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Studi e ricerche Il trattato di pace italiano La prospettiva inglese di Christopher Seton-Watson Il trattato di pace italiano del febbraio 1947 venne elaborato dal Foreigh Office, e il testo fi- nale mantenne l’impronta britannica nonostan- te le modifiche apportate in sede di negoziato da USA e URSS. Riguardo all’Italia la posizio- ne inglese fu contrastante. Se da una parte era vivamente sentita l’esigenza di dimostrare che l’aggressione non paga e di esigere la punizione dei misfatti dell’Italia come alleata della Ger- mania, dall’altra si sperava di salutarne il ritor- no nel consesso delle nazioni democratiche a guerra conclusa. I negoziati armistiziali del 1943 avevano escluso ogni discussione sulle condizioni di pace, e le proposte del 1944 per un trattato di pace parziale o preliminare si era- no dimostrate premature, soprattutto per l’op- posizione di Churchill. Il presente saggio, interamente basato su fonti britanniche, prende in considerazione la formu- lazione tra il settembre 1944 e il luglio 1945 del- le clausole territoriali, coloniali e militari (ma non economiche) del futuro trattato, analizzan- do sia il dibattito interno del Foreign Office che il processo di consultazioni con i capi di Stato Maggiore, con l’Ufficio coloniale, e con il Quartier generale delle forze armate nel Medi- terraneo, senza dimenticare gli interessi di quei paesi che, come Francia, Grecia, Jugoslavia ed Etiopia, erano stati alleati nella guerra contro l’Italia. Il Dipartimento di Stato statunitense e i governi dei Dominions furono tenuti a giorno del processo decisionale, ma vi contribuirono ben poco. E fino al settembre 1945 non fu data nessuna informazione ufficiale al governo ita- liano in merito ai contenuti della bozza di trat- tato. Con il trattato il governo inglese realizzò la maggior parte dei suoi obiettivi, ma nel giro di pochi anni la guerra fredda e il declino della po- tenza britannica nel Mediterraneo facevano sparire gran parte dei suoi vantaggi e scopi. The Italian Peace Treaty o f February 1947 was drafted in the British Foreign Office, and the f i - nal text, despite modification during negotia- tion with the USA and USSR, retained its Briti- sh stamp. There was a conflict in the British at- titude to Italy. On the one hand it was felt es- sential to show that aggression did not pay, and to exact retribution from Italy for its misdeeds as an ally o f Germany, while on the other hand there was the hope o f welcoming Italy back af- ter the war to the international democratic com- munity. Discussion o f peace terms was exclu- ded from the armistice negotiations o f 1943, and proposals during 1944for a partial or preli- minary peace treaty proved abortive, mainly due to Churchill’s opposition. This paper, ba- sed entirely on British sources, is a study o f the drafting o f the territorial, colonial and military (but not economic) clauses between September 1944 and July 1945. It analyses the internal de- bates within the Foreign Office as well as the process o f consultation with the Chiefs of Staff, the Colonial Office and Allied Forces Headquarters in the Mediterranean. The intere- sts of those countries which had been allies in the war against Italy France, Greece, Yougo- slavie and Ethiopia were also taken into ac- count. The US State Department and the Domi- nions Governments were kept fully informed of the process o f drafting, but contributed little to it. The Italian Government was given no offi- cial information o f the contents o f the draft un- til September 1945. Though the British Govern- ment achieved most o f its objectives in the treaty, within a few years the cold war and the decline o f British power in the Mediterranean had deprived it o f much o f its utility and pur- pose. Italia contemporanea”, marzo 1991, n. 182

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Studi e ricerche

Il trattato di pace italianoLa prospettiva inglese

di Christopher Seton-Watson

Il trattato di pace italiano del febbraio 1947 venne elaborato dal Foreigh Office, e il testo fi­nale mantenne l’impronta britannica nonostan­te le modifiche apportate in sede di negoziato da USA e URSS. Riguardo all’Italia la posizio­ne inglese fu contrastante. Se da una parte era vivamente sentita l’esigenza di dimostrare che l’aggressione non paga e di esigere la punizione dei misfatti dell’Italia come alleata della Ger­mania, dall’altra si sperava di salutarne il ritor­no nel consesso delle nazioni democratiche a guerra conclusa. I negoziati armistiziali del 1943 avevano escluso ogni discussione sulle condizioni di pace, e le proposte del 1944 per un trattato di pace parziale o preliminare si era­no dimostrate premature, soprattutto per l’op­posizione di Churchill.Il presente saggio, interamente basato su fonti britanniche, prende in considerazione la formu­lazione tra il settembre 1944 e il luglio 1945 del­le clausole territoriali, coloniali e militari (ma non economiche) del futuro trattato, analizzan­do sia il dibattito interno del Foreign Office che il processo di consultazioni con i capi di Stato Maggiore, con l’Ufficio coloniale, e con il Quartier generale delle forze armate nel Medi- terraneo, senza dimenticare gli interessi di quei paesi che, come Francia, Grecia, Jugoslavia ed Etiopia, erano stati alleati nella guerra contro l’Italia. Il Dipartimento di Stato statunitense e i governi dei Dominions furono tenuti a giorno del processo decisionale, ma vi contribuirono ben poco. E fino al settembre 1945 non fu data nessuna informazione ufficiale al governo ita­liano in merito ai contenuti della bozza di trat­tato.Con il trattato il governo inglese realizzò la maggior parte dei suoi obiettivi, ma nel giro di pochi anni la guerra fredda e il declino della po­tenza britannica nel Mediterraneo facevano sparire gran parte dei suoi vantaggi e scopi.

The Italian Peace Treaty o f February 1947 was drafted in the British Foreign Office, and the f i ­nal text, despite modification during negotia­tion with the USA and USSR, retained its Briti­sh stamp. There was a conflict in the British at­titude to Italy. On the one hand it was felt es­sential to show that aggression did not pay, and to exact retribution from Italy for its misdeeds as an ally o f Germany, while on the other hand there was the hope o f welcoming Italy back af­ter the war to the international democratic com­munity. Discussion o f peace terms was exclu­ded from the armistice negotiations o f 1943, and proposals during 1944for a partial or preli­minary peace treaty proved abortive, mainly due to Churchill’s opposition. This paper, ba­sed entirely on British sources, is a study o f the drafting o f the territorial, colonial and military (but not economic) clauses between September 1944 and July 1945. It analyses the internal de­bates within the Foreign Office as well as the process o f consultation with the Chiefs of Staff, the Colonial Office and Allied Forces Headquarters in the Mediterranean. The intere­sts o f those countries which had been allies in the war against Italy — France, Greece, Yougo­slavie and Ethiopia — were also taken into ac­count. The US State Department and the Domi­nions Governments were kept fully informed o f the process o f drafting, but contributed little to it. The Italian Government was given no offi­cial information o f the contents o f the draft un­til September 1945. Though the British Govern­ment achieved most o f its objectives in the treaty, within a few years the cold war and the decline o f British power in the Mediterranean had deprived it o f much o f its utility and pur­pose.

Italia contemporanea”, marzo 1991, n. 182

6 Christopher Seton-Watson

Le prime serie discussioni nei circoli ufficiali inglesi sulle condizioni a cui si sarebbe potu­ta concludere la pace con l’Italia al termine della guerra si svolsero al Foreign Office nel febbraio del 1943, sotto la spinta dei diversi sondaggi di pace fatti dagli italiani, il più promettente dei quali proveniva da Pietro Badoglio. Inevitabile, in quelle circostanze, vagliare gli eventuali vantaggi di qualche modifica alla richiesta di “resa incondizio­nata” proclamata a Casablanca da Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt in gennaio. Altre pressioni venivano dal Co­mando militare alleato (Afhq, Allied Forces Headquarters) di Algeri e dalla Commissio­ne esecutiva per la stampa e propaganda (Pwe, Political Warfare Executive) perché venisse definita una linea politica per l’inva­sione della Sicilia, già in fase di pianificazio­ne. In un appunto a Churchill del 17 feb­braio Anthony Eden annotava1 :

La nostra attuale linea consiste nel non fare pro­messe di sorta: ci limitiamo ad offrire agli italiani (attraverso la propaganda) l’alternativa tra l’af­fondare e il sopravvivere. Non promettiamo loro una partita di abiti o cibo. Confidiamo che la li­nea dura, rinforzata da pesanti incursioni aeree e dalla minaccia dell’invasione, sarà sufficiente a spaventare gli italiani costringendoli ad uscire dalla guerra.Ma se vogliamo andare oltre e ottenere che qual­che gruppo in Italia collabori con noi su questa base, mi rendo conto che dovremo offrire almeno qualche speranza relativa al futuro dell’Italia.Ma non potremmo promettere nulla di definito [...] Il governo degli Stati Uniti, comunque, desi­dera chiaramente che si offra un raggio di spe­

ranza [...] Ho appena ricevuto da Cordell Hull [segretario di Stato statunitense] una formula che ritengo possa rispondere al caso e che suona co­me segue: “Dovremmo offrire al popolo italiano, senza prendere alcun impegno né specifico né ter­ritoriale, la speranza che l’Italia, come nazione, sopravviverà alla sconfitta del governo fascista e che né noi né gli americani abbiamo ambizioni territoriali per quanto riguarda quel territorio che è e che è sempre stato essenzialmente italiano”2.

L’8 marzo il Foreign Office produsse un memorandum su “Italia. Questioni territo­riali del dopoguerra” , quale parte delle di­rettive di Eden in previsione della sua prossi­ma visita a Washington. In esso si sottoli­neava come non fosse ancora stata presa al­cuna decisione in merito all’alternativa fra imporre all’Italia “una pace punitiva” o trattarla “con relativa indulgenza”. Ma qua­le che potesse essere la decisione definitiva “non sono molte le aree in cui saremo liberi di scegliere, permanga o meno un’autorità italiana” .

Il memorandum esaminava poi gli impegni e i desiderata britannici del momento, in relazio­ne ai territori che non erano “essenzialmente italiani”, secondo i punti qui elencati, a) Rela­tivamente alla frontiera italo-jugoslava, il go­verno jugoslavo era stato informato, prima dell’invasione tedesca dell’aprile 1941, cheil governo di Sua Maestà era incline a ritenere di dover affermare e difendere alla conferenza di pa­ce la causa della revisione della frontiera itaio-ju- goslava in Istria. Sino ad oggi si è sostenuto che sia­mo ancora vincolati a questa garanzia, che peral­tro è formulata in termini così generali da impe­gnarci a ben poco.

Quando non altrimenti indicato, le fonti di cui mi sono servito in questo saggio sono conservate presso il British Public Record Office, al personale del quale devo molta gratitudine. Deliberatamente non sono state prese in consi­derazione fonti americane e italiane, essendomi limitato alle informazioni a disposizione de — e utilizzate da — gli inglesi che formularono il trattato di pace. Ritengo che ciò sia giustificato dalla sua impronta chiaramente identifi­cabile come ‘britannica’.' PREM3/242/9.2 La formulazione proposta da Cordell Hull era stata trasmessa ad Anthony Eden dall’ambasciata statunitense l’l 1 febbraio. Cfr. Public Record Office, Foreign Office General Correspondence (di seguito Fo 371), 37260A, R1631/ 168.

