Storia Del Diritto Penale e Della Giustizia

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1 STORIA DEL DIRITTO PENALE E DELLA GIUSTIZIA. SCRITTI EDITI ED INEDITI (1972-2007) LA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUL BRIGANTAGGIO E LA LEGGE PICA Dai moti contadini al brigantaggio antiunitario (1860-1862) Il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II firma, insieme a Cavour ed in seguito all’approvazione del nostro parlamento, la legge 4671 con la quale assume “per se e per i suoi successori” il titolo di Re d’Italia, di fatto proclamando la nascita dello Stato italiano. La situazione meridionale, però, si presenta ricca di problemi, data la diversità di condizioni sociali in cui versa il sud ed il continuo dilagare dei moti contadini: tali moti, in realtà, erano sempre esistiti ed offrivano una rappresentazione perfetta del malcontento generale, derivante a sua volta dalle vecchie assegnazioni delle terre ai cosiddetti “galantuomini” senza il rispetto di un meccanismo di quotizzazione. Il neonato Stato italiano, però, reagisce a tale fenomeno in maniera errata, non comprendendolo ed attribuendogli un’etichetta di banditismo, di comune delinquenza (come specifica Bettino Ricasoli, secondo Presidente del Consiglio nella storia del Regno d’Italia) o, peggio ancora, di insurrezione antiunitaria (come sottolinea Massimo D’Azeglio, politico e scrittore italiano di quel periodo). Il fenomeno del “brigantaggio”, come viene erroneamente definito accomunandolo al banditismo di strada, non ha in realtà alcuno scopo antiunitario, né tanto meno presenta i semplici aspetti della comune delinquenza: alla base, in realtà, ci sono dei motivi sociali, accentuati dalla nascita del Regno D’Italia, incapace di gestire la situazione meridionale. Il Regno d’Italia, infatti, reagisce con una politica di repressione del fenomeno, trascurando i motivi da cui lo stesso scaturisce e commettendo alcuni passi falsi: nel 1860 i moderati impongono lo scioglimento dell’esercito di Garibaldi, meritevole di aver sconfitto quello borbonico, che aveva fronteggiato egregiamente le prive rivolte nel meridione. Si decide, inoltre, di congedare il vecchio esercito borbonico, che al tempo contava quasi 100.000 uomini, dando la possibilità agli ufficiali di arruolarsi nel neonato esercito italiano e licenziando sottoufficiali e truppa. Tali decisioni non fanno altro che alimentare le bande di briganti, in quanto tutti gli insoddisfatti si aggregano alle stesse, molto spesso arricchendole di esperienza, oltre che di organico (non dimentichiamo che i provenienti dall’esercito borbonico erano comunque soldati, ufficiali e non, che sapevano muoversi in battaglia). Come se ciò non bastasse un decreto del 1860 richiama alle armi 70.000 giovani italiani, di cui solo 20.000 si presentano, mentre gli altri vengono considerati dei fuorilegge, il che li spinge ad unirsi alle bande di briganti. La politica della repressione, infine, non segue dei metodi legali: l’esercito italiano è autorizzato all’utilizzo della forza e procede dando luogo all’assedio di interi villaggi, oltre che a plurime fucilazioni. Come spesso accade, una politica feroce di tal genere non fa altro che accrescere la rabbia dei briganti e della povera gente, incrementandone il potere e la coesione. La Commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio Nel 1862 Garibaldi, giunto in Sicilia, decide di dar luogo ad una nuova rivoluzione, al fine di prendere Roma e cancellare definitivamente il potere temporale del Papa, facendo così della caput mundi la capitale d’Italia. Il Governo italiano reagisce proclamando lo stato d’assedio e scontrandosi con le forze garibaldine,

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STORIA DEL DIRITTO PENALE E DELLA GIUSTIZIA. SCRITTI EDITI ED

INEDITI (1972-2007)

LA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUL BRIGANTAGGIO E LA LEGGE PICA

Dai moti contadini al brigantaggio antiunitario (1860-1862)

Il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II firma, insieme a Cavour ed in seguito all’approvazione del nostro

parlamento, la legge 4671 con la quale assume “per se e per i suoi successori” il titolo di Re d’Italia, di fatto

proclamando la nascita dello Stato italiano. La situazione meridionale, però, si presenta ricca di problemi,

data la diversità di condizioni sociali in cui versa il sud ed il continuo dilagare dei moti contadini: tali moti,

in realtà, erano sempre esistiti ed offrivano una rappresentazione perfetta del malcontento generale,

derivante a sua volta dalle vecchie assegnazioni delle terre ai cosiddetti “galantuomini” senza il rispetto di

un meccanismo di quotizzazione. Il neonato Stato italiano, però, reagisce a tale fenomeno in maniera

errata, non comprendendolo ed attribuendogli un’etichetta di banditismo, di comune delinquenza (come

specifica Bettino Ricasoli, secondo Presidente del Consiglio nella storia del Regno d’Italia) o, peggio ancora,

di insurrezione antiunitaria (come sottolinea Massimo D’Azeglio, politico e scrittore italiano di quel

periodo).

Il fenomeno del “brigantaggio”, come viene erroneamente definito accomunandolo al banditismo di

strada, non ha in realtà alcuno scopo antiunitario, né tanto meno presenta i semplici aspetti della comune

delinquenza: alla base, in realtà, ci sono dei motivi sociali, accentuati dalla nascita del Regno D’Italia,

incapace di gestire la situazione meridionale.

Il Regno d’Italia, infatti, reagisce con una politica di repressione del fenomeno, trascurando i motivi da cui

lo stesso scaturisce e commettendo alcuni passi falsi: nel 1860 i moderati impongono lo scioglimento

dell’esercito di Garibaldi, meritevole di aver sconfitto quello borbonico, che aveva fronteggiato

egregiamente le prive rivolte nel meridione. Si decide, inoltre, di congedare il vecchio esercito borbonico,

che al tempo contava quasi 100.000 uomini, dando la possibilità agli ufficiali di arruolarsi nel neonato

esercito italiano e licenziando sottoufficiali e truppa. Tali decisioni non fanno altro che alimentare le bande

di briganti, in quanto tutti gli insoddisfatti si aggregano alle stesse, molto spesso arricchendole di

esperienza, oltre che di organico (non dimentichiamo che i provenienti dall’esercito borbonico erano

comunque soldati, ufficiali e non, che sapevano muoversi in battaglia). Come se ciò non bastasse un

decreto del 1860 richiama alle armi 70.000 giovani italiani, di cui solo 20.000 si presentano, mentre gli altri

vengono considerati dei fuorilegge, il che li spinge ad unirsi alle bande di briganti.

La politica della repressione, infine, non segue dei metodi legali: l’esercito italiano è autorizzato all’utilizzo

della forza e procede dando luogo all’assedio di interi villaggi, oltre che a plurime fucilazioni. Come spesso

accade, una politica feroce di tal genere non fa altro che accrescere la rabbia dei briganti e della povera

gente, incrementandone il potere e la coesione.

La Commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio

Nel 1862 Garibaldi, giunto in Sicilia, decide di dar luogo ad una nuova rivoluzione, al fine di prendere Roma

e cancellare definitivamente il potere temporale del Papa, facendo così della caput mundi la capitale

d’Italia. Il Governo italiano reagisce proclamando lo stato d’assedio e scontrandosi con le forze garibaldine,

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forti comunque del consenso popolare: il neonato Stato italiano, infatti, ha dei legami con la Francia di

Napoleone III, la quale si ostina a tutelare le prerogative papali ed a difendere Roma da qualsiasi assalto;

per tal motivo a Garibaldi non viene dato alcun appoggio e si opta per contrastarlo in ogni modo, fino alla

fatidica “giornata dell’Aspromonte” (29 agosto 1862), quando Garibaldi, ferito ad una gamba (da qui la

canzoncina) decide di arrendersi.

N.B. il libro non accenna a questi fatti, dando quasi per scontato la conoscenza degli stessi da parte dello

studente. Ho, quindi, provveduto a sanare le vostre, oltre che le mie, lacune, seppur in maniera sommaria

ed estremamente riassuntiva (oh, mica putev scrivr l’intera storia d’Italia…ahahah).

La posizione del Capo del Governo del tempo, Urbano Rattazzi, non essendo stata da subito decisa nel

contrastare Garibaldi (che aveva potuto attraversare l’intera Sicilia totalmente incontrastato), viene messa

in discussione in parlamento, dando luogo a critiche anche sulla repressione del fenomeno del

brigantaggio: è per tale motivo che Rattazzi si dimette, nello stesso tempo proponendo l’istituzione di una

commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio, con il compito di esaminare un rapporto del

Governo sul fenomeno, che in realtà si dimostra un semplice promemoria privo dell’indicazione delle

cause, e rielaborare un piano per la risoluzione del problema.

La Commissione d’inchiesta, una volta istituita, lavora in continuazione durante tutto il 1863, raccogliendo,

in tutte le regioni del meridione, un’enorme quantità di informazioni e statistiche, in modo tale da giungere

al cuore del problema del brigantaggio. Le sedute parlamentari sono segrete e segreto ne è il contenuto,

proprio per non far trasparire la debolezza di uno Stato nato da poco, ma nato con tanti problemi. Il 3 e 4

maggio del 1863 l’on. Massari, relatore della Commissione, espone in Parlamento, sempre a porte chiuse,

le cause del brigantaggio ed i conseguenti rimedi, individuando con precisione e dovizia di particolari i veri

motivi che hanno portato alla nascita ed alla diffusione del problema: Massari parla della situazione dei

contadini, dei troppi latifondi, del malcontento sociale dilagante, allontanando così le ipotesi politiche

antiunitarie e le ipotesi di mera delinquenza avanzate sino a quel momento, del cattivo operato del

governo precedente e dell’insufficienza della politica di repressione che non ha tenuto conto dello stato di

cose preunitario e borbonico. Vengono avanzate, inoltre, proposte circa i rimedi, che spaziano dalla

realizzazione di opere pubbliche per allontanare il malcontento sociale alla repressione del fenomeno con

comportamenti “legali” e non illeciti, rispettosi dei principi dello stato democratico, senza trascurare, però,

la certezza delle pene (la morte nella maggior parte dei casi) e la maggiore attribuzione di poteri ai prefetti

ed alle forze di polizia (i carabinieri fra tutti).

La legge Pica

Nonostante ciò il fine della Commissione di inchiesta per il brigantaggio non è quello di comprendere,

finalmente, le vere cause del fenomeno o quello di criticare l’operato precedente, né tanto meno quello di

proporre rimedi fittizi ed a lungo termine: occorre reprimere il brigantaggio e farlo in maniera decisa e

rapida. La proposta proveniente dalla Commissione, però, non convince nessuno: né il governo, che evita

di appoggiarla troppo palesemente per non farsi promotore di errori ed esporsi alle stesse critiche che

aveva subito Rattazzi, né l’opposizione, la quale critica l’eccesso di violenza e di mezzi illeciti per addivenire

ad un risultato, propria dell’operato precedente, ma eliminata solo nelle parole del relatore Massari, più

che nei fatti. La proposta di legge, dunque, rischia di non essere approvata, allorché viene messa in

discussione la proposta dell’on. Giuseppe Pica, la quale prevede la potestà del governo di indicare le

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province afflitte dal brigantaggio e demanda ai tribunali militari il compito di giudicare briganti e complici,

senza giungere sommariamente a fucilazioni o deportazioni, come era stato inizialmente proposto.

