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La sismologia di Giove Mauro Dolci SUPPLEMENTO AL N. 1, maggio 2011

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La sismologia di Giove

Mauro Dolci

SUPPLEMENTO AL N. 1, maggio 2011

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La sismologia di Giove

Mauro Dolci [email protected]

Abstract: La sismologia gioviana ha una letteratura sorprendentemente carente che annovera, accanto a numerose previsioni teoriche, solo cinque osservazioni da terra. In questo lavoro si riassume lo stato della ricerca, mostrando in particolare le potenzialità che essa offre per indagare la struttura interna di Giove e, con essa, acquisire informazioni sulle protostelle e sulla formazione dei sistemi planetari. Viene presentato e descritto in dettaglio il problema delle fluttuazioni dell’albedo di Giove, che contaminano gli spettri di potenza dei segnali sismici. Si propongono infine idee-guida per un progetto osservativo basato sul supporto di telescopi amatoriali. Scientific literature in the field of Jovian Seismology is surprisingly poor. Besides much theoretical work, only five ground-based observations have been performed so far. This paper summarizes the current state of the research. The diagnostic potential of seismological studies to investigate the interior of Jupiter (and, more generally, information about protostars and planetary systems) is addressed. The problem of albedo fluctuations and their effect on the seismic power spectra is described. Basic ideas for a new project for ground-based observations supported by a small telescopes network are presented.

1 Introduzione. Il pianeta Giove La sismologia del pianeta Giove è un campo della mo-derna astrofisica che si è sviluppato negli ultimi trent’anni. Solo in tempi recenti, infatti, il crescente svi-luppo delle tecnologie osservative ha permesso di rivela-re segnali astronomici di ampiezza sempre più piccola, come quelli legati alle deboli oscillazioni globali risonan-ti di questo pianeta gigante. Nel contempo ciò spiega perché la sismologia di Giove non si sia sviluppata pa-rallelamente alla sismologia stellare, che invece è una disciplina senz'altro più affermata e diffusa: nel caso stellare, infatti, malgrado il ridotto flusso luminoso pro-veniente dagli oggetti osservati, i segnali sismici tipici hanno ampiezza notevolmente maggiore, e quindi rive-labile con minor difficoltà. Giove si pone a metà strada tra il caso del Sole e quello delle stelle: esso è infatti un oggetto tipicamente stellare rispetto al Sole, ma molto brillante rispetto alla quasi totalità delle altre stelle e si presenta come un ideale banco di prova per estendere al caso stellare le tecniche sismologiche solari. Le osservazioni possono inoltre es-sere condotte con dettaglio di immagine: questo fatto, non realizzabile nel caso delle stelle, pone Giove in una posizione di privilegio. Giove è il più grande dei pianeti del Sistema Solare. Con un raggio medio di 68975 Km esso potrebbe contenere 1300 pianeti uguali alla Terra e la sua massa, pari a 1.901 x 1027 Kg, supera di 2.5 volte la massa di tutti gli altri pianeti messi insieme. La densità media di questo gigante è pari a 1340 Kg m-3 e l’accelerazione gravitazionale media in superficie si ag-gira intorno ai 25 m s-2 . Giove orbita intorno al Sole ad

una distanza media di 5.203 U.A., compiendo una rivo-luzione completa in circa 11.86 anni: ogni (1+1/11.86) anni @ 13 mesi, quindi, la Terra e Giove vengono a tro-varsi nella stessa configurazione orbitale (opposizione, quadratura, ecc.). Nella Tabella 1.1 sono riassunti i dati di maggior interesse (da Smoluchowski, 1981). Lo studio di questo sistema richiede anzitutto l’assunzione di un insieme di coordinate ben definite. La latitudine va distinta in planetografica e planetocentri-ca: la latitudine planetografica è l’angolo formato con il piano equatoriale dalla semiretta passante per il punto considerato e perpendicolare alla superficie del pianeta; la latitudine planetocentrica, invece, è l’angolo formato con il piano equatoriale dalla semiretta passante per il punto considerato e per il centro del pianeta. Le due definizioni di latitudine coinciderebbero se il pianeta fosse esattamente sferico: nel caso di Giove la differenza non è trascurabile, dato il suo notevole schiacciamento (oblateness f @ 0.065) e in pratica si usa la latitudine zenocentrica nelle effemeridi satellitarie, mentre si usa quella zenografica per descrivere le caratteristiche su-perficiali del pianeta. La definizione della longitudine, come è ben noto, è in-vece vincolata all’esistenza di qualche particolare carat-teristica superficiale solidale con la rotazione: nel caso di Giove ciò porta a notevoli problemi giacché ciò che si osserva, in tutte le bande spettrali, è solo la circolazione atmosferica a diverse profondità. In conseguenza di tut-to ciò, nel corso degli anni, si è pervenuti alla definizione di ben tre sistemi di longitudine.

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Tabella 1.1 – Dati di fondamentale interesse sul pianeta Giove (da Smoluchowski, 1981).

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I cosiddetti System I e System II sono definiti in base ad osservazioni da Terra del moto E-W di piccole caratteri-stiche delle nubi gioviane, e ad essi corrispondono pe-riodi di rotazione, per le regioni equatoriali, di 9h50m30.003s e 9h55m40.632s rispettivamente. Il System III, invece, è stato definito osservando la perio-dicità di certe variazioni nelle radioemissioni di Giove, che è stata fatta risalire alla rotazione della magnetosfe-ra gioviana, agganciata a quella del pianeta stesso: ad esso corrisponde un periodo di rotazione equatoriale di 9h55m29.710s e, poiché per tempi medio-piccoli la pre-cessione dell’asse magnetico di Giove rispetto all’asse planetario è sicuramente trascurabile, questo sistema è il più usato nella pratica (Riddle & Warwick, 1976). Ciò che immediatamente colpisce di questi dati è la ve-loce rotazione di Giove intorno al proprio asse, con fre-quenza nJ @ 176 mHz (si pensi, per confronto, ai valori per Terra e Sole, nT @ 11.6 mHz e nS @ 2.7 mHz): questo fatto ha una notevole importanza, come vedremo, nell’ambito dell’osservazione e dell’interpretazione dei dati sismologici gioviani. L’interno gioviano è molto probabilmente liquido, come conseguenza dell’enorme quantità di calore generata da Giove (il quale, come riportato in Tabella 1.1, emette più del doppio della radiazione solare ricevuta); cionono-stante, esso è “freddo”, nel senso che l’energia termica media per unità di volume è circa 20 volte inferiore a quella gravitazionale (Stevenson & Salpeter, 1981). Que-sto implica che l’equazione di stato interna dovrebbe descrivere una miscela liquido-gassosa che va da un’atmosfera allo stato ordinario ad un interno allo sta-to di plasma degenere. Secondo i modelli attuali, Giove possiede un interno “stratificato” (Figura 1.1): il nucleo è costituito da mate-riali rocciosi (Fe, Ni, SiO2, MgO) ad una pressione di circa 200 Mbar, ed è sovrastato da un mantello formato prevalentemente da ghiacci e da un inviluppo costituito da una miscela di idrogeno metallico ed elio; proceden-do verso l’esterno, al diminuire della pressione, l’idrogeno passa allo stato molecolare (a circa 3 Mbar) e successivamente si sale verso le regioni atmosferiche.

