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STORIA DI IMPRESA Appunti A cura di Stefania Aiello

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STORIA DI IMPRESA

Appunti

A cura di Stefania Aiello

MODULO A

Programma

Si può parlare di imprenditore anche nell‟epoca preindustriale (addirittura vi è

qualche cenno anche durante il medioevo).

Nella storia si comincia ad avere un pensiero economico quando emerge la definizione

di imprenditore: di tale definizione vi sono due concezioni diverse tra la Gran Bretagna

e l‟Europa continentale.

La storia d’impresa nasce e si afferma negli USA dagli anni ‟40 in poi.

Nella storia bisogna analizzare il concetto d’impresa.

E‟ importante una classificazione delle imprese per forma e dimensione

(classificazione più ampia).

Il contesto normativo, culturale-sociale, in rapporto con lo Stato e nei rapporti

internazionali influenza la forma d‟impresa.

Lo studio dei casi aziendali nella storia.

Si può parlare del concetto d‟imprenditore già in epoca preindustriale, tenendo in

considerazione: le aziende agricole, le quali operano nel settore primario e che producono non

solo mirando a un autoconsumo, ma si rivolgono anche al mercato; i mercanti e le compagnie

mercantili già presenti in epoca medievale; i mercanti-imprenditori la quale prevede una

forma di organizzazione imprenditoriale.

Industria rurale a domicilio: ha provenienza cittadina, pur svolgendosi in campagna, e l‟acquisto

di materie prime, prevalentemente tessili, avviene sempre in ambito cittadino, al fine di

impiegare tali fattori in campagna, facendoli lavorare alle famiglie contadine. Tali prodotti

finiti venivano poi venduti sul mercato. Questa attività si è sviluppata in età preindustriale allo

scopo di ridurre i costi di produzione per meglio competere sul mercato rispetto alle

corporazioni poiché ci si rivolge a una manodopera non specializzata a salario basso. Tali

industrie sono state diffuse per tutto l‟800.

Compagnie commerciali per commercio transatlantico: sono le cosiddette società anonime

dell’epoca preindustriale, come ad es. la Compagnia delle Indie Orientali.

Attività bancaria privata → mercanti-banchieri: hanno origine medievale e si sviluppano in

pieno regime tra la fine dell‟800 e l‟inizio del „900 (= epoca preindustriale).

Contesto ambientale delle suddette imprese storiche in epoca preindustriale e in epoca

contemporanea

L‟epoca preindustriale è caratterizzata da forte incertezza e di maggior rischio d’impresa.

L‟età moderna (durante la rivoluzione industriale), rispetto all‟epoca contemporanea, si

caratterizza per un‟attività agricola in balìa delle condizioni climatiche (ancora oggi il rischio è

elevato) fondata sulla rotazione biennale (una semina e un raccolto all‟anno) o al massimo

triennale. Anche i mercanti hanno il rischio di vendere i loro prodotti su piazze lontane,

caratterizzati da un ambiente in cui le informazioni non sono sufficienti, così facendo si

operava “al buio”. Mentre l‟artigianato era mercato in cui la domanda di beni (soprattutto per

quanto riguarda quella non di prima necessità, i beni di lusso) era molto variabile, cosicché si

trattava di un‟attività produttiva legata a fattori non controllabili. Ancora in tutti i settori vi

erano dei forti vincoli (soprattutto in epoca medievale, ma anche in tempi successivi) in merito

alla mobilità dei fattori produttivi (= terra, capitale, lavoro). Soprattutto il sistema feudale

(ma vi sono strascichi anche in epoca moderna) era caratterizzato da un‟ereditarietà nei

confronti del primogenito maschio, era un sistema molto rigido in cui difficilmente il contadino

poteva permettersi di acquistare la terra, nonostante il suo guadagno. Tutto cambia in età

contemporanea, dominata dal capitalismo, caratterizzata da tali fattori:

mercato;

impiego di macchinari complessi, in cui prevale la macchina sull‟uomo: erano quindi

necessari maggiori investimento in capitale fisso, e tale capitale proveniva

principalmente mediante autofinanziamento, ricorso al mercato del credito (sistema

bancario) e al ricorso al capitale di rischio (borsa).

Così nascono diversi modelli d‟impresa, tutto in conseguenza all‟industrializzazione. L‟epoca

preindustriale, man mano che ci si avvicina alla rivoluzione industriale (1492 – rivoluzione

industriale, che scoppio in Inghilterra nel „700) è caratterizzata dalla convivenza di elementi

tipici riguardanti l‟economia capitalistica ed elementi arretrati tipici del feudalesimo

(elementi tradizionali + elementi innovativi). Per tutta l‟epoca preindustriale lo status

giuridico-sociale degli individui ha un ruolo importante, che prevale rispetto alla reale

condizione economica → stratificazione sociale: essa è basata sui titoli nobiliari, l‟aspetto

economico ha una valenza diversa.

Vi sono due studiosi che hanno studiato in particolare il passaggio dall‟epoca moderna a quella

contemporanea, e sono Karl Marx e Adam Smith, il primo ha anche studiato il passaggio

dall‟epoca feudale a quella moderna).

In particolare Karl Marx visse in Germania nell‟800 e spiega tale passaggio con il variare dei

rapporti di produzione, ossia sostiene che la causa del passaggio sia insita in una conflittualità

tra titolari dei fattori produttivi. Quando, infatti, sorge un conflitto tra capitale, terra e

lavoro (ossia tra capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori) cambia anche l‟equilibrio, ad es.

il feudalesimo finisce quando vi è un conflitto tra proprietari terrieri e i contadini, e tale

conflitto sorge alla nascita della borghesia, mentre il passaggio dall‟epoca moderna a quella

contemporanea è caratterizzata da un conflitto tra lavoratori e capitalisti, a quest‟ultimo

conflitto coincide la nascita del proletariato (= classe operaia), infatti.

Adam Smith è stato il fondatore della scuola classica scozzese, ed è vissuto in Inghilterra nel

„700. E‟ stato anche l‟ideatore della cosiddetta mano invisibile,teoria che si basava sul non

intervento dello Stato nell‟economia (il mercantilismo, al contrario, era caratterizzato da un

forte intervento statale). Smith spiegò il passaggio dall‟epoca moderna a quella contemporanea

con l‟espansione degli scambi commerciali, motivandola col fatto che la crescita comporti una

migliore allocazione delle risorse: tutto ciò è causato dall‟innovazione tecnologica,la quale

comporta una più efficiente divisione del lavoro → allargamento del mercato. In sostanza tale

studioso sostiene che sia necessario che il mercato si autoregoli senza alcuno intervento da

parte dello Stato: è una visione di versa da Marx. Tra le attività prevalenti in epoca preindustriale, vi sono sicuramente le aziende agrarie, le

quali implicano un legame tra le attività produttive e il mercato a cui si rivolgono. Tale legame

non era, però, così scontato come lo è ai nostri giorni, ma vi erano tre livelli di contatto col

mercato:

I livello: è quello più rudimentale, l‟obiettivo primario del contadino era quello di

produrre prevalentemente per autoconsumo (la % di autoconsumo definisce il grado di

commercializzazione, il livello di rapporto col mercato; l‟azienda contadina chiusa al

100% non esisteva, magari si fondava sul baratto e quindi si apriva allo stesso

mercato);

II livello: erano le aziende contadine che instauravano rapporti col mercato più

numerosi rispetto a quelle di I livello al fine di pagare il canone di locazione della

terra (in caso i contadini non fossero stati i proprietari di essa) o l‟imposta fondiaria

(in caso fossero proprietari di questa);

III livello: si trattava di aziende contadine che si rivolgevano al mercato anche per

acquistare altri prodotti. Le conseguenze di ciò:

la specializzazione della propria produzione: l‟impresa produceva esclusivamente

ciò che le rendeva di più, acquistando sul mercato gli altri beni di prima

necessità;

le campagne diventavano così importante mercato di sbocco, non più confinato

solo in città.

La conseguenza di una variazione dei prezzi su un‟azienda agricola era devastante, e ciò ai

tempi accadeva di frequente. L‟aumento (= inflazione) poteva derivare da una crisi agraria, un

crollo della produzione o a una carestia. Sulle aziende agrarie di III livello addirittura tale

aumento comporta degli effetti positivi, poiché esse aumentano i profitti grazie a tale

situazione. Mentre per le imprese di I e di II livello nascevano delle situazioni di difficoltà, a

causa dell‟impiego di tecniche rudimentali di lavorazione, e quindi non solo non si producono

nuovi guadagni, ma si generano delle spese più elevate per gli acquisti dei beni di prima

necessità. Spesso tale brutta situazione portava addirittura alla vendita dell‟appezzamento di

terra (→ rischio ambientale altissimo).

Il concetto di imprenditore attualmente è contenuto all‟interno dell‟art. 2082 c.c., il quale

enuncia che imprenditore è colui che esercita un‟attività economica organizzata al fine della

produzione e dello scambio di beni/di servizi. Tale definizione è stata utilizzata a partire del

1942, la quale ha sostituito quella del 1882 prevista dal codice di commercio, a sua volta

ripresa da quella del 1802 contenuta nel codice napoleonico. Nella norma del codice di

commercio non si parlava di imprenditore, ma di commerciante; nel corso del tempo il

concetto di imprenditore si è esteso, mentre la figura del commerciante è andata a coincidere

con quella del capitalista dell‟economia classica, il quale era considerato una figura

ininfluente, poiché il mercato raggiungeva automaticamente una posizione di equilibrio. Tale

situazione viene definita concorrenza perfetta, ed è caratterizzata dal fatto che nessun

attore è in grado di influenzare le condizioni del mercato. Si credeva che i fattori produttivi

si combinassero automaticamente in tale regime e che l‟attore principale fosse il mercante. Gli

economisti così non si interessano a fornire una definizione di imprenditore.

Ancora oggi si fatica a spiegare il ruolo dell’imprenditore in funzione dello sviluppo economico

(= quanto egli può influenzare il mercato). Vi sono diverse teorie in proposito che sono

contrapposte tra loro. Prima della rivoluzione industriale i tentativi di individuare delle

definizioni di imprenditore sono pochi. Con la prima rivoluzione industriale, si inizia a

individuare la figura dell‟imprenditore come il capitalista (= colui che investe e coordina i

fattori produttivi). Con la seconda rivoluzione industriale, e quindi con l‟affermazione delle

grandi fabbriche, aumenta in maniera esponenziale il ruolo della ricerca scientifica e gli

investimenti in capitale fisso: così viene definita la grande impresa che attira l‟attenzione

degli studiosi poiché riguarda una produzione particolare, la quale prevede una scissione tra

investitori e gestori dell‟impresa. In pratica emerge la grande impresa manageriale. Con la

terza rivoluzione industriale, alla fine del „900 si diffonde la nuova tecnologia di informazione

e comunicazione alla quale succedono nuovi comportamenti da parte delle imprese e nuove

forme di esse: la grande impresa manageriale è superata. Le imprese sono più flessibile e

nasce un nuovo imprenditore a causa del cambiamento del mercato.

Nella storia nascono due filoni per definire l‟imprenditore: la tradizione continentale (=

Europa continentale) e la tradizione anglosassone:

Tradizione continentale

1200-1300/fine‟800

Tradizione anglosassone

Nell‟economia europea vi era spazio per

l‟iniziativa e la creatività dei singoli soggetti,

i quali sono in grado di cambiare gli equilibri

di mercato.

La concezione oggettiva del funzionamento

del sistema economico non prevede che venga

lasciato spazio per l‟analisi dei comportamenti

individuali: il mercato è influenzato solamente

da variabili macroeconomiche.

Tradizione continentale

Negli anni 1200-1300 vi è lo sviluppo delle attività mercantili, le quali fanno in modo che il

profitto del mercante sia la necessaria remunerazione del rischio corso per gli investimenti di

capitale da parte dello stesso. Molti intellettuali (ma anche molti mercanti stessi) redigevano

dei trattati contenenti le regole dell‟attività mercantili, in particolare sulle quotazioni delle

monete, sul sistema dei cambi, pesi e misure, ecc.. Essi erano considerati e utilizzati come dei

veri e propri manuali d‟istruzione, i quali legittimavano la figura dell‟imprenditore (anche se

esso non viene mai nominato, ma si parla di negozianti e mercanti), in modo che tale rimanesse

un concetto intrinseco. La situazione rimane tale per molto tempo. Il primo autore che

introduce il termine imprenditore è stato un banchiere francese di origine irlandese Richard Cantillon tra la fine del‟600 e l‟inizio del „700. Parlò nella sua unica opera (pubblicata postuma,

dopo la sua morte) del 1755 denominata “Saggio sulla natura del commercio in generale”, di

imprenditore, paragonandolo e denominandolo commerciante. Il termine entrepreneur (=

imprenditore in francese) è coniato dallo stesso autore che definì come colui che cercava di

sfruttare la discrepanza tra domanda e offerta → il vero organizzatore di ciò che produceva

(funzione organizzativa dell’imprenditore). Egli fa un passo in avanti, ma si rivolgeva

pressoché esclusivamente a coloro i quali lavoravano la terra in affitto (= fittavoli) per un

periodo di tempo determinato. Durante la seconda metà del „700 e i l‟inizio dell‟800 Nicolas Baudeau, studioso francese (1730-1792) era appartenente alla scuola dei fisiocratici: la

scienza fisiocratica è una teoria economica che si sviluppa in Francia contemporaneamente a

quella classica, secondo la quale l‟unico settore economico in grado di fornire ricchezza è

quello primario, ossia quello agricolo. Egli individua la figura dell‟imprenditore e capisce che è

diverso sia dal proprietario che dalla manodopera salariata, ma lo circoscrive sempre e solo al

settore primario. Definisce l‟imprenditore come colui che è in grado di incrementare,

attraverso le proprie scelte, la ricchezza della terra (riducendo i costi e aumentando i

profitti). Egli inoltre riesce a migliorare tale attività apportando migliorie, ma per fare ciò

corre anche dei rischi. Quindi Baudeau considera anche l‟aspetto innovativo, ma rimane

ancora improntato sul settore primario. Tra il „700 e l‟800 un altro studioso formula

importanti teoria: Melchiorre Gioia, è un politico piacentino seguace della scuola classica.

Individua l‟imprenditore come un agente intermedio tra i proprietari (i capitalisti) e la

manodopera salariata (gli operai). Durante il periodo tra il „700 e l‟800 (periodo molto

importante) un economista e industriale francese (l‟economia ai tempi non era ancora una vera

e propria disciplina economica, ma è caratterizzata dal fatto che delle persone scrivano dei

trattati in merito per passione della materia) Jean Baptiste Say (1767-1832) scrive un

trattato di economia politica (1803) nel quale introduce un concetto di utilità, come

elemento che determina il valore di un bene, piuttosto che il suo costo. La figura

dell‟imprenditore è distinta tra quella del capitalista e quella del salariato, ed è considerato

l‟agente principale della produzione,avente capacità organizzative, per sovraintendere,

dirigere e controllare la produzione (= capacità di combinare i fattori produttivi). E‟ esponente

della teoria classica, e quindi il contesto in cui studia è un contesto statico (equilibrio

autonomo del mercato, tra domanda e offerta), in cui l‟imprenditore non è in grado di

influenzare il mercato. Il binomio tra concetto d‟imprenditore e ambiente dinamico (equilibrio

dinamico del mercato (in cui l‟imprenditore è in grado di influenzarlo) si sviluppa solo alla fine

dell‟800 con Shumpeter.

Tradizione anglosassone

Il massimo esponente della teoria classica è stato Adam Smith, inseguito da seguaci. Nella

tradizione anglosassone la figura dell‟imprenditore viene trascurata fino alla lasefconda metà

dell‟800. Lo stesso Smith nella sua “Opera per la Ricchezza delle Nazioni” ignora la figura

dell‟imprenditore, ma distingue tra fornitura del capitale e organizzazione dei fattori

produttivi, anche se poi le identifica in capo a un unico soggetto. Tale formulazione di teoria

deriva dal fatto di situazione del contesto. Infatti in quel periodo l‟Inghilterra comincia a

industrializzarsi mediante l‟impiantazione di fabbriche di modeste dimensioni a livello

familiare, se non addirittura individuale, in cui il capitalista e l‟organizzatore della produzione

coincidono. Così facendo Smith non si poneva il problema dell‟imprenditore che non coincide

con la figura del capitalista. Ancora il settore bancario (mercato del credito) si è sviluppato

poco, cosicché difficilmente può nascere tale figura imprenditoriale, le fabbriche si

autofinanziano e sono per lo più imprese monofunzionali in cui:

proprietario = manager = capitalista.

David Ricardo è uno dei seguaci di Smith (1772-1803) che prosegue la sua linea anche se in

realtà aveva studiato Jean Baptiste Say senza però recepirne la teoria. Il parere di Ricardo

riguarda il raggiungimento automatico dell‟equilibrio tralasciando completamente

l‟imprenditore. A metà dell‟800 John Stewart Mill pubblica un‟opera, in un paese che però è

estremamente industrializzato, caratterizzato dalla costruzione delle ferrovie (railway

mania) tramite investimenti privati di capitale in cui non vi sono più le piccole imprese che si

autofinanziano, ma nascono le prime grandi imprese, in cui per forza di cose l‟imprenditore è

diverso dal capitalista. Nasce così l‟impresa manageriale e quindi la funzione manageriale.

Mill coglie questo cambiamento e usa il termine entrepreneur senza tradurlo dal francese,

classificandolo come un dirigente stipendiato (salariato), comunque senza dargli una grande

connotazione, rimanendo così nel regime classico. Egli gli dà una connotazione negativa poiché

sostiene che il suo interesse sia derivato esclusivamente dalla percezione di un salario e non a

una efficiente combinazione dei fattori produttivi.

Karl Marx è vissuto nell‟800 (1818-1883) e ha scritto diverse opere tra cui “Il Capitale”: nel

libro terzo di tale opera si allinea abbastanza al pensiero di Mill, addirittura sembra quasi

andare oltre. Infatti prevede che l‟imprenditore, rispetto al capitalista, abbia un ruolo

autonomo, ma lo descrive come un funzionario, il quale percepisce un salario di controllo, che

risulta più elevato rispetto a quello di un operaio, poiché egli all‟interno dell‟impresa ha una

funzione più complessa, ricadendo sempre, però nello schema classico.

Tradizione continentale (Italia, Francia e Svizzera)

Durante gli ultimi decenni dell‟800 (II rivoluzione industriale) la situazione cambia rispetto a

prima, si ribalta perché rispetto a prima la figura dell‟imprenditore viene completamente

accantonato non considerandola come un fattore produttivo.

Leo Walras è uno studioso appartenente alla scuola marginalistica neoclassica diffusasi a

partire dalla seconda metà del „600 che basa tutto sull‟utilità marginale decrescente, per la

quale al crescere del consumo di un determinato bene, l‟unità marginale decresce. Tale teoria

giunge dopo la teoria classica e propone la teoria dell’equilibrio economico generale, in cui le

forze (gli operatori economici: le imprese ↔ i consumatori) che agiscono in un sistema

economico sono tali e in una determinata posizione la quale permette di sollecitare lo stesso

operatore a mutare le proprie scelte. Per meglio capire occorre variare la quantità dei fattori

produttivi impiegati da parte delle imprese o a variare le quantità acquistate di beni da parte

dei consumatori. Il mercato è in equilibrio, ma non può far nulla per influenzare il mercato.

Vilfredo Pareto è uno studioso nato in Francia e vissuto in Italia. Egli aggiunge il concetto di

ottimo paretiano, il quale prevede che non sia possibile aumentare l‟utilità di un consumatore,

senza diminuirne l‟utilità di un altro. Il mercato raggiunge una posizione di equilibrio

automaticamente, non vi è nessuno spazio per iniziative imprenditoriali, infatti il mercato è già

nella posizione migliore possibile.

Sempre seguendo questo filone Alfred Marshall (vissuto tra la fine dell‟800 e l‟inizio del „900)

parla inoltre di equilibri parziali: per certi beni la funzione di domanda e offerta sono

indipendenti verso altri beni. In pratica non vi è un unico equilibrio, ma vi sono tanti

microequilibri per determinati beni. Lo spazio imprenditoriale comincia a essere remunerato

con una quota di profitti, ed è definito come colui che organizza (funzione organizzativa):ha

un ruolo rilevante e viene considerato dallo studioso come il quarto fattore

dell‟organizzazione, dopo il capitale, la terra e il lavoro. In sostanza si tratta di un nuovo

filone di studi sulla tecnica industriale esistente ancora oggi.

Tra la fine dell‟800 e l‟inizio del „900 si mette un po‟ da parte il concetto d‟imprenditore, ma in

realtà diversi studiosi analizzano la figura. Karl Menger faceva parte della scuola

marginalista, la quale prevede un‟attività marginale decrescente: l‟analisi economica non deve

basarsi su variabili di macroeconomia, ma sul comportamento degli agenti individuali:

consumatore e imprenditore.

Un passo in avanti viene fatto da Werner Sombart per quanto riguarda l‟imprenditore, e da

Joseph Shumpeter. Quest‟ultimo è lo studioso più importante del periodo; egli, nel corso della

sua vita, si trasferisce negli USA, cambiando completamente visione sull‟impresa e

sull‟imprenditore. Infatti la sua storia può essere suddivisa in due fasi:

I Shumpeter: quello vissuto in Europa;

II Shumpeter: quello vissuto in America.

Shumpeter è vissuto tra la fine dell‟800 e la metà del „900 (1883-1950), ed è il principale

teorico sul cambiamento del sistema economico. Egli ha un approccio dinamico alla visione del

mercato ed esce dalla concezione statica classica (la quale prevedeva che l‟impresa non

potesse fare nulla per influenzare il mercato) mettendo al centro il ruolo dell‟imprenditore: lo

sviluppo economico dipende soprattutto dalle innovazioni tecnologiche, secondo il suo punto di

vista, le quali vengono per l‟appunto introdotte dall‟imprenditore. Tale introduzione è

permessa dall‟accesso al credito, e viene stimolata da aspettative di profitto monopolistico

per un certo periodo: con tale profitto si remunerano i rischi:

tasso d’interesse;

saggio di profitto.

Entrambi derivano dalle innovazioni tecnologiche.

Analisi dinamica: I Shumpeter

L‟imprenditore è in grado di trasformare un invenzione in innovazione (= invenzione che viene

applicata al processo produttivo di produzione), considerando il fatto che spesso le invenzioni

possono rimanere fini a sé stesse. L‟aspettativa dell‟imprenditore è monopolistica, la quale

prevede extraprofitti. Comunque questo corre sempre un rischio, infatti le innovazioni non

sempre portano successo. Le innovazioni, comunque, sempre secono Shumpeter, si presentano

a grappolo, ossia da un‟innovazione ne nasce sempre un‟altra e via dicendo: tipico es. è la I

rivoluzione industriale con la filatura tessile. Lo studioso per verificare questa sua idea, risale

indietro nel tempo e studia i cicli economici di lungo periodo (lunghe Kondradiev) di durata di

circa mezzo secolo in cui vi è ad es. una fase A ascendente e una fase B discendente:

I ciclo: 1780-1840 (circa) caratterizzato da due importanti innovazioni tipiche della I

rivoluzione industriale del settore tessile e di quello metallurgico;

II ciclo: dal 1840 alla fine dell‟800, periodo a cavallo tra la I e la II rivoluzione

industriale, caratterizzata dalle ferrovie e in generale dal vapore per quanto riguarda

il settore dei trasporti;

III ciclo:dalla fine dell‟800 al 1940 nel periodo della II rivoluzione industriale, in cui la

più importante innovazione è rappresentata dall‟automobile, ma anche l‟industria

chimica e quella elettrica.

Questa serie di innovazioni genera, quindi un nuovo ciclo di sviluppo economico (da 50 a 150

anni: oggi i cicli economici trascorrono molto più velocemente, quindi durano meno). Ciò viene

dimostrato, secondo lo studioso, dagli eventi storici.

II Shumpeter

Riguarda il periodo in cui si trasferisce negli USA, e in cui studia all‟università di Harvard

(1932). In questa seconda fase è molto meno ottimista, perfino più isolato. Scrive un‟opera

intitolata “Capitalism, Socialism, Democracy” nel 1942: lo studioso è meno ottimista poiché lo

scenario diverso americano smonta un po‟ le sue teorie. Infatti esso è caratterizzato

dall‟affermazione del big business, in cui la vera protagonista è la grande impresa

manageriale e non più l‟imprenditore di Schumpeter, soprattutto l‟attore fondamentale del

sistema è il manager. Le innovazioni nascono sempre meno dalle iniziative imprenditoriali

singole ma diventa un fattore endogeno all‟impresa: infatti all‟interno di ogni organizzazione vi

è il settore dell‟attività di ricerca e sviluppo, e ancora a capo dell‟impresa non vi è più

l‟imprenditore individuale, ma i manager. In pratica cambia completamente l‟ottica, e il potere

è nelle mani della gerarchia manageriale. In collaborazione con altri studiosi, Shumpeter fonda

un‟organizzazione di ricerca sulla storia d‟impresa denominata “Research Center in

Entrepreneurial History”. All‟interno di tale fondazione vi anche Alfred Chandler, allievo di

Schumpeter, il noto studioso che riprese dal suo maestro la teoria secondo la quale al centro

dell‟analisi delle imprese non vi è più l‟imprenditore ma la grande impresa manageriale.

