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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO ANNO ACCADEMICO 2017/18 APPUNTI DI STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO I Dalle lezioni del prof. Christian Zendri Appunti di Marco Bellandi Giuffrida

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO ANNO ACCADEMICO 2017/18

APPUNTI DI STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E

MODERNO IDalle lezioni del prof. Christian Zendri

Appunti di Marco Bellandi Giuffrida

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SECONDA PARTE

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INTRODUZIONE Abbiamo dedicato la prima parte del corso ad una interpretazione dei primi sei secoli della tradizione giuridica occidentale Si è trattato di una premessa necessaria per comprendere tutto ciò che verrà spiegato adesso. Ci dedicheremo, infatti, ora alla discussione di ciò che costituisce l’oggetto principale di Diritto e Rivoluzione II di Harold J. Berman: la riforma luterana e la rivoluzione inglese. Il libro di Berman è strutturato in due parti, che si corrispondo nella struttura in maniera praticamente speculare; questo non è un caso e risponde ad un disegno voluto. La cosa interessante è che il libro ci induce a guardare ad una parte della tradizione giuridica occidentale che fino ad ora —salvo qualche eccezione— abbiamo sostanzialmente trascurato; infatti lo sfondo di tutto ciò che abbiamo analizzato fino adesso si colloca in Italia (rivoluzione papale, insegnamento del diritto, ecc.): ma già le poche apertura che abbiamo visto ci fanno comprender come l’intera Europa sia stata coinvolta in tutto questo. L’insegnamento del diritto, infatti, non ha toccato solo l’Italia; nel XII secolo addirittura in Inghilterra Bacario prese ad insegnare il diritto nel modo in cui lo si insegnava a Bologna. Le radici allora sono comuni anche tra continente europeo ed Inghilterra ad onta della differente tradizione giuridica che li contraddistingue. Nondimeno, non abbiamo ancora parlato di quello che avviene in Germania, se non per dire che gli imperatori erano di origine tedesca: dal punto di vista della scienza giuridica non abbiamo messo in luce la contribuzione tedesca. Invero, alcuni indizi ci fanno pensare che Irnerio fosse tedesco (Irnerio corrisponderebbe al latino Vernerius [Teutonicus], che in tedesco sarebbe Werner); peraltro molti erano gli studenti tedeschi in Italia, che una volta tornati in Germania assumevano posizioni di rilievo: questo spiega anche la presenza di vari libri italiani di diritto nelle biblioteche tedesche. In tutto questo la Germania non ha un’università sino verso la fine del XIV secolo, periodo in cui viene inaugurata l'Università di Praga. C'è allora un mondo che guarda con interesse e attenzione a ciò che avviene in Italia; ma d’altra parte c’è un mondo che vi resta estraneo. Questo mondo comincia ad affacciarsi come protagonista della scienza giuridica europea proprio nel XV secolo. Il fatto è importante: ciò che avviene porta i segni di questa peculiarità; il mondo tedesco risente di una tradizione che per certi versi è un po’ in ritardo. La tradizione, anche quella giuridica, viene presa in blocco ed viene esportata in una terra che fino a quel momento aveva vissuto con una tradizione differente; ciò è foriero di alcuni problemi . 1

D’altra parte le difficoltà non mancano nemmeno in Italia; sembra da quanto abbiamo detto che nel XIII secolo la tradizione giuridica occidentale abbia vissuto il massimo punto di splendore; eppure qualche tratto di debolezza comincia a presentarsi. Si pensi al De Tyranno di Bartolo, che descrive un mondo che sta cambiando; l’autore si occupa della tirannide per parlare del regime di una persona che concentra in sé il potere dello Stato: una situazione problematica che rispecchiava la realtà del tempo; prima dell'opera di Bartolo il concetto di tiranno era certamente usato ma non era così importante come lo fu dopo Bartolo. L’essenza della tirannide, in fondo, sta nel mutamento peggiorativo della “costituzione” comunale delle città; il mondo medievale si era basato almeno in Italia sulla forma di governo cittadino che, se definire democratica è eccessivo, tuttavia era condivisa da 2

un ceto relativamente largo della popolazione. Ora le cose cambiano, con degli individui singoli, i Signori, che prendono il potere. Anche la tradizione giuridica comincia a cambiare: se prima il mondo si fondava su una dualità di poteri —secolare e spirituale, cui corrispondevano Impero e Papato—, in questo periodo si assiste alla scomparsa del contendente secolare in favore dell'altro, con il potere imperiale che, vincitore, si rivela nondimeno incapace di fronteggiare le autorità particolari che stanno emergendo e che non rappresentano più l’intero populus Romanus, quanto invece i singoli Regni. Anche l’autorità spirituale attraversa un secolo di grande crisi: prima la cattività avignonese, poi la morte improvvisa del Papa e l'elezione di due (rectius: tre) papi dopo il 1278 (con il Grande scisma d’occidente e l’Europa divisa a sostenere uno o l’altro). Il Trecento è anche il secolo della peste, detta la «morte nera», che porta via una gran parte della popolazione.

Si pensi solo che in Germania si costruiscono edifici gotici mentre Brunelleschi sta costruendo la 1

cupola

alla stregua di una associazione giuridica, il Comune si organizzava in maniera piuttosto 2

articolata

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C’è poi altro un altro problema, che riguarda da vicino i giuristi: la tradizione medievale aveva già immaginato la scienza come un complesso di saperi gerarchicamente ordinati, tra i quali il diritto occupava una posizione preminente. Uno studente sapeva di dover iniziare i suoi studi imparando le c.d. sette arti liberali (le tre arti sermocinali e le quattro arti reali). D’altronde Bartolo era il perfetto paradigma di tutto questo: giurista famoso nell'età matura, egli fu anche autore di un trattato di geometria. Successivamente alle arti liberali ci si affidava a scelta ad una delle tre arti superiori (teologia, diritto e medicina), tra le quali il diritto occupava un ruolo preminente . Cino da Pistoia, grande giurista 3

e poeta, era amico di Dante Alighieri il quale, pur avendo scritto il Monarchia non aveva una formazione giuridica amplia e ripetuta —in realtà sappiamo che Dante studiò anche diritto Bologna; peraltro Dante era anche iscritto all'Arte dei Medici e Speziali. Dante è citato dai giuristi non soltanto con passi della Monarchia ma anche dalle sue liriche. Per i giuristi un punto di riferimento sono altresì le rime di Francesco Petrarca. Questo ci fa capire da un lato l’apertura mentale dei giuristi medievali; dall’altro che le altre arti si stavano candidando ad assumere una posizione di primazia nella cultura e nella vita politica: quelli che possedevano una cultura retorica pur non avendo mai studiato giurisprudenza cominciavano a pensare di conoscere il diritto meglio di quanto lo facessero i giuristi di professione. Bartolo nella sua prolusione alla laurea del fratello si pronunciò insistentemente sulla centralità del ruolo del diritto tra i saperi: quasi che l’idea fosse ormai tutt’altro che scontata. Il dibattito su quale ruolo avesse il diritto nella gerarchia delle scienze e quale ruolo avesse il diritto nell’amministrazione della cosa pubblica va sotto il nome di «disputa delle arti» (vedi infra). Un altro problema che caratterizza questa epoca è il rapporto fra spirituale e secolare di cui già abbiamo discusso amplius: un rapporto che non ha mai trovato una soluzione conclusiva, proprio perché la sua forza stava nella sua indeterminatezza. Tutto questo è il lascito dei secoli medievali al nuovo mondo che sta iniziando, ad una nuova fase della tradizione giuridica occidentale.

LA RIVOLUZIONE TEDESCA E LA TRASFORMAZIONE DEL DIRITTO TEDESCO NEL SEDICESIMO SECOLO

LA GERMANIA: L’IMPERO E I PRINCIPATI TERRITORIALI Questa nuova fase, in modo significativo, inizia proprio in Germania: non che altre regioni d’Europa non ne siano state interessate; in varie misure tutte partecipano di questi nuovi problemi (anche prima della Germania per certi aspetti), ma in essa si accentuano perché la Germania è terra che sta importando ciò che è andato maturando altrove anche sul piano giuridico (sia la tradizione canonistica che civilistica: il diritto nelle università tedesche si studia sui testi scritti e sulla tradizione maturata in Italia; quello che arriva in Germania non è il Digesto, ma il Digesto con glosse e commentari). In Germania si studia su testi scritti ed una tradizione maturata in Italia: così anche le dispute umanistiche e anche l’arte giunge in Germania, sia perché i tedeschi vengono in Italia sia perché gli italiani vanno ad insegnare in Germania. La Germania al contempo ha una tradizione già esistente che è diversa e che per molti aspetti risulta molto più frammentata e plurale, creando più tensioni di quanto non fosse vero per altre regioni d’Europa. Harold J. Berman, in modo non convenzionale, non apre il suo libro parlando dell'umanesimo giuridico ma della Germania e della rivoluzione protestante. Senza l'umanesimo invero la riforma non sarebbe nemmeno scoppiata e certamente il mondo in cui la riforma scoppia non è un mondo umanistico: ancorché molti intellettuali italiani aderiranno alla riforma, in Italia non c’è invece una vera e propria riforma protestante. Vale la pena dare un'occhiata all'affresco che Berman dipinge a proposito della Germania nel capitolo La Germania: l'Impero e i principati territoriali. Infatti la Germania è fatta di un impero e di territori giuridicamente autonomi; il che peraltro spiega perché ancora oggi la Germania sia uno Stato federale . 4

I giuristi, ben lungi dal dirlo, pensavano che il diritto fosse superiore alla teologia3

Si pensi che la costituzione di Weimar esordiva dicendo che l'Impero tedesco è una repubblica 4

federale. Si tratta di una contraddizione in termini che tuttavia si spiega storicamente con questa divisione

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«La Germania nel 1500 era il più grande paese d’Europa, sia per estensione sia per popolazione, con circa 12 milioni di anime. Essa consisteva di diverse centinaia di territori secolari ed ecclesiastici, chiamati “terre” e di alcune dozzine di libere città, entro un’assai larga struttura imperiale che nel dodicesimo secolo era stata chiamata per la prima volta “l’Impero Romano”, nel tredicesimo secolo “il Sacro Impero Romano” e nel secolo quindicesimo “Il Sacro Impero Romano della Nazione”. Il riferimento alla “Nazione Germanica” fu aggiunto per indicare la parte tedesca di un più ampio, debolmente unito dominio imperiale che in tempi diversi comprese l’Italia settentrionale (Lombardia), i Paesi Bassi, la Borgogna (Franca Contea), la Spagna e il Portogallo. Quando fu fondato da Carlomagno —prima della sua incoronazione per mano del vescovo di Roma nell’anno 800— l’impero non era affatto detto romano, ma talvolta Impero Franco e talaltra Impero Cristiano. Dopo la divisione dell’impero fra i tre nipoti di Carlomagno, il titolo di imperatore passò al capo dei Franchi orientali, che alla fine presero il nome di teutonici o deutsche. Gli Inglesi li chiamarono Germans; i Francesi Allemnads; i Russi Nemtsy, che significa “non noi”; gli Italiani —propriamente— Tedeschi, parola che ricalca il tedesco Deutsche»

Non è un caso che non molti decenni fa la Germania abbia mosso guerra all'Unione sovietica: si sentivano diversi rispetto agli altri.

«All’inizio dell'undecimo secolo fu istituita la prassi di dare all’erede designato a succedere all'impero il titolo di “Re dei Romani” (invece di “Re dei Franchi”), e dopo la morte dell’imperatore il successore sarebbe andato normalmente a Roma per essere incoronato dal papa come “Imperatore dei Romani”. Questa prassi simboleggiava, prima di tutto, la pretesa dell'imperatore franco all’autorità teocratica dell’imperatore Costantino e dei suoi successori, come vicario di Cristo e capo della chiesa»

Gli imperatori germanici chiamavano se stessi «vicari di Dio».

«Dopo che la supremazia papale fu stabilita alla fine dell’undicesimo e all’inizio del dodicesimo secolo, e il papa assunse per la prima volta il titolo di vicario di Cristo, la parola “Romano” nei titoli “Imperatore dei Romani” e “Impero Romano” non indicò più le pretese teocratiche dell’imperatore ma piuttosto la sua autorità nella sfera secolare. Però, ancora più che gli altri monarchi europei, il Sacro Imperatore Romano continuò a rivendicare una funzione religiosa come supremo protettore della chiesa entro il suo regno».

Si veda a tal proposito il Compromesso di Worm.

«L’impero non aveva una capitale né un’amministrazione permanente. Fino al 1495 non ebbe una corte di giustizia professionale. L’imperatore non aveva il potere di tassare i suoi soggetti, l’impero. Benché egli fosse superiore ai governanti dei vari territori che costituivano l’impero, alla fine del secolo undecimo e nel dodicesimo la sua elezione cominciò a dipendere dai duchi e dagli altri principi maggiori.»

Il potere imperiale era una forma di potere che si esercitava in virtù di una continua ricerca del consenso dei governati da parte dei governanti. L’Imperatore allora non poteva chiedere troppo denaro. Ciò spiega ad esempio perché l'Imperatore Massimiliano tanto era indebitato che i suoi creditori gli impedirono la sepoltura. Dal punto di vista costituzionale, d’altronde, anche in ogni stato liberale il primo potere che il Parlamento si è arrogato a scapito del sovrano è stata la decisione sul bilancio.

«Alla fine del secolo dodicesimo fu stabilito che gli imperatori dovevano essere scelti da un collegio elettorale di principi ecclesiastici e secolari, nel quale gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri e il conte palatino della Renania avevano un posto più elevato. A questi quattro “principi

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elettori” se ne aggiunsero alla fine altri tre: il duca di Sassonia, il re di Boemia e il marchese di Brandeburgo».

Gli elettori si facevano spesso pagare. Si pensi all'elezione di Carlo V che divenne imperatore semplicemente perché pagò di più.

«Nel periodo che corre tra l’inizio del dodicesimo secolo e l’inizio del sedicesimo, l’impero sviluppò nuove istituzioni politiche e giuridiche e attraversò diverse fasi di relativamente maggiore forza e debolezza. Come supremo giudice dell’impero, l’imperatore nei suoi spostamenti udiva gli appelli contro i giudizi delle corti dei principi e dei nobili così come delle corti cittadine. Egli aveva anche il diritto di convocare i principali cavalieri e le rappresentanze delle città imperiali, a partecipare ad assemblee deliberative chiamate “giornate imperiali” o “diete” (dal latino dies, «giorno»: in tedesco Tag, Reichstag), che acquistarono regolarità nel tredicesimo secolo. Le assemblee periodiche dei notabili simboleggiavano una struttura politica nella quale il potere era diviso fra vari stati (Stände): l’alto e il basso clero, la grande e la piccola nobiltà, i ceti mercantili preminenti e gli altri notabili cittadini («borghesi»)».

Per stati si deve intendere ceti.

«Soprattutto nei secoli dodicesimo e tredicesimo gli imperatori, attraverso le diete imperiali, promulgarono nuove leggi, spesso sotto la denominazione di “pace territoriale” (pax terrae, Landfriede)».

Nel Corpus Iuris Civilis si trovano già alcune di queste paci. C’è un grande movimento in questi secoli per fare si che la pace non venisse violata.

«Malgrado la debolezza del meccanismo di imposizione, questi leggi imperiali ebbero validità e spesso penetrarono nel diritto territoriale dei ducati e degli altri principati, così come nel diritto delle città. Sia il potere sia il diritto imperiale declinarono gradualmente nei secoli tredicesimo e quattordicesimo e agli inizi del secolo quindicesimo, mentre il potere e il diritto dei principati tedeschi continuò a diventare sempre più forte».

L’equilibrio tra Impero e principati territoriali si sposta progressivamente a favore di questi ultimi.

«Questo non vuol dire che non ci fosse una Germania. C’erano, in primo luogo, gli elementi di una lingua d’uso comune, benché vari gruppi tribali tedeschi, o «rami» («Stämme»), parlassero dialetti diversi nell’area di quella stessa lingua. C’era una comune letteratura volgare, specialmente nella poesia epica e lirica. C’era, ancor di più, un comune diritto tedesco».

Ci sono, infatti, città anche in Germania —benché la traduzione di Diritto e Rivoluzione I elida totalmente questo aspetto. Il diritto proprio tende a diventare comune a tutta la Germania ma al contempo ad evolversi.

«Quel diritto era rappresentato, in qualche modo, dal Sachsenspiegel (Specchio dei Sassoni), un libro scritto intorno al 1220 da un giurista sassone il cui nome era Eike von Repgau (c. 1180- c-1235), il quale scrisse dapprima il libro in latino e in seguito ne fece una traduzione tedesca. Era una raccolta sistematica di definizioni e di princìpi e di regole giuridiche, che in una moderna edizione occupano circa 240 pagine. La materia era principalmente il diritto consuetudinario locale e feudale della Sassonia e il diritto regio dell’imperatore tedesco. Riguardava il diritto di proprietà e di successione, il diritto penale, il sistema giudiziario, il diritto costituzionale e le relazioni tra signore e vassallo. Molto presto il Sachsenspiegel giunse ad acquisire una validità semi-ufficiale per tutti i territori germanofoni. Fu glossato da giuristi dotti. Il Frankenspiegel

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(Specchio dei Franchi), lo Schwabenspiegel (Specchio degli Svevi) ed altri “specchi” autoritativi del diritto furono scritti ad imitazione di esso. La Germania era tenuta insieme anche da un diritto comune alle città tedesche. Dall’undicesimo al quindicesimo secolo furono fondate in Germania parecchie centinaia di nuove città e alcune di esse divennero assai presto famose per i loro istituti giuridici e per le loro raccolte scritte di leggi. Le nuove città presero ad adottare leggi delle città più antiche. Così le leggi di Madgeburgo, risalenti al dodicesimo secolo, furono recepite in più di ottanta nuove città, le leggi di Lubecca furono recepite da quarantatré città, quelle di Francoforte da quarantanove, quelle di Friburgo in diciannove, di Monaco in tredici. In modo caratteristico, la “città figlia” di nuova fondazione abitualmente richiedeva le leggi alla “città madre”, i cui officiali preposti all’amministrazione della giustizia preparavano una nuova redazione. Inoltre, le corti della città figlia sottoponevano spesso i singoli casi ai giudici della città madre, al fine di ottenerne interpretazioni delle norme applicabili alle fattispecie concrete. In tal senso, benché ogni città avesse leggi proprie, si potrebbe parlare di un modello di diritto urbano pan-germanico, il quale benché molte sue parti fossero scritte, era (come il diritto contenuto nel Sachsenspiegel) in massima parte diritto consuetudinario. Naturalmente le consuetudini di una città erano diverse dalle consuetudini di un’altra, e tali diversità tesero ad accrescersi lungo le generazioni e i secoli, così come si accrebbero le differenze nei sistemi di diritto fondamentalmente consuetudinario dei principati e delle altre comunità politiche. Rimasero però importanti caratteristiche comuni e, al di là di tutto, una comune cultura politica e giuridica. Così la Germania —Deutschland— nell’anno 1500 costituiva una nazione, un popolo, benché non uno stato-nazione. Essa era tenuta insieme non solo dai legami della lingua e della letteratura e del diritto consuetudinario, ma anche da legami etnici così come da molte comuni caratteristiche culturali. Essa condivideva una comune coscienza storica del suo passato ed un sentimento di futuro comune. Benché non politicamente unita, almeno dal punto di vista culturale, etnico e giuridico essa lo era, di sicuro non meno di quanto nell’anno 1500 lo fossero le appena meno popolose Francia e Italia.».

Si vanno delineando alcune nazioni che non sono più gruppi casuali di popolazioni. Siamo vicini alla concezione dell’Europa moderna.

«Oltre ad essere governata dal diritto imperiale, da un diritto territoriale e da un diritto urbano, la Germania come il resto della cristianità occidentale, era governata anche dal diritto canonico della Chiesa cattolica romana. Le fonti del diritto canonico erano l’insieme delle decisioni giudiziali, delle opere di dottrina giuridica e della legislazione della Chiesa di Roma, comprese le decisioni della corte papale (chiamate decretali), il trattato autoritario di Graziano (Decretum) e altre compilazioni e collezioni, e i canoni dei concili ecclesiastici e dei papi. Il diritto canonico era applicato nelle corti episcopali in ogni parte dell’Occidente; ovunque fu chiamato ius commune —«diritto comune»— quantunque occasionali varianti locali del diritto comune fossero talvolta indicate come lex terrae, «diritto [particolare] territoriale», o lex propria, «diritto particolare». La giurisdizione rivendicata dalla Chiesa cattolica romana —non sempre con successo— si estendeva a tutte le materie relative ai beni del clero e della chiesa così come a molte materie che riguardavano direttamente il laicato, come l’insegnamento, l’assistenza ai poveri ed altre forme caritative, il matrimonio e il mantenimento della famiglia, i crimini spirituali come l’eresia, la stregoneria, le trasgressioni sessuali e più in generale tute le forme di condotta immorale, così come i contratti e le altre convenzioni in cui le parti impegnavano la loro fede» . 5

La Chiesa si occupava in maniera esclusiva di una pluralità di cose che oggi sono indubbiamente in capo al potere secolare, perché ai tempi quest’ultimo non se ne occupava. Se si riflette bene, si può fare un paragone con il nostro ordinamento giuridico: abbiamo il diritto civile (che rimane stabile), il diritto

H. Berman, Diritto e Rivoluzione II, pagg. 59 segg.5

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penale (che riguarda solo gli illeciti più gravi); e poi il diritto amministrativo, che invece dedica un grande numero di norme all'istruzione, alla previdenza, all'assistenza sanitaria, ecc. Se noi dovessimo fare una cernita, scopriremmo che oggi più di tutte le altre le materie citate dal Berman sono quelle toccate dalla legislazione statale. Tuttavia fino al Cinquecento sicuramente il diritto secolare non se ne occupava affatto. Si pensi che gli ospedali erano tutti gestiti dalla Chiesa e disciplinati dal diritto canonico. In sostanza per Berman nella costruzione di una cultura giuridica tedesca il diritto canonico è stato più rilevante del diritto civile. Da un lato negli ambiti in cui il diritto civile avrebbe potuto operare in Germania in realtà prevaleva la tradizione consuetudinaria; dall'altro molti ambiti per noi oggi riservati all’autorità secolare erano invece ai tempi di esclusivo appannaggio del diritto canonico. Questo vuol dire che il diritto canonico così come noi lo conosciamo, costruitosi sulle grandi compilazioni canonistiche e con tutta la riflessione dottrinale che ha circondato quei testi, è stato recepito prima e più intensamente del diritto civile. Se è vero che in Italia la rivoluzione papale ha significato la nascita di due ordini giuridici complementari ma distinti; che questi ordini sono nati contemporaneamente e sviluppati parallelamente, e che in qualche modo fino al Trecento il primato scientifico era del diritto civile —non fosse altro perché questo beneficiava del fatto di poter disporre di testi autorevoli completi più risalenti di quelli del diritto canonico— occorre tuttavia ammettere che in Germania sia arrivato prima il diritto canonico del diritto civile; quest’ultimo trovava infatti il terreno già occupato dalle consuetudini. Non si deve pensare che testi come lo Specchio dei Sassoni siano stati scritti da individui completamente ignari del diritto civile: anzi, proprio lo Specchio dei Sassoni risente addirittura delle influenze dei Libri Feudorum. Con un certo grado di banalizzazione qualcuno parla di una «prima ricezione del diritto canonico» e di una «seconda ricezione del diritto civile» a proposito di quello che avvenne in Germania. Ci sono una serie di tratti della storia giuridica tedesca che non si spiegano se non tenendo presente una sorta di precedenza cronologica del diritto canonico. Berman ricorda che l'influenza canonistica così forte in Germania in realtà finisce per veicolare le influenze civilistiche.

«Una buona parte della terminologia e alcune delle norme del diritto canonico erano derivate dai testi del diritto romano dell’imperatore romano-orientale del sesto secolo Giustiniano, così come glossati e commentati e sistemati dalle scuole europee a partire dalla fine del secolo undecimo».

Il diritto romano in qualche modo passa nel diritto canonico.

«Il diritto romano dotto era stato anch’esso chiamato “diritto comune”, ius commune, applicabile in tutto l’Occidente. Tuttavia contrariamente al diritto canonico, il diritto romano era soprattutto una disciplina accademica insegnata nelle università».

Il diritto canonico non è soltanto una disciplina accademica: è invece diritto positivo (rectius: vigente), direttamente applicabile. Il diritto romano invece non era diritto vigente in senso stretto: piuttosto costituisce meramente una base dei giuristi per la loro cultura giuridica, per l'elaborazione di statuti, ecc.

«Si poteva ricorrere a[l diritto romano] per integrare le lacune del diritto vigente e alcuni dei suoi princìpi erano adottati nella legislazione e nelle decisioni giudiziali ma —con poche eccezioni—esso svolgeva un ruolo sussidiario rispetto al diritto positivo e consuetudinario, sia dei poteri ecclesiastici sia dei secolari.Benché unita dal diritto imperiale, da un comune diritto consuetudinario e dal diritto canonico della chiesa, così come da una comune fede religiosa e dagli elementi di una comune lingua e letteratura popolare, la Germania era politicamente divisa in un grandissimo numero di singole unità territoriali, la cui dimensione andava dai principati grandi e potenti, alcuni di loro comparabili per estensione e popolazione con i Paesi Bassi, fino alle piccole contee (Grafschaften, «comitati»), la cui popolazione era composta a volte di poche centinaia di persone. C’erano anche numerosi principati ecclesiastici di varia grandezza, così come molte città libere».

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C’è una situazione politica plurale e frammentaria ed una tendenza alla riunificazione giuridica e politica che si alimenta di una pace territoriale e dell’idea che il diritto romano debba diventare il diritto comune dell’Impero, ma non dei singoli principati: in questo clima nasce il tribunale camerale imperiale, che applica il diritto romano (in realtà il diritto comune). Il diritto comune non va provato, occorre solo invocarlo, a differenza delle consuetudini, che vanno provate.

«Così, nell’anno 1521, il Sacro Romano Impero della Nazione Germanica consisteva, in ordine gerarchico, dell’imperatore, dei sette principi elettori, di 50 arcivescovi e vescovi, 83 prelati ecclesiastici (principalmente abati e badesse), 31 principi secolari, 138 conti e signori, e dei rappresentanti di 85 libere città imperiali— per un totale di quasi 400 giurisdizioni politiche».

Invero la lista è incompleta: ma è importante capire che tutto questo è tenuto insieme da ciò che abbiamo detto in precedenza.

«Dal dodicesimo al quindicesimo secolo, molti dei singoli principati territoriali tedeschi, sia secolari sia ecclesiastici, avevano sviluppato istituzioni politiche e giuridiche di grande raffinatezza, paragonabili a quelle del diritto regio d’Inghilterra, di Francia o del regno normanno di Sicilia. Essi avevano istituito tribunali centrali professionali così come cancellerie e tesorerie centrali, con un’organizzazione amministrativa stabile. Un moderno sistema di diritto penale e civile, con una procedura giudiziale basata sulle cosiddette prove razionali in contrasto con le più 6

risalenti prove cosiddette formali, consistenti nell’ordalia e nel giuramento, era stato introdotto a fianco degli istituti giuridici consuetudinari ritagliati sulla base delle istituzioni tribali germaniche. Come il diritto canonico della chiesa, lo sviluppo del diritto dei territori tedeschi durante i secoli quattordicesimo e quindicesimo attinse sempre di più alla terminologia e ai concetti del diritto romano dotto, soprattutto quando i giuristi tedeschi cominciarono a ritornare dai loro studi nelle università italiane e francesi e il diritto romano, come il diritto canonico, prese ad essere insegnato nelle nuove università istituite nella Germania stessa. In un più ampio schema, la struttura politico-giuridica della Germania nell’anno 1500 era essenzialmente simile a quella che era emersa nel resto d’Europa dopo la Rivoluzione papale. Essa si basava sul dualismo delle giurisdizioni ecclesiastica e secolare e sul pluralismo delle giurisdizioni interne alla sfera secolare. Si basava inoltre sulla gerarchia interna ad ogni sfera potestativa. Questo modello politico-giuridico si era conservato per quattro secoli. C’erano indubbiamente al suo interno delle forti tensioni. Una di queste consisteva nella crescente competizione tra i poteri ecclesiastici e secolari — aggravata in Germania dal ruolo duplice dell’imperatore, come superiore di tutti i suoi soggetti imperiali, da una parte, e alleato spirituale del papa, dall’altra. Un’altra era la crescente competizione fra la regalità e la nobiltà feudale — aggravata in Germania, ancora, dalla competizione fra l’imperatore ed i principi. Con l’elezione dell’imperatore Massimiliano I, nel 1493, ci fu un’espansione del potere e della giurisdizione imperiali, che minacciò di ridurre ulteriormente l’autonomia di vari principi, soggetti gerarchicamente all’imperatore stesso»

C’è una tendenza tutt’altro che incontrastata nell'Impero ad espandere le competenze del sovrano.

