Storie di altri Viaggi... di Stefano Mantero
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Transcript of Storie di altri Viaggi... di Stefano Mantero
Stefano Mantero
STORIE DI ALTRI VIAGGI...
Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone. John Steinbeck, Viaggio con Charley, 1962
Questo libro è per:
Margherita Isola, per noi era solo Ghita, una ragazza di cinquantacinque anni e ora che ci ha lasciato, ci sentiamo tutti più soli!
Bruna Tizzoni era la mia mamma e a dispetto del tempo che passava, la sua incontenibile vitalità l’ha mantenuta giovane fino in fondo... Con gli occhi tracciati sul viso come un orizzonte azzurro, è la luce che ci rimane e che ci consola un pochino...
"Il viaggio dentro la testa”. Dal mio quarto piano sull'infinito, nella plausibile intimità
della sera che sopraggiunge, a una finestra che da sull'inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l'accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili. Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine
Prefazione
Esperienze, introspezione, intersoggettività invadono le storie di questo viaggio che Stefano Mantero ci racconta con i scintillanti colori delle sue emozioni e con la leggerezza del suo linguaggio. Quanti ricordi, quanti sogni, quante intense sensazioni, di mondi compositi e diversi, di culture, di razze, di religioni, di odori, di pane, di pesci, di ombre, di giovani donne. Un treno, un susseguirsi di compagni di viaggio, un intreccio di legami e di storie con il loro bagaglio di risate e di tristezza, nel gioco della vita, della speranza, del prima e del dopo. Un travolgente flusso di ricordi, di piccoli ma straordinari attimi di vita, di incontri, di luci, di colori, di una finestra aperta su altri mondi e altri viaggi. Le esperienze e i sogni si confondono, si intrecciano, si trasformano in modo sempre dinamico e mutabile, mai pietrificato, in ogni specifica relazione che viene raccontata e riconosciuta nei suoi orizzonti di senso, di contraddizioni, di inquiete intuizioni sul mondo della mente e sulla condizione umana nel suo cangiante apparire. Trasportati in questo viaggio si ci confronta direttamente con l’autenticità, con la credibilità, con la soggettività-obbiettività di ricordi che vengono declinati nella dimensione di un movimento, tra interno ed esterno, in una esistenza esposta al dolore, riemersa dalla sofferenza, ricostruitasi attraverso le interazioni con l’altro. Un viaggio per comprendere lo stato emotivo dell’altro, per fare propria l’esperienza dell’altro, per accogliere la diversità dell’altro, per crescere e divenire nell’incontro con l’altro, per accendere la scintilla che apre il nostro piccolo mondo alla relazione con l’altro. Stefano Mantero scruta tutto con esattezza e fedeltà, approfondisce ogni dettaglio per non trovare solo ciò che già conosce, ciò che è palese, ma per scoprire e illuminare ciò che è più nascosto nelle tante contraddizioni e fragilità delle storie che ci racconta, nelle tante e originali relazioni interpersonali al fondo delle quali il nostro mondo psichico, nella sua solitudine, si apre allo scambio, al divenire, alla accoglienza, alla diversità. Un libro in divenire, un libro in viaggio, che nel confronto con il lettore si arricchirà di nuovi incontri, di nuove storie, di nuova vita.
Tullio Bandini
Prologo
Niente saluti per questa partenza, un fatto che mi dona una piacevole sensazione di
rilassatezza che nasce dal non dovermi sottoporre a quella pantomima che è il rituale degli
addii. Nessuno che si raccomanda, che si commuove o che tenta di condensare in dodici
secondi ciò che avrebbe potuto comodamente dire nelle ore precedenti: sono beatamente solo
e, fatto ancora più rilevante, è che sono arrivato in stazione con un conveniente anticipo.
Ho ancora gli incubi se ripenso a tutte le volte che io e mia moglie Cinzia, in abissale ritardo,
tentavamo di farci largo fra la folla ignara, a colpi di bastone bianco, inseguiti da un addetto
del servizio assistenza disabili, che, ansimando e bestemmiando come un maledetto,
trasportava i nostri pesantissimi bagagli. Anche l'argomento valigie mi suscita un brivido
lungo la schiena e su questo preferisco esercitare un conveniente riserbo. Ciò che tuttora mi
pare incredibile, è che, sebbene saltassimo sul treno mentre si stava già muovendo, non ne
avevamo perso neppure uno.