Tuttavia, nonostante l’approvazione della proposta Pica, i risultati segnano da un lato la fine del

brigantaggio, ma dall’altro un periodo disastroso per il nostro Paese, date le vite distrutte, la giustizia

negata, i diritti violati e la civiltà offesa che ne scaturiscono, tutte conseguenze dirette di una politica

errata, forse perché proposta da un governo che poco sa di come si amministra uno Stato così grande e

così eterogeneo al suo interno.

POLITICA E GIUSTIZIA IN FRANCESCO CARRARA

In questo capitolo l’autore analizza il rapporto, come da titolo, tra politica e giustizia nel pensiero di un

grande giurista italiano del XIX secolo, Francesco Carrara, il quale fu uno tra i maggiori sostenitori

dell’abolizione della pena di morte in Europa. Illustre professore di diritto criminale e commerciale

all’Università di Lucca e Pisa, scrisse “Programma dal corso di diritto criminale”, la sua più grande opera, un

riassunto di undici anni di lezioni nell’ateneo lucchese. Partecipò attivamente anche alla stesura del Codice

Zanardelli, primo codice penale italiano del 1889, predecessore dell’attuale, seppur datato, Codice Rocco.

N.B. ho voluto inserire queste informazioni per farvi capire di quale giurista si tratterà all’interno del

capitolo.

Se da un lato Carrara assegna alla politica un peso specifico notevole in riferimento alla giustizia, arrivando

ad inserirla in un ampio concetto di libertà, dall’altro egli omette di parlare dei “delitti politici” all’interno

della propria opera, così prestandosi a varie interpretazioni secondo cui l’autore avrebbe avuto un qualche

interesse a non trattare tale argomento. In realtà, rileggendo anche le parole dello stesso Carrara a dieci

anni dalla stesura della propria opera, ossia nel 1870, emerge come il giurista si rifiuti di definire i delitti

politici per una scelta ben precisa, mirata ad evitare di scardinare l’intero Stato liberale, specie negli anni

della repressione del brigantaggio tramite mezzi del tutto illegali. Egli decide, dunque, di dichiarare

inconciliabili la politica ed il diritto penale, così criticando, seppur col proprio silenzio, l’intero sistema

italiano dell’epoca. Il silenzio sui delitti politici, dunque, è un vero e proprio segno di protesta.

Il pensiero di Carrara va, inoltre, contestualizzato: non stiamo parlando, come sottolinea Sbriccoli, di un

uomo cresciuto e formatosi nel XX secolo, ma di un giurista preunitario che cerca di apportare migliorie,

nella propria materia, ad uno Stato neonato qual era il Regno d’Italia, tramite la propria formazione

ottocentesca, ma con uno sguardo al futuro (lo possiamo evincere dalle proposte di abolizione della pena

di morte).

LA PENALISTICA CIVILE. TEORIE ED IDEOLOGIE DEL DIRITTO PENALE NELL’ITALIA UNITA

Nel 1851 uno dei più grandi penalisti d’Europa, K.J.A. Mittermaier, profondo conoscitore della situazione

italiana e degli studi giuridici nostrani, in un proprio studio pubblicato a puntate, sottolinea come i “dotti

italiani in ambito penale”, nonostante i profondi sconvolgimenti della società in cui operano, siano in grado

di riformare il diritto, al fine di innalzare la qualità della vita civile e muovendo da concreti problemi politici.

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Una nuova figura di penalista professionale

Gli anni a cui si riferisce Mittermaier sono anni difficili nel nostro Paese, proprio per la situazione politica

che affligge lo stivale, ma è in questo periodo che nasce la figura professionale del penalista, specialista di

un settore giuridico complesso ma unitario, quello del diritto penale, visto finalmente come una disciplina

assestante, utile per la conservazione dell’ordine pubblico, ma soprattutto per lo sviluppo dei principi

morali nella società civile.

Il nuovo penalista è un giurista a pieno titolo, proprio per la sua formazione culturale e per il campo nel

quale opera (avvocato, magistrato, professore), tecnicamente dotato ma voglioso di dar vita ad un diritto

penale moderno che tenga conto delle altre scienze dell’uomo e della società nella quale opera.

La centralità del problema penale

Per tutto l’Ottocento i giuristi, tra tutti gli intellettuali italiani, occupano una posizione rilevante. Se per

quanto riguarda il diritto pubblico e quello civile i giuristi italiani si ispirano a giuristi, filosofi e scienziati di

Francia e Germania, per ciò che concerne il diritto penale i nostri “criminalisti” sono all’avanguardia, in

quanto chiamati quotidianamente a disquisire su vari temi che producono effetti sull’intera società:

l’abolizione della pena di morte, la carcerazione preventiva, gli istituti del diritto penale, il potere del

giudice, l’acquisizione delle prove, ma soprattutto l’eterno conflitto tra “ordine e libertà”, tra salvaguardia

dell’interesse comune e libertà inviolabili del singolo, la cui violazione per tutelare qualcosa di più grande

deve sempre avere un limite. La questione penale, dunque, si riflette anche sul pensiero degli intellettuali

non giuristi in quanto assume un’importanza enorme per l’intera società, giustificativa dell’attenzione

sull’argomento.

La penalistica civile

La situazione del diritto penale sino all’Unità d’Italia si presenta molto confusa: fin troppo spesso ai giuristi

spetta l’arduo compito di difendere, sotto il profilo del diritto, gli atti tirannici dei vari despoti degli Stati

preunitari, o quanto meno di giustificarli, mantenendo in vita alcuni principi sani e civili. Tra gli anni

Quaranta e Sessanta del XIX secolo, dunque, prende vita la cosiddetta “penalistica civile”, fatta di ricerca e

discussione, orientata più verso un aspetto ideologico che tecnico, per assicurare lo spazio necessario alla

giustizia per discutere temi come l’abolizione della pena di morte, la proporzione della pena con il delitto

ed il sistema delle prove.

Dopo il 1861 la situazione cambia radicalmente: gli studiosi, i cosiddetti criminalisti, formano una vera e

propria comunità scientifica, priva di maestri e riformatrice, capace di innovare e di esprimere pensieri

senza censure e di condurre battaglie civili in nome del proprio credo (come avvenne per l’abolizione della

pena di morte).

In attesa del codice. La questione della pena

All’alba dell’Unificazione italiana non sono pochi i problemi che assalgono i giuristi e, più in generale, gli

intellettuali. I continui moti rivoluzionari nell’Italia meridionale rendono la situazione ancora più delicata,

specie in riferimento alle modalità con cui contrastare tali fenomeni.

Inoltre la presenza di 3 codici penali, rispettivamente dell’Italia settentrionale, centrale e meridionale,

alimentano ulteriormente la confusione in materia penale. La delinquenza cresce spaventosamente e non

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solo sotto il profilo quantitativo, ma prevalentemente sotto quello organizzativo: si passa, lentamente, dai

fenomeni di tipo rurale (assalti alla proprietà per esempio) all’organizzazione urbana della criminalità.

Occorre, dunque, un sistema penale in grado di fronteggiare molteplici situazioni e di porre rimedio alle

diversità dei vari codici. Il tema su cui si dibatte maggiormente è quello dell’abolizione della pena capitale,

appoggiata da molti giuristi del tempo e da intellettuali che arrivano addirittura a fondare dei giornali (es.

Giornale per l’abolizione della pena di morte di Pietro Ellero), anche perché l’argomento si collega bene

all’intera rivoluzione del sistema penale (come ha modo di precisare lo stesso Ellero, sottolineando che,

nonostante il nome del suo giornale, siano molteplici i fini perseguiti).

L’abolizione della pena di morte, tuttavia, nei periodi dei moti rivoluzionari nel sud è praticamente

impossibile: procedere in tal senso significherebbe alimentare i rivoluzionari, rinforzati dalla mancanza di

una tale previsione come pena dei loro reati. Tuttavia a partire dal 1872 la campagna abolizionista riprende

e si arriva ad una “abolizione di fatto” che ben manifesta il pensiero dei parlamentari e dell’opinione

pubblica sulla linea da seguire.

Altro nodo da sciogliere è quello rappresentato dalla proporzione tra pena e reato. Le antiche concezioni

preunitarie di “pena” prevedevano che la stessa dovesse essere esemplare, scacciando così via la

possibilità di una ripetizione del medesimo delitto. Tuttavia Carrara ha modo di definire la pena come un

mezzo tramite il quale “ristabilire l’ordine esterno della società”, certa ed adeguata al delitto commesso ed

a tale definizione sono inclini la maggior parte dei giuristi del tempo. La repressione del fenomeno del

brigantaggio, tuttavia, aveva seguito un modello che con la legalità e con la definizione di Carrara non

aveva nulla in comune; addirittura con la pena capitale erano puniti anche i colpevoli di complicità nei

confronti dei briganti e di favoreggiamento (manutengolismo), equiparando in tal senso chi aveva

commesso il reato a chi aveva avuto un ruolo secondario. Le pene, invece, oltre che certe devono essere

“adeguate”, non lunghissime (15,20 o 25 anni) ma SEVERE, in modo tale da essere ricordate, senza

sconfinare nella brutalità, come ha modo di precisare Lucchini, il quale avrà una notevole influenza sulla

stesura finale del Codice Zanardelli.

In attesa del codice. L’emergenza ed il dissenso politico

Il Regno d’Italia, come abbiamo avuto modo di precisare, nasce nel segno dell’emergenza, date le dilaganti

rivoluzioni contadine nel meridione e la nascita di quello che viene definito come “brigantaggio”. La

situazione d’emergenza viene sanata tramite leggi eccezionali, che sconfinano (ne abbiamo già parlato)

nell’uso eccessivo di forza e brutalità, accompagnate da un sistema penale traballante e supportate da

giuristi che, seppur sbagliando nell’appoggiare tale linea di pensiero e d’azione, temono seriamente ed a

ragion veduta per la stabilità del neonato Regno. Lo stesso Carrara, come abbiamo già detto, nel suo

“Programma dal corso di diritto criminale” evita di trattare i delitti politici che avrebbero fatto emergere

tutte le lacune dell’apparato statale liberale del tempo, che sfruttava il tema per salvaguardare i propri

interessi.

Il dissenso politico, infatti, non viene ammesso inizialmente, in quanto la politica di repressione viene

motivata dalla salvaguardia dell’unità nazionale appena raggiunta e dai residui di legislazione degli Stati

preunitari. Il nodo tra diritto penale e dissenso politico non sarebbe stato risolto definitivamente neanche

dal codice Zanardelli del 1889.

