante di alloro.

Troviamo ancora le spalliere, estese per 29 canne e alte 6 palmi, nel «Viale del cancello presso la chiesola, ed altre», poste a qualifi-care l’importante accesso al casino nobile dal cancello principale, con le quinte verdi raffigurate nella pianta, in contiguità con il giardino.

Fra gli arredi, troviamo «a capo il Viale vicino il detto casino […] un Vaso di creta cotta sopra un pilastro di muro». più oltre, nella sezione dedicata al «casino nobile, ed altre fabbriche a delizia», troviamo la descrizione di arredi e fabbriche del «giardino tutto cir-condato di muro con sei vasi sopra». si tratta di uno spazio separa-to, cui si accede da un cancello di ferro a due partite, con pilastri laterali sormontati ognuno da una palla. lungo il perimetro di que-sto spazio corrono «due cassettoni di muro a tutta lunghezza con piante di agrumi già qui sopra descritte» (si tratta delle piante di agrumi già riportate). al centro di questi muri due uccelliere di fer-ro, ospitanti vasi di fiori all’interno di armature di legno. Trentadue piedistalli di travertino sorreggono vasi di agrumi, in una serrata se-quenza che ritma la continuità dello spazio, con i legni e l’armatu-

neto, ma disgiunta da esso «da un Vicolo vicinale detto dè greci» (f. 155r). sulla pianta il vicolo dei greci, che dovrebbe corrispondere all’attuale via mangili, è al confine e al termi-ne del canneto. Quest’ultimo e la villa-vigna sono separati invece da un vicolo, detto «vico-lo morto», che corrisponde alla via di Villa sacchetti: è questo il vicolo vicinale, ma non è quello dei greci. la non congruenza fra pianta e descrizione è da ascriversi ad imprecisio-ne dell’agrimensore.

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ra per la copertura. si tratta delle strutture lignee, presenti in molte ville romane, sulle quali si avvolgevano pergole e rampicanti a com-porre gallerie verdi.

l’assetto del giardino viene ulteriormente precisato nella descri-zione delle viti, utilizzate con funzioni di accompagnamento lungo i viali e nel giardino. Troviamo viti utilizzate come «spalliere alli Via-li con armatura di canne di minor vigore», in numero di 1108, una «Vite sopra la pergola di legname ordinario», e altre sei «Viti nel giardino […] cinque dè quali di moscatellone, ed una di pizzutello, con armatura vecchia in pessimo stato». accanto al carattere utilita-rio, troviamo la vigna adattata a qualificare spazi formalizzati, in una contaminazione fra bellezza e praticità assai comune nelle vigne ro-mane. il complesso si presenta vignato per una notevole estensione, con vignato sia giovane sia vecchio, e viti a cordone.

numerosi gli alberi da frutta, per un totale di 496, delle più di-verse specie: 4 bricoccoli (albicocche), 101 alberi di prugne, 197 per-sici (peschi), 17 ciliegi, 4 amareni, 5 mandorli, 2 sorbi, 16 peri, 16 meli, 4 cotogni, 4 noci, 70 olivi, 1 melograno, 15 ceppaie di noccio-le, 34 fichi, ancora 2 prugni (uno del tipo «Verdacchia» e uno «regi-na claudia»), 1 albicocco grande, 1 pero e 1 melo grandi, 1 lazzarolo grande. nel canneto sono presenti anche noci, piccoli e grandi.

seguono le «Fratte», ossia le siepi «parte a due, e parte a tre cin-te» per il canneto. una siepe chiude anche la vigna grande (Villa), nel tratto di muro mancante al confine della Vigna dei pp. gesui-ti (c.le riganti).

Quindi si descrivono le «Fabbriche per comodo rurale», inizian-do dalle recinzioni del complesso. a parte il tratto di fratta, la vigna grande è circondata interamente da muro di pietra, per un’estensio-ne totale di 428 canne di muro (61) tra Vigna e canneto.

la Vigna grande possiede «due cancelli, o portoni simili gran-di», uno all’inizio e uno quasi alla fine del muro lungo le tre madon-ne, e una «picciola porta, tra il primo portone, e la chiesola». Questi ingressi sono portali, con pilastri laterali e arco di muro sovrastante con immagine sacra, mentre la porticina, in cattivo stato, è incassata

(61) Ibidem. le 428 canne di estensione sono così ripartite: il muro lungo le Tre madon-ne misura 97 canne, quello lungo la Vigna dei gesuiti 136 canne, e 176 canne lungo il vico-lo vicinale, cui va aggiunto un tratto di muro di 19 canne anche lungo il canneto. il valore totale delle mura di Vigna grande e canneto è di scudi 688.50.

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nel muro. un terzo cancello si apre all’ingresso del canneto, decora-to da un’immagine di s. Francesco (62).

la casa del Vignarolo è divisa in due corpi, mediante un «corti-le […] chiuso con muri laterali». deve trattarsi del giardino forma-le riportato sul catasto gregoriano, che compare qui senza alcuna descrizione. entrambi gli edifici presentano un carattere puramente utilitario (uno di essi con due ambienti al pianterreno, da poter de-stinare a Tinello, e un ambiente a Fienile al livello superiore). Viene descritto il «pozzo sopra il condotto dell’acqua di Trevi». esso pre-senta «parapetti laterali di muro, che reggono il suo tetto, che lo co-pre, e formano due Vani aperti senza fusti». un breve accenno riguar-da anche le «grotte presso il palazzo», con relativa scala che scende sottoterra. il sito delle grotte, indicato con il n. 11 nella pianta del complesso allegata alla perizia, è ubicato di fronte allo stazzo poste-riore, sul suo lato corto in direzione dell’interno della Vigna.

e veniamo, infine, alla descrizione del «casino nobile, ed altre fabbriche a delizia».

il casino si compone di tre piani, oltre il sotterraneo. accanto alla descrizione, già esaminata, del giardino murato, troviamo al pianter-reno della «casa per uso della vigna» sull’altro braccio della l: una cascina, una stalla capace di 8 cavalli, un Tinello coperto a tetto fra la stalla e il casino, con ingresso da altro ambiente adibito a Tinello nel casino medesimo, e all’esterno la cisterna murata.

si passa quindi all’ingresso del casino, con il portico coperto a volta sostenuto da quattro pilastri. l’«entrone», o «corridore», del casino è decorato da pezzi e frammenti antichi, tre bassorilievi per parte, una lapide greca, «ed in due nicchie due vasi cennerari (sic) con coperchi, e suoi piedistalli con iscrizione». seguono altri ambien-ti a carattere utilitario. Tornando nell’«entrone», e salendo 4 gradini di peperino, si perviene alla cappella. si tratta della cappella inter-na al casino (da non confondere con la chiesola posta in prossimi-tà dell’ingresso alla Vigna). ritornati nell’«entrone», dirimpetto alla porta che dà sul portico, troviamo la porta da cui si accede al giar-dino. Questa porta è sormontata da «un ventaglio per ferrata, di ferri piani, con la lettera V. nel mezzo» (iniziale del cognome Valle). dalla porta si perviene a un ripiano, sorta di terrazza esterna con parapet-

(62) Ibidem. il complesso dei portoni e cancelli viene valutato 115 scudi.

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to murato, da cui una scala a due bracci scende al sottostante giar-dino. È questa la «loggia verso il Barco di Borghese» riportata nel Testamento di carlo Valle.

al centro del parapetto, di fronte alla porta, la scultura in pie-tra di un «putto con due anatre»: la pietra è utilizzata anche nei 14 gradini di ognuna delle due scalinate, in travertino. al di sotto del ripiano e delle scale, in asse con «il Viale, e cancello formante pro-spettiva», la Vasca, pure di travertino alimentata dalla cisterna, e al termine della prospettiva, «un’urna di travertino sopra piedestallo, e due capitelli per posti dei Vasi di agrumi».

l’impianto assiale del giardino, introdotto dalla vasca-ninfeo al centro dei due bracci simmetrici delle scale, presenta la caratteristi-ca struttura della villa romana suburbana, scandito dai vasi di agru-mi, e movimentato dall’assemblaggio di pezzi antichi. rispetto al Te-stamento del 1666, il giardino ha assunto una fisionomia formale e una regolarità tardobarocca: ridotta e comunque modificata la fitta disseminazione di sculture, impronta e frutto del collezionismo e del mecenatismo dei della Valle, lo spazio si anima per frammenti e og-getti all’interno di una spazialità decisamente prospettica.

la pianta del 1824 riporta per il giardino murato un impianto a quattro rettangoli. non compare il disegno ad arabesco delle aiuole presente nella mappa del catasto gregoriano: quest’ultimo costitui-sce la probabile sistemazione settecentesca ad opera dei piccaluga. d’altronde, il giardino alla francese, codificato dal dezallier d’argen-ville in La théorie et la pratique du jardinage (1709), è una presenza culturalmente acclarata nella cultura romana di metà ’700, frutto di una visione paesaggistica e compositiva ormai consolidata. a testimo-nianza di questo mutamento del gusto, va menzionato un corpus di progetti, datato 1746 e di recente riscoperto (63), ad opera di anto-nio scardin, giardiniere fiorentino al servizio di Benedetto XiV. l’au-tore propone una sistemazione di giardini, sia urbani che villerecci, sia alla scala del palazzo, come giardino o corte murata, sia alla sca-la della villa, dove, accanto alle sistemazioni orticole, compaiono par-terres dall’aggraziato disegno mistilineo, a comporre complicate e af-fascinanti textures di verzura.

(63) Parterres e labirinti di giardini romani nei disegni inediti di Antonio Scardin 1746, a cura di a. Tagliolini, milano 1994.

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Tornando alla descrizione del 1824, colpisce la continuità di certi oggetti, sopravvissuti a una verosimile dispersione e ancora presenti: il «putto con un ucello in mano», ubicato nel 1666 nell’«anito del-la casa grande», verosimilmente l’andito d’ingresso, o «entrone» del casino, viene ora collocato nel ripiano intermedio di una scala che dall’«entrone» sale al primo piano, all’interno di una nicchia sovra-stante una porta (64). la scultura si compone di vari pezzi, ed è a sua volta collocata sopra una colonna scanalata e un piedistallo antico, secondo la voga dell’assemblaggio di frammenti antichi e integrazio-ni moderne del grande collezionismo romano.

al primo piano del casino due porte immettono a una prima ca-mera, secondo lo schema dell’enfilade. al di sopra di ogni porta una nicchia con busto di pietra: nella ricostruzione della villa da parte di Tullio passarelli (1926) troviamo la medesima accoppiata di busti di pietra nel prospetto dell’ultimo piano, al di sotto del terrazzo e in asse con l’altana del nuovo edificio. al di là del linguaggio neoba-rocco, diffuso nell’architettura romana degli anni ’20, colpisce la ri-proposizione del dettaglio scultoreo, portando a ipotizzare per l’ar-chitetto una diretta ispirazione verso quanto era ancora dato reperire chiaramente in situ.

nella prima camera, alle pareti quattro quadri con «sugo d’erba con cornici marmorate rappresentanti le quattro stagioni in cattivo stato». dalla prima camera l’accesso si distribuisce ad altri ambienti minori. di notevole interesse l’ambiente della galleria, sorta di log-giato coperto con cinque finestre, con ancora una «Testa di pietra» al di sopra di un vano di porta.

al secondo piano del casino una camera d’ingresso con tre por-te e un camino «all’antica» distribuisce, analogamente alla sala sot-tostante, i vari ambienti. la camera successiva, con tre finestre, ve-rosimilmente una sala di rappresentanza, presenta «al muro sette stampe in quadri con sue cornici nere». seguono altre quattro ca-mere private. nella descrizione non compaiono mobili, letti e arredi: tranne le sporadiche decorazioni (stampe o quadri), la descrizione si concentra sullo stato di porte, finestre, e relativi infissi. se ne dedu-ce che il casino era vuoto di suppellettili alla presa di possesso da parte dei doria pamphili.

(64) asr, 30 notai capitolini, uff. 18, notaio successor contucci, cit.

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma 293

la mancanza di arredi può forse essere letta come il frutto del prolungato abbandono della proprietà da parte dei piccaluga, alme-no a partire dal 1782, data d’inizio della mancata corresponsione del censo. da questo punto di vista, andrebbero indagati sia i moti-vi dell’investimento immobiliare di giovan Battista piccaluga nell’ac-quisto del 1746, sia i motivi del successivo abbandono della proprie-tà. motivi legati a una volontà di radicamento romano del marchese, appartenente a una famiglia dell’aristocrazia genovese, radicamento che per molteplici motivi potrebbe essersi rivelato infruttuoso, tanto da spingere gli eredi a concentrarsi su altre proprietà, forse più lega-te alla loro terra d’origine.

a concludere gli ambienti del secondo piano, una grande sala con quattro finestre, «dipinta con i mesi dell’anno, parimenti sulla tela».

alla descrizione del casino nobile segue quella della «cappella nel bivio della strada publica, e del vicolo vicinale», tutta «decentemente ornata, e ritrovasi in ottimo stato». si tratta del volume indipenden-te, affiancato all’ingresso principale presso il vicolo delle Tre madon-ne. accanto agli arredi sacri, un «pilo di pietra per l’acqua santa», e ancora un «altare di muro» e un quadro sopra l’altare «dipinto sul muro a fresco, e rappresenta maria ssma assunta in cielo».

sul Coffeehouse (65) la descrizione è estremamente sommaria: «pic-ciola fabbrica a capo il Viale del descritto casino, detta il caffeaus in parte diruta, e minacciante rovina». lo stato di rovina del Coffee-house va posto in relazione col più globale abbandono della proprie-tà (66). il Coffeehouse costituisce la verosimile trasformazione ad opera dei piccaluga della «casetta a piedi alla vigna incontro al pasqualo-ni», descritta con le sue sculture nell’inventario del 1666. la tipolo-gia, eminentemente settecentesca, si affianca ad illustri esempi coevi: basti citare il Coffeehouse nei giardini del Quirinale, opera di Ferdi-nando Fuga per Benedetto XiV (1741-43) e l’analogo edificio all’in-terno del complesso della Villa albani, iniziato prima del 1749 (67).

(65) Ibidem, f. 173r. nel testo l’edificio viene denominato Caffeamus.(66) Ibidem, f. 147v.(67) per la ricostruzione delle successive fasi di edificazioni di casino nobile e Coffeehou-

se della Villa albani, rimandiamo allo studio di l. CASSAnelli, Note per una storia del giardi-no di Villa Albani, in Studi sul Settecento Romano, I, Committenze della famiglia Albani. Note sulla Villa Albani Torlonia, roma 1985, pp. 167-191, segnatamente al paragrafo Il semicircolo e il Coffeehouse (pp. 178-179), con relative note e riferimenti bibliografici.

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alessandrO maZZa294

L’Ottocento e la ricostruzione della villa (1926-27)

i successivi passaggi di proprietà vedono la concessione in enfi-teusi da parte del principe Filippo andrea doria pamphili al conte cav. domenico carletti, in data 23 gennaio 1841 (68), per la durata di 99 anni. Viene menzionata una perizia del complesso, redatta dall’ar-chitetto secondo concioli e dall’agrimensore angelo sani, di cui pe-raltro non si trova traccia nel documento.

il 30 aprile 1846 domenico carletti acquista per la somma di 2.000 scudi anche la proprietà diretta del complesso (69) venendo a termi-nare così il periodo di coinvolgimento dei doria pamphili nel com-plesso stesso, iniziato con la vendita del censo nel 1757. nell’acqui-sto, che il carletti può effettuare mediante accensione di un credito fruttifero di 3.000 scudi, si sottolinea come sia intenzione del com-pratore effettuare miglioramenti e lavori alla vigna (70).

il 29 luglio 1870 la villa viene acquistata per 5.000 scudi da lu-cia cavalieri sposata a pietro multon, che progetta di mantenervi una redditizia attività di allevamento del bestiame, in grado di produrre reddito alla proprietà (71). una destinazione che colpisce, tenendo con-to dell’area, ancora inedificata ma immediatamente contigua alla cit-tà storica e al complesso, oramai pienamente strutturato, della Villa Borghese. nel documento del 1870 risultano i lavori e i miglioramen-ti operati alla vigna e ai fabbricati dall’affittuario ranaldi nei cinque anni del suo affitto, a partire dal 1865 (72).

la Vigna ai monti parioli viene definita «con canneto facente cor-

(68) asr, 30 notai capitolini, uff. 18, notaio successor contucci, atto del 23 gen naio 1841, ff. 23r-29r.

(69) asr, 30 notai capitolini, uff. 18, notaio Felice grossi, atto del 30 aprile 1846, ff. 337r-349r.

(70) Ibidem. non possedendo la somma di 2.000 scudi necessari per l’acquisto del diret-to dominio della vigna, il carletti accende un credito fruttifero a favore della signora Felice giobbe per la somma di 3.000 scudi, di cui 2.000 per l’acquisto suddetto, 500 scudi a saldo di un debito e 500 scudi per miglioramenti e lavori da farsi nella vigna.

(71) asr, notai dei distretti riuniti di roma e Velletri, vol. 423, notaio Filippo Buttao-ni, atto 29 luglio 1870, ff. 32r-71v.

(72) Ibidem. la somma di 5.000 scudi corrisposti per l’acquisto viene calcolata sulla base di una perizia della villa, condotta dall’agrimensore salvatore d’ambrogio, che fissa a 4833.33 scudi il valore complessivo del fondo. in calce alla perizia, d’ambrogio ne redige una secon-da, in cui tali miglioramenti vengono valutati 320 scudi per la vigna e 360 scudi per i fab-

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Villa dei Tre OrOlOgi a rOma 295

po […] con casino ossia palazzo, ed altri diversi fabbricati ad uso di Tinello, Fienile, altra casa piccola fabbrica per roccolo o caccia casaletto diruto cappella […]». Troviamo quindi il «roccolo», ossia l’area alberata per l’uccellagione strutturata con reti verticali tese fra i pergolati, che costituisce una tipologia ricorrente della villa romana, presente su ben altra scala, come ragnaia, anche nella contigua Villa Borghese. il «casaletto diruto» va forse identificato con il Coffeehou-se, non altrimenti nominato. i confini della Vigna sono la proprietà dei pp. gesuiti e la «Vigna modetti ossia sacchetti» (73).

il progetto di un’impresa di allevamento viene verosimilmente ac-cantonato quasi subito: nel 1872 lucia cavalieri vende il comples-so per 80.000 lire al cav. claudio gramigna (74). il complesso viene riportato come Villa gramigna nelle carte di roma e suburbio del 1889 (stab. c. Virano) e 1891 (istituto cartografico italiano). i pas-saggi successivi, relativi alla fase postunitaria, sono da me riportati all’interno dello studio già citato (75).

a una breve proprietà dei de paolis va ascritta (1925) la realiz-zazione di incongrui bow-windows sul fianco dell’edificio verso via di Villa sacchetti. il successivo intervento (1926) di Tullio passarelli per la s.a.r.i. (soc. an. ricostruzioni edilizie), in realtà per la famiglia parodi delfino, è la radicale trasformazione di una storica villa-vigna, con i suoi volumi irregolari e aggregati, in una residenza urbana di gran pregio, che adotta un linguaggio neobarocco (76) (tav. lXVii, figg.

bricati, per un totale di 680 scudi, da corrispondere al ranaldi stesso per la rescissione an-ticipata dell’affitto.

(73) Ibidem, f. 45r e seguenti (fogli non numerati). la dicitura «Vigna modetti ossia sac-chetti» chiarisce l’ubicazione di quella che nella toponomastica è definita la Villa sacchetti: si tratta della vigna, che compare come modetti sul catasto gregoriano (per il riferimento alla scheda di descrizione della vigna stessa nel mio saggio Ville e casali, cit., vedi la nota 5) e che nel documento del 17 agosto 1687 compare come Blanchetti o Bianchetti. cfr. supra, nel relativo atto e alla nota 43.

(74) asr, 30 notai capitolini, uff. 16, vol. 682, notaio pio campa, atto del 23 luglio 1872.

(75) MAzzA, Ville e casali, cit., alla scheda relativa a Villa dei Tre Orologi, p. 156 e note 15 e 16 p. 169. la villa appartiene al principe domenico Orsini dal 1885 al 1898, quindi passa ad artemisia rocca fino al 1903, poi ad attilio ambrosini fino al 1914. dopo il 1914 si suc-cedono nella proprietà la società industriale Transtiberina, poi Francesco Folonari (1921) e renato de paolis (1925). al 1926 viene acquisita dalla s.a.r.i. e dai parodi delfino, con re-lativo progetto di ricostruzione ad opera di Tullio passarelli.

(76) per il progetto di passarelli cfr. supra, nota 51.

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a. maZZa : Villa dei Tre OrOlOgi a rOma296

1-2; tav. lXViii, fig. 2). decisamente ampliato, rialzato e pareggiato al resto dell’edificio è il corpo ortogonale a via aldrovandi, già desti-nato a stalla e tinello, come si evince dalla perizia del 1824.

il prospetto principale, parallelo alla via, viene unificato, ingloban-do nel nuovo volume la sezione che nel preesistente edificio articolava un ritmo di aperture contenuto da una scansione di lesene o colonne accoppiate, ma di interasse disuguale, in un ritmo di contrazione e al-largamento inquadrato dalla fascia marcapiano. l’impianto di questa sezione, che nel vecchio edificio era separata dal resto della costru-zione da una fascia verticale bugnata, viene uniformato dal passarelli nel ritmo continuo di fasce orizzontali che solcano la facciata.

alquanto differente è la facciata aggettante del corpo ortogonale ampliato e rialzato (tav. lXViii, fig. 1): rispetto al progetto con ba-samento bugnato al pianterreno, sovrastato da due piani leggermen-te arretrati e balconati e da un ultimo piano ulteriormente arretrato, nella realizzazione viene conservato solo il balcone all’ultimo livello, unificando i sottostanti con il pianterreno mediante un elegante log-giato a serliana. la sensazione di corposità muraria dei volumi, evi-dente nelle lesene appena rilevate della loggia, come nella profondità delle porzioni di muro e dei pilastri della loggia stessa, viene rinfor-zata dall’impianto dell’altana al centro del prospetto, con le finestre ad arco all’interno di un rilevante «pieno» murario, laddove il dise-gno di progetto evidenzia un loggiato di tre finestre, intervallate da pilastri assai più esili e ridotti.

il giardino occupa nella sistemazione moderna il medesimo spazio dell’antico giardino murato. Virgilio marchi, architetto legato al movi-mento futurista, vi intervenne (1929-30) disegnando una sequenza di parterres regolari, percorsi all’interno da bordure ad arabesco di gu-sto francese, e forme di delfini, trasparente richiamo alla committen-za. il delfino appare anche nella grande cancellata su via ulisse al-drovandi, disegnando una S che forse allude alla società sari.

l’attuale villa occupa solo una limitata porzione della proprietà originaria, corrispondente al casino e al giardino ad esso antistante. la vigna alle spalle dell’edificio è stata smembrata e lottizzata, ospi-tando un convento e altri villini. in direzione di piazza pitagora, la via dei Tre Orologi separa la villa attuale dalla porzione di vigna, un tempo confinante con i gesuiti, e oggi urbanizzata a palazzine.

AleSSAndro MAzzA

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Le “Mazzarinette” aLLa CaMera dei deputati

nelle cronache mondane seicentesche, Olimpia, Maria e Ortensia Mancini, le tre sorelle nipoti del potente cardinale Mazzarino (1), furono protagoniste di episodi scabrosi che coinvolsero personaggi del calibro del re Sole, ma anche cardinali, principi e connestabili del regno; «femmes distinguées par le gout et leur esprit» (2), fascino e cultura, ma soprattutto per una grande libertà interiore che fece loro mal sopportare la vita matrimoniale benché principesca e piena di agi (3); in fuga dalle convenzioni e girovaghe per l’europa, inseguite da mariti pressanti o costrette all’esilio per aver osato troppo, diven-tarono un modello da sognare e forse da non imitare (4) (tav. LXXV, fig. 1). Belle e dannate come si intitolerebbe un film a loro dedica-to nel terzo millennio, una vita sull’orlo del precipizio, ma anche le “Belle” per eccellenza, protagoniste delle serie realizzate da Jacob

(1) Figlie di Lorenzo, nobile romano, e Geronima Mazzarino, sorella del futuro cardina-le Giulio: Olimpia nacque a roma l’11 luglio 1637; Maria nacque a roma il 28 agosto 1639; Ortensia il 6 giugno 1646. C’erano altre sorelle e fratelli e una cugina, Maria Martinozzi, fi-glia di un’altra sorella del Mazzarino. S. Tabacchi, s.v. Mancini Olimpia, in Dizionario Bio-grafico degli Italiani, vol. 68, roma 2007.

(2) Cfr. C. benocci - t. di carpegna Falconieri, Le belle: ritratti di dame del Seicento e del Settecento nelle residenze feudali del Lazio, roma 2004, p. 133.

(3) Olimpia, la sorella maggiore, sposò eugenio di Savoia Carignano; Maria, che aveva conteso alla sorella l’amore di Luigi XiV, divenne moglie del gran connestabile Lorenzo Ono-frio Colonna; Ortensia convolò a nozze con il Marchese de Meilleray.

(4) Maria Mancini scrisse una delle prime autobiografie femminili dell’età moderna come risposta ad una falsa autobiografia, pubblicata a Colonia nel 1676, per difendere la sua re-putazione e diffondere lei stessa le sue memorie, che verranno edite in lingua francese a Ma-drid nel 1677 con il titolo La Verité dans son jour, ou les véritables mémoires de Marie Man-cini, connétable Colonna; ebbe una grande diffusione già in vita. n. gozzano, La quadreria di Lorenzo Onofrio Colonna: prestigio nobiliare e collezionismo nella Roma barocca, roma 2004, p. 66 e nota 57.

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MariatereSa paCe298

Ferdinand Voet, Ferdinando de’ ritratti, il pittore fiammingo che le incastonò nelle sue opere richiestissime da mariti e amanti immorta-landone la bellezza non quella ideale, ma quella che le rese famose.

nel 1862, alfonso d’avalos, marchese di Vasto e pescara e prin-cipe di Montesarchio e troia, morì e donò l’intera collezione artisti-ca al Museo nazionale di napoli (5). esempio di “musealizzazione” di un’antica raccolta di famiglia, attualmente conservata nel Museo na-zionale di Capodimonte, è l’espressione del gusto e dei principi, pa-trimonio indelebile di una famiglia che si è distinta nei secoli per va-lore militare e politico, ma anche per cultura e mecenatismo. e nella trascrizione dei dipinti legati al Museo possiamo riconoscere sei ef-figi delle Mancini indicate come copie del rigaud (6); i riallestimen-ti e gli spostamenti del Museo nazionale le condussero alla Came-ra dei deputati, consegnate il 30 giugno del 1926 e, probabilmente, collocate negli stessi ambienti dove sono ancora oggi (tav. LXX, fig. 1; tav. LXXi, fig. 2). Seguendo a ritroso la presenza dei sei ovali ne-gli inventari della casata d’avalos, in particolare quelli del “palazzo a Chiaia”, scopriamo interessanti attribuzioni o pretenziose esagerazio-ni: nel 1806 sono date allo «stile di david» (7); nel 1776 hanno un’at-tribuzione altisonante a «Monsier pussino» (8); nel 1739 sembrano es-

(5) «Lego al Museo nazionale di napoli i miei arazzi e quadri, da riporsi in una sala ap-posita, con la mia leggenda, e vieto di potersi portar via da napoli sotto pena di decadenza dal legato»; cfr. M. Morelli, Gli arazzi illustranti la battaglia di Pavia conservati nel Museo Nazionale di Napoli, napoli 1899, p. 10.

(6) «ritratto a mezza figura di grandezza al naturale di una delle nipoti del Cardinale Mazzarino, copia del rigaud […]»; cfr. I tesori dei d’Avalos: committenza e collezionismo di una grande famiglia napoletana, Catalogo della Mostra a cura di p. Leone de Castris, napo-li, Castel Sant’elmo 22 ottobre 1994 - 22 maggio 1995, napoli 1994, Trascrizione dell’Inven-tario d’Avalos, pp. 215 e 218.

(7) Cfr. F. luise, I d’Avalos: una grande famiglia aristocratica napoletana nel Settecento, napoli 2006, Appendice, «inventario generale di tutti li quadri grandi, mezzani, e piccoli, che esistono nella quadreria che ha in napoli l’eccellentissima casa del sig.re marchese di pescara e Vasto», p. 402; inventario stilato alla morte di don tommaso d’avalos, che ricoperse ruoli di potere alla corte di Ferdinando iV di Borbone, fino alla carica prestigiosa di Maggiordo-mo Maggiore. F. luise, ibidem, p. 234. per una sintetica, ma chiara esposizione sulla figura del d’avalos vedi M. pace, I d’Avalos: storia di una famiglia attraverso le sue committenze ar-tistiche, tesi di laurea, a.a. 2009-2010, relatore prof. V. Curzi, pp. 176-178.

(8) Cfr. M. bugli, Da Capodimonte a Palazzo Grande a Chiaia. La collezione d’Avalos “torna” nella prestigiosa dimora, in «ricerche sul ’600 napoletano», 2003/2004, Appendice documentaria, «atto di adizione eredità ed inventario solenne de beni rimasti dal fu Signor Marchese di pescara e Vasto d. diego d’avalos d’aquino d’aragona formato dall’odierno

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Le “Mazzarinette” aLLa CaMera dei deputati 299

sere «donne d’autore incognito» (9). La collezione d’avalos, riscoperta nelle due mostre a padula e a napoli, rispettivamente del 1993 e del 1994, in contrasto e polemica tra loro, e poi pressoché ignorata dal-la critica, è considerata frutto del gusto e della vena collezionistica di andrea d’avalos, grande di Spagna, che «ebbe da Luca bellissimi qua-dri di storie, e di favole» (10), capolavori assoluti del Giordano, che sono ancora oggi fulcro della collezione d’avalos e delle sale di Capodimon-te ad essa dedicate. Completamente sconosciuta è, invece, la figura di Cesare Michelangelo d’avalos, un uomo ambiguo e manipolatore, tan-to potente da ottenere il favore e la protezione assoluta dell’imperatore Leopoldo i. una vicenda storica, la sua, caratterizzata dalla brama di potere e di prestigio e della sua cultura, delle sue letture e del suo gu-sto artistico erano testimonianza la biblioteca e la quadreria, gli inven-tari delle quali sono estrapolabili dall’atto di sequestro dei suoi «beni mobili» del 1736 (11), che mise insieme e conservò nella città che aveva eletto a capitale del suo “piccolo impero”; nella natia Vasto, infatti, ri-versò la grandeur della corte imperiale che conobbe personalmente nel lungo esilio dorato a Vienna, elevandola alle cronache internazionali. un’approfondita lettura delle carte ha dimostrato che della Quadreria, completamente dispersa secondo gli studiosi (12) in seguito al sequestro messo in atto per gli immensi debiti accumulati dal Marchese, un nu-mero cospicuo di dipinti fu portato a napoli dalla moglie ippolita (13),

eccellentissimo Signor Marchese d. tommaso suo unico Figlio ed erede a 22 novembre 1776», p. 36.

(9) Cfr. V. de MarTini, Un inventario inedito della collezione d’Avalos, in «Bollettino d’ar-te», LXXiX (1994), 88, pp. 119-130 e cfr. anche M. bugli, cit. a nota 8, Appendice, «inven-tario o’ sia nota, nuovam(en)te fatta nel mese di maggio 1739 di tutti i Mobili sistenti nel pa-lazzo dell’ecc(ellentissi)mo Signor Marchese di pescara e Vasto, qui in napoli fuori la porta di Chiaia ut infra», pp. 32 e 34. per una disamina della storia del palazzo di Chiaia e della sua ristrutturazione vedi M. pace, cit. a nota 7, pp. 193-201.

(10) Vedi in B. de doMinici, Vita del Cavalier Luca Giordano, napoli 1729, p. 46.(11) archivio di Stato di napoli, regia Camera della Sommaria, processi, pandetta se-

conda, fascio n. 17.(12) «When he died in 1735 the Camera of the Sommaria had to sequester his belongings at

the joint request of the royal tax collector and d’avalos’ many creditors. as seen in the present inventory, the Marchese’s collection was an immense accumulation of unattributed works […]»: cfr. G. labroT, Collections of painting in Naples (1600-1780), Munich 1992, p. 72.

(13) Gli atti di sequestro del 1736 hanno rivelato un “codicillo” del testamento di Cesa-re Michelangelo «[…] di più lascio alla detta Sig.ra Marchesa mia l’uso di tutti gli altri mobi-li, che si trovano […] in questo mio palazzo, dove abbito, e specialmente tutti li quadri, con

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MariatereSa paCe300

nel palazzo ancora oggi nella disponibilità degli eredi d’avalos, e quindi giunti, almeno in parte, nel legato del 1862. e se i dati inven-tariali ed archivistici ci forniscono un appiglio, altre notizie e consi-derazioni avvalorano l’ipotesi che le “Mazzarinette” provengano dal-la raccolta di Cesare Michelangelo, la cui vita e storia di collezionista sembrano più appropriate ad una tale acquisizione. il confronto dei dati stilistici delle opere con alcune informazioni storiche e le attri-buzioni degli inventari permettono di illuminare la completa oscuri-tà in cui sono avvolti questi dipinti.

per le sei tele attualmente a palazzo Montecitorio, l’attribuzione del legato, «copia da quadro del rigaud», è confermata nelle schede del catalogo di Capodimonte; il pittore di perpignan, Hyacinthe ri-gaud, inventò l’iconografia del re Sole (14) con uno straordinario suc-cesso internazionale, e ne traspose i caratteri nei ritratti di ufficiali parigini e dignitari di corte. in assoluto pittore superlativo nel ritrat-to di “parata”, il suo impegno in quelli femminili è assai ridotto; tut-tavia, alcuni di essi consentono di analizzarne i rapporti con i dipinti di Montecitorio. proprio nelle effigiate ha rifiutato qualsiasi arrende-volezza e compiacimento alla somiglianza femminile; tanto invece è stato attento e aderente alla realtà nei dettagli degli abiti, degli arredi e degli oggetti sui tavolini, i fiori e i frutti; negli sfondi con paesaggi in lontananza o dei tendaggi nella stanza; nei panneggi che sembra-no immobili, più rigidi e spigolosi (tav. LXXV, fig. 2).

rigaud realizzò molti dipinti per esponenti dell’aristocrazia di Ge-nova in missione diplomatica, un fatto che rinnovò profondamente la

piena facoltà a detta Sig.ra Marchesa mia di poterli lasciare a quel Sig.r Cavaliere della Fami-glia davalos, che parerà, e piacerà alla detta Sig ra Marchesa mia […]»: cfr. archivio di Sta-to di napoli, regia Camera della Sommaria, processi, pandetta seconda, fascio n. 17, fasc. 3, c. 304. tale “codicillo” fu presentato alla regia udienza di Chieti dalla marchesa ippolita d’avalos, moglie del defunto Marchese del Vasto, attraverso il procuratore Vincenzo Santo-ro; il tribunale ne accertò la validità e consegnò i beni spettanti ad ippolita al suo procura-tore, in particolare «l’infrascritti quadri», cfr. ivi, cc. 309r-310v.

(14) il notissimo Ritratto di Luigi XIV, eseguito dal rigaud nel 1701, oggi al Louvre, of-friva la matrice dello states portrait per eccellenza. d. sanguineTi, Sotto il segno di Rigaud: modelli, suggestioni e prototipi francesi nella ritrattistica di primo Settecento a Genova, in «Bol-lettino dei Musei Civici genovesi», XXii (2000), 65, pp. 24-30. per una trattazione sull’artista rigaud con bibliografia precedente, vedi S. perreau, Hyacinthe Rigaud 1659-1743: le pein-tre des rois, Montepellier 2004; vedi anche Rigaud intime (1659-1743), Catalogue de l’ex-position a cura di M. Costa, perpignan, Musée des Beaux-arts 24 juin - 30 septembre 2009, perpignan 2009.

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Le “Mazzarinette” aLLa CaMera dei deputati 301

ritrattistica della città ligure di fine Seicento e inizi Settecento; gli ar-tisti genovesi, infatti, furono impegnati a riprodurre le preziose effigi per esigenze di “moltiplicazione celebrativa” su istanza di più membri di una stessa famiglia. Se non abbiamo elementi per stabilire l’esisten-za di ritratti delle nipoti di Mazzarino realizzati dall’artista di perpi-gnan, o copie dello stesso, così come non ne abbiamo per escluderlo completamente, un dato stilistico sembra pertinente: un suo copista o allievo avrebbe quasi certamente ripetuto il panneggio rigido, trian-golare e spigoloso (tav. LXXVi, fig. 1); e quell’alterità dello sguardo a catturare lo spettatore, presente nei ritratti femminili degli epigoni genovesi del rigaud (15), che manca completamente alle “Mazzarinet-te” della Camera dei deputati, più confidenziale e diretto.

Le tele suddette risultano praticamente inedite tranne un accen-no nelle recenti pubblicazioni del petrucci su Ferdinand Voet dove sono definite «modeste derivazioni da originali del fiammingo» (16). Le opere originali di Monsù Ferdinando (tav. LXXiV, fig. 2; tav. LXXV, fig. 1), mostrano con chiarezza un artista del Seicento con le sue pe-culiarità stilistiche: i tagli delle ombre, le forme morbide, gli incar-nati di un bianco caldo e le gote rosa, e certo il modo rapido di fare le decorazioni degli abiti e i pizzi; nei dipinti di Montecitorio, la Si-gnora con perle in mano (tav. LXXii, fig. 2) ha un incarnato di un bianco ceruleo con le gote rosa, persino il rosso sembra più freddo, gli azzurri metallici e i bianchi con i riflessi argentei. Sembrerebbe trattarsi di un copista settecentesco, per le forme dure e disegnate, il colore piatto con le tinte levigate, meno corposo e privo delle pennel-late veloci di Voet. analizzando la carriera del pittore fiammingo, il problema del ruolo della bottega è evidente nei ritratti, in particola-re nelle “Belle” (17), tra le quali esistono numerosissime repliche nelle collezioni e altrettante numerose copie modeste sul mercato; la pras-si prevedeva l’esecuzione delle repliche dalla bottega e un tocco fi-nale del maestro rendendo difficile distinguere gli interventi. L’indi-viduazione di più mani risulta impervia, inoltre, proprio per il modus

(15) Vedi i ritratti femminili di domenico parodi e Gio. andrea delle piane pubblicati in d. sanguineTi, cit. a nota 14, pp. 29-30.

(16) Cfr. F. peTrucci, Ferdinand Voet (1639-1689): detto Ferdinando de’ Ritratti, roma 2005, p. 108.

(17) Ferdinand Voet prediligeva il formato detto “tela da testa”, ovvero circa 3 palmi e mezzo per 3, grossomodo 75 × 60 cm, ivi, p. 125.

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MariatereSa paCe302

operandi sommario e sbrigativo con il quale realizzava gli abiti, non soffermandosi sui dettagli, sui ricami e le tessiture «suggerendo più che descrivendo» (18). Con gli specialisti del ritratto, Morandi, Marat-ti, Gaulli, all’inizio ebbe un rapporto di dipendenza e in seguito uno scambio reciproco divenendo uno dei più grandi ritrattisti del Sei-cento; in gran parte della pittura di figura romana del Settecento ci sono debiti e riferimenti, oltre che maratteschi e gaulleschi, voettiani: in antonio david così come in Masucci, Benefial e duprà.

L’attribuzione delle “Mazzarinette” nell’inventario del 1806 «sti-le di david» non è così fantasiosa: antonio david nacque a Venezia nel 1680, figlio di Ludovico antonio, a sei anni si trasferì con il pa-dre a roma e la sua formazione dipese esclusivamente dal genitore. non si può escludere che la sua attività a roma fosse stata in parte compromessa dai continui attacchi che il padre riservava all’accade-mia di San Luca; tuttavia, probabilmente, la sua scelta di dedicarsi al ritratto fu anche spinta da motivi di opportunità, per le sue maggiori capacità in questo genere e per il grande consenso di pubblico. una piccola curiosità è rappresentata dal fatto che il padre Ludovico an-tonio dipinse l’effige del cardinale napoletano nicolò rodolovich (19), nel cui palazzo Cesare Michelangelo d’avalos trascorse la prima not-te a roma, in fuga dal regno di napoli (20).

in un confronto tra le “Belle” di Montecitorio e alcuni dipinti di david presenti in una mostra tenuta a rancate nel 2004, con riferi-mento all’analisi puntuale del Ritratto della marchesa Ottavia Patrizi Sacchetti in veste di Cleopatra (tav. LXXiii, fig. 1) «si notano alcuni elementi onnipresenti nelle opere del maestro, quali la cura minuziosa

(18) Cfr. ivi, p. 101.(19) nicolò rodolovich nacque a napoli de’ Marchesi di polignano; vescovo di Chieti,

creato cardinale da innocenzo Xii il 14 novembre 1699, morì il 27 ottobre del 1702. G. B. pacichelli, Il regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci province, napoli 1703, p. 137. il suo palazzo in piazza di Sciarra era in prossimità di via del Corso, come non lontana era l’abitazione di david padre in strada delle Carrozze, come risulta dagli Stati delle anime nel-la parrocchia di san Lorenzo in Lucina. Si veda I David: due pittori tra Sei e Settecento (Lu-gano, Milano, Venezia, Parma e Roma), Catalogo della Mostra a cura di a. Spiriti e S. Capel-li, rancate, pinacoteca Cantonale Giovanni züst 17 settembre - 28 novembre 2004, Milano 2004, p. 72.

(20) «nella notte tra l’8 e il 9 ottobre 1701 Cesare Michelangelo d’avalos giunse a roma e dormì nel palazzo del cardinale rodolovich in piazza di Sciarra». Cfr. F. Valesio, Diario di Roma, a cura di G. Scano, Milano 1977, i, p. 518.

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Le “Mazzarinette” aLLa CaMera dei deputati 303

per la posa delle mani, la particolarità delle dita affusolate e magre». in effetti, tutti e sei i dipinti mostrano delle pose molto ricercate, al-cune molto simili e studiate e le dita allungate; «la preziosa elabora-zione dei merletti delle maniche e la misurata eleganza nella resa del-le stoffe» ritorna nei ricami, i tessuti e i merletti dei quadri in esame, tutti molto lavorati e preziosi (21). nei ritratti di Montecitorio la pre-sentazione è più complessa rispetto alle “Belle” di Voet, le effigiate hanno stole e mantelle calate sotto lo spalle, entrano in scena molti particolari, cuscini, poltrone e tendaggi, attributi tenuti tra le mani; le dimensioni sono insolite, notevolmente ingrandite rispetto alla nor-ma della “tela da testa” (22). Sembrerebbe che il rapporto con il Voet sia più di citazione: capigliature boccolate con qualche ciocca sciolta, fermagli o spille nelle sottovesti; la fisionomia è quella caratteristica delle Mancini, con le bocche piccole a cuore e occhi grandi.

un elemento che rafforza l’ipotesi di Cesare Michelangelo come collezionista di questi dipinti è il legame profondo con la famiglia Colonna già molto stretto nei secoli passati; l’imperatore, infatti, af-fidò al d’avalos la consegna del toson d’oro al connestabile Fabri-zio Colonna che, nell’ottobre del 1723, raggiunse Vasto (23), parteci-pando alle splendide e spettacolari manifestazioni organizzate dalla piccola “corte imperiale” per festeggiare l’evento. i Colonna hanno avuto una delle serie delle “Belle” più importanti e sicuramente ori-ginali, non dimenticando che Maria Mancini era la moglie di Lorenzo Onofrio Colonna; potrebbe Cesare Michelangelo aver visto i ritratti e chiesto delle copie per la sua residenza. tra gli undici pezzi ancora conservati in casa Colonna, un Ritratto di dama (teresa Cunegonda, principessa di polonia elettrice del reno?; tav. LXXiV, fig. 1) testi-monia lo sviluppo settecentesco della moda delle “Belle”: nell’insie-me l’abito è più morbido ed audace, con una profonda scollatura e con le maniche concluse dal pizzo della camicia, bordate di ermelli-no; accompagnato da molti fiori appuntati sul petto, sulle mani e fis-sati con discrezione sui capelli. Questo ritratto, per l’iconografia e le

(21) Cfr. I David: due pittori tra Sei e Settecento, cit. a nota 19, p. 180, scheda 36.(22) approssimativamente 110 × 98 cm senza cornice rispetto a 75 × 60 cm ca., tuttavia

esistono delle serie di dimensioni maggiori rispetto allo standard.(23) per la cronaca della consegna del toson d’oro al connestabile Fabrizio Colonna vedi

a. L. anTinori, Annali degli Abruzzi, Bologna 1971, XXiV, pp. 194-223.

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MariatereSa paCe304

modalità della pittura, è riferibile all’ampliamento della serie Colon-na documentato nel 1714 (24); riferito a ignoto settecentesco, eviden-zia molte affinità stilistiche con le Mazzarinette se non delle sostan-ziali somiglianze (tav. LXXiV, fig. 1; tav. LXXiii, fig. 2).

tre delle sei tele di Montecitorio sono state oggetto di due campa-gne di restauro separate: nella Signora con clavicembalo (tav. LXXiii, fig. 2) e nella Signora con dalia in mano (tav. LXXi, fig. 2), in pessi-mo stato di conservazione, si è intervenuti nel 1998 (25). nella Signora con perle in mano (tav. LXXii, fig. 1), invece, restaurata nel 2012 (26) (tav. LXXii, fig. 2), interessante è stata la scoperta di un ampio ri-tocco, evidentemente di un precedente restauro di cui non si hanno notizie, realizzato per coprire una caduta di colore sul collo: la col-lana di perle e l’orecchino sinistro sono stati rimossi perché compa-rivano già sul tavolino.

La lettura complessiva dei dati documentari e stilistici delle “Maz-zarinette” d’avalos ha evidenziato alcuni punti fermi e attendibili: l’autore non è sicuramente un copista di rigaud, ma si è ispirato a Voet e alle sue serie di “Belle”, forse proprio quella posseduta dai Colonna, mostrando forti tangenze con lo sviluppo settecentesco di quest’ultima (tav. LXXiV, fig. 1). È stilisticamente un artista attivo tra la fine del Seicento e inizi del Settecento: antonio david è un pittore che in quegli anni vive a roma ed è uno specialista di ritrat-ti i cui riferimenti figurativi sono i grandi del Seicento di questo ge-nere, come Jacob Ferdinand Voet. nelle “Mazzarinette” di Monte-citorio le affinità con le opere note del david (tav. LXXiii, fig. 1) sono nell’attenzione per la posa e nella resa delle mani, dei panneggi e dei merletti; similitudini che ritroviamo nel confronto con un Ri-

(24) La prima serie di ritratti grandi e piccoli commissionati al Voet è attestata da un pa-gamento all’artista del 1673, già documentati numerosi nell’inventario dello stesso anno del palazzo Colonna di paliano. negli anni si moltiplicarono: nel 1714 se ne citano trenta, nel 1783 quaranta. per la trattazione completa degli inventari di casa Colonna vedi Collezione dei dipinti Colonna: inventari 1611-1795, a cura di e. a. Safarik, Munich 1996.

(25) L’intervento è stato realizzato dalla alfa restauri Snc di Simone Colalucci & C. di roma, amministrativamente, dal 14 maggio al 18 dicembre. Le tele ovali presentavano sui lati lunghi due strisce molto rovinate che sembravano aggiunte: in effetti dall’inventario del Legato d’avalos i dipinti misuravano 109 o 110 × 71 o 73 cm e invece le schede del Museo di Capodimonte riportano 110 × 98 cm.

(26) il dipinto è stato restaurato dalla Kromo Snc di Laura Ferretti & C.; la relazione è datata 4 settembre 2012.

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Le “Mazzarinette” aLLa CaMera dei deputati 305

tratto di Signora (tav. LXXVi, fig. 2) presente presso the Walters art Gallery di Baltimora, già attribuito ad agostino Masucci da Clark (27), e che la Capelli con certezza considera chiare testimonianze del lin-guaggio figurativo di david (28). L’artista è tra i protagonisti della ri-trattistica romana dei primi tre decenni del Settecento e il great pre-tender della corte in esilio degli Stuart (29), James Francis edward, lo indicava come «one of our painters» (30), commissionandogli fra l’al-tro i ritratti dei due figli fanciulli (tav. LXXVii, figg. 1-2), il raffron-to dei quali mostra inequivocabili tangenze con le “Mazzarinette” di Montecitorio. antonio david ha avuto contatti con le maggiori casa-te romane tra cui proprio i Colonna, nella collezione dei quali erano presenti due suoi dipinti (31); non stupirebbe, quindi, un impegno per Cesare Michelangelo d’avalos nella realizzazione di Ritratti di Signo-ra ispirandosi alla serie delle “Belle” Colonna, non dimenticando gli stretti e consolidati legami tra le due casate.

MariaTeresa pace

(27) Cfr. F. zeri, Italian paintings in the Walters Art Gallery, Baltimore 1976, pp. 315-316, n. 405.

(28) Cfr. I David: due pittori tra Sei e Settecento, cit. a nota 19, p. 80.(29) Gli Stuart, in esilio a roma, promossero un’intensa attività ritrattistica per ragioni

propagandistiche e tra gli artisti che reclutarono ci furono trevisani, duprà e proprio david: cfr. V. casale, Il Dna artistico di Pier Leone Ghezzi e il gioco degli scambi con Biagio Pucci-ni, Giuseppe Chiari, Agostino Masucci e Antonio David, in «Bollettino d’arte», LXXXV, 111 (2000), p. 117.

(30) il riconoscimento formale fu scritto il 21 marzo 1718 ad urbino; vedi ibidem.(31) «altro per alto di pmi 4 e largo 5 rapp.te un ritratto di eroe, opera di Monsieur da-

vid, con Cornice filettata d’Oro 20» e «altro Quadro in tela d’imperatore rapp.te il ritrat-to della principessa Francavilla opera di Monseur david, con cornice à due ordini d’intaglio d’orato 20»; i due quadri sono presenti nell’inventario del 1763 del cardinale Girolamo ii Co-lonna, vedi Collezione dei dipinti Colonna: inventari 1611-1795, cit. a nota 24, pp. 615-616.

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Giuseppe Rolandi a Roma:il viaGGio di uno studente nella

Città eteRna nel 1837

nella memorialistica della prima metà dell’ottocento, che ha Roma come tematica di riferimento, uno spazio sicuramente di un cer-to peso rivestono le missive di Giuseppe Rolandi, lettere di discreta qualità letteraria e documentaria, decisamente, per una serie di cir-costanze, poco note (1).

Giuseppe Rolandi era nipote del più celebre pietro (2), libraio ed editore a londra, amico di mazzini, e la sua esperienza di viaggio at-traverso l’italia delle piccole patrie, costituita dagli stati regionali, do-

(1) le missive romane di Rolandi sono state edite nel seguente volume, F. tonella re-gis, In Napoli non troverò dei compatriotti, 1836-1837. Il viaggio di uno studente dalla Val-sesia a Londra, Giuseppe Rolandi, Borgosesia 2011, pp. 55-62. l’edizione delle lettere inedi-te, dati i tipi da cui è uscita, purtroppo, ha avuto una circolazione estremamente limitata e circoscritta.

(2) pietro Rolandi nacque a Quarona nel 1801 da una famiglia relativamente agiata. nel 1817 si trasferì a torino, dove svolse l’apprendistato di ebanista. soggiornò nella capitale sa-bauda sino al 1821, fino a quando gli fece visita il fratello maggiore Giovanni Battista, che aveva impiantato una fiorente libreria a londra. Questi, intuendo le capacità del giovane, lo volle con sé come collaboratore. Quindi, a spese del fratello, pietro poté recarsi a Firen-ze, per perfezionarsi nell’uso della lingua toscana, oltre a studiare disegno e incisione. dopo questo periodo di formazione, pietro Rolandi si recò a londra, dove dimostrò grandi capaci-tà editoriali, tant’è che dopo la morte prematura del suo fratello e mentore, nel 1826, decise di potenziare l’attività ereditata. Capace di conoscere i gusti e le attese di un pubblico, col-to e raffinato, come quello londinese, entrò in contatto con molti editori italiani e stranieri, e con personalità di rilievo. nel 1837 incontrò mazzini e partecipò con lui all’impresa di alle-stire l’edizione della Commedia dantesca, apprestata da Foscolo. nel settembre 1846, lasciata la libreria a un suo nipote, che poi, in seguito, la rilevò, si trasferì a livorno. nel 1852 par-tì per un viaggio di studio in medio oriente; nel 1855 si recò in egitto. Compì viaggi anche in europa, come per esempio in spagna. morì a napoli nel 1863. la presente nota biografi-ca deriva da G. Federici, L’edizione foscoliana della Commedia: Mazzini e Rolandi, in «otto/novecento», XXXii, 3 (2008), pp. 109-110.

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Giuseppe Rolandi a Roma : il viaGGio di uno studente nella Città eteRna 307

veva configurarsi come un necessario, e insostituibile, apprendistato culturale e umano, nella prospettiva della sua futura carriera di col-laboratore di suo zio.

tale idea, sicuramente coraggiosa nelle sue linee generali, fatti-vamente non si realizzò perché il giovane studente non si assuefece all’ambiente londinese e decise (conscio, comunque, di aver mancato a un irripetibile appuntamento con un’esistenza diversa, sicuramen-te ricca e densa di prospettive) (3) di ritornare in valsesia, sperduta vallata alpina del piemonte settentrionale di cui era originario, dove divenne notaio nella natia Quarona e a varallo, principale centro di quell’area marginale e periferica (4).

indubbiamente questa obbligata riduzione di orizzonti esisten-ziali fu alquanto penalizzante, per non dire mortificante, soprattutto per un giovane appassionato, intelligente, interessato, dotato di molte qualità, che potevano e dovevano essere coltivate, come si può evin-cere anche dalle sue lettere.

tuttavia, occorre precisare che egli accettò quest’aurea mediocri-tas di notabile locale con una serena e misurata rassegnazione, an-che se l’epilogo dell’esistenza di Rolandi fu comunque drammatico,

(3) in alcune missive Rolandi esprime tutta la propria amarezza e delusione per questo esito così infelice: «[…] vi potete immaginare se mi dispiace di dover abbandonare la spe-ranza di fare col tempo qualche guadagno, se mi dispiaccia di aver fatto allo Zio tante spese inutilmente ed io d’aver abbandonato la carriera che avevo incominciato, ma ora non c’è al-tro; essendo io ancora giovane non mi sarei mai aspettato che il mio petto non potesse resi-stere a qualunque clima. ora non mi resta altra via se non quella di appigliarmi al notaria-to ed appena arrivato in patria non ci sarà altro che ricominciare la pratica. oh quanto mi rincresce. […] dopo sì lungo e delizioso viaggio non so qual pena dovrò provare di ristabi-lirmi ancora in una città com’è varallo almeno dopo essermi trovato qui sul principio. […] mi agita tanto il pensiero che tante speranze siano andate fallite che non ho coraggio di scri-vere […] dall’apparenza di una fortuna ne è veramente avvenuta una disfortuna. […] Ho acquistato è vero delle cognizioni di mondo ed altro in questi viaggi, ma da questo ne vie-ne poi che al mio pensare di oggi proverò gran pena di abituarmi a rimanermene per sem-pre, si può dire, in un piccolo paese, da dove non mi muoverò più. dapprima in un certo modo le mie idee non erano che ben circoscritte ed io andavo vivendo tranquillo, ma ades-so non so come potrò fare. Basta spero che la circostanza mi farà dimenticare sì i piaceri che i dispiaceri che ho provato nel girare il mondo, e così ritornerò come prima. È una cosa per me dura. […] ed ora dopo un sì lungo giro il trovarmi a varallo o a Quarona, mi sem-brerà di essere in sepolcro» (F. tonella regis, In Napoli non troverò dei compatriotti, cit., pp. 80, 81, 83).

(4) presso la sezione di varallo dell’archivio di stato di vercelli sono conservati sedici faldoni di atti da lui rogati in un arco cronologico compreso tra il 1844 e il 1856, anno del-la sua scomparsa, denotando un’attività intensa.

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GaBRiele FedeRiCi308

spegnendosi a soli trentanove anni a causa di un incidente occorsogli mentre percorreva un impervio sentiero di montagna.

si concludeva in modo così triste e inaspettato la vita di quello che, almeno stando alla natura fortemente letteraria, almeno in certi tratti, di questo corpus epistolare, redatto, si badi, a diciannove anni, poteva non solo diventare un raffinato commerciante di libri impe-gnato, ma pure un intellettuale, magari anche di un certo peso, so-prattutto se avesse potuto operare nel contesto della londra vittoria-na di metà ottocento, decisamente colto e avanzato, contraddistinto da una continua circolazione e scambio di idee.

la caratteristica che informa questi materiali epistolari, come si può riscontrare in sommo grado durante il periodo romano (11 gen-naio - 17 febbraio 1837), è la ricerca, quasi configurabile come conti-nua tensione, della conoscenza, del sapere.

Quello a Roma è un viaggio di formazione e di costruzione, dun-que, nel quale un giovane tenta di trovare la propria dimensione esi-stenziale, cercando nell’esperienza odeporica uno strumento di per-fezionamento interiore, ponendo quest’ultima come un interessante ibrido tra un viaggio da Grandtourist e un viaggio dal tratto lavorati-vo. È un’osservazione che deve essere opportunamente sviluppata: il viaggio di Rolandi è proprio caratterizzato da questa polarità tra sva-go e interesse, che crea un piacevole dinamismo nelle parti più riu-scite di queste lettere, che non erano certo pensate per una fruizio-ne letteraria, ma erano solo annotazioni inviate ai congiunti con un semplice scopo comunicativo.

tale esito è stato raggiunto anche grazie a un continuo perfezio-namento nel dettato formale, coltivato, meditato, sul fiorentino parla-to dalle classi colte. a questa valenza formale si aggiunge anche, non sempre, ma spesso, una ricchezza di contenuto che dilata la dimen-sione entro cui si muove il giovane studente.

dalle missive traspare, infatti, come si riscontrerà, una descrizio-ne emotivamente intensa e partecipata dell’urbe, intrisa di stupore e di meraviglia; tratti dovuti anche al fatto che ci troviamo di fronte a un viaggiatore poco più che ragazzo, neofita della cultura, e alla sua prima esperienza importante di vita, che cerca il nuovo con l’entu-siasmo della giovinezza.

incominciando l’analisi delle missive d’ambiente romano, occor-re subito riflettere sulla lettera indirizzata a pietro Rolandi, che, in-viata da Roma, reca la data dell’undici gennaio 1837:

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Giuseppe Rolandi a Roma : il viaGGio di uno studente nella Città eteRna 309

nel quinto giorno si passò dalla città di viterbo, dove vidi anche alcune coset-te in materia d’antichità, e nel sesto mi consolò la vista della pomposa Roma che si vide scorgere a distanza di 15 o 20 miglia prima di arrivarvi.

prima di arrivare a Roma, io credevo di vedere delle campagne fertili e ben coltivate, ma al contrario proprio sin alla porta non si veggono distendere che del-le gran vallate tutte incolte e persino spopolate di piante, le quali sembra che vo-gliono indicare al viaggiatore la caduta della sua antica potenza (5).

Rolandi, appena arrivato nel lazio, come si nota, delinea sulla pa-gina la prima immagine, dipinta di scorcio, quasi di sfuggita, di vi-terbo, una sorta di preludio a Roma, alla luce della considerazione dell’antica civiltà classica, all’insegna di un gusto per l’erudizione.

tuttavia, l’aspettativa suscitata nel giovane studente si stempe-ra, notando il dramma del tempus edax, che aveva trasformato, an-nullato direi, lo splendore del glorioso passato. tale dipinto negati-vo delle campagne romane era per lui un’ulteriore testimonianza del triste grigiore in cui era ammorbato lo stato della Chiesa, la compa-gine statale più arretrata nella penisola italiana, incapace di proiet-tarsi nella modernità.

d’altronde l’impressione di decadenza e abbandono impernia e connota molte cronache di viaggio a Roma, in quel periodo. però, que-sta impressione, o meglio sensazione, si stempera, si sublima, nell’im-magine seguente:

Giunto però alla porta del popolo, ho subito passato il fiume tevere, non pos-so dire che piacere mi fece guardare la sontuosità dei palazzi che si veggono sor-gere quasi simmetricamente da ogni parte.

dopo questo breve passo che attenua la delusione provocata nell’animo dall’agro romano circostante la capitale dello stato ponti-ficio, grazie al forte impatto, davvero suggestivo e dal grande tratto estetico, con i palazzi della Roma barocca, il giovane Rolandi si reca a visitare la Basilica di s. pietro.

seguendo una movenza paradigmatica e archetipica delle pro-se di viaggio, ossia confrontare quello che si vede per la prima vol-ta con qualcosa di noto, la paragona alla Basilica marciana di vene-zia, sottolineando il fatto che quella vaticana supera di gran lunga quella veneta.

(5) F. tonella regis, In Napoli non troverò dei compatriotti, cit., p. 54.

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GaBRiele FedeRiCi310

poi, rivolgendosi al padre luigi, Rolandi afferma che il suo pro-posito non è solo quello di visitare attentamente Roma, ma anche i suoi bellissimi dintorni, che le fanno da suggestiva corona, come ti-voli, albano e Frascati; desiderio che verrà poi attuato.

nella lettera successiva, datata 14 gennaio 1837, e indirizzata allo zio pietro, apprendiamo un’altra informazione interessante sull’aspet-to materiale e contingente del viaggio lungo la via Cassia: cioè che quest’ultimo risultò piacevole, ma assai problematico per il fondo stra-dale disconnesso e per il tempo che, considerata la stagione, fu fune-stato da molta neve. occorre, a questo punto, riflettere che nella cro-naca di questo percorrere l’agro romano non si menziona, forse per non turbare il destinatario della missiva, il costante pericolo dei bri-ganti, aspetto sottolineato, per esempio, in una prosa odeporica qua-si contemporanea al viaggio del Rolandi, il diario steso, nel 1839, dal romanziere milanese Giambattista Bazzoni, che pur non trattando in modo sistematico Roma e il lazio, in un emblematico passo allude a questo problema, che all’epoca era ritenuto una vera e propria pia-ga di quelle aree (6).

a Roma, Rolandi è ospite del grammatico angelo Cerutti (7), che gli fornirà lezioni di lingua inglese in vista di quella che sarebbe do-vuta divenire la sua nuova vita a londra. il giovane Rolandi poi co-munica a suo zio, con grande piacere che:

Qui in Roma ho trovato vari compatrioti e compagni nei miei principi [inizio studi], che godono la pensione del Collegio Caccia (8) e studiano la pittura e pas-

(6) infatti, il letterato milanese esprime icasticamente questo sentimento con l’espressio-ne «quando passammo di notte per que’ loro paesi davvero non c’era da ridere». G. Bazzo-ni, Da Milano a Napoli, alessandria 2009, p. 74.

(7) angelo Cerutti, che fu collaboratore di alessandro Biagioli (celebre maestro di italia-no a parigi), fu autore di un’opera dal titolo Grammatica filosofica della lingua italiana (1835), anche se poi l’ammirazione per César Chesneau du marsais, più volte esibita, si congiun-ge alla condanna puristica dell’Ortis foscoliano, accusato di essere «un composto di gallici-smi e scipitezze».

(8) il Collegio Caccia è un’istituzione culturale di novara, fondata dal nobile Gian France-sco Caccia nel 1616 e funzionante, concretamente, a partire dal 1719. nel secolo Xviii aveva dato aiuto quasi esclusivamente agli studenti di teologia, di legge, di medicina, ma, nell’otto-cento, le sovvenzioni furono estese agli studenti di matematica, di ingegneria, di architettu-ra. un punto fondamentale nella storia dell’ente fu l’autorizzazione con le patenti Reali di Carlo Felice del 23 gennaio 1824 di aiutare gli artisti. Questo rendeva, infatti, visibili e più concreti, attraverso le forme colte delle Belle arti, quei legami che il governo sabaudo aveva necessità d’intensificare, soprattutto con il novarese, provincia di nuova acquisizione e cul-

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Giuseppe Rolandi a Roma : il viaGGio di uno studente nella Città eteRna 311

so alcuni momenti con loro molto piacevoli. Con uno di essi, che è figlio del sig. notaio Cusa (9) […] sono stato nel vaticano ed ho goduto molto di più che se fos-si andato da solo.

nelle lettere, a questo punto, si assiste a un improvviso scatto di approfondimento: da un andamento descrittivo, piuttosto monocor-de e piatto, dovuto anche al fatto che Rolandi, come già sottolinea-to, non aveva certo nessun interesse a conferire una patina letteraria al suo dettato, che poteva seguire, per sommi capi, il modello del-la guida, si passa velocemente ad una movenza riflessiva. il giovane viaggiatore piemontese mostra così di possedere in nuce delle qua-lità che avrebbero potuto farne un discreto scrittore. significativo è quando il giovane Rolandi confronta l’ambiente socio-culturale fio-rentino, così progressista, con quello romano, preferendo il primo, adducendo motivi soprattutto afferenti ai modi gentili degli abitanti della Città del Giglio.

un aspetto interessante da riscontrare è che, nell’economia del-la struttura di queste lettere, grande spazio è riservato al commercio librario, e si citano perciò, in tali missive, i nomi di molti autori, al-

turalmente dipendente da milano. le modalità che gli aspiranti al sussidio del Collegio do-vevano rispettare erano simili a quelle di altri enti con le stesse finalità e, per gli artisti, alle norme dell’accademia albertina: i giovani erano presentati da una persona influente, nota agli amministratori o al rettore, oppure dai direttori dei corsi delle scuole frequentate che si facevano garanti delle qualità artistiche e morali dei postulanti. se la domanda era accettata, l’allievo doveva impegnarsi nella frequenza dei corsi scelti, dando testimonianza dei progressi attraverso i saggi, e il Collegio contribuiva al suo mantenimento. anche il saggio (disegno a matita, dipinto ad olio, scultura in marmo o gesso, incisione) veniva retribuito a discrezione degli amministratori o del rettore e rimaneva di proprietà del Collegio. il percorso scolasti-co era fisso: dopo la scuola locale, l’allievo frequentava per quattro anni l’accademia alber-tina a torino e poi, se le qualità artistiche erano ritenute di valore, poteva seguire dei corsi di perfezionamento a Roma per tre o quattro anni. in qualche caso si permetteva di segui-re il corso di perfezionamento in un’altra città, come Firenze o venezia. la presente nota è ricavata da e. mangiat, Il nobile Collegio Caccia e i pittori valsesiani, in «de valle sicida», Xvi (2005), pp. 160-161.

(9) Rolandi, in questo passo, allude al pittore Francesco Cusa (Rimella 1803 - torino 1850), che fu pensionato del Collegio Caccia dal 1829-1830 al 1840-1841, dapprima a to-rino e poi, appunto, a Roma, dove giunse nei primi mesi del 1833 (quindi, quando scrive il viaggiatore valsesiano, il Cusa soggiornava da quattro anni nella Città eterna). lo storico dell’arte Casimiro debiaggi segnala che questo artista a Roma, dove si trattenne almeno sino al 1842, ottenne un premio dall’accademia di san luca e che, a formazione conclusa, ope-rò prevalentemente in valsesia. nel 1845 Francesco Cusa partecipò alla mostra organizzata dalla promotrice torinese con un soggetto davvero insolito, Il Conte Pietro di Savoia riceve dall’Abate di San Maurizio l’anello dell’Ordine.

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lora, à la page. uno di questi scrittori, all’epoca di un certo rilievo, e ora, giustamente, quasi un carneade sconosciuto, le cui opere sono frequentate solo da pochi specialisti, è quello del romanziere Gio-vanni Rosini (10).

da queste osservazioni, il discorso si ampia in una prospettiva più marcatamente odeporica, che racconta in modo plastico i mira-bilia dell’urbe, con la lettera indirizzata al padre luigi che reca la data del 30 gennaio 1837:

vi parlerò […] di Roma e delle rarità che essa contiene. sono stato adesso un po’ sfortunato a causa del tempo che fu quasi sempre cattivo, ma non ho trala-sciato per questo di andare a vedere quanto più ho potuto in questo breve spazio di tempo. ora sarò già stato tre volte o quattro in san pietro, altrettanto in vati-cano, sul Campidoglio, nel Foro Romano, al Colosseo, nel campo vacino ed una volta alle Catacombe dei martiri, al pantheon ossia al tempio famoso d’agrippa, nella Basilica di san paolo, in quella di san Giovanni lateranense, alla tomba del tasso (11), al sepolcro di Cecilia metella etc. etc. e tutti i giorni continuo ad andare in altri luoghi che non ho ancora veduto. vi parlo solamente delle cose più rimar-chevoli, perché se dovessi parlarvi di tutto, non lo potrei fare senza starci la de-scrizione in due o tre fogli. dai luoghi che ho nominato qui sopra sarò distante di abitazione due, tre, quattro miglia ed anche più, e bisogna che tenga dacconto mol-tissimo il tempo se non voglio partire senza aver veduto almeno il più importante. dico il più importante, perché a vedere tutto non basta il mio breve soggiorno di tre settimane od anche un mese, ma ci vorrebbe un anno intiero.

immaginatevi che nel vaticano solamente, uno che volesse esaminare ogni cosa attentamente vi dovrebbe mettere per lo meno quattro giorni o cinque; questo non sarebbe che un sol posto, se venite poi a tutte le Gallerie della Chiesa, ai monu-menti vi potete figurare che tempo vi vorrebbe. il vaticano è una fra le più bel-le meraviglie di Roma e di questo magnifico luogo uno non se ne può formare un’idea senza averlo veduto. esso comprenderà più di 45 o 50 camere e contiene inoltre un museo di storia naturale, una libreria pregievolissima, varie sale di ar-mature antiche, una raccolta rarissima divisa in più di 18 o 20 sale, lavori greci e latini in scultura, delle pitture a fresco, dei quadri di Raffaello non pochi, e tut-to ciò in sostanza che esiste di migliore in materia di belle arti. Qui fu cortese di

(10) Giovanni Rosini (1776-1855) fu autore del romanzo storico La monaca di Monza. Storia del secolo XVII, edito dal medesimo scrittore che dirigeva a pisa l’azienda tipografica e libraria di niccolò Capurro; nello stesso anno l’opera fu pubblicata da altri editori “sot-to la tutela della legge”, con il titolo la signora di Monza. professore di “eloquenza” all’uni-versità di pisa, Rosini sosteneva di aver progettato il suo romanzo prima della ventisettana. ebbe fama sino a metà dell’ottocento, sull’onda del successo dei romanzi storici che segui-vano le orme di Walter scott. Con l’edizione della Quarantana e la sua conseguente afferma-zione, questo scrittore e la sua opera finirono nell’oblio.

(11) Come aveva fatto un ben più illustre viaggiatore a Roma, Giacomo leopardi.

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Giuseppe Rolandi a Roma : il viaGGio di uno studente nella Città eteRna 313

accompagnarmi il figlio del sig. Cusa che ho trovato molto grazioso ed in compa-gnia di lui ho potuto gustare assai più le sue bellezze.

della chiesa di san pietro io vi ho già detto qualche cosa nell’ultima mia, ma ora che ho avuto il piacere di ammirarla più volte ne parlerò di nuovo. oltre alla ricchezza, la sua vastità è una cosa sorprendente; un giorno che vi andai mi pre-si il divertimento di misurare uno dei piedistalli che ne sostengono la volta e feci circa 300 passi di circonferenza. di simili piedistalli ne contiene sedici e vi potete figurare che siano tutti i piedistalli altrettante piccole chiese.

Ho voluto salire anche sulla Cupola per dire di aver visto tutto in san pietro, e quella palla che al vederla d’abbasso sembra si può dire un nulla può contenere comodamente sedici persone in piedi. il Campidoglio che è posto a contatto della Rupe tarpea mi è anche piaciuto moltissimo. in esso ho veduto il luogo dove gli antichi romani custodivano le loro oche, che si riconosce dal modo con cui fu co-struito, ho veduto la sala dei trionfanti così detta che è conservata come era anti-camente e qualche altra cosa ancora. le molte altre camere, sale etc. furono rimo-dernate e in esse vi è una gran Galleria di quadri, di sculture, di bassorilievi, cose tutte stimate moltissimo.

Fra tutte le altre, una sala contiene i ritratti di una gran parte degli imperato-ri, come anche dei filosofi che hanno fiorito particolarmente in Grecia. il pregio di questa, a detta di tutti gli intelligenti, sorpassa quello di tutte le altre ed è uni-ca nel suo genere in qualunque parte del mondo.

il Foro Romano poi, il campo vaccino, il Colosseo, che sono tre luoghi poco distanti tra loro l’uno dell’altro, sembra che inspirino riverenza a chi vi va per la prima volta.

a tutti i passi in quei luoghi si incontrano degli archi trionfali che sono stati eretti in onore di un qualche Guerriero vincitore, dei monumenti, delle colonne, dei templi dedicati allora alle deità pagane, e di una gran parte oltre agli esistenti ora non se ne veggon più che le vestigia semplici o le rovine. nel Foro Romano si scorge ancora il sito dove precisamente si faceva sentire l’eloquenza di Cicerone, ed esite ben conser-vato il carcere dove perirono miseramente Giugurta Re di numidia, Cetero Gabinio e molti altri che favorivano il partito di Catilina. il Colosseo, questo è il monumen-to più vasto che abbia resistito alla prova dei tempi e dentro di esso si esercitava-no i Gladiatori ed i Romani davano i loro più belli spettacoli. nelle Catacombe sarò disceso forse tre o quattrocento braccia sotto terra e non mi sarei creduto di vedere tante tombe di martiri là seppeliti. Queste Catacombe non si sa ancora sin dove ar-rivano e si sono chiuse una gran parte delle strade perché tutti gli anni vi si perde-vano in esse delle persone. sempre ci accompagnò un frate che mi assicurava d’es-sere egli stati addentro più di dodici miglia e di essere per miracolo ritornato fuori. del pantheon d’agrippa vi dirò che è un tempio ammirabile per la sua costruzio-ne con le porte di bronzo e tralascio delle altre cose così perché non ho spazio. se questo non mi mancasse vi direi qualche cosa anche della fontana di trevi, di quel-la del tritone, della Colonna traiana, delle terme di Caracalla, della Chiesa di san lorenzo fuori le mura e mi rincresce veramente il dover passarvi sopra (12).

(12) F. tonella regis, In Napoli non troverò dei compatriotti, cit., pp. 58-59.

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GaBRiele FedeRiCi314

in questa pagina Giuseppe Rolandi delinea al padre, interlocuto-re lontano, chiuso e isolato in una dimensione provinciale, le meravi-glie della Roma cristiana e classica, unite in uno splendido connubio. si tratteggia in tal modo un ideale tour, scandito da tappe obbligate, che cerca di descrivere per sommi capi, a chi non conosce, e proba-bilmente, non vedrà mai, queste realtà storiche, ambientali, architet-toniche così suggestive e di forte impatto emotivo.

È un souvenir di Roma, dove grande spazio, ovviamente, è riser-vato all’arte: monumenti antichi e le Gallerie della Chiesa (i musei vaticani), costituiscono un repertorio di contenuti artistici di alto li-vello, soprattutto per un giovane sensibile e proveniente da una zona del piemonte sabaudo particolarmente incline alle Belle arti, che ave-va dato i natali a artisti di eccezionale valore e potenza espressiva, quali Gaudenzio Ferrari, allievo di Raffaello, e tanzio da varallo, il “Caravaggio delle alpi”.

da notare poi la fresca ingenuità con cui Rolandi descrive l’im-ponenza della Basilica vaticana, letteralmente “misurata” con degli strumenti decisamente empirici. in questo discorso da “turista” gran-de spazio è riservato, come si è notato, alle Catacombe, visitate forse non solo per una mera curiosità ma anche per devozione (non dob-biamo dimenticare neanche per un attimo che Rolandi proveniva da un’area del Regno di sardegna molto devota e dedita, all’epoca, con grande assiduità alle pratiche religiose, dove come un faro si staglia-va il sacro monte di varallo, luogo di intensa spiritualità e di rac-coglimento).

molto più interessanti sono le annotazioni seguenti:

voglio però dirvi che se Roma è interessante per tutte le cose che vi ho detto di sopra, non è poi né dilettevole come neanche bella in paragone delle altre cit-tà. le sue contrade sono sporche, incomode, senza marciapiedi e nei negozi non si vede il menomo lusso. dalla città di Firenze a quella di Roma in riguardo di bel-lezza vi assicuro che passa una diversità, ma grande. le persone non hanno l’aria sul generale d’incontro come lo sono i Fiorentini ma sono molto più disgradevoli. io per me sono oltremodo contento di aver veduto Roma, ma non la vorrei sce-gliere per abitarvi. in quest’anno mi dicono che in essa vi regna una gran mise-ria e sono parecchi giorni che si sentono degli assassinamenti e per lo più nel cen-tro istesso della città. io nei primi giorni non potevo credere questa cosa, ma ora comprendo che non è incredibile perché è molto disabitata. non sono cinque o sei giorni che uno speziale fu assassinato e ucciso nella stessa contrada dove abito io, che non sarà distante dal centro più di un quarto di miglia.

Questo mi fa comprendere che i romani non hanno un cuore sensibile e che

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Giuseppe Rolandi a Roma : il viaGGio di uno studente nella Città eteRna 315

il basso ceto è molto indietro di civilizzazione. per comprendere questo basta ve-dere certi teatri in cui per concepirne un’idea io ho voluto andare, come vi vanno anche tutti i forestieri. sono sempre pienissimi di persone le più malmesse, si fan-no a tutte le scene dei spari di fucile e gli spettatori battono le mani a certe rap-presentazioni di cui ne riderebbero le nostre montagne.

oltre a questo i Romani sono anche molto avidi di denaro e per la più picco-la cosa domandano di essere pagati. È accaduto a me che una donna mi doman-dò quattro o cinque baiocchi per avermi insegnato la strada; dovunque poi uno vada a vedere qualche cosa, siano preti alla custodia o frati ne vogliono sempre la mancia (13).

dall’immagine oleografica, patinata, un po’ da cartolina, e molto edulcorata, del brano precedente, si passa a tratteggiare una tranche de vie più reale e cruda nella sua aderenza alla realtà. Quindi dal so-gno di una Roma monumentale, materializzazione concreta dell’idea-le di bellezza, si arriva al dato contingente di una città non proprio vivibile e a misura d’uomo.

È interessante questa movenza testuale perché illustra un affre-sco drammatico di una realtà fatta di omicidi, di inciviltà, di pover-tà, la cui percezione si acuisce per stereotipi consolidati. nelle let-tere di Rolandi questo viene visto riverberarsi anche negli spettacoli teatrali di carattere popolare, rappresentati nella capitale dello stato pontificio della Restaurazione, che egli considera decisamente di bas-sa lega e allestiti per un pubblico che rispecchiava pienamente quel discutibile gusto estetico. notevole è poi l’annotazione sul confron-to, implicito, con la gente di valsesia, che potrebbe apparire, se non contestualizzato, fuori luogo, in quanto, nell’immaginario collettivo le aree di montagna apparivano sempre e comunque meno civili di quelle urbane. occorre, per chiarire meglio il discorso, precisare che la valle da cui proveniva Rolandi aveva il miglior sistema di educa-zione all’interno del Regno di sardegna e il grado di istruzione me-dio maschile era molto elevato, probabilmente ben più alto di quel-lo di un popolano dell’urbe al tempo di Belli.

particolarmente interessante è poi il fatto che da queste lettere, scritte undici anni prima della Repubblica Romana, emerge che Ro-landi abbia chiesto ripetutamente a Roma, su sollecitazione dello zio pietro, se qualcuno conoscesse Giuseppe mazzini, la cui attività po-litica era ormai nel ’37 ben nota in italia. ovviamente ebbe a questo

(13) F. tonella regis, In Napoli non troverò dei compatriotti, cit., pp. 58-59.

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G. FedeRiCi : Giuseppe Rolandi a Roma316

quesito sempre risposta negativa: o gli interlocutori di Rolandi erano cauti con questo giovane che faceva domande un po’ avventate; o più semplicemente erano persone poco informate di questioni politiche.

il viaggio di Rolandi a Roma, sia pure delineato in brevi e conci-se lettere, è comunque una testimonianza interessante, ed una piccola ma, a suo modo, preziosa tessera di un mosaico di memorie odepo-riche minori, utili tutte insieme per tracciare un quadro sempre più vasto e articolato dell’esperienza della Città eterna, racchiusa e deli-neata da memorie stese non da letterati di professione.

gaBriele Federici

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA

ERSILIA CAETANI LOVATELLI

La lettera che qui si va a pubblicare venne fortuitamente recupe- rata nel maggio 2013 fra le carte di un rigattiere di Ancona. L’au-tunno dello stesso anno fu sottoposta all’attenzione di Marco Buono-core, che ne verificò l’autenticità e ne acquisì il testo per un futuro inserimento nel corpus delle Lettere di Mommsen agli Italiani, opera di cui egli è curatore. Su suggerimento di Massimiliano Ghilardi, si provvede in questa sede a riprodurne il testo con una prima analisi (*).

Theodor Mommsen Charlottenburgbei BerlinMarchstrasse 8.

Egregia Signora Contessa,In questo momento ritorno dal Barnabei l’avviso, che da Nemi dove abbiamo l’intenzione di andare domani, non potremo essere di ritorno prima delle 7.22, così chenon potremo arrivare in casa sua se non con qualche ritardo. La cara sua ospitalità ci perdonerà anche questa infrazione.

Suo obbl(igatissi)moMercoledì.

Mommsen.

(*) Esprimo un debito di gratitudine e stima verso Marco Buonocore, Direttore della Sezione Archivi della Biblioteca Apostolica Vaticana e Presidente della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, e verso Massimiliano Ghilardi, Direttore associato dell’Istituto Na-zionale di Studi Romani: la disponibilità e le indicazioni da loro fornitemi sono risultate im-prescindibili nella stesura di questa breve nota.

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GIANLUCA MANDATORI318

Si tratta di un biglietto composto di quattro facciate – di cm 14 × 20 – di cui soltanto le prime due sono utilizzate; la grafia è quella agile e nervosa, seppur perfettamente leggibile, tipica della corrispon-denza mommseniana (tav. LXXVIII, figg. 1-2).

Se immediata nel testo è la menzione di Felice Barnabei, meno evi-dente risulta l’identità dell’«Egregia Signora Contessa», cui la missiva è indirizzata. La cordialità con cui il Mommsen le scrive e la comu-ne amicizia con il Barnabei suggeriscono tuttavia, fuor d’ogni dubbio, d’identificarla con la contessa Ersilia Caetani Lovatelli, erudita salon-nière romana, storica ed archeologa, nonché Accademica dei Lincei.

Identificato abbastanza agevolmente il destinatario del biglietto, si rendeva necessario trovare un qualche elemento che ne permettesse la datazione: infatti, pur dando per assodato che le missive recanti la medesima tipologia di timbro hanno come terminus post quem l’anno 1891 (1), l’indicazione datante – un semplice «Mercoledì» – riportata nel biglietto sembrava veramente troppo esigua per avanzare un’ipotesi.

Tuttavia, incrociando le informazioni sui rapporti tra il Mommsen ed il Barnabei con lo scambio epistolare fra loro intercorso, è stato possibile risalire alla data esatta della visita a Nemi e, quindi, data-re – con verosimile affidabilità – anche la lettera indirizzata alla no-bile romana. Siamo nei primi mesi dell’anno 1896 – durante l’ultimo viaggio di Mommsen in Italia (2) –, quando Felice Barnabei, in data mercoledì 19 febbraio 1896, annota: «Mommsen con Lady Helbig a Tivoli. Mi scrive di rimettere la gita a Nemi» (3).

(1) Cfr. St. Rebenich - G. Franke, Theodor Mommsen und Friedrich Althoff: Briefwech-sel 1882-1903, München 2012, p. 57.

(2) Per l’attività che Mommsen andava svolgendo in Italia sul finire dell’Ottocento si veda M. Buonocore, Ex tenebris lux facta est. Theodor Mommsen e gli studi classici in Italia dopo l’Unità: bilanci e prospettive, in La tradizione classica e l’unità d’Italia, Atti del Semina-rio, a cura di S. cerasuolo et alii, Napoli-Santa Maria Capua Vetere 2-4 ottobre 2013, Napo-li 2013, pp. 237-260; M. Buonocore, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico. Dalle sue lettere conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Pubblicazioni dell’Istituto di Dirit-to romano e dei Diritti dell’Oriente mediterraneo dell’Università degli studi di Roma La Sa-pienza, LXXIX), Napoli 2003. Sui soggiorni romani di Mommsen cfr. G. Lumbroso, Teodo-ro Mommsen, ricordi, Roma 1903. Sulla corrispondenza mommseniana, M. Buonocore, Per una edizione delle lettere di Theodor Mommsen agli Italiani, in «Mediterraneo antico», XVI, 1 (2013), pp. 11-38.

(3) Si tratta di un appunto conservato presso l’archivio della famiglia Barnabei, ripro-dotto in Le “Memorie di un archeologo” di Felice Barnabei, a cura di M. Barnabei - F. Delpi-no, Roma 1991, p. 435.

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 319

Ci troviamo, a questo punto, di fronte ad un primo dato certo: Mommsen mercoledì 19 febbraio si trovava a Tivoli con l’affascinante – stando ai giudizi dell’epoca – principessa russa Nadejda Schahow-skoy, moglie di Wolfgang Helbig (4). Da lì chiede all’amico Barnabei di rimandare la visita a Nemi, per la quale si erano, evidentemente, già accordati.

Grazie al riferimento all’escursione a Nemi, si deve ipotizzare che il biglietto indirizzato alla Lovatelli abbia una data quantomeno poste-riore al 19 febbraio 1896. Scartata la possibilità che il mercoledì in-dicato nella lettera possa coincidere con lo stesso 19, giorno in cui il Mommsen scrisse al Barnabei per chiedere di differire la visita, men-tre il mercoledì in cui venne scritta la lettera alla contessa i due si videro di persona, l’unica data plausibile resta il mercoledì seguente, il 26 febbraio. In tal senso ci soccorrono sei biglietti (5) di Mommsen al Barnabei, tutti vergati sul finire di febbraio di quell’anno, il primo dei quali – l’unico precisamente datato – riporta l’indicazione (lune-dì) 24 febbraio.

Inoltre, da una brevissima lettera appartenente al medesimo grup-

(4) Il noto archeologo, scopritore della Fibula Prenestina, non era in buoni rapporti con il Barnabei. Quest’ultimo, il 14 febbraio del 1896, durante una serata in onore di Mommsen presso la sede dell’Ambasciata di Germania, alla presenza dello stesso Mommsen, del Prin-cipe von Bülow (ambasciatore tedesco a Roma), della contessa Laura Minghetti di Campo-reale, dei professori Eugenio Peterson e Francesco Brioschi (Presidente dei Lincei) e dell’in-gegnere Raffaele Faccioli, ebbe a criticare aspramente l’operato di Helbig, cui maggiormente rimproverava la più completa inosservanza in materia di concessioni allo scavo e la compra-vendita dei reperti. Di contro Helbig, che già da anni andava screditando l’operato del Mu-seo di Villa Giulia, il 19 febbraio 1899 mosse al Barnabei l’accusa di aver volontariamente musea lizzato alcuni reperti contraffatti e di aver mistificato i dati di scavo mettendo «del-le tombe dove non ci erano» (cfr. Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 275); di fatto sarà l’inizio del cosiddetto scandalo di Villa Giulia che tanto risalto ebbe sulla stampa dell’epoca e le cui conseguenze si ripercossero, con annose conseguenze, sul Barnabei e sul-la stessa istituzione museale (cfr. Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, pp. 218-221). Per un profilo di Wolfgang Helbig si veda H. Blanck, s.v. Helbig, Wolfgang, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXI, Roma 2003, pp. 670-673. Sui burrascosi rapporti tra Barna-bei ed Helbig, M. Buonocore, Helbig e Mommsen: dal Nachlaß Mommsen presso la Staatsbi-bliothek zu Berlin Preussischer Kulturbesitz, in Wolfgang Helbig e la scienza dell’antichità del suo tempo, Atti del Convegno Internazionale in occasione del 170° compleanno di Wolfgang Helbig, a cura di S. Örmä - K. Sandberg, Roma, Institutum Romanum Finlandiae 2 febbraio 2009, «Acta Instituti Romani Finlandiae», XXXVII (2011), pp. 101-102.

(5) Si tratta di sei missive conservate in parte a Pisa, presso la biblioteca della Scuola Nor-male Superiore, parte a Roma, presso la Biblioteca Angelica, nel Carteggio Barnabei; attual-mente sono in fase di pubblicazione nel corpus delle Lettere di Mommsen agli Italiani.

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po di scritti, si evince come i due studiosi si accordino per fare un’usci-ta – tempo permettendo – il giovedì successivo; quindi, giovedì 27 febbraio. Alla luce di tali indicazioni cronologiche, sembra plausibile che la visita a Nemi – già prorogata il 19 febbraio – fosse stata fis-sata per il successivo giovedì 27; pertanto, non ci sembra azzardato poter datare la missiva indirizzata alla Lovatelli al mercoledì 26 feb-braio 1896.

Singolare appare l’indicazione puntuale dell’orario di rientro: «non potremo essere di ritorno prima delle 7.22». Per quanto mi sia stato possibile, consultando il carteggio mommseniano finora edito, non ho trovato parallelismi che lasciassero pensare ad una particolare propensione del Mommsen per indicazioni così puntigliose; è quindi probabile che qui faccia riferimento all’orario di partenza del treno che avrebbe utilizzato per il rientro (6), considerando anche che Nemi, dal 1889, risultava raggiungibile con la linea ferroviaria Roma-Albano, fatto salvo un tratto di circa 6 km da percorrere in carrozza. Sembra plausibile, dunque, che i due studiosi se ne siano serviti.

Per meglio inquadrare il contesto in cui fu scritta la missiva, è op-portuno tracciare, seppur brevemente, un profilo della contessa Cae-tani Lovatelli (7). Nata a Roma dalla nobile polacca Callista Rzewuska e dal fine dantista Michelangelo Caetani, principe di Teano e duca di Sermoneta, donna Ersilia crebbe nella temperie culturale – liberale e mordacemente critica – che animava i salotti del palazzo di fami-glia, in via delle Botteghe Oscure. Sotto la guida del precettore Igna-zio Guidi, docente di lingue semitiche ed Accademico dei Lincei, si mostrò precocemente portata per gli studi classici, apprendendo in

(6) Singolare appare come, ancora qualche anno fa, esistesse un treno regionale Alba-no-Roma con partenza alle 19:22. Che il Mommsen, fin dalla gioventù, avesse un pessimo rapporto con il tempo e che, sovente, andasse di fretta è cosa ben nota: in CIL X, p. vi de-finì la sua condizione come quella peregrinantis et festinantis hominis Transalpini. Nel me-desimo volume, in merito all’iscrizione CIL X, 6331, frettolosamente descritta, annotò: cui otium erit, quod mihi deerat, plura sine dubio excipiet. E ancora, per la CIL X, 8397: ut festi-nans ipse descripsi imperfecte.

(7) Cfr. A. Petrucci, s.v. Caetani, Ersilia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVI, Roma 1973, pp. 155-157; ulteriori approfondimenti in L. P. Lemme, Salotti romani dell’Ottocento, Torino 1990 e L. P. Lemme, Il salotto di cultura a Roma fra ’800 e ’900, Roma 1995; F. Bar-toccini, Cultura e società nei ‘salotti’ di casa Caetani, in «Archivio della Società romana di storia patria», 100 (1997), pp. 113-127; “Il costume è di rigore”. 8 febbraio 1875: un ballo a Palazzo Caetani. Fotografie romane di un appuntamento mondano, Fondazione Camillo Cae-tani, a cura di G. Gorgone - C. Cannelli, Roma 2002.

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 321

breve tempo il greco, il latino ed il sanscrito. Proprio grazie alla co-noscenza di quest’ultima lingua – racconta un aneddoto – riuscì a mettere in difficoltà il Mommsen, giacché, avendogli scritto una let-tera in questa lingua, l’illustre antichista dovette ammettere di non poterla leggere. Nel 1859 Ersilia Caetani sposò il patrizio ravennate Giacomo Lovatelli, trasferendo la propria residenza a Palazzo Lova-telli, in piazza Campitelli.

In quegli anni, iniziata all’antichistica dall’amico di famiglia Gio-vanni Battista de Rossi (8), si dedicò con grande impegno allo studio della filologia, dell’archeologia e dell’epigrafia, dando alle stampe le sue prime pubblicazioni. I suoi studi – di fatto era poco più che un’au-todidatta – vennero incoraggiati e lodati non soltanto dallo stesso de Rossi, ma anche da Rodolfo Lanciani (9), da Giuseppe Gatti (10), da Marie Luis Boissier (11), da Joseph Renan (12), da Wilhelm Henzen (13),

(8) Per una rapida sintesi sul celebre archeologo Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) si veda M. Ceresa, s.v. De Rossi, Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 201-220. Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana si conservano numerose lettere indirizzategli dalla Lovatelli (cfr. nota 40).

(9) Rodolfo Amedeo Lanciani (1845-1929), ingegnere ed antichista. Un breve ritratto in D. Palombi, s.v. Lanciani, Rodolfo Amedeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXIII, Roma 2004, pp. 353-360; più estesamente, iD., Rodolfo Lanciani. L’archeologia a Roma tra Ottocento e Novecento, Roma 2006.

(10) Magistrato della Sacra Rota, archeologo ed epigrafista, Giuseppe Gatti (1838-1914) fu collaboratore dello Henzen e del Mommsen. Indicazioni biografiche in D. Palombi, s.v. Gat-ti, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, LII, Roma 1999, pp. 577-580 e M. Buo-nocore, Giuseppe Gatti, Angelo Silvagni e le schede ICR di Giovanni Battista de Rossi: nuo-vi tasselli per la storia della loro “acquisizione”, in Marmoribus vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi, a cura di Ph. Pergola - O. Brandt, Roma 2011, pp. 305-329.

(11) Un breve ritratto di Marie Luis Antoine Gaston Boissier (1823-1908), docente di poe sia latina al Collège de France, in G. CorraDi, s.v. Boissier, Marie-Louis-Antoine-Gaston, in Enciclopedia Italiana, VII, Milano 1930, p. 292.

(12) Joseph Ernest Renan (1823-1892), insigne orientalista, storico delle religioni e docen-te di ebraico al Collège de France. Si veda A. Pincherle, s.v. Renan, Joseph-Ernest, in Enci-clopedia Italiana, XXIX, Milano 1936, pp. 48-51.

Il Barnabei intrattenne con lui un carteggio (cfr. Biblioteca Angelica, Carteggio Barna-bei, b. 384/20) e lo consultò in merito all’autenticità dei reperti provenienti dalla tomba Ber-nardini.

(13) Johan Heinrich Wilhelm Henzen (1816-1887) fu uno degli antichisti tedeschi più ap-prezzati nella Roma del tardo Ottocento: per la sua poliedrica figura, H. Blanck, s.v. Hen-zen, Wilhelm ( Johan Heinrich Wilhelm), in Dizionario Biografico degli Italiani, LXIII, Roma 2003, pp. 680-683 e, più diffusamente, H. Blanck, Le scienze dell’antichità nell’Ottocento. Il carteggio fra Adolphe Noël des Vergers e i segretari dell’Instituto di Corrispondenza archeologia

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da Franz Bücheler (14), da Immanuel Friedländer (15) e dal Gregoro-vius (16); fu proprio quest’ultimo che la definì «la più dotta fra le don-ne di Roma e fors’anco d’Italia» (17). Nel 1864 da Mommsen, Henzen e Gerhard (18) fu designata come membro onorario dell’Instituto di cor-rispondenza archeologica di Roma. Qualche anno più tardi, nell’esta-te del 1878, Mommsen non escluse di farla partecipare alla redazione di un volume del CIL, come si evince da una lettera indirizzata al de Rossi (19). Nel 1879 divenne – unica donna – membro dell’Accademia

Wilhelm Henzen e Heinrich Brunn, Associazione Adolphe Noël des Vergers. Testi, 2, Rimi-ni 2009. In una missiva datata 19 luglio 1880 – ad appena una settimana dall’incendio della casa di Mommsen a Charlottenburg – l’Henzen chiese al de Rossi di concertare con donna Ersilia Caetani il reperimento di quei libri, specie italiani, che erano andati distrutti nel rogo (sull’episodio cfr. M. Buonocore, Ex tenebris lux facta est, cit. a nota 2, pp. 24-26).

(14) Su Franz Bücheler (1837-1908), docente di filologia classica a Friburgo, a Greifs-wald e a Bonn, A. Taccone, s.v. Bücheler, Franz, in Enciclopedia Italiana, VIII, Milano 1930, p. 13.

(15) Eduard Julius Theodor Friedländer, (1813-1884), celebre numismatico, studioso del-la monetazione osca. La sua figura e la sua opera in b. Weisser, Julius Friedlaender, Theo-dor Mommsen und das Königliche Münzkabinett zu Berlin, in Geldgeschichte vs. Numismatik. Theodor Mommsen und die antike Münze, Atti del colloquio, a cura di h.-m. von Kaenel - m. r. alföldi - u. Peter - h. komnick, Frankfurt am Main, 1-4 maggio 2003, Berlin 2004, pp. 91-108.

(16) Ferdinand Gregorovius (1821-1891), storico e medievista. Per un profilo genera-le si veda A. Forni, s.v. Gregorovius, Ferdinand, in Dizionario Biografico degli Italiani, LIX, Roma 2002, pp. 304-310. L’opera che lo rese celebre, la Geschichte der Stadt Rom im Mitte-lalter (trad. it. Storia di Roma nel Medioevo, Roma 1942; Torino 1973) – connotata da una preponderante invenzione letteraria, tipica di certo romanticismo tedesco – venne fortemen-te criticata dal Mommsen; a tal proposito, il principe von Bülow annotò nelle sue memorie: «[Mommsen] conobbe Gregorovius nel salotto della contessa Lovatelli, sorella del duca di Sermoneta, donna di grande intelligenza e cultura, e la loro conversazione cadde sui destini della città eterna, tema di comune interesse per entrambi. Gregorovius con molto calore si diffondeva in particolari sul Medioevo romano e Mommsen a un certo punto, interrompen-dolo: – Posso darvi un consiglio? Scrivete una storia di Roma nel Medioevo –. Io stesso ho udito raccontare più volte l’episodio dalla bocca della contessa. Per comprenderne appieno il significato, bisogna notare che l’opera di Gregorovius era già pubblicata da un pezzo e che Mommsen, che certo la conosceva, voleva dire che era tutta da rifare» (per l’episodio cfr. V. Calvani, Introduzione alla Storia di Roma nel Medioevo, Roma 1972, p. 10, nota 4).

(17) F. Gregorovius, Diari Romani, Milano 1895, p. 48.(18) Su Eduard Gerhard (1795-1867), fondatore dell’Istituto di corrispondenza archeolo-

gica (poi Istituto Archeologico Germanico) si veda Dem Archäologen Eduard Gerhard 1795-1867 zu seinem 200. Geburtstag (Winckelmann-Institut der Humboldt-Universitat zu Berlin), a cura di H. Wrede, Berlin 1997.

(19) Nel testo della lettera, datata 12 agosto 1878 – consultabile sul sito Internet http://www.mommsenlettere.org – si legge: «Tanti saluti alla vostra Signora ed a Donna Ersilia; se

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 323

dei Lincei e socia onoraria dell’Imperiale Istituto archeologico germa-nico. Nel 1887 uscì Thanatos, la sua opera più nota, in cui, con toni di lirismo classicheggiante – che tanto saranno congeniali ad archeo-logi della levatura di Giacomo Boni (20), del quale la Lovatelli più volte elogiò l’operato –, trattò il tema della morte nel mondo greco ed in quello latino. I riconoscimenti si susseguirono continui nel corso degli anni; nel 1894 venne insignita della laurea honoris causa dall’Universi-tà di Halle. Alla morte del marito, avvenuta nell’estate del 1879, tutte le energie della contessa furono protese agli studi classici ed iniziò la collaborazione con numerose riviste specialistiche, per le quali trattò, con delicatezza tutta femminile, i molteplici aspetti della vita priva-ta nella Roma antica. Fu in questo periodo – tra il 1895 ed il 1905 – che il suo salotto divenne punto di ritrovo dei letterati romani e dei principali studiosi europei di passaggio per la Capitale. La contessa, poco avvezza a spostarsi, cominciò ad accogliere amici studiosi, di-venendo un vero e proprio punto di riferimento per l’élite culturale di quei tempi; nessun erudito di passaggio a Roma avrebbe mai ri-nunciato a farle visita. Decise così di riservare ai ricevimenti formali soltanto due giorni della settimana, il giovedì e la domenica, permet-tendo ai conoscenti più intimi – fra cui, appunto, Mommsen e Bar-nabei – di andare a trovarla nei restanti giorni. Il salotto di Palazzo Lovatelli fu visitato da Giosuè Carducci, Gabriele D’Annunzio, Émile Zola, Costantino Nigra (21), Ruggero Bonghi (22), Luigi Pigorini (23), dal già ricordato Rodolfo Lanciani e da Giuseppe Tomassetti (24), ma an-

questa vorrà prendere una parte del Corpus, vi raduneremo in consiglio per far scelta del sito più ameno che vi sia nell’Italia per avere questo onore singolare».

(20) Su Giacomo Boni (1859-1925), la cui immagine di archeologo venne spesso com-promessa dal profondo senso di misticismo paganeggiante che ne contraddistinse l’indole, si veda P. Romanelli, s.v. Boni, Giacomo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XII, Roma 1970, pp. 75-77.

(21) Costantino Nigra (1828-1907), Senatore del Regno, filologo e poeta: brevi cenni in U. Levra, s.v. Nigra, Costantino, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXVIII, Roma 2013, pp. 559-562.

(22) Per Ruggiero Bonghi (1826-1895), politico e filologo, si veda P. scoPPola, s.v. Bon-ghi, Ruggiero, in Dizionario Biografico degli Italiani, XII, Roma 1971, pp. 42-51.

(23) Un agile profilo di Luigi Pigorini (1842-1925), paletnologo, allievo del celebre natu-ralista Pellegrino Stròbel, in C. Marchesetti, Commemorazione di Luigi Pigorini, Trieste 1926.

(24) Giuseppe Tomassetti (1848-1911), giurista ed archeologo, docente di storia al semi-nario di Sant’Apollinare. La sua biografia e la sua opera in M. Valenti, Giuseppe Tomasset-

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che da autorevoli inglesi, tra cui Thomas Ashby (25), John Mahaffy (26) ed i papirologi Bernard Grenfell (27) ed Arthur Hunt (28), e da france-si come Matthieu Geffroy (29), Louis Duchesne (30) ed il Boisser; fra i tedeschi – oltre a Mommsen, Henzen e Helbig – si ricordano Eugen Petersen (31) e Christian Hülsen (32).

Quale fosse il clima che si respirava in casa Lovatelli e quali le di-scussioni che vi si tenevano, è lo stesso Barnabei a riferircelo: «uno dei salotti più famosi, che io ebbi a frequentare per molti anni, fu quello della contessa Ersilia Caetani Lovatelli, figlia di don Micheleangelo Caetani, duca di Sermoneta. In questo salotto convenivano i letterati più insigni di tutte le parti del mondo, ed i più famosi uomini poli-tici; il marito della Lovatelli lo definì “la borsa dell’archeologia”, ed

ti e la sua “Campagna Romana” monumentum aere perennius, in Colli Albani, Protagonisti e luoghi della ricerca archeologica nell’Ottocento, Catalogo della Mostra, a cura di M. Valen-ti, Monte Porzio Catone, Biblioteca Comunale - Museo della Città, 23 settembre - 23 otto-bre 2011, pp. 93-98.

(25) Thomas Ashby (1873-1931), archeologo e topografo, Direttore – a partire dal 1906 – della British School at Rome. Un suo profilo in R. HoDges, Visions of Rome: Thomas Ashby, archaeologist, London 2000.

(26) Su John Pentland Mahaffy (1839-1919), studioso di antichità ellenistiche e scrittore, si veda F. Valerio, John Pentland Mahaffy (1839-1919), in Hermae. Scholars and Scholarship in Papyrology, III, a cura di M. Capasso, Pisa-Roma 2013, pp. 11-19.

(27) Bernard Pyne Grenfell (1869-1926) dedicò la sua vita alla ricerca dei papiri greco-romani in Egitto, scoprendo e pubblicando, in particolare, quelli di Ossirinco. Indicazioni biografiche in Grenfell-Hunt e la papirologia in Italia, a cura di R. Pintaudi, in «Quaderni di storia», LXXV (2012), pp. 206-298.

(28) Arthur Surridge Hunt (1871-1934), collega del Grenfell, assieme al quale condusse numerosi scavi. Cfr. Grenfell-Hunt e la papirologia in Italia, cit. supra.

(29) Matthieu Auguste Geffroy (1820-1884), dirigente della Scuola Francese di Atene, per la quale curò la pubblicazione del Bulletin de correspondence hellénique. Sul Geffroy si veda L. ollé-laPrune, Notice sur Auguste Geffroy, Membre de l’Institut, Professeur d’histoire a la Sorbonne, Directeur de l’École Française de Rome, Paris 1896.

(30) Louis-Marie-Olivier Duchesne (1843-1922), allievo del de Rossi e, a partire dal 1895, Direttore dell’École Française de Rome. Sul celebre presbitero si veda F. Parente, Monsignor Duchesne, in «Rivista storica italiana», 92, I (1980), pp. 177-190.

(31) Eugen Adolf Hermann Petersen (1836-1919), docente di filologia classica all’Uni-versità di Praga e primo Direttore dell’Istituto Archeologico Germanico a Roma. Un profi-lo in H. Blanck, s.v. Petersen Adolf Hermann Eugen, in Neue Deutsche Biographie, XX, Ber-lin 2001, pp. 254-255.