Ho preso posto accanto al finestrino di un confortevole scompartimento per sei persone; ora
che il convoglio è in procinto di partire, indugio nell'attesa trepidante della spinta inerziale, di
quello scossone riconosciuto unanimemente come il principio di tutti i viaggi su rotaie.
Immagino che oltre il vetro la sera scenda rapidamente, come se nel cielo calasse un sipario
scuro, e che lunghe ombre cupe si allungassero avviluppando la stazione e la strada ferrata. Il treno principia a muoversi e dopo pochi istanti esce dalla stazione, procedendo con ritmo
regolare. Sarebbe stata una lunga notte a bordo di quel treno; una notte che significava ritorno
e... solitamente per me il ritorno è la parte più rassicurante del viaggio. Mi figuro la mia
immagine nel riflesso che l'ombra della sera comincia a creare sul vetro del finestrino. Quale
faccia potrei avere davvero ora che ho superato i cinquant’anni?
Oltre la lastra scorrono ampi scorci, prati spellati, strade polverose percorse da file di auto e
case di periferia sparse disordinatamente, con le finestre illuminate nel grigio imbrunire. Mi
domando: per loro, cosa siamo? Ossia, come appare il treno che fila incontro alla sera, per gli
automobilisti o per gli abitanti di quei palazzoni? Sorrido all'immagine che mi rimbalza
fulminea nella mente: una sfilata sferragliante di rettangoli luminosi dietro i quali si celano
volti annoiati e sguardi distratti. Due facce dello stesso mondo che si sfiorano a mala pena e
che si limitano a lanciarsi una fugace e malaccorta occhiata, prive di qualunque desiderio di
comprendere il punto di vista dell’altro. Sono certo che io avrei divorato ogni cosa con gli
occhi, non avrei perso neppure il più piccolo e insignificante particolare. Appiattendo il naso
contro il vetro e con sguardo febbrile mi sarei goduto ogni immagine che mi scorreva
dinnanzi, consapevole dell'irripetibilità di quello spettacolo. Se vedessi farei proprio così! No,
non lo farei perché di quei prati spellati, di quelle strade incipriate dalle polveri sottili e di
quelle casone tristi ed incolori non me ne frega un cazzo e poi, perché ogni volta che salgo
sopra un treno dopo dodici secondi sprofondo in un sonno torpido e costante! Sorrido con
gusto, mi diverto un mondo a cogliermi in fallo a commiserarmi, perché mi piace evitare di
raccontarmi delle balle pietose: almeno un poco di sincerità con se stessi, no?
Capitolo primo
Il mio gomito scivola continuamente dal bordo del finestrino risvegliandomi ogni volta. La
porta si apre di colpo, provocandomi l'ennesimo sobbalzo, alcuni secondi di immota
suspense, poi, passi, due soli, ma decisi verso l'interno dello scompartimento. Il rumore di
alcuni oggetti posati sulla reticella, quindi la nuova venuta si lascia andare sul sedile davanti
al mio, con un sospiro di sollievo. Comprendo che si tratta di una lei dal rumore dei tacchi; è
vero che ha fatto solo due passi ma il mio udito è allenato da anni di esperienza. Ne ho subito
conferma, perché mi rivolge un saluto garbato, poi tossicchia indecisa se intraprendere o
meno una conversazione.
Si decide, perché dice con un vago sorriso che le increspa le labbra: "Bene, qui c'è un
gradevole tepore, sul marciapiede cominciavo a sentire freddo, ma forse si trattava
dell'umidità della sera”. La frase è detta senz'altro per rompere il ghiaccio, ma mi da modo di
avvertire nel suo italiano, per altro corretto, una piacevole nota esotica.
