STORIA DELLE FERROVIE ITALIANE - INGEGNERIA … FERROVIARIA/01.STORIA DELLE... · La coincidenza...

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Ingegneria Solazzo S.r.l. – Viale Kennedy 4 - 90014 Casteldaccia (PA) – Tel/Fax: 091.941857 – e-mail: [email protected] 1 Viale Kennedy 4 90014 Casteldaccia (PA) www.ingegneriasolazzo.it STORIA DELLE FERROVIE ITALIANE Sommario Nel mese di gennaio del corrente anno, ho avuto la fortuna di frequentare il 9° Corso di Tecnica Ferroviaria organizzato dal C.I.F.I. (Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani). Anche se laureatomi in una disciplina diversa (indirizzo strutture), l’argomento delle ferrovie mi ha sempre interessato e ricordo ancora quando vidi per la prima volta la piccola Stazione di Casteldaccia non ancora delimitata e con tutte le traverse in legno accatastate le une sulle altre. In virtù di questa forte passione, ho riportato in questa pubblicazione un po’ di materiale storico che ho trovato su internet e che riguarda la storia delle ferrovie e del nostro Paese. Ringrazio, pertanto, i tanti autori che permettono con i loro studi di conoscerne la storia attraverso uno strumento “libero” qual è il web. La mia speranza è che almeno “uno solo” dei tanti naviganti, attraverso la lettura di questo mio piccolo contributo, possa capire e possa aprire gli occhi su come la mente umana sia un dono prezioso capace di imprese impossibili, ma se non è accompagnata da un’anima, trascina alla distruzione, alla morte, alla guerra, sconvolgendo la dignità dell’essere umano. 1. Introduzione [1-2] Le ferrovie hanno origine dalla combinazione di due elementi: la strada ferrata e la trazione meccanica. La strada ferrata, composta da due guide parallele in metallo, su cui far scivolare materiale o su cui far rotolare carri o simili, ha origini antiche: pare, infatti, che già per la costruzione delle piramidi furono utilizzate rotaie in bronzo. Nell’età moderna, rotaie in legno erano utilizzate nelle miniere inglesi nel 1600, successivamente nel XVII secolo, furono rivestite di lamiera e le ruote dei vagoncini muniti di cerchioni. Si veniva a creare così l’accoppiamento ruota metallica – rotaia metallica che permetteva una cospicua riduzione della resistenza al moto e che, al tempo, permise di far trainare al

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Viale Kennedy 4 90014 Casteldaccia (PA) www.ingegneriasolazzo.it

STORIA DELLE FERROVIE ITALIANE

Sommario

Nel mese di gennaio del corrente anno, ho avuto la fortuna di frequentare il 9° Corso di

Tecnica Ferroviaria organizzato dal C.I.F.I. (Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani).

Anche se laureatomi in una disciplina diversa (indirizzo strutture), l’argomento delle

ferrovie mi ha sempre interessato e ricordo ancora quando vidi per la prima volta la

piccola Stazione di Casteldaccia non ancora delimitata e con tutte le traverse in legno

accatastate le une sulle altre.

In virtù di questa forte passione, ho riportato in questa pubblicazione un po’ di materiale

storico che ho trovato su internet e che riguarda la storia delle ferrovie e del nostro Paese.

Ringrazio, pertanto, i tanti autori che permettono con i loro studi di conoscerne la storia

attraverso uno strumento “libero” qual è il web.

La mia speranza è che almeno “uno solo” dei tanti naviganti, attraverso la lettura di

questo mio piccolo contributo, possa capire e possa aprire gli occhi su come la mente

umana sia un dono prezioso capace di imprese impossibili, ma se non è accompagnata

da un’anima, trascina alla distruzione, alla morte, alla guerra, sconvolgendo la dignità

dell’essere umano.

1. Introduzione [1-2]

Le ferrovie hanno origine dalla combinazione di due elementi: la strada ferrata e la

trazione meccanica. La strada ferrata, composta da due guide parallele in metallo, su cui

far scivolare materiale o su cui far rotolare carri o simili, ha origini antiche: pare, infatti, che

già per la costruzione delle piramidi furono utilizzate rotaie in bronzo. Nell’età moderna,

rotaie in legno erano utilizzate nelle miniere inglesi nel 1600, successivamente nel XVII

secolo, furono rivestite di lamiera e le ruote dei vagoncini muniti di cerchioni.

Si veniva a creare così l’accoppiamento ruota metallica – rotaia metallica che permetteva

una cospicua riduzione della resistenza al moto e che, al tempo, permise di far trainare al

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cavallo, unico mezzo di trazione allora utilizzabile, un carico quadruplo rispetto al

passato.

All’inizio del 1800 con l’invenzione della locomotiva, ovvero con lo sviluppo della trazione

meccanica, si ha la nascita vera e propria della ferrovia come sistema di trasporto per

passeggeri e merci.

Uno studio sulle origini e sulle vicende delle ferrovie italiane assume un significato che va

al di là della storia di questa importantissima infrastruttura, che ha caratterizzato

l’economia dei maggiori paesi europei nella seconda parte del XIX secolo. Il ruolo che le

ferrovie hanno avuto in Italia in nessun modo può essere paragonato con quello avuto in

altri paesi. La coincidenza dell’unificazione con la realizzazione sul territorio nazionale

delle maggiori direttrici ferroviarie non si esaurisce in una semplice questione temporale,

ma va vista in un’ottica particolare: le ferrovie furono lo strumento indispensabile per unire

gli stati preunitari e le loro rispettive popolazioni.

Il significato politico delle prime realizzazioni ferroviarie, che emerse con tutta la forza in

occasione della realizzazione della Direttrice Adriatica, fu quindi una caratteristica italiana,

a differenza di ciò che avvenne in altri paesi europei, come Francia e Regno Unito, dove

le ferrovie si affermarono soprattutto come importante fattore economico.

Il principale artefice del sistema ferroviario italiano fu Camillo Benso, conte di Cavour.

In un suo viaggio in Inghilterra egli rimase colpito dall’industria nelle sue varie forme ed in

particolare dalle “strade ferrate”.

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2. La fine del primato dei trasporti marittimi [2]

Le vie di comunicazione hanno sempre rappresentato un elemento di grande importanza

per lo sviluppo economico e sociale di un territorio. Prima dell’avvento delle ferrovie, le vie

d’acqua, intese non soltanto come trasporti via mare ma anche attraverso fiumi navigabili

e canali artificiali, rappresentavano la via di comunicazione prevalente ed erano la

condizione necessaria per lo sviluppo delle regioni interne delle nazioni. In Europa, la

Gran Bretagna, con la sua fitta rete di canali navigabili, è stato l’esempio più importante di

come i trasporti costituissero un elemento decisivo per lo sviluppo economico. All’inizio

del XIX secolo, le imbarcazioni utilizzate per questo scopo rappresentavano circa il 75%

dell’intera flotta britannica ed il trasporto fluviale aveva un costo minore rispetto a quello

stradale.

Anche in Italia, prima dello sviluppo delle ferrovie, il trasporto per vie d’acqua rappresentò

la comunicazione più importante, anche se la rete era distribuita in modo disomogeneo

dal punto di vista territoriale. Il trasporto fluviale, infatti, si sviluppò soprattutto nelle zone

settentrionali e soltanto in misura marginale a sud, dove le difficoltà di comunicazioni

interne venivano superate dal trasporto via mare lungo le coste. Si trattava di navigazione

di cabotaggio, soprattutto nel Regno di Napoli, dove le difficoltà di attraversamento

dell’Appennino rendeva conveniente il trasporto via mare non solo delle merci pesanti,

ma anche delle persone.

La dimensione mediterranea della marina mercantile italiana rese particolarmente forte

l’impatto che la nascita e lo sviluppo delle ferrovie in Italia ebbero sul trasporto via mare.

La realizzazione delle linee ferroviarie litoranee, prima fra tutte la Direttrice adriatica,

penalizzò considerevolmente la navigazione di cabotaggio. La realizzazione delle

transappenniniche, inoltre, rese il trasporto su rotaia di merci e persone molto più

conveniente rispetto alle lunghe navigazioni attraverso lo stretto di Messina ed il mar

Ionio.

La legislazione in quegli anni si limitò a prendere atto della crescente importanza assunta

dal trasporto ferroviario rispetto a quello marittimo, ad esempio, la legge n°3.880 del 15

giugno 1877 limitò il numero di navigazione litoranee proprio per la loro ormai scarsa

utilità.

La vera rivoluzione provocata dalla realizzazione delle ferrovie si ebbe, però, nei trasporti

interni per vie d’acqua. In Italia i fiumi navigabili erano stati utilizzati per trasporto

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soprattutto nel centro – nord e soltanto in misura marginale nel meridione. Tale rete di

canali, i navigli, raggiungeva circa 700 chilometri di lunghezza già alla fine del XIII secolo.

Nell’Italia settentrionale, prima della realizzazione delle ferrovie, la rete idroviaria padana

rappresentava il sistema di trasporto più economico, e per le merci povere l’unico mezzo

di collegamento tra le città venete e quelle lombarde.

Il trasporto ferroviario, però, rese tecnicamente ed economicamente superati i canali e,

anche se i costi di esercizio dell’epoca si eguagliavano, le ferrovie erano preferite per la

maggiore velocità soprattutto nel caso di trasporto di persone.

Con la realizzazione della linea Milano – Venezia diminuì notevolmente la navigazione sul

Po e soprattutto sull’Adige, dove il traffico si ridusse al trasporto di poche merci pesanti

come il materiale da costruzione.

Nell’Italia centrale la navigazione fluviale riguardava soprattutto l’Arno ed il Tevere, su

quest’ultimo il traffico fu particolarmente intenso fino all’unificazione e riguardava

particolarmente il trasporto di derrate che giungevano ai porti fluviali della città di Roma,

Ripagrande e Ripetta, da Civitavecchia e da Anzio. Anche in questo caso, però, l’arrivo

delle ferrovie rivoluzionò i precedenti sistemi di trasporto. Il 24 aprile 1859, l’apertura della

linea ferroviaria Roma – Civitavecchia, osteggiata dai proprietari dei bastimenti che

effettuavano il trasporto tra i due centri, segnò l’inizio del declino della navigazione sul

Tevere.

All’apertura della Roma – Civitavecchia si aggiunse quella per Anzio e la navigazione sul

Tevere continuò a diminuire fino a cessare completamente all’inizio del XX secolo.

Nell’Italia meridionale, dato il carattere torrentizio dei pochi corsi d’acqua esistenti, la

navigazione interna era limitata ad alcuni tratti del Garigliano ed del Volturno. Il processo

che portò al declino della navigazione interna a favore delle ferrovie fu un processo

inevitabile. La maggiore velocità del trasporto su rotaia ed i suoi minori costi furono gli

elementi determinanti.

A questo si deve aggiungere anche la sovrapposizione dei percorsi, lungo le stesse

importanti direttrici di traffico, che vedevano spesso accomunati accanto alle strade ed i

canali, anche le linee ferroviarie. Si cercarono, infine, misure che potessero permettere la

sopravvivenza della navigazione interna, come l’unificazione della gestione dei due

sistemi di trasporto, dove questo era possibile, ma questo non servì ad evitare il declino e

la sostanziale scomparsa della navigazione interna.

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3. Le origini della ferrovia [3]

La prima ferrovia fu la Stockton-Darlington inaugurata il 25 settembre 1825; ma era più

che altro una prova, con i passeggeri su vagoni-carrelli, anche se un tempestivo e

intraprendente "manager" Eduardo Pease, riuscì quel giorno a vendere alcuni biglietti ai

coraggiosi passeggeri.