Altro studioso americano che si affianca alla linea del II Shumpeter è Frank Knight; egli, a tal

punto, si è soffermato di più sull‟innovazione, la quale secondo lui si concentra su:

il rischio: esso è qualcosa di misurabile e valutabile ex ante dall‟operatore economico

(imprenditore o impresa);

l‟incertezza:essa non è valutabile e non prevedibile è insita al verificarsi di situazioni

impossibili da prevedere.

Per valutare meglio i rischi l‟imprenditore deve essere capace di riuscirli a valutare in

situazioni di incertezza, deve cioè effettuare una valutazione preventiva: più è bravo a farlo e

più avrà successo.

La scuola neo-austriaca nasce a metà del „900 fino ai giorni nostri e segue la scuola di studi

appena analizzata ponendola sul versante europeo-continentale. Si concentra soprattutto

sull‟attenzione rispetto a ciò che accadrà in futuro. Gli studiosi che più si interessano sono ad

es. Friedrich von Hayek, Leopold von Mises e Israel Kirzner tutti vissuti tra la fine dell‟800 e

la fine del „900. Essi sostengono che l‟imprenditore deve essere in grado di valutare i prezzi

futuri a quale vendere e per quale ragione possono comportarsi di conseguenza. Quindi egli

devono acquistare i fattori produttivi in funzione del prezzo di vendita → previsione futura al

fine di fissare un prezzo di vendita equo anche in futuro.

In particolare Leopold von Mises nel 200 scrive che:

profitto = prezzo di vendita – (costo totale della produzione + interessi sul capitale investito)

Israel Kirzner enuncia che l‟imprenditore è l‟intermediario che svolge le funzioni

intermediarie, per l‟appunto, sul mercato. Per una buona previsione l‟impresa ha bisogno di

informazioni che deve saper raccogliere, leggere e far fruttare. Deve anche tenere in

considerazione il fatto che esse siano spesso incomplete e/o distorte. Problema: su ogni

mercato vi sono diversi imprenditori che non si comportano alla medesima maniera, poiché non

tutti hanno le stesse informazioni (a causa dei costi di queste e delle abilità rispetto ai legami

dei soggetti in questione) e comunque esse vengono interpretati in modo diverso da ognuno di

loro: ciò genera comportamenti diversi.

Mark Casson, nato nel 1943 ha scritto l‟opera “The entrepreneur. An economic theory” nel

1982. Egli mette al centro della sua analisi l‟informazione, le quali sono fondamentali per colui

che si specializza a prendere decisioni, anche critiche, le quali servono a coordinare risorse

scarse, quindi hanno le finalità di allocare meglio le risorse, ossia collocare al meglio i fattori

produttivi. Tali informazioni possono essere reperite facendo riferimento ai consumatori.

Per concludere: il tema dell‟imprenditore continua a essere attuale, infatti ancora oggi è una

figura poco nitida, oggetto di dibattito. Fino adesso possiamo dire che è colui che ha a che

fare con:

l‟innovazione;

i rischi;

le informazioni: che deve essere in grado di raccogliere.

La storia d‟impresa si divide anche tuttora in:

entrepreneurial history: storia imprenditoriale che pone al centro l‟imprenditore, il

quale coincide con il I Shumpeter;

business history: storia d‟impresa che prende la sua origine dal II Shumpeter, che

analizza l‟impresa (soprattutto la grande impresa) in tutte le sue forme.

Entrambi gli orientamenti nascono dal centro delle ricerche di Harvard e vengono ancora oggi

portati avanti. Purtroppo tale settore è condizionato da mode: molti studiosi hanno studiato

fino agli anni ‟80 la grande impresa manageriale americana (periodo denominato III

rivoluzione industriale).

Dagli anni ‟90 in poi si parla di tipologia produttiva più snella la quale porta nuovamente al

centro del sistema, l‟imprenditore (evoluzione più recente), specie con le nuove forme

d‟impresa.

Prima però occorre accennare all‟impresa del II Shumpeter, la quale è stata studiata fino agli

anni ‟80: essa era posta al centro degli studi. L‟impresa, in particolare, è analizzata sotto due

punti di vista:

concezione statica: deriva dalla teoria neo-classica marginalista, per la quale la stessa

impresa si adatta alle condizioni di mercato e quindi le sue performance dipendono

dalle capacità di adattarsi a esso → il mercato è immutabile. Conseguenza: percorso

standard seguito dall‟impresa in cui vi è poco spazio per le abilità delle singole aziende

che operano in regime di concorrenza perfetta, le quali subiscono il prezzo di mercato,

e non possono fare nulla per influenzarlo. Le stesse adotteranno l‟utilità marginale, in

pratica aumenteranno la produzione finché il profitto marginale non coincida con il

costo marginale. La teoria non è interessante;

concezione dinamica:valuta le strategie dell’impresa; ottica che ha le sue basi nella

storia d‟impresa (= teoria applicata alla storia). Ha una base empirica importante la

quale riguarda in particolare l‟azienda che è in grado di influenzare il mercato.

Lo studioso Werner Sombart tedesco nato la seconda metà dell‟800 (1863-1941) nella sua

opera “Capitalismo moderno” del 1927, mette insieme la teoria economica con la storia per

analizzare e spiegare il processo di formazione e di maturazione dell‟economia moderna.

Definisce il capitalismo come la formazione economica di scambio in cui i proprietari dei mezzi

di produzione e i lavoratori nulla tenenti siano, relativamente i soggetti/oggetti economici

(soggetti = proprietari mezzi di produzione; oggetti = lavoratori). Tale collaborazione dà

origine a una sorta di organizzazione:

principio del profitto → spirito del capitalista

=

spirito d’impresa

(viene mosso da chi vuole guadagnare e/o conquistare delle posizioni sul mercato)

+

spirito borghese

Al vertice di ciò vi è l‟imprenditore capitalista il quale rappresenta l‟organizzazione principale

che opera all‟interno di questo meccanismo. Nasce così il capitalismo maturo: all‟imprenditore

del I Shumpeter si stava sostituendo un organizzazione più complessa in cui vi è:

separazione tra proprietà e capitale;

specializzazione delle attività produttive;

integrazione tra attività produttive e attività finanziarie.

Così all‟interno dell‟impresa nasce la figura del manager. Werner Sombart descrive, quindi, il

big business americano, addirittura anticipando il II Shumpeter, e lo descrive in base ai

cambiamenti che si stanno verificando.

Capitalismo maturo: fenomeno diffuso negli USA dalla fine dell‟800 fino al 1980 circa, con

l‟espansione del big business, delle grandi corporazioni, SPA, e SRL gestite dai manager. In

questo periodo diminuisce l‟industria di base. E‟ un fenomeno caratterizzato da critiche: si è

sviluppato un movimento contro tali grandi imprese (già dalla fine dell‟800), come nel caso

delle ferrovie.

Sinonimo del movimento è stata la crisi del ‟29 in cui vi furono molti licenziamenti. Comunque

già nel 1887 vennero emanate le leggi antitrust,le quali avevano il fine di limitare le aziende

delle grandi corporazioni per evitare accordi di cartello, i quali permettevano la spartizione

del mercato.

Su tali corporazioni è nato un filone di studi anglosassone che segue il II Shumpeter con gli

studiosi Berle e Means che scrivono un‟opera intitolata “The modern corporation and private

property” del 1900 in cui si analizza il caso americano: in quel periodo le 200 società maggiori

americane controllavano circa il 50% della ricchezza del paese (non quella bancaria). Ancora

queste società erano a loro volta controllate da 2000 persone che avevano in mano metà della

ricchezza americana. Le società in questione hanno la particolarità di essere frammentate in

migliaia di azionisti (anche pubblici): se la proprietà risulta frammentata da migliaia di soci

vengono denominate public companies, non nel senso di pubbliche ma nel senso della larga

diffusione di azionisti tra il pubblico, in pratica rappresentano il patrimonio della comunità). Il

controllo di tali imprese è però affidata a un numero ristretto di persone (i manager per

l‟appunto). Questo sistema è addirittura paragonabile al feudalesimo, poiché è caratterizzato

di una gerarchi accentuata. Inoltre i due studiosi individuano 3 forme di separazione tra

proprietà e controllo dell‟impresa, le quali:

1. controllo di maggioranza: la maggioranza degli azionisti esercita anche il controllo

dell‟impresa;

2. controllo di minoranza: solo pochi azionisti controllano l‟impresa;

3. controllo degli amministratori: caso più estremo; la totalità, o quasi, degli azionisti è

esclusa dal controllo dell‟impresa, tutto è nelle mani dei manager → caso della public

companies.

Ancora i due studiosi, negli ultimi due casi, individuano una contrapposizione d’interessi tra

tutti i proprietari (piccoli azionisti) e i manager. Questi ultimi, infatti, possono avere obiettivi

diversi dagli azionisti, come ad es. quello di detenere il controllo. Dagli anni ‟70 in avanti (dopo

lo shock petrolifero) la publico companies va in crisi per via delle grandi imprese giapponesi, le

quali proponevano un modello opposto a quello americano (in cui i manager operano solo per i

propri interessi e non per quelli degli azionisti). Gli anni ‟80 sono caratterizzati, sempre in

America, dai manager buyout: essi con politiche poco limpide rilevano le proprietà delle grandi

imprese (al fine di non essere fatti fuori dagli stessi azionisti). Essendo il capitale frazionato,

per detenere il controllo, basta una piccola quota di capitale.

Uno studioso nato nel 1910 che si forma negli USA molto importante è Ronald Coase. Egli nel

1937 scrive un‟opera intitolata “The nature of the firm”, partendo dagli studi di Berle e

Means. Il suo obiettivo è definire meglio il concetto d‟impresa studiandone la

governance.Infatti egli riprende il concetto per il quale solo quando il mercato è dominato da

tante piccole imprese si è in regime di massima efficienza del mercato (regime di

concorrenza perfetta), quella descritta dai neo classici. Questo non è il caso americano,

quindi smentisce i neoclassici, infatti su tale panorama vi sono pochi e grandi imprese che

dominano il mercato. In merito a ciò definisce i costi di transazione come quelli sostenuti in

questo ambiente e le imprese in base a come esse si comportano nei loro confronti. In pratica

i costi di transazione sono costi d‟impiego dei meccanismi di mercato per l‟utilizzo dei prezzi,

ossia per concludere un affare si sostengono dei costi, quali: la raccolta di informazioni, la

risoluzione di trattative, il monitoraggio del mercato, la redazione dei contratti, ecc. L‟azienda

può scegliere se internalizzare tali costi o se acquistare questi beni/servizi sul mercato (=

esternalizzare), classico es. è l‟ufficio legale. Conseguenza: l‟impresa riuscirà a emergere sul

mercato internalizzando le transazioni e limitando i costi, ma con la consapevolezza che più si

internalizza e più aumentano le dimensioni della stessa (grande impresa = le unità operative

aumenteranno). E‟ conveniente internalizzare fino a quando:

costo di internalizzazione = costo sul mercato

Coase chiama tale fenomeno come equilibrio mobile dell’impresa, per il quale si esce dalla

concezione statica d‟impresa → limite: non si può internalizzare all‟infinito, infatti se l‟azienda

cresce troppo rischia che si inneschino dei meccanismi d‟inefficienza, i quali porterebbero a

una cattiva allocazione delle risorse, e si subirebbe la concorrenza delle imprese di piccole

dimensioni.

Ancora tratta un approccio di studio contrattuale, il quale studia l‟impresa come un insieme

di contratti tra diversi agenti economici, i quali costituiscono un sistema produttivo più

efficiente del mercato stesso. In pratica l‟impresa diventa qualcosa di alternativo al medesimo

mercato in cui essa opera. Se non vi fossero dei limiti su di esso opererebbe un‟unica grande

impresa.

Il primo punto di arrivo importante è stato imposto dalla studiosa americana Edith Penrose, la

quale va a lavorare in Inghilterra. Scrive un‟opera nel 1959 denominata “La teoria della

crescita dell‟impresa” in cui spiega le cause della formazione americana, le quali per lungo

tempo non sono state considerate (per questo motivo si reca in Gran Bretagna). Considera

l‟impresa come un insieme di risorse materiali e umane coordinate da un‟organizzazione

amministrativa, al fine di produrre beni/servizi da vendere sul mercato per creare profitti →

insieme di risorse coordinate da un’organizzazione amministrativa. Ella ha una concezione

dinamica dell‟impresa, infatti sostiene che ogni azienda sia unica perché le risorse possono

essere utilizzate in modo differente → ruolo importante delle risorse umane, soprattutto

delle risorse manageriali che sono fondamentali per la crescita dell‟impresa come frutto delle

competenze acquisite all‟interno della stessa. In pratica ciascuna figura ha un percorso

pianificato all‟interno di un‟azienda, la quale sarà quindi dotata di determinate competenze, le

quali sono intrasmissibili. Ancora la studiosa pone attenzione sulle risorse umane che devono

predisporre un piano ottimale di crescita per sfruttare meglio le risorse interne, devono

aumentare le conoscenze e devono liberare le risorse che danno origine, a loro volta, a nuove

opportunità di crescita → margine delle risorse inutilizzate, come incentivo dell‟impresa a

espandersi. Di conseguenza il ruolo del manager è centrale per la teoria della crescita

dell’impresa, ma comunque non si tratta di un meccanismo infinito. Non sempre però le

opportunità di crescita sono sfruttate, infatti:

l‟impresa non si rende conto delle possibilità di espansione;

l‟impresa non vuole e/o non può cogliere tali possibilità.

I manager devono collegare le risorse inutilizzate con l‟ambiente esterno, ossia:

risorse interne ↔ ambiente esterno

abilità ↔ propensione

Problemi:

i manager non sempre sono in grado di cogliere le opportunità di crescita a causa dei

limiti delle proprie conoscenze;

i manager non vogliono cogliere tali opportunità, perché comunque la crescita

dimensionale di un‟azienda ha un limite, oltrepassato il quale diventa inefficiente,

infatti differenziare troppo l‟attività produttiva è rischioso.

La Penrose descrive l‟impresa come una realtà dinamica che non subisce il mercato, ma anzi lo

influenza, discostandosi così dalla mentalità neoclassica. E‟ molto vicina alla teoria di Alfred Chandler (lo studioso più importante della storia d‟impresa). Tale studioso ha caratterizzato

tutto il „900, dal 1918 al 2007con le sue teorie: egli ha studiato a Harvard nella scuola di

Shumpeter. Egli, più che economista, era uno storico, perché analizza l‟economia americana nei

confronti di altri paesi; le sue opere più famose sono:

“Strategy and structure” del 1962;

“The visible hand” del 1977, la quale si contrappone alla teoria di Adam Smith (che si

basava su un meccanismo classico) in cui l‟impresa si contrappone al mercato;

“Scale and scope” del 1990, in cui confronta il caso americano con quello tedesco e

quello inglese.

La sua concezione base è denominata organizational synthesis,la quale è un punto di

riferimento dominante della storia d‟impresa per tutto il „900, che prevede:

innanzitutto riprende Schumpeter secondo la teoria dell‟innovazione come motore del

cambiamento, ma in più aggiunge che l‟imprenditore non sia più un regista, ma questo

viene sostituito dal manager, il quale ha la funzione di controllare la grande impresa;

la gerarchia manageriale applica le strategie di crescita e di conseguenza adegua la

struttura aziendale in questo modo:

Strategia Struttura

Pianificazione e sviluppo delle imprese: i

manager fissano gli obiettivi di sviluppo a

medio/lungo termine, scelgono i criteri di

azione e come allocare le risorse,

comprese le risorse umane.

L‟organizzazione è progettata e costruita

per amministrare i settori di attività e le

risorse dell‟impresa che comprende tutti i

livelli gerarchici e in cui vi sia circolazione

delle informazioni.

Strategia ↓

Struttura

In pratica senza una struttura adeguata e senza le necessarie modifiche le strategie di

crescita portano solo a inefficienza. L‟analisi dello studioso ha un limite: l‟unico punto di

osservazione è il big business americano, nella sua analisi, quindi, per molti anni, non si pone il

problema della relazione tra la corporate governance (= gerarchia manageriale) e la proprietò

e la performance positiva o negativa a seguito di tale rapporto, considerando il fatto che fino

a metà del „900 la situazione americana è la medesima: conflitto di interessi tra proprietà e

impresa. Secondo tale studioso i manager venivano costretti da istituzioni, i quali

esercitavano su di loro delle pressioni al fine di tenere un alto livello, distribuendo così più

divedendo possibile, e per raggiungere tale scopo attuavano anche scelte non opportune.

L‟opera “La mano visibile” percorre le tappe della nascita della grande impresa americana,

partendo dai suoi schemi organizzativi (cambiamento delle organizzazioni interne), il suo

obiettivo è quello di dimostrare l‟esistenza di una grande impresa in grado di condizionare il

mercato. Ancora Chandler introduce il principio del first mover, per il quale le prime imprese

che hanno colto le opportunità di crescita offerte dall‟innovazione sono quelle che

rapidamente hanno raggiunto una posizione dominante (durante la seconda rivoluzione

industriale) nel mercato, le prime a concludere un buon risultato.

Michael Porter è nato nel 1947 si è formato all‟Harvard Busines School e riprende il concetto

di efficienza dinamica d’impresa che riguarda:

capacità dell‟impresa di adattarsi al mercato;

capacità di modificare le condizioni del mercato influenzandolo.

Questo processo è attuato dal manager che valorizza meglio le risorse dell‟azienda creando

così un vantaggio competitivo, attraverso l‟utilizzo di una strategia competitiva. In pratica si

tratta di ricercare la situazione competitiva favorevole nei confronti di un determinato

settore; per fare ciò sono necessarie conoscenze approfondite del medesimo settore e del

contesto in cui si opera, anche tenendo in considerazione la presenza della concorrenza. I

manager devono capire le strategie della concorrenza per attuare le proprie, che siano

migliori a queste. Le forze che influenzano le imprese concorrenti sono:

1. minaccia di nuovi entranti:dipende dalla presenza o meno di barriere all‟entrata;

2. potere contrattuale dei fornitori: per il costo dei fattori produttivi: più elevato è il

potere verso i fornitori e minore sarà il margine; ancora l‟azienda potrebbe valutare se

ha delle valide alternative;

3. potere contrattuale dei clienti: determina il prezzo al quale l‟azienda può vendere il

prodotto, se esso è differenziato o standard, in base appunto al cliente, che può

appartenere a un mercato di sbocco unico o ampio;

4. minaccia di prodotti sostitutivi: possono esservi dei prodotti sul mercato simili a

quelli proposti dalla concorrenza;

5. eventuali manovre di posizionamento dei concorrenti: che operano sullo stesso

mercato di imprese le quali producono il loro medesimo prodotto: in tal caso è

opportuno valutare le strategie dei concorrenti.

Tali forze devono essere attentamente considerate e valutate dai manager al fine di attuare

la strategia più opportuno così da ottenere un buon vantaggio competitivo. In particolare

possono essere intraprese 3 grandi categorie di strategie:

strategie difensive;

strategie di attacco;

strategie a lungo termine.

Per quanto riguarda le strategie di attacco, specie quelle a lungo termine, si può dire che esse

sono le uniche in grado di offrire un vantaggio competitivo, il quale può essere determinato da:

riduzione dei costi di produzione;

differenziazione del prodotto.

Combinando le varie strategie con il contesto in cui si opera, si arriva alla definizione delle

strategie, le quali, in particolare, sono di 3 tipi:

1. leadership di costo: si immette il prodotto sul mercato a costi bassi e inferiori a

quelli della concorrenza;

2. differenziazione del prodotto: l‟impresa allarga la gamma dei prodotti offerti sul

mercato;

3. focalizzazione: l‟impresa si focalizza su uno o più (comunque pochi) prodotti.

Questa teoria di Porter che riprende quella di Chandler (anch‟esso diretto verso la strategia)

e la perfeziona, rapportandola alla concorrenza e uscendo dalla concezione neoclassica.

Studioso che segue Chandler e riprende Coase (sulla teoria basata sui costi di transazione) è

Oliver Williamson (nato nel 1932) che abbina gli studi di storia d‟impresa alla sociologia e alla

psicologia. E‟ un seguace della teoria comportamentista (dei primi del „900) di John Watson, il quale dice che i soggetti hanno una razionalità limitata, la quale impedisce loro la perfetta

comprensione del sistema economico, e quindi ne influenza le scelte economiche. Egli fa un

passo avanti rispetto a Porter, il quale non si è posto il problema di quanto i manager fossero o

meno in grado di compiere scelte giuste, considerando il limite dell‟essere umano che influenza

il sistema perché non sempre le sue scelte sono le più adatte. Ma considera che ciascuna

impresa è composta da diversi individui, i quali hanno la capacità limitata di comprendere

appieno il contesto, in vista del quale devono prendere delle decisioni strategiche. La decisione

deve essere unica e deve basarsi su un processo di contrattazione e conciliazione tra i

membri della gerarchia manageriale. Tutto ciò avviene in modo aleatorio, per questo motivo le

imprese non si comportano tutte alla stessa maniera. Inoltre Williamson, seguendo Coase, menziona i costi di transazione, sostenendo che dipendono dalla natura dell‟uomo, e

concludendo che anche essi siano influenzati dalla razionalità limitata e da opportunismo (=

finalità egoistiche, come il caso del conflitto di interessi). Quindi i manager devono valutare,

oltre a tutto quello analizzato in precedenza, se:

internalizzare → make;

esternalizzare → buy.

Altro aspetto che è opportuno valutare è il fatto di operare in condizioni d‟incertezza dovuta

a fattori esogeni e a specificità di risorse (come capitale umano e investimenti). Ancora è

necessario valutare la frequenza delle transazioni.

Teoria evolutiva dell’impresa: intrapresa da due studiosi, Richard Nelson e Sidney Winter

nella loro opera “An evolutional theory of economic changement” del 1982. Essi rielaborano e

riprendono il ruolo delle innovazioni di Schumpeter (nel II Schumpeter). Le imprese vengono

considerate i soggetti principali del processo tecnologico e ancora sostengono che la ricerca

d‟innovazione (come d‟altronde sosteneva Schumpeter), al momento diventa endogena, interna

con il settore ricerca e sviluppo, e non è più una cosa eccezionale, ma diviene una routine

(come l‟I-phone della Apple): in pratica l‟innovazione non è più visto come qualcosa di

sconvolgente, come avveniva in caso della prima scoperta, ma si tratta di un‟innovazione

continua. Quindi per Nelson e Winter la routine è definita come l‟insieme delle conoscenze

tacite che sono alla base della maggior parte delle attività d‟impresa, non solo nel caso dei

prodotti ma anche per:

politiche d‟investimento;

politiche di ricerca e selezione del personale;

riorganizzazione interna dell‟azienda: ad es. nel caso di adozione della catena di

montaggio.

Tali competenze si formano nel corso del tempo, tutto però non deve essere analizzato in

maniera statica: il potenziale innovativo dell‟impresa è di rinnovare la propria routine

attraverso un processo tecnologico mediante:

tentativi di ottenere delle economie di scala;

Make or buy

processi di meccanizzazione.

Il progresso tecnologico può essere:

continuo: all‟interno dello stesso paradigma tecnologico;

discontinuo: cambiamento radicale, innovazione straordinaria (non si parla solo di

un‟innovazione di prodotto).

Nelson e Winter mettono insieme al concezione microeconomica (= l‟impresa) e quella

macroeconomica (= ambiente-mercato).

Successivamente nasce un filone di studi basato sul concetto di capabilities (= potenzialità

dell’impresa). E‟ un concetto recente (sviluppato negli ultimi decenni), ed è il risultato del

processo di apprendimento che si verifica nell‟imprenditore nel corso del tempo → know how:

insieme di elementi principali che differenzia le imprese le une dalle altre.

Visione Knowledge based: conoscenza delle imprese, intesa in senso diverso. In pratica

l‟impresa crea conoscenze, insieme a tali capacità si creano delle potenzialità: più l‟impresa le

riesce a usare e più ha la possibilità di raggiungere un vantaggio competitivo all‟interno del

mercato.

Ancora importante risulta un particolare filone di studi condotto da Paul David nel 1985 “Clio

and economics of QWERTY”, opera basata sulla diffusione della tastiera QWERTY, in cui si

delinea la teoria del path dependance (= dipendenza dal percorso), per la quale l‟esito finale

di un percorso aziendale può essere influenzato da eventi casuali (quindi tutte le teorie

menzionate finora avevano lo scopo di mettere in atto le strategie, mentre qui lo studioso si

reputa d‟accordo con esse, ma aggiunge che la conclusione dipende dal caso). David cita la

tastiera QWERTY come esempio, poiché essa è stata inventata per la disposizione delle

lettere/dei numeri che sembravano ottimali al fine di non fare accavallare i martelletti delle

macchine da scrivere di allora. Di conseguenza i primi operatori (= dattilografi) specializzati si

formarono su tali tastiere. In futuro, nonostante la scoperta di tastiere più funzionali e

efficienti rispetto alla QWERTY, essa rimase sempre la più diffusa (ancora ai nostri giorni).

L‟autore attribuisce questa conclusione a una casualità (non prevedibile) e associa tale tipo di

tastiera a un evento casuale → in pratica non sempre sparisce sul mercato la tecnologia

peggiore.