Le domando, con la medesima cortesia: "Mi pare di cogliere nel suo accento una inflessione
che mi fa venire in mente il portoghese o meglio ancora il brasiliano.”
Ride di gusto e dice: "Perbacco che orecchio! In effetti sono brasiliana ma ho vissuto in Italia
per più di trent'anni e credevo che oramai la mia cadenza fosse sbiadita. Forse, visto che sono
tornata a vivere in Brasile da qualche mese, è normale che si faccia nuovamente sentire”.
Rimaniamo in silenzio per diversi minuti, si ode chiaramente il ritmico procedere del
convoglio e dall'esterno, arrivano zaffate di olio bruciato, odore di polvere e di latrina.
Arriccio il naso sperando che quella mistura di sgradevoli olezzi, non diventi
l'accompagnamento olfattivo di tutto il viaggio.
Sono maledettamente curioso e non riesco a trattenermi: "Come mai ha lasciato l'Italia?",
domando con aria non curante.
"Beh! circa un anno fa è mancato mio marito", si interrompe per alcuni momenti, quindi
riprende: "Alla fine ho seguito il consiglio di mia sorella, che è rimasta in Brasile, ho venduto
la mia casa qui e ne ho acquistata una nella città dove sono nata”.
Non faccio ancora domande, come vorrei, mi appello a quella strana alchimia per la quale si
tende a raccontare a perfetti estranei, fatti che si stenterebbe a narrare perfino a un famigliare.
Io non sono immune da questo bizzarro fenomeno e dopo pochi attimi di attesa mi rendo
conto che non lo è neppure lei, perché prosegue: "Con i soldi che ho realizzato con la vendita
della mia casa italiana, ho acquistato in Brasile una palazzina di vari appartamenti.
Naturalmente uno l’ho tenuto per me; gli altri li ho affittati garantendomi una rendita che mi
permette di vivere senza problemi economici”.
Sono affascinato dalla sua voce che racconta, riesce a esprimere attraverso il suono delle
parole, emozioni intense. Mi accomodo meglio sul sedile, voglio gustarmi la sua storia fino
all'ultima sillaba.
"Dietro casa mia c'è un grande vivaio che commercia sia in piante da fiori che da frutto. In un
angolo di quello che dall'alto appare come un vero e proprio giardino, in una piccola baracca
vive un pover'uomo con i suoi due cani”.
Si interrompe, distratta da un trambusto che giunge dal corridoio.
Ciò che vede non sembra interessarla più di tanto perché riprende: "Sì, un pover'uomo
perché il signor Machado investe la sua magra pensione in quantità considerevoli di
aguardiente, senza però far mancare mai nulla ai suoi due amici. Capita sovente che di
ritorno dall'osteria, malfermo sulle gambe, finisca disteso a terra privo di sensi o
addormentato. Tigrinha e Tigrinho, come se ubbidissero a un ordine, si posizionano una dalla
testa e l'altro dai piedi di Machado e lo sorvegliano con paziente attenzione. Io vedo tutto
dalla mia finestra e mi preoccupo; in quella zona dello stato del Paranà, fa parecchio freddo la
sera e per un uomo anziano, rimanere a terra tante ore potrebbe essere fatale. Allora scendo in
strada e tento faticosamente di convincerlo ad alzarsi e tornare nella sua baracca. È una vera
lotta perché lui non vuole essere richiamato alla realtà per nessun motivo. Là dov'è ci sta
benissimo e non ha bisogno di niente e di nessuno" e termina la frase con una risata di
giovane che è contagiosa.
"Ah, caro mio", riprende sempre sorridendo: "dovrebbe sentirlo quel vecchio ubriacone che
bestemmie e che oscenità riesce a vomitare, ma io niente, continuo a perseguitarlo con i miei
appelli, con i cani che mi guardano interrogativi. Beh, accidenti, alla fine riesco a farlo alzare
e una volta in piedi, barcolla fino alla baracca”.
Si acciglia e la sua voce diviene seria: "Beh, mai una volta che mi abbia ringraziato, lo rivedo
l'indomani e mi saluta educatamente, mai in nessuna occasione mi ha detto anche solamente:
“Grazie Marta per ieri sera”.
