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STORIA DELLO SVILUPPO ECONOMICO E INDUSTRIALE ITALIANO NEL ‘900 A cura del prof. Francesco Forte

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STORIA DELLO SVILUPPO

ECONOMICO E INDUSTRIALE

ITALIANO NEL ‘900

A cura del prof. Francesco Forte

Indice

PARTE PRIMA

1899-1945: DAL MIRACOLO INDUSTRIALE DEL PERIODO GIOLITTIANO AL DIRIGISMO CORPORATIVO FASCISTA PREAMBOLO: 1866 - 1898 IL PERIODO DI INCUBAZIONE I . PERIODO: DAL 1899 SINO AL 1914. IL MIRACOLO INDUSTRIALE ITALIANO IN REGIME DI LIBERTÀ DI MERCATO. II. PERIODO: DAL 1915 AL 1924. FRA ECONOMIA MERCATO E DIRIGISMO STATALE . III. PERIODO: DAL 1925 AL 1945. Il DIRIGISMO CORPORATIVO FASCISTA

PARTE SECONDA

1946-2000: DAL MIRACOLO ECONOMICO DEL DOPOGUERRA ALL’ EURO IV. PERIODO: DAL 1945 AL 1962. IL MIRACOLO ECONOMICO IN REGIME DI DEMOCRAZIA E LIBERO MERCATO V. PERIODO: DAL 1963 AL 1972. IL SECONDO MIRACOLO ECONOMICO IN REGIME DI DEMOCRAZIA, MERCATO APERTO E RIFORME VI. PERIODO: DAL 1973 AL 1982. LA DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA E L’ECONOMIA DIRIGISTA. INFLAZIONE E DEBITO PUBBLICO VII. PERIODO: DAL 1983 AL 1993. IL RIENTRO NEL SISTEMA DI MERCATO E LE BASI DEL RISANAMENTO FINANZIARIO VIII. PERIODO: DAL 1994 al 2000. IL RISANAMENTO FINANZIARIO E LE OCCASIONI STRUTTURALI MANCATE

PARTE PRIMA

PREAMBOLO: 1866-1898. IL PERIODO DI INCUBAZIONE.

Nel terzo di secolo che va dalla formazione del Regno di Italia nel

1866 al 1898, l’Italia, appena unificata, con istituzioni democratiche,

procede alla costruzione delle sue infrastrutture, alla formazione del

capitale umano, mediante lo sviluppo della pubblica istruzione, alla

formazione di una pubblica amministrazione capace di garantire la

legge e l’ordine in tutto il paese, alla costruzione di un sistema di

entrate e spese pubbliche in grado di garantire, assieme ai servizi

essenziali, la stabilità monetaria e la tutela del risparmio. Si tratta

delle basi necessarie per lo sviluppo economico in regime di

economia di mercato, per il quale è cruciale il passaggio da una

economia prevalentemente agricola ad una con ruolo importante

dell’industria e delle strutture finanziarie e commerciali.

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Popolazione .

PIL pro capite

Di lire 2001) Reale (migliaia) (milioni per abitante.)

1861 7,784 68621 26328 2,61862 8,162 71194 3,7 26507 2,71863 7,528 69623 -2,2 26712 2,61864 7,764 71487 2,7 26915 2,71865 8,039 73711 3,1 27131 2,71866 8,838 77003 4,5 27381 2,81867 8,46 71695 -6,9 27440 2,61868 9,424 73563 2,6 27561 2,71869 9,152 75692 2,9 27801 2,71870 9,057 75334 -0,5 27974 2,71871 9,406 76495 1,5 28151 2,7

1872 10,471 75857 -0,8 28314 2,71873 11,893 78950 4,1 28459 2,81874 11,355 77230 -2,2 28551 2,71875 9,978 80044 3,6 28709 2,81876 10,041 79545 -0,6 28964 2,71877 11,258 80173 0,8 29169 2,71878 10,68 80778 0,8 29334 2,81879 10,484 81145 0,5 29516 2,71880 11,24 84139 3,7 29552 2,81881 10,127 79604 -5,4 29791 2,71882 10,926 83861 5,3 30005 2,81883 10,28 83022 -1,0 30221 2,71884 10,159 83966 1,1 30511 2,81885 10,878 84086 0,1 30776 2,71886 11,322 87172 3,7 30937 2,81887 10,521 86856 -0,4 31160 2,81888 10,426 86539 -0,4 31325 2,81889 10,524 82528 -4,6 31611 2,61890 11,518 88363 7,1 31792 2,81891 12,043 90532 2,5 31992 2,81892 10,821 86390 -4,6 32189 2,71893 10,992 89195 3,2 32417 2,81894 10,621 88458 -0,8 32608 2,71895 11,005 89776 1,5 32770 2,71896 10,999 91136 1,5 32955 2,81897 10,679 87388 -4,1 33200 2,61898 11,996 93693 7,2 33369 2,8

Come si desume dai dati della Tavola 1, in questo terzo di

secolo il Pil italiano è cresciuto del 36%, pari al tasso composto di

poco meno dell’1% annuo. Il Pil per abitante, data la crescita della

popolazione, è rimasto, invece, praticamente invariato, oscillando

attorno ai 2,6-2,8 milioni di lire 2000 all’anno.

Dall’unificazione nazionale sino al 1876, il governo,

dall’ottava alla XIII legislatura fu gestito dalla destra storica, dal

1876 al 1891, prevalse sistematicamente la sinistra storica.

Successivamente tornò al potere la destra. E dall’alba del nuovo

secolo emerse la nuova coalizione liberale moderata giolittiana che

riuscì a gestire il potere sino al 1914 .

VIII LEGISLATURA 1861-1865

IX LEGISLATURA 1865-1867

X LEGISLATURA 1867-1870

XI LEGISLATURA 1870-1874

XII LEGISLATURA 1874-1876

XIII LEGISLATURA 1876-1880

XIV LEGISLATURA 1880-1882

XV LEGISLATURA 1882-1886

XVI LEGISLATURA 1886-1890

XVII LEGISLATURA 1890-1892

XVIII LEGISLATURA 1892-1895

XIX LEGISLATURA 1895-1897

XX LEGISLATURA 1897-1900

Rosario Romeo, insigne storico dell’economia italiana, di formazione

liberale, nel suo celebre libro Risorgimento e Capitalismo (1959,

riedito con nuovi sviluppi nel 1963) 1 pone negli anni 1880-1886 la

formazione della base industriale italiana. Nel successivo libro

Breve storia della grande industria in Italia, (1961 e nuova edizione

accresciuta 1963) individua nel periodo dal 1896 al 1914, in gran

parte coincidente con l’età giolittiana, l’epoca della rivoluzione

industriale italiana, che alcuni chiamano anche periodo del “decollo

economico” italiano. Alexander Gerschenkron, (1956) Osservazioni

sul saggio di sviluppo industriale dell’Italia, critica il Romeo, per la

sua tesi sulla formazione della base industriale italiana negli anni ’80

dell’800, perché il decollo è avvenuto solo nel periodo dal 1900 al

1910. Questa tesi è in sé esatta, ma non vale come critica al Romeo,

altra cosa essendo il decollo e altra la formazione della base

industriale. La tesi del Gerschenkron è stata strumentalizzata per

criticare le origini del capitalismo italiano, sostenendo che esso era

viziato da affarismo e che, perciò, nonostante lo sfruttamento dei

lavoratori, l’Italia non riuscì a decollare, quando avrebbe potuto:

negli anni ’80 e il suo sviluppo fu ritardato agli inizi del novecento.

Tale polemica non solo è pretestuosa ma si basa anche su dati errati.

Infatti non è vero che dopo sette anni di sviluppo dallo 1880 al 1887,

1 ROSARIO ROMEO, 1959 Risorgimento e Capitalismo del 1959, Bari,Laterza. IDEM (1961)Breve storia della grande industria in Italia, Bologna, ll Mulino, (nuova edizione accresciuta 1963). GERSCHENKRON, (1956) Osservazioni sul saggio di sviluppo industriale dell’Italia, in Moneta e Credito n. 33-34 . Il Romeo ha ripreso il tema in un dibattito presso la SVIMEZ, nel 1960, pubblicato dalla Rivista Nord e Sud e poi riprodotto in ALBERTO CARACCIOLO,(1963) La formazione dell’Italia industriale, Bari, Laterza con il titolo A.GERSHENKRON e R. ROMEO, Consensi e dissensi, ipotesi:dibattito.

il processo di crescita industriale italiano cessò e si dovettero

attendere altri undici anni, perché si riprendesse. La crescita media

annua degli anni dopo il l887 è simile a quella del settennio 80-87. Se

si potesse sostenere che in tutte le economie, dopo una prima breve

fase di incubazione, vi debba necessariamente essere un processo

sostenuto di crescita capitalistica, della durata di circa un decennio,

allora si potrebbe dire che l’Italia non ebbe, negli anni ‘80 il decollo

che avrebbe dovuto avere. Ma, correttamente, nella formulazione del

Romeo, si distinguono la formazione della base industriale e la

rivoluzione industriale e si analizza la prima, mettendone in luce le

realizzazioni. Tale periodo fu forse più lungo che in altri paesi, che

prima dell’Italia ebbero una rivoluzione industriale. Ma ve ne sono

valide ragioni, che poco hanno a che fare con l’affarismo, che in altre

rivoluzioni industriali fu assai più pronunciato. Certamente il sistema

politico italiano, su base parlamentare non consentiva una continuità

dei governi, per lunghi periodi. Spesso le legislature, come si vede

dalle Tavole di cui sopra, non duravano cinque anni, ma meno. E

questo dava una certa discontinuità alla politica economica, che può

avere influito in modo non favorevole sullo sviluppo dell’economia

italiana. Ma si tratta di fattori secondari. Infatti è importante tenere

presente che la rivoluzione industriale che genera un sistema

capitalistico, capace di crescita, perché operante in economia di

mercato, ha bisogno di basi, che possono costituirsi in poco o tanto

tempo, a seconda delle condizioni di partenza. Il Romeo lo ha

chiarito in un dibattito con il GERSCHENKRON nel 1960,

riprodotto in ALBERTO CARACCIOLO, (1963) La formazione

dell’Italia industriale. Gli storici marxisti tendono a identificare lo

sviluppo capitalistico con il solo processo di accumulazione di

capitali materiali nell’industria. Trascurano gli altri fattori - messi in

luce da storici ed economisti di più ampie vedute - come il capitale

umano, le infrastrutture, lo sviluppo tecnologico, le istituzioni,

essenziali per l’economia di mercato, senza cui lo sviluppo

economico non può durare -. L’accumulazione di capitale industriale

nella Russia sovietica è stata enorme, ma – mancando l’economia di

mercato e i fattori che vi si collegano - l’economia dell’URSS si è

bloccata, si è irrigidita sempre di più ed è poi crollata come un

castello di carte.

L’industrializzazione dell’Italia è partita in ritardo, rispetto alle

grandi nazioni d’Europa, di America e dell’Asia ed ha avuto una fase

di pre - decollo di un ventennio, a differenza che nei maggiori paesi

industriali, con cui oggi ci confrontiamo. Per la Gran Bretagna il

decollo (“take off”)2 dovuto alla “rivoluzione industriale” è stato

individuato3, nel 1783-1802, per la Francia nel 1830-1860, per gli

Stati Uniti nel 1843-1860, per la Germania nel 1850-1873, per il

2Con questo termine, in inglese “take off” il Rostow (1960),The Stages of economic growth, Cambridge ,traduzione italiana , 1962Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi e altri economisti designano la fase in cui una economia inizia un processo di industrializzazione cumulativo , che la trasforma da prevalentemente agricola in industriale e le consente una tendenza allo aumento permanente del prodotto nazionale pro capite Questi economisti non distinguono la formazione delle basi della rivoluzione industriale con il periodo vero e proprio di decollo: analogamente, per un aereo, si può chiamare decollo la fase in cui esso che inizia quando esso si alza dal suolo e termina quando esso è in volo oppure tutta la fase dal momento in cui entra in pista sino a quando .esso è in volo. 3Dal ROSTOW,(1960),The Stages of economic growth, Cambridge ,traduzione italiana , 1962Gli stadi dello sviluppo economico, Torino, Einaudi

Giappone nel 1879-1900 e per la Russia nel 1890-1914. Si tratta,

rispettivamente di venti anni, di trenta anni, di diciassette anni, di

ventitré anni, di ventiquattro anni.

Per l’Italia il decollo in senso stretto si verificò solo nel

periodo dal 1899 al 1914, chiamato “età giolittiana”, dal nome del

presidente del Consiglio che governò per gran parte di tale periodo

(vedi sotto), con un pre - decollo di circa 20 anni. In totale il decollo

in senso ampio, comprensivo della fase di incubazione, durò 34 anni.

Volendo, però, si può affermare che oramai nel 1906 la nostra

economia era decollata. Allora il decollo in senso ampio fu di

ventotto anni. L’Italia non potè giovarsi delle risorse minerarie che

favorirono lo sviluppo industriale della Gran Bretagna e della

Germania, né della abbondanza di ricca terra agricola, che favorì

quello della Francia o della combinazione fra ricchezza agricola e

mineraria che fu alla base del prodigioso decollo degli Stati Uniti.

Non aveva un mercato di dimensioni paragonabili a quello del

Commonwealth inglese, a quello dell’impero giapponese o agli

imperi centrali della Germania e dell’Austria. Aveva, come ha, una

robusta e rigogliosa pianta di imprenditori, tratti dal ceto medio e

anche dalla classe dei coltivatori diretti e dei piccoli artigiani e

commercianti. Aveva come anche ora ha, una grande capacità di

apprendere e creare innovazioni tecnologiche, grazie anche a buone

scuole medie e a buoni istituti universitari. Aveva come ha lavoratori

tenaci e una elevata propensione al risparmio in tutte le classi sociali.

Queste erano le sue ricchezze, soprattutto di capitale umano, con cui

rimpiazzò la carenza di materie prime, nel difficile periodo post

risorgimentale di costruzione della nuova Italia, le cui fondamenta

erano state gettate con l’unificazione nazionale. Una Italia, quella del

Risorgimento, di impostazione liberale, in politica e in economia.

Per lo sviluppo industriale occorrono non solo le basi

industriali e un adeguato risparmio che affluisce alle imprese

mediante il sistema bancario e la borsa. Occorrono anche buone

infrastrutture, una buona legislazione civile e commerciale, un

ordinamento giudiziario che ne assicura l’applicazione, un buon

apparato di ordine pubblico, servizi pubblici di istruzione, ai vari

livelli, un adeguato sviluppo della rete commerciale domestica e

internazionale, per consentire l’espansione dell’economia di mercato.

Queste condizioni erano in gran parte carenti in Italia, all’atto della

unificazione politica nazionale nel Regno di Italia. Per vari decenni,

i governi italiani succeduti all’unificazione nazionale del 1866

avevano dovuto dedicarsi a fornire al paese le infrastrutture e il

sistema di servizi pubblici di base necessari per porla al livello degli

stati europei evoluti. E il peso delle imposte che erano state per

questo necessarie aveva inciso pesantemente sul risparmio. Ciò

insieme alle manchevolezze del giovane sistema bancario aveva

ostacolato la crescita industriale. Nel periodo 1880-1886, con un

fiorire di iniziative imprenditoriali private, ebbe luogo la formazione

delle basi industriali moderne dell’Italia. Nel 1880 Italia aveva

ancora una economia prevalentemente agricola e la sua terra, salvo

eccezioni, non era molto feconda. L’Italia era scarsissima di materie

prime minerarie: mancava quasi del tutto di ferro e carbone, gli

elementi fondamentali dello sviluppo industriale dell’ottocento. Ma il

prodotto pro capite italiano, grazie all’agricoltura, era arrivato, nel

1880, finalmente a 84.139 miliardi di lire del 2001. Era una buona

premessa per il decollo. A fine secolo, dopo alterne vicende, il nostro

PIL, sempre in lire 2001, era di 94.675 miliardi. In venti anni era

cresciuto solo del 12,7%. Una crescita lentissima, con un tasso del

0,58% . La popolazione era già di 29.552.000 abitanti e nel 1899 era

oramai arrivata a 33.605.000. L’aumento, dunque, nel ventennio, era

stato del 13,3%. Pro capite il PIL era rimasto stazionario sui 2,7-2,8

milioni di lire del 2001. Ma all’interno di questo mutamento lento vi

sono fenomeni industriali molto dinamici: che però non si notano

molto negli indici globali della crescita economica, dato il modesto

peso dell’industria sul prodotto nazionale, la cui parte maggiore era

quella agricola. L’indice di incremento delle sei industrie principali -

mineraria, metallurgica, meccanica, tessile, alimentare e chimica-

difatti crebbe nel periodo 1881-1888 del 4,6% annuo composto 4.

Ma nonostante ciò il prodotto nazionale (PIL), dato lo scarso

successo della produzione agricola e dato l’avverso andamento dei

prezzi dei prodotti industriali aumentò solo di un 6% in 7 anni, con

un tasso di crescita annuo dello 0,75% E, dato l’incremento

demografico, pro capite rimase, sia quasi invariato rispetto al livello

precedente. Nel 1887 il processo di crescita industriale subì una

4 R.S. ECKAUS, (1963). Il divario Nord-Sud nei primi decenni dell’unità, in ALBERTO CARACCIOLO,(1963) La formazione dell’Italia industriale, Bari, Laterza.

grave interruzione a causa della crisi economica, di origine

internazionale, che si prolungò in una crisi del sistema bancario

italiano, con dissesti e difficoltà nelle industrie. Nel 1889, a causa

della interruzione e inversione della crescita industriale, il prodotto

pro capite italiano era sceso a 407 lire: il 10% in meno che dieci anni

prima. La ripresa, però, fu robusta, tanto che il prodotto nazionale

potè aumentare dello 11% in 11 anni, con un incremento medio dello

1% annuo: che sarebbe stato ben maggiore, senza gli anni di crisi.

L’indice della produzione industriale in termini quantitativi realizzò

un aumento medio annuo solo dello 0,3%. I prezzi dei prodotti

industriali però migliorarono, in relazione al miglioramento

qualitativo della produzione. D’altra parte questo indice non cattura

l’andamento delle industrie minori. In complesso non è azzardato

affermare che il prodotto netto dell’industria, in questi undici anni,

realizzo, a prezzi costanti, una crescita un po’ superiore allo 1%

medio annuo. In questo periodo si ebbe un rilevante sviluppo del

commercio e il sistema bancario si ristrutturò. Il miglioramento del

commercio e del credito diedero un importante contributo al

consolidarsi del giovane sistema industriale. Data la crescita della

popolazione di un altro 4% (che sarebbe stata ben maggiore, senza i

flussi emigratori) non si ebbe una crescita del prodotto pro capite

dello 11%, ma solo della metà circa. Nel 1898 però esso era riuscito

ad eguagliare la punta del 1880. Il decennio fra la fine degli anni ‘80

e la fine degli anni ’90, non fu, come qualcuno ama scrivere, un

periodo di stagnazione, ma un periodo prezioso di sviluppo del

sistema di mercato, che doveva dare i suoi frutti nell’epoca

successiva. Si andava realizzando la “commercializzazione”

dell’economia italiana. Il sistema finanziario di mercato – banche,

borse, assicurazioni- si rafforzava, con fasi di crisi , cui seguivano

riorganizzazioni. I traffici si erano sviluppati tramite una nuova

generazione di imprenditori, aperti agli scambi, grazie anche al

continuo miglioramento delle infrastrutture di comunicazione. E

oramai l’edificio del credito si andava arricchendo di banche di

origine tedesca, quali la Banca Commerciale Italiana e al Credito

Italiano, specializzate nello investimento di capitali in grandi

intraprese industriali, nei settori dell’industria pesante, dei trasporti,

dell’energia. Emergevano anche vigorose banche popolari di credito

cooperativo e casse di risparmio. Fra queste assunse grandi

dimensioni la Cassa di Risparmio delle province lombarde. Ciò

faceva affluire credito all’agricoltura per la sua modernizzazione e

all’artigianato, la piccola industria, il commercio per il pullulare di

nuove iniziative di produzione di beni e servizi. Verso la fine del

secolo, era anche iniziato lo sfruttamento dell’energia idroelettrica:

con cui l’Italia , in particolare quella del Nord, rimediava alla carenza

di carbone, quale forza motrice e fonte di calore, nei processi

industriali: non a caso , la forza idro-elettrica , abbondante soprattutto

nell’arco alpino, fu chiamata “carbone bianco”. Il periodo di

incubazione, del predecollo, della nostra economia industriale

capitalistica, dunque, durò venti anni, fra il 1880 e il 1899. In questo

anno, quello dell’esposizione universale di Torino, che si qualificava,

con Milano, come capitale industriale di Italia, era oramai

completato. Dal 1898-89 prese lo spicco un vigoroso ciclo di

crescita della nostra industria, che, per la sua intensità e i suoi

risultati, si caratterizza come la fase della “ rivoluzione industriale”

italiana. Politicamente, questa epoca viene anche ricordata come

l’età giolittiana, perché la scena politica fu dominata dai governi

liberali moderati e riformisti di Giovanni Giolitti, che furono al

potere quasi ininterrottamente (vedi sotto). Giustamente si ricordano

questi anni, come anni aurei dell’economia italiana, in cui la lira

arrivò a fare aggio sull’oro: cioè a avere un prezzo di mercato

superiore a quello ufficiale di parità, con l’oro, a cui era agganciata.

Ma non va dimenticato lo sforzo che l’Italia aveva sostenuto, nel

ventennio precedente, per darsi un sistema di infrastrutture idoneo

alle esigenze del mercato nazionale e dell’apertura al commercio

internazionale. Le cifre di questo sforzo vanno ricordate, perché

illustrano il compito a cui seppero adempiere i governi e i cittadini

dell’epoca, in regime di libertà, per dare alla giovane nazione un

destino non troppo distante da quello dei grandi paesi industriali, che

le erano vicini e che erano dotati di molti maggiori mezzi. Nel 1871

la rete ferroviaria nazionale era di 6.700 km., nel 1881 era cresciuta a

9.500 km. E nel 1893 era pervenuta a 15.000. Nel 1901 era di

16.500. Attualmente le Ferrovie statali hanno una rete di 16 mila km

e quelle minori ne contano circa altri 3 mila Dunque nel ventennio

dal 1880 alla fine degli anni ‘90 la nostra rete ferroviaria era quasi

raddoppiata ed aveva oramai una dimensione paragonabile a quella

attuale: notevole, anche se non del tutto soddisfacente, perché carente

nelle tratte da ovest a est, ostacolate, nel centro sud, dalle difficoltà

naturali dell’arco appenninico. Nel 1871 il naviglio mercantile a

propulsione meccanica era solo di 3.600 tonnellate, su un milione

circa di tonnellate, prevalentemente a vela. Dieci anni dopo le navi a

motore raggiunsero le 9.500 tonnellate. Nel 1893 arrivarono a 26

mila tonnate e all’alba del nuovo secolo erano oramai 40 mila

tonnellate, sul milione di tonnellate di naviglio mercantile , che anche

allora, predominava nei porti italiani. Questi porti nel frattempo

erano molto cresciuti di importanza e avevano nuove infrastrutture ,

adeguate al traffico più intenso consentito dalle navi meccaniche,

molto più veloci di quelle a vela. Nei primi decenni dopo la creazione

del Regno di Italia, era anche stato compiuto nel settore un grande

sforzo della rete dei servizi postali. L’effetto positivo, per le

comunicazioni d’affari e amministrative, lo si può misurare

considerando i telegrammi spediti. Questi nel 1871 erano ancora

solo 2,6 milioni. Nel 1881 , più che raddoppiati, erano saliti a 6

milioni, passando a 8,4 milioni nel 1893. Sfioravano i 10 milioni

all’inizio del nuovo secolo.

PRIMO PERIODO

DAL 1899 SINO AL 1914. IL MIRACOLO INDUSTRIALE ITALIANO IN REGIME DI

LIBERTÀ DI MERCATO.

Il termine “miracolo industriale” è certamente appropriato per il

periodo 1899 –1914 anche se ciò che accadde allora, per il tasso di

crescita del prodotto lordo globale, non è così sensazionale come il

processo di crescita che l’Italia ha avuto dal 1947 al 1960.

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

di lire 2001) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1899

12,004 94675 1,0 33605 2,8

1900 12,775 99340 4,9 33739 2,91901 13,03 104923 5,6 34015 3,11902 12,457 102774 -2,0 34316 3,01903 13,627 107809 4,9 34555 3,11904 13,47 107644 -0,2 34875 3,11905 13,935 110949 3,1 35147 3,21906 14,812 112626 1,5 35446 3,21907 16,823 124799 10,8 35742 3,51908 16,12 121203 -2,9 36055 3,41909 17,588 129309 6,7 36370 3,61910 17,328 120864 -6,5 36774 3,31911 19,186 130446 7,9 37059 3,51912 20,041 132507 1,6 37241 3,61913 20,827 136831 3,3 37255 3,71914 20,251 134414 -1,8 37797 3,6

Rispetto al PIL del 1898, il PIL del 1914, secondo i dati Istat che

autorevoli studiosi oramai considerano sotto stimati, risultava

cresciuto del 43.5% in 16 anni, con un tasso di crescita medio annuo

del 2,4% circa. Questa crescita fu dovuta essenzialmente a quella

della produzione industriale. Il prodotto nazionale lordo dal 1899 al

1915 , sotto la spinta dello sviluppo industriale, aumentò da 94.675

miliardi di lire 2001 a 138.675. La popolazione aumentò da 33.605

milioni di abitanti a 38.166.000 del 13,5% soltanto, nonostante la

rilevante crescita demografica perché vi fu vi è un grande flusso di

emigrazione alle campagne. Il prodotto pro capite pertanto aumentò

da 2,8 milioni di lire 2001 a 3,6 con un incremento del 28% in sedici

anni, pari al 1,6% annuo : appariva già molto allora, al confronto

con la lenta crescita del periodo precedente e non si presentava

male nel paragone con i dati internazionali.

IL QUADRO POLITICO E DI POLITICA ECONOMICA

All’inizio di questo periodo si va esaurendo il potere parlamentare

della sinistra ministeriale. Come si è potuto già osservare, dalle

Tavole riguardanti le legislature di fine secolo le elezioni per la XX

legislatura del 21 marzo del 1897 avevano visto una affermazione di

misura della sinistra che aveva ottenuto il 40,55% dei seggi ( 206

deputati su 508 ) con un gruppo composto di sinistra storica+ centro

sinistra + ministeriali, contro il 37,80°% dei seggi della destra ( 192

deputati su 508), anche essa costituita da un gruppone composito

formato da deputati della destra storica+

centro+cattolici+ministeriali.

In sostanza dopo le disastrose vicende dei governi Crispi in

Africa, la forza politica dei liberali di sinistra autori di politiche

confuse , si andava riducendo, mentre cresceva quello dei liberali

conservatori e di centro. L’estrema , che aveva solo il 5,71% dei

seggi (29 deputati) era composta da radicali, repubblicani e un

manipolo di socialisti fra cui Filippo Turati, Enrico Ferri, Luigi De

Andresi, mentre vi era anche un vasto gruppo di “indefiniti” (ben 81

deputati) che arrivava al 15,94% dei seggi e quindi rendeva possibili,

con il proprio voto, sia governi della sinistra, che governi della

destra. Ed in effetti, l’asse politico si spostò verso destra , per altro

con frequenti crisi di governo.

Questo frazionamento delle posizioni politiche e l’esistenza di

un vasto gruppo con una posizione indefinita era dovuto al fatto

che il sistema elettorale era basato sul sistema dei collegi uninominali

(viene eletto chi, in quel collegio elettorale, ha più voti o al primo

turno o al ballottaggio con fra il primo e il secondo, se nessuno al

primo turno ha superato il 50%). Inoltre, l’elettorato era ristretto,

essendo esclusi non solo le persone con meno di 21 anni, ma anche

tutte le donne e coloro che non sapessero leggere e scrivere e le

persone al di sotto di un certo censo. Quindi spesso gli elettori, che

avevano un rapporto diretto con i candidati, badavano di più alla

persona che al programma. All’inizio della legislatura conservò il

potere il III governo di destra presieduto dal marchese Di Rudinì,

che era sostenuto anche dalla sinistra di Zanardelli e Giolitti e che

aveva, al Tesoro, Luigi Luzzatti. Esso durò sino al dicembre del

1897. Seguì, con un rimpasto, che diede luogo al IV governo Di

Rudinì che durò sino al 1 giugno del 1898 , con lo stesso Ministro

del Tesoro. E infine un V Di Rudinì, con la stessa compagine che

durò solo sino al 26 giugno. Di Rudinì. con il Ministro delle

Finanze Branca e con Luzzatti al Tesoro aveva attuato il pareggio

del bilancio, grazie a una severa politica della spesa (la celebre

“politica della lesina”, inaugurata già dal I governo Di Rudini’ del

1891-92, con Liuzzatti al Tesoro) e all’aumento delle imposte sui

consumi . Ma nel maggio del 1898, scoppiarono scioperi e moti

popolari di protesta contro l’aumento del prezzo del grano (gravato

da un alto dazio) e del pane (colpito dal dazio sulle farine) .

Proclamato a Milano e in altri centri, lo stato d’assedio , il generale

Bava Beccaris comandante della Piazza di Milano attuò azioni

repressive cruente che secondo le stesse cifre ufficiali provocarono il

7 maggio a Milano 80 morti (altre fonti giunsero a stimarli in 3oo

circa) . La sinistra di Zanardelli e Giolitti ritirò il suo appoggio al

governo. Di Rudinì riuscì’ a metterne insieme un altro, fotocopia del

precedente, ma non riuscì a trovare appoggi adeguati in parlamento.

Caduto il V governo del marchese Di Rudinì, il Re diede l’incarico

al generale Pelloux, che formò il 29 giugno 1898 un governo

appoggiato dalla sinistra di Zanardelli e Giolitti, finalizzato

ambiguamente al ritorno alla legalità costituzionale. Ma nel febbraio

1899 Pelloux presentava un disegno di legge sull’ordine pubblico

(già presentato senza esito dal di Rudinì) che vietava lo sciopero di

ferrovieri , postelegrafonici e addetti all’illuminazione pubblica (che

generalmente avveniva con lampade a gas) , vieta di portare insegne

ed emblemi sediziosi, stabilisce ampie facoltà delle autorità di

pubblica sicurezza con riguardo al divieto e allo scioglimento di

riunioni e assembramenti e pone sanzioni penali a carico di redattori

oltreché direttori responsabili per reati di stampa. Il disegno di

legge, sostenuto anche da Zanardelli e Giolitti, dovrà essere

approvato in tre letture . La prima lettura riceve l’approvazione con

310 voti e solo 93 contrari, quasi solo di repubblicani, radicali e

socialisti . Effettuato un rimpasto Pelloux , cerca di far passare in

parlamento il suo disegno di legge sull’ordine pubblico. seconda

lettura . Ma l’estrema sinistra inizia l’ostruzionismo parlamentare,

con Enrico Ferri che fa discorsi interminabili, sorretto da colleghi

repubblicani, radicali e socialisti. Alle amministrative la coalizione

di repubblicani, socialisti, radicali ottiene la maggioranza del

comune di Milano e notevoli affermazioni a Torino, Firenze,

Alessandria, Parma, Pavia. Giolitti e Zanardelli si rendono conto che

il provvedimento è impopolare , che occorre adottare una nuova linea

di attenzione ai movimenti di sinistra per coinvolgerli in una linea di

governo basata sulle riforme nel rispetto dei principi liberali e

ritirano il loro appoggio al progetto. Pelloux lo trasforma in decreto

legge, ma gli manca la maggioranza per convertirlo in legge. Al

termine della legislatura , nel giugno 1900 la sua coalizione si

dissolve .

XXI LEGISLATURA 1900-1904

Nelle votazioni per la XXI legislatura, che ebbero luogo il 16

giugno del 1900, gli aventi diritto al voto erano solo il 6,9% della

popolazione , cioè 2,2 milioni di abitanti ti su una popolazione che

era ormai di 32 milioni e mezzo. Il suffragio elettorale invero era a

base ristretta, escludeva oltre alle donne e ai minori di età, tutti

coloro che non sapessero leggere e scrivere. Votò , al solito, solo il

58% degli elettori. E sotto l’impressione dei morti del 1898 e dei

tentativi di restrizione alle libertà democratiche che si erano verificati

con il governo del generale Pelloux, la coalizione della sinistra a

guida liberale moderata, che si presentava come sinistra ministeriale

recuperò parecchi seggi , ottenendone 296, pari al 58.27%. La destra

+l’opposizione costituzionale, costituita in sostanza dai liberali di

destra, si fermò a 116 seggi pari al 22,83% mentre si rafforzavano i

repubblicani e i radicali, che assieme otteneva 63 seggi, pari al

12,3%. I radicali per altro avevano più seggi dei repubblicani: il

6,69% contro il 5,71%. Ma la grande novità era costituita

dall’ingresso in forze in parlamento dei socialisti, con un gruppo di

ben 29 deputati, pari al 6,5% : non era un numero o una quota molto

elevata, ma aggiunto al 12% dei repubblicani e liberali si trattava di

una potenziale coalizione che sfiorava il 20% dei seggi. E poi questi

29 deputati socialisti erano collegati al sindacato dei lavoratori, Le

diversità ideologiche e i dissidi che esistevano al suo interno, però ne

minavano già allora la capacità di svolgere una azione politica

coerente. Vi erano, invero, varie correnti, non facili da comporre ad

unità.. Quella capeggiata da Filippo Turati eletto a Milano riteneva

che l’unica via praticabile fosse quella di cercare alleanze con la

borghesia più dinamica e progressista, al fine di realizzare, con

gradualismo, riforme sociali che avrebbe giovato ai lavoratori e ne

avrebbero a accresciuto via via il peso politico, contribuendo così

all’evoluzione della società verso forme di socialismo , per la verità

individuate in modo molto nebuloso, nei tempi e nel contenuto.

Questa linea conteneva un elemento di ambiguità, riguardo agli

obbiettivi perché mentre si richiamava a obbiettivi di socialismo,

nello stesso tempo si ricollegava alla dottrina revisionista di

Bernstein, per cui il capitalismo , a differenza di quanto previsto da

Marx non sarebbe crollato. E quindi, la linea riformista lo avrebbe

migliorato, ma –secondo la tesi dei socialisti rivoluzionari, avversari

di Turati- lo avrebbe, in definitiva, rafforzato. Questi avversari dei

riformismi, a loro volta , erano divisi in vari indirizzi ideologici, che

si riflettevano anche sulla linea da tenere verso i vari governi .

Costantino Lazzari, il personaggio più influente del partito, che nel

1901 mise Turati in minoranza, fedele alla intransigente linea

operaista milanese, sosteneva un programma massimalista, che

comportava l’opposizione parlamentare. Arturo Labriola, fautore del

sindacalismo rivoluzionario, oltre alla opposizione parlamentare,

propugnava forme spinte di agitazione sindacale, non condivise per

altro dal sindacato dei lavoratori; dal canto suo Enrico Ferri, celebre

penalista e grande oratore, sosteneva le alleanze caso per caso, a

seconda dei governi e, nello stesso tempo, la prospettiva finale

rivoluzionaria. Il primo governo successivo alle elezioni, fu un

governo istituzionale di attesa guidato dal presidente del Senato,

Giuseppe Saracco , esponente piemontese della destra storica. Ma il

29 luglio il Re Umberto I viene ucciso a Monza da un anarchico ,

Gaetano Bresci con la esplicita motivazione di vendicare i morti del

1898 . Il nuovo re , Vittorio Emanule e III , dopo un lungo periodo di

riflessione , si decise a una netta svolta, per altro suggerita dalla

situazione politica e diede l’incarico di formare il governo al leader

dei liberali di sinistra ovvero liberal -democratici , il giurista

democratico Giuseppe Zanardelli, che si insediò solo 1l 15 febbraio

1901 , ma durò sino al 3 novembre 1903. In realtà si trattava del

governo Zanardelli- Giolitti , perché il Ministero degli Interni,

posizione cruciale, in quella situazione, fu affidato a Giovanni

Giolitti, che era l’esponente dell’ala moderata dei liberal-

democratici. Giolitti si apprestava a divenire il protagonista della

politica italiana, di indirizzo liberale moderatamente riformista in

politica e in economia , per tutto il periodo sino alla svolta delle

elezioni a suffragio universale della seconda metà del 1913. Dal

novembre 1903 al 28 marzo 1905 , in effetti, alla presidenza del

governo va Giovanni Giolitti, che tiene anche il Ministero degli

Interni e si avvale, prima al Ministero delle finanze, poi al Tesoro

del liberale riformista della destra storica Luigi Luzzatti, risanatore

dei bilanci statali, ma anche promotore delle banche di credito

popolare e del movimento cooperativo, come risposta alle formule

dello statalismo e del collettivismo marxista.

XII LEGISLATURA 1904-1909

Il 24 novembre del 1904 si svolsero le elezioni per la XII legislatura ,

in cui avevano diritto di voto 2,5 milioni di elettori pari al 7,5%

della popolazione . Si realizzò in grande rimescolamento di carte,

poiché emerse una coalizione di conservatori e democratici

ministeriali, in sostanza la grande maggioranza dei liberali che

conquistò il 66,73% dei seggi, con ben 339 deputati. Rimanevano

tagliati fuori dal potere di governo sia la destra con l’opposizione

costituzionale cioè l’ala della destra liberale che aveva ottenuto

solo 76 seggi pari al 14,96% sia l’ala della sinistra intransigente dei

radicali e i repubblicani che erano rimasti al 12% con 61 seggi . Ma i

radicali avevano recuperato parte dei voti persi nelle precedenti

tornate elettorali ottenendo il 7,28% dei seggi. Dal canto loro i

repubblicani, politicamente isolati, avevano ottenuto solo il 4,72%

dei seggi. Erano politicamente isolati anche i cattolici autonomi, che

non facevano parte del gruppone dei conservatori e democratici

ministeriali, ed avevano solo 3 seggi. Quanto ai socialisti che

avevano mantenuto i loro 29 seggi , pari al 5,71% essi si

preparavano a tenere un atteggiamento di benevola neutralità, nei

riguardi del governo, in cambio di concessioni di riforme, anche

modeste, che avvantaggiassero la classe lavoratrice , denominata

nella terminologia allora corrente “il proletariato” ad indicare che la

sua unica ricchezza era la prole, che poteva lavorare, contribuendo

con i suoi magri compensi, al reddito familiare. Potrebbe sembrare

illogico che, con una maggioranza parlamentare di due terzi la

coalizione conservatori e democratici ministeriali, il governo avesse

interesse all’astensione del drappello dei socialisti , per far passare le

sue delibere. Ma la coalizione di governo non era per nulla compatta

e a chi la guidava faceva comodo di potere disporre di un nucleo di

voti esterni , che potessero venirgli in soccorso , anche come

deterrente, ove necessario.

All’inizio di questa legislatura , Giolitti non guida il governo.

Preferisce lasciare che sia Presidente del consiglio un autorevole

politico del suoi gruppo, già garibaldino ma ora costituzionale e , in

economia , di indirizzo liberale moderato come Giolitti. Nei dieci

mesi dal 28 marzo 1905 all’8 febbraio 1906 il governo guidato da

Alessandro Fortis adempie al compito di portare a termine la

nazionalizzazione delle ferrovie, che Giolittti aveva impostato e

portato quasi a termine . Venivano passati allo stato, mediante

indennizzo, le reti e i materiali dei tre gruppi privati che , sono ad

allora, le gestivano, con una situazione che appariva, al gruppo

giolittiano , insoddisfacente, sia perché non vi era, in tal modo, una

rete nazionale , indispensabile come infrastruttura per l’unificazione

del mercato nazionale e per la coesione del paese, sia perché il

legame fra ferrovie e banche prosciugava risorse finanziarie che ,

secondo l’impostazione giolittiana, era desiderabile lasciare

maggiormente a disposizione dello sviluppo dell’industria

manifatturiera. Gli investimenti ferroviari, sarebbero entrati a far

parte della politica dei lavori pubblici, che era uno dei cardini della

politica giolittiana. Per altro, Fortis pagò un prezzo di riscatto per le

Strade Ferrate Meridionali (gruppo SME) che parve eccessivo. Fu

costretto a dimettersi, difeso da Giolittti , formò un secondo governo,

che durò solo un mese e nel febbraio 1906, perse la fiducia, sotto i

colpi dell’opposizione di destra, capeggiata da Sidney Sonnino e

anche di quella di sinistra guidata dai socialisti. Questi , che in

passato erano stati alleati di Giolittti, nei loro interventi polemici

ravvisarono in lui il vero responsabile degli errori e dell’inazione di

Fortis. Giolitti, allora, depositò agli atti del parlamento una memoria

a “difesa della propria attività ministeriale “ che è molto interessante

, in quanto sintetizza le realizzazioni riformiste che egli aveva

realizzato, nei suoi governi .” Ricordò che i suoi governi avevano

favorito le organizzazioni operaie, impostato e risolto la questione

ferroviaria, abolito il dazio sulle farine, municipalizzato i servizi

pubblici, promosso la riforma carceraria, obbligato i proprietari a

provvedere case igieniche per i contadini e prescritto ai comuni la

distribuzione gratuita di medicinali ai malati poveri, aumentato gli

stipendi agli insegnanti elementari e preso i primi provvedimenti per

gli sviluppi delle regioni meridionali”5 . Il governo, come era

inevitabile, passò alla destra liberale , guidata dal suo rivale Sidney

Sonnino. Ma questi durò al potere solo cento giorni dall’8 febbraio

al 29 maggio, nonostante si fosse cautelato sulla destra dando il

Tesoro a Luigi Luzzatti e sulla sinistra dando l’Agricoltura, industria

e commercio al radicale Edoardo Pantano e si fosse assicurata la

benevola astensione che i socialisti avevano, in precedenza, dato a

Giolitti. E che per altro non dipendeva più dall’atteggiamento

dell’ala riformista, ma da quello dei leaders massimalisti come

Enrico Ferri, che preferivano l qualcuno più a destra di Giolitti, a

favore una linea contraria ai compromessi giolittiani. Nel

programma liberale di Sonnino, in cui campeggiava il principio della

moralizzazione della vita pubblica , vi era in effetti lo

smembramento del latifondo del Mezzogiorno, per dare vita alla

piccola proprietà contadina. Ma il programma non poté essere attuato

Sonnino, il moralizzatore, cadde sugli indennizzi per le ferrovie

espropriate: la proposta di Sonnino parve eccessiva non solo

all’opposizione, ma anche a due deputati della sua maggioranza che

votarono contro . E Sonnino, convinto di non poter controllare il 5 Cito da Sergio Romano, 1989 ,Giolitti. Lo stile del potere.Milano, Bompiani

parlamento si dimise. Il nuovo governo di Giolitti, durò dal 9

maggio 1906 allo 11 dicembre 1909.

E guidò l’Italia in uno dei periodi migliori del suo sviluppo

economico ed industriale, in cui un ruolo di primo piano ebbero la

solidità delle finanze pubbliche con il bilancio ordinario in pareggio

o in avanzo e la politica di sviluppo delle ferrovie.6 Per altro nel

1907 ha luogo una contrazione economica internazionale, con

caduta dei valori di borsa, che si propaga anche in Italia e genera la

crisi di una grossa banca , la Società Bancaria Italiana , la terza per

importanza in Italia , per le partecipazioni in imprese industriali,

dopo la Banca Commerciale e il Credito Italiana . Giolitti fa

intervenire, in salvataggio della SBI, un consorzio di banche guidato

dalla Banca di Italia affiancata da Commerciale e Credito Italiano:

il salvataggio si realizza con denaro liquido della Banca di Italia, reso

disponibile mediante modifica del limite massimo alla emissione di

banconote da parte della Banca stessa. E’ il primo salvataggio del

circuito banca-industria realizzato in Italia. Esso verrà parzialmente

copiato nella crisi degli anni 30 con la differenza che allora saranno

statizzate le imprese industriali, finanziate con i soldi della Banca di

Italia tramite il consorzio di salvataggio . Invece, in regime

giolittiano l’intervento non sfociò in acquisizione allo stato delle

industrie, finanziate dalla SBI, ma terminò con la rimessa di questa in

condizioni di solvibilità. In questa legislatura Giolitti realizza un

6 Cfr. Guido Pescosolido (s.d.) Lo sviluppo industriale, in Il Parlamento Italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia 1861-1988, vol. 7° 1902-1908, p.82.

altro importante intervento : la creazione dell’Azienda di stato dei

servizi telefonici, per le linee di grande comunicazione sul territorio

nazionale, che viene attuata rilevando singole imprese private.

XXIII LEGISLATURA 1909-1913

Nelle votazioni per la XXIII legislatura del 7 marzo 1909 , sempre a

suffragio ristretto, gli elettori erano saliti allo 8,3% della

popolazione, essendo aumentati coloro che avessero conseguito la

maggiore età e avessero il requisito di saper leggere e scrivere .

Oramai non si riuscivano più a distinguere fra di loro i vari

raggruppamenti liberali, che si presentavano come costituzionali

ministeriali, costituzionali d’opposizione e come indipendenti: a loro

andò il 75,20% dei seggi, con ben 382 onorevoli. Repubblicani e

radicali erano saliti a 69 seggi, con oltre il 13,5% dei voti, ma se si

va a guardare più in dettaglio la situazione di questi partiti , si nota

che i radicali sono saliti allo 8,86% mentre i repubblicani sono

rimasti al 4,72% dei seggi, della precedente legislatura. Dal canto

loro i socialisti, la cui politica evidentemente era ritenuta producente

dagli ambienti vicini al “proletariato” erano saliti allo 8, 07% con 41

deputati. Anche i cattolici autonomi , finalmente, si affermavano,

ottenendo 16 deputati, pari al 3,15%. Erano le premesse del partito

popolare, che sarebbe dopo poco tempo, decollato, verso dimensioni

di grande rilievo .

Il frazionamento politico dei liberali non impedisce però a

Giolitti di controllare sostanzialmente la situazione politica. Il suo

governo però durò, nella nuova legislatura solo sino al dicembre

1909 . Giolitti di dimise perché non riusciva ad avere una

maggioranza sulla questione del rinnovo delle convenzioni

marittime: le linee di navigazione marittima, allora molto importanti,

erano dominate dalla Società Italiana di Navigazione, che aveva un

quasi monopolio. Giolitti aveva cercato invano di contrapporre a tale

Società un altro gruppo, il Lloyd Italiano diretto da Erasmo Piaggio,

per gestire tutte le linee sovvenzionate dallo stato, con una

convenzione di 25 anni di durata. Al suo governo, successe un

governo liberale di destra, presieduto da Sidney Sonnino, che dura

solo sino al marzo del 1910, non riuscendo a scigliere il nodo delle

linee di navigazione. Gli succedette dall’aprile del 1910 al marzo

1911, un governo (relativamente) più lungo presieduto dal liberale di

destra Luigi Luzzatti, sostenuto da Giolitti, con cui egli già aveva

strettamente collaborato. Al Ministero delle finanze vi è

l’onorevole cuneese Luigi Facta, fedelissino di Giolitti e al Tesoro il

liberale Francesco Tedesco, già alto funzionario finanziario delle

ferrovie, anche egli giolittiano. Luzzatti riuscì a concludere

l’operazione di rinnovo delle convenzioni secondo le linee

progettate da Giolitti, affidando le linee sovvenzionate alla Società

Nazionale dei Servizi Marittimi , con una convenzione di minor

durata, apparentemente transitoria. Nel frattempo, attuava la prima

legge per la bonifica integrale idraulico forestale, riguardante in

particolare bacini montani. Le leggi fasciste sulla bonifica integrale

si rifaranno a questo precedente . 7 Dal marzo 1911 sino al marzo del

1914 Giolitti tornò ininterrottamente alla presidenza del consiglio:

in triennio, era , all’epoca una durata record per un governo. E alle

Finanze vi è ancora Luigi Facta, mentre al Tesoro permane

Francesco Tedesco.

In questo periodo egli propugna due grandi riforme: la legge

sul suffragio universale che era stata vigorosamente proposta dal

Luzzatti da cui non si voleva far scavalcare e il monopolio statale

delle assicurazioni sulla vita, che doveva dare allo stato i mezzi

finanziari per costruire un solido sistema di assicurazioni sociali per

i lavoratori, basato sulla Cassa per la vecchiaia e invalidità dei

lavoratori, la futura INPS. Riuscì a attuare la prima riforma, non la

seconda. E paradossalmente fu proprio l’introduzione del suffragio

universale, che egli aveva in precedenza avversato , ritenendolo

prematuro in relazione al diffuso analfabetismo delle masse (agli

inizi del secolo ancora quasi il 40% delle coppie, al matrimonio

dichiarava di non saper leggere scrivere 8) , che generò il declino del

7 L:uigi Luzzatti , veneziano, fautore di queste bonifiche si rifaceva certamente alla tradizione delle grandiose bonifiche intraprese dalla Repubblica veneta, dal quattrocento in poi. Cfr. su ciò F.- Forte Le Ville Venete , in 8 Cfr. Romano, 1989, p. 215

suo potere e di quello dei liberali, che avevano sino ad allora

governato l’Italia.

Ma Giolitti aveva ragione di collegare queste due riforme al

grande progresso che dall’inizio del secolo l’Italia aveva realizzato

nel campo economico e sociale. Abbiamo visto che la crescita del

PIL fu , secondo l’Istat, come si è visto, in questo periodo attorno al

45% Come è stato scritto “ I progressi più eclatanti furono

comunque quelli dell’industria , che riuscì ad erodere sensibilmente

la posizione detenuta dall’agricoltura nella formazione del prodotto

interno lordo. Mentre la quota di quest’ultima , fra il 1896 e il 1913,

quella dell’industria crebbe dal 19, 4% al 24,7% . Tutti gli indici

della produzione industriale di questo periodo segnalano un saggio

di espansione nettamente più alto che in passato e nettamente più

elevato di quello sia delle attività primarie che delle terziarie.

Secondo l’Istat che fornisce la valutazione più prudente , il saggio

medio annuo di sviluppo dell’industria manifatturiera sarebbe stato

del 4% nel periodo 1896-1913 mentre nel 1896-1908 esso sarebbe

stato del 5,2% seguito da un più contenuto 1,4% nel periodo 1908-

1913 . Degli altri indici della produzione , il più noto, oltre a quello

di Silvio Golzio, è certamente quello di Alexander Gerschenkron, che

segnala incrementi rispettivamente del 6,7% per gli anni 1896-1908

e 2,4% per gli anni 1908-1913. L’indice più recente, quello di

Fenoaltea, presenta valori ancora più alti:6,2% per il 1896-1913 e, in

particolare, 7,9% per il 1896-1908 e 2,3% per il 1908 –1913 . E

sicuramente i valori di Gerschenkron e di Fenoaltea sono da ritenere

più attendibili se si tiene conto delle altre indicazioni disponibili,

prima fra tutte quella degli scambi commerciali con l’estero ,

secondo cui già nel periodo 1894-1897 , quando le attività industriali

cominciano nuovamente ad espandersi , dopo la crisi del 1888-92, a

fronte di una flessione di semilavorati, si assiste a un cospicuo

incremento di quella di generi alimentari e materie grezze e

soprattutto di prodotti finiti dell’industria, che rispetto alla media del

triennio 1888-1890 aumentano rispettivamente del 21%, del 17% e

del 63%, in misura cioè nettamente superiore a quella delle

corrispondenti importazioni , fra le quali non a caso si segnala il

15% di aumento delle materie prime per le industrie (Romeo).

L’analisi die ami più importanti conferma la rilevanza quantitativa e

qualitativa dei fenomeni di crescita. Sensibili variazioni a favore

delle imprese industriali in genere e dei settori più moderni in

particolare si registrarono nella composizione del capitale azionario

complessivo e della popolazione attiva . Nel primo caso si riscontra

che nel 1913 le società varie, comprensive di quelle propriamente

industriali, rappresentavano oramai il 66,5% del capitale azionario,

contro il 13,2% elle banche e il 20,3% dei trasporti , mentre nel

1872 tali percentuali erano rispettivamente del 25,5% , del 57% e del

15.7% . Nel secondo si può rilevare che tra il 1903 e il 1911 aumentò

la percentuale sul totale degli addetti della metallurgia (dal 2,8 al

6,2%), alla meccanica ( dall’8, all’11,2%), all’abbigliamento, cuoio e

pelli (dal 5,1% al 12,5%), a fronte di una flessione dei più

tradizionali settori alimentare (dal 14,4 al 13,2%) e tessile (dal 32,1

al 21,5%)(Romeo).Queste cifre alludono inequivocabilmente alla

superiore dinamica delle industrie produttrici di beni di investimento:

in particolare l’elettrica, la siderurgica, la meccanica, la chimica le

quali si trovarono a fronteggiare la crescente domanda interna di

macchinari, attrezzature e beni di consumo durevoli , utilizzando una

serie assai ampia di innovazioni tecnologiche nel campo della

produzione e della applicazione dell’elettricità ai processi produttivi

(elettromeccanica, elettrochimica) , in quello dei trasporti (motore a

combustione interna ), in quello chimico”9

Sarebbe errato ravvisare le cause di questo grande processo

di sviluppo e modernizzazione dell’economia italiana solo nella

sostanziale stabilità politica di questo periodo e alla politica

economica “giolittiana” . Le basi di questo sviluppo, nella politica

pubblica come si è visto, erano state gettate nel periodo precedente,

con tappe faticose di costruzione dello stato unitario, delle sue

infrastrutture, di acquisizione della stabilità monetaria e del pareggio

del bilancio, di sviluppo dell’istruzione pubblica ai vari livelli, di

tutela della libertà del mercato e di adozione di misure

protezionistiche, che, pur con alcuni aspetti criticabili, nel complesso

avevano favorito lo sviluppo industriale. E il mondo della produzione

e del lavoro aveva operato con tenacia, con senso del risparmio, con

intraprendenza, con apertura ai mercati internazionali, capacità di

apprendimento dei nuovi sviluppi tecnologici.

9 Pescosolido citato pag.59-60.

Ma dato a “Cesare quel che è di Cesare”, dato ciò atto che del balzo

in avanti del periodo 1898-1914 , ha un merito anche il precedente

lungo periodo di incubazione, bisogna pur riconoscere che grossi

meriti competono al quadro politico di questo periodo aureo della

nostra economia : alla continuità politica , alla intelligente apertura

delle istituzioni alle istanze delle masse popolari, alla saggia

combinazione fra principi di economia di libero mercato , riforme

sociali e cauti interventi pubblici.

Vedremo, poi, che in questo quadro politico favorevole hanno avuto

sviluppo rigoglioso le energie imprenditoriali: la pianta “uomo”

italiana , in regime di libertà, dà , nell’economia di intrapresa, frutti

ma volte persino sorprendenti, per il confronto fra le modeste basi di

partenza e i grandi punti di arrivo.

LE CARATTERISTICHE E LE VICENDE

INDUSTRIALI

Al termine di questo periodo, nel 1914, l’Italia aveva una

struttura industriale capitalistica, che ebbe la sua “prova del fuoco”

nella prima guerra mondiale, in cui –come vedremo- l ’Italia riuscì a

sconfiggere l’Austria, nonostante la rotta subita nel 1917, a

Caporetto, proprio grazie alla forza del suo apparato industriale . 10

Lo sviluppo industriale italiano degli anni 98-1914 conseguito in un

regime di libertà di mercato e la connessa struttura capitalistica

10 Nel volume Breve storia della grande industria in Italia, menzionato a nota 3.

ebbero la loro prova del fuoco (e non in senso puramente figurato) e

un collaudo positivo con la grande guerra mondiale e la vittoria del

1918.

L’esito fu molto diverso per la prova del fuoco e il collaudo che

subirono altrettanto dell’apparato industriale italiano e la connessa

struttura capitalistica durante la seconda guerra mondiale: la prova fu

negativa, il collaudo poco meno che disastroso . Il fatto è che il

sistema industriale e il capitalismo del ventennio fascista erano

cresciuti nell’economia corporativa, senza diritto di sciopero, senza

libertà sindacale e contrattuale, senza concorrenza, e si erano nutriti

di autarchia, di statalismo e di dirigismo interferente . La debolezza

di questo apparato industriale, oramai molto articolato

apparentemente robusto, si rivelò in pieno nelle vicende militari degli

anni ‘40 in cui si venne a trovare impegnata l’Italia.

Ma vediamo i fatti e le cifre, del periodo che qui ci interessa,

riprendendo i dati che abbiamo appena visto, circa la nostra crescita

industriale. Fatto 100 il livello del prodotto lordo di cinque settori

manifatturieri fondamentali – alimentari bevande e tabacco, tessile,

metallurgico, meccanico , chimico, del 1896 , l’aumento della

produzione industriale manifatturiera era salito a quota 132 nel

1900. Aumentò ancora dello 85% dal 1900 al 1913 e risultò

accresciuto del 243 % nei 16 anni dal 1996 a al 1913 con un tasso di

crescita medio annuo del 5,75% .

Il settore alimentare, bevande e tabacco ebbe un aumento sopra la

media del prodotto lordo del 280% , quello tessile solo del 50%.

L’accrescimento del settore metallurgico fu spettacolare: 470%, e fu

seguito a poca distanza da quello meccanico che fu del 423% . Il

settore chimico a sua volta registrò un aumento ancora maggiore ;

dello 818%. La composizione strutturale dell’industria manifatturiera

italiana era profondamente cambiata . Facendo eguale a 100 il

prodotto lordo dei quattro settori, l’alimentare nel 1896 occupava il

31,7% del totale, superato dal tessile che occupava il 48% del

totale, mentre il settore metallurgico costituiva solo il 3,34% , il

meccanico era il 12,4% e il chimico appena lo 1,5%. Era il quadro

di una economia prevalentemente agricola, con molto autoconsumo e

basso tenore di vita delle masse. Nel 1913 l’alimentare aveva una

posizione pressoché invariata, il 34%. Il settore tessile era sceso al

32%, il settore metallurgico aveva guadagnato la quota del 6,45% ,

quello meccanico era salito al 21% e quello chimico era al 5,4%.