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La scuola che sarà detta “classica” ed il codice Zanardelli

Il primo codice penale del Regno d’Italia viene emanato nel 1889, dopo un lungo processo distinto in due

fasi: la prima, dall’unificazione sino alla fine degli anni Settanta, caratterizzata da un lento, contraddittorio

ed incerto lavoro legislativo e la seconda, durante gli anni Ottanta del XIX secolo, portata avanti con

maturazione, con un lavoro risoluto e lucido, che consente l’emanazione del codice.

Durante entrambe le fasi vengono a scontrarsi due filoni di pensiero totalmente diversi: quello della

cosiddetta “scuola classica”, nata alla fine del Settecento, la quale sebbene abbia preso in considerazione

principi importanti come quello della legalità e della proporzionalità della pena, appare come troppo

ancorata al passato, incapace di comprendere le nuove scienze, quali la medicina legale e la sociologia

criminale, ancora fidante nell’origine divina del diritto penale (la scuola classica è considerata dall’autore

Sbriccoli come un ammasso di esperienze scientifiche e non come una vera e propria “scuola”) e quello

della scuola positiva, maggiormente incline a prendere in considerazione le nuove scienze per addivenire

ad un risultato sotto il profilo di studio del diritto penale capace di rispondere alle esigenze dello Stato e

dei cittadini.

Tuttavia in questo periodo giuristi liberali come Lucchini, che nel 1874 fonda la “Rivista penale” chiamando

attorno a se tutti i penalisti italiani più autorevoli ed elevando Carrara a padre nobile della materia,

Pessina, Casorati, Nocito, Impallomeni fanno si che il diritto penale si delinei come una scienza integrata,

confrontandosi con le nuove scienze sociali ed apprendendone gli insegnamenti.

Il primo codice penale unico del Regno d’Italia viene approvato definitivamente il 30 giugno del 1889,

grazie soprattutto alla grande opera scientifica e politica di Lucchini ed alla tendenza liberale e mediatrice

di Zanardelli. Il codice non ha solo il merito di unificare il diritto penale all’interno di tutto il Paese, ma

porta a compimento alcuni progetti che avevano infuocato i dibattiti per quasi trent’anni: viene eliminata

la pena di morte e con essa anche i lavori forzati; viene sancita l’insufficienza di un semplice sospetto per

addivenire ad una pena; vengono disciplinati i cosiddetti delitti politici ed i delitti contro la libertà,

bilanciando quindi gli interessi dello Stato e quelli dei singoli; vengono resi indifferenti a livello penale molti

comportamenti rilevanti sul piano morale o su quello religioso (ricordiamo che i delitti contro la religione

vengono sostituiti dai delitti contro la libertà di culto); viene dato un maggior margine di decisione ai

giudici circa la quantità delle pene, attenuando le stesse ed abbassandone la durata massima e minima;

viene sancita la distinzione dei reati in due categorie (delitti e contravvenzioni), riprendendo la tradizione

del codice penale toscano, anziché preferire quella adottata dal codice francese, che prevede una

tripartizione (delitti, contravvenzioni e crimini).

Se sotto il profilo teorico il Codice Zanardelli è un successo, altrettanto non si può dire del suo impatto con

la società italiana: già la scuola positiva, con il suo fondatore Lombroso, ha modo di criticare il codice

proprio per la sua unicità, in quanto servono, a suo parere, “quattro codici per le quattro Italia”

(settentrionale, centrale, meridionale ed insulare), oltre che per l’eccessiva mitezza delle pene, per

l’introduzione della liberazione condizionale (opera di Lucchini) e per l’abbandono della pena capitale. Se

quello della scuola positiva rimane semplicemente un pensiero, l’impatto del codice con la realtà italiana

realizza una vera e propria disfatta. Il codice è tecnicamente innovatore e culturalmente avanzato, ma è

l’Italia a non essere pronta né ad osservarlo, né ad applicarlo: l’intero sistema disastroso delle carceri,

l’organizzazione delle forze di polizia ispirata al principio del sospetto, un codice di procedura penale

inadeguato non sono in grado di reggere la “novità” del codice Zanardelli ed il suo alto contenuto culturale,

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tanto che in breve tempo una serie di leggi speciali non fa altro che aggirare le norme del succitato codice,

ponendo le fatiche di quasi trent’anni nel nulla e dando ragione (ma questo è un parere di foxshark, che

non è nessuno, dettato dalla lettura e non di Sbriccoli, che era un mostro sacro in materia e sapeva di cosa

parlava) a Lombroso circa l’inutilità di certe decisioni.

La Nuova Scuola. Progresso, delinquenti, scienza e società

Nel 1876 Cesare Lombroso, fondatore e membro illustre della scuola “nuova” positiva, pubblica la sua

opera “L’uomo delinquente”, avventurandosi così, come già faceva da anni, all’interno di un territorio non

suo, quello giuridico appunto, essendo egli un medico antropologo, ideatore dell’antropologia criminale.

Abbiamo già detto che la scuola positiva conta al suo interno intellettuali che non hanno una formazione

giuridica, ma che allo stesso modo si sono avvicinati al diritto penale, inteso come scienza integrata, ed

hanno introdotto idee rivoluzionarie e non di poco conto: la considerazione che il delitto sia un fenomeno

umano e naturale, pertanto rendendo necessario lo studio della società umana per comprenderlo; la

visione del delinquente come protagonista delle scienze penali quali diritto, antropologia, sociologia

criminale; il concetto che la pena debba essere commisurata alla crudeltà del delinquente e la conseguente

classificazione degli stessi; il ruolo della prevenzione e la richiesta di riforme essenziali nel campo della

procedura penale; l’introduzione di sostitutivi penali, ossia rimedi che devono sostituirsi a quelli previsti dal

codice, al fine di evitare e prevenire il compimento di delitti…insomma, tutti cambiamenti radicali rispetto

alle previsioni della scuola classica, ancorata ad una visione del tutto giuridica dell’ambito penale.

Lo scontro tra scuola positiva e scuola classica è durissimo: i padri della vecchia scuola definiscono i

positivisti come “invasori”, proprio perché non formati a livello giuridico, etichettando le loro idee come

banali ed irrealizzabili, venute fuori senza tener conto che il diritto penale sia scienza integrata, ma pur

sempre giuridica (Lucchini). Il primo vero scontro si ha quando Enrico Ferri, membro della scuola positiva,

pubblica nel 1881 la sua opera “I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale”, all’interno della

quale contempla i cosiddetti sostitutivi penali, rimedi considerati (a giusta ragione) come ingenui o privi di

senso (le catene di sicurezza dietro le porte per scongiurare i furti e le rapine, la distribuzione di legna per

evitare i furti campestri, la presenza dei portinai per evitare furti negli stabili). Contro tale opera si scaglia

Lucchini, il quale non solo ne sottolinea la mancanza di buon senso, ma anche l’assenza di giuridicità: la

scienza penale può avvalersi delle altre scienze, ma non trasformarsi in qualcosa di inesistente ed esulare

dalla sua natura giuridica.

Il momento più significativo della “polemica tra la scuola classica e quella positiva” si ha tra il 1885 e il

1886. Già nel 1882 Enrico Ferri, passato da Bologna a Siena come professore universitario, presenta

ufficialmente la scuola positiva, disegnandola come un’evoluzione progressista ed innovativa della scuola

classica, secondo cui il reato può essere ricondotto a fattori antropologici, fisici o sociali, abbinati a

categorie di delinquenti (pazzi – nati incorreggibili – per abitudine acquisita – d’occasione – per passione),

verso i quali attuare la prevenzione, la riparazione (repressione) e l’eliminazione. Ferri accusa la scuola

classica di avere il solo scopo di diminuire le pene e abolire molte di esse.

Contro le idee di Ferri si scaglia da subito la Rivista penale di Lucchini, la quale etichetta la scuola positiva

come una “bufera di empirismo” (lo dico per chi non lo sapesse: l’empirismo è una corrente filosofica

secondo cui la conoscenza umana deriva solo dall’esperienza, acquisita tramite i sensi).

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Nel 1886 Aristide Gabelli, nome noto della scuola classica, pubblica un articolo all’interno del quale espone

in maniera equilibrata, colta e precisa tutti gli argomenti antipositivisti (Lucchini, direttore della Rivista

Penale, definisce Gabelli come “uno che ha preso la scopa per il manico”): a tale articolo segue un intero

volume in cui i figli della scuola positiva, come Ferri, Lombroso, Garofalo e Fioretti danno luogo ad una

“Polemica in difesa della scuola positiva”. Gabelli, in realtà, svolge un’analisi molto dettagliata, all’interno

della quale non critica la scuola positiva in linea generale, ma scende nei suoi aspetti specifici,

sottolineando che l’antropologia, sebbene possa apportare dei benefici alla scienza penale, non potrà mai,

tramite lo studio dei crani difformi delle streghe e degli eretici (per esempio), dare un contributo al diritto

penale. Gabelli, poi, non può rimanere indifferente all’astrattezza del concetto positivista della negazione

del libero arbitrio di chi commette dei crimini.

Tuttavia la scuola positiva, col passare del tempo, subisce una frattura al suo interno: molti nomi noti come

Ferri e Lombroso si allontanano, non solo nei propri rapporti, ma anche dalle loro idee originarie,

determinando la presa di distanze da entrambi dei giovani positivisti.

Il diritto penale e le ingiustizie sociali

Negli anni ’80 del XIX secolo nasce il cosiddetto socialismo giuridico grazie alle opere di Filippo Turati, il

quale non solo afferma la connessione tra questione criminale e questione economica (argomento

abbastanza datato), ma critica la scuola positiva per non aver preso in considerazione il fattore sociale (dal

saggio Il diritto e la questione sociale di Turati). In questo periodo le idee di Turati e di Colajanni si

contrappongono a quelle di Enrico Ferri, che si mostra come antisocialista legato alla teoria dei sostitutivi

penali. In breve tempo la maggior parte dei positivisti prende le distanze da Ferri e dagli insegnamenti di

Lombroso, appoggiando la teoria del carattere di classe del diritto penale al fine di riformare la legislazione

in materia. Ad una forte critica viene sottoposta la matrice classista del diritto penale, accusata di

salvaguardare maggiormente gli interessi dei ricchi, di chi possiede delle proprietà, a discapito di chi ha

solo beni immateriali come l’onore e la morale: i delitti contro la proprietà sono puniti in maniera più aspra

rispetto a quelli contro la persona e ciò ben manifesta la protezione di una determinata classe da parte del

diritto penale.

Sebbene il socialismo giuridico sia in questi anni fondamentale, esso fallisce nei suoi scopi dato

l’abbandono di molti giuristi e data, soprattutto, l’incapacità di costruire una società ed un sistema politico

alternativi.

Dalla penalistica civile alla civilistica penale

Nel 1910 Arturo Rocco, già professore a Ferrara, nella sua prolusione (discorso di introduzione alle lezioni)

al corso di diritto e procedura penale presso l’Università di Sassari, specifica come “il compito della scienza

penale sia quello di elaborare tecnicamente e giuridicamente il diritto penale positivo”. Egli, dunque, da

vita al “metodo tecnico-giuridico”, non escludendo il concetto di scienza integrata, ma ponendo dei confini

alle diverse prospettive offerte dalla varie scienze.

