Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza · Il primo punto su cui riflettere riguarda il...

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Indice 9 Prefazione (Franca Guglielmetti) 17 Introduzione generale PRIMA PARTE Pedagogia e psichiatria, adolescenti, malaia mentale 23 Introduzione 25 CAP. 1 Strutture intermedie nel lavoro di rete in psichiatria dell’adolescenza (Giancarlo Rigon) 45 CAP. 2 Progettare nell’incertezza nelle situazioni di urgenza psichiatrica in età evolutiva (Stefano Costa) 57 CAP. 3 Il lavoro educativo a confronto con la malattia mentale (Emanuela Cocever) 69 CAP. 4 L’intervento educativo in semiresidenza, riferimenti teorici, organizzazione e modalità di lavoro del gruppo educativo (Lucia Zucchi, Danila Lambertucci e Rosanna d’Apolito) 107 CAP. 5 Adolescenti ed emergenza psichiatrica (Lucia Zucchi, Antonio Bicchielli, Milena Fugazzaro e Pier Paolo Pederzini) 135 CAP. 6 La musicoterapia in semiresidenza (Barbara Zanchi) SECONDA PARTE Formazione e supervisione 157 Introduzione 161 CAP. 7 Intrecci di formazione (Lucia Zucchi) 173 CAP. 8 La supervisione di équipe (Fabiano Bassi, Stefano Bolognini, Adriana Grotta e Georges Tabacchi) TERZA PARTE Produrre e valutare il cambiamento 201 Introduzione

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I n d i c e

9 Prefazione (Franca Guglielmetti)

17 Introduzione generale

PrImaParte Pedagogiaepsichiatria,adolescenti, malattiamentale

23 Introduzione

25 CAP. 1 Strutture intermedie nel lavoro di rete in psichiatria dell’adolescenza (Giancarlo Rigon)

45 CAP. 2 Progettare nell’incertezza nelle situazioni di urgenza psichiatrica in età evolutiva (Stefano Costa)

57 CAP. 3 Il lavoro educativo a confronto con la malattia mentale (Emanuela Cocever)

69 CAP. 4 L’intervento educativo in semiresidenza, riferimenti teorici, organizzazione e modalità di lavoro del gruppo educativo (Lucia Zucchi, Danila Lambertucci e Rosanna d’Apolito)

107 CAP. 5 Adolescenti ed emergenza psichiatrica (Lucia Zucchi, Antonio Bicchielli, Milena Fugazzaro e Pier Paolo Pederzini)

135 CAP. 6 La musicoterapia in semiresidenza (Barbara Zanchi)

secondaParteFormazioneesupervisione

157 Introduzione

161 CAP. 7 Intrecci di formazione (Lucia Zucchi)

173 CAP. 8 La supervisione di équipe (Fabiano Bassi, Stefano Bolognini, Adriana Grotta e Georges Tabacchi)

terzaParteProdurreevalutareilcambiamento

201 Introduzione

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203 CAP. 9 Valutazione del cambiamento clinico durante il periodo di trattamento istituzionale in un Centro semiresidenziale per adolescenti con gravi disturbi psicopatologici (Carlo Casagrande, Alessandra Cassetti, Roberta Mansi, Elisa Parma e Gabriele Tonelli)

213 CAP. 10 Osservare, descrivere e discutere un percorso evolutivo con diversi sguardi professionali (Emanuela Cocever, Stefano Costa, Pier Paolo Pederzini, Milena Fugazzaro, Giancarlo Rigon e Lucia Zucchi)

QUARTA PARTE Alcuni servizi di psichiatria dell’adolescenza in Italia

233 Introduzione

235 CAP. 11 Il day hospital per gli adolescenti: «una realtà necessaria» (Sandro Bartolomeo e Angela Liguori)

249 CAP. 12 Comunità residenziale per adolescenti nel contesto della rete di servizi assistenziali in neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sebastiano Russo, Giovanna Rapisarda e Antonio Emmi)

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PrefazioneFranca Guglielmetti

Gli educatori sono di una cooperativa: il contributo della Cooperazione Sociale nello sviluppo dei servizi

Nell’affrontare la lettura delle esperienze e delle argomentazioni raccolte in questo libro, credo sia significativo riflettere sul fatto che i due approcci al lavoro di rete in psichiatria dell’adolescenza di cui si tratta, quello clinico e quello pedagogico, due approcci integrati ma sicuramente distinti, corrispondano, nel caso dei servizi attivi sul territorio di Bologna, a due entità istituzionali che in modo altrettanto integrato e distinto, hanno collaborato e collaborano tutt’ora nella realizzazione dei servizi.

L’approccio clinico, nonché l’idea che sta alla base del modello di servi-zio e la titolarità istituzionale del servizio stesso «appartengono» all’Azienda Usl di Bologna, ovvero al servizio sanitario pubblico che, con una delle sue articolazioni di eccellenza, assicura, ai giovani cittadini del territorio, servizi di particolare portata innovativa.

L’approccio pedagogico «appartiene» a CADIAI, una cooperativa sociale attiva sul territorio di Bologna dal 1974, e che circa dodici anni fa si è aggiudicata l’appalto per la gestione dell’intervento educativo in questi servizi e ne ha poi mantenuto la gestione, anche nei successivi procedimenti di gara. Una realtà del privato sociale, importante e ben consolidata, che si muove nella variegata galassia delle organizzazioni non profit che animano il cosiddetto terzo settore.

Il primo punto su cui riflettere riguarda il diverso status sociale delle due realtà istituzionali: non solo una pubblica e l’altra privata, ma una, l’ASL,

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10 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

ben contraddistinta e individuabile, riconosciuta da tutti perché integrata nell’esperienza di ognuno, l’altra poco conosciuta e scarsamente identificata.

Secondo una recente indagine sulla percezione delle imprese cooperative nella realtà bolognese, promossa da Legacoop Bologna nel 2008, il 53,2% dei 1019 intervistati ha affermato di conoscere la realtà della Cooperazione Sociale, ma alla richiesta di nominarne almeno una, solo il 22% è stato in grado di farlo e di questi, ben il 40% ha fornito risposte errate, nominando cooperative non sociali o inesistenti.1

Eppure, si tratta di una realtà molto diffusa e composita, che ha assunto nel corso del tempo un ruolo sempre più importante nella realizzazione della rete dei servizi sociali e socio-sanitari.

Questo vale in particolar modo per l’Emilia Romagna dove, come con-fermano i dati che emergono dalla recente indagine pubblicata da Maggioli, sulla cooperazione sociale in Emilia Romagna, sono attive, nella sola Lega delle Cooperative, 206 cooperative sociali e 25 consorzi, che contano circa 26.000 addetti e 48.000 soci; queste realtà nel complesso gestiscono servizi per circa 120.000 utenti, con un giro d’affari stimato intorno ai 760 milioni di euro.

Si tratta quindi di una realtà economica e sociale di grande rilevanza, che con sempre maggior incisività si pone come interlocutore dell’ente pubblico per lo sviluppo della rete dei servizi, con un ruolo attivo, che si esplica anche attraverso investimenti per la realizzazione di strutture complesse (residenze per anziani, nidi di infanzia) in partnership con le pubbliche amministrazioni locali.

Ciò nonostante, sulla cooperazione sociale pesa una grande riserva, una diffidenza che solo in parte si giustifica con il fatto che, come in tutte le realtà economiche e sociali, accanto a soggetti virtuosi e propositivi, operano soggetti scarsamente qualificati.

È soprattutto in relazione al suo rapporto con l’Ente Pubblico, al ruolo che gioca nei processi di privatizzazione dei servizi, che la cooperazione sociale viene messa in discussione. Anche nel caso dei servizi di cui si parla in questo libro.

L’Azienda Usl e la Cadiai collaborano infatti sulla base di un contratto di tipo commerciale, un contratto «di fornitura», che si è determinato in seguito allo svolgimento di una procedura di gara d’appalto.

Su questo genere di collaborazioni si dice e si è detto molto, e nella maggior parte dei casi si dice e si è detto male: si va dalle posizioni più accondiscendenti che le considerano come «dolorose necessità», a posizioni più intransigenti che le marchiano come sintomo evidente di dequalificazione dei servizi. Gestire un

1 Ricerca sulla percezione delle imprese cooperative nella realtà bolognese, rilevazione 2008, a cura di Maria Teresa Lovecchio, pp. 38-53 (documento interno Legacoop Bologna, ricerca realizzata con il contributo della Camera di Commercio di Bologna).

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Prefazione 11

servizio pubblico affidando una parte delle sue attività ad un soggetto privato è considerato una rinuncia, una resa alle logiche di sostenibilità economica che inficiano inevitabilmente la qualità del servizio.

Anche nel contesto di questo libro, parlare di aggiudicazione e appalti in un testo che tratta di approcci terapeutici, significa introdurre un elemento stridente: la terminologia commerciale mal si adatta a questi argomenti.

Eppure è soprattutto in base a questo genere di appalti che nei tempi più recenti si è potuta sviluppare e consolidare la rete dei servizi sociali e socio sanitari in Emilia Romagna.

La presenza della cooperazione sociale, causa e al tempo stesso effetto di questo sviluppo, consente infatti di mettere a disposizione di questi servizi professionalità nuove, non ancora codificate, ma fortemente funzionali allo sviluppo di nuovi progetti di riabilitazione e di recupero alla vita sociale auto-noma. Consente anche di sperimentare nuovi modelli organizzativi, connotati da maggior flessibilità e orientamento al cambiamento

Per il recente passato, possiamo pensare alla stessa figura dell’educatore professionale o a quella dell’animatore, che hanno avuto solo da alcuni anni un riconoscimento istituzionale, ancora oggi attraversato da notevoli con-traddizioni. Fino alla prima metà degli anni Novanta questa figura operava e cresceva professionalmente soprattutto nell’ambito delle attività sviluppate dall’associazionismo, dal volontariato e dalla cooperazione sociale, in sinergia con le sperimentazioni avviate dagli enti locali (deistituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici, chiusura degli istituti minorili, integrazione scolastica dei bambini disabili). Pensiamo allora alle figure di istruttore/addestratore/tutor o come altro possiamo chiamare l’operatore che nelle cooperative di inseri-mento lavorativo affianca la persona svantaggiata per insegnargli il mestiere e che quindi coniuga competenze educative con competenze tecniche del tipo più svariato (dall’orticoltura all’editoria alla piccola carpenteria, ecc.).

