SOMMARIO - anarcotraffico.org · 6 servizio della collaborazione. Gli stalinisti, per via del patto...

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SOMMARIO

Presentazione .................................................. 3

Mettere al bando i partiti politici (A. Breton) .... 5

L’abitudine deve aver avuto fauci voraci! . 5

La prima garanzia....................................... 7

Contro la servilità ....................................... 8

Manifesto per la soppressione

dei partiti politici (S. Weil) ............................. 10

Simone Weil (Alain) ....................................... 39

Note ............................................................... 46

3

Presentazione

Il presente Manifesto è stato pubblicato per la

prima volta nel numero 26 della rivista «La

TableRonde» del febbraio del 1950. Simone Weil

è già morta da sette anni. Le reazioni di André

Breton e di Alain al testo, all’epoca inedito, non si

fanno attendere. Il primo sul quotidiano

«Combat», il secondo sulla stessa rivista «La

Table Ronde» si accordano fin dal successivo

mese di aprile per considerarlo come uno dei più

penetranti dell’autrice. André Breton richiede in

questa occasione che «il Manifesto sia pubblicato a

parte e destinato alla maggiore diffusione

possibile», cosa che non avverrà. Sarà tuttavia

integrato, in seguito, nel volume Écrits de Londres

et dernières lettres1, pubblicato da Gallimard nel

1957.

Breton, che conosce la minaccia mortale alla

libertà rappresentata dallo stalinismo che all’epoca

si sta impadronendo del potere intellettuale in

Francia, comprende immediatamente tutta la

portata della dimostrazione di Weil. E dunque

principalmente l’influenza crescente e mortifera

del partito comunista sulla vita pubblica francese

che Weil, come Alain, ha in mente mentre scrive la

sua critica. Ma la sua breve analisi supera

largamente, come sempre, il contesto della

pubblicazione. Come dice Breton: «Per la grande

maggioranza, “il movente del pensiero non è più il

desiderio incondizionato, indefinito, della verità,

ma il desiderio della conformità a un insegnamento

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prestabilito”» un fatto che costituisce senza dubbio

alcuno «una delle peggiori aberrazioni» del

periodo, di quel dopoguerra in cui la Francia non si

dimostra capace di salvare neppure le apparenze.

Ma siamo in grado, oggi, di fare un bilancio più

incoraggiante? L’azione del pensiero è, per

esempio, arrivata a vincere il regno indiviso

dell’opinione, del «prò» e del «contro»?

Evidentemente, la risposta è no. Dichiarando di

preferire l’espressione messa al bando a quella di

soppressione usata da Simone Weil, André Breton

insiste sul fatto che questa non potrà che essere il

frutto di «un’impresa, abbastanza lunga, di

disinganno collettivo», piuttosto distante da

qualunque forma di violenza. È sempre complesso

stabilire il momento in cui un’impresa del genere

possa giungere a compimento. Non è tuttavia

impossibile che questo momento sia vicino. Ci è

dunque sembrato degno di interesse riportare alla

conoscenza dei lettori questo Manifesto per la

soppressione dei partiti politici, integrato dalle

analisi critiche di Breton e Alain.

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Mettere al bando i partiti politici di André Breton

Nei giorni più cupi del 1940, quando la

coscienza e la morale di questo Paese toccavano il

loro punto più basso, un’analisi anche sommaria

degli avvenimenti sarebbe bastata a rendere

evidente l’inadeguatezza dei partiti politici. Certo,

era possibile affliggersi del silenzio - quando non

dell’attitudine ambigua - di coloro i quali, nei

decenni precedenti, erano stati considerati alla

stregua di maestri d’intelligenza: in loro, il

coraggio non si mostrava alla stessa altezza. Ma se

c’era qualcosa d’altro che poteva essere oggetto di

derisione, si trattava senza dubbio delle lotte tra

«dottrine» che si erano combattute prima della

catastrofe, e di cui testimoniavano sordidamente ai

muri alcuni brandelli di cartelloni elettorali.

L’abitudine deve aver avuto fauci voraci!

Che cos’era accaduto a tutte quelle pretese

convinzioni, sempre pronte a esprimersi in termini

intemperanti? Si erano prodotti gli slittamenti più

inverosimili. Il «nazionalismo integrale»

dell’uomo del «coltello da cucina»2 era passato al

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servizio della collaborazione. Gli stalinisti, per via

del patto germano-sovietico, erano

momentaneamente andati a costituire il grosso

della «quinta colonna». Il partito socialista si

scindeva, mettendo in luce alcune figure

inquietanti. Il radical-socialismo, che si era posto,

in mancanza di meglio, come solido perno della

Terza Repubblica, si agitava di scoglio in scoglio

come una boa ubriaca. Se giorni migliori di quelli

che vivevamo allora erano destinati a tornare,

potevamo essere certi che ci saremmo liberati di

quelle categorie, ormai prive di senso.

L’abitudine deve aver avuto fauci voraci perché

oggi ci troviamo ancora a questo punto ! Il gioco

delle istituzioni che nessuno ha osato affrontare

con il dovuto rigore ha riportato al potere la

maggior parte degli uomini dell’anteguerra, e non

ha dimenticato i più screditati. La Resistenza

quella vera: intendiamo quella nata dal rifiuto

individuale dell’oppressione, e non

dall’obbedienza a una parola d’ordine

tardivamente comunicata a un gruppo, la sola da

cui ci si potesse aspettare la necessaria guarigione

non ha tardato a essere artificiosamente smembrata

e, come tale, già ora non ha più voce in capitolo.

Senza più attendere, ci si appresta a riabilitare i

traditori. In un modo o nell’altro, i fantocci radicali

sono stati rimessi al loro posto. Un socialismo

sempre più vegetativo non ha, nemmeno agli occhi

dei suoi simpatizzanti, grandi possibilità di

sopravvivere alla perdita del suo leader principale3.

Le sole novità del dopoguerra, passibili di

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modificare l’immagine preliminare che

l’osservatore poteva farsi della situazione,

consistono, da una parte, nella salita alla ribalta di

un MRP4 che segna un’intromissione della Chiesa

nello Stato, dall’altra nel fatto che, poiché nel loro

ultimo travestimento gli stalinisti hanno ripreso

teoricamente a loro uso e consumo una buona

parte degli slogan dell’estrema Destra, l’emiciclo

parlamentare potrebbe convenientemente cedere il

posto a una rotonda in cui gli antichi estremi

sarebbero in comunione.

La prima garanzia

L’assurdità, la faciloneria con la quale si

aderiva, in modo approssimativo, ai partiti sono

incomparabilmente più manifeste oggi che in

passato. È sufficiente, d’altronde, che uno di loro

abbia fatto dei voltafaccia la propria specialità per

mettere in condizione detestabile tutti gli altri. Non

ci sarà forse, nella struttura di qualunque partito

politico, un’anomalia redibitoria, un vizio

fondamentalmente pregiudiziale per l’uomo? È un

fatto di cui spiriti diversi, ma che possiamo

considerare illuminati, si sono accorti uno a uno.

All’incontro che si tenne l’anno scorso a Pleyel

sul tema «Internazionalismo dello spirito», mi fu

concessa l’occasione di ricordare, in sua presenza,

come Albert Camus vedesse nella non

appartenenza a un qualunque genere di partito la

prima garanzia che dovrebbe essere fornita da tutti

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coloro che, attraverso un largo e appassionato

scambio di idee e punti di vista, ritengono sia

ancora possibile aspettarsi un rimedio al male

odierno. Si può considerare, infatti, che più la

disciplina è forte all’interno di un partito, più le

idee che lo guidano tendono a stereotiparsi, a

sclerotizzarsi. Ci si può rifare alle magistrali

pagine in cui Jules Monnerot, nella sua

fondamentale Sociologie du communisme, mostra

come un partito di questo genere si impossessi

dell’«ideale dell’io» per metterlo al servizio della

sua propria socializzazione.