A Pease spetta il vanto di aver fondato la prima società ferroviaria del mondo, detta

appunto "Stockton and Darlington Railway Company". A quel primo biglietto gli inglesi nel

celebrare il centenario (1925) gli hanno dedicato a Darlington perfino una lapide ricordo.

Storicamente, però, si fa risalire l'inaugurazione della prima ferrovia del mondo (16 sett.

1830), lunga 14 chilometri alla Liverpool - Manchester con la famosa locomotiva

"locomotion" costruita da Stephenson; pochi mesi dopo (30 ottobre 1830) era poi seguita

la francese Saint-Etienne-Lione col primo tratto di 15 chilometri. A Parigi la strada ferrata

che la univa a San Germano fu invece inaugurata sei anni dopo, il 24 agosto 1837. Quel

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giorno un passeggero singolare era un giovane poeta non ancora romanziere, Victor

Hugo, che così descrisse scrivendo alla moglie questo suo primo viaggio in ferrovia:

"E' un movimento magnifico, che bisogna aver sentito per rendersene conto. La rapidità è

inaudita. I fiori ai lati della via non son più fiori, sono macchie anzi sono strisce rosse o

bianche;... le città, i campanili e gli alberi danzano e si perdono follemente

nell'orizzonte;...Occorre uno sforzo per non figurarsi che il cavallo di ferro sia una vera

bestia. La si sente soffiare nel riposo, lamentarsi in partenza, guaiolare in cammino: suda,

trema, fischia, nitrisce, rallenta, trascina; enormi rose di scintille sprizzano gialle ad ogni

giro di ruota o dai suoi piedi, e il suo respiro se ne va al di sopra delle nostre teste in belle

nuvole di fumo bianco, che si lacerano sugli alberi della strada".

La "rapidità inaudita" descritta da Hugo, era allora di 15 chilometri all'ora !! Un prudente

apostolo del progresso sulla rivista Quarterly tutto allarmato scriveva. "E' una pretesa

assurda e ridicola quella di voler far viaggiare locomotive con una velocità doppia delle

carrozze di posta. Tanto varrebbe viaggiare su di una bomba ! Vogliamo sperare che il

Parlamento non approvi alcuna domanda di ferrovia senza prescrivere che la velocità di

nove miglia all'ora (14 km/h) - la massima che possa adottarsi senza pericoli - non debba

essere giammai superata!”

Il prudente apostolo non fu ascoltato, anzi, il "movimento magnifico" aveva stregato i

governanti di tutti i Paesi. Dopo soli 6 anni dalla Liverpool-Manchester, si contavano in

Europa già 876 chilometri di strade ferrate, 461 dei quali realizzate in Inghilterra, 245 in

Austria, 141 in Francia, 20 in Belgio, 7 in Baviera, 40 in Sassonia, 26 in Prussia, 28 in

Russia, e vari chilometri nei Principati e Città libere della Germania.

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4. Le origini in Italia [3]

Il 3 ottobre 1839, nel regno di Napoli, per la prima volta in Italia, una locomotiva correva

sulle rotaie tra Napoli e Portici, trascinandosi dietro dei vagoni con sopra dei passeggeri.

L'anno prima della inaugurazione della linea parigina, nei primi mesi del 1836 era giunto a

Napoli un ingegnere francese - Armando Bayard de le Vingtrie - per chiedere a Re

Ferdinando II il permesso di poter costruire una "strada ferrata", come si diceva allora, tra

Napoli e Nocera.

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Egli avrebbe insieme con una sua Compagnia, compiuta l'opera a proprie spese e a

proprio rischio. Domandava in compenso che gli si lasciasse per 99 anni l'usufrutto, poi la

"ferrovia" sarebbe divenuta proprietà dello Stato.

La proposta fu studiata dal cavalier Nicola Santangelo, Ministro degli Interni, e fu del

parere di accettarla in linea di massima. Quello di Napoli era il clima ideale del

pionierismo delle modernità; i Borboni avevano inaugurato il primo battello di linea a

vapore d'Italia, ed erano riusciti con una delle prime reti italiane a collegare

telegraficamente Napoli con la Sicilia; dunque anche al giovane Re (26 enne, sul trono da

sei anni) l’idea di Bayard non dispiaceva proprio - (ricordiamo che a Napoli fu poi

costruita la prima Metropolitana d’Italia).

Con decreto del 19 giugno 1836 il Re concesse al Bayard la facoltà di costruire la ferrovia,

ma con limitazione assai più strette di quelle che il francese avrebbe voluto.

I lavori avrebbero dovuto esser compiuti in sei anni; Bayard doveva depositare 100.000

ducati, i quali sarebbero stati confiscati se in quel tempo non si fosse finita l'opera. Inoltre

l'usufrutto della concessione fu limitata a soli 80 anni. Ottenuta dunque la concessione, il

Bayard si pose all'opera e già due anni dopo, alla fine del mese di agosto 1838 , il primo

tratto di binari era pronto da Napoli al Granatello di Portici.

Le locomotive giunsero dall'Inghilterra, mentre le carrozze solide ed eleganti furono

fabbricate a Napoli.

Nel Regno Lombardo – Veneto

Alla costruzione della prima ferrovia lombarda fu impegnata una industria privata.

La prima linea, da Milano a Como, fu ideata dal nobile Nanino Volta, figlio del celebre

scienziato comasco, e dall'ingegnere Bruschetti di Milano, che n'ebbero la concessione

con sovrana patente del 27 luglio 1837 (un anno e un mese dopo quella di Napoli) ma

non furono mai iniziati i lavori e il progetto rimase solo sulla carta.

Altra concessione fu data nell'aprile del 1838 alla ditta Holhammer di Bolzano, che la

cedette poi ad una Società anonima, per la linea da Milano a Monza. Questa fu

solennemente inaugurata il 18 agosto 1840, e fu la seconda linea realizzata nella nostra

Penisola, la prima del Lombardo - Veneto.

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Piemonte

Fra gli Stati, com'era allora divisa l'Italia prima del 1860, il Piemonte diede alle costruzioni

ferroviarie l'impulso maggiore, vincendo tutte le gravi difficoltà che si presentavano con i

suoi monti, fiumi e torrenti. E non procedette senza criterio, ma seguendo un programma

saggiamente maturato già prima, perfino considerando i futuri congiungimenti con le

linee dei Paesi più vicini.

E fu appunto il Piemonte a concepire e a sostenere la grandiosa idea di aprire attraverso

le Alpi la prima via al commercio internazionale; e non tardò a preparare i mezzi per

effettuare la gigantesca impresa, culminata poi nel 1870 con il ciclopico traforo del

Cenisio.

Dopo che Carlo Alberto aveva autorizzato una Società che aveva fatto i primi studi

preliminari, il Governo deliberò il sistema delle ferrovie piemontesi in due grandi linee

principali: una della quali unisse Genova a Torino, passando per Alessandria, e l'altra da

Alessandria mettesse capo al Lago Maggiore, attraversando la Lomellina.

Ultimati gli studi nei particolari, venne ordinata il 13 febbraio 1845 la costruzione delle due

linee a spese dello Stato.

Della ferrovia Torino - Genova da Novi a Sampierdarena, considerando l'epoca in cui fu

costruita, nella quale l'arte ferroviaria muoveva i primi suoi passi, fu veramente un'opera

colossale. Svolgendosi i lavori su una regione aspramente montagnosa, oltre a tratti con

pendenze del 35 per mille, richiese anche la perforazione di numerose gallerie, dieci di

numero, di cui la massima, a Busalla, si interna sotto il colle dei Giovi per ben 3.260 metri,

considerata allora la più lunga galleria del mondo. Fino allora deteneva il primato la

galleria del Semmering (linea Vienna-Trieste) con i suoi 1.430 metri, opera austriaca ma

realizzata (periodo 1848-1854) da un italiano: l'ingegner veneziano Carlo Ghega.

Dopo la proclamazione dello Statuto del 4 marzo 1848, all'opera del governo piemontese

si aggiunse quella privata, contribuendo ad infittire sempre di più le vie ferrate in

Piemonte.

Nel 1852 lo Stato deliberò di costruire a proprie spese la strada ferrata da Torino a Susa

(costruendo in parallelo la strada del Passo del Cenisio che metteva in collegamento la

Savoia) e ne affidò i lavori alla Società Jakson, Brassey e Henfrey.

Sul tratto di Torino-Susa appena citato, già il 13 agosto 1840, un umile imprenditore di

Bardonecchia, Giuseppe Francesco Medail, dopo aver esaminato ogni passo le sue

montagne, d'estate e d'inverno, studiando i vari ostacoli sia dalla parte italiana come in

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quella francese, dopo aver misurato che Bardonecchia e Modane erano allo stesso livello,

e che l'interposto monte Freius era il più stretto fra tutti i monti, inviò un memoriale a

Torino, esponendo il suo pensiero prima ancora della progettata costruzione del Passo

stradale del Moncenisio e della ferrovia Torino-Susa. Non ebbe risposta. Ne inviò un altro

all'inizio del 1841, ma ebbe lo stesso poco fortunato esito. Il suo era un progetto audace e

avveniristico e nel preambolo della sua relazione diceva: " Per migliorare la strada da

Torino a Chambery e renderla tale da rivaleggiare in qualunque stagione con quella dei

nostri vicini, conviene abbandonare la strada del Cenisio e forare le Alpi del tratto più

Breve, cioè sotto il monte Frejus, fra Bardonecchia e Modane”

Questo "tratto più breve" dell'audace progetto misurava circa 13 chilometri. Una follia per

quei tempi, senza le moderne perforatrici. Il progetto non toccò neppur l'onore di una

discussione, sicchè fu sepolto negli archivi di Stato. Medail chiuse gli occhi a Susa il 5

novembre 1844 e non ebbe la soddisfazione di veder presa in considerazione il suo

progetto. Che però dopo l'esilio e la morte di Carlo Alberto, passò di mano in mano con

tante paternità; ma la più originale fu quella dell'ing. milanese Giovan Battista Piatti che

(dopo essere stato a Londra a curiosare) il 12 febbraio 1853 su quell'audace progetto di

Medail, concepì in concreto un doppio disegno: come affrontare l'immane opera di scavo

basandosi sull'applicazione dell'aria compressa. "Proposta per la strada ferrata fra Susa e

Modane di un nuovo sistema di propulsione ad aria compressa da motori idraulici, e

abbozzo di progetto per il traforamento delle Alpi". Era un opuscolo stampato a Torino

dalla tipografia Castellazzi e Garretti. Anche questo progetto passò di mano, anche

perchè Piatti non l'aveva brevettato, nè aveva gli agganci giusti dentro il governo

Sabaudo. Il 15 gennaio 1854, tre ingegneri (Sommeiller, Grandis, Grattoni) su quel

progetto chiesero il brevetto d'invenzione e lo proposero al ministero dei lavori pubblici. A

un anno esatto dall'opuscolo di Piatti (arma vincente nella ciclopica perforazione).

