STORIE NELLA STORIA DELLA GRANDE GUERRA · 2015. 9. 4. · La grande guerra si svolge nelle...
Transcript of STORIE NELLA STORIA DELLA GRANDE GUERRA · 2015. 9. 4. · La grande guerra si svolge nelle...
STORIE NELLA STORIA DELLA GRANDE GUERRA
Nella consapevolezza che la conoscenza approfondita della Prima Guerra Mondiale è
fondamentale per capire e riflettere sul nostro contesto, i miei ragazzi della classe Terza della
Scuola Secondaria di Primo Grado di Minerbe hanno lavorato in ricerche e letture sul grande
conflitto per tutto l‘anno scolastico. Dal lavoro emerso è stato tratto poi gli elaborati con i quali
hanno partecipato a due concorsi: il primo su ―LA GRANDE GRUERRA‖ indetto da Circolo
Culturale TerraNostra, Basso Adige, Associazione Lettrici ABC e Consorzio delle Pro Loco del
Basso Veronese, il secondo dal titolo: ― GLI EFFETTI E LE CONSEGUENZE DELLA PRIMA
GUERRA MONDIALE NEL MIO PAESE‖ promosso da: Primo Giornale, CrediVeneto e Libreria
Ferrarini.
Tutto il grande lavoro viene presentato ora nel sito del Circolo Culturale TerraNostra, certa di
rendere merito a tutti coloro che si sono impegnati.
La Presidente del Circolo, prof.ssa Ornella Princivalle
INDICE
1. Guerra e memoria
2. Uomini in guerra
3. Donne fra sfollamento, internamento, confino
4. La difficile vita in paese
5. Il flagello della Spagnola
6. I caduti; un monumento ad essi
7. Il dopoguerra
8. Minerbe ricorda la guerra
GUERRA E MEMORIA La guerra mondiale segnò l‘ingresso delle masse nella storia: tutta la popolazione, infatti, aveva partecipato in qualche modo: non soltanto gli uomini che furono direttamente impegnati nei combattimenti al fronte, ma anche le donne che lavorarono nelle fabbriche, per sostenere lo sforzo bellico, e nelle campagne. Quell‘esperienza, terribile e violenta lasciò tracce profonde e indelebili nelle coscienze di tutti i giovani divenuti combattenti sulla base della coscrizione obbligatoria. La grande guerra si svolge nelle trincee, dove i soldati trascorrono una precaria quotidianità, a poche decine di metri dal nemico, sempre in attesa dell‘avvicendamento, del rancio, della posta, dell‘ordine di attacco, dei colpi delle artiglierie. Vivono in mezzo alla morte, affiatati con i morti. I soldati, che provengono in larga parte dalle campagne, cercano di mantenere un qualche contatto con la vita, con i parenti e con gli amici attraverso la corrispondenza (sono quasi quattro miliardi le lettere e le cartoline postali viaggiate solo in Italia). In molti appuntano su quaderni, su foglietti, sui margini di vecchi giornali, gli orrori e gli eroismi del vissuto quotidiano: cercano di esorcizzare l‘angoscia e lo sconforto, di difendere la propria umanità, di dare un senso all‘esistenza, di conservare la memoria degli avvenimenti. La guerra, che venne percepita specialmente da alcuni intellettuali come una necessità non solo storica , ma anche psicologica, cambiò pure l‘atmosfera culturale. I suoi orrori posero fine all‘ottimismo della Belle Epoque e si diffuse un‘atmosfera cupa. Fin dall‘inizio, in tutti i paesi coinvolti nella guerra nacque un nuovo concetto che intendeva coinvolgere l'intera nazione in questo avvenimento: il "fronte interno". L'intento delle autorità era far partecipare al clima bellico non solo i soldati o le popolazioni che per loro sfortuna abitavano vicino al confine austro-ungarico, ma indistintamente tutti gli italiani. Parallelamente, fu anche un ottimo modo per evitare che dilagassero idee pacifiste, neutraliste o anti-italiane. Le conseguenze furono simili a quelle di una dittatura: "[la zona di guerra] comportava la sospensione dei diritti di riunione e associazione, la possibilità di sciogliere circoli e Camere del Lavoro, l'impedimento di ogni attività politica e sindacale, la soppressione del diritto di sciopero […]. Intere categorie di persone furono sottoposte al regime disciplinare dell'esercito in quanto soggette al servizio militare […]. Il complesso delle relazioni industriali fu sottratto alla libera contrattazione e sottoposto a una regolazione dall'alto." (Antonio Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, Bur, 2009, Milano, pp. 177-178).
Più la guerra poi si prolunga, più incide negativamente sul tenore di vita che automaticamente s‘impoverisce. Sulla serenità delle famiglie della nostra bassa, in genere già provate per le precarie condizioni sociali ed economiche, si abbattè quindi questo difficile periodo, uno dei più terribili della storia dell‘umanità. ―Il cataclisma della guerra rappresentò per milioni di individui un passaggio obbligato nel quale singolarmente e collettivamente dovettero giocare non solo la vita e la sopravvivenza, ma l‘intero sistema di relazioni umane, culturali che ne caratterizzavano lo stare nel mondo, in quel mondo‖ (Camillo Zadra- storico-2001).
I ricordi di nonno Moro da Pilastro di Bonavigo (Da ―I lèori del socialismo‖ di Dino Coltro,
Bertani ed)
Raccontato dal figlio Dino, nonno Moro rivive con grande partecipazione emotiva e con immediatezza il passato, come se quegli anni non fossero trascorsi. Utilizza un linguaggio dialettale, tagliente e crudo che coinvolge e rende presente e viva la difficile situazione, fin dalle prime fasi dell‘arruolamento forzato. Siamo lontano dai toni di alcuni scrittori e poeti i quali ricondussero episodi gloriosi o atroci nell‘ambito di un linguaggio fortemente segnato da accenti biblico – profetici e il sacrificio dei caduti venne assunto in una dimensione eroico, cristiana e mistica.
(1)‖… lavoravo da Giaretta quando mi hanno mandato la cartolina e sono partito par il fronte, par noialtri
non c’è storia, solo da quando ci hanno scritti sui registri del Distretto militare siamo diventati italiani con
un re e un governo, prima re e governo erano i padroni che ci comandavano, … … . E’ capitata la guerra, se
ne sentiva parlare, si fa o non si fa, ma si vedeva che quelli al governo avevano deciso de farla dai richiamati
alle armi, nei paesi s-ciaravano gli omeni come bietole sul seminato, ogni giorno qualcuno partiva con il
fazzoletto incrosà sul bigoloto, non si sono fermati alle classi dei butei, bisognava fare mota, allora sotto tutti,
permanenti e richiamati con i figli a casa al collo della donna, sono partito anca mi il quindici maggio del
quindici,
Subito egli ci richiama alla cruda realtà della miseria specialmente in condizioni di guerra, con i
parallelismi tra ―siori‖ i ―paroni‖ e ―pitochi‖ i braccianti, evidenziando la sua concezione per quel
mondo borghese che con indifferenza ha voluto la guerra.
―… i primi giorni è stato un pellegrinaggio da Verona a casa, si andava e veniva come che andassimo al
lavoro, dassimo al lavoro, la mattina si partiva con un salame in tasca, la sera si ritornava a mangiare sulle
spalle della fameia, senza portare a casa, cosi lo stato risparmiava anca il rancio che e tutta una catena tra
siori è stato, par lori non c’e nessuna diffarenza fare laorare i campi o fare copare dei cristiani, sono mestieri
che sporcano le mani, noi i calli li abbiamo fatti sul manico del versoro, non sentono la delicatezza della vita e
delle robe belle, forca o fusile hanno la stessa liscìatura della fatiga‖
L‘umanità del bracciante emerge forte in questo suo chiedersi il senso del suo andare alla guerra,
lasciando tutto il suo mondo legato al lavoro quotidiano e al mantenimento dei suoi piccoli.
―a casa mia quell’anno avevano fatto su du mas-ci, ma con quella storma de bocche sullo spigolo della tola
non era grande abbondanza, il mestiere del militare a carico non entrava nei conti, par mi era anca una vita
andare avanti e indietro, avanti e indietro par quindase di, non avevo pi la peluria dei butei, quando de colpo
la sagra finì par tutti, mi hanno messo le braghe, da allora chi si e visto si e visto. Il vestito fa il soldato come
fa il prete, si parte convinti de fare il proprio dovere, si va in guerra, invece de laorare par un parone solo,
adesso mi toccava sgobbare non so neanche par chi, la Patria non me la fìguravo, par difendare la tua casa
dicevano i sapienti civili, ma la casa non era mica mia, sarà stato giusto libarare delle terre par dare lavoro da
che non c’era tanta terra in Italia, a parte che mi era convinto che bastava spartirla e ce n’era par tutti,
comunque mi ho visto solo sgrepane de montagne dove non si può piantare una patata che è una patata, par
questo posso dirlo‖
Con un tono quasi di incredulità, nonno Moro cerca di dare un senso a ciò che sta vivendo,
richiamando alla memoria i suoi ricordi d‘infanzia e il suo pensiero alla famiglia.
― sull’Altissimo mi mandano a fare trincee, mi ricordava il lavoro de rassadore de asse fatto da piccolo, dopo
passo alla someggiata che e come fare il carrettiere senza carretto, basta una sella, occhio al mulo e passo
sicuro sulle mulattiere, mi ero abituato al fischio delle pallotole, era come la ghiaiarotta sotto le rue, quando
mi tolgono il mulo e mi danno il moschetto par combattere in Vallarsa, era un momento de struca-struca che
pareva che i tedeschi finissero in piazza Bra, mi sbattono sul Passo Buole, un nome fisso qui al pari del
Pasubio, ero comandato a fare azioni de assalto con il plotone degli arditi, mi era il richiamato pi anziano, i
butei tante volte che si doveva andare su con baionette e pugnale, noialtri ci chiamavano quando gli altri o
erano morti o venivano giù de rugolone, mi scondevano in un buso, sta qui Moro che tu hai figlioli a casa, al
ritorno mi facevano un segno, ma ci si ritrovava sempre in manco, guardavo nel gruppo e non avevo
coraggio de domandare, sapevo che molti erano rimasti lassù a occhi verti, le occasioni par il bon cuore del
tenente calavano giorno dopo giorno, ormai ci paravano su in fretta, non c’era tempo par pensare alla pelle, i
tedeschi erano già sulla cima, succedeva anca do volte al di, allora giù botte da arrabbiati, possibile de non
stare quieti un minuto, la mania de occupare a tutti costi un pugno de monte che se uno non stava attento de
mettare i piedi si trovava nell’Adase, laggiù in valle, con la graspa negli occhi e nel sangue si lavorava de
baionetta, una volta mi succede che par cavare la mia da un todesco lo devo tegnére fermo con un piede sulla
panza e tirare, lo avevo passato fora par fora, sono momenti brutti quelli li, o ti o mi, non c’è santi che tenga,
ma dopo resti come perso in mezzo a una barafusa, il tedesco mi guardava, lo ricordo bene, mi guardava e,
orcodione, me dispiase, ma cosa posso fare, la so baionetta mi aveva bucato la giacchetta, un foro proprio qui
che ci ho poi giocato par tempo con il dito, se non ero pi svelto mi addio morosa bella, il brutto della cosa è
proprio questo che ti mettono in condizione de avere la coscienza a posto salvandoti la tua vita, la patria, la
fameia, non dicono che anca li sei comandato, non puoi dire di no, mi non ci sto a fare l’ammazzacristi, fate
un contratto con chi ci , sta, come a lavorare, ma anca la guerra è obbligatoria.
E‘ frequente lo sdegno e l‘orrore il suo senso di precarietà che la guerra provoca e ai quali la sua
coscienza si ribella, ma sono brevi passaggi, poiché egli volge lo sguardo alla sua famiglia, al suo
mondo contadino e alla sua povertà alle sue difficoltà e ingiustizie subite e narra il suo vivere
precario.
Il male è che nella vita dei pitocchi non si possono fare le cose ragionando, questo va bene, mi conviene e lo
faccio, questo no, lo fa chi ha convenienza o gli porta del bene, questa saria la libertà, invece sempre a testa
bassa, signorsì, da quando uno sbatte il naso nelle gambe della donna che lo mette al mondo, a quando
qualcuno dice che è arrivato il sabato della to vita, insomma vivare par necessità de vivare e non vivare per
godare de vivare, non dico la vita dei siori, quella non appartiene ai pitocchi, tanto non sono buoni di farla
nati come sono con il filo della schiena rotto, a stare dritti e più faticoso par noialtri che stare piegati, il male
è che ti montano a cavallo, e con prepotenza, trovi anca il sior comprensivo, capisce che un porocane non può
stare al fronte e fare l’eroe senza volontà, con la vita tenuta con ai denti, che non hai la spavalderia dei vinti
anni, il pensiero fisso come un chiodo ai figli, alla donna lasciata sul meale de casa a fare da madonna sotto la
croce, non si può a trenta e passa anni avere i pensieri libari, finché mi hanno messo nelle salmerie, in
servizio da Ala allo Zugna con il mulo, non ti dico tutte le volte che sono prestato senza bestia par quelle
cancare de granate che lo cicavano in pieno al pari dei buteleti quando giocano a marmore, tutti mi volevano
bene lassù, portavo la posta, di nascosto anca del vino che sapevo trovare mi, un vino che bevendolo era come
toccare le tette alla regina, lo prelevavo in un’osteria che adesso hanno rovinata par imbastire una bottega de
feraro, l’ho rivista qualche anno fa che Dino mi ha portato a rivedare, dopo tanti anni, non so quanti ne sono
passati, proprio i posti dove ho combattuto, mi pareva impossibile, 1’ho trovato il posto esatto della osteria,
ma rovinata e senza vino. Quando le cose si mettevano al brutto, gli ufiìciali, quelli grandi che i tenenti
erano dei castaldi, i caporali delle capodonne, ci hanno detto, tenete duro nella resistenza al nemico, che poi
erano i todeschi, ma nelle parole degli ufliciali il nemico era una bestia da ammazzare, mangiava le donne in
un boccone, i figlioli li pestava, tutto questo discorrare non ci interessava molto, non c’era bisogno de
contarla grossa, scegliere non si poteva, una pallottola davanti al plotone par tradimento c’era sempre sulla
tola del comando, si sapeva bene tutto, eppure non bastava, scappare è una cosa, combattere con voglia e
passione è un’altra‖
Il premio promesso al loro ritorno per loro ubbidienza al fronte era la terra, ma poi si ritrovarono
al congedo con un sussidio per breve tempo, abbandonati alla loro miseria. Essi si sentirono traditi
―…, sicché cambiarono tasto, la nuova musica ci incantò, il discorso era fatto su misura par i braccianti,
difatti è entrato subito in testa, la terra da lavorare nostra, quando noialtri avessimo avuto la grazia de
tornare sani e salvi dalla guerra, i nostri siori, il nostro stato insomma, ci daranno come premio la terra, i
campi nostri, invece il premio è stato che siamo venuti a casa dal fronte con le mani spaccate dai reticolati,
lori hanno tradito la promessa e par questo tradimento non c’era il plotone, anzi ci hanno sbandonati su una
strada, senza neanche il lavoro che si aveva prima, era peggio del peggio.
Il governo ci ha dato il sussidio con il congedo, par du mesi, con quello uno doveva vivare, ma cosa prendevi
con il sussidio, da sfamarti tu non la fameia, dall’amore che predicavano al fronte, il sangue si doveva dare, la
vita, adesso la facevano diventare un peso, altrochè la donna, i figli da difendere, i fioli li mandiamo a erbe nel
campo come conigli, se avessimo la terra promessa saria diverso, ma quella è sotto gli stivaloni dei siori, così
era e così resta, s-giavara non pesta terra sua, poi ci hanno messo in mano un vestito, un regalo in sopra più,
un vestito vecchio e smesso, par tirare avanti tutto serve al pitocco, ma non si prende in giro chi ha bisogno
di pane dandogli un sasso in mano e con tutto questo non aspettavo la manna a braccia conserte, lavoravo da
Togni a Isola Rizza, sposato con quattro figli dentro avevo il veleno, eppure a schiena rotta sempre duro,
anca se ti facevano pesare il lavoro come una carità, a ore in stalla dei cavalli, non continuativo, se occorreva
in campagna senza voltare il manico, non era neanche possibile salariarsi volendo, ma mi ero stufo de
servitù, ho fatto quattro anni de soldato mi dicevo, ancora salariato, basta, se domani voglio stare a casa resto
a casa, sempre preso al collo, alla catena, non essare mai libaro né sere né feste, bestia con le bestie nella
stalla, vedare delle facce ogni altra dominica se si toccava il turno, prima de andare in guerra ho fatto il
salariato sotto 'i siori, a militare salariato sotto il governo, mi pareva de non avere torto a volere un lavoro da
omo, il male era che non te lo davano, e se riuscivi a averlo, non prendevi un’ostia.
Le condizioni economiche e sociali di tutti i reduci sono quelle di prima, tutti si sentono uguali e
ugualmente traditi e dimenticati, avvertono quanto unitile sia stato il loro grande spargimento di
sangue; il rancore si fa sentire creando forti tensioni.