Pensiamo agli educatori che lavorano per l’inserimento scolastico dei minori con disabilità: una folta schiera di operatori che, pur lavorando spesso in condizioni di precarietà, fornisce un apporto fondamentale alla realizzazione di quanto previsto dalla nostra normativa in materia di inclusione dei bambini disabili.

Eppure resiste un forte pregiudizio al riconoscimento di questo ruolo innovativo e in molti contesti si confina l’apporto della cooperazione sociale all’ambito della «fornitura», con ciò deprimendo in modo sostanziale le sue potenzialità tecniche e gestionali.

In teoria è quanto dovrebbe capitare anche per la gestione dei servizi di cui si parla in questo libro, servizi per i quali alla cooperativa si richiedono unica-

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mente «prestazioni educative» (questo è quanto recita infatti il contratto tra la cooperativa e l’ASL). In pratica, però, il consolidato rapporto di collaborazione che esiste tra i referenti delle due realtà e la storia del servizio che CADIAI e ASL hanno condiviso in questi anni, consente di trasformare questa «fornitura» in qualcosa di molto diverso: lo sviluppo di un progetto, in cui ciascuna compo-nente ha un suo compito, un ruolo preciso da svolgere, ben integrato con l’altro.

In questa divisione e integrazione dei compiti, il diverso status sociale delle due entità collima in parte con il diverso status delle due discipline di riferimento: la pedagogia e la psichiatria.

Alcuni anni fa Bertolini2 definiva la pedagogia un «pensiero debole»3 ovvero una disciplina che condivideva con quella definizione filosofica un approccio riflessivo, che continuamente andava dalla prassi alla elaborazione teorica e ritorno, senza procedere secondo schemi interpretativi ben prefissati ma avendo a riferimento solo alcune chiavi di lettura possibili, alcuni spunti metodologici, alcuni strumenti di lavoro.

Non è invece difficile definire la psichiatria un pensiero forte, non solo dal punto di vista socio culturale, ma anche da un punto di vista prettamente disciplinare: basta pensare alla vastità della letteratura prodotta, all’estrema varietà degli approcci, delle scuole, delle specializzazioni, alle connessioni con altre branche della medicina.

Di questo confronto si parla molto nel libro, e il dato più interessante riguarda l’estrema funzionalità di questa asimmetria ai fini dell’efficacia dell’intervento: la diversità di approccio è il punto di forza di questi servizi e proprio questo intreccio tra pensiero forte e pensiero debole consente di creare i supporti adeguati per i giovani utenti.

Anche sul piano delle professionalità impegnate si riproduce la medesima asimmetria: da un lato gli educatori, con un profilo professionale di fresca data (sono passati poco più di 15 anni da quando è stato riconosciuto nella nostra regione) e con percorsi formativi ancora molto contraddittori quando non contesi; dall’altro, psicologi e psichiatri, con una tradizione professionale ben più consolidata, definita e riconosciuta, nell’ambito della quale la varietà degli approcci e delle scuole è sinonimo di ricchezza e non di incertezza.

2 Bertolini P., L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1988. Si veda in particolare il paragrafo dedicato al lavoro di équipe, pp. 235-237.

3 «C’è dunque qualcosa di transitorio e di intermedio nell’espressione pensiero debole. Essa si situa provvisoriamente tra la ragione forte di chi dice la verità e l’impotenza speculare di chi contempla il proprio nulla. Da questo mezzo, può funzionare per noi come indicatore» (Rovatti P.A., Trasformazioni nel corso dell’esperienza, in Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 51).

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Prefazione 13

Ciò che fa dell’esperienza di questi servizi un fatto particolare è che su questo elemento, su questa asimmetria, si è lavorato moltissimo e che proprio la cura di questa diversità professionale rappresenta uno degli aspetti maggior-mente innovativi.

Ho conosciuto da vicino la Semiresidenza di Via degli Orti e il Day Ho-spital del Maggiore quando, in qualità di pedagogista della CADIAI, ho fatto diversi incontri formativi con gli educatori. Si trattava più che altro di momenti di confronto per capire quali potessero essere i supporti formativi più utili per il gruppo, ed inevitabilmente il discorso si sviluppava sui temi della specificità dell’approccio educativo: quale metodo, quali strumenti, quali teorie.

In particolare abbiamo lavorato su questo tema per la preparazione dei «seminari» autogestiti: un’iniziativa nella quale educatori e terapeuti della Semiresidenza si alternavano nel ruolo di formatori, presentando a tutti i col-leghi alcuni contenuti tipici del proprio approccio professionale. Gli educatori scelsero «la quotidianità» e «il gioco», io preparai un breve intervento sul sistema qualità e le forme di documentazione/tracciabilità introdotte dalla Cooperativa.

Anche a distanza, la scelta di quei temi mi sembra ancora molto interessante e significativa: la quotidianità ed il gioco sono davvero componenti essenziali del lavoro educativo, soprattutto se declinate nei diversi aspetti e sfaccettature che possono presentarsi nel molteplice lavoro educativo che si fa in questi servizi.

Anche le forme di documentazione e riscontro introdotte dal sistema qua-lità aziendale rivestiva e riveste un ruolo importante, pur essendo decisamente meno appassionante. È sottolineare un’appartenenza, è rimarcare il legame che unisce questi educatori alla struttura organizzativa della cooperativa, benché essi lavorino quotidianamente all’interno della struttura organizzativa della Azienda USL.

Questa diversa appartenenza, che li rende estranei al sistema gerarchico e di governo a cui invece risponde il gruppo dei clinici, fonda la loro autono-mia professionale, pone le basi per l’instaurarsi di un dialogo tra pari, là dove invece la medesima appartenenza istituzionale determinerebbe un rapporto di maggior subordinazione.

In altri contesti, questa diversa appartenenza non è così favorevole: quan-do si traduce in abbandono da parte della cooperativa interessata, quando si traduce in una totale delega all’ente committente nella gestione del personale, chiamato in gergo «convenzionato», questa diversa appartenenza determina di solito una posizione gerarchica estremamente debole.

Il caso della semiresidenza di Via degli Orti e del Day Hospital dell’Ospe-dale Maggiore è ancora una volta diverso: non c’è delega ma non c’è neanche

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14 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

gestione autonoma. Attraverso modalità che potremmo definire sottili o leggere, la Cooperativa mantiene i legami con il gruppo di lavoro, che rimane però fortemente integrato con l’attività del gruppo dei clinici e quindi si sente di appartenere alla semiresidenza, al day hospital, senza per questo sentirsi abbandonato dalla cooperativa.

Sono soprattutto la formazione e il coordinamento gestionale a stabilire questo legame, a dargli queste caratteristiche di leggerezza e flessibilità.

La formazione, nelle diverse forme della supervisione pedagogica, della partecipazione a convegni e seminari, del lavoro di documentazione e confronto.

Il coordinamento gestionale, che affronta in loco i temi legati al lavoro (orari, turni, permessi, retribuzioni, ecc.) e che si propone come interfaccia istituzionale nei confronti dell’Azienda USL. Così il gruppo di lavoro può contare su di un elemento di mediazione nei rapporti amministrativi con l’Azienda USL e può contare su di un supporto tecnico per sviluppare le proprie competenze professionali.

Così, se si tratta di attrezzarsi per un intervento in emergenza, che esula dal normale orario di funzionamento del servizio, è il coordinatore gestionale che lavora con la Azienda USL per assicurare il servizio, e cerca la disponibilità degli operatori, avendo ben in mente il sistema di regole che governa il rapporto di lavoro tra gli stessi e la cooperativa.

Così, quando un educatore si sente troppo «tirato» tra i bisogni che emergono nella quotidianità del rapporto con i ragazzi e le indicazioni fornite dai terapeuti, ha un «luogo» (gli incontri del collettivo educativo, gli incontri di supervisione pedagogica) in cui portare questa sua tensione, sicuro che sarà affrontata come tema specifico del suo lavoro e non come sintomo di debolezza o fragilità.

Evitando di cedere alla tentazione che avrebbe portato la professionalità più debole a scimmiottare la professionalità più forte, si è scelto di rinforzare gli elementi di specificità del lavoro dell’educatore e di declinare al meglio le sue caratteristiche: lavoro di gruppo, orientato alla quotidianità, impostato sulla durata nella relazione piuttosto che sulla successione di eventi (incontri, colloqui, sedute); che utilizza strumenti mediatori quali le attività manuali, espressive ed artistiche, che lavora sulle regole e la negoziazione.

È stato uno sforzo che ha impegnato entrambi gli enti, sollecitato dalla Azienda USL e ben accolto dalla Cooperativa, che ha posto tutte le attività formative all’interno dell’orario di lavoro degli operatori ed ha definito specifici budget di spesa per l’intervento dei formatori.

In tal modo, la professionalità educativa riesce a dare il meglio di sé, integrandosi all’intervento clinico senza esserne schiacciata, apportando con-

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Prefazione 15

tenuti di estrema originalità, che diventano un fattore importante del successo terapeutico del servizio.

In questo caso, come in altri sul territorio di Bologna, la Cooperazione Sociale riesce a dare un contributo importante allo sviluppo dei servizi di welfare, contributo che non è sostitutivo o compensativo di quello pubblico, ma è originale, caratteristico e funzionale al sistema stesso.

Con questo non si vuol sorvolare sul fatto che, ancora in molti contesti, la Cooperazione Sociale si trova in una posizione di debolezza, che la vede dipen-dere totalmente dalle scelte dell’ente pubblico; né si vuol negare la necessità di un progressivo miglioramento delle condizioni di trattamento del lavoro dei soci e dei dipendenti delle Cooperative Sociali, al fine di promuovere il pieno riconoscimento, anche sul piano dello status sociale di questi operatori, del valore della loro professionalità.

Si tratta però di affermare che questi percorsi passano anche attraverso esperienze come quelle descritte in questo libro, ovvero attraverso la dimo-strazione della capacità di creare un valore aggiunto nella realizzazione di un servizio, valore aggiunto che non è costituito unicamente dai minori costi o dalla maggiore flessibilità, ma anche e soprattutto dalla messa in campo di competenze, capacità e modelli di lavoro originali.