L’economia si era evoluta: il settore meccanico aveva oramai un

ruolo molto importante e insieme al settore metallurgico sfiorava il

28%, aggiungendo la chimica, i tre settori tecnologicamente avanzati

superavano il settore tessile ed eguagliavano quello alimentare, che

si era molto sviluppato, in valore assoluto, in relazione all’evoluzione

dei consumi delle masse, che erano aumentati ed erano diventati

sempre meno dipendenti dall’autoconsumo agricolo. 11

11 I dati, da cui ho tratto gli indici di crescita del prodotto lordo delle industrie manifatturiere e i loro rapporti di composizione nel 1896 e nel 1913 li ho tratti da Paolo Ercolani,1975, Documentazione statistica di base , in Giorgio Fuà (a cura di ), Lo sviluppo economico in Italia, Vol. III. Studi di settore e documentazione di base, Milano, Franco Angeli.

Le imprese industriali , secondo il censimento industriale del 1903

erano arrivate 117 mila, con 1.275.000 addetti, con 6.7 HP per

impresa e 0,6 per addetto e 11 addetti per impresa. Nel censimento

industriale del 1911 il numero di imprese industriali era più che

raddoppiato, essendo arrivato a 243 mila. Gli HP per impresa erano

saliti a 9,5. Quelli elettrici che nel 1903 erano solo il 5,5% del totale

, nel 1911 erano diventati il 27% del totale. Gli occupati erano 2.304

mila. Il numero di addetti per impresa era sceso a 9,5 ma gli HP per

addetto erano aumentati a 0,9. Anche per quanto riguarda gli addetti,

la composizione dell’industria aveva subito , nel periodo in esame ,

un grosso mutamento. Si era ridotta l’importanza dei rami

tradizionali dell’industria leggera , legati al consumo finale per

l’alimentazione e il vestiario ed era aumentata l’importanza

dell’industria pesante , delle produzioni di dei beni strumentali e e si

affacciavano nuove produzioni di beni di consumo durevoli. Il

settore alimentare che all’inizio del secolo annoverava il 18,5 % degli

addetti complessivi dell’industria, nel 1911 era sceso al 13%. Il

settore tessile e abbigliamento che annoverava, nel 1903, il 37%

degli addetti, era diminuito nel 1911 al 33%. Nel settore

metallurgico gli addetti erano più che raddoppiati, passando dal 2,8%

al 6,2%. In quello meccanico erano saliti dallo 8,5 allo 11,2% ed era

oramai importante l’industria di produzione dei mezzi di trasporto

terrestri, ferroviari e automobilistici, mentre andava iniziando a

prendere una qualche consistenza la fabbricazione aeronautica. Gli

addetti del settore del legno e dei mobili era passato dal 6,6 al 9%.

Un altro sintomo importante della trasformazione che si stava

verificando nella struttura industriale, riguardava il settore tessile e

abbigliamento e calzature. Nel 1903 il tessile occupava il 31% degli

addetti e nel 1911 solo il 21%. All’opposto, il settore

dell’abbigliamento e calzature, che nel 1903 occupava solo il 5%

degli addetti, era arrivato nell’11 al 12,5%: l’abbigliamento della

massa della popolazione non era più confezionato prevalentemente in

casa, era prodotto da fabbriche e aziende artigiane , in quantità

crescenti, per soddisfare a bisogni crescenti di vestiario. Le scarpe,

che prima erano un articolo quasi di lusso, erano diventate un bene

diffuso. 12

Ed ecco, senza pretesa di completezza, alcuni dati flash di questo

miracolo industriale dell’epoca giolittiana .

L’industria della pasta che esportava, nel 1901, 15.700 tonnellate di

pasta, ne esportò 71.000 nel 1913. I pastifici erano 2.700. Le

fabbriche di birra nel 1910 producevano 56.700.000 litri di birra in

circa 90 stabilimenti. Nel 1912 erano già saliti a 710. 000.000 . Le

fabbriche di fiammiferi nel 1914 ne produssero 72 miliardi , poco

meno 2 mila per abitante.

Nel settore cotoniero, nel 1900 vi erano già 2.000.000 di fusi. Nel

1913 erano saliti a 4.600.000. L’ esportazione di filati e tessuti di

cotone , in lire 1918, passò da 55 milioni nel 1900 a 128 nel 1907 a

12 Un quadro chiaro di questi cambiamenti si può leggere nel saggio di ROBERTO TREMELLONI, Cent’anni dell’industria italiana (1861-1961), nel volume L’economia italiana dal 1861 al 1961, edito da Giuffè, Milano, nel centenario dell’unificazione nazionale. Molti libri pubblicati in occasione delle celebrazioni di quel centenario, che si ama dimenticare , sono di grande interesse anche ad anni di distanza.

224 nel 1913. L’esportazione di tessuti e altri manufatti di seta

passò, sempre in lire 1918, da 39 milioni nel 1895 a 75 nel 1901 a

90 nel 1907 a 108 nel 1913, L’industria dei guanti ne esportava nel

1914 ben 4 milioni di paia all’anno.

L’industria del marmo passò da 232.000 tonnellate di materie

gregge nel 1900 a 513.259 nel 1913 , mentre le esportazioni di

greggio e tavole triplicavano da 9.996.000 lire nel 1928 a 28.114.000

nel 1913

Nell’industria della carta, anche essa non considerata nell’indice di

cui sopra , nel 1903 funzionavano 171 macchine continue e 200 a

tamburo, nel 1910 268 macchine continue e 322 a tamburo.

Un’altra industria non considerata nell’indice è quella del cemento,

che produceva 300.000 tonnellate nel 1905, 850.000 nel 1910 e oltre

un milione nel 1912.

L’industria della gomma che importava 684 tonnellate di materia

prima nel 1900, ne importò oltre 5.000 nel 1915 e l’esportazione di

manufatti di gomma passò da 3.628.000 lire nel 1900 a 38.000.000

nel 1915.

Nell’industria metallurgica sono illuminanti alcuni dati: la

produzione di ghisa in pani che nel 1901 era di 16.tonnellate, salì’ a

140, 000 nel 1905 , a 350.000 nel 1910 e a 380 mila nel 1915. La

produzione di ferro e leghe ferro metalliche e di acciaio in lingotti da

300.000 tonnellate nel 1900 a 450.000 nel 1905, a oltre un milione

nel 1910. La tesi per cui la protezione della siderurgia danneggiò le

industrie di trasformazione meccaniche ignora che importanti

industrie di trasformazione del ciclo siderurgico sono state rese

possibili dallo sviluppo della siderurgia di base: tubi di ghisa, di

ferro , di acciaio, profilati, lamiere , rotaie. E poi ancora molle, funi

metalliche, reti, chiodi e altre minuterie metalliche. Ad esempio la

produzione di rotaie salì da 17.653 tonnellate nel 1895 a 173. 470

nel 1915.

I dati fondamentali di crescita dell’industria chimica, in questo

periodo, sono sintetizzati dalla tabella che segue: 13

PRODUZIONE ITALIANA ANNUA IN TONNELLATE DEI

PRINCIPALI PRODOTTI CHIMICI 1895-1913

1895 1905 1913

Acido solforico 95.710 302.100 644.713

Acido nitrico 1.105 1.455 13.611

Acido cloridrico 5.750 11.170 18.966

Solfato di rame 3.150 26.210 44.497

Solfato di sodio 7.771 8.912 16.802

Perfosfati e concimi diversi 145.685 512.348 971.494

Fra i fattori del “miracolo industriale” del periodo giolittiano, ebbe

un ruolo molto importante l’energia idro elettrica, denominata allora

, a ragione “il carbone bianco” , che consentiva all’Italia di disporre

di una propria autonoma fonte di energia. Lo sviluppo del “carbone

bianco” , iniziato con il principio del secolo , fu impetuoso: nel

13 CREDITO ITALIANO, 1920, L’economia italiana nel suo divenire durante l’ultimo venticinquennio e nelle sue condizioni attuali, 1895-1920, Milano, Bertieri e Vanzetti

1896 la produzione di energia elettrica era stata di 15 milioni di kwh

, nel 1901 di 220, nel 1906 di 700 e nel 1911 di 1800.14

Ai successi industriali di questo periodo giovò la congiuntura

internazionale favorevole, che consentì l’espansione del commercio

estero. Il ciclo espansivo industriale , salvo una interruzione nel

1907, dovuta ai fattori di crisi internazionali, proseguì vigoroso sino

al 1914.

Il grande sviluppo del commercio estero italiano dal 1895 al 1913

emerge con chiarezza dalla tavola che segue:

COMMERCIO ESTERO ITALIANO 1895-1913

in milioni di lire 1918

1895 1901 1907 1913

Importazioni 685 1.006 1. 707 2.092

Esportazioni . 552 817 1.181 1.389

Lo sbilancio fra importazioni ed esportazioni di beni era più che

compensato dall’apporto dei turisti stranieri , dalle rimesse degli

emigranti e, in misura minore, dai noli attivi , tanto che le riserve

auree crebbero continuamente da 739 milioni di lire oro nel 1895 a

1203 nel 19005 a 1.990 nel 1915. Alla vigilia della guerra mondiale 14 Cfr. N: Crepax, 2002 Storia dell’industria in Italia. Uomini, imprese, prodotti, Bologna, Il Mulino, p. 58 che cita il volume a cura di G: M. Rey , 1992, Una sintesi delle fonti ufficiali, 1890-1970, vol, I di I conti economici dell’Italia, Roima, Bari

erano quasi triplicate in venti anni. Non è da meravigliarsi che la lira

fosse arrivata a fare aggio sull’oro con cui era in parità ufficiale,

valeva cioè più la banconota dell’equivalente in metallo, tanta era la

solidità della moneta italiana.

Le nostre imprese poterono approfittare della solidità della lira che

consentiva una ampia apertura degli scambi con l’estero , grazie alla

capacità degli imprenditori, dei dirigenti e delle maestranze e grazie

alla esistenza di buone infrastrutture e alla diffusione crescente

dell’istruzione , sia ai livelli elementari, che a quelli medi e

universitari . Questi fattori consentirono di assorbire il progresso

tecnologico e organizzativo delle nazioni più avanzate. Ma giova

ripetere che il fiorire delle energie imprenditoriali, nei vari ceti

sociali, nell’economia interna e sui mercati internazionali , fu reso

possibile dal quadro di governo del periodo giolittiano stabilmente

ispirato a principi di economia di mercato, favorevole alla impresa e

a moderni sviluppi sociali.

L’industria però si sviluppò , prevalentemente nel Nord di Italia e

nel Centro, mentre il Mezzogiorno rimaneva prevalentemente

agricolo. Occorre ricordare che l’energia idroelettrica era

particolarmente abbondante nell’arco alpino e che le maggiori

miniere (di piriti, acido solforico, marmo , boro) si trovarono in

Toscana. Il Nord di Italia inoltre era più vicino ai grandi mercati

dell’Europa continentale, che il Mezzogiorno. Inoltre la cultura

tecnologica era più diffusa nel Nord , in Toscana e in Emilia che nel

Meridione, ove predominava una cultura umanistica e la figura

dell’imprenditore aveva, in relazione a ciò, un minor apprezzamento

sociale. Se esso è notevole, si accresce lo stimolo dei giovani di

ingegno a dedicarsi alle attività Fra i fattori dello sviluppo

economico è, infatti, molto importante il ruolo sociale che si

riconosce agli imprenditori imprenditoriali , si accresce la

propensione delle banche a far loro credito e i funzionari e gli

amministratori pubblici sono meglio predisposti nei loro confronti.

Ed è importante la cultura tecnica, di carattere tecnologico e

economico, che consente di sviluppare iniziative nuove e di

migliorare le imprese esistenti. Il capitale umano, come scriveva

Carlo Cattaneo, alla metà dell’800- nel saggio “Del pensiero come

principio di economia pubblica” 15è un fattore produttivo altrettanto

importante della risorse naturali, del lavoro, del capitale.

Nelle pagine che seguono, vedremo come il pensiero si sia unito

alla imprenditorialità, nelle figure di grandi protagonisti

dell’economia industriale di questo periodo. Sarebbe errato poi ,

descrivere questa crescita industriale come dovuta prevalentemente ai

capitani della grande industria. Infatti, come si è visto, il numero

medio di addetti per impresa rimase attorno ai 10 e non solo non

crebbe e anzi diminuì , sia pure di poco, in tutto questo periodo

smentendo la tesi di Marx secondo cui lo sviluppo industriale genera

la concentrazione capitalistica. Le società per azioni ebbero un

grande sviluppo. Ma accanto alle grandi imprese, finanziate con la

15 Comparso originariamente , nel 1861, nella rivista “Il Politecnico”, fondata e diretta da Carlo Cattaneo, ora accessibile nelle opere scelte , edizione Einaudi, Torino, 1972, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, volume IV, Storia universale e ideologia delle genti, Scritti 1852-1864.

borsa e il capitale delle banche commerciali, fiorirono molte medie e

piccole imprese , dando vita a vivaci distretti industriali, come quello

laniero di Biella, quello cotoniero di Busto Arsizio, quello delle

trafilerie e minuterie metalliche lecchese quello meccanico di Torino,

quello ceramico di Faenza, quelli caseari dell’Emilia.

SECONDO PERIODO DAL 1915 AL 1925. FRA ECONOMIA MERCATO,

DIRIGISMO STATALE E RESTAURAZIONE DELL’ORDINE .

Al termine di questo periodo si consuma la dissoluzione del regime

democratico e , simultaneamente inizia quella dell’economia di

mercato. Si vedrà che le due grandi istituzioni, quella politica della

democrazia costituzionale e del sistema di governo basato su libere

elezioni, in regime di libertà di pensiero, di stampa , di riunione e

associazione politica , religiosa e culturale e quella del mercato,

basato sulla proprietà e l’iniziativa privata, la libertà di impresa , e la

apertura internazionale dell’economia e della finanza , vanno

assieme, Simul stabunt simul cadent.

Il periodo sino al 1914 come si è visto, aveva potuto godere si una

notevole stabilità politica , nonostante le pecche del sistema

parlamentarista, grazie a un leader della statura di Giovanni

Giolitti, che riusciva a manovrare i notabili eletti in parlamento. Ma,

con il passaggio al suffragio universale, nel 1913, come vedremo,

esso conteneva in sè i germi della ingovernabilità, che si sarebbero

accentuato con il passaggio al sistema elettorale proporzionale, in

regime parlamentarista, con le elezioni del giugno del 1921, le ultime

in regime di libertà democratica , sino alla fine del Regno di Italia.

E la governabilità è un fattore molto importante per lo sviluppo

economico , in regime democratico. I governi brevi non hanno tempo

per le politiche di largo respiro. Gli operatori economici, quando i

governi hanno breve durata, hanno minori certezze che quando essi

sono di lunga durata e quindi è più facile prevedere che cosa il

governo farà in futuro. La debolezza dei governi, in una democrazia

non completamente matura, favorisce non il desiderio di una

leadership autorevole in regime democratico, ma quello di

sbarazzarsi del regime democratico a cui si dà la colpa della scarsa

governabilità. E’ quello che accadde in Italia, negli anni venti del

secolo scorso. E , come vedremo, fu molto dannoso per l’economia,

perché , come si è detto, l’economia di mercato senza la democrazia

non resiste a lungo in un sistema economico evoluto. Il sistema

autoritario di governo tende a garantirsi il potere anche tramite il

controllo delle leve del sistema capitalistico . E così’ soffoca il

mercato e la concorrenza, come accadde in Italia con l’instaurazione

del regime autoritario fascista. La governabilità pagata a così’ caro

prezzo si rivela, per l’economia, come molto peggiore dei governi

deboli di breve durata, di un regime democratico, in cui si rispettino

le regole del mercato.

Dalle vicende italiane dello scorso secolo, infatti, con riguardo alla

cosi detta “Prima repubblica”, emerge che anche nel periodo in cui la

governabilità si ridusse, quando poté funzionare il mercato, si ebbe

comunque una notevole crescita dell’economia .

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

di lire 2001) reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1914 20,251 134414 -1,8 37797 3,6

1915 23,271 138675 3,2 38166 3,61916 31,945 141081 1,7 38118 3,71917 42,559 135805 -3,7 37844 3,61918 53,235 132883 -2,2 37195 3,61919 62,555 129801 -2,3 37304 3,51920 92,305 134920 3,9 37491 3,61921 94,291 136551 1,2 37890 3,61922 103,92 148742 8,9 38281 3,91923 113,485 157385 5,8 38629 4,11924 118,08 158841 0,9 38990 4,11925 147,838 167804 5,6 39339 4,3

Il Pil nel decennio fra l’anno della nostra entrata nella prima guerra

mondiale e il 1925 crebbe del 21%, con un tasso di crescita medio

annuo composto del 2%, piuttosto notevole considerando le

vicissitudini belliche. Pro capite l’aumento fu del 19,4% ,

corrispondente all’1,75%: anche questo dato appare notevole, alla

luce delle situazioni internazionali dell’epoca. Ma il ritmo di crescita

, rispetto al precedente quindicennio era chiaramente rallentato . E

l’economia italiana , da allora in poi subì un processo di involuzione.

Gli eventi politici e i connessi indirizzi della politica economica

sono in gran parte responsabili di quel rallentamento e della

successiva involuzione. In particolare il periodo del dopoguerra, dal

1919 al 1922 fu particolarmente difficile e turbinoso . Molte

occasioni furono allora mancate, in particolare in relazione alla sfida

della riconversione dell’industria dall’assetto bellico a quello di pace.

IL QUADRO POLITICO E DI POLITICA ECONOMICA

Il 27 novembre del 1913 ebbero luogo le elezioni per la XXIV

legislatura , per la prima volta a suffragio universale . Il corpo

elettorale era salito dai 2,9 milioni

XXIV LEGISLATURA 1913-1919

di elettori della precedente legislatura pari allo 8,3 dei cittadini

residenti in Italia a 8,4 milioni di elettori, pari al 23% della

popolazione, sempre con il sistema uninominale . Per suffragio

universale si intendeva il diritto di voto per tutti gli uomini

maggiorenni- con la maggiore età a 21 anni- che avessero prestato

servizio militare per 18 mesi, ancorché analfabeti o aventi almeno 30

anni , per coloro che non lo avessero prestato per tale tempo e fossero

analfabeti. Dato l’obbligo di leva militare , pochi analfabeti erano ,

così’ esclusi dal diritto di voto, Le donne erano escluse dal voto,

così come i ragazzi di diciotto anni: che pure erano considerati maturi

per il servizio militare di leva. Con il suffragio universale , i rapporti

personali dei candidati con gli elettori si assottigliavano e le

posizioni dei vari gruppi politici si andavano delineando come più

importanti, ma emergeva anche un frazionamento maggiore, che era

la logica conseguenza del fatto che stavano emergendo le diversità

ideologiche. Una delle maggiori conseguenze di ciò fu che sparì la

sinistra in quanto tale , tradizionalmente etichettata come i

“democratici” perché si trattava oramai di una denominazione troppo

generica, entro cui si potevano collocare i più diversi indirizzi. Una

parte di essa, quella liberale moderata, confluì nei liberali, che

emersero come tali ed ottennero 270 seggi, pari al 53,15%. I

costituzionali democratici, eredi della tradizionale sinistra

ministeriale avevano conseguito solo 29 seggi, con il 5,71% dei voti.

Isolati, i democratici puri , con 11 seggi, pari al 2,1% Una parte

dell’elettorato di sinistra moderata era rifluita sui radicali che erano

diventati un movimento di sinistra riformista ed erano saliti a 62

seggi, con il 12,2% dei voti e si preparavano ad assumere un ruolo

importante anche se sfortunato nei governi italiani . Essi avevano

però pagato questa nuova posizione con una scissione, sulla sinistra:

i radicali dissidenti, staccatisi dal partito avevano conseguito 11

seggi, pari al 2,17% Anche i repubblicani , che, a differenza dei

radicali, già nelle precedenti legislature avevano visto una continua

erosione dei voti e dei seggi, divisi come erano tradizionalmente fra

borghesi illuminati di tradizione mazziniana e garibaldina

risorgimentale anticlericali e antimonarchici ma non rivoluzionari

propensi ad allearsi con i radicali nei ballottaggi e ala popolare

rivoluzionaria , propensa ad allearsi ai socialisti con la

proporzionale, si erano divisi in due tronconi. A differenza dei

radicali, il loro numero totale di seggi si era molto assottigliato a 17 .

Una metà abbondante, con nove eletti, pari allo 1,77% si era portata

su posizioni di sinistra intransigente. I repubblicani ufficiali avevano

8 seggi pari al 1,57% dei voti. I voti per i socialisti erano molto

aumentati , ma il partito si era frazionato in tre pezzi. I socialisti

ufficiali, in cui convivevano massimalisti e i riformisti di Turati ,

entrambi contrari, per diverse ragioni alla partecipazione diretta al

governo, avevano ottenuto ben 52 seggi, pari al 10,24%. Ma la

maggioranza del partito socialista ufficiale era passata ai massimalisti

e questi avevano ottenuto l’espulsione di un gruppo di socialisti

nettamente riformisti, capeggiarti da Leonida Bissolati e da Ivanoe

Bonomi, che con questa denominazione. Questi ,a suffragio

universale, avevano ottenuto 19 seggi pari al 3,74% e si avviavano

ad accettare stabilmente le responsabilità di governo che i liberali di

sinistra erano desiderosi di offrire a loro e ai socialisti, per ampliare

la base di consenso del governo, nella direzione delle masse popolari.

Un terzo esiguo gruppo di socialisti, che era costituito di

“indipendenti sindacalisti” , di indirizzo rivoluzionario, aveva

ottenuto 8 seggi, pari allo 1,57%. . Anche i cattolici erano aumentati,

seppur meno dei socialisti. E, come i socialisti, si erano scissi. I

cattolici del partito popolare avevano ottenuto 20 seggi, pari al 3,94%

mentre i conservatori cattolici ne avevano ottenuti poco meno della

metà, cioè 9 pari allo 1,7%.

Nella nuova Camera, che si avviava a rimanere congelata sino al 1

dicembre 1919, si annoveravano oramai ben 12 partiti. Era l’inizio

di una situazione caotica , il cui emergere fu rinviato solo a causa del

frapporsi della guerra , che congelò la situazione , ma gettò anche le

basi per ulteriori alterazioni e frammentazioni del quadro politico. La

frammentazione del 1913 comunque merita molta attenzione,

perché si verificò in regime di legge elettorale uninominale: e

secondo una tesi corrente, soprattutto fra gli economisti, basta

sostituire un sistema elettorale uni nominale ad uno proporzionale,

per avere un quadro politico basato solo su poche coalizioni,

tendenzialmente due, con conseguenti vantaggi per la durata dei

governi e la governabilità. Il sistema elettorale uninominale non era

stato in grado di dare luogo a un sistema politico bipartititico, colme

altrove, poiché era stato, sin dalle origini, di “tipo parlamentare”

ovvero “parlamentarista” . In altre parole, la scelta del leader del

governo non era rimessa alle votazioni , ma al parlamento che

veniva eletto. E questo avrebbe potuto nominare e poi deporre i capi

del governo che avesse, via via, prescelto, sulla base delle

maggioranze che si sarebbero formate in parlamento. Poiché quando

votavano i cittadini non sceglievano chi avrebbe guidato il governo,

il sistema elettorale uninominale non assicurava per nulla la

riduzione del numero dei raggruppamenti politici. Al contrario,

favoriva il frazionamento , perché anche un raggruppamento

minuscolo costituito ad hoc poteva sperare di entrare a far parte del

governo, tramite il gioco delle alleanze , che si sarebbero fatte in

parlamento, per fare emergere i leader delle varie coalizioni, e quella

vincente, grazie alle abilità manovriere del suo capo e dei fedelissimi.

Quando il capo del governo è scelto direttamente dal corpo elettorale,

in quanto va a formare il governo il leader della coalizione che

ottiene più voti, il sistema uninominale invece tende alla

aggregazione in sede elettorale delle varie forze politiche in pochi

movimenti politici, perché l’aggregazione è la condizione per

vincere. E il leader, che trae forza dal voto popolare, diventa il

fattore unificante , oltreché di guida, della coalizione. Con l’adozione

della legge elettorale a suffragio universale , che riduceva il

rapporto personale fra elettori ed eletti, il frazionismo favorito dal

sistema parlamentarista , si era accresciuto , traducendosi in partiti

e partitini, ciascuno teso a affermare la propria identità e a conseguire

i propri seggi, per poter contare in parlamento. A ciò si deve

aggiungere la immaturità dei due nuovi movimenti politici, diversi

dai liberali e dagli altri partiti tradizionali : i socialisti, nei loro

diversi partiti ed i cattolici, anche essi divisi in diversi partiti (oltre a

quelli presenti nei liberali ). Le leggi che governano la democrazia

possono essere più o meno buone. Ma hanno grande importanza

anche le ideologie politiche e la capacità dei rappresentanti politici

di elaborarle, in modo da superare il punto di vista della fazione per

quanto nobile e assumere il punto di vista dell’uomo di stato. Le

istituzioni di governo della democrazia non idonee all’aggregazione

delle forze politiche, come il sistema elettorale uninominale

combinato con il parlamentarismo , rendono più difficile ai partiti di

superare i conflitti ideologici e ai rappresentanti politici di pensare

ed agire come statisti e non come uomini di partito. Se si fosse

stabilito che gli elettori sceglievano non solo i loro rappresentanti, ma

anche il capo del governo, l’esito sarebbe potuto esser diverso. Ma

così non fu.

Nel parlamento uscito dalle elezioni del 1913, i partiti di sinistra

erano una decina, con un pulviscolo di posizioni diverse, anche

all’interno dei singoli partiti. Fra i socialisti ufficiali, anche dopo

l’espulsione dei riformisti , di Bissolati e Bonomi, conviveva, sia

pure in minoranza, l’ala riformisti guidata Filippo Turati e Anna

Kuliscioff moglie di Turati , Claudio Treves , con il gruppone dei

massimalisti guidati da Costantino Lazzari . Al loro fianco vi erano i

massimalisti estremisti come Benito Mussolini direttore

dell’Avanti! per conto della sinistra del partito. C’erano poi

riformisti dissidenti come Oddino Morgari e Giuseppe Emanuele

Modigliani , sindacalisti su posizioni intermedie, massimalisti

anomali come Enrico Ferri. 16

Nelle elezioni per la XXIV legislatura del 1913 i liberali , come si è

visto, comunque, avevano ottenuto la maggioranza assoluta con il

53,15% dei seggi. E poterono perciò assi curare al paese la continuità

16 Cfr. su tutte queste vicende dei socialisti G. Arfè(1965) Storia del socialismo italiano,( 1892-1926), Torino, Einaudi

politica nel difficile periodo bellico. Tuttavia i meriti che in tal modo

si erano assicurati, in particolare con la fermezza dimostrata dopo la

rotta di Caporetto del 1917, e la successiva splendida vittoria con la

battaglia campale di Vittorio Veneto che era merito anche

dell’efficienza organizzativa e dell’ impegno saldo nella guida

politica del paese , non vennero loro riconosciuti nelle elezioni che si

tennero , l’ 1 dicembre 1918 , un anno dopo la conclusione della

guerra. L’Italia era entrata nella grande guerra del 14-18 solo nel

maggio del 1915: ma già alla fine del 1914 era abbastanza chiaro che

essa si sarebbe schierata con la Francia e la Gran Bretagna contro

l’Austria e la Germania, per conquistare le “terre irredente” di Trento

e Trieste , che erano ancora sotto il dominio austriaco. L’industria

pesante (siderurgica) e quella meccanica così avevano iniziato a

prepararsi per il conflitto. Si pensava però che esso non sarebbe

durato così lungo, come poi avvenne. L’Italia non aveva la

sufficienza cerealicola e difettava di materie prime, in particolare

carbone. Fu introdotto il razionamento, che per altro, nel settore

alimentare funzionò male, dando luogo a fenomeni di borsa nera, con

prezzi molto superiori a quelli delle razioni, che erano stati bloccati.

Le spese militari per armamenti, vestiario, spostamenti e

alimentazione delle truppe, finanziate con debito pubblico ed

espansione della circolazione monetaria, generarono una notevole

espansione della produzione e dell’occupazione, che crebbe anche

per la necessità di sostituire le truppe al fronte con manodopera

civile. La stampa di moneta generò una ondata di inflazione , che,

negli anni di guerra, fu repressa con il controllo dei prezzi e la

sovvenzione al prezzo politico del pane. Vi fu chi si arricchì con i

profitti derivanti dalla congiuntura bellica , mentre i ceti medi e le

masse popolari sopportavano il peso delle restrizioni e le grandi

perdite di vite umane dovute al conflitto. Nel novembre del 1918,

cessata la guerra, i controlli sui prezzi vennero allentati e si

scatenarono l’inflazione e la disoccupazione. Al disordine economico

si aggiunse il disordine pubblico dovuto alle proteste popolari con cui

si incrociavano quelle dei reduci. Il ritorno all’economia di mercato,

dopo i controlli bellici su tutta l’economia, non era facile. E la

burocrazia statale , nel frattempo, si era abituata all’intervento

pubblico nell’economia . Durante la guerra, per tenere alto lo spirito

dei combattenti, si erano fatte loro grandi promesse, di futuro

benessere e giustizia sociale, in particolare la terra incolta ai

braccianti e ai piccoli coltivatori diretti. Questo duplice fenomeno, lo

sviluppo della abitudine delle burocrazie all’intervento pubblico

nell’economia e le promesse sociali, non riguardava solo l’Italia,

riguardava anche le potenze industriali europee vincitrici del

conflitto. E nei paesi sconfitti, Germania ed ex impero austriaco, i

partiti di sinistra erano giunti al potere sotto la spinta della

dissoluzione dei vecchi regimi monarchici. In Russia lo zarismo non

aveva retto, erano giunti al potere i comunisti, guidati da Lenin, che

avevano fondato l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche ,

l’URSS. I soviet , che erano alla base del nuovo potere, costituito da

intellettuali e operai, erano i consigli di fabbrica, controllati dai

comunisti.

I liberali si erano attirati impopolarità , fra i civili. a causa dei

sacrifici economici alle popolazioni nel periodo bellico e

dell’inflazione e della disoccupazione che era succeduta, con la

riconversione al periodi di pace . E . nello stesso tempo, la gente

comune impoverita dall’inflazione e dalla diminuzione dei posti di

lavoro, vedeva i lussi degli arricchiti , che avevano fatto soldi con le

forniture e le speculazioni nel periodo bellico e postbellico. reduci ,

erano delusi del fatto che . D’altra parte il sommo pontefice aveva

tolto il veto alla piena partecipazione dei cattolici alla vita pubblica e,

pertanto, era stato costituito il partito popolare, che si presentava alle

elezioni per la prima volta, con un programma di centro,

concorrenziale a quello dei liberal demoratici. Le elezioni del

dicembre del 1919, per la XXV legislatura , le prime a suffragio

universale esteso anche a chi, maschio maggiorenne, fosse incapace

di leggere e di scrivere , così , diedero luogo a risultati ben diversi da

quelli che i liberal democratici avevano sperato. speravano.

XXVI LEGISLATURA 1919-1921

Il parlamento era composto di 502 seggi. La maggioranza assoluta

era pertanto di 252 I socialisti con 156 seggi e i popolari con 100

seggi erano teoricamente in grado di formare il governo. Tuttavia,

con la scissione di Livorno avvenuta nel luglio 1920 anche questa

coalizione teorica (a cui mirava don Luigi Sturzo, con una parte dei

popolati) diventava impossibile perché i deputati socialisti

scendevano a 137. Il gruppo parlamentare dei socialisti riformisti

era di 21 membri, che in teoria avrebbero potuto unirsi agli altri

socialisti per fare un governo con i popolari, ma anche questo era

impossibile dato che il loro leader Ivanoe Bonomi , espulso dal

partito nel 1913 assieme a Leonida Bissolati (nel frattempo deceduto

) era qualificato come “rinnegato” . Il gruppo (giolittiano) di

democrazia liberale, che vantava 91 seggi, ed era il terzo per

numerosità dopo socialisti e popolari assumeva così l’onere

tradizionale di forza essenziale per il governo: ma anche alleato con

i liberali storici che avevano 23 seggi e con i radicali nittiani , che

avevano 57 e con il gruppo di rinnovamento che aveva 33 seggi e i

socialisti riformisti, non disponeva di una maggioranza di governo,

disponendo solo di 204 seggi. Né l’aggiunta dei 9 repubblicani e di

tutti i 13 parlamentari del gruppo misto sarebbe bastato a dare al

blocco laico di centro destra una maggioranza . I liberali, i radicali e

i socialisti potevano solo sperare di governare con l’appoggio dei

popolari o con la benevola astensione dei socialisti. Ma questi erano

allora retti da una maggioranza massimalista. Turati non era in grado

di fare ciò che aveva fatto nell’epoca giolittiana. Dunque le sole

soluzioni possibili passavano per i popolari. In effetti Nitti, che era

succeduto a Vittorio Emanuele Orlando nel giugno del 1919, con

l’incarico di formare il primo governo dopo la pace, prevedendo una

affermazione dei popolari, costituiti in partito dal maggio, ne aveva

incluso qualcuno nel suo governo, per altro in posizione secondaria.

E i popolari, anche dopo le elezioni aveva accettato di appoggiare il

governo Nitti. Lo avevano fatto però solo sino al maggio 1920, di

malavoglia. La guerra aveva comportato lo squilibrio fra spese ed

entrate , che si era tradotto in un pesante deficit, che era stato colmato

con grandi emissioni di debito pubblico. Non era facile, nel

dopoguerra provvedere al pagamento degli interessi su tale debito,

senza stampare altra carta moneta, generando inflazione.

SPESE ED ENTRATE EFFETTIVE (in milioni di lire)

ANNO Entrate Spese Avanzo

(+) Disavanzo

(-) 1862 Primo bilancio

unificato 480.26 926.72 -446.46

1866 Guerra contro l’Austria

617.13 1.338.58 -721.45

1876 Caduta del partito conservatore (destra) dal potere

1.123.33 1.102.63 +20.70

1881 Abolizione del macinato

1.278.02 1.224.76 +53.26

1888-89 Gabinetto Crispi. Aumento delle spese militari

1.500.84 1.736.21 -235.37

1893-94 Crisi bancaria ed economica Nuove imposte Sonnino

1.517.12 1.616.55 -99.43

1906-907 Massimo Avanzo. Conversione della rendita dal 4 al 3,5

1.954.56 1.856.31 +98.25

1913-914 Ultimo anno di pace europea Guerra libica

2.523.75 2.687.66 -163.91

1914-915 Guerra europea 2.559.96 5.395.40 -2.835.44 1915-916 Guerra europea 3.733.73 10.625.24 -6.891.51

1916-917 Guerra europea 5.345.04 17.595.26 -12.250.22 1917-918 Guerra europea 7.496.18 25.339.49 -17.843.31 1918-919 Guerra europea 9.498.39 32.599.50 -23.101.11 I bilanci statali in Italia, come si nota dalla Tavola, erano stati spesso

in disavanzo nell’800, ma avevano trovato il loro equilibrio con la

politica di austerità della destra storica verso la fine degli anni ’70. Vi

erano state poi vicende alterne e nell’epoca giolittiana si era

riguadagnato il pareggio. Tuttavia nell’esercizio finanziario 1913-

1914 vi era stato un modesto disavanzo del 5% circa delle entrate

sulle spese dovuto ai costi della guerra libica. Con la guerra

mondiale le spese superano le entrate di una volta, due volte , tre

volte. E nell’esercizio finanziario 1918-1919 si ha un deficit di 23

miliardi , a fronte di 9,5 di entrate e a 32,6 di spese. Il deficit è oltre

2,5 volte le entrate , circa il 70% delle spese. Il raggiungimento del

pareggio appariva un compito immane e il primo governo , guidato

da Francesco Saverio Nitti, cadde ben presto, per la difficoltà di

attuare l’arduo programma di risanamento finanziario , mentre

imperversavano le proteste sociali e quelle dei reduci. I popolari non

desideravano più sostenerlo, Il Re diede al popolare Meda l’incarico

di formare un nuovo governo, ma questi rifiutò. L’incarico passò di

nuovo a Nitti, che accrebbe la componente dei polari, ma durò solo

dal 21 maggio al 9 giugno 1920. L’incarico passò a Giolitti, che i

popolari appoggiarono molto mal volentieri perché lo consideravano

il loro maggior avversario, in quanto aveva spesso incluso fra i suoi

deputati dei cattolici moderati, che essi consideravano con ostilità, in

quanto asserviti ai liberali, tradizionalmente laici. Giolitti per

risolvere la situazione e convincere i popolari ad appoggiarlo si fece

promotore della legge elettorale proporzionale, che essi

desideravano. Il suo governo però durò solo un anno, perché i

popolari, maturata la nuova legge elettorale, gli tolsero l’appoggio

formalmente per dissenso sulla soluzione da lui data alla vertenza

della occupazione delle fabbriche da parte dei consigli di fabbrica di

numerose imprese. Il decreto Giolitti proponeva ambigui poteri di tali

consigli con riguardo a tematiche del lavoro e dell’occupazione.

Concessioni che a un liberale come Einaudi parevano esagerate . Ma

don Sturzo proponeva addirittura l’azionariato operaio, una soluzione

che avrebbe dato un potere ancora maggiore ai consigli di fabbrica,

in rappresentanza dei nuovi azionisti. I popolari però tolsero

l’appoggio al governo Giolitti perché miravano a una affermazione

elettorale per la quale il rapporto con Giolitti, tradizionale

avversario, era contraddittorio. Vennero bandite le nuove elezioni, in

cui Giolitti , per incanalare la protesta delle piazze, a livello

politico, aveva propugnato la legge elettorale proporzionale: che

consentiva ai partiti di massa- i socialisti e i popolari- di esprimere i

propri candidati, senza bisogno di alleanze nei singoli collegi

elettorali, con personalità di diverso indirizzo. Era una idea

sinceramente democratica e liberale . E’ vero che Giolitti sperava

che ciò avrebbe favorito la tendenza di questi partiti a gestire il

potere assieme alla vecchia guardia librale, che, inevitabilmente,

avrebbe perso voti. Ma fu certo sua mancanza di senso politico se

ciò non si realizzò. Dipese dalla immaturità dei popolari. Anche i

socialisti, come vedremo, si rifiutarono di partecipare a un governo

con i liberaldemocratici, i nittiani e i riformisti socialisti. Ma questo

era scontato. La questione vera era la capacità dei popolari, partito di

centro, di capire che essi stavano diventando gli arbitri della

democrazia in Italia ,per la difesa di quei principi della piccola

proprietà privata , dell’impresa e del decentramento localistico, di cui

erano i fautori, D’altra parte Giolitti non pensava solo alla ipotesi

peggiore, quella , in cui i popolari avrebbero dovuto assumersi il

peso delle scelte decisive. Aveva formato i blocchi nazionali, che

accanto alle forze liberal democratiche tradizionali comportavano la

partecipazione di nazionalisti e anche di fascisti: i quali si erano

pronunciati per la restaurazione dell’ordine e delle regole del

mercato, in nome dei principi nazionali. Con il senno di poi questo

“via libera” di Giolitti ai fascisti può apparire strano, ma egli non era

il solo a pensarla così. Altri, come lo stesso Nitti e persino liberali

puri come Einaudi pensavano che si potessero “incanalare” i fascisti

in regole parlamentari e metterli assieme con altre forze politiche,

per la restaurazione dell’ordine, Non va dimenticato che su fronte

opposto vi erano i bagliori del collettivismo sovietico, che aveva fatto

le sue prime esperienze concrete con l’occupazione delle fabbriche,

ma anche delle terre e non solo dei latifondisti, come la letteratura

storiografica di questi decenni ha voluto far credere, bensì di

proprietà mezzadrili piccole e medie: che erano le più facili da

mettere in ginocchio, per consentire ai mezzadri di espropriare i

proprietari. E molti fascisti erano reclutati, oltreché fra i reduci della

guerra, appunto fra i piccoli proprietari che avevano subito o

potevano subire queste concrete vessazioni e minacce alla loro

proprietà. Questo era il clima in cui si svolsero le elezioni del 1921.

TERZO PERIODO DAL 1925 AL 1945. Il DIRIGISMO CORPORATIVO

FASCISTA

VICENDE POLITICHE DEL PERIODO Dopo le elezioni del 1924 il fascismo, come si è visto godeva di

un’ampia maggioranza parlamentare. Tuttavia nel listone fascista

erano stati eletti molti nazionalisti ed ex liberali o ex democratico

sociali e personalità del mondo economico. L’uccisione mediante

pestaggio dell’onorevole Matteotti, compiuta forse per cesso di zelo

o per errore, da sicari fascisti che dovevano dargli una pesante

“lezione” , nel 1924, mise in grave difficoltà Mussolini, che era

considerato il mandante o uno dei mandanti o l’istigatore o il

complice del compimento della spedizione punitiva . se non del

delitto. Era molto difficile per Mussolini sostenere che egli non ne

sapeva nulla, perché egli era anche il Ministro dell’Interno e non

era immaginabile che dei gerarchi fascisti organizzassero una

spedizione punitiva contro un parlamentare di rilievo quale Matteotti,

e che il suo esecutore materiale, Amerigo Dumini, stipendiato

dall’Ufficio stampa della Presidenza del consiglio la effettuasse

senza curarsi di avere una copertura della polizia. E il movente

esisteva, per Mussolini, in quanto l’onorevole Matteotti , segretario

del partito dei socialisti riformisti , nella prima seduta della nuova

Camera aveva chiesto l’invalidazione delle elezioni, a causa dei

numerosi brogli elettorali e delle violenze compiute dai fascisti in

prossimità delle urne, per condizionare gli elettori e si apprestava a

fornirne ampia documentazione. Il re avrebbe potuto esonerare

Mussolini dalla carica di Presidente del Consiglio, in attesa del

verdetto giudiziario sul delitto. L’incarico poteva andare a un

nazionalista come Federzoni o a un generale , dati i rischi per

l’ordine pubblico dovuti a una probabile reazione delle squadre

fasciste. Ma ciò non accadde, anche perché, come si è visto, mancava

in parlamento, una robusta coalizione politica democratica e i

socialisti erano divisi fra massimalisti, riformisti, demo socialisti ,

con i massimalisti che si erano ricongiunti ai comunisti. E parte dei

popolari simpatizzava per il fascismo, che aveva mostrato devozione

al Vaticano : che era estremamente preoccupato dalle inaudite

persecuzioni ed eccidi dei comunisti nell’URSS dal pericolo del

comunismo in Italia. Mussolini così approfittò delle incertezze degli

altri e rovesciò la debole situazione in cui si trovava mediante leggi

speciali di polizia, con il pretesto di dover sedare i tumulti che in

effetti si manifestavano, come reazione al delitto, da parte delle

sinistre, cui rispondevano gli squadristi fascisti. D’altra parte la

situazione economica era migliorata e l’opinione pubblica lo

apprezzava, mentre non tradiva la prospettiva di un nuovo periodo

di instabilità politica , con governi brevi e incerte coalizioni

parlamentari di partiti. Mussolini assunse sempre più poteri e con

l’operazione di rivalutazione della lira , da un lato si guadagnò la

simpatia del pubblico dei risparmiatori a reddito fisso, dall’altro

tagliò le unghie alle banche cattoliche, numerose ma meno robuste

delle grandi banche tradizionali. Inoltre pose in difficoltà il sistema

banca-industria, che si dovette impegnare in profonde ristrutturazioni

per reggere alla rivalutazione e trarne profitto, mediante

l’assorbimento delle imprese e delle banche più deboli. Ma nel 1928,

si profilava la scadenza della Camera . Andare a nuove elezioni

democratiche appariva rischioso, perché, dopo la rivalutazione della

lira, serpeggiava una crisi di banche e imprese che poteva

alimentare lo scontento di molte forze economiche e la Confindustria

oramai diffidava dello strapotere del fascismo, che in realtà si era

tradotto in una dittatura personale di Mussolini, il cui autoritarismo si

era dispiegato in pieno appunto con l’operazione di rivalutazione

della lira a quota 90 con la sterlina , conclusa nel 1927, con

l’annuncio della nuova parità ufficiale della lira alla sterlina : una

operazione di enorme portata, considerato che nel 1925 la lira era a

quota 120 con la sterlina. Mussolini pertanto diede mandato al

Ministro della Giustizia, il giurista Alfredo Rocco, che si ispirava

alla teoria idealiste dello stato etico, di creare un nuovo sistema

elettorale, basato sul fascismo. Ciò fu attuato con due leggi, La prima

, approvata dalla camera nell’autunno del 1928, stabiliva che il Gran

Consiglio del fascismo diventava organo dello stato. La seconda ,

approvata dallo stesso Gran Consiglio, stabiliva che la nuova Camera

sarebbe stata di 400 membri, scelti dal Gran Consiglio del fascismo

sulla base delle segnalazioni provenienti dalle associazioni sindacali

dei lavoratori (in pratica la fascista, la sola riconosciuta) , dei datori

di lavoro (Confindustria e altre organizzazioni settoriali ) e di vari

enti e associazioni . La lista dei 400 sarebbe stata votata con

referendum popolare, con un si o un no in blocco. Anche questa

legge fu approvata dalla Camera, con il voto contrario degli oramai

sparuti oppositori. Per i liberali prese la parola Giolitti, per esprimere

il suo dissenso. Turati era oramai in esilio. E così don Sturzo e Nitti.

La legge passò poi al Senato, con il consenso del Re. Il referendum

venne denominato plebiscito in omaggio alla tradizione romana a cui

oramai il fascismo si ispirava (ma il nome “fascio” originario si

ispirava alle tradizioni delle leghe sindacali, spesso denominate

“fasci” in relazione ai fasci di grano, legna etc. ). In tempi brevi il

Gran Consiglio del fascismo formulò la sua lista di 400 nomi , sulla

base delle indicazioni che gli erano pervenute , cui fece alcune

correzioni. Il plebiscito fu tenuto nell’aprile del 1929, poco dopo la

“conciliazione” fra Stato e Chiesa dell’11 febbraio . Esso diede un

risultato del 98% a favore , che con la terminologia attuale si direbbe

“bulgaro” ( a ricordo dei referendum negli stati satelliti della Russia,

retti da un dittatore come quello della Bulgaria) . E la nuova Camera

della XXVIII legislatura fu inaugurata in aprile, con il tradizionale

discorso della Corona (cioè del re), che plaudiva al nuovo sistema

elettorale. Nel 1934 il Gran Consiglio del fascismo nominò, con lo

stesso sistema, la nuova Camera della XXIX legislatura. Il plebiscito

questa volta diede il 96,52% di si. Nel 1939 la Camera dei deputati

venne soppressa e con l’entrata in vigore della nuova legge che

fondeva il Consiglio nazionale delle corporazioni nella Camera dei

fasci e delle corporazioni. La nuova Camera di 500 membri si

componeva non solo dei membri del Consiglio delle corporazioni,

ma anche di quelli, assai numerosi , del Consiglio del Partito

Nazionale fascista e dei membri del Gran Consiglio del fascismo,

che rimaneva . comunque, ai vertici di questa struttura , dato che,

almeno formalmente, aveva i poteri di nomina sul partito e, in gran

parte, sul Consiglio delle corporazioni. Ovviamente la legge che

dava luogo a questa trasformazione era stata approvata dal Gran

Consiglio del fascismo ed era poi passata alla Camera e al senato,

ove era stata approvata senza problemi. Non vi erano più plebisciti,

per nominare la Camera. Essa dipendeva, di fatto, dal gran

Consiglio del fascismo. Mussolini controllava il Gran Consiglio. E

tramite questo tutta la struttura dell’apparato legislativo ed esecutivo

dello stato. Ma il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del fascismo, con

una mozione Grandi-Bottai con 19 voti favorevoli, 8 contrari e 1

astenuto sfiduciò Mussolini dal punto di vista militare e politico,

con riconsegnando tali poteri al Re. Il Re per conseguenza lo destituì

fa Capo del governo , senza chiedere un inutile voto di fiducia alla

Camera e lo fece arrestare dai carabinieri, per evitare sommosse.

Cadeva così per auto dissolvimento il regime fascista. Questa volta la

maggioranza non era bulgara ma su 28% voti validi era comunque

del 64%, togliendo l’astenuto la mozione Grandi-Bottati di auto

dissolvimento del regime fascista aveva avuto il 66, 6% . Quella del

listone fascista nelle ultime elezioni democratiche era stata del 60, 3

%, con l’aggiunta di un 4,8% di liste civetta fasciste. In totale il 65%

. Il conto del destino era pareggiato.

STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

Di lire 2001) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1925 147,838 167804 5,6 39339 4,3

1926 157,189 169278 0,9 39665 4,31927 137,706 168903 -0,2 40030 4,21928 137,987 181972 7,7 40342 4,51929 137,803 185718 2,1 40595 4,61930 122,874 173647 -6,5 40987 4,21931 110,062 174207 0,3 41277 4,21932 106,601 181795 4,4 41585 4,41933 99,046 181068 -0,4 41921 4,31934 99,709 180280 -0,4 42265 4,31935 112,152 197739 9,7 42592 4,61936 119,266 195983 -0,9 42908 4,61937 141,446 210192 7,3 43228 4,91938 153,005 210757 0,3 43610 4,81939 169,283 223715 6,1 44119 5,11940 195,758 212169 -5,2 44562 4,81941 227,592 207329 -2,3 44885 4,61942 282,516 198970 -4,0 45119 4,41943 374,916 177224 -10,9 45235 3,91944 685,572 131296 -25,9 45344 2,91945 1254,065 105466 -19,7 45540 2,3

.

Il PIL dell’economia italiana passa dai 167.000 miliardi di lire 2001

del 1925 ai 223.715 del 1939, ultimo anno non sconvolto dalla

guerra, con una crescita del 33% in 14 anni , pari al 2% circa ,

superiore dunque a quella dei precedenti periodi. La popolazione, nel

decennio cresce del 13%. Pro capite pertanto il PIL aumenta dello

1,9%: un po’ di più che nel periodo “giolittiano” di inizio del

secolo, considerato l’epoca felice. Ma le distruzioni belliche sono

mostruose. Alla fine della guerra nel 1945 il PIL è solo 105.000

miliardi di lire 2001, ossia praticamente eguale a quello dell’inizio

del secolo. E pro capite esso è sceso a 2,3 milioni di lire, meno di

quello del 1861.

NASCE IL REGIME CORPORATIVO

Nel 1925 con il patto di Palazzo Vidoni fra la Confindustria e la

Confederazione delle corporazioni fasciste e la successiva legge

sulla disciplina giuridica die rapporti collettivi di lavoro del 3 aprile

1926, fu ufficialmente inaugurato il regime corporativo

caratterizzato dall’accordo obbligatorio fra sindacato unico dei

lavoratori e organizzazione unica degli industriali (cui si affiancherà

l’analogo accordo per gli altri settori produttivi), con effetto per

tutti i lavoratori e tutte le imprese, anche non aderenti ( o iscritti

d’ufficio ) a tali organismi e regolamentazione statale integrale del

mercato del lavoro; conseguente abrogazione del diritto di effettuare

scioperi o serrate, che diventano reati contro l’economia nazionale.

Il testo del patto di Palazzo Vidoni recitava “ 1)La Confindustria

riconosce nella Confederazione delle Corporazioni fasciste e nelle

organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle

maestranze lavoratrici; 2) La Confederazione delle corporazioni

fasciste riconosce nella Confederazione dell’Industria e nelle

organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva degli

industriali ; 3) Tutti i rapporti contrattuali fra industriali e maestranze

dovranno intercorrere fra le organizzazioni dipendenti dalla

Confederazione dell’Industria e quelle dipendenti dalla

Confederazione delle Corporazioni; 4)In Conseguenza le

Commissioni interne di fabbrica sono abolite e le loro funzioni sono

demandate al Sindacato locale che le eserciterà solo nei confronti

della corrispondente organizzazione industriale”. La legge del 3

aprile 1926 sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro dava

riconoscimento giuridico alle associazioni sindacali uniche dei

lavoratori e dei datori di lavoro e le inquadrava nello stato con il

regolamento per cui i contratti collettivi di lavoro dovevano avere

l’assenso del governo ed erano immediatamente vincolanti per tutti “

con la sostituzione della giustizia di stato all’incomposta autodifesa

di classe e con il conseguente divieto di sciopero e serrata” 17. Il

quadro si completava con la istituzione nel luglio del 1926, del

Ministero delle Corporazioni, che aveva il compito di realizzare le

regolamentazioni e le direttive statali in materia di lavoro e

previdenza sociale e coordinare le attività delle organizzazioni

sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e approvare i contratti di

lavoro. Nell’aprile del 1926, le Camere di Commercio, Industria e

Agricoltura furono trasformate in Consigli Provinciali dell’Economia

Corporativa. Con successiva legge del 1927 questi Consigli esse

17 Citazione da A. ROCCO, A. ASQUINI, G. AZZARITI (1934) I rapporti fra capitale e lavoro, Annali di Economia dell’Università Bocconi, vol. IX

diventarono organi consultivi provinciali dello Stato, con membri

nominati in parte dalle organizzazioni sindacali riconosciute dei

datori di lavoro e dei lavoratori e dei professionisti e artisti (anche

queste così inquadrate nello stato fascista, come corporazioni) , in

parte fra i capi delle amministrazioni statali della provincia .

Presidente il prefetto, il vicepresidente (capo effettivo dei Consigli

provinciali dell’Economia Corporativa) era invece nominato dal

Ministro delle Corporazioni. Anche i presidenti delle varie sezioni

(commercio, industria, agricoltura, professioni, artigianato ecc )erano

nominati da tale Ministro. Gli Uffici delle camere di commercio

venivano invece trasformati in Uffici provinciali dell’Economia

Corporativa alle dipendenze del Ministero delle Corporazioni di cui

diventavano l’articolazione sul territorio.

GLI STRUMENTI DEL NUOVO DIRIGISMO . LA PRIMA

FASE CON OB BLIGHI, REMORE E INCENTIVI E

CONTROLLI SUL CREDITO, SUI CAMBI, SUL MERCATO

DEL RISPARMIO , SULLE IMPORTAZIONI E I CONSUMI ,

SULLE PRODUZIONI AGRICOLE, SUGLI ACQUISTI DEI

SOGGETTI PUBBLICI .

Il precedente della crisi della Banca Italiana di Sconto , che aveva

avuto gravi contraccolpi sul Banco di Roma, aveva indotto il

governo sotto la guida di De Stefano, nel 1923, a intervenire nel

salvataggio di questo, costituendo una apposita Società finanziaria

per l’industria e il commercio che fu fornita di denaro liquido da u n

Consorzio per la sovvenzione su valori, formato da varie banche e

capeggiato dalla Banca di Italia , che stampava la necessaria carta

moneta. La Sofind rilevò con questi mezzi gli impieghi “meno liquidi

“ (eufemismo per meno buoni) del Banco di Roma, in cambio di

ben due miliardi di lire di allora. A differenza della Banca di

Sconto, che era stata liquidata, così il Banco di Roma fu rimesso in

piedi con i soldi pubblici . Era il precedente dell’IRI , di cui si vedrà.

Comunque, questa operazione di salvataggio del “liberista” De

Stefani fornì al Conte Volpi, che gli era succeduto nel 1926, il

pretesto per stabilire il monopolio bancario. Una sua legge del 1926

stabilì che l’apertura di nuove banche era sottoposta al vaglio del

Ministro del tesoro, sentita la Banca di Italia. Essa stabilì anche un

limite ai fidi bancari, nei vari settori “onde favorire una razionale

distribuzione del risparmio fra i diversi settori della produzione ed

evitarne l’investimento solo in taluni o peggio solo in poche

aziende” 18 . Così la distribuzione del credito ai vari settori e tipi di

imprese non era più dettata dal mercato, nel rapporto fra banche e

clienti, ma era stabilita (almeno formalmente) dal governo . Fu estesa

anche la vigilanza della Banca di Italia su tutte le aziende di credito.

E per centralizzare il sistema , furono aboliti il potere di emettere

moneta cartacea del Banco di Napoli, di Roma e di Sicilia,

concentrando questo potere nella sola Banca di Italia. Il Tesoro dava

un contributo annuo di 500 milioni alla Banca di Italia, per ridurre il 18 Cfr. GUARNERI(1953 e 1988) Battaglie economiche fra le due guerre, citato, pag. 215.

suo debito verso di essa, in realtà per attrarla meglio nella propria

orbita. Questo avveniva però soprattutto con il nuovo potere che il

Conte Volpi aveva sviluppato, per lo stato, nel campo dei rapporti

monetari internazionali. Il 25 agosto del 1925 era stata stabilita la

sorveglianza sul mercato dei cambi , cioè dei pagamenti in valuta

pregiata per importazioni ed operazioni finanziarie, “ per eliminare il

quanto meno ridurre le operazioni a carattere speculativo” 19. Il 29

agosto la sorveglianza dei cambi fu trasformata in regime

obbligatorio, occorrevano , alle banche, le autorizzazioni statali per le

importazioni e le operazioni finanziarie in valuta richieste dalla

clientela. Il debito fluttuante in Buoni del tesoro ordinari,

quinquennali e settennali nel novembre del 1926 venne convertito,

per legge, in un “ prestito del Littorio” consolidato al 5% emesso al

di sotto della pari allo 87,50%. Il fascio littorio romano era diventato

il simbolo patriottico ufficiale del fascismo, con tutta la romanità (

benché originariamente il fascismo di Mussolini si chiamasse così’

con una denominazione in uso nelle leghe sindacali e patriottiche e

nelle associazioni rurali, in analogia con i fasci di frumento, legna

ecc, ).E i risparmiatori furono obbligati a questa conversione del loro

credito temporaneo in credito perpetuo, come atto patriottico.

