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Alma Mater Studiorum Università di Bologna Anno accademico 2017-2018 Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato dai traceurs Tesi magistrale in Antropologia culturale ed etnologia Di Simone Alfieri

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Alma Mater Studiorum

Università di Bologna

Anno accademico 2017-2018

Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato dai traceurs

Tesi magistrale in Antropologia culturale ed etnologia

Di Simone Alfieri

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Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato

dai traceurs

1. Il parkour oggi…………………………………………………………..2

1.1 Nascita, diffusione e localizzazione……………………………….………...2 1.2 Il parkour fra purezza e linguaggio dello spettacolo…………………….....11 2. Ontologia del parkour…………………………………………………..23 2.1 Parkour e place attachment…………………………….…………………..23 2.2 Parkour e dwelling perspective……………………………………….…....31 2.3 Il tema della corporeità nel parkour………………………………………..40

3. Spazio, percezione e identità: il mondo urbano raccontato dai traceurs………………………………………………….50 3.1 Master the space: esplorazione, vision e reinterpretazione della creatività..50 3.2 Identità e alienazione: il paradosso dell’interconnessione spazio-corpo…..63 3.3 Parkour e quotidianità: ostacoli, paura e crescita personale…………...…..73 3.4 Aesthetic resilience: la resilienza come forma d’arte nel parkour…………83 4. Scaletta per intervista…………………...………………………...…...90 (originale: Interviste integrali, pp. 90-150) Bibliografia…………………………………………………………………....91

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Il parkour oggi

1.1 Nascita, diffusione e localizzazione Provare a definire con esattezza cosa sia il parkour e dove si collochi la sua nascita nel mondo

non è certo cosa semplice, soprattutto a fronte della miriade di informazioni e

video-documentari disponibili oggi sulla disciplina. Ad ogni modo, si tratta di un fenomeno

già di per sé sfuggente alle classificazioni tipiche dell’approccio occidentale, così teso a

definire, categorizzare e amplificare il significato delle cose.

Partirei, innanzitutto, dalla nomenclatura: la parola parkour deriva dal francese parcour che

significa percorso, e sta a indicare appunto l’idea di un percorso tracciato lungo uno spazio.

In questo caso si tratta di un ‘percorso a ostacoli’ in cui il singolo praticante, che in gergo è

chiamato traceur (‘tracciatore’), attraversa un ambiente contornato da barriere e ostacoli e

trova il modo più rapido, efficiente e sicuro per oltrepassarli.

Il parkour, in effetti, vanta molti nomi, parkour, art of movement, freerunning, art du

déplacement, ed è proprio quando ci si sofferma sulla questione del nome che risalta il

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problema di ciò a cui il nome si riferisce: è uno sport? Un’arte? Una filosofia? Una disciplina

fatta e finita? Questione di punti di vista. Il parkour è un po’ tutte le cose messe insieme, una

disciplina plastica e ibrida fondata sulla totale naturalezza e consapevolezza del movimento

corporeo. Insomma, è un fenomeno dalla definizione aperta e modellabile a seconda delle

situazioni e dei soggetti che lo praticano. Molti sostengono che esso non abbia nulla a che

vedere con una predisposizione marcatamente filosofica, ma che sia soprattutto una risposta

spontanea e naturale a determinate condizioni ambientali: arte dello spostamento, disciplina,

stile di vita, ribellione subculturale, il parkour viene etichettato spesso e volentieri in maniera

assai variegata, e questo proprio per via della sua natura plastica e poco ‘regolamentata’ . La 1

realtà è che non c’è nessun accordo specifico sulla definizione di parkour. Esso è

comunemente definito come una disciplina fisica finalizzata all'adattamento totale e continuo

del corpo all'ambiente circostante, un sistema di allenamento che mira a rendere quest’ultimo

più funzionale ed efficace e la mente più rapida e consapevole; è un modo di pensare fondato

su una rigorosa auto-disciplina, sull’autonomia e sulla forza di volontà . È importante, però, 2

precisare che tutte queste sfaccettature derivano da un'unica grande matrice storico-sociale

che racchiude lo spirito più profondo e originario della disciplina, ossia quella forma di

attività fisica nata a fronte delle condizioni di vita quotidiana nelle banlieue parigine degli

anni '90. Sull’argomento si è cimentata soprattutto l’antropologa Julie Angel che, in

Breaking the Jump: The Secret Story of Parkour’s High-flying Rebellion (2016), ripercorre la

storia degli yamakasi, i padri fondatori della disciplina, rielaborando le interviste accumulate

in anni di ricerca su campo e presentando una ricostruzione intima e soggettiva di ognuno di

loro, ossia David Belle, Yann Hnautra, Châu Belle Dinh, Laurent Piemontesi, Sebastien

Foucan, Guylain N'Guba Boyeke, Charles Perriere, Malik Diouf e Williams Belle.

David Belle, universalmente riconosciuto come il maggior esponente nella creazione del

parkour, fu ispirato dall’atleticità del padre Raymond, un franco-vietnamita che introdusse

nel corpo dei pompieri il metodo naturale di Georges Hébert, un sistema di allenamento

1 “Parkour, therefore, is an open ended and unregulated discipline. It has few genuine rules or definitions for what is ‘correct’ and ‘incorrect’ parkour; prompting rifts and battles for essentially false subcultural authenticity within the community on parkour forums and websites”, Thomas William Raymen, The Paradox of Parkour: An Exploration of the Deviant-Leisure Nexus in Late-Capitalist Urban Space, 2017, Durham University, p. 28 2 http://www.parkourwave.com/en/

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basato principalmente sull’esposizione del corpo agli elementi e alle condizioni ambientali . 3

Affascinato dalle capacità tecniche del padre, David, intorno alla metà degli anni ‘80,

cominciò a trasformare quella stima in azione, prendendo spunto dalle tecniche e dando loro

una forma sempre più specifica, intima e, in un certo senso, ‘brutale’ . 4

Di lì a poco egli introdusse quella sua passione a un gruppo di ragazzi di varie etnie

provenienti dalle cittadine di Evry e Lisses, a nord di Parigi e, insieme, cominciarono a

mettere in pratica quei movimenti sia negli ambienti urbani che in quelli naturali, come la

foresta di Sarcelles . Presto essi presero coscienza che quella particolare forma di gioco era 5

diventata molto più di una passione, ossia una vera e propria esigenza ordinaria, uno sfogo

liberatorio da utilizzare a fronte di condizioni sociali misere e problematiche.

Cominciarono a proteggere e categorizzare quell’attività ricorrendo al nome parkour,

storpiamento estetico del termine francese parcour (percorso), e si posero quotidianamente

degli obiettivi personali e di gruppo, quali sfide fisiche e psicologiche che, in un certo senso,

li avrebbero trasformati in uomini . 6

A partire dai primi anni ‘90, gli yamakasi si resero conto di aver preso molto sul serio la loro

attività: da bambini che giocavano per noia si evolvettero in ragazzi con obiettivi definiti,

finalità ispirate a sorgenti quali la filosofia del Taoismo, i film di Jackie Chan, perfino il

‘combat vital’ del parigino Don Jean Haberey . Il parkour cominciò a delinearsi nella loro 7

mente per quella che è la sua natura più funzionale e adattiva, come strumento di reazione

corporea a un ambiente esterno pieno di ostacoli e sfide.

E’ importante però riconoscere che David Belle, dal quale si è sviluppato tutto, non fu l’unico

a praticare l’arte dello spostamento ai suoi esordi. Il parkour, infatti, è stato utilizzato da un

largo gruppo di individui, inclusi Stephane Vigroux, David Malgogne e Frederic Hnautra,

ognuno dei quali ha contribuito a dare una forma più o meno specifica al suo stato

embrionale.

3 Per approfondire vedi Sylvain Villaret e Jean-Michel Delaplace, La Méthode Naturelle de Georges Hébert ou «l'école naturiste» en éducation physique (1900–1939) 4 David Belle è famoso per aver applicato al parkour il suo spirito marcatamente ‘guerriero’ e per la tipologia dei suoi allenamenti, costanti, rigidi e particolarmente ardui. 5 https://www.youtube.com/watch?v=Rwx7BOsb2FM 6 “Training was their own form of multicultural utopia, a way to turn lost, searching boys into men. Against this tense antisocial backdrop, ‘being strong’ was a personal mantra-cum-obsession to the friends”, Julie Angel, Breaking the Jump: The Secret Story of Parkour’s High-flying Rebellion, Aurum Press Ltd, pp. 68-69 7 Interview with Erwan Le Corre, Conditioning Research, 2009

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Stephane Vigroux, per esempio, è stato essenziale per l’elaborazione del flow o di movimenti

quali il ‘saut de chat’ (salto del gatto), e Yann Hnautra, forte dell’impostazione culturale e

familiare data nel suo paese d’origine, la Nuova Caledonia, è stato una vera e propria guida

motivazionale e spirituale per l’intero gruppo. Insomma, ognuno ha contribuito a suo modo a

dare una forma più specifica al parkour dei primi anni ‘90.

Ad ogni modo, al di là della disciplina in quanto tale, intendo precisare che ricostruire le

origini del parkour significa innanzitutto inquadrare le condizioni sociali di vita nelle

banlieue parigine degli anni ‘80 e ‘90, caratterizzate da alti tassi di criminalità e scontri

quotidiani con le forze dell’ordine . A tal proposito, la pellicola di Mathieu Kassovitz, La 8

Haine (L’odio), risulta particolarmente interessante in quanto riproduce fedelmente tali

condizioni sociali, da cui poi nacque il parkour. Non a caso la frase simbolo del film

afferma:“l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio”.

Una scena del film L’odio (1995).

8 La Haine & the Social Situation of 1990’s France, 2012, Velvet Studies https://thosessillybohemians.wordpress.com/2012/01/04/la-haine-the-social-situation-of-1990s-france/

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Il parkour è, per sua natura, un’attività visivamente sbalorditiva che è in grado di catturare

all’istante l’occhio e gli interessi esterni. Non appena gli yamakasi cominciarono a definire e

ad affinare le loro tecniche sul palcoscenico urbano, passando da semplici capriole e salti, a

movimenti sempre più complessi e particolareggiati, l’attenzione dei media locali cominciò a

farsi sentire, tanto che quell’innocente ‘saltare per la città’ fu interpretato come potenziale

‘macchina per soldi’. Fu così che nel 2001, in occasione dell’uscita del film di Luc Besson,

Yamakasi. Les samouraïs des temps modernes, si ebbe la prima grande spaccatura nel mondo

del parkour: alcuni dei fondatori (Yann, Chau, Williams) decisero di cogliere l’opportunità

del grande schermo; altri, in particolare David Belle, rifiutarono apertamente la cosa in

quanto la ritennero oltraggiosa e irritante, una sorta di ‘prostituzione’ della disciplina.

Ad ogni modo, grazie a quella pellicola, il parkour fu riconosciuto nazionalmente come

fenomeno culturale, raggiungendo in breve tempo l’attenzione mediatica dell’intera Europa e

i fondatori si ritrovarono, per così dire, famosi da un giorno all’altro. Tuttavia, in un secondo

momento, anche David Belle fu assorbito da quella “calamita commerciale” e divenne

protagonista dello spot BBC Rush hour e del video Speed Air Man, nonché di un secondo 9

film di Besson intitolato Banlieue 13 (2004).

he il parkour fosse apparso sul grande schermo è chiaro, ma per avere un resoconto accurato

sull’arte dello spostamento bisognerà attendere l’uscita del documentario Jump London

trasmesso su Channel 4 alla fine del 2003 con protagonisti i traceurs francesi Sébastien

Foucan, Jerome Ben Aoues e Johann Vigroux.

Questo fu un punto di svolta per la diffusione e la comprensione della disciplina, in quanto

incentrato, oltre che sulla prestazione fisica, sui suoi aspetti più profondi e filosofici.

Con l’uscita del suo seguito nel 2005, Jump Britain, documentario prodotto da Carbon

Media, il parkour fu ufficialmente posto sotto i riflettori di tutto il mondo.

9 https://www.youtube.com/watch?v=VLWfvAWfQ0M&t=4s

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I fondatori durante le riprese del film Yamakasi. Les samouraïs des temps modernes (2001).

Sébastien Foucan sul set di Jump London (2003).

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Negli ultimi dieci anni, con l’avanzare della tecnologia, il parkour è diventato sempre più

popolare. Oggi i canali youtube dei singoli praticanti e da gruppi di traceurs sono pressoché

impossibili da conteggiare, tanto che risulta paradossalmente fuorviante farsi un’idea precisa

di un fenomeno che sta evolvendo in maniera sempre più rapida e specifica.

Ogni traceur, infatti, è rappresentante di una singola comunità ed è, a sua volta, rappresentato

dalla quella stessa comunità in termini di appartenenza culturale e attività sociale.

Da questo punto di vista il parkour, così come altre tendenze contemporanee, rientra in quello

che Bauman ha definito processo di ‘glocalizzazione’, ossia l’effetto scaturito dalla

globalizzazione rapportata a livello locale . Secondo questa logica il vero fondamento della 10

società è dato dall’interazione fra individui appartenenti a una data realtà sociale, i quali

usufruiscono dei vantaggi offerti dal mondo globalizzato per intessere una rete di

informazioni e saperi da diffondere entro i propri confini relazionali.

Un curioso paradosso sta nel fatto che la disciplina è diventata accessibile e fruibile

soprattutto a livello locale, e che grazie alla digitalizzazione e a trend quali blogging e

videosharing è possibile che esse si incontrino/scontrino da una parte all’altra del mondo

creando spunti, dibattiti e nuove forme della disciplina stessa.

Il parkour, in effetti, è soggetto a innumerevoli discussioni riguardanti soprattutto la sua

essenza: trattasi in particolare di distinguere il parkour inteso come disciplina simile alle arti

marziali, e quindi con un certo rigore sia teorico che pratico, e il parkour delle acrobazie e dei

‘trick’ (backflip, sideflip, kork ecc.), paragonabile alla ginnastica artistica, incentrato più

sull’idea di performance. Su questo punto torneremo nel capitolo successivo.

La scuola di Parkourgenerations, ad esempio, insegna che ‘parkour’, termine che libera la

gente dai limiti e dai metodi convenzionali di movimento e di spostamento, è comunque solo

un termine. La sua visione è che, benché la comunicazione odierna richieda l’utilizzo di

termini universalmente riconosciuti e accettati, il concetto che si sta esprimendo è più

importante di qualsiasi nome o etichetta. Il movimento è sempre movimento, ed è la

padronanza che ciascuno ha su di esso che va ricercata e coltivata.

10 Globalizzazione e glocalizzazione, Zygmunt Bauman, 2005, Armando editore

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Il parkour degli ultimi anni sta crescendo lontano dalle sue radici di Lisses o Evry, ed è

diventato una pratica subculturale mondiale costantemente rimodellata e rimodellabile a ogni

nuova generazione. In effetti, grazie ad ogni nuovo soggetto generazionale, la disciplina trova

una nuova via di espressione che è, per sua natura, imprevedibile e nebulosa, difficile da

identificare e comprendere del tutto. Il parkour si è evoluto (e si sta evolvendo) in maniera

sempre più creativa e strutturata e la sua diffusione sta innescando un importante processo di

valorizzazione degli spazi urbani sia nelle grandi città che nei piccoli centri.

Molti spot, infatti, sono diventati luoghi simbolo attorno ai quali traceurs di tutto il mondo si

riuniscono in occasione di contest, raduni o viaggi di allenamento ed esplorazione, i

cosiddetti ‘parkour trip’; fra questi rientrano l’isola di Santorini, gli storici spot di Evry e

Lisses, dove si trova la Dam du lac (Dama del lago), una struttura simile a una piramide sulla

quale ci si può arrampicare, e quelli di Londra come il dismesso Vauxhall, i muri di Imax e

Avenue Park. Per quanto riguarda l’Italia, invece, possiamo menzionare lo spot milanese di

Romolo, Corticella e ‘Lo scarabeo’ a Bologna, ‘Le banche’ a Padova, Stezzano e il parco

Goisis a Bergamo.

Oltre alla questione politica della riappropriazione dello spazio, molte comunità di praticanti

sono attive anche dal punto di vista sociale grazie soprattutto alla promozione dell’attività

sportiva; in riferimento all’Italia, ad esempio, l’impegno dell’associazione Parkourwave è

stato decisivo per l’ampliamento della conoscenza della disciplina a livello nazionale.

In ogni caso, il modo di vivere la disciplina in vari contesti locali, è costruito sulla base di un

continuo contatto con il mondo esterno (reale e/o virtuale). Senza il contatto con l’esterno, e

quindi con l’idea di globalizzazione, la singola comunità di parkour non può ampliare il suo

bacino conoscitivo, il che si traduce in un effetto contrastante con quelli che vedremo essere i

suoi valori portanti di condivisione, solidarietà e apertura mentale.

A differenza di alcuni decenni fa, in cui gli yamakasi ebbero in qualche modo ‘carta bianca’

nel plasmare la loro disciplina, oggi, nonostante l’infinito bacino di possibilità espressive

offerte dal parkour, risulta estremamente difficile mantenere intatta la propria identità

corporea, poiché spesso il praticante tende a identificarsi troppo nei movimenti di altri

traceurs. È questo un altro dei temi ricorrenti fra chi pratica parkour.

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Questa parentesi storica è stata per lo più introduttiva e necessaria per inquadrare il fenomeno

nella sua cornice originaria e nel suo attuale momento evolutivo.

Nel prossimo capitolo, invece, discuteremo uno degli argomenti topici del parkour di oggi: la

spettacolarizzazione. Prima però vorrei elencare quelli che sono i maggiori temi toccati dagli

studi sul fenomeno, così da poter affrontare i prossimi capitoli con maggior consapevolezza,

soprattutto in vista della parte empirica:

- Il parkour è anzitutto una forma d’arte, l’arte dello spostamento, e come tale si sta

evolvendo al di là delle sue concezioni funzionali e di adattamento all’ambiente;

- Il parkour è considerato una sorta di reazione o ‘ribellione’ sociale/culturale a una

serie di costrizioni dettate dalla vita urbana, ed è un’attività che consente di

ri-appropriarsi liberamente dello spazio circostante;

- Dal punto di vista sociale il parkour è un potente strumento di inclusione poiché

facilmente accessibile e fruibile a tutti, senza particolari attrezzi, strutture o gadget (in

realtà negli ultimi anni c’è tutto il tema dei parkour park costruiti appositamente per

praticare la disciplina, cosa che contrasta con l’essenza della scoperta e

dell’adattamento continuo del corpo all’ambiente cittadino);

- Il parkour abitua i suoi praticanti ad affrontare il tema del rischio, a mettersi nelle

condizioni di oltrepassare ostacoli apparentemente impossibili da superare, a livello

fisico, mentale o entrambi. In questo senso lo studio del fenomeno parkour tocca

questioni psicologiche, fisiologiche, cognitive e sociologiche;

- Il parkour induce a riconnettere il proprio corpo con l’ambiente circostante, qualcosa

che l’uomo moderno sta perdendo lentamente e in maniera per lo più passiva. Grazie

a questa riconnessione il soggetto acquisisce competenze trascurate e consapevolezze

nuove su di sé, lo spazio e gli altri.

Quest’ultimo è il macrotema antropologico sul quale si sviluppa il mio lavoro, incentrato

principalmente sugli effetti percettivi che il traceur esperisce durante la sua pratica,

considerata come attività di congiunzione con l’ambiente esterno.

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1.2 Il parkour fra purezza e linguaggio dello spettacolo

Come abbiamo visto, il parkour nasce come reazione più o meno spontanea a condizioni di

vita precarie e difficili, per poi evolversi all’interno di una cornice più propriamente

commerciale grazie soprattutto all’uscita di Yamakasi (2011) e Jump London (2003).

Con l’avanzare della tecnologia è aumentata la possibilità di condividere e diffondere

informazioni su ogni tipo argomento, e così è stato anche per il parkour, fenomeno la cui

popolarità è oggi più viva che mai. Grazie soprattutto a youtube e all’attività di sharing sui

social media, la sua conoscenza è incrementata a dismisura nel giro di pochi anni ed è

culminata in una diffusione pressoché inarrestabile. La fama del parkour, infatti, ha catturato

l’immaginazione collettiva delle nuove e vecchie generazioni non solo grazie alle opportunità

date dalla tecnologia, ma anche grazie a una vasta gamma di strumenti “ludico-commerciali”

quali talent show, videogame come Mirror’s Edge o Assassin’s Creed, e spot dedicati al

fitness contemporaneo in tutte le sue possibili varianti.

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Da questo punto di vista possiamo considerare la diffusione del parkour come una

conseguenza del fatto che esso è entrato a far parte della cultura consumistica e

dell'informazione digitale a livello globale. Al fine di collocare il fenomeno all’interno di

queste logiche simbolo dell’era contemporanea, vorrei partire da un famoso saggio di Guy

Debord intitolato La Société du Spectacle (1967). Secondo la prospettiva del filosofo

francese, la società odierna è caratterizzata da una predisposizione alla spettacolarizzazione

delle cose: tutto è commerciabile, dai prodotti, ai servizi, alle immagini, e tutto è spettacolo in

quanto vale esclusivamente per come appare. Anticipando la realtà di diverse decadi, 11

Debord è stato in grado prevedere la trasformazione sociale e comunicativa che ha condotto

l’uomo postmoderno al di là dell’atteggiamento consumistico, precisando che egli, da

consumatore informato e passivo, sarebbe divenuto un attore creativo e, allo stesso tempo,

soggetto all’illusione di un’apparenza sul palcoscenico sociale.