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Alla fine del 2007, il Centro semiresidenziale per adolescenti con gravi distur-bi psicopatologici di via degli Orti a Bologna ha raggiunto i dieci anni di attività.

La sua nascita era stata un’importante innovazione all’interno del servizio di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Azienda USL 29 di Bologna Est, l’avvio di un servizio con nessun precedente in Italia, la cui evo-luzione non era scontata. Dieci anni di esistenza erano una tappa significativa, un’occasione da festeggiare e la forma scelta per farlo fu quella di una giornata di riflessione nel corso della quale le diverse parti — politiche, amministrative degli enti locali, tecniche — che avevano contribuito e partecipato all’espe-rienza, avessero l’occasione di discuterne, condividendo la loro lettura e la loro valutazione di quanto fino allora realizzato con gli operatori dei servizi sociali e sanitari di territorio, i formatori delle figure professionali coinvolte.

L’AUSL di Bologna, Unità operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e la Cooperativa sociale CADIAI (cooperativa cui fanno capo gli educatori impegnati nel servizio) hanno quindi organizzato, nel novembre del 2007, una giornata seminariale sul tema Strutture intermedie e lavoro di rete in psichiatria dell’adolescenza. Le relazioni e le discussioni erano distribuite attorno a quattro temi principali:• la continuità terapeutica in rapporto alla famiglia, alle iniziative di volontariato

e ai servizi sociosanitari di territorio;• la funzione delle comunità terapeutiche e il lavoro in psichiatria infantile;• l’esperienza della Semiresidenza di via degli Orti;

Introduzione generaleAndrea Pintus

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18 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

• il ruolo e gli strumenti di lavoro dell’educatore professionale all’interno di una comunità terapeutica.

Questo libro nasce grazie a quel seminario. Non è una pubblicazione di atti, né una raccolta di interventi, ma un approfondimento di uno in particolare dei temi trattati: l’incontro, la collaborazione, a volte l’intreccio fra due saperi e prati-che disciplinari, quelli della psichiatria e della pedagogia all’interno delle strutture intermedie per adolescenti con gravi disturbi psicopatologici. Una sinergia ricercata, all’interno della Semiresidenza, con impegno e pazienza, con esiti alterni, ma pre-valentemente con successo, che continua a essere una linfa vitale nella sua storia.

Con il testo così costruito intendiamo richiamare l’attenzione di coloro che accompagnano professionalmente, nella vita quotidiana, gli adolescenti in situazione di sofferenza psichica (educatori, infermieri, medici, psicologi, assistenti sociali) su alcuni elementi in gioco nella professione che questi interlocutori sollecitano in modo particolare: perché la loro esperienza e, di conseguenza, l’intervento loro rivolto, sono particolarmente refrattari a scorciatoie strumentali o tecnicistiche, applicate sia alla comprensione delle situazioni sia alla scelta delle azioni di aiuto.

Lo sostiene anche Cifali che ha dedicato un’ampia riflessione ai rapporti fra approccio clinico e educativo ai problemi dell’apprendimento e dello sviluppo.

Per chi lavora a contatto con questi problemi, l’ipotesi ingenua che, una volta conosciuta la causa della sofferenza, se ne possa trovare il rimedio viene frequentemente smentita, e non è possibile sottrarsi alla sofferenza che l’educare comporta, al fatto che ci si trova costantemente di fronte a rimproveri e ram-marichi perché si è fatta una scelta piuttosto che un’altra. Se uno scienziato può essere a ragione scioccato dal fatto che, a mezzo secolo di distanza, si ripetano gli stessi errori, non lo è uno storico, e nemmeno un educatore (Cifali, 1994).

Il bagaglio di conoscenze e competenze che la formazione fornisce è fondamentale perché gli educatori possano proporre, ai soggetti con cui la-vorano, alternative, varietà, scelte per arrivare, quando possibile, a costruire un progetto che prenda il posto dell’aggressività verso sé e/o verso gli altri. Queste attività non mettono a tacere il fatto — particolarmente doloroso per gli adolescenti in difficoltà — che vivere assieme è difficile, che fare parte di un gruppo è complicato, che sopportare l’alterità vuol dire sopportare incertezza nell’identità, cambiamenti il cui controllo sfugge, nonché la loro irreversibilità.

I soggetti non sono sempre «programmati» per sfuggire al dolore e, quindi, non si interviene in una situazione di sofferenza psichica come si interviene su una malattia o una difficoltà di altro tipo. Un educatore che lavora in questo ambito deve attrezzarsi per un tragitto di lungo corso, diventando e restando capace di non sacrificare — nel percorso — parti di sé, né parti dell’altro.

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Introduzione generale 19

La formazione che trasmette sapere e competenze, quando riguarda profili professionali che lavorano con altri esseri umani, deve anche mettere in guardia dalle derive e dagli abusi nell’uso di teorie e tecniche non attentamente con-testualizzate. L’incontro fra pedagogia e medicina è stato, non di rado, messo in moto dal fallimento di misure adottate in un ambito o nell’altro. Cifali ne descrive aneddoti significativi, citando ad esempio Barillon, ispettore scola-stico che, alla fine dell’Ottocento si fece acceso promotore dell’applicazione dell’ipnosi su bambini nei confronti dei quali insegnanti e educatori non riu-scivano a intervenire efficacemente: «Dove il pedagogo confessa la sua totale impotenza, si determina la necessità di ricorrere al medico». E accanto Odier, psicoanalista svizzero che nel 1946 scrive: «L’educazione nella sua accezione più autentica consiste nella correzione illuminata e coraggiosa di una serie indefinita di errori psicologici» (Cifali, 1994, pp. 27-34).

Terapia e educazione sono entrambe azioni che mirano al cambiamento, alla trasformazione, a cui corrispondono mestieri diversi. Fra questi mestieri esiste tensione, a volte rivalità: tra l’educare e il curare c’è qualcosa di simile (oltre all’essere stati accomunati da Sigmund Freud nella caratteristica dell’impossibi-lità) e qualcosa di diverso. Come reagiscono a questa affermazione gli operatori della terapia? Perché gli operatori dell’educazione sembrano a volte pensare di acquistare competenza (o prestigio) mimetizzando le loro pratiche in terapia?

Dall’epoca delle posizioni ricordate da Cifali, ricercatori e operatori dell’uno e dell’altro campo hanno cercato e proposto risposte a questi inter-rogativi che riflettono sulle questioni in gioco uscendo dall’antagonismo e disegnando intrecci, complessi certamente, ma liberi da confusione. Pensiamo in particolare a Tosquelles, Dolto, Bertolini, Canevaro. Bertolini (1989) e Dolto (1972) hanno avanzato riflessioni sui rapporti fra scienza medica e pedagogica (Bertolini), proposto definizioni di campo per l’intervento educativo e quello terapeutico (Dolto). Tosquelles (1984) e Canevaro hanno descritto e commen-tato il lavoro degli operatori della salute mentale e dell’educazione sul terreno.

La parola contenimento può permettere un certo ragionamento che chiarisca i possibili rapporti fra Psichiatria e Educazione. Il termine può avere un significato comune che fa pensare a una costrizione. Ed era vicino a un certo modo di collocare le persone con sofferenze psichiatriche, che venivano «contenute» in luoghi precisi, ovvero le strutture manicomiali. Se quel tipo di «contenimento» non fosse stato sufficiente, all’interno delle strutture manicomiali potevano essere adottati altri modi per «contenere», con sistemi anche brutali.

Nel 1978 vi è stata la legge 180 [la cosiddetta legge Basaglia, ndr], che doveva sviluppare un’altra idea di «contenimento». Si trattava di un

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20 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

significato meno immediato, forse, e più elaborato culturalmente, con l’ausilio di pratiche diversificate secondo le necessità e le caratteristiche del soggetto. Si doveva passare da legami che potevano comportare anche il «letto di contenzione» a legami che avrebbero dovuto comprendere anche il letto di casa circondato da sostegni affettivi.

Il contenimento diventa sociale: affettivo, emotivo, fatto di rituali col-lettivi, di punti d’incontro, di impegni in occupazioni lavorative in varie forme organizzative.

[...] Dal 1978 la società è cambiata. I paesi sono abitati la notte da per-sone che di giorno lavorano lontano, in città. I caffè, e bar, circoli, dei paesi sono in buona parte chiusi. Quelli che vi vivono, hanno televisioni potenti, videogiochi e altre macchine che mettono ciascuno in competizione con se stesso e con gli altri. E non c’è tempo per accogliere, per contenere. Dove va chi sente la sofferenza e la solitudine?, chi crea legami che possono aprire al futuro e dare un senso al passato? [...]

Gli educatori possono individuare, valorizzare, promuovere e organiz-zare i vecchi e i nuovi contenimenti, trasformare i contenimenti in legami. Vecchi, perché è ipotizzabile che manicomi e le altre forme contenitive omogenee a tale struttura convivevano con forme di contenimento che potremmo chiamare alternative. E nuovi perché gli Educatori professionali possono creare, organizzare, sperimentare. (Canevaro, 2008)

La composizione dei testi qui raccolti, in parte revisioni di relazioni pre-sentate nella giornata seminariale, in parte elaborazioni e sviluppi di spunti in quella occasione solo accennati, si inserisce nel solco dei ricercatori citati e si propone di fornire un contributo al modo cooperativo di pensare e praticare due approcci teorici e pratici alla riattivazione del processo di sviluppo quando questo si blocca o si distorce in età adolescenziale.1

Bibliografia

Bertolini P. (1989), L’esistere Pedagogico, La Nuova Italia, Firenze.Canevaro A. (2006), Le logiche del confine e del sentiero, Trento, Erickson.Cifali M. (1994), Le lien éducatif: contrejour psychanalitique, Paris, PUF.Dolto F. e Muel A. (1972), L’éveil de l’esprit, Paris, Aubier Montaigne. Tosquelles F. (1984), Education et psychotherapie institutionelle, Mantes-la-ville,

HIaTUS.

1 Si precisa, rispetto ai casi descritti nel volume, che a tutela della privacy delle persone citate i nomi reali sono stati sostituiti da nomi di fantasia.

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Pedagogia e psichiatria hanno raramente incrociato le loro strade. Quando questo è accaduto, già al nascere delle due discipline agli inizi dell’Ottocento, i frutti di questo incontro furono promettenti. Eppure, le loro strade hanno proseguito per direzioni diverse, dovendo entrambe accumulare conoscenze e teorie specifiche di settore al fine di guadagnare una identità riconosciuta nel campo delle scienze.