La prospettiva inglese 7

b) In merito alla frontiera italo-tedesca:

Nonostante che il governo italiano abbia condot­to nel Trentino [57'c] una politica spietata di italia­nizzazione, questo territorio non appartiene né per storia né per tradizione all’Italia e se al termi­ne della guerra dovesse essere ripristinata l’indi­pendenza dell’Austria (questione sulla quale non è stata presa alcuna decisione)3, vi sarebbero forti motivi per restituirle il Trentino.

c) Il 17 dicembre 1942 il governo britan­nico aveva dichiarato il proprio desiderio di vedere l’Albania “reintegrata nella propria indipendenza”, d) La rivendicazione gre­ca del Dodecaneso, “tanto per motivi etni­ci quanto a riconoscimento dei servizi resi dalla Grecia alla causa alleata, è ineludibi­le” . e) Il governo britannico si era impegna­to a restaurare l’Etiopia quale stato indipen­dente.

f) Interessi strategici richiederanno la smilitariz­zazione dell’Eritrea e della Somalia italiana ed esistono forti argomentazioni basate su motivi strategici e politici a favore di una totale cancella­zione dell’influenza italiana ad est di Suez. Sino­ra non è stata presa alcuna decisione sullo status futuro di questi territori, qualora non dovessero tornare sotto il dominio italiano, sebbene sia sta­

ta proposta in via sperimentale la creazione di una federazione somala comprendente la Somalia francese, britannica, italiana ed alcune zone non abissine dell’Etiopia.

g) In considerazione della posizione stra­tegica di Pantelleria, “può essere auspicabile garantirle uno status speciale, come la smili­tarizzazione”. h) Cirenaica. Nel febbraio 1942 era stata data assicurazione a Sayd Idris El Senussi che essa non sarebbe in nes­sun caso caduta sotto il dominio italiano4; il futuro status del paese restava peraltro inde­terminato.Gli alleati (e noi in particolare) desidereranno sta­bilirvi basi militari ed aeree [...] A prima vista, l’instaurazione della sovranità egiziana sulla pro­vincia potrebbe manifestarsi [...] come una solu­zione conveniente, politicamente vantaggiosa e storicamente giustificabile.

i) Tripolitania:Non dovrebbero esservi obiezioni particolarmen­te forti al ritorno di questo paese all’Italia, anche se le esigenze strategiche alleate ne renderebbero essenziale la smilitarizzazione5.

Il 7 luglio Anthony Eden sottopose al Ga­binetto di guerra un esteso memorandum in-

3 I tre governi alleati avevano dichiarato il loro desiderio di “vedere ristabilita un’Austria libera e indipendente” al­la conferenza di Mosca dell’ottobre 1943.4 L’8 gennaio 1942 Eden fece alla House o f Commons la seguente dichiarazione: “Sayd Idris el Senussi prese con­tatto con le autorità britanniche in Egitto non più di un mese dopo il crollo della Francia, in un periodo in cui la si­tuazione militare in Africa era oltremodo sfavorevole per noi. Successivamente fu costituita una forza militare composta da quei partigiani che a più ripresa negli ultimi venti anni erano sfuggiti all’oppressione italiana. Questa forza svolse notevoli compiti ausiliari nei vittoriosi combattimenti nel deserto occidentale durante l’inverno 1940- 1941, e sta nuovamente dando un valido contributo alla campagna ora in corso. Colgo l’occasione per esprimere il caldo apprezzamento del governo di Sua Maestà per il contributo che Sayd Idris el Senussi ed i suoi seguaci hanno prestato e continuano a prestare allo sforzo bellico britannico. Diamo il benvenuto alla loro alleanza con le forze di Sua Maestà per la sconfitta dei comuni nemici. Il governo di Sua Maestà ha stabilito che alla fine della guerra i se­nussi in Cirenaica non cadranno più in alcun caso sotto il dominio italiano” (cfr. “Parliamentary Debates”, 5a se­rie, voi. 377, pp. 77-78).5 Fo 371/37281, R2132. Si veda inoltre “Policy towards Italy: Brief fo r Mr Eden’s visit to Washington” di Piers Dixon, segretario privato di Eden, 6 marzo, in Fo 371/37260A, R2134/168. Durante la visita di Eden fu concorda­ta una nuova direttiva di guerra, ma la formulazione di Hull fu in seguito sostituita, dietro suggerimento di Frank­lin D. Roosevelt, dalla seguente: “Dobbiamo offrire assicurazione che l’Italia sopravvivrà come nazione dopo la sconfitta del governo fascista senza prendere nessun specifico impegno territoriale”. La formulazione non doveva essere usata prima del “momento dell’invasione” (Cfr. Winant a Eden, 13 aprile, ivi, R3418/168, al cui proposito Dixon osservò in un appunto per Eden: “È, ritengo, tutto di guadagnato”.

8 Christopher Seton-Watson

titolato “Il piano delle Nazioni Unite per or­ganizzare la pace ed il benessere” , che conte­neva soltanto un rapido passaggio sull’I­talia:L’Italia non è mai stata, in nessun senso effetti­vo, una potenza mondiale, e inoltre, con ogni probabilità essa è entrata in guerra contro i reali desideri di una parte considerevole della sua po­polazione. È quindi possibile prospettare un’Ita­lia non fascista, che aderisce alle Nazioni Unite al termine della guerra (quantunque non in una po­sizione di guida), forse dopo un certo periodo di prova6.

Durante i lunghi negoziati tra la caduta di Benito Mussolini, il 25 luglio, e l’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre, furono rigoro­samente bandite tutte le discussioni sulle condizioni di pace. Con grande rincresci­mento del Foreign Office, Dwight David Ei­senhower aveva detto agli italiani nel procla­ma radiofonico del 24 luglio: “Potete avere la pace immediatamente, e la pace alle con­dizioni onorevoli che il nostro governo vi ha già offerto” . Avendo visto il testo originale, Eden aveva cercato vanamente di far cancel­lare le parole “condizioni onorevoli” .È vero — rilevava — che non abbiamo intenzione di distruggere l’Italia o di imporre altre condizio­ni infamanti del genere. Ma a parte questo, le condizioni da noi proposte sono piuttosto rigide e potrebbero essere ritenute non particolarmente ‘onorevoli’ dagli italiani, dopo che si fossero ar­resi incondizionatamente7.

Il 30 luglio, interrogato alla House o f Commons in merito a dichiarazioni apparse sulla stampa, secondo le quali “erano state fatte al governo italiano alcune proposte sul­le condizioni di resa” , Eden rispose: “Non sono state proposte condizioni di sorta; as­solutamente nessuna condizione”, ammet­tendo nello stesso tempo che la dichiarazio­ne di Eisenhower “ha l’approvazione del no­stro governo”8. Il 16 agosto scrisse a Chur­chill:Sono certo che dovremmo mantenerci fedeli alla nostra attuale politica di rifiuto di fare promesse al governo italiano o di iniziare con esso mercan­teggiamenti in cambio della resa9.

E di fatto fu questa la politica perseguita.Nel frattempo, il 28 luglio, Eden aveva

confermato alla House o f Commons che il governo non aveva alcuna intenzione di re­stituire all’Italia i suoi ex possedimenti in Africa settentrionale; e il 21 settembre Chur­chill dichiarò che “il suo impero è stato per­so, irrimediabilmente perso”10.

Il primo a suggerire al Foreign Office di cominciare a lavorare su dettagliate condi­zioni di pace sembra essere stato il suo consi­gliere legale, Malkin, in una nota del 9 otto­bre, nella quale si prevedevano le difficoltà che sarebbero con ogni probabilità sorte con­cedendo all’Italia lo status di cobelligerante:È, come ritengo, già sufficientemente chiaro il fatto che se l’Italia termina la guerra come una

6 Sir Llewellyn Woodward, British Foreign Policy in the Second World War, vol. V, London, Himso, 1976, p. 52.7 Bozza di appunto per Winston Churchill, 27 luglio, in Fo 371/37263B, R6940/242. In una nota a Eden del 29 lu­glio, sir Orme Sargent dichiarava che il primo ministro aveva “malauguratamente” annullato il telegramma che suggeriva l’omissione dei termini che sollevavano obiezioni. Sargent era sicuro che “d’ora in poi tanto meglio quan­to meno si dice nella forma di dichiarazioni e annunci ufficiali relativi alla nostra politica sull’eventualità della resa italiana. Non riesco a credere che corteggiando il popolo italiano accelereremo l’avvento della pace. Anzi, persi­stendo in questa politica, si potrà produrre l’effetto contrario”. Eden annotò a margine: “Sono pienamente d’ac­cordo” (cfr. Fo 371/37288, R7047/5880).8 “House of Commons Debates”, 5a serie, voi. 391, pp. 1930-31. Si veda anche la risposta di Eden ad un’ulteriore interrogazione il 4 agosto: “Agli italiani non sono state proposte condizioni di pace. Continuiamo a chiedere la resa incondizionata”, ivi, p. 2270.9 Fo 371/37264, R7588/242.10 “House of Commons Debates”, 5a serie, voi. 391, p. 1550, e voi. 392, p. 87.

La prospettiva inglese 9

delle potenze che hanno sconfitto la Germania, sarà impossibile disarmarla completamente, come stabilito dalla Carta atlantica11.

Al momento della resa italiana avevamo suppo­sto che quando si fosse giunti all’accordo di pace saremmo stati in grado di imporre all’Italia qual­siasi condizione avessimo ritenuto adeguata, per quanto sgradevole potesse apparire a quel paese; mi riferisco, a questo proposito, in particolare, per quanto non esclusivamente, agli accordi terri­toriali [...] Inoltre è probabile che l’Italia sia in ogni caso rassegnata a perdere comunque la mag­gior parte del suo impero coloniale, mentre po­trebbe opporsi con forza alla cessione di un suo territorio metropolitano o del Dodecaneso; e se il risultato fosse che noi ottenessimo parti conside­revoli delPAfrica settentrionale italiana e che Gre­cia e Jugoslavia non ottenessero assolutamente nulla, sarebbe ristabilita pienamente la nostra re­putazione nazionale di perfidia.

Quale mezzo per uscire dalle difficoltà, Malkin suggeriva:

Dovremmo cercare di essere pronti a dare rispo­sta, a scadenza piuttosto ravvicinata, alla richie­sta di proporre condizioni per un accordo di pace comunque parziale; e attualmente non lo siamo certamente.

Accordo che dovrebbe includere una siste­mazione territoriale, “capace comunque di comprendere la determinazione delle future frontiere italiane” , lasciando a successivi ac­cordi tra gli alleati di disporre la sistemazio­ne del territorio in tal modo distaccato dal­l’Italia12.

La nota motivò la richiesta di sir Orme Sargent a Alexander Cadogan perché fosse convocata una riunione

per decidere se sia auspicabile o possibile, nell’attuale congiuntura, una qualsiasi nostra azione, o se possiamo senza pericolo lascia­re che le cose si sviluppino e seguano la cor­rente.

L’incontro, che ebbe luogo il 21 ottobre, sembra aver deciso nel senso di aspettare e vedere13.

Di fatto la situazione si evolse proprio come Malkin aveva previsto. Nel maggio 1944 giunse una richiesta di Pietro Bado­glio perché all’Italia fosse concesso lo sta­tus di alleato: senza un gesto di questo ge­nere — egli dichiarò — il suo governo sa­rebbe durato solo poche settimane. Chur­chill riteneva che “sarebbe stato un errore, al momento attuale, togliere all’Italia lo status di cobelligerante”, ma allo stesso tempo disse a Eden che era favorevole ad “aiutarlo [Badoglio] per tutto quanto ci è possibile” . Eden osservò: “Non vogliamo un’Italia comunista e dovremmo studiare modi e mezzi per contrastare questo perico­lo” . Nel frattempo, l’idea di Malkin di un trattato di pace preliminare aveva trovato un sostenitore in Harold Macmillan, mini­stro di Stato al Comando militare alleato di Algeri:Se ci muoviamo rapidamente, dovremmo essere in grado di somministrare la necessaria medici­na, vale a dire le diverse rivendicazioni nei con­fronti del territorio italiano, ma allo stesso tem­po di camuffarla con ampi strati di marmellata. Se aspettiamo troppo, gli italiani possono dispe­rare della nostra amicizia e tendere a lasciarsi trascinare, per amore o per forza, tra le braccia della Russia14.