«Una dieta convocata da Massimiliano nel 1495 stabilì a Landfriede, che dichiarava per la prima volta che il diritto romano doveva essere il diritto positivo secolare dell’impero —benché non dei principati territoriali separati e delle città non imperiali entro l’impero— e che per la prima volta istituì una corte imperiale per applicare quel diritto e per udire gli appelli delle cause giudicate in prima istanza dalle corti principesche e dalle corti delle città imperiali, nel limitato numero di casi disciplinati dal diritto imperiale»

LE PREMESSE PER LA RIFORMA PROTESTANTE

Testimonianza, confessione, giuramento, etc.6

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La situazione estremamente frammentaria vede come controparte una tendenza all'unificazione giuridica. L’idea è che il diritto romano potesse e dovesse diventare il diritto comune dell'Impero. In questo contesto nasce il Tribunale Camerale Imperiale, che applica il diritto comune e, se ne viene provata l’esistenza, anche le consuetudini. Questo è vero soprattutto a partire dall'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo che porta in dote con sé i territori ereditati dagli Asburgo (ad es. il Ducato d’Austria e tutte le terre assoggettate agli Asburgo) ed anche l’eredità borgognona (in quanto erede della dinastia dei duchi di Borgogna); qualcosa di simile d’altronde accadrà con suo nipote Carlo V che 7

erediterà le terre asburgiche e borgognone, le terre spagnole, i domini castigliani e aragonesi in un periodo storico di massimo splendore per l'Impero. Un altro problema sono i rapporti interni all'Impero: le tensioni tra spirituale e secolare, dovute anche al fatto che non di rado i vescovi esercitassero nei grandi principati ecclesiastici funzioni secolari. D’altra parte la Curia Romana esigeva il pagamento di cospicue tasse ecclesiastiche per le spese generali della stessa e per la sua politica estremamente dispendiosa (sia in termini di guerre sia da altri punti di vista). Il potere ecclesiastico esigeva il pagamento di cospicue tasse che non si fermavano in Germania ma venivano fatte confluire a Roma ad esempio per costruire la Basilica di S. Pietro. D’altra parte in questo momento vi sono tensioni di altra natura: allo Scisma di Occidente si era posto rimedio con una serie di concilii; nondimeno era sorto un ulteriore problema legato all’affermazione del primato papale. Infatti, i papi medievali non avevano preteso di essere semplicemente i Vescovi di Roma e i Patriarchi dell’Occidente latino, ma avevano altresì preteso di essere concretamente i giudici della Chiesa universale, la cui autorità era al di sopra di qualsiasi autorità umana. Ad un certo momento, la situazione storica vide l'affacciarsi di tre papi tutti riconosciuti dalla comunità cristiana e convinti ciascuno di essere l’unico Pontefice legittimo. Dal momento che nessuno poteva giudicare il Papa (come già letto nel Dictatus Papae), si uscì a fatica da questa situazione, con la convocazione dei Concili di Costanza e di Basilea; il problema era a quel punto che i Concili si trovavano di fatto a giudicare della legittimità dei Papi, così ponendosi in una posizione di superiorità rispetto agli stessi stessi: proprio queste idee vengono espresse nelle tesi conciliariste, che —molto discusse— si affacciano nel Quattrocento. In questi concilii si affacciano anche numerose richieste di far cessare i molti abusi di carattere morale (es. prelati investiti di una diocesi ma che risiedono stabilmente a Roma, lasciando il popolo a se stesso). D’altro canto il popolo non partecipava alla vita della Chiesa se non in forme devozionali; o meglio, vi era tenuto distante (basti pensare a tutte le liturgie che erano in latino, una lingua non compresa dai più).

LA «RIVOLUZIONE PROTESTANTE» Queste tensioni giungono fino al XV secolo senza essere pienamente risolte, ma al contrario per certi versi esasperandosi da un lato nelle contraddizioni politiche e dall’altro nelle tensioni spirituali interne che non trovano soluzione, ad onta degli sforzi posti in essere dalla Curia. Questi sforzi, infatti, vengono minati dal fatto che coloro che dovrebbero assicurane il successo in realtà sono in un modo o nell’altro legati agli stessi abusi, direttamente o indirettamente, di cui tanto ci si lamenta. Da un lato c’è una grande spinta devozionale, una grande tensione religiosa da parte dei fedeli; dall’altro le autorità che per secoli si erano fatti interpreti di questi bisogni ora non riescono più a svolgere le loro funzioni, anzi, in qualche misura si frappongono come un ostacolo tra Dio e i fedeli. È in questo contesto che nasce quella che noi chiamiamo riforma luterana (o protestante) e che Berman invece definisce come la «seconda rivoluzione» —successiva a quella papale— che segna la storia della tradizione giuridica medievale. Ancora una volta però si tratta di una rivoluzione che nasce nell'ambito spirituale. Passiamo ora alla figura di Lutero. Berman è uno dei pochi a segnalale e a prendere sul serio un dato biografico: Lutero, infatti, non fu soltanto monaco agostiniano; prima di tutto egli proveniva da una famiglia che si occupava di miniere ed era stato avviato dal padre agli studi giuridici di diritto civile, che ad un certo punto egli abbandonò, protagonista di una sorta di conversione, paragonabile a quella di San Paolo. Si dice, infatti, che Lutero fosse quasi ucciso da un fulmine che, durante un temporale, gli cadde vicino e che avesse conseguentemente deciso di monacarsi. In sostanza Lutero si fa monaco da

In quanto nipote di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona. Si attribuisce a lui la frase, 7

assai espllicativa: «sul mio Impero non tramonta mai il sole»

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adulto e in modo imprevisto, suscitando con tutta probabilità l’irritazione del padre. Egli però si inserì in una tradizione monacale, quella agostiniana, che si rifà alle opere di Sant'Agostino e ciò non è irrilevante per capire il pensiero luterano. Egli, giurista mancato, una volta monaco è avviato agli studi teologici e diventa professore universitario di teologia (così come molti dei protagonisti di questa seconda rivoluzione saranno professori universitari). Nella sua veste di teologo Lutero fa quello che facevano i professori del suo tempo: legge e commenta testi autorevoli rimanendone pur tuttavia insoddisfatto. Al tempo di Lutero si faceva teologia non tanto sulle Sacre Scritture, che avevano perso la loro centralità, ma sulle opere di dottrina dei teologi: era in fondo quello che si stava verificando parallelamente nelle facoltà giuridiche dove le glosse e i commenti al Corpus di Giustiniano cominciavano ad avere la meglio sui testi originali. Lutero di tutto questo non è soddisfatto: egli è “agostinianamente” angosciato dal problema del male, che egli risolverà affermando che è la fede in Dio più che le opere buone a salvare gli uomini, in questo rifacendosi alla Lettera ai Romani di San Paolo, nel Nuovo Testamento. Infatti, originariamente tutti gli uomini sono peccatori e nessun uomo meriterebbe di essere salvato; soltanto la fede in Dio può salvare; fede che non può essere mediata o trovata fuori da Dio stesso . Indubbiamente, l’idea di Lutero era più vicina a quella dei Vangeli: Gesù 8

non parla mai di «opere buone» che salvano ma semplicemente di «fede»; i predicatori che giravano per le città e per le campagne invece insistevano molto sulle opere buone (es. l’elemosina). Lutero, che era in fin dei conti un professore, fa una cosa molto semplice quanto usuale: a fine ottobre 1517 dichiara pubblicamente di voler discutere una serie di tesi, che egli comunica al suo vescovo e affigge sulla porta della chiesa di Wittenberg. Le tesi di Lutero non sono affatto ardite ma in qualche modo mettono a fuoco il vero problema: il ruolo della chiesa e se possa esistere la giurisdizione ecclesiastica come elemento di mediazione tra Dio e l’uomo. Nell’ottobre 1517 le idee di Lutero improvvisamente diventano oggetto di pubblica discussione in tutta la Germania; lette discusse e commentate, esse circolano dappertutto e quella che originariamente era una piccola disputa universitaria si trova assai molto rapidamente ad animare il dibattito di mezza Europa. Ciò che in realtà dice Lutero è straordinario: se l’uomo non ha bisogno di una mediazione ed è sufficiente che egli creda in Dio per essere salvato, allora si può fare a meno della giurisdizione ecclesiastica. È altresì necessario che l’uomo possa leggere e interpretate da solo i testi sacri. La parola di Dio deve essere resa disponibile nella lingua che l’uomo conosce, dovendo restare scevra da interpretazioni e mediazioni: non poteva già restare in una lingua come il latino capita da pochi. L’effetto di tutto questo è liberante. D’altra parte se la giurisdizione ecclesiastica non serve più, la Chiesa non dovrebbe affatto più avere tutte le proprietà ed i beni di cui gode (un terzo circa di tutte le proprietà immobiliari tedesche), i quali invece servirebbero alla giurisdizione secolare per proteggere l’uomo nel mondo terreno. Il problema di Lutero a questo punto non è la riforma dei costumi corrotti (già ci avevano pensato altri); d’altronde le idee di Lutero non sarebbero cambiate nemmeno se il Papa fosse stata una persona buona: il problema invece è dottrinale. Il Papa non ha più ragione d’essere perché il Papato non ha mai avuto ragione d’essere; tutto sta nell'interpretazione delle Sacre Scritture, le quali andrebbero rilette così come sono e intese nel loro autentico significato, lasciando da parte tutto l’apparato di glosse e commenti con cui erano state interpretate. Lutero in sostanza propone un esercizio di critica filologica nei confronti della Bibbia: in realtà prima di Lutero già Erasmo da Rotterdam aveva richiamato l’attenzione sul testo greco della Bibbia, la quale era stata invece conosciuta per tutta l’epoca medievale attraverso la Vulgata in latino di San Girolamo, dal momento che pochissimi erano coloro che riuscivano a comprendere il greco antico . In Lutero c’è una 9

Al contrario, in quel momento la teologia prevalente metteva un fortissimo accento sulle opere 8

buone più che sulla fede: tanto le opere buone erano ritenute importati da credere che potessero salvare anche altri e non già soltanto coloro che agivano; le opere buone infatti sono così sovrabbondanti rispetto a ciò che è necessario per essere salvati che è possibile che ne beneficino anche coloro che non le abbiano compiute. Queste opere costituiscono un tesoro di meriti; conseguentemente la giurisdizione ecclesiastica può attingere a questi tesori e distribuirli a sconto delle pene degli uomini.

Erasmo fu il primo a riscoprire il testo greco ed a pubblicare una edizione filologicamente curata 9

del Vangelo in greco, in quanto il Nuovo Testamento era stato scritto tutto in greco, non in latino. Fu il primo ad insistere perché la teologia tornasse a basarsi principalmente sul testo originale, senza per questo trascurare la versione della Vulgata.

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esigenza, che non possiamo che definire umanistica, di ritorno alle fonti. Un aspetto è estremamente interessante: prima che una necessità teologica, il ritorno alle fonti è stata una necessità giuridica. Infatti, quell'umanesimo che si era espresso in Erasmo e Lutero si era già manifestato tra i giuristi nei confronti dei testi giuridici.

L’UMANESIMO GIURIDICO: UN PROBLEMA DI FONTI, DI METODO E DI GENERI Parlare di umanesimo significa capire che cosa sia l’umanesimo giuridico. Iniziamo tuttavia col dire che cosa umanesimo giuridico non è. L’espressione stessa di «umanesimo giuridico» è equivoca, prestandosi a plurimi fraintendimenti: potrebbe infatti farci ritenere che l’oggetto del nostro discorso sia l’Umanesimo e che l’aggettivo “giuridico” sia solamente una specificazione di quest’oggetto. Al contrario, l’umanesimo giuridico non è il risultato nel campo del diritto di un movimento nato fuori dal diritto (es. l'influenza dell'Umanesimo sul diritto). L'umanesimo come noi lo conosciamo non nasce dopo, ma con il diritto: proprio il diritto è stato il terreno di coltura dell’umanesimo sotto molteplici aspetti. La scienza giuridica sviluppa molto precocemente una sua dimensione umanistica; i giuristi avvertono molto presto la necessità di rimettere in discussione un metodo e le loro stesse fonti in modo tale da far fare alla tradizione giuridica un passo nuovo e non ancora compiuto: Bartolo in un discorso che pronuncia in occasione del dottorato di suo fratello rivendica per il diritto un ruolo centrale, pretendendo di dire che la scienza giuridica, sola fra le scienze —con l’eccezione forse soltanto della teologia— non è tale in virtù del sostegno offertole da altri saperi (come ad esempio dalla filosofia); al contrario è la scienza giuridica che offre il proprio sostegno alle altre scienze, non fosse altro perché la scienza giuridica è deputata a giudicare della legittimità delle altre. Si tratta di una rivendicazione molto forte che ci fa comprendere come Bartolo stia tentando di confermare per la scienza giuridica un posto centrale nella gerarchia dei saperi che evidentemente non era più così scontato. A partire dal Trecento e ancora di più nel Quattrocento si sviluppa un dibattito nel mondo dei dotti che ha come proprio nucleo centrale il problema di capire quale sia la relazione fra le varie scienze e, in particolare, quale sia il ruolo della scienza giuridica tra esse: è il dibattito che Eugenio Garin ha definito la «disputa delle arti» e che è in realtà anzitutto una disputa sul diritto. Il posto centrale del diritto, così sostenuto dai giuristi, è messo in dubbio ad esempio dai medici, i quali dicono che mentre la medicina serve alla salute degli esseri umani il diritto serve solo a punire i delinquenti. Questo dibattito, che durerà a lungo, in realtà affonda le proprie radici proprio nel Trecento e a fronte delle critiche mosse dagli altri sapienti i giuristi reagiscono pretendendo di collocare il diritto in una posizione di vertice affinché le altre scienze se ne servano anziché esserne servite. Il dibattito ha delle conseguenze molto importanti: ci si chiede, infatti, chi possa consigliare l’uomo politico, se il giurista o qualcun altro; quali siano i saperi importanti per il governo dello Stato, se quello giuridico o altri. Il problema si ripresenta anche nell’epoca odierna, quando si tende a pensare l’economia —e non più il diritto— quale sapere importante per il Governo. Il vero problema in tutto questo è dato in realtà dalla tradizione giuridica occidentale, la quale fino a questo momento si era andata costruendo —come abbiamo visto— in certe forme, attorno a certe fonti, secondo certi metodi, producendo opere di certi generi; sennonché quello che viene messo in discussione nell’umanesimo giuridico sono proprio le fonti, il metodo e i generi letterari! Quanto alle fonti, i giuristi medievali si erano occupati di testi autoritativi identificati nei due Corpora Iuris (civile e canonico); ma che garanzia c’è —ci si chiede in questo momento — che i testi che si leggono e si attribuiscono a Giustiniano siano davvero corrispondenti a quelli che l'imperatore del VI secolo volle che venissero scritti? In realtà ci sono degli elementi per dubitare di questa corrispondenza: i testi giustinianei che circolano nelle facoltà giuridiche sono spesso diversi l’uno dall’altro; inoltre, quando abbiamo la fortuna di disporre di un manoscritto giustinianeo molto antico scopriamo che esso contiene un testo molto diverso da quello giunto fino a quel momento attraverso gli studi universitari . 10

Il problema è forte: d’altronde potrebbe darsi che le glosse di cui il digesto è stato riempito si riferissero non già al testo originale ma a quello corrotto che circolava nelle università. Sul versante canonistico le cose non vanno meglio: in un passaggio del Decreto di Graziano è contenuta la Donazione di

Si è d'altronde già ricordato che Del Digesto, ad esempio, abbiamo un manoscritto del VI 10

secolo, la c.d. Littera Fiorentina, il quale è sensibilmente diverso dal testo del Digesto circolante nelle università.

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Costantino, l’atto giuridico attraverso cui —secondo la tradizione precedente— l’imperatore Costantino, malato di lebbra e miracolosamente guarito da Papa Silvestro, avrebbe lasciato in eredità alla Chiesa rilevanti porzioni dell'Impero; questo testo, come abbiamo già detto, era stato assai discusso dai giuristi medievali, i quali erano interessati a giudicarne la legittimità (i.e. se Costantino potesse validamente disporre), producendo risposte alternative —Bartolo si espresse obtorto collo in senso affermativo. In questo momento invece ci si comincia a chiedere non più se la Donazione sia un atto valido o meno ma se sia un atto autentico ovvero un falso. E nel Quattrocento un professore di retorica di Pavia, Lorenzo Valla, dimostra che Costantino non ha potuto redigere quel l’atto il quale allora è un falso; Valla, nella specie, prova che la Donazione è stata compilata da qualcuno che visse molto dopo Costantino senza avere le conoscenze di come la cancelleria imperiale scrivesse e redigesse gli atti all'epoca dell'Imperatore donante : il latino del documento non può, infatti, essere lo 11

stesso latino che si parlava IV secolo. La Donazione di Costantino si scopre invece essere un falso dell'VIII secolo, redatto —oggi sappiamo— per difendere la Chiesa romana dallo strapotere dei Franchi e dei Longobardi. L’autenticità dei testi diviene allora un problema: a partire da Valla un testo è autentico se proviene da colui che si dice esserne l’autore e non più —come accadeva nel Medioevo— se è inserito in una tradizione. Quanto al metodo, la critica si rivolge ai testi giuridico come insegnati nel Medioevo. I testi giuridici nel Medioevo, infatti, venivano insegnati per mezzo del professore universitario che apriva il libro e cominciava a leggerli (da cui appunto lectio) a voce alta e a spiegare le singole parole, proponendo quaestiones; non già tuttavia cercando di capire il senso delle parole del testo in relazione al momento in cui esse erano state scritte —non importava, infatti, ai giuristi dell’età medievale matura il problema 12

del senso storico delle parole usate—: ciò peraltro determinava fraintendimenti anche gravi oppure ha semplicemente la pretesa di spiegare, anche fantasiosamente, la storia . 13

Quanto ai generi letterari, la critica si rivolge alle opere medievali, le quali non avevano mai osato mettere in discussione l’ordine dispositivo dei libri legali. Le lezioni si svolgevano leggendo un libro dopo l’altro così come si trovavano nel Corpus Iuris Civilis o Canonici e non si è mai tentato, invece, di ricostruire complessivamente un istituto, un problema giuridico o il diritto nel suo insieme —nonostante nelle opere di Giustiniano ci fosse qualche cenno a tutto questo (ci si riferisce ad esempio alle Institutiones, le quali sono divise in 4 libri che dal punto di vista tematico seguono la tripartizione personae, res, actiones). L’organizzazione giustinianea che pur poteva avere un senso rimase semplicemente un dato estrinseco e gli stessi studenti faticavano a padroneggiare una disciplina così sparsa. Di questo metodo in realtà i giuristi del Duecento e del Trecento —Accursio per la glossa e Bartolo per il commento— diventano agli occhi degli umanisti l’espressione e l’incarnazione. Sicché è

Un redattore che ignora addirittura come fossero fatte le insegne imperiali che Costantino nel 11

testo dice di consegnare al Papa

Fa eccezione Irnerio. Di lui sappiamo poco ma tra le altre cose ci giunge una sua glossa 12

(Digesto, libro I, titolo III, L.32) ad un passo di Giuliano che dice che consuetudine e legge stanno sullo stesso piano, l’una essendo volontà del sovrano, l'altra essendo volontà del popolo: sicché una può abrogare l’altra. Nel Codice (Libro VIII cap VIII) Costantino dice che la consuetudine è importante ma che non può vincere la legge. Nella glossa suddetta Irnerio propone come spiegazione che da Giuliano a Costantino le cose sono cambiate: si tratta di un’interpretazione storica.

Nel Digesto Libro I Titolo II c’è un lungo frammento di Pomponio che è una sorta di storia del 13

diritto romano dai re di Roma fino a Giustiniano. Ad un certo punto nel frammento si racconta della cacciata dei re e si pone il problema della legislazione successiva. Secondo Pomponio non sapendo come fare i romani avevano cercato di imparare dai greci, che godevano di una grande tradizione di legislatori; in una glossa di Accursio si dice che i greci, dubbiosi che i barbari romani meritassero le loro leggi avrebbero mandato un sapiente a interrogarli; il sapiente giunto a Roma dal momento che non parlava latino, metteva in imbarazzo i romani, paventando di fare brutta figura i romani fecero allora parlare il sapiente con un pazzo: il sapiente alza un dito per significare che dio è uno; il pazzo crede che il greco voglia cavargli un occhio apre in risposta tre dita; il sapiente capisce invece che Dio e uno e trino; il sapiente allora ritiene i greci intelligenti.In realtà la storia ha un senso: ci fa capire che per i medievali il diritto nato nell’età romana era essenzialmente un diritto cristiano.

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inevitabile che quando si comincia a mettere in discussione quel preciso metodo, bersagli delle critiche diventano altresì gli autori che lo incarnano.

LA «FASE SCETTICA» DELL’UMANESIMO GIURIDICO Inevitabilmente la polemica è allora prima di tutto rivolta contro (o a favore di) certi autori: ci sarà chi sostiene il pensiero di Bartolo e chi invece lo combatte (o dichiara di farlo): la tendenza più ovvia è quella di dividere i giuristi tra bartolisti (conservatori) e anti-bartolisti (innovatori), anche se nella realtà dei fatti le cose non stanno proprio così. Infatti è innegabile che gli stessi autori che criticano Bartolo per il metodo lo lodino invece per altri aspetti. Indubbiamente ci sono degli scontri, delle tensioni, delle polemiche che cominciano molto presto, sopratutto ad opera di una personalità piuttosto battagliera come quella di Lorenzo Valla. Il Valla dal punto di vista accademico non era certamente un giurista, insegnando retorica: nondimeno egli da un lato ha uno strumentario tecnico filologico che gli permettono di contestare l’autenticità di un testo come la Donazione di Costantino e dall’altro la vis polemica sufficiente per attaccare in modo molto rude il più grande giurista del Medioevo, ossia Bartolo da Sassoferrato. Lo storico del diritto Domenico Maffei ne Gli inizi dell'umanesimo giuridico (1956) parla di Lorenzo Valla a più riprese; ricordando le polemiche che gli umanisti rivolgono ai giuristi Maffei scrive

«Più violente e più acrimoniose sono invece le critiche rivolte alla giurisprudenza medievale da altri umanisti [l’autore ha appena parlato di Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni] nella prima metà del Quattrocento. Alludiamo, prima di ogni altro a Lorenzo Valla, al quale non si può non attribuire il titolo di vero iniziatore della polemica contro gli interpreti medievali e dell’anti-tribonianismo . Nel marzo del 1433 il Valla allora professore di retorica in quello studio 14

pavese, il cui ricordo ricorre più di una volta nella storia dell’umanesimo giuridico quattrocentesco, componeva uno dei suoi scritti più esplosivi, tale in effetti da provocare una reazione che lo costringeva ad abbandonare Pavia e riparare a Milano. Trattasi del libellum composto —pare in una sola notte— per confutare la sciocca affermazione di un giurista che accecato d’amore per Bartolo aveva sostenuto potersi anteporre a qualsiasi opera di Cicerone anche un trattatello bartoliano come il De Insigniis et Armis. La risposta del Valla, sotto forma di epistola inviata a Pier Candido Decembrio fu impegnata: il tono e la sostanza dello scritto ricordano molto da vicino il Proemio del De Verborum Significatione, —un’opera di Maffeo Veggio che sarà segnalata qui appresso— e appare evidente che le parole di un umanista come quelle del Valla sono frutto di uno stesso ambiente intellettuale, di comuni discussioni, di una posizione culturale fondamentalmente identica. […] Gli strali si appuntano principalmente su Giustiniano»

Maffei a questo punto cita alcuni passaggi piuttosto violenti di Valla contro Bartolo.

«Perciò gli dei ti facciano del male o Giustiniano ingiustissimo: tu che hai con abuso trasformato la potenza dell'Impero Romano a danno dei romani e dei cittadini buoni e illustri. […] Al posto di

Sulpicio, di Scevola, di Paolo, di Ulpiano e degli altri cigni che la tua aquila [simbolo dell'Impero] in modo crudelissimo ha ucciso sono succedute le oche Bartolo, Accursio, Cino e altri uomini di quel

genere che non parlano la lingua romana ma una lingua barbara; che non hanno civiltà di costumi ma una rozzezza agreste e rustica » 15

Lorenzo Valla invoca la maledizione di Dio contro Giustiniano; lo stesso Imperatore che Dante aveva messo nel Paradiso. I giuristi romani sono rappresentati come dei cigni, uccisi dall’aquila, simbolo dell’Impero; al loro posto sono succedute le «oche» rappresentate dai giuristi medievali; proprio le oche sono gli animali che starnazzano e —intollerabilmente— assaltano e beccano i passanti. I giuristi medievali sono rozzi, volgari e tutto sommato disonesti. Valla si chiede come si può essere interpreti del diritto se non si conosce il latino classico, perché usi ad un latino invece diverso da quello delle fonti, invece involgarito. Se i giuristi non padroneggiano più il latino allora, secondo Valla, non sono più in grado di leggere le loro fonti e finiscono per fraintenderle. Occorre allora ricostruire la conoscenza linguistica: cioè che i giuristi re-imparino il latino rifacendosi ai modelli classici e mettendo invece da parte Bartolo e i giuristi medievali. Occorre altresì che i giuristi ritornino a leggere i testi così come

Si ricorderà che Triboniano era il Ministro di Giustiniano, sotto la cui cura era stato compilato il 14

Digesto.

Si ricordi, solo per esempio, che la parola feudum non era una parola del latino classico.15

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sono scritti avvalendosi non più di glosse, commenti e consilia ma semmai di altri strumenti, come la conoscenza della letteratura classica (Livio, Tacito, Seneca, Aulo Gellio e gli storici romani più tardi ). Il testo non più circondato da glosse e commenti va letto e ricostruito così come è, magari partendo da quella Littera Florentina di cui si è parlato e che sta nel palazzo di un principe —bartolianamente tirannico—, amico di Poliziano, che si chiama Lorenzo De' Medici e che all'amico renderà la Littera disponibile. Possiamo dire che il primo atteggiamento degli umanisti è fortemente critico nei confronti della tradizione ma non si dovrebbe estremizzare il concetto; nell'opera di Valla la polemica è pur completa, ma nel Contra Bartolum Valla elogiava altri giuristi con un metodo a lui più affine. Tutti quanti gli umanisti avvertono la necessità di fare passi in un’altra direzione. Infatti, il bisogno di rinnovamento è palese. L’aspetto di scetticismo nei confronti della tradizione è reale ed è per questo che in fondo Berman nel suo libro parlando dell'umanesimo giuridico parla di una sua «fase scettica»: scettica nei confronti di una tradizione nella quale non crede più fino in fondo. Questo ha delle conseguenze alquanto importanti, che possiamo comprendere anche soltanto ciò che abbiamo accennato circa il diverso atteggiamento nei confronti della Littera Florentina. Fino a questo momento si considerava la Littera come una reliquia: non già un oggetto d’uso, ma un oggetto la cui sacralità, derivata dalla fonte, prevaleva sulla sua utilità, tale per cui nessuno avrebbe potuto permettersi di metterne in discussione l’ordine ma tuttalpiù domandarsi della sua ragione. Per gli umanisti invece, proprio perché Giustiniano fu «ingiustissimo» si può dire che la Littera perda della sua sacralità e che si abbia il diritto di scomporne il testo e di ricomporlo nel modo che ci appaia più comprensibile. Ma, d’altra parte, se la fonte stessa non è sacra, come potranno essere sacre le opere degli autori che hanno interpretato e glossato quella fonte? Ovviamente questo non determina che quei testi e quelle opere possano essere rifiutati: sicuramente però possono essere criticati anche in modo aspro. Si capisce però che cosa tutto questo voglia dire in realtà: tutto un mondo di certezze viene meno; ogni volta che sorge un problema non ci si può più solo affidare alla tradizione, ma occorre criticamente ricostruire da zero (o per lo meno non più guardare acriticamente alla tradizione): l’argomento ab auctoritate non vale più. La necessità sentita è quella di costruire qualcosa di nuovo, in cui magari i testi siano sempre gli stessi di prima: se, infatti, è vero che si va alla caccia di giuristi che sono stati tralasciati dal Digesto, si trovano d’altra parte pochissimi individui; per il resto i “mattoni” da cui costruire sono sempre gli stessi; semplicemente è nella costruzione precedente che non si crede più: con gli stessi mattoni si costruirà piuttosto un edificio nuovo.

LIMITI ALL’IDEA DI UNA «FASE SCETTICA»: LE TESI DI CALASSO E MAFFEI Gli umanisti muovono una critica alla tradizione giuridica così come si era venuta a formare nei secoli precedenti. Siamo in quella che per Berman è l’«età scettica» dell’umanesimo giuridico. Si tratta tuttavia del momento che più si presta ad equivoci: leggendo gli interventi degli umanisti che hanno partecipato al dibattito di allora si può notare una forte matrice distruttiva nei confronti della tradizione. Già l’epistola del Valla in cui l’autore critica i «presuntuosi giuristi» che preferivano le opere minori di Bartolo a quelle di Cicerone contiene degli elementi di violenza particolarmente accesi: Valla paragona i giuristi a oche, contrapponendoli ai cigni, autori dell’età antica. Altri umanisti parlano di giuristi come “chiacchieroni”, “uomini nati per l’aratro” e così via. L’equivoco sta in questo: tali critiche tendono a sottacere il vero rapporto che tutti i giuristi umanisti hanno con la tradizione che stanno criticando. D’altronde se noi ripercorressimo le fonti della tradizione giuridica medievale troveremmo critiche severe mosse da un giurista ai suoi predecessori (non è questa infatti una prerogativa dell'età umanistica): ma ciò non impediva ai giuristi critici di avvalersi comunque delle opere dei predecessori da loro criticati. Le critiche avevano sicuramente l’obiettivo di prendere le distanze da certe idee ma non già quello di respingere tutto ciò che quei giuristi criticati avevano fatto. In età umanistica le critiche si intensificano ed impressionano molto il lettore per la violenza, contribuendo a dare un’immagine della scienza giuridica dei secoli XV e XVI dicotomicamente divisa in due campi: con da una parte gli umanisti autori di critiche e dall’altra gli autori medievali colpiti da quelle critiche. Una lettura siffatta è prevalsa per molto tempo nella storiografia del diritto. Invero, questa dicotomia si rivela una insoddisfacente divisione di tipo ideologico. Concretamente infatti le cose non sono proprio così come sembrano: in modo abbastanza paradossale quegli stessi giuristi umanisti innovatori assumono largamente la tradizione che pur criticano: se in un passaggio criticano i glossatori, in un altro passaggio sposano in modo adesivo le loro tesi.