Per ragioni ovvie, le due discipline mantennero maggiori legami nel campo dell’età evolutiva. Molte sono le esperienze condotte con bambini e adole-scenti da pedagogisti che divennero in seguito psicoanalisti, o viceversa, o che mantennero grande apertura verso la psichiatria, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso: Vera Schmidt a Mosca, Alexander S. Neill in Inghilterra, August Aichhorn in Austria sono alcuni dei tanti nomi che si possono citare in pro-posito; ancora Bruno Bettelheim negli Stati Uniti e Maud Mannoni in Francia nel secondo dopoguerra. Diversa, più difficile, fu invece la collaborazione nel campo della psichiatria degli adulti, che trovò in Francia, con il movimento della psicoterapia istituzionale di François Tosquelles e Jean Oury, la stagione più felice e proficua dell’incontro fra le due discipline.

La storia della pedagogia e della psichiatria istituzionale viene esposta nei primi due capitoli di questa prima sezione del libro, come parte di una analisi molto articolata condotta sui rapporti fra questi due saperi.

I primi quattro capitoli di questa sezione toccano infatti gli aspetti generali di tale rapporto, approfondendoli poi nell’analisi delle esperienze della Semi-

IntroduzioneAndrea Pintus

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24 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

residenza e del Day Hospital che vengono presentate e discusse. Vi troviamo le parole chiave a cui la pedagogia si riferisce per trattare la patologia psichiatrica in adolescenza: intersoggettività e prassi, cura, relazione, empatia; parole che anche la psichiatria usa, seppure con accezioni o sfumature differenti. Altret-tanto vale per operazioni che sono caratteristiche di una delle due discipline, come ad esempio la diagnosi: solo la comprensione del significato profondo del lavoro diagnostico e della finalità a cui tende può consentire a chi ha formazione differente di poter trovare un terreno comune di convergenza e di collabora-zione non opportunistica. Indubbiamente la questione della conoscenza dei significati che ciascuna disciplina assegna ai termini del proprio linguaggio è decisiva per ogni futuro sviluppo.

Nell’esperienza qui descritta, il terreno di convergenza interdisciplinare lo si è trovato nella centralità della persona, che nel concreto dell’esperienza è rintracciabile, ad esempio, nella pratica della diagnosi strutturale da parte degli psichiatri e nell’approccio fenomenologico da parte degli educatori. Ma molti altri sono gli esempi di questo sforzo di comprensione reciproca che si trovano nei capitoli che seguono, così come altri esempi si ricavano dalla lettura di tutti gli altri capitoli di questo libro.

Di particolare interesse, nei capitoli che seguono, è il confronto che le due discipline aprono sulla questione dell’intervento nelle situazioni di urgenza psichiatrica in adolescenza; il concetto di crisi, il senso da dare a questi episo-di, il tempo secondo cui intervenire, l’influenza che tutto ciò ha sul lavoro di équipe sono gli elementi esplorati con accuratezza.

Il capitolo dedicato alla musicoterapia ci permette di prendere conoscenza di un lavoro che sta a mezzo fra quello educativo e quello psicoterapeutico, e della possibilità di mantenersi connesso con entrambi.

Questa prima parte, e tutto il libro nel suo insieme, ci dimostrano che le due discipline sono pronte per riprendere il dialogo, ciascuna più forte nel metodo e più definita e raffinata nelle tecniche, e dunque ciascuna più convinta della propria identità e perciò più aperta al confronto. L’esperienza maturata in questi dieci anni di lavoro comune è servita a preparare la mappa di un possibile percorso futuro e le forze e le competenze per affrontarlo.

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La figura dell’educatore professionale o sociale1 è stata oggetto di numerose pubblicazioni volte a descriverne e definirne attività e funzioni, a partire dalla metà degli anni Ottanta in poi (Bertolini, 1989; Canevaro, 1998; Demetrio, 1999; Manoukian, 1998). Con l’istituzione dei Corsi di formazione a rico-noscimento nazionale, attivati prima dal Servizio sanitario e organizzati dalle amministrazioni regionali, successivamente presso le Facoltà di Scienze della Formazione e di Medicina, il mestiere di educatore è uscito dalla nebulosa in cui esisteva da decenni e ha acquisito una posizione definita fra i mestieri e le professioni che intervengono in ambito sociale, sanitario e educativo.

Fino a un certo punto, però. L’obiettivo di definire un profilo professionale con valore giuridico (o, come auspicavano alcune associazioni di categoria, un albo professionale) non è stato raggiunto; la duplicità della formazione universitaria porta con sé ricadute consistenti quanto a rapporto con il mer-cato del lavoro. La forzata separazione di un percorso formativo «dedicato» all’intervento nel sociale da quello «dedicato» all’intervento nel sanitario è profondamente incongruente con i bisogni dei soggetti cui è rivolto l’operato

1 Il titolo Educatore professionale a seguito del D.M. 8 ottobre 1998, n. 520, promosso dal Ministero della Sanità, definisce un profilo professionale della sanità e si ottiene a conclusione di un Corso di laurea triennale attivato dalla Facoltà di Medicina. Precedentemente lo stesso titolo era attribuito a conclusione di un percorso formativo che aveva carattere regionale.

L’Educatore sociale è titolo rilasciato a conclusione di un Corso di laurea triennale attivato dalla Facoltà di Scienze della Formazione e introduce a un’attività in campo socioeducativo. La Regione Emilia-Romagna lo riconosce come titolo professionale indispensabile per l’accreditamento di strutture socioeducative.

Il lavoro educativo a confronto con la malattia mentale

Emanuela Cocever

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degli educatori, che attraversano e intrecciano gli ambiti dell’educazione, della salute, della sicurezza sociale. Sono inoltre elementi di sospensione che rendono più fragile il ruolo degli educatori nel momento in cui la drastica riduzione di risorse disponibili per la sanità, l’assistenza e l’istruzione fa riemergere con forza la tentazione, da parte delle diverse amministrazioni competenti, di mettere in alternativa quantità e qualità all’interno dei servizi. La qualifica-zione degli operatori è uno degli elementi deboli in campo e di nuovo appare in espansione la pratica di impegnare in ruoli che sono di educatore chi non ha questa formazione.

Tale fenomeno è solo un aspetto di una generale evoluzione del modo di pensare le politiche sociali e i loro attori che Dubet descrive, in maniera sintetica, come un passaggio da progetti a base istituzionale a progetti che si attivano su una pluralità di bisogni ed esigenze che diversi soggetti, in quanto cittadini, esprimono e che i responsabili politici, a livello statale e locale, mantengono il potere di definire come richieste cui dare risposte. Non c’è più un pubblico preso in considerazione da istituzioni «dedicate» (i malati, gli adolescenti, ecc.), ma tanti pubblici oggetto di interventi particolari.

L’azione pubblica non è più l’attivazione di un programma attraverso un apparato burocratico, ma la mobilitazione di un insieme di attori e di agenzie richiesti di raggiungere un risultato. Le politiche pubbliche chiedono organiz-zazioni flessibili, meno fedeli a una tradizione e più capaci di interagire con il contesto che cambia (si pensi, ad esempio, alla tendenza a rendere manageriale il lavoro dei dirigenti ospedalieri e scolastici). Le catene gerarchiche si accor-ciano, si affermano le polivalenze e la pressione del cliente/utente si rafforza. Gli stessi attori di base sono obbligati a decidere e a scegliere, e la valutazione del loro operato non ha più a che fare con l’adesione a una pratica codificata, ma con la capacità di interagire con il contesto e avanzare verso il risultato. Il lavoro è meno (percepito come) la messa in pratica tecnica di una scelta effet-tuata una volta per tutte, è sempre più professionalizzazione, innalzamento di livelli accademici i cui diplomi o attestati non introducono a un’occupazione stabile, ma permettono di costruire competenza, nuove certificazioni, nuove professioni, lavoro in équipe.

Tutto ciò porta a una modificazione della legittimità che, appunto, non è data da un titolo o da un mandato, ma dalle competenze accreditate e dall’ef-ficacia. In questo assetto, ogni lavoratore deve rendere conto meno della sua adesione a un modello professionale e più del risultato di un’azione collettiva di cui è parte: è, contemporaneamente, più autonomo e più vincolato (Dubet, 2002). Questo movimento richiede, a ogni professione, migliore riflessività — termine coniato a proposito delle professioni che intervengono nel sociale e nel

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Il lavoro educativo a confronto con la malattia mentale 59

sanitario nel corso degli ultimi anni (Taylor e White, 2005) —: tanto più forte è la richiesta di flessibilità nell’usare le diverse competenze professionali, tanto più è necessario che queste siano solide, capaci di far parte di un intreccio senza confondersi. La robustezza di ogni filo costruisce la qualità di una buona corda.

La Semiresidenza di via degli Orti partecipa del panorama tracciato. È un servizio che si presenta esplicitamente come innovativo nei confronti di soggetti con bisogni particolari, operante attraverso l’impegno condiviso di professionisti la cui collaborazione non è esperienza diffusa. Si presta a essere considerata un «caso»: qualcosa di reale, che esce dalla monotonia, che produce risultati meritevoli di essere configurati, messi in parole e seguiti nel tempo, e che può, per un certo tempo, mantenere un significato fluttuante (Passeron e Revel, 2005). All’interno di questo caso, la mia attenzione va al lavoro delle educatrici e degli educatori che operano in presenza della sofferenza psichica e ne individua alcune caratteristiche: • due parole chiave della competenza: intersoggettività e prassi; • due parole chiave dell’attività: maternage e legami;• altre tre parole chiave dell’attività: cura, relazione ed empatia;• lo sfondo della competenza e dell’attività: l’ambiente;• due principi e molte mediazioni.