(32) La figura di Christian Hülsen (1858-1935), Segretario dell’Istituto Archeologico Ger-manico dal 1887 al 1908, è ben tratteggiata in G. Pasquali, Christian Hulsen, in «Pan», 3 (1935), pp. 437-441.

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 325

io ricordo Teodoro Mommsen e Terenzio Mamiani, l’uno autore del Corpus delle iscrizioni latine, l’altro vicepresidente dei Lincei, parla-re una sera in casa Lovatelli della necessità di interessare l’Accademia nella impresa dei supplementi al Corpus delle iscrizioni latine» (33).

Nel salotto della contessa il Mommsen – la cui indole, goliardi-ca e malinconica al contempo, è ben messa in luce dal Pasquali (34) – si abbandonava a feroci ed ironiche punzecchiature nei confronti dei colleghi italiani, dei quali rimproverava la scarsa conoscenza delle lin-gue classiche; venne però messo in difficoltà quando, ad un’allocuzio-ne del filologo Domenico Comparetti (35), provocatoriamente pronun-ciata in greco antico, non seppe dare immediata risposta (36).

Un’ulteriore descrizione della contessa e del suo salotto – partico-larmente significativa perché riportata da una sua contemporanea – ci viene offerta dalla giornalista Emma Perodi: «allegra, gaia, di quella gaiezza che è propria dei romani, nel suo salotto non domina punto la musoneria […]. Le grandi ombre di Platone e di Virgilio, così spesso evocate da donna Ersilia durante le feconde giornate di studio, non turbano, nelle veglie geniali, l’allegria della conversazione, tenuta viva dalla gentile padrona di casa» (37). E che il salotto non fosse gravato da pedanteria accademica ce lo conferma anche l’archeologo Giulio Emanuele Rizzo, nell’elogio funebre della contessa che pubblicò per

(33) Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 70.(34) G. Pasquali, Il testamento di Teodoro Mommsen, in Pagine stravaganti di un filolo-

go, II, Firenze 1994, pp. 383-396.(35) Su Domenico Comparetti (1835-1927), si veda G. Pugliese caratelli, s.v. Compa-

retti, Domenico, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 672-676. Fu per lungo tempo in relazione con il Barnabei che – grazie all’amicizia di Fiorelli – lo teneva informato sulle ultime scoperte papiracee di Ercolano; se ne allontanò in maniera tanto ra-dicale e repentina, che il Barnabei, in data 21 dicembre 1892, ebbe ad annotare: «Il Compa-retti, che era stato o era divenuto affabile con me durante il ministero Villari, caduto Villa-ri diventò mio ferocissimo oppositore, anzi nemico violento! Non ho mai saputo che diavolo io gli avessi fatto» (cfr. Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Carte Barnabei, b. 14, Epistolario).

(36) Sul carattere di Mommsen e su alcuni aneddoti legati alla sua permanenza romana cfr. M. mazza, «Das Rasiermesser»: (brevi) note su Theodor Mommsen, la Altertumswissen-schaft tedesca e l’antiquaria italiana nell’Ottocento, in Theodor Mommsen e il Lazio antico. Giornata di Studi in memoria dell’illustre storico, epigrafista e giurista, (Terracina, Sala Vala-dier, 3 aprile 2004), a cura di F. Mannino - M. Mannino - D. F. Maras, Roma 2009, pp. 11-32. Si vedano anche gli interventi pubblicati nella medesima raccolta da Giuliano Crifò e Fran-cesco Mannino.

(37) E. PeroDi, Cento dame romane. Profili, Roma 1895, p. 98.

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i Lincei: «ascoltava con pazienza, quasi con rassegnazione qualche ospite, troppo pieno della sua dottrina posticcia, ma poi, come stan-ca di ascoltare certi non infrequenti sermoni, che sentivan di “pezzi” riposti per l’occasione, interrompeva con una domanda volutamente frivola o anche assurda, e smontava, così, il seccatore» (38).

Donna Ersilia fu un vero e proprio trait d’union fra l’erudizio-ne antiquaria, tipica dell’ambiente romano, e la nascente archeologia scientifica degli accademici tedeschi; il salotto di Palazzo Lovatel-li accolse la sua ultima riunione nel 1911, quando accolse gli studio-si convenuti a Roma in occasione del Congresso Archeologico per il cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia.

Nel 1915, dopo aver dato alle stampe il volume Aurea Roma, in cui aveva raccolto il corpus delle proprie opere, la Lovatelli si chiu-se nel massimo riserbo, fin quando, consumata da una lunga malat-tia, si spense il 22 dicembre del 1925.

Il suo carteggio con Mommsen, che pure dovette essere ampio ed animato da garbata cordialità (39), al momento dispone di pochissimi riscontri, per lo più indiretti, ed il biglietto che qui si riproduce po-trebbe essere – a nostra conoscenza – l’unico finora pubblicato (40).

I rapporti tra il Barnabei e la Contessa Caetani Lovatelli – favo-riti probabilmente dal comune amico Alessandro Castellani, colle-zionista e restauratore d’arte – furono frequenti e cordiali, tanto che lo studioso era solito festeggiare il proprio compleanno a casa del-la nobildonna, come pure annota nel suo diario venerdì 14 gennaio 1898: «pranzo dalla contessa Lovatelli con Gatti, Borsari (41) e Can-

(38) G. E. Rizzo, Ersilia Caetani Lovatelli, in «Rendiconti della Regia Accademia Nazio-nale dei Lincei», II (1926), pp. 246-267.

(39) In una lettera di Mommsen al de Rossi, datata 26 marzo 1875, anch’essa consultabi-le online all’indirizzo citato a nota 19, si legge: «Salutatemi la cara e buona D(onna) Ersilia, che porta il blu con tanta leggiadria».

(40) D’altra parte il ricco epistolario della contessa, conservato dagli eredi a Palazzo Lo-vatelli, non è consultabile. Altre sue lettere si trovano a Roma nell’Archivio Caetani della Bi-blioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei (97 lettere); presso la Biblioteca Angelica (313 lettere); presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (419 lettere); presso l’Istituto Archeologico Germanico (41 lettere); presso la Società Romana di Storia Patria (14 lettere). Le lettere a lei indirizzate da Carducci si trovano in G. CarDucci, Lettere di Giosuè Carducci. Edizione na-zionale, XIII-XX, Roma 1951-1957, ad indices; quelle scrittele dal Gregorovius in S. Munz, Ferdinand Gregorovius und seine Briefe an Gräfin E. C. Lovatelli, Berlin 1896.

(41) Luigi Borsari (1804-1887), giurista e studioso di topografia antica: collaborò con Lan-ciani e con Gatti nella sorveglianza degli scavi di Roma e provincia. Cfr. L. scolari selle-

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 327

tarelli (42) per la festa del mio compleanno. Vengono la contessa di Santafiora (43) e Lina e Fedele Salvatori» (44). E ancora, in data lune-dì 14 gennaio 1901: «si celebra la mia festa annuale a casa Lovatel-li. Intervengono Gatti e Tomassetti: Borsari si scusa, è infreddato. La Lovatelli vuole che io le dia un giorno della settimana per pranza-re» (45).

Che fra i due intercorresse un rapporto affettuoso ed informale è attestato anche in occasione del noto litigio con Helbig, ricordan-do il quale Barnabei annotò: «Intervenne il Brioschi (46) volgendosi a me ad alta voce: “Bravo! Ti voglio bene come fossi mio figlio!” (al-ludeva egli a delle chiacchiere scherzose, di cui si era riso insieme, secondo le quali io sarei stato figlio del Brioschi e di una nobile let-terata romana)» (47). La nobildonna in questione era appunto la Con-tessa Caetani Lovatelli, la quale – trattandosi di una voce scherzosa, palesemente smentita dal fatto che il Barnabei le era quasi coetaneo, e non di una malevola diceria – stava volentieri al gioco.

Le relazioni fra i due, a causa delle rinnovate polemiche con Hel-big, che non accennavano a diminuire e che anzi – dopo i fatti di Villa Giulia – avevano portato il Barnabei, timoroso di fare incontri poco graditi, a frequentare con minore assiduità il salotto di casa Caetani, andarono man mano incrinandosi e peggiorarono ancor più nell’aprile

rio Jesurum, s.v. Borsari, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 116-117.

(42) Luigi Cantarelli (1858-1931), revisore dei resoconti parlamentari della Camera dei deputati, docente di Storia ed istituzioni politiche del Basso Impero e di Storia bizantina. Sul Cantarelli si veda P. Treves, s.v. Cantarelli, Luigi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 240-242.

(43) Si tratta di Vincenza dei duchi Publicola Santacroce – consorte del defunto Bosio Sforza, conte di Santafiora – e della figlia donna Carolina; fu amica intima e confidente del Barnabei, tanto da ospitarlo a pranzo tutti i martedì. La sua bellezza della contessa, di ma-dre irlandese, divenne proverbiale nella Roma umbertina. Ulteriori indicazioni biografiche in E. PeroDi, Cento dame romane, cit. a nota 37, pp. 155 e seguenti.

(44) Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 242.(45) Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 327.(46) Francesco Brioschi (1824-1897), illustre matematico e docente universitario. Deputa-

to del Regno e poi senatore, nel 1872 entrò a far parte dell’Accademia dei Lincei, di cui tenne la presidenza dal 1884 al 1897, anno della sua morte. Su di lui si veda N. RaPoni, s.v. Brio-schi, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIV, Roma 1972, pp. 321-324. Lettere del Brioschi al Barnabei sono presso la Biblioteca Angelica, Carteggio Barnabei, b. 55/8-12.

(47) Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 221.

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GIANLUCA MANDATORI328

del 1899, quando Giovanni Patroni (48) riferì al Barnabei un commen-to poco garbato proferito dalla Lovatelli nei suoi confronti (49).

I due antichisti si rappacificarono nell’arco di pochi giorni (50), ma i rapporti non tornarono ad essere immediatamente saldi come in passato, tanto che il 6 dicembre 1899 la Contessa ebbe a scrivere al Barnabei: «So che la comune amica Santafiora le fece la mia com-missione, e so anche la risposta che da Lei ne ebbe. Posso per altro solennemente affermarle, come alcuni che non le piacciono si faccia-no ben raramente vedere nel mio salotto! È strano … Sono sempre la fedelissima amica de’ miei amici, senza impacciarmi in nulla, ciò che del resto non mi spetta, e pur non di meno soggiaccio a conse-guenze spiacevoli, come, per esempio, quella di perdere la compa-gnia del mio amato Pupo […]» (51).

Non meno cordiali erano i rapporti del Barnabei con il Momm-sen: i due si erano conosciuti nel 1865 a Napoli – grazie all’interme-diazione del numismatico Giuseppe Fiorelli (52) e del papirologo Giulio

(48) Giovanni Patroni (1869-1951), direttore del Museo di Cagliari, docente di Archeolo-gia a Napoli, Pavia e Milano, socio nazionale dei Lincei. Indicazioni in G. Q. Giglioli, Gio-vanni Patroni, in «Archeologia classica», III (1951), pp. 242-244.

(49) In data 11 aprile 1899 il Barnabei annotò nel suo diario: «Patroni mi racconta che la contessa Lovatelli gli scrisse due volte per chiedergli che cosa pensasse della mia questio-ne con Helbig. La prima volta Patroni non rispose. Allora fece riscrivere da donna Kallista [Kallista Lovatelli, figlia della contessa Ersilia, n.d.a.] con insistenza. Mi dice Patroni che ri-spose dicendo che a lui pareva una mostruosa sgarberia. Curioso che nella lettera donna Kal-lista scrisse che io ero rimasto solo a combattere. Questo diede anzi a Patroni il dire che si meravigliava come la madre avesse abbandonato il figlio. Nessuna risposta! Nella lettera si voleva pure sapere che cosa pensasse Patroni di Comparetti, e che opinione avesse […] avu-to! Queste rivelazioni mi producono molto male! Ecco la signora e la signora indignata! Ev-viva il carattere e la indipendenza! Bisogna tastare le acque per sapere quale contegno as-sumere! Così spiego gli inviti della contessa in questi ultimi giorni»; cfr. Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 281.

(50) Così registrò il Barnabei in data 30 aprile 1899: «Vado a pranzo dalla Lovatelli. Ac-cenno alle ragioni che mi hanno raffreddato. La contessa si mostra premurosissima di elimi-nare i dubbi. Mi dice che hanno avuto torto a trattarmi così. Ma è un pentimento troppo postumo! Dio mio, scrisse a Patroni e fece scrivere per sapere che cosa si pensava di me!»; cfr. Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 282.

(51) Biblioteca Angelica, Carteggio Barnabei, b. 66.(52) Giuseppe Fiorelli (1823-1896), archeologo e numismatico. Un profilo del Fiorelli, re-

datto dall’amico Barnabei, in F. barnabei, I primi passi di due grandi Archeologi: G. Fiorelli e G. Garrucci, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», XVI-XVII (1919-1920), pp. 324-329. Si veda anche G. Kannes, s.v. Fiorelli, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLVIII, Roma 1997, pp. 137-142.

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 329

De Petra (53) –, dove il Barnabei, allora ventitreenne, insegnava latino e greco presso il Regio Liceo Vittorio Emanuele. È lo stesso Barnabei a descrivere nel suo diario il primo incontro con l’antichista tedesco e le impressioni che ne aveva ricevuto: «Poco tempo dopo capitò a Napoli il prof. Teodoro Mommsen; benché non l’avessi mai visto mi sembrava di conoscerlo bene perché si faceva un continuo parlare di lui col Fiorelli e col De Petra. Fiorelli volle presentarmi al Mommsen che mostrò subito di conoscermi, ringraziandomi per aver segnalato allo Henzen l’iscrizione latina di Montorio sul Vomano. In quella oc-casione il Mommsen mi chiese un favore, quello di acconsentire che un certo professore di Berlino, che insegnava in un istituto seconda-rio di quella città e aveva avuto l’incarico di visitare qualche scuola di Napoli per giudicare intorno alla condizione degli studi in Germa-nia ed in Italia, frequentasse per qualche tempo le mie lezioni. Ot-tenutane facoltà, presentai il collega tedesco al preside ed agli alun-ni ed egli per alcune settimane fu il discepolo più diligente; seguiva il corso con molta attenzione ed io raddoppiavo le cure affinché non si an noiasse e ne venisse vantaggio anche per gli scolari, i quali mi-sero molto impegno per ben figurare innanzi all’ospite forestiero» (54). Mommsen gradì molto le attenzioni che il Barnabei riservò al collega, tanto da lodarne l’operato, durante una conversazione con l’etrusco-logo Gian Carlo Conestabile della Staffa (55), in occasione della quale, continua il Barnabei nel suo diario, «ricordò come qualche professore italiano, non tenendosi unicamente schiavo ai metodi tedeschi, sapeva trarre partito dalla conoscenza delle antichità per ottenere vantaggio nell’insegnamento, quali per altra via non si sarebbero conseguiti» (56).

La figura di Felice Barnabei è talmente nota da non richiedere ul-teriori approfondimenti (57); sembra però opportuno ricordare come,

(53) Su Giulio De Petra (1841-1925), giurista napoletano, collaboratore del Fiorelli, cfr. A. Gabucci, s.v. De Petra, Giulio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, pp. 23-25.

(54) Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 87.(55) Si tratta del celebre scopritore della Tomba dei Volumni. Sommarie indicazioni bio-

grafiche in R. VolPi, s.v. Conestabile della Staffa, Giovanni Carlo, in Dizionario Biografico de-gli Italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 768-770.

(56) Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 88.(57) Per un profilo del Barnabei si vedano, oltre al già citato Le “Memorie di un archeo-

logo”, cit. a nota 3, anche F. Pellati, s.v. Barnabei, Felice, in Dizionario Biografico degli Italia-

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GIANLUCA MANDATORI330

proprio nel periodo in cui Mommsen indirizzò la missiva alla Lovatel-li, il Barnabei, già nominato nell’ottobre dell’anno precedente Diret-tore dei musei, delle gallerie e degli scavi di antichità del Regno (alle dipendenze del Direttore generale Giuseppe Costetti), si stava occu-pando della Commissione di inchiesta sulle navi di Nemi: fu questo un incarico gravoso e poco gratificante che si protrasse, fra incom-benze burocratiche e polemiche giornalistiche, almeno fino alla pri-mavera del 1908.

I tentativi di recupero della nave imperiale erano iniziati il 3 ot-tobre 1895, a seguito di un contratto stipulato tra il principe Orsini – tenutario della zona – ed Eliseo Borghi (58), antiquario e mercante di reperti. Proseguiti per qualche settimana, sotto la discutibile di-rezione dello stesso Borghi, i lavori destarono sospetti a causa del-la loro scarsa scientificità, tanto che intervenne a sospenderli lo stes-so Ministero della Pubblica Istruzione che, in precedenza, li aveva avvallati. I numerosi reperti recuperati dal Borghi furono acquistati dallo Stato e consegnati in custodia al Museo Nazionale Romano. Il Ministro della Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, chiese allora l’in-tervento diretto della Regia Marina, ma neppure in questo caso si ri-uscì a portare a termine il recupero delle navi che, frattanto, si era capito essere due.

Il Barnabei, per verificare di persona le notizie sugli abusi com-piuti dal Borghi e sui danni arrecati alle imbarcazioni durante le fal-limentari operazioni di recupero, si recò più volte sul posto, come emerge sia dal diario dello studioso sia dall’Inventario del Fondo Barnabei (59).

Nel medesimo fondo, sotto la data 21 dicembre 1895-20 dicembre 1896, troviamo significativamente annotato: «comunicazioni sull’in-

ni, VI, Roma 1964, pp. 418-419; F. Verrastro, I beni culturali in epoca liberale. Per una bio-grafia di Felice Barnabei, in «Le carte e la storia. Rivista di storia delle Istituzioni», I (2003), pp. 190-198.

(58) Barnabei ebbe con il Borghi una lunga polemica: l’antiquario, non contento di es-sersi procurato già un cospicuo “bottino”, protestava a causa della forzata sospensione delle ricerche e delle difficoltà sorte per l’acquisto dei reperti. Si veda, a tal proposito, E. Borghi, La verità sulle navi romane del lago di Nemi, Roma 1901; cfr. le pagine di Diario, 20 ottobre 1901, in Le “Memorie di un archeologo”, cit. a nota 3, p. 347.

(59) Inventario del Fondo Barnabei, Navi di Nemi, 1895 - post 1897 (fasc. 9), pp. 32 e se-guenti, consultabile sul sito istituzionale del Ministero dei Beni Culturali (http://www.archeo-logica.librari.beniculturali.it).

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UN INEDITO AUTOGRAFO MOMMSENIANO ALLA CONTESSA ERSILIA CAETANI 331

teresse ai reperti da parte dell’Imperatore di Germania e la visita del Mommsen a Genzano». Non stupisce affatto, quindi, che l’illu-stre studioso, durante la sua ultima permanenza romana – prima di ripartire per Monaco, all’inizio del maggio 1896 – abbia voluto visi-tare quel sito verso cui era stato profuso un tale impegno economi-co e di mezzi e che tante beghe andava costando al caro amico Fe-lice Barnabei.

gianluca manDatori

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LO STUDIO DI GIULIO MONTEVERDEIN PIAZZA INDIPENDENZA A ROMA

La monografia che circa venti anni fa Sergio Arditi e Luigi Moro dedicarono a Giulio Monteverde passa sotto quasi completo si-lenzio la palazzina che lo scultore inaugurò nel 1878 come proprio studio e residenza in piazza Indipendenza a Roma, tuttora riconosci-bile dalla rielaborazione del Genio di Franklin, una delle sue opere più note, che ne corona l’attico. È stata quindi una sorpresa, duran-te i sopralluoghi nel 2005 per la preparazione del riallestimento del-la Gipsoteca dedicatagli nel paese natale di Bistagno, riscontrare che parte degli ambienti di quella che fu una delle più prestigiose case d’artista della Roma umbertina è tuttora conservata (tav. LXXIX, fig. 1), nonostante le manomissioni.

Al primo piano, quelli che erano una volta gli appartamenti pri-vati sono stati controsoffittati e trasformati in uffici. Restano però in-tatte le decorazioni dell’ambiente di maggior prestigio, il salone da ricevimento con la fastosa volta dipinta a tempera da Annibale Bru-gnoli. Al piano terra gli spazi originariamente dedicati all’atelier sono ancora leggibili in una successione di ambienti voltati, oggi compar-timentati e trasformati in esercizi commerciali aperti su strada, con-vertendo in porte e vetrine anche quelle che un tempo erano fine-stre.

Possiamo avere un’idea delle funzioni originariamente previste per tali locali attraverso la sommaria descrizione (1) che dell’edificio ci ha lasciato, quando era ancora in costruzione, Carlo Osvaldo Pagani:gli studi sono tutti a pianterreno. C’è la stanza dei marmi, quella per gli abbozza-tori, quella dove le sculture vengono condotte a compimento e vi sono finalmente due magnifici saloni destinati all’esposizione delle opere d’arte.

(1) Si cita da V. Bersezio, Giulio Monteverde, in «Gazzetta letteraria», I (1877), p. 245.

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LO STUDIO DI GIULIO MONTEVERDE IN PIAZZA INDIPENDENZA A ROMA 333

Il principale di questi due saloni si apriva sulla piazza con un ac-cesso autonomo in posizione d’onore, sotto il balcone al centro della facciata. Sappiamo che Monteverde ne aveva particolarmente curato la scenografia, facendone una sorta di scrigno prezioso per l’esposi-zione, presumibilmente con avvicendamento a turni, delle sue opere maggiori. Si tratta della cosiddetta “Sala etrusca”; o almeno con que-sto nome la definisce Clémentine Hugo, moglie di un nipote del ce-lebre scrittore francese e autrice di un reportage sulla vita mondana nella nuova capitale del Regno d’Italia, Rome en 1886. Les choses et les gens, che dedica un capitolo agli artisti e alla descrizione dei loro ateliers. Fra tutti – scrive la Hugo – si distingueva l’Hôtel particulier di Monteverde, coronato dalla riproduzione del Genio di Franklin: «dans la salle etrusque où Brugnoli, l’admirable peintre du plafond du Costanzi a peint un hémicicle sur fond bleu cobalt, j’ai revu le Jenner qui fit tant de bruit à Paris» (2).

Informazioni più precise, che aiutano a circoscrivere la datazio-ne degli interventi pittorici di Brugnoli, si ricavano da un articolo a firma “Uriel” (uno degli pseudonimi utilizzati per il giornalismo da Ugo Fleres), comparso sul numero di martedì 7 settembre 1880 del giornale romano Capitan Fracassa. Si tratta del resoconto di una vi-sita allo studio di Giulio Monteverde in occasione della presentazio-ne ufficiale dei marmi per la Tomba Massari (3), destinata al Cimite-ro di Ferrara:La sala d’esposizione ha le pareti d’un rosso cupo, che è sparso sulla maggior parte dei muri interni dello studio, perché è un fondo comune molto adatto al candore del gesso e del marmo. Però, in questa sala, alla tinta superba delle pareti sovrasta un fregio etrusco a fondo nero e figure color d’ocra un po’ scura e un po’ calda, proprio come vediamo nei vasi inarrivabili. Sul fregio, che mi piace assai, c’è la vol-ta che mi spiace altrettanto. È tutta decorazione del Brugnoli, un autore di cui ho già detto qualcosa e che ho ragione di ammirare come valentissimo ma … – Forse avrà avuto in mente un esemplare arcaico, – chi lo sa, – forse quella volta ha un certo carattere voluto, ma, confesso, a me ha fatto un effettaccio da non dirsi.

Possiamo identificare in questa “Sala etrusca”, o nel secondo dei due «magnifici saloni destinati all’esposizione di opere d’arte» di cui

(2) C. Hugo, Rome en 1886. Les choses et les gens, Rome 1886, p. 238.(3) Preannunciata, sullo stesso giornale, il 4 settembre 1880: «oggi, domenica e lunedì dal-

le 8 alle 11 e dalle 3 alle 6 il pubblico potrà vedere, nella gran sala dello studio Monteverde il monumento del conte Massari, monumento che martedì sera sarà trasferito a Ferrara».

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parla Osvaldo Pagani, la stanza dalla luce mite «come una cappel-la» in cui Monteverde invitò Evelina Cattermole «in certe quiete sere d’estate» forse del 1886-’87 a dare il suo parere su Thanatos, gruppo scultoreo che diverrà poi La morte e la vita della tomba Celle a Sta-glieno. L’artista, all’epoca, ne andava portando avanti la modellazione senza averne ancora precisato il titolo e la collocazione sul mercato.

È qui che deve essere stata organizzata nel 1881 la prima pre-sentazione per otto giorni al pubblico – di cui abbiamo notizia dagli annunci comparsi sui giornali dell’epoca – del monumento a Vitto-rio Emanuele II, appena completato per Rovigo. Analoghi ricorsi ad anteprime selezionate, che servivano a tarare i rapporti con la critica e a decidere eventuali ritocchi, sono attestati nel 1883 per il Giaco-mo Medici, pubblicizzato da una visita di Umberto I allo studio del-lo scultore, e nel 1898 per l’effigie di Giacomo Leopardi poi donata al Comune di Recanati. Chi entrava nei primi mesi del ’98 a Roma nel villino Monteverde – riporta in quest’ultima occasione il perio-dico L’Illustrazione popolare – veniva subito convogliato «nello stan-zone in cui era collocato, quasi solo, il busto», disposto in modo da suscitare «meraviglia» per l’estrema incisività (4).

I resti della pannellatura che rivestiva l’intero ambiente della “Sala etrusca”, rimodellandolo con decorazioni monocrome dipinte da Bru-gnoli su raffinati accordi tra marrone e ocra, ispirati alla pittura va-scolare d’importazione greca a figure rosse e posti a contrasto con la dominante verde e azzurra della volta dell’emiciclo, sono attualmen-te ancora visibili dietro ai banconi e agli arredi del bar Florian’s, che da tempo gestisce, in affitto, il locale come sede della propria attivi-tà commerciale (tav. LXXIX, fig. 2; tav. LXXX, fig. 1).

Il programma iconografico è insolito per lo studio di uno scul-tore e resta di incerta interpretazione. Alla metà circa della parete corre un fregio continuo, raffigurante combattimenti; sfilate di eroi e danzatrici; un banchetto celebrativo. Nel registro superiore, riqua-dri in cui dominano i motivi della palma e del serpente attorcigliato a un albero sembrano richiamare i temi della vittoria sopra la morte e della saggezza in connessione con i riti di rinnovamento della natu-

(4) «L’Illustrazione popolare», XXXV (1898), p. 524; Cfr., inoltre, Contessa Lara (pseu-donimo di Evelina Cattermole), Dramma eterno – nuovo gruppo di G. Monteverde, in «Na-tura ed arte», I (1891-1892), pp. 37-41; «Roma artistica», 28 febbraio 1881; «Arte e storia», II (1883), p. 176.

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LO STUDIO DI GIULIO MONTEVERDE IN PIAZZA INDIPENDENZA A ROMA 335

ra. Ampie lacune compromettono proprio la lettura del brano prin-cipale, la volta dell’emiciclo, dove tra vegetazione stilizzata possiamo isolare un cane, emblema di fedeltà; le urne del nettare che permette al sangue di Adone di fertilizzare la terra; due cigni che potrebbero simboleggiare la presenza di Venere. Va tenuto presente che l’ambien-te è situato proprio in corrispondenza di quello che al piano superio-re, negli appartamenti privati della famiglia dell’artista, era il salone delle feste. In questo, la volta, dipinta a tempera anch’essa da Bru-gnoli, sviluppava il tema del trionfo della bellezza e della primavera nelle quattro parti del mondo (tav. LXXX, fig. 2; tav. LXXXI, fig. 1). Per la “Sala etrusca”, senza forzare troppo la ricerca di significati esoterici, l’ipotesi più probabile è che l’intenzione fosse quella di al-ludere, attraverso un riferimento alla pittura delle origini, al primato italiano delle arti ed al carattere misterioso ed irrazionale dell’ispira-zione. In parallelo, la rielaborazione a grandi dimensioni di un’ope-ra dei primi anni ’70, il Genio di Franklin, posta sull’attico a coro-namento dell’edificio, accennava al piacere quasi estatico che prova l’artista nel dominare l’energia vitale.

Come ovvio, la palazzina di piazza Indipendenza non fu il primo degli studi in cui Giulio Monteverde svolse la propria attività. Fin dal 1863 lo scultore aveva aperto a Genova un atelier autonomo, presu-mibilmente soprattutto di intagli e arredi lignei, nella salita che dall’ex oratorio di S. Giovanni Battista portava all’Acquasola. Con la cresci-ta del suo successo, già poco prima di ottenere nel 1865 la pensio-ne basata sul lascito Traverso che gli permise di partire per Roma, si era trasferito in locali più ampi (5).

Bisogna infatti sottolineare che la leggenda che presenta i suoi esordi come modello di bohème tormentata ed eroica va accolta con qualche scetticismo, nonostante l’artista stesso, per rinsaldare il pro-

(5) L. griLLo, Giulio Monteverde, note alla ristampa di un articolo pubblicato da Antonio Pavan su «L’arte in Italia», «Giornale degli studiosi di lettere, scienze, arti e mestieri in Li-guria dedicato alla Società Ligure di Storia Patria», V (1873), pp. 305-313. Lo scritto, recen-temente ristampato in Seconda appendice ai tre volumi della raccolta di elogi di liguri illustri, Genova 1976, pp. 441-446, è dedicato appunto a sfatare la leggenda degli esordi “proletari” di Monteverde creata da Pavan ed esasperata, sia pure con la diretta complicità dell’artista, da Bersezio e Pagani. Aggiunge al catalogo dello scultore tre opere attualmente irreperibi-li: le due statue laterali dei santi Pietro e Paolo per la pala dell’altar maggiore della vecchia sede presso piazza De Ferrari della Madonna del Rimedio a Genova e un angelo a bassori-lievo con ritratto commemorativo di Francesco Castagnola a Chiavari.

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prio mito, abbia contribuito a costruirla. La pensione destinatagli dall’Accademia Ligustica, 1.500 lire integrate da 300 di indennità per il trasferimento e dall’aiuto dei parenti, gli consentiva nella capitale pontificia – come Monteverde stesso ammise in un’intervista del 1911 rilasciata ad Italo Falbo (6) – condizioni di vita relativamente dignitose. Di certo la decisione di abbandonare quella che era ormai una ben avviata attività di artigiano per affrontare le incognite della scultura in marmo e della Grande Arte, contando sul salto di qualità nelle pro-spettive di committenza che il perfezionamento a Roma prometteva, richiese coraggio e sacrifici economici. Ma, in patria, Monteverde era considerato già al momento della partenza una figura da seguire con interesse, sia dagli ambienti conservatori sia da quelli progressisti. Ali-zeri lo cita tra gli artisti liguri più promettenti fin dal 1866, nel terzo volume delle Notizie de’ professori del disegno in Liguria dalla fonda-zione dell’Accademia (pp. 409-411), e nel 1869 nelle Notizie sulle Pre-senti condizioni delle arti in Liguria; ben prima, quindi, che il successo del Colombo giovinetto all’esposizione di Parma del 1870 focalizzasse attorno all’opera dello scultore l’attenzione del pubblico al di fuori della cerchia regionale. Alla Promotrice genovese i suoi gessi risulta-no fin dagli esordi offerti in catalogo a prezzi che, pur considerando che vi erano comprese le spese della traduzione in marmo, possono considerarsi ragguardevoli. Lire 10.000 venivano chieste nel 1866 per la Vergine saggia e la vergine stolta, parzialmente rielaborata in segui-to come Angelo Pratolongo; altrettanto nel ’68 per Primi giochi, ac-quistato a Monaco dalla famiglia reale del Württemberg.

A Roma l’artista aveva preso casa prima, secondo Falbo, presso S. Isidoro, poi, secondo Ugo Pesci, in via de’ Pontefici. Il suo studio di scultore si trovava invece, secondo entrambe le fonti, presso il Pon-te Margherita, probabilmente a quell’indirizzo «Porta del Popolo n. 18» che troviamo registrato in un biglietto da visita girato a Mariano Guardabassi (7). È appunto in questa sede, quindi, che pare sia anda-

(6) i. faLBo, I nostri artisti. Giulio Monteverde, in «Il Messaggero», 19 aprile 1911.(7) Perugia, Biblioteca Augusta, ms. 2365; cfr. inoltre u. PesCi, I primi anni di Roma Ca-

pitale, 1870-1878, Roma 1905 (ed. consultata: Roma 1971), p. 377. Per un certo tempo l’ate-lier fu condiviso con Gerolamo Masini, cfr. t. Luxoro, Di due giovani scultori piemontesi pen-sionati a Roma, in «L’Arte in Italia», I (1869), pp. 131 e seguente.

P. BettoLi, Giulio Monteverde, in «Emporium», X (1899), p. 3, cita come primo allog-gio e studio dell’artista, all’arrivo a Roma, uno stabile in via della Purificazione.

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LO STUDIO DI GIULIO MONTEVERDE IN PIAZZA INDIPENDENZA A ROMA 337

to distrutto il gesso originale de La vergine saggia e la vergine stolta, durante la celebre esondazione del Tevere del 1870 (8). Monteverde vi accenna in una lettera a Pier Celestino Gilardi conservata, per dono del destinatario, presso l’Archivio di Stato di Varallo Sesia; Roma 5 aprile 1871: «io lavoro al Genio di Franklin e credo che tu avrai ve-duto il modello in gesso, ti sarà giunta la notizia della terribile inon-dazione di Roma del 27 e 28 dicembre la quale portò anche gravissi-mi danni al mio studio, ma ora bel bello rimetto tutto all’ordine» (9). Ed è sempre in questa sede presso piazza del Popolo che Montever-de iniziò a ricevere da parte dell’erede al trono principe Umberto di Savoia segni di attenzione, che dovevano rivelarsi preziosi quando la sua opera maggiore, Jenner che inocula il vaccino, incontrò difficoltà ad essere ammessa all’Esposizione universale di Vienna.

La vicenda è nota: il gesso di quest’opera, che a Vienna otterrà la medaglia d’oro ed è rimasta una delle più celebri dell’Ottocento italiano, si trovò agli inizi la strada sbarrata dal veto della Commis-sione selezionatrice romana, espressione del gruppo dirigente conser-vatore che, proclamando fedeltà agli orientamenti di Tenerani, conti-nuò a dominare l’Accademia di S. Luca fino alla riforma del ’73. Il clamore creato attorno al successo dello Jenner nella capitale asbur-gica contribuì ad accelerarne l’estromissione e a favorire un ricambio generazionale della docenza.

«Ebbi l’onore di ricevere la prima volta nel mio studio S. A. R. il principe Umberto di Savoia nell’anno 1872, quando incomincia-vo il modello del mio gruppo rappresentante Jenner» – ha lasciato scritto Monteverde ricordando l’episodio in una lettera a Ugo Pesci del 4 ottobre 1900, dalla quale derivano gli aneddoti che quest’ulti-

(8) «A San Luigi de’ Francesi ci si va in barca. Le basse vie del Ghetto, della Rotonda, di Ripetta, e la Piazza del Popolo son tutte inondate. Sul Corso vi è più di un metro e mez-zo d’acqua»: lettera di Antonio Pavan a Cesare Correnti, Roma 29 dicembre 1870, conserva-ta a Milano, Civiche raccolte storiche, Carte Cesare Correnti, busta (in seguito b.) 149. Cfr. anche, per l’esondazione, g. Costa, Quel che vidi e quel che intesi, Milano 1927, p. 248; per la distruzione del gesso, P. soro, Per la borsa del fabbro, Cagliari 1923, p. 9.

(9) Archivio di Stato di Varallo Sesia, Autografi Calderini, b. 64. Stessa collocazione ha una seconda missiva a Gilardi, Roma 11 aprile 1871, interessante per le precisazioni sul-la versione del Colombo giovinetto oggi a Boston: «Io lavoro come una bestia, ma commis-sioni poche, ho soltanto l’ordinazione di eseguire una replica del Colombo per un signore americano avuta in Parma nell’epoca dell’Esposizione […] io, come sai faccio la mia vita so-lita, studio, Caffè Greco (eterno) e casa. Bondoni è nel mio studio che mi eseguisce la repli-ca del Colombo».

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mo riporterà nel suo volume di ricordi dedicato al re dopo l’attenta-to di Monza (10) – «più di una volta S. A. passando per Via Flaminia a cavallo smontava per venirmi a fare delle gradite sorprese mentre ero intento al lavoro». È evidente che l’artista godeva già all’epoca di quotazioni sufficienti a permettergli di utilizzare l’atelier per pro-muovere le proprie opere in alternativa ai tradizionali circuiti esposi-tivi: già il 16 dicembre 1871 il giornale romano L’opinione propagan-dava che «numerosi visitatori si succedono da qualche giorno fuori Porta del Popolo allo studio del cav. Monteverde per ammirarvi un busto in marmo rappresentante il re Vittorio Emanuele, che egli ha ultimato da poco tempo».

Le guide di Roma registrano, negli ultimi anni del dominio papa-le, l’esistenza di una cinquantina di studi di scultura, in buona parte stranieri, prevalentemente concentrati per tradizione nel tratto della via Flaminia che da piazza del Popolo conduceva all’area dove sorge l’attuale Ministero della Marina. L’effervescenza e l’allegria che do-minavano, sia lì che nel vicino quartiere dei pittori tra via del Ba bui-no e via Margutta, era un topos ricorrente nella letteratura turistica. A tutto il ’73, stando alla testimonianza di un conterraneo di Mon-teverde, il genovese Luigi Vassallo trasferitosi nella capitale quell’an-no come corrispondente del giornale Il Caffaro, sopravviveva ancora la Roma spensierata delle feste di Cervara o dei Ricordi di Massimo d’Azeglio, all’insegna del culto romantico dell’arte come ostentato momento di anarchia e di «usci» che «restavano aperti tutta la notte per improvvisare burle o scampagnate» (11). Ma si trattava di modelli di comportamento in fase di transizione e, dalla Parigi di Meissonier e De Nittis, veniva affermandosi la moda, di segno opposto, delle re-sidenze di artista come simbolo di successo e raggiunto inserimento al vertice delle gerarchie sociali. Sempre Ugo Pesci, in un’altra delle

(10) Bologna, Archiginnasio, Autografi, nn. 12773-12784; u. PesCi, Il re martire; la vita e il regno di Umberto I, date, annedoti, ricordi 1844-1900, Bologna 1901, pp. 341-347.

(11) L. a. VassaLLo (Gandolin), Gli uomini che ho conosciuto, seguito dalle Memorie di uno Smemorato, Milano 1911, in partic. nel capitolo I pittori di via Sistina e l’osteria di “sor Cesare”, pp. 182 e seguenti. Cfr. anche U. fLeres, Il caleidoscopio di Uriel, Roma 1952, pp. 59-61, che sottolinea il colorito ruolo di leader svolto da Monteverde, «vestito d’un sacco di tela cruda e in capo un berretto alla Leonardo» in quegli anni: «ai bei tempi di fuoriporta dunque lo ricordiamo alto, snello, capelluto e barbuto, direi lanoso, vestito da muratore o da imbian-chino tutto incipriato di gesso e di polvere di marmo, sia nello studio, sia nell’osteriola che sul mezzogiorno teneva pronta per lui e la sua combriccola una colazione da manovale».

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sue compilazioni di memorie, dedicata questa volta alle testimonian-ze sugli ultimi anni di Firenze capitale, sottolinea come già in que-sta città si fosse fatta strada tra gli artisti, prima ancora della presa di Roma nel 1870, la tendenza ad abbandonare l’ostentazione di mo-destia ed eccentrica trascuratezza a favore della costruzione di studi riccamente decorati: Giovanni Dupré, Ulisse Cambi, il pittore Fran-cesco Vinea e, tra gli stranieri, nel ’69 lo scultore americano Hiram Powers se ne erano fatti costruire di particolarmente sfarzosi. A Ge-nova, l’elegante palazzina in cui Santo Varni raccoglieva le sue colle-zioni costituiva un modello che è scontato Monteverde abbia tenuto presente; e se a Torino, città che lo scultore ligure frequentò spesso negli anni ’70, simili ostentazioni di high life stentavano ad affermar-si (12), a Roma la testimonianza di Clémentine Hugo consente di pun-tare l’attenzione se non altro su Moses Ezekiel, il cui atelier spiccava per l’elaborata messa in scena.

Monteverde, peraltro, essendo stato nominato professore onorario in occasione della riforma dell’ottobre 1873 che aveva scisso l’Acca-demia di S. Luca dall’Istituto di Belle Arti, ebbe diritto fino al ’97, a tenore dei decreti di riorganizzazione, ad un supplementare studio gratuito presso la sede dei corsi scolastici in via Ripetta, con l’obbli-go di ammettervi i giovani che volessero compiervi istruzione pratica. Questo contribuisce a spiegare il considerevole numero di artisti che in seguito dichiareranno di essere stati suoi allievi. Ma la sistemazio-ne restava inadeguata al prestigio di una personalità che, a metà de-gli anni ’70, sembrava destinato ad assumere a livello internazionale il ruolo di nuovo leader della scultura italiana.

Monteverde, conclusi i percorsi di Bartolini, Tenerani e Dupré, ritiratosi Vela che – annotava Bersezio in uno dei Profili artistici sulla Gazzetta letteraria di Torino del 1877 – ormai «non scolpisce più» (13),

(12) u. De fiLarte (pseudonimo di F. Brambilla), Pietro Della Vedova, in «Gazzetta del Popolo della domenica», p. 324 ss.; J. CaPoni, Ricordi di Folchetto, Torino 1908, p. 406; cfr. inoltre U. PesCi, Firenze capitale: 1865-1870, dagli appunti di un ex cronista, Firenze 1904, p. 383; a. CaLza, Roma moderna, Milano 1911, p. 46; ma anche «L’Illustrazione italiana», VII (1880), I, p. 307: «gli artisti italiani però, e questo va detto a loro elogio, specie da qualche anno a questa parte hanno rinunciato a quell’innocente e noiosa mania di volere che l’abito facesse il monaco […] Hanno rinunziato alle zazzere, alle barbe straordinarie, ai capelli fe-nomenali. Vestono come tutti gli altri cittadini […]».

(13) Il giudizio è di sorprendente superficialità almeno per quanto riguarda Vela, che all’epoca era nel pieno della parabola creativa che doveva portarlo alle Vittime del lavoro.

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pareva candidato dal successo dello Jenner all’Esposizione universale di Vienna del 1873 a sostituire tali predecessori nei ruoli ufficiali di massima visibilità. Secondo il principe Baldassarre Odescalchi (14), fon-datore del Museo Artistico Industriale e primo segretario del Circolo internazionale, allo scultore era ormai riconosciuto nel 1875, in una Roma che solo pochi anni prima aveva assunto il titolo di capitale del Regno d’Italia, il ruolo d’indirizzo che a Napoli esercitava Morelli.

Nell’aprile del ’75 la direzione della Banca Italo Germanica, che aveva avviato la lottizzazione dell’area di Castro Pretorio, trasmette-va così al sindaco di Roma i disegni della pianta e del fronte princi-pale della nuova casa che il direttore tecnico della società, Faustino Anderloni, era stato incaricato di progettare per Giulio Monteverde in piazza Indipendenza (tav. LXXXI, fig. 2; tav. LXXXII, fig. 1). Il permesso venne rilasciato in data 8 giugno e i lavori iniziarono qua-si subito, seguiti in prima persona dall’artista. Questi, come ribadi-sce Osvaldo Pagani, curò nei minimi particolari l’edificio intenden-dolo «come monumento di gratitudine all’arte» (15).

Il quartiere prescelto, il cosiddetto Macao, era noto negli anni che precedono lo scandalo della Banca romana come l’area residenziale forse di maggior prestigio della nuova capitale (16). Proprio attorno a piazza Indipendenza vennero quasi contemporaneamente costruiti nel ’73 il villino dell’ex ministro Ruggero Bonghi, decorato da Domeni-co Bruschi; quello del cognato di Sidney Sonnino, barone Francesco De Renzis, cofondatore del giornale romano Il Fanfulla e di quel-la lega ortografica di cui Monteverde sarà tra le figure di spicco; e, nel 1880, un’altra celebre casa d’artista, la palazzina del pittore po-lacco Siemiradzki, opera dell’Azzurri. Durante tutto il regno di Um-berto I, piazza Indipendenza rimase celebre per uno dei principali riti mondani che scandivano il calendario cittadino, la parata milita-re che aveva luogo ogni anno per la celebrazione dello Statuto e del genetliaco del re e che faceva dietro front proprio in corrisponden-

(14) B. oDesCaLCHi, Gli studi a Roma, ricordi artistici, Roma 1875, p. 57.(15) C. o. Pagani, Uomini illustri: Giulio Monteverde, Roma 1879; l’opuscolo ricicla pro-

babilmente uno scritto precedente, dal momento che informazioni da esso desunte vengono citate già in V. Bersezio, cit. a nota 1, pp. 230 e seguente, 244 e seguenti.

(16) «Il Maccao è soggiorno per i grandi signori, il Maccao è un lusso» pubblicizzava «L’Illustrazione Italiana»: La nuova Roma. Il Maccao. Piazza Indipendenza, III (1876), I, p. 373; Villini al Macao, IV (1877), I, pp. 130 e seguente.

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za della palazzina, come attestano le memorie del Porena e il diario di Alessandro Guiccioli che, per assistervi, fu ospite dello scultore nel 1880 (17).

L’esecuzione delle decorazioni per la “Sala etrusca” dovrebbe ri-salire ad un periodo compreso tra gli ultimi mesi del ’78, anno in cui Monteverde fu Commissario nazionale per il Regno d’Italia all’Espo-sizione universale di Parigi, e l’autunno 1880, data dell’articolo in cui Ugo Fleres descrive per la prima volta le tempere del Brugnoli. È in-fatti ancora nei locali di piazza del Popolo che L’illustrazione italia-na registra in elaborazione il marmo L’Architettura – una delle statue che compongono la Tomba Sada – presentato in Francia nel ’78 nel-la sezione italiana (18).

Al contrario, Oreste Raggi situa già nella palazzina di piazza Indi-pendenza, dominata da un Genio di Franklin che gli sembrava – an-nota con disdegno – quasi declassato a insegna di propaganda «per chiamare avventori», la visita allo studio di Giulio Monteverde che servì da pretesto alla celebre stroncatura dell’opera dell’artista da lui pubblicata sul finire del ’78 sulla Rivista romana di Scienze e Lettere. È probabile che a quella data il trasferimento dello studio non fosse ancora completo. L’articolo – scritto, intuiamo, soprattutto allo sco-po di assicurare pubblicità indiretta alla monografia su Tenerani di cui Raggi stava concludendo la preparazione – non fa alcuna men-zione delle decorazioni, che non erano evidentemente ancora visi-bili al pubblico. Come si vedrà più avanti, tale dimenticanza non è un caso isolato ed anche testimoni successivi, che scrivono quando le tempere erano sicuramente già in opera, trascureranno di menzio-narle. Ma, nel caso di Raggi, è proprio il tono estremamente circo-stanziato e ricco di dettagli della sua requisitoria a far pensare che questi non avrebbe esitato a sfruttare anche le scenografie pittori-

(17) a. guiCCioLi, «Nuova Antologia», 1 giugno 1936, p. 280; m. Porena, Roma capita-le nel decennio della sua adolescenza (1880-1890), a cura di P. P. Trompeo, Roma 1957, p. 96; «L’Illustrazione italiana», VI (1879), I, p. 179.

(18) «L’Illustrazione Italiana», VI (1879), I, p. 323. Dovrebbe essere quindi ancora nei locali di piazza del Popolo che Boito condusse nel ’76, secondo i ricordi di Luigi Broggi, gli allievi del terzo anno di corso della Scuola di architettura di Milano ad ammirare lo Jenner: L. Broggi, I miei ricordi 1851-1924. Settant’anni di vita italiana nelle memorie di un architet-to milanese, a cura di M. Canella, Milano 1989, p. 41. Cfr. inoltre o. raggi, Una visita allo studio di Giulio Monteverde, in «Rivista romana di scienze e lettere», I (1878), pp. 322-331 e 378-391; iD., Autobiografia, in «La scuola romana», III (1885), pp. 132 e seguenti.

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che degli ambienti dell’atelier per appunti polemici, qualora ne aves-se avuto conoscenza.

Annibale Brugnoli, il loro autore, è una figura riemersa all’atten-zione della critica solo in tempi recenti quale esponente tra i princi-pali, assieme a Domenico Bruschi al quale la sua opera risulta spes-so legata, della scuola umbra nell’Ottocento. È noto per una brillante attività di decoratore alla moda che annovera tra i capisaldi la volta del Teatro Costanzi in Roma (1880); la sala reale alla Stazione Ter-mini (1885); la sala dello Zodiaco al Quirinale (1888); la Sinagoga maggiore della capitale (1904) e, tra le residenze private, le ville di Mascagni e Gallori (19). La sua conoscenza con Monteverde doveva es-sere di vecchia data e risaliva forse al 1876, anno in cui il pittore, da poco trasferitosi a Roma per concludervi gli studi come pensionato dell’Accademia perugina di Belle Arti, si era iscritto all’Associazione artistica internazionale. Ma è soprattutto opportuno tener presente, per inquadrare la commissione, che proprio ad Annibale Brugnoli e a Domenico Bruschi erano state affidate le decorazioni del padiglio-ne italiano al Trocadero, in occasione dell’Esposizione universale di Parigi del ’78, nella quale Monteverde aveva svolto il ruolo di Com-missario nazionale.

Lo scultore anzi, tornando dai circa quattro mesi di residenza in Francia che l’incarico aveva comportato, ebbe cura di dar pubblici-tà sul finire di quell’anno ad un suo soggiorno per qualche tempo a Perugia, città che, viene riportato, avrebbe visitato all’epoca per la prima volta. Sia L’Illustrazione Italiana che gli scritti di Ugo Pesci ri-feriscono di un suo incontro con un vecchio compagno degli esordi genovesi che, trasferitosi in Umbria e rimasto modesto intagliatore aveva dovuto abbandonare il mestiere perché divenuto cieco. L’in-tensificarsi di relazioni di riguardo con l’alta Val Tiberina è confer-mato, negli stessi anni, dalla commissione per l’Angelo del dolore (20)

(19) Si rimanda, per la bibliografia sull’attività di Brugnoli e Bruschi, alle schede cura-te in f. BoCo - a. C. Ponti, Pittori umbri dell’Ottocento, Roma 2006, pp. 66-72 e 84-91; cfr. in partic. Annibale Brugnoli, a cura di A. C. Ponti, Città di Castello 1999, p. 85, per accenni non ulteriormente sviluppati all’intervento per un “villino Monteverde”.

(20) Replicato nel 1885 per Primo Zonca al Verano e nel 1897 per Nicolae e Pepita Ra-kovitsa a Craiova. Per la data di collocazione e l’inquadramento della commissione cfr. r. CoLLesi, Memorie storiche e amministrative del Comune di Corciano, Città di Castello 1902, p. 12; M. CaPPeLLetti, Solomeo. Un paese, i castelli, le chiese, Perugia 1993, pp. 64-66; a.

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della Tomba Gallenga, messa in opera nel 1882 al Castellaccio del Mandoleto; dalla corrispondenza intrattenuta con la famiglia del pit-tore Lemmo Rossi Scotti di cui restano frammenti presso la Bibliote-ca comunale Augusta (21) e da un appello, pubblicato su L’Illustrazione italiana del 29 agosto 1879 sotto forma di lettera aperta a Domeni-co Morelli (22), in cui Monteverde esortava a fare maggior propaganda all’Esposizione d’arte antica moderna industriale e agricola da poco inaugurata a Perugia: un appello, fra l’altro, in cui l’artista menziona, come suo cicerone durante una gita alle fonti del Clitunno, Domenico Bruschi.

Ora, l’Umbria andava configurandosi sul finire degli anni ’70, pro-prio grazie all’attività di tramite tra Perugia e Roma svolta da Bruschi, Brugnoli e Rossi Scotti ed all’influenza dei soggiorni estivi nella regio-ne di Nino Costa e Lord Leighton, come terreno d’azione particolar-mente favorevole in Italia per la rielaborazione di temi dell’estetismo e tardo preraffaellismo inglese. La carenza di strade e infrastrutture; la scarsità di materie prime per l’industria; il prevalere quasi assolu-to del contratto mezzadrile mantenevano il territorio in condizioni di relativo isolamento e determinavano difficoltà di fondo ad inserire il paese in un quadro di esportazioni sovraregionale. Da qui il terreno favorevole riservato al diffondersi, presso l’élite del tempo, di un cul-to arcaizzante del passato e della natura e di una sorta di romantici-smo neofeudale che, nei decenni successivi, evolveranno in una parti-colare attenzione dedicata a D’Annunzio e al nazionalismo vitalistico delle riviste fiorentine di primo Novecento (23). La famiglia anglofio-rentina dei Gallenga Stuart, imparentata con la casa reale scozzese e committente dell’Angelo del dolore, va annoverata tra le antesignane di tali orientamenti. Trasferitasi a Perugia nel 1875, vi aveva puntato fin dagli esordi, nel tentativo di legittimarsi presso l’aristocrazia lo-cale, sulla promozione di un culto patriottico per le idealità artisti-che e romantiche e su gesti di magnanimità simbolica quali, appun-

Durante, Ville Parchi e Giardini in Umbria, Roma 2000, p. 83; e. PassaLaLPi ferrari, Etto-re Ferrari tra le muse e la politica, Città di Castello 2005, p. 206.

(21) Perugia, Biblioteca Augusta, Carteggio G. B. Rossi Scotti, ms. 2743.(22) «L’Illustrazione italiana», VI (1879), II, p. 154; I, p. 323.(23) L. tosi, Reazione agraria e origini del nazionalismo a Perugia, in «Bollettino della

Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», LXXIV (1977), pp. 335-365.

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to, la fastosa trasformazione della villa del Mandoleto e l’acquisizio-ne di Palazzo Antinori (24).

La decorazione della palazzina romana di piazza Indipendenza si configura in sintesi come tappa suggestiva, nel suo alludere ad una ricercata profondità di pensiero e nella scelta di iconografie eccen-triche (tav. LXXXII, fig. 2), di quella svolta dell’opera di Montever-de in direzione spiritualista e idealizzante di cui sarà caposaldo l’An-gelo Oneto. È forse utile, anche per questo, leggerla in connessione con le polemiche che nella capitale stavano portando, con particola-re accelerazione proprio tra ’78 e ’79, alla crisi dell’Associazione ar-tistica internazionale e al delinearsi, appunto sotto la guida di Mon-teverde e di Nino Costa, di movimenti secessionisti antesignani del raggruppamento che a partire dal 1886 prenderà il nome di “In arte libertas”.

Varie fonti, dalle già citate memorie del Guiccioli agli scritti di Baldassarre Odescalchi e del Raggi, alle Note azzurre di Alberto Pi-sani Dossi (25) sottolineano che il ruolo di caposcuola che Montever-de aveva acquisito in Roma nel corso della prima metà degli anni ’70 poggiava soprattutto sulla sua fama di campione di un verismo esa-sperato; o meglio, di una capacità, all’epoca percepita come d’avan-guardia, di fermare «ai confini del bello» la disponibilità a scelte iconografiche di rottura, recuperando quasi in extremis un punto di equilibrio tra innovazione e tradizioni accademiche. Soluzioni di cru-dezza quasi ostentata erano sembrate fino ad allora contrassegnare le sue opere come veri e propri tours de force in direzione di un avan-zato naturalismo: la siringa e il mento sporgente dello Jenner, la ve-

(24) Su Mary Gallenga Stuart (sorella di Robert, fondatore del quotidiano clerico mode-rato «Il Conservatore» di Roma, e figlia di James, corrispondente per l’Italia del «Morning Post» e ambasciatore della causa italiana in Inghilterra) cfr. il necrologio di o. sCaLVanti in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», XI (1905), pp. 397 e seguenti; u. ranieri Di sorBeLLo, Perugia della Bell’epoca, 1859-1915, pp. 239 e 264.

(25) a. guiCCioLi, Nuove pagine dal diario di Alessandro Guiccioli, in «Nuova Antologia», 1 agosto 1935, p. 426; C. a. Pisani Dossi, Note azzurre, edizione a cura di D. Isella, Milano 1964, pp. 288 e 517; a. aLearDi, Jenner e il primo esperimento dell’innesto del vaiolo, grup-po in creta di Giulio Monteverde, in «L’arte in Italia», V (1873), p. 43. Emblematiche le esi-tazioni di Lorenzo Litta Modignani nel proporre lo scultore alla Commissione municipale a Milano per l’esecuzione del monumento a Napoleone III: «Monteverde ha molto merito, ma è troppo realista. Se nel reale raggiunse un grado massimo, non sarei gran fatto persuaso che possa corrispondere completamente per un monumento elevato che si ispira ad un concetto di fantasia», Milano, Archivio storico civico, Ornato strade, cart. 45 II.

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ste da camera e l’accentuata magrezza del Mazzini; i pantaloni flosci alla moda del Thalberg che Raggi criticherà come «senza garbo né grazia»; il naso poco encomiasticamente pronunciato del ritratto del-la Principessa Margherita di Savoia. Ma tale fama era già all’epoca in parte frutto di fraintendimenti e non a caso uno dei primi apologeti, padre Vincenzo Marchese, aveva attirato l’attenzione, fin da un suo articolo del ’67 sul giornale La Carità di Napoli (26), piuttosto sull’im-pegno dello scultore nel dar peso concreto alla dimensione filosofica dell’immagine ed alla raffigurazione dell’attività del pensiero. Sareb-be stato appunto questo a distinguere l’artista – scriveva Marchese – rispetto ad altri allievi di Santo Varni:Non diremmo noi adunque che il nostro Monteverde sia poeta, filosofo e oratore a un tempo? […] La perfezione dell’arte non consiste già solo nella fedele imita-zione del vero, come erroneamente opinano molti, ma nel recare questa imitazio-ne alla sua più alta idealità senza punto nuocere alla verità.

Sta di fatto che le posizioni di Monteverde, giunto a Roma con un bagaglio di idee mazziniano che sovrapponeva, ad ogni istanza di verismo, l’urgenza di farsi portavoce di contenuti etico-doveristi di matrice romantica, presentano fin dagli esordi singolari analogie con e idee di Nino Costa, anch’esse imperniate sulla conciliazione tra mo-dernità e principi accademici. Costa era stato nel 1870, con Baldassar-re Odescalchi, tra i fondatori dell’Associazione artistica internaziona-le, raggruppamento che aveva inteso prospettarsi, dopo l’assunzione di Roma a capitale d’Italia, come centro del rinnovamento artistico in opposizione al conservatorismo purista e tardo neoclassico che si cercava all’epoca di archiviare bollandolo come identificativo dei no-stalgici del governo papale. Ma, non diversamente da Monteverde, si era distinto all’interno di detta Associazione per una politica che da un lato propagandava aperture al clima postmacchiaiolo fiorenti-no; dall’altro mirava a prenderne le distanze per il richiamo a un fil-tro costante del pensiero letterario ed idealizzante. «Il vero» – ripor-ta Quel che vidi e quel che intesi, l’incompiuto volumetto di memorie autobiografiche di Costa pubblicato post mortem dalla figlia – «non dice nulla se non si è veduto attraverso il sentimento del pensiero» (27).

(26) La Psiche cristiana, gruppo in creta di Giulio Monteverde; ristampa in V. marCHese, Ultimi scritti, Siena 1896 (consultata 2a ed.), pp. 199-209.

(27) g. Costa, cit. a nota 8, p. 121.

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Più che sulla resa immediata del dato ottico, le opere del pittore ro-mano puntavano – come Monteverde nel Colombo giovinetto – su un calcolato equilibrio tra pratica di registrazione dei dati della na-tura e affinamento concettuale attuato in studio; dove il filtro dei metodi d’insegnamento consueti negli istituti di Belle Arti, anziché negato, veniva posto in evidenza a trasporre in un’aura di specula-zione meditativa i particolari desunti dalla cronaca. Non a caso Co-sta, organizzando nel 1870 la prima delle mostre d’arte promosse dall’Associazione artistica alla Casina Valadier al Pincio, aveva espres-samente raccomandato a Martelli che nel dare risalto alla rappre-sentanza fiorentina venisse ancora una volta offerto spazio alla ri-cerca «in stile mistico naturale romantico» di Ussi (28); una ricerca, cioè, che vagliava le aperture alla modernità all’interno di un rilan-cio dello storicismo accademico e del peso di reminescenze lette-rarie.

L’affermarsi del verismo estremista di D’Orsi e degli artisti di scuola napoletana all’Esposizione nazionale di Belle arti del ’77 do-vette perciò convincere Monteverde che fosse venuto il momento di troncare gli equivoci e di marcare con maggior chiarezza le distanze accentuando, nella sua produzione della fine del decennio, il richia-mo a connotazioni idealizzanti e a scelte formali e di soggetto impe-gnate a non confondere l’attenzione alla modernità con la provoca-zione ideologica. È quanto sembra di poter dedurre già dalle opere che lo scultore ligure scelse di presentare all’Esposizione universale di Parigi del ’78: dalla parnassiana Architettura del Monumento Sada alla Tomba Massari, centrata sul dialogo tra il verismo terreno con cui è resa la salma del defunto e l’eleganza astraente dell’Angelo che ne raccoglie l’ultimo respiro.

A Roma, peraltro, l’inconciliabilità tra le varie anime che si era fino ad allora cercato di far coesistere sotto la sigla genericamente progressista dell’Associazione artistica internazionale stava, contem-poraneamente, avvicinandosi al punto di rottura. Da tempo all’inter-no di quella Associazione covava malcontento per la parzialità che il segretario, principe Odescalchi, dimostrava per il clan dei pitto-ri spagnoli attivi nella capitale e per la pittura di genere ispirata a Fortuny che questi contribuivano a diffondere. Si trattava di un in-

(28) Firenze, Biblioteca Marucelliana, Carteggio Martelli, n. 143.

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dirizzo che, nel clima di reazione al purismo dei primi anni ’70, era potuto sembrare a suo modo portatore di un messaggio antiaccade-mico di accostamento alla realtà. Il suo evolversi in preziosismo com-merciale però, dopo la morte del caposcuola, nel ’75, prestava pro-gressivamente il fianco a critiche crescenti, proprio per l’assenza di spessore nei contenuti etici.

Su ciò vennero ad innestarsi, sempre a partire dal 1875, anche conflitti circa le scelte organizzative. Odescalchi, il direttivo del circo-lo e quello della Società amatori e cultori di Belle Arti che svolgeva nella capitale le funzioni di Promotrice, si erano schierati, nel dibat-tito allora in corso all’interno del Ministero della Pubblica Istruzione e in Parlamento, a favore della candidatura di Roma come sede fissa delle Esposizioni nazionali di Belle Arti, appuntamenti periodici ap-prossimativamente biennali fino ad allora gestiti a turno nelle diver-se città italiane. Costa, Monteverde e figure impegnate in sede poli-tica come Ferdinando Martini, capofila in quegli anni di campagne di stampa contro l’accentramento nella capitale dei principali istitu-ti culturali dello Stato, sottolineavano invece il timore che far coin-cidere il centro delle arti con quello del Governo, per di più in una città che continuava a distinguersi come «capitale della reazione ar-tistica» (29), avrebbe finito col rafforzarvi una mafia legata a voti di scambio parlamentari.

Monteverde, a dire il vero, aveva assunto agli inizi posizioni esi-tanti, partecipando alle riunioni che fra il ’75 e il ’76 impostarono le trattative per la costruzione dell’attuale Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale. A raggelarlo furono probabilmente il riflusso conser-vatore che fa seguito nella capitale alle dimissioni del sindaco Pian-ciani, e il rischio di veder riemergere in posizione di potere vecchi esponenti dello status quo papalino, come Francesco Podesti, firma-tario delle prime istanze che avevano proposto al Ministero la que-stione (30). Sta di fatto che già nel ’75 lo scultore figura fra i simpatiz-zanti di uno dei raggruppamenti di fronda creati all’epoca da Nino

(29) «Cronaca Bizantina», 16 agosto 1883, cit. in g. Piantoni, L’esposizione internazio-nale di belle Arti in Roma, in Il Palazzo delle Esposizioni, Catalogo della Mostra a cura di R. Siligato - M. E. Tittoni, Roma, Palazzo delle Esposizioni 12 dicembre 1990 - 14 gennaio 1991, Roma 1990, pp. 109-121.

(30) Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Antichità e belle arti, Esposizioni e congressi 1860-62, b. 7.

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Costa, il cosiddetto “Golden Club” (31). Sarà però lo scacco della par-tecipazione italiana all’Esposizione universale di Parigi del ’78 – quel-la in cui Monteverde svolse le funzioni di commissario e che ebbe, specie per la classe di pittura, esiti poco confortanti – a far venire i nodi al pettine. Nel dicembre 1878 la stampa dava notizia dell’orga-nizzazione a Roma di appositi “Comizi artistici” che si proponeva-no di esaminare le cause del fallimento e, subito dopo, del costituir-si di un circolo secessionista che, forse ricollegandosi alla precedente associazione promossa da Costa, prendeva il nome di “Gold Club”. Giulio Monteverde, informano le cronache dell’epoca, aveva accetta-to di figurarne tra i consiglieri (32).

A pochi mesi di distanza, nel marzo 1879, Costa e Monteverde ab-bandonavano tuttavia anche il “Gold Club”, reclamando che quest’ul-timo aveva conservato carattere troppo internazionale, e fondavano un autonomo “Circolo italiano” di cui per qualche tempo sarà segre-tario Bruschi. Poco si può ricostruire del programma che lo caratte-rizzava, ma sembra attendibile che vi avesse parte il rafforzarsi di in-flussi dell’estetismo inglese, mediati attraverso Lord Leighton. Il tema di base pare costituito dall’appello a un’arte più attenta ad eviden-ziare contraddittorietà e difficile decifrabilità dei sentimenti, l’accre-sciuta complessità dei quali veniva identificata come tratto distintivo del mondo moderno. Accanto a questo stavano richiami all’autore-volezza dei grandi maestri del passato; a una precisa definizione del-la forma come antidoto a un mestiere di superficie; e l’invito ad ac-centuare istanze di spessore ideale rifacendosi agli esempi storici di un Rinascimento interpretato anch’esso, sulla scorta del preraffaelli-smo, come forma di arcaismo prezioso ed estetizzante (33).

(31) Rimando, su Costa e i movimenti da lui creati, ad a. maraBottini, Nino Costa, To-rino 1990; a. m. isastia, Il progetto liberal-democratico di Ettore Ferrari. Un percorso tra po-litica e arte, Milano 1997; f. Dini - s. frezzotti, Da Corot ai macchiaioli al simbolismo. Nino Costa e il paesaggio dell’anima, Milano 2009, con bibliografia precedente.

(32) Cfr., tra le fonti, «Roma artistica», V (1879), pp. 5 e 22; «Il Fanfulla», 8 febbraio e 16 marzo 1879; a. Dragone, Lorenzo Delleani. La vita, l’opera e il suo tempo, Torino 1974, p. 302.

(33) Il tessuto connettivo ideologico di questi raggruppamenti è, in realtà, tuttora poco noto. Secondo A. Durand («L’Art en Italie», 22 marzo 1885) trait d’union era l’istanza a rap-presentare la natura «non come è, ma come appare al nostro sguardo amoroso»; secondo A. Rondani, L’arte Europea a Parigi, in «Rivista Europea», X (1879) 16 maggio 1879, pp. 217-239, era centrale l’insistenza sul promuovere un riconoscibile carattere nazionale dell’arte ita-

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Di nuovo, le stroncature che Oreste Raggi continuò a dedicare in quel giro di anni all’opera di Giulio Monteverde, dopo il primo inter-vento sulla Rivista romana di scienze e lettere, forniscono una confer-ma indiretta di come quest’ultimo fosse alla ricerca di nuovi orizzonti. Raggi ne trae profitto per muovergli contro accuse d’incoerenza. Lo scultore, stigmatizzava, sarebbe passato al rientro da Parigi, nel ’78, ad un contraddittorio ruolo di padre nobile, dimenticando le respon-sabilità che egli stesso aveva avuto nel diffondere in Roma, con il gu-sto per la sprezzatura nel modellato e per l’esasperazione teatrale delle pose, le premesse di quel virtuosismo fine a se stesso di cui lamenta-va le conseguenze. Le relazioni che Monteverde aveva scritto nel ’78 a conclusione del suo mandato a Parigi e nel 1880 in occasione della successiva Esposizione nazionale di Torino potevano considerarsi da questo punto di vista, una implicita denuncia di fallimento. Procla-mavano infatti che nella recente produzione italiana, «manca un se-rio indirizzo e maggior ricerca nella forma e che troppo abbandonati sono gli studi sui classici, che troppo si curano i particolari a danno dell’insieme, che havvi troppa franchezza di esecuzione e poco cercata la linea» (34). Si risolvevano, cioè, proprio in critiche a quella degene-razione fotografica che, secondo Raggi, aveva permesso allo scultore, negli anni precedenti, di costruirsi una carriera e di ergersi a simbo-lo di un rinnovamento del linguaggio in opposizione alla «contenu-tezza» e al controllo classico della forma difesi da Tenerani.

Non si dispone di documentazione certa circa una partecipazio-ne di Brugnoli alle vicende del Circolo artistico italiano, ma non ap-pare fuor di luogo ricordare che, stando alla corrispondenza di Vin-cenzo Cabianca (35), Nino Costa fu ospite a Perugia del pittore umbro

liana. Cfr. comunque, sul circolare di temi dell’estetismo inglese nei salotti fra Roma e Fi-renze attorno al 1880, g. Pieri, The influence of Pre-Raphaelism on Fin de Siécle Italy. Art, Beauty and Culture, Leeds 2007.

(34) o. raggi, Della vita e delle opere di Pietro Tenerani; del suo tempo e della sua scuola nella Scultura, Firenze 1880, p. 403. Il passo riprende quasi alla lettera la relazione di Monte-verde come Commissario del circolo italiano a Torino, pubblicata in «Il Fanfulla» e in «Roma Artistica industriale», IV (1880), pp. 129 e seguenti. Sulle reazioni suscitate da questo scrit-to (si sospettava che fosse opera di Costa più che di Monteverde) cfr. il trafiletto Tra pennel-lo e scalpello: perché Monteverde scrive?, pubblicato da Giuseppe Turco con lo pseudonimo Baron Cicogna in «Roma artistica e industriale», IV (1880).

(35) Cfr. il volume curato da A. C. Ponti, cit. a nota, p. 38; P. fuCeLLa, Michele Tedesco, Firenze 1997, p. 11.

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proprio nel ’76, l’anno di fondazione del Golden Club. L’interpreta-zione delle suggestioni neorinascimentali e neovenete come lumino-so vortice sensuale e macchina decorativa per evocar uno stato men-tale, che forma un po’ il centro della poetica che vediamo all’opera nelle tempere per la palazzina romana, è del resto in linea con quel senso totalizzante della natura verso il quale Costa andava indirizzan-do i propri seguaci. Quanto alle date, la decorazione dello studio di piazza Indipendenza e del connesso salone al primo piano, se è cor-retta la datazione che se ne propone al ’79-’80, precede o è stretta-mente contemporanea alla definitiva affermazione di Brugnoli con le commissioni per il Quirinale e con il soffitto del Teatro Costanzi (36), opera in cui pure ricompaiono, nella raffigurazione di una schiera di musicanti egizi, tracce di quello storicismo arcaizzante che vediamo all’opera nella “Sala etrusca”.

Resta a questo punto da esaminare come Monteverde avesse di-stribuito la propria gipsoteca all’interno dell’atelier; ma su questo la documentazione è imprecisa, sia perché è naturale che l’assetto de-gli ambienti variasse a seconda delle esigenze, sia perché la descrizio-ne degli studi di artisti rivestiva, nei giornali e nelle riviste dell’epo-ca, che sono le uniche fonti oggi disponibili, un ruolo paragonabile a quello che nell’opera di D’Annunzio svolgevano gli articoli di cro-naca mondana su feste e ricevimenti: un esercizio a fini di lucro in un genere letterario di importazione francese, in cui l’effetto brillan-te contava più che la veridicità o l’esattezza dei particolari.

Qualche indicazione sulla sistemazione che le sculture avevano alla riapertura dell’atelier si ricava da due articoli di Orazio Grandi, A proposito d’una visita allo studio Monteverde e Una seconda visita allo studio Monteverde, redatti sotto forma di lettere a Vittorio Ber-sezio in data 11 e 16 ottobre 1880 e pubblicati quell’anno sulla Gaz-zetta letteraria di Torino (37).

(36) La cupola, una delle prime opere di grandi dimensioni per la quale si impiegò in Roma la tecnica del guazzo, fu eseguita nell’arco di circa 45 giorni tra il giugno 1880, quan-do Ugo Fleres ne vide i bozzetti, e il dicembre dello stesso anno, data di inaugurazione del teatro. Cfr le cronache comparse nel 1880 sul «Capitan Fracassa», 4 e 15 giugno; «L’Opinio-ne», 28 novembre; «Don Pirloncino», 12 dicembre.

(37) IV (1880), pp. 307 ss., 325. Un successivo articolo sempre di Grandi, Giulio Monte-verde, in «Gazzetta letteraria», IV (1891), p. 258, chiarisce che l’ambiente coperto da terraz-zo che fa da filtro tra lo studio e il giardino su via dei Mille fu voluto per ospitare il modello colossale del Vittorio Emanuele II per Bologna, in lavorazione tra 1881 e 1888. Monteverde

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Grandi dice di aver visitato lo studio di Monteverde subito dopo che le gazzette romane ne avevano reclamizzato l’accessibilità al pub-blico per la presentazione dei marmi della Tomba Massari: la mostra dei gessi risultava concentrata in «due, tre, quattro saloni immensi, aereati, nei quali anzi la luce si riversa e invade». Il rigore formale dell’ambiente su cui era intervenuto Brugnoli non escludeva la com-presenza, in altri, del disordine connesso a una vivace prassi di la-boratorio. Disegni per controllare la composizione figuravano per-fino tracciati sui muri, come ricaviamo, sempre in occasione della presentazione della Tomba Massari, dai già citati appunti di visita re-datti da Ugo Fleres per il giornale Capitan Fracassa del 7 dicembre 1880. Vi viene illustrato lo stato di avanzamento del Monumento a Bellini in preparazione per la città di Catania. La lavorazione – an-nota Fleres – eragià molto innanzi. Il gentile artista mi mostrò il primo bozzetto e, oltre, uno schiz-zo a carbone sul muro, che offre una chiara sagoma dell’insieme con le correzio-ni posteriori al bozzetto stesso e che il coscienzioso scultore eseguì, modellando le cinque statue dell’opera colossale proprio sopra un monumento di legno che rap-presenta a puntino quello che dovrà essere condotto in marmo (38).

La testimonianza più importante è comunque uno scritto com-parso sul primo numero (6 gennaio 1884) di L’Art en Italie, bolletti-no settimanale a carattere internazionale promosso in lingua france-se da Baldassarre Odescalchi. Il rapporto di Monteverde con Costa, a distanza di quattro anni, si era ormai indebolito, forse a causa de-gli atteggiamenti dispotici che, nello stesso periodo, compromettevano i rapporti di quest’ultimo anche con altri artisti che si erano avvici-nati alla sua cerchia quali Vincenzo Cabianca (39) e, di sicuro, a cau-sa dello scarso successo di pubblico ottenuto dall’attività del Circo-lo artistico nazionale. La secessione, infatti, non aveva raccolto che una percentuale quanto mai insoddisfacente di nominativi (40) e Mon-

«per provvedere ad un ambiente in cui cavallo e cavaliero potessero sviluppare i propri effet-ti, e a lui dar consiglio di graduale perfezione» aveva dovuto sacrificare parte del giardino.

(38) Uriel (come detto, pseudonimo utilizzato da U. Fleres), Tocchi in penna: Giulio Mon-teverde, in «Il Capitan Fracassa», 7 settembre 1880.

(39) Cfr. il volume curato da A. C. Ponti, cit. a nota 19, p. 38.(40) Secondo «L’Art en Italie», il Circolo non avrebbe raccolto che approssimativamen-

te 14 soci. La riconciliazione non avrebbe potuto essere più completa: Monteverde accetterà

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teverde si era presto affrettato a rientrare nei ranghi dell’Associazio-ne artistica internazionale che, nel 1887, si trasferirà nella nuova sede di via Margutta.

L’articolo, firmato dal principale redattore della rivista, A. Du-rand (41) e intitolato Le tour des ateliers: Giulio Monteverde, sembra un po’ il frutto tardivo di una riconciliazione e un tentativo a sco-po difensivo di rilanciare l’autorità, ormai indebolita, dello scultore in area romana.

La descrizione dello studio attesta come fosse ormai tramontata quella suddivisione degli ambienti per funzioni, alla quale avevano ac-cennato i precedenti scritti di Pagani e Bersezio. Le imprecisioni non mancano, sia nella descrizione delle sculture (L’innocenza, «petite fille qui caresse un oiseau», viene confusa con il gruppo scultoreo Primi giochi premiato a Monaco nel ’79), sia in quella degli ambienti. Ma, soprattutto, l’autore non si cura di precisare da quale degli accessi possibili – da piazza Indipendenza; da via dei Mille; dal giardino – avesse avuto inizio la sua visita e questo rende aleatorio far quadra-re le informazioni da lui fornite con la pianta dell’atelier conservata presso l’Archivio Storico Capitolino (tav. LXXXII, fig. 1).

In una prima sala si sarebbe trovato, tutto solo, l’Angelo Oneto: «J’ai perdu récemment un fils agé de seize ans, m’a dit Monteverde en essuyant une larme. L’ange de la Résurrection, que vous regardez en ce moment, fera partie du monument qu’on achève pour lui, au Campo Verano, et qui sera notre tombeau de famille» (42). Seguivano, in un secondo ambiente, il Vittorio Emuanele per Rovigo; il Mazzi-ni di Buenos Ayres; parte dei gessi componenti il Monumento Sada (l’Architettura, si precisa, non si trovava al momento nello studio), il

l’incarico di presidente dell’Associazione artistica internazionale nel 1893 e ai primi del No-vecento; già nel 1885 figurava presente, con Tusques, Valles, Pradilla, Hernandes, Ettore e Luigi Ferrari, Villegas e Guglielmo Castellani, a un “pranzo” del 1885 in onore degli artisti spagnoli in casa di don Baldassarre Odescalchi: cfr. Vere de Vere (pseudonimo di G. D’An-nunzio), Giornate romane – alla vigilia del carnevale, in «La tribuna», II (1885).

(41) Non si hanno, al momento, dati che permettano di completare il nome di battesi-mo.

(42) Deve trattarsi di Giuseppe, già effigiato nella scultura Primi giochi, nato a Genova e morto a Roma in date che l’iscrizione sulla tomba di famiglia lascia imprecisate. Modello per la rifinitura della prima versione, conservata oggi a Staglieno, era stata invece secondo C. Bertini attiLJ, Gli studi artistici di Roma, Giulio Monteverde, in «La Vita italiana», I (1894-95), p. 36, l’ultima delle figlie dell’artista, Corinna.

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Genio di Franklin e l’Operaio per Schio. Una terza sala era occupa-ta dal solo modello della Tomba Massari di Ferrara. In seguito «nous traversons rapidement une salle qui sert de cabinet de travail à Mon-teverde, dans laquelle on voit certaines pièces anatomiques pouvant fournir des sujets d’étude, et nous arrivons à une salle qui est, à elle seule, toute une exposition de sculpture». Si trovavano in quest’ulti-ma il gesso originale del Colombo giovinetto, che viene descritto come danneggiato dall’inondazione del 1870 (43), il Putto con gallo, L’Inno-cenza, una riproduzione in marmo del Genio di Franklin, il busto di Margherita di Savoia, i vari modelli delle sculture per il monumento a Bellini di Catania, ed il gesso di Volere e potere, che, proprio per-ché mai trascritto in marmo, costituisce forse il pezzo storicamente più importante oggi conservato nella Gipsoteca di Bistagno. «C’est le seul plâtre que je n’aie jamais exécuté en marbre» – avrebbe com-mentato Monteverde – «et je vois une fois de plus comme j’ai eu rai-son, puisque le sujet est si difficile à comprendre», la sua decodifica-zione essendo affidata al rapporto tra lo sguardo del personaggio e la raffigurazione ai piedi dello stesso, di un mazzo di carte che per via della collocazione a terra resta quasi invisibile al pubblico. «Jai vou-lu représenter la lutte que se livrent dans l’âme de l’ouvrier l’instinct du bien et le penchant au mal. Mais j’ai vu à temps qu’il eut fallu une brochure explicative! ajoutà Monteverde en riant».

Sempre al centro di questa quinta sala si trovavano il Monumen-to De La Gandara, appena completato per Madrid, e lo Jenner. Que-sto fa supporre che tale ambiente, sovraffollato e trasformato quasi in una sorta di museo, fosse appunto la “Sala etrusca” del Brugno-li, le cui decorazioni, comunque, non vengono descritte, come non vengono descritti il cavedio che la pianta dell’edificio oggi conservata nell’archivio capitolino testimonia esistente a metà dell’ala confinante con la proprietà Centurioni; e l’androne su via dei Mille che, fornen-do accesso ai piani superiori della palazzina, costituiva un’altra cesu-ra obbligata nel percorso. «Pour arriver au but de cette succession de salles qui constituent l’atelier de l’auteur du Génie de Franklin il reste une dernière grande pièce» – proseguiva l’articolo – «c’est la

(43) Il gesso donato dall’artista nel 1871 alla Regia Pinacoteca di Parma ed elencato nei cataloghi della stessa curati nel 1887 dal Pigorini e nel 1896 da Ricci al n. di cat. 1035, sala VIII, è, in effetti, un calco posteriore rielaborato.

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que Monteverde est en train d’achever une belle et très ressemblan-te statue du général Medici, commandée au sculpteur par la veuve de l’ancien aide-de-camp du roi Humbert». Potrebbe trattarsi, stan-ti le esigenze di buona illuminazione presumibili per un laboratorio di modellato, del grande salone all’angolo tra piazza Indipendenza e via dei Mille, oggi tramezzato in altezza ed occupato sempre dal bar Florian’s, come sala da tè e ristoro. In ogni caso, la sequenza dei lo-cali non torna se non supponendo che Durand, lavorando a memo-ria, abbia riassunto nella generica «salle qui sert de travail» conte-nente pezzi anatomici, parte degli ambienti destinati a scopi tecnici, conseguentemente espunti dal resoconto.

Poco aggiungono alle nostre conoscenze i due articoli, più noti e frequentemente citati, che Clelia Bertini Attili dedicò nel 1895 alla descrizione dello studio di Monteverde. Il primo di tali due scrit-ti avrebbe dovuto inaugurare una serie, poi non proseguita, di boz-zetti su Gli studi artistici di Roma promessi sull’annata ’94-’95 della rivista La Vita italiana diretta da Angelo De Gubernatis. La Berti-ni Attili, amica di famiglia dei Monteverde (44), vi rilancia quello sti-le a variazioni rapsodiche che in gioventù l’aveva resa celebre come improvvisatrice nelle riunioni dell’Arcadia romana. Riunioni – ha la-sciato scritto Domenico Gnoli – in cui la poesia e l’arte si riduceva-no ad una questione di modi di dire e ad un artificioso coltivare il tipo dell’«alma sdegnosa», gladiatoria ed ipersensibile: «l’effetto del resto si ricavava più dalla recitazione o declamazione che dallo scrit-to» (45). Nondimeno, la descrizione dell’ambiente che l’artista usava per meditare – probabilmente uno studio privato, usato per sbozza-re le prime idee, ricevere i clienti di maggior riguardo o farli posa-re (46) – situato al primo piano della villa, può avere forse qualche so-stanza concreta:

(44) Si veda il suo poemetto A la prima figlia di Giulio Monteverde che si fa sposa, opusco-lo in nozze Dragonetti-Monteverde, Roma 1898, Roma, Biblioteca Angelica, misc. 7710.

La scrittrice – a sua volta figlia di uno scultore – segnala su «Natura ed arte» nel ’95 di aver conosciuto Monteverde frequentando lo studio di Giuseppe Noci, intagliatore ed anti-quario che conosciamo come fornitore di arredi per feste e Bals costumés dell’Associazione artistica, cfr. «L’Art en Italie», I (1884), n. 9.

(45) D. gnoLi, I poeti della scuola romana, Bari 1913, pp. 7, 11.(46) Da non confondere, quindi, con quel «cabinet de travail» ingombro di pezzi anato-

mici che Durand cita nel suo articolo. Analoghe separazioni tra il laboratorio aperto al pub-blico ed una parte più intima dello studio, a volte inserita negli appartamenti privati, in cui

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LO STUDIO DI GIULIO MONTEVERDE IN PIAZZA INDIPENDENZA A ROMA 355

La stanza, l’intima stanza sua, nella quale si rifugia a pensare e modellare, e po-chi amici hanno accesso, è un dolce luogo, che, lungi dall’accumulamento da mo-stra di antiquariato, si adorna seriamente di cose belle e di gusto. Corrono per le pareti volti apollinei, torsi meravigliosi di Veneri, esemplari di greca classicità (47), misti a lembi di stoffe preziose, a tappeti morbidi, che fanno pensare a minuscoli piedini di fuggenti orientali. La mobilia è severa e di puro stile del ’500; ed io un giorno mi soffermai sull’uscio di quel salone: Monteverde, nella bianca stola, con la testa coperta dal berretto di velluto nero, posava nell’ampio seggiolone pensie-roso. Mi parve quella una evocazione del Rinascimento […] Alla porta un angelo, erte le ali, come immerse nell’azzurro, vigila una morta figura.

Spiragli su quella che sembra una gestione fortemente patriarca-le del ménage familiare si ricavano dal secondo intervento della Ber-tini, comparso su Natura ed Arte del 1895:Nei salotti della casa spaziosa, sono profusi marmi, dipinti, bronzi e preziosi mobi-li antichi; le sue figliole, buone e modeste, creano musiche soavi, cantano, suona-no, dipingono. La signora Rosina, che tanto contribuì, colla intelligenza e la cura amorosa alla gloria del marito, è dovunque, madre, artista, massaia. In ogni ango-lo si rivela il culto per Giulio, il grande Giulio, che in grembo alla famiglia depo-ne il capo stanco e ne trae nuova lena.

E lo studio è quale dovrebbe essere per un’artista speciale. Ampio, dalla volta superba, ha larghi finestroni, ove la luce piove e ondate di profumo entrano a mag-gio. Lo scultore vi si aggira, cinta la bianca stola, sorretta ai fianchi da una larga cintura di cuoio, e la testa ombreggiata dal berretto di velluto. È, come già vi dis-si, una figura di artefice del ’500, che erra fra un popolo di statue, una continua febbre di creazione, sfidando un lavoro che accascerebbe un gigante.

Informazioni non più che evanescenti è possibile raccogliere sull’altra delle principali residenze tra cui Monteverde, raggiunto il successo, suddivise la propria attività: la villa costruita a partire dal 1885 circa in località Montecucco-Pian del lago a Castelgandolfo, cit-tadina dei Castelli romani che, per quanto il papa dopo la legge delle Guarentigie avesse smesso di frequentarla, era divenuta un soggiorno

lo scultore metteva a punto i primi pensieri delle sue opere, sono testimoniate per altri arti-sti tra i quali Pompeo Marchesi.

(47) Notizie sulla collezione di antichità dello scultore e sulla sua vendita al Museo Na-zionale Romano si ricavano da una lettera del 2 ottobre 1917 di Roberto Paribeni, Ravenna, Biblioteca Classense, Carteggio Ricci, vol. CXLII, che informano di ansiose trattative delle «signorine Monteverde» per accelerare il pagamento, dato l’avvicinarsi sentito come immi-nente della morte del padre. Un torso monumentale eroico, già appartenuto a Monteverde, è stato recentemente trattato in Asta Sotheby’s a Londra della collezione Otto Klaus Preys, cat. n. 143, 9 novembre 2005.

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estivo alla moda tra le alte leve del notabilato romano. Il comples-so, reso oggi irriconoscibile da ricostruzioni dopo il secondo conflit-to mondiale, è attualmente sede della Corporate university dell’ENI. Si trattava di una panoramica proprietà di oltre tre ettari ai limiti del bosco Ferentano, dove l’artista, secondo la testimonianza del Piroli, trascorreva abitualmente i mesi estivi e, dopo il rituale soggiorno in ottobre a Montecatini, forse parte dell’autunno (48). La scelta del luo-go dove costruire la propria residenza estiva era stata celebrata da Antonio de Cara, collaboratore del giornale Civiltà cattolica e, anche lui, amico di famiglia, con un’epistola in versi A Giulio Monteverde scultore: la leggenda delle Ninfe del lago Albano. Ne conosciamo il testo tramite la riedizione che ne curò Caterina Pigorini Beri in un articolo del 1915 che ripercorre le motivazioni affettive del rappor-to tra lo scultore e quel particolare punto panoramico sui Colli Al-bani, suo luogo di meditazione favorito fin dagli anni in cui model-lava il Colombo giovinetto.

«Pochi conoscono quel villino sorto dal nulla» – ricama infat-ti, a sua volta, la Pigorini Beri – «nel luogo stesso in cui il giovane pensionato agli studi della città eterna soleva riposarsi sotto le pian-te annose, con una valigetta ad armacollo a fare la sua prima cola-zione, sognando arcani mondi» quando ancora non aveva raggiunto la celebrità (49).

Gli opuscoli dedicati da Piroli alle memorie su Castelgandolfo, nella generale carenza di documentazione d’archivio, aggiungono più che altro delle note di colore. Edificata la villa, presso il cancello, la sera, «verso l’ora del tramonto» – ricorda questo scrittore – chi passeg-giava poteva intravedere lo scultore che «ivi trattenevasi con le sue fi-glie», ad ammirare il digradare del panorama tra il lago ed il mare.

All’interno di una delle sale si trovava il bassorilievo, oggi perdu-to (50), raffigurante l’ascesa del Carro di Apollo fra costellazioni sim-boleggiate da lampadine elettriche che Caterina Pigorini Beri descrive

(48) P. PiroLi, Castel Gandolfo, impressioni e ricordi, Roma 1915, p. 18 (cfr. a p. 20 per la lapide con versi di Marco Tabarrini, che Monteverde fece apporre lungo la via di accesso al Palazzo pontificio a marcare la casa di proprietà Gigante, in cui visse d’Azeglio); cfr. inol-tre P. PiroLi, Castelgandolfo e la residenza pontificia, Albano 1934, p. 12.

(49) C. Pigorini Beri, Giulio Monteverde e la Madonna di Bistagno, in «Nuova Antolo-gia», 1 marzo 1915, p. 88.

(50) Possiamo forse averne un’idea tramite la riproduzione del modello che compare sul-

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LO STUDIO DI GIULIO MONTEVERDE IN PIAZZA INDIPENDENZA A ROMA 357

come l’ultima opera significativa di un artista che, negli ultimi anni, viveva ormai ripiegato, tentando di combattere l’impressione di una crescente inattualità rispetto al mondo moderno.

Più asetticamente la Conservatoria dei registri immobiliari di Roma registra che mentre il villino di Roma fu venduto dagli ere-di nel 1920 a Giorgio Luzzatto (51) – che già nel ’21 procedeva alle prime manomissioni ampliando la terrazza sul giardino in modo da trasformare in garage il locale sottostante –, la villa di Castelgandol-fo (sez. I, nn. 339-860; sez. II, dal 12 al 119-221, estimo di 84 scu-di) nel maggio 1918 formò oggetto di una transizione al grand’uffi-ciale Alberto Manzi Fe.

gianLuCa Kannès

lo sfondo del ritratto dell’artista realizzato nel 1912 da Enrico Tardelli, s. arDiti - L. moro, La Gipsoteca Giulio Monteverde di Bistagno, Torino 1984, p. 64, cat. n. 8.

(51) Roma, Archivio Storico Capitolino, Ispettorato edilizio, 1921, prot. 198.

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Il Convegno Augusteo del 1938nel quAdro del BImIllenArIo

dellA nAsCItA dI AugustoAttrAverso I doCumentI d’ArChIvIo

e le puBBlICAzIonI dell’IstItuto nAzIonAle dI studI romAnI (*)

Al fine di ricostruire la genesi, le modificazioni e l’organizzazione del Convegno Augusteo del 1938 è necessario preliminarmente ricordare come esso si sia posto a chiusura delle manifestazioni per il Bimillenario della nascita di Augusto, organizzate a partire dal 1930 dall’allora Istituto di studi romani. sino dal principio le celebrazio-ni si erano prefisse di coprire tre precisi settori di intervento: a) tu-tela e valorizzazione delle vestigia augustee a roma, con particolare riguardo all’Augusteo ed all’Ara Pacis Augustae, nonché nelle regio-ni d’Italia e «nell’Impero», cioè nelle ex province romane ora stati nazionali, b) iniziative editoriali in seguito elaborate come pubblica-

(*) Il presente contributo costituisce l’adattamento per la stampa di alcuni aspetti di una ricerca sulla genesi e l’organizzazione del Convegno Augusteo avviata, mentre continuavo a svolgere ricerche relative alla sala XXvI della mostra Augustea della romanità, per impul-so del presidente dell’Istituto nazionale di studi romani, prof. paolo sommella, e svolta sui materiali dell’Archivio storico dell’Istituto e sulle sue pubblicazioni. la ricerca, eseguita nel corso dell’anno 2012, venne suscitata in vista delle iniziative dell’Istituto in occasione del Bi-millenario della morte di Augusto nel 2014. sono grato al prof. paolo sommella per avermi allora coinvolto nelle attività dell’Istituto e per avermi indirizzato verso un così fecondo cam-po di indagine, che consente di poter meglio apprezzare la vastità, la complessità e l’interrela-zione tra le diverse manifestazioni del Bimillenario Augusteo del 1937-1938. sono altresì grato al personale dell’Istituto nazionale di studi romani per la costante ospitalità ed amicizia di-mostrate, che mi hanno consentito di svolgere le ricerche nel migliore dei modi possibili, ed in particolare al direttore dott.ssa letizia lanzetta, al direttore associato dott. massimiliano ghilardi ed al responsabile dell’Archivio e della Biblioteca dott.ssa laura Bertolaccini.

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Il Convegno Augusteo del 1938 359

zione di un «Corpus delle vestigia augustee», c) una serie di confe-renze spesso denominate nei documenti d’archivio «conferenze cele-brative del Bimillenario Augusteo» e destinate infine a tenersi negli a.a. 1936-1937 e 1937-1938 dei Corsi superiori di studi romani (1).

Alla vigilia dell’inaugurazione del Bimillenario del 1937-1938, dal programma delle celebrazioni spicca tuttavia per la sua assenza pro-prio il Convegno Augusteo, come ben si evince anche dalla lettura della pubblicazione L’Istituto di Studi Romani per la celebrazione del Bimillenario Augusteo, nell’edizione recante in copertina e nel fronte-spizio la data del 23 settembre 1937 (2). si tratta del giorno inaugurale dell’«anno bimillenario», a sua volta coincidente con la data d’inau-gurazione della mostra Augustea della romanità. dal complesso delle pubblicazioni e, soprattutto, dei materiali d’archivio esaminati, emer-ge infatti come l’illustrazione di temi augustei in sedi diverse rispet-

(1) vd. più approfonditamente infra. le espressioni «Corpus delle vestigia augustee», «conferenze celebrative del Bimillenario Augusteo», «anno bimillenario» ed i riferimenti all’«Impero» si rinvengono in numerosi documenti d’Archivio consultati e segnalati infra nel-le note. In queste ultime e nel testo ho rispettato l’impiego delle maiuscole così come di vol-ta in volta se ne rinviene l’uso nelle fonti archivistiche e nella bibliografia esaminate, benché esso non sia sempre univoco ed anzi appaiano non poche varianti. Analogamente, nella tra-scrizione delle fonti ho mantenuto, ove ricorrente, tanto il sottolineato quanto l’uso del ma-iuscolo per interi sostantivi o nomi propri. nell’indicazione delle fonti dell’Archivio dell’Isti-tuto nazionale di studi romani ho impiegato le seguenti abbreviazioni: AInsr = Archivio dell’Istituto nazionale di studi romani; Ag = Affari generali; b. = busta; CCm = Congres-si, Convegni e mostre; Cssr = Corsi superiori di studi romani; f. = fascicolo; rsm= re-gistri, schedari, materiali di grande formato, rotoli e ritagli; s. = serie; sott. = sottofascicolo; sub sott. = sub sottofascicolo. ove non diversamente indicato, i riferimenti alla corrispon-denza in partenza dall’Istituto di studi romani, usualmente a firma di Carlo galassi paluz-zi, sono da intendersi rivolti alle relative veline. nell’indicazione del titolo dei fascicoli e dei sottofascicoli, ho riportato di volta in volta o il titolo che si rinviene sul fascicolo o sul sot-tofascicolo medesimo o l’indicazione che è annotata negli inventari, consultabili presso l’Isti-tuto nazionale di studi romani, in ragione della maggiore descrittività dell’uno o dell’altra. sull’Archivio dell’Istituto vd. C. lodolini TuppuTi, L’Archivio storico dell’Istituto Naziona-le di Studi Romani, ead., L’Archivio storico dell’Istituto Nazionale di Studi Romani. II: I Cor-si superiori di Studi Romani (1926-1987) ed ead., L’Archivio storico dell’Istituto Nazionale di Studi Romani. III: Le sezioni (1933-1971), tutti in «studi romani», rispettivamente XlIII (1995), 3-4, pp. 438-442, XlIv (1996), 1-2, pp. 213-239 e XlIv (1996), 3-4, pp. 517-538. nell’indicazione delle fonti dell’Archivio Centrale dello stato in roma ho impiegato le ab-breviazioni d’uso corrente.

(2) L’Istituto di Studi Romani per la celebrazione del Bimillenario Augusteo, roma 1937. tre copie di questa pubblicazione, di cui esistono – oltre a quella qui presa in considerazio-ne – anche un’edizione qualificata come «provvisoria» ed una realizzata alla fine dell’«anno bimillenario» e comprendente pure il Convegno Augusteo, sono ora conservate in AInsr, s. CCm, b. 212, f. 21. Cfr. infra nota 20.

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to al progettato «Corpus delle vestigia augustee», fosse stata affidata sino dal principio alla serie di conferenze inserite nei Corsi superiori piuttosto che ad un unico, grandioso ma isolato evento. questa stes-sa ragione è forse ed almeno in parte anche alla base dell’abbandono del progetto, pur in principio accolto favorevolmente, di inserire nel-le celebrazioni anche un Congresso Internazionale di Archeo logia (3). peraltro, nella sua configurazione definitiva, il Convegno Augusteo non si concretizzò in effetti come un incontro di studi ma come un incontro di studiosi italiani ed esteri, invitati a presenziare ai mag-giori eventi di chiusura dell’«anno bimillenario» ed a visitare luoghi d’interesse augusteo i cui scavi erano stati particolarmente ripresi ne-gli ultimi anni. È quindi necessario, per meglio definire il Convegno Augusteo, soffermarsi brevemente sullo sviluppo dell’idea delle cele-brazioni augustee e sul relativo programma (4).

(3) sul progetto, presto abbandonato, relativo al Congresso Internazionale di Archeolo-gia, vd. infra anche per i riferimenti alla documentazione d’Archivio. neppure si deve dimen-ticare la coincidenza temporale tra i festeggiamenti del Bimillenario Augusteo ed un ulteriore evento organizzato dall’Istituto: il v Congresso nazionale di studi romani, tenuto a roma tra il 24 ed il 30 aprile 1938, dedicato proprio al tema La missione dell’Impero di Roma nella storia della civiltà e destinato a figurare tra le iniziative del Bimillenario del 1937-1938, come si evince anche da L’Istituto di Studi Romani per la celebrazione, cit., pp. 12-15. Circa i lega-mi tra il v Congresso nazionale di studi romani ed il Bimillenario Augusteo vd. AInsr, s. CCm, b. 123, f. 3 Preliminari, sott. Presidenza del Consiglio. È interessante notare come il v Congresso nazionale, inizialmente in programma sino dal 1936 per il periodo 24-30 settembre 1937, venisse in seguito – per impulso dell’Istituto – posticipato in primo luogo per evitare la sovrapposizione con le cerimonie inaugurali della mostra Augustea della romanità: vd. diffu-samente nei singoli fascicoli che compongono la citata b. 123 della s. CCm ed in particolare vd. il f. 8 Giunta Direttiva, sott. Giglioli G.Q. per lo scambio di lettere tra C. galassi paluzzi e g. q. giglioli sul punto. Circa il tema fondamentale del v Congresso nazionale vd. anco-ra infra nel testo e nota 38. successivamente le nuove date del Congresso, 9-14 maggio 1938, dovettero essere ulteriormente modificate: vd. per le ragioni il verbale della giunta direttiva del v Congresso nazionale di studi romani in AInsr, s. CCm, b. 123, f. 9 Giunta Diretti-va. Verbali delle Sedute, sott. Verbale del 22-1-1937 ed ivi pp. 1-2 del verbale.

(4) una sorta di preliminare delle attività destinate a concretizzarsi in occasione delle ce-lebrazioni del Bimillenario Augusteo è già rinvenibile all’interno del I Congresso nazionale di studi romani, tenutosi in roma dal 21 al 26 aprile 1928 e dedicato al tema fondamentale L’ordinamento nazionale degli Studi Romani in Italia. Ci si riferisce ad una relazione di giu-lio q. giglioli in cui lo studioso, ricollegandosi all’esperienza della mostra Archeologica del 1911 nelle terme di diocleziano e ricordando la recente inaugurazione del museo dell’Im-pero romano nella sede del Convento di sant’Ambrogio, distingueva tra il compito e le po-tenzialità del museo e quelle dell’Archivio. In particolare, quest’ultimo sarebbe dovuto dive-nire il luogo di elezione per una catalogazione centrale e generale dei documenti archeologici pertinenti l’antichità romana: vd. G. Q. GiGlioli, Organizzazione della raccolta dei documenti

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Il Convegno Augusteo del 1938 361

È in occasione del II Congresso nazionale di studi romani, svol-tosi a roma dal 24 al 29 aprile 1930 e dedicato al tema fondamenta-le Mezzi e metodi: la creazione dello Schedario Centrale di Bibliografia Romana, che, sulla base del largo consenso riscontrato anche all’este-ro in occasione del Bimillenario virgiliano e nel clima dell’«Italia nuo-va», appare per la prima volta l’idea di un articolato progetto per la celebrazione del Bimillenario Augusteo. Ci si riferisce alla relazione di giulio q. giglioli Per il secondo millenario di Augusto, culmina-ta con la proposizione e l’approvazione di un ordine del giorno che costituirà la base dei programmi per il Bimillenario (5).

successivamente, nel periodo intercorrente tra il II ed il III Con-gresso nazionale di studi romani, il programma delle iniziative per il Bimillenario Augusteo venne affinato, mentre su proposta di gi-glioli la presidenza del Consiglio, tra maggio e giugno 1932, approva-va la realizzazione della mostra Augustea della romanità, un evento in principio non previsto e del quale giglioli veniva nominato diret-tore generale, definendo altresì, su indicazioni dello stesso giglioli, un Comitato ordinatore della mostra all’interno del quale era an-

archeologici della romanità, in Atti del I Congresso Nazionale di Studi Romani, I, roma 1929, pp. 63-74 (71-74). l’espressione «anno bimillenario» per indicare il periodo dal 23 settembre 1937 al 23 settembre 1938 ricorre – come evidenziato supra in nota 1 – nelle fonti dell’epo-ca: vd. ad esempio L’inizio delle celebrazioni del Bimillenario Augusteo, in «rassegna d’infor-mazioni dell’Istituto di studi romani», v (1937), 20-21, p. 1.

(5) vd. G. Q. GiGlioli, Per il secondo millenario di Augusto, in Atti del II Congresso Nazionale di Studi Romani, I, roma 1931, pp. 277-280 (280), fondamentale per inquadra-re correttamente sino da ora il valore del Bimillenario del 1937-1938 nell’ideologia dell’Ita-lia fascista e del suo rapporto con roma antica: «Il II Congresso nazionale di studi romani, udita la relazione del prof. giulio q. giglioli, acclama l’idea di festeggiare il secondo mille-nario della nascita dell’Imperatore Augusto e fa sua la proposta del relatore di compiere per tale occasione le seguenti opere: 1° - Isolamento e sistemazione definitiva del mausoleo di Augusto; 2° - scavo definitivo, ricomposizione e degno collocamento in roma dell’Ara Pa-cis; 3° - restauro e studio di altri monumenti augustei dell’Italia e dell’Impero; 4° - pubbli-cazione di una serie di monografie di carattere scientifico che illustrino la storia e la civiltà di Augusto, dell’Italia e del mondo romano, al principio dell’Impero; 5° - promozione di ci-cli di conferenze in roma ed in altri centri italiani, incaricando la presidenza dell’Istituto di studi romani di farsi centro presso le varie autorità di tali iniziative in modo che i festeggia-menti riescano solenni, degni di Augusto e dell’Italia nuova». su g. q. giglioli vd. ora so-prattutto M. BarBanera, s.v. Giglioli, Giulio Quirino, in «dizionario Biografico degli Italia-ni», lIv, roma 2000, pp. 707-711 e cfr. la complessiva definizione della sua figura di uomo e di studioso contenuta in a. pasQualini, L’antiquaria di gesso: passato e futuro del Museo della Civiltà Romana all’EUR, in «mediterraneo Antico», IX (2006), 2, pp. 631-646 (636, nota 25).

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che Carlo galassi paluzzi fondatore e futuro presidente dell’Istituto di studi romani (6).