Impresa e contesto

Premessa: gli studi in precedenza citati hanno fornito informazioni utili per studiare il

comportamento delle imprese (partendo dall‟imprenditore in generale). Ciò ancora non regge,

manca ancora qualcosa in merito:

costi di transazione (make or buy): esistenza anche di forme intermedie tra

imprese e mercato (= forme ibride), come ad es. le cooperative in cui i soci producono

e vendono sia a sé stessi, sia al mercato; i distretti industriali, i quali sono agglomerati

di imprese strettamente collegati tra loro; le imprese a partecipazione statale, in cui

vengono perseguite politiche pubbliche e il committente è lo Stato;

forme di imprese big business:vi è netta separazione tra proprietà e controllo;

piccole imprese: la proprietà coincide col controllo. In mezzo alle due forme d‟impresa

appena citate vi sono moltissime forme ibride che non rappresentano né uno, né l‟altro

tipo, che non dipendono dalla dimensione e che si utilizzano dei criteri per sapere chi

detiene il controllo. Ad es. controllo del pacchetto azionario minimo, detenere il

controllo vuol dire possedere anche un pacchetto minimo di azioni: ciò dipende dalla

struttura dell‟impresa: holding, gruppi di imprese tipiche del modello asiatico, ecc.;

comportamento, struttura, storia: fattori influenzati dal contesto e da fattori

esterni. Contesto = insieme di fattori culturali, religiosi, politici, casuali, legislativi,

formativi presenti in un paese. Sono molti gli elementi considerati per lo sviluppo delle

forme d‟impresa.

Quanto ha influenzato il contesto nello sviluppo della storia d‟impresa? Vi sono diversi aspetti

da analizzare:

I aspetto: fattori culturali, fattori etici e/o religiosi

Non sono facili da definire. Innanzitutto proviamo a definire il concetto di cultura. Essa va

intesa come l‟insieme di valori e credenze condivise (definizione di Casson). Altra definizione è

fornita da David Landes ed è: l‟insieme di consuetudini e di valori morali. In pratica a fare la

differenza in campo evolutivo dell‟impresa è la cultura, e quindi su di esso si pone un accento

particolare.

La cultura è l‟insieme delle informazioni a disposizione dei soggetti economici che effettuano

delle determinate scelte. Per gli storici d‟impresa, infatti dal punto di vista pratico, vi è una

concezione diversa della stessa tra Europa, USA e Giappone:

Europa USA Giappone

L‟impresa intesa come

imprenditore che la dirige →

aspetto personale

dell‟impresa (in base alle

stesse che si sono affermate

nel territorio europeo).

L‟impresa è impersonale, ed è

vista come l‟insieme di assets,

fattori produttivi,

organizzativi, ecc. (in base

alle stesse sviluppate come

ad es. le public companies).

L‟impresa è un valore

collettivo, come bene comune

di appartenenza → la cultura

del lavoro è ampiamente

sviluppata.

I fattori etici e/o religiosi sono molto importanti per lo sviluppo economico. Max Weber

diceva che “L‟etica protestante è lo spirito del capitalismo”, infatti il protestantesimo ebbe un

ruolo centrale nello sviluppo economico, proprio perché l‟etica protestante vedeva nell‟attività

lavorativa un mezzo per avvicinarsi a Dio. Diversa mentalità prevedeva l‟etica cattolica,la

quale considerava la ricchezza e il benessere economico un fattore pericoloso da evitare.

L‟etica religiosa, ad es. in Italia e in Francia, non ha permesso di accettare fino in fondo lo

sviluppo della grande impresa.

Ancora lo sviluppo delle imprese è stato influenzato dal contesto sociale.

Più in generale occorre definire la parola etica come la concezione che gli individui hanno dello

Stato, in quanto esso deve intervenire per creare il contesto favorevole per lo sviluppo delle

imprese. In Italia, in Germania e in Giappone esso è stato l‟assoluto protagonista nell‟economia

di fine „800. In Gran Bretagna, con la II rivoluzione industriale, si fatica a mantenere il passo

con la Germania e gli USA (fine „800) a causa di fattori culturali e sociali diversi. Qui vi è

un‟economia già matura, in cui vi è una scarsa separazione tra proprietà e controllo, quindi si

tratta di imprese di modeste dimensioni a conduzione familiare → scarsa cultura industriale,

disagio del progresso, in pratica non si è creata una classe industriale, ma una classe

aristocratica (imprese ereditate, giunte alla III generazione) la quale è caratterizzata da:

scarsa propensione agli investimenti tecnologici;

scarsa tendenza a proiettare la propria attività verso i consumi di massa.

In pratica fattori culturali, sociali ed etici impediscono alla Gran Bretagna di essere

competitiva nei confronti degli altri paesi, considerato il fatto che anche il livello d‟istruzione

risulta non adeguato per un ottimo sviluppo economico del paese.

II aspetto: concezione della famiglia

Anche la concezione della famiglia influenza lo sviluppo delle imprese, infatti:

1. ovunque in occidente sono diffuse leggi per la successione, al fine di preservare

l‟impresa familiare (l‟impresa veniva trasmessa al primo figlio maschio e erano

diffusissimi i matrimoni tra consanguinei → la famiglia è al centro dei valori aziendali).

Tali valori improntati sulla famiglia possono sembrare positivi, ma in realtà, con il

passare del tempo, diventano negativi (soprattutto tra la fine dell‟800 e l‟inizio del

„900). A tal proposito è utile citare il famoso scrittore letterario Thomas Mann che

con la sua opera più famosa “I Buddenbrook” racconta la storia di una famiglia di quel

periodo in decadenza. Da tale romanzo viene addirittura definita la cosiddetta

sindrome Buddenbrook, che si manifesta quando l‟impresa giunge alla III generazione

e va in decadenza (credenza diffusa ancora oggi, ad es. il caso del “figlio di papà”), con

una mancata riconversione delle imprese;

2. in estremo oriente la famiglia ha un ruolo importantissimo, anche se non in tutti i paesi

orientali vi è la medesima idea di famiglia:

in Korea del sud: chaebol → reti di imprese;

in Taiwan: persone appartenenti allo stesso rango, famiglie allargate intese

come comunità legate a un territorio → business group.

La famiglia viene intesa in due modi, quindi, in senso stretto come il legame tra consanguinei,

e in senso più largo come famiglia allargata.

III aspetto: ruolo delle donne

Da considerare il fatto che la donna ha un comportamento diverso rispetto a quello dell‟uomo,

soprattutto per quanto riguarda la dirigenza di un‟azienda:

leadesrship femminile: la gerarchia è meno rigida e i rapporti sono più personali;

leadership maschile: i rapporti sono più gerarchici e i rapporti più impersonali.

IV aspetto: livello dell‟istruzione

Occorre analizzare due punti di vista:

il livello microeconomico: effetti diretti sui comportamenti dei soggetti sia dal lato

dell‟offerta, sia dal lato della domanda;

il livello macroeconomico: effetti sullo sviluppo del paese.

Per quanto riguarda il livello macroeconomico il confronto tra Inghilterra, Germania e USA a

metà dell‟800:

Inghilterra Germania USA

resta indietro;

il tasso di

analfabetismo è

superiore al 30%;

recepisce tardi il

ruolo dell‟istruzione;

continua a puntare

sull‟istruzione classica

riservata all‟élite,

industrializzazione

tedesca come caso

tipico del legame tra

scienza e industria;

sviluppo delle scuole

tecniche e

professionali →

formazione

fondamentale;

l‟alfabetizzazione è

precoce, infatti risale

già al „700 ed è rivolta

a materie religiose

e/o politiche;

istruzione

fondamentale per

partecipare alla vita

politica;

poco spazio alle

materie tecnico-

scientifiche;

lo Stato non

interviene, l‟istruzione

è in mano ai privati;

è stata tra gli ultimi

paesi a rendere la

scuola elementare

obbligatoria.

lo Stato incentiva

l‟istruzione tecnica e

interviene.

nascono delle leggi che

invitavano lo Stato a

istituire delle scuole;

aumenta il ruolo

statale nell‟istruzione

(1830-1840 circa);

emanate leggi federali

con la possibilità di

concedere terreni al

fine di costruire

scuole superiori-

tecniche;

anche il ruolo dei

privati è importante,

infatti i ricchi

industriali si rendono

conto del legame tra

industria e formazione

tecnica (= università),

però il panorama

americano era

dominato da università

di vecchio stampo di

tipo religioso votate

agli studi classici.

Grazie a tali

investimenti privati

nascono le prime

università tecnico-

scientifiche

(formazione di alto

livello) private che

sopravvivono grazie a

lasciti e donazioni di

ex allievi che hanno

avuto successo.

V aspetto: ruolo dello Stato e delle istituzioni pubbliche

1. Lo Stato esisteva già prima dello sviluppo delle grandi imprese.

2. Il rapporto Stato-imprese è di diverso livello:

I livello → Stato dirigista:Stato che si impone sulle imprese e subordina le

attività alle proprie finalità (come ad es. è accaduto durante le guerre mondiali);

in pratica s‟impone sul Consiglio di amministrazione per produrre ciò che serve

alla guerra o si serve di imprese ausiliarie che continuano la loro produzione

poiché i loro prodotti sono comunque funzionali alla guerra;

II livello → Stato socialista: Stato che non dà spazio all‟iniziativa privata, si

sostituisce alle imprese (che sono tutte statali) e non vi è concorrenza, come ad

es. era negli anni ‟90 l‟ex Unione Sovietica. Tale Stato non è in grado di operare

in un mercato aperto;

III livello → Livello intermedio:vi sono diversi tipi di interventi statali

intermedi tra i due livelli precedenti.

Le istituzioni pubbliche si dovrebbero occupare dell‟insieme delle attività necessarie alla

formazione di un efficiente mercato di fattori produttivi dei beni/servizi → perché vi sia un

mercato efficiente è necessario un contesto istituzionale che favorisce lo sviluppo delle

imprese → crescita economica. Come minimo lo Stato stabilisce le cosiddette regole del

gioco, ad es. per garantire il diritto di proprietà, per emanare leggi che influenzano

l‟economia, e per stimolare gli investimenti.

In Gran Bretagna vi è un contesto molto avanzato per le imprese:

crisi finanziaria intorno al 1720: vengono vietate le SRL, e ci vorrà molto tempo prima

che vengano costituite nuovamente;

1779: rivoluzione francese;

1807: il codice di commercio napoleonico viene in seguito applicato anche in altri paesi

conquistati da Napoleone;

limite massimo del numero dei soci (6) fino a metà „800.

Negli USA:

lo Stato sembra che sia sempre intervenuto poco nell‟economia, ma in realtà vi è stato

un ruolo importante sia statale che federale, soprattutto dopo l‟indipendenza (1776-

1840 circa) per quanto riguarda:

emanazione di leggi;

infrastrutture;

politica commerciale;

colonizzazione delle terre dell‟ovest;

lo Stato nel „700 interviene nella costituzione di società impegnate nella costruzione di

(quindi partecipa al capitale):

canali;

ferrovie.

Il capitale pubblico interviene inizialmente per poi piano piano ritirarsi cosicché da

lasciare spazio al capitale di fatto delle public companies;

nell‟800 vengono emanate le norme per la costituzione di società anonime (= a

responsabilità limitata), gli USA a questo punto sono più evoluti rispetto alla Gran

Bretagna e all‟Europa in generale (di quasi mezzo secolo), le più importanti nascono:

1809 → Massachussets;

1811 → New York;

1816 → New Jersey;

a fronte della Gran Bretagna in cui la prima società anonima risale al 1866, della

Francia nel 1863 e dell‟Italia nel 1882.

In Giappone:

dal 1500 al 1868 è stato un paese chiuso nei confronti dell‟estero;

intervento statale dal 1868 in avanti:

dinastia Meiji;

avvio industrializzazione verso l‟esportazione (apertura all‟estero);

istituito un nuovo sistema di tassazione sulla proprietà terriera, in base agli

obiettivi → tassa su produzione potenziale (incentivo a produrre);

create le aziende pubbliche;

istruzione all‟estero per acquisire delle competenze imprenditoriali;

politica militare espansionistica fino alla II guerra mondiale;

istituzione del Ministero dell‟industria;

incentivati dei gruppi industriali.

→ modello simile: Korea e Taiwan

VI aspetto: ruolo dei mercati finanziari

Il premio Nobel Joseph Stiglitz disse

“La comprensione della crescita delle moderne società deve cominciare dall‟evoluzione dei

mercati finanziari”.

L‟evoluzione dei mercati finanziari (= dei capitali) è fondamentale per capire l‟evoluzione delle

imprese che è dominato da istituzioni finanziarie (= intermediari) che ha il determinato

compito: facilitare il trasferimento di capitale tra chi le detiene (investitore) e chi le usa

(imprese). Il mercato dei capitali è particolare: il denaro viene scambiato con una promessa di

futuro introito. Problema: garantire che la promessa venga rispettata per finanziare le

imprese (al di là dell‟autofinanziamento) mediante:

indebitamento;

capitale di rischio.

I mercati finanziari dalla I rivoluzione industriale si delinea sempre una più netta separazione

tra risparmio (= risorse in mano a soggetti che hanno delle risorse inutilizzate che sono

lontani dagli imprenditori) e soggetti che hanno la capacità di dirigere un impresa ma che non

hanno mezzi finanziari per sostenerla → incontro tra domanda e offerta di capitali. Le

funzioni del mercato finanziario sono le seguenti:

rendere più fluidi i servizi (evitando lo sfasamento temporale, il gap);

agevolare l‟allocazione delle risorse aumentando il capitale fisso e le tecnologie; dalla I

rivoluzione industriale vi è un ampliamento dei tempi di rientro dei capitali investiti che

bisognerebbe ridurre;

far fruttare i risparmi;

migliorare la gestione dei rischi;

esercitare le decisioni a livello societario → controllo.

Inizialmente il ricorso al mercato dei capitali era più fondato su debiti di breve termine.

Successivamente le aziende si ingrandiscono, e quindi gli investimenti effettuati accompagnati

dall‟autofinanziamento non sono più sufficienti. Scelte possibili:

ricorrere all‟indebitamento;

ricorrere al capitale di rischio (mercato borsistico).

Questo non è solo un calcolo di convenienza, ma si tratta più precisamente:

valutazione dei rischi;

condizioni di mercato;

assetto proprietario (= rapporto tra proprietà e management).

Dalla II rivoluzione industriale si sono venuti a creare due modelli (in base al tipo di

finanziamento prevalente):

bank oriented: paesi che ricorrono prevalentemente al sistema bancario come l‟Europa

continentale e il Giappone;

market oriented: paesi che ricorrono prevalentemente al ricorso alla borsa.

Lo sviluppo del mercato finanziario agevola lo sviluppo delle imprese, ma è vero anche il

contrario, cioè che lo sviluppo delle imprese agevola il mercato finanziario → relazione

biunivoca.

Sistema market oriented

Fondato su forme di finanziamento esterne, tra cui:

emissione delle azioni → finanziamento;

emissione delle azioni → s‟indebita.

Le quote trattate sul mercato danno il volume dell‟impresa, e regolano/influenzano il

comportamento. Caratteristica: vi è un‟elevata divisione del lavoro, il mercato è formato da:

borsa;

banche commerciali per finanziamenti a breve termine;

banche d‟investimento/istituti di emissione/collocamento titoli;

brokers, intermediari di borsa.

Titoli/quote

Inizialmente il mercato finanziario non sorge spontaneamente, ma ha bisogno di imporsi nel

tempo poiché comunque risulta necessario un ruolo di intermediari → caso americano.

Vi sono 3 fasi di sviluppo che vanno di pari passi con lo sviluppo industriale:

1. dal 1800 fino al 1860 (circa): le piccole imprese si autofinanziano e ricorrono alla banca

per prestiti a breve termine, il sistema bancario non è regolamentato (free banking),

quindi è instabile;

2. dal 1864 al 1880 (circa): viene emanata una riforma bancaria in cui sono state create

delle banche nazionali, le quali devono scegliere in quale Stato operare. Limiti: sui

finanziamenti concessi dalle banche alle imprese; la nascita della normativa andava di

pari passo con la nascita delle grandi compagnie;

3. dal 1880/90 in poi: lo sviluppo del mercato borsistico comporta la nascita di banche

specializzate sui finanziamenti a medio/lungo termine, ma anche la nascita di nuove

banche specializzate negli investimenti per:

fornire capitale di rischio;

svolgere l‟intermediazione;

agevolare il collocamento delle azioni;

agevolare le fusioni tra aziende.

In pratica le banche diventano degli istituti che favoriscono le grandi imprese.

Caso inglese

Durante la I rivoluzione industriale esistono imprese piccole caratterizzate da pochi

investimento in capitale fisso e che si avvalgono soprattutto di autofinanziamento. Per questo

motivo lo sviluppo delle banche è stato ritardato. A fine del „700 non è consentita la

costituzione delle SPA, tale provvedimento comporta delle conseguenze, le quali:

fino a metà dell‟800: la Banca d‟Inghilterra è l‟unica ad adottare la denominazione di

SPA;

gli altri istituti bancari sono piccoli che non si sbilanciano in finanziamenti rischiosi,

infatti i soci della banca, non potendo avvalersi della responsabilità limitata,

rischiavano il proprio capitale; in generale si trattava di banche che concedevano

finanziamenti a breve termine e banche con compiti di intermediazione finanziaria. Il

sistema bancario, quindi, è poco evoluto e di conseguenza anche il settore delle

tecnologie è in rallentamento. Grazie a questi ultimi due fattori viene agevolato lo

sviluppo del mercato borsistico, il quale è noto per le sue radici storiche (Borsa di

Londra).

Sistema bank oriented

Le banche, in tale ambito, hanno un ruolo cruciale per lo sviluppo industriale. Intervengono dei

fattori sostitutivi atti alla risoluzione dei paesi ritardatari, come l‟Italia. In pratica si tratta

di qualcosa di esterno al sistema economico, il quale fa in modo che avvenga

l‟industrializzazione; tale soggetto è impersonato da:

lo Stato, che incentiva la produzione diventando anch‟esso imprenditore;

le banche, che finanziano le industrie nascenti → banche miste e universali che in

Germania si sviluppano dal 1850 (circa), esempio imitato dall‟Italia con la Banca d‟Italia,

dalla Svizzera, dalla Spagna, dalla Svezia, e da tutti i paesi di seconda

industrializzazione in generale.

Le banche miste sono quelle che esercitano sia il credito a breve/medio/lungo termine, ma il

legame tra questa e l‟impresa è molto più ristretto perché essa acquista pacchetti azionari

dell‟impresa, e l‟impresa, a sua volta, acquista pacchetti azionari della banca → fratellanza

siamese, per cui una regge l‟altra: il rischio grosso in questo sistema è l‟effetto domino. Dopo

gli anni ‟30 nasce l‟IRI proprio per questo motivo, per salvare le banche le quali avevano in

mano i pacchetti azionari delle imprese più importante (in crisi). Le banche, come fattore

sostitutivo, sono istituti despecializzati, quindi il mercato borsistico non si sviluppa tanto, ma

resta ai margini.

Caso giapponese

Nel 1900 si sviluppano gli zaibatsu, che sono dei gruppi d‟imprese integrate verticalmente e

che vengono direttamente finanziate da una propira house bank (la quale finanzia tutto il

gruppo).

In generale i sistemi market oriented sono più adatti per le economie libere e concorrenziali,

mentre di solito il sistema bank oriented necessitano di un contesto stabile, caratterizzato

da scarsa circolazione delle informazioni nell‟economia e da sistemi opachi (= monopoli,

oligopoli) in cui operano pochi e grandi gruppi → rischio: degenerazione del rapporto tra

banche imprese, generando così un effetto domino (contesto dinamico). Oggi grazie alla

globalizzazione vi è la tendenza a una convergenza tra i due sistemi, in pratica non vi è più,

come accadeva in precedenza, una netta distinzione tra i due. Ciò porta a delle conseguenze, le

quali:

cambiamento della dimensione imprenditoriale (aumentano le dimensioni);

sparizione delle grandi imprese dal mercato.

Contesto normativo

Il contesto normativo riguarda gli elementi i quali sono in grado di influenzare le strategie

imprenditoriali (esempio tipico è la legislazione antitrust). Ora occorre evidenziare le

differenze tra:

USA Germania

si sviluppano contemporaneamente

leggi antitrust;

emergere delle grandi imprese nei

servizi;

ostilità verso le grandi compagnie che

operano in regime di monopolio od

oligopolio caratterizzati da forti

barriere all‟entrata;

legislazione antitrust per limitare i

cartelli (= accordi) tra le imprese;

il primo provvedimento antitrust viene

varato nel 1887, seguito a ruota dallo

Sherman Act (1890): la stipulazione

degli accordi di cartello e di pool sono

dichiarati incostituzionali;

non vi sono leggi antitrust;

non esiste ostilità verso i gruppi di

imprese;

gli accordi e i cartelli tra impresi sono

addirittura visti come un modo di

conquistare il mercato interno e quello

estero;

lo Stato favorisce gli accordi tra le

aziende;

la costituzione dei cartelli comincia a

proliferare a partire dal 1870

contestualmente all‟unificazione del

paese;

i rapporti di collaborazione tra le

non consentite le fusioni, ma solo le

holding (un provvedimento di legge

vieta le fusioni), in generale la legge

diviene sempre più restrittiva nei

confronti delle imprese;

si manifesta l‟effetto non desiderato

di una non concentrazione di imprese

che sono uguali a un unico grande

gruppo. Allora l‟obiettivo diventa

quello di aprire tale mercato troppo

caratterizzato da poche e grosse

aziende;

a fine „800 la legge antitrust viene

rispettata a dovere e le società

vengono smembrate per legge.

imprese diventano sempre più stretti;

dopo la I guerra mondiale vengono

istituiti i Konzerne, ossia una forma di

cartelli in cui in più si scambiano le

azioni (imprese che diventano

azionarie di altre imprese);

costituzione delle cosiddette comunità

d‟interessi in cui oltre che venire

scambiate le azioni, vengono anche

suddivisi i profitti;

nascono i grandi pool industriali, come

Bayer e BASF;

nel 1925 una gigantesca impresa

chimica controlla, nel giro di pochi

anni, il 50% della produzione

farmaceutica (che controlla l‟intero

settore).

In Gran Bretagna viene seguito il modello americano, ma a differenza di questo, qui vengono

consentite le fusioni.

In Giappone, invece, si favorisce il modello tedesco, ma le imprese operano sul mercato

sottoforma di zaibatsu.

In Francia vige la liberalizzazione totale in merito.

Classificazione di imprese ed evoluzione delle forme d‟impresa

Fino al 1880 e per lungo tempo prevalgono solo gli studi della grande impresa, infatti vi sono

problemi in merito alla storiografia di imprese di piccole e medie dimensioni. Ciò perché la

grande impresa è stata considerata come un naturale punto di arrivo. Infatti Chandler vedeva

il capitale familiare solo come un punto di partenza: in realtà non è così perché la grande

impresa non è l‟unica azienda che sopravvive sul mercato e tantomeno che rappresenti un

punto d‟arrivo, anzi tale punto d‟arrivo può essere tranquillamente un‟altra forma

organizzativa. Inoltre studiare la storia delle grandi imprese è più facile perché esse hanno

lasciato maggiore traccia nella storiografia rispetto alla loro attività, infatti vi sono più dati

poiché hanno avuto un impatto maggiore. Ancora durante la II guerra mondiale (anni ‟50-‟60)

vi è stata una convergenza verso gli USA, grazie al Piano Marshall caratterizzato da uno

scambio di manager, i quali prevalentemente avevano un ruolo nelle grandi imprese. Negli anni

‟80 il modello americano entra in crisi per le seguenti cause:

shock petrolifero;

il modello giapponese entra prepotentemente nel mercato nazionale poiché è

caratterizzato da forme di produzione più flessibili, alternative alla produzione di

massa (= su larga scala).

Così avviene il declino delle gerarchie manageriali, ma questo non sempre si verifica. Ecco

perché diviene opportuno classificare le imprese:

dal punto di vista qualitativo;

dal punto di vista quantitativo (ad es. in termini di fatturato);

dal punto di vista delle performance (una volta si pensava che una grande dimensione

portasse automaticamente a delle buone performance);

dal punto di vista della longevità dell‟impresa.

Secondo Chandler le grandi imprese costituiscono l‟elemento portante nell‟economia americana

e tedesca, mentre in Gran Bretagna lo studioso osserva che prevalgono le imprese di modeste

dimensioni. In realtà, non è così, infatti diversi studi smentiscono la sua teoria. Leslie Hannah

ha elencato le prime 100 imprese, denominandole sequoie giganti, però aggiunge che occorre

andare a vedere anche le dimensioni di ciò che sta intorno a esse (il contesto).

Impresa manageriale

La definizione di impresa manageriale è fornita da uno studioso dell‟Università Bocconi

Andrea Colli, il quale la definisce come l‟istituzione che occupa a livello multi unitario e che fa

perno su un‟ampia gerarchia manageriale per la sua gestione, quindi non può essere sotto il

controllo di un‟unica famiglia.

Origini

Inizialmente si è sviluppata nel settore dei trasporti, in fase di costruzione delle

infrastrutture (soprattutto per quanto riguarda le ferrovie) sia in America che in Europa. Fino

al 1870 gli unici esempi del comparto ferroviario comprendevano anche i settori a monte e a

valle, avendo così bisogno di ingenti finanziamenti ed è caratterizzato dall‟utilizzo di

strumenti finanziari (soprattutto negli USA), quali:

obbligazioni a tasso fisso;

azioni.