Questo significa che nella società dello spettacolo delineata dall’intellettuale francese, la

comunicazione è uno strumento così pervasivo da influenzare tutti gli ambiti della vita

umana, dalla famiglia al lavoro, dai sentimenti ai desideri, dai progetti alle aspirazioni.

Tutto ciò conduce alla prevaricazione di ciò che potremmo definire il ‘non-essere’ inteso

come fossilizzazione dell’identità umana, data soprattutto dalla diffusione repentina delle

nuove tecnologie dell’informazione create dalla scienza occidentale.

Fra le 221 teorie elaborate nella sua opera, Debord afferma:

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini”. “Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza”. “La società basata sull'industria moderna non è fortuitamente o superficialmente spettacolare, essa è

fondamentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell'economia dominante, il fine non è

niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso” . 12

11 “Senza dubbio il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere”, Ludwig Feuerbach, prefazione alla seconda edizione de L'essenza del Cristianesimo (1841) 12 Guy Debord, La società dello spettacolo (2008), p. 11, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano

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Nella società dello spettacolo tutto viene realizzato e vissuto solamente in funzione di come

verrà percepito dagli altri soggetti-spettatori: l’uomo contemporaneo cessa di valere per

quello che ‘è’ e inizia a valere per come ‘appare’.

L’excursus sull’opera di Debord è stato necessario per inquadrare la dimensione della

spettacolarizzazione odierna come una vera e propria calamita per qualsivoglia fenomeno e

tendenza sociale, incluso il parkour. In parallelo a questa analisi, infatti, possiamo affermare

che esso rientra a pieno nelle logiche della società dello spettacolo descritta dal filosofo

francese; ma vediamo come e attraverso quali elementi.

Per cominciare, partirei da un recente lavoro pubblicato da Emanuele Isidori, professore di 13

pedagogia generale e sociale all'Università di Roma Foro Italico e responsabile scientifico

della collana Education & Sport Studies, il quale afferma che la società dello spettacolo è

rappresentata fondamentalmente da otto elementi distinti. Al fine di rendere l’analisi più

lineare, provvederei innanzitutto a suddividerli in generali e specifici: quelli generali sono

l’individualismo, il consumismo e la globalizzazione; quelli specifici, sono l’egemonia di

internet, la tecnofilia, l’importanza socio-culturale dei media, la democrazia della fama e il

focus sui giovani. In merito a quanto riportato finora, si nota che il parkour è strettamente

riconducibile a ognuno di questi elementi. Per quanto riguarda la tecnofilia, ad esempio,

vedremo che l’espressione del sé, che in tale disciplina è veicolata principalmente dal corpo,

passa attraverso un uso spesso incondizionato dei social media, a tal punto da rendere

quell’opportunità di espressione alienante, finalizzata esclusivamente all’attività di sharing, la

quale diventa il reale obiettivo del traceur.

Di contro, tuttavia, va riconosciuto che “ormai la maggior parte della conoscenza umana non

deriva più dall’esperienza diretta del singolo, ma da quella collettiva” , quindi è 14

ragionevole e, allo stesso tempo opinabile, pensare che la connettività virtuale e universale

sia il nuovo fronte di comunicazione del sapere, e per tanto abbia un valore culturale ed

educativo che, per quanto relativamente incomprensibile, è effettivo, reale . 15

Un’altra questione non indifferente riguarda la democratica possibilità di emergere quale

individuo “socialmediamente” famoso, in particolar modo attraverso la rete di contatti

13 La comunicazione spettacolarizzata: una riflessione pedagogica tra Debord e YouTube (2015), Emanuele Isidori, METIS, Mondi educativi. Temi indagini suggestioni 14 L’educazione e gli scenari della comunicazione spettacolarizzata, Emanuele Isidori, METIS, Mondi educativi. Temi indagini suggestioni 15 Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2013), Michel Serres, Bollati Boringhieri, Torino

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sviluppata su social quali facebook o instagram. Internet permette ad ognuno di creare una

propria immagine pubblica e di diffonderla ovunque per mezzo della rete. I giovani, in tutto

questo, sono certamente i soggetti più disinvolti e influenzabili, tanto dediti al consumismo

virtuale.

Un giovane traceur intento a scattare un selfie sui tetti di una cittadina inglese.

Nella società dello spettacolo si vive a cavallo tra la naturalezza delle tecniche corporee,

intese in termini maussiani come base dell’apprendimento e dell’agency, e l’artificiosità delle

tecniche mediatiche e comunicative che rendono qualsivoglia fenomeno sociale condizionato

dal consumismo digitale. Senza dilungarci oltre sull’analisi di Isidori, basti pensare che il

parkour, come molte tendenze sociali contemporanee, è fondamentalmente uno spettacolo

rappresentato su un palcoscenico virtuale la cui platea è il mondo intero (almeno

potenzialmente). La società dello spettacolo, infatti, dà a tutti l’illusione della possibilità di

diventare famosi; non fa che ricordarci che anche noi potremmo essere su quel palcoscenico,

a patto che improntiamo la nostra esistenza sull’apparire costruendo e diffondendo

un’immagine pubblica facilmente spendibile. In linea con queste riflessioni l’industria

dell’intrattenimento rivolge le sue attenzioni al mondo dei giovani, notoriamente buoni

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consumatori perché facilmente influenzabili. Da questo punto di vista, possiamo tracciare una

suddivisione più o meno netta fra due macro-categorie di iniziative commerciali promosse da

TV nazionali e internazionali, nonché famosi brand come Red Bull, le quali hanno contribuito

fortemente alla sua diffusione nel vocabolario globale: i reality e i contest.

Fra i primi rientrano i cosiddetti ‘Got Talent’ quali Ninja Warrior e Italian’s o Britain’s Got 16

Talent, programmi televisivi in cui artisti non professionisti di varie discipline e settori

esibiscono il loro talento sul grande schermo; fra i secondi rientrano le spartan race e in 17

particolare il Red Bull Art of Motion , competizione che, seppur contrastante con i principi 18

originari del parkour, mantiene un certo grado di linearità con quella che è la reale disciplina,

almeno dal suo punto di vista propriamente tecnico ed estetico. Ninja Warrior (abbreviato

NW), ad esempio, è un talent show in cui un gruppo di concorrenti si sfidano per arrivare alla

fine di un percorso ad ostacoli nel minor tempo possibile. Essendo tutto predisposto e

conforme a norme di sicurezza, essi possono permettersi di trascurare cose che nel mondo

reale sono importanti e viceversa: è importante arrivare in fondo (magari anche alla svelta)

ma non è importante non cadere (tanto sotto c’è l’acqua); è importante riuscire ad arrivare

sulla piazzola alla fine del percorso, ma non è fondamentale come ci si arriva (tanto è

imbottita di gommapiuma); è importante riuscire a resistere allo stress sociale della

telecamera ma non è importante vedere possibilità alternative al percorso prestabilito.

Al termine della performance l’atleta NW viene gratificato con applausi, trombe, luci colorate

e una bella posizione nella classifica dei tempi. Insomma, il tutto è predisposto affinché il

partecipante sia totalmente focalizzato su un riconoscimento proveniente dall’esterno, ben

visibile all’occhio della telecamera; così facendo, la sua motivazione diventa del tutto

estrinseca, scollegata dai principi basilari che stimolano un traceur, inteso come effettivo

praticante e “attore urbano”.

16 https://www.nbc.com/american-ninja-warrior 17 http://www.spartanrace.de/hu/race/detail/2968/sponsors?filter=super 18 https://www.redbull.com/us-en/events/red-bull-art-of-motion

15

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Il traceur Matt McCreary durante la sua performance al Britain’s Got Talent 2015.

Richard Dustin Bredford alle finali dell’American Ninja Warrior di Denver 2017.

16

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Nell’Art of Motion, la più grande manifestazione competitiva di parkour/freerunning al

mondo, vari esponenti della disciplina si sfidano a suon di salti fra i tetti dell’incantevole città

di Santorini in Grecia, cercando di completare una run di un minuto ad elevato contenuto

tecnico e creativo. In questa competizione gli atleti sono costantemente soggetti alla

pressione del tempo e delle telecamere, e il tutto è basato principalmente sull’adrenalina, che

vedremo essere contrastante con diversi aspetti del parkour, e la spettacolarizzazione del

corpo in movimento. Gli atleti, inoltre, sono portati ad assumere atteggiamenti artificiosi e

“da palcoscenico”, quali inchini e facce buffe, che ben si collocano nella logica della società

dello spettacolo da cui nessuno (o quasi) è più in grado di disconnettersi.

La differenza principale fra i due canali comunicativi è che i talent show sono basati sì sulle

competenze dei partecipanti, ma guidati da logiche prettamente commerciali finalizzate a

rendere pubblica sul grande schermo la reazione emotiva di atleti e spettatori e ad aumentare

spudoratamente i guadagni; i contest fanno altrettanto, ma più che concentrarsi sull’impatto

emozionale sono indirizzati a incorniciare la performance dell’atleta sotto il marchio di uno

specifico brand, aspetto altrettanto commerciale e discutibile. Tuttavia, come vedremo, la

prestazione del traceur in sé non è del tutto contrastante con l’etica della disciplina, ma più

che un reale obiettivo essa è un “piacevole effetto collaterale” della pratica.

Quindi, in un certo senso, l’Art of Motion rispecchia alcune situazioni che durante gli

allenamenti vengono realmente vissute dai traceurs, quali gestione del rischio e attenzione

estetica, cose che in termini tecnici si verificano, ad esempio, durante un break the jump o

una sessione di flow. Più avanti esploreremo anche questi aspetti specifici, ma per il

momento è importante precisare che, nonostante le innumerevoli scuole e l’impegno sociale

di molti gruppi di traceurs, l’aspetto estetico e performativo rimane ancora il più gettonato fra

la maggior parte di coloro che si approcciano alla disciplina, poichè perfettamente in linea

con le logiche della società dello spettacolo, in cui l’apparenza conto molto più dell’essere.

In conclusione a questi ragionamenti, è possibile dedurre che l’artificiosità, intesa in termini

debordiani come ‘non autenticità’, e la motivazione estrinseca che guida il “traceur-attore”

sono i due elementi cardine che allontanano il pubblico da una comprensione veritiera e non

superficiale del parkour.

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Pedro "Phosky" León Gómez di GUP (Galizian Urban Project) all’Art of Motion del 2015.

Il traceur olandese Bart Van Der Linden all’Art of Motion del 2016.

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Di contro a questi canali comunicativi, esiste una gamma di eventi comunemente definiti

raduni o workshop in cui decine, se non centinaia, di praticanti si ritrovano in luoghi simbolo

per condividere giornate di conoscenza e allenamento, tentando di esplorare sia a livello

tecnico che teorico i confini meno superficiali della disciplina, spesso con l’ausilio di

praticanti e coach d’eccellenza. Trattasi solitamente di allenamenti collettivi ben organizzati e

strutturati distribuiti su varie giornate, completi di condizionamento, tecniche e discussioni

teoriche. Fra questi rientrano, ad esempio, i workshop internazionali dell’ADD Academy

guidati da yamakasi come Chau, Yann e Laurent, i rendezvous di Parkourgenerations

capeggiati da Chris Rowat e Dan Edwardes, e il Gerlev International Parkour Gathering di

Danimarca guidato da valenti coach quali Martin Kallesøe.

Per quanto riguarda l’Italia fra i raduni più gettonati ci sono il Lario Parkour di Mandello, in

provincia di Lecco, giunto alla sua quarta edizione nel 2016, il Junglewave di Parkourwave

che nell’anno successivo ha proposto una variante extraregionale sulle pendici del monte

Etna, e i workshop locali di Next Area Parkour, in provincia di Vicenza.

Un esempio particolare, poi, è dato dall’esame per la certificazione ADAPT rilasciata da 19

Parkourgenerations UK, l’unica qualifica al mondo per assistenti e coach di parkour. Scopo

formale di questo percorso è quello di ottenere un certificato per l’insegnamento della

disciplina in corsi principalmente indoor, che sul suolo italiano è promossa dell’ente UISP

(Unione Italiana Sport per Tutti) facente capo al CONI (Comitato Olimpico Nazionale

Italiano). Scopo più profondo e, se vogliamo, più pedagogico e formativo di tale iniziativa, è

quello di approfondire il significato del parkour attraverso la condivisione di sforzi ardui da

affrontare, i quali verranno poi rielaborati a livello personale in vista dell’esame finale,

suddiviso in prove fisiche, tecniche, teoriche e di coaching.

Come precisa il traceur Ghost, uno degli intervistati del mio lavoro, il focus è soprattutto

sulla crescita personale:

19 “The ADAPT qualifications ensure that any individual who wishes to coach others in the discipline of parkour / freerunning will do so in a knowledgeable, professional, competent and safe manner. The global ADAPT network provides an existing resource of highly experienced coaches and coaching bodies to support each individual in their personal and professional development”, Parkourgenerations.com

19

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“Personalmente ritengo sia un utile strumento per conoscersi gettarsi col cuore e coi coglioni in

prove apparentemente impossibili, dal punto di vista fisico, tecnico, mentale. La forma è secondaria,

conta la sostanza del disagio che provoca la situazione. Maggiore sarà lo stress, maggiore, se si

supera, sarà la conoscenza di sé e l'allargamento della propria zona di comfort” . 20

Il traceur Saiu, coach di Parkourwave, al seminario ADAPT 2 tenutosi a Bergamo nel maggio 2017.

I partecipanti del Gerlev International Parkour Gathering del luglio 2017.

20 Allievo del vento, allenamento, pensieri, azioni. ADAPT, 30/10/2017 http://allievodelvento.blogspot.it/2017/10/adapt-2.html

20

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La differenza fondamentale fra questi due mondi distinti, quello dei contest e quello dei

workshop, è che nei primi vige soprattutto la regola dell’agonismo, nei secondi no, poiché la

competizione è solo con sé stessi e in condivisione con l’Altro.

È bene precisare che quella che intercorre spesso nelle discussioni fra i traceurs è una

dicotomia generale e generalizzante fra ‘parkour puro’ e ‘parkour commercializzato’: il primo

fa riferimento ai principi originari, quali forza, adattamento, solidarietà, e oggi anche

resilienza; il secondo riguarda tutti quegli aspetti della disciplina legati alla sua

commercializzazione esterna, che sia attraverso brand, contest o talent show.

Più nello specifico, poi, il ‘parkour puro’ è quello che tendenzialmente trascura o rigetta la

performance come elemento centrale della pratica per focalizzarsi, invece, su tutti quegli

aspetti interiori e invisibili legati alle sensazioni provate durante l’attività e la sua

condivisione. Ad ogni modo, questa dicotomia risulta a tutti gli effetti debole poiché, come

vedremo, il parkour è una disciplina facilmente malleabile e riproducibile a seconda della

personalità di ogni praticante: che sia parkour, freerunning o art du déplacement tutti i

traceurs praticano fondamentalmente la stessa cosa.

Dan Edwardes, Ceo di Parkourgenerations al seminario ADAPT 2 di Bergamo del 2017.

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Il parkour è un oggetto di studio antropologicamente interessante poiché ogni traceur mostra

uno stile di movimento tutto suo, derivante non tanto dalle personali capacità motorie o dalla

scuola di appartenenza, ma soprattutto dalla visione specifica che egli ha dello spazio

circostante. Attraverso gli occhi del traceur è possibile sviluppare tutta una serie di

accorgimenti, stimoli, attenzioni e movenze che avranno un effetto particolare anche su

qualcun altro, osservatore o praticante che sia. In questo senso sia traceurs che passanti sono

invitati a curiosare e riflettere sulla spazialità e le architetture che li circondano.

Il vero oggetto di studio, ad ogni modo, è il corpo in movimento: esso è il medium fra il

punto di vista emico e l’occhio esterno dell’osservatore. I salti e le tecniche potenzialmente

infinite del parkour sono un esempio di cultura immateriale soggetta a continue

trasformazioni, una sorta “palinsesto intergenerazionale” per una disciplina alternativa e in

evoluzione.

Al fine di intraprendere una conoscenza meno superficiale del fenomeno è necessario,

innanzitutto, setacciare le innumerevoli fonti informative disponibili e intraprendere, con

spirito critico, quelle che sono le definizioni comunemente utilizzate per descrivere il

fenomeno. Il mio interesse etnografico sta proprio in questo approccio ed è basato, oltre che

su una selezione approfondita delle suddette fonti, su una ricerca di campo intesa a

estrapolare le informazioni più intime e soggettive riguardanti il vissuto di un gruppo di

traceurs storici delle prime generazioni italiane.

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2. Ontologia del parkour

2.1 Parkour e place attachment

Il termine place attachment, letteralmente ‘attaccamento allo spazio’ , si riferisce a un 21

concetto multidimensionale impiegato principalmente nella branca della psicologia

ambientale, incentrata sull’interazione fra individui e ambiente. Originariamente questo

concetto è stato analizzato da studiosi come Bachelard (1958) ed Eliade (1963) in 22 23

riferimento alla dimensione fenomenologica ‘dell’essere nel mondo’ e all’attaccamento del

singolo alla spazialità sacra e domestica. Per anni l’interesse accademico nei confronti della

soggettività è stato dominante rispetto al più ampio contesto storico e culturale.

A partire dalla fine degli anni ‘70, tuttavia, l’approccio fenomenologico ha subìto un

ampliamento importante perché influenzato dagli studi sul comportamentismo e la psicologia

ambientale. Negli ultimi anni, infatti, l’interesse si sta spostando sempre di più sull’utilizzo

culturale dello spazio da parte di individui e gruppi.

La studiosa Setha Low, ad esempio, ha riflettuto in merito alla sua applicabilità in differenti

scenari cittadini riportando casi studio provenienti da ricerche urbane spazianti dalla ritualità

delle comunità spagnole all’attaccamento degli infanti allo spazio domestico. 24

In generale l’argomento sta riscuotendo molto successo nelle scienze sociali e negli studi

urbanistici. Uno delle analisi più recenti è quella elaborata da Manzo e Devine-Wright , 25

autori che attraverso un approccio strettamente multidisciplinare, forniscono metodi per una

più ampia applicazione del concetto di place attachment.

La varietà di argomenti a cui tale nozione è applicabile mi ha spinto a riscontrarne una

coerenza anche con il fenomeno parkour e ad espormi direttamente all’analisi di alcuni punti

21 “Place attachment is dened as one's emotional or affective ties to a place, and is generally thought to be the result of a long-term connection with a certain environment. This is different from a simple aesthetic response such as saying a certain place is special because it is beautiful”, Leila Scannell, Robert Gifford, R., Defining place attachment: A tripartite organizing framework (2010), Journal of Environmental Psychology, vol. 30, p. 2 22 Gaston Bachelard, The Poetics of Space (1958) 23 Mircea Eliade, The Sacred and The Profane: The Nature of Religion (1963) 24 “The word "attachment" emphasizes affect; the word "place" focuses on the environmental settings to which people are emotionally and culturally attached. The question arises, however, as to what is meant by the word place”, Setha M. Low, Irwin Altman, Place Attachment, 1992, Plenum Press, NY & London, p. 5 25 Lynne C. Manzo, Patrick Devine-Wright, Place Attachment: Advances in Theory, Methods and Applications, 2013, Routledge

23

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specifici; in particolare intendo indagare il concetto di place attachment in relazione al

modello tripartito proposto da Scannell e Gifford (fig. 1).

Sulla base di questo ragionamento il processo di ‘attaccamento allo spazio’ può essere

studiato su più livelli e da diversi punti di vista, i quali rispecchiano tre dimensioni

fondamentali: la persona (individuo), il processo (psicologia) e lo spazio (ambiente). 26

La prima ha che fare con gli attori coinvolti, quindi ‘chi è attaccato’, la seconda con i processi

mentali ed emozionali che si manifestano in tale attaccamento, la terza con la natura e le

caratteristiche del luogo attaccato. Se applichiamo questo concetto strutturale al parkour

vedremo, innanzitutto, che l’attore principale è colui che pratica, quindi il traceur, che i

processi psicologici sono i meccanismi mentali e le emozioni che si attivano durante il

processo di interazione con un determinato spazio, e che quest’ultimo è lo spot di

allenamento del traceur con tutte le sue caratteristiche morfologiche e architettoniche.

Ora, in base a questa suddivisione avremo una gamma di elementi peculiari inerenti a ognuna

delle dimensioni sopra citate, i quali possono variare a seconda della soggettività

dell’individuo coinvolto. Sulla base delle informazioni empiriche che andremo ad analizzare

più avanti, intendo elencare ed esaminare alcuni di questi elementi partendo dalla dimensione

del processo. Il processo nel parkour riguarda soprattutto la capacità di adattamento del corpo

all’ambiente, sia dal punto di vista più propriamente fisico che da quello psicologico.

L’adaptation è l’elemento primario che domina sull’intero quadro d’analisi del concetto place

attachment applicato al parkour. Vedremo, però, che le competenze adattive del corpo umano

non sono più considerabili esclusivamente in termini di funzionalità in un dato contesto e

momento, ma a fronte di continui cambiamenti evolutivi e culturali assumono anche

significati più profondi e variegati. Per quanto riguarda il processo, ad ogni modo, possiamo

individuare una gamma di sensazioni, comportamenti e cognizioni che assumono una valenza

specifica a seconda del tipo di attaccamento allo spazio e al tipo di allenamento intrapreso dal

traceur (team training, sensorial, a-done, break the jump).