(6) scriveva in proposito G. Q. GiGlioli, La Mostra Augustea della Romanità, in Atti del III Congresso Nazionale di Studi Romani, a cura di C. galassi paluzzi, I, Bologna 1935, pp. 135-143 (135): «la costituzione d’una sezione della vita romana era stata infatti da me pro-gettata (e ne riferii al I Congresso di studi romani) come complemento indispensabile del museo dell’Impero e a questo scopo avevo già iniziato la raccolta del materiale. Fu solo in seguito che si concretò in me l’idea dell’importanza singolare che una mostra della romani-tà poteva assumere in occasione del bimillenario della nascita del fondatore dell’Impero e tale idea ebbi l’onore di manifestare a s.e. il Capo del governo in un’udienza che mi concedè il 18 maggio dell’anno passato». In realtà non mancarono alcuni dissapori, destinati a rientra-re, tra g. q. giglioli e C. galassi paluzzi circa l’ascrivibilità dell’idea della mostra al museo dell’Impero romano o all’Istituto di studi romani ed anche in merito alla decisione del suo inserimento nelle manifestazioni del Bimillenario. per un quadro del problema vd. soprattut-to il carteggio del 15 e 16 gennaio 1932 tra Antonio m. Colini, all’epoca ispettore archeolo-go del governatorato di roma e componente la Commissione direttiva del museo dell’Im-pero romano, e C. galassi paluzzi, in AInsr, s. CCm., b. 213, f. 35, sott. Carteggio con i membri della Commissione, sub sott. Colini; il verbale della giunta direttiva dell’Istituto del 12 febbraio 1932 in AInsr, b. 213, f. 35, sott. Lettere di convocazione e copie verbali, sub sott. Lettere di convocazione, ed il carteggio tra g. q. giglioli e C. galassi paluzzi in AIn-sr, s. CCm, b. 213, f. 34, sott. Bimillenario Augusteo. Mostra Romanità. Giglioli, con parti-colare riguardo alle lettere del 7, 8, 11 e 13 luglio 1932. si veda poi il verbale della riunione nel luglio 1932 dal Comitato ordinatore della mostra in AInsr, s. CCm., b. 213, f. 35, sott. Lettere di convocazione e copie verbali, sub sott. Copie verbali, ed il verbale n. 1, in data 20 dicembre 1933, della Commissione direttiva per il Bimillenario in AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Verbali. un ulteriore spunto di attri-to fu comunque rappresentato dalla carta intestata della mostra, che avrebbe infine riporta-to la doppia intestazione “museo dell’Impero romano - Istituto di studi romani”, ma che in principio recava la sola indicazione del primo ente: vd. la lettera del 20 marzo 1933 di C. galassi paluzzi a g. q. giglioli in AInsr, s. CCm. b. 213, f. 35, sott. Carteggio con i mem-bri della Commissione, sub sott. Giglioli. sull’intera vicenda vd. in particolare f. sCriBa, Au-gustus im Schwarzhemd? Die mostra Augustea della romanità in Rom 1937/38, Frankfurt am main-Berlin 1995, pp. 52-60. sulla mostra Augustea della romanità, la cui trattazione si so-vrappone talvolta a quella dell’intero Bimillenario e viceversa, vd. soprattutto a. M. liBera-Ti silverio, La Mostra Augustea della Romanità, in Dalla mostra al museo. Dalla Mostra ar-cheologica del 1911 al Museo della civiltà romana, a cura di g. pisani sartorio - d. mancioli - A. m. liberati silverio - v. Fioravanti, Catalogo della mostra di roma, museo della Civiltà ro-mana, giugno-dicembre 1983, venezia 1983, pp. 77-90; G. pisani sarTorio, La Mostra Augu-stea della Romanità (1937-1938), il Palazzo delle Esposizioni e l’ideologia della romanità e a. M. liBeraTi silverio, La Mostra Augustea della Romanità. L’allestimento della facciata, il pro-getto e l’organizzazione delle sale, il consuntivo della manifestazione, l’eredità, entrambi in Il Palazzo delle Esposizioni, a cura di r. siligato - m. e. tittoni, Catalogo della mostra di roma, palazzo delle esposizioni, 12 dicembre 1990 - 14 gennaio 1991, roma 1990, rispettivamente pp. 219-221 e pp. 223-227; f. sCriBa, Augustus im Schwarzhemd ?, cit.; id., Il mito di Roma, l’estetica e gli intellettuali negli anni del consenso: la Mostra Augustea della Romanità 1937/38, in «quaderni di storia» 41 (gennaio-giugno 1995), pp. 67-84; id., The sacralization of the Ro-man past in Mussolini’s Italy. Erudition, aesthetics, and religion in the Exhibition of Augustus’ Bimillenary in 1937-1938, in «storia della storiografia», 30 (1996), pp. 19-29; id., Die Mostra

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Il Convegno Augusteo del 1938 363

uno degli argomenti di maggiore interesse del Convegno Augu-steo è la presenza ed il ruolo degli studiosi stranieri nel Bimillenario: presenza e ruolo che erano stati già discussi negli anni dell’ideazio-

Augustea della Romanità in Rom 1937/38, in Faschismus und Gesellschaft in Italien. Staat - Wirtschaft - Kultur, hrsg. von J. petersen - W. schieder, Köln 1998, pp. 133-157; J. W. arThurs, (Re)Presenting Roman History in Italy, 1911-1955, in Nationalism Historiography and the (Re)Construction of the Past, ed. by C. norton, Washington 2007, pp. 27-41 (33-35); a. ar-Genio, Il mito della romanità nel ventennio fascista, in Il mondo classico nell’immaginario con-temporaneo, a cura di B. Coccia, roma 2008, pp. 81-177 (131-138); f. MarCello, Mussolini and the idealization of Empire: the Augustan Exhibition of Romanità, in «modern Italy», XvI (2011), 3, pp. 223-247; e. silverio, Un’interpretazione dell’idea di Roma. La Sala XXVI del-la Mostra Augustea della Romanità, in «studi romani», lIX (2011), 1-4, pp. 307-331; J. arThurs, Excavating Modernity. The Roman Past in Fascist Italy, Itacha-new York 2012, pas-sim ed in modo particolare il cap. 4; a. M. liBeraTi, Romanità e Fascismo. Il ruolo del mito di Roma nella genesi del Museo della Civiltà Romana, in Le mythe de Rome en Europe: mo-dèles et contre-modèles, éds. J. C. d’Amico - A. testino zafiropoulos - p. Fleury - s. madelei-ne, Actes du Colloque de Caen, université de Caen Basse-normandie, 27-29 novembre 2008, Caen 2012, pp. 341-358; ead., Le musée-témoin d’une civilisation disparue: le musée de la Ci-vilisation romaine, in Lieux de mémoire, musées d’histoire, éds. e. pénicaut - g. toscano, Ac-tes du Colloque de paris, Institut national du patrimoine, 18-19 juin 2009, paris 2012, pp. 117-125; a. Giardina, Augusto tra due bimillenari, in AVGVSTO, a cura di e. la rocca - C. parisi presicce - A. lo monaco - C. giroire - d. roger, Catalogo della mostra di roma, scu-derie del quirinale, 18 ottobre 2013 - 9 febbraio 2014, milano 2013, pp. 57-72 (passim) e M. Carli, Esibire il passato imperiale. L’immagine della romanità nelle mostre fasciste del 1937, in «visual history» I (2013), pp. 11-35 (16-19). su Carlo galassi paluzzi vd. ora soprattutto B. CoCCia, Carlo Galassi Paluzzi. Bibliografia e appunti biografici, roma 2000 e a. viTToria, L’Istituto di Studi Romani e il suo fondatore Carlo Galassi Paluzzi dal 1925 al 1944, in Il clas-sico nella Roma contemporanea. Mito, modelli, memoria, Atti del Convegno di roma, Istitu-to nazionale di studi romani, 18-20 ottobre 2000, a cura di F. roscetti con la collaborazio-ne di l. lanzetta e l. Cantatore, II, roma 2002, pp. 507-537. su A. m. Colini vd. Antonio Maria Colini, archeologo a Roma. L’opera e l’eredità, a cura di m. Buonocore - g. pisani sar-torio, Atti del Convegno di roma, sala della protomoteca Capitolina, 18 novembre 1998, in «rendiconti della pontificia Accademia romana di Archeologia», lXX (1997-1998), pp. 1-317. quanto alla denominazione del gruppo di lavoro della mostra Augustea della roma-nità, essa figura essere quella di “Comitato ordinatore” negli atti governativi della sua istitu-zione, vd. ACs, pCm, anni 1937-’39, f. 14/1, n. 918, sott. 2 Comitato ordinatore della Mo-stra, b. 2493, mentre invece altrove – senza possibilità di confusione con altri gruppi di lavoro di cui pure facevano taluni degli studiosi che prestavano la loro opera per la mostra – compare quella di “Commissione direttiva”: vd. ad esempio in AInsr, s. CCm., b. 213, f. 35, sott. Lettere di convocazione e copie verbali, sub sott. Copie verbali. nel Catalogo della mostra si parlerà poi soltanto di “Commissione direttiva”: vd. G. Q. GiGlioli, Presentazio-ne, in Mostra Augustea della Romanità, I, a cura di r. vighi - C. Caprino, Catalogo della mo-stra di roma, palazzo delle esposizioni, 23 settembre 1937 - 23 settembre 1938, roma 19384 (definitiva), pp. xi-xxii (xx-xxi), nonché Mostra Augustea della Romanità, I, cit., pp. xxv e xxvii. la mostra Augustea della romanità venne comunque prorogata e chiusa solennemen-te il 6 novembre 1938: vd. ACs, pCm, anni 1937-’39, f. 14/1, n. 918, sott. 12 Cerimonie di chiusura della Mostra, b. 2494 e cfr. infra nota 28.

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ne e programmazione del Corpus delle vestigia augustee e delle con-ferenze celebrative. la partecipazione di studiosi stranieri era infat-ti un tema tanto ineludibile quanto problematico, poiché si trattava di conciliare contemporaneamente diverse istanze, tra loro intrecciate ma potenzialmente confliggenti. Il Bimillenario infatti non venne mai percepito soltanto quale semplice ricorrenza storica, ma anzi sino dal principio fu inteso come evento da attualizzare per rimarcare il lega-me tra l’antico e l’«Italia nuova». Così, nel caso della partecipazione degli stranieri, irrinunciabile da un punto di vista scientifico, occor-reva valutare non solo la dimensione “nazionale” ed universale della ricorrenza, ma anche la posizione nei confronti dei sistemi democra-tici di un regime totalitario che si richiamava a roma antica. A pre-valere, sino appunto dalla preparazione del Corpus e delle conferenze celebrative, non sarà una chiusura preventiva o assoluta rispetto agli studiosi stranieri, quanto piuttosto la necessità di selezionare costo-ro tra quelli che fossero o tendenzialmente più vicini alla politica ita-liana o comunque di chiara ed indiscussa fama e comunque sempre, per quanto possibile, rapportando ogni contatto al piano dei rappor-ti personali tra studiosi, onde evitare che gli stranieri si trasformas-sero in una sorta di altrettanti rappresentanti ufficiali dei rispettivi pae si. Contemporaneamente, però, come si dirà, ciò non impedì mai agli organizzatori del Bimillenario di vantare la presenza di studio-si stranieri, accordando loro un particolare risalto. di notevole inte-resse è quindi la relazione tenuta da galassi paluzzi al III Congresso nazionale di studi romani, svoltosi a roma tra il 22 ed il 27 aprile 1933 sui due temi fondamentali La celebrazione del Bimillenario Au-gusteo e La rinascita dello studio e dell’uso della lingua latina (7). sino

(7) C. Galassi paluzzi, Per la pubblicazione di un «Corpus» delle vestigia augustee e per un ciclo di conferenze celebrative del Bimillenario Augusteo, in Atti del III Congresso Naziona-le di Studi Romani, a cura di C. galassi paluzzi, I, Bologna 1935, pp. 277-281. l’idea di «ve-stigia» era peraltro abbastanza ampia e comprendeva «anche tutto quanto le arti figurative in genere, nonchè l’epigrafia, la numismatica, la glittica, ci hanno conservato e ci vanno sve-lando» circa la «grande epopea augustea», vd. ibidem, p. 277. quest’idea ampia di «vestigia» sembra in parte sovrapporsi a quella di «memorie augustee» espressa negli appunti della se-duta del 7 gennaio 1933 della sezione Antichità riunita in vista del III Congresso nazionale di studi romani, presenti giglioli, pietro romanelli e Colini: «le memorie augustee posso-no essere quelle che hanno un diretto riferimento alla persona di Augusto e quelle che inve-ce, sia pure indirettamente, a lui e da lui si sono ispirate»: vd. AInsr, s. CCm, b. 212, f. 22, sott. B.A. CORPUS. Preliminari. Sedutina in cui sono presenti considerazioni in realtà perti-nenti svariati aspetti del Bimillenario e quindi non solo del Corpus. la circostanza che le «ve-

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da questa occasione si stabiliva come lo studio e l’illustrazione delle materie augustee sarebbe spettato, quasi naturalmente, agli studiosi italiani cioè agli eredi diretti, nella prospettiva dell’epoca, di roma e dell’Italia antica. Il ricorso agli stranieri, invece, sarebbe dovuto es-sere solo eventuale, legato a competenze scientifiche universalmen-te riconosciute e comunque non avrebbe dovuto riguardare tre temi: a) Augusto, la sua dipendenza da Cesare e la fondazione del princi-pato, b) «cosa l’opera di Augusto abbia significato per l’unificazione dell’Italia», c) «i rapporti tra l’Italia augustea e l’Italia di oggi» (8). si

stigia augustee» tendessero ad identificarsi con le «memorie augustee» di carattere non solo monumentale risulta ad esempio anche da AInsr, s. CCm, b. 212, f. 24, sott. B.A. Corpus. Verbali delle Sedute (della Commissione direttiva), sub sott. Verbale della seduta del 9 luglio 1935. Il progetto di pubblicazione del Corpus delle vestigia augustee, così come originaria-mente ideato, fu in realtà gravato da numerose difficoltà nonostante l’elargizione di contri-buti da parte del ministero dell’educazione nazionale e del Banco di roma: vd. AInsr, s. CCm, b. 212, f. 25. Alcune delle ricerche vennero comunque edite nelle serie dei Quaderni dell’Istituto ed infine, non casualmente, in L’Istituto di Studi Romani per la celebrazione, cit., p. 1, non compare comunque la menzione del Corpus ma più genericamente si parla di «vo-lumi illustranti la figura e l’opera di Augusto». sul progetto del Corpus vd. anche s. CCm, b. 209, f. 5, sott. Bimillenario Augusteo. Udienza D 1935.

(8) vd. C. Galassi paluzzi, Per la pubblicazione, cit., pp. 278 e 280-281. Circa il ruolo degli studiosi stranieri e con riguardo al Corpus vd. il verbale n. 1 del 20 dicembre 1933 del-la Commissione direttiva per il Bimillenario Augusteo in AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Comissione Direttiva. Verbali, ed ivi p. 3. In precedenza la questione della partecipazione degli studiosi stranieri alle celebrazioni del Bimillenario era stata affron-tata sino dal febbraio 1932 e impostata in modo abbastanza più drastico, disponendo cioè che le conferenze celebrative fossero eseguite solo da studiosi italiani ed ipotizzando un’azione diplomatica tesa a suscitare celebrazioni augustee anche all’estero ad opera di studiosi este-ri: vd. AInsr, s. CCm, b. 215, f. 35, seduta della giunta direttiva del 12 feb braio 1932, pp. 4-5. le ragioni di tale orientamento iniziale venivano ufficialmente identificate nell’origina-ria previsione di sole dieci conferenze, nella conseguente difficoltà di scelta degli stranieri, nell’immancabile questione delle spese ed infine nella possibilità di suscitare «incomprensio-ni e malumori» tra gli stranieri esclusi. maggiore apertura è invece testimoniata dagli appunti della già citata seduta del 7 gennaio 1933 della sezione Antichità riunita in vista del III Con-gresso nazionale di studi romani in cui, con riferimento all’intero complesso delle celebra-zioni, si legge al primo punto la raccomandazione, relativa ai rapporti con l’estero, di invita-re «piuttosto studiosi che istituzioni (per quanto riguarda l’estero)»: vd. AInsr, s. CCm, b. 212, f. 22, sott. B.A. CORPUS. Preliminari. Sedutina e cfr. supra, nota 7. È interessante no-tare come in seguito l’Istituto tentasse comunque, di concerto con il ministero degli Affari esteri, di progettare la partecipazione di insegnanti statunitensi di scuola superiore alle ce-lebrazioni attraverso la promozione di manifestazioni da tenersi negli u.s.A. Il progetto non giunse a realizzazione. Il relativo carteggio, indirizzato anche a giglioli, va dall’aprile al lu-glio 1937 ed è consultabile in AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Stati Uniti. pressoché nel-lo stesso periodo, l’Istituto collaborava stabilmente nel fornire alle rappresentanze diploma-tiche all’estero i necessari sussidi per l’esecuzione di incontri celebrativi del Bimillenario. In

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tratta di temi in larga parte destinati a ripresentarsi nell’organizzazio-ne del Convegno Augusteo e specie quando esso si configurava an-cora come incontro di studi e quindi sembra qui opportuno eviden-ziare, sino dalla prima metà degli anni trenta, le ragioni, le origini e gli sviluppi di scelte destinate a ripresentarsi.

terminato il III Congresso, è possibile osservare in che modo l’Isti-tuto si apprestasse alla redazione del programma del Bimillenario in vista della presentazione dello stesso al capo del governo. venne in-fatti creata una commissione composta da roberto paribeni, giglio-li, galassi paluzzi, allora direttore dell’Istituto, e da pietro tricarico, direttore generale delle Belle Arti (9). In particolare, al principio del

questo contesto è altamente significativo che quale sorta di modello di conferenza da tener-si all’estero su Augusto fosse trasmesso il testo della conferenza di giuseppe Bottai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi: vd. ad es. AInsr, s. CCm, b. 216, f. 53 e f. 54, sott. Arabo Sau-diano, sott. Australia, sott. Austria e sott. Bolivia. la conferenza venne tenuta sabato 20 feb-braio 1937 nell’ambito dell’XI a.a. dei Corsi superiori di studi romani, 1936-1937, inaugu-ratosi presso l’oratorio borrominiano della Chiesa nuova il 12 dicembre 1936 alla presenza del principe di piemonte, dello stesso Bottai quale ministro dell’educazione nazionale e del governatore di roma. nell’occasione la prolusione venne affidata a Carlo Formichi che par-lò su Roma nell’opera Shakespeare, un tema tutt’altro che privo di risvolti ideologico-politi-ci: vd. la cronaca dell’evento in L’inaugurazione dell’XI Anno Accademico dei Corsi Superio-ri di Studi Romani, in «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi romani», v (1937), 1, pp. 1-2. Il testo di Bottai venne poco dopo pubblicato come n. I dei Quaderni Augustei. Stu-di italiani: vd. G. BoTTai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, roma 19372. la genesi e l’or-ganizzazione della conferenza, cui assistette anche la principessa maria di savoia, è ampia-mente documentata ed è anzi possibile rilevare come fosse stato galassi paluzzi a proporre la conferenza a Bottai con il titolo che poi divenne definitivo e ad identificare minutamente gli stessi argomenti che avrebbero dovuto essere trattati: vd. ampiamente AInsr, s. Cssr, b. 48, f. 5 1937. La figura e l’opera di Augusto. Conferenza di S.E. Bottai in cui si rinviene anche una nota biografica del ministro, in sostanza presentato come il modello dell’ “uomo nuovo” fascista, del “romano della modernità” capace di fondere pensiero e azione. In seguito Bot-tai inaugurerà il XIII a.a., 1938-1939, dei Corsi con la prolusione Roma nella scuola italia-na: vd. AInsr, s. Cssr, b. 80, f. 1 e G. BoTTai, Roma nella scuola italiana, roma 1939. sul rapporto tra Bottai e l’Istituto di studi romani vd. r. visser, Da Atene a Roma, da Roma a Berlino. L’Istituto di Studi Romani, il culto fascista della romanità e la «difesa dell’umanesi-mo» di Giuseppe Bottai (1936-1943), in Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von Fa-schismus und Nazionalsozialismus, Kolloquium universität zürich 14.-17. oktober 1998, hrsg. von B. näf unter mitarbeit von t. Kammasch, mandelbachtal-Cambridge 2001, pp. 111-123 e J. nelis, La ‘fede di Roma’ nella modernità totalitaria fascista: il mito della romanità e l’Isti-tuto di Studi Romani tra Carlo Galassi Paluzzi e Giuseppe Bottai, in «studi romani», lvIII (2010), 1-4, pp. 359-381.

(9) Cfr. la lettera di convocazione da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 14 dicem-bre 1933 in AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Giglioli. tuttavia già in data 18 febbraio 1931 galassi paluzzi, in relazione all’ordine del giorno votato nel II Congresso nazionale, solleci-tava giglioli a stilare un «programma, diciamo, pratico, da sottoporre al nostro presidente e

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verbale n. 1 del 20 dicembre 1933 (10) viene evidenziata la necessità di operare sulla base di un programma articolato nei seguenti punti: la mostra Augustea della romanità, la ricostruzione dell’Ara Pacis, l’iso-lamento dell’Augusteo, un organico programma di scavi del mondo imperiale eseguito a cura delle rr. soprintendenze, la pubblicazio-ne di un Corpus delle vestigia augustee (11), ed infine un ciclo di con-ferenze celebrative del Bimillenario Augusteo. In seguito, di notevole interesse appare il verbale n. 2 del 28 dicembre 1933. dopo la lettura della relazione di galassi paluzzi, il conte Francesco pellati, presen-te in sostituzione del direttore generale delle Belle Arti e rappresen-tante, peraltro, dell’Italia all’interno del Comitato direttivo dei Con-gressi Internazionali di Archeologia, «fa presente tutta l’opportunità di vedere svolgere uno dei detti Congressi in roma e in occasione del Bimillenario Augusteo» (12). gli altri commissari presenti, lo stesso galassi paluzzi e giglioli, approvano. tuttavia, pochi giorni dopo, la prospettiva del Congresso Internazionale di Archeologia organizzato e patrocinato dall’Istituto di studi romani venne fortemente ridimen-sionata e sostanzialmente accantonata, come documentato dalla lette-ra di galassi paluzzi a pellati del 29 gennaio 1934 titolata, per quan-to qui di interesse, Bimillenario augusteo / Congr. Intern. la ragione, come presentata da galassi paluzzi, consistette nella circostanza che il Congresso non si sarebbe limitato ai soli temi di interesse romano, rientranti nell’attività dell’Istituto, ma sarebbe stato di più vasta por-tata e quindi tale da interessare piuttosto il r. Istituto di Archeologia e storia dell’Arte (13). In seguito alla lettera del 29 gennaio 1934 ed al

poi alle autorità competenti per poter vedere realizzate tutte le tue proposte»: vd. AInsr, s. CCm, b. 209, fasc. 2, sott. Giglioli.

(10) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Ver-bali, verbale n. 1 del 20 dicembre 1933.

(11) su questo progetto vd. AInsr, s. CCm, b. 212, ff. 22-27 e C. Galassi paluzzi, Per la pubblicazione, cit., pp. 277-280.

(12) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Verbali, verbale n. 2 del 28 dicembre 1933, p. 3. quanto alle conferenze celebrative, dalla p. 2 del verbale emerge come galassi paluzzi presentasse il programma per la parte a lui af-fidata e come questo coincidesse in sostanza con il contenuto della relazione tenuta nel III Congresso nazionale.(13) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Pellati, lettera da C. galassi paluzzi a F. pellati del 29 gennaio 1934, p. 2: «[…] roma e la latinità sono due temi così vasti che già bastano a so-verchiare le forze di un Istituto e non sarebbe quindi né possibile né giusto che l’Istituto di

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successivo scambio epistolare del mese di febbraio, non ricorre più la menzione del Congresso Internazionale di Archeologia in rapporto alle celebrazioni del Bimillenario Augusteo, benché l’idea di una riu-nione di studiosi fosse destinata a ripresentarsi in forme diverse.

pochi mesi dopo, approvato dalla presidenza del Consiglio il pro-gramma delle celebrazioni del Bimillenario (14), il museo dell’Impe-ro romano e l’Istituto di studi romani si vedevano affidato anche «il compito di attendere al coordinamento delle varie manifestazio-ni per la celebrazione Augustea e alla esecuzione del relativo pro-gramma» (15).

Il tema della presenza degli studiosi stranieri veniva trattato nella riunione dell’8 maggio 1935, presenti galassi paluzzi, paribeni e gi-

studi romani patrocinasse ed organizzasse un Congresso Internazionale che non fosse soltan-to limitato, come dianzi dicevo, ai problemi di interesse romano ma investisse tutti i campi dell’archeologia; […]». tuttavia galassi paluzzi non poteva, naturalmente, esprimere imme-diatamente un rifiuto netto e definitivo della proposta e quindi egli così terminava la lette-ra indirizzata a pellati: «Comunque è necessario che ella voglia, con la sua abituale cortesia, precisarmi il carattere e i limiti del Congresso Internazionale che dovrebbe aver luogo in oc-casione del prossimo Bimillenario Augusteo., (sic) in modo da potere con maggiore chiarezza comprendere come e quanto l’Istituto di studi romani potrebbe avere l’onore di partecipare alla importantissima iniziativa». Il seguente carteggio, che consta di due lettere, si rinviene in una diversa collocazione archivistica: AInsr, s. CCm, b. 209, f. 4, sott. Bimillenario Augu-steo. Varie. Congresso Int. di Archeologia. la prima lettera, da F. pellati a C. galassi paluz-zi, è datata 4 febbraio 1934, costituisce la replica a quella del 29 gennaio ed è un tentativo di patrocinare l’idea del Congresso in occasione del Bimillenario e, allo stesso tempo, di so-stenere la sua compatibilità con le attività dell’Istituto. dopo aver ricordato la mancata cele-brazione del vI Congresso a stoccolma, pellati scriveva infatti tra l’altro: «Io ho pensato al-lora che, saltato il turno del 33-34, il vI avrebbe potuto essere rinviato al 37-38, e che allora nessuna città era più indicata di roma a tenerlo, roma che celebrerà allora il bimillenario di Augusto, anche se il Congr. arch. Int. non comprende solo la Civiltà romana ma anche quel-le protostoriche, orientali, greca e cristiana. Comunque, roma è sempre il centro del mon-do antico; […]». la seconda lettera, da C. galassi paluzzi a F. pellati, è datata 24 febbraio e con essa galassi paluzzi, preso atto anche di quanto versato nella lettera del 4 febbraio ri-badiva che per patrocinare il Congresso Internazionale sarebbe stato maggiormente adatto il r. Istituto di Archeologia e storia dell’Arte. tuttavia conveniva sull’opportunità di tenere il Congresso Internazionale durante il Bimillenario Augusteo e, non escludendo la partecipa-zione o un patrocinio dell’Istituto, invitava pellati a scegliere un giorno utile per una riunio-ne cui avrebbe partecipato anche g. q. giglioli quale presidente della sezione Antichità dei Congressi nazionali di studi romani ed in cui raggiungere «conclusioni definitive» circa la partecipazione dell’Istituto all’iniziativa proposta da pellati.

(14) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Giglioli, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. gi-glioli del 28 marzo 1934.

(15) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Ver-bali, verbale n. 3 del 6 aprile 1934, p. 1.

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glioli. In particolare furono discussi i temi da fare svolgere agli stu-diosi stranieri nelle conferenze celebrative e la loro programmazio-ne negli a.a. 1936-1937 e 1937-1938 dei Corsi superiori: si tratta di problemi le cui soluzioni appaiono mosse, nelle loro linee essenziali, dalle stesse ragioni che presiederanno alla soluzione di questioni in larga parte analoghe e destinate a presentarsi durante la preparazio-ne del Convegno Augusteo. gli stranieri avrebbero dovuto illustrare gli studi augustei svolti nelle rispettive nazioni nel corso degli ultimi venti anni, i monumenti augustei eventualmente presenti in esse ed a loro sarebbe stata affidata «(quando si sia perfettamente sicuri dei loro sentimenti) l’illustrazione dell’influenza che l’opera di Augusto ha avuto nello svolgimento della civiltà presso questa o quella nazio-ne» (16). nella successiva riunione del 22 maggio 1935, presenti ga-lassi paluzzi, paribeni e giglioli, il programma delle conferenze ven-ne maggiormente delineandosi (17) e nella riunione del 9 luglio 1935

(16) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Ver-bali, verbale dell’8 maggio 1935, pp. 1 e 3. In precedenza il tema era stato affrontato anche nella riunione del 14 aprile 1934. vd. AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augu-steo. Commissione Direttiva. Verbali, verbale del 14 aprile 1934, pp. 5-6 (il verbale è privo di numerazione, ma si tratta di quello relativo alla seduta n. 4): «[…] galassi paluzzi infine rias-sume quanto da lui esposto in seno al Congresso per promuovere un ciclo di conferenze de-dicate ad illustrare l’epopea di Augusto, conferenze affidate a studiosi di tutto il mondo. la Commissione concorde approva che si affidino a studiosi italiani i tre temi suggeriti da galas-si paluzzi. si ha quindi un primo scambio di idee in merito agli studiosi stranieri da invitare e si nominano: / per la Francia: Carcopino - homo - durry / per la polonia: zielinski. stante l’ora tarda si rimanda ad un’altra seduta la compilazione dello schema per il ciclo di confe-renze e l’indicazione dei nomi dei conferenzieri. la seduta è tolta alle 19,30». sui temi indi-cati da galassi paluzzi, vd. supra nel testo e nota 8. un riferimento, nei mesi precedenti alla riunione dell’8 maggio 1935, al ruolo che gli studiosi stranieri avrebbero dovuto avere all’in-terno delle conferenze celebrative è contenuto ad esempio nella lettera di C. galassi paluzzi a r. paribeni del 12 febbraio 1935 in AInsr, s. CCm, b. 212, f. 22, sott. B.A. Corpus. Preli-minari. Paribeni = s. Cssr, b. 47, f. 4, sott. 1936-1937. Preliminari, sub. sott. 1936-1937. Pa-ribeni: «per quanto riguarda invece gli studiosi stranieri, mi sembrerebbe opportuno che ad essi, più che seguire quanto si è fatto per il Bimillenario oraziano (per il quale abbiamo chie-sto soltanto di parlare di orazio nelle letterature dei vari paesi) si chiedesse di parlare, qui in roma, o delle memorie augustee esistenti nella loro patria, o della influenza che l’opera di Augusto ha avuto nello sviluppo delle varie civiltà nazionali, oppure sugli studi d’interesse au-gusteo nei vari paesi». Identica lettera venne indirizzata in pari data a p. tricarico, vd. AIn-sr, s. CCm. b. 212, f. 22, sott. B.A. Corpus. Preliminari. Tricarico = s. Cssr, b. 47, f. 4, sott. 1936-1937. Preliminari, sub. sott. 1936-1937. Tricarico, ed a g. q. giglioli, per il quale vd. AInsr, s. Cssr, b. 47, f. 4, sott. 1936-1937. Preliminari, sub. sott. 1936-1937. Giglioli.

(17) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Verbali, verbale del 22 maggio 1935, p. 4 = s. CCm, b. 212, f. 24, B.A. Corpus. Verbali del-

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si definì che gli studiosi stranieri chiamati a partecipare a questa par-te delle celebrazioni sarebbero stati scelti tra quelli che già in passa-to avevano collaborato con l’Istituto (18). Conseguentemente, con let-tera del 19 luglio 1935 galassi paluzzi trasmetteva a giglioli l’elenco di tali studiosi stranieri affinché gli fosse utile «per la scelta dei con-ferenzieri» (19). Il piano completo delle conferenze e dei partecipanti, italiani e stranieri, venne successivamente elaborato e quindi inserito nella pubblicazione L’Istituto di Studi Romani per la celebrazione del Bimillenario Augusteo. tuttavia, come si è già segnalato, nell’edizio-ne di questa pubblicazione recante in copertina e nel frontespizio la data del 23 settembre 1937 nulla ancora emergeva rispetto all’orga-nizzazione o addirittura all’idea di un Convegno Augusteo (20). vedre-

le Sedute (della Commissione direttiva), sub. sott. Verbale della seduta del 22-5-1935, ivi p. 4 del verbale.

(18) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Bimillenario Augusteo. Commissione Direttiva. Ver-bali, verbale del 9 luglio 1935, p. 6 = s. CCm, b. 212, f. 24, B.A. Corpus. Verbali delle Sedu-te (della Commissione direttiva), sub. sott. Verbale della seduta del del 9 luglio 1935, ivi p. 6 del verbale.

(19) AInsr, s. CCm, b. 209, f. 2, sott. Giglioli, lettera di C. galassi paluzzi a g. q. gi-glioli del 19 luglio 1935 e cfr. il contenuto del verbale del 9 luglio 1935 indicato supra ed in nota 18 per la collocazione. È da evidenziare anche la lettera da g. q. giglioli a C. galassi paluzzi datata 16 settembre 1935 che, facendo seguito a quanto sinora descritto, esprime la posizione del primo rispetto ai temi che i conferenzieri stranieri avrebbero dovuto trattare. giglioli scriveva di ritenere che gli studiosi stranieri, salve eccezioni dovute alla particolare competenza in specifici campi, non avrebbero dovuto trattare se non dell’evoluzione che, nei rispettivi paesi, avevano avuto gli studi sulla figura di Augusto. In caso contrario, cioè affidan-do argomenti «politici» antichi a studiosi stranieri moderni, si sarebbe rischiato di confonde-re la nazione moderna con il contesto antico e così pretendere ad esempio di «far trattare da un greco moderno la battaglia di Filippi o quella d’Azio che furono azioni di guerra civile tra romani». Inoltre, gli stranieri «– dato il clima politico attuale – evidentemente farebbero una trattazione nazionale e perfino anti-romana». esisteva poi il rischio che essi avrebbero traspo-sto nell’attualità le “rivalità” antiche, come sarebbe potuto accadere, continuava giglioli, se a Jerome Carcopino fosse stata affidata la trattazione della difesa della frontiera renana contro i germani: vd. AInsr, s. Cssr, b. 47, f. 4, sott. 1936-1937. Preliminari, sub. sott. 1936-1937. Giglioli, in cui oltre all’originale vergato a mano esiste una copia dattilografata.

(20) tre copie di questa pubblicazione sono conservate in AInsr, s. CCm, b. 212, f. 21. Ibidem, pp. 4-5 vengono indicati i corsi di letture e le conferenze di interesse augusteo per gli a.a. 1936-1937 e 1937-1938 dei Corsi superiori di studi romani: si tratta, per ciascuno dei due anni accademici, di un ciclo dedicato a La figura e l’opera di Augusto e di uno dedi-cato a Gli studi stranieri sulla figura e l’opera di Augusto e sulla fondazione dell’Impero Ro-mano. Inoltre, ibidem, p. 15, è presente un cenno a sopralluoghi e visite «ai luoghi sacri alla figura e all’opera di Augusto». non credo si sia qui in presenza di un riferimento, eventual-mente indiretto, al Convegno Augusteo. Infatti alla data della stampa dell’edizione della pub-blicazione qui considerata, il Convegno non aveva ancora assunto la sua configurazione de-

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mo subito però come la mostra Augustea della romanità, inaugura-ta essa stessa il 23 settembre 1937, divenisse l’occasione per favorire un incontro internazionale destinato a trasformarsi proprio nel Con-vegno Augusteo.

nell’Archivio le testimonianze circa le origini e le primissime fasi del progetto che avrebbe condotto al Convegno Augusteo non sono molte e tra di esse quelle maggiormente risalenti, datate tra la fine di luglio e l’agosto 1937, sono in un carteggio tra C. galassi paluz-zi ed Arnaldo momigliano relativo a diverse iniziative del Bimillena-rio. si tratta soprattutto delle prime quattro lettere di una serie che giunge, limitandoci all’argomento del Convegno Augusteo, sino al 15 ottobre 1937 ed in cui osserviamo come momigliano rispondes-se, in modo particolare, alle richieste del presidente dell’Istituto cir-ca la segnalazione di studiosi «possibili partecipanti a un convegno augusteo». Contemporaneamente è interessante notare come le veline conservate in Archivio delle lettere spedite dall’Istituto siano già tito-late Bimillenario Aug. / Convegno Mondiale, salvo la prima del grup-po di quelle di nostro interesse, datata 30 luglio 1937, titolata Bimill. Augusteo / adunata mondiale. Con essa, facendo seguito ad un pre-cedente colloquio che non parrebbe aver lasciato tracce apprezzabili ma che dal complesso delle evidenze d’archivio potrebbe datarsi tra la fine di maggio ed il mese di giugno 1937, galassi paluzzi trasmet-teva a momigliano un elenco di possibili studiosi stranieri da invi-tare affinché lo storico avanzasse suggerimenti ed osservazioni. nel far ciò, scriveva il presidente dell’Istituto, occorreva che momigliano tenesse conto del fatto che «noi desideriamo riunire i rappresentan-ti veramente più illustri della scienza mondiale che da un punto di vista storico o ar cheo logico o artistico si siano occupati della figura dell’opera e dell’epoca di Augusto». la replica di momigliano è da-

finitiva, che pure in effetti lo rese in parte qualcosa di molto simile ad una visita «ai luoghi sacri alla figura e all’opera di Augusto». si è piuttosto in presenza di un riferimento a gene-riche e possibili iniziative future, come parrebbe confermato da L’inizio delle celebrazioni del Bimillenario Augusteo, in «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi romani», v (1937), 20-21, p. 1. Anche da questa pubblicazione, ibidem, nonché dal complesso di quanto versa-to nel successivo fascicolo di ottobre-novembre 1937, p. 8, si evince peraltro come l’Istitu-to tendesse a fare rientrare nell’alveo delle celebrazioni anche altri cicli di conferenze, come quelli dedicati a Le grandi strade del mondo romano, al Limes romano, a Roma e le Province oppure a L’Impero di Roma nelle monete e nelle medaglie, quest’ultimo indicato anche come L’Impero di Roma nella sua moneta.

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tata 4 agosto 1937 ed esprime alcune perplessità dovute ai nomi se-gnalati, proponendone diversi o ulteriori: in effetti, come risulta dal carteggio, per errore allo storico era stato inviato un elenco in parte diverso da quello che avrebbe dovuto essergli sottoposto. la successi-va lettera del presidente dell’Istituto a momigliano del 7 agosto 1937 conferma implicitamente, tra l’altro, l’esistenza di almeno un collo-quio precedente alla lettera del 30 luglio e vale comunque a chiarire lo scopo del Convegno ed i criteri posti a base della scelta dei pos-sibili invitati. Infatti, replicando alle osservazioni dello storico circa i nomi presenti nella lista acclusa alla precedente lettera da lui inviata, dopo aver dato atto dell’errore di cui sopra s’è detto, il presidente dell’Istituto scriveva: «[…] mi sembrava di averle detto che nell’in-vitare degli studiosi eminenti in occasione della celebrazione del Bi-millenario Augusteo, noi intendevamo non limitare la celebrazione a quella pura e semplice della figura di Augusto, ma di dare, natural-mente, particolarissimo risalto a questa figura facendo in modo però che il significato della celebrazione non avesse escluso la glorifica-zione dell’Impero in genere». Inoltre: «[…] pur volendo soprattutto invitare gli storici propriamente detti di Augusto e dell’Impero, non vogliamo però naturalmente escludere (sempre se ci sarà possibile far venire tanta gente) quegli studiosi che in modo eminente si sono di-stinti sia nel campo degli studi giuridici o letterari, o filologici ecc., co[n] riferimento alla epopea augustea, o, più latamente, all’Impero». nei mesi seguenti all’ottobre 1937, che peraltro conducono alla “svol-ta razziale” nella politica del regime fascista, il carteggio con momi-gliano su questi aspetti del Convegno cessa ed infine la questione de-gli studiosi stranieri da invitare sarà affrontata soprattutto con l’aiuto di g. q. giglioli. Ciò che interessa rilevare è però soprattutto il fat-to che almeno dal mese di luglio 1937 si stesse lavorando al futuro Convegno ed anzi sembra possibile che di esso avessero già parlato C. galassi paluzzi e g. Bottai, nonché forse lo stesso g. q. giglio-li, in un incontro del 21 giugno 1937 o, in seguito, a luglio, duran-te una seduta della neo-costituita Commissione per il Coordinamen-to delle manifestazioni del Bimillenario Augusteo, di cui è possibile sia stata un precedente la riunione del 21 giugno (21).

(21) quanto alle prime fasi del progetto del Convegno Augusteo, rilevo anzitutto come la consultazione del registro di protocollo della manifestazione permetta di giungere a ritroso

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Il Convegno Augusteo del 1938 373

mentre si andava svolgendo il carteggio tra C. galassi paluzzi ed A. momigliano, il 10 agosto 1937 Albert W. van Buren inviava

solo al 15 luglio 1938, data prima della quale evidentemente il Convegno non dovette avere un protocollo dedicato: vd. AInsr, s. rsm, Protocolli, CCM, quaderno 6 Convegno Augu-steo, da cui risulta anche che l’ultima lettera munita di questo protocollo fu quella, n. 1007, da C. galassi paluzzi ad e. strong del 15 maggio 1939, circa la quale vd. infra nel testo e nota 111. Circa il carteggio tra C. galassi paluzzi ed A. momigliano vd. soprattutto AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, sott. Momigliano in cui, tuttavia, oltre alla prima lettera del presidente dell’Istituto non se ne rinviene un’altra, questa volta di momigliano, che però, essendo cita-ta in una di galassi paluzzi del 9 settembre 1937, sappiamo essere stata datata 2 settembre. l’intero carteggio, che giunge – in questo sottofascicolo – sino al 15 ottobre 1937, riguar-da anche i Corsi superiori di studi romani, la correzione delle bozze della relazione di mo-migliano per gli Atti del Iv Congresso nazionale di studi romani e la partecipazione dello storico al v Congresso nazionale. la velina della lettera di C. galassi paluzzi ad A. momi-gliano del 30 luglio 1937 è invece in AInsr, s. Cssr, b. 64, f. 14, sott. A. Momigliano, all’in-terno del quale, peraltro, un appunto a matita rossa vergato nel retro di un biglietto di invi-to all’inaugurazione del IX a.a. dei Corsi superiori di studi romani avverte che «la pratica continua nell’archivio del “Bimillenario Augusteo”». la lettera di momigliano datata 2 set-tembre 1937 è invece in AInsr, s. CCm. b. 129, f. 25, sott. Momigliano e con essa lo stori-co spiegava la difficoltà di trattare in sede di comunicazione da tenersi nel v Congresso na-zionale di studi romani l’amplissimo tema proposto da C. galassi paluzzi con una lettera del 10 agosto 1937, cioè l’«influsso dell’impero nella storia dei popoli dell’oriente ellenico». per le ragioni di cui sopra, le veline di alcune lettere componenti il carteggio si rinvengono anche in altre collocazioni: vd., oltre a quelle già segnalate, AInsr, s. Cssr, b. 64, f. 9, sott. 1937-38 Momigliano. […]. non è da escludersi che dopo l’ottobre 1937 l’aiuto di momiglia-no per la selezione dei nomi non fosse più richiesto sia per le vicissitudini del progetto del Convegno – circa le quali vd. infra nel testo e nelle note – sia a causa della difficoltà dello storico ad “allinearsi” ai criteri informatori della manifestazione sotto il profilo della selezio-ne dei nomi, che del resto pare rinvenirsi diffusamente nel carteggio contenuto soprattutto in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, sott. Momigliano. I nomi proposti da A. momigliano in una lettera a C. galassi paluzzi del 4 agosto 1938 a fronte dell’elenco inviato dall’Istituto – ma in realtà solo in parte coincidente con quello approntato – erano: per la Francia J. gagé, per la germania W. Weber, h. Berve, h. siber e, a parte, e. norden, circa il quale egli annotava che «è probabile tuttavia che ragioni politiche ne sconsiglino l’invito». per l’Inghilterra veni-vano invece segnati h. last e W. W. tarn ed inoltre m. p. Charlesworth e r. syme, mentre per gli stati uniti erano indicati m. I. rostovtzeff – che nell’elenco inviato dall’Istituto figu-rava invece alla voce russia – ed A. d. nock. ulteriori studiosi, proposti in una lettera del 3 ottobre 1937, erano: per l’Inghilterra h. stuart Jones, per gli stati uniti F. B. marsh, per la germania v. Kahrstedt, per la Francia m. Besnier, per la svezia m. p. nilsson, per la da-nimarca Fr. poulsen e per la svizzera F. stähelin: vd. in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, sott. Momigliano. Circa la riunione del 21 giugno 1937 tra C. galassi paluzi e g. Bottai vd. inve-ce infra nota 27. Circa la costituzione di una Commissione per il Coordinamento delle ma-nifestazioni del Bimillenario Augusteo, vd. in AInsr, s. CCm, b. 209, f. 4, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale, la lettera di g. Bottai a C. galassi paluzzi datata 28 giugno 1937. una prima riunione avrebbe dovuto tenersi il giorno giovedì 1° luglio 1937 ma, a mezzo telegramma – vd. ibidem – venne rinviata al venerdì 2 luglio 1937. resta, natu-ralmente, il problema di comprendere a chi si debba l’idea del Convegno Augusteo. esisto-no numerosi elementi che paiono portare a ritenere si trattasse essenzialmente dello stesso

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a galassi paluzzi una lettera che consente di rintracciare, nell’Archi-vio dell’Istituto, un’altra significativa traccia dell’ideazione di quel-lo che sarebbe divenuto il Convegno Augusteo (22). A poco più di un mese di distanza dall’inaugurazione della mostra Augustea della ro-manità, infatti, lo studioso americano scriveva da Berlino al presiden-te dell’Istituto per domandare informazioni circa la partecipazione di studiosi stranieri alla cerimonia, facendosi sostanzialmente portavoce dei timori degli studiosi inglesi i quali, non avendo ricevuto alcun in-vito, temevano che «forse non sarebbero ben accolti se venissero» (23). van Buren, inoltre, riferiva in particolare il caso di hugh last, peral-tro pochi giorni prima ricordato a galassi paluzzi anche da momi-

C. galassi paluzzi, sostenuto da g. q. giglioli, piuttosto che di giuseppe Bottai: vd. infra nel testo e nelle note. per quanto riguarda invece le ragioni che dovettero spingere C. galas-si paluzzi ad interpellare proprio A. momigliano, esse devono con tutta probabilità ravvisar-si nell’intendere il carteggio relativo al Convegno come il seguito di un precedente scambio relativo ad un dattiloscritto inviato all’Istituto e trasmesso in visione allo storico. restituito il dattiloscritto, con lettera del 14 maggio 1937 A. momigliano scriveva al presidente dell’Isti-tuto per dirgli, tra l’altro, di non esitare ad inviare in visione altre opere che fossero perve-nute. C. galassi paluzzi il giorno 21 maggio, nella replica, in una lettera la cui velina riporta anche una titolatura che, emendata dai refusi, è Istituto-collaboratori-Momigliano, domanda-va quando lo storico pensasse di venire a roma dal momento che desiderava parlargli: vd. queste lettere in AInsr, s. CCm, b. 129, f. 25, sott. Momigliano, che conserva l’originale della lettera del 14 maggio, e s. CCm, b. 210, f. 10, sott. Speciale, ove la lettera del 14 mag-gio è presente in copia. poiché dalla lettera del 30 luglio 1937 di C. galassi paluzzi citata su-pra sappiamo che dovette avvenire un colloquio con A. momigliano – anche se non sappia-mo se personale o telefonico – in cui si parlò del Convegno, non è impossibile che le lettere del 14 e 21 maggio 1937 ne siano la premessa. se così fosse, allora ciò varrebbe anche quale ulteriore elemento a favore dell’ideazione del Convegno da parte di galassi paluzzi, essen-do questo colloquio – auspicato già in data 21 maggio 1937 – probabilmente antecedente o almeno pressoché contemporaneo alle riunioni con Bottai e, tra gli altri, con giglioli delle quali s’è detto sopra ed essendo inoltre l’inizio del carteggio che seguì il colloquio con mo-migliano antecedente al carteggio intercorso tra agosto e settembre 1937 tra C. galassi pa-luzzi e g. q. giglioli relativamente alla manifestazione destinata ad evolversi come Conve-gno Augusteo, sul quale vd. subito infra nel testo.

(22) AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, lettera di A. W. van Buren a C. ga-lassi paluzzi del 10 agosto 1937.

(23) Ibidem, p. 1: «ho sentito durante questa ultima settimana che qualcuno dei nostri colleghi inglesi sarebbe ben lieto di assistere alle commemorazioni di questo settembre, solo che, non avendo ricevuto degli inviti, son rimasti nel dubbio che forse non sarebbero ben ac-colti se venissero. son sicurissimo che tale dubbio manca assolutamente di motivazione, anzi che l’intervento dei colleghi inglesi riuscirebbe particolarmente grato in quell’occasione: ma ho pensato che qualche cenno in questo senso da parte dei dirigenti la commemorazione sa-rebbe cosa gradita in quelli (sic) ambienti e senza dubbio potrebbe indurre diversi dei nostri amici a fare il viaggio di roma in quell’occasione. […]».

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Il Convegno Augusteo del 1938 375

gliano e che aveva già partecipato ai Corsi superiori di studi roma-ni (24), e auspicando che «da parte dei dirigenti la commemorazione» pervenisse un «cenno» idoneo a fugare quei timori, così concludeva riferendosi sia al Bimillenario Augusteo che al v Congresso nazio-nale di studi romani: «nella fiducia che mi vorrà perdonare l’ardi-re, e con i più sentiti auguri di ogni successo, tanto per il Bimillena-rio Augusteo quanto per il prossimo Congresso di studi romani, mi creda, sempre devotissimo suo, A. W. van Buren» (25).

ricevuta la lettera, galassi paluzzi dovette da un lato rendersi im-mediatamente conto come i criteri scelti per la selezione degli invita-ti all’inaugurazione della mostra rischiassero di estendere all’ambito accademico la tensione internazionale in atto, ma dall’altro compre-se anche che non avrebbe potuto rispondere immediatamente. Infatti van Buren aveva evidenziato un problema in grado di gettare un’om-bra sull’intera celebrazione del Bimillenario e che in definitiva, es-sendo legato alla sua dimensione attualizzante e politica, era idoneo a svilirne i contenuti scientifici. profittando della coincidenza tra la data della lettera di van Buren ed il mese di agosto, galassi paluzzi dovette decidere di prendere tempo per consigliarsi anche con gi-glioli e pertanto il giorno 13 fece rispondere con una breve nota in cui si dava atto della ricezione della lettera datata 10 agosto, e si co-municava che il presidente dell’Istituto, «date le vacanze estive», non avrebbe potuto rispondere prima della fine del mese di agosto (26). lo stesso giorno 13, galassi paluzzi scriveva a giglioli trasmettendogli in

(24) sulla partecipazione di h. last ai Corsi superiori di studi romani, vd. C. Galas-si paluzzi, I Corsi Superiori di Studi Romani, roma 1943, p. 22. Il nome di h. last avrebbe dovuto figurare anche nell’elenco di studiosi inviato da C. galassi paluzzi ad A. momiglia-no ma, con altri, non vi fu incluso per un errore del personale dell’Istituto nella prepara-zione e spedizione dell’elenco stesso. vd. AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, sott. Momigliano, lettera da A. momigliano a C. galassi paluzzi del 4 agosto 1937 per la segnalazione di h. last e lettera da C. galassi paluzzi ad A. momigliano del 7 agosto 1937 per la chiarifica-zione dell’equivoco sorto in esito alla spedizione di un elenco di studiosi in sostanza diver-so da quello preparato.

(25) AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, lettera di A. W. van Buren a C. ga-lassi paluzzi del 10 agosto 1937, p. 2.

(26) AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, biglietto dall’Istituto di studi roma-ni ad A. W. van Buren del 13 agosto 1937. È lo stesso galassi paluzzi a spiegare a giglioli, sempre in data 13 agosto 1937, di aver fatto rispondere dando atto dell’impossibilità di for-nire un riscontro sino alla fine del mese di agosto 1937: vd. AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 13 agosto 1937, p. 1.

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copia la lettera dell’«amico prof. van Buren», ne qualificava il con-tenuto come molto importante e si soffermava in particolare su h. last. soprattutto è però determinante fare rilevare come galassi pa-luzzi, sostanzialmente proponesse sino da quel momento di radunare gli studiosi stranieri non all’inizio ma alla chiusura del Bimillenario. Al fine di corroborare questa sua proposta, galassi paluzzi richiama-va il contenuto di un precedente “accenno” che il ministro dell’edu-cazione nazionale, «l’amico Bottai», aveva rivolto a lui stesso ed al-meno anche a giglioli (27).

(27) AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 13 agosto 1937, p. 1. «Caro giglioli, […]. Ciò che dice il van Buren è molto im-portante. non so se tu credi, dopo quanto ci ha accennato l’amico Bottai, di rispondere che saremo lieti di adunare gli eminenti colleghi stranieri, ma che ci riserviamo di farlo non all’ini-zio ma alla chiusura dell’anno Bimillenario. […]». Al Convegno Augusteo sono state dedicate alcune pagine soprattutto da f. sCriBa, Augustus im Schwarzhemd?, cit., pp. 229-234, secondo cui, ibidem, p. 229, «möglicherweise war der ‘Convegno’ ursprünglich eine idee des neuen erziehungsministers giuseppe Bottai». Credo che tale ipotesi possa essere rivista. Infatti se da un lato è vero che l’ “accenno” di Bottai menzionato da galassi paluzzi – che però non mi pare citato da F. scriba – resta del tutto indeterminato, dall’altro è però ancor più vero che il complesso delle vicende relative all’organizzazione del Convegno Augusteo e taluni documen-ti dell’Istituto che non mi pare siano stati esaminati, o quantomeno citati, da F. scriba in re-lazione a tale manifestazione – quali ad esempio il carteggio con A. momigliano e con A. W. van Buren o gli atti e la corrispondenza in AInsr, s. CCm, b. 227, f. 84 –, portano a rite-nere che la primitiva idea del Convegno sia da attribuirsi a galassi paluzzi e forse anche allo stesso giglioli, pur essendo immediatamente fatta propria da Bottai, che dovette compren-derne tutti i risvolti e le potenzialità. È possibile che l’ “accenno” di Bottai abbia avuto luogo nel corso di un incontro in cui evidentemente dovette trattarsi anche di una riunione inter-nazionale di studiosi e che sino dal quel momento, cioè presumibilmente dall’estate del 1937 e comunque dopo o quasi contemporaneamente al colloquio, ma prima della corrisponden-za con momigliano ed evidentemente anche prima del ricevimento della lettera di A. W. van Buren, a fronte di una necessità o opportunità evidenziatagli dai due studiosi, Bottai desse allo stesso tempo anche come direttiva generale quella di tenere il futuro Convegno alla fine del Bimillenario. quanto alla possibile datazione di tale incontro, sappiamo ad esempio che C. galassi paluzzi dovette incontrare g. Bottai presso il ministero dell’educazione naziona-le il 21 giugno 1937: vd. AInsr, s. Ag, b. 51, f. 27 Ministero Educazione Nazionale (1929-1937), lettera di erberto guida, capo di gabinetto del ministero dell’educazione naziona-le, a C. galassi paluzzi del 16 giugno 1937 e replica di C. galassi paluzzi a e. guida del 17 giugno 1937 in cui, sotto la titolatura si legge «(ringraziato per comunicazione udienza con-cessa)». visto il contenuto di alcune lettere datate poco dopo tale appuntamento, è possibi-le che l’argomento principale dell’incontro sia stato una concessione di fondi dal ministero all’Istituto e che, dunque, giglioli non avesse avuto motivo di essere presente. ove così fosse non è comunque impossibile che già in quella data tra galassi paluzzi e Bottai si parlasse di un incontro destinato ad evolversi come il Convegno Augusteo o che in quella sede fossero poste le basi per l’ “accenno” che sarebbe stato fatto alla presenza anche di giglioli. sappia-mo inoltre che pochi giorni dopo venne costituita una Commissione di Coordinamento del-

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Il Convegno Augusteo del 1938 377

la lettera di risposta di giglioli è datata solo 3 settembre 1937, cioè appena venti giorni prima dell’inaugurazione della mostra. gi-glioli concordava circa l’opportunità di rispondere che gli studiosi stranieri che avessero voluto venire a roma di loro iniziativa duran-te l’apertura della mostra Augustea della romanità sarebbero stati «sempre graditi», mentre sulla questione degli inviti all’inaugurazio-ne della mostra chiariva che di ciò era competente il governo. Infi-ne, concordava con galassi paluzzi anche circa la prospettazione di un incontro di studiosi da tenersi alla fine del Bimillenario (28).

le manifestazioni per il Bimillenario Augusteo di cui facevano parte anche galassi paluzzi e lo stesso giglioli. la prima riunione di questa commissione avrebbe dovuto aver luogo il 1° luglio 1937 ma venne posticipata al seguente giorno 2: le occasioni per trattare di quello che sarebbe divenuto il Convegno Augusteo, insomma, non erano di certo mancate. esse prece-dono di poco l’avvio dei contatti epistolari con momigliano da parte di galassi paluzzi circa i possibili studiosi stranieri da invitare e probabilmente sono addirittura successive o presso-ché contemporanee ad un contatto tra i due, personale o telefonico, sullo stesso tema ed in cui l’idea del Convegno venne presentata allo storico piemontese: cfr. supra nota 21 anche per il valore di tali circostanze a favore dell’ascrivibilità dell’ideazione del Convegno a ga-lassi paluzzi. Inoltre, sempre a favore di quest’ultima ipotesi, il fatto che il ministro si limi-tasse, pochi mesi dopo, a registrare il diniego di mussolini ad un primo progetto del Conve-gno e che, nonostante questo diniego, fosse invece proprio galassi paluzzi a riproporre più volte il progetto anche forzando una certa inattività di Bottai, mi sembra indicativo per rive-dere l’ipotesi espressa da F. scriba: vd. infra nel testo per i necessari riscontri. Ancora circa l’ascrivibilità dell’idea del Convegno a galassi paluzzi e giglioli, ed in modo particolare al primo, riveste una particolare importanza un progetto, anche economico, senza data ma col-locabile nel settembre-ottobre del 1937 ed in cui la manifestazione non figura ancora «sotto gli auspici del ministero dell’educazione nazionale», come invece avrebbe dovuto essere se l’iniziativa fosse stata ideata dal ministro Bottai: vd. ancora infra nel testo e cfr. note 43-45. È anche possibile che l’idea del Convegno fosse emersa nel corso di una riunione tra Bottai, galassi paluzzi e giglioli – quella in cui dovette avvenire l’ “accenno” del primo – e quindi immediatamente e tenacemente difesa e perseguita da galassi paluzzi, che dovette render-si conto del suo potenziale: tale idea mi è stata espressa dalla prof.ssa maria teresa galas-si paluzzi tamassia, figlia del fondatore dell’Istituto, con cui ho discusso il problema e che ringrazio per la disponibilità anche rispetto alla consultazione dell’Archivio personale di C. galassi paluzzi. terminata la ricerca dello scrivente per conto della presidenza dell’Istituto nazionale di studi romani, cenni al Convegno Augusteo sono poi stati pubblicati in J. ne-lis - M. Ghilardi, L’Istituto di studi romani et la figure d’Auguste. Sources d’archives et per-spectives de recherche 1937/1938-2014, in «studi romani» lX (2012), 1-4, pp. 333-339 (336-338). per le ragioni esposte infra nel testo e nelle note, non mi pare di poter concordare con talune datazioni proposte in tale intervento e relative all’ideazione ed alle prime fasi del pro-getto del Convegno Augusteo: vd. ibidem, p. 336, nota 17 e p. 337, nota 23.

(28) AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, lettera da g. q. giglioli a C. galassi paluzzi del 3 settembre 1937: «Caro galassi, al prof. van Buren circa quanto scrive nella sua da Berlino del 10 agosto, sono d’accordo con te che sia opportuno rispondere che i colleghi di qualunque nazione vorranno venire a roma dopo l’apertura della mostra di loro iniziativa,

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Il contenuto della lettera venne sostanzialmente fatto proprio da galassi paluzzi che il 13 settembre 1937, cioè a dieci giorni dall’inau-gurazione della mostra Augustea della romanità, indirizzava a van Buren una lettera di risposta alla sua del 10 agosto. la lettera, in lar-ga parte, omessi i saluti personali, consisteva in effetti in una trascri-zione di quella di giglioli (29). quest’ultima venne infatti ricevuta – o visionata – da galassi paluzzi proprio il giorno 13 settembre, come risulta dal poscritto di una lettera di pari data indirizzata a giglioli e relativa ad altri aspetti dell’organizzazione delle manifestazioni per il Bimillenario: le riduzioni ferroviarie e la propaganda per la mostra Augustea della romanità nonché i progressi nelle pratiche relative alle emissioni di serie di francobolli commemorativi del Bimillenario, comprese quelle per l’Africa italiana e le Isole italiane dell’egeo (30). la

saranno sempre graditi. Inviti per la cerimonia inaugurale sono stati diramati unicamente dal governo Italiano ai governi stranieri e naturalmente la direzione della mostra è completa-mente estranea alle designazioni dei rappresentanti delle varie nazioni. Confidiamo tuttavia di avere noi stessi il piacere di adunare i nostri eminenti colleghi e probabilmente alla chiu-sura dell’anno Augusteo nel settembre 1938. Cordialissimi saluti. g.q. giglioli». Circa gli in-viti per l’inaugurazione della mostra Augustea della romanità, vd. ACs, pCm, anni 1937-’39, f. 14/1, n. 918, sott. 3 Inaugurazione 23/9/1937 XV, b. 2493. tanto la cerimonia di inaugura-zione che quella di chiusura della mostra Augustea della romanità furono, naturalmente, oc-casioni ufficiali estremamente significative per l’affermazione e la celebrazione della continui-tà tra roma antica e l’Italia moderna. la cerimonia di apertura venne riportata nel “giornale sonoro” luCe n. B1175 con un servizio della durata di ben 4,35 minuti: vd. http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoplayer.jsp?tipologia=&id=&physdoc=14709&db=cinematograficoCInegIornAlI&findIt=false&section=/. Ampio risalto venne dato an-che alla cerimonia di chiusura, circa la quale vd. il “giornale sonoro” luCe n. B1404 in http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoplayer.jsp?tipologia=&id=&physdoc=16719&db=cinematograficoCInegIornAlI&findIt=false&section=/. le parole di que-sto servizio ricordavano la progettata stabilizzazione della mostra all’interno dell’edificio in via di costruzione nella zona delle tre Fontane nell’ambito dell’e 42. In quella sede la mo-stra Augustea della romanità avrebbe dovuto infatti assumere forma duratura come mostra della romanità. quest’ultima, in effetti, a causa degli eventi bellici non vide mai la luce men-tre, dopo una prima inaugurazione nel 1952, nell’edificio per essa progettato venne definiti-vamente inaugurato nel 1955 il museo della Civiltà romana. Circa i collegamenti tra l’e 42, ostia ed il Convegno Augusteo vd. infra note 106 e 111.

(29) AInsr, s. CCm, b. 212, f. 20, sott. Inghilterra, lettera da C. galassi paluzzi ad A. W. van Buren del 13 settembre 1937. È da rilevare come questo carteggio fosse ancora ti-tolato come Mostra Augustea della Romanità. Partecipazione studiosi stranieri e non ancora Convegno Augusteo o Convegno Mondiale: cfr. infra e vd. supra circa la titolatura della lette-ra del 30 luglio 1937 da C. galassi paluzzi ad A. momigliano.

(30) AInsr, s. CCm, b. 215, f. 44, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 13 settembre 1937: «ricevo ora la tua lettera del 3 corr. a proposito della richiesta del prof. van Buren e ti ringrazio di quanto mi hai comunicato». Circa l’emissione di francobolli comme-

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Il Convegno Augusteo del 1938 379

circostanza che galassi paluzzi si fosse affrettato a rispondere a van Buren non appena ricevuto un riscontro da giglioli, testimonia l’im-portanza delle questioni sollevate dallo studioso americano e la piena comprensione della loro portata da parte del vertice dell’Istituto.

non casualmente, infatti, nello stesso periodo in cui si svolgeva la seconda parte del carteggio appena descritto, l’Istituto di studi ro-mani intratteneva una fitta corrispondenza con giuseppe Bottai, all’epoca ministro dell’educazione nazionale, con lo stesso giglioli e, come già ricordato, con A. momigliano: tale corrispondenza ruotava proprio attorno all’organizzazione di un Convegno mondiale Augu-steo da celebrarsi a chiusura del Bimillenario. un primo documento d’archivio da esaminarsi a questo punto è quindi una lettera da ga-lassi paluzzi a Bottai datata 7 settembre 1937 (31). Innanzitutto è da ri-levare che, in relazione agli argomenti trattati, la missiva venne titola-ta non solo come Corsi ’38 R.O.C.E.R. Bottai, ma anche come BIMILLENARIO AUGUSTEO Convegno Mondiale e che nella velina conservata il contenuto della comunicazione venne così sunteggiato:

morativi nel regno, nell’Africa italiana, cioè libia ed Africa orientale italiana, e nelle Isole italiane dell’egeo, nonché circa la convenzione con la direzione generale delle poste e tele-grafi quanto al sovrapprezzo di taluni valori, da destinarsi per il 70% a favore della mostra Augustea della romanità e per il 30% a favore dell’Istituto, ed infine per gli introiti econo-mici da ciò derivanti oltre che per le relative tasse ed imposte, vd. AInsr, s. CCm, b. 215, ff. 44-48. sui francobolli emessi in occasione del Bimillenario Augusteo del 1937-1938 ed in generale sulla valenza dei francobolli come veicolo dell’idea fascista della romanità, vd. ora M. Torelli, Archeologia e fascismo. Creazione e diffusione di un mito attraverso i francobolli del regime, in Repensar la Escuela del CSIC en Roma. Cien años del memoria, editores r. ol-mos - t. tortosa - J. p. Bellón, madrid 2010, pp. 385-405 e, nell’ambito dell’lXXXvIII a.a. dei Corsi superiori di studi romani, il ciclo di conferenze di a. M. liBeraTi, La storia attra-verso i francobolli tra anniversari e ideologia nell’Italia degli anni ’30 del Novecento: 1. L’Ita-lia “romana” tra Virgilio e Orazio; 2. L’Italia dell’impero e della guerra tra Augusto e Livio, su cui vd. «rassegna d’informazioni dell’Istituto nazionale di studi romani», lXXXI (2013), 10-12, p. 8. la genesi, la storia ed il significato delle emissioni filateliche realizzate in occa-sione del Bimillenario del 1937-1938 per il regno d’Italia, le Isole italiane dell’egeo e l’Afri-ca italiana sono oggetto, attraverso l’analisi delle fonti contenute nell’Archivio dell’Istituto nazionale di studi romani, di un contributo di A. m. liberati e dello scrivente in corso di stampa su questo periodico.

(31) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Na-zionale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 7 settembre 1937. f. sCriBa, Augustus im Schwarzhemd?, cit., p. 229, nota 39, trattando del Convegno Augusteo, nel citare que-sta lettera specifica come essa sia «unter Bezugnahme auf ein schreiben Bottais vom 25.08». quest’ultima comunicazione, tuttavia, non si riferisce al Convegno Augusteo, ma ai Corsi su-periori di studi romani.

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«(espone [galassi paluzzi, n.d.a.] progetto in occasione bimillenario augusteo e prega fissare colloquio)» (32). In secondo luogo è poi da evi-denziare che sino dalle prime righe della lettera emerge come il mini-stro dell’educazione nazionale, presumibilmente a fronte di una ne-cessità espressa da galassi paluzzi e da giglioli nel corso dell’incontro ove ebbe luogo l’ “accenno” di cui si è detto, avesse dato incarico all’Istituto di procedere alla formulazione di un progetto relativo al Convegno (33). Immediatamente dopo galassi paluzzi, a titolo di pre-messa rispetto alle proposte da avanzare, ricordava quanto lo stesso Bottai aveva espresso in merito all’argomento del Convegno. questo, infatti, avrebbe dovuto essere «un altamente significativo omaggio del-la scienza internazionale alla figura e all’opera di Augusto, nonché al contributo recato dall’Impero di roma allo sviluppo della Civiltà» (34). prima di procedere oltre e dare conto delle proposte formulate da galassi paluzzi, è necessario notare un elemento che emerge dalle stes-se parole del presidente dell’Istituto: il Convegno mondiale, in que-sta fase, avrebbe dovuto essere un convegno di studi e non una sem-plice riunione di studiosi. la circostanza non è priva di peso per la storia dell’organizzazione del Convegno Augusteo ed essa merita di essere fatta sino da ora rilevare per essere poi ripresa più avanti. ga-lassi paluzzi procedette quindi ad indicare a Bottai quanto si era sino ad allora fatto o organizzato dall’Istituto per realizzare le celebrazio-ni del Bimillenario attraverso «i contributi recati dalla viva voce di studiosi» (35), indicando sostanzialmente le conferenze celebrative te-

(32) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 7 settembre 1937, p. 1.

(33) Ibidem: «poiché molto cortesemente hai voluto dare all’Istituto di studi romani l’ono-rifico incarico di formulare un progetto in merito ad un “convegno mondiale” di studiosi che dovrebbero adunarsi in occasione della chiusura della celebrazione del Bimillenario Augusteo, sottopongo al tuo giudizio alcuni dati di fatto ed alcune proposte in merito». Cfr. supra nota 27.

(34) Ibidem: «premesso che, come tu stesso hai indicato, l’argomento del predetto con-vegno dovrebbe essere un altamente significativo omaggio della scienza internazionale alla fi-gura e all’opera di Augusto, nonché al contributo recato dall’Impero di roma allo sviluppo della Civiltà, dovremo innanzitutto annotare tra i dati di fatto quello che, appunto, già si è fatto, o si è in procinto di fare in Italia e all’estero al proposito». Cfr. supra nota 27. non è escluso che questi caratteri del Convegno fossero stati espressi da galassi paluzzi e giglioli nel corso dell’incontro in cui ebbe luogo l’ “accenno” di Bottai e subito fatti propri da que-sti, in modo non dissimile da quanto era accaduto tra giglioli e mussolini per la mostra Au-gustea della romanità.

(35) Ibidem.

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Il Convegno Augusteo del 1938 381

nute nei Corsi superiori durante gli a.a. 1936-1937 e 1937-1938, non-ché il v Congresso nazionale di studi romani da tenersi ad aprile 1938 (36). galassi paluzzi peraltro ricordava che le iniziative dell’Istitu-to avrebbero coinvolto «numerosissimi ed eminenti studiosi stranie-ri» (37). A questo punto, evidentemente per evitare che il Convegno mondiale si risolvesse in un duplicato di iniziative già svolte o già pro-grammate, galassi paluzzi proponeva di far diventare, con alcuni ade-guamenti, il tema del Convegno quello del v Congresso nazionale. questa soluzione peraltro, avrebbe “bilanciato”, in un quadro interna-zionale non favorevole per l’Italia, la presenza di studiosi italiani e di studiosi stranieri, alle cui «discutibili affermazioni» si sarebbe potuto efficacemente controbattere (38). ga las si paluzzi, prima di chiedere a

(36) Ibidem, p. 2.(37) Ibidem, p. 3.(38) Ibidem, p. 3: «rammentati i dati di fatto, mi permetto di sottoporre al tuo giudizio

una proposta: e cioè l’opportunità di fare diventare tema di quello che potrebbe chiamarsi “Convegno mondiale Augusteo” il tema stesso del prossimo v Congresso nazionale di studi romani, sia pure con qualche opportuna variante quale ad esempio “l’impero di roma e lo sviluppo della civiltà (sic). si potrebbero scegliere taluni problemi fondamentali sui quali gli studiosi di tutto il mondo verrebbero invitati a riferire, avendo, intanto, già la certezza che su ciascun problema si avrebbero delle eccellenti relazioni italiane, e un nutrito numero di studiosi pronti a rispondere eventualmente a discutibili affermazioni straniere». Il progetto, come si dirà, non venne accettato. quanto al tema fondamentale del v Congresso nazionale, esso nel programma scientifico allegato alla domanda prescritta dalla normativa dell’epoca e datata 15 giugno 1936, trasmessa al governo tramite prefettura in pari data, veniva indicato come relativo «allo studio dell’influenza che la creazione dell’Impero romano ha avuto nello sviluppo della civiltà mondiale, con particolare riguardo alla geniale opera creatrice di Cesa-re e alla monumentale opera sistematrice di Augusto»: vd. AInsr, s. CCm, b. 123, f. 3 Pre-liminari, sott. R. Prefettura e sott. Programma scientifico e f. 7 Programma scientifico, piano finanziario e Giunta Direttiva. successivamente, tuttavia, nel corso della riunione della giun-ta direttiva del v Congresso nazionale di studi romani del 22 gennaio 1937, C. galassi pa-luzzi richiamava «l’attenzione della giunta su la necessità di precisare tempestivamente qua-le dovrà essere il tema fondamentale del Congresso». rammentate quindi le iniziative che nel 1938 si sarebbero svolte nel quadro del Bimillenario Augusteo, il presidente dell’Istitu-to così concludeva: «sembra a lui opportuno riferire il tema fondamentale alla ricorrenza bi-millenaria, provocando un chiarimento sul significato del concetto di Impero, (sic) quindi, a suo giudizio, la opportunità di contribure (sic) a quest’opera di chiarificazione attraverso una serie di relazione (sic) da svolgersi nella varie sezioni e delle quali dà un primo cenno». l’idea tuttavia non piacque né a p. de Francisci né a g. q. giglioli ed anzi il primo trovò «che i termini nei quali il tema è stato posto sono troppo generici; teme che non si raggiun-gano precisi obiettivi disputando intorno al “concetto” di Impero». Infine, su proposta di de Francisci, venne approvato che il tema fondamentale fosse “la funzione dell’Impero roma-no nella storia della civiltà”: vd. AInsr, s. CCm, b. 123, f. 9 Giunta Direttiva. Verbali del-le Sedute, sott. Verbale del 22-1-1937 ed ivi pp. 2-3 del verbale nonché le diverse redazioni

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Bottai un appuntamento per discutere dei temi esposti nella lettera, si soffermava su alcuni particolari relativi al numero dei relatori, alle spe-se di viaggio e soggiorno ed alla pubblicazione degli Atti (39). di nostro interesse sono soprattutto il progettato ricevimento in Campidoglio alla presenza del capo del governo e la prevista visita alla mostra Augu-stea della romanità: eventi entrambi che verranno riproposti anche quando sarà accantonata questa prima idea di un Convegno mondia-le, nel cui ambito agli studiosi italiani sarebbe comunque spettato, come già per altre iniziative del Bimillenario, di fare risaltare gli aspetti di continuità dell’Italia moderna con roma antica (40). successivamente, il giorno 9 settembre 1937, galassi paluzzi inviava a giglioli una copia della lettera indirizzata a Bottai, che descriveva come relativa al «con-vegno mondiale di studiosi che dovrebbero adunarsi in occasione del-la chiusura del Bimillenario Augusteo» (41), mentre il successivo 25 ot-tobre domandava a Bottai un appuntamento per esporre una relazione pertinente il «Convegno mondiale Augusteo» alla luce di un recente colloquio avuto con il ministro stesso e che probabilmente dovette es-sere quello richiesto con la lettera del 7 settembre (42). si colloca in que-

e minute degli annessi «AppuntI per lA I a sedutA dellA gIuntA dIrettIvA». Considerato tutto questo, non escluderei che con la proposta formulata a Bottai il 7 settem-bre 1937 galassi paluzzi mirasse forse, tenuto conto dell’accento posto sull’ “impero” piut-tosto che sulla “funzione dell’impero”, a recuperare anche almeno in parte l’approccio che aveva caldeggiato pochi mesi prima nella riunione del 22 gennaio.

(39) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 7 settembre 1937, pp. 4-5.

(40) Ibidem, p. 4. «In sede di relazioni, gli studiosi italiani, dovrebbero mettere in evi-denza la continuità della storia di roma nel campo del diritto, della lingua, dell’arte, delle istituzioni sociali ecc. Facendo risaltare ciò che è rimasto non soltanto vivo e vitale ma addi-rittura insopprimibile dell’opera creata da roma si conferirebbe al Convegno un valore ed un interesse attuale. Così nell’organizzare i vari sopralluoghi si dovrebbe cogliere l’occasio-ne per fare ammirare ai rappresentanti della scienza mondiale venuti per il convegno, le più importanti creazioni e le maggiori affermazioni del regime nelle varie parti d’Italia». si tratta di criteri in larga parte espressi già per altre manifestazioni del Bimillenario in cui erano sta-ti coinvolti studiosi stranieri o comunque ispirati dai medesimi principi, come nel caso delle conferenze celebrative del Bimillenario: vd. supra note 8 e 16.

(41) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 9 settembre 1937 = s. Cssr, b. 64, f. 14, sott. Giglioli, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 9 settembre 1937.

(42) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 25 ottobre 1937. sappiamo peraltro come galassi paluzzi già almeno dal 15 ottobre 1937 chiedesse di essere ricevuto da Bottai e come

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Il Convegno Augusteo del 1938 383

sta fase il duplicato di un promemoria «per s.e. Bottai» relativo al «Convegno mondIAle Augusteo», con annesso preventi-vo di spese, privo di data ma che evidenze interne consentono di col-locare, quantomeno sotto il profilo della redazione, tra settembre ed ottobre 1937 (43). Il Convegno, che nel progetto non figura ancora, come sarà in seguito, «sotto gli auspici del ministero dell’educazione nazionale» e neppure – quanto a questo – sotto quelli della presiden-za del Consiglio, avrebbe dovuto svolgersi alla fine dell’anno augu-steo, avrebbe potuto essere affidato alle cure dell’Istituto, vista la sua organizzazione del v Congresso nazionale il cui tema fondamentale era molto simile, avrebbe dovuto «adunare insigni personalità scien-tifiche di ogni parte del mondo» e quindi «assumere l’alto significato di un omaggio della scienza internazionale alla figura e all’opera di Augusto, nonché di un riconoscimento del contributo recato dall’Im-pero di roma allo sviluppo della civiltà» (44). venivano prospettate due

l’incontro richiesto, tuttavia, non potesse avere luogo immediatamente: vd. AInsr, s. Ag, b. 51, f. 27 Ministero Educazione Nazionale (1929-1937), appunto interno del 15 ottobre 1937 e lettera del 18 ottobre 1937 da C. galassi paluzzi alla segreteria particolare del mi-nistro dell’educazione nazionale. di conseguenza, con la lettera del 25 ottobre galassi pa-luzzi chiese nuovamente di essere ricevuto. nella velina d’archivio il contenuto della comu-nicazione è così sunteggiato: «(chiede udienza per presentare relazione)». nel frattempo era infatti in preparazione il promemoria relativo ad un Convegno mondiale Augusteo sul qua-le vd. infra nel testo e nota 43.

(43) AInsr, s. CCm, b. 227, f. 84. Il documento conserva anche il preventivo di spese del Convegno ed alla p. 3, alla voce «2) viaggi Congressisti extra europei», vi è un chiaro riferimento «alle tariffe vigenti al mese di settembre 1937-Xv». Al fine della datazione del duplicato del promemoria, del promemoria stesso, e dell’annesso preventivo non attribui rei grande peso al fatto che la carta intestata in cui il primo è versato non rechi tra i titoli di vit-torio emanuele III anche quello di imperatore d’etiopia, ben potendosi trattare del caso di un reimpiego di vecchia carta intestata per un uso interno all’Istituto. da un appunto non troppo leggibile e vergato a matita, sembrerebbe di capire che il promemoria fosse poi pre-sentato a Bottai il 3 novembre 1937: si tratta allora evidentemente della relazione che galassi paluzzi intendeva presentare al ministro nel corso di un appuntamento richiesto sino almeno – cfr. nota precedente – dal 15 ottobre 1937, data entro cui il promemoria e l’annesso pre-ventivo di spese dovettero quindi essere sostanzialmente ultimati. del promemoria esistono anche delle minute ed esiste anche una ulteriore copia del preventivo di spese e quattro mi-nute di questo, tra loro successive, su cui vd. infra nota 45. da un appunto interno spillato alla fine della seconda in ordine di tempo di queste minute, risulta come il documento fosse ancora in preparazione al 23 settembre 1937. sempre nel f. 84 della b. 227 la nota interna n. 63, datata 28 settembre 1937, intitolata «Convegno mondiale augusteo. preventivo finanzia-rio» si riferisce inoltre pressoché sicuramente alla redazione del documento di cui sopra.

(44) AInsr, s. CCm, b. 227, f. 84, promemoria relativo al “Convegno mondiale Augu-steo,” p. 1. Inoltre, ancora ibidem, pp. 1-2: «si dovrebbero scegliere taluni problemi fonda-

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manifestazioni solenni in occasione del Convegno, «una in Campido-glio alla presenza di s.e. il Capo del governo e un’altra alla “mostra Augustea della romanità”». si consigliava poi una serie di sopralluo-ghi «alle più importanti vestigia augustee tornate in luce nelle varie parti d’Italia», evidenziando l’opportunità di una serie di Convegni locali «in modo da ottenere che gli studiosi stranieri invitati potesse-ro nel più largo modo venire a contatto con gli studiosi di ogni par-te d’Italia». Inoltre il Convegno mondiale Augusteo avrebbe dovuto avere un carattere di attualità, dovendo mettere in evidenza, specie ad opera degli studiosi italiani, la continuità tra roma antica e l’Italia mo-derna e dovendo illustrare agli stranieri «le più importanti creazioni e le più importanti affermazioni del regime nelle varie parti d’Ita-lia» (45). gli studiosi stranieri avrebbero dovuto essere 40, di cui 27 eu-

mentali riferentisi ai complessi aspetti dell’influenza esercitata da roma sullo sviluppo della civiltà, invitando studiosi di tutto il mondo a riferire a (sic) a discutere sulla base di altret-tante apposite relazioni. per ciascun tema bisognerebbe avere la certezza di poter contare su delle eccellenti relazioni di studiosi italiani, e su un nutrito numero di studiosi nostri pron-ti ad intervenire eventualmente alle discussioni, in modo da non lasciare libero campo all’in-tervento e alla discussione promossa dagli studiosi stranieri».

(45) Ibidem, pp. 2-3 e cfr. p. 4. seguiva un articolato preventivo di spese per viaggi, sog-giorni, organizzazione, stampa degli Atti per un totale di l. 348.846. proventi per l. 40.000 avrebbero dovuto venire dalle quote di iscrizione, fissate a l. 1.000 a persona, e per l. 15.000 dalla vendita degli Atti, stimata in numero di 150 copie, a l. 100 la copia. Il medesimo f. 84 della b. 227 della s. CCm conserva anche quattro minute, tra loro successive – come si evin-ce proprio dalle successive correzioni – ma non datate, di un «Convegno mondIA-le. spese previste per l’organizzazione», poi «Convegno mondIAle Augusteo. preventivo di spese» in cui il totale di queste ultime era stimato, in quelle che si direbbero essere state la prima e la seconda minuta in ordine di tempo, in l. 264.000. Il riferimento, sempre in queste due minute, ai costi sostenuti per il Iv Congresso nazionale di studi ro-mani, il confronto tra le successive correzioni ed il confronto con altri documenti presenti nel fascicolo, per i quali vd. infra nota 51, dimostrano che si tratta delle minute del preven-tivo annesso al progetto del settembre-ottobre 1937. tale particolare attenzione, unitamente agli altri elementi già segnalati, potrebbe costituire un ulteriore indizio idoneo a rafforzare l’ascrivibilità dell’idea del Convegno a C. galassi paluzzi piuttosto che a g. Bottai. In quel-la che è possibile individuare come la seconda in ordine di tempo delle quattro minute, una correzione a penna inserisce il riferimento alle tariffe vigenti al mese di settembre 1937, cfr. supra nota 43, e consente, insieme con altre evidenze, l’approssimativa fissazione di un ter-mine ante quem per la formazione della prima e forse della seconda minuta. più in particola-re, la seconda si presenta infatti come una trascrizione della prima ma con correzioni a pen-na di C. galassi paluzzi. si riferisce forse a queste correzioni l’appunto che si rinviene ora spillato alla fine della seconda minuta e siglato da C. galassi paluzzi in cui si legge «ripar-lare / tra stasera / e domani / [illegibile, n.d.a.] / 23/9 / C(arlo) g(alassi) p(aluzzi)». l’ap-punto, evidentemente, fornisce inoltre ulteriori elementi di datazione nel senso già più vol-te indicato. tuttavia, se esso conferma in generale la stesura del documento tra settembre ed

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Il Convegno Augusteo del 1938 385

ropei e 13 extra-europei, provenienti ad esempio anche da Cina, giap-pone, India, Brasile e sud Africa. Il progetto non era tuttavia destinato a buon fine, poiché con lettera datata 20 novembre Bottai comunicava a galassi paluzzi che «s.e. il Capo del governo, esami-nato il progetto del Convegno mondiale Augusteo, non ha ritenuto di dare seguito alla cosa, in considerazione delle molte iniziative che sono state già prese per la celebrazione del bimillenario» (46). l’atteg-giamento della presidenza del Consiglio e dunque il diniego di mus-solini, non scoraggiarono tuttavia né galassi paluzzi né giglioli, evi-dentemente memori anche delle questioni sollevate da van Buren. galassi paluzzi, infatti, in una lettera del 24 novembre indirizzata a Bottai, prendendo atto dell’accantonamento del progettato Convegno mondiale Augusteo, faceva presente anche a nome di giglioli «tutta l’opportunità di inserire nel calendario del regime le varie manifesta-zioni nazionali che si avranno per celebrare il secondo millenario di Augusto» (47) e domandava quindi quando lui e giglioli avrebbero po-tuto essere ricevuti al fine di discutere in merito al programma delle celebrazioni. nella velina conservata in Archivio si legge, aggiunto a penna sul testo a macchina: «ove, naturalmente, tu reputassi oppor-tuna la preghiera che ti rivolgo». galassi paluzzi e giglioli avrebbero trovato in Bottai un interlocutore tutto sommato disponibile e sareb-bero riusciti in ogni caso a dare vita ad un Convegno Augusteo. In-fatti, avendo nel frattempo ricevuto «l’onorifico incarico di progetta-re un Calendario Augusteo», già con lettera del 13 dicembre galassi paluzzi scriveva nuovamente al ministro dell’educazione nazionale

ottobre 1937, nulla sembra in grado di dire in particolare circa la stesura della prima minuta, che potrebbe essere stata anche abbastanza precedente rispetto alla seconda. tutto ciò, co-munque, manifestando una notevole attenzione da parte dell’Istituto, sembra rafforzare an-cor più l’idea dell’ascrivibilità dell’idea del futuro Convegno a C. galassi paluzzi ed a g. q. giglioli ed anzi, parrebbe, al primo in modo particolare.

(46) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da g. Bottai a C. galassi paluzzi del 20 novembre 1937.

(47) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 24 novembre 1937. pochi giorni dopo, il presidente dell’Istituto scriveva a Bottai domandando un appuntamento allo scopo di «rife-rirti ulteriormente in merito a ciò che ha formato materia del nostro ultimo colloquio». si trattava verosimilmente delle cerimonie di chiusura del Bimillenario Augusteo: vd. AInsr, s. Ag, b. 51, f. 27 Ministero Educazione Nazionale (1929-1937), lettera da C. galassi paluz-zi a g. Bottai del 4 dicembre 1937.

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proponendo alcune iniziative tra cui, ancora una volta, il Con vegno, che in questa fase veniva riproposto di nuovo come incontro di stu-di, benché di più contenute dimensioni (48). nei primi mesi del 1938, tuttavia, le iniziative progettate non dovettero avere particolare segui-to. Infatti galassi paluzzi, prendendo spunto dalla visita di hitler alla mostra Augustea della romanità, evidenziando la ristrettezza dei tem-pi, il 7 maggio 1938 domandava al ministro quali attività egli ritenes-se di affidare all’Istituto ed al museo dell’Impero romano (49). In pari

(48) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 13 dicembre 1937, pp. 3-4: «riferendomi all’eventuale possibilità di adunare, sia pure in proporzioni assai ridotte, il convegno che si era progettato, avrei pensato di chiamare a raccolta solo i rappresentanti di quei paesi che già un tempo fecero parte del mondo augusteo, e limitare così il numero dei rappresentanti dei paesi stranieri a non più di 12 persone, limitando a soli quattro giorni a roma la permanen-za degli stessi, si potrebbe adunare questo Convegno e pubblicarne gli Atti ufficiali con una spesa non superiore alle lire 70.000. Attendo di sapere quanto crederai di decidere per poter eventualmente iniziare l’opera di organizzazione». quanto alle altre manifestazioni, con rife-rimento agli scavi ed alle sistemazioni archeologiche, galassi paluzzi, assunti gli «opportuni accordi», proponeva per il 23 marzo 1938, anniversario della fondazione dei “Fasci di com-battimento”, una cerimonia connessa all’attività di scavo e di sistemazione archeologica della domus Augustana; per una data dal 1° giugno l’inaugurazione della Curia restaurata; l’inizio dei lavori per le terme di Baia in una data a partire dal 21 aprile e per il 15 settembre, ricor-rendo il II centenario dell’avvio degli scavi, la ripresa dell’attività ad ercolano. venivano pro-poste inoltre attività incentrate sull’Arco di Augusto a rimini, e presso l’Augusteo e l’Ara Pacis Augustae. Il Convegno Augusteo figurava, con il v Congresso nazionale, tra le «Adunate». Il presidente dell’Istituto cercava di dare conto di «Commemorazioni» e «pubblicazioni» anche di altri Istituti di cultura. una velina della lettera del 13 dicembre 1937 è anche in AInsr, s. CCm, b. 211, f. 18, sott. Generalità, ed insieme ad essa è un appunto relativo al “Calendario Augusteo” in cui figura anche, al sesto posto, la voce «Convegno rIdotto».

(49) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 7 maggio 1938: «Caro Amico, ieri, dopo la visita del Führer alla mostra Augustea, giglioli ebbe a rammentarmi che tu cortesemen-te ci convocasti, or è qualche tempo, presso di te per stabilire anche quali avrebbero potuto essere le manifestazioni di chiusura dell’Anno Augusteo. poiché siamo ormai quasi alla metà di maggio, e poiché durante i mesi estivi non è facile organizzare delle manifestazioni, vor-rei permettermi di chiederti se hai preso delle determinazioni al proposito, ed eventualmen-te se avresti da affidare qualche compito all’Istituto di studi romani e al museo dell’Impe-ro. nell’attesa di quanto crederai di comunicare, ti prego di gradire i miei migliori saluti. (C. galassi paluzzi)». hitler visitò la mostra Augustea della romanità il 6 ed il 7 maggio 1938, accompagnato la prima volta da mussolini e la seconda da Ciano: vd. G. Q. GiGlioli, Mo-stra Augustea della Romanità. Relazione morale e finanziaria (1932-1938), roma 1943, p. 137. vd. inoltre la cronaca della visita del giorno 6 maggio 1938 nei “giornali sonori” luCe che trattano del viaggio di hitler in Italia, ora consultabili presso http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoplayer.jsp?tipologia=&id=&physdoc=2820&db=cinematograficodoCumentArI&findIt=false&section=/.

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Il Convegno Augusteo del 1938 387

data galassi paluzzi trasmetteva a giglioli copia della stessa lettera, che definiva come pertinente ad «una ulteriore eventuale partecipazio-ne dell’Istituto di studi romani e del museo dell’Impero alle manife-stazioni di chiusura del Bimillenario Augusteo» (50). non giungendo ri-sposta da Bottai, ma avendo nel frattempo galassi paluzzi avuto notizia da giglioli che questi aveva parlato il giorno 11 con il mi nistro circa le manifestazioni di chiusura del Bimillenario Augusteo, il presi-dente dell’Istituto in data 13 maggio 1938 scriveva ancora una volta a Bottai predisponendo, anche sulla base delle indicazioni emerse l’11 maggio, un programma di massima comprendente il «progettato con-vegno con partecipazione del mondo scientifico interna zionale». ga-lassi paluzzi faceva riferimento al «particolareggiato pro gram ma tecni-co e finanziario» inoltrato al ministro «or sono alcuni mesi» e, rammentando le difficoltà organizzative, logistiche e la ristrettezza dei tempi per il Convegno, sollecitava direttive specificando come del con-tenuto della lettera fosse a conoscenza anche giglioli. È probabilmen-te in questo momento che il Convegno iniziò a configurarsi come in-contro di studiosi e non come convegno di studi e ciò si dovette forse a Bottai, o comunque tale determinazione dovette emergere nel corso del colloquio tra il ministro e giglioli dell’11 maggio 1938. sembra co-munque che galassi paluzzi tentasse ancora per qualche giorno di far valere la sua originaria proposta, come proverebbero i richiami a pre-cedenti programmi tecnici e finanziari e le minute di nuovi program-mi in cui sono ancora comprese le spese per la stampa degli Atti del Convegno (51). È interessante notare come il presidente dell’Istituto evi-

(50) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 7 maggio 1938.

(51) vd. innanzitutto l’appunto interno manoscritto datato 11 maggio 1938 spillato ad una velina della lettera del 13 maggio in AInsr, s. Ag, b. 51, f. 28, sott. VI-4-a. Ministero Educ. Naz. (1938-39): «on. giglioli. ha parlato oggi con s.e. Bottai delle manifestazioni di chiusura dell’anno augusteo. / vi sarà l’inaugurazione dell’Ara pacis ripristinata e il convegno (sottoli-neato due volte, n.d.a.) – e di cui in un primo tempo si era abbandonata l’idea – di eminen-ti personalità delle maggiori nazioni. / s.e. Bottai ha detto che il presidente e l’on. giglioli preparino un programma di quelle che potrebbero essere le giornate dei partecipanti / (volta-re) / oltre l’inaugurazione dell’Ara pacis potrà esservi la visita alla mostra, una gita ad ostia ecc. Anche per le personalità da invitare (studiosi e persone rappresentative per il posto oc-cupato, come i direttori dei grandi musei) potrebbe predisporsi un elenco ad abundantiam. / la data potrà essere o il 23 settembre o oltre». vd. quindi AInsr, s. CCm, b. 227, f. 84 = s. Ag, b. 51, f. 28, sott. VI-4-a. Ministero Educ. Naz. (1938-39), lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 13 maggio 1938. È interessante notare come il programma versato nella lette-

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denziasse lo scarso tempo a disposizione, visto il numero degli inviti da rivolgere, che andavano indirizzati anche a «quelle personalità scien-tifiche che rispondendo alle richieste del direttore generale della mo-stra Augustea della romanità, hanno favorito questa grande manife-stazione». Ben presto ciò avrebbe imposto di limitare gli invitati dei paesi extra-europei, prediligendo quelli già presenti a roma (52).

ra del 13 maggio 1938, pur intervenendo dopo la lettera del 13 dicembre 1937 e pur coglien-do gli elementi emersi nel colloquio dell’11 maggio, che comunque traevano origine anche dalla lettera del 13 dicembre 1937, cerchi di recuperare comunque molte delle idee del pro-getto primitivo non approvato da mussolini, come nel caso di possibili visite a manifestazio-ni augustee in diversi luoghi d’Italia o nel caso dell’invito agli studiosi «non solo d’europa, ma anche d’America o di estremo oriente o dell’Australia (come nel primitivo progetto era previsto)». Il programma proposto dal presidente dell’Istituto riguardava in generale le «ma-nifestazioni di chiusura dell’anno augusteo» e prevedeva l’inaugurazione dell’Ara Pacis e la sistemazione dell’Augusteo, una visita alla mostra Augustea della romanità da parte dei par-tecipanti al Convegno, una manifestazione nella Curia restaurata, «ad esempio, un’adunanza del senato», una visita alle memorie augustee della Campania, la celebrazione del II centena-rio degli scavi di ercolano e la visita agli scavi di pompei, l’eventuale visita ad altri siti in Ita-lia secondo lo sviluppo del Convegno, una visita alla Domus Augustana, una visita ad ostia con ricevimento offerto dal ministro, un concerto di musiche classiche e melodrammatiche ispirate a soggetti di interesse romano, da tenersi nella sede dell’Istituto, ed infine la solenne chiusura dell’«anno bimillenario» in Campidoglio seguita da un ricevimento offerto dal go-vernatore di roma. sempre nel f. 84 della b. 227 si rinviene un promemoria privo di data ed intitolato «Convegno InternAzIonAle Augusteo» in cui, a differenza del pre-cedente ricordato supra nel testo, il Convegno è ormai posto «sotto gli auspici del ministero dell’educazione nazionale ed è promosso, per incarico ricevuto, dall’Istituto di studi romani e dal museo dell’Impero». Il riferimento al fatto che «lo scarso tempo rimasto a disposizione e le gravosissime spese relative non consentirebbero di invitare studiosi dell’estremo oriente o dell’Australia, e di vari stati dell’America del nord e del sud», viceversa ancora contem-plati come possibili invitati nella lettera del 13 maggio, pare comunque consentire di colloca-re il documento in una data successiva a quest’ultima. nel medesimo fascicolo sono presen-ti anche un altro piano organizzativo-finanziario del Convegno e le relative minute. evidenze interne pertinenti ai paesi di provenienza degli studiosi esteri paio no consentire di collocare quest’ultimo piano in una data successiva al maggio 1938. Il documento è inoltre sicuramen-te afferente al promemoria da ultimo citato ed è da notare come in una prima minuta fosse ancora contemplata la voce «pubblicazione atti» – per la quale si prevedevano l. 10.000 a fronte delle originarie l. 29.000 del progetto del settembre-ottobre 1937 – poi non ricorren-te in una successiva minuta. nella lettera del 13 maggio 1938, galassi paluzzi fa riferimento ad un secondo progetto redatto per il Convegno: si tratta di un progetto successivo a quello del settembre-ottobre 1937 e che credo sia da identificarsi in quello versato nella lettera del 13 dicembre 1937, non rinvenendosene altri, benché in effetti esso non fosse un vero e pro-prio progetto quanto piuttosto il tentativo di riproporre l’idea del Convegno in termini più contenuti e dopo che era intervenuto il diniego di mussolini: vd. supra note 45 e 48.

(52) AInsr, s. CCm, b. 227, f. 84 = s. Ag, b. 51, f. 28, sott. VI-4-a. Ministero Educ. Naz. (1938-39), lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 13 maggio 1938, p. 3 e cfr. nota precedente.

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Il Convegno Augusteo del 1938 389

Come si apprende da una successiva lettera di galassi paluzzi a giglioli del 31 maggio 1938, un incontro con Bottai ebbe effettiva-mente luogo dopo la lettera del 13 maggio. All’esito di tale incontro, il presidente dell’Istituto domandava a giglioli di collaborare ad in-dicare i nomi degli studiosi delle varie nazioni da invitarsi al Con-vegno, scegliendo tra quelli «che, o per particolare autorità o per es-sersi più degli altri distinti nel collaborare alla migliore riuscita della mostra, fosse indicato invitare» (53). non giungendo risposta da gi-glioli, a seguito di un colloquio con Antonio m. Colini, principale collaboratore di giglioli anche nella mostra Augustea della romani-tà in qualità di segretario della stessa, galassi paluzzi con lettera da-tata 2 giugno 1938 domandava a giglioli: a) una risposta sui nomina-tivi degli studiosi stranieri da invitare, b) a quali categorie di studiosi italiani estendere gli inviti, c) quali pubblicazioni fosse più opportu-no offrire ai convenuti (54). giglioli rispondeva in pari data con due lettere, la prima dedicata agli studiosi stranieri, la seconda invece a quelli italiani. nella prima si rinvengono considerazioni relative agli «stati minori» ed agli «stati più importanti», insieme con le osserva-zioni di giglioli stesso alla lista di stati e di nominativi di studiosi già fornita da galassi paluzzi (55). tra di essi una menzione a parte meri-

(53) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 31 maggio 1938. gli allegati citati nel corpo del testo ed indicati in calce non sono acclusi alla velina della lettera conservata all’interno del fascicolo 58 della busta 220. Cfr. inoltre AInsr, s. CCm, b. 227, f. 84 = s. Ag, b. 51, f. 28, sott. VI-4-a. Ministero Educ. Naz. (1938-39), lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 13 maggio 1938, in cui il presidente dell’Istituto, dopo aver evidenziato il breve tempo che restava a di-sposizione per quanto riguardava gli inviti agli «studiosi non solo d’europa ma anche d’Ame-rica o di estremo oriente o dell’Australia», aggiungeva: «[…] tanto più dovendosi tener pre-sente che agli studiosi da invitare vanno aggiunti i direttori di quei musei e quelle personalità scientifiche che rispondendo alle richieste del direttore generale della mostra Augustea del-la romanità, hanno favorito questa grande manifestazione».

(54) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 2 giugno 1938.

(55) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da g. q. giglioli a C. galassi paluzzi del 2 giugno 1938: «quanto ai nomi mi sembra che in massi-ma parte vadano bene: io però riterrei opportuno di sopprimere gli inviti per gli stati mino-ri (p.es. Finlandia, Irlanda, egitto) e di invitare invece per gli stati più importanti due o più studiosi. poiché non è possibile a mio parere paragonare stati di mediocrissima partecipazione scientifica come la maggior parte dei Balcanici con le pochissime nazioni egemoniche che si sentirebbero offese di essere trattate con lo stesso stile della società delle nazioni». nel testo «trattate» era originariamente sottolineato, ma il relativo tratto di macchina da scrivere venne

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ta la russia, che nel 1937-1938 è evidentemente la russia bolscevica, con tutti gli evidenti problemi che una tale circostanza comportava all’interno di un evento come il Bimillenario della nascita di Augu-sto. nella lista di nomi trascritta da giglioli con le sue osservazioni e redatta sulla base di quella inviatagli da galassi paluzzi, alla voce «russia» non corrisponde alcun nominativo di studioso, ma il diret-tore generale della mostra Augustea annota: «non la inviterei. rosto-vzeff (sic) potrebbe essere invitato a parte se é (sic) in europa». In questo caso pare evidente che, diversamente da altri casi citati nel-la stessa lettera (56), l’esclusione della russia da parte di giglioli non fosse motivata dal suo rientrare tra gli «stati minori» ma dall’essere lo stato in cui si era incarnata quell’ideologia comunista che il fasci-smo si proponeva di combattere e debellare e poiché ciò rendeva la russia una sorta di nemico naturale dell’Italia, allora a maggior ra-gione essa avrebbe dovuto essere tenuta lontana da una celebrazio-ne in cui l’Italia intendeva tanto commemorare la nascita del primo imperatore quanto riaffermare la sua missione di civiltà nel mondo, identificandosi ed anzi superando roma antica (57). Certo una qualche partecipazione russa sarebbe stata auspicabile, vista anche la stessa

poi eliminato a penna. Alcune osservazioni di giglioli sono di particolare interesse. per quan-to riguarda il Belgio, a p. Faider egli annota «preferirei mayence», per la Francia, invece, a l. homo lo studioso consigliava di aggiungere anche J. Formigè, così come per la germania a g. rodenwaldt e ad r. egger, accanto al cui nome è in effetti riportato «(vienna)», giglio-li consigliava di invitare anche e. Kornemann. per l’Inghilterra a m. Wheeler sarebbe stato da aggiungere I.A. richmond, mentre per la Jugoslavia accanto n. vulic veniva consigliata la presenza di v. hoffiler e per l’olanda oltre a A. W. Bywank avrebbe aggiunto schnjder. per la turchia giglioli non proponeva un nome diverso da quello di s. talip ed annotava «otti-mo ma a Costantinopoli ha una posizione di quinto ordine». nel testo «quinto ordine» è cor-rezione a penna di un originale «secondo piano». per quanto riguarda l’ungheria, accanto al nome di J. huszti, giglioli scriveva: «sostituirei Alföldi». lo studioso non avanzava osserva-zioni in merito ai nomi proposti per Bulgaria, Cecoslovacchia, danimarca, grecia, norvegia, polonia, portogallo, romania, stati uniti, svezia, svizzera ed Africa Francese, cioè rispettiva-mente Y. todorov, J. vazny, K. Johansen, A. orlandos, h. shetelig, t. zieliski, de Figueredo oppure J. leite de vasconcellos, A. radulescu, A. W. van Buren, A. Boethius, F. olivier e l. poinssot. per l’egitto, accanto al nome di sami gabra, giglioli scriveva «non lo inviterei», mentre la nota «non inviterei la nazione» è riportata accanto alla Finlandia ed all’Irlanda, per le quali erano stati proposti i nomi di J. sundwall e di J. dalton. In ogni caso, nel finale del-la lettera giglioli annotava che: «per i nomi da me aggiunti occorrerebbe avere naturalmente il nulla osta degli esteri». su quest’ultimo aspetto vd. anche infra, nota 106.

(56) Cfr. nota precedente.(57) si rammenti il valore in tal senso della conferenza L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi

tenuta da g. Bottai: cfr. supra nota 8.

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Il Convegno Augusteo del 1938 391

derivazione romana e bizantina dell’impero della “terza roma” rus-sa abbattuto proprio dai bolscevichi nel 1917 (58). In questo senso la figura di m. I. rostovtzeff appariva di notevole suggestione, essendo legata al passato impero zarista cancellato dalla rivoluzione ed essen-do oltretutto strettamente intrecciata con la mostra Augustea della romanità, alla quale lo studioso russo, all’epoca docente a Yale, ave-va prestato un valido aiuto per quanto riguardava Doura Europos (59).