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Che senso ha allora la divisione in due schiere? Forse che non dobbiamo credere a ciò che questi giuristi hanno scritto? Dobbiamo attribuire al loro atteggiamento distruttivo semplicemente il senso di una ostentazione, che maschera in modo ipocrita un’adesione? Nemmeno questo sarebbe corretto da dire. Le fonti di cui ci serviamo, infatti, vanno prese seriamente: non possiamo leggere una fonte già pensando che la stessa sia ipocrita, perché così facendo rischieremmo di non capirla fino in fondo. Dovremo invece dire che ad un certo punto la tradizione giuridica entra in crisi e cessa di essere nel modo in cui era stata fino a quel momento venendo sostituita da una cultura che non è più di origine italiana ma che germoglia e matura sopratutto nel Regno di Francia. Fino agli anni Cinquanta del Novecento si tendeva ad escludere dallo studio della storia del diritto una visione dell'umanesimo giuridico che non fosse dicotomica: a partire da quegli anni si è invece (assai gradualmente) imposta una nuova visione, che ha come suoi padri Domenico Maffei e Francesco Calasso e secondo la quale è necessario ricostruire l'epoca dell'umanesimo giuridico in modo diverso. Francesco Calasso nei suoi studi dedicati al diritto comune (specialmente nell’Introduzione al diritto comune) intende l’espressione umanesimo giuridico in un modo totalmente nuovo, riferendosi con essa non tanto al Quattrocento e al Cinquecento, ma soprattutto ai secoli undicesimo e dodicesimo: l’età di Irnerio e dei primi giuristi. Secondo Calasso infatti quella è stata la vera età umanistica in quanto proprio momento la tradizione giuridica medievale si è costruita avendo come base e come fine l’uomo, l’essere umano («un diritto hominum causa»). Di queste visioni non sono ancora oggi state recepite di tutte le conseguenze —d'altronde affermare che al centro del diritto nell’età medievale vi potesse essere l’uomo e non Dio si pone in contrasto con quella vulgata storiografica medievale, senza dubbio sbagliata, che sostiene il teocentrismo della cultura medievale. Quando Calasso propone questa idea lo fa in modo rivoluzionario; Calasso chiude la sua Introduzione al diritto comune con un capitolo intitolato In orbem terrarum, affermando che in quella che era sempre stata classificata come l’età della crisi del diritto comune, lo stesso si sia proiettato fuori dall’Europa, prima di tutto nel nuovo mondo, ma anche in Inghilterra (dove pure anche oggi si dice erroneamente non essere mai arrivato il diritto di tradizione occidentale), con Arthur Duck. Domenico Maffei ricostruendo tutto il dibattito umanistico afferma l’impossibilità per lo storico di dividere i giuristi nelle due categorie suddette: infatti uno stesso autore spesso è umanista in certi passi; legato alla tradizione medievali in altri. Uno degli esempi più interessanti, su cui non sono mancati scontri, è Alberico Gentili. Il Gentili, giurista nato a San Ginesio, fa parte del non piccolo gruppo di giuristi italiani del XVI secolo che aderì alla riforma protestante . Alberico Gentili per molto 16

tempo è stato classificato come un sostenitore convinto del vecchio metodo medievale, basandosi sopratutto sul suo dialogo De iuris interpretibus; nondimeno egli è anche autore del trattato De Iure Belli 17

(1398) che appare schierato evidentemente su posizioni umanistiche. Maffei ci propone allora di abbandonare lo schema dicotomico, semplice quanto falso, e considerare invece ciò che ogni singolo giurista dice e fa. Maffei non voleva semplicemente —come qualcuno ha pur detto— costruire un tertium genus accanto alle categorie di umanisti e sostenitori della tradizione; egli proponeva di fare a meno delle categoria umanisti-non umanisti, e di prendere sul serio gli autori cercando di capire da ciò che scrivevano il loro reale rapporto con la tradizione giuridica. Le idee di Calasso e Maffei non furono recepite facilmente: la tradizione storiografica era restia e poco coraggiosa a mettere da parte ciò che si era sostenuto fino a quel momento; inoltre c’era un problema legato allo stato delle fonti giuridiche medievali, che —come già visto— mancavano di edizioni critiche (o se ve n’erano, si trattava di pochissimi esemplari): in questo senso sono stati fatti molti sforzi. Nasceva nel Cinquecento la stampa che permetteva una riproduzione in modo più economico dei libri: quando un libro è stampato d’altronde possiamo prescindere dal manoscritto. Le opere però erano piene di annotazioni poste ai margini (c.d. marginalia) che rinviavano ad altre opere: orbene, in moltissimi casi i marginalia non sono mai stati letti. Il fatto di non disporre di edizioni critiche né per le fonti medievali né per le fonti moderne e che anche le fonti moderne perché non disponibili in edizione critica fossero almeno in parte illeggibili significava non avere la possibilità di legare il pensiero espresso nel testo nelle sue radici.

Motivo a cagione del quale dovette andarsene insieme al padre ed al fratello dall’Italia alla volta 16

della Germania, prima di insegnare ad Oxford come Regius professor di Civil Law.

Che costituirà la base per il De Iure Belli ac Pacis di Ugo Grozio17

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Prima degli anni Sessanta del Novecento nessuno si occupò mai seriamente di questo problema: tra le prime imprese si ricorda la pubblicazione dell’edizione critica dei Sei libri dello Stato (Les six livres de la République) di Jean Bodin (1576, opera scritta in francese ma tradotta dieci anni dopo in latino), curata da Margherita Isnardi e dal suo allievo Diego Quaglioni. Nell’edizione critica dell'opera del Bodin sono stati individuati e raccolti tutti i marginalia, ripercorrendo la strada percorsa al suo tempo dall’autore. Tutto ciò ha permesso gradualmente di superare l’idea di umanesimo giuridico che la storiografia tradizionale aveva tramandato. Tramite Calasso, Maffei e queste edizioni critiche oggi possiamo considerare l'umanesimo giuridico come un movimento di pensiero caratterizzato da una relazione con la tradizione, che non è soltanto critica ma anche di prosecuzione. È chiaro che una visione di questo tipo di costringe a fare a meno di modelli storici consolidati, come quello che contrappone umanisti e medievali, quello affine che contrappone bartolisti agli anti-bartolisti e quello che contrappone i seguaci del mos italicum ai seguaci del mos gallicum (cioè gli umanisti). Gli stessi autori che praticano il mos gallicum infatti seguono anche il mos italicum; molti anti-bartolisti citano e sposano le tesi di Bartolo, ecc. Tolta di mezzo questa classificazione non ne abbiamo sostituito una nuova: ma abbiamo ottenuto di abbandonare un metodo storico che presentava alcuni problemi. LA «FASE ASSIOMATICA» DELL’UMANESIMO GIURIDICO Il modello proposto da Berman nel suo libro cerca di spiegare seriamente la critica alla tradizione (la c.d. fase scettica) e al contempo presentare l’aspetto costruttivo dell'umanesimo giuridico e il modo in cui esso si inserisce nella tradizione. Secondo Berman, ad onta degli innegabili cambiamenti, le linee di fondo restano le stesse: quella distinzione fra secolare e spirituale caratteristica della rivoluzione papale resta anche se il modo in cui essa si declina è cambiato in funzione del tempo e del luogo. Il problema è tenere insieme continuità e cambiamento, che sono entrambi elementi presenti. D’altronde tutto questo era accaduto nel undecimo e dodicesimo secolo, in cui i giuristi bolognesi avevano costruito le loro idee sui testi giustinianei del sesto secolo: ma ciò non implicava che la tradizione del sesto secolo e quella del dodicesimo fossero la medesima per il solo fatto che i testi erano rimasti gli stessi (così come è impossibile dire che il diritto civile degli anni Quaranta sia lo stesso di oggi per il solo fatto che il codice civile è il medesimo). Berman dice che successivamente alla fase scettica, l’umanesimo giuridico conosce due fasi costruttive: la fase assiomatica e la fase sistematica . Vero è che i tentativi più costruttivi si fanno più numerosi quando è meno immediata la 18

necessità di criticare la tradizione.

«La seconda fase dell'umanesimo giuridico fu avviata nei primi decenni del Cinquecento da una nuova generazione di giuristi umanisti. Come gli umanisti della prima fase, i rappresentanti della nuova scuola proclamavano e praticavano un orientamento filologico nello studio del diritto criticando molto —benché non tutto— della precedente scienza giuridica per la sua supposta rozzezza e per la sua trascuratezza nell’interpretazione dei testi giustinianei»

Si tratta di un tentativo di leggere i testi situandoli nella cultura in cui questi erano stati composti. Il che non era l’atteggiamento di giuristi medievali, i quali usavano i testi per piegarli ai bisogni della realtà storica. L’effetto è curioso: si sviluppa una tecnica filologica raffinata per capire un testo ma una volta che lo si fa il testo non “serve” più (come avere in casa una sedia che, dopo essere stata usata quotidianamente per molto tempo, si scopre essere di età antica e non la si utilizza più).

«I giuristi umanisti della seconda fase, tuttavia, andarono oltre i loro predecessori in due aspetti: primo, essi semplificarono il diritto con l’escludere ampi settori delle analisi tradizionali, e, secondo, disposero e interpretarono le singole norme giuridiche secondo princìpi e concetti più stringenti. Così il più scettico orientamento storico-filologico fu sostituito gradualmente da un più positivo metodo di sintesi, per mezzo del quale particolari settori del diritto e particolari questioni giuridiche ricevettero una trattazione più organica in termini assiomatici»

Non si tratta di una divisione necessaria, ma di una lettura particolare che nemmeno è troppo 18

gradita a Zendri

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Questi giuristi certamente hanno fatto propria la tensione critica tipica anche dei giuristi dell'età precedente, ma hanno anche fatto qualcosa di nuovo. a) la sacralità del testo nella sua interezza e integrità viene meno, in quanto di tutto il complesso

interessano solo determinate parti; b) non interessa più leggere il testo nell’ordine in cui è stato disposto dalla tradizione perché si intuisce

che esso poteva aveva un senso soltanto nel VI secolo (l’ordine del “diritto perpetuo”); non è allora più necessario leggere tutto ed in quell’ordine e si cominciano a leggere degli estratti di principi ed assiomi relativi ad un determinato problema: si fa qualcosa che è molto più vicino alla costruzione dei nostri manuali di diritto privato, i quali non seguono pedissequamente l’ordine del codice civile, ma trattano di specifici problemi.

«Il nuovo stile assiomatico del pensiero giuridico che venne gradualmente avanti (quantunque il precedente stile storico-filologico abbia continuato ad essere importante e, in diversi paesi, addirittura a prevalere), andò oltre il chiarimento testuale. Non i testi, e non le glosse ai testi, ma i princìpi giuridici e i concetti giuridici divennero il punto di partenza dell’analisi giuridica»

Fino a questo momento la glossa e il commento erano stati definiti in un certo modo: ora ciò che conta è non più il testo ma il principio giuridico contenuto nel testo; una volta individuato il principio giuridico sotteso al testo, si può ben fare a meno del testo stesso.

«Allo stesso tempo, e per lo stesso motivo, l’enfasi sul Digesto di Giustiniano, con la sua congerie di migliaia di opinioni giuridiche concernenti l’applicazione di particolari norme giuridiche e casi particolari lasciò il posto a una nuova enfasi sulle Istituzioni di Giustiniano, che essendo un breve manuale introduttivo ad uso degli studenti, fissava nei suoi contenuti una somma di princìpi generali, benché mal definiti e malamente disposti»

Al giurista che si accosta alla responsabilità per fatto illecito non interessa più il celebre caso della palla e del barbiere, ma i principi sottesi alla lex Aquilia. In questo modo viene aumentato l’interesse per le Istituzioni di Giustiniano, a scapito del Digesto e del Codice. Le Istituzioni diventano il modello, il testo a cui tendere o meglio da cui partire per costruire un testo migliore e più efficace. Si comincia, infatti, a seguire un ordine che si presenta più facilmente accessibile e comprensibile per gli studenti che stanno muovendo i loro primi passi. È prova dell’interesse per le Istituzioni il fatto che oggi i corsi che introducono a partizioni del diritto si chiamino Istituzioni (es. di diritto privato, ecc). D’altronde l’opera fondamentale di Giovanni Calvino, composta proprio in questi anni, è l'Institutio Christianae Religionis. Anche in questo momento storico la riforma del diritto si accompagna alla riforma degli studi giuridici: d’altronde questo è un tratto caratteristico della tradizione giuridica occidentale, dove il diritto ed il modo in cui esso è insegnato, lungi dall’essere due cose diverse, si legano strettamente. Da un lato, infatti, il modo in cui il diritto si presenta nei testi giuridici influisce sia sul modo in cui si può insegnare sia sul metodo di insegnamento; dall’altro, quando il modo di intendere il diritto cambia, muta di conseguenza anche il metodo di insegnamento. Sicché, se nell’epoca precedente grande importanza era stata data alla dottrina anche a cagione del fatto che il Digesto era il testo principale da cui partire, quando cambiano i testi e l’interesse sugli stessi allora anche il metodo della glossa e del commento diviene insoddisfacente e prende piede un nuovo metodo, volto alla ricomposizione dei testi originali. Non è un caso che cambi anche lo stile dell'insegnamento: il che non implica l’abbandono completo dello stile precedente; significa che agli strumenti fino ad allora utilizzati se ne affiancano dei nuovi, che sostituiscono solo parzialmente i vecchi. È il problema del mos gallicus e del mos italicus (in iure docendi et in iure studendi).

«In questa seconda fase della rivolta contro la scolastica del diritto, i giuristi umanisti svilupparono un nuovo stile nell’insegnamento del diritto, chiamato mos iuris docendi gallicus, stile “gallico” (vale a dire francese), che si opponeva al preesistente ("bartolista") mos iuris docendi italicus, lo stile italiano nell’insegnamento del diritto. (Di fatto, lo stile “gallico” ebbe corso in molte università italiane e lo stile “italiano" continuò ad essere in uso in molte delle università

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francesi). Il mos gallicus tendeva ad escludere le glosse dal curriculum, abbreviandolo perciò considerevolmente»

Se il diritto deve essere studiato passando in rassegna tutte le glosse esso richiede allora un curriculum molto lungo. Senza di esse, ovviamente, il curriculum si accorcia.

«Esso diede inoltre risalto —com’era stato fatto nella prima fase dell’umanesimo giuridico— agli aspetti filologici e storici dei testi giustinianei, e all’uso armonioso della lingua»

La lingua dei giuristi medievali era considerata barbara. Si poneva il problema di comprendere in quale lingua il diritto dovesse essere studiato: il latino classico, reintrodotto con poco successo o quello tardo, considerato barbaro? O addirittura il volgare? A dire il vero erano già stati composti dei trattati sul diritto dei duelli in latino che, a cagione dell'interesse che provocavano nei confronti degli uomini d'armi — notoriamente non colti—, dovevano necessariamente essere tradotti in volgare: ma trattavano di aspetti marginali. L’opera di Bodin citata poco sopra invece riguarda per la prima volta un aspetto non marginale del diritto e viene scritta in francese.

«La sua più importante caratteristica però era quella di far sì che il professore partisse dai princìpi e dai concetti, per mostrare come essi dessero luogo a diverse applicazioni. Contrariamente alla scolastica del diritto i princìpi e i concetti degli umanisti, sia che fossero tratti dalle Istituzioni, sia da altrove, furono trattati come esterni al testo e come aventi una validità autoevidente»

Non si deve pensare che fino a questo momento i giuristi fossero stati inconsapevoli dell'esistenza di principi; piuttosto, quei principi si studiavano in quanto espressioni del testo autorevole. Era l’autorità del testo che stava a fondamento del principio; ed era l’autorità del testo che consentiva al giurista di fare il suo mestiere. Ora, proprio perché il testo può essere smembrato, quei principi non sono più autorevoli perché stanno nel testo, ma stanno nel testo perché sono autorevoli. Sono, come afferma il Berman, «autoevidenti». Sia chiaro: non siamo ancora nel giusnaturalismo moderno che concepiva il “diritto di natura”, ma la strada è quella. Il XV secolo non era certo un secolo in cui gli uomini non credevano: gli uomini del Rinascimento invece avevano addirittura intrapreso guerre per la religione.

«Così il mos gallicus, e generalmente l’umanissimo giuridico in questa seconda fase, rappresentarono un nuovo genere di logica giuridica, di natura più deduttiva, per cui le specifiche norme giuridiche si manifestavano come le necessarie conseguenze di princìpi e concetti autoevidenti»

Il modo di procedere dei giuristi del XIII e XIV secolo era legato ai testi e in qualche modo i concetti erano collegati tra loro come le tessere di un grande domino, senza una struttura piramidale. Ora invece l’idea di una struttura piramidale di concetti comincia ad affacciarsi, quasi a dare vita un diritto more geometrico concepito. Si comincia, cioè, a pensare che sia possibile derivare da questi principi generali auto-evidenti, in modo logico, dei principi e delle norme più particolari, e che sia possibile costruire e completare una piramide concettuale. In questo momento nasce l’idea di sistema giuridico; di un complesso logico deduttivo che dal generale va al particolare.

«Allo stesso tempo, i giuristi della seconda fase, in contrasto con gli umanisti della prima fase, furono in qualche modo più rispettosi verso i giuristi della scolastica: ne attaccarono il metodo, ma non esitarono ad accogliere molte delle loro soluzioni su specifici problemi. Per di più, molti, se non la maggior parte dei princìpi e concetti che alla mentalità umanistica apparivano come dotati di validità auto evidente, erano tali e quali i giuristi della scolastica li avevano trovati all’interno dei sacri testi» 19

H. Berman, op. cit., pag. 192 segg.19

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Ci accorgiamo anche del legame con la tradizione non soltanto all’atto pratico, in cui molte soluzioni dei giuristi precedenti vengono accolti. Ma anche perché alcuni degli stessi principi erano trovati dagli Umanisti nelle opere dei giuristi precedenti ancorché presentati in modo diverso: non più intesi come frutto del lavoro di sezione dei testi e di discussione argomentativa, ma come espressione di un’auto-evidente razionalità.

IL TRIUMVIRATO DELLA SCIENZA GIURIDICA MODERNA: ALCIATO, BUDÉ, ZASIUS Tutti questi cambiamenti e problemi trovano il loro momento di massima espressione grossomodo nei primi trenta e quarant’anni del XVI secolo: gli anni che preparano la riforma luterana e ne pongono le basi per i successivi sviluppi. Infatti assistiamo ad una serie di cambiamenti nel pensiero giuridico affatto scollegati con la riforma stessa: e questi cambiamenti sono riconducibili in modo esemplare (né casuale) a tre giuristi di tre nazionalità differenti (ciascuna delle quali aveva contribuito a creare la 20

tradizione giuridica occidentale), Italia, Francia e Germania: a) Andrea Alciato; b) Guillaume Budé; c) Ulrich Zasius. L’esperienza di questi tre giuristi (talora ricordati come il «triumvirato» della scienza giuridica moderna ) è interessante per varie ragioni: solo in questo momento era possibile immaginare una 21

simile costruzione. Sin dagli inizi della scuola bolognese molti studenti tedeschi erano confluiti nelle università italiane per studiare diritto, salvo poi tornare in patria.

(SEGUE): ZASIUS Zasius era legato all'Università di Friburgo, dove era insegnante di latino; egli arriva agli studi giuridici di diritto civile (impartitigli da un professore italiano) e diritto canonico (impartitigli da un professore tedesco) quando ormai è quarantenne: ancora in quel momento storico in Germania non c’era tuttavia una tradizione civilistica autoctona, cosa che era invece vera per il diritto canonico. Zasius sarà il primo giurista civilista tedesco di fama europea. Questi tre personaggi sono molto diversi tra loro, anche per orientamento culturale. Secondo Berman, che raccoglie in modo forse insoddisfacente una tradizione, dei tre Budé sarebbe il meno giurista e il più filologo. Sicché maggiore attenzione è dedicata nel libro all'Alciato e allo Zasius. Zasius era certamente il più legato alla tradizione giuridica italiana; era altresì il meno interessato allo studio storico filologico del diritto e più degli altri incline allo studio con finalità strettamente applicative; amico di Erasmo lo difese da una sommossa popolare anche in una questione relativa ad un pollo che questi si era fatto cucinare di venerdì, giorno in cui i canoni religiosi imponevano di mangiare di magro. Ciò nondimeno è Alciato che, per Berman, assume un ruolo principale.

«In realtà Budeo, come già Valla prima di lui, non era fondamentalmente un giurista ma un classicista. Zasius —malgrado Erasmo— attaccò senza pietà sia Valla sia Budeo: la loro ignoranza e la loro imprudenza nel “saccheggiare” le grandi opere dei giureconsulti romani non può “in alcun modo essere purgata”, scriveva Zasius nel 1518, “né con lo zolfo né con il fuoco”. La loro colpa è peggiore di quella di Adamo, egli scrisse ancora, perché: “non è bastato loro di metter le mani sul frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, come fece Adamo, ma hanno estirpato tutto l’albero dalle radici”. Zasius condivise con Valla e Budeo la fede in un “ritorno alle fonti”, la loro stessa avversione per la sostituzione dell’analisi dei testi originali con l’analisi delle glosse, e l loro stessa repulsione contro la “corruzione” della lingua latina ad opera della scolastica del diritto»

il problema della nazionalità non era stato un problema fino al XVI secolo, dal momento che 20

tanto il metodo quanto gli oggetti di studio erano pressoché i medesimi in tutte le università; le università erano organizzate per nationes, ma la provenienza nazionale degli studenti non si legava a delle specificità negli ordinamenti del pensiero giuridico, rimanendo rilevante soltanto da un punto di vista organizzativo.

in realtà i rapporti tra i tre giuristi erano complicati21

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Valla in fin dei conti diceva che avrebbe potuto in quindici giorni saperne di più di un giurista che aveva studiato per otto anni. Si diceva che i testi originali erano semplici e che erano i giuristi a renderli complicati.

«Ma Zasius era troppo giurista per insistere, come i primi umanisti avevano fatto, sulla semplicità dei testi originali, ed egli non aveva alcuna propensione, al contrario di quelli, a forzare le ambiguità testuali fino a farne delle contraddizioni»

I testi di Giustiniano erano pieni di contraddizioni, che già i giuristi del XIII secolo avevano cercato di appianare. L’atteggiamento degli umanisti, i quali erano interessati a desacralizzare i testi giustinianei, era invece quello di mettere in risalto le contraddizioni. Per Zasius invece, secondo Berman, questo non era importante: c’erano sì delle aporie del testo, ma lui non aveva interesse né a forzarle né a rendere le contraddizioni irriducibili: aveva semmai interesse ad appianarle. Né semplicità, quindi, né contraddizione esasperata.

«Richiedere che la sapienza giuridica sia esposta in maniera tale da essere chiara ad ogni lettore, scrisse Zasius, significa trattare la pagina del testo “come una prostituta che staziona nella strada, disponibile a chiunque le si accosti o (per meglio dire) le salti addosso”»

Viene fuori l’idea che il diritto non è una cosa per tutti.

«Zasius fu tuttavia molto più che un giurista dotto. Nell’università di Friburgo egli insegnò, dapprima, non solo diritto ma anche retorica e poesia. Le sue brillanti lezioni e i suoi scritti gli procurarono un vasto pubblico. Intrattenne una voluminosa corrispondenza con le maggiori personalità d tutta l’Europa. Fu amico di Erasmo. Occupò importanti cariche nel governo della città imperiale di Friburgo. Fu anche un appezzato pratico del diritto, e i suoi pareri legali sopra casi concreti furono pubblicati e circolarono in parecchi paesi. Forse il suo maggior contributo pratico fu la redazione di un’organica codificazione legislativa per la città di Friburgo; adottato nel 1520 il Freiburger Stadtrecht di Zasius servì da modello anche per altre città tedesche. Il posto di Zasius nella scienza giuridica è segnato da una serie di scritti, iniziata nel 1508, su specifici temi giuridici come da diverse trattazioni generali su sezioni particolari del diritto»

L’idea di Zasius è quella da un lato, come per tutti gli umanisti, di lavorare su questioni specifiche; dall’altro di non rinunciare a trattazioni generali sul modello dei commentari. Il modo in cui Zasius scrive è molto diverso tuttavia da quello dei commentatori tradizionali:

«Contrariamente ai giuristi scolastici, usualmente Zasius incominciava la sua analisi dai princìpi e non dalle autorità, e i soggetti che egli affrontò comprendevano non solo quelli che emergevano da specifici testi giuridici, ma anche questioni generali che trascendevano i testi e per le quali i testi servivano come esemplificazioni piuttosto che come fonti»

Ma qui Berman dimentica che già per Bartolo questo era vero

«All’opposto della scuola storico-filologica, Zasius era interessato non solo, e non in primo luogo, alla critica dei testi, ma anche e soprattutto ad elaborare concetti e princìpi giuridici generali e a mostrare le loro implicazioni nella soluzione dei problemi specifici che i testi esemplificavano. “La verità del diritto [Rechtswahrheit] scrisse Zasius, “è data solo dal testo stesso e dalla ragione, non dalle autorità dei dottori”».

(SEGUE): ANDREA ALCIATO L’altro giurista presentato da Berman con larghezza è Andrea Alciato. Milanese e studente a Pavia, l’Alciato praticò l’avvocatura e insegnò a Bologna e ad Avignione: egli una “star” del diritto che riusciva

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a richiamare alle sue lezioni universitarie anche Francesco I. Alciato in un certo qual modo unisce i pregi di Zasius e Budé: è sicuramente come Budé storico e filologo ma anche giurista, che come Zasius non dimentica l’obiettivo principale del diritto: risolvere questioni concrete. Al contempo la filologia di Alciato non è unilaterale; se molti giuristi umanisti imputavano a Giustiniano e ai suoi relatori il fatto di avere rovinato la tradizione giuridica romana, creando un’opera, il Digesto, peraltro mal scritta, con la quale erano stati costretti all’oblio i passi dei giuristi romani ivi non raccolti, Alciato (ed altri) si fanno invece carico di una difesa di Giustiniano, evitandogli le critiche più grossolane: per Alciato, infatti, il Digesto era comunque una grande opera, benché fosse consapevole che contenesse alcune aporie contiene sì aporie che però non tolgono il valore dell'opera in sé. Da un lato in Alciato c’era molta filologia; dall’altro c’è molta attenzione per come il testo si presenta: questo si lega al fatto che egli fosse un giurista pratico, avvocato di successo e autore —non già di consilia, ma di come era uso definirli— responsa . Tutti questi nuovi giuristi si misurano con il Digesto in maniera partciolare. Se i giuristi medievali procedevano alla lettura completa del Digesto; i nuovi giuristi si concentrano invece su alcuni titoli e su specifici problemi che per qualche ragione sono da loro ritenuti particolarmente importanti (Alciato per esempio si occupa nello specifico contratti). Il Digesto era come chiuso in due grandi estremi: i primi titoli erano dedicati a questioni generali; gli ultimi titoli erano in qualche modo riassuntivi: proprio questi ultimi diventano rilevanti per gli umanisti. Per i giuristi umanisti la regola non è semplicemente una norma da cui partire; ma un mezzo per fissare nella memoria i risultati di una precedente discussione: un punto di arrivo allora più che un punto di partenza.

(SEGUE): GUILLAIME BUDÉ Per capire meglio tutto ciò che abbiamo detto ed esemplificarlo guardiamo alcuni passi dall'opera più nota in ambito di giuridico di Budé , le Annotationes in Pandectas (1508). Il titolo figura due volte ma 22

in modo diverso: Annotationes in XXIV Pandectarum libros, poi Annotationes in libros Pandectarum. L’opera è relativamente antica: si tratta di un libro molto piccolo. Il fatto che le Pandette commentate siano ventiquattro (su cinquanta) non è casuale: si ricorderà infatti che nel Medioevo il Digesto era diviso in tre partizioni, delle quali il Digestum Vetus raccoglieva i primi ventiquattro libri. I primi ventiquattro libri nella tradizione giuridica hanno un senso, che per quanto fondato nel contenuto è storico. Se ne conclude che quando Budé decise di «annotare» il Digesto lo avesse fatto tenendo presente le partizioni tradizionali: questo ci dice che Budé, che pure non aveva lesinato critiche verso la tradizione, non la rifiuta in modo aprioristico, accogliendola anche in un dato —quello della partizione— che restava anzi senza una vera giustificazione. Il titolo dell'opera è tipicamente umanistico: addirittura Budé sceglie il termine greco Pandectae in luogo di Digestum. Dovendo tradurre in un latino medievale, il termine Annotationes indicherebbe le glosse: e proprio di un insieme di glosse al Digestum vetus si tratta, senza tuttavia che sia presente il testo originale; si tratta allora del genere letterario che nel medioevo era chiamato summa (insieme di glosse senza testo glossato) e che per gli umanisti diventa annotatio. Come si può vedere il testo contiene alcuni passi in greco antico:

Quasi assente nella tradizione medievale il greco viene recuperato dalla tradizione umanistica; d’altronde già nel Quattrocento si colloca la prima grande raccolta delle opere di Platone, le opere del quale erano prima quasi sconosciute. Le annotazioni cominciano prendendo le mosse dalla definizione di diritto.