Due parole chiave della competenza: intersoggettività e prassi

Qualsiasi professione ha per supporto e agente un essere umano, è una banalità, ma succede che ce ne si dimentichi e che, insegnanti o educatori cerchino indicazioni operative e soluzioni per le difficoltà del loro lavoro in approcci disciplinari da cui ricavare metodi o tecniche considerandoli esaurien-ti. La pluralità che costituisce ognuno di noi diventa manifesta nell’incontro con interlocutori come gli ospiti della semiresidenza, in modo da mobilitare di nuovo alcune parti di sé, che devono essere costantemente riconosciute e rimesse in gioco. La sofferenza psichica chiede agli educatori che si avventurano (o capitano) nel suo territorio di mettere in gioco (fare attenzione, utilizzare, incrementare) alcune parti della competenza professionale più di altre, o forse di declinare qualsiasi aspetto della loro competenza a partire dalla consapevo-lezza dell’intersoggettività e della complessità. Uso i termini intersoggettività e complessità, oggetto di ampio dibattito (Morin, 1993; Tessier, 2005), per nominare una condizione di lavoro degli educatori che deve tenere conto della differenza fra competenza e performance.

Ogni soggetto deve essere incontrato da un educatore dove è (si veda capitolo 4, L’intervento educativo in semiresidenza, riferimenti teorici, organiz-

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60 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

zazione e modalità di lavoro del gruppo educativo) e il progetto educativo deve essere declinato nell’iniziativa e nella spontaneità che permettono l’incontro, senza il quale le migliori intenzioni e le tecniche più elaborate non portano da nessuna parte, o addirittura possono peggiorare la situazione. Affermare questo non vuol dire ignorare l’inanità di molte vocazioni o le omissioni giustificate in nome della spontaneità, né auspicare l’incompetenza (ogni operatore deve conoscere teorie di riferimento e metodi, strumenti, tecniche favorevoli ad ac-compagnare verso l’autonomia e il benessere i ragazzi e le ragazze di cui si occupa, curare il rapporto con i singoli e l’articolazione individuo-società, realizzare un assetto istituzionale). Tosquelles, però, raccomanda a qualsiasi educatore, se durante l’esercizio professionale una norma o una tecnica che si è prefisso di applicare urta con la propria spontaneità, crea un dubbio, un’esitazione, una semplice incertezza, di lasciare agire la spontaneità, con la libertà di parlarne ai compagni di lavoro durante le riunioni (Tosquelles, 1979). L’agire proprio della competenza, diversamente da quello che tende a una performance, si configura come una prassi secondo la definizione che ne propone Castoriadis e che Cifali commenta a proposito del lavoro degli educatori:

Prassi è quel fare per cui l’altro e gli altri sono visti come esseri autonomi e come agenti essenziali dello sviluppo della propria autonomia [...] il suo esercizio rinvia alla persona e non può essere pensata senza tenere conto di stati d’animo, sentimenti, stili, credenze, contesti [...] l’intelligenza che le si addice non è quella ipotetico deduttiva, ma quella del disordine. (Cifali, 1994, p. 266)

Cifali la vede all’opera nell’agire della figura mitologica di Metis: un insieme complesso, ma coerente di atteggiamenti mentali, comporta-menti intellettuali, che contengono fiuto, sagacità, previsione, flessibilità, il sapersela cavare, l’attenzione vigilante, il senso dell’opportunità, abilità ed esperienza.

Guida — ai tempi dei greci — di tutti quelli (dai politici gli oratori ai falegnami e medici) alle prese con una realtà mobile e sfuggente che chiede — a chi vi opera — colpo d’occhio, finezza di spirito, arte della misura, nella quale il trucco e la tempestività sono indispensabili. [...] un saper fare legato ai tempi difficili, accidentati, risposta unica espressa al momento opportuno, come se esistesse un’arte della memoria che sviluppasse l’at-teggiamento a essere sempre al posto dell’altro, ma senza possederlo, di approfittare di questa alterazione, ma senza perdervisi. (Cifali, 1994, p. 268)

Questa descrizione dell’intelligenza del disordine richiama il pensiero sulla costruzione della conoscenza esperienziale diversa da quella scientifica

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Il lavoro educativo a confronto con la malattia mentale 61

( Jedlowski, 1994; Cocever, 2008), preoccupata del senso più che delle gene-ralizzazioni, contestuale, ma non relativa; la richiama anche per i modi in cui si presta a essere efficacemente rappresentata, in figure e immagini piuttosto che in definizioni e argomentazioni. I miti sono racconti che non spiegano, ma fanno vedere come dei e uomini hanno creato ordine nel disordine (Cifali, 1994): le descrizioni degli educatori presenti in alcune parti di questo testo (si veda capitolo 4, L’intervento educativo in semiresidenza, riferimenti teorici, organizzazione e modalità di lavoro del gruppo educativo) sono dei racconti.

Due parole chiave dell’attività: maternage e legami

Fra le descrizioni dell’attività degli educatori presenti nella letteratura richiamata precedentemente, due mi sembrano particolarmente in sintonia con l’idea e la pratica che l’esperienza della semiresidenza realizza.

Tosquelles, parlando degli operatori che lavoravano al Clos du Nid (il Centro medico psicopedagogico che dirigeva), ne descriveva l’attività come quella di un «maternage terapeutico»: creare un ambiente di vita attorno a ogni soggetto di cui ci si cura, mantenere un’attenzione libera e disponibile alla sua domanda e sapere rispondere alle sue richieste in una reazione a spirale domanda-risposta-domanda modificata, e così di seguito. Senza dimenticare che, perché un ragazzo faccia una domanda, «bussi a una porta», è necessario che la porta gli passi e ripassi davanti molte volte (Tosquelles, 1984).

Il termine maternage non ha una buona fama in ambito pedagogico, troppo segnato da un’accezione che ne limita il significato all’essere (da parte di chi lo presta, di solito una donna) una « naturale» ed eccessiva inclinazione all’aiuto, al fare al posto di, al rinunciare ai propri bisogni a vantaggio di quelli di un altro; utile per scaricare le amministrazioni pubbliche da responsabilità che loro competono.

La recente riflessione interdisciplinare sul care, sul valore e le sue impli-cazioni nelle politiche sociali (Colombo, Bianchi e Cocever, 2004; Maluccelli, 2006; Paperman, Molinier e Laugier, 2009) sta avendo ragione di questo pregiu-dizio, che nasce da un’interpretazione profondamente distorta del fenomeno. La fondamentale caratteristica del comportamento materno studiato da Winnicott e da altri, definito maternage, è proprio la capacità di modulare aiuto e ritiro dell’aiuto man mano che il bambino può sopportare la realtà e diventa capace di fare da sé. È per questa capacità di diminuire l’aiuto che il comportamento materno è, secondo Winnicott, ammirevole, non per l’inclinazione ad aiutare. L’interpretazione distorta è dannosa perché, eliminando il richiamo al mater-nage dai riferimenti del lavoro degli educatori, impedisce di nominare quella

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Educazione e quotidianità: due fotografie della semiresidenza

La Semiresidenza è un luogo protetto che ha cara la prospettiva della normalità e che lavora per restaurare e costruire possibilità e ponti verso l’esterno e una migliore qualità di vita per i suoi ragazzi e le loro famiglie. La semiresidenza è un luogo di passaggio, di convalescenza, riflessione e cambia-mento, dove potersi curare (di sé). Un luogo dell’anima, direbbe forse qualche educatore romantico, dove c’è spazio per prendere fiato, raccogliere i pensieri, fare asciugare le alucce.

Spazio per essere tristi, allegri, arrabbiati, emozionati; per essere assonnati, affamati, pensierosi, fermi e in movimento. Spazio per stare un po’ da soli, in-sieme a qualcuno, o tutti insieme. Spazio per sperimentare, ritrovare, modulare l’impulso a fare attività, partendo da desideri e interessi individuali, come espres-sione di vitalità, come possibilità di mettersi in gioco e di giocare con gli altri.

Ai ragazzi che iniziano a frequentare la semiresidenza raccontiamo che è un posto dove ci sono altri che, come loro, hanno bisogno di un po’ di aiuto, e che ci sono educatori e educatrici con i quali trascorrere del tempo, durante la giornata, chiacchierando, giocando o dedicandosi ad attività varie. È possibile fare colazione, pranzo o merenda insieme, è richiesta collaborazione per piccoli lavori di cura e riordino della struttura. Ci sono momenti di gioco con biliardi-no, ping-pong, giochi di società e la mitica PlayStation. C’è la musica, spesso a volume altissimo. A volte «tocca anche di fare i compiti» e così si ricava spazio e tempo per farlo. C’è un laboratorio dove usare le mani e fare modellismo, le

L’intervento educativo in semiresidenza, riferimenti teorici, organizzazione

e modalità di lavoro del gruppo educativoLe att ività, cura, aiuto e progett o

Lucia Zucchi, Danila Lambertucci e Rosanna d’Apolito

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70 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

cornici, disegnare, ecc. Musicoterapia e arteterapia sono momenti terapeutici privilegiati di espressione e comunicazione.

Ci sono i colloqui con i dottori della semiresidenza e la possibilità di par-lare con uno di loro quando se ne sente la necessità o si affronta un momento di seria difficoltà o un bisogno particolare.

Durante la settimana poi andiamo in palestra a fare psicomotricità, ci troviamo insieme per la scrittura espressiva, guardiamo film, facciamo passeg-giate, escursioni e quanto altro viene proposto da educatori e ragazzi durante la riunione che si tiene, ogni martedì, per discutere e decidere l’organizzazione del tempo settimanale.

Ciao sono la Semiresidenza e servo solo per i ragazzi che devono migliorare qualche loro difetto psicologico. Io non voglio certamente sottoporvi a delle torture qui non si fanno cose molto pesanti anzi noi educatori faremo il possibile per aiutarvi a migliorare il vostro

Comportamento e aiutarvi a stare con gli altri Speriamo di fare il nostro meglio…… bè benvenuti a tutti anche ai primitivi.Vi vogliamo tanto bene, la prima e unica non scordatelo mai!Ciao ciao.Dalle Alpi alle Ande un grido si espande: semi 6 grande! (Giovanna, 12 anni)

Abbiamo scelto questa presentazione come incipit di un contributo che ha per tema il lavoro educativo in psichiatria dell’adolescenza. È un po’ come aprire una porta e provare a introdurre chi legge nel vivo dell’esperienza. Ma è questa la prospettiva che proponiamo: una riflessione che parte dalla pratica, che si propone di illustrare, di spiegare come lavora un educatore in questo contesto e di offrire quelli che, nel corso degli anni, ci sono sembrati i riferi-menti più importanti e significativi.

Non ci affideremo però alla linearità di un’esposizione dettagliata, ma alla parzialità di alcuni spunti tematici, affiancati da racconti della quotidia-nità educativa. Spunti che intendono far comprendere a chi legge l’autentica domanda che ha dato avvio alla riflessione.