Tutti i congedati tornavano ai casa nelle stesse condizioni mie, non c’erano diffarenze tra noi, i soldati erano
contadini, par lo più braccianti, il numero non era quello de prima, i morti restavano sui monti, tanti
avevano perso chi un braccio chi una gamba, la vita par lori si presentava grama, la Patria aveva goduto del
loro servizio, adesso li dimenticava, immaginarsi noialtri con gambe e braccia a posto, bisognava arragiarse
come al fronte, non era cambiato niente, se il rancio c’era mangiavi se no cinghia, qui lo stesso, la testa tra le
gambe, si pensava, i pensieri a pancia vuota sono come un male de panza, con gli occhi ci domandaino cosa
fare, un po’ alla volta si arrivò a vederla brutta, qualcuno disse la sua, si comincio a discorrare a lungo, non
più a parole ma a idee, i pareri erano tanti e diversi, uno par testa, in comune c’era una gran rabbia par le
promesse non mantenute, andare anca a pitoccare un lavoro par mangiare appena, non si poteva continuare,
qualcuno in giro ci rideva in faccia, vi sta bene a credare ai paroni vestiti da ufficiali, l’imbroglio si sentiva a
naso, come l’aspro del fieno bruciato quando tira il fresco della mattina, cosa vi era entrato in testa, la terra ai
contadini, roba da libri par darla da intendare ai bauchi, anzi c’è scritto non ai contadini ma a chi la lavora,
non la daranno mai, statene sicuri, a sentire sti discorsi che erano veri dopo tutto, bastava guardarsi attorno,
se mangiaimo le mani, tanto valeva averla lasciata agli austriaci la terra, abbiamo dato il sangue alla Patria,
adesso continuate a ciuciare quel poco che ci è rimasto nelle vene, morire in piedi ci fanno, ecco cosa vogliono,
hanno visto che siamo tornati in troppi dalla guerra, avevano fatti i conti in modo diverso, la pelle massa
dura abbiamo, le bocche sono aumentate e non calate, qualcuno di noi pensava di dover stare sotto cambiando
solo calcossa, ma ormai rompare bisognava, battere il ferro finché è caldo, siamo tutti qui, un plotone, un
reggimento siamo, è il momento della guerra nostra, de noialtri, altrocché il nemico via dal Piave, il nemico è
ancora qui par noi, sono i paroni‖
Il narratore continua così con i parallelismi tra ―siori i ―paroni‖ ―stato‖e ―pitochi‖ i braccianti,
evidenziando la sua concezione per quel mondo borghese cinico e approfittatore che con la guerra
si è arricchito e che ha fatto sentire i combattenti dei poveri diseredati e senza patria. Forse per
questo nonno Moro rifiuta anche di aderire alle associazioni cattoliche: perché all‘origine, le
associazioni cattoliche portavano il marchio borghese e perseguivano l‘obiettivo di impiantarsi su
tutto il territorio nazionale. Contro questa tendenza << ufficiale >>, nascevano e si sviluppavano
<< situazioni locali >>, in cui si prende coscienza del valore della lotta di classe, delle
rivendicazioni delle masse più diseredate, sotto la guida di uomini nuovi
― È: chiaro come il sole, si sono ingrassati con la guerra, lo sanno tutti i soldi chi li ha fatti, noialtri al fronte
voialtri a casa, magari ci avete fregato le donne, è successo anca questo, basta con tutte queste madonne, la
guerra giusta comincia ora. Allora si e fatto un capo par dare ordine e disciplina, ce lo avevano insegnato
lori, si deve sapere dove andare, quando e come attaccare, cosa mettere nel tascapane, il comando lo ha preso
un certo Straccagno de Isola Rizza, socialista de prima razza, omo in gamba come idee, come tutto, con
qualche grado anca da militare, la proposta generale era de roversare la situazione con il socialismo, il sangue
ci scaldava la testa de entusiasmo, ci pareva una cosa facile oltre che giusta, ci aspetaino sulle crosare con il
culo incollato sulle piere dei ponti, l’argomento era il lavoro ma dato dal socialismo, non più dai siori,
l’ignoranza grossa però non valeva intendare, cosa è il socialismo, parole da impinare la bocca e basta, meglio
sentire le leghe, meglio allora mettarsi d’accordo con i paroni, come d’accordo, insieme o ognuno par conto
proprio, ma c’è la volontà, si, difatti l’accordo ce I’hanno lì sotto i coglioni par ti, te lo tengono caldo,
inseminio va con i bianchi a cantare il fiore bello, guarda se e tempo de parlare de fiori bianchi, par lori facile,
con i campi hanno pane da mangiare e fiori da snasare, sono tutti dei fitualoti, la sera slongano le gambe sul
fogolaro caldo de stizzi, tu cosa hai sul fogolaro, gli occhi del gatto, neanche quelli parché i ratti sono finiti, e
poi le leghe bianche sono dalla parte dei paroni, sono dei pretini, cosa puoi aspettarti di buono dai preti, no
con sti discorsi, cosa hanno fatto poi, sentiamo, chi ha alzato bandiera rossa par primo, la bianca significa
arrendersi, il socialismo ha la bandiera rossa, vuole dire che e la bandiera dei pitocchi, bisogna andare dietro a
questa, come quando correvimo all’assalto, il rosso si riconosce da par tutto, non lo confondi … 'i bianchi
sono nati dopo, contro de noialtri non contro i siori, come facevano a dire de essare par la giustizia sociale,
par il pane e la terra ai contadini, combinavano solo della confusione, par conto mio la forza pitocca doveva
restare unita come un pugno serrato sullo stomaco dei siori, invece così si era divisi e noi socialisti gran
malvisti, anca dalla dona che de notte in letto non faceva che brontolare, tremava il cavazzale dalle parole, i
socialisti sono dei senzadio, bruciano le chiese, guarda in Russia, e tu bada alla casa toa e non guardare la
Russia, prova a contare i fasoi nella minestra, le donne la lengua hanno e basta, parché sono al mondo solo
Dio lo sa, mi sono il to omo, te pare che sia un senzadio o è Dio che si desmentica del to omo, siamo ai passi
del poro limone, strucati e buttati via, abbiamo trovato un difensore, il socialismo, tu invece ascolti i preti,
ma allora va a mangiare in canonica, mi non ho sposato il prete ma ti, allora sta con mi che a Dio ci parlo io
quando sarà l’ora che non credo che lu sia con chi ci affama e pesta come merda da campo, in fondo siamo
terra del so paradiso, chi non vuole bene alla so terra, anca i siori tengono duro par questo, par la terra, sulla
paga, presto o tardi, devono calare le braghe, difatti sul contratto si poteva parlare, ma solo di quello,
Straccagno ogni giorno ci riferiva sulle proposte e controproposte, il tempo passava, uno dice che ci vogliono
prendare par la gola, la fame cresceva come l’acqua nel Duale, viene il momento che non se ne può pi, de
granari pieni nessuno ne aveva, un bel giorno si trova la chiave par aprire la situazione, si dice, qui si fa
scioparo. … ma scioperare significava vivare par la prima volta, almanco noialtri, senza dipendare dai
paroni, con il solo fiato che aveimo, comandarse tra di noi …‖ (2)
(1) Da pag. 27
(2) (La provincia di Verona, durante i moti contadini narrati, era divisa in due zone << chiuse
>> di influenza politica: a sud, i socialisti, al nord, nel comprensorio collinare, i cattolici. Al
centro, nella media pianura, si alternavano situazioni particolari nelle quali l‘influenza dei
due partiti praticamente si bilanciava. Il narratore si trovava e agiva nella Bassa, dove,
ancor più in quel clima di guerra, l‘esistenza di grosse aziende agricole (corti) costringeva
la manodopera locale a un bracciantato misero e senza sbocchi di progresso sociale. In tale
condizione la prospettiva rivoluzionaria appariva l‘unica soluzione sociale e politica.)
Ma tremendo era stato il ―fronte‖ anche per chi era rimasto a casa, per donne e vecchi soli a
portare avanti le fatiche del lavoro dei campi e del mantenimento della famiglia.
Quando il 14 novembre 1915 improvvisamente Verona si trovò coinvolta nel conflitto, tre aerei
tedeschi la bombardano e in Piazza Erbe le schegge provocano una strage e si parla di un centinaio
tra feriti e morti, gli orrori della guerra vennero vissuti anche in Provincia, Villabartolomea per
esempio divenne centro di raccolta per le truppe al fronte e molti suoi palazzi furono adibiti ad
ospedali militari per raccogliere i feriti. Il primo anno di guerra si avviò a conclusione fra dubbi e
timori che divennero ansie e lacerazioni di affetti negli anni successivi; la testimonianza di nonna
Giuseppina è significativa a tale riguardo.
L’esperienza di nonno Romano: semplice storia di guerra: 1916 – 1917:
1° MAGGIO- 15 DI GIUGNO 1916: Offensiva austriaca in trentino e negli altipiani.
In base alla coscrizione obbligatoria, mi ritrovai a compiere quell’esperienza, terribile e violenta,
nelle trincee dell’altopiano di Asiago. Era un paesaggio irto, con certe rocce che sembravano
lisciate da un tornio, c’erano drune rigide, masse cubiche, da lì si scendeva poi in una conca verde.
Non mi resi conto della bellezza del luogo, che io non avevo mai visto. Tutti noi soldati
trascorrevamo una precaria quotidianità, a poche decine di metri dal nemico, sempre in attesa
dell’avvicendamento, del rancio, della posta, dell’ordine di attacco, dei colpi delle artiglierie.
Vedevo i miei compagni guastatori mandati a preparare l’assalto che appena mettevano il naso
fuori dalla trincea venivano falciati senza scampo e aspettavo il mio turno. Vivevo in mezzo alla
morte, affiatato con i morti. Nella campagna della Bassa avevo lasciato la mia terra, i quattro figli
piccoli alle cure della mia amata Giuseppina.Cercavo di mantenere un qualche contatto con la vita,
con i parenti e con gli amici attraverso qualche sospirata cartolina e all’arrivo della posta ogni
nostro discorso si mozzava, l’ansia si faceva palese in ogni volto, negli occhi e si dipingeva poi di un
piacere così intenso o di tristezza indicibile da rendere la scena indimenticabile per tutti.
Avevo con me un quadernetto dove appuntavo qualche informazione che mi aiutasse a capire
quella assurda realtà, spesso però annotavo gli orrori del vissuto quotidiano: avevo bisogno di
sconfiggere l’angoscia e lo sconforto, di difendere la mia umanità, di dare un senso all’esistenza, di
conservare la memoria degli avvenimenti di cui solo dopo, molto più tardi, ho acquisito
consapevolezza.
La nostra graduale avanzata in Trentino, con lo stringerne sempre più da vicino i capisaldi di difesa,
forse aveva provocato nel nemico il desiderio di liberarsi dalla nostra crescente minacciosa
pressione. Forse però è stata la loro volontà di creare nel Trentino una ricca base di operazioni,
provvista di tutto quanto potesse occorrere per far vivere e combattere numerose truppe,
riducendo al minimo i trasporti ferroviari, forse ancora ragioni politiche e morali, oltre che
militari: l’odio, aggravato dal risentimento per il preteso nostro tradimento, il disprezzo per gli
antichi sudditi, … sono stati tutti presunti motivi che sembrano avere spinto l’Austria a tentare
un’azione decisiva contro di noi: la “Spedizione punitiva”. Nella seconda metà di marzo 1916
cominciò la lenta radunata delle unità, provenienti dal fronte rosso, balcanico, destinate
all’offensiva, una massa di 400 mila uomini che disponevano di 2000 bocche da fuoco, di cui metà
di medio calibro, alle quali vanno aggiunte 20 batterie da 305, a due pezzi l’una, quattro pezzi da
380, quattro da 420. Noi fummo tacciati per vili, degli intrusi nei loro monti da cacciare oltre. Noi
dovemmo ripiegare nella zona di Valle d’Adige, fra questo fiume e il torrente Leno di Vallarsa non
mancò però qualche contrattacco come quello della 37^ divisione che si affermò sulla linea Coni
Zugna – Passo di Buole che da allora saldamente mantenemmo. In complesso però, i loro risultati
territoriali conseguiti, a nostro danno e in via affatto temporanea, dall’offensiva austriaca si
potevano così riassumere: nella zona di valle Adige, ripiegammo dalle posizioni avanzate di Zugna
Torta, Pozzacchio e Col Santo, restando però a noi la linea principale di difesa, da Coni Zugna al
Pasubio; in valle Astico, sgombrammo l’alto bacino del fiume, cioè il terreno a Nord della linea
passo della Borcola—T. Posina; sull’altopiano dei Sette Comuni, abbandonammo la valle d’Assa col
pianoro di M. Cengio, la conca di Asiago e il terreno ad Ovest della valle di Campomulo e della
Marcesina; in valle Sugana, infine, dalle posizioni avanzate di M. Armentera-M. Collo ci ritirammo
sulla linea principale di difesa, ad Est del M. Civaron e sulla sinistra del T. Maso. La zona da noi
abbandonata era tutta montuosa, aspra, boschiva; i centri abitati, di modesta importanza, si
riducevano a quattro: Tonezza, Arsiero, Asiago e Borgo. ln valle Lagarina e in valle Sugana ci
mantenemmo sempre in territorio di conquista; in valle Astico e nei Sette Comuni sgombrammo
anche una ristretta superficie del territorio entro la vecchia frontiera. Per ottenere questi limitati
successi un esercito di 400 mila uomini di truppe scelte, provvisto di 2000 bocche da fuoco, tra le
quali quasi tutte le artiglierie di grosso calibro da esso possedute, dovette sostenere trenta giorni
di penosi e sanguinosi combattimenti, subì un complesso di perdite certamente superiori a 100
mila uomini tra morti e feriti, consumo enormi quantità di munizioni e di materiali ed anche di
armi e di quadrupedi. l risultati furono perciò assai modesti ed in ogni modo assolutamente
sproporzionati alla entità degli sforzi durati e soprattutto poi ai vasti obiettivi ed agli scopi decisivi
che l’offensiva si proponeva di raggiungere. Tuttavia conviene brevemente esaminare le cause che
poterono in qualche modo concorrere a facilitare lo sviluppo dell’offensiva nemica.
Per ottenere questi limitati successi un esercito di 400 mila uomini di truppe scelte, provvisto di
2000 bocche da fuoco, tra le quali quasi tutte le artiglierie di grosso calibro da esso possedute,
dovette sostenere trenta giorni di penosi e sanguinosi combattimenti, subì un complesso di
perdite certamente superiori a 100 mila uomini tra morti e feriti, consumo enormi quantità di
munizioni e di materiali ed anche di armi e di quadrupedi. l risultati furono perciò assai modesti ed
in ogni modo assolutamente sproporzionati alla entità degli sforzi durati e soprattutto poi ai vasti
obiettivi ed agli scopi decisivi che l’offensiva si proponeva di raggiungere.
È noto che i sistemi difensivi campali si basano sulla organizzazione di più linee di resistenza, delle
quali quelle più avanzate, come maggiormente esposte alle offese delle artiglierie avversarie,
hanno solo lo scopo di ritardare la marcia dell’assalitore, romperne il primo impeto, accertare la
direzione degli attacchi. Il compito della difesa ad oltranza tocca alle linee principali retrostanti.
Ora in pianura è possibile tenere le successive linee molto ravvicinate, talchè la conquista di taluna
di esse da parte dell’attaccante importa in genere progressi limitatissimi nella sua avanzata, In
montagna invece detta legge il terreno, del quale bisogna seguire rigorosamente le forme, se si
vuole che il sistema difensivo risulti organico e robusto. Nel caso della nostra difesa in Trentino, il
terreno aveva talvolta imposto la organizzazione di linee sensibilmente distanti fra loro. Cosi in
valle Sugana la linea principale passava per Ospedaletto e lungo le pendici occidentali del gruppo
di Cimon Rava, mentre quella più avanzata seguiva il corso del torrente Larganza e l’altura del
Collo, ossia era a una distanza di 10 a 12 chilometri dalla linea principale. Altre volte invece non si
potè evitare di stabilire la stessa linea principale di difesa perché il terreno precipitava
rapidamente.
Pure attaccati dal nemico con una schiacciante superiorità di artiglierie di grosso e medio calibro,
noi riuscimmo con mirabile energia a contenere e a rallentarne a ovunque l’avanzata e nelle valli
Lagarina e Sugana ad arrestarla nettamente. Cosi l’avversario, che faceva assegnamento su una
rapida disgregazione della nostra resistenza, si vide costretto a sforzi assai superiori a quelli
previsti; dovette presto rinunciare all’avanzata lungo le due maggiori e più comode direttrici,
rotabili e ferroviarie, di valle Adige e di valle Brenta; fu ridotto a mano a mano a restringere gli
attacchi dapprima tra la Vallarsa e la valle Sugana, poi sulla sola fronte dell’altopiano dei Sette
Comuni e in ultimo li contro il margine meridionale della conca di Asiago; infine, affranto da trenta
giorni di penosi ininterrotti sforzi, esaurito dalle enormi perdite sofferte, disanimato dalla tenacia
ed accanimento ’ della nostra difesa, dovette rinunciare al piano così lungamente meditato e
preparato, dall’esito del quale si teneva già così superbamente sicuro.