Contro la servilità

Ma quella che è in assoluto la testimonianza più

decisiva, più definitiva su questo tema si trova in

una comunicazione di Simone Weil, pubblicata nel

numero 26 (febbraio 1950) de «La Table Ronde»

con il titolo Manifesto per la soppressione dei

partiti politici. Queste venti pagine, in ogni punto

ammirevoli per intelligenza e nobiltà,

costituiscono una requisitoria senza possibile

appello contro il crimine di abdicazione dello

spirito (rinuncia alle sue prerogative più

inalienabili) che provoca il modo di

funzionamento dei partiti. Vi si fa giustizia, una

volta per tutte, di una delle peggiori aberrazioni di

questa temperie, ossia che, per la grande

maggioranza, «il movente del pensiero non è più il

desiderio incondizionato, indefinito, della verità,

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ma il desiderio della conformità a un insegnamento

prestabilito».

Non possiamo che augurarci che questo

Manifesto sia pubblicato a parte e destinato alla

maggiore diffusione possibile. Contro l’esercizio

della servilità e le forme aggressive a cui essa dà

origine, è giunta l’ora che si contino coloro che

stimano, con Simone Weil, che «la soppressione

dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato

puro». Inutile dire che questa soppressione (è il

motivo per cui preferisco l’espressione messa al

bando) «non potrà, pena uno snaturamento

assoluto, risultare da un atto di forza»: non può che

concepirsi al termine di un’impresa, abbastanza

lunga, di disinganno collettivo. Nell’attesa,

possiamo quantomeno sperare che le prossime

consultazioni elettorali riportino in vigore un

sistema di scrutinio che non sfavorisca più

sistematicamente il candidato che si ponga come

responsabile di fronte ai propri elettori, a

vantaggio di chi non deve fare i conti con altri che

il proprio partito - a maggior ragione quando

quest’ultimo sia un partito i cui dirigenti in carica

si limitano a eseguire ordini ricevuti da molto

lontano.

André Breton

«Combat», n. 1803, 21 aprile 1950

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Manifesto per la soppressione dei partiti politici

di Simone Weil

La parola partito è qui usata nel significato che

ha nel continente europeo. Solo nei Paesi

anglosassoni lo stesso termine designa una realtà

affatto differente. Affonda le sue radici nella

situazione inglese, e non è possibile trasporlo. Un

secolo e mezzo d’esperienza lo mostra a

sufficienza. È presente, nei partiti anglosassoni, un

elemento di gioco, di sport, che non può esistere

che in un’istituzione di origine aristocratica: tutto è

serio in un’istituzione che, in origine, è plebea.

L’idea di partito non rientrava nella concezione

politica francese del 1789, se non come quella di

un male da evitare. Ma giunse il momento del club

dei giacobini. Era questo, inizialmente, soltanto un

luogo di libera discussione. A trasformarlo non fu

una qualche specie di meccanismo fatale: fu

soltanto la pressione della guerra e della

ghigliottina a farne un partito totalitario.

Le lotte tra fazioni nel periodo del Terrore

furono governate dal pensiero così ben formulato

da Tomskij: «Un partito al potere e tutti gli altri in

prigione». Così, sul continente europeo, il

totalitarismo è il peccato originale dei partiti.

Furono da un lato l’eredità del Terrore,

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dall’altro l’influenza dell’esempio inglese a

insediare i partiti nella vita pubblica europea. Il

fatto che esistano non è in alcun modo un motivo

per conservarli. Soltanto il bene è un motivo

legittimo di conservazione. Il male dei partiti

politici salta agli occhi. La questione da esaminare

è se ci sia in essi un bene che abbia la meglio sul

male e renda così la loro esistenza desiderabile.

Ma è molto più sensato chiedersi: c’è in loro

anche solo una particella infinitesimale di bene?

Non sono forse un male allo stato puro, o quasi?

Se sono un male, è certo che nei fatti e nella

pratica non possono produrre altro che male. È un

articolo di fede. «Un albero buono non può

produrre frutti cattivi, né un albero cattivo

produrre frutti buoni».

Ma bisogna innanzitutto riconoscere quale sia il

criterio del bene. Non può essere rappresentato che

dalla verità, dalla giustizia e, in seconda battuta,

dall’utilità pubblica.

La democrazia, il potere della maggioranza non

sono un bene, Sono mezzi in vista del bene, stimati

efficaci a torto o a ragione. Se la Repubblica di

Weimar, al posto di Hitler, avesse deciso, per vie

più rigorosamente parlamentari e legali, di mettere

gli ebrei nei campi di concentramento e di

torturarli con metodi raffinati fino alla morte, le

torture non avrebbero avuto un atomo di legittimità

in più di quanta ne abbiano adesso. E un tale fatto

non è in alcun modo inconcepibile.

Solo ciò che è giusto è legittimo. Il crimine e la

menzogna non lo sono in nessun caso.

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Il nostro ideale repubblicano deriva interamente

dalla nozione di volontà generale dovuta a

Rousseau. Ma il senso della nozione è andato

perso quasi immediatamente, perché il concetto è

complesso e richiede un grado di attenzione

elevato.

Con l’eccezione di alcuni capitoli, pochi libri

sono belli, forti, lucidi e chiari come Il contratto

sociale. Si dice che pochi testi siano stati

altrettanto influenti, ma in effetti tutto è accaduto e

continua ad accadere come se non fosse mai stato

letto.

Rousseau partiva da due certezze. Una, che la

ragione discerne e sceglie la giustizia e l’utilità

innocente, e che qualunque crimine ha per

movente la passione. L’altra, che la ragione è

identica in tutti gli uomini, mentre le passioni, il

più delle volte, differiscono. Di conseguenza se, su

un problema generale, ognuno riflette in solitudine

ed esprime un’opinione, e se in seguito le opinioni

sono confrontate tra loro, probabilmente esse

coincideranno per ciò che di giusto e ragionevole

c’è in ognuna e differiranno per le ingiustizie e gli

errori.

È unicamente in virtù di un ragionamento di

questo genere che si ammette che il consenso

universale indica la verità.

La verità è una. La giustizia è una. Gli errori, le

ingiustizie, sono indefinitamente variabili. Così gli

uomini convergono nel giusto e nel vero, mentre la

menzogna e il crimine li fanno indefinitamente

divergere. Poiché l’unione è una forza materiale, si

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può sperare di trovarvi una risorsa che permetta di

rendere quaggiù la verità e la giustizia

materialmente più forti del crimine e dell’errore.

Per raggiungere questo fine è necessario un

meccanismo adatto. Se la democrazia costituisce

tale meccanismo, è buona. Altrimenti no.

Agli occhi di Rousseau - che era nel giusto - un

volere ingiusto, comune a tutta una nazione, non

era in alcun modo superiore al volere ingiusto di

un singolo uomo.

Rousseau pensava solamente che, nella

maggioranza dei casi, un volere comune a tutto un

popolo è conforme nei fatti alla giustizia, per via

della mutua neutralizzazione e compensazione

delle passioni particolari. Era questo, per lui,

l’unico motivo per preferire il volere del popolo a

un volere particolare.

Allo stesso modo una certa massa d’acqua,

benché costituita da particelle che si muovono e si

urtano tra loro senza sosta, si mantiene in uno stato

di equilibrio e riposo perfetti. Rinvia agli oggetti la

loro immagine con un’esattezza impeccabile.

Indica perfettamente il piano orizzontale. Dice

senza errore la densità degli oggetti che vi sono

immersi.

Se individui appassionati, inclini per via della

passione al crimine e alla menzogna, si

compongono allo stesso modo in un popolo vero e

giusto, allora è bene che il popolo sia sovrano. Una

costituzione democratica è buona se per prima cosa

realizza nel popolo questo stato di equilibrio, e

soltanto in seguito fa in modo che le volontà del

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popolo siano eseguite.

Il vero spirito del 1789 consiste nel pensare non

che una cosa sia giusta perché il popolo la vuole,

ma che a determinate condizioni il volere del

popolo abbia maggiori possibilità di qualsiasi altro

volere di essere conforme alla giustizia.

Esistono numerose condizioni necessarie

perché si possa ricorrere alla nozione di volontà

generale. Due, in particolare, meritano attenzione.