A parte la diatriba sulla priorità, il "progetto" dei tre ingegneri giunse finalmente in

Parlamento il 29 giugno 1857. La grande opera fu approvata con 98 voti favorevoli contro

18 avversi. Il 31 agosto 1857 Vittorio Emanuele inaugurava i lavori col dar fuoco alla prima

mina alla galleria di Modane; il 14 novembre dello stesso anno dava fuoco a quella sul

versante piemontese. Le perforatrici meccaniche non erano ancora state perfezionate, i

lavori di scavo furono iniziati a mano, ma dopo cinque anni sia da una parte che dall'altra

non si era andati oltre i 700 metri di galleria, e fatti tanti sacrifici di uomini e di denari. Ne

rimanevano di metri 11.500 !! Qualcuno già disperava, perchè si stava procedendo a

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passo di formica. Ma poi arrivarono le nuove macchine (pneumatiche ad aria compressa,

idropneumatiche, scalpelli meccanici con diamanti ecc.) i lavori ebbero una forte

accelerazione e poterono esser compiuti in poco più di tredici anni. Si lavorò anche tutta

la vigilia e tutta la mattina del Natale 1870. Questo perchè in una breve pausa nel versante

italiano, a mezzogiorno della vigilia, si erano uditi dei rumori sordi e confusi; operai e

tecnici si guardarono trepidanti tutti in faccia alla luce delle fiaccole, poi qualcuno

azzardò: "non c'è dubbio, sono i minatori del versante opposto". I lavori ripresero con

maggior lena, lo scalpello affondò negli ultimi massi; poche ore dopo il governo riceveva

questo telegramma: "Bardonecchia . Quattro ore e venticinque minuti. Lo scalpello ha

forato l'ultimo diaframma di quattro metri e ci parliamo da una parte all'altra".

L'errore di dislivello e di deviazione laterale risultò essere di pochi centimetri. Una

meraviglia dell'ingegneria! Un’opera audace, allora unica al mondo!

Sette mesi dopo il primo treno percorreva la lunghissima galleria di 12.233,55 metri del

traforo del Cenisio.

Lasciamo pure il merito agli ingegneri esecutori; ma Carlo Cattaneo affermò che il traforo

del Cenisio si doveva specialmente "a un lampo di genio di Giovan Battista Piatti". Che

pochi ricordarono nè da vivo nè da morto. Morì ignorato nelle tribolazioni e povero. Solo

Milano gli dedicò un monumento.

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5. La nascita delle Ferrovie dello Stato [4]

La nascita delle Ferrovie dello Stato avvenne in un clima di malcontento dei viaggiatori e

di forti agitazioni sindacali dei ferrovieri che reclamavano aumenti dei salari, già più alti di

altri lavoratori, ed il riconoscimento del diritto di sciopero negato esplicitamente dal

Decreto Legge presentato dal precedente governo Giolitti. Le FS vennero dunque istituite

con legge 137 del 22/04/1905, approvata a larghissima maggioranza a seguito del nuovo

disegno di legge, presentato dal Ministro dei Lavori Pubblici Carlo Ferraris, del governo

Fortis.

Furono liquidate dallo Stato le “Compagnie” che gestivano, sin dal 1885 con Convenzioni

ventennali in scadenza e già disdettate nel 1903 dal governo Zanardelli, le tre principali

reti ferroviarie: Mediterranea, Adriatica e Sicula, cui si aggiunse l’acquisizione delle

ferrovie Meridionali avvenuta l’anno successivo, quando i ferrovieri cominciarono a

beneficiare, con l’emanazione dello Stato Giuridico, di alcuni diritti non garantiti dagli altri

impiegati statali.

Delle tre Compagnie le FS ereditarono uno stato precario delle linee ed un parco rotabile

molto eterogeneo ed in parte obsoleto.

Nel primo decennio di gestione statale vennero realizzate:

� 2.000 km di nuove linee;

� 350 km di linee elettrificate;

� 1.000 km di binario raddoppiato;

� da 2.600 a 5.000 locomotive di modello perfezionato (la N.6.801 raggiunse sulla

Parma - Piacenza, nel 1907, i 120 km/h);

� veicoli da 60.000 a 117.000 unità;

� nuovi piani regolatori di varie stazioni, tra cui Torino, Bologna,Milano, Roma T. e

Napoli;

� 10 nuovi depositi locomotive nei punti più nevralgici della rete;

� adozione degli apparati centrali idrodinamici per la manovra degli scambi e dei

segnali nelle stazioni di più intenso traffico.

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6. Le premesse della politica ferroviaria fascista [5]

Durante il primo conflitto mondiale le Ferrovie dello Stato parteciparono in maniera

importante allo sforzo bellico fornendo i mezzi necessari a garantire sia «il pronto

intervento delle truppe al fronte» sia «il continuo approvvigionamento di materiali e

vettovaglie all’esercito operante». In particolare dopo Caporetto il coinvolgimento

dell’Azienda di Stato fu ancora più significativo e questo, se da un lato accelerò l’usura di

materiali e mezzi, dall’altro contribuì a creare un clima di forte consenso attorno

all’Azienda. Nei difficili anni del dopoguerra però, l’Amministrazione ferroviaria diventò

presto il bersaglio di numerose e aspre polemiche che coinvolsero ampi strati

dell’opinione pubblica. Le cattive condizioni del materiale mobile, determinate dalla

mancata sostituzione di un parco macchine ormai vecchio e logoro, e le frequenti

agitazioni del personale, cresciuto a dismisura durante la guerra, rendevano infatti

l’Azienda incapace di assicurare il buon funzionamento dell’esercizio ferroviario.

I termini «disservizio» e «anarchia ferroviaria», coniati nel 1905 all’epoca della

nazionalizzazione per descrivere le cattive condizioni delle ferrovie italiane, tornarono

quindi prepotentemente di moda. In particolare nel corso del 1920 gli agenti ferroviari,

raccolti attorno al loro potente sindacato, lo Sfi (Sindacato Ferrovieri Italiani) si resero

protagonisti di agitazioni sindacali, scioperi, episodi di interruzione dal servizio che

s’impressero «nel senso comune degli italiani come la manifestazione più alta, anzi come

l’esempio più perfetto, dell’insubordinazione sociale e del disordine pubblico».

Gli scioperi del 1920 degli agenti ferroviari e di altri impiegati pubblici, come i

postelegrafonici, rappresentarono uno dei momenti di maggiore tensione di quel periodo

di lotte sociali che culminò nell’occupazione delle fabbriche nel settembre dello stesso

anno.

In particolare la proclamazione dello sciopero ferroviario del gennaio del 1920 fu la causa

indiretta di una spaccatura interna al movimento dei Fasci di combattimento, che da quel

momento iniziarono a intraprendere un nuovo percorso politico. Mussolini, che

inizialmente si era mostrato favorevole a riconoscere le ragioni dei ferrovieri, al momento

della proclamazione dello sciopero si mostrò invece nettamente contrario all’astensione

dal lavoro nei pubblici servizi. Non tutti i leader fascisti però, condivisero l’opinione del

duce. Due esponenti di spicco del fascismo come Eno Mecheri e Agostino Lanzillo,

schieratisi entrambi dalla parte dei ferrovieri, furono costretti a lasciare il movimento. Due

giorni dopo l’inizio dello sciopero ferroviario Cesare Rossi, primo collaboratore del duce

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che, in quel momento, secondo Emilio Gentile, era «molto più isoluto di Mussolini nel

sostenere […] la necessità di lasciarsi alle spalle ogni velleità di propaganda fra il

proletariato per volgersi decisamente dalla parte della borghesia produttiva e dei ceti

medi», sulle colonne de “Il Popolo d’Italia”, in un noto articolo intitolato Non vogliamo i

salti nel buio, scriveva: È tempo di proclamare francamente che di fronte alla certezza

ineluttabile della dissoluzione generale a cui oggi fatalmente ci condurrebbe un

movimento rivoluzionario – da chiunque diretto e qualunque ne fosse l’obiettivo – si ha il

dovere di andare contro corrente: più brutalmente diciamo: si ha il dovere di essere

risolutamente dei conservatori e dei reazionari. Di reagire cioè contro i salti nel buio, di

conservare, cioè quel che di solido, di organico, di sano offre la classe sociale oggi al

potere.

Queste argomentazioni anticipavano la svolta a destra che i Fasci di combattimento, non

senza contrasti interni, decisero di intraprendere, per evidenti ragioni di opportunità

politica, nel maggio successivo al congresso di Milano e che si realizzerà pienamente agli

inizi del 1921.

Comunque già da quel momento il fascismo non fu più un movimento soltanto

antisocialista ma anche antioperaio, e iniziò ad assumere agli occhi dell’opinione

pubblica moderata il ruolo di severo e rigido difensore dell’ordine costituito.

Il disservizio ferroviario, le cui cause erano fatte risalire, da un’abile propaganda, alle

frequenti agitazioni del personale, appariva come la migliore testimonianza dell’incapacità

mostrata dallo Stato nel tenere a freno le velleità rivoluzionarie del proletariato e offriva ai

fascisti la possibilità di dipingere sé stessi come unica forza nuova in grado di difendere

gli interessi nazionali.

È ben comprensibile quindi, la particolare attenzione dedicata dal fascismo alla questione

ferroviaria. Le forti critiche espresse dal movimento dei fasci sulla gestione dell’azienda

erano infatti destinate a riscuotere un successo crescente presso le classi medie

esasperate dalle numerose e troppo frequenti agitazioni sindacali dei ferrovieri che nel

corso di quel turbolento 1920 ostacolarono a più riprese la regolarità del servizio.

Alcuni mesi dopo la conclusione dello sciopero di gennaio gli agenti ferroviari di diversi

compartimenti intrapresero nuove azioni di protesta contro il governo che ritardava

l’applicazione di quanto previsto dagli accordi presi con il sindacato. Il primo maggio, in

occasione della festa dei lavoratori, l’astensione dal servizio dei ferrovieri fu quasi

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completo. Nello stesso mese iniziarono invece le azioni di boicottaggio dei trasporti di

armi destinate agli eserciti in guerra contro la Russia.

Il 14 ottobre i ferrovieri aderirono alla grande manifestazione nazionale di solidarietà alla

Russia che prevedeva due ore di sospensione dal servizio.

Alla fine dell’anno tra scioperi parziali, saltuarie agitazioni e astensioni locali dal lavoro

l’Amministrazione ferroviaria contò 65 interruzioni di servizio tra gennaio e dicembre. A

queste si aggiunse, in alcuni casi, in aperta sfida allo Stato, il boicottaggio dei treni che

trasportavano carabinieri o guardie regie inviati per ragioni di ordine pubblico presso le

località in cui era in atto uno sciopero.

Inoltre, a seguito delle iniziative sindacali prese dallo Sfi nel dicembre del 1920, Giolitti

decise di denunciare tutti i membri del comitato centrale del sindacato. Infine, per

contrastare la combattività della categoria, e neutralizzare la più potente arma a loro

disposizione, quella dello sciopero, l’Amministrazione ferroviaria fece più volte ricorso

all’applicazione dell’articolo 56 del regolamento ferroviario che prevedeva la sospensione

e addirittura il licenziamento per chi volontariamente abbandonava il servizio.

L’applicazione dell’articolo 56 era ormai ritenuta illegittima, e non solo tra i ferrovieri,

poiché si pensava che essa fosse stata implicitamente abrogata da Nitti che non ne aveva

fatto uso nel gennaio del ’20. Colpire i ferrovieri con l’applicazione dell’articolo 56

rappresentava forse il primo segnale di quella «politica risoluta ed energica» che, secondo

il prefetto di Milano, il senatore Lusignoli, l’opinione pubblica in quel momento reclamava.

L’azione del governo in campo ferroviario non si esaurì però in una più rigorosa politica di

contrasto delle iniziative sindacali, bensì comprese una serie di provvedimenti assunti in

favore del personale, riguardanti soprattutto l’aumento delle retribuzioni. Tali interventi

avevano lo scopo di tutelare gli stipendi dei ferrovieri dagli effetti dell’inflazione

postbellica.