Di Budé Berman parla pochissimo, accogliendo una discutibile tesi tradizionale nel mondo di 22

common law che vorrebbe il giurista francese un filologo ma non un giurista.

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Il punto di partenza di Budé non è il testo originale ma la glossa di Accursio. Pur nelle forme della critica alla tradizione il punto di riferimento resta comunque la glossa ordinaria: si dice spesso che i giuristi umanisti pretendono di leggere le fonti romane senza passare per la glossa, ma ciò non è del tutto vero; è vero piuttosto che detta glossa è criticata. Dovendo spiegare la definizione di diritto contenuta nel Digesto Budé si rivolge —in modo impensabile in precedenza— ad autorità come i grammatici antichi . Budé poi procede citando Terenzio, poeta antico che non rappresentava certo 23

una autorità per i giuristi medievali. Cita successivamente anche Paolo e Papiniano, dal Digesto; i giuristi precedenti citavano sicuramente i passi di Paolo e Papiniano, ma non si riferivano mai ad essi come brani di autori specifici (era il Digesto ad essere l’autorità, non i singoli autori dei passi ivi raccolti). Gli autori dunque vanno conosciuti perché il loro pensiero va compreso il relazione al tempo in cui il testo è stato scritto: ancora una volta vediamo come le autorità di per sé siano sempre le stesse, ma il modo in cui esse sono pensate è diverso : sono lette come testi prodotti da personaggi 24

storicamente individuati e quindi espressioni di un certo tempo storico; addirittura sono citate fonti greche, come Aristotele, direttamente in lingua originale.

LA «FASE SISTEMATICA» DELL’UMANESIMO GIURIDICO Cambia la grammatica del diritto e in parte cambia anche il vocabolario del diritto, arricchendosi di parole nuove e arricchendo di nuove sfumature le parole già esistenti: il panorama delle fonti del diritto cambia ed il giurista del XVI secolo può già riferirsi alla letteratura antica, usata come autorità per costruire qualcosa di nuovo. È significativo che in questi stessi anni e decenni Machiavelli scriva i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Se a questo aggiungiamo la potenza della stampa (che quando Budé opera si è affermata da all’incirca trent’anni), capiamo che tutta questa letteratura ha cominciato a circolare molto più velocemente; le biblioteche private dei giuristi non erano più formate da qualche libro ma ragionevolmente da centinaia e da migliaia di libri. Significa anche che il complesso di ciò che era possibile sapere era molto più grande e anche la necessità di leggere era molto più impellente. Il diritto non è più pensato come lettura di testi fissati dalla tradizione ma come insieme di principi da organizzare in un qualcosa di nuovo: un sistema. Prima dell'umanesimo non vi era infatti alcun sistema; con tutti questi cambiamenti si rende necessario pensare ad una disposizione del diritto in forme nuove: le Institutiones diventano in questo senso un modello autoritativo. L’ordine del Digesto non è più pensato come l’unico possibile; lo stesso Giustiniano ha legittimato un ordine differente. Questo accade in quella che il Berman chiama «fase sistematica della

I quali erano pur conosciuti nell’epoca precedente, ma le cui opere erano considerate 23

prodromiche

D'altronde questo vale anche per l’architettura e non già solo per il diritto: un palazzo del 24

Rinascimento come la Cupola del Brunelleschi ha gli stessi elementi architettonici delle opere precedenti (archi, capitelli, ecc); cambia il modo in cui essi sono concepiti e realizzati: es. non più gli archi gotici ma gli archi a tutto sesto. Si è preso un linguaggio e lo si è interpretato diversamente: non è certo solo un cambio di forma.

Il diritto è l’arte del buono e dell'equo; Accursio spiegando questo luogo pensa che una cosa sia il buono e un’altra sia l’equo; ma non lo spiega a sufficienza. Noi invece pensando che si tratti di cosa degna di nota abbiamo ritenuto di doverla spiegare più ampiamente. Secondo Donato il diritto è ciò che esige che tutto sia retto ed inflessibile e la equità e ciò che lascia cadere molto rispetto al diritto

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scienza giuridica», o usus modernus protestantorum . Berman traccia un nesso tra la religione 25

protestante dei nuovi autori e il loro essere giuristi: l’idea è che la fede religiosa abbia effetti sul modo di concepire la scienza giuridica. Ma quali erano i fondamenti della scienza giuridica precedente?

«La scienza giuridica scolastica che sorse tra la fine dell’undecimo e il dodicesimo secolo (1) classificava e analizzava norme giuridiche (2) tratte principalmente da testi autoritativi e da interpretazioni autoritarie di quei testi (3), ricavando da esse un insieme di concetti e di princìpi rispondenti a criteri razionali di tipo convenzionale» 26

In fondo la tradizione giuridica precedente aveva a proprio fondamento la fede in testi dotati di autorità. Da quei testi si muoveva per capire meglio, per ricavare le conseguenze delle parole ivi contenute; ora il modello cambia. Già autori come Budé, Alcesio e Zasius avevano estratto dei principi e concetti dai testi; quegli stessi principi sono spiegati e analizzati, legittimati con riferimento non più ai testi ma alla ragione dell'Uomo, alla sua coscienza. Qualcosa sta nel Digesto perché è ragionevole e non già è ragionevole perché sta nel Digesto. È come se tutta l’interpretazione fosse stata completamente capovolta: se prima si partiva dal Digesto, ora si parte da principi di carattere razionale. Possiamo immaginare di prendere tutte queste definizioni e concetti, disporli in un sistema logicamente coerente e utilizzare le autorità soltanto per sostenere dall'esterno questo sistema che già è in grado di reggersi sulle proprie gambe. Il diritto non deriva dal ma preesiste al Digesto, che al più lo consacra accogliendolo, ma sicuramente non lo crea. Il diritto umano è parte integrante della creazione divina: ogni essere umano in quanto creatura di Dio, ha delle conoscenze innate di ciò che è giusto ed equo del diritto. Proprio perché i testi del Digesto sono prodotto della volontà umana in essi troviamo le definizioni che ciascuno può trovare nella propria coscienza. Il diritto divino si cela in forme umane ed i giuristi hanno il compito di svelarlo. La coscienza, dal punto di vista protestante, è il supremo giudice dell’attività umana, perché ciascuno di noi è chiamato a salvarsi in virtù di essa e della propria fede. Se questo è vero si pongono dei problemi: (a) ricostruire il nesso che ci deve essere tra diritto umano e Dio; (b) verificare la coerenza tra ordinamento umano e diritto divino e trovare un metodo per interpretare correttamente il diritto. Questo metodo sarà nel mondo luterano quello topico.

IL METODO TOPICO Fra le personalità che, secondo Berman, hanno dato un contributo a questo nuovo metodo c'è Filippo Melantone, amico di Lutero e autore dei Loci communes rerum theologicarum . Di primo acchito, stando al titolo, quella di Melantone sembrerebbe un’opera di carattere meramente teologico: invero, anche se la teologia è l’argomento principale trovano spazio anche altre tematiche. In questa opera, infatti, il Melantone non si limita ad indicare i capisaldi delle dottrine teologiche luterane, ma enuncia altresì il nuovo metodo topico. Il termine τόποι in greco infatti corrisponde al latino loci, intesi non solamente come luoghi in senso fisico ma anche in senso intellettuale. In realtà la topica come disciplina non è affatto una invenzione di Melantone: già Aristotele e Cicerone avevano formulato teorie dei “luoghi” ossia elenchi di argomenti, per così dire, certificati e considerati attendibili, da usare nel corso dell’argomentazione come strumento retorico: il retore pronunciando i suoi discorsi poteva attingere a questi argomenti per costruire la propria argomentazione con più facilità ed appoggiarla su basi condivise. Si trattava, cioè, di uno strumento al servizio non già della dimostrazione quanto della prima fase della retorica, la c.d. inventio. Questa funzione antica non viene meno nell’opera di Melantone; nondimeno Melantone la estende al di là dei

Berman utilizza una parafrasi dell’espressione usus modernus pandectarum, che faceva 25

riferimento al metodo nuovo di leggere le Pandette affermatosi tra Cinquecento e Seicento in Germania. Quella di Berman non è una battuta: è una constatazione del fatto che questi nuovi autori per lo meno tedeschi sono protestanti.

H. Berman, op. cit., pag. 19926

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propri limiti: i loci melantioniani non sono più limitati alla fase della inventio (i.e. la ricerca degli argomenti) ma nella successiva fase del iudicium (i.e. il momento in cui l'oratore mette all’opera questi strumenti per produrre nuovi risultati). Questo è possibile per due ragioni: (a) da un lato i loci sono formulati come domande (es. qual è la definizione dell’oggetto di cui stiamo discutendo? Questo oggetto può essere diviso in genere e specie? Quali sono le cause? Quali gli effetti? Quali altri oggetti confinano con quello da noi prescelto?) che invitano a organizzare una risposta-definizione; (b) proprio per la loro generalità, i loci si prestano ad essere communes ossia comuni a tutte le discipline (non già solo teologiche). Ogni volta che ci troviamo di fronte ad una ricerca essa si può organizzare a partire da quelle domande. Ciò che è comune tra le varie discipline non sono tanto i contenuti ma il metodo con cui si aggredisce ogni disciplina. D’altra parte ogni disciplina non dispone soltanto di loci comuni a tutte le altre, ma anche di loci particolari (loci praecipui) in virtù del contenuto specifico che li caratterizza; pertanto per ogni disciplina troviamo domande specifiche relative alla disciplina stessa. Osserviamo anzitutto che il metodo di Melantone risulta dalla combinazione di una serie di domande comuni e di un’altra serie di domande specifiche per ogni disciplina: si salvaguarda la comunanza e la specificità dei saperi. In fondo la divisione tra loci communes e loci praecipui ci è famigliare: l’abbiamo già vista corrispondere allo ius commune e agli iura propria. Potremmo dire senza esagerare che qualcosa che era proprio in realtà della tradizione giuridica (il «sistema del diritto comune») diviene comune all’intera cultura occidentale: c’è l’idea che i vari saperi possono avere un metodo comune e al contempo mantenere una loro specificità. D’altra parte è vero che la divisione tra loci communes e loci praecipui è gerarchica (si tratta della divisione tra genere e specie). Questa combinazione che combina universale e particolare, come si diceva, non ha unicamente una funzione dispositiva —non si limita, cioè, a distribuire il diritto in uno schema generale—: da un lato la costruzione di questo reticolo di domande universali e particolari consente nella mente di chi ha ideato questo metodo di far risaltare la validità dei principi che, ad esempio, sono stati ricavati da quella ricerca di assiomi di cui si è parlato in precedenza. Il reticolo consente anche di colmare lacune presenti, costruendo, con la formulazione di nuove domande, nuovi principi e nuove risposte. Quindi la tradizione può essere riversata nello schema e lo schema stesso può contribuire non solo a disporre in modo nuovo principi tradizionali ma anche a produrre nuovi contenuti. Melantone vuole costruire un metodo che sia fruttifero, capace di produrre nuovi risultati: questo metodo trova applicazione in modo assai interessante in ambiti fino ad allora largamente ignorati.

I NUOVI RAPPORTI FRA GIURISDIZIONI ECCLESIASTICA E SECOLARE Il saggio di Berman dedica i capp. IV - V e VI rispettivamente al diritto penale, al diritto civile e dell'economia e al diritto sociale del tempo. Il «diritto dell’economia» è qualcosa di nuovo: se prima l’economia si intendeva come governo domestico; in questa accezione si vuole intendere che il diritto si occupa ora di un complesso di problemi che noi chiamiamo economici. Una parte delle ragioni per cui il diritto finisce per occuparsi di queste cose è anche legata a questo metodo. L’istituto di diritto civile più importante è sicuramente il contratto: conosciuto anche nelle epoche precedenti, il contratto era foriero di un problema: la distinzione, in base al diritto romano, tra contratto e nudo patto; il contratto in diritto romano non è un qualsiasi negozio giuridico, ma potevano configurare contratti solo una lista tassativa di rapporti interindividuali. Tutti quegli accordi che non rientravano nella categoria tipica dei contratti erano ricondotti nel novero dei patti. La grande differenza tra contratto e patto è che a fronte dell'inadempimento contrattuale è possibile agire in giudizio; i patti invece non sono azionabili (al massimo danno origine ad una exceptio). Questo schema, mai pienamente superato nella tradizione romana, si conserva nella tradizione civilistica. C’è una parte di tradizione giuridica occidentale a cui questa distinzione in forza della quale un soggetto può impegnarsi e poi impunemente rifiutarsi di adempiere non risulta soddisfacente: la tradizione che si rifà al diritto canonico. Pertanto per il diritto canonico i patti hanno efficacia obbligatoria, già solo per il disvalore sociale causato dal non rispettare la parola data. Questo è uno dei tanti casi di tensione tra diritto civile e diritto canonico: l’idea tutta canonistica che rinuncia alla distinzione tra contratti e patti subisce uno straordinario cambiamento con la Riforma. La Riforma nasce e produce una contrapposizione molto forte con la giurisdizione ecclesiastica: ciò che i riformatori non possono accettare è che la Chiesa non sia semplicemente il popolo dei santi in cammino verso Dio, ma sia invece un’altra autorità nella vita terrena.

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Secondo la tradizione giuridica medievale tutta la vita dell’uomo era regolata dal potere spirituale e dal potere secolare: due ordinamenti ciascuno con la propria giurisdizione, competenti per aspetti differenti magari della stessa attività. Le interferenze erano dunque numerose: di qui i tentativi di far valere ora l’uno ora l’altro aspetto davanti all’una o all’altra giurisdizione. Ad esempio, la giurisdizione sui contratti era competenza della tradizione secolare; però nella misura in cui la violazione della parola data configurava un peccato, il contratto finiva per essere di competenza esclusiva della giurisdizione ecclesiastica. La Riforma dove si afferma cancella l’autorità ecclesiastica: il governo della Chiesa su questa terra, infatti, spetta all'autorità secolare; ciò non significa cancellare il diritto canonico che esiste e continua ad esistere, assieme alla dottrina che lo interpreta, ma anzi la cancellazione della giurisdizione ecclesiastica determina che il diritto canonico sia applicato dalle corti secolari, le uniche assunte all’interno di uno Stato. La giurisdizione per gli accordi ora passa alle corti secolari, le quali cominciano ad interrompere la tradizione civilistica per cui patti e contratti sarebbero due cose diverse e a pensare che in fin dei conti patti e contratti possano essere pensati entro un'unica categoria generale ed aperta. La tradizione ecclesiastica viene assorbita, ma non cancellata, nei suoi contenuti: il diritto canonico viene trasferito e fagocitato dal diritto civile. Da questo punto di vista l’interesse è molto corrispondente al rigore tipico della mentalità protestante per cui la parola data va mantenuta. In qualche misura le categorie canonistiche estendono la propria efficacia al di là dei limiti tradizionali; d’altra parte le giurisdizioni secolari non debbono tenere conto solo del diritto canonico —non più ordinamento giuridico originario ma branca del diritto statale— ma anche delle consuetudini diffuse nelle varie regioni dove la loro autorità è esercitata. Naturalmente, si deve tenere altresì conto della dottrina di diritto civile diffusasi in Germania, prima al seguito del diritto canonico poi autonomamente dando così vita ad un ordinamento complesso in cui tutte queste componenti confluiscono. Fra l’altro, come sottolinea Berman, proprio il fatto che le giurisdizioni ecclesiastiche siano abrogate ed il diritto canonico, nella misura in cui sopravvive, sia amministrato dalle corti secolari vuol dire anche che dal punto di vista dei contenuti più spesso di quanto non si pensi vi è affinità tra le regioni che aderiscono alla riforma e quelle che non vi aderiscono. Uno dei grandi problemi giuridici della tradizione dei secoli XII-XIV riguardava il mutuo a titolo oneroso (in diritto romano chiamato usura); questo schema è sempre stato problematico giacché l'usura poteva essere gravosissima (un saggio di interesse al di là dei limiti del mercato può imprigionare il debitore in una situazione in cui non può uscire). La tradizione canonistica aveva adottato una posizione più radicale, sancendo l’illegittimità di un contratto simile sulla base della Sacra Scrittura: nel Vangelo di Luca capitolo VI versetto 35 Gesù Cristo dice: «mutuum date nihil inde sperantes», per cui si dovrebbe dare a mutuo senza aspettarsi alcun interesse; per il diritto civile invece la usura è lecita entro certi limiti. Immaginiamo due casi: (a) un mercante che intende partire per un viaggio commerciale con delle merci di poco valore, per comprare altre merci di altrettanto valore; per organizzare il viaggio si rivolge ad alcuni ricchi chiedendo loro un mutuo per finanziare il viaggio, al ritorno del quale spera di pagare il mutuo con gli interessi; il debito resterà sempre e comunque a prescindere dal successo o meno del mercante. (b) il contadino medievale, sempre ridotto alla fame, ha bisogno di grano e per comprarlo si rivolge a chi gli presta i soldi, con un interesse altissimo. Nei casi a) e b) i due soggetti si trovano in una situazione di necessità; apparentemente la situazione è la stessa: ma il mercante di solito è più solvibile del contadino e non ha certo bisogno di soldi per mangiare (posto che molti mercanti avevano assicurazioni). L’interesse finisce per sopravvivere sulla sopravvivenza della persona. I teologi giuristi hanno affermato che è pur vero che non si può chiedere un'usura; ma se io ho dato del denaro che è stato utilizzato per fare affari (che io a mia volta non ho potuto compiere) allora io posso ricevere un interesse sul lucro cessante. Non più di usura si parla, ma di interesse. Ma attenzione: la regola si aggirava dando in deposito il denaro, a titolo oneroso (c.d. deposito irregolare). Un altro caso interessante riguarda la dote: una somma di beni data in uso al marito da parte della famiglia della moglie per sopportare gli oneri del matrimonio. La dote, proprietà della moglie, era in realtà gestita dal marito; supponiamo per un momento che il padre della sposa non dia la dote al marito: il marito riceve un danno, dovendo mantenere la moglie e la famiglia; secondo i canonisti il marito poteva chiedere un interesse sul lucro cessante per mancato pagamento della dote. Grossomodo questo è quello che avveniva fino al XV secolo; d’altra parte è anche vero che se non si

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concede un minimo di compenso per il denaro dato a mutuo nessuno avrebbe prestato denaro . Inizia 27

a farsi strada l’idea per cui l'usura è inaccettabile se il tasso di interesse è eccessivo. Questa tradizione è stata a lungo pensata aver avuto origine in terreno protestante; oggi si crede invece più realisticamente che la stessa abbia avuto origine nel mondo cattolico, che l’ha in realtà elaborata per rispondere a tale problema partendo dall’istituto del Monte dei Pegni. Max Weber scrisse L'etica protestante e lo spirito del capitalismo dove sostiene che lo spirito capitalista —caratterizzato da individualismo e ricerca del profitto— nasce dall’etica protestante e calvinista; criticando questa posizione weberiana Berman dimostra che ciò che per Weber è tipicamente calvinista, nei fatti non lo è ed, anzi, che la distanza su certe questioni tra protestanti e cattolici è in realtà meno grande di quanto tradizionalmente si era pensato. C’è un nesso tra la dimensione spirituale e il pensiero giuridico, sia in ambito cattolico sia in ambito protestante. Un altro aspetto riguarda un istituto importante nella tradizione giuridica di cui in realtà è necessario parlare per le modifiche che ha subito nel corso del tempo: la proprietà. La proprietà è uno degli istituti giuridici fondamentali della tradizione giuridica occidentale: autorevolmente è stato detto che l'Ottocento è l’età dei «codici», fondati sul diritto di proprietà.

(SEGUE): IL DIRITTO DI PROPRIETÀ IN EVOLUZIONE Il diritto di proprietà nella concezione codicistica si caratterizza per la sua pienezza ed esclusività: al proprietario il bene appartiene pienamente, in tutti i suoi aspetti. Il proprietario può fare del suo bene ciò che vuole: può usare il bene come meglio crede ovvero abusarne; una delle manifestazioni più notevoli del diritto di proprietà consiste nello ius abutendi. D’altra parte il diritto di proprietà oltre che essere pieno è anche esclusivo, essendo il proprietario legittimato ad escludere chiunque altro dal godimento di quello stesso bene. Questo significa ad esempio che non ci sono tipi di proprietà: essa altresì non ha scadenze, tanto che il diritto è imprescrittibile. Addirittura laddove altri diritti reali (minori) incidano sulla proprietà si sostiene ancora la dottrina della compressione della proprietà. In molte legislazioni la proprietà è stata ricostruita come diritto naturale dell'individuo. Questa situazione non è scontata come può sembrare a noi che siamo abituati ad osservare la proprietà codicistica. La comunione è sempre proprietà: tanto che essa può in qualsiasi momento essere sciolta da uno dei comunisti, il quale ha diritto di richiedere la divisione. La comunione è allora una eccezione che la legge configura come temporanea, indesiderata e indesiderabile: lo scopo di tutto questo non è di consentire ad ogni proprietario di trarre utilità dal proprio bene ma di favorire la circolazione dei beni. In realtà le cose non sono mai così semplici: anche nel diritto moderno esistono proprietà che appartengono ad una collettività e che non sono disponibili (le c.d. proprietà collettive, o usi civici). La situazione si fa molto più complessa se spostiamo il nostro sguardo all’indietro, prima del codice Napoleone. Si scopre, infatti, che ai tempi il concetto di proprietà piena ed esclusiva non esisteva o quantomeno non era incontrastato. L’età del diritto comune è infatti l’età della pluralità dei dominii o del «dominio diviso»: non esiste un solo diritto di proprietà (dominium), ma molti diritti di proprietà aventi ad oggetto lo stesso bene (dominia): per noi questa cosa è abbastanza sconcertate. Non si sta dicendo che esistono più proprietari dello stesso bene, ma che esistessero diversi diritti di proprietà: è la distinzione che Paolo Grossi fa tra «dominio utile» e «domino diretto» e che residua oggi in relazione all'enfiteusi; il dominium utile affonda le sue radici (almeno nominalistiche) nel diritto romano, dove esisteva una actio utile; ma in questo periodo significa il dominio su una cosa da cui sono ricavabili più utilità: ogni utilità può essere allora oggetto di dominio (sono proprietario di un bosco in quanto ho diritto di farvi legna; un altro è proprietario dello stesso bosco in quanto ha il diritto di farvi pascolare; ecc). Ogni utilità ricavabile da un bene può essere oggetto di un dominium distinto e diviso da tutti gli altri domini. Ognuno dei domini ha la tutela e si inserisce in una catena di diritti, obblighi e relazioni estremamente complessa. Ogni utilità che si poteva tratte da un bene allora era suscettibile di diventare una forma di dominium, anche solo con il decorso del tempo. Da un lato allora c’è la valorizzazione estrema degli stati di fatto; dall’altra parte la diminuzione estrema della volontà del soggetto proprietario. In questa situazione ciò che importa sono sopratutto le consuetudini locali; conta cioè il fatto che da un certo bene si possano ricavare utilità molto diverse, quindi il fatto di esercitare un certo diritto ed il

Nella prassi va intanto affermandosi il contratto di pegno; anche per questo motivo che nacque 27

per volontà dei francescani il Monte dei Pegni.

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decorso del tempo fa nascere i suddetti diritti. Questa situazione era riconosciuta giuridicamente. Il dominus directus nulla poteva contro questa situazione; e i vari domini utiles potranno cedere o scorporare a loro volta il loro diritto. Ciò che conta è l’esercizio pratico e il tempo che passa e Che consolida questi diritti. La situazione comincia a cambiare in modo interessante verso la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo; a livello teorico il cambiamento si produce soprattutto a causa di un attore inaspettato sulla scena giuridica, Francesco d’Assisi e, dopo di lui, soprattutto il suo ordine. L’ordine francescano si costituisce a partire dagli anni venti del Duecento, con una sua regola definitiva approvata anche dal Papa, che pone l’accento sul problema della povertà intesa come assenza assoluta di proprietà: II francescano è povero in senso rigoroso, non dovendo cioè possedere beni di alcun tipo. Questo requisito poneva delle difficoltà non sempre facilmente superabili: il frate che mangia è proprietario del bene che sta mangiando? In realtà si perché il bene è consumabile; ma altri beni non consumabili (es. abiti) non potevano appartenere ai francescani. Quando S. Francesco scopre che al ritorno dalla crociata i francescani hanno acquistato una casa si narra che iniziò a distruggerla. Il fatto è che qualunque bene, decorso un preciso lasso di tempo, diventa proprietà di chi ne fa uso, anche se costui è un francescano. In merito interviene allora il Papa il quale stabilisce con una decretale (Qui seminat) che i frati, poiché non vogliono avere proprietà, di quei beni di cui pure godo hanno soltanto un usus facti (uso di fatto): la proprietà di quei beni è invece del fisco papale. Questo da un lato consente ai (tanti) benefattori di donare ai frati —i quali invece prima non potevano ricevere; dall’altro veniva incontro alle esigenze abitative necessarie per i frati. La volontà dei frati allora può cambiare il contenuto del diritto di proprietà escludendone la creazione anche laddove tutto sarebbe regolato dal tempo e dall'uso. La sottolineatura della volontà e del ruolo della volontà del soggetto (e quindi la diminuzione dell'importanza della consuetudine) si trova altresì nelle riflessioni dei grandi francescani del trecento (uno su tutti, Guglielmo da Occam). Sennonché la formazione filosofica volontaristica, tipica del Tardo Medioevo, è anche quella di Lutero per il quale la volontà diventa centrale, manifestandosi come fede in Dio e portando l’Uomo alla salvezza. La tradizione tardo medievale consegna a Lutero una dottrina religiosa che accentua in misura maggiore di quanto avvenisse prima il ruolo della volontà: non le azioni salvano, ma unicamente la fede. Allo stesso modo però anche nella dimensione giuridica è la volontà che viene accentuata, determinando l’astrazione dai testi degli assiomi, la loro disposizione, la costruzione di un sistema giuridico; la volontà del soggetto diventa centrale allora anche nel diritto di proprietà, ancorché in modo graduale. L’elemento della volontà gradualmente erode questa costruzione, privilegiando una volta di più il soggetto rispetto all’oggetto: se nella tradizione precedente ciò che contava era l’oggetto, le utilità che poteva produrre e la sua stessa natura sempre di più ora l’uomo con la propria volontà pretende di disciplinare l'oggetto, di governarlo interamente, di decidere se trarne utilità e quali trarne, in modo sempre più pieno ed esclusivo. D’altra parte tutto questo avviene in un panorama che non è più quello della giurisdizione del Duecento e del Trecento ma in un ambito in cui la giurisdizione è unita (quella civile ha assorbito quella religiosa), in cui le dottrine canonistiche sono strappate dal loro contesto originario. Quel complesso di riflessioni e quegli atti normativi, quelle dottrine (tipo il trattato di Bartolo) sono letti ora con occhi riformati, protestanti, pronti a cogliere l'aspetto soggettivistico. Gli occhi che sono ormai famigliari in un panorama giuridico dove la legge assume una importanza crescente. Tutto questo ha dei riflessi molto importanti sul modo in cui il diritto è pensato.