La prima è che nel momento in cui il popolo

prende coscienza di una delle sue volontà e la

esprime non sia presente alcuna specie di passione

collettiva.

È del tutto evidente che il ragionamento di

Rousseau viene a cadere non appena sia in atto una

passione collettiva. Rousseau lo sapeva bene. La

passione collettiva è un impulso al crimine e alla

menzogna infinitamente più potente di qualunque

passione individuale. In questo caso gli impulsi

nocivi, lungi dal neutralizzarsi, si innalzano

vicendevolmente all’ennesima potenza. La

pressione è quasi irresistibile, tranne che per i santi

autentici.

Un’acqua messa in moto da una corrente

violenta, impetuosa, non riflette più gli oggetti,

non ha più una superficie orizzontale, non indica

più le densità. E poco importa che sia mossa da

una sola corrente o magari da cinque o sei correnti

che si urtano e creano vortici. In entrambi i casi, è

ugualmente mossa.

Se un’unica passione collettiva si impadronisce

di tutto un Paese, il Paese intero è unanime nel

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crimine. Se due o quattro o cinque o dieci passioni

collettive lo dividono, il Paese sarà spaccato in

varie bande criminali. Le passioni divergenti non

si neutralizzano, come avviene per la polvere delle

passioni individuali fuse in una massa. Il loro

numero è decisamente troppo piccolo, la forza di

ognuna è decisamente troppo grande, perché sia

possibile una neutralizzazione. La lotta le esaspera.

Si urtano con un clangore infernale, che rende

impossibile sentire anche per un secondo la voce

della giustizia e della verità, sempre quasi

impercettibile.

Quando un Paese è in preda a una passione

collettiva, è probabile che qualunque volontà

particolare sia più vicina alla giustizia e alla

ragione della volontà generale, o piuttosto di ciò

che ne costituisce la caricatura.

La seconda condizione è che il popolo sia

chiamato a esprimere il proprio volere riguardo ai

problemi della vita pubblica, e non solamente a

operare una scelta di persone. Meno ancora la

scelta di collettività irresponsabili. Poiché la

volontà generale non ha alcuna relazione con una

scelta di questo genere.

Se nel 1789 c’è stata una certa espressione della

volontà generale, nonostante si fosse adottato il

sistema rappresentativo non sapendone

immaginare un altro, questo è accaduto perché si

era verificato qualcosa di ben diverso da

un’elezione. Tutto ciò che c’era di vivo nel Paese -

e il Paese straripava, a quel tempo, di vita - aveva

cercato di esprimere il proprio pensiero attraverso

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l’organo dei cahiers de revendications. I

rappresentanti si erano in gran parte fatti conoscere

nel corso di questa cooperazione del pensiero: ne

serbavano il calore, sentivano il Paese attento alle

loro parole, ansioso di controllare se queste

traducessero con esattezza le sue aspirazioni. Per

qualche tempo - poco tempo - furono veramente

semplici organi di espressione del pensiero

pubblico.

Un simile fatto non si sarebbe prodotto mai più.

La sola enunciazione di queste due condizioni

indica che non abbiamo mai conosciuto nulla che

assomigli, neppure da lontano, a una democrazia.

Nella cosa a cui attribuiamo questo nome, in

nessun caso il popolo ha l’occasione o i mezzi di

esprimere un parere su alcun problema della vita

pubblica. E tutto ciò che sfugge agli interessi

particolari è dato in pasto alle passioni collettive, le

quali sono sistematicamente, istituzionalmente

incoraggiate.

L’uso stesso dei termini democrazia e

repubblica obbliga a esaminare con estrema

attenzione i due problemi seguenti:

Primo: come dare realmente agli uomini che

compongono il popolo di Francia la possibilità di

esprimere, talvolta, un giudizio sui grandi

problemi della vita pubblica?

Secondo: come impedire, nel momento in cui il

popolo è interrogato, che vi circoli all’interno una

qualunque specie di passione collettiva?

Se non si riflette su questi due punti, è inutile

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parlare di legittimità repubblicana.

Non è facile concepire delle soluzioni. Ma è

evidente, dopo un attento esame, che qualunque

soluzione implicherebbe innanzitutto la

soppressione dei partiti politici.

*

Per apprezzare i partiti politici secondo il

criterio della verità, della giustizia, del bene

pubblico, conviene cominciare distinguendone i

caratteri essenziali. È possibile elencarne tre:

Primo: un partito politico è una macchina per

fabbricare passione collettiva.

Secondo: un partito politico è un’organizzazione

costruita in modo da esercitare una pressione

collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri

umani che ne fanno parte.

Terzo: il fine primo e, in ultima analisi, l’unico

fine di qualunque partito politico è la sua propria

crescita, e questo senza alcun limite.

Per via di questa tripla caratteristica, ogni

partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se

non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli

che lo circondano non lo sono di meno.

Queste tre caratteristiche sono verità di fatto,

evidenti a chiunque si sia avvicinato alla vita dei

partiti.

La terza caratteristica è un caso particolare di

un fenomeno che si verifica ovunque la collettività

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prenda il sopravvento sugli esseri pensanti. E il

rovesciamento della relazione tra fine e mezzo.

Dappertutto, senza eccezione, tutte le cose

generalmente considerate come fini sono per

natura, per definizione, per essenza e nel modo più

evidente unicamente mezzi. Sarebbe possibile

citarne esempi a profusione in qualunque ambito:

denaro, potere, Stato, prestigio nazionale,

produzione economica, diplomi universitari, e così

via.

Solamente il bene è un fine. Tutto ciò che

appartiene all’ambito dei fatti rientra nell’ordine

dei mezzi. Ma il pensiero collettivo è incapace di

innalzarsi al di sopra dell’ambito dei fatti. E un

pensiero animale. Possiede la nozione di bene in

quantità appena sufficiente a commettere l’errore

di confondere un qualsiasi mezzo con il bene

assoluto.

Lo stesso accade con i partiti. Un partito è, in

linea di principio, uno strumento destinato a

servire una certa concezione del bene pubblico.

Questo fatto è vero anche per quelli che sono

legati agli interessi di una categoria sociale, poiché

esiste sempre una certa concezione del bene

pubblico in virtù della quale ci sarebbe

coincidenza tra il bene pubblico e quegli interessi.

Ma è una concezione estremamente vaga. Questo è

vero senza eccezione e quasi senza differenza di

grado. I partiti più inconsistenti e quelli più

rigidamente organizzati sono identici quanto a

vaghezza della dottrina. Nessun uomo, per quanto

profondamente abbia studiato la politica, sarebbe

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capace di fornire un’esposizione chiara e precisa

della dottrina di alcun partito - compreso, ove si

dia il caso, il proprio.

Le persone non ammettono questo fatto

neppure a se stesse. Se lo facessero, sarebbero

ingenuamente inclini a vedervi una traccia di

incapacità personale, non essendosi rese conto che

l’espressione dottrina di un partito politico non

può mai, per la natura delle cose, avere alcun

significato.

Un uomo, passasse anche l’intera vita a scrivere

ea esaminare problemi intellettuali, non ha che

molto di rado una dottrina. Una collettività non ce

l’ha mai. La dottrina non è una merce collettiva.

Si può parlare, è vero, di dottrina cristiana,

dottrina indù, dottrina pitagorica, e così via. Ciò

che è allora designato con questo termine non è né

individuale né collettivo, è una cosa situata

infinitamente al di sopra dell’uno e dell’altro

campo. È, puramente e semplicemente, la verità.

Il fine di un partito politico è cosa vaga e

irreale. Se fosse reale, esigerebbe un enorme

sforzo d’attenzione, in quanto una concezione del

bene pubblico non è cosa facile da elaborare.

L’esistenza del partito è palpabile, evidente, e non

esige alcuno sforzo per essere riconosciuta. E

inevitabile, così, che in realtà il partito sia esso

stesso il suo proprio fine.

C’è quindi idolatria, dato che solamente Dio è

legittimamente un fine in se stesso.