Mentre si rinsaldava la nostra difesa nelle valli Lagarina e Sugana e venivano inviate nell’alto Astico
forze sufficienti a rallentare e logorare con successive resistenze l’attacco nemico, veniva stabilito
che la difesa nella zona centrale dovesse a mano a mano retrocedere sino alla barriera montana
che si erge a Sud del T. Posina e, sull’altopiano dei Sette Comuni, sino al margine meridionale, ed
orientale della conca di Asiago; lungo la quale linea, mediante un rapido concentramento di forze
e di mezzi, veniva frattanto predisponendo quella difesa al oltranza, per la quale l’urto nemico
doveva essere definitivamente arrestato. fummo costretti a far saltare il viadotto sopra la Val
d’Assa a Roana alla fine di maggio del 1916 e i combattimenti del maggio-giugno del 1916
ridussero Asiago ad un cumulo di rovine e così pure i paesi di Roana e di Canove. I loro abitanti
dovettero in fretta e furia sfollare nella nostra Bassa, accolti nelle nostre povere case, dove la
campagna, abbandonata un po’ a se stessa, sembrava però reagire al dolore della guerra. Ma il 16
giugno si iniziava lo svolgimento della nostra controffensiva
Io mi trovavo sull’altopiano di Asiago quando venne allestita una robusta prima linea di difesa;
partecipai così alla resistenza a quella spedizione punitiva, anche se mi sentivo un livido fardello di
fame, paura, spossatezza. Gli attacchi furono assai violenti e così pure i contrattacchi. Io vidi
cadere molti compagni, le artiglieri nemiche sconvolgevano con tiri interrotti le nostre posizioni ,
ma anche noi prontamente reagivamo, tanto che sull’altro fronte, persuaso del fallimento del suo
piano offensivo, il nemico decideva di ripiegare le proprie linee sull’altopiano di Asiago e nella
zona del Posina- Astico. In valle d’Astico di capitale importanza per noi fu l’espugnazione del
monte Cimone caposaldo della difesa nemica. Ricordo sull’altopiano le enormi difficoltà tattiche e
di terreno che dovemmo superare: i ripidi fianchi della montagna, le battute d’infilata dai tiri delle
artiglierie avversarie la lentezza nei rifornimenti, l’efficacia degli ostacoli preparati dal nemico; e
intanto miei compaesani morivano sul monte San Michele colpiti da gas asfissianti. Tra il ’16 e il
’17 ci fu il loro arroccamento nei fronti dolomitici e prealpini e negli altipiani. L'offensiva austriaca
sferrata in Trentino aveva permesso all'esercito avversario di attestarsi su una linea che infletteva
sensibilmente verso il centro dell'Altopiano dei Sette Comuni. La controffensiva italiana del 16
giugno aveva però costretto gli austriaci a un parziale ripiegamento, ma questi si erano stabiliti su
una linea che dal margine della Valsugana per l'Ortigara, monte Campigoletti, monte Chiesa,
monte Corno correva verso sud sino alla Val d'Assa, assicurandosi tutti gli sbocchi più diretti alla
pianura vicentina e garantendo una enorme testa di ponte verso l'altopiano minacciando alle
spalle le armate italiane del Cadore della Carnia e dell'Isonzo.
Ricordo che Il 29 maggio 1916, mentre il sole riscaldava le nostre anime, ero di guardia tra Canove
e Roana, sull’altopiano, quando vidi il cielo tingersi di piombo, poi di rosso fuoco, bruciava Arsiero .
Gli Austriaci l’avevano presa; … mi accorsi che essi avevano legato al palo, certamente per
punizione, un loro soldato, in modo tale che noi Italiani, che stavamo nella trincea davanti,
sparassimo. La nostra rabbia mista alla disperazione era grande; un mio amico stava per scaricare
tutta la sua baionetta su quel povero indifeso, triste fratello, ma io gli puntai il fucile dicendogli:
“Se tu spari io ti ammazzo”. Chissà se poi quel sodato austriaco fu salvato; anche tra noi italiani
succedeva che chi veniva accusato di essere un disertore, o per qualche altro futile motivo
valutato come vigliaccheria, come insubordinazione verso le gerarchie militari, venisse ucciso.
Intanto pensavo: “La mia Giuseppina sarà certamente là che guarda lungo la strada bianca assolata
del paese nella speranza di vedermi arrivare”.
Il 16 giugno Arsiero venne riconquistata!
Nel ’17 mi ritrovavo ancora al fronte! A casa, il mio mondo! La mia Giuseppina!
(Romano Visentin - Merlara/ Terrazzo 1881-1962)
I ricordi di nonna Giuseppina da Terrazzo
Figura minuta, luminosa, con i biondi capelli intrecciati e puntati in crocchia dietro alla nuca, gli
occhi azzurri capaci di parlare all‘anima e l‘inseparabile grembiulino scuro a fiorellini, Giuseppina
nel ‘17 stava a Terrazzo con il vecchio padre e con i quattro figli: Ida di dieci anni, Bruna di otto,
Linda Marina di sei, Angelo di quattro; quest‘ultimo aveva dimostrato una precoce sensibilità, dai
suoi occhi cerulei si coglieva la bontà e l‘intelligenza ed era anche molto promettente nel disegno,
era nato però sordo-muto e a lui si sarebbe dovuto provvedere di aiutarlo nella rieducazione
dell‘udito e del parlato; ma dove trovare i mezzi, sola com‘era e con il marito in guerra! Viveva
sulla sua pelle la precarietà del fronte, aveva sentito della morte di Pietro e di Guido, suoi cugini,
caduti sul Carso e da Romano, suo marito, giungevano scarne notizie e sempre tese a non far
trapelare informazioni precise sulla sua reale condizione al fronte, preoccupato della situazione dei
suoi cari, del suo mondo famigliare , più che per se stesso. Dai luoghi di montagna dove lui stava
giungevano sfollati scappati dalla distruzione e di là dell‘Adige, a Villabartolomea, erano stato
adibiti centri di raccolta per le truppe al fronte ed ospedali militari per accogliere feriti. Giuseppina
sapeva che proprio su quei monti... si combatteva dal ‗16 contro la ―Spedizione punitiva‖ austriaca
... faceva continuamente pregare i figli perché al loro padre non succedesse il peggio... Essi però
avevano pochi anni, non si rendevano conto delle terribile situazione, anche se vedevano la loro
madre costantemente in triste e li faceva pregare, perciò capivano che le cose potevano mettersi
molto male... Tutto ciò creava nell‘animo della donna uno stato disperata partecipazione ma anche
di desolata attesa.
In quell‘anno del‗17 poi Il giorno 26 maggio alle ore 22 cadde una grandine così fitta che in pochi
minuti distrusse i raccolti tanto promettenti - L‘uva specialmente ed il frumento andarono
totalmente rovinati, e tutto ciò portò ancor più alla difficoltà. Quanta fatica nei campi! Quanta
economia e quanta ristrettezza di vivere! Tanto più che d‘ogni cosa sempre si trova difetto,
dovendo tutto acquistare con la tessera dal consorzio per mezzo dello sgravio comunale. Il caro –
vivere era tale e la fatica del provvedere era grande a tal punto che tutti i figli, a cominciare da Ida
e Bruna, le più grandi, dovevano aiutare provvedendo in qualche modo. Ella ricorda poi come ben
impressa nella memoria la drammatica notte, in cui, sotto la pioggia e portando con sé i figli e il
vecchio padre, parte, allorquando i suoi cugini, alla notizia che le truppe austriache avevano
sfondato il fronte sull‘Isonzo a Caporetto e stavano dilagando in pianura, la invitano a rifugiarsi da
loro.. …ricorda ancora … la Spagnola che la lasciò in delirio per due giorni, ma dalla quale uscì
quasi miracolosamente.
Tante sono le testimonianze che, anche se non descrivono appieno la realtà della guerra, devastante anche dal punto di vista relazionale, ci aiutano a cogliere la condizione esistenziale dei diversi testimoni obbligati a vivere le vicende narrate, costretti alla vita di trincea e agli assalti, magari inebriati dalla grappa. Vi sono diari che rappresentavano forse degli antidoti da quel flusso di tragiche esperienze che tendevano a sfuggire al controllo del soggetto e abbiamo poi scritture epistolari la cui finalità era certamente la ricerca di informazioni, di relazioni, di rassicurazione, di tentativi di restare attaccati alle vita e non finire nella pazzia. Un esempio viene dalle lettere sotto riportate di due fidanzati della Bassa
I ricordi di Antonio e Luigina da San Pietro di Morubio
(da ―Adorata Luigia mio diletto Antonio‖ a cura di Lucia Beltrame Menini Panda Edizioni)
UOMINI IN GUERRA -GLI ARRIOLATI
Nel 1926, in occasione del decennale della Vittoria, il capo del governo Benito Mussolini
commissionò uno studio sui dati numerici della guerra sotto vari punti di vista, per ricavarne
motivo statistico e amor di patria. Questa fonte storica, (Pubblicazione Nazionale sotto l‘Augusto
Patronato di S. M. il Re con l ‘alto assenso di S.E. il Capo del Governo) che viene data in internet
può costituire la cornice in cui inserire i dati del Comune di Minerbe di cui si è in possesso per
averne delle ipotesi o delle conferme.
Alla dichiarazione di guerra l'esercito regio si trovò con pochi uomini sotto le armi, che uniti a
quelli che per età avevano obblighi militari assommavano a due milioni e mezzo; nel corso della
guerra si aggiunsero più di tre milioni di uomini. In totale i chiamati alle armi nel Regio esercito,
che computarono un numero variabile di anni di guerra, furono cinquemilioninovecentomila
uomini. È evidente che di fronte alla potenza dell'esercito austriaco il Regno d'ltalia fu indotto a un
faticoso "rastrellamento di gente". Furono chiamate alle armi le classi dal 1874 al 1900. Anche a
Minerbe così si riscontra, considerati i dati provenienti da varie fonti: due quadri d'onore
fotografici, due monumenti ai Caduti, lapidi, fogli matricolari conservati, archivio di Stato di
Verona, testimonianze di famiglie.
Un numero complessivo ipotetico dei chiamati alle armi per la guerra del Comune di Minerbe
potrebbe derivare dalla proporzione trai chiamati alle armi e il complessivo degli Italiani di allora.
` Secondo un giusto calcolo (5.903.000 chiamati su 35.845.000 cittadini italiani nel 1911, data del
censimento) fu del 16% circa, per cui i maschi chiamati alle armi a Minerbe potrebbero essere stati
seicentosettanta circa, dato che gli abitanti nel 1911 risultavano quattromilacentodue. È comunque
un numero destinato ad aumentare di molto; in ogni caso la fascia migliore della popolazione, la
più produttiva, mancò da Minerbe per periodi più o meno lunghi, o, in molti casi, mancò per tutti
gli anni di guerra come documentato da fogli matricolari personali.
Il documento fascista sulla Grande Guerra del ‗29 cita pure lo sforzo degli organi medico legali per
inglobare e rendere utili alla guerra anche i giovani che a una prima visita erano dichiarati inabili
all'esercito, costituito intenzionalmente da un numero contenuto di giovani, perciò scelti tra i
migliori ma il conflitto aveva bisogno di uomini, tutti dovevano farsi coraggio, comprese le
famiglie che avevano curato e allevato giovani cagionevoli di salute. Il citato resoconto fascista del
'29 sulla Grande Guerra registra che settecentoventimila giovani sul totale dei chiamati furono
dispensati "per esigenze imprescindibili dalla produzione agricola, industriale e bellica, nonché
per il funzionamento dei pubblici servizi". Dai cataloghi dei fogli matricolari conosciamo anche per
Minerbe un nominativo dispensato: era Gemma Francesco, in quanto sindaco di Minerbe. Egli
risulta infatti primo cittadino dal 1915 al 1920 nonché in seguito, dal 1938 al '40. Figlio di Gio Batta
e di Silvia Vivaldi, essendo nato nel 1882 era un giovane sindaco di trentatré anni. Egli guidò il
Comune negli anni della guerra che furono tragici per i soldati al fronte, ma non meno difficili per
la popolazione a causa di ristrettezze di vario genere acuite dalle notizie sulle morti dei giovani
soldati, figli, mariti o fidanzati. Difficile anche il primissimo dopoguerra con i primi tentativi di
contrattazione nel campo del lavoro agricolo: la sua firma, quale sindaco, compare in un
documento contrattuale di Minerbe tra i proprietari terrieri e le rappresentanze dei lavoratori
agricoli.
DONNE FRA ASSISTENZA, SUPPLENZA, SFOLLAMENTO, INTERNAMENTO, CONFINO
Nel maggio del 1916 giunsero dalla Vallarsa 1500 profughi. Nella nostra Bassa vennero costituiti comitati pro progughi che raccolsero soldi e indumenti. Molte furono le donne impegnate in queste attività, sappiamo oltre tutto che esse si trovarono a dover sostituire gli uomini impegnati al fronte nelle decisioni familiari, nel lavoro dei campi, nelle attività commerciali e formative, nell‘educazione dei figli, nel provvedere al ―pane quotidiano‖. In tutta Italia molteplici sono le testimonianze e le immagini: donne ferroviere, vigili del fuoco, contadine, operaie, ma anche massaie che con fantasia e creatività si ingegnano a ―moltiplicare le risorse‖, seppur minime, per il sostentamento della famiglia. Si ha però anche una variegata serie di testimonianze femminili, comunque sottoposte alla legge marziale, pur stando nel retroterra: ―le profughe del Trentino e delle valli Ladine, costrette ad abbandonare casa, paese, animali, campi, parenti e amici perché sfollate, strappate alle loro radici e ―spedite‖, spesso in condizioni indescrivibili, in Boemia, nei campi profughi d‘Austria. Dalle note conclusive di una tesi di laurea(Da Internet, Matteo Ermacora Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), Il Mulino, Bologna 2005.) Emerge una casistica di internamenti femminili che conferma il carattere repressivo ed autoritario dei provvedimenti di internamento operati dal comando supremo nei territori occupati e nell‘intera ―zona di guerra‖; le misure, svincolate dai controlli della magistratura e delle autorità civili, furono utilizzate non solo per allontanare coloro che potenzialmente si sarebbero potuti opporre alla rapida integrazione dei nuovi territori allo stato italiano ma anche per mantenere l‘ordine pubblico ed intimidire la popolazione civile nelle retrovie del fronte o nei centri di importanza militare. Le donne furono investite, come gli uomini, da meccanismi repressivi ―eccezionali‖ che le sradicarono dai loro paesi precipitandole nella precaria posizione di internate; la genericità dei capi di accusa, l‘atteggiamento di preconcetta ostilità da parte dei comandi militari - particolarmente persistente nelle zone montane di confine - diede adito a veri e propri abusi; l‘arbitrarietà dei provvedimenti rivolti contro la popolazione femminile, soggetti deboli per eccellenza, dall‘incerta posizione giuridica, sostanzialmente innocenti, accentuano ancor di più - come riferiscono le lettere delle internate - la sofferenza, le angosce e l‘ingiustizia subite. Di fatto, anche le donne, parte dell‘ampia categoria dei civili, vennero considerate potenziali nemici e trattate di conseguenza; in questi casi la violenza bellica assume i contorni, non meno drammatici, dei provvedimenti di polizia, di incarcerazione, privazione dei diritti, allontanamento forzato, isolamento sociale e sorveglianza. I civili delle retrovie sperimentarono una militarizzazione pervasiva, violenta ed autoritaria; gli allontanamenti furono quindi preventivi, guidati da criteri sommari, tanto che buona parte delle donne fu colpita a causa delle relazioni parentali oppure di presunti reati o colpe mai provati; la ampia quanto vaga categoria dell‘ ―austriacantismo‖ riflette non solo i timori dei comandi ma anche la persistenza, rafforzata dallo stato di guerra, di stereotipi propagandistici antifemminili secondo i quali le figure della donna, della prostituta e della spia sostanzialmente coincidevano. Proprio in virtù di questa frequente sovrapposizione simbolica e della genericità dei capi di accusa (legami parentali, austrofilia, nazionalità straniera, moralità) risulta difficile distinguere chiaramente i motivi precisi che portarono all‘internamento, e si conferma ulteriormente il carattere ―politico‖ e allo stesso tempo sommario e preventivo delle misure repressive. Se risulta scarso il numero di internate per motivi di una precisa appartenenza politica, molte sono le donne che vennero tuttavia percepite come una minaccia subdola e maliziosa; proprio per questo i comandi non si fermarono di fronte a vedove e madri di famiglia, giovani ed anziane: la provocazione, il controllo ossessivo, il discredito, la demolizione della personalità furono le costanti dell‘azione poliziesca militare. I provvedimenti di allontanamento, poi, per molte donne si tradussero anche in una vera e propria condanna morale, che aggravava la
già precaria condizione femminile e la sua ―minorità‖ sociale e giuridica all‘interno dei nuclei familiari e delle comunità. Mentre le due prime fasi - internamenti massicci nel 1915 per italianizzare i territori occupati e la seguente flessione, utilizzati per controllare le retrovie nel 1916-1917 - assumono un carattere generale, lo spostamento del fronte nell‘ottobre del 1917 e la caccia al nemico interno mettono in luce un vero e proprio ritorno della ―psicosi delle spie‖ nella fase finale del conflitto a causa dell‘esasperazione patriottica e della necessità di resistenza. In questo senso lo scorcio finale del 1917 e l‘ultimo anno di guerra segnarono una sorta di salto di qualità perché gli allontanamenti, che fino a quel momento avevano interessato prevalentemente le immediate retrovie, si estesero in maniera diffusa e capillare in tutti i grandi centri dell‘Italia settentrionale, ormai inserita nella ―zona di guerra‖. Ma non è solo l‘area geografica a mutare quanto piuttosto le motivazioni e le modalità di internamento che assumono una decisa radicalizzazione sia dietro le linee del Piave che nelle grandi città dove le donne di origine straniera, ma anche italiane sposate con cittadini stranieri di stati neutrali e nemici, entrarono nel mirino delle autorità con l‘accusa di spionaggio, di collusione con il nemico, di disfattismo e di reati di opinione. In questo clima si presenta in Italia, come negli altri stati belligeranti, il problema del trattamento degli ―stranieri nemici‖. La guerra si insinuò all‘interno delle comunità occupate, creando profonde divisioni; in questo contesto le donne, soprattutto se rivestivano un ruolo pubblico e riconosciuto, come quello di maestra, si trovarono spesso al centro di ricatti, sospetti e di accuse pretestuose, sia da parte di confidenti ―italiani‖ desiderosi di legittimazione presso le nuove autorità, sia da parte dei militari che spesso si comportarono come veri e propri occupanti. A livello locale i Commissari civili, diretta emanazione del Segretariato Generale, non furono univoci, ma nella maggior parte dei casi non si opposero ai singoli comandi che avevano di fatto un potere decisionale pressoché assoluto nei provvedimenti di internamento. Nei territori occupati il passaggio dall‘amministrazione austriaca a quella italiana fu un momento delicato; è possibile ipotizzare che l‘assenza di parroci e degli amministratori (spesso anch‘essi internati), privasse la popolazione dei tradizionali punti di riferimento, e la scompaginazione dei normali reticoli sociali accentuasse l‘individualismo e l‘opportunismo, mettendo a repentaglio i soggetti più deboli. Risulta altresì evidente che nelle zone di confine i civili furono sottoposti a forti pressioni dovute al nazionalismo bellico: i meccanismi di controllo, di mobilitazione e di assistenza, uniformati sul patriottismo, facevano emergere contraddizioni e tensioni perché spesso misero in contrasto le esigenze belliche e nazionali con il carattere ―ibrido‖ di queste zone. La necessità di compattezza e di uniformità creava analoghe tensioni all‘interno del paese, dove la spinta patriottico-interventista si rivolgeva contro i socialisti, i ―disfattisti‖, i cattolici neutralisti, i cittadini di origine straniera. Proprio considerando quest‘ultima categoria emerge come - tra fronte e retrovie – la guerra ebbe ripercussioni drammatiche sui nuclei familiari misti, oppure su evacuate e profughe che si videro trattare come ―nemiche‖ e che dovettero soffrire non solo per l‘evacuazione ma anche per l‘umiliazione dell‘internamento e per la separazione dai propri cari. Da questo punto di vista le donne rappresentano un valido ―sensore‖, per verificare la drammaticità delle conseguenze delle guerra nel paese. Al dicembre del 1918 erano state internate complessivamente 2.267 persone.(Da Matteo Ermacora DEP n.7 / 2007)
LA DIFFICILE VITA IN PAESE Dalle CRONACHE di DON SANTE GAIARDONI
La guerra non fece altro che aggravare le difficoltà esistenti nei nostri paesi, come è stato
inizialmente considerato con la figura del ―nonno Moro‖. La grave situazione economica, quella
alimentare ed un alto grado di analfabetismo rappresentavano le maggiori piaghe da combattere.