A seconda di quelle che sono le caratteristiche del luogo e gli obiettivi del praticante, quindi,

emergeranno differenti elementi da analizzare.

26 Leila Scannell, Robert Gifford, R., Defining place attachment: A tripartite organizing framework (2010), Journal of Environmental Psychology, vol. 30, p. 2

24

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Fig. 1. Modello tripartito dell’attaccamento allo spazio . 27

Per quanto riguarda le sensazioni, ad esempio, la paura è certamente una di quelle più

interessanti e significative. Come avremo modo di vedere, infatti, la paura intesa come

emozione percepita durante il processo interattivo ‘tracciatore-spot’, assume una valenza non

indifferente e ambigua: da un lato è veicolo di instabilità e incertezza, e quindi è un'emozione

negativa, ambivalente e pericolosa, dall'altro è un trampolino di lancio verso l’ampliamento e

il potenziamento della dimensione del sé, uno dei motori fondamentali per la crescita

personale del traceur. Come sostiene Saville la paura non è solo un’emozione percepita dal

traceur in un determinato momento, ma un processo da costruire e gestire da cui si possono

trarre grandi vantaggi . 28

27 Leila Scannell, Robert Gifford, Defining place attachment: A tripartite organizing framework, Journal of Environmental Psychology 30 2010 pp. 1-10 28 “The changing embodied movements of parkour can be both motivated by different kinds of fear, as well as a ‘method’ for altering, unveiling, rening and layering emotional engagements with places. Emotions here are more than simply something that ‘happen to’ a body; rather when fear is a lived and mobile process it can be considered, cultivated and sometimes even enjoyed”, Stephen John Savill, Playing with fear: parkour and the mobility of emotion, 2008, Social & Cultural Geography, Vol. 9, p. 893

25

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Altre sensazioni possono riguardare il concetto di fatica che, per certi versi, nel parkour

assume la valenza di una vera e propria dimensione etica. La fatica è strettamente legata al

concetto di sfida (challenge), alla volontà di intraprendere sforzi psico-fisici singolari e

funzionali, ancora una volta, non solo alla crescita personale, ma anche alla possibilità di

mettersi in gioco in situazioni sempre più complesse e stimolanti.

Per quanto riguarda le cognizioni, invece, intese come senso di consapevolezza verso il

mondo esterno, l’elemento del significato (meaning) induce a riconoscere nello spot delle

opportunità di crescita dal punto di vista fisico, psicologico e, più in generale, a livello di

competenze tecniche sulla disciplina. Prendendo in considerazione lo studio di Bavinton,

possiamo allargare ulteriormente questa dimensione e sostenere che gli ostacoli sono

innanzitutto delle opportunità di valorizzazione e re-interpretazione dei vincoli urbani, intesi

come restrizioni spaziali e percorsi obbligati tipici dello spazio pubblico postmoderno . 29

L’elemento del significato, quindi è estremamente importante nella pratica del parkour: ogni

luogo, ogni allenamento, ogni singola azione relegata allo spazio urbano porta con sé un

valore unico, riproducibile e tendenzialmente soggettivo.

Un altro elemento interessante è quello della memoria. I ricordi legati a un determinato luogo,

infatti, ad esempio quello di un salto non completato oppure di una sessione di movimenti

portata a termine efficacemente, sono rilevanti nella misura in cui creano un legame intimo e

profondo fra traceur e spot. Questo particolare legame suscita delle emozioni circoscrivibili

esclusivamente in quel dato contesto e momento. In tal senso, la stretta connessione fra

ricordi e spazialità va a incrementare quella che è l’aura identitaria del soggetto, grazie

soprattutto all’accettazione e la rielaborazione di queste emozioni, ciò che in termini tecnici è

definito place identity . I luoghi, in un certo senso, diventano frammenti di memorie 30

personali e, quindi, di identità.

Infine c’è l’elemento del comportamento (behavior) che concerne tutti quegli aspetti legati

alla condotta del singolo rispetto all’ambiente in cui si trova. Nello specifico i comportamenti

di un traceur variano a seconda della sua etica personale e riguardano soprattutto il suo

atteggiamento nei confronti dello spot e delle persone che incontra in quello spot.

29 Nathaniel Bavinton, From obstacle to opportunity: parkour, leisure, and the reinterpretation of constraints, 2007, Annals of Leisure Research 10(3/4), pp. 391-412 30 “Place-identity is defined as those dimensions of self that define the individual's personal identity in relation to the physical environment by means of a complex pattern of conscious and unconscious ideas, feelings, values, goals, preferences, skills, and behavioral tendencies relevant to a specific environment”, Harold Proshansky, The city and self-identity, Journal of Environment and Behaviour, Vol. 10, p. 59

26

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Molti tracciatori, come vedremo, instaurano un legame affettivo con i luoghi in cui si

allenano e questo li porta, spesso, a prendersi cura di questi spazi nel vero senso della parola,

ad esempio rimuovendo la sporcizia ed eventuali elementi dannosi o fastidiosi (ferri

sporgenti, chiodi, muschio sui muretti, ghiaccio ecc.).

Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, invece, l’analisi concerne il tipo di comportamento

che il traceur, o il gruppo di traceurs, adotta nei confronti degli abitanti o dei lavoratori di

passaggio, più in generale di tutte le persone che incontra durante lo svolgimento della sua

attività. Alcuni mostrano curiosità e comprensione, altri possono risultare schivi, freddi e

provocanti, quindi l’atteggiamento può variare in maniera non indifferente, e questo

comporta delle conseguenza anche a livello di comprensione sociale della disciplina.

Ad ogni modo, è interessante soffermarsi su ciò che accade quando un tracciatore si ritrova a

spiegare la sua attività ai passanti sconosciuti.

Seguendo lo schema di Scannell e Gifford, poi, vedremo che anche la dimensione dello

spazio (place) risulta estremamente rilevante nell’analisi del fenomeno parkour. La spazialità

può essere analizzata a 360° considerando il punto di vista specifico de traceur, il quale mira

a interpretarla diversamente in termini di ambiente (urbano o naturale), conformazione

(elementi), complessità, creatività, riproducibilità, estetica e così via; e questo per quanto

riguarda la dimensione puramente ‘fisica’.

Per quel che concerne l’aspetto sociale, poi, i temi di ricerca sono altrettanto variegati: ad

esempio, è particolarmente rilevante il discorso sulla simbologia che ruota attorno allo spot il

quale può assumere, di volta in volta, la valenza di un punto di aggregazione o di una meta

per le sfide del gruppo o del singolo. Il caso dell’evento JWC (Junglewave Camp ) è 31

sicuramente esemplare da questo punto di vista, in quanto mostra a tutto tondo quelli che

sono gli aspetti sociali legati alla disciplina, soprattutto la condivisione dello sforzo e la

solidarietà. Le cascate del fiume Serio in alta Val Seriana diventano il punto di raccolta

simbolico dell’evento, in cui tutti i partecipanti sono chiamati a meditare e ripensare ai

momenti passati insieme durante le giornate di allenamento in natura.

Il JWC costituisce, a tutti gli effetti, un florido campo di ricerca etnografico.

31 “Tra le attività praticabili in natura, oltre al parkour, avremo delle sessioni di yoga e slack-lining preparate per noi da esperti nelle rispettive discipline, e gli immancabili laboratori di metodo naturale, incentrati su tutte le attività che ci hanno sempre ispirato: bouldering (arrampicata sui sassi), allenamento tramite l’utilizzo di attrezzi non convenzionali, combattimento e difesa personale”, http://www.parkourwave.com/en/junglewave/

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Traceurs discendono la pietraia di Valbondione al Junglewave Camp del 2016.

Proseguendo, poi, con la dimensione della persona vediamo che essa è legata

fondamentalmente ai concetti di individualità e gruppo culturale. Nel parkour risulta

estremamente rilevante l’elemento della corporeità, intesa soprattutto dal punto di vista

fenomenologico, ma su questo ci soffermeremo più avanti.

A livello individuale fra i temi portanti della disciplina si riconoscono, ad esempio, quello

della crescita personale e della dimensione del sé, dell’autonomia, delle pietre miliari

(milestones), intese come ‘step evolutivi’ o eventi significativi in tale processo di crescita.

Su ognuno di questi elementi è possibile applicare una serie di ragionamenti teorici che fanno

emergere e risaltare un determinato aspetto o più aspetti della pratica.

Per quanto riguarda l’evoluzione e il miglioramento del traceur, ad esempio, possiamo

considerare la teoria dei riti di passaggio di Van Gennep, la quale tradizionalmente suddivide

in tre momenti singolari il passaggio dell’individuo dalla fase prematura a quella di

accettazione sociale, e quindi all’ingresso nella comunità. 32

32 Arnold Van Gennep, I riti di passaggio (1909), Torino, Bollati Boringhieri, 2002

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Se applichiamo tale concetto al parkour vedremo che la fase preliminare (separazione),

liminare (transizione) e post-liminare (reintegrazione) corrispondono ad aspetti specifici

legati soprattutto alle caratteristiche personali del singolo praticante. Per un traceur a corto di

autostima, ad esempio, il fatto di non riuscire ad eseguire un certo movimento, pur avendone

le potenziali capacità, può costituire sia una fase preliminare, nella misura in cui è separato e

alienato da altri soggetti che invece sono più sicuri di sé, che una fase liminare in cui egli si

sottopone, o viene sottoposto, a costanti tentativi di esecuzione di quel particolare

movimento. Questo è solo uno dei numerosi casi in cui la teoria vangennepiana può essere

applicata al parkour. Esistono casi specifici, come quello del break the jump, che vanno

considerati dettagliatamente nel più ampio contesto del place attachment, ossia intimo legame

fra individuo e spazio.

In merito all’autonomia, invece, il discorso è legato in particolar modo alla capacità del

traceur di attivare un processo di apprendimento nei confronti dell’ambiente che lo circonda,

il quale sia in grado di renderlo autonomo in termini tecnici, ad esempio grazie alla capacità

di porsi degli obiettivi adeguati al proprio corpo e alla propria mente, ma soprattutto in

termini di autonomia intesa come accettazione positiva del sé e delle proprie emozioni . 33

Per quanto riguarda l’elemento delle pietre miliari, invece, possono emergere quelli che sono

gli eventi fondamentali nella vita disciplinare di un traceur: per qualcuno potrebbe essere

l’acquisizione di un movimento particolare, il compimento di una sfida, per qualcun’altro la

partecipazione a un raduno o a una night mission.

Tutti questi elementi sono estremamente soggettivi e si ricollegano al più ampio contesto del

parkour inteso come fenomeno sociale.

La disciplina del parkour, in un certo senso, è identificabile già di per sé come una sorta di

milestone, ossia un evento straordinario che dà il via a una nuova fase esistenziale, nella

misura in cui il suo ingresso nella vita del singolo è per lo più repentino, radicale e profondo;

ma su questo torneremo nei capitoli successivi.

33 “The autonomy is achieved through a re-perception of the landscape and a process of training and movement that involves a hyper-tactile engagement and dialogue with the environment. This reconnects the body and sense of self to the external physical world by engaging positively with fear and anxiety to achieve a greater sense of self and being”, Julie Angel, Game Maps: Parkour Vision and Urban Relations in Gretchen Schiller, Sarah Rubidge, Choreographic Dwellings Practising Place, 2014, p. 196, Palgrave Macmillan (UK)

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A livello di gruppo culturale, invece, possono emergere quelli che sono gli aspetti più

propriamente storico-religiosi del traceur inteso come entità collettiva, ossia la storia di un

gruppo e il suo specifico “credo di appartenenza”. Nel fenomeno parkour il tutto si traduce in

specifiche scuole di apprendimento e di pensiero, come l’ADD (art du déplacement), il

freerunning o l’accademia di Parkourgenerations con le sue certificazioni ADAPT per il

coaching. Ad ogni modo, un gruppo può essere improntato su certi aspetti della disciplina

piuttosto che altri, ma fondamentalmente la sua impronta resta tale e quale, esclusiva e

identificativa di quel gruppo. Tra le molteplici scuole di pensiero o finalità della disciplina,

ossia il significato attribuito dal traceur alla pratica, si possono riscontrare elementi come la

performance, incentrata sull’aspetto estetico del parkour, la finalità ludico-ricreativo, quella

più profonda della crescita personale, improntata sull’assimilazione e la condivisione degli

aspetti più intimi della disciplina, quella della professionalizzazione e del coaching, e quella

in un certo senso più ‘romantica’ dell’aspetto esplorativo del parkour, inteso in alcuni casi

come vero e proprio viaggio alla scoperta dell’altro, come nel caso del Team Jestion . 34

Insomma, esiste tutta una gamma di sistemi identificativi inerenti ai vari gruppi di tracciatori,

i quali variano non solo a seconda del tipo di insegnamento o della finalità personale, ma

anche dai tratti storici e culturali di un determinato contesto sociale.

Julie Angel, ad esempio, è stata particolarmente acuta nell’analizzare il contesto specifico

delle banlieue parigine nelle quali sono cresciuti gli yamakasi, andando a ricostruire

dettagliatamente il percorso soggettivo e interiore di ognuno di loro Inoltre, tutti questi 35

elementi possono convergere positivamente creando gruppi amalgamati, ‘multidisciplinari’,

nonché delle varianti specifiche della disciplina stessa; avremo modo di approfondire questo

aspetto nei capitoli successivi, in merito al caso dell’intervistato Paloz.

In questa sede abbiamo visto come il concetto di place attachment possa essere applicato alla

disciplina del parkour. Grazie a spunti provenienti dal campo psicologico, urbanistico e

antropologico, infatti, ho riportato strutturalmente quelli che sono gli aspetti principali del

fenomeno.

34 “Travel, explore, taste new experiences, this is what we crave, what we’re living for, without limits to our wishes, sharing our passion.”, http://www.teamjestion.com/it/home-it/ 35 Breaking the Jump: The Secret Story of Parkour’s High-flying Rebellion (2016)

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In tal senso, lo strumento analitico definito ‘modello delle tre P’ (person, place, process) mi

ha permesso di identificare e suddividere in maniera appropriata gli elementi emergenti del

suddetto fenomeno sociale, soprattutto dal punto di vista del legame ‘corpo-spazio’ insito nel

concetto di place attachment.

Riassumendo, possiamo elencare quelli che sono alcuni degli elementi fondanti per

un’ontologia del parkour basata su tale nozione:

Persona:

- individuo (esperienza corporea, crescita personale, eventi fondamentali)

- gruppo culturale (scuole di pensiero, senso di appartenenza)

Spazio:

- fisico (urbano, naturale, caratteri morfologici)

- sociale (simbologia e significati dello spazio)

Processo:

- emozioni (paura, frustrazione, gioia)

- cognizioni (significato, ricordi, conoscenza dello spazio)

- comportamenti (vicinanza allo spazio, cura dello spot)

Lo storico spot di Vauxhall a Londra, dismesso nel 2015.

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2.2 Parkour e dwelling perspective

Fra la moltitudine di argomenti che le scienze sociali hanno affrontato e rivisitato negli ultimi

decenni, il tema della spazialità è sicuramente uno dei più floridi e controversi.

Lo spazio, infatti, è ovunque, ma non è da nessuno parte, è tutto e niente. Lo spazio ci

circonda e noi circondiamo lo spazio. Nell’immensità di questo tema diversi studiosi hanno

definito la spazialità a partire dalle attività umane, indagando su come lo spazio venga

prodotto culturalmente e socialmente.

Da questo punto di vista l’opera di Henri Lefebvre, La Production de l’espace (1974), è un

ottimo punto di partenza in quanto definisce lo spazio non tanto come un semplice

contenitore di pratiche e attività, bensì come un vero e proprio prodotto culturale dell’uomo . 36

Egli parla della spazialità come un’entità in divenire, sottoposta a costanti trasformazioni e

cambiamenti. In questo senso l’organismo umano produce lo spazio e, allo stesso tempo,

viene prodotto dallo spazio, instaurando una sorta di circolo vizioso che circoscrive

l’ambiente come un elemento estremamente malleabile . 37

Ad ogni modo, per quel che concerne la spazialità in sé è fondamentale addentrarsi in un

concetto particolarmente florido sia in antropologia che in psicologia che è quello di

percezione, cioè il modo specifico attraverso cui l’uomo prende coscienza di ciò che lo

circonda grazie al suo apparato sensoriale.

Per Lévi-Strauss, ad esempio, la percezione è soprattutto un meccanismo mentale e inconscio

relegato alla dimensione psichica del soggetto. Essa, infatti, fungerebbe da canale mediatore

di informazioni fra due entità ben distinte e separate, l’individuo e il mondo esterno; nello

specifico egli parla di rappresentazioni mentali . Diversamente Gregory Bateson, famoso 38

oppositore delle bipartizioni ‘ragione-emozione’ e ‘mente-corpo’, riconduce il concetto di

percezione direttamente al mondo esterno.

36 “Space is a product of humans activity thus serves as a tool of thought and of action. In addition to being a means of production it is also a means of control, and hence of domination, of power”, Henri Lefebvre, The Production of Space, 1991, Blackwell, p. 26 37 “Each living body is space and has its space: it produces itself in space and it also produces that space”, Tim Ingold, The Perception of the Environment: Essays on Livelihood, Dwelling and Skill, 2000, Routledge, London (UK), p. 169 38 “For Lévi-Strauss, both the mind and the world remain xed and immutable, while information passes across the interface between them”, Ingold, 2000, p. 16

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Secondo i suoi ragionamenti , infatti, la dimensione mentale non è relegata all’idea di un

corpo separato dallo spazio urbano o naturale, ma è ricondotta all’intero sistema relazionale e

percettivo fra l’organismo e l’ambiente . Le caratteristiche del mondo esterno non sono 39

percettibili in quanto tali, ossia grazie a un continuo scambio di informazioni fra queste due

entità, ma sono rintracciabili nel cambiamento di prospettiva dato dal movimento del corpo. 40

Si crea così un nesso imprescindibile fra l’attività pratica dell’uomo, intesa come prodotto

culturale, e il movimento corporeo inteso come condizione naturale dell’uomo necessaria per

l’ampliamento della sua prospettiva.

Anche le scienze cognitive e la psicologia si sono mosse in questa direzione, scontrandosi

apertamente con la secolare dicotomia cartesiana e proponendo alcuni concetti specifici come

quello di ecological psychology discusso da James Gibson a partire dagli anni ‘60.

In risposta alla visione di Descartes , lo studioso americano si sofferma su quella che è la 41

percezione visiva (visual perception) dell’individuo attraverso un approccio marcatamente

ecologico. Nel suo corpus di studi introduce la terminologia delle affordances, ossia le

specifiche possibilità di azione determinate e ispirate da un singolo oggetto , cosa che 42

vedremo essere particolarmente importante nel parkour.

Il punto focale del suo discorso è che l’attività percettiva dell’uomo non è confinata a singoli

meccanismi mentali, ma è soprattutto visuale e indirizzata all’interazione con l’ambiente

circostante in termini di mera attività pratica. Come sostengono Alva Noe e Jean Lave,

infatti, è proprio la praticità che favorisce i processi cognitivi di apprendimento . 43

39 “The mental world - the mind - the world of information processing - is not limited by the skin”, Gregory Bateson, Steps to an Ecology of Mind: Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology, University Chicago Press, p. 461 40 “Bateson constantly emphasised that stable features of the world remain imperceptible unless we move in relation to them”, Ingold, 2000, p. 153 41 “The act of perception naturally divides into two stages: the rst leading from the physical encounter with an object to a pattern of nervous excitation in the brain; the second leading from these nervous impulses to a mental awareness of the object in the perceiver’s line of sight”, Ingold, p. 255 42 “What we perceive when we look at objects are their affordances, not their qualities. The theory of affordances rescues us from the philosophical muddle of assuming xed classes of objects, each dened by its common features and then given a name”, James J. Gibson, The ecological approach to visual perception, 1979, Psychology Press Classic Edition, p. 126 43 “Cognition is not a process that goes on ‘inside the head’, whose products are representations that bear some complex relation to the world outside, but rather a social activity that is situated in the nexus of ongoing relations between persons and the world, and that plays its part in their mutual constitution”, Jean Lave, Cognition in Practice: Mind, Mathematics and Culture in Everyday Life, 1988, Cambridge University Press, p. 171, Noë Alva, Action in perception, 2004, MIT Press (UK)

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Per Gibson, ad ogni modo, tutto ciò che vediamo è inseparabile da come lo vediamo e la 44

percezione non è da considerare come un processo interiore o contemplativo, bensì come una

risposta concreta agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno . 45

Alcune di queste argomentazioni sono state rivisitate, in anni recenti, dall’antropologo

scozzese Tim Ingold, il quale attraverso l’esposizione di casi studio provenienti da svariate

realtà indigene, ha proposto un nuovo modello di analisi della spazialità incentrato sulla

percezione del singolo. Secondo i suoi studi il modo in cui gli esseri umani percepiscono

l’ambiente che li circonda non è riconducibile semplicemente al loro apparato sensoriale, ma

soprattutto all’attività pratica e al movimento.