11 La Carta atlantica, sottoscritta da Roosevelt e Churchill il 14 agosto 1941, aveva dichiarato che “sino a quando non sarà istituito un sistema ampio e permanente di sicurezza generale”, era essenziale il disarmo di tutte le nazioni “che costituiscono, o potrebbero costituire, minaccia di aggressione al di fuori delle loro frontiere”.12 Fo 371/37271, R10103/242.13 Fo 371/37271, R 10103/242. Sir Orme Sargent era vice sottosegretario di Stato, responsabile del Dipartimento meridionale che comprendeva l’Italia; sir Alexander Cadogan era sottosegretario di Stato permanente, vale a dire il funzionario superiore del Foreign Office.14 Macmillan a Eden, 2 maggio; sir Noel Charles a Eden, 25 aprile; nota di Churchill a Eden, 26 aprile; nota di Eden, 5 maggio; Charles a Eden, 5 e 7 maggio; Churchill a Eden, 5 maggio 1944, in Fo 371/43911, R6662, 7202,

10 Christopher Seton-Watson

Il 7 maggio, Macmillan espresse la speran­za che la richiesta di Badoglio ricevesse una risposta comprensiva:

Non si tratterebbe che di una concessione psico­logica, nulla più di un gesto, ma teniamo presen­te che l’animo latino attribuisce grande impor­tanza a simili gesti.

A proposito di questa lettera, in una lun­ghissima nota Sargent espresse la speranza che “ci manterremo fermi” contro la richie­sta dello status di alleato;

ma il fatto stesso che assumiamo su questo pro­blema un atteggiamento totalmente negativo ren­de tanto più necessario prendere in considerazio­ne la possibilità di fare qualcosa altrove

per appoggiare gli italiani e prevenire il peri­colo sovietico. Proponeva quindi:

Dire a Badoglio che saremo pronti ad abolire il regime armistiziale e a concludere un trattato di pace preliminare con il governo italiano non ap­pena saremo persuasi che a) la situazione militare lo consenta e b) il governo italiano abbia autorità sufficiente per parlare in nome di tutto il popolo italiano e non soltanto di quella parte di esso che attualmente si trova sotto la sua amministrazione [...] Se giochiamo bene le nostre carte, dovrem­mo essere in grado di mantenere aperta la que­stione e allo stesso tempo di ottenere credito per la nostra generosità abbastanza a lungo da con­sentirci di superare l’attuale periodo difficile e in­certo.

Churchill tuttavia decise:

Non si dovrà affrontare nessuna di queste que­stioni sino a quando non saremo al sicuro a Ro­ma e non staremo scacciando il nemico su per la penisola italiana15.

Il 4 giugno le truppe alleate entrarono a Roma ed il 9 Bonomi formò un largo gover­no di coalizione. Quest’ultimo avvenimento “rimise ancora una volta in discussione l’in­tera questione di un trattato di pace prelimi­nare” . Al Foreign Office era opinione gene­ralmente condivisa che per il momento non si potesse fare alcun ulteriore progresso. Churchill annotò il 6 giugno: “Non vi saran­no speciali favori per il nuovo governo ita­liano. Esso ha da guadagnarsi la traversa­ta”16. Ma il 17 luglio Sargent risollevò la questione del trattato di pace. Una delle ra­gioni che adduceva era la crescente dipen­denza delle forze alleate dall’aiuto militare italiano. Su richiesta di Eden, egli espose il proprio punto di vista in una nota che fu in­viata a Churchill P8 agosto e nella quale si lasciava intendere che le argomentazioni a favore di un trattato di pace preliminare avevano guadagnato forza sin da maggio.Ho l’impressione che più ci muoviamo nel senso di fare affidamento sul contributo degli italiani nella campagna d’Italia, più difficile diventerà per noi — se l’intervallo tra la prestazione di que­sto aiuto e l’accordo finale di pace dovrà essere lungo — mantenere inalterate quelle condizioni, rigorose ma necessarie, a proposito delle colonie e delle frontiere, condizioni che intendiamo impor­re all’Italia all’atto della pace. Inoltre, maggiore sarà il contributo italiano alla guerra, più forti sa­ranno le pressioni da parte dell’America e forse della Russia per fare agli italiani concessioni par­ziali, che in realtà dovrebbero essere tenute in ser­bo per indorare la pillola che alla fine chiederemo agli italiani stessi di ingoiare. Intanto, possia­mo affermare che le nostre due condizioni17 so­no state soddisfatte quanto basta a giustificare che si vada oltre. Ritengo quindi che sia giunto il

7308, 7379/691/22. La discussione è riassunta in David W. Ellwood, Italy 1939-1945, Leicester, University Press, 1985, pp. 91-92, 99-100; e in L. Woodward, British Foreign Policy, cit., voli. II, pp. 538-541, e III, pp. 440-442.15 Macmillan a Eden, 7 maggio; nota di Sargent, 11 maggio, in Fo 371/43911, R7308; nota di Churchill, R8532/ 691/22.16 Note di Dew, Sargent, Cadogan, Eden (“Per questo si deve attendere”), in Fo 371/43911, R9156; nota di Chur­chill, R9158/691/22.17 Cfr. la nota di Sargent, 11 maggio, loc. cit.

La prospettiva inglese 11

momento di dire al governo italiano che gli alleati intendono concludere con esso un trattato di pace preliminare18.

Queste argomentazioni non smossero pe­raltro Churchill:

Non riesco a vedere quale vantaggio otteniamo o quali svantaggi cerchiamo di evitare facendo que­sta pace prematura con l’Italia, dal momento che le condizioni armistiziali già forniscono ogni ri­sposta. Non v’è dubbio che i termini della pace dovrebbero attendere sino all’accordo generale di pace. Oltre a ciò, l’attuale governo non ha asso­lutamente alcuna autorità di rappresentanza. Oc­cupa la carica soltanto come risultato dei suoi stessi intrighi. Il nord industriale non vi è rappre­sentato e potrebbe agevolmente disconoscere quanto viene sottoscritto alle sue spalle. Sicura­mente gli italiani non avranno nessuna delle loro colonie e dovranno subire perdite molto gravose nell’Adriatico nordorientale. Se adesso dite loro questo, possono cercare di guadagnare popolari­tà contro di noi; ma se vi acconsentissero, la loro parola sarebbe priva di valore. Discuterò comun­que della questione con sir Noel Charles quando andrò a Roma, per quanto dubiti che la mia opi­nione possa cambiare19.

Churchill arrivò in Italia PII agosto. Le consegne di Eden a Piers Dixon, funzionario del ministero degli Esteri che lo accompa­gnava, furono di indurre il primo ministro ad acconsentire ad un trattato di pace che potesse rafforzare il governo Bonomi. Chur­chill tuttavia non aveva alcuna stima per Bo­nomi e respinse le argomentazioni di Dixon, affermando che: “L’Italia ci ha causato gra­vi danni e deve essere punita e messa a ter­ra”20. Il 22 agosto, all’Ambasciata britanni­

ca, nella Roma da poco liberata, si svolse una lunga discussione.Il signor Dixon espose le proposte del Foreign Office per una trattato di pace preliminare con l’Italia, consistenti perlopiù in una sorta di mo­dus vivendi che ci consentirebbe di smettere di trattare l’Italia come nemico, alla stessa stregua della Germania, senza reintegrarla nel rango di alleato o nella piena sovranità. Un accomoda­mento del genere ci aiuterebbe a mantenere la stabilità in questo paese, ad arrestare la spinta verso il comuniSmo e a metterci in grado di con­tribuire alla ricostruzione italiana.

Primo ministro. Dovremmo lasciarci guidare dal precetto di Machiavelli, in base al quale, se si hanno da accordare benefici, non dovranno esse­re concessi tutti assieme. Ogni azione politica, quindi, dovrebbe assumere il carattere di gesto, tale da non limitare in alcun modo i poteri del co­mandante supremo alleato21.

Dell’incontro sir Noel Charles così riferì:Il primo ministro ha convenuto che era nel nostro interesse mantenere la stabilità nel paese. Dopo essersi familiarizzato sul posto con la situazione italiana e dopo aver visto il signor Bonomi, egli era inoltre più propenso ad estendere il nostro so­stegno all’attuale governo italiano22.

In effetti i sentimenti di Churchill nei corw fronti degli italiani si erano addolciti per l’accoglienza ricevuta nei suoi viaggi per il paese; e nel suo indirizzo di commiato usò parole diincoraggiamento e speranza per il popolo italia­no, per il quale ho sempre avuto, ad eccezione di quando eravamo effettivamente in lotta, grande rispetto23.

Macmillan tuttavia non fu soddisfatto dei

18 Fo 371/48305, R13226/27/22.19 Nota a Macmillan, in Fo 371/48305, R13070/27/22.20 Piers Dixon, Double Diplomat, London, 1968, p. 98.21 “Nota sulla discussione relativa all’Italia all’ambasciata britannica di Roma, 22 agosto 1944, 15.30-19.30”, in Fo 371/43912, R13707/691/22. V. anche P. Dix&i, Double Diplomat, cit., pp. 111-112.22 Charles a Eden, 24 agosto, in Fo 371/43912, R13173/691/22.23 P. Dixon, Double Diplomat, cit., pp. 107-108, 114. Churchill si espresse nello stesso senso alla House o f Com­mons il 28 settembre.

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risultati della visita di Churchill. Il 10 set­tembre scrisse privatamente a Eden24:Qui viviamo nelle cupe ombre del mistero. Non siamo in grado di comporre le contraddizioni del­la nostra politica verso l’Italia. Ora sono nemici; ora cobelligeranti. Ora desideriamo punirli per i loro peccati; ora presentarci come salvatori e an­geli custodi. Ciò mi lascia perplesso.

L’atteggiamento più pacato di Churchill si manifestò il mese successivo nel corso del suo incontro con Roosevelt, prima a Que­bec, poi alla residenza presidenziale, ad Hy­de Park. Egli fu il principale ispiratore della “Dichiarazione congiunta” promulgata il 26 settembre, che prometteva una serie di misu­re, sia politiche che economiche, destinate a “incoraggiare quegli italiani che si adopera­no a favore di una rinascita democratica” e “ad offrire agli italiani una maggiore oppor­tunità di contribuire alla sconfitta del nostro comune nemico” . Da questa dichiarazione nasce, dopo lunghe discussioni angloameri­cane, una “Nuova direttiva”, redatta princi­palmente da Macmillan e da questi presenta­ta in una conferenza stampa a Roma il 3 gennaio 194525.

Nel frattempo, il 4 ottobre, alla House o f Commons, il segretario agli Esteri fu richie­sto di garantire che la decisione del governo, in base alla quale “l’impero italiano è irri­mediabilmente perso, sarà rigorosamente ri­spettata” . Eden rispose affermativamente. Due giorni dopo, il governo italiano rilasciò un comunicato nel quale si dichiarava che a Charles era stata chiesta “spiegazione ed esatta informazione” in merito alle afferma­zioni di Eden. Al Foreign Office si convenne sulla necessità di un biasimo e Eden telegra­

fò a Charles di non essere disposto a discu­tere la questione con Bonomi.D’altro canto sono sorpreso che egli abbia ritenu­to opportuno rilasciare quel comunicato [...] La prego di parlare al signor Bonomi in questo sen­so26.

Durante i negoziati a Washington sulle clausole della “Nuova direttiva”27, risultò chiaro che gli americani non erano soddi­sfatti del desiderio britannico di limitarsi ad attenuare le condizioni armistiziali, senza abbandonarle. Il 19 dicembre i delegati sta­tunitensi proposero che “sia posto termine quanto prima possibile alle attuali ambigui­tà circa lo status dell’Italia, abrogando l’at­to di resa” . M.S. Williams, del Dipartimen­to per la ricostruzione, suggerì di andare in­contro agli americani “a metà strada”, ac­consentendo a che “si dovesse procedere ad un accordo di pace con gli italiani immedia­tamente dopo la fine della guerra con la Germania” . L’idea piacque a Sargent, così come a Eden; e fu sottoposta a Churchill l’8 gennaio:Quando la scorsa estate discutemmo la questione del trattato di pace preliminare, la nostra idea era di includervi le clausole penali dell’accordo che alla fine l’Italia dovrà accettare. Anche in quel caso decidemmo per il no. Se ora si tralasciano queste clausole penali, come propongono gli americani, gli italiani vincono tutte le mani e noi nessuna. Ritengo quindi che dovremmo respinge­re la proposta americana.