Egli impone che la scienza penale non venga separata dalle altre scienze, ma semplicemente distinta, senza

che essa si isoli o rimanga una cosa astratta, ma tenendo conto che ogni scienza ha il suo oggetto di studio

ed i suoi limiti, che se presi in considerazione possono realmente giovare anche alla disciplina penale. Il

cultore del diritto penale, secondo Rocco, <<deve assumere talvolta la veste dell’antropologo, dello

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psicologo e del sociologo>>, senza che ciò lo distolga dallo studio tecnico-giuridico di <<quel fatto umano e

sociale che si chiama delitto e di quel fatto sociale e politico che sia chiama pena>>.

Falliti, quindi, i propositi del codice e la tendenza liberale (Lucchini, Pessina), fallita la scuola positiva,

guidata dall’involuzione di Ferri, e fallito il socialismo giuridico, la tesi di Rocco appare come obiettiva e

concludente, capace di rispondere ai problemi italiani ed alla situazione disastrosa della scienza penale.

Rocco, in realtà, non si presenta come eversivo e critico nei confronti delle varie idee dei giuristi italiani, da

quelle positiviste a quelle del socialismo giuridico, ma pone soltanto l’accento sulla distinzione tra scienza

penale ed altre scienze, dichiarando di temere l’isolamento della prima, che in realtà da lì a poco si

concretizzerà, data la mancanza di stimoli ed idee da parte degli antropologi, degli psicologi, dei sociologi e

della medicina legale.

Rocco, tra l’altro, non ha fatto altro che auspicare nel campo del diritto penale ciò che Orlando aveva

chiesto, ben vent’anni prima a Palermo, per il diritto pubblico: la separazione (non il divorzio) tra la propria

disciplina e le altre scienze umane e sociali, proprio come avveniva per il diritto privato. Ecco il cosiddetto

“indirizzo tecnico giuridico” che auspica una “CIVILISTICA PENALE”, risultato della trasposizione nel campo

penalistico dei metodi d’analisi, dei principi, dei sistemi classificatori e delle logiche del diritto privato.

Bisogna dunque partire dall’esegesi dei testi legislativi (l'interpretazione critica di testi finalizzata alla

comprensione del significato), per poi definire i principi/concetti fondamentali del diritto positivo penale e

terminare con la critica del diritto vigente, mettendo in risalto le antinomie e le disparità esistenti nel

diritto penale, arricchendo il tutto con l’antropologia, la sociologia, la storia ed il diritto comparato.

Vincenzo Manzini nel 1920 pubblica il suo “Trattato di diritto penale italiano”, nel quale consacra gli

insegnamenti e l’INDIRIZZO di Arturo Rocco.

Il diritto penale dello Stato totalitario

Nel 1919 il guardasigilli Mortara costituisce con proprio decreto una commissione, guidata da Enrico Ferri e

Raffaele Garofalo, con il compito di riformare le leggi penali. La scuola positiva, dunque, ha l’occasione di

mostrare tutta l’esperienza accumulata negli anni, partita con Lombroso e maturata col passare del tempo.

In realtà, però, i principi della scuola positiva, una volta tradotti in legge nel 1921, appaiono come vuoti di

significato, ingiustificati, poco inclini a migliorare il Codice Zanardelli, se non addirittura idonei a peggiorare

quest’ultimo e intera scienza penale nel nostro Paese: delitto tentato e delitto consumato vengono posti

sullo stesso piano, così come la responsabilità di chi ha agito e quella di chi ha partecipato; la pericolosità di

un soggetto viene determinata dagli indizi offerti dal suo comportamento oggettivo; le pene sono a tempo

indeterminato ed il trattamento penale viene individualizzato (lo stesso reato può comportare pene

diverse, anche se commesso nella medesima maniera, dipendentemente da chi lo ha commesso).

Di li a poco sale al potere, come ben sappiamo, il fascismo ed il diritto penale diventa lo strumento

primario di propaganda, di cattura del consenso e repressione del dissenso. In poche parole la disciplina

penale si mette al servizio dello Stato totalitario. Certo in pochi anni, dal 1925 al 1930, viene svolto un

enorme lavoro ed il 1° luglio 1931 entra in vigore non solo il Codice Rocco (che porta il nome NON di Arturo

Rocco, che diede vita all’indirizzo tecnico-giuridico di cui abbiamo già parlato, ma del fratello Alfredo,

anch’egli giurista), ma anche il nuovo codice di procedura penale, le norme transitorie e di attuazione, un

nuovo T.U. delle leggi in materia di pubblica sicurezza ed una serie di leggi in materia penale finanziaria ed

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in materia contravvenzionale. Lo Stato italiano fascista, tuttavia, era già intervenuto in materia penale con

le c.d. leggi fascistissime, che avevano introdotto nuovamente la pena di morte, specialmente per delitti

politici.

Sul Codice Rocco le tesi sono diverse: c’è chi, come Sbriccoli, pensa che, nonostante tutte le trasformazioni

subite per opera del parlamento, della Corte costituzionale, della giurisprudenza e della desuetudine, il

suddetto codice presenti caratteri “politicamente intrisi di ideologia autoritaria”, e chi, invece, preferisce

vedere lo stesso come un’opera completa, con molte concessioni fatte al fascismo e poi eliminate dagli

interventi parlamentari e giurisprudenziali.

Tuttavia più o meno tutti i giuristi contemporanei concordano sulla necessità di rivedere il Codice Rocco,

più che altro per attualizzarlo e renderlo maggiormente incline alle necessità della nostra epoca, un po’

come si è provveduto, nel 1989, all’emanazione di un nuovo codice di procedura penale.

CARATTERI ORIGINARI E TRATTI PERMANENTI DEL SISTEMA PENALE ITALIANO

(1860–1990)

Il sistema penale italiano si sviluppa dentro una lunga storia di coerenza e continuità…ci sono costanti nel

suo sviluppo e caratteri originari che hanno impresso su di esso alcuni tratti permanenti…Questo scritto

vuole ripercorrere gli aspetti salienti dell’esperienza penalistica italiana lungo centrotrent’anni di vita

unitaria, dal 1861 sino agli anni ’80 del XX secolo…

N.B. ho ripreso esattamente le parole del testo che introducono questo nuovo capitolo perché meglio delle

mie sanno descrivervi l’argomento in questione.

L’IMPRONTA DELLE ORIGINI

Sotto il segno dell’emergenza

Il Regno d’Italia, come abbiamo avuto modo di sottolineare, nasce nel segno dell’emergenza: quando il 17

marzo 1861 Vittorio Emanuele II assume per se e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia, proclamando di

fatto la nascita dello Stato italiano, al sud la situazione è tragica, dati i continui moti rivoluzionari che

acclamano il passato, nel segno dei Borboni, ed appoggiano il presente rivoluzionario. Quindi il neonato

Stato italiano è chiamato da subito a fronteggiare una situazione eccezionale e lo fa adottando

provvedimenti straordinari, talvolta crudeli ed illeciti, nella salvaguardia dell’unità appena raggiunta ma

senza, nei fatti, risolvere il problema. L’eccezionalità della legislazione penale sarà uno degli elementi che

attraverserà la storia del Regno e sarà trasmessa, poi, a quella della Repubblica. Le leggi eccezionali, di

natura provvisoria, verranno prorogate e rinnovate, per poi scomparire lasciando una notevole traccia del

loro passaggio.

Un duplice livello di legalità

Nell’ordinamento, dunque, ritroviamo un duplice livello di legalità: accanto al concetto di legalità ordinaria,

il quale impone che un potere venga esercitato nel rispetto delle leggi e non arbitrariamente, ritroviamo un

concetto di legalità d’emergenza, il quale legittima una prevenzione che si avvale soprattutto del

“sospetto” e che tende a limitare la libertà dei sospettati, dei pericolosi tramite l’uso di istituti di polizia

preventiva, di pratiche arbitrarie e di abusi tollerati. Le classi ritenute “pericolose” vengono domate dalla

polizia che opera all’interno di ampi margini di discrezionalità, tramite un sistema di controllo mirato alla

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protezione delle proprietà private, al disciplinamento dei ceti più poveri ed alla repressione del dissenso

politico radicale, maggiormente espresso nel periodo fascista.

Evidenza e centralità del problema penale nella vita politica italiana

Il dibattito sul problema penale non ha riguardato, col passare del tempo, la sola dimensione giuridica, ma

ha investito anche quella politica e sociale. Subito dopo l’unificazione si è capito che, passando attraverso il

sistema penale, si potevano garantire le libertà tanto auspicate, l’ammodernamento dei rapporti tra Stato

e cittadini e la maturazione civile della società. Nei momenti di maggior difficoltà per il Paese, dalla crisi

brigantaggio sino al fascismo, dall’emergenza terrorismo e mafia sino alla vicenda Mani pulite, il sistema

penale è sempre stato visto come lo strumento di risposta ed il terreno dello scontro. I penalisti, infatti,

affrontano per lo più questioni di rilevanza politica che riflettono i propri effetti sulla nostra società.

L’impegno civile dei penalisti

Le questioni penali, dunque, sono e sono sempre state centrali nelle diverse fasi della politica italiana. I

penalisti italiani hanno sempre avuto una particolare attitudine, definita come “penalistica civile”, ad

occuparsi della vita politica e degli aspetti sociali. Il penale non ha mai goduto di una propria autonomia

come il campo civilistico e quello pubblicistico: la penalistica si è sempre fondata sull’analisi della società,

per ricondurre i risultati delle proprie osservazioni ad elementi giuridici. Lo stesso Lucchini, quando nel

1925 subisce una perquisizione nella redazione della sua Rivista penale, oltre al sequestro ed all’onta di un

processo per oltraggio al capo del governo, precisa come le leggi penali “siano indissolubilmente legate alle

vicende delle pubbliche libertà”.

LA VICENDA PENALE DELL’ITALIA UNITA

Negli anni intercorsi tra l’unificazione italiana e l’avvento del regime fascista la storia del sistema penale è

consistita esclusivamente nello scontro tra scuola classica e scuola positiva. E’ stata dunque rinchiusa

dentro gli stereotipi di Carrara, da un lato, e Ferri e Lombroso dall’altro: quello delle scuole è diventato un

criterio metodologico.

La bufera dottrinale degli anni Ottanta

Il dibattito si accende, come abbiamo avuto modo di accennare, negli anni Ottanta del XIX secolo, quando

Enrico Ferri fonda la cosiddetta scuola positiva di diritto criminale, specificando che la scuola classica si è

conclusa con Carrara e che bisogna voltare pagina, senza tener conto del diritto penale liberale che spinge

verso il codice in quegli anni. Ferri mette in discussione tutto e tutti nella sua scuola positiva, aprendo alle

nuove scienze mediche, antropologiche e sociologiche ed introducendo la classificazione dei “delinquenti”,

rendendo centrale il momento preventivo e proponendo un cambiamento radicale dell’intero sistema

penale (lo stesso Ferri qualche anno prima, nel 1878, al momento della pubblicazione della sua prima

opera era stato salutato da Lucchini, uno degli artefici principali del Codice Zanardelli, come una mente

innovatrice del diritto penale, senza poter immaginare che da lì a poco sarebbe stato il maggior nemico dei

penalisti liberali). Sebbene lo scontro tra penalisti liberali e positivisti sia molto acceso nel decennio in

questione, esso stenta a produrre risultati, senza mai diventare fertile e dando luogo ad una chiassosa

polemica.