Per tale scopo sorsero ovunque Società Operaie accanto ad altre istituzioni come le Cooperative, le
Società di Mutuo Soccorso, le Casse Rurali e, nell‘ambito socialista, le cooperative di braccianti e
lavoratori della terra. Già negli ultimi decenni del 1800 si diffuse il movimento operaio e
contadino. Masse di disoccupati e di braccianti, bistratti dai possidenti locali, vivevano nella
miseria più nera; e poiché anche la situazione sanitaria faceva semplicemente rabbrividire, le
epidemie erano tragici appuntamenti ciclici con la morte. Serpeggiava, inoltre, anche nei paesi un
acceso anticlericalismo. Gli stessi Vescovi riscontravano, molto angustiati, il calo preoccupante dei
fedeli alle funzioni religiose e il diffondersi del Socialismo, che si presentava come paladino dei
diritti e delle aspirazioni dei più poveri, troppo spesso sfruttati dai loro padroni. Infatti nell‘agosto
del 1913, durante un Consiglio comunale di Minerbe, il consigliere Beppe Rodella chiese con forza
l‘abolizione dell‘insegnamento religioso nelle locali scuole. Qualche mese prima, in paese era nata
una forte disputa sull‘orario di chiusura delle osterie che i cattolici volevano fissato ad una certa
ora della notte, per evitare gli schiamazzi di chi alzava troppo il gomito, disturbando il riposo
altrui. Da notare che, solitamente, questi locali pubblici rimanevano aperti fino all‘alba. In luglio,
poi, si era verificato un episodio strano: non si sa se dovuto al clima particolarmente rovente di
quegli anni o alla dabbenaggine di uno scriteriato. Il Primo cittadino, che si stava recando in
Municipio a ricevere autorità civili, religiose e militari per la consegna di una medaglia ad un
soldato di Minerbe ferito in Libia durante la guerra arabo-turca, nei pressi di quella residenza
aveva preso un forte schiaffo da un certo Guido Giacomelli che tuttavia, una decina di giorni dopo,
aveva chiesto formalmente scusa del gesto inconsulto. Nel 1914 si svolsero le elezioni
amministrative e sia a San Zenone a Minerbe, vinse la lista moderata. La nuova Giunta, insediatasi
il 25 luglio, risultò composta dal cavaliere Emilio Candiani sindaco, Giovanni De Bernini, Giulio
Stevanello, Alessandro Molon e Mariano Menini, assessori.
Agli inizi del secolo, il partito socialista riuscì a prendere il potere e quasi ad imporre anche il suo
anticlericalismo. La religione e i sacerdoti ne costituivano i continui bersagli: spesso, durante i
comizi, i parroci erano costretti a rimanere barricati in casa. Anche i cattolici però concentravano
sempre più il loro interesse sulle classi sociali disagiate, cercando soluzioni che ne mitigassero i
disagi. Lentamente e inevitabilmente crebbe anche il movimento sociale cristiano, confortato
dall‘Enciclica ―Rerum Novarun‖. Si moltiplicarono gli sforzi di sacerdoti e laici, per dare vita ad un
Circolo Cattolico in ogni parrocchia: contemporaneamente i Circoli Socialisti registrarono un
susseguirsi di defezioni, ammesse dai loro stessi organi di stampa. Le vicende di quei tormentati
anni vennero riportate dai periodici di informazione locale: ―L‘amico del Popolo‖, per il fronte
cattolico; il ―Risveglio‖ e ―L‘asino‖ per la parte socialista. Le schermaglie furono quasi all‘ordine
del giorno, e molto violente. Alle politiche del 1914, nel Collegio legnaghese (comprendente
Legnago, Minerbe, Terrazzo, Castagnaro, Roverchiara, Bonavigo e Bevilacqua), si fronteggiarono
due liste. I socialisti misero in campo Donella, Giacomelli, Valeri e Zanollo; i cattolici, Boschetto,
De Stefani, Rossi e Zambelli. In conseguenza poi dello stato di guerra in cui si trovava la Germania,
alcuni nostri colà emigrati rimpatriarono,determinando un aumento del numero di disoccupati.
Seguirono poi gli anni difficili e tormentati della prima grande guerra "‘―(Da. ―Il movimento
operaio e la nascita del fascismo‖ di Francesco Occhi)
Il 24 maggio l‘Italia aprì le ostilità contro l‘Austria –Ungheria. Venticinquemila Cechi si
arruolarono volontari nell‘esercito del Regno d‘Italia con la speranza di far crollare l‘Impero
asburgico. Il fronte formava una grande S orizzontale, lunga poco più di seicento chilometri, che
andava — per sommi capi naturalmente - dallo Stelvio al mare Adriatico, poco lontano da Aquileia
toccando i massicci dell‘Ortler, Cevedale, Adamello al di là del Garda, Pasubio, Altopiano dei Sette
Comuni, Grappa, montagne cadorine, alpi carniche, linea dell‘Isonzo seguendo il confine del 1866.
Fu una guerra non solo contro un esercito nemico ma anche contro le difficoltà della natura ad alta
quota: freddo, ghiaccio, malattie.
Dopo il primo decennio del ‗900 a Minerbe vi è un discreto dibattito politico culturale: c‘era una certa disputa tra cattolici, anticlericali, socialisti. Si vendevano i quindicinali: ―L‘Asino‖, ―L‘Amico del popolo‖, ―Verona del popolo‖, ―Seme‖. Esisteva dal 1882 la Società di Mutuo Soccorso con lo scopo di aiutare i soci in caso di malattia. Nel 1914 si svolsero le elezioni amministrative e vinse una lista moderata con sindaco Emilio Candiani; ma gli anni che vanno dal 1915 al 1918 sono determinati dagli avvenimenti della grande guerra. La nostra Bassa intera è coinvolta. In quasi tutti i comuni veronesi arrivarono gli avvisi di chiamata
alle armi. Molti giovani partono: alcuni vengono chiamati alle armi nella Compagnia Sussistenza
(un corpo dell‘esercito che si occupa dei vettovagliamenti) , o nelle Compagnia Sanità che deve far
fronte ad un sempre più crescente numero di feriti , ma tanti sono in prima linea, nelle trincee,
oltre agli alpini, essi sono per lo più fanti o artiglieri che devono scalare ed aprire passaggi tra le
rocce delle montagne; nella Bassa i prigionieri austro-ungarici verranno impiegati nel servizio
civile.
Minerbe 15/10 1916‖ La piazza di Minerbe occupata da carri e cannoni(foto tratta da ―Minerbe nel passato di Francesco Muzzolon e Massimiliano Amatino)
nel ‘15, Il Comune provvede a redigere liste dei riformati dalla classe 1876 alla classe 1898 gli altri uomini sono chiamati tutti al fronte. Don Sante Gaiardoni (parroco di Minerbe dal 1907 al 1925) annota nelle sue ―Cronache‖che cominciando dal 1914 furono chiamate alle armi a poco a poco tutte le classi, finché nel 1915 si trovarono arruolati gli uomini da 18 ai 42 anni. - ―Non rimasero a casa per la coltivazione dei campi che donne, pochi vecchi e fanciulli. La
produzione andò di anno in anno diminuendo in guisa che fu ridotta ad una metà - molti campi
rimasero anche incolti – fu seminata la polenta, le bietole e poi ……………… I prezzi di ogni
genere crebbero in una maniera spaventosa : eccone alcuni come saggio:
Prezzi 1920 Prezzi 1921
Il latte L. 0,75 il litro L. 0.80 L. 1.00
Un uovo L. 0,80 ― 0.35 ― 0.40-0.80
La polenta in farina 55 lire il quintale ― 65.- ― 130.-
Lo zucchero non raffinato L. 4.50 il Kg. ― 5.60 ― 6.50
Il caffè 10 Lire il Kg. ― 22.- ― 24.
Il lardo 9 lire al Kg. ― 14.- ― 10 -
L‘olio L. 5.50 il Kg. ― 14 .- ― 10.- 6
La legna L. 15 il …. ― 20.- ― 15 – 25
La carne L. 8 il Kg. ― 10.- ― 12 - 8-10
Un paio di scarpe L. 60 - ― 80.- ― 70.- 80
Un paio di buoi anche Lire 12.000 ― - - ― 6000.-
Le candele L. 12 il Kg. ― 10.- ― 10.- 13
Immagini in guerra quanta economia e quanta ristrettezza di vivere: tanto più che d‘ogni cosa sempre si trova difetto, dovendo tutto acquistare con la tessera dal consorzio per mezzo dello sgravio comunale – Questo caro-viveri è sentito specialmente da quelle classi che non hanno avuto nessun aumento di rendita, né compenso di sorta: tali sono specialmente i ……..-Poiché tanto gli impiegati governativi come i comunali hanno avuto l‘aumento per il caro viveri Così i contadini e gli operai hanno accresciuto di molto la loro mercede = Lire 6 – 8- 10- 12 al giorno ……….. della stagione dei lavori - Per il clero tutto stazionario, ma questo è il meno – basterebbe che ora
finalmente cessasse l ‗orribile flagello della guerra ! – (…)‖
Cominciano ad arrivare profughi di guerra (1915-1919) in particolare della Vallarsa quando
Arsiero e gli altopiani vicentini caddero in mano agli Austriaci (30 maggio 1917) Legnago nel ‘15
era zona contumaciale e si costituì subito un comitato distrettuale della Croce Rossa, che provvide
alla preparazione di un nucleo di dame infermiere, le quali dovevano pure dare l‘assistenza ai
tifosi e ai sospetti di malattie infettive. La Croce Rossa provvedeva pure al vito e all‘alloggio dei
parenti poveri e dei feriti e degli ammalati più gravi. Oltre al comitato Croce Rossa vennero
costituiti altri comitati anche nei paesi limitrofi, per la promozione di iniziative a sostegno della
guerra come le raccolte di denaro o materiale destinati alle famiglie dei soldati impegnati al fronte
oppure l'organizzazione di visite ai soldati stessi quando si trovavano in licenza o nelle retrovie. A
Minerbe, ( la chiesetta di Santa Lucia e l‘adiacente costruzione fu ―ospedale‖ per diverso tempo, a
partire dal 1526; a quell'epoca il responsabile della chiesa e dell'ospedale era Don Cesare da
Legnago, capoluogo della Bassa Veronese. Nel 1809 la chiesa diventa di proprietà del Pio Istituto
elemosiniere di Santa Maria dell'Ospedale.) vennero organizzate attività assistenziali per le
famiglie dei richiamati e venne costituito un comitato di signore impegnate a raccogliere fondi per
i più bisognosi. ―Ogni quindici giorni venivano spediti pacchi di pane, vestiti a 12 giovani del
comune. Di tale comitato fecero parte: Ida Allegroni, Elisa Burzio, Maurina Valentini, Ida contessa
Stoppazzola, Lina gemma, Giovanna Fraccaro Guardalben, Idalia Vivaldi, Dirce Scarmagnan,
Palmira Maestri, Giulia Bertelli, Maria Vivaldi, Emma Bertelli, Clara Tonazzi, Amabilia e Teresa
Vivaldi‖. ( da MINERBE, un paese, la sua storia di autori vari )
Nel 1915, il tredici marzo, il Sindaco e quattro consiglieri si dimisero per contrasti sui contributi
che si dovevano erogare alla linea ferroviaria Ostiglia-Treviso di cui esisteva un progetto fin dal
1910, che doveva passare per Minerbe e che doveva servire soprattutto per il trasporto di truppe.
Il primo cittadino Candiani, diede, quindi, le dimissioni a causa dell‘assenteismo dei suoi colleghi
e si provvide ad eleggere un nuovo primo cittadino. Fu eletto primo cittadino Pilade Bertelli e
vennero nominati assessori Giacomo Giacomelli, Alessandro Turco, Carlo Vivaldi, Alessandro
Molon. Il 17 maggio morì, per malattia, il maestro Giovanni Carrara di San Zenone. Per le sue
qualità di educatore, ebbe solenni esequie. Un altro grave lutto colpì Minerbe: quello del nobile
Antonio Nichesola, ex consigliere comunale e membro del direttivo dell‘asilo, deceduto il 20
gennaio 1916.
Il 14 novembre 1915 improvvisamente anche Verona si trova coinvolta nel conflitto. Tre aerei
tedeschi la bombardano e in Piazza Erbe le schegge provocano una strage: si parla di un centinaio
tra feriti e morti. Gli orrori della guerra venero vissuti anche in Provincia, Villabartolomea per
esempio divenne centro di raccolta per le truppe al fronte e molti suoi palazzi furono adibiti ad
ospedali militari per raccogliere i feriti. Il primo anno di guerra si avviò a conclusione fra dubbi e
timori.
Durante la ― Strafexpedition‖ austriaca, cominciano ad arrivare profughi di guerra (1915-1919): nel
maggio del ‘16 giunsero dalla Vallarsa 1500 profughi e, in particolare, ne arrivarono quando
Arsiero e gli altopiani vicentini caddero in mano agli Austriaci (30 maggio 1917)
Don Sante Gaiardoni annota, seppur con poche parole, la sua cura per la chiesa in questo periodo,
ma anche la sua vicinanza sia a chi dei suoi parrocchiani era al fronte e moriva, sia a chi in paese
attendeva notizie, pativa ristrettezze e viveva in misere condizioni.