La densità (e con essa la velocità del suono, molto im-portante ai fini sismologici) subisce tre discontinuità, una alla transizione tra core e mantello, la seconda alla transizione tra mantello ed inviluppo e la terza in corri-spondenza della cosiddetta Plasma Phase Transition (PPT) da idrogeno metallico a molecolare. Questa configurazione è tuttora oggetto di discussione, giacché non è ovviamente possibile osservare diretta-mente gli strati profondi del pianeta. Ci si basa quindi su dati osservativi quali massa, raggio, temperatura super-ficiale, bilancio termico e momenti gravitazionali J2-J6 , da porre come vincoli alle equazioni fondamentali dei vari modelli teorici. Gli ingredienti necessari a ciascun modello sono la composizione chimica, il regime termo-dinamico e l’equazione di stato: una eccellente discus-sione di questi aspetti è quella del già citato lavoro di Stevenson & Salpeter del 1981. Questo implica che l’equazione di stato interna dovreb-be descrivere una miscela liquido-gassosa che va da un’atmosfera allo stato ordinario ad un interno allo sta-to di plasma degenere. Secondo i modelli attuali, Giove possiede un interno “stratificato” (Figura 1.1): il nucleo è costituito da mate-riali rocciosi (Fe, Ni, SiO2, MgO) ad una pressione di circa 200 Mbar, ed è sovrastato da un mantello formato prevalentemente da ghiacci e da un inviluppo costituito da una miscela di idrogeno metallico ed elio; proceden-do verso l’esterno, al diminuire della pressione, l’idrogeno passa allo stato molecolare (a circa 3 Mbar) e successivamente si sale verso le regioni atmosferiche. La densità (e con essa la velocità del suono, molto im-portante ai fini sismologici) subisce tre discontinuità, una alla transizione tra core e mantello, la seconda alla transizione tra mantello ed inviluppo e la terza in corri-spondenza della cosiddetta Plasma Phase Transition (PPT) da idrogeno metallico a molecolare. Questa configurazione è tuttora oggetto di discussione, giacché non è ovviamente possibile osservare diretta-mente gli strati profondi del pianeta. Ci si basa quindi su dati osservativi quali massa, raggio, temperatura super-ficiale, bilancio termico e momenti gravitazionali J2-J6 ,

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da porre come vincoli alle equazioni fondamentali dei vari modelli teorici. Gli ingredienti necessari a ciascun modello sono la composizione chimica, il regime termo-dinamico e l’equazione di stato: una eccellente discus-sione di questi aspetti è quella del già citato lavoro di Stevenson & Salpeter del 1981. La più critica delle assunzioni riguarda l’equazione di stato, per la quale non è ancora disponibile una soddi-sfacente espressione che permetta di descrivere comple-tamente l’interno di Giove. I modelli utilizzano solita-mente una serie di equazioni di stato per descrivere se-paratamente ciascuna delle zone interne caratterizzate da diverse condizioni (equazione per i gas perfetti, equa-zione di Van der Waals, equazioni per un plasma di i-drogeno allo stato degenere), che vengono poi raccorda-te in modo continuo alle rispettive frontiere. La più re-cente delle versioni proposte prevede l’esistenza di una PPT del primo ordine al passaggio da idrogeno moleco-lare a metallico, e rappresenta l’attuale frontiera teorica in questo campo (Saumon & Chabrier, 1989, 1992a, 1992b). I modelli sono prevalentemente adiabatici (Hubbard et al., 1974; Stevenson & Salpeter, 1977; Gudkova et al., 1988; Hubbard & Marley, 1989; Zharkov & Gudkova, 1991; Chabrier et al., 1992; Saumon et al., 1992) e fon-dati sull’ipotesi di un pianeta completamente convettivo (Hubbard, 1968, 1969; Zharkov & Trubitsyn, 1969); re-centemente è stata ipotizzata l’esistenza di una regione radiativa tra i livelli a temperature 1200 K e 3000 K (Guillot et al., 1994a) e sono stati proposti modelli con-vettivo-radiativi (Guillot et al., 1994b). La principale differenza tra i modelli convettivi e quelli radiativi è nella temperatura interna richiesta per man-tenere le stesse condizioni esterne osservate: questa temperatura è considerevolmente più bassa per i model-li radiativi (circa il 30 % per Giove e il 15 % per Saturno)

Figura 1.1 – Struttura interna di Giove a grandi linee. Si nota la discontinui-tà tra core e mantello a circa 10 Mbar, corrispondenti (secondo alcuni model-li) a una distanza di 0.15 raggi gioviani dal centro, e la PPT da idrogeno me-tallico a molecolare, a circa 3 Mbar, corrispondenti a una distanza di circa 0.7 raggi gioviani dal centro. La composizione chimica è largamente incerta.

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e corrispondentemente la PPT si colloca più in profondi-tà. Questo fatto è di fondamentale importanza nelle pre-visioni teoriche dei pattern di oscillazione dei pianeti giganti. L’atmosfera gioviana, che convenzionalmente si estende al di sopra del livello a 1 bar, è infine anch’essa molto importante per gli studi sismologici del pianeta, sia dal punto di vista teorico che da quello osservativo. I costi-tuenti principali sono idrogeno molecolare (H2), metano (CH4), ammoniaca (NH3), acido solfidrico (H2S) e fosfi-na (PH3). Le reazioni termochimiche e fotochimiche sono molto complesse (Prinn & Owen, 1981) e ad esse è legata l’esistenza dei numerosi coloranti osservabili sulla superficie del pianeta: recentemente la sequenza di im-patti dei frammenti della Cometa Shoemaker-Levy 9 sul pianeta gigante ha permesso di acquisire ulteriori dati su questi costituenti, in particolare quelli dell'atmosfera interna, portati in superficie dagli eventi esplosivi (Ingersoll & Kanamori, 1995).