Invece ai tempi di Giolitti, Luzzatti e Sonnino il successo della

conversione della rendita era stato affidato al mercato. Il governo

fascista non gradiva di essere giudicato dal mercato, che identificava

retoricamente con il “capitalismo speculativo” . Il regime era oramai 19 Cgr. GUARNERI (1953 e 1988) citato pag. 210.

strettamente connesso con il capitalismo industriale e bancario con

rapporti “fuori mercato”. L’Italia aveva uno squilibrio di bilancia

dei pagamenti sul cui passivo pesava per il 50% l’importazione di

grano. Nel luglio 1925 Mussolini iniziava la battaglia del grano ,

insediando il Comitato permanente per il grano e delineando una

strategia che comportava oltreché premi agli agricoltori per

aumentare il rendimento per ettaro , anche dazi di importazione sui

cereali per fare salire il prezzo interno sopra a quello internazionale.

Facevano seguirti dazi doganali sullo zucchero ,sulla seta artificiale,

sulla carta per giornali, per favorire produttori nazionali e la

formazione di monopoli nazionali settoriali. Nell’agosto del 1926 si

stabiliva la possibilità per i Ministri competenti di concerto col capo

del governo di variare i dazi di importazione “ per coordinare e

controllare il movimento di importazione delle merci ai fini della

maggiore disciplina del consumo interno e del miglioramento della

valuta”. Con legge del 1926 si fece obbligo a tutte le amministrazioni

pubbliche, aziende ed enti pubblici statali , parastatali e locali e a

quelli sottoposti a vigilanza dello stato di dare, nei loro acquisti, la

preferenza alle industrie nazionali. Imprese interessate alle forniture

pubbliche come la Fiat e numerose aziende impegnate nelle

commesse militari ne trassero grande vantaggio, ma la spinta a

migliorare la qualità dei prodotti si attenuò e lo si vide poi durante la

seconda guerra mondiale.

Nel 1927 Il Conte Volpi di Misurata non era però favorevole alla

rivalutazione della lira. La avrebbe voluta stabilizzare a 120 –125

con la sterlina e 25 con il dollaro. Mussolini voleva invece tornare ai

livelli del cambio precedenti al fascismo. Secondo autorevoli

economisti come Luigi Einaudi, la rivalutazione era opportuna ma su

un livello intermedio. Va notato che assieme al miglioramento del

cambio, essa avrebbe comportato una riduzione dei salari e dei

prezzi in lire, cioè una rivalutazione della lira sul mercato interno:

che poteva essere attuata con relativa facilità, dato che, con

l’ordinamento corporativo, era lo stato che fissava i salari e che gli

Uffici provinciali dell’economia corporativa avrebbero potuto

verificare sei i prezzi al consumo fossero conformi ai ribassi dei

salari e delle derrate di importazione e creare difficoltà agli

operatori economici che avessero sabotato la rivalutazione voluta dal

duce. Essa quindi aveva notevoli possibilità di successo , a

differenza di quel che può accadere quando la si tenti di applicare in

una economia di libero mercato. A favore della rivalutazione erano i

risparmiatori a reddito fisso, i cui risparmi erano stati taglieggiati

dall’inflazione e gli investitori internazionali che avevano capitali in

Italia espressi in lire. Erano fortemente contrari gli esportatori, dato

che la rivalutazione della lira li avrebbe reso meno competitivi sui

mercati internazionali. Ma se i salari si fossero ridotti, come era

previsto, gli esportatori avrebbero presto ritrovato il loro vantaggio

competitivo. Anche le imprese che avevano finanziato con prestiti i

propri grossi investimenti in impianti temevano la rivalutazione,

perché avrebbe creato loro un onere, che poteva metterle in seria

difficoltà . Ma le imprese maggiori sapevano che la rivalutazione

avrebbe creato una crisi a quelle meno solide difficoltà particolari ed

esse avrebbe potuto assorbirle a basso costo. Volpi che era

esponente del mondo degli esportatori e delle grandi imprese con

forti investimenti fissi finanziati a debito ,si adattò a gestire la

rivalutazione della lira , cosa che fece con notevole abilità ,

portandola alla quota ’90 voluta da Mussolini. Ma questi non si

fidava di lui , molti fascisti lo consideravano un estraneo al loro

mondo e , pertanto, il 7 luglio 1928, quando sembrava non ci fosse

più bisogno delle sue particolari competenze, fu sostituito da un

burocrate di vecchio stampo, il sessantenne senatore Antonio

Mosconi, un ex prefetto di carriera, che era stato Capo di gabinetto

della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1913 , per gestire

l’ordinaria amministrazione. In realtà Mussolini intendeva dirigere

la politica economica , avvalendosi dei consigli di esperti in cui

aveva fiducia, come Alberto Beneduce.

GLI STRUMENTI DEL NUOVO DIRIGISMO .LA SECONDA

FASE CON IL CAPITALISMO DI STATO , L’AUTARCHIA

E L’ECONOMIA MONOPOLISTICA

L’economia italiana , dopo la rivalutazione della lira, nel 1928-29 era

in forte ripresa. Ma non era stata prevista la grande crisi finanziaria

internazionale del 1929, che fece precipitare la borsa di Wall Street,

il dollaro, l’economia americana, i mercati internazionali e i prezzi ,

generando la spinta dei vari paesi a svalutare la propria moneta

rispetto all’oro per evitare la perdita di competitività con io dollaro.

Mussolini però decise che l’Italia non avrebbe seguito questa linea.

La sua battaglia per la rivalutazione della lira, appena conclusa ,

avrebbe subito una clamorosa smentita. Emergeva chiara la

crescente difficoltà finanziaria delle nostre grandi banche e imprese.

Ma ciò poteva costituire l’occasione per accrescere l’intervento dello

stato nell’economia, che non si era riusciti a realizzare mediante il

sistema corporativo , che era rimasto al puro livello dei rapporti di

lavoro fra imprese e loro maestranze ed era gestito prevalentemente

dalla Confindustria, cioè dagli industriali, anziché dal governo, come

il nuovo ordinamento ideato da Alfredo Rocco e Giuseppe Bottai,

teoricamente prescriveva. Fu così deciso dalla Banca di Italia , con il

consenso del governo, un aumento del tasso di sconto al 7% per

operare una stretta del credito, che avrebbe tutelato la lira nel cambio

internazionale, ma faceva scendere la produzione industriale e

causava la crisi delle banche più deboli: cioè quelle cattoliche, che

già dal 1926, dall’epoca della rivalutazione della lira erano in forte

difficoltà. La Banca di Italia, intervenne tramite l’Istituto di

liquidazioni : alcune banche cattoliche furono lasciate fallire, altre

vennero riorganizzate : ma erano debitrici della Banca di Italia dei

mezzi messi a loro disposizione ed avevano perso, così, la loro

autonomia. E’ evidente il significato politico di questo evento,

mentre fra lo stato e la Chiesa cattolica si stipulava, appunto nel

1929, la “Conciliazione” , con i patti lateranensi. Cadeva nello stesso

anno anche la Banca Agricola Italiana, controllata dal gruppo Snia ,

che essa a sua volta finanziava. Un tentativo di salvataggio tramite

l’Istituto di liquidazioni non andava in porto e gli sportelli della

banca venivano distribuiti fra altre grandi banche. Nel 1931 anche il

Credito Italiano presieduto da Carlo Feltrinelli, amministratore

delegato della Edison, la maggiore società elettrica italiana, entrò in

crisi di liquidità, in conseguenza della crisi delle sue partecipazioni

industriali, fra le quali vi erano la stessa Edison e la Pirelli . Poco

dopo , per analoghe ragioni entrarono in crisi , anche la Banca

Commerciale Italiana (Comit), che deteneva azioni della Liquigas e

della Sip e-di nuovo- il Banco di Roma . A Mussolini , per

consolidare il suo potere politico, premeva controllare il salotto

buono del sistema economico- finanziario, in modo da rendere

docili al regime i grandi capitalisti. Così anche nel Credito Italiano,

nella Comit e nel Banco di Roma si preparò l’intervento della Banca

di Italia, questa volta con un sistema che avrebbe comportato la

presenza diretta dello stato, con quote di maggioranza, dando vita a

un nuovo sistema di economia mista. Il teorico di questa

formulazione era l’economista tecnocrate di Nitti, Alberto Beneduce

che consigliava Mussolini, recandosi da lui periodicamente a Palazzo

Venezia. L’economista-tecnocrate di scuola nittiana già aveva dato

vita ai cosidetti “ enti pubblici Beneduce”, ossia il Consorzio di

credito per le opere pubbliche (Crediop) costituito nel 1919 ,

controllato dalla Cassa Depositi e prestiti, per il finanziamento ,con

mutui a medio e lungo termine ,di opere pubbliche e lo Istituto di

Credito per le imprese di pubblica utilità (ICIPU) , istituito nel 1924 ,

per il finanziamento con mutui di medio e lungo termine di grandi

imprese impegnate nei settori elettrico, telefonico, ferroviario , della

navigazione marittima e altre pubbliche utilità. Su suggerimento di

Beneduce, venne fondata la Sfi , Società finanziaria italiana , che

rilevò dal Credito Italiano le partecipazioni azionarie in compagnie

industriali difficili da collocare sul mercato così da evitarne il

fallimento. La Sfi avrebbe poi venduto sul mercato tali partecipazioni

a un prezzo inferiore a quello a cui erano state rilevate. La perdita

sarebbero stata coperta da finanziamenti dell’Istituto di Liquidazioni:

un ente di diritto pubblico creato nel 1926, in sostituzione del

Consorzio per la sovvenzione dei valori industriali CISVI, per gestire

le partecipazioni dello Stato in attesa di poterle vendere. Il CISVI

creato nel 1914 con fondi dei tre istituti di emissione di banconote,

la Banca di Italia, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia, per

sorreggere la grande industria durante la grande guerra con

finanziamenti in cambio di garanzia di titoli e crediti a, lungo

termine, era stato poi prorogato nel dopoguerra ed era stato utilizzato

per rilevare l’Ansaldo (e altre imprese come l’Alfa Romeo) dando

soddisfazione parziale ai rispettivi creditori. L’Istituto di

liquidazione e la Banca d’Italia che lo sorreggeva finanziariamente ,

diventavano anche controllori della Sfi . D’altra parte a salvataggio

della Comit era intervenuta la Sonfindit , che ne aveva rilevato i

pacchetti industriali . Oramai la Banca di Italia , tramite l’Istituto di

liquidazioni, la Sfi, il CISVI, la Sofindit, la sua situazione diventava

sempre più anomala. Una Banca centrale che controlla, tramite

soggetti finanziari di salvataggio, delle banche e possiede pacchetti

di aziende industriali, da queste rilevate , per cercare di piazzarle sul

mercato era una soluzione che non poteva durare a lungo. E la

situazione della lira sui mercati internazionali si faceva sempre più

difficile. Mussolini decise un drastico “cambio della guardia” nella

guida dell’economia. E il 20 luglio 1932 sostituì il grigio Mosconi

con Guido Jung, un fascista di antica data, combattente decorato con

tre medaglie d’argento della prima guerra mondiale, banchiere ,

esperto di commercio e finanza internazionale già delegato alla

conferenza della pace di Parigi , capo della delegazione italiana alla

Conferenza economica mondiale di Londra, membro del gruppo di

tecnici che aveva operato il salvataggio del Banco di Roma nel 1923 ,

deputato dal 1924 al 1929, allora presidente dell’Istituto Nazionale

per l’esportazione. Un tecnico estremamente abile e fedele, che

durerà al potere sino al 1935. E che, come ebreo, con le leggi razziali

poco dopo, perderà ogni ruolo di rilievo nella politica economica

fascista, che aveva contribuito a plasmare nel senso del capitalismo

di stato e dell’economia monopolistica pubblica protetta legalmente

dalla concorrenza internazionale e domestica, mediante

regolamentazioni ed interventi specifici. Mussolini assunse su di sé il

Ministero delle corporazioni, che Bottai non aveva saputo gestire in

senso autoritario. Mussolini non voleva smobilitare la proprietà delle

imprese siderurgiche, meccaniche, navali , elettriche, telefoniche,

prima controllate dalle tre grandi banche ed ora nel dominio della Sfi,

della Sofindit e dell’Istituto di Liquidazioni. E il presidente della

Commerciale Toeplitz non voleva che la sua Banca, che non riuscita

a risollevarsi dalla crisi, nonostante gli interventi della Sfi, facesse la

fine della Banca di Sconto. D’altra parte liquidare tutto ciò sarebbe

stato un crack per l’intera economia nazionale. Ma Beneduce , nel

suggerire a Mussolini e Mosconi quegli schemi di intervento non era

stato certo uno sprovveduto. Aveva pronta la soluzione: uno degli

“istituti Beneduce” , il maggiore di tutti. Così nel 1933 l’ Istituto di

liquidazioni, sulla base di una bozza del Toeplitz, rielaborata da

Beneduce, fu trasformato nell’IRI, Istituto di ricostruzione

Industriale, che aveva compiti misti, in parte di liquidazione di

possessi azionari statali e in parte di loro gestione e sviluppo. Al

vertice dell’IRI andò Beneduce, All’IRI passarono le partecipazioni

della Sfi e le tre Banche che essa controllava. L’IRI era un ente di

diritto pubblico, così come voleva la dottrina Beneduce, ma gestiva

imprese organizzate come società per azioni, soggette alle norme del

diritto privato, in cui vi erano quote importanti di capitale privato.

Le banche cessavano la loro funzione di proprietarie di pacchetti di

controllo di imprese e di finanziamento a lungo termine del credito

industriale . Sul finire del 1931 era stato costituito, per questo scopo,

lo IMI, Istituto Mobiliare Italiano, ente pubblico con compiti di

finanziamento con prestiti a medio e lungo termine, che si affiancava

agli altri tre “istituti Beneduce”: Crediop, ICIPU, IRI. Si inaugurava

la cosiddetta “economia mista”. E il proposito ufficiale di liquidare

parte delle imprese nel controllo dell’IRI non veniva realizzato. Il

fascismo, con Jung alle finanze, andava in altra direzione. Nel

gennaio 1933, infatti, furono conferiti al governo i poteri per

sottoporre ad autorizzazione statale l’ampliamento degli stabilimenti

industriali e l’impianto di nuovi stabilimenti “ allo scopo di adeguare

la nazione alle condizioni economiche esistenti”. Veniva, dunque, a

cessare la concorrenza del mercato, nel campo degli investimenti

industriali. Questa legge era la logica prosecuzione di quelle che

avevano stabilito i consorzi industriali obbligatori e volontari. Il 31

dicembre 1931 e il 1 gennaio 1932 il Ministro delle corporazioni

(Bottai) aveva istituito con suoi decreti il consorzio obbligatorio dei

laminati e profilati di ferro e quello dei fabbricanti di prodotti

derivati dalla vergella. Con una legge del 16 giugno 1932 poi lo

stato dispose una speciale disciplina giuridica per i consorzi

obbligatori nella produzione e negli scambi: i monopoli venivano

così riconosciuti e disciplinati da apposite leggi, non combattuti

perché contrari ai principi del mercato di concorrenza.

Il quadro si completava nel 1936 con la inaugurazione della politica

dell’autarchia. In un discorso del 23 marzo , all’assemblea nazionale

delle corporazioni, Mussolini tracciava “il piano regolatore

dell’economia italiana nel prossimo tempo fascista” assegnandogli il

compito di “realizzare nel più breve tempo possibile il massimo

possibile di autonomia nella vita economica della nazionale,

soprattutto nel settore della difesa”20 . E’ vero, come scrive il

20 Cfr. Guarneri(1953 e 1988) Battaglie economiche fra le due guerre, Capitolo dodicesimo. L’autarchia economica e Capitolo tredicesimo Polemiche intorno all’autarchia..

Guarneri21, che ne fu protagonista, come Ministro degli scambi e

valute dal 1935 al 1940, che l’autarchia era in buona parte la risposta

del protezionismo economico italiano rispetto a quello attuato allora

da grandi nazioni industriali colpite dalla crisi come USA, Gran

Bretagna, Francia, Germania. Ma in essa vi erano due fattori che ne

fecero una politica economica estremamente dannosa per la nostra

economia. Innanzitutto, la politica autarchica non era condotta solo

con dazi protettivi o contingenti valutari sulle importazione , ma

anche con sovvenzioni e enti impegnati nella promozione e

produzione dei più diversi beni di origine nazionale. E quindi

l’autarchia diventava pretesto per interferire in modo discriminatorio

in tutta l’economia e stabilire soggetti monopolistici privilegiati.

L’autarchia diventava la copertura politica di una economia di

monopoli industriali , commerciali, nei servizi che spesso aveva solo

la logica del potere monopolistico, non dello sviluppo di una

economia domestica capace di confrontarsi con quella dei paesi

avanzati. Inoltre fra il protezionismo e l’autarchia vi era ( e vi è)

una notevole differenza concettuale, che comportava effetti pratici

non indifferenti, di spreco di risorse e di illusione circa la solidità

dell’apparato economico : la pretesa di sostituire tutte le importazioni

con produzioni domestiche è un assurdo. Come lo stesso Guarneri

non può fare a meno di notare, non si poteva pensare di sostituire con

surrogati fantasiosi certe materie prime, di cui noi non disponevamo

o solo in misura limitata come il ferro o il petrolio. E in alcuni casi 21 Nell’opera citata, nei capitoli citati

la fantasia aveva portato a escogitare prodotti stravaganti , di cattiva

qualità ed alto costo come il Lanital, la lana fatta con il latte , mentre

vi era in Italia la possibilità di produrre buona lana vera , data la

grande estensione del nostro patrimonio ovino, per lo più utilizzato

quasi solo per la carne e il latte.

IL PEGGIORAMENTO PROGRESSIVO DEL BILANCIO E DEL

DEBITO PUBBLICO

Anno Debito pubblico Pil Debito fluttuante Debito pubblico/ Debito fluttuante /

a prezzi correnti a prezzi correnti A prezzi correnti Pil Debito pubblico (miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) % %

1924 93,444 118,08 30,267 79% 32,4% 1925 90,78 147,838 25,422 61% 28,0% 1926 91,242 157,189 25,689 58% 28,2%

1927 82,881 137,706 18,8916 60% 22,8% 1928 87,006 137,987 2,126 63% 2,4% 1929 87,689 137,803 3,035 64% 3,5% 1930 88,781 122,874 4,409 72% 5,0% 1931 91,418 110,062 5,484 83% 6,0% 1932 95,936 106,601 7,556 90% 7,9% 1933 98,029 99,046 9,782 99% 10,0% 1934 105,164 99,709 11,206 105% 10,7% 1935 105,836 112,152 11,39 94% 10,8% 1936 117,345 119,266 20,291 98% 17,3% 1937 128,802 141,446 25,366 91% 19,7% 1938 140,11 153,005 35,98 92% 25,7% 1939 153,99 169,283 49,36 91% 32,1% 1940 191,05 195,758 63,99 98% 33,5% 1941 261,16 227,592 97,5 115% 37,3% 1942 349,91 282,516 134,68 124% 38,5% 1943 455,77 374,916 220,15 122% 48,3% 1944 588,86 685,572 356,1 86% 60,5% 1945 938,12 1254,065 598,68 75% 63,8%

Il debito pubblico italiano, in conseguenza della politica di

conversione obbligatoria del Conte Volpi nel 1926 era sceso al 58%

del PIL. Ma dal 1927 in poi risalì gradualmente, sotto la spinta

dell’intervento finanziario a favore delle imprese in crisi e ,

successivamente, delle difficoltà economiche che influivano

negativamente sulla crescita del PIL e sul gettito delle imposte, che

di conseguenza non era abbondante. Ma il debito fluttuante, nel

quadro delle manovre tendenti a rafforzare la lira, fu ridotto a un

modesto livello. Il rapporto peggiore del debito al PIL fu raggiunto

nel 1934 , in periodo di crisi economica ( il PIL del 1933 e 1934

risultò in regresso dello 0,4% annuo), con un livello del 105% . Il

debito pubblico in rapporto al PIL decrebbe, poi, nel 1935 al 94%

nonostante le spese per la guerra di Etiopia ,sia perché essa ed altri

fattori generò anche una grossa ripresa, che diede luogo ad entrate

abbondanti, sicché il bilancio del 1935 non ebbe deficit. Nel 1936

però la situazione peggiorò nuovamente, il debito arrivò poco lontano

dal 100% del PIL , perché il PIL subì un declino di quasi lo 1%.

L’anno seguente, grazie alla nuova ripresa della crescita il rapporto

fra debito pubblico e PIL scese al 91% e su questo livello rimase per

un triennio. Con la guerra, nel 1940, balzò di nuovo al 98%. Poi salì

al 122% e al 125% . L’inflazione degli anni tragici del 1944 e 1945

lo riportò al 75%, nonostante i grandi disavanzi dei bilanci pubblici,

del paese devastato dal conflitto sul proprio territorio. Dal 1936,

mentre il rapporto debito/Pil subiva alterne vicende , il debito

fluttuante prese sistematicamente a salire sul debito complessivo e

nel 1945 esso era oramai il 63% del debito complessivo. I governi

del dopoguerra avevano un compito finanziario estremamente

difficile.

ECONOMIA ITALIANA 1945-1962

QUARTO PERIODO: DAL 1943 AL 1962. IL MIRACOLO ECONOMICO IN REGIME DI

DEMOCRAZIA E LIBERO MERCATO

GLI ANNI BUI DI TRANSIZIONE ALLA PACE E ALLA LIBERTA’

TAVOLA 1

DINAMICA DEL PIL 1943-49

Anno PI(lire Coefficiente corren rivalutazione

PIL (miliardi % variaz % PIL variazione PIL Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

ti) ne in lire2001 Di lire 2001) PILreale Reale con prezzi PIL (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1938 153,0 1377 210.681 43610 4,81939 169,3 1319 221.690 +5,1 +7,7 44119 5,01940 195,7 1130 220. 350 -0,5 -1,22 44562 4,91941 227,6 976 223.504 +1,4 -0,11 44885 5,0 1942 282,5 845 240.828 +7,75 -2,3 45119 5,31943 374,9 5 04 168.336 -20,00 -22,28 45235 37, 1944 685,6 113 131296 -21,59 - 20.97 45344 2,91945 1254,1 5 7 58 105466 -31,31 -21,77 45540 2,31946 2989 48.79 145.830 +38,27 +31,12 45910 2,31947 6014 30.10 181.020 +24,13 +15,27 46210 3,9 1948 7088 28.43 201.511 +11,32 +12,41 46552 4,31949 7640 28.02 214.072 +6,2 +8,5 46914 4,6

Fonti .Mia elaborazione su dati Istat, con Pil reale calcolato con gli indici dei prezzi al consumo e tassi di crescita calcolati su tale PIL e dal PIL deflazionato con prezzi impliciti 1938 calcolato da Paolo Ercolani, Documentazione Statistica di base,in G. Fuà(a cura di ) Lo sviluppo economico in Italia, vol.III, Studi di settore e documentazione di base,Milano, Angeli, 1969 e 197. Il PIL pro capite è desunto dai dati Istat deflazionati con i prezzi al consumo.

Il prodotto nazionale italiano, dal 1940, anno dell’entrata in guerra

era cominciato a diminuire , rispetto al precedente periodo(va per

altro notato che nel 1939 esso aveva subito un rilevante aumento,

perché l’Italia, mentre non affrontava alcuno sforzo e rischio

bellico, usufruiva della domanda dei paesi impegnati nel conflitto

mondiale) Si nota che la variazione in diminuzione è più sensibile nel

PIL calcolato ai suoi prezzi che in quello valutato con i prezzi al

consumo. Ciò a causa del sistema di prezzi calmierati , introdotto

durante la guerra. Nel biennio seguente il PIL calcolato con i prezzi

al consumo subisce un aumento, dovuto al calmiere , ma nella realtà

esso comincia a diminuire di un 3%. Nel 1943 esso cade di un quinto

con i prezzi al consumo calmierati e sensibilmente di più in termini

reali. Nel 1944 il PIL italiano cade ancora di un quinto, sia con i

prezzi al consumo che in termini reali. Nel 1945 la caduta al

consumo è di quasi il 40% a fronte di una minor riduzione del PIL

in termini reali , calcolata in un 30% circa (ma si tratta di stime

opinabili, dato il disordine bellico nella prima parte dell’anno) : il

regime dei prezzi controllati consente una fittizia situazione di

maggior prodotto, rispetto a quello effettivo calcolato sulla base

dell’inflazione a livello di prezzi all’ingrosso e alla produzione . Nel

1946 il PIL cresce in termini reali di un 30% e di un 38% al

consumo, perché operano ancora i calmieri su alcuni prezzi di beni

e servizi di consumo . Nel 1947 nuova grossa crescita, più ampia al

consumo che in termini reali. Nel 1949 la crescita reale , con pesi dei

beni del 1938, è dello 8,5% nel PIL , mentre è del 6,2% al

consumo perché alcuni calmieri dei prezzi vengono allentanti . Nel

1948-1949 , in termini reali il PIL , anche con pesi del 1938, è

oramai al livello del 1938. Lo supera con riferimento ai prezzi al

consumo. La popolazione, frattanto, nonostante le perdite durante il

conflitto, era continuata a crescere e, pertanto, nel 1949 il PIL per

abitante , calcolato con i prezzi al consumo era ancora lievemente

inferiore a quello del 1938. Presumibilmente però considerando ,

per il calcolo del PIL non i prodotti rappresentativi del PIL del

1938, ma quelli del 1954 , il prodotto per abitante in termini reali era

oramai di valore equivalente a quello del 1938.

Il periodo bellico e postbellico è caratterizzato da una inflazione

elevata, che segue un ciclo prima di accelerazione e poi di

decelerazione, in concomitanza con le vicende politiche. Dal 3% del

1939, il tasso di inflazione , misurato sui prezzi del prodotto

nazionale, balza al 37% nel 1940, viene contenuto al 28% grazie da

operazioni dirigiste, nell’anno seguente, ma poi torna a salire al 52%.

Con la crisi politico-militare del 1943 la spirale inflazionistica prende

a galoppare, superando il 100% mentre il prodotto nazionale declina.

Nel dopoguerra per un biennio rimane assai al di sopra del 50%, poi

con il 1947-48 grazie ad energiche manovre di politica monetaria e di

politica economica viene messa sotto controllo .

TAVOLA 2

INDICE DEI PREZZI DAL 1938 AL 1948

Prezzi Prezzi Tasso di inflazione annuo Ingrosso al minuto Ingrosso Al minuto Implicito nel PIL 1938 1,00 1,00 - 1939 1,04 1,04 4 ,0 4,0 3,0 1940 1,23 1,22 18,26 17,31 36,8 1941 1,36 1,41 10,56 11,47 27,7 1942 1,53 1,62 12,50 15,55 51,7 1943 2,29 2,73 49,60 68.5 125,6 1944 8,58 12,52 274,00 358,6 116,7 1945 20,60 23,92 140,10 91,0 79,3 1946 51,59 28,29 150,00 18,26 66,4 1947 54,43 45,75 5,50 61,7 8,7 1948 51,69 48,44 + 0.94 5,8 -2,8 Fonte Per i prezzi ingrosso e al minuto , ISTAT, Annuario Statistico Italiano, 1955, Roma p.438, TAV.481 Per l’inflazione calcolata sui prezzi ingrosso e al minuto, mia elaborazione sui dati Istat. Per quella sui prezzi impliciti del PIL, mia elaborazione su P.ERCOLANI, Documentazione statistica di base, in G.FUÀ (a cura di) Lo sviluppo economico in Italia, Vol. III Studi di settore e documentazione di base, Milano Angeli, 1969 e 1975

VICENDE POLITICHE DEL PERIODO

Nel 1943 , a causa della guerra , il territorio nazionale viene diviso

in due parti:da un lato quello , in cui opera il governo legittimo, che

si estende dal Sud verso il Centro e il Nord, mano a mano gli alleati

(gli anglo americani , con l’ausilio di truppe coloniali francesi del

Marocco , dell’Algeria e della Tunisia ) , originariamente sbarcati in

Sicilia, conquistano parti della penisola e dall’altro quello controllato

dai tedeschi, affiancati dalla Repubblica Sociale Italiana costituita da

Mussolini nell’ottobre 1943, con governo a Salò, contro cui operano

le formazioni partigiane del Comando Volontari della Libertà, sotto

la guida politica del Comitato Nazionale Liberazione Alta Italia

(CNL-AI) , costituito dai partiti politici antifascisti che hanno la loro

centrale palese nel Sud e poi a Roma e quella clandestina a Milano.

TAVOLA 3

I GOVERNI LEGITTIMI ITALIANI NEL PERIODO DI

OCCUPAZIONE E GUERRA CIVILE 1943-1945

PRESIDENTI DEL CONSIGLIO MINISTRI FINANZIARI

TESORO FINANZE

P.Badoglio I 25-7-43 ---22-4-44

G.Pellegrini

P.Badoglio II 24-4-44---6-6-44

D.Bartolini-G.Jung

I.Bonomi I 11-6-44---25-11-44 M. Soleri

S.Siglienti

I.Bonomi II 12-12-44—12-6-45 M. Soleri A.Pesenti

La nuova fase politico-istituzionale del Regno di Italia, inizia nel

1943 con la caduta del governo di Mussolini, messo in minoranza

con l’ordine del giorno Grandi-Bottai del Gran Consiglio del

fascismo, che era il supremo organo dello stato. Il potere di nomina

dei governi tornava al Re, che in effetti procedette a nominare capo

del primo governo non fascista, il maresciallo Pietro Badoglio.

Questi , per un breve periodo sino allo 8 settembre ottobre del 1943

poté governare su tutta l’Italia, salvo la Sicilia e la Calabria oramai

conquistata dagli alleati. L’8 settembre, mentre gli alleati sbarcavano

a Salerno, Badoglio annunciava che l’Italia aveva concluso un

armistizio con gli alleati e invitava l’esercito a resistere a chiunque lo

attaccasse, senza per altro precisare se esse dovevano ora

considerarsi al fianco degli alleati o rimanere neutrali e difendersi dai

tedeschi. Questi immediatamente assalirono le forze militari italiane

allo sbando, disarmandole e assediarono Roma , da cui frattanto

Badoglio e il Re fuggivano , recandosi a Pescara, da cui venivano

imbarcati su una nave e portati a Brindisi occupata dagli alleati. Il 10

settembre dopo una breve resistenza le truppe italiane che

difendevano Roma, capitolavano a quelle tedesche che occupavano la

capitale e tutta l’area da Napoli sino al Nord . Il 13 ottobre,

tardivamente Badoglio dichiarava la guerra alla Germania, ma

all’Italia non veniva riconosciuto lo status di membro degli stati

“alleati “. Nel Febbraio 1943 il governo Badoglio si trasferiva a

Salerno . Frattanto gli alleati erano oramai arrivati a Cassino Il 22

aprile Badoglio costituiva il suo secondo governo, a cui

parteciparono tutti i partiti antifascisti, compreso il PCI guidato dal

suo leader Palmiro Togliatti , giunto da Mosca , che vi assunse la

carica di Ministro senza portafoglio, assieme ai rappresentanti degli

altri partiti antifascisti “di “unità nazionale” facenti parte del CLN.

Iniziava così la lunga fase storica, conclusa solo nel 1994, in cui i

partiti “antifascisti” rappresentavano l’unità democratica nazionale,

in contrapposto ai fascisti e poi al Movimento Sociale Italiano che

rappresentavano l’anti democrazia. Fu poi cura di Togliatti di

sostenere costantemente la linea di partecipazione dei comunisti al

governo, chiunque lo guidasse, per affermare la natura democratica

del partito comunista (che pure prendeva ordini direttamente

dall’URSS a Mosca) e il principio della omogeneità fra i partiti

antifascisti di unità nazionale iniziata con la “svolta di Salerno.” Il 4

giugno Roma viene liberata dagli alleati, Il Re si ritira dall’attività

istituzionale , ma- secondo un tortuoso suggerimento dell’astuto

giurista liberale Enrico De Nicola, che dopo aver fatto parte del

blocco nazionale del 1921 e avere appoggiato senza esitazione il

governo fascista , era entrato nel “listone” del 1924, abbandonandolo

in extremis , per dedicarsi prudentemente alla professione forense-

non abdica e nomina suo figlio Umberto luogotenente generale del

Regno. Ciò, come vedremo, nuocerà alla causa monarchica e sarà fra

i fattori per cui essa perdette il referendum del 1946 fra monarchia e

repubblica, con un minimo scarto di voti. Il Maresciallo Badoglio, il

cui governo, anche quello con i partiti di unità nazionale, era stato

estremamente grigio e inconcludente, presenta le dimissioni e

Umberto affida la presidenza del consiglio a Ivanoe Bonomi. Vi

entrano come Ministro senza portafogli, accanto a P. Togliatti per il

PCI , anche due leaders che faranno, fra poco la storia di Italia: A.

De Gasperi per la DC e G. Saragat per i socialisti A fine novembre , a

causa di contrasti fra moderati e sinistre, Bonomi dà le dimissioni ,

con il reincarico, il 12 dicembre forma un governo da cui sono

assenti socialisti e partito d’azione, mentre Togliatti decide che i

comunisti vi debbono comunque partecipare e assume la vice

presidenza del consiglio mentre il Democristiano Alcide De Gasperi ,

futuro leader dei governi democratici italiani sino al 1954 assume gli

esteri.. Liberata Milano e quasi tutto il Nord il 25 aprile 1945 , il 27

aprile Mussolini viene catturato dai partigiani della Valtellina a

Dongo e il 28 viene fucilato da un inviato del Comitato Nazionale di

Liberazione Alta Italia , che lo aveva condannato a morte.

L’esecutore personale della sentenza è un partigiano comunista, il

colonnello Valerio ( che si ritiene fosse il partigiano piemontese

Walter Audisio).

TAVOLA 4

GOVERNI ITALIANI DALLA LIBERAZIONE (1945) AL 1948

PRESIDENTI DEL CONSIGLIO MINISTRI FINANZIARI

TESORO FINANZE

BILANCIO

F.Parri 21-6-45---24-11-45 Unità Nazi. M.Soleri F.Ricci

M.Scoccimarro

A.DeGasperi I 10-12-45--1-7-46 Unità Naz E.Corbino M.Scoccimarro

A.DeGasperi II 15-7-46--20-1-47 Unità Naz. E.Corbino-G.Bertone M.Scoccimarro

A.DeGasperi III 2-2-47--13-5-47 con PCI e PSI P.Campilli P.Campilli

A.DeGasperi IV 31-5-47--12-5-48 Senza Sinistre G.DelVecchio G.Pella

L.Einaudi

L’8 maggio la Germania capitola. L’11 giugno si insedia il primo

governo di unità nazionale con giurisdizione su tutta l’Italia , la

presidenza del Consiglio va a F. Parri, leader del Partito d’Azione.

Palmiro Togliatti diventa Ministro della Giustizia , mentre Alcide De

Gasperi rimane agli Esteri . Il 10 dicembre liberali lasciano il

governo Parri, accusandolo di cattiva amministrazione, la DC

abbandona anche essa il governo e l’incarico di formare quello nuovo

va a De Gasperi, che mantiene Togliatti alla giustizia. In seguito i

comunisti otterranno sempre il Ministero della Giustizia , con Fausto

Gullo in tutti i governi a guida DC di unità nazionale di cui faranno

parte, sino al maggio 1947, in cui saranno costretti a passare

all’opposizione. Non sembra che si trattasse di una scelta

occasionale. L’intento era quello di creare una nuova classe di

magistrati, con una concezione della dottrina giuridica basata su una

interpretazione sociale del diritto.

Il 2 giugno del 1946 a seguito del referendum fra monarchia e

repubblica, viene proclamata la Repubblica che vince con

12.717.923 voti su 24.946.942 votanti, pari 51,19% con uno scarto di

meno di 250 mila voti rispetto al 50% che era 12.473.471. Nella

stessa data viene eletta l’assemblea costituente.

TAVOLA 5

LE ELEZIONI PER L’ASSEMBLEA COSTITUENTE 1946-1948

Partito Voti % Seggi

%

Democrazia Cristiana 8.101.004 35,2 207 37,2

Partito Socialista Italiano 4.758.129 20,7 115 20,68

di unità proletaria

Partito Comunista 4.366.686 18,9 104 18.70

Unione Democratica Nazionale 1.560.638 6 ,8 41 7,37

Fronte dell’Uomo Qualunque 1.211.956 5,3 30 5.39 Partito Repubblicano Italiano 1.003.007 4,4 23 4,13 Blocco Nazionale della Libertà 637.328 2,8 16 2,87

Partito d’azione 334. 748 1,5 7 1,26 Movimento per l’indipendenza 171.201 0,7 4 0,72 della Sicilia Partito dei Contadini di Italia 102.393 0,4 1 0,17 Concentrazione democratica 97.690 0,4 2 0,35 Repubblicana

Partito Sardo d’Azione 79.154 0,3 2 0,35

Movimento unionista italiano 51.083 0,3 1 0.17

Partito cristiano sociale 40.62 3 0,2 1 0.17

Partito democratico del lavoro 40.034 0.2 1 0.17

Partito democratico progressista 21.853 0,1 1 0.17

repubblicano

Altre liste 412.650 1,8 0 0,00

Schede nulle 1.203. 641 5,2 0 0,00

Schede bianche 643.0 67 2,6 0 0,00

556 100,00

Sino al 1946 i governi legittimi non erano stati eletti . Con il 2

giugno 1946 la grande svolta: si tengono le prime elezioni

democratiche , dalla lontana epoca del 1921 (quelle del 1924 erano

già inficiate dal potere fascista, che le condizionava ). Il sistema

elettorale era quello proporzionale puro, che rimarrà sostanzialmente

in vigore sino al 1994. E , come sappiamo, esso comportava un

grande ruolo per i partiti organizzati , ma anche un notevole

frazionamento della rappresentanza, in una molteplicità di

raggruppamenti o partiti. E’ evidente che la DC fronteggiava un

blocco di comunisti e socialisti, uniti da patto di unità di azione che,

assieme, superavano i 9 milioni di voti ed avevano una forza

parlamentare superiore. Con il blocco Democratico nazionale, in cui

vi erano 25 aderenti al partito liberale, 13 aderenti alla democrazia

del lavoro di Meuccio Ruini e un gruppo di indipendenti la DC

arrivava a 248 voti, cui si poteva aggiungere quello di Ivanoe

Bonomi , ispiratore del raggruppamento, che si era fatto eleggere

con una propria lista . Anche con i voti dell’Uomo Qualunque,

comunque non molto affidabile, non era in grado di arrivare alla

maggioranza assoluta. La avrebbe di poco superata aggiungendo i

monarchici del blocco nazionale della libertà. E non avrebbe potuto

effettuare una maggioranza aggiungendo all’Unione democratico

Nazionale , i repubblicani in cui erano confluiti anche i due esponenti

della Concentrazione democratica , gli ex azionisti Parri e La Malfa

che erano 25 . Il totale sarebbe stato di 274 voti, mentre la

maggioranza assoluta era di 278. E non si poteva sperare nei nove

esponenti del partito d’azione , che guardavano in linea preferenziale

al blocco social comunista. La situazione cambiò drasticamente

quando ai Democristiani e i liberali si aggiunsero 52 scissionisti

democratici del PSI, che erano il 9,3% . A quel punto uno

schieramento della DC con i socialdemocratici ed i liberali e i demo

laburisti godeva di una maggioranza del 54% ed era ovvio che essa,

anche senza un appoggio esplicito dei repubblicani sarebbe stata in

grado di governare l’Italia, ma era evidente che i repubblicani vi si

sarebbero associati, in quanto desiderosi di essere protagonisti di una

linea di economia di mercato “di terza via “ e di rigore nella finanza

pubblica , come infatti accadde.

L’ECONOMIA E LA POLITICA ECONOMICA NEL

PERIODO DELLA RICOSTRUZIONE

Il deficit dell’esercizio finanziario 1944-45 è impressionante, ma

comprensibile. L’Italia per più di metà di questo periodo era rimasta

divisa in due e il governo legittimo non aveva potuto operare in

quella più importante, il Nord. Il Ministro del Tesoro Marcello Soleri

, nonostante i suoi sforzi eroici , che lo portarono a una morte

precoce a 63 anni nel luglio 1945, non riuscì a bloccare l’inflazione.

Essa nel 1944 aveva raggiunto il livello spaventoso del 274 % nei

prezzi in grosso e del 358% in quelli al minuto. Nel PIL l’indice di

inflazione implicito, che allora ovviamente non si conosceva (poiché

ancora in Italia non si calcolava il prodotto nazionale) era al 116%,

Era riuscito ad abolire , nei primi mesi del 1945 la sovvenzione

pubblica al prezzo politico del pane, che venne per altro reintrodotta

pochi mesi dopo. Ebbe successo il “prestito per la liberazione” , da

lui lanciato subito dopo la liberazione del Nord , con la emissione di

buoni del tesoro a scadenza quinquennale e tasso di interesse del 5%,

che rese 106 miliardi di lire .La sua morte e la sostituzione con il

senatore liberale Federico Ricci, esperto di finanze, ma privo di

esperienza politica, misero la politica finanziaria del governo Parri

nelle redini del Ministro delle Finanze , il comunista Mauro

Scoccimarro, dottore in economia e commercio, con un lungo passato

di rivoluzionario , di prigioniero politico e di leader della sinistra

comunista intransigente. Oramai il governo nazionale operava su

tutto il paese. Con la fine del 1945 era cessata la causa maggiore di

inflazione, costituita dalla stampa di carta moneta da parte dei

tedeschi e degli alleati, nei rispettivi territori. Einaudi diventato

governatore della Banca di Italia nell’aprile del 1945 premeva per

una energica lotta all’inflazione mediante la politica fiscale e, nello

stesso tempo, per il ritorno al libero mercato, nel campo del

commercio estero e delle relative disponibilità di valuta . Ma

rimanevano, come causa fondamentale di inflazione, la stampa di

carta moneta per il deficit pubblico causato anche da sovvenzioni per

i prezzi politici come quello del pane e la elevata velocità di

circolazione della carta moneta, dovuta alla psicosi inflazionistica. Il

Ministro delle Finanze Scoccimarro era consapevole del fatto che

contenendo la quantità di carta moneta in circolazione e dando

segnali per cui l’inflazione , dovuta alla stampa di biglietti, non

sarebbe continuata , l’inflazione si sarebbe bloccata . Ma sosteneva

che il cambio della moneta , attuato per censire tutte le ricchezze

degli italiani, grandi e piccole e controllare tutti i depositi bancari ,

accompagnato da una imposta del 10% sulle scorte di moneta ,sui

depositi bancari,sui titoli a reddito fisso e affiancata da una

patrimoniale progressiva, che tenesse anche conto dei guadagni

speculativi di guerra e dopoguerra, poteva servire a mettere ordine

nel sistema economico e finanziario , mentre era restio a ridurre il

deficit pubblico, finanziato emettendo banconote, perché pensava che

ciò avrebbe contribuito a ridurre la disoccupazione, tramite

l’aumento della domanda globale. Le due linee erano contraddittorie.

Infatti l’espansione della domanda globale, mediante il deficit

pubblico e la stampa di carta moneta avrebbe potuto stimolare

l’economia, pur con notevoli rischi di inflazione, a condizione di

lasciare interamente libera da impacci l’offerta, quindi il capitale

privato e le banche. Ma il predicare la falcidia dei risparmi e dei

profitti e nello stesso tempo l’espansione della domanda comportava

di generare sfiducia nella moneta e di gettare benzina sul fuoco

dell’inflazione. Fortunatamente alla linea Scoccimarro, appoggiata

dalla stampa comunista, a livello divulgativo e con la rivista Critica

Economica , si contrapponeva la linea di Einaudi , che riteneva che

la lotta all’inflazione fosse necessaria per incoraggiare il risparmio e

quindi generare le basi dello sviluppo economico e dell’occupazione

e dare fiducia al risparmio, anche con la riduzione dei prezzi politici

sovvenzionati dallo stato, come quello del pane, in ciò affiancato dal

nuovo Ministro del tesoro del governo Parri Marcello Soleri .

Einaudi si opponeva fermamente al cambio della moneta, in quanto

comportava la abrogazione del segreto bancario e la probabile

vessazione dei risparmiatori. La morte prematura di Soleri e la

sostituzione con Ricci però, come si è detto, avevano reso più

precaria la sua linea, alla Banca di Italia, perché non affiancata dalla

politica economica governativa. Frattanto l’inflazione galoppava: nei

prezzi all’ingrosso nel 1954 procedeva al ritmo del 140%, in quelli al

minuto, con i prezzi politici, veniva contenuta al 91%. Nei prezzi

impliciti del PIL era sull’80%. Data la crescita dei prezzi

all’ingrosso , niente di buono si prometteva per l’inflazione del 1996,

nella produzione e nel commercio ingrosso. Ma comunisti e per

loro Scoccimarro nel governo Parri erano contrari a qualsiasi misura

di rigore, mentre continuavano a lanciare messaggi contro la

speculazione e gli arricchiti e a fare minacce di imposte espropriatici.

Per di più l’apparato amministrativo dello stato era in disordine,

anche perché i comunisti e gli azionisti continuavano a esercitare e

minacciare l’epurazione dei massimi dirigenti e dei quadri intermedi.

Scoccimarro , abile tribuno politico, non aveva esperienza in materia

fiscale e la macchina tributaria aveva bisogno di essere rimessa in

sesto. L’accusa di cattiva gestione della cosa pubblica e di demagogia

circa le imposte espropriatici , sostenuta dai liberali, fu fra le cause

della caduta dell’incolpevole e probo presidente Parri, che era un

buon economista ma non era riuscito a prendere in mano la

situazione. Il successivo governo De Gasperi ebbe una sorte un po’

migliore, nel cercare di ridurre l’inflazione originata dakl bilancio

pubblico grazie all’azione del Ministro del Tesoro Corbino , brillante

economista liberale, seguace delle idee di Einaudi di cui era stato

allievo . Ma Mauro Scoccimarro svolgeva, nei riguardi di Corbino e

di Einaudi e in genere dei fautori del mercato , una tenace

opposizione. Nel 1946, assieme alla ricostruzione, era già cominciata

la ripresa economica, tanto che alla fine del 1946 il prodotto

nazionale era potuto superare il livello del 1943 , mentre la media

del 1946 rimaneva di poco al di sotto di quella del 1943. Il tasso di

inflazione all’ingrosso nel 1946 fu peggiore di quello del 1995,

mentre al minuto le cose andavano meglio in parte grazie agli aiuti

americani, in parte mediante il controllo dei prezzi, che per altro non

poteva reggere a lungo. Nei prezzi impliciti dle PIL l’inflazione era

al 66%. Appariva ancora preoccupante il deficit del bilancio statale

del 1946-1947 in cui il PIL era rapidamente cresciuto, in termini reali

e in termini monetari: il disavanzo, anche con l’apporto delle partite

finanziarie, rimaneva all’11% , mentre quello economico fra spese

effettive ed entrate effettive era attorno al 12%. Si volle dare la colpa

della pressione inflazionistica alla linea della Banca di Italia che,

guidata da Einaudi, favoriva il credito agli operatori economici per i

loro investimento e nell’aprile del 1946 aveva ridotto al 50%

l’obbligo per gli esportatori di deposito della valuta ottenuta in

pagamento , che ne aveva accresciuto la disponibilità di lire per i

loro impieghi in quanto il cambio libero era più che doppio di

quello ufficiale di 250 lire per dollaro. Ciò aveva aumentato la

circolazione di lire sul mercato interno, ma anche la disponibilità di

valuta per comperare materie prime e impianti dall’estero e quindi

accrescere la produzione e le esportazioni e aveva fatto riaffluire in

Italia capitali che erano stati occultati dagli esportatori, mediante

sottofatturazioni per non sottostare al cambio artificioso di 250 lire

per dollaro. E in effetti il cambio della lira dopo esser salito sino a

900 lire con il dollaro nel maggio scese verso le 650 nel settembre

1947. Ma nel 1946 clima di aspro dissenso fra i comunisti

spalleggiati dai socialisti di Morandi e i democristiani e i liberali ,

circa gli indirizzi di politica economica e lo stesso principio di tutela

della proprietà privata, con l’incombente minaccia del cambio della

moneta come strumento per abrogare il segreto bancario e

taglieggiare i risparmi e i profitti , era naturale che l’inflazione si

scatenasse ancora quando oramai la allegra stampa di carta moneta

da parte degli eserciti di occupazione era terminata. Einaudi non

poteva ancora attuare il controllo dell’espansione della massa

monetaria, che avrebbe desiderato effettuare, perché non si sentiva

spalleggiato dal governo. Sui sarebbe trattato di misure impopolari e

la sua autonomia, come governatore della Banca di Italia era molto

ristretta , dato che egli era un esterno di nomina governativa e anche

il direttore generale Menichella che aveva chiamato a collaborare con

lui era un esterno di nomina governativa. La soluzione che

Scoccimarro voleva era il cambio della moneta, non la stretta del

credito ed era ovvio che se Einaudi avesse predisposto la stretta del

credito, essa sarebbe apparsa alternativa al cambio della moneta e

non sarebbe potuta andare in porto, per superiori ragioni politiche.

E’ equi dare a Scoccimarro e al PCI , sostenuto, allora dai socialisti,

la colpa piena dell’inflazione del 1946. L’aspro conflitto di Epicarmo

Corbino con Scoccimarro, in tema di cambio della moneta indusse

Corbino a rassegnare le dimissioni nel settembre del 1946. De

Gasperi lo sostituì con il democristiano Giovan Battista Bertone, che

era stato Ministro delle Finanze prima del fascismo nei governi

Facta. Bertone , era favorevole al cambio della moneta , ma con una

linea moderata . Ed era più pesante politicamente di Corbino , data la

sua appartenenza al partito di maggioranza relativa. Egli poté perciò

lanciare il 15 novembre un prestito trentennale della ricostruzione al

3,5% emesso però sotto la pari a 97,5 lire , che frutterà ben 235

miliardi. Il prestito doveva servire per pagare la futura imposta

straordinaria sul patrimonio, collegata al cambio della moneta. Ma

oramai si cominciava a capire che il cambio della moneta non

avrebbe comportato la linea espropriatrice dei comunisti, spalleggiati

dai socialisti perché il clima politico andava mutando. Infatti il 20

novembre, 5 giorni dopo il lancio del prestito, Giuseppe Saragat , in

una intervista a Il Giornale di Italia, attaccava la linea del Partito

Socialista perché troppo vicina a quella comunista e chiedeva la

convocazione di un congresso straordinario. E l’11 di gennaio

avveniva la scissione fra socialisti massimalisti e socialisti

democratici, di cui fra un attimo si vedrà. Era allora evidente che la

linea economica dei comunisti non avrebbe più potuto prevalere .

Così il cambio della moneta punitivo stava rapidamente sfumando.

TAVOLA 6 BILANCI STATALI DAL 1944-45 AL 1949-50

Parte effettiva Movimento di capitali Deficit PIL Deficit/PIL Spese Entrate Spese Entrate 1944-45 311 64 8 43 211 970 21,7 1945-46 568 160 52 98 363 2.122 17,1 1946-47 916 382 298 338 494 4. 500 10,9 1947-48 1.696 851 211 140 917 6.551 14,0 1948-49 1.634 1.140 101 44 552 7.364 7,4 1949-50 1.716 1.418 230 341 185 8.015 2.3 Fonte ISTAT Sommario di statistiche storiche dell’Italia-1861-1965, Roma 1968 pag. 139,Tav.107

Scoccimarro era riuscito a far eliminare Corbino, che veniva

impiccato in effigie sulle piazze, come affamatore del popolo. Ma la

pesante ipoteca del partito comunista sul governo che aveva

esercitato un pesante condizionamento negativo della politica

economica, ora volgeva alla fine, a causa della scissione del Partito

socialista (denominato allora PSUP) che ebbe luogo, durante il XXV

Congresso, l’ 11 gennaio del 1947, con l’annuncio da parte di

Giuseppe Saragat che a Palazzo Barberini stava iniziando un nuovo

congresso dei socialisti democratici , per dare vita a un partito

autonomo dal patto di unità di azione con i Comunisti , che si sarebbe

denominato PSLI . 52 deputati lasciarono lo PSIUP (che assunse la

denominazione di PSI) e, in gran parte, confluirono nello PSLI, un

gruppo guidato da Ignazio Silone , dichiaratamente anticomunista,

rimaneva autonomo e confluirà nello PSLI in un secondo tempo.

Oramai era possibile una maggioranza parlamentare senza i

comunisti.

De Gasperi colse l’occasione del congresso socialista per

presentare le dimissioni e ricevere un nuovo mandato a formare

gabinetto di decantazione senza Scoccimarro con l’abile uomo

d’affari democristiano Pietro Campilli, alle Finanze e al Tesoro , che

cercava di attuare una linea mediana. Ma il contrasto fra la linea

Einaudi e la linea comunista continuava nell’Assemblea costituente e

nel nuovo governo, anche se coloro che ne erano stati protagonisti,

nei Ministeri economici erano usciti di scena. E il 13 maggio De

Gasperi lasciò che esplodessero , nella sua coalizione, in vista della

esposizione finanziaria annuale da presentare in Parlamento, per

l’esercizio finanziario 1947-58. Ne trasse la convinzione che era

necessario un chiarimento e diede le dimissioni. Non ebbe , però, il

reincarico perché nella nuova situazione era possibile un governo con

la guida dei partiti laici intermedi e in particolare di esponenti

dell’Unione Democratica Nazionale. E De Nicola diede l’incarico a

Nitti che, per altro, dovette rinunciarvi per l’opposizione dei liberali

spalleggiati dai democristiani, L’incarico passò all’anzianissimo

Vittorio Emanuele Orlando, che trovò, a sua volta, l’ostilità di Nitti

mentre i liberali puntavano su Einaudi. L’incarico allora , come era

prevedibile, data la frantumazione delle forze intermedie, tornò a De

Gasperi, che formò un gabinetto tripartito con i liberali e i

repubblicani , con Einaudi vicepresidente del Consiglio e Ministro

del Bilancio e l’appoggio esterno dei socialdemocratici. Il 15

dicembre alla vicepresidenza del Consiglio andavano Saragat per i

socialdemocratici e Pacciardi per i repubblicani-

TAVOLA 7

CAPI DELLA BANCA DI ITALIA 1861-1881 G. Bombrini Direttore generale della Banca Nazionale 1881-1894 G.Grillo Direttore generale della Banca Nazionale 1894-1900 G.Marchiori Direttore generale della Banca di Italia 1900-1928 B.Stringher Direttore generale 1928-1930 B.Stringher Governatore della Banca di Italia 1931-1944 G.Azzolini Governatore 1944-1944 A.Atti Commissario Straordinario della Banca di Italia 1944-1945 N.Introna Commissario Straordinario 1945-1948 L.Einaudi Governatore 1947-1948 D. Menichella Facente funzioni di Governatore della Banca di Italia 1948-1960 D.Menichella Governatore

Toccò a Luigi Einaudi, Ministro del Bilancio e interim di

governatore della Banca di Italia (ove era suo vice e facente funzioni

Donato Menichella ) ,con la collaborazione di G. Pella alle Finanze e

G. Del Vecchio al Tesoro, iniziare nell’aprile 1947, con questo

primo governo senza i comunisti, la nuova linea di lotta

all’inflazione, mediante la stretta del credito che, come si è detto, era

la misura alternativa al cambio della moneta che lui e Menichella

avevano allo studio . Grazie a tale stretta , il tasso di inflazione nel

1947 per i prezzi ingrosso si ridusse al solo 5,5% mentre nei prezzi al

minuto, con una operazione di liberalizzazione, essa saliva al 61% ,

che però non preoccupava , dato che la spirale era stata tagliata

all’origine. In effetti i prezzi alla produzione relativi al PIL erano in

aumento solo dello 8,7%. E nel 1998 i prezzi al minuto poterono

salire solo del 5,8% mentre quelli ingrossos scendevano di circa un

1% e alla produzione la diminuzione rasentava addirittura il 3%. La

stretta del credito attuata da Einaudi e Menichella consistette nello

stabilire la riserva obbligatoria del 25% dei loro depositi , che

nell’anno precedente erano triplicati rispetto al 1945, dando luogo a

una imponente circolazione di moneta fiduciaria, cioè di pagamenti

sui conti correnti . La riduzione del 25% dei depositi, pari a 112

miliardi, ridusse la piramide del credito e ridusse anche l’ascesa dei

prezzi, al consumo che era stata nel primo semestre del 50% . Essa

era resa necessaria dal fatto che l’Italia era entrata dal maggio nel

Fondo Monetario Internazionale, accettando il cambio fisso della lira

con il dollaro, fissato a 650 lire. Occorreva creare le premesse per

rendere stabile tale cambio e , pertanto, ridurre al minimo

l’inflazione. Per farlo si poteva, in linea di principio, agire su due

fronti: quello del bilancio pubblico e quello del credito. Einaudi ,

ovviamente, avrebbe preferito ridurre le spese pubbliche non

indispensabili e aumentare le imposte, in modo da diminuire il

deficit pubblico, che non attuare una stretta del credito, in quanto

questo serviva per finanziare la ricostruzione, gli investimenti, le

esportazioni , quindi la crescita economica . Ma il deficit no poteva

essere facilmente compresso, in tempi brevi, in quanto il sistema

tributario e la macchina fiscale erano stati lasciati in completo

disordine dalla gestione demagogica e velleitaria di Mauro

Scoccimarro e l’azione di contenimento delle spese comportava una

azione legislativa e amministrativa che non poteva avere effetto

immediato. Fu dunque deciso da Einaudi e dai suoi collaboratori di

operare la stretta del 1947-48 con la politica monetaria, lasciando

che una politica fiscale di fatto permissiva, ne alleviasse, con il suo

deficit, le conseguenze restrittive sulla domanda globale. Ma va

notato che anche la stretta del credito non fu drastica: essa moderava

una precedente frenetica espansione dovuta al fatto che il volume dei

depositi bancari si era enormemente accresciuto, in conseguenza

della liberalizzazione valutaria e del miglioramento dei redditi degli

operatori economici e ciò aveva alimentato una espansione anomala

della circolazione monetaria fiduciaria ( quella costituita dai

pagamenti mediante bonifici e assegni sui conti correnti) . In effetti

lo stesso Einaudi spiegò, a un parlamento poco convinto , che la sua

stretta, consistente nella riserva obbligatoria del 25%, non era

deflazionistica, in senso economico. Ed aveva perfettamente ragione .