Nel ‘17 egli annota che ― Il giorno 26 maggio di quest‘anno alle ore 22 cadde una grandine così fitta che in pochi minuti distrusse i raccolti tanto promettenti - L‘uva specialmente ed il frumento andarono totalmente rovinati, le assicurazioni pagarono i colpiti fino a cento su cento. Però la plaga devastata fu ristretta = da campeggio al ponte delle Colombare e al ponte dei Pomi, o Cà Rossa‖. In agosto del ‘17 l‘autorità militare istituì un servizio di difesa antiaerea; nell‘ottobre, dopo che gli Austriaci sfondarono il fronte italiano a Caporetto, le nostre truppe dovettero ripiegare dietro i fiumi Tagliamento e Piave. Il nemico era ormai alle porte e in tutti i nostri paesi serpeggiava la paura. Sembrava deciso che il Po dovesse essere l‘ultimo baluardo contro l‘avanzata austriaca. Migliaia di soldati transitarono per il Basso Veronese; una linea di difesa venne approntata nei vari paesi a ridosso dell‘Adige e il Prefetto di Verona proibì l‘uso di barche nelle sue acque. Giunsero a Legnago anche truppe inglesi per aiutare in questi preparativi di difesa. Il territorio della Bassa Veronese divenne così zona di guerra. A Porto venne predisposta una testa di ponte con trincee e piazzole per mitragliatrici lunghe un chilometro, mentre a Legnago e lungo il corso dell‘Adige furono fatte le trincee per la difesa delle posizioni. A Legnago venne istituito un ―sevizio di difesa antiaerea‖ i parroci accogliendo l‘appello rivolto con grande rilievo nel ―L‘Amico del Popolo‖ dal cardinale Bartolomeo Bacilieri cercarono di invitare alla calma e alla resistenza tutta la popolazione. (da Legnago nella storia)
Il clima di quei momenti di guerra ci viene ben descritto nelle testimonianze raccolte e nei racconti che ancor oggi conserviamo. Dal fronte lettere di soldati dalle quali possiamo cogliere la loro preoccupazione per la famiglia, i loro cari altrove, in pericolo di essere travolti dalla guerra. Sono pensieri legati a minacce percepite vedendo l‘andamento degli eventi e alle sofferenze della guerra. Nelle testimonianze raccolte da ―Celebrazione del 4 Novembre IC Minerbe 2011‖, Giuliari Silvino, per esempio scrive il 14 novembre del 1917al fratello Luigi:
Agli inizi del ‘18 nella sinistra d‘Adige c‘erano diversi ordini di trincee staccate, con piazzole per mitragliatrici che partivano dalle prime case e giungevano ad un chilometro circa di distanza; prima dell‘offensiva di giugno, arrivarono col treno parecchi cannoni da 149 prolungato (da Cronache Legnaghesi 1915-19159 a cura di Abdrea Ferrarese e Stefano Vicentini). Ad aggravare la tensione, anche gli avvenimenti atmosferici furono nefasti e rovinarono i raccolti che donne vecchi e bambini erano riusciti a far crescere. Don Gaiardoni annota: ―Anche nel 1918 fummo bersagliati dalla grandine : essa cadde così violenta la sera de 12 luglio che devastò e distrusse il granoturco e l‘uva interamente, il frumento era già in crosette - Dii uva non restò neppure traccia e del granoturco non se ne fece in certi campi che un quintale e mezzo. Il vento impetuoso abbatté il camino della Fabbrica Laterizi dei Sig.ri Giacomelli, circa un venti metri sfondò il coperto e schiacciò due poveri soldati che dormivano ai piè del camino‖. Il 30 ottobre 1918 annota ancora: ―A questo punto noterò qualche cosa dell‘orribile guerra che da quattro anni infuria in tutta l‘Europa e si estese anche nell‘Asia, nell‘America e nell‘Africa e semina strage, rovina e morte in
una impresa così Lagrimevole che di simile non fu mai veduta, né si vedrà giammai sulla faccia della terra, e ― tu fin che il sole risplenderà‖ sulle sciagure umane ! – Cominciando dal 1914 furono chiamate sotto le armi tutte le classi a poco a poco, fin che nel 1915 si trovarono arruolati tutti gli uomini dai 18 ai 42 anni nel 17 furono chiamati anche quelli di 43 e 44 . ( 26 classi eccettuati i ciechi gli zoppi i gobbi in tutti 5.250.000 uomini‖. Dal 5 novembre 1918 in poi infine scrive, evidenziando il suo sollievo: ―Ieri mattina arrivò la notizia che i nostri soldati sono entrati in Trento e Trieste ed hanno esposto la bandiera italiana nella torre del castello di ambedue le città liberate. Appena avuta la notizia feci esporre la bandiera sul campanile e suonare le campane. Ieri lo stesso, 4 Nov., verso le sette arrivò l'altra notizia che alle 13 tu messo in esecuzione l‘armistizio con l‘Austria, cessando da quest‘ora ogni ostilità per terra, per mare ed in aria. Se la notizia mi fosse stata comunicata avrei tosto dato avviso di suonare le campane, invece io andai a letto senza saperlo. Alla mezzanotte alcuni patrioti! di Minerbe in parte imboscati, in parte scartil, presi non da patriottismo ma da alcolismo, ruppero la serratura del campanile e continuarono a suonare le campane da pazzi fino alle 2.30 dopo mezzanotte, con grande disturbo di tutto il paese e facendo piangere specialmente le 48 madri e spose che hanno perduto il figlio od il marito. Ed avrebbero continuato fino alla mattina se alle 2.30 non fossi disceso io a mandarli a casa. ............. poi i medesimi patrioti (Il ......................... , Bocaliero, il suo garzone da Orti, Scarmagnan Angelo, il daziale, Allegri Alessandro, il Segretario, ecl altri giovinastri, aprirono la porta del campanile coi grimaldelli e cominciarono a suonare. Al mio apparire se la svignarono a casa, poi con urla e ..,......... e bestemmie ed insulti al parroco insistevano e mandai a chiamare il sindaco, il quale mi pregò di concedere un paio di suonate. Entrarono col detto permesso nel campanile, ma poi invece di vere suonate, continuarono fino a mezzanotte .... Tutto per il buon ordine e per patriotti alcolizzati !, Vedremo stasera che cosa avverrà, dopo che ne avrò dato avviso al brigadiere- io ho fatto suonare quanto era conveniente e durante il giorno: essi volevano di notte recando immenso dolore alle povere vedove e madri dei caduti. 10 Novembre 1918 Questa mattina dietro invito dell'arciprete intervennero alla Messa ultima e al canto del Te Deum tutte le autorità civili, militari e società con le loro bandiere. Fu raccolta un‘offerta per i fratelli delle terre liberate che fruttò L. 152.50, spedita al Comitato di Verona. Feci suonare in concerto le campane, la sera, la mattina alle 10,30 e al Te Deum‖ Infine il parroco annota: ―11 Nov. 1918 Anche questa mattina ricorrendo il Natalizio del Re intervennero alle ore 20 al Te Deum le Autorità comunali, i RR Cavalieri, l‘asilo infantile ecc. 12 Nov. Alle ore 6 fu firmato l'Armistìzio anche con la Germania e alle 11 cessarono le ostilità su tutte le fronti e.. Deo Gratias Minerbe I Guerra Mondiale –Dal libro: “Memorie” di Don Sante Gaiardoni 1915 - Cronache
di Don Sante Gaiardoni
―In quel clima di guerra e di conseguenti gravi restrizioni economiche, anche Minerbe dovette
affrontare una grave piaga, quella della piccola delinquenza, costituita soprattutto da furti. Il 21
febbraio 1914 il contadino Angelo Ruffo, tornando a casa verso mezzanotte, incontrò delle persone
che conducevano un cavallo che gli sembrò il suo. Giunto a casa, notò effettivamente che la stalla
era vuota. Con i famigliari, rincorse i ladri e li vide entrare in una casa di San Fidenzio di
Montagnana. Avvertiti i carabinieri, riuscì a recuperare il quadrupede. Un furto subirono anche i
fratelli Peretta, detti Rigo, e Alessandro Cortese di San Zenone. ignoti, entrati nei loro pollai, vi
razziarono diversi pennuti. Sempre in quell‘anno, dal deposito di gallette dei fratelli Scarmagnan,
negozianti di Minerbe, vennero asportare varie cose. Le indagini portarono all‘arresto di Giuseppe
Bendinì di San Zenone e di Nando Ferrigato di Boschi Sant‘Anna. Ma vi fu una retata dei
carabinieri che si concluse con vari arresti nella zona e mise quasi in stato di assedio Minerbe. l
commenti della gente furono di profonda impressione per il nutrito dispiegamento di forze e i
giornali ne parlarono come di un intervento necessario. ―Bisognava questa azione di polizia per
frenare la gioventù scatenata e facile ai piccoli furti. Lode al brigadiere Romati e agli altri soldati.
Oltre ai sopraccitati, vennero arrestate anche altre persone‖. Si era verificato, infatti, in paese, uno
dei pochi nella Provincia con un‘importante produzione di bozzoli, ne fosse stato rubato un
ingente quantitativo (oltre un quintale) per un valore che allora si aggirava oltre le 1.000 lire. Gli
arrestati furono processati e i giudici inflissero la condanna a 3 anni di reclusione a quattro di loro.
Nel febbraio del l9l5 Angelo Scarmagnani venne derubato di un certo numero di galletti da un suo
quasi omonimo, Giovanni Scarmagnani, condannato a tre anni di carcere‖ (Da Minerbe una terra e
la sua storia, LA PIAGA DELLA PICCOLA DELINQUENZA di Francesco Occhi)
IL FLAGELLO DELLA SPAGNOLA
Le precarie condizioni di vita sia al fronte che nei nostri paesi fecero aumentare le probabilità di malattie anche di carattere epidemico. Tra l‘aprile ed il maggio 1918 sul fronte italiano il flagello della spagnola fece la sua comparsa a primavera con una breve epidemia di carattere assai benigno per poi scomparire nel mese di giugno. L'ultima offensiva asburgica sul fronte degli altopiani fu dunque combattuta senza l'assillo del febbrone debilitante. La Spagnola iniziò di nuovo a mietere le sue vittime da luglio in poi raggiungendo l'apice ad ottobre. Questa volta l'affezione, pur se identica a quella primaverile, era caratterizzata da gravi complicazioni polmonari che causavano aggravamenti ed improvvisi decessi. A metà ottobre si arrivò, tra le truppe in linea, addirittura a punte di 3000 nuovi casi giornalieri. Nella 1ª armata, nell‘ultimo quadrimestre del 1918, si ebbero 32.482 casi con 2703 morti. Nella zona di sgombero nord-orientale, dove venivano ricoverati i militari ammalati provenienti dal fronte, dall‘ottobre 1918 all‘aprile 1919 si ebbero 90.347 casi con 8151 morti (vale a dire un decesso per 11-12 casi di malattia). Considerando i 375.000 casi di morte causati in Italia dall‘epidemia Il problema dello sgombero dei malati gravi fu gravemente ostacolato anche dai casi di malattia che colpivano autisti, personale ferroviario e infermieristico sino a collassare tutto il sistema dei trasporti poco prima della battaglia di Vittorio Veneto. Tra gli altopiani ed il Grappa si contarono in tutto 12460 influenzati. Anche il paese risentì in modo eccezionale della gravità della situazione tanto che, alcuni nostri bisnonni ne furono colpiti. In Europa, l'Italia poté vantare un tasso di mortalità secondo solamente alla Russia.
I CADUTI
A causa della guerra si moriva in battaglia, ovvero "sul campo d'onore"; come è scritto in qualche
monumento ai Caduti, nei "letti di dolore" a causa delle ferite riportate in combattimento; ma si
moriva per malattia anche negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. I
nominativi dei soldati minerbesi che persero la vita in guerra sono rinvenibili nel monumento ai
Caduti di Minerbe e di San Zenone, nelle lapidi in chiesa a Minerbe, nei due quadri d'onore
reperiti e nel libro Minerbe, una term e la sua storia. Distribuiti secondo l'anno di nascita, qualora
noto, si sono ottenuti la tabella e il grafico della pagina seguente che comprende anche il numero
totale di nomi, conosciuti attraverso le varie fonti citate, per ogni anno di nascita. I dati
evidenziano analogie con la situazione nazionale riscontrata dallo studio statistico mussoliniano: è
tra i ventenni che si riscontra il maggior numero di perdite di vite umane. Tra i nati nel 1895, uno
degli anni che ha dato anche a livello nazionale il maggior numero di combattenti, conosciamo ben
quindici nominativi di Caduti minerbesi, di cui dodici presenti nell'Albo d'oro dei Caduti della
Prima Guerra Mondiale.
Nonostante l‘iniziale momento favorevole, nel veronese nel 1915 caddero al fronte 870 soldati, tra i
quali alcuni minerbesi: L'allora parroco di Minerbe, Don Sante Gaiardoni annotò che, a cominciare
dal 1914, a poco a poco furono chiamate alle armi tutte le classi, finche, nel 1917, si trovarono
arruolati tutti gli uomini dai 18 ai 43 anni. L'elenco dei soldati del Comune di Minerbe morti è
lungo, ben 58 sono gli eroi riportati nella lapide del monumento in piazza altri sono ricordati nelle
lapidi laterali dell'altare a sinistra della chiesa parrocchiale.
Per il 1915 il registro parrocchiale riporta con la nota" pro patria amore strenuus
0ccubuit‖(valoroso cadde per la patria) i nomi dei miles: Zanovello, Bonfà, Berro e Zanon; ma dalle
lapidi risultano: Ambrosi Angelo, decorato di medaglia d°argento al Valor Militare, soldato del 14°
reggimento fanteria, nato il 24.7.1894 e morto il 21.10 .1915 sul Carso, per ferite riportate in
combattimento. BELLINATO ALFONSO CARLO, decorato di medaglia d°argento al Valor
Militare, sergente dell‘8° reggimento bersaglieri, nato il 24.5.1885, morto il 21.7.1915 sul Monte San
Michele, per ferite riportate in combattimento. Durante uno scontro a fuoco, si era chinato a
soccorrere un amico caduto al suo fianco, ma, una volta sollevatosi, tu colpito in piena Fronte da
una pallottola nemica. Era un coraggioso esploratore dei bersaglieri, morto, oltretutto guidando il
proprio drappello all‘assalto. BELLUZZO ANTONIO, caporale del 121° reggimento fanteria .nato
il 17.1.1895 e morto il 28.7.1915 sull‘Isonzo, per ferite riportate in combattimento. BERNUZZ1
ANTONIO, soldato del 12° reggimento fanteria, nano il 27.5.1892 e disperso il 15.11.1915 sul
Podgora, durante un combattimento. BERRO PIETRO, soldato del 126° reggimento fanteria, nato
il 30.5.1893 e morto il 20.12 1915 a Padova, per malattia. BONFÀ AUGUSTO, soldato del I24°
reggimento fanteria, nato il 2.3.1895 e morto sul Monte S.Michele il 7.8.1915, per ferire riportate in
combattimento. Polo Ottavio morto il 21 12 1915. SOAVE CIRILL0 (AUGUSTO), soldato del 64°
reggimento fanteria, nato il 25.1.1885 e morto sul Carso il 3-10-1915, per ferite riportate in
combattimento. SPOLADORE GIOVANNI, soldato del 67° reggimento fanteria,otto il 3.13.1896 e
disperso il 6.8.1916 (1915) ad Oslavia, durante un combattimento. VIVIANI MARINO, soldato
delli'82 reggimento fanteria, nato il 22.11.1892 e disperso il 19.6.1915 durante un combattimento .
ZANETTI GIOVANNI, caporalmaggiore del 9° reggimento artiglieria da fortezza, nato il 20.9.1879
e morto a S.Stefano di Cadore il 14.8.1915 per ferite riportate in combattimento. ZANON
ANTONIO, soldato del 130° reggimento fanteria, nato il 23.10.1893 e morto nell‘ospedale da
campo n°3 il 15.].1.1915, per ferite riportate in combattimento. ZANOVELLO ERNESTO, soldato
del 18° reggimento fanteria, nato il 23.7.1895 a Zimella e morto sul Carso, Monte Sei Busi, il
22.7.1915, per ferite riportate in combattimento.
Tra i caduti del nostro territorio nel 1916 figurano: BELLOTTO GIULIO, soldato del 47° reggimento fanteria, nato il 7.5.1883 e morto il 14.9.1916 sul Carso, per ferite riportate in combattimento. BORIN ANGELO, soldato del 64° reggimento fanteria, nato il 25.2.1884 e morto sul campo il 18.5.1916, per ferite riportate in combattimento. BRESSAN GIUSEPPE, soldato del 67°.reggimento fanteria, nato il I2.9.1896 e disperso il 21.5.1916 nel settore di Tolmino, durante un combattimento. COLLATO AUGUSTO, soldato del 155° reggimento fanteria, nato il 7.7.1882 e morto sull‘Altopiano di Asiago il 21.5.1916, per ferite riportate in combattimento. CORSO ALFONSO, soldato del 144° reggimento fanteria, nato il 20.9.1885 e disperso l'11.8.1916 sul medio Isonzo, durante un combattimento. CORTESE ANTONIO, soldato del 63° reggimento fanteria, nato il 1893° e morto sul Monte Coston d'Arsiero il 19.5.1916, per ferite riportate in combattimento. CUCCATO GIUSEPPE, morto all‘età di 20 anni. DE TOMI MARIO, soldato del 72° reggimento fanteria, nato il 10.7.1890 e morto il 16.1.1916 a Legnago, per malattia. GALANTIN LEONELLO, soldato del 15° reggimento bersaglieri, nato il 28.6.1888 e disperso l‘1.11.1916 sul Carso, durante un combattimento. GELLLER(E) GIOVANNI MARIA, soldato del 123°#reggìmenro fanteria, nato il 17.12.1883 a Roverchiara e morto sul Carso il 6.8.1916, per ferite riportate in combattimento. GRIGATO ANTONELLO (LEONELLO), soldato de11‘84° reggimento di fanteria, nato il 22.8.1893 e morto in Val Brenta il 16.4.1916, per ferite riportate in combattimento. MANTOVANI UMBERTO, soldato del 155° reggimento di fanteria, nato l‘11.10.1884 e morto sul Carso il 27.7.1916, per ferite riportate in combattimento. MARINI LUIGI SANTO, soldato del 206° reggimento fanteria, nato il 25.3.1890 e disperso il 21.5.1916 sull‘Altopiano di Asiago, durante un combattimento. NALIN MARINO, soldato del battaglione complementare brigata ―Umbria‖, nato il 27.3.1895 e morto nell‘ospedale da campo n°47 l‘8.7.1916, per malattia. ORTELLI PIETRO, caporale del 157° reggimento fanteria, nato il 17.11.1895 e morto sul Monte Zebio il 27.6.1916, per ferite riportate in combattimento. PRANDO AUGUSTO, soldato del 206° reggimento fanteria, nato il 17.9.1896 a Cologna Veneta e morto il 20.6.1916, in prigionia. RUFFO AGOSTINO, soldato del 20°i reggimento fanteria, nato il 5.10.1881 e morto sul medio Isonzo il 21.121916, per ferite riportate in combattimento. SALVA PIETRO, soldato del 72° reggimento fanteria, nato il 28.5.1891 e morto nella 43° sezione sanità il 21.4.1916, per infortunio dovuto a fatto di guerra. SPOLADORE GIOVANNI, soldato del 67° reggimento fanteria, nato il 3.13.1896 e disperso il 6.8.1916 (1913) ad Oslavia, durante un combattimento. TACCON(I) GIUSEPPE, soldato del 96° reggimento fanteria, nato il 4.7 .1892 e morto sull‘Altopiano di Asiago l‘11.6.1916, per ferite riportate in combattimento. VIVALDI SILVIO, soldato del 131° reggimento fanteria, nato il 15.4.1895 e morto sul Monte S. Michele il 10.5.1916, per ferite riportate in combattimento. ZANDON GIOVANNI, soldato del 34° reggimento fanteria, nato il 30.8.1883 e motto sul Carso il 28.12.1916, per ferite riportate in combattimento. ZARAMELLA SILVIO, soldato dell°8° reggimento bersaglieri, nato il 17.8.1896 e morto sul Monte Forame il 22.9.1916, per ferite riportate in combattimento.