Sono quattro gli approfondimenti che proponiamo, collocati in posizioni diverse: i primi tre più sullo sfondo, a indicare aspetti che caratterizzano la nostra operatività, ma che offrono anche spunti di riflessione più generali. Il quarto, che poniamo al centro della scena, vuole spiegare che cosa intendiamo in semiresidenza per intervento educativo terapeutico e come abbiamo provato a realizzarlo.

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L’intervento educativo in semiresidenza 71

Educazione, cambiamento, intenzionalità

Innanzitutto ci pare importante affermare, che ogni intervento educativo che può definirsi tale riguarda il cambiamento, la nozione di cambiamento. Il termine intenzionalità, che spesso viene associato all’aggettivo educativo, indica una direzione verso cui andare, uno spostamento una tensione a… Questa è la prospettiva nella quale si colloca il lavoro educativo che offre esperienze che diventano occasione per nuovi apprendimenti e nuove acquisizioni.

Duccio Demetrio parla di pedagogia come scienza metabletica, dal greco metaballein, cambiare, trasformare, variare, o metabolè, cambiamento, spostamento. Da qui la differenza con il lavoro socioassistenziale che «accet-ta l’esistente mentre il lavoro educativo intende modificarlo». Scrive ancora Demetrio: «Se uno (l’assistenziale) apparecchia i luoghi entro i quali il cam-biamento può realizzarsi [...] l’altro fornisce al contesto, spesso a metà strada tra l’assistenziale e l’educativo, la materia necessaria a far sì che il soggetto impari a utilizzare i mezzi fornitigli [...]. Ciò che accomuna le due forme di azione e di lavoro è la base sociale dell’operatività impiegata: entrambe ten-dono a trasformare le condizioni sociali entro le quali vive l’individuo [...] ma spetta appunto all’educatore fare in modo che non siano soltanto consumate, ma rielaborate in nuova energia psichica, pratica, comunicativa» (Demetrio, 1990, pp. 66-67).

Un pedagogista che ha offerto riferimenti importanti al pensiero pedago-gico e quindi all’agire educativo è Piero Bertolini; egli, facendo riferimento alla prospettiva della fenomenologia, individua delle direzioni intenzionali dell’espe-rienza educativa che, sia a livello cognitivo, inteso come riferimenti teorici che orientano l’operare, sia pratico, indicano un continuo lavoro di elaborazione e realizzazione di trasformazioni possibili per la persona dell’educando. Le categorie che le rappresentano evidenziano l’importanza di tenere assieme aspetti operativi e di pensiero nella prospettiva di una progettualità sempre presente a lato dell’agire educativo. In termini più semplici significa sapere pensare, restando però in contatto con l’esperienza propria e dell’altro che è sempre in divenire, non affezionarsi troppo a un’ipotesi formulata oppure a una soluzione trovata, ma essere in grado di modificarla a fronte della situazione mutata. Le elenchiamo in maniera schematica, anche perché ci pare possano aiutare a fare ordine nonché a individuare meglio il campo di riferimento della pedagogia (Bertolini, 1988).• Sistemicità, che rimanda all’importanza di non settorializzare, di mantenere

sempre una visione complessa della persona e di ciò che la riguarda e di realizzare i progetti secondo un’ottica globale.

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72 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

• Relazione reciproca, che assegna importanza a un contesto di reciprocità e rispetto dell’altro, alla capacità di esserci nella relazione, di stare in presenza dell’altro.

• Possibilità, che è capacità di dare un senso, apertura al possibile, orientamento verso il futuro; problematicità dell’esperienza educativa che deve essere con-tinuo stimolo per il cambiamento, per il raggiungimento di nuove mete.

• Irreversibilità, ovvero sapere che ogni esperienza umana è unica e che non si può tornare indietro, non si può procedere quindi per tentativi ed errori, ma occorre abbracciare un’ottica di progettualità e di vigile consapevolezza di ciò che si fa, di responsabilità.

• Socialità, nel senso di tenere sempre presente che l’uomo è un essere sociale, quindi non solo come relazione reciproca, ma come intersoggettività: sapere che c’è un contesto sociale nel quale si è inseriti e che occorre tenere in consi-derazione. Tosquelles, come ricordato psichiatra e protagonista della nascita e dell’affermazione del movimento della psicoterapia istituzionale, sostiene che «i pedagogisti hanno sempre saputo che non si può vivere se non in gruppi» (Cocever, 1993, p. 91) mettendo in evidenza il campo d’azione della pedagogia.

Il quadro che si compone indica una molteplicità di riferimenti in grado di orientare l’azione educativa e la riflessione che la sostiene, suggerisce quali devono essere gli ingredienti necessari dell’atto di progettare e mostra l’impor-tanza di una ricerca costante del senso in ogni esperienza offerta o attivata. La progettazione di ogni intervento educativo può aprire un’area di problematicità legata alla difficoltà di capire verso quali direzioni procedere, quali situazioni proporre e percorrere, i famosi obiettivi e contenuti delle proposte educative. Sapere allora che ogni esperienza che sia pedagogicamente fondata deve pre-vedere di procedere lungo le direzioni precedentemente illustrate può essere di riferimento e guida in ogni azione educativa.

Educazione e psicoterapia

Quale integrazione è possibile tra lavoro clinico e lavoro educativo, e come si realizza? Questa domanda introduce l’aspetto forse più caratteristico e interessante, rappresentato da una metodologia di lavoro che presuppone e richiede un’integrazione tra educazione e «psico…analisi…terapia», delle difficoltà che si incontrano, dalle precauzioni da prendere, come, perché e se funziona. Ne parliamo dal punto di vista dell’educazione, cercando anche di mettere in luce, brevemente, alcuni riferimenti, nonché buoni maestri che, nella storia, hanno offerto idee utili e ancora attuali.

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L’intervento educativo in semiresidenza 73

Il lavoro gomito a gomito con gli psichiatri è sicuramente interessante, consente di mettere meglio a fuoco il proprio campo disciplinare e i propri strumenti di lavoro, invita ad acquisire una continua capacità di centratura e di autolegittimazione dei propri riferimenti e del proprio operare.

Questa vicinanza comporta però anche alcuni rischi e fa compiere alcuni errori. Il rischio principale, per l’educatore, è fare confusione, cioè fare il «vice psichiatra», utilizzare solo quel modo di leggere e comprendere la realtà e i soggetti che la abitano, usare un linguaggio che non gli appartiene e che gli consente di vedere solo un pezzo di realtà, prendere a prestito un metodo, un modo di lavorare che non è il suo. C’è poi un secondo rischio: mettersi in una posizione troppo frontale, nella quale l’esperienza che si offre deve essere controllata dall’inizio alla fine e che soprattutto si esaurisce tra sé e il proprio interlocutore. L’educatore in questo caso si sente l’unico risolutore dei proble-mi dell’altro, si assume eccessiva responsabilità, si espone troppo e in maniera sbagliata e rischia di infilarsi nel vicolo cieco del «io ti salverò». Così facendo esaurisce presto tutte le sue energie.

L’errore principale, nei confronti dell’utenza, è restringere l’esperienza, privarla di quelle potenzialità che offre la posizione educativa, vera, non ma-scherata da altro. Per approfondire meglio la questione intendiamo partire da alcune domande e dalle risposte che abbiamo provato a dare, confrontando le nostre idee e convinzioni, maturate nel tempo tramite l’esperienza, con pensieri e riflessioni di pedagogisti come Canevaro, Meirieu, Cocever, Tosquelles.1

La prima è una domanda sui massimi sistemi: qual è, quale deve essere, un rapporto proficuo tra pedagogia e psicoanalisi? Bertolini afferma che mentre alla pedagogia spetta «un arricchimento» continuo della personalità dell’edu-cando, alla psicoanalisi compete invece una sorta di revisione della crescita personale, per potere valutare «l’autenticità delle acquisizioni realizzate al fine di correggere eventuali storture psicologiche o di constatare la necessità di dare maggiore soddisfazione a talune esigenze istintuali nei confronti di altre». Alla pedagogia competono poi altre due funzioni, scrive sempre Ber-tolini, quella di «verificare gli stessi risultati ottenuti in sede terapeutica» e quella di mantenere un «orientamento al futuro». Si tratta cioè di affiancare il soggetto nella sua esperienza concreta e quotidiana, a volte anche svolgendo una funzione di metabolizzazione, di avvicinamento proficuo e facilitante al mondo della vita, e di non dimenticare mai di indirizzare il proprio sguardo e quello dell’altro oltre la dimensione del presente, verso un futuro possibile e diverso» (Bertolini, 1988, pp. 230-232).

1 Di alcuni di loro vengono riportate le affermazioni provenienti da letture o da momenti di conversazione.

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Introduzione

Questa parte del volume presenta contributi diversi inerenti alle espe-rienze di formazione e supervisione nelle quali sono stati coinvolti il gruppo clinico e quello educativo che hanno operato nella Semiresidenza di via degli Orti a Bologna.

La capacità di lavorare in maniera integrata, di clinici e educatori, si è re-alizzata grazie all’approfondimento e alla conoscenza dei reciproci riferimenti teorici e delle pratiche di intervento, nonché alla comprensione della diversità dei linguaggi impiegati e alla possibilità di intendersi.

Il primo contributo offre alcune informazioni generali sulla formazione dell’educatore professionale e riferisce un percorso originale di «scambio di formazione» tra clinici e educatori della semiresidenza.

Stare in contatto con la sofferenza psichica di adolescenti, e cercare di farli uscire da questa situazione, richiede di potere vedere ciò che si è fatto, o che ci si propone di fare, secondo prospettive diverse, aiutati da uno sguardo altro che sostiene, incoraggia, a volte riporta sulla strada maestra, valorizzando ciò che il gruppo di lavoro ha realizzato o sta realizzando, ma anche mostrando direzioni diverse nelle quali muoversi e indirizzare chi riceve le cure.

Il secondo, terzo e quarto contributo riferiscono diverse esperienze di supervisione realizzate all’interno della Semiresidenza di via degli Orti, due, che si sono alternate nel tempo, rivolte al solo gruppo educativo, una, allargata anche al gruppo clinico, con la finalità di analizzare l’andamento di un caso presente all’interno della struttura.