Figura 1.2 – La struttura termica verticale dell’atmosfera gioviana (da Hunten, 1981). I dati sono prevalentemente otte-nuti per inversione teorica degli spettri osservati dai dati rile-vati durante le occultazioni stellari e delle sonde Pioneer e Voyager. La struttura termica è, nelle grandi linee, simile a quella terrestre, con una inversione termica in tropopausa. Su Giove, tuttavia, sembra mancare completamente la stratopau-sa, che sulla Terra si trova a circa 50 k m di altezza; per questo motivo la si pone convenzionalmente al livello di pressione di 1 mbar.

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Le osservazioni da Terra e le missioni Pioneer, Voyager e, più recentemente, la missione Galileo, hanno permes-so di determinare in modo soddisfacente il profilo verti-cale di temperatura e pressione in atmosfera: esso è mo-strato nella Figura 1.2, tratta da Hunten, 1981. Nella tro-posfera, che si estende da 1 bar a 0.1 bar e che è conti-nuamente e rapidamente mescolata dai moti verticali, il bilancio termico avviene essenzialmente tra il flusso di calore e i moti verticali; il gradiente termico è vicino a quello adiabatico, pari a circa –1.9 K Km-1. La tempera-tura dunque decresce con l’altezza, raggiungendo un minimo intorno a 110 K al livello di 0.1 bar (tropopausa). Al di sopra della tropopausa sono presenti zone di bilan-cio radiativo tra la radiazione emessa da Giove e quella ricevuta dal Sole da un lato e il raffreddamento infraros-so dall’altro: si tratta della stratosfera, che va da 0.1 bar a 1 mbar e in cui la temperatura risale fino a 150 ¸ 170 K, e della mesosfera, che si estende da 1 mbar a 1 mbar e che è sostanzialmente isoterma, anche se con una lieve dipendenza latitudinale: già le osservazioni Pioneer rile-vavano temperature a 10 mbar più alte a 10° che a 58° di latitudine e, successivamente, i dati delle sonde Voyager hanno completato il quadro, mostrato nella Figura 1.3 (Hanel et al., 1979). La mesopausa, a 1 mbar, segna la transizione alla ter-mosfera, in cui l’aumento rapido di temperatura è dovu-to a conduzione verso il basso da parte della sovrastante ionosfera (fino a 850 K); la stratopausa, invece, che sulla Terra è caratterizzata da un massimo di tempera-tura a circa 50 Km di altezza, è del tutto assente su Gio-ve e la si pone convenzionalmente al livello di 1 mbar. Gli strati atmosferici sono agitati da un insieme di venti zonali, che spirano parallelamente all'equatore con velo-cità fino a 160 m s-1 e con direzione variabile (verso Est o verso Ovest) , apparentemente legata alla struttura a bande dell'atmosfera visibile del pianeta. Una delle ca-ratteristiche più importanti di questi venti, messa in rilievo nel corso della missione Galileo, è la loro perma-nenza in profondità: la sonda, infatti, nella sua fase di discensione nell'atmosfera tra gli strati a 0.1 bar e a 24 bar, ha rilevato un aumento delle velocità dei venti con la profondità fino a 200 m s-1. Questo fatto è di notevolissima importanza nello studio della dinamica atmosferica, della meteorologia gioviana e, in particolare nella nostra discussione, per una mag-gior comprensione dei meccanismi di generazione e di propagazione di onde sismiche nell’interno e negli strati atomsferici più alti di Giove. Nonostante quanto esposto fin qui possa far sembrare che la struttura del pianeta Giove sia ben nota, ciò è vero solo nelle grandi linee: come si è visto, l’equazione di

stato dei costituenti interni è ancora in gran parte da comprendere (soprattutto perché è da comprendere il comportamento della materia a quelle pressioni e densi-tà), così come non si conosce affatto nel dettaglio la composizione chimica dei vari strati (supposta di tipo solare). I dati sismologici possono senz’altro costituire una po-tente sonda dell’interno planetario, permettendo di risa-lire ai profili verticali di velocità del suono e densità e di rilevare in modo non ambiguo le eventuali “anomalie” interne (come le discontinuità).

Figura 1.3 - Il profilo verticale di temperatura e pressio-ne nell'atmosfera gioviana misurato dalla sonda Voyager 1 (da Hanel et al., 1979). Si noti la dipendenza latitudinale delle curve, con particolare riferimento alla North Equato-rial Belt a +10° e alla South Equatorial Belt a -15°. Nella figura è riportato anche il profilo misurato in corri-spondenza della Grande Macchia Rossa, che mostra una dipendenza specifica anche dalla dinamica e dalla compo-sizione chimica.

Dal canto suo, la conoscenza dell’interno di questo pia-neta è importante non solo dal punto di vista planetolo-gico (Giove è il maggior rappresentante dei pianeti gi-ganti, quindi le sue caratteristiche sono indicative della struttura e della formazione del Sistema Solare in gene-re): essa è importante almeno per altri tre aspetti. Dal punto di vista stellare, Giove può essere considerato una nana bruna, quindi conoscere in dettaglio la sua struttura significa conoscere la struttura stellare in una