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Un conflitto fuorviante dentro una funzione concorrente

Lo scontro tra penalisti liberali e positivisti si svolge, nel penultimo decennio del XIX secolo, su due piani

diversi, quello politico e quello scientifico.

Sul piano politico oggetto della disputa è il codice civile e la sua formazione: i penalisti liberali temono che

esso possa risentire dell’influenza positivista, mentre i positivisti si rendono conto di non avere la forza

necessaria per evitare che il codice sia emanato secondo il pensiero dei liberali e di Lucchini fra tutti.

Sul piano scientifico, invece, oggetto della disputa è il metodo della scienza penale, visto in maniera diversa

da positivisti e penalisti liberali. La scuola positiva, inoltre, racchiude i penalisti liberali all’interno di

un’etichetta non veritiera ed inesistente, quella della “scuola classica” che, partendo da Beccaria, avrebbe

avuto il suo punto massimo con Carrara: in realtà non esiste alcun indirizzo classico, in quanto i penalisti

liberali appaiono come molto diversi tra loro, ispirati si dall’operato di Carrara, ma non omogenei nei loro

pensieri, di fatto non essendo accomunabili in un’unica “SCUOLA”.

Il dibattito, tuttavia, continua a non produrre alcun risultato ed i positivisti finiscono, seppur con le loro

utili innovazioni, per vanificare il proprio lavoro: il codice Zanardelli viene emanato secondo le idee

dell’indirizzo penale liberale, ma non può essere in alcun modo considerato frutto di una scuola classica,

inventata di sana pianta dai positivisti.

Il codice penale del 1889 e lo sviluppo del diritto penale in Italia

Sebbene il Codice Zanardelli, emanato nel 1889, appaia come incapace di rispondere alle esigenze reali del

Paese e troppo moderno per la situazione del tempo, esso assume un’importanza estrema sotto il punto di

vista giuridico. Rappresenta un passo in avanti rispetto al passato ed ai codici degli Stati preunitari ed

introduce concetti fondamentali all’interno della scienza penale, destinati a durare negli anni.

Anzitutto abolisce definitivamente la pena di morte, definita già da Carrara come il rossore del nostro

governo, di fatto segnando un netto taglio rispetto al sistema precedente. Inoltre introduce la bipartizione

dei reati (delitti e contravvenzioni), punto fermo nel nostro sistema e principi fondamentali come

l’irretroattività della legge penale, il divieto di procedere per analogia e la presunzione di non colpevolezza.

Viene previsto un trattamento diverso per gli infermi di mente, i minori non imputabili, gli ubriachi ed i

semimputabili e viene introdotto il sistema degli arresti domiciliari con l’obbligo di lavorare a vantaggio

delle amministrazioni pubbliche.

Il codice Zanardelli, dunque, ha il merito di innovare, forse fin troppo e con largo anticipo, l’intero sistema

penale italiano, sebbene la società non risulti pronta né ad applicarlo né ad osservarlo.

LA CRISI DELLA CULTURA PENALISTICA A CAVALLO DEL SECOLO

Il diritto penale tra ingiustizie sociali e pubbliche libertà

Una nuova crisi attraversa l’Italia negli ultimi anni del XIX secolo: scoppia la crisi sociale, col conseguente

avvento del movimento operaio e delle organizzazioni politiche e sindacali che lo appoggiano. E’ un

periodo di tensioni e scontri e viene adottata una nuova politica d’emergenza per reprimere il fenomeno

ed assicurare stabilità al Paese. In appoggio a tali movimenti intervengono molti giuristi, convinti che il

sistema penale vada riformato, essendo impossibile ribaltarlo: nasce il cosiddetto “socialismo giuridico”.

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Sui giornali e sulle riviste compaiono, sempre più frequentemente, interventi inerenti i “difetti sociali” del

codice penale e la natura classista delle leggi penali esistenti: il socialismo giuridico coltiva l’idea che,

sebbene occorra far attenzione a tecniche e metodi, sia necessario altresì badare ai contenuti del diritto ed

all’impatto sociale, derivante dalla sua applicazione, sulla vita e sulle libertà dei cittadini. Il socialismo

giuridico si muove tanto sul versante politico, legandosi ai partiti, quanto su quello scientifico descrivendo

le sue idee all’interno delle università.

Sebbene il socialismo giuridico abbia il merito di evitare un “colpo di Stato” della borghesia, nonostante la

sanguinosa repressione del movimento operaio, esso non è in grado di proporre reali novità e di tramutare

in soluzioni penali la denuncia delle ingiustizie sociali: perde, dunque, molti dei suoi esponenti ed arriva a

disgregarsi nel giro di pochissimi anni, nonostante ancora oggi se ne descrivano i meriti.

La cultura penale italiana agli inizi del ventesimo secolo

Agli inizi del Novecento la scienza penale italiana, e con essa i giuristi, entra in crisi: le idee dei penalisti

liberali sono ormai esaurite, obsolete ed inadatte a rispecchiare una società cresciuta sotto il profilo

economico e sotto quello delinquenziale; non si tratta più di contrastare la delinquenza rurale, ma un vero

e proprio apparato ben organizzato di malviventi. Occorre una scossa che i penalisti liberali, che hanno

dato vita al codice, non sono in grado di offrire: sembra finalmente arrivato il momento dei positivisti. In

realtà le idee di Lombroso vengono criticate da tutte le parti e quelle di Enrico Ferri sono statiche, non

mutano e non si adattano alla società, anche perché le scienze sociali sul cui appoggio conta il positivismo

non sono andate avanti e sono rimaste a livelli sterili, incapaci di fornire un concreto supporto alla scienza

penale.

Nessuno sembra in grado di osservare come il fenomeno criminale ed i processi economici vadano di pari

passo, né gli antichi penalisti liberali, né i riformatori positivisti.

UN NUOVO DIRITTO PENALE NEL NUOVO DIRITTO PUBBLICO

Arriviamo dunque al 1910, l’anno della svolta, l’anno della prolusione sassarese di Arturo Rocco e della

conseguente nascita dell’indirizzo tecnico-giuridico, capace di ovviare alla crisi seria ed evidente, oltre che

ammessa da tutti, del diritto penale e di rispondere alla nuova concezione dei diritti di libertà.

Segnare i confini del diritto penale

Il nuovo metodo tecnico-giuridico sostenuto da Arturo Rocco delinea il diritto penale come una scienza

giuridica troppo offuscata dalle altre scienze contemporanee: essa non deve perdere di vista la sua

giuridicità, senza peraltro rinunciare al confronto con le altre discipline. Rocco sottolinea, dunque, la

giuridicità della materia, ma teme un isolamento della stessa del tutto improduttivo: è per tal motivo che

egli auspica una distinzione rispetto alle altre scienze e non una separazione tra le stesse ed il diritto

penale.

Il compito della scienza penale deve essere quello di “analizzare quel fatto umano e sociale che si chiama

delitto e quel fatto sociale e politico che si chiama pena, studiando le norme giuridiche che vietano azioni

umane imputabili, ingiuste e dannose per l’esistenza della società giuridicamente organizzata”.

La scienza giuridica, inoltre, deve rapportarsi alle altre scienze all’occorrenza, ma non dimenticando i

confini delle stesse che non possono, in alcun modo, travalicare quelli del diritto penale.

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Termina dunque l’epoca della penalistica civile ed inizia quella della “civilistica penale”: la scienza penale

non è più scienza integrata come era stata intesa sino a quel momento e viene assimilata al metodo

civilistico.

Il diritto penale dello Stato e il paradigma civilistico

La scienza giuridica penale, secondo Rocco, deve essere ricondotta ad un “sistema di principi di diritto, ad

una teoria giuridica, ad una conoscenza scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene”, proprio

come per il diritto privato.

La stessa richiesta, vent’anni prima a Palermo, era stata avanzata da Vittorio Emanuele Orlando, padre

della pubblicistica italiana moderna, per ciò che riguardava il diritto pubblico.

Il diritto penale, dunque, deve essere considerato come un insieme di principi giuridici, come avviene per il

diritto civile (da qui il termine civilistica penale e la definizione di indirizzo tecnico-giuridico).

In realtà, di lì a poco, il pensiero di Arturo Rocco verrà sfruttato per dar luogo alle legislazione penale dello

Stato totalitario fascista.

IL DIRITTO PENALE DURANTE IL REGIME FASCISTA

Continuità di caratteri, discontinuità ideologica

I caratteri autoritari del diritto penale italiano non nascono col fascismo: già prima del ventennio totalitario

la scienza penale acquisisce tratti patriottici e statalistici. Il fascismo, poi, contribuisce ad alimentare tali

caratteri, al fine di rendere maggiormente repressivo ed intimidatorio il diritto penale.

Durante il periodo fascista viene attuato il metodo tecnico-giuridico, ma con qualche differenza sostanziale

rispetto a come l’aveva concepito Arturo Rocco: le riflessioni penalistiche non prendono in considerazione

l’aspetto politico e non riflettono sulle ideologie del regime, che sfrutta la materia per raggiungere i propri

scopi.

Se quindi vi è una continuità di caratteri del diritto penale, vi è allo stesso modo una discontinuità

ideologica, basata sui fini da raggiungere e sulle metodiche da utilizzare. Cresce dunque il potere della

polizia, più che quello della magistratura ed il regime sfrutta il carattere autoritario del diritto penale per

reprimere i dissensi ed aumentare i consensi.

Paura della differenza, disprezzo per i deboli

Il fascismo, dunque, non fa altro che raccogliere i caratteri principali della scienza penale italiana ed

esaltarli, accentuarli. La produzione legislativa penale di questo periodo è molto consistente: si parte dalle

leggi speciali, definite fascistissime, del 1925-1926, passando per il codice Rocco del 1930, sino ad arrivare

alle leggi razziali antiebraiche del ’38 ed alla legge sull’ordinamento giudiziario del ’41. Si alza il livello

sanzionatorio complessivo, aumenta la pressione autoritaria e l’infiltrazione dello Stato in tutte le

dinamiche private di persone e formazioni sociali: il fascismo porta la vessazione dell’avversario,

dell’oppositore, del “disturber”, dell’inferiore ed è con essa che “civilizza le colonie”, “purifica la patria” e

“bonifica le carceri”.

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Il regime fa sorgere, anche nella popolazione, la paura della differenza ed il disprezzo per il deboli,

aumentando frustrazioni, pregiudizi ed idiosincrasie (avversione per situazioni o persone non gradite).