(58) mi sembra opportuno ricordare l’attenzione rivolta dall’Istituto ai rapporti tra roma e l’oriente che, pur ufficialmente e programmaticamente caratterizzata da un’impostazione del tutto incentrata su roma, fu nondimeno densa di una vivace e ricca produzione scienti-fica. A questo tema, anch’esso tutt’altro che indifferente all’attualità politica oltre che al di-battito accademico, fu infatti dedicato interamente il Iv Congresso nazionale di studi ro-mani, svoltosi a roma tra il 19 ed il 25 ottobre 1935, il cui tema fondamentale fu appunto Lo studio dei rapporti intercorsi nei secoli fra Roma e l’Oriente ed i cui Atti, in 5 volumi, vide-ro la luce proprio nel 1938 per le cure dello stesso galassi paluzzi. Il tema era peraltro stato già affrontato, nella sede dei Congressi nazionali di studi romani, da Carlo Cecchelli in una comunicazione tenuta nel I Congresso: vd. C. CeCChelli, Il problema dell’«Oriente o Roma» alla luce delle scoperte e degli studi attuali, in Atti del I Congresso Nazionale di Studi Roma-ni, I, roma 1929, pp. 667-681, in cui lo studioso rigettava l’impostazione della questione nei termini “roma o oriente” a favore di un approccio – già da altri suggerito ed ora difeso con forza – secondo la formula «roma ed oriente». Inoltre, concludeva Cecchelli, ibidem, p. 681, «dobbiamo pur confessare che vi è stata un’arte romana universale, una ‘römische reichskunst’ come la chiamava il Wickhoff, la quale, forte di tutti gl’insegnamenti, ha impiantato nel mon-do quelle basi su cui s’evolverà la grande arte monumentale cristiana del medioevo». In ogni caso l’approccio sintetizzato nella formula «roma ed oriente» contraddistinguerà l’atteggia-mento dell’Istituto di studi romani, di cui C. Cecchelli fu tra i maggiori collaboratori per la materia delle antichità cristiane e dell’alto medioevo, alla questione. per un quadro dell’at-tività svolta dall’Istituto riguardo tale particolare aspetto e sino alle soglie delle celebrazioni del Bimillenario Augusteo, vd. C. Galassi paluzzi, Gli Studi Romani e i rapporti tra Roma e l’Oriente, roma 1936 ed id., L’Istituto di Studi Romani, roma 19415, p. 52.

(59) vd. ad esempio AInsr, s. CCm, b. 213, f. 35, sott. Lettere di convocazione e copie verbali, sub sott. Copie dei verbali, verbale del 15 ottobre 1934, p. 7 – all’interno di un bra-no della relazione periodica presentata a mussolini – e verbale del 15 gennaio 1935, p. 4: «[…] il prof. rostovtzeff non solo facilita con grande liberalità la raccolta delle riproduzio-ni relative al prezioso materiale che viene alla luce a dura europos negli scavi da lui diret-ti, ma ha offerto alla mostra di ospitare un architetto, se essa volesse inviarlo, per la raccolta dei dati relativi ai plastici, non essendovi rilievi sufficientemente esatti. si decide di accet-tare l’offerta e di inviare per una ventina di giorni sul posto l’architetto gismondi». per un approccio all’atteggiamento di m. I. rostovtzeff nei confronti dell’impero ed alla luce del-la Social and Economic History of Roman Empire, pubblicata nel 1926, vd. ora s. roda, Il modello della repubblica imperiale romana fra mondo antico e mondo moderno.“Fecisti pa-triam diversis gentibus unam”, noceto 2011, pp. 146-153 e pp. 231-232 per una necessaria bibliografia di riferimento. vd. anche, con esclusivo riguardo agli aspetti rimarcati nel pre-sente contributo, Rostovtzeff e l’Italia a cura di A. marcone, napoli 1999 e p. G. MiChe-loTTo, Italia 1923: sei lettere di Rostovtzeff a “Zveno”, in «studi ellenistici», XvI (2005), pp. 423-510.

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galassi paluzzi era ben cosciente dell’importanza scientifica e “poli-tica” dello studioso e ciò perlomeno da quando aveva ricevuto una lettera di paribeni datata 24 luglio1935 relativa alle proposte di temi e di oratori stranieri per le conferenze celebrative del Bimillenario: in essa, alla voce «America», figurava anche «michele rostowt zew (sic)» e per lui si proponeva il tema Studi americani intorno ad Augu-sto. Copia di questa lettera di paribeni venne inviata da galassi pa-luzzi a giglioli l’11 settembre 1935 affinché quest’ultimo fornisse il suo parere e le proprie eventuali proposte (60). successivamente, l’11 settembre 1936 galassi paluzzi scriveva a rostovtzeff proponendo-gli la partecipazione all’XI a.a. dei Corsi superiori, 1936-1937, pro-prio nell’ambito del ciclo che «verrà dedicato ad illustrare la figura e l’opera di Augusto e l’influenza che la creazione dell’Impero roma-no ha avuto nello sviluppo della civiltà mondiale» (61). In particolare, il tema che si chiedeva di svolgere allo studioso russo era Gli studi russi sulla figura e l’opera di Augusto e sulla fondazione dell’Impero Romano (62). Con una lettera che dalla replica di galassi paluzzi sap-

(60) AInsr, s. Cssr, b. 47, f. 4, sott. Preliminari, sub sott. Giglioli, lettera da C. galas-si paluzzi a g. q. giglioli dell’11 settembre 1935. vd. ibidem anche il sollecito da C. galas-si paluzzi a g. q. giglioli del 22 giugno 1936.

(61) AInsr, s. Cssr, b. 49, f. 8, sott. 1936-1937. Russia, lettera da C. galassi paluzzi a m. rostowtzew (sic) dell’11 settembre 1936. In linea generale, cfr. supra nel testo e note 8 e 16, era stato stabilito di domandare agli studiosi stranieri di svolgere relazioni illustrative degli studi augustei realizzati nei rispettivi paesi negli ultimi vent’anni. solo in alcuni casi si sarebbero potuti domandare interventi diversi: «(quando si sia perfettamente sicuri dei loro sentimenti) l’illustrazione dell’influenza che l’opera di Augusto ha avuto nello svolgimento della civiltà presso questa o quella nazione». A prescindere dal tema proposto, che è indice di una certa cautela, nel caso di rostovtzeff un ruolo notevole avranno avuto i suoi sentimen-ti nei confronti dell’u.r.s.s. che, insieme al suo valore scientifico, ne facevano un perfetto “studioso russo” da invitarsi alle cerimonie ed alle iniziative del Bimillenario. vd. inoltre in-fra nota 65. gli interventi degli studiosi stranieri alle conferenze celebrative del Bimillenario Augusteo ed in generale ai Corsi superiori di studi romani degli a.a. 1936-1937 e 1937-1938 sarebbero stati in molti casi raccolti in diverse serie dei Quaderni dell’Istituto.

(62) AInsr, s. Cssr, b. 49, f. 8, sott. 1936-1937. Russia, lettera da C. galassi paluzzi a m. rostowtzew (sic) dell’11 settembre 1936. In C. Galassi paluzzi, Gli Studi Romani e i rap-porti, cit., p. 21 rinveniamo ulteriori elementi che sono significativi tanto della costante atten-zione al tema dei rapporti tra roma e l’oriente che alla pianificazione ed alla profondità de-gli studi intrapresi e suscitati dall’Istituto in tale specifica materia anche durante il periodo delle celebrazioni augustee: «In modo organico e per dare una prima concreta realizzazione alle proposte che avevo formulate nell’ultimo Congresso, si sta organizzando per il prossi-mo undicesimo Anno Accademico dei predetti Corsi superiori di studi romani un ciclo di conferenze dedicato agli Studi e scoperte sull’archeologia e l’arte del tardo Impero e i problemi

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Il Convegno Augusteo del 1938 393

piamo datata 27 settembre 1936, rostovtzeff dichiarava che non gli sarebbe stato possibile svolgere né la conferenza sopra ricordata né un’altra dal titolo Studi Russi sulla archeologia e l’arte del tardo Im-pero (63). Il 17 ottobre 1936 galassi paluzzi insisteva molto garbata-mente affinché l’insigne studioso, «vedendo la possibilità di venire a roma», volesse garantire la sua partecipazione alle conferenze cele-brative dell’a.a. 1937-1938 «parlando non solo degli studi sulla figura

dell’arte orientale e dell’arte barbarica. A tale ciclo sono stati invitati a voler partecipare emi-nenti cultori di questi studi di ogni paese. ecco l’elenco degli studiosi ai quali abbiamo chie-sto l’onore della loro collaborazione: […], m. rostovzeff (sic) (russia) […]. In questo ciclo noi vorremmo che i più autorevoli studiosi dei vari paesi esponessero ciascuno, in altrettante sintetiche rassegne, gli studi che nelle varie nazioni sono stati pubblicati intorno al proble-ma preso ad esaminare. poiché prima di passare alla discussione (che potrà essere fatta ne-gli anni futuri) è necessario rendersi conto obbiettivamente dello stato degli studi desideria-mo far fare preventivamente queste rassegne le quali dovrebbero perciò, avere un carattere schiettamente informativo anziché polemico. questo primo ciclo, che dovrà svolgersi, come detto, nel 1937-Xv, sarà seguito negli anni successivi da altri cicli, dei quali i primi due sa-ranno dedicati a Roma e Bisanzio e a Roma e il mondo mussulmano». Inoltre circa l’approccio al tema dell’impero medievale da parte dell’Istituto reputo dover ricordare la serie di lezio-ni tenute da paolo Brezzi nel 1942 e 1943 e dedicate a Roma e l’Impero medioevale all’inter-no del settore Roma Cristiana dei Corsi superiori di studi romani: vd. C. Galassi paluzzi, I Corsi Superiori, cit., p. 38. vd. naturalmente anche o. BerTolini, Roma di fronte a Bisan-zio e ai Longobardi, Bologna 1941 e, nonostante sia stato pubblicato dopo la fine della presi-denza di C. galassi paluzzi, vd. ancora p. Brezzi, Roma e l’Impero medievale, Bologna 1947, che costituiscono rispettivamente i volumi IX e X della Storia di Roma curata dall’Istituto. È significativo di quanto già accennato circa la prospettiva di ricerca dell’Istituto proprio il fatto che la monumentale Storia di Roma fosse presentata, con parole pronunciate da mus-solini, come «la finalmente romana e italiana storia di roma», a significare appunto un ben preciso orientamento di ricerca: vd ad es. La “Storia di Roma„. Prossimo inizio delle pubbli-cazioni, in «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi romani», vI (1938), 6, p. 1. per quanto riguarda invece l’attenzione verso il mondo musulmano, vd. C. Galassi paluzzi, I Corsi Superiori, cit., p. 31 relativamente al ciclo Roma e il mondo islamico svolto all’interno del settore La Roma dei Cesari. Circa i titoli di queste conferenze relative all’a.a. 1937-1938, il XII dei Corsi superiori, vd. però già «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi roma-ni», v (1937), 22-23, pp. 5, 10 e 26 (il fascicolo è interamente dedicato alla presentazione del XII a.a.), ove esse sono poste tuttavia all’interno della partizione Roma nella vita e nell’arte e dove il problema dei rapporti intercorsi tra roma ed il mondo islamico è significativamen-te definito «attualissimo». reputo opportuno ricordare che all’interno del Corsi superiori di studi romani venivano identificati «tre fondamentali settori del quadrante»: Roma dei Ce-sari, Roma Cristiana e Roma ormai nuovamente Capitale d’Italia, che tendeva ad identificarsi con Roma Sabauda e Littoria e con Roma di Mussolini, mentre una «quarta grande partizio-ne» era Roma nella vita e nell’arte, «irreducibile nell’ambito di precise distinzioni cronologi-che o sistematiche»: vd. C. Galassi paluzzi, I Corsi Superiori, cit., pp. xvi-xvii.

(63) Cfr. nota precedente. la lettera di m. I. rostovtzeff del 27 settembre 1936 non è conservata in AInsr, s. Cssr, b. 49, f. 8, sott. 1936-1937. Russia.

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e l’opera di Augusto, ma dell’influenza che dalla sua grande opera è derivata – sia pure indirettamente – al mondo slavo». di notevole in-teresse, sotto il profilo dei rapporti con gli studiosi stranieri durante il Bimillenario e quindi anche durante il Convegno Augusteo, è quanto aggiunto da galassi paluzzi subito dopo: «se invece ella volesse tratta-re un altro tema, noi saremmo sempre lieti anche se qualche volta non si dovesse essere pienamente d’accordo» (64). Con un’altrettanto garba-ta lettera datata 8 novembre 1936 rostovtzeff rinviava ogni decisione alla primavera del 1938 (65). Il nome di rostovtzeff non veniva quindi depennato dalla lista dei conferenzieri delle conferenze celebrative del Bimillenario all’interno del ciclo Gli studi stranieri sulla figura e l’opera di Augusto e sulla fondazione dell’Impero Romano, come risulta da un elenco databile al 27 febbraio 1937 (66). l’interesse di galassi paluzzi per la partecipazione di rostovtzeff alle iniziative del Bimillenario è stato quindi costante giungendo sino allo stesso Convegno Augusteo, come testimoniato anche da una lettera di giglioli del 7 giugno 1938 (67). In-

(64) AInsr, s. Cssr, b. 49, f. 8, sott. 1936-1937. Russia, lettera da C. galassi paluzzi a m. rostovtzeff del 17 ottobre 1936.

(65) AInsr, s. Cssr, b. 49, f. 8, sott. 1936-1937. Russia, lettera da m. rostovtzeff a C. galassi paluzzi dell’8 novembre 1936: «disgraziatamente non posso fare progetti per un tempo così lontano. sono troppo vecchio. d’altra parte non so niente sul tema. non leggo le lingue slave e sono privo dell’uso di libri russi. non dico che sarà impossibile per me di venire a roma nell’estate dell’anno venturo. ma non posso dirlo prima della primavera del 1938». nell’ambito dei Corsi superiori del 1937-1938 il ruolo che avrebbe dovuto essere di rostovtzeff venne infine ricoperto da mons. Alessandro sipiaghin, presentato come studioso «che era stato membro della duma Imperiale», il quale tenne una conferenza nell’ambito del ciclo Gli studi stranieri sulla figura e l’opera di Augusto e sulla fondazione dell’Impero roma-no, che si inseriva nelle celebrazioni del Bimillenario Augusteo: vd. «rassegna d’informazio-ni dell’Istituto di studi romani», v (1937), 22-23, pp. 7-8 e 19, nonché a. sipiaGhin, Riflessi della fondazione dell’Impero romano sulla storia e sulla vita della Russia, roma 1938. su tale collaborazione ai Corsi superiori dell’a.a. 1937-1938 vd. AInsr, s. Cssr, b. 65, f. 16, sott. Russia. sipiaghin aveva già preso parte al Iv Congresso nazionale di studi romani, cui era intervenuto quale rappresentante del pontificio Collegio Russicum: vd. a. sipiaGhin, Il Ponti-ficio Collegio russicum e la chiesa russa cattolica di S. Antonio Abate, in Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani, a cura di C. galassi paluzzi, I, roma 1938, pp. 501-505.

(66) AInsr, s. Cssr, b. 47, f. 4, sott. Rapporti con gli Enti, lettera di C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 27 febbraio 1937, ivi nell’allegato.

(67) In un gruppo di appunti contenenti brevissime note utili ad inquadrare scientifica-mente e politicamente gli studiosi stranieri da invitare, conservato in AInsr, b. 223, f. 70, m. I. rostovtzeff è succintamente indicato come «Ammiratore del duce e del Fascismo»: ca-ratteristiche che, insieme al valore scientifico ed alla sua provenienza russa ma non sovietica, lo rendevano un invitato davvero ideale.

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fatti in questa comunicazione, dedicata proprio all’organizzazione del Convegno ed in particolare ai suoi aspetti economici, giglioli in fi-nale scriveva: «Con l’occasione ti comunico che il prof. michele ro-stovzeff (sic) è giunto oggi a roma e abita all’hotel de la ville» (68). lo studioso venne quindi invitato al Convegno Augusteo, ma rispose il 31 luglio 1938 rammaricandosi di non poter intervenire ed espri-mendo con significative parole la sua gratitudine verso gli organizza-tori della mostra Augustea della romanità per la realizzazione di un tale «splendidissimo corso di storia romana» (69).

(68) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da g. q. giglioli a C. galassi paluzzi del 7 giugno 1938. quanto agli aspetti economici del Conve-gno, giglioli ribadiva quanto già da lui evidenziato nella seconda lettera inviata a C. galas-si paluzzi il 2 giugno 1938, circa la quale vd. infra nel testo, sostenendo che «bisogna fare in modo che il viaggio degli studiosi italiani venga fatto a spese del ministero dell’educazione nazionale sotto forma di trasferta poichè altrimenti pochissimi saranno quelli disposti a anzi in grado di (queste ultime quattro parole aggiunte a penna, n.d.a.) sobbarcarsi alla spesa oc-corrente per venire a roma». quanto invece alla partecipazione di rostovtzeff, ancora il 23 luglio l’appunto interno n. 241 rivolto a C. galassi paluzzi e conservato in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, informa che «A proposito degli stranieri da invitare, (g. q. giglioli, n.d.a.) pensa che si dovrebbe mandare la lettera che si invia a tutti anche al prof. rostovzeff (sic) e al prof. Boethius, pnr (sic) essendo certi che non verranno». I nomi di m. I. rostovtzeff e di A. Boethius sono sottolineati ed accanto, con grafia che pare essere di C. galassi paluzzi, vi è l’annotazione «certamente, ma ciò era già previsto». In effetti Boethius il 28 luglio 1938 comunicherà di non poter intervenire: vd. AInsr, s. CCm, b. 223, f. 74. per rostovtzeff vd. invece infra nel testo. Il f. 70 della b. 223 conserva anche due appunti datati 27 e 29 luglio 1938 dai quali si evince come l’invito fosse stato trasmesso il 22 luglio. tuttavia dalla consul-tazione del registro di protocollo del Convegno Augusteo risulta come gli inviti per gli stu-diosi stranieri fossero inviati il 23 luglio 1938: vd. AInsr, s. rsm, Protocolli, CCM, quader-no 6 Convegno Augusteo.

(69) vd. per l’invito AInsr, s. CCm, b. 224, f. 77 e, per la comunicazione del mancato intervento al Convegno, la lettera manoscritta da m. I. rostovtzeff a C. galassi paluzzi del 31 luglio 1938, conservata nella b. 223, f. 74, che ebbe anche un’eco non indifferente nella stampa del tempo – ad es. «Il messaggero» e «Il Corriere della sera» del 26 settembre 1938 nonché «Il Corriere padano» del 28 settembre 1938, che titolava La Mostra della Romani-tà nei giudizi di uno studioso russo – e che si ritiene di dover pubblicare interamente: «Illu-stre professore[,] tante grazie a lei e al professore giglioli per il grande onore che mi avete fatto mi (sic) invitandomi a partecipare nel Convegno che si riunirà a roma per la chiusura del “Bimillenario Augusteo (sic). sono dolentissimo di non poter venire (per ragioni pura-mente personali) e esprimere personalmente la profonda gratitudine che debbo a tutti questi che hanno organizzato con tanto zelo e tanta maestria la bella mostra Augustea. ho godu-to questa mostra immensamente come studioso e insegnante della storia romana. Come stu-dioso ho imparato moltissimo mi (sic) studiando i vari oggetti esposti nella mostra. parecchi mi erano famigliari. ma ho potuto studiarli nel loro ambiente in belle copie e sotto la gui-danza (sic) di grandi esperti. ma erano molti monumenti che non mi erano conosciuti o che conoscevo soltanto in riproduzioni inadeguate al loro valore scientifico ed artistico. e, last

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tornando al contenuto della lettera di giglioli datata 2 giugno 1938 e relativa agli studiosi stranieri (70), quello che interessa rilevare è come da essa risulti che il Convegno Augusteo, forse per indicazio-ne già espressa da Bottai a giglioli l’11 maggio 1938 o forse anche per la sopravvenuta ristrettezza dei tempi di organizzazione e prepa-razione, si era nel frattempo trasformato da convegno di studi in riu-nione di studiosi. giglioli è esplicito in tal senso, come risulta dalla spiegazione di una sua correzione alla minuta della lettera da inoltra-re agli studiosi, inviatagli da galassi paluzzi (71).

but not least (in inglese nel testo, n.d.a.), ho avuto l’opportunità di vedere molti monumenti rovinati in bellissime ricostruzioni degni della erudizione italiana. ma forse di più ho godu-to la mostra come insegnante di storia romana. la mostra è veramente un splendidissimo (“splendidissimo” è correzione apportata da rostovtzeff in luogo di un precedente “vero”, n.d.a.) corso di storia romana, tale che non ho potuto mai fare agli studenti miej (sic). la combinazione di monumenti e testi da (sic) una vivida idea dello sviluppo di questo fenome-no unico nel mondo, che e (sic) la formazione dell’Impero romano. nelle statue, nelle mo-nete, nei testi appariscono davanti a me studioso della eterna città di roma il grande popo-lo che ha creato l’Impero e i grandi uomini che hanno espresso il genio di questo popolo. sono convinto che la mostra ha avuto un valore educativo forse più grande che il suo valore scientifico. l’ho sentito dire da parecchie persone colte per quali (sic), come per me, da un altro punto di vista, la mostra della romanità era una vera rivelazione. per tutto questo vo-levo esprimere la mia gratitudine personalmente e sono dolentissimo di non poter farlo che per iscritto. Con tante grazie di nuovo e con profonda stima suo devotissimo m. rostovtzeff professore all’università di Yale». Copia della lettera venne inviata a g. q. giglioli come si evince anche da una sua comunicazione datata 12 agosto, mentre C. galassi paluzzi in data 14 agosto rispondeva a rostovtzeff esprimendo il dispiacere per la mancata partecipazione e caldeggiando una partecipazione ai Corsi superiori per l’a.a. 1938-1939 con una «conferenza che non mancherà di costituire una delle più significative e importanti manifestazioni cultu-rali dell’anno accademico. resto in attesa di conoscere il tema che vi compiacerete trattare e ve ne ringrazio anticipatamente porgendovi i miei più cordiali e deferenti saluti (C. galassi paluzzi)»: vd. ancora AInsr, s. CCm, b. 223, f. 74. Come accennato sopra, copia della let-tera di m. I. rostovtzeff venne trasmessa da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli il 9 agosto 1938: cfr. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, sott. Circolari. Inviti, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 9 agosto 1938. da AInsr, s. CCm, b. 225, f. 79, apprendiamo che a ro-stovtzeff vennero nondimeno inviate la tessera del Convegno Augusteo, la “busta dell’invi-tato” e la medaglia-distintivo dell’incontro, per le quali vd. infra nel testo. In effetti il nome dello studioso russo venne pubblicato nel programma del Convegno tra quelli dei parteci-panti, ma non si giunse ad indicare anche la russia tra gli stati di appartenenza degli studio-si aderenti, tra cui figureranno invece Belgio, danimarca, egitto, Francia germania, Inghil-terra, Jugoslavia, olanda, polonia, romania, spagna, svezia, stati uniti d’America, turchia, ungheria e Città del vaticano: vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, programma del Convegno Augusteo, p. 17, col. 1 e Il Convegno Augusteo, in «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi romani», vI (1938), 22-23, pp. 1-9 (1).

(70) vd. supra nel testo.(71) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da g.

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nella seconda lettera inviata a galassi paluzzi lo stesso giorno 2 giugno 1938 e relativa agli studiosi italiani, giglioli consigliava di estendere gli inviti oltre che ai professori di archeologia e storia ro-mana anche «a quelli di diritto romano, di filologia classica, di epi-grafia ecc.». egli riteneva anche che i nominativi dovessero essere selezionati dai rettori delle università, ma senza che gli studiosi in-vitati assumessero il carattere di rappresentanti delle rispettive istitu-zioni di provenienza, perché in tal caso si sarebbe dovuto procedere allo stesso modo anche per l’estero. Aderendo alle soluzioni da lui prospettate, continuava lo studioso, ci sarebbe stato «il vantaggio da una parte che le università pagherebbero il viaggio dei professori e dall’altra che noi non ci sobbarcheremmo ad una pericolosa selezio-ne di nomi» (72). quanto alle soprintendenze, giglioli consigliava di invitare i soli soprintendenti ed eventualmente i direttori o ispetto-ri che quelli avessero desiderato portare con loro, mentre per le di-verse Accademie ed Istituti consigliava inviti ad personam rivolti a studiosi «versati in studi di storia o di archeologia romana» e non compresi né negli invitati in quanto professori universitari, né negli invitati in quanto in servizio presso le soprintendenze. giglioli con-sigliava anche di invitare i direttori degli Istituti stranieri a roma ed alcuni archeologi stranieri residenti a roma, come eugenia strong o Franz Cumont. egli, infine, in un poscritto vergato a mano, chiari-va che la realizzazione di un evento del genere sarebbe stata possibi-

q. giglioli a C. galassi paluzzi del 2 giugno 1938: «ho soppresso p.es. il paragrafo 2 del pro-gramma perché il “Convegno” è quello che noi indiciamo con la presente lettera: l’elencar-lo quindi tra le manifestazioni potrebbe portare a credere che esso avesse una sua vita scien-tifica (relazioni, comunicazioni ecc;) e non fosse una semplice riunione di studiosi a roma». Circa la possibile imputabilità a Bottai della definitiva configurazione del Convegno come in-contro di studiosi piuttosto che come convegno di studi, vd. AInsr, s. Ag, b. 51, f. 28, sott. VI-4-a. Ministero Educ.Naz. (1938-39), appunto datato 11 maggio 1938 spillato alla lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 13 maggio 1938. Cfr. comunque supra nota 51. non è im-probabile, comunque, che l’incontro si trasformasse da convegno di studi in riunione di stu-diosi anche a causa della stessa semplice inerzia di Bottai nel riscontrare le proposte di ga-lassi paluzzi e del conseguente trascorrere del tempo. Cfr. infra nota 77.

(72) si rammenterà che il problema collegato alla selezione dei nomi degli studiosi da in-vitare era stato a suo tempo già sollevato anche riguardo agli studiosi stranieri e con riferi-mento ad altre iniziative del Bimillenario. si tratta di particolari che contribuiscono a meglio collocare il Convegno Augusteo nel quadro delle celebrazioni e che illustrano come alle pre-occupazioni più propriamente ideologico-politiche si affiancassero sempre, in maniera talvol-ta più sincera talaltra forse più “pratica”, quelle legate al mantenimento dei buoni rapporti all’interno della comunità scientifica nazionale ed internazionale. Cfr. supra note 8 e 16.

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le soltanto se il ministero dell’educazione nazionale avesse posto a carico delle Istituzioni di appartenenza le spese di viaggio e soggior-no degli studiosi (73).

Il giorno successivo galassi paluzzi indirizzava una nuova lettera a Bottai proponendo il programma delle celebrazioni di chiusura del Bimillenario, a partire dalla solenne inaugurazione dell’Ara Pacis (74), prevista al punto 1 del programma e seguita, come punto 2, dalla «pre-liminare sistemazione dell’Augusteo». Il Convegno figura al punto 3 come «Convegno nazionale ed internazionale di eminenti studiosi di storia augustea e dell’Impero romano in genere» (75). I convenuti, oltre a partecipare alla cerimonia presso l’Ara Pacis, avrebbero visitato la mostra Augustea della romanità, mentre le altre manifestazioni pro-poste erano la visita alla Domus Augustana e, nella stessa occasione, la «inaugurazione dei lavori di restauro della Curia», una visita alle memorie augustee della Campania con annessa cerimonia celebrati-va del II centenario degli scavi di ercolano ed una visita agli scavi di pompei, un concerto di musiche classiche e melodrammatiche ispi-rate a soggetti di interesse romano eseguito presso la sede dell’Istitu-to a cura dell’e.I.A.r., una visita agli scavi di ostia con ricevimen-to del ministro dell’educazione nazionale ed infine la cerimonia di chiusura dell’anno augusteo in Campidoglio con il ricevimento del governatore di roma. nella lettera si nota l’estrema attenzione alla forma dei rapporti da intrattenere con gli studiosi stranieri, soprat-

(73) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da g. q. giglioli a C. galassi paluzzi del 2 giugno 1938: «naturalmente tutto ciò potrà farsi solo quando il ministro dell’educazione avrà deciso di fare una circolare che costringa rettori, so-printendenti e presidenti di Accademie di fare gravare sui loro bilanci la spesa di viaggio e soggiorno loro e dei loro colleghi che verranno a roma. g.». Franz Cumont, invitato, comu-nicherà in data 2 agosto 1938 di non poter intervenire: vd. AInsr, s. CCm, b. 223, f. 74. eu-genia strong, che infine sarà l’unico studioso inglese presente e che interverrà al Convegno in rappresentanza del girton College di Cambridge, avrà invece un ruolo di primo piano come rappresentante degli studiosi stranieri: vd. infra nel testo ed inoltre in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 71, sott. Da inserire, lo scambio epistolare tra e. strong e C. galassi paluzzi del 1-9 agosto 1938, molto interessante anche per testimoniare i reciproci rapporti di cortesia e familiarità.

(74) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Na-zionale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 3 giugno 1938. È interessante notare come la velina conservata in Archivio fosse ormai titolata Bimillenario augusteo / convegno naz. e internaz.

(75) evidentemente non era stata apportata la correzione segnalata da giglioli: cfr. su-pra nota 71.

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tutto sotto il profilo dell’invito. galassi paluzzi rappresentava infatti a Bottai che l’invito avrebbe potuto essere rivolto per tramite diplo-matico ma in questo caso, in ragione del ridotto tempo a disposizio-ne, sarebbe stata necessaria una grande sollecitudine per permettere in tempo ai governi interessati la scelta degli studiosi. questi ultimi, peraltro, venendo scelti dai rispettivi governi ne sarebbero stati i rap-presentanti in seno al ciclo di cerimonie programmato. diversamen-te, l’invito avrebbe potuto invece essere rivolto agli studiosi diretta-mente dall’Istituto di studi romani e dal museo dell’Impero romano, con risparmio di tempo e con la scelta dei nominativi da parte del-le due Istituzioni. In questo caso non si sarebbero avuti rappresen-tanti delle diverse nazioni ma, più propriamente, «eminenti studiosi di questa o quella nazione, presenti al Convegno» (76). soluzioni ana-loghe, come si rammenterà, erano state già prospettate per le confe-renze celebrative. per quanto riguarda invece l’individuazione degli studiosi italiani, galassi paluzzi sostanzialmente si rifaceva al conte-nuto della lettera di giglioli del 2 giugno 1938. la lettera inviata a Bottai trattava anche del tema della quota di partecipazione al Con-vegno, che non avrebbe dovuto essere richiesta visto che non si era più in presenza di «un vero e proprio Congresso» (77). veniva quindi

(76) la questione, nel quadro della politica internazionale dell’epoca, era tutt’altro che meramente formale: si consideri anche, tra i documenti più vicini in ordine di tempo a quel-lo richiamato nel testo, la lettera di A. W. van Buren a C. galassi paluzzi del 10 agosto 1937: vd. supra nel testo e note 22-30. la necessità di evitare che i vari studiosi stranieri invita-ti assumessero la veste ufficiale di «rappresentanti delle diverse nazioni» costituisce un trat-to costante nell’organizzazione delle attività del Bimillenario da parte dell’Istituto e del mu-seo dell’Impero romano: cfr. anche supra nota 8. Ciò peraltro, non evitava – in accordo con i fini stessi non solo del Convegno ma anche, quanto a ciò, di altre manifestazioni del Bi-millenario – che gli studiosi stranieri invitati in questo modo fossero poi considerati appun-to quali «eminenti studiosi di questa o quella nazione» e che dunque ci si potesse vantare come alle celebrazioni avessero preso parte studiosi appartenenti a paesi diversi dall’Italia: vd. ad esempio Il Convegno Augusteo, in «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi ro-mani», vI (1938), 22-23, pp. 1-9 (1). l’essenziale, insomma, era che gli studiosi stranieri fos-sero scelti dagli italiani e non invece selezionati dai governi del paese di provenienza, senza possibilità di preventivo controllo politico oltre che scientifico da parte italiana: in tal modo essi avrebbero, in definitiva, “rappresentato” il rispettivo paese o l’Istituzione di appartenen-za ma non il proprio governo.

(77) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 3 giugno 1938, p. 2: «reputo in fine (sic) mio dovere farvi notare che, mentre nel primitivo programma, pensandosi di fare un vero e proprio Congresso era opportuno chiedere agli invitati una quota sia pure minima, di iscri-zione che avesse tolto all’invito il carattere di troppo interessata propaganda, questa vol-

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allegato un piano finanziario dei costi del Convegno e si restava in attesa delle deliberazioni del ministro dell’educazione nazionale in merito all’intero programma proposto. pochi giorni dopo, il 15 giu-gno 1938 galassi paluzzi scriveva nuovamente a Bottai domandando «quali decisioni sono state prese in merito al Convegno Augusteo, e se il progetto scientifico e finanziario può ritenersi approvato» (78). In considerazione della prossima fine dell’«anno bimillenario», galassi paluzzi sollecitava poi una risposta non solo circa la conferma del-la data dell’inaugurazione dell’Ara Pacis, evento che avrebbe avviato le cerimonie di chiusura, ma soprattutto sulle spese di viaggio e sog-giorno per gli italiani, da porsi a carico del ministero, nonché circa la forma dell’invito da rivolgersi agli studiosi stranieri, di cui si alle-gava un primo elenco con accluse le informazioni fornite dal ministe-ro degli Affari esteri (79). Copia della medesima lettera veniva inoltra-

ta non potendosi fare altro (per la ristrettezza di tempo) che invitare degli studiosi ad esse-re presenti a una cerimonia celebrativa, sarebbe forse meno opportuno chiedere una quota di iscrizione, e si potrebbe, senza tema di essere fraintesi, dire che si considerano gli invita-ti come ospiti in casa nostra».

(78) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 15 giugno 1938, p. 1. significativamente all’interno della minuta della lettera ivi conservata in Archivio, nel testo originale «eccellen-za e caro amico, permettimi di chiederti, in relazione a quanto ho avuto occasione di espor-ti, se sono state prese le opportune decisioni in merito al progettato Convegno Augusteo, e se il progetto scientifico e finanziario può ritenersi approvato» le parole «se sono state pre-se le opportune decisioni in merito al progettato Convegno Augusteo» vennero corrette in «quali decisioni sono state prese in merito al Convegno Augusteo», che risultano nella ve-lina della lettera inviata a Bottai. la modificazione non è certo casuale e denota una ferma volontà di addivenire all’incontro con gli studiosi non solo italiani ma anche, e forse soprat-tutto, stranieri.

(79) Consultabili quali allegato in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 15 giugno 1938. nel frattempo venivano avviati i contatti con il ministero degli Affari esteri per otte-nere il nulla osta, previe le verifiche del caso, ai nominativi stranieri prescelti per l’invito e per i quali esso non fosse stato già acquisito in precedenza: cfr. supra nota 55 ed infra note 86 e 106. la ragione di tali controlli era, evidentemente, di carattere squisitamente politico e non era appunto di certo questa la prima volta in cui verifiche di questo genere venivano avviate o in cui la loro necessità veniva ribadita: vd. ad esempio AInsr, s. CCm, b. 212, f. 24, sott. B.A. Corpus. Verbale delle Sedute (della Commissione direttiva), sub sott. Verbale della seduta del 22-5-1935, ivi p. 1 del verbale, sia in generale che con particolare riferimento agli «studiosi appartenenti ai paesi sanzionisti», nonché s. CCm, b. 223, f. 69 Informazioni richieste al Ministero Affari Esteri. Studiosi stranieri da invitare e b. 224, f. 77, sott. Convegno Augusteo, fascettario degli invitati, in cui si rinviene un elenco senza data intitolato «Conve-gno Augusteo. studiosi invitati al Convegno», tra cui figura anche m. I. rostovtzeff, con in-

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Il Convegno Augusteo del 1938 401

ta in data 20 giugno 1938 a giglioli, che il giorno 22 dava riscontro della relativa ricezione (80). da una successiva comunicazione di ga-lassi paluzzi a Bottai del 23 giugno 1938, si evince che, nel periodo di tempo intercorso tra questa data e la precedente lettera indirizza-ta al ministro, quest’ultimo aveva dato l’assenso, evidentemente nel corso di un incontro con il presidente dell’Istituto, all’organizzazio-ne del Convegno Augusteo: «[…] poiché mi hai cortesemente detto che possiamo procedere alle pratiche relative all’organizzazione del Convegno mondiale […]» (81). Circa un mese dopo, con lettera da-tata 18 luglio 1938 (82), galassi paluzzi trasmetteva a marino lazzari, direttore generale delle Antichità e Belle Arti del ministero dell’edu-cazione nazionale, una lettera destinata a Bottai corredata di sette allegati costituenti altrettanti modelli di lettera da inviare alle rappre-sentanze diplomatiche dei paesi di provenienza degli invitati stranieri, ai vertici di università, enti ed Istituzioni per favorire la partecipa-zione al Convegno Augusteo (83). nella stessa occasione il presidente

dicazioni dei relativi telespressi del ministero degli Affari esteri. In base alle date di questi, l’elenco pare databile dopo il 22 agosto 1938.

(80) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, lettera da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 20 giugno 1938 e lettera da g. q. giglioli a C. galas-si paluzzi del 22 giugno 1938. nella prima lettera galassi paluzzi assicurava giglioli che «A proposito degli studiosi stranieri proposti per l’invito vedrai che ho tenuto nel massimo con-to le tue osservazioni». In ogni caso, veniva riproposto l’invito all’egitto e limitate ad un solo studioso le rappresentanze di Jugoslavia ed olanda, «nazioni minori», di modo che solo la germania, l’Inghilterra e la Francia avessero 2 o 3 rappresentanti. nel caso di uno studio-so, de Figueredo, galassi paluzzi giustificava la sua esclusione «perché le informazioni per-venuteci sul suo conto dal ministero degli esteri non sono buone». per l’ungheria, rinvian-do ad un colloquio di cui non mi pare esserci altra significativa traccia, veniva riproposto il nome di J. huszti in luogo di quello di A. Alföldi segnalato da giglioli in sostituzione del primo. C. galassi paluzzi ricorrerà ancora all’aiuto di g. q. giglioli per la scelta degli stu-diosi stranieri, ad esempio dopo che m. Wheeler e I. A. richmond, una volta invitati, comu-nicarono che non sarebbero venuti. la questione non era di poco conto, poiché l’unico stu-dioso inglese ad essere presente, restava, in sostanza, e. strong: vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, sott. Circolari. Inviti, lettera di C. galassi paluzzi a g. q. giglioli del 22 agosto 1938.

(81) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 23 giugno 1938.

(82) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a m. lazzari del 23 giugno 1938.

(83) da essi peraltro si comprende come la manifestazione fosse stata posta sotto il patro-nato del ministero per l’educazione nazionale: «per volontà del duCe, sotto gli auspici del ministero dell’educazione nazionale l’Istituto di studi romani e il museo dell’Impero pro-muovono un Convegno Augusteo che avrà luogo in occasione della chiusura dell’anno bimil-

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dell’Istituto sollecitava un riscontro ufficiale da parte del ministro, che avrebbe dovuto fare seguito anche ad un colloquio che la lettera tra-smessa, destinata a Bottai, consente di datare al giorno precedente, cioè al 17 luglio. la lettera indirizzata al ministro, titolata nella veli-na d’archivio Convegno Augusteo rapporti col Min. dell’Educaz. Naz., reca il programma praticamente quasi del tutto definitivo delle ma-nifestazioni di chiusura del Bimillenario Augusteo. Il giorno 23 set-tembre 1938 avrebbero avuto luogo le inaugurazioni dell’Ara Pacis e della nuova sistemazione dell’Augusteo, nonché la visita agli scavi di ostia con ricevimento offerto ai partecipanti al Convegno Augusteo da parte del ministro dell’educazione nazionale. Il successivo giorno 24 gli studiosi «convenuti in roma per il convegno di cui sopra» (84) avrebbero visitato la mostra Augustea della romanità ed in seguito si sarebbero recati alla Domus Augustana ed ai lavori di restauro della Curia. Avrebbe poi avuto luogo un concerto di «musiche classiche e melodrammatiche ispirate a soggetti di interesse romano» organizza-to dall’Istituto, eseguito presso la Basilica di massenzio e rea lizzato con la collaborazione dell’e.I.A.r. Il 25 settembre avrebbe avuto luo-go la visita alle memorie augustee della Campania, agli scavi di er-colano, di pompei ed infine al museo nazionale di napoli, mentre il giorno 26 la visita alle «memorie augustee ed imperiali di Capri». Infine, il giorno 27, in Campidoglio, avrebbe avuto luogo la cerimo-nia di chiusura dell’«anno bimillenario» con un ricevimento del go-vernatore di roma. Con lettera in data 21 luglio 1938 indirizzata a galassi paluzzi, Bottai approvava il programma «delle manifestazioni di chiusura del Bimillenario Augusteo da voi sottopostomi». Infine, quindi, il Convegno si confondeva e quasi si identificava con le di-verse manifestazioni previste per la chiusura del Bimillenario, percor-rendole tutte trasversalmente, dall’inaugurazione dell’Ara Pacis sino al ricevimento in Campidoglio (85).

lenario». nel titolo della minuta della circolare rivolta alle rappresentanze diplomatiche, gli studiosi stranieri sono definiti: «rappresentanti» dei rispettivi paesi. Cfr. supra nota 76.

(84) si noti che la correzione segnalata da giglioli il 2 giugno 1938 non era stata anco-ra apportata all’intero programma, benché in questo caso non possa escludersi si trattasse di un nuovo refuso. la questione, tuttavia, era forse divenuta anche priva di peso, dal momen-to che il Convegno Augusteo sostanzialmente si fondeva con le manifestazioni di chiusura dell’«anno bimillenario». Cfr. in tal senso nota 51 e nota seguente.

(85) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-

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Il Convegno Augusteo del 1938 403

dalla fine di luglio vennero dunque trasmesse le lettere di invito ai singoli studiosi ed alle Istituzioni scientifiche, mentre già qualche tem-po prima erano state richieste al ministero degli Affari esteri le neces-sarie informazioni relative agli studiosi stranieri cui si era deciso di ri-volgere l’invito e che non fossero state già assunte in precedenza (86).

nale, lettera da g. Bottai a C. galassi paluzzi del 21 luglio 1938. Il 22 agosto 1938 galas-si paluzzi inviava quindi a m. lazzari il comunicato stampa del Convegno, affinché l’ufficio stampa del ministero sotto i cui «auspici» era posta la manifestazione, lo diramasse: vd. ibi-dem. la visita agli scavi di ercolano era stata originariamente pensata – vd. supra nel testo e nota 74 – come celebrativa del II centenario del loro inizio ma, come si nota, nella lettera a Bottai del 18 luglio non vi è menzione di questa ricorrenza. tuttavia, dal programma del Con-vegno Augusteo – vd. AInsr, s. CCm, b. 22, f. 68 – apprendiamo che ad ercolano si tenne in effetti la «Cerimonia celebrativa del II centenario dell’inizio degli scavi»: è evidente come questo particolare del Convegno abbia subito una serie di rapide modificazioni. un carteg-gio tra C. galassi paluzzi ed A. maiuri è utile a fare luce su tale vicenda. Il 28 luglio 1938 A. maiuri faceva infatti rilevare a C. galassi paluzzi che in realtà la ricorrenza sarebbe caduta «precisamente» il 1° ottobre. secondo maiuri, volendola inserire nell’ambito del Bimillena-rio Augusteo, la celebrazione si sarebbe potuta anticipare al 25 settembre se fosse stato pre-sente il ministro, il quale aveva già fissato proprio per il 1° settembre la data ufficiale della celebrazione del II centenario degli scavi. la precisazione di maiuri faceva seguito a quanto contenuto in una lettera indirizzatagli da galassi paluzzi il 25 luglio 1938, in cui il primo ve-niva informato che: «la celebrazione del II centenario degli scavi di ercolano essendo stata fissata già in epoca anteriore non avrà più luogo in occasione del Convegno. ma la visita ad ercolano avverrà però egualmente». nella velina della lettera sono presenti delle correzioni manoscritte al testo dattiloscritto. originariamente, infatti, in luogo di «già in epoca anterio-re» era scritto «a epoca posteriore». Inoltre, all’altezza di «anteriore» vi è un richiamo mano-scritto che si riferisce evidentemente a quest’ultimo riferimento cronologico: «mi sembra per la fine di luglio o Agosto». vi è stata dunque una fase in cui la celebrazione del II centena-rio degli scavi di ercolano venne eliminata dal Convegno Augusteo, pur permanendo la visi-ta ad ercolano. Ancor prima, in data 15 luglio 1938 – data, questa, antecedente a quella del 18 luglio in cui il presidente dell’Istituto invierà a Bottai il programma delle manifestazioni conclusive del Bimillenario Augusteo – galassi paluzzi aveva presentato ad A. maiuri l’inse-rimento della cerimonia celebrativa del II centenario come possibile, tanto che i verbi sono al condizionale. In data 25 agosto 1938, tuttavia, C. galassi paluzzi informava A. maiuri che «la cerimonia celebrativa del II centenario dell’inizio degli scavi di ercolano è stata definiti-vamente fissata per il 25 settembre p.v. ed è assicurata la presenza del ministro». Il carteggio menzionato è in AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Napoli e Capri, Pompei, Ercolano, sub sott. Maiuri e si inquadra in una corrispondenza con maiuri, presidente della sezione di na-poli dell’Istituto, relativo in modo particolare all’organizzazione delle manifestazioni campa-ne del Convegno Augusteo. Inoltre, circa la tendenziale e talvolta sostanziale fusione tra ce-rimonie di chiusura del Bimillenario ed il Convegno Augusteo, vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, sott. Circolari. Sollecito all’invito per i non aderenti, ove, nella relativa lettera circolare, il calendario dei giorni 23-27 settembre 1938 era introdotto da queste parole: «vi ripetiamo qui quali sono le manifestazioni che saranno svolte durante il Convegno».

(86) AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68 Lettere circolari. Inviti 1938 e b. 223, f. 69 Informazio-ni richieste al Ministero Affari Esteri. Elenco studiosi stranieri da invitare, f. 71 Convegno Au-

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tuttavia è esattamente in questo periodo che, storicamente precedu-to dal r.d.-l. n. 880 del 19 aprile 1937, si colloca l’avvio di quel complesso di norme, regolamenti e circolari complessivamente noto come “leggi razziali” ed anzi i primi provvedimenti si situarono pro-prio tra il 5 ed il 23 settembre 1938. si tratta, per quanto qui di più diretto interesse, dei regi decreti-legge n. 1390 del 5 settembre, n. 1381 del 7 settembre e n. 1630 del 23 settembre (87). la svolta raz-

gusteo. Studiosi aderenti, f. 72 Convegno Augusteo. Istituti aderenti e f. 74 Adesioni rifiutate. vd. inoltre AInsr, s. CCm, b. 224, f. 77 Fascettari degli invitati, delle Istituzioni, degli stu-diosi stranieri e per l’invio del catalogo. In particolare, ibidem, il sott. Fascettari vari degli stu-diosi stranieri conserva un elenco intitolato «Convegno Augusteo studiosi stranieri da invitare» in cui accanto a quasi tutti i nominativi figura l’indicazione del telespresso del ministero degli Affari esteri recante le informazioni sul singolo studioso: si tratta di docu-menti che recano date dall’anno 1934 all’anno 1937. Ancora ibidem un documento intitolato «Convegno Augusteo studiosi stranieri aderenti» costituisce l’elenco sostanzialmente definitivo, non datato, degli studiosi stranieri aderenti alla manifestazione. Cfr. supra nota 79. Cfr. anche AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Na-zionale, lettera di C. galassi paluzzi a g. Bottai del 30 agosto 1938 e lettera del 12 settem-bre 1938 da C. galassi paluzzi a C. Calamaro, capo di gabinetto del ministro dell’educa-zione nazionale, il cui originale recava in allegato due elenchi, rispettivamente degli studiosi italiani e degli studiosi stranieri invitati al Convegno, indicando poi coloro che, pur aderen-do, non potevano intervenire, e coloro che, invece, non avevano ancora risposto all’invito. Circa gli studiosi stranieri vd. anche supra note 55 e 79 ed infra nota 106. In una «situazio-ne degli studiosi invitati al Convegno Augusteo al 7 settembre 1938-XvI», figurano 55 stu-diosi stranieri invitati, di cui 44 aderenti e 26 partecipanti, mentre le nazioni rappresentate venivano indicate nel numero di 15: vd. AInsr, s. CCm. b. 224, f. 77, sott. Convegno Au-gusteo, fascettario degli invitati.

(87) Altri provvedimenti che intervennero sino al 23 settembre 1938 furono il r.d. n. 1531 ed il r.d.-l. n. 1539, entrambi del 5 settembre e funzionali alla creazione rispettiva-mente della “direzione generale per la demografia e la razza” e del “Consiglio superiore per la demografia e la razza”. sulle “leggi razziali” vd. principalmente, tra gli ultimi contributi, Il diritto di fronte all’infamia nel diritto. A 70 anni dalle leggi razziali, a cura di l. garlati - t. vettor, milano 2009; s. GenTile, Le leggi razziali: scienza giuridica, norme, circolari, milano 2010; G. aCerBi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, milano 2011 e s. GenTile, La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva sto-rico-giuridica (1938-1945), torino 2013. per il fenomeno del “madamato” o “madamismo” di cui si occupava il r.d.-l. n. 880/1937 vd., sempre tra gli ultimi contributi, G. GaBriel-li, Il razzismo coloniale italiano tra leggi e società, in «quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXXIII/XXXIv (2004/2005), tomo I, pp. 343-358, l. Mar-Tone, Diritto d’oltremare. Legge e ordine per le colonie del Regno d’Italia, milano 2008, pp. 66-70 e f. BaCCo, Il delitto di “madamato” e la “lesione al prestigio della razza”. Diritto penale e razzismo coloniale nel periodo fascista, in Il diritto di fronte all’infamia nel diritto, cit., pp. 85-119. per un approccio alla questione della razza e del razzismo all’interno del fascismo e della cultura fascista, vd. G. GaBrielli, s.v. Razzismo, in Dizionario del fascismo, a cura di v. de grazia - s. luzzatto, II, torino 2003, pp. 470-477 ed a. TarQuini, Storia della cultura fa-scista, Bologna 2011, pp. 193-202. l’atteggiamento di g. Bottai rispetto alle “leggi razziali”

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Il Convegno Augusteo del 1938 405

ziale nella politica italiana ebbe un riscontro notevole non solo nelle attività in generale dell’Istituto, il cui atteggiamento non fu peraltro di serena acquiescenza al razzismo di marca nazionalsocialista, ma in particolare anche nell’organizzazione di un evento caratterizzato nella sua dimensione ufficiale da indiscutibili ed anzi primari risvolti poli-tici ed ideologici come il Convegno Augusteo (88), e ciò sino da subi-to ed indipendentemente dalla data di entrata in vigore delle singole norme che potevano avere una più diretta relazione con l’organizza-zione del Convegno stesso. A destare un’immediata attenzione do-vettero essere infatti non solo le previsioni del r.d.-l. n. 1390 del 5 settembre, relativo anche alla decadenza degli assistenti universitari e

non ha mancato di generare un vivo dibattito tra gli storici che, di recente, si è esteso anche all’atteggiamento del periodico «Critica Fascista», da lui fondato e diretto, nei confronti del nazionalsocialismo e del razzismo: vd. quindi, tra gli ultimi contributi, M. MiChaelis, Giu-seppe Bottai, la pretesa totalitaria e la svolta razziale. Riflessioni sui diari di un gerarca fasci-sta, in «rivista storica Italiana», CXIII (2001), 2, pp. 457-496 e n. d’elia, Giuseppe Bottai, «Critica fascista» e il nazionalsocialismo, in «nuova storia Contemporanea», XvIII (2014), 1, pp. 7-54 ed ivi in particolare pp. 11-12 per una sintesi delle posizioni della storiografia ri-spetto al rapporto tra Bottai e le “leggi razziali”. per il rapporto tra razza, razzismo e culto della romanità in età fascista, anche con particolare riferimento all’ambiente del Bimillena-rio Augusteo, vd. soprattutto f. sCriBa, Augustus im Schwarzhemd?, cit., pp. 362-366 ed ora vd. anche a. arGenio, Il mito della romanità nel ventennio fascista, cit., pp. 156-163 e p. s. salvaTori, Razza romana, in Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione, a cura di A. giardina - F. pesando, Catalogo della mostra di roma, Colosseo, tempio di romolo e Curia Iulia al Foro romano, 10 ottobre 2012 - 10 marzo 2013, milano 2012, pp. 277-286. J. arThurs, Excavating Modernity, cit., dedica al tema l’intero cap. 5: Empire, Race and the Decline of Romanità, 1936-1945.

(88) Circa la presenza, all’interno di «roma. rivista di studi e di vita romana», periodico ufficiale dell’Istituto, di contributi non in linea con l’ideologia razzista dominante, circa le ra-dici dell’atteggiamento del periodico e dell’Istituto nei confronti dell’ebraismo e del cosiddet-to “pericolo ebraico” anche prima del 1938 e circa il loro collegamento con l’atteggiamento della Chiesa cattolica, vd. a. la penna, La rivista roma e l’Istituto di Studi Romani. Sul culto della romanità nel periodo fascista, in Antike und Altertumswissenschaft, cit., pp. 89-110 (104-107). del resto tale collegamento non stupisce affatto se solo si pensa a quanto fosse fonda-mentale all’interno dell’Istituto l’influenza della «roma onde Cristo è romano», cioè dell’idea cristiano-cattolica di roma e se, inoltre, si pone mente alla circostanza come proprio attorno alla questione della razza ed alla sua prepotente valorizzazione all’interno dell’idea “ufficiale” fascista di roma, nonché attorno alle categorie di “romanità” e “cattolicità”, si consumasse il definitivo dissidio tra Chiesa e fascismo: vd. ora G. riGano, La svolta razzista. Controver-sie ideologiche tra Chiesa e fascismo, Bologna 2013 = id., Romanità, cattolicità e razzismo. La Santa Sede e la difesa della razza, in «Cristianesimo nella storia», XXXIII (2012), pp. 48-88. l’Istituto, peraltro, proprio nell’a.a. 1938-1939 dei Corsi superiori inaugurò un ciclo de-dicato a La civiltà di Roma e i problemi della razza, pubblicando in seguito alcune delle con-ferenze in appositi Quaderni: mi riservo di tornare altrove su questo ciclo di conferenze, che non interessa direttamente la materia del Convegno Augusteo.

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dei liberi docenti «di razza ebraica» a decorrere dal 16 ottobre 1938, ma proprio la medesima marcata svolta razziale di cui questi e gli al-tri provvedimenti, pure al di là del loro stesso particolare contenuto, co sti tui vano prova ormai evidente e non eludibile.

già il 7 settembre 1938 galassi paluzzi scriveva infatti a lazzari trasmettendo «un elenco degli studiosi invitati al Convegno» e doman-dando di comunicare quali, oltre ad alcuni già noti, fossero «quelli appartenenti alla razza ebraica» (89). Il successivo giorno 8 settembre, galassi paluzzi riceveva la risposta ad una seconda lettera inviata sempre il 7, di uguale tenore ma indirizzata alla direzione genera-le dell’Istruzione superiore del ministero dell’educazione naziona-le: l’ufficio restituiva la lista dei nomi degli studiosi informando di non essere ancora in possesso degli elementi atti a fornire una rispo-sta (90). sempre il giorno 7 settembre e per le stesse ragioni, galassi

(89) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a m. lazzari del 7 settembre 1938. dell’elenco menziona-to non è conservata copia in allegato alla velina della lettera, ma sappiamo che taluni studiosi ebrei erano già noti perché dallo stesso testo della lettera si apprende che i nomi «che reca-no accanto un segno rosso sono di coloro che sappiamo con certezza essere israeliti». laz-zari risponderà il successivo giorno 19 scrivendo che erano in corso «accertamenti razziali»: vd. ibidem lettera da m. lazzari a C. galassi paluzzi del 19 settembre 1938.

(90) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. giustini del 7 settembre 1938 e lettera da g. giusti-ni a C. galassi paluzzi dell’8 settembre 1938. la lista doveva essere una copia di quella in-viata a m. lazzari ed i nomi segnalati di «coloro che sappiamo con certezza essere israeliti» erano: luigi Crema, doro levi, mario Attilio levi, Fernando liuzzi, Arnaldo momigliano e lucia morpurgo. una croce di colore blu si trova a invece accanto al nome di ettore modi-gliani e, forse, di Bruno molajoli, mentre un punto interrogativo di colore rosso era accanto al nome di Alda spinazzola levi. In archivio sono anche conservati, in s. CCm, b. 223, f. 75 Convegno Augusteo. Israeliti, tre elenchi di nomi. un primo è generale, senza data, e riguar-da tutti gli invitati al Convegno: accanto al nome degli studiosi ebrei o in dubbio se fosse-ro tali sono posti segni diversi a seconda del grado di dubbio. un secondo elenco, anch’esso senza data, sembra estrapolato dal primo ma di certo non era ancora definitivo, essendo inti-tolato «ebrei invitati al Convegno (quelli che hanno il punto interrogativo sono dubbi)». un terzo elenco dattiloscritto è ormai sostanzialmente definitivo ed è intitolato «Israeliti italiani invitati al Convegno». si tratta di un documento di cui è presente copia anche in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale ma che rispet-to a quest’ultimo esemplare reca a mano altri due nomi, «s.e. Fermi» e «prof. modigliani», che non si riscontrano nell’altro esemplare. Circa e. modigliani cfr. anche infra nota 96. In AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, all’interno di un elenco non datato di studiosi italiani da in-vitare al Convegno figurano e. modigliani, d. levi, l. Crema, m. A. levi ed A. momiglia-no. Cfr. infra nota 93. dalla relativa scheda conservata in AInsr, s. CCm, b. 225, f. 79 Sche-de-indirizzario degli invitati risulta come e. Fermi – le cui vicende personali in relazione alle leggi razziali sono ben note – fosse stato invitato il 1° settembre ed avesse subito aderito. Il

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Il Convegno Augusteo del 1938 407

paluzzi aveva inviato una terza lettera indirizzata al direttore genera-le del ministero dell’educazione nazionale per le Accademie, le Bi-blioteche, gli Affari generali ed il personale, che il giorno 14 settem-bre comunicava di non poter fornire una risposta dal momento che la maggior parte dei nominativi faceva capo alla direzione generale dell’Istruzione superiore, mentre per quelli dipendenti da Accademie ed Istituti non si disponeva ancora dei necessari elementi (91). È inve-ce del giorno 8 settembre l’appunto interno n. 289, che dava conto della prima risposta pervenuta dal ministero dell’educazione nazio-nale al quesito posto il giorno 7 e di cui s’è detto. Ad esso è spilla-to un ulteriore foglio di appunti dattiloscritti per un colloquio con Bottai, non datato, contenente un elenco di studiosi ebrei e le anno-tazioni vergate a mano, in corsivo ed a matita: «telefonare a tutti» e «per quelli fuori roma [appunti?] telefonici» (92). la questione era

suo nome non risulterà nell’elenco dei partecipanti pubblicato nell’opuscolo-programma del Convegno Augusteo – vd. in AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68 – né dalla scheda citata risulta che egli abbia ritirato i materiali allestiti per i convegnisti, circa i quali vd. infra.

(91) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Na-zionale, lettera da C. galassi paluzzi a e. scardamaglia del 7 settembre 1938 e lettera da e. scardamaglia a C. galassi paluzzi del 14 settembre 1938. presumibilmente è degli stessi gior-ni un promemoria redatto in vista di un incontro tra il presidente dell’Istituto e Bottai, privo di data ma spillato alla copia di una lettera indirizzata al ministro datata 1° settembre 1938 e ad una «situazione degli studiosi invitati al Convegno Augusteo al 7 settembre 1938-XvI», rispetto alla quale è quindi probabilmente di data pari o immediatamente successivo. Al se-condo punto del promemoria si pone il problema di «come regolarsi» con gli studiosi ebrei che avevano nel frattempo aderito al Convegno, mentre al quarto punto si escludeva che tra gli stranieri invitati ci fossero «israeliti», benché non se ne avesse la «matematica certezza data la difficoltà di accertare la cosa»: vd. AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale, promemoria per colloquio con Bottai. nell’Archivio questo promemoria si trova accanto ad un altro foglio di «Appunti per il colloquio con s.e. Bottai» in cui, tra gli altri, figura l’argomento «nome del Convegno». vi troviamo, vergato a mano ed in corsivo, l’aggettivo «Augusteo».

(92) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, nota n. 289 e foglio ad essa spillato, in cui non è certa la lettura della parola “appunti”, che sembrerebbe abbreviata nella forma «appunt» priva del punto finale. In quest’ultimo fi-gurano gli «Israeliti Italiani invitati al Convegno» con i rispettivi incarichi pubblici: l. Cre-ma, d. levi, m. A. levi, F. liuzzi, A. momigliano, l. morpurgo ed A. spinazzola levi, per i quali vd. anche supra nota 90. Il foglio, che reca tracce di una piegatura in quattro parti, presenta anche, sulla facciata dattiloscritta, all’altezza dell’intitolazione «Appunti per il Col-loquio con s.e. Bottai», un’annotazione a matita, in caratteri corsivi non leggibili. sull’altra facciata, perpendicolari ad uno dei lati corti, si trovano altre otto righe di appunti vergati a matita. più in particolare essi si collocano su di una metà della facciata ottenuta piegando il foglio in due parti. gli appunti sono in corsivo e non leggibili. la grafia è, forse, quella del-

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evidentemente della massima importanza perché la legislazione raz-ziale non aveva mancato di incidere su collaborazioni scientifiche di lunga data (93). l’irrompere delle leggi razziali nell’organizzazione del

lo stesso C. galassi paluzzi. Al di sotto dell’ultima riga, quasi trasversali, si trovano, sempre scritti a matita, un numero cancellato con due tratti di matita – 94140 o 95140 – e due let-tere in stampatello, una delle quali puntata: «d.l». si potrebbe forse, tutto considerato, ri-tenere trattarsi del numero telefonico di doro levi, ma andrebbe chiarito il contenuto degli appunti illeggibili sulle due facciate del foglio ed andrebbe anche appurato se il numero e le iniziali siano in rapporto con quegli appunti, nonché se il numero fosse un numero telefoni-co e perché sia stato cancellato. l’idea di telefonare agli «[…] studiosi israeliti che sono sta-ti invitati e che hanno aderito […]» era contenuta anche nel primo promemoria di cui alla nota precedente, in cui si legge al secondo punto la questione da porre a Bottai: «elenCo studIosI IsrAelItI che sono stati invitati e che hanno aderito – Come regolarsi?» ed a mano, a mo’ di risposta: «telef(onare?) [a?] tutti» o «telef(ono? -oni?) [di?] tutti». non è quindi inverosimile che quest’ultima indicazione, che si direbbe essere stata vergata proprio all’esito del colloquio, provenga in definitiva dallo stesso Bottai e che in base ad essa fossero riportate le indicazioni leggibili nell’elenco spillato alla nota 289 dell’8 settembre 1938. È in-certo quale avrebbe dovuto essere il contenuto di tali comunicazioni telefoniche, né risulta-no annotazioni circa la loro effettiva esecuzione o meno. Comunque, ancora a ridosso del 23 settembre il ministero dell’educazione nazionale ritarderà a pronunciarsi ufficialmente circa la partecipazione degli studiosi ebrei al Convegno e, soprattutto, a farlo per iscritto. sempre in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale, si rinviene l’appunto interno n. 288, datato 8 settembre 1938, che dà conto del colloquio tele-fonico con un funzionario del ministero, il dott. di giovanni, ed in cui al punto C si legge: «nei riguardi degli ebrei, sta facendo effettuare ricerche al gabinetto e domani si dovrà te-lefonargli perché solo per allora saprà dire se la cosa è fattibile o meno». la «cosa» era for-se la partecipazione degli studiosi ebrei al Convegno.

(93) si consideri che, solo per rammentare quelle immediatamente precedenti al settembre 1938, appena pochi mesi prima, durante il v Congresso nazionale di studi romani, nell’am-bito della sottosezione Archeologia della sezione Antichità, l. morpurgo aveva svolto una co-municazione dal titolo L’origine romana del mosaico medievale ed A. spinazzola levi un’altra sul tema Frammenti architettonici e figurati di un nuovo monumento della Milano imperiale. sempre all’interno della sezione Antichità, ma nella sottosezione storia, avrebbero dovuto tenere delle comunicazioni, poi non svolte, anche m. A. levi ed A. momigliano, dedicate ri-spettivamente alla Interpretazione del nome «Augustus» ed a Il mondo greco e Roma nella se-conda metà del II sec. d.C. È curioso rilevare come tali dati si rinvengano proprio in un’edi-zione del primo volume degli Atti del v Congresso che anticipa quella pubblicata nel 1939, che ospita le sole relazioni svolte intorno al tema fondamentale dell’incontro e che venne rea-lizzata anche come omaggio ai partecipanti del Convegno Augusteo: vd. La missione dell’Im-pero di Roma nella storia della civiltà. Atti del V Congresso Nazionale di Studi Romani a cura di C. galassi paluzzi, I, roma 1938, p. 128. quanto a d. levi, invece, la sua collaborazione con la mostra Augustea della romanità, relativa all’organizzazione e raccolta di calchi e pla-stici in loco in numerose località della siria e della palestina, figura ad esempio nella relazio-ne presentata a mussolini versata nel verbale del 15 ottobre 1934 del Comitato ordinatore: vd. AInsr, s. CCm, b. 213, f. 35, sott. Lettere di convocazione e copie verbali, sub sott. Co-pie verbali, verbale del 15 ottobre 1934, pp. 6-7. momigliano, con cui l’Istituto intratteneva spesso rapporti di collaborazione o consulenza, venne inoltre interpellato da galassi paluzzi

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Il Convegno Augusteo del 1938 409

Convegno Augusteo vale, così come la questione del ruolo degli stra-nieri ma in modo molto più drammatico, ad evidenziarne la natura a metà strada tra l’incontro scientifico e la celebrazione ideologica, che naturalmente risulta in questo aspetto più accentuata proprio a causa dell’inasprimento del contesto totalitario, rimarcato dalla traduzione in legge dello stato delle tesi razziste e dall’avvicinamento alla ger-mania nazionalsocialista e non rinvenibile in modo così opprimente in altre iniziative del Bimillenario come le conferenze celebrative o la stessa mostra Augustea della romanità (94). si giunse tuttavia al 22 set-tembre senza che il ministero avesse fornito chiare istruzioni scritte circa la presenza al Convegno degli studiosi ebrei già aderenti ed anzi un appunto non numerato dello stesso giorno 22 informava galassi paluzzi del contenuto di un colloquio con un funzionario del mini-

anche circa i nominativi di possibili studiosi stranieri da invitare al Convegno Augusteo già a partire dai mesi di luglio ed agosto 1937: vd. in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, sott. Mo-migliano, in cui si conserva uno scambio epistolare – parte di uno più vasto – dal 7 agosto al 15 ottobre 1937 ed in cui è contenuta anche una cartella intitolata «per il sig. presidente. elenco degli studiosi stranieri per il prof. momigliano». su questo carteggio vd. supra nota 21. tra gli studiosi figurava anche m. I. rostovtzeff, a proposito del quale momigliano, col-locandolo in un proprio elenco alla voce «America», segnalava: «noto anzitutto che m. ro-stovzev (sic) va considerato come americano, sebbene di origine russa». per gli inviti rivolti agli studiosi ebrei vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, b. 223, f. 70, sott. Momigliano – il cui contenuto è precedente alla trasmissione degli inviti, ma che nondimeno testimonia il rappor-to tra l’Istituto e momigliano anche nel caso del Convegno Augusteo e che, quindi, prelude anche alla trasmissione dell’invito – e b. 224, f. 77, sott. Convegno Augusteo. Fascettario de-gli invitati, mentre per le adesioni vd. ad esempio, quanto ad A. spinazzola levi, che inter-veniva quale «direttore delle Antichità di lombardia, r. sopraintendenza alle Antichità del veneto, della lombardia e della venezia tridentina», AInsr, s. CCm, b. 223, f. 71, sott. Da inserire. peraltro, sembra utile notare come g. q. giglioli indicasse a C. galassi paluzzi, in-sieme con quelli di altri studiosi, in modo del tutto naturale e senza il minimo accenno alla loro origine, i nomi di d. levi, m. A. levi e A. momigliano quali destinatari dell’invito al Convegno Augusteo: vd. AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70, lettera da g. q. giglioli a C. galassi paluzzi dell’11 luglio 1938 ed ivi nell’allegato. In chiusura dell’allegato è altrettanto interes-sante rilevare come giglioli osservasse: «occorrerebbe anche esaminare la questione di invi-tare o meno i professori non fascisti». un appunto a mano, presumibilmente del destinatario, annota: «ne parleremo [assieme?] e poi riferiremo al ministro». g. q. giglioli in seguito se-gnalò anche l. morpurgo ed A. spinazzola levi quali ulteriori destinatarie dell’invito, come si evince dall’appunto n. 241 del 23 luglio 1938 in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 70.

(94) non è del resto un caso che negli stessi giorni di settembre, mentre attendeva anco-ra due risposte dal ministero, l’Istituto si affannasse a cercare di ottenere informazioni rivol-gendosi anche a giornali, a persone di fiducia o ad altri studiosi: vd. ad es. AInsr, s. CCm, b. 220, f. 59, lettera di C. galassi paluzzi a «Il tevere» del 10 settembre 1938, appunto non numerato del 14 settembre 1938 ed ancora ivi l’espresso da C. galassi paluzzi a l. minoz-zi del 17 settembre 1938.

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stero: alla fine l’«invito rimaneva» perché «era precedente alle note disposizioni del governo» (95). tuttavia, dai documenti d’archivio non emergerebbe che gli studiosi ebrei abbiano in effetti partecipato al Convegno Augusteo: il loro nome non risulta nell’elenco dei parteci-panti pubblicato all’interno del programma, né consta che essi abbia-no ritirato i materiali preparati per i partecipanti, come ad esempio la tessera, la “busta dell’invitato” o la medaglia-distintivo realizzata per l’occasione (96). non può escludersi, del resto, che alcuni di essi par-

(95) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 59, appunto non numerato del 22 settembre 1938.(96) vd. in modo particolare AInsr, s. CCm, b. 225, f. 79 Schede-indirizzario degli in-

vitati. nel fascicolo si rinviene ancora oggi una fascetta di carta con l’indicazione «israeliti» che in origine doveva servire a raggruppare rispetto alle altre le schede degli studiosi ebrei e così evidenziarle. queste schede invece si rinvengono attualmente sfuse e da esse risulta che A. spinazzola levi, A. momigliano, e. modigliani e l. Crema erano stati invitati, era stato loro indirizzato un sollecito il 3 agosto per comunicare l’adesione o meno e che essi avevano quindi aderito; si rinviene altresì che l. morpurgo, F. liuzzi, m. A. levi e d. levi erano sta-ti invitati ed avevano subito aderito. ulteriori particolari emergono dalla consultazione del f. 80 nella b. 226. Ivi si rinvengono, tenute insieme da una attache e dunque distinte da quelle degli altri partecipanti, le schede di l. Crema, d. levi, m. A. levi, A. momigliano, l. mor-purgo ed A. spinazzola levi ed inoltre anche quella di e. modigliani. dalle schede risultano anche le date di adesione, che rispettivamente sono: 4 e 30 agosto, 31 e 30 luglio, 1° agosto, 27 luglio e 6 agosto. dalle schede d. levi risulta intervenire al Convegno Augusteo come rappresentante della Facoltà di lettere della r. università di Cagliari, A. spinazzola levi come rappresentante dell’ufficio staccato delle Antichità di milano ed e. modigliani come rappresentante della r. soprintendenza alle Arti dell’Abbruzzo. una consultazione dei fasci-coli dell’Archivio dedicati ai singoli eventi svoltisi durante il Convegno Augusteo non vale a giungere a conclusioni sicure circa la presenza degli studiosi ebrei al Convegno Augusteo. In AInsr, s. CCm, b. 221, f. 64, sott. Chiusura e ricevimento in Campidoglio, in un elenco pri-vo di data ed intitolato Proposte di inviti per la BASILICA DI MASSENZIO, il nome di d. levi figura tra i «certi». del resto, nessun nominativo tra quelli di cui qui si tratta figura in-vece in un elenco di «Biglietti distinti / seduta di chiusura del Convegno Augusteo», ibidem, sott. Elenco invitati alla seduta di chiusura. tuttavia gli ultimi quattro numeri dell’elenco, 496, 497, 499 e 500, sono privi del corrispettivo nominativo ed uniti da una parentesi graffa in cui si legge «dr. morra», cioè il nome del segretario generale dell’Istituto, quasi che quei bi-glietti fossero stati tenuti liberi per qualche motivo ed affidati, per la distribuzione, ad uno dei principali collaboratori di galassi paluzzi. la stessa cosa si riscontra con i numeri 1780, 1781, 1782 e 1783 di un elenco di «Biglietti ordinari. seduta di chiusura del Convegno Au-gusteo», in cui sono del pari assenti i nominativi degli studiosi di cui si tratta: vd. ibidem, ove peraltro, pur se altrimenti la numerazione è continua, sembrano mancare i numeri da 1713 a 1770 ed i rispettivi nominativi. proseguendo questi controlli, è possibile appurare come in AInsr, s. CCm, b. 221, f. 65 Convegno Augusteo / Udienza “D„, sott. Elenco invitati udien-za D i nomi degli studiosi di cui sopra non risultino tra quelli invitati all’udienza presso mus-solini prevista per il 23 settembre 1938, benché i numeri 2, 4, 5, 9 e 28 dell’elenco risultino annullati. l’elenco non riporta i nominativi corrispondenti ai numeri annullati, tuttavia essi non mi sembrano compatibili con quelli degli studiosi che qui interessano. Infatti l’elenco

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tecipassero ma che tale loro partecipazione non venisse registrata né nei documenti ufficiali e pubblici né negli atti d’archivio.

numerico segue l’ordine alfabetico sino al n. 245 compreso ed il n. 2 risulta compreso tra e. Albertario ed C. Albizzati, il n. 4 tra C. Albizzati ed un altro annullato, il n. 5 tra il nomina-tivo ignoto ed annullato del n. 4 e s. r. Almas, il n. 9 tra C. Anti e v. Arangio ruiz ed in-fine il n. 28 tra A. Bertini Calosso e r. Bianchi Bandinelli. solo il n. 28 reca accanto alcune lettere scritte a macchina, forse un articolo ed un parola ma quasi certamente non un nome, ora illeggibili perché cancellate a penna: probabilmente la stessa che ha poi vergato accanto la parola «annullato». In seguito, nei diversi elenchi di partecipanti contenuti in AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66 Visite e sopralluoghi, sott. Ostia, sott. Napoli e Capri, Pompei, Ercolano, sub sott. Visita a Napoli. Alberghi, sub sott. Visita a Napoli. Ferrovie Stato, sub sott. Visita a Napoli. Ristoranti locali e treno, sub sott. Iscrizioni, sub sott. Moduli d’iscrizione, nonché nel-la successiva b. 222, f. 68, non si rinvengono i nominativi sopra più volte citati, né essi si in-contrano in un gruppo di documenti perlopiù preparatori, non riuniti in autonomo sub sot-tofascicolo ed oggi collocati nel f. 66 della b. 221, all’interno del sott. Napoli e Capri, Pompei, Ercolano tra il sub sott. Visita a Napoli. Varie ed il sub sott. Visita a Napoli. Alberghi. segnalo che nel sott. Napoli e Capri, Pompei, Ercolano, sub sott. Visita a Napoli. Varie vi è un «elen-co generale partecipanti alla gita di napoli» comprendente diversi elenchi a seconda delle diverse quote corrisposte e che le cancellature ivi presenti non sembrano essere state rivolte a coprire i nominativi degli studiosi più volte sopra indicati. Analogamente può dirsi quan-to alle cancellature che compaiono nel sub sott. Moduli d’iscrizione e negli elenchi del f. 68 della b. 222. nel medesimo f. 68, invece, il nome di e. modigliani compare nel sott. Circo-lari. Soll. Iscrizione gita a Napoli all’interno degli elenchi di destinatari della circolare data-ta 12 settembre 1938, mentre i nomi di d. levi, m. A. levi, e. modigliani, A. momigliano, A. spinazzola levi, l. Crema, F. liuzzi e l. morpurgo, compaiono nel sott. Circolari. In-vio del modulo gita Napoli e cartolina per prenotarsi l’albergo, ed in particolare negli elenchi di destinatari della relativa circolare del 26 agosto 1938, che venne inviata in due versioni: per la prenotazione dell’alloggio a roma e per la gita in Campania a chi non risiedesse già in roma e solo per la gita in Campania per chi, invece, risiedesse in roma. Ancora nel f. 68, nel sott. Circolari. Sollecito all’invito per i non aderenti, successivo al precedente nella collo-cazione d’archivio, all’interno di un elenco di destinatari del sollecito datato 1° agosto 1938, incontriamo i nomi di m. A. levi, e. modigliani, l. Crema e l. morpurgo. sempre nel f. 68, nel seguente sott. Circolari. Inviti con lettera circolare, all’interno degli elenchi di destinatari, troviamo i nomi degli studiosi ebrei non residenti in roma A. spinazzola revi (sic), A. mo-migliano, m. A. levi, e. modigliani e d. levi. quanto in particolare alla partecipazione di A. momigliano al Convegno Augusteo, sappiamo come egli il 16 settembre 1938 scrivesse a de sanctis: «Intanto sono ancora invitato alle feste Augustee: è evidente che non ci parteci-però». la lettera da cui proviene questa citazione è pubblicata in l. polverini, Momigliano e De Sanctis, in Arnaldo Momigliano nella storiografia del Novecento, a cura di l. polverini, roma 2006, pp. 11-35 (21). dopo la conclusione del Convegno, il ministero dell’educazio-ne nazionale, allo scopo di liquidare le indennità collegate alla partecipazione, il 5 ottobre 1938 richiese all’Istituto di trasmettere «un elenco di professori universitari che, invitati al Convegno Augusteo, non sono intervenuti». l’Istituto, il successivo 11 ottobre, trasmetteva «l’elenco dei professori universitari che invitati al Convegno Augusteo, non sono intervenu-ti». nell’elenco trasmesso non figurano i nomi di professori universitari ebrei, ma la circo-stanza, anche alla luce di tutto quanto esposto, non è di per sé sola necessariamente signifi-cativa di un mancato intervento. rilevo inoltre anche una certa, forse significativa, ambiguità nella formulazione dell’elenco fornito al ministero, tale da lasciare dubbi circa talune effetti-

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nel frattempo, venivano definiti anche molti dei particolari eco-nomici dell’organizzazione del Convegno. A seguito di uno scambio di lettere tra galassi paluzzi ed il ministero dell’educazione nazio-nale avvenuto tra il 7 ed il 12 settembre 1938, Bottai informava come il ministero avrebbe fatto fronte alle spese della parte campana delle manifestazioni, nonché alle spese di viaggio ed alle indennità di tra-sferta per i docenti universitari, i soprintendenti ed i direttori degli Istituti d’antichità e d’arte (97). tra il 12 agosto ed il 19 settembre ven-nero inoltre trasferiti dal ministero dell’educazione nazionale i fondi messi a disposizione per il Convegno Augusteo dalla presidenza del Consiglio (98). tra la fine di luglio ed il mese di settembre furono poi

ve partecipazioni dal momento che esso riguardava i «professori universitari invitati al Con-vegno, ma non intervenuti (o, comunque, non presentatisi alla segreteria generale)»: vd. AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, scambio di lettere tra il ministero dell’educazione naziona-le e l’Istituto di studi romani del 5-11 ottobre 1938: astrattamente poteva dunque darsi il caso di studiosi, non professori universitari o tali ma prescindendo da questa qualifica, ave-vano partecipato al Convegno senza tuttavia presentarsi alla segreteria generale, risultando formalmente come non intervenuti.

(97) AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58 Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale, lettera da C. galassi paluzzi a m. lazzari del 7 settembre 1938 e lettera da g. Bottai a C. galassi paluzzi del 12 settembre 1938. Cfr. nota 98.

(98) vd. AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58 Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, nota n. 291 con cui il 10 settembre si informava galassi paluzzi come fosse giunta da mussolini la somma di l. 100.000 per il Convegno. vd. anche AInsr, s. CCm, b. 227, f. 85 Amministrazione. Contributi, 1938: dallo scambio di lettere tra l’Istituto ed il ministero dell’educazione nazionale nel periodo tra agosto e settembre 1938, risulta come, sulla base di un preventivo dell’Istituto di l. 110.000, in tutto fossero state stanziate da parte di mus-solini l. 150.000 di cui l. 110.000 poste a disposizione dell’Istituto stesso per il tramite del ministero. In particolare, ricevuto un primo assegno di l. 50.000, spedito con lettera del 12 agosto 1938, il giorno 16 agosto C. galassi paluzzi evidenziava a g. Bottai gli impegni econo-mici già presi con ditte e fornitori e sollecitava l’invio della ulteriore somma riservata all’Isti-tuto, pari a l. 60.000. detta somma veniva rimessa con successiva lettera datata 19 settem-bre a mezzo di due assegni circolari per l. 10.000 e per l. 50.000. galassi paluzzi accusava il ricevimento di tale lettera e degli acclusi assegni il giorno 21 settembre. A conferma della compenetrazione tra il Convegno Augusteo e le cerimonie di chiusura del Bimillenario Au-gusteo e della conseguente confusione che ciò poteva comportare negli uffici incaricati del-le diverse fasi delle numerose manifestazioni, è interessante notare come la lettera a firma di Bottai del 12 agosto parlasse di contributo «per le spese relative alla inaugurazione dell’Ara pacis» e come ciò fosse ribadito nella lettera del 19 settembre. viceversa, le lettere di ga-lassi paluzzi del 16 agosto e del 21 settembre sono invece sempre molto precise nel parlare di erogazioni «per la preparazione del Convegno Augusteo» ovvero volte a coprire le «spese relative alla organizzazione del Convegno Augusteo»: vd. ibidem. In taluni casi ai convegni-sti vennero comunque richiesti dei contributi, come ad esempio per gli eventuali familiari al seguito o per certe soluzioni di trasporto e soggiorno in occasione dell’escursione campana,

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Il Convegno Augusteo del 1938 413

realizzati e stampati il programma del Convegno, l’opuscolo del con-certo e le pubblicazioni relative agli scavi di ostia, al palatino ed alla Curia da offrire ai partecipanti. le illustrazioni a corredo delle pub-blicazioni, con l’eccezione dei ritratti dei musicisti all’interno del pro-gramma del concerto, affidati al consueto collaboratore dell’Istituto Augusto orlandi, vennero realizzate da Corrado mezzana, lo stesso ar-tista cui si devono i disegni delle serie filateliche del Bimillenario per il regno, le Isole italiane dell’egeo e l’Africa italiana (tav. lXXXIII, figg. 1-2). In effetti alcuni dei temi prescelti per le illustrazioni, l’Ara Pacis e la quadriga del sole accompagnata dai versi tratti dal Carmen saeculare, riprendevano quasi del tutto quelli impiegati nei francobol-li commemorativi (tav. lXXXIv, figg. 1-2; tav. lXXXv, figg. 1-2) (99).

elaborate in seguito a domande dei partecipanti: cenni sono diffusamente presenti nelle fonti d’archivio qui citate. si rinvia comunque in modo particolare alla lettera circolare del 12 set-tembre 1938 in AInsr, s. CCm., b. 222, f. 68, sott. Circolari. Sollecito iscrizione gita a Na-poli, che appare particolarmente chiara in tal senso. erano state infatti proposte tre diverse soluzioni di trasporto e soggiorno corrispondenti a tre diverse quote: l. 228 per trattamento completo, compreso il viaggio roma-napoli e ritorno; l. 180: come sopra ma con esclusio-ne del viaggio roma-napoli e ritorno; l. 59: come la combinazione precedente ed escluso il soggiorno a napoli e la colazione a Capri. la soluzione per l. 59 prevedeva, come informa-va la circolare: per il giorno 25 settembre la visita ad ercolano e pompei in automezzi riser-vati, l. 20, e la colazione, l. 18; per il successivo giorno 26, invece, il trasporto napoli-Ca-pri e ritorno in motonave riservata, l. 16, e la funicolare da Capri ad Anacapri, l. 5. Chi, poi, avesse voluto partecipare alla colazione ad Anacapri, avrebbe dovuto versare un’ulterio-re quota di l. 22 a quella di l. 59.

(99) vd. AInsr, s. CCm, b. 228, f. 88, sott. Mezzana, con bozzetti originali. l’appara-to iconografico del presente contributo si giova anche di due bozzetti originali realizzati da Corrado mezzana per la serie di valori postali destinati al regno d’Italia e rinvenuti – insie-me con gli altri della stessa serie – in una porzione non riordinata dell’Archivio dell’Istitu-to da parte del suo direttore associato, dott. massimiliano ghilardi, che ringrazio per avermi messo a parte della scoperta e per l’offerta dell’impiego dei bozzetti all’interno del corredo iconografico di questo contributo. Anche di tali bozzetti si occuperà il contributo di A. m. liberati e dello scrivente in corso di stampa su questo periodico e relativo alle emissioni fi-lateliche celebrative del Bimillenario del 1937-1938 attraverso le fonti contenute nell’Archi-vio dell’Istituto nazionale di studi romani. quanto invece ai bozzetti di C. mezzana per l’opuscolo-programma del Convegno Augusteo, alcune modifiche del programma che si re-sero necessarie nei giorni precedenti il 23 settembre 1938 comportarono il mancato utiliz-zo di almeno un’opera realizzata dall’artista: vd. l’espresso dall’Istituto a C. mezzana del 10 settembre 1938 e il telegramma tra gli stessi del successivo giorno 12. sui francobolli vd. su-pra nota 30. quanto all’opuscolo-programma del concerto, nella lettera da C. galassi paluz-zi a g. Bottai del 30 agosto 1938 in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Mini-stero dell’Educazione Nazionale è menzionato C. mezzana e non A. orlandi. su C. mezzana vd. ora r. rusCio, s.v. Mezzana, Corrado, in «dizionario Biografico degli Italiani», lXXIv, roma 2010, pp. 73-75.

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mezzana ebbe una parte determinante anche nella scelta delle carat-teristiche della tessera del Convegno: si decise di riprendere in linea di massima quella realizzata per il v Congresso nazionale la cui im-magine, a sua volta, oltre che sulla copertina del programma del Con-vegno, incontriamo anche, adattata al formato del francobollo, nelle serie filateliche del Bimillenario realizzate per la libia e per l’Africa orientale italiana. si tratta dell’Augusto di prima porta ritratto di tre quarti con, sullo sfondo, una carta dell’impero che ricorda molto da vicino le carte marmoree dell’allora via dell’Impero. nei francobolli ricorre anche la scritta «ImperIvm / sIne FIne / dedI», ripre-sa dall’Eneide virgiliana ma che, nell’economia dell’illustrazione è al-lusiva al rapporto tra l’impero romano e l’impero dell’«Italia nuova» (tav. lXXXvI, figg. 1-2; tav. lXXXvII, figg. 1-2) (100). da un appun-to interno dell’Istituto datato 27 luglio 1938, risulta che C. mezzana, cui sarebbe spettata anche la realizzazione del disegno da riportare sulla medaglia-distintivo da donare ai convegnisti, si riservasse inve-ce la realizzazione della sola iscrizione da porsi nel verso, suggeren-

(100) da un appunto indirizzato a C. galassi paluzzi, apprendiamo che «Il prof. mezza-na […] reputa non essere opportuno stampare in tre colori la tessera. egli pensa che – dato il tipo del disegno – vi sia da escludere che possa star bene in tre colori. A suo giudizio va bene stampare in nero su cartoncino avorio carico, a mano, sfrangiato, e mettere la dicitu-ra “Convegno Augusteo” in rosso». Il disegno della tessera era destinato ad essere riprodot-to anche sulla copertina del programma del Convegno Augusteo ma in colore rosso e, così come nel caso di quello della tessera del v Congresso nazionale, era analogo al disegno di alcuni dei valori realizzati per l’Africa italiana in occasione del Bimillenario, eseguiti sempre da C. mezzana ed emessi il 25 aprile del 1938. si trattava, in particolare, dei valori di posta ordinaria color seppia chiaro da 5 centesimi, verde chiaro da 25 centesimi e rosso cinabro da 75 centesimi emessi per la libia e degli stessi valori, sempre di posta ordinaria, emessi per l’Africa orientale italiana di colore rispettivamente bruno scuro, verde scuro e rosso lacca. da un appunto non datato e conservato nello stesso fascicolo che ospita la documentazione relativa alla tessera, risulta come mezzana avrebbe dovuto occuparsi anche del «disegno per medaglia (Augusto da farsi in bronzo con patina verdastra [sic]»: si tratta della medaglia-di-stintivo che doveva essere offerta ai convegnisti insieme con altri materiali di cui si dirà nel testo: vd. AInsr, s. CCm, b. 228, f. 89 Tessere, scontrini e riduzioni, con bozzetti e prove, ed ivi l’appunto n. 262 e l’appunto non datato citato supra in questa nota. C. mezzana tenne anche due comunicazioni nell’ambito del v Congresso nazionale di studi romani: sui par-ticolari di questa collaborazione vd. il carteggio con C. galassi paluzzi in AInsr, s. CCm, b. 129, f. 25, sott. Mezzana. sulla velina di una lettera datata 8 novembre 1937 da C. galas-si paluzzi a C. mezzana, v’è traccia di un’aggiunta a mano al testo dattiloscritto indirizzato al secondo: «e il “pupazzo” / definitivo per la / tessera? Abbi pazienza / e inviamelo subi-to. grazie / saluti cordiali / g(alassi) p(aluzzi)». Con l’affettuosa e scherzosa definizione di “pupazzo” si doveva evidentemente intendere il bozzetto di Augusto che poi figurerà sulla tessera del v Congresso nazionale.

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do di rivolgersi a giglioli «per la scelta di una moneta con Augusto, della quale si potrebbe fare il calco da passare alla società che fa le medaglie» (101). la realizzazione della medaglia fu affidata, non senza una serrata trattativa preliminare, alla ditta La Medaglia del Giorno di vittorio emanuele Boeri, cui venne infine commessa dall’Istituto la realizzazione di 300 medaglie di 26 mm di diametro al prezzo di l. 4,35 ciascuna. si giunse tuttavia al 19 settembre senza che le me-daglie fossero ancora pronte, poiché le relative patinature non erano riuscite a regola d’arte ed andavano del tutto rifatte. Infine tuttavia, come risulta dal buono n. 1968 del 20 settembre 1938, le 300 medaglie vennero comunque consegnate in tempo all’Istituto (tav. lXXXvIII, figg. 1-2) (102). negli stessi giorni venivano allestite le “buste dello stu-

(101) AInsr, s. CCm, b. 228, f. 86, appunto n. 247 del 27 luglio 1938. galassi paluzzi scris-se dunque in data 1° agosto 1938 a Carlo pietrangeli, che all’epoca collaborava con la mostra Augustea della romanità, esponendo la necessità, inviando un campione, domandando quin-di di fornire un calco della moneta da riprodurre e informando che mezzana aveva suggerito di «riprodurre il medaglione aureo di napoli di cui alla tav. XXX del Catalogo. e mi sembra che vada benissimo (sic)»: vd. ibidem, lettera da C. galassi paluzzi a C. pietrangeli del 1° ago-sto 1938 (le parole «e mi sembra che vada benissimo» sono un’aggiunta vergata a mano dopo il testo dattiloscritto conservato dalla velina) e cfr. la lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 30 agosto 1938 in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Edu-cazione Nazionale. galassi paluzzi, nella lettera a pietrangeli, si riferisce in realtà al volume II del Catalogo della mostra Augustea, che costituiva l’Appendice bibliografica e indici al vol. I: vd. Mostra Augustea della Romanità, II, a cura di C. Caprino - r. vighi, Catalogo della mo-stra di roma, palazzo delle esposizioni, 23 settembre 1937 - 23 settembre 1938, roma 1938, p. 70, n. 22-l e tav. XXX (quanto alle date di apertura, rammento che la mostra venne proro-gata e solennemente chiusa il 6 novembre 1938: vd. supra nota 6). Con lettera datata 5 agosto pietrangeli trasmetteva il calco del dritto del medaglione pompeiano e, ad un dubbio di ga-lassi paluzzi circa la sua perfetta riuscita espresso in una lettera datata 9 agosto, pietrangeli il successivo giorno 10 assicurava circa la bontà dell’esecuzione, aggiungendo come il calco fosse stato eseguito sotto la direzione della numismatica secondina lorenza Cesano: vd. AInsr, s. CCm, b. 228, f. 86, scambio di lettere dal 5 al 10 agosto tra C. pietrangeli e C. galassi paluz-zi. nella lettera del 10 agosto C. pietrangeli chiariva: «In realtà il ritratto non è molto fresco ma ciò è dovuto alla conservazione della moneta; assai migliore è lo stato di conservazione del medaglione di este ma il ritratto di Augusto che vi è inciso mi sembra che abbia minor valore artistico di quello del medaglione pompeiano». Cfr. anche ibidem l’appunto n. 263.

(102) Il carteggio con La medaglia del giorno è conservato in AInsr, s. CCm, b. 228, f. 86. sul concreto utilizzo della medaglia-distintivo vd. AInsr, b. 221, f. 64, sott. Chiusura e ricevimento in Campidoglio la lettera del 24 settembre 1938 da C. galassi paluzzi a C.r. moneta, capo del Cerimoniale del governatorato di roma, con cui il presidente dell’Istitu-to inviava un campione del «distintivo che i partecipanti stranieri al Convegno Augusteo ap-porranno all’occhiello in occasione della seduta di Chiusura». Inoltre C. galassi paluzzi chie-deva al funzionario di disporre affinché «i detentori dei suddetti distintivi possano accede-re ai posti loro riservati».

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dioso”, riservate ai convegnisti: si trattava di una cartella in carton-cino robusto, nelle cui tasche erano inserite pubblicazioni omaggio, opuscoli divulgativi dell’attività dell’Istituto, cartoline commemorati-ve dell’Istituto di studi romani e della mostra Augustea della ro-manità, buoni e tessere per partecipare alle iniziative del Convegno (tav. lXXXIX, figg. 1-2) (103).

tra i mesi di agosto e settembre 1938 galassi paluzzi cercò di integrare il programma del Convegno prevedendo la partecipazione di rappresentanti del g.u.F., gruppo universitario fascista, e di stu-denti meritevoli tratti dai licei (104). mentre quest’ultimo progetto ven-ne presto ridimensionato e venne programmata solo la partecipazio-ne del g.u.F., un maggiore seguito, nel clima dell’ “impero risorto”

(103) la “busta” conteneva in particolare: una copia «omaggio ai partecipanti del Con-vegno Augusteo», come indicato in copertina, de La missione dell’Impero di Roma nella sto-ria della civiltà, cit., su cui cfr. anche supra nota 93; l’indice generale ed analitico delle annate 1923-1937 di «roma», il periodico ufficiale dell’Istituto; i tagliandi per l’escursione ad ostia nonché per altri viaggi e collegamenti; due serie di cartoline, l’una commemorativa della mo-stra Augustea della romanità ed un’altra dell’Istituto di studi romani; una piantina delle li-nee servite dall’Azienda tramvie e Autobus del governatorato; il programma del concerto del 24 settembre e naturalmente quello generale del Convegno; materiale pubblicitario del-la Storia di Roma edita dall’Istituto insieme ad un catalogo delle sue pubblicazioni, a mate-riale illustrativo dello schedario centrale di bibliografia romana e del «Bollettino sistematico di bibliografia romana». Infine, venivano offerte anche pubblicazioni realizzate in occasio-ne delle escursioni ad ostia, alla Curia ed alla Domus Augustana: G. Calza, La Resurrezio-ne di Ostia antica per la Esposizione Universale del Ventennale, roma 1938, a. BarToli, I la-vori della Curia, roma 1938 ed id., Domus Augustana, roma 1938. da AInsr, s. CCm, b. 228, f. 86, lettera dall’Istituto di studi romani a C. pietrangeli del 2 agosto 1936 risultano alcuni dissapori con giuseppe moretti per la preparazione di un’analoga pubblicazione re-lativa all’Ara Pacis, che in effetti non venne realizzata. Cfr. in proposito anche l’appunto in-terno n. 241 del 23 luglio 1938, p. 2, nel f. 70, b. 223. vd. anche la lettera del 5 agosto 1938 da C. galassi paluzzi a g. q. giglioli in b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Museo dell’Im-pero. Circa la “busta dello studioso” o “cartella del convegno” o, ancora, “cartella del con-gressista”, vd. ad esempio AInsr, s. CCm, b. 233, f. 94 e b. 289, f. 101, che ne contengo-no degli esemplari. da appunti conservati in AInsr, s. CCm, b. 224, f. 82 apprendiamo che gli studiosi stranieri ricevettero anche il catalogo della mostra Augustea della romanità ed il “quaderno” di Bottai: si tratta certamente di G. BoTTai, L’Italia di Augusto e l’Italia di oggi, cit., come del resto è confermato dalla lettera di C. galassi paluzzi a g. Bottai del 30 agosto 1938 in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, con cui il ministro veniva aggiornato circa gli aspetti logistici del Convegno.

(104) AInsr, s. CCm. b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a m. lazzari del 1° agosto 1938. sugli studenti liceali vd. già ibidem l’appunto interno-promemoria n. 237 del 15 o 18 luglio 1938. vd. inoltre, ancora nel f. 58 della b. 220 ma nel sott. Rapporti con il Museo dell’Impero, il carteggio tra g. Bot-tai e C. galassi paluzzi del 9-14 agosto 1938.

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e della tendenziale equiparazione mussolini - Augusto, ebbe invece quella di un’udienza del capo del governo ai partecipanti al Conve-gno, espressa a Bottai il 1° settembre 1938 (105). l’evento ebbe un’or-ganizzazione estremamente minuziosa da parte dell’Istituto, sia sot-to il profilo della logistica, ed in particolare dei trasporti, che della sicurezza relativa alla consegna degli inviti. tuttavia l’udienza, che avrebbe dovuto tenersi dalle ore 12,00 del 23 settembre, venne di-sdetta all’ultimo momento e non ebbe mai luogo benché sia riporta-ta nel programma del Convegno, che non poté essere modificato (tav. XC, figg. 1-2) (106). In esso, peraltro, la fusione tra il Convegno stesso

(105) AInsr, s. CCm. b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazio-nale, lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 1° settembre 1938.

(106) vd. AInsr, s. CCm, b. 221, f. 65, sott. Udienza “D„ e sott. Elenco invitati udien-za D e cfr. b. 227, f. 82. vd. anche in AInsr, s. CCm, b. 223, f. 69, la lettera da C. galassi paluzzi al ministero degli Affari esteri, servizio Istituti Internazionali, con cui il presidente dell’Istituto il 12 settembre 1938, in vista dell’udienza che mussolini avrebbe dovuto con-cedere, provvedeva a richiedere ulteriori informazioni circa tutti gli studiosi stranieri, «una gran parte dei quali (di cui ci mancano informazioni) sono membri di Istituzioni straniere di roma». Inoltre ed in generale in vista del Convegno, galassi paluzzi trasmetteva al ministe-ro «un elenco di tutti gli studiosi stranieri invitati al prossimo Convegno Augusteo […]. Ac-canto ai nominativi degli studiosi abbiamo anche segnato il numero e la data del telespres-so con il quale codesto on.le ministero ci dava informazioni favorevoli». Cfr. a tal proposito supra note 55, 79 e 86. All’interno del sott. Udienza “D„ del f. 65 della b. 221 della s. CCm, rinveniamo ulteriori elementi di interesse circa gli aspetti dell’udienza relativi alla sicurezza. Il presidente dell’Istituto, infatti, il giorno 12 settembre 1938 scriveva a g. Franceschini, com-missario di p.s. del rione ponte, inviandogli «un elenco degli studiosi italiani e stranieri che sono stati invitati a partecipare al prossimo Convegno Augusteo e che avranno l’alto onore di essere ricevuti dal duCe». successivamente il giorno 15 settembre 1938 galassi paluz-zi indirizzava un’altra lettera direttamente ad A. roncuzzi, vice questore di p.s. in servizio a palazzo venezia, trasmettendogli «un elenco diviso fra nominativi italiani e stranieri di tut-ti gli studiosi che abbiamo invitato», riservandosi di inviare in un secondo momento «l’elen-co preciso di tutti gli studiosi che riceveranno il biglietto d’invito con l’indicazione del rela-tivo numero d’ordine del biglietto». l’«elenco di tutti i partecipanti del Convegno Augusteo che hanno ricevuto il biglietto per l’udienza che il duCe si degnerà concedere il giorno 23 p.v.» venne quindi trasmesso a roncuzzi il 21 settembre 1938. A nessuna di tali tre lettere è acclusa copia degli elenchi in esse nominati. per il programma del Convegno Augusteo vd. invece AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68. Circa l’inserimento dell’udienza presso mussolini, poi non più tenuta, all’interno del programma del Convegno Augusteo vd. in AInsr, s. CCm, b. 221, f. 65, sott. Udienza “D„ la lettera da C. galassi paluzzi a C. Calamaro, in cui il presiden-te dell’Istituto domandava «se potremo dare notizia dell’alto onore accordatoci dal Capo nel programma a stampa del Convegno». per gli aspetti logistici ed organizzativi del Convegno vd. in generale AInsr, s. CCm, b. 220, f. 60 Cerimonie e festeggiamenti. Generalità. 1938; b. 221, f. 66 Visite e sopralluoghi; b. 222, f. 68 Lettere circolari. Inviti. 1938 in cui figurano an-che i nomi di nicola rostowzeff (sic) e, tra gli italiani residenti fuori roma, quelli di A. mo-migliano, m. A. levi e d. levi; b. 223, f. 69 Informazioni richieste al Ministero Affari Este-

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e le manifestazioni di chiusura del Bimillenario veniva esplicitamente evidenziata, rimarcando il ruolo dell’Istituto e del museo dell’Impe-ro romano nella cura delle diverse celebrazioni e dello stesso incon-tro augusteo, cui nel frattempo avevano aderito, stando ai dati uffi-ciali, 134 Istituzioni culturali italiane e straniere e 329 studiosi tra italiani e stranieri (107). Il 23 settembre l’avvio del Convegno sarebbe infatti coinciso con l’inaugurazione dell’Ara Pacis «sulla nuova piaz-za dell’Augusteo» (108). galassi paluzzi iniziò dunque a porre anche il problema di quali discorsi dovessero essere pronunciati e di chi do-vesse parlare sia il 23 settembre che il giorno della chiusura dell’an-no augusteo, il successivo 27 (109). nel frattempo, per la mattina del

ri. Elenco studiosi stranieri da invitare; b. 224, f. 76 Varie, f. 77 Fascettari degli invitati, delle Istituzioni, degli studiosi stranieri e per l’invio del catalogo, f. 78 Bimillenario Augusteo. Con-vegno Augusteo. Specchi – Elenchi – Appunti vari da cui si evince che, presumibilmente per il pomeriggio del 23 settembre dopo l’escursione ad ostia, era stata progettata anche una vi-sita ai cantieri dell’e 42; b. 226, f. 80 Schede degli studiosi aderenti. Ricevute della “busta del-lo studioso” o cartella del Convegno. Timbro del Convegno; b. 227, f. 81 Servizi logistici. 1938, f. 82 Scadenzario, f. 83 Carte interne. Rilievi alle spese. Gratificazioni. Accademia di S. Cecilia, 1938; infine b. 228, f. 87 Ditte corrispondenti. 1938 e f. 88 Collaboratori. 1938.

(107) vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, programma del Convegno Augusteo, p. 3: «Al fine di conferire maggiore decoro e solennità alla chiusura del Bimillenario Augusteo, s.e. il ministro dell’educazione nazionale, presi ordini dal duce, ha disposto perché sotto gli alti auspici del suo dicastero, venisse organizzata una serie di manifestazioni alle quali son chia-mati a partecipare eminenti studiosi italiani e stranieri. l’Istituto di studi romani e il mu-seo dell’Impero hanno avuto l’onorifico incarico di promuovere e curare lo svolgimento del-le varie manifestazioni e di organizzare il Convegno Augusteo, secondo il programma che viene esposto nelle pagine seguenti». si noti l’uso, frequentissimo per l’epoca e che ricorre pressoché in tutte le iniziative del Bimillenario curate dall’Istituto e dal museo dell’Impero, di imputare quasi l’idea stessa delle manifestazioni ai vertici politici, rappresentati da Bottai e mussolini, mentre, viceversa, essa si dovette all’Istituto ed al museo dell’Impero romano e venne solo fatta propria, finanziata ed inquadrata dalle autorità e così inserita in una dimen-sione di ritualità ideologico-politica. I dati ufficiali sono tratti da Il Convegno Augusteo, in «rassegna d’informazioni dell’Istituto di studi romani», vI (1938), 22-23, pp. 1-9 (1) e dal programma del Convegno, vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68, che alle pp. 9-17 reca l’elenco delle Istituzioni rappresentate e dei partecipanti al Convegno. In quest’ultimo caso si tratta più propriamente degli aderenti: un quadro più preciso degli studiosi aderenti ed intervenu-ti al Convegno e partecipanti ai singoli eventi è dato da AInsr, s. CCm, b. 226, f. 80 Sche-de degli studiosi aderenti. Ricevute della “busta dello studioso”, o cartella del convegno. Timbro del convegno, corredato tuttavia dall’incrocio con i dati di tutte le diverse manifestazioni: da AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Mostra Augustea della Romanità sappiamo ad esempio come gli ingressi alla mostra Augustea della romanità furono in numero di 88.