Il passaggio è facile. Si pone come assioma che

la condizione necessaria e sufficiente perché il

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partito serva efficacemente la concezione del bene

pubblico, in vista del quale esiste, è che possieda

una grande quantità di potere.

Ma in realtà nessuna quantità finita di potere

potrà mai essere considerata come sufficiente,

soprattutto una volta che la si sia ottenuta. Il

partito si trova quindi, per effetto dell’assenza di

pensiero, in un continuo stato di impotenza, che

attribuisce sempre all’insufficienza del potere di

cui dispone. Se anche fosse padrone assoluto del

Paese, le necessità internazionali gli imporrebbero

limiti troppo ristretti.

Così la tendenza essenziale dei partiti è

totalitaria, non solo relativamente a una nazione,

ma relativamente al globo terrestre. E

precisamente perché la concezione del bene

pubblico propria a uno o all’altro partito è una

finzione, una cosa vuota, irreale, che essa impone

la ricerca della potenza totale. Qualunque realtà

implica, di per se stessa, un limite. Solo ciò che

non esiste del tutto non è mai limitabile.

E per questo che c’è affinità, alleanza, tra il

totalitarismo e la menzogna.

Molte persone, è vero, non pensano mai a una

potenza totale. Questo pensiero le spaventerebbe.

È vertiginoso, ed è necessaria una sorta di

grandezza per sostenerlo. Quelle persone, quando

si interessano a un partito, si accontentano di

desiderarne la crescita, ma come qualcosa che non

comporti alcun limite. Se quest’anno ci sono tre

membri in più dell’anno scorso, o se

l’autofinanziamento ha permesso di raccogliere

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cento franchi in più, sono contente. Ma desiderano

che questo andamento continui indefinitamente

nella stessa direzione. Mai potrebbero concepire

che il loro partito possa avere in alcun caso troppi

membri, troppi elettori, troppo denaro.

Il temperamento rivoluzionario porta a

concepire la totalità. Il temperamento piccolo

borghese porta a convivere con l’immagine di un

progresso lento, continuo e illimitato. Ma nei due

casi la crescita materiale del partito diviene l’unico

criterio rispetto al quale si definiscono in ogni cosa

il bene e il male. Esattamente come se il partito

fosse un animale all’ingrasso, e l’Universo fosse

stato creato per farlo ingrassare.

Non si può servire contemporaneamente Dio e

Mammona. Se si possiede un criterio del bene

diverso dal bene, si perde la nozione di bene.

Nel momento in cui la crescita del partito

costituisce un criterio del bene, ne consegue

inevitabilmente una pressione collettiva del partito

sui pensieri degli uomini. Questa pressione, in

effetti, esiste. Viene mostrata pubblicamente. È

ammessa, proclamata. Questo fatto ci farebbe

orrore se l’abitudine non ci avesse talmente

induriti.

I partiti sono organismi pubblicamente,

ufficialmente costituiti in maniera tale da uccidere

nelle anime il senso della verità e della giustizia.

La pressione collettiva è esercitata sul grande

pubblico attraverso la propaganda. Lo scopo

manifesto della propaganda è la persuasione, non

la comunicazione della luce. Hitler aveva capito

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perfettamente che la propaganda è sempre un

tentativo di asservimento dello spirito. Tutti i

partiti fanno propaganda. Chi non ne facesse

scomparirebbe, in virtù del fatto che gli altri ne

fanno. Tutti ammettono di fare propaganda.

Nessuno è tanto audace nella menzogna al punto

da affermare che intraprende l’educazione del

pubblico, che forma le opinioni del popolo.

I partiti parlano, è vero, di educazione nei

confronti di quelli che si sono avvicinati a loro:

simpatizzanti, giovani, nuovi aderenti. Questa

parola è una menzogna. Si tratta di un

addestramento che serve a preparare l’influenza

ben più rigorosa esercitata dal partito sul pensiero

dei suoi membri.

Immaginiamo il membro di un partito -

deputato, candidato al Parlamento o

semplicemente militante - che prenda in pubblico

il seguente impegno: «Ogniqualvolta esaminerò un

qualunque problema politico o sociale, mi

impegno a scordare completamente il fatto che

sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a

preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene

pubblico e la giustizia».

Questo linguaggio sarebbe accolto in modo

negativo. I suoi, e anche molti altri, lo

accuserebbero di tradimento. I meno ostili

direbbero: «Perché, allora, ha aderito a un

partito?», ammettendo così ingenuamente che

entrando in un partito si rinuncia a cercare

unicamente il bene pubblico e la giustizia.

Quell’uomo sarebbe escluso dal suo partito, o per

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lo meno ne perderebbe l’investitura, non sarebbe

certamente eletto.

Ma, a dirla tutta, non sembra nemmeno

possibile che un linguaggio di questo genere sia

adottato. In effetti, salvo errori, non lo è mai stato.

Se parole apparentemente simili a queste sono

state pronunciate, è stato solamente da parte di

uomini desiderosi di governare con l’appoggio di

partiti diversi dal loro. Parole di questo tipo

suonavano allora come una sorta di infrazione a un

codice d’onore.

D’altro canto si trova del tutto naturale,

ragionevole e onorevole che qualcuno dica:

«Come conservatore. ..», o «Come socialista,

ritengo che...». Questo fatto, è vero, non è

appannaggio dei soli partiti. Non si arrossisce di

più dicendo: «Come francese, penso che...», o

«Come cattolico, penso che...».

Alcune ragazzine, che si dicevano attaccate al

«gollismo» come all’equivalente francese

dell’«hitlerismo», aggiungevano: «La verità è

relativa, anche in geometria». Toccavano il punto

centrale.

Se non esiste verità, è ugualmente legittimo

pensare in un modo o in un altro, dal momento che

ci si trova a essere fatti in una maniera o nell’altra.

Dato che abbiamo i capelli neri, bruni, rossi o

biondi, poiché siamo fatti in un certo modo,

emettiamo anche certi o certi altri pensieri. Il

pensiero, come i capelli, è allora il prodotto di un

processo fisico di eliminazione.

Se riconosciamo che esiste una verità, allora

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non ci è permesso pensare ad altro che a ciò che è

vero.

Pensiamo allora una determinata cosa non

perché ci troviamo a essere effettivamente

francesi, cattolici o socialisti, ma perché la luce

irresistibile dell’evidenza obbliga a pensare così e

non altrimenti.

Se non esiste evidenza, se c’è dubbio, è allora

evidente che, nello stato di conoscenze di cui

disponiamo, la questione è incerta. Se c’è una

debole probabilità da un lato, è evidente che c’è

una debole probabilità, e così via. In ogni caso, la

luce interiore concede sempre a chiunque la

consulti una risposta manifesta. Il contenuto della

risposta è più o meno affermativo, poco importa. È

sempre suscettibile di revisione, ma nessuna

correzione può essere apportata, se non attraverso

una maggior quantità di luce interiore.

Se un uomo, membro di un partito, è

risolutamente deciso ad essere fedele in ogni suo

pensiero unicamente alla luce interiore e a

null’altro, non può far conoscere questa

risoluzione al suo partito. E allora, di fronte a esso,

in stato di menzogna.

Questa situazione non può essere accettata che

a causa della necessità, che obbliga a entrare in un

partito per prendere parte efficacemente agli affari

pubblici. Ma allora questa necessità è un male, e

bisogna mettervi fine sopprimendo i partiti.

Un uomo che non abbia preso la risoluzione di

fedeltà esclusiva alla luce interiore insedia la

menzogna al centro stesso dell’anima. Le tenebre

25

interiori sono la sua punizione.

Sarebbe vano tentare di uscire dal dilemma

attraverso la distinzione tra la libertà interiore e la

disciplina esteriore. Perché bisogna allora mentire

al pubblico, verso il quale qualunque candidato,

qualunque eletto, ha un obbligo particolare di

verità.

Se mi appresto a dire, in nome del mio partito,

cose che stimo contrarie alla verità e alla giustizia,

lo indicherò con un avvertimento preliminare? Se

non lo faccio, mento.