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Il contributo di Bassi, che è stato il primo supervisore e in parte anche for-matore degli educatori di via degli Orti, dopo una rassegna storica in cui colloca l’approccio teorico al quale si riferisce il tipo di supervisione proposta, ne illustra le caratteristiche principali e il tipo di ricaduta e di efficacia per il gruppo di lavoro, individuando anche precise modalità di azione che gli educatori possono seguire.

Il contributo di Bolognini, supervisore dell’intero gruppo di lavoro della Semiresidenza, evidenzia aspetti rilevanti e per lui fondanti della capacità che deve avere un gruppo di operatori che, all’interno di un’istituzione, si trova a lavorare con adolescenti patologici. Con approfondimenti puntuali l’autore evidenzia la necessità dell’attività mentale dell’équipe, l’importanza cioè che il gruppo di operatori non rinunci a essere una mente gruppale, ovvero in grado di mantenere operante un’attività di pensiero, la capacità di pensare e di riflettere in gruppo sul proprio agire. Offre inoltre un interessante approfondimento relativo alla caratteristica più importante del lavoro educativo in semiresidenza, che definisce come capacità dell’educatore di offrire esperienze non tanto di identificazione ma di introiezione.

Il contributo di Grotta racconta l’esperienza di supervisione, sempre rivolta al gruppo educativo, realizzatasi dopo quella di Bassi, attraverso una serie di parole chiave che ne ripercorrono la storia e ne evidenziano i principali contenuti: i punti di contatto e le differenze tra la funzione educativa e la fun-zione terapeutica; la capacità di riconoscere e di avere a che fare con la propria e l’altrui aggressività e quindi la gestione dei conflitti; sapere tenere a bada il desiderio di onnipotenza; il tema delle regole, in adolescenza; la capacità di superare momenti di impasse organizzativa e progettuale.

Infine Tabacchi, educatore ed esperto di supervisione, presenta una ras-segna ragionata dei diversi aspetti del lavoro, affrontati negli incontri con gli educatori, elaborati alla luce di riferimenti pedagogici.

Questa breve introduzione termina con una storia raccontata da Bolo-gnini durante una supervisione, in un momento particolarmente difficile e doloroso della vita del servizio, una storia che poi è anche un film: La storia del cammello che piange.

Primavera nel deserto dei Gobi, Mongolia del Sud: una famiglia di pastori nomadi aiuta a fare nascere i cammelli del branco. Uno di questi ha un parto terribilmente faticoso e doloroso: la cammella mette alla luce un bellissimo cucciolo bianco rifiutandogli però brutalmente il suo latte e l’amore materno. Saranno il suono arcaico del violino e i canti melodici di una donna a fare breccia nel cuore della madre del piccolo cammello: quando le viene portato nuovamente il cucciolo, dagli occhi della cammella scendono lacrime e l’animale gli permette finalmente di prendere il latte di cui ha bisogno per sopravvivere.

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159Introduzione

Supervisione e formazione servono se aiutano a capire ciò che si sta fa-cendo, per scoprire se funziona, molto più spesso per rendersi conto che forse è meglio agire diversamente e riuscire così a intravedere nuovi passaggi, altri sentieri sui quali accompagnare i ragazzi e le ragazze in difficoltà. Lo si può fare cercando e poi provando a cantare melodie diverse, suoni nuovi, ricercati con ostinazione e coraggio, suoni che permettono di «aprire una breccia nel cuore dell’altro».

Occorre però essere sostenuti in maniera continua e sicura.

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Un modello intersoggettivoFabiano Bassi

La pubblicazione di un volume dedicato all’attività della Semiresidenza per adolescenti con patologia grave, di via degli Orti a Bologna, costituisce per me l’occasione ideale per ripensare all’intensa esperienza di lavoro svolta presso tale struttura come supervisore dell’équipe degli educatori professionali. Si è trattato di un periodo di estrema significatività, prolungatosi per una durata superiore ai cinque anni e svolto in una fase della mia parabola professionale in cui alcuni degli aspetti che contraddistinguono la mia posizione attuale stavano appena cominciando a prendere forma in modo concreto, pur non possedendo ancora i confini relativamente chiari che mi sento più immodestamente in grado di riconoscere oggi. Dunque, ripercorrere con il pensiero quell’importante tranche di lavoro mi permette di esprimere alcune considerazioni, sul mio percorso professionale e sulle posizioni teoriche che ne stanno alla base, che procedo a sottoporre all’attenzione del lettore.

Conviene innanzitutto che io descriva le caratteristiche — affatto pecu-liari — che quel progetto di lavoro finì per ricoprire ai miei occhi. Quando mi fu proposto di impegnarmi in questa impresa di supervisione (alla quale aderii entusiasticamente, come sempre faccio davanti alle offerte di condivi-sione di lavoro con operatori attivi nei servizi pubblici), mi accorsi che avevo già conosciuto la quasi totalità degli operatori con i quali avrei collaborato in occasione di qualche corso di formazione o di riqualificazione, alla cui

La supervisione di équipe Fabiano Bassi, Stefano Bolognini, Adriana Grotta e Georges Tabacchi

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174 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

esecuzione in quegli anni collaboravo. Questo aspetto costituisce da solo un fattore — credo — di forte agevolazione nella costruzione di un percorso comune di lavoro. Inoltre, per una sorta di fortunata bizzarria organizzativa, a causa di uno slittamento dell’apertura della semiresidenza (dovuta a qualche ritardo burocratico), il gruppo da me supervisionato cominciò i lavori prima di essere attivo sul campo: questo consentì di lavorare a lungo sulle fantasie, le aspettative, i timori, i fantasmi che gli educatori si portavano dietro, sia rispetto a generiche difficoltà e paure personali e professionali, sia rispetto alle fantasie più specificamente orientate sul lavoro che il gruppo si accingeva ad affrontare e sulle caratteristiche dell’utenza con cui ci si sarebbe dovuti confrontare.

Il lungo lavoro che venne poi fatto, direttamente calato nel calor bianco del confronto con il difficilissimo paziente adolescente, poté dunque contare su questo bonus che il gruppo aveva accumulato e tesaurizzato nei mesi in cui ci si era concentrati quasi solo sulle aspettative e sulle fantasie: ben poche sono le esperienze professionali, nel nostro settore, che possono fare affidamento su un patrimonio di partenza così ricco, e il benefico effetto di questa privilegiata situazione si è sicuramente riverberato sugli anni successivi di lavoro, favoren-do comunque sempre — pur a fronte delle fatiche crescenti nel rapporto sia con i pazienti sia con i colleghi, di cui da lì in poi dovemmo confrontarci — la possibilità di uno scambio rispettoso e riflessivo, quand’anche talvolta acceso e, in qualche modo, doloroso.

Esaurita questa succinta — ma comunque necessaria — presentazio-ne delle caratteristiche generali del percorso da me svolto, desidero passare alla discussione degli elementi che oggi, a quasi dieci anni di distanza dalla conclusione della mia collaborazione a questa esperienza di supervisione, mi sembra di poter cogliere e rilanciare come costitutivi di uno stile particolare di partecipazione, da parte di un supervisore, a un’impresa di lavoro con un gruppo di operatori, soprattutto se — come nel nostro caso — impegnati a lavorare con una popolazione di pazienti affetti da patologia grave, in special modo quando questa corrisponde principalmente alla categoria dei disturbi di personalità. A questo proposito, per essere certo di poter rendere il mio pensiero ben comprensibile, debbo tediare il lettore con una piccola parentesi storica, nella quale ripercorrere i passaggi fondamentali della «creazione» dell’esperienza di supervisione.

La supervisione in quanto tale non è certo un modello «inventato» dalla psicoanalisi né tanto meno utilizzato solo da essa. In moltissime professioni, specie in quelle dotate di una forte impronta pragmatica, è regolarmente previsto che qualche figura esperta controlli e, appunto, supervisioni il lavoro di chi si muove sul campo. Basti pensare, per fare solo un esempio, al modo

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La supervisione di équipe 175

in cui le tecnologie complesse vengono cedute dall’azienda che le brevetta ad altre aziende che le comprano solo dietro una lenta e complessa formazione e supervisione del personale che procede poi all’utilizzo di tale tecnologia. La psicoanalisi, dunque, individuò molto rapidamente nella supervisione del novello analista un elemento fondativo della sua diffusione tecnica: per molti anni, l’unico supervisore era stato Freud, al quale inevitabilmente si ri-volgevano — da tutto il mondo — gli analisti dilettanti che stavano cercando (spesso autodidatticamente) di imparare la sua tecnica psicoterapeutica. A tal fine, già nel 1910 e sull’onda di un’intuizione di Jung (comunque destinato, da lì a poco, a interrompere la sua collaborazione con il Maestro) fu fondata la IPA (Associazione internazionale di psicoanalisi), con lo scopo di racco-gliere sotto un’unica cupola centrale il lavoro di tutte le varie associazioni locali, destinate in quegli anni a nascere una dopo l’altra in quasi tutti i Paesi del mondo occidentale nel numero di una o addirittura più di una (come nel caso della Germania e, più tardi, della Francia). L’ascesa dei regimi dittatoriali nella prima metà del secolo scorso provvide a mettere fuori legge (o a irreg-gimentare violentemente) queste associazioni, anche nel nostro Paese, ma la deriva inarrestabile del fenomeno era destinata a non venire scossa neppure da questi eventi epocali e, specie grazie alla potente diffusione della disciplina prima in Nord e poi in Sud America, le fortune della psicoanalisi sarebbero comunque andate regolarmente radicandosi. I nascenti Istituti psicoanalitici, dunque, finirono presto per proporre un modello di formazione incentrato su tre perni fondamentali: l’analisi personale del futuro analista (svolta da un analista «certificato» come didatta dall’Istituto stesso), la frequentazione dei seminari teorici e infine — quando il terapeuta in via di formazione poteva già cominciare a svolgere la propria attività clinica — la supervisione dei casi da lui seguiti, sempre sotto l’egida di un analista didatta. Contemporaneamente, la diffusione e l’estensione del modello psicoanalitico anche alle discipline corre-late (la psichiatria, la psicologia, la sociologia) rendevano sempre più diffusa la pratica per cui i gruppi di operatori, impegnati a confrontarsi in qualche modo con la patologia psichica o comunque attivi in professioni di aiuto, potessero rivolgersi a uno psicoanalista o a un professionista che avesse una formazione di tipo psicodinamico per farsi coordinare, o «supervisionare», nella gestione delle dinamiche complesse, multiformi e non di rado dolorose che potevano essere messe in moto all’interno di un’équipe operativa sul campo (nel lavoro con i pazienti psichiatrici, ma anche con bambini e adolescenti — non neces-sariamente disturbati —, con la disabilità, con la tossicodipendenza, ecc.).