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regione del diagramma di Herzsprung-Russel diversa dalla sequenza principale, ove si trova il Sole; inoltre Giove è spesso considerato una “stella mancata”, quindi può darci informazioni importanti sui fenomeni che in-teressano le stelle nascenti. Conoscere in dettaglio la struttura interna di Giove si rivela inoltre di cruciale importanza per investigare al-cuni aspetti, tuttora sconosciuti, dei meccanismi di for-mazione del Sistema Solare. Questo campo di ricerca ha assunto una importanza fondamentale nell’Astrofisica negli ultimi quindici anni, da quando cioè la scoperta di un numero progressivamente crescente di pianeti extra-solari, la maggior parte dei quali – finora – aventi confi-gurazioni inusuali (Hot Jupiters), ha aperto il dibattito sui meccanismi di formazione e stabilizzazione di un sistema planetario intorno ad una stella. Giove è importante anche per inferire notizie sul com-portamento della materia in condizioni termodinami-che estreme: il gigante gassoso è infatti un “laboratorio” nel quale si realizzano condizioni di temperatura, pres-sione e densità che non si riscontrano nelle stelle (ove la temperatura è molto più elevata). A titolo di esempio possono essere citati gli studi sulla trasformazione da orto-idrogeno a para-idrogeno nell’interno gioviano (Conrath & Gierasch, 1984). Ma anche nel campo della Fisica Nucleare è infine possibile trovare motivi di inte-ressamento ai fenomeni gioviani, come la possibilità di studiare i dettagli della cosiddetta “fusione fredda”, che avviene naturalmente – date le condizioni di pressione e densità - all’interno del pianeta (Gajda & Rafelski, 1991, 1992; Chulick et al., 1992), ma dal cui studio dettagliato potrebbero nascere applicazioni interessanti ed inaspet-tate. 2 I fondamenti della sismologia stellare

Descrivere in modo esauriente la teoria delle oscillazioni

stellari è un compito che va al di là degli scopi di questo lavoro. Per chi fosse interessato all’argomento si riman-da quindi all’ottimo libro di Unno et al., 1979. Qui si richiameranno in poche righe i concetti di base. Le oscillazioni stellari sono descritte matematicamente da una serie di equazioni che descrivono il modo in cui, durante l’evoluzione del fenomeno, si conservano la massa, il momento e l’energia. Le grandezze coinvolte sono necessariamente mediate sui periodi della turbo-lenza del plasma stellare, evitando così che la trattazione matematica del problema diventi impraticabile. Sono inoltre fatte alcune importanti ipotesi, la più importante delle quali è quella di simmetria sferica. Di particolare rilievo è l’approssimazione che consiste nel trascurare – almeno inizialmente - la rotazione ed il campo magneti-co, che implicherebbero necessariamente una trattazio-ne magnetofluidodinamica di estrema complessità. L’influenza di questa grandezze, del resto, appare deci-samente importante per la propagazione e la manifesta-zione delle oscillazioni stellari: per tale motivo la rota-zione ed il campo magnetico, inzialmente trascurati per rendere agevole la soluzione del problema, vengono suc-cessivamente riconsiderate seguendo l’approccio della teoria delle perturbazioni. Si assume cioè che la loro influenza, seppur importante, sia minore di quella degli altri fenomeni fin qui considerati (idrodinamicità, tra-sporto convettivo, etc.): questo permette di giungere a nuove soluzioni matematiche, che si discostano solo lie-vemente (al massimo entro il second’ordine) da quelle esatte e che quindi permettono di descrivere in modo più che soddisfacente, nella sua globalità, il fenomeno fisico considerato. Le oscillazioni stellari descritte dal modello appaiono come delle funzioni d’onda, ovvero espressioni che de-scrivono l’andamento dell’ampiezza dell’oscillazione in funzione delle coordinate spaziali (forma globale del fronte d’onda) e del tempo (propagazione del fronte d’onda).

Figura 2.1 – Esempi di onde di pressione (modi p) e onde di gravità (modi g) tratti dall’esperienza quotidiana. A sinistra, la chiara struttura di un treno di onde p nel quale, ad ongi zona di compressione dell’umidità atmosferica, corrisponde una nube, alternata ad una zona chiara corri-spondente alla rarefazione dell’umidità at-mosferica. A destra, le onde g in propagazio-ne sulla superficie di discontinuità aria/acqua a seguito della perturbazione della stessa causata dalla caduta di una goccia d’acqua.

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Esistono in verità numerosi tipi di onde in grado di pro-pagarsi all’interno di una struttura fluida: i cosiddetti modi p sono onde acustiche che si propagano in un mez-zo grazie ad una successione regolare di fasi di compres-sione e rarefazione del mezzo stesso, mentre i cosiddetti modi g sono onde di gravità (non onde gravitazionali!) che si propagano all’interfaccia tra due mezzi di densità molto diversa. Esempi di onde p ed onde g sono forniti, nella nostra esperienza quotidiana, rispettivamente dal-la formazione di treni di nuvolette che si osservano tal-volta nel cielo e dalle onde sulla superficie di uno spec-chio d’acqua (Figura 2.1). Altri tipi di onde sono i cosid-detti modi f e le oscillazioni libere, ma qui ci limiteremo solo ai modi p e ai modi g, il cui potere diagnostico per l’investigazione della struttura interna delle stelle è chia-ro se si considera da un lato la possibilità dei modi p di propagarsi all’interno dell’intera struttura e, dall’altro, la caratteristica dei modi g di generarsi e propagarsi laddove esistono discontinuità interne come le PPT gio-viane. Sfortunatamente i modi g sono caratterizzati da ampiezze estremamente ridotte rispetto ai modi p, e la loro rivelazione è estremamente ardua, anche nei casi stellare e solare. Per i modi p, la forma delle funzioni d’onda soluzioni delle equazioni che descrivono il modello sono diretta-mente legate alle cosiddette funzioni associate di Legen-dre, dette anche armoniche sferiche superficiali:

Y(q,j) = Plm(cosq)eimj con l intero positivo ed m=-l, -l+1,..., l-1, l. In particolare, la variazione della pressione p e lo spo-stamento x per un modo p sono descritti dalle seguenti espressioni:

p(t,r,θ,ϕ) = p(r)Ylm(θ,ϕ)e-iσt

ξ = [ξr(r), ξh(r) ∂/∂θ, ξh(r)(1/sinθ)∂/∂ϕ] Ylm(θ,ϕ)e-iσt

Nella Figura 2.2 sono riportati i pattern di oscillazione tipici per alcuni valori dei gradi superficiali (l,m). In ge-nere essi presentano l linee “nodali” (ossia con sposta-mento nullo), delle quali |m| lungo i paralleli ed l-|m| lungo i meridiani; i modi con m=0 hanno solo meridiani e sono detti settoriali; quelli con |m|=l hanno solo i pa-ralleli e sono detti zonali; gli altri sono genericamente denominati modi tesserali. Nel caso statico considerato, le autofrequenze σn,l dipen-dono solo dal grado l e dal cosiddetto ordine radiale n (associato alle funzioni radiali di cui si parlerà tra poco) e sono pertanto degeneri in m. Affrontare in dettaglio questa trattazione va al di là degli scopi di questo lavoro; si possono però descrivere in mo-do semplice alcune caratteristiche qualitative delle auto-frequenze. Per fare questo, si parte dalla cosiddetta rela-zione di dispersione