Disavanzo economico, elefantiasi dell’apparato amministrativo e, soprattutto, forte

caratterizzazione politica del personale e della sua azione in campo sindacale: erano tutti

elementi che, a partire dal gennaio del 1920, facevano dell’inefficiente politica ferroviaria

di quegli anni uno dei bersagli preferiti dalla polemica fascista.

«Quali le cause di questo terribile stato di cose?» si chiedeva alla Camera nel maggio

1922 l’onorevole Edoardo Torre, futuro Commissario Straordinario delle Ferrovie del

governo Mussolini.

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Secondo il parere di Torre nel gennaio del 1920 «le sorti delle ferrovie erano nelle mani

del sindacato rosso di Bologna» e l’allora Presidente del Consiglio Nitti aveva fatto al

Sindacato «tutte le concessioni» consegnando «mani e piedi legati lo Stato alla classe dei

ferrovieri». Da quel momento lo Sfi era diventato onnipotente e lo Stato era rimasto «sotto

l’incubo doloroso dello sciopero ferroviario».

Dall’esame degli eventi del gennaio del 1920 e, soprattutto, dall’atteggiamento

successivo dei governi Nitti, Giolitti e Bonomi, emerge invece una realtà molto diversa da

quella descritta da Torre. Anche in occasione dello sciopero legalitario dell’agosto del

1922 il Presidente del Consiglio Facta decise di comminare severe sanzioni disciplinari ai

ferrovieri scioperanti. Secondo “L’Avanti!” ben 111 agenti ferroviari furono colpiti

dall’applicazione dell’articolo 56 del regolamento ferroviario e perciò dimissionati. Il

sindacato dei ferrovieri si trovava impotente a reagire contro l’offensiva dello Stato.

Lo Stato, reagendo all’aggressività sindacale dei ferrovieri con l’applicazione delle

sanzioni previste dalla legge nei confronti di coloro che si rendevano protagonisti di

episodi di interruzione del servizio, aveva ottenuto risultati significativi.

Ciò risulta evidente se si considera la scomparsa quasi totale delle agitazioni sindacali

durante i primi mesi del 1922.

A due anni dallo «scioperissimo», l’emergenza ferroviaria poteva dirsi ormai

completamente e definitivamente rientrata. Questo aspetto però, era ignorato dai fascisti

impegnati invece a fare delle agitazioni ferroviarie dei mesi precedenti, e dei conseguenti

disagi che esse avevano comportato, l’oggetto di una facile distorsione e

strumentalizzazione politica. I capi del movimento fascista infatti, nell’occasione, si erano

rivelati capaci di interpretare il sentimento di parte dell’opinione pubblica moderata

che ormai identificava la categoria dei ferrovieri con la «tanto deprecata scioperomania

del dopoguerra»

Agli inizi del 1921 Mussolini si era scagliato contro lo Stato «ipertrofico», «elefantiaco» che

svolgeva le funzioni di «tabacchino», «postino», «ferroviere», «panettiere». Secondo il duce

ogni azienda statale era un «disastro economico», e lo Stato avrebbe dovuto«rinunciare

ad ogni forma di gestione economica», lasciando nelle più capaci mani private alcune

delle numerose funzioni allora esercitate da Amministrazioni pubbliche. In polemica

contro le cosiddette «bardature di guerra», Mussolini, strizzando l’occhio al ceto

imprenditoriale, abbracciava quindi la causa liberista e auspicava la privatizzazione delle

ferrovie.

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Tuttavia subito dopo la marcia su Roma al nuovo governo sembrò più urgente procedere

a un immediato sfoltimento del personale delle Ferrovie dello Stato piuttosto che

adoperarsi per attuare una riforma strutturale dell’Amministrazione ferroviaria che si

concretizzerà in seguito, con la nascita del Ministero delle Comunicazioni, realizzando

una sostanziale riduzione dell’autonomia dell’Azienda. L’esonero di parte del personale

ferroviario era un’azione che avrebbe soddisfatto sia le esigenze di carattere economico

delle Ferrovie, nell’ottica del risanamento finanziario dell’Azienda, sia quelle di tipo tattico

del fascismo, intenzionato a realizzare in ambito ferroviario una vera e propria repressione

politica.

La riduzione del numero degli agenti ferroviari era stata auspicata da Torre nel discorso

alla Camera del maggio del 1922, che può essere considerato il manifesto

programmatico della politica ferroviaria attuata dal fascismo nei primi mesi di governo:

“Si licenzi tutto il personale superfluo – dichiarava Torre alla Camera –. Nelle ferrovie c’è

personale pletorico, perché, durante la guerra, le ferrovie si trasformarono in facile e vasto

campo di collocamento! Sono pochi i deputati che non hanno imboscato nelle ferrovie

decine e centinaia di elettori! Inoltre furono assunti in servizio donne e ragazze come

avventizi straordinari, solo per il tempo della guerra. Ma quando la pace fu conclusa esse

avrebbero dovute essere licenziate, ed i posti rimasti in organico, avrebbero dovuto essere

riservati ai reduci della guerra. Accadde invece che le persone suddette, in gran parte

superflue, vennero un bel giorno poste in pianta stabile, e ciò per imposizione violenta di

quella organizzazione cui i nominati agenti, donne incluse, avevano dato man forte, per gli

esperimenti rivoluzionari di infausta memoria. Però si raggiungeva uno scopo immediato:

quello di irreggimentare nei propri quadri questa massa ingente, docile strumento di ogni

eventuale speculazione politica”

Era evidente quindi che per indebolire il potente sindacato dei ferrovieri Torre considerava

necessario epurare il personale dagli elementi a esso più vicini.

Dopo i primi provvedimenti emanati dal nuovo Direttore Generale Luigi Alzona, tesi al

raggiungimento di maggiori economie nelle spese attraverso la riduzione del numero dei

treni e del personale, grazie alla legge dei pieni poteri, il governo Mussolini il 31 dicembre

del 1922 «per riorganizzare la più importante delle Amministrazioni dello Stato,

rendendone più agili le funzioni e diminuirne le spese», con il decreto n. 1681 sciolse il

Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie e ne attribuì tutti i poteri a un Commissario

Straordinario nominato nella persona dello stesso Edoardo Torre, dichiarato «libero da

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ogni vincolo burocratico» e perciò nelle condizioni di «metter in atto ardite iniziative il più

sollecitamente possibile»

Torre poteva quindi dedicarsi al raggiungimento dei suoi obiettivi. Innanzitutto era

necessario diminuire al più presto il disavanzo di bilancio dell’Azienda ferroviaria. Questo

traguardo in tempi brevi non poteva essere ottenuto se non attraverso una drastica

riduzione delle spese, a sua volta resa possibile dallo sfoltimento dei ranghi del

personale. L’istituto dell’esonero dal servizio degli agenti ferroviari usato contro gli

elementi più politicizzati e attivi sul fronte sindacale diventava un vero e proprio strumento

di epurazione volto a indebolire le associazioni di categoria.

A quel punto si potevano abolire o svuotare di significato alcune delle recenti conquiste

sindacali, limitare l’esercizio del diritto allo sciopero e confermare, all’opinione pubblica,

che l’azione del governo fascista era tesa alla restaurazione dell’ordine e della disciplina.

I criteri per la scelta del personale da esonerare, stabiliti a suo tempo dal governo

Bonomi, erano formulati quindi in maniera volutamente ambigua, tanto da concedere a

Torre ampia discrezionalità nell’individuazione dei soggetti cui applicare il provvedimento.

Soprattutto nel caso del personale ferroviario non si trattava certo di procedere al

licenziamento «del personale esuberante, o incapace, o comunque improficuo» come

dichiarava Mussolini nella relazione sull’uso della legge dei pieni poteri presentata alla

Camera nel 1924, o di eliminare «i non valori […] i poltroni, i favoriti», come si illudeva

Luigi Einaudi, bensì di utilizzare gli strumenti forniti dalla legge per attuare nei confronti

della categoria dei ferrovieri una vera e propria epurazione politica. Ciò emergeva

chiaramente dalle dichiarazioni dello stesso Commissario Straordinario che, nel gennaio

del 1923, annunciava al “Popolo d’Italia” di voler licenziare non solo i «fannulloni, gli

incapaci», ma anche «i nemici dello Stato», il che voleva dire «liberare le ferrovie dagli

elementi turbolenti e dai sobillatori di scioperi». Gli agenti non riconosciuti «idonei al

servizio per incapacità» erano individuati da Torre negli «elementi subdoli e pericolosi,

ben noti di già, che [avevano] alimentato gli scioperi e minato con animo nemico la

disciplina e la concordia della famiglia ferroviaria», ai quali poteva attribuirsi il requisito di

«incapacità morale», sufficiente, secondo Torre, a far scattare il provvedimento del

licenziamento. La possibilità di licenziare un impiegato di un’Azienda di Stato sulla base

di un insindacabile giudizio soggettivo riguardante la sua capacità lavorativa, come detto,

era già stata introdotta dal precedente governo Bonomi. Torre però intendeva sfruttarla a

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fini politici, equiparando l’eventuale attività sindacale dei singoli al requisito di scarsa

capacità.

Il Ministero dell’Interno raccolse quindi presso tutte le prefetture del Regno l’elenco dei

ferrovieri sovversivi da fornire a Torre affinché provvedesse al loro sollecito

allontanamento dai ranghi del personale. I nominativi da inserire in quelle che presto

diventarono vere e proprie liste di proscrizione erano forniti a Torre anche da apposite

commissioni formatesi in ogni compartimento presiedute da fiduciari compartimentali

scelti tra gli agenti ferroviari membri dell’Anff o tra quelli ad essa vicini

Grazie all’approvazione di norme eccezionali e alla loro libera interpretazione, Torre

poteva quindi procedere liberamente allo sfoltimento dei ranghi dell’Azienda.

Erano questi i primi passi dell’operazione intrapresa da Torre, e sollecitata dai principali

esponenti della scuola liberista, di sfoltimento del personale ferroviario. Lungi però

dall’essere una manovra a carattere esclusivamente economico, l’esonero di decine di

migliaia di agenti ferroviari assumeva per il governo Mussolini ben altro significato.

Significativo è il brano seguente tratto da un’altra lettera dell’Alto Commissario al Direttore

Generale di Pubblica Sicurezza del luglio dello stesso anno: “Tutti gli agenti che tu mi

vieni segnalando come sovversivi o, comunque, intesi ad esplicare opera dannosa agli

interessi nazionali, sono compresi negli elenchi delle persone da dispensarsi dal servizio

[…] se peraltro tu ritenessi necessaria la immediata eliminazione di taluno fra coloro che

mi hai designati, vorrai compiacerti di comunicarmene le generalità e la residenza onde io

possa affrettare l’adozione degli opportuni provvedimenti”.

L’uso prettamente politico dello strumento dell’esonero del personale ferroviario non si

limitò a colpire i dipendenti delle Ferrovie dello Stato di appartenenza socialista,

comunista o anarchica, bensì, alla vigilia delle elezioni politiche del 1924 si estese a

colpire i nemici interni, in quel momento considerati ben più pericolosi, alcuni dei quali, in

quei mesi, si erano riuniti nell’associazione “Patria e Libertà”.

Nell’ottobre del 1923, grazie all’applicazione dei decreti n. 143 e n. 153, erano stati già

licenziati 14.290 funzionari e agenti ferroviari, ne erano stati collocati a riposo altri 3.776,

mentre circa 10.000 avventizi erano stati allontanati dal servizio. A dicembre dello stesso

anno il numero complessivo del personale ferroviario esonerato o collocato a riposo era

salito a 43.053, il 19,32% del totale degli addetti al 1° gennaio di quell’anno. Il decreto n.