Così tali compagnie stringono tra loro degli accordi:

di cartello;

per la fissazione di tariffe, creando così forti barriere all‟entrata.

Alla fine dell‟800 vengono emanate le leggi antitrust (precisamente la prima legge antitrust

viene emanata nel 1887).

A metà dell‟800 le aziende più importanti nel panorama mondiale sono:

“Compagnia Erie” in America;

“Pennsylvania R.R” in America;

“Ferrovie dello Stato” in Italia.

Tali esigenze di trasporto portano a una crescita dimensionale, la quale viene attuata tramite

un‟opportuna organizzazione interna per funzioni soprattutto nella sezione finanziamenti,

sezione merci e sezione passeggeri, mediante gerarchie ben precise e cascata.

Caso americano

La grande impresa manageriale è il modello americano per eccellenza, infatti nel territorio in

questione si trovano le condizioni ideali per il suo sviluppo, le quali:

paese scarsamente popolato;

nel corso dell‟800 vi è stata una crescita enorme della popolazione → esigenza di

industrializzarsi in fretta e in modo più prorompente;

disposizione di grandi quantità di risorse;

terra vastissima;

poca forza lavoro → salari elevati;

precoce meccanizzazione in quanto disponibilità di capitale.

Tra la fine dell‟800 e l‟inizio del „900 il sistema americano è stato caratterizzato da

innovazioni di processo produttivo, detta American system of manufacturing basato sulla

standardizzazione della produzione e l‟intercambiabilità delle parti al fine di velocizzare i

processi produttivi e ridurre i costi. Esempi sono il fordismo, basato sulla catena di

montaggio, e il taylorismo, basato sull‟organizzazione scientifica del lavoro, in cui vi è una

suddivisione per funzioni e dove si raggiungono economie di scala. Ancora la caratteristica dei

sistemi adottati negli USA è che la proprietà è diversa dalla gestione, per cui vi è:

internalizzazione dei costi di transazione;

affermazione di strategie manageriali.

La grande impresa americana, quindi:

sfrutta le economie di scala;

sfrutta le economie di diversificazione;

sfrutta le economie di rapidità.

Sempre in America, e non in Europa, l‟economia nazionale è caratterizzata dai seguenti

fattori:

grande quantità di forza-lavoro;

forte sindacalizzazione;

investimenti ingenti in macchinari sofisticati (in Europa non vi sono i capitali necessari

per fare ciò);

fino al 1929 l‟impresa americana è molto protetta a livello doganale, e il mercato di

sbocco è quello interno, che comunque è considerevole; la conseguenza è quello che

vengono incrementati anche i redditi pro-capite.

I settori coinvolti in tal senso, oltre a quello classico dei trasporti, sono:

le telecomunicazioni (il telegrafo e il telefono);

l‟acciaio;

la chimica;

il petrolio;

l‟elettricità;

la gomma;

l‟elettromeccanica;

il commercio, la grande distribuzione (magazzini a prezzo unico);

il comparto alimentare;

il tabacco;

la meccanica leggera;

la macchina da scrivere;

il settore dell‟automobile con Henry Ford, il primo a inserire la catena di montaggio

all‟interno del processo produttivo.

Le grandi imprese hanno raggiunto varie strategie per raggiungere determinate dimensioni, le

quali:

processi d’integrazione a monte e a valle:attraverso investimenti nel settore

dell‟acquisto delle materie prime e attraverso investimenti nella distribuzione, in

particolare di alimenti, tabacco, meccanica leggera;

strategie d’integrazione orizzontali: per controllare il mercato, acquistando le azioni

delle imprese affini, soprattutto nel settore della chimica, del petrolio e

dell‟elettricità.

Spesso tali strategie vengono integrate e abbinate → strategie d’integrazione verticale, ciò

avviene nel caso del petrolio, ma per abbinare le due strategie sono necessari maggiori

capitali, quindi occorre ricorrere maggiormente al mercato azionario.

Chandler ha definito quelle imprese che hanno raggiunto tali livelli dimensionali come first

movers, le quali sono le prime entrate nel mercato (le prime che si dotano di strategie

organizzative) guadagnando così un vantaggio competitivo, creando barriere all‟entrata in

regime di monopolio e oligopolio. La competizione è basata sui seguenti elementi:

politiche di marketing;

distribuzione;

rapporto forza-lavoro;

acquisizione di materie prime.

Chandler, inoltre, individua altre strategie per mantenere le imprese ai vertici, per restare sul

mercato, le quali in particolare sono 4:

strategie difensive: strategie offensive:

per proteggere gli investimenti già effettuati

basati su integrazione orizzontale e

verticale.

Da metà „900 fino agli anni ‟70: la studiosa

Penrose, parlando di risorse inutilizzate,

sostiene che occorre sfruttarle e che la

diversificazione opportuna sia quella

correlata.

per entrare in nuovi mercati, per espandersi

da metà „900 in poi:

→ diversificazione produttiva: la quale è di

due tipi:

1. diversificazione correlata: riguarda

la produzione di nuovi prodotti che

comunque sono vicini al core business

(riguarda anche il marketing, non solo

la produzione in senso stretto);

2. diversificazione non correlata:la

quale è indirizzata verso settori

completamente diversi → imprese

conglomerate e/o → espansione verso

aree geografiche lontane.

Chandler ha verificato che oltre 1/3 delle imprese esistenti fossero diversificate in modo

correlato. A metà dell‟800 tale strategia si diffonde anche in Europa. Mentre negli USA le

imprese conglomerate raggiungono l‟apice intorno al 1880 (rappresentano il 22% delle prime

500 grandi imprese americane). Tali imprese sono considerate come una degenerazione della

diversificazione, la quale comporta dei rischi, i quali:

scarsa correlazione;

scarsa razionalità;

dispersione delle risorse.

Questa è la visione condivisa dai due studiosi Chandler e la Penrose. In particolare Chandler si

occupa di un‟analisi estesa ad altri paesi, quali la Germania, il Giappone e la Gran Bretagna,

tentando di dimostrare un fenomeno di convergenza con quello americano: secondo lo

studioso vi è convergenza, ma gli stessi fenomeni arrivano in Europa più tardi e le grandi

imprese si concentrano in settori ad alto capitale. Nel 1915 tali studi portano ai seguenti

risultati:

Gran Bretagna Germania/Italia

Le grandi imprese sono concentrate in alcuni settori → first movers tradizionali

Settori:

tabacco;

alimentari.

Settori:

chimica;

settori tradizionali.

Vi sono poche imprese di grandi dimensioni

nel settore petrolifero perché lo studio è

stato svolto nel 1915, ci vorrà più tempo

perché esso si sviluppi.

Le grande impresa manageriale europea è comunque più piccola di quella americana.

Durante il II dopoguerra, nel 1950 le differenze settoriali tra i vari stati si riducono, in

particolare i settori coinvolti sono:

il tessile;

l‟alimentare.

Negli anni ‟70 in Europa compaiono le prime grandi imprese conglomerate, il fenomeno rimane

comunque più limitato rispetto a quello americano, infatti coinvolge solo l‟1% delle imprese. Gli

es. in Italia sono l‟”ENI” e la “Montedison”.

Espansione verso mercati lontani

Gli investi diretti all‟estero (= FDI, foreign direct investment) sono quelli che consentono di

sfruttare anche all‟estero le capacità dell‟impresa manageriale → nel caso di impresa

multinazionale e/o transnazionale. Tali due termini vengono utilizzati da molti studiosi come

sinonimi ma in realtà vi è una differenza:

impresa multinazionale

=

impresa transnazionale

=

imprese che effettuano FDI con filiali

all‟estero, nelle quali ci si occupa

direttamente degli approvvigionamenti nei

mercati nazionali → si svolge nel paese

estero l‟intero ciclo produttivo.

strategie globali secondo le quali ogni fase di

lavorazione del prodotto viene svolta in un

paese diverso in base:

al costo;

alla normativa fiscale;

a motivi di ricerca scientifica.

→ Es. strategie utilizzate da Nike, Nestlè e

Apple.

Per studiare gli FDI o gli investimenti di portafoglio, alcuni studiosi usano le percentuali di

detenzione del capitale; ma questa risulta un‟ipotesi poco convincente, perché il fulcro della

questione sta nell‟interesse della gestione, che non concerne con un mero scopo di lucro.

Chi non ha interessi → interessi di portafoglio.

Chi ha interessi → FDI.

Le imprese investono mediante FDI (= all‟estero) per i seguenti motivi:

tariffe doganali e provvedimenti legislativi che rendono più conveniente produrre

all‟estero;

basso costo del lavoro;

possibilità di sfruttare nuovi mercati di sbocco;

cercare di prevenire la concorrenza;

strategie di diversificazione della produzione di marca per rispondere all‟esigenza

locale → produzione di beni destinati solo al mercato esterno.

Gli studi sui FDI non derivano da Chandler perché sono piuttosto recenti, infatti si sono

sviluppati durante gli ultimi 30 anni, ma hanno comunque radici antiche, alla fine dell‟800 e

durante la I guerra mondiale, in generale in Europa, in particolare in Gran Bretagna → apice

dell’imperialismo europeo. Tali FDI sono diretti in:

33% centro-sud America;

21% Asia;

20% USA;

20% Europa orientale;

….

I settori, ai quali gli FDI erano indirizzati, sono:

settore risorse naturali → 56%;

servizi → 33%;

industria → 15%.

Le multinazionali europee sono più piccole rispetto a quelle americane, già in quest‟epoca. In

Gran Bretagna vi sono le free standing companies, le quali solo in questa nazione sono

registrate, ma hanno la caratteristica di operare solo all‟estero. Negli anni ‟20 questi FDI si

spostano verso altri settori, quali quelli ad alta tecnologia (come quello petrolifero). Aumenta

il peso delle multinazionali americane, le quali assorbono anche quelle inglesi. Nel 1929 lo

sviluppo delle multinazionali è frenato, a causa della crisi, infatti vengono chiusi i mercati e di

conseguenza diminuiscono gli FDI. Durante la II guerra mondiale un ruolo importante, rispetto

ai FDI, viene svolto dalla Gran Bretagna e dall‟Olanda grazie alla Shell e cresce in modo

importante la quota di FDI in America. Tra il 1960 e il 1980 gli FDI aumentano in modo

spropositato, di 5 volte rispetto al passato. Per quanto riguarda la detenzione di FDI, si può

dire che sia così suddivisa sui vari paesi:

USA → 40%;

Gran Bretagna → 15%;

Olanda → 8%;

Germania → 8%;

Giappone → 8%.

Tra i paesi di destinazione prevale l‟Europa, inoltre prevale il fatto che si investa all‟estero nei

paesi sviluppati, e soprattutto nel settore manifatturiero. Tra il 1980 e il 1990 vi è un

ulteriore sviluppo degli FDI, infatti inizia l‟era della globalizzazione: tutti i paesi

industrializzati investono all‟estero provocando un rallentamento dello sviluppo americano →

fenomeno diffuso nei paesi economicamente avanzati. In Italia un valido es. è rappresentato

da imprese come l‟ENI, la FIAT e la Telecom, ma qui sono diffuse anche le cosiddette

multinazionali tascabili (= imprese di medie dimensioni), come la Candy e la MAPEI. Le aree di

destinazione per quanto concerne gli FDI sono le seguenti:

Europa → 43%;

USA → 21% grazie ai tassi d‟interesse vantaggiosi (i quali hanno portato all‟attuale

crisi);

Cina ….

Anche i settori di destinazione di tali investimenti cambiano con il tempo, infatti sono rivolti

ai servizi in prevalenza (per oltre il 50%). In pratica:

modello familiare modello manageriale

Gruppi d’imprese: risultano molto importanti, soprattutto in alcuni paesi di più recente

industrializzazione, e che sono imprese conglomerate le quali si sviluppano grazie allo

sfruttamento di tecnologie estere, operando mediante una gestione centralizzata. Esempi

sono il Giappone e il Sud America.

Caso giapponese

Gli zaibatsu rappresentano quei gruppi di imprese giapponesi. In precedenza il processo

d‟industrializzazione giapponese si basava su due strutture:

Stato Zaibatsu

Ha un ruolo forte, più rispetto agli altri paesi

di tarda industrializzazione. I suoi compiti

sono:

proteggere mediante barriere

doganali;

adottare prezzi di equilibrio stabili in

modo tale da contenere l‟inflazione;

costruire le strutture necessarie allo

sviluppo economico del paese;

sostenere l‟investimento tecnologico;

favorire cartelli e/o accordi;

porre limiti per quanto riguarda il

numero di imprese nel settore;

promuovere la ricerca e lo sviluppo.

Istituzione fondamentale del modello

giapponese che si sviluppa dal 1968 e opera

fino alla II guerra mondiale.

Gli zaibatsu sono dei grandi gruppi composti da un ingente numero di imprese che adotta

strategie di diversificazione non correlata. All‟interno di tali gruppi è prevista anche una

banca denominata house bank,la quale è dotata di una struttura mista, infatti:

finanzia l‟intero gruppo;

detiene le sue partecipazioni.

La proprietà degli zaibatsu è in capo a delle famiglie mercantili, un valido es. è la Toyota. Tra

la fine dell‟800 e l‟inizio del „900 comincia a industrializzarsi, così nascono tali gruppi mediante

l‟adozione di tecnologie estere. Le imprese che fanno parte del gruppo operano in maniera

diversa e non detengono contatti tra di loro, ma tutte adottano politiche aggressive nei

confronti dei paesi stranieri. Tale forma atipica si sviluppa a causa di una mancanza di

gerarchia manageriale appropriata alla costruzione di uno sviluppo, come quello americano. Così

nascono tante imprese di piccole dimensioni unite nel medesimo gruppo che operano in settori

diversi al fine di ridurre il rischio d‟impresa. Negli anni ‟30 hanno un ruolo importante perché

diventano le protagoniste della militarizzazione del paese, in pratica si occupa

prevalentemente della produzione di armi in preparazione alla II guerra mondiale. Alla fine

della II guerra mondiale il Giappone viene invaso dall‟America che rende illegale gli zaibatsu.

Nel 1952 termina l‟occupazione americana, il governo giapponese decide la ripartizione

dell‟economia del paese, mediante la costruzione di gruppi di imprese nuovamente ma questa

organizzazione non è più vista bene a livello internazionale. Ecco che nascono i keiretsu, i quali

sono gruppi di imprese, ma non più facenti capo a delle famiglie, ma controllati mediante

partecipazioni incrociate; man mano che si va avanti nel tempo, però, si ricostituiscono gli

zaibatsu. Negli anni ‟60 così sul panorama economico del Giappone operano due tipi di gruppi di

imprese: gli zaibatsu e i keiretsu. In pratica si afferma un modello di sviluppo industriale

differente rispetto a quello americano il quale è basato su un‟elevata flessibilità:

per la produzione;

per il mercato del lavoro.

Al fine della costruzione di unità produttive non si fa ricorso né una ripartizione del lavoro

divisionale, né funzionale, ma ogni unità operativa (= lavoratore) è motivato e ha il fine di

raggiungere un determinato obiettivo di produzione. In tale organizzazione l‟intera squadra è

direttamente responsabile in merito alle singole funzioni, le quali sono intercambiabili, inoltre

si basa su un lavoro di tipo sinergico. Non vi è una divisione gerarchica dei compiti, del tipo

dall‟operaio all‟ingegnere, ma il lavoro è inteso come un fattore collettivo e sinergico, che dà

un grande stimolo a coloro che fanno parte dell‟azienda. Durante gli anni ‟70-‟80 tale modello

diventa un modello di successo, il quale è alternativo a quello fordista. Si sviluppa tramite un

modello piramidale, il quale:

House bank = polmone finanziario

Impresa capogruppo

Imprese-satellite

Tale modello prevede le seguenti caratteristiche:

flusso continuo di informazione tra la manodopera e i manager mediante l‟utilizzo di

tecnologia;

aspirazione a raggiungere i vertici della piramide (ossia lavorare in capo all‟impresa

capogruppo) per ottenere un posto fisso;

sistema giapponese → toyotismo (come alternativo al fordismo).

Negli anni ‟90 il Giappone diventa la seconda economia al mondo, dopo gli USA. Nel corso degli

anni ‟90 subisce una forte crisi a causa di diversi fattori:

ristrettezza del mercato interno, il quale è pure caratterizzato da bassi livelli di

consumi;

non vi è un adeguato sviluppo del mercato del capitale;

problemi politici tra impresa e Stato a causa di legami poco chiari e ampia diffusione di

correzione.

Il modello giapponese viene imitato da:

Korea, la quale è stata sino alla II guerra mondiale sotto in controllo dello stesso

Giappone. Infatti anch‟essa è caratterizzata da un ruolo importante dello Stato, il

quale è imprenditore, dirigista e autoritario ma che comunque stimola lo sviluppo

economico. La Korea si affida alle tecnologie estere e le imprese koreane si sviluppano

in gruppi con a capo alcune famiglie denominati chaebol, simili agli zaibatsu giapponesi.

Si differenziano da queste ultime per il fatto che non possono rientrare all‟interno del

loro gruppo le banche (ossia non caratterizzate da gruppi di imprese controllati dalle

banche). Ma di conseguenza chi controlla è lo Stato, il quale influenza fortemente il

processo di organizzazione del paese che vede la fase di sviluppo maggiore dopo la II

guerra mondiale grazie anche all‟imitazione dei modelli americani, quindi utilizzano

politiche aggressive e puntano su una forte diversificazione. Alla fine degli anni ‟80 i

gruppi più importanti sono Hyundai, Samsung, Daewoo e Lucky Goldstar;

just in time = modello di produzione che mira a

ridurre al minimo le scorte per evitare gli sprechi; ciò

viene fatto tramite:

lavoro di squadra;

autoattivazione:ogni membro della squadra è in

grado di intervenire per risolvere le anomalie/i

problemi del processo produttivo;

maggiore qualità, vasto assortimento;

riduzione dei costi.

→ Differenziazione (ottica) flessibile = produrre al

fine di adattarsi a diversi tipi di produzione

Sudamerica (Brasile, Argentina), nella quale si sono sviluppati i groupos. Si tratta di

tante imprese dotate di una gestione finanziaria e di parte di gestione imprenditoriale

unificata. Si sviluppano in modo intenso soprattutto negli anni ‟20. Esempi simili di

imprese nascono anche in India.

→ L‟industrializzazione tardiva sviluppa sistemi diversi rispetto le grande imprese manageriali

perché non ha le medesime competenze. Le imprese (che fanno parte dell‟industria di tarda

industrializzazione), se vogliono competere sui mercati esteri, però, si devono rendere conto

dell‟impossibilità di tale evenienza quanto piccole imprese, così si sviluppano sottoforma di

forme intermedie.

Altre forme imprenditoriali, tipiche italiane, sono i distretti industriali (individuati e definiti

dallo studioso Giacomo Becattini), i quali rappresentano delle entità socio-territoriali

caratterizzate da comunità di persone compresenti attivamente in un‟area circoscritta verso

una certa popolazione.

Entità socio-territoriale = è necessario far riferimento a un‟area territoriale circoscritta e

ben determinata, anche collegata a livello legislativo e sociale; tale relazione si estende anche

tra le imprese e coloro i quali sono coinvolti in tali attività → ruolo importante dell‟individuo.

In pratica si tratta di tante piccole imprese presenti in un‟area circoscritta e le quali hanno

dei legami. Gli elementi cruciali sono 4:

1. la comunità locale;

2. le imprese che ne fanno parte;

3. le risorse umane;

4. il mercato di riferimento.

I contatti all‟esterno riguardano i fornitori in prevalenza, ma mediante questo si allarga la

produzione a livello nazionale, e successivamente a livello internazionale. Anche il distretto,

così, diviene alternativo al fordismo, e la specializzazione flessibile costituisce una valida

alternativa alla produzione di massa. Tutto ciò mette in crisi il paradigma chandleriano, il quale

vedeva la grande impresa come il punto d‟arrivo per le performance. Le caratteristiche di un

distretto sono:

elevata flessibilità;

basso costo del lavoro;

bassi costi di transazione;

bassi costi di circolazione delle informazioni.

Grazie allo stretto legame tra imprese e contesto sociale in cui tali imprese operano, infatti,

si delineano le caratteristiche appena elencate.

La comunità locale è la comunità di persone che vive all‟interno di un distretto, la quale segue

un preciso insieme di:

regole;

istituzioni;

codice etico e codice del lavoro;

legami familiari.

Tali valori vengono preservati nel tempo e trasmessi di generazione in generazione (mediante

circoli, parrocchie) → legami forti.

Le imprese sono di piccole dimensioni (poi eventualmente possono ampliarsi) specializzate in

poche fasi del processo produttivo complesso, il quale risulta scomponibile nelle sue parti e

che consente una divisione del lavoro a livello locale (del distretto).

Le risorse umane rappresentano la forza-lavoro, la quale ha grandi competenze ed è

caratterizzata da un‟elevata mobilità verticale (dotata anche di una rilevante

intercambiabilità dei ruoli tra i commercianti, gli imprenditori e gli operai).

Il mercato di riferimento è flessibile e specializzato, la merce prodotta è di qualità elevata e

tipica (= riconoscibile), le consegne sono molto rapide. Non si tratta di certo di un mercato

vasto, né tantomeno omogeneo, ma è basato sulla produzione di nicchia, la quale si sposta

continuamente per esigenze di mercato. Per quanto riguarda la fornitura di materie prime il

distretto rappresenta un compratore specializzato, quindi l‟acquisto delle medesime si fa in

comune e si beneficia delle economie di scala. Il mercato di approvvigionamento è quindi

considerato elastico, infatti ci si fornisce dove più conviene. Anche il mercato creditizio

occupa la sua importanza: infatti il finanziamento viene effettuato con ricorso a banche locali

che forniscono un credito agevolato, grazie agli stretti rapporti personali (per la banca il

rischio d‟insolvenza è minore in tale situazione poiché, grazie a una buona circolazione di

informazioni all‟interno del distretto, è a perfetta conoscenza della solvibilità delle imprese in

questione).

Altre caratteristiche del distretto sono:

la resistenza contro l‟introduzione delle innovazioni a causa del peso del capitale umano

e delle sue competenze;

l‟introduzione delle innovazione, quando avviene, avviene in modo graduale in modo tale

che l‟adattamento delle medesime all‟interno del processo produttivo sia visto in modo

meno traumatico.

Il processo d‟industrializzazione in Italia è dotato di più fasi:

tra il „700 e l‟800, all‟interno del triangolo industriale (Genova-Milano-Torino) si

sviluppano grandi imprese private → I Italia;

durante gli anni ‟30: vengono istituite le grandi aziende a partecipazione statale, con la

costituzione dell‟IRI → II Italia;

accanto alle precedenti forme d‟impresa si affiancano i distretti, anche se a dire il

vero, molti di essi si sono sviluppati in epoca più remota, ma in tale periodo lo sviluppo

è stato intenso → III Italia.

Le aree geografiche di maggior sviluppo industriali sono:

il Trentino;

il Veneto;

il Friuli;

l‟Emilia;

la Toscana, specializzata in attività estrattive e nel tessile;

le Marche, specializzata nel settore delle calzature;

l‟Abruzzo.

regioni economiche del nord-

ovest protagoniste della I Italia,

e regioni del centro-sud,

protagoniste della II Italia; altre

regioni caratterizzate dalla

prevalenza del settore agricolo,

sviluppato con capitale fondiario

e in cui vige una spiccata

tradizione

La crescita dei distretti si ha dagli anni ‟70 in poi, ma essi entrano in crisi nel corso degli anni

‟80 anche a causa della spietata concorrenza da parte delle grandi imprese. Durante gli anni

‟90, comunque, si rendono protagonisti di una buona ripresa, ma per fare ciò devono

trasformarsi in media impresa orientata anche sul mercato internazionale e vengono

denominati multinazionali tascabili settore made in Italy. A questo punto all‟interno del

distretto emerge una determinata impresa e le altre divengono le sue imprese-satellite.

Nuovo fenomeno: IV capitalismo: il periodo della nascita delle multinazionali tascabili viene

così denominato (IV Italia); si sviluppa un fenomeno interessante: la nascita di imprese di

medie dimensioni con un numero di dipendenti maggiore a 250 e un fatturato minore a 1,5

miliardi. Tali aziende acquistano importanza a partire dagli anni ‟90 anche se hanno origini più

antiche. Secondo la classificazione dello studioso Andrea Colli le imprese possono così essere

suddivise:

imprese pioniere;

baby boomers: le più diffuse con origini antiche, come ad es. la Candy e la Berloni;

latecomers: sviluppatesi negli anni ‟70-‟80 come la Stefanel, la Diesel, l‟Aprilia e La

Perla.

Tali imprese nascono con base artigianale e si irrobustiscono col passare del tempo, mediante

le seguenti caratteristiche:

produzione di beni individuabili;

il mercato di riferimento è dotato di barriere all‟entrata;

imprese fortemente legate all‟ambiente d‟origine, il quale viene mantenuto come

riferimento;

forte controllo familiare.

Imprese cooperative

Tali imprese hanno la caratteristica di essere no profit, e tra di esse sono le più diffuse a

livello mondiale. Di solito si tratta di associazioni autogestite e volontarie, costituite di

individui che si uniscono tra di loro allo scopo di soddisfare le proprie esigenze, aspirazioni

economico-sociali, le quali si fondano sui seguenti valori:

responsabilità;

equità;

garanzia;

solidarietà;

uguaglianza.