(108) vd. AInsr, s. CCm., b. 220, f. 61, sott. Inaugurazione Ara Pacis. (109) vd. Ibidem lo scambio di lettere tra C. galassi paluzzi e g. Bottai tra il 4 ed il 12

agosto 1938. In tale ultima data Bottai aveva approvato soltanto che, per la chiusura, avreb-

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Il Convegno Augusteo del 1938 419

23 era stata messa in programma anche una sfilata della milizia vo-lontaria per la sicurezza nazionale davanti al palazzo delle esposizio-ni, che ospitava la mostra Augustea, ed alla quale assistettero anche gli studiosi convenuti (110). più tardi, infine, all’inaugurazione dell’Ara Pacis i discorsi, rivolti direttamente al capo del governo, furono te-nuti dallo stesso galassi paluzzi e da e. strong. Il primo costituisce un’accorata glorificazione della continuità tra roma antica ed Italia moderna, realizzata da un mussolini che si identificava in un nuovo Augusto, ed insieme una promessa di militanza intellettuale a nome degli studiosi italiani convenuti. Il secondo si articolava su motivi di fondo abbastanza simili ma più sfumati, mettendo comunque in di-retta relazione mussolini ed il suo operato con roma antica. termi-nata la cerimonia, nel pomeriggio i convegnisti si recarono ad ostia, dove guido Calza «illustrò […] i nuovi scavi effettuati per impulso del governo Fascista» e dove il ministro dell’educazione naziona-le offrì un ricevimento (111). Il mattino del 24, invece, gli studiosi visi-

bero dovuto parlare il governatore di roma ed uno studioso straniero, mentre egli si sareb-be riservato di «chiudere l’anno bimillenario».

(110) vd. AInsr, s. CCm, b. 220, f. 63. la sfilata venne trasmessa nel “giornale sono-ro” luCe n. B1381, oggi in http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoplayer.jsp?tipologia=&id=&physdoc=16527&db=cinematograficoCInegIornAlI&findIt=false&section=/.

(111) per i discorsi di C. galassi paluzzi e di e. strong, vd. Il Convegno Augusteo, in «ras-segna d’informazioni dell’Istituto di studi romani», vI (1938), 22-23, pp. 1-9 (1-5). Il di-scorso del presidente dell’Istituto venne riportato anche in Il Convegno Augusteo, in «roma. rivista di studi e di vita romana», XvI (1938), 10, pp. 397-406 (397-399). Il discorso di e. strong piacque molto ad A. Boethius, assente alla manifestazione ma che ebbe modo di leg-gerlo in seguito: vd. AInsr, s. CCm, b. 220, f. 61 lettera da C. galassi paluzzi ad e. strong del 15 maggio 1939. la visita ad ostia fu tutt’altro che indifferente rispetto ai profili ideo-logico-politici del Convegno Augusteo, consentendo di saldare la continuità dell’Italia mo-derna a roma antica con lo slancio verso il futuro espresso dalla vicina e 42. vd. in questo senso g. Calza, La Resurrezione di Ostia antica, cit., p. 3: «non può meravigliare che la re-surrezione archeologica di ostia, colonia primogenita di roma antica sul mediterraneo, sia stata voluta dal duce e che venga attuata sotto l’alto patrocinio del ministro dell’educazione nazionale, e dall’ente dell’esposizione universale del 1942 […]. […] ostia infatti ci offre la visione di una città romana che completa con grande immediatezza il volto di roma an-tica […]. Anche per questo la resurrezione di ostia, che soltanto una esposizione mondiale in roma poteva offrire al mondo, ha valore universale: si apre con essa il vasto quadro del-la civiltà italiana che la nuova esposizione offrirà ai visitatori in mirabile sintesi dalle prime origini fino alle realizzazioni del Fascismo». si rammenti, del resto, che in Archivio si rin-vengono tracce di una progettata escursione alla zona dove avrebbe dovuto sorgere l’e 42: cfr. supra nota 106. sulle ragioni del rapporto tra ostia e l’e 42 in riferimento all’espansio-ne della città di roma verso il mare sia in antico che nella roma di mussolini, vd. v. sanTa

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tarono la mostra Augustea della romanità, illustrata dallo stesso g. q. giglioli, fruendo di un ingresso gratuito per loro ma rimborsato alla mostra da parte dell’Istituto (112). nel pomeriggio, dalle ore 15,15, ebbe invece luogo la visita alla Domus Augustana ed ai lavori di re-stauro della Curia, in entrambi i casi sotto la guida di Alfonso Bar-toli (113). si trattava, come nel caso di ostia, di siti interessati da inda-gini archeologiche cui era stato dato un particolare impulso durante il governo mussolini e ciò, in linea con l’aspetto ideologico-politico del Convegno, venne adeguatamente evidenziato. tutto questo pe-raltro risulta dai cenni, invero brevi ma significativi, che ancora oggi troviamo posti soprattutto al principio ed alla fine delle relative pub-blicazioni donate ai partecipanti (114). nel corso del pomeriggio, inol-

Maria sCrinari, Gli scavi di Ostia e l’E 42, in E 42. Utopia e scenario del Regime, Catalogo della mostra di roma, Archivio Centrale dello stato, aprile-maggio 1987, vol. II Urbanisti-ca, architettura, arte e decorazione a cura di m. Calvesi - e. guidoni - s. lux, venezia 1987, pp. 179-188. l’inaugurazione dell’Ara Pacis venne trasmessa nel “giornale sonoro” luCe n. B1383, oggi visionabile in http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoplayer.jsp?tipologia=&id=&physdoc=16545&db=cinematograficoCInegIornAlI&findIt=false&section=/. Anche la visita agli scavi di ostia venne ripresa dal cinegiornale: vd. il “giornale so-noro” luCe n. B1382, attualmente visibile presso http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoplayer.jsp?tipologia=&id=&physdoc=16533&db=cinematograficoCInegIornAlI&findIt=false&section=/.

(112) vd. AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Mostra Augustea della Romanità e cfr., nel f. 70 della b. 223, l’appunto interno n. 241 del 23 luglio 1938, dal quale risulta una richie-sta di rimborso da parte di giglioli per l. 2 a biglietto e l’osservazione di galassi paluzzi circa la necessità di scendere al l. 1. Infine, il prezzo del rimborso rimase fissato in l. 2 al biglietto e, con lettera in data 30 settembre 1938, giglioli inviò a galassi paluzzi una fattu-ra per l. 176, pari a 88 biglietti di ingresso: vd. AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Mostra Augustea della Romanità. Il ribasso a l. 2 del prezzo del biglietto di ingresso era stato sta-bilito in caso di visite alla mostra di «enti, Associazioni, Istituti governativi ecc.», come ri-sulta da una scheda dattiloscritta della segreteria particolare del capo del governo che face-va seguito all’udienza concessa da mussolini a giglioli il 22 giugno 1937: vd. in ACs, spd, Co 1922-1943, b. 375, f. 135015.

(113) vd. AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Curia e Palatino.(114) vd. a. BarToli, Domus Augustana, cit., p. 10: «per tutto il medio evo, che vive nel-

la concezione della perpetuità dell’Impero, il palatino ha ancora, si può dire, la sua funzione. non è senza significato che la sede dell’Impero sia stata rimessa in luce e in onore nell’attua-le risveglio dell’idea imperiale». vd. anche id., I lavori della Curia, cit., pp. 2 e 11: «I lavori della Curia sono l’opera archeologica primogenita del regime. Benito mussolini pochi mesi dopo la marcia su roma risolveva e superava quelle difficoltà che fino ad allora non si aveva avuto animo di affrontare e nel maggio 1923 il ministero della pubblica Istruzione – era mi-nistro giovanni gentile – acquistava la Chiesa di s. Adriano e l’annesso convento dei mer-cedari»; «[…] quando saranno compiuti i lavori e raccolta la preziosa documentazione, e ga-rantita ogni traccia importante, questo edificio nel quale si è formata veramente la storia di

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Il Convegno Augusteo del 1938 421

tre, ebbe luogo il concerto «di musiche sinfoniche e melodrammati-che ispirate a soggetti d’interesse romano organizzato dall’Istituto di studi romani con la gentile collaborazione della r. Accademia di s. Cecilia e dei maestri B. molinari e B. somma» (115). Il concerto, per il quale era stata richiesta anche la collaborazione di Beniamino gi-gli, poi non concretizzatasi (116), intendeva ricordare «in sintesi la parte cospicua che i fasti, le figure, le memorie, le tradizioni di roma han-no avuto nel porgere argomenti ed ispirazioni a poeti per musica e a musicisti» ed illustrare «come non solo per oltre tre secoli i musi-cisti italiani, ma gli stranieri e fra questi i massimi […] si siano uniti in catena gloriosa nel divulgare al mondo intero, su melodie e armo-nie spesso immortali, la grandezza romana» (117). terminato il concer-to, i partecipanti al Convegno Augusteo partirono per napoli, tap-pa intermedia verso ercolano, presso cui avrebbero dovuto giungere alle 9,45 del giorno seguente. nella città campana si svolsero la cele-brazione del II centenario degli scavi e la visita condotta da Amedeo maiuri. nel pomeriggio ebbe invece luogo la visita a pompei men-

roma sarà degno di riprendere la sua funzione per l’Impero rinnovato». quanto ad ostia cfr. supra nota 111.

(115) Così nel programma del Convegno Augusteo, p. 5: vd. AInsr, s. CCm, b. 222, f. 68. Circa l’organizzazione ed i rapporti, invero in principio piuttosto tesi, tra l’Istituto e la r. Accademia di s. Cecilia, vd. invece la b. 220, f. 62. Il programma del concerto, i testi e la scelta delle illustrazioni per il relativo opuscolo vennero affidati, come testimoniato dal co-pioso carteggio conservato, proprio al maestro Fernando liuzzi, che vi attese con scrupolo nonostante le condizioni di salute e che già in passato aveva anche più ampiamente collabo-rato con l’Istituto. un appunto interno datato 6 settembre 1938, ibidem n. 286, informa cir-ca la retribuzione della sua opera.

(116) vd. in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 62, lo scambio epistolare dal 22 luglio al 3 agosto 1938. vi era il progetto di richiedere a gigli di cantare l’Inno a Roma di puccini: vd. ibidem la lettera da C. galassi paluzzi a F. liuzzi del 22 luglio 1938. per la richiesta di partecipa-zione al concerto rivolta al soprano maria Caniglia, poi sostituita dal soprano Alba Anzillot-ti, vd. ibidem la lettera da C. galassi paluzzi a m. Caniglia del 9 agosto 1938 e l’appunto in-terno n. 277 del 23 agosto 1938.

(117) ed inoltre: «dall’immenso materiale così adunato si sono trascelte alcune pagine, che […], rappresentano altrettanti momenti artistici di tale ininterrotto pensiero»: vd. l’opu-scolo del concerto, pp. 3-4, consultabile ad esempio in AInsr, s. CCm, b. 233 ed in cui, co-munque, il nome di F. liuzzi non comparve in alcun modo. Il concerto prevedeva due par-ti. nella prima venne rappresentata l’ouverture del Coriolano di l. van Beethoven, l’aria di ottavia Addio Roma da L’incoronazione di Poppea di C. monteverdi ed il poema sinfonico I Pini di Roma di o. respighi. nella seconda parte, invece, venne rappresentata la sinfonia dalla Cleopatra di l. mancinelli, l’interludio dal Nerone di p. mascagni, il finale III, coro e danze, de La Vestale di g. spontini ed infine l’Inno a Roma di puccini.

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tre, di ritorno a napoli, dalle 19,30 si svolse quella al museo nazio-nale «illuminato a luce artificiale» (118). Il giorno dopo, a Capri, ebbe luogo l’inaugurazione e la visita alla Villa Iovis, sempre curata da A. maiuri, mentre nel pomeriggio, dopo aver assistito alla «Festa ven-demmiale» ad Anacapri ed aver partecipato alla «cerimonia simbolica della piantagione di un elce», i partecipanti tornarono a roma (119). la mattina del 27 settembre in Campidoglio, dalle ore 11,00, alla presen-za del ministro dell’educazione nazionale, si svolse la cerimonia di chiusura del Bimillenario Augusteo, per la quale, visto il valore idea-le della manifestazione, erano stati rivolti inviti sia a «s.m. il re Im-peratore» che a «s.A.r. il principe di piemonte», che tuttavia non intervennero (120). nel corso della cerimonia tennero quindi discorsi

(118) Così nel programma del Convegno Augusteo, p. 6. Circa la data della celebrazione del II centenario degli scavi di ercolano cfr. supra nota 85. In data 17 settembre 1938, con lettera di C. galassi paluzzi al generale A. Aymonino, era stata anche richiesta la partecipa-zione, che poi non ebbe luogo, del principe di piemonte alla visita alle antichità campane del 25 e 26 settembre: vd. AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Napoli e Capri, Pompei, Erco-lano, sub sott. S.A.R. il Principe Ereditario.

(119) Circa le escursioni campane, vd. soprattutto AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Na-poli e Capri, Pompei, Ercolano, e b. 222, f. 67. nel caso della escursione a Capri dei parteci-panti al Convegno Augusteo occorre tenere presente i rapporti tra l’Istituto di studi roma-ni ed il Comitato esecutivo istituito in Capri per le celebrazioni in occasione del Bimillenario Augusteo, nonché il ruolo svolto da A. maiuri nei rapporti tra i due enti. È in tal senso si-gnificativa la lettera del 30 agosto 1938 dal podestà presidente del Comitato esecutivo al pre-sidente dell’Istituto nella quale il primo, appresa dal ministero dell’educazione nazionale la visita a Capri del 26 settembre 1938, comunicava il rinvio a quella data dell’inaugurazione de-gli scavi di Villa Iovis, già fissata per il 2 settembre, e, dando atto di contatti verbali avvenu-ti con maiuri, proponeva un programma per il giorno 26 che infine sarebbe sostanzialmente coinciso con quello riportato nel programma del Convegno Augusteo. esso prevedeva, oltre ad un rinfresco ed alla colazione, soprattutto l’inaugurazione degli scavi di Villa Iovis con il-lustrazione da parte di maiuri, la gita ad Anacapri, la partecipazione alla «festa vendemmia-le» e quella alla cerimonia simbolica della piantagione di un elce. vd. questa lettera tra i do-cumenti non riuniti in autonomo sub sottofascicolo ed oggi collocati nel f. 66 della b. 221, all’interno del sott. Napoli e Capri, Pompei, Ercolano tra il sub sott. Visita a Napoli. Varie ed il sub sott. Visita a Napoli. Alberghi.

(120) vd. in AInsr, s. CCm. b. 221, f. 64, sott. Chiusura e ricevimento in Campidoglio la lettera da C. galassi paluzzi a g. Bottai del 12 settembre 1938, e lo scambio di lettere di C. galassi paluzzi con il primo Aiutante di campo generale del re e con il primo Aiutan-te di campo generale del principe di piemonte tra il 17 ed il 23 settembre 1938. numero-si riferimenti alla progettata partecipazione del re e del principe di piemonte sono anche in AInsr, s. CCm, b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazione Nazionale. Cfr. anche AInsr, s. CCm, b. 221, f. 66, sott. Napoli e Capri, Pompei, Ercolano, sub sott. S.M. il Re Imperatore. si riferisce probabilmente ad una variante del discorso del governatore di roma in caso di confermata presenza del re un appunto che si rinviene nel sott. Chiusura e

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Il Convegno Augusteo del 1938 423

piero Colonna, governatore di roma, C. galassi paluzzi, ernst Kor-nemann a nome degli studiosi stranieri, ed infine lo stesso Bottai (121). È proprio con questi discorsi che si cristallizza in modo ufficiale il significato ideologico-politico della manifestazione (122). Il governato-re, ricordato il ruolo di pacificatore universalmente riconosciuto ad Augusto e celebrato all’interno del Bimillenario dalla mostra Augu-stea, salutati gli studiosi stranieri «della romanità» e menzionata la valenza ideale del restauro ed isolamento dell’Ara Pacis e dell’Augu-steo, concludeva come fosse altamente significativo che questi monu-menti fossero «risorti dopo due millenni in questa nostra roma» (123). Il presidente dell’Istituto, presentata una rassegna delle manifestazio-ni svolte per il Bimillenario, ringraziato il ministro per l’attenzione nei confronti del Convegno Augusteo (124), e quindi rivolto un ringra-ziamento agli studiosi italiani e stranieri che «stanno a rappresentare

ricevimento in Campidoglio, spillato ad un rettangolo di carta intestata «Il Capo di gabinet-to del governatore». vi è scritto a macchina l’appunto: «Indirizzo di saluto di s.e. il gover-natore di roma – dovrà essere dato alla stampa a cerimonia ultimata». l’indirizzo di saluto è estremamente interessante per il valore ideologico-politico del Convegno e del Bimillenario e si ritiene utile pubblicarlo per intero: «per l’Italia non è senza un altissimo auspicio e un profondo significato che la chiusura delle manifestazioni celebrative avvenga solennemente in Campidoglio alla presenza augusta del re vittorioso che dandole i più sicuri confini che Augusto aveva voluto, ha reso perfetta la risorta unità d’Italia, e che, per la genialità cesarea e augustea di un duCe romano, ha nuovamente iniziato la serie degli Imperatori che hanno in roma la loro capitale». A chiusura della manifestazione, telegrammi furono naturalmen-te inviati al re, al principe di piemonte ed al capo del governo: vd. ibidem. per gli aspetti di questa cerimonia relativi alla sicurezza, vd. in AInsr, s. CCm, b. 221, f. 64, sott. Chiusu-ra e ricevimento in Campidoglio la lettera da C. galassi paluzzi a g. Franceschini, commis-sario di p.s. del rione ponte, con cui si trasmettevano «gli elenchi di tutti coloro che sono stati invitati alla seduta di chiusura del Convegno Augusteo».

(121) Cfr. già lo scambio epistolare tra C. galassi paluzzi e g. Bottai tra il 4 ed il 12 ago-sto 1938.

(122) I discorsi vennero pubblicati in Il Convegno Augusteo, in «roma. rivista di studi e di vita romana», XvI (1938), 10, pp. 397-406. si veda però soprattutto AInsr, s. CCm, b. 221, f. 64, in cui sono conservate, tra l’altro, il resoconto stenografico della cerimonia a cura del ministero della Cultura popolare, sunti e bozze dei discorsi.

(123) una roma «che, sotto l’alto auspicio della maestà del re, il duce ha ricondotto alla sua missione imperiale»: vd. Il Convegno Augusteo, ult. cit. p. 399.

(124) naturalmente, in questa occasione ufficiale, la configurazione del Convegno Augu-steo come un incontro di studiosi diverso da una «adunata di dotti che si riuniscono per di-scutere problemi e agitare questioni» venne presentata come ottimale, nonostante le propo-ste di segno opposto avanzate sino a non molti mesi prima e relative ad un vero e proprio incontro di studi: vd. ibidem, p. 401.

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l’omaggio della scienza e della Cultura ad uno dei maggiori artefi-ci della civiltà europea», concludeva collegando la pax inaugurata da Augusto alla pace «nell’ordine e nella giustizia» garantita, nelle sue parole, da mussolini (125). Apparentemente meno impegnato, il saluto di e. Kornemann non si discostava in realtà poi troppo dalla cele-brazione della continuità con roma antica allorché egli rivolse i suoi ringraziamenti a quell’Italia che «ha assolto magnificamente e, direi, imperialmente i compiti che un’unica tradizione storica ha imposto a questa terra così ricca di storia» (126). naturalmente è però il discorso di Bottai che condensa a livello ufficiale il significato ideologico del-le manifestazioni del Bimillenario e dello stesso Convegno Augusteo che le concluse. Il Bimillenario Augusteo diventava quindi l’evento che, nel comune segno dell’idea di impero, restituiva all’Italia il colle-gamento con l’antico, che in un certo senso conduceva a compimen-to lo stesso risorgimento e che non aveva una portata solo nazionale ma anche mondiale, essendo Augusto «assurto a simbolo della pace nell’ordine civile» (127).

(125) Ibidem, pp. 400-402.(126) Ibidem, pp. 402-403. una copia del discorso di e. Kornemann, con correzioni rela-

tive alla forma italiana, si trova in AInsr, s. CCm, b. 221, f. 64, sott. Chiusura e ricevimen-to in Campidoglio.

(127) Ibidem, pp. 404-406 ed ivi in particolare: «un piano, dunque (quello delle celebra-zioni del Bimillenario, n.d.a.), che da roma si è irraggiato in tutta Italia, ricostruendo dinan-zi agli occhi degli Italiani di oggi il sistema della loro antica unità nell’ordine e nella potenza dell’Impero. Con questo immediato insegnamento, dunque: che il processo unitario italiano, sollecitato nel secolo scorso anche da esempi e ideologie straniere, riappare nella sua essen-za schiettamente romano. Cioè a dire: nostro autoctono originale, non dagli altri esemplato, ma agli altri esemplare. di qui l’importanza politica dell’erezione di statue di Augusto, do-nate dal duce a molte città d’Italia, le quali hanno voluto, in tal modo, più particolarmente, sottolineare l’antichissima nobiltà della loro origine romana. […]. ma se in Italia la coscien-za di compiere quasi un atto di pietà filiale, ha moltiplicato, in ogni dove e in ogni modo, le manifestazioni celebrative, non meno vasto e imponente è stato l’omaggio mondiale alla me-moria di Augusto. […] uno […] dei maggiori artefici di civiltà. […]. si può realmente affer-mare, che pochi avvenimenti, come il secondo millenario della nascita di Augusto, abbiano fatto sentire agli uomini il dovere e la necessità di esaltare nel Commemorato uno dei miglio-ri tra loro, assurto a simbolo della pace nell’ordine civile». per la predisposizione del discor-so del ministro, numerosi elementi furono comunque messi a disposizione dall’Istituto: cfr. AInsr, s. CCm, b. 211, f. 18, sott. Generalità, lettera da C. galassi paluzzi a e. scardama-glia del 7 settembre 1938, nonché b. 220, f. 58, sott. Rapporti con il Ministero dell’Educazio-ne Nazionale, lettera di C. galassi paluzzi a g. Bottai, trasmessa a mezzo del segretario par-ticolare di quest’ultimo, r. mucci, del 17 settembre 1938 e lettera di C. galassi paluzzi a r. mucci del 22 settembre 1938, nonché già la lettera da C. galassi paluzzi alla presidenza del

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Il Convegno Augusteo del 1938 425

Aveva così termine il Convegno Augusteo e con esso le celebra-zioni del Bimillenario della nascita di Augusto, nel corso delle qua-li l’elemento propriamente e più schiettamente scientifico aveva con-vissuto e talvolta si era fuso con quello ideologico, su di uno sfondo che, nella sua modernità totalitaria, era però tutt’altro che privo di esiti contraddittori rispetto al modello romano. proprio di quelle ma-nifestazioni l’Istituto di studi romani fu ispiratore e protagonista ed oggi, con il suo Archivio e le sue pubblicazioni, ne è testimone d’ec-cezione.

enriCo silverio

Consiglio dei ministri del 14 settembre 1938. secondo M. CaGneTTa, Antichisti e impero fa-scista, Bari 1979, p. 145, nota 17, nel discorso pronunciato a chiusura del Convegno g. Bot-tai avrebbe trovato anche «il modo di collegare l’alacre attività archeologica intrapresa dal regime alle imprese coloniali, ricorrendo alla figura di giovani operai dell’Italia fascista che, abbandonati picconi e badili con cui riportavano alla luce i monumenti antichi, corrono ad imbracciare le armi alla conquista del loro impero», e ciò allo scopo di cercare di dare risal-to alla «partecipazione ideale dei lavoratori alle conquiste africane».

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FILIPPO COARELLI

L’AssembLeA dei Soci dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, integrata dai rap- presentanti delle Istituzioni previste dal Regolamento, ha conferito all’unani-mità il prestigioso riconoscimento di Cultore di Roma per il 2014, quest’anno de-liberato per uno studioso italiano dell’area dell’Archeologia, al professore Filippo Coarelli.

Il professore Coarelli, che negli anni 1968-73 è stato Ispettore archeologo pres-so la Ripartizione Antichità e Belle Arti del Comune di Roma, è Emerito dell’Uni-versità degli Studi di Perugia, ove ha ricoperto dal 1980 al 2008, come Professore Ordinario, la Cattedra di Storia Romana, insegnando altresì Antichità greche e ro-mane e Religioni del Mondo Classico.

Allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, si è occupato di studi relativi all’Ar-cheologia Classica e soprattutto alla Topografia di Roma e dell’Italia antica, uti-lizzando sia le fonti antiche che i dati archeologici, ma avvalendosi anche di altre metodologie, come quella dell’antropologia culturale.

Tra i suoi primi lavori degni di menzione è da considerarsi la pubblicazione del 1972 relativa al tempio di Bellona, presso il teatro di Marcello, risultato di una ricerca ammirevole per la capacità di unificare in un discorso unitario e finalizzato l’archeologia, la topografia, la filologia e la storia delle religioni.

In seguito, la sua produzione scientifica, sviluppatasi con il medesimo impegno critico lungo questa tendenza iniziale, l’ha condotto ad un ripensamento dell’intero quadro della topografia romana. In particolare sono da ricordare i volumi di sin-tesi sull’argomento topografico dell’Urbs, dal Foro romano (1986) al Campo Mar-zio (1997), dal Palatino (2012) ai Colli Quirinale e Viminale (2013): si tratta di la-vori che, unitamente alle pubblicazioni su Pompei (1976) e su Fregellae (1998) e – soprattutto – alla sua opera di collaborazione con numerosi contributi al Lexi-con Topographicum Urbis Romae, curato da Margareta Steinby, rivelano un indub-bio salto qualitativo riguardo alle conoscenze ed alla metodologia degli studi su Roma e l’Italia antica.

Tutto questo senza dimenticare come le sue ricerche su alcuni aspetti archeo-logici e storico-artistici della Roma repubblicana si siano rivolte a illustrare il colle-gamento tra le forme artistiche e la politica dell’epoca: ciò ci permette di attribuir-gli l’indubbio merito di aver riproposto all’attenzione degli studi aree d’indagine di gloriosa tradizione, con una produzione straordinariamente ricca e multiforme di cui sono esemplari i lavori sugli artisti ateniesi a Roma, sulle committenze dei ma-gistrati trionfatori, sui santuari laziali, sulla presenza dei mercatores italici a Delo.

PREMIO « CULTORI DI ROMA » 2014

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FILIPPO COARELLI 427

In definitiva può senz’altro affermarsi come tutto l’impegno scientifico del professore Coarelli, nel corso dei suoi diversi ambiti di studio, sembri evocare l’al-ta qualità metodologica raggiunta da molte delle scienze dell’antichità, non ultima l’archeologia, e non meno del diritto romano, nell’età del positivismo, tra gli ulti-mi decenni del XIX secolo e i primi anni del successivo. Una capacità integrata in questo caso dall’attenzione costante ad una puntuale lettura di tutti i tipi di fonti, anche sulla base delle più recenti tendenze critiche.

LA RedAzione

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A proposito degli inventari dell’Archivio Storico dell’Istituto Nazionale di Studi Romani

Facendo seguito alla richiesta formale della dott. Carla Lodolini Tupputi, relati- va alla pubblicazione del volume Inventario del fondo istituzionale dell’Istituto Nazionale di Studi Romani-onlus Ufficio Sezioni (1933-1971) di Carla Lodolini Tup-puti e Lucia R. Petese, Palombi editore, Roma 2009, l’Istituto Nazionale di Studi Romani specifica quanto segue.

1. Dichiara e riconosce che la dott. Lodolini Tupputi è l’unica autrice del la-voro di riordinamento e inventariazione di tutte le dodici serie che costituiscono l’Archivio Storico dell’Istituto, archivio dichiarato di “notevole interesse storico” ai sensi del D.P.R. n. 1409/1963, dalla Soprintendenza archivistica per il Lazio, e pertanto con l’obbligo da parte dell’Istituto di conservare, riordinare e inventaria-re l’Archivio e metterlo in libera consultazione per motivi di studio.

2. Riconosce che tutto il suddetto lavoro archivistico è consistito in: a) studio della storia dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, delle sue funzioni e compe-tenze; b) esame e identificazione dei singoli documenti; c) ricostruzione dei singoli fascicoli originari; d) riordinamento definitivo di tutto il materiale documentario, riportando ogni carta dell’Archivio all’ordine originario che ad esso era stato dato dal soggetto produttore; e) redazione degli Inventari di ciascuna serie, incluso la serie “Sezioni”, consegnati all’Istituto in formato cartaceo e su supporto elettroni-co, e messi in libera consultazione nella sala di studio dell’Istituto.

3. Riconosce che la dott. Lodolini Tupputi, già dirigente nell’amministrazione degli Archivi di Stato, già professore a contratto di Archivistica in una Scuola uni-versitaria di specializzazione in Archivistica, in base ad incarichi a lei assegnati e tutti retribuiti – prima grazie ad opportuni finanziamenti da parte della Soprinten-denza Archivistica per il Lazio, poi, per la gran parte, con finanziamenti della Re-gione Lazio per la partecipazione dell’Istituto al progetto Archivi del Novecento – ha effettuato, dall’anno 1992 al 2006, il riordinamento di tutte le dodici serie, per un totale di 15.697 fascicoli, descritti in dodici Inventari, tutte opere dell’ingegno protette dal diritto d’autore.

4. Riconosce che la pubblicazione del volume predetto, realizzata con fondi de-stinati all’uopo dalla Regione Lazio, nell’ambito del progetto Archivi del Novecento, ha costituito uso abusivo del nome “Carla Lodolini Tupputi”, nell’intenzione – poi rivelatasi incauta – di riconoscere alla predetta il meritorio e imprescindibile ruolo di unica riordinatrice e inventariatrice dei documenti della serie pubblicata.

5. Riconosce che il volume predetto è basato sull’opera originaria consistente

NOTE E INTERVENTI

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A PROPOSITO DEGLI INVENTARI DELL’ARCHIVIO STORICO 429

nell’Inventario della serie “Sezioni”, che è stato rimaneggiato e rielaborato – an-che con l’inserimento senza la dovuta indicazione tra virgolette, ancorché citati in bibliografia, di brani di articoli a firma della medesima dott.ssa Lodolini Tuppu-ti già pubblicati nella rivista “Studi Romani” – senza il consenso ed a totale insa-puta della dott.ssa Lodolini Tupputi, nonché dato alle stampe con l’erronea indi-cazione quale coautrice della dott.ssa Lucia R. Petese, che invece non ha in alcun modo partecipato alla creazione dell’opera originaria consistente nel predetto In-ventario della Serie “Sezioni”.

6. L’Istituto Nazionale di Studi Romani, nello scusarsi dell’accaduto, riconosce che tale pubblicazione costituisce uso abusivo del nome “Carla Lodolini Tupputi” e, pertanto, l’Istituto si impegna, per quanto in sua possibilità e competenza, a eli-minare detto volume dalla consultazione, a distruggerne tutte le copie in proprio possesso, a chiedere ai soggetti che, a sua conoscenza all’atto dell’accordo, lo pos-siedano di distruggere le copie di cui sono in possesso.

7. L’Istituto inoltre riconosce che anche l’inserimento on line degli inventari (per i quali la dott. Lodolini Tupputi alla fine di ogni lavoro ha sempre consegna-to all’INSR oltre all’inventario cartaceo anche lo stesso testo su base informatica, floppy disk) deve essere effettuato nel rispetto del diritto d’autore e della firma.

Paolo Sommella

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Emissione di un francobollo commemorativo del Bimillenario della morte dell’imperatore Augusto (*)

Su richiesta dell’Istituto Nazionale di Studi Romani e con l’autorizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico, il giorno 19 agosto 2014, anniversario della morte di Augusto, il primo imperatore romano, Poste Italiane ha emesso un francobollo commemorativo del Bimillenario Augusteo (tav. XCI, figg. 1-2). Il fran-cobollo, del valore di € 0,70 e di cui è bozzettista ed incisore Antonio Ciabur-ro, è stato stampato a colori in 2.716.000 esemplari dall’Istituto Poligrafico e Zec-ca dello Stato, con un articolato procedimento che, per una migliore definizione delle superfici, ha richiesto in parte il ricorso alla pregevole tecnica rotocalcografi-ca ed in parte a quella calcografica. L’immagine scelta per illustrare l’emissione fi-latelica raffigura il profilo del volto del princeps dalla statua togata di Augusto ca-pite velato rinvenuta a Roma in via Labicana nel 1910 e conservata presso la sede di Palazzo Massimo alle Terme del Museo Nazionale Romano. Su due dei quattro lati del francobollo, quelli non occupati dall’immagine di Augusto, corre la scritta in caratteri maiuscoli «bimillenario/augusteo».

Questa emissione filatelica è stata promossa dall’Istituto Nazionale di Studi Romani, con l’intento di commemorare il Bimillenario della morte di Gaio Giu-lio Cesare Ottaviano Augusto, scomparso a Nola il 19 agosto dell’anno 14 d.C. La memoria di Augusto è intimamente connessa, già dalla stessa età antica, con l’idea della restaurazione della pace dopo le lunghe guerre civili e, insieme, con la ripre-sa e l’esaltazione dei valori tradizionali della civiltà romana, tralasciati e umiliati nel periodo precedente. In buona parte, tutto ciò è emblematicamente riassunto pro-prio nell’iconografia dell’imperatore come pontefice massimo, vertice della religio-ne romana, cui spetta anche di assicurare un buon rapporto con gli dei e quindi la stessa prosperità di Roma e dell’Impero.

Ottaviano nacque nel 63 a.C. da Gaio Ottavio e da Azia, nipote di Gaio Giu-lio Cesare. Nel 45 a.C. veniva adottato da Cesare e dopo l’assassinio di quest’ulti-mo ricoprì con M. Emilio Lepido e Marco Antonio la carica di triumvir rei publi-cae constituendae. Nel 42 sconfisse a Filippi le forze dei cesaricidi Bruto e Cassio,

(*) Il presente testo riproduce quello comparso sul «Bollettino illustrativo» edito da Poste Italiane, che ha accompagnato l’emissione filatelica del 19 agosto 2014, rispetto al quale esso presenta solo mini-mi adattamenti imposti dalla sua pubblicazione in questa sede.

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EMISSIONE DI UN FRANCOBOLLO COMMEMORATIVO 431

e successivamente Sesto Pompeo e Lepido. Nel 31 a.C. infine si consumò ad Azio lo scontro ormai inevitabile con l’altro “erede” di Cesare, Marco Antonio.

Azio segna l’inizio della fine delle guerre civili che avevano dilaniato la Repub-blica romana da molti anni prima della nascita dello stesso Ottaviano. Celebrato il trionfo nel 29 a.C. e restaurata la pace, l’erede di Cesare diviene quindi l’artefice del mutamento costituzionale che trasformerà Roma da Repubblica in Impero. Egli inaugura quella particolare forma di potere nota come “principato”, in cui l’im-peratore è teoricamente un “primo tra pari”, ma cumula su di sé cariche e poteri dell’antica Repubblica insieme a innovative funzioni e prerogative. La nuova età di pace, nel pensiero del principe, deve caratterizzarsi anche per un ritorno agli anti-chi costumi morali e religiosi dopo il caos delle guerre civili. In questo sfondo, per rimarcare la posizione assunta da Ottaviano il Senato gli conferì nel 27 a.C. l’ap-pellativo di Augustus, allusivo ad una particolare posizione di superiore autorità e non disgiunto da elementi di carattere religioso. È poi dell’anno 12 a.C. l’assunzio-ne del titolo di pontefice massimo, la più rilevante carica sacerdotale romana, che rinviava direttamente ad una dimensione legata al mito delle origini, alla benevo-lenza degli dei ed alla eternità di Roma. Nell’emissione filatelica commemorativa del Bimillenario della sua morte, l’imperatore è raffigurato nelle vesti di pontefice massimo, secondo una tipologia che ha il suo esemplare di maggior pregio appun-to nella statua rinvenuta nel 1910 a Roma in via Labicana.

Dopo aver governato per più di quarant’anni un impero che si estendeva dall’odierno Portogallo al Danubio e dal Baltico ai confini con l’attuale Sudan e dopo aver riorganizzato l’amministrazione dello stato in tutti i suoi elementi es-senziali civili e militari, sentendosi prossimo alla fine, Augusto desiderò che venis-se tramandata ai posteri la sua opera. A tale scopo redasse un elenco delle proprie imprese che volle fosse scolpito su due lastre bronzee e collocato presso il suo mau-soleo in Roma. L’iscrizione romana andò perduta, ma una copia, la meglio conser-vata, completa anche di una versione in greco, venne rinvenuta nell’odierna Anka-ra, in Turchia, lungo le pareti del pronao del Tempio di Augusto e Roma, il cui calco al vero figurava nella Mostra Augustea della Romanità realizzata dal Museo dell’Impero Romano e dall’allora Istituto di Studi Romani in occasione del Bimil-lenario della nascita di Augusto celebrato nel 1937-’38. Il calco è tuttora conserva-to a Roma presso il Museo della Civiltà Romana.

Anni prima, tra il 13 ed il 9 a.C., la pace raggiunta nell’età del primo impera-tore era stata già celebrata da un altare monumentale nel Campo Marzio dedicato alla Pace Augusta, l’Ara Pacis Augustae. Il recupero e la ricomposizione di questo monumento così importante per comprendere il principato augusteo, come pure i lavori di sistemazione del mausoleo dell’imperatore, vennero promossi dall’Istituto di Studi Romani in occasione del Bimillenario della nascita di Augusto, nel qua-dro di una più ampia serie di manifestazioni celebrative e scientifiche direttamen-te progettate o coordinate dallo stesso Istituto, con la partecipazione di studiosi italiani e stranieri. Esse miravano ad analizzare la figura dell’erede di Cesare come restauratore della pace e creatore dell’Impero anche dal punto di vista dei suoi ri-flessi sulla politica interna ed internazionale dell’epoca.

Nella stessa occasione l’Istituto, insieme con il Museo dell’Impero Romano, oggi Museo della Civiltà Romana, si fece anche promotore di serie filateliche di

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P. SOMMELLA - A. M. LIBERATI : EMISSIONE DI UN FRANCOBOLLO COMMEMORATIVO432

posta ordinaria ed aerea celebrative del Bimillenario della nascita di Augusto, il-lustrate da Corrado Mezzana e destinate non solo al Regno d’Italia, ma anche alle isole italiane dell’Egeo ed all’Africa italiana. Le celebrazioni del 1937-’38 furono anche l’occasione di un Convegno Augusteo che, pur nel complesso e tormentato clima dell’epoca, costituì un’ulteriore occasione d’incontro tra studiosi d’alto valo-re italiani e stranieri e rappresentò un momento di approfondimento scientifico di testimonianze archeologiche dell’età del principato.

La figura di Augusto, l’interpretazione del suo operato e la sua attualizzazione sono state e continuano ad essere materia di studi anche nel Bimillenario della sua morte, perché l’influenza del primo imperatore non si esaurì né si limitò a Roma antica. La sua figura divenne nei secoli il simbolo della stessa civiltà di Roma e della sua cultura, influenzando numerose e diverse esperienze politiche della storia medioevale, moderna e contemporanea. Per tale motivo l’Istituto Nazionale di Stu-di Romani – custode della documentazione d’archivio relativa alle celebrazioni del Bimillenario della nascita di Augusto – si è fatto promotore di un convegno inter-nazionale di studi (23-24 ottobre 2014) nel quale ha inteso indagare in che modo il principe restauratore della pace e fondatore dell’Impero sia stato studiato ed at-tualizzato negli anni Trenta del Novecento (tav. XCII, figg. 1-2).

Paolo sommella - anna maria liberati

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Fori Imperiali: temi e nodi per una riconciliazione delle prospettive

A più di trenta anni di distanza dalle prime accese discussioni, che accompagna- rono l’avvio delle indagini archeologiche nell’area dei Fori Imperiali di Roma (1), il destino di quella zona nevralgica della storia millenaria della città torna a far di-scutere e acquista di nuovo il proscenio. Il progetto di scavo e valorizzazione dei Fori Imperiali di Roma divise allora aspramente l’opinione pubblica forse anche perché fu visto sin dall’inizio sotto tante diverse angolazioni, che non riuscirono a incontrarsi in un punto di vista generale e condiviso. Per alcuni fu l’occasione per scavare ed incrementare le conoscenze archeologiche sulla città proprio negli anni in cui l’archeologia urbana svelava la fantastica complessità di una stratifica-zione urbana trimillenaria; per altri fu l’occasione per cancellare una strada indub-biamente segnata da una componente ideologica fascista, che aveva avuto un forte impatto non solo nella viabilità, ma nella stessa forma urbana del centro storico; per altri infine fu la molla per attivare gli esperimenti di pedonalizzazione del cuo-re della città e via dicendo … Ora che molte indagini sono state fatte, per fortu-na con grande maestrìa e professionalità (2), e le nostre conoscenze sono aumenta-te enormemente, ciò non toglie che i problemi urbanistici e culturali di quell’area siano ancora tutti lì. E anche se oggi guardiamo con maggiore distacco di un tem-po agli aspetti ideologici di quegli sventramenti, dobbiamo stare attenti a non farci offuscare la vista da una visione rozzamente storicistica del problema (quello che è stato fatto ormai c’è ed è meglio che resti così com’è).

Anche le pedonalizzazioni sono state fatte, a ritmi alterni. Ma questo non ha impedito che l’area dei Fori – specie attorno al Colosseo – si presenti oggi come una sorta di far west urbano, dove le folle del turismo mordi e fuggi sono preda di comportamenti sociali inaccettabili per una Capitale, peraltro a breve distanza da luoghi di grande degrado urbano, come quelli dell’inglorioso ‘buco nero’ di Pa-lazzo Rivaldi e del suo giardino, abbandonati a se stessi da decenni.

Quale che sia la visuale che privilegiamo, tutti i diversi punti di vista metto-no comunque in luce un groviglio di problemi che pretende l’uso contemporaneo

(1) Ancora di grande attualità e interesse è il volume di i. insolera - F. perego, Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma, Roma-Bari 1983.

(2) Per una sintesi ricca di dati si rinvia a r. Meneghini - r. santangeli Valenzani, I Fori Imperia-li. Gli scavi del Comune di Roma (1991-2007), Roma 2007.

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DANIELE MANACORDA434

di molti occhiali diversi per essere almeno messo a fuoco. Il risveglio d’interes-se sul “Progetto Fori” (3) è stato suscitato anche dalla pubblicazione di un corpo-so volume curato da Raffaele Panella (4), che propone un progetto integrale di tra-sformazione e valorizzazione di quest’area centrale di Roma, elaborato all’interno della Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza in strettissima collabora-zione con gli archeologi di quell’ateneo, da tempo impegnati negli scavi dell’area circostante il Colosseo (5).

Insomma, se la questione Fori Imperiali sembra ufficialmente riaperta, è lecito domandarsi se sia la volta buona. Il futuro di quest’area così ricca di simboli e di storia, anche recente, ha visto infatti incrociarsi in questi anni (ed ignorarsi) molti modelli diversi. C’è chi ha proposto la demolizione della strada per dare spazio agli scavi e alla riunificazione dei Fori e chi ne ha difeso la intangibilità, chi la vorreb-be salvare ma solo a metà e chi – come Panella, appunto – vorrebbe trasformarla in un viadotto. Per quello che posso giudicare dall’angolo limitato delle mie compe-tenze, il progetto Panella è innanzitutto un progetto colto, perché tiene conto tanto della complessità della vicenda urbana che dei risultati di venti anni di esplorazioni archeologiche; è un progetto di vasto respiro, perché opera sull’area dei Fori Impe-riali comprendendo nelle sue scelte anche Piazza Venezia, da un lato, e la Valle del Colosseo dall’altro. È anche un progetto che opera selezioni molto forti delle compo-nenti fisiche di questo contesto con l’aggiunta di nuove strutture di grande impatto, progettate per formare un sistema capace di rendere esplicito il senso dei luoghi.

L’obiettivo è quello di evitare ogni forma di separatezza tra il centro moderno di Roma e quello antico sulla scorta dei due elementi unificanti offerti dalla Via dei Fori Imperiali, trasformata in un viadotto che ne ricalca il tracciato, e dall’avvento della Metropolitana, che consente fra l’altro il recupero affascinante del livello ipo-geo del Vittoriano quale accesso monumentale alla rete del ferro nella città.

Il progetto non è leggero: propone innanzitutto l’eliminazione della grande diga formata dalla Via dei Fori, che è un ostacolo alla comprensione di ciò che re-sta del contesto urbano, così come lo è la Via Alessandrina, e propone l’elimina-zione di tutte le sovrastrutture cresciute sull’area nel corso del tempo (con qualche eccezione di non piccolo momento, come il nucleo di città altomedievale sorto nel Foro di Nerva (6)). Propone altresì il ripristino delle piazze dei Fori attraverso nuo-ve ripavimentazioni e le anastilosi parziali e ragionate di parti dell’antico, perché le aree delle antiche piazze e degli edifici che facevano corona possano essere ap-prezzate «nella loro forma e nella loro dimensione» (7). L’obiettivo centrale è quel-

(3) Un convegno su Archeologia e città: dal progetto Fori all’Appia Antica è stato organizzato dall’As-sociazione Bianchi Bandinelli a Roma, il 21 marzo 2014.

(4) r. panella, Roma, la città dei Fori, Roma 2013. Il volume è stato recentemente presentato in oc-casione di due incontri svoltisi presso la Sapienza e il MAXXI, rispettivamente il 9 e il 17 aprile 2014.

(5) Dall’ampia bibliografia scientifica prodotta da quelle indagini mi limito a segnalare la recente im-portante sintesi di C. panella, Scavare nel centro di Roma. Storie Uomini Paesaggi, Roma 2013.

(6) Si veda r. Meneghini - R. santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo, Roma 2004, in par-tic. pp. 31 ss., 157 e seguenti.

(7) panella, Roma, la città dei Fori, cit., p. 191.

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FORI IMPERIALI: TEMI E NODI PER UNA RICONCILIAZIONE DELLE PROSPETTIVE 435

lo della formazione di un «giardino di pietra restituito al suo uso originale di luo-go di convegno e di permanenza» (8), reso accessibile mediante un sistema di pas-serelle e passaggi che seleziona i visitatori.

Questo giardino di pietra si estende sino alla Valle del Colosseo, dove si pro-getta una piazza interamente nuova, con un pavimento lapideo organizzato secon-do gli orientamenti di età neroniana. Nella piazza si prefigura anche la ripresa dei piedritti delle arcuazioni perdute, per ricomporre le dimensioni reali dell’edificio. Vi ricompaiono in negativo il basamento del Colosso e il segno della Meta sudans, affidato ad una vasca sottile in marmo adagiata sul parterre ma dotata di un ele-mento mobile: una bella idea da festa barocca. Nuove taberne circondano la piazza sul lato meridionale, fondamentali come riparo e luogo di sosta e ristoro per ren-dere meno incivile l’attesa dei visitatori in preda a gladiatori e furfanti.

Il progetto non si estende verso Villa Cornovaglia, dove lo sconcio dell’Anti-quarium Comunale, da oltre mezzo secolo in rovina (9), denuncia lo stallo delle am-ministrazioni pubbliche, né raggiunge – ma non è un suo limite – il Ludus magnus su Via Labicana. Ma che cosa vogliamo fare di quel piccolo anfiteatro a ridosso del Colosseo, che espone da decenni inconsapevole il suo non-senso? Qualcuno ha un progetto in testa per quella cervellotica non-rovina osservata ogni giorno da decine di migliaia di persone?

Insomma, Raffaele Panella ci propone un progetto unitario e complessivo, sulle cui scelte generali e puntuali è ovviamente legittimo discutere, ma che ha il grande pregio della coerenza interna e della franchezza con cui pone il tema del rappor-to antico/moderno attraverso la riprogettazione dell’uno e dell’altro, perché l’uno non fagociti l’altro e perché l’uno dall’altro tragga alimento e sostanza.

I diversi progetti che si sono misurati con l’area dei Fori derivano da altret-tanti modelli più o meno espliciti: da quello ormai antico di Leonardo Benevolo (10) a questo della Sapienza, frutto di un lavoro di decenni (già segnato da un’analisi molto attenta della progettazione dei bordi dell’area, di cui si intuiva il valore stra-tegico (11)), a quello recentemente delineato dall’assessore Giovanni Caudo, a parti-re da una rilettura critica delle previsioni proposte dalla Commissione istituita anni or sono dal Comune, dopo che il Ministero per i Beni Culturali aveva posto addi-rittura un vincolo sulla Via dei Fori Imperiali: una scelta – quest’ultima – di ‘non fare’ che ha anch’essa un valore progettuale di fatto.

Questi diversi progetti vanno conosciuti, capiti, confrontati, integrati, perché ciascuno possa prendersi poi le necessarie responsabilità. Ma non prima di un la-voro di riconciliazione delle diverse prospettive, che deve pur essere tentato, sa-pendo che non è impossibile raggiungere una sintesi di qualità ad un livello più

(8) Ibid., p. 260.(9) Si veda F. p. arata - n. Balistreri, L’Antiquarium Comunale del Celio, in Il primo miglio della

Via Appia a Roma, a cura di D. Manacorda e R. Santangeli Valenzani, Roma 2010, pp. 269-281.(10) Roma. Studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale, a cura di L. Benevolo, Roma

1985.(11) r. panella, Roma Città e Foro. Questioni di progettazione del centro archeologico monumenta-

le della capitale, Roma 1989.

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DANIELE MANACORDA436

alto. Questo è certamente il compito della politica, ma anche – credo – del mon-do della cultura, delle professioni, dell’associazionismo culturale. Troppe divisioni hanno ingarbugliato il problema e lo hanno incatenato, rendendo ancor più diffi-cile la ricerca di una soluzione condivisa su un tema che giustamente divide l’opi-nione pubblica non solo romana.

Da archeologo penso che dobbiamo riconciliare il concetto di parco archeolo-gico con quello di parco urbano, l’archeologia e l’architettura che sottraggono con quelle che costruiscono, il concetto di contemplazione con quello di uso, l’antico con il moderno, ma sapendo che i problemi di oggi nascono nell’Ottocento, anche se la modernizzazione napoleonica di Roma e quella tardo ottocentesca operarono in contesti storici e su contesti topografici profondamente diversi (12). Una discon-tinuità epocale divide infatti nel rapporto tra archeologia e urbanistica l’inizio di quel secolo dalla sua fine. Solo con il 1870 la ripresa urbana investì, per la prima volta dopo secoli di abbandono, il suolo del disabitato e non soltanto la città con-solidata. Le modernizzazioni precedenti avevano incontrato l’antico nel suo aspet-to e ruolo di rovina viva nel tessuto stesso della città storica; con Roma Capitale fu invece la città ruralizzata e ancora quasi intatta nel sottosuolo che venne inve-stita nella sua totalità. Per la prima volta la ripresa quantitativa della città, e quin-di l’espansione del costruito, non avvenne sui luoghi storicamente adibiti, dall’alto medioevo in poi, all’abitato, ma operò a macchia d’olio all’interno della cinta di orti, vigne e giardini compresa nella città murata. Per la prima volta l’espansione orizzontale del costruito impattò non episodicamente, ma globalmente con la cit-tà antica, non per riuso o per puntuale trasformazione, ma per sovrapposizione e sostituzione alternativa e totalizzante. Questa cesura mutò la funzione e il destino dei monumenti antichi di Roma e in questo cambio radicale di prospettiva gli anni della costruzione di Roma Capitale ci appaiono oggi più sconvolgenti di quelli della Roma fascista, che in questo senso mantenne un atteggiamento che potremmo defi-nire più arcaico (o tradizionale) nei confronti della città e dei suoi monumenti (13).

Nell’area dei Fori le due fasi tuttavia convivono. Dove finiscono infatti in quell’area e dove cominciano le non-rovine (14), cioè quei muri frammentati che sono il prodotto dell’archeologia contemporanea, che ha riportato alla luce brandelli di strutture che rovine non sono stati mai? A parte il Colosseo, il palcoscenico della Via dei Fori conosce come vere rovine rimaste nel paesaggio urbano soltanto l’emi-ciclo dei Mercati Traianei e le colonne del tempio di Marte Ultore, le Colonnac-ce del Foro di Nerva e ciò che resta del basamento del tempio di Venere e Roma, che costituisce l’interlocutore privilegiato del lato occidentale della piazza del Co-losseo. Il resto rovina non è, e come tale va guardato e trattato.

Da archeologo penso quindi che sia necessario formulare alcune domande, for-se preliminari, ma centrali per una riconciliazione.

(12) D. ManaCorDa, I grandi monumenti di Roma, in Storia dell’architettura italiana. Architettura ro-mana. I grandi monumenti di Roma, a cura di H. von Hesberg e P. Zanker, Milano 2009, pp. 324-335.

(13) a. riCCi, Attorno alla nuda pietra. Archeologia e città tra identità e progetto, Roma 2006.(14) D. ManaCorDa, Il sito archeologico: fra ricerca e valorizzazione, Roma 2007, in partic. pp. 92-

93.

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FORI IMPERIALI: TEMI E NODI PER UNA RICONCILIAZIONE DELLE PROSPETTIVE 437

Una prima domanda sorge spontanea. Qual è il ruolo e quali sono i diritti delle discipline che intervengono nel dibattito? È bene che gli archeologi lavorino in pace, certo. E così gli architetti e gli urbanisti. Ma diciamoci anche che nessuna di que-ste categorie ha il diritto di scegliere la soluzione, e tanto meno quello di porre veti, dal momento che le scelte spettano solo alla politica, se sa essere colta e partecipata.

I monumenti e i siti archeologici vanno innanzitutto capiti. La valorizzazione dei resti non è obbligatoria. Lasciare in vista i resti emersi dagli scavi è una scelta da perseguire solo quando sia accompagnata da un progetto, che prevede l’entra-ta in scena di molte competenze. Il ruolo progettuale dell’archeologia può fondar-si sulla capacità di interpretare i resti e di tradurre i risultati della ricerca in modo accessibile a tutti: si tratta di un nodo importante, che segna il passaggio dall’ar-cheografia capace di descrivere all’archeologia desiderosa di spiegare. Ma i monu-menti di Roma non hanno bisogno solo di archeologi, anche se noi possiamo fare molto, se partiamo dalla consapevolezza che non possiamo avere con il passato un rapporto creativo se non siamo innanzitutto curiosi di capire, o almeno di perce-pire il presente.

Per questo sono d’accordo con Panella quando scrive che «lo scavo archeolo-gico non crea automaticamente un valore urbano» (15). L’esito dello scavo non può imporre la scelta; la deve però orientare: è il primo interlocutore di una architettu-ra che si interroghi sui suoi strumenti, sul fatto che anche la scelta di non costrui-re, a volte anzi di demolire, è un atto architettonico, un segno altrettanto forte (16). Anche la sottrazione è progetto, come indicava peraltro Benevolo trenta anni fa (17), proponendo l’eliminazione di tante superfetazioni che impediscono una lettura or-ganica del complesso antico, ripresa – in una prospettiva diversa – dal progetto Panella. Certo, sul piano teorico la sottrazione non è diversa dal diradamento o – senza scandalo – da quella che Mussolini nella sua enfasi sventratoria chiamava la «necessaria solitudine» dei monumenti (18). La differenza la fa il senso del progetto, il valore urbano che si vuole mettere al centro di quell’intervento.

La domanda si sposta allora su alcune scelte progettuali di fondo che orienta-no le scelte operative: l’esito urbano dell’area riprogettata deve privilegiare la for-ma architettonica e urbanistica, rendendo comprensibili i monumenti allo stato di rudere, o il racconto storico, rendendo comprensibili le vicende che li hanno fram-mentati? Dobbiamo risarcire queste forme o solo alludere ad esse? La risposta è solo progettuale, non certo manualistica, dal momento che solo l’analisi contestua-le può indirizzare verso l’una o l’altra delle diverse strade. Certo, chi vi parla so-gna che un giorno venga riallestita l’arena del Colosseo, che oggi scoperchia alla vista le sue viscere, in omaggio ad uno degli esempi più limpidi di quell’archeo-logia necrofila che ama esporre in città le interiora dei corpi morti e non l’armo-nia degli edifici.

(15) panella, Roma, la città dei Fori, cit., p. 187.(16) D. ManaCorDa, Archeologia in città: funzione, comunicazione, progetto, in arch.it.arch.-dialoghi

di archeologia e architettura, Seminari 2005-2006, Roma 2009, pp. 3-15.(17) Roma, a cura di L. Benevolo, cit.(18) a. CeDerna, Mussolini urbanista, Roma-Bari 1979.

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DANIELE MANACORDA438

Ecco allora che il problema che tutti gli altri ricomprende è forse quello degli usi sociali di queste aree archeologiche una volta restituite alla città. Raffaele Panel-la ha fatto un primo passo avanti tentando di categorizzare i possibili frequentato-ri di queste aree urbane e ci invita ad approfondire il discorso: il progetto insiste infatti sulla necessità di una rete di punti di servizio per visitatori, oggi trascura-ta se non assente. Panella non parla di turisti, ma di visitatori, È un passo avanti. Ma siamo sicuri che sempre di visitatori dobbiamo parlare? Quelle aree si presta-no davvero solo ad un uso contemplativo, estetico, scientifico? A mio giudizio, no: quelle aree – come ha sostenuto l’assessore Caudo (19) – potranno essere un gior-no attraversate anche da una ‘signora con la borsa della spesa’. Già trenta anni fa Adriano La Regina apriva i cancelli del Foro Romano perché quelle aree fosse-ro – diceva – ‘frequentate’ dalla cittadinanza. Non possiamo trasformare i monu-menti del passato in sacrari, per quanto laici, di un antico assolutizzato. Per se-coli le colonne del Portico di Ottavia hanno ospitato – vivendo – il mercato del pesce. Finito quell’uso sociale, uno sciagurato intervento archeologico ha distrutto una piazza di Roma e creato un oratorio della classicità che confina ad ogni mo-mento con un orinatoio (20).

Ecco allora un’altra domanda. Si parla spesso di istituire in questa area del cuore di Roma un ‘parco archeologico’: siamo convinti che questo sia l’aggettivo giusto in un contesto in cui il tema di fondo sembra essere piuttosto il rapporto antico/moderno in una città viva con tremila anni di storia alle spalle? A parte il concetto stesso di parco archeologico, che trovo contraddittorio – dal momento che in un parco l’elemento archeologico sarà sempre e soltanto una componente, magari prevalente, ma mai esclusiva – quel termine non rischia, al di là delle inten-zioni, di suscitare il timore – paventato da Panella – di una «cesura nel centro di Roma incompatibile con l’idea di centro» (21) ? Tutti ci battiamo – riflette Panella – per il Parco per cui si batté Cederna, ma alla fine abbiamo in mente un modello diverso. Questo è infatti uno dei nodi: per ricomporre le distanze, occorre esplici-tare i punti di dissenso o di fraintendimento e cercare un incontro. Parco dei Fori e Parco dell’Appia possono essere visti benissimo come componenti di un unico sistema urbano, ma le loro evidenti specificità (nel caso dei Fori la loro coinciden-za con il centro della città) impongono ottiche diverse, che riguardano innanzitut-to le forme di uso dei due comprensori.

Se dopo il fantastico tentativo di La Regina di aprire il Foro Romano al li-bero transito dei cittadini si è dovuto fare un passo indietro chiudendo di nuovo quell’area ai ‘passanti’ il motivo non starà dunque nella mancanza di un proget-to possibile di coesistenza della vita moderna con l’antico? Convivenza alla quale tuttavia continuiamo a credere, domandandoci se i progetti sin qui avanzati non

(19) Nel suo intervento alla manifestazione ricordata a nota 3.(20) D. ManaCorDa, Ricoprite quel buco, in Archeo, 253 (marzo 2006), pp. 104-107; iD., Conclu-

sioni, in Archeologia e città: riflessione sulla valorizzazione dei siti archeologici in aree urbane, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 11-12 febbraio 2010, a cura di A. Ancona, A. Contino e R. Sebastia-ni, Roma 2012, pp. 250-256.

(21) panella, Roma, la città dei Fori, cit., p. 141.

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FORI IMPERIALI: TEMI E NODI PER UNA RICONCILIAZIONE DELLE PROSPETTIVE 439

trovino i loro limiti proprio nel carattere solo contemplativo dell’uso che prefigu-rano. Davvero non è possibile andare oltre, sforzandosi di descrivere meglio che cosa intendiamo quando parliamo di un Parco urbano nel centro della città? Per-sonalmente penso senza dubbio ad un parco come luogo di visita, ma anche e so-prattutto di vita, come luogo di sosta, di ristoro, di riparo e condivisione, luogo di gioco e di contemplazione, di tempo vissuto, non necessariamente di studio o di ammirazione superficiale, pur legittima, ma come luogo di profonda cura di sé. L’opposto, insomma, di certi nostri siti archeologici ridotti a non-luoghi, per i qua-li dobbiamo davvero riprogettare le forme umane dell’uso.

Il problema non è in fondo concettualmente diverso da quello che ci propo-ne una riflessione su un uso radicalmente diverso degli spazi residenziali dei palaz-zi aristocratici nei quali sono ospitate tante nostre pinacoteche. Accanto e al di là della sacralità dell’arte e di tanta sbandierata bellezza (una parola che ormai, come mi accade per l’identità, mi riesce difficile pronunciare), in quei palazzi non sareb-be possibile vivere accanto alle opere che contengono, leggere, sorseggiare un caf-fè, conversare, come quando in quelle stanze si viveva? Non è possibile passarci un pomeriggio? Non per ripassare il manuale di storia dell’arte ma per sentirsi in armonia con i luoghi e le loro storie? Qualcuno osserverà: ma che cosa c’entrano i musei? C’entrano, eccome! Parchi e musei sono gli strumenti che la civiltà moder-na ha costruito in questi ultimi secoli per cercare il punto di equilibrio tra le cose e i contesti del passato e il loro senso fra le cose e gli abitanti del presente: forse unica garanzia di una progettazione consapevole del futuro.

Daniele ManaCorDa

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Sacra privata e ius civileA proposito di un libro recente sui rituali

domestici e gli istituti giuridici in Roma antica (*)

1. L’agile volume di Arduino Maiuri dedicato ai sacra privata e, più in partico-lare, al rapporto funzionale tra rituali domestici ed istituti fondamentali del diritto romano, quali il matrimonium, l’adoptio e l’institutio heredis, conclude, in realtà, un’indagine già scandita da due significative tappe, nelle quali erano state proficua-mente esplorate l’influenza del cristianesimo sul Codice Teodosiano (1) e la molteplici-tà di significati, politici, giuridici e religiosi, del silenzio nel mondo romano (2), pro-fili, questi, che, evidentemente, non avevano ancora appagato lo spirito indagatore del suo autore, che ha voluto così mettere a frutto gli esiti di tali prodromiche ri-cerche convogliandoli all’interno di un quadro più completo e generale avente ap-punto ad oggetto l’influenza del culto privato sul ius civile Romanorum.

E può subito sottolinearsi come l’opera si inserisca a buon diritto in quella sempre meritoria categoria di libri che si fanno apprezzare particolarmente già per il solo fatto che il titolo, nella sua estrema chiarezza, orienta subito il lettore non solo in ordine ai contenuti ed agli argomenti trattati ed al periodo storico preso in considerazione, ma anche, e soprattutto, alla finalità perseguita, che, in definitiva, è quella di sfruttare le suggestioni di ordine religioso e giuridico al fine di defini-re le relazioni esistenti, in ambito privatistico, tra il sacrum ed il ius, per trarre poi delle conclusioni più generali incentrate sull’idea dell’assoluta centralità del culto privato in ogni fase sensibile della vita dei cives romani.

E, in questo senso, può qui anticiparsi che il libro merita apprezzamento, ol-tre che per alcuni suoi innegabili ed intrinseci meriti, anche per l’ampiezza di im-plicazioni e prospettive che sembra aprire all’indagine storico-giuridica in ordine a quello che, ancor oggi, rimane uno dei temi più studiati del diritto romano, e

(*) Arduino MAiuri, Sacra privata. Rituali domestici e istituti giuridici in Roma antica, «Collana “Sto-ria delle religioni”», 19, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2013, pp. 176, isbn 978-88-8265-769-7.

(1) Il Codex Theodosianus come Romani iuris refusio nella dimensione religiosa cristiana: alcuni esempi testuali, in Diritto romano e identità cristiana. Definizioni storico-religiose e confronti interdiscipli-nari, Roma 2005, pp. 141 e seguenti.

(2) La polisemia del silenzio nel mondo latino tra politica, diritto e religione, in Silenzio e parola nel-la patristica, Atti del XXXIX Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 6-8 maggio 2010, Roma 2012, pp. 465 e seguenti.

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SACRA PRIVATA E IUS CIVILE 441

cioè, in estrema sintesi, il ruolo giocato dalla religione nelle fasi evolutive più risa-lenti dell’esperienza giuridica romana.

Alla luce di queste considerazioni preliminari il libro del Maiuri sembra allo-ra costituire un ulteriore tassello che si aggiunge a tutta una serie di pregevolissi-me indagini, molte delle quali svolte dalla dottrina romanistica dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, finalizzate a dimostrare che la fissazione di una net-ta linea di demarcazione tra sfera religiosa ed ambito giuridico fosse non solo uno sforzo inutile ed arbitrario, ma anche, e soprattutto, una pericolosa incomprensio-ne della realtà storica e giuridica di Roma antica e, quindi, del tutto inidonea a co-glierne i caratteri salienti.

2. Nel capitolo introduttivo (Introduzione: pp. 11-18), l’autore, dopo avere pre-liminarmente esplicitato che l’approccio ad un tema così complesso sarà guidato e sorretto da un criterio ermeneutico di tipo ‘storicistico’ finalizzato a distinguere le diverse fasi dell’ordinamento giuridico romano nel progressivo affrancamento del-la sua originaria matrice sacrale, sottolinea innanzitutto quanto complessa fosse la ratio sottesa alla religione domestica.

Infatti, gli officianti, desiderando anche assicurare a sé stessi una felice immor-talità, operavano in maniera tale che un giorno anche i propri discendenti potes-sero rivelarsi nei loro confronti tanto ossequienti quanto essi lo erano stati con i loro predecessori. Pertanto, dal momento che l’incombenza dei sacrifici era di nor-ma riservata ai familiari, si imponeva l’imperativo di assicurarsi una lunga discen-denza che si facesse garante di un culto stabile e duraturo. Da qui, il ruolo centra-le dei sacra, nell’organizzazione della domus, in tutto ciò che concerneva appunto l’esistenza e la perpetuità della discendenza, vista, quest’ultima, come prosecutri-ce del culto privato del suo pater familias, al quale spettava anche il compito, in mancanza di un discendente, di scegliere scrupolosamente un terzo che adempisse a questo ufficio. E da questa necessità di avere degli eredi scaturivano allora l’in-dispensabilità di contrarre iustae nuptiae da cui fosse generata una prole legitima, il ricorso all’adoptio ed all’adrogatio nel caso di assenza di quest’ultima e, infine, l’istituzione di un erede testamentario.

Un secondo rilevante aspetto che va tenuto in debita considerazione è poi co-stituito dal fatto che i sacra non interessavano unicamente i singoli nuclei familia-ri, ma svolgevano anche un’importante funzione sociale, sicché la loro derelizione era ritenuta una vera e propri calamità per tutta la civitas, con la conseguenza che la negligenza dei singoli finiva per costituire un pericolo per l’intera collettività. Per questo motivo, i sacra furono affidati all’alto patronato del collegio dei pon-tefici, che, pur non intervenendo direttamente nelle celebrazioni cultuali, affidate alla concreta gestione ed attuazione del singolo pater familias, rappresentò dunque l’organo sovrano preposto al controllo della regolarità dell’esecuzione e della tra-smissione del culto. Ciò determinò allora una profonda ingerenza dei pontifices in tutti gli atti giuridici interessati dai sacra, che, esplicandosi sul matrimonio, l’adro-gatio e la trasmissione ereditaria dei beni familiari, comportò l’obbligatorietà del culto privato per ogni cittadino.

Ora, un argomento così notevole e sfaccettato si scontra purtroppo con l’estre-ma rarità delle testimonianze antiche sul culto domestico che finora ha reso arduo

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l’approccio ad esso con la dovuta efficacia, ciò che ha determinato, secondo l’au-tore, «la mancanza di una moderna opera d’insieme che faccia il punto sullo stato di avanzamento degli studi in materia» (p. 15). E, invero, la grande penuria delle fonti sul tema in esame appare disarmante, limitandosi, per quelle letterarie, a po-che pagine del De legibus di Cicerone, a qualche verso di Ovidio e ad alcune al-lusioni in Festo e Gellio e, per quelle giuridiche, ad un paragrafo delle Istituzio-ni di Gaio (3).

Probabilmente, la carenza di opere aventi ad oggetto i sacra privata, tranne che in relazione a questioni particolari (4), può trovare una spiegazione nel fatto che la religione romana si poneva come un articolato insieme di credenze affidate essen-zialmente ad una tradizione orale, che, per sua natura, era difficile imbrigliare nel-la scrittura. Né può poi escludersi che vi sia stato un precoce calo di interesse per una religiosità così arcaica determinato dalla concorrenza dei nuovi e più suggesti-vi culti orientali. Si spiegherebbero in tal modo, allora, tanto il silenzio delle fonti sulla storia, sui principii e sui rituali del culto domestico, quanto la circostanza che la giurisprudenza, seppure bene avvertita e sicuramente conscia dell’influenza della religione sulla fenomenologia giuridica, non si sia mai interessata dei sacra privata e nemmeno impegnata nel discernimento di alcune singole sfere cultuali, aventi non poco rilievo nell’età arcaica, quali i sacra familiaria e gentilicia.

Poste tali premesse, l’autore, dopo avere specificato che nell’indagine si ten-terà un opportuno riordino di tutta la documentazione disponibile e, quindi, an-che di quella più tarda (come, per esempio, il Codice Teodosiano, che attesta anco-ra l’esistenza in ambiente periferico del culto privato, ormai dotato di un marcato carattere identitario pagano), indica gli obiettivi della ricerca, specificando che uno dei più importanti motivi ispiratori della propria analisi «consiste nel voler speri-mentare la produttività di un metodo pluridisciplinare, che porti a definire corret-tamente il problema anche grazie ad una mirata sinergia delle discipline “sorelle” della branca antichistica. È notevole, infatti, come i principali studi in argomento, per quanto ponderosi e articolati, solo di rado abbiano saputo disancorarsi dalla prospettiva settoriale all’interno della quale sono stati concepiti. E così, in luogo di un auspicabile approccio interattivo, esibiscono ora un taglio più segnatamen-te giuridico, fondato sui rigidi schemi della giusromanistica, troppo deboli se non adeguatamente surrogati da una lettura più comprensiva e sensibile alle necessità storiche, ora la preponderanza di un’altra delle prospettive utili (storica, letteraria, filologica, archeologica, antropologica, delle tradizioni popolari e così via discorren-do). Sarebbe bene, invece, valorizzare la realtà “effettuale” attraverso una rigorosa analisi delle fonti, che si giovi proficuamente dell’adozione di un metodo combi-nato e strutturato nella decodifica del fatto storico-religioso» (p. 17).

(3) 2.55.(4) L’autore (pp. 15 s., nota 15) ricorda, in proposito, il De sacris detestandis di Servio Sulpicio Rufo

(Gell. noct. Att. 7.12) e ritiene che «il silenzio delle fonti giuridiche si inquadra nel generale disinteresse mostrato dalla giurisprudenza per i sacra, e la religione in genere, dopo l’età di Labeone: prima, infatti, la tematica del ius sacrum era stata trattata da giuristi di chiara fama come Ateio Capitone (De iure pon-tificio), Granio Flacco (De ritu sacrorum), Pomponio Labeone (De sacris) e Trebazio Testa (De religioni-bus, in nove o forse addirittura dieci libri)».

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SACRA PRIVATA E IUS CIVILE 443

3. Nel primo capitolo (Natura e principi dei sacra privata: pp. 19-39) viene in primo luogo puntualizzata la distinzione dei sacra privata, che rappresentavano il settore più riservato della religione romana e che consistevano nell’insieme delle pratiche cultuali (aventi la forma essenzialmente di preghiere e libagioni quotidia-ne) officiate dal pater, in sacra familiaria (domestici) e sacra gentilicia (gentilizi), a seconda che riguardassero la familia o la gens, cioè le due cellule basilari della so-cietà romana arcaica.

I sacra familiaria, la cui gestione si trasmetteva da padre in figlio stante il ca-rattere patriarcale della religione domestica, avevano come destinatari due gruppi di divinità: i Penates e Lares, adorati in casa, ed i Manes, onorati nel sepolcro di famiglia. I Penates garantivano al nucleo familiare abbondanza e stabilità economi-ca ed erano connotati da una spiccata valenza oracolare e da un preciso significato giuridico. Il Lar era invece il capostipite della familia (Lar familiaris) o dell’intera gens (Lar gentilicius) e corrispondeva quindi al nume tutelare della casa, dotato di forza procreatrice protesa alla conservazione della stirpe. I Manes erano infine gli spiriti dei defunti, il cui atteggiamento verso i sopravvissuti risultava tanto più be-nevolo quanto più venivano riveriti ed omaggiati, frutto, questo, di un’antica con-cezione, connotante peculiarmente il culto privato che li riguardava, secondo la quale i morti continuavano ad esercitare un influsso benefico, persino superiore a quello degli dèi dello Stato, sulle attività quotidiane dei vivi.

I sacra gentilicia erano caratterizzati da un apparato cultuale più esteso, appun-to di matrice gentilizia, che esulava dalla struttura rituale circoscritta all’ambito do-mestico dei sacra familiaria, dal momento che l’intimo valore della gentilitas consi-steva nel portare il nome di un antenato comune, oggetto di adorazione congiunta da parte di tutti i membri del gruppo. Alla base della gens vi era quindi una fon-damentale comunanza dei sacra, cosicché ciascuna delle familiae che ne faceva par-te, oltre ad onorare a parte i propri specifici antenati, adorava indistintamente an-che un avo comune, cioè il già ricordato Lar gentilicius. L’origine di questo remoto capostipite spesso si perdeva nella notte dei tempi e, per lo più, si trattava di un personaggio mitico, come Aeneas, ma poteva anche identificarsi in una divinità o in un’entità totemica primordiale, destinata però ad essere soppiantata nel tempo da una più verosimile e razionale creatura dalle fattezze umane. I sacra gentilicia originariamente esistevano solo per i patrizi, gli unici ad essere costituiti in gentes, ma, più tardi, alcune autorevoli famiglie plebee decisero di adottare il modello or-ganizzativo gentilizio e tentarono così di connettersi in maniera fittizia e strumen-tale a qualche grande personaggio, in modo tale da offrirgli sacrifici rituali.

Il capitolo procede con l’individuazione di tre principii originari ed essenziali del culto privato romano, che probabilmente già in epoca risalente andarono sog-getti ad un progressivo deterioramento, subendo alcune significative deroghe: l’uni-tà, la mascolinità e l’esclusione dell’estraneo.

Secondo il primo, giustificato dalla ragione che la duplicità dei culti avrebbe ingenerato un’inammissibile confusione, una sola persona non poteva invocare due diversi focolari e due serie di antenati, con la conseguenza che ognuno era tenuto ad osservare un unico culto, sicché, qualora ne avesse acquistato uno nuovo, era ob-bligato a ripudiare l’antico, il che accadeva ad ogni mutamento di gens o familia.

Il secondo principio, il cui fondamento va rintracciato nella radicata conce-

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zione che il pater familias fosse anche il sacerdote della religione domestica, com-portava che l’esercizio del culto fosse una prerogativa esclusivamente maschile, co-sicché la donna partecipava sì ai sacra, ma non poteva assumerne la gestione in prima persona.

In base al terzo principio, il culto poteva essere reso ai defunti esclusivamente dai membri della famiglia, naturali od acquisiti (adoptati o adrogati).

Infine, l’autore si sofferma sul profilo sanzionatorio delle inadempienze in ma-teria religioso-cultuale (quale, per esempio, la violazione della rigorosa prescrizione del riposo festivo), ritenendo, in aperta critica al prevalente orientamento dottrina-rio, che i provvedimenti repressivi dell’inosservanza dei sacra privata non si ridu-cessero affatto a castighi di tipo sacrale.

4. Nel secondo capitolo (Matrimonium, sponsalia e adulterium: pp. 41-75) ven-gono innanzitutto illustrate le ragioni sacrali del matrimonium, precisandosi che, essendo il matrimonio romano fondato su una complessa rete di valori di ordine sociale, giuridico e religioso, gran parte delle solennità di questo istituto fosse le-gata ai sacra, dal momento che assicurare la perpetuità della discendenza voleva dire anche conservarne il peculiare culto privato, e viceversa. Pertanto, scopo ul-timo del matrimonio non era solo la salvaguardia della specie, ciò che induceva a ritenere il celibato un’empietà, ma anche l’adempimento di un obbligo religioso. Alla base del matrimonio vi doveva essere dunque qualcosa di radicato e struttu-rale che, nell’età arcaica di Roma, sembra potersi identificare in specifici scrupoli di natura religiosa volti a far sì che la consacrazione del vincolo nuziale fosse un ottimo sistema per trasferire i sacra, a prescindere dalle altre ragioni pratiche che concorrevano a questa soluzione.

L’autore si occupa poi degli sponsalia (che, in un certo senso, possono essere equiparati all’odierno fidanzamento), specificando che, a parte la vexata quaestio dell’origine religiosa, o meno, della sponsio che ne stava alla base, l’atto religioso sarebbe stato accompagnato da tutto il corredo fenomenico tipico di un’altissima solennità sacrale: una cerimonia di libagioni in onore degli dèi, un apposito sa-crificio ed una presa di auspici finalizzata ad indagare la volontà divina in merito all’unione che si andava formalizzando.

Particolare attenzione viene successivamente prestata al matrimonium cum manu, in ordine al quale si mette in evidenza che, entrando l’uxor in seguito alla conventio in manum in una nuova realtà familiare, tale conventio comportasse an-che la communio sacrorum, cioè l’associazione della donna ai sacra del marito. Da quel momento in poi, infatti, la moglie diveniva socia rei humanae atque divinae e gli sposi mantenevano il medesimo culto, con la conseguenza che gli antenati del marito venivano estesi alla moglie, che era tenuta ad onorarli come se fosse vera-mente una loro discendente.

Ora, poiché, come è noto, la manus poteva costituirsi usu farreo coemptione (5), anche la communio sacrorum si produceva in tutti e tre questi modi.

Tuttavia, il matrimonio religioso per eccellenza si realizzava attraverso l’arcai-

(5) Gai Inst. 1.110.

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co rituale della confarreatio, la forma più antica e l’unica connotata peculiarmen-te dalla religio, ciò che è comprovato, per un verso, dalla presenza dei sacerdoti (stando a Servio, il pontifex maximus ed il flamen Dialis) e, per altro verso, dall’uso del farro (che veniva offerto, nella forma di panis, a Giove), un cereale considera-to sacro da tempo immemorabile a tal punto che gli veniva sovente accostato l’ag-gettivo pius, e, probabilmente, del velo, il che ha contribuito ad avvalorare l’idea di un’intima connessione tra confarreatio e iustae nuptiae.

La communio sacrorum non aveva luogo, invece, nel matrimonium sine manu, nel quale la donna rimaneva vincolata alla famiglia di origine. Infatti, in questo caso, la mancanza della manus escludeva anche la comunione di culto, ciò avvenendo in base ai due principii, ricordati nel paragrafo precedente, dell’esclusione dell’estra-neo e dell’unità: per il primo, se la donna rimasta estranea alla famiglia del mari-to avesse preso parte ai suoi sacra, ne avrebbe anche causato la perturbatio e, per il secondo, si sarebbe prodotta la vietata detenzione simultanea di due culti, quel-lo dell’originaria famiglia paterna e quello della nuova domus.

In seguito, l’autore si sofferma ampiamente sulla coemptio interimendorum sa-crorum causa (generalmente ricompresa tra le coemptiones fiduciariae), che, utiliz-zata per stornare l’onere indesiderato del culto, si configura, in realtà, come un espediente giuridico escogitato per ovviare all’estinzione dei sacra, in quanto pro-duttivo sì dell’estinzione del culto e, tuttavia, tale da non compromettere il rap-porto con il sacro.

Nella parte finale del capitolo, dedicata all’adulterium e, in particolare, alla sua inaccettabilità sul piano religioso, si chiarisce che il motivo per cui l’adulterio fu considerato in ogni epoca della storia di Roma come la più grave colpa nella qua-le potesse incorrere una donna sposata vada ricercato in ragioni di ordine sacrale, giacché, a causa del rapporto extraconiugale, si veniva a profilare il gravissimo pe-ricolo della commixtio sanguinis, cioè la pollutio della stirpe, alla quale si aggiun-geva una perniciosa turbatio sacrorum, ritenuta inammissibile, al pari della conta-minazione del sangue familiare, non solo in sé, ma anche per la sua ricaduta su quell’ideale catena, di culto e, insieme, di affetti, che aveva il suo spazio celebrati-vo all’interno delle pareti domestiche.

5. Nel terzo capitolo (Adoptio e adrogatio: pp. 77-104) vengono inizialmente illustrate le ragioni sacrali dell’adoptio, che era un istituto avente, specialmente agli inizi, importanti risvolti religiosi finalizzati all’individuazione di un futuro prosecu-tore del culto domestico, che andarono via via sbiadendo in corrispondenza con il suo progressivo orientarsi ed accentuarsi in senso più marcatamente giuridico.

La paternità fittizia derivante dall’adoptio ricalcava quella naturale anche in re-lazione ai suoi effetti religiosi, dal momento che, come il figlio di sangue era asso-ciato al culto del pater fino a quando questi fosse stato in vita, per poi succedergli, una volta morto, nell’esercizio del sacerdozio domestico, ugualmente all’adottato spettava la condivisione del culto dell’adottante, con la conseguenza che, accolto nel nuovo nucleo familiare (ed incorporato nella stirpe del nuovo pater, della qua-le garantiva una continuità che rischiava di interrompersi), ne assumeva gli antena-ti, con l’obbligo di prestare loro le offerte funebri. Tuttavia, poiché egli non intrat-teneva legami di sangue con la sua nuova famiglia, si rendeva necessario investirlo

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solennemente di tale funzione per mezzo di un apposito cerimoniale, in maniera tale che i sacrifici che avrebbe offerto sull’altare domestico sarebbero stati validi ed efficaci come quelli prestati con pieno diritto di nascita.

In realtà, come ammette onestamente l’autore, «attribuire all’istituto una genesi religiosa e reputarlo un mezzo per perpetuare il culto domestico è ipotesi suggesti-va ed altamente probabile; tuttavia nessun testo della latinità conferma in maniera decisiva un simile assunto» (p. 80). E, d’altra parte, è sicuro che, in altri ordina-menti giuridici indoeuropei, come quello indiano e greco, l’adozione fosse un feno-meno di natura essenzialmente religiosa. Ci si può allora limitare, sulla scorta degli sparuti dati provenienti dalle fonti letterarie e, in particolare, dalla commedia, ad immaginare uno sviluppo storico dell’adoptio connotato, verosimilmente, da origi-narie implicazioni di ordine religioso e, sicuramente, da una successiva evoluzione in senso patrimonialistico.

Ad essere presa poi in considerazione è l’adrogatio, che, come è noto, si dif-ferenziava dall’adoptio perché riguardava le persone sui iuris, anziché quelle alieni iuris, svolgendosi inoltre di fronte ai comitia curiata appositamente convocati, in-vece che davanti al magistrato.

In origine l’adrogatio era un istituto esclusivamente patrizio e maschile e que-sto suo carattere si esplicitava nello stesso fatto di perpetuare un culto gentilizio, e ciò in quanto – come si è già avuto modo di ricordare nel terzo paragrafo – so-lamente i patrizi avevano dei sacra gentilicia, che, d’altra parte, non potevano es-sere assunti dalle donne. Pertanto, l’adrogatio fatta da un plebeo non aveva alcun senso, dal momento che egli non poteva perpetuare il culto ed il nome della gens, obiettivo fondamentale dell’istituto. Tuttavia, in seguito, allorquando alcune fami-glie plebee si organizzarono in gentes, l’adrogatio divenne loro accessibile, pur re-stando un’eccezione, in quanto l’adrogatio rimase comunque un istituto fortemen-te aristocratico e, quindi, interdetto alla maggioranza dei plebei.

L’adrogatio presupponeva che l’adrogante fosse l’ultimo pater familias della sua gens e che quindi alla sua morte i suoi sacra si estinguessero. Per questo motivo egli cercava un uomo sui iuris che fosse disposto a divenire suo figlio, rinuncian-do agli antenati ed alla religione privata della propria famiglia al fine di assicurare la continuità cultuale a quella dell’adrogans. Infatti, al pari dell’adoptio, l’adrogatio produceva gli stessi effetti della filiazione reale, associando l’adrogato ai rituali do-mestici del nuovo pater. Così, dopo una solenne iniziazione, che gli faceva perdere la qualità di estraneo ed acquistare la qualifica di membro della famiglia, l’adroga-tus era ormai partecipe, a tutti gli effetti, del culto dell’adrogans, in attesa di poter-lo anche assumere in prima persona. E, ovviamente, l’adrogatio comportava l’esclu-sione dell’adrogato dal proprio culto domestico, in quanto l’associazione ai sacra dell’adrogante gli faceva perdere i suoi: in caso contrario, infatti, si sarebbe pro-dotta la tanto temuta turbatio sacrorum.

Tuttavia, l’abbandono di un culto era comunque un fatto talmente grave da dovere essere necessariamente pubblicizzato, sicché l’adrogato era verosimilmente tenuto alla pubblica abiura del suo culto gentilizio e, forse, anche di quello fami-liare, accompagnata dalla dichiarazione che, per il futuro, avrebbe assunto in via definitiva i sacra dell’adrogante. Il che non produceva alcun inconveniente laddo-ve nel suo gruppo originario vi fossero ancora patres in grado di presiedere al cul-

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to, mentre, nel caso contrario, la situazione diveniva problematica, poiché i sacra dell’adrogato rischiavano di estinguersi all’atto del suo trasferimento nel suo nuo-vo nucleo.

Come ben si vede, l’adrogatio, più dell’adoptio, comportava allora gravi riper-cussioni sotto il profilo sacrale, sicché si rendeva necessario il coinvolgimento dei pontifices, ai quali, in quanto custodi della religio, competeva il controllo della le-gittimità e della regolarità dello svolgimento di un atto giuridico così delicato ed importante non solo per i singoli, ma anche per la collettività.

La procedura pontificale dell’adrogatio si articolava in due fasi: l’esame del progetto da parte del collegio e la sua successiva sottoposizione ai comitia curiata, da cui scaturiva l’emanazione di un decreto pontificale e di una lex curiata, con la conseguenza che solo allora l’adrogatio avrebbe prodotto i propri effetti sul pia-no del ius civile. Ed oggetto centrale dell’indagine dei pontefici era anche la sor-te dei sacra dell’adrogato. Infatti, poiché l’adrogatio costringeva l’adrogato ad ab-bandonare il suo culto gentilizio, poteva accadere, come si è or ora ricordato, che, nel caso in cui egli fosse l’ultimo rappresentante della sua gens, pure i sacra sareb-bero stati destinati a perire con lui. Evenienza, questa, che andava scongiurata in ogni modo e che, paradossalmente, snaturava completamente l’istituto dell’adroga-tio, che, finalizzato a perpetuare i culti, in questo caso specifico ne avrebbe pro-vocato assurdamente la scomparsa. I pontifices dovevano quindi assicurare che i sacra dell’adrogato non si estinguessero a causa dell’adrogatio, sicché, laddove vi fosse il concreto rischio che ciò avvenisse, potevano opporre il loro veto, giustifi-cato dall’esigenza di non sacrificare un culto per un altro, per cui, stante la piena libertà decisionale dell’adrogante, era opportuno che egli si orientasse verso una scelta non pregiudizievole.

Il capitolo si conclude con l’esame degli istituti dell’adoptio testamentaria e dell’adrogatio muliebris, in ordine alla quale si ipotizza che l’esclusione delle donne dall’adrogatio dipendesse proprio dalla sua origine religiosa. Infatti, stante la loro condizione di familiae suae finis, esse erano incapaci di garantire la continuità del nucleo familiare, sicché, non potendo comunque tramandare il culto, non avreb-be avuto senso arrogarle: le donne, pertanto, non potevano essere adrogate esclu-sivamente perché inadatte a perpetuare il culto domestico. E, a conferma di que-sta ricostruzione, può addursi l’argomentazione dell’autore secondo la quale «può essere vero, d’altra parte, anche il ragionamento inverso, nel senso che magari la procedura si svolgeva davanti ai comizi proprio in quanto notoriamente inaccessi-bili al publico femminile. Se, al contrario, sul piano religioso l’adrogatio fosse stata possibile anche alle donne, di certo si sarebbe esperita anche una procedura real-mente praticabile» (p. 97).

6. Il quarto capitolo (L’eredità: pp. 105-121) si apre con l’indagine sul rappor-to esistente tra institutio heredis e sacra privata, in ordine al quale l’autore preci-sa che la sua storia va scissa in due fasi: prima e dopo l’introduzione della rego-la pontificale secondo la quale, per ovviare all’eventuale rifiuto della successione da parte dell’erede ed anche alla non infrequente possibilità di morire senza avere avuto il tempo di fare il testamento e, quindi, alla nefasta conseguenza che i sacra sarebbero rimasti privi di titolarità e continuità, il culto andava incorporato «nella

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proprietà con la riforma basata sul principio pecuniario, che era destinata a scon-volgere la trasmissione ereditaria del culto» (p. 106). Con l’affermazione del prin-cipio che sanciva la stretta correlazione tra bona e sacra, le due entità divennero allora inseparabili, per cui, mentre prima il culto incombeva sulla persona dell’ere-de (potendo anche accadere che, in caso di legati di notevole consistenza, all’heres non pervenissero benefici economici, ma solamente il titolo ed il connesso dirit-to-dovere di prosecuzione del culto), ora gravava su chi fosse entrato in possesso del patrimonio, a qualsiasi titolo ed a prescindere dalla sua identità. Come è faci-le accorgersi, era ormai l’aspetto contingente a precedere il fatto religioso, e non più il contrario, anche se va detto che la riforma servì a contrastare l’indifferenza che iniziava a manifestarsi nei confronti dei sacra. Infatti, poiché alcuni eredi, una volta acquisiti i beni, mostravano scarso zelo nell’esecuzione degli uffici religiosi, i pontifices ve li costrinsero facendo dei sacra un portato necessario della proprietà.

La novità introdotta dai pontefici determinò dunque una profonda trasforma-zione del concetto di eredità, dal momento che la cura del culto domestico, un tempo ritenuta un onore, finì per essere percepita sempre più come un inutile ag-gravio, mentre l’eredità acquistò progressivamente una valenza sostanzialmente eco-nomica. Il sorpasso del carattere patrimoniale su quello religioso si andò dunque vieppiù consumando, provocando così un completo ribaltamento di quei valori ed interessi che erano stati alla base dell’assetto primitivo, sicché non vi è esagerazio-ne nell’affermare che la massa dei beni ereditari rappresentava la parte attiva ed il culto si riduceva ad un fastidioso onere accessorio.

L’autore si occupa poi dell’usucapio pro herede, chiarendo che, nel caso di ere-dità giacente, il patrimonio rimaneva in attesa di padrone ed il culto di un offi-ciante. E si trattava di una situazione di incertezza da rimuovere al più presto, dal momento che, perdurando l’indecisione dell’erede, si recava nocumento alla me-moria del defunto, che, di fatto, veniva ad essere privato degli onori domestici. Per eliminare tale inconveniente, si fece allora ricorso alla cretio imposta dal testatore ed allo spatium deliberandi pretorio, sicché, una volta scaduti i termini perentori per l’accettazione dell’eredità, l’erede designato veniva dichiarato decaduto e tan-to l’eredità quanto i sacra passavano ad un altro.

Da ciò derivò l’usucapio pro herede come istituto direttamente collegato alla ne-cessità di porre un argine all’interruzione del culto. Così, finché l’erede non avesse accettato, il primo venuto avrebbe potuto acquistare la qualità di erede e, quindi, tutta l’eredità ed i sacra mediante il possesso, protratto per un anno, di un singo-lo bene appartenente all’eredità giacente. Tale istituto, che dovette la sua origine probabilmente proprio ai sacra, presentava dunque la duplice utilità di accorciare la durata della loro sospensione, spingendo l’erede ad un’aditio tempestiva dell’ere-dità nel timore di essere estromesso, e di assicurare comunque un continuatore del culto nel caso che l’erede non fosse interessato ad assumerlo.

L’autore conclude che la ricerca di sistemi ed espedienti volti ad eludere l’onere dei sacra costituisca un preciso indizio di decadenza. Il culto privato, che un tem-po era stato il punto di forza delle più potenti organizzazioni familiari e gentilizie romane, era destinato a trasformarsi in uno sgradito portato dell’asse ereditario e la circostanza che i pontifices suggerissero addirittura i cavilli giuridici utili per ag-girarlo è un fatto assai eloquente che rivela l’evoluzione della mentalità corrente.

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I sacra privata, che nel corso della loro secolare esistenza avevano esercitato un notevole influsso sulla società e sul diritto, finirono così per non offrire più la so-luzione migliore per soddisfare i bisogni profondi che li avevano originati, venen-do ormai osservati più in ossequio al mos che per devozione sincera. E ciò perché lo stato romano non era più una corporazione religiosa la cui prosperità dipende-va dalla devozione religiosa dei suoi membri, ma un’articolata e complessa orga-nizzazione fondata su delicati equilibri interni, senza contare poi la sicura influenza negativa esercitata sull’antica tradizione cultuale romana dalle nuove e più sugge-stive credenze orientali.

Il fattore determinante del definitivo consumarsi di un processo ormai avviato da secoli fu però sicuramente rappresentato dal cristianesimo, che, mutato il suo status di religio licita in credo ufficiale dell’impero, fece crollare gli ultimi baluar-di della religiosità e ritualità pagana. Anche se va debitamente evidenziato che, a fronte dell’inevitabile esaurirsi dei culti pagani, i sacra privata continuarono ad avere una persistente vitalità, seppure a livello di mentalità tradizionale e retaggio cultu-rale, dimostrata peraltro dalla loro ostinata resistenza nel tecnicismo giuridico, della quale è prova la significativa circostanza – felicemente qualificata dall’autore come «un lascito senza tempo di una religiosità ormai perduta» (p. 121) – che il termine ‘sacra’ sia ancora assai diffuso nel lessico della compilazione giustinianea.

7. Il quinto ed ultimo capitolo (La sacrorum detestatio: pp. 123-137) è dedica-to al misterioso e problematico istituto della detestatio sacrorum, che, avendo impe-gnato per secoli gli studiosi nella strenua ricerca del più convincente profilo inter-pretativo, induce l’autore a passare in rassegna le diverse ipotesi finora avanzate in dottrina o, meglio, quelle che appaiono fondate su argomenti più stringenti, «sen-za trascurare in linea di principio le più recenti come deteriores, anzi riconoscendo loro il vantaggio di poter poggiare sui risultati già raggiunti dalle cosiddette teo rie “classiche” dell’istituto» (p. 123).

8. Il volume si chiude con l’indice bibliografico (pp. 141-163), l’indice delle fonti (pp. 165-170) e l’index rerum (pp. 171-173), preceduti da un brevissimo ca-pitolo intitolato Conclusioni (pp. 139-140).

9. Esposti il piano ed i contenuti dell’opera, l’attenzione può appuntarsi, da un lato, su alcuni aspetti particolari e, dall’altro lato, su qualche tematica avente un rilievo non secondario nell’economia della monografia in esame.

Per ciò che riguarda i primi, va detto innanzitutto che, nonostante l’acribia dell’autore nell’esame dell’imponente dottrina che ha avuto modo di occuparsi del rapporto tra religione e diritto privato a Roma, spunti pregevoli in ordine all’im-portante ruolo giocato in tale rapporto dal ‘formalismo’ anche religioso si sareb-bero potuti cogliere in un breve, ma denso lavoro monografico del Corbino, pub-blicato ormai vent’anni fa (6) e, tuttavia, sempre attuale, nel quale viene indagato il rilevante peso della comunicazione, nella forma di comportamenti, gesti e segni ti-

(6) Il formalismo negoziale nell’esperienza romana. Lezioni, Torino 1994.

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pici, come strumento per dare riconoscibilità sociale e, perciò, certezza ed effica-cia ai comportamenti umani in campo giuridico. E ciò specialmente in un ambien-te, quale quello di Roma arcaica, ancora dominato da credenze che affidavano al costante ripetersi dei comportamenti tradizionali (i mores), all’uso di determinati oggetti (come, per esempio, il raudusculum e la libra della mancipatio o la festu-ca della vindicatio), al ricorso a certe materie (si pensi, per esempio, al farro nel-la confarreatio) e persino al coinvolgimento di organi statali (come i comitia curiata nell’adrogatio) la capacità di assicurare ad un atto o ad un negozio di diritto pri-vato – quali gli sponsalia, la confarreatio, la coemptio, l’adrogatio e l’institutio here-dis oggetto dell’attenzione del Maiuri – l’approvazione sociale, in quanto appunto conforme anche alle prescrizioni religiose ed alle solennità sacrali.

E, in questo senso, preziosi suggerimenti derivano sicuramente anche da un assai recente volumetto del De Sanctis, avente ad oggetto il complesso fenomeno religioso romano (7), nel quale un capitolo (il terzo) è interamente dedicato, oltre che ai sacrifici (pubblici ed anche umani) ed alle offerte nei quali essi si concretiz-zavano (hostia e victima) ed al votum (nelle sue due forme particolari dell’evocatio e della devotio), anche alle pratiche cultuali, viste come sistema di comunicazio-ne tra un ‘mittente’ (il sacerdote, anche privato, come il pater familias all’interno della domus) ed un ‘destinatario’ (le divinità), ed alla grande distinzione dei sacra in publica e privata, gli uni e gli altri finemente indagati in relazione ai loro mul-tiformi aspetti. Tra i quali, va menzionata anche l’eventualità, messa bene in luce dal Gagé (8), di un trasferimento dei sacra o, forse meglio, di una loro migratio fuo-ri Roma nel caso in cui eventi esterni ne avessero messo seriamente in pericolo la stessa sopravvivenza, come accadde, intorno al 390 a.C., allorquando la città fu conquistata, saccheggiata e devastata da un’orda di Galli.

Ancora, qualche illuminante indizio riguardante alcuni particolari aspetti lingui-stici del sacro può rinvenirsi in un datato articolo (9) della Fugier tutto incentrato – come specifica la stessa autrice (10) – «sur les rapports du temps avec le sacré».

Inoltre, proprio in quell’ottica comparatistica non ignota ed anzi per nulla di-sdegnata dal Maiuri, che, come più sopra (11) si è già avuto modo di ricordare a proposito dell’adoptio, intitola un paragrafo del terzo capitolo Esperienze indoeu-ropee a confronto (pp. 80-83), vanno certamente segnalati due pregnanti lavori del Sini (12) e del Pinna Parpaglia (13) sui sacra peregrina che avrebbero dato un maggiore

(7) La religione a Roma. Luoghi, culti, sacerdoti, dèi, Roma 2012.(8) Le chariot d’Albinius et le transfert des sacra au temps de l’invasion gauloise à Rome, in Homma-

ges à Jean Bayet, Bruxelles-Berchem 1964, pp. 214 e seguenti.(9) Temps et sacré dans le vocabulaire religieux des Romains, in Mito e Fede, Padova 1966, pp. 547

e seguenti.(10) P. 559.(11) Paragrafo quinto.(12) Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alie-

ni’ e sistema giuridico-religioso romano, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 60 (1994), pp. 49 e seguenti.

(13) Sacra peregrina, civitas Romanorum, dediticii nel Papiro Giessen n. 40, Modena-Sassari 1995.

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respiro alla monografia in esame per la loro incidenza sui sacra privata romani. In-fatti, come bene è sottolineato da tali autori, le fonti antiche recano testimonianza di una religiosità tutt’affatto che esclusivista fin dalla sua fase primordiale, renden-do nota la coesistenza di culti patrii e peregrini già ai tempi di Numa Pompilio, e ci informano che i culti stranieri venivano solitamente integrati nel rituale romano in modo tale da produrre un’assimilazione dei sacra peregrina al culto dei sacra ro-mani, dando così luogo, fatta eccezione ovviamente per le superstitiones avvertite come riprovevoli e pericolose (si pensi, per esempio, ai Baccanali praticati in Ita-lia), ad un’adozione di culti stranieri (come il Graecus ritus dei libri Sybillini) op-pure a delle evocationes degli dèi del nemico (come quelle attestate per le divinità protettrici di due storici nemici di Roma, quali Veio e Cartagine). Ciò si sarebbe verificato ancora agli inizi del III sec. d.C., allorquando, con la famosa Constitu-tio Antoniniana del 212 d.C., Caracalla avrebbe inserito ed incorporato i nuovi e vari sacra peregrina, che surrettiziamente ed a poco a poco andavano infiltrandosi tra gli abitanti dell’impero, nel culto ufficiale degli dèi romani, dando così ai culti stranieri pieno e formale riconoscimento giuridico.

Infine, in riferimento agli specifici istituti giuridici esaminati dal Maiuri, di si-curo giovamento per l’indagine sarebbe stata la lettura di un articolo del D’Ors (14), nel quale viene affrontato il rapporto tra sacra familiaria ed istituti ereditari, qua-li l’usucapio pro herede, la partitio legata e la bonorum possessio, alla luce della già ricordata (15) regola pontificale ‘sacra cum pecunia’, che, incorporando il culto nella proprietà sulla base del principio pecuniario, sanciva una stretta correlazione tra bona e sacra. E, similmente, le conclusioni alle quali il Maiuri perviene in ordine all’usucapio pro herede possono essere messe in discussione, revocate in dubbio o, comunque, subire qualche aggiustamento sulla scorta di alcune incisive riflessioni della Gutiérrez-Masson (16) sulle relazioni intercorrenti tra questo istituto ed i sacra e tra questi ultimi e l’ancor oggi oscuro e discusso consortium ercto non cito.

10. Obiezioni più consistenti possono poi essere mosse all’approccio dell’au-tore agli istituti giuridici considerati ed alle fonti esaminate.

Per ciò che riguarda i primi, va detto che, dalla loro disamina, il lettore sem-bra trarre la netta impressione che, mentre in relazione ad alcuni di essi (come la coemptio interimendorum sacrorum causa, l’adulterium, l’adrogatio, la partitio lega-ta e l’usucapio pro herede) il nesso esistente tra gli aspetti cultuali ed il fenomeno giuridico sia in effetti assai stretto ed evidenziato con convincenti argomentazioni, in riferimento ad altri (come il matrimonium cum manu, la conventio in manum, l’adoptio testamentaria e l’adrogatio muliebris) l’aggancio tra il momento sacrale e quello giuridico manchi del tutto o, addirittura, non venga nemmeno tentato, ri-

(14) “Sacra, cum pecunia” (Sobre Cic. de legib. 2, 19-21), in Estudios jurídicos en homenaje al Profe-sor Santa Cruz Teijero, II, Valencia 1974, pp. 137 e seguenti.

(15) Paragrafo sesto.(16) La carga de los sacra y la usucapio pro herede en relación con el consortium ercto non cito, in

Roma tra oligarchia e democrazia. Classi sociali e formazione del diritto in epoca medio-repubblicana, Atti del convegno di diritto romano, Copanello, 28-31 maggio 1986, Napoli 1988, pp. 275 e seguenti.

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solvendosi nella sterile indicazione di un’improduttiva serie di nozioni giuridiche elementari avulse da quel contesto religioso nel quale ciascun istituto sarebbe do-vuto essere adeguatamente calato.

E non diversamente deve dirsi per le testimonianze prese in considerazione, molte delle quali sono sottoposte ad un’esegesi carente o, comunque, insoddisfa-cente, che, tra l’altro, spesso non tiene in debito conto le conclusioni alle quali è pervenuta – talora faticosamente e non di rado avendo ben presente le implicazio-ni religiose sugli aspetti giuridici degli istituti analizzati – la dottrina romanistica, tanto quella più risalente quanto quella più recente: è questo il caso, restringen-do il campo solamente ad alcune delle fonti maggiormente esaminate dal Maiuri, di Fest. de verb. signif., v. «Spondere» (Lindsay, p. 440) (p. 47), Cic. Mur. 12.27 (17) (p. 61 s.), Dig. 48.5.24(23).2-3 (18) (p. 74), Cod. Iust. 8.47(48).5 (p. 98) e Svet. Iul. 83.2 (p. 102).

Così, per ciò che riguarda il testo di Festo (19), l’accoglimento, da parte dell’au-tore, della tesi dell’origine sacrale della sponsio avrebbe potuto trovare un ulterio-re fondamento nelle pregevoli argomentazioni del Pastori (20) in ordine alle tracce

(17) Su questa testimonianza v., oltre alla letteratura citata dall’autore, H. burckhArd, Zu Cicero de legibus II, 19-21, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 9 (1888), pp. 299, nota 3; 305 s. e, più recentemente, J. ZAbłocki, Appunti sulla detestatio sacrorum, in «Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”», 92-93 (1989-1990), pp. 535 e seguente.