172 del 24 gennaio del 1924 prolungava il periodo di applicazione del decreto

sull’esonero del personale ferroviario fino al 30 aprile 1924. A quella data il numero dei

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licenziati era salito a 30.100, quello dei collocati a riposo a 6.466. Ciò significava che sui

65.274 impiegati dell’amministrazione statale licenziati, 46.566, cioè il 71,34%,

apparteneva ai ranghi dell’Azienda ferroviaria.

Il provvedimento che fece più discutere, però, fu senz’altro quello varato sempre nel

dicembre del 1923 sulla modifica dei quadri di classificazione del personale approvata nel

1921. Con l’eccezione dei funzionari di grado più elevato che godettero di un aumento

dello stipendio, la nuova classificazione del personale prevedeva una diminuzione

generale degli emolumenti. La riduzione degli stipendi risultava più accentuata quanto più

si scendeva nella scala gerarchica, «per ripristinare una equa differenziazione fra i vari

gradi del personale». Così mentre lo stipendio minimo annuo di un capo servizio saliva da

21.000 a 27.500 lire, quello di un macchinista scendeva da 9.900 a 7.400 lire, mentre la

paga minima di un conduttore, che prima ammontava a 6.600, e quella di un operaio, in

precedenza fissata a 7.650, passavano entrambe a 5.000 lire. Oltre ad allargare il divario

retributivo tra i quadri dirigenti e il personale esecutivo, le nuove norme raggruppavano le

troppo numerose qualifiche degli agenti ferroviari in sei categorie retributive, ad ognuna

delle quali corrispondeva un tipo di stipendio.

Infine Torre istituì il corpo di polizia ferroviaria, diretta emanazione dell’Anff, con il compito

di sorvegliare il personale, garantire l’ordine all’interno dei treni e delle stazioni, impedire i

furti che costavano alle Ferrovie dello Stato decine di milioni di lire l’anno di indennizzi. La

polizia ferroviaria era stata creata da Torre come un organo alle sue dirette dipendenze.

Nelle visite dell’Alto Commissario in Alessandria, una provincia nella quale Torre godeva

di largo seguito ma dove albergavano anche i suoi più fieri oppositori all’interno del Pnf,

svolgeva le mansioni di vera e propria scorta armata del capo delle Ferrovie. In occasione

di un banchetto organizzato in onore di Torre in Alessandria il 6 maggio del 1923 si

verificarono scontri a fuoco tra la polizia ferroviaria e alcune legioni della Milizia Volontaria

Sicurezza Nazionale (Mvsn) facenti capo al sindaco della cittadina piemontese Raimondo

Sala, fiero oppositore dell’Alto Commissario. Proprio a seguito di questo incidente De

Bono, all’epoca anche capo della Mvsn, sciolse d’imperio la polizia ferroviaria e inviò

prima Cesare De Vecchi e poi Italo Balbo a riportare l’ordine nel fascio di Alessandria.

Nell’agosto fu poi creato il corpo della Milizia Ferroviaria, inquadrata però all’interno della

Mvsn.

I provvedimenti presi da Torre, oltre a irreggimentare gli agenti ferroviari e a fornire

all’esterno l’idea di un governo capace di restaurare e mantenere la disciplina tra il

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personale addetto al compimento del più importante servizio pubblico, avevano anche lo

scopo di migliorare i conti dell’Azienda. Nell’esercizio finanziario 1923-24 l’eliminazione

del personale e la riduzione degli stipendi comportò un’economia di 365 milioni rispetto

all’esercizio precedente. In questa direzione muovevano anche i provvedimenti emessi al

fine di diminuire l’importo dei trattamenti di quiescenza del personale ferroviario e

l’aumento delle tariffe ferroviarie.

Dopo la destituzione di Torre da parte di Mussolini per ragioni politiche interne al partito

occorreva dunque continuare a guidare con mano ferma l’Amministrazione, ottenere

avanzi di bilancio, infrenare le agitazioni sindacali, offrire agli utenti un servizio efficiente

basato soprattutto sulla rigida osservanza degli orari, sulla sicurezza sui treni e nelle

stazioni e sulla massima velocità dei percorsi. Anche in questo senso quindi vanno lette le

numerose iniziative che il Fascismo intraprese nel corso degli anni per introdurre novità

tecniche nel settore ferroviario atte a migliorare la qualità del trasporto, a velocizzare i

tempi di percorrenza dei treni e a rendere più confortevole e fruibile il servizio. Tra le

realizzazioni più importanti attuate nel corso del Ventennio possiamo ricordare il

completamento delle linee direttissime Roma-Napoli e Firenze-Bologna; l’istituzione dei

“treni rapidi” sui lunghi percorsi e dei “treni leggeri” sulle tratte brevi; la diffusione sulle

linee secondarie delle automotrici dotate di motore a combustione interna, le cosiddette

Littorine e, last but not least, il processo di elettrificazione delle principali linee ferroviarie

che, iniziato già in età liberale, ebbe durante il Fascismo, superate le prime iniziali

incertezze, notevole impulso, tanto da consentire all’Italia di conservare in questo ambito

un primato europeo.

Erano tutte iniziative tese, da un lato, a difendere le Ferrovie dalla sempre più agguerrita

concorrenza del trasporto su strada, che divenne significativa a partire dai primi anni

Trenta; dall’altro, a fornire agli occhi dell’opinione pubblica italiana ed estera l’immagine

di un’Azienda all’avanguardia, moderna, in grado di raggiungere sul piano tecnico un

primato internazionale, tanto da diventare, come assai precocemente affermò il duce in

persona, «oggetto di ammirazione e di invidia da parte degli stranieri». Così, realizzazioni

e intraprese ferroviarie si rileveranno col tempo sempre di più elementi costitutivi di base

della costruzione di un vero e proprio mito politico-propagandistico di regime, dotato di

vasta e durevole popolarità.

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7. Le deportazioni [6 - 7]

1938, la visita di Hitler e le leggi razziali

Nel maggio del 1938 Hitler viene a Roma per ricambiare la visita di Mussolini.

Storicamente non esiste la prova di un collegamento diretto tra la visita e la svolta razzista

del Regime (e secondo molti storici, a partire da De Felice, sarebbe ingiusto scaricare le

responsabilità dell’Italia e del fascismo su Hitler). Fatto sta che il mese dopo una

delegazione di esperti tedeschi di razzismo viene in Italia per istruire funzionari italiani su

questa pseudo-scienza; e appena due mesi dopo, il 14 luglio del 1938, viene pubblicato il

"Manifesto della razza", firmato da un gruppo di professori, di cui il più autorevole è Nicola

Pende, in cui si sostiene la teoria della purità della razza italiana, prettamente ariana, il cui

sangue va difeso da contaminazioni: quindi, gli ebrei sarebbero estranei e pericolosi al

popolo italiano. Sempre in luglio l’ufficio demografico del Ministero dell’interno si

trasforma in Direzione generale per la demografia e la Razza.

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Il massimo consenso alla campagna razzista si manifesta tra gli intellettuali e i docenti

universitari. Tutto ciò suscita scarsi dissensi. Uniche eccezioni di rilievo sono il filosofo

Giovanni Gentile, lo scrittore Massimo Bontempelli, e il fondatore del futurismo Tommaso

Marinetti. Voci discordi si levano anche in ambienti cattolici (in particolare ad opera del

gruppo fiorentino di Giorgio La Pira), preoccupati tra l’altro della piega "pagana" che

sembra prendere la persecuzione antiebraica, e inizialmente anche da parte del Vaticano

che però – come scrive Renzo De Felice – tutto sommato non si dimostra contrario "ad

una moderata azione antisemita". E infatti il 10 ottobre l’ambasciatore italiano presso la

santa Sede comunica per telespresso a Mussolini: "(…) le recenti deliberazioni del Gran

Consiglio in tema di difesa della razza non hanno trovato in complesso in Vaticano

sfavorevoli accoglienze (…) le maggiori per non dire uniche preoccupazioni della Santa

Sede si riferiscono al caso di matrimoni con ebrei convertiti".

Contemporaneamente al "Manifesto della razza" viene lanciata (in data 15 luglio 1938)

un’edizione speciale dei "Protocolli"; e per sostenere e diffondere la teoria razziale, nuova

per gli italiani, inizia le sue pubblicazioni una rivista: “La difesa della razza”, diretta da

Telesio Interlandi. Durante tutta l’estate del ‘38 tutta la stampa italiana pubblica articoli

diffamatori contro gli ebrei per preparare l’opinione pubblica alla normativa razziale. Il 1°

settembre 1938 viene emanata la legge: tutti gli ebrei italiani sono messi al bando della

vita pubblica; perfino le scuole sono precluse ai bambini ebrei. All’interno del partito

fascista, tra i pochi ad opporsi c’è Italo Balbo.

La persecuzione degli ebrei italiani

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Il periodo 1938-1943 è tragico per gli ebrei italiani. Michele Sarfatti nel suo studio certifica

che in questi sei anni vengono assoggettate alla persecuzione circa 51.100 persone, cioè

poco più dell’1 per mille della popolazione della penisola; i perseguitati sono in parte

(circa 46.600) ebrei effettivi e in parte (circa 4500) non-ebrei classificati "di razza ebraica".

L’antisemitismo permea la vita del paese in tutti i suoi comparti. In un solo anno, dei 10

mila ebrei stranieri presenti in Italia, 6480 sono costretti a lasciare il Paese. Uno degli

epicentri della "pulizia etnica" del fascismo sono le scuole e le Università. Nel giro di

poche settimane, 96 professori universitari, 133 assistenti universitari, 279 presidi e

professori di scuola media, oltre un centinaio di maestri elementari, oltre 200 liberi

docenti, 200 studenti universitari, 1000 delle scuole secondarie e 4400 delle elementari

vengono allontanati dagli atenei e dalle scuole pubbliche del regno: una profonda ferita,

mai completamente rimarginata, viene inferta alla cultura italiana. Molti illustri docenti

sono costretti all’esilio (come Enrico Fermi, che ha una moglie ebrea); altri costretti al

silenzio e alla miseria, esclusi da quegli istituti che hanno creato, come Tullio Levi Civita

(fisico e matematico), che si vede persino negare l’ingresso alla biblioteca del suo Istituto

di Matematica della Università di Roma dal nuovo direttore, Francesco Severi. La stessa

tragica sorte subiscono 400 dipendenti pubblici, 500 dipendenti privati, 150 militari e 2500

professionisti, che perdono i loro posti di lavoro e vengono ricacciati nel nulla, senza

possibilità non solo di proseguire la loro carriera, ma spesso anche di sopravvivere. Gli

episodi di violenza fisica da parte fascista sono per fortuna contenuti (qualche incidente si

verifica solo a Roma, Trieste, Ferrara, Ancona e Livorno)

Gli ebrei come reagiscono? Quelli che hanno la possibilità, emigrano: i più verso le

Americhe, molti in Palestina. L’1 per mille dei perseguitati si suicida. Il caso più

drammatico è quello di Angelo Fortunato Formiggini, giornalista, editore, fra i primi a

rendersi conto della pericolosità del fascimo. Si registrano anche molte abiure e

pubbliche dissociazioni (3880 casi tra il 1938 e il 1939) ed anche qualche "arianizzazione",

ottenuta col presentare documenti falsi e forti somme di denaro. Sono invece pochi quelli

che fanno valere una legge, emanata ad hoc, secondo la quale era da considerarsi

"ariano" l’ebreo che dimostrava di essere figlio di un adulterio. Gli altri si adattano a vivere

come possono, si organizzano in seno alle stesse Comunità e continuano, malgrado le

loro peggiorate condizioni, ad aiutare i fratelli d’oltralpe che dall’avvento di Hitler al potere

continuano ad affluire numerosi in Italia (tra il ’38 e il ’41, nonostante i divieti e le leggi

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razziali, ne arrivano almeno 3 mila, anche grazie alla compiacenza delle guardie di

frontiera).