IL DIRITTO SOCIALE: UN ANACRONISMO? Se tutto questo è vero nell'ambito del diritto civile, tutto ciò è ancora più vero per quello che Berman definisce —in modo consapevolmente anacronistico— «diritto sociale» : in un momento in cui il 28

potere pubblico si disinteressava di ciò, la Chiesa aveva cominciato ad interessarsene. Una grande parte di ciò che oggi è disciplinato dallo Stato sfuggiva ai tempi all'amministrazione pubblica. Il Medioevo consegna all’età moderna una fitta rete di istituzioni di questo tipo (fondazioni di ogni genere, ospedali, ospizi, ecc). La riforma luterana incide moltissimo su tutto questo, cancellando la giurisdizione ecclesiastica: nella visione di Lutero la chiesa non è più l’altra autorità che su questa terra deve governare gli uomini insieme all'Impero; è invece al principe secolare che spetta il compito di

si tratta di una espressione invece venuta alla ribalta negli ultimi decenni.28

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governare sulla terra e anche le proprietà ecclesiastiche possono essere espropriate per diventare patrimonio pubblico. Il potere secolare è allora chiamato a farsi carico di una serie di compiti che prima erano assolti dalla Chiesa. La Chiesa luterana ha peraltro un altro problema: se il motto di Lutero era sola fides sola scriptura (dacché solo la Sacra Scrittura era parola di Dio), ciò determinava l’assenza di persone istituzionalmente ed esclusivamente deputate a fungere da mediatori tra Dio e l'Uomo, quali erano stati nella tradizione ecclesiastica i Vescovi e i sacerdoti. Il pastore protestante non è un prete; non ha una autorità ontologicamente diversa rispetto a quella degli altri fedeli. Ciascun fedele per Lutero ha il diritto e il dovere di leggere e interpretare la scrittura, non esistendo un ceto di specialisti che godono del monopolio di questa attività. Per questa ragione ancora oggi nella Germania luterana nelle camere di albergo si trova spesso la Bibbia: si presuppone infatti che ognuno la legga e la studi personalmente. I luterani, tutti quanti, debbono tuttavia saper leggere; se non sapessero leggere infatti sarebbero tagliati fuori dal messaggio di Dio; occorre dunque che il testo sia accessibile a tutti, sicché Lutero traduce —in modo egregio— la Bibbia in tedesco. Imparare a leggere allora non è più una cosa utile ad alcuni; diventa un'esigenza primaria di tutti. La scuola deve divenire allora pubblica: rapidamente gli Stati protestanti si interessano all'istruzione pubblica. Tutti questi aspetti che fino a questo momento erano interessanti soltanto per la chiesa diventano ora di interesse pubblico; gli Stati protestanti che hanno eliminato la giurisdizione ecclesiastica non sono affatto laici ma espressamente confessionali. Di tutto ciò di cui prima si occupava la Chiesa ora si occupa lo Stato. Lo stato interviene allora a riformare la liturgia che in qualche modo richiede una maggiore partecipazione dei fedeli. Pertanto la chiesa è strutturata in modo da consentire la partecipazione: i luterani insistettero molto su questo punto. La partecipazione è importante nel mondo luterano. Secondo Berman i cambiamenti sono soprattutto spirituali, che prodotti dalla riforma luterana si manifestano nel campo giuridico da una varietà di punti di vista, tra i quali quello sociale. In realtà il fatto stesso di parlare di un diritto sociale (o di una rilevanza sociale del diritto) presuppone un cambiamento. Un popolo, infatti, è una moltitudine di persone che vive regolata da un diritto. D’altro canto gli stessi popoli occidentali si identificano con la propria tradizione giuridica e ciò lo si riscontra in una varietà di situazioni apparentemente insignificanti . Ciò che Berman vuole dirci è che il diritto 29

in quel momento assume un rilievo diverso: si interessa di aspetti che noi oggi etichettiamo come «sociali» (istruzione, sanità, ecc), ma di cui il diritto secolare prima si disinteressava. Lo Stato diventa comunità di credenti, guidata dal principe, il primo della comunità. Venendo a mancare la giurisdizione ecclesiastica, quella secolare si occupa di materie a lei prima rimaste estranee: è il momento in cui si viene creando una certa visione del mondo per la quale sono giuridicamente rilevanti da un punto di vista secolare condotte che precedentemente non lo erano: la tradizione secolare riconquista spazi che o non aveva mai avuto o aveva perduto. Il classico esempio è il matrimonio: istituto giuridico antico, nei secoli precedenti a Lutero era di fatto appannaggio della giurisdizione ecclesiastica, non già perché i testi giustinianei non ne parlassero (anzi, il matrimonio era assai presente nella tradizione romanistica), ma perché sulla base di alcuni testi sacri esso era inteso —anziché come contratto— come sacramento, ossia come segno efficace della grazia divina. Il matrimonio, l'unione sponsale, nella tradizione canonistica riproduce tra uomo e donna la stessa relazione che c’è tra Cristo e la Chiesa. La chiesa soprattutto nel XII secolo aveva costruito un pensiero in merito ai sacramenti (che non sono sempre stati sette); il matrimonio non è semplicemente un istituto di diritto naturale declinato dal diritto civile, ma in quanto sacramento è oggetto precipuo della tradizione ecclesiastica. In tutto questo c’è un problema: il fondamento biblico su cui si baserebbe la tradizione teologica intorno ai sacramenti viene messo in discussione da Lutero. Non già che Lutero neghi l’importanza del matrimonio —egli era sposato; nondimeno, Lutero ne nega la natura di sacramento: è piuttosto qualcosa che egli definisce in tedesco weltlich (mondano, secolare). Il matrimonio è allora desiderabile e buono ma non per questo un sacramento; per Lutero gli appigli scritturali non erano sufficienti per 30

Si veda a tal proposito P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza. In esso Grossi immagina un 29

gruppo di persone che casualmente si trovano davanti ad uno sportello di un ufficio pubblico; immagina altresì che queste persone in attesa davanti allo sportello decidano di mettersi in fila uno dopo l’altro: in quel momento apparentemente insignificante invece nasce il diritto, rappresentato dalla semplicissima norma che quelle persone si sono date e rispettano.

Il più importante dei quali era rappresentato da Gesù alle nozze di Cana.30

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definirlo tale. Per Lutero il matrimonio torna ad essere un contratto e come tale ricadente sotto la giurisdizione secolare: questo implica che il matrimonio, svincolato dalla natura di sacramento, possa essere sciolto attraverso il divortium . Vi è una evoluzione grandissima da questo punto di 31

vista: un cambiamento molto profondo ed importante. Al contempo la giurisdizione secolare del matrimonio implica che il matrimonio (rectius: contratto matrimoniale) non rilevi più soltanto per gli sposi : se, infatti, il matrimonio perde la natura sacramentale e non impegna più in modo così forte la 32

volontà degli sposi, la comunità comincia ad esserne coinvolta in modo più netto e il consenso dei genitori degli sposi comincia ad avere peso. Questo è vero tanto nel campo riformato secolare quanto in quello cattolico: durante il Concilio di Trento, con grandissima fatica, si giunge a riformare la liturgia del matrimonio: si riconosce, infatti, che i matrimoni celebrati senza la presenza di testimoni sono matrimoni che se pur validi e veri tuttavia la Chiesa ha sempre detestato; sicché da quel momento in avanti chiunque tenterà di celebrare un matrimonio senza testimone è incapace di riuscirci. In qualche modo, allora, i versanti luterano e cattolico superano da questo punto di vista la tradizione: uno dei motivi per cui il Concilio di Trento arriva così tardi a disciplinare il matrimonio è che la pressione da parte degli Stati erano fortissime, volendo introdurre il consenso delle famiglie (il matrimonio era un problema di politica famigliare, spesso di politica tout-court); ma il Concilio resiste riaffermando la volontà degli sposi come unica rilevante. Un'altra delle prospettive da cui possiamo guardare a questo cambiamento molto profondo è quello dell'istruzione. In realtà il problema dell'istruzione non nasce per la prima volta nel XVI secolo (già nel medioevo nacquero le università); d’altro canto il cristianesimo si basa su una tradizione raccolta in un testo scritto, il quale ha bisogno di lettori. Pertanto per avere dei lettori c’è bisogno di una formazione generale e di una formazione anche più specifica, stante la precisa natura dei testi, la quale richiede un metodo, un certo tipo di cultura idonea ad acquisire una messe di nozioni. Occorre imparare il latino necessariamente: d’altra parte l'insegnamento è impartito in latino, giacché non esiste un linguaggio scientifico che non sia latino. Fin dalle sue origini la Chiesa ha avuto la necessità della predicazione, la quale si può fare solo basandosi prima di tutto sulle Sacre Scritture, che debbono essere lette (se non altro) dal predicatore: per questo era importante l’istruzione. Il problema è che questa istruzione non riguardava necessariamente tutti: il fatto che si sia andato formando un gruppo di ministri specializzati (vescovi, preti, diaconi, ecc) cui è demandato il compito primario di amministrare i sacramenti ed insegnare la parola di Dio, ha fatto si che l’istruzione fosse rivolta soprattutto a loro, ai futuri ministri. Si tratta ancora di una di quelle espressioni di mediazione fra Dio e l'Uomo che la Chiesa ha assunto. La mediazione può essere però occasione di contatto ma anche occasione di divisione (qualsiasi mediatore può, infatti, interporsi e dividere due persone). In qualche modo la tradizione ecclesiastica almeno fino ad un certo punto ha contribuito a separare Dio e l'Uomo, sia allontanando il semplice fedele dalla partecipazione diretta alla liturgia (la quale diventa affare del Clero) sia per la difficoltà della lingua: pertanto l’istruzione una volta di più finisce per essere rivolta esclusivamente al Clero e a raggiungere il semplice laico in modo molto molto blando . Tutto questo è difficile da 33

insegnare ed è molto più semplice se lo si fa su un testo meno problematico. La riforma introduce la necessità anche per i fedeli laici di accedere a quella stessa istruzione e ciò pone problemi nuovi: intanto questa istruzione non può essere affidata al Clero, che smette di esistere; non

Termine invero non sconosciuto al diritto canonico che lo intendeva in modo originale come 31

separazione personale tra i coniugi.

Come sacramento il matrimonio era concepibile solo in relazione alla volontà assolutamente 32

libera degli sposi. Prescinde dunque dalla volontà delle famiglie. Fino al raggiungimento della maggiore età si presumeva nondimeno che la persona non fosse capace di esprimere liberamente la propria volontà.

forse c’è una esagerazione nelle parole dette: in realtà il Clero ha cercato, talora con buon 33

successo, il ruolo di mediazione. Ne abbiamo tuttavia una immagine deformata, giacché non abbiamo più la visione dell'uomo medievale. Quando noi leggiamo i Vangeli troviamo storie diverse: allora si preferiva il Vangelo di Matteo a quello di Marco, l’ultimo dei quali era molto asciutto.

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può inoltre avvenire in latino ma in volgare. Certamente si fanno programmi didattici molto importanti, come i curricula preparati da Lutero e Melantone:

«In quelle città e in quei territori che accolsero il progetto di Lutero-Melantone, ai fanciulli delle scuole in latino, cominciando dal primo livello, dovevano essere insegnate la lettura, la grammatica latina e diverse preghiere; al secondo livello essi dovevano apprendere una grammatica più avanzata su vari autori classici ed umanistici, l’istruzione religiosa dai Salmi e dal Vangelo, il Padre Nostro, i Dieci Comandamenti, il Credo, versi di Terenzio, Plauto ed Erasmo, con le Favole di Esopo (che Lutero stesso tradusse); al terzo livello, gli studenti più progrediti dovevano studiare le opere di Ovidio, Cicerone, Virgilio, oltre ad apprendere la dialettica, la retorica e la poetica. A tutti e tre i livelli, tempo permettendo, dovevano essere insegnate la musica, la matematica, la scienza e la storia».

Risulta evidente da questi brevi passaggi che un tale tipo di istruzioni non si rivolgeva certo a tutti.

«Agli allievi si doveva insegnare a leggere, scrivere e far di conto, con qualsiasi testo fosse disponibile. Essi dovevano mandare a memoria i Dieci Comandamenti, il Padre Nostro e il Credo Apostolico, così come leggere i Salmi, cantare gli inni ed apprendere la storia biblica» . 34

C’è però una attenzione non più limitata a studenti privilegiati, ma anche ad altri che devono in qualche misura imparare su quello che hanno ossia sul libro dei Salmi (che contiene preghiere e poesie). A scuola non si impara solo a leggere, scrivere e a far di conto, ma anche certe virtù e una condotta; ad obbedire; ad essere composti; a governare le proprie emozioni. Non è infatti facile stare in un’aula scolastica: occorre disciplina. Si vanno forgiando delle nuove generazioni. Attraverso il maestro deve essere tramandata quella istruzione e quella condotta necessarie, che diventano oggetto di attenzione da parte di tutta la comunità e non solo del clero: anche la condotta morale prima era insegnata solo dal Clero; adesso la condotta diviene anzitutto un fatto della comunità. La stessa penitenza dei fedeli non è più un fatto individuale: Lutero in qualche modo ripristina il carattere comunitario della penitenza del peccatore. Ci sono delle liturgie penienziali comuni, cui la comunità è chiamata a partecipare. Ciò che interessa è il rapporto dell'individuo con la comunità stessa. L’accento si sposta da un ruolo di mediazione del Clero al ruolo della comunità, di cui ogni individuo è parte consapevole. L'assistenza ai poveri nei secoli precedenti la riforma si era andata sviluppando come attività del Clero; adesso le cose cambiano: non esiste più un patrimonio ecclesiastico ma l’assistenza ai poveri è compito fondamentale dell’autorità secolare. Allora, è la comunità che stabilisce chi siano i poveri e discrimina quindi chi deve essere assistito e chi no; e la comunità è assai più severa: dovendo finanziare l’assistenza ai poveri è poco incline ad assistere gli stranieri o ai nulla facenti. La tradizione pre-luterana aveva in qualche modo esaltato la povertà volontaria (si pensi alla tradizione francescana); questa volontà di povertà diviene nel mondo luterano assolutamente negativa: il povero che vuole esser tale è da condannare; anzi egli deve lavorare per uscire dalla sua condizione di povertà. C’è un progressivo irrigidimento della povertà. Sulla povertà c’è una legislazione che divide i poveri meritevoli dai poveri immeritevoli. Si tenta così di evitare il vagabondaggio, problema che è ancora attuale. Questo produce una nuova interazione tra diritto spirituale e diritto secolare: fino a questo momento il diritto spirituale e il diritto secolare si sono divisi per così dire la quotidianità, la vita quotidiana delle persone: nella sua vita ogni uomo era soggetto all'una e all'altra potestà per aspetti diversi. A partire dalla riforma la coesistenza non c’è più in questi termini: l’uomo è ancora fatto di spirito e carne ma questa dialettica è trasferita tutta all'interno di una dimensione unicamente terrena.

IL POTERE SECOLARE TRA DISCIPLINAMENTO E CONFESSIONALIZZAZIONE Si è già detto che l'effetto principale della rivoluzione fu quello di sopprimere nei territori dei principi che aderirono al luteranesimo la giurisdizione ecclesiastica e di ricondurre tutte quelle materie fino a quel momento sottoposte a quella tradizione alla giurisdizione secolare: vale a dire una sorta di unione

H. Berman, op. cit., pag. 34134

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nella stessa persona, il principe, di entrambi i poteri. Il principe acquista il diritto di disciplinare liberamente il culto nel proprio Stato. Questo determina la fine accertata dell’unità religiosa dell'Europa latina: fino a questo momento infatti essa era stata religiosamente uniforme (senza che questo implichi l’assenza di diversi culti eterodossi, talora repressi talaltra accettati). Ogni principe acquisisce il diritto di determinare la confessione praticata nel proprio territorio: questo non significa che l'adesione di un principe ad una determinata confessione (cattolicesimo romano e luteranesimo) implichi la completa soppressione dell'altro culto; si tratta del momento in cui la tradizione storiografica dice essere iniziata la costruzione dello Stato assoluto in senso moderno, in cui il Sovrano è svincolato dall'osservanza delle leggi regolando l’intera vita dello Stato stesso. Questi fenomeni sono stati interpretati in due modi differenti: da un lato una tradizione storiografica tedesca ha osservato che l’assorbimento della giurisdizione ecclesiastica da quella secolare produce un incremento del potere del principe, il quale ora può regolare in modo più ampio —e invadente— la vita dei soggetti (si parla a tal proposito di disciplinamento del potere pubblico). In questo senso, se noi accogliessimo l’idea di un disciplinamento dovremmo dire che l’autorità secolare assorbe e asservisce a sé la dimensione spirituale, facendone uno strumenti nelle mani del principe. D’altra parte un’altra interpretazione storiografica —anch’essa di origine tedesca—ha preferito parlare di confessionalizzazione, intendendo con ciò, che lo Stato (persona giuridica dotata di potere sovrano su un certo territorio) acquisisca una propria confessione religiosa. Si badi: è innegabile che anche nella tradizione dei secoli precedenti ciascun sovrano avesse la propria religione (cristiana) e concepisse sé stesso come tutore della Chiesa: nondimeno il problema non si era mai posto in termini di religione di Stato (in realtà nemmeno di Stato non si poteva ancora parlare), essendo in re ipsa che la religione fosse quella del cattolicesimo romano . La realtà che allora viene ad assumere lo Stato è a noi molto vicina: lo 35

stesso Statuto Albertino all'art. 1 affermava che la religione dello Stato italiano fosse quella cristiana. In queste visioni storiografiche sicuramente c’è qualcosa di vero: nondimeno, il rilevante ruolo svolto dalla religione in tutto questo rischia di venirne sminuito. Queste categorie storiografiche che danno alla «confessione religiosa» (espressione coniata in questo momento, implicante qualcosa in più di una religione) un ruolo eminentemente passivo, trascurano che la relazione fra Stato e confessione religiosa è biunivoca più che unilaterale: anche la confessione religiosa (e coloro che ne rappresentano il pensiero) svolge un ruolo attivo. Non è infatti vero che è solo l’autorità secolare ad appropriarsi di ciò che era spirituale; forse è più la religione che tenta di appropriarsi dell'universo secolare, cercando di conformare quella autorità a se stessa (l'adesione di un principe ad una confessione è spesso sincera). Conseguentemente anche tutte le riforme che conseguono a questa scelta fondamentale non sono una forma di strumentalizzazione; il principe si sente vincolato ad agire in un certo modo: a comportarsi in modo conforme alla religione che professa. Da un punto di vista religioso ci accorgiamo che è l’autorità secolare a doversi mettere al servizio del pensiero spirituale: la religione, infatti, serve a salvare gli uomini e a renderli migliori. Il potere secolare ha allora il dovere di mettersi a servizio della religione. Berman in particolare sottolinea questi aspetti dal momento che dal suo punto di vista l'esperienza spirituale è in realtà la vera ragione generativa del diritto. Parlare di disciplinamento, di confessionalizzazione e di secolarizzazione è soddisfacente solo a metà, giacché non dice nulla del ruolo attivo svolto dalla confessione religiosa. In fin dei conti l’esito della rivoluzione luterana per alcuni aspetti almeno sembra realizzare alcuni obiettivi che nella stagione storica precedente erano stati tipici dell’autorità secolare, mentre la Chiesa aveva preteso senza riuscirci di occuparsi in via esclusiva di certi problemi —es. il matrimonio—; ora sembra quasi che l’obiettivo si realizzi ma in forme nuove: non più nella forma per cui il Papa in quanto autorità spirituale potrebbe deporre l’imperatore e interferire dall’esterno alla legislazione secolare; in realtà l’obiettivo viene in qualche modo raggiunto dall'interno occupando degli spazi e presentando il controllo interno: il principe finisce per uniformare la propria azione alle pretese che vengono dalla confessione religiosa. La religione ha un ruolo importante, che si esprime in forme difficili. Questo mondo di relazioni, di pretese, di problemi e di risultati si scorge all’opera anche in un'altra regione dell'Europa: l’Inghilterra.

invero accanto al cristianesimo, ma non equiparato, vi era l’ebraismo. 35

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LA RIVOLUZIONE INGLESE E LA TRASFORMAZIONE DEL DIRITTO INGLESE NEL DICIASSETTESIMO

SECOLO LIMITI ALL’IDEA DI ALTERITÀ E DI CONTINUITÀ Gli inglesi hanno una fortissima coscienza della loro alterità, la quale si manifesta ora in modo banale ora in modo clamoroso. Questa alterità è nondimeno il prodotto di una ricezione storiografica del tutto inglese: sono gli inglesi ad essere fortemente convinti di essere diversi dagli occidentali, tanto da presentare il proprio ordinamento giuridico in forme diverse dalle nostre. L’idea di una radicale alterità dell'Inghilterra, ancora viva tra l’altro ai nostri giorni, comincia ad essere disegnata in modo molto efficace —e discutibile— soprattutto nell'Ottocento: furono i più grandi giuristi inglesi ottocentisti a sottolineare la divergenza tra sistema inglese e sistema continentale. La situazione inglese in realtà fonda le sue radici bene in profondità e precisamente nei secoli XV e precedenti: l'Ottocento non fa che certificare questo irriducibile carattere. La domanda che dovremmo porci è se questa pretesa alterità sia vera oppure falsa. La situazione inglese come si presenta nel XVI secolo ha caratteri ora comuni ora singolari: nessuno sembra dubitare del fatto che il common law in Inghilterra rappresenti una sorta di tratto costituzionale del Regno; ma questa cosa è stata detta talmente tante volte da risultare dubbia. Harold Berman si pone il problema del fondamento di una siffatta visione: se infatti noi guardiamo alla storia europea, inclusa la storia inglese, ci accorgiamo in fin dei conti di innegabili somiglianze; il Regno d'Inghilterra si costruisce abbastanza presto, con istituzioni sue proprie non troppo dissimili da quelle di tutto il resto del continente: anche in Inghilterra infatti c’è un Re che esercita il potere assieme al Parlamento e la stessa Magna Carta inglese contiene limitazioni che il sovrano si impone, come in Italia ha provveduto a fare la Pace di Costanza; anche in Inghilterra il Re pretende di esercitare un controllo sulla giurisdizione spirituale, la quale vuole reagire a questa pretesa. L’Inghilterra conosce d’altronde l’influenza degli studi giuridici iniziati a Bologna: studiosi di diritto di formazione italiana già nel XII secolo erano operativi con varie funzioni in Inghilterra; d'altro canto giuristi come Bracton conoscono benissimo il dibattito sulle fonti occidentali. L’Inghilterra allora partecipa alle grandi lotte fra papato e impero, schierandosi dove la convenienza sovrana spinge; partecipa alle vicende politiche belliche; conosce ed applica la Lex Salica, con pretese di succedere al trono francese ; il sovrano inglese 36

partecipa anche alla rivoluzione luterana, schierandosi con il Papato e scrivendo un libello destinato a contestare l’idea luterana per cui l’arbitrio dell’uomo non sarebbe libero (cosa che varrà ad Enrico VIII il titolo di defensor fidei). Enrico VIII non si schiera con Lutero ed anzi perseguita per tutta la vita i luterani. D’altra parte i sudditi di Enrico VIII sono in molti casi attratti dal luteranesimo e dal calvinismo . Enrico VIII dopo essersi guadagnato il titolo di defensor fidei abbandona la causa papale, 37

facendosi invece promotore di uno scisma, che ha alla base la pretesa da parte del Re di occuparsi delle questioni spirituali. L’autorità papale si presenta ed è percepita sempre più come l’autorità di uno Stato straniero: se per la tradizione medievale questo non avrebbe avuto senso, ora la frattura dell’unità religiosa in Europa sancita ad Augusta fa sì che di fatto e di diritto, al di là delle pretese, il Papa rappresenti non più la Chiesa universale ma la chiesa romana e gli Stati che aderiscono alla confessione cattolica romana: sempre più il Papa è considerato un sovrano di uno Stato suo proprio, che rappresenta al più una delle tante confessioni cristiane e che quindi è assimilabile a qualsiasi altro sovrano, che eserciti sul proprio territorio l’autorità secolare e spirituale, ma che pretenda di esercitare quella spirituale fuori dal proprio territorio. In fondo quando un principe tedesco aderisce al luteranesimo e pretende di regolare la vita della Chiesa all'interno del suo Stato non agisce in modo diverso da quello che fa il Papa con gli Stati. Questo quadro così complesso sul continente produce la guerra dei Trent'anni in Inghilterra e quella che Berman, riferendosi al periodo tra il 1640 e il 1689

Si veda la prima parte dell'Enrico V di Shakespeare, dove si discute anche del significato 36

interpretativo della Legge Salica.

Il problema con Calvino è assai grande, dal momento che il calvinismo, con tutte le sue chiese, 37

è lasciato fuori dalle soluzioni della Pace di Augusta (1555). La Chiesa calvinista ha una spiccata tendenza per l'organizzazione in comunità.

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chiama—in modo assolutamente non convenzionale— «rivoluzione inglese» . La storiografia inglese, 38

invece, partendo da una sorta di storia “ufficiale” delle tavole del regno, considera questo periodo una «great rebellion», a cui seguirà l'interregno di Oliver Cromwell e lo suddivide in fasi più brevi, reinterpretandolo sulla base di una sorta di continuità in forza della quale l’unica rivoluzione sarà permesso dal cambio di dinastia (dopo il quale l'Inghilterra continuerà ad essere la stessa). Il regno di Inghilterra tuttavia dopo il 1689 è una monarchia costituzionale; nel 1640 è invece ancora una monarchia assoluta. Si deve notare che dopo il 1648 anche la dieta dell'Impero siede permanentemente a Ratisbona (non così per gli Stati Generali francesi). L’idea di Berman è quella di valorizzare la discontinuità di questo periodo della storia inglese, che invece la storiografia ha ricostruito nel segno di una continuità. Non è un caso che il volume di Berman sia costruito sulla base di una sorta di parallelismo fra rivoluzione tedesca e rivoluzione inglese: ciò ci induce a pensare che in fin dei conti assistiamo a due fatti sicuramente rivoluzionari ma anche strettamente legati fra loro.

IL RETROTERRA DELLA RIVOLUZIONE INGLESE Occorre anche dire che in realtà la rivoluzione inglese non comincia nel XVII secolo : già infatti nel XVI secolo l’Inghilterra aveva conosciuto un momento rivoluzionario, con la riforma del regno di Inghilterra propugnata da Enrico VIII e continuata dai suoi successori (in particolare da Elisabetta I). Enrico VIII, infatti, trasferisce nell'ambiente inglese un elemento caratteristico della rivoluzione tedesca. Egli non era luterano —anzi perseguiterà fortemente i luterani—; ciò che egli mutua dalla contemporanea rivoluzione tedesca luterana è tuttavia l'atteggiamento nei confronti della giurisdizione ecclesiastica. La tradizione giuridica occidentale fino a questo momento si era costruita mediante la coesistenza di due autorità universali (Papato e Impero) destinate a reggere in sostanza i due aspetti della vita degli uomini (spirituale e secolare): la coesistenza di queste due autorità si manifestava nella produzione di due filoni paralleli della tradizione giuridica, costituitisi intorno a due corpora diversi e a due sistemi di giurisdizioni diverse. Due autorità e due giurisdizioni, due corpora iuris, due tradizioni giuridiche dialetticamente interdipendenti ma anche distinte: questo dualismo viene meno con le idee propugnate da Lutero, il quale trasferisce questa dualità su un piano diverso: la vita terrena viene affidata alla giurisdizione secolare; quella ultraterrena è affidata al regno di Dio, con la Chiesa che diventa meramente un Popolo di Santi. Questo non significava ovviamente che della Chiesa non vi fosse più bisogno o ancora che i teologi si piegassero supinamente all’autorità secolare: invece, l’idea è che spetti sempre al principe, secondo consigli, disciplinare la chiesa. Sicché abbiamo una situazione per noi italiani difficile da comprendere, ma meno difficile da comprendere per un tedesco . 39

L'Inghilterra in realtà segue questa strada con Enrico VIII: per la verità la rivoluzione gregoriana non aveva incontrato difficoltà soltanto a causa dell'opposizione dell'Impero ma anche a causa dell'opposizione di altri poteri secolari, soprattutto in Francia e in Inghilterra; nondimeno pure con molte concessioni reciproche, quel sistema dualistico era andato affermandosi anche in Inghilterra: la chiesa inglese aveva infatti riconosciuto l’autorità suprema di Roma. Ora accade invece che il Re di Inghilterra rivendichi a sé la giurisdizione ecclesiastica, cioè pretenda di «essere il capo nella terra supremo della Chiesa d'Inghilterra» (come si legge nell'Atto di Supremazia). Enrico VIII rivendica allora di avere in un contesto territoriale specifico la stessa autorità che il Papa pretendeva di avere nel contesto della chiesa universale: sembra quasi la trasposizione della dottrina sviluppata

La storiografia inglese parla di rivoluzione solo in relazione alla Glorioius Revolution, che si 38

colloca cinquant’anni dopo, nel 1688-9

Si pensi che ancora oggi nei Länder vi sono facoltà universitarie statali di teologia: 39

l’insegnamento della teologia, in ossequio alla visione luterana, è qualcosa di interesse pubblico di cui deve occuparsi lo Stato.

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dallo ius commune precedente secondo cui il Re di un regno particolare e indipendente esercita in un ambito territoriale specifico lo stesso potere che l'Imperatore esercita nel mondo intero . 40

Enrico VIII con questa sua pretesa ristabilisce nel Regno una sorta di parallelismo, riconoscendo che come il Re d'Inghilterra è sovrano nel secolare così debba esserlo nello spirituale: in questo modo riunisce le due partizioni, secolare e spirituale, che la tradizione giuridica occidentale fino a quel momento aveva tenuto separate. Siamo allora di fronte ad una rivoluzione e non troppo diversa da quella luterana. Eppure Berman non è di questa opinione, parlando di rivoluzione solo in relazione al XVII secolo Ma perché allora Berman parla di rivoluzione inglese solo riferendosi al XVII secolo? In realtà ciò che avviene nel XVI secolo, che riprende motivi tipici della rivoluzione tedesca, è una premessa necessaria per la vera rivoluzione, che si colloca nel XVII secolo. E questo avviene non soltanto per motivi religiosi —i quali sicuramente ci furono e giocarono un ruolo importante— ma soprattutto perché la scelta, l’atto di imperio di Enrico VIII è fatto riconoscere dallo stesso sovrano dal Parlamento . Detta supremazia non intacca di per sé il potere papale in generale, ma soltanto in 41

relazione al territorio inglese; soltanto cioè nell'applicazione alla Chiesa di Inghilterra di quelle pretese che il Papa rivendicava come universali già dai tempi del Dictatus Papae. Lo stile di governo di Enrico VIII rimarrà invero caratteristico di quello dei suoi successori; nondimeno proprio perché con l'Atto di Supremazia il Re d'Inghilterra è sovrano della Chiesa di Inghilterra sarà il sovrano a guidare le lotte ideologiche religiose (perciò l' Inghilterra sarà prima fortemente cattolica, poi protestante, poi ancora cattolico, ecc). Tutto ciò avviene con forme che apparentemente rispettano la tradizione inglese. Berman dice che il termine rivoluzione significa letteralmente “ritorno al punto di partenza”; la rivoluzione è infatti fatta camminando verso il futuro guardando però al passato. Infatti nel termine tradizione è presente anche l’idea di una continuità con il passato; applicata alla rivoluzione inglese è l’idea che in fin dei conti la storia giuridica inglese sia espressione di una continuità senza soluzioni: il diritto inglese, secondo questa visione, è sempre rimasto lo stesso. In realtà, se ci pensiamo su questo punto noi possiamo trovare una capitale differenza fra il modo ideologico in cui gli inglesi considerano la loro storia giuridica e il modo altrettanto ideologico in cui i continentali concepiscono la loro storia giuridica. Gli inglesi vedono la loro storia come una continuità senza rivoluzioni (sicché può accadere che una corte inglese decida oggi un caso basandosi su un precedente del XIV secolo); i continentali vedono invece nella Rivoluzione francese un momento di separazione dal passato.