Di queste tre forme di menzogna - al partito, al

pubblico, a se stessi - la prima è di gran lunga la

meno nociva. Ma se l’appartenenza a un partito

obbliga sempre, in ogni caso, alla menzogna,

l’esistenza dei partiti è assolutamente,

incondizionatamente, un male.

Era frequente vedere, nei manifesti che

annunciavano dibattiti politici, frasi quali: «Il

signor X esporrà il punto divista comunista» (sul

problema oggetto dell’assemblea). «Il signor Y

esporrà il punto di vista socialista». «Il signor Z

esporrà il punto di vista radicale».

Come facevano quei poveretti a conoscere il

punto di vista che dovevano esporre? Chi potevano

consultare? Quale oracolo? Una collettività non ha

lingua né penna. Gli organi di espressione sono

tutti individuali. La collettività socialista non

risiede in alcun individuo. La collettività radicale

nemmeno. La collettività comunista risiede in

Stalin, ma Stalin è lontano: non gli si può

telefonare prima di parlare a un dibattito.

26

No, i signori X, Y e Z consultavano se stessi.

Ma poiché erano onesti, si mettevano per prima

cosa in uno stato mentale speciale, uno stato simile

a quello in cui li aveva trasportati così spesso

l’atmosfera degli ambienti comunista, socialista,

radicale.

Se, una volta raggiunto questo stato, ci si lascia

andare alle proprie reazioni, si produrrà

naturalmente un linguaggio conforme ai «punti di

vista» comunista, socialista, radicale.

A condizione, beninteso, di proibirsi

rigorosamente qualunque sforzo di attenzione

rivolto a discernere la giustizia e la verità. Se si

compisse un tale sforzo, si rischierebbe - colmo

dell’orrore - di esprimere «un punto di vista

personale».

Perché ai giorni nostri la tensione verso la

giustizia e la verità è vista come rispondente a un

punto di vista personale.

Quando Ponzio Pilato ha domandato a Cristo:

«Che cos’è la verità?», Cristo non ha risposto. Lo

aveva già fatto prima, dicendo: «Sono venuto per

rendere testimonianza alla verità».

Non c’è che un’unica risposta. La verità è

costituita dai pensieri che sorgono nello spirito di

una creatura pensante, unicamente, totalmente,

esclusivamente desiderosa della verità.

La menzogna, l’errore - termini sinonimi - sono

i pensieri di chi non desidera la verità, o di chi

desidera la verità e, assieme ad essa, qualcos’altro.

Per esempio, di chi desidera la verità e in più la

conformità a un determinato pensiero prestabilito.

27

Ma come desiderare la verità senza saperne

nulla? E questo il mistero dei misteri. Le parole

che esprimono una perfezione inconcepibile

all’uomo - Dio, verità, giustizia - pronunciate

interiormente con desiderio, senza essere unite ad

alcun’altra concezione, hanno il potere di elevare

l’anima e di inondarla di luce.

È desiderando la verità a mente sgombra e

senza tentare di indovinarne in anticipo il

contenuto che si riceve la luce. A questo si riduce

l’intero meccanismo dell’attenzione.

È impossibile esaminare i problemi

spaventosamente complessi della vita pubblica

prestando attenzione contemporaneamente da un

lato a discernere la verità, la giustizia, il bene

pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento

che si conviene a un membro di un certo

raggruppamento. La facoltà d’attenzione umana

non è capace di rispondere simultaneamente a

queste due preoccupazioni. In effetti, chiunque si

dedichi a una di esse abbandona l’altra.

Ma nessuna sofferenza attende chi abbandona

la giustizia e la verità. Mentre il sistema dei partiti

comporta le penalità più severe per l’indocilità.

Penalità che toccano quasi tutto: carriera,

sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta

addirittura la vita di famiglia. Il partito comunista

ha portato questo sistema alla perfezione.

Anche in colui che internamente non cede,

l’esistenza di penalità falsa inevitabilmente la

riflessione. Perché se si vuole reagire all’influenza

del partito, questa volontà di reazione è in essa

28

stessa un movente estraneo alla verità e di cui

bisogna diffidare. Ma lo stesso si può dire di

questa sfiducia, e così via. La vera attenzione è

uno stato talmente difficile per l’uomo, talmente

violento, che qualunque turbamento personale

della sensibilità è sufficiente a ostacolarla. Ne

risulta l’obbligo imperioso di proteggere per

quanto possibile la facoltà di discernimento che

portiamo in noi stessi contro il tumulto delle

speranze e dei timori personali.

Un uomo che esegue calcoli numerici

particolarmente complessi sapendo che riceverà

una frustata ogni volta che otterrà come risultato

un numero pari si trova in una situazione molto

difficile. Qualche cosa nella parte carnale

dell’anima lo porterà a dare una piccola spinta ai

calcoli per ottenere sempre un numero dispari.

Volendo reagire rischierà di trovare un numero

pari anche dove non dovrebbero essercene. Presa

in questa oscillazione, la sua attenzione non è più

intatta. Se i calcoli sono complessi al punto da

esigere da parte sua la pienezza dell’attenzione,

inevitabilmente sbaglierà molto spesso. Non

servirà a nulla che sia molto intelligente, molto

coraggioso, molto attento alla ricerca della verità.

Che cosa deve fare? E molto semplice. Se può

sfuggire alle persone che lo minacciano con la

frusta, deve scappare. Se poteva evitare di cadere

nelle loro mani, doveva evitarlo.

Le cose funzionano esattamente allo stesso

modo per i partiti politici.

Quando in un Paese esistono i partiti, ne risulta

29

prima o poi uno stato delle cose tale che diventa

impossibile intervenire efficacemente negli affari

pubblici senza entrare a far parte di un partito e

stare al gioco. Chiunque si interessi alla cosa

pubblica desidera interessarsene efficacemente.

Così, chiunque abbia un’inclinazione a interessarsi

al bene pubblico o rinuncia a pensarci e si rivolge

ad altro, o passa dal laminatoio dei partiti. Anche

in questo caso sarà preso da preoccupazioni che

escludono quella per il bene pubblico.

I partiti sono un meraviglioso meccanismo in

virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese,

non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo

di discernere, negli affari pubblici, il bene, la

giustizia, la verità.

Ne risulta che - eccezion fatta per un piccolo

numero di coincidenze fortuite - vengono decise e

intraprese soltanto misure contrarie al bene

pubblico, alla giustizia e alla verità.

Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della

vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di

più ingegnoso.

Se la realtà è stata un po’ meno cupa, questo è

accaduto perché i partiti non avevano ancora

divorato ogni cosa. Ma è stata realmente un po’

meno cupa? Non era cupa esattamente quanto il

quadro qui delineato? La Storia non l’ha mostrato?

Si deve ammettere che il meccanismo di

oppressione spirituale e mentale proprio dei partiti

è stato introdotto nella Storia dalla Chiesa

cattolica, nella sua lotta contro l’eresia.

Un convertito che fa il suo ingresso nella Chiesa -

30

o un fedele che delibera con se stesso e decide di

rimanervi - ha visto nel dogma il vero e il bene. Ma

varcando la soglia professa allo stesso momento di

non essere colpito dagli anathema sit, ovverosia di

accettare in blocco tutti gli articoli detti «di stretta

fede». Questi articoli non li ha studiati. Persino a

chi fosse dotato di un alto grado di intelligenza e

cultura, una vita intera non basterebbe a questo

studio, dato che implica anche quello delle

circostanze storiche di ogni condanna.

Come aderire ad affermazioni che non si

conoscono?

È sufficiente sottomettersi incondizionatamente

all’autorità che le ha emanate. È il motivo per cui

san Tommaso vuole sostenere le proprie

affermazioni solamente attraverso l’autorità della

Chiesa, escludendo qualunque altro argomento.

Poiché, dice, non è necessario null’altro per chi

l’accetta, e nessun argomento persuaderebbe chi la

rifiuta.