In teoria le scelte strategiche dovrebbero essere basate su tali valori. Nel 1884 nasce la

prima cooperativa a Manchester, la quale commercializzava prodotti alimentari e candele, la

quale viene fondata dal settore tessile per acquistare beni di prima necessità per rivenderli ai

propri operai.

MODULO B

Architettura organizzativa dell‟impresa

Si tratta della struttura, del modo con cui si mette in campo l‟impresa per perseguire una

strategia. A seconda della dimensione, del contesto la struttura organizzativa necessaria,

sarà diverso. All‟inizio delle rivoluzioni industriali, vi sono imprese familiari con a capo un unico

titolare che si rivale di pochi dipendenti. Il big business di Chandler nasce durante la II

rivoluzione industriale, comunque ancora le imprese non possiedono una vera e propria

struttura organizzativa.

L‟organizzazione monofunzionale è quella che caratterizza la semplice attività produttiva

elementare, in cui vi è una struttura verticale,la quale prevede che tra i lavoratori delle unità

operative vi siano sia quelli specializzati nel coordinamento, sia quelli esecutivi. I rapporti sono

gerarchici, cioè i livelli più bassi prendono comandi dagli organi superiori, e le unità operative

di solito non hanno un contatto diretto con l‟imprenditore. Le funzioni di staff non prevedono

un contatto con le unità operative. Questo tipo di struttura non funziona più quando si

sviluppano i big business nel contesto americano, i quali impongono una riorganizzazione:

l‟imprenditore non è più il proprietario dell‟azienda, ma lo è una società anonima per

azioni: chi gestisce l‟impresa ha una responsabilità nei confronti dei soci e dei

finanziatori;

esigenza di ricorrere al capitale estero di rischio e al capitale proprio.

All‟interno del primo ramo industriale in cui si manifesta la necessità riorganizzativa è stato

quello delle ferrovie, ove appunto si è reso fondamentale organizzare in modo efficiente il

trasporto che è differenziato al suo interno (settore trasporto merci e settore passeggeri).

Non esiste un‟unica compagnia monopolistica, poiché le ferrovie si trovano a dover associarsi

con altre imprese per funzionare, affrontando così problemi complessi, e cercando di

mantenere efficiente il sistema di manutenzione: per questo motivo vi è un bisogno di dirigenti

al fine di una corretta differenziazione geografica, essenziale per gestire in modo corretto

sul posto. Ciò impone nuovi metodi di gestione → struttura organizzativa plurifunzionale

accentrata (descritta da Alfred Chandler):

Proprietario

Rapporto

fornitori - clienti

Responsabili Funzione di

staff:contabilità,

personale, ecc.

Unità operativa x Unità operativa Y

Particolarità: i reparti sottostanti vivono con il Consiglio d‟Amministrazione un rapporto

gerarchico, mentre gli organi di staff non dipendono gerarchicamente da esso, ma integrano

semplicemente le sue funzioni. La struttura è accentrata poiché tutto dipende dall‟assemblea

degli azionisti. Le decisioni vengono prese tutte al vertice, che poi vengono rese esecutive

dalle unità operative. Lo staff ha una semplice funzione di appoggio ai vertici.

Le imprese ferroviarie che si sviluppano sono dotate di manager moderni, cosicché tale

struttura organizzativa plurifunzionale accentrata viene esportata al settore manifatturiero,

rammentando che funziona finché:

vi è una precisa identificazione delle funzioni;

è facile da capire se gli obiettivi vengano fissati o meno.

Ciò funziona perché le ferrovie e le altre imprese dell‟800 sono caratterizzate da:

imprese monoprodotto;

produzione di prodotti molto vicini tra di loro.

Nel „900 accade che (soprattutto negli USA) l‟impresa si tende a diversificarsi, così nascono

le cosiddette imprese conglomerate, perché:

il mercato è saturo e dà pochi margini operativi;

l‟adozione di economie di scopo (≠ economie di scala = vantaggio nel produrre di più, a

causa di costi fissi alti) che consentono di trarre un vantaggio poiché vengono

utilizzate meglio le risorse, le quali in precedenza venivano sfruttate solo in parte

(caratteristico il caso dello sviluppo tecnologico).

La diversificazione implica canali di vendita diversi, così capita che l‟impresa multinazionale

accentrata (chiamata u-form da Chandler) non sia più adeguata. Così nasce una nuova

struttura organizzativa: struttura organizzativa multi divisionale (chiamata anche m-form

da Chandler).

Assemblea degli azionisti

Amministratore delegato

Consiglio d‟Amministrazione

Organi di staff

finanziamento, acquisti, vendite, GRU, assistenza legale

Funzione → singoli prodotti

Funzione → territorio

Azionisti

Divisione = struttura più complessa rispetto alle funzioni della struttura organizzativa

plurifunzionale.

Ora è opportuno analizzare due cose:

1. i vertici hanno responsabilità strategiche di lungo periodo per tutte le imprese;

2. le singole divisioni dovendo coordinare produzioni o aree geografiche con

caratteristiche diverse tra loro, le quali:

margine di autonomia ampio perché si tratta di problemi diversi tra di loro sia

per quanto riguarda la diversità del prodotto, sia per la modalità di

distribuzione;

funzioni di staff decentrate alle singole divisioni, le quali sono addirittura

organizzate come singole imprese monofunzionali.

Divisione = ogni divisione è una singola impresa in concorrenza rispetto alle altre, ma

all‟interno di un‟unica grande impresa; al fine di verificare la propria efficienza ed efficacia, si

decide se continuare o meno l‟attività svolta all‟interno della medesima divisione. Le prime

imprese americane che adottano tale struttura sono:

la Du Pont (industria chimica);

Top management:

Consiglio d‟amministrazione

Amministratore delegato

Organi di staff Organi di staff

divisione A divisione B divisione C

divisione

staff staff

funzione funzione funzione

la General Motors.

In particolare la Du Pont possiede 5 divisioni:

1. esplosivi;

2. coloranti;

3. vernici;

4. fibre tessili artificiali;

5. cellulosa.

La General Motors ne possiede 7:

1. accessori per auto (ricambi);

2. mezzi industriali (camion);

3.

4.

5.

6.

7.

La diversificazione porta a un‟architettura più complessa dell‟azienda.

Resto del mondo: in particolare l‟Europa

Nel resto del mondo la situazione è diversa dagli USA, infatti non vi sono imprese di quelle

dimensioni. Chandler sostiene la struttura divisionale, ritenendola la migliore. In realtà però si

sono sviluppate anche altri tipi di imprese, soprattutto in Europa, mentre ad es. la Siemens e

la francese Saint-Gobain sono dotate di strutture organizzative analoghe a quelle divisionali.

In generale il modello divisionale si diffonde in Europa dopo la II guerra mondiale, ma non su

tutto il continente: si evidenziano, nel secondo dopoguerra, due blocchi: uno occidentale che

fa riferimento agli USA e uno orientale che fa riferimento all‟ex URSS. In particolare

nell‟Europa occidentale, grazie all‟apporto della mentalità americana, viene suggerito alle

grandi imprese di riorganizzarsi in maniera multi divisionale (Germania, Francia e Italia). La

Gran Bretagna segue più alla lettera il modello americano, mentre a livello extraeuropeo,

importante caso a sé è quello del Giappone. Rientrando nel contesto europeo, il paese che

tarda molto a utilizzare il modello divisionale è la Spagna, a causa della dittatura franchista.

Comunque, in generale, il modello divisionale è stato introdotto tra il 1947 e il 1950 con il

piano Marshall, con esso anche introdotte le varie conoscenze, consulenze, know-how

organizzativo, ecc..

Le forme organizzative preesistenti non scompaiono e una in particolare resiste a tutt‟oggi: la

holding, h-form (così denominata da Chandler). Questa è una struttura che controlla una

serie di imprese-satellite che operano in ambiti legati tramite un‟integrazione verticale e/o

orizzontale: si tratta di imprese distinte (anche caratterizzate da un‟alta % di

partecipazione), di società partecipate in altre società. Soprattutto nelle imprese in cui vi è

una forte polverizzazione e caratterizzate in genere da piccoli azionisti, per detenere il

controllo è sufficiente una ridotta % di azioni. Al fine di verificare i legami tra le varie

imprese del gruppo (interlocking directorship) si va a vedere se ad esempio vi sono persone

che risiedono in più consigli di amministrazione, infatti ciò è sintomo di un legame

(rappresentanti in comune tra le varie imprese). Secondo Chandler alla holding manca una

visione d‟insieme, infatti non sono chiari i rapporti tra la holding e gli assetti proprietari delle

autovetture distinte appartenenti a case

automobilistiche diverse.

controllate, che possono variare e che si possono sovrapporre una sull‟altra (tipico il caso della

FIAT con la Lancia e l‟Alfa Romeo). Non è nemmeno chiara né tantomeno identificabile chi è a

capo della responsabilità strategica e operativa, infatti Chandler conclude dicendo che il

manager della holding è meno “potente”, perché egli ha meno strumenti e informazioni per

intervenire, rispetto alla struttura divisionale. Ancora questo non è in grado di sostituirsi a

manager controllati, i quali possono essere ostili nei suoi riguardi, specie se il pacchetto di

controllo è basso. Ciò comporta una sorta di confusione: le imprese controllate cambiano

continuamente e possono contrapporsi, cosicché il manager può confondersi durante la sua

gestione. Chandler, proprio per questi motivi, considera la holding meno funzionale rispetto al

modello divisionale. Eppure molti paesi mantengono tale forma organizzativa meno efficiente

per le seguenti motivazioni:

esistono fattori esogeni all‟impresa che possono condizionare l‟adozione di una scelta

organizzativa piuttosto che un‟altra (dipende dal contesto legislativo in cui si opera);

elementi culturale-ambientali: lo studio americano si basa molto sul livello

multidivisionale; in Europa la situazione è estremamente indifferente.

Vi possono essere anche delle soluzioni ibride, soprattutto in quei contesti che continuano a

sopravvivere e che hanno radici in fattori culturali-ambientali particolari di quell‟ambito.

L‟incentivo all‟utilizzo di una diversa soluzione organizzativa non vi è, finché risulta

conveniente produrre con una determinata struttura → il cambiamento costa. Vi sono

cambiamenti pilotati o più difficili da applicare; comunque i modelli adottati si discostano

spesso rispetto alla teoria, per motivi economici.

ODL

Struttura che l‟impresa utilizza per operare → organizzazione del lavoro, ODL. All‟inizio

della rivoluzione industriale le condizioni di lavoro erano disumane, “esse piegavano l‟uomo al

servizio del capitale” (Carl Marx). Chiaramente si tratta di elementi intrisi di una componente

ideologica → la realtà è più complessa. A fine „700 non vi sono ancora contesti con centinaia di

persone, ma piuttosto unità produttive sparse per il territorio, di solito nelle vicinanze di un

corso d‟acqua da sfruttare come energia. I lavoratori cambiano il loro modo di lavorare in base

alle innovazioni tecnologiche introdotte → cambiamenti lenti, quindi non vi è un radicale

mutamento delle condizioni lavorative. Quando nascono le prime fabbriche, vengono

fortemente ostacolate, da parte delle industrie artigiane e delle corporazioni che si

contraddistinguevano per qualità. Le prime macchine industriali (vi è stata una graduale

sostituzione del capitale umano, la forza-lavoro, con forza-capitale) permettevano la velocità

nella produzione, ma anche ahimè l‟abbassamento della qualità: tali attività di lavorazione

industriale non richiedevano particolari abilità. La velocità si esplica nella sostituzione a 8

persone di una sola macchina, nella sua produttività. Ma siamo ancora in una fase transitoria,

in cui le attività manifatturiere hanno un ingente peso. Solo con l‟introduzione della macchina

a vapore (1830-1840) si sviluppa la grande fabbrica con centinaia di lavoratori. L‟ODL diventa,

così, un problema complesso perché i lavoratori non hanno le stesse capacità di svolgere le

mansioni → si creano delle sequenze obbligate: all‟interno delle singole fasi vi sono:

attività non specializzate;

attività svolte con lavoro estremamente qualificato.

La macchina va, tendenzialmente, a sostituirsi al lavoro non qualificato che non richiede

grosse abilità manuali. Comunque vi sono diverse resistenze da parte dei lavoratori non

specializzati, i quali hanno paura di perdere il posto di lavoro. Il rapporto tra lavoratore

generico e operaio specializzato (= aristocrazie operaie, rappresentano le eccellenze):

l‟operatore non specializzato rispetta e individua quello specializzato

→ differenza retributiva

Per divenire operaio specializzato (oggi):

formazione scolastica (= conoscenza)

+

esperienza

=

professionalità.

Ai tempi l‟istruzione era ridotta all‟osso, e si imparava il “mestiere” guardando gli altri,

mediante le conoscenze tacite, imparando sul campo, senza che esplicitamente venga previsto

un manuale (questo è un metodo più intuitivo, si impara dal lavoro altrui). In pratica non

esistevano testi scritti e il lavoratore specializzato si trovava in posizione di vantaggio per i

seguenti motivi:

il datore di lavoro non ne poteva fare a meno;

veniva pagato di più;

veniva a esso riconosciuta una posizione di supremazia.

Il lavoratore generico aveva l‟opportunità di maturare con il tempo in termini di esperienza, e

quindi poteva divenire, col tempo, a sua volta, un lavoratore specializzato così traeva i

seguenti vantaggi:

guadagnare di più in termini economici;

guadagnare di più in termini sociali, anche al di fuori della fabbrica.

In seguito anche l‟operatore specializzato comincia ad aver paura della tecnologia, la quale

potrebbe “rubargli la scena”. Infatti l‟impiego della forza lavoro qualificata comincia a variare

in base al settore:

settore metallurgico: caratterizzato da sempre da forza-lavoro non qualificata;

settore meccanico: la forza-lavoro qualificata adottata si aggira intorno al 60%, poiché

all‟epoca non erano tante diffuse le macchine utensili, quindi non vi è il sufficiente

grado di precisioni (ossia le opere effettuate sono simili, ma non identiche) → così era

necessaria la fase di aggiustaggio,al fine di aggiustare i dettagli per ottenere un

prodotto standardizzato (in realtà non è sufficientemente standardizzato).

La standardizzazione è sintomo di abbondanza di capitali e scarsità di forza-lavoro. Vengono,

così, diffuse le macchine-utensili, le quali permettono un‟estrema precisione: tale sistema è

denominato sistema americano di standardizzazione manifatturiero, caratterizzato da:

il prodotto finale standardizzato;

i componenti del prodotto devono essere sostituibili.

A introdurre tale sistema sono le aziende meccaniche, in particolare:

la meccanica leggera;

le armi (la Colt);

le macchine da cucire (la Singer);

le serrature (la Yale).

Il sistema americano rappresenta primo elemento ad abbattere il forte potere dell‟operaio

specializzato, in Europa non si diffonde subito a causa di:

il numero ingente dei lavoratori;

tali lavoratori oppongono resistenza.

L‟avvento del sistema è importante all‟inizio del „900 e così nascono due importanti strutture

organizzative:

Taylorismo, organizzazione scientifica del

lavoro

Fordismo

Teoria elaborata da Taylor, il quale formula

dei principi osservando gli operai a lungo nello

svolgimento di una mansione (anche semplice)

e scopre che non tutti la svolgono nel

medesimo modo. Così formula una teoria

basata sull‟ottimizzazione di ogni lavoro,

prevedendo dei criteri al fine di giungere

Struttura nata da Ford, il quale cerca di

riorganizzare la suddivisione del lavoro così

facendo:

egli parte da alcune idee espresse da

Taylor; bisogna aumentare la produzione e la

produttività.

all‟efficienza, tenendo conto che il lavoro è

svolto per tutta la giornata e per tutta la

vita, suddividendo il lavoro in fasi. Tali studi

vengono applicati da molte fabbriche. ↓

Un sistema di questo genere è stato

inventato dall‟Ingegnere Bedaux, il quale

stabilisce la quantità di lavoro che si riesce a

fare in un minuto, moltiplicandolo per 60, così

da ottenere la quantità di lavoro esatta da

svolgere in un‟ora → pagamento al lavoratore

in base a quanto produce in un‟ora. Se un

lavoratore riesce a produrre di più, allora

sarà incentivato mediante un reddito

superiore.

Bisogna prendere in considerazione due

variabili:

I variabile: il costo totale di

produzione;

II variabile: il salario degli operai.

Quando scende il costo di produzione,

aumenta il salario degli operai. Così si passa

da un bene d‟élite a un bene di massa. Finora

la produzione complessa necessita di fasi

sequenziali affiancate da diverse strutture

organizzative. Ford, inoltre, elabora il

principio della catena di montaggio, nella

quale l‟operaio lavora stando fermo in un

punto al fine di lavorare meglio, ottimizzando

le fasi del processo produttivo in termini di

tempistica. L‟operaio svolge sempre le stesse

mansioni, senza spostarsi da un luogo all‟altro,

dal punto di vista spaziale. La prima catena di

montaggio nasce nel 1912 a Detroit, che però

porta agli eccessi → vengono tagliati tempi e

costi di produzione, però essa richiede

notevoli spazi orizzontali. Nel 1925 (dopo la I

guerra mondiale) il prodotto finale costa

molto meno e si velocizza la produzione

(tipico esempio della ford T). Il successo di

Ford era dato dal fatto che i suoi stessi

operai potessero comprarsi la macchina

prodotta da loro stessi.

Welfare aziendale: benefits extra che

l‟azienda non è tenuta a offrire, ma che

rendono più agevole l‟impegno lavorativo. La

catena di montaggio non viene sempre

accettata, spessa infatti è stata

protagonista e teatro di lotte sindacali, ma

ciò non toglie il fatto che rappresenti un

modello efficiente.

Al di fuori degli USA: caso italiano

Tra il 1916 e il 1922 la Fiat costruisce lo stabilimento Torino Lingotto, concepito come un

modello diverso rispetto a quello della Ford, infatti è caratterizzato dallo sfruttamento

verticale degli spazi. Infatti vi è una forte differenza tra produzione americana e italiana:

il mercato americano è più ampio in termini di dimensioni;

la situazione economica italiana è arretrata, infatti solo pochi possiedono il capitale

necessario per acquistare un‟automobile.

I direttori tecnici della Fiat, tra cui Vittorio Valletta, fanno una spedizione a Detroit per

vedere se la logica fordista può essere esportata in Italia. Grazie a tale trasferta si rendono

conto che i costi di produzione nel nostro continente sono ancora molto alti, cosicché molti

italiani non si possono permettere di comprare l‟auto (infatti se i costi di produzione sono alti,

saranno alti anche quelli di vendita): un operaio può permettersi di comprare solo 1/4

dell‟automobile più economica venduta dalla Fiat. Nel 1939 così viene aperto lo stabilimento

Torino Mirafiori, solo che subito dopo scoppia la II guerra mondiale, e quindi tutte le

produzioni si fermano. Dopo la II guerra mondiale tale stabilimento diviene la più grossa

concentrazione operaia esistente in Italia, proprio perché viene sviluppata la catena di

montaggio. Tale sistema produttivo è caratterizzato da una scarsa qualità, cosicché viene

considerato con diffidenza: infatti si pensa a un modo di produrre non di qualità nella

percezione collettiva → scarso successo del modello Ford in Italia.

Come più volte specificato, il fordismo è quella produzione di massa la quale ha la funzione di

ridurre i costi e allargare il mercato. Tale sistema di produzione entra in crisi dopo la II

guerra mondiale, tra gli anni 1950-1973, periodo che corrisponde alla fase di crescita delle

economie più avanzate. Nel 1937 scoppia il I shock petrolifero, il quale inaugura un forte

periodo di crisi. Fino al 1973 il sistema economico americano è caratterizzato da:

crescita del PIL e del PIL pro-capite;

crescita della produzione fordista.

Dopo il 1973 il sistema fordista entra in crisi, infatti in molti casi vi è un‟attiva partecipazione

degli operai alla vita dell‟impresa, caratterizzata dall‟attento ascolto delle loro osservazioni →

capacità individuali del singolo operaio, anche tra gli operai che svolgono la medesima

mansione. Quindi vi è una maggiore solidarietà tra i lavoratori. Tali principi vengono ripresi e

valorizzati mediante il modello di organizzazione denominato modello di produzione snella

(nato in Giappone) caratterizzato da una lavorazione artigianale, la quale è sensibile ai gusti

del consumatore. Esso viene adottato per la prima volta negli anni ‟70 in un‟altra industria

automobilistica: la Toyota, infatti tale modello viene anche denominato toyotismo. All‟interno

di tale modello vi è un rovesciamento radicale dell‟ottica, rispetto al fordismo: in quest‟ultimo

modello citato vi era un forte legame tra volume della produzione e volume di vendita,

successivamente durante gli anni ‟70, a seguito della crisi petrolifera, ci si ritrova ad avere

eccessivi avanzi di magazzino. Il toyotismo, invece, è basato sulla produzione in funzione alla

quantità delle vendite, in pratica non si programma (come nel modello fordista) la produzione

da monte a valle. Ciò impone:

la produzione di un certo numero di autovetture in un determinato periodo;

i componenti devono essere pronti esattamente quando sono necessari in modo tale da:

eliminare gli sprechi;

snellire il processo produttivo.

In definita la produzione/fabbrica snella si fonda su 3 principi complementari tra di loro:

il just in time, secondo il quale la componentistica deve giungere ed essere pronta al

momento giusto, nella quantità necessaria;

l‟autoattivazione, secondo cui l‟operaio non deve essere un semplice strumento di

lavoro, ma deve anche essere in grado di intervenire in maniera appropriata in caso di

anomalie, al fine di eliminarle (→ qualità elevata);

il lavoro di squadra, secondo il quale si valorizza la responsabilità in capo a ciascuno; i

gruppi controllano e autogestiscono la produzione → solidarietà tra i lavoratori.

L‟operaio sempre meno svolge un semplice lavoro manuale, ma lavora a livello di coordinamento

tra i vari macchinari, così attenuandosi la differenza tra i colletti bianchi (= gli operai) e i

colletti blu (= gli operai, per l‟appunto). Le diverse fasi del lavoro sono tutte importanti per la

produzione ottimale del prodotto finale. Il toyotismo ha un grande successo, infatti la Toyota

diventa il secondo gruppo leader nella produzione automobilistica in 20-25 anni → la

produttività per addetto è di 4-5 volte superiore rispetto alle altre cause automobilistiche

europee e americane, le quali continuano imperterrite a utilizzare i sistemi di produzione

vecchi.

Ruolo dell‟innovazione nella storia d‟impresa

L‟innovazione può essere di prodotto, di processo, di organizzazione, inerente all‟adozione di

determinate politiche di marketing, inerente all‟adozione di particolari ed efficienti politiche

dei costi, ecc.. Shumpeter si è occupato molto di innovazione: secondo tale studioso la

capacità di un‟impresa di innovare è alla base del suo sviluppo, l‟impresa che non innova è

destinata a morire. Ancora lo stesso parla di distruzione creativa,teoria secondo la quale

l‟innovazione spazza via le vecchie imprese e le loro tecnologie obsolete. Inoltre Shumpeter

distingue tra innovazione e invenzione, definendo la prima come una teoria suscettibile di

essere tradotta in pratica, e la seconda come un‟idea geniale che sta sul piano teorico, però.

Parla anche di innovazioni a grappolo (= a ondate cicliche), le quali sono concentrate nello

spazio e nel tempo: gli innovatori ottengono così un vantaggio competitivo. Quando tale

vantaggio viene meno, la crescita si arresta e il ciclo economico si inverte, finché non nascono

nuove innovazioni. Sono 3 i cluster dell’innovazione che vengono individuati da Shumpeter in

compagnia di un economista russo Kondratiev, i quali:

1789 1849 1896 1940

1814 1873 1920

I cluster =

innovazioni

tipiche della I

rivoluzione

industriale,

quali l‟industria

del cotone e

quella

metallurgica.

II

cluster =

boom

delle

ferrovie

in tutto il

mondo.

III cluster =

innovazioni tipiche

della II

rivoluzione

industriale, quali il

settore

dell‟elettricità, la

chimica, l‟acciao, il

motore a scoppio,

ecc..

Il progresso tecnico, quindi, avviene per effetto di una spinta endogena, all‟interno della

stessa impresa, o per effetto di una spinta esogena, all‟esterno dell‟azienda. Ancora lo stesso

progresso può derivare da: la crescita della domanda (facendo in modo di produrre di più) e il

cambiamento scientifico e tecnologico sia rispetto al processo organizzativo che a quello

relativo ai prodotti. Difficile percepire le logiche alla base di tale processo tecnologico, esso

infatti veniva liquidato come una variabile residua la quale non si riusciva a spiegare con altre

variabili. Questa situazione è cambiata quando la tecnologia e l‟innovazione hanno cominciato a

svilupparsi al di fuori dell‟impresa → si determina così un più forte legame tra scienza (=

ricerca) e industria. A metà dell‟800 la ricerca diventa una componente fondamentale per una

sempre maggiore propensione all‟innovazione tecnologica, con conseguente elevata

qualificazione dei lavoratori (anche a livello operaio) e un più alto grado d‟istruzione a essi

richiesto (componente fondamentale per le innovazioni tecnologiche applicate in concreto

durante il processo produttivo). A questo punto entra in gioco lo Stato, il quale comincia a

garantire il servizio d‟istruzione. Gli obiettivi statali sono i seguenti:

alfabetizzazione;

istruzione di livello superiore (tecnici, periti, ecc.);

istruzione universitaria.