Per non dare, tuttavia, una risposta totalmente negativa, penso che dovremmo dire agli america­ni che, non appena finita la guerra con la Germa­nia, liberata l’intera Italia e portate a termine le operazioni militari in Italia, saremmo pronti a considerare la possibilità di un accordo di pace

24 Macmillan a Eden, 10 settembre, in Fo 371/43912, R14893/691/22.25 Per maggiori ragguagli si veda L. Woodward, British Foreign Policy, cit., vol. Ill, pp. 446-453.26 Charles a Eden, 5 e 6 ottobre, e Eden a Charles, 9 ottobre, in Fo 371/43913, R15950, 16000, 16052, 16302/691/ 22. Eden diede istruzioni che venisse detto a Bonomi “che non si tratta di una nuova dichiarazione, ma della ripeti­zione di opinioni precedentemente espresse, che non cambieremo” (nota, 6 ottobre).27 Nel Comitato congiunto per gli affari civili (Combined Civil Affairs Committee).

La prospettiva inglese 13

con l’Italia prima di affrontare la questione della pace con la Germania. Concludendo con l’Italia un’intesa separata, dimostreremmo che riteniamo definitivamente cessata l’alleanza tra Germania e Italia. Questo è un punto sul quale Vamour pro­pre italiano è molto sensibile e penso che per que­sto motivo gli americani accoglierebbero con fa­vore la nostra proposta28.

Churchill rispose: “È certo che non dovrem­mo fare la pace con l’Italia sino a che la Ger­mania non sia stata battuta”; riteneva pe­rò che “sarebbe opportuno trattare con lo­ro prima che con i tedeschi” . Il 21 genna­io il Foreign Office telegrafò a Washing­ton:

Non vi sarebbe alcun vantaggio nel concludere con il governo italiano un’intesa preliminare che si limitasse a dichiarare cessato lo stato di guerra senza includere le questioni relative alla sistema­zione post-bellica29.

Nel frattempo il Foreign Office aveva pro­dotto, il 29 dicembre, un documento per il Gabinetto di guerra, dal titolo “Draft Heads o f a Preliminary Treaty with Italy”, nell’in­tento di fornire una guida all’azione futura che, avvicinandosi sempre più la fine della guerra, si sarebbe ben presto imposta. Le condizioni che vi venivano prospettate erano alquanto severe: l’Italia doveva rinunciare in foto alla sovranità non soltanto “su tutti i possedimenti extraeuropei” , ma anche “su tutto il territorio europeo, continente e isole adriatiche acquisite a partire dal 1° gennaio 1914”30.

Alla fine di gennaio il Foreign Office pre­parò una memoria per il primo ministro sul “Futuro delle colonie italiane e delle isole ita­liane nel Mediterraneo”31. Alla conferenza di Quebec Roosevelt aveva consegnato a Chur­chill un memorandum “che esponeva il pun­to di vista del dipartimento di Stato sulle opi­nioni preliminari formulate dai dipartimenti britannici”32. Il documento conteneva racco­mandazioni basate sul concetto di “ammini­strazione fiduciaria internazionale”, in con­trasto con

le proposte britanniche per un nuovo sistema ge­nerale internazionale di collaborazione relativo a territori dipendenti che perseguano l’obiettivo di porre termine ai mandati esistenti e di evitare la creazione di nuove forme di supervisione o ammi­nistrazione fiduciaria [...]

Nostro unico impegno specifico è la promessa allo sceicco Seyyid Idris che i senussi in Cirenaica non cadranno più sotto il dominio italiano. È im­portante dal punto di vista strategico che nessun possedimento italiano d’oltremare passi sotto il controllo di uno Stato potenzialmente nemico, dal momento che tali possedimenti si trovano ai fianchi delle nostre linee di comunicazione marit­time ed aeree attraverso Mediterraneo e mar Ros­so e forniscono basi da cui si potrebbero attaccare Egitto, Sudan e Kenya. Nei futuri accordi sulla si­curezza saranno necessarie delle agevolazioni mi­litari in alcuni di essi. Dal punto di vista economi­co i territori ex italiani rappresentano delle passi­vità e non hanno offerto all’Italia né uno sbocco per la sua popolazione in eccesso né un terreno di sviluppo della sua economia. Privando l’Italia delle colonie, non recheremo pertanto alcun grave

28 Halifax a Eden, 20 dicembre 1944; note di Williams, 24 dicembre, Sargent, 27 dicembre, Eden a Churchill, 8 gennaio 1945, in Fo 371/43917, R21516/691/22.29 Nota di Churchill, l i gennaio e Eden a Halifax, 17 gennaio 1945, in Fo 371/49750, ZM454/1/22; cfr. anche Fo 371/50779, U50/50/70.30 Fo 371/50779, U50/50/70; documento del Gabinetto di guerra PBP(44)30, seconda bozza, in Fo 371/50737, U51/51/70.31 Fo 371/50767, U519/51/70.32 II testo del memorandum di Hull a Roosevelt, 11 settembre 1944, in Fo 371/50789/U2844/51/70. Le “Opinioni preliminari formulate dai Dipartimenti britannici” erano state comunicate per errore agli americani nell’aprile 1944, con gran collera di Churchill (PREM 3/23a).

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danno alla sua vita economica. Di fatto, la re­stituzione all’Italia di questi territori non fareb­be che riaccendere la pretesa italiana di essere una grande potenza e di dominare il Mediter­raneo.

In particolare la memoria dimostrava 1) che l’Eritrea era “una creazione artificiale e dovremmo attenerci alla nostra proposta di smembrarla seguendo linee etniche” sparten­dola tra Sudan ed Etiopia; 2) che l’eliminazione dell’Italia offre l’opportunità di unificare tutte le aree abitate da somali, e ciò va raccomandato in linea di massima sia come misura preveggente e progressista, sia perché eviterebbe le continue scorrerie di confine e gli attriti di fron­tiera;

3) che, poiché la Gran Bretagna non ha ra­gione alcuna per conservare l’unità della Li­bia, “creazione puramente artificiale” , la Ci­renaica potrebbe diventare un emirato auto­nomo, come la Transgiordania, e Tripoli po­trebbe essere restituita allTtalia, fatti salvi al­cuni impegni.

Il problema italiano fu affrontato in termi­ni molto generali nel corso della conferenza di Yalta del febbraio 1945. Ma proprio prima della partenza, Roosevelt affidò una lettera a Churchill in cui parlava “dei pericoli che na­scono per entrambi dall’attuale condizione di semischiavitù dellTtalia” , suggerendoalcune iniziative costruttive per uscire dalla pre­sente anomalia di condizioni armistiziali onerose e obsolete, non più adeguate all’attuale situazione.

Eden consigliò di non dare immediato ri­scontro, e la risposta di Churchill fu inviata soltanto l’8 aprile, quattro giorni prima della morte di Roosevelt:

Convengo appieno sul fatto che non vi siano ragio­ni essenziali per disputare tra noi. È nostro deside­rio, così come è per voi, vedere l’Italia ritornata alla salute politica e morale e riammessa nel consesso delle nazioni [...] Ma nell’aiutare l’Italia, non pos­siamo trascurare la nostra opinione pubblica e dob­biamo mantenere il passo con quanto stiamo facen­do per quegli alleati che sono stati al nostro fianco in tutte le circostanze33.

Fu tra il febbraio e il luglio del 1945 che gli assunti e le aspettative britanniche relative al trattato di pace trovarono la loro forma defi­nitiva. Al compito di redigere la bozza, e a tut­te le necessarie consultazioni con gli altri di­partimenti, provvide il Dipartimento per la ri- costruzione del Foreign Office, il cui capo era lord Hood. Da un incontro ministeriale del 26 aprile sortì il “giudizio concordato del Foreign Office sulle clausole politiche” . Si decise poi di far circolare il documento, per raccoglierne le osservazioni, tra i governi dei Dominion, i capi di Stato maggiore e i tre più importanti uomini “sul campo”, in Italia: il feldmare­sciallo Harold Alexander, comandante supre­mo del Mediterraneo, Macmillan e sir Char­les34. Le principali condizioni politiche stabili­vano che l’Italia fosse obbligata a cedere ai go­verni di Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica l’intera Venezia Giulia, Za­ra e le isole dalmate, Pantelleria e le isole Péla­gie, il Dodecaneso e tutti i possedimenti italia­ni in Africa. Non fu esclusa la possibilità che allTtalia si consentisse di ritornare a Tripoli. Non si faceva menzione del Sud Tirolo, per quanto il Foreign Office ritenesse che dovesse restare allTtalia piuttosto che essere ceduto al­l’Austria, dato che l’Austria poteva cadere completamente sotto l’influenza sovietica35.

33 Roosevelt a Churchill, 11 febbraio, in Fo 371/49753, ZM1127, e Churchill a Roosevelt, 8 aprile, in Fo 49755, ZM1820/1/22. Gli alleati erano Francia, Etiopia, Grecia e Jugoslavia.34 Secondo i termini delia “Nuova direttiva” Macmillan divenne presidente ad interim della Commissione alleata per l’Italia (denominata in precedenza Commissione alleata di controllo) e Charles acquisì lo status di ambasciatore quale rappresentante britannico presso il governo italiano.35 Fo 371/50779, U2413/50/70. Era stata lasciata cadere la proposta che anche la provincia di Trento dovesse esse­re ceduta (nota di Hood, 13 marzo, in Fo 371/50799, UÌ877/50/70.

La prospettiva inglese 15

Il 9 aprile fu inviato a Washington un te­legramma, basato su un appunto di Hoyar Miller, capo del Dipartimento occidentale, che illustrava, a vantaggio del governo sta­tunitense, gli assunti in base ai quali il Fo­reign Office delineerebbe le proprie propo­ste di trattato:

Non siamo, ripetiamo, non siamo pronti ad ac­cettare le proposte statunitensi [del 20 dicembre 1944], ma alla fine potremmo essere pronti ad ac­cettarle come base di discussione purché gli ac­cordi da concludersi con il governo italiano non lascino semplicemente da parte questioni impor­tanti come frontiere, colonie, flotta, eccetera, da sistemarsi a una qualche data futura, ma stipuli­no espressamente che il governo italiano rinuncia a tutti i diritti su queste questioni, impegnandosi in anticipo ad accettare tutte quelle misure che possano essere prese dagli alleati nell’accordo fu­turo.

A favore di ciò militavano due importanti ragioni: l’opinione pubblica in Gran Breta­gna e fra gli alleati europei

non capirebbe uno sviluppo della nostra politica nei confronti dell’Italia che si spingesse fino al punto di garantire ad essa i benefici della conclu­sione formale della pace senza le clausole penaliz­zanti che l’accompagnano [...] e — inoltre — non riteniamo che le concessioni che gli Stati Uniti manifestamente sembrano proporsi arrechereb­bero alle Nazioni Unite nulla più di un vantaggio temporaneo”36.

Il 16 aprile Charles aveva scritto privata- mente a Oliver Harvey, sottosegretario ag­giunto, per perorare una maggiore sensibili­tà nei confronti degli italiani.

In più di una occasione ho detto che lo scorso an­no avevamo gli italiani in tasca. Questo non è più il caso. Non a causa della nostra linea politica ge­nerale; ma a causa della nostra apparente indiffe­renza, da un lato, e dell’evidente desiderio degli americani di trattare gli italiani da adulti, dall’al­

tro. Stiamo dando l’impressione di essere trasci­nati nella scia degli americani, apparentemente mossi da spirito di vendetta verso il debole. L’I­talia sente di aver agito lealmente nei nostri con­fronti nell’ultimo anno e mezzo, in verità meglio di quanto non abbiano fatto alcuni nostri amici. È consapevole di avere una popolazione di qua­rantacinque milioni di individui; la guerra sta per concludersi ed essa deve ritornare presto ad esse­re un paese indipendente. Dovremo ripartire dal­l’inizio e ciò che avevamo, dovremo riconquistar­celo con il sudore della fronte.