Agendo sulla spazialità, infatti, essi acquisiscono gradualmente una serie di abilità o

competenze (skills) favorite dalla costante applicazione del corpo allo spazio . 46

Partendo dalla definizione secondo la quale l’ambiente è innanzitutto un campo di

impedimenti fisici , possiamo dire che la percezione del singolo è una sorta di 47

‘sovrapposizione emica’ all’oggettivo significato delle cose, quelle strutture inconsce che

Lévi-Strauss ha ricercato assiduamente nei villaggi Bororo . 48

Più nello specifico Ingold parla di dwelling perspective per riferirsi alle cosiddette ‘forme

dell’abitare’, intese come frutto di una costruzione mentale prestabilita, la cosiddetta building

perspective . A fronte di questo ragionamento è importante fare una distinzione fra 49

l’ambiente ‘reale’, ossia quello dato indipendentemente dai sensi, e l’ambiente ‘percepito’,

cioè ricostruito mentalmente grazie agli schemi cognitivi e sensoriali.

44 “What we see is inseparable from how we see, and how we see is always a function of the practical activity in which we are currently engaged”, James J. Gibson, The Senses Considered as Perceptual Systems, 1966, Houghton Mifflin Company, p. 134 45 “The perceptually acute organism is one whose movements are closely tuned and ever responsive to environmental perturbations. For this reason, visual perception can never be disinterested or purely contemplative”, Ingold, 2000, p. 260 46 “A perspective that treats the immersion of the organism-person in an environment or lifeworld as an inescapable condition of existence. From this perspective, the world continually comes into being around the inhabitant, and its manifold constituents take on signicance through their incorporation into a regular pattern of life activity”, Ingold, p. 153 47 “Thus the organism is specied genotypically, prior to its entry into the environment; the environment is specied as a set of physical constraints, in advance of the organisms that arrive to ll it”, Ingold, 2000, p. 19 48 Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici (1995), traduzione di Bianca Garufi, Milano, il Saggiatore, 1994 49 “From this perspective, the world continually comes into being around the inhabitant, and its manifold constituents take on signicance through their incorporation into a regular pattern of life activity. They (people) must perforce ‘construct’ the world, in consciousness, before they can act in it. I refer to this view as the building perspective.”, Ingold, p. 153

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Il punto di vista dei singoli, infatti, è percepito individualmente sulla base di oggetti e

costrizioni concretamente visibili e oggettivabili dall’esterno. In altre parole, l’essere umano

costruisce il suo modo di abitare lo spazio attraverso delle immagini plasmate dalla mente e

concretizzate nell’attività pratica. Grazie alla sua capacità immaginativa, l’uomo si distingue

dal resto del mondo naturale perché produce culturalmente lo spazio in cui andrà a dimorare.

Uno degli obiettivi dello studioso scozzese è quello di contrastare la secolare dicotomia

‘natura-cultura’ ponendo l’attenzione sulla dimensione percettiva dei singoli individui nei

confronti di un dato ambiente . 50

Il mio intento è quello di proseguire su questa scia riconducendo le sue nozioni al fenomeno

del parkour, pratica di movimento per eccellenza dell’era contemporanea.

Timothy Ingold, professore di Antropologia sociale all’Università di Aberdeen.

50 “I believe it is necessary that we take these steps, that we descend from the imaginary heights of abstract reason and resituate ourselves in an active and ongoing engagement with our environments, if we are ever to arrive at an ecology that is capable of recovering the reality of the life process itself. In short, my aim is to replace the stale dichotomy of nature and culture with the dynamic synergy of organism and environment, in order to regain a genuine ecology of life”, Ibidem p. 16

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Il concetto di dwelling perspective, come abbiamo visto, rappresenta in qualche modo il

risvolto pratico della building perspective, ossia la costruzione mentale dei ‘modi di abitare’.

Nel parkour tutto questo si traduce, usando la terminologia di Lefebvre, in un atto di

produzione culturale avente come principale oggetto lo spazio: i luoghi e gli oggetti urbani

diventano una miriade di ostacoli da oltrepassare attraverso tecniche maturate grazie

all’allenamento e all’esperienza, ma soprattutto all’abilità percettiva dei traceurs, intesa sia

come rappresentazione mentale che come movimento corporeo specifico.

La percezione dello spazio, infatti, passa proprio attraverso il corpo che si muove e, in questo

caso, assume un significato più profondo di ‘ingaggiamento’ (engaging) delle strutture

architettoniche, le quali diventano la continuazione del corpo stesso . 51

Come precisa Angel, il processo di ri-appropriazione dello spazio si traduce in un approccio

psico-fisico che induce il tracciatore a dialogare con esso sia dal punto di vista psicologico, in

termini di una ‘mappatura’ immaginativa, che da quello più propriamente fisico. 52

Grazie a un cambiamento di prospettiva, il quale incrementa il processo di apprendimento di

una data situazione , viene messa in evidenza la differenziazione del processo visivo tipica 53

della pratica di parkour, intesa come ampliamento del raggio d’azione, spostamento corporeo

e visualizzazione dell’ostacolo da diverse prospettive.

Come precisa De Freitas, infatti, l’incontro fra corpo e strutture architettoniche nel parkour

non è mai statico, ma è un processo dinamico in continua trasformazione . 54

La peculiarità della dimensione percettiva nel parkour è data dal fatto che essa coinvolge sia

dei processi mentali specifici: attività psichiche a sé stanti o movimenti corporei indirizzati

allo spazio esterno.

51 “Buildings become “bodily prostheses” and continuations of bodily movement. All things within a perceptual field are present to me as part of a projection of my aims regarding that space and objects”, Elizabeth De Freitas, Parkour and the Built Environment Spatial Practices and the Plasticity of School Buildings, 2011, Journal of Curriculum Theorizing, 27(3) Adelphi University, p. 213 52 “Traceurs experience a constant shift in the perceptual gestalt of the landscape around them. Their perception openness, gaze and vision allows them to see and seek out opportunities for movement, an imaginative remapping of the familiar within their environments”, Julie Angel, Ciné Parkour: A Cinematic and Theoretical Contribution to the Understanding of the Practice of Parkour, 2011, Brunel University School of Arts, Phd thesis, p. 134 53 “A moving body best captures the perceptual constituents of the learning self precisely because of these two perceptual processes. Movement, by its very nature, disrupts the containment of institutional buildings, and creates a space of learning”, ibidem p. 213 54 “The encounter between bodies and buildings is always dynamic and shifting since “no one occupies a completely stable, immobile perspective from moment to moment of perception”, ibidem

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In questo senso, la disciplina si inserisce a metà fra le considerazioni di Lévi-Strauss, ossia

come processo di scambio informativo fra individuo e ambiente, e quelle di Gibson, come

percezione visuale e movimento in risposta a degli stimoli esterni. Rappresenta a tutti gli

effetti, una pratica in netto contrasto con la dicotomia ‘natura-cultura/mente-corpo’ nella

misura in cui ricollega le potenzialità dell’organismo umano alla conformazione

dell’ambiente circostante.

È importante precisare che l’acquisizione delle skills percettive non può prescindere

dall’esposizione a lungo termine in un dato ambiente . Anderson, ad esempio, parla di 55

sentient ecology in riferimento al comportamento tattico e strategico dei cacciatori Evenki

nella tundra siberiana . 56

Allo stesso modo, nel caso del parkour la conoscenza percettiva non può che passare

attraverso la costante applicazione delle proprie abilità corporee all’ambiente cittadino: più un

traceur si espone ai meandri dell’urbanità, più la sua sua conoscenza si sviluppa; in questo

senso possiamo parlare di ‘urban sentient mindset’.

I traceurs, ad ogni modo, costruiscono lo spazio sia a livello immaginativo nella propria

mente che attraverso uno spostamento continuo della propria massa biologica da un luogo

all’altro. La posizione del corpo, infatti, favorisce un cambiamento di prospettiva che, a sua

volta, innesca un nuovo processo di immaginazione.

Come vedremo più avanti, però, a volte tale processo si scontra direttamente con l’evoluzione

stessa dei fenomeni sociali contemporanei, e il tutto viene ricondotto direttamente alla

dimensione del corpo e, nello specifico, al cosiddetto ‘stato di flusso’ (flow state).

Il movimento di cui ci parla Ingold in merito alla nozione di ecological psychology , in 57

questo caso è inteso soprattutto in termini esplorativi sia da un punto di vista fisico che più

propriamente introspettivo.

55 “This notion is knowledge not of a formal, authorised kind, transmissible in contexts outside those of its practical application. On the contrary, it is based in feeling, consisting in the skills, sensitivities and orientations that have developed through long experience of conducting one’s life in a particular environment”, Ingold, p. 25 56 David G. Anderson, Identity and Ecology in Arctic Siberia. The Number One Reindeer Brigade, 2000, Oxford Studies in Social and Cultural Anthropology 57 “The point about movement is critical. Is not the achievement of a mind in a body, but of the organism as a whole in its environment, and is tantamount to the organism’s own exploratory movement through the world”, Ingold, p. 18

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L’esplorazione è uno degli strumenti fondamentali utilizzati dai traceurs per il miglioramento

percettivo e l’apprendimento dei valori fondanti della disciplina; esplorazione intesa

soprattutto come ‘codifica ambientale’ (encode the landscape), mappatura dello spazio e di

tutte le possibilità nascoste nei suoi meandri . 58

A tal proposito risultano interessanti i concetti elaborati da Schiller e Rubidge nel loro recente

lavoro sulle pratiche corporee e la spazialità contemporanea: Choreographic Dwellings:

Practicing Place (2014). In questo testo le autrici riconcentualizzano la nozione teatrale di

coreografia applicandola alla dimensione dell’urbanità, proponendo un’analisi di una serie di

nuove forme di attività corporee (walking, flash mob, street dancing, samba de roda) che

utilizzano gli spazi pubblici come loro palcoscenico prediletto ; fra queste farei rientrare 59

anche la pratica dell’urbex (Urban Exploration) consistente nell’esplorazione per lo più

illegale di luoghi ed edifici abbandonati, generalmente situati nelle suburbie delle grandi città

. Per quanto riguarda la realtà italiana, il cosiddetto ‘paese fantasma’ di Consonno, in 60

provincia di Lecco, rappresenta sicuramente una meta ambita per molti appassionati di urbex

. Il parkour, ad ogni modo, è un esempio lampante di questa forma alternativa di inhabitance 61

nella misura in cui induce il soggetto a cogliere quelle che sono le affordances date

dall’ambiente cittadino, nonché ad attuare una sorta di ‘agency cinestetica’ volta a

riconnettere il corpo con lo spazio urbano. 62

Da questo punto di vista il parkour può essere considerata una vera e propria pratica

topologica, ossia uno studio accurato del paesaggio finalizzato alla ricerca di stimoli e

opportunità.

58 “In scaling the walls of a building rather than using the stairs inside, the traceur touches areas and surfaces of the building largely untouched, viewing the building from angles not usually perceived. In doing so the traceur not only changes his own perception of the building but also changes the building itself as perceived object”, Sophie Fuggle, Discourses of subversion: The ethics and aesthetics of Capoeira and Parkour. Dance Research, 2008, 26(2), p. 215 59 “Choreographic dwelling articulates and challenges our sensibilities of place by focusing on the ways in which place becomes action in the guided physical practices, processes and forms found in installations, walking projects, circus, street interventions, Parkour, site-specific and nomadic performances”, Gretchen Schiller, Sarah Rubidge, Choreographic Dwellings: Practicing Place, 2014, Palgrave Macmillan, p. 2 60 Per un approfondimento vedi Bradley L. Garrett's, Explore Everything: Place-Hacking the City, 2013 61 Consonno, la città fantasma che vive solo 1 giorno alla settimana. Da paese dei balocchi a città abbandonata: la curiosa storia del borgo contadino della Brianza, Livia Fabietti, 2016, La Stampa 62 “For traceurs the physical architecture and landscapes of the city itself, the walls, benches, rooftops, and even the corridors formed between them, become obstacles, stages and partners through which to manifest physical movement repertoires. Here, the entire city becomes an open field of movement opportunity or affordance, receiving and generating fleeting forms of choreographic dwelling”, ibidem, p. 9

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I traceurs sono dei ‘cartografi dell’urbanità’ il cui obiettivo è accumulare più punti di vista

possibili rispetto a quelli che sono i propri obiettivi, sia a livello pratico nella disciplina che a

livello più profondo e quotidiano di vita. 63

Prendendo in considerazione quanto descritto finora, possiamo dire che il paradigma della

dwelling perspective applicato al parkour mostra quello che è il modo di vivere l’ambiente

urbano tipico dei traceurs, una modalità dell’abitare lo spazio incentrata sull’esplorazione, il

cambio di prospettiva e la cinestesia del corpo in movimento.

Grazie agli stimoli forniti dall’ambiente (affordances) essi costruiscono la propria spazialità

sia attraverso l’immaginazione (building perspective), la quale accumula una serie di dettagli

relativi alle possibilità di movimento in un determinato spot, che attraverso il corpo di per sé,

inteso in termini di esplorazione di una spazialità circoscritta da obiettivi più o meno

prestabiliti.

L’occupazione fisica dello spazio, tuttavia, precede quasi sempre la sua costruzione mentale;

in tal senso possiamo parlare di ‘architectural perspective’ per indicare la specifica modalità

di ‘ri-appropriazione’ dei luoghi da parte dei traceurs, incentrata sulla valorizzazione delle

sue strutture architettoniche. Nel parkour le due modalità costruttive coesistono nello stesso

momento: come vedremo, infatti, il traceur dimora lo spazio non tanto attraverso la sua

costruzione immaginaria in quanto tale, ma sfruttando il flusso del movimento corporeo

(flow), il quale funge da strumento guida per lo sviluppo delle sue rappresentazioni mentali

che, a sua volta, guidano il corpo nella sequenza di movimenti.

Il parkour quindi dev’essere compreso attraverso una radicale teoria della percezione che

mette in secondo piano le cognizioni e fa risaltare, invece, quella che è la conoscenza 64

dell’ambiente acquisita attraverso il soma, il ‘corpo senziente’.

Ed è proprio sul tema della corporeità che continueremo il nostro discorso.

63 “A tradition of geographical research sets out from the premise that we are all cartographers in our daily lives, and that we use our bodies as the surveyor uses his instruments, to register a sensory input from multiple points of observation, which is then processed by our intelligence into an image that we carry around with us, like a map in our heads, wherever we go”, Ingold, p. 192 64 “Perception as an active exchanging of material parts, a mixing or entwining with the world. Learning is less about cognition – as typically understood – and more about the embodied flow of perception as a continuous and often unconscious process”, De Freitas, p. 213

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3.3 Il tema della corporeità nel parkour

Il corpo è innanzitutto un’entità biologica, una massa di muscoli, organi e ossa funzionale a

un processo fisiologico di movimento; ma è anche qualcosa di più: è il principale mezzo di

espressione che l’uomo possiede. Come direbbe Mauss il corpo è il nostro primo strumento

d’azione. Nella suo famoso saggio del 1936 lo studioso francese parla di ‘tecniche del corpo’

per riferirsi alle modalità attraverso le quali l’uomo assimila gli aspetti sociali della sua

cultura di appartenenza attraverso gesti, posture e atteggiamenti specifici . 65

Da questo punto di vista la nozione di habitus di Bourdieu è particolarmente interessante e

appropriata, in quanto definisce il corpo come qualcosa di ‘socialmente informato’ nella

misura in cui assimila, per abitudine, una serie di disposizioni provenienti dall’ambiente

esterno . 66

A livello antropologico il tema del corpo non si riferisce appunto alla massa biologica in

quanto tale, che sia statica o in movimento, bensì al modo attraverso il quale esso somatizza

gli aspetti culturali della società in cui nasce e cresce.

Ciascun corpo, infatti, non è altro che una particolare apertura a un dato mondo culturale,

pertanto deve essere inteso nell'originaria indistinzione tra la dimensione organica e psichica.

Di conseguenza, la versatilità stessa del corpo umano e le sue numerose possibilità di

movimento, vanno considerate come diversi modi di modellare e diversificare la ‘presa sulla

realtà’ da parte degli individui. In tal senso, ogni particolare tecnica del corpo agisce

separatamente in una rete di rapporti con l'ambiente esterno e con l'intersezione di piani

differenti: fisico, psichico, sociale e culturale.

Laddove però l'intervento della società sui corpi appare rigidamente organizzato e le sue

convenzioni sono particolarmente pressanti e vessatorie, il corpo entra in uno stato di

coercizione tale per cui non tarderà ad opporsi in termini di resistenza e ribellione.

65 Marcel Mauss, Le tecniche del corpo (1936), edito da ETS, 2015 66 “Un sistema di disposizioni durevoli e trasponibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice di percezioni, valutazioni e azioni, e rende possibile compiere compiti infinitamente differenziati, grazie al trasferimento analogico di schemi, di risolvere problemi simili, che si autocorregge grazie ai risultati ottenuti”, Pierre Bourdieu, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila (1972), Cortina Raffaello, 2003, p. 262

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Senza dilungarci eccessivamente su vasto questo argomento vastissimo, basterà ricordare che

il corpo umano è inteso, nelle scienze sociali, soprattutto come un canale di negoziazione tra

forze politiche, economiche e storiche, le quali lo plasmano, lo influenzano e a sua volta ne

sono influenzate. Tutte queste forze condizionano pesantemente il modo in cui il corpo si

muove e si mostra socialmente, che sia attraverso un particolare tipo di abbigliamento o

capigliatura, concernente quindi una data moda o uno stile di vita, che tramite un’attività

sportiva o, più in generale, culturale. È inoltre importante precisare che il corpo, grazie a

questi atteggiamenti, non viene solo plasmato dalla società, come sostiene Bourdieu, ma

diventa esso stesso il soggetto trasformatore della dimensione sociale e culturale.

In questo senso può diventare anche un potente strumento di resistenza contro determinate

avversità esterne, basti pensare all’emancipazione femminile e all’uso di calze e minigonne,

piuttosto che agli scioperi della fame oppure, per avvicinarci un po’ alla nostra analisi, al

corpo allenato come oggetto di resistenza fisica e veicolo di agency.

Come abbiamo visto in precedenza, in effetti, anche il fenomeno del parkour rappresenta, per

certi versi, una forma di resistenza contro gli aspetti negativi e controversi della società

urbanizzata, in quanto propone una forma alternativa di utilizzo del corpo nell’ambiente

cittadino.

In questa sede intendo concentrarmi sugli aspetti corporei legati per lo più al concetto di

percezione, e più in generale all’idea del corpo come contenitore di emozioni provenienti da

una specifica pratica fisica, il parkour. Per farlo mi riallaccio ad alcuni approcci allo studio

dell’argomento provenienti da varie discipline.

Innanzitutto, considerando la prospettiva fenomenologica di Merleau-Ponty, possiamo dire

che la nostra esperienza del mondo è soprattutto somatica, nella misura in cui noi esperiamo

la sua conformazione e la sua diversità grazie al nostro corpo, inteso non solo come massa

biologica, ma come apparato sensoriale . 67

67 “We shall need to reawaken our experience of the world as it appears to us in so far as we are in the world through our body, and in so far as we perceive the world with our body. But by thus remaking contact with the body and with the world, we shall also rediscover ourself, since, perceiving as we do with our body, the body is a natural self and, as it were, the subject of perception”, Maurice Merleau-Ponty, Phenomenology of Perception, 1962, Routledge Classics London & New York, 2002, p. 239

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Lo studioso francese parla di ‘fenomenologia della percezione’ per riferirsi a un particolare

processo fisiologico e psicologico tale per cui l’essere umano si trova in stretta connessione

con un dato ambiente e costruisce la sua realtà sulla base dell’esperienza percettiva . 68

‘Essere nel mondo’ (being in the world) significa percepire lo spazio per quelli che sono i

suoi oggetti e le sue peculiarità, elementi che suscitano nel soggetto determinati pensieri,

impulsi e intenzioni.

Considerando quanto riportato finora, per la fenomenologia l’abilità percettiva è una vera e

propria tecnica del corpo con cui si agisce sul mondo e ci si rapporta ad esso.

Da un punto di vista analitico l’approccio fenomenologico è più che appropriato per studiare

l’esperienza del corpo nella misura in cui crea un forte legame fra i concetti di corporeità,

mondo esterno e consapevolezza, intesa come coscienza dell’essere in un determinato

momento e contesto. Come precisa Brymer, esso permette di esplorare l’esperienza umana da

un punto di vista esterno, ma in maniera particolarmente definita, intima e soprattutto

soggettiva . Molti aspetti della pratica del parkour, come vedremo, possono essere analizzati 69

solo a livello soggettivo e individuale, in quanto esso è solo uno dei tanti modi per costruire il

mondo e manifestarsi corporalmente nello spazio. In questo senso il parkour è una pratica

assai plastica e malleabile, riconducibile al concetto stesso di identità corporea, ossia la

manifestazione esteriore del proprio self attraverso il corpo e le sue abilità.

‘L’essere nel mondo’, nel parkour, è inteso soprattutto come esperienza di ‘ingaggiamento’

fisico con le strutture naturali e artificiali dell’ambiente esterno.