Nel 1939, Dante Almansi, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, è

autorizzato dal governo a creare un’organizzazione per assistere i rifugiati ebrei giunti in

Italia da altre parti d’Europa. Conosciuta come Delasem, il nome per esteso di questa

organizzazione era Delegazione Assistenza Emigranti Ebrei. Tra il 1939 e il 1943 la

Delasem aiuta oltre cinquemila rifugiati ebrei a lasciare l’Italia e raggiungere Paesi

neutrali, salvando loro la vita.

II guerra mondiale, la persecuzione si aggrava

La politica razziale del fascismo dovrebbe concludersi con l’allontanamento di tutti gli

ebrei dalla penisola. Mussolini decide nel settembre 1938 l’espulsione della maggioranza

degli ebrei stranieri e nel febbraio 1940 l’espulsione entro dieci anni degli ebrei italiani.

L’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940 blocca l’attuazione di queste decisioni.

Con la guerra, però, il fascismo aggrava la persecuzione dei diritti, istituendo nel giugno

1940 l’internamento degli ebrei italiani giudicati maggiormente pericolosi (per il regime) e

degli ebrei stranieri i cui paesi avevano una politica antiebraica. Nel ’40 gli ebrei italiani

internati o confinati sono 200 (tra essi, vi è Leone Ginzburg con la moglie Natalia); nel ’43

raggiungeranno il migliaio. Il numero degli ebrei stranieri internati è di gran lunga più alto,

anche se mancano dati precisi al riguardo.

Campi di concentramento vengono aperti in ogni parte d’Italia. I più importanti sono quelli

di Campagna e di Ferramonti. De Felice nel suo libro "Storia degli ebrei sotto il fascismo",

parla di oltre 400 tra luoghi di confino e campi di internamento, ma non è stato ancora

fatto un censimento attendibile. Ebrei vengono rinchiusi anche nelle prigioni delle

maggiori città italiane, San Vittore a Milano, Marassi a Genova e Regina Coeli a Roma.

Non è finita. Nel maggio 1942 gli israeliti di età compresa tra i 18 e i 55 anni sono

precettati in servizi di lavoro forzato (ma su 11.806 precettati, ne saranno avviati al lavoro

solo 2.038). Nel maggio-giugno 1943 vengono creati dei veri e propri campi di

internamento e lavoro forzato per gli ebrei italiani.

Soltanto all’Estero, la situazione è visibilmente migliore: in Francia, Jugoslavia e Grecia, i

comandi italiani intervengono spesso a difesa degli ebrei e sottraggono molti di loro ai

tedeschi, salvandoli dalla persecuzione e dalle deportazioni. Scriverà in un rapporto a

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Berlino un alto ufficiale delle SS, Roethke: "La zona di influenza italiana (…) è divenuta la

Terra Promessa per gli Ebrei residenti in Francia".

Il 25 luglio del '43 viene destituito Mussolini e sciolto il partito fascista. Il governo Badoglio

rilascia i prigionieri ebrei, abroga le norme che prevedono il lavoro obbligatorio e i campi

di internamento ma – nonostante la sollecitazione dei partiti antifascisti - lascia in vigore le

leggi razziali, che non sono revocate neppure dal Re.

Badoglio scriverà nelle sue memorie che "non era possibile, in quel momento, addivenire

ad una palese abrogazione delle leggi razziali, senza porsi in violento urto coi tedeschi".

Un comodo alibi. Forse qualche peso nella decisione ha anche la nota della Santa Sede

al Ministro dell’Interno badogliano secondo cui la legislazione in questione "ha bensì

disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma".

1943, l'occupazione tedesca, la Rsi e le deportazioni

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La "soluzione finale" per gli ebrei romani arriva il 24 settembre 1943 con l'ordine da Berlino

di "trasferire in Germania" e "liquidare" tutti gli ebrei "mediante un'azione di sorpresa". Il

telegramma riservatissimo è indirizzato al tenente colonnello Herbert Kappler,

comandante delle SS a Roma. Nonostante il colpo delle leggi razziali, gli ebrei a Roma

non si aspettano quello che sta per accadere: Roma è "città aperta", e poi c'è il Papa,

sotto l'ombra della cupola di San Pietro i tedeschi non oserebbero ricorrere alla violenza.

Le notizie sul destino degli ebrei in Germania e nell'Europa dell'Est sono ancora scarse e

imprecise. Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di

consegnare 50 chili d'oro, pena la deportazione di 200 persone, illude gli ebrei romani

che tutto quello che i tedeschi vogliono sia un riscatto in oro. Oro che con enormi

difficoltà la comunità riesce a mettere insieme e consegnare due giorni dopo in Via Tasso,

nella certezza che i tedeschi saranno di parola e che nessun atto di violenza verrà

compiuto. Nelle stesse ore le SS, con l'ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei

forniti dall'Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell'Interno, stanno già organizzando il

blitz del 16 ottobre.

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C'è una lapide sulla facciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell'Arte a Via del

Portico d'Ottavia, quasi di fronte alla Sinagoga. Ricorda che "qui ebbe inizio la spietata

caccia agli ebrei".

Qui, in un'alba di circa mezzo secolo fa, si radunarono i camion e i soldati addetti alla

"Judenoperation" nell'area del ghetto, dove ancora abitavano molti ebrei romani. Il centro

della storia e della cultura ebraiche a Roma stava per vivere il suo giorno più atroce. «Era

sabato mattina, festa del Succot, il cielo era di piombo. I nazisti bussarono alle porte,

portavano un bigliettino dattiloscritto. Un ordine per tutti gli ebrei del Ghetto: dovete

essere pronti in 20 minuti, portare cibo per 8 giorni, soldi e preziosi, via anche i malati, nel

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campo dove vi porteranno c’è un’infermeria», così Riccardo Di Segni, rabbino capo di

Roma, ha ricordato quella mattina del 16 ottobre 1943.

Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi

delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziano in contemporanea la caccia per i

quartieri di Roma. L'azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione.

Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vengono caricati a forza

sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le SS registrano

la cattura di 1024 ebrei romani.

"Quel 16 ottobre -racconta uno degli scampati alla deportazione- era un sabato, giorno di

riposo per gli ebrei osservanti. E nel Ghetto i più lo erano. Inoltre era il terzo giorno della

festa delle Capanne. Un sabato speciale, quasi una festa doppia... La grande razzia

cominciò attorno alle 5.30. Vi presero parte un centinaio di quei 365 uomini che erano il

totale delle forze impiegate per la "Judenoperation".

Oltre duecento SS contemporaneamente si irradiavano nelle 26 zone in cui la città era

stata divisa per catturare casa per casa gli ebrei che abitavano fuori del vecchio Ghetto.

L'antico quartiere ebraico fu l'epicentro di tutta l'operazione... Le SS entrarono di casa in

casa arrestando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno... Tutte le persone

prelevate vennero raccolte provvisoriamente in uno spiazzo che si trova poco più in là del

Portico d'Ottavia attorno ai resti del Teatro di Marcello. La maggior parte degli arrestati

erano adulti, spesso anziani e assai più spesso vecchi. Molte le donne, i ragazzi, i fanciulli.

Non venne fatta nessuna eccezione, né per persone malate o impedite, né per le donne in

stato interessante, né per quelle che avevano ancora i bambini al seno...".

"I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le

quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di

famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore

fermo in gola", ricorda Giacomo Debenedetti.

"Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi

caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e

malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il

Lungotevere in direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio

Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava

per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i

miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere.

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Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di

concentramento? "Campo di concentramento" allora non aveva il significato terribile che

ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove

probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che

sarebbe stato il Lager", ha scritto Settimia Spizzichino nel suo libro "Gli anni rubati".

Per la prima volta Roma era testimone di un'operazione di massa così violenta. Tra coloro

che assistettero sgomenti ci fu una donna che piangendo si mise a pregare e ripeteva

sommessamente: "povera carne innocente". Nessun quartiere della città fu risparmiato: il

maggior numero di arresti si ebbe a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Alcuni si

salvarono per caso, molti scamparono alla razzia nascondendosi nelle case di vicini, di

amici o trovando rifugio in case religiose, come gli ambienti attigui a S. Bartolomeo

all'Isola Tiberina. Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel

collegio Militare di via della Lungara, a pochi passi da qui. Le oltre 30 ore trascorse al

Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande

sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c'erano 207

bambini.

Due giorni dopo, lunedì 18 ottobre, i prigionieri vengono caricati su un convoglio

composto da 18 carri bestiame in partenza dalla Stazione Tiburtina.

La partenza dei convogli dei deportati

Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di

Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina rimasero su

un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al

convoglio.

Alle ore 13,30 il treno fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza. Costui apprese

quasi subito che nei carri bestiame "erano racchiusi" - così si esprime una sua relazione-

"numerosi borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risultarono appartenenti a

razza ebraica”.

Il treno si mosse alle 14. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti

a Roma, racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il "treno

piombato", da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di

riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si

avvicinò alla grata, e le accennò di tacere.

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Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima

parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro.

Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo chiuso e dovette fermarsi per una decina di

minuti. "A richiesta dei viaggiatori invagonati"- è ancora il macchinista che parla - alcuni

carri furono sbloccati perchè "chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni

corporali". Si verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una nutrita

sparatoria.

A Chiusi, altra breve fermata, per scaricare il cadavere di una vecchia, deceduta durante il

viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta, senza essere riuscito a parlare con nessuno di

coloro a cui aveva fatto percorrere la prima tappa verso la deportazione.

Cambiato il personale di servizio, il treno proseguì per Bologna.

Il 22 ottobre il treno arriva ad Auschwitz.

Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo 16, di cui una sola donna

(Settimia Spizzichino). Nessuno degli oltre 200 bambini è sopravvissuto.

Dopo il 16 ottobre 1943, la polizia tedesca catturò altri ebrei: alla fine scomparvero da

Roma 2091 ebrei.

Nel biennio 1943-1945 le perdite della popolazione ebraica in tutta Italia furono all'incirca

7750, pari al 22% del totale della popolazione ebraica nel nostro Paese.

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Deportazione dal manicomio di Pergine e dalle Vallate [8]

Il 26 maggio 1940, alle ore 4 del mattino un treno straordinario partì da Pergine. A bordo

si trovarono 299 malati di mente; destinazione: Zwiefalten, una grande clinica psichiatrica

in Baden Wurttemberg.

Scopo del viaggio: trasferire nel Reich i malati optanti per la Germania. Alle 6,45 il treno

sostò a Bolzano ed il prefetto, dott. Agostino Podestà, venuto alla stazione, ispezionò

“minuziosamente” il convoglio e salutò i malati ed i loro accompagnatori e si dichiarò

soddisfatto: infatti tutto era organizzato bene. Le vetture erano in buono stato, una vettura

sanitaria accoglieva i più gravi; i malati, 160 uomini e 139 donne, venivano assistiti da 31

infermieri e 13 suore, erano “ben lavati e ben rasati, vestiti con l’uniforme nuova

dell’Istituto e contraddistinti da un numero indelebile sul dorso…..” (come si legge

nell’ordine di servizio), ebbero un posto adeguato; c’era materiale di medicazione e di

pronto soccorso. Il prefetto salutò anche una delegazione tedesca ed una italiana che

accompagnarono il trasporto.