(18) Su questo frammento di Ulpiano – ritenuto interpolato nella frase «quod maiorem iniuriam pu-tavit legislator» del secondo paragrafo dal Levy, Der Hergang der römischen Ehescheidung, Weimar 1925, p. 142, nota 5 – v., in aggiunta alla scarna letteratura citata dall’autore, M. Andréev, La lex Iulia de adulteriis coercendis, in «Studii Clasice», 5 (1963), pp. 174 s.; J. A. C. ThoMAs, Lex Julia de adulteriis coer cendis, in Études offertes à Jean Macqueron, Aix-en-Provence 1970, p. 640; E. cAnTArellA, Adulte-rio, omicidio legittimo e causa d’onore in diritto romano, in Studi in onore di Gaetano Scherillo, I, Milano 1972, pp. 245 e nota 4; 272 s.; D. Medicus, Der historische Normzweck bei den römischen Klassikern, in Studien im römischen Recht. Max Kaser zum 65. Geburtstag gewidmet von seinen Hamburger Schülern, Berlin 1973, pp. 65 s.; E. cAnTArellA, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976, pp. 165 s. e nota 4; 202; J. M. GArcíA MArín, La legítima defensa hasta fines de la Edad Media. Notas para su estudio, in «Anuario de Historia del Derecho Español», 50 (1980), p. 420; C. russo ruGGeri, Qual-che osservazione in tema di ius occidendi ex lege Iulia de adulteriis coercendis, in «Bullettino dell’Istitu-to di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”», 92-93 (1989-1990), p. 110 e nota 55; C. lorenZi, Pap. Coll. 4, 8, 1: la figlia adultera e il ius occidendi iure patris, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 57 (1991), p. 161 e nota 11; R. lAMberTini, Ancora sui legittimati a uccidere iure patris ex lege Iulia de adul-teriis (a proposito di un recente saggio), in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 58 (1992), pp. 368 s.; G. riZZelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce 1997, p. 20, note 49-50; W. schMiTZ, Der nomos moicheias – Das athenische Gesetz über den Ehebruch, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 114 (1997), pp. 66 e nota 50; 127 e nota 267; G. de bonfils, Honores e munera per gli ebrei di età severiana, in «Labeo», 44 (1998), pp. 214 s. e nota 53.

(19) Sul quale v., oltre alla letteratura citata dall’autore, H. kupisZewski, Das Verlöbnis im altrömi-schen Recht, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 77 (1960), pp. 129 ss.; O. behrends, Das Werk Otto Lenels und die Kontinuität der romanistischen Frage-stellung. Zugleich ein Beitrag zur grundsätzlichen Überwindung der interpolationischen Methode, in «In-dex», 19 (1991), p. 196; U. bArTocci, Un’annotazione giuridica sull’alter exitus Andriae, in «Iura», 50 (1999), pp. 180 e seguente.

(20) Il negozio verbale in diritto romano, Bologna 1994, pp. 76 e seguenti.

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di regolamentazione religiosa che la sponsio conserva, sia nell’ambito e sia fuori del ius civile, e che inducono appunto a ritenere che tale istituto sia stato disciplina-to prima dalle norme del ius sacrum e solo in seguito da quelle del ius civile. Ciò è infatti provato dalle promesse che avvenivano nei rapporti internazionali, che es-sendo nel periodo più risalente della storia di Roma ovviamente carenti di ricono-scimento giuridico, traevano la loro efficacia dalle norme religiose, ritenute vinco-lanti presso tutti i popoli. Nelle promesse tra popoli, la sponsio deve però essere tenuta distinta dal foedus, istituto simile nella struttura e ricorrente anch’esso nei rapporti internazionali, che, come si evince dal fatto che per il suo compimento si richiedesse l’intervento dei feziali, aveva le sue origini nel ius sacrum. Ora, sia il foedus sia la sponsio internazionale erano atti che avevano originariamente un fon-damento comune, rappresentando un modo di impegnarsi di fronte al ius sacrum. Il foedus e la sponsio internazionale erano dunque applicazioni al diritto pubbli-co della civitas ed alla prassi internazionale della sponsio del ius civile e, tuttavia, mentre la sponsio civilistica perse la sua natura religiosa in seguito ad una sua sem-pre più marcata ed intensa giuridicizzazione, la sponsio internazionale ed il foedus la mantennero in quanto la peculiarità delle concezioni giuridiche era di ostacolo al sorgere di un ordinamento comune. Per cui, proponendosi la sanzione religiosa come il solo elemento vincolante, la struttura di questi due istituti è idonea a rive-lare i caratteri sacrali originari della sponsio nei rapporti tra i cittadini, inducendo così a concludere che il foedus, la sponsio internazionale e la sponsio del ius civile si configurassero come diverse applicazioni di un istituto strutturalmente unitario e sorto nel contesto del ius sacrum, i cui principii (quale, per esempio, la necessi-tà di ricorrere a determinati formulari, che erano ritenuti vincolanti per il solo fat-to della loro pronuncia e che attestavano perciò il valore impegnativo e costitutivo della parola) furono poi recepiti da parte del diritto della civitas.

Ancora, in relazione al rescritto di Diocleziano e Massimiano del 291 d.C. di cui a Cod. Iust. 8.47(48).5 (21), avente ad oggetto l’adrogatio muliebris, l’autore (pp.

(21) Su questa costituzione v., in aggiunta alla letteratura citata dall’autore, E. volTerrA, La nozio-ne dell’adoptio e dell’arrogatio secondo i giuristi romani del II e III secolo d.C., in «Bullettino dell’Istitu-to di Diritto Romano “Vittorio Scialoja”», 69 (1966), pp. 149, 151; M. MeinhArT, Die Datierung des SC Tertullianum, mit einem Beitrag zur Gaiusforschung, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsge-schichte. Romanistische Abteilung», 83 (1966), pp. 107 s.; D. liebs, Ulpiani opinionum libri VI, in «Ti-jdschrift voor Rechtsgeschiedenis», 41 (1973), p. 293; C. cAsTello, Sui principii ispiratori delle norme sull’età dell’adottante e dell’adottato in diritto romano, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, pp. 196 s. e nota 7; M. niZiołek, Meaning of the Phrase Liberi Naturales in Roman Law Sources up to Constantine’s Reign, in «Revue Internationale des Droits de l’Antiquité», 22 (1975), pp. 335 s.; 343; M. kuryłowicZ, Adoptio prawa rzymskiego. Rozwój i zmiany w okresie poklasycznym i justynianskim, Lu-blin 1976, pp. 31 ss., 152, 161, 163 s.; P. voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in «Iura», 31 (1980), pp. 92 ss.; id., Storia della patria potestas da Costantino a Giustiniano, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 51 (1985), p. 21 e nota 84; C. russo ruGGeri, La datio in adoptionem. I. Origine, regime giuridico e riflessi politico-sociali in età repubblicana ed imperiale, Milano 1990, pp. 258 s., 265 ss.; id., Ancora sulla donna adottante, in «Labeo», 36 (1990), pp. 59 ss., 64 ss.; J. GAudeMeT, La legittimazione dei figli naturali, in «Index», 20 (1992), p. 551; M. kuryłowicZ, Zur nachklassischen Adop-tion, in Ars boni et aequi. Festschrift für Wolfgang Waldstein zum 65. Geburtstag, Stuttgart 1993, pp. 192 ss.; C. russo ruGGeri, La datio in adoptionem. II. Dalla pretesa influenza elleno-cristiana alla riforma giu-stinianea, Milano 1995, pp. 57 e nota 82, 201 nota 144; E. sAMà, Sulla capacità di adozione da parte del-

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99 s.), a conforto dell’idea (22) che si trattasse di un provvedimento eccezionale, ac-coglie l’opinione di quella dottrina romanistica che, in passato, aveva ritenuto que-sto testo pesantemente interpolato (23), senza però tenere in alcun conto la succes-siva e più recente evoluzione degli studi in argomento (24), che, sulla scia di quanto già ritenuto dal Chiazzese (25), in aperta critica all’interpolazionismo programmati-co, in ordine alla costituzione dioclezianea, hanno persuasivamente dimostrato la fallacità di tale convincimento e, quindi, la sicura genuinità di questa constitutio. Ugualmente, la conclusione dell’autore (p. 98) secondo cui il provvedimento dio-clezianeo sarebbe stato emanato in aperta violazione di una prassi consueta che escludeva recisamente l’arrogazione femminile sulla base del principio dell’incapa-cità delle donne di essere titolari di patria potestas, è smentita dalle indagini del-la Russo Ruggeri (26), la quale, sulla scorta di Cic. ad Att. 7.8.3, ha dimostrato il si-curo verificarsi, già a partire dall’ultimo periodo repubblicano, di sporadici casi

la donna in diritto romano, in «Index», 27 (1999), pp. 122 s., 125 nota 20; E. höbenreich, Familie und Gesellschaft, in e. höbenreich - G. riZZelli, Scylla. Fragmente einer juristischen Geschichte der Frauen im antiken Rom, Wien-Köln-Weimar 2003, 58; S. sciorTino, Sull’adozione da parte delle donne, in «An-nali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo», 51 (2006), pp. 329 e seguenti.

(22) In verità, già espressa ed argomentata in dottrina: M. kuryłowicZ, Adoptio plena und minus ple-na, in «Labeo», 25 (1979), p. 170 nota 20; P. voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, cit. supra, p. 93; E. nArdi, Poteva la donna, nell’impero romano, adottare un figlio?, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, I, 1982, pp. 202 s., 205 nota 21, 207 nota 25 (con ampia citazione di altra letteratura); M. biAnchi fossATi vAnZeTTi, Le novelle di Valentiniano III. I. Fonti, Padova 1988, pp. 191 s.; W. Turpin, Adnotatio and Imperial Rescript in Roman Legal Procedure, in «Revue Internationale des Droits de l’An-tiquité», 35 (1988), pp. 295 ss.; C. russo ruGGeri, La datio in adoptionem. I., cit. supra, 268; id., Anco-ra sulla donna adottante, cit. supra, p. 67 e nota 30, 74 nota 62 (con ampia citazione di altra letteratura e nel solo senso che si trattò di un provvedimento ad personam); M. sAlvAdore, L’adozione di Clodio, in «Labeo», 38 (1992), pp. 294 s. nota 24; S. sciorTino, Sull’adozione, cit. supra, pp. 331 e seguente.

(23) P. bonfAnTe, Corso di diritto romano. I. Diritto di famiglia, Roma 1925, pp. 25 s. e nota 1; S. peroZZi, Istituzioni di diritto romano 2, I, Roma 1928, p. 450 nota 3; H. siber, Römisches Recht in Grun-dzügen für die Vorlesung. II. Römisches Privatrecht, Berlin 1928, p. 42; E. AlberTArio, Sulla Epitome Gai, in Atti del Congresso Internazionale di Diritto Romano, Bologna e Roma, 17-27 aprile 1933, Pavia 1934, p. 501; id., I fattori della evoluzione del diritto romano postclassico e la formazione del diritto romano giu-stinianeo, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 1 (1935), p. 21 nota 44; id., Introduzione storica allo studio del diritto romano giustinianeo, Milano 1935, p. 100 nota 51; G. lonGo, Diritto romano. Di-ritto di famiglia 2, Roma 1953, pp. 176 e seguenti.

(24) C. cAsTello, Il problema evolutivo dell’adrogatio, in «Studia et Documenta Historiae et Iuris», 33 (1967), p. 135 nota 15; J. A. C. ThoMAs, Some Notes on adrogatio per rescriptum principis, in «Re-vue Internationale des Droits de l’Antiquité», 14 (1967), pp. 418 ss.; P. voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, cit. a nota 21, pp. 93 s.; E. nArdi, Poteva la donna, cit. a nota 22, pp. 202 ss. e nota 17 (ivi ampia citazione di altra letteratura favorevole e contraria all’interpolazione del testo); G. luccheTTi, La legittimazione dei figli naturali nelle fonti tardo imperiali e giustinianee, Milano 1990, pp. 35 s. nota 51; C. russo ruGGeri, La datio in adoptionem. I., cit. a nota 21, p. 270; id., Ancora sulla don-na adottante, cit. a nota 21, pp. 69, 72, 74 e nota 62.

(25) Confronti testuali. Contributo alla dottrina delle interpolazioni giustinianee, in «Annali del Se-minario Giuridico dell’Università di Palermo», 16 (1931), p. 369.

(26) C. russo ruGGeri, La datio in adoptionem. I., cit. supra, pp. 259 ss., 267, 270 s.; id., Ancora sulla donna adottante, cit. supra, pp. 60 ss., 67 s.; id., La datio in adoptionem. II., cit. a nota 21, 57 nota 82. In senso contrario, ma con argomentazioni a mio avviso non convincenti, v., recentemente, S. scior-Tino, Sull’adozione, cit. a nota 21, pp. 315 ss., 336 e seguenti.

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di adozioni da parte di donne e, quindi, l’impossibilità di ritenere come realmen-te innovativa la costituzione di Diocleziano, che, come è provato da Svet. Galba 4 (che ci rende nota l’adozione di Galba da parte di Livia Ocellina), si sarebbe in-vece conformata ad un costume presente nella prassi imperiale sin dalla seconda metà del I sec. d.C. e, come attestato da Dig. 5.2.29.3 (in cui Ulpiano accenna alla possibilità offerta alle donne di adottare iussu principis), generalizzatosi nel prosie-guo del Principato.

Infine, in riferimento al passo di Svetonio (27), avente ad oggetto l’adozione te-stamentaria di Ottaviano da parte di Cesare e riportato come caso emblematico della problematicità dell’istituto dell’adoptio testamentaria, la sconsolata conclusio-ne dell’autore secondo cui «è evidente che si è ancora lontani dal definire effica-cemente la natura di questo istituto» (p. 104) sarebbe stata certamente diversa ove si fosse tenuto conto non solo delle condivisibili conclusioni alle quali è pervenuto lo Schumacher in un dotto articolo dedicato ai profili privatistici ed anche sacrali del testamento di Cesare (28), ma anche delle giuste osservazioni del Palma (29) e, so-prattutto, degli acuti rilievi dell’Amelotti (30), il quale, dopo avere opportunamente precisato che nell’adozione testamentaria di Ottaviano devono necessariamente es-sere tenuti distinti gli aspetti pubblicistici, connotati indubbiamente dall’alto valo-re sociale e politico della nomina del futuro Augusto operata da Cesare, da quelli di diritto privato, ha avuto modo di precisare, in riferimento a questi ultimi, che «come atto di rilevanza privata l’adozione testamentaria non può che sorprendere, in quanto vi è assente l’instaurazione di quel rapporto potestativo che dell’auten-tica adozione costituisce l’essenza. Né una donna né tanto meno un defunto pos-sono diventare pater familias. Ciò frustra i tentativi, pur favoriti dall’assenso del Mommsen, di considerare l’adozione testamentaria come pienamente efficace o al-meno tale da poter essere convalidata da un atto successivo, quale sarebbe quella conferma delle curie di cui abbiamo esclusiva equivoca notizia a proposito dell’ado-zione di Ottaviano. Depongono contro di essi anche il silenzio delle fonti giuridi-che, attribuibile più facilmente a disinteresse che a ignoranza (non si tratta certo di una pratica perduta nella notte dei tempi), e la circostanza che, per lasciare i beni agli adottati, questi vengano istituiti eredi, all’inizio ovviamente del testamento, re-legando l’adozione in ima cera. Questa collocazione finale, le parole di Svetonio in familiam nomemque, il disinteresse dei giuristi, significano piuttosto che l’adozio-

(27) Sul quale v., oltre alla letteratura citata dall’autore, R. düll, Bausteine und Lücken im römischen Rechtstempel, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 93 (1976), pp. 5 s.; C. cAsTello, La datio in adoptionem, in «Labeo» 23 (1995), pp. 559 s.; S. sciorTino, Sull’adozione, cit. supra, p. 328; M. AvenArius, Die tabulae ceraeve des klassischen Manzipationstestaments als Archaismus. Die Testamentsurkunde als Ausdruck der Vorstellung vom Gesetzescharakter der letzwilli-gen Ausgestaltung der römischen Familienverfassung, in «Iura», 60 (2012), p. 203 e nota 4.

(28) Oktavian und das Testament Caesars, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Romanistische Abteilung», 116 (1999), pp. 49 e seguenti.

(29) Note in tema di adozione testamentaria e di condicio nominis ferendi, in Estudios en homenaje al Profesor Juan Iglesias, III, Madrid 1988, pp. 1515 e seguenti.

(30) Il testamento romano attraverso la prassi documentale. I. Le forme classiche di testamento, Firen-ze 1966, pp. 152 e seguenti.

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ne testamentaria ha poco a che fare col contenuto prettamente giuridico del testa-mento e che, se un effetto di diritto privato le va attribuito, esso non oltrepassa l’assunzione da parte dell’adottato del nome del testatore. Solo questa per vero le fonti documentano, nel caso di Ottaviano come negli altri. Arrestandoci al profilo privatistico, non abbiamo una cosa molto diversa dalla condicio nominis ferendi, di cui parlano, appunto in tema di testamento, alcuni testi giuridici» (31).

11. Infine, particolare attenzione merita, più in generale, la metodologia ado-perata dal Maiuri, che sembra prestare il fianco a due precisi rilievi, dei quali il primo di maggiore spessore ed il secondo di minore importanza.

Come è sottolineato dallo stesso autore (p. 9), la trattazione dei rapporti tra rituali domestici ed istituti giuridici non è condotta prediligendo una prospettiva esclusivamente religiosa e nemmeno prettamente giuridica, guardando in termi-ni essenzialmente storico-descrittivi non tanto ai singoli aspetti della problematica dei sacra privata quanto piuttosto ad una sua visione panoramica, in maniera tale da potere cogliere con maggiore efficacia il senso profondo che i momenti cultua-li ebbero nella civiltà romana. E ciò, cercando di mettere in luce i nessi intercor-renti tra religio e ius affrontando non da giurista lo studio delle stesse fonti che normalmente sono esaminate nell’ambito degli studi romanistici, cioè con quel di-verso taglio derivante dalla sensibilità di chi è invece animato da interessi storici, linguistici e filologici.

Ora, a me sembra che l’utilizzo di un siffatto metodo pluridisciplinare e com-binato, basato sulla completa sinergia delle diverse discipline dell’antichistica, solo astrattamente possa essere proficuo e fruttuoso nel decodificare l’indubbio rappor-to esistente tra gli aspetti sacrali ed il fondamento giuridico dei singoli istituti di volta in volta considerati.

E, invero, se è innegabile che il tema affrontato dal Maiuri costituisca l’esem-pio paradigmatico della possibilità di cogliere nella sua pienezza l’esperienza giuri-dica romana alla condizione che la bontà della ricostruzione logico-dommatica sia controllata alla luce del sostrato storico, politico e sociale sottostante, giacché è pro-prio il collegamento esistente tra storia, società, politica, religione e diritto che ci dimostra come non di rado lo sviluppo degli istituti di diritto privato romano sia stato tutt’altro che rettilineo, risultando talora oscuro e contraddittorio, è però al-trettanto incontestabile che si pone in tutta la sua evidenza il problema di supera-re le difficoltà che sovente insorgono dall’abolizione dei compartimenti stagni tra le diverse discipline che studiano l’antichità romana.

Tale abolizione comporta infatti non solo la possibilità, messa bene in luce dal Momigliano (32), che, se si mettono insieme religione, economia, politica e diritto, aumenta la probabilità che gli errori si moltiplichino, con la nefasta e non infre-quente possibilità che un’errata interpretazione dei fatti economici, sociali, politi-

(31) Il testamento romano, cit. supra, p. 153.(32) Le conseguenze del rinnovamento della storia dei diritti antichi, in La storia del diritto nel qua-

dro delle scienze storiche, Atti del I Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del Dirit-to, Firenze 1966, p. 26.

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ci o religiosi può facilmente stare alla base di una erronea interpretazione dei fatti giuridici, e viceversa, ma anche la necessità di fare i conti con un esagerato e spes-so incontrollabile aumento del materiale documentario da esaminare. In altri ter-mini, la tendenza all’interdisciplinarietà che l’attuale concezione degli studi storici ha ereditato dalla storiografia ottocentesca pone lo studioso del diritto romano di fronte ad un’enorme e non di rado sconosciuta massa di fonti e di dati difficile da gestire e, soprattutto, da selezionare.

Superare questi due non secondari inconvenienti, che rappresentano la vera sfida lanciata dalla letteratura ottocentesca agli odierni cultori delle scienze dell’an-tichità, non è affatto facile.

Tuttavia, è unicamente la consapevolezza dell’ineludibile necessità di servirsi degli strumenti elaborati dalle diverse discipline e di stabilire nessi con le indagini compiute nei diversi settori delle scienze dell’antichità che può contribuire in ma-niera decisiva ad evitare tale impasse.

Così, non si dovrebbe mai perdere di vista il fatto che, se un filologo, uno sto-rico, un archeologo, un epigrafista, un papirologo, un egittologo, un antropologo, un giurista studiano una stessa esperienza del mondo antico sui documenti in loro possesso, essi studiano effettivamente la stessa cosa, ed è soltanto per le caratte-ristiche della competenza di ciascuno che l’attenzione viene portata di preferenza ora sul gioco delle espressioni usate nei rispettivi testi, ora sugli elementi indivi-duali ed irripetibili di quella data esperienza, ora, infine, sulla categoria di rappor-ti giuridici nei quali tale esperienza si inserisce. Da ciò scaturisce allora la conse-guenza che nessuno di questi diversi tipi di studiosi possa prescindere dai risultati ai quali possa pervenire ciascuno degli altri e, dunque, che l’esperienza in questio-ne potrà essere veramente illuminata solamente se essi lavoreranno insieme o se, per confluenza di competenze, bastino due, od eventualmente uno solo, ad esami-nare il problema sotto tutti gli aspetti.

In questo senso, l’attenzione prestata dal Maiuri agli aspetti sacrali e giuridi-ci del diritto privato romano contribuisce non poco a far sì che religione e diritto, lungi dall’essere considerati come entità separate che presentano il rischio, se non comunicanti, di sfociare rispettivamente nell’aneddotica antiquaria ed in un ecces-so di dommatismo, costituiscano, al pari di tutte le altre discipline storico-antiqua-rie, momenti di un unico processo scientifico della conoscenza e della ricostruzio-ne della civiltà romana.

Tuttavia, dal momento che diverse sono le finalità dello studioso della religio-ne romana e dello storico del diritto romano e tenuto anche conto della difficol-tà di trovare riunita oggi – a differenza di quanto accadeva nell’Ottocento – nella stessa persona ed in uguale misura la competenza religiosa e quella giuridica, ap-pare preferibile, sulla scia degli insegnamenti della stessa storiografia ottocentesca, tenere distinti la religio ed il ius, in maniera tale comunque che sia sempre possi-bile un salutare reciproco controllo dell’una disciplina sull’altra.

Solamente in tale maniera si potrà allora superare definitivamente quella anco-ra persistente e resistente incomunicabilità, per non dire talora separazione vera e propria, tra storici del diritto e cultori di altre discipline che studiano il medesimo fenomeno storico che oggi non ha più senso tanto dal punto di vista pratico quanto da quello teorico, favorendo ulteriormente, al contrario, la tendenza a quell’interdi-

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sciplinarietà, che, contrastando la continua frammentazione e specializzazione delle diverse discipline storiche prodotta dalla crescita esponenziale delle conoscenze, ap-pare oggi, pur con gli inconvenienti prima segnalati, la via maestra per una piena e completa comprensione delle multiformi esperienze storico-giuridiche indagate.

Una seconda ed ultima annotazione va poi fatta circa il modus procedendi rin-venibile nell’ultimo capitolo, nel quale, come si è più sopra ricordato (33), viene af-frontato il controverso istituto della detestatio sacrorum.

Quel che colpisce e disorienta il lettore è la circostanza che il Maiuri, dopo avere accuratamente illustrato e convincentemente criticato le più importanti e me-glio argomentate tesi dottrinarie in argomento, partendo da quelle più risalenti (Cu-jacius, Savigny, Danz, Karlowa, Careddu) per giungere a quelle più recenti (Dave-rio, Zabłocki), non propone poi la propria.

Perché ciò sia accaduto non è dato sapere e, comunque, a me sembra che que-sto limitarsi alla pur condivisibile pars destruens senza passare a quella construens, rinunciando inspiegabilmente all’esplicitazione del proprio pensiero, rappresenti un vulnus metodologico, magari non grave, della monografia in esame.

12. Le osservazioni di cui ai tre precedenti paragrafi non devono però far pas-sare sotto silenzio due incontestabili meriti dell’indagine del Maiuri.

Il primo, che discende direttamente dalla piena consapevolezza (della qua-le va dato atto all’autore) dell’estrema problematicità dell’interpretazione dei fat-ti cultuali e religiosi romani arcaici, che si appalesano come misteriosi ed affasci-nanti e, al contempo, a tal punto intricati, impervi ed insidiosi da rendere spesso vana la speranza di giungere ad acquisizioni salde ed incontrovertibili, consiste nel sicuro contributo che il viaggio combinato intrapreso dal Maiuri tra religione e diritto privato apporta allo studio delle strette relazioni intercorrenti fra la pri-ma ed il secondo, destinate, in assenza dell’approccio disciplinare integrato utiliz-zato dall’autore, a letture assai più disagevoli e riduttive ed a risultati sicuramen-te meno significativi.

E, invero, dall’analisi condotta nella monografia, che, mira a definire l’innega-bile rapporto esistente tra rituali domestici e diritto privato sfruttando suggestioni di ordine storico, sociale e filologico, l’idea della centralità del culto privato nelle epoche più remote della storia di Roma emerge prepotentemente.

Ma se ciò è possibile, e veniamo così al secondo motivo per cui il libro si fa apprezzare particolarmente, molto dipende dall’assai opportuna rivisitazione e ri-valutazione, operata dall’autore, della letteratura ottocentesca e, al suo interno, di autori come Savigny, Klausen, Danz, Bouché-Leclercq, Foustel de Coulanges, Mar-quardt, Boissier, Charmont, De Marchi, Jouault e Karlowa (34).

(33) Paragrafo settimo.(34) Sulla personalità scientifica e sui manuali e trattati di diritto pubblico romano e di storia del

diritto romano di alcuni di essi, come Bouché-Leclercq, Karlowa e Marquardt, v. F. ArcAriA - o. licAn-dro, La trattatistica di diritto pubblico romano dall’Ottocento ai primi del Novecento, in Biblioteca Digita-le Romanistica (BD-Rom). Archivio elettronico della letteratura romanistica. I. Trattati e manuali di diritto pubblico e storia del diritto (1839-1920), Catania 2004, pp. 78 ss., 94 e seguenti.

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Così, allo studioso dell’antichità romana si appalesa la preliminare ed insoppri-mibile necessità di comprendere attraverso quali sollecitazioni ideologiche e cultu-rali la grande tradizione storiografica ottocentesca sia pervenuta a certi traguardi per lungo tempo inattaccati od insuperati dalla storiografia successiva. L’enorme in-fluenza esercitata dall’indiscussa autorità del Mommsen su tutte le opinioni corren-ti determinò infatti un oblio vero e proprio, che perdura ancor oggi, di quel filo-ne della tradizione storico-antiquaristica successivo al Niebuhr che occorre perciò riprendere nuovamente in considerazione per accertare quale sia stato l’originale apporto degli autori che scrissero le proprie opere sulla scia del primo ed in con-comitanza o poco dopo il secondo, consentendo all’interprete di concludere nel senso dell’esistenza di una ‘catena’ nella tradizione storiografica dell’Ottocento che, partendo dai risultati delle indagini del Niebuhr, anticipa quelli ai quali perverrà il Mommsen.

Il riesame di tale tradizione storiografica, propugnato dal Maiuri, presenta dunque la sua indubbia utilità, giacché, come bene è stato scritto dal Mantello (35), «l’esame delle varie forme ideologiche o – se si preferisce – delle varie ‘letture’ sto-riografiche delle fonti antiche deve servire il più possibile per smuovere acque sta-gnanti, acquisire nuove consapevolezze, confermare la perfetta relatività e sogget-tività di ogni elaborazione, pervenire a diverse impostazioni». E, in questo senso, la storiografia ottocentesca merita pienamente di essere nuovamente riconsiderata non come qualcosa da relegare fra le anticaglie, quasi un insieme di curiosità eru-dite, ma piuttosto come uno dei tanti anelli appunto di una ‘catena’ molto lunga che è giunta fino ai giorni nostri.

Va allora pienamente accolto l’invito dell’autore alla rilettura di una serie di opere che ancora oggi appare utile allo studioso del diritto privato romano, giac-ché suggerisce nuovi angoli prospettici dai quali guardare i molti problemi sostan-ziali, ancora aperti ed insoluti, della ricerca romanistica giusprivatistica. E, in effet-ti, alla luce dello stretto collegamento, colto nella sua pienezza ed effettività dalla storiografia dell’Ottocento, tra storia, società e religione e diritto, si comprende la differenza talvolta siderale che intercorre tra quel modo di intendere il diritto pri-vato romano e quello che connota non infrequentemente gli studi più recenti.

Conseguenza di ciò è allora un modo di intendere il diritto privato romano che ha fatto sovente prevalere, facendosene suggestionare più del dovuto, la tecni-ca giuridica sulla ricostruzione storica, dando così luogo non di rado all’elabora-zione di manuali nei quali cogliamo sì la struttura ed il funzionamento dei singoli istituti, ma non riusciamo tuttavia ad intravedere quale fosse il vivo e reale retro-terra sociale e religioso che supportava la loro evoluzione giuridica. Pertanto, pro-prio laddove si cerca, spesso ad ogni costo, di mostrare il ‘sistema’ (36), dando luogo così a ricostruzioni forzatamente ‘coerenti’, si dimentica l’importante ammonimen-

(35) Per una storia della giurisprudenza romana. Il problema dei miscelliones, Milano 1985, p. 6.(36) Sulle diverse accezioni di tale vocabolo v. le puntuali osservazioni del Tarello, Organizzazione

giuridica e società moderna, in Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna 1988, pp. 164 e seguen-ti. Sul rapporto tra storia e sistema v. M. breTone, Diritto e tempo nella tradizione europea

2, Bari 2001,

pp. 66 e seguenti.

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F. ARCARIA : SACRA PRIVATA E IUS CIVILE460

to della letteratura ottocentesca di guardare con sospetto ad indagini caratterizzate da una sopravalutazione degli aspetti giuridico-formali a scapito di tutti quei fat-tori e moventi religiosi che costituiscono il presupposto più o meno immediato di non pochi istituti giuridici privatistici, con l’ovvia conseguenza di un’eccessiva ri-gidità nella ricostruzione delle loro vicende e fisionomie.

Si può perciò affermare, in pieno accordo con il Maiuri, che le opere dell’Ot-tocento non hanno fatto il loro tempo, meritando di essere nuovamente riconside-rate se non proprio come modelli di indagine valevoli ancora oggi, quanto meno come punti di riferimento per l’ulteriore sviluppo – auspicato da tempo (37) – di una storiografia che, pur consapevole delle più recenti metodologie critiche e del-la «formidabile modernizzazione di alcuni strumenti concettuali» (38), sia capace di mettere in evidenza, più di quanto si sia fatto fino ad oggi, i nessi esistenti tra sto-ria, religione e diritto.

13. In conclusione, il libro in esame – al quale sembra nuocere un’eccessi-va fretta nella sua trasformazione da tesi di dottorato a compiuta monografia, alla quale si sarebbe dovuto giungere, a mio avviso, in seguito ad un più lungo perio-do di ‘decantazione’ – merita un giudizio positivo per la sicura sensibilità storica, linguistica e filologica nell’innovativo approccio metodologico alle fonti, tanto giu-ridiche quanto letterarie, che ha consentito all’autore di affrontare adeguatamen-te una delle tematiche più complesse e carenti di approfondimenti romanistici del diritto romano arcaico, quale quella dei rapporti tra sacra privata ed istituti del di-ritto privato.

E, in questo senso, il volume, che riversa il vasto panorama di conoscenze del suo autore in un’interpretazione dei diversi e primordiali contesti normativi resa più agevole dall’esatta individuazione del ruolo avuto dai culti privati, si appalesa come una ricerca foriera di ulteriori indagini per l’ampiezza di prospettive che sem-bra aprire alla futura riflessione sui rapporti tra religio e ius, costituendo così un utile strumento di consultazione e di lavoro per gli specialisti, sia storici che giuri-sti, della prima fase della storia di Roma ed un sicuro punto di riferimento da cui non potranno prescindere coloro i quali avranno modo di occuparsi, più in gene-rale, dell’importanza avuta dalla religione nella formazione dei più risalenti istitu-ti del diritto privato romano.

frAncesco ArcAriA

(37) V., per tutti, B. pArAdisi, I nuovi orizzonti della storia giuridica, in Apologia della storia giuridi-ca, Bologna 1973, pp. 15 ss.; id., Questioni fondamentali per una moderna storia del diritto, in Apologia della storia giuridica, Bologna 1973, pp. 461 e seguenti.

(38) G. crifò, Romanistica attuale, in Materiali di storiografia romanistica, Torino 1998, p. 367.

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AlessAndro Pergoli CAmPAnelli, Cassiodoro. Alle origini dell’idea di restauro, in-troduzione di Giovanni Carbonara, Jaca Book, Milano 2013, pp. 143.

Ancora una volta la figura di Cassiodoro è posta al centro di uno studio de-dicato all’antichità romana, essendo egli rappresentante primo di un’epoca dettata da mutamenti politici e culturali di notevole rilievo per la storia di Roma e dell’Im-pero d’Occidente. Il ruolo centrale, assunto da Cassiodoro nell’ambito del regno goto, e l’estrema rilevanza della sua attività politica e diplomatica nei rapporti tra elemento germanico ed elemento romano, nonché tra potere civile e potere eccle-siastico – in una fase a dir poco critica sotto vari aspetti −, ha più volte orientato gli studiosi verso un’analisi accurata della raccolta delle Variae, opera fondamenta-le per la conoscenza degli eventi che hanno caratterizzato il secolo VI e attraver-so la quale si può evincere in maniera chiara la portata dell’intervento del senato-re all’interno di quel difficile contesto politico.

I dodici libri delle Variae cassiodoree hanno rappresentato, dunque, in ogni oc-casione utile, uno strumento di lavoro insostituibile e inesauribile, fornendo spunti essenziali allo studio degli aspetti economici, giuridici, culturali, religiosi, militari in epoca tardoantica, a partire dal regno di Teoderico fino al periodo di Teodato.

La vera novità di questo volume è l’aver proposto una lettura dell’opera di Cassiodoro con gli occhi delle moderne concezioni architettoniche e di restauro alla ricerca di tutti quei passi fondamentali che hanno costituito la storia della conser-vazione del bene artistico nell’età antica, con la finalità appunto di riconoscere le tracce originarie dell’idea di restauro.

Pertanto è parso utile fissare l’attenzione su questo utile volume di Alessandro Pergoli Campanelli dal titolo Cassiodoro. Alle origini dell’idea di restauro, pubbli-cato nel marzo 2013 dalla casa editrice Jaca Book all’interno della collana “Biblio-teca di Cultura Medievale”.

L’introduzione, dal titolo L’errore di Viollet-le-Duc e l’antichità del restauro, a firma di Giovanni Carbonara, apre il testo con una breve ma precisa digressione sul concetto di modernità e di antichità del restauro in contrasto con quanto affer-mato precedentemente circa la presunta modernità di esso come «realtà e consape-volezza sviluppatasi a cavallo fra Sette e Ottocento», permettendoci così di cono-scere le linee guida seguite dall’autore e le finalità dell’opera stessa.

Il volume, dunque, si presenta diviso in quattro capitoli di cui il terzo, I rife-rimenti alla conservazione e al restauro nel testo delle Variae, rappresenta la parte più estesa e il cuore stesso della ricerca svolta da Pergoli Campanelli.

Il primo capitolo, Cassiodoro e le antiche origini della moderna idea di restau-ro, costituisce la vera introduzione dell’autore al lavoro, indirizzando l’attenzione del lettore sugli aspetti storici e politici che hanno interessato il VI secolo e in par-

RECENSIONI

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ticolare l’attività di Cassiodoro quale funzionario del governo goto. In particolare, Pergoli Campanelli introduce il tema della conservazione e del restauro nell’opera cassiodorea, sottolineando come le disposizioni prese dal senatore a nome dei di-versi re goti rappresentino un punto significativo nel percorso di formazione della moderna idea di restauro, iniziato precisamente in questi secoli in conseguenza di un inevitabile sincretismo fra cultura cristiana e diritto romano.

Proprio in tema di beni architettonici e artistici ereditati dalla cultura romana, Cassiodoro dimostra un interesse primario verso la salvaguardia e la conservazione, ereditato dal diritto romano, tanto che il suo continuo richiamo ad esso può ad-dirittura considerarsi il motivo guida dell’intera opera delle Variae. Questo aspetto costituisce il motivo centrale del secondo capitolo: Delectamur jure romano vive-re. Cassiodoro e il rispetto per la tradizione antica. Il decoro e l’immagine esteriore della città divengono un elemento fondamentale nel programma di governo di Te-oderico e dei suoi successori, in questo certamente guidati dalla straordinaria lun-gimiranza del senatore, attentissimo a mantenere vivo quel senso di bellezza e di continuità caro alla tradizione romana. Il rispetto del passato e la tutela dei beni ereditati dalla tradizione divengono uno strumento politico necessario a garantire la convivenza fra realtà sociali così diverse per cultura e tradizioni, mantenendo vivo da una parte l’altissimo valore del diritto romano, confermando, dall’altra, la trasmissione di quei medesimi valori ai nuovi regnanti, anche attraverso la salva-guardia dei monumenti e delle memorie più significative di Roma e degli altri cen-tri italiani. Lo stesso Teoderico pronuncia queste parole: «L’attenzione per la città di Roma veglia sempre sui nostri sensi. Che cosa c’è di più degno, infatti, che pre-occuparsi del restauro di quella città che, com’è noto, custodisce lo splendore del nostro stato?» (Lettera al prefetto di Roma Argolico, Var. III, 30).

I riferimenti alla tutela del patrimonio artistico e architettonico all’interno del-la grande raccolta delle Variae sono molteplici e l’autore di questo volume ne pro-pone un’accurata analisi nel capitolo terzo: Antiqua in nitorem pristinum contine-re et nova simili antiquitate producere. I riferimenti alla conservazione e al restauro nel testo delle Variae. I vari testi presi in esame sono proposti in traduzione ita-liana curata dall’autore stesso, mentre il testo originale è pubblicato in Appendice, dove sono raccolti i passi proposti nell’intero corpo dell’opera.

Dall’esame delle numerose lettere, rivolte da Teoderico ai funzionari del re-gno e incentrate sulla questione della conservazione di antichi edifici presenti in di-verse città italiane, si evidenziano alcuni aspetti chiave. Innanzitutto, custodire un bene del passato significa mantenere in vita una tradizione e riaffermare in manie-ra indiscutibile l’autorità dello Stato, rappresentato da quella parte gota che aveva assunto per via ufficiale la responsabilità del governo sulla penisola italiana e che pertanto aveva l’obbligo di mantenere in vita le memorie di un passato glorioso. Quindi si sottolinea il principio per cui è necessaria una maggiore cura nel con-servare i monumenti più che nell’edificarli, attribuendo così lode imperitura ai re-stauratori che hanno il merito di rendere eterna la memoria dei primi edificatori. Altro elemento che emerge con una certa evidenza è la volontà di non apportare modifiche all’antico, limitando qualsiasi innovazione alla sola creazione del nuo-vo, al fine di mantenere immutata l’autenticità dell’opera, atteggiamento che de-nota una certa chiara modernità. Da ultimo, traspare con evidenza la proprietà di

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linguaggio di Cassiodoro nel trattare questioni così tecniche e così specifiche, di-mostrando una notevole competenza nell’uso di termini propri del mestiere di re-stauratore. Così scrive l’autore: «Nelle lettere sin qui esaminate Cassiodoro ha, in-fatti, descritto con sufficiente precisione le principali operazioni necessarie per la trasmissione dei monumenti antichi alle generazioni future (posteris tradere) distin-guendole anche nell’uso dei diversi verbi: la salvaguardia, la conservazione (custo-dire), il restauro conservativo (servare, conservare), il restauro di ripristino (instau-rare, ad statum pristinum revocare, reficere) il consolidamento e i rinforzi strutturali (solidare, continere, roborare, corroborare), le riparazioni (reparare); addirittura rico-nosce quelle operazioni distinte dal restauro, quali le ricostruzioni (reconstruere), le nuove costruzioni (construere) e le innovazioni (innovare)».

La straordinaria competenza dimostrata da Cassiodoro nell’ambito della con-servazione monumentale risultò tale anche in altri campi pertinenti la conservazio-ne e la trasmissione di opere del passato, come per l’appunto fece nel campo filo-logico, argomento del quarto e ultimo capitolo del volume del Pergoli Campanelli, dal titolo Labor nobis antiquorum omnino servandus est. L’opera di emendazione filologica: Cassiodoro e l’esperienza del Vivarium. Lo studio in esame riesce infat-ti a dimostrare come la modernità del pensiero di Cassiodoro traspaia con eviden-za nel periodo successivo al regno goto, in quegli anni in cui il senatore rivolse ogni sforzo alla fondazione dei suoi cenobi di Vivarium e di Castellum, veri cen-tri di cultura, esempi ideali di sincretismo fra pensiero occidentale e mondo clas-sico. Nell’operoso sforzo di preservare la tradizione testuale più antica in un or-ganico e sistematico lavoro di trascrizione, finalizzato alla creazione di un vasto archivio, Cassiodoro, nelle sue Institutiones divinarum et humanaum lectionum e nel De ortographia, getta le basi del lavoro di un vero copista, trasponendo i temi del restauro e della conservazione su un piano più specificamente legato alla tutela del patrimonio letterario. Infatti, come per un bene architettonico, anche un’ope-ra letteraria deve essere preservata nella sua autenticità senza che l’intervento di una mano esterna alteri in alcun modo il valore originale del testo. Pertanto, spie-ga chiaramente l’autore, «proprio grazie all’opera di autorevole saldatura effettua-ta da Cassiodoro, gran parte della sapienza antica, a partire dalle raffinatezze della lingua latina sino ai testi degli autori classici, poté accostarsi ai valori cristiani di-ventando lo strumento privilegiato nell’interpretazione dei testi sacri e delle ope-re dei Padri della Chiesa; in tal modo, al pari di tanti antichi templi convertiti in chiese, una cospicua parte dei testi dell’antichità classica fu conservata, restaura-ta e salvata da un’altrimenti inevitabile scomparsa, così come avvenne a quei tan-ti monumenti di cui si ha notizia essere stati conservati, restaurati e mantenuti con cura durante il governo dei Goti in Italia».

In conclusione, con questo utile lavoro, l’autore è riuscito nel suo scopo di porre in luce l’idea per cui le radici della nostra storia europea siano da ricercare ancora una volta nel bacino di informazioni racchiuse in quella epoca che usiamo definire tarda antichità, nella quale emergono con tanto vigore figure come Cas-siodoro, veri anticipatori del pensiero medievale e moderno in molti campi del sa-pere e della vita pratica, non ultimo – argomento questo di tutto il volume preso in esame – quello del restauro.

Appare allora come Pergoli Campanelli con questo studio abbia anche dimo-

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GIANLUCA PILARA464

strato quanto sia vera l’affermazione proposta da lui stesso, in apertura di volume, secondo cui: «conservazione e restauro sono pratiche che appartengono alla storia dell’uomo a tal punto che è difficile individuarne un’origine precisa, essendo con-naturate con gli sviluppi stessi del genere umano, con la necessità primordiale di tramandare e proteggere dall’azione distruttiva del tempo quanto di buono ogni generazione ha ereditato e creato».

giAnluCA PilArA

AndreA lonArdo, Il potere necessario. I vescovi di Roma e il governo temporale da Sabiniano a Zaccaria (604-752), Edizioni Antonianum, Medioevo 22, Roma 2012, pp. 603.

Leggendo il titolo di questo corposo lavoro si coglie immediatamente il fulcro di tutta la ricerca di Andrea Lonardo. L’autore, infatti, attraverso un’analisi punti-gliosa e dettagliata degli eventi a partire dalla morte di Gregorio Magno (604) fino a quella di Zaccaria (752), propone una ricostruzione delle origini del potere tem-porale della Chiesa romana. Il periodo storico scelto da Lonardo, soprattutto per quanto riguarda la definizione del potere episcopale in Occidente, risulta essere in-teressante sotto vari aspetti, in particolar modo per la straordinaria quantità di in-formazioni relative alla storia del pensiero cristiano e della Chiesa, spesso poco stu-diate se non per le contestazioni teologiche più note e per gli aspetti materiali legati all’ambito archeologico. Lonardo dimostra una grande capacità nel cogliere alcuni elementi determinanti nella biografia dei vescovi romani e negli eventi che hanno caratterizzato il rapporto fra potere civile e potere ecclesiastico, sia sul fronte dei conflitti religiosi sia su quello più complesso inerente all’amministrazione del potere.

Dal presente lavoro si evidenzia in questi secoli un naturale accrescimento dell’autorità politica e del potere esercitato dal primate della Chiesa di Roma, il quale gradualmente ottenne responsabilità anche in ambiti pertinenti la vita civi-le della città e dell’Impero. Il carattere di complementarità proprio delle funzioni del vescovo rispetto all’amministrazione statale partecipò a rendere il potere epi-scopale sempre più autonomo, tanto da raggiungere nell’VIII secolo un ruolo cen-trale nella vita economica e politica dell’Urbe.

Uno schema sul volume può aiutarci a comprendere meglio la metodologia di lavoro di Lonardo. Il volume si presenta così suddiviso: il primo capitolo, dal ti-tolo Dalla morte di Gregorio Magno (604) alla pubblicazione dell’Ekthesis (638), af-fronta la questione del potere pontificio e della condizione sociale a Roma dopo la morte di Gregorio I, puntando soprattutto l’attenzione sul problema dell’elezio-ne del vescovo e della necessaria ratifica da parte imperiale. Infatti, l’imperatore, pur conservando un potere significativo sulle decisioni interne alla città, non po-teva avere un ruolo decisivo nella scelta del successore di Pietro, ma conservava, tuttavia, il privilegio di approvare ufficialmente tale scelta. Interessante anche l’in-dagine sugli aspetti demografici ed economici, che dimostrano come le possibilità di intervento vescovile fossero certamente accresciute, assumendo un ruolo deter-minante nella gestione dei servizi cittadini; tutto ciò avvenne senza che la Chiesa

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si sostituisse all’amministrazione imperiale, avvalendosi delle sue stesse risorse eco-nomiche.

Questi spunti permettono di comprendere meglio quale sia stato il percorso che condusse l’episcopato ad assumere responsabilità così importanti in campo ci-vile, rendendo a tutti gli effetti il vescovo il rappresentate della città stessa, il suo punto di riferimento da tutti riconosciuto.

Il secondo capitolo, Dalla pubblicazione dell’Ekthesis (638) all’elezione di Euge-nio I (654), si concentra sulle conseguenze della questione monotelita, esplosa pro-prio a seguito della pubblicazione dell’editto di Eraclio, l’Ekthesis, composto sulle basi delle tesi del patriarca di Costantinopoli Sergio, con il quale veniva imposta una nuova dottrina, secondo cui nell’unica persona di Cristo albergava un’unica volontà divina. Sullo sfondo di questa controversia teologica si mossero le biogra-fie dei vescovi romani da Severino a Eugenio I, arrivando all’apice dello scontro fra Chiesa di Roma e Impero d’Oriente con Martino I (649-654), che, fermo sui principi della fede nicena, fu alla fine deportato a Costantinopoli.

Nel terzo capitolo, Dall’elezione di Eugenio I (654) alla morte di Costantino (715), si prende spunto dall’elezione di Eugenio I, quando ancora era in vita il suo predecessore Martino, per porre in risalto la figura controversa di Costante II e il suo viaggio in Italia, con tutte le note conseguenze che esso comportò. Inol-tre, l’esame attento delle biografie papali del Liber permette di apprezzare alcuni dati importanti relativi al potere vescovile e ai rapporti con i Longobardi, sottoli-neando la continuità dell’intervento ecclesiastico negli affari economici della città, con esplicito riferimento ai patrimoni della Chiesa, e nel controllo del sistema di-fensivo urbano.

Con il capitolo quarto, Dall’elezione di Gregorio II (715) alla morte di Zacca-ria (752), si profila più compiuta l’idea di una crisi della potenza bizantina in Ita-lia a favore dell’esercito longobardo e dell’amministrazione ecclesiastica, indizio di una divaricazione fra la sede romana e la capitale imperiale soprattutto in merito alla lotta iconoclasta. Ancora una volta sui passi del Liber Lonardo ricostruisce le fasi salienti dei pontificati di Gregorio II, Gregorio III e Zaccaria, mostrando una conflittualità decisa, sia in materia politico-economica sia teologica con la figura imponente di Leone III Isaurico. Si delinea sempre più evidente, la formazione di una coscienza di un territorio amministrativamente soggetto al potere vescovile e al ducato romano, due forze in totale sincronia fra loro nel superamento delle cri-si interne alla città. Un effetto di questa nuova situazione politica fu la formazione delle domus cultae, proprietà terriere di certo sottoposte al controllo ecclesiastico e volte a sostenere attività della Chiesa, ma rivelatesi in più occasioni fondamen-tali a rafforzare le risorse economiche anche a favore della città stessa. Da ciò ap-pare chiara la cura che la sede apostolica rivolgeva all’amministrazione dei propri beni, impegnandosi non solo nel mero campo spirituale, ma pure nel sostentamento delle attività vitali proprie della città di Roma. Non va infatti dimenticato – aspet-to che non sfugge all’analisi dell’autore – che le domus cultae avevano come fina-lità anche il sostegno della diaconia verso i poveri.

Il quinto e ultimo capitolo del volume è dedicato al Liber Pontificalis. Affer-ma giustamente Lonardo: «Il Liber era divenuto nel tempo uno strumento redat-to non solo per essere conservato nello scrinium pontificio, ma anche, e forse so-

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GIANLUCA PILARA466

prattutto, per essere letto al di fuori di Roma, come un utile mezzo per rendere note le posizioni che la sede apostolica andava assumendo». Se, infatti, inizialmen-te il Liber forniva scarni e rapidi ragguagli sulla biografia di un vescovo, ometten-do spesso particolari importanti alla ricostruzione del dato storico, avvicinandosi sempre più all’VIII secolo, in rapporto al mutare dei valori e dell’importanza del testo stesso, i redattori delle biografie cominciarono ad aggiungere dati sempre più precisi e dettagliati, arricchiti di commenti agli eventi contemporanei, con il risulta-to di un testo carico di valenze politiche atte a determinare la linea politica segui-ta dalla Chiesa di Roma. In questo modo, non ci si limitava a ricordare le memo-rie dei papi, ma si cercava di promuovere e valorizzare l’azione presente e futura.

Ai fini della presente analisi, il cambiamento di indirizzo del Liber tende oltre-modo a chiarire la posizione del vescovo romano rispetto al potere civile dell’Impero, dell’Esarcato e, infine, del Ducato romano, evidenziando con estrema chiarezza «la progressiva maturazione della consapevolezza che la sede apostolica esercitasse un potere che travalica continuamente i confini di un’azione puramente spirituale».

Da ultimo, l’autore getta alcune utili conclusioni che permettono al lettore di comprendere meglio le finalità della ricerca e i risultati di una tale analitica e me-todica indagine storica.

Dunque, la ricerca condotta da Lonardo, attraverso una lettura meticolosa del-le fonti, con particolare attenzione al Liber Pontificalis, volta a ricostruire i momen-ti politici più importanti all’interno delle biografie papali da Sabiniano a Zaccaria, si prefigge – come detto − il compito di ricostruire il lungo percorso che portò la Chiesa di Roma e il suo vescovo ad assumere un potere assolutamente autonomo rispetto al potere civile dell’Impero.

La lettura delle biografie del Liber e l’analisi delle condizioni politiche, reli-giose ed economiche che fecero da sfondo a questi difficili secoli, hanno condotto lo studioso ad affermare, anche sulla base di un confronto con la bibliografia più e meno recente, che tale maturazione avvenne tramite un processo lungo, determi-nato da molteplici fattori, e che lo stesso patrimonio della Chiesa crebbe e si defi-nì come tale parallelamente all’accrescimento del governo temporale. Per usare le parole dell’autore, «il potere temporale del vescovo di Roma […] sviluppò la sua autonomia in una profonda adesione alle contingenze storiche ed in una trama di eventi assolutamente dipendente dalla storia concreta del tempo».

Uno dei fattori che condizionò fortemente la nascita di un potere così grande da parte del vescovo romano fu il legame ininterrotto che a partire dal VI seco-lo unì il presule romano all’Imperatore d’Oriente. Emerge infatti, in questa lettura così attenta, la forte posizione assunta dai vescovi romani nei confronti dell’Impe-ro e dei suoi funzionari in tutte quelle controversie teologiche, come la questione monotelita e iconoclasta, dove si espresse fortemente la necessità di mostrare l’au-tonomia e la decisione del clero e del papato al fine di ottenere un riconoscimen-to della propria autorità religiosa e, dunque, politica.

In questi secoli la Chiesa romana assunse gradualmente consapevolezza della sua importanza nel campo dell’amministrazione civile e della sua capacità econo-mica, fattore determinante per l’Urbe in particolari momenti di difficoltà, a sup-porto degli interventi imperiali e talvolta in sostituzione di essi. Anche in rapporto all’esarca di Ravenna, referente dell’imperatore in Occidente, il ruolo del vescovo

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RECENSIONI 467

divenne sempre più centrale nella vita economica, politica, civile e financo milita-re della città di Pietro.

I vescovi e le loro amministrazioni, già nei secoli precedenti ma ancor più − ufficialmente a partire da Leone III Isaurico − nell’VIII secolo, furono investi-ti della funzione di controllo nella gestione fiscale delle proprietà imperiali nel-le singole regioni, dimostrandosi pienamente in grado di sostenere il peso di un tale impegno. Le biografie dei pontefici a partire da Sabiniano mostrano altresì il coinvolgimento continuo della Chiesa nelle questioni di carattere economico, con particolare riferimento all’annona, che già al tempo di Gregorio Magno si era di-mostrata una preoccupazione centrale negli affari della Chiesa e che con Sabinia-no sembra essere divenuta onere di totale pertinenza vescovile. La responsabilità del denaro pubblico permise al presule romano di intervenire sia in ambiti mate-riali, come quello del restauro delle mura cittadine, sia militari, come nel caso del-la custodia e difesa delle porte. Non dobbiamo tuttavia dimenticare, da ultimo, il coinvolgimento del papato negli affari di carattere diplomatico, presupponen-do interventi presso re e duchi longobardi a supporto dell’esarcato e dimostrando proprio su questo piano, nella chiara assunzione di responsabilità in questioni po-litiche inerenti al centro Italia, la capacità di sapersi calare nel concreto delle di-mensioni storiche del tempo.

In definitiva, il lavoro di Lonardo, da una parte ci permette di rileggere con occhi diversi alcuni momenti di storia pontificia, considerati centrali nella defini-zione del potere temporale della Chiesa, dall’altra ci dimostra con assoluta chiarez-za di argomentazioni quanto sia difficile definire un momento di inizio del pote-re temporale del vescovo di Roma, che si manifestò in maniera talmente graduale «da non essere riconoscibile se non nelle sue linee generali».

giAnluCA PilArA

sofiA BoesCh gAjAno - TommAso CAliò - frAnCesCo sCorzA BArCellonA - luCreziA sPerA, Santuari d’Italia. Roma, De Luca Editori d’Arte, Roma 2012, pp. 500.

Il presente volume, dedicato alla città di Roma, fa seguito a quello riguardante il Lazio, rientrando, insieme a quest’ultimo, nel più vasto progetto che nasce dalla volontà di un sempre più cospicuo gruppo di studiosi di far luce sulla complessa realtà santuariale italiana, come esplica il titolo stesso della ricca collana.

A cominciare dall’iniziativa presa nel 1997 da André Vauchez, allora direttore dell’École française de Rome, e da Giorgio Cracco di censire tutti i santuari d’Ita-lia, le ricerche da questa scaturite hanno prodotto, con il passare degli anni, un gran numero di contributi puntualmente condivisi dai diversi studiosi in una serie di convegni e seminari, in seguito confluiti nei volumi costituenti la collana, cura-ta da Roberto Rusconi dell’Università di Roma Tre su commissione dell’AIRS (As-sociazione Internazionale per le Ricerche sui Santuari).

La premessa al volume, dedicato ai santuari romani e a quelli del territorio li-mitrofo, risulta fondamentale per chiarire al lettore le motivazioni che hanno spin-to gli autori ad affrontare, in un’apposita sezione, la complessa e articolata realtà

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LUISA COVELLO468

dell’Urbe, in quanto centro propulsore del fenomeno religioso. Nella premessa gli autori spiegano, inoltre, il perché dell’inclusione fra le singole trattazioni dei san-tuari, riservate alla seconda parte del volume, di molti poli cultuali generati dal-la presenza di oggetti diversi dalle reliquie martiriali cui si è abituati a pensare. Il santuario viene trattato, in questa sede, quale luogo fisico in cui si manifesta la devozione popolare rivolta ad un oggetto considerato portatore di sacralità e, per questo, dispensatore di miracoli e dai poteri taumaturgici: reliquie, contenitori di queste, reliquie create ex contactu o antiche e anonime icone il cui culto non vie-ne sempre necessariamente promosso e incentivato dalle istituzioni ecclesiastiche, ma spesso accettato da queste ultime in virtù di prementi istanze provenienti da-gli strati socialmente e culturalmente più bassi, ovvero semplicemente asseconda-to dalle stesse a causa del largo seguito ottenuto dal fenomeno nato spontanea-mente.

Ancora nella premessa viene posta in risalto l’importanza del dato topografico tramite la cartografia, articolata cronologicamente in quattro mappe che corredano il volume (pp. 27, 28, 29, 30), le quali, evidenziando la posizione dei singoli santua-ri e il loro rapporto spazio-temporale, permettono di comprendere l’evoluzione o, di contro, l’involuzione dei poli cultuali nei secoli e il loro legame con il territorio che, spesso, viene da questi alterato se non, addirittura, ridisegnato. La suddetta mappatura della città di Roma e del suo suburbio, costellata di centri santuariali a volte anche piuttosto lontani dal circuito murario adrianeo, permette anche di evi-denziare la reticenza degli autori nel definire un netto confine fra “spazio urbano” e “spazio regionale” e, quindi, la preferenza per un certo margine di discreziona-lità riguardo all’inserimento di alcuni santuari tanto nel volume romano quanto in quello dedicato al Lazio, in virtù dell’estrema mobilità del confine stesso. Così, a titolo esemplificativo, vengono nominati i poli devozionali di Ostia e Porto, o al-cuni altri disseminati nella “campagna romana”, la cui ubicazione a considerevo-li distanze dalle mura urbiche non sembra costituire un limite alla dipendenza di questi dal centro cittadino.

Nel loro susseguirsi diacronico, le mappe contribuiscono, inoltre, a porre im-mediatamente in evidenza le variazioni subite dal fenomeno nel corso dei secoli: servendosi, in particolare, di una periodizzazione in quattro fasi, iniziando dal IV secolo, epoca in cui si verificano le prime attivazioni ufficiali del culto fino a giun-gere alle più recenti manifestazioni di quello tributato al neonato Divino Amore in epoca postbellica, gli autori tracciano la storia dei culti santuariali e dei luoghi preposti a conservarli, dei momenti di acmé e di declino del fenomeno, delle sue rivisitazioni in chiave politica e delle variazioni subite in virtù di ben determinate contingenze, di quell’altalenante destino che contraddistingue il fenomeno religio-so e socio-culturale fino ai nostri giorni, fenomeno, come esplicitato nel saggio di Paola Elisabetta Simeoni, mai sopito al livello di coscienza popolare.

La premessa si conclude evidenziando l’importanza data nel presente contri-buto al dato antropologico, che in casi di insufficienza o deficienza di dati stori-ci è in grado di fornire la chiave di lettura del fenomeno, nonché al dato artistico, logico e valido coadiutore nello studio dello stesso.

Terminato l’ampio preambolo, il volume si apre con sei saggi, miranti a spie-gare, attraverso i diversi approcci archeologico, storico, artistico ed etnomusicale,

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la nascita e il dispiegarsi nelle diverse epoche del fenomeno senza soluzione di con-tinuità fino in epoca post-moderna.

Nel primo saggio, I santuari di Roma dall’antichità all’altomedioevo: morfologie, caratteri dislocativi, riflessi della devozione, Lucrezia Spera pone in risalto la figura di Giovanni Battista de Rossi, il quale, con straordinaria lungimiranza e inaspetta-ta modernità individua la giusta strada per riportare alla luce diversi santuari dei complessi catacombali siti, in specie, lungo la via Appia, la via Tiburtina e la via Salaria. Le valutazioni che orientarono lo studioso nella conduzione delle sue inda-gini sul territorio furono, per la prima volta, di carattere eminentemente archeolo-gico e ciò segna la linea di demarcazione fra gli studi del passato e quelli attuali, che hanno condotto alla riscoperta di complessi santuariali perduti o, addirittura, ignoti e alla stesura di opere valide ancor oggi, quali il Corpus Basilicarum Chri-stianarum Urbis Romae, monumentale raccolta in cinque volumi edita dal 1937 al 1977, e l’opera Römische Märtyrergrüfte di Paul Styger, a parere di Louis Reekmans il primo lavoro di sintesi affrontato con i nuovi metodi scientifici.

La scoperta dei poli cultuali e delle aree immediatamente prossime portò, di-fatti, non solo alla disamina dei singoli edifici, ma anche all’elaborazione di nuo-vi parametri di lettura ed analisi tramite la comparazione tra fonti scritte in no-stro possesso e dato materiale: tale approccio, rinvigorito dagli allievi del de Rossi, quali Orazio Marucchi, Mariano Armellini ed Enrico Stevenson, ha favorito, sen-za dubbio, la rivalutazione del valore reale degli Itineraria altomedievali quali prin-cipali indicatori dei luoghi in cui sorgevano i centri santuariali e dei percorsi in-trapresi dai pellegrini per raggiungerli. Delineando l’articolato circuito delle visite devozionali nell’Urbe, itineraria come la Notitia ecclesiarum urbis Romae e il De lo-cis sanctis martyrum, con le annotazioni piuttosto puntuali riguardanti l’esatta po-sizione del polo cultuale in area subdiale (sursum) o ipogea (tramite le espressioni sub terra, in/ad spelunca, in antro), contribuiscono enormemente a rendere chia-ro il quadro di quella ricca rete di complessi santuariali, alcuni dei quali posti an-che a considerevoli distanze dalle Mura Aureliane (San Michele al VII miglio della via Salaria, Santa Sinforosa al IX della Tiburtina, delle Sante Rufina e Seconda al IX miglio dell’Aurelia fino ad Albano e al complesso di San Senatore) e di diver-ticoli stradali che andavano ad incidere il territorio. Proprio la puntualità e l’indi-scussa precisione delle notizie fornite dagli itinerari hanno fatto luce, inoltre, sulla programmaticità della valorizzazione dei poli cultuali operata dalle stesse gerarchie ecclesiastiche nell’ottica di una riqualificazione del territorio e della riabilitazione della posizione dell’Urbe fra VII e VIII secolo.

Lucrezia Spera continua la sua trattazione illustrando le modifiche subite dai luoghi di sepoltura martiriali in vista di una loro più opportuna monumentalizza-zione tramite ricche suppellettili in argento (come più volte annotato dalle bio-grafie dei pontefici raccolte nel Liber Pontificalis) o l’enucleazione delle sepolture ipogee per mezzo di cancelli o di veri e propri cibori in materiale lapideo. La va-lorizzazione dei sepolcri venne realizzata anche in funzione di una migliore e più svelta fruizione da parte dei pii visitatori tramite l’annessione di “gradus ascensio-nis et descensionis”, come nel caso della tomba del martire Lorenzo sulla via Ti-burtina, o privilegiando l’opzione di una collocazione in cubicoli appositi, separa-ti dal resto delle sepolture catacombali, come nel caso del vano della cosiddetta

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“area I” del cimitero di Callisto sulla via Appia, in cui si individuano le sepolture in cubicoli distinti dei papi Cornelio, Gaio ed Eusebio, deposti accanto ai martiri Calocero e Partenio. Nell’ambito di queste trasformazioni architettoniche e del po-tenziamento degli apparati decorativi delle sepolture venerate, una posizione privi-legiata è occupata dai sepolcri degli apostoli Pietro e Paolo, ubicati rispettivamen-te al Vaticano e all’Ostiense, con particolare cura per quanto riguarda la sepoltura petrina: indicato come “trofeo” dall’ecclesiastico romano Gaio in una lettera indi-rizzata al capo dei montanisti Proclo, la confessio dell’apostolo Pietro rappresenta, di certo, uno dei primi esempi di trasformazione di tombe sante − Gaio scrive al tempo di papa Zefirino (199-217) −, precorrendo, per ovvie ragioni, le successive opere di monumentalizzazione, iniziate con Costantino e i costantinidi e prosegui-te dai pontefici nei secoli successivi.

Incisivi saranno gli interventi dovuti a papa Liberio e ancor più al suo succes-sore, Damaso (366-384), vero e proprio ideatore di sistematiche operazioni di re-cupero e valorizzazione di aree ipogee venerate per la presenza di martiri tramite la monumentalizzazione dei prospetti sepolcrali e l’affissione, in prossimità della tomba, di lastre marmoree su cui erano riportate, in lettere filocaliane, la storia del martirio e del miracoloso ritrovamento delle sacre spoglie.

Queste opere di rivalutazione variamente realizzate nel corso dei primi seco-li sfoceranno naturalmente nella nascita di veri e propri edifici chiesastici posti in prossimità dei loca sancta, come le basiliche circiformi apud corpus promosse da Costantino e dai suoi immediati successori (quali S. Agnese sulla via Nomenta-na, San Lorenzo sulla via Tiburtina, la basilica eretta ad duas lauros, sulla via La-bicana) e, successivamente, in edifici ad corpus, rispondendo architettonicamente alle ritrovate esigenze cultuali di far corrispondere il luogo di sepoltura originario del martire con l’altare (come nel caso della basilica onoriana di S. Agnese fuo-ri le mura, o di quella di S. Pancrazio sulla via Vitellia o, ancora, di San Valenti-no sulla via Flaminia).

Parallelamente alle strutture chiesastiche, verranno allestite, ad opera dei pon-tefici, degli episcopia e pauperibus habitacula, come quelli voluti da papa Simmaco in San Pietro, San Paolo e San Lorenzo, preposti all’accoglienza ed alla cura dei poveri e del gran numero di pellegrini che senza sosta affollavano i poli cultuali, facendone dei veri e propri poli aggregativi: la funzione polifunzionale acquisita col passare del tempo dai centri santuariali porterà inesorabilmente ad una vera e propria poleogenesi, favorita dal sempre più marcato distacco della città medioe-vale dai canonici precetti della città antica. La popolazione difatti, contrariamen-te a quanto dovrebbe accadere, in linea di principio, in epoche di forte instabilità politica, iniziò a migrare verso quel suburbio escluso dalla cinta urbica cui, tutta-via, veniva attribuito un ruolo protettivo della popolazione in virtù della stretta vi-cinanza ad un luogo santo e, per natura, inviolabile. Il fenomeno aggregativo do-veva essere, così, ai suoi primordi quando Procopio di Cesarea, giunto a Roma, ebbe modo di osservare il sorgere di «molte e varie abitazioni intorno ad un gran-de stadio» nei pressi del Vaticano, percependo già allora l’alterazione del tessu-to topografico dell’Urbe e della sua viabilità, percorrendo «strade strette e angu-ste in ogni dove». È proprio questa la logica premessa alla nascita di una sor-ta di borgo fortificato quale diventerà San Pietro all’indomani dell’attacco sarace-

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no dell’846, una vera civitas che dal suo “artefice” Leone IV (847-855) prende-rà il nome.

La situazione dei santuari martiriali, in auge fra la fine del VI e gli inizi dell’VIII secolo, cambierà drasticamente nel corso di quest’ultimo e nel corso del successi-vo, epoca in cui, per motivi di sicurezza ma, soprattutto, per una programmatica operazione di ripopolamento del centro cittadino, la gran parte delle reliquie cu-stodite nel suburbio da appositi ordini monastici e da ormai secolari antri cata-combali vennero forzatamente trasferiti intra moenia, determinando il declino ovve-ro, spesso, la scomparsa dei centri cultuali. Solo nei santuari dotati di eccezionale capacità attrattiva in virtù della loro antichità e del loro prestigio, le sacre spoglie vennero lasciate in situ, come nei casi di San Pietro, San Paolo, Sant’Agnese, San Lorenzo, San Pancrazio, del santuario ad Aquas Salvias, mentre i centri di minor rilievo vennero sistematicamente spogliati delle loro reliquie che andarono a riem-pire, alcune volte in maniera quasi parossistica, un luogo di culto cittadino, come nel caso di Santa Prassede eretta da papa Pasquale I (817-824), indicato, insieme al suo predecessore Paolo I, come uno dei maggiori responsabili di tali trasferi-menti massivi.

In seno al fenomeno di trasferimento di reliquie, non mancarono forme isola-te, in cui il ricorso a tale pratica fu determinato da ragioni squisitamente protet-tive, per garantire condizioni di maggiore sicurezza di alcune sacre spoglie, come nel caso di papa Teodoro (642-649) che fece ricavare in un braccio di Santo Ste-fano Rotondo una cappella, un vero “santuario nel santuario”, per custodire i cor-pi di Primo e Feliciano, traslati dal cimitero di Alessandro sulla Nomentana, o in quello che vide le reliquie del venerato Sebastiano spostate dalla sede originaria in Vaticano per volere di papa Gregorio IV (827-844), ricollocate solo nella prima metà del XIII secolo, durante il pontificato di Onorio III (1216-1227), ad catacum-bas, al III miglio della via Appia.

Il variegato e complesso panorama tracciato dalla Spera nel presente contri-buto viene ulteriormente arricchito dalla presenza di edifici di culto intramuranei nati come luoghi preposti alla custodia di reliquie cristiche, come nel caso della Hierusalem ricavata per volere di Elena nel suo palazzo del Sessorium in seguito al miracoloso ritrovamento in Terrasanta della Santa Croce, o di reliquie importa-te da luoghi lontani in virtù dei rapporti personali intrattenuti fra vescovi dei di-versi centri o, in altri casi, a causa delle istanze mosse da gruppi etnici divenuti sempre più consistenti nell’ambito delle neonate comunità extraurbane, come pro-babilmente accadde nel caso del pannonico martire Quirino, le cui spoglie venne-ro sistemate in un’apposita cappella-mausoleo addossata alla basilica di San Seba-stiano sull’Appia.

Il secondo saggio, di Umberto Longo, si apre con un passo illuminante tratto dalla Collectio canonum, dal quale traspare l’intento dei pontefici di ricostruire la nuova città santa sulle ceneri della Roma antica, esaugurando i luoghi simbolo del suo passato pagano: scopo mai completamente raggiunto. Nella visione dell’istitu-zione ecclesiastica la nuova Roma poteva e doveva essere rifondata in virtù della posizione di privilegio derivatale dai limina apostolorum, in grado di forgiare la sa-cralità dell’Urbe sulla coppia di gemelli della fede surclassando l’aura che proma-nava dalle vestigia del suo passato sacrilego.

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Proprio questo intento rappresenta il punto saliente che darà la spinta al pro-grammatico smembramento o alla riqualificazione dei luoghi, da un punto di vista tanto fisico quanto, soprattutto, simbolico.

Nel tracciare in maniera breve e concisa quanto chiara i mutamenti dell’im-pianto topografico della città generati dalla nascita dei numerosi poli cultuali intra ed extra moenia, dalla mancata distinzione oramai fra “spazio dei vivi” e “spazio dei morti”, nonché dalla riconversione di luoghi un tempo punto nevralgico della vita cittadina in chiave eminentemente cristiana, Umberto Longo perviene alla si-tuazione vigente in piena età medioevale, quando oramai Roma poteva dirsi cen-tro propulsore della cristianità. Avendo acquisito, difatti, tramite la fitta rete di sa-cralità fatta di circuiti di pellegrinaggio corredati da consolidate liturgie e pratiche devozionali, quel carattere di universalità che manterrà fino ad epoca moderna, la città santa si troverà a fronteggiare, sul fronte interno, l’accanita concorrenza fra le sedi più prestigiose e antiche, la contesa del titolo di centro sacro di tale cir cui-to, in una lotta in cui dimensione locale e dimensione universale si mescolano ir-rimediabilmente.

Le due protagoniste indiscusse dello scenario sinora tracciato non possono che essere la basilica del Laterano, in forza delle antiche origini e del prestigio deri-vatole dall’essere la sede del pontefice, e la basilica vaticana, proclamatasi baluar-do della fede nel nome dell’apostolo Pietro, sul quale Cristo stesso avrebbe fon-dato la Sua Chiesa.

Tale contesa rappresenterà a lungo il fil rouge della storia di Roma medioeva-le, determinando spesso esiti inattesi e, in specie, la sovrapposizione indiscrimina-ta di dimensione locale e universale cui accennato precedentemente.

Partendo da tale dicotomia, Longo descrive l’avvicendarsi delle sorti dei poli cultuali, che videro la basilica del SS. Salvatore quale protagonista indiscussa del-la scena romana e universale nell’epoca a cavallo fra la metà dell’XI e gli inizi del XIII, quando il primato passerà alla sede petrina. Prima della metà dell’XI seco-lo, difatti, la funzione di luogo di sepoltura dei pontefici era stata riservata presso-ché esclusivamente alla basilica vaticana, evidenziando la loro volontà di riposare accanto alle spoglie del venerato predecessore e patrono. La tendenza viene quasi completamente sovvertita nella seconda metà del secolo e per tutta la durata del XII, prediligendo la sede lateranense quale necropoli papale in un ritrovato avvi-cinamento fra la cattedrale di Roma e il papato riformatore.

L’autore esamina quale testo esemplificativo di tale tendenza la Descriptio ec-clesiae lateranensis, opera di grande interesse scritta intorno alla metà dell’XI seco-lo, con la quale il compilatore si prefigge di affermare l’indiscutibile primato della sede lateranense, affondando nell’antica tradizione degli Actus Silvestri di fine IV-inizi V secolo e in quella più recente del Constitutum Constantini, redatto intor-no alla metà dell’VIII. Egli intende istituire un forte legame fra la sede papale e il Tempio di Gerusalemme e, di conseguenza, evidenziare l’inscindibile relazione fra il pontefice e il Sommo sacerdote. Tale parallelismo viene ripreso in maniera ancor più puntuale e ampia da Pier Damiani in uno scritto, di poco posteriore al sopra-citato testo, indirizzato ai suoi colleghi cardinali vescovi: questi, difatti, non si limi-ta ad affermare il primato universale della sede lateranense, riecheggiando, come il testo di poco precedente, il Constitutum Constantini – che proprio in quest’epoca

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riemerge quale testo fondante della supremazia pontificia –, ma si addentra nel-la questione menzionando la tradizionale celebrazione del rito sull’altare maggio-re della basilica di San Giovanni in Laterano, riservata al pontefice e ai sette car-dinali vescovi, paragonando questi ultimi ai sette bracci della Menorah dell’Antico Testamento. L’incontrovertibile preminenza della sede giovannea deriverebbe, inol-tre, dall’esistenza al di sotto dell’altare maggiore di una reliquia in grado di oscu-rare tutte le altre per magnificenza e per valore, ossia l’Arca dell’Alleanza, secon-do l’autore della Descriptio ecclesiae lateranensis portata a Roma da Vespasiano e Tito in seguito alla presa della città ed alla distruzione del Tempio. Quest’afferma-zione andava a colmare il grosso deficit di cui era stata oggetto la basilica latera-nense rispetto alla sua antagonista, che poteva vantare il possesso della confessio petrina, riabilitando, in tal modo, il suo ruolo e, anzi, ponendola in una posizione di rilievo rispetto a quest’ultima.

Longo continua la sua trattazione ponendo l’attenzione sulla comparsa del Sancta Sanctorum sul panorama dell’epoca, menzionato per la prima volta da Pier Damiani e, verso la metà del XII secolo, da un altro difensore della posizione ri-coperta dalla basilica giovannea, Nicola Maniacutia, stretto collaboratore di Euge-nio III e monaco proveniente dall’abbazia delle Tre Fontane, di cui lo stesso pon-tefice fu abate.

Oltre al Sancta Sanctorum nuovi termini entrano a far parte del vocabolario co-munemente utilizzato per definire il pontefice, quali rex et sacerdos, paragonandolo ad un nuovo Melchisedech, ovvero vicarius Christi, senza dimenticare la nascita di una tradizione che tanta parte, come si evince dai saggi successivi, avrà nella sto-ria delle reliquie nel corso delle diverse epoche, ossia quella dell’immagine lucana del Salvatore, immagine acheropita celata nel Sancta Sanctorum e descritta per la prima volta nel trattato intitolato De Sacra Imagine S. Salvatoris In Palatio Latera-nensi, coevo a quello attribuito al Maniacutia.

L’autore conclude il suo contributo giungendo al declino della basilica del La-terano, soppiantata dalla sua antagonista alle soglie del XIII secolo, durante il pon-tificato di Innocenzo III, a causa della “vera ico”, del velo della Veronica conserva-to all’interno della basilica petrina. Il culto del sacro velo della Veronica, iniziato timidamente nel corso dell’XI secolo, conoscerà una vera e propria esplosione sul-lo scorcio del secolo successivo, sollecitato anche dalla Descriptio ecclesiae vatica-nae di Pietro Mallio, redatta in risposta alle pretese della Descriptio ecclesiae late-ranensis, divenendo oggetto di una proficua strumentalizzazione nelle mani della basilica vaticana nell’ambito della contesa del primato locale e, quindi, come ac-cennato in apertura di saggio, universale.

I due saggi successivi, rispettivamente di Maria Lupi e di Tommaso Caliò, si imperniano su un tema anticipato dal contributo di Umberto Longo, ossia il culto delle icone e, in particolare, di quelle mariane e sull’importanza acquisita dalla fi-gura della Vergine in forza della sua condizione di mater Dei, proclamata nel con-cilio efesino del 431. Assurta, perciò, a simbolo dell’istituzione ecclesiastica, la Ver-gine e il potere salvifico derivatole dalla sua speciale posizione di mediatrice fra i fedeli e l’Altissimo diverranno il fulcro della vita religiosa della città santa in spe-cie a partire dagli inizi del XVI secolo. La Vergine Maria non soltanto accoglierà la cieca devozione del popolo minuto per ovvie ragioni meramente personali e di

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sopravvivenza, ma anche della Chiesa Cattolica, che la indicherà quale garante della vera fede in aperta opposizione alle polemiche espresse dai miscredenti riformati, oggetto di supplica al fine di riconquistare, anche col sangue, i territori perduti.

Nel primo dei due saggi sopracitati, Maria Lupi vuole raccontare e analizzare, partendo dalle sue origini, una delle forme devozionali tributate al culto mariano più caratteristica dell’Urbe, ossia l’uso di coronare il capo della Vergine. Tale usan-za, in ogni caso non estranea alla cultura iconica della città se si pensa alle rappre-sentazioni di matrice bizantina che ancor oggi si possono ammirare, per esempio, sulla famosa parete-palinsesto in Santa Maria Antiqua (VI secolo), nonché nell’im-magine, un po’ più tarda, di Santa Maria della Clemenza posta in Santa Maria in Trastevere (VIII secolo), va inquadrata nell’ambito di un notevole rilancio dato alla figura della mater Dei a partire dal tardo medioevo grazie alla composizione di inni liturgici dedicatile e, in particolar modo, alla diffusione della devozione del Rosa-rio, che, proprio nel quinto mistero glorioso, contempla l’incoronazione di Maria. La differenza, tuttavia, fra il costume sinora descritto e la pratica invalsa dalla metà circa del XV secolo consiste, in quest’ultimo caso, nell’adornare con veri gioiel li e diademi icone mariane in origine prive di qualsiasi tipo di ornamento, tanto pitto-rico quanto, ancor più, di reale valore. Iniziata dai Servi di Maria di Firenze e Bo-logna all’incirca verso la metà del XV secolo come rito riservato al sabato santo, tale forma di devozione venne utilizzata dal predicatore cappuccino Girolamo Pao-lucci de Calboli da Forlì fra la fine del XVI secolo e il primo ventennio del suc-cessivo, quale migliore concretarsi della necessità di espiare le proprie colpe trami-te la privazione dei beni materiali espressa dalle sue omelie: l’adornare la Vergine dell’oro e delle gemme donate dai fedeli avevano la duplice valenza di rinuncia a se stessi e di concreto tributo ad una figura di certo più meritevole di materia pre-ziosa come la Madre di Dio.

Maria Lupi continua la sua trattazione ponendo, a questo punto, l’attenzione sulla comparsa sulla scena romana della pratica dell’incoronazione delle icone ma-riane, dovuta alla preghiera espressa dal conte Alessandro Sforza di Borgonovo di dotare di una corona tutte le immagine della Madonna presenti nella città santa. Il conte, verosimilmente suggestionato e spinto dalle omelie di fra’ Girolamo, darà inizio nel 1631, con l’incoronazione della Madonna della Febbre, conservata nella sacrestia della basilica petrina, ad un rito che connoterà fino ad epoca post-moder-na la religiosità dell’Urbe, conoscendo nel tempo fasi alterne di acmé e di apparen-te declino. A partire dalla sopracitata icona, il conte darà l’avvio ad una febbri-le ricerca di Vergini da coronare per ragioni meramente personali e senza alcuna intenzione programmatica, incaricando al principio il curatore dei suoi interessi a Roma, il cavalier Alfonso Carandini, il quale si premurò di scegliere personalmente le immagini che sarebbero potute essere «di maggior contento alla Beatissima Ver-gine», e in seguito il Capitolo di San Pietro in Vaticano, erede delle sue proprietà romane, fonte dei finanziamenti utili allo scopo. Maria Lupi non manca, inoltre, di evidenziare la funzione svolta dai canonici degli altri Capitoli e dalle confrater-nite, particolarmente sensibili a tale pratica, e di fornire dati quantitativi capaci di farci seguire le alterne fortune godute dal fenomeno religioso nel corso dei secoli, fino all’inserimento della pratica dell’incoronazione nel Pontificale romano intor-no al 1897, durante il pontificato di Leone XIII, e, in tempi recenti, all’istituzione

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di un vero e proprio Ordo coronandi da parte di Giovanni Paolo II, nell’intento di ratificare e di perpetuare, pur nel mutato clima religioso, la pregnanza religiosa e lo spirito che contraddistinsero le originarie forme della pratica devozionale.

Tommaso Caliò, nel suo saggio, allacciandosi alla grandiosa ascesa avuta dal culto della Vergine, descrive un’altra pratica devozionale della città santa, tanto più tipica perché basata sulla creazione di luoghi di culto preposti all’adorazione delle icone mariane di cui la città era, e continua ad essere tuttora, disseminata: ai cro-cicchi delle strade, su tratti del circuito murario cittadino, negli anfratti più nasco-sti, le immagini mariane, nella maggior parte dei casi anonime, vennero nel tempo fatte oggetto di devozione e di vera adorazione in luogo degli antichi santi, protet-trici dei viandanti e del popolo minuto, custodi della città e garanti della sicurezza e del controllo dei quartieri rionali di cui la città è ricca, in epoche in cui l’unica fonte di luce stradale era data dalle tremule fiammelle dei ceri e delle lampade ac-cese in perpetuo suffragio alla Vergine. Solo alcune di queste madonnelle di strada venivano, tuttavia, nei casi più felici, sottratte all’anonimato e collocate in apposite cappelle o edifici chiesastici, ambienti decorosi più idonei ad onorare le sacre im-magini. I casi di traslazione, non sempre contrassegnati dalla creazione ex novo di strutture, ma più spesso atti a riqualificare e a dar nuovo lustro ad antiche chiese dismesse o dimenticate, potevano anche ripercorrere il percorso a ritroso, riportan-do le madonnelle in forma di copia dell’originale a ripopolare le strade della città, quasi come succursali del santuario madre.

La pratica, inaugurata alla metà del XV secolo con la nascita della chiesa di Santa Maria della Consolazione, come tramandatoci dal diario di Stefano Infessu-ra datato 1470, avrà largo seguito, incentivata anche dall’istituzione ecclesiastica come dimostrano alcuni, significativi casi di iniziative pontificie, quale la creazione di una cappella in onore della Madonna del Buonaiuto, anonima icona posta su un tratto di Mura aureliane fra la basilica lateranense e Santa Croce, fautrice del mi-racolo che vide salva la vita di Sisto IV, rimasto vittima di un violento temporale nei pressi di Porta San Giovanni. Dopo aver fatto erigere questa piccola cappella a ridosso delle mura, oggi per lo più dimenticata, il pontefice si fece promotore di diverse opere di rivitalizzazione di luoghi di culto tramite la ricollocazione di ico-ne mariane, come nel caso più eclatante della riedificazione della chiesa agostinia-na di Santa Maria del Popolo, custode di una celebre icona lucana.

I casi di traslazioni sono molteplici, anche talvolta funzionali all’epoca stori-ca e strumentalizzati in chiave politica, come avvenne nel biennio repubblicano fi-lo-francese (1798-1799), anni nei quali fiorì il fenomeno delle madonnelle occhio-moventi, sintomo dell’insofferenza popolare verso il governo napoleonico e segno tangibile del viscerale, quanto complesso, rapporto del popolino con il papa re. Ca-ricate di una forte valenza controrivoluzionaria, le madonnelle saranno al centro di dispute, a volte anche violente, tanto durante la breve occupazione francese quanto all’epoca della cosiddetta Seconda Repubblica Romana, per tornare ad incarnare le istanze avanzate dall’istituzione ecclesiastica all’indomani dell’apertura della breccia di Porta Pia: Chiesa privata, oramai, del secolare potere temporale e, proprio per questo, determinata a ricoprire una posizione di primo piano nella qualificazione cattolica dei quartieri della Roma postunitaria. In tale ottica va letta la nascita di due fra le più importanti chiese sul finire dell’Ottocento, quella del Cristo Re al

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Castro Pretorio, frutto dell’ascesa del culto del Sacro Cuore di Gesù, e quella de-dicata al neonato culto della Madonna di Lourdes, in seguito alla promulgazione del dogma dell’Immacolata Concezione nel 1854, in Prati. L’autore conclude trat-tando dell’ultimo, rilevante centro santuariale romano, nato dal voto pronunciato da Pio XII e dalla popolazione all’indomani della liberazione, in seguito ai nume-rosi bombardamenti che colpirono la città fra luglio del 1943 e giugno dell’anno successivo, ossia quello di Castel di Leva, custode dell’immagine mariana del Di-vino Amore, che tanta fortuna conoscerà fino ai nostri giorni.

Gli ultimi due saggi che concludono la serie riguardano aspetti più schietta-mente antropologici, miranti ad indagare le ragioni che, ancor oggi, in un società cosiddetta “moderna”, caratterizzata da estrema mobilità e dalla perdita di un cen-tro aggregatore, spingono la popolazione, più spesso dell’antico centro cittadino ro-mano, a perpetuare usi e costumi ormai lontani nel tempo, a dar valore a pratiche devozionali altrimenti dimenticate o quasi leggendarie, ovvero a crearne di nuove partendo ugualmente dallo stesso bisogno ancestrale di dare corpo e sostanza alle preghiere ed ai voti pronunciati dinnanzi a delle immagini, corredando il rito di una delle forme più antiche di devozione cultuale quale il canto religioso.

Come anticipato nella premessa, Paola Elisabetta Simeoni, nel suo saggio, esa-mina il perdurare nell’uomo moderno della necessità di affidare le proprie pre-ghiere ad una rappresentazione iconica, per lo più mariana, detentrice di pote-ri taumaturgici e salvifici nell’immaginario comune e capace di raccogliere attorno a sé intere comunità extraterritoriali, acquisendo valenza socio-culturale e capaci-tà di aggregazione, come nel caso esemplificativo della chiesa di Santa Maria del-la Luce, divenuta la chiesa nazionale della comunità latinoamericana stanziata a Roma. Tale fenomeno ha la duplice funzione, aggregazionale e di rivitalizzazione di centri santuariali marginali, come accaduto recentemente nel caso della chiesa di Sant’Anastasia nel rione Ripa, la cui funzione sociale e religiosa è stata riabili-tata grazie all’iniziativa di un laico, tal Domenico Cuzzilla, fedele devoto alla rap-presentazione di Maria che scioglie i nodi perché rimasto un giorno, casualmente, folgorato dalla bellezza dell’immagine. Seguendo il racconto del signor Cuzzilla, la studiosa realizza che quest’ultimo, non essendo a conoscenza della storia dell’ori-ginale quadro settecentesco conservato nella chiesa di St. Peter a Perlach, basa la propria cieca fede sulla bellezza della figura, ispiratrice di santità, sulla folgorazio-ne ricevuta dal santino donatogli dal vecchio rettore prima della partenza di que-sti in terra di missione e sulla successiva morte di questi, che prelude alla “chiama-ta” della Madonna, seguendo, dunque, i canonici topoi peculiari delle fondazioni di forme di devozione popolare: topoi che permettono di ricollegare tale forma di offerta religiosa ad un modello sostanzialmente rimasto intatto e arcaico, non co-noscendo una vera e propria soluzione di continuità, ma solo periodi più o meno lunghi di silenziosa latenza.

L’ultimo dei saggi raccolti nel volume qui presentato, di Emiliano Migliorini, affronta da un punto di vista etnomusicologico i rituali riservati al culto dei san-ti, delle loro reliquie e a quello, sempre vivo, della Vergine, evidenziando, anche in tale contesto, la ripetitività e, dunque, la sostanziale continuità spazio-tempora-le dei canti e degli inni che corredano i percorsi processionali. Esaminando, difat-ti, le strofe che compongono l’Inno alla Madonna del Divino Amore, canto esegui-

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to durante il tragitto notturno percorso da Porta Capena fino al santuario mariano di Castel di Leva, Emiliano Migliorini sottolinea il ripetersi di motivi estrapolati da un antico e noto canto mariano, comunemente conosciuto come Affetti e pensie-ri (o, più semplicemente, come Evviva Maria), diffuso nel Lazio meridionale. Par-tendo da tale evidenza, lo studioso prosegue in una serie di considerazioni che lo portano a trovare riscontri anche in altri inni, riservati alle celebrazioni di altri san-ti, quali San Cataldo a Supino o San Domenico di Sora, i quali, pur con le dovu-te distinzioni, presentano dei versi iniziali caratteristici pressoché identici fra loro e all’inno mariano preso in esame, mantenendo, in tal modo, le stesse strutture mu-sicali legate ad un retroterra senza alcun dubbio comune.

La seconda parte del volume risulta, come anticipato in apertura, formata dal-le schede relative ai singoli centri santuariali, seguendo un iter ben preciso, frutto dell’impostazione scientifica attuale su cui si basa l’intero progetto. Nell’ordine, la voce presenta l’intitolazione odierna, con le eventuali variazioni, cui fanno seguito la necessaria localizzazione topografica e alcune notazioni riguardanti genericamen-te la storia del santuario in questione; anche la successiva trattazione, più o meno breve, segue un ordine ben preciso, fornendo informazioni riguardanti l’oggetto o gli oggetti venerati, gli aspetti religiosi e istituzionali connotanti il santuario nel corso della sua storia fino al momento dell’abbandono, della distruzione o dismis-sione o della perdita dell’identità santuariale originaria, proseguendo nella descri-zione di aspetti storico-artistici e socio-antropologici. Ogni scheda, così come ogni saggio sopra descritto, è corredata dell’elenco delle fonti inedite ed edite e della bibliografia essenziale utilizzate, nonché di immagini e litografie d’epoca, di foto-grafie, di planimetrie, di prospetti architettonici e di sezioni utili alla comprensio-ne ed allo studio degli edifici esaminati.

luisA Covello

Angelo miChele PiemonTese, La Persia istoriata in Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana (Studi e testi 480), Città del Vaticano 2014, pp. 466.

Angelo Michele Piemontese – professore emerito della Sapienza Università di Roma, dove ha insegnato sino al 2010 Lingua e letteratura persiana – è l’auto-re di moltissimi saggi dedicati alla Persia e ai rapporti intercorsi fra questo stra-ordinario Paese e l’Italia, in vari ambiti; fra questi spiccano il letterario, l’artisti-co, il documentario. La preziosissima Bibliografia italiana dell’Iran, 1462-1982, in due volumi, edita nel 1982 dall’Università Orientale di Napoli, è stata, sin dal mo-mento della sua pubblicazione, “l’opera” da consultare da parte di specialisti – e non solo – interessati a conoscere l’apporto degli studiosi italiani alla conoscenza di arte, lingua, filosofia, scienza, religione, geografia, storia e archeologia dell’Iran. La letteratura italiana in Persia (Roma 2003) e il Catalogo dei manoscritti persiani conservati nelle biblioteche d’Italia (Roma 1989) sono altre opere significative del-lo stesso autore.

Con il passar del tempo egli ha “affinato” un personale percorso di ricerca mirato allo studio della Persia nel rapporto con l’Italia e, a partire dagli anni No-

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MARIA VITTORIA FONTANA478

vanta del secolo scorso, i luoghi in cui cercare e raccogliere dati utili alla propria indagine non sono più stati soltanto le biblioteche e gli archivi, ma le piazze, le strade, le chiese, i palazzi d’Italia e, in particolare, di Roma. Leggiamo un signifi-cativo passo tratto dalla sua “Premessa” a La Persia istoriata a Roma, dopo l’inci-pit in cui l’autore, citando Virgilio, chiede e si chiede quale sia il motivo che in-duce a vedere Roma: «Per ritrovare una risposta consona a questa bella domanda posta da Virgilio, intrapresi un nuovo percorso nel molteplice paesaggio che rende inesauribile l’Urbe. La ricognizione di una sua memoria storica di referenza per-sica, tanto negletta quanto considerevole, mi porse lungo il cammino una chiave per la risposta: Roma ama la virtù del memorandum perenne. Preso questo motto come filo di guida in siti, palazzi, chiese, archivi e biblioteche, mirai a rintraccia-re ciò che nel corso dei secoli Roma ricorda, ospita, nota e illustra circa la Persia antica e moderna, riguardandone molte vicende, persone, storie e leggende. Tale Persia istoriata rifulge nel paesaggio urbano antico e moderno, monumentale, arti-stico, letterario, drammaturgico e musicale» (p. 9). In queste ultime parole trovia-mo, in incisiva sintesi, il contenuto del volume.

Il libro è organizzato in tre capitoli, ciascuno diviso in più paragrafi:I. I segni persici in Roma antica (Il cimelio alessandrino e l’arco trionfale par-

thico; L’antro mithriaco, la rete manichea e la svolta cristiana; I Tre Magi offerenti e la città del giglio);

II. La memoria storica romana dei santi persiani (Abdon e Sennen su Monte-verde e presso il Campidoglio; Marius, Martha, Audifax e Abachum nello spazio ur-bano; Anastasius Persa ad Aquas Salvias e a Fontana di Trevi; Honofrius su Giani-colo e Monte Mario);

III. Il Regno antico evocato nel paesaggio urbano (Una rassegna rinascimenta-le di protagonisti storici; La Sibilla Persica preminente; Zoroastro in Vaticano; Ciro tra Daniele, la Media e altre imprese; Esther sposa di Assuero e regina imperante; La conquista di Alessandro Macedone; Il battesimo del re arsacide e avventure par-tiche; La riconquista della croce e vicende sasanidi; Il legame diplomatico con il pae-se antico; Prospetto).

Seguono 53 pagine di bibliografia, 46 tavole su carta patinata e, infine, tre se-zioni fondamentali dedicate agli indici: l’indice delle fonti manoscritte, l’indice dei nomi, l’indice toponomastico.

Nel primo capitolo non può mancare un riferimento ad Alessandro il Mace-done: «il conquistatore dell’impero di Persia, resa grande dai re Achemenidi. Ma, ricostituita in seguito la potenza militare, sovente estesa in Armenia e Mesopota-mia, la Persia permaneva il cardine decisivo sul fronte vicino-asiatico, segnando il limes geopolitico nel confronto strategico fra Europa e Asia. Qui l’espansione ro-mana incontrava un duro ostacolo. La Persia, governata dai re Parthi Arsacidi e poi dai Sasanidi, fu la nemica strenua dell’impero di Roma e di Costantinopoli (I secolo a.C. - VII d.c.). Pertanto questa plurisecolare antagonista rimase indelebile nella memoria storica di Roma» (p. 10). E la storia di questo periodo di conflit-ti ma anche di memorie trova spazio in una narrazione serrata, congiunta alla ri-costruzione di monumenti e spettacoli della Roma imperiale di II secolo, e culmi-nante nel Foro Romano, dove l’Arcus Parthicus di Settimio Severo ne celebrava (203) la vittoria sul regno parthico. E poi sono citati i mitrei romani e le figure

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RECENSIONI 479

dei tre Re Magi, che sono raffigurate spesso nell’arte paleocristiana di Roma: dalle pitture cimiteriali ai bassorilievi dei sarcofagi e ai mosaici dell’abside di S. Maria Maggiore.

Un altro soggetto, che Piemontese ha indagato per lungo tempo, concerne i santi persiani venerati a Roma dal III al XXI secolo. Di essi ha rintracciato la sto-ria, le connessioni con il tessuto urbano di Roma, nelle chiese, negli affreschi, ri-percorrendo un tracciato storico-documentario-artistico (II capitolo, pp. 57-140). I protomartiri persiani a Roma sono sei: Abdon, Sennen, Marius, Martha, Audifax e Abachum. Di Anastasio, invece, santo persiano di VII secolo, si conserva una Vita che contiene notizie relative «all’ultimo conflitto tra l’impero romano di Co-stantinopoli e la Persia sasanide. In tali battaglie avvenivano il trafugamento per-siano e il recupero cristiano della Croce, la sua reliquia custodita in Gerusalemme» (p. 102). Una minuziosa ricerca, che si serve di dati archeologici e materiale do-cumentario, consente all’autore di suggerire una mappa topografica del monastero di Anastasio ad Aquas Salvias. A Honofrius, infine, sono dedicate numerose pagi-ne. Questo capitolo era stato annunciato da due importanti saggi: La memoria ro-mana dei santi martiri persiani Mario, Marta, Audiface e Abaco (Roma 2003) e poi Il culto dei santi persiani in Roma (in Arte e culti dell’Oriente cristiano a Roma e nel Lazio, Padova 2009).

Il capitolo più corposo è il III (pp. 141-323). La Roma rinascimentale e post-rinascimentale è la protagonista di queste pagine avvincenti e suggestive, che si leg-gono con passione e avidità. L’elezione di papa Martino V Colonna sancita dal Con-cilio di Costanza (1417) prelude l’ingresso del nuovo papa a Roma (1420): l’inizio della rinascita urbana della città. Il cardinale Giordano Orsini, titolare della basili-ca di S. Sabina dopo la morte di Martino V (1431), volle affidare al messaggio ico-nografico «la funzione delle Sibille, mediatrici tradizionali di vaticini pagani e cri-stiani» (p. 141). Due manoscritti, conservati a Liegi e Tongerloo, testimoniano del ciclo di affreschi del palazzo Orsini sulla via Papalis, distrutti forse ad opera dei nemici giurati degli Orsini, i Colonna. Le pitture raffiguravano 12 Profeti giudai-ci e 12 Sibille antiche. Questo tema sarà ripreso da Michelangelo nella suggestiva volta della Cappella Sistina, ove trovano posto 7 Profeti giudaici e 5 Sibille. Fra queste l’eccezionale figura della Sibilla Persicha “accoglie” oggi il visitatore che, entrando, la distingue come primo personaggio, sulla sinistra, in un ideale abbrac-cio visivo in senso orario dal basso verso l’alto (pp. 154-155, tav. 16). Di fronte a lei Michelangelo dipinge il Profeta Daniel.

Un sapore d’altri tempi pervade le pagine che Piemontese dedica ai drammi in musica ispirati alle nobili gesta degli antichi Persiani: «Il tema riguardante Ciro, Daniele e vicende connesse ai regni antichi di Babilonia, Media e Persia, inoltre Li-dia, si ampliava poiché veniva espresso sovente in varie forme drammatiche e mu-sicali, sia sacre, sia profane» (p. 181). L’Artaserse di Metastasio, per esempio, posto in musica da Leonardo Vinci, fu più volte rappresentato, anche al «Nobil Teatro di Torre Argentina nel Carnevale dell’anno 1762» (pp. 202-203, tav. 24).

Il paragrafo dedicato ad Alessandro ripercorre magistralmente la conquista dell’antico regno di Persia attuata dal Macedone, dando vita a un’affascinante re-trospettiva letteraria, artistica, drammaturgica, musicale e coreografica. Il prece-dente saggio dell’autore, Le imprese di Alessandro Magno figurate in Roma (in Im-

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M. V. FONTANA : RECENSIONI480

magine del Mito. Iconografia di Alessandro Magno in Italia, Roma 2006) ci attesta il particolare interesse di Piemontese per questo personaggio e per le sue gesta in relazione alle sue testimonianze nella città di Roma. Ricordiamo, fra tante opere, i Fasti di Alessandro Magno raffigurati negli affreschi nella Sala Paolina di Castel Sant’Angelo (1545-1547), opera del senese Marco Pino, uno degli aiuti di Pietro di Giovanni Bonaccorsi, detto Perin del Vaga.

È probabilmente significativo di un rinnovato approccio che l’ultimo para-grafo (a parte il Prospetto finale) con cui termina il volume sia dedicato a Il lega-me diplomatico con il paese amico. Argomento che Piemontese ha trattato in uno dei suoi primi saggi dedicati alla Persia e Roma, ricordiamo infatti The Nuncios of Pope Sixtus IV (1471-84) in Iran (in Iran and Iranian Studies. Essays in Honor of Iraj Afshar, Princeton 1998), ma anche i successivi I due Ambasciatori di Persia ri-cevuti da Papa Paolo V al Quirinale e La diplomazia di Gregorio XIII e la lettera del Re di Persia a Sisto V (in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, Città del Vaticano, rispettivamente: XII, 2005 e XIV, 2007); e, infine, Amicitiae nexus. Lettere tra i Papi e i Re di Persia (1874-1922) (in Dall’Archivio Segreto Vaticano, II, Città del Vaticano 2007).

Il Prospetto, o conclusioni, sono un utile momento di riepilogo che ripercorre, cronologicamente, la memoria della Persia a Roma nelle sue tappe storiche, diplo-matiche, artistiche; in quest’ultimo caso non solo, per esempio, nella pittura, ma anche nella drammaturgia e nella musica.

Non v’è dubbio, dunque, che nel volume La Persia istoriata in Roma confluisca l’eccellente risultato di una ricerca pluridecennale e del tutto originale che non an-novera alcun precedente. Questa pubblicazione costituisce un vero e proprio spar-tiacque fra un prima e un dopo per le nostre conoscenze sulla Persia a Roma.

mAriA viTToriA fonTAnA

La collezione di antichità Pallavicini Rospigliosi, a cura di Daniela Candilio e Ma-tilde De Angelis d’Ossat (Accademia Nazionale dei Lincei, Monumenti Anti-chi, Serie Miscellanea, vol. XVII), Giorgio Bretschneider editore, Roma 2014, pp. 229, con XC tavv. f.t.

«Nei giardini di Scipione/Apollo, che superano ovviamente quelli di Adone e di Alcinoo, il percorso si snoda scendendo lungo le pendici del colle e lo sguar-do del poeta si rivolge sia alle numerose e complesse fontane che alle statue e agli affreschi che ornano i casini, senza trascurare di notare la vista che spazia sui col-li, le specie di piante, come pure le diverse parti del giardino ornate di statue e lo stemma del Cardinale disegnato da arbusti» così – fra il 1614 e il 1615 – il poeta Gregorio Porzio ebbe a descrivere, in un breve poemetto latino, lo splendore e la ricchezza del giardino di Monte Cavallo, sul Quirinale, dove ancora erano in cor-so i lavori per la costruzione del Palazzo Pallavicini Rospigliosi: la splendida resi-denza romana del Cardinale Scipione Borghese, nipote del pontefice Paolo V, che dal 1610 si andava edificando sui resti di quelle che, tredici secoli prima, erano state le Terme di Costantino.

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RECENSIONI 481

Ad accompagnarci lungo i viali ornati di statue, a descriverci le meraviglie del palazzo e, in particolare, le decorazioni del Casino dell’Aurora – progettato da Car-lo Maderno e portato a termine da Giovanni Vasanzio – è Daniela Candilio che, nelle tre sezioni iniziali della pregevole opera La collezione di antichità Pallavicini Rospigliosi, illustra in maniera dettagliata quello fu uno dei palazzi più ammirati e celebrati del barocco romano.

Pagina dopo pagina, andiamo scoprendo non soltanto le opere che abbellisco-no le fontane del giardino o gli affreschi – celebre quello raffigurante la personi-ficazione di Aurora, da cui prende il nome l’edificio, opera di Guido Reni – che decorano i soffitti del Casino, ma anche gli artisti che si radunarono e lavoraro-no per il Cardinale: fra questi, ci vengono presentati Francesco Landini, Cristofo-ro Stati, Giuseppe Fontana e Santi Solaro.

Nel 1616 il palazzo venne ceduto a Giovanni Angelo Altemps, che lo vendet-te, sei anni dopo, ai Bentivoglio. Da questi passò ai Lante e poi al Cardinal Maza-rino e, quindi, ai suoi eredi, i Mancini, fin quando nel 1704 venne acquistato dal principe Giovanni Battista Rospigliosi – nipote di papa Clemente IX – e da sua moglie, la principessa Maria Camilla Pallavicini.

Fin dalla sua costruzione – complice anche un certo gusto per l’antiquaria che caratterizzò il patriziato romano del secolo XVII – nella villa vennero raccolti marmi antichi, erme, sarcofagi funerari, busti loricati, teste diademate e reperti di vario genere. Con l’avvento dei Rospigliosi, particolarmente attenti alla conserva-zione del patrimonio artistico acquisito, si provvide a più riprese non soltanto ad ampliare e restaurare il palazzo – ulteriormente arricchito con i reperti provenien-ti dalle loro tenute di San Cesareo –, ma anche a censire il materiale conservato nelle sue collezioni. Un patrimonio di altissimo valore e di straordinaria bellezza, tanto da attirare l’attenzione di Francesco de’ Ficoroni, dalla cui bottega furono acquistate alcune delle statue antiche che andarono ad abbellire le stanze del pa-lazzo, e di Johann Joachim Winckelmann, che ebbe a visitarlo durante la sua per-manenza romana del 1755-56.