Come sostiene Angel, il parkour è una vera e propria attitudine fenomenologica . La natura 70

potenzialmente infinita delle possibilità date da questa disciplina innesca un processo di

apertura al mondo tale per cui il soggetto esplora a 360° il proprio corpo e la propria

corporeità attraverso le condizioni e gli elementi dati dallo spazio esterno . 71

68 “The body is the vehicle of being in the world, and having a body is, for a living creature, to be intervolved in a denite environment, to identify oneself with certain projects and be continually committed to them”, Merleau-Ponty, p. 94 69 “Phenomenology is, in its simplest form, a method for exploring the human experience and defining its nature from view-point that requires the transcendence of cultural conditioning and its ensuing understanding of self and consciousness”, George Eric Brymer, Extreme dude! A phenomenological perspective on the extreme sport, University of Wollongong, p. 18 70 “Parkour is then perhaps analogous to a ‘phenomenological attitude’, an ‘orientation to the world’, a way of looking, an attitude of attentiveness to the things of immediate experience”, Angel, 2011, p. 161 71 “The nature of the movements in parkour and the infinite possibilities that environments present, mean that the open-ended nature or perceptual openness to the world is triggered through the new body-subject relationship created by doing parkour… It is the act itself, a celebration, being in the present moment and

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L’antropologa Julie Angel durante le sue riprese a Londra per la tesi di PHD.

Dopo aver studiato il fenomeno parkour, Julie Angel è diventata una praticante.

taking in his surroundings”, Julie Angel, Ciné Parkour: A Cinematic and Theoretical Contribution to the Understanding of the Practice of Parkour, 2011, Brunel University School of Arts, Phd thesis, pp. 157-160

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Un secondo approccio allo studio del corpo su cui vorrei soffermarmi è quello elaborato da

Nancy Scheper-Hughes e Margaret Lock in una famosa opera di antropologia medica del

1987: The Mindful Body: A Prolegomenon to Future Work in Medical Anthropology.

Le autrici, in questo testo, partono dal presupposto che il corpo, essendo un'entità molto vasta

e complessa, va studiato da più punti di vista e, in tal senso, propongono un’analisi alternativa

definita ‘paradigma dei tre corpi’ (three bodies approach) . Il loro principale intento è quello 72

di legittimare l’entità del corpo a livello accademico, dopo tanti anni di trascuratezza.

Le due studiose propongono di studiarlo specificatamente dal punto di vista individuale,

sociale e politico: il primo fa riferimento al piano dell’esperienza vissuta del soggetto; il

secondo alle interpretazioni e alle rappresentazioni simboliche del corpo come oggetto

naturale e culturale; il terzo alle forze politiche e agli strumenti di potere che lo regolano e lo

controllano. A fungere da collante fra questi tre elementi sono le emozioni (affects).

Il punto di partenza è la storica suddivisione ‘corpo individuale’ e ‘corpo sociale’ teorizzata

da Mary Douglas in Natural Symbols (1970) , nozione ripresa poi da altri studi che hanno 73

ampliato il concetto proponendo un’analisi del corpo ancor più particolareggiata . 74

Ad ogni modo, l’approccio tripartito di Lock e Scheper-Hughes mi sembra sufficientemente

esaustivo e appropriato per un’analisi del corpo nel parkour.

Nonostante la sua specifica attribuzione alle tematiche di salute e malattia, infatti, il

paradigma è diventato fondamentale per l’intero campo di studi antropologici, soprattutto a

partire dagli anni ‘90; per tanto intendo applicarlo al mio oggetto di studio soffermandomi su

alcuni aspetti fondamentali.

72 “The "three bodies" represent, then, not only three separate and overlapping units of analysis, but also three different theoretical approaches and epistemologjes: phenomenology (individual body, the lived self), structuralism and symbolism (the social body), and poststructuralism (the body politic)”. Nancy Scheper-Hughes, Margaret M. Lock, The Mindful Body: A Prolegomenon to Future Work in Medical Anthropology, 1987, Medical Anthropology Quarterly, New Series, Vol. 1(1) p. 8 73 “We would expect to find positive themes of symbolic nourishment developed to the extent that the social body and the physical body are assimilated and both focus the identity of individuals in a structured, bounded system”, Mary Douglas, Natural Symbols: Explorations in Cosmology, 1970, Routledge London & New York, p. 164 74 John O'Neill, Five Bodies: The Human Shape of Modern Society, 1987, Cornell University Press

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Per quanto riguarda quello politico, ad esempio, il parkour inteso come esperienza corporea è

stato etichettato più volte come una forma di resistenza subculturale alle oppressioni politiche

e strutturali della società . 75

In realtà, come vedremo, esso rappresenta anche una forma di resilienza alternativa, piuttosto

che una vera e propria ribellione corporea al mondo iper-urbanizzato e alle costrizioni

politiche. Studi recenti, inoltre, ritengono che il parkour sia un’attività del tutto ambivalente

nella misura in cui, da un lato funge da valvola di sfogo ed originale esperienza ludica per il

soggetto postmoderno, dall’altro rappresenta solo un’illusione culturale assorbita in maniera

passiva dal consumismo mediatico contemporaneo . 76

Per quanto riguarda l’aspetto sociale, poi, ossia quello delle rappresentazioni e delle

simbologie che ruotano attorno alla corporeità, il parkour re-interpreta il corpo come

strumento finalizzato all’acquisizione e al potenziamento dell’agency dell’individuo di fronte

alle avversità; diventa un canale metaforico per attivare i soggetti nelle scelte e nelle sfide

quotidiane. Come vedremo, infatti, l’impatto sulla vita ordinaria di questa disciplina risulta

assai profondo e drastico. I traceurs sono coloro che superano gli ostacoli, fisici, mentali,

sociali, per tanto il loro corpo rappresenta simbolicamente l’oltrepasso del muro, tema caldo

dell’era contemporanea in cui dominano i flussi migratori e il concetto di barriera.

Più semplicemente, poi, il corpo del traceur viene identificato da molti praticanti come una

vera e propria armatura , simbolo di forza e agilità con le quali affrontare le sfide 77

dall’ambiente esterno, quello che per gli spartani era l’agoghé o che per le popolazioni

dell’Africa subsahariana è il rito di passaggio finalizzato all’ingresso nella comunità.

75 “Parkour is not total subversion but a practice that resignifies power at the site of the body and architecture”, Matthew D. Lamb, Self and the City: Parkour, Architecture, and the Interstices of the ‘Knowable’ City, 2014, A Journal of Performance Studies Vol. 10(2), p. 6 76 “As such, the thesis provides a critical rebuke to the romanticisation of parkour as a mode of proto-political resistance, and instead attempts to explain its ambiguous position in the deviant-leisure nexus through an in-depth analysis of urban change, consumer culture, and identity in late capitalism”, Thomas William Raymen, The Paradox of Parkour: An Exploration of the Deviant-Leisure Nexus in Late-Capitalist Urban Space, 2017, Durham University, p. 6 77 “Whilst the obstacles or the urban furniture that is usually the primary focus, parkour as a training methodology can be practised in open spaces, choosing to exercise and condition the body in preparation for the movement over obstacles. Creating what Stephane Vigroux and many others refer to as their ‘body armour”, Julie Angel, Ciné Parkour: A Cinematic and Theoretical Contribution to the Understanding of the Practice of Parkour, 2011, Brunel University School of Arts, Phd thesis, p. 128

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Per quanto concerne il corpo individuale, invece, il tema si riferisce a quello che è il vissuto

intimo del soggetto coinvolto che per Lock e Scheper-Hughes è rappresentato soprattutto dal

racconto dell’esperienza somatica del dolore, essendo il loro lavoro indirizzato

principalmente al campo dell’antropologia medica.

A tal proposito, la storia di James Blake ‘Rooster’ Gallion , un traceur texano di Carrollton 78

affetto da paralisi cerebrale, è esemplare in quanto mostra come l’esperienza della malattia

possa essere raccontata attraverso l’espressione del corpo, in questo caso intesa come attività

fisica . Il parkour, qui, funge da mezzo vincente contro la dimensione del dolore fisico e 79

mentale, una vera e propria ragione fondante per muoversi ed esprimersi nonostante le

difficoltà. Ad ogni, modo l’esperienza vissuta del corpo individuale fa riferimento a quello

che abbiamo definito in termini fenomenologici ‘being the world’, e a tutte le sensazioni

derivanti dalla totale immersione del sé in un dato spazio e momento.

James Blake ‘Rooster’ Gallion, traceur americano affetto da paralisi cerebrale.

78 “For people with disabilities, however, these transitions can be immensely difficult, but gratifying once they take flight. For Rooster, who is currently working with a gymnastics instructor and practicing Parkour anywhere from three to five days a week, discovering Parkour has been a life-altering experience”, http://www.cerebralpalsy.org 79 A reason to move (Cerebral palsy - Parkour), https://www.youtube.com/watch?v=7-e7jC6qwJc

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Per quanto riguarda il parkour in particolare, questa realtà viene spesso tradotta come ‘stato

di flow’ (flow state) in riferimento al concetto elaborato dallo psicologo ungherese Mihali

Csikszentmihalyi. Secondo la sua prospettiva, nel momento in cui il soggetto è focalizzato in

una determinata attività, nel nostro caso una prestazione fisica, ha l’occasione di

padroneggiare in maniera totalizzante quelle che sono le proprie capacità psico-fisiche,

incrementando a dismisura la comprensione del proprio sé . 80

In tal senso, il parkour diventa una pratica corporea trasformativa dell’identità.

Tuttavia lo ‘stato di flusso’ non è semplicemente una condizione momentanea e

trascendentale, ma è qualcosa di fisso e duraturo nella misura in cui i suoi effetti si

manifestano anche nella quotidianità del soggetto, influenzando non solo la percezione

spaziale del traceur, ma anche il suo atteggiamento corporeo in generale.

Come vedremo, infatti, questo senso di padronanza totale delle proprie abilità, porta con sé

un effetto collaterale di ‘estraniamento dal mondo’ intesa come paradossale alienazione del

soggetto dalla realtà, e questo perché il tracciatore, in molti casi, esperisce un vero e proprio

slancio ossessivo che lo conduce al di là del tempo e dello spazio . 81

Questo è solo uno dei numerosi casi di studio dell’esperienza vissuta nel fenomeno del

parkour. Ciò che è importante considerare, a questo punto, è che grazie allo studio del vissuto

è possibile estrapolare informazioni utili a ricostruire i processi di plasmazione della realtà

culturale, in questo caso trattasi dell’assimilazione psico-fisica e soggettiva di un’attività

sportiva specifica.

Il corpo, in questo caso, diventa il principale mezzo produttore di significato e, per tanto,

piuttosto che essere considerato un oggetto di studio a sé stante, deve essere visto come un

soggetto attivo che produce valore; per dirla alla Csordas, il corpo è il terreno generativo

della cultura . 82

80 “If one takes control of what the body can do, and learns to impose order on physical sensations, entropy yields to a sense of enjoyable harmony in consciousness”, Mihaly Csikszentmihalyi, Flow: The Psychology of Optimal Experience, 1990, & Row, p. 95 81 “The lived experience of parkour involves the transcendence of time, space, other and body as everyday experiences are re-evaluated and ‘stylised’ revealing the individual situated ‘essences’ of parkour as an expression of the corporeal for each participant”, Angel, 2011, p. 161 82 “This approach to embodiment begins from the methodological postulate that the body is not an object to be studied in relation to culture, but is to be considered as the subject of culture, or in other words as the existential ground of culture”, Thomas J. Csordas, Embodiment as a Paradigm for Anthropology, 90, Ethos, Vol. 18(1), p. 2

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Come vedremo, infatti, è attraverso il corpo che si producono nuovi valori e nuovi significati.

Ed è qui che risulta fondamentale il tema dell’incorporazione (embodiment), ossia l’insieme

dei processi attraverso i quali l’esperienza culturale viene a manifestarsi sul corpo.

I traceurs, ad esempio, sono un esempio lampante di questa realtà nella misura in cui

somatizzano i valori portanti della disciplina applicandoli direttamente al mondo esterno,

incorporando, appunto, il sé con l’ambiente circostante e stabilendo una relazione pressoché

mutuale con esso. Più in generale, per quanto riguarda il parkour, possiamo rifarci

all’originale nozione di corpographia elaborata da Britto e Jacques, le quali propongono di

ri-concettualizzare il corpo sulla base della sua ‘co-implicazione’ con lo spazio cittadino.

La corporeità, intesa come espressione del sé, si manifesta attraverso singoli momenti

interattivi con lo spazio urbano, i quali coinvolgono indifferentemente oggetti, sensazioni,

idee e persone . In tal senso, possiamo scendere verso un ulteriore livello di embodiment 83

definito micromapping, ossia una trasformazione rapida e momentanea del proprio senso del

sé favorita da una serie di ‘micro-sforzi’ fisici e mentali (slancio, stacco, affanno,

propriocezione) che il traceur affronta durante la sessione di allenamento . 84

Come sostiene Angel:

“The city’s transient spaces are visited and revitalised by hours of repetitive movement drills by the

traceurs’ presence. The empty potential of walls, rails, gaps, drops and edges is transformed and

created into playgrounds of effort, activity and encounters through Parkour” . 85

83 “Corpographia describes the process of the incorporation of urban experiences as dynamic cartography. The city is perceived by the body as a set of interactive conditions, and the body expresses, or articulates, a transitory synthesis of these interactions. These corpographias explain the patterns of movement and the bodily organisations resulting from interactive experiences between the biological conditions of the body and the contextual urban environment”, Fabiana D. Britto, Paola B. Jacques, Corpographia: A Processual Concept of the Urban Body, in Schiller, 2014, pp. 47-48 84 “It is these momentary transformations that permeate the ongoing mapping and empowerment experienced by the traceur, and contribute to a revelation of the traceur’s sense of self”, Gretchen Schiller, Sarah Rubidge, Choreographic Dwellings Practising Place, 2014, Palgrave Macmillan (UK), p. 16 85 Julie Angel, Game Maps: Parkour Vision and Urban Relations, in Schiller, 2014, p. 179

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Analizzando il concetto di dwelling perspective, abbiamo visto che ‘l’essere nel mondo’ non

comporta soltanto la presenza fisica e ‘statuaria’ del corpo in un dato momento e spazio, ma

anche, e soprattutto, l’idea di movimento e adattamento intesi come cambio prospettico,

capacità adattiva e ampliamento del raggio d’azione. Quindi è soprattutto l’esperienza della

mobilità corporea che permette di comprendere, codificare e riorganizzare i parametri della

spazialità stessa, intesa come luogo di interazione ‘corpo-ambiente’.

Concludendo, possiamo dire che studiare la corporeità nel parkour non significa soffermarsi

su quella che è la manifestazione esteriore, la performance del movimento, oppure sulla rete

di forze sociali e politiche che lo plasmano, lo guidano o lo deviano, bensì significa

analizzare l’esperienza vissuta del soggetto. È necessario entrare nel merito delle sue

sensazioni, delle sue prospettive, del suo punto di vista specifico.

Nei capitoli successivi saranno i traceurs stessi a raccontarci la loro esperienza, i loro processi

di apprendimento e i tutti i tentativi di accettare, comprendere e gestire la gamma di

sensazioni corporee ed extra-corporee derivanti dalla pratica del parkour, sia dal punto di

vista ‘percettivo-sensoriale’ che da quello del loro specifico modo di intenderla e viverla.

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3. Spazio, percezione e identità: il mondo urbano

raccontato dai traceurs

3.1 Master the space: esplorazione, vision e reinterpretazione della

creatività

La pratica del parkour comporta, per sua natura, una considerazione dettagliata dello spazio e

degli oggetti architettonici in tutte le loro forme e varianti. Il tessuto urbano diventa un campo

da gioco contorniato da infinite possibilità motorie. Il presupposto di questa condizione è dato

principalmente dall’aspetto esplorativo proprio di un traceur. Esplorare luoghi differenti della

città è l’obiettivo di partenza di ogni praticante, così precisa Fla: “credo che ogni tanto sia

necessario esplorare a fondo altri luoghi, uscire dalla comfort zone spaziale”.

Il dominio dello spazio, inteso come appropriazione e incorporazione delle singole possibilità

di movimento, è una condizione predominante nella pratica del parkour. Passa attraverso

l’esplorazione assidua e dettagliata dei luoghi cittadini, o spot di allenamento, anche se

apparentemente privo della giusta conformazione.

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Anzi in quel caso l’opportunità risulta ancora più accattivante nella misura in cui il traceur è

quasi costretto a trovare il modo per muoversi e tracciare dei percorsi, sviluppando così la sua

creatività e visione. La vision è al tempo stesso ciò che un traceur sviluppa nella sua mente

grazie all’allenamento e ciò che mette in pratica una volta acquisite determinate competenze.

È una linea guida, una predisposizione all’azione maturata grazie a una costante immersione

del corpo nell’ambiente urbano; ma partiamo da una definizione più standard:

“Parkour Vision is referring to a Traceur’s innate ability to map out routes that lead through the

environment in their mind’s eye. It allows them to see the pathway in which they could execute their

flow” . 86

Stando a questa affermazione la vision è un’abilità innata del traceur, il quale grazie

all’allenamento sviluppa uno spirito osservatore che gli permette di concepire percorsi

pressoché ovunque, in ogni angolo della città. Lo storico documentario Parkour Generations:

Visions di Julie Angel mostra chiaramente questo affascinante aspetto del parkour, 87

riprendendo i movimenti di alcuni yamakasi intenti a esplorare zone urbane e a creare nuove

combinazioni motorie nelle banlieue parigine.

Kazuma e Sebastien Goudot discutono su quale movimento affrontare.

86 Headway parkour blog, Parkour Vision 87 https://www.youtube.com/watch?v=O-KQYi_ZI5Y

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La fase di osservazione nel parkour prevede un vero e proprio studio del movimento: si cerca

e si guarda l’ostacolo, se ne analizzano tutti i possibili dettagli, il materiale (legno, cemento,

ferro), la distanza, la fattibilità, si decide il metodo d’azione appropriato e si procede per

tentativi, come precisa Saiu: “durante le sessioni di allenamento ci sono le fasi di studio del

movimento, ti immagini il salto, lo provi, lo riprovi”.

Il tema della vision è particolarmente discusso fra i traceurs, e ognuno tende a dare una

propria versione di quella che può essere etichettata sia come una tecnica variabile a seconda

delle condizioni spaziali e del tipo di approccio del singolo , che come uno status mentale, 88

una condizione temporanea dell’individuo. Uno degli intervistati afferma:

“La vision è una sorta di consapevolezza nei confronti delle proprie skills. Saper di poter fare, o

anche solo immaginare di poter fare certe cose in un determinato ambiente, mi rende conscio, saldo e

libero” (Fla).

Da questa affermazione si deduce che la vision non è tanto una rappresentazione o

visualizzazione di qualche potenziale movimento nello spazio, ma piuttosto una condizione

momentanea, uno status di consapevolezza pressoché totale nei confronti delle proprie abilità.

Oppure ancora la visione come stato dell’essere, un modo soggettivo di vivere la pratica:

“È come il singolo si approccia alla disciplina, come la vive, quello che riesce a fare suo, quello che

sente. Dovrebbe riuscire a mantenere la propria vision senza farsi plasmare o contaminare.

La visione per me è questo, accettare il parkour per quello che è, ma allo stesso tempo metterci la

propria fantasia, la propria energia”.

La visione, ad ogni modo, è qualcosa che si acquisisce attraverso l’esperienza e

l’allenamento; è come un muscolo che per essere efficiente va tenuto stimolato : “achieving 89

high-level skills is generally considered to require intense training, which is thought to

optimally engage neuronal plasticity mechanisms” . 90

88 “First person conceptualization is the variant of third person visualization. With third person visualizing you think about how you will look to other people when you train, first person on the other hand focuses on what you will see as you perform the moves. It helps to close your eyes and imagine everything about performing the movement”, Headway parkour blog, Parkour Vision 89 “Parkour vision is like a muscle, it can be improved through consistent practice. It is similar to a muscle in another way too, If you neglect the muscle it will shrink and lose it’s power”, Headway parkour blog 90 Neuroanthropology: Understanding the encultured brain and body, http://blogs.plos.org/neuroanthropology/2013/07/01/vision-in-free-running/

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Tuttavia il training non è sempre il fondamento necessario per lo sviluppo delle skills, poiché

spesso risulta “artificiale” rispetto a quanto può offrire l’esposizione diretta all’ambiente,

soprattutto in termini di sensorialità acquisita, di stimolo dato dallo spazio:

“Skills can be effectively acquired by a complementary approach in which the learning occurs in

response to mere exposure to repetitive sensory stimulation. Such training-independent sensory

learning induces lasting changes in perception and goal-directed behaviour in humans, without any

explicit task training”. 91

Da questo punto di vista tutto lo studio sull’antropologia dei sensi di Paul Stoller , risulta 92

particolarmente emblematico. Egli sostiene che durante il processo etnografico tutta una serie

di elementi legati alla sensorialità sono funzionali a un apprendimento maggiore del contesto

culturale in cui ci si trova. Il corpo e i suoi sensi fungono da mediatori per lo svolgimento

dell’analisi etnografica che, nel caso specifico del parkour, si traduce in

‘osservazione-azione’. L’esposizione all’ambiente non è da ricollegarsi esclusivamente alla

dimensione dello sguardo, tipica dell’oculocentrismo occidentale, ma anche a quella

dell’odore, e in questo caso può essere l’odore del muschio sui muretti o quello stesso

dell’asfalto, e in particolare alla dimensione del suono che porta con sé un’idea di

introspezione e di esposizione diretta all’ambiente. A questo proposito è interessante la presa

di posizione del traceur ‘1consolable’ che in un video sperimenta la musicalità dei 93

movimenti di parkour al fine di creare delle vere e proprie sequenze ritmate:

“The experiment was about how music could be made out of movements, and not about movements

themselves. We were, at the contrary, trying to use the most simple moves possible in order to be able

to repeat them again and again to create rhythm sequences” . 94

Ad ogni modo, tutti gli elementi sensoriali assumono un’importanza basilare nella pratica del

parkour, soprattutto perché la vision viene spesso accentuata rispetto al tatto o al suono, ma in

realtà anche questi aspetti sono fondamentali, in quanto legati al più ampio processo di

91 Ibidem 92 Paul Stoller, The Taste of Ethnographic Things: The Senses in Anthropology (1989), University of Pennsylvania Press and In Sorcery's Shadow: A Memoir of Apprenticeship Among The Songhay of Niger (1987) University of Chicago Press 93 https://l1consolable.bandcamp.com/track/parkour-naturally 94 Parkour, musically, https://www.youtube.com/watch?v=RI-QtBLC0xo

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incorporazione (embodiment). Esso infatti coinvolge l’intero apparato ‘biologico-sensoriale’

dell’individuo. Nel nostro caso però la visione è, per così dire, il tema prediletto in quanto

funge da collante tra la fase esplorativa e il processo di creazione.