� Perché questo trasferimento, e perché in un momento così precoce?

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La prima idea della deportazione si era concretizzata a metà dell’ottobre 1939 a Tremezzo

in un incontro tra Himmler, capo delle SS e Bocchini, capo della polizia italiana ed è da

vedere come tappa importante all’interno della questione delle “opzioni”.

Dall’annessione nel 1918, ma soprattutto dall’inizio della politica fascista di

colonizzazione, la questione del Sud Tirolo divenne un punto di conflitto importante nelle

relazioni tra l’Italia e l’Austria e, dopo il 1938, la Germania. Rischiava di compromettere i

buoni rapporti tra Hitler e Mussolini. Così entrambe le parti erano interessate ad una

soluzione “definitiva”. Il 22/10/1939 venne concordato “l’accordo delle opzioni”: fino al 31

dicembre 1939 la popolazione di madrelingua tedesca delle provincie di Bolzano, Trento,

Belluno ed Udine poteva “scegliere liberamente” tra la cittadinanza tedesca e con questa

l’emigrazione nel Reich entro i prossimi 3 anni, oppure la permanenza in Italia e

implicitamente l’accettazione del regime fascista e la rinuncia alla propria identità

culturale.

Roma sperava di eliminare con questo, qualsiasi pericolo di irredentismo e di confermare

il confine del Brennero, per Berlino la rinuncia al territorio sudtirolese non significava una

rinuncia alla popolazione tedesca.

Sotto la pressione di un’intensa campagna di propaganda, specie delle organizzazioni

naziste (Volkischer Kampfring Sudtirols) l’86% dei sudtirolesi (ca. 200.000) optò per la

cittadinanza tedesca e per l’emigrazione nella Grande Germania.

Per quanto riguarda il trasporto dei malati psichici, Himmler, nell’incontro con Bocchini,

aveva assicurato di spalancare le porte a tutti: “ai minorati psichici e fisici, così come ai

pregiudicati e ai delinquenti…..”. I tedeschi avrebbero aumentato il numero degli optanti

per la Germania, i pazzi costituivano un prezioso materiale “Zahlmaterial” ed in Germania

non si avevano molti problemi per il mantenimento dei malati. Gli italiani, da parte loro,

non gradivano l’idea che partissero i giovani, i lavoratori, i soldati e restassero i vecchi, i

pazzi, i deficienti. Se i malati, conseguita la cittadinanza tedesca, fossero rimasti a

Pergine, la Germania avrebbe dovuto pagare le rette. E questa preferì, evidentemente,

importare i malati piuttosto che esportare i marchi.

Così l’intesa fra le autorità tedesche ed italiane fu perfetta.

� Un’altra domanda si potrebbe porre: perché portare via tanti malati tutti insieme?

Non sarebbe stato doveroso trasferirli singolarmente, parallelamente al

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trasferimento delle loro famiglie, e ciascuno all’ospedale più vicino al luogo

destinato alla sua famiglia?

È evidente che un trasferimento di tanti malati, senza l’esame del singolo caso, senza la

considerazione del possibile effetto del rapido cambiamento di ambiente e

dell’interruzione delle relazioni umane istauratesi negli anni, non era deontologicamente

ammissibile.

Ma è altrettanto che questo aspetto, in quella decisione, non fu considerato, fu

considerata l’istituzione, come fonte di spesa e la “praticità” di un trasporto collettivo.

� Un’altra domanda si pone a questo punto: i malati trasportati erano informati?

Consenzienti? O incapaci di intendere? Chi prese la decisione per loro?

Approfondendo questo punto incontriamo una serie di irregolarità, omissioni, di

comportamenti superficiali o perfino illegali da parte dei medici, ma anche dei magistrati,

che a mio avviso rendono legittimo chiamare questo trasporto una vera e propria

“deportazione”.

Torniamo al 26 maggio 1940. Alle ore 9:30 il treno valicò il passo del Brennero e alle

22:00 giunse a Zwiefalten – Biedlingen. I malati, ignari della destinazione, inizialmente

pensavano di tornare a casa, ma poi i più consapevoli capivano che la destinazione era

ben diversa. Uno dei malati cercò di fuggire, ma venne ripreso.

All’arrivo a Zwiefalten qualcuno si rifiutò di scendere dal treno e fu tratto fuori a forza dagli

infermieri. Suor Andreina Dell’Antoniola, quando ricorda il lungo viaggio, descrive la sua

grande delusione: “Speravo di accompagnare le mie malate fino al letto assegnato a loro,

aiutarle a disfare le valigie, riporre le cose nell’armadio, conoscere le nuove infermiere e

parlare delle abitudini dei pazienti, delle manie, delle paure. Ma non me lo permisero ed io

sentì di subire un torto. Provai una lunga pena nel cuore”. Non vi era tempo per una visita

della struttura, per aiutare nella sistemazione dei malati. O forse le autorità tedesche

erano attente a tenere nascoste le condizioni all’interno dell’ospedale.

Negli anni successivi si ebbero altri piccoli movimenti nell’ospedale di Pergine. Nel 1940-

41 e nel 1943 altri piccoli gruppi di malati furono deportati.

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Le relazioni sul primo di questi trasporti forniscono che: “ I malati furono spinti nel treno

come pacchi, all’arrivo furono buttati fuori dai vagoni con spintoni e strattoni, tra le grida e i

lamenti di quei poveretti”

Un’infermiera che protestò fu arrestata e portata al commissariato. Complessivamente

circa 600 malati altoatesini furono deportati in ospedali tedeschi.

Deportazione degli operai [9]

La drammatica vicenda dei lavoratori deportati nei lager nazisti, rei di essersi ribellati per

mezzo degli scioperi alle insostenibili condizioni di vita cui il fascismo li aveva costretti, è

stata marginalizzata per anni.

C’è un legame tra deportazione operaia e lavoro coatto in Germania. I rastrellamenti dei

lavoratori avevano una duplice motivazione, da un lato politica e dall’altro economica. Si

trattava di reprimere ogni forma di opposizione a fascismo e nazismo, e di disporre di

manovalanza da sfruttare fino alla morte.

Sui quattro milioni di persone che caddero in quel modo, però, si è sempre taciuto a

anche chi ha trovato la forza di raccontare il proprio dramma troppo spesso non è stato

ascoltato.

Le storie di coloro che hanno vissuto la deportazione per aver espresso il loro dissenso al

regime fascista meritano di essere rievocate ed approfondite, se non altro perché esse

stesse, al di là dei grandi nomi e dei grandi eventi, sono Storia.

Già nel marzo del 1943 a ancor più dal marzo 1944 in Italia si assistette ad un’ondata di

massicci scioperi dei lavoratori. Tali manifestazioni rappresentarono l’unico ed eclatante

esempio di protesta e resistenza nell’Europa occupata, nonché la ripresa del

protagonismo operaio e un’inedita esperienza di disobbedienza di massa.

Fonti tedesche certificano che, nella prima settimana del marzo del 1944, il numero degli

scioperanti raggiunse almeno le 350.000 unità. Fra questi non tutti erano partigiani,

consapevoli del significato della loro protesta e delle conseguenze che questa avrebbe

portato.

Gli scioperi erano organizzati, fuori e dentro la fabbrica, dalle organizzazioni clandestine

antifasciste e soprattutto del partito comunista.

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Le adesioni coinvolsero masse di lavoratori. Le ragioni che spinsero tanti operai alla

ribellione erano la rigida disciplina cui il lavoro era sottoposto e le pessime condizioni di

vita che erano costretti a fronteggiare: si soffrivano fame e freddo, e i generi di prima

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necessità non potevano essere acquistati a causa dei bassi salari. Anche i più obbedienti

o rassegnati alla dittatura, a fronte di questa situazione, cominciarono a staccarsi

progressivamente dal fascismo.

Scioperare, soprattutto per i giovani, rappresentava anche la possibilità di guadagnarsi un

momento di libertà individuale, di spensieratezza. Questo dimostra come non tutti fossero

pienamente consci della portata dei loro gesti, ma cercassero di fuggire alle vessazioni

della dittatura.

Il nucleo forte, seppure numericamente ridotto, di operai anziani che già si erano opposti

al fascismo e ne avevano conosciuto i metodi repressivi, funse da traino per i più giovani

che finalmente potevano svincolarsi dall’educazione del credere, obbedire, combattere

ed acquisire coscienza dei loro diritti.

Questo non sfociò immediatamente in una presa di coscienza politica. Il passaggio

all’antifascismo avvenne pere molti successivamente ai primi rastrellamenti delle milizie

nazi-fasciste: assistere alla cattura e alla deportazione di tanti compagni di lavoro fu una

scintilla che fece maturare in molti operai la decisione di lottare con le armi contro gli

occupanti.

I deportati, come detto, erano destinati al lavoro coatto, per moltissimi questo significò la

morte nei lager. Essi erano considerati schiavi, privati della loro dignità umana e valutati

soltanto nella misura in cui potevano essere utili all’economia dello stato nazista. La

deportazione era contemporaneamente tappa e strumento dello sterminio.

Alcune statistiche calcolano che nel complesso i deportati politici e razziali italiani furono

43.000 e che fra essi i sopravvissuti furono soltanto 4.400.

In questo ambito vale la pene ricordare la vicenda di Sesto San Giovanni, importante

nucleo industriale alle porte di Milano. Lì gli scioperi furono particolarmente intensi. I

lavoratori della Falck, della Breda, della Magneti Marelli e di altre importanti industrie

italiane occuparono le fabbriche e bloccarono la produzione per settimane. Più di 500 fra i

lavoratori di Sesto furono deportati nei campi di lavoro tedeschi. Fra essi c’erano anche

alcuni bergamaschi, le cui testimonianze raccontano il dramma della deportazione:

riportati a Bergamo e rinchiusi in una delle prigioni della città, essi erano poi condotti

presso la stazione, dalla quale partivano i treni sui quali, come bestie, viaggiavano alla

volta dei lager. Durante il percorso fra la prigione e la stazione una folla inerme di

famigliari, amici e gente comune partecipava attivamente alla loro tragedia, mostrando

segni di solidarietà e vicinanza.

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8. Le ferrovie e lo Stato Vaticano [10 – 11 – 12]

Non ci sono valigie, né viaggiatori, non si avverte l’odore acre di tutte le stazioni di questo

mondo sulla pensilina della Stazione Vaticana, tuffata nel verde dei giardini, a sud del

palazzo del Governatorato; il capostazione è un ingegnere romano, Daniele Dalvai.

I treni sono annunciati con giorni di anticipo e per di più “bussano” alla porta.

I convogli arrivano dalla Stazione San Pietro, l’interfaccia della Stazione Vaticana,

percorrendo 600 metri di binario sul Viadotto del Gelsomino, che scavalca con 8 arcate

Via Gregorio VII, e si fermano davanti ad un impressionante portone di ferro che scorre

nell’arco praticato attraverso le mura Vaticane, cioè sulla linea di confine tra i due Stati.

C’è un campanello di quelli che si usano per gli esterni delle case di campagna; il

ferroviere italiano, accompagnato eventualmente da un agente della Polfer, scende e

suona; nel passato l’arrivo veniva annunciato via telefono o telegrafo dalla Stazione San

Pietro.

La stazione, progettata dal Senatore architetto piacentino Giuseppe Momo, ha un aspetto

solenne; all’ingresso della sala d’attesa, una targa sta a “ricordo perenne”

dell’inaugurazione del 1933, “gloriosamente regnante Pio XI, duce d’Italia Benito

Mussolini”.