Infatti nel 1997, l’anno della stretta, che i comunisti bollarono come

deflazione in senso economico e che tale rimase nella vulgata

economico-politica per molti anni, per effetto di tale propaganda e di

interpretazioni di storici e di economisti della sinistra non riformista-

il PIL aumentò in termini reali di oltre il 15%, mentre il livello del

tasso di inflazione a fine anno risultava dell’8%. L’anno successivo,

il 1998, mentre il livello dei prezzi diminuiva di un po’ più del 2%,

ciò che è, in termini monetari, una vera deflazione, il PIL aumentava

del 5,5% in termini reali, ciò che non è certo deflazione in senso

economico. L’economia si sviluppava a ritmo alto, senza droga

monetaria e l’economia dell’ Italia, ancora convalescente e dolorante

delle ferite belliche, era inserita a pieno titolo nel sistema monetario

internazionale. D’altra parte il deficit pubblico era aumentato rispetto

all’anno precedente, giungendo al livello del 14% . Anche

considerando il solo deficit economico del bilancio , cioè quello fra

spese effettive ed entrate effettive, esso rimaneva al 13% . Il che

può fare piuttosto l’ impressione di lassismo, non di deflazione

fiscale. Ma si spiega con il fatto che le spese e le entrate del 1947-48

dato lo sfasamento risentivano ancora della politica permissiva del

1946-47 . Solo nel 1948-1949 si vedranno i frutti della nuova politica

: le spese rimarranno bloccate sul livello del precedente esercizio

mentre le entrate subiranno un vigoroso incremento, sicchè il deficit

si ridurrà al 7% nel bilancio complessivo e al nel rapporto fra

spese effettive ed entrate effettive E , con quanto oscillazione, la

situazione si consoliderà negli anni successivi, grazie alla linea Pella-

Vanoni , che proseguirà sino al gennaio 1954 . Anziché denigrare la

manovra di Einaudi , nel primo governo centrista, è d’uopo esaltarla,

per i suoi risultati da manuale: stabilizzazione monetaria in meno di

un biennio assieme a una crescita economica elevata , a un bilancio

pubblico sano e a una politica di economia di mercato. Essa andrebbe

fatta da studiare dal Fondo Monetario Internazionale, ai paesi a cui

chiede programmi di aggiustamento, in cambio dei suoi aiuti

finanziari.

In effetti l’Italia , nel 1948 , poco prima delle elezioni, che

avrebbero visto il trionfo della DC ,a cui fu soprattutto imputato il

successo della eliminazione dei comunisti dal potere di governo,

ebbe un grosso aiuto finanziario internazionale tramite il “piano

Marshall”.

SCHEDA 1

IL PIANO MARSHALL

Questo programma, così chiamato dal generale americano

Miniastro degli esteri dell’amministrazione Truman, che ne era stato

promotore, nella conferenza di Parigi del 2 luglio 1947, approvato

nel gennaio 1998 dal Presidente Truman , con una attuazione

provvisoria e reso definitivo dal parlamento degli Stati Uniti il 3

aprile del 1947, stanziava 17 miliardi di dollari in 4 anni, per aiutare

la ricostruzione dell’Europa. I fondi , che erano divisi fra aiuti

gratuiti e aiuti a titolo di prestito, erano amministrati dall’ ECA

(Economic Administration Corporation) . Ogni governo beneficiario

riceveva lo 86% dei fondi a titolo gratuito mediante merci americane

scelte dai destinatari e il resto a titolo di prestito . Inoltre ogni

governo beneficiario con il ricavato delle merci ottenute

gratuitamente doveva costituire dei “fondi di contro partita “ nella

propria moneta nazionale, da destinare alla ripresa e allo sviluppo

economico del paese. L’ente italiano incaricato del coordinamento

dle programma e delle erogazioni dal fondo fu il CIR (Comitato

Interministeriale per la Ricostruzione) . L’apporto del Piano Marshall

all’Italia fu notevole. Vi furono dissensi fra il governo italiano e

l’ECA sul modo di utilizzarlo , in parte derivanti dal fatto che l’Italia

tendeva a utilizzare i fondi più per alleviare problemi di bilancia dei

pagamenti nel settore delle derrate di base che per investimenti e in

parte , però, dal fatto che gli americani cercavano di erogare beni di

investimento e derrate di cui avevano una capacità produttiva in

esubero o per cui avevano maggiori pressioni da interessi economici

costituiti e l’Italia, a sua volta, cercava di dare ascolto alle priorità dei

propri operatori e in particolare di quelli più influenti e cercava di

evitare di procurarsi beni concorrenziali a quelli dell’agricoltura e

delle industrie domestiche. Ciò è normale in ogni politica di aiuti e

molte critiche che sono state fatte all’attuazione del piano Marshall

in Italia magnificando queste controversie sono immotivate. E’ vero

invece che il piano Marshall fu, oltreché uno strumento economico,

uno strumento politico, perché accrebbe in Europa e, in particolare in

Italia, nel periodo della guerra fredda , la popolarità degli Stati Uniti

e l’avversione ai comunisti e al blocco sovietico. Per questo si è

cercato, da parte di una certa storiografia, di svalutare l’apporto del

piano Marshall al nostro sviluppo economico. Una serena valutazione

del piano Marshall si trova nelle pagine che seguono, di un

osservatore imparziale.

“ Il Piano Marshall fu… una felice intuizione. I paesi europei,

stremati dal periodo bellico , si trovavano in una situazione di grave

crisi, tale per cui la richiesta di alimenti e altri beni primari

(provenienti in prevalenza dagli Stati Uniti) sarebbero state per

alcuni anni superiori alle capacità di pagamento: ne derivava che,

senza un sostanziale aiuto esterno, essi avrebbero dovuto

fronteggiare un decadimento di pesanti dimensioni, a livello

economico, sociale,politico. Pertanto, il Piano prevedeva l'invio di

aiuti ai Paesi Europei, dal 1948 al 1952, per il finanziamento e la

realizzazione di infrastrutture, e per il risanamento dei bilanci statali

(il progetto era stato elaborato anche per gli Stati dell'Europa

Orientale e per l'Unione Sovietica i quali, tuttavia, ritennero

opportuno rifiutare anche se, nella primissima fase di aiuti, erano

stati accolti quelli forniti dall'United Relief And Rehabilitation

Administration U.N.R.R.A., organismo ufficialmente afferente alle

Nazioni Unite, ma in realtà esplicitazione dell'intervento economico

americano). Gli scopi che il Piano Marshall si prefiggeva erano

molteplici: prevenire la caduta del commercio internazionale, e dei

relativi pagamenti; dare stabilità ai Paesi Europei (anche per

favorire gli interessi americani, in contrapposizione a quelli dei

Paesi dell'Est); reinserire la Germania nel blocco Europeo tramite

una strategia di ricostruzione congiunta; aiutare, infine, l'unione

economica e militare dell'Europa. .All'inizio di giugno del 1947,

quando Gorge Marshall propose il suo Piano (dando particolare

rilievo al fatto che i Paesi Europei avrebbero dovuto definire

collegialmente le richieste di aiuti), la reazione che ne seguì fu

straordinariamente positiva ed immediata. E, già il 12 luglio, sedici

Nazioni costituivano a Parigi il C.E.E.C. (Committee for European

Economic Cooperation), che cominciò subito, pur tra variegate

difficoltà, a quantificare l'importo necessario alla ricostruzione

dell'Europa. Poco più di due mesi dopo, il 22 settembre, gli Stati

Uniti ricevettero la richiesta di aiuti (stimati in 19 miliardi di

dollari), abbinata all'impegno di istituire un'Organizzazione Europea

di Cooperazione Economica (O.E.C.E.), con il compito di gestire, e

di coordinare, il piano di intervento. Il 3 aprile 1948 gli americani

approvarono la Legge di attuazione del Piano Marshall (detta anche

European Recovery Program E.R.P.). In pratica, veniva strutturato

un piano quadriennale di aiuti materiali (anziché in dollari come

richiesto dagli Europei), diminuiti, però, di circa un terzo rispetto

all'importo formalizzato dall'Europa. Restava, comunque, un valore

superiore ai 12 miliardi di dollari. Conseguentemente, il 16 aprile

1948,veniva ufficialmente istituita l'O.E.C.E. (da cui trasse poi

origine l'attuale O.C.S.E.), il cui mandato era indicato già nel primo

articolo: "Le parti contraenti debbono agire in stretta cooperazione,

ed avere come compito immediato quello dell'elaborazione e

dell'attuazione di un programma comune di ricostruzione. Inoltre,

esse debbono elaborare piani congiunti per la ripartizione degli aiuti

americani".

Gli aiuti Marshall furono ripartiti fra sedici Paesi. All'Italia, tenuta

in buona considerazione, venne attribuito quasil'11 per cento: solo la

Gran Bretagna con il 23 per cento, e la Francia con circa il 21 per

cento, ottennero di più. Seguivano, poi, con quote decrescenti,

Germania, Olanda, Belgio, Austria, Grecia,Danimarca, Norvegia,

Irlanda, Turchia, Svezia, Portogallo, Islanda, Yugoslavia. Fu

importante non solo l'entità del sostegno, ma anche, e di maggiore

valenza, la stabilità e l'elasticità degli aiuti, in quanto le merci inviate

erano strettamente correlate con le reali esigenze di ogni Paese. E se,

all'inizio, era prevalente la domanda di prodotti alimentari, mangimi

e fertilizzanti, col passare del tempo aumentò gradualmente quella di

materie prime e di prodotti semi-finiti, carburanti,macchinari e

veicoli, attrezzature meccaniche, che erano fondamentali per l'avvio e

la ripresa dell'attività industriale (le prime imprese italiane a

beneficiarne furono la Fiat, l'Edison, e la Finsider).

Il Piano Marshall poneva le prime basi avendo come coerente riferimento il principio "più mercato e meno controllo". Difatti, le condizioni che regolavano la distribuzione degli aiuti imposero ad ogni Stato di pianificare la diminuzione dei dazi, e l'abolizione dei controlli sul commercio. Sostanzialmente, l'architettura del Piano assunse grande importanza non solo nel breve periodo di riferimento, e per il relativo contesto di attuazione, ma anche, e soprattutto, negli anni a seguire, per l'apporto che avrebbe dato ai Paesi Europei, favorendoli in una crescita sempre più dinamica e prospettica. Luciano Neri , Per lo sviluppo e la ricostruzione dell’Europa in “Incontri”, Rivista trimestrale della Banca Popolare dell’Emilia Romagna http://w.w.w.bper.i/gruppobper/incontri/pdf_64/82_64.pdf.

Gli aiuti del Piano Marshall diedero un buon contributo allo

sviluppo economico dell’Italia e contribuirono a migliorare gli

approvvigionamenti di derrate di base in un periodo in cui la

situazione sociale era molto tesa anche perché le imprese per potersi

cimentare nella concorrenza internazionale dovevano praticare bassi

salari . Però la alcuni esponenti della missione di aiuti all’Italia del

piano Marshall sostenevano che bisognava applicare all’Italia ricette

keynesiane, di spesa in deficit, basandosi sulla favorevole esperienza

degli USA. Einaudi aveva replicato che presso di noi mancavano le

premesse per una ampia politica di tale natura perché era vero che vi

era notevole disoccupazione di lavoro, ma vi era , in quelle

circostanze, scarsità di materie prime e di impianti produttivi (e

avrebbe potuto aggiungere anche di esperti quadri tecnici) a causa

delle distruzioni belliche, quindi non si sarebbe potuta fare una ampia

spesa in disavanzo senza generare nuova inflazione dato lo squilibrio

fra la domanda e l’offerta. D’altra parte a ben guardare, la Banca di

Italia con la sua politica di finanziamento del credito alle imprese e

di parziale liberalizzazione della valuta per le esportazioni stava

dando un considerevole stimolo alla domanda, non quella di

consumi, ma quella di investimenti in capitale fisso e circolante

(acquisti di materie prime etc,) e quella per esportazioni, che

accresceva la capacità di importazione, quindi di ridurre le

strozzature alla capacità produttiva domestica. Di più non si poteva

certo fare. Innanzitutto mancava la valuta per pagare un ulteriore

eccesso di importazioni sulle esportazioni , gli aiuti americani , anche

generosi, non bastavano che a tappare alcuni buchi . Inoltre vi era

una questione di tempi: i cicli produttivi nuovi non si improvvisano ,

e non si può pensare che un eccesso di domanda di consumi potesse

generare una nuova produzione , con nuovi macchinari e materiali

importati e posti in opera, che a loro volta avrebbero comportato una

ulteriore espansione della domanda globale. In realtà la domanda

era già alta per conto suo, dati i bisogni della ricostruzione e il ritmo

di espansione dell’offerta era già febbrile. L’unico difetto di Einaudi

fu , allora, di non spiegare chiaramente che , nei limiti del fattibile,

l’Italia stava praticando una linea di tipo keynesiano: con la

differenza che essa si basava più sul lato dell’offerta che sul lato

della domanda di consumi e , in questa ottica, cercava di espandere

l’offerta con l’incoraggiamento del risparmio.

L’inflazione galoppante aveva di molto ridotto il peso del debito

pubblico sul PIL nonostante la drastica caduta di questo, sino al

1946.Ma man mano che la moneta si stabilizzava, il rapporto fra il

debito e il PIL poi era aumentato. Il salto in diminuzione fra il 1946

e il 1947 si deve al fatto che, per questi due anni, ci si è riferiti alla

fonte ufficiale della banca di Italia, che rilevava allora solo i debiti

del Tesoro in titoli e non tutti i debiti del governo centrale. Il salto in

aumento fra il 1948 e il 1949 è in grande prevalenza un fenomeno

statistico, dovuto al fatto che nel 1949 l’Italia, aderendo al Fondo

Monetario Internazionale, dovette effettuare un rigoroso censimento

di ogni forma di debito del governo centrale, anche a prescindere da

quello espresso in titoli del debito pubblico. E’ probabile che il

debito del 1949 , misurato con criteri omogenei, fosse a, rispetto al

PIL, pari a quello del 1946: il deficit pubblico era stato contenuti, ma

l’operatore pubblico non lo finanziava più emettendo carta moneta,

ma con veri e propri indebitamenti sul mercato. In seguito, mentre il

PIL cresceva di continuo, il bilancio pubblico ebbe deficit annuali

molto inferiori alla crescita del PIL e , per conseguenza, il rapporto

fra debito e PIL decrebbe di continuo.

TAVOLA 8

IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DAL PERIODO PREBELLICO AL PERIODO DELLA RICOSTRUZIONE E DEL

MIRACOLO ECONOMICO

Anno Debito pubblico Pil Debito fluttuante Debito pubblico/ Debito fluttuante / a prezzi correnti a prezzi correnti a prezzi correnti Pil Debito pubblico (miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) % %

1939 167,577 169,283 71,526 99% 42,7%1940 209,365 195,758 96,254 107% 46,0%1941 286,393 227,592 140,703 126% 49,1%1942 386,509 282,516 196,846 137% 50,9%1943 524,574 374,916 316,129 140% 60,3%1944 773,373 685,572 567,699 113% 73,4%1945 1.098,23 1.254,07 787,878 88% 71,7%1946 1.446,16 2.985,00 986,455 48% 68,2%1947 1.473,69 5.986,00 985,2 25% 66,9%1948 1.894,35 7.055,00 1.416,51 27% 74,8%1949 4.310,00 7.601,00 57% 1950 4.710,00 8.430,00 56% 1951 5.100,00 10.735,00 47% 1952 5.680,00 11.575,00 49% 1953 6.170,00 12.805,00 48% 1954 6.740,00 13.634,00 49%

Fonti :

Forte FedeliRubino

per il periodo 1861-1946: Vera Zamagni, "Il debito pubblico italiano 1861-1946: ricostruzione della serie

storica", in "Rivista di storia economica",n.3, 1998 per il periodo 1947-1948: Banca d'Italia, "Bollettino statistico",n.1 del 1948 e n.1 del 1949 per il periodo 1949-1998: F.m.i., "Total debt central government ", 1999

Frattanto l’economia cresceva e nel 1949 l’Italia, nonostante i

grossi danni subiti durante la guerra, recuperava il livello del Pil

prebellico.

LA NUOVA FASE POLITICA ED ECONOMICA :GLI

ANNI DEL CENTRISMO DEGASPERIANO E DEL

CENTRISMO ATTENUATO E IL MIRACOLO

ECONOMICO

La fase che ora consideriamo è , nella storia economica italiana del

‘900, una di quelle più felici. Il Pil dal 1948 al 1962, in 14 anni ,

aumentò di oltre il 150% sia deflazionato con i prezzi al consumo e

sia con i prezzi impliciti delle sue componenti .Il tasso di crescita del

PIL , nei quattordici anni del periodo 1948-1962, fu mediamente del

6,76 % annuo ! Quello pro capite aumentò del 6%. L’espressione “

miracolo economico” , indica, nella sua enfasi , che fu una crescita

prodigiosa, anche se non si trattava di un “miracolo”, ma di un

processo di sviluppo sospinto da forze umane che, come si vedrà,

non avevano niente di “magico” . La crescita , mentre si basava su

robusti fattori dell’economia reale e su un quadro internazionale

favorevole , conteneva in sé anche alcune contraddizioni e problemi,

che sarebbero emersi con particolare evidenza negli anni ’60.

TAVOLA 9

IL PIL ITALIANO NEL PERIODO DALLA RICOSTRUZIONE AL

PERIODO INIZIALE DEL MIRACOLO ECONOMICO (1949-54)

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi %crescita%crescita Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

di lire 2001) consumo PIL reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1938 153,005 210757 43610 4,81939 169,283 223715 5,1 7,27 44119 5,0

1948 1949

7088 7640

201.511 214.072

11,32 12,4 6,2 8,5

46.552 46914

4,34,6

1950 8454 240.093 12.15 7,9 47295 5,11951 10735 277929 15,7 9,1 47540 5,81952 11575 287407 3,74 5,7 47792 6,01953 12805 311.929 8,53 7,2 48121 6.5 1954 13634 323.398 3,68 5,8 48477 6,71955 15042 347.018 7,33 6,3 48789 7,11956 16360 359.609 3,60 4,4 49052 7,31957 17565 378.701 5,31 6,4 49311 7,71958 18862 388.179 2,40 4,6 49640 7,81959 20029 411.535 6,18 7,6 50023 8,21960 23210 470.379 14,30 7,1 50372 9,31961 25810 508.326 8,28 8,3 50675 10.11962 29000 549.376 8,08 10,5 51012 11,0

Fonte : dal 1951 elaborazione di FORTE–FEDELI sui dati del Fondo Monetario Internazionale

LE VICENDE POLITICHE NEL PERIODO DEL CENTRISMO DEGASPERIANO

Le prime elezioni politiche dopo la proclamazione della Repubblica

ebbero luogo il 18 aprile del 1948. Esse videro il trionfo della

Democrazia Cristiana, che ebbe la maggioranza assoluta dei seggi

della Camera, vale a dire 305, su 590 con il 53,14% , con il 48,5%

dei voti. Questa differenza fra percentuale di seggi e voti non si

spiega con le schede nulle che furono lo 1,6% (una percentuale

abbastanza bassa , essendo la prima volta che gli italiani votavano da

più di venti anni ) e le bianche che furono un altro 0,6%. Il fatto è che

la dispersione di liste avvantaggiò molto la DC. nonostante il sistema

proporzionale. Infatti un partito con molti voti poteva ottenere una

percentuale di seggi notevolmente maggiore dei voti, in quanto fruiva

dei voti dei

TAVOLA 10 PRIMA LEGISLATURA. 18-4- 1948--6-6-1953

partiti minori, che non avevano ottenuto alcun seggio. Il Fronte

democratico popolare, guidato dai comunisti del PCI, con l’alleanza

dei socialisti del PSI e alcuni indipendenti raccolse solo il 31,88%

dei seggi, in totale 183 seggi, con il 31% dei voti. A causa della abile

gestione del gioco delle preferenze di lista , ben 143 seggi pari al

24% andarono ai candidati del PCI mentre il Partito Socialista

otteneva solo 39 seggi pari al 6,6% , molto meno della sua forza

elettorale. Unità socialista (nella Tavola 3, denominata “Unione

Sociale” ) costituita dai socialdemocratici dello PSLI guidato da

Giuseppe Saragat , da un gruppo di ex azionisti e dai socialisti

dissidenti di Ivan Matteo Lombardo e Ignazio Silone, pur fortemente

minoritaria dal punto di vista dei voti, nella costellazione delle forze

socialiste , ottenne un gruppo di 33 deputati, pari al 5,75% , non

molto minore di quello dei socialisti del PSI. Ciò nonostante la

dispersione di voti, dovuta al fatto che in alcune circoscrizioni non

era riuscito ad eleggere alcun candidato e quindi non aveva potuto

usufruire dei voti ottenuti: che a livello nazionale furono il 7,1%.

Deludente invece il risultato del blocco nazionale, costituito dai

liberali e dall’Uomo Qualunque, che ottenne solo il 3,31% dei seggi,

con il 3,8% dei voti: aveva pesato negativamente su tale esito, la

innaturalezza e infecondità della alleanza fra un partito storico,

come il PLI e un partito di protesta , oramai in disfacimento, come

quello qualunquista. Anche il Partito Nazionale Monarchico

nonostante l’apporto della Alleanza destra nazionale di A.D. N. non

ottenne un buon risultato: solo 14 seggi, pari al 2,44% , con il 2,8%

dei voti Dal canto loro i repubblicani del PRI, ottennero solo 9 seggi,

pari allo 1,57% . La sfida nel referendum fra monarchia e

repubblica , aveva avvantaggiato questo partito nelle elezioni per la

costituente. Ora data la vittoria della repubblica, la sua funzione

storica appariva esaurita. Esso doveva costruirsi una nuova identità

di “terza forza” nello schieramento politico: cosa non facile data

l’esistenza di due partiti analoghi, quello socialdemocratico nell’area

riformista di centro sinistra e quello liberale nell’area di centro destra

. Va comunque notato che anche i voti del Pri erano stati il 2,5%: la

dispersione dei voti penalizzava particolarmente questo partito che,

era polarizzato in alcune regioni dell’Italia Centrale e nelle altre

circoscrizioni era sparpagliato con quozienti troppo bassi per

eleggere un deputato che venivano tutti sprecati. I fascisti erano

praticamente spariti: il Movimento Sociale Italiano che li

rappresentava politicamente ottenne solo 8 seggi, pari allo 1,05. La

polarizzazione fra DC e Fronte popolare aveva indotto molti fra i

nostalgici del fascismo (circa un 5% del corpo elettorale) a dare il

voto alla DC in funzione di diga contro “l’onda rossa.” Ma anche per

essi aveva giocato negativamente la dispersione dei voti: in fatti la

quota di questi era stata il 2%. Ma metà dei voti non si erano tradotti

in seggi. Vi era poi un gruppetto di partitini: il Partito Popolare

Sudtirolese, con 3 seggi pari allo 0,17% , pur con lo 0,5% dei voti. il

partito contadino (che avrebbe dovuto togliere voti alla DC, secondo

la strategia del Fronte Popolare, con 1 seggio, pari allo 0,17% e lo

0,3% dei voti e il Partito Sardo d’Azione anche esso con un seggio e

lo 0,2% dei voti . Le altre liste, che non avevano ottenuto alcun

seggio, ed era spesso liste di disturbo messe in piedi dalla DC per

contrastare il Fronte popolare, avevano ottenuto un 1,3% dei voti:

che non utilizzati da loro, andarono a ingrossare la quota degli eletti

della DC.

TAVOLA 11

PRIMA LEGISLATURA.18 -4- 1948—6-6- 1953. ELEZIONI AL SENATO

% seggi

Democrazia cristiana . 48.1 131 Fronte democratico popolare 30,8 72 Unità socialista (US) 4,2 8 Blocco nazionale 5,4 7 Lista comune US-PRI 2,7 4 Liberali autonomi 0,4 3 Partito nazionale monarchico 1,7 3 Unione monarchica 0,1 1 Partito repubblicano italiano 2,6 4 Movimento sociale italiano 07 - Sud Tiroler Volkspartei 0,4 2 Partito sardo d’azione 0,3 1

Accanto alla Camera, con la nuova costituzione, aveva grande

rilevanza il Senato, eletto direttamente dai cittadini di almeno 25

anni di età. In esso la DC ebbe, pressa poco come alla Camera il

48,1% dei voti ed elesse 131 senatori pari al a 60,6% di quelli

eleggibili, ma pari solo 39% di quelli complessivi . 107 senatori

facevano parte di diritto del Senato (in parte provenienti dal vecchio

Senato ora disciolto, in parte dall’Assemblea Costituente ; e solo 18

di questi senatori di diritto , pari al 5,5 % dei complessivi erano DC.

Essa così’ ebbe solo 44,5% dei seggi senatoriali complessivi. Il

Fronte popolare dal canto suo, al Senato, con il 29,22% dei voti,

riuscì a conquistarsi 72 seggi pari al 33,3% di quelli elettivi . In ogni

collegio senatoriale si votava –secondo il sistema ancora adesso in

vigore- un solo candidato, recuperando nel più ampio collegio

circoscrizionale tutti i seggi non assegnati direttamente a chi avesse

ottenuto, nel proprio collegio la maggioranza assoluta. Questi seggi

venivano ( e sono tutt’ora) assegnati ai vari schieramenti elettorali in

base al totale dei voti da essi conseguiti e non utilizzati nella elezione

diretta. All’interno di ciascun schieramento, venivano ( e sono )

eletti i candidati di esso, che , nel proprio collegio individuale ,

avessero (abbiano) ottenuto la maggiore percentuale di voti ,

rispetto a quelli del collegio. Questo sistema, consentiva di

valorizzare meglio le personalità individuali gradite agli elettori. Ma

rendeva più difficile il voto da parte dei blocchi: ai socialisti, che si

presentavano come candidati del Fronte Popolare , non era tanto

facile ottenere i voti dei comunisti , nonostante la disciplina di partito

mentre per i socialisti non massimalisti non era agevole dare il voto

al candidato comunista. Ciò probabilmente spiega il fatto che al

Senato le schede bianche siano state il 2% e le nulle il 3% , il

doppio che alla Camera nonostante che ivi votassero persone di

almeno 25 anni. Tuttavia, come si nota, nel complesso , al Senato

dove si votavano i nomi, le cose andarono meglio per il Fronte

popolare, che alla Camera ove il patto di unità di azione mortificava

lo spirito di autonomia dell’elettorato socialista. Unità socialista al

Senato andò peggio che alla Camera : ebbe poco meno un milione di

voti (943.000) pari al 4, 2% , con solo 8 seggi pari al 3,7% di quelli

elettivi e al 2,4% di quelli totali . Va però notato che il minor

risultato elettorale era , in gran parte, puramente apparente: dipese

dalla scelta di fare blocco con candidati repubblicani, per non

sprecare i propri voti: e in effetti , le liste comuni diedero al mini

blocco in questione il 2,7% con 4 seggi pari allo 1,8% dei seggi

elettivi e allo 1,2% dei seggi totali . In totale , prescindendo dal fatto

che una piccola quota di questi voti era dei repubblicani, si arrivava

ancora al 7% Un’altra parte del Pri , che non volle fare parte del

blocco, presentandosi da sola ottenne il 2,6% dei voti, ma solo 4

senatori pari al lo 1,8% dei seggi elettivi e solo 1,2% dei seggi

totali . Il blocco nazionale, con il 2,7% dei voti ottenne solo 7

Senatori pari al 2,1% dei seggi totali . Una formazione di liberali

indipendenti ottenne altri 3 seggi. I monarchici indipendenti di Lauro

ottennero 1 seggio. 2 seggi li ebbe la Volkspartei e 1 il partito sardo

d’azione Nonostante che la DC , da sola, al Senato fosse in

minoranza , assieme agli altri partiti che avevano complessivamente

il 9,2% dei seggi elettivi, arrivava al 53,7% dei seggi, oltre a quelli

di diritto dei partiti di centro, suoi alleati. Poteva così fare varie

alleanze, dotate di largo margine

TAVOLA 12

GOVERNI ITALIANI NELLA PRIMA LEGISLATURA 18-4- 1948—6-6-1953 MINISTRI FINANZIARI TESORO FINANZE BILANCIO V De Gasperi (23-5-48--12-1-50) DC-PSDI-PRI-PLI Pella Vanoni Pella VI De Gasperi (27-1-50--17-7-51) DC.PSDI-PRI Pella Vanoni Pella VII De Gasperi (26-7-51--29-06-53)DC-PRI Vanoni-Pella Vanoni Pella

Se alla lettura del numero di ministeri che si alternarono in questa

prima legislatura repubblicana, si può avere la sensazione di

instabilità politica, in quanto vi si succedono tre governi , questo è

un periodo di assoluta stabilità politica, in quanto tutti e tre governi

che si succedono, dalle elezioni del ‘48 sono tutti governi di centro

guidati dal ledare democristiano De Gasperi con forze di centro e

centro destra come la DC e il PLI e di centro sinistra come il PRI e il

PSDI : un quadripartito –composto da repubblicani , i socialisti

democratici e i liberali o un tripartito con repubblicani e i socialisti o

un bipartito con i soli repubblicani.

ECONOMIA E POLITICA ECONOMICA NEL

PERIODO DEL CENTRISMO DEGASPERIANO. LA

LINEA PELLA

La politica economica ha, per tutta la legislatura, una guida stabile.

Infatti essa è costituita , per tutto il quinquennio, dal binomio Pella-

Vanoni, in cui il primo è il continuatore rigoroso della linea Einaudi e

il secondo democristiano, con un passato di socialista riformista, è

l’espressione di un indirizzo di economia sociale di mercato . Nel

binomio, come si nota, predomina Pella , al quale compete oltrechè il

Tesoro (salvo per il periodo dal 26-7-51 al 2-2-52 in cui vi è Vanoni)

anche il coordinamento, tramite il ministero del Bilancio . Il binomio

favorisce una politica indipendente della Banca di Italia, ove

Menichella continua nella linea di Einaudi basata non solo sulla

stabilità monetaria, secondo la leggenda diminutiva che è stata

consolidata dalla propaganda avversa, ma anche sul favore per il

credito alla produzione e sulla tutela e lo stimolo al risparmio,

mediante un sistema di credito in cui, accanto alle grandi banche di

interesse nazionale, trovano un ampio ruolo le Casse di risparmio e

le banche popolari di credito cooperativo, su base locale . La politica

del bilancio è improntata a notevole rigore. Dopo un primo anno con

deficit ancora al 7% del PIL, il disavanzo del bilancio statale

inclusivo delle partire finanziarie di movimento dei capitali scende al

di sotto del 3% , tenendosi a poco più del 2%. Sale solo una volta a

poco più del 3% del PIL nell’esercizio finanziario 1951-1952.

TAVOLA 13

BILANCI STATALI DAL 1948-49 AL 1952-53

Parte effettiva Movimento capitali Deficit Deficit PIL Deficit/PIL Spese Entrate Spese Entrate globale effettivo saldo globale saldo effettivo 1948-491.634 1.140 101 44 552 494 7.364 7,4 6,7 1949-50 1.716 1.418 230 341 185 298 8.047 2.2 3,7 1950-51 1.893 1.720 319 271 220 173 9.595 2,3 1,8 1951-52 2.129 1.737 305 335 360 392 11.155 3,2 3,5 1952-53 2.310 1.804 119 304 321 506 12.190 2,6 4,15 Fonte ISTAT Sommario di statistiche storiche dell’Italia-1861-1965, Roma 1968 pag. 139,Tav.107

In realtà la manovra di finanza pubblica , considerando entrate e

spese effettive e quindi deficit effettivo del bilancio, fu più articolata.

Le entrate statali effettive aumentarono del 58% in cinque anni. Le

spese statali si accrebbero del 41%. La loro crescita, dunque, anche

tenuto conto dell’inflazione fu notevole . Ma la loro dinamica era

inferiore a quella del PIL. Ed in effetti esse passarono dal 22% del

PIL al 21% nel quinquennio, grazie alla prudenza di Pella . Per le

entrate effettive la dinamica fu invece pari a quella del PIL . Infatti

rimasero sul modestissimo 15% del PIL : ma la sperequazione

esistente, in un sistema tributario bisognoso di modernizzazione ,

caratterizzato da ampia e irregolare evasione e non adatto , nel settore

della tassazione indiretta, a favorire la crescita economica, faceva

sentire , ai contribuenti meno fortunati, un peso della tassazione più

oneroso di quanto potesse apparire dalle grandi medie. Dal 1948-

1949 al 1949-50 la riduzione del deficit effettivo fu meno accentuata

di quel appare considerando il bilancio inclusivo delle partite

finanziarie. Il disavanzo effettivo nel 1948-49 è sotto il 7% e nel

1949-50 è ancora al 3,7%. Nel successivo esercizio, soprattutto

grazie allo sforzo tributario, si ha una politica fiscale restrittiva, in

connessione con la grande ondata espansionista suscitata dalla guerra

in Corea. L’anno seguente il deficit di parte effettiva sale oltre il 3%

e in quello successivo, oltre il 4%, perché si registra una certa

difficoltà di espansione nelle entrate e, comunque, si approssimano le

elezioni , che consigliano di non premere troppo con la macchina

fiscale. Vanoni , autore di una importante riforma tributaria, basata

sulla dichiarazione dei redditi delle persone fisiche, trovava oramai

difficoltà a proseguire nella sua opera , che gli dava impopolarità fra i

contribuenti , molti dei quali votavano per la DC. Il problema

dell’inflazione, nonostante il successo della politica attuata da

Einaudi rimaneva ancora vivo , in quanto la rapida crescita

economica non poteva non comportare tensioni sul lato della

domanda. Nei prezzi all’ingrosso il tasso annuo di inflazione , con

1947 =100, risulta ancora un po’ superiore al 5% nel 1948 . Nel

successivo biennio si ha una loro riduzione netta di oltre 10 punti i

due anni, resa possibile dagli effetti calmieratori delle importazioni e

dallo sviluppo della produttività, dovuto alla nuova produzione di

massa . Ciò fu favorito da una azione monetaria restrittiva e una

politica fiscale prudente , che permise di sconfiggere la precedente

spirale inflazionista. Ma nel 1951 per effetto dell’aumento dei prezzi

internazionali e del boom economico la spirale inflazionistica

riespose, di qui la reazione nei due anni successivi , che permise di

tornare al livello dei prezzi ingrosso del 1948 . Per i prezzi al

consumo, vi dopo un biennio di prezzi abbastanza sostenuti, vi è una

inversione nel 1950, in conseguenza della tendenza a monte nei

prezzi ingrosso e in parte a una maggior concorrenza nel sistema

distributivo , dovuto alla modernizzazione e allo sviluppo dei

consumi di massa . Ma nel 1948, nel 1951 e nel 1952 anche al

consumo vi sono forti pressioni inflazionistiche. Il rigore nella

politica monetaria e di di bilancio, che appariva eccessiva ai critici di

allora, sia nelle sinistre all’opposizione , sia negli ambienti sindacali

e in certi ceti medi - e che comportò, per Vanoni, Ministro delle

Finanze una notevole impopolarità- alla luce dei dati reali non lo è di

certo. Tenuto conto del rapporto deficit PIL si può dire che mai la

politica fiscale fu restrittiva , in questo periodo.

TAVOLA 14 INDICE DEI PREZZI DAL 1948 AL 1953 ANNI Prezzi Prezzi al Tasso di inflazione annuo ingrosso minuto Ingrosso Al minuto Indice Fondo Monetario 1947 51,59 45,75 100 100 1948 54,43 48,44 5,5 5,80 1949 51,69 49,15 - 5,20 1,50 1950 48,97 48,49 -5,27 -1,45 1951 55,81 53,20 14,13 8,7 100 1952 52,70 55,46 -5,04 4,24 1,85 1953 52,50 56,54 -0,04 1,9 1,41 Fonte Istat per i prezzi ingrosso e al minuto

D’altra parte , va notato che la riduzione del livello dei prezzi

ingrosso del biennio 1949-1950 non si accompagnò a una deflazione

dell’economia reale , al contrario fu affiancata da un robusto tasso di

crescita del PIL del 18% complessivo nel biennio, con riguardo ai

dati al consumo e del 16,5% con riguardo ai dati del PIL

deflazionato con i prezzi delle sue componenti. Nel 1951 la crescita,

per effetto della congiuntura internazionale favorevole, come si è

visto, esplose (e se per la stima con i prezzi al consumo il dato è

distorto da politiche di calmiere , per la stima con i prezzi impliciti

del PIL questo non si può affermare ) mentre vi era una nuova

pressione inflazionistica . Nel 1952, mentre vi era una nuova

riduzione dei prezzi all’ingrosso, il Pil saliva ancora del 3,74% con i

prezzi al consumo e del 5,7% con il calcolo a prezzi impliciti del PIL

: il che fa capire che la manovra di lotta all’inflazione poteva

denominarsi deflazione in termini monetari ma non certo in termini

reali. E nel 1953 in cui la manovra di contenimento dei prezzi ,

dovuta alla politica monetaria , fu controbilancia da una politica di

bilancio espansiva , il PIL crebbe ancora del 7% abbondante nel

calcolo con i prezzi impliciti e dell’8,5% con riguardo al calcolo

basato sui prezzi al consumo. La manovra dal 1948 al 1953, nel

periodo del centrismo degasperiano, che ricevette allora molte

critiche da sinistra, per l’eccessiva prudenza della politica economica

(e anche alcune critiche della missione ERP americana, sotto

l’influenza dagli intellettuali della sinistra italiana) in realtà

consentì al Pil italiano di crescere del 54% nel quinquennio

passando da circa 200 mila miliardi di lire del 2001 nel 1948 a circa

312 mila miliardi nel 1953. Il tasso medio di crescita annuo in

termini reali fu attorno all’8,70% sia con riguardo al prodotto

deflazionato con i prezzi al consumo che con quello deflazionato con

le variazioni dei prezzi impliciti che vi si riferivano . Pro capite il

Pil passò da 4,3 milioni di lire 2001 nel 1948 a 6,5 milioni nel

1962 con un aumento del 50%, pari allo 8,5% annuo. Queste cifre

sono più eloquenti di qualsiasi analisi , circa il successo della linea

del tandem Pella-Vanoni: che per altro non ebbe allora e nella

storiografia successiva il giudizio entusiastico, che si sarebbe

meritata. Non si può dire che quella impetuosa crescita dipendesse

dalla relativa facilità con cui si può effettuare la ricostruzione dopo

una massiccia distruzione, mediante il lavoro, il risparmio e le

conoscenze già accumulate nel passato. Nel 1948-49 la ricostruzione

era già terminata. Quello successivo, dell’epoca “centrista” fu un

brillante “decollo” nella moderna società industriale, causato da una

politica economica favorevole allo sviluppo , basata sul mercato

libero, un sistema fiscale serio, una politica di bilancio attenta , una

crescente liberalizzazione del mercato internazionale, le imprese

pubbliche nei settori guida del neocapitalismo, l’inizio di iniziative

per il sostegno del Mezzogiorno, l’entrata della Comunità Europea

del Carbone e dell’acciaio, preludio del MEC (il Mercato Comune

Europeo, la futura Unione Europea). Certo, vi furono anche fattori

internazionali favorevoli, come quello ricordato della l guerra in

Corea del 1951 che , con il riarmo degli USA , generò un ampio

stimolo della domanda globale mondiale e consentì alla Germania ,

provata dalla sconfitta e della distruzioni, di ritornare sui mercati

mondiale, dando vita al suo “miracolo economico”. E l’Italia poté

avvalersi, nella sua crescita vertiginosa, del pool di tecnologie

disponibile nei paesi più avanzati, da cui realizzò, in tempi brevi, un

apprendimento sia tecnico che organizzativo. Questo però fu reso

possibile dal fatto che la scuola italiana (oggetto allora come ora di

critiche ingiustificate) aveva dato luogo a una schiera di persone

preparate , capaci di rapido apprendimento delle innovazioni e di

creatività . Emersero, nelle imprese private, nuove grandi energie

manageriali, in alcuni casi sulla base di strutture capitalistiche

collaudate, come per Fiat, Pirelli, Olivetti, Edison, Montecatini e nel

settore tessile . In altri casi con la crescita di nuove medie e grandi

imprese sorte da piccole imprese , in altri casi ancora con il fiorire di

piccole imprese . Un apporto importante fu anche quello delle grandi

imprese pubbliche del gruppo IRI e della neonata ENI, che

svilupparono importanti energie tecnologiche e manageriali,

smentendo la tesi che solo le imprese private sono in grado di

svilupparsi con efficienza in un mercato libero e competitivo.

SCHEDA 2

LA CASSA PER IL MEZZOGIORNO

Guido Pescosolido nel rivedere in chiave critica sia l'entità e la

natura del dislivello Nord-Sud al momento dell'unificazione

nazionale ha sostenuto, in modo convincente, che esso non era così

accentuato come la letteratura economica vorrebbe far credere . Ma

fu notevole, secondo Pescosolido, il condizionamento che lo sviluppo

del Nord inflisse nei confronti del Sud. Il divario fra le due aree , egli

sostiene, aumentò a causa delle politiche intraprese dopo

l'Unificazione . Mancò , soprattutto, quella modifica degli assetti

agrari, che, attraverso l'istituzione di una proprietà contadina su base

familiare, avrebbe «eliminato il divario economico e sociale tra le

due Italie e risolto il problema del Mezzogirno». In effetti, nello

sviluppo industriale del Nord , nell’ultima parte dell’ottocento

all’inizio e durante il Novecento, è stata molto importante, come si è

visto, la base di piccola proprietà agricola. E ciò giocò un grande

ruolo anche nel “miracolo economico” del secondo dopoguerra:

molte delle piccole imprese che divennero medie e grandi imprese ,

ebbero le loro origini nell’ambiente economico sociale di aree di

piccola proprietà contadina, come la provincia di Cuneo, per i

Ferrero , la provincia di Pordenone per Zanussi

La Cassa del Mezzogiorno, creata nell’agosto del 1950, preceduta da

una legge di riforma agraria per la Calabria, non nacque, come certa

vulgata fa supporre, da idee di assistenzialismo (e annesso

clientelismo) democristiano anche se questi episodi, poi, vi furono.

La Sua idea e la sua legge emersero da un fervido ambiente

intellettuale costituito dalla Svimez, una Associazione per gli studi e

per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno creata nel 1947

dal Ministro dell’Industria del II e III Governo de Gasperi Rodolfo

Moranti, che divenne dal 1948 un cenacolo intellettuale di

economisti meridionalisti, di varie estrazioni dall’economista

industriale democristiano Pasquale Saraceno ( con il sostegno del

Ministro elle Finanze Ezio Vanoni, suo cognato ,) , all’economista

agrario socialista Manlio Rosssi Doria , ad Ugo La Malfa . Molto

giovò alla nascita della Cassa, anche la collaborazione

dell'International Bank of Reconstruction and Development , meglio

conosciuta come la Banca Mondiale . La Svimez convinse la Banca a

non limitare l'intervento finanziario alle opere infrastrutturali e ad

effettuare finanziamenti anche per lo sviluppo di specifici

programmi di industrializzazione. Nel decennio dalla sua istituzione

, la Cassa del Mezzogiorno erogò metà ei suoi fondi al settore

agricolo, il 28% alle opere pubbliche ed altre infrastrutture, il 22%

all’industria e (per quote minime) all’artigianato e al turismo .

L'apporto di valuta estera connesso al programma della Cassa,

erogato dalla Banca Mondiale fu sicuramente decisivo per

affrontare i costi dell'ammodernamento infrastrutturale e industriale

dell'Italia. Il progetto era condizionato, però, da una certa

frammentarietà che è stato fatto risalire, dalla letteratura economica

e politica successiva , alla cosiddetta «la cultura della

straordinarietà» , come se un programma straordinario dovesse essere

necessariamente frammentario e non strutturale. In realtà furono le

pressioni politiche locali e quelle di abili gruppi di pressione del

Nord che ostacolarono la organicità dei programmi. E, inoltre la

inadeguatezza delle leggi sui lavori pubblici generò lungaggini e

sprechi nella erogazione dei fondi. Il maggiore errore fu quello di

non coordinare l’intervento ordinario con quello straordinario ,

mediante una programmazione generale. Ma ciò non dipese da una

scelta deliberata. Come vedremo, lo strumento per realizzare tale

coordinamento avrebbe dovuto essere il Piano Vanoni, cui mancò,

per altro l’incisività politica, a causa della morte prematura dello

statista che lo aveva creato Il grosso di fondi iniziali della Cassa del

Mezzogiorno fu devoluto alle opere di bonifica , l’altra quota

maggiore fu devoluta alla creazione di infrastrutture:acquedotti,

fognature, strade, ferrovie. L’intuizione era giusta. La bonifica

avrebbe dato impulso all’agricoltura , si sarebbe potuto sviluppare

un nuovo tessuto di borghesia e picco,a borghesia rurale. Ma era

indispensabile dotare il Mezzogiorno di infrastrutture per farlo uscire

dall’isolamento e dall’inferiorità per quanto riguarda le condizioni di

base delle moderne attività produttive di beni e servizi.

Gli effetti sull'agricoltura del Mezzogiorno della realizzazione di

grandi infrastrutture del territorio meridionale, della riforma agraria,

delle bonifiche e delle opere di irrigazione furono positivi , come si è

potuto vedere dallo intenso ritmo di sviluppo dell'agricoltura

meridionale negli anni sessanta. La vastità del capitale fisso

impiantato dalla Cassa ha anche elevato il tono civile e la cultura di

grandi masse popolari. Grazie alla realizzazione del nesso bonifica-

irrigazione-riforma, con un sapiente intreccio di esproprio in aree

ristrette, più ampia attivazione del mercato fondiario, trasformazione

agraria, riassetto territoriale e infrastrutturazione, nel trentennio

1950-80 il tasso di crescita dell'agricoltura meridionale assunse

incrementi mai registrati, a una velocità anche maggiore di quella

nazionale. Il nodo irrisolto rimane però ancor oggi quello dello

sviluppo di un sistema agro-industriale autoctono. Meno

soddisfacenti furono le modalità di gestione e allocazione dei

finanziamenti statali all'industria meridionale e in particolare il ruolo

dell'Isveimer , ente preposto all'esercizio del credito a medio termine

a favore delle piccole e medie imprese che operano esclusivamente

nel settore industriale e nelle aree depresse del Mezzogiorno. Mentre

la gestione degli incentivi si affermava sempre più a favore della

grande impresa, nella pratica aumentano le interferenze di natura

politica e clientelare nell'erogazione dei finanziamenti. Ciò finì col

pesare negativamente sul bilancio dei primi dieci anni di intervento

dell'Istituto.. L’industria chimica, assieme alla siderurgia e

all’automobile, fu il settore che più di ogni altro beneficiò

dell'intervento straordinario della Cassa attraverso l'erogazione di

credito agevolato. Sfortunatamente , però, si finanziarono capacità in

eccesso fra di loro e soprattutto la chimica di base e negli anni 70 in

questo settore ebbe luogo una aspra contesa di ristrutturazione , fra

grandi gruppi: ENI e Montedison in particolare La “guerra chimica”

sacrificò le imprese migliori, che erano quelle nuove del

Mezzogiorno , che appartenevano rispettivamente alla Sir alla

Liquichimica, che avevano una minor forza politica e minore

appoggio finanziario da parte dei grandi istituti di credito. La

localizzazione meridionale degli impianti di produzioni primarie, si

rivelò errata anche a causa della distanza tra centri di produzione e

centri utilizzatori , per altro aggravata dal fatto che i finanziamenti

non presero in considerazione i cicli a valle. Gli investimenti della

Fiat nel Mezzogiorno , invece, hanno avuto successo, sin che questa

impresa è riuscita a produrre 2 milioni –1,5 milioni di autovetture

all’anno, ma averli frazionati in quattro località: Cassino, Napoli,

Melfi, Termini Imprese ha generato in seguito notevoli difficoltà, ai

fini della ristrutturazione del gruppo. Nella siderurgia invece la

politica di investimento della Cassa del mezzogiorno ha avuto pieno

successo con il Centro siderurgico di Taranto, il maggiore e più

efficiente in Italia, attualmente gestito con notevole competitività da

una impresa privata del Nord di Italia . Nel complesso, la politica di

promozione e di finanziamento dello sviluppo economico attuata con

la Cassa del Mezzogiorno ha avuto un notevole successo nel settore

agricolo, mentre ha avuto esiti limitati negativi nel settore

industriale..

Il saggio di G: Pescosolido qui citato si trova in Leandra D'Antone (a

cura di), Radici storiche ed esperienza dell'intervento straordinario

nel Mezzogiorno, Roma Bibliopolis, 1996, 699 pp.

I MUTAMENTI NELLA STRUTTURA ECONOMICO SOCIALE NEL PERIODO

CENTRISTA

Si può notare, che nel 1951, nella fase iniziale del miracolo

economico, vi era già stato un grande cambiamento nella

composizione del prodotto lordo, rispetto all’anteguerra. La quota

dell’industria manifatturiera era aumentata di un 28 % circa, quella

dei trasporti si era accresciuta del 44% , quella del commercio era

aumentata del 30% , mentre quella dell’agricoltura era scesa del

12% ma rimaneva ancora elevata, perché il processo di

modernizzazione agricola non era ancora decollato e le campagne

erano ancora una riserva di lavoro sotto occupato, che negli anni

successivi si sarebbe riversato nelle aree urbane, alimentando

processi di industrializzazione e di terziario moderno. La quota della

pubblica amministrazione era scesa del 18% sia per una modesta

riduzione di personale, rispetto allo stato fascista, sia soprattutto per

il deprezzamento delle retribuzioni del pubblico impiego .

TAVOLA 15

I VALORE ASSOLUTO COMPOSIZIONE PERCENTUALE PER SETTORI DEL PRODOTTO LORDO ITALIANO NEL 1939 E NEL 1951 In miliardi di lire 1938

Industrie Servizi Agricol Industrie Manifat Costru Elettri Traspor Com Credito Servizi Fabbri P.A. Totale

1939 tura estrattive turiere zioni cità ti mercio vari cati

valori 42 1,2 40,8 3,4 4,8 12 16,3 4,1 6,8 11,4 18,6 162 assoluti Percen 25,9 0,7 25,18 2,0 2,9 7 9,.8 2,5 4,2 7,0 11,34 100 tuali 1951 valori 42,4 1,6 52,4 3,9 6,8 17,3 20,2 4,8 7,1 11,9 17,6 186 assoluti percen 22,8 0,8 28,17 2,1 3,6 9,3 10,8 2,6 3,8 6,3 9,4 100 tuali FONTE P. ERCOLANI (1969) Documentazione statistica di base, in G. FUA’ Lo sviluppo economico in Italia, vol. III

I consumi andavano evolvendo e con loro mutava la produzione agricola. .. TAVOLA 16

Produzione di alcuni beni alimentari pregiati

(milioni di tonnellate)

Legumi freschi

Agrumi Frutta fresca

Uva da vino

Olio d'oliva

Carne bovina e suina

1918 0,13 0,80 0,95 6,57 0,26 0,51 1923 0,11 0,72 1,18 9,35 0,25 0,52 1928 0,11 0,77 1,36 8,45 0,30 0,62 1933 0,17 0,79 1,39 5,77 0,17 0,58 1938 0,22 0,74 1,07 6,64 0,18 0,62 1943 0,19 0,61 1,32 6,36 0,13 0,39 1948 0,31 0,67 1,48 6,57 0,11 0,46 1953 0,35 0,89 2,36 8,32 0,35 0,59 1958 0,47 1,13 3,26 10,05 0,26 0,60 R. PETRI , (2002) Storia Economica di Italia, Bologna Mulino Fonte: G.M. Rey (a cura di), I conti economici dell'Italia, Roma-Bari, Laterza, 1991, vol. I.

La produzione agricola si evolve, nel periodo del miracolo

economico, sia a causa della cessazione della politica autarchica,che

a causa dell’aumento del tenore di vita , che genera, nella gran massa

della popolazione, una nuova domanda di beni di consumo

alimentari, al di là di quelli tradizionali, di sussistenza. Nel 1953 la

produzione di legumi freschi è aumentata del 170 % rispetto al

periodo prebellico. La produzione di frutta fresca è aumentata del

140% , quella di uva da vino è aumentata del 25% , quella di olio di

oliva del 34% , quella di carne bovina del 15% . Una parte delle

aumentate produzioni di ortofrutticoli è esportata in Europa , ove i

commerci sono in misura crescente liberalizzati, una parte è destinata

ad arricchire le mense degli italiani. Le produzioni di carne bovina

aumenta di poco rispetto ai livelli del periodo autarchico, perché

all’aumento del consumo di carne si fa fronte con l’importazione

dall’Europa

LA CRISI DEL CENTRISMO DE GASPERIANO E IL CENTRO CON EVOLUZIONE VERSO IL CENTRO

SINISTRA Nella seconda legislatura , con le elezioni del 7-8 giugno 1953 la DC

non ottiene più la maggioranza assoluta . Si era in clima di guerra

fredda fra blocco occidentale e blocco sovietico. De Gasperi

aspirava a stabilizzare l’alleanza centrista sulla base di una nuova

legge elettorale con premio di maggioranza per la coalizione

vincente. Tale legge , varata poco prima della fine della legislatura,

dopo furibonde reazioni della sinistra, che la aveva subito battezzata

“legge truffa” , stabiliva che se un gruppo di partiti collegati avesse

conseguito almeno il 50,01% dei voti validi avrebbe avuto diritto al

65,3% dei seggi. DC , PSDI, PRI, PLI e Partito popolare Sud

tirolese si presentarono alleati, ma non ottennero la maggioranza dei

voti, per uno scarto dello 0,2% pari a 57 mila voti , quasi certamente

da attribuirsi a manipolazioni , dovute al numero anomalo di schede

nulle, salito al 3,1%. Per altro, senza le probabili manipolazioni il

blocco centrista avrebbero comunque vinto con uno scarto minimo

di voti e la applicazione della cosiddetta legge truffa, nel clima di

“guerra fredda” avrebbe potuto risultare molto difficile, date le

violente reazioni che essa aveva suscitato. Gli oppositori sostenevano

che la legge che dava quell’enorme premio di maggioranza, a chi

avesse avuto , in effetti la maggioranza, sia pure piccola, era una

legge truffa. Il termine non era stato inventato da loro, ma in un

discorso alla Camera dal giurista socialdemocratico ed ex azionista

Piero Calamandrei, a nome di sette membri del gruppo parlamentare

del PSDI . In realtà non era una truffa, perché non trasformava una

minoranza, in maggioranza, ma accresceva i seggi della

maggioranza per assicurarne la governabilità e dava un premio ai

partiti che si uniscono, per incentivare il bipolarismo. Il vero difetto

della legge, che provocò le dimissioni dal PRI di Ferruccio Parri,

l’espulsione dal PSDI di Tristano Codignola, per la sua troppo aspra

opposizione alla legge , seguita dalle dimissioni di solidarietà degli

onorevoli Calamandrei, Vittorelli, Zanardi, Greppi, Cossu, Libertini

e altri , stava nel fatto che scattando il 65% dei seggi, si aveva , per

ogni partito, un incremento del 30% dei suoi seggi. Ed è chiaro che

se la DC avesse avuto almeno il 38%% dei voti, (e in effetti ne il

40% ) avrebbe potuto usufruire della maggioranza assoluta. Ma gli

elettori non erano tanto scossi da questa circostanza, quanto dal fatto

emotivo della “truffa elettorale “ E il cartello composto da DC e dai

partiti laici franò soprattutto perché i socialdemocratici scesero, alla

camera, dal 7% al 4,5% dei voti con una perdita di un terzo

abbondante , mentre i repubblicani scesero dal 2,5% allo 1,6% con

una perdita attorno al 36%. Tennero, invece, i liberali al 3%,

probabilmente perché già in precedenza decimati dall’alleanza con

l’Uomo qualunque: e la alleanza con la DC dava , comunque, meno

fastidio all’elettorato di quell’altra. In realtà pochi elettori liberali

erano preoccupati della egemonia DC, perché avevano visto nel

rapporto fra Pella ed Einaudi la garanzia che vi sarebbe stato

piuttosto un rapporto di prevalenza intellettuale dei liberali. Il calcolo

politico di De Gasperi ,accettato idealisticamente da Saragat per i

socialdemocratici e da La Malfa per i repubblicani, era stato

sbagliato. I fattori che avevano indotto in errore un sottile politico

come de Gasperi erano parecchi. Innanzitutto, non aveva considerato

il culto del regime elettorale proporzionale sia da parte delle sinistre

che dei cattolici che vi avevano visto la propria affermazione politica

negli anni del primo dopoguerra. Inoltre non aveva considerato la

riluttanza da parte di autorevoli leader dei partiti laici minori ad

accettare una alleanza precostituita con la DC sulla base di una legge

ad hoc . Ciò diede vita a una lista autonoma di indirizzo liberale

guidata da Epicarmo Corbino che prese il nome di Alleanza

Democratica Nazionale , che raccolse alla Camera circa 55 mila voti

(ma nessun seggio). Una cifra praticamente eguale a quella per cui

non era scattata la legge maggioritaria. I voti a Corbino giunsero

probabilmente da elettori repubblicani, e in effetti il Pri, apparentato

con la DC , come si è detto, aveva ottenuto solo lo 1,6% dei voti

contro il 2,5% delle precedenti elezioni .Soprattutto però

l’operazione di apparentamento fallì perché la sinistra del partito

socialdemocratico non ritenne accettabile l’apparentamento con la

DC, in quanto aspirava ad ampliare l’area dei socialisti autonomi

dal PC e sapeva che l’autonomia dei socialisti era la condizione per

far riemergere il riformismo dei socialisti . Fu così presentato alle

elezioni il raggruppamento di Unità Popolare , in cui erano confluiti

anche il repubblicano Parri e l’ ex azionista Piero Calamandrei , che

era essenzialmente costituito dal nutrito gruppo di socialisti del

MAS (Movimento di autonomia socialista) che annoverava figure del

riformismo come Garosci, Faravelli, Mondolfo, Caleffi, Vittorelli,

Greppi, Pieraccini. Esso pur non ottenendo alcun seggio, arrivò a

171 mila voti, pari allo 0,6% dei voti. Non era un grande successo:

ma la rinuncia al nome “socialismo” penalizzava questo movimento.