IL REGNO DI GIACOMO I E L’OPPOSIZIONE DEI MAGISTRATI Ma è proprio vero che le cose stanno così? Non proprio. La storia inglese, infatti, è segnata da momenti di grande rottura (alcuni dei quali hanno portato all'esecuzione capitale del Re, o alla instaurazione di una repubblica): uno di questi è il cambiamento dinastico successivo alla morte di Elisabetta I, che determina la salita al trono di Giacomo VI di Scozia (Giacomo I di Inghilterra): un uomo che per i propri modelli giuridici e dottrinali guardava ad un ambiente diverso da quello inglese, più vicino all’Europa continentale e attento alle teorie della sovranità: Giacomo I amava molto Jean Bodin. Si dovrà ammettere che la dottrina bodiniana non fosse così incompatibile con la tradizione inglese: certamente i sovrani inglesi sono assoluti ed esercitano il loro potere nei limiti del

invero, questa non era una novità. La decretalistica aveva coniato l’espressione per cui il re che 40

non avesse riconosciuto autorità superiore sarebbe stato imperatore del proprio regno. Tale dottrina, se riconosceva autonomia ai regni, sottoponeva ancora le chiese particolari al regno della Chiesa di Roma. Il privilegio di fatto e di diritto preserva il principio: il re è giudice della Chiesa nel suo regno, ma in virtù di un privilegio ricevuto a suo tempo dal Papa. Autonomia, indipendenza, sovranità nel secolare, ma soggezione nello spirituale.

Si noti: Enrico VIII non era certo un sovrano parlamentare ma un sovrano assoluto e quando si 41

parla di decisione con il Parlamento si intende qualcosa di profondamente diverso da ciò che si intende oggi. Il Parlamento era l’Assemblea del Regno, esistente da secoli con due camere, che il Re convocava e scioglieva a proprio piacimento

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diritto di Dio e della natura; nondimeno se tralasciamo il problema delle leggi fondamentali il re 42

assoluto di Inghilterra esercitava anche numerose funzioni giurisdizionali (che furono usati soprattutto sotto i Tudor), anche concernenti la tradizione ecclesiastica e aventi procedure sostanzialmente identiche a quelle romano-canoniche. Siamo di fronte allora ad un apparato statale diverso da quello odierno: c’è un sovrano circondato da collaboratori che si occupano di questioni molto diverse e sono al contempo politici e giuristi di primo ordine. Abbiamo allora un sovrano che esercita in modo assoluto il suo potere in modi diversi (in parte di common law in parte più vicini a quelle occidentali): in questo senso si spiega anche l’introduzione di cattedre di diritto civile nelle università inglesi 43

alcune delle quali affidate a professori italiani (Alberico Gentili fu Regius Professor ad Oxford). Questa situazione di per sé non crea nessun problema: spesso infatti i giuristi siedono al contempo in corti di common law e in corti regie. Tuttavia il cambiamento dinastico produce effetti nuovi: Giacomo I è un sovrano assoluto che non essendo nato dalla tradizione inglese concepisce il proprio ruolo in un modo che è anche la radicalizzazione delle idee bodiniane: il ruolo del Re in virtù dell’applicazione di queste dottrine ne esce rafforzato. Questo produce un incremento delle tensioni: di fronte alle crescenti pretese del sovrano (che si manifestavano nel non convocare il Parlamento, nell’usare in modo frequente il potere di imporre nuove tasse senza coinvolgere il Parlamento , nell'uso frequente di corti 44

di prerogativa regia sfuggenti ai limiti del common law , ecc.). Le corti favorite dal sovrano non sono 45

vincolate ad un modo antico di interpretare il potere; sono altresì espressione di un potere che sempre più si manifesta come autoritario e tirannico; perciò nasce l’opposizione di alcuni magistrati al Re; magistrati che sono depositari della tradizione giuridica di common law, di uno «spirito giuridico» —direbbe Tocqueville—che in qualche modo sentono minacciato dalle nuove forme che il potere regio va assumendo. Nessuno di questi magistrati vuole distruggere il potere regio ma riportarlo alle forme che aveva in passato. Edward Coke, magistrato di alti incarichi, aveva l’idea che il sovrano avrebbe dovuto essere assoluto, ma legato tuttavia all'osservanza del diritto. Coke sa, infatti, avendolo appreso dal codice giustinianeo, che il potere del Re si fonda nel e sul diritto e che quindi questo diritto va preservato; il re sovrano non può allora intervenire in maniera arbitraria ma deve rispettare il diritto, anzitutto perché non lo conosce. Il re infatti, fonte del diritto stesso, non lo conosce esattamente come non lo conosceva l'imperatore medievale per una semplice ragione: non lo aveva studiato all'università mentre si avvaleva per applicarlo di un organico di giuristi. Per Coke il diritto trascende il sovrano e attraversa la storia di Inghilterra costituendone —per così dire— la sua «legge fondamentale». È proprio a fronte della minaccia di un sovvertimento dell'ordine giuridico, il diritto della tradizione inglese comincia ad essere concepito come perfettamente continuativo, trascendente il re e mai veramente mutato, quale base costituzionale del regno. L’azione del re è concepita come eversiva e attiva una resistenza, inducendo a pensare alla tradizione inglese come a qualcosa di diverso rispetto a quella azione eversiva posta in essere dal Re. Sicché, le corti di common law in questo momento intervengono a controbilanciare l'assolutismo regio degli Stuart. Così si tenta di ricostruire storicamente che cosa sia quel diritto inglese, che si oppone all'azione eversiva del re, contraria alla costituzione inglese. Quindi un potere assoluto che si è andato costruendosi in un certo modo, presentandosi in forme radicali nel XVII secolo suscita opposizione e resistenza. In virtù di questa resistenza al re viene contrapposto un modello fondato sulla tradizione storica, che intende rappresentare il diritto inglese come una costante della storia del regno . 46

Infatti le 3 leggi fondamentali di cui parla Bodin riferendosi alla Francia (i.e. la «legge di 42

cattolicità», la legge salica, la legge di inalienabilità del demanio regio) non hanno la stessa accezione in Inghilterra, dove anzi non valgono proprio.

Si ricorderà che il common law si imparava nella pratica, non essendoci insegnamenti specifici 43

Questo avveniva soprattutto imponendo prestiti forzosi, il cui nome è diverso da quello di tributi 44

ma la sostanza è la stessa.

e soprattutto ai limiti posti al potere del re da questa tradizione, come l'habeas corpus.45

Con un parallelismo azzardato, potremmo dire che la stessa cosa accadrà nella Francia di Luigi 46

XIV, restia ai cambiamenti: la costruzione di un potere regio assoluto genererà le pretese rivoluzionare del 1789.

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IL SOVRANO ASSOLUTO: UN NECESSARIO CHIARIMENTO Si è detto sopra che anche Coke sosteneva l’assolutezza del potere regio. La legibus absolutio significa anzitutto riconoscimento in capo al sovrano di produrre nuove leggi che deroghino a o abroghino le leggi precedenti: si tratta in fin dei conti del nucleo stesso del potere legislativo. L’assolutezza di un potere però, come ricorda anche Jean Bodin, non significa inosservanza in generale del diritto divino e del regno: infatti, il potere del re di legiferare non viene necessariamente esercitato in modo continuativo (i.e. non ogni azione del sovrano è in deroga al diritto precedente). Abrogare una legge precedente o derogarvi non sono fatti ordinari . Il sovrano è d’altra parte vincolato all'osservanza del 47

diritto divino, naturale e alle leggi fondamentali del Regno (es. in Francia, alla legge salica), le quali non possono essere abrogate —verrebbe altrimenti meno la legittimità del re stesso. Da questo punto di vista questa dottrina non è incompatibile con la tradizione inglese, che prevedeva una serie di vincoli alla potestà del Re. Questo è lo sfondo su cui non solo matura una opposizione inconciliabile tra Re e Parlamento —quest’ultimo sentendosi depositario di questa tradizione giuridica che è fatta risalire alla Magna Charta in quanto rappresentante del Regno —; ma anche matura una opposizione tra giuristi di 48

common law, che solo così prende un senso. LA FIGURA DI SIR EDWARD COKE Uno di questi giuristi è Edward Coke. Coke si contrapponeva a Giacomo I, la controversia vertendo sulla pretesa sovrana di giudicare. La pretesa non era di per sé campata in aria: la funzione primaria del re era sempre stata quella di esercitare la iuris dictio; in questo ius dicere la tradizione medievale aveva addirittura condensato non solo la giurisdizione in senso moderno (intesa come il potere di giudicare i casi concreti, sussumendo la fattispecie concreta nella fattispecie astratta), ma anche la produzione del diritto che poteva essere essa stessa particolare —come la concessione di un privilegio, che si rivolge a persone private— oppure generale —come l’emanazione di una costituzione imperiale . La pretesa del 49

re era allora quella di esercitare una iuris dictio in questo senso ampio; il fondamento di questa pretesa, al di là della tradizione per cui i re hanno sempre giudicato in maniera ampia e al di là degli esempi biblici (es. Salomone) pur non irrilevanti soprattutto nel mondo protestante, si trova nel suo potere, nella sua sovranità. Il re non è infatti privo di quella ragione naturale di cui dispongono tutti gli esseri umani. La pretesa del Re, in realtà, se accettata, collocherebbe il sovrano non soltanto sovraordinato alle corti di common law (che in effetti già giudicavano in suo nome), ma anche al common law stesso: si sarebbe dovuto ammettere che il common law dovesse la propria esistenza al beneplacito del sovrano —i.e. il common law sarebbe esistito fintantoché il sovrano l’avesse ammesso. A questa prospettiva Coke reagisce: ma quella di Coke non è una posizione rivoluzionaria; non si oppone al sovrano volendo sostituire il regime esistente con un altro: vuole invece riaffermare i caratteri tradizionali e continuativi della tradizione giuridica inglese e pertanto la continuità del diritto del common law al di là e al di sopra della contingente volontà del sovrano: l’idea è che il common law formi una sorta di deposito che sussiste da sempre (o da tempo immemorabile) al di sopra dei singoli sovrani. Ma perché secondo Coke il sovrano non può giudicare egli stesso, nonostante le common law courts giudichino già in suo nome? Non sarebbe d’altronde quella di Coke una posizione paradossale? Secondo Coke il Re non può farlo in realtà, perché egli non conosce il deposito giuridico della tradizione, che è ampio e complesso ed è lungi dall'essere frutto di una volontà individuale. C’è infatti bisogno di qualcuno che sia stato addestrato alla ragione artificiale e non già soltanto alla ragione 50

naturale, come invece è senza dubbio il sovrano. Il re ha bisogno di giudici, di lawyers dal momento che egli stesso non è un lawyer. In realtà questa pretesa di Coke, che è volta a paralizzare l’azione di Giacomo I, non è esclusivamente tipica della tradizione inglese: intanto perché i lawyers inglesi non sono i soli nella tradizione giuridica occidentale ad avere una preparazione specifica; e poi perché anche nel continente il re deve

tanto che nel mondo medievale era ricondotto non alla potestas ordinaria del princeps ma alla 47

potestas absoluta, ossia eccezionale

La stessa cosa accadeva negli altri paesi europei, es. in Francia48

Si veda a tal proposito P. Costa, Iurisdictio (1969)49

Frutto, cioè, di un'ars.50

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giudicare non direttamente in quanto re ma servendosi di giudici . Coke allora parla non 51

esclusivamente a nome della tradizione inglese, facendosi piuttosto portatore di una tradizione più ampia in cui quella inglese trova posto. Quello che è da notare è che vi è una tradizione occidentale in virtù della quale il diritto è in qualche modo sovraordinato rispetto al potere del sovrano; di fronte alle pretese di Giacomo I Coke oppone il diritto di common law come espressione di una continuità giuridica, capace di imporsi ai singoli re senza peraltro attaccare minimamente il carattere assoluto del potere regio . Per Coke continuità significa anche fissità —52

ciò in ragione sopratutto della lotta che egli portava avanti—: il diritto di common law, nondimeno, non è di fatto un diritto fisso , ma in continua evoluzione. 53

LA FIGURA DI MATTEW HALE Merito di aver messo in evidenza l'aspetto evolutivo della tradizione inglese non va tanto a Coke quanto al più giovane John Selden. A differenza di Coke, che era un giudice, Selden, che era uno storico, sottolinea la capacità del diritto di evolversi, di essere mobile e di essere cambiato nel corso del tempo. Ci sono due prospettive: la continuità ed il mutamento; a fondere queste due prospettive, come tratti coesistenti dello stesso ordinamento giuridico, è però il terzo dei giuristi che Berman cita nel suo volume, ossia Matthew Hale, il quale vive nell'età di Cromwell. Hale è l’uomo che riesce a fondere in un unico sistema di pensiero sia l'aspetto della continuità sia l’aspetto della mobilità del diritto inglese: per lui il common law è ad un tempo stabile ed in perpetuo movimento; vi sono allora dei tratti, sempre veri e stabili, che sussistono sempre nelle linee e vi sono poi una serie di aspetti che sono soggetti a mutamento. Si vede anche la difficoltà di costruire un pensiero simile che a prima vista sembrerebbe contraddittorio: ma continuità e mutamento sono due aspetti che per Hale —e anche per Berman, che evidentemente predilige questo storico— caratterizzano la storia. Hale ricorre all'esempio della nave Argo tratto dalla tradizione di diritto comune per spiegare tutto ciò: dopo anni di navigazione la nave Argo torna al porto, ma quasi ogni suo pezzo è stato cambiato; nondimeno, anche se ogni singolo pezzo di legno è stato sostituito la nave è rimasta la stessa. Il common law è allora come un abito che veste il popolo inglese, che si adatta alle mode e viene eventualmente riparato. Al contempo Hale riesce in un’altra operazione: mettere d’accordo altri due modi di intendere il diritto apparentemente in contraddizione, ossia l’idea di un diritto positivo e l’idea di un diritto

C'è un caso riportato da Jean Bodin su cui il professor Quaglioni ha fatto ricerche: il Re Enrico II 51

accusa un italiano di un delitto capitale e pretende che l'accusato sia messo a morte; nondimeno il re non vuole dire quale sia quel delitto capitale, pretendendo invece che la condanna a morte consegua semplicemente dal potere del sovrano. I giudici del Parlamento di Parigi nondimeno rifiutano di condannare l’uomo, ritenendo che ci fosse bisogno di sapere quale fosse la colpa dell'uomo e di dividere il ruolo del Re da quello di testimone. Quella notte l’italiano viene preso, messo in un sacco e buttato nella Senna: Bodin dice che questa è una «giustizia notturna», contraria alla giustizia quale deve essere, ossia «chiara più della luce di mezzogiorno».

È una tradizione che noi troviamo espressa anche nel secondo comma del primo articolo della 52

nostra Costituzione, laddove si dice che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Bodin mette in guardia dalla pericolosità del diritto fisso, raccontando la storia biblica della regina Ester. Ester è la 53

figlia di Abicàil della tribù di Beniamino, una delle due tribù che costituivano il Regno di Giuda prima della sua distruzione da parte dei babilonesi e la deportazione, nel 597, dell'elite del regno nelle province dell'impero persiano.Alla morte dei genitori è adottata dal cugino Mardocheo il quale occupa una funzione amministrativa nel palazzo reale a Susa. Avendo sentito che il re Assuero (normalmente identificato con il re persiano Serse) cerca una nuova sposa, Mardocheo fa partecipare la cugina Ester alle selezioni. Ester viene scelta e diventa la sposa di Assuero.Quando il primo ministro Aman decide di sterminare tutti i giudei del regno, Mardocheo, che ha sempre vegliato su Ester, la esorta a presentarsi al re per intercedere in favore dei propri connazionali. Sebbene fosse proibito con pena di morte accedere al re senza essere convocati, dopo un digiuno di tre giorni Ester si presenta davanti al re per domandargli il favore di accettare il suo invito a cena con Aman. Durante la cena li invita nuovamente e durante il secondo banchetto informa il re di essere giudea e che Aman ha decretato lo sterminio di tutti i giudei del regno. Ottiene allora dal re il diritto per i giudei di difendersi il giorno in cui dovevano essere sterminati. Ma c’è un problema: una volta emanati gli editti del re non possono essere revocati; come si fa allora a rimediare a questa condanna ingiusta? La soluzione è un escamotage: viene promulgato un altro editto che consente al re di armarsi e difendersi in quel giorno. Il senso di questo episodio è che la immodificabilità del diritto è invero perniciosa: occorre si fissità, ma anche capacità di evolvere.

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naturale. Il diritto naturale allora si assume in quanto tale come immutabile; da questo punto di vista il common law da un lato è stabile; dall'altro in quanto prodotto della volontà del legislatore che pone le norme è mutevole, contrapponendosi alla fissità del diritto naturale. Nel modo in cui Berman ricostruisce questa storia Hale occupa una posizione centrale, perché rispecchia le sue idee sulla rivoluzione. Hale è giudice e scrittore; ma pubblica pochissimo di quello che ha scritto, circolando le sue opere in forma di manoscritto. La cosa non ci deve stupire: uomini come Hale scrivevano per un pubblico ristretto di giuristi. Si pensi che il The History of the Common Law of the England sarà pubblicata solo trent’anni dopo la morte di Hale.

(SEGUE): THE HISTORY OF THE COMMON LAW OF THE ENGLAND Passiamo attraverso le parole di Hale per capire ciò che egli intende. L’interprete traduttore potrebbe domandarsi se, ed eventualmente come, tradurre il termine “common law”: la soluzione adottata da Zendri è quella di tradurre, in armonia col testo originale, il termine come “diritto comune d'Inghilterra”.

Già del sommario salta all'occhio l’ordine cronologico: si tratta di un impianto della storia del diritto tradizionale inglese. È grazie a questi autori che in questo periodo comincia a nascere la tradizione giuridica di common law. Analizzeremo ora il primo capitolo. Il metodo di Hale si basa su una progressiva e via via sempre più specifica divisione dicotomica di concetti particolari; volendolo, potremmo riassumere questo capitolo di Hale in uno schema di tipo tabellare come quelli contenuti nelle opere di Apel. La seconda osservazione da fare riguarda il modo in cui Hale considera la storia del diritto inglese: l’elemento continuamente ricorrente nella riflessione di Hale è il richiamo alla continuità del diritto, alla sua esistenza che affonda le sue radici in un’età di cui non si conserva memoria; un’esistenza ab immemorabili, che determina l’impossibilità rintracciare l’inizio del diritto inglese o di una parte di esso (quella parte più antica precedente al 1189). Questa soluzione consente a Hale di garantire l'antichità del diritto inglese da qualsiasi ulteriore indagine. In qualche modo consente anche di neutralizzare il carattere rivoluzionario degli avvenimenti a cui Hale stesso ha preso parte durante tutta la sua vita; in questo

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modo l’autore può lasciare intendere che ciò che è avvenuto dal 1640 non è un cambiamento vero e proprio, ma semplicemente è stato un ritornare del diritto inglese alle proprie radici (rectius: è stata respinta proposta di mutamento, sostenuta dal Re, che veniva dall'estero rispetto alla tradizione inglese). L’elemento fondamentale è il ruolo del Parlamento; Hale insiste molto sul fatto che, se non tutta, almeno larga parte della tradizione giuridica inglese risalente a prima del 1189 poggerebbe in realtà su atti del Parlamento di cui ai tempi Hale non si aveva più traccia diretta. In qualche modo allora si postula l’esistenza di un regime parlamentare sul tipo di quello che si è andato costruendo dal 1640. D’altra parte —e questo è ancora più interessante— questa distinzione tra un’età di cui possiamo conservare un ricordo e un’età di cui non possiamo conservarlo è un discrimine di tipo giuridico. Ma la distinzione non è una separazione: è semplicemente una cerniera che divide due periodi del primo dei quali non abbiamo documentazioni.

«1. Della distinzione del diritto d’Inghilterra in diritto comune e diritto legislativo. E in primo luogo, del diritto statutario, ovvero degli atti del Parlamento.

Le leggi d’Inghilterra possono essere distinte con sufficiente adeguatezza in due specie, cioè lex scripta, la legge scritta, e lex non scripta, la legge non scritta. Non ostante (come si mostrerà più

avanti) tutte le leggi di questo regno abbiano qualche monumento o qualche traccia scritta, tuttavia non tutte trovano nello scritto la loro origine, poiché alcune di queste leggi hanno ottenuto il loro

vigore in forza dell’uso immemorabile ovvero della consuetudine, e tali leggi sono chiamate, in senso proprio, leges non scriptae, vale a dire leggi non scritte o consuetudini.»

In questo passaggio Hale ci dice dell’esistenza di alcune leggi che sono in vigore non in virtù di essere scritte ma in virtù del fatto di essere vigenti da tempo immemorabile. Nella tradizione giuridica occidentale conosciamo un esempio di questo nei Libri feudorum.

«Quelle poi, che io chiamo leges scriptae, o leggi scritte, sono usualmente chiamate leggi statutarie, o atti del Parlamento, le quali sono fin dall’origine redatte in forma scritta, prima di essere approvate o di ricevere forza vincolante, dal momento che ognuna di queste leggi è anzitutto formalmente redatta

in scritto e costituisce, effettivamente, un triplice atto complesso e ineguale, tra il re, i Lords e i Comuni, poiché senza il consenso concorrente di tutte queste tre componenti del potere legislativo, nessuna di tali leggi è fatta, né può esserlo, ma il re di questo regno, con l’avviso e il consenso di

entrambe le camere del Parlamento, ha il potere di fare nuove leggi, ovvero di derogare, abrogare o dare esecuzione alle vecchie.»

Qui c’è tutta la tradizione giuridica inglese, come essa si trova dopo la rivoluzione inglese. La legge nasce dal consenso concorrente di tutti e tre gli organi citati e la legge che nasce in questo modo ha il potere di novare le leggi precedenti.

«E questo è avvenuto in ogni epoca senza soluzione di continuità»

Non c’è stata un’epoca inglese in cui le cose sono andate in modo diverso. Hale ci sta dicendo che allora la pretesa di Giacomo I era contraria alla tradizione giuridica inglese come esistente da sempre.

«Ora, le leggi statutarie, o atti del Parlamento, sono di due specie, cioè, in primo luogo quelli statuti risalenti a un’epoca immemorabile, e, secondariamente, quelli invece che risalgono a un tempo di cui

resta memoria; laddove si osservi che, in accordo con la tradizione e l’interpretazione giuridica, il tempo di cui resta memoria è il termine contenuto in un Writ of Right, il quale dal primo statuto di Westminster, cap. 38 fu stabilito e determinato nell’inizio del regno di Riccardo I ovvero Ex prima

coronatione regis Richardi primi, il quale incominciò il suo regno il 6 luglio 1189, e fu incoronato il successivo 3 settembre. Così, qualunque cosa sia accaduta prima di quel momento, è accaduta prima del tempo di cui si ha memoria, e ciò che è accaduto, invece, dopo quel momento, si dice, dal punto di

vista giuridico, che sia accaduto a partire dal tempo di cui resta memoria, o in esso.»

In realtà esiste un momento cronologico che fa da discrimine da ciò di cui si può dire avere memoria dell'inizio: l'inizio del regno di Riccardo Cuor di Leone.

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Nel diritto canonico c’è una cosa del tutto analoga, che riguarda una cosa assai discussa all'epoca: la questione delle decime: il Concilio Laterano Terzo (1179) era previsto come data prima della quale, di ciò che era, non si poteva individuare un inizio.

«Quindi ne consegue che quegli statuti o atti del Parlamento fatti prima dell’inizio del regno di re Riccardo I e che da allora non siano stati abrogati o derogati, sia da una consuetudine contraria, sia

da successivi atti del Parlamento, sono ritenuti ora parte della lex non scripta, come se vi fossero stati incorporati, e divengono una parte del diritto comune. E in verità tali statuti oggi non possono essere invocati in giudizio come atti del Parlamento (poiché ciò che risale a prima del tempo di cui si

abbia memoria si suppone sia privo di un inizio, o almeno di un inizio di cui il diritto abbia cognizione), ma essi ottengono il loro vigore per mero immemorabile uso o consuetudine.»

In questo modo Hale riesce a fondare una continuità del diritto inglese da sempre: anche se egli sa —e lo dice bene—che queste norme sono nate in un preciso momento; nondimeno in virtù di una fictio giuridica le stesse sono considerate immemorabili, prive di un inizio. Il che significa che il common law è privo di un inizio ed esiste da sempre; con questo strumento Hale riesce nell'impresa di stabilire una continuità ininterrotta del diritto inglese.

«E senza dubbio, molto di ciò che ora è ritenuto parte del diritto comune, ebbe origine in atti del Parlamento o in costituzioni poste in iscritto dal re, dai Lords e dai Comuni, non ostante quegli atti

ora non esistano più ovvero, se esistano, risalgano a un tempo anteriore a quello di cui si ha memoria. E la prova della verità di tutto ciò apparirà chiara facilmente da ciò, che in molti di quei

vecchi atti del Parlamento fatti prima del tempo di cui resta memoria, e che ancora esistono, possiamo trovare applicate molte di quelle norme che oggi trovano applicazione solo in quanto diritto comune,

o consuetudine generale del Regno.»

La prova del fatto che il diritto comune esiste da sempre è l’esistenza stessa da sempre del diritto di common law; forse si tratta di una petitio principii che tuttavia mostra un modo interessante di ragionare.

«E quanto al resto di quelle leggi ancora oggi esistenti, probabilmente esse recano le tracce dell’originaria istituzione di molte altre leggi, che ora hanno vigore solo in quanto diritto comune, o leggi consuetudinarie, in forza dell’uso immemorabile, ed esse apparirebbero essere state, all’inizio,

leggi statutarie o atti del Parlamento»

È vero che queste leggi esistono tutte da un tempo immemorabile; ma d’altra parte è necessario presumere siano state approvate del Parlamento. Con questa operazione si vuole cioè dire che da sempre il diritto inglese nasce dal Parlamento.

«Quegli antichi atti del Parlamento, i quali sono annoverati nel genere delle leges non scriptae, o leggi consuetudinarie, in quanto fatte prima del tempo di cui resta memoria, devono essere

considerate in relazione a due periodi di tempo, cioè, quanto al primo, come fatte prima dell’avvento di re Guglielmo I, comunemente chiamato il Conquistatore, ovvero, quanto al secondo, come

intervenute tra l’avvento di questi e l’inizio del regno di Riccardo I, che è il termine giuridico dell’età di cui resta memoria.»

Dopo aver detto che non esiste memoria, sempre in armonia con la fictio giuridica, si dice che in realtà è possibile dividere due periodi di tempo.

«La prima specie di queste leggi è menzionata dai nostri antichi storici, specialmente da Brompton, e sono ora raccolte in un volume di William Lambard, Esq., nel suo Tractatus de priscis Anglorum legibus, che consiste in una collezione di leggi dei re Ina, Alfredo, Edoardo, Athelstane, Edmond, Edgar, Ethelred, Canuto, e di Edoardo il Confessore; il quale ultimo Corpus iuris, compilato da

Edoardo il Confessore, essendo più completo e perfetto del resto, e meglio adattato allo Stato delle

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cose, è anche quello di cui gli Inglesi furono sempre molto gelosi, essendo la grande regola e la grande norma dei loro diritti e delle loro libertà: e su questo si dirà ancora più avanti.»

Si comincia a intravedere lo sforzo degli storici inglesi di ricostruire la propria storia, che affonderebbe in una tradizione molto profonda.

«La seconda specie è costituita da quegli editti, atti del Parlamento, o leggi, fatte dopo l’arrivo di re Guglielmo I, comunemente chiamato il Conquistatore, e prima dell’inizio del regno di re Riccardo I,

e più precisamente esse sono le seguenti, di cui però io farò qui solo un breve ricordo, perché, nel prosieguo di questo discorso (e probabilmente più di una volta) sarà necessario menzionarle ancora;

e oltre a ciò, il signor Selden, nel suo libro intitolato Ianus Anglorum, di quelle leggi ha dato un resoconto completo, cosicché al presente per me sarà sufficiente elencare brevemente le loro principali

suddivisioni, e sotto il regno di quali differenti re furono fatte, cioè: »

Per non averne memoria, l’elenco é ben preciso:

«Primo, le leggi di re Guglielmo I. Esse consistono, in gran parte, della reiterazione delle leggi di re Edoardo il Confessore, e della loro sanzione in virtù della sua autorità, e del consenso del

Parlamento, su richiesta degli Inglesi; e alcune nuove leggi furono da lui stesso aggiunte, similmente con il consenso del Parlamento, in relazione alle tenures militari, e alla conservazione della pace

pubblica del regno; tutte queste sono menzionate dal signor Lambert, nel trattato su menzionato, ma più compiutamente dal signor Selden, nei suoi Discorsi e osservazioni su Eadmerus.