In questo modo la luce interiore dell’evidenza,

questa facoltà di discernimento concessa dall’alto

all’anima umana come risposta al desiderio di

verità, è scartata, condannata a un ruolo servile

come quello di fare addizioni, esclusa da tutte le

ricerche relative al destino spirituale dell’uomo.

Il movente del pensiero non è più il desiderio

incondizionato, indefinito, della verità, ma il

desiderio della conformità a un insegnamento

prestabilito.

Che in questo modo la Chiesa fondata da Cristo

abbia in così grande misura soffocato lo spirito di

31

verità - e se, nonostante l’Inquisizione, non lo ha

fatto totalmente è perché la mistica offriva un

rifugio sicuro - sembra una tragica ironia. Lo si è

spesso sottolineato. Ma si è sottolineata con

minore frequenza un’altra tragica ironia. Che il

moto di ribellione contro il soffocamento degli

spiriti, avvenuto sotto il regime inquisitorio, ha

preso un orientamento tale da proseguire quella

stessa opera di soffocamento degli spiriti.

La Riforma e l’Umanesimo rinascimentale,

doppio prodotto di questa rivolta, hanno

largamente contribuito a formare, dopo tre secoli

di maturazione, lo spirito del 1789. Ne è risultata,

dopo un certo intervallo, la nostra democrazia

fondata sul gioco dei partiti, ognuno dei quali è

una piccola Chiesa profana armata della minaccia

della scomunica. L’influenza dei partiti ha

contaminato l’intera vita mentale della nostra

epoca.

Un uomo che aderisce a un partito ha

verosimilmente visto nell’azione e nella

propaganda di quel partito cose che gli sono parse

giuste e buone. Ma non ha mai studiato la

posizione del partito relativamente a tutti i

problemi della vita pubblica. Entrando a far parte

del partito, accetta posizioni che ignora.

Sottomette così il suo pensiero all’autorità del

partito. Quando, poco a poco, conoscerà le

posizioni che oggi ignora, le accetterà senza

esaminarle.

È esattamente la stessa situazione di chi

aderisce all’ortodossia cattolica concepita come fa

32

san Tommaso.

Se un uomo dicesse, richiedendo la sua tessera

di membro: «Sono d’accordo con il partito su

questo, questo e quest’altro punto. Non ho studiato

le sue altre posizioni e riservo interamente la mia

opinione fino a che non ne avrò portato a termine

lo studio», lo si pregherebbe probabilmente di

ripassare in seguito.

Ma in realtà, al di là di eccezioni molto rare, un

uomo che entra in un partito adotta docilmente la

disposizione d’animo che esprimerà più tardi con

le parole: «Come monarchico, come socialista,

penso che...». E una posizione così confortevole!

Perché equivale a non pensare. Non c'è nulla di più

confortevole del non pensare.

Quanto alla terza caratteristica dei partiti, ossia

il fatto che sono macchine per fabbricare passioni

collettive, è così evidente che non merita di essere

spiegata. La passione collettiva è l’unica energia di

cui dispongono i partiti per la propaganda diretta

all’esterno e per la pressione esercitata sull’anima

di ogni membro.

Si ammette che lo spirito di partito acceca,

rende sordi alla giustizia, spinge anche le persone

oneste all’accanimento più crudele contro gli

innocenti. Lo si ammette, ma non si pensa a

sopprimere gli organismi che fabbricano un tale

spirito.

Ciononostante, si vietano gli stupefacenti.

Esistono ugualmente persone che consumano

stupefacenti. Ma il loro numero sarebbe più alto se

lo Stato organizzasse la vendita di oppio e cocaina

33

in tutti i tabaccai, con cartelloni pubblicitari per

incoraggiare i consumatori.

La conclusione è che l’istituzione dei partiti

sembra proprio costituire un male senza mezze

misure.

Sono nocivi nel principio, e dal punto di vista

pratico lo sono i loro effetti.

La soppressione dei partiti costituirebbe un

bene quasi allo stato puro. È perfettamente

legittima nel principio e non pare poter produrre, a

livello pratico, che effetti positivi.

I candidati non direbbero agli elettori: «Ho

quest’etichetta» - il che, dal punto di vista pratico,

non spiega rigorosamente nulla al pubblico sul

loro atteggiamento concreto relativo a problemi

concreti - ma: «Penso tale, tale, e tale cosa

riguardo a tale, tale e tale grande problema».

Gli eletti si assocerebbero e si dissocerebbero

secondo il gioco naturale e mobile delle affinità.

Posso facilmente essere in accordo con il signor A

sul colonialismo e in disaccordo con lui sulla

proprietà rurale, e avere posizioni opposte nei

confronti del signor B. Se si parla di colonialismo,

andrò, prima della seduta, a conversare un po’ con

il signor A. Se si parla di proprietà rurale, con il

signor B.

La cristallizzazione artificiale in partiti è

coincisa così poco con le affinità reali che un

deputato poteva essere in disaccordo, per tutti gli

atteggiamenti concreti, con un collega del suo

partito e in accordo con un uomo di un altro

partito.

34

Quante volte, in Germania, nel 1932, un

comunista e un nazista, parlando per la strada,

devono essere stati colti da vertigini mentali

constatando che erano d’accordo su ogni punto!

Fuori dal Parlamento, dato che esistono riviste

di opinione, si creano attorno ad esse, in modo del

tutto naturale, altrettanti circoli. Ma questi circoli

dovrebbero essere mantenuti in stato di fluidità. È

la fluidità che distingue dal partito un circolo

costruito sull’affinità e gli impedisce di avere

un’influenza nociva. Quando si frequenta in

amicizia chi dirige una data rivista e chi vi scrive

spesso, quando vi si scrive a propria volta, si sa

che si è in contatto con il circolo creatosi attorno a

quella rivista. Manon si sa se si fa parte di questo

circolo, non esiste una divisione netta tra interno

ed esterno. Più distanti, ci sono coloro i quali

leggono la rivista e conoscono una o due delle

persone che vi scrivono. Più distanti ancora, i

lettori regolari che ne traggono ispirazione. Più

distanti, i lettori occasionali. Ma nessuno potrebbe

arrivare a pensare o a dire: «In quanto legato a

questa rivista, penso che...».

Quando i collaboratori di una rivista si

presentano alle elezioni, dovrebbe essere loro

vietato fare riferimento alla rivista. Dovrebbe

essere vietato, alla rivista, di dare loro

un’investitura, di favorire direttamente o

indirettamente la loro candidatura, o anche solo di

menzionarla. Qualunque gruppo di «amici» di

questa rivista dovrebbe essere proibito.

Se una rivista impedisse ai suoi collaboratori,

35

sotto pena di allontanamento, di collaborare con

altre pubblicazioni, di qualunque genere esse

siano, la rivista dovrebbe essere soppressa non

appena fosse possibile provare il fatto.

Questo implica un regime della stampa tale da

rendere impossibili le pubblicazioni alle quali è

disonorevole collaborare.

Ogni volta che un circolo tentasse di

cristallizzarsi conferendo un carattere definito allo

statuto di membro, dovrebbe esserci repressione

penale non appena il fatto fosse stabilito.

Naturalmente, esisterebbero partiti clandestini.

Ma i loro membri avrebbero cattiva coscienza.

Non potrebbero più fare pubblica professione di

servilità dello spirito. Non potrebbero fare alcuna

propaganda in nome del partito. Il partito non

potrebbe più trattenerli in una rete senza buchi di

interessi, di sentimenti e di obblighi.

Ogni volta che una legge è imparziale, equa e

fondata su una concezione del bene pubblico

facilmente assimilabile dal popolo, indebolisce

tutto ciò che vieta. Lo indebolisce per il semplice

fatto di esistere, e indipendentemente dalle misure

repressive volte ad assicurarne l’applicazione.

Questa maestà intrinseca della legge è un

fattore della vita pubblica dimenticato da tempo, e

di cui bisogna ripristinare l’uso.

Sembra non esserci nell’esistenza di partiti

clandestini alcun inconveniente che non si ritrovi

in un grado ben più elevato nel fatto compiuto dei

partiti legali.