In effetti una parte dei voti socialisti democratici affluì l’Unione

Socialista Indipendente formata da un esiguo gruppo di transfughi del

partito comunista di indirizzo socialdemocratico come gli onorevoli

Cucchi e Valdo Magnani e da socialisti come Giuliano Vassalli che

raccolse 225 mila voti pari allo 0,8%, nessun seggio. Il Frazionismo

non ha mai premiato i socialisti. Come il MAS aveva previsto, il

fatto che questa volta i socialisti del PSI si presentassero separati dal

PCI , ne accresceva l’attrattiva da parte dell’elettorato che aveva a

cuore l’autonomia socialista. E il PSI , che si era ridotto, nelle

precedenti elezioni, a soli 40 seggi ne ottenne 75, pari al 12,7% :non

era molto. Ma la reazione rispetto alla precedente tendenza era netta.

E segnalava anche che la via dell’autonomia dai comunisti poteva

ripagare. In effetti l’assieme dei socialisti sparsi in varie liste,

nonostante l’effetto negativo del frazionismo, arrivava al 18,6%. I

comunisti potevano cantare vittoria perché avevano sconfitto la

“legge truffa”, ma erano rimasti al 22% alla Camera e al 20% al

senato. Si affermavano invece i monarchici che ottenevano il 6,9%

dei voti e il Movimento sociale Italiano che otteneva un 5,8% . Come

il MAS aveva previsto, dal momento che i socialisti si presentavano

per conto proprio ,non essendovi più il pericolo della presa del potere

da parte di un fronte popolare guidato dai comunisti, glie elettori di

destra davano il proprio voto ai partiti che ne rappresentavano

l’ideologia e gli interessi, convinti che, in questo modo, avrebbero

potuto contare di più , sulla scena politica.

TAVOLA 17 e 18

II LEGISLATURA 1953-58 E III LEGISLATURA 1958-62

La vistosa caduta della DC dal 48,5% dei voti al 40%, si spiegava

agevolmente , sulla base di tali considerazioni. Il calo non dipendeva

certo da una scomodità della alleanza con i laici, che , come si è

detto, le avrebbe potuto dare un notevole beneficio in termini di

potere parlamentare. Né dipendeva da dubbi morali sulla legge truffa,

dato che il premio elettorale si configurava , agli occhi del suo

elettorato, come un compenso per la governabilità, così bene assolta

nel quinquennio precedente. Il calo dipendeva dal fatto che la sua

funzione di “diga” contro l’ondata rossa non appariva più necessaria.

E’ agevole capire che quello 8% in meno dei voti ottenuti dalla DC

erano, in parte notevole rifluiti su monarchici e Movimento sociale

che, assieme, avevano guadagnato per l’appunto circa l’8% dei voti

rispetto alle precedenti elezioni.

Nonostante la riduzione dei voti al 40%, la DC , alla Camera,

grazie alla dispersione dei voti, dovuta alla proliferazione di liste

minori , riusciva ad assicurarsi comunque il 44,4% dei seggi. Ciò

compensava la perdita di seggi rispetto ai voti, subita dai partiti

alleati, a causa del loro frazionamento e consentiva al quadripartito di

disporre alla Camera del 51% dei voti che diventava il 51,5% con

l’aggiunta del Volkspartei sud tirolese. Poiché la DC aveva il 44,4%

dei seggi, aggiungendovi il 3,27% del pur decimato Partito

Socialdemocratico si arrivava al 47, 7% . I liberali apportavano un

altro 2,7% e si riusciva così a totalizzare il 50,04 e il Partito

Popolare Sud tirolese un ulteriore 0,51% . I repubblicani

aggiungevano un altro 0,8% ma non erano più indispensabili. Invece

ora socialdemocratici e liberali singolarmente presi, diventavano

determinanti per la sorte della coalizione. E ciò riduceva la

governabilità del paese. D’altra parte era possibile una coalizione di

centro destra , con i monarchici, in quanto essa, senza i liberali,

aveva una maggioranza analoga a quella del quadripartito mentre

con questi poteva disporre di una base parlamentare più robusta. Se

vi si fossero aggiunti i liberali, questa coalizione avrebbe potuto

avere una maggioranza del 53, 7%. : con una opposizione in cui le

sinistre, in totale , contavano solo il 37% , mentre a destra il

Movimento sociale aveva un 5% , che poteva appoggiare dall'esterno,

con la semplice astensione, un governo di destra, assicurandogli una

situazione di assoluta tranquillità . Pur avendo sventato la “legge

truffa”, il PCI aveva , ora, una difficilissima posizione politica,

poiché i socialisti si era staccati dal blocco con loro e tendevano , con

la guida di Nenni e della stessa sinistra di Lombardi, a posizioni

riformiste. Nella DC non tutto il partito era disponibile per una

alleanza di destra, una importante componente era collegata alla

CISL , la Confederazione italiana sindacati liberi , sorta nel 1950 ,

prevalentemente cattolica ( nel 1950 era sorta anche la UIL, Unione

Italiana del lavoro, collegata ai socialdemocratici e ai repubblicani) .

Un’altra ala di sinistra della DC era collegata al gruppo ENI, guidato

da Enrico Mattei, sorto nel 1953. La DC pertanto , dopo primi

tentativi di coalizioni a destra, optò per la coalizione di centro. Essa

non aveva una larga maggioranza, ma le opposizioni erano frazionate

, in due ali distinte , sul lato destro e su quello sinistro e alla sinistra

non vi era più un blocco omogeneo contrario alla coalizione centrista.

Cominciava ad emergere l’idea che si potesse sviluppare una nuova

coalizione di centro-sinistra.

TAVOLA 19

II LEGISLATURA 1953-58

COMPOSIZIONE DEL SENATO

% VOTI SEGGI % SEGGI ELETTIVI

Democrazia Cristiana 39,9 113 47,7

Partito Comunista Italiano 20,5 54 23,0

Partito Socialista Italiano 12,2 28 12,0

Partito Nazionale Monarchico 7,1 16 6,8

Movimento Sociale Italiano 6,1 9 3,8

Partito Socialista Democratico 4,3 4 1,7

Partito Liberale Italiano 2,9 3 1,3

Partito Repubblicano Italiano 1,2 - -

Partito Popolare Sudtirolese 0,4 2 0,8

Liste miste DC-PRI 0,8 3 1.3

Liste miste PCI-PSI 1,1% 4 1,7

Alleanza democratica nazionale 0,5 1 0,4

Al Senato, la DC aveva avuto praticamente gli stessi voti che alla

Camera, cioè il 39,9% e , a causa della frantumazione delle liste, vi

poté eleggere 113 parlamentari pari al 47,6% a cui si aggiungevano

altri tre eletti il liste miste Democristiani-Repubblicani, portando la

percentuale globale al 49,5. Con i due della democrazia cristiana sud

tirolese la percentuale era del 50,4% . Con i sette senatori

socialdemocratici e liberali la coalizione dei partiti che alla Camera

erano apparentati arrivava al Senato alla maggioranza del 53,4% . Più

che sufficiente per fungere da maggioranza di governo , tanto più che

PCI e PSI e Alleanza Democratica Nazionale totalizzavano solo il

37% , mentre gli altri senatori eletti erano monarchici e del

Movimento Sociale Italiano. Dato il successo dei monarchici era

anche qui possibile una coalizione di centro destra fra DC e

monarchici, con i liberali .

TAVOLA 20

GOVERNI ITALIANI DELLA II LEGISLATURA 7 –6-1953—24-5-1958) MINISTRI FINANZIARI

Tesoro Bilancio Finanze VIII De Gasperi16-7-53--17-8-53 DC Pella Pella Vanoni I Pella (17-8-53—5-1-54) DC-Indipendenti Gava Pella Vanoni I Fanfani (18-1-54—31-1-54) DC Gava Vanoni Zoli I Scelba (10-2-54—22-6-55) DC-PSDI-PLI Gava Vanoni Tremelloni I Segni (6-7-55—6-5-57) DC-PSDI-PLI GavaVanoni Medici Vanoni Zoli Andreotti I Zoli (19-5-57—19-6-58) DC Medici Zoli Andreotti

L’unica cosa certa era che non vi era più il pericolo comunista. E

le alternative, ora erano fra un centro orientato verso la sinistra e un

centro-destra. Con i liberali in posizione decisiva, in quanto

indispensabili per una maggioranza di governo centrista con i

socialdemocratici e i repubblicani , quindi aperta a sinistra , ma

disponibili a favorire un governo di centro destra, se la linea della

coalizione alternativa fosse ststa troppo sbilanciata a sinistra. In

sostanza , la strategia dei comunisti , apparentemente vittoriosa, li

aveva isolati.

La formazione del governo, comunque, spettava, di diritto, a De

Gasperi : che non ottenne l’appoggio dei socialdemocratici e dei

repubblicani , scossi dall’esito elettorale e che commise l’errore di

non fare la scelta, che il quadro politico comportava, fra i due

possibili orientamenti e formò un governo monocolore che non

appagava né la parte della DC orientata a destra, che contava su

massicce forze economiche e sull’appoggio dell’Azione Cattolica; né

quella che propugnava la “apertura a sinistra”, che poteva contare sul

supporto di due sindacati liberi, la CILS , di orientamento

prevalentemente cattolico e la UIL di orientamento prevalentemente

socialdemocratico e repubblicano. Anche il neonato ENI , guidato da

Enrico Mattei spingeva verso un orientamento di centro sinistra , per

il proprio naturale ruolo nell’economia e a causa del supporto della

corrente della DC di base. Il governo di De Gasperi, come i

precedenti, realizzava il bilanciamento delle due anime della DC ,

mediante la diarchia, nella politica economica, di Pella, al Tesoro e al

Bilancio e Vanoni alle Finanze. De Gasperi sperava di poter ottenere

almeno il voto dei socialdemocratici e dei repubblicani e qualche

benevolenza dei socialisti , tramite il fatto che , nelle consultazioni,

per la formazione del governo, chiamò anche Nenni e Togliatti. Ma

ciò ebbe il risultato opposto : poiché dava la sensazione di un appello

all’unità nazionale, mentre la linea da loro auspicata era quella

dell’apertura a sinistra.

Alcide De Gasperi, il prestigioso premier del miracolo economico,

così, dopo un solo mese dovette gettare la spugna. E dovette

prendere atto che il suo progetto politico centrista era finito . Entrava

in campo Giuseppe Pella che, interpretando i voti del paese, pensava

di poter formare un governo di centro destra, data la grande

affermazione dei partiti della destra. Per altro , vi era il problema

della omologazione dei monarchici alla partecipazione a un governo

di una giovane repubblica . E naturalmente appariva impossibile

fondare il governo sul MSI , poiché la DC si dichiarava

rigorosamente antifascista . E fra gli errori di De Gasperi , fermo alla

sua esperienza postbellica, vi era stato quello di avere privilegiato,

anche da ultimo, i partiti del cosiddetto “arco costituzionale”. Il

governo Pella pertanto non poteva includere organicamente le forze

politiche di destra, ma si avvaleva , per questo scopo, di personalità

indipendenti, ad essere presumibilmente gradite. Intanto continuava

la presenza di Vanoni alle Finanze, che doveva lanciare un

messaggio alle sinistre. Comunque, nonostante l’opposizione dei

socialdemocratici e dei repubblicani, e l’assenza dei liberali dal

governo, Pella con i voti dei monarchici poteva contare sulla

maggioranza. Nonostante la sua abilità , il suo governo però non

durò oltre il gennaio 1954. L’occasione per la sua caduta, fu la sua

linea politica, accesamente nazionalistica sulla questione di Trieste.

In realtà nella DC stava avendo il sopravvento la maggioranza

favorevole all’apertura a sinistra. Gli succedette un governo

monocolore presieduto dal leader della sinistra cattolica moderata

Amintore Fanfani. Questo, per altro non poté durare più del breve

periodo di un mese perché non era riuscito a convincere i

socialdemocratici, i liberali e i repubblicani a darvi il loro appoggio.

Ed infatti, Vanoni era stato tolto dal Ministero delle Finanze e

mandato al bilancio , ma in questa posizione non avrebbe potuto

svolgere agevolmente il compito di coordinamento della politica

economica proprio di tale Ministero , in quanto il Tesoro era stato

affidato a Silvio Gava , leader emergente della destra democristiana

fautore di una interpretazione rigorista della linea Pella , mentre alle

Finanze vi era Adone Zoli un notabile di spicco, che difficilmente

avrebbe accettato di essere coordinato da Vanoni, data la sua

caratura politica e il suo carattere. Adone Zoli, presidente del

Consiglio Nazionale democristiano, apparteneva al gruppo dei

popolari storici degli anni ’20 e poi del gruppo dei fedelissimi di De

Gasperi, aveva guidato il movimento contadino toscano nel

dopoguerra , si era battuto per la Repubblica contro la monarchia,

mostrava simpatia per i socialisti di Nenni, ma antipatia per i

socialdemocratici, avendo fatto parte della resistenza toscana, si

faceva vanto anche di un rigoroso antifascismo , se ne ignoravano

totalmente le idee economiche, salvo le posizioni a favore dei piccoli

coltivatori diretti . Forse per il suo integralismo, era considerato con

diffidenza dai socialisti , dai socialdemocratici, dai repubblicani e dai

liberali. All’agricoltura vi era Giuseppe Medici, un economista

agrario di grande levatura, ex liberale, fedele alla tradizione liberista,

la cui impostazione, nella tematica agricola, era antitetica a quella di

Zoli. E all’industria vi era Salvatore Aldisio, esponente della destra

democristiana più conservatrice. Come monocolore di centro

orientato verso la sinistra questo prima governo Fanfani appariva

assai ambiguo. Caduto questo monocolore l’incarico pertanto fu

dato a Mario Scelba che poté formare una coalizione con i

socialdemocratici e i liberali, in cui Saragat era vice presidente del

Consiglio, mentre alle Finanze andava l’economista

socialdemocratico Roberto Tremelloni. Per Vanoni, al Bilancio, ciò

significava la possibilità di un efficace coordinamento della politica

economica, poiché la linea di Tremelloni coincideva con la sua.

Gava, al Tesoro, rimaneva in posizione minoritaria . La garanzia che

Scelba dava, sul lato destro della coalizione, stava nella sua

reputazione di netto anti comunismo e di assoluta fedeltà al Patto

Atlantico, che si era fatta come Ministro degli Interni nei governi De

Gasperi dal 1947 al 1953. Fu in questo periodo che venne lanciato il

piano decennale di sviluppo economico di Ezio Vanoni, che apriva la

nuova linea di programmazione indicativa di lungo termine, gravida

di implicazioni per il mutamento della politica economica, verso una

linea che, pur favorevole al mercato, ammette l’esigenza di

sistematici interventi pubblici di carattere correttivo, ai fini della

crescita del prodotto nazionale e dell’occupazione. Il 26 aprile del

1955 veniva eletto, alla presidenza della Repubblica, il democristiano

di sinistra Giovanni Gronchi. Segno chiaro che un nuovo indirizzo

andava maturando nello schieramento politico centrista. Nel febbraio

del 1956, dopo l’andata al potere di Kruschiov nell’URSS, a seguito

della morte di Stalin , cominciavano a emergere gli orrori dello

stalinismo. Il 24 giugno Pietro Nenni su l’Avanti!” prendeva

posizione contro la dittatura comunista nell’URSS. Il 26 giugno il

governo Scelba entrava in crisi. Il 30 giugno Togliatti ribadiva, nella

Rivista “Nuovi Argomenti”, la sua linea filo stalinista. Oramai era

chiaro che si stava determinando una frattura e una svolta nello

schieramento politico della sinistra e il 6 luglio il governo Scelba

terminava la sua vita. La linea fermamente anticomunista e

favorevole al patto atlantico, di difesa comune con gli USA, che

Scelba sosteneva , gli valse attacchi furibondi dalla stampa e dagli

intellettuali di area comunista e para comunista, che riuscirono a

descriverlo come una figura di cupo questurino , mentre si trattava di

una leader di alto profilo che aveva iniziato un nuovo corso politico

di grande importanza politica ed economica. In realtà, nel governo

Scelba, Tremelloni aveva portato avanti con energia la riforma

tributaria di Ezio Vanoni. Un difficile cammino, che fu interrotto con

la sua caduta e non fu più ripreso, per molti anni. Gli succedeva un

governo, durato circa un anno, di Antonio Segni di indirizzo centrista

“dinamico”, cioè aperti a sinistra, con i socialdemocratici e i liberali ,

che aveva il compito agevolare lo spostamento definitivo dei

socialisti nell’area atlantica e della integrazione economica europea.

Nella troika economica rimanevano Gava e Vanoni, Tremelloni

veniva sostituito da un prudente Andreotti, che faceva aperta mostra

di non desiderare di portare avanti la riforma tributaria. I

socialdemocratici ottenevano Ministeri economici (Lavori Pubblici

per Romita e Lavoro per Vigorelli) altrettanto importanti , ma meno

impopolari delle Finanze , agli esteri rimaneva il liberale Gaetano

Martino . Intanto i rapporti fra socialdemocratici e socialisti subivano

una svolta importante, con l’incontro di Saragat e Nenni, a

Pralognan, in Francia il 25 agosto. In ottobre si verificava

l’insurrezione ungherese . repressa con la violenza e il sangue dai

carri armati russi, che determinava una nuova crisi nella sinistra : il

PCI rimaneva fedele a Mosca, mentre i socialisti pronunciavano una

ferma condanna dell’Unione Sovietica e il patto di Unità di azione fra

i due partiti veniva trasformato in patto di consultazione . Il 22

dicembre 1956 nasceva il Ministero delle Partecipazione Statali,

chiara espressione dell’indirizzo , che andava emergendo, di

intervento pubblico nell’economia di mercato ai fini di sviluppo

economico, nel quadro delle linee di economia sociale di mercato

tracciate dal piano Vanoni. Segni, però, prudentemente assegnava il

nuovo Ministero all’onorevole democristiano Giuseppe Togni,

notoriamente collegato al mondo dell’industria privata, suscitando

vivaci polemiche. In Gennaio si dimetteva il ministro del Tesoro

Gava, per dissensi sulla linea del governo, relativi alla spesa pubblica

e l’interim del Tesoro veniva assunto da Ezio Vanoni . Nel febbraio

Vanoni moriva , subito dopo il discorso al Senato sul bilancio, in cui

aveva difeso la linea di rigore dell’ex collega Gava , ma con una

maggiore flessibilità di questi, in relazione alle esigenze sociali, di

creazione di occupazione e sviluppo. Con la morte di Vanoni, che,

con il suo piano decennale per lo sviluppo e l’occupazione, era il

perno della coalizione politica di centro orientata verso il centro

sinistra, il governo Segni subiva un notevole indebolimento politico.

Al posto di Vanoni, al bilancio veniva nominato Adone Zoli che ,

ufficialmente, ne continuava la politica economica, secondo le

indicazioni del piano decennale vanoniano: ma rimaneva alle

enunciazioni macroeconomiche, senza affrontare i problemi

strutturali che esso sottintendeva. Al Tesoro andava Giuseppe

Medici, che si ispirava, in modo più duttile di Gava, alla linea Pella .

Zoppicante, nella politica economica di medio termine , però il

governo Segni riusciva ancora ad effettuare alcune scelte, che

saranno fondamentali per lo sviluppo economico italiano di lungo

termine. Infatti il 25 marzo del 1957, esso , mediante l’azione del

Ministro degli Esteri, il liberale Gaetano Martino, il governo Segni

realizzava un evento di importanza storica eccezionale: la creazione,

a Roma, del MEC, il Trattato che darà vita alla Comunità Europea,

firmato da Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo.

Dal MEC derivava, per tutti i paesi aderenti, l’obbligo di procedere,

con varie tappe, alla abrogazione completa delle tariffe doganali fra i

paesi membri e ad armonizzarne le imposte indirette :una scelta

coraggiosa , di adesione all’economia di mercato aperta, che genererà

nuove grandiose spinte allo sviluppo economico e sociale italiano,

ma anche nuovi squilibri ed esigenze di correttivi. I socialisti si

astenevano sul tratto del MEC e votavano a favore di quello per

l’Euratom , la comunità europea del settore nucleare, che veniva

simultaneamente costituita. Intanto incombeva la discussione sulla

legge sui patti agrari fra proprietari ed affittuari o mezzadri, in cui vi

era la questione del diritto dei proprietari al recesso , che fu accolto,

con una definizione di compromesso della “giusta causa”. La

soluzione considerata troppo favorevole agli agrari non soddisfaceva

i repubblicani e i socialdemocratici , ma dispiaceva per ragioni

opposte, ai liberali, in cui la destra di Giovanni Malagodi stava

prendendo il sopravvento. In realtà l’elettorato dei socialdemocratici

e dei repubblicani non erano molto interessato al tema dei patti

agrari, ma i due partiti miravano a un governo senza i liberali, con

l’astensione dei socialisti, che continuasse con determinazione ,

anziché con vaghezza, nella linea vanoniana, . Il 6 maggio Saragat

ritirava la fiducia dei socialdemocratici al governo Segni, che

entrava, perciò, in crisi. La soluzione politica (e di politica

economica ) prospettata dai socialdemocratici e dai repubblicani ,

per la quale il presidente della Repubblica Gronchi aveva chiara

simpatia, però veniva considerata inaccettabile dalla DC. L’incarico

veniva perciò dato ad Adone Zoli , che – ufficialmente super partes-

formava un governo di democristiani con l’aggiunta di tecnici,

orientato al centro destra, confidando nell’appoggio dei monarchici.

Giuseppe Pella non aveva la guida della politica economica, ma gli

veniva affidato il Ministero degli Esteri, che, con la firma del Trattato

del MEC, acquistava grande rilevanza, anche per la politica

economica. Il Ministro del Tesoro era affidato a Giuseppe Medici .

Al Ministro del commercio estero veniva nominato il tecnico

liberale Guido Carli . Alle partecipazioni statali andava Giorgio Bo,

un democristiano di sinistra di Genova fautore delle imprese a

partecipazione statale . Zoli , per accattivarsi le destre, nei discorsi

sulla fiducia, al Senato e alla Camera, fu molto aspro con i

socialdemocratici, accusandoli di clientelismo, una critica che poi i

comunisti svilupparono in modo martellante, per denigrare quella

linea socialdemocratica i cui esponenti spregiativamente

denominavano come social traditori .Dichiarò, comunque, che non

avrebbe considerato determinante il voto del MSI. Confidava sul

fatto che, dal punto di vista numerico, questi voti non erano

necessari. E al Senato, infatti, riuscì ad avere la fiducia , anche a

prescindere dai voti missini. Ma non aveva fatto i conti con la

avversione di alcuni democristiani alla linea di centro destra, che

determinò alcune assenze, nel voto di fiducia alla Camera . Ivi il suo

governo passò con una discreta maggioranza in cui , per altro, risultò

determinante il voto di un onorevole del Movimento sociale. In

coerenza con le sue dichiarazioni Zoli rassegnò le dimissioni.

Rimandato alle Camere da Gronchi, data l’impossibilità di formare

un nuovo governo, Zoli dichiarò che il suo era un governo di

minoranza precostituita : praticando così quella discriminazione

contro il MSI , che apparteneva alla tradizione dell’Unità Nazionale

Antifascista e che, sempre di più, contrastava con l’esigenza di

pacificazione nazionale. Il suo governo, per altro, riuscì a durare per

tutta la restante parte della legislatura, senza particolari problemi,

data la maggioranza effettiva di cui godeva. E la troika economica, in

cui egli manteneva il bilancio, funzionò bene, ispirandosi, nelle

grandi linee macro economiche ai principi del piano Vanoni. Si

trattava però quasi completamente di ordinaria amministrazione .

L’unica decisione strutturale di rilievo fu il passaggio all’Iri , della

Teti, la società telefonica privata che eserciva le reti del Lazio e

della parte tirrenica dell’Italia Centrale della Timo, che eserciva

quelle dell’Italia Meridionale . L’IRI, che già deteneva con la Stipel

la Telve e la Timo, rispettivamente, le rete telefoniche dell’Italia del

Nord Ovest, del Nord Est e dell’Emilia Romagna settentrionale e

della parte adriatica dell’Italia Centrale, diventava così titolare di

tutte le linee telefoniche nazionali , che raggruppava nella Stet. I

problemi strutturali che emergevano, con l’impetuosa crescita

economica, per la maggior parte, rimanevano nel cassetto, comprese

la attuazione delle Regioni e del Sistema Sanitario Nazionale,

previsti dalla Costituzione. La formula centrista appariva inadatta ad

affrontarli. E le nuove elezioni avevano il compito di stabilire quale

rotta dovesse prendere la DC , per gestire l’Italia trasformata dal

miracolo economico in una giovane potenza industriale, bisognosa di

porsi una nuova identità.

Le elezioni del maggio del 1958, in pieno sviluppo del miracolo

economico, vedono un piccolo ma confortevole recupero della DC

che , con il 42,5% dei voti , alla Camera, riesce a raccogliere il

45,8dei seggi. Il partito socialdemocratico, ha il 4,5% dei voti e il

3,8% dei seggi : rispetto all’epoca della sua costituzione è oramai un

partito minore, ma con un serbatoio di voti stabile, ancora

importante per la formazione della maggioranza politica nazionale,

che per salvaguardare il processo di sviluppo e la democrazia, deve

opporsi alla martellante minaccia comunista, alimentata dall’Unione

Sovietica nel gelido clima della “guerra fredda”, caratterizzata dalla

reciproca minaccia nucleare . Il partito liberale in significativo

recupero con il 3,5% dei voti ha il 2,8% dei seggi, mentre i

repubblicani nonostante siano rimasti fuori per tanti anni dalle

coalizioni di governo e abbiano fatto una alleanza con il movimento

radicale, formato da liberali di sinistra, ottengono solo lo 1,4% dei

voti e lo 1% dei seggi. Su di loro sembra incombere , la minaccia

dell’estinzione, perché la loro linea di centro sinistra , non è ancora

decollata. Un altro 0,5% dei voti e dei seggi è del Partito Popolare

Sud tirolese. Alla DC alla Camera bastano i socialdemocratici e i

repubblicani, per formare un governo di centro sinistra . Il

quadripartito alla Camera teoricamente ha il 53,5% ma si tratta di

una maggioranza anacronistica. I monarchici , divisi in due partiti,

hanno il 4,8% dei voti e il 4,5% dei seggi. Il Movimento Sociale ha

il 4,8% dei voti e il 4% dei seggi. Chiaramente è possibile anche una

maggioranza di centro destra, anche senza i liberali . Essa è

numericamente più modesta del tripartito, ma con l’astensione del

Movimento sociale , può contare di fatto su un buon supporto

parlamentare . Ma i socialisti, che si stanno affacciando all’area

governativa , hanno ottenuto un largo consenso, raggiungendo il 14,

2% dei voti . La corrente autonomista di Nenni ha raccolto il 58% dei

voti nel Congresso di Napoli ed è ora al potere nel Partito.

L’impostazione autonomista da loro un notevole premio in termini

di voti. Più che nella precedente legislatura sono possibili sia il

centro destra, che il centro sinistra e il centrismo è oramai finito. Ma

data la disponibilità dei socialisti all’entrare nell’area di governo,

emerge maggiormente la linea di centro sinistra.

Per quanto riguardava il Senato, a causa del frazionamento dei

distretti elettorali, che impediva ai partiti minori di avere bastanti voti

per un seggio, la DC, con il 41,2 dei voti vi otteneva ben 123 seggi,

pari al 49,5% degli eletti (vi erano in aggiunta 5 senatori a vita, di

nomina del Capo dello Stato), mentre i socialdemocratici con il 4,4%

dei voti vi ottenevano solo 5 seggi, pari al 2% e i liberali con il 2,9%

dei voti conseguivano solo 4 seggi, pari allo 1,6% . I repubblicani

alleati con i radicali non riuscivano a ottenere alcun seggio, mentre

ne conseguiva 2 , pari allo 0,8% dei seggi il partito popolare sud

tirolese , che aveva ottenuto il solito 0,5 dei voti otteneva 2 seggi

pari allo 0,8% dei seggi. Le liste PCI-PSI che si presentavano in

Sardegna ottenevano lo 0,7% dei voti e 2 seggi.

TAVOLA 21

ELEZIONI DEL SENATO PER LA III LEGISLATURA 1958 -

1963

% Voti Seggi % Seggi Elettivi

Democrazia Cristiana 41,2 123 49,5

Partito Comunista Italiano 21,8 59 23,7

Partito Socialista Italiano 14,1 35 14,1

Partito monarchico popolare 3,0 5 2,0

Partito Nazionale Monarchico 1,9 2 0,8

Movimento Sociale Italiano 4,4 8 3,2

Partito Socialista Democratico 4,4 5 2,0

Partito Liberale Italiano 3,9 4 1,6

Partito Repubblicano Italiano e 1,2 - -

partito radicale

Partito Popolare Sudtirolese 0,5 2 0,8

Liste miste PC-PSI 0,7 2 0.8

Liste miste PCI-PSI 1,1% 4 1,7

Unione Valdotaine 0,1% 1 0,4

Era evidente che per la DC , anche al Senato, come e ancor più che

alla Camera, partito dominante, erano possibili tre combinazioni:

l’alleanza con i soli socialdemocratici e repubblicani , che poteva

contare su 130 voti pari al 52,4% e col tempo, l’astensione socialista

, il quadripartito che poteva contare su 134 voti pari al 54% dei voti ,

l’alleanza con i monarchici , che poteva contare su 132 voti, pari al

53,2% e, naturalmente, poteva avere come conseguenza l’astensione

o il voto favorevole del Movimento Sociale Italiano. I comunisti

completamente e rabbiosamente emarginati, temevano soprattutto

l’apertura a sinistra con la presenza dei socialisti fra le forze di

governo, che li avrebbe isolati politicamente in un ghetto. E si

dedicarono, pertanto, con tutte le loro energie, a cercare di farla

fallire, sia con le agitazioni di piazza e sia con i collegamenti, che

ancora avevano, all’interno del PSI , i cui quadri periferici

dell’apparato del partito erano stati selezionati dal segretario

Rodolfo Morandi, fra i filo comunisti, anche perché il finanziamento

del PSI dipendeva , in larga misura, dal PCI , che riceveva i fondi da

Mosca e anche Pechino , con vari sistemi , fra i quali campeggiavano

i lucri sul commercio estero con l’URSS e la Cina.

TAVOLA 22 GOVERNI ITALIANI DELLA III Legislatura:25-5-1958—15-5-

1963 MINISTRI FINANZIARI Tesoro Bilancio Finanze 2° Fanfani 1-7-58--26-1-59: DC-PSDI Andreotti Medici Preti 2° Segni 15-2-59--24-2-60: DC Tambroni Tambroni Taviani 1° Tambroni 25-3-60--19-7-60: DC Taviani Tambroni Trabucchi

3° Fanfani 26-7-60--2-2-62: DC Taviani Pella Trabucchi 4° Fanfani 21-2-62--16-5-63:DC-PRI-PSDI Tremelloni La Malfa Trabucchi

Il disgelo fra socialisti e socialdemocratici che aveva avuto luogo con

l’incontro fra Nenni e Saragat a Pralognan , aveva dato poi luogo, nel

1957, nel congresso di Venezia del PSI a una situazione fluida: la

mozione autonomista riformista di Nenni aveva avuto la

maggioranza, ma nel comitato centrale la corrente di Nenni era

andata in minoranza, aveva vinto con notevole margine un assieme di

correnti contrarie, ma lui era stato egualmente confermato alla guida

del partito . All’inizio della legislatura si ebbe così un secondo

governo Fanfani, bicolore con il socialdemocratici che guardava a

sinistra . La troika economica aveva connotati ambigui :Andreotti al

Tesoro, Medici al bilancio, il prudente socialdemocratico Luigi Preti

alle Finanze. Esso però durò un semestre soltanto .La maturazione

dei socialisti come forza di governo del centro sinistra era ancora

lenta e incerta. Gli succedette nel febbraio del 1959 un monocolore

di Segni, sostenuto dal quadripartito, che mirava ad accattivarsi i

socialisti , mediante la presenza al Tesoro e al Bilancio di Ferdinando

Tambroni, molto vicino al presidente dell’ENI , Enrico Mattei, che

aveva lanciato un programma economico di programmazione

economica. Alle Finanze vi era Paolo Emilio Taviani, un economista

democristiano con un temperato orientamento vanoniano. Alle

partecipazioni statali vi era l’economista democristiano Mario Ferrari

Aggradi a lungo collaboratore e devoto seguace di Ezio Vanoni, sul

cui pensiero e azione politica aveva appena scritto un libro. Nello

stesso tempo, il governo Segni mirava ad accattivarsi le simpatie dei

liberali , in quanto Tambroni era decisamente anti comunista e ,

comunque, riteneva che i socialisti avessero ancora bisogno di alcune

rotture con i comunisti per diventare parte affidabile dello

schieramento democratico. E agli esteri Segni aveva chiamato di

nuovo Giuseppe Pella, il prestigioso leader della DC liberale. Il

governo Segni durò sino al febbraio 1960, in modo abbastanza

precario, in quanto la DC era incerta di fronte ai socialisti e i liberali

non gradivano la apertura ai socialisti . Il governo Segni cadde, in

pieno boom economico, causato dall’etto espansionista del MEC, con

il ritiro della fiducia al governo da parte dei liberali. Il presidente

Gronchi allora dava l’incarico di formare un governo “pendolare” a

Ferdinando Tambroni, che aveva le due caratteristiche di propugnare

un programma basato su una programmazione economica volta a

rafforzare e aggiornare le indicazioni del Piano Vanoni e di essere

anticomunista e diffidente delle residue consistenti alleanze fra

socialisti e PCI , che si manifestavano in sede amministrativa , con le

giunte rosse. Tambroni conservava il bilancio, mentre al Tesoro

andava Taviani e le finanze andavano al tecnico democristiano

Giuseppe Trabucchi. Alle partecipazioni statali rimaneva

l’economista, discepolo di Vanoni, Mario Ferrari Aggradi. Al voto ,

tutti i partiti del quadripartito si mostrarono ostili, per opposte

ragioni, al governo Tambroni, che passò con i voti determinanti del

Movimento sociale , che si dichiarava “destra sociale”. La linea di

Tambroni , sostenuta da Gronchi, era quella di creare le condizioni di

fatto per il centro sinistra, avvalendosi dell’argomento di volere

evitare la svolta a destra, determinata dall’aperta partecipazione del

MSI alla sfera di governo. Ma i socialisti di Nenni avrebbero

desiderato una maggiore cautela di Tambroni verso la destra , per

poterlo sostenere , con la loro astensione, per un governo di tregua ,

incaricato di far votare i bilanci.22 Intanto poteva maturare la loro

adesione al centro sinistra , a cui Ugo La La Malfa per i repubblicani

e Saragt per i socialdemocratici stavano attivamente lavorando. I

comunisti capivano che il rischio in questione era imminente e ,

inoltre, paventavano la definitiva emarginazione, che avrebbe avuto

luogo se il MSI fosse stato “sdoganato” grazie al successo di

Tambroni, indubbiamente favorito dal boom economico. Infatti

Tambroni riuscì a diminuire il prezzo della benzina e dello zucchero

ed accelerava, con crescente successo, la attuazione del MEC . Ve ne

era abbastanza perché i comunisti scattassero descrivendo il governo

Tambroni come asservito ai gruppi monopolistici nazionali e

internazionali e dando luogo ad agitazioni a catena, con elementi di

vera a propria sommossa, per screditare il governo Tambroni ,

impegnato nella tutela dell’ordine pubblico. La prima occasione fui

22 Ciò risulta chiaramente dai Diari di Pietro Nenni, che annotava “Ne noi, né Saragat, né Oronzo Reale (leader dei repubblicani , mia nota) avremmo potuto rifiutare, in questo caso, la nostra astensione. Invece Tambroni si è avventurato in un programma di dieci anni, cioè nella più artificiosa delle costruzioni. Rischia così di avere i soli voti dei fascisti. Pressappoco un suicidio.”

l’autorizzazione al congresso del MSI di Genova del luglio 1960:

considerato una provocazione di Tambroni per la natura antifascista

di Genova ! E del resto già autorizzato dal precedente governo Segni.

Sciopero generale del 30 giugno proclamato dalla Camera del Lavoro

di Genova, un corteo di centomila persone, lacrimogeni, incendi di

camionette della polizia, barricate , poliziotti contusi e manganellate

di rivalsa. IL MSI ,a cogliendo la richiesta del Prefetto di Genova,

rinuncia al congresso e ritira l’adesione al governo. Ma il 5 luglio a

Licata, nel corso di uno a sciopero generale, per l’industrializzazione,

nuovi disordini e questa volta un morto e cinque feriti gravi fra i

dimostranti. Altri disordini a Rom, nel corso di una manifestazione

non autorizzata in cui alcuni parlamentari comunisti e socialisti

vengono contusi. Scioperi a Bologna, Ravenna, Ferrara, Parma, città

rosse, e anche a Napoli . Poi lo sciopero generale di Reggio Emilia,

proclamato dalla CGIL, cui non aderiscono CISL e UIL :cinque

morti e numerosi feriti fra i dimostranti perché , secondo la

ricostruzione della Questura, “ agenti e militi, dileggiati , insultati e

bersagliati da sassaiole “ anche nei giorni precedenti avevano perso il

controllo della situazione. Tambroni era convinto di trovarsi di fronte

a una situazione insurrezionale, guidata dai comunisti e Nenni stesso

annotava nei suoi diari che “ la vittoria antifascista di Genova viene

usata dai comunisti in termini di frontismo , di ginnastica

rivoluzionaria, di vittoria della piazza, tutto il bagaglio estremista che

pagammo caro nel 1919”. 23 Le nuove violenze e repressioni 23 Cfr la ricostruzione di Luciano radi, in Fernando tambnroni e la crisi del 1960, in Il Parlamento

causarono la definitiva caduta del governo Tambroni nel luglio 1960,

a seguito del ritiro della fiducia da parte della DC In realtà , la caduta

di Tambroni era stata colta con favore dalla DC che riteneva

necessario “raccogliere le aperture manifestatesi evidenziando la

possibilità di trasformarle in convergenze democratiche per la difesa

della libertà contro tutti gli estremismi e in particolare contro il

preoccupante attacco comunista, per lo sviluppo della solidarietà

atlantica ed europea e per una politica di sviluppo economico e di

ardito progresso sociale nella libertà” 24 . Era chiaramente l’apertura

a sinistra ,che Nenni avrebbe accettato per difendere le libertà

democratiche da involuzioni autoritarie, argomento che, prima del

governo Tambroni e delle sommosse comuniste , con conseguenti

reazioni delle forze dell’ordine gli era mancato. Il Papa Giovanni

XXIII aveva iniziato una linea di ampia apertura sociale. La DC

considerava sempre più promettente la linea di centro sinistra, che le

avrebbe consentito un largo margine di consensi parlamentari e

avrebbe isolato i comunisti , appagando invece il crescente

movimento sindacale e politico cattolico , nella linea giovannea. Un

nuovo monocolore di Fanfani (il suo terzo governo) appoggiato da

PSDI e PRI aprì , dunque, la strada alla nuova formula di governo,

dal luglio 1960 . troika economica non era molto, orientata a sinistra:

al bilancio infatti era tornato Giuseppe Pella, garanzia di ortodossia

economica e monetaria, alle finanze rimaneva il cauto tecnico

Italiano, vol. 18° 1959-1963.Una difficile transizione 24 Cfr. L. RADI, op. cit. pagina 119, I colonna.

democristiano Giuseppe Trabucchi, al Tesoro vi era ancora Taviani ,

che nel governo Tambroni, aveva dato ottima prova. Ma al Lavoro vi

era Fiorentino Sullo, leader della sinistra DC , mentre al nuovo

ministero delle partecipazioni tornava il democristiano di sinistra

Giorgio Bo, che delle partecipazioni statali era considerato il maggior

fautore. Si trattava di un governo molto autorevole, in quanto oltre

ai personaggi indicati vi erano anche Scelba, agli interni e Segni

agli esteri. Il governo era denominato di “convergenze parallele” , ad

indicare che aveva il compito di portare la DC che i socialisti

all’incontro, con la continuazione del movimento da entrambi già

iniziato . Il termine coniato da Aldo Moro non era geometricamente

strano, come è stato scritto da politologhi poco esperti di geometria.

Infatti la retta del movimento politico della DC e quella del PSI erano

ciascuna inclinata , rispettivamente verso il basso a sinistra e e verso

la destra in alto. Ma erano ancora distanti fra loro. Per convergere a

un punto di incontro , quella della DC avrebbe dovuto abbassarsi in

parallelo alla propria precedente posizione mentre quella socialista

avrebbe dovuto alzarsi, in parallelo alla precedente posizione. Ciò

stava avvenendo. Fanfani riuscì a governare con questa formula dal

luglio del 1960 al febbraio 1962 , un anno e otto mesi . Nel febbraio

del 1962 le convergenze erano raggiunte .Veniva, infatti, formato un

quarto, organico governo Fanfani con PSDI e PRI, con l’astensione

del PSI, che conduceva alle elezioni del 28 aprile del 1953 . Con

Tremelloni al Tesoro, la Malfa al bilancio e Trabucchi alle finanze, la

troika economica era decisamente cambiata. E la Malfa, con il un

suo Documento, diminutivamente denominato “ Nota aggiuntiva” al

Bilancio dello Stato, data inizio alla programmazione del centro

sinistra. L’esame che ora faremo delle vicende economiche si ferma a

tutto il 1961 , considerando il 1962 come l’ epoca di inizio del centro

sinistra organico.

STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO 1954-1961.

LO SVILUPPO ECONOMICO LE POLITICHE ECONOMICHE FRA ECONOMIA DI LIBERO MERCATO E

PROGRAMMAZIONE INDICATIVA

Il periodo dal 1954 al 1961, anno del centenario dell’Unità

Nazionale, benché caratterizzato dal succedersi di molti governi, con

varie formule quello successi, è caratterizzato da una rilevante

coerenza alla politica economica, che , pur con qualche oscillazione,

si svolge sostanzialmente secondo le linee macro economiche del

Piano Vanoni e con la progressiva integrazione nel mercato comune

europeo. A questa inquadramento di politica economica

sostanzialmente coerente si affianca un fattore estremamente

importante: la stabilità della politica monetaria , che è caratterizzata

dalla continuità della linea dei governatori, nella tradizione

einaudiana , basata sul perseguimento di obbiettivi di stabilità

monetaria e di priorità di finanziamento del mercato. In ciò fu di

grande aiuto la autorevolezza acquisita dai primi governatori,

succeduti ad Einaudi, con il mantenimento di tale linea, per un

periodo molto lungo: per Menichella quasi 20 anni e per Carli, che

gli successe nel 1960 , altri 15 anni.

TAVOLA 23

GOVERNATORI DELLA BANCA DI ITALIA 1960-2000

1948-1960 D.Menichella Governatore

1960-1975 G. Carli Governatore 1975-1979 P.Baffi Governatore 1979-1993 C.A.Ciampi Governatore 1993- A.Fazio Governatore

Il modello einaudiano di economia di mercato libera, con bilancio in

tendenziale pareggio e sistema tributario efficiente, per finanziare i

pubblici servizi fondamentali , era stato accolto in Italia per tutto il

periodo del “miracolo economico” , che coincideva con il periodo

politico dei governi centristi degasperiani . Man mano però emerse ,

in tale quadro, una tendenza di “economia di mercato sociale” , con

imprese pubbliche con compito di sviluppo economico e

programmazione indicativa con il piano decennale per lo sviluppo

dell’occupazione e del reddito lanciato nel 1954 dal Ministro del

bilancio Ezio Vanoni . L’economista della sinistra cattolica Pasquale

Saraceno era , assieme ad alcuni economisti neo liberali come

Ferdinando Di Fenizio e Libero Lenti , l’autore effettivo del Piano

Vanoni : in cui , come si vedrà, assieme a linee di programmazione

macroeconomica del bilancio pubblico , avevano un rilevante ruolo

le imprese pubbliche, con i due poli dell’ IRI e dell’Eni e le spese

pubbliche per infrastrutture . troviamo un leader del riformismo

socialdemocratico, l’economista . Trova, invece, scarsa audience in

Italia in tutto questo periodo la politica della spesa in deficit per il

sostegno della domanda globale . Nella impostazione del piano

decennale Vanoni, la politica di sostegno della domanda viene

accolta con il principio del bilancio pubblico in pareggio, mediante la

politica di spesa pubblica e delle imprese pubbliche nel settore delle

infrastrutture e della spesa per l’edilizia popolare e per lo sviluppo

del Mezzogiorno. La crescita è agevolata da una grande flessibilità

del mercato del lavoro, ma si concentra soprattutto nel Nord , cui

affluiscono milioni di persone dal Sud. Città come Torino, in poco

tempo, raddoppiano la popolazione , nell’area metropolitana,

passando da 600 mila abitanti a 1,2 milioni di abitanti , nel centenario

dell’unità Nazionale. Il sistema tributario conservò però una

struttura, che nonostante gli sforzi di riforma di Ezio Vanoni e del

suo successore Roberto Tremelloni al Ministero delle finanze a metà

del periodo in esame, non era adatta allo sviluppo economico. Lo

favoriva solo tramite una bassa pressione fiscale Il bilancio era in

ottime condizioni, grazie alla modestia della spesa pubblica , un fatto

finanziariamente favorevole, che però dava luogo a tensioni nei

prezzi al consumo dovute alle carenze di infrastrutture,

insoddisfazioni economiche e sociali, che generavano esigenze di

cambiamento economico sociale.

TAVOLA 24

BILANCI STATALI DAL 1953-54 AL 1962-63

PARTE EFFETTIVA MOVIMENTO CAPITALI DEFICIT DEFICIT PIL DEFICIT/PIL (in miliardi di lire ) Spese Entrate Spese Entrate saldo globale saldo effettivo globale effettivo 1953-54 2.326 2.001 184 337 171 325 1 3,2

1,29 2,46 1954-55 2.623 2.314 136 308 136 309

14,3 0,95 2,16

1955-56 2..803 2.509 98 253 138 302 1 5,6

0,88 1,93

1956-57 2. 956 2.808 112 174 86 148

16,9 0,50 0,87

1957-58 3. 323 3.098 391 353 264 225

18,1 1,45 1,24

1958-59 3.372 3.248 248 150 223 124

19,4 1,18 0,60

1959-60 4.010 3.684 590 904 +88 +326

21,6 +1,03 +1,56

1960-61 4.357 3.949 324 356 378 408

24,5 1,54 1,70

1961-62 4.855 4.548 521 405 423 271

27,4 1,54 1,00

1962-63 5.697 5.251 412 161 698 446

31,1 2.29 1,43

Il Pil , dopo una crescita modesta nel 1954, crebbe a ritmi

estremamente sostenuti, fra il 6% e il 7% annuo, nei tre anni

successivi . Vi fu una lieve flessione nella crescita nell’anno seguente

e poi un boom senza precedenti , per cinque anni, che alla fine

sboccò in una fiammata inflazionistica.

A causa delle buone condizioni del bilancio e della sostenuta

crescita, che riversava sull’economia continuamente nuovi beni, il

tasso di inflazione, nonostante le strozzature dovute alla rapidità

dello sviluppo e alle carenze nei servizi pubblici, secondo i dati del

Fondo Monetario Internazionale , risultò, in una prima fase, sino al

1958 attorno allo 1,5-3,2% annuo soltanto E nel 1959 , con

Ferdinando Tambroni Ministro del Bilancio e del Tesoro essa fu

zero, pur in presenza di una crescita del Pil superiore al 6%.. Nel

1960 l’inflazione tornò a un modesto 1,45% , mentre il PIL cresceva

a un ritmo elevatissimo (per altro il dato del 14% è gonfiato da una

anomalia statistica, dovuta al mutamento del metodo di calcolo). Nei

due anni successivi mentre il boom economico italiano continuava ,

l’inflazione si tenne fra il 2,5 e il 3% . Sfuggì di mano nel 1963 in

relazione agli eventi politici su cui ci dovremo soffermare e al fatto

che un prolungato ciclo di crescita economica aveva fatto emergere

in pieno le strozzature dell’economia, nelle infrastrutture, nei servizi

commerciali e finanziari , nella manodopera qualificata e arroventato

i prezzi.

TAVOLA 25

Tasso di inflazione Tasso di crescita del PIL

Anno (Indice Fondo Monetario) deflazionato

1954 3,19 3,7

1955 2,90 7

1956 3,00 6

1957 1,45 6

1958 2,69 4

1959 0,00 6,2

1960 1,45 14,3

1961 2,70 8,3

1962 2,82 8,1

1963 7,6 6,5

Lo sviluppo del credito alle imprese e all’edilizia d’abitazione, che

era fra i fattori propulsivi del boom, risultava favorito dal basso

livello del debito pubblico, che –ovviamente- si ricollegava al

modesto deficit del bilancio pubblico. Dal 1954 in effetti , il rapporto

fra il debito pubblico del governo centrale e il PIL scende

costantemente , portandosi, al termine della II legislatura , al 44% del

Pil e giungendo, nel 1962 a solo il 35% del Pil. Il periodo del

centrismo aperto a sinistra, in cui vi sono stati continui cambiamenti

di governo, con mutamenti nella rotta politica, non ha dato luogo a

un incremento, ma a una sostanziale diminuzione del debito pubblico

. La ragione di fondo sta , ovviamente, nella elevata crescita del PIL,

ma anche nel modesto deficit dei bilanci, che in un anno si è anche

tradotto in surplus. Si è trattato, generalmente, di governi che

seguivano la linea indicata dal Piano Vanoni , di perseguire la

crescita del PIL in regime di bilanci tendenzialmente in equilibrio,

per favorire la devoluzione del risparmio al finanziamento

dell’economia produttiva, in cui erano molto importanti le imprese

private e l’edilizia di abitazione, ma giocavano un ruolo notevole e

crescente le imprese a partecipazione statale del gruppo IRI e

dell’ENI.

TAVOLA 26

IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO DAL PERIODO DEGASPERIANO AL PERIODO DEL CENTRISMO APERTO

A SINISTRA (1954-1962)

Anno Debito pubblico Pil Debito pubblico/ A prezzi correnti a prezzi correnti Pil (miliardi di lire ) ( miliardi di lire ) %

1954 6.740,00 13.634,00 49% 1955 7.300,00 15.042,00 49% 1956 7.630,00 16.360,00 47% 1957 7.900,00 17.565,00 45% 1958 8.390,00 18.862,00 44% 1959 8.900,00 20.029,00 44% 1960 9.290,00 23.210,00 40% 1961 9.640,00 25.810,00 37% 1962 10.220,00 29.000,00 35%

Fonti :

Per il periodo 1947-1948: Banca d'Italia, "Bollettino statistico",n.1 del 1948 e n.1 del 1949 Per il periodo 1949-1998: Fondo Monetario Internazionale , Debito totale del governo

centrale

Negli otto anni considerati il PIL crebbe, in termini reali, con

riferimento al tasso di inflazione italiano così come rilevato dal

Fondo Monetario e con riferimento ai prezzi impliciti , secondo i

calcoli del gruppo Fuà 25., del 70% ad un tasso medio annuo del 7%.

Quello pro capite aumentò del 64% a un tasso medio annuo del 6,4

%.

TAVOLA 26

IL PIL ITALIANO NEL PERIODO DEL BOOM DEL

MIRACOLO ECONOMICO 54-1962

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi %crescita%crescita Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

di lire 2001) consumo PIL reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1954 13634 323.398 3,7 5,8 48477 6,71955 15042 347.018 7,0 6,3 48789 7,11956 16360 359.609 5,6 4,4 49052 7,31957 17565 378.701 5,8 6,4 49311 7,71958 18862 388.179 4,4 4,6 49640 7,81959 20029 411.535 6,2 7,6 50023 8,21960 23210 470.379 14,3 7,1 50372 9,3 1961 25810 508.326 8,2 8,3 50675 10,11962 29000 549 .396 8,1 10,5 51012 11,0

Le trasformazioni economiche che ebbero luogo in Italia in quel

periodo sono imponenti. Nel 1951 l’agricoltura ha ancora una

posizione fondamentale, accanto all’industria e il terziario è

prevalentemente di commercio per il consumo . Nel 1954 25 Cfr. P. ERCOLANI, (1969 e 1975) citato, pag. 418 .

l’agricoltura è scesa al 9 e mezzo per cento e nel 1961 allo 8,7 % .

L’industria che era il 30% ancora nel 1954, in pochi anni , nel 1961,

arriva a sfiorare il 34% . I servizi sono oramai vicini al 40% del PIL.

Nel settore dei servizi , accanto alle attività commerciali, si

sviluppano i servizi tecnici alle imprese, le professioni, la finanza, il

commercio internazionale. Il contributo della Pubblica

Amministrazione al prodotto nazionale non riesce a tenere il ritmo di

espansione dell’industria e del settore dei servizi di mercato: e così

dal 15% del 1951 arriva al 21,4% nel 1954 , ma scende poi al 18%.

Qui si annidano problemi, che esploderanno nel periodo successivo.

TAVOLA 27 COMPOSIZIONE PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO

LORDO 1951-1961

Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura

Internazionale

1951 19,0 30 ,0 36,0 15,0 11,4

1956 9.4 30,5 38,7 21,4

1961 8,7 33,8 39,2 18,3 21,2

FONTE Per i dati di composizione settoriale del prodotto nazionale del 1951 , P. ERCOLANI (1969) in FUA’ Lo sviluppo economico in Italia, Milano, Angeli, vol.III, calcolati con prezzi 1963 . Per gli altri dati N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993. I dati di Rossi-Sorgato-Toniolo sottovalutano l’agricoltura e sopravalutano i servizi e la Pubblica Amministrazione rispetto a quelli di Ercolani-Fuà , in quanto basati su diversi indici di prezzi.

La riduzione di importanza dell’occupazione e della produzione del

settore agricolo sottende anche a un grosso sviluppo della

produttività in agricoltura che si realizza tramite la sua

“industrializzazione”. Una spia della imponente trasformazione

tecnologica e culturale del mondo agricolo italiano è data

dall’impiego di prodotti chimici in agricoltura.

TAVOLA 28

Concimi chimici distribuiti all'agricoltura (medie annue; migliaia di tonnellate) Fosfatici Azotati Potassici Complessi Totale 1931 1.095 101 23 - 1.219 1925-26 1.489 187 46 - 1.722 1931-40 812 513 42 18 1.385 1939-40 1.714 854 58 26 2.652 1941-50 818 478 41 4 1.341 1951-60 1.600 1.159 175 481 3.415 1961-65 1.143 1.289 217 1.454 4.103 Fonte: R. PETRI (2002) Storia economica di Italia , Bologna, Il Mulino Istat, Sommario di statistiche storiche dell'Italia 1861-1965, Roma 1968; M. Pezzati, Agricoltura e industria: i concimi chimici, in P.P. D'Attorre e A. De Bernardi (a cura di), Studi sull'agricoltura italiana. Società rurale e modernizzazione, Milano, Feltrinelli, 1996.

Nel periodo fascista, per le esigenze dell’autarchia, lo utilizzo e lo

sfruttamento del terreno coltivabile fu spinto al massimo, Così il

consumo di fertilizzanti aveva subito un incremento continuo,

accrescendosi in 20 anni di un 216 % . Nel dopoguerra l’uso di

terre poco redditizie si ridusse man mano che la liberalizzazione dei

mercato faceva affluire i prodotti agricoli necessari alla nostra

economia. Ma si accresceva l’utilizzo delle terre buone , mediante

una crescente modernizzazione. Al termine del periodo del miracolo

economico il consumo di fertilizzanti, rispetto agli ultimi anni prima

della guerra aveva oramai subito un incremento del 54%. Se si

prende come base il 1950 l’incremento è di ben 300 volte .