Deceduti nel ‘17 vengono ricordati: ALLEGRINI AGOSTINO, soldato del 96° battaglione, nato il
20.1.1876 e morto il 19.10.1917 a Verona, per malattia. ANDRETTO UMBERTO ......... BALDIN
ANTONIO, caporale del 125° reggimento Fanteria, nato il 3.10.1888 e morto il 31.8(7).1917
ne1l°ospeda.letto da campo n° 51, per ferite riportate in combattimento. BAREDI VIRGILIO,
soldato del 113° reggimento fanteria, nato il 16,12,1889 e morto il 17.2.1917 sul Carso, per ferite
riportate in combattimento. BELLINI GIUSEPPE, soldato del 60° del reggimento fanteria, nato il
19.3.1881 a Pressana, morto il 16.10.1917 a Minerbe, per malattia. BERTOLASO MARIO, soldato
del 242° reggimento fanteria, nato l‘11.12.1898 in Brasile e morto sul Monte Vodice l°8.7.1917 per
ferite riportate in combattimento. BERTU‘ GIUSEPPE, soldato del 153° reggimento fanteria, nato
l‘11.1.1895 e morto il 22.11.1917 nell‘ambulanza chirurgica d‘armata n°6, per ferite riportate in
combattimento. BONAZZO ANGELO, caporale del 59° reggimento fanteria, nato il 27.8.1881 a
Legnago e morto nell‘ospedale da campo n°__,, il 7(12).8. 1917, per ferite riportate in
combattimento. BOROLLO ANTONIO, soldato del 92° reggimento fanteria, nato il 5.12.1892 e
morto il 25.1.1917, per ferite riportate in combattimento FILIPPINI LUCINDO, soldato del 96°
reggimento fanteria, nato il 12.12.1894 e morto sul medio Isonzo il 2.6.1917 per ferite riportate in
combattimento. FRANCESCHETTI GIUSEPPE, soldato del 3° reggimento bersaglieri, nato il
20.4.1894 a Villanova del Ghebbo e morto ad Abano Bagni il 28.6.1917, per ferite riportate in
combattimento. GUARISE ANGELO, soldato del 14° reggimento di fanteria, nato il 18.6.1889 a
Legnago e morto nell‘ospedale da campo n°75 il 25.8.1917, per ferite riportate in combattimento.
GUARISE SANTE(O), soldato de 263° reggimento di fanteria, nato il 6.10.1885 a Legnago e morto
nell‘ambulanza chirurgica d'armata n°2 il 17.10.1917, per ferite riportate in combattimento.
LORENZETTO CESARE , soldato del 37° reggimento fanteria, nato il 29.11.1890 e morto
nell‘ospedaletto da campo n° 124 il 7.6(5).1917, per ferite riportate in combattimento MARINI
ANTONIO, soldato del 277° reggimento fanteria, nato il 31.8.1897 e disperso il 25.10.1917
(17.11.1917), in combattimento durante il ripiegamento verso il Piave. MASSALONGO
GIOVANNI. soldato del 6° reggimento alpini, nato il 27.10.1895 e morto sul monte Ortigara il
10.6.1917, per le ferite riportate. MENEGAZZI ETTORE, soldato del 262° reggimento fanteria, nato
il 5.7.1879 e morto sul Monte Vodice il 28.5.1917, per le ferite riportate in combattimento.
MENEGOLO FERRUCCIO, soldato del 214° reggimento fanteria, nato il 13.8.1886 e disperso sul
Carso il 6.9.1917, durante un combattimento. MENIN Canto .... . ...,.MIRANDOLA UMBERTO,
soldato del 210° reggimento fanteria, morto nell‘ospedale da campo n° 57 il 6.7.1917 (16.9.1917),
per le ferite riportate in combattimento. MOTTERAN ANDREA (SILVIO), sergente del 33°
reggimento fanteria, nato il 19.2.1893 e morto sul Monte Grappa il 19.12. 1917, per ferite riportate
in combattimento. MURARI GIACINTO, soldato del 211° reggimento fanteria, nato il 23.2.1881e
disperso nell‘ottobre del 1917, sul campo di combattimento. RAGOSA (RAGOSO) DANTE, soldato
del 214° reggimento fanteria, nato il 12.5.1888 a Casaleone e morto in prigionia il 30.1 1.1917, per
malattia RIZZOLO ALESSANDRO, soldato del 58° reggimento fanno; nato il 28.3.1894 e disperso il
14.5.1917 sul medio Isonzo durante un combattimento. RUFFO PIETRO, soldato del 59°
reggimento fanteria, nato il 18.6.1895 e morto sul Col di Lana il 5.6.1917, per ferite riportate in
combattimento. SOAVE VIRGILIO, soldato del 1S0° reggimento fanteria, nato il 17.8.1880 e morto
sul medio Isonzo il 3.9.1917, per ferite riportate in combattimento. SOLIMAN ANGELO, soldato
del 7° reggimento artiglieria da fortezza, nato il 16.4.1880 e morto il 15.7.1917 a Verona, per
malattia. STRABELLO ARDUINO ......... . TACCON ANTONIO, soldato del 6§° reggimento di
fanteria, nato il 11.7.1885 e morto in Vallarsa l‘11.10.1917, per infortunio dovuto a fatto di guerra
ZANARDO(I) ALBINO, caporale dell°8° reggimento artiglieria da fortezza, nato l‘1.6.1893 ad
Albaredo D‘Adige e morto nella 65° sezione sanità il 22.9.1917, per infortunio. ZANETTI GUIDO,
soldato del 72° reggimento fanteria, nato il 19.10.1891 e morto sul Carso il 27.5.1917, per ferite
riportate in combattimento.
CADUTI minerbesi nel 1918
ANNIBALETTO GIAN MARIA, soldato del 6° reggimento alpini, nato il 15.8.1891 ad Albaredo
D'Adige e morto a Firenze il 7.2.1918, per malattia. BALBO OTTAVIO, soldato del 2° reggimento
granatieri, nato il 5.9.1889 ad Urbana (Pd) e morto a Verona il 13.10.1918 per malattia. BERTOLINI
ANTONIO, caporale dell`8° reggimento artiglieria da campagna, nato 1,8.7.1891 ad Occhiobello e
morto sul Piave il 10.3.1918, per ferite riportate in combattimento. PERETTA ANGELO. .....
PERUZZI LUIGI, soldato del 2° reggimento artiglieria pesante campale, nato l‘1.10.1882 e morto
ad Albaredo d`Adige, il 27.6.1918, per malattia. RUFFO GIOVANNI, soldato del 117° reggimento
fanteria, nato il 19.9.1886 e morto in prigionia il 5.6.1918, per malattia. BONAZZO Materno,
decorato di medaglia d‘argento al Valor Militare, sergente di un reparto d‘assalto, nato il 13.1.1895
il morto il 27.10.1918 sul Montello, per ferite riportate combattimento. BONFANTE CARLO,
soldato del 232° reggimento fanteria, nato il 21.11.1894 e morto il 16.12.1918 a Ruda, per malattia.
CHIAVEGATO PIETRO , soldato della 312° compagnia boscaioli, nato il 12.7.1876 e morto il
6.11.1918 a Borgotaro, per malattia. CERVATO AUGUSTO, caporal maggiore della 2154°
compagnia mitraglieri, nato a Legnago il 30.6.1890, morto nell‘ospedale da campo n°67 il 16.6.1918,
per ferite riportate in combattimento. CHIOCCHETTA LUIGI, soldato del 1° reggimento artiglieria
da campagna, nato l°1.8.1892 e morto il 26.10.1918 nell‘ospedale da campo n° 33, per malattia.
FILIPPINI ALESSANDRO, soldato del 202° reggimento fanteria, nato il 4.8.1889 e morto in
prigionia il 4.1.1918, per malattia. MANTOVANI FERNANDO, soldato del 203° reggimento
fanteria, nato il 18.10.1896 e morto a Corfù il 29.8.1918, per malattia. MENIN ROBERTO, soldato
de1l°82° battaglione M.T. nato il 14.4.1881 e morto a Minerbe il 21.11.1918, per malattia. RIZZOLO
LUIGI, soldato del 232° reggimento fanteria, nato il 4.7.1885 e morto nell‘11° sezione sanità il
30.11.1918, per malattia. SANTINELLO LUIGI, soldato del 65° reggimento fanteria, nato il
16.3.1896, in Brasile e morto nell‘ospedale da campo n°213 il 2811.1918, per malattia. TURISENDO
(TURRISENDO) ARTURO, appuntato della legione Regia della Guardia di Finanza, nato il
19.4.1879 e morto il 5.9.1918, in prigionia, per malattia. VIVALDI LUIGI, soldato della 6°
compagnia automobilisti, nato il 10.5.1881 e morto a Firenze il 13.2.1918, per malattia. VIVALDI
GIROLAMO, soldato del reggimento artiglieria a cavallo, nato l‘1.9.1882 e morto a Monselice
l`8.10.1918, per malattia
Un monumento ai caduti
Tra le varie rappresentazioni della Grande Guerra, i monumenti erano vere e proprie strutture
comunicative e funzionavano come mass media che filtravano e selezionavano le informazioni del
passato e che finivano per incorporare e proporre una ben precisa interpretazione della storia,
grazie anche ai riti e alle cerimonie commemorative che in questi luoghi si celebravano. I primi
monumenti ai caduti sorgono già durante la guerra, magari su iniziativa degli stessi compagni dei
morti, con mezzi di fortuna e in forme rudimentali. Ma è soprattutto nei primi anni Venti che si
registra una vera e propria ondata monumentalistica. Un monumento, piccolo o grande che sia,
viene realizzato pressoché in tutte le città e i paesi d‘Italia, su iniziativa di gruppi, associazioni,
talvolta addirittura di singoli; ogni rione, ogni parrocchia, ogni contrada si organizza per ricordare
i propri morti in guerra. Non c‘e un disegno preordinato; è un movimento spontaneo, caotico ed
incontrollabile, che non si manifesta solo in Italia ma, con modalità parzialmente diverse caso per
caso, anche in Francia, in Inghilterra, nella stessa Germania sconfitta. Evidentemente, la spinta che
muove alla costruzione di monumenti viene dal basso, risponde ad un‘esigenza intima ed
insopprimibile dei familiari e degli amici dei caduti, delle comunità locali; appare perciò
convincente l`idea che, almeno nella prima fase, la funzione principale di questi monumenti fosse
quella di aiutare i sopravvissuti a riprendersi, a superare il trauma, a cercare di dare un senso al
sacrificio compiuto; a elaborare il lutto insomma Il monumento, dunque, come luogo dove la gente
poteva riunirsi per esprimere pubblicamente il proprio cordoglio a fini anche terapeutici: in fondo,
concentrare e circoscrivere il proprio dolore in uno spazio e in un tempo ben definiti poteva servire
a tenerlo sotto controllo, poteva aiutare a liberare i singoli e la comunità dall‘angoscia della perdita
e dal bisogno profondo e opprimente di risarcire in qualche modo i defunti e di ripagarli per il loro
sacrificio; poteva cioè consentire di "dimenticare‖, nella vita di tutti i giorni, il dramma della morte
dei propri cari. (da: Jay Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale
europea, Il Mulino, Bologna 1998; si veda in particolare il capitolo "Monumenti ai caduti ed
espressione del lutto", pp.117-165, dal quale sono stati tratti parecchi spunti e suggerimenti per le
considerazioni esposte qui di seguito).
Ancor prima della fine della guerra alcuni scrittori e poeti effettuano una specie di trasfigurazione
religiosa di uomini ed eventi, il D‘Annunzio per esempio con i suoi scritti e con i suoi riti , propone
una sua particolare gestione della memoria dei caduti, ciò in particolare poi si riverserà nella
monumentalistica. Nei monumenti della prima ondata non si riscontra un‘unica tipologia: in
genere la guerra e la morte in guerra vengono rappresentate contestualmente sia come evento
nobile ed edificante — un dovere compiuto sino in fondo -, sia come un fatto tragico, doloroso,
perfino difficile da accettare; ma non mancano esempi in cui è del tutto prevalente la condanna e il
rifiuto della guerra o perlomeno un dolore ripiegato su se stesso, privo di qualsiasi implicazione
patriottica o di riflessi politici. Fin dall‘inizio però, nei monumenti e nelle celebrazioni in onore dei
caduti è frequente la commistione di elementi religiosi e di elementi civili, perché la gente trova
naturale rivolgersi alla religione per trarne conforto; e dunque, in quest‘ottica, anche
l‘interrelazione dei codici religioso e nazional-patriottico, spesso rilevabile nei monumenti italiani,
non sarebbe, almeno in una prima fase, una scelta dettata da esigenze politiche bensì una risposta
istintiva a un bisogno profondo dell‘animo popolare. Come pure una risposta ad un bisogno
profondo è il messaggio di speranza contenuto in quasi tutti i monumenti: lo ritroviamo non solo
in quelli di ispirazione cattolica che rinviano alla trascendenza e alla resurrezione, ma anche in
quelli di ispirazione laica che alludono spesso ad un mondo migliore, senza guerre, più giusto. I
Comuni sono alle prese con gravi problemi finanziari ma, nonostante queste difficoltà, si osserva
in tutti una volontà molto forte, quasi frenetica, per la realizzazione di un ricordo marmoreo
dedicato ai propri concittadini Promotore della realizzazione, nella generalità dei casi, è <<Il
Comitato per il Monumento ai Caduti", formatosi spontaneamente tra la cittadinanza e che,
attraverso la raccolta di fondi casa per casa o attraverso feste di paese, pesche di beneficenza,
spettacoli ecc., raccoglie la somma necessaria. Importante è che il monumento sia "decoroso",
all‘altezza del sacrificio pagato. I vari Comuni si impegnano, salvo eccezioni, nel contribuire in
parte alla somma necessaria destinando, molto spesso dopo varie richieste del Comitato, alcune
voci dei bilanci annuali. La conclusione dell‘opera costituisce per il paese anche l‘occasione per
celebrazioni solenni e nel momento dell‘inaugurazione vengono organizzati degli eventi pubblici
con l‘intervento di importanti personalità. Gruppi scultorei sorgono quindi in ogni piazza
principale, in quella del municipio della chiesa, vicino ai simboli del potere istituzionale e
religioso. La scelta della scultura avviene ovviamente, e prima di tutto, per il suo carattere
pubblico e per il riconoscimento della sua forte funzione civile. L‘immagine scolpita esalta la
propria funzione solenne: la si usa per i grandi di questo mondo, peri sovrani e per i morti illustri,
ricordandoci che anche nel nostro secolo, per quanto laicizzato, l‘aspetto religioso rimane
intrinseco alla scultura.
L‘avvento al potere del Fascismo non modifica sostanzialmente la situazione descritta, almeno per
tutti gli anni Venti. Certo, vengono distrutti e cancellati i monumenti e le lapidi più chiaramente
ostili alla guerra, quelli direttamente ispirati dalle forze socialiste e pacifiste; e tuttavia neanche il
Fascismo in un primo momento può intervenire troppo pesantemente per orientare e
strumentalizzare a proprio vantaggio i meccanismi spontanei di elaborazione popolare del lutto.