In secondo luogo, noi troviamo poche nuove leggi successivamente, fino al tempo di re Enrico I, che oltre alla sanzione delle leggi del Confessore e di re Guglielmo I, le raccolse in un nuovo volume di leggi, giunto fino al giorno presente, e chiamato Leggi di re Enrico I. L’intera collezione di queste

leggi è entrata nel Libro Rosso dello Scacchiere, e da lì sono state trascritte e pubblicate a cura di sir Roger Twisden, nell’ultima parte del libro. già ricordato, del signor Lambart; quale fu il successo di

quelle leggi al tempo di re Stefano, e di re Enrico II, lo vedremo più oltre: ma non fu grande in Inghilterra, e ora per la maggior parte sono divenute completamente obsolete, e in effetti affatto

antiquate. In terzo luogo, il successivo corpus di atti del Parlamento che merita considerazione, è quello fatto

sotto il regno di re Enrico II, comunemente chiamato Costituzioni di Clarendon; di cosa si trattasse, si chiarisce ottimamente in Hoveden e Mat. Paris, negli anni di quello stesso re. Noi abbiamo poca memoria di leggi degne di nota promulgate al tempo di questo re, ad eccezioni delle sue Assise, e queste ultime sono relative alle foreste, e furono perfezionate sotto il regno di re Riccardo I Ma di

tutto ciò più oltre e più ampiamente. Tutto ciò fungerà da breve esemplificazione di quegli statuti, o atti del Parlamento, che furono fatti

prima del tempo di cui si ha memoria; questi, dal momento che noi non ne abbiamo i registri originali, ma soltanto delle trascrizioni, sia nei nostri antichi storici, sia in altri libri e manoscritti, ed

essendo quindi cose fatte prima del tempo di cui si ha memoria, oggi non hanno vigore se non in virtù dell’uso e della consuetudine, e sono quindi inseriti nel corpo del diritto comune, e perciò parte

di esso. Giungo ora a quelle leges scriptae, o atti del Parlamento, che furono fatte a partire da o entro il tempo della memoria, e cioè a partire dal regno di Riccardo I, e queste le dividerò in due generi, cioè quelli che usualmente chiamiamo i vecchi statuti, e quelli a cui usualmente diamo il nome di nuovi statuti,

o statuti successivi: e poiché vorrei fissare un certo termine ovvero una certa distinzione tra essi, chiamerò vecchi statuti quelli che terminano con il regno di re Edoardo II, e chiamerò statuti nuovi o successivi quelli che iniziano con il regno di re Edoardo III, e così attraverso una successione di re e

regine giunsero fino al presente, in serie continua e ordinata.»

Si noti la continua divisione dicotomica. «A proposito di quest’ultimo genere non dirò nulla, perché tutte queste conservano una successione

cronologica ordinata e regolare, e sono registrate, o nei registri parlamentari, o in quelli degli statuti di re Edoardo III e dei re successivi: e con l’eccezione di pochi anni all’inizio del regno di re Edoardo

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III, cioè il secondo, terzo, settimo, ottavo e nono, tutti i registri parlamentari, a partire da quell’epoca, sono stati conservati, ed esistono ancora; in particolare, per lo più, esistono le suppliche sulla base

delle quali gli atti furono redatti, o proprio gli atti stessi.»

Hale sta costruendo il discorso per basi cronologiche successive secondo una documentazione diretta (i.e. registri) e una indiretta (storici, consuetudini di common law, ecc).

«Perciò ora, a proposito degli atti parlamentari più antichi, cioè quelli fatti tra il primo anno di regno di re Riccardo I e l’ultimo di re Edoardo II, noi ne abbiamo poche sopravvivenze in qualche cronaca

autorevole, e nessuna in un registro autentico, relativamente a quegli atti fatti al tempo di re Riccardo I, ad eccezione di quelle costituzioni e assise menzionate da Hoveden, come si è detto più sopra.

Né vi è alcun testimone importante di quali atti del Parlamento siano stati adottati al tempo di re Giovanni, anche se, senza dubbio, ve ne furono molti sia in quel tempo che in quello di re Riccardo I. Ma non è sopravvissuto alcun registro di quelli, e le cronache inglesi di quei tempi non ci danno che una scarna testimonianza di quelle leggi; solo Matthew Paris ci offre una testimonianza storica della

Magna Charta, e della Charta de foresta, concesse da re Giovanni a Running Mead il quindici giugno, nel diciassettesimo anno del suo regno.»

Non ci rimane che qualche testimonianza indiretta.

«Sembra anche, che la concessione di queste Carte avvenisse nella forma di un Parlamento; si possono vedere le trascrizioni letterali di entrambe le Carte in Matthew Paris e nel Libro Rosso dello

Scacchiere. C’erano sette originali di queste Carte, spedite a sette grandi monasteri sotto il sigillo di re Giovanni, e un originale di questi, spedito all’abbazia di Tewkesbury sotto il sigillo di quel re, io lo vidi; la loro sostanza differisce in qualcosa dalla Magna Charta e dalla Charta de foresta, concesse

da re Enrico III, ma non moltissimo, come è chiaro da una loro collazione.»

Noi troviamo una serie di carte che cominciano dal regno del Re Giovanni e che poi sono rinnovate successivamente in forma molto simile.

«Tuttavia, sebbene queste Carte di re Giovanni sembrino essere state concesse in una sorta di Parlamento, ciò avvenne in un tempo di grandi disordini tra il re e i suoi nobili; perciò esse non ebbero una piena e stabile sanzione fino al tempo di re Enrico III, quando la loro sostanza fu

sanzionata da un pieno e solenne Parlamento.»

Ancora una volta il Parlamento interviene per dare solennità ad una concessione precedente che forse era stata fatta in Parlamento. Un secolo prima di Hale c’è un autore francese che scrive le stesse cose, in relazione al regno di Francia.

«Vengo perciò ai tempi di quei re successivi, Enrico III, Edoardo I ed Edoardo II, e gli statuti fatti ai tempi di quei re, io li chiamo i Vecchi statuti; ciò in parte perché molti di questi furono fatti solo a

conferma del diritto comune; e in parte perché i restanti di essi, che hanno causato un cambiamento nel diritto comune, sono ormai così antichi, che oggi sembrano essere una parte del diritto comune, specialmente considerando le numerose interpretazioni che di essi sono state date nel susseguirsi dei

tempi, quando essi divennero il vero soggetto di risoluzioni e decisioni giudiziali; così quelle interpretazioni e quelle decisioni, insieme ai vecchi statuti stessi, sono state incorporate nel vero

diritto comune, e sono divenute parte di esso.»

Rispetto a Coke qui c’è un senso storico, ancorché i documenti di cui si dispone sono pochi.

«Ai tempi di quei tre re menzionati per ultimi, come verosimilmente ai tempi dei loro predecessori, furono fatti senza dubbio molti più atti del Parlamento di quelli di cui, ora, sopravvivono i registri, o

altro, i quali atti possono essere stati causa di mutamento del diritto comune ai tempi di quei re, rispetto a quello antecedente, benché tutti i registri di quelli atti del Parlamento che introdussero tali

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mutamenti non siano giunti sino al giorno presente: ma di quelli che invece sono sopravvissuti, io vi darò un breve resoconto, senza alcun intendimento di redigere un ampio o accurato trattato su questo

punto.»

Dal momento che in altri casi è andata così, anche in questo caso le documentazioni potrebbero essere provenute dal Parlamento.

«Il regno di Enrico III fu un tempo di torbidi, a causa dei conflitti tra lui e i suoi baroni, che non furono ricomposti fino al suo cinquantunesimo anno, dopo la battaglia di Evesham. In questo tempo si tennero molti Parlamenti, ma noi abbiamo solo una convocazione del Parlamento, sopravvissuta

dal registro del suo regno, e cioè 49 Enrico III, e abbiamo solo pochi atti del Parlamento approvati al tempo di questo re, cioè la gran Carta, e la Charta de foresta, nel nono anno del suo regno, che senza

dubbio furono approvate in Parlamento; lo Statuto di Merton, nel cinquantaduesimo anno; e il Dictum sive Edictum de Kenelworth, pressappoco dello stesso tempo, e pochi altri atti antichi.

Al tempo di re Edoardo I risalgono molti più atti del Parlamento giunti sino a noi che non al tempo di re Enrico III. E tuttavia, senza dubbio al tempo di questo re ci furono molti più statuti di quanti

ne restano oggi: quelli che oggi restano, comunemente sono legati insieme al vecchio Libro della Magna Charta

.Con quelli statuti furono fatti molti cambiamenti e correzioni nel diritto comune, e, da quelli che sono giunti sino a noi, possiamo ragionevolmente indovinare, che ci furono mutamenti e correzioni considerevoli, introdotte da quelli, che invece non ci sono giunti, le quali possono essere state il vero,

sebbene imprevisto mezzo del grande progresso e del grande mutamento delle leggi d’Inghilterra durante il regno di questo re, assai più di quanto accadde al tempo dei suoi predecessori.

Le prime convocazioni del Parlamento di cui io abbia memoria si ritrovano nei registri del tempo di questo re, cioè 23. Edoardo I, sebbene indubbiamente ce ne furono molte più prima di quest’epoca, i cui registri sono perduti o dispersi: infatti molti Parlamenti furono tenuti da questo re prima di quel

tempo, e molti degli atti approvati in quei Parlamenti esistono ancora; ad esempio, gli Statuti di Westminster I nel terzo anno di Edoardo I, gli Statuti di Gloucester, 6. Edoardo I, gli Statuti di Westminster II e quelli di Winton, 13. Edoardo I, gli Statuti di Westminster III e quelli di Quo

Warranto, 18. Edoardo I, e diversi altri in altri anni, che avrò occasione di menzionare più oltre.»

Di questi atti non sappiamo l’esistenza, ma sappiamo esserci stati.

«Al tempo di re Edoardo II si tennero molti Parlamenti, e furono sanzionate molte leggi; tuttavia, abbiamo pochi atti del Parlamento sopravvissuti da questo regno, specialmente in registri.

E ora, poiché intendo dare un qualche breve resoconto di alcune osservazioni generali relative ai Parlamenti, e agli atti del Parlamento approvati ai tempi di questi tre principi, cioè Enrico III,

Edoardo I ed Edoardo II, dal momento che sono atti della più grande antichità, e le circostanze ad essi relative sono le più soggette ad essere mutate nel corso del tempo, io qui farò menzione di alcuni

aspetti particolari di questi Parlamenti e di questi atti, per preservarne la memoria, e perché può risultare utile esserne a conoscenza in relazione ad altre cose.

Perciò dobbiamo sapere, che queste sono le differenti specie di registri delle cose fatte in Parlamento, o ad esso legate in modo particolare, e cioè: 1. Le convocazioni a Parlamento. 2. I registri del

Parlamento. 3. Le filze delle suppliche in Parlamento. 4. Gli statuti, o atti stessi del Parlamento. E, 5., i Brevia Parliamento, che per la maggior parte sono tali quali furono emessi per le cause dei

cavalieri e dei borghesi; tuttavia di questi non mi occuperò.»

Al Re si presentavano delle suppliche che sono contenute in filze. Hale sta ricostruendo la storia del diritto inglese con un metodo tipicamente protestante; e poi con una grande attenzione all'aspetto ideologico, cercando di trovare nel passato il carattere interno del diritto inglese. In realtà noi non necessariamente abbiamo una documentazione completa dei Parlamenti e degli atti dei Parlamenti. Talora abbiamo solo gli atti di convocazione del Parlamento.

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«Anzitutto, le convocazioni a Parlamento. Queste convocazioni a Parlamento non sono tutte registrate ai tempi di Enrico III ed Edoardo I, dal momento che non sussistono registri del tempo di

Enrico III, ad eccezione di 49. Enrico III, e nemmeno al tempo di Edoardo I fino a 23. Edoardo I. Ma dopo quell’anno, per la maggior parte sono registrate e ci sono giunte, cioè In dorso clausorum

rotulorum , sul dorso dei registri chiusi. 54

In secondo luogo, i registri del Parlamento, cioè la registrazione delle numerose suppliche, risposte e accordi in Parlamento. Questi sono generalmente e successivamente presenti nei registri nella Torre [di Londra], da 4. Edoardo III fino alla fine del regno di Edoardo IV, con la sola eccezione di quei Parlamenti che si svolsero tra il primo e il quart’anno, e tra il sesto e l’undicesimo di Edoardo III.

Ma di quei registri dei tempi di Enrico III ed Edoardo I ed Edoardo II parecchi sono perduti e pochi esistono ancora; e io non ho visto alcun registro parlamentare del tempo di Enrico III; e tutto ciò che ho mai veduto del tempo di Edoardo I era un registro del Parlamento conservato all’Esattoria dello Scacchiere, del diciottesimo anno di Edoardo I. e quegli atti e quei resoconti che si trovano nel Liber

placitorum Parliamenti nella Torre, e che iniziano, a quanto ricordo, con il ventesimo anno di Edoardo I e finiscono con il Parlamento di Carlisle, 35. Edoardo I, e che non continuano in serie

coerente nel periodo compreso tra quelli anni, ma includono alcuni resoconti di taluni Parlamenti al tempo di Edoardo I e altri al tempo di Edoardo II.

Al tempo di Edoardo II, accanto al Rotulus ordinationum, dei Lords Ordainer, circa 7. Edoardo II, noi abbiamo poco più che i registri parlamentari di 7. e 8. Edoardo II, e quant’altro si trova sparso

nel Libro del Parlamento di Edoardo I già menzionato, e, a quanto ricordo, alcuni brevi resoconti dei fatti compiuti in Parlamento nel diciannovesimo anno di Edoardo III.

In terzo luogo, a proposito delle filze delle suppliche in Parlamento. Si trattava per lo più di suppliche di privati, e comunemente sono sovrascritte con rinvii alle differenti corti avanti alle quali erano correttamente giudicabili. Ci sono molte di queste filze di suppliche, alcune risalenti al tempo di

Edoardo I ed Edoardo II, e più ancora al tempo di Edoardo III e dei re che gli succedettero. Quarto, gli statuti o atti del Parlamento propriamente detti. Sembra che al tempo di Edoardo I

fossero redatti nella forma di una legge in prima istanza, e così approvati da entrambe le Camere, e dal re, come parrebbe dal complesso e dalla struttura degli statuti di quei tempi. Ma circa dagli anni prossimi all’inizio del regno di Edoardo III, fin quasi alla fine di quello di Enrico VI essi non furono

redatti in prima istanza nella forma di atti del Parlamento; al contrario la supplica e la risposta furono raccolte nei registri parlamentari, e ricavandolo da entrambe, con il parere dei giudici e di altri componenti del Consiglio del re, l’atto fu posto in iscritto conformemente alla supplica e alla risposta, e l’atto stesso, per la maggior parte, fu raccolto in un registro, chiamato The Statute Roll, il Registro dello statuto, e il suo tenore posto in calce ai Proclamation Writs, diretti ai diversi sceriffi perché li

proclamassero come legge nelle rispettive contee.»

Questi atti parlamentari sono invero assai diversi da una legge come intesa da Hale. C’è una supplica al parlamento che successivamente mandava una risposta; il Re ed il Consiglio dalla supplica e dalla risposta ricavano un atto che viene esportato in tutte le contee e reso vincolante del Parlamento. Si deve notare che Hale parla ancora di «convocazione» del Parlamento come se fosse qualcosa di usuale, così dimostrando che i sovrani della tradizione inglese a differenza di quelli occidentali convocano l'assemblea quasi ogni anno.

«Tuttavia, poiché talora sorsero difficoltà e problemi, in seguito a quest’uso di trarre lo statuto della supplica e dalla risposta, all’incirca alla fine del secondo regno di Enrico VI e all’inizio di quello di

Edoardo IV, s’iniziò a ridurli, già in prima istanza, nella piena e completa forma di atti del Parlamento, i quali comunemente proseguivano (o iniziavano) con questa formula: «Item quaedam petitio exhibita fuit in hoc Parliamento formam actus in se continens, etc.», e, pur avendo messo da parte questi passaggi, il procedimento continua, in modo molto simile, e precisamente l’intero atto

è preparato nella forma opportuna, e così giunge al re per il suo assenso.»

Da cui roll in inglese e ruolo (delle cause) in italiano54

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Notiamo che nulla è detto circa il preciso ruolo del Re e del suo assenso; presumiamo che ci fosse un grande differenza fra Guglielmo d'Orange ed Enrico VI.

«Dopo aver così chiarito il procedimento di approvazione degli atti del Parlamento, darò ora conto di quelli atti del Parlamento dei tempi di Enrico III, Edoardo I ed Edoardo II che sussistono anche al

giorno d’oggi; questi sono di due generi, vale a dire: di alcuni di essi abbiamo le registrazioni; di altri ci sono giunti libri e memorie, ma nessuna registrazione. E quelli di cui sussistono registrazioni, o

sono stati annotati nel loro proprio e naturale registro, cioè lo Statute Roll, ovvero sono stati raccolti in qualche altro registro, specialmente nei Close Rolls e nei Patent Rolls, o in entrambi.»

Le visioni sono ancora duplici.

«Ciò accade perché un atto del Parlamento, approvato entro il tempo di cui si ha memoria, non cessa di esistere perché non ve n’è registrazione, specialmente se si tratta di un atto generale del

Parlamento. Questo perché degli atti generali del Parlamento le corti di diritto comune sono tenute ad essere a conoscenza, senza che si possa dibattere su di essi; e tali atti non potranno mai essere oggetto di prova per mezzo di una registrazione, sulla base di una questione di Nul tiel record, ma dovranno

essere provati dalla corte, la quale, se vi sono delle difficoltà o delle incertezze relative ad essi o al diritto di dibattere su di essi, deve usare per sua informazione antiche copie, trascrizioni, libri,

processi e resoconti per informarsi, ma non deve ammettere che tali atti siano soggetti a procedimento probatorio sulla base di una istanza di Nul tiel record.»

Il caso propostoci da Hale: un atto del Parlamento di cui non abbiamo il registro. Come fare allora? Immaginiamo di essere un avvocato che fa una causa per sostenere la posizione del nostro cliente bisogna invocare una legge dello Stato; se io avvocato non sono abbonato al Registro Ufficiale, che cosa posso fare? Io in quanto avvocato devo conoscere la legge. Allo stesso modo Hale presume che la corte di common law conosca gli atti del Parlamento: una corte respingerebbe l'istanza della parte che assumesse l'inesistenza dell'atto parlamentare. Non è dunque ammessa discussione sull'esistenza di una determinata legge. Se vi fossero delle incertezze sul contenuto letterale di quegli atti la corte stessa dovrebbe informarsi utilizzando ogni mezzo a disposizione; ma la discussione non può essere lasciata al dibattito tra le parti. In realtà qualcosa di simile succede anche nel continente europeo: in modo significativo nell'ambiente imperiale dal 1495 viene istituito il Tribunale Camerale dell'Impero che giudica sulla base del diritto comune, di cui si presume abbia conoscenza ; sicché avanti il Tribunale camerale le parti non saranno ammesse a provare l'inesistenza di una legge; la situazione non è diversa da quella che avviene in Inghilterra.

«Ciò perché, come si mostrerà di seguito, ci sono moltissimi antichi statuti che sono ammessi e validi come tali, sebbene al giorno d’oggi non ne sussista alcuna registrazione, né alcun altra prova scritta, ma ciò che c’è è, per così dire, solo tradizionale, come precisamente antichi e moderni libri di processi, e l’opinione e la fama comunemente ricevute, e l’approvazione dei giudici esperti in diritto: perché i

giudici e le corti di giustizia sono, ex officio, tenuti ad avere cognizione degli atti pubblici del Parlamento, e se sono invocati in modo veritiero o no, e perciò essi stessi ne danno la prova. Ma le cose stanno diversamente per gli atti privati del Parlamento, perché essi possono essere messi in

questione, e provati con una registrazione in seguito a una procedura per Nul tiel record, a meno che siano prodotti in copia autentica, come accadde al Prince’s Cafe nell’ottavo Report del mio signore

Coke, e perciò, in questo caso, l’eccezione di Nul tiel record fu rifiutata.»

Gli atti privati del Parlamento sono suscettibili di essere provati.

«I vecchi statuti e atti del Parlamento che sono registrati, come s’è detto, hanno avuto ingresso nell’appropriato Registro degli Statuti, o in qualche altro registro nell’archivio della Cancelleria. Il primo Registro degli Statuti che abbiamo, si trova nell’archivio della Torre, e comincia con la

Magna Charta, e finisce con Edoardo III, ed è chiamato Magnus Rotulus Statutorum. Ci sono altri

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cinque Registri degli Statuti in quell’ufficio, dei tempi di Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Enrico VI ed Edoardo IV.

Darò ora uno schema di quelli antichi statuti dei tempi di Enrico III, Edoardo I ed Edoardo II, che sono annotati nel primo di quei Registri o altrove, secondo quanto di meglio posso ricordare, e in

accordo con quei resoconti che ho avuto a lungo con me [elenco omesso; si tratta di testi molto vari che hanno in comune il fatto di avere natura varia]

Stando a un’accurata inchiesta fatta circa trent’anni or sono, questi erano tutti i vecchi statuti dei tempi di Enrico III, Edoardo I ed Edoardo II di cui è stata trovata registrazione; quali altri statuti

siano stati ritrovati da allora, io non lo so.»

Ancora una volta Hale fa riferimento ad una opinione condivisa, in mancanza di testimonianze dirette.

«L’ordinanza chiamata Butler’s, per cui l’erede può agire per sperperi durante la vita del suo dante causa, sebbene se ne abbia registrazione nel Libro del Parlamento di Edoardo I, non fu però mai uno

statuto, né fu ritenuto per tale, ma fu solo una costituzione promulgata dal Consiglio del re o dai Lords in Parlamento, che mai ottenne la validità o il vigore di un atto del Parlamento.»

Abbiamo qualcosa che sta anche nel registro parlamentare pur non essendo un atto del Parlamento

«Ora a proposito degli statuti seguenti, sebbene per la maggior parte essi siano indubbiamente atti del Parlamento, non di meno non se ne hanno registrazioni, che io sappia, ma soltanto ricordi

conservati in antichi libri di statuti, manoscritti e a stampa; e tuttavia fino al giorno presente essi sono per lo più accettati e ricevuti come atti del Parlamento, sebbene alcuni di essi siano ora obsoleti e

scarsamente applicati, e in particolare: [elenco omesso] Da questo possiamo ricavare queste due osservazioni, cioè:

Primo, che non ostante non vi sia nessuna registrazione in senso proprio, tuttavia gli statuti generali fatti durante il tempo di cui si ha memoria, vale a dire, a partire da 1. Richardi Primi, non perdono il

loro vigore, se ve n’è qualche ricordo autorevole nei libri, accompagnato da una tradizione generalmente accolta che lo attesta e lo approva. Secondo, che molte registrazioni, anche di atti del Parlamento, nel corso di un lungo tempo sono andate perdute, ed è possibile anzi che al presente siano stati dimenticati gli atti stessi, i quali al tempo in cui furono fatti, o subito dopo, causarono

molte alterazioni autorevoli in molti aspetti relativi ai procedimenti e alle decisioni secondo diritto: l’originaria causa di tali cambiamenti, d’altro canto, oggi è occulta e a noi sconosciuta; e in verità, storie (e annali) ci danno un resoconto dei voti di molti Parlamenti, dei quali al giorno d’oggi non abbiamo nessuna o poche tracce, sopravvissute nei Registri o negli atti dei Parlamenti. Gli atti del grande Parlamento di Oxford, circa 40. Enrico III, insieme a molti altri di natura simile, possono

essere una prova concorrente di questo: perché, non ostante abbiamo menzioni, nelle nostre storie, di molte costituzioni fatte nel detto Parlamento ad Oxford le quali causarono molti torbidi nel Regno,

non di meno non abbiamo tracce documentali che riguardino quel Parlamento, o di quali costituzioni si trattasse.»

In realtà anche la mancanza di registrazione non implica che gli atti non siano parlamentari: è invece la tradizione che ne garantisce l’esistenza. È quello che accade nel continente con i testi non giustinianei, che sono stati inseriti nel Corpus Iuris Civilis dalla tradizione.

«Quanto detto sin qui sarà molto utile in relazione a quegli antichi statuti o leges scriptae, o atti del Parlamento fatti al tempo di quei tre re, Enrico III, Edoardo I ed Edoardo II. Quelli che seguono, ai

tempi di Edoardo III e dei re seguenti, sono redatti in una successione temporale continua, e ne restano registrazioni nei Registri del Parlamento, e nei Registri degli Statuti, senza alcuna omissione

degna di nota, e perciò io di questi non dirò nulla.»

Hale non voleva ripetere cose note, ma chiarire un problema relativo alle fonti.

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(SEGUE): HALE CONTRO HOBBES La storiografia di Hale è molto complessa: si basa su una ricostruzione molto attenta e molto ampia di fonti. Si tratta anche di una storiografia —come già detto— che coniuga continuità e stabilità con evoluzione e mutamento. Il nesso nel testo che abbiamo letto è chiaro nei termini posti insistentemente dall'autore, come quello del regno di Riccardo Cuor di Leone. È l’attenzione privilegiata alla storia che coniuga i due aspetti di cui sopra. Non si tratta di una storia di eventi singoli, di fatti singoli: si tratta dello sforzo di unire tutto questo. Ma perché uno sforzo simile? Non solo perché punto di vista storico siamo di fronte ad un’età —secondo Berman— rivoluzionaria; in realtà, infatti, il bersaglio di Hale non è semplicemente e genericamente un modo diverso di intendere il diritto inglese; il suo bersaglio sono alcune dottrine che si vanno diffondendo in questo momento e che propongono una visione del diritto completamente diversa. Uno dei bersagli di Hale, pure innominato —come suggerisce Berman — è un pensatore tutto sommato poco noto nella propria epoca ma diventatolo nel XX secolo, ossia Thomas Hobbes . 55

Hobbes, non giurista ma professore privato di matematica, è iniziatore di un modo di pensare il diritto in modo astratto e astorico; lo stato di natura, teorizzato da Hobbes, è qualcosa di fortemente fittizio, sicuramente non storico; allo stesso modo il potere sovrano come concepito da Hobbes non essendo mai esistito è altrettanto astorico; astorica è pure la dottrina del contratto sociale, che non era mai stato stipulato; Hobbes criticava addirittura la tradizione di common law che si andava costruendo in modo opposto a quello matematizzate e semplificante che egli teorizzava. A tutto questo Hale oppone una visione che lungi dal presupporre stati di natura mitici, sostiene invece un mondo più complicato di quello hobbesiano, e che a differenza di quello trova un riscontro nelle fonti: nessuno aveva mai visto lo stato di natura; tutti potevano vedere i registri del Parlamento inglese. Il metodo matematizzante di Hobbes porta alla luce un’altra questione del Seicento: la rivoluzione scientifica. Sulla spunta, infatti, di questo nuovo pensiero si diffonde l’idea che la matematica sia la regina tra le scienze e il metodo matematico l’unico possibile per spiegare la realtà e spiegarla in maniera compiuta, avvalendosi di leggi certe, stabili, fisse e non soggette ad interpretazione —a differenza di quelle umane. Proprio in questo periodo si aprono degli equivoci: si utilizza il termine “legge” per parlare tanto delle leggi matematiche quanto delle leggi giuridiche. Una corrente di pensiero, di cui Hale fa parte, si oppone al metodo matematizzante, volendo riconferire al diritto un ambito che non è quello —tutto sommato banale— proprio della matematica. Questa critica però apre un grosso problema, ossia quello della certezza: se la matematica, la fisica e la geometria offrono un mondo di certezze —le leggi fisiche e i teoremi matematici una volta dimostrati sono certi— il diritto si presenta in qualche misura come incerto e discutibile. Secondo Berman la risposta si va costruendo in questo tempo: in questo periodo si creano accademie di persone che si riuniscono mettendo in comune il loro sapere. Queste società sono dei centri di circolazione del pensiero e tutti gli studiosi hanno un problema: certificare la validità del risultato scientifico. La risposta che comincia ad essere data in questo momento è interessante, perché in fondo non troppo lontana da ciò che si è detto in passato; si va, infatti, ricercando ciò che è comunemente condiviso in quel momento da parte delle persone competenti in una determinata disciplina: una cosa è credibile in tanto in quanto la maggior parte di coloro che hanno una competenza in materia concordano su quella cosa. Il metodo è applicato tuttora comunemente. Si crea tutto un apparato di strumenti che servono a costruire questo consenso: si tratta di un’idea che presuppone una collegialità, una società di sapienti in qualche modo. In Inghilterra come si vede nel caso di Hale questo nuovo metodo ha anche un carattere religioso. D’altronde anche il Parlamento è visto come un collegio che riunisce tutto il regno; l’idea collegiale contrasta moltissimo con la visione vulgata che vorrebbe un calvinismo fortemente individualista. Lo spirito comunitario della riforma ha avuto un influenza più grande di quella che potremmo pensare nel modo di vivere il diritto. Seguendo Berman, è in questo periodo che nasce un sapere comunitario. Hale, più che ricostruire, costruisce la storia del diritto inglese. In qualche modo la riflessione di Hale costituisce un risultato acquisito, da cui non si torna indietro. Questo risultato consiste fondamentalmente in due aspetti:

Paolo Grossi lo definì un «pensatore del XX secolo»55

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(a) una stabilità del diritto inglese che rimane tale da un'età immemorabile: il senso del continuo richiamo alla tradizione sassone è quello di dimostrare che anche prima dell'arrivo dei Normanni esistessero leggi approvate in Parlamento;

(b) una ricostruzione della mobilità del diritto inglese: attraverso un’indagine storica puntuale, fatta con un richiamo continuo alle fonti, Hale dimostra che esiste una tradizione inglese, stabile, che si manifesta in forme storicamente diverse. Questo tuttavia non inficia la natura degli atti parlamentari; il Parlamento infatti nel corso del tempo si presenta in modi diversi senza che la sua natura venga meno. Non si tratta semplicemente di inventare una tradizione che possa legittimare uno stato di fatto, una pretesa —questo avrebbe prodotto unicamente una visione sclerotizzata del passato; in realtà si tratta di una inventio vera e propria, ossia un ritrovamento della tradizione nelle sue fonti. Sicché la tradizione di cui Hale parla è fortemente corrispondente alla concezione di tradizione in senso bermaniano.