Il giorno successivo Macmillan, presa vi­sione della lettera di Charles, scrisse a Harvey:Stiamo giocando la nostra mano molto sciocca­mente, per quanto riguarda l’Italia. Sembra es­serci una sorta di puerile animosità nei confronti degli italiani che non procura vantaggio né a noi, né a loro. Non può esorcizzare questo spirito da Whitehall?

Hoyer Millar commentò:

Resta il fatto, ritengo, che gli italiani sono ancora ben lungi dall’essere popolari in questo paese. Soltanto ieri sera ho udito un Mp [Military Poli­ce] raccontare episodi raccolti di prima mano da prigionieri di guerra britannici su come siano sta­ti maltrattati dalle guardie italiane, e su come i tedeschi in Africa settentrionale si siano compor­tanti assai meglio di queste con i prigionieri bri­tannici.

Harvey osservò:Naturalmente sir Noel Charles e mr Macmillan, esposti come sono alle lamentele degli italiani, ri­tengono più facile di quanto non sia passare la spugna sulla lavagna italiana. Il fatto è che qui è pericoloso tanto procedere troppo rapidamente quanto troppo lentamente. L’opinione pubblica britannica non è filoitaliana. Qui la gente consi­dera gli italiani dei poveracci, e il loro passato nelle due guerre e nei venti anni intermedi stareb­be in un certo modo a dimostrarlo. In questioni come quelle dei prigionieri di guerra dobbiamo

36 Fo 371/49755, ZM1820/1/22.

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procedere molto attentamente; altrimenti, con i nostri uomini che tornano dal Mediterraneo avre­mo continui incidenti sul trattamento di favore concesso agli italiani. Non sembra che né sir Noel Charles né mr Macmillan ne siano minimamente coscienti37.

Il 28 aprile Charles scrisse esprimendo la speranza di avere l’opportunità di esporre le sue opinioni sulle condizioni proposte prima che fossero presentate al Gabinetto.Quali che siano le condizioni da imporre all’Italia, verosimilmente non saranno tanto severe quanto quelle che Mussolini, se avesse vinto, avrebbe im­posto all’impero britannico.

Sosteneva tuttavia la necessità di distingue­re tra Italia “democratica” e “fascista” e di riconoscere quello che l’Italia aveva fatto “per guadagnarsi la traversata” . In particola­re metteva in guardia sul fatto che la resa di tutta la flotta italianaprovocherà sentimenti dolorosi e gravidi di perico­li. Dall’armistizio la marina italiana ha operato in rapporti stretti e amichevoli con la nostra marina. Nel paese i nostri sostenitori più amichevoli posso­no diventare i nemici più acerrimi.

Esortava inoltre a consentire all’Italia di conservare Tripoli come sbocco, per quanto piccolo, per la sua emigrazione. In generale sosteneva che “la misura della futura coope­razione dell’Italia democratica con noi nel Mediterraneo dipende da come la trattiamo ora” . Hood notò:

La straordinaria perorazione di sir Noel Charles è piuttosto irritante [..] Per svariate ragioni la no­stra politica nei confronti dell’Italia ha subito un mutamento nel corso degli ultimi dodici mesi e sir Noel Charles dovrebbe essere piacevolmente sor­preso quando vedrà le nostre proposte per il tratta­to definitivo.

Harvey convenne:temo che potremo rinviare le questioni per consul­tare sir Noel Charles e mr Macmillan. Ritengo tut­tavia che possiamo considerarci buoni amici del­l’Italia tanto quanto lo sono loro”38.

Inviando la versione definitiva del docu­mento39 a Charles, il 6 giugno, Harvey scris­se: “Nella stesura del testo abbiamo seguito come ritengo, stando nei limiti del nostro mandato, i consigli che lei ci aveva dato lo scorso anno”40. Charles rispose il 26 giugno che riteneva le condizioni “molto eque quan­tunque dure” .È mia convinzione che l’Italia debba essere consi­derata il bastione della democrazia anglosassone nel centro Europa [...] Desidero che l’Italia cam­mini sulle sue gambe prima possibile, e desidero dimostrarle che il passato è passato [...] Se possia­mo renderla una sorta di cofiduciaria dei suoi vec­chi possedimenti africani, tanto meglio. Se potes­simo renderla una sorta di alleato sarebbe ancora meglio, ma questo sarebbe forse andare troppo ol­tre per l’opinione pubblica inglese [...].

Se in passato mi ha trovato piuttosto ostinato nel difendere la causa dell’Italia, spero vorrà cre­dere che sono stato mosso dalla convinzione che ciò fosse nel nostro principale interesse. L’affron-

37 Fo 371/49755, ZM2266/1/22 (note 4, 5 maggio). Si vedano anche le osservazioni di Cadogan, 28 febbraio, al rappresentante italiano a Londra, in Fo 371/49753, ZM 1317, e 25 giugno, ZM 3521/1/22 (“Perché sia salutare, un riavvicinamento anglo-italiano deve avere dietro di sé l’opinione pubblica”).38 Fo 371 /50779, U3265/50/70 (note 11,21 maggio).39 L’intenzione originaria era di sottoporlo al Comitato armistizio e dopoguerra del Gabinetto (Armistice and Po- st-War Committee, Apw); ma dopo lo scioglimento della coalizione del tempo di guerra e la costituzione, il 25 maggio, di un governo conservatore per l’espletamento degli affari correnti, il Comitato Apw era stato sostituito da un Comitato ricostruzione d’oltremare (Overseas Reconstruction Commitee). Il documento ebbe la nuova deno­minazione di ORC (45) e finì come documento del gabinetto CP(45)64, datato 5 luglio.40 Fo 371/50779, U3986/50/70. A proposito delle clausole politiche, Oliver Charles Harvey rilevò che “sono state elaborate da Lord Hood con l’aiuto dei Dipartimenti Occidentale ed altri interessati e, penso, tornano in ampia mi­sura a credito di tutti loro” (nota 13 maggio).

La prospettiva inglese 17

tare coraggiosamente, come abbiamo fatto noi e gli americani, il maresciallo Tito a proposito del­la Venezia Giulia ha fatto correre un brivido di speranza in tutta la popolazione che ha bisogno di continue rassicurazioni sul fatto che le demo­crazie occidentali vogliono che ITtalia rimanga tra le tradizionali democrazie della terra41.

Ad Alexander il documento fu mostrato il 2 luglio, durante una sua visita a Londra, da Sargent:

Il feldamaresciallo giudicò piuttosto severe le clausole politiche del documento del Foreign Of­fice. In particolare espresse l’opinione che all’I­talia dovesse essere consentito di conservare Tri­poli in piena sovranità e l’Eritrea sotto una qual­che forma di amministrazione fiduciaria. D’altro canto parve propenso a ritenere che Bolzano po­tesse anche essere data all’Austria [...] Desidera­va che si consentisse agli italiani di mantenere la maggior parte possibile della loro flotta42.

Ad uno stadio molto iniziale del processo, di preparazione del testo del trattato si era deciso che l’Italia avrebbe potuto esporre le sue posizioni soltanto dopo che fossero sta­te interpellate tutte le altre parti interessate, e cioè i governi dei Dominion, Stati Uniti, Urss, Francia, Grecia, Jugoslavia ed Etio­pia. I funzionari del Foreign Office smenti­rono ripetutamente ogni qualsiasi intenzio­ne di imporre diktat sul tipo del trattato di Versailles del 1919. Ciò nondimeno il rifiu­to di ascoltare gli italiani fece sì che questi percepissero tutto il procedimento come molto simile a un diktat. Il 25 aprile 1945, mentre la guerra in Europa volgeva al ter­mine, Nicolò Carandini, il rappresentante italiano a Londra43, scrisse ad Eden per ma­nifestare

le grandi preoccupazioni dell’Italia per le incogni­te che ci stanno di fronte [...] Da ogni parte risuo­nano le minacce più inquietanti alPintegrità terri­toriale d’Italia [in Venezia Giulia], senza nessuna motivazione da parte di coloro che soli possono agire così.

Vista la lettera, Ross si rammaricò che a Carandini non potessero essere comunicati i progressi compiuti a proposito del trattato di pace, “che, noi speriamo, porrà i rapporti an­glo-italiani su una base nuova e più felice”44. Il 30 maggio, dopo un’ulteriore richiesta di informazioni da parte di Carandini, Hoyer Millar osservò:È chiaro che tanto meglio sarà quanto prima avre­mo fatto sapere al governo italiano che stiamo considerando concretamente di concludere con es­so il relativo trattato di pace separatamente e pri­ma della pace con la Germania. Avvertimmo subi­to comunque di non dover fare nessuna dichiara­zione agli italiani sino a quando non fossero molto progrediti i nostri colloqui con gli americani sulle condizioni effettive del trattato. Altrimenti, se di­ciamo qualcosa agli italiani troppo presto, noi, e ancor più gli americani, saremo soggetti ad ogni sorta di pressione da parte degli italiani sul conte­nuto del trattato. Immagino che si apprezzerà an­cora questa linea come la migliore45.

Finalmente, il 19 giugno, Alexander Cado- gan, sottosegretario di Stato permanente, ri­ferì a Carandini che “effettivamente si stava esaminando” il trattato di pace; mariteneva corretto aggiungere che se e quando le condizioni di pace fossero state rivelate al governo italiano, avrebbero potuto provocare un certo ar­retramento nei rapporti tra Italia e alleati”46.

I desiderata dei capi di Stato maggiore, ela­borati dal Servizio progettazione postostilità

41 Fo 371/50780, U5163/50/70.42 Nota di Hoyer Millar, 4 luglio, Fo 371/49759, ZM3710/1/22.43 II conte Nicolò Carandini era arrivato a Londra nel novembre 1944, con il rango personale di ambasciatore ma senza lo status diplomatico pieno; poco tempo dopo a Charles venne concesso a Roma lo stesso status.44 Carandini a Eden, 25 aprile; nota di Ross, 14 maggio, in Fo 371/49756, ZM2400/1/22.45 Fo 371/50780, U4392/50/70.46 Fo 371/49758, ZM 3371/1/22.

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{Post-Hostilities Planning Staff), si basavano sui seguenti assunti:La mancanza di materie prime nel suo territorio e la difficile situazione economica che attraversa rendono improbabile che l’Italia, da sola, si trovi nel futuro prevedibile in condizione di poter seria­mente minacciare la pace mondiale. Cionondime­no, data la posizione strategica dell’Italia nel Me­diterraneo centrale, è sommamente auspicabile che non cada nuovamente sotto il controllo di una potenza ostile o potenzialmente ostile. Ne discen­de che è nei nostri interessi strategici a lungo termi­ne che essa sia incoraggiata a guardare alle potenze occidentali per qualsiasi aiuto possa richiedere.

Inoltre, da un punto di vista a breve termine, l’imposizione di condizioni di pace eccessivamente dure potrebbe causare in Italia, particolarmente nel Nord, imponenti agitazioni, la cui repressione potrebbe ricadere su di noi e costituire un compito inaccettabile nel momento in cui fossimo impe­gnati nell’Estremo oriente e altrove. Per la stessa ragione l’Italia non dovrebbe essere militarmente così debole da non essere assolutamente in grado di difendere le proprie frontiere contro aggressioni locali.