kr2 = (σ2-Ll2)( σ2-N2)/ σ2c2

in cui kr è il numero d’onda radiale, s la frequenza, c la velocità del suono ed Ll ed N sono due frequenze criti-che, dette rispettivamente frequenza acustica critica (o di Lamb) e frequenza di Brünt-Väisälä. Questa relazio-ne mostra che queste due frequenze sono di importanza fondamentale per la propagazione di un’onda all’interno di una massa gassosa: se infatti s2 è minore di Ll2 e N2 (o maggiore di ambedue), kr è reale e l’onda si propaga ra-dialmente; se invece s2 è compreso tra i valori di Ll2 e N2, kr è immaginario e l’ampiezza dell’onda si smorzerà e-sponenzialmente (onda evanescente). L’onda presenta dunque un comportamento particolare nella zona in cui kr =0, situazione che si presenta in due distinti casi. Nel primo caso, kr2 passa da valori positivi a negativi, ovvero kr passa da valori reali a immaginari: si generano dunque due onde, una delle quali viene ri-flessa all’indietro e l’altra si smorza esponenzialmente.

Figura 2.2 – Pattern di oscillazione non-radiale tipici di alcuni modi normali con di-verso grado ℓ, m. Si notino le linee nodali, a oscillazione stazionaria nulla. In longitudine ne esistono sempre 2m, mentre in latitudine se ne generano ℓ-m. Per i modi settoriali (ℓ=m) non esistono dunque linee nodali lungo i paralleli, ed il pattern di oscillazione ha una dipendenza esclusivamente longitudinale. Questo fatto rende questi modi particolar-mente sensibili alla configurazione orbitale durante la quale è effettuata l’osservazione (tramite l’angolo di fase al terminatore).

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Nel secondo caso, è kr a passare da valori positivi a ne-gativi, mantenendosi reale: ciò vuol dire che l’onda è stata gradualmente rifratta fino ad invertire la propria direzione di propagazione. Nel complesso si innesca un meccanismo di intrappolamento dei modi nella zona di propagazione, illustrato schematicamente nella Figura 2.3. Non tratteremo oltre questa parte, che è molto interes-sante ma altrettanto complessa. Ci basterà qui pervenire subito ad una espressione per le frequenze tipiche di oscillazione (Brown & Gilliland, 1994) data da

wn,l = w0 (n+l/2+e)-f(n,l) in cui ε è una costante, f(n,l) una funzione dipendente solo dai gradi dell'armonica e ω0 la frequenza fondamen-tale, legata in modo semplice al tempo di attraversa-mento della stella da parte di un’onda sonora,

ω0 = π (∫0Rdr/c)-1

È evidente come la conoscenza di ω0 permetta di inferire importanti informazioni sulle caratteristiche interne della stella. Più in generale, si utilizzano diverse proprie-tà generali delineate dalle equazioni del modello per inferire la struttura interna dell’oggetto osservato: è questo, in sintesi, lo scopo della sismologia stellare e planetaria.

Figura 2.3 - Intrappola-mento di onde globali risonanti nel Sole. Le onde sono riflesse indietro in prossimità della su-perficie e rifratte gradualmente verso lo interno, fino ad invertire la direzione di propagazione. Quanto più è basso il grado l, tanto più in profondità si colloca il punto di inver-sione.

Dal punto di vista osservativo, per rilevare le oscillazioni stellari è necessario acquisire serie temporali di dati, generalmente di intensità o di velocità, che possibilmen-te siano ininterrotte ed abbiano la massima lunghezza possibile. Questi due requisiti sono essenziali ai fini del-la successiva analisi armonica che porta alla costruzione degli spettri di potenza dei segnali osservati: gli spettri avranno una risoluzione in frequenza tanto maggiore quanto più i due requisiti summenzionati sono rispetta-ti; in particolare l’esistenza di una window function, legata alle interruzioni nelle sequenze osservative, si traduce nella comparsa di side-lobes in corrispondenza di ciascun picco nello spettro, riducendo sensibilmente la risoluzione spettrale.

Nel caso stellare i dati sono acquisiti necessariamente a disco integrato: quindi si ha un solo spettro di potenza, come quello mostrato in Figura 2.4 nel caso del Sole. In esso le eventuali autofrequenze, almeno in limitati inter-valli di frequenza, sono equispaziate con spaziatura w0 ; questa correlazione tra i picchi dello spettro può essere messa in evidenza mediante i cosiddetti diagrammi a echelle. In essi l’intervallo di frequenza 0 £ w £ wMAX è suddiviso in una serie di segmenti contigui,

w = jdw + w’

con j intero e 0 £ w’ £ dw , e la distribuzione unidimen-sionale di potenza è convertita in una distribuzione bi-dimensionale descritta dai parametri j (o jdw per

Figura 2.4 - Spettro di potenza delle oscillazioni sola-ri. In ascissa sono riportate le frequenze (in mHz), in ordinata la potenza (per unità di frequenza) delle varie componenti monocromatiche. Il picco di massima po-tenza si colloca vicino a 3 mHz. Per tale motivo i modi p solari sono anche noti come oscillazioni a 5 minuti.

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uniformità dimensionale) e ω’. In questo caso, utilizzando un’espressione ricorsiva del tipo ν=kω0 (con k intero) e consi-derando i limiti imposti a ω’, si arriva facilmente ai seguenti limiti su k:

Quindi tra le ordinate jδω e (j+1)δω si posizionerà (se esiste) il picco di potenza corrispondente all’intero k= int[(j+1)δω/ω0]; l’ascissa corrispondente si ricava risostituendo questo valore di k nell’espressione per le frequenze ed ottenendo

nella quale ω’ evidentemente dipende da j, a meno che δω/ω0 non sia intero: in quest’ultimo caso, infatti, (j+1)δω/ω0 coin-cide con la sua parte intera ed i due termini contenenti j a secondo membro si elidono. In conclusione, i picchi di oscil-lazione (e non quelli di rumore) si allineeranno nel diagram-ma a echelle, con pendenza dipendente da δω/ω0 (allineamento verticale se δω =ω0): è chiaro quindi come dai diagrammi a echelle si possa arrivare alla determinazione di ω0. Nella realtà l’allineamento nel diagramma a echelle avvie-ne solo localmente: si avranno invece, globalmente, delle curve più o meno pronunciate, come in Figura 2.5, le cui caratteristiche tuttavia possono ugualmente essere ri-condotte a parametri fisici fondamentali. Nel caso del Sole e dei pianeti è in linea di principio pos-sibile osservare con dettaglio di immagine. In tal caso in ogni immagine si può isolare il contributo dovuto a cia-scuna armonica sferica (mediante un’operazione di ma-scheramento) e calcolarne il relativo spettro di potenza. I bassi flussi luminosi utilizzati, dovuti all’utilizzo di bande spettrali estremamente strette, unitamente ai tempi di esposizione ridotti (per poter adeguatamente

00

)1(ωδω

ωδω

+<≤ jkj

δωωωδω

ω jj −⎥⎦

⎤⎢⎣

⎡+=′ 0

0

)1(int

Figura 2.5 - Diagramma a echelle di oscillazioni so-lari: per la spiegazione si rimanda al testo. La teoria permette in genere di identificare le tracce dei modi di diverso grado l.

campionare le oscillazioni stesse) hanno tuttavia reso, fino ad ora, questa tecnica impraticabile per i pianeti. A conclusione di questo importante paragrafo va neces-sariamente discusso l’effetto della rotazione sulle fre-quenze di oscillazione, finora trascurato. La trattazione è estremamente complessa, ma si può ricavare, almeno nel caso della rotazione rigida, una importante correzio-ne al primo ordine per le frequenze di oscillazione. In questo caso, infatti, l’intero modello può essere trat-tato riscrivendo le equazioni fondamentali in un sistema di riferimento ruotante con velocità angolare di rotazio-ne. Si giunge quindi ancora a soluzioni oscillatorie del tipo

xr μ ei(mj-st) purché alla frequenza sn,l si sostituisca la frequenza sn,l,m’ = sn,l - mW . Quindi le frequenze di modi corrispondenti a valori eguali ed opposti di m, che nel caso statico dege-neravano in un’unica frequenza associata al grado l , subiscono ora uno splitting rotazionale di entità 2mW (quindi proporzionale al grado azimuthale m). Nel caso di rotazione differenziale, che è poi quella che riguarda praticamente tutti i casi reali, il calcolo è assai più com-plesso (Hansen et al., 1977) e non può essere trattato in questa sede. 3 La sismologia del pianeta Giove

L’esistenza di oscillazioni libere all'interno dei pianeti giganti è stata considerata per la prima volta da Voron-tsov et al. (1976) che hanno calcolato periodi compresi fra 5 minuti e 2 ore e mezza circa e che hanno in seguito considerato anche gli effetti della rotazione (Vorontsov et al., 1981). Questi primi studi non considerano tuttavia nel dettaglio la struttura interna di Giove ed inoltre si riferiscono ad oscillazioni sferoidali a basso ordine ra-diale n (l>>n). Per questo motivo, la nascita della sismologia gioviana va fatta risalire solo alla metà degli anni ’80, quando con il lavoro di Bercovici & Schubert (1987) vengono per la prima volta considerate le oscillazioni a n medio-alto (l<<n), intrappolate al di sotto della troposfera gioviana. Sono queste le onde che si manifestano anche in superfi-cie e che quindi sono effettivamente osservabili: esse hanno periodi compresi fra 4 e 20 minuti (frequenze tra 0.8 e 4 mHz), con il picco di potenza intorno a 10 minuti (frequenza pari a 1.67 mHz ) e con una frequenza w0 = 152 - 155 mHz (Mosser et al., 1988; Mosser, 1990; Lee, 1993, Provost et al., 1994; Gudkova & Zarkhov, 1999). Le velocità tipiche di oscillazione e le corrispondenti fluttuazioni di intensità sono legate all’energetica dei meccanismi di eccitazione delle oscillazioni all’interno di Giove.

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Probabilmente il meccanismo più efficiente è l’accoppiamento tra i moti convettivi e le onde acusti-che che nel Sole sarebbe certamente in grado di fornire un quantitativo sufficiente di energia alle onde; le fre-quenze dei moti turbolenti solari, tuttavia, non sono commensurabili con i 5 minuti delle oscillazioni. In Gio-ve si verifica probabilmente la situazione opposta: i pe-riodi dei moti turbolenti si accoppiano efficientemente con le frequenze acustiche (4.5¸20 minuti), ma la poten-za per unità di volume fornita ad un’onda acustica dal decadimento di un vortice è piuttosto esigua. Essa di-pende essenzialmente dal numero di Mach M

W = ( ru3 / l )( M 3+ M 5) (con r densità del gas, u velocità del vortice e l sua lun-ghezza d’onda) e su Giove quest’ultimo è molto piccolo (al massimo 0.08 per i jet equatoriali); il trasferimento di energia è perciò notevolmente ridotto e per r @ 0.1 Kg m-3, u £ 80 m s-1, l @ 20 Km, c @ 1 Km s-1, si trova un’ampiezza nella velocità verticale delle oscillazioni u0 £ 0.5 m s-1, di ben tre ordini di grandezza inferiore alle velocità tipiche di 500 m s-1 che producono gli shift Dop-pler osservati sulle righe spettrali del Sole. Le corrispon-denti fluttuazioni di intensità sono inferiori allo 0.3 % e corrispondono a fluttuazioni di temperatura effettiva inferiori 0.033 K (Deming et al., 1989). Il meccanismo potrebbe invece funzionare su Saturno, dove il numero di Mach vale circa 1. Altri meccanismi possono naturalmente essere invocati per eccitare onde risonanti in Giove. Il primo di essi è la sovrastabilità termica: una particella di fluido che si comprime adiabaticamente in seguito alle oscillazioni diviene più calda e quindi più opaca: essa può dunque assorbire una quantità di energia radiativa sufficiente a farla espandere più rapidamente che in un processo pu-ramente adiabatico. Il meccanismo dovrebbe essere piuttosto efficiente nel Sole; in Giove esso è seriamente limitato dalla bassa luminosità specifica del pianeta. Una seconda sorgente di energia può essere costituita dal rilascio di calore latente di condensazione da parte di composti come H2O, NH3, NH4SH. La condensazione potrebbe essere indotta proprio dal passaggio di un’onda attraverso uno strato suscettibile di tale feno-meno: la stessa onda, entrando nello strato, acquisireb-be energia ed ampiezza. Il flusso netto di energia do-vrebbe però essere nullo, in quanto un rilascio opposto di calore dovrebbe avvenire per l’onda in uscita. Un terzo meccanismo invocato è rappresentato da uno squilibrio nucleare dell’idrogeno. Infatti, al di sopra dei 200 °K il gas è costituito dal 25 % di paraidrogeno (spin