TAVOLA 29

Produzione di alcuni beni alimentari pregiati (milioni di tonnellate)

Legumi

freschi

Agrumi

Frutta fresca

Una da

vino

Olio d'oliva

Carne bovina e suina

1938 0,22 0,74 1,07 6,64 0,18 0,62 1943 0,19 0,61 1,32 6,36 0,13 0,39 1948 0,31 0,67 1,48 6,57 0,11 0,46 1953 0,35 0,89 2,36 8,32 0,35 0,59

1958 0,47 1,13 3,26 10,05 0,26 0,60

1963 0,57 1,41 5,26 7,97 0,54 0,66 R. PETRI , (2002) Storia Economica di Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: G.M. Rey (a cura di), I conti economici dell'Italia, Roma-Bari, Laterza, 1991, vol. I.

La produzione agricola italiana dai primi due decenni del secolo

agli anni ’60 si è evoluta qualitativamente, sia in rapporto alle

opportunità sui mercati di esportazioni, sia soprattutto per le mutate

esigenze del consumo sul mercato interno. La produzione di legumi

freschi rispetto al periodo prebellico è aumentata di quasi tre volte .

Minore è stata la crescita della produzione di agrumi,

sostanzialmente raddoppiata. Per la frutta fresca l’aumento della

produzione italiana è stato vertiginoso , più di 5 volte on riguardo

agli anni terminali dell’epoca fascista , in cui esso, a causa della

enfasi sul grano, era rimasta ai livello del 1918. Per l’olio d’oliva la

crescita è stata del 300 % rispetto all’epoca autarchica fascista :

fenomeno certamente notevole, considerati i costi e i tempi per lo

sviluppo dell’olivicoltura. Per il vino il volume è rimasto

praticamente stazionario, perché la crescita italiana è stata ed è

essenzialmente qualitativa. Si tratta di una trasformazione che ha

riguardato prima le uve e la vinificazione del Nord di Italia, poi

quelle dell’Italia Centrale mentre è in questi anni in corso la

nobilitazione del made in Italy enologico dell’Italia del sud. La

produzione di carne suina e bovina non è sostanzialmente variata

rispetto al 1938, ma ne è molto aumentata l’importazione , in

relazione alla grande crescita del nostro consumo e al grande

sviluppo dell’export italiano di salumi. L’aspetto più imponente

della trasformazione dell’economia italiana sta nella modifica del suo

grado di apertura internazionale, che si misura con il rapporto fra

volume delle importazioni ed esportazioni e PIL: era solo dello 11%

nel 1951, è quasi raddoppiato , nel 1961 in cui risulta del 21%. E’

ovvio che da un certo punto in poi, il grado di apertura si accresce a

causa dell’attuazione progressiva del mercato comune europeo, in cui

l’Italia si è inserita . Il commercio internazionale è una componente

fondamentale dello straordinario boom economico di questo periodo.

QUINTO PERIODO DAL 1962 AL 1972. IL TERZO MIRACOLO

ECONOMICO IN REGIME DI DEMOCRAZIA, MERCATO APERTO E RIFORME

TAVOLA 1 ELEZIONI DEL 1963

CAMERA DEI DEPUTATI

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

630 34.201.660 31.766.058 30.758.031 92,9%

RISULTATI IN PERCENTUALE DI VOTI E DI SEGGI

LISTE Voti (in 1000)

% SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 11.776 38,3 260 41.13

Partito Socialista It. 4.257 13,8 87 13,8

Partito Comunista It. 7.768 25,3 166 26,3

Partito Socialdemocratico It.

1.877 6,1 33 5,2

Partito Liberale Italiano 2.144 7,0 39 6,2

Movimento Sociale It. 1.571 5,1 27 4,3

Partito repubblicano 420 1,4 6

Altre 1.365 3,0 0,9 17 28,5

Totale 30.758 100 630 100

SENATO DELLA REPUBBLICA

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

315 30.989.382 28.831.008 27.471.086 93,03%

VOTI E SEGGI

PERCENTUALE

Gruppo politico Voti (in 1000) % SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 10.032 36,5 129 40,9

Partito Socialista It. 3.850 14,0 44

13,9

Partito Comunista It. 6.934 25,2 84 26,6

Partito Socialdemocratico It.

1.744 6,4 14 4,4

Partito Liberale Italiano

2.029 7,4 18 5,7

Movimento Sociale It. 1.459 5,3 14 4,4

Partito Repubblicano e DC ALTRI

223 5,2

1,5 11,5

4 1,2 12 3,8

Totale 27.471 100 315 100

TAVOLA 2

CAPO DELLO STATO:

Antonio Segni (1962-1964): fu costretto a dimettersi dopo solo 2 anni e 6 mesi, perché

colpito da un grave ictus . Giuseppe Saragat (1964-71)

I l risultato delle elezioni del 1963 diede luogo a una robusta

maggioranza di centro sinistra sia alla Camera che al senato. Infatti,

la DC , nonostante il sistema elettorale proporzionale, con il 38 %

circa dei voti ottenne alla Camera il 41% dei seggi, mentre il PSI, che

era il secondo partito della nuova coalizione, con il 13,8% ei voti

otteneva il 13,8% dei seggi. I socialdemocratici, con il 6% circa dei

voti avevano un 5% dei seggi mentre i repubblicani, che pure

teorizzavano la nuova alleanza, mediante il loro leader Ugo La

Malfa ottenevano solo un 1,4% dei voti e meno dell’1% dei seggi. La

coalizione , alla Camera, contando anche il Volkspartei , disponeva

più del 60% dei seggi , mentre all’opposizione, sulla sinistra vi era

un fortissimo partito comunista che arrivava al 27% circa dei

deputati. A destra, l’unica forza importante era quella dei liberali,

che erano cresciuti anche essi , come i comunisti e arrivavano ad

oltre il 7%, dei voti e sfioravano il 6% dei seggi , un record storico.

La composizione del Senato, nonostante la diversità della legge

elettorale, era analoga. Anche qui la DC aveva il 41% dei seggi,

mentre i socialisti erano il 13,9% e i socialdemocratici il 4,4% .

Anche qui la DC . con gli alleati disponeva di un buon 60% dei

voti, mentre sulla sinistra, nell’opposizione campeggiava il Partito

Comunista con quasi il 27% dei seggi. Sull’ala destra, il solo partito

d’opposizione rilevante era il liberale, che aveva recuperato

fortemente. Ma nonostante il cospicuo numero di voti e di seggi, la

nuova coalizione aveva elementi di debolezza interna, perché nella

DC una parte (a destra) non simpatizzava con i socialisti, mentre

un’altra parte (a sinistra), concepiva l’alleanza con i socialisti come

un primo passo verso la vera alleanza, rappresentata dal rapporto con

i comunisti. Nel partito socialista, inoltre, vi era ancora un

consistente troncone, che non era favorevole alla nuova alleanza,

prediligendo quella con i comunisti:una parte dei “massimalisti” si

sarebbe scisso, dando luogo allo PSIUP, un’altra rimaneva nel partito

socialista , ma all’opposizione. La linea scelta dai comunisti fu

appunto quella di “chiedere sempre di più”, così da rappresentare le

riforme del centro sinistra come “inadeguate”, allo scopo di alzare,

nel paese, la richiesta sociale, da rendere difficile una azione

riformista coerente con le regole del mercato e da ridicolizzarla. Una

azione di denigrazione, che obbediva anche e in primo luogo ad

esigenze di politica estera, in quanto il PSI, con la nuova linea ,

aveva rafforzato il fronte dell’alleanza atlantica, indebolendo

l’opposizione al Patto Atlantico, che risultava oramai marginale. Glie

eventi economici e asociali di questo periodo nion possono essere

compresi senza tenere conto di questo fatto , che si concretava nella

questione “amici del neocapitalismo USA” o suoi avversari

L’interpretazione ufficiale degli intellettuali di sinistra degli anni

2000 dei risultati elettorali del 1968 e delle vicende degli anni della

contestazione “sessantottina” è la seguente, che riporto fra virgolette,

perché mi pare illustri bene il modo con cui le “lenti ideologiche”

possono deformare la lettura dei successi che, pur fra grandi

difficoltà, era riuscito a realizzare il centro-sinistra “ Le elezioni del

1968 si svolsero in un clima sociale di assoluta tensione; sono questi,

infatti, gli anni della contestazione studentesca e del nuovo

movimento operaio”.

“ La contestazione giovanile in opposizione alla guerra del Vietnam,

alle discriminazioni razziali contro i neri e in favore di una società

liberata da ogni oppressione era passata dagli Stati Uniti in Europa.

Le manifestazioni si diffusero dapprima in Francia, per poi

raggiungere anche le università e le scuole medie superiori italiane

intorno al 1967. Gli studenti in agitazione rivendicavano l'esigenza di

radicali riforme di natura scolastica, politica, sociale ed economica,

finalizzate ad un rinnovamento totale nel modo di governare.”

“Ben presto, alle agitazioni studentesche si unì la protesta operaia.

Gli operai, con i metalmeccanici in prima fila, chiedevano un rinnovo

dei contratti di lavoro, miglioramenti salariali, un modo nuovo di

lavorare, meno soffocante e avvilente, la fine delle gabbie salariali

(un sistema contrattuale per cui allo stesso lavoro corrispondevano

salari diversi a seconda della regione), un maggior peso e una più

concreta partecipazione delle classi popolari alla vita politica ed

economica del paese. Il movimento ebbe il suo culmine nel 1969 nel

cosiddetto “autunno caldo”. Nello stesso periodo prese il via la

"strategia della tensione" (nata dall'intreccio tra settori politici

conservatori, mondo degli affari, servizi segreti e logge massoniche

del tutto particolari come la P2), un lungo calvario di stragi e

attentati, cominciato con le bombe del 12 dicembre 1969 all'interno

della Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, e all'Altare

della Patria, a Roma. Collegata ad un disegno politico mirato a

disorientare l'opinione pubblica e a insidiare le istituzioni

repubblicane, la minaccia reazionaria favorì la formazione di gruppi

armati di sinistra, dei quali il più importante fu quello delle Brigate

Rosse, i quali ipotizzarono un prolungamento della resistenza

partigiana .Le frange armate del movimento degli studenti e degli

operai attribuivano aspirazioni insurrezionali al movimento operaio.

In realtà, negli anni settanta la conflittualità sociale prese a diminuire

grazie ai recuperi salariali e alla legislazione dei lavoratori (lo Statuto

dei lavoratori) e ad alcune riforme quali ad esempio l'attuazione

dell'ordinamento regionale, l'abolizione delle gabbie salariali,

l'istituzione della scala mobile, il divorzio”

. In sostanza, nonostante le grandi difficoltà, il centro sinistra aveva

saputo attuare una linea di riforme economiche e sociali di grande

rilevanza. Fu invece seppellito, come inadeguato. Ciò però anche a

causa del fatto che mentre la DC migliorava i suoi risultati elettorali,

in termini di voti , se non di seggi, viceversa il PSI, che si era fuso

con il PSDI ,nonostante queste realizzazioni sociali, perdeva voti e

seggi in parlamento, il potere politico del “riformismo

socialdemocratico” declinava.

TAVOLA 3

ELEZIONI DEL 1968

CAMERA DEI DEPUTATI

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

630 35.566.681 33.003.249 31.803.253 92,8

RISULTATI ELETTORALI IN VOTI E SEGGI

LISTE Voti (in 1.000)

% SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 12.442 39,1 266 42,2

Partito Comunista It. 8.557 26,9 177 28,1

Partito Socialista Un. 4.606 14,5 91 14,4

Movimento Sociale It. 1.415 4,5 24 3,8

P. S. Unità Prol. 1.414 4,4 23 3,6

Partito Liberale It. 1.851 5,8 31 4,9

Altre 1518 4,8 18

2,8

Totale 31.803 100 630 100

SENATO DELLA REPUBBLICA

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

315 32.528.271 30.212.701 28.601.247 92,88

RISULTATI ELETTORALI IN VOTI E IN SEGGI

Gruppo politico Voti (x 1000)

% SEGGI %

Democrazia Cristiana 10.966 38,3 135 42,8

PCI-PSIUP 8.583 30,0 101 32,06

Part. Socialista Un. 4.356 15,2 45 14,6

Movimento Soc. It. 1.380 4,8 11 3,4

Partito Liberale Italiano 1.937 6,8 16 5,0

Altre 1.379 4,9 6 1,9

Totale 28.601 100 315

TAVOLA 4 CAPO DELLO STATO:

Giuseppe Saragat (1964-1971) Giovanni Leone (1971-78)

Sebbene i maggiori problemi politici, nell’area del centro sinistra, riguardassero l’insuccesso della fusione fra socialisti e socialdemocratici che aveva portato a u risultato elettorale peggiore alla somma dei voti dei due partiti nelle precedenti elezioni del 1963, in cui si erano presentati come forse politiche separate, l’effetto negativo maggiore del risultato elettorale riguardò la DC, che pure era andata bene. Essa era allarmata della enorme crescita dei voti dei comunisti, che erano oramai arrivati al 27% alla Camera, mentre al Senato, collegandosi con il PSDIUP (il partito socialista massimalista, nato della scissione del PSI-PSDI Unificati ), il PCIO era arrivato al 30% di voti e al 32% dei seggi Una cifra ingente . Questa avanzata comunista con i socialisti massimalisti e il rallentamento del successo dei socialisti riformisti, che , assieme ai socialdemocratici, avevano preso meno della somma dei voti dei due partiti, rese difficile il cammino dei governi del centro-sinistra , nella

nuova legislatura e diede origine a una fase di “solidarietà nazionale”, la cui prima e più illustre vittime fui l’economia di mercato. I governi , dopo un primo governo monocolore di Leone, furono di DC di centro , i moderati, i cosiddetti dorotei, alleati con i socialisti , come Mariano Rumor (che occupo, con tre governi gran parte della legislatura ed Emilio Colombo, La formula del centro sinistra veniva perseguita con tenacia, realizzando importanti riforme sociali, Ma nella DC stava crescendo la corrente favorevole alla apertura al PCI, sotto la pressione delle tensioni sociali e , soprattutto, del terrorismo , che dilagava nelle fabbriche, nelle scuole, nei giornali. . La situazione era in bilico. Nel 1972 però le elezioni, benché punissero i socialisti, scesi al 9% dei voti, non generarono una smentita elettorale del centro-sinistra in quanto la DC confermava le sue posizioni , sia di voti che di seggi, alla Camera e al Senato, mentre i socialdemocratici ottenevano un buon successo elettorale, sicché la coalizione di centro sinistra era ancora solida , in termini di voti e seggi. I comunisti erano fermi sulle loro posizioni. A destra, si erano molto rafforzati il movimento sociale italiani e vedevano ridotta la loro forza i liberali. Fra gli “opposti estremismi” vi era un’area di centro e centro sinistra molto ampia. Ma stavano accadendo due fenomeni: la crisi energetica, dovuta all’enorme rincaro del prezzo del petrolio, conseguente alla guerra del Golfo, lo sviluppo sanguinario del terrorismo, con il proliferare di organizzazioni terroristiche che continuavano ad incupire la situazione e a rendere drammatico l’orizzonte politico. portando la politica italiana in una situazione molto difficile , di emergenza politica ed economica. In tale scenario i comunisti poterono finalmente avanzare la loro proposta di governi e regimi di “solidarietà nazionale”, per dare “stabilità politica al paese onde affrontare i gravi problemi che la attraversavano” . La frase fra virgolette è la sintesi della proposta comunista, così come formulata dai suoi leaders, dagli “indipendenti di sinistra” , intellettuali e tecnici dell’economia, che lo fiancheggiavano e dagli ex azionisti che vi vedevano un redivivo CNL. L’aumentato del prezzo dei prodotti petroliferi , assieme alle grandi tensioni sindacali e salariali avevano generato la svalutazione della lira , la nostra moneta , nel cambio con

io dollaro e le altre monete forti, fra cui allora, il marco tedesco: e dell’esportazione di rilevanti capitali all’estero , la cosiddetta "fuga di capitali"),. TAVOLA 5 ELEZIONI DEL 1972 CAMERA DEI DEPUTATI

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

630 37.049.654 34.524.106 33.414.779 93,2

RISULTATI ELETTORALI –VOTI E SEGGI- NUMERO E PERCENTUALI

LISTE Voti (in 1000)

% SEGGI Numero %

Democrazia Cristiana 12.919 38,7 266 42,2%

Partito Comunista It. 9.073 27,1 179 28,4

Partito Socialista It. 3.210 9,6 61 9,6

MSI - Destra Naz. 2.897 8,7 56 8,8

P.S.D.I. 1.718 5,1 29 4,6

Partito Liberale It. 1.297 3,9 20 3,1

Altre 2.301 6.9 19 3,0

Totale 33.415 100 630 100

SENATO DELLA REPUBBLICA

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

315

33.823.895 31.454.873 30.114.906 93

RISULTATI ELETTORALI IN VOTI E SEGGI

VALORI ASSOLUTI E

PERCENUALI

Gruppo politico Voti (in 1000)

% SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 11.466 38,1 135 42,8

PCI-PSIUP 8.475 28,1 94 29,8

Part. Soc. It. 3.226 10,7 33 10,4

MSI – DN 2.378 9,1 26 8,2

PSDI 1.614 5,4 11 3,15

Partito Liberale It. 1.316 4,4 8 2,6

Altre 1.280 4,2 8 2,6

Totale 30.115 100 315 100

TAVOLA 6

CAPO DELLO STATO:

Giovanni Leone (1971-78)

Il centro sinistra oramai era in crisi, dal punto di vista non già delle forze parlamentari, ma del rapporto con le piazze e il terrorismo e dal punto di vista della nuova cultura , che andava emergendo, nella sociologia e nell’economia, di critica al neo capitalismo. Questa critica stava determinando nel mondo socialista una nuova tensione, verso valori meno socialdemocratici e più libertari, quindi più individualistici e liberali , mentre nel mondo democristiano stava riemergendo la linea del cattolicesimo filo comunista.

ELEZIONI DEL 20 GIUGNO 1976

CAMERA DEI DEPUTATI

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

630 40.423.131 37.760.520 36.727.273 93,4

RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI. VALORI ASSOLUTI E PERCENTUALI

LISTE Voti (x 1000) % SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 14.218 38,7 263 41,7

Partito Comunista It. 12.623 34,4 227 36,0

Partito Socialista It. 3.543 9,6 57 9,0

MSI - Destra Naz. 2.245 6,1 35 5,5

P.S.D.I. 1.237 3,4 15 2,3

Partito Liberale It. 479 1,3 5 0,7

Partito Repubblicano It. Altre

1.134 2.382

3.1 6,5

14 2,228 4,4

Totale 36.727 100 630 100

SENATO DELLA REPUBBLICA

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

315 34.908.119 32.557.373 31.448.181 93,26

RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI VALORI ASSOLUTI E PERCENTUALI

Gruppo politico Voti (x 1000) % SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 12.227 38,9 135 44,2

P. Comunista Italiano 10.641 33,8 116 36,8

Part. Soc. It. 3.210 10,2 29 9,2

MSI – DN 2.090 6,7 15 4,7

PSDI 967 3,1 6 1,9

Partito Liberale It. 436 1,4 2 0,6

Partito Repubblicano It. Altre

846 1.877

3,1 5,9

6 1,912 3,8

Totale 31.448 100 315 100

TAVOLA 7

CAPO DELLO STATO:

Giovanni Leone (1971-78)

GOVERNI DELLA LEGISLATURA:

• 3° Governo Andreotti • 4° Governo Andreotti • 5° Governo Andreotti

Nelle elezione del 1976, il PCI, ottenne un successo mai visto in

precedenza arrivando al 34% dei voti e al 36% dei seggi alla Camera

e al Senato. La DC teneva le posizioni, sia in voti che in seggi, tanto

alla Camera che al Senato: con un 38% abbondante dei voti tanto alla

Camera che al Senato, mentre in termini di seggi, arrivava ,

rispettivamente, al 42% e al $$% nella prima e nella seconda

Camera. Ma mentre il PSI teneva la sua oramai modesta posizione di

poco inferiore al 10%, il partito socialdemocratico aveva registrato

perdite rilevanti, pervenendo al 2% soltanto dei seggi. I repubblicani

erano schierati per la nuova formula , che ampliava il centro sinistra

al PCI, pur condizionandolo alla solidarietà europea ed atlantica e a

politiche di rigore nella finanza pubblica. La formula del centro

sinistra tradizionale , così era oramai molto precaria per la DC: alla

Camera, ammesso che tutti i socialisti fossero ad essa favorevoli, la

coalizione di centro sinistra puro, che non poteva più contare sui

repubblicani, arrivava attorno al 55%, ma nel PSI sfiorava la

maggioranza la linea degli equilibri più avanzati, che concepiva il

centro sinistra come una formula transitoria, per la apertura al PCI.

Questo, con Enrico Berlinguer, aveva elaborato una sua linea di

dirigismo neo mercantilista con

-regolamentazione vincolista nel commercio estero e nelle valute

- credito regolamentato ,

- piani di settore , con agevolazioni varie e interventi di

salvataggio per l’industria , il terziario e l’agricoltura

- politica dei redditi concertata a livello sindacale ,

- ampio stato del benessere e assistenzialismo

Questa linea, denominata “terza via” , pareva raccogliere ampio

consenso sia nelle masse operaie, che nelle imprese pubbliche e in

alcune grandi imprese bisognose di protezioni statali e di accordi

con il sindacato sui salari. Aveva offerto la sua disponibilità a una

politica di riforme in tale direzione , che con l’alleanza con DC e

repubblicani, a livello politico, veniva denominata compromesso

storico e soddisfaceva a linee tradizionali di neo corporativismo

cattolico. Non era facile l’accesso dei comunisti al governo , date le

implicazioni di politica internazionale: se la formula del

compromesso storico si fosse consolidato, l’Italia avrebbe ripudiato

la sua alleanza nel Patto Atlantico e sarebbe diventata una

repubblica dell’area sovietica o di tipo neutrale fra le due aree, come

quella Jugoslava,. Si trattava di una linea anti capitalistica e anti

americana . La fase culminante della nuova linea si ebbe con il 5°

governo Andreotti, che comportava l’ingresso dei comunisti

nell’area di governo, con l’appoggio esterno a una coalizione di

unità nazionale Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli, dominata dall’asse DC-PCI Il

giorno della fiducia al nuovo governo ebbe luogo il rapimento del

leader DC Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse , che era

esponente di una linea in cui i comunisti erano una forza

aggiuntiva, di ampliamento del tradizionale centro-sinistra, ciò che

comportava il maggior ruolo dei socialisti e dei repubblicani e una

linea europeista, favorevole all’alleanza atlantica. Nel frattempo, i

comunisti votavano contro l’adesione dell’Italia allo SME, l’inizio

dell’Unione Monetaria Europea, mentre i socialisti, in cui erano

giunti al potere i riformisti guidati da Bettino Craxi non vi si

opponevano e i repubblicani votavano a favore . Si stava

sviluppando la linea liberal socialista favorevole al mercato,

incompatibile con la linea del compromesso storico e con le

connesse formule di dirigismo economico.

TAVOLA 8

LE ELEZIONI DEL 1979

CAMERA DEI DEPUTATI

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

630 42.203.314 38.252.986 36.671.308 90,6

RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI. VALORI ASSOLUTI E PERCENTUALI

LISTE Voti (x 1000) % SEGGI %

Numero

Democrazia Cristiana 14.027 38,3 261 41,4

Partito Comunista It. 11.129 30,4 201 31,9

Partito Socialista It. 3.591 9,8 62 9,8

MSI – Destra Naz. 1.927 5,3 31 4,9

P.S.D.I. 1.405 3,8 21 3,3

Partito Radicale 1.264 3,5 18 2,8

Partito Liberale 714 1,9 9 1,4

Partito Repubblicano Altre

1.110 2.572

3,0 7,0

16 2,5 27 3,8

Totale 36.629 100 630 100

SENATO DELLA REPUBBLICA

Seggi Elettori Votanti Voti validi %

315 36.364.039 32.877.329 31.344.776 90,41

RISULTATI ELETTORALI. VOTI E SEGGI. VALORI ASSOLUT I E PERCENTUALI

Gruppo politico Voti (x 1000) % SEGGI % Numero

Democrazia Cristiana 12.011 38,3 138 43,8

P. Comunista Italiano 9.856 31,5 109 34,6

Part. Soc. It. 3.253 10,4 32 10,15

MSI – DN 1.781 5,7 13 4,1

PSDI 1.321 4,2 9 2,8

Partito Radicale 413 1,3 2 0,6

Partito Liberale It. 692 2,2 2 0,6

Partito Repubblicano It. Altre

1.052 2.004

3,4 6,4

6 1,9 10 3,1

Totale 31.331 100 315

TAVOLA 9

CAPO DELLO STATO:

Sandro Pertini (1978-1985)

GOVERNI DELLA LEGISLATURA:

• 1° Governo Cossiga • 2° Governo Cossiga • 1° Governo Forlani • 1° Governo Spadolini • 2° Governo Spadolini • 5° Governo Fanfani

I comunisti , in queste elezioni, subiscono una netta sconfitta:tanto

più grave in quanto essi erano appena diventati forza di governo e,

nel governo, aveva svolto una linea ispirata alla politica della

fermezza nella lotta al terrorismo. Ma la loro bocciatura dello SME e

la loro avversione al Patto Atlantico avevano generato, a livello

politico, una reazione di rigetto nei loro confronti dai nuovi ceti, che

si erano avvicinati al partito di Berlinguer, come forza di

rinnovamento. I repubblicani non erano più favorevoli ai governi di

solidarietà nazionale, fra i socialisti oramai i riformisti, guidati da

Bettino Craxi, erano la grande maggioranza e anche la sinistra ,

guidata da Riccardo Lombardi, in quanto europeista, era contraria

all’alleanza con i comunisti e , pur con riserve, favorevole al patto

atlantico. I liberali, oramai assottigliati, delusi dalla linea di destra, si

erano avvicinati al centro sinistra. Questo, dunque poteva tornare ad

essere la formula di governo prevalente, con una innovazione: un

peso maggiore per i partiti laici che nella formula del centro sinistra

degli anni 60 . Sul terreno economico, esso, dopo le lezioni negative

del dirigismo degli anni 70, il nuovo centro sinistra implicava il

favore per l’economia di mercato, la sua rivalutazione, l’adozione

esplicita dei modelli neocapitalistici. A ciò i partiti laici erano

stimolati anche da una nuova forza politica di sinistra , i radicali, che

erano contrari ad ogni forma di dirigismo ed anticomunisti. Ma il

ritorno al sistema di mercato e il riordino delle finanze pubbliche

erano estremamente difficili, anche perché nella DC, frazionata in

correnti , senza più grandi leader che ne dominassero le forze

centrifughe, era oramai sviluppata la prassi dei “franchi tiratori”, che

utilizzavano la regola parlamentare del voto a scrutinio a voto

segreto. Per quanto riguardava la finanza pubblica, una gestione

coerente ed efficiente, era resa difficile dal fatto che oramai erano

proliferati molti soggetti pubblici , al di fuori del controllo del

bilancio statale . E la legge finanziaria , introdotta con una riforma

del 1978, con l’ambizione di risolvere tale problema, non era idonea

a ciò, mentre si prestava a nuovi permissivismi e complicazioni,

nella politica del bilancio del governo centrale. Anche la riforma

tributaria, entrata in vigore da qualche anno, appariva inidonea e, a

sua volta, bisognosa di ampie riforme. Comunque , l’esperimento del

nuovo centro sinistra fu nel complesso positivo. L’Italia stava

attuando un risanamento economico e finanziario, che , per quanto

incompleto, le consentiva di partecipare al processo di sviluppo

dell’integrazione europea.

TAVOLA 10 ELEZIONI DEL 1983

Anno PIL (lire correnti) PIL (miliardi % crescita PIL Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capit

di lire 1995) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1962 29.000 469.000 8,00 51385 9.11963 33.220 499.000 6.39 51816 9,61964 36.360 516.000 3,40 52159 9,91965 39.120 532.000 3,10 52505 10,11966 39.830 525.000 -0,98 52830 9,91967 43.560 557.000 6,09 53144 10,41968 46.980 589.000 5,74 53490 11,01969 51.700 635.000 7,81 53832 11,81970 67.180 787.000 23,93 54179 14,51971 72.990 811.000 3,04 54646 14,8

Dal 1962 al 1972 l’economia italiana si trasforma in economia

neocapitalistica E si attua lo stato del benessere, in regime di

mercato aperto, sia pure fra contrasti e difficoltà, dovuti alla dura

opposizione del Partito Comunista, sorretto finanziariamente

dall’URS, che provoca agitazioni di massa convulsive- che dal 1968 ,

per un po’ paiono sfuggire dal suo controllo. E’ ovvio che questa

trasformazione neocapitalistica irriti profondamente il regime

sovietico e il gruppo storico di comando del PCI e del sindacato della

CGIL, sua cinghia di trasmissione sul terreno della lotta operaia ,

che, a ragione, temono di perdere le basi del proprio consenso,

proprio mentre si consolida e accresce l’importanza della quota

dell’industria sul Prodotto Nazionale.

COMPOSIZIONE PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO LORDO 1951-1961

Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura

Internazionale

1961 8,7 33,8 39,2 18,3 21,2

1965 8,1 34,2 41,0 16,7 27,0

1970 6,8 36,1 43,0 14,1 35,3

FONTE N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993. I dati di Rossi-Sorgato-Toniolo per il periodo precedente sottovalutano l’agricoltura e sopravalutano i servizi e la Pubblica Amministrazione rispetto a quelli di Ercolani-Fuà , in quanto basati su diversi indici di prezzi.

VICENDE POLITICHE: IL CENTRO SINISTRA ORGANICO AL POTERE

III Legislatura: (25 Maggio 1958-15 Maggio 1963)

4° Fanfani (21-2-1962—16-5-1963): Coalizione di Governo: DC-PRI-PSDI

IV Legislatura: (16 Maggio 1963-14 Maggio 1968) 1° Leone (21-6-1963—5-11-1963): Coalizione di Governo: DC 1° Moro (14-12-1963—26-6-1964): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 2° Moro (26-7-1964—21-1-1966): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 3° Moro (23-2-1966—5-6-1968): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI

V Legislatura: (5 Giugno 1968-24 Maggio 1972) 2° Leone (24-6-1968—19-11-1968): Coalizione di Governo: DC 1° Rumor (12-12-1968—5-7-1969): Coalizione di Governo: DC-PSI-PRI-PSDI 2° Rumor (5-8-1969—17-2-1970): Coalizione di Governo:DC 3° Rumor (27-3-1970—6-7-1970): Coalizione di Governo: DC-PRI-PSU 1° Colombo (6-8-1970—15-1-1972): Coalizione di Governo: DC-PRI-PSI-PSDI-PRI 1° Andreotti (17-2-1972—26-2-1972): Coalizione di Governo:DC Con il quarto governo Fanfani si attua il centro sinistra organico,

con un governo tripartito DC, PSDI, PRI e l’appoggio esterno dei

socialisti.Dopo le elezioni, che vedono la conferma di questa

coalizione, sia pure con arretramenti della DC e del PSI, vi è

dapprima un governo transitorio monocolore DC presieduto dal

presidente della Camera, futuro presidente della Repubblica Leone ,

poi tre governi di centro sinistra con i socialisti , presieduti da Aldo

Moro. Nella successiva legislatura mentre la DC rimane sulle quote

precedenti, i socialisti che si sono riunificati con i socialdemocratici,

perdono rispetto alla precedenti quote dei due partiti . Ciò comporta ,

dopo qualche tempo, una nuova scissione e problemi delicati

all’interno del centro sinistra organico. Inizialmente vi è un governo

monocolore transitorio di Giovanni Leone, poi un governo di centro

sinistra organico presieduto da Mariano Rumor, con la partecipazione

del Partito Socialista Unificato, cui segue un suo monocolore e

ancora un governo Rumor con i socialisti unificati e un governo

Colombo di centro sinistra . Nel 1972 il presidente della Repubblica

Giuseppe Saragat constata l’inesistenza di una maggioranza e

convoca le elezioni. Rimane in carica , per un mese, un governo

monocolore prelettorale Andreotti. Con il governo Colombo del

1970-72 si può dire che termini il centro sinistra organico. Ora

comincerà un periodo di grande instabilità politica, aggravato dalla

instabilità economica, generata dalla crisi petrolifera del 1973, a

seguito della guerra del Kippur, che farà passare di colpo il petrolio

grezzo da 3 dollari il barile a 12. Ma questa è una vicenda successiva

al periodo che esaminiamo.

Che, dal punto di vista politico è abbastanza stabile e lo è

soprattutto nella guida della politica economica, in quanto al

Ministero del Tesoro dopo il socialdemocratico Roberto Tremelloni

che vi rimane sino al giugno 1963, si insedia Emilio Colombo che vi

rimane dal 1963 al 1970 in cui diviene presidente del Consiglio. Al

Tesoro va allora il democristiano Mario Ferrari Aggradi, già

collaboratore di Vanoni che vi rimane sino a quando cade il governo

Colombo e viene formato il monocolore per elettorale di Giulio

Andreotti, in cui al Tesoro torna Emilio Colombo.

MINISTRI DEL TESORO 1962-72 Tremelloni Roberto 21.02.62 21.06.63 Colombo Emilio 21.06.63 06.08.70 Ferrari Aggradi Mario 06.08.70 17.02.72 Colombo Emilio 17.02.72 26.06.72

VICENDE POLITICHE ED ECONOMICHE DEL PERIODO. . Nonostante le critiche e le turbolenze dovute prima al Partito

Comunista poi alle rivolte studentesche ed operaie (queste sotto il

controllo del PCI) , si tratta di uno dei periodo di più alta crescita

dell’economia italiana. Il PIL italiano passa da 433.000 miliardi di

lire 1995 nel 1961 a 811.000 nel 1971 con una crescita dello 87% in

10 anni , pari allo 6,5% annuo composto . L’aumento della

popolazione è del 6% circa soltanto. Pro capite il Pil in questo

periodo aumenta del medio annuo circa del 65% in un decennio. Le

serie statistiche fra il 1969 e il 1970 non sono omogenee. Con la

rettifica relativa al 1970 è emerso un maggior prodotto nazionale del

23 % che si spalma sui vari anni precedenti in modo non noto e che ,

per una parte limitata, si può attribuire anche ad anni precedenti il

decennio in esame. Esso però ragionevolmente appartiene per la

maggior parte a questo periodo. Dunque questo periodo regge bene

al confronto con quello che fu denominato del miracolo economico,

in cui, come si è visto il PIL è cresciuto del 6,7% annuo composto.

Ed ovviamente la crescita percentuale era più facile, perché si partiva

da una base più modesta. Se si considera l’intero periodo di 23 anni

dal 1949 al 1972 che è quello del centro e del centro sinistra , con la

guida democristiana e la partecipazione dei partiti di centro o centro

sinistra, il PIL dell’economia italiana aumenta al tasso composto

del 6,6% annuo . Pro capite l’aumento nei 24 anni di dominio della

maggioranza centrista o di centro sinistra storico della “prima

repubblica” il PIL passa da 4 milioni di lire 1995 a 15,4 con un

aumento di quasi quattro volte ! Un miracolo economico che

nessun’altra nazione europea ha realizzato , nell’ottocento o nel

novecento.

Il debito pubblico che era nel 1961 il 37% del PIL, scende poi nei

primi anni del centro sinistra sino al 33-34% , poi risale , oscillando

però ancora fra il 39 e il 38%, Solo alla fine del periodo del centro

sinistra organico , il debito pubblico prende a salire al 43%. La

ragione di ciò sta nel fatto che si riduce il tasso di crescita del PIL e

questo a parità di deficit , accresce il rapporto fra deficit e PIL e nel

fatto che le entrate subiscono, a un certo punto una brusca flessione

sul PIL, a causa della riforma tributaria , male impostata dalla

Commissione Cosciani . Il nuovo sistema tributario, non è in grado

di seguire la dinamica di crescita della spesa pubblica, che è

espressione delle esigenze economiche e sociali connesse allo

sviluppo economico Per quanto notevole , la dinamica della spesa,

come si nota, rimase sempre entro il tetto del 20% , per tutto il

periodo. Non sarebbe stata certo tale da generare squilibri di

bilancio se le entrate, che erano mano mano arrivate al 18% del PIL

non fossero cadute, per effetto della riforma tributaria, al 15-16% . In

lire 1995 , il debito passa da 165 mila miliardi nel 1963 a 358 mila

nel 1971: in sostanza è più che raddoppiato. Per altro, dato il

modestissimo livello a cui si trovava il rapporto debito/Pil all’inizio

di questo seconda epoca di miracolo economico italiano e data

l’elevata crescita del PIL , il rilevante aumento del debito pubblico

in termini assoluti , anche misurato a prezzi costanti, non dà luogo a

un rapporto fra debito e PIL in sé preoccupante, almeno per tutti gli

anni ‘60 . La situazione subisce un peggioramento repentino al

termine del centro sinistra . Nel 1972 il debito compie un balzo in

avanti di quattro punti percentuali , portandosi al 42%. Con

l’aumento del debito, aumenta l’onore per interessi su di esso, che,

naturalmente, va ad aggravare il deficit della spesa pubblica, rispetto

alle entrate, che era già elevato. L’onere per interessi risulta

accresciuto, a causa dell’elevato tasso di inflazione, che è

conseguenza della conflittualità sindacale: un fenomeno che, fino al

1967, si poteva spiegare con le tensioni del mercato del lavoro,

connesse alla rapida crescita economica, ma dal 1968 ha una

spiegazione sociologica-politica , dovuta all’irrompere, in tutta

Europa, con l’Italia in prima fila, della “contestazione del sistema”

,che investe la scuola, la fabbrica, gli uffici, il sistema capitalistico,

la famiglia , le istituzioni dello stato. La CGIL guida la lotta

sindacale , sospinta dal PCI, ampliando di continuo le sue

rivendicazioni.

Il tasso di inflazione così, nonostante i modesti deficit di bilancio

degli anni del centro sinistra , tende a superare il 6% annuo e a

portarsi , nel 1968 e nel 1969 allo 8% , per arrivare al 9% prima

ancora che esplodesse la spinta inflazionistica internazionale dovuta

al rincaro del petrolio.

DEBITO SETTORE STATALE

DEBIT0/PIL% INDICE PREZZI AL CONSUMO

DEF Entrate PIL % Pil %

SPESE/PIL %

1962 10.220.000 35,24 6,1831 2 16 17

1963 11.020.000 33,17 6,6527 2 16 16 1964 11.830.000 32,53 7,044 2 17 17 1965 13.380.000 34,20 7,3571 4 17 19 1966 15.030.000 37,73 7,5919 5 17 20 1967 16.540.000 37,97 7,8267 3 18 19 1968 18.460.000 39,29 7,9833 4 18 20 1969 19.890.000 38,47 8,1398 3 18 19 1970 22.930.000 34,13 8,5311 5 15 . 19 1971 27.940.000 38,27 9,0007 7 16 20 1972 33.930.000 42,51 9,4703 7 15 21

MODELLI ECONOMICI CHE SI CONTENDONO IL CAMPO IN QUESTO PERIODO In questo periodo in Italia si contendono il campo la formula

dell’economia di mercato con una programmazione conforme al

mercato e con la politica dei redditi, per rendere le politiche sindacali

compatibili con gli obbiettivi di occupazione e sviluppo economico e,

quella dell’economia con programmazione dirigista e la

contestazione del sistema neocapitalista. Questo è un periodo di

intense riforme, alcune deformate dalla spinta rivendicazionista.

L’epoca del centro-sinistra infatti si apre con la Nota aggiuntiva del

Ministro del Bilancio del governo Fanfani Ugo La Malfa del 1962 ,

i cui si enuncia la necessità della programmazione in Italia , al fine

di correggere gli squilibri del processo di crescita e di sorreggerlo

nelle direzioni idonee a accrescere l’occupazione e dare luogo a uno

sviluppo equilibrato. Gli squilibri sono quello fra Nord e

Mezzogiorno, fra consumi privati e quello fra i vari settori produttivi.

Cardine della nuova politica di sviluppo è una politica dei redditi, che

consenta la moderazione salariale, in contropartita del perseguimento

degli obbiettivi di interesse generale , che riguardano in primo luogo

i lavoratori. Inoltre, per la riduzione dello squilibrio fra consumi

privati e impieghi pubblici del reddito, nel campo degli impieghi

sociali e degli investimenti in infrastrutture, è essenziale l’aumento

della pressione fiscale, tramite una idonea riforma tributaria. Per

attuare la programmazione il Ministero del bilancio è trasformato in

Ministero del Bilancio e della Programmazione e viene insediato un

Comitato Nazionale per la programmazione economica. Purtroppo, in

luogo della politica dei redditi si ebbe una accesa conflittualità

sindacale che generò inflazione e sfociò nel “vogliamo tutto” del

1968. Nel dicembre del 1962 fu realizzata la nazionalizzazione

dell’industria elettrica, richiesta dai socialisti come fattore

qualificante della nuova politica di sviluppo dell’impresa pubblica,

Per altro, la nazionalizzazione non fu attuata mediante l’acquisto da

parte delle imprese elettriche del gruppo IRI della maggioranza delle

società per azioni private, come era accaduto poco prima per il

settore telefonico, bensì con l’acquisto dello Stato dalle società

private dei loro impianti e reti elettriche che venivano conferite a una

nuova impresa organizzata come ente statale e non come società per

azioni. L’operazione mentre costò enormi cifre al Tesoro , generando

il bisogno di una politica emissione di titoli pubblici, in cambio dei

nuovi possessi patrimoniali, dava luogo a un ente economico statale

di modello antiquato, poco adatto alla politica di sviluppo

tecnologico e infrastrutturale del settore elettrico che si era

immaginata, mentre la conversione delle ex compagnie elettriche in

imprese manifatturiere generava investimenti finanziari artificiosi

nel comparto chimico e in quello alimentare , che non giovarono

all’economia. Nel 1965 il Ministro del Bilancio del secondo governo

Moro il socialista Antonio Giolitti presentava il programma

economico quinquennale 1965-69 in cui prevedeva il coordinamento

organico degli investimenti pubblici, la riforma della pubblica

amministrazione, la attuazione di un servizio sanitario nazionale e la

riforma del sistema previdenziale e la riforma della legislazione sulle

società per azioni. Prevedeva anche la sottoposizione degli

investimenti privati delle imprese maggiori alla approvazione agli

Uffici Ministeriali per la verifica della loro conformità al

programma. Con questa proposta, che non rientrava nella filosofia

della programmazione conforme al sistema di mercato lanciata da

Ugo La Malfa, si generava un conflitto fra Ministero del Bilancio e

forze economiche , che metteva in crisi il governo. Il piano , per la

sopraggiunta crisi di governo, non veniva approvato. Nel 1967

veniva invece approvato il programma quinquennale di sviluppo

1966-1970 a cura del Ministro del Bilancio socialista Giovanni

Pieraccini, che alla approvazione degli uffici del Bilancio

sottoponeva solo i programmi di investimento delle imprese

pubbliche e che prospettava un ambizioso programma di riforme

urbanistica, sanitaria, tributaria, della scuola superiore e

dell’Università e della Pubblica Amministrazione e rilanciava (ma

vanamente, dato il clima sindacale arroventato che si profilava ) la

politica dei redditi, ai fini di uno sviluppo economico senza

inflazione. Nel 1967 veniva anche lanciato un grosso programma di

edilizia popolare per i lavoratori finanziato con contributi sociali ,

denominato Gescal, Gestione case Lavoratori , quale componente

della riforma urbanistica. Nello stesso anno viene approvato uno

stralcio di riforma urbanistica denominato Legge Ponte. Nel 1968

viene attuata una prima grande riforma del sistema sanitario,

realizzando la trasformazione dei vari ospedali in una rete organi di

ospedali pubblici coordinata, istituendo il Fondo nazionale

ospedaliero per il loro finanziamento e il piano ospedaliero nazionale

per il loro coordinamento. E’ del marzo 1968 la legge Brodolini di

riforma delle pensioni, c che eleva al 65% della retribuzione media

dell’ultimo triennio di attività lavorativa la pensione di anzianità per i

lavoratori che abbiano quaranta anni di anzianità nel lavoro (35 le

donne). Usufruiscono di tale pensione anche coloro che vanno in

pensione a 60 anni di età (55 le donne) indipendentemente dalla

anzianità lavorativa. . La legge viene ben presto deformata,

introducendo anzianità convenzionali, scatti artificiosi di retribuzioni

nei periodi finali, sconti negli anni per avere diritto alla pensione di

anzianità ed altri privilegi. E’ del 20 maggio 1970 la legge che

introduce lo statuto dei lavoratori. Originariamente il suo intento era

quello di garantire i lavoratori dalle discriminazioni politiche, di

sesso, di razza e da forme di sfruttamento e di consentire riunioni

democratiche nelle imprese, Ma in esso venne inserito anche

l’articolo 18, non previsto nel testo originario, che , per ogni unità

aziendale con più di 18 addetti, stabiliva l’obbligo di reintegrazione

nel posto di lavoro non solo dei lavoratori licenziati per motivi

discriminatori, ma di ogni lavoratore per il quale non fosse

dimostrata la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento:

così dando luogo, in pratica, alla impossibilità del licenziamento

anche di lavoratori condannati in primo grado per furto e autori di

molestie sessuali a carico di altri lavoratori o ripetutamente

assenteisti , per cause diverse da malattie o che rifiutassero il

trasferimento ad altro reparto o non partecipassero in modo efficace

ai corsi di aggiornamento etc. E’ del 7 giugno del 1970 la Legge che

attua l’ordinamento regionale, previsto dalla Costituzione,

introducendo le Regioni a Statuto Ordinario, su tutto il territorio

nazionale. La riforma però viene deformata dal fatti che alle Regioni

non vengono assegnate entrate proprie, ma solo fondi sul bilancio

statale , ciò che genera un aggravio di spesa per lo stato, senza una

corrispondente responsabilità delle amministrazioni regionali. Nel

1971 in ottobre viene approvata la riforma tributaria che , in

sostituzione del sistema di imposte dirette reali e personali statali e

locali precedente, introduce l’imposta personale unica sul reddito

delle persone fisiche e l’imposta sulle società e sostituisce l’imposta

generale sul valore aggiunto all’imposta generale sull’entrata dello

stato ed ad alcune imposte di fabbricazione statali minori e le imposte

comunali di consumo. La riforma dovrebbe entrare il 1 gennaio 1973,

ma la sua attuazione slitterà al 1 gennaio 1974. Nel frattempo si

genera il caos negli Uffici finanziari e il gettito fiscale nel 1972 cade

al 15% mentre le spese pubbliche salgono.

SESTO PERIODO: DAL 1973 AL 1993. LA DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA E L’ECONOMIA DIRIGISTA. INFLAZIONE E DEBITO PUBBLICO

TAVOLA 1

DINAMICA DEL PIL 1973-1982

Anno PIL (lire correnti)

PIL (miliardi % crescita PIL

Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

Di lire 1995) Reale (migliaia) (milioni per abitante0)

1973 96.740 922,39 3 55180 16.830 1974 122.190 975,74 5,4 55645 17.710 1975 138.630 947,19 -2,8 56014 17.100 1976 174.870 1.024,88 8,1 56323 18. 400 1977 214.400 1.070,04 4,2 56599 19.130 1978 253.540 1.128,69 5,4 56829 20.110 1979 309.840 1.203,24 6,8 56999 21.380 1980 387.670 1.241,38 3,1 57140 22.000 1981 464.030 1.261,44 1,6 56536 22.320 1982 543.780 1.270,14 0,73 56742 22.420

LA CONTESTAZIONE DEL SISTEMA NEOCAPITALISTA, LA DECELERAZIONE DELLA CRESCITA.

Nonostante i problemi, l’economia italiana mostra grande vitalità,

anche se la crescita sarà drogata da misure dirigismo bancario,

monetario, valutario e fiscale alla lunga insostenibili .Il PIL ,

misurato in termini reali aumenta soltanto del 37% in dieci anni.

L’incremento medio annuo del PIL , in questa che è l’epoca più

difficile dell’economia e della società civile italiana, dal dopoguerra

in poi, risulta del 3%, che –in ogni caso- si raffronta molto

positivamente con tutti i periodi dell’economia italiana , dall’unità

nazionale in poi, sino a metà del secolo ventesimo. La popolazione

italiana che era di 54.642.000 nel 1972 risulta di 56.742 nel 1982.

L’aumento in 11 anni è soltanto del 10,3% più che nel precedente

periodo. Non ci si sta ancora avviando alla crescita demografica

zero. Pro capite il Pil italiano passa dai 17 milioni circa di lire 1995

del 1972 ai 22 e mezzo del 1982. L’incremento risulta del 32,6%. E’

facile capire che pro capite si tratta di un tasso di poco inferiore al

3% annuo.

COMPOSIZIONE PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO LORDO 1951-1990

Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura

Internazionale

1970 6,8 36,1 43,0 14,1 35,3

1975 6,1 34,8 44,7 14,5 37,1

1980 5,2 35,8 46,1 12,9 40,0

1985 4,9 33,9 48,2 13,0 43,6

1990 4,2 34,3 49,8 11,8 51,4

FONTE : N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993. I dati di Rossi-Sorgato-Toniolo sottovalutano l’agricoltura e sopravalutano i servizi e la Pubblica Amministrazione

rispetto a quelli di Ercolani-Fuà , per un periodo iniziale in quanto basati su diversi indici di prezzi. Nonostante le difficoltà del periodo, il grado di apertura

internazionale dell’economia aumenta , passando dal 35% al 40% in

un decennio, a causa della crescente integrazione economica

nell’area europea. Il settore della pubblica amministrazione è oramai

giunto a un’alta percentuale sul PIL. Ma questa percentuale non

misura il grado effettivo di presenza di enti pubblici nell’economia,

in quanto si sviluppa sempre più la figura dell’impresa pubblica

industriale, commerciale, finanziaria che svolge attività in perdita,

come se fosse un servizio pubblico. Un migliore indicatore del grado

di intervento del settore pubblico nell’economia è misurato dalla

spesa pubblica sul PIL di cui si vedrà più oltre. Il settore agricolo

subisce un ridimensionamento , connesso alla sua crescente

modernizzazione che comporta lo sviluppo di attività di produzione

di beni e servizi connesse all’agricoltura, ma che strutturalmente

fanno parte del settore industriale e del settore terziario. Questo si

amplia, in misura corrispondente, mentre il settore industriale dopo

una breve fluttuazione rimane sostanzialmente al livello percentuale

degli anni ‘70

VICENDE POLITICHE E POLITICA ECONOMICA DEL PERIODO

TAVOLA 2 I GOVERNI NELLE LEGISLATURE dal 1972 al 1983

VI legislatura: 25 Maggio 1972- 4 Luglio 1976

2° Andreotti (26-6-1972—12-6-1973): Coalizione di Governo: DC-PLI-PSDI 4° Rumor (7-7-1973—2-3-1974): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 5° Rumor (14-4-1974—13-10-1974): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI 4° Moro (23-11-1974—7-1-1976): Coalizione di Governo: DC 5° Moro (12-2-1976—30-4-1976): Coalizione di Governo: DC

VII Legislatura: 5 Luglio 1976-19 Giugno 1979 3° Andreotti (29-7-1976—16-1-1978): Coalizione di Governo: DC-PLI-PSDI 4° Andreotti (11-3-1978—31-1-1979): Coalizione di Governo:DC-PSI-PRI 5° Andreotti (20-3-1979—31-3-1979): Coalizione di Governo:DC-PSI-PSDI-PRI

VIII Legislatura: 20 Giugno 1979—11 Luglio 1983 1° Cosssiga (4-8-1979—19-3-1980): Coalizione di Governo: DC-PLI-PSDI 2° Cossiga (4-4-1980—27-9-1980): Coalizione di Governo: DC-PSI-PRI

1° Forlani (18-10-1980—26-5-1981): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 1° Spadolini (28-6-1981—7-8-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 2° Spadolini (23-8-1982—13-11-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 5° Fanfani (1-12-1982—2-5-1983): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI TAVOLA 3 MINISTRI DEL TESORO 1972-1982

Malagodi Giovanni 26.06.72 07.07.73 La Malfa Ugo 07.07.73 28.02.74 Colombo Emilio 14.03.74 29.07.76 Stammati Gaetano 29.07.76 10.03.78 Pandolci Filippo Maria 11.03.78 18.10.80 Andreatta Beniamino 18.10.80 01.12.82

A differenza che nei precedenti periodi, al Ministero del Tesoro in

quest’epoca si alternano , nel giro di un decennio, ben sei ministri, di

partiti diversi , con indirizzi diversi, in parte omogenei all’indirizzo,

via via emergente, del compromesso storico e in parte . Il periodo

iniziale vede al Tesoro, il liberale Malagodi, avverso al nuovo

indirizzo, che era invece nei propositi del presidente dl Consiglio

Giulio Andreotti. Gli succede , poi, nel governo Rumor, Ugo La

Malfa, che è invece fautore della nuova formula, cui invano cerca di

dare rigore finanziario. La morte lo coglierà prima che riesca a

sviluppare la sua nuova politica economia , la cui linea rimane

dunque ignota. Gli succede Emilio Colombo, avverso alla nuova

formula. Seguono tre Ministri che sono omogenei o fautori della

formula del compromesso storico. L’Ultimo, Andreatta, opererà,

però, dall’ottobre del 1980 al novembre 1982 , in un mutato orizzonte

politico, in un governo Forlani e poi in due governi Spadolini, che

hanno oramai superato la formula della solidarietà nazionale ,

oltreché quella del compromesso storico. Il governo cadrà per i suoi

dissensi di Andreatta il Ministro delle Finanze socialista Rino

Formica, esponente della linea di Bettino Craxi che di queste

formule è l’avversario più netto e deciso.

STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO.

Oramai la contestazione al “sistema” , negli anni ‘70 ha dispiegato le

ali e sta ponendo le radici anche nelle istituzioni. I suoi frutti tossici

non tardano ad emergere. L’Italia entra nel tunnel di una economia

dirigista drogata con alta inflazione e controlli valutari e bancari e

sui prezzi pubblici, la spesa cresce a dismisura, le entrate non

seguono. Il deficit genera un debito in gran parte occulto, che

esploderà nel periodo successivo

. TAVOLA 4

IL DEBITO PUBBLICO NEL PERIODO 1972-1982

DEBITO SETTORE STATALE

DEBITO/PIL DEFICIT /PIL

1972 33930000 42,51 0,7 1973 42480000 43,91 0,8 1974 53710000 43,95 0,7 1975 69060000 49, 81 0,12 1976 85180000 48,71 0,8 1977 109920000 51,26 0,10 1978 144550000 57,01 0,14 1979 175260000 56,56 0,10 1980 212560000 54,83 0,10 1981 267510000 57,64 0,11

TAVOLA 5 PRODUZIONE DI GHISA E ACCIAIO (IN TONNELLATE) 1966 1971 1976 1981 Ghisa 6.258.920 8.536.336 11.630.592 12.260.190 Acciaio 13.638.611 17.451.926 23.446.624 24.777.415

N.CREPAX (2002) Storia dell’industria in Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: I conti economici dell'Italia, vol. 1, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Roma - Bari, 1992; Istat, Annuario statistico italiano, Roma, anni vari.

La produzione siderurgica , per tutto il periodo dagli anni 60 agli

anni 80 subisce una continua espansione, tanto nel settore della ghisa

che in quello dell’acciaio : con un raddoppio di produzione nel primo

e un aumento dell’80 nel settore, a più alto valore aggiunto,

dell’acciaio. Questo incremento si collega allo sviluppo industriale

(in particolare industrie meccaniche e ed edilizia ed infrastrutture), di

cui l’acciaio , in vari settori, costituisce la base.