Il processo delle innovazioni è condizionato fortemente dal passato: path dependence, teoria

formulata da Paul David, per il quale il processo produttivo dipende anche dal caso e dal

percorso di sviluppo (caso della tastiera QWERTY, la quale si afferma con prepotenza grazie

a fattori casuali, utilizzata ancora ai giorni nostri). Quando si afferma un‟innovazione:

alcuni imprenditore ne fanno uso;

altri rimangono attaccati al sistema precedente (tradizionale).

Secondo Shumpeter l‟innovazione spinge l‟imprenditore che non la adotta a:

uscire dal mercato;

riconvertirsi alla nuova tecnologia.

Altri studiosi hanno ipotizzato che l‟imprenditore il quale mantiene la vecchia tecnologia,

segue comunque i passi della nuova → effetto sailing ship: nel settore in cui opera la nuova

tecnologia non risulta conveniente (= geografia produttiva). Ancora vi è da aggiungere che la

tecnologia matura, prima di divenire obsoleta, produce ancora un certo margine di

investimento, ossia l‟impresa riesce a gestire per un certo periodo di tempo la sua presenza

sul mercato, in cui valuta se uscire dal mercato perché non può fronteggiare l‟utilizzo della

nuova tecnologia, o se adottarla. Comunque occorre vedere se vi è spazio al fine di inserirsi

nell‟innovazione. Un ruolo importante è giocato dalle innovazioni tecnologiche e in particolare

dall‟istruzione necessaria per intraprenderle: in particolare la ricerca può essere:

esterna: praticata da università e centri di ricerca specializzati;

interna: praticata all‟interno dell‟azienda nella divisione ricerca e sviluppo, soprattutto

dalle grandi imprese.

Nei contesti geografici in cui si sono sviluppate in prevalenza piccole/medie imprese, lo Stato

ha il compito di supportare queste per quanto riguarda il campo della ricerca e dello sviluppo.

La divisione ricerca e sviluppo è fondamentale all‟interno di imprese che puntano sul lancio di

un nuovo prodotto interessante → effetto paradossale: a volte trascorre molto tempo dal

momento della scoperta a quello della commercializzazione; in realtà si tende ad accelerare

l‟introduzione dell‟innovazione, senza soffermarsi troppo a verificarne l‟efficienza. Spesso

essa nasce da un tentativo precedentemente fallito → spingere a innovare di continuo non

deriva da un intenzione aziendale, ma da un‟imposizione esterna, dettata dalla concorrenza.

Infatti se l‟impresa non innova, a lungo termine risulta perdente, tendenzialmente ritrovandosi

in difficoltà: per questo motivo risulta così importante per la stessa di ritagliarsi un piccolo

spazio in tali termini al fine di sopravvivere nel mercato; al contrario si ritroverebbe a dover

uscire dal mercato. Le innovazioni, comunque, sono caratterizzate da:

importanza al fine di entrare nel mercato;

proposta di un prodotto di qualità a un buon prezzo;

ossessione, nel senso che non se ne può fare a meno: l‟impresa in generale punta tutto

su di essa.

Distribuzione commerciale → storia del marketing

I fattori che possono determinare il successo/l‟insuccesso nel mercato e nei confronti dei

concorrenti sono spesso dettati da politiche di marketing. Ciò è risultato molto interessante

per gli studiosi di storia, ma poco interessante per gli economisti. Ad es. la concorrenza

perfetta è quel modello teorico secondo il quale l‟impresa opera in regime di monopolio (una

sola impresa presente sul mercato), che non ha alcun interesse a pubblicizzare la propria

attività. Situazione diversa quella dell‟oligopolio, per il quale poche imprese sono presenti sul

mercato. Per fortuna non tutti gli economisti snobbano la storia d‟impresa, e più nel dettaglio

la storia del marketing: Alfred Marshall ne è un esempio. Egli è un economista che valuta e

riconosce il ruolo dell‟imprenditore, il quale appunto ha un ruolo attivo nel costruirsi un

mercato e sarà sempre alla ricerca di nuovi sbocchi. Tale studioso è in contrasto con il

principio di Jean-Baptiste Say, per il quale basta la produzione di un singolo bene al fine di

creare il mercato. Marhall, al contrario, sostiene che se l‟imprenditore riesce a influenzare il

mercato, allora può orientare la produzione ottenendo un ruolo di rilievo niente affatto

neutro. Marketing = insieme di aspetti: distribuzione commerciale, ricerche di mercato,

politiche di vendite, pubblicità, marche, analisi di comportamento del consumatore, ecc. Oggi

la definizione di marketing è un concetto molto esteso e sviluppato. In passato, non era così:

dalla seconda metà dell‟800 in poi ha guadagnato sempre più rilievo all‟interno delle imprese.

Evoluzione del marketing

Due periodi in particolari vengono presi in considerazione per spiegare come il marketing è

nato, e come si è evoluto → due punti di vista differenti, i quali hanno dei punti in comune, ma

che sono in disaccordo:

1. history of marketing thought:storia del pensiero del marketing che serve a capire

quanto è nato e i quale momento ha cambiato struttura. Sono 4 le ere individuate nella

storia del marketing:

a) 1900-1920 circa: era di fondazione del marketing, nascita del marketing →

all‟interno della business school americana venivano proposti corsi in tale

materia e si comincia a riflettere sempre di più in merito alle sue tematiche. In

questa prima fase il marketing si occupa prevalentemente di distribuzione

commerciale;

b) 1920-1950 circa: si assiste a un consolidamento formale del marketing (= il

marketing è a tutti gli effetti una didattica riconosciuta a livello universitario,

nei quali vengono istituiti specifici dipartimenti; inoltre vengono pubblicate le

prime riviste specializzate, e contestualmente nascono le prime figure

professionali come manager ad hoc o all‟interno delle imprese e professionisti).

Ci si occupa soprattutto di strategie delle imprese e problemi di posizione

dell’impresa nel mercato;

c) 1950-1980 circa: cambiano i paradigmi tradizionali del marketing, si

manifestano due tendenze diverse in un contesto in cui esplode il mercato di

massa, si sviluppa la concorrenza e le spese inerenti al marketing aumentano. Da

un lato alcuni ritengono fondamentale effettuare stime/analisi in ambito

matematico-statistico al fine di ricavare delle approssimazioni in merito alle

indagini di mercato. Dall‟altro lato vi è l‟esigenza di analizzare in maniera

dettagliata il mercato per comprendere i flussi/le tendenze dei consumatori,

mediante un approccio più antropologico, servendosi di un‟opportuna analisi

qualitativa (e non più quantitativa), nella quale non si giunge a un numero, ma

vengono utilizzate altre categorie analitiche. Sempre all‟interno di questo

contesto nasce il marketing mix,per il quale vengono individuate le 4 leve del

marketing su cui si fa riferimento: prodotto, prezzo, distribuzione e

comunicazione;

d) dopo il 1980: fase di frammentazione del pensiero dominante del marketing →

mainstream. La crisi del fordismo determina anche la crisi delle logiche a esso

applicate. Tale periodo è caratterizzato, infatti, dalla globalizzazione, la quale

fa cambiare il contesto internazionale, ma in termini di marketing continuano a

sussistere le due variabili caratterizzante il periodo precedente (quantitative e

qualitative);

2. viene anche analizzato un altro approccio da parte di uno studioso americano, il quale

considera come punto di partenza il lavoro delle grandi imprese (sempre in termini di

marketing): Richard Tedlow, studioso di business history che lavora a Harvard. Egli

individua una vera e propria periodizzazione, suddivisa in 3 fasi principali, alle quali

successivamente ne è stata aggiunta una quarta:

a) dalla II metà dell‟800 fino al 1880: fase in cui non vi è un‟attività di marketing,

in un ben definito modello, poiché il mercato americano di quel periodo è un

mercato frammentato, non integrato in cui vi è una concorrenza ridottissima;

b) 1880-1950: si sta completando la costruzione delle ferrovie, la quale è una delle

condizioni fondamentali perché il mercato si sviluppi a livello nazionale (in

precedenza i costi di trasporto erano proibitivi). Negli USA, il mercato a scala

nazionale si sviluppa in modo graduale dopo la I guerra mondiale. In realtà vi

sono già delle produzioni di massa grazie a un tenore di vita piuttosto alto e un

alto livello di innovazione tecnologica. Con la nascita e l‟espansione del mercato

di massa emerge anche l‟importanza della marca, la quale ha la funzione di

essere il segno distintivo di un determinato prodotto, che rende riconoscibile il

medesimo al consumatore tra gli altri commercializzati (i quali sono simili). A

volte essa si identifica con il produttore e/o con il distributore. Per ridurre i

costi e per favorire lo sviluppo del mercato di massa le imprese hanno adottato

le politiche di marketing in diversi contesti offrendo beni di largo consumo

facilmente standardizzabili. Alla nascita della marca l‟America è in procinto di

mutare i processi di distribuzione a livello nazionale (nascita del supermercato):

i prodotti vengono acquistati dai fornitori di materie prime in grandi quantità, i

quali vengono smistati dall‟azienda in base alle esigenze del consumatore →

distribuzione al dettaglio presente capillarmente nel territorio mediante piccole

unità. Conseguenze:le quantità sono personalizzate al cliente, l‟assortimento è

ridotto, la fiducia tra venditore e consumatore è elevata, i fornitori sono vicini

→ il marketing, in tale contesto, non può avere rilievo. In ambito nazionale

queste imprese devono adottare politiche di comunicazione, quali la pubblicità,

che si evolve nel tempo: giornali, locandine, utilizzo di colori, formati, imballaggi,

ecc.. Le strategie cambiano con l‟arrivo dei nuovi mezzi di comunicazione;

divengono importanti così spot radiofonici e televisivi dedicati a prodotti e/o

sponsor di trasmissioni radio/TV intrapresi dalle imprese per pubblicizzarsi

(dedicandosi soprattutto alle massaie). All‟inizio le campagne promozionali erano

semplici e non mirate a specifici segmenti di clientela: si promuove un prodotto

di unico formato dedicato al numero più alto possibile di potenziali acquirenti;

c) dopo il 1950: cambia radicalmente la società. Esplode la radio, e soprattutto la

TV; l‟offerta di prodotti è aumentata di parecchio e la concorrenza è maggiore.

Al fine di ritagliarsi una quota di mercato si comincia a segmentare il mercato

per età, condizione sociale, condizione culturale, decidendo così a quale target

di clientela indirizzarsi. Le generazioni più giovani risultano meno sensibili al

prezzo, ma piuttosto lo sono a questioni simboliche legate allo status. Per questi

motivi vengono ridisegnate le strategie aziendali, estendendo il proprio

assortimento mediante ricerche di mercato sempre più evolute e

contemporaneamente le campagne promozionali creano mercati relativi a un

prodotto nuovo;

d) fase aggiunta di ipersegmentazione, mediante lo sviluppo delle innovazioni

tecnologiche telematiche/informatiche. Anche il consumatore cambia, diventa

più reattivo alle campagne pubblicitarie/promozionali (grazie alla possibilità di

feedback, rispetto chi ha già usufruito di un prodotto/servizio).

Nell‟ipersegmentazione si parcellizza la clientela allo scopo di vendere al singolo

cliente ciò che esattamente si aspetta (→ personalizzazione).

Il modello di Tedlow è stato criticato, soprattutto per la seconda e la terza fase: le critiche

riguardano il fatto che egli identifichi la distinzione generazionale solo dopo il 1950. Infatti

nel settore automobilistico tale distinzione generazionale si presenta già dagli anni ‟30, ma per

Tedlow l‟industria dell‟automobile rappresenta solo un‟eccezione.

Resto del mondo

Per molto tempo in Europa e in Italia sono state trascurate le logiche del marketing, le quali

giungono nel continente solo dopo la II guerra mondiale (intorno al 1950) grazie ai seguenti

motivi:

le imprese americane si sono associate a quelle europee;

alcune delle multinazionali americane hanno sede anche in Europa.

Nei periodi precedenti il marketing esisteva, ma risultava notevolmente frammentato: le

imprese per far conoscere i prodotti, prima della II guerra mondiale, si affidavano a degli

agenti. Ancora le strategie di marketing utilizzate erano quelle inerenti la sponsorizzazione di

varie iniziative, tra le quali eventi per attirare la curiosità dei potenziali clienti, e quelle di

fidelizzazione del cliente (anche in Italia). In generale comunque le attività di marketing

compaiono solo dopo la II guerra mondiale, come già in precedenza detto, infatti nel periodo

precedente, per molti prodotti non esisteva ancora un mercato di massa a livello nazionale.

Distribuzione commerciale: premessa

Le considerazioni finora fatte hanno riguardato in prevalenza la vendita del prodotto finale;

infatti il materiale a disposizione per quanto concerne i passaggi intermedi non è di certo di

portata consistente. Le tematiche di marketing, comunque, hanno preso spunto e sono nate

negli USA. Nella prima metà dell‟800 l‟America è caratterizzata da economie ineguali, il nord è

più sviluppato, mentre il sud comprende un‟economia rurale basata sullo schiavismo. Nel 1860

Lyncoln abolisce la schiavitù, ma il Sud Carolina non è d‟accordo, così scoppia la guerra di

seccessione con conseguente sconfitta del sud. Le maggiori trasformazioni avvengono nel

nord, ma le prime imprese intermediarie sorgono al sud, in particolare:

l‟agente commissionario, che fa tramite alle economie basate sulle piantagioni e il

mercato. Da un lato si occupa di piazzare il prodotto sul mercato (in uscita) e dall‟altro

si occupa di procurarsi le materie prime per produrlo (in entrata);

il grossista indipendente, intermediario che di fatto non giunge direttamente al

consumatore finale, ma compra beni che sono importati negli USA, in grandi quantità,

trasferendole successivamente ai consumatori finali. Egli, in pratica, fa da tramite tra

il compratore e il dettagliante.

La figura dell‟agente commissionario decade dal 1865 in avanti, con la guerra di seccessione,

mentre il grossista diventa sempre più rilevante dalla metà dell‟800 fino al 1880. In seguito

anche questa figura che occupa la scena americana viene soppiantata da nuove forme di

intermediazione. Nascono così i department stores alla vigilia della guerra di seccessione, in

alcune grandi città dell‟est. Questi hanno successo (nel 1860) perché in un unico luogo viene

venduta una ampia varietà di beni (una sorta di grandi magazzini in cui vengono venduti sia beni

alimentari che non alimentari → di sovente si specializzano nell‟abbigliamento). Sempre negli

USA, si afferma la vendita per corrispondenza, secondo la quale viene consegnata la merce a

domicilio, anche grazie a uno sviluppo efficiente dei trasporti (logica diversa: il venditore si

reca dall‟acquirente, e non il contrario). Le caratteristiche dei department stores e della

vendita per corrispondenza sono le seguenti:

le scorte girano più velocemente;

i profitti conseguiti sono più consistenti.

Tra la fine dell‟800 e l‟inizio del „900 nascono le catene dei negozi, facilmente riconoscibili e

che sono specializzate nella vendita di particolari prodotti (ad es.: drogheria e/o prodotti non

facilmente reperibili e non stoccabili, ma trasportati semplicemente). Particolarità: nascono le

cosiddette vendite a prezzo unico (ad es. “Tutto a 1$”): sistemi dei profitti effettuati sulla

quantità venduta. I prodotti venduti da tali sistemi, però, sono spesso non di qualità e riferiti

a una clientela medio-bassa. Tali punti vendita nascono nelle grandi città, e poi si diffondono

anche nei centri urbani medi. Queste distribuzioni coinvolgono imprese specializzate: vi è una

netta separazione tra aziende produttrici e distributrici; alcuni produttori cominciano a

specializzarsi anche nella distribuzione. Ancora esse operano in settori particolari; le cause a

fronte dell‟offerta di un prodotto caratterizzato da una natura particolare sono:

bene dalle caratteristiche particolari, ad es. deperibile;

bene che necessita una determinata procedura per il trasporto, come nel caso delle

pellicole fotografiche.

Per evitare che tale prodotto non arrivi in buone condizioni al consumatore finale, a causa del

distributore, il produttore si specializza anche nella distribuzione, in caso di:

beni strumentali per i quali necessita una fase d‟installazione e/o servizio post-vendita

come nel caso di macchinari;

beni per cui il produttore preferisca un‟interfaccia diretta con il cliente.

Negli anni ‟20-‟30 nell‟America caratterizzata da uno sviluppato mercato di massa, nascono i

primi self service, intesi nel senso di supermercato alimentare. Il primo sorge nel 1916 a

Memphis, ma il vero e proprio successo avviene solo a partire dagli anni ‟30, nonostante la crisi

internazionale in corso. Alla fine degli anni ‟40 negli USA i self service sono ancora pochi, ma

con un ingente giro d‟affari. La novità introdotta dal supermercato self service è quella del

mutamento della logica rispetto al punto vendita. Infatti il supermercato è caratterizzato da:

ambiente invitante e accogliente;

atmosfera che stimola l‟acquisto;

atmosfera piacevole, la quale è studiata da far vivere un‟esperienza coinvolgente a i

propri visitatori, che saranno così disposti a spendere più dello stretto necessario,

aumentando così il giro di affari dei consumi.

L‟importanza del vendere un‟elevata quantità di prodotti sta nel fatto che:

profitto elevati alti volumi di acquisti

Tutto all‟interno di tali punti vendita è studiato da comportamentisti specializzati nelle

materie di marketing.

In Europa e in particolare in Italia

Queste nuove forme di vendita non si affermano tutte sul continente, e nemmeno con le

stesse caratteristiche per i seguenti motivi:

l‟Europa è più densamente popolata rispetto agli USA;

la formula prevalente è quella della vendita al dettaglio; questa è profondamente

radicata nella mentalità collettiva, atta a rivolgersi a piccoli esercizi commerciali di

vario genere.

Dopo la II guerra mondiale vi è un‟influenza sempre più marcata del modello americano,

soprattutto a partire dagli anni ‟70 in poi il mercato si diffonde anche in Italia, peraltro non

senza ostilità, per lo più si tratta di:

imprese straniere;

imprese italiane, le quali avevano sì una maggiore conoscenza del mercato italiano, ma

anche caratterizzato da una forte resistenza, da parte dei dettaglianti, nei confronti

di tali tipologie d‟impresa.

La mentalità collettiva è indirizzata verso acquisti effettuati in base alla fiducia nel

venditore, fatto totalmente sostenuto dai trasporti non ancora efficienti. Infatti nei piccoli

SOLO SE

centri non vi era la possibilità di ricevere i prodotti necessari, così erano diffusi due tipi di

distribuzioni, atti a ottemperare a tali carenze:

dal 1880 ci si affidava al commerciante girovago, il quale vendeva prodotti non

abitualmente smerciati dai piccoli esercizi commerciali presenti nel territorio

circostante. Molto sviluppata era la vendita porta a porta al fine di fornire i

consumatori direttamente a domicilio;

fiere di paese con la funzione di avvicinare determinate produzioni di eccedenze

agricole e/o di particolari prodotti irreperibili nel paese di riferimento a causa di un

bacino d‟utenza troppo basso. Le fiere sono tuttora esistenti a titolo di tradizione

culturale, perdendo così la loro originale funzione. Oggi come allora hanno cadenza

regolare e rappresentano un appuntamento fisso per i residenti i quali vogliono

acquistare un particolare tipo di bene.

L‟affermazione dei grandi magazzini in Europa è contestuale, se non addirittura precedente, a

quella americana. Il primo grande magazzino nasce a Parigi ed è denominato Bon Marché,

destinato ad acquisti a prezzi ragionevoli. Sempre a Parigi nasce Le Printemps e La

Samaritane anch‟essi rivolti a clienti interessati a prodotti a buon mercato. Per andare

incontro anche a clienti più esigenti, pronti a spendere qualcosa in più nasce anche Le Louvre.

La nascita di questi sistemi di punti vendita, soprattutto in campo dell‟abbigliamento non più

sartoriale ma confezionato, si diffonde ovunque in Europa, e quindi anche in Italia. Qui infatti

il primo grande magazzino sorge a Milano ed è denominato Aux villes d’Italie nel 1877 da una

famiglia di imprenditori milanesi: i fratelli Ferdinando e Luigi Bocconi, i quali si occupavano già

da tempo di abbigliamento confezionato. Il punto vendita ha un successo veloce e si diffonde

soprattutto nel centro-nord. Con la morte dei proprietari però comincia a soffrire qualche

problema, così viene rilevato da altri imprenditori e rilanciato con un nuovo marchio, creato da

Gabriele D‟Annunzio: La Rinascente. Successivamente nascono altri grandi marchi. Dopo la

crisi del ‟29, infatti, nasce l‟UPIM (= Unico Prezzo Italia Moda), ispirandosi al modello

americano, che propone a prezzi definiti capi d‟abbigliamento economici, e nel 1939 vi sono 57

punti vendita dislocati su tutta la penisola. Nei primi anni ‟30, un ex manager della UPIM fonda

la Standa, la quale nel 1939 conta circa 40 punti vendita sul territorio italiano. Diversa è la

storia della Coin, creata da V.Coin, il quale nel 1916 possedeva la licenza da mercante

ambulante legata a tessuti e abbigliamento confezionati. Nel 1926 Coin in compagnia dei figli

apre il primo punto vendita, in seguito ne aprono altri concentrati soprattutto nella provincia

di Venezia, della quale la famiglia di imprenditori è originaria. L‟offerta di tali negozi riguarda

prodotti di qualità, ma non di lusso. Dopo la II guerra mondiale il numero di punti vendita

aumenta prepotentemente e nel 1968 la Coin dà vita a un‟altra catena, appartenente al

medesimo gruppo, l‟Oviesse (= Organizzazione Vendita Specializzata) al fine di piazzare e

vendere i prodotti invenduti da Coin sul mercato. In seguito altri grandi magazzini nascono,

quasi tenendo il passo con la nascita di quelli americani: situazione nettamente differente nel

caso dei supermercati, essi non decollano mai come accade in America.

PR (= relazioni pubbliche)

Le relazioni pubbliche sono intese come una vera e propria necessità di interfacciarsi con il

mondo esterno e sul mercato. Hanno origine negli USA perché:

sono strettamente collegate alla nascita della grande impresa;

vi è una marcata esigenza da parte della grande impresa di proporre all‟esterno

un‟immagine positiva di sé.

All‟inizio si faceva riferimento soprattutto alla figura dell‟addetto stampa,il quale aveva la

funzione di far uscire le notizie (spesso manipolate ad hoc) in maniera tale da rispondere a

malumori venuti fuori nel pubblico o più semplicemente per prepararlo a un cambiamento non

facilmente digeribile da esso (come ad es. fatti che penalizzano l‟utile a scapito dei

risparmiatori e/o scelte che riguardano i lavoratori). Solo successivamente l‟attività di PR

diviene più strutturata e svolta secondo cadenze periodiche, al fine di meglio interfacciarsi

nei confronti della società civile. Logica resasi necessaria già negli anni ‟30, ma che si è

estremamente sviluppata solo dopo la II guerra mondiale, le pubbliche relazioni, cioè,

diventano sempre meno trascurabili. Infatti molte imprese sono meno tollerate, soprattutto

le multinazionali sono vittime di diffidenza. Le funzioni di tali attività riguardano:

l‟ampliamento del consenso pubblico;

l‟aumento esponenziale della propria clientela.

La prima iniziativa viene intrapresa da ATT, compagnia telefonica americana, la quale nella sua

campagna sottolinea il fatto che comunicare telefonicamente sia uno strumento:

di avvicinamento dei centri urbani alle città;

che sia divenuto indispensabile.

Infatti in America la rivoluzione dei trasporti ha comportato anche la rivoluzione della

comunicazione, con l‟introduzione di due importanti innovazioni, quali il telegrafo e

successivamente il telefono. Già a fine dell‟800 vi sono molti abbonati, ma sono perlopiù

circoscritti alle grandi città, infatti il numero di abbonamenti nei piccoli centri è decisamente

basso, se non in qualche caso addirittura inesistente. L‟attività di pubbliche relazione

intrapresa da ATT si rivolge proprie a questi piccoli paesi, comunicando a essi che grazie al

telefono possono facilmente sentirsi più vicini alle grandi metropoli, annullando così la

distanza geografica e unendo la nazione. Grazie a tale campagna, quindi, non si vende

semplicemente un servizio, ma si comunica una vera e propria funzione sociale la quale,

ovviamente, va ben oltre la stretta necessità, rendendo così la comunicazione più convincente.

Nascita, evoluzione, ridefinizione della contabilità

La contabilità si è evoluta seguendo, a livello indicativo, 3 fasi:

1. nascita generale della contabilità ordinata;

2. nascita ed evoluzione del bilancio;

3. aspetti legati alla funzione della contabilità come strumento interno.

Nascita generale della contabilità ordinata

La contabilità nasce contestualmente all‟esigenza di annotare delle informazioni relative

all‟impresa: in questi termini essa è sempre esistita, dacché esistono le attività commerciale in

tutte le loro forme (prescindendo da qualunque vincolo legislativo) → esigenza irrinunciabile.