Solo alla fine degli anni Venti, a oltre un decennio dalla conclusione del conflitto quando ormai le
ferite più dolorose si sono rimarginate, il regime fascista decide di approntare un colossale piano
di ―monumentazione‖ delle zone investite da eventi bellici, dallo Stelvio fino al mare; un disegno
che risulterà pressoché completato già nel 1938, in occasione del Ventennale della Vittoria. Si trattò
di un‘operazione programmata, studiata a tavolino nei minimi particolari che, tra l‘altro, richiese
anche investimenti piuttosto consistenti, giustificabili con l‘esigenza politica di costruire una
memoria pubblica funzionale agli obiettivi del Regime capace di condizionare e di piegare a sé
anche le memorie private, non di rado ostili o recalcitranti: un progetto pedagogico e
propagandistico di grande respiro, rispetto al quale, ovviamente, la costruzione — o più spesso la
ricostruzione — dei monumenti ai caduti rappresentava solo uno dei tasselli. Nel lanciare questa
iniziativa, Mussolini ebbe a dire che non gli piacevano "i monumenti piagnoni e pietosi o peggio
desolati e incomprensibili" e quindi inadeguati — si potrebbe aggiungere « ai destini imperiali che
si auspicavano per l‘Italia. Sono parole che costituiscono una preziosa chiave di lettura per cogliere
il senso dell‘operazione fascista di reinterpretazione della prima guerra mondiale. In effetti, i
cimiteri della Grande Guerra quali si erano andati delineando nel corso dei primi anni Venti non
possedevano una precisa identità, contenevano apporti spuri incontrollati, con epigrafi e segni a
volte discutibili, non di rado adatti a suscitare sentimenti più di dolore o di rassegnazione che di
esaltazione patriottica. E invece i nuovi grandi complessi sorti nel corso degli anni Trenta erano
ispirati scientemente alla retorica della bellezza della morte per la patria e "ben corrispondevano
all`intento di rendere immortali — come ha scritto Lucio Fabi — le glorie e i destini ( Lucio Fabi,
Redipuglia. ll sacrario, la guerra, la comunità, Edizioni della Laguna, Monfalcone 1993, p.l4)
Un mese dopo l‘inaugurazione, il 30 ottobre 1921del monumento ai caduto di San Bonifacio, per
esempio, , una rivista culturale di Verona, ―La Rinascita‖, anno I, n. 12, dicembre 1921, edita in
città e stampata presso lo Stab. Tipografico cav. M. Bettinelli, dedica un lungo servizio all‘opera,
che interpreta alla luce dei fatti del tempo: ―… è il momento di rinascere dalle devastazioni della guerra,
consapevoli ed orgogliosi di aver prima tenuto testa ad un Impero che pareva imbattibile e che aveva
governato per secoli le sorti d’Europa e poi concorso a piegarlo; un risultato incredibile, che andava
riconosciuto allo slancio generoso di tanti giovani, confusi nella testa dalla propaganda nei mesi precedenti la
guerra, strattonati da una parte e dall’altra, sbattuti di qua e di là, entrare o non entrare in guerra, da questa
o da quell’altra parte… era stato giusto battersi allora per le proprie convinzioni, necessario poi lottare tutti
fianco a fianco nel momento del pericolo; erano andati, avevano sofferto, pagato, non si erano divisi…
quell’unione davanti al nemico doveva ora proseguire nella ricostruzione, nel momento in cui altri fermenti
si manifestavano, altre ventate tiravano‖; in fondo, anche chi la guerra non l‘aveva voluta, nel
monumento si poteva ritrovare; l‘equilibrio tra le varie posizioni era estremamente difficile, ma
dopo tanti lutti e sofferenze ora, tutti insieme, forse si ripartiva. Passaggio tormentoso, perché la
Vittoria Insanguinata, dolorosa ma cara a tutti, alcuni la volevano far propria, ribattezzarla Vittoria
Mutilata, per riaprire il capitolo delle rivendicazioni, per continuare sulla strada della guerra, da
quella fatta a quella da fare, dividendo la gente tra chi diceva ―Mai più!‖ e chi aspirava a poter
proclamare ―Ancora!‖ E chi sosteneva questa linea avvertiva nel monumento realizzato con il
contributo di tutti, a rappresentare i sentimenti di tutti, un ostacolo sulla propria strada e dunque
sotto sotto lavorava per toglierlo. Il tentativo era quello di sottrarre alla gente il ricordo delle
sofferenze e dei lutti della guerra, e dunque anche il monumento, che simboleggiava proprio tutte
quelle cose; e di attribuire ad una parte ciò che invece spettava a tutti; quella parte erano i fascisti.
Il monumento ai caduti di San Bonifacio sarebbe stato rimosso nel 1938 con vari, meschini pretesti,
la nudità delle statue e la necessità di spazio per le manifestazioni ―oceaniche‖. Inutile dire che in
trincea i combattenti erano solo italiani e non fascisti (che non c‘erano ancora), né socialisti e
tantomeno cattolici o liberali: chi protestò fu colpito duramente, molti tacquero e nel silenzio gli
esagitati si imposero.
Monumento ai caduti – piazza 4 Novembre Minerbe (VR)
Il monumento è opera dell‘architetto, scultore, pittore padovano Terzo Antonio Polazzo (1894-
1976). L‘inaugurazione fu fatta il 19 novembre 1922, come risulta dal documento gentilmente
concesso dal Grande Ufficiale della Repubblica, il legnaghese Mario Crocco.
Il monumento inizialmente sorse nella piazza non ancora asfaltata, come del resto le strade
adiacenti, era circondato da un‘aiuola e alcune piante sempreverdi ed era dotato di una piccola
recinzione di ferro. L‘opera, eseguita in un unico blocco di pietra carsica, ritrae un soldato in divisa
militare, con elmetto estivali, che sembra difendere, in una sorta di abbraccio, due colonne doriche
spezzate. Alla base, su cui poggia il combattente, c‘è scritto: ― Per una Patria più grande‖. Nella
lapide posteriore sono riportati i nomi dei caduti della Grande Guerra.
Tali elementi ci danno da un lato una connotazione storicamente ben precisa e dall‘altro una
dimensione temporale più grande, riportandoci all‘eroe greco- romano. Lo sguardo del milite è
rivolto verso l‘alto e suggerisce l‘idea di una sfida al pericolo e la volontà di resistere contro il
nemico, ma soprattutto di sacrificarsi per la propria Patria e per la difesa della civiltà, della nostra
cultura. Le due colonne quindi diventano in questo contesto monumentale il simbolo di tutta la
grande tradizione culturale del mondo romano classico, una tradizione affermata e cantata da
Giosuè Carducci e Gabriele D‘Annunzio. Il fascismo, il quale tradusse nel mito della romanità non
solo la volontà di creare una nuova Roma caput mundi, ma anche una esibizione retorica dei valori
della virtus, recuperò tutto ciò.
IL DOPO GUERRA
È innegabile che l‘Europa intera uscì dal conflitto con un carico di odi e rancori che si faranno
sentire negli anni successivi, ma soprattutto pesanti furono le perdite subite ; infatti la guerra ebbe
un carattere di massa soprattutto per il grande coinvolgimento richiesto: nelle operazioni militari
furono impegnati oltre sessanta milioni di soldati, mentre un numero ben maggiore di persone,
comprese moltissime donne, lavorava nelle fabbriche o svolgeva altre attività connesse allo sforzo
bellico.
Alla conclusione dell‘evento bellico, molte sono le difficoltà economiche e finanziarie, alle quali si
aggiungevano ancor più la disoccupazione, il disagio dei reduci, dovuto soprattutto al loro difficile
inserimento nel mondo del lavoro. Il clima che si viveva era carico di tensioni, era quello di una
società ancora ancorata profondamente all‘ambito ecclesiale, che sentiva forte il vincolo familiare,
ma che cercava risposte alle contingenze esistenziali nel lavoro, quasi sempre per i più precario. Si
ha notizia di una cooperativa presente a Minerbe forte di 300 soci divisa in proprietari e conduttori
dei fondi che, il 29 marzo del 1919, consigliava ―caldamente‖ di iscriversi per ―ottenere la giusta e
dignitosa rivendicazione dei sacri diritti.
Con la guerra infatti, la maggioranza delle persone prese maggior coscienza dei propri problemi e
cominciò ad avanzare precise richieste : gli operai volevano aumento di salario, i contadini
chiedevano la proprietà della terra che lavoravano, coloro che avevano combattuto chiedevano un
riconoscimento dei loro dei loro sacrifici. ―Le masse contadine cominciavano a capire l‘importanza
del loro ruolo e pian piano si avviavano sulla strada di una rivendicazione finalizzata. Superato il
primo sconcerto nel passaggio dalla sudditanza ai nobili, indifferenti e lontani, a quella verso i
borghesi, occhiuti e onnipresenti, dopo aver dato sfogo con il furto e le devastazioni alla rabbia
impotente per il continuo peggioramento delle loro condizioni e aver visto tentare da molti la via
della fuga verso terre lontane, in cerca di un lavoro più rispettato oltr‘Alpe o dove la terra c‘era,
per tutti, come in America, ora cominciavano una lotta organizzata; ad esse si aggiungevano le
masse operaie, ancora poca cosa in Italia, ma tenaci, combattive; si trovavano assieme nelle prime
organizzazioni, le Società Operaie, Leghe Rosse e Bianche, i sindacati, i partiti, sotto l‘ispirazione di
capi, a volte anche rispettati e autorevoli, finalmente con una visione ampia e generale del
problema sociale, in tutta la sua complessità, a livello nazionale ma anche internazionale‖. ( da:
―La paura del popolo‖di Gianni Storari)
―La campagna elettorale del 1919 fu particolarmente vivace nel legnaghese, … . Le tre liste
presentate nell‘unico <<collegio» della provincia di Verona, socialista, popolare, blocco liberale
(liberali e fascisti) ottennero nel comune di Legnago, rispettivamente 1.889, 497 e 775 voti. L‘entrata
in parlamento di 156 deputati socialisti e di 100 popolari rese sempre più precaria la situazione
politica per la difficoltà di trovare una maggioranza omogenea in un momento difficilissimo per
l‘economia italiana. La progressiva svalutazione della lira porto ad un rilevante aumento dei
prezzi dei beni di consumo e alla necessità di un adeguamento salariale al quale si opposero i
datori di lavoro. Di qui, il dilagare di scioperi e agitazioni che arrivarono alla occupazione delle
fabbriche e delle terre. Alla fine del 1919 scioperarono a Legnago i braccianti del comune in segno
di protesta contro il proprietario che aveva opposto un rifiuto al pagamento di lavori eseguiti
contro la sua volontà. Scontri, tafferugli particolarmente violenti si ebbero a S. Pietro e Terranegra,
durante i quali furono arrestati alcuni scioperanti condannati in seguito a varie pene detentive dal
tribunale di Legnago. Nel gennaio del 1920 i disordini ripresero con l‘occupazione delle terre del
barone Treves da parte dei contadini, falegnami, carrettieri che scortati da <<guardie rosse>>,
eseguirono lavori per i quali pretesero il pagamento. Il Treves fu denunciato e condannato dal
tribunale di Verona ad un‘ammenda di lire 13.000, ma venne assolto poi in appello. Nel maggio
dello stesso anno, fallito il tentativo di un fronte comune tra leghe rosse e bianche per la
stipulazione di un contratto collettivo di lavoro, gli scioperi ripresero con più veemenza specie
contro le leghe bianche che, separatamente, dopo la rottura delle trattative avevano stipulato con
alcuni proprietari di Minerbe e Bonavigo soddisfacenti accordi. Per 27 giorni con azioni di forza
furono impediti i lavori agricoli nelle grandi e piccole aziende, furono incendiati pagliai, fienili,
tagliate piante, viti e impedito il foraggiamento agli animali, molti dei quali morirono. Scontri tra
aderenti alle leghe rosse e bianche si ebbero ad Angiari, Marega, Minerbe e Bonavigo con alcuni
feriti. In giugno alcuni <<leghisti» furono condannati per violenza a persone e per indebita
appropriazione. In questo clima di disordini e di incertezze ebbe inizio l‖affermarsi del fascismo,
che trovo anche in Legnago e nel suo territorio, numerosi aderenti e simpatizzanti. Alcuni di essi,
tra i quali Alessio de Bon, nel novembre del 1920 subirono un processo per avere organizzato con
Mussolini squadre armate. La costituzione del «fascio» di Legnago avvenne nel marzo del 1921 ad
opera di Edoardo Malusardi, Italo Bresciani e Bruno Ferrari. Primo segretario fu Valerio Valeri. Il
fascio di combattimento era formato da quattro centurie, due a destra d‘Adige, due a sinistra, con 4
manipoli ognuna. Con la guerra, la maggioranza delle persone prese coscienza dei propri problemi
e cominciò ad avanzare Nel territorio legnaghese come in tutta Italia vi furono scontri più o meno
gravi tra fascisti, socialisti e popolari con le così dette «spedizioni punitive>> nelle quali erano
adoperati, quali mezzi persuasivi il manganello e l‘olio di ricino. A Castagnaro in una di queste
<<spedizioni» un capolega socialista rimase ucciso ed a Menà due capilega bianchi furono
gravemente percossi. Nelle elezioni politiche del 1921, mentre i socialisti e popolari mantenevano
quasi intatte le posizioni del 1919, i fascisti che si erano presentati con proprie liste, inviarono al
parlamento 35 deputati. Durante il 1922 il fascismo, approfittando del deterioramento della vita
democratica, delle sterili discussioni parlamentari, della debolezza e instabilità dei governi,
arrivava alla «marcia su Roma>> e al governo fascista. In quella occasione la coorte di Legnago,
comandata da Valerio Valeri e formata da uomini provenienti dai fasci di Legnago, S. Pietro,
Villabartolomea, Castagnaro, Casaleone, Bonavigo, Cerea, Sanguinetto, Maccacari, Begosso,
Terrazzo, Minerbe e Carpi, ebbero <<l‘ordine>> di concentrarsi nei pressi dell‘ippodromo di
Tombetta e, di li, alle ore due di notte, portarsi all‘occupazione della questura. A occupazione
avvenuta, parecchi legnaghesi parteciparono con altri veronesi alla <<marcia su Roma». Le
elezioni del 1924, sanzionarono l‘atto del 28 ottobre. A Legnago i voti andarono così divisi:
socialisti unitari 333, popolari 477, repubblicani 29, liberali 30, fascisti 2.173, massimalisti
(comunisti) 452, schede bianche 267. Voto il 79Z degli elettori. La vittoria fascista venne celebrata
in consiglio comunale tra le vivaci proteste della minoranza, con la concessione della cittadinanza
onoraria al capo del fascismo e, nelle piazze, con cortei e parate in divisa, con l‘arresto di noti
esponenti socialisti e perquisizioni nelle case degli avversari politici <<bianchi e rossi>>. Tra i
primi delle «basse>> giudicati e condannati dal Tribunale speciale furono: Egidio Castellani di
Castagnaro, Guerra Corradino di Villabartolonea e Vittorio Bozzolin di Cerea. (da Legnago nella
storia pag 483)
Nell‘immediato dopoguerra molto si disse circa ― la terra ai contadini‖, anche i cattolici
affermavano l‘espropriazione delle terre incolte. Chi era stato al fronte, come nonno Moro, diceva
di non saper più da quale parte spuntava il nemico a differenza di quando stava in guerra, ora lo
avvertiva dappertutto, ―nel vento, che si fermava a ciacolare con le spighe ormai piene‖.
‖...e viene il momento che non se ne può pi, de granari pieni nessuno ne aveva, un bel giorno si trova la
chiave par aprire la situazione, si dice, qui si fa scioparo. L'è una parola fare scioparo, l’ultimo assalto alla
trincea nemica, ma qui la dura de pi chi ha piu spago da svolgere, non credo che le nostre donne ne avessero
ancora tanto, a tirare si scurta o si può rompere, forza ce n’era, non era quella la paura, ma scioparare
significava vivare par la prima volta, almanco noialtri, senza dipandare dai paroni, con il solo fiato che
aveimo, comandarse tra di noi, fare una disciplina de corpo, ragionare e decidere, mettare in fila tante teste, si
sa che sentivano piu i brontoloni della panza uda che la spinta delle idee socialiste, era naturale che molti
fossero socialisti par fame e par disperazione, desperati de tutto, i capi contrada avevano il loro da fare par
rostare l’impazienza e tegnére l’acqua al so livello così da farla scoppiare al momento giusto che se lo scioparo
non ha la forza de farsi sentire. . .‖
Sono le parole di Moro, nonno di Dino Coltro, che nel libro romanzo ―I leori del socialismo‖
testimonia le idee e la lotta dei braccianti nel dopoguerra. È ambientato a Pilastro di Bonavigo in
una grossa azienda agricola, la corte, che, come altre nella bassa veronese, costringeva la
manodopera locale a un bracciantato misero e senza possibilità di riscatto sociale. L‘autore ha
condiviso la vita dei lavoratori della terra e, oltre ad aver dato loro voce scrivendone le memorie
nella lingua contadina originaria, si e speso per le giuste conquiste sindacali. Tra le righe si legge
come la guerra, facendo circolare le idee, avesse contribuito a una nuova coscienza di sé mettendo
in discussione i ruoli sociali precedenti:
‖La to dona sempre sgramegnata, piena degli odori della fadiga, niente bella e saponosa al pari della siora. ..
do vite massa differenti, il dritto e il rovescio de un tabarro. . . ‖
La rabbia era inoltre acuita dalle promesse non mantenute da parte dello Stato che aveva chiamato
alla guerra per così lungo tempo. ll nonno Moro commenta:
"Il governo ci ha dato il sussidio, par du mesi, con quello uno doveva vivare, ma cosa prendevi con un
sussidio, da sfamarti tu non la fameja. .. la Patria aveva goduto del loro servizio, adesso li dimenticava,( i
mutilati) immaginarsi noialtri con gambe e braccia a posto, bisognava arrangiarse come al fronte. . .morire in
piedi ci fanno. .."
Nonno Moro racconta del malessere diffuso ed è interessante osservare come il sapere organizzarsi
è un conquista dovuta all‘esperienza di guerra:
‖Allora si è fatto un capo par dare ordine e disciplina, ce lo avevano insegnato lori..il comando lo ha preso un
certo Straccagno ali Isola Rizza, socialista di prima razza, la proposta generale era de roversare la situazione
con il socialismo.. ci pareva una cosa facile oltre che giusta, ci aspetaino sulle crosare con il culo incollato
sulle piere dei ponti. . . "
Riferisce della convinzione che le leghe bianche sono dalla parte dei padroni:
― … nati dopo, contro de noialtri non contro i siori.,.cosa puoi aspettarti di buono dai preti ...il socialismo ha
la bandiera rossa, vuole dire che è la bandiera dei pitocchi, bisogna andare dietro a questa, come quando
correvimo all 'assalto. . .il bianco sta con tutto, il rosso è forte par conto proprio. . . ‖
Dalle idee ai fatti:
‖...andare a slongare la mano par un’ora de lavoro, par piasere e par carità... ti veniva dentro una rabbia che
schiumava fora, così la rabbia de uno messa insieme alla rabbia degli altri cominciò a boiare, a dare su e
sbattere il coperchio. ..