Nelle raccomandazioni per le “limitazioni delle forze armate italiane” , il Servizio pro­gettazione operava una distinzione tra una “politica a breve termine, sino al 1950” e una “politica a lungo termine” . Nel breve periodo raccomandava che l’esercito, “oltre ai carabi­nieri con la loro forza prebellica di 65.000 ef­fettivi” fosse limitato a duecentomila uomi­ni. Il Servizio progettazione “non era propen­so a vietare certi tipi di armamenti, come car­ri armati e artiglieria pesante” . Inoltre si sa­rebbe dovuta limitare l’aviazione “a una for­za difensiva di aerei da caccia, e possibilmen­te a una piccola forza di trasporto aereo inter­no”. Per quanto riguarda la marina, prende­va atto dell’opinione del Foreign Office se­condo cui “gli italiani considerano il possesso di una marina importante per il loro presti­

gio” . Nondimeno raccomandava che questa “non dovrebbe, in ogni caso sino al 1950, avere una forza tale da turbare l’equilibrio di potere nel Mediterraneo”.In considerazione dell’estrema vulnerabilità delle navi di superficie ad attacchi nei canali del Medi- terraneo, nulla tranne il divieto totale di sottoma­rini e di mezzi sommergibili ci potrà garantire il ne­cessario grado di sicurezza in quelle acque.

Per il lungo periodo, osservava che sarebbe statodifficile far valere indefinitamente tutte le suddet­te restrizioni, e ogni tentativo di agire in tal senso causerebbe con ogni probabilità notevole risenti­mento in Italia, e pregiudicherebbe la cooperazio­ne con noi, che è nel nostro interesse strategico a lungo termine.

Riteniamo pertanto che se dopo il 1950 l’Italia desiderasse aumentare le proprie forze armate, le potenze alleate dovrebbero essere preparate ad ac­cettare l’abolizione di queste restrizioni, salvo conferma che l’Italia ha ottemperato alle clausole del trattato di pace, e in conformità ad ogni even­tuale accordo sul livello degli armamenti disposto dall’Organizzazione mondiale.

Suggeriva tuttavia l’introduzione di un di­vieto permanente, in Sicilia e Sardegna, di in­stallazioni navali, dell’esercito e dell’aero­nautica, e limitazioni relative a numero e tipo di campi di aviazione civile.Consideriamo tali restrizioni essenziali al fine di impedire l’allestimento in quest’area di basi che potrebbero essere usate per minacciare le nostre comunicazioni nel Mediterraneo4'.

Hoyer Millar espresse l’opinione che que­ste raccomandazioni non fossero “in realtà né troppo cattive né eccessivamente dure per gli italiani” . I provvedimenti che meno lo la­sciavano soddisfatto erano le restrizioni rela­tive alla Sicilia e alla Sardegna; ma rilevò an­che che i capi di Stato maggiore “non vi insi­stevano molto” . Harvey commentò :

4' Cfr. PHP(45)2 (Final), 2 luglio, in Fo 371/50781, U5355/50/70; redazione precedente, 6 maggio, in Fo 371/ 50779, U3544/50/70.

La prospettiva inglese 19

Non provo particolari sensibilità per la marina italiana, tanto più che l’Italia né si può permette­re, né necessita di una marina e dovrebbe concen­trarsi sull’esercito. Non deve essere incoraggiata a sprecare le sue scarse risorse per mettersi in mo­stra, cosa che è sin troppo proclive a fare”.

Riteneva anche che la proposta smilitariz­zazione di Sicilia e Sardegna fosse “insensa­ta” e sperava che la proposta sarebbe ca­duta.Ritengo tuttavia che dovremmo opporci a qual­siasi proposta del feldmaresciallo Alexander vol­ta a consentire all’Italia di conservare altre colo­nie oltre Tripoli (sotto una sorta di amministra­zione fiduciaria). Sono convinto che sarebbe il più grave errore lasciarla, sotto qualsiasi forma, in Eritrea o in Somalia, dove potrebbe, non ap­pena se ne offrisse l’opportunità, riprendere i suoi intrighi. Se i capi di Stato maggiore dichiara­no di temere l’Italia per i prossimi quattro anni nel Mediterraneo, dove in realtà'potrebbe fare pochissimo, allora avrebbero ragioni ben più fondate di paventarne le capacità di intrigo (in cui eccelle) nella situazione complessa lungo il mar Rosso. Nello stesso tempo mi dispiacerebbe vederle togliere Pantelleria e le isole Pelagie, così come i capi di Stato maggiore chiedono. Dal pun­to di vista del prestigio, ritengo che lo vivrebbe come un colpo più duro di quanto non sarebbe la perdita di colonie lontane, e penso che dovrem­mo insistere perché, se la clausola permane, si cerchi di porre anche queste isole sotto ammini­strazione fiduciaria italiana48.

Il Gabinetto di guerra discusse il 12 luglio la versione definitiva del documento del Fo­reign Office sul “Trattato di pace con l’Ita­lia”, CP (45) 6049 [vedi nota 39], insieme ad un memorandum di Eden che ne riassumeva le istanze e le raccomandazioni. Arresasi la Germania, Eden pensava che per dimostrare la serietà della proposta britannica di con­cludere un trattato di pace con l’Italia una volta terminate le ostilità con la Germania,

“dovremmo comunicare al governo Usa en­tro le prossime settimane le nostre opinioni sui contenuti di tale trattato” .Nel nostro approccio all’Italia incontriamo una inevitabile contraddizione. Da un lato desideria­mo che un’Italia democratica, epurata dal fasci­smo, venga reintegrata al più presto nella sua po­sizione di Stato europeo utile e prospero e che le venga concessa una ragionevole opportunità di sussistenza e di sviluppo economico, al fine di impedire che diventi comunista o che cada sotto l’influenza russa. Inoltre, in considerazione della sua posizione geografica, auspicheremo di man­tenere con lei rapporti amichevoli e di accoglierla come membro di qualsiasi sistema dell’Europa occidentale che emerga dopo la guerra. Il nostro interesse in un’Italia amichevole e paga è accen­tuato dall’attuale tendenza della politica russa in Europa e dal recente atteggiamento di Tito.

D’altro lato, è fuori discussione ogni ulteriore pretesa italiana di essere una grande potenza. È necessario dimostrare sia all’Italia che al mondo che l’aggressione non paga; e l’Italia deve di con­seguenza essere punita per il suo comportamento passato e per la sua partecipazione alla guerra a fianco della Germania.

Il trattato di pace dovrebbe quindi contenere provvedimenti relativi alla cessione italiana di territori, sia metropolitani sia d’oltremare, alla misura del disarmo e delle riparazioni per la sua passata aggressione. Ma questi provvedimenti non devono essere portati al punto di pregiudica­re la sua stabilità interna o la sua economia. Do­vremmo inoltre tenere nel debito rispetto la su­scettibilità italiana nelle questioni di forma, e fa­vorire la sua riammissione nel consesso delle na­zioni, agevolando il suo ingresso nelle organizza­zioni delle Nazioni unite.

L’Italia — affermava il memorandum — deve riconoscere l’indipendenza dell’Etiopia e dell’Albania, e cedere il Dodecaneso (con l’eccezione di Castelrosso, “che dovrebbe probabilmente andare alla Turchia”) alla Grecia, e Zara, nonché le isole adriatiche,

48 Fo 371/50781, U5494/50/70: note 11,13 maggio.49 Fo 371/49760, ZM3840/1/22; ora in Rohan Butler, M.E. Pelly (a cura di), Documents on British Policy Over­seas 1945-1954, Serie I, vol. 1, London, Hmso, 1984, n. 31 (di seguito Dòpo).

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alla Jugoslavia. I capi di Stato maggiore si preoccupavano che “le isole di Pantelleria, Lampedusa e Linosa, per motivi di sicurez­za, non ritornassero alla piena sovranità” , ma “in vista dei nostri futuri rapporti con l’I­talia, sarebbe anche auspicabile consentire ad essa ‘di amministrarli sotto un’adeguata supervisione internazionale’”.

Per ragioni strategiche, la Francia può avanzare pretese di piccole rettifiche di frontiera attorno a Briançon e Ventimiglia. Non vedo obiezioni; ri­tengo invece che dovremmo opporci a eventuali rivendicazioni francesi sulla Valle d’Aosta.

Questi mutamenti territoriali, osservò Eden, “sono relativamente semplici; ma vi sono altri tre problemi importanti e assai controversi” . Il primo rappresentato dal Sud Tirolo:

L’acquisizione da parte dell’Italia, nel 1918, della metà settentrionale, la provincia di Bolzano, fu una decisione discutibile e ora dobbiamo esami­nare se non la si debba revocare [...] I pro e i con­tro sono molto equamente distribuiti [...] È pro­prio una questione di alta politica: in una visione di ampio respiro abbiamo più da guadagnare evi­tando l’ulteriore umiliazione dell’Italia o soddi­sfacendo le aspirazioni dell’Austria? Propendo per la prima alternativa [...] Nei capitoli abbozza­ti non ho quindi preso provvedimenti per l’asse­gnazione di questa area.

Il secondo punto controverso era rappre­sentato da Trieste e dalla Venezia Giulia:Per generale ammissione la frontiera del 1920 non fu equa con la Jugoslavia; parimenti fuori discussione, d’altronde, il riconoscimento delle eccessive pretese della Jugoslavia [...] La giusta soluzione sembra quindi essere che il trattato sti­puli la cessione da parte italiana dell’intera area compresa tra la frontiera del 1914 e del 1920 a fa­vore delle quattro potenze [Gran Bretagna, Stati Uniti, Urss e Francia], le quali, a tempo debito,

deciderebbero quali sarebbero dovuti essere i confini italo-jugoslavi [...] Salvo che non venga deciso di conferire a Trieste uno status interna­zionale, la città dovrebbe rientrare nella parte oc­cidentale.

Le colonie italiane erano il terzo argomen­to in contestazione:

L’impero italiano fu il prodotto di calcoli strategi­ci e della pretesa italiana di essere una grande po­tenza. È nostro interesse strategico impedire il ri­torno dell’Italia nell’area del mar Rosso e la futu­ra sicurezza del Mediterraneo probabilmente esi­gerà l’installazione di basi e la concessione di age­volazioni delle Nazioni unite negli ex territori ita­liani dell’Africa settentrionale. La restaurazione dell’autorità italiana in uno qualunque di questi territori sarebbe sgradita agli abitanti e al mondo arabo in genere [...] Probabilmente si deciderà di mettere questi territori sotto amministrazione in­ternazionale, ma sino a quando l’idea non troverà una definizione sarà impossibile esaminarne l’ap­plicazione pratica a singoli territori50. Nel tratta­to, quindi, possiamo stabilire soltanto la cessione di questi territori da parte dell’Italia a favore delle quattro potenze, che ne decideranno a tempo de­bito il futuro. Come parte di questi futuri accordi, all’Italia potrà benissimo essere accordato il dirit­to di amministrare la Tripolitania.

Alla luce dell’approvazione, da parte del Gabinetto, del CP (45) 64, il Foreign Office preparò delle istruzioni sommarie per la dele­gazione inglese alla conferenza di Potsdam (“Terminar), convocata per il 17 luglio. Mancando il tempo per attuare l’intenzione originaria di trasmettere le proposte prima ai governi dei Dominion, poi al governo statu­nitense, “nella speranza di raggiungere un accordo angloamericano” , e soltanto alla fi­ne ai governi sovietico e francese e agli altri alleati minori direttamente interessati nel­l’accordo di pace italiano, si propose che “al Terminal non si discutessero nei particolari

50 II concetto di amministrazione fiduciaria fu definito nel corso del giugno alla conferenza di San Francisco, che prese provvedimenti per un Consiglio per l’amministrazione fiduciaria quale parte della Carta delle Nazioni unite.

La prospettiva inglese 21

le condizioni di pace da noi proposte né con gli americani né con i russi”.

Dovremmo tuttavia dire loro chiaramente che siamo ansiosi di concludere il trattato di pace con l’Italia non appena possibile, che riteniamo che tale trattato debba essere esaustivo e definiti­vo; che sarebbe un errore una qualsivoglia solu­zione del tipo di un trattato di pace preliminare provvisorio che si limitasse a dare all’Italia tutto lo zucchero senza la medicina [...] Nel contempo pensiamo che sarebbe oltremodo utile se i tre go­verni includessero nella loro dichiarazione pub­blica sull’Italia alcuni accenni al fatto di ritenere assai auspicabile la conclusione sollecita di un trattato di pace51.