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La storia del rapporto tra lo Sato Pontificio e le Ferrovie Italiane è ricca di aneddoti. Ecco

elencate, in ordine cronologico, alcune curiosità storiche sul rapporto tra Vaticano e

Ferrovie:

� Il primo viaggio in treno di un Papa fu quello di Pio IX, sulla Napoli – Portici nel

1849. In appena 15 anni lo Stato Pontificio diventerà uno degli Stati più evoluti nella

costruzione di infrastrutture ferroviarie; ricordiamo i collegamenti ferroviari con

Frascati, Civitavecchia, Velletri ed Ancona.

� Pio XI, che in seguito con la riconciliazione con lo Stato italiano nel 1929, volle la

realizzazione della Stazione Vaticana; non viaggio mai in treno, come pure i suoi

predecessori confinati in Vaticano dopo la presa di Porta Pia nel 1870.

� L’11 aprile 1959 partì dalla stazione ferroviaria vaticana il convoglio speciale

passeggeri che le Ferrovie Italiane misero a disposizione del Vaticano per la

traslazione della salma di San Pio X a Venezia per volere di Giovanni XXIII (al

ritorno il feretro giunse alla Stazione Termini, dove incontrò quello di Don Bosco

con il quale, solennemente ed in processione, fu condotto nella Basilica di San

Pietro).

� Papa Giovanni XXIII, con il pellegrinaggio ad Assisi del 1962, fu il primo Pontefice

ad usare la stazione ferroviaria della Città del Vaticano ed il primo Papa a viaggiare

in treno dopo l’Unità d’Italia varcando i confini del Lazio.

� Il pellegrinaggio in treno ad Assisi di Papa Giovanni XXIII, nel 1962, avvenne ad

una settimana esatta dall’apertura del Concilio Vaticano II. Il “Papa Buono”

trascorse quasi tutto il tragitto al finestrino, raccontano le cronache dell’epoca, e al

ritorno, sceso dal treno si disse “contento di aver fatto un buon viaggio”, frase che

riempì d’orgoglio tutti i ferrovieri.

� Con Paolo VI continua il rapporto tra Vaticano e Ferrovie Italiane: nel 1964 il Santo

Padre dedica un’udienza ai ferrovieri e nel 1972 celebra una messa nei cantieri

della linea direttissima Roma – Firenze, allora in costruzione.

� Papa Giovanni Paolo II fece uso della stazione Vaticana per la prima volta l’8

novembre 1979, per un viaggio simbolico con il treno “Arlecchino” delle Ferrovie

dello Stato Italiane, in occasione della XXI giornata del ferroviere

� Ancora Papa Giovanni Paolo II, a causa delle intense nevicate che colpirono tutto il

centro Italia nel 1985, rendendo impraticabili le strade e gli scali aerei, di ritorno da

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un viaggio Pastorale rientrò a Roma a bordo di un treno speciale organizzato nel

corso della notte dalle Ferrovie dello Stato in tutta fretta.

� Il 15 giugno 2005 una rappresentanza di 500 ferrovieri, a bordo di un treno speciale

partito dalla Stazione di Roma Termini giunge nella Stazione Vaticana per recarsi

all’udienza generale del Santo Padre Benedetto XVI.

� Il 23 dicembre del 2006, la stazione di Roma Termini, il più grande scalo ferroviario

italiano, è dedicato alla memoria di Papa Giovanni Paolo II.

� Il 23 giugno 2013, subito dopo la preghiera dell’Angelus Papa Francesco

raggiunge la stazione ferroviaria vaticana per incontrare più di 300 bambini

provenienti da case famiglia, istituti, associazioni, arrivati poso prima con uno

speciale treno, Frecciargento, partito da Milano. Il Frecciargento, partito da Milano

centrale alle 7:30 già carico di emozioni e aspettative, era giunto alla Stazione

Vaticana alle 11:10, dopo aver fatto tappa a Bologna e Firenze per fare salire altri

passeggeri, a loro volta accolti a Roma da altri bambini, per un totale di quasi 400,

la maggior parte tra i 6 ed i 10 anni, accompagnati da educatori, assistenti sociali e

familiari.

Il “treno dei bambini” che per la prima volta nella storia ha portato dei visitatori alla

Stazione Vaticana per salutare il Pontefice è stato dunque un viaggio

assolutamente unico, come conferma l’Amministratore delegato delle Ferrovie

dello Stato Italiane Mauro Moretti: “Questo evento è unico. Con tutti questi ragazzi e

bambini a bordo, non era mai successo. Abbiamo avuto tanti personaggi, anche

Papi ed il Presidente della Repubblica, ma questo credo sia la cosa più bella e

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significativa, perché sono dei bambini che possono avere una giornata di luce, di

sole….Sono tutti impegnati a conoscersi fra di loro, a fare iniziative. Tutti tesi a

vedere il Papa da vicino e anche questa è una bellissima cosa. È un treno, direi,

quasi della speranza o della carità”.

9. Il dopo guerra e l’affermarsi della motorizzazione [13]

Il grande sviluppo della motorizzazione cominciò in Italia tra il 1949 e il 1950, grazie alla

prima diffusione dei ciclomotori, nonché della Vespa (1946) e della Lambretta (1947), le

nuove moto a ruote piccole dotate di scocca paravento anteriore, che non sporcavano

viaggiando nelle strade ancora in buona parte a sterro, e non dovevano essere cavalcate

come le "dueruote" tradizionali, poiché il motore era collocato sul retro sotto il sedile.

Prodotte da due aziende con necessità di riconversione post-bellica, la Piaggio di

Pontedera che produceva motori per aerei, e l'Innocenti di Milano che fabbricava tubi in

acciaio e linee per confezionare proiettili, diedero luogo a un'accanita rivalità tra i rispettivi

utilizzatori e sostenitori. Vespa e Lambretta divennero il simbolo della ricostruzione, e

ricevettero unanimi consensi in tutta Europa. La Vespa fu pure accompagnata nel 1948

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dall'Ape, il motofurgone con tre ruote e un cassone, che ebbe il merito di accelerare il

commercio al minuto e che in seguito fu esportato in diversi paesi extraeuropei.

Il vero e proprio avvio della motorizzazione individuale si deve far risalire alla Fiat 600,

uscita dalle catene di montaggio nel 1955.

L'utilitaria era stata ideata dall'ingegner Dante Giacosa e annunciata dal presidente della

Fiat Vittorio Valletta come vettura "ultraeconomica" in sostituzione della Topolino prodotta

dal 1936. Quest'ultima, nonostante la buona diffusione, con oltre 510.000 unità prodotte,

non era mai riuscita ad affermarsi in qualità di automobile per tutti.

Nel 1956 furono immatricolate 126.099 Fiat 600 su una quantità complessiva di 201.771

autovetture (www.fiat.com, timeline 1955-1959). La produzione automobilistica divenne

decisamente l'industria trainante, visto l'enorme indotto generato: per fare un esempio, nel

1961 l'occupazione nel settore si aggirava sulle 110.000 unità, mentre 1.700.000 posti di

lavoro erano legati alla circolazione veicolare. Il petrolio, le autostrade, i pneumatici, le

officine e i servizi di manutenzione, ma anche le attività commerciali, assicurative e

creditizie si alimentavano dall'accresciuta presenza di autoveicoli.

L'importanza assunta dall'industria dell'automobile in Italia, persino in rapporto agli altri

paesi, risulta dai dati dell'import-export: tra il 1950 e il 1960 le autovetture esportate

passarono da 19.649 a 197.935 a fronte delle 18.279 autovetture importate nel 1960.

Gli interessi dell'industria produttrice di automobili cominciarono così a farsi sentire

prepotentemente.

Completata la ricostruzione post-bellica, nei primi anni '50 si decise di potenziare le

autostrade, per andare incontro alla cresciuta esigenza di infrastrutture al Nord, e per

creare al Sud una rete moderna finalizzata ad aumentare le relazioni con il resto del

Paese; ma anche per unire l'Italia agli Stati d'oltralpe, con i quali si intensificava l'unione

economica che avrebbe portato nel 1957 al Mercato comune europeo.

Si sviluppò di conseguenza una vera e propria "ideologia autostradale".

Il progetto per l'asse portante, l'autostrada del Sole Milano-Napoli, fu elaborato dalla Fiat,

dalla Pirelli, dall'Agip e dall'Italcementi, che lo cedettero gratuitamente allo Stato, a

testimonianza di quanti tornaconti ruotassero ormai attorno al trasporto su gomma.

La costruzione e l'esercizio delle nuove autostrade, dette di "seconda generazione" per

distinguerle dalle arterie ultimate sotto il fascismo, vennero dati in concessione a privati.

Un secondo intervento nel campo delle autostrade fu approvato con la legge 24 luglio

1961 n. 729, che con uno stanziamento ben superiore, di 1.000 miliardi di lire, prevedeva

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la creazione nel Paese di grandi arterie: autostrade, superstrade e raccordi autostradali, in

totale 5.120 km. Il 40% del finanziamento doveva essere destinato al Mezzogiorno.

Nel periodo seguente l'enorme investimento statale portò a realizzare in media 208 km di

autostrade all'anno, contro i 170 della Germania e i 127 della Francia. Alla fine del 1974

l'Italia aveva il doppio di autostrade rispetto alla Francia e due volte e mezzo quelle della

Gran Bretagna; in termini assoluti la rete italiana risultava inferiore solo a quelle degli Stati

Uniti e della Germania

Bibliografia

� [1] “La nuova concezione della Ferrovia Europea dalle reti nazionali a una rete

integrata. Effetti delle direttive sulla liberalizzazione, interoperabilità, sicurezza” –

Tesi di Dottorato del Dott. Ing. Daniele Mingozzi;

� [2] Sviluppo locale e infrastrutture del territorio: origini del sistema ferroviario in

Capitanata – Dott. Mariano Tosques (gennaio 2007);

� [3] Storia delle ferrovie italiane – www.cronologia.leonardo.it;

� [4] Storia e tecnica ferroviaria – 100 Anni di Ferrovie dello Stato – C.I.F.I.;

� [5] Le premesse della politica ferroviaria fascista: risanamento finanziario e

repressione politica (1922-1924) – Stefano Cecini;

� [6] Ebrei e fascismo, storia della persecuzione a cura di Mario Avagliano (in Patria

Indipendente, n. 6-7, giugno-luglio 2002) – www.storiaxxisecolo.it;

� [7] 16 ottobre 1943: La partenza dei convogli dei deportati - (da Giacomo

Debenedetti, 16 ottobre 1943, pp. 62-64) – www.romacivica.net;

� [8] Deportazione dal manicomio di Pergine e dalle Vallate – Atti del convegno

Psichiatria e nazismo di Verena Perswanger – www.lager.it;

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� [9] Relazione presentata da Roberto Villa al convegno organizzato dalla CGIL e

Cisl Lombardia presso l’Università di Cracovia in occasione del Treno per

Auschwitz 2009 – Operai, resistenza, scioperi, deportazione (Cracovia, 26 gennaio

2008);

� [10] “La stazione ferroviaria del Papa” di Bruno Bartoloni – Corriere della Sera (26

agosto 1996);

� [11] Vaticano e Ferrovie: una storia ricca di aneddoti (27 ottobre 2011) –

www.fsnews.it;

� [12] Papa Francesco ed i ragazzi del “Treno dei bambini” – Per loro una festa nel

cuore del Vaticano – www.vatican.va;

� [13] La cultura della mobilità in Italia di Stefano Maggi - www.storiaefuturo.com.

Casteldaccia (PA), lì 03.05.2014

Ing. Francesco Solazzo