La conformità dello spazio e il fatto che un luogo possa offrire molto in termini di barriere e

ostacoli, incidono solo relativamente nel processo di ampliamento e sviluppo della vision.

Tutto sta nella capacità di guardare le cose a più ampio raggio, nell’osservare in maniera

dettagliata e aperta tutte le sfaccettature dello spazio urbano e immergersi a capofitto nel

movimento. Il fatto di poter accedere a un territorio privo di luoghi in cui praticare parkour,

in qualche modo, è una condizione precaria ma utile per crescere come “tracciatore

osservatore”: incrementa la vision e incentiva la dimensione esplorativa del singolo

praticante. Laurent Piemontesi, uno dei fondatori yamakasi, ha ripreso questo discorso in un

progetto media incentrato sull’utilizzo a 360° degli elementi urbani.

In uno dei video si vede il tracciatore utilizzare una semplice panchina in tutte le sue 95

possibili varianti, eseguendo movimenti che spaziano dall’equilibrio, alla verticale, alle

singole tecniche di fluidità. Al di là dell’aspetto puramente estetico ed evocativo delle

immagini, il progetto ha uno scopo ben preciso: mostrare l’infinita gamma di possibilità che

c’è intorno a noi. Il concetto in questo caso è applicato specificatamente al parkour, ma il

messaggio è chiaramente più profondo ed emblematico, nella misura in cui è trasferibile sul

piano ordinario della vita di tutti i giorni.

Infatti avere un atteggiamento aperto e attento nei confronti delle opportunità che si possono

avere in qualunque momento e luogo, è certamente gratificante, soprattutto in un mondo

come quello odierno dove c’è una vasta gamma di scelta.

Questo solo per precisare quanto sia evidente e comune la trasposizione di alcuni aspetti della

disciplina sul piano quotidiano. È chiaro che imbattersi in luogo florido e ricco di ostacoli,

come un parco contornato da muretti o una piazza colma di tubi, tornelli o muri, è più che

stimolante per un traceur, ma in questo caso la carenza di ostacoli è fondamento peculiare di

crescita, un presupposto fondamentale per lo sviluppo della vision. Ecco perché molti

praticanti che si allenano in città apparentemente prive di spazi appositi, hanno di solito una

visione più ampia e creativa perché devono, per così dire, arrangiarsi con quello che hanno.

Il parkour è uno strumento d’eccellenza per conoscere gli aspetti più nascosti del circondario,

uno stimolo per esplorare e ricercare spazi appositi intorno a sé.

95 NOTHING IS SOMETHING - #1 The bench, https://www.youtube.com/watch?v=uGT0Cpcz7kE

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Ed è qui che si instaura l’imprescindibile legame tra l’esplorazione e la visione.

La prima è il presupposto della seconda, la seconda è il risultato (non scontato) della prima.

Senza una solida propensione alla scoperta non ci può essere crescita in termini di vision, che

sia intesa come rappresentazione o condizione più generale dell’essere.“L’esplorazione

diventa una delle armi principali del parkour per sviluppare la vision”, precisa Fla.

“Tramite il parkour ho veramente imparato a conoscere la mia città natale. Questa disciplina mi ha

dato veramente tantissimo nello scoprire anche lo stesso quartiere dove ho abitato e giocato sin da

bambino. Crescendo e facendo parkour ho visto un sacco di cose in più”.

Laurent Piemontesi mentre esegue un 360° chevalier.

La fase esplorativa di per sé stessa, ad ogni modo, non va intesa esclusivamente in termini di

movimento e scoperta, ma soprattutto come ampliamento del proprio raggio d’azione, delle

proprie opportunità. Questo approccio porta a sviluppare un maggior consapevolezza delle

proprie aspettative nei confronti della spazialità in generale, quasi che lo spot parlasse al

traceur comunicandogli dove andare ad agire. Precisa Deni.

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“L’idea basilare è quella di non precludersi niente, non stare sempre nello stesso spazio, variare,

esplorare. Se non esploriamo, non scopriremo mai cose nuove e se non esploriamo cose nuove una

parte di queste infinite possibilità si preclude. Senza la variazione questa visione non matura”.

Nelle parole dell’intervistato prevarica fortemente il senso di ricerca verso le novità:

esplorare e variare sono le parole d’ordine, la linea guida per giungere a una piena maturità

nella pratica, una coscienza verso quelle che sono le proprie capacità e i propri limiti.

Premettendo che la spazialità gioca un ruolo centrale nella disciplina del parkour, un concetto

interessante da considerare in questa sede è quello di ‘Dinamical system theory’ rivisitato

dallo psicologo J.A. Scott Kelso in Dynamic Patterns: The Self-Organization of Brain and

Behavior (1995). Secondo questo ragionamento, applicato specificatamente al contesto

interazionale uomo-ambiente, l’essere umano è costituito da una serie sistemi complessi,

come quello biologico, psicologico e fisiologico. Questi sistemi interagiscono fra loro in

risposta a degli stimoli dati dall’ambiente esterno, producendo in primis una reazione esterna

coadiuvata dal corpo, e in seguito una reazione interna sviluppata dalla mente:

“I refer first to the Gestalt theorist Wolfgang Köhler, who viewed psychological processes as the

dynamic outcome of external constraints provided by environmental stimulation and internal

constraints of brain structure and function” . 96

Questo induce le due principali entità dell’essere umano, il corpo e la mente, a compiere

un’azione pressoché istintiva e, in qualche modo mutuale, nei confronti dello spazio

circostante: io rivaluto lo spazio, lo spazio mi dà delle opportunità.

Più nello specifico si tratta di attitudini e inclinazioni favorite da determinate condizioni o

forme particolari dell’ambiente esterno. Come precisa Fla:

“In ambito neuroscientifico, oltre che filosofico, si descrive il rapporto con la spazialità e il soggetto

attraverso la terminologia delle affordances, ovvero delle disposizioni o predisposizioni fondate sulla

base di determinati stimoli che permettono di sviluppare delle capacità specifiche”.

96 J.A. Scott Kelso, Dynamic Patterns: The Self-Organization of Brain and Behavior (1995), MIT Press., p. 35

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L’acquisizione delle competenze (skills), quindi, passa attraverso l’esposizione del corpo

all’ambiente. Un determinato assetto dello spazio, che nel parkour può essere un muretto

disposto in un certo modo, piuttosto che una serie di ostacoli posizionati in maniera

particolare, è una potenziale opportunità di crescita in termini di abilità.

Lo spazio diventa mediatore di conoscenza per il soggetto e la conoscenza porta ad acquisire

delle nuove skills, in questo caso tecniche performative da poter ri-applicare in altri contesti.

Come precisa uno dei tracciatori, infatti, in alcune situazioni la vision ci porta a notare dei

dettagli che potrebbero non ripresentarsi più.

Ogni ostacolo ha una conformazione specifica, in un certo senso è unico, quindi è unica

anche l’occasione di poterlo oltrepassare, che sia durante un training o no.

Una delle peculiarità del parkour, in effetti, è data proprio dalla fruibilità dei luoghi in cui è

possibile praticarlo, i cosiddetti spot. Le opportunità sono ovunque, basta scovarle.

Ecco perché l’esplorazione è così fondamentale, perché senza di essa queste opportunità

sfuggono. Tutto ciò, spesso, si interfaccia con quella che per molti è una situazione per così

dire normale, per esempio una semplice passeggiata, cosa che per un traceur non è mai tale.

Avendo sviluppato un attento spirito di osservazione verso il circondario, le sue

predisposizioni avvertono immediatamente lo stimolo nel momento in cui una condizione

favorevole si presenta ai suoi occhi. È un tema prettamente neurologico che, applicato al

parkour, fornisce ottimi spunti per la ricerca. Come precisa Deni:

“Spesso la pratica scaturisce da sé, sul momento, è situazionale. Non è che vedo un break the jump e

lo faccio. Può capitare anche quello, ma dev’essere un’occasione speciale, un movimento che potresti

non rivedere mai più”.

La vision, inoltre, non costituisce solo una condizione basilare per la messa in atto delle

proprie skills motorie, ma è un’entità plastica, dinamica, sottoposta a una costante

trasformazione. Essa cambia e si accresce in base ai singoli spazi che incontra, favorendo così

un meccanismo di riproducibilità che dona al soggetto dinamismo e rapidità d’azione.

“La percezione cambia ed è olistica, quindi tutto quello che vediamo si traduce immediatamente in

una predisposizione all’azione. Con il nostro cambiamento di visione cambia anche il nostro modo di

agire e reagire nello spazio” (Fla).

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Nel parkour questa realtà è accentuata in maniera preponderante perché è proprio attraverso

lo spazio che il corpo reagisce e acquisisce delle skills, in particolare sotto forma di

movimenti studiati o improvvisati. Dal momento in cui lo sguardo si posa sulla morfologia

urbana, intesa in termini di struttura/architettura e insieme di oggetti quali muri, recinzioni o

cancellate, matura tutta una serie predisposizioni mentali che culminano con una reazione

fisica. Il tutto costituisce uno stimolo a cui il corpo risponde istantaneamente, ciò che intendo

chiamare ‘call of spots’. Come afferma Paloz:

“Noi siamo dei sistemi su vari livelli, allora tutti questi livelli si devono unire per rispondere a degli

stimoli specifici che emergono dagli scenari. Siccome il nostro corpo si trova in presenza di

limitazioni date dalla morfologia di un determinato luogo, allora si riorganizza per adattarsi e

imparare costantemente cose nuove”.

Il fatto che l’intervistato si riferisca al corpo come un’entità in grado di riorganizzarsi

presume una conoscenza tale delle proprie capacità fisiche tale da poter concepire un next

level, una base da cui partire per sperimentare e plasmare qualcosa di nuovo e riorganizzare,

appunto, il corpo con nuove skills. Si entra così nella dimensione puramente creativa del

parkour. Per produrre delle nuove forme di movimento è fondamentale avere una conoscenza

approfondita delle proprie abilità psico-fisiche e aver maturato una visione che permetta di

accedere a concatenazioni motorie sempre più complesse.

Tuttavia la vision non è necessariamente il presupposto imprescindibile del processo creativo.

Spesso, infatti, la creatività passa attraverso quello che i traceurs definiscono ‘stato di flow’ , 97

“una situazione in cui sei totalmente calato in ciò che fai, in cui sei super concentrato e

connesso con il tuo corpo, in cui sei alienato dal mondo ed estremamente cosciente delle tue

capacità; è qualcosa di sorprendente, e anche lo scorrere del tempo, in quei momenti, è

alterato”. In questo caso, però, il flow non è da intendersi nella maniera in cui lo teorizza

Mihaly Csikszentmihalyi, ossia come una condizione in cui il soggetto padroneggia

totalmente le sue capacità e abilità in un momento di piena consapevolezza della situazione

nella quale è immerso.

97 “It pushed the person to higher levels of performance, and led to previously undreamed-of states of consciousness. In short, it transformed the self by making it more complex. In this growth of the self lies the key to flow activities”, Mihaly Csikszenthmihalyi, Flow. The psychology of optimal experience, 1990, Harper&Row, NY

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Piuttosto è da intendersi come ‘unione logica dei movimenti’, come un’improvvisazione

motoria derivante dal flusso che ogni singola movenza o tecnica crea e porta con sé.

Luke Albrecht è uno dei maggiori esponenti del tema della creatività nel parkour.

Il caso di Paloz è emblematico nella misura in cui mostra come la vision ceda il passo

direttamente a questo ‘stato di flusso’ in sede di processo creativo.

Al contrario del principio dell’immaginazione, infatti, il quale prevede di eseguire un salto o

una tecnica immaginando e re-interpretando il tutto, al fine di costituire una sequenza in

qualche modo prestabilita, la concatenazione di movimenti avviene sulla base di un singolo

principio o pattern (sliding, pulling, reverse, throwing, pivot).

In base all’oggetto-ostacolo che si ha di fronte si sceglie un modello d’azione e su quello si

costruiscono tutte le possibili varianti di movimento. Lo scopo specifico del suddetto

tracciatore è quello di produrre dei movimenti attraverso una visione dinamica basata sul

flusso motorio, da lui chiamata ‘interpretative dinamics’ . In seguito la definizione specifica: 98

98 https://www.youtube.com/watch?v=5dQnKYBdkaY

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“Interpretive dynamics allows a practitioner to look into this physical expression through new eyes.

The sequences of harmonic actions can be oriented by one or more abstract concept or ideas. This

layer of creation looks for relations between a person and an object” (Paloz).

Paloz mentre sperimenta il principio del “gancio” nel video Interpretive Dynamics - Hooks.

Come suggerisce il suo promotore, per attivare tutti i processi creativi è fondamentale saper

guardare oltre, uscire dalla comfort zone e dalla pratica routinaria che spesso si delinea fra

molti praticanti, fatta di movimenti standardizzati e “copiati” . Così facendo non c’è valore 99

aggiunto, non c’è nulla di nuovo.

“È il creare una roba che non esiste che è interessante. Mi piacerebbe lavorare sul nuovo, in

sostanza andare a sbloccare ‘nuovi mondi’. Sto andando verso quella direzione lì, verso ciò che non

esiste” (Paloz).

99 “Everyone fell in the same routine loop: similar ideas popped up in our minds, regarding what movement to choose next. At this point, the energy was dropping down. The quality of the choices was compromised. If we wanted to keep up with the process, something had to change.”, Parkour flow - A destructive experience, http://animalscholar.blogspot.it

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A fronte di queste considerazioni vediamo come l’idea di creatività sia fortemente legata a

quella di “vuoto”, alla possibilità di avere carta bianca di fronte a una data situazione, in

questo caso un ostacolo dello spazio urbano. Esercitata la scoperta e maturata una buona

vision, lo spazio si presenta come un florido campo da gioco ricco di opportunità.

La riappropriazione dei luoghi cittadini passa attraverso la triade

‘esplorazione-visione-creazione’, un approccio attraverso il quale si prende piena coscienza

delle proprie abilità e possibilità, e si esercita liberamente il dominio dello spazio (master the

space), tema fondamentale della disciplina.

Intendo concludere ripartendo dal tema della vision che, come abbiamo visto, è l’elemento

mediatore fra due dei concetti chiave del parkour, quello esplorativo e quello creativo, e

prendo in considerazione l’affermazione seguente:

“La vision secondo me è uno strumento che si sviluppa e si affina con il tempo. È qualcosa che

permette di de-strutturare gli spazi e dargli nuovi valori, nuovi significati”.

Così come è importante creare qualcosa di nuovo, costruire una propria pratica personale, è

importante anche sapersi rimettere in discussione. Il che, nel pratico, significa

ri-concettualizzare determinate nozioni da noi stessi create e perseguite, per poi crearne delle

nuove e trarne così un nuovo vantaggio.

In sostanza significa saper cambiare, destrutturare dei concetti e crearne altri, evitando così il

rischio di attaccamento eccessivo a qualcosa che prima o poi è destinato a trasformarsi o

annullarsi, poiché il cambiamento è inevitabile.

Ecco perché il processo di creazione è tanto importante quanto quello di distruzione.

Così come i mandala buddhisti creati dopo settimane o mesi di meticoloso lavoro vengono

distrutti per mostrare la caducità delle cose, qualunque tipo di creazione in termini di

movimento nel parkour, dev’essere rivisitata e lasciata andare, in funzione di un processo

evolutivo capace di produrre nuovi significati.

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“We should take every movement as a unique act isolated in time, that guides us forward in our

practice, step by step. We should create and then let go of it, keeping with us the process that brought

us there” . 100

100 Parkour flow - A destructive experience, http://animalscholar.blogspot.it

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3.2 Identità e alienazione: Il paradosso dell’interconnessione spazio-corpo

Come precisato nella parte teorica, il parkour sta assumendo sempre più rilevanza negli studi

delle scienze sociali. Ogni tracciatore porta con sé uno stile di movimento intimo e

alternativo che si inserisce in una più grande area di analisi data dall’incontro fra l’abilità

fisico-motoria del corpo e lo spazio urbano.

Come abbiamo visto, grazie allo sviluppo della sua vision, egli mette a punto una serie di

accorgimenti, stimoli e attenzioni che avranno un effetto preponderante sull’intero processo

di rivalutazione dell’ambiente cittadino, tema caldo dell’urbanistica contemporanea.

Tutto ciò ha anche un risvolto immediato sui soggetti esterni che si imbattono visivamente

nel fenomeno. In questo senso, ‘traceurs-praticanti’ e ‘cittadini-osservatori’, costituiscono

un’unica entità esaminatrice che riflette apertamente sugli aspetti più nascosti del circondario

architettonico.

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In tutto questo processo, però, il vero oggetto d’analisi non è lo spazio di per sé, ma il corpo

in movimento, il quale ne attraversa i meandri e ne plasma i più svariati significati; e qui

ritorno alle considerazioni di Paloz in merito alla de-strutturazione spaziale come base

fondante dell’affermazione di nuovi valori.

La conoscenza percettiva dell’ambiente passa attraverso il corpo, principale mediatore fra il

punto di vista emico e l’occhio esterno dell’osservatore. È bene precisare, a questo punto, che

tale corpo non va inteso come elemento statico di comunicazione con il mondo esterno, ma

come strumento dinamico di espressione delle proprie abilità. Shino, ad esempio, ne parla in

termini di applicabilità e fa un’interessante precisazione:

“Farei una distinzione fra corpo e corporeità: il corpo è lo strumento che utilizzo per affrontare gli

ostacoli, la corporeità invece è la funzionalità applicata a quello strumento. È il corpo applicato allo

spazio, con tutte le sue potenzialità, competenze e difetti. Durante una run io uso il mio corpo per

superare le barriere, ma lo faccio applicando la sua corporeità”.

Il corpo, in questo caso, non è un’entità a sé stante, ma una funzione, qualcosa da applicare.

Il presupposto fondamentale di tutto il processo funzionale è che esso sia in movimento,

quindi considerato per quella che è la sua intera dinamicità. Il corpo come massa biologica,

così come le sue condizioni più propriamente estetiche, rivestono un’importanza superficiale

rispetto a quello che è il suo dinamismo, il suo essere in movimento nello spazio.

Come afferma Paloz, il corpo possiede già delle competenze più o meno distinte, derivanti da

secoli e secoli di evoluzione biologica. Tuttavia è proprio attraverso l’attività fisica e la

sperimentazione continua che esso ne prende piena coscienza e ne mette in pratica gli

attributi. Grazie alla sua percezione altamente sviluppata, infatti, il traceur concretizza tutta

una gamma di competenze fisico-motorie andando ad agire direttamente sugli spazi urbani,

qualunque forma essi abbiano:

“L’idea che il corpo, il mio corpo, avesse dentro di sé le potenzialità di interpolarsi con l’ambiente in

modi così fuori dal comune e allo stesso tempo così esteticamente incredibile, mi ha lasciato molto”

(Paloz).

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A prima vista la disciplina dell’ADD incentiva pesantemente la fuoriuscita delle capacità

fisiche dell’individuo, che in relazione al parkour vengono spesso considerate ‘anormali’.

In realtà il corpo umano è già predisposto per sviluppare tutta una serie di abilità che sono

fondamentalmente naturali e istintive.

Oggigiorno il mondo del fitness è particolarmente florido dal punto di vista sperimentale e, in

effetti, molte delle discipline neonate si basano proprio su un’esplorazione approfondita di

tutte le capacità fisiche del corpo umano, soprattutto in relazione agli scenari del mondo

esterno. Il movnat di Erwan Le Corre, ne è un esempio lampante . 101

Il parkour, come abbiamo visto, deriva dal metodo naturale di Georges Hébert ed è basato

principalmente su dieci famiglie di movimento e sull’esposizione del corpo alle risorse

naturali date dall’ambiente . Il fatto di doversi allenare duramente è una condizione basilare 102

che ogni praticante deve affrontare ancor prima di applicare qualunque tipo di tecnica e

movimento. Questo richiede una predisposizione tale da poter affrontare un periodo di stress

psico-fisico molto intenso, la cui durata varia a seconda del tipo di ricezione del singolo

praticante. Da qui l’affermazione condivisa da molti traceurs: “il parkour non è per tutti, non

tutti sono per il parkour”. La fase di sperimentazione, ad ogni modo, è propria dell’essere

umano, il quale sulla base di competenze considerate o considerabili innate, a seconda dei

punti di vista, plasma qualcosa di nuovo, che sia un’attività fisica, un’usanza o qualsivoglia

prodotto culturale. Come precisa Paloz, infatti, tutto quello che noi conosciamo e vediamo

non è propriamente naturale o asettico, ma è dal momento in cui l’uomo lo plasma che

assume una valenza e un significato, e quindi è reale. Da questo punto di vista si crea il nesso

imprescindibile fra il concetto di natura e quello di cultura:

“Secondo me chi dice che il parkour è esistito da sempre è un fesso, perché non è vero! Tutto esiste

da sempre, ma è nel momento in cui gli diamo un nome, è nel momento in cui lo categorizziamo che

nasce veramente. Allo stesso modo mi figuro che la mia pratica continuerà a nascere e rinascere

sulla base delle idee nuove che svilupperò da qui in futuro” (Paloz).