Fu quindi uno shock quando, alla prima sessione plenaria della conferenza, il presi­dente Truman espresse la speranza che “l’I­talia potesse essere ammessa alle Nazioni unite” e che, in tal caso, se ne desse pubbli­co annuncio. Churchill si oppose alla pro­posta, osservando che si trattava di

una questione che richiederebbe attenta conside­razione. Il popolo inglese non dimenticherebbe facilmente la condotta tenuta dall’Italia con la dichiarazione di guerra all’impero britannico nel­l’ora del massimo pericolo, quando la resistenza francese era sul punto di crollare; né potrebbe dimenticare la lunga battaglia che abbiamo com­battuto contro l’Italia in Africa settentrionale nel periodo precedente l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Abbiamo anche subito gravi perdite navali nel Mediterraneo. Abbiamo nondimeno mostrato nei confronti dell’Italia la più grande buona volontà, come dimostrato dal fatto che noi abbiamo fornito quattordici delle quindici navi prestate alla Russia, contro la pretesa rus­sa di una immediata spartizione della flotta ita­liana52.

Il giorno dopo il Foreign Office decise di inviare a Berlino Hoyer Millar, per sollecita­re gli americani ad abbandonare l’idea di un modus vivendi interinale53. Churchill ribadì le sue argomentazioni il 20 luglio nel corso della discussione di un memorandum fatto circolare da Truman, rammaricandosi di non essere totalmente d’accordo con la dele­gazione statunitense.

Se sacrificassimo i diritti che ci derivano dal trat­tato di resa, e se intercorresse un lungo intervallo di tempo prima dell’accordo di pace, avremmo allora perso il potere di garantirci che l’Italia sod­disfi le nostre richieste, se non ricorrendo alla forza, cosa che nessuno desidera [...] Riteneva che non potessimo andare oltre l’assenso in linea di massima a passi per preparare il trattato di pa­ce con l’Italia e l’accordo perché alla questione fosse data priorità alla prossima conferenza dei ministri degli Esteri54.

Vinse la sua linea: il protocollo finale e pubblico della conferenza conteneva la se­guente dichiarazione:Per quanto li riguarda i tre governi hanno incluso come primo degli importanti compiti immediati che dovranno essere affrontati dal nuovo Consi­glio dei ministri degli Esteri la preparazione del trattato di pace con l’Italia [...] La conclusione di tale trattato con un governo italiano riconosciuto e democratico renderebbe possibile ai tre governi soddisfare il loro desiderio di appoggiare la ri­chiesta dell’Italia di diventare membro delle Na­zioni unite55.

Il 9 agosto il primo segretario di Carandi- ni, Migone, interrogò Hoyer Millar sulle riu­nioni di Potsdam. Hoyer Millar affermò che “avevamo fatto del nostro meglio per l’I­talia”.

51 Fo 371/50781, U5493/50/70; si veda anche Foreign Office a Washington, 14 luglio, in Fo 371/49754, ZM3829/ 1/22.52 Cfr. Dòpo, vol. 1, n. 170; si veda anche L. Woodward, British Foreign Policy, cit. vol. V, pp. 468-469.53 Fo 371/49760, ZM3863/1/22.54 Cfr. Dòpo, vol. 1, n. 200; si veda inoltre L. Woodward, British Foreign Policy, cit., vol. V, p. 473.55 Cfr. L. Woodward, British Foreign Policy, cit., vol. V, p. 480.

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I russi avevano sposato la linea secondo cui l’Ita­lia non era stata migliore dei satelliti balcanici e perciò non c’era motivo di mostrare nei suoi con­fronti nessuna benevolenza che' non si potesse estendere anche alla Bulgaria, eccetera. Dal prin­cipio alla fine i russi avevano dato l’impressione di un totale disinteresse per la sorte dell’Italia. Sembrava che unico loro interesse fosse ottenere qualcosa dai britannici e dagli americani per i sa­telliti balcanici56.

L’insistenza della delegazione sovietica di collegare il trattato con l’Italia a quelli con Bulgaria, Ungheria e Romania rappresentò la ragione principale del fatto che il trattato di pace con l’Italia non fu firmato definiti­vamente che il 10 febbraio 1947. In questa sede lo spazio non consente di analizzare lo svolgimento della conferenza dei ministri degli Esteri, apertasi a Londra I’l l settem­bre 1945, né quello della conferenza delle ventuno nazioni riunitasi a Parigi il 29 luglio 1946. Da tempo sono disponibili nei volumi dei Foreign Relations o f the United States verbali e decisioni di queste conferenze; e al­tro materiale britannico sarà presto accessi­bile mano a mano che procede la pubblica­zione dei Documents on British Foreign Po­licy Overseas 1945-1954. In queste ultime pagine, mi propongo quindi di concentrarmi su alcuni di quei problemi che hanno conti­nuato ad essere dibattuti all’interno del Fo­reign Office dopo l’agosto 1945 e di valutare brevemente in quale misura il punto di vista britannico trovò espressione nel trattato di pace finale57.

Il 25 agosto 1945 Ernest Bevin — succe­duto a Eden quando il governo laburista en­trò in carica il 27 luglio — sottopose due memorandum al Comitato ricostruzione

d’oltremare del gabinetto. Il primo era una versione leggermente emendata del CP (45) 6458, che riprendeva le decisioni della confe­renza di Potsdam. Le differenze principali riguardavano il Sud Tirolo, Trieste e la Ve­nezia Giulia. A proposito del primo, Bevin osservò che il governo degli Stati Uniti sem­brava favorevole a trasferire all’Austria la provincia di Bolzano. Credeva però — come a suo tempo Eden — che rispondesse agli in­teressi inglesi a lungo termine che la provin­cia rimanesse all’Italia; chiedeva tuttavia la facoltà di accettarne la cessione all’Austria. In merito a Trieste e alla Venezia Giulia ri­levò:Ogni soluzione definitiva a questo proposito è gravida di difficoltà. Indugiare, tuttavia, non si­gnifica semplificare il problema, e le nostre attua­li responsabilità relative all’occupazione ed al­l’amministrazione di parte dell’area contesa di­venteranno sempre più onerose mano a mano che le truppe britanniche e americane si saranno riti­rate dal teatro mediterraneo e si saranno accen­tuate le pressioni per la smobilitazione [...] Non è possibile trovare una soluzione duratura, a meno che non si sopiscano i sentimenti irredentistici che animano le rivendicazioni delle due parti; e ciò comporta dare sostanziale soddisfazione alla Ju­goslavia.

Il secondo memorandum, redatto con­giuntamente da Bevin e dal ministro per le Colonie, Hall, era intitolato “Il futuro delle colonie italiane e delle isole mediterranee italiane”59. In esso la proposta delle seguenti raccomandazioni alla conferenza dei mini­stri degli Esteri: 1) Pantelleria e le isole Péla­gie restino italiane, ma “completamente smilitarizzate e soggette a ispezioni”; 2) Tri- politania, Cirenaica e Somalia italiana, in-

56 Fo 371/50782, U6319/50/70.57 II testo del trattato fu pubblicato nel 1947 quale Libro bianco (Cmd 7481) e ripubblicato in “State Papers”, voi. 148.58 ORC (45) 20, in Fo 371/50782, U6539/50/70; Roger Bullen, M.E. Pelly (a cura di), Dbpo, vol. II, London, Hmso, 1985, n. 11.59 ORC (45) 21, in Fo 371/50791, U6450/51/70; Dbpo, vol. II, n. 12.

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sieme alla Somalia britannica, all’Ogaden e alla zona riservata, “da porre sotto ammini­strazione fiduciaria internazionale, con la Gran Bretagna come fiduciaria” ; 3) l’Eri­trea data all’Etiopia “ad eccezione delle pia­nure nordoccidentali, che dovrebbero anda­re al Sudan”; 4) il Dodecaneso alla Grecia e Castelrosso alla Turchia.Per motivi politici generali possono sussistere ra­gioni per consentire all’Italia di mantenere un di­retto interesse in alcune delle sue colonie, purché ciò non pregiudichi alcun interesse diretto nostro e purché le reazioni degli abitanti, che non acco­glieranno con favore la restaurazione del domi­nio italiano, non siano così violente da provoca­re ripercussioni capaci di minacciare la nostra posizione in Medio oriente.

Non abbiamo nessun desiderio di annettere noi stessi alcuno di questi territori. Nello stes­so tempo non possiamo disinteressarci del [lo­ro] futuro [...] Nessuno di questi territori può es­sere considerato idoneo ad ottenere immediata­mente la concessione dell’autogoverno. Come territori dipendenti di uno Stato ex nemico, sono ovviamente soggetti all’amministrazione fiducia­ria internazionale, per la quale dispongono i ca­pitoli XI, XII e XIII della Carta di San Franci­sco [...] Per motivi pratici dovremmo esercitare pressioni perché un solo Stato sia designato fidu­ciario.

Queste furono le ultime dichiarazioni di carattere generale sui desiderata britannici in merito al trattato di pace con l’Italia. Non ho trovato segni di mutamento nella politica inglese verso l’Italia sotto la dire­zione di Bevin. Difendendo gli interessi bri­tannici nei successivi, lunghi negoziati, que­sti sembra aver agito sulla base degli stessi assunti e delle stesse argomentazioni che avrebbe utilizzato Eden. Sembra anche aver avuto mano più libera, in quanto Clement R. Attlee dimostrò nelle questioni interna­zionali un interesse meno ostinato e conti­nuo di quello di Churchill.

Il dibattito sul Sud Tirolo continuò al Fo­reign Office, con il Dipartimento Germania che sosteneva la causa austriaca e il Diparti­mento occidentale quella italiana. Vi era un notevole settore dell’opinione britannica parlamentare e pubblica che considerava la persecuzione dei sudtirolesi come uno dei più gravi crimini dell’Italia fascista e che quindi appoggiava il ritorno della regione al­l’Austria. Il 14 settembre 1945, tuttavia, il consiglio dei ministri degli Esteri decise che la frontiera austro-italiana dovesse restare inalterata, dando però udienza a tutte quelle istanze che gli austriaci avrebbero potuto presentare per rettifiche minori a loro favo­re. In dicembre si tennero in Austria le ele­zioni, in cui il partito comunista conquistò soltanto il cinque per cento dei voti. Questo modificò il punto di vista britannico. Hood osservò:Gli avvenimenti in Austria si sono sviluppati tan­to più rapidamente e favorevolmente di quanto ci aspettassimo, da rendere sicuramente consigliabi­le rivedere la decisione presa la scorsa estate, in base alla quale avremmo tratto maggiori vantaggi dall’evitare ulteriori umiliazioni all’Italia che dal soddisfare le aspirazioni austriache. La giustizia è certamente una base più valida per la nostra poli­tica che non l’opportunismo: ma in un caso come questo, l’ardore con il quale perseguiamo la giu­stizia deve essere condizionato da una valutazio­ne dei nostri stessi interessi.

Hoyer Millar ne convenne, ma ammonì:A meno di non essere pronti ad aiutare gli italiani nel trattato di pace in qualche altra direzione, co­me le colonie, la Venezia Giulia o la frontiera franco-italiana, temo proprio che se togliamo al­l’Italia il Sud Tirolo, il governo italiano si rifiute­rà di firmare il trattato60.

Il 14 luglio 1946 Charles scrisse una lette­ra privata a Harvey:Riconosco che per tenere l’Austria fuori della cor­tina di ferro, sarebbe bene ridarle il Sud Tirolo.