Irrinunciabile perché essa viene utilizzata da sempre al fine di tenere memoria in riguardo ad

alcuni eventi dell‟azienda. Gli strumenti contabili esistenti attualmente sono filtrati da

disposizioni legislative, le quali si sono venute a creare man mano nel corso del tempo. Gli

imprenditori hanno acquisito la consapevolezza che l‟azienda sia un soggetto diverso

dall‟imprenditore ai fini contabili: in passato tale distinzione concettuale non era prevista, e

solo ai tempi della comparsa delle prime società si è diffuso il concetto di diversità,

individuando definizioni quali capitale e utile. In pratica:

beni dell‟imprenditore ≠ beni dell‟azienda.

I passaggi fondamentali sono i seguenti:

nasce l‟esigenza di tenere i conti fin dall‟antichità (vi sono delle testimonianze

addirittura in epoca romana);

l‟azienda si rapporta con i debitori, i quali le devono dare dei soldi, così nasce l‟esigenza

di annotarsi i crediti. Solo successivamente ci si annoterà anche l‟ammontare dei propri

debiti nei confronti dei creditori aziendali (l‟azienda deve dei soldi a un altro

soggetto).

In questa fase si fa riferimento a note tenute nei modi più svariati utilizzando criteri

individuali, specialmente i crediti e i debiti non sono ancora collegati tra di loro, e non vengono

relazionati alle operazioni aziendali. I primi salti di qualità avvengono nelle imprese

commerciali medievali in cui:

numero di merci in magazzino;

costo della partita di merci acquistata → movimento delle merci in entrata/in uscita e

relativamente ai loro prezzi di acquisto, considerando anche i prezzi di carico, proprio

per capire se il prezzo di acquisto risulta conveniente o meno;

movimento di denaro: entrate/uscite di cassa per verificare eventuali errori;

immobilizzazioni che servono per lo svolgimento dell‟attività d‟impresa; sono importanti

perché oggi vanno spalmati in più esercizi, ma in epoca pre-industriale ciò non veniva

considerato naturale per i seguenti motivi:

non esisteva normativa fiscale;

tali immobilizzazioni venivano rimpiazzate nel tempo, ma in periodi lunghissimi

(oggi a causa della tecnologia la sostituzione degli stessi è precoce).

La contabilità di masserizie è diversa dalla contabilità che mette in correlazione le voci tra

di loro. Quando tale correlazione avviene → nascita della contabilità moderna:

somma algebrica delle voci = patrimonio d’esercizio

In conseguenza della nascita della partita doppia, i conti di segno opposto sono atti a

monitorare la variazione del patrimonio di esercizio. Si sviluppa in Italia, ma non vi è una

precisa collocazione temporale a causa di un disaccordo tra studiosi → compare nelle aziende

mercantili italiane già alla fine del 1200 in Toscana (a Firenze, a Lucca, a Siena, a Pisa).

Questa usanza però fuori dall‟ambito toscano non è così sparsa, ma era diffusa una contabilità

scarsa e insufficiente. Allora la partita doppia raggiunge il suo primato nel 1341, usato nella

pubblica amministrazione, in particolare il Comune di Genova. Si trattava di una contabilità

particolarmente dettagliata, presumibilmente non utilizzata per la prima volta: ciò non può

essere dimostrato visto che gli archivi precedenti sono andati irrimedialmente perduti. In

pratica veniva controllato l‟intero operato di chi occupava una carica pubblica, nel momento

della sua uscita → esigenza di tenere la contabilità in modo razionale e sistematico. La partita

doppia funziona rilevando fatti esterni dell‟impresa facendo emergere operazioni finanziarie,

le quali scaturiscono operazioni di segno opposto (come accade oggi). La logica è quella secondo

cui:

totale dare = totale avere

Per fare emergere eventuali errori (di calcolo), importanti per capire cosa accade a livello

dell‟impresa.

Evoluzione della contabilità

Uno studioso italiano (toscano), Melis ha scritto nel 1950 “La storia della ragioneria”, testo

nel quale sono individuate 4 fasi:

1. dall‟antichità fino al 1202: viene alla luce un testo manoscritto da Fibonacci denominato

“Libera baci”: è il primo tentativo di far utilizzare in Europa, ma soprattutto in Italia, i

numeri arabi. Infatti prima di questo periodo in contabilità venivano usati i numeri

romani. In realtà i numeri arabi sono più funzionali perché sono incolonnabili (= metodo

posizionale), ma vi è una resistenza rispetto alla loro adozione perché:

i numeri arabi sono più facilmente falsificabili, così alcune regole mercantili

vietano il loro utilizzo (tra cui la Repubblica di Genova);

il testo di Fibonacci è scritto in latino, i tempi di diffusione sono lenti; in tale

manoscritto è sottolineato il fatto che non dovrebbero esservi delle regole che

vietino l‟uso dei numeri arabi;

2. 1202-1494: vi è il primo esempio di contabilità in partita doppia, ed essa viene

gradualmente usata in città come Genova e Venezia. Nel 1494 viene stampato il primo

trattato periodico sulla partita doppia a Venezia, il quale è scritto in volgare e ha un

capitolo interamente dedicato a essa. Si moltiplicano così i trattati sulla stessa;

3. 1494-1840: comparsa e aumento di trattati sulla contabilità in generale e sulla partita

doppia in particolare;

4. dal 1840 in avanti: la contabilità viene studiata a livello scientifico e diventa oggetto di

didattica (soprattutto tra la fine dell‟800 e l‟inizio del „900).

In particolare il trattato di Luca Pacciale, frate che in passato era stato un mercante a

Venezia, nella sua seconda edizione (nel 1323), il quale dà il via a una serie di altri testi:

nel 1586 Pietra, monaco benedettino di origine ligure, è tra i primi a tener conto del

patrimonio;

nel 1636: Flori, monaco d‟origine siciliano che propone un metodo uniforme a tutte le

imprese.

Il motivo per cui spesso chi si occupa di contabilità sono ecclesiastici:

la contabilità tiene conto della gestione di una qualunque attività, la quale prevede

moralità; infatti la religione cattolica detiene una forte influenza sulla moralità →

credere nei santi, in Dio, facendo in modo che la contabilità vada a buon fine come se

fosse un intervento divino;

la Chiesa, da sempre, gestisce grandi patrimoni immobiliari e fondiari → necessità di

fare andare a buon fine gli affari, spingendosi verso un sistema uniforme di

contabilità, la quale viene sottoposta a controlli.

Caratteristica: di testi, di trattati è quella di definire (o almeno provare a definire) le logiche

che stanno dietro la rilevazione contabile (senza riuscirci), riproducendo intere contabilità,

come una sorta di prontuario. L‟aspetto che viene maggiormente esplicato è il senso del

prospetto dare/avere del conto come soggetto (ad es. si pensa non al credito, ma al soggetto

al quale questo è in capo, il creditore):

Tale è la logica secondo la quale ancora oggi si fonda la partita doppia. Dopo il 1840, con la

nascita della ragioneria scientifica, la contabilità tradizionale non è più sufficiente perché

non dà tutte le risposte (nel periodo a cavallo tra le due rivoluzioni industriali). L‟Italia a

partire dal „600 perde il passo rispetto agli altri paesi, infatti fino a questo periodo il

cosiddetto metodo italiano (= quello basato sulla partita doppia) era il più diffuso all‟estero.

Dopo tale data comincia a non esportare più i propri metodi contabili all‟estero, ma comincia a

importare, in particolare dagli USA, i metodi di contabilità più avanzati. I trattati per

imparare il corretto metodo di contabilità non basta più: essi non aiutavano a capire la logica

che sta dietro ai calcoli. Ciò cambia profondamente con l‟introduzione della ragioneria

dare avere

scientifica. Molto importante risulta il ruolo giocato da: ordini religiosi, imprese mercantili e/o

individuali ed enti pubblici. Le società cominciano ad adottare una contabilità più articolata

poiché bisogna dare conto ad altri soggetti i quali sono orientati a un profitto → vengono

monitorati di più alcuni aspetti della gestione, e di qui matura l‟esigenza del bilancio.

Tutti i trattati di contabilità che si succedono dal 1494 all‟inizio dell‟800 non contengono dati

basati sulle imprese industriali, ma solo su quelle commerciali. Infatti nella contabilità

industriale si tende a semplificare parecchio perché:

le imprese sono di piccole dimensioni;

vi sono minori restrizioni legislative;

i prodotti venduti sono pochi.

Quindi il contesto non spinge all‟utilizzo di una contabilità dettagliata. Comunque la partita

doppia è utilizzata da tali imprese industriali, perché essa riguarda i fatti esterni alla stessa

azienda, ma non vi è alcuna traccia di conti riguardanti i processi interni, inerenti la

produzione.

Nel XV e nel XVI secolo la contabilità comincia ad avere valore probatorio → prove

precostituite. Così cominciano piano piano a emergere principi di natura formale, tra i quali:

regole secondo le quali i numeri devono essere ordinati progressivamente;

criteri di tenuta della contabilità (fine dell‟800 e inizio del „900), prima a livello

nazionale e poi a livello internazionale.

Ciò non porta a un unico criterio omogeneo → non è semplice, infatti, raffrontare due

situazioni diverse.

Bilancio d‟esercizio

Il bilancio d’esercizio è inteso come qualcosa che viene comunicato al pubblico mediante delle

pubblicazioni depositate nei vari modi previsti. L‟esigenza di redigere il bilancio è piuttosto

recente perché per moltissimi anni il concetto di azienda non era chiaro. Attualmente

l‟azienda è definita come l‟insieme di beni i quali sono combinati dall‟imprenditore per gestire

la propria attività d‟impresa. In passato, però, tali beni non erano individuati in modo preciso,

e così l‟azienda era tradizionalmente intesa in modo un po‟ confuso, senza separare il

patrimonio dell‟impresa da quello dell‟imprenditore. Tale separazione non è nemmeno percepita

da chi condivide degli affari con l‟imprenditore. Questo modo di operare si riflette sulla

gestione → fine: ottenere un reddito che consente la sussistenza dell‟imprenditore e della sua

famiglia. In pratica questa è l‟ottica della gestione dell‟impresa familiare odierna, la quale in

più mira ad assicurare la durata della propria azienda nel tempo, anche per le future

generazioni. A quel periodo non vi è un costante monitoraggio delle attività imprenditoriali →

Sombart definisce la partita doppia come base del capitalismo. La mancata esigenza di

raccogliere dati contabili non comporta le imprese a non fare nulla in merito, ma esse in realtà

si occupano dell‟affare a livello singolo, senza vedere come sta andando la gestione a livello

complessivo. Non vi sono né leggi e non esiste alcuna esigenza di comunicare la propria

situazione contabile a qualcuno → nessuna spinta a compilare il bilancio. Tale esigenza non

compare nemmeno all‟occasione di comparsa dei primi soci, anche perché essi solitamente

vengono ricercati all‟interno della parentela. Però quando la famiglia non riesce più a fornire le

risorse necessarie, e quindi queste devono essere ricercate all‟esterno → nascono i primi

bilanci, non annuali e/o periodici, ma solo finali relativi alla chiusura della società, o per

richiesta dei soci. Come oggi era vietato il patto leonino (= escludere alcuni soci da

utili/perdite) e vi era la possibilità di remunerare di più gli amministratori. Dopo il 1494

compaiono i primi trattati, in cui si parla anche del bilancio, ma esso non è come quello attuale,

ma si tratta di un bilancio di verifica, di correttezza formale, in cui è contenuta la somma

di tutte le attività e le passività, se tali importi sono i medesimi allora la contabilità è

corretta. Non vi è ancora un criterio comune e alcuna idea di redigerlo in maniera sistematica:

per fare ciò il processo è molto più lento.

Nel „600 il bilancio viene redatto ma occorre considerare che non è ancora regolato.

Attualmente si calcolano le scritture di assestamento, le quali sono precedenti alla redazione

del bilancio, e sono fatte seguendo il principio di cassa, ai fini fiscali, ma aggiustando alcune

voci per motivi gestionali. All‟epoca il criterio era il non-criterio: tutti facevano come pareva

loro giusto fare, senza una redazione comune: normalmente non si calcolava l‟ammortamento,

anche se questo non era un concetto ignoto agli imprenditori. Infatti, a tal riguardo, alcuni

inventari dimostrano tale conoscenza, anche all‟epoca, ma non avvertono l‟esigenza di tenerlo

in considerazione calcolandolo, nonostante sapessero del deprezzamento dei beni. I beni

strumentali nell‟attivo patrimoniale rappresentano una quota minima e l‟imprenditore non si

preoccupa nemmeno di rivalutare il valore degli immobili → si rafforza il patrimonio

dell‟impresa, motivo per cui non si applicano regolarmente gli ammortamenti. L‟unica voce

inerente le immobilizzazioni è quella utilizzata in caso di manutenzioni straordinarie.

Il magazzino era calcolato senza aggiornare il valore dei beni in magazzino, ma semplicemente

il valore si calcolano le rimanenze finali per il costo storico; ciò è giustificato dall‟assenza di

norme tributarie.

Per i crediti sorge un problema, soprattutto per quanto riguarda i creditori poco solvibili: in

passato si faceva fatica a svalutare i crediti → i contenziosi si tramandavano di padre in

figlio. Al massimo essi vengono inseriti in conti particolari, i quali sono i crediti di poca

speranza.

I ratei/risconti non compaiono perché ancora non viene utilizzato il criterio di competenza,

ma un più semplice criterio di cassa.

Così il bilancio è così caratterizzato:

da un insieme non omogeneo di voci;

da un insieme eterogeneo basato su operazioni per nulla ordinate.

Ancora in quel periodo l‟impresa è influenzata dal contesto culturale, istituzionale in cui opera.

Con la I rivoluzione industriale, e l‟avvento della grande impresa, le cose cominciano a

cambiare, e il bilancio, gradualmente, diviene uno strumento fondamentale, anche se per molto

tempo la struttura è molto diversa, specie nei settori differenti.

In Italia

Per molto tempo, al fine di costruire una SPA, era necessaria un‟autorizzazione governativa,

per la responsabilità limitata (all‟inizio del Nuovo Regno). Con il codice di commercio (1882)

viene prevista la costituzione mediante atto pubblico, e per la prima volta si parla di bilancio:

ogni anno esso viene compilato per dimostrare con evidenza e verità gli utili realmente

conseguiti e le perdite sofferte, ma non viene fornita nessuna regola al fine di valutare i

cespiti di bilancio. Così si aprono due visioni opposte:

1. concezione giuridica: individuare comunque un minimo di contenuto e dire qualcosa sui

criteri di valutazione da applicare, principi-guida validi e applicabili alle imprese;

2. concezione economica: tende a negare la possibilità di definire in maniera stringente i

criteri, i quali, secondo tale ottica, non possono essere definiti collettivamente validi,

anzi le stesse imprese possono redigere più bilanci a diversi scopi → non vi è un

criterio fisso, ma il bilancio può avere contenuto differente a seconda dell‟uso.

Prevale la concezione economica. Oggi, o per lo meno in periodi più recenti, i bilanci vengono

pubblicati e in essi si evidenziano utili/perdite su cui si pagano i tributi. L‟imprenditore Gaslini, ad esempio, oleario genovese, oltre la contabilità ufficiale, deteneva anche dei bilanci

effettivi, i quali dimostrano un utile nettamente superiore a quello dichiarato, il quale è stato

rappresentato più basso per evadere fiscalmente → questo per dire quanto i bilanci, nel caso

di molte imprese, siano approssimativi in quel periodo, e ciò non era per niente considerato

disdicevole, anzi era normale. In altri casi addirittura venivano gonfiati i bilanci così poteva

essere distribuito più utile di quello reale. Ma nel 1942 viene emanato il codice civile, infatti

lo Stato si era reso conto davvero di ciò che accadeva nel mondo economico, e quindi detta

regola più precise. Infatti gli amministratori devono redigere:

il bilancio (allora raffigurato solo dallo S/P);

il conto profitti e perdite (= C/E);

la relazione esplicativa a cura degli stessi amministratori, per evidenziare in modo

corretto il risultato economico.

Si stabiliscono così i criteri da adottare per la compilazione del bilancio, i quali:

non si possono compensare le voci di segno opposto;

si crea un conto unico nel libro mastro per i c/c bancari così da avere una visione

d‟insieme degli stessi.

Le regole, però, riguardano solo lo S/P. I contenuti del C/E vengono stabiliti solo nel 1974

mediante l‟emanazione di una legge relativa alle società quotate in borsa → obblighi di

contenuti minimi estesi anche alle altre società. Comunque il codice civile si sforza di stabilire

una forma di bilancio uniforme a tutte le imprese (mentre nel codice di commercio tale forma

poteva essere scelta dagli amministratori, e ancora si evidenziano gli utili o le perdite non è

chiaro: la struttura è ambigua, non si capisce la situazione dell‟azienda).

Contabilità dei costi

I primi esempi di contabilità analitica,nella partita doppia riguardano alcuni studiosi, i quali

hanno riscontrato esempi di contabilità industriale già nel „300-„400. Altri invece sostengono,

che tale contabilità sia sorta dopo l‟avvento delle grandi imprese, soprattutto quelle

ferroviarie. Vi è ancora un filone di studi diverso: con le grandi imprese ferroviarie e le

conglomerate nasce l‟esigenza di sviluppare un sistema organico di gerarchia manageriale, ma è

impensabile che prima non esistesse alcuna forma di contabilità, anche se ciò non è

testimoniato da testi. Quindi gli studiosi hanno cercato di capire se ci sono costi legati

all‟azienda manifatturiera → in realtà non vi sono trattati sui costi, ma ciò non significa che in

azienda non si fossero sviluppate procedure, le quali probabilmente non sono state codificate,

perché la prassi dell‟utilizzo precede il repertorio.

La contabilità dei costi si sviluppa in questo modo: ognuno utilizzava il metodo a lui più

gradito, senza alcuna esigenza di descriverlo per tramandarlo. Per quanto riguarda la

contabilità delle imprese, si tiene soprattutto conto delle stesse quando entrano in relazione

con il mondo esterno, senza comprendere i costi delle operazioni a monte. Quindi in epoca pre-

industriale:

i costi fissi erano moderni;

non importa guardare ai costi perché vi è comunque il guadagno → non vi è alcun

modello di monitoraggio dei costi.

Le imprese faticano a distinguere tra:

costi fissi e costi variabili;

costi diretti e costi indiretti;

costi specifici a un prodotto o comuni (che sono ricaricati sulle diverse produzioni).

Nonostante funzionino molto bene, le imprese mercantili sono caratterizzate dal fatto che

tutte le operazioni prevedano l‟interfaccia col mercato e si sia a conoscenza dei prezzi:

E l‟imprenditore manifatturiero (tessile)? Compra sul mercato le materie prime, su di esse

effettua un‟operazione di trasformazione, e poi le vende:

materie prime → operazione esterna regolata con il mercato

categoria

merceologica

costi ricavi

costo a cottimo, commisurato all‟unità prodotta, relazione: costo del lavoro ↔ prezzo

di vendita;

costo a tempo, quanta parte di esso bisogna imputare all‟unità prodotta → cambia la

retribuzione dei lavoratori.

Problemi: riguardanti l‟incidenza sul costo totale. Dove vi è maggiore concorrenza, vi è a più

esigenza di monitorare i costi; già nel „600-„700 l‟impresa non solo paga i lavoratori a tempo, e

attribuisce loro la capacità di produzione, ma anche effettua analisi approfondite su altri

tipi di costi predisponendo una contabilità degli stessi in modo sistematico.

Melis recepisce un testo di Moschetti a Venezia nel 1610, che parlava di contabilità

industriale da parte di un‟impresa produttrice di zucchero, la quale giungeva all‟utile solo

considerando i costi diretti, tralasciando gli altri. In epoca preindustriale, non esiste un

modello unico applicato da tutti i settori, ma al massimo delle iniziative individuali di

imprenditori che volevano comprendere il processo produttivo: si trattava di un metodo non

esportabile ad altri contesti, perché era piuttosto personalizzato. In epoca industriale, quello

della grande impresa, in particolare ferroviaria, nasce il primo esempio di adozione di una

politica dei costi mediante una contabilità:

sistematica;

integrata;

collegata alla contabilità generale.

Durante la I rivoluzione industriale, le tecniche contabili dei costi erano abbastanza rozze,

perché ancora mancano le strutture complesse e le conoscenze sul metodo. Con l‟avvento del

big business negli USA, le imprese hanno a che fare con:

una produzione complessa;

una dimensione più ampia, senza alcun controllo sulle singole unità produttive;

dei mercati complessi ad alta concorrenzialità, o anche monopoli e oligopoli → spinta a

capire il funzionamento dei costi.

Dal 1880 al 1890 vi sono i primi tentativi di produrre testi sulla contabilità industriale negli

USA: alcune modalità di contabilità possono essere comuni a più settori, mentre altre sono più

adatte a un singolo settore produttivo. Grazie alle organizzazioni imprenditoriali, vi è la spinta

a individuare i criteri per aiutare le imprese a migliorare le proprie performance → contabilità

dei costi. Sempre più importanti rappresentano le diverse esigenze derivanti da settori

differenti (adottando il sistema di rilevazione più mirato).

In Italia

L‟Italia è caratterizzata da una lentezza nonostante il precoce sviluppo sulla ricerca della

questione contabile, ma la scuola si sforza di trovare una soluzione comune a tutti i settori,

quindi ci si muove ancora sul piano teorico con scarsa applicabilità nella pratica. I testi sono

scritti da ingegneri, i quali si sono posti il problema di provare a trasmettere il proprio sapere.

costo del lavoro

costo totale

Negli USA

Si lavora sulla formazione di esperti contabili per la produzione di testi direttamente sulle

esigenze delle imprese e sull‟evoluzione della tecnica contabile. All‟inizio del „900 ci si collega

all‟organizzazione scientifica del lavoro (= taylorismo), ossia l‟evoluzione contabile procede

con questa di pari passo, così definendo:

le mansioni del lavoratore;

la quantità che il lavoratore deve produrre;

il rapporto con il processo produttivo;

il costo standard dell‟organizzazione del lavoro, il quale deve essere di un livello

ottimale.

→ Finalità: aumentare la produttività dei lavoratori e ridurre i costi.

Analisi del bilancio: analisi scientifica del bilancio; si procede a calcolare alcuni indicatori che

sintetizzano situazioni particolari; a essi viene assegnata una funzione particolare ben

delineata e con uno scopo predittivo (previsioni sul futuro dell‟azienda). I primi esempi di

intervento in tale ambito riguardano la separazione tra proprietà e controllo nel contesto

della grande impresa americana con una crescente necessità di ottenere del capitale di rischio

e del capitale di finanziamento. Col tempo utilizzare tali indicatori non ha solo una valenza

esterna di comunicazione, ma anche interna di riflessione per la comprensione della

produzione. Innanzitutto è importante reperire capitale, e ciò veniva fatto rivolgendosi a

banche, senza che venisse richiesto alcun merito, ma a fine „800 le cose cambiano, e le stesse

chiedono il bilancio, sebbene esso non sia del tutto attendibile. La banca guarda soprattutto la

correlazione temporale tra le fonti e gli impieghi (per non mettere a rischio la stabilità

finanziaria) per fornire alle imprese soprattutto debiti commerciali a breve termine. In

particolare al fine di fornire tali crediti la banca guarda all‟interno del bilancio:

Fondamentale è il calcolo di indicatori con fattori che si trovano tra le voci di bilancio, così da

comprendere se l‟impresa è in grado di remunerare il finanziamento richiesto → esigenza

esterna, proveniente dal settore creditizio.

Alcune grandi imprese ferroviarie calcolano tali indici sistematicamente per rilevare lo stato

di salute dell‟impresa a breve termine. Solo con l‟inizio del „900 si valuta la possibilità di

calcolare altri indicatori, con valore interno all‟impresa, al fine di controllare e fornire meglio

spiegazioni alle dinamiche reddituali. Nell‟impresa americana Du Pont ha inventato il ROI (=

indice di ritorno del capitale investito):

passività correnti – attivo circolante > 0

liquidità – debiti a breve termine > 0

reddito

ROI =

capitale investito

Precedentemente l‟analisi era più orientate ai singoli azionisti, ma essa non permetteva di far

capire all‟impresa la situazione sulla propria redditività. In seguito il ROI si pone in relazione

con altre variabili, in particolare con il fatturato, considerando che:

reddito ≠ fatturato

Per scomporre il tasso di rotazione del capitale investito, dopo la I guerra mondiale, grazie

alla Du Pont (e più precisamente a un suo contabile):

Tale formula è strettamente legata alle vendite (→ fatturato, preso dal C/E). Quindi:

ROI → tasso di remunerazione del capitale investito;

ROE → tasso di remunerazione del capitale proprio.