Questa visione storica, profonda e concreta, consente a Hale di costruire una dottrina giuridica che a differenza di quella di altri —es. Hobbes— non si presenta come astratta ma come storicamente concreta e dunque reale. Hale infatti non indugia a immaginare situazioni irreali, come lo stato di natura o la sovranità di tipo del Leviatano, respingendo queste visioni come false: sono gli uomini e gli eventi per Hale a costruire la sovranità che allora è un prodotto storicamente concreto. Ecco perché Hale ha bisogno di richiamare continuamente fonti.

LA DOTTRINA DEL PRECEDENTE VINCOLANTE E LA SUA ESTRANEITÀ A HALE Per Hale non può esistere un pensiero giuridico senza le fonti giuridiche: in termini più generali questo significa che al pensiero di Hale è estranea l’idea di un riferirsi al passato in funzione di un adeguamento in qualche modo meccanico allo stesso. Per meglio dire: le fonti e i documenti non sono citati come dei fatti normativi a cui il giurista del presente deve adeguarsi; in realtà, sono funzionali alla descrizione di una evoluzione che non è in se necessaria. Questa visione è lontanissima dalla dottrina del «precedente» modernamente intesa: se oggi il common law è un diritto a creazione giurisprudenziale, basato —almeno idealmente— sulla regola dello stare decisis ossia del precedente vincolante; Hale invece concepisce le proprie fonti non come precedenti vincolanti: ciò che è normativo non è il precedente ma il principio che sta dietro le forme giuridiche e l’istituzione parlamentare. In realtà, come Berman dimostra, la dottrina del precedente non è affatto una dottrina antica nel common law: fino all'Ottocento non esiste un obbligo di aderire strettamente al precedente giudiziale, non più di quanto esistesse nel nostro sistema ancora oggi. La cosa, si badi, è importante sotto molteplici aspetti: da un lato mette in discussione un aspetto del common law che oggi costituisce per così dire l'elemento determinante la sua identità: Berman intende dire che la tradizione di common law come si presenta oggi non è una creazione esistente da sempre ma un esito a cui si è arrivati negli ultimi duecento anni; il metodo attraverso il quale viene compiuta la riflessione giuridica. Se nella tradizione inglese prima dell'Ottocento non c’era la dottrina del precedente vincolante, una decisione giudiziale non era semplicemente l’enunciazione di un principio giuridico; noi dobbiamo ricavare il principio in questione da un testo che dice molte cose e non è affatto un passaggio semplice . Della 56

sentenza di common law allora diviene precedente il principio giuridico (la «massima» direbbe un giurista di civil law). Occorre allora che si sviluppi una tecnica specifica che consenta di individuare il principio giuridico fondamentale della decisione. E questa tecnica nasce sul terreno della storia, negli anni in cui Hale opera e scrive: il principio giuridico della decisione è quel principio in assenza del quale la decisione sarebbe stata diversa; tutto ciò che noi possiamo togliere alla decisione senza alterarla non è principio: dal corpo della sentenza, in questo caso, dobbiamo togliere ciò che è superfluo e conservare l’essenziale . Ma la dottrina ai tempi di Hale non sentiva alcun bisogno di irrigidirsi in 57

Alcuni esempi chiariranno meglio: le Novellae giustinianee sono più lunghe del Codice, dal 56

momento che in quest’ultimo sono raccolte solo estratti delle costituzioni imperiali, volti ad isolare dalle stesse un principio giuridico; mente invece le Novellae raccolgono intere costituzioni. Allo stesso modo scorrendo il Liber Extra si trova spesso l’espressione et infra, ad indicare che la decretale originaria era molto più lunga; nondimeno Raimondo di Penyafort era interessato solo ai principi giuridici sottesi alle stesse. Parimenti, nei codici commentati ogni articolo è commentato con riferimenti non già alle sentenze intere, ma soltanto con le massime.

Un paragone tratto dall'arte: Michelangelo diceva che l’arte consiste nel levare .57

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quella del precedente. Si noti che nel Digesto, Libro I, titolo III in una delle prime leggi si dice che conoscere le leggi non «est verba earum tenere, sed vim ac potestate». Ecco allora che la tradizione inglese è affine ad un modo di pensare che lungi dall’essere matematizzante fa riferimento alla pluralità dei casi per ricavare da essi eventualmente un principio. Esattamente come gli scienziati della natura, ai tempi di Hale, si sforzavano di ricavare dall’esperienza le nuove leggi della fisica e della chimica che pure esprimevano in senso matematico.

IL PROBLEMA DELLE FORME D’AZIONE Ciò che Hale ci ha detto nel testo che abbiamo letto è di capitale importanza, mettendo a fuoco una serie di problemi specifici di cui abbiamo già qualche cognizione: in particolare il problema delle c.d. forms of action. Ricordiamo che il common law nasce dalla istituzione di corti di giustizia che si formano nel regno per giudicare casi specifici —e non già applicando un diritto comune di Inghilterra—, quali propaggini del potere del Re e del suo Consiglio. Noi oggi abbiamo in mente il procedimento giudiziario come una serie di atti che vanno compiuti in un certo modo; nondimeno, nel nostro sistema attuale esistono alcune azioni distinte (azioni possessorie, azioni reali, ecc), ma un processo di cognizione unico per le pretese legittime vantate. Così non è invece nel common law, dove la competenza delle corti essendo limitata a casi specifici prevede che per ogni questione vi sia una specifica azione. Colui, infatti, che voglia adire una corte di common law deve presentarsi alla cancelleria della corte ed ottenere un writ che imponga alla controparte di comparire innanzi alla Corte stessa per sostenere un giudizio intorno ad una certa questione. Il processo è di tipo formulare ed è fondamentale scegliere la formula d’azione giusta in base alla pretesa vantata; chiedere il writ sbagliato significa infatti perdere la causa —esattamente come avveniva con il pretore nell'antica Roma. Le corti cominciano a creare nuovi writs per nuovi casi (es. writ of trespass on the case) alla stregua delle actiones utiles romane. Le forme d’azione erano limitate, ma non era questo il problema. Infatti, anche nel caso in cui si fossero potute estendere all’infinito, il grande problema di esperire l’azione giusta —e il rischio di sbagliare perdendo la causa— sarebbe rimasto. Si deve altresì aggiungere che ciascuna di queste forme d’azione era legata ad una istruzione probatoria specifica: i fatti a sostegno della pretesa dell'attore potevano e dovevano essere provati in certe forme e non in altre; forme che peraltro sono spesso arcaiche, risalendo ad un’età antica e che sono sempre meno comprensibili e giustificabili . 58

D’altra parte la tradizione romano-canonica aveva sviluppato un processo del tutto diverso che partendo dagli stessi strumenti si era evoluto in forme più razionali; la situazione di partenza era sostanzialmente uguale a quella inglese: è la parte lesa a doversi far carico di denunciare l’offesa, così come le prove sono le stesse; tuttavia a partire dal Concilio Lateranense IV (1215) la Chiesa condanna le ordalie e si avvia il processo inquisitorio di cui si è già detto, il quale si avvale di 59

prove c.d. razionali. La dottrina processualistica non si è accontentata di questo, realizzando una dottrina della prova estremamente complessa , basata sul modo aristotelico di concepire la conoscenza, 60

partendo cioè dalla sensazione (conoscere come percepire): si passa così alle testimonianze (vedi Consilium di Bartolo); secondo questa dottrina il testimone deve testimoniare correttamente: non già per sentito dire, ma per aver visto. Inoltre, sulla base della tradizione cristiana servono almeno due testimoni per accusare un soggetto. Ma quid juris se la testimonianza è una sola? La testimonianza è una mezza prova; il resto della prova spesso era estorta all'imputato attraverso la tortura. Questa dottrina è in realtà funzionale a limitare la discrezionalità del giudice. La dottrina è estremamente complessa e molto razionale che cerca di riequilibrare una serie di elementi (tra cui anche la tortura); il sistema è estremamente moderno, durando quasi immutato fino al Settecento. Questo sistema processuale, privo di forme d’azione, fa concorrenza al processo di common law e si trova come tale applicato nelle prerogative courts.

Ad esempio il giuramento: la necessità del convenuto di provare i fatti giurando e facendo 58

giurare una serie di altri soggetti insieme a lui

Procedimento sacro che chiamava in causa Dio, chiamato ad assolvere o a condannare il 59

soggetto.

vedi Alessandro Giuliani, Il concetto di prova60

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Una volta avvenuta, la rivoluzione inglese spazza via le corte di prerogativa —molte le abolisce, altre le riconduce sotto il controllo delle corti di common law. Nondimeno, la procedura usata nelle corti di prerogativa non viene dimenticata ed anzi influisce sulla procedura di common law contenendo modelli molto più adatti ai tempi. D’altra parte ci sono anche altri aspetti che concorrono e che sono altrettanti fondamentali, ad esempio lo spirito di collegialità che abbiamo visto all’opera nella tradizione protestante, specialmente in Inghilterra.

LE FINZIONI GIURIDICHE Un altro elemento che si può isolare è la finzione giuridica: che cioè si possa fingere la sussistenza di certe condizioni giuridiche anche quando di fatto le stesse non sussistono. Non si tratta già di una falsificazione della realtà, ma di fingere una situazione che non c’è per poter estendere una tutela giuridica a casi che altrimenti ne sarebbero privi (o non l’avrebbero in misura sufficiente). L’uso della finzione giuridica è molto ampio e sicuramente non è proprio soltanto del diritto inglese ; nondimeno, 61

in Inghilterra si rende più necessario che altrove dal momento che gli strumenti di tutela previsti dal common law erano nati in un momento in cui la situazione sociale ed economica era assai diversa da quella che si presentava nel XVI secolo: se ad esempio, nel diritto feudale ciò che contava era il possesso di un bene —perciò tutti gli strumenti giuridici che il diritto feudale offriva erano a tutela del possesso più che della proprietà— per estendere la tutela giuridica anche alla neo-concepita proprietà occorre ricorrere a delle finzioni. Il diritto feudale inglese presentava delle caratteristiche singolari, una delle quali era rappresentata dal ruolo del possesso del bene, basato sul rapporto interpersonale tra il signore e il vassallo, il secondo dei quali era subordinato al primo . I Libri Feudorum infatti parlano continuamente di possesso (in 62

inglese tenure). Se questo è stato vero per i secoli precedenti, gradualmente le cose cambiano emergendo la necessità di tutelare non solo il possesso ma anche la proprietà: accanto alla tenure feudale, infatti, i nuovi proprietari terrieri sono mercanti, ecc. Accanto al possesso feudale cominciano a crearsi tipi di proprietà differenti per cui i rimedi di common law non sono più sufficienti. Come allora tutelare queste situazioni usando strumenti che sono nondimeno antiquati? Come, cioè, adattare una forma d’azione pensata per il possesso feudale ad una situazione completamente diversa? La soluzione è la finzione giuridica. La situazione ricorrente nella tradizione feudale era che colui che fosse nel possesso di un bene ne fosse spossessato da un altro e dunque ne reclamasse indietro il possesso; era dunque necessario trasformare un’azione di tipo possessorio (azione di evizione possessoria) in un’azione di tipo petitorio. Un esempio ci permetterà di capire la complessità dell’operazione: ammettiamo che il signor Smith, ricorrente, rivendicasse la proprietà della terra espropriatagli da Saunders; si finge che Smith abbia locato la terra a John Doe, che in realtà non è mai esistito. Si finge altresì che mentre John Doe era nel possesso della terra un’altra persona, John Roe, (anche costui inesistente) l’abbia spossessato. Si finge che John Roe fosse in realtà un locatario di Saunders (persona che è il bersaglio dell'azione fino dall'inizio). A questo punto il primo locatario Doe avrebbe fatto un’azione di evizione contro Roe; Roe si sarebbe difeso, ma Roe non esiste; sicché si finge che Roe abbia detto a Saunders che Doe avesse fatto causa contro di lui (Roe), ma che lui, Roe, non intendeva difendersi cosicché avrebbe dovuto difendersi direttamente Saunders. Così la causa si sposta su questo punto: chi tra Saunders e Smith era legittimato a locare? Dell'azione inoltre si dà pubblicità cosicché chiunque volesse può intervenire. In questo modo alla fine il giudice assegnava la proprietà all'uno o all'altro pur essendo passato attraverso una formula particolare, in cui si sono finti una serie di elementi.

In fin dei conti, la stessa dottrina delle presunzioni (specie quella delle presunzioni assolute) o 61

dell'intangibilità della res iudicata sono delle finzioni.

Il vassallo giurava fedeltà al signore e il signore giurava al vassallo corrispondente fedeltà. 62

Accompagnava di solito la costituzione di questa relazione la concessione di un feudo, che poteva essere una rendita (il signore pagava al vassallo una rendita sul proprio tesoro) ovvero un bene immobile (il signore investiva il vassallo di un bene immobile, da cui il vassallo ricavasse ciò che gli serviva per vivere). In occasione dell'omaggio il vassallo prestava il giuramento e il signore consegnava un oggetto simbolico. In realtà, nei Libri Feudorum veniva detto che l'investitura non era esattamente così, ma che si perfezionasse solamente con la presa del possesso del vassallo

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IL RUOLO DELLA GIURIA NEL PROCESSO DI COMMON LAW Uno dei tratti peculiari della tradizione giuridica inglese, a tal punto da essere quasi totalmente assente nelle altre tradizioni è la giuria ed il suo ruolo nel processo. Si tratta di un’istituzione molto peculiare di cui in realtà gli ordinamenti continentali sono sostanzialmente privi: non perché non ci sia una partecipazione popolare al giudizio, ma perché quando essa c’è, si esercita in forme differenti : 63

facilmente questo potrebbe indurci ad esasperare la differenza tra gli ordinamenti di common law e gli ordinamenti di civil law contraddicendo invero una delle tesi di Berman, il quale invece li ritiene molto simili. Per comprendere il senso di tutto questo dobbiamo tuttavia una volta di più avere il coraggio di guardare un po’ più indietro nel tempo rispetto a quanto possiamo vedere oggi. Un primo dato è che la parola giuria (in inglese jury) ha a che fare con il verbo “giurare”: i componenti della giuria sono infatti dei giurati. L’idea che il giudizio su un fatto debba essere affidato ad un gruppo di persone vincolate da un giuramento non è specificamente inglese; qualcosa di simile si trova infatti in tutti quegli ordinamenti nati dopo la caduta dell’Impero romano, di origine germanica: in essi era richiesto di provare un fatto mediante il giuramento fatto con alcune persone . Il giuramento è un atto 64

solenne, in cui si chiama Dio come garante della verità di ciò che si afferma; bisogna però riflettere sull’oggetto del giuramento. Che cosa, infatti, si giura? E quindi che funzione processuale ha il giuramento? In un processo si chiede di giurare sulla verità dei fatti (es. sull’innocenza di Tizio, accusato di aver rubato una vacca ad un contadino), quando mancano delle prove. Noi siamo abituati a pensare al processo come quel luogo in cui vengono esibite e discusse delle prove, sulla base delle quali si dà un giudizio: ma quando non si possono esibire prove si suppone che le persone che giurano (coniuratores) sappiano come effettivamente siano andate le cose. Immaginiamo ora di essere chiamati a far parte di una giuria inglese al giorno d’oggi: non si supporrebbe in nessun modo che noi conosciamo i fatti, ma anzi ci verrebbe chiesto di dimenticare qualsiasi cosa sappiamo sul processo, la nostra conoscenza sui fatti dovendosi basare sulle prove acquisite e discusse nel processo: ai tempi invece i giurati erano scelti non semplicemente in quanto persone affidabili ma in quanto presunti conoscitori dei fatti del processo (es. i vicini di casa di un accusato). Questo sistema era adottato tanto nel continente quanto in Inghilterra. Berman tuttavia ci ricorda che progressivamente le cose vanno cambiando: infatti, il sistema giuridico inglese ad un certo punto allo stesso modo degli altri sistemi giuridici continentali, va verso una razionalizzazione dell’apparato probatorio. Sempre più, infatti, non ci si accontenta di chiedere ai giurati se Tizio fosse colpevole e innocente sulla base di ciò che si presumeva essi sapessero; sempre più invece la giuria ascolta delle testimonianze altrui, osserva delle prove, ecc. In sostanza la componente auto-informativa della giuria viene meno: i giurati cominciano a diventare soggetti passivi, che attendono cioè di essere informati sui fatti; sempre più l’accusa in un giudizio non è mossa dalla vittima dell’illecito, ma da una parte pubblica. L’idea è quella che la corte non sia semplicemente il luogo in cui offensore e vittima si sfidano, ma in cui partecipa anche un soggetto pubblico che compie una inquisitio: in realtà è il diritto canonico, con la sua attenzione agli illeciti «occulti» che avvengono coscienza, che consegna questa idea alla tradizione giuridica occidentale. Gradualmente in Inghilterra e sul continente va affermandosi l’idea che i giurati —portati dalla tradizione canonica nel numero di dodici— agiscano come un unico soggetto per cui in realtà non è il voto di sette contro cinque ma l’intera giuria deve esprimersi per giudicare; il passo successivo è prevedere l’unanimità come modalità di voto della giuria . Berman opportunamente sottolinea che le giurie così concepite fossero poco 65

propense a condannare: cosicché interviene il sistema inquisitorio a “produrre” più colpevoli. Gradualmente nondimeno la giuria si perfeziona, assumendo un ruolo sempre più contrapposto a quello del giudice. Fin dalle origini in realtà il sistema funzionava attraverso due poli: il giudice da una parte ed un corpo di coniuratores, distinto rispetto a quello dall’altro; ma che succede se la giuria non si uniforma alle indicazioni del giudice (es. se al termine del processo in cui si siano esibite delle prove il giudice ritenga l’imputato colpevole ma la giuria lo creda innocente)? All’epoca il giudice spesso costringeva la giuria a pronunciarsi in modo conforme al suo giudizio attraverso la minaccia di

I c.d. giudici popolari che siedono ad esempio in Italia nelle Corti d’Assise non sono affatto una 63

giuria, ma componenti dell’organo giudicante.

Una cosa del genere è già prevista nell’Editto di Rotari64

Vedi La parola ai giurati, un film di Sidney Lumet65

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sanzioni pecuniarie e detentive. Solo negli anni della rivoluzione inglese si va affermando l’idea per cui il giudice e la giuria possano giungere a conclusioni differenti, pur partendo dalla stessa base conoscitiva. Ciò è talmente legittimo che l’opinione della giuria prevale nonostante il diverso avviso del giudice. Il fondamento principale di questa idea riposa su una constatazione di fatto: che pur partendo dalle medesime conoscenze ciascun giudice potrebbe esprimere un giudizio diverso. Infatti, il diritto non è come la matematica: quello giuridico è un ragionamento probabile; in questo vi è necessariamente un certo grado di incertezza. Proprio questa necessaria incertezza del giudizio consente ai giuristi di common law di giustificare la divergenza di opinione tra giudice e giuria e anzi di farne un presupposto per affermare l’indipendenza della giuria rispetto al giudice. Questo avviene su due versanti: la giura, infatti, ai tempi era tanto giudice del fatto quanto giudice del diritto. Alla giuria, infatti, non viene chiesto soltanto di stabilire se Tizio ha sferrato una coltellata a Caio; alla giuria è chiesto di stabilire se Tizio è colpevole di omicidio oppure no: il che —si capisce— non è più soltanto una questione di fatto, ma una questione di fatto giuridicamente qualificato quindi, di diritto. Questo non determina che il giudice sia privato della sua capacità di dirigere il processo, potendo ad esempio far cadere l’imputazione: semplicemente non può più costringere la giura a pensarla come lui.

LA SITUAZIONE DELL’IMPUTATO PRIMA E DOPO LA RIVOLUZIONE INGLESE La nascita della giura corre parallelamente al mutamento delle condizioni del reo di una causa penale. Anche in questo caso Berman opportunamente individua una grande differenza tra la situazione del reo prima e dopo il 1640. Il reo prima del 1640 è segregato ed isolato, non godendo di alcuna protezione giuridica spesso ignorando l’accusa che gli è mossa e non avendo diritto ad una difesa; il reo non era nemmeno legittimato a conoscere l’identità dei giurati; durante il processo poteva essere interrogato dall’accusa e dalla giuria senza criteri determinati tantomeno il diritto a non rispondere; le testimonianze a suo carico —quando esistono— non si costruiscono in giudizio ma sono semplicemente lette alla giuria senza la possibilità di confronto tra l’accusato e i testimoni a suo carico. Anche quando il testimone depone il giudizio in realtà non vi è il filtro di un avvocato: è l’imputato che al massimo può interrogare il proprio testimone, senza necessariamente dirigere la difesa in maniera fruttuosa (compito che sarebbe appunto proprio dell’avvocato). I testimoni erano quasi sempre quelli a sostegno dell’accusa. Berman ricorda che ancora nel 1603 il giudice Edward Coke aveva potuto affermare che il processo inglese non era, come aveva affermato l’accusato, «per giuria e per testimoni», quanto invece «per inchiesta»: ciò voleva dire che in realtà ciò che era centrale nel processo non era il fatto che vi fossero dei testimoni ma una inquisitio. La prova di questo fatto per Coke era questa: all’affermazione per l’appunto che il processo dovesse essere per giura e testimoni egli rispondeva: «No, per inchiesta: se sono in tre a cospirare un tradimento e tutti e tre lo confessano, non c’è alcun testimone eppure essi sono condannati». La confessione, invece, è qualcosa che in realtà è sempre dubbio: invece nel sistema dell’inquisitio essa rileva. Ma in realtà uno può confessare per la pressione esercitata su di lui; perché intende salvare qualcun altro; perché ha un qualche interesse in tutto questo. Nel processo per inquisitionem invece la confessione ha un ruolo decisivo, essendo spesso l’unico mezzo di prova in grado di risolvere il processo in un senso o nell’altro . 66

Si pensi a Giordano Bruno, processato, condannato e bruciato in Campo de’ Fiori. Pensatore 66

influente nella sua epoca, egli appartiene culturalmente ad una tradizione umanistica che si sentiva libera di sottoporre a discussione qualsiasi argomento in un momento in cui —dopo il Concilio di Trento— non è più il tempo di discutere ma di schierarsi invece da una parte o dall’altra. Quando egli è arrestato a Venezia e si svolge il processo Roma insiste perché il Bruno sia estradato e ciò viene fatto. Giordano Bruno viene trattato come tutti gli altri accusati del Tribunale dell’Inquisizione romana, quindi in modo più umano di quanto avvenisse in altre carceri.Quando i consultori si riuniscono per giudicare Bruno hanno il problema che lo stesso si è difeso in giudizio, spiegando cosa volesse dire nei suoi scritti. Sicché i consultori si dividono: vi è chi dice che vada messo in libertà e vi è chi dice che debba essere torturato e, qualora continuasse a negare, messo in libertà. Il Papa interviene personalmente in giudizio e, per ragioni politiche, interrompe tutto e fa fare il giudizio non a consultori ma ai teologi, che così condannano il Bruno sulla sola base di ciò che egli ha scritto con le proprie opere. Si è visto che la confessione e la tortura in questo caso sono richieste non per condannare ma, se possibile, per assolverlo.

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Dopo il 1640 tutti questi aspetti cambiano: l’accusato è trattato meno duramente; è informato dell’accusa a suo carico e dell’identità dei testimoni; può controinterrogare e farsi assistere da un avvocato. In particolare questo si afferma non soltanto in generale ma in particolare per il delitto (gravissimo) di tradimento. Questo fatto è importante: avere queste garanzie per un delitto così grave permetteva di aprire la concessione delle stesse garanzie a tutti gli altri casi. Questi cambiamenti avvengono nel giro di poco meno di qualche decennio.

L’ADVERSARY SYSTEM: LE TESTIMONIANZE IN CONTRADDITORIO Berman evidenzia come in questo periodo nasca anche il c.d. adversary system, ossia l’idea che le testimonianze a carico dell’imputato debbano essere assunte in contraddittorio. Questo è un fatto importante dal punto di vista processuale; è infatti molto diverso assumere una testimonianza leggendo la dichiarazione che in un altro momento il testimone ha resto dal sentire la stessa in processo con la possibilità di contestarla. Dietro a tutto questo ci sono dei principi dottrinali molto importanti. D’altra parte —e questo tratto distingue ancora oggi il processo inglese da quello continentale— tutto questo avviene ad opera principalmente degli avvocati delle parti: nei sistemi continentali in varie maniere il ruolo centrale è quello del giudice. Berman peraltro scrive di queste cose nel suo volume rivolgendosi più che altro ai giovani giuristi americani, spesso convinti —in modo erroneo e a cagione di pregiudizi— che nei sistemi di civil law viga una presunzione di colpevolezza.

CONCLUSIONI L’evoluzione della situazione inglese che Berman descrive in parallelo a quanto ha fatto con quella tedesca, tocca molti altri ambiti: la religione, la liturgia, la Bibbia (King James's version ); di questi aspetti si occupano sempre 67

di più l’autorità secolare e le comunità stesse. Ma la comunità comincia anche ad occuparsi della assistenza ai poveri, che prima era una prerogativa della Chiesa, la quale ora ha perso la sua giurisdizione. Nell'Inghilterra del XVI secolo vengono create case di lavoro dove i poveri e i vagabondi sono forzati a lavorare, sulla base dell'idea che il povero che non lavori non meriti assistenza. Anche le parrocchie cominciano ad operare facendo assistenza ai poveri. Lo stesso accadeva nel campo dell'istruzione: la riforma infatti aveva affermato il principio per cui ciascuno fosse interprete della parola di Dio; perché ciò potesse essere fatto c’era bisogno di scuole. Nascono allora delle scuole, per iniziativa pubblica e anche per iniziativa privata, con delle strutture di tipi associativo (i.e. insieme di persone che raccolgono i fondi per pagare un maestro). Proprio perché la scuola insegna ad essere dei buoni cristiani, essa insegna anche ad essere buoni sudditi e buoni cittadini con una severa disciplina di tipo puritano. Il testo fondamentale di insegnamento resta la Sacra Scrittura: nasce una morale di cui si interessano non più soltanto le autorità ecclesiastiche ma anche quelle secolari: ecco che nasce l’idea per cui le attività immorali debbano essere perseguite. In questo periodo nasce la censura dei costumi. Di queste cose non si occupa più la Chiesa, ma il potere secolare e le comunità in cui l’unico chierico è quello che in ambiente inglese viene detto vicario. Questa evoluzione inglese è del tutto parallela a quella tedesca, con aspetti ovviamente peculiari. In realtà si trova qualcosa di molto simile anche nel mondo cattolico. Questa stessa tradizione in quegli stessi anni non soltanto vive in Germania e in Inghilterra: conosce altresì uno slancio al di fuori del continente europeo, si pensi soltanto alle colonie del nuovo mondo. Spesso le colonie fanno vivere in modo radicale nel nuovo mondo i costumi importati dal vecchio (es. le colonie puritane). Ecco le premesse di quella che sarà la rivoluzione americana che porterà con sé —almeno in parte— la rivoluzione inglese accanto alla rivoluzione illuministica francese. Siamo giunti così al termine di questa lunga cavalcata tra i secoli. Abbiamo visto almeno i tratti fondamentali della tradizione giuridica occidentale che noi incarniamo e abbiamo altresì, se non dimostrato, almeno provato a suggerire che davvero esiste un’unità di fondo tra le tradizioni giuridiche europee: unità che si gioca tutta in questo rapporto —tutt’altro che universale— tra un certo «beliefs system» e il diritto. Forse è il diritto stesso ad essere una credenza. Negli ultimi anni Berman, divenuto molto famoso, era stato invitato a tenere una conferenza in Cina; al termine della sua lezione uno studente cinese chiese a Berman se per prendere i modelli giuridici occidentali —cosa che ai tempi la Cina stava effettivamente facendo— sarebbe stato necessario essere cristiani; Berman rispose di no, ma che comunque bisognasse credere in qualcosa. Se non si crede in altro, per Berman, è necessario credere almeno al diritto quale ars boni et aequi, quale modo giusto per contemperare le pretese. Citando Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame, «nessuna istituzione si applica da sola; sono sempre gli uomini che la applicano»

La versione di Giacomo I d'Inghilterra67