"Può darsi che Machado si vergognasse" obbietto "o forse semplicemente non si ricordava
niente"
Lei mi interrompe ricominciando nuovamente a raccontare. È un fiume in piena: "Lì attorno
abbiamo adottato un po' tutti, i cani di Machado, sono due bestiole così affettuose e dolci,
sono diventate ben presto i beniamini del quartiere”.
La interrompo chiedendo: "Di che razza sono i cani?”
"Beh, sono cani, semplicemente", risponde con una briciola di fastidio nella voce, poi
aggiunge: "Pensi che quando vado in città per commissioni, mi seguono come se volessero
scortarmi. Io li lascio venire con me fino a un certo punto, poi però diventa troppo pericoloso
per loro, a causa del traffico e della gente e cerco con ogni mezzo di convincerli a tornare
indietro. I miei sforzi sono spesso inutili e i cani rimangono seduti a osservarmi senza
comprendere. Una volta, una delle tante, ero vicina a un ufficio postale, e mi appellavo inutilmente alle
bestiole affinché si decidessero a riprendere la strada di casa. Un tale, un uomo corpulento
con un grosso pacco sotto braccio, osservava i miei tentativi. A un certo punto, con aria di
disapprovazione, mi apostrofò: "Senta lei, mi tenga questo pacco e le faccio vedere io come si
fa".
"Nooo, esclamai, non voglio assolutamente che lei faccia male a quei cani!”
“Naah, donna " fece lui " tenga il pacco e osservi.”
“Beh, quel tale si mise a gridare come un pazzo: "Voi due bastardi pulciosi e figli di puttana,
filate a casa se no vi prendo a calci nel culo!"
“Forse lei non mi crederà, ma i due cani fecero velocemente dietro front e filarono via come
due indemoniati”.
Ci mettiamo a ridere di gusto, con la complicità che la sua storia offriva:
"Poi il tale rivolle il suo pacco e mi disse: "Lei è proprio una donna senza nerbo.”
“Mi offesi, ma da quella volta, quando i cani mi seguivano e dovevo rimandarli indietro,
attendevo che la strada fosse deserta e che nessuno potesse sentire e anche io mi mettevo a
sbraitare: voi due bastardi pulciosi!”
"Ma funzionava davvero?”
"Sempre, forse era il tono che li convinceva, però mi guardavano per un attimo sorpresi e poi
correvano via”.
Rido divertito di quella storia, mentre nella mia mente si compone l'immagine dei due cani
che corrono appaiati nelle strade di quella città brasiliana e lei pare compiaciuta della mia
ilarità.
“S'incontrano strani personaggi nello stato del Paranà, basterebbe iniziare a parlare del mio
bisnonno. In gioventù faceva il grassatore di bestiame . Si racconta che una volta, lui e certi
suoi amici, fossero riusciti a rubare una grossa mandria oltre il fiume che separa il Brasile
dall'Argentina e avrebbero dovuto far guadare il corso d'acqua a tutti gli animali. Furono
inseguiti a lungo dai carabineros, che continuarono a sparare loro durante tutta la traversata.
Una volta in salvo sulla riva brasiliana, il mio avo si calò i pantaloni e mostrò loro il
posteriore. Quel colpo gli fruttò parecchi soldi, e consentì una vita agiata a lui e ai suoi
discendenti diretti”.
Vorrei ascoltarla tutta la notte, è divertente. Riesce a dare colore alle storie con la sua voce
morbida e piena.
Lei, si volta improvvisamente verso il finestrino: "Dove siamo?" chiede a mezza voce."Oh,
mio Dio, la prossima è la mia fermata!”.
Si alza speditamente e armeggia con la reticella. Aprendo la porta dello scompartimento
afferma frettolosamente: "Beh, grazie per la bella compagnia! ci rivediamo!" e chiude la
porta sulle mie parole, che l'avrebbero rallentata. Io ci rimango male, assalito da una molesta
sensazione di sconforto, perché è andata via in un attimo, senza che potessi salutarla ed
esprimerle la mia gratitudine.