In linea generale, un esame attento non sembra

36

lasciar intravedere a nessun proposito nessun

inconveniente di nessun tipo legato alla

soppressione dei partiti.

Per un singolare paradosso le misure di questo

genere, che non presentano inconvenienti, sono in

realtà quelle che hanno le minori possibilità di

essere attuate. Ci si dice: se questa soluzione è

davvero così semplice, come mai non è stata

applicata già da tempo?

Eppure, in linea generale le grandi cose sono

semplici e immediate.

Questa soppressione estenderebbe la propria

virtù di risanamento ben al di là degli affari

pubblici. Perché lo spirito di partito è arrivato a

contaminare ogni cosa.

In un Paese le istituzioni che determinano lo

svolgersi della vita pubblica influenzano sempre la

totalità del pensiero, a causa del prestigio del

potere.

Siamo arrivati al punto da non pensare quasi

più, in nessun ambito, se non prendendo posizione

«prò» o «contro» un’opinione e cercando

argomenti che, secondo i casi, la confutino o la

supportino. E esattamente la trasposizione

dell’adesione a un partito.

Come, nei partiti politici, esistono democratici

che ammettono diversi partiti, allo stesso modo

nell’ambito delle opinioni le persone di ampie

vedute riconoscono un valore alle opinioni con le

quali si dicono in disaccordo.

Significa aver perso completamente il senso

stesso del vero e del falso.

37

Altri, una volta presa posizione per

un’opinione, non accettano di esaminare nulla che

le sia contrario. E la trasposizione dello spirito

totalitario.

Quando Einstein venne in Francia, tutti gli

appartenenti ai circoli più o meno intellettuali,

compresi gli scienziati stessi, si divisero in due

campi: i favorevoli e i contrari. Qualunque

pensiero scientifico innovativo ha negli ambienti

scientifici i suoi partigiani e i suoi avversari,

animati gli uni e gli altri, a un grado deplorevole,

dallo spirito di partito. Esistono d’altronde, in

questi ambienti, numerose tendenze, diverse

conventicole, a uno stato più o meno cristallizzato.

Nell’arte e nella letteratura, il fenomeno è ancora

più visibile. Cubismo e Surrealismo sono stati delle

specie di partiti. Si era «gidiani» così come si era

«maurrasiani». Per avere un nome, è utile essere

circondati da una banda di ammiratori animati da

spirito di partito.

Allo stesso modo non c’è grande differenza tra

l’attaccamento a un partito e l’attaccamento a una

Chiesa o all’attitudine antireligiosa. Si è pro o

contro la fede in Dio, pro o contro il

Cristianesimo, e così via. Si è giunti, in materia di

religione, a parlare di «militanza».

Anche nelle scuole non si sa più stimolare il

pensiero dei ragazzi se non invitandoli a prendere

partito pro o contro un determinato pensiero. Si

cita una frase di un grande autore e si chiede loro:

«Siete d’accordo o no? Sviluppate i vostri

argomenti». All’esame i poveretti, dovendo

38

terminare la loro dissertazione nel giro di tre ore,

non possono passare più di cinque minuti a

chiedersi quale sia la loro opinione in merito. E

sarebbe così facile dire loro: «Meditate su questo

testo ed esprimetele riflessioni che vi suscita».

Quasi dappertutto - e anche, di frequente, per

problemi puramente tecnici - l’operazione di

prendere partito, di prendere posizione pro o

contro, si è sostituita all’operazione del pensiero.

Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli

ambienti politici, e si è espansa, attraverso tutto il

Paese, alla quasi totalità del pensiero.

Non è certo che sia possibile rimediare a questa

lebbra, che ci sta uccidendo, senza cominciare

dalla soppressione dei partiti politici.

39

Simone Weil di Alain

Avendo letto il celebre articolo di Simone Weil

sulla necessità di sopprimere i partiti politici, sono

giunto a quest’idea: che abbiamo doveri solamente

nei confronti dei morti. Quanto ai vivi, se si

sbagliano o meno è affar loro, e che se la cavino

come possono. Ma i morti sono terribilmente

abbandonati. Di un vivo quasi non si osa

esaminare il pensiero. Perché come reagirà costui

ai suoi pensieri emendati? Il morto, lui, non apre

bocca. Questa è la sua forza, e questo è il nostro

obbligo verso di lui.

Ho conosciuto molto bene Simone Weil. L’ho

giudicata superiore a quelli della sua generazione,

molto superiore. Ho letto certi suoi commenti a

Spinoza che oltrepassavano tutto quello che era già

stato scritto. Quando entrò in politica, nei partiti

appunto, di cui si parla qui, mi attesi molto da lei.

Molto? La soluzione, semplicemente. Non presagii

nulla di quello che sarebbe successo, per me fu una

specie di miracolo. Che una mente di prim’ordine,

e donna, rassegnasse immediatamente le proprie

dimissioni era qualcosa che smentiva qualunque

mia previsione.

A dire il vero, qualcosa rimaneva, ma sotto

forma di azioni isolate, di aneddoti: un ruolo di

40

agitatrice silenziosa. La promessa era niente meno

che quella di una nuova Rosa Luxemburg.

Bisognava vedere. E io vidi che c’era soltanto del

negativo, ma vidi anche esperienze forti: entrava in

fabbrica, con l’obiettivo di scoprire che cosa fosse

il lavoro. Lo seppe rapidamente: ebbe come primo

incarico quello di incollare etichette. Facile, in

apparenza. Dopo otto giorni, erano sopraggiunte la

febbre e la malattia: ecco quel che io definisco

avvicinarsi al reale.

Mi limito a questo compendio di una vita

dedicata al sapere diretto e alla lotta per i deboli e i

poveri. Pensavo che una tale inchiesta avrebbe

dovuto produrre qualche pensiero. Ma dove sono

questi pensieri? Ne La pesanteur et la grâce5,

trovai poche cose, quello che prometteva un titolo

volgare e che probabilmente non era suo.

L’enracinement6 diceva di più. Tracciava un

metodo di pensiero fondato sull’esperienza

politica. Penso che questo lavoro non sia stato

inutile per nessuno. Seguì un silenzio. Ed ecco qui

un articolo pieno di fuoco, che sembra scritto con

il piccone dello sterratore. Di superba disinvoltura.

Non potei limitarmi a quel che i lettori potevano

pensarne. Per dirla tutta, vi trovavo un clima e

come un ricordo di me stesso. Non ebbi nemmeno

per un istante l’idea che fosse un pensiero astratto,

e che, come mi dice il sindacato, chiedesse a tutti

noi la Luna. Ne convengo, l’apparenza è questa, ed

è l’apparenza ciò che guida i nostri pensieri. Ma

attenzione qui! C’è un male nella nostra esistenza

politica. Un male o piuttosto un vuoto, un

41

invincibile nulla. Non sarà magari il partito,

questo nulla? ,

Bisogna ascoltare questo spirito superiore, così

alto, così distante da tutto, così vicino a una sorta

di santità che ha tanto battuto sull’idea di partito,

da obbligarmi a seguirlo. Tutte quelle idee le

avevo già, solamente erano senza potenza, come

accade quando non si combatte, come dice

Cartesio, con tutte le proprie forze. È per prima

cosa vero, senza alcun dubbio, che un partito non

può formare pensieri. Il regime dell’obbligo

estingue qualunque pensiero. Lo sapevo. L’ho

visto cento volte, spesso sotto forma di eloquenza:

si prova allora ciò che il pubblico (il partito) vuole

che si provi. E quindi si tradisce se stessi. La

ricompensa è l’applauso.

Questa è la piega che diedi al mio esame

dell’argomento, e vidi che ero obbligato a girare

nello stesso cerchio, senza poter vincere

l’amicizia, senza poter vincere lo spirito di

giustizia e lo spirito di verità. Era semplice, ma era

vero. Questa fu la mia conclusione. Mi parve di

evadere da una sorta di prigione letteraria, e di

disdegnare la forma per esigere da me stesso, al

contrario, frasi dirette, urgenti, che colpissero più

volte allo stesso punto. Proprio le frasi di Simone

Weil in questa sorta di testamento.