101 Erwan Le Corre, The Practice of Natural Movement: Reclaim Power, Health, and Freedom (2015), Victory Belt Publishing 102 La camminata (marche), la corsa (course), il salto (saut), la quadrupedia (quadrupèdie ), l’arrampicata (grimper ), l’equilibrismo (équilibre), il lancio (lancer), il sollevamento (lever), la difesa (defense naturelle), il nuoto (natation).

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Il parkour, come abbiamo visto, è un prodotto culturale dell’uomo contemporaneo che è stato

favorito da condizioni sociali particolari vissute nelle banlieue parigine negli anni ‘90.

Tuttavia l’idea di funzionalità del corpo, nonché di applicabilità delle sue skills in un dato

ambiente, è tutt’altro che reale. La concreta possibilità di applicare le tecniche di parkour a

una situazione reale, infatti, è estremamente controversa. A tal proposito è interessante il

discorso delineato da Saiu:

“Onestamente non c’è mai stata nessuna situazione reale in cui io ho dovuto applicare le mie abilità

di parkour, come invece è stato per gli yamakasi nelle banlieue. Nonostante questo il parkour ti

mostra continuamente le reali possibilità di movimento, ti dà costanti conferme di quanto potresti

essere libero nel muoverti in qualsiasi ambiente”.

In questo senso il parkour è un prodotto culturale destinato a una dimensione effimera,

intangibile, creata dal traceur stesso per affermarsi in mezzo ai propri simili, “un mezzo

comunicativo per esprimersi diversamente con gli altri, attraverso il corpo, ma anche

attraverso le emozioni”. Grazie al fatto di poter percepire delle capacità di movimento

alternative nel proprio corpo, egli è indirizzato a una crescita esponenziale in termini di

consapevolezza, sicurezza e autostima, ma allo tempo stesso è relegato a una condizione

fondamentalmente transitoria e irreale . Come precisa Julie Angel, infatti, i traceurs possono 103

diventare “pericolosamente appassionati”, ossia prigionieri della loro stessa pratica , e 104

questo perché stabiliscono una connessione talmente intima con l’ambiente circostante da

raggiungere, spesso, livelli di ossessione e alienazione; ossessione per gli obiettivi,

l’esplorazione, la crescita, alienazione per il focus, l’individualità e l’interconnessione con lo

spazio urbano. Il traceur “è una persona con delle deadline, che si prefigge costantemente

obiettivi da raggiungere a livello mentale, fisico e spirituale (Deni).

Un tale atteggiamento, per quanto oggettivamente produttivo, non può che avere degli effetti

collaterali percepibili anche a occhio esterno; ad esempio l’attaccamento emotivo allo spot.

103 “Traceurs create their own transitional reality, temporarily becoming superheroes of their own realms, masters of movement, possessing greater strenght and agility than other pedestrians through their phisicality and their choices of locations for play and exploration”, Julie Angel, Ciné Parkour: A Cinematic and Theoretical Contribution to the Understanding of the Practice of Parkour, 2011, p. 183 104 “Traceurs give heart and soul to parkour… This experience it’s so consuming that they start to take possession of it and feel a sense of ownership over parkour”, Ibidem p. 163

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Spesso il legame con i luoghi di allenamento è davvero profondo e intimo per un tracciatore,

tanto da ritenerne doverosa la cura e la pulizia, o la possibilità di categorizzarlo in un nome o

un concetto, magari legato alla sua conformazione o al suo grado di difficoltà. Come sostiene

Paloz “bisogna vivere quegli spazi e riempirli con elementi, concetti, idee”.

Tornando alle considerazioni di Saiu, l’atteggiamento tipico di un traceur, riassunto in questo

senso di estraniamento dal mondo, non è tanto una gamma di tecniche motorie più o meno

specifiche applicabili a un contesto reale, ma una predisposizione psichica, una

consapevolezza verso quelle che potrebbero essere le proprie possibilità.

Il contesto raramente è reale, ma piuttosto è realistico

“La mia pratica, in qualche modo, è sempre stata utilizzata come verifica delle mie possibilità in

certe situazioni, e non come vera e proprio strumento utilitaristico, a parte rarissime volte in cui ho

sentito veramente quella sorta di funzionalità da poter applicare a situazioni che la richiedevano”.

“Solo in certi momenti nasce il parkour vero inteso come abilità, perché ti ritrovi a doverlo utilizzare

per uscire da una situazione drastica, per risolvere un problema. Quindi il parkour come base

immaginativa per risolvere una situazione reale. Ti permette di entrare in situazioni costruite che

però potrebbero verificarsi” (Saiu).

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La mappa degli spot bolognesi utilizzati dai traceurs del gruppo Eden Parkour.

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Il legame fra la situazione reale e quella realistica costruita volontariamente dal traceur è

abbastanza controverso. Spesso egli è conscio del fatto che, agendo in un certo modo,

potrebbe necessitare delle sue abilità tecniche per uscire da una data situazione.

Talvolta, però, è la casualità a richiedere l’applicazione di queste tecniche, come quando il

tracciatore padovano racconta di essere rimasto bloccato in cima a una roccia nella foresta di

Fontainebleau, a sud di Parigi. I tracciatori sono fondamentalmente persone legate all’idea di

spazio esterno e alla possibilità di muoversi liberamente nella maniera più dinamica e svariata

possibile. Inteso in termini più propriamente oggettivi “il traceur può essere colui che si

dissocia dalle spinte della modernizzazione più radicale e che cerca di trovare delle vie

alternative”. Come precisa Fla, però:

“Il parkour non è necessariamente un modo per vanificare la modernità. È solo una riscoperta, è

come se io mi creassi una sorta di giardino personale e andassi alla ricerca di quelli che sono i

presupposti originali che hanno dato vita alla condizione post-moderna dell’uomo”.

Questi aspetti della pratica del parkour sono processi invisibili che si radicano a fondo nella

mente del traceur. Non si tratta di una semplice fase di concentrazione o di una convergenza

particolare verso un determinato obiettivo, ma di un vero e proprio senso di estraniamento dal

mondo. Un momento di alienazione in cui il praticante è consapevole del fatto che esiste solo

lui di fronte all’ostacolo. Tornando a Angel, questa estraniazione si fonda paradossalmente su

un forte senso di appartenenza (belonging) allo spazio circostante . 105

I traceurs, quindi, non agiscono semplicemente sullo spazio, ma sono parte integrante dello

spazio in una determinata circostanza. Un po’ come gli avatar di James Cameron, prototipo

indiscusso dei culti indo-americani e delle popolazioni andine, stabiliscono un contatto con

gli elementi naturali per sconfiggere la minaccia esterna, i traceurs stringono un legame di

interdipendenza con gli elementi urbani per fuggire e mantenere la concentrazione fissa su

quella che abbiamo definito un’effimera dimensione transitoria.

105 “The tuning to the environment, the coming together of the consciousness, the body and the environment when in action, is key to the traceur”, Ibidem p. 163

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Una scena del film Avatar di James Cameron (2009).

Attraverso questa dimensione il praticante di parkour plasma una nuova dimensione del sé,

costruisce la propria identità in maniera del tutto fuori dal comune, stabilendo una

connessione fisica, psicologica ed emotiva con gli spazi cittadini.

In questo senso è il corpo a fungere da catalizzatore fra la spazialità percepita e la più ampia

dimensione del sé. Partendo dalla considerazione che il corpo “è un serbatoio dove

immagazzinare esperienze”, la ricerca del proprio sé passa attraverso l’esposizione della

massa biologica all’ambiente esterno; in termini fenomenologici è il nostro ‘essere nel

mondo’. Da questo punto di vista il parkour è uno strumento di “apertura percettiva” che

permette di sviluppare tutta una serie abilità, quali propriocezione ed equilibrio, che

favoriscono e agevolano la nostra conoscenza del mondo con il corpo.

“Il parkour mi dà un senso di completezza, una relazione con il mio corpo che non avevo mai avuto

prima. Mi permette di muovermi come preferisco in un determinato ambiente. È la relazione con il

corpo che si porta avanti nel parkour, non più e non solo il superamento dell’ostacolo o l’acrobazia

bella. L’idea di capire il tuo corpo tramite tanti strumenti che ti circondano, gli ostacoli, ma anche le

persone, mi ha fatto capire che il parkour è completezza” (Shino).

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Ad ogni modo, come precisa V, “il parkour richiede un corpo forte e una mente forte, quindi

deve esserci un equilibrio. Il corpo è la fonte, lo strumento primo per mantenere questo

equilibrio”.

“Il corpo è il mio tempio. Il corpo arriva prima della mente e la mente arriva prima del corpo, è una questione situazionale, ma il loro rapporto è parallelo, è mutualistico” (V).

Concludendo possiamo dire che l’interconnessione spazio-corpo dei traceurs assume una

forma controversa e paradossale: da un lato è la base fondante per l’espressione del sé che,

come abbiamo precisato, passa attraverso il movimento corporeo; dall’altro è sintomo di

alienazione e estraniamento dal mondo. Nel momento in cui il tracciatore raggiunge quella

dimensione di iper-connessione con lo spazio urbano, vero cuore pulsante del parkour,

subisce un effetto collaterale di straniamento e allontanamento dalla condizione reale.

La sua realtà diventa il contatto ‘spazio-corpo’ in quanto tale, percepito in quel preciso istante

e in quel preciso luogo. Il prolungamento di questa condizione varia da praticante a praticante

ed è per lo più momentaneo. Tuttavia, dal momento in cui l’obiettivo del tracciatore è

dominare lo spazio attraverso il corpo e ricercare costantemente il movimento in ogni luogo,

tale condizione può protrarsi nella sua mente fino a raggiungere livelli di

‘passione-ossessione’. Ad ogni modo è interessante notare come, in quelle situazione, si

venga a creare un nesso fra corpo mente e spazialità, il cui rapporto, seppur controverso, è per

lo più mutualistico: lo spazio stimola la mente, la mente esorta il corpo ad agire e il corpo si

muove riempiendo di nuovi significati lo spazio. L’interconnessione spazio-corpo è il binario

su cui scorre l’intento esplorativo del tracciatore inteso come soggetto post-moderno, attivo

ricercatore del sé autentico.

“Il traceur come entità è difficile da incanalare in una situazione precisa e ben definita. La cosa più

stimolante sta proprio nel fatto che non devi identificarti mai come un traceur, perché nel momento in

cui lo dici probabilmente hai già smesso di cercare un evoluzione o quello che è veramente il tuo

essere traceur, cioè come sei tu” (V).

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3.3 Parkour e quotidianità: ostacoli, paura e crescita personale

Il parkour è un’attività in grado di mettere a nudo le persone di fronte alle loro paure e i loro

limiti. Attraverso un rigido e, allo stesso tempo, malleabile processo di auto-disciplina

(self-discipline), induce il soggetto a confrontarsi con una serie di elementi interiori quali

iniziativa, predisposizione all’azione, voglia di mettersi in gioco, curiosità verso la

sperimentazione ecc. Rigido nella misura in cui richiede un’ardua preparazione psico-fisica,

malleabile perché una volta raggiunta una solida base tecnica e di potenziamento lo si può

plasmare a piacimento.

È evidente che esiste un aspetto esteriore più fisico, legato al movimento e all’idea del corpo

in azione, ma lo scopo principale di questa disciplina non sta nella performance di per sé, ma

piuttosto nel costante miglioramento della propria predisposizione mentale verso le cose:

“Attraverso il parkour è possibile andare a lavorare su tutti quegli aspetti della tua personalità che ti

impediscono di levarti e migliorare” (Saiu).

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L’impatto di una disciplina così completa nella vita quotidiana del singolo può essere

davvero grande, così come precisa Deni: “ho sempre avuto un senso spaziale molto

sviluppato in quanto sono un osservatore per natura, ma devo dire il parkour è entrato

prepotentemente in quella che era la mia routine quotidiana”. La trasformazione del

quotidiano non è una cosa esclusiva del parkour, ma è comune a molte discipline fisiche, e

più in generale a ogni tipo di attività protratta nel tempo.

Tuttavia il fatto di essere indotti a trasporre sul piano della vita ordinaria alcuni concetti quali

sfida o resilienza, come nel caso del parkour, conduce a un decisivo cambio di atteggiamento.

Il meccanismo è pressoché automatico, inconscio. Quei concetti diventano ‘i’ concetti di vita

del singolo, principi, valori o credenze che si innestano nella sua mente e influenzano

pesantemente il suo modo di agire.

“C’è stata una variazione delle abitudini, dell’assetto mentale, del modo di affrontare determinate

questioni concernenti anche la mia vita “extra-parkouristica”. Il tutto è avvenuto con una certa

casualità, ma sempre seguendo una linea di progressione parallela alla pratica stessa, quindi a

livello più interiore” (Fla).

Come sostiene Fla, il processo di trasposizione sul quotidiano è stato per lui relativamente

causale, e quindi inconscio: la sua forma mentis è cambiata gradualmente “perché c’è stata

una progressione anche nella comprensione della pratica. Pian piano, scavando sempre più

in basso, ho ritrovato un significato immerso”.

Lévi-Strauss afferma che noi non siamo immuni dalle contingenze, il nostro sistema di

credenze varia in base al contesto nel quale siamo immersi e, soprattutto, in base a ciò che ci

capita: “Una persona dev’essere ingenua per credere che l’essere umano sceglie il proprio

credo indipendentemente dalle situazioni che vive” . Quindi il fatto di essere esposti a una 106

data condizione, in questo caso quella del praticare parkour, abitua il singolo a ragionare in

un certo modo, in particolare in termini di superamento delle avversità.

I traceurs, infatti, sono soliti fronteggiare situazioni complesse, si pongono nelle condizioni di

affrontare qualunque tipo di ostacolo, fisico o mentale che sia : 107

106 Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques (1955), Chapter 16 : Markets, p. 148 107 “L’affrontare salti difficili o passaggi molto complicati ti abitua a non scappare mai dalle situazione, ma a rimanere lì ad affrontarle”. BlaBla Paloz, https://www.youtube.com/watch?v=9gcW8c9OleM

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“Mi ha insegnato a non fuggire dai problemi e dalle situazioni difficili e ad affrontarle nel migliore

dei modi, usando le mie potenzialità” (Shino).

In generale sono predisposti ad applicare tutta una serie di tecniche di problem solving

particolarmente originali al fine di raggiungere i propri obiettivi. Il caso della categoria

‘Problem’ nel canale video di Parkourwave, ad esempio, è emblematico in quanto mostra

l’aspetto ancora una volta creativo del superamento degli ostacoli, in questo caso controversi

e insoliti come gasdotti pieni di filo spinato . 108

Paloz intento a raggiungere una barca sui canali fluviali di Padova.

La peculiarità del parkour e del suo impatto sulla quotidianità è data dal fatto che, a

differenza delle contingenze più o meno casuali che si possono verificare nella vita di un

individuo, i traceurs sono soliti porsi essi stessi nelle condizioni di affrontare un problema.

In qualche modo si complicano la vita, ma lo fanno per uno scopo ben preciso: crescere.

108 Problem: mostro, https://www.youtube.com/watch?v=M7QYfdgnSUI

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“Lo scopo di questa disciplina, essenzialmente, è la crescita, la crescita in tutti gli aspetti legati alla

persona: fisico, mentale, spirituale, propriocettivo, ricettivo, capacità di comprendere sé stessi e gli

altri” (Deni).

Al contrario di quanto condiviso da molti, in effetti, il parkour non è una disciplina

necessariamente rigida e da masochisti. Si parla spesso dell’ardua preparazione che esso

richiede, e questo è certo, ma non è l’unico aspetto da sottolineare in questa sede. Per certi

versi, infatti, il parkour è molto più malleabile di quanto si creda, così come precisa Deni:

“La relazione fra il praticante e la disciplina deve essere a due vie: io mi adatto alle esigenze della

disciplina e la disciplina deve adattarsi alle mie capacità, ai miei limiti, ai miei tempi soprattutto. Io

la vedo più come una cosa che andrebbe malleata, non la vedo come una disciplina borderline che

solo pochi eletti possono praticare”.

Il concetto di adattamento, così centrale nel parkour, viene ribaltato sulla disciplina stessa: i

movimenti, le tecniche e le combinazioni devono adattarsi a quello che il corpo è l’esigenza

del singolo praticante. Da questo punto di vista il processo di crescita passa attraverso un

rapporto di adattamento mutuale fra il parkour, inteso come attività disciplinare, e le esigenze

fisiche, psichiche, o più generali di vita, del traceur.

Partendo da questa considerazione di Fla intendo esaminare come la quotidianità percepita di

un traceur si lega al più ampio concetto di miglioramento del sé:

“Il parkour ha un potenziale dal punto di vista pedagogico nella misura in cui rapporta il corpo e le

sue capacità al sé, alla crescita personale”.

Come abbiamo visto l’idea di ostacolo nel parkour è fondamentale, e non solo perché

rappresenta la singolarità della disciplina in sé, ma soprattutto perché i traceurs ne

abbracciano il significato e lo interpretano diversamente sia sul piano quotidiano della

pratica che su quello ordinario della vita. I salti non affrontati, i movimenti non chiusi,

restano lì, cristallizzati nella testa del praticante fino a quando non vengono di nuovo

fronteggiati e finalmente superati.

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Il break the jump è sicuramente l’esempio più emblematico di questo argomento. Per break

the jump , letteralmente ‘rompere il salto’ (casser the saut), s’intende quel processo mentale 109

attraverso cui il traceur si focalizza su un singolo movimento, di solito piuttosto complesso, e

lo porta a compimento. È un tema molto ampio e discusso fra i traceurs. Rompere il salto

significa rompere la paura, agire attraverso una straordinaria presa di coscienza del proprio

essere rispetto a quello che è l’obiettivo prestabilito, il tutto tramite una combinazione

perfetta di concentrazione e rilassamento. Fondamentalmente è ciò che succede dietro al

salto: “Noi lo chiamiamo breaking jump. Il punto fisso non è nell'atto ma nel processo che attui per

fare quel salto, è tutta la fase di processo decisionale” . È un momento di alienazione in cui il 110

praticante è visceralmente immerso nella natura della sfida con sé stesso, il vero cuore del

parkour. Dan Edwardes lo definisce così:

“This process of breaking the jump, this moment of truth when you lean into your fear and put your

body and mind to the test, is the essence of the discipline – the very heart of parkour” . 111

Stephane Vigroux racconta la sua esperienza nel video Philosophy of parkour.

109 “Breaking a jump is a process that YOU initiate which presents a situation challenging your limits and taking you out of your comfort zone. It will reveal fears and doubts that you will eventually address, face and overcome to gain more confidence and self understanding”, Breaking a Jump – See you on the other side, www.stephanevigroux.com 110 Rompi il salto! Tra gestione e controllo, la filosofia del parkour, http://www.tranilive.it/news 111 Dan Edwardes, Breaking the Jump: The Heart of Parkour

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Per mostrare quanta importanza ha assunto questo argomento i praticanti di parkour, mi

rifaccio alla presa di posizione di uno dei maggiori coach certificati ADAPT del mondo,

Stephane Vigroux, il quale suddivide il processo del break the jump in sei fasi distinte: 112

1. The call of the jump: è la presa di visione del salto, la connessione iniziale con il

movimento da eseguire, è l’istante in cui il traceur vede e sa che lo può fare;

2. Familiarization: è la fase in cui il traceur prende confidenza con il salto, lo guarda da

vicino, tocca il materiale, in generale familiarizza con la sua entità;

3. Welcoming the fear: è il momento in cui egli realizza la difficoltà del salto, in cui la

paura prende il sopravvento come emozione naturale, nonché parte del processo;

4. Visualisation: è la fase più impegnativa del break the jump, quella in cui il traceur è in

lotta con sé stesso (inner fight), in cui la sua testa gioca scherzi strani e, allo stesso

tempo, lo sollecita ad agire. È un’alternanza costante tra la fase 3, quella della paura, e

la fase 1, quella in cui ha deciso che lo può fare;

5. Decision: è il momento della scelta, istante in cui la testa del traceur è salda e

cosciente quanto basta da razionalizzare il contesto e prendere una decisione solida e

quieta;

6. Action: è l’ultima fase, quella dell’azione vera e propria, dello slancio, è la

concretizzazione fisica di tutti gli step precedenti.

112 Stephane Vigroux, Breaking a Jump – See you on the other side, www.stephanevigroux.com

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Il traceur Opa mentre affronta un break the jump in uno spot piacentino.

Peter McKee di Parkourgenerations Scotland durante la fase di “welcoming the fear”.