MODELLI ECONOMICI CHE SI CONTENDONO IL CAMPO IN QUESTO PERIODO Il periodo della solidarietà nazionale , con un indebolimento del

potere di voto della DC e un forte potere di voto del PCI e del PSI,

in quell’epoca di nuovo suo alleato, e’ caratterizzata da un

accresciuto ruolo del settore pubblico nell’economia. Fattori esogeni,

quali la crisi petrolifera, non hanno fatto che rafforzare la tendenza

al dirigismo economico, illustrata nella Tavola In Italia, nella

seconda metà degli anni ’60, come sappiamo, era iniziato un periodo

di profonde riforme istituzionali. In particolare, il sistema

pensionistico pubblico generale- la cosiddetta riforma Brodolini

delle pensioni- era entrata in effetto già nel 1969. Con una

impostazione che collegava i benefici pensionistici, calcolati come

percentuale sulla retribuzione posseduta nell’ultimo periodo al

numero di anni di contributi versati, stabilendo che per avere una

pensione previdenziale minima occorrevano almeno 15 anni di

contributi; e disponendo che con 35 anni di anzianità contributiva si

poteva avere diritto alla pensione di anzianità (quella massima del

65% si godeva dopo 40 anni di lavoro) anche se non era ancora

maturata l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia. Negli anni

‘70, il sistema divenne oggetto di continue manipolazioni, con la

creazione di anni di anzianità convenzionali e la determinazione di

nuove basi su cui calcolare la pensione, per accrescere i benefici

pensionistici, senza un preciso rapporto con i contributi versati, senza

preoccupazioni per il problema del finanziamento del futuro deficit

da parte dello stato. Accanto a questa creazione di oneri futuri, che

avrebbe comportato gravosi problemi negli anni ‘80 e ‘90 ed ancora

nel secolo successivo, in relazione al pensionamento di persone i età

ancor giovane, senza rapporto con i modesti contributi versati, vi

furono nuove elargizioni sociali. Il rapporto tra spesa sociale e PIL si

accrebbe , così, negli anni ’70, dall’11.3% del PIL all’inizio del

decennio al 14.8%, alla fine del decennio, senza rapporto con la

dinamica dei contributi sociali o di altre entrate destinate al loro

finanziamento. . Anche le spese per le Regioni , istituite nel 1970,

nel quadro della politica di riforme del centro sinistra, si dilatarono

senza rapporto con le entrate regionali. Nella nuova fase di “equilibri

sociali più avanzati” , non esisteva più il principio del rapporto fra

spese ed entrate, che aveva retto la programmazione di bilancio negli

anni del centro sinistra. Le Regioni aggiungevano i loro nuovi

servizi a quelli dello stato senza entrate corrispondenti, da loro

prelevate sicché le spese di servizi generali dei governi , che nel

1969-70 era il 3,5% del PIL si e’ accresciuta durante gli anni ‘70 del

33%, raggiungendo il 5% all’inizio degli anni 80, mentre le Regioni

non avevano un proprio autonomo sistema di entrate . Come

conseguenza dell’ampliamento dei trasferimenti a imprese pubbliche

ed enti pubblici sia per investimenti che per deficit di esercizio

dovute a gestioni in perdita , la spesa pubblica per “servizi

economici” e’ aumentata dal 5% del PIL nel 1969 al 6.4% all’inizio

degli anni 80. Nello stesso periodo le spese per l’edilizia d’abitazione

economica e popolare (che spesso non andava a favore dei meno

abbienti ma di operai ed impiegati relativamente benestanti , dotati di

maggiore influenza politico-sindacale ) raddoppiavano come

percentuale del PIL, passando dallo 0.7% all’1.4%. Nel 1972 e nel

1973 la spesa pubblica statale era il 21% del PIL mentre le entrate

statali erano solo il 15% del PIL. Nel 1974 la spesa scendeva al 20%

con le entrate al precedente livello sul PIL . Nel 1975, mentre era in

pieno svolgimento l’epoca politica della solidarietà nazionale, con i

comunisti nell’area di governo, guidati da Enrico Berlinguer , la

spesa statale registrava un balzo in avanti enorme, salendo al 27%

del PIL mentre le entrate statali erano solo il 17% del PIL ! L’anno

dopo , con Berlinguer che sosteneva come carattere distintivo del suo

partito la dottrina l’austerità, la spesa pubblica si ridimensionava al

24% del PIL , che era pur sempre una percentuale elevatissima, in

confronto a quelle della fine degli anni ‘60 e , soprattutto, all’introito

delle entrate statali, che era il 18% del PIL. Nel 1977 la spesa

pubblica risaliva al 25% del PIL e nel 1978 balzava al 31% del PIL:

l’incapacità della coalizione di solidarietà nazionale di governare la

spesa doveva essere evidente ad osservatori non prevenuti . Meno

evidente il singolare contrasto fra la dottrina di Berlinguer

dell’austerità e questo comportamento nella pubblica spesa : che

veniva tinto dalla propaganda del PCI e dei suoi fiancheggiatori (è

l’epoca degli “indipendenti di sinistra”) di valenze sociali . Ma dato

il divario fra spese ed entrate statali ( 21% del PIL) si creavano

continui buchi di bilancio,generando debiti che si sarebbero scaricati

sul futuro, in parte direttamente con il debito emesso sul mercato, in

parte in modo indiretto e occulto con quello che la Banca di Italia e

le banche erano costrette a comperare. Al debito occulto contribuiva

anche la politica di interessi sul debito tenuti artificiosamente bassi,

mediante gli obblighi imposti al sistema bancario e alla banca

centrale di acquisto del debito pubblico e mediante i rigidi controlli

valutari, che segregavano il mercato finanziario italiano da quello

estero. Il tutto con una politica di emissioni di debito a breve termine,

che costava all’erario di meno di quello a lungo termine, ma

generava inflazione, essendo- date le sue scadenze- quasi moneta o

moneta. Nel 1979 la spesa scendeva un poco al 29% del PIL, ma

nel 1980 tornava al medesimo livello e nel 1981 arrivava al 33% del

PIL con le entrate al 23%. Ciò che stava accadendo era un

inarrestabile progresso della spesa sul PIL, dovuto ai fattori

strutturali di crescita, che vi si erano innestati negli anni 70 , alla

riduzione del tasso di crescita del PIL che era pressoché dimezzato

rispetto al precedente periodo e perciò , per un rapporto costante fra

spesa e PIL, esigeva una crescita dimezzata della spesa, in valori

assoluti e al mordere della spesa degli interessi sul PIL che

nonostante gli artifici per tenerla bassa, diventava via via più

consistente. Dal 1972 al 1981 la spesa statale e’ aumentata dal 21%

del PIL al 33% del PIL, di ben 12 punti percentuali, pari al 57%.

Solo un punto riguardava le spese in conto capitale. Ma non

accadde un analogo incremento per le pubbliche entrate. Le entrate

statali erano passate dal 16% del PIL nel 1971 al 23% del PIL nel

1981, con un aumento di 7 punti, in percentuale il 43%. Ma le

percentuali su importi diversi sono ingannevoli. Il divario fra entrate

statali e spese statali nel 1971 era di 4 punti, mentre nel 1981 era

salito a 10 punti. Questa era l’eredità che i governi di solidarietà

nazionale quelli successivi di transizione lasciavano al pentapartito,

nel settore del bilancio statale. Il problema delle entrate era ben più

grave di quello delle spese, su cui la letteratura economica si è

soprattutto soffermata. Si può dire infatti che la crescita della spese,

benché irrazionale nelle sue modalità , corrispondeva alle esigenze di

modernizzazione, per la costruzione di uno strato del benessere

coerente con il modello di neocapitalismo avanzato a cui l’Italia

stava pervenendo, pur nei lacci e laccioli del dirigismo neo

mercantilista degli anni ‘ 70. Ma la politica delle entrare era stata

disastrosa, nulla del rigore di Vanoni e Tremelloni vi era rimasto,

nonostante la dottrina dell’austerità sbandierata dal segretario del

PICI Enrico Berlinguer. Nel 1971, come si è visto, era stata

approvata un’ampia riforma tributaria basata sull’imposta personale

progressiva unica , ispirata in gran parte a principi astratti di

perequazione tributaria , in cui però la sostanza era che il gravame

della progressività colpiva essenzialmente i redditi di lavoro dei ceti

medi impiegatizi ed operai . La riforma aveva saldato assieme gli

interessi di grandi operatori economici con la linea operistica del

PCI ( e del PSI allora al suo rimorchio ). La sostituzione

dell’imposta personale unica progressiva sul reddito in luogo delle

imposte reali, affiancate dall’ imposta complementare progressiva

sul reddito , con l’aggiunta di una imposta comunale basata sul

tenore di vita della famiglia riduceva in effetti l’onere per i soggetti

a maggior reddito. Ciò perché l’ imposta personale unica progressiva

non era accompagnata da serie tecniche di accertamento del reddito

globale, nelle forme diverse dal reddito di lavoro dipendente. Anche

la nuova imposta sul valore aggiunto di tipo europeo , destinata a

rimpiazzare il precedente sistema di imposte sugli scambi basate

sull’imposta generale dello stato sulle vendite a ogni fase e sulle

imposte comunali di consumo, fu disegnata in modo astratto, senza

prevedere apposite tecniche di accertamento . La sua applicazione

pratica venne posposta al gennaio del 1974 a causa delle difficoltà

applicative e si rivelò sin dal principio poco efficace. Le entrate

tributarie complessive passarono dal modestissimo 16% del PIL nel

1972-74 al 17% del Pil nel 1975 al 18% nel 1976, al 19% nel 1977,

al 21% nel 1978, per tornare al 20% nel 1979. La crescita era dovuta

precipuamente all’effetto dell’inflazione che accresceva la pressione

delle aliquote nominali a parità di redditi reali: e mordeva soprattutto

sui redditi di lavoro, che davano i quattro quinti del gettito. Solo nel

1980 , con l’avvento del primo ministero delle finanze socialista,

Franco Reviglio , finalmente, arrivarono al 23% e a tale livello

rimasero sino al 1981. Ma nel frattempo , la forbice fra spese ed

entrate aveva generato alti disavanzi e inflazione, con pericolosa

crescita del debito pubblico . Come risultato del deficit e

dell’inflazione la spesa per interessi sul debito pubblico aumentò

dall’1,6% del PIL all’inizio degli anni ’70 al 6.2% del PIL nel 1981.

Va però detto che in parte notevole questa elevata spesa pubblica per

interessi controbilanciava la riduzione di valore dello stock del debito

derivante dalla elevata inflazione. Una volta deflazionata per la

perdita di valore dello stock del debito, la crescita della spesa per

interessi non appariva elevata. D’altra parte , come già si è notato, il

tasso di interesse sul debito pubblico negli anni ‘70 era stato

mantenuto artificialmente a livelli bassi, mediante controlli del

sistema del credito , con obblighi per le banche di comperare quote

del debito pubblico e di razionare il credito al mercato di

conseguenza e obbligo per la Banca centrale di assorbire debito

pubblico che non era stato acquistato sul mercato . Il tutto coronato

da severi controlli sulle esportazioni di valuta. E l’aumento dello

stock del debito nel periodo in esame tuttavia fu molto notevole.

Nel 1971 il rapporto fra debito pubblico e PIL era solo il 38% del

PIL pressa poco come nel 1961. Nel 1972 esso era salito al 43% del

PIL, passava al 44% nel 1973 e nel 1974 , mentre nel 1975 , in

relazione al grosso deficit, balzava al 50%. Nel 1976 scendeva di un

po’, al 49%. , ma nel 1977 si portava al 51%. Un nuovo grande balzo

nel 1978 in cui il debito passa al 57% del PIL, rimanendo su tale

livello anche nel 1979, mentre nel 1980 scendeva al 55%, per risalire

l’anno dopo al 58%. Perciò solo 38% del PIL al 58%: un aumento

di 20 punti percentuali in un decennio. Il rapporto del 58% era un

livello accettabile anche con gli attuali parametri di Maastricht. Ma il

problema era che si era formato un debito occulto , mediante le

misure dirigiste di cui si è visto. Le caratteristiche istituzionali per

abbassare il debito e mantenere il tasso di interesse al prezzo politico

sono descritte nella Tavola 2. Nuove rigidità vennero inserite in

misura crescente nei contratti di lavoro, sia in applicazione del nuovo

Statuto dei Lavoratori, sia a causa della contrattazione collettiva. La

principale forma di rigidità fu dovuta alla nuova formula di scala

mobile , inizialmente applicata solo al salario minimo, poi a tutta la

retribuzione al loro delle imposte indirette , con la conseguenza di

una spinta inflazionistica continua e di un rilevante appiattimento

retributivo. Una politica monetaria permissiva unita a varie forme di

intervento statale sostennero il tasso di crescita del PIL al livello

medio del 3%, malgrado le queste nuove rigidità nei contratti di

lavoro, che generavano una continua spirale fra prezzi-costi del

lavoro e prezzi . Il risultato fu un’inflazione a 2 cifre, che si proiettò

negativamente sul successivo decennio degli anni ’80.

TAVOLA 6

DALL’INFLAZIONE MODERATA DELL’EPOCA CENTRISTA E

DEL CENTRO SINISTRA ALL’INFLAZIONE A DUE CIFRE

DEGLI ANNI ’70 DI CONTESTAZIONE DEL SISTEMA

CAPITALISTICO E DEL RIFORMISMO

1948 5,5536 1949 1,4443 1950 - 1,3609 1951 8,8531 1952 4,0754 1953 1,9097 1954 2,6184 1955 2,7305 1956 4,7398 1957 1,8946 1958 4,5719 1959 - 0,4198 1960 2,5867 1961 2,8402 1962 4,8526 1963 6,9909 1964 5,5973 1965 4,1637 1966 1,9622 1967 1,9611 1968 1,2583 1969 2,7309 1970 4,8384 1971 4,7617 1972 5,3203 1973 9,3950 1974 16,2794 1975 14,6522 1976 14,1793 1977 15,3251 1978 11,0704 1979 13,5968 1980 17,4557 1981 15,7522 1982 14,0480

La Tavola 3 mostra che in Italia, dopo un momento di transitoria

elevata pressione inflazionistica nel 1951, si ebbe sino al 1962 un

periodo di prezzi relativamente stabili, con un tasso di inflazione che

, salvo qualche punta del 4%, oscillava fra sotto il 3%. Nel 1962 si

superò il 4% e successivamente per un triennio si ebbero tensioni

inflazionistiche attorno al 5% . Seguì poi, con la guida di Emilio

Colombo al Tesoro e di Guido Carli alla Banca di Italia, un periodo

di contenimento dell’inflazione che, sino al 1968, l’epoca

dell’autunno caldo di agitazioni sindacai e studentesche, rimase sotto

il 2%. Successivamente, l’inflazione salì gradualmente portandosi

sopra il 5% nel 1972 . La spinta inflazionistica internazionale della

guerra del Kippur che generò il rialzo del prezzo del petrolio di

quattro volte, portò nel 1973 a un’inflazione del 9%. La lotta

all’inflazione nel nuovo indirizzo politico del compromesso storico

non era più una priorità. Nel 1974, in pieno periodo di solidarietà

nazionale, si inaugura l’inflazione a due cifre , un pesante lascito ,

una mina pericolosa che verrà disinnescata solo con il pentapartito .Il

tasso di crescita dei prezzi al consumo, nel 1974 arriva al 16, 3. Nel

1975 viene introdotto il “punto unico di contingenza”, cioè la scala

mobile sui salari che, inizialmente, doveva consentire la politica dei

redditi, ma diventa invece un diritto acquisito, cui si aggiungono le

altre rivendicazioni, una parte delle quali consistono nell’estendere la

scala mobile a ogni sorta di retribuzione e a tutte le componenti della

retribuzioni di base. Non vi è da stupirsi che nel 1976 , 77

l’inflazione sia del 14% e poi del 15%, l’anno seguente si riesce a

contenerla allo 11% . Ma nel 1979 essa si accresce di nuovo

superando il 13% mentre nel 1980 aumenta al 17%. Con grandi

sforzi la si riduce nei due anni seguenti al 15 e poi al 14%, ma è

evidente che essa sarà sconfitta solo con la modifica della scala

mobile, che avrà inizio con il pentapartito, inaugurato con il V

governo Fanfani del dicembre del 1982.

Le interferenze istituzionali nel credito, nei contratti di lavoro, nel

movimento dei capitali con l’estero e nei rapporti fra bilancio

pubblico e Banca Centrale non erano sostenibili nel lungo periodo.

Dalla Tavole 2 di queste Parte da quella simmetrica della Parte

Settima si può vedere come negli anni ‘80 esse dovettero essere via

via modificate

TAVOLA 7

ALCUNE MISURE DIRIGISTE E DI ESPANSIONE DELLO STATO E DEL DEBITO PUBBLICO NEGLI ANNI ‘70

30/11/1969 istituzione di un sistema generale pensionistico a ripartizione 28/01/1970 Istituzione delle “Regioni” che hanno funzioni di spesa autonoma sulla base di finanziamenti statali. 14/11/1970 statuto dei lavoratori: introduce rigidita’ sui contratti di lavoro. 7/10/1971 riforma fiscale con cambiamenti radicali, fra i quali :la creazione dell’imposta personale unica sul reddito ,; la sostituzione dell’imposta generale statale sugli scambi , di alcune imposte di fabbricazione e delle imposte locali di consumo con u a imposta statale sul valore aggiunto; la sostituzione delle imposte locali con trasferimenti decisi annualmente dal governo e dal parlamento. 1974 introduzione di un tetto al credito delle banche al settore di mercato , obbligo della Banca Centrale di acquistare i titoli del debito pubblico non assorbiti dal mercato 25/01/1975 scala mobile generalizzata sui salari con copertura di un ammontare uniforme e successiva estensione della clausola di copertura a tutti i complementi del salario di base 1976 Legge n.159 che introduce controlli e penalità severe sull’esportazione dei capitali. 5/08/1978 Istituzione della legge finanziaria che permette il finanziamento con debito pubblico del deficit per l’ammontare indicato nell’art. 1

Il modello di eurocomunismo

Basato sulla critica della “ società dei consumi “ del filosofo Herbert

Marcuse e sulla e sulla “immoralità del neocapitalismo “ , con la

conseguente dottrina dell’austerità di Enrico Berlinguer (il cui

teorico era l’economista Claudio Napoleoni) esso, in economia, si

basava su un sistema di dirigismo che, per i suoi connotati di

protezionismo e di commistione fra interessi economici di grandi

imprese private e dell’economia pubblica, si poteva denominare

“neomercantilismo” . Fu attuato solo parzialmente , come si è visto

sopra.

SETTIMO PERIODO: DAL 1982 AL 1993. L’INTEGRAZIONE EUROPEA E IL RIENTRO NEL

SISTEMA DI MERCATO TAVOLA 1 IL PIL DAL 1983 al 1992

Anno PIL (lire correnti)

PIL (miliardi % crescita PIL

Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

di lire 1995) Reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1983 633.413 1.290.000 1,6 56929 27,8 1984 725.678 1.334.000 3,4 57080 28,5 1985 813.862 1.370.000 2,7 57202 29,3 1986 900.438 1.432.000 4,5 57291 30,0 1987 984.659 1.495.000 4,3 57399 30,8 1988 1.092.845 1.579.000 5,6 57505 32,0 1989 1.196.807 1.628.000 3,1 57576 32,9 1990 1.320.832 1.687.000 3,6 57746 33,4 1991 1.440.647 1.731.000 2,6 56757 34,5 1992 1.517.598 1.735.000 0,2 56960 34,6 1993 1.563.271 1.711.000 -0,9 57138 34,2

L’ECONOMIA ITALIANA RITORNA AL SISTEMA DI MERCATO , INTERNO E INTERNAZIONALE.

Questo periodo segna il ritorno dell’Italia ai principi dell’economia

di mercato occidentale. Tuttavia, mentre nell’area dei partiti di

governo e nella opposizione di destra (MSI) si confrontano fra loro

formule coerenti con tali principi, con diverso accento sul ruolo dello

stato e del mercato, nell’economia e con diverse visioni delle

relazioni nel rapporto fra mondo del lavoro e imprese od enti privati

e pubblici, alla sinistra dell’area di governo, il PCI , per molto

tempo, rimane orgoglioso della sua diversità. Solo verso la fine di

questo periodo, con la caduta del muro di Berlino e la fine

dell’URSS, esso si convertirà al sistema di mercato, stringendo

spregiudicatamente una alleanza con la grande impresa e la grande

banca: che non è innaturale, data la sua persistente avversione per le

classi sociali della piccola e media borghesia da cui era nato il

riformismo e la sua scarsa simpatia per la piccola e media impresa,

che nasce dalla cultura marxista. Il PIL cresce fra il 1982 e il 1992

cresce del 36,6% al tasso medio annuo del 3,25% e poiché la

popolazione è stazionaria , questo è anche il tasso di crescita del PIL

pro capite. Si tratta di un risultato molto notevole, considerando che

questo è un periodo di riorganizzazione economica, in cui l’Italia

man mano recide i precedenti dirigismi, ma è ancora tormentata da

un lato deficit, che genera un alto debito pubblico, come effetto della

emersione del debito precedentemente occultato nella Banca Centrale

e con i vincoli al sistema bancario.

TAVOLA 2 COMPOSIZIONE % DEL PRODOTTO INTERNO LORDO 1951-1990

Anno Agricoltura Industria Servizi Pubblica Amministrazione Grado di apertura

Internazionale

1975 6,1 34,8 44,7 14,5 37,1

1980 5,2 35,8 46,1 12,9 40,0

1985 4,9 33,9 48,2 13,0 43,6

1990 4,2 34,3 49,8 11,8 51,4

FONTE : N. ROSSI, A. SORGATO e G. TONIOLO, I conti economici italiani. Una ricostruzione statistica 1890-1990, Rivista di Storia Economica, 1993.

L’apporto dell’agricoltura al PIL subisce una ulteriore diminuzione ,

livellandosi su quello dei maggiori paesi industrializzati, con base

agricola importante, l’industria subisce un lieve ridimensionamento

percentuale, dovuto allo sviluppo del decentramento produttivo, il

cosiddetto outsourcing, che comporta lo scorporo dalle imprese

industriali non solo di produzioni di beni, ma anche di servizi, a

monte e a valle del loro processo produttivo. Il servizi del settore

privato si accrescono , in modo che la loro produzione di valore

aggiunto costituisce la metà di quello globale, mentre si riduce

considerevolmente il settore dei servizi della pubblica

amministrazione , che aveva subito nel precedente periodo un

artificioso gonfiamento.

TAVOLA 3 PRODUZIONE DI GHISA E ACCIAIO (IN TONNELLATE) 1981 Ghisa 12.260.190 Acciaio 24.777.415

1986 1991 1995 Ghisa 11.916.398 10.835.232 11.677.789 Acciaio 22.881.951 25.100.622 27.771.106 N.CREPAX (2002) Storia dell’indistria in Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: I conti economici dell'Italia, vol. 1, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Roma - Bari, 1992; Istat, Annuario statistico italiano, Roma, anni vari.

Come si nota, la produzione siderurgica, agli inizi degli anni ’80

subisce un ridimensionamento. Esso è dovuto alle politiche

comunitarie rivolte a eliminare le capacità produttive in eccesso.

Successivamente, nel periodo del pentapartito, si realizzano

riorganizzazioni e privatizzazioni che portano a un consistente

sviluppo della produzione di acciaio, mentre rimane ridimensionata

la produzione, meno nobile, di ghisa.

TAVOLA 4

ANNI TASSO ANNUO DI INFLAZIONE

1983 13,0349 1984 9,5663 1985 7,9218 1986 5,7493 1987 4,4110 1988 4,7232 1989 6,1997 1990 5,7457 1991 6,0281

1992 5,1289

Con il 1983 il tasso di inflazione comincia una rapida discesa dovuta

al disinnesco parziale della scala mobile attuata dal Ministro delle

Finanze del governo Fanfani , Francesco Forte, in cambio di

consistenti riduzioni fiscali e ampliata successivamente dal nuovo

Presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal Ministro del Lavoro

Gianni De Michelis (entrambi PSI) , nel quadro della politica dei

redditi. Il tasso di inflazione scende nel 1984 (soprattutto per effetto

della manovra Forte: infatti così come la scala mobile trasmette

l’inflazione dei trimestri a cui si applica a quelli successivi, la sua

riduzione genera una minor trasmissione dell’inflazione dai trimestri

dati a quelli successivi ) al 9,5%. , finalmente sotto le due cifre. Per

effetto della manovra Craxi-De Michelis l’inflazione scende poi al

7,9%nel 1985 e al 5,7% nel 1986, mentre nel 1987, ultimo anno del

governo Craxi essa è oramai al 4,4% e poco sopra tale livello

rimarrà anche nel 1988. Tuttavia essa non è vinta, non basta il

disinnesco della scala mobile a condurre alla stabilità monetaria, se vi

sono altre rigidità nel mercato del lavoro e in altre strutture

dell’economia , come nell’Italia dell’epoca : l’inflazione torna al 6%

nel 1989 e su tale livello oscilla nel 1990 e nel 1991. Nonostante la

grande svalutazione della lira del 1992 l’inflazione, invece, in tale

anno rimane al 5% . Il pentapartito lascia così l’inflazione al livello a

cui la aveva lasciata il centro sinistra nel 1972, ai suoi successori del

“compromesso storico”. Ma ora l’Italia ha firmato, nel 1992, con

Presidente del consiglio il socialista Giuliano Amato e Ministro degli

Esteri De Michelis e Ministro del Tesoro Guido Carli , il Trattato

dell’Unione monetaria Europea di Masstricht, che obbligherà a porre

la stabilità monetaria fra le grandi priorità della politica economica e

sociale.

TAVOLA 5 I GOVERNI DEL PERIODO DEL RITORNO AL MERCATO DEL

PENTAPARTITO 1982-1993

VIII Legislatura: 20 Giugno 1979—11 Luglio 1983 1° Forlani (18-10-1980—26-5-1981): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 1° Spadolini (28-6-1981—7-8-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 2° Spadolini (23-8-1982—13-11-1982): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI 5° Fanfani (1-12-1982—2-5-1983): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI

IX Legislatura: 12 Luglio 1983-1 Luglio 1987 1° Craxi (4-8-1983—27-6-1986) : Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 2° Craxi (1-8-1986—3-3-1987) : Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 6° Fanfani (17-4-1987—28-4-1987) : Coalizione di Governo: DC-INDIPENDENTI

X Legislatura: 2 Luglio 1987-22 Aprile 1992 1° Goria (28-7-1987—11-3-1988): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 1° De Mita (13-4-1988—19-5-1989): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 6° Andreotti (22-7-1989—29-3-1991): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PRI-PLI 7° Andreotti (12-4-1991—24-4-1992): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI TAVOLA 6 MINISTRI DEL TESORO 1980-94

Andreatta Beniamino 18.10.80 01.12.82 Goria Giovanni Giuseppe 01.12.82 29.07.87 Amato Giuliano 29.07.87 22.07.89 Carli Guido 22.07.89 27.06.92 Barucci Pietro 28.06.92 27.04.93 Barucci Pietro 28.04.93 09.05.94

Dal 1982 al 1987 al Ministero del tesoro vi è la guida ferma di

Giovanni Goria, che si può dire il protagonista a livello tecnico del

rientro dell’Italia nel sistema monetario e finanziario europeo,

assieme al governatore della Banca di Italia Carlo Azelio Ciampi,

succeduto allo sfortunato Paolo Baffi nel 1980. Gli succede Giuliano

Amato, che prosegue nella medesima linea, anche perché il

presidente del Consiglio, nel periodo sino al gennaio 1988 è

Giovanni Goria. Ad Amato succede Guido Carli che rimane in carica

per un triennio, realizzando importanti riforme, come la

partecipazione alla formulazione del Trattato dell’Unione Monetaria

di Maastricht, che lui stesso sottoscrisse. Segue, per un biennio

l’economista Piero Barucci che con Amato presidente del consiglio,

prosegue nel solco tracciato da Goria, Amato e Carli, affrontando con

successo anche il difficile momento della caduta del cambio della

lira del 1992. Nonostante l’alternarsi di quattro Ministri del Tesoro ,

per altro, si tratta di una fase di grande continuità, dato che due di

essi sono anche presidenti del Consiglio quando lasciano il Tesoro e

uno è l’ex governatore della Banca di Italia, che ne ha realizzato

l’inserimento pieno nel sistema monetario internazionale, guidandola

dal 1960 al 1975.

STRUTTURE ECONOMICHE E VICENDE DEL PERIODO. Il recupero di potere di voto da parte della DC , la riduzione di quello

del PCI e soprattutto lo spostamento del PSI dalla politica di

sudditanza al PCI a una linea autonoma, sempre più indirizzata a

formule di socialismo liberale, causarono, nella legislatura 1979-

1983 e soprattutto in quella successiva il periodo del governo Craxi,

governi di coalizione fra DC , PSI e partiti laici minori (PRI, PLI e

PSDI) , il cosidetto pentapartito che realizzarono gradualmente

importanti cambiamenti istituzionali nella politica fiscale, in quella

monetaria e in quella del lavoro, accrescendo le entrate, riducendo il

dirigismo del credito e della moneta e abbattendo rigidità nel settore

del lavoro , create negli anni 70. Una importante innovazione ,

attuata nei primi anni ’80, fu il cosiddetto “divorzio” tra Banca

d’Italia e Tesoro, in base al quale la prima non era più obbligata ad

operare come sottoscrittore residuale dei titoli del debito pubblico.

La principale conseguenza immediata del “divorzio” fu l’incremento

sostanziale in termini reali del tasso di interesse, che faceva emergere

il costo effettivo del servizio debito pubblico, sino ad allora nascosto

mediante l’artifizio inflazionistico della sottoscrizione forzata della

Banca Centrale E poiché gran parte del debito pubblico degli anni

‘70 era costituito da titoli di breve termine, il peso del debito

aumentò non solo a causa dei nuovi deficit, ma anche in conseguenza

del finanziamento dei debiti precedenti a tassi di mercato. D’altro

canto, il tasso di crescita del PIL iniziò a declinare. Vari fattori

spiegano tale declino. Un certo ruolo lo hanno avuto le politiche

monetarie correlate ai cambiamenti istituzionali relativi alla gestione

del debito pubblico indicati precedentemente . Il tasso di interesse

superò il tasso di crescita del PIL aggravando l’onere del debito.

La nuova politica monetaria non permissiva fu chiaramente

condizionata dalla scelta dell’Italia nel 1981, di entrare nello SME ,

il sistema di cambi relativamente fissi dell’Unione Europea, nel

1981: cosa che avvenne mediante la concessione all’Italia di far

fluttuare la lira entro una banda provvisoria più larga di quella

ordinaria. Il PCI votò contro tale scelta, che costituiva una chiara

opzione di integrazione nel sistema di mercato europeo. Le linee di

politica economica fra il pentapartito e il PCI si andavano

divaricando e, in particolare si divaricava sempre più la linea del

PSDI guidato da Bettino Craxi , con una impostazione liberal

socialista, dalla linea dirigista dei comunisti.Nella legislatura del

1983-1987, la coalizione DC-PSI divenne dominante, con sostanziale

continuità di governo nell’intero periodo, in cui la guida fu tenuta da

Bettino Craxi. Il maggior evento di politica economica di tale

periodo fu la ricordata abrogazione della scala mobile delle

retribuzioni, nel 1985 e la successiva vittoria del fronte governativo

nel referendum indetto dal PCI e dalla CGIL per la sua

reintroduzione. Altri rilevanti cambiamenti istituzionali hanno avuto

luogo nella seconda metà degli anni 80 in relazione a fattori esogeni

di partecipazione alla nuova fase di integrazione europea, iniziata con

il vertice di Milano, in cui fu varato l’Atto Unico in cui veniva data

vita al “grande mercato unico europeo : la liberalizzazione dei

movimenti valutari con l’estero, l’abrogazione del conto corrente del

Tesoro con la Banca di Italia, l’attuazione della direttiva che

impedisce gli aiuti di stato alle imprese pubbliche e alle banche ,

l’inizio della politica di privatizzazione delle imprese pubbliche .In

prospettiva vi era l’accordo sull’unificazione monetaria europea che

fu approvato nel 1992. Nel 1990 l’Italia e’ così entrata nella banda

stretta dello SME. La marcia dei 30 mila a Torino pone fine al potere

sindacale eccessivo nelle imprese e verso le imprese. L’Italia entra

nel G7. E’ protagonista delle nuove regole del “grande mercato

europeo” con l’Atto Unico al vertice di Milano del 1985 per il cui

varo fu determinante l’azione del presidente di turno dell’Unione

Europea, Bettino Craxi, e del successivo Trattato di Maastricht

dell’Unione Monetaria , cui si comincia a lavorare dalla seconda

metà degli anni ’80. Sono poste così le premesse per un nuovo ciclo

di sviluppo nell’economia globale, ma rimane un pesante onere di

debito pubblico e una pressione fiscale troppo elevata.

TAVOLA 7

LE RIFORME PER IL RITORNO AL SISTEMA DI MERCATO NEL PERIODO DEL PENTAPARTITO 82-92 Marzo 1981 l’Italia entra nella banda larga dello SME. Luglio 1981 Divorzio tra la banca d’Italia e il tesoro circa il ruolo della prima di acquirente residuale di titoli del debito. 1982 aumento e poi abrogazione del tetto del credito delle banche al settore di mercato . 14/2/1984 taglio della scala mobile.

17/2/1986 approvazione da parte dell’Italia dell’Atto unico europeo che introduce nuove regole per un mercato unico europeo libero e non distorto che dovrà completarsi entro il 1992. Gli stati membri che hanno firmato l’atto unico si impegnano all’integrazione monetaria 1986 Italia recepisce la direttiva europea che vieta i sussidi alle imprese pubbliche 1987 liberalizzazione dei ti di capitali con l’estero. 11/3/1988 istituzione del Documento di programmazione economica e finanziaria, per cui, prima della sessione di bilancio, il parlamento approva le linee guida del governo per i successive tre anni e pone un limite al deficit per l’anno successivo 13/8/1988 abolizione del voto segreto in parlamento, tranne per questioni etiche e personali 29/7/1989 abolizione definitiva della scala mobile 12/5/1990 riduzione della riserva obbligatoria delle banche e dell’obbligo di inserire nel loro portafoglio titoli di debito pubblico. 14/5/1990 applicazione della direttiva sulla liberalizzazione completa dei movimenti monetari moneta. 6/1/1990 l’Italia entra nella banda stretta dello SME. 30/7/1990 trasformazione in fondazioni delle banche pubbliche. 20/12/1990 trasformazione in spa soggette al codice civile degli istituti di credi pubblici 1991 abolizione del C/C di tesoreria dello Stato con la banca centrale

8/8/1992 trasformazione di IRI, ENI, ENEL, INA in s.p.a in vista delle privatizzazioni 3/11/1992 viene firmato il trattato di Maastricht sulla moneta unica europea con i conseguenti obblighi su deficit e debito Legge finanziaria del 1993 riforme del sistema sanitario nazionale e del sistema pensionistico pubblico

Torna , dunque, il sistema di economia di mercato , con correzioni da

parte dell’operatore pubblico non distorcenti . Emergono man mano

il tema del recupero della flessibilità del lavoro , quello della riforma

dello stato del benessere e quello delle privatizzazioni. Con le azioni

di politica economica e di riorganizzazione produttiva di questo

periodo sono così gettate le basi per l’entrata dell’Italia nell’Unione

Monetaria Europea, la cui idea venne a maturazione durante la prima

parte degli anni ’80, con la creazione dello SME, il Sistema

Monetario Europeo, che vi preludeva . E, in effetti, la spinta

maggiore alla tenace azione di risanamento degli anni 80 fu data

proprio dalla consapevolezza che era necessario rimettere la casa in

ordine, per potere partecipare a tale Unione Se per la Gran Bretagna

poteva essere possibile rimanere fuori da essa, dato il risanamento

economico operato dalla Tatcher , il prestigio secolare della sterlina,

il legame particolare con gli USA e con le regioni extra europee

dell’ex impero britannico, per l’Italia l’isolamento sarebbe stato

estremamente pericoloso.

TAVOLA 8 DEBITO

SETTORE STATALE

DEBITO/PIL %

DEFICIT/PIL %

Entrate Statali/PIL %

Spese Statali/ PIL %

1982 341.710.000 62,68 13 28 39 1983 432.290.000 68,44 14 28 39 1984 521.190.000 72,10 13 28 39 1985 642.270.000 79,28 15 27 40 1986 750.320.000 83,52 12 28 39 1987 864.170.000 87,93 11 29 39 1988 987.830.000 90,62 11 29 38 1989 1.116.770.000 93,69 11 30 39 1990 1.260.000.000 96,13 10 31 40 1991 1.412.040.000 98,91 10 31 40 1992 1.595.120.000 106,16 10 33 43 1993 1.765.520.000 113,88 10 30 39

Le entrate statali rappresentano sempre meno il totale delle entrate

pubbliche, dato il crescente sviluppo dei contributi sociali

obbligatori. In ogni caso è il divario fra entrate statali e spese statali

che genera il deficit del bilancio. Le spese statali sono, all’inizio del

periodo , il 39% del PIL e su tale percentuale rimangono sino alla

fine del periodo, salvo qualche oscillazione temporanea al 40% e la

punta del 43% del 1992, che è uno dei fattori della crisi valutaria e

della successiva manovra di stabilizzazione. Il deficit all’inizio del

periodo è una quota molto elevata del PIL, come retaggio dell’epoca

del compromesso storico, poi scende al 12, allo 11 e al 10% del PIL.

Occorre notare che su questo deficit pesa sempre di più la spesa per

gli interessi sul debito pubblico, esplosa con il divorzio del Tesoro

dalla Banca di Italia e l’abolizione degli obblighi alle banche di

comperarne. D’altra parte la spesa per interessi è gonfiata dall’alto

livello del tasso di interesse nominale, che incorpora un elevato tasso

di inflazione. Questo, man mano, si riduce, ma poiché il servizio di

interessi sul debito aumenta, l’illusione monetaria derivante

dall’inflazione che rialza il tasso di interesse, ma svaluta l debito

pubblico, dà luogo a un gonfiamento artificioso dl disavanzo. Il

rapporto debito/PIL sale di continuo a causa dell’elevato onere oper

interessi che genera un alto disavanzo. Alla fine del periodo il

rapporto debito PIL è al 113%: una percentuale molto elevata. Ma a

ben guardare un tasso di inflazione del 5%, quando il rapporto

debito/PIL è il 100% , comporta una riduzione del disavanzo pari al

tasso di svalutazione del debito. Dunque, alla fine di questo periodo,

il disavanzo , al netto dell’inflazione, era attorno al 5% :una cifra

ancora elevata, ma su cui gravava la grossa spesa per interessi. Che a

sua volta era resa anomala dall’elevato tasso di interesse reale, che

dipendeva dai timori di inflazione e dal peso elevato del debito sul

PIL. L’ingresso in una unione monetaria, come quella del Trattato di

Maastricht, che comportava una inflazione contenuta sotto il 3% e

un deficit contenuto, anche esso sotto il 3%, poteva consentire di

ridurre il tasso di interesse reale e lucrare, perciò, una riduzione del

deficit reale sotto il 3% senza modificare il rapporto fra la spesa

pubblica e il PIL. Il traguardo, quando fu liquidato il pentapartito, era

vicino. Il frutto era maturo. Ma non si desiderava che fosse il

pentapartito a coglierlo. Tangentopoli, qualsiasi sia stata la sua

origine, al riguardo rese un servizio eccezionale alla coalizione fra

l’ex PCI, diventato PDS e la grande industria, segnatamente i gruppi

Agnelli e De Benedetti, che controllavano la grande stampa

d’opinione (Corriere della Sera, Stampa, Repubblica) e la

Confindustria (che a sua volta ha il Sole 24 Ore), che poteva contare

su rilevanti amicizia in Germania e in Gran Bretagna. Ma ciò

riguarda il successivo periodo.

Frattanto l’Italia era diventata la quinta potenza industriale del

mondo, superando, nel PIL, di poco, la Gran Brettagna, ed il suo

governo, dal tempo dell’ultimo anno della Presidenza Craxi era

entrata nel club dei grandi paesi industriali , il G5.

OTTAVO PERIODO: DAL 1994 AL 2000. IL RISANAMENTO FINANZIARIO INIZIALE E LE

OCCASIONI MANCATE TAVOLA 1

Anno PIL (lire correnti)

PIL (miliardi % crescita PIL

Pop.Pop. (migliaia)

PIL pro capite

di lire 2001) reale (migliaia) (miliardi per mille ab.)

1861 7,784 68621 26328 2,6

1994 1653402 1,996.981 2,2 57269 34,9 1995 1787278 2055370 2,9 57333 35,8 1996 1902275 2077837 1,1 57461 36,2 1997 1987165 2119940 2,0 57563 36,8 1998 2077371 2158328 1,8 57613 37,5 1999 2144959 2193124 1,6 57680 38,0 2000 2257066 2257046 2,9

!

L’ITALIA ENTRA NELL’UNIONE MONETARIA EUROPEA MA NON SA APPROFITTARE DEL GRANDE BOOM DEGLI STATI UNITI Il PIL Italiano che nel 1992 era di 1.971.271 mila miliardi di lire

2001 è arrivato a fine secolo a 2.257.056 mila miliardi di lire, con

una crescita del 14,5% in otto anni , che corrisponde a un tasso di

aumento annuo dello 1,75% soltanto. Poiché la popolazione è rimasta

invariata, questo è anche il tasso di crescita del PIL pro capite. Hanno

pesato su questo basso tasso di crescita gli elevatissimi carichi fiscali

e la loro cattiva distribuzione e il pesante vincolismo del mercato del

lavoro e di quello delle opere pubbliche. In genere , la “seconda

repubblica” negli anni 90 non ha saputo cogliere l’ansia di

rinnovamento che emergeva nella maggioranza del paese. La sfida

del 2000 è di riprendere più alti tassi di crescita, mediante la

rivitalizzazione del mercato.

TAVOLA 2

ANNI TASSO DI INFLAZIONE ANNUO

1993 4,0280 1994 3,7924 1995 5,0800 1996 3,7533 1997 1,7061 1998 1,7632 1999 1,5518 2000 2,4974 2001 2,6101

Il tasso di inflazione era oramai sotto controllo dalla metà degli anni

‘80. E’ stato relativamente facile conseguire quel livello inferiore al

3% che veniva richiesto per l’ingresso , nel 1997, nell’Unione

Monetaria Europea dalle regole del Trattato di Maastricht. L’unico

anno di inflazione fuori norma è il 1995, come prezzo del ribaltone

politico, attuato in conseguenza delle azioni giudiziarie e delle

iniziative della CGIL, contro le politiche di riforma del governo

Berlusconi, di cui fra poco si vedrà.

VICENDE POLITICHE E POLITICA ECONOMICA DEL

PERIODO

TAVOLA 3

I GOVERNI DAL 1992 AL 2000

XI Legislatura: 23 Aprile 1992-17 Maggio 1995

1° Amato (28-6-1992—22-4-1993): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI 1 ° Ciampi (28-4-1993—16-4-1994): Coalizione di Governo: DC-PSI-PSDI-PLI 1° Berlusconi (10-5—22-12 –1994): Coalizione di governo :Fi-AN-Lega-Ccd,Udc 1°Dini (17-1-95—17-5-1996): governo “tecnico”, con l’appoggio delle sinistre XII LEGISLATURA :17 MAGGIO 1996- MAGGIO 2001 1°Prodi (17-5-1996---9-10-1998):Coalizione di governo :Pds-Ppi-Ri-Rc-Verdi) 1°D’Alema (22-10-1998---21-4-2000 ):Coalizione di governo:Ds-Ppi-Ri-Udr-Pcdi-Verdi 2° Amato (22 –4-2000—10-6-2001):Coalizione di governo Ds-Ppi-Ri-Udr (dimezzata) -Verdi

Con il primo governo Amato e il governo Ciampi terminano i

governo del pentapartito . Le elezioni, contrariamente alle aspettative

dell’area di sinistra guidata dai DS e dai popolari, sono vinte dalla

coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi. Tuttavia,

mediante iniziative giudiziarie e un grande sciopero contro la riforma

delle pensioni, guidato della CGIL, si attua –con il favore del

presidente della Repubblica Scalfaro - un ribaltone parlamentare,

mediante il passaggio all’opposizione della Lega Nord, turbata da tali

eventi giudiziari e sindacali. Segue a ciò un governo cosiddetto

tecnico appoggiato dalle sinistre, che prepara il terreno alla loro

presa di potere. Nelle elezioni anticipate del 1996, in effetti la

coalizione di sinistra dell’Ulivo , guidata da Romano Prodi, ex

presidente dell’IRI, esponente dell’ala di sinistra DC dossettiana , di

tradizione catto- comunista, con forti appoggi nella Confindustria

controllata dal gruppo Fiat e nel mondo bancario, vince le elezioni.

La nuova coalizione dell’Ulivo per altro si rivela instabile. Prodi

perde il potere nell’ottobre 1998, perché Rifondazione Comunista

non intende più appoggiare il governo. Gli succede come premier il

leder DS D’Alema, con una coalizione in cui vi sono alcuni

transfughi del centro destra, che rimpiazzano Rifondazione

Comunista, con il beneplacito del preside della Repubblica Scalfaro,

oramai avvezzo ai ribaltoni. Anche questo governo entra in crisi e

viene rimpiazzato da un governo Amato, con l’intesa che questi non

sarà automaticamente il leader nella competizione elettorale del

2001.

TAVOLA 4 MINISTRI DEL TESORO 1994-2001

Dini Lamberto 10.05.94 16.01.95 Dini Lamberto 17.01.95 16.05.96 Ciampi Carlo Azeglio (Ministro del Tesoro, del Bilancio e P.E.)

17.05.96 14.05.99

Amato Giuliano (Ministro del Tesoro, del Bilancio e P.E.)

15.05.99 21.04.2000

Visco Vincenzo (Ministro del Tesoro, del Bilancio e P.E.)

22.04.00 10.06.2001

Mentre la breve XI Legislatura vede al Tesoro solo Lamberto DINI,

la successiva legislatura vede l’alternarsi di tre Ministri del Tesoro,

prima Ciampi, autore della grande manovra di bilancio con cui

l’Italia entrò nell’euro, poi Giuliano Amato, nel governo d’Alema e

infine Vincenzo Visco, già Ministro delle Finanze nei due precedenti

governi. Il primo si limitò a una gestione di bilancio ordinaria, senza

affrontare questioni strutturali, mentre il secondo attuò una

espansione della spesa pubblica che fece aumentare il deficit del

2001 e lasciò un grosso disavanzo di cassa in eredità alla

successiva legislatura.

TAVOLA 5

ANNI DEBITO SETTORE STATALE

DEBITO SETTORE STATALE /PIL

DEFICIT GLOBALE/PIL

DEBITO GLOBALE/PIL

1993 1.765,520.000 113 9,50 119,10 1994 1.931.850.000 117 9,20 124,90 1995 2.072.710.000 116 7,70 125,30 1996 2.205.040.000 116 7,10 122,10 1997 2.248.730.000 113 2,70 120,10 1998 2.290.040.000 110 2,80 116,40 1999 2.300.288.000 1,80 114,50

2000 2.348.308.000 0,50 110,60

L’economia italiana ha raggiunto una sua maturità, ma ha perso

alcune componenti caratterizzanti del suo precedente sviluppo, che

avevano un rilevante contenuto tecnologico, in particolare

nell’elettromeccanica, con la crisi dell’Olivetti che non è riuscita ad

affermarsi come impresa elettrica e con la crisi della grande industria

chimica e chimico farmaceutica , a causa di vicende politico-

giudiziarie che la hanno messa in ginocchio e poi distrutta , quando

non è divenuta preda di imprese estere che la hanno svuotata dal suo

contenuto di ricerca e di innovazione , con conseguente

ridimensionamento. E’ poi entrata in grave crisi anche la Fiat auto, a

causa di politiche inadeguate di investimento del gruppo nel settore

auto, mentre esso si diversificava verso la finanza e le industrie di

pubblica utilità, con un eccesso di in debitamente

TAVOLA 6.

Produzione di ghisa e acciaio (in tonnellate) 1966 1971 1976 1981

Ghisa 6.258.920 8.536.336 11.630.592 12.260.190 Acciaio 13.638.611 17.451.926 23.446.624 24.777.415 1986 1991 1995 Ghisa 11.916.398 10.835.232 11.677.789 Acciaio 22.881.951 25.100.622 27.771.106 N.CREPAX (2002) Storia dell’indistria in Italia, Bologna, Il Mulino Fonte: I conti economici dell'Italia, vol. 1, Una sintesi delle fonti ufficiali 1890-1970, a cura di G.M. Rey, Roma - Bari, 1992; Istat, Annuario statistico

italiano, Roma, anni vari.

Nel settore dell’acciaio invece ha giocato un ruolo positivo la

politica di privatizzazione. La produzione siderurgica italiana si era

grandemente accresciuta dall’epoca del miracolo economico in poi,

in relazione allo sviluppo della domanda interna del settore

meccanico, di quello dell’edilizia civile, industriale e commerciale e

delle opere pubbliche, di quello dei trasporti e di industrie varie.

Aveva popi subito un ridimensionamento negli anni ‘80 , in parte in

relazione alle politiche di riduzione delle capacità produttive di base

della siderurgia europea operata dalla Commissione dell’Unione

Europa e in parte per le difficoltà gestionali del gruppo pubblico

facente capo alla Finsider La cessione ai privati delle imprese del

gruppo Finsider e l’uscita di scena di imprese non più economiche

hanno consentito un ritorno all’economicità del settore e un

incremento della produzione al di là dei massimi dell’inizio degli

anni 80, mediante imprese meno grandi ma più efficienti e

specializzate.

Il risanamento finanziario di un paese indebitato ha inizio e si

svolge mediante la destinazione di una parte crescente delle risorse di

entrata del bilancio al pagamento della spesa per interessi, in modo

da evitare che si debba emettere nuovo debito per pagare gli interessi

del vecchio debito. Ora se consideriamo i dati del saldo primario, che

è costituito dal divario fra le entrate e le spese al netto di quelle per

interessi, notiamo che nel 1991 comincia a formarsi un avanzo

.

TAVOLA 7 . RAPPORTO DEFICIT PUBBLICO/PIL NOMINALE E DEFLAZIONATO E TASSO DI CRESCITA DEL PIL

A B

C D E F

Anno PIL

Deficit/PIL %

Inflazione %

Deficit deflazionato/PIL

(Deficit –Deprezzamento del debito)/PIL

Crescita PIL

Reale

Saldo Primario

/PIL

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000

11,0 10,0 9,5 9,4 9,1 7,6 6,57 2,7 2,7 2,2 1,68

6,1 6,4 5,4 4,2 3,9 5,4 3,9 1,7 1,8 1,7 2,59

4,3 3,3 3,3 3,9 4,1 1,1 1,7 0,2 0,4 0,2 +1,3

2.0 1,4 0,8 -0,9 2,2 2,9 0,9 2,0 1,8 1,6 2,9

-1,7 0,1 1,9 2.6 1,8 3,9 4,4 6,7 5,3 4,9

Fonte Ocse

L'avanzo primario fra il 1991 e il 1995 sale via via portandosi sui 4

punti nel 1995. Dunque è sbagliato affermare che l'Italia, quando,

dopo le elezioni del 1996, la coalizione di sinistra cattolica ed ex

comunista, dell 'Ulivo, guidata da Romano Prodi, salì al potere nel

1996 era sull'orlo dell'abisso finanziario. Oramai il risanamento era in

atto. E, togliendo il velo dell'illusione monetaria, il bilancio italiano,

nel 1995, era già giunto a un deficit deflazionato per tenere conto

della svalutazione del debito dovuta all'inflazione5, dello 1,1 per

cento (Tav. 7colonna D). Il deflazionamento del deficit in relazione

alla perdita di valore dello stock del debito, che qui presento, non è

un artificio contabile: riflette il fatto che nell'onere degli interessi è

compresa la perdita di valore dei cespiti del debito. Quindi il dato

della colonna E è il miglior indicatore della effettiva situazione del

bilancio, una volta che sia stata sconfitta l'inflazione, che genera gli

interessi (artificiosamente) alti, volti a compensare la perdita di

valore del capitale dato a prestito. La abrogazione dei meccanismi di

indicizzazione dei salari, che venne a compimento durante la prima

Repubblica e la politica monetaria della Banca d'Italia, sono state

determinanti nel combattere l'inflazione, facendo emergere l'effettiva

situazione del bilancio. Che il risanamento fosse già in atto, quando

la coalizione di sinistra cattolica ed ex comunista andò al governo,

nel 1996, e che l'illusione monetaria impedisse di percepirlo, risulta

anche dalla dinamica del rapporto fra debito e Pil. Questo rapporto

che era nel 1990 del 98%6 salì al 101,5 per cento nel 1991, al 108,7

nel 1992, per portarsi nel 1993, l’ultimo della “prima Repubblica” al

119,1 e al 124,9 nel 1994. Nel 1995 il rapporto debito/Pil si fermò al

125,3Ciò si collega al fatto che l'avanzo primario in tale anno

aumentò di oltre il doppio, così da stabilizzare il rapporto fra debito

globale e PIL . Poiché il bilancio di un anno dipende dalla manovra

finanziaria dell'anno prima, si può affermare che quel sentiero

virtuoso è iniziato con la legge finanziaria del 1994. Nel 1996, anno

di ascesa della sinistra al potere, il rapporto debito/Pil subì un grande

balzo in diminuzione al 122% del PIL , poiché a un avanzo primario

capace di controbilanciare l’incremento del debito, si aggiunsero i

proventi delle privatizzazioni. (Tav. 3, colonna F). La svolta,

insomma, se vi è stata, non si è avuta con l'andata al governo

dell'Ulivo, ma con la finanziaria Berlusconi del 1994.

Il governo Dini, succeduto nel 1995 al governo Berlusconi, a

seguito del ribaltamento della maggioranza parlamentare, con il

consenso del presidente della Repubblica Scalfaro, che non sentì il

bisogno di sciogliere le Camere, continuò, come poteva, la

precedente manovra di stabilizzazione, per un biennio, in attesa di

nuove elezioni. Il suo Dpef per il 1996-1998, fissava per il 1996 un

deficit del 5,8 per cento, mentre per il 1997 lo poneva al 4,4 per

cento. Ma il suo ultimo periodo fu condizionato dalla necessità di

spendere per spianare la strada alla vittoria dell'Ulivo e dalla

impossibilità di frenare la spesa per le pensioni di anzianità. La

promessa di non revisionare i pensionamenti anticipati era alla base

della sua nascita e faceva parte integrante degli impegni della

coalizione del “ribaltone” . La vittoria della sinistra nelle elezioni del

1996 pertanto fu pagata con un notevole peggioramento nei conti

pubblici. Nel giugno 1996, accortosi che il deficit stava tornando al 7

per cento, il premier Prodi incapace – per il peccato originale del

blocco politico-sociale di cui era espressione – di controllo strutturale

della spesa, attuò una manovra di misure correttive, nelle entrate, per

riportare non lontano dal 5,6 il deficit del 1996, programmando al 4,2

per cento quello del 1997 e al 3,3 per cento quello del 1998.

Ipotizzava per l’Italia e la Spagna, l’ingresso nell’unione monetaria,

alla fine del 1998, forse sulla base dei dati di pre-consuntivo del ’98,

immaginando che i partner europei l’avrebbero consentito non

essendo politicamente sostenibile la costituzione di una unione

monetaria europea basata sul mero asse franco-tedesco. Avuta

notizia, che la Spagna – che aveva nel 1996 un deficit del 5,6 per

cento – si apprestava a ridurlo nel ’97 al 2,6 per cento, prodi, per non

rimanere isolato, in contraddizione con la campagna elettorale basata

largamente sull’adesione all’Unione Europea, che gli aveva valso

l’appoggio della grande impresa e della stampa internazionale, decise

di modificare la sua politica, con ulteriori interventi temporanei e di

carattere straordinario, facendo appello alla eccezionale capacità

tecnica del Ministro del Tesoro Ciampi, un grande tecnico che aveva

maturato le sue competenze come governatore della Banca d'Italia e

aveva già contribuito al risanamento finanziario come presidente del

Consiglio del governo del 1993-1994. Ciampi realizzò una grande

operazione di rientro, mediante la manovra del bilancio di cassa, su

un arco triennale, meritevole di essere studiata, come esempio da

manuale, dagli esperti del Fondo monetario e della Banca mondiale.

Tale manovra, in quanto supportata dal divieto di utilizzare somme

già stanziate nel bilancio di competenza, salvo le autorizzazioni del

Tesoro a spendere, dava luogo in larga misura a economie, anche dal

punto di vista dei debiti di spesa, rilevanti per le regole di Maastricht

e, in definitiva, anche secondo i criteri del bilancio italiano di

competenza12. Gli vennero in aiuto anche le operazioni di

manipolazione contabili che l’Unione Europea aveva consentito un

po’ a tutti i paesi membri. A ciascuno faceva comodo una certa

elasticità nella applicazione delle regole di bilancio, vuoi per il

parametro del 3 per cento del deficit, vuoi per quello del

contenimento del rapporto debito/Pil13. Tali manipolazioni furono

ammesse tramite benevole interpretazioni delle regole della

contabilità Sec 1987, rimasta in vigore per l’ingresso nell’unione

monetaria e destinata a spirare subito dopo14.

Il deficit ufficiale del bilancio italiano del 1996 si collocò sul

7% per cento, anziché sul 5,6 per cento previsto, in quanto la

manovra di cassa di Ciampi, che si tramutava in manovra di bilancio

di competenza tramite le autorizzazioni a spendere, privilegiava il

1997 facendo slittare indietro sull’anno precedente e avanti sul

successivo il più possibile di uscite. Anzi il deficit del 1996, in

conseguenza di queste manovre, sarebbe stato del 7,9 per cento se

non si fossero potute utilizzare le norme contabili europee che

consentirono di ridurlo dello 0,8 per cento del Pil15. Si usa misurare il

“balzo prodigioso” del 1997 su tale dato del 1996. ma sarebbe bene

tenere presente che il vero piede su cui misurare il 1997, in termini

macro e il 5,8 per cento di programma del bilancio triennale che

Prodi aveva ereditato. La riduzione dell’inflazione dovuta alla

politica monetaria restrittiva della Banca d’Italia, interpretata

dall’Ulivo come segno di ostilità del Governatore Fazio, agì

favorevolmente per l’ingresso nell’unione monetaria perché consentì

di spezzare, in poco tempo, lo “zoccolo duro” dell’inflazione

portandola sotto il 3 per cento e permise di godere subito di riduzioni

del tasso di interesse.

All'abile manovra per il raggiungimento dei parametri di Maastricht,

per il 1997, del ministro del Tesoro Ciampi impostata in termini di

bilancio di cassa sarebbe dovuta seguire una manovra di

miglioramenti strutturali nella finanza pubblica, :che egli, certo,

avrebbe voluto attuare, se la linea politica della coalizione dell'Ulivo

l'avesse consentito. Invece che tali miglioramenti, si ebbero dei

peggioramenti, anche perché l'elezione di Ciampi alla presidenza

della Repubblica, privò la coalizione dell'unica persona che potesse

porre

con autorevolezza il problema della riforma della spesa

pubblica. Secondo la vulgata messa in circolazione dall'apparato

culturale e propagandistico della coalizione di sinistra

dell'Ulivo, esso, al termine della legislatura 1996-2001, lasciava

, per il nuovo secolo, un "Italia migliore". Questa é un'altra cosa

non vera, se, ovviamente, si considera non già il miglioramento

che il "paese reale" Italia ha saputo realizzare, ma la situazione

delle istituzioni e delle strutture pubbliche, in rapporto a tale

progresso e nel quadro della competitività internazionale.