Più avanti si dimostra cauto e concreto:
...il grave è che cambiare tutto non si può, arrivare a un combinamento tra le parti, un buon contratto ci
vuole, con la bandiera non mangi mica...
Gli stessi eventi, già descritti da Don Sante Gaiardoni, travolgono il bracciante Moro.
...lntanto i siori non volevano firmare, in paese capitano, venuti fora da dove lo so mi quelli del manganello,
ne fanno che lo sa altro che Dio, la faccenda si metteva i11 modo diverso dai nostri calcoli. . .
In nonno Moro possono così identificarsi tutti i braccianti della Bassa che Coltro denomina i ―Léori
del socialismo ― (le "lepri del socialismo"): presi dalla paura di tornare a casa e di finire nelle mani
dei fascisti si nascondevano nei fossi, avevano la barba lunga e … spuzzavi da freschin come un leoro.
Nel maggio del 1919 fu stabilito nel Comune di Minerbe un Patto agricolo tra la Rappresentanza
della lega, il Sindaco, La Rappresentanza Agricoltori. Si tratta di un documento relativo al ―Patto
agricolo‖ sottoscritto e firmato dalla rappresentanza della lega, dal sindaco e dalla rappresentanza
degli agricoltori del 7 maggio 1919.
Il documento in esame che ci consente di portare in luce le condizioni di vita della classe
bracciantile e il lento emergere delle nuova coscienza del proprio ruolo sociale è quello
conservato con cura da una famiglia di Minerbe.
È ingiallito e macchiato dal tempo, ma ancora ben leggibile e utile a ricostruire l‘economia
e il clima sociale del primo dopoguerra.
Il Patto agricolo stabilito nel Comune di Minerbe metteva, nero su bianco, le paghe e gli
orari "per tutti i lavori agricoli nel territorio comunale‖.
È la primavera inoltrata del 1919, la guerra era finita da sei mesi, si avvicinava l'estate con
l‘intensificarsi dei lavori nelle campagne.
Per quanto riguarda gli orari, le ore di lavoro vengono quantificate da un minimo di sei in
inverno a un massimo di otto nei mesi estivi, frazionate per lasciar posto al riposo. Le ore
in più, o festive, erano considerate straordinarie con paga oraria maggiorata; per l‘ora di
lavoro festiva veniva pattuita una paga oraria aumentata della meta.
I libri di storia riportano che anche per l‘industria nazionale i sindacati ottennero, a fatica,
nel febbraio del ‘19, il riconoscimento della giornata lavorativa di otto ore.
I contraenti risultano in calce al documento: sette cognomi come rappresentanti della Lega
e sei come rappresentanza agricoltori.
Garante e stato l‘allora sindaco di Minerbe Francesco Gemma, possidente, nato nel 1882 e
dispensato dall‘arruolamento per la guerra per questa sua funzione di sindaco.
Il sindacalista Scarmagnan rappresentava la Federazione Provinciale lavoratori, a sua
volta emissaria, come si legge nel documento, della Federazione Nazionale dei Lavoratori
della Terra: la struttura sindacale a piramide risulta ben delineata.
In alto, nel frontespizio, la stampiglia dice: Lega contadini Minerbe. Nelle disposizioni
generali che completano il patto, nelle condizioni richieste ai padroni, riecheggia
l'impianto delle leghe socialiste, chiamate qui Leghe di Resistenza.
Si legge fra le righe il desiderio di una netta salvaguardia dei diritti primari della persona
come quello di acqua potabile e la possibilità di consumare un pasto caldo al lavoro. Ad
un gradino più alto il diritto di non lavorare il primo maggio e di aderire alle proteste di
categoria senza le ritorsioni dei datori di lavoro.
In caso di controversie si auspicava una equilibrata rappresentanza delle parti per
garantire equità di giudizio nei confronti dei lavoratori e protezione dei più deboli.
Nei primi punti delle disposizioni è leggibile la difficoltosa situazione economica locale di
quei mesi del '18 e '19 a causa della disoccupazione descritta e motivata anche dal parroco
del paese nelle Memorie.
Il documento è suddiviso in quattro parti: tariffa unica, tariffa braccianti, tariffa donne e
disposizioni generali.
Il primo punto non è altro che un enunciazione del documento stesso cosi formulato: ―tariffa unica
che stabilisce le paghe e gli orari per tutti i lavori agricoli che verranno eseguiti nel territorio del
Comune di Minerbe.‖
Nella seconda e terza parte, cioè quella relativa alla tariffa braccianti e donne, vengono indicate le
ore di lavoro giornaliere (la quantità, non gli orari d‘inizio o termine) suddivisi in tre periodi a
seconda delle stagioni; si parla innanzitutto cioè degli orari di lavoro, uguali per entrambi le
categorie e scandito in maniera diversa secondo le stagioni e i mesi dell‘anno: nel primo periodo
che va da novembre a febbraio le ore di lavoro sono sei, nel secondo, che comprende i mesi di
marzo, aprile, settembre e ottobre, le ore di lavoro giornaliere sono sette; nel terzo, che va da
maggio ad agosto, le ore sono otto. Segue poi la tariffa oraria per i lavori ordinari la cui paga è
stabilita in £ 1.10 l‘ora e quindi l‘elenco di tredici lavori speciali con a fianco di ciascuno di essi,
specifiche e relativa paga oraria.
Riguardo i lavori speciali si osserva che per gli uomini sono tredici mentre per le donne sono sette;
essi perciò sono distinti anche se di uguale fatica; comunque le donne vengono retribuite in misura
inferiore. La prima annotazione mette subito in evidenza che l‘orario di lavoro è uguale per
entrambi i sessi; l‘indicazione della paga oraria prevista per i lavori ordinari che è di 0,55 l‘ora circa
i lavori ordinari, quindi le donne, a parità di mansioni e di orario, prendono la metà di quella degli
uomini.
Riguardo le disposizioni generali si rileva innanzitutto la preoccupazione generale circa la
preoccupazione di come far fronte alla disoccupazione crescente anche nel nostro paese. Sono
articolate in otto punti e riguardano diritti e doveri che le varie parti sono tenute a garantire ai
lavoratori. Vale la pena di ricordare che nell‘ottavo punto si fa presente che tutte per le norme e le
condizioni di lavoro non contemplate in tariffa, valgono le consuetudini locali e al nono punto che
nella compartecipazione della coltivazione delle barbabietole e del granoturco si sia sentita
l‘esigenza di precisare che i coltivatori debbono seguire l‘orario del mese in corso (vale a dire
maggio 1919) per cui quello del mattino sarà dalle ore sei alle ore otto e dalle ore nove alle undici,
il pomeriggio dalle ore due alle ore sei.
Poi vengono precisati i punti attraverso i quali si garantiscono le condizioni minime di lavoro
dignitoso le quali per esempio la legna per riscaldare, il cibo durante la pausa pranzo, l‘acqua
potabile, il diritto alla festa, la paga per gli straordinari, il diritto di manifestazione di protesta e la
conduzione delle controversie.
In paese l‘allora parroco Don Sante Gaiardoni, evidenzia la sua preoccupazione per il clima di odi,
rancori, disagio fra la sua gente per le ingiustizie che stavano emergendo. Lo stato d‘animo della
popolazione bracciantile del tempo in particolare, ben descritto da nonno Moro in ―Leori del
socialismo‖ è sottolineato anche nelle ―Memorie‖ quando parla dei socialisti e del sorgere delle
leghe. Egli inserisce molte considerazioni utili a farci comprendere la situazione del paese in quegli
anni: la demografia del tempo, la nascita delle leghe bianche e rosse, le elezioni, la siccità e altre
avversità climatiche. Parla di temi sociali molto importanti. Con coraggio ma in armonia con i
principi cristiani di solidarietà con chi sta peggio egli dice che
―Fu raccolta un’offerta per i fratelli della terra liberata che fruttò lire 152,50 spedita al Comitati di Verona‖
Evidentemente si trattava di Comitati già attivi contemporaneamente alla guerra che, anche nei
paesi di provincia, si prodigavano per i concittadini più poveri. Annota poi così:
―1919 – 20 Firmato l'armistizio nel nov. 1918, il governo cominciò subito a licenziare le classi più anziane
e così di seguito. Si trovarono così nella primavera del 1919 moltissimi disoccupati , già che il governo avea
promesso tanta forza , vantano niente ed i proprietari avezzi a coltivar i loro campi con poche donne
rispondevano a coloro che domandavano lavoro , che non avevano niente da fare. Intanto i socialisti
pescavano nel torbido ed intorbidivano sempre più le acque , acquiescente il governo , per far più abbondante
la pescagione.
Se durante la guerra le donne contribuirono all‘economia e a mandare avanti la difficile situazione,
alla fine della guerra si trovarono molti, in particolare gli ex combattenti, disoccupati. Don Sante
perciò dice:
―Fu allora ch'io invitai tutti i proprietari ad un convegno , sia perché dessero lavoro ai contadini, sia perché
cedessero in affitto parte delle loro terre, come solennemente era stato promesso in parlamento : ― La terra ai
contadini ― .
Tutti approvarono l’iniziativa: si è giusto, è opportuno, quel che fanno gli altri faccio anch’io su noi; ma
nessuno si decise, tranne il Conte Bernini che ne cedette una porzione alla Cooperativa ―Concordia‖ perché
fossero distribuite ai contadini.
Lo Stato italiano aveva terre incolte, altre mal coltivate, beni terrieri di proprietà di enti o di
associazioni caritatevoli, ma anche vasti latifondi: occorreva una radicale riforma agraria perché
tutte le famiglie avessero di che vivere. Con la guerra le scorte non si dimostrarono sufficienti
anche per l‘abbandono delle terre da parte dei soldati impegnati al fronte. La produzione
nazionale diminuì di molto così come quella minerbese, secondo le annotazioni di Don Sante. Si
susseguirono proposte politiche e disegni di legge per rafforzare la produzione e si affacciò lo
slogan ‖la terra ai contadini" surrogando così la mancanza di obiettivi veri di allargamento
territoriale con una sorta di colonizzazione interna. Si voleva dare un incentivo, una motivazione
forte ai ‘fanti contadini‘ che erano la meta dell‘esercito, ignari dei motivi di tanti morti e sacrifici. I
modi di ridistribuire le terre furono oggetto di progetti e proposte di legge da parte dei vari
schieramenti politici fin dall'inizio della guerra: se la sinistra mirava alla socializzazione delle terre,
la destra intendeva inviolabile il diritto alla proprietà privata. Spicca la tesi di Don Sturzo, fautore
del Partito Popolare Italiano, che intendeva creare la piccola proprietà e mediare tra iniziativa
privata e intervento statale: vasti territori, così com'erano, erano fonte di impoverimento più che di
ricchezza, perche mancavano terreni livellati, strade, acqua per irrigazione, problemi strutturali
che dovevano essere di competenza statale. Le cooperative, sovvenzionate dalle banche, potevano
essere a suo parere il ponte di passaggio tra i latifondisti e i piccoli proprietari che potevano
riscattare i terreni lavorati. Nel frattempo la guerra divenne ancora più gravosa, dopo Caporetto la
propaganda ‖la terra ai contadini" si rinforzo rivolgendosi genericamente agli ex combattenti,
tanto da essere inglobata nel ‘l9 nell'Opera Nazionale Combattenti che aveva il compito del
reinserimento dei reduci. Vere riforme distributive dei terreni per un miglioramento di vita dei
contadini non ebbero luogo. Il 'fante contadino' voleva essere risarcito come promesso: il
malcontento sfociò nel primo dopoguerra in agitazioni sociali con le prime occupazioni delle terre,
come per gli operai l‘occupazione delle fabbriche. La guerra aveva profondamente cambiato
l‘economia e le idee delle persone, la società di massa esigeva valori nuovi che tendevano
all'uguaglianza sociale, i contadini non potevano tornare ad essere i nullatenenti di sempre. Nelle
Memorie il parroco registra puntualmente tutto questo, dimostrandosi vicino e operoso nei
confronti dei parrocchiani che erano nel bisogno, pur cercando di mediare con i proprietari terrieri
come si legge di seguito.
Circa la nascita delle leghe, nelle annotazioni del parroco si legge:
‖Tutti approvarono l’iniziativa: si è giusto, è opportuno, quel che fanno gli altri faccio anch’io.., ecc. ecc., ma
nessuno si decise, tranne il Conte Bernini che ne cedette una porzione alla Cooperativa Concordia, perché
fossero distribuite ai contadini. Per tal modo si formarono due leghe, una bianca ed una rossa: noi per primi
trattammo con i proprietari per la tariffa della paga ai giornalieri: i proprietari non la vollero accettare,
piuttosto accettavano di combinare con i socialisti. Cosi fecero, ed i socialisti diventavano i padroni del
campo, sub..... poi dai signori con danno, angariavano i piccoli agricoltori imponevano a questi una
percentuale di lavoratori molto superiori ai grandi. Ossia mandavano loro tanti lavoratori quanti ai ricchi
non tenendo conto delle braccia famigliari."
Emerge qui la posizione della Chiesa che si prodiga per una soluzione pacifica dei gravi problemi
per procurare a tutti di che vivere attraverso la cooperazione e la diffusione della piccola proprietà.
Nonostante la difficoltà di interpretare tutte le parole a causa della grafia minuta e sommaria, il
senso del discorso è chiaro.
" Ci trovammo allora nella necessità di formare l'unione dei piccoli proprietari, affittuari e mezzadri, che
divenne la più potente della provincia per l'opposizione .,,per il patto concluso coi socialisti durante il famoso
sciopero del 1920. In forza di questo patto i nostri piccoli ottennero liberta di lavoro. ...... . dai grandi! ‖
Nelle righe successive il parroco commenta i fatti e rivela di scrivere a posteriori rammaricandosi
dell‘ascesa del potere del fascismo causata, a suo dire, da posizioni intransigenti del socialismo
negli anni del dopoguerra al ritorno dei soldati dal fronte da ricollocare al lavoro. Denomina il
fascismo ‖arma micidiale in mano ai ricchi" che giudica in modo dispregiativo:
‖I socialisti se avessero avuto un po' di motivazione nelle esigenze. ed avessero rispettato la religione
avrebbero potuto trionfare. — invece con la loro prepotenza, con l’esigere ciò che era contro giustizia e col
combattere la religione fecero nascere la reazione fascista che ora imperversa in tutta Italia, fece il colpo di
stato in settembre 1922 e attualmente il fascismo e l'arma micidiale in mano ai ricchi per far tutte le loro
vendette contro i socialisti e contro i popolari, dopo di essere stati da questi protetti dalle angherie di quelli e
poi nulla offesi nei loro giusti diritti. Questa é la gratitudine degli uomini e specialmente dei potenti! "
Nel 1919 Don Sturzo dà avvio al Partito Popolare Italiano che costituirà preciso punto di
riferimento politico per i cattolici. Politicamente autonomi dalla Chiesa i Popolari intendono
opporsi alla minaccia bolscevica affermando i principi cristiani nell'organizzazione sociale.
Nelle elezioni 1919 – 20 - salirono al potere i popolari , la minoranza tornò ai socialisti ; i liberali
agrari non ebbero neppure il coraggio di presentarsi . Adesso dopo tre anni , mediante la reazione
fascista - agraria tentano di abbattere con la violenza l‘amministrazione popolare per insediarsi
loro. Vedremo ! La grande maggioranza sarebbe per i popolari , se ci fosse libertà di voto nelle
prossime elezioni provinciali. In realtà stavano a andare il 27 corr . maggio 1923‖
Ecco come Don Sante registra la crisi dei liberali, che avevano dominato la scena politica fino a
pochi anni prima, a vantaggio dei Popolari che in breve costituiscono una rete organizzativa.
‖Nelle elezioni del 1919 — 20 salivano al potere i popolari, la minoranza toccò ai socialisti, i liberali non
ebbero neppure il coraggio di presentarsi adesso dopo tre anni, mediante la reazione fascista agraria tentano
di abbattere con la violenza l’amministrazione popolare per insediarsi loro. Vedremo! In grande maggioranza
sarebbe per i popolari, se ci fosse liberta di voto nella prossima elezioni provinciali. In realtà stavano a
andare il 27... maggio 1923‖
Don Sante mette in risalto la non libertà di voto nel regime fascista; il grande sforzo delle
popolazioni agricole di classe media per cooperare migliorando le condizioni di vita era vanificato.
Questa è la gratitudine degli uomini e specialmente dei potenti.
MINERBE RICORDA LA GUERRA
Per ricordare la prima guerra mondiale a Minerbe sono tate dedicate la piazza e dodici vie, esse
sono:
Piazza 4 Novembre, Via Cavalieri di Vittorio Veneto, Via Ragazzi del ’99, Via Cesare Battisti,
Via Trento, Via Trieste, Via Pasubio, Via degli Alpini, Via dell’Aviere, Via del Bersagliere, Via
del granatiere, Via del Fante, Via dell’Artigliere, ultimamente anche Via dei Lagunari.