Attorno agli anni venti dell’Ottocento, il celebre scultore danese Bertel Thor-waldsen venne incaricato dall’autorità pontificia – che, con indiscutibile lungimiran-za, andava censendo le raccolte private romane – di visitare il palazzo e verificarne le collezioni: ne seguì, nel 1833, un decreto di vincolo pontificio, auspicato dallo stesso principe Giuseppe Rospigliosi, con il quale si vietava la vendita degli ogget-ti d’arte della collezione. Proprio in quegli anni (siamo a metà Ottocento) venne rubata la celebre Tazza Rospigliosi, un capolavoro manierista delle botteghe gran-ducali, d’oro massiccio impreziosito di perle e di smalti, donata ai duchi di Zaga-rolo dai Medici di Firenze; non essendo più stata recuperata, si provvide a sosti-tuirla con una copia di pregevole fattura.

Qualche anno più tardi, con l’Unità d’Italia, i lavori per l’apertura di via Na-zionale comportarono l’eliminazione di parte del giardino sul versante Est del Qui-rinale, mettendo in luce, nella medesima area, i resti di un ninfeo d’età antonina, probabilmente pertinente alla casa degli Avidii.

Nel 1931-1932, a seguito delle difficoltà economiche che colpirono il princi-pe Gerolamo Pallavicini, la collezione perse circa ottocento pezzi, fra cui una doz-zina di reperti archeologici, battuti in asta dalla casa di vendita Guido Tavazzi: la

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G. MANDATORI : RECENSIONI482

stampa dell’epoca, pur lamentando la dispersione di un patrimonio unico, la de-finì un’asta memorabile, seconda soltanto a quella di casa Borghese, del 1892, e a quella di casa Sciarra, del 1925.

Dal 1932 due piani del palazzo, particolarmente interessanti per la presenza della galleria delle statue e di una gran quantità di reperti particolarmente pregevo-li, divennero sede della Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti; proprio alla Coldiretti – che gestisce la struttura assieme alla Società Germina Campus – ap-partiene oggi la collezione di antichità Pallavicini Rospigliosi. Il nucleo principa-le e più prestigioso del complesso, unitamente al giardino e al Casino, è però ri-masto di proprietà della principessa Maria Camilla Pallavicini e dei suoi figli che – con mecenatismo squisitamente romano – continuano a valorizzare il patrimonio di famiglia con raffinate iniziative artistiche e culturali.

Nella seconda sezione del volume, troviamo il catalogo vero e proprio. Artico-lato in sedici sezioni, una per ogni ambiente preso in esame, il catalogo offre una selezione di accuratissime schede, firmate – di volta in volta – dalla stessa Danie-la Candilio, da Matilde De Angelis d’Ossat, da Maria Grazia Granino Cecere e da Emanuela Paribeni. Per ogni opera descritta, si rimanda a una tavola fuori testo, contenente la fotografia dell’oggetto descritto, si forniscono le principali indicazio-ni bibliografiche e documentali, nonché ulteriori referenze fotografiche: lo stile uti-lizzato è quello agile e puntuale di chi sa ben conciliare il rigore di una descrizio-ne scientifica con il dettato chiaro e piacevole della divulgazione.

L’appendice, curata da Antonella Parisi, relaziona sulle ricerche d’archivio con-dotte in merito alla storia della collezione. Si tratta di un’indagine di notevole va-lore storico e documentale, condotta sui materiali – migliaia di documenti – cu-stoditi in tre distinte sedi: l’Archivio Segreto Vaticano, l’Archivio di Stato di Roma e l’Archivio Pallavicini.

Atti notarili, certificazioni di compravendita, inventari di opere, libri mastri, giustificazioni, bilanci e notizie di scavi effettuati negli orti di famiglia – scavi che tanto impulso ricevettero dalla principessa Maria Camilla Pallavicini, appassionata di antichità – vengono riprodotti in trascrizione, spesso per la prima volta, nell’ap-pendice documentaria che conclude il volume. Una selezione di testimonianze stra-ordinarie, dal chirografo di Paolo V Borghese – con cui il Pontefice donò al nipote Scipione due reperti, rinvenuti nei cavi di fondazione di San Pietro – al Decre-to Ministeriale del 2004 – con cui si dichiara il particolare interesse dei reperti archeologici della collezione – che aiutano il lettore a comprendere non soltanto l’importanza della collezione oggetto di questo volume, ma anche il lungo percor-so che le opere in essa conservate hanno compiuto, attraverso i secoli, per giun-gere fino a noi. Opere che non facilmente si avrà modo di ammirare di persona – la galleria è visitabile soltanto il primo giorno di ogni mese – ma che oggi, gra-zie al lavoro curato da Daniela Candilio e da Matilde De Angelis d’Ossat, posso-no essere studiate e apprezzate da un numero sempre maggiore di ricercatori o di semplici appassionati.

giAnluCA mAndATori

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RECENSIONI 483

«Tomba di Nerone». Toponimo, comprensorio e zona urbanistica di Roma Capita-le. Scritti tematici in memoria di Gaetano Messineo, a cura di Fabrizio Vistoli, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012, pp. 363.

Il prezioso libro «Tomba di Nerone». Toponimo, comprensorio e zona urbanisti-ca di Roma Capitale. Scritti tematici in memoria di Gaetano Messineo è il secondo volume edito nella collana «Fors Clavigera». Studi interdisciplinari sul Mondo an-tico, diretta da Fabrizio Vistoli. La collana, sorta sotto gli auspici di un folto grup-po di giovani ricercatori nel campo umanistico, accomunati dal forte interesse per lo studio dell’antichità classica, ha quale obiettivo la divulgazione e quindi la pub-blicazione di quei contributi tematici che abbiano carattere scientifico e si offrano ad approfondimenti interdisciplinari di varia natura: saggi storici, cataloghi, atti di convegni e seminari, nonché tesi dottorali secondo una valutazione basata sulla re-visione paritaria e anonima (peer review).

Il volume, dalla scrittura agile e di piacevole lettura, permette di entrare in quella tenuta della Campagna Romana che nella letteratura scientifica è indicata con il nome di «Tomba di Nerone», penetrando nel vivo di una ricerca, che si ar-ticola non soltanto sulla consistenza archeologica e paesaggistica del luogo, ma an-che sull’evoluzione architettonica e urbanistica del comprensorio, alla luce del suo sviluppo storico, linguistico e culturale.

È da segnalare come questo studio, così attento, così capillare, sia stato forte-mente voluto e promosso dal XX Municipio di Roma, in quanto ritenuto molto utile ai fini di una sempre più attenta e proficua pianificazione del territorio. Ed era sta-to proprio Gaetano Messineo, che purtroppo ci ha lasciato nel 2010, a proporre a Fabrizio Vistoli (come lo stesso studioso ha ricordato), di “occuparsi” della «Tomba di Nerone» e dell’antica tenuta dell’Agro romano, che da essa prende il nome.

Il volume che ne è scaturito, corposo, articolato e sapientemente redatto da un prestigioso gruppo di studiosi, si apre con due saggi, a firma di Fabrizio Vi-stoli (Gaetano Messineo. In memoriam) e di Francesca Ranieri (Gaetano Messineo. Appassionato custode del patrimonio storico-archeologico d’Abruzzo), che ricordano il lavoro attento e appassionato compiuto da Messineo in tanti anni dedicati allo studio del territorio (1943-2010).

Funzionario pubblico «a servizio dello Stato», Messineo, archeologo e docen-te fra i più esperti del suo tempo, originario del centro siciliano di Petralia Sopra-na, era a Roma nei primi anni Ottanta, per la cura delle campagne di scavo della cosiddetta Villa di Livia a Prima Porta, al IX miglio della consolare Flaminia, cor-rispondente alla residenza “fuori porta” della moglie dell’imperatore Augusto. Ma non fu solo un archeologo, occupandosi anche di urbanistica, e ben consapevole dell’imprescindibile legame esistente fra le due discipline. Ispettore della Soprinten-denza Archeologica di Roma, “aquilano” di adozione, fra i numerosi incarichi che assunse per la Soprintendenza archeologica d’Abruzzo fu anche professore Ordi-nario di Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana presso la Facoltà di lette-re e Filosofia dell’Università degli Studi dell’Aquila. Ma rinviamo il lettore ad ogni approfondimento compiuto dagli autori sulla figura di Messineo, ben corredato da un ricco apparato di annotazioni e da una attenta rassegna bibliografica.

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LUISA CHIUMENTI484

Tre sono le “parti” in cui è stata suddivisa l’opera: Il Comprensorio, Il Monu-mento, gli Approfondimenti Tematici. Apprendiamo come la “sepoltura” sia stata chiaramente indicata in effetti nella «tavola esatta dell’antico Lazio e Nova Cam-pagna di Roma» di Innocenzo Mattei, pubblicata nel 1666 e di cui viene pubbli-cato uno stralcio nel testo. Ma entriamo, con Fabrizio Vistoli, nell’affascinante let-tura e nel vivo della conoscenza della «Tomba di Nerone»: un’esperienza di studio e ricerca sul Suburbio romano. In accordo quindi con Messineo, la ricerca si av-viò con una “macro articolazione bipartita” comprensiva di una sezione “distret-tuale” (o “zonale”) e di una “specialistica” (con una coda di approfondimenti te-matici). L’autore del saggio ci accompagna con molta chiarezza nella successione dei sopralluoghi, delle ricerche bibliografiche e d’archivio in quei luoghi prezio-si per l’antichità attraversati dalla via consolare Cassia, considerata “spina dorsa-le” dell’Etruria meridionale interna, lungo il percorso della quale erano sorti vil-lae, praedia e sepulchra.

E se viaggiatori, viandanti e pellegrini, transitando per la via Cassia, sono sem-pre rimasti colpiti dalla presenza di quel monumento funebre di Vibio Mariano, cosiddetto «Tomba di Nerone», conservatosi così bene a distanza di tanti secoli, fu solo nel Rinascimento che artisti, architetti e studiosi, cominciarono ad occuparsene a fondo; l’autore del saggio analizza a mano a mano i molteplici dati che sono sca-turiti dal dibattito fra archeologi, topografi, cartografi storici e urbanisti, ricompo-nendo un «quadro più che accettabile del distretto topografico preso in esame».

L’ampia indagine interdisciplinare compiuta non si è fermata all’archeologia, alla topografia, alla storia dell’architettura e all’ecologia, ma si è allargata al «pae-saggio antropico locale dall’antichità romana sino ai giorni nostri».

Il lettore viene anche a conoscenza di numerose memorie di ricerche anti-quarie, rintracciate dagli autori e tratte dall’Archivio Vaticano: memorie che era-no state ritrovate appunto nella tenuta della “Sepoltura di Nerone” fra il 1780 e il 1796. Erano stati gli stessi Canonici della tenuta di “Sepoltura Sant’Andrea” ad intraprendere una campagna di scavo, che era poi approdata al ritrovamento di pavimenti in mosaico, di cui il Capitolo aveva fatto anche realizzare un dise-gno ad opera della Reverenda Fabbrica di San Pietro. Di tali memorie si legge, in particolare, un’approfondita analisi nel saggio redatto da Alexis Gauvain (Memo-rie di ricerche antiquarie nella tenuta della «Sepoltura di Nerone» (1780-1796) trat-te dall’archivio del Capitolo Vaticano), mentre un altro corposo saggio, a firma di Alessandro Locchi, fa luce poi su La vicenda della sepoltura di Nerone: coordinate storiche e risvolti leggendari.

Ma, poiché la tenuta «Tomba di Nerone» presenta gli elementi strutturanti caratteristici del paesaggio e del territorio dell’Agro Romano, acquista particolare interesse – meglio vedremo in seguito – il saggio di Rossana Nicolò, che porta il lettore, come ricordato nel titolo, Lungo la via Cassia. Paesaggio storico e vestigia architettoniche nella tenuta della «Sepoltura di Nerone».

Il saggio di Alessandro Locchi e Fabrizio Vistoli Gli scavi del Capitolo di San Pietro nella Tenuta della «Sepoltura di Nerone»: dati antiquari dagli archivi e dai musei di Roma conduce nel vivo del preziosissimo materiale documentario che nel corso dei secoli è stato via via raccolto intorno al sarcofago di Publio Vibio Ma-riano, situato fra il V e il VI miglio della consolare Cassia, a cominciare dal seco-

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RECENSIONI 485

lo XVIII (pur riferendo anche circa ritrovamenti precedenti) e in particolare dal pontificato di Pio VI Braschi (15 febbraio 1775 - 29 agosto 1799), quando inizia-rono appunto gli scavi sistematici compiuti da emissari camerali e privati escava-tori, nella tenuta di Sant’Andrea o Casal Saraceno. E sappiamo in tal modo, dai documenti riportati nel testo (come spese di viaggi e di trasporti), come si sia svi-luppato proprio in quel periodo il primo nucleo di sculture di quella che sarebbe divenuta la più ricca collezione di antichità d’Europa, il Museo Pio Clementino, chiamato allora “Museo Pijano”. Gli autori proseguono in un’attenta analisi della serie di ritrovamenti, fino al periodo relativo al papato di Gregorio XVI Cappel-lari (1831-1846), in seguito al quale sarebbero poi continuati i soli interessi stori-co-archeologici, non più su quel possedimento agricolo del Capitolo di San Pie-tro, che aveva fornito così numerosi reperti per più di un secolo, ma unicamente su quel «nobil pilo di marmo sollevato sopra grossi, e quadrati pezzi di travertino, che dicesi il Sepolcro di Nerone».

Il saggio di Rossana Nicolò, sopra citato, ci porta lungo la via Cassia, per un’esplorazione del paesaggio storico e delle vestigia architettoniche nella tenuta della «Tomba di Nerone», applicando al comprensorio l’analisi corretta di un tema molto attuale nella ricerca estetica contemporanea, attraverso il riconoscimento del-la sua morfologia e compagine stratificata e iconografica.

In relazione a questa disamina così analitica del territorio in argomento, col-pisce senza dubbio, anche per l’acuta veridicità di quanto asserisce, la frase con cui si apre il saggio di Pietro Zander (L’inedito sarcofago di Taminia Novatilla e gli scavi della Fabbrica di San Pietro alla cava della «Sepoltura di Nerone»); la frase è tratta da Passeggiate romane di Stendhal: «C’è da tremare al pensiero di quante ri-cerche occorrono per scoprire la verità anche sul più piccolo particolare». Come riportato correttamente in una nota del saggio, nel settembre del 2011 era iniziato, nell’ambito dell’interessante progetto di conservazione e valorizzazione delle fonta-ne nello Stato della Città del Vaticano, il restauro della “Fontana della burbera”, dove era stato re-impiegato il sarcofago di Taminia Novatilla, proveniente dagli sca-vi eseguiti dalla Fabbrica di San Pietro presso la tenuta del Capitolo Vaticano de-nominata “Sepoltura di Nerone”.

Numerosi sono stati, altresì, in tutto il comprensorio preso in esame, i ritrova-menti di preziose sculture, come illustrato dall’interessante saggio di Giandomeni-co Spinola, dal titolo Sculture antiche dall’area della cosiddetta «Tomba di Nerone» nei Musei Vaticani. E altrettanto interessante risulta essere l’attento esame condot-to da Claudia Lega sulle Iscrizioni sepolcrali di Sextus Appius Severus e di sua fi-glia Appia Severa, sposa del console Lucius Ceionius Commodus.

A chiusura della Parte I. Il Comprensorio, leggiamo dapprima, con Alessandro Locchi e Fabrizio Vistoli, la descrizione analitica di Un «cippo con bassorilievo di Diana» dall’area della cosiddetta Sepoltura di Nerone; poi, il saggio di Licia Capan-nolo, Grottarossa: ipotesi su di un nuovo luogo di culto cristiano, ci conduce attra-verso le ricerche su un’area adiacente e posta tra Cassia e Flaminia.

La Parte II. Il Monumento si apre con il saggio di Silvia Evangelisti, che af-fronta Il Sepolcro di Publio Vibio Mariano: analisi dei dati epigrafici e prosopografi-ci; segue, a firma di Licia Capannolo e Ilaria De Luca, il saggio Su alcune iscrizio-ni e graffiti della «Tomba di Nerone».

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LUISA CHIUMENTI486

Cristina Giagnacovo, Luigi Loi e Marco Santancini propongono uno studio su Il restauro conservativo della tomba di Publio Vibio Mariano, soffermandosi sul-la descrizione dei restauri fino ad oggi realizzati. Infine, a conclusione della sezio-ne relativa al monumento, Francesco Coccia e Pietro Scaglione offrono specifiche considerazioni e valutazioni con il saggio Sistemazione e valorizzazione dell’area cir-costante il sarcofago di Publio Vibio Mariano. Relazione tecnico-illustrativa.

La Parte III. Approfondimenti tematici, ultima sezione del volume, è appunto riservata agli approfondimenti tematici, a cominciare dal saggio di Alessandro Loc-chi e Fabrizio Vistoli, dal titolo «Antegressae causae principatus». Un brano di sto-ria romana su un singolare rilievo tardo-repubblicano dalla via Cassia. Attraverso il saggio Casal Saraceno e la chiesetta di Sant’Andrea Apostolo: una messa a punto di Rossana Nicolò e, di nuovo, Fabrizio Vistoli, viene illustrata l’ampia ricerca attuata su Casal Saraceno e la chiesa nominata, entrambi situati a pochi metri dal sepolcro di Vibio Mariano; gli stessi autori nel contributo Villa Paladini-Casartelli a «Tomba di Nerone» si cimentano in un’analisi di ambito architettonico e paesaggistico.

Non mancano nel testo alcune descrizioni di eventi particolari accaduti nel ter-ritorio; tra questi, per esempio, quello legato a un fatto di sangue avvenuto pro-prio nei pressi della «Tomba di Nerone», del quale parla Fabrizio Vistoli nel saggio L’omicidio della pellegrina Anna Kotten presso «Tomba di Nerone» nei suoi risvolti letterari, storico-religiosi e topografici.

Molto suggestiva, per la descrizione dettagliata che ne viene fatta, è anche l’av-ventura capitata al “globo aerostatico” che cadde nel 1804, proprio nell’area della «Tomba di Nerone»; come ricorda Roberto Bonuglia, autore del saggio André-Jac-ques Garnerin e il globo aerostatico caduto a «Tomba di Nerone» nel 1804, presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare a Vigna di Valle sono infatti conserva-ti i resti del pallone che André Jaques Garnerin aveva messo a punto per la gran-de festa organizzata a Parigi per l’Imperatore. Ma quel pallone, trascinato da venti imprevedibili, era giunto in Italia, portandovi in anticipo la notizia dell’incorona-zione di Napoleone, appunto sulla via Cassia, verso il lago di Bracciano e il centro storico di Anguillara Sabazia. Una copiosa bibliografia viene messa a disposizione del lettore per eventuali approfondimenti su questo evento curioso, ma comunque “storico” e ben poco conosciuto.

Molto interessante è altresì l’analisi offerta dal saggio di Laura Annesi e Rossana Nicolò, dal titolo Architetture del XX secolo a Roma Nord: una panoramica, che si col-lega anche alla preziosa “Carta Tecnica Regionale del Lazio” del 1991 (1:10.000), che riporta l’esatta ubicazione delle architetture censite, di cui il testo riporta, in modo che il lettore possa rendersi conto della consistenza di ogni intervento specifico, an-che i dati anagrafici, cronologici e bibliografici. Il saggio si sofferma, infatti, sulla par-ticolare presenza, lungo la consolare Cassia “moderna” (se così si può definire), di concreti esempi poco noti di architettura contemporanea, realizzati da maestri della Scuola romana e italiana del Novecento. Un esempio è offerto dal bel padiglione in metallo e vetro realizzato dall’architetto Luigi Pellegrin per i Vivai Sgaravatti, ditta florovivaistica fondata nel padovano intorno al 1820. E, più avanti, il noto comples-so residenziale del “Villaggio dei Cronisti”, concepito da Enrico Del Debbio, che si estende lungo la via Panattoni, nell’ambito di un intervento progettuale unitario rac-colto attorno a un fascinoso itinerario “tornanti”. Infine, le residenze di Berarduc-

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RECENSIONI 487

ci costituite da un complesso di due palazzine che presentano un sistema di logge e balconi aggettanti piuttosto innovativi per l’epoca, come pure gli edifici a torre, di-segnati da Sacripanti, con una progettazione modulare in cemento a vista.

Molte sono le istituzioni religiose presenti con proprie strutture residenziali nel territorio, con complessi chiesastici “firmati” da grossi nomi di architetti del Nove-cento che molto si occuparono di chiese, come Clemente Busiri Vici, con la chie-sa di Sant’Andrea Apostolo. Si ricorda, inoltre, l’interessante presenza, sia pur tra-sformata parzialmente nel tempo, della Casa del Fascio, situata proprio di fronte alla «Tomba di Nerone», realizzata negli anni Trenta e oggi adibita a scuola.

Il volume è arricchito da un consistente apparato iconografico (fotografie, di-segni e mappe storiche), a corredo dei saggi dei diversi autori, ed è completato da una Appendice documentaria, che permette al lettore di cimentarsi in riscontri ana-litici fra i documenti e le presenze archeologiche.

Il volume per l’insieme di studi interdisciplinari che raccoglie fornisce una vi-sione pressoché esaustiva su un comprensorio ricco di preesistenze, fornendo final-mente agli studiosi un coordinamento tra le numerose, precedenti ricerche; in tal senso, a nostro avviso, può essere segnalato come esempio da seguire anche per lo studio di altri comprensori della Campagna Romana. Ed è, infine, un testo non solo da leggere con attenzione, ma anche da suggerire a giovani studiosi, come “consul-tazione” per futuri studi e approfondimenti.

luisA ChiumenTi

La riscoperta della via Flaminia più vicina a Roma: storia, luoghi, personaggi. Atti dell’Incontro di studio, Roma, Auditorium dell’Ara Pacis, 22 giugno 2009, a cura di Fabrizio Vistoli, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2010, pp. 190.

Il volume costituisce il primo titolo di una nuova collana di studi dedicata all’an-tichità classica, il cui titolo, «Fors Clavigera» (Fortuna che porta le chiavi), è preso a prestito da quello di una ponderosa raccolta di lettere pubblicata dallo scrittore e riformatore inglese John Ruskin (1819-1900) (1). Intento dichiarato di questa inizia-tiva editoriale è quello di coniugare un rigoroso approccio necessariamente multi-disciplinare alle infinite tematiche afferenti agli studi classici, con l’adozione di for-me e contenuti tali da non suggerire una fruizione esclusiva in ambito specialistico, bensì rivolta anche al pubblico più esteso dei non addetti ai lavori.

A quest’ultimo obiettivo programmatico è visibilmente ispirato il volume in esame, che raccoglie gli atti di un interessante incontro di studio tenutosi nel 2009, presso l’Auditorium dell’Ara Pacis, dedicato al tema La riscoperta della via Flami-nia più vicina a Roma: storia, luoghi, personaggi.

(1) In un punto dello scritto in questione, l’autore (la cui opera si focalizzò precipuamente su con-cetti quali la «Conservazione dell’Esistente» e l’«Umanizzazione dell’Opera»), motivandone il titolo, ci restituisce un’originale lettura della funzione civilizzatrice della cultura classica: presenta, infatti, alcu-ne notissime icone del mondo antico (Ercole, Ulisse, Licurgo) come espressioni di valori funzionali al miglioramento della società attuale ( j. ruskin, Fors Clavigera. Letters to the Workmen and Labourers of Great Britain, New York 1871, pp. 19-21).

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ALESSANDRO LOCCHI488

Sottesa ad entrambe le iniziative (il convegno del 2009 e la presente pubbli-cazione) è infatti l’idea di non procedere ad un ennesimo censimento, di massima o con pretese di esaustività, delle numerose emergenze archeologiche collegate al tratto iniziale dell’importante Consolare – operazione notoriamente al centro di ve-tuste trattazioni antiquarie nonché di pregevoli studi moderni (2) –, ma di rievoca-re peculiarità topografiche e rilevanza storica del segmento in questione, metten-done a fuoco singoli aspetti rappresentativi. Ciò emerge con chiarezza dalla scelta dei saggi, aventi come oggetto evidenze storico-archeologiche tra loro ben distinte per rinomanza, cronologia, nonché per tipologia.

Alla luce di tale articolazione del lavoro, del tutto comprensibile è la presen-za preliminare di due contributi volti ad un inquadramento generale dell’antico percorso stradale. In quello di apertura, La via Flaminia antica più vicina a Roma: stato dell’arte e prospettive future (pp. 17-25), a firma del curatore Fabrizio Visto-li, l’attenzione è puntata sulle condizioni della via Flaminia in epoca moderna, per la ricostruzione delle quali l’autore del saggio privilegia, nella copiosa documenta-zione disponibile, un documento tutt’altro che scontato: si tratta dell’Iter Italicum, pregevole resoconto di un viaggio in Italia compiuto, durante il pontificato di Si-sto V (tra il 1587 ed il 1588), dall’erudito olandese Arnoldus Buchellius, al secolo Aernout van Buchell (1565-1641) (3). Come giustamente rilevato nell’articolo, l’im-magine della Consolare desumibile dalle pagine di questo dotto diario di viaggio è per certi versi contrastante: da un lato infatti, si segnala il discreto stato di con-servazione dell’antica sede stradale in diversi punti, ma, dall’altro, se ne denuncia il deplorevole degrado, evocando quella lunghissima stagione di abbandono ed in-curia che interesserà l’antica via Flaminia fino ad anni recenti, ovvero fino agli in-terventi di studio e salvaguardia messi in atto, a più riprese a partire dal 1980, dal compianto Gaetano Messineo (4) (a cui il volume è avvedutamente dedicato): inter-

(2) Si segnala, da ultimo, in relazione alle recenti scoperte effettuate tra il V e il VI miglio della Consolare, il saggio di D. rossi - g. l. gregori, Recenti ritrovamenti tra il V e il VI miglio dell’antica via Flaminia: un tratto di viabilità e l’adiacente area necropolare, in «Atti della Pontificia Accademia Roma-na di Archeologia, s. III, Rendiconti», LXXXII (2009-2010), pp. 109-128, con contenuti per larga par-te confluiti nella successiva monografia descrittiva: Sulla via Flaminia. Il mausoleo di Marco Nonio Ma-crino, a cura di D. Rossi, Milano 2012.

(3) La bibliografia sull’umanista olandese indicata nel volume in esame (p. 24) può essere ulteriormente integrata con i seguenti titoli: l. A. vAn lAngerAAd, Het leven van Arend van Buchell, in Diarium van Arend van Buchell (Werken uitgegeven door het Historisch Genootschap, s. III, 21), a cura di G. Brom - L. A. van Langeraad, Amsterdam 1907, pp. i-xCiii; j. s. PollmAnn, Another road to God. The religious development of Arnoldus Buchellius (1565-1641), Amsterdam 1988; eAd., Religious Choice in the Dutch Republic. The Reformation of Arnoldus Buchelius (1565-1641), Manchester 1999; s. lAngereis, Geschiedenis als ambacht. Oudheidkunde in de Gouden Eeuw. Arnoldus Buchellius en Petrus Scriverius, Hilversum 2001.

(4) Prima nel ruolo di funzionario di zona e successivamente in quello di Soprintendente aggiun-to presso la Soprintendenza Archeologica di Roma (1980-2010). Alla ricostruzione della figura umana e professionale del benemerito studioso siciliano (Petralia Soprana, 1943 - Roma, 2010) hanno contribuito finora le commemorazioni di A. giuliAno, Gaetano Messineo (1943-2010), in «Atti della Pontificia Acca-demia Romana di Archeologia, s. III, Rendiconti», LXXXIII (2010-2011), pp. 459-464; f. visToli, Gae-tano Messineo. In memoriam, in «Tomba di Nerone». Toponimo, comprensorio e zona urbanistica di Roma Capitale. Scritti tematici in memoria di Gaetano Messineo (Fors Clavigera, 2), a cura di F. Vistoli, Roma 2012, pp. 19-23; f. rAnieri, Gaetano Messineo: appassionato custode del patrimonio storico-archeologico

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RECENSIONI 489

venti che, focalizzandosi sul recupero di tre notevoli poli archeologici (Grottaros-sa, Villa di Livia a Prima Porta, Malborghetto), si riveleranno fondamentali ai fini di una concreta valorizzazione del tratto extraurbano della prestigiosa arteria stra-dale romana ricadente entro i confini del Comune di Roma.

Nel secondo contributo, «G. Flaminius censor viam Flaminiam muniit». Ge-nesi e storia della via Flaminia (pp. 27-47), l’archeologo Francesco Laddaga pas-sa a considerare la situazione antica, soffermandosi preliminarmente sulle caratte-ristiche tecniche, sulle modalità esecutive delle antiche vie romane, nonché sulla notoria efficienza che ne caratterizzava l’organizzazione. A questo funzionale com-pendio introduttivo delle nostre conoscenze in materia di viabilità antica, segue un paragrafo centrale (pp. 32-37) dedicato alla genesi ed allo sviluppo storico della via Flaminia a partire dalla sua creazione intorno al 220 a.C. ad opera del magistra-to C. Flaminio Nepote. Questi, nella prospettiva di «rendere accessibili nuove ter-re da colonizzare e coltivare» (p. 32), curò la realizzazione di questo nuovo stra-tegico percorso, diretto verso il nord-est della Penisola, riunendo e regolarizzando vari tratti di strade già esistenti.

Di seguito si ha una congrua ricostruzione delle tappe della Consolare che, come è noto, usciva da Roma per la porta Fontinale del recinto serviano, e suc-cessivamente, allorché il territorio urbano venne delimitato dalle mura Aureliane, dalla porta Flaminia (odierna Porta del Popolo). Dopo un breve tratto in comu-ne con la Cassia, se ne distaccava appena oltrepassato Ponte Milvio; attraversava quindi l’Agro Falisco, l’Umbria e arrivava al Mare Adriatico, proseguendo poi lun-go la costa sino a Rimini (5).

Del tracciato in questione (lungo poco più di 220 miglia) Laddaga non manca di rammentare la spiccata funzionalità nel contesto degli antichi collegamenti stra-dali (tale da trovarlo non di rado anteposto al più diretto percorso dell’Aurelia), ma, soprattutto, esalta come dato ricorrente la rilevanza, l’indiscusso prestigio rico-nosciutogli nell’antichità: peculiarità (oppure caratteristica) quest’ultima che, come debitamente sottolinea to nel successivo excursus storico, risalterà spesso e volentie-ri anche nelle innumerevoli vicende dei secoli successivi, quando il tratto suburba-no della Flaminia rivestirà un ruolo significativo nella storia del Papato, ora come agognato ingresso all’Urbe per numerosi Romei, ora come scenario dell’arrivo del-la venerata reliquia del capo di S. Andrea (1462) o dell’ingressus, non meno noto, di Cristina di Svezia nel 1655.

Il paragrafo conclusivo (pp. 39-43), con una sintetica rassegna delle principa-li emergenze archeologiche collegate al territorio in esame, prelude al succitato ta-glio monografico che contraddistingue gli articoli successivi.

Nel terzo saggio, La via Flaminia non più «devia spinis et terra alte obruta». Due casi esemplari: gli horti di Ovidio e il mausoleo di Tor di Quinto, affidato alla

d’Abruzzo, ibidem, pp. 25-31; e ancora di f. visToli, Ricordo di Gaetano Messineo, amico e maestro, in Gaetano Messineo, archeologo e madonita, a cura di E. Messineo, Palermo 2013, pp. 98-110.

(5) Riguardo al tracciato complessivo dell’antico iter è il caso di menzionare le belle tavole a colo-ri (nn. 4-5, pp. 10-11) poste a corredo del volume di g. Binder, Von Rom nach Rimini. Eine Reise auf der Via Flaminia, Mainz am Rhein 2008.

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ALESSANDRO LOCCHI490

penna di Fabrizio Vistoli (pp. 49-111), l’analisi di due distinte architetture romane costituisce l’occasione per soffermarsi su alcune affascinanti personalità di epoche diverse connesse, a vario titolo, alla Consolare, nonché su due significative espe-rienze di scavo e valorizzazione dei tesori dell’antica via.

La prima ci viene introdotta dalla felice ricostruzione di una delle componen-ti topografiche che, in epoca imperiale, caratterizzavano il territorio in prossimità di Ponte Milvio, ovvero la concentrazione di horti, di lussuose residenze private. Tra queste spicca per notorietà la proprietà suburbana di Publio Ovidio Nasone, da lui nostalgicamente rievocata, a più riprese, all’interno della produzione poe-tica cronologicamente inquadrabile all’indomani della condanna all’esilio sul Mar Nero, comminatagli da Augusto nell’8 d.C.

È proprio sulla base dei riferimenti letterari in questione che si è potuta pro-porre una plausibile identificazione della vagheggiata dimora del poeta sulmonese con un gruppo di ambienti individuati nella primavera del 2000 ai piedi della co-siddetta collina Fleming, a seguito di indagini archeologiche collegate alla costru-zione di nuovi edifici comunali.

A questo punto, rifacendosi dichiaratamente agli importanti contributi scien-tifici del responsabile dello scavo, Gaetano Messineo, Vistoli si sofferma sulla con-figurazione generale del complesso riportato in luce, descrivendolo come un «ca-sino delle delizie» (p. 56), ovvero come un padiglione estivo (riconducibile ad un più esteso impianto residenziale) con una canonica articolazione planimetrica ca-ratterizzata da una probabile corte scoperta delimitata, su due lati, da una serie di vani, oscillante come datazione tra il I sec. a.C. ed il I d.C.

Del tutto adeguato è lo spazio riservato alla descrizione dell’apparato decora-tivo e, in particolare, al ritrovamento più cospicuo effettuato nel corso degli sca-vi (pp. 56-60): un bel pavimento musivo (cronologicamente successivo alle strut-ture della domus: metà I sec. d.C.) con motivo cosiddetto a scudo di triangoli, in bianco e nero, ed emblema centrale in finissimo opus vermiculatum con un busto di Sileno. Tenendo conto che, come sottolineato nell’articolo, difficoltà di ordine pratico comportarono il reinterramento delle strutture antiche, tale notevole tap-peto musivo (esposto tra il 2006 ed il 2007 nella mostra Roma: memorie dal sotto-suolo, tenutasi a Roma presso le Olearie Papali) costituisce di fatto la testimonian-za di maggiore evidenza di questo interessante contesto archeologico.

Abbandonati gli Horti ovidiani, a p. 62, l’autore del saggio ci riporta indietro di oltre un secolo rispetto alla data della scoperta fin qui ricordata, vale a dire agli ultimi giorni del dicembre 1875, quando scavi condotti da privati ai Prati di Tor di Quinto portarono al rinvenimento di numerosi e pregevoli frammenti architetto-nici in marmo che, dopo vari passaggi di proprietà, finirono dimenticati nel corti-le della bottega dell’antiquario Augusto Cecchi (presso piazza del Popolo). Artefi-ce del loro successivo recupero fu il veneziano Giacomo Boni (1859-1925) (6), nella

(6) L’attenzione sull’attività scientifica di Boni a Roma nei decenni a cavallo tra Ottocento e Nove-cento è oggi più che mai viva; a tale proposito, in aggiunta alle indicazioni bibliografiche “mirate” pre-senti nel volume, si segnalano: A. PAriBeni, Giacomo Boni e il mistero delle monete scomparse, in Mar-moribus vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi (Studi di antichità cristiana, 63), a cura di O. Brandt e Ph. Pergola, Città del Vaticano 2011, pp. 1003-1023; P. s. sAlvATori, Liturgie immagina-

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RECENSIONI 491

cui brillante carriera nel campo dell’archeologia romana – come viene giustamen-te messo in risalto nel contributo – figura, come esperienza isolata, quella di re-sponsabile dell’allestimento della villa di rappresentanza del barone Alberto Blanc (1835-1904), lungo la via Nomentana. Nell’ambito di tale sistemazione, nel 1896, l’illustre architetto/archeologo ebbe l’idea di inserirvi anche i frammenti marmo-rei ritrovati a Tor di Quinto, opportunamente assemblati ed integrati a formare un torrione circolare con coronamento merlato.

Le preziose notazioni tecniche formulate dal Boni in tale occasione sotto for-ma di appunti si sono rivelate fondamentali ai fini dell’individuazione dell’origina-rio contesto di provenienza del rivestimento marmoreo in esame: si tratta del nu-cleo in cementizio di una struttura funeraria, tuttora conservata in situ presso il Poligono di Tiro a Segno Nazionale di viale Tor di Quinto a Roma. Di tale «rude-ro di scaglioni di tufo cementati in pozzolana», successivi interventi (saggi di sca-vo, rilievi, accurati controlli autoptici), senza trascurare la comparazione con altri monumenti similari, hanno consentito di definire l’esatta configurazione (un basa-mento parallelepipedo sormontato da una coppia di tamburi gemelli), nonché di stabilire la datazione in epoca claudia (7).

Degna di nota è anche la presenza, in calce al contributo, di una ricca appen-dice documentaria, articolata in due sezioni: la prima (pp. 88-93) con un’esaustiva raccolta di testimonianze antiche e moderne relative agli Horti di Ovidio ed alla loro ubicazione (8); la seconda (pp. 94-111) con la trascrizione della documentazione archivistica concernente, per lo più, le comunicazioni intercorse (negli anni 1875-1876) tra gli uffici – centrali e periferici – dell’Amministrazione statale postunitaria, a cui risultava demandato il controllo sulle specifiche iniziative condotte dai priva-ti appaltatori in relazione a quello che nella letteratura scientifica è generalmente conosciuto come il «Mausoleo a tamburi gemini» di Tor di Quinto (9).

te: Giacomo Boni e la romanità fascista, in «Studi Storici. Rivista trimestrale dell’Istituto Gramsci», 53, 2 (2012), pp. 421-438.

(7) Dello specifico mausoleo di Tor di Quinto e del tipo cui afferisce si è occupato da ultimo anche e. A. sTAnCo, Il mausoleo degli Acilii Glabriones ad Alife e i sepolcri a tamburo su podio con camera co-perta a cupola (I quaderni di Oebalus, 4), Roma 2013, pp. 20, 26 e passim, fig. 123.

(8) Al riguardo è da specificare che si tratta di documenti rari ma non certo del tutto inediti, la cui scelta rimanda espressamente agli utili riferimenti topografici (in essi rintracciabili) a sostegno dell’iden-tificazione degli ambienti scavati con la proprietà suburbana del Poeta sulmonese. Nel novero delle ar-gomentazioni connesse con tale questione topografica, debitamente enfatizzata nel saggio (pp. 52, 89), è la prossimità degli Horti ovidiani al percorso dell’arcaica processione dei Robigalia, in relazione alla qua-le sia consentito di rinviare anche al seguente articolo di chi scrive: “Lucus Robiginis in Acqua Traversa”. Un antichissimo culto al V miglio della via Clodia, in Emergenze storico-archeologiche di un settore del su-burbio di Roma: la Tenuta dell’Acqua Traversa. Atti della Giornata di Studio, Roma 7 giugno 2003, a cura di F. Vistoli, Roma 2005, pp. 151-170. Sul tema vedi anche f. visToli, Roma (Via Cassia, loc. Acquatra-versa). Insediamento etrusco sulla Collina INA, in «Notizie degli Scavi», s. IX, XIX-XX (2008-2009), p. 150, nota 37; id., Nota di aggiornamento critico e bibliografico sui Robigalia, in «La Parola del Passato», LXIV, 1 (2009), in partic. pp. 43-46.

(9) Anche in questo caso, tra le pieghe della documentazione è possibile rintracciare notazioni di un certo interesse inerenti, per esempio, all’apparato decorativo del Mausoleo: grazie a più di un docu-mento (cfr. i nn. 19-25 alle pp. 107-111), siamo così edotti circa l’originaria pertinenza ad esso di statue funerarie nonché dei frustuli dell’iscrizione dedicatoria (titulus), elementi attualmente dispersi.

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ALESSANDRO LOCCHI492

Con il saggio successivo, a firma della storica dell’arte Maria Pia Partisani, Le galline e gli allori dell’«Ulisse in gonnella». Note sulla villa di Livia ad Gallinas al-bas (pp. 113-142), il lettore viene allontanato decisamente dall’Urbe e portato al nono miglio della via Flaminia, al cospetto di quelle che, nei secoli passati, si pre-sentavano come imponenti rovine, di oscura attribuzione, situate in posizione do-minante rispetto alla valle del Tevere e al sottostante borgo medievale di Prima Porta. Come ricorda l’autrice, fu solamente all’inizio del XIX secolo, nell’ambi-to delle dotte disquisizioni sulla Campagna Romana di Giuseppe Antonio Guatta-ni (per primo) e di Antonio Nibby e Luigi Canina (successivamente), che si arrivò alla corretta identificazione di quelle antiche strutture con una prestigiosa dimora extraurbana ubicata alle propaggini dell’ager Veientanus e legata alla terza moglie di Augusto, Livia Drusilla (10).

Al riconoscimento del praedium imperiale seguì, a qualche decennio di distan-za, una fortunata campagna di scavi (intrapresa nel marzo 1863 dal conte Fran-cesco Senni), i cui importanti ritrovamenti sono oggetto di un’attenta descrizione nei tre paragrafi successivi (pp. 114-122): la celeberrima statua loricata di Augusto (cosiddetto Augusto di Prima Porta), esposta nel Braccio Nuovo dei Musei Vatica-ni; un cratere neoattico in marmo con scene del mito di Licurgo (Musei Vaticani, Galleria dei Candelabri); nonché l’arcinota decorazione pittorica di una sala semi-ipogea con la raffigurazione di un lussureggiante giardino, rimossa, per motivi di conservazione, dalla sede originaria nel 1951 e trasferita nel Museo Nazionale Ro-mano (attualmente visibile a Palazzo Massimo).

In ossequio al taglio discorsivo via via assunto dalla sua dissertazione, la Par-tisani premette all’illustrazione specifica della sontuosa dimora una serie di appro-fondimenti tematici dedicati ai giardini delle ville d’otium (pp. 122-125), alle carat-teristiche generali del vivere in villa (pp. 125-130), nonché alla discussa personalità di Livia ed al suo rapporto con Augusto, ricostruiti attraverso un’attenta disamina delle fonti antiche (pp. 130-133).

Ugualmente ben supportato da testimonianze letterarie è il paragrafo succes-sivo (pp. 133-137) nel quale, affrontando il caso specifico della proprietà ad Gal-linas albas, se ne ripercorrono la genesi e (a dire il vero, troppo sinteticamente) le trasformazioni successive. Se l’epilogo dell’articolo (pp. 139-142), nel quale si propone al lettore uno schematico percorso di visita all’interno del complesso ar-cheologico, non brilla particolarmente per originalità, assai più rimarchevole è la consueta appendice documentaria (pp. 149-153) che include testimonianze “lette-rarie” e giornalistiche poco note ma di notevole interesse, riguardanti, a vario ti-tolo, la villa di Livia.

Il saggio di chiusura del volume, «Illo die hostem Romanorum esse periturum». Da Ponte Milvio a Malborghetto: la battaglia di Saxa Rubra e la conversione di Co-stantino (pp. 154-182), ancora di Francesco Laddaga, è significativamente incen-trato su due distinte emergenze monumentali, accostate in forza del comune rife-rimento storico allo scontro decisivo tra Costantino e Massenzio ad Saxa Rubra del

(10) Si tratta della villa nota anche sotto il toponimo ad Gallinas albas per via di un notissimo evento prodigioso ivi localizzato, per l’illustrazione del quale si rinvia al tomo in esame (pp. 134 e seguenti).

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RECENSIONI 493

312 d.C.(11), ma anche della posizione di confine rispetto al vasto territorio in esa-me: Ponte Milvio e Malborghetto.

Relativamente all’economia dello scritto è da osservare che, se la presentazio-ne del celebre ponte romano (pp. 155-157) si esaurisce di fatto in un sintetico ex-cursus sulla sequenza di eventi storici che lo videro protagonista (dalla probabile rea lizzazione all’indomani della conquista di Veio, nel 396 a.C., alla ristrutturazio-ne proto-ottocentesca commissionata da Pio VII Chiaramonti), comprensibilmen-te più ampio (in considerazione della minore notorietà) è lo spazio riservato al se-condo sito (pp. 157-163). Dell’imponente costruzione, ubicata al XIII miglio della Consolare, si ripercorrono le numerose vicissitudini e le varie trasformazioni che lo interessarono attraverso i secoli fino all’acquisizione da parte dello Stato Italiano nel 1982 (12), che segnò per Malborghetto l’esordio di una stagione felice, caratteriz-zata da un’intensa attività di studio e di tutela, nonché dall’allestimento, all’inter-no della storica struttura, di un piccolo contenitore museale adibito ad accogliere reperti provenienti da alcuni siti delle consolari Cassia e Flaminia.

Qualche decennio prima, agli inizi del Novecento, si era giunti ad una corretta interpretazione del monumento: fondamentali, a tale riguardo, gli studi del tedesco Fritz Töbelmann (1874-1914) il quale, confermando una ricostruzione cinquecen-tesca di Giuliano da Sangallo, vi riconobbe un arco quadrifronte di tipo celebrati-vo che datò, sulla base della tecnica edilizia, agli inizi del IV sec. d.C.

Tali decisivi rilievi (tuttora ritenuti sostanzialmente validi) lo portarono a ricol-legare la sua edificazione all’avvenimento più importante che, in quel periodo, in-teressò la zona: il già menzionato conflitto tra Costantino e Massenzio.

Il riferimento storico in questione si trova approfondito nel paragrafo con-clusivo (pp. 164-170), interamente dedicato alla figura del figlio di Costanzo Clo-ro, del quale però non s’intende tracciare un ennesimo esaustivo profilo biografi-co (13): l’attenzione è focalizzata piuttosto sulle ben note caratteristiche sovraumane tramandate a proposito della battaglia ai Saxa Rubra e, consequenzialmente, sulla vexata quaestio dell’atteggiamento e delle deliberazioni di Costantino nei confron-ti della religione cristiana (14).

(11) Sulla cosiddetta battaglia di Ponte Milvio, indagata sotto molteplici aspetti, si veda ora il volu-metto di taglio divulgativo 312 d.C. Un ponte tra antichità e medioevo. La Roma di Massenzio e Costan-tino, a cura di M. Munzi e S. Zeggio, Roma 2012.

(12) La plurisecolare storia del complesso tardoantico (nonché della proprietà circostante) si trova ora, per larga parte, meticolosamente ricostruita, grazie a preziose fonti archivistiche, nel recente lavoro di A. gAuvAin, Il Capitolo di San Pietro in Vaticano dalle origini al XX secolo. II: Il patrimonio (Archi-vum Sancti Petri, I.2), Città del Vaticano 2011, pp. 319-323.

(13) La monumentale bibliografia sull’argomento, largamente richiamata nell’articolo di Laddaga, è ora arricchita dai due cataloghi della fortunata esposizione tenutasi nelle sedi di Milano e Roma tra l’ot-tobre 2012 ed il settembre 2013: Costantino 313 d.C., a cura di G. Sena Chiesa (Milano 2012) e M. Bar-bera (Milano 2013).

(14) In merito si veda ora g. BonAmenTe, Per una cronologia della conversione di Costantino, in Co-stantino prima e dopo Costantino (Munera, 35), a cura di G. Bonamente, N. Lenski e R. Lizzi Testa, Bari 2012, pp. 89-111; m. WAllrAff, In quo signo vicit? Una rilettura della visione e ascesa al potere di Co-stantino, ibidem, pp. 133-144.

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A. LOCCHI : RECENSIONI494

Anche nel caso di quest’ultimo saggio, non manca, a mo’ di corollario, una raccolta di documenti utili a lumeggiare singoli momenti rilevanti nella storia dei due monumenti.

Alla luce di quanto finora osservato, si può senz’altro concludere che questo interessante lavoro sulla via Flaminia, oltre ad una indubbia validità sul piano dei contenuti, risulta del tutto in linea col predetto carattere didascalico della collana cui appartiene: a ciò rimanda in primis la scelta di affrontare una tematica stori-co-topografica particolarmente ponderosa e dai molteplici addentellati, puntando su alcune macrocategorie specificate nel sottotitolo del volume (storia-luoghi-per-sonaggi) in seno alle quali isolare ed approfondire singole figure o vicende stori-che, più o meno note, ma comunque rappresentative dello specifico contesto area-le prescelto.

È da segnalare altresì che l’impostazione sobria e nello stesso tempo invitante dell’opera non va affatto a detrimento del valore scientifico della stessa: indicativi al riguardo appaiono il più volte enfatizzato insieme di appendici documentarie, cariche di preziosi (perché inediti) ragguagli, nonché il poderoso (e generalmente aggiornato) corredo bibliografico che accompagna i vari contributi del volume (15).

Un cenno conclusivo va riservato anche al corposo apparato di immagini, pian-te e ricostruzioni, tra le quali spiccano diverse rare vedute storiche del compren-sorio in esame.

AlessAndro loCChi

sTefAno ColonnA, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Gangemi, Roma, 2012, pp. 464 (*).

Ringrazio il nostro Presidente e vorrei dire che sono veramente felice di vedere questo libro di Stefano Colonna, che da lunghi anni (non so se venti, trent’anni da quando io lo conosco e da quando ho pubblicato sull’Hypnerotomachia Poliphili) fa ricerche che confortano l’ipotesi della romanità del Polifilo, osteggiata nei modi più villani da personaggi come il compianto filologo Pozzi, ma anche da questi re-centi curatori della cosiddetta “traduzione” (termine improprio perché avrebbero dovuto dire traduzione in italiano moderno), che hanno sposato senza esitazione la tesi del Pozzi il quale, nel 1964, aveva pubblicato un’edizione moderna del Polifilo in due volumi, uno di testo e uno di note, dando per assolutamente certa l’attribu-zione al Francesco Colonna frate dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia.

Quando io l’anno dopo, senza aver conosciuto il libro di Pozzi, scrissi l’artico-lo su «Europa Letteraria» in cui sostenevo la paternità non del Francesco Colon-

(15) Alla letteratura sull’antica strada e questioni connesse sono dedicate, infatti, oltre venti pagine, ovvero più del 10% del contenuto totale.

(*) Testo letto durante la presentazione del volume presso l’Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma, 5 novembre 2014; la trascrizione dalla registrazione è stata curata da Alessandra Bertuzzi.

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RECENSIONI 495

na frate dei Santi Giovanni e Paolo, ma del Francesco Colonna signore di Palestri-na, principe della nobile casata dei Colonna, voglio ricordare che debbo a Lorenza Trucchi l’invito a scrivere per questa rivista che era allora diretta da Giancarlo Vi-gorelli; quest’ultimo, letto l’articolo, aderì con entusiasmo a questa nuova ipotesi sull’autore romano e non veneziano.

Non seguirono altri commenti finché qualche anno dopo uscì la Storia della Letteratura di Salvatore Battaglia che, in alcune pagine splendide dedicate al Poli-filo, non solo avallò la mia attribuzione ma descrisse con parole appropriate e ap-profondite questo libro straordinario che a giusto titolo viene considerato il più bel libro del Rinascimento, secondo alcuni il più bel libro mai stampato (affermazio-ne forse un po’ esagerata) affermando: «non vedo altra possibilità di ambientazio-ne di ciò che descrive Francesco Colonna se non a Palestrina», come io indicavo, trovando quindi estremamente pertinenti tutte le mie indicazioni.

A quel punto si scatenò l’emerito filologo compianto Giovanni Pozzi comin-ciando questa polemica contro di me a base di insulti, che poi è stata continuata in maniera ancora più cruenta e villana da questi due ragazzotti che hanno pub-blicato l’edizione critica del Polifilo aderendo alla tesi del Pozzi. Io mi meravigliai perché uno di questi, cioè Mino Gabriele, era stato fino all’anno prima mio as-sistente all’università e diceva di condividere l’attribuzione al Polifilo romano. Se non che poi, e forse questa è una delle ragioni per cui cambiò idea, essendo con-sulente editoriale di “Adelphi” appunto Giovanni Pozzi e pubblicare da Adelphi era per i giovani una occasione straordinaria, molti aderirono a questa tesi venezia-na; ma, ripeto, riempiendomi di insulti veri e proprî ai quali io ho risposto in varie forme e con varî articoli. Con il tempo, direi che l’opinione qualificata si è adesso orientata verso la tesi indiscutibile del Polifilo romano grazie anche all’opera svol-ta da Stefano Colonna che per tutti questi anni – dal 1985 (quando ci siamo co-nosciuti) – ha sempre fatto ricerche sull’ambiente di Francesco Colonna, sull’am-biente romano ma anche veneziano, bresciano di Francesco Colonna che rimane indubbiamente un enigma, nel senso che nessuno poi nel Rinascimento, pur aven-do saccheggiato a livello iconologico l’Hypnerotomachia Poliphili, nominò mai l’au-tore (Rabelais con mia grande sorpresa, nel suo Cinquième Livre saccheggia il testo di Francesco Colonna in un modo incredibile, parafrasandolo per pagine e pagine: evidentemente aveva molta ammirazione per Francesco Colonna). Inoltre, bisogna pensare che il figlio di Francesco Colonna (che si chiamava Stefano Colonna come l’autore del nostro libro) era stato alla corte del re in Francia e quindi doveva aver avuto modo di propagandare il libro di suo padre e crearne adepti.

Data questa premessa il contributo di Stefano è veramente importante perché crea un telaio, una trama di nomi, di conoscenze, di parentele, di rinvii da un au-tore all’altro che costituisce un terreno di cultura importantissimo, fondamentale anche per futuri studî che sicuramente ci saranno. E appunto il libro di Colonna è difficile da riassumere perché è tutta una sequela di nomi, di intrecci, di paren-tele, di cariche, di spostamenti da città a città che è quasi impossibile memorizza-re. Il testo inizia con un confronto molto bello con Enea Silvio Piccolomini che aveva scritto sulla Fortuna (parallelo che io stesso avevo accennato), ma Stefano si addentra nell’opera di Enea Silvio Piccolomini minuziosamente estraendone tutto il succo utile alla nostra ricerca. Gli interi testi che vengono citati nel libro sono

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MAURIZIO CALVESI496

poi riportati in Appendice per intero, secondo una metodologia critica che Colon-na ha adottato anche nel suo bellissimo libro sulla Galleria dei Carracci, libro che dimostra, tra l’altro, come Stefano non sia un “topo da archivio” ristretto su oriz-zonti archivistici e senza capacità di uno sguardo allargato all’arte, perché La Gal-leria dei Carracci in Palazzo Farnese a Roma è un libro veramente straordinario e bellissimo, che svela anche qual è il vero significato della Galleria: il matrimonio tra i due protagonisti eccetera. Questo non c’entra niente col Polifilo, ma lo dico per ricordare che Stefano Colonna non va visto come è stato purtroppo visto dai soliti professori ignoranti, che formano le commissioni di concorso e che lo hanno magari bocciato in una o più occasioni. Adesso è ricercatore a Roma, ma poteva esserlo ormai da tanti anni avendo da tempo manifestato il suo valore.

Dunque, il libro si compone di una prima parte, Le radici del Polifilo, dedica-ta ai rapporti tra Francesco Colonna ed Enea Silvio Piccolomini: Due sogni a con-fronto; Sviluppi del Somnium de Fortuna a Roma e a Siena, a confronto, anche con la visione paradisiaca del libro del Piccolomini in cui, appunto, Stefano nota le af-finità con il giardino dell’isola dell’Hypnerotomachia Poliphili.

Su Martino Filetico, altro umanista dell’epoca, Stefano ha fatto una scoper-ta abbastanza interessante, cioè che nel suo testo a un certo punto appare la pa-rola greca polufila che significa “molteplicità di amicizie”, termine che non ve-niva assolutamente usato negli ambienti del Rinascimento e quindi fa pensare ad un rapporto di Francesco Colonna con l’ambiente di Martino Filetico, il quale pe-raltro (scopre Stefano Colonna) era stato il maestro di Giovanni Colonna, ovve-ro il cugino cardinale di Francesco Colonna e da qui il nostro Stefano (lo chiamo sempre Stefano perché se dico “il Colonna” non si capisce a chi mi riferisco … va bene che anche “Stefano” crea una certa confusione perché il figlio di Fran-cesco si chiamava Stefano), ma Stefano Colonna qui presente indaga la personali-tà di Martino Filetico, ne fa una breve biografia e poi nota come la sua descrizio-ne delle Tre Grazie, questa famosa scultura ellenistica che oggi è a Siena (prima in casa Colonna), viene fatta in parole che richiamano la descrizione delle Tre Grazie del Sogno di Polifilo, facendo anche diversi raffronti fino ad arrivare ad ipotizza-re (secondo me con buon fondamento) che anche di Francesco Colonna Martino Filetico fosse stato l’istruttore, il precettore, essendolo stato già per Giovanni Co-lonna e, dati i rapporti, probabilmente lo fu anche di Francesco. Quindi ecco un altro punto molto importante messo a segno dal nostro Stefano.

Segue poi un altro capitolo su Francesco Colonna e Giovanni Pontano, con la descrizione del tempietto del Pontano a Napoli che era una specie di monu-mento dove venivano ricordati i nomi di molti umanisti, e poi vengono riporta-ti alcuni inediti come, per esempio, una epistola di Francesco Colonna a Gentile Virginio Orsini del 1494 che è molto importante anche perché è l’unica scrittu-ra autografa di Francesco Colonna che noi conosciamo e quindi, come giustamen-te Stefano Colonna dice, nel caso in cui dovessero emergere manoscritti eccetera, questa base calligrafica sarebbe di aiuto e di conforto. In questa lettera si parla-va di una questione di armi, in quanto Francesco Colonna era tra l’altro un mili-tare, un capo pattuglia di Palestrina e quindi godeva di una certa entratura anche nel mondo militare, benché di natura fosse estremamente mite come dimostra-no varî fatti come la sopportazione di cui diede prova quando il terribile Alessan-

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dro VI gli sequestrò Palestrina e tutti i suoi territori e il Colonna non fece nulla, se non andare da un notaio per lamentarsene tramite dichiarazione notarile, cosa che, dopo la morte di Alessandro VI (ai primissimi del Cinquecento), gli consen-tì di recuperare Palestrina.

Nel libro sono poi presenti altre indagini, per esempio sull’Accademia dei Ver-tunni e i rapporti con Vosonio, Mantegna e Pomponio Leto, dei confronti tra l’Ac-cademia dei Vertunni e l’Hypnerotomachia e poi di seguito tutti gli Epigrammi di Johannes Stephanus Vosonius pubblicati a Brescia nel 1499 circa, che costituisco-no un elenco di venti pagine con tutti nomi di umanisti, tra cui non c’è quello di Francesco Colonna ma che offre un panorama molto importante come base per fu-ture ricerche. Segue poi la descrizione del giardino rinascimentale dell’Hypneroto-machia Poliphili ispirato come accennavo dal Somnium de Fortuna di Eneo Silvio Piccolomini, le speculazioni sul concetto di Fortuna, dea dalla doppia faccia, ora tremenda e vendicativa, ora lieta e favorevole, con varî esempi storici.

Poi c’è una seconda parte del libro, denominata Gli influssi del Polifilo, nel-la quale si parla degli interessi epigrafici di Giovanni Colonna, cugino di France-sco Colonna e di Evangelista Maddaleni Capodiferro che era (deduce giustamente Stefano Colonna) il segretario del cardinale Giovanni Colonna e che quindi dove-va essere in rapporto anche con Francesco. Segue tutta una descrizione della Ba-silica, del primitivo insediamento monastico, delle fortificazioni fino ai lavori del Settecento e alle sorti di questa abbazia nel XIX e nel XX secolo.

Poi c’è una discussione su questa epigrafe, questa dedica che si trova su una copia dell’Hypnerotomachia che dice «Francesco de virtù ferma colonnula», ma l’autore è Sisto Medici, il quale era un confratello, una pars magna della Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, per il quale Pozzi scrisse un articolo entu-siasta a riprova del fatto che si trattasse del Francesco Colonna veneziano (1). Giu-stamente qui il nostro Stefano Colonna fa notare che l’aggettivazione «ferma co-lonnula» era riservata ai membri della famiglia Colonna, come anche nella stessa Hypnerotomachia ci sono delle pagine introduttive nelle quali si parla di «France-sco alta Colonna», cioè aggettivi «ferma colonnula», «alta colonnula» che deno-tano un membro della famiglia Colonna. Vi è infine una quantità di altre notizie, tra cui appunto un ritorno alla polufila, ovvero questa parola greca che si tro-va nel testo di Martino Filetico, messa in bocca a Battista Sforza. Poi seguono al-tri intrecci di parentele, di affinità culturali con Achille Bocchi, Alberto III Pio da Carpi, fino ad Erasmo da Rotterdam.

La parte terza è intitolata proprio a Francesco Colonna, Francesco Colonna si-gnore di Palestrina, dove si discute appunto sull’appellativo di « frater» perché una delle ragioni per cui non veniva accolta l’attribuzione romana era che l’acrostico dell’Hypnerotomachia dice: «Frater Franciscus Columna Poliam peramavit» e quin-di se era « frater» era un frate, quindi era il frate veneziano. In realtà questa paro-la « frater» veniva usata in molte forme e già dall’inizio Salvatore Battaglia – che, ripeto, è stato il primo a comprendere l’importanza di questa attribuzione e a de-

(1) e. fumAgAlli, Due esemplari della «Hypnerotomachia Poliphili» di Francesco Colonna, in «Ae-vum», LXVI (1992), pp. 419-422; g. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Milano 1993, pp. 115-117.

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MAURIZIO CALVESI498

dicargli pagine di grande penetrazione – diceva, quanto all’attributo « frater», che si spiega per il fatto che i membri dell’Accademia Romana di Pomponio Leto si consideravano “fratres”. Allora su questo punto io aderisco all’interpretazione del “frater” come membro dell’Accademia, anche se penso si tratti di un doppio sen-so perché, come ha scoperto Stefano Colonna, l’attributo di “frater” veniva riser-vato a Francesco Colonna nella proclamazione del suo canonicato a San Pietro. Io penso sia nel gusto di Francesco Colonna questo del doppio senso, dato che ve ne sono moltissimi di questi doppi sensi naturalmente negati da Pozzi, da Gabriele, da Ariani eccetera, ma poi rinforzati da una serie di confronti. Io continuavo nel mio articolo sopra citato dicendo che restava incerto dove il Battaglia avesse attin-to quest’ultima notizia, cioè che i membri dell’Accademia Romana si consideravano “fratres”, o se invece si trattasse di una sua deduzione al pari della mia dell’appar-tenenza del Colonna ad una confraternitas come quella degli Accademici Romani.

«Recentemente – dicevo – Stefano Colonna, infaticabile ricercatore, ha pub-blicato un documento in cui il protonotaro romano Francesco Colonna è chiamato frater in relazione alla sua qualifica di canonico di San Pietro» (2). In seguito l’ami-co Stefano mi segnalò che Paolo Marsi verso il 1468 indirizzò dei versi «ad fratres accademicos Romae captivos», ovvero ai confratelli dell’Accademia Romana che era-no stati processati e imprigionati (3). Quindi l’unica imprecisione che trovo nel libro di Stefano è che in qualche modo si è dimenticato di quanto lui stesso mi avesse suggerito, ma rimane innegabile che dopo le sue ricerche la questione del “frater” (che era l’ostacolo maggiore) viene annullata del tutto.

L’autore riporta anche per esteso tutti i documenti, cosa singolare per la fati-ca che questo comporta, come la Bolla di nomina di Francesco Colonna romano a canonico di San Pietro, la nomina di Francesco Colonna romano a protonotario apostolico (del 1473) (4) e poi cenni biografici su Filippo Barbarigo di Lorenzo.

Difatti l’autore di questa Bolla di nomina di Francesco Colonna romano a protonotario apostolico partecipante era stata redatta da Filippo Barbarigo di Lo-renzo e allora qui si apre l’ipotesi che questi fosse parente più o meno stretto di quel Barbarigo che era socio di Manuzio a Venezia, il che simboleggerebbe un ul-teriore aggancio.

Io qui ho citato solo alcune di queste “trappole” che Stefano va disseminan-do sul territorio della Hypnerotomachia e poi abbiamo questa Appendice che è ab-bastanza impressionante perché riporta per intero alcuni testi (come lo stesso De Fortuna di Enea Silvio Piccolomini e tutto l’Epigrammatario) ai fini di un amplia-mento futuro delle ricerche.

(2) m. CAlvesi, Ancora per Francesco Colonna, in «Storia dell’Arte», CXXIV (n.s. 24) (2009), pp. 25-30, in partic. p. 28.

(3) Ibidem.(4) La bolla di nomina del pronotariato apostolico partecipante è stata rinvenuta da Stefano Co-

lonna il 14 dicembre 1993, quindi presentata in s. ColonnA, Anteprime documentarie polifilesche, in m. CAlvesi, La pugna d’amore in sogno di Francesco Colonna romano, Roma 1996, pp. 313-317; poi sintetiz-zata in un capitolo del libro Hypnerotomachia Poliphili e Roma, infine pubblicata in s. ColonnA, Fran-cesco Colonna Romano Protonotario Apostolico. Cenni biografici su Filippo Barbarigo di Lorenzo, in «Stu-di Romani», LIX (2011 [ma stampa 2013]), pp. 41-63.

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RECENSIONI 499

Vi sono riportate poi trascrizioni lunghissime di tutta la letteratura anche mo-derna sull’Hypnerotomachia e quindi vi è una parte del libro che consente di con-sultare tutta la più importante biografia di Francesco Colonna senza dover anda-re a ricercare tutti i testi.

Io ho un po’ riassunto, forse male, forse frettolosamente queste ricerche di Ste-fano Colonna che sono durate veramente anni e anni e ogni mese, quando io ero professore a Roma, bussava alla mia porta e mi portava una di queste nuove noti-zie, che poi ha pubblicato in questo volume complessivo che resta una pietra milia-re fondamentale degli studî sull’Hypnerotomachia. Queste ricerche che faceva Ste-fano Colonna erano guardate con una certa sufficienza, debbo dire purtroppo, dai colleghi studenti tutti presi dall’attribuzionismo, dalla pittura: va benissimo, però esiste anche la ricerca d’archivio e anzi la ricerca d’archivio è fondamentale. Inol-tre, come ripeto, esiste anche una prova del valore di Stefano Colonna nel campo della critica e della pittura con il libro sulla Galleria dei Carracci.

Sono quindi molto contento di vedere questa sala affollata che si interessa al libro di questo giovane che veramente direi è una sorta di “eroe” dell’Hypneroto-machia perché ha dedicato tutto il suo tempo, quasi sempre, a queste ricerche, di-mostrando una capacità di ricerca che naturalmente qui viene presentata nei suoi risultati più utili, più clamorosi ai fini della ricerca stessa, ma che ha comportato evidentemente la necessità di consultare migliaia di documenti: un grandissimo la-voro. Non conosco altri storici dell’arte che abbiano mai affrontato una fatica del genere e quindi mi complimento con Stefano e sono lieto di averlo laureato e di averlo difeso dall’indifferenza che inizialmente in Istituto era rivolta alle sue ricer-che quale riflesso della indifferenza o sospetto che si aveva nei confronti delle mie ricerche, cioè quest’attribuzione di Francesco Colonna a Roma: «ma, sarà, e que-sto qua che ci perde tutta la vita dietro …».

Ecco, per questo, quindi, grazie Stefano e tanti auguri.

mAurizio CAlvesi

AlessiA lirosi, I monasteri femminili a Roma tra XVI e XVII secolo, Roma, Viel-la, 2012, pp. 373.

Nel volume di Alessia Lirosi – che rappresenta l’approdo di un percorso di ricerca iniziato, da parte dell’autrice, con lo studio sul monastero di S. Cecilia e la pubblicazione delle Cronache della comunità monastica romana – precisione e ri-gore della documentazione vanno di pari passo con la capacità di far emergere una ricostruzione articolata e problematica del ruolo svolto dalle istituzioni claustrali femminili nell’ambito della Riforma tridentina e nel contesto sociale della città di Roma. Si tratta, come sottolinea Gabriella Zarri nell’ampia prefazione, di un «qua-dro complessivo» e, allo stesso tempo, di «un’indagine minuziosa e a tutto campo» che compie «una sorta di opera di restauro: ricostruire la Roma ‘moderna’ collo-cando entro le mura cittadine quegli imponenti fabbricati adibiti alla fede cattoli-ca e alla educazione femminile che le mutate condizioni culturali e sociali del seco-lo XVIII e l’incipiente secolarizzazione svuotarono progressivamente di contenuto

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ELEONORA DE LONGIS500

e di senso, fino a indurre le autorità civili a decretarne la distruzione o la destina-zione ad altro uso» (p. 7). Una stretta contestualizzazione dei monasteri, dunque, non solo e non tanto della città, ma soprattutto nella città.

A partire dalla dibattuta questione riguardante la nascita delle prime comunità monastiche femminili – che precede secondo alcuni storici la fondazione di quelle maschili – e da una rapida sintesi sull’epoca medioevale, il Cinquecento è individuato come il momento di cesura di una storia millenaria: negli anni compresi tra il Sacco di Roma e l’apertura del Concilio di Trento «le alte gerarchie ecclesiastiche misero in atto un’accorta politica per ricostruire l’immagine della città di Roma e rilancia-re la sua sacralità anche in funzione antiprotestante. […] prendeva corpo nell’Ur-be una vasta opera di protezione e recupero sociale di alcune categorie marginali, o al limite della marginalità, della popolazione» (p. 38). Tale marginalità femminile – prostitute, fanciulle povere e “pericolanti” – fu tra le prime aree destinatarie delle misure di riscatto e protezione sociale, applicate attraverso una complessiva ristrut-turazione delle comunità religiose esistenti. Non tutte le comunità, in realtà, soprav-vissero ai rigori della riorganizzazione tridentina delle comunità monacali, sancita dal Decretum de regularibus et monialibus del 1563 e dai successivi interventi di Pio V. Precedentemente, fino al 1570, si era assistito per lo più alla rifondazione di antichi chiostri, mentre alla fine del secolo iniziarono a sorgere comunità monastiche fon-date su basi nuove, conformi al clima postridentino, per poi sfociare nella stagione di grande rigoglio rappresentata dal Seicento romano. Nel corso del XVII secolo gli insediamenti monastici si diffusero lungo le nuove direttrici create dal riassetto ur-banistico voluto dai pontefici; Monti prima e Trastevere poi furono sedi privilegia-te dell’insediamento di un buon numero di istituzioni claustrali e assistenziali – non solo femminili – cui non fu estraneo, probabilmente, un progetto di disciplinamen-to sociale rivolto a una popolazione residente tradizionalmente riottosa.

Alla fine del XVI secolo a Roma si contavano trentadue comunità; nel cor-so del secolo successivo ne furono fondate ex novo ben ventiquattro. Nel XVIII secolo, scomparsi tre monasteri e una casa pia, la città contava cinquantadue isti-tuzioni femminili, di cui trentasette monasteri di vita contemplativa. In sintesi, il 60% dei monasteri romani era stato fondato nell’arco di dieci secoli, mentre nel solo Seicento ne era sorto più del 40%. Fino alla seconda metà del XVI secolo sia i monasteri di nuova fondazione, sia quelli nati dalla trasformazione di comunità precedenti si rifacevano per lo più alle regole di San Francesco, San Domenico e Sant’Agostino, mentre quelli sorti in seguito, retti da regole particolarmente rigide e improntati alla vita contemplativa, erano nati per opera di ordini di recente co-stituzione. Tutti i chiostri di nuova fondazione tra XVI e XVII secolo furono so-stenuti e protetti da donne appartenenti alle famiglie aristocratiche romane che si ponevano a modello di spiritualità e di devozione femminile, ma in particolare nel Seicento protagonista di tale attività fu il «nuovo patriziato pontificio, che cercò di costituire “monasteri di famiglia” – ove fare entrare innanzitutto le esponenti fem-minili del proprio gruppo parentale – per darsi lustro e legittimare e consolidare la propria recente affermazione pubblica» (p. 63).

La panoramica prende in considerazione soprattutto i monasteri dediti alla vita contemplativa, di cui analizza la composizione sociale e la consistente cresci-ta nel XVII secolo quale effetto della concezione patriarcale della famiglia e della

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RECENSIONI 501

trasmissione patrimoniale patrilineare nel contesto del forte incremento demogra-fico della popolazione europea e della crescita delle ricchezze familiari e – di con-seguenza – delle doti matrimoniali. Il controllo sulle comunità era affidato ai ve-scovi, il che non costituiva un problema nelle città italiane, ma la situazione era particolarmente complessa a Roma, il cui vescovo ordinario era – com’è noto – lo stesso Papa. L’amministrazione di tutti i luoghi pii della città faceva capo al cardi-nale vicario, un compito che si configurava in ogni caso troppo gravoso, tanto che il vicario Marzio Ginetti – che resse l’ufficio del Vicariato dal 1629 al 1671 – isti-tuì, al fine di coadiuvare l’azione del cardinale, la figura di un vescovo Deputato sopra li monasteri di monache. In realtà la gestione dei monasteri femminili fu tea-tro di numerosi conflitti di potere tra i diversi organi di controllo, al punto da ri-chiedere spesso l’intervento del Papa in persona.

Nella seconda parte del volume Lirosi esamina le questioni più strettamen-te attinenti all’organizzazione interna dei monasteri – in particolare all’obbligo di clausura, ribadito dal già citato Decretum de regularibus et monialibus del Conci-lio di Trento –, le relazioni della struttura claustrale rispetto allo spazio urbano e le forme rituali e cerimoniali che scandivano la vita dei chiostri. Lo scarto tra le regole claustrali e i modelli proposti dalla trattatistica e dall’agiografia, da un lato, e la quotidianità e le pratiche religiose – che si desumono dall’esame critico del-le fonti –, dall’altro, è uno snodo di grande interesse. Le cronache, i diari e le au-tobiografie rivelano la presenza non infrequente di personalità mistiche di straor-dinario rilievo, un fenomeno che fu – con ogni probabilità – anche più diffuso di quanto non emerga dalle testimonianze; infatti, benché l’esempio monastico fosse senz’altro un modello di perfezione femminile dominante in epoca controriformi-stica, tuttavia il misticismo e ogni forma di protagonismo religioso erano general-mente malvisti dalle gerarchie ecclesiastiche. Nelle pagine finali l’autrice tratteggia con grande efficacia un quadro della vita monastica animato non solo da profon-de inquietudini, ma da aperti e violenti conflitti, che neppure la documentazione istituzionale riesce a celare, a dimostrazione e conferma «che non sempre i chio-stri erano quelle oasi di pace che si voleva credere» (p. 302).

La notevole appendice sulla cronologia – fondazioni e soppressioni – dei mo-nasteri, conservatori e Case pie femminili dal XVI agli inizi del XVIII secolo e la ricca bibliografia testimoniano la paziente e minuziosa ricerca d’archivio dell’autri-ce, svoltasi – come si è detto in apertura – nel corso di diversi anni. I monasteri femminili a Roma tra XVI e XVII secolo rappresenta indubbiamente un contributo prezioso per la comunità scientifica che, d’ora in poi, non potrà prescindere dalla presente indagine, punto di partenza obbligato per gli studi futuri sull’argomento.

eleonorA de longis

Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, a cura di Giuseppe Antonio Guazzelli, Raimondo Michetti, Francesco Scorza Barcellona, Roma, Viella, 2012, pp. 535.

Il volume nasce da una delle iniziative organizzate per celebrare il quarto cen-tenario della morte di Cesare Baronio, il Colloquio internazionale di studi tenutosi a Roma dal 25 al 27 giugno 2007 presso la Biblioteca Vallicelliana, luogo quanto

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ELEONORA DE LONGIS502

mai adatto a ospitare tale incontro, in quanto in essa si conservano i testi – mano-scritti e a stampa – sui quali Baronio ha costruito le sue opere. Obiettivo priorita-rio degli appuntamenti che hanno scandito l’anniversario baroniano è stato quello di riflettere sui processi di elaborazione e trasformazione della scrittura storica in uno snodo cruciale della storia della Chiesa e dell’Europa nel suo insieme. Ne è scaturita una ricostruzione articolata del ruolo di Baronio non soltanto come sto-rico della Controriforma, ma soprattutto di interprete della cristianità e di storico ufficiale della Chiesa cattolica nel momento in cui l’aggettivo cattolico perde – pa-radossalmente – la propria accezione di universale e «inaugura la nascita di un Me-dioevo cattolico più che cristiano e per questo un Medioevo di parte» (p. xxvii). Se è vero che nell’opera del cardinale oratoriano giunge a compimento la separa-zione della teologia dalla storia, tuttavia la disciplina storica, proprio in ragione di questa separazione, «è costretta a caricarsi, più che in passato, delle ragioni indu-bitabili della teologia» (p. xxviii).

L’illustrazione scelta per la locandina del convegno – e ripetuta sulla coperti-na del volume – è un’incisione di Luca Ciamberlano che mostra Cesare Baronio dormiente a cui, per due volte, appare in sogno Filippo Neri. Le esperienze oni-riche rappresentate sono infatti duplici: nella prima, delineata sullo sfondo, Cesa-re Baronio gravemente infermo – quasi agonizzante – sogna Filippo Neri, che, in-ginocchiato davanti al Cristo e alla Vergine, implora la guarigione del discepolo. In primo piano invece, a Baronio assopito al tavolo di studio appare Filippo Neri, circonfuso di nubi, che lo esorta alla stesura della storia ecclesiastica: «Scribes An-nales» recita il cartiglio accanto al futuro santo. L’incisione fa parte del materiale illustrativo realizzato tra il 1609 e il 1614 a corredo della documentazione raccolta dagli oratoriani per la canonizzazione di Filippo Neri e raffigura due testimonian-ze rese al processo nelle quali Baronio racconta di essere stato ispirato alla scrit-tura storica direttamente dal suo padre spirituale. L’incisione riassume, in estrema sintesi, uno degli interrogativi centrali che si sono posti all’attenzione degli studio-si: il legame del lavoro storico del Baronio con l’auctoritas del Neri, dopo che l’im-magine di esclusiva dipendenza del Sorano dal suo maestro è stata decostruita da Hubert Jedin e contestualizzata nel quadro delle più complesse esigenze apologe-tiche dell’Ordine oratoriano e della Chiesa postridentina.

L’introduzione di Raimondo Michetti ripercorre, attraverso le testimonianze au-tobiografiche, l’itinerario spirituale di Baronio dalla religiosità lugubre di chi «par-lava sempre di cose spaventose, come di morte, inferno et giuditio» (p. xiv) allo studio della storia ecclesiastica, suggeritogli e pressoché impostogli da Filippo Neri. Lo stesso Baronio, nelle dichiarazioni date nel corso del processo di canonizzazio-ne del Neri, teneva a sottolineare come la svolta verso lo studio della storia avesse avuto i caratteri di una vera e propria conversione – attuatasi per ispirazione divi-na – di un giovane chierico inizialmente incline a una vita contemplativa e peni-tenziale. La stessa introduzione e le conclusioni di Guazzelli insistono anche sul-la lunga e articolata fortuna tributata dalla storiografia all’opera di Baronio, oggi ampiamente illustrata dalle recenti e approfondite bibliografie, tra cui quella onli-ne curata da Alberto Bianco.

Gli storici del Novecento hanno manifestato un vivace interesse per l’opera dell’Oratoriano. Tra tutti spicca Delio Cantimori, che lo ha definito un umanista che

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RECENSIONI 503

raccoglie, sul piano della filologia storica, la sfida lanciata dagli storici protestan-ti. Sul versante degli studiosi cattolici non ci si discosta significativamente, almeno fino agli anni Sessanta, dall’immagine di un “Baronio-monumento”, che neppure il clima conciliare riuscì a scalfire, mentre spunti critici scaturiti dalle sollecitazio-ni di Cantimori si possono ravvisare nell’intervento di Arsenio Frugoni del 1952 al Cenacolo oratoriano, nella voce di Alberto Pincherle per il Dizionario Biografi-co degli Italiani e nelle riflessioni di Raffaello Morghen, di Raoul Manselli, di Pao-lo Brezzi e, infine, di Hubert Jedin – il quale offre una complessiva risistemazio-ne dell’opera baroniana.

Gli anni Ottanta hanno segnato uno spartiacque nella critica storiografica, gra-zie ai convegni sorani svoltisi a partire dal 1979. A questa stagione di studi si deve riconoscere «il merito di avere affrancato Baronio dalla morsa della polemistica sulla Controriforma, per disegnare tuttavia un’ulteriore interpretazione […]: Baro-nio quale vittima della Controriforma, epoca della filologia impossibile, costretto a muoversi eroicamente dentro i vincoli impostigli dal contesto entro cui operava e dal proprio ruolo all’interno della Curia romana» (p. xxiii).

Nei fatti la produzione di Baronio si realizzò dunque all’insegna dell’ufficia-lità dal momento che la Curia rappresentava il referente istituzionale del Sorano. Questa circostanza, se da un lato permise a Baronio di accedere a una vasta do-cumentazione conservata negli archivi delle diocesi, dall’altro gli impose «di pon-derare i contenuti di altre codificazioni dal valore normativo quali il Cathechismus romanus, con la sua chiara definizione della dottrina della Chiesa postridentina, ed il Breviarium romanum, che con le sue letture storico-agiografiche presentava stretti punti di contatto sia con il Martyrologium romanum che con gli Annales» (Guazzelli, p. 509).

In breve la Chiesa fu assunta da Baronio come angolo visuale e protagonista della storia, una premessa ideologica da cui discesero altre scelte di fondo come la rappresentazione, sottolineata da Mario Mazza (La metodologia storica della Prae-fatio degli Annales Ecclesiastici), della Sede di Roma come immutabile e fedele cu-stode del messaggio evangelico in contrasto con la tragica decadenza descritta dai protestanti. In tale quadro le eresie e le dottrine eterodosse – sulle quali si sono sof-fermati Simon Ditchfield (Baronio storico nel suo tempo) e Marina Benedetti (Cesare Baronio e gli eretici: le fonti della controversia) – non costituiscono, secondo Baro-nio, fattori di discontinuità, poiché sono state tutte sconfitte e la Chiesa ha mante-nuto nei secoli la propria incrollabile autorità. Allo stesso modo le forme di potere ostili alla Chiesa, come quella di Giuliano l’Apostata, o quelle apertamente perse-cutorie dei primi secoli sono state – sempre nell’opinione di Baronio – del tutto transitorie e segnate da inevitabili insuccessi militari: è un’interpretazione della sto-ria che suona come monito per i sovrani contemporanei, anche cattolici, oltre che un aperto sostegno al potere temporale della Chiesa. Tali orientamenti e giudizi di Baronio nei confronti dei sovrani europei e delle controversie politiche e religiose del XVII secolo sono oggetto delle ricerche di Stefano Andretta (Cesare Baronio e Venezia), Paolo Broggio (Baronio e la controversia de auxi liis: discussioni dottrinali e posizionamenti politici durante il pontificato di Clemente VIII), Manfredi Merluz-zi (Considerazioni su Cesare Baronio e la Spagna, tra controversia politica e ricezio-ne erudita), Bernard Dompnier (Baronio nelle controversie del XVII secolo tra cat-

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E. DE LONGIS : RECENSIONI504

tolici e protestanti francesi) contenute nella sezione Baronio in Europa. Nella stessa area, i contributi di Giovanna Brogi Bercoff (Baronio storico e il mondo slavo) e Andrea Ceccherelli (Annales Ecclesiastci e Martyrologium Romanum come fonte per la correzione delle Vite di Santi di Piotr Skarga) indagano l’influsso che l’opera di Baronio ha esercitato negli orientamenti liturgici e cultuali del mondo slavo. L’uso delle fonti agiografiche e martirologiche nella redazione del Martyrologium Roma-num e degli Annales Ecclesistici sono al centro dei contributi, rispettivamente, di Giuseppe Antonio Guazzelli (Baronio attraverso il Martyrologium Romanum) e di Francesco Scorza Barcellona (Gli Atti dei Martiri negli Annales Ecclesiastici), men-tre Giuseppe Finocchiaro (La dispersa Historia delle vergini forastiere di Antonio Gallonio. Una vicenda editoriale) e Sara Cabibbo e Carmela Compare (La santità martiriale femminile tra modello e paradigma) si interrogano sull’efficacia dei mo-delli di santità proposti da Baronio nel confronto con la coeva produzione agio-grafica. Dai saggi di Tommaso Caliò (L’immagine agiografica di Cesare Baronio) e di Edoardo Aldo Cerrato (Il processo di beatificazione di Cesare Baronio dall’intro-duzione della Causa ai nostri giorni) l’Oratoriano emerge come oggetto egli stesso di rappresentazioni agiografiche.

Di non secondaria importanza, infine, il contributo di archeologi e storici dell’arte – Lucrezia Spera (Cesare Baronio, «peritissimus antiquitatis», e le origi-ni dell’archeologia cristiana), Ingo Herklotz (Chi era Priscilla? Baronio e le ricerche sulla Roma sotterranea), Alessandro Zuccari (Baronio e l’iconografia del martirio) – che passano al vaglio il Baronio peritissimus antiquitatis, esploratore della Roma sotterranea, lettore e interprete dell’iconografia martiriale.

La consistente messe di ricerche, problematiche e innovative, che il volume presenta restituisce al personaggio di Cesare Baronio e al suo impegno storiogra-fico tutta la complessità che la maggior parte delle precedenti indagini aveva reso irriconoscibile dietro lo schermo di interpretazioni acritiche o viziate dal pregiu-dizio ideologico. D’altronde, della necessità di proseguire la strada intrapresa con nuove letture delle fonti e dei materiali biografici sono consapevoli gli stessi cu-ratori del volume, che auspicano, in conclusione, una ricognizione delle lettere di Baronio e una loro edizione critica, che potrebbero «costituire la base per una rin-novata stagione di studi e la realizzazione di ciò che […] più manca nel pur arti-colato panorama bibliografico su Cesare Baronio: una sua documentata biografia intellettuale» (p. 516).

eleonorA de longis

mAriA BArBArA guerrieri Borsoi, Raccogliere “curiosità” nella Roma barocca. Il museo Magnini Rolandi e altre collezioni tra natura e arte, Gangemi Editore, Roma 2014, pp. 159.

Con l’elogio della curiosità si apre l’ultimo libro di Maria Barbara Guerrie-ri Borsoi che mette in luce un nuovo tassello di storia della cultura “materiale” e del collezionismo privato della Roma seicentesca. L’autrice non è nuova alle inda-gini sulla raccolte e sui musei, basti qui ricordare l’imponente volume su Gli Stroz-zi a Roma. Mecenati e collezionisti nel Sei e Settecento pubblicato per la Fondazio-

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RECENSIONI 505

ne Marco Besso e l’Editore Colombo nel 2004. Però il campo di ricerca di questo recente saggio pone l’accento sulle particolari collezioni di curiosità che accosta-no disinvoltamente i naturalia e gli artificialia agli antiquaria e in special modo ai curiosa, quegli oggetti esotici, bizzarri e rari che fin dal Cinquecento allargarono i confini concettuali e spazio-temporali al fine di destare nei visitatori delle raccol-te stupore e meraviglia.

Eredi delle raccolte d’arte e di meraviglia del Rinascimento e delle sorprenden-ti, chiassose e disordinate wunderkammern, i musei di curiosità barocchi non sono più soltanto le camere e gli studioli affollati di corni di unicorno, bronzetti, fossi-li, ossa di giganti, reliquie, strumenti scientifici, coralli, medaglie, dipinti, sculture e conchiglie, perché si configurano e si organizzano quali strumenti di conoscen-za spesso in equilibrio tra scienza e arte. I raccoglitori non sono più gli ometti cu-riosi di galileiana memoria ma, come ci ricorda l’autrice, eruditi che appartengono frequentemente all’aristocrazia romana e alle congregazioni religiose, desiderosi da una parte di celebrare se stessi e le famiglie di appartenenza, e dall’altra, di parte-cipare ad un nuovo ideale di conservazione e alla elaborazione dei nascenti proces-si tassonomici rivolti agli sconosciuti materiali naturalistici provenienti dalle nuove scoperte scientifiche, nonché alle ricerche antiquarie, storiche e filologiche.

La fonte a stampa, alla quale fondamentalmente si affida la studiosa per tracciare le coordinate della sua esplorazione, è la Nota delli musei di Giovan Pietro Bellori, punto di partenza che intende integrare e superare tramite la Liste des Cabinets di Jacob Spon e l’elenco dei gabinetti di rarità di Francois-Maximilien Misson conte-nuto nel Nouveau voyage; ad essa aggiunge, quale spia importante per l’individua-zione dei musei naturalistici e secondo l’autrice denominatore comune di tali raccol-te, la Ricreatione dell’occhio … nell’osservatione delle chioccole di Filippo Buonanni, volume che passa in rassegna i possessori delle raccolte malacologiche. Tra le fonti manoscritte è essenziale poi l’Aggiustamento di studio di Carlo Cartari, un testo non sufficientemente frequentato dagli studiosi di cui trascrive accuratamente nell’Ap-pendice documentaria una parte del trascurato e pur utilissimo terzo volume.

Fatte queste premesse, la studiosa ci conduce nel cuore dei suoi rinvenimen-ti archivistici: all’inventario del museo del collezionista Carlo Antonio Magnini (1616-1683) e alle inedite tracce biografiche del personaggio: «indefesso rerum na-turalium esploratori» secondo le parole del gesuita Athanasius Kircher, e «vir sa-crae rei antiquariae studiosus» secondo la definizione che ne dà l’oratoriano Paolo Aringhi nella Roma subterranea novissima. Magnini è anche un esperto di gemme e conchiglie e un fisiologo, ovvero un ricercatore dei fenomeni naturali che, seguen-do la definizione data nella Physiologia Kircheriana, può voler significare studioso di fisica, matematica, medicina, chimica, musica e meccanica. Doveva aver allesti-to inizialmente il suo museo in una casa sita in via dei Sediari, nella parrocchia di sant’Eustachio: «in tre camere di cose curiosissime», dove gli facevano visita per-sonaggi famosissimi, tra i quali Leopoldo de’ Medici, la regina Cristina di Svezia e Gian Lorenzo Bernini. Già in quella sede iniziava ad acquisire una non estesa ma selezionata biblioteca a stampa e manoscritta composta perlopiù da libri di scien-za e di viaggio, nella quale tuttavia non mancavano i volumi di antiquaria e di sto-ria, che rispondevano alle inclinazioni dell’eclettico collezionista.

A questo punto la Guerrieri Borsoi segue le sorti del Museo, ereditato prima

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G. FINOCCHIARO : RECENSIONI506

dal nipote Pietro Antonio Rolandi, anch’egli studioso di antichità, che assunse il cognome e l’arma dello zio, e poi da Innocenzo Ottavio Rolandi Magnini, su su fino a Federico Valenti Magnini, che morto nel 1772, lo lascerà a Domenico Jaco-billi. Indaga inoltre sulle successive sedi museali, accennando ai criteri espositivi, per arrivare all’inventario da lei rinvenuto, composto alla morte dell’ultimo Magnini quando gran parte della raccolta era già dispersa. Di grandissima utilità conosciti-va è proprio la dispersione ultima del museo, perché gestita da un notissimo scul-tore e restauratore della Roma settecentesca, Bartolomeo Cavaceppi (1716-1799), il quale stese due preziosi elenchi, uno dei beni scomparsi, già da lui visti nelle col-lezioni magniniane, in quanto perito e partecipe dell’alienazione di molti oggetti in esse contenuti, e l’altro dei beni trovati e censiti, facendoci così conoscere le este-se e variegate raccolte oggetto di questo studio.

In effetti le categorie museali rappresentate dal Museo Magnini non sono po-che, spaziando dalle armi ai naturalia, dalle curiosità etnografiche agli antiquaria – composte quest’ultime da opere egizie, etrusche, romane e paleocristiane – fino a giungere alle sculture e ai dipinti moderni. Di molti oggetti museali, grazie alle note del Cavaceppi e alle fonti a stampa e manoscritte sei-settecentesche, sono stati indi-viduati i percorsi e i luoghi di conservazione in vari Istituti italiani e stranieri. Per evidenziare l’attenzione e la capacità selettiva del collezionista, nonché il dispendio di danaro impiegato, si segnalano due paradigmatici pezzi quali il Mitra che uccide il toro, un bassorilievo romano in marmo oggi conservato nell’Hermitage di San Pietroburgo, e il Naoforo, una scultura egizia in granito bigio oggi custodita nelle collezioni del Museo Gregoriano Egizio della Città del Vaticano.

La curiosità spinge inoltre l’autrice a riconoscersi tautologicamente nella cu-riosità di altri collezionisti romani, già enunciati nella Nota delli musei del Bellori. Così redige alcune rilevanti schede su altre collezioni romane coeve alla nostra, dal-le quali schede emergono grandi novità sui musei di Torquato Alessandri, Filippo Buonanni, Andrea Buonvicini, Eutachio Divini, Francesco Galli, Virginio Orsini, Raimondo Pennati, Agostino Scilla, delle famiglie Pamphilj a villa Belrespiro e Pe-retti Savelli a Termini. Per ciascuna di queste collezioni fa venire alla luce, qua e là, date nuove, sedi museali inedite, testamenti e liste sconosciuti, passaggi inaspettati, cronologie corrette, genealogie costruite ex-novo: insomma crea una miniera d’in-formazioni e un nuovo repertorio di grande utilità per i ricercatori, aprendo gene-rosamente la strada a originali percorsi di studio e a inediti filoni di ricerca.

Quale infaticabile e grande raccoglitrice di fonti archivistiche la Guerrieri Borsoi con questo libro riesce così a superare, almeno nella sua parte riconducibile ai mu-sei di curiosità, la scarna Nota delli musei del Bellori, pubblicata esattamente trecen-tocinquanta anni fa: una degna celebrazione. Il suo saggio, tuttavia, potrebbe essere rafforzato e approfondito in futuro dall’indagine sui documenti manoscritti del Ma-gnini, di cui parlano le fonti, alcuni dei quali da lei stessa rintracciati, come il Bre-ve discorso sopra le fortificazioni e i Desiderabilia super aurum et lapidem preciosum, onde chiarire meglio l’assetto teorico del museo di curiosità del Magnini e confer-mare quanto scritto sul collezionista da Athanasius Kircher e Pao lo Aringhi.

giusePPe finoCChiAro

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RECENSIONI 507

Architetture di Carlo Rainaldi nel quarto centenario della nascita, a cura di Simo-na Benedetti (presentazione di A. Roca De Amicis; saggi di M. L. Accorsi, S. Benedetti, C. Benveduti, F. Bilancia, S. Carbonara Pompei, M. C. Cola, R. M. Dal Mas, I. Delsere, G. dos Reis Souza Lima, C. V. Manfredi, T. Manfredi, L. Marcucci, A. Russo, Y. Strozzieri, M. Tabarrini), Gangemi Editore, Roma 2012, pp. 336.

Carlo Rainaldi (4 maggio 1611 - 8 febbraio 1691) ha rappresentato a lungo – e in parte costituisce tuttora – un problema critico nell’ambito dell’architettu-ra barocca a Roma. Considerato già dai contemporanei figura di assoluto rilievo sulla scena professionale della città, le più recenti interpretazioni sulla sua opera hanno oscillato infatti tra valutazioni largamente positive e giudizi orientati inve-ce ad un sostanziale ridimensionamento; come non poco si è dibattuto sul signifi-cato di fondo da attribuire alla sua opera, da alcuni ritenuta pienamente barocca nell’ispirazione e negli esiti, per altri condizionata da una sorta di attardato neo-cin queecentismo e dunque non in grado di registrare, al di là di isolati episodi, au-tentici scatti innovatori.

Senza la pretesa di sciogliere definitivamente questi nodi critici, il volume, frut-to di un lavoro collettivo programmato in occasione del quarto centenario della nascita dell’architetto, si è proposto il fine, come ricordato dalla curatrice nell’in-troduzione, di «rilanciare l’attenzione sulla sua figura tentando di coglierne la ca-ratura della produzione professionale ed artistica». L’impostazione selezionata ha privilegiato soprattutto (anche se non esclusivamente) le opere meno note del Rai-naldi: scelta apprezzabile, che ha avuto il merito di focalizzare episodi architetto-nici talvolta rimasti sulla carta o non paragonabili per proporzioni alle opere mag-giori, ma che la ricerca condotta ha dimostrato essere tutt’altro che irrilevanti. Pur privilegiando nel complesso la ricerca documentaria ed archivistica, il taglio del vo-lume non ha comunque precluso ai diversi autori l’inserimento di annotazioni cri-tiche interessanti; a scorrere con attenzione le pagine del corposo testo, non man-cano dunque indicazioni utili e spunti per la riflessione.

Il volume è articolato in tre parti. La prima – relativa alla formazione di Carlo ed ai rapporti con il padre Girolamo (1570-1655), a sua volta importante architet-to – comprende quattro contributi. Il testo di Ilaria Delsere, propedeutico ai con-tributi successivi, ripercorre puntualmente la vicenda biografica del Rainaldi sul-la base delle fonti scritte (in primo luogo, le biografie di Filippo Baldinucci e di Leone Pascoli) e delle più recenti acquisizioni. Si tratta di un’efficace sintesi, che offre un primo inquadramento generale della figura e dell’opera architettonica di Carlo, utile anche in considerazione della rilevante estensione (circa sei decenni) della parabola professionale rainaldiana. I due saggi di Roberta Maria Dal Mas e di Antonio Russo si orientano soprattutto sulla figura del padre di Carlo, Girola-mo; il contributo della Dal Mas appare tuttavia in gran parte ‘estraneo’ all’impo-stazione del volume, dal momento che l’attenzione dell’autrice è concentrata quasi esclusivamente sulla figura di Orazio Torriani e sulla chiesa romana di S. France-sco di Paola (quest’ultima, realizzata tra il 1638 ed il 1650, di attribuzione ancora incerta). La tesi conclusiva della Dal Mas è che l’articolazione scalare delle cappelle

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MARCELLO VILLANI508

di S. Maria in Campitelli sia debitrice dell’impostazione compositiva visibile in S. Francesco di Paola: si potrebbe obiettare, tuttavia, come tale schema sia presente già in S. Teresa a Caprarola (come peraltro ricordato dalla stessa autrice) che, oltre ad essere anteriore di quasi un ventennio, rappresenta un riferimento di gran lunga più vicino a Carlo, essendo opera del padre. In secondo luogo, se tangenze posso-no essere ravvisate a livello planimetrico, nulla della complessità dell’alzato del ca-polavoro di Carlo Rainaldi risulta anticipato in S. Francesco di Paola: qui, infatti, la trabeazione si dispone ininterrotta lungo tutte le pareti laterali, laddove Carlo apre centralmente grandi arconi che spezzano l’uniforme ritmo e determinano una ben diversa configurazione spaziale. Nel suo saggio, Antonio Russo avanza invece la proposta di attribuire a Girolamo un progetto di parziale trasformazione della basilica di Loreto testimoniato da un disegno conservato presso l’Archivio di Sta-to di Parma. In relazione all’architettura di Carlo Rainaldi, l’interesse del progetto – che non appare peraltro particolarmente riuscito, essendo basato sulla disarmo-nica aggiunta al già articolato impianto della chiesa lauretana di ulteriori cappelle che, qualora realizzate, avrebbero reso ancor meno leggibile il disegno generale – sta, secondo l’autore, nella presenza delle quattro coppie di colonne libere poste a in corrispondenza degli angoli delle due cappelle a pianta centrale del progetto. Una soluzione compositiva che lo stesso autore avvicina a progetti e realizzazioni precedenti (S. Luca di Ottaviano Mascherino, S. Alessandro in Zebedia del Bina-go) e che potrebbe aver contribuito a determinare, trasmettendosi da Girolamo a Carlo, la predilezione di quest’ultimo nei confronti, appunto, della colonna libera. Tesi forse un po’ troppo orientata, dal momento che l’uso che Carlo fa della co-lonna libera (o, meglio, della combinazione secondo assi longitudinali e trasversali di più colonne libere) appare indubbiamente personale e ricollegabile semmai ad altri e più aderenti modelli (i frigidaria termali, la basilica di Massenzio, le cosid-dette Colonnacce del foro di Nerva, etc.).

Ben più articolato appare, a conclusione della prima parte, il contributo di Lau-ra Marcucci e Fernando Bilancia, incentrato sulla chiesa romana di S. Maria della Scala. La Marcucci ripercorre innanzitutto le articolate vicende storiche della chie-sa, il cui progetto viene tradizionalmente riferito a Francesco Capriani da Volter-ra e, dopo la sua morte (1594), ad Ottaviano Mascherino. In realtà, il disegno au-tografo del Volterra, datato 25 febbraio 1593 e conservato a Firenze, si discosta in modo tutt’altro che trascurabile dall’edificio costruito, a cui appare molto più vi-cino il progetto del Mascherino, custodito nel fondo dell’architetto presso l’Acca-demia di S. Luca. Il problema delle precise responsabilità progettuali della chiesa rimane comunque ancora aperto, tanto più che alla morte del Mascherino (1606) l’opera non era ancora stata completata. Successivamente, Laura Marcucci si oc-cupa della decorazione delle cappelle Cherubini e Panini; la prima, celebre per il contratto relativo alla pala d’altare (Transito di Maria Vergine) stipulato con il Cara-vaggio nel giugno del 1601, era stata decorata poco prima su disegno di Girolamo Rainaldi: al di là degli stessi riferimenti archivistici, il ruolo di Girolamo è prova-to, come giustamente notato dall’autrice, dalla particolare conformazione tripartita dell’altare a targa centrale e timpani curvi laterali, una sorta di ‘firma’ dell’archi-tetto che si ritrova in diverse altre sue opere. Il contributo della Marcucci si con-clude con alcune interessanti osservazioni sull’ambiente professionale romano tra

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RECENSIONI 509

la fine del Cinquecento ed i primi decenni del secolo successivo ed una sintetica apertura sui rapporti stilistici tra l’opera di Girolamo e quella del figlio Carlo. La parte dovuta a Fernando Bilancia riguarda invece l’altare maggiore della chiesa, opera fondamentale di Carlo Rainaldi. Attraverso il sistematico spoglio dei riferi-menti archivistici, Bilancia delinea la vicenda storica dell’opera, iniziata alla metà del 1647 con la decisione dei Carmelitani Scalzi di destinare alla sua realizzazione gli introiti provenienti da legati e donazioni. Dalla documentazione trascritta risul-ta con chiarezza la piena paternità di Carlo («conforme alli disegni e pianta fatti dal signor Carlo Rainaldi architetto») di un’opera che non è dunque, come talvol-ta ripetuto, frutto della vincolante collaborazione con il padre Girolamo; ma esito personale di Carlo, di cui deve essere considerata la prima opera di indiscutibile qualità. Con il contributo del Bilancia il volume si apre dunque all’opera di Carlo Rainaldi, ormai dotata di caratteri autonomi, anche se Girolamo rimarrà fino alla morte (1655) una figura di riferimento, soprattutto professionale, per il figlio.

Attraverso sei contributi, la seconda parte del volume analizza principalmente l’attività ‘minore’ di Carlo Rainaldi: ‘minore’ per il tipo di prestazioni professiona-li, per l’entità dimensionale degli interventi o per il contesto geografico periferico; ma tutt’altro che trascurabile nel significato complessivo. Anzi, è proprio da queste ricerche che emerge la figura del Rainaldi come professionista completo, in grado di gestire, accanto ai più celebrati ed impegnativi cantieri romani, una capillare at-tività professionale al servizio di modesti enti religiosi e privati di non primissimo piano e dalle limitate risorse economiche; oppure di intervenire con opere com-piute nel contado romano (Monte Porzio, Montecompatri, etc.) spingendosi fino a contesti extraregionali. Attraverso una puntuale analisi, Carmen Vivenza Manfre-di chiarisce il contributo del Rainaldi nell’edificazione delle chiese di S. Gregorio Magno a Monte Porzio Catone e dei Ss. Pietro e Caterina a Ronciglione. Il contri-buto della Manfredi si conclude con un breve excursus sulla chiesa parrocchiale di Monte Compatri il cui completamento, sia pure in assenza di documenti probanti, viene ricondotto all’ambito rainaldiano sulla base di rimandi alla committenza bor-ghesiana e confronti stilistici di elementi sintattici presenti nella facciata.

Ben documentati appaiono i due contributi di Gaspar dos Reis Souza Lima. Il primo offre un quadro dell’attività professionale di Carlo al servizio della «Ve-nerabile Compagnia di S. Angelo in Borgo alli Corridori di Castello». Come è ben noto, i servizi prestati nell’ambito della piccola committenza di confraternite o mo-desti enti religiosi rappresenta un’autentica costante nel Barocco romano: si tratta in genere di un’attività oscura, che si sostanzia essenzialmente in opere di manuten-zione del patrimonio edilizio (case, botteghe, casolari, etc.) di proprietà della com-mittenza, ma che non esclude, talvolta, incarichi maggiormente gratificanti, come quelli relativi a ristrutturazioni delle chiese di pertinenza. È il caso della Compa-gnia di S. Angelo, proprietaria di una quarantina di case, ubicate prevalentemente nel Rione Borgo (cioè nell’area compresa tra S. Pietro e Castel S. Angelo). Con il contributo di Maria Letizia Accorsi si torna ancora nell’affascinante, ma problema-tico ambito dell’attribuzione non supportata, allo stato attuale, da probanti riferi-menti archivistici: è il caso, appunto, della chiesa gesuitica di S. Ignazio a Fano, la cui complessa vicenda storica viene ripercorsa dall’autrice. Occorre peraltro nota-re come la planimetria della pianta, nota esclusivamente attraverso disegni dal mo-

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mento che la chiesa venne demolita nella seconda metà dell’Ottocento, non sem-bra aggiungere molto all’opera rainaldiana, trattandosi della semplice ripresa di uno schema ormai tradizionale, come quello della croce greca ‘allungata’ inscritta. Con i contributi di Sabina Carbonara Pompei e di Carlo Benveduti si torna ad opere del Rainaldi tuttora presenti: il primo saggio verte sulla presenza di Carlo nella chiesa romana di S. Lorenzo in Lucina: l’articolata attività svolta dall’architetto (proget-to della facciata, ricostruzione del convento, altare maggiore, restauro dell’orato-rio) al servizio dei Chierici Regolari Minori di S. Francesco Caracciolo viene or-dinatamente presentata, sulla base di fonti edite e riferimenti archivistici. Non si può non condividere con l’autrice il rammarico che non sia pervenuta, allo stato attuale delle conoscenze, la documentazione scritta o grafica relativa in particolare all’altare maggiore (post 1669 - ca. 1675), di cui peraltro una nota contemporanea (1675) del Titi attesta la paternità rainaldiana: una delle opere più rappresentative della tarda attività di Carlo. Molto più circoscritta, rispetto all’ampia attività dispie-gata in S. Lorenzo in Lucina, è l’opera del Rainaldi analizzata da Carlo Benveduti: la casa Del Bufalo in via della Mercede a Roma. Il Benveduti ricostruisce accura-tamente le vicende dell’edificio, evidenziando in particolare la pesante ristruttura-zione condotta tra il 1863 ed il 1870, che ha determinato l’alterazione, soprattutto in altezza, del palazzetto seicentesco. Il minuzioso schema ricostruttivo delle pro-prietà catastali permette all’autore di risalire all’iter progettuale rainaldiano, entro cui spicca, per eleganza compositiva, il portale, tuttora visibile.