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Oltrepassare un ostacolo, e nello specifico un break the jump, soprattutto se relativo a un

movimento particolarmente complesso, dona al traceur un senso di liberazione e una carica

emotiva fortissima. Il risultato principale di questo processo è l’annullamento totale della

paura e il conseguente miglioramento del sé ; paura che come precisa Shino, è un 113

sentimento peculiare e fondamentale del parkour:

“La paura nel parkour può manifestarsi in mille forme diverse, non solo con un salto, ma anche

attraverso la pressione continua, che è qualcosa che può creare panico. Per esempio quando stai

scalando un muro e ci sono i passanti che ti guardano e commentano. La paura è uno dei motori

primi di questa disciplina”.

La paura mantiene il praticante attivo, vigile e saldo. Di fronte ai momenti di eccitazione, in

cui egli ha la piena consapevolezza delle proprie capacità, ossia esperisce quello stato di flow

di cui abbiamo discusso precedentemente. La paura vanifica il rischio di sopravvalutazione

delle situazioni che nel parkour è molto frequente. È quì che si crea un nesso fra il sentimento

della paura, appunto, e la consapevolezza totale delle proprie abilità, che rende il traceur

particolarmente sicuro di sé. Si instaura un rapporto controverso tra la paura e il flow, tra la

sicurezza e l’insicurezza.

Il collante fra queste due entità è il più ampio senso di eccitazione che si viene a creare

durante tutto il processo di break the jump, in particolare tra la fase 5 (decision) e la fase 6

(action); una sensazione paragonabile alla scarica di adrenalina nel bungee jumping ad

esempio. Il parkour, tuttavia, insegna che l’adrenalina è un collante ambiguo e pericoloso,

come precisa Deni:

“L’adrenalina è utile in situazioni particolari che richiedono uno sforzo, diciamo fuori

dall’ordinario. Ti permette di superare i tuoi limiti fisici e mentali, ma è una situazione, anche questa,

che deve essere gestita. Non bisogna cadere preda del berserker, ma bisogna essere in grado di

gestire la scarica di adrenalina per non subirne gli effetti negativi”.

113 “Being liberated from these fears can and will open up whole new avenues of self-development and potential for you, wherever you are in life”, Stephane Vigroux, Breaking a Jump – See you on the other side

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Affrontare un break the jump di un certo rilievo, implica per forza di cose l’esposizione

fisiologica del corpo all’ormone adrenalinico, il quale provoca un aumento delle frequenza

cardiaca e del consumo di ossigeno, una maggior rapidità nell’espulsione dell’anidride

carbonica, una diminuzione del senso di fatica nelle periferie corporee, palpitazioni,

inibizioni ecc. Nel parkour tutto questo si concentra in un singolo atto, di solito molto breve e

rapido, che prevede il raggiungimento di un risultato efficace e sicuro, come può essere

l’atterraggio su un tubo o l’appensione a un muro.

Il traceur dev’essere in grado di affrontare tale situazione inglobando in un unico grande

slancio tutti questi elementi, poiché il raggiungimento dell’obiettivo non passa attraverso

l’esperienza dell’adrenalina in sé, ma dalla sua diretta gestione.

Il risultato a breve termine di un break the jump completato, o in gergo ‘portato a casa’, è uno

sviluppo perentorio del proprio senso del sé (self) in termini di autostima e realizzazione

personale. Senza autostima non si possono neanche immaginare o percepire le proprie

potenzialità, quindi porsi nelle condizioni di fronteggiare ostacoli impegnativi è funzionale a

due obiettivi fondamentali: il raggiungimento di una maggiore competenza fisico-tecnica, ma

soprattutto mentale, e il rafforzamento perenne della propria personalità.

Lo sviluppo del sé è mediato, ancora una volta, dalle risorse offerte dall’ambiente esterno, in

questo caso dallo spazio urbano, ma ciò che permette di concretizzarlo è l’atteggiamento

stesso del traceur di fronte all’ostacolo. Se egli si pone in maniera attiva ed energica allora il

sé ne risente positivamente, in termini di miglioramento, anche nel caso in cui il salto non

venga completato, se egli risulta poco grintoso o passivo, il sé resta tale e quale, anzi

probabilmente subisce un forte senso di insoddisfazione e stagnazione.

L’esempio del break the jump è peculiare dal punto di vista della nostra analisi in quanto

mostra chiaramente l’importanza del rapporto dell’individuo con la paura e la singolarità del

tema dell’ostacolo, inteso come barriera e/o problema da affrontare.

È la trasposizione metaforica sul piano quotidiano di uno dei tanti modi che le persone hanno

per risolvere i loro problemi; in questo caso le fasi del break the jump corrispondono a una

più vasta gamma di tecniche di problem solving applicabili a diversi scenari.

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Ad ogni modo maturare un approccio alle cose inteso come superamento delle avversità,

abitua il singolo mettersi nelle condizioni di fronteggiare le sue paure, e questo conduce a

rivalutare con coscienza la situazione intorno a noi; tutto diventa più semplice e risolvibile . 114

Dal momento che, come abbiamo visto, l’obiettivo del parkour non è strettamente

performativo, ma indirizzato alla crescita personale, il raggiungimento degli obiettivi, ossia il

superamento degli ostacoli, è identificabile con il processo di autorealizzazione, inteso non

come finalità statica e idealizzata, ma come elemento mediatore tra due fasi distinte, quella

preliminare e quella post-liminare. La realizzazione personale è un continuum: per crescere

devi realizzarti, e per realizzarti devi continuare a crescere. Come precisa Paloz essa passa

attraverso un costante bilanciamento fra la prefissione e il raggiungimento di obiettivi:

“Il processo principale di crescita per me è legato a due fenomeni, due sensazioni: una è la

frustrazione e una la soddisfazione. Un equilibrio continuo fra queste due cose è un

marker perfetto per capire se stai facendo le cose bene o no”.

Concludendo, intendo precisare che il ragionare per obiettivi e superare ostacoli induce i

traceur a esperire un forte senso di accrescimento della dimensione del sé. Da qui poi si

instaura un ulteriore passaggio focalizzato sul raggiungimento di obiettivi sempre più grandi

e sul mantenimento della crescita personale in tutti gli aspetti della vita, poiché “il lavoro

interiore e silenzioso è la via, ciò che serve per un reale progresso nel parkour e come

persona” . 115

“Il parkour è una competitività con te stesso ed è questo che porta a crescere e migliorare come

essere umani, e ad affrontare i problemi con maggior forza e consapevolezza.

“Non serve essere migliori di qualcun altro per andare avanti nella vita, serve sapersi mettere in

gioco, affrontare le proprie paure e mettere in pratica le proprie competenze.

Il parkour fa esattamente questo” (Saiu).

114 “The carry-over this process can have for every other aspect of your life is immense. Once you’ve learned how to handle fear on a truly immediate and primal level, such as one finds in parkour, the little fears of everyday life begin to seem very small indeed”, Dan Edwardes Breaking the Jump: The Heart of Parkour 115 Parkour: una disciplina contro la crescita dell’ego, Parkourwave.com

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3.4 Aesthetic resilience: la resilienza come forma d’arte nel parkour

Nella progredita società occidentale la capacità di evoluzione e di adattamento dell’uomo si è

radicalmente trasformata. Con l’aumento della sedentarietà del soggetto contemporaneo si è

diffuso anche un forte senso di resilienza individuale. Stando alla definizione dell’APA

(American Psychological Association) la resilienza è una forma di adattamento che l’essere

umano sviluppa per fronteggiare situazioni di difficoltà come traumi, tragedie e varie

condizioni di stress fisico ed emotivo . 116

La letteratura su questo argomento è oggi particolarmente estesa. Il termine fu utilizzato per

la prima volta dalla psicologa Emmy Werner nel 1955, quando studiò la vita di 698 neonati

dell’isola Kauai nelle Hawaii nell’arco di trent’anni . 117

116 “Resilience is the process of adapting well in the face of adversity, trauma, tragedy, threats or significant sources of stress — such as family and relationship problems, serious health problems or workplace and financial stressors. It means "bouncing back" from difficult experiences”, The road to resilience, American Psychological Association 117 Werner, E.E., What can we learn about resilience from large scale longitudinal studies? In Handbook of Resilience in Children (2004), New York, Kluwer Academic/Plenum Publishers

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Secondo la psicologia tradizionale molti di loro avrebbero presentato in futuro situazioni di

disagio psichico, a causa delle condizioni delle famiglie d’origine. Werner, invece, verificò

che 72 di loro erano riusciti a migliorare la loro situazione nell’età adulta, raggiungendo un

buon livello di vita.

La resilienza è una vera e propria condizione postmoderna, epoca in cui i cambiamenti si

manifestano con una velocità tale da superare il nostro senso di adattabilità.

Secondo Christopher Lasch l’uomo, negli ultimi decenni, ha sviluppato una predisposizione

psichica volta alla costante ricerca della sopravvivenza quotidiana , un clima in cui è portato 118

ad agire frettolosamente in un mondo che corre. Anche lo svolgimento delle semplici attività

quotidiane, dal mangiare, al lavorare, allo spostarsi, a instaurare rapporti con i nostri simili,

non ha più un ritmo regolare e naturale. Abbiamo perso quasi totalmente la nostra capacità

naturale di movimento, poiché ‘costretti’ a un’esistenza per lo più statica e relegata

all’interno di spazi urbanizzati sempre più chiusi. Da questo punto di vista, ad esempio, le

infrastrutture e le architetture cittadine giocano un ruolo centrale in quanto istituzionalmente

legate ai meccanismi di potere.

Secondo Foucault e altri studiosi, infatti, esse fanno parte di un più ampio processo politico di

controllo sociale, poiché stabiliscono a priori il raggio, la percorribilità e la qualità del

movimento degli individui, vanificando così la naturalezza e l’istinto del corpo a muoversi

liberamente nello spazio . Un corpo sedentarizzato e decomposto, rattrappito nei pochi 119

movimenti base che conosce. Le comunità odierne, soprattutto quelle dimoranti nelle grandi

megalopoli, sono resilienti nella misura in cui adottano nuovi sistemi di sopravvivenza e

adattamento, ad esempio il fenomeno degli orti urbani o la trasformazione delle grandi

architetture dismesse in parchi giochi. Da questo punto vista anche il parkour ha una valenza

singolare: esso è, a tutti gli effetti, una forma alternativa di resilienza postmoderna, una

strategia di adattamento alle continue trasformazioni del mondo urbano.

118 “In a time of troubles, everyday life becomes an exercise in survival. People take one day at a time”,Christopher Lasch, Minimal Self Psychic Survival in Troubled Times, 1984, preface, Stoddart, a subsidiary of General Publishing Co. Ltd, Don Mills, Ontario (USA) 119 “Facilities and operations act as material instantiations of political processes. Consequently those politics, ideologies, and cultures directly and indirectly shape the building which houses your office, the classrooms where you teach, and the databases you access online”, Matt Thompson, Infrastructure as Iron Cage, 2016, Savage Minds, Notes and Queries in Anthropology

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Il modus operandi tipico dei traceurs, infatti, è finalizzato alla riappropriazione dello spazio

cittadino e a una maggior consapevolezza del proprio soma. Partendo dalla seguente

considerazione di Fla intendo inquadrare la riscoperta del corpo come condizione

fondamentale della postmodernità:

“Il parkour è strettamente legato a quello che è lo spirito post-moderno dell’uomo, quindi questa

voglia di rimpadroniti di te stesso e di coltivarti anche dal punto di vista corporeo, di riscoprirti sotto

una nuova luce”.

Lo spirito postmoderno, infatti, porta con sé un’idea di autorealizzazione della persona, sul

piano professionale, trascendentale e di vita. È incentrato sulla riflessività, l’autonomia e

l’agency dell’individuo . Inoltre, come abbiamo visto, la volontà di realizzarsi costituisce un 120

processo di attivazione interiore fondamentale anche nella pratica del parkour, in particolare

in termini di crescita personale. La riappropriazione dello spazio è un argomento centrale in

tutto il discorso sul postmodernismo e la spazialità di per sé è intesa, a tutti gli effetti, come

uno strumento propedeutico per ritornare a sé stessi : 121

“Una delle cose interessanti del parkour è proprio la sua origine post-moderna che qualcuno, a

causa di divisioni interne, ha messo un po’ tra parentesi, interessandosi solo alla pratica fisica e alla

performance” (Fla).

Si crea così un nesso interessante fra postmodernismo, resilienza e fenomeno parkour, di cui

molti traceurs riconoscono la valenza. La resilience nel parkour, infatti, è proprio il senso di

adattamento:

“Uno degli aspetti più importanti per me è la resilienza, quindi la capacità di reagire a momenti

difficili e traumatici, che nel parkour possono essere distorsioni, ematomi, e nella vita magari, dei

momenti inaspettati che lì per lì sembrano problemi insormontabili” (Deni).

120 “The postmodernist humanist notions of human nature which depict a fully reflexive, autonomous and agentic subject”, Thomas William Raymen, The Paradox of Parkour: An Exploration of the Deviant-Leisure Nexus in Late-Capitalist Urban Space (2017), p. 109, Duhram University 121 Kidder, J. (2012) ‘Parkour, the affective appropriation of urban space, and the real/virtual dialectic’, City and Community. 11(3), pp. 229-253

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L’atteggiamento resiliente del soggetto contemporaneo assume un significato di risposta a

una condizione avversa, un significato di proattività. Questo si ricollega direttamente al tema

dell’agency, la predisposizione all’azione, la capacità di agire dell’uomo. Nel parkour tutto

ciò assume un significato differente: da un punto di vista estetico, infatti, ha poco a che

vedere con quel processo psicologico e di reattività emotiva che abbiamo visto essere la

resilience. La resilienza, in questo caso, non è intesa come semplice capacità di adattamento

del corpo all’ambiente, in termini di funzionalità e applicabilità, ma piuttosto come una forma

d’arte alternativa spendibile nei meandri architettonici dello spazio urbano.

La capacità di adattamento prende le distanze dal più ampio concetto di agency in favore di

una dimensione estetica in cui le condizioni di vita tipiche del mondo urbanizzato diventano

il fondamento principale per una nuova ‘re-azione’ artistica.

A fronte di una spazialità contemporanea sempre più popolata, ristretta e soggetta a continue

modifiche strutturali, quali sovraffollamento o desertificazione , l’uomo mette in pratica 122

diverse strategie di sopravvivenza e adattamento. Il mio intento è quello di precisare che

anche la dimensione più propriamente estetica assume un ruolo fondamentale in questo

processo adattivo, e che il parkour ne è, a tutti gli effetti, un esempio lampante.

Non a caso si parla di art du déplacement, arte dello spostamento.

Lo spostamento però, in questa sede, non è inteso come il raggiungimento di un luogo sulla

mappa o un percorso prestabilito da un punto A a un punto B, ma il risultato artistico della

concatenazione di movimenti che si susseguono in un determinato spazio, un paradigma

alternativo che intendo chiamare ‘aesthetic resilience’.

Il termine è preso in prestito da una serie di studi urbanistici raccolti nel volume Resilience in

Ecology and Urban Design (2013), in particolare nel caso caso studio di Victoria Marshall 123

nel quale l’autrice si sofferma sulla collaborazione fra scienziati e specialisti del design

122 “The spatial layout of urban areas can ‘create – or eliminate – ‘life’ in the sense that it determines a field of potential encounter and co-presence”, Hillier B., Burdett R., Peponis J., Penn A, Creating Life: Or, Does Architecture Determine Anything?, 1987, Architecture & Comportement, 3.3: p. 235 123 “An example in ecosystem science is the shift toward the non-equilibrium paradigm where resilience and adaptability are important. Similarly landscape architecture has seen a shift away from understanding landscape as noun (object or scene) to landscape as a verb (process or activity), to emphasize the activ-ities of design, and the effects of constructed landscapes in time”, chapter 17, p. 16, Resilience in Ecology and Urban Design. Linking Theory and Practice for Sustainable Cities (2013), Pickett, Steward, Cadenasso, M.L., McGrath, Brian, Cary Institute of Ecosystem StudiesMillbrook, NY, Future City vol. 3, pp. 319-329

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architettonico per mostrare una nuova forma di esplorazione e analisi dello spazio: l’incontro

fra ecosistema resiliente e realizzazione di progetti urbani. 124

Nel caso del parkour l’espressione assume un significato più specifico e rilevante nella

misura in cui i veri scienziati e designer urbani sono i traceurs stessi, attenti osservatori

dell’ambiente esterno e costruttori di nuove performance estetiche. È l’incontro fra le skills

del traceur, intese come tecniche di adattamento, e le barriere architettoniche della città, a

creare una base fondante per questo nuovo paradigma di analisi.

Il traceur Effelavio mentre esegue un monkey in uno spot torinese.

124 “These transformations include changes in the primacy of process over object, reinvention of practices of professional science and design that move away from norms, and nally exploration of an objective space that integrates self, form and cities”, Ibidem

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Stando a quanto sostiene Shino, però, i traceurs sono fortemente legati al concetto di

adattabilità/resilienza, nella misura in cui è l’adattamento stesso del corpo all’ambiente a

costituire la loro principale finalità, un adattamento costante e malleabile perché “come fai a

dire che hai raggiunto l’adattabilità? È una cosa che non finisce mai”.

“Noi prendiamo la performance motoria come un piacevole effetto collaterale, non la prendiamo

come un obiettivo, una finalità. La finalità del parkour è l’adattamento. Chiunque si può adattare

all’ambiente”

“Lo scopo fisico è quello di riuscire ad avere quanti più strumenti possibili per adattare il nostro

movimento all’ambiente circostante, quindi una ricerca continua, infinita” (Shino).

L’idea di performance è legata al più ampio concetto di risultato (outcome), al

raggiungimento di un determinato livello fisico e tecnico. Come precisa Shino essa è

qualcosa di irrilevante rispetto all’adattamento in quanto tale, vero cuore pulsante della

disciplina. Tuttavia l’adattamento nel parkour non è solo una predisposizione innata e

circoscritta all’interno del paradigma della funzionalità corporea, ma soprattutto un risultato

artistico. Laddove la performance cede il passo alla funzionalità, quest’ultima, intesa come

senso di adattamento, riacquista una valenza più propriamente estetica.

La resilienza (o adattamento che sia) nel parkour è una vera e propria forma artistica

(aesthetic resilience). Stando a questo ragionamento, l’ADD deve essere intesa come un

fenomeno sociale in linea con l’atteggiamento postmoderno dell’uomo, estremamente

plastico e pertanto sottoposto a una continua trasformazione ed evoluzione.

In questo momento, in effetti, si sta assistendo a un importante passaggio generazionale e

paradigmatico:

“Il paradigma della funzionalità ha avuto un successo enorme dagli anni ‘90 a qualche anno fa.

Adesso no, quel periodo è finito. Si sta entrando in un altro paradigma, quello estetico e della

creatività. E sai qual é l’unico scopo del paradigma artistico? Niente! Puoi cercarlo quanto vuoi, ma

non c’è. La cosa interessante è che il parkour è una pratica estremamente fascinosa, è bella. Perciò

uscire dalla funzionalità per entrare nell’estetica è diventato un po’ il mio obiettivo attuale” (Paloz).

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Il nesso fra parkour e postmodernismo mi ha condotto ad argomentare un tema che riveste

una grande importanza accademica, quello della resilience. Rivisitare questo discusso

concetto sulla base dell’esperienza empirica maturata nel corso del mio lavoro, mi ha portato

a considerarlo in termini meno ‘melodrammatici’. L’idea di resilienza, in effetti, porta con sé

una dimensione in qualche modo tragica, derivante soprattutto dal dover affrontare situazioni

avverse e complicate. Allo stesso tempo, però, assume un significato di speranza che culmina

con un atteggiamento forte e duraturo in termini di reazione e continuità.

Stando alle considerazioni più “classiche” sull’argomento, la resilienza nel parkour è

interpretata soprattutto per la sua natura adattiva, per la capacità di mettersi nuovamente in

condizione di agire nonostante le criticità degli avvenimenti, quindi per quello che è il

significato originale del termine. Il mio intento è quello di reinterpretare il concetto di

resilience sulla base delle considerazioni degli intervistati, in particolare in termini estetici e

di creatività. Non considero il parkour come una risposta metaforica a certe condizioni

problematiche o un atteggiamento di ribellione e anticonformismo nei confronti di

determinati aspetti della società, ma piuttosto come una forma di resilienza artistica basata

sulla rivitalizzazione degli spazi urbani ed estremamente malleabile di fronte alle continue

trasformazioni storiche, sociali e psicologiche della nostra epoca.

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Scaletta per intervista

1. Da quanto tempo pratichi parkour?

2. Cosa ti ha spinto esattamente a cominciare?

3. Dove si pratica? Tu dove ti alleni di solito?

4. Qual è lo scopo del parkour?

5. Mi daresti una tua definizione di parkour?

6. Che impatto ha avuto il parkour nella tua vita quotidiana?

7. Come descrivi la tua relazione con lo spazio urbano dopo che hai cominciato a

praticare parkour?

8. Chi è il traceur inteso come “ideal tipo” (se esiste)?

9. Chi sei tu come traceur?

10. Cosa significa per te abitare la città?

11. Cos’è per te la vision?

12. Come interpreti l’espressione: “parkour is a very specific, spatial, creative, social,

physical and psychological process and activity?”

13. Che sensazioni provi quando ti alleni?

14. Dal tuo punto di vista di praticante, cos’è il corpo?

15. Quali sono gli insegnamenti più importanti che questa disciplina ti ha trasmesso?

16. Quali benefici hai tratto dalla pratica del parkour?

17. Che impatto ha il parkour sulla comunità esterna?

18. Come pensi si evolverà il parkour nei prossimi anni?

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