In pratica occorre considerare quanto si paga per il capitale di prestito per comprendere se

l‟indebitamento è stato un fatto positivo (portando la propria redditività a livelli maggiori

rispetto al fatto di non averne usufruito) o meno, funzionando da leva. Le voci di bilancio (S/P

e C/E) sono correlate da relazioni complesse, le quali servono ad adottare decisioni

consapevoli, evitando, in tal modo, eventuali criticità. Con il tempo il ROI, si calcola non solo a

livello complessivo, ma anche a livello divisionale (divisione ≈ imprese come struttura) per

vedere quale divisione contribuisce in maggiore misura alla produzione del risultato economico

per puntare di più su di essa, magari tralasciando quelle poco remunerative. Alcune aziende,

come quelle europee, non applicano questi indicatori in modo ristretto. Si affermano in Europa

e in Italia dopo la II guerra mondiale e poi si diffondono ampiamente e diventano strumenti di

uso comune. Quindi per quanto concerne la contabilità, l‟Italia non ha più un ruolo di primo

piano, ma ha importato un sistema contabile da oltre oceano, visto che proprio in America vi

era il contesto ideale per la proliferazione di tali tecniche grazie a un determinato ambiente

economico-culturale.

reddito fatturato reddito

= =

capitale investito capitale investito fatturato

dato preso dal C/E

dati presi dallo S/P

Stato imprenditore

Lo Stato imprenditore può avere un ruolo inesistente, lieve, rilevante, presente, ecc. Le

attività svolte dallo Stato sono le attività economiche che non sempre sono in forma d‟impresa

e agiscono su:

area normativa: la legislazione può influenzare le attività economiche private;

produzione di beni/servizi: (in quanto consumatori, i soggetti pubblici sono uguali a

quelli privati) la produzione avviene all‟interno di due grandi categorie (in qualità di):

amministrazioni pubbliche: i beni prodotti in questo ambito non sono destinati

al mercato perché sono di interesse generale, e quindi si tratta di servizi

destinati alla collettività;

beni/servizi a cui si applica un prezzo non pieno, ma che rappresenta una

compartecipazione (ad es. l‟università, il servizio sanitario, il trasporto

pubblico) → servizi pubblici erogati da imprese pubbliche o private ma

convenzionate con lo Stato.

La presenza dell‟ente pubblico è dettata da:

la caratteristica del servizio (ad es. acquedotto);

si riteneva che il privato potesse offrire lo stesso servizio a prezzi troppo alti.

Vi sono casi in cui lo Stato detiene o la totalità o parte di un pacchetto azionario di un‟impresa

che opera sul mercato per ricavare profitti, che si confrontano con una concorrenza

internazionale. Cosa ha spinto lo Stato entrato nell‟economia: gli economisti classici tendono a

dare un ruolo minimale allo Stato → Adam Smith sosteneva che lo Stato si fosse limitato a

fornire solo alcuni servizi essenziali: questo è un modello teorico difficilmente riscontrabile

nella realtà. Nella pratica l‟intervento si è verificato in modo differente a causa delle diverse

posizioni ideologiche: a fine del „500, ad esempio in Gran Bretagna vengono emanati leggi sui

poveri, obbligati a registrarsi nella parrocchia per l‟assistenza, in cambio potevano dedicarsi ai

lavori forzati. Dopo la I rivoluzione industriale la logica marxista prevedeva uno Stato in cui si

sfruttava la popolazione in termini lavorativi e interveniva per:

aumentare il capitale dell‟imprenditore capitalista;

mantenere una sorta di pace sociale per contenere eventuali rivoluzioni;

farsi carico di attività non particolarmente profittevoli per i capitalisti.

Nel „900 vi è l‟avvento dello Stato sociale, che deve garantire un sistema di servizi essenziali,

perché il cittadino ha diritto a tali servizi: servizi sanitari, istruzione, sussidi familiari,

risorse culturali come biblioteche e musei, spazi/impianti per il tempo libero, pensioni (il

sistema retributivo era proiettato nell‟ottica dello Stato sociale, molto diverso dal sistema

contributivo, che prevede un ruolo presente dello Stato). Dagli anni ‟90 in poi lo scenario nel

tempo è cambiato, e il peso dello Stato torna a diminuire. In particolare il welfare state,

prevede 3 modelli:

1. regione liberale: welfare residuale; lo Stato fa il minimo indispensabile con servizi

erogati a persone che versano in stato di bisogno, solo dimostrando tale necessità lo

Stato interviene. E‟ un regime che privilegia la privatizzazione (caso dell‟America);

2. modello conservativo: il diritto a ricevere una prestazione particolare spetta

all‟appartenenza professionale, ad esempio l‟assistenza sanitaria legata a contributi

specifici;

3. welfare universalistico o socialdemocratico: nei paesi scandinavi si lega alla

cittadinanza la prestazione di servizi determinati. Ad esempio nel 1948 la Svezia

introduce la pensione popolare, garantita dalla nascita → anche qui alcune logiche sono

state messe in discussione per via delle risorse necessarie.

Attività mediante le quali lo Stato può giocare un ruolo nel campo della redistribuzione del

reddito

Si tratta di interventi volti a dare la possibilità a chi non parte da una posizione favorevole. Lo

strumento principe per dirigere, in tal senso, è rappresentato dalla tassa di successione. Lo

Stato in maniera più o meno incisiva può giocare un ruolo fondamentale.

Imprese pubbliche

Il contesto chiaramente ha delle ricadute sull‟impresa pubblica. Oggi non ha una concezione

positiva, spesso è collegata a:

inefficienza;

spreco di risorse.

Soprattutto ciò vale nell‟amministrazione pubblica, soprattutto per quanto riguarda l‟esubero

di personale:

piuttosto che mantenere una persona mediante un sussidio di disoccupazione, è meglio

impiegarlo nel settore pubblico (evitando il lavoro nero);

il pubblico era visto come un serbatoio di voti, quindi si veniva assunti preventivamente

in cambio del voto politico.

Quando le imprese pubbliche si sono affermate nel corso del „900, mediante un‟accelerazione

del fenomeno tra la I e la II guerra mondiale. Si è affermata non solo nei regimi comunisti (in

cui si è preclusa l‟iniziativa privata), ma anche in regimi autoritari dirigisti in Europa, come il

fascismo, il nazismo e il franchismo, i quali condizionavano l‟intera economia. Tuttavia anche

nei regimi democratici, l‟impresa pubblica, per una serie di motivazioni, è cresciuta,

soprattutto durante le guerre, per fare in modo di controllare le imprese strategiche in

periodi di crisi economica. L‟impresa pubblica è vista per fronteggiare il fallimento del

mercato, del non funzionamento dei modelli teorici → azioni in campo economico per ovviare a

situazioni di difficoltà. Nei regimi sovietici (= marxisti) l‟intervento statale è forte, ma no

totalitario, e l‟economia è formata da un mix di investimenti pubblici e privati. Intorno agli

anni ‟70 iniziano, così, una serie di privatizzazioni per via dello shock petrolifero → la crisi

spinge lo Stato a rivedere alcune logiche, rimettendo anche in discussione principi scontati,

ma a volte l‟ideologia preme su taluni principi, giusti o sbagliati che siano. Nell‟ottica più

moderna il settore pubblico viene vissuto come inefficiente, quindi si manifesta l‟avvio della

privatizzazione che parte dalla Gran Bretagna, e si estende dapprima in Europa, in seguito

anche nei paesi sovietici.

Fasi storiche della formazione dell‟impresa pubblica

Le fasi sono le seguenti:

età preindustriale: vi è qualche esempio circoscritto in Francia (per le manifatture

reali), in Russia e in Spagna. Inoltre vi è la presenza dello Stato nelle produzioni

strategiche, quali le attività minerarie e il campo militare;

„800: con l‟avvio dell‟industrializzazione ogni Stato ha un ruolo diverso. In Gran

Bretagna, negli USA lo Stato è poco presente e agisce essenzialmente come regolatore

(intervenendo con leggi e l‟istituzione di enti garanti). In Europa è caratteristica una

maggiore tradizione riguardo alla presenza dello Stato a causa delle scuole di pensiero

per le quali si pensa che non tutti i problemi possano essere soddisfatti dal privato;

nel corso del „900, anni ‟30: in corso alla crisi economica si tende a una

nazionalizzazione delle imprese, e questa esigenza cresce dopo la II guerra mondiale;

dagli anni ‟70 in poi: decresce gradualmente la presenza dello Stato a causa

dell‟innovazione tecnologica o istituzionale la quale consente all‟apertura verso il

capitalista privato, così da allargare la concorrenza, facendo venire meno, in molti casi

la presenza dei cosiddetti monopoli naturali.

Processo di nazionalizzazione

Le motivazioni che fanno decidere lo Stato di nazionalizzare sono:

1. fattori di tipo politico-ideologico;

2. fattori sociali;

3. fattori economici.

Non vi è un ordine di priorità, ma ciascuna dei 3 componenti è presente.

Per quanto riguarda i fattori di tipo politico-ideologico si può dire che essi sono stati rilevanti

nei regimi politici socialisti (come l‟Europa dell‟est, e l‟ex URSS) in cui si estendeva il controllo

pubblico sull‟impresa per far perdere peso al capitalismo, dando più potere al lavoratore (il

manager dell‟impresa pubblica risponde delle sue responsabilità alla collettività, senza avere

come obiettivo primario quello del profitto). Subito dopo la II guerra mondiale, in Gran

Bretagna avviene la prima ondata di nazionalizzazione, infatti, in tal caso, la componente

politico-ideologica ha importanza, come accade anche nei governi caratterizzati da regimi

autoritari: Germania, Italia e Spagna. Tali regimi controllano direttamente le imprese

strategiche.

Dal punto di vista dei fattori sociali è importante mantenere l‟occupazione a livelli elevati, in

ottica di non utilizzare risorse in sussidi di disoccupazione e di offrire migliori condizioni di

lavoro (= certezza e stabilità dell‟impiego). In tale caso entra in gioco la corrente sindacale,

la quale si propone diversi obiettivi come la massima retribuzione e/o la massima occupazione.

Altre volte lo Stato agisce direttamente come imprenditore per investire in settori o paesi, in

cui vi è carenza di iniziative private (ad esempio cassa del mezzogiorno) al fine di stimolare

l‟imprenditoria privata.

Infine i fattori economici prendono in considerazione il caso del fallimento del mercato, in cui

il privato non ha alcuna convenienza a investire. Il caso del monopolio naturale è tipico, infatti

è più economico per un‟impresa monopolista pubblico offrire condizioni migliori ai consumatori.

Ancora, utilizzato al fine di agire quale fattore di sviluppo in aree/settori più arretrati

perché l‟imprenditore privato è orientato al profitto e deve avere reale convenienza

economica a produrre, mentre il pubblico ha un‟ottica più di lungo periodo, per vedere se

effettivamente l‟attività risulta produttiva. Lo Stato interviene anche per istituire attività

dedite in settori strategici di ricerca, di approvvigionamento di materie prime energetiche,

nelle infrastrutture, come quelle autostradali, ecc.. Inoltre esso interviene per effettuare

salvataggi di imprese private in difficoltà: queste sono di solito grandi imprese in cui il

business sia ritenuto strategico a livello nazionale, ponendo particolare attenzione sul livello

occupazionale. Importante anche l‟intervento statale per la redistribuzione del reddito,

comprando l‟attività da privati, i quali, mediante la somma ottenuta, investono in altri settori.

Lo Stato, possedendo l‟impresa, può fissare i prezzi al consumo come desidera → laddove sono

presenti molte imprese pubbliche o pubbliche amministrazioni lo Stato ha un ruolo anticiclico,

ossia nei momenti di crescita si cresce meno, ma nei momenti di crisi si subisce anche meno.

Prima della I guerra mondiale vi sono già episodi di nazionalizzazione. Nel 1905 nascono le

Ferrovie dello Stato, liquidando i concessionari al fine di rilevare la proprietà delle

infrastrutture. Così tali concessionari investono in attività elettriche. Nel 1962 lo Stato

nazionalizza anche il settore dell‟elettricità, chiamando l‟impresa ENEL, e la società

concessionaria Edison si fonde con l‟impresa chimica Montecatini, divenendo la Montedison.

Questo per comprendere che ciclicamente lo Stato nazionalizza diversi settori, provocando

dei cambiamenti continui nell‟equilibrio. Nel 1912 viene fondato l‟INA (= istituto nazionale

assicurazioni), nazionalizzato perché il settore delle assicurazioni è considerato strategico.

Nel 1926 nasce l‟AGIP (= agenzia generale italiana petroli) per occuparsi della ricerca di

idrocarburi; rappresenta la prima campagna petrolifera che costituisce le prime stazioni di

rifornimento carburante in modo capillare, cosicché viene favorito il trasporto su gomma.

Mentre per quanto concerne i più famosi salvataggi da parte dello Stato, uno dei più famosi

riguarda quello dell‟Ansaldo: essa si occupava della fornitura di armi, e ha problemi di

riconversione dopo la I guerra mondiale, così la banca di sua proprietà (banca mista → banca

italiana di sconto) non riesce a garantirle la liquidità. A tal punto l‟impresa tenta la scalata di

un‟altra banca, che però fallisce. Nel 1924 così, viene salvata dallo Stato per mezzo della

Banca d’Italia, ma nel 1925 diviene di nuovo di proprietà privata. Nel 1929, con la crisi

mondiale, che comunque in Europa si sente dal 1931 in poi, le banche miste hanno un ruolo

importante al fine di favorire lo sviluppo industriale per fornire capitale di rischio e capitale

di credito (soprattutto in Italia e in Germania), ma la medesima crisi porta a delle difficoltà,

infatti le banche e le imprese sono partecipate le une nelle altre a vicenda (→ fratellanza

siamese), così non sono in grado di operare le une senza le altre. Lo Stato si rende conto

dell‟effetto domino disastroso che sta per colpire le imprese e le banche così:

1. crea l‟IMI (= istituto immobiliare italiano) per aiutare le banche in difficoltà e

immettere maggiore liquidità nel sistema;

2. nel 1932, però la crisi si fa più violenta, e nel 1933 nasce l‟IRI (= istituto per la

ricostruzione industriale), nato per:

la sezione finanziamenti, per fornire crediti alle piccole-medie imprese che si

trovano in difficoltà a causa della crisi. Tale sezione viene soppressa nel 1937

che viene passata all‟IMI;

la sezione smobilizzi, al fine di aiutare le banche miste, rilevando i pacchetti

azionari delle imprese industriali e facendosi carico delle imprese in difficoltà:

ma la logica doveva essere temporanea solo per il momento di difficoltà.

Ma nel 1937 l‟IRI diventa da temporanea a permanente, controllando così circa il 43% delle

SPA italiane, in particolare nei settori:

industria alimentare;

telecomunicazioni;

energia elettrica;

industria siderurgica;

cantieristica navale.

Nel 1936 lo Stato vara una legge bancaria per l‟IRI, la quale impone la fine della banca

universale (la quale rientra in gioco nel 1993), e di conseguenza:

la fine delle partecipazioni nelle imprese;

la separazione tra credito a breve termine e credito a medio/lungo termine.

Lo Stato, inoltre, si appropria di alcune banche di interesse nazionale, come la banca dei

commercianti italiani, il banco di Roma e il credito italiano,acquisite mediante l‟IRI. Alla

vigilia della II guerra mondiale l‟IRI conta 200.000 dipendenti (che nel 1980 diventano più di

500.000 → quota rilevante di forza-lavoro). Dopo la II guerra mondiale si diffonde l‟ideologia

dello Stato sociale, e quindi non si cambia direzione in senso pubblicistico (come più o meno

accade negli altri paesi europei), e comunque vi è la coesistenza tra soggetti pubblici e privati.

In Gran Bretagna, dopo la II guerra mondiale vi è la nazionalizzazione delle public utilities, dei

trasporti e delle industrie minerarie con forti ragioni sociali. Un'altra nazionalizzazione

importante è quella della rolls royce al fine di evitare la scomparsa dell‟impresa-simbolo

britannica.

In Francia vengono nazionalizzate in prevalenza le public utilities.

In Italia, nel 1953 nasce l‟ENI (= ente nazionale idrocarburi) guidato da Enrico Mattei, il

quale inizialmente viene messo alla guida dell‟AGIP al fine di smantellarla, invece la potenzia

(appunto mediante la nascita dell‟ENI), bypassando le compagnie petrolifere straniere

monopoliste (intermediarie) e rivolgendosi direttamente ai produttori, così facendo ostacola il

mercato petrolifero nazionale. Nel 1956 nasce il ministero delle partecipazioni statali, che

nel 1976 controlla il 12% del PIL nazionale delle partecipazioni statali, quindi è legato

fortemente alle imprese pubbliche.

Il processo di nazionalizzazione nei paesi extraeuropei, come India, America Latina è ancora

più sviluppato rispetto a quello italiano.

Mentre negli USA lo Stato risulta sempre sostanzialmente estraneo a questo processo.

In altri paesi lo Stato non interviene direttamente nazionalizzando le imprese, ma ha un ruolo

forte per spingere verso lo sviluppo della ricchezza. Tipici esempi sono la Germania e il

Giappone.

Processo di privatizzazione

Tale processo comincia a diventare rilevante a partire dagli anni ‟70. La componente economica

ha giocato un ruolo forte (in cui vi sono delle crisi e un contesto economico di stagflazione),

l‟economia non cresce e i prezzi si impennano → il ruolo dell‟impresa pubblica viene messo in

discussione, perché non procede bene, e dal punto di vista del mercato del lavoro costituisce

delle rigidità (viene considerato il posto fisso per eccellenza), infatti non è possibile ridurre il

personale. Così l‟economia dei paesi deve essere modernizzata: tra i propugnatori di

quest‟ondata di pensiero vi è la Gran Bretagna della Thatcher, in contrapposizione ai governi

laburisti (infatti la Thatcher faceva parte del governo conservatore), al fine di mostrare una

discontinuità rispetto ai governi che l‟avevano preceduta. I motivi per cui le imprese pubbliche

sono considerate come cattive risorse gestionali sono i seguenti:

perseguono obiettivi sociali e non economici, ad esempio assumendo di più del

necessario;

replicano il modello tipico dell‟impresa privata, ma a causa della burocrazia si

appesantisce la gestione dell‟impresa;

le classi politiche controllano la gestione, soprattutto il sistema dualistico tra manager

e impresa, curando così solo interessi individuali e non quelli della collettività;

l‟inefficienza diventa massima, se opera in regimi monopolistici;

situazione contingente legata alla finanza pubblica: se si privatizza, si diminuisce il

debito pubblico.

In caso di fallimento dell‟impresa pubblica il manager della stessa si comporta in modo

superficiale, perché comunque non ci rimette nulla, ma al massimo a rimetterci è lo Stato. A

tal punto viene meno la funzione sociale dell‟impresa pubblica, ma si afferma una forte

centralità di quella privata: in Gran Bretagna, in Francia e in Grecia. In Italia la più ampia

parte di privatizzazioni viene effettuata da governi di centro-sinistra o da governi tecnici.

In Gran Bretagna

I governi conservatori hanno l‟obiettivo di sorpassare i sindacati operai (= laburisti, cioè del

partito opposto). La Gran Bretagna aveva bisogno di ridurre il peso dello Stato sull‟economia,

favorendo così di più l‟iniziativa privata e la libera concorrenza. Tale fenomeno riguarda

soprattutto quello dei settori tipici, specie con l‟avvento delle nuove tecnologie.

Come avviene la privatizzazione

Vi deve essere qualcuno disposto a comprare, mediante un contesto istituzionale favorevole e

ideologico, quindi deve trattarsi di un mercato finanziario in cui vi è una forte propensione dei

piccoli risparmiatori ad acquistare azioni. Vi sono due modalità perché essa avvenga:

l‟offerta pubblica di vendita: caratterizzato, come già detto, dalla forte propensione

del piccolo risparmiatore ad acquistare delle azioni;

la trattativa privata: occorre avere degli investitori interessati ad acquistare l‟ex

impresa pubblica. Tale modalità viene usata soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Nell‟offerta pubblica di vendita le azioni di solito sono concesse a un prezzo di favore

mediante promozioni che creano delle aspettative di profitto nel risparmiatore, magari

invogliando gli stessi dipendenti a investire sulla loro impresa offrendo le quote a prezzi

speciali. In molti casi si tratta di imprese strategiche, e lo Stato al fine di tutelare comunque

la collettività può:

non vendere tutte le azioni;

tenersi la cosiddetta golden share, così da esprimere il proprio parere nei confronti di

alcuni atti gestori.

La privatizzazione può avere successo o può determinare un fallimento in base ai seguenti

fattori:

il contesto economico e la libera iniziativa privata;

regole per cui gli azionisti sono protetti, e in riferimento alle azioni, le quali possono

essere scambiate liberamente.

Tali condizioni, all‟inizio della privatizzazione, però, sono spesso assenti, quindi si cerca di:

creare le condizioni contestualmente alla privatizzazione;

facendo precedere alla privatizzazione un contesto istituzionale adeguato.

Vi è da dire che spesso la privatizzazione non ha successo a causa delle forti resistenze

popolari e da parte dei sindacati. Ancora potrebbero esservi dei settori difficili: in tal caso lo

Stato prova a privatizzarli solo dopo gli altri settori. Dal 1970 a fine degli anni ‟90 due

importanti eventi accadono:

la caduta dei regimi sovietici;

la forte spinta dei paesi europei verso una libera concorrenza → privatizzazioni.

I settori di attività più privatizzati sono:

le telecomunicazioni;

le public utilities;

i trasporti;

le attività manifatturiere;

le attività bancarie;

la distribuzione di energia.

Spagna e Gran Bretagna hanno privatizzato di più nei settori strategici, altri paesi hanno

preferito detenere comunque un pacchetto di controllo azionario, in modo da supervisionari gli

atti gestori.

In Italia

La prima privatizzazione risale al 1992, in particolare la Banca di Credito Italiano. Gli

italiani, ai tempi, erano abituati a investire nei titoli di Stato perché erano sicuri del fatto che

fossero convenienti. Mentre i titoli azionari privati avevano dei limiti come l‟obbligo di

dichiarazione dei redditi, ora, fortunatamente, non più previsto, adempimenti tributari e

fiscali vari e ancora il tasso d‟interesse variabile, che non dava alcuna certezza sui rendimenti.

Nei paesi sovietici

Le persone non avevano la liquidità necessaria per acquistare, così venivano a essi consegnati

alcuni voucher gratuitamente, o adottate strategie di management by out, in cui i manager

della stessa impresa acquisiscono pacchetti di maggioranza in modo da trasferire le imprese

pubbliche in mani private (in merito ai proventi realizzati dalla privatizzazioni il primo paese è

la Gran Bretagna, il secondo l‟Italia, e via via il primo paese dell‟est è la Polonia, ottavo nella

medesima classifica).

Conseguenze

Diverse sono le conseguenze portate dalla privatizzazione:

il peso delle imprese pubbliche è progressivamente diminuito (in termini di PIL); ciò è

avvenuto soprattutto nei paesi occidentali, a scapito di quelli orientali (pur essendo

stati anch‟essi caratterizzati da diverse privatizzazioni);

sono state risolte le inefficienze; sono state gestite meglio le imprese e messe in

condizione di produrre utili;

in alcuni paesi più sviluppati, in cui si è privatizzato meno, anche il risultato delle

imprese pubbliche è nettamente migliorato in termini di performance, orientando le

stesse al profitto, ma in modo tale da mantenere il controllo dei settori strategici,

evitando quantomeno di sottovalutare l‟interesse della collettività.

Nei paesi in via di sviluppo tali imprese puntano a massimizzare l‟interesse collettivo (≠ da

massimizzare il profitto) → ruolo protagonista dello Stato, le imprese pubbliche devono

reggere il confronto con quelle private; in alcuni casi la privatizzazione è consentita/favorita

grazie al miglioramento dell‟efficienza dell‟impresa quando è ancora in mani pubbliche (così

evitando di cedere imprese in perdita, e soprattutto evitando il taglio dei posti di lavoro).

Però:

durante il passaggio da un‟economia pianificata caratterizzata da un benessere non

diffuso, a un contesto che dispone di un benessere più diffuso e più elevato, può

accadere che le politiche gestionali utilizzate siano poco corrette e i costi sociali molto

elevati con relativo aumento della disoccupazione e crescita dei prezzi. Le imprese,

infatti, potrebbero essere svendute ad altre straniere o a persone che hanno

l‟interesse di vedere la propria attività esclusivamente come profittevole;

nei paesi sovietici la situazione non è cambiata; in particolare in Polonia le imprese

pubbliche erano già migliorate prima della loro cessione, avvenuta a fine degli anni ‟90;

in Italia la disoccupazione è aumentata non di molto, ma nel tempo è aumentato

considerevolmente il debito pubblico (motivo della crisi odierna), quindi, in pratica, non

vi è una situazione ottimale nel lungo periodo;

in America Latina, soprattutto in Argentina, l‟occupazione è calata del 20% e le

performance delle imprese non sono migliorate più di tanto.

Per questi motivi vi è una concezione negativa della privatizzazione, ma nonostante tutto le

imprese private, piano piano, vanno avanti. A far la differenza in tale politica è il contesto:

la struttura del mercato;

la relazione con i mercati finanziari;

le scelte imprenditoriali;

la componente culturale, secondo la quale tutti devono perseguire l‟interesse aziendale,

sperando che l‟impresa funzioni bene nel panorama economico, approccio diverso, nella

realtà, di tutti coloro che hanno a che fare con l‟impresa → problema: riuscire a farlo

in tempi brevi.

Nei paesi nordici (Finlandia, Svezia), come già detto in precedenza, più che a privatizzare, lo

Stato si è preoccupato di mettere a confronto le imprese pubbliche con quelle private

all‟interno del medesimo settore, grazie all‟accurato controllo di agenzie indipendenti, così da

porre direttamente in concorrenza i due soggetti, ponendo finalmente l‟impresa pubblica in

condizioni di essere efficiente.

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