IL DIRITTO PENALE NELL’ITALIA REPUBBLICANA

Continuità di caratteri nella discontinuità costituzionale

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nel 1945, si apre una nuova epoca per la società italiana: nel

’48 viene emanata la Costituzione, che sancisce definitivamente diritti sino a quel momento incerti e non

inviolabili. L’intera società italiana progredisce, col passare del tempo, sotto tutti i profili: economico,

sociale, politico. Si pensa, dunque, ad un nuovo codice penale ma il progetto, nonostante ci sia qualche

piccola idea, non viene portato avanti con convinzione: il Codice Rocco, malgrado il suo carattere

autoritario e fatta eccezione per qualche istituto, resta una pietra angolare della disciplina penale, non

avendo risentito del sistema totalitario se non nella sua applicazione durante il ventennio fascista.

Inoltre gli esponenti della dottrina giuridica italiana vivono, sino agli anni Settanta, un periodo di profondo

silenzio: si tarda ad applicare la Costituzione, ad istituire la Corte costituzionale ed il CSM, ad abrogare la

disciplina codicistica in contrasto con la nostra Carta fondamentale.

E’ finito lo stato fascista ma al capolinea è giunto anche quello liberale: la società è troppo diversa, è

cambiata, si è evoluta e bisogna rendersene conto ed accettare tali cambiamenti.

Un arcipelago normativo

Negli anni ’70 il nostro Paese conosce un nuovo periodo di crisi: dopo le rivolte studentesche del ’68 e

quelle operaie del ’69, nel decennio Settanta compaiono le prime organizzazioni terroristiche e, di lì a

poco, si sviluppa il fenomeno della criminalità organizzata, già esistente in passato ma meno pericoloso. Lo

Stato è chiamato, ancora una volta, a reagire e lo fa, ancora una volta (ripetizione voluta), con una

legislazione d’emergenza, straordinaria e limitata nel tempo. Se nel passato tale decisione era stata presa

per salvaguardare il codice destinato a regolare le condizioni “normali e prevalenti della nazione” (Carrara),

negli anni Settanta tale decisione viene assunta proprio per il motivo opposto, ossia per creare una diversa

disciplina differente da quella codicistica, ma non nell’interesse del codice stesso, in quanto emarginato

nell’esperienza italiana di quegli anni.

Si crea così un fitto arcipelago normativo in cui l’isola maggiore è quella del “penale”, circondata da atolli e

scogli rappresentati da tutta le leggi speciali emanate in quegli anni.

Il ritorno della penalistica civile

Negli anni Settanta, inoltre, tra i penalisti ritorna un’idea che aveva occupato il mondo della scienza penale

durante l’Ottocento e sino agli inizi del XIX secolo, quella della centralità del diritto penale rispetto alla

crescita del Paese. Ritorna, dunque, il pensiero che il giurista debba operare tenendo conto dei contesti

politici e sociali, delle ideologie e della storia. I giuristi comprendono che la teoria del reato e dei beni

giuridici necessita di essere riletta in chiave costituzionale e che la stessa Carta fondamentale debba

prevalere sull’ordine civilistico, elevato dall’indirizzo tecnico-giuridico a Grundnorm del sistema. La cultura

giuridica non è e non può essere autosufficiente ed il diritto, di pari passo, non può essere neutrale e

ridotto a soli principi. La Costituzione è la chiave di tutto e tramite essa si può addivenire ad una lettura

diversa (ma non tanto) rispetto al passato recente. Le altre scienze, in particolar modo la sociologia e la

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storia, non possono essere confinate all’interno dei loro limiti, come aveva precisato Arturo Rocco, ma

devono travalicare gli stessi, perché in grado ora, differentemente dal passato, di offrire una lettura utile e

produttiva della società alla disciplina penale.

L’ipertrofia del sistema penale

La situazione appena descritta comporta, tutto d’un tratto, un’ipertrofia del sistema penale, uno sviluppo

normativo enorme, eccessivo, esagerato e spropositato. Si rischia di svuotare la pena del suo significato,

arrivando a colpire, il più delle volte, criminali secondari deboli e visibili, anziché quelli che si celano dietro

white collars (colletti bianchi) e che agiscono su terreni diversi: la pena perde la sua funzione di

prevenzione e diventa il mezzo, da parte dello Stato e nei vari settori, per attribuirsi un potere sui cittadini

e far si che essi si conformino a determinati comportamenti.

Solo in seguito si comprende come la depenalizzazione di molti reati sia necessaria e vada attuata proprio

per ridare vigore al diritto penale: sembra un controsenso ma depenalizzare significa riportare la disciplina

penale nei propri confini originari, ridandole forza e rendendola nuovamente centrale all’interno del

sistema.

IL PROBLEMA PENALE

L’INADEGUATEZZA ED IL MALESSE DELLA CULTURA PENALE AGLI INZI DEL NOVECENTO

Il XX secolo parte, sotto il profilo della disciplina penale, con non pochi problemi da affrontare: gli ultimi

anni dell’Ottocento vedono un uso brutale della repressione penale del movimento operaio, che si

estrinseca (l’uso) nell’adozione di leggi eccezionali e di misure di polizia speciali. Negli ultimi due anni del

XIX secolo, poi, la borghesia tenta un vero e proprio colpo di stato, pur di mettere a tacere le rivolte in atto,

fallendo però nel suo scopo anche grazie all’operato dei giuristi socialisti e liberali (pensiamo a Lucchini

che, come membro della prima sezione della Corte di Cassazione, aveva contribuito ad annullare il decreto

del governo Pelloux del 1889, col quale si rendevano impossibili le attività delle opposizioni e venivano lese

le libertà fondamentali).

Tuttavia all’inizio del Novecento la situazione è diversa. I liberali, da un lato, sono ormai antiquati nelle loro

idee e non comprendono l’evoluzione della società, trascurando che è cambiata la criminalità, che da

rurale si è trasformata in urbana e necessita di essere fronteggiata adeguatamente. Dall’altra parte i

positivisti sono in crisi: le idee lombrosiane pagano lo scotto del loro limite scientifico e dell’eccessiva

approssimazione e cedono il passo al pensiero di un diritto penale sociale, quasi socialista. Alcune idee

innovative di Ferri, inoltre, sono ormai patrimonio comune della penalistica italiana ed europea

(prevenzione speciale e generale, interesse per la figura del delinquente, pene riadattative), mentre altre,

come la classificazione dei criminali basata su caratteri fisici e psichici e l’incorreggibilità di alcuni, sono

messe del tutto da parte. Le scienze sociali, alla base della scuola positiva, scivolano nel degrado e risultano

inadeguate al loro scopo di ausilio ed integrazione con la disciplina penale.

Viene, quindi, avviata la nuova “scuola critica” con lo scopo di uscire dalla crisi della disciplina penale,

definita poi come “terza scuola”.

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ARTURO ROCCO E IL DIRITTO PENALE DELLO STATO LIBERALE DI DIRITTO

Arriviamo, dunque, alla prolusione sassarese di Arturo Rocco del 1910, della quale abbiamo ampiamente

parlato. Centro del discorso penale è il fatto che le libertà ed i diritti fondamentali risiedano nella sovranità

dello Stato e, quindi, nelle leggi.

“I diritti sono nelle leggi e dalle leggi sono assicurate le libertà”.

E’ lo Stato di diritto a dover assicurare l’osservanza delle proprie norme ed il rispetto delle libertà che esso

stesso sancisce ed il diritto penale rientra nel quadro costituzionale dello Stato liberale di diritto.

Risanare il diritto penale e costituzionalizzarlo

Per anni gli storici del diritto penale hanno additano Arturo Rocco (e le sue idee contenute nella prolusione

sassarese) come il responsabile dei “guasti” prodotti dal metodo tecnico-giuridico. In realtà tali guasti sono

da attribuirsi alle degenerazioni dei concetti espressi da Rocco per raggiungere dei fini totalmente diversi:

egli parla semplicemente della necessità di ripristinare la giuridicità della scienza penale e della centralità

della legge, che nulla hanno a che vedere con gli errori commessi nel cinquantennio centrale del XX secolo.

Nella logica del nuovo diritto pubblico e alla maniera del vecchio diritto civile

E’ sbagliato, dunque, attribuire all’Arturo Rocco del 1910 tutte le conseguenze che si hanno, sotto il profilo

penale, durante il fascismo. Rocco nota, durante quel periodo, che il diritto penale è in crisi e cerca di porvi

rimedio, rendendo la sua materia quanto più simile al diritto privato, ossia riducendola ad un sistema di

“principi di diritto”, ad una teoria giuridica. La degenerazione tecnicistica che ne deriva, quindi, non è ad

egli imputabile, tenendo conto del fatto che lo stesso Rocco voleva evitare che la scienza penale si

riducesse, come invece poi avverrà, ad una “civilistica penale”, che si isolasse e perdesse la sua centralità,

cessando di essere scienza integrata. Quindi non possiamo vedere nella sua prolusione del 1910 una base

di autoritarismo statalista, in quanto in quegli anni egli è a tutti gli effetti un giurista liberale. Ciò che

avverrà in seguito, da parte tra l’altro dello stesso Rocco, è una degenerazione figlia della volontà di ridurre

il diritto penale ad una materia totalmente tecnica e apolitica, proprio al fine di sfruttarla per il

raggiungimento degli obiettivi fascisti, ma non bisogna in alcun modo retrodatare la nascita del diritto dello

Stato totalitario.

UNA INCERTA TRANSIZIONE: IL PROGETTO FERRI E L’AVVENTO DEL REGIME FASCISTA

Le idee di Rocco, già anticipate da Orlando in materia di diritto pubblico, hanno però bisogno di maturare

all’interno della società italiana del tempo. Lo stesso Vincenzo Manzini, che in seguito raccoglierà le idee di

Rocco e sarà uno degli artefici del codice penale del 1930, nello stesso periodo parla di errore

nell’abolizione della pena di morte e della necessità di permettere a tutti gli uomini di armarsi e di

difendersi dai criminali. Lodovico Mortara, procuratore della Corte di Cassazione, in quel periodo lamenta

l’inefficacia e la mitezza del sistema delle repressioni, notando un eccesso di severità nei confronti dei reati

contro la proprietà. Lo stesso Mortara, di lì a poco, diventa Ministro della giustizia e nel 1919 istituisce una

commissione, presieduta da Enrico Ferri, con il compito di riformare le leggi penali, proprio al fine di

ridurre la criminalità, con particolare attenzione alla delinquenza minorile ed a quella abituale. La scelta del

guardasigilli è più che mai errata: egli pone nelle mani di un “uomo dal pensiero vecchio” il compito di

riformare, quindi di guardare al futuro. Sembra arrivato, dunque, il momento tanto aspettato dai

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positivisti. In realtà il positivismo è già finito, si è disgregato e non è più capace di innovare la scienza

penale ed è per tal motivo che il progetto presentato dalla commissione Ferri nel 1921 viene lasciato

cadere, senza neanche essere discusso in parlamento. All’interno del progetto presentato le idee della

scuola positiva sono tradotte in norme e appaiono assurde e poco chiare: il nuovo progetto di codice è

imperniato sull’ossessione della pericolosità, le pene sono a tempo indeterminato, la pericolosità di un

soggetto è desunta dal suo comportamento oggettivo, l’autore di un delitto è equiparato al mandante e a

chiunque vi abbia preso parte. L’assurdità del progetto è palese ed il suo fallimento è scontato (bella

questa eh…è mia, giuro…ahahaha).