Una volta che si è verificata l’idea nei casi

particolari, resta un’esperienza ben più luminosa,

che Simone Weil non ha trascurato. Lei mi

istruisce improvvisamente, mi spiega tutto e mi

riporta alla realtà. Di cosa si tratta, dunque? Di

42

questo: che il partito comunista si è incaricato di

portare alla perfezione la decadenza e la nullità di

un partito. In effetti, si applichino a questo caso

speciale i princìpi spiegati sopra. Ci si accorgerà

per prima cosa del fatto che questo partito non ha

alcun pensiero, fatto che dimostra una stupidità

che non è in rapporto con la comune stupidità, ma

che la supera di gran lunga. Inoltre, si vedrà che

questo partito non discute mai, e spesso rifiuta la

discussione, tappandosi le orecchie o andandosene.

E questo si accorda bene con quel che abbiamo

colto: che le idee non si formano mai nelle

riunioni.

Quest’esperienza, fatta sotto i nostri occhi, ci

insegna anche un’altra cosa. Che ci troviamo

grossomodo nella situazione in cui saremmo dopo

la distruzione di tutti i partiti. Non ci sono più

movimenti in cui sperare o da temere tra i partiti,

tutto è monotono e immobile. La Costituzione non

può nulla. Lo stesso governo farà continuamente

ritorno, risultando da tutti i partiti. Così che è vano

addurre l’idea che la soppressione di tutti i partiti

sia impossibile, quando vediamo che è compiuta e

che a ogni istante uomini che dovrebbero essere

irriducibilmente opposti vanno, al contrario,

piuttosto d’accordo. Non solo non esiste un’altra

manifestazione della volontà generale, ma questo

stesso fattone è una manifestazione.

Conclusione: la dialettica, ossia la lotta tra

opinioni opposte, si è fatta nella Storia stessa,

come Hegel e molti grandi dialettici avevano

previsto. E infine, questa confusione di tutti i

43

partiti in una monotona mischia, in un tumulto non

diretto né dirigibile, è incontestabilmente il volto

della vera Repubblica! Questo non vuol forse dire

che piaccia a tutti? No, poiché sapete bene che non

ne esiste una simile, e che qualunque cooperazione

esige concessioni. Qui è necessario che arriviate a

percepire la vostra vera opinione politica. Poiché

tutti sanno bene che la guerra civile non è una

soluzione, ma che la Pace soltanto è una

soluzione. Segnatevi dunque questo fatto in un

qualche prontuario, e a partire da esso giudicate il

testamento di Simone Weil. Non siamo di fronte al

buon senso stesso? Alla giustizia stessa? Poiché

dal momento in cui notate i difetti inevitabili del

partito comunista, che sono quelli di qualunque

partito, non sarete più disposti a intavolare una

discussione che non può portare a nulla. Poiché

non contate sul fatto che il partito comunista si

annullerà volontariamente per farvi piacere. Penso

dunque che l’opinione del lettore avrà fatto un

passo in avanti, grande o piccolo. Simili

avanzamenti, ripetuti, ci trarranno d’impaccio.

Abbiamo guadagnato, dalla recente esperienza,

la constatazione di alcune regole interessanti:

La Prima: che l’indivisibilità di un governo,

ritenuto in blocco unico responsabile, è una

finzione senza un briciolo di realtà.

La Seconda: che la caduta di un governo non porta

a nessun avanzamento, se si è portati a sostituirlo

con un governo equivalente.

La Terza: che un buon tiranno non è facile da

44

trovare, e soprattutto non è facile da insediare al

potere.

La Quarta: che questo lavoro diventa inutile nel

momento in cui si capisce che il Buon Tiranno

governerà assolutamente come ha fatto quello che

va a rimpiazzare.

Ebbene! Allora i partiti non esistono già più,

dato che non fanno nulla, ed è a questo che volevo

condurre il lettore. Perché quando consulto le

diverse tendenze politiche non vedo alcun

progresso dall’una all’altra.

Questo non impedisce certo che esistano

mestieri, contratti e mercati. No, questo prova che

ogni cittadino deve fare la politica, ossia essere

radicale, cosa che d’altronde comincia a vedersi

nei fatti. Ognuno riconoscerà, in particolare, che

l’opinione femminile è un radicalismo dominato a

molto in alto dalla Giustizia.

Questo significa che la Repubblica potrà

ricominciare da com’era ai tempi di Waldeck7, di

Combes8 e di Pelletan

9. Non andate urlando, allora,

che tutto è perduto, perché è falso: a quei tempi si

viveva, e da essi abbiamo conservato la disciplina

dell’esercito e quella del clero, che non sono poca

cosa. Mai la guerra tranquilla delle opinioni è stata

tanto viva come a proposito di quelle due riforme,

l’assoluzione di Dreyfus e l’autonomia del clero

pagato direttamente dai praticanti. Condizioni

analoghe possono tranquillamente perfezionare la

tassazione, regolare la stampa, spingere il potere

delle banche, senza contare altri cambiamenti,

facili o difficili. Ma, come ha detto Simone Weil,

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nessun candidato dovrà sottomettersi a un partito,

perché non è questo che si vuole da lui. Gli si

chiede al contrario di non seguire un partito in

nessun caso, e di non abbandonare mai il vero

partito, quello della Giustizia e della Verità, cose

che non possono essere conosciute e seguite da

altri che da individui, sostenuti dai loro amici, e

mai dai partiti che affermano di perseguire insieme

il Giusto e il Vero, ma che non ci pensano mai,

dato che una collettività non può pensare nulla.

ALAIN

Le Vésinet, 10 febbraio 1950

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NOTE

1S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Parigi, 1957, ndr

2Charles Maurras (1868-1952), scrittore e uomo politico

francese e fondatore dell’organo di tendenza monarchica

l'Action française, fu, grazie anche alle sue doti di polemista,

una figura di primo piano negli ambienti più conservatori di

Francia nei primi anni del secolo XX. Fortemente nazionalista,

ebbe un grande influsso su Salazar e sugli intellettuali

salazaristi, e sostenne Franco e (fino al 1939) Mussolini,

nonché il regime di Vichy. Il «coltello da cucina» di cui parla

Breton fa riferimento alla sua minaccia di morte nei confronti

del Primo Ministro socialista Léon Blum, che gli costò una condanna a otto mesi di prigione, ndt.

3Il già citato Léon Blum (18721950), figura di punta del

socialismo francese dal 1920 al primo dopo guerra, e per tre

volte Presidente del Consiglio, fu il principale artefice della

scissione tra partito comunista e partito socialista in Francia,

avvenuta nel 1920, nonché della successiva riunificazione che

aveva l’obiettivo di creare un fronte comune contro l’ascesa

dei movimenti fascisti (creazione del Front Populaire nel 1936), ndt.

4Mouvement Républicain Populaire, partito di stampo cristiano democratico fondato nel 1944, ndt.

5S. Weil, La pesanteur et la grâce, Pocket, Parigi, 1993[ed. it. L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano, 2002], ndr.

6S. Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des

devoirs envers l’être humain, Gallimard, Parigi, 1950 [ed. it.

La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, SE, Milano, 1990], ndr.

7Pierre Marie René Ernest Waldeck-Rousseau(1846-1904)

fu un politico repubblicano, celebre in particolare per la legge

che legalizzava i sindacati (1884)che porta il suo nome. Fu

Presidente del Consiglio dal 1899 al 1902, ndt.

8Émile Combes (18351921) sostituì Waldeck-Rousseau

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nella carica di Presidente del Consiglio, rivestita dal1902 al

1905. Filosofo e teologo di formazione, fu un accanito

anticlericale ed è considerato uno dei padri della legge che, nel

1905, sancì la definitiva separazione tra Stato e Chiesa e il carattere laico dello Stato francese, ndt.

9Charles Camille Pelletan ( 1846-1915 ) fu un giornalista e

politico francese appartenente all’ala più avanzata del partito

radical-socialista. Fu Ministro della marina nel governo

Combes, ndt.