antiparalleli) e dal 75 % di ortoidrogeno (spin paralleli); in prossimità dello zero assoluto, invece, la composizio-ne dovrebbe consistere di solo paraidrogeno. La trasfor-mazione di ortoidrogeno in paraidrogeno potrebbe dun-que costituire una sorgente di energia. Il problema di questo scenario è che la trasformazione è, con ogni pro-babilità, estremamente lenta: Bercovici & Schubert (1987) hanno calcolato che un’onda acustica impieghe-rebbe circa 106 oscillazioni, ovvero più di 10 anni, per raddoppiare la propria ampiezza. Questo tempo va confrontato con la vita media dei mo-di, che dovrebbe valere al massimo 1010 s (circa 300 an-ni !) al di sotto di 1 mHz e circa 10 giorni intorno a 3 mHz (Mosser, 1995). Se ne conclude che non si ha un aumento significativo dell’ampiezza prima che gli agenti dissipativi atmosferici attenuino completamente l’oscillazione. Il problema della energetica rimane aper-to, così come quello del valore di a, e può ricevere chiari-menti proprio dallo studio dei modi. Il potere diagnosti-co dei dati sismologici, tuttavia, se da un lato apre la porta alla soluzione di numerosi problemi, dall’altro rende piuttosto ardua la loro interpretazione. La struttu-ra interna di Giove, come si è visto nel paragrafo 1, è molto complessa e l’esistenza di diverse discontinuità nella velocità del suono si manifesta nelle frequenze di oscillazione. Le varie discontinuità introducono infatti un brusco cambiamento nella equispaziatura delle frequenze, inte-ressando però solo quei modi che penetrano tanto in profondità da attraversarle: così il core gioviano influen-zerà i modi ad l basso, mentre la discontinuità mantello/inviluppo e la PPT riguarderanno modi con l fino a un valore massimo via via crescente. Questa influenza si dovrebbe manifestare nei diagrammi a echelle, come quello calcolato teoricamente da Mosser (Mosser et al., 1988) e riportato in Figura 3.1. Evidente-mente, da un’attenta valutazione di questi effetti, è pos-sibile ricavare informazioni fondamentali sulle disconti-nuità in questione. È stata anche avanzata l’ipotesi che la troposfera e la stratosfera gioviane influenzino significativamente i pattern di oscillazione (Mosser et al., 1994). In base ai calcoli effettuati, i modi acustici si accoppie-rebbero infatti con le onde stratosferiche generando una variazione netta nei pattern oscillatori. Questo fatto è stato preso in esame più recentemente per legare la for-mazione di nubi nell’alta atmosfera gioviana all’effetto delle onde che si propagano in essa (Vid’Machenko, 2002).

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Se confermato, questo effetto farebbe sì che i modi p in propagazione nell’atmosfera di Giove inducano variazio-ni nella figura complessiva delle nubi atmosferiche e di conseguenza nella distribuzione zenografica dell’albedo gioviana. Si tratta di un risultato di notevole portata in quanto, come vedremo, uno dei maggiori problemi nell’osservazione di oscillazioni gioviane è rappresentato proprio dalle fluttuazioni di albedo sulla superficie del gigante gassoso.

nore dei modi ad m superiori, in particolare dei modi con |m|=l i quali percorrono il tratto più lungo; di con-seguenza si assiste ad uno spostamento di tutte le fre-quenze preferibilmente verso lunghi periodi di oscilla-zione (Vorontsov et al., 1981; Mosser, 1990; Lee, 1993). L’effetto complessivo della rotazione è importante poi-ché gli splitting rotazionali sono dello stesso ordine, se non addirittura maggiori, della spaziatura in frequenza w0. Questo da un lato significa che la validità della trat-tazione della rotazione come una perturbazione va at-tentamente valutata, dall’altro implica, fisicamente, l’esistenza di una interazione tra i modi (precisamente, il modo l interagirebbe solo con i modi l-2 ed l+2 (Vorontsov et al., 1981)) che andrebbe descritta, pertan-to, con l’introduzione di termini non-lineari nelle equa-zioni di oscillazione. In conclusione, ci si aspetta che lo spettro delle oscilla-zioni di Giove sia straordinariamente complicato e che l’interpretazione di un simile pattern sia tutt’altro che agevole. É chiaro d’altro canto che maggiore complessità implica maggiore potenzialità diagnostica: nel caso di Giove, cioè, i dati osservativi sono senz’altro molto ric-chi di informazione fisica sul suo interno. 4 Le osservazioni condotte finora e il pro-blema delle fluttuazioni di albedo Il gran lavoro teorico svolto a partire dal 1976 e visto nel precedente capitolo è stato finora supportato solo in minima parte dai dati osservativi. La ragione di ciò è probabilmente da ricercare nelle tecniche osservative ancora sostanzialmente inadeguate allo scopo; una se-conda spiegazione potrebbe essere la grossa difficoltà che tuttora persiste nel trovare un accordo fra i dati pro-venienti dai diversi esperimenti e nel riconciliare le os-servazioni con l'incerta teoria esistente. É altresì vero che un tale panorama dovrebbe maggiormente spingere la curiosità degli scienziati verso una simile sfida tecno-logico - scientifica. A tale riguardo colpisce il fatto che, dopo le osservazioni pubblicate nel 2001 dal gruppo francese dell’Osservatorio di Parigi, guidato da Benoit Mosser, e da quello italiano dell’Università “La Sapien-za” guidato da Alessandro Cacciani, di cui faceva parte l’autore di questo articolo, la letteratura sull’argomento sia sostanzialmente carente. La comparsa di solo due lavori osservativi nell’ultimo decennio (Gaulme et al. 2005; Gaulme et al., 2010), en-trambi riferiti ad un esperimento spaziale finalizzato alla ricerca di oscillazioni gioviane con tecniche pura-mente fotometriche, fa ritenere che la carenza di lettera-tura sull’argomento sia dovuta soprattutto all’interruzione delle osservazioni con tecniche doppler. In tal senso il gruppo francese di Mosser ha interrotto le

Figura 3.1– L’influenza del core di Giove sui diagrammi a echelle teorici dei modi a basso grado l. La brusca di-scontinuità nelle tracce è dovuta al fatto che i modi di diverso grado penetrano a profondità diverse (da Mosser et al., 1988).