60 Note 10, 19 gennaio 1946, in Fo 371/50929, U3058/6138/70.

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Assumere una qualsiasi iniziativa in questo senso alla prossima Conferenza della pace significhe­rebbe forse farci perdere l’Italia. Il problema sta nel pesare i due paesi sulla bilancia dell’utile e di farla pendere a svantaggio di quello che meglio possiamo permetterci di perdere. È comprensibile che gli italiani trovino difficile credere che a ri­compensa di due anni di cooperazione postbellica con gli alleati debbano perdere non soltanto tutti i loro possedimenti d’oltremare, ma anche cedere territorio all’Austria, che è stata il nostro acerri­mo nemico in due guerre61.

Nel frattempo, in giugno, si ebbe il primo accenno del fatto che la maggioritaria Siidti- roler Volkspartei, che sino ad allora aveva chiesto un plebiscito che determinasse il fu­turo del Sud Tirolo, si disponeva a discutere l’autonomia nell’ambito dello stato italia­no62. Il Foreign Office accolse con calore questa prospettiva ma il 22 luglio Noel Ba­ker, ministro di Stato, espresse alla House o f Commons la speranza che il problema “possa essere risolto per comune accordo tra i governi austriaco e italiano”63. Il 25 luglio il Sud Tirolo fu argomento di dibattito par­lamentare: dei nove oratori, soltanto Mac­millan ed un altro sostennero la causa italia­na. Bevin restò sul vago. Alla Conferenza di Parigi gli inglesi sollecitarono insistentemen­te in via privata le due parti a raggiungere un accordo, nella speranza di risparmiarsi una decisione penosa. Con sollievo generale, la Siidtiroler Volkspartei mantenne l’atteg­giamento moderato, e il 5 settembre De Ga­speri e il ministro degli Esteri austriaco, Gruber, raggiunsero un compromesso in ba­se al quale veniva concessa l’autonomia alle

due province di Trento e Bolzano garanten­do pari diritti alla minoranza tedesca64. Nel trattato di pace conclusivo gli alleati e le po­tenze associate “presero atto” dell’accordo.

La frontiera italo-jugoslava a nord di Trieste, nella delimitazione definitiva, sod­disfaceva la richiesta britannica che seguisse il più possibile lo spartiacque etnico e che quindi riducesse al minimo le minoranze da entrambe le parti. Una soluzione al proble­ma di Trieste, rivendicata sia dall’Italia che dalla Jugoslavia, la si trovò nella creazione del Territorio libero di Trieste, sul modello adottato per Danzica nel 1919, sotto sorve­glianza delle Nazioni unite. Di fatto il Terri­torio non entrò mai in funzione, ma la sua creazione fu considerata a quel tempo un compromesso razionale e ragionevole. Nel giugno 1945 gli iugoslavi, di fronte a un ulti­matum alleato, avevano ritirato i loro parti­giani dalla città di Trieste in cui erano entra­ti prima dell’arrivo delle forze alleate; nes­sun tentativo venne fatto invece per allonta­narli dalla penisola istriana, dal che derivò la crudele sorte delle comunità italiane delle città della costa occidentale istriana.

Il campo in cui gli inglesi ebbero meno successo nel raggiungere i loro obiettivi fu quello coloniale. A Potsdam Viaceslav M. Molotov aveva chiesto la partecipazione so­vietica all’amministrazione fiduciaria della Tripolitania. La minaccia di una presenza sovietica nel Mediterraneo accrebbe la ne­cessità di cooperazione tra inglesi e america­ni: la Gran Bretagna fu così costretta a la­sciar cadere tra le sue proposte quelle che erano sgradite agli americani. Il trattato si

61 Fo 371/60614, ZM2723/135/22.62 Relazione da Washington, 26 giugno, in Fo 371/60614, ZM2316/135/22; si veda anche relazione da Roma, 5 lu­glio, e dal console britannico a Bolzano, 9 luglio, ZM2378, 2559.63 “House of Commons Debates”, 55a serie, voi. 426.64 Nel giugno 1945 il Dipartimento ricostruzione aveva espresso scetticismo in merito all’utilità di obbligare l’Italia ad “accettare determinate condizioni quale prezzo per conservare la provincia”. Harvey osservò: “Il risultato di trattati relativi alla minoranza tra le due guerre è stato insoddisfacente in così alta misura da far prevalere l’opinio­ne che non dovremmo cercare di richiamarli in vita” . Note di Hood e Harvey, 11, 16 giugno 1945, in Fo 371/ 50790, U4441/51/70.

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limitò a provvedere alla rinuncia da parte italiana di “tutti i diritti e titoli ai possedi­menti italiani in Africa” e alla loro sistema­zione definitiva ad opera delle quattro po­tenze alleate e associate. Nei fatti, tale si­stemazione non venne operata che nel 1951 e fu perfezionata sotto gli auspici delle Na­zioni unite. L’Italia non ritornò in Tripoli- tania come fiduciaria, né fu creato un emi­rato cirenaico sotto amministrazione fidu­ciaria britannica. Venne invece mantenuta l’unità “artificiale” della Libia. Uno degli obiettivi britannici fu tuttavia conseguito: il 1° gennaio 1952 Sayd Idris el Senussi di­venne re della Libia indipendente. L’Eritrea non fu spartita, ma le fu concessa l’auto­nomia nell’ambito della federazione etiopi­ca. Non si realizzò la proposta britannica di una Grande Somalia: all’Italia venne in­vece concessa l’amministrazione fiduciaria per dieci anni della Somalia, amalgama del­la Somalia italiana e di quella inglese. Grande la soddisfazione per l’orgoglio ita­liano ferito.

Le clausole militari si avvicinavano in ampia misura ai desiderata britannici, per quanto in alcuni dettagli fossero meno se­vere delle raccomandazioni dei capi di Sta­to maggiore del paese. Dovevano essere de­molite le fortificazioni italiane alle frontiere con la Francia e la Jugoslavia. Pantelleria e le isole Pelagie dovevano essere smilitariz­zate, ma rimanevano italiane. In Sardegna dovevano essere demolite le installazioni navali nel raggio di trenta chilometri dalle acque territoriali francesi, ma, d’altro can­to, sia in Sardegna che in Sicilia venivano vietate solo le trasformazioni o le aggiunte alle fortificazioni già esistenti. L’esercito

doveva essere limitato a 185.000 unità di truppa combattente, a 65.000 carabinieri e 200 carri armati medio-pesanti. Erano vie­tate le armi atomiche e gli ordigni a pro­pulsione autonoma. L’aviazione era limita­ta a 200 tra caccia e aerei da ricognizione, a 150 aerei da trasporto e da addestramen­to e a 25.000 uomini.

Furono le restrizioni alla marina italiana a suscitare le più vive inquietudini durante i negoziati di pace. Se ne doveva limitare la consistenza, ed un numero considerevole di navi doveva venir consegnato a Francia, Urss, Grecia e Jugoslavia65. Il 21 marzo 1946 Carandini, in via privata, espresse l’av­vertimento che la marina italianasentiva che il comune senso di dignità e di rispet­to di sé rendevano impossibile accettare a questo punto condizioni che comportavano la sottomis­sione a nazioni che avevano svolto un piccolo ruolo, o nessun ruolo, nella sconfitta dell’Italia

e avrebbe affondato le navi in questione piuttosto che consegnarle66. Charles ricevet­te dal ministro della Marina e dal presidente del Consiglio assicurazioni in merito “alla lealtà ed alla disciplina della Marina” , la quale avrebbe impedito tali azioni. Ma l’am­miraglio Cunningham, comandante in capo navale del Mediterraneo, non si faceva illu­sioni67:Qualsiasi dimostrazione o minaccia di forza, a meno che non avvenga su scala schiacciante, il che considero inattuabile, è probabile che provo­chi negli italiani solo reazioni favorevoli all’af­fondamento e un avvilimento tale da escludere ogni possibilità di una loro cooperazione. È op­portuno quindi evitare o minimizzare, nella misu­ra del possibile in una questione del genere, qual­siasi offesa all’orgoglio italiano. Sarebbe preferi-

65 La marina doveva essere limitata a 2 corazzate, 3 incrociatori, 4 cacciatorpediniere, 16 torpediniere e 19 corvet­te; dovevano essere consegnate 3 corazzate, 5 incrociatori, 8 cacciatorpediniere e 8 sommergibili.66 Fo 371/57080, U3364, e 57082, U3749/17/70. Si veda anche Charles a Bevin, 3 maggio, in merito a “parole irre­sponsabili” e manifestazioni di protesta di civili che chiedevano l’autoaffondamento, in Fo 371/60703, ZM1457/ 1286/22.67 Cunningham al ministero della Marina, 21 marzo 1946, in Fo 371/57082, U3766/17/70.

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bile consentire agli italiani di ammainare le loro insegne nei loro stessi porti, con il cerimoniale che ritengono necessario, in modo da evitare iste­rismi dell’ultima ora provocati dalPammainare le insegne nazionali a Malta, con la possibilità di sa­botaggio che li accompagna. Sono pienamente conscio dell’importanza di assicurarci la collabo- razione del ministro della Marina italiano, man­tenendo sul suo capo, naturalmente, la minaccia di severe sanzioni in caso di disobbedienza, quali la detrazione di un egual numero di unità dalla flotta rimasta all’Italia per sostituire le navi af­fondate; e a questo proposito raccomanderei di lasciare agli italiani la scelta del metodo per eli­minare i sommergibili e le piccole imbarcazioni come i Mas, se distruggerli per recuperare il rot­tame o affondarli con tutto il cerimoniale che tanto attrae le razze latine.

Nei fatti, queste ed altre concessioni ai sentimenti italiani fecero sì che non vi furo­no tentativi di affondamento (sul modello tedesco del 1919) quando venne il momento di consegnare le navi.

Con sguardo retrospettivo possiamo vede­re come la maggior parte degli sforzi britan­nici, descritti in questo saggio, si siano di­mostrati vani. In poco più di due anni dalla firma del trattato di pace l’Italia divenne membro della Nato e ciò la pose in una posi­

zione ancor più anomala di quella della co­belligeranza tra il settembre 1943 e il maggio 1945. Due gli aspetti che avevano particolar­mente ferito i sentimenti italiani: il Pream­bolo, nel quale si richiamava l’atto di ag­gressione dell’Italia nel 1940, e l’articolo 15, che impegnava l’Italia a “prendere tutte le misure necessarie” per garantire il godimen­to da parte di “tutte le persone sotto giuri­sdizione italiana” dei fondamentali diritti umani68. Carlo Sforza, il ministro degli Af­fari esteri, il 10 febbraio aveva comunicato che l’Italia attendeva una pronta revisione. Il 21 dicembre 1951 dieci dei ventun firmata­ri resero noto di riconoscere che “lo spirito del Preambolo non esiste più ed è stato so­stituito dallo spirito della Carta delle Nazio­ni unite” e che le clausole politiche riguar­danti i diritti umani erano diventate super­flue. L’effetto pratico della dichiarazione fu che “il marchio d’infamia morale” del trat­tato fu soppresso e che si poterono lasciar cadere le clausole militari. Raramente nella storia un trattato di pace ha avuto vita tanto breve.

Christopher Seton-Watson[Traduzione di Francesca Ferraiini Tosi]

68 Con una “nota verbale” trasmessa al Foreign Office il 30 maggio 1946, il governo italiano protestò contro que­sto “affronto alla propria [dell’Italia] dignità ed alla propria storia”. Ross annotò il 6 giugno: “Questo Dipartimen­to avrebbe preferito che nel trattato di pace italiano non fosse presente nessun articolo sui diritti umani; convenne tuttavia sull’inclusione di un articolo nella consapevolezza che era essenziale averne uno simile nei trattati balcani­ci” (Fo 371/60706, ZM1852/1286/22).

Christopher Seton-Watson (1918). Fellow aWOriel College di Oxford e libero docente in Scienze poli­tiche (1946-1983); autore di Italy from Liberalism to Fascism (1967) e di numerosi articoli sulla politi­ca e la storia contemporanea italiana e sulle relazioni italobritanniche. Socio onorario dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano (1982), e della Founded Association for the Study o f Modern Italy (1982).