LA POLITICA PENALE DEL FASCISMO TRA “RIVOLUZIONE” E CONTINUITA’

Nel periodo del fascismo al centro del problema penale viene posta la questione dello scontro politico. Il

criminale abituale viene visto come un nemico, contro il quale attuare un sistema preventivo. Il dissenso è

vissuto come “attacco allo Stato”, il quale mette in piedi un intero sistema non in difesa del cittadino, ma a

tutela di se stesso. Il diritto penale diventa strumento di propaganda e di acquisizione del consenso, di

fatto reprimendo qualsiasi forma di dissenso. Viene fuori, dunque, tutto l’autoritarismo repressivo proprio

della cultura prefascista: il fascismo non cambia la scienza penale ed il pensiero dei giuristi, ma si limita a

non guardare al futuro, garantendo anzi una continuità di idee all’interno della rivoluzione sociale che pone

in essere. Lo Stato si infiltra ovunque e diviene totalitario, entrando in qualsiasi vicenda privata, ma senza

smuovere in alcun modo il liberalismo conservatore e autoritario, statalistico e patriottico del primo

Novecento, già radicato nelle menti dei giuristi del tempo.

Leggi fascistissime per annientare l’opposizione

Il fascismo realizza, all’inizio degli anni Venti, una corposa opera di legislazione repressiva, di cui il diritto

penale è lo strumento principale. L’intero sistema penale viene provvisto di contenuti autoritari e di una

funzione intimidatoria. Dopo un primo provvedimento di amnistia del ’22, del tutto incline a fini politici,

Mussolini e il suo ministro Alfredo Rocco (fratello di Arturo) mirano alla neutralizzazione delle opposizioni

tramite la legge penale. Tra il 1925 ed il 1926 vengono, infatti, emanate le leggi fascistissime, articolate in

“leggi di difesa dello Stato” (inerentemente alle società segrete, ai fuoriusciti ed alla burocrazia) e “leggi di

riforma costituzionale” (inerenti l’attribuzione di maggiori poteri al capo del governo). Ogni forma di

opposizione deve essere annientata e l’ordinamento penale viene messo al servizio della repressione

politica: anzitutto viene reintrodotta la pena di morte, vista come la soluzione per eliminare i nemici della

nazione; in secundis si ricorre ancora una volta allo strumento della legislazione d’emergenza, istituendo

momentaneamente il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con il compito di punire i “nemici” dello

stesso con la pena di morte; inoltre viene attuato un duplice livello di legalità, conferendo alle forze di

polizia il compito di valutare e reprimere tutti quei comportamenti consistenti nel “manifestare propositi”

o “dimostrare intenzioni”, potere ad esse attribuito in forza del nuovo T.U. in materia di leggi di pubblica

sicurezza. Viene addirittura creato un terzo livello di legalità che prevede l’istituzione dell’OVRA (Opera

Vigilanza Repressione Antifascismo), con il compito contrastare il dissenso politico e l’attività dei

fuoriusciti, nonché di reprimere l’antifascismo.

La monumentale riforma penale del 1930

Nello stesso periodo delle leggi fascistissime Alfredo Rocco realizza un’opera riformatrice di notevole

rilievo, senza precedenti e, data la sua rapidità (4/5 anni per realizzarla), senza ripetizioni sino ai giorni

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nostri: il 1° luglio 1931 entrano in vigore il nuovo codice penale, il codice di procedura penale, il nuovo

regolamento carcerario, il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza e un’importante legge sui reati

finanziari. Da lì a poco vengono emanate le leggi razziali per tutelare la “purezza della stirpe” ed una

riforma dell’ordinamento giudiziario (nel ’41).

Il nuovo codice penale contrasta del tutto con gli orientamenti della scuola liberale che aveva dato luogo al

codice Zanardelli e dedica un abbondante spazio all’intolleranza delle opposizioni, alla visione fascista della

famiglia, all’economia corporativa, all’ossessione per la purezza della stirpe ed alla difesa dello Stato. Al

contrario del codice Zanardelli, il nuovo codice non appare noncurante dell’oppositore, ma lo considera

come un avversario, un nemico da annientare perché antepone i propri interessi a quelli della Patria.

Inoltre, a differenza del codice precedente, quello nuovo contempla i reati politici.

L’opera ambigua della scienza penalistica italiana negli anni del fascismo

Negli anni del fascismo alla scienza penalistica italiana ed ai giuristi in generale possono essere attribuiti

una serie di meriti e di demeriti.

Da un lato, infatti, i giuristi attuano quello che era il progetto di Arturo Rocco, ossia una svolta in ambito

penale orientata verso il metodo tecnico-giuridico, il che impedisce al fascismo di ereditare un sistema

penale basato sul dibattito/scontro povero e poco fertile tra le scuole, che avrebbe comportato non pochi

problemi in quanto il regime avrebbe dovuto riformare la materia senza un indirizzo da seguire. Certo essi

svuotano di significato le parole di Rocco, realizzando proprio ciò che quest’ultimo voleva evitare, ossia

l’isolamento del diritto penale, ma ciò nonostante riescono ad evitare alcuni danni. Essi dunque hanno il

merito di conservare quanto di positivo il sistema giuridico liberale aveva prodotto.

Da un altro lato, tuttavia, i giuristi hanno la responsabilità di aver disperso il senso di difesa e di garanzia

che i cittadini si attendono da un sistema penale. Il loro silenzio, talune volte, pesa più di un intervento a

favore del regime, in quanto incoraggiare il sopruso da parte dello Stato equivale a privare direttamente i

cittadini delle loro libertà fondamentali.

LA QUESTIONE PENALE NEI PRIMI ANNI DELLA REPUBBLICA: LA COSTITUZIONE INATTUATA

Il passaggio dal fascismo alla Repubblica, sotto il profilo penale, si basa sulla discussione tra coloro che

sostengono che il codice Rocco sia troppo autoritario e repressivo, motivo per sostituirlo quanto prima, e

coloro che credono che il codice sia frutto del lavoro dei giuristi e non del regime, pertanto ritenendo

possibile depurarlo dall’impronta dello Stato totalitario. La lotta, però, non si svolge ad armi pari: a

sostenere la tesi della sostituzione, seppur con giuste ragioni, sono i politici ed i pensatori del tempo,

incapaci di tradurre in legge la loro idea di diritto penale; a sostenere la depurazione del codice Rocco,

invece, sono i giuristi di quel periodo, sia quelli formatisi prima del fascismo, sia quelli cresciuti

culturalmente proprio all’interno dell’Italia fascista. La tesi del mantenimento del codice, pertanto, prevale

senza tanti sforzi e si rimane nella convinzione che la scienza penale goda di quella continuità ideologica di

sempre.

I tentativi di dar vita ad un nuovo codice falliscono rapidamente durante tutta la vita della Repubblica, sino

ai giorni nostri: vengono istituite commissioni e stilati dei progetti, ma nulla che convinca o che persuada

ad approvare ed emanare un nuovo codice.

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Il problema penale nel nuovo quadro istituzionale

Il 1° gennaio del 1948 viene emanata la Costituzione italiana. Il lavoro dell’Assemblea Costituente porta,

dunque, ad un risultato pressoché perfetto, considerando che si esce dalla guerra e da uno Stato

totalitario. L’intero sistema penale, però, non è pronto ad una visione dello Stato e delle libertà come

quella contemplata all’interno della Costituzione: i giuristi si rifiutano di accettarne le innovazioni e si

scagliano contro l’attuazione reale e pratica della stessa.

Una Carta fondamentale e ricca di novità, tutte positive, viene dunque messa da parte ed inattuata, oltre al

fatto che rimangono in vigore il t.u. di pubblica sicurezza ed altre leggi che con essa contrastano

palesemente. La neonata Repubblica, dunque, è incapace di attuare qualcosa a cui essa stessa ha dato vita

ed affronta i vari problemi sociali che si susseguono (scontri tra formazioni neofasciste ed ex partigiani,

rivolta studentesca ed operaia) con strumenti d’emergenza basati, talune volte, proprio su quella

repressione autoritaria più volte condannata.

LE CINQUE EMERGENZE DELLA STORIA REPUBBLICANA DETTANO L’AGENDA DEL PROBLEMA PENALE

Nel giugno del ’56 la Corte costituzionale inizia, finalmente, la sua attività e lo fa con una sentenza che

offre una precisa descrizione dell’importanza del suo ruolo: viene abrogato l’art.113 del t.u. di pubblica

sicurezza, il quale vietava di distribuire o far circolare scritti o disegni in luogo pubblico senza

l’autorizzazione dell’autorità pubblica. Questo episodio da l’idea di quella che sarà l’opera della Corte

costituzionale, un’opera volta soprattutto al rispetto delle libertà fondamentali del cittadino.

Rimangono cinque problemi che l’Italia repubblicana è chiamata ad affrontare, in tempi diversi e sotto il

profilo penale, ma che costituiscono delle vere e proprie emergenze:

• Ordine pubblico;

• Terrorismo;

• Criminalità organizzata;

• Corruzione;

• Sentimento di insicurezza.

Ordine pubblico

La prima emergenza che l’Italia repubblicana è chiamata, sotto il profilo penale, a risolvere è quella

dell’ordine pubblico. Fino al 1960 si assiste a scontri politici in quelli che erano i luoghi di comunicazione e

di propaganda disponibili al tempo, ossia piazze e strade. Ma lo Stato non interviene, come era solito fare,

con una legislazione d’emergenza in quanto il t.u. di pubblica sicurezza, ancora in vigore, è già da

considerare come un insieme di norme eccezionali e temporanee dato il suo contrasto con la visione

repubblicana e costituzionale. Alla polizia, ed ai prefetti, sono attribuiti poteri limitativi delle libertà

personali che violano la Costituzione, ma che permettono allo Stato di tentare di risolvere l’emergenza: si

assiste a continui scontri tra manifestanti e forze di polizia, a vere e proprie retate punitive nei confronti di

delinquenti mascherati da pensatori. La situazione diviene insostenibile, date le atrocità commesse da

entrambe le parti, e viene risolta solo nel 1961, quando la Corte costituzionale dichiara illegittimo l’art.2

del t.u. di pubblica sicurezza, quello inerente il potere dei prefetti di adottare provvedimenti per la tutela

dell’ordine e della sicurezza. L’emergenza, dunque, viene risolta con un mezzo (la Corte costituzionale) che,

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se fosse stato da subito istituito, avrebbe evitato il sangue di molte piazze, di molti giovani, poliziotti e

manifestanti.

Terrorismo e stragismo

Secondo problema che l’Italia repubblicana è chiamata ad affrontare è quello del terrorismo e dello

stragismo: le rivolte studentesche del ’67, le lotte sindacali del cosiddetto “autunno caldo” del ’69, la

strage di piazza Fontana del ’69, i moti di Reggio Calabria del ‘70/’71, il sequestro del giudice Sossi del ’74 e

il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro del ’78 sono solo alcuni degli esempi del problema che lo Stato deve

risolvere.