La terza ed ultima parte del volume, genericamente dedicata agli Aspetti del barocco nell’architettura di Carlo Rainaldi, si apre con il lungo saggio di Simona Benedetti. Si tratta dell’unico contributo non incentrato su singole opere (o pro-getti), né su specifiche branche dell’attività dell’architetto; la lettura critica dell’au-trice si svolge infatti per temi, isolandone quattro: le sperimentazioni di organismi ovali, l’uso ed il significato della colonna libera, la ricerca spaziale nelle opere mi-nori (altari, cappelle, etc.), lo studio e l’evoluzione dei prospetti chiesastici. Per quanto riguarda il primo punto, viene sinteticamente delineato un percorso che, dai celebri esiti cinquecenteschi (per esempio, S. Anna dei Palafrenieri, S. Giaco-mo degli Incurabili) perviene alle proposte di Carlo per S. Maria in Campitelli; un ampio spazio viene ovviamente dedicato ai progetti non eseguiti per quest’ultima, evidenziando il particolare processo compositivo per accostamento di cellule spa-ziali virtualmente indipendenti. Sulla base anche delle acquisizioni critiche prece-denti, l’autrice attribuisce poi all’utilizzazione rainaldiana della colonna libera (in particolare, nel capolavoro di S. Maria in Campitelli) una molteplicità di significa-ti, che vanno da strumento finalizzato a far convergere sul fuoco prospettico l’at-tenzione del visitatore alla raggiunta consapevolezza della piena indipendenza dal sistema murario, non escludendo, come è del tutto condivisibile, precisi riman-di all’antico ed alla tradizione architettonica tardo-cinquecentesca (in particolare, dell’area settentrionale: si veda la sistemazione dell’area presbiteriale della cattedra-le di S. Pietro a Bologna, già oggetto di qualificati contributi critici). Per quanto riguarda gli altari e le opere minori, l’autrice mette opportunamente in evidenza i principi compositivi di base: si veda, per esempio, lo schema a “rotazioni diver-genti” dell’altare maggiore della chiesa del SS. Sudario o le matrici diagonali alla base di alcune architetture effimere; o ancora la combinazione tra convessità e di-

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sposizioni diagonali dell’altare maggiore di S. Lorenzo in Lucina. Incentrato sul-le facciate delle chiese, l’ultimo tema trattato considera i diversi modi espressivi utilizzati dal Rainaldi; anche se, pur nella varietà degli esiti, la ricerca composi-tiva dell’architetto sembra approdare in questo caso a risultati meno interessan-ti. Assolutamente rimarchevoli (al di là di qualche piccolo errore proporzionale) nell’ambito del contributo della Benedetti, sono le elaborazioni grafiche di Ste-fano Conforti, Alberto Terribile, Valerio Ciucci e Fabio Leone che restituiscono suggestive immagini tridimensionali, per esempio, dell’esterno e, soprattutto, de-gli spazi interni dei progetti non eseguiti per S. Maria in Campitelli, oltre che dei progetti per il palazzo del Louvre, per piazza S. Pietro e delle chiese di piazza del Popolo.

Con i contributi di Marisa Tabarrini e Tommaso Manfredi vengono proposte all’attenzione del lettore la chiesa del SS. Sudario ed il completamento della facciata di S. Andrea della Valle. Come giustamente notato dalla Tabarrini, la chiesa del SS. Sudario ha a lungo sofferto di una sorta di indifferenza critica riconducibile, più che a scarsa considerazione, ad oggettive difficoltà di accesso ed alla difficile repe-ribilità della documentazione archivistica. Il tempio ‘nazionale’ dei Piemontesi, Sa-voiardi e Nizzardi a Roma associa ad un prospetto che non può certo annoverarsi tra le opere memorabili del Rainaldi (anche per gli oggettivi vincoli derivanti dalle preesistenze e dall’infelice collocazione) un interno raffinato con il notevole a solo della terminazione finale, risolta attraverso il consueto, sapiente uso delle colonne. Merito dell’autrice è di aver concepito un ben strutturato saggio, in cui il quadro storico entro cui matura l’opera, arricchito di interessanti richiami alla committen-za ed ai rapporti di questa con il Rainaldi, costituisce lo schermo sul quale proiet-tare le vicende della ricostruzione della chiesa. Non si può non concordare con la Tabarrini relativamente all’alto livello qualitativo dell’interno della chiesa (in parti-colare, l’originale soluzione della “parete-altare”), da considerare tra i più convin-centi esiti dell’architettura rainaldiana.

Nell’affrontare lo studio della facciata della chiesa teatina di S. Andrea della Valle, una delle opere romane dell’architetto più conosciute ed analizzate, Manfre-di orienta la propria indagine innanzitutto verso la distinzione dei ruoli tra il Rai-naldi ed il ben più giovane Carlo Fontana, quest’ultimo spesso considerato, già a partire dal Wittkower, responsabile di una sorta di revisione del progetto rainal-diano (a sua volta, come è noto, ampiamente condizionato dalla parte basamenta-le del prospetto edificata molti anni prima sotto la guida del Maderno, con la col-laborazione del giovanissimo Borromini). Per l’autore, che riprende un’intuizione di Furio Fasolo (1961), il disegno fontaniano della facciata, peraltro inserito in un più ampio elaborato grafico relativo al contesto urbano della chiesa, non riflette solo una rappresentazione di maniera, peraltro ben posteriore all’inizio dei lavo-ri essendo sicuramente successiva al marzo del 1664, finalizzata a chiarire il rea-le fine del disegno, ovvero proprio la situazione urbana dell’area. Ridimensionato decisamente l’apporto del Fontana, Manfredi passa poi a delineare la successione logica dei diversi disegni relativi alla facciata (in particolare, i tre conservati presso gli Uffizi, la Biblioteca Vaticana e quella della Camera dei Deputati, quest’ultimo ritenuto autografo), per poi concludere il proprio studio con interessanti conside-razioni sull’ornamentazione scultorea del prospetto e, dunque, sul possibile ruolo

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del Bernini nella scelta degli scultori coinvolti e persino in alcuni elementi caratte-ristici da attribuire alle statue programmate.

Nella vasta attività professionale di Carlo, un indubbio rilievo rivestono gli ap-parati effimeri, alcuni dei quali, come quelli allestiti nell’anno giubilare del 1650 per la celebrazione delle Quarantore nella chiesa del Gesù e della festa della Re-surrezione in piazza Navona, sono da annoverarsi tra gli esiti più significativi nella Roma barocca. A questa importante branca dell’operatività rainaldiana sono dedi-cati i due contributi di Maria Celeste Cola e di Yuri Strozzieri. Il taglio del contri-buto della Cola è generale: viene chiarito innanzitutto il contesto familiare e pro-fessionale entro cui matura la formazione di Carlo come progettista di allestimenti effimeri, oltre che di giardini e ninfei. L’elenco ragionato delle opere di Carlo, pre-sentate in ordine cronologico, permette attraverso le puntuali osservazioni dell’au-trice di delineare un percorso che, iniziato nella prima metà degli anni Quaran-ta, si concluderà solo due anni prima della morte dell’architetto, con un ennesimo arco trionfale eretto in Campo Vaccino per la cerimonia del Possesso del nuovo Papa Alessandro VIII Ottoboni.

Dal canto suo, Yuri Strozzieri focalizza la propria ricerca su un singolo esi-to dell’attività rainaldiana: l’irrealizzato progetto per un arco trionfale in onore di Alessandro VII Chigi, testimoniato da un elaborato grafico di notevoli dimensioni conservato presso l’Archivio di Stato di Roma. Sebbene rimasto privo di esito per la decisa volontà del nuovo Papa (elevato al soglio di Pietro nell’aprile del 1655) di ridurre al minimo le spese per la tradizionale cerimonia del Possesso connessa alla sua elezione, il progetto manifesta evidenti spunti di interesse: come puntualmente evidenziato dall’autore, tipici stilemi rainaldiani, come la composizione tripartita con l’inserimento di frontoni nei settori laterali, caratterizzano un’impostazione com-positiva di estremo interesse, arricchita da una interessante ricerca spaziale. Lun-gi dal ripiegare su rassicuranti schemi tradizionali, l’arco proietta verso l’esterno le componenti laterali, ‘scavando’ al tempo stesso il settore mediano; da qui, il senso di dinamismo spaziale che l’opera manifesta esplicitamente. Sia l’indagine storica che l’analisi critica condotte dallo Strozzieri appaiono, nel complesso, convincenti; come utile appare anche l’ipotesi restituiva della pianta dell’arco attraverso la qua-le è possibile apprezzare ulteriormente l’impostazione compositiva di base.

Non è mai facile tracciare una valutazione relativa ad un volume che raccoglie contributi di autori diversi (nel caso specifico, una quindicina) dal momento che, come è ovvio, il livello di ciascun testo può differire, anche in misura sensibile, da quello degli altri. In apertura, sono stati sottolineati gli aspetti indubbiamente posi-tivi del libro, a cui può aggiungersi l’indovinata scelta di associare a studiosi già in possesso di significative esperienze per ciò che concerne la ricerca storico-architet-tonica, giovani ricercatori formatisi nell’ambito universitario (prevalentemente dot-tori e dottorandi di ricerca); l’estrema articolazione dei temi trattati, con frequenti salti di scala, che rende la lettura del volume gradevolmente varia, rappresenta un ulteriore elemento da menzionare. Al tempo stesso, non può non essere ricordato come, al di là delle pur interessanti osservazioni contenute nel saggio di Simona Benedetti, risultino assenti nel volume opere fondamentali della maturità di Car-lo come S. Maria in Campitelli e le chiese di piazza del Popolo (a parte la scheda bibliografica di Giorgio Del Puente), o della tarda attività come il capolavoro as-

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soluto della riqualificazione della chiesa di Gesù e Maria. Sebbene il libro non sia (e non intenda essere) una monografia esaustiva della figura e dell’opera di Car-lo, nuoce forse all’equilibrio (ed alla stessa completezza) del testo la mancanza di contributi specifici tali da suggerire nuove aperture critiche relative proprio a quel-le opere a cui, più di altre, è legata la fama dell’architetto ed il posto a lui ricono-sciuto nell’ambito del Barocco romano.

In conclusione, se ci si domandasse se la nostra conoscenza della figura e dell’opera architettonica di Carlo Rainaldi risulti accresciuta dopo la pubblicazione di questo volume, la risposta non potrebbe che essere affermativa: e questo, in un tempo in cui può capitare di imbattersi in testi che si limitano a riproporre elementi già ampiamente acquisiti, è forse il miglior tributo che si può riservare al libro.

mArCello villAni

renATA sABene, La Fabbrica di San Pietro in Vaticano. Dinamiche internazionali e dimensione locale, Gangemi Editore, Roma, 2012, pp. 239.

Il lavoro di Renata Sabene si basa su un articolato e ben documentato insie-me di fonti inedite conservate presso l’Archivio Storico della Fabbrica di San Pie-tro. La Fabbrica di San Pietro in Vaticano fa parte delle Istituzioni collegate con la Santa Sede e ad essa è delegato il compito di occuparsi di tutto quello che ri-guarda la Basilica del Principe degli Apostoli (come ha scritto Giovanni Paolo II, Pastor bonus sulla Curia romana. Dato a Roma, presso San Pietro, alla presenza dei cardinali radunati in Concistoro, nella vigilia della solennità dei santi apostoli Pietro e Pao lo, il giorno 28 del mese di giugno dell’anno mariano 1988, decimo di Pontifi-cato, Costituzione Apostolica, art. 192). La dirigenza dell’Istituto operava sul terri-torio romano come un’azienda, anche se con obiettivi non economici, sempre con-sapevole del compito affidatole e pronta a rispondere alle trasformazioni ed alle necessità che via via si presentavano. Il libro si articola in otto capitoli ed è corre-dato da immagini che ne impreziosiscono l’opera.

La ricostruzione dell’organizzazione amministrativa, dello sviluppo economico e burocratico e del sistema di finanziamenti della Fabbrica non è fine a se stessa ma evidenzia, come bene dimostra l’autrice, la presenza di diverse fasi riconducibili al sistema e alla gestione dello stato economico. Scrive la storica: «Nel primo secolo di vita si affermò l’indipendenza dell’Istituto dagli altri organi dello stato e il fatti-vo concorso della politica papale tese a stabilizzare l’afflusso dei finanziamenti pro-venienti dall’orbe cristiano. Il periodo successivo fu caratterizzato dalla costruzione di una funzionale organicità direttiva e da un’amministrazione che si avvalse anche dell’uso degli strumenti finanziari, consentendo all’Istituto un’autonoma capacità di movimento nella ricerca e nella gestione delle risorse economiche. Nell’ultima fase si perseguì la ristrutturazione della capacità operativa attraverso una razionale gestione delle risorse umane, che confermò alla Fabbrica di San Pietro la titolarità nella conduzione della Basilica Vaticana, riconosciuta in tutti i successivi provvedi-menti emanati dal papato inerenti l’organizzazione dello Stato» (p. 15).

Il volume si divide idealmente in due parti: nella prima la Sabene ripercor-

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DONATELLA STRANGIO514

re la storia della Fabbrica di San Pietro dalle origini all’età moderna, mentre nel-la seconda si dedica all’organizzazione e alla politica del lavoro messa in atto nel corso del XVIII secolo. Il quadro che emerge nel complesso è quello di una città in continuo divenire, animata dalla presenza di tanti pellegrini e delle maestranze provenienti da ogni parte della penisola, richiamate proprio dall’attivazione di di-versi cantieri all’interno della Fabbrica.

La ricerca dell’autrice ribalta, quindi, la rappresentazione che si è sedimentata nella letteratura opponendo alla figura di organismo statico, paradigmatico per il lento procedere dei lavori, quella di una vera e propria azienda premoderna, con un’organizzazione ben definita, con un proprio sistema di finanziamenti, una po-litica del lavoro autonoma, con obiettivi chiari e precisi, e stimolatrice di innova-zioni in campo tecnico e accorta dal punto di vista finanziario e capace di gestire complicati rapporti diplomatici.

Diverse sono le riflessioni, le suggestioni e le sollecitazioni che emergono da questo lavoro: come quello su un tema a lungo dibattuto dalla letteratura su Roma in età moderna dell’esistenza di una continuità negli indirizzi politici dell’ammini-strazione pontificia che qui, invece, emerge in modo chiaro mediante un disegno costantemente perseguito dal papato incentrato sulla promozione del cantiere ba-silicale e sulla costante riaffermazione di Roma come capitale culturale e artistica dell’Europa moderna e come centro della cristianità. La stessa natura bifronte del papato, temporale e spirituale, non danneggia questa visione complessa di uno Sta-to piccolo ma importante e di una monarchia che a suo modo è particolare, pur uniformandosi a quelle tradizionali, dove il capo temporale viene rieletto ogni vol-ta e non è ereditario.

La mole di documentazione inedita, saggiamente utilizzata e padroneggiata dall’autrice, regala al lettore una conoscenza ulteriore degli aspetti economici e so-ciali della Roma moderna.

Oltre ad analizzare come fu gestito questo enorme edificio-cantiere, si met-tono in evidenza i moderni criteri di gestione dell’economia che creerà anche un proprio personale (personale “forestiero”, poi personale mezzo “interno” e “fore-stiero”, per arrivare, quindi, ad un personale per buona parte interno); quest’ulti-mo era rappresentato da lavoratori assistiti e ben pagati rispetto alle altre tipologie che si passavano il lavoro di padre in figlio, in una sorta di gruppo chiuso e privi-legiato. Interessante è la descrizione del meccanismo che permetteva di entrare in questo gruppo: il canale era costituito dai cardinali che raccomandavano individui provenienti, chiaramente, dai propri luoghi di origine.

La Basilica costituiva una specie di “magnete” che attirava a Roma non solo tu-risti di ogni dove, ma anche lavoratori che diventeranno una comunità tutta romana chiamata “sanpietrini” (proprio perché lavoravano all’interno della Fabbrica). Questo introduce un aspetto importante che potremmo definire di “politica del lavoro”.

Nella Fabbrica, ben prima della Rivoluzione industriale, le forme del capitale e del lavoro anticipavano una logica improntata ad una forte razionalità, come emer-ge dalla documentazione esaminata dall’autrice, contrapposta ad una che brillava per inefficienza, come ereditato dalla precedente letteratura. Così, un particolare interesse desta la politica assistenziale: ben prima delle fabbriche inglesi, nell’orga-nizzazione del personale esisteva una grande attenzione nel dosare le gratifiche e

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nel sostenere gli operai che rimanevano menomati o nei periodi di malattia. Emer-ge, inoltre, l’alta qualità tecnica delle maestranze impiegate.

Un altro aspetto è quello del mercato delle indulgenze. Il tema delle indulgen-ze permette di legare le vicende della Fabbrica alle dinamiche internazionali oltre che investire il secolare tema della Riforma e della Controriforma.

L’indulgenza e il finanziamento alla Fabbrica è strettamente legato all’indulgen-za nella sua accezione di mediazione rispetto al finanziamento della Fabbrica stes-sa, prima da parte della Corona spagnola e successivamente di quella portoghese. L’entrata economica più importante per la Fabbrica risultava essere proprio la “Bol-la di Crociata”, che serviva per combattere gli infedeli e che si caratterizzava come la maggiore forma di rastrellamento di denaro, soprattutto dalla Spagna.

Il legame è determinato dallo strumento della “Bolla della Crociata” (il cui meccanismo inedito è ben descritto da Renata Sabene), con la quale la Fabbrica si era assicurata una quota fissa di denaro dapprima dalla Spagna e poi dal Porto-gallo; le due Corone ricevevano in cambio la possibilità di vendere le indulgenze a piacimento. Dal punto di vista finanziario, a livello di organi centrali, come nel caso della Camera apostolica, i banchieri privati godevano da tempo di un rappor-to privilegiato, tanto da divenire gli interlocutori del tesoriere e degli “imprendi-tori privati”. Dalla seconda metà del Seicento la Camera apostolica comincerà ad utilizzare sempre più il Banco di S. Spirito e il Monte di Pietà per fare fronte alle proprie esigenze finanziarie. Al contrario, per la Fabbrica di San Pietro il passag-gio fu più lento, tanto che si affidò ai banchieri privati fino al 1764, quando su-bentrò il Banco di Santo Spirito.

All’interno di questo aspetto finanziario è interessante il rapporto “Fabbrica-debito pubblico”. Il finanziamento della Fabbrica passava attraverso le forme di quello internazionale, ma anche attraverso lo strumento del debito pubblico che, nell’emissione dei luoghi di monte rappresentava l’antesignano dei moderni titoli del debito pubblico: avevano una loro circolazione di mercato e, sebbene immessi localmente, rientravano ed erano molto appetibili a livello internazionale.

Il lavoro, quindi, mostra un importante spaccato storico sui grandi interventi di edilizia compiuti a Roma, sulla condizione dei lavoratori, sul sistema dei prez-zi e delle monete; tra l’altro, evidenzia una capacità poco conosciuta del governo pontificio di muoversi all’interno della finanza internazionale.

Renata Sabene offre l’opportunità, dunque, di approfondire lo studio della Fabbrica; ma studiare la Fabbrica di San Pietro significa anche studiare la città di Roma in termini reali e simbolici, per una maggiore conoscenza della città stessa.

donATellA sTrAngio

AndreinA riTA, Biblioteche e requisizioni librarie a Roma in età napoleonica: cronologia e fonti romane, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2012, pp. 560.

Il volume di Andreina Rita è uno studio analitico e rigoroso delle vicende del-le biblioteche romane nel corso del periodo napoleonico: una ricerca, condotta con esemplare acribia, che ricostruisce strategie e comportamenti delle amministrazioni

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ROSANNA DE LONGIS516

succedutesi a Roma dal 1798 al 1814 nei confronti del patrimonio librario e rap-presenta dunque un capitolo importante della storia istituzionale e culturale della dominazione francese in Italia.

L’autrice colloca l’origine della ricerca nel ritrovamento dei processi verbali delle requisizioni librarie operate a seguito della soppressione degli ordini religiosi maschili: ai verbali, spesso redatti in più copie e oggi reperibili in diverse biblio-teche romane, sono allegati gli elenchi dei volumi oggetto della requisizione. Le sottrazioni di materiali librari dalle sedi monastiche avvennero tutte tra il 1811 e il 1814 e andarono a incrementare, in conseguenza di una serie di provvedimenti che miravano a ridefinire l’assetto delle istituzioni culturali romane, il patrimonio di due biblioteche che la legislazione aveva definito come istituzioni di interesse pubblico, la Biblioteca Vaticana e la Biblioteca Casanatense. Benché si inquadrasse-ro, dunque, nel contesto della spoliazione degli ordini religiosi, le requisizioni non ebbero un fine puramente vandalico o predatorio, ma obbedirono a un piano di risistemazione delle raccolte librarie della città sulla base del ruolo attribuito dalle autorità francesi ad alcuni istituti bibliotecari.

Le espropriazioni di beni storico-artistici di cui ha lasciato memoria la domi-nazione napoleonica del territorio italiano sono state un fenomeno di vasta portata avvenuto soprattutto a danno delle istituzioni ecclesiastiche: ma – osserva Andrei-na Rita – «alla vastità dell’evento non è finora corrisposta un’adeguata risonanza in ambito scientifico. Il tema delle confische dei beni culturali, posto spesso in re-lazione con la soppressione degli Ordini religiosi, con la quale in effetti si intrec-cia in modo profondo, divenendone conseguenza, è stato infatti frequentemente af-frontato in un’ottica particolaristica, come capitolo minore di trattazioni più ampie e per di più relative, nella maggioranza dei casi, esclusivamente all’età repubbli-cana (1798-1799)» (p. 17). È stato questo il caso delle ricerche presentate al con-vegno tenutosi nella ricorrenza del bicentenario del Trattato di Tolentino e pub-blicate nel volume Ideologie e patrimonio storico-culturale nell’età rivoluzionaria e napoleonica (1), una tappa importante per l’avanzamento degli studi relativamente ai beni artistici italiani all’inizio dell’Ottocento. Tuttavia, anche in quell’occasione, l’attenzione è stata portata prevalentemente al periodo repubblicano e in partico-lare alla sorte dei “manoscritti” trasferiti a Parigi sulla base di quanto prescritto dall’articolo 13 del trattato di Tolentino. In realtà il movimento dei volumi confi-scati agli ordini monastici fu assai ampio e articolato e comportò selezioni e tra-sferimenti di materiali librari per lo più all’interno dei territori dipartimentali sulla base di una normativa variante da luogo a luogo: la traccia più consistente di tale esperienza è rimasta negli studi sugli ordini religiosi a livello locale, di cui l’autri-ce dà conto in un’accurata bibliografia, ma nessuna ricerca specifica ha affrontato la materia in tutta la sua complessità. È una lacuna storiografica che appare tanto più vistosa nel caso di Roma e del territorio romano, dove mancano anche indagi-ni storiche su molte delle raccolte librarie religiose. A proposito di Roma, l’unico evento conosciuto relativamente al periodo napoleonico è la requisizione dalla Bi-

(1) Ideologie e patrimonio storico-culturale nell’età rivoluzionaria e napoleonica. A proposito del trat-tato di Tolentino, Atti del convegno, Tolentino, 18-21 settembre 1997, Roma 2000.

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RECENSIONI 517

blioteca Vaticana di 350 codici manoscritti inviati a Parigi nel 1813 e restituiti nel 1817: non si trattava, in realtà, di materiali librari, ma di raccolte di documenti a carattere archivistico – diplomi, bolle e altri atti normativi – destinati, in base al decreto imperiale del 2 febbraio 1810, a essere conservati negli archivi imperiali e integrati con la documentazione lì presente. Come effetto del decreto del feb braio 1810 furono inviate dagli archivi romani a Parigi 3229 casse di documenti, di cui 1650 provenienti dal Vaticano. Per iniziativa del capo della sezione italiana degli archivi imperiali, Luigi Martorelli, la requisizione fu estesa anche al patrimonio do-cumentario e librario degli ordini religiosi maschili. Ma mentre le carte di interes-se archivistico presero la via di Parigi, le raccolte librarie furono, per così dire, re-distribuite all’interno del territorio romano e destinate a incrementare le collezioni di biblioteche istituzionalmente deputate alla fruizione pubblica: infatti, un’ordi-nanza del prefetto degli Stati romani del 19 novembre 1810 disponeva che a Roma (e, inoltre, ad Anagni, Orvieto, Terni e Città di Castello) «si doveva creare per ri-spondere ai bisogni dell’istruzione pubblica, una libraria pubblica nella quale si sa-rebbero raccolti, a disposizione dei lettori, i libri che prima erano conservati nel-le chiuse biblioteche conventuali e monastiche» (corsivo dell’autrice, p. 48). Per la città di Roma, successivi provvedimenti destinavano alla Biblioteca Vaticana – de-signata “biblioteca imperiale” dal decreto del 25 febbraio 1811 – i manoscritti e i libri di maggior pregio, e alla Biblioteca Casanatense i libri a stampa ritenuti uti-li ai fini di istruzione pubblica, avviando alla vendita quelli non rispondenti a tale obiettivo: una delibera della Consulta del 15 ottobre 1810 aveva stabilito che la Bi-blioteca della Minerva (Casanatense), insieme con l’Angelica e con quella di Santa Maria in Araceli fossero aperte al pubblico e finanziate dalla Municipalità. Di fat-to, per carenza di spazi idonei e difficoltà di trasporto nella Biblioteca Casanaten-se, anche la maggior parte dei testi a stampa finì nella Biblioteca Vaticana.

A un ampio excursus sulla legislazione relativa alle biblioteche l’autrice fa se-guire tre capitoli riguardanti, rispettivamente, le tre biblioteche “municipali”, la Va-ticana come biblioteca imperiale e la biblioteca del Quirinale, già residenza ponti-ficia destinata a divenire reggia imperiale della quale, però, Napoleone non prese mai possesso. Anche i volumi presenti nel Quirinale avrebbero dovuto essere tra-sferiti alla Vaticana, ma non prima che un’accurata classificazione stabilisse qua-li sarebbero stati da mantenere in loco per le esigenze del sovrano e delle sua fa-miglia. Di fatto, per una serie di circostanze, la classificazione non venne portata a termine e la selezione fu affrettata e malamente conclusa dall’intervento di Mar-tial Daru, che sovrintendeva all’operazione, il quale «impazientissimo e niente pra-tico di tali materie, dopo aver sollecitato almeno una volta e auspicato una rapida conclusione della selezione, ordinò di trasferire comunque i libri presenti nel pa-lazzo del Quirinale anche se la divisione in classi non era stata ultimata e addirit-tura ignorando quella già fatta» (p. 87). I volumi furono traferiti per la maggior parte nella Biblioteca Vaticana ma di essi non è stato reperito elenco; esiste invece l’elenco dei 3000 libri rimasti al Quirinale. Le fonti attualmente disponibili e i se-gni di possesso presenti sui volumi rendono possibile l’individuazione della prove-nienza all’interno delle collezioni vaticane solo per una parte di essi, mentre si ha motivo di ritenere che altri, all’indomani della Restaurazione, furono dislocati in altre sedi. Le vicissitudini della biblioteca pontificia del Quirinale, che Rita rico-

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ROSANNA DE LONGIS518

struisce con estremo rigore e sono qui riassunte solo sommariamente, rappresenta-no a mio avviso, così come la confusa distribuzione dei beni librari tra biblioteche municipali e Vaticana, un esempio dello scarto evidente tra una normativa detta-gliata e rigorosa e una prassi spesso dettata da esigenze estemporanee e influenza-ta soprattutto dall’azione di singoli funzionari.

Il lungo capitolo centrale del libro è dedicato a un esame molto dettaglia-to delle requisizioni operate negli ordini soppressi, che sono ripercorse seguendo l’ordine cronologico secondo cui furono attuate nelle singole sedi. Alla prima fase delle confische, segnata dalla controversia insorta tra i funzionari incaricati relati-vamente alla suddivisione dei beni librari tra biblioteca della Corona (Vaticana) e biblioteca municipale designata (Casanatense), seguì la nomina, nell’ottobre 1812, di un commissario specificamente responsabile delle requisizioni e della redistribu-zione dei volumi, il matematico e bibliofilo Fortia d’Urban, che, nell’arco di poco più di un anno – l’operazione si concluse alla fine del 1813 – procedette alla con-fisca di circa quaranta biblioteche di ordini soppressi. Dalle requisizioni rimasero escluse sei sedi religiose soppresse – anch’esse esaminate da Rita –, nelle quali la ricognizione compiuta dalle autorità non diede luogo al ritrovamento di libri. Alla caduta di Napoleone la quasi totalità dei libri entrati nella Biblioteca Vaticana tra il 1812 e il 1813 a seguito delle confische venne restituita alle istituzioni mona-stiche e conventuali di provenienza, dalle quali venne nuovamente requisita cin-quant’anni dopo per andare a formare il nucleo originario della Biblioteca Nazionale di Roma.

Nell’introduzione l’autrice aveva sottolineato che i soli dati delle confische libra-rie attuate a Roma in età napoleonica non avrebbero avuto «in sé alcuna rilevanza oggettiva» (p. 32) senza la ricostruzione del contesto entro il quale si collocavano i sequestri, dunque senza una valutazione dello status quo ante le requisizioni e un allargamento di prospettiva sulle vicende delle collezioni all’indomani del periodo napoleonico fino all’annessione dei territori romani allo stato unitario: il 1870, in-fatti, ha rappresentato un altro snodo cruciale nella storia istituzionale della capi-tale anche sotto il profilo della sistemazione degli istituti culturali e la complessa vicenda della nascita della biblioteca nazionale romana, con l’accorpamento in essa del patrimonio librario degli ordini soppressi. La ricerca, pertanto, per un verso fo-calizza l’attenzione sul periodo napoleonico, al contempo, per l’altro, offre un’in-dagine a tutto campo delle raccolte librarie romane, non isolando come un episo-dio a sé stante l’azione delle autorità francesi ma inquadrandola in una prospettiva di lunga durata che ripercorre formazione e sviluppo delle singole raccolte librarie tra la fine del Cinquecento e la seconda metà dell’Ottocento. I termini post quem e ad quem dell’indagine, infatti, sono rispettivamente l’inchiesta di Clemente VIII sull’applicazione delle disposizioni dell’Index librorum prohibitorum del 1597, inte-grate dalle rassegne delle biblioteche romane di Bellori e Piazza (2) di metà Seicen-

(2) g. P. Bellori, Nota delli musei, librerie, gallerie & ornamenti di statue e pitture né palazzi, nel-le case e né giardini di Roma, In Roma, 1664; C. B. PiAzzA, Eusevologio romano, overo delle Opere pie di Roma; accresciuto & ampliato secondo lo stato presente. Con due trattati delle accademie e librerie cele-bri di Roma, 2. ed., In Roma, 1698.

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RECENSIONI 519

to e l’estensione ai territori romani, dopo il 1870, delle leggi di soppressione degli ordini religiosi e di liquidazione dell’asse ecclesiastico.

Un ricco apparato documentario correda il volume, a ulteriore dimostrazione dell’ampiezza di una ricerca con la quale Andreina Rita ha scritto un capitolo im-portante e decisivo nella storia delle istituzioni culturali romane contemporanee.

rosAnnA de longis

mAriA rosAriA CoPPolA, La fabbrica del Vittoriano, Scavi e scoperte in Campido-glio (1885-1935), Libreria dello Stato-Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2012, pp. 621.

Maria Rosaria Coppola presenta in questo volume i risultati della sua accura-tissima ricerca d’archivio sulla costruzione del Monumento a Vittorio Emanuele II sul Campidoglio, corredata da un ingente apparato documentario ed iconografi-co. Nell’opera, che rappresenta un grande atto di amore verso la città di Roma, si spiega esaurientemente la genesi di un monumento così significativo sotto il profi-lo storico-ideologico, da trasformare radicalmente l’area posta ai piedi del Campi-doglio, tra il Campo Marzio ed i Fori Imperiali. La sua edificazione ha avuto ini-zio con l’apertura del cantiere nel 1885 ed è terminata negli anni Trenta del XX secolo con la costruzione del Museo del Risorgimento e dell’edificio di collegamen-to con il portico del Vignola.

Il tema è stato proposto all’autrice, nella primavera del 1988, come argomento di tesi di diploma in Topografia della Scuola Nazionale di Archeologia dell’Univer-sità di Roma “La Sapienza”, dal professor Ferdinando Castagnoli; dopo la sua im-provvisa scomparsa, la ricerca, che ha richiesto lunghi anni di lavoro, è stata con-dotta sotto la guida del professor Paolo Sommella. La paziente e preziosa raccolta dei dati di archivio si è valsa di strumenti metodologici affinati anche attraverso la partecipazione dell’autrice ai corsi in Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Roma e la Scuola Vaticana tra il 1989 ed il 1994. La prima fase della ricerca si è conclusa nell’anno accademico 2001-2002 con la discussione della tesi di specializzazione dal titolo Documentazione archeologica dalla Fabbrica del Monumento a Vittorio Emanuele II (1885-1911): per uno studio dell’Arx capitoli-na in età romana. La ricerca dei materiali venuti alla luce nel corso della costruzio-ne del Vittoriano e le ricognizioni in situ sono state effettuate nel corso dell’anno accademico 2003-2004 nell’ambito del Master Europeo in Storia dell’Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre.

Il volume, dopo l’introduzione, è strutturato in tre capitoli: I. Tessuto urbano, evidenze archeologiche, scavi e scoperte prima del Monumento a Vittorio Emanue-le II; II. Il monumento al re d’Italia e la capitale del nuovo regno; III. L’ar cheo-logia nella Fabbrica del Vittoriano (1885-1935). Nel primo capitolo si descrive il contesto topografico ed urbanistico preesistente all’edificazione del monumento, caratterizzato da un articolato reticolo stradale lungo il quale erano disposte pre-valentemente piccole case a schiera, a due o tre piani. Spiccavano alcuni palazzi signorili, la chiesa ed il convento di S. Maria in Aracoeli, con la Torre di Paolo

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GIUSEPPINA ALESSANDRA CELLINI520

III sulla sommità dell’arx, ed il complesso del Palazzetto e Palazzo Venezia. Erano elementi topograficamente ed urbanisticamente rilevanti anche la scalinata di Ara-coeli e la cordonata monumentale che conduceva alla piazza del Campidoglio. La studiosa passa quindi a descrivere gli interventi più significativi attuati preceden-temente nell’area, soffermandosi in particolare su quello di Pietro Barbo, risalen-te alla metà del XV secolo, e di Paolo III Farnese, in occasione della celebrazio-ne del trionfo di Carlo V nel 1536. Un excursus molto interessante è rappresentato dalle osservazioni sull’esistenza nell’area di un luogo di mercato, attestato nel XII secolo dalla bolla di Anacleto II (1130-1138), con la quale il pontefice concesse il possesso di tutto il colle capitolino alla più antica basilica dell’Aracoeli. L’autrice affronta quindi due tematiche di ampio respiro: il ruolo assunto dal monumento nello spazio circostante e le scoperte di diversa natura avvenute nel corso dei la-vori. Queste ultime sono state alla base delle numerose trasformazioni del proget-to iniziale ed hanno condizionato la conformazione del monumento, i tempi e i modi della sua realizzazione e i rapporti con lo spazio circostante. I numerosi ri-trovamenti suscitarono aspri confronti ed elaborazioni di studi e progetti. In alcu-ni casi vennero attuate riutilizzazioni rapide ed economiche delle strutture, ma più spesso sventurate demolizioni. Le procedure tecnico-amministrative sono ben do-cumentate da un’imponente “mole di carte”: in particolare, ha rilevanza l’attività della Commissione Reale, istituita sin dall’approvazione delle due leggi che dispo-sero la costruzione del monumento (n. 4374 del 16 maggio 1878 e n. 5562 del 25 luglio 1880), e dell’Ufficio Tecnico del Monumento a Vittorio Emanuele II, costi-tuito presso il cantiere l’8 luglio 1884. Vengono quindi presentate le notizie ineren-ti ai ritrovamenti sul colle capitolino distinti in due ambiti cronologici: dagli inter-venti monumentali del XV secolo all’Unità d’Italia e dal 1861 fino all’apertura del cantiere, avvenuta nel 1885.

Nel secondo capitolo è illustrato il complesso iter successivo all’ideazione del monumento a Vittorio Emanuele II. Appena poche ore dopo la scomparsa del so-vrano, avvenuta il 9 gennaio 1878, si fece strada l’idea di consacrare al re un mo-numento a Roma. Nel disegno di legge approvato il 16 maggio 1878 si adduceva come motivazione quella di onorare la memoria di «re Vittorio Emanuele II libe-ratore della patria, fondatore della sua unità», in cui si riassumeva «tutta la storia del Risorgimento nazionale». Il 23 settembre 1880 venne bandito un primo concor-so internazionale; aderirono 315 concorrenti, in rappresentanza di 13 diversi Pae-si. Dal momento che la Commissione Reale, presieduta dal Presidente del Consi-glio Agostino Depretis non aveva imposto vincoli ai partecipanti, furono presentati progetti pertinenti a diverse tipologie, mentre solo cinque concorrenti indicarono il Campidoglio come luogo ove edificare il monumento. Dato che nessun progetto – compreso quello, risultato vincitore, dell’architetto francese Henri Paul Nénot –, aveva suscitato il consenso unanime dell’opinione pubblica, nel dicembre 1882 ven-ne bandito un secondo concorso internazionale. Questa volta però il bando ven-ne preceduto dai lavori di tre sottocommissioni, che presero in esame le aree del Pantheon, del Campidoglio e della piazza di Termini, valutandone preventivamen-te l’impegno di spesa. La scelta cadde sul Campidoglio, di cui si avvertiva la pre-gnanza ideologica come cuore dell’antica Roma.

L’autrice prende in esame, nel terzo capitolo, le molte voci di protesta che si

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RECENSIONI 521

levarono, a partire dall’interrogazione parlamentare posta il 16 febbraio 1883 dal deputato Ruggero Bonghi al Ministro dell’Interno, concernente il programma del concorso. Alle proteste latenti in seno alla Commissione Reale, espresse con le di-missioni di alcuni membri, si aggiunsero le ferme prese di posizione della Com-missione Archeologica Comunale, alla quale il 3 aprile 1883 venne inviato il pia-no degli espropri e delle demolizioni previste per l’edificazione del monumento. La Commissione Comunale manifestò forti preoccupazioni per la conservazione del contesto del colle capitolino, messo a rischio sotto il profilo geologico e ne-gli aspetti paesaggistici e monumentali; la costruzione del monumento avrebbe di-strutto i principali edifici del Campidoglio ed impedito la ricostruzione della sua storia. Rodolfo Lanciani, segretario della Commissione, il 3 marzo 1883 aveva già rivolto, a titolo personale, un appello ancora più accorato in un suo articolo pub-blicato dal periodico inglese The Atheneum. Seguirono altre proteste, che non ri-uscirono però ad arrestare l’esecuzione dell’opera.

Dopo aver fatto cenno alle modifiche apportate al progetto di Giuseppe Sac-coni – vincitore del secondo concorso internazionale –, si illustra, nella ricostruzio-ne delle diverse fasi dei lavori (tutti accuratamente documentati), il ritrovamento di strutture e materiali di grande interesse. Le prime, rinvenute negli sbancamen-ti del colle e negli scavi per i piloni di fondazione del monumento, sono ricondu-cibili all’articolato contesto costruito che si estendeva lungo l’intero versante set-tentrionale del Campidoglio, nel quale si evidenziano rilevanti testimonianze di età romana. I materiali venuti alla luce durante i lavori, minuziosamente elencati nei verbali di consegna, furono trasferiti in gran parte al Museo Nazionale Romano. Fra quelli lasciati presso il cantiere (in parte ancora oggi conservati all’interno del monumento) si operò una selezione, al termine della quale si deliberò il deposito presso il costituendo Museo di Castel S. Angelo. Proprio la documentazione rela-tiva ai materiali recuperati durante i lavori consente di ricostruire la losca vicenda del furto (avvenuto nel dicembre 1886 nel corso della demolizione della sagrestia di Aracoeli) di una gran quantità di monete antiche, acquisite illecitamente e con disinvoltura dagli antiquari romani.

Segue quindi un’ampia disamina sulle strutture più significative venute alla luce: tra le altre, si segnalano le “Mura del Re”, il cui ritrovamento impose una so-stanziale modifica del progetto iniziale del monumento; il cosiddetto sepolcro dei Claudii, struttura che “ingombrava” la visuale del Vittoriano su piazza Venezia e per questo motivo demolita; la tomba di C. Publicius Bibulus, oggi unica soprav-vivenza delle distruzioni operate per la realizzazione dell’opera. Sempre nel corso degli scavi per i piloni di fondazione del Monumento venne alla luce, sul versan-te occidentale del colle, un fitto reticolo di gallerie scavate nel tufo. Fu necessario svuotare le terre di scarico ed effettuare alcune opere di sottofondazione in mat-toni, che richiesero tempi e costi aggiuntivi. Nel corso dei lavori di fondazione del propileo sinistro, venne accertata l’esistenza di «interminabili banchi di arena»: per evitare cedimenti, fu necessario realizzare il muro perimetrale con fondazioni in cassoni metallici. Per ovviare alle lesioni già evidenti, nel 1915 venne elaborato un progetto di consolidamento che prevedeva la costruzione di un corpo a terrazza addossato al muro perimetrale sinistro del monumento. Durante i «lavori di scavo per la costruzione del Nuovo Museo del Risorgimento», vennero alla luce struttu-

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G. A. CELLINI : RECENSIONI522

re di diversa epoca e destinazione d’uso, tra le quali un complesso situato sul lato orientale del clivus Argentarius, articolato su tre livelli e presumibilmente realizza-to in seguito agli sbancamenti domiziano-traianei nell’area tra il Foro di Cesare e quello di Traiano; a una quota più elevata, i resti riferibili ad un contesto postan-tico, in relazione con il convento di S. Maria in Aracoeli.

giusePPinA AlessAndrA Cellini

luigi Alonzi, Economia e finanza nell’Italia moderna. Rendite e forme di censo (se-coli XV-XX), Carocci, Roma 2011, pp. 142.

Il tema della rendita conserva un posto centrale nella discussione riguardante l’economia medievale e moderna. Nelle fonti e nella documentazione che riferisco-no sull’argomento, il meccanismo della rendita fondiaria è presentato, nella forma più diffusa e ridotta alla valenza economica essenziale, nei termini secondo i quali il contadino coltivava la terra come fittavolo e consegnava al proprietario il cano-ne per l’uso della terra. Dal lato della rendita passiva, ovvero dalla prospettiva del percettore, l’elemento che emerge con evidenza riguarda invece il fatto che l’arric-chimento o l’impoverimento del rentier non dipendeva unicamente dal livello dei fitti rilasciati dai coloni. Il reddito dei ceti possidenti, al contrario, aumentava o di-minuiva in misura esponenziale in rapporto alla complessità funzionale dell’azienda agraria, determinata dall’estensione dei fondi, dalla loro produttività, e, soprattut-to, dal patrimonio nel suo insieme (D. verA, Forme e funzioni della rendita fondia-ria nella tarda antichità, in Società romana e impero tardoantico, I, Roma-Bari 1986, pp. 367-447, pp. 723-760, p. 368, pp. 371-372).

L’andamento della rendita in rapporto alla variazione dei fattori reali della produzione e dei livelli dell’offerta monetaria è stato ampiamente indagato in nu-merose e approfondite ricerche (L. PAlermo, Sviluppo economico e società preindu-striali, Roma 1997, pp. 205-224; G. PiCCinni, L’evoluzione della rendita fondiaria in Italia: 1350-1450, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione e sviluppo, Pi stoia 1993, pp. 233-271).

Il nuovo libro di Luigi Alonzi considera invece un aspetto specifico della ren-dita nell’Italia dei secoli XVI-XX. Il lavoro indaga le modalità di amministrazione finanziaria dei patrimoni fondiari e immobiliari, analizzando quelle forme di cen-so, chiamate conservativo e riservativo, capaci di tradurre la rendita fondiaria in investimento.

Le forme di censo in questione rispondevano a esigenze e obiettivi economici diseguali e trovarono pertanto applicazione in scenari e con attori diversi.

Quanto alla prima forma, la costituzione del censo consegnativo permise al proprietario della terra o di immobili di ottenere a prestito somme di denaro o al-tro capitale vincolando a garanzia del credito e del pagamento degli interessi parte del proprio patrimonio. Ricorsero ad esso soprattutto le aristocrazie fondiarie av-valendosi dei servizi dei procuratori finanziari.

Discutendo il censo consegnativo, l’autore mette preliminarmente in eviden-za l’importante differenza qualitativa e concettuale esistente tra questo dispositi-

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RECENSIONI 523

vo e la lettera di cambio. La solvibilità del censo consegnativo si basava sul valore del bene reale vincolato e in quanto tale dipendeva in via di principio dalla red-ditività della terra sulla quale la rendita era stata costituita. La lettera di cambio implicava invece una valutazione fiduciaria da parte del mercato. L’interesse mo-netario era pertanto il prodotto di un’operazione puramente speculativa tra i dif-ferenti valori delle valute nelle diverse piazze commerciali e finanziarie (p. 23 e p. 47, n. 10). L’autore, premessa questa distinzione di base tra i due strumenti, osser-va, tuttavia, che per quanto nella dottrina permanessero contrasti nella definizione dell’istituto del censo consegnativo, nell’applicazione pratica, esso, soprattutto nei numerosi casi in cui il censo veniva rilasciato nella forma pecuniaria, pur non as-sumendo mai i connotati speculativi della lettera di cambio, si avvicinò progressi-vamente al contratto di mutuo con pegno. L’esito conseguente fu che, così come avveniva per i contratti garantiti da pegno, nonostante le limitazioni imposte dalla legislazione pontificia (Pio V, Bolla Cum onus, 1569), la responsabilità debitoria si estese progressivamente dal bene vincolato al proprietario e al suo patrimonio (pp. 75-76). L’altro effetto importante fu che il tasso d’interesse non dipese più unica-mente dalla redditività del bene vincolato, ma da diverse variabili, tutte in relazio-ne con il mercato finanziario, nel quale operavano le parti coinvolte nella negozia-zione: il tasso di liquidità, lo status dei contraenti, la solvibilità patrimoniale, e la svalutazione della moneta (p. 83).

Le modalità con le quali il censo conservativo venne costituito mettono in di-scussione alcuni aspetti considerati tipici del sistema economico feudale, vigente nel periodo compreso tra XVI e XVIII secolo. Prima di tutto la convinzione che esistesse un rapporto di proporzione indissolubile tra la produttività e l’estensio-ne del fondo; poi l’idea che i nobili evitassero l’investimento in denaro e pertanto qualsiasi forma di indebitamento; infine il fatto che la società agraria “feudale” non avesse consapevolezza della possibilità che l’azienda agricola potesse fallire per ra-gioni puramente economiche (W. kulA, Teoria economica del sistema feudale. Pro-posta di un modello, Torino 1970, pp. 208-210).

Le ricerche condotte sugli archivi delle famiglie aristocratiche residenti nella Penisola, soprattutto quelle con terre nello Stato pontificio e nel Regno di Napo-li, dimostrerebbero, secondo l’autore, che al contrario le rendite agrarie, ovvero i canoni consegnati dai contadini ai proprietari, avevano molto spesso un valore in-feriore alla rendite censuali, ovvero ai tassi d’interesse in base ai quali queste veni-vano concordate. La cessione di rendite in cambio di una somma di denaro avve-niva in sostanza vincolando a garanzia beni di valore non proporzionale al capitale e all’interesse stabilito. Le aristocrazie poi, avrebbero fatto largo ricorso all’inde-bitamento e al finanziamento garantito dalle proprietà immobiliari, andando spes-so incontro, come testimoniano i registri contabili, al fallimento per effetto della sopraggiunta insolvenza economica (pp. 18-22, p. 20; L. Alonzi, Famiglia, patri-monio e finanze nobiliari: i Boncompagni (secoli XVI-XVIII), Bari 2003 e J. delu-meAu, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVI e siècle, Pa-ris 1957-1959, pp. 894-937).

Secondo la ricostruzione presentata, il censo conservativo costituì dunque il basilare strumento di finanziamento del debito nobiliare e, nel contempo, uno dei principali dispositivi finanziari attraverso i quali il ceto burocratico-finanziario ac-

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PAOLO TEDESCO524

cumulò ingenti patrimoni, sottraendoli ai possidenti fondiari in stato di crisi e d’in-solvenza.

L’altra forma di censo, il riservativo, ebbe invece, come anticipato, un cam-po di applicazione diverso. Esso rimase circoscritto nell’ambito dei contratti agra-ri, con il compito di regolare i rapporti economici tra i proprietari e i contadini. Il censo riservativo consisteva, infatti, nella cessione della proprietà di un bene da parte del titolare, il quale riservava a suo favore la percezione di una rendita an-nua, ricavata, almeno in teoria, dallo sfruttamento del medesimo cespite. Secon-do l’autore, per quanto il censo conservativo perseguisse finalità socio-economiche analoghe a quelle del livello e della colonìa parziaria, i profili evolutivi più inte-ressanti riguardano il rapporto con l’enfiteusi. Le due forme di cessione fondiaria presentano in effetti elementi simili, ma secondo lo studioso, il censo riservativo, a differenza dell’enfiteusi, avrebbe agevolato la formazione della proprietà allodia-le perché sprovvisto del diritto di vigesima e di devoluzione a favore del ceden-te, tipici residui delle concessioni feudali, di cui l’enfiteusi avrebbe rappresentato una sopravvivenza.

Nella parte finale dello studio vengono allora discusse le conseguenze che produssero le evoluzioni di questo meccanismo censuale in rapporto ai processi di eversione dei beni feudali e della divisione dei beni demaniali, che ebbero luo-go nel Regno di Napoli dalla fine del XVIII secolo. L’autore intende sottoporre a critica soprattutto la tesi secondo la quale l’eversione della feudalità nel Meridio-ne d’Italia sarebbe avvenuta per effetto della redistribuzione della proprietà fon-diaria, confiscata ai precedenti proprietari e assegnata ai liberi contadini. Discussa è, in particolare, l’interpretazione che individuava una relazione causale tra il tra-sferimento della proprietà della terra avvenuta per effetto delle espropriazioni e la successiva evoluzione economico-sociale. Secondo questa proposizione i limiti allo sviluppo capitalistico perduranti nelle regioni dell’Italia centro-meridionale, anco-ra nella prima metà del XX secolo, furono causati dalle modalità con cui la distri-buzione avvenne. In altre parole, l’ostacolo allo sviluppo economico sarebbe stato determinato dall’eccessiva parcellizzazione della proprietà fondiaria e dalla conse-guente debolezza della classe contadina, sprovvista dei capitali necessari per por-tare a termine il processo economico di accumulazione originaria, fattore di inne-sco del modo di produzione capitalistico.

L’autore, in linea con una precedente corrente di studi (P. villAni, Le vendi-te dei beni dello Stato nel Regno di Napoli (1806-1815), Milano 1964, p. 4; ma si veda anche R. de feliCe, La vendita dei beni nazionali nella Repubblica Romana del 1798-99, Roma 1960, pp. 31-41), ritiene che la transizione dall’economia feu-dale a quella governata dall’iniziativa privata dei cittadini non ebbe luogo per ef-fetto delle espropriazioni e delle successive e per quanto inadeguate redistribuzioni fondiarie, ma, al contrario, essa si affermò all’interno del corpo feudale come esi-to della trasformazione istituzionale dei rapporti agrari. Nel nuovo quadro istitu-zionale il censo riservativo avrebbe contribuito da un lato al superamento dei pri-vilegi di natura feudale, ma dall’altro avrebbe anche garantito la prosecuzione di consolidate modalità di sfruttamento della proprietà fondiaria.

Per quanto non in contrasto con il quadro presentato va tuttavia sottolineato anche un altro fattore della trasformazione. La modificazione dei rapporti agrari

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RECENSIONI 525

non avvenne a danno della proprietà nobiliare, ma fu conseguita soprattutto tra-mite la cessione dei cespiti demaniali, rilasciando ai privati, rappresentati in mag-gioranza proprio dal ceto nobiliare, circa 2/3 delle rendite fiscali dello stato, in-troducendo in questo modo un fattore di impoverimento delle finanze pubbliche (I. zilli, Imposta diretta e debito pubblico nel Regno di Napoli 1669-1737, Napoli 1990, pp. 95-119, pp. 103-105). Le successive politiche di ricompera delle partite fiscali furono per lo più finalizzate alla rivendita dei medesimi beni nel breve pe-riodo, con l’obiettivo di introitare la differenza di prezzo. Le acquisizioni stabili av-vennero invece al prezzo dell’emissione di ulteriori certificati di debito pubblico a favore degli antichi detentori, lasciando di fatto il regno meridionale in un prolun-gato stato di difficoltà finanziaria (I. zilli, Carlo di Borbone e la rinascita del Re-gno di Napoli, Napoli 1990, p. 21, p. 40; L. de rosA, Studi sugli arredamenti nel Regno di Napoli, Napoli 1958, pp. 19-32).

La questione della devoluzione delle competenze fiscali ai privati sposta allo-ra l’attenzione sul tema della strutturale arretratezza del sistema fiscale in rappor-to all’evoluzione dei meccanismi della rendita finanziaria (E. sTumPo, Economia na-turale ed economia monetaria: l’imposta, in Storia d’Italia, Annali, VI, Torino 1983, pp. 554-562).

L’autore sottolinea opportunamente la disparità di trattamento fiscale tra la rendita finanziaria e la rendita agraria esistente nel sistema venuto elaborando-si nei secoli XVI-XVIII, denunciando le inevitabili ripercussioni che tale inegua-glianza procurò nel lungo periodo nella dinamica socio-economica e nei rappor-ti di potere (p. 13). Sembra allora importante mettere in evidenza che la rendita finanziaria conservò una posizione di privilegio fiscale negli antichi stati italiani – indagato è principalmente il Regno di Napoli – come anche nel periodo postuni-tario, per effetto soprattutto della consistente cessione a favore dei privati, dei ce-spiti fiscali di pertinenza demaniale. La devoluzione sarebbe avvenuta in parallelo, ma indipendentemente dalle modificazioni che coinvolsero l’organizzazione econo-mica e la base produttiva e sociale. La ragione di questa contraddizione è indivi-duabile nell’incapacità e nella mancanza di volontà politica da parte degli organi di governo, preunitari prima e nazionale poi, di adottare un regime impositivo pe-nalizzante nei confronti di quei cespiti costituenti la principale fonte di finanzia-mento del debito pubblico.

La conferma di quanto detto è offerta dalla tipologia dell’imposizione fiscale vigente nel Regno di Napoli e rimasta per lo più immutata nell’Italia unita.

Il sistema di tassazione prima e dopo l’unificazione restò prevalentemente fon-dato sull’imposizione indiretta (dazi sul grano, cotone, zucchero e alcool), per lo più a carico della base produttiva, vale a dire dei contadini. L’introduzione di un’im-posta personale sul reddito, sconosciuta nel Regno di Napoli, se non nella forma dell’antico testatico, nell’Italia unita fu ugualmente accantonata. L’imposizione fon-diaria, basata nell’antico Regno, su un sistema misto che combinava il catasto e le gabelle, e che finanziava in sostanza l’imposizione diretta con quella indiretta, per quanto fosse stata successivamente riformata, restò comunque inadeguata. Nell’Italia postunitaria per decisione politica non fu introdotta la progressività e venne persi-no cancellata la prevista contribuzione dei due decimi, compromettendo in questo modo all’origine qualsiasi forma di tassazione del patrimonio (per il Regno di Na-

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P. TEDESCO : RECENSIONI526

poli: I. zilli, Imposta diretta e debito pubblico nel Regno di Napoli 1669-1737, cit., pp. 36-39; per l’Italia postunitaria: G. mArongiu, La politica fiscale nella crisi di fine secolo (1896-1901), Roma 2002, p. 48; id., Storia del fisco in Italia, II, La poli-tica fiscale della Sinistra storica, Torino 1996, pp. 425-434; P. fAvilli, Le tasse degli italiani. Fondazione di un sistema tributario. I vizi di origine, Bologna 1997).

PAolo TedesCo

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LuiseLLi Bruno (1983) (6) 1

CoCCia MiCheLe (1984) (7)

arnaLdi GiroLaMo (1985)soMMeLLa PaoLo (1986) (8)

Benedetti sandro (1988) (9) erMini Pani Letizia (1989) MiGLio MassiMo (1989) (10) CaravaLe Mario (1991) (11) MartineLLi FranCesCo (1991)

(1) Già Membro Ordinario dal 1999.(2) Già Corrispondente Scientifico dal 1981. (3) Già Membro Ordinario dal 1980.(4) Già Corrispondente Scientifico dal 1983. (5) Già Corrispondente Scientifico dal 1985. (6) Già Corrispondente Scientifico dal 1978. (7) Già Corrispondente Scientifico dal 1981. (8) Già Corrispondente Scientifico dal 1980. (9) Già Corrispondente Scientifico dal 1984. (10) Già Corrispondente Scientifico dal 1980.

raGni euGenio (1992) (12) CoLesanti MassiMo (1992) (13) sMiraGLia PasquaLe (1992) (14) Paratore eManueLe (1993) (15) Mazza Mario (1994) (16) MarChetta antonio (1994) (17) FroMMeL ChristoPh LuitPoLd (1995) staCCioLi roMoLo auGusto (1995) (18) MeLonCeLLi raouL (1995) (19)

(11) Già Corrispondente Scientifico dal 1989. (12) Già Corrispondente Scientifico dal 1983. (13) Già Corrispondente Scientifico dal 1982. (14) Già Corrispondente Scientifico dal 1982. (15) Già Corrispondente Scientifico dal 1989. (16) Già Corrispondente Scientifico dal 1993. (17) Già Corrispondente Scientifico dal 1987. (18) Già Corrispondente Scientifico dal 1972. (19) Già Corrispondente Scientifico dal 1988.

VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI

CORPO ACCADEMICO E ORGANI DIRETTIVI AL 30 DICEMBRE 2014

PREMIO CULTORI DI ROMA

Corpo Accademico

L’anno che segue ciascun nome è quello della rispettiva nomina a Socio secondo il vigente statuto dell’Istituto (Decreto del Presidente della Repubblica 21 maggio 1951, n. 985 e successive modifiche). I Soci eletti alla stessa data si susseguono secondo il numero dei voti ottenuto, osservando l’ordine alfabetico nei casi di parità di suffragi.

Soci Onorari

Bernard andreae (2007) - Maurizio CaLvesi (2004) - S. Em. il Card. raFFaeLe Farina (2008) (1) - S. Em. il Card. PauL PouPard (1995) - PaoLo PortoGhesi (2004) (2) -

aLessandro Pratesi (1998) (3) - Giovanni Conso (2004)

Soci Emeriti

José Maria BLazquez (2002) - FranCesCo saBatini (2007) (4) - Pierre touBert (1992) (5)

Soci Ordinari

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VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI528

GiuLiani CairoLi FuLvio (1995) (20) strinati CLaudio (1995) (21) CavaLLero GaLLavotti danieLa (1997) (22) CaGLi Bruno (1998) (23) de CaPrio vinCenzo (1998) (24) GaMBeraLe LeoPoLdo (1998) (25) PaLerMo LuCiano (1998) (26) avesani rino (2000) (27) andaLoro Maria (2000) (28) Gatto LudoviCo (2000) (29) trenti LuiGi (2000) (30) White aLBerto (2001) (31) PLatania Gaetano (2001) (32) FaGioLo MarCeLLo (2002) (33) Mura soMMeLLa anna (2002) (34) Parroni PierGiorGio (2002) (35)

esCh arnoLd (2003) (36) GiuLiano antonio (2003) (37) viGnuzzi uGo (2003) (38) La roCCa euGenio (2004) (39) Gras MiCheL (2004) (40) CoLonna Giovanni (2005) (41) Ferroni GiuLio (2005) (42) PanCiera siLvio (2006) (43) teodonio MarCeLLo (2009) (44)

Lo BianCo anna (2010) (45)

PettineLLi rosanna (2010) (46)

di siMone Maria rosa (2011) (47)

GreGori GianLuCa (2011) (48)

CaPoGrossi CoLoGnesi LuiGi (2012) (49)

GentiLe eMiLio (2012) (50)

Corrispondenti Scientifici

FeLiCi LuCio (1977) Maire viGueur Jean-CLaude (1980) Giannoni Mario (1984) saMPeri Pietro (1986) GuaitoLi MarCeLLo (1987) tian renzo (1989) MeroLa niCoLa (1990) Pirzio BiroLi steFaneLLi LuCia (1990) PoLverini Leandro (1991) CiMMa Maria rosa (1991) rasPi serra JoseLita (1992) MazzareLLi vaLeria (1992) MiCheL oLivier (1993) GarMs JörG (1993) Caronia saBino (1993) Ó CarraGáin éaMonn (1994)

(20) Già Corrispondente Scientifico dal 1984. (21) Già Corrispondente Scientifico dal 1991. (22) Già Corrispondente Scientifico dal 1990. (23) Già Corrispondente Scientifico dal 1978. (24) Già Corrispondente Scientifico dal 1986. (25) Già Corrispondente Scientifico dal 1994. (26) Già Corrispondente Scientifico dal 1993. (27) Già Corrispondente Scientifico dal 1988. (28) Già Corrispondente Scientifico dal 1995. (29) Già Corrispondente Scientifico dal 1996. (30) Già Corrispondente Scientifico dal 1995. (31) Già Corrispondente Scientifico dal 1990. (32) Già Corrispondente Scientifico dal 2000. (33) Già Corrispondente Scientifico dal 1982. (34) Già Corrispondente Scientifico dal 1995. (35) Già Corrispondente Scientifico dal 2000.

sette Maria Piera (1994) norCi CaGiano de azevedo Letizia (1995)ziino aGostino (1996)CeCCheLLi MarGherita (1996)vian PaoLo (1996)visMara Cinzia (1996)GarBini PaoLo (1997)sCrivano riCCardo (1999)MattareLLa antonino (1999)Londei LuiGi (1999)Mazzi Maria CeCiLia (2000)Lazzarini Maria Letizia (2001)ParLato enriCo (2001)PuPino anGeLo r. (2001)sanFiLiPPo Matteo (2001)vauChez andré (2002)

(36) Già Corrispondente Scientifico dal 1990. (37) Già Corrispondente Scientifico dal 1999. (38) Già Corrispondente Scientifico dal 1991. (39) Già Corrispondente Scientifico dal 2003. (40) Già Corrispondente Scientifico dal 2003. (41) Già Corrispondente Scientifico dal 1983. (42) Già Corrispondente Scientifico dal 2003. (43) Già Corrispondente Scientifico dal 2002. (44) Già Corrispondente Scientifico dal 1991. (45) Già Corrispondente Scientifico dal 2008. (46) Già Corrispondente Scientifico dal 2005. (47) Già Corrispondente Scientifico dal 1999. (48) Già Corrispondente Scientifico dal 2007. (49) Già Corrispondente Scientifico dal 2011. (50) Già Corrispondente Scientifico dal 2008.

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VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI 529

Mertens dieter (2002) BianCini Laura (2002) GaLLavotti Giovanni (2002) LonGo niCoLa GiaMBattista (2002) strazza Guido (2003) daLLa torre deL teMPio di sanGuinetto

GiusePPe (2003)isoLa antonino (2004)serianni LuCa (2004)BuonoCore MarCo (2004)PetruCCi arMando (2004)ManCini MarCo (2004)CaLaBria Patrizia (2004)andreoni FonteCedro eManueLa (2005) CaFFiero Marina (2005) iodiCe Maria Grazia (2005) Madonna Maria Luisa (2005) PesCosoLido Guido (2005)

esPosito anna (2006) hidaLGo de La veGa Maria José (2006) rotiLi MarCeLLo (2006) BeviLaCqua Mario (2007)thornton John (2007)BartoLoni GiLda (2008)aPa Mariano (2008)BartoLa aLBerto (2009)Boiteux Martine (2009)stranGio donateLLa (2009)reMesaL José (2011)FioCChi niCoLai vinCenzo (2012)Buttò siMonetta (2012)PaLaGiano CosiMo (2012)Parisi PresiCCe CLaudio (2013)saBatini Gaetano (2013)PiPerno FranCo (2014)triFone Pietro (2014)

PRESIDENZA E GIUNTA DIRETTIVA

(secondo semestre 2012 - primo semestre 2016)

Presidente : soMMeLLa PaoLo

Vice Presidente : PaLerMo LuCiano

Consiglieri :

CaravaLe Mario - erMini Pani Letizia (Tesoriere)FaGioLo MarCeLLo - MarChetta antonio - White aLBerto

Direttore : Lanzetta Letizia Direttore associato : GhiLardi MassiMiLiano

Revisori dei Conti :

CoCCia MiCheLe - GreGori GianLuCa - sMiraGLia PasquaLe - sCiandrone anna (*) - Linares Caterina (**) (Effettivi) - raGni euGenio - GaMBeraLe LeoPoLdo (Supplenti )

Delegati al controllo della Corte dei Conti :

Maria teresa PoLito (Effettivo)

L’Istituto Nazionale di Studi Romani, fondato da CarLo GaLassi PaLuzzi (21 marzo 1925), fu eretto in Ente Morale con R. Decreto 21 febbraio 1926, n. 369 (Gazzetta Ufficiale 15 marzo 1926, n. 61, e Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, parte I, n. 12, del 23 marzo 1926).

(*) Membro nominato dal Ministero dell’Eco-nomia e delle Finanze.

(**) Membro nominato dal Ministero per i Be-ni e le Attività Culturali.

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VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI530

L’attività dell’Istituto, strutturata su basi accademiche, è attualmente regolata dal sopra richiamato statuto redatto sotto la presidenza di quinto tosatti e approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 21 maggio 1951, n. 985 (Gazzetta Ufficiale 3 ottobre 1951, n. 227), al quale sono state apportate modificazioni con Decreto del Presidente della Re-pubblica 2 settembre 1957, n. 1314 (Gazzetta Ufficiale 21 gennaio 1958, n. 16), con Decre-to del Presidente della Repubblica 12 aprile 1966, n. 550 (Gazzetta Ufficiale 23 luglio 1966, n. 181), con Decreto del Presidente della Repubblica 26 novembre 1969, n. 1063 (Gazzet-ta Ufficiale 20 gennaio 1970, n. 16), con Decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 1979, n. 557 (Gazzetta Ufficiale 3 novembre 1979, n. 300), con Decreto del Presidente della Repubblica 19 dicembre 1983, n. 1118 (Gazzetta Ufficiale 13 aprile 1984, n. 104), con De-creto del Presidente della Repubblica 17 maggio 1986, n. 541 (Gazzetta Ufficiale 11 settem-bre 1986, n. 211), con deliberazione dell’Assemblea dei Membri Ordinari in data 24 giugno 1998 (verbale n. di repertorio 102580, racc. n. 11.360), con deliberazione dell’Assemblea dei Soci in data 18 giugno 2009 (verbale n. di repertorio 14624, racc. n. 4675).

Premio Cultori di Roma

Anno 1955 - de sanCtis Gaetano

Anno 1956 - CarCoPino JérôMe

Anno 1957 - riCCoBono saLvatore

Anno 1958 - Boëthius axeL

Anno 1959 - de FranCisCi Pietro

Anno 1960 - aLFöLdi andré

Anno 1961 - aranGio-ruiz vinCenzo Anno 1962 - ross tayLor LiLy

Anno 1963 - LuGLi GiusePPe

Anno 1964 - de vissCher Fernand

Anno 1965 - CeCCareLLi GiusePPe

(Ceccarius)Anno 1966 - syMe ronaLd

Anno 1967 - roManeLLi Pietro

Anno 1968 - KrautheiMer riChard

Anno 1969 - (Premio non assegnato) Anno 1970 - BertoLini ottorino

Anno 1971 - voGt JosePh

Anno 1972 - devoto GiaCoMo

Anno 1973 - KuManieCKi KaziMierz

Anno 1974 - GisMondi itaLo

Anno 1975 - BoyanCé Pierre

Anno 1976 - Paratore ettore

anno 1977 - senGhor LéoPoLd sédar anno 1978 - CoLini antonio M.anno 1979 - Ward-PerKins John B. anno 1980 - MorGhen raFFaeLLo anno 1981 - FuhrMann horst anno 1982 - PaLLottino MassiMo anno 1983 - BroWn FranK anno 1984 - traGLia antonio

anno 1985 - deLuMeau Jean anno 1986 - GuarduCCi MarGherita anno 1987 - Lavin irvinG anno 1988 - Brezzi PaoLo anno 1989 - heurGon JaCques anno 1990 - PietranGeLi CarLo anno 1991 - touBert Pierre Anno 1992 - La Penna antonio anno 1993 - GriMaL Pierre anno 1994 - PortoGhesi PaoLo anno 1995 - esCh arnoLd anno 1996 - BatteLLi GiuLio anno 1997 - niCoLet CLaude anno 1998 - CaraCCioLo aLBerto anno 1999 - BLoCh herBert anno 2000 - Petrassi GoFFredo anno 2001 - MontaGu JenniFer anno 2002 - strazza Guido anno 2003 - BLázquez José Maria anno 2004 - La reGina adriano anno 2005 - MiLLar FerGus anno 2006 - PuGLiese CarrateLLi Giovanni anno 2007 - daCos niCoLe anno 2008 - GaBBa eMiLio

anno 2009 - PaPPano antonio

anno 2010 - GiBeLLini Pietro

anno 2011 - FroMMeL ChristoPh LuitPoLd

anno 2012 - viLLari LuCio

anno 2013 - Fontaine JaCques

anno 2014 - CoareLLi FiLiPPo

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VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI 531

ASSEMBLEE DEI SOCI

Come da Statuto si sono svolte tre As-semblee ordinarie nei mesi di marzo, giugno e novembre.

In esse sono stati approvati il conto con-suntivo dell’esercizio finanziario 2013 e l’at-tività scientifica e culturale di quell’anno; è stata segnalata all’Amministrazione Capitoli-na la personalità italiana cui conferire il Pre-mio «Cultori di Roma» 2014; sono stati de-liberati i posti di Corrispondente Scientifico da ricoprire in base a quelli vacanti; è sta-to approvato l’assestamento di bilancio ed il preventivo 2015 oltre all’attività prevista per l’anno; sono stati nominati due Corrispon-denti Scientifici e è stato confermato il col-legio dei revisori.

IL PREMIO «CULTORI DI ROMA»

Vista la coincidenza del Natale di Roma con la festività del Lunedì dell’Angelo, la ce-rimonia della consegna del Premio è avvenu-ta in campidoglio il giorno 12 giugno.

In base all’alternanza prevista dal Regola-mento, l’Assemblea dei Membri dell’Istituto, integrata per l’occasione dai rappresentanti di Roma Capitale, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dell’Unione Interna-zionale degli Istituti di Archeologia, Storia e Storia dell’Arte in Roma e dell’Unione Ac-cademica Nazionale – ha designato al Co-mune la personalità italiana cui attribuire il Premio che è stato conferito a Filippo Coa-relli.

IL « CERTAMEN CAPITOLINVM »

L’esito del LXV Certamen

In occasione della citata cerimonia ha avuto luogo la proclamazione dell’esito del «Certamen Capitolinum», concorso interna-zionale giunto alla LXV edizione, dedicata alla prosa e alla poesia latine.

La Commissione giudicatrice era così com-posta: Prof. Michele Coccia, rappresentante di Roma Capitale, Prof. Leopoldo Gambera-le, rappresentante del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e Prof.

Antonio Marchetta, rappresentante dell’Isti-tuto Nazionale di Studi Romani. Erano per-venute all’Ufficio Latino dell’Istituto 15 com-posizioni, di cui tre opera di studenti. Tutte le composizioni della prima sezione presen-tavano un buon livello delle composizioni sia in poesia che in prosa. Dopo un approfondi-to esame, nel quale si è discusso ampiamen-te ogni pregio e caratteristica delle composi-zioni suddette, la Commissione ha concluso Vincitore del Praemium Urbis Oreste Car-bonero con la composizione Hominem pagi-na eius sapiebat. La composizione di Oreste Carbonero, dal titolo marzialiano Hominem pagina eius sapiebat, nella quale prosa e poe-sia si alternano nel segno di un’ottima padro-nanza della lingua latina nei suoi vari regi-stri dall’elegante all’affabulatorio al plebeo, si inserisce in un particolare filone letterario coltivato con successo tanto in tempi pas-sati quanto di recente, che consiste nell’‘in-ventare’ pagine relative alle vicende umane e letterarie di famosi personaggi dell’antichità grazie ad un’acuta interpretazione, rielabora-zione e sviluppo dei dati effettivamente tra-mandati. Nella fattispecie si tratta della rico-struzione degli ultimi anni del poeta latino Marziale attraverso l’amicizia della sua patro-na Marcella. Carbonero ha saputo calarsi con eccezionale sensibilità nell’intimo dell’animo di Marziale e nelle esclusive forme della sua arte epigrammatica, producendo un accatti-vante equilibrio tra rigore filologico e bril-lante capacità creativa, che gli consentono di ‘prestare’ all’antico poeta latino carmi che lo stesso Marziale avrebbe potuto compiacersi di sottoscrivere.

È stata giudicata meritevole di onorevo-le menzione la composizione, caratterizzata da squisita eleganza versificatoria, di Mauro Pisini dal titolo Fruges, dove l’eterno fasci-no della natura autunnale viene sì sapiente-mente rivissuto attraverso il ricco patrimonio poe tico che la cultura classica ci ha trasmesso ma soprattutto viene ricreato in forme origi-nali che seducono per la loro raffinata fre-schezza.

Il bando del LXVI Certamen Capitolinum

Sotto gli auspici e con il sostegno del Mi-nistero per i Beni e le Attività Culturali e

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VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI532

del Turismo e di Roma Capitale, l’Istituto Nazionale di Studi Romani bandisce il ses-santaseiesimo «Certamen Capitolinum», de-stinato quest’anno alla lingua e alla lettera-tura latina.

Il Concorso è distinto in due Sezioni. Per la prima Sezione la Commissione

giudicatrice prenderà in esame, sulla base di una sua insindacabile scelta, opere di studio-si pubblicate nel biennio 2013-2014. Il pre-mio conferito al vincitore – che ha il nome di «Praemium Vrbis» – consisterà in una ri-produzione in argento della Lupa Capitoli-na poggiante su una base la quale recherà il nome del vincitore e la data della gara, non-ché nella somma di € 500,00.

Per la seconda Sezione la Commissione giudicatrice prenderà in esame opere invia-te da giovani studiosi direttamente all’Isti-tuto entro il termine stabilito dalla norma n. 3. Al vincitore sarà offerta una medaglia d’argento recante nel recto l’immagine del Campidoglio e nel verso il nome del vinci-tore e la data della gara, nonché la somma di € 200,00.

Sarà attribuita «Onorevole Menzione» agli altri lavori, sia della prima che della se-conda Sezione, che ne siano reputati degni.

L’esito del concorso sarà proclamato in Campidoglio in occasione delle celebrazioni del Natale di Roma.

Le pubblicazioni partecipanti a entram-be le Sezioni del Concorso dovranno consi-stere in studi sulla lingua e sulla letteratura latina. Oltre che in latino, esse potranno es-sere redatte in francese, inglese, italiano, spa-gnolo, tedesco, dovranno recare la data di pubblicazione dell’anno 2013 o 2014 e non dovranno essere state premiate in altre gare. Sono esclusi i lavori di carattere compilato-rio, le composizioni di indole scolastica e di-vulgativa. È esclusa l’assegnazione di premi e menzioni «alla memoria». Per la seconda Sezione ogni concorrente non potrà parte-cipare con più di un volume e non dovrà aver superato i 35 anni di età al 31 gennaio 2015.

I lavori concorrenti dovranno essere in-viati all’Istituto Nazionale di Studi Roma-ni - Ufficio Latino - Piazza dei Cavalieri di Malta, 2 - 00153 Roma, in tre copie in pli-co raccomandato, entro il 31 gennaio 2015.

La Commissione giudicatrice sarà compo-

sta di tre membri, rappresentanti il Ministe-ro per i Beni e le Attività Culturali e del Tu-rismo, Roma Capitale e l’Istituto. I volumi – espletato il Concorso – non verranno ri-spediti, ma resteranno a disposizione dei ri-spettivi autori, per la restituzione, presso la sede dell’Istituto, tranne una copia che reste-rà all’Istituto stesso. I lavori non ritirati da-gli autori, dopo che siano trascorsi sei mesi dalla proclamazione dell’esito del Concorso, non verranno più restituiti.

L’LXXXVIII ANNO ACCADEMICO DEI CORSI SUPERIORI

DI STUDI ROMANI

Nel 2014 i Corsi Superiori di Studi Roma-ni, secondo la sperimentata formula di confe-renze singole o a cicli, con frequenza libera e gratuita, e sopralluoghi, sono stati inaugu-rati con una prolusione dell’Arch. Antonia Pasqua Recchia Segretario Generale del Mi-BACT su Prospettive per un futuro del patri-monio culturale in Italia.

Conferenze

Impero romano e mondo germanico da Ce-sare a Diocleziano. Una storia di confini (Ales-sia Terinoni, Universität Münster); Il diritto romano e la tutela dei monumenti (2 con-ferenze, Alessandro Pergoli Campanelli); Il ruolo della donna nell’antica Roma (Flora Pa-nariti, Soprintendenza Speciale per i Beni Ar-cheologici di Roma); Niccolò V e i problemi della Basilica Vaticana dopo il ritorno del papa-to dall’esilio avignonese (Gabriele Bartolozzi Casti, Ispettore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra); La fortuna la fortuna della cultura egizia a Roma tra Quattrocento e Seicento (2 conferenze, Dalma Frascarel-li, Accademia di Belle Arti di Roma); Dona-to Bramante e Roma: la Rinascita dell’Anti-co (2 conferenze, Micaela Antonucci, Alma Mater Studiorum di Bologna); Michelange-lo, il michelangiolismo e il nuovo linguaggio espressivo della fede nel Manierismo romano (2 conferenze, Monica Grasso, Accademia delle Belle Arti di Urbino); Solenni entrate, cerimoniale nella Roma del 600 (2 conferen-ze, Francesca De Caprio, Università della Tu-

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VITA DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI ROMANI 533

scia e Alessandro Boccolini, Università della Tuscia); L’organizzazione delle forze di polizia romane tra rivoluzioni e restaurazioni ( fine XVIII sec. - prima metà XIX sec.) (2 confe-renze, Chiara Lucrezio Monticelli, docente a contratto in Storia moderna presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Roma “Tor Ver-gata”); Il salotto di Ersilia Caetani Lovatel-li, prima accademica lincea (Marina Formica, Università degli Studi di Roma “Tor Verga-ta”); Effetto Roma. Il Viaggio. Le condizio-ni materiali del viaggio fra Guide turistiche e Guide postali in età moderna. Itinerari di prìn-cipi, nobili e borghesi, fra briganti, vetturini, osti, locande, stazioni di posta (4 conferen-ze, Vincenzo De Caprio, già professore della Università della Tuscia); D’Annunzio a Roma, D’Annunzio e Roma nel centocinquantenario della morte (Sabino Caronia, scrittore e cri-tico letterario); Arte risorgimentale e garibal-dina (Maria D’Alesio, Accademia delle Belle Arti di L’Aquila); All’alba del Novecento: la poesia in romanesco tra antico e moderno (2 conferenze, Marcello Teodonio, Centro Stu-di Giuseppe Gioachino Belli); La storia attra-verso i francobolli tra anniversari e ideologia nell’Italia degli anni ’30 del Novecento (2 con-ferenze, Annamaria Liberati); Il culto della “romanità”. Diritto e giustizia nell’iconografia fascista (2 conferenze, Marco Fioravanti, ri-cercatore presso la Facoltà di Giurispruden-za dell’Università di Roma “Tor Vergata”); Bombardare Roma. I raid aerei sulla città eter-na tra storia e memoria (2 conferenze, Mad-dalena Carli, Università degli Studi di Te-ramo); Roma del Novecento tra culto della memoria e urbanistica lineare proiettata ver-so il mare (2 conferenze, Alessandro Mazza); 1870-1942: edificare una nuova Roma. Il ruolo del diritto tra ideologie, urbanistica ed archi-tettura (2 conferenze, Enrico Silverio, diret-tore della collana «Studia Juridica»); Letture belliane 2014 (4 conferenze Marcello Teodo-nio, Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli); La molteplice poetica di Carlo Rainaldi: pro-getti, modelli, architetture (Simona Benedetti - Sapienza Università di Roma).

Sopralluoghi

Area del teatro di Marcello: l’attività di Au-gusto (Paola Ciancio Rossetto, archeologa);

Area costantiniana entro il complesso archeo-logico di Santa Agnese fuori le mura (Gabrie-le Bartolozzi Casti, ispettore della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra); Appar-tamento Borgia, Musei Vaticani (Dalma Fra-scarelli); Il palazzo del Burcardo sede del Museo teatrale dell’ASIAE (Tania Renzi, Cu-ratore Storico dell’arte della Sovrintendenza Capitolina); Chiesa di Santa Caterina dei Fu-nari (Monica Grasso, Accademia delle Belle Arti di Urbino); Via Giulia: un’utopia urbana incompiuta (Micaela Antonucci); L’Aventino, fra storia e modernità (Alessandro Mazza); I villini Liberty nel quartiere Ludovisi: un per-corso della memoria (Cecilia Spetia, Curatore Storico dell’arte della Sovrintendenza Capito-lina); Mostra Leopoli Cencelle. Le origini di una città medievale (Francesca Romana Sta-solla, Sapienza Università di Roma); Gli anni Settanta. Arte a Roma - Palazzo delle Esposi-zioni (Maria D’Alesio, Accademia delle Bel-le Arti di L’Aquila).

PUBBLICAZIONI

Nel corso de 2014 sono stati pubblicati i seguenti volumi, anche in coedizione con al-tre case editrici o altri Istituti:

– Vincenzo De Caprio (a cura di), Marian-na Candidi Dionigi paesaggista e viaggia-trice, Viella, Roma 2014.

– Donatella Manzoli, Antonio Ongaro. Ho-spitium Musarum e carmi latini, Istituto Nazionale di Studi Romani, Roma 2014.

– Elisabetta Bianchi (a cura di), La Cloa-ca Maxima e i sistemi fognari di Roma dall’antichità ad oggi, Palombi Editori, Roma 2014.

– Massimiliano Ghilardi - Gaetano Sabati-ni - Matteo Sanfilippo - Donatella Stran-gio (a cura di), Ad ultimos usque terra-rum terminos in fide propaganda. Roma fra promozione e difesa della fede in età moderna, Edizioni Sette Città, Viterbo 2014.

La redazione

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TAVOLE

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Tavola I

Iscrizione da Via Nomentana: particolare del frammento maggiore

(Foto dell’Autore)

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Tavola II

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Tavola III

Fig. 2. Roma, Musei Capitolini; iscrizione CIL, VI, 23608

(da GreGori-MaTTe, a cura di, n. 2017)

Fig. 1. Iscrizione da Via Nomentana

(da Fusco-GreGori, fig. 1)

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Tavola IV

Iscrizione da Via Nomentana: restituzione grafica delle due fasi del testo

(rielaborazione da Fusco-Gregori, fig. 1): a) prima fase; b) seconda fase

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Tavola V

Fig. 1. Villa Corsini a Castello (FI); iscrizione CIL, VI, 9000

(da Granino cecere, a cura di, n. 3595)

Fig. 2. Roma, Secondo colombario Codini; iscrizione di Valeria Nama Marcelliana (CIL, VI, 4501

(Foto A. Reale)

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Tavola VI

Fig. 1. Roma, Secondo colombario Codini; iscrizione di dedica del monumentum da parte di un liberto di Marcella minore (CIL, VI, 4421)

(Foto A. Reale)

Fig. 2. Roma, Secondo colombario Codini; iscrizione di una liberta di Marcella maggiore (CIL, VI, 4655)

(Foto A. Reale)

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Tavola VII

Fig. 1. Statua di Flavia Giulia Elena (particolare) (Roma, Musei Capitolini)

Fig. 2. Resti di vasca battesimale ritrovati in un ambiente forse in precedenza termale accorpato con la basilica di Santa Croce in Gerusalemme

(da cecchelli 1997 cit.)

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Tavola VIII

Fig. 1. Veduta aerea del mausoleo di Sant’Elena(da vendiTTelli 2011 cit.)

Fig. 2. Sarcofago di Sant’Elena in porfido rosso(da vendiTTelli 2011 cit.)

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Tavola IX

Fig. 1. Santo Sepolcro di Gerusalemme (da Grabar 1967 cit.)

Fig. 2. Mosaico di Madaba. Pianta prospettica di Gerusalemme (il Santo Sepolcro è al centro)(da Piccirillo - alliaTa 1999 cit.)

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Tavola X

Fig. 1. Sepolcro di s. Pietro con la sistemazione a cripta semianulare voluta da Gregorio Magno

(da aPollonj GheTTi et alii, 1951 cit. Il disegno è dello stesso Apollonj Ghetti)

Fig. 2. Parco archeologico della via Latina. La basilica di Santo Stefano è indicata da un cerchio (Archivio S.S.B.A.R.)

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Tavola XI

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Tavola XII

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Tavola XIII

Fig. 1. Foto della basilica di Santo Stefano in via Latina posteriore al restauro di Felice Profili

(Archivio fotografico The British School at Rome, Fondo Thomas Ashby)

Fig. 2. Altare della basilica di Santo Stefano in via Latina(Foto di G. Bartolozzi Casti)

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Tavola XIV

Fig. 1. Planimetria della basilica di Santo Stefano in via Latina

(da brandeburG 2004 cit.)

Fig. 2. Complesso battesimale di Santo Stefano in via Latina. Scavo 2008 sotto la direzione di G. Bartolozzi Casti. Rilievo e ricostruzione assonometrica dell’arch. Roberta Loreti

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Tavola XV

Carta archeologica del settore meridionale della regio VII. Fuori scala.Autore: R. MonTalbano

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Tavola XVI

Carta archeologica del settore centrale della regio VII. Fuori scala. Autore: R. MonTalbano

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Tavola XVII

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Tavola XVIII

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Tavola XIX

Fig. 1. ASR, Ministero del Commercio, Belle Arti, Industria, agricoltura elavori pubblici, Sez. 5, Tit. 1, art. 5°, “Escavazioni”, busta 402, foglio 5

Fig. 2. ASR, Ministero del Commercio, Belle Arti, Industria, agricoltura e lavori pubblici, Sez. 5, Tit. 1, art. 5°, “Escavazioni”, busta 403, foglio 1

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Tavola XX

Fig. 1. ASR, Ministero del Commercio, Belle Arti, Industria, agricoltura e lavori pubblici, Sez. 5, Tit. 1, art. 5°, “Escavazioni”, busta 403, foglio 2

Fig. 2. ASR, Ministero del Commercio, Belle Arti, Industria, agricoltura e lavori pubblici, Sez. 5, Tit. 1, art. 5°, “Escavazioni”, busta 403, foglio 3

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Tavola XXI

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Tavola XXII

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Tavola XXIII

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Tavola XXIV

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Tavola XXV

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Tavola XXVI

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Tavola XXVII

Fig. 1. “Monastero di S. Lorenzo in Panisperna in Roma, detto delle Monache di S. Chiara. Pianta terrena relativa all’espropriazione per R. Decreto 26 gennaio 1873” (ACS, LL.PP., Roma Capitale, busta 123)

Fig. 2. “Monastero di S. Lorenzo in Panisperna in Roma, detto delle Monache di S. Chiara. Pianta del primo piano e fabbricati annessi rela-tiva all’espropriazione per R. Decreto 26 gennaio 1873” (ACS, LL.PP.,

Roma Capitale, busta 123)

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Tavola XXVIII

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Tavola XXIX

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Tavola XXX

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Tavola XXXI

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Tavola XXXII

Fig. 1. R. Istituto Chimico in Roma. Cav. Mansueti Architetto 1879 (Biblioteca Besso - Raccolta Consoni, inv. C054, eliotipia)

Fig. 2. “Icnografia della chiesa di San Lorenzo in Panisperna, suoi locali dipendenti ed attiguo & Monastero. Tavola prima. Chiesa ed annessi e piani inferiori dell’Attiguo ex Monastero”

(da ACS, Min Pubbl. Istruzione, Dir. Gen. Antichità e Belle Arti, Il vers., II serie, All. B 13, f. 603, estratto da b. 403, fasc. 4499)

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Tavola XXXIII

“Icnografia della chiesa di San Lorenzo in Panisperna, suoi locali dipendenti ed attiguo & Monastero. Tavola prima. Chiesa ed annessi e piani inferiori dell’Attiguo ex Monastero”

(da ACS, Min. Pubbl. Istruzione, Dir. Gen. Antichità e Belle Arti, II vers., II serie, All. B 13, f. 603, estratto da b. 403, fasc. 4499)

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Tavola XXXIV

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Tavola XXXV

Fig. 1. Stemma di Everso dell’Anguillara, prima metà del XV sec., Ospedale Lateranense, Roma, fronte e retro

Fig. 2. “Progetto di restauro” del monu-mento Easton indirizzato da Francesco Gualdi al cardinale Francesco Barberini, Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Barb. Lat. 3084, f.n.n. (da G. KreyTenberG, Das Grabmal für Kardinal Adam Easton in Santa Cecilia in Trastevere und seine Bildhauer Giovanni d’Ambrogio und Lo-renzo di Giovanni aus Florenz, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», LIII, 2009 [2011], 2/3, pp. 197-216 [201])

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Tavola XXXVI

Fig. 1. Monumento sepolcrale del cardinale Adam Easton († 1397), Santa Cecilia in Trastevere, Roma

Fig. 2. Xilografia per il trattato Delle memorie se-polcrali, raffigurante la perduta lastra tombale di Maria Frangipane († 1422) e l’epitaffio di Giovan-ni Frangipane (XIII sec.) in Santa Cecilia in Tra-stevere

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Tavola XXXVII

Fig. 1. Sarcofago delle Muse, II metà del III sec. d.C., San Paolo fuori le Mura, Roma, chiostro

Fig. 2. Particolare del Sarcofago delle Muse di San Paolo fuori le Mura, con un taglio praticato sulla copertura a tetto

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Tavola XXXVIII

Fig. 1. Giovan baTTisTa Piranesi, Sepolcro di Cecilia Metella, acquaforte

Fig. 2. anoniMo, Progetto per la Fontana di Trevi (libera riproposizione del progetto di Gian Lorenzo Bernini), olio su tela, XVII sec., Collezione Rospigliosi, Roma

(da a. neGro, La collezione Rospigliosi: la quadreria e la committenza artistica di una famiglia patrizia a Roma nel Sei e Settecento, Roma 1999, p. 282)

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Tavola XXXIX

Fig. 1. Incisione raffigurante il Ponte di Tiberio a Rimini nel suo aspetto origina-rio (sopra) e nelle condizioni in cui versava prima del restauro del 1680 (sotto) (da a. MarTinelli, Notitie, e delineatione del famoso ponte d’Ottaviano Augusto nella

città di Rimini, Roma, per il Tinassi 1681)

Fig. 2. Interno della Cappella Bufalini, Santa Maria in Aracoeli, Roma

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Tavola XL

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Tavola XLI

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Tavola XLII

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Tavola XLIII

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Tavola XLIV

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Tavola XLV

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Tavola XLVI

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Tavola XLVII

Fig. 1. Doc. 22707 Fa 107, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina - Convento dell’An-nunziata, piano secondo - Rielaborazione grafica. I numeri sono aggiunti

Fig. 2. Doc. 22710 Fa 107, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina - Convento dell’An-nunziata, piano terzo (nord) - Rielaborazione grafica. I numeri sono aggiunti

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Tavola XLVIII

Fig. 1. Doc. 22708 Fa 107, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina Archivio Capitolino - Convento dell’Annunziata, pianta della terrazza della scala principale -

Rielaborazione grafica. I numeri sono aggiunti

Fig. 2. Doc. 22709 Fa 107, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina - Convento dell’Annunziata, piano terzo (sud) - Rielaborazione grafica. I numeri sono aggiunti

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Tavola XLIX

Fig. 1. Doc. 22711 Fa 107, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina - Convento dell’Annunziata, sezione longitudinale

Fig. 2 . Doc. 22712 Fa 107, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina - Convento dell’Annunziata, sezione trasversale

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Tavola L

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Tavola LI

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Tavola LII

Fig. 1. S. Benno ricieve le chiavi di Meissen s. Maria dell’Anima 1617-1618

Fig. 2. Arrivo dell’Ambasciatore imperiale Principe Liechtenstein al Palazzo del Quiri-nale 27-XII-1691 dall’incisione di G. Wouters 1692, coll. Liechtenstein

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Tavola LIII

Fig. 1. Carozza per l’entrata dell’Ambasciatore imperiale Principe Liechtenstein(Acquaforte Vincent da Creccolini 1694)

Fig. 2. Carozza per l’entrata dell’Ambasciatore imperiale Principe Liechtenstein(Acquaforte Vincent da Creccolini 1694)

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Tavola LIV

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Tavola LV

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Tavola LVI

Fig. 1. Stemma di Agostino Martinelli, incisione

(in A. MarTinelli, Descrittione di diversi ponti, Roma 1676)

Fig. 2. a. MarTinelli, Ortografia del Ponte Felice sopra il fiume Tevere, disegno acquerellato

(ASR, Disegni e Mappe, I, 118, 91)

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Tavola LVII

Fig. 1. a. MarTinelli, Delineatione del riparo fatto alla ripa corrosa dietro l’ala del ponte Felice dalla parte del Borghetto …, disegno acquerellato

(ASR, Disegni e Mappe, I, 118, 83)

Fig. 2. C. nolli (incisore), Planimetria del convento dei SS. Bonifacio e Alessio all’Aventino

(da F. nerini 1752)

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Tavola LVIII

Fig. 1. A. MarTinelli (inventore), Proposta di trasformazione della cappella maggiore di S. Barbara dei Librai, incisione

(in A. MarTinelli, Disegni di cappelle, et altre Fabriche da construirsi nella Chiesa di S. Barbara de’ signori librari, 1679)

Fig. 2. A. MarTinelli (inventore), Distinta esposizione delli ripari fatti nel Tevere dentro le Ripe delli Piani di Magliano, qual resta delineato sopra

l’ultime colline, particolare dell’incisione centrale

(ASR, Disegni e Mappe, I, 118, 84)

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Tavola LIX

Fig. 1. A. MarTinelli (inventore), Corografica descrittione dello stato in cui si trova di presente il fiume Tevere dal luogo detto le Bavucche d’Orte sino al Ponte Felice con l’espositione di quanto

si crede possi seguire dalla detta situatione, particolare dell’incisione centrale

(ASR, Disegni e Mappe, I, 118, 85)

Fig. 2. A. MarTinelli (inventore e incisore), Ponte Gianicolense detto Ponte Sisto sopra il Tevere, incisione

(da A. MarTinelli, Descrittione di diversi ponti, 1676)

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Tavola LX

Fig. 1. A. Gnoli (inventore e incisore), Ponte detto del Sesto sopra la Nera a Terni, incisione

(da A. MarTinelli, Descrittione di diversi ponti, 1676)

Fig. 2. A. Gnoli (inventore e incisore), Ponte Felice sopra al Tevere tra il Borghetto e Magliano in Sabina, incisione

(da A. MarTinelli, Descrittione di diversi ponti, 1676)

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Tavola LXI

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Tavola LXII

Fig. 1. A. MarTinelli (inventore), M. A. Marinari (incisore), Corografia del Fiume Tevere, incisione

(ASR, Disegni e Mappe, I, 118, 94)

Fig. 2. A. MarTinelli, Terreno escavato ad angolo retto con passonata, disegno acquerellato

(ASR, Congregazione delle Acque, busta 71, fasc. 213, V volumetto)

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Tavola LXIII

Fig. 1. A. MarTinelli, Muro Grosso detto de Romani, disegno acquerellato, particolare

(ASR, Congregazione delle Acque, busta 71, fasc. 213, V volumetto)

Fig. 2. A. MarTinelli, Ortografia delli Ponti di Arezzo, disegno acquerellato, particolare

(ASR, Congregazione delle Acque, busta 71, fasc. 213, V volumetto)

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Tavola LXIV

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Tavola LXV

Fig. 1. Archivio di Stato di Roma, Catasto Gregoriano-Agro Romano, mappa 153. Il Casino della Villa (volume a L), e gli altri edifici della proprietà. Il Coffeehouse (“Casa

a uso di delizia”) è il n. 438

Fig. 2. Archivio Storico Capitolino, I.E., prot. 13578/1926 e 5882/1927. Lo stato della Villa seicentesca all’epoca del restauro di Tullio Passarelli

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Tavola LXVI

Fig. 1. Archivio di Stato di Roma. Pianta della Villa allegata all’atto del 14 agosto 1824

Fig. 2. Pianta del 1824: dettaglio di Casino, Giardino e “Stazzo”

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Tavola LXVII

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Tavola LXVIII

Fig. 1. Villa dei tre Orologi. Il corpo avanzato della ex-stalla, sopraelevato e trasformato in edi-ficio di residenza negli anni ’20, e il prospetto principale della Villa. In primo piano, il cancel-

lo con la lettera “S” in forma di delfino (alludente ai Parodi Delfino e alla Società SARI)

Fig. 2. Villa dei tre Orologi. Il finestrone neobarocco sul muro di cinta

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Tavola LXIX

La Villa dei Tre Orologi in relazione agli altri Casini e Ville nell’area dei Parioli. La base car-tografica è la pianta di Roma dell’IGM (1924). Legenda: 1. Villa dei Tre Orologi; 2. Casino Modetti, via Aldrovandi; 3. Villa Taverna (Vigna dell’Apollinare), viale Rossini; 4. Casale Riganti (già dei Gesuiti del Collegio Romano), via Bertoloni; 5. Villa del Monticello (Attuale Ambasciata

Svizzera), via Oriani

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Tavola LXX

Fig. 1. anTonio david (attr.) ‘Ritratto di Signora con fiori in mano’, olio su telaFig. 2. anTonio david (attr.) ‘Ritratto di Signora molto scollata’, olio su tela

(Roma, Palazzo Montecitorio, in deposito da Museo Nazionale di Capodimonte)

1

2

Per gentile concessione della Fototeca della Soprintendenza Speciale per il P.S.A.E. e per il Polo Museale della Città di Napoli

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Tavola LXXI

Fig. 1. anTonio david (attr.) ‘Ritratto di Signora’, olio su telaFig. 2. anTonio david (attr.) ‘Ritratto di Signora con dalia in mano’, olio su tela

(Roma, Palazzo Montecitorio, in deposito da Museo Nazionale di Capodimonte)

1

2

Per gentile concessione della Fototeca della Soprintendenza Speciale per il P.S.A.E. e per il Polo Museale della Città di Napoli

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Tavola LXXII

Figg. 1-2. anTonio david (attr.) ‘Ritratto di Signora con perle in mano’, olio su tela (prima e dopo il restauro)

(Roma, Palazzo Montecitorio, in deposito da Museo Nazionale di Capodimonte)

1

2

Per gentile concessione della Fototeca della Soprintendenza Speciale per il P.S.A.E. e per il Polo Museale della Città di Napoli

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Tavola LXXIII

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Tavola LXXIV

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Tavola LXXV

Fig. 1. jacob Ferdinand voeT, ‘Maria Mancini legge la sorte ad Ortensia’, olio su tela, Windsor Castle Fig. 2. hyacinThe riGaud, ‘Ritratto della marchesa di Louville Sophie’, olio su tela

(Collezione privata)

1

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Tavola LXXVI

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Tavola LXXVII

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Tavola LXXVIII

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Tavola LXXIX

Fig. 1. L’esterno della palazzina Monteverde su Piazza Indipendenza (Foto Gabriele Mariotti)

Fig. 2. L’interno del bar Florian’s (Foto Gabriele Mariotti)

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Tavola LXXX

Fig. 1. Particolare del fregio della “Sala etrusca” di Annibale Brugnoli (Foto Gabriele Mariotti)

Fig. 2. Il soffitto di Annibale Brugnoli nel Salone da ricevimento al primo piano della palazzina (Foto Gabriele Mariotti)

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Tavola LXXXI

Fig. 1. Il soffitto di Annibale Brugnoli nel Salone da ricevimento al primo piano della palazzina, particolare

(Foto Gabriele Mariotti)

Fig. 2. Progetto Anderloni per la costruzione della palazzina Monteverde, Roma, Archivio storico capitolino, Fondo T 54, prot. 16273, 1875, prospetto verso Piazza Indipendenza. In facciata, secondo la testimonianza del Durand sulla rivista “L’art en Italie”, correva la scritta “artibus colendis reverendisque”

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Tavola LXXXII

Fig. 1. Progetto Anderloni per la costruzione della palazzina Monteverde, Roma, Archivio storico capitolino, Fondo T 54, prot. 16273, 1875, pianta del piano terreno adibito a studio di scultura. Nel disegno non compare l’abside dell’atelier, ricavata da modifiche in corso d’opera che inde-

bolirono l’importanza del salotto di ingresso allo studio fronteggiante l’imposta delle scale

Fig. 2. Particolare delle decorazioni di Annibale Brugnoli nell’emiciclo della “Sala etrusca” (Foto Gabriele Mariotti)

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Tavola LXXXIII

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Tavola LXXXIV

Fig. 1. Bozzetto di Corrado Mezzana per il valore di posta ordinaria da 1,75 Lire con sovra-prezzo di 1 Lira realizzato per la serie filatelica celebrativa del Bimillenario Augusteo rivolta al Regno d’Italia ed illustrante l’Ara Pacis Augustae secondo l’iconografia che verrà impiegata nel programma del Convegno Augusteo del 1938 (Roma, Archivio dell’Istituto Nazionale di Studi Romani) Fig. 2. Il valore di posta ordinaria color arancio da 1,75 Lire con sovraprezzo di 1 Lira realizzato per la serie filatelica celebrativa del Bimillenario Augusteo rivolta alle Isole italiane dell’Egeo ed illustrante l’Ara Pacis Augustae secondo l’iconografia che verrà impiegata

nel programma del Convegno Augusteo del 1938

(Disegno di Corrado Mezzana. Collezione autore)

1 2

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Tavola LXXXV

Fig. 1. Bozzetto di Corrado Mezzana per il valore di posta aerea da 80 centesimi realizzato per la serie filatelica celebrativa del Bimillenario Augusteo rivolta al Regno d’Italia ed illustrante il tema della grandezza di Roma attraverso la Quadriga del Sole ripresa dalla lorica dell’Augusto di Prima Porta e le parole tratte dal Carmen saeculare, disegno di Corrado Mezzana. Questo tema e questi elementi saranno recuperati da Mezzana nell’illustrazione della quarta di copertina del programma del Convegno Augusteo del 1938 (Roma, Archivio dell’Istituto Nazionale di Studi Romani) Fig. 2. Il valore di posta aerea color azzurro da 80 centesimi realizzato per la serie filatelica celebrativa del Bimillenario Augusteo rivolta alle Isole italiane dell’Egeo ed illustrante il tema della grandezza di Roma attraverso la Quadriga del Sole ripresa dalla lorica dell’Augusto

di Prima Porta e le parole tratte dal Carmen saeculare, disegno di Corrado Mezzana.

(Collezione autore)

1

2

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Tavola LXXXVI

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Tavola LXXXVII

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Tavola LXXXVIII

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Tavola LXXXIX

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Tavola XC

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Tavola XCI

Fig. 1. Il francobollo commemorativo del Bimillenario della morte dell’imperatore Augusto inserito all’interno dell’apposita tessera filatelica, anch’essa realizzata da

Poste Italiane

Fig. 2. Il francobollo commemorativo del Bimillenario della morte di Augusto applicato sulla cartolina filatelica realizzata per l’occasione. Si distingue anche

lo speciale annullo postale realizzato da Poste Italiane

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Tavola XCII

Fig. 1. La cartolina filatelica realizzata da Poste Italiane su progetto dell’Isti-tuto Nazionale di Studi Romani in occasione del convegno internazionale

del 23-24 ottobre 2014

Fig. 2. Lo speciale annullo postale realizzato da Poste Italiane su progetto dell’Istituto Nazionale di Studi Romani in occasione del convegno internazio-

nale del 23-24 ottobre 2014

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Finito di stampare nel mese di giugno 2015

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