Nel nostro Paese l’evoluzione di questo iter è stata rallentata dalle vicende storiche ma, in compenso, ha registrato un’accelerazione impetuosa e addirittura

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esaltante, proprio finalizzata al recupero del tempo perduto e del divario che questa cesura aveva provocato tra noi e i nostri «cugini» occidentali: dalla fine degli anni Sessanta e soprattutto lungo tutti gli anni Settanta, si assistette in Italia a una vera e propria esplosione dell’attenzione e degli studi sull’assistenza e la terapia dei pazienti psichiatrici, che produsse una generale fioritura di esperien-ze significative e che finì per connotare in modo importante la parte dedicata all’assistenza psichiatrica dell’allora nuova legge di riforma sanitaria del 1978. Diventò quindi del tutto naturale e quasi automatico pensare che il lavoro delle équipe impegnate a confrontarsi con popolazioni di utenti in qualche modo problematiche dovesse essere più o meno stabilmente accompagnato dalla collaborazione di un supervisore con formazione psicodinamica, che si facesse carico di illuminare i colleghi sugli aspetti della diagnosi ma, soprattutto, che aiutasse a dipanare le spesso intricatissime matasse di incroci relazionali tra operatore e paziente, e tra operatore e operatore, il cui mancato riconoscimento e la cui mancata elaborazione si riteneva fossero potenzialmente responsabili di pericolose derive distruttive, destinate prima o poi a mettere a repentaglio la motivazione e la funzionalità dei singoli operatori e, a gioco lungo, la qualità stessa dell’assistenza offerta. La validità di questo modello non è certo stata messa in discussione con il passare del tempo: a cambiare, però (per ragioni complesse la cui discussione esula evidentemente dai miei scopi presenti, oltre che dalla mia competenza), sono state le politiche aziendali, le quali, nel corso del tempo, hanno reso sempre meno disponibile alle varie équipe di lavoro la possibilità di avvalersi con regolarità dell’aiuto di una supervisione così con-cepita. Ma questa, appunto, è un’altra storia.

Torniamo piuttosto alla nostra: come è cambiato, e come può cambiare, il modello della supervisione psicodinamicamente orientata con il mutare delle correnti teoriche all’interno del grande fiume psicoanalitico? Anche coloro che non hanno particolare conoscenza della materia sanno che la storia della psicoanalisi è stata sempre caratterizzata, e talvolta addirittura segnata, da importanti cambiamenti di tendenza che in diverse occasioni hanno portato alla nascita di nuove Scuole, capaci, per l’importanza delle figure che le inauguravano e per l’originalità delle idee che vi venivano pro-poste, di affiancarsi a quelle preesistenti e di assurgere rapidamente a uno spessore almeno pari a quello dei rami da cui si erano staccate: per citare solo alcuni dei casi più eclatanti, basti ricordare come dal ceppo freudiano si siano staccate le posizioni di Jung, quelle della Klein (che si sarebbero poi ulteriormente evolute nelle posizioni di Bion), quelle della scuola inglese delle relazioni oggettuali (con Balint, Winnicott e poi Sandler quali maggiori esponenti) e ancora, negli anni Sessanta, il modello della psicologia del Sé

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di Kohut. In un virtuoso meccanismo di partenogenesi evolutiva, ciascuno di questi modelli riprendeva e sviluppava alcune delle posizioni del modello precedente e, implementandole, finiva per arrivare allo sviluppo di qualche intuizione originale che, ulteriormente elaborata, dava luogo a una serie di concetti e di posizioni nuove, sia teoriche sia tecniche. Questo complesso e spesso traumatico sistema di progressioni — come è ovvio — non è certo peculiare della disciplina psicoanalitica, ma nel suo caso si è svolto con violenza e traumaticità inusuali, contribuendo a rendere la storia di questa materia al tempo stesso faticosa e affascinante. Contestualmente a questi cambiamenti teorici del modello di riferimento se ne registravano di complementari dal punto di vista tecnico, che finivano inevitabilmente per dare vita a modelli diversi di concettualizzazione e di conduzione dell’esperienza psicoterapeutica ma anche, va da sé, dell’esperienza di supervisione.

La supervisione psicodinamicamente orientata, infatti, possiede almeno un punto in comune con la psicoterapia: nel rapporto tra supervisore e super-visionato (sia questo un singolo individuo oppure un’équipe di operatori) si sviluppa infatti inevitabilmente, nel corso del tempo, un rapporto particolare, simile in molte sue caratteristiche alla relazione transfert-controtransfert che si instaura tra terapeuta e paziente. Ne consegue dunque che a seconda del modello di riferimento che il supervisore utilizza, i tratti peculiari del rapporto che verrà da lui/lei stabilito con il gruppo varieranno in modo decisivo.

Dalla seconda metà degli anni Novanta il modello teorico di riferimento che sono andato sempre più decisamente adottando nella mia pratica di lavoro individuale con i pazienti si ricollega in modo fondamentale alle posizioni che, in Nord America, si sono coagulate attorno al cosiddetto punto di vista inter-soggettivista. Con questo termine si identifica il pensiero di una serie di autori (tra i quali Hoffman e Renik sono certamente i più significativi) che, partendo da una revisione degli assiomi della psicologia del Sé, hanno contribuito ad apportare una radicale modernizzazione nell’arsenale dei concetti cardine che regolano la teoria della tecnica psicoanalitica. Riassumendo il quadro in un modo che spero non sia troppo selvaggio, le concettualizzazioni di questi autori hanno prodotto un ripensamento basilare attorno ai seguenti elementi.• Il concetto dell’oggettività dell’analista è stato messo pesantemente (assai

efficacemente) in discussione. Rifacendosi alle posizioni filosofiche del «pensiero debole» (che hanno avuto in Rorty — e in Vattimo in Italia — i principali esponenti), l’intersoggettivismo suggerisce di archiviare il concetto idealizzato (e leggendario) dell’oggettività dell’analista sul quale si basava l’antica struttura della psicologia freudiana e della psicologia dell’Io. In questo senso, dunque, l’analista non è più il depositario di una «verità oggettiva»

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Introduzione

Questa parte del volume affronta il tema della valutazione dell’intervento educativo e terapeutico, che si realizza in semiresidenza e nel day hospital, secondo due approcci, quantitativo e qualitativo.

Il primo contributo studia l’evoluzione degli utenti della semiresidenza, si riferisce al cambiamento intervenuto nei soggetti a seguito del trattamento, registra la differenza fra la loro condizione all’ingresso nella struttura e alla di-missione, misurata con strumenti propri della diagnostica medica relativamente a soggetti che presentano patologie del tipo di quelle sulle quali interviene il servizio.

Il secondo contributo è la presentazione di un caso seguito in day hospital, affronta il tema in forma descrittiva, rendendo partecipe chi legge, almeno in parte, di un processo che clinici, educatori e soggetto in cura realizzano insieme.

Che cosa è successo al soggetto di cui parliamo nel tempo della cura? E a chi si è curato di lui (nel caso specifico, lei) nel tempo in cui sono stati in relazione? Quali sono stati i momenti critici della vicenda? Quali avvenimenti, dispositivi, decisioni, imprevisti l’hanno caratterizzata/condizionata?

Diversamente che nell’approccio valutativo di tipo quantitativo, nel quale i fatti da assumere come dati significativi sono definiti in partenza e informano la procedura, il lavoro sul caso colloca l’individuazione degli elementi salienti a posteriori, successivamente a una narrazione. La presentazione di un caso è una forma di documentazione abituale all’interno dei servizi sociosanitari. Quella che segue ha la caratteristica, meno abituale, di essere scritta a più mani: in continuità con l’attenzione che tutta la pubblicazione rivolge alla cooperazione

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202 Sofferenza psichica e cambiamento in adolescenza

fra diversi ambiti disciplinari e differenti professionalità, abbiamo creato una situazione che permettesse di riflettere su quali momenti ed elementi della vicenda paiono significativi agli educatori e ai medici nel definire il cambia-mento di un’adolescente, utente, paziente e interlocutrice del loro intervento.

Due educatori e il neuropsichiatra responsabile di una delle due strutture oggetto di questa pubblicazione, il day hospital, hanno individuato di comune accordo un utente che sarebbe diventato il caso sul quale lavorare: una ragazza, attualmente dimessa, che aveva lasciato di sé un ricordo vivo e l’interesse a ripercorrere il caso. La coppia di educatori e il medico hanno redatto la «loro storia del caso», utilizzando documentazione e memoria che, gli uni e l’altro, avevano raccolto e ordinato nel corso dell’intervento.

Le due storie, o meglio, le due versioni della storia sono state lette dai curatori di questa pubblicazione (due dei quali, pedagogista e neuropsichiatra, hanno lavorato in passato nella struttura) e successivamente i tre scrittori e i tre lettori hanno discusso a partire da un interrogativo basilare: quando un educatore o un neuropsichiatra parla (o scrive) del cambiamento che l’interlocutore del suo intervento realizza, a che cosa fa attenzione? Quali elementi dell’insieme vengono colti come indizi? Quali sono i riferimenti che fanno risaltare alcuni momenti o fatti come significativi?

Riportiamo, di seguito, i due scritti della descrizione del caso e la redazione della discussione sviluppata a partire dalla lettura. La discussione si è svolta nella sede del day hospital, ha avuto la durata di due ore, ed è stata registrata. La redazione è avvenuta in due momenti; la sbobinatura della conversazione è stata semiletterale, ha permesso di evidenziare una serie di nuclei di conte-nuto all’interno dei quali i diversi interventi appaiono nominali. Il riordino del materiale ha eliminato le forme testuali colloquiali e ricondotto ai nuclei tematici affermazioni pertinenti ovunque espresse. Per contribuire alla fluidità del testo, i riferimenti nominali di ogni intervento sono stati sostituiti da tre soli riferimenti relativi alla posizione, nei confronti del caso, di chi interviene.