Ancora una volta si ricorre allo strumento della legislazione d’emergenza: un decreto del ’74 allunga la

carcerazione preventiva, mentre nel ’75 viene approvata la legge Reale sull’ordine pubblico, primo

strumento inutile contro il fenomeno del terrorismo. La suddetta legge limita l’adozione dell’istituto della

libertà provvisoria, dilata la misura delle pene e la durata della prescrizione, amplia i casi di processo per

direttissima ed autorizza l’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine. Ancora una volta i governanti

italiani attuano una politica inidonea a risolvere l’emergenza, dando luogo ad un atteggiamento che rende

ancora più forte la resistenza di gruppi terroristici come le BR (Brigate Rosse).

Solo verso la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si da luogo ad una legislazione volta a

disgregare i gruppi terroristici, ad isolarli e renderli deboli, oltre che a favorire l’azione di contrasto dello

Stato.

Criminalità organizzata

Il problema della criminalità organizzata è sempre esistito nel nostro Paese. Il fenomeno, però, è stato

inizialmente sottovalutato, anche per i rapporti intercorrenti tra i criminali e personaggi di spicco

dell’economia e della politica italiana.

Lo Stato inizia ad affrontare il problema solo nel ’63, quando viene istituita la prima Commissione

parlamentare antimafia, dopo la strage di Ciaculli in cui perdono la vita 7 militari. Il lavoro della

Commissione da vita ad una legge nel ’65, incapace però di contrastare realmente il fenomeno della

criminalità organizzata, in quanto ignara (volontariamente o involontariamente) delle infiltrazioni della

stessa in tutti gli aspetti della società italiana.

Si assiste, dunque, inermi ed impotenti al Sacco di Palermo, la più grande speculazione edilizia della storia

italiana, con la quale vengono sacrificati reperti artistici ed architettonici di grande interesse in favore della

nascita di una miriade di costruzioni, grazie all’appoggio di Salvo Lima e Vito Ciancimino, rispettivamente

sindaco ed assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo, nei confronti dell’emergente clan dei

Corleonesi.

In seguito si assiste, ancora inermi ed impotenti (ripeto appositamente gli stessi termini), alle guerre di

Mafia, scatenate dai Corleonesi contro le altre famiglie siciliane (Badalamenti per fare un esempio) per

raggiungere il vertice alto della Mafia.

Nel 1980 la Mafia inizia la guerra contro lo Stato, con l’uccisione del Presidente della regione Sicilia

Piersanti Mattarella: il Parlamento ed il Governo finalmente si muovono, destinando maggiori risorse alla

lotta contro la criminalità organizzata. La valorizzazione dei collaboratori di giustizia (i cosiddetti pentiti) e

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la confisca dei beni provenienti dalle attività mafiose sono il primo colpo duro per la mafia siciliana

(meritevoli d’attenzione sono i pentiti Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, che fornirono una perfetta

descrizione del sistema mafioso e della sua organizzazione).

La Mafia reagisce: nel 1982 viene ucciso Pio la Torre, segretario regionale del PCI e reo di aver proposto

una legge che introduceva il reato di associazione mafiosa ed una norma che prevedeva la confisca dei beni

ai mafiosi; sempre nel 1982 viene ucciso il Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, mandato in

Sicilia per combattere la mafia ed abbandonato dallo Stato; nel ’83 viene assassinato il Consigliere

Istruttore presso il Tribunale di Palermo Roberto Chinnici, che guidava il pool di magistrati di cui facevano

parte Falcone e Borsellino; seguono numerosissimi attentati contro magistrati, forze dell’ordine ed

esponenti politici, nonché contro monumenti a Roma, Firenze e Milano.

Nel ’86 inizia il Maxiprocesso, che vede imputati, grazie all’opera di Giovanni Falcone (assassinato anch’egli

quel maledetto 23 maggio del ’92), 475 mafiosi, di cui 361 vennero condannati (condanna confermata dalla

Cassazione nel ’92).

Lo Stato, dunque, nel momento in cui si mostra coeso e irriducibile, riesce a risolvere anche il problema

della criminalità organizzata. La lotta alla stessa rimane ancora oggi uno degli obiettivi fondamentali che

ogni governo italiano deve porsi.

Corruzioni politica

Anche il fenomeno della corruzione politica, all’interno dello Stato italiano, esiste da sempre. Solo negli

anni ’80, però, si inizia ad imporre all’attenzione di tutti, per poi culminare nell’interesse generale negli

anni Novanta. A stimolare tale interesse è la clamorosa azione giudiziaria, ribattezzata come “Mani Pulite”,

partita dalla Procura di Milano e poi condotta a livello nazionale da moltissime procure, diretta a punire i

protagonisti del fenomeno corruttivo (definito Tangentopoli) tra i quali spiccano politici di ogni genere, da

ministri a presidenti delle regioni, da parlamentari a capi di governo, oltre agli alti dirigenti della pubblica

amministrazione, a magistrati ed imprenditori.

L’inchiesta travolge tutti i partiti politici, finendo per annientare definitivamente la DC (Democrazia

Cristiana) ed il PSI (Partito Socialista Italiano) e dando luogo ad una nuova fase della vita politica italiana

definita come Seconda Repubblica.

In realtà nulla è cambiato: la corruzione continua a dilagare e rimane alta solo l’attenzione della

magistratura e delle forze dell’ordine, nel silenzio della politica italiana, anche sotto il profilo delle

innovazioni nell’ambito del diritto penale.

Si potrebbe dire che questo problema, differentemente dagli altri che sono stati debellati definitivamente

o parzialmente (quello mafioso), NON VUOL ESSERE RISOLTO.

Il sentimento di insicurezza

L’ultimo caso che analizziamo non può definirsi, per il momento e forse ancora per poco, come

un’emergenza vera e propria. Il fenomeno della criminalità diffusa, definita talune volte come piccola o

micro criminalità (il che testimonia come ancora una volta si sottovaluti un problema), comporta una serie

di preoccupazioni da parte dei cittadini a cui non possiamo rimanere indifferenti.

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Il fenomeno dell’immigrazione preoccupa; il bullismo e la delinquenza minorile preoccupano; la precarietà

e l’apprensione per il futuro preoccupano. Si tratta, come possiamo osservare, di un “comune sentimento

di insicurezza”, che ci porta a diffidare dello Stato, a credere nella difesa personale della nostra sicurezza o

nel fatto che non esista alcuna sicurezza. Questo “nuovo” sentimento scaturisce dalla mancanza di

soluzioni offerte dal sistema penale, ancora una volta mezzo centrale per la risoluzione dei problemi e,

ancora una volta, adoperato male all’interno del nostro Paese.

L’IPERTROFIA DEL PENALE NELLA CRISI DELLO STATO-NAZIONE

Nel nostro Paese le varie emergenze che si sono susseguite nel tempo non hanno arrestato, come era

normale attendersi, la produzione normativa penale. Il sistema penale è diventato del tutto ipertrofico e la

causa è da ricercarsi nella crisi dello Stato-nazione e nello sfiancamento del suo potere normativo: lo Stato

ha emanato così tante leggi in materia penale che non ha più la forza di produrre qualcosa di realmente

significativo. Molto spesso si è assistito all’emanazione di leggi per la cui applicazione mancavano le

strutture occorrenti e la forza necessaria; altrettanto spesso l’emanazione di norme penali a tappeto ha

avuto il solo fine di tranquillizzare la società e raccogliere consensi, limitandosi ad avere un valore

simbolico.

Il Codice penale ha perso la sua centralità e lo strumento penale è stato fin troppo utilizzato dallo Stato

sociale come avvertimento. Non c’è settore dell’amministrazione pubblica che rinunci ad una minaccia

penale in caso di inosservanza di determinate regole, al fine di aumentare il suo stesso potere sui cittadini

che hanno a che fare con essa e che si ritrovano intrappolati tra mille divieti, suscettibili sempre, o quasi

sempre, di una punizione penale.

Così facendo la pena ha perso di vista il suo scopo primario di prevenzione generale ed i cittadini hanno

smesso di prenderla sul serio, oltre al fatto che essa punisce sempre più spesso la criminalità secondaria,

lasciando impuniti i criminali occulti, coloro che agiscono protetti o in maniera discreta e che recano i

maggior danni al Paese.

UNA RINNOVATA PENALISTICA CIVILE

La crisi del sistema penale è stata avvertita dai giuristi già da qualche decennio. Sono stati essi a consigliare

al sistema politico di provvedere alla depenalizzazione di moltissimi reati, proprio al fine di giungere ad un

diritto penale minimo, che punisca realmente ed efficacemente le violazioni primarie, rendendo dei

semplici illeciti amministrativi molti reati ed abolendone degli altri. In favore di ciò si è mossa una

generazione di penalisti maturata negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, forse appartenente ad una

“rinnovata penalistica civile”, che renda la scienza penale aperta alle altre scienze e che integri nelle analisi

del giurista i saperi politici, sociali, storici ed istituzionali.

Staremo a vedere!!!

Nota dell’autore della dispensa: come avrete avuto modo di notare gli argomenti trattati sono sempre i

medesimi. Alcuni nomi (quello di Lucchini, di Carrara, di Ferri ecc.) e le relative teorie sono così ricorrenti

da rendere quasi semplice la comprensione dei temi trattati. Sta a voi, però, cogliere le varie sfumature: un

argomento trattato più volte (ad esempio quello del contrasto tra scuola classica e positiva…o quello del

metodo tecnico-giuridico di Arturo Rocco) viene arricchito sempre di qualche particolare…e l’insieme dei

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particolari fornisce una ricostruzione pressoché perfetta delle vicende e dei temi in oggetto. Quindi state

attenti ai dettagli sparsi all’interno dell’intera dispensa.

FINE

N.B. per gli studenti: quest’opera non è solo un riassunto, ma una rielaborazione personale dei temi in esso

trattati. Aver scartato alcune parti e sottolineato l’importanza di altre non fa di me un docente, ma

semplicemente uno studente che fa delle valutazioni personali. E’ doveroso, da parte mia, precisare che

ognuno di noi è portatore di una singolarità che gli permette di recepire le informazioni in maniera diversa,

migliore o peggiore che sia. Vi assicuro soltanto che, all’interno della mia rielaborazione, non ho trascurato

nulla di rilevante, ma pur sempre dal mio punto di vista, che potrebbe differire da quello degli assistenti e

del docente. Vi invito, pertanto, ad integrare gli argomenti trattati con il libro di testo, scritto da un

docente e luminare in materia, qualora l’esposizione non vi abbia soddisfatti, o anche a confrontare la mia

rielaborazione con quella di altri colleghi. Mi scuso in anticipo, inoltre, qualora doveste riscontrare errori

grammaticali o errori di battitura, dovuti, vi assicuro, alla stanchezza ed al peso specifico della materia.

Rielaborare non è mai semplice, per questo motivo in alcune parti ritroverete pari pari le parole del testo,

magari selezionate a mia discrezione, magari ricopiate e basta. In altre, invece, troverete mie ricostruzioni

personali o miei commenti.

Spero davvero che questa mini-opera possa esservi d’aiuto.

Vi auguro di prendere un buon voto all’esame!!!

Foxshark (Marco Montagna)