A differenza che quella precedente, per cui fu merito del

governo Prodi aver fatto entrare l’Italia nell’Unione monetaria

europea con una energica operazione di risanamento (era invece

solo una abile manovra di cassa) , questa tesi però non trova

facile credito, a livello internazionale.

La mediocrità dei risultati nella crescita, nell'occupazione,

nonostante la vigoria imprenditoriale e lo sforzo di investimento

del settore privato;

-il deludente consuntivo circa lo sviluppo del Mezzogiorno

nonostante le risorse disponibili che non si è saputo far

utilizzare da parte delle imprese;

-l'esiguo flusso di investimenti dall'estero in confronto a quello

verso altri paesi dell'Unione Europea;

-gli enormi ritardi infrastrutturali in particolare (ma non solo)

per i grandi collegamenti di un paese che è nel mercato unico e

nella moneta unica europea;

-le carenze pubbliche e gli ostacoli nel settore della ricerca

scientifica;

-le mancate riforme con particolare riguardo al settore

pensionistico, alle liberalizzazioni e alle complicazioni

legislative e burocratiche;

-gli eccessi e gli errori con riguardo alla pressione fiscale

e quelli con riguardo alle regolamentazioni del mercato del

lavoro, al diritto di sciopero nei servizi;

-gli appesantimenti delle autorità preposte ai mercati-

saltano agli occhi a un osservatore minimamente informato.

Stando a tesi di osservatori internazionali come il Financial

Times , che simpatizzavano per la coalizione di sinistra

dell’Ulivo questa mediocrità di risultati troverebbe spiegazione

nel fatto che, "purtroppo", maggioranza era stata minata

dall'instabilità politica, dovuta al succedersi di quattro governi e

tre diversi capi di governo nel quinquennio.Ma ciò rifletteva la

intrinseca confusione ideologica della coalizione di cattolici di

sinistra, ex comunisti , verdi e comunisti sponsorizzati dalla

grande industria

Cosa sarebbe potuto accadere se non vi fosse stato questo

avvicendarsi, data la eterogeneità dell'Ulivo? Il succedersi dei

tre governi è l'espressione dell'intrinseca mancanza di

omogeneità e di sincerità di questa coalizione e del suo vano

tentativo di conciliare, verbalmente, l'inconciliabile, con il

proclamarsi per il mercato, ma nel tenere il controllo dell'Enel e

nell'estenderlo al settore telefonico.

Con il propugnare un mitico "dividendo sociale", ma nel

difendere le pensioni di anzianità a spese di ogni altra

componente delle politiche sociali, in particolare gli assegni

familiari e le indennità per i disoccupati e il loro inserimento nel

mondo del lavoro.

Con il dichiararsi per la libertà di impresa e la piccola impresa,

ma nel sottoporre a 45 permessi la creazione di nuove iniziative

e nel mantenere la tassazione delle società a livelli non lontani

dal 50 per cento.

Col sostenere la de-regolazione e il project financing, ma

nell'adottare la programmazione triangolare nelle politiche di

sviluppo e nel frenare le infrastrutture con l'ecologismo nello

spirito di Seattle.

Con il dichiararsi per la liberalizzazione delle professioni, ma

anche per la riforma sanitaria Bindi ostile alla sanità privata.

Col volere la previdenza integrativa ma anche l'attribuzione ai

sindacati del controllo sui fondi pensione e così via.

Dopo anni di crescita stentata, espressione del ritardo

competitivo che compendia gli errori e le insufficienze di cui

sopra, nel 2000 il Prodotto lordo italiano, grazie a rettifiche

dell'Istat, effettuate ai primi del marzo 2001, è risultato

accresciuto del 2,9 per cento anziché del 2,8 per cento come

nelle stime ufficiali. La Tavola 2 lo mostra in modo evidente.

TAVOLA 8. –

GRADUATORIA EUROPEA DI CRESCITA DEL PIL NEL 2000

Maggiore o eguale al 4%

Maggiore o eguale al 3%

Inferiore al 3%

Irlanda 10,5 Lussemburgo 8,5 Finlandia 5,7 Spagna 4,1 Grecia 4,1

Belgio 3,9 Olanda 3,9 Austria 3,5 Francia 3,3 Portogallo 3,0 Germania 3,0 Gran Bretagna 4,0

Italia 2,9 Danimarca 2,6

Media europea 3,4 Media Eurolandia 3,5

Fonte Eurostat Per altro è possibile che nuove rettifiche del calcolo del PIL

portino la crescita dell’Italia nel 2000 sulla media europea.

Infatti il risultato italiano potrebbe essere migliore se le

rettifiche dell’Istat non si limitassero a quelle compiute nel 2000

sulla base dei nuovi criteri di contabilità nazionale, ma

andassero più a fondo, migliorando la oramai vecchia base di

calcolo della produzione industriale e considerasse le

innovazioni tecnologiche nei settori dei servizi e dell’agricoltura

Le rettifiche in aumento da parte dell'Istat della serie storica del

PIL, dal 1997 in poi, basate su criteri conformi al Sec 1995(il

Sistema europeo di contabilità nazionale), hanno un carattere

particolare, non solo perché si limitano a considerare la nuova

metodologia, ma non considerano i mutamenti di struttura

dell’economia, ma anche per l'incerto margine fra economia

emersa e sommersa, che viene valutata per l'Italia, per quanto

riguarda il fattore lavoro, al 22 per cento2 fra lavoro del tutto

irregolare (di stranieri non residenti, di occupati non dichiarati e

di lavoro in attività irregolari) e doppio lavoro.

Comunque, per il 1997, la revisione Istat, effettuata in tre

riprese, due nel 2000 e una nel marzo 201, è di ben 0,5 punti,

pari a un terzo del tasso di crescita originariamente stimato, che

è passato dallo 1,5 al 2 per cento. La correzione interessa in

particolare il Mezzogiorno. Per il 1998 la correzione, in due

riprese, è di 0,4 punti, pari al 28 per cento della crescita

originaria dell'1,43 . Per il 1999 la correzione (fatta tutta nel

marzo 2001) è di 0,2 punti, pari al 15 per cento, su 1,4 punti di

crescita prima stimata. Per il 2000 la correzione, sempre del

marzo 2001 è ancora di 0,2 punti: su un tasso di crescita del 2,7

per cento, essa rappresenta il 7 per cento. 4.

La performance italiana, dal punto di vista della crescita

del PIL nel quinquennio, stando a questi dati, è sensibilmente

peggiore di quella media europea, che pure non ha certo brillato

per dinamismo: abbiamo registrato infatti una crescita media

annua dello 1,9 per cento contro la media europea del 2,6 per

cento con un ritardo cumulato di circa 3,5 punti di Pil nel

quinquennio. La Spagna ha registrato una crescita annua del 3,5

per cento, dimostrando che, con l'ingresso nell'euro, era

possibile avere una crescita differenziale per un paese con minor

grado di sviluppo di quello delle nazioni europee più avanzate,

pur dopo aver realizzato un processo di riduzione del deficit di

notevole dimensione: cosa che non è accaduta per l'Italia. Ma

abbiamo fatto peggio anche di altre grandi nazioni europee

come la Francia e la Gran Bretagna, che hanno realizzato un

tasso di crescita del Pil 'pari a quello medio europeo. Non a

caso, l'altro stato che ha avuto una crescita inferiore al 2 per

cento medio annuo è stata la Germania con un governo legato al

sindacato da vincoli consociativi impropri, simili a quelli

dell'Italia dell'Ulivo. La nostra inferiorità della crescita non è

compensata da una minore inflazione come in Germania.

L'aumento dei prezzi italiano è stato superiore a quello europeo.

L'Italia ha avuto , rispetto alla media europea, una minore

crescita e una maggiore inflazione.

A livello europeo la crescita è maggiore dell'inflazione sicché il

rapporto di questa a quella è sensibilmente inferiore all'unità,

per l'Italia si ha la situazione inversa con un tasso di inflazione

che supera quello di crescita quasi del 50 per cento. La

Germania ha una bassa crescita, come l'Italia, ma una inflazione

sistematica inferiore

TAVOLA 9 –

INFLAZIONE E CRESCITA

Italia Europa Differenza Tasso di inflazione annuo Tasso di inflazione cumulato Tasso di crescita Rapporto inflazione/crescita

2,56 12,8 1,9 1,42

2 10,0 2,6 0,76

+0,56 +2,8 -0,7 +0,66

Fonte Eurostat

Quando, nel 1996, l'Ulivo prese il potere, il risanamento

finanziario era già in atto. L’Ulivo non ha complessivamente

rafforzato il processo di miglioramento in atto mediante

operazioni di struttura. Non vi è stata una manovra strutturale di

bilancio, ma solo una manovra di ampio respiro nel bilancio di

cassa attuata dall'allora ministro del Tesoro Ciampi, nel 1997.

TAVOLA 10

DISAVANZO DI CASSA (FABBISOGNO) SUL PIL Anno Pil Fabbisogno Fabbisogno/Pil 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999

1.320 1.440 1.517 1.563 1.653 1.787 1.902 1.983 2.067 2.168

159 158 164 169 154 127 142 39 51 22

10,5 11,0 10,8 10,8 9,3 7,1 7,5 1,9 2,5 1,0

Fonte Banca d’Italia per il fabbisogno Dati ISTAT non rettificati per il PIL

Nel bilancio dello Stato i trasferimenti correnti del 1997 agli

enti locali, alle regioni e alla sanità e agli enti previdenziali

risultano 162 mila miliardi contro 217 mila nel 1996 e 223 mila

nel 1998. Una parte di questa operazione si è tradotta in

spostamento di voci di spesa nel bilancio di competenza,

valevoli per i parametri di Maastricht. Ciampi inoltre otteneva

un importante effetto di riduzione del flusso monetario creato

dal bilancio pubblico, così da generare disinflazione e riduzione

nell’emissione di debito pubblico, che generava una riduzione

nel suo tasso di interesse. Grazie anche all’apporto di 21 mila

miliardi di proventi di dismissioni, il fabbisogno delle

amministrazioni pubbliche del 1997 scese di colpo a 39 mila

miliardi contro i 142 mila del 1996 . Nel 1998 il fabbisogno

risalì a 51.700 miliardi, nonostante la riduzione di 17 mila

miliardi di interessi passivi non controbilanciata dalla

diminuzione dei proventi delle dismissioni di 6 mila miliardi da

21 mila a 15 mila. Questa robusta manovra di spostamento

indietro e avanti di pagamenti, riducendo il fabbisogno

finanziario del 1997 con una “operazione shock”, fece emergere

di colpo i dati reali, insiti nella struttura di bilancio, ripulendola

da tutti gli squilibri monetari in essere.

Il grande successo della manovra di cassa di Ciampi, con il suo

effetto shock, fu una battaglia campale di sfondamento, sul tipo

di Vittorio Veneto, resa possibile grazie al grosso sforzo di

risanamento accelerato fra il 1994 e il 1995 e già iniziato dal

1991.

TAVOLA 11

L’AGGIUSTAMENTO DI BILANCIO 1997 DEL 4,8%19 DEL PIL

Fattori non facenti parte della manovra correttiva - rettifiche contabili consentite dalle regole di Maasticht: - riduzione spesa per interessi

Totale

0,8% 2,1

2,9%

Manovra correttiva effettiva - imposte straordinarie - aumenti di entrate ordinarie - riduzione di spesa di capitale

Totale

0,7

0,8% 0,5 2,0

Totale delle operazioni correttive Slittamenti di entrate e spese ad altri esercizi Totale della manovra Peggioramenti reali nella spesa corrente

4,9 0,7% 5,6 0,8

Fonte elaborazioni su dati Banca d’Italia

Nel bilancio del 1997, in cui l’Italia presentava un deficit del

2,7 per cento contro il precedente 6,7 per cento, sale la spesa

corrente al netto degli interessi, peccato originale dell’Ulivo.

Dal punto di vista contabile, il deficit valevole per i

parametri di Maastricht risultò nel 1997 di 53.700 miliardi, pari

al 2,7 per cento del Pil secondo i calcoli di allora. Lo 0,8 per

cento del Pil recuperato con le norme del Sec 87, valide per i

bilanci 1997 ai fini dell’esame per i parametri di Maastricht,

servì a pareggiare l’analogo recupero percentuale dell’anno

precedente. La Banca d’Italia valuta a 0,3 per cento del Pil

l’onere che è stato ribaltato su esercizi successivi per

spostamento ad essi di spese del 199716. Un altro 0,6 di risparmi

di spesa di competenza fu attuato operando sulle spese di

investimento, che si ridussero dal 4,1 per cento dell’anno

precedente al 3,5 per cento. Più difficile è stimare lo

spostamento delle entrate dal 1998 al 1997 ottenuto con

accertamenti di ufficio concentrati a fine 1997. Si può notare

dalla successiva Tavola, che le entrate del 1997 hanno la

“gobba” molto pronunciata rispetto a quelle del 1996 e a quelle

del 1998. Si tratta di 2 punti in più sul 1996 e di 1,6 in più sul

1998. Ciò si spiega solo in parte con al “tassa per l’Europa” e

l’anticipo da parte delle imprese dell’imposta sui Tfr

(trattamenti di fine rapporto) che diedero un contributo

straordinario di 11.400 miliardi pari allo 0,76 per cento del Pil

alle entrate del 199717. Si può valutare in un altro 0,8 l’effetto

degli inasprimenti fiscali adottati nel 199718. Il restante 0,4 per

cento si spiega con lo spostamento alla competenza 1997 di

entrate del 1998. Il disavanzo del 1998 è maggiore, in termini

nominali, di quello dell’anno prima. Ciò sebbene l’esercizio

1998 sconti oltre al pieno dispiegarsi dell’aumento dell’Iva, una

notevole riduzione della spesa per interessi. Ecco così la

manovra per la riduzione nel 1997.

Se si fosse bloccata la spesa corrente, non ci sarebbe stato

bisogno di tassazione straordinaria e sarebbero basati aumenti di

imposte ordinarie della metà. Il ministro del Tesoro Ciampi, di

fronte al dilatarsi della spesa corrente, accettò gli aumenti

fiscali, anche per creare un clima di preoccupazione, per

contenere le spinte a spendere.

Dopo avere usufruito, nel primo periodo della abilità tecnica

di un esperto di finanza della statura di Carlo Azeglio Ciampi,

per una energica manovra di cassa, nel conto di esercizio e nel

conto del patrimonio (tramite privatizzazioni di carattere

finanziario) l’Ulivo non ha saputo mettere a frutto quel

successo.

Alla manovra Ciampi non sono seguite riforme atte a incidere

positivamente nei grandi totali macro-economici del bilancio. Si

potrebbe cercare di argomentare che, per altro, l'Ulivo ha

realizzato riforme "strutturali" di politica economica, che

permettono migliori prospettive future. Anche qui la risposta è

negativa. L'Ulivo, con la sua azione, ha posto l'Italia in una

situazione di inferiorità competitiva, impedendole di usufruire

dei benefici dell'unione monetaria, mentre ne pagava il prezzo,

rinunciando all'autonomia nel cambio. Agli stati europei è

convenuto che l'Italia entrasse nell'unione monetaria. Il fatto che

essa ci si trovi in una situazione di inferiorità competitiva, è un

problema nostro.

. Un governo che non abbia una pura visione monetarista della

politica di bilancio deve saper tenere conto degli effetti sulla

dinamica del PIL della sua azione correttiva, cercando di

iniettare incentivi alle imprese e alla loro competitività

internazionale mentre riduce il disavanzo. Una bassa crescita del

PIL, oltre ché essere in sé indesiderabile, in quanto comporta

riduzione delle prospettive di discesa della disoccupazione, di

diminuzione degli squilibri regionali eccetera, riduce l'efficacia

delle manovre di riduzione del deficit e di diminuzione del

rapporto debito/PIL: ciò in quanto a parità di deficit e di nuovo

indebitamento nell'esercizio, una bassa crescita del PIL

comporta, a parità di deficit, un peggiore rapporto fra deficit e

PIL e una minore riduzione nel rapporto debito/PIL. Il cammino

del risanamento italiano è stato reso difficile dalla bassa crescita

del PIL, negli anni dal 1996 in poi. Il meschino andamento del

PIL non è dovuto a inerzia degli imprenditori italiani, è dipeso

dal fatto che il peso preponderante della manovra di

stabilizzazione è stato attribuito all'aumento della pressione

fiscale, senza incentivi all'economia produttiva, salvo gli sgravi

fiscali per la rottamazione di auto.

In pari tempo, si tagliava la spesa pubblica per investimenti

mentre cresceva la spesa sociale. E si inasprivano le

regolamentazioni, sotto la doppia spinta dell'idea che i divieti e

le complicazioni procedurali servissero a combattere la

corruzione e a migliorare l'ambiente10. La bassa crescita era

pressoché inevitabile, i benefici di un basso tasso d'interesse,

non poterono essere colti.

TAVOLA 12.

DINAMICA DELLA SPESA PUBBLICA DAL ’90 AL 2000 Spesa

corrente senza

interessi PIL

Spesa sociale

PIL

Spesa interessi

PIL

Spesa di

capitale PIL

Pressione fiscale su PIL

Entrate totali

su PIL

A B 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000

2000/95 2000/97

38,7 39,0 39,9 40,8 39,7 37,0 37,6 37,9 37,5 38,1 37,8 +0,8 -0,1

18,2 18,3 19,3 19,5 19,5 16,7 16,9 17,3 17,0 17,3 17,3 +06, +0,0

18,2 18,3 19,3 19,5 19,5 19,2 19,4 19,9 19,6 19,9 19,9 +0,7 +0,0

9,5 10,2 11,5 12,1

11,0 4,1 11,5 11,5 9,4 8,1 6,8 6,2 -5,3 -3,1

5,3 4,8 4,6 4,9 41,7 4,6 3,8 3,5 3,8 3,9 3,9 +0,7 +0,4

39,6 40,6 43,0 44,4 45,7 42,2 42,5 44,6 43,0 43,0 42,8 -0,6 -1,7

42,7 43,8 46,5 48,3

45,6 45,8 48,2 46,6 46,9

46,621

-0,6 1,7

Fonte Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione Europea, anno X, n.68. dicembre 200022

La lievitazione strutturale della spesa corrente si

concentrò inizialmente sulle pensioni. Infatti le prestazioni

sociali nel bilancio consolidato delle amministrazioni pubbliche

sono passate da 298 mila miliardi nel 1995 a 320 mila nel 1996

a 344 mila nel 1997, aumentando dal 16,6 al 17,3 per cento del

PIL. L’aumento del biennio è di 46 mila miliardi, pari a 23 mila

annui, un importo che costituisce sul Pil del 1996 lo 1,2 per

cento e su quello del 1997 un ulteriore 1,16 per cento.

Ma la spesa corrente aumentò anche al di fuori delle

pensioni. Durante la legislatura 1996-2001 sono state approvate

468 leggi di spesa, con un costo triennale cumulato di 173 mila

miliardi, pari a 29 mila annui e un costo a regime di 31 mila

annui, pari a 1,3 punti del Pil del 2000. Il 93 per cento di queste

leggi di spesa è governativi20.

Aumento delle entrate fiscali e delle spese correnti, riduzione

di quelle di investimento. Così si fa quadrare il bilancio,

soffocando crescita e occupazione, secondo i dettami della

“terza via” di tipo germanico.

La dinamica perversa delle spese correnti dell’Ulivo, come

accennato, contiene due componenti. La prima è la pesante

eredità della mancata attuazione della riforma delle pensioni,

scandalo di pensionamenti anticipati, privi di corrispondenza fra

contributi pagati e diritti di pensione. Ciò, oltre che onorare la

cambiale per l’appoggio politico del sindacato, appagava anche

grandi industrie con necessità di ristrutturazione. Inoltre il

prepensionamento accelerava il ricambio nelle Pubbliche

amministrazioni, nelle Ferrovie, nelle Poste eccetera, favorendo

la vocazione nella lottizzazione dell’Ulivo. La seconda

componente della lievitazione della spesa corrente è quella

endemica nella cultura della sinistra, aggravata dalla

eterogeneità dell’Ulivo. E i successivi contenimenti attuati dal

Tesoro valsero solo a frenare il rapporto con il PIL: così dovette

rimanere alta la squilibrata pressione fiscale non bastando, in

assenza di manovre strutturali, il “bonus” della riduzione della

spesa per interessi per ridurre il deficit verso lo zero e per

abbassare verso il 100 per cento il rapporto debito/PIL come

richiesto in sede europea. La grande manovra di cassa doveva

essere la premessa per l’azione strutturale. Ma l’Ulivo cintosi di

alloro si illuse che non ce ne fosse bisogno.

Consideriamo ora, appunto, ciò che è accaduto dal 1997

in poi. Come si nota fra il 1998 e il 2000, la spesa per interessi

si è ridotta ancora di 3,1 punti. Il deficit invece si è ridotto di 1,3

punti soltanto. La pressione fiscale dopo la “gobba” del 1997

del 44,5 per cento sul Pil che comportava un aumento di 2 punti

rispetto all’anno prima, di cui, come si è visto, 1,5 punti erano

effettivi, ritornò ad oscillare sull’elevato livello del 42,8 per

cento, che era già stato raggiunto nel 1993 dal primo governo

Amato. La diminuzione della pressione fiscale dell’enorme 44,5

per cento al 42,8 per cento, pari a 1,7 punti, non basta a togliere

all’Italia una posizione di primato nella pressione fiscale sulle

attività economiche, che, come si vedrà, è fra le cause per cui

noi abbiamo un basso posto nella graduatoria della competitività

economica. Va notato che, dato il minor reddito pro capite

rispetto ad altri paesi industriali, occorrono in Italia aliquote più

alte, a parità di reddito, per dare un dato introito in rapporto al

Pil, cioè un dato livello di pressione fiscale. D’altra parte il

carico fiscale italiano, oltreché elevato, è anche male distribuito.

La spesa sociale, in cui predomina quella per le pensioni

dei lavoratori, rispetto al 1990, in termini omogenei dal punto di

vista della contabilità nazionale, nel 1999 è oramai al 20 per

cento23 con un aumento di 1,8 punti sul Pil rispetto al dato del

1990. Solo la modifica delle serie storiche, derivante

dall’adozione di diversi criteri per il calcolo della spesa sociale,

per cui le prestazioni in natura e i costi di gestione sono passati

ad altre voci24, nasconde ora il fatto che il nostro bilancio è stato

gravato di spese per prepensionamenti fuori misura che l’Ulivo

ha addossato all’Italia, per “risanarla”. Emerge, d’altra parte, in

modo chiaro che la spesa in conto capitale è stata compressa

sistematicamente al disotto del 3 per cento dal 1994 in poi,

risultando diminuita di 0,7 punti anche nei due ultimi esercizi in

cui ha avuto una certa ripresa. Si sarebbe potuto ridurre la spesa

in conto capitale, senza compromettere, ma anzi con un rilancio

degli investimenti infrastrutturali grazie al project financing ed a

estese privatizzazioni. Ma ciò non è stato fatto. D’altra parte, il

contenimento della spesa in conto capitale più che da manovra

deliberata è dipeso dalla lungaggine delle procedure.

Alla fine del suo periodo di governo l’Ulivo lasciava una

spesa corrente, al netto degli interessi, accresciuta rispetto al

1995 La spesa sociale risulta aumentata sul PIL. Accanto ai dati

ufficiali della spesa, vi erano quelli fuori bilancio del disavanzo

sanitario ripianati a posteriori, come “debiti pregressi”, al di

sotto della linea ufficiale del deficit. La pressione fiscale era

salita.

Il “risanamento” attuato dall’Ulivo consiste dunque in un

peggioramento nei grandi aggregati della finanza pubblica

rispetto al 1995, a causa della incapacità non solo di ridurre, ma

anche di “regimare” sugli alti livelli del 1995 la spesa corrente

al netto degli interessi. Il che corrisponde perfettamente al

quadro della coalizione, frammentata e rissosa al suo interno,

legata al corporativismo sindacale, imbevuta di ideologia

dirigista sul lato delle spese e delle entrate. La dimostrazione

finale si è avuta con la manovra di finanza pubblica per il 2001,

con una legge finanziaria di 158 articoli composti spesso di un

numero incredibile di commi (l’articolo 145 dedicato agli “altri

interventi” ha ben 99 commi!), per un complesso di 680.000

battute, corrispondenti a un volume di 290 pagine con interventi

a pioggia un po’ per tutti, senza un disegno di politica

dell’offerta. Questa manovra, che diede luogo a squilibri di

bilancio, nel 2003 sia in competenza che soprattutto in cassa,

attuava alcuni elementi di riduzione della fiscalità ma non

modificava la situazione di eccesso di pressione sulle piccole e

medie imprese, perché questa non era una priorità dell’Ulivo. E

la performance del rapporto debito/Pil che era stata preventivata

viene raggiunta nel 2000 solo grazie alla provvida rivalutazione

statistica del PIL In ogni caso essa non è molto brillante perché

vi è stato un notevole ritardo nelle politiche di privatizzazione

proprio nel periodo del boom della borsa E quelle effettuate, in

larga misura sono state dedicate a sanare debiti pregressi che si

sono di continuo riformati accanto al deficit ufficiale, per la

incapacità o non volontà di controllo dei soggetti decentrati di

cui risponde lo stato. Si tratta di una prassi degenerativa che si è

andata formando dagli anni Settanta in poi in relazione allo

sviluppo della sanità pubblica e alla cattiva gestione di imprese

pubbliche. Nel marzo del 2001, ad esempio, sono stati ripianati

16 mila miliardi di debiti pregressi delle Usl accumulati da Asl e

ospedali sino al 199925. Il fatto che esse persistano contribuisce

a dimostrare quanto poco sia veritiera l’affermazione che

l’Ulivo, nella legislatura che si chiuse nel 2001 ha costruito una

“Italia migliore”. La crescita italiana è avvenuta “nonostante”

questa azione di governo e il suo ritardo ne risente.

Un primo fattore di ritardo, che si è ripercosso sul secolo

seguente. Carenza di infrastrutture e grandi opere.

L’Italia al 2000 ha un posto non buono nella graduatoria

delle dotazioni infrastrutturali e della competitività. Alla fine

del secolo, ’Italia è il sesto paese del mondo per prodotto lordo,

il quarto per tasso di motorizzazione, il quinto per esportazioni e

il sesto per importazione di servizi26, settimo per importazioni

ed esportazioni di beni. E’ l’ottavo per chilometri di strade

ferrate in rapporto al territorio, il nono per sviluppo stradale

rispetto al territorio, il ventiduesimo per tasso di transnazionalità

calcolato in base agli investimenti stranieri diretti, gli occupati

in filiali di imprese straniere e altri indicatori di questa natura27.

Lo squilibrio fra tasso di motorizzazione e tasso di sviluppo

della rete stradale indica un grave ritardo per le infrastrutture

stradali. Esso si spiega con la riduzione dei fondi per le spese di

investimento, il blocco imposto dai verdi a molte opere (come il

raddoppio dell’Autostrada del Sole), con il sistema macchinoso

delle conferenze di servizi quale condizione per l’autorizzazione

ai progetti di nuove opere, con la complicazione delle regole

delle procedure di appalto, che per altro non sono il modo

migliore per combattere la corruzione. Ad esempio,

l’attribuzione alle Regioni della potestà di fare autostrade,

attualmente riservata allo Stato, consentirà di risolvere molti

problemi di ritardi e carenze finanziarie per quanto riguarda la

rete stradale. D’altra parte il ricorso sistematico al project

financing, consentirà di eliminare alla radice il problema della

corruzione negli appalti in quanto l’esecuzione dei lavori è

direttamente a cura delle imprese che si assumono il progetto.

E’ nella matrice dirigista dell’Ulivo che, dunque, si trova la

spiegazione di questa discrasia, che comporta un tasso di gravi

incidenti stradali elevato, perdite di efficienza, di competitività e

di qualità della vita, difficoltà alla crescita a causa della

congestione nelle aree del Nord e a causa del difetto di

comunicazioni in quelle del centro e soprattutto, del

Mezzogiorno. Un rilievo analogo a quello appena fatto per le

infrastrutture stradali vale per la rete ferroviaria, ove lo

squilibrio rispetto al grado di sviluppo economico italiano, nel

2000, contrariamente alle apparenze, è ancora maggiore poiché,

in parte notevole, i chilometri di rotaie di cui al dato globale

riguardano infrastrutture inadeguate e in cattivo stato, che non si

prestano a percorrenze con velocità possibili con i mezzi a

disposizione. Ciò vale in particolare per la rete ferroviaria a Sud

di Roma e, in misura addizionale, per quella a Sud di Napoli.

L’Italia, sino al 2000, non ha realizzato alcun tratto di ferrovia

ad alta velocità ed anche i treni Eurostar non potevano esplicare

le loro velocità per carenza delle infrastrutture e delle

manutenzioni. Eppure si tratta di servizi che, secondo i calcoli

economici confermati dai dati effettivi della domanda, sono in

grado di autofinanziarsi. Si potrebbe cercare di spiegarsi il

ritardo nello sviluppo stradale e autostradale con la scelta di

preferire la “rotaia” alla strada, ma il ritardo addizionale relativo

alla “rotaia” si spiega solo con la preferenza per una politica

ferroviaria basata sul potere sindacale e sulla avversione

culturale alla modernità. Di quest’ultima è chiara espressione la

vicenda del ponte sullo stretto di Messina: per la scelta di un

progetto, dato il veto dei Verdi, non è stato fatto, nel

quinquennio dell’Ulivo, nessun passo avanti, mentre nel

frattempo è stato portato a compimento il Tunnel sotto la

Manica.

Un secondo fattore di ritardo competitivo. Rigidità dei

contratti di lavoro e carenza di istruzione professionale.

La Heritage Foundation classifica l’Italia al

trentaduesimo posto in una graduatoria internazionale

dell’indice di libertà economica, per il 2001, sulla base in

particolare di tre fattori negativi; l’eccesso di pressione fiscale

sulle imprese, le rigidità del mercato del lavoro, le

complicazioni burocratiche. Analoghe valutazioni negative si

trovano anche nei vari indici di competitività economica di

diverse istituzioni finanziarie Lehman e Brothers, che

analizzano i vari paesi dal punto di vista della convenienza ad

investirvi. Questa, considerando 21 paesi industriali, sulla base

di 400 indicatori, pone l’Italia al ventesimo posto, prima

soltanto della Grecia. Considerando i 14 dell’Unione Europea,

gli Stati Uniti, il Giappone e la Svizzera World Economic

Forum ci pone al penultimo posto, prima della Grecia, Merryl

Linch invece ci pone all’ultimo posto. Grande evidenza hanno

in queste classifiche, le carenze italiane, per il settore del lavoro,

in relazione alle rigidità dei rapporti di lavoro e alle carenze

nelle politiche di istruzione professionale e di addestramento dei

disoccupati.. La regolarizzazione di lavoratori stranieri ha fatto

emergere nell’economia ufficiale prestazioni prima sommerse,

contribuendo all’incremento ufficiale dell’occupazione. La

inclusione del lavoro”coordinato e continuativo” nel regime

pensionistico Inps, con (modesti) contributi sociali ha

accresciuto la accuratezza della sua rilevazione; la estensione

della assicurazione infortuni sul lavoro ad attività che in

precedenza non rientravano statisticamente nel lavoro, come le

borse di studio, ha fatto emergere come “lavoratori” percettori

di redditi che prima non erano considerati come tali. Non è

credibile che nel 2000 si siano creati 656 mila nuovi occupati

pari al 3,7 per cento in più, con una crescita del Pil pari al 2,9

per cento: ciò infatti implica una riduzione del prodotto per

addetto, vale a dire della produttività, dello0,8 per cento in un

anno. In un periodo di espansione ciò è assurdo. Trattandosi, in

gran parte, di lavoro part-time è parasubordinato o autonomo,

questo incremento di occupazione è, comunque, la

dimostrazione di come potrebbero migliorare l’occupazione

italiana e presumibilmente la crescita del Pil, liberalizzando le

forme contrattuali flessibili del lavoro, che sono invece

ammesse sono in via eccezionale. Anche prendendo tutti gli

incrementi nella statistica degli occupati come aumenti

dell’occupazione la disoccupazione che l’Ulivo lascia alla fine

della legislatura 1996-2001 è uguale a quella del 1992, anno

terminale della cosiddetta prima Repubblica. Infatti in tale anno

la disoccupazione fu il 10,1 per cento. Nel primo anno

dell’Ulivo, il 1996, la disoccupazione, non rettificata, era lo 11,5

per cento28 e sostanzialmente su tale valore si trovava nel 1999,

essendo allora allo 11,4 per cento. In effetti, la nuova

maggioranza politica, giunta al potere con l’appoggio sindacale,

ne è stata condizionata ritardando il più possibile la adozione

delle liberalizzazioni comunitarie, nel settore del part-time e dei

contratti a termine ed ha evitato la adozione di politiche

regionali differenziate. Ancora alla fine della legislatura non era

stata attuata la direttiva comunitaria sulla liberalizzazione dei

contratti a termine. Ciò ha contribuito a bloccare l’Italia nelle

retrovie dell’Europa, con un tasso di disoccupazione del 10 per

cento differenziale rispetto a quello medio europeo, frattanto

sceso allo 8,3 per cento. A ciò si aggiunge che la percentuale del

2000 della nostra forza lavoro, occupata o disoccupata, sulla

popolazione in età lavorativa del 60 per cento era largamente

inferiore alla soglia del 70 per cento fissata a Lisbona e a

quell’80 per cento che si trova nei paesi anglosassoni e

scandinavi. In particolare in Svezia il 66 per cento delle persone

fra i 55 e i 64 anni lavora, in Italia solo il 33 per cento. Per una

coalizione progressista, aver ridotto la disoccupazione, in un

quinquennio, di un solo 1,5 punto percentuale (350 mila unità),

da un livello come lo 11,5 per cento, mentre rimanevano molto

bassi i tassi di attività per i più giovani, per le donne e per gli

anziani, non era un buon risultato. In seguito, con alcuni

elementi di flessibilità, si è avuto, invece, un elevato aumento di

occupazione, pur con un tasso di crescita del PIL ridotto, a

causa degli avversi fattori internazionali (ma i datori ISTAT

della crescita del PIL del 2001 e 2002 sembrano

sostanzialmente sottovalutati). La modesta riduzione della

disoccupazione che si è verificata nel quinquennio del governo

di sinistra non ha risolta i gravi problemi di carenza di posti di

lavoro e di economia sommersa nel Mezzogiorno. E il dato del

10 per cento di disoccupati, rapportato a quello finale della

prima Repubblica, assieme alle gravi carenze nelle politiche di

istruzione professionale, con particolare riguardo ai disoccupati

cronici, non giustifica l’affermazione che la coalizione di

sinistra al termine della legislatura lasciava, per tale cruciale

aspetto, una “Italia migliore”. Era drammatico che esso

sventolasse come un successo l’aumento che si è verificato negli

occupati di lavoro, perché ciò implicava che esso ritenesse

soddisfacente le rigidità dei rapporti di lavoro. Come se

l’enorme quota di lavoro sommerso e di rapporti cosiddetti

atipici non stesse a dimostrare, assieme alla bassa crescita del

PIL, che quello vigente in Italia negli anni della sinistra al

Eliminato:

potere era un regime monopolistico che privilegiava una parte

della forza lavoro rispetto all’altra.

UN TERZO FATTORE DI RITARDO COMPETITIVO. RITARDO DI PRIVATIZZAZIONE LIBERAZIONI E CAOS DELLE AUTHORITIES.

Non vi è da stupirsi del basso grado di transnazionalità

dell’Italia nel periodo del governo della sinistra alleata della

grande industria e delle grandi banche - che pure si vantava di

“averci fatto entrare in Europa”- considerando le carenze

infrastrutturali, gli eccessi di fiscalità, le complicazioni

regolamentari, le rigidità del mercato del lavoro. Il basso grado

di transnazionalità si collegava al notevole ritardo nelle

liberalizzazioni. Le privatizzazioni sono state compiute

soprattutto per scopi di finanziamento pubblico e beneficio di

operatori privati, non come operazioni di passaggio al mercato

competitivo. Un male- per altro- più europeo che italiano. Le

privatizzazioni non erano state iniziate dai governi dall’Ulivo,

ma in un periodo precedente, con leggi dell’epoca del penta

partito, che hanno cominciato ad operare nel 1994, con la

cessione della prima tranche dell’Imi e dell’Ina per 6600

miliardi al tesoro. Sono andati al Tesoro, nel ’95, la seconda

tranche dei due soggetti finanziari per altri 2200 miliardi e la

prima tranche dell’Eni per 6300. Nel 1996, nelle manovre per la

riduzione del fabbisogno, il ministro del Tesoro Ciampi effettuò

una seconda tranche di cessione di azioni Eni per 9000 miliardi

e una terza di Ina ed Imi per circa 3500. Nel 1997 vi fu, sempre

per il Tesoro, una terza tranche Eni per 13 mila miliardi, cui

seguì nel ’98 un’altra alienazione per altrettanto, sempre nel

quadro della grande manovra di cassa di “rientro” finanziario.

Mentre le due operazioni riguardanti Ina ed Imi, iniziate nel ’94,

sono vere privatizzazioni, in quanto la proprietà della loro

maggioranza passava al mercato, senza alcuna quota azionaria

“aurea” (golden share) nelle mani dello stato, per l’Eni non si è

trattato di una vera privatizzazione: lo stato non solo si è

riservato una quota aurea, ma ha mantenuto la maggioranza

relativa del 30,3 per cento, sicché controlla tutto il consiglio di

amministrazione29. Nel 1997 venne ceduto il nocciolo duro di

Telecom con l’aggiunta di Opv per la quasi totalità del capitale,

una vera privatizzazione: ma l’introito non andò al Tesoro. Esso

fece le cessioni per conto dell’Iri, cui aveva fornito degli

anticipi e man mano girò i maggiori proventi realizzati. Esso

così ebbe quei flussi patrimoniali che hanno evitato di doverlo

dichiarare in dissesto. L’iniezione di denaro a favore dell’Iri che

era stata sino a poco prima gestita dal presidente del Consiglio

Prodi (ma in questo caso non fu posta alcuna questione di

conflitto di interessi)30, fu di 23 mila miliardi nel 1997, cui se ne

aggiunsero altri 4 mila per la cessione di Seat, Aeroporti di

Roma e Banco di Roma (quota Iri), mentre nel 1999 fu

privatizzata, sempre a beneficio dell’Iri la società autostrade per

altri 13 mila miliardi. Il flusso di denaro che l’Iri ottenne è

ingente e gli ha permesso di esistere ancora al termine della

legislatura, sopportando le perdite di Alitalia e di aziende del

gruppo Finmeccanica. Nel 1999 si attuò anche la cessione di

azioni Enel per 35 mila miliardi per il Tesoro: ma il 67,5 per

cento dell’Enel è rimasto allo stato. Esso, anzi, ha effettuato

acquisizioni nel settore delle acque (coerenti con la sua

missione) e nella telefonia (estranee alla sua missione) con

l’acquisto di Wind e Infostrada. Queste operazioni telefoniche

generarono una riduzione del valore delle azioni Enel del 10 per

cento. La cessione di impianti da parte dell’Enel non è stata

ancora attuata nel marzo 2001. Ritardano oltre alla

liberalizzazione elettrica, quella telefonica e del gas. Quanto alle

Ferrovie e alle Poste non si è effettuata alcuna privatizzazione e

le liberalizzazioni sono estremamente limitate. Al termine della

legislatura, rispetto al programma di privatizzazioni stabilito per

il 2000-2001 mancavano 17 mila miliardi.

Frattanto i governi della sinistra avevano dato vita a

innumerevoli autorità indipendenti, agenzie e garanti, senza

curarsi di delimitarne le competenze e di stabilire i rapporti fra

di esse e gli organi di giustizia amministrativa, ossia il Consiglio

di Stato e il Tar, che mantengono intatte le loro competenze,

senza contare la magistratura ordinaria e le Commissioni della

comunità europea. Così si sono verificati conflitti di delibere fra

l’antitrust e l’autorità preposta alle telecomunicazioni e quella

preposta all’energia, e conflitti fra queste autorità e il Consiglio

di stato, e fra esso e il Tar, con conseguenze che disorientano gli

operatori. E le tariffe hanno subito continui rincari, in

particolare nel settore dell’energia.

Un quarto fattore di ritardo. L’eccessiva pressione fiscale

sulle imprese non beneficiarie della DIT e super DIT.

Il governo Prodi in sostituzione dei contributi sanitari

(che avevano una aliquota del 6 per cento31) e di altri tributi

minori, ha creato l’Irap, un’imposta che tassa le imprese e il

lavoro autonomo, con una aliquota del 4,25 per cento non sul

reddito ma sul valore aggiunto, comprensivo, per il costo del

lavoro, dei contributi sociali. A differenza dei contributi sanitari,

l’Irap non è detraibile dal reddito sicché, in alcuni casi, la

pressione sui costi del lavoro per le imprese è aumentata. E’

stata mantenuta al 37 per cento l’Irpeg, cioè l’imposta sulle

società, riducendola solo a fine legislatura al 36, con l’obiettivo

di un’altra riduzione al 35 per cento. Ed è stata introdotta la

Dit32, ovvero l’aliquota ridotta al 19 per cento per i proventi

normali dei profitti reinvestiti, calcolati con un parametro annuo

stabilito discrezionalmente dal ministro delle Finanze. Se si

aggiunge al 37 per cento l’aliquota del 4,25 per cento sui profitti

e sugli interessi passivi, assumendo che questi siano sul capitale

investito la stessa percentuale di profitto, si ha un ulteriore

gravame dell’8,5 per cento, cui va aggiunta l’Ici e qualche

tributo minore (tasse per la Camera di Commercio, per i registri

delle imprese eccetera) per un altro 3 per cento. Si arriva, così,

al 46 per cento al netto dell’onere dell’Irap sui costi del lavoro,

che rappresenta di media un altro 10 per cento. Il totale della

pressione fiscale sulle società e così attorno al 56 per cento,

comprensivo dell’Irap sul costo del lavoro. La Dit dava benefici

soprattutto alle grandi imprese, assieme alle quali era stata

inventata, dalla sinistra, come parziale contraccambio per il

sostegno alla sua presa di potere Dalle indagini di Mediobanca

sui bilanci delle imprese italiane per il 1999 risulta che per le

medie imprese italiane, fra Irpeg, Irap e Ici, il carico fiscale

sugli utili è del 54 per cento, per le grandi del 34 per cento. La

spiegazione di questo divario sta soprattutto nel fatto che per le

grandi società, più che per le medie, entravano in gioco le

aliquote agevolate DIT e per le rivalutazioni dei beni aziendali, .

In sostanza il gravame sul provento delle attività produttive,

prescindendo dall’Irap sui costi del lavoro (che per le società

equivale pressappoco ai contributi sanitari soppressi) per le

società è stato, nella legislatura dell’Ulivo, attorno al 48 per

cento. Dopo la riduzione dell’Irpeg, vi era sempre un gravame

del 43 per cento. Secondo l’allora premier Amato e il ministro

del Tesoro Visco non vi era bisogno di ridurre al 25 per cento

l’Irpeg, come proponeva la Confindustria, cominciando subito

dal Mezzogiorno e procedendo gradualmente per il resto del

paese. Essi dedicarono i bonus della Finanziaria del 2001 ad

altri obiettivi: ritenendo che la pressione fiscale sulle società, in

Italia, fosse corretta e che non vi sia bisogno di altre riduzioni ai

fini della concorrenza fiscale internazionale, in particolare con

riguardo allo sviluppo privato nelle aree meno sviluppate del

paese. L’Italia, avendo vari handicap, dovrebbe tassare i profitti

delle attività produttive di meno, non di più degli altri paesi,

specialmente con riguardo alle medie e piccole imprese che più

soffrono di tali handicap.

Un quinto fattore di ritardo competitivo: le

regolamentazioni oppressive. Il conato delle riforme

Bassanini.

Uno dei vanti dell’Ulivo è costituito dalle norme della

legge Bassanini, rivolte a realizzare misure di decentramento e

di semplificazione amministrativa. Fra queste vi è la creazione

del cosiddetto “sportello unico” per lo svolgimento delle

pratiche burocratiche: che non consiste nella unificazione dei

certificati richiesti dal punto di vista sostanziale del loro rilascio,

ma nel fatto che un funzionario si occupa, per conto

dell’impresa o del cittadino, di chiedere ai vari uffici competenti

tutti i singoli certificati. Si da luogo così a una sorta di “legge di

Parkinson” per cui si moltiplica la burocrazia, aggiungendo ai

diversi burocrati, un ulteriore burocrate con il compito di tenere

i rapporti fra di loro e la controparte privata. Non sembra, per

altro, che questa innovazione abbia molto successo. E’ probabile

che i cittadini preferiscano trattare con i vari uffici, avvalendosi

anziché del burocrate dello “sportello unico”, di agenzie private

che espletano, per loro, tutte le pratiche con i vari uffici.

Anche nel caso del decentramento amministrativo,

consistente nell’assegnazione di certi compiti agli enti locali, si

è seguita la “legge di Parkinson”: essendosi creata una nuova

competenza decentrata, si è creato un organo di coordinamento

fra l’ente decentrante e quello destinatario del decentramento.

Le autocertificazioni sono l’unica “semplificazione

amministrativa” di cui può far realmente vanto il ministro

Bassanini. Però non sono stati ridotti, ma anzi spesso accresciuti

(tanto vi è l’autocertificazione) i documenti che vanno prodotti

“a pena di nullità”. Così ad esempio, un certo numero di persone

viene a trovarsi danneggiato in competizioni concorsuali, perché

ingenuamente non autocertifica il proprio curriculo, supponendo

che basti allegarlo, firmato: mentre, dato il formalismo

dell’autocertificazione, occorre che, per ogni notizia del

curriculo, il dichiarante esplicitamente la autocertifichi e lo

faccia entro il termine ultimo fissato per la sua domanda a pena

di nullità. Il paradosso continua con il fatto che è ammessa

l’autocertificazione del richiedente, non quella dell’ufficio che

riceve la domanda, che potrebbe essere il titolare del rilascio del

certificato in questione. La “semplificazione” dei dirigisti

consiste, nella migliore delle ipotesi, nella sostituzione di un

formalismo snello a un altro, macchinoso. Ma il formalismo

rimane.

La legge (Bassanini) 15 marzo 1997 n. 59 di delega al

governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni e

agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e

per la semplificazione amministrativa, ha dato luogo, nel marzo

2001 a 65 decreti legislativi delegati. La proliferazione di testi

di decreti delegati, aventi valore di legge, sgorganti da questa

legge di “semplificazione” non è ancora terminata.

Nelle politiche per il Mezzogiorno, per i patti territoriali e

i contratti di programma al termine del 2000 si registrava un

tasso di attuazione attorno al 12 per cento; i contratti d’area

avevano uno stato di attuazione del 26 per cento; Agenda 2000,

che comporta 21,6 miliardi di euro della Comunità europea e 30

del governo italiano, era ancora ai nastri di partenza, inceppata

dalle procedure burocratiche. Secondo l’Autorità di vigilanza

dei lavori pubblici, per la realizzazione di un’opera pubblica ci

vogliono 2.410 giorni di media (quasi sette anni), che salgono

per il Mezzogiorno a 2.730 giorni. Per le opere sopra i 10

miliardi salgono a 2.900 giorni, che si elevano a 3.200 giorni

(quasi nove anni). Di questo totale il 21 per cento riguarda la

realizzazione delle opere. Il 31 per cento si consuma nella loro

programmazione, mentre l’espletamento delle procedure

amministrative, secondo il governo di sinistra , oramai

semplificate, richiedeva il 47 per cento dei tempi. Si spiega così

il fatto che in Campania le discariche stessero rendendo la vita

“irrespirabile” in vari comuni a causa dell’accumularsi di rifiuti:

per i quali era stato predisposto da tempo un piano di

smaltimento con impianti di combustione che producono anche

elettricità, accompagnati da altri impianti per la selezione

automatica delle sostanze da non bruciare. Ma tutto ciò tardava

ad essere realizzato, per le complicazioni burocratiche. La

spazzatura aumentava, vicino alle case, come simbolo della

“Italia migliore”, con cui la sinistra terminava la legislatura

1996-2001, con una grande sconfitta elettorale .

Note 1. Così, ad esempio, si legge nel Financial Times del 12 marzo

2000. 2. Dati Svimez per il 1999, pubblicati in Svimez, (2000)

Rapporto 2000 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, il Mulino, p.44.

3 Anch’essa prima nell’aprile 2000, poi nel marzo 2001. 4. L'esame di questo andamento decrescente delle

rettifiche, mostra che si tratta di un lavoro di scavo su dati di base del passato, con riflessi sulla serie successiva.Le ultime rettifiche derivano da una migliore lettura dei dati a suo tempo dichiarati dalle imprese, nelle rilevazioni generali, con conseguenze sulla serie storica successiva, secondo quanto emerge dai comunicati stampa dell’Istat del 1 marzo e 8 marzo 2001. In Germania, nel quadriennio, le correzioni sono di 1,6 punti in meno. Nel complesso le correzioni francesi sono, per il quadriennio 0,1 punti in più, su un aumento del Pil dello 11,6 per cento, pari allo 0,08 per cento. La Spagna ha effettuato 1,3 punti di rettifiche in aumento nel quadriennio, ma esse costituiscono sui 15 punti di crescita del Pil lo 8,6 per cento. Il Regno Unito ha fatto rettifiche di un +1 per cento nel quadriennio, che rispetto ai 10,5 punti di crescita del Pil, costituiscono il 9,5 per cento. L'Italia ha effettuato 1,3 punti di rettifiche in aumento come la Spagna ma sulla crescita di 9 punti del Pil nel quadri

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ennio si tratta del 14,4, per cento. Sarebbe bene che l'Istat si decidesse a spiegare la natura delle sue continue correzioni dei dati del PIL del passato recente e meno recente per consentire di capire i fattori che rendono difficile la valutazione della realtà italiana, in particolare nel rapporto fra economia emersa e sommersa.

5. Con tale termine intendo, come nella contabilità economica delle imprese, il risultato di esercizio al netto della variazione di valore patrimoniale del debito pubblico. Ciò si ottiene togliendo dal saldo dell’esercizio (positivo o negativo), la variazione (di solito diminuzione) di valore dello stock del debito dovuta alla perdita di potere di acquisto della moneta, che si calcola moltiplicando tale stock per quella variazione (nel nostro caso la variazione dell’indice dei prezzi al consumo) e successivamente per il rapporto fra tale debito e il Pil onde sottrarre la perdita di valore capitale dal risultato dell’esercizio, rapportato al Pil.

7. Il dato Banca d’Italia è però 7,1 per cento presumibilmente perché al lordo delle

correzioni consentite dall’Unione Europea, sulla base del vecchio Sec, ancora in vigore. Per gli anni precedenti i dati Banca d’Italia coincidono con i dati Ocse salvo scarti di 0,1 per cento in più, per la serie fra il 1990 e il 1994.

8. Questo è quello ufficiale al netto delle entrate straordinarie per l’asta Umts che, portando il deficit sotto lo 0,5 per cento, consentono comunque al governo di rispettare gli impegni per il deficit del patto di stabilità, relativi al 2000. Probabilmente il vero deficit del 2000 è superiore allo 1,5 per cento.

9. Questo dato è una stima del centro studi Confindustria. 10. Un esempio delle deprecabili conseguenze di ciò è l’aumento dei rifiuti

contaminati nelle discariche, per carenza di impianti per bruciarli, dovuta alle difficoltà di installarli a causa delle complesse procedure urbanistiche e concorsuali e ai pregiudizi ecologici nei loro confronti in relazione alle loro emissioni di polluzioni. Si noti che questi impianti producono energia elettrica alternativa a quella originata dal petrolio.

11. Come è poi accaduto. Cfr. Istituto Monetario Europeo, Rapporto sulla Convergenza, Francoforte, marzo 1998.

12. Ciò in quanto nel nostro bilancio le somme di competenza che non si traducono in impegni effettivi di spesa, ai fini del calcolo del saldo, denominato “indebitamento netto”, quando si tratta di deficit, non fanno parte delle uscite ai sensi della legge generale di bilancio. E quindi le somme stanziate ma non impegnate né impegnabili in quell’anno, in quanto prive di autorizzazione del tesoro a effettuare l’impegno non danno luogo a una uscita effettiva.

13. Esse servirono anche alla Francia, che era al 4 per cento di deficit nel 1996 e si sapeva che sarebbe pervenuta al 3 per cento nel 1997, anche grazie ad alcuni espedienti contabili. Il cammino fu reso più agevole, da altri espedienti contabili consentiti, per la Germania, che nel 1996 aveva un deficit al 3,4, ma un rapporto debito/Pil superiore al 60 per cento da cui non era facile rientrare in un solo anno, dato il peso della Germania Est.

14. Ciò in quanto la nuova contabilità Sec 1995 era successiva al Trattato di Maastricht, che aveva stabilito quei parametri e quindi si riteneva che potesse

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diventare vincolante solo per l’applicazione di regole successive al ’95, come quelle del Patto di Stabilità adottato con il Regolamento 1466 del 1997.

15. Vedi la Relazione del Governatore della Banca di Italia dell’Assemblea dei partecipanti per il 1997, del 30 maggio 1998, vol. I, pag. 159. Le correzioni in questione sono state stimate in 16 mila miliardi per il 1997 e in 14 mila per il 1996. Sul prodotto lordo di 1.950 mila miliardi del 1997, queste rettifiche sono lo 0,8 per cento.

16. Cfr. Relazione del Governatore della Banca di Italia all’Assemblea per il 1997 del 30 maggio 1998, vol. I, p. 159.

17. Cfr. Relazione del Governatore della Banca di Italia per il 1997, cit. sopra p. 166. 18. L’aumento dello 1 per cento di entrate fiscali, ordinarie si ebbe, presumibilmente,

grazie ai ritocchi Iva entrati in vigore nell’ottobre (0,07 per cento), alla eliminazione di detrazioni dell’Irpef e nell’Irpeg, alla riduzione degli esoneri contributivi nel Sud e all’aumento delle aliquote dei contributi sociali nel settore pubblico e grazie agli effetti della mancata correzione delle aliquote dell’Irpef che diventavano via via più gravose, a causa del mancato adeguamento al mutato potere di acquisto della lira.

19. Con riferimento al deficit del 7,4 per cento del 1996 (ridotto al 6,6 mediante l’adozione dei criteri di Maastricht).

20. Cfr. Il Sole 24 Ore del 10 marzo 2001, p.9 che si basa su elaborazioni della Corte dei Conti e degli Uffici della Commissione Bilancio del Senato.

21. Vedi nota seguente. Non sono considerate le entrate straordinarie Umst. 22. L’aggiornamento al 2000 è fatto con i dati ufficiosi pubblicati da Il Sole 24 Ore .

Non è considerata la rettifica dei Pil del marzo 2000, ma neppure peggioramento del deficit rispetto a quello previsto.

23. Questo dato lo traggo dalla Relazione della Banca di Italia per il 1998, presentata dal Governatore Fazio nel maggio del 1999, in cui si riproducono i dati Istat, per il 1998, ancora elaborati secondo il Sec 1987. Ho aggiunto lo 0,4 al dato del 1998 per avere quello del 1999, perché secondo la nuova serie, basata sul Sec 1995, la spesa sociale dal 1998 al 1999 aumenta dello 0,6 per cento.

24. Forse non si pecca di troppa malizia affermando che questa modifica di regole contabili è servita a tutti i paesi dell’Unione Europea per dare l’impressione ai cittadini di un minore costo del welfare, rispetto a quello che risultava con la precedente metodologia.

25. Cfr. “Il riassetto non trova pace” in Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2001, p.9. 26. Viaggi, trasporti, comunicazioni, costruzioni e servizi finanziari. 27. Cfr. S. Cassese, “Un centrosinistra senza più senso critico”, Il Sole 24 Ore, 24

marzo 2001. Il quotidiano, evidentemente timoroso delle reazioni governative, che questo caustico e documentato articolo di uno studioso della fama del Cassese gli poteva provocare, lo ha pubblicato come “lettera”.

28. Nel 1993 la disoccupazione subì una crescita in corrispondenza alla flessione del Pil, sceso di quasi un punto. Nel 1994 vi fu una ripresa con crescita del Pil del 2 per cento, che servì a riassorbire gran parte della cassa integrazione. Nel 1995 la crescita balzò al 2,9 per cento sotto lo stimolo della legge Tremonti, ma ciò non

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bastò a generare una sostanziale diminuzione della disoccupazione. Durante la breve parentesi del governo Berlusconi, l’opposizione inferocita dall’imprevista sconfitta, aveva creato aspre tensioni sindacali. L’instabilità politica derivata dalle successive vicende e la rigidità della linea dei sindacati, influirono negativamente sull’occupazione ufficiale, che l’Ulivo ha trovato nel 1996.

29. Con l’importante conseguenza che non vi è un accesso privato alla conoscenza dei flussi finanziari internazionali pregressi, ad esempio relativi ai rapporti dell’Eni con la Russia nelle forniture di idrocarburi.

30. In relazione al beneficio che il risanamento finanziario dava rispetto a eventuali responsabilità per gestioni pregresse.

31. Sui redditi di lavoro dipendente. Per gli altri redditi, si applicava la tassa per la salute, con una aliquota minore, gravante però su ogni tipo di reddito, tassabile in Irpef.

32. Il termine Dit significa Dual Income Tax, sta per Imposta sul reddito duale che suonerebbe Ird. Si è preferito l’acronimo in lingua inglese, tratto dal gergo fiscale degli Stati Uniti. Viene in mente la canzone di Carosone “Tu vuoi far l’americano”. Ma non è questione di nomi, come si vedrà.

33. In effetti la Confindustria calcola al 54 per cento l’onere fiscale medio sulle società nel 2000.

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