Un altro effetto che produce effetti drammatici sulle frequenze di oscillazione è la veloce rotazione di Giove (W / w0 @ 18 %). Come si è già visto, essa si manifesta con uno splitting dei modi con m uguale ed opposto, come calcolato ad esempio da Vorontsov et al. (1976):

sn,l,m = sn,l + m tn,l W dove il coefficiente tn,l vale al massimo circa 0.3 (molto diverso, quindi, da 1). Essa tuttavia si manifesta anche attraverso lo schiacciamento del pianeta e la conseguen-te deformazione delle superficie equipotenziali gravita-zionali. Questa circostanza rende di fatto impossibile applicare una semplice formula di shift rotazionale simmetrico, il quale nel caso considerato è invece chiaramente non-lineare in m e dipende anche dal segno di quest'ultimo; si assiste inoltre ad uno shift del modo m=0 dal suo va-lore imperturbato (cosa che non accadrebbe nel caso di una rotazione rigida). Dal punto di vista fisico, a causa dell'ellitticità del pianeta, i modi con m=0, che si propa-gano lungo i meridiani, devono percorrere un tratto mi-

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osservazioni dedicandosi soprattutto ai dati fotometrici del satellite COROT e alla progettazione di nuovi esperi-menti per osservazioni doppler continuative dall’Antartide. Il gruppo di Cacciani si è invece, purtrop-po, sciolto nel 2007 con la scomparsa di quest’ultimo. Storicamente, le prime osservazioni sismologiche di Giove sono state effettuate con tecniche infrarosse nel 1987 presso l’InfraRed Telescope Facility (IRTF) della NASA in due distinte campagne osservative: nella pri-ma, svoltasi dal 4 al 7 Giugno, è stato usato un singolo rivelatore infrarosso ed è stata evidenziata l’esistenza di onde atmosferiche (Mumma et al., 1989); nella seconda, avvenuta dal 4 all’8 Novembre, è stato usato un array lineare di 20 rivelatori infrarossi (Deming et al., 1989). È curioso a questo riguardo notare che Michael Mumma andrebbe considerato il primo in assoluto ad aver fatto osservazioni sismologiche di Giove; in realtà questo pri-mato va ascritto a Drake Deming, il primo a pubblicare un articolo specifico su questo argomento. Le osservazioni di Deming sono state condotte a una lunghezza d’onda di circa 10 mm, con una larghezza di banda relativamente grande, circa 7.8 mm; Giove è stato osservato lungo l’equatore e le fluttuazioni dovute alla trasparenza dell’atmosfera terrestre sono state eliminate mediante un Lock-In, alternando, alla frequenza di 13 Hz, l’osservazione del disco gioviano con quella di una regione di cielo distante circa 70 arcsec da esso. Come risultato delle sue osservazioni, Deming ha posto un limite superiore di circa 1 m s-1 sulle ampiezze dei modi, chiarendo nel contempo la natura delle onde rivelate da Mumma.

Si tratta di una struttura ondulatoria termica di tipo non-acustico, praticamente statica ed ancorata alla rotazio-ne del pianeta. Questa struttura è probabilmente già presente nei dati delle sonde Voyager (Magalhães et al., 1991; Pirraglia, 1992) ed è già stata riportata da diversi autori (Harrington et al., 1996a, 1996b; Magalhães et al., 1989). Nuove osservazioni con camere infrarosse ad alta risoluzione ed alta sensibilità effettuate da Deming in anni più recenti (Deming et al., 1997) hanno confer-mato le sue precedenti conclusioni. Contemporaneamente alle osservazioni di Deming, un gruppo dell’Università di Nizza ha eseguito osservazioni della luce solare riflessa da Giove a disco integrato, uti-lizzando il telescopio da 152 cm di diametro dell’Observatoire de Haute Provence (OHP), dal 2 al 7 Novembre 1987 (Schmider et al., 1991). La misura è sta-ta effettuata con la tecnica del Filtro Magneto-Ottico: la luce viene trasmessa solo in due bande molto strette (circa 50 mÅ) situate sulle ali opposte di ciascuna delle righe D1 e D2 del doppietto del Sodio (a 5896 e 5890 Å rispettivamente). Si può quindi parlare di una misura Doppler, nel senso che la banda del filtro è molto più stretta della larghezza tipica della riga e quindi un picco-lo spostamento o una deformazione nel profilo di riga si traduce in una variazione di intensità nella luce tra-smessa (Figura 4.1). Tuttavia, per evitare che questo segnale si confonda con le effettive variazioni di intensi-tà dello spettro (dovute principalmente alle fluttuazioni della trasparenza atmosferica) si effettua una normaliz-zazione acquisendo contemporaneamente il segnale del continuo spettrale per mezzo di un filtro a larga banda.

Figura 4.1 – Principio dell’osservazione Doppler. Un filtro a banda passante molto stretta (larghezza Dlf) è posizionato sull’ala di una riga spettrale. In posizione di riposo (riga centrata alla lunghezza d’onda l0) il filtro trasmette una flusso luminoso FTOT. Quando il corpo emettitore è animato da un moto con velocità v, la riga si sposta per effetto Doppler ad una lunghezza d’onda l0’=l0(1-v/c), dove c è la velocità della luce. La banda passante del filtro trasmette un flusso FTOT’ il quale, grazie alla ripidezza del profilo della riga, è sensibilmente diverso dal flusso FTOT anche quando la nuova lunghezza d’onda l0’ sia solo lievemente di-versa dalla lunghezza d’onda a riposo l0. La tecnica Doppler, cioè, consente di evidenziare come segnale fotometrico rilevabile, differenze di velocità molto piccole.

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Con un totale di 17 ore di dati non consecutivi sono state evidenziate strutture discrete ben definite nello spettro di potenza (Figura 4.2), riferibili ad oscillazioni globali gioviane aventi ampiezze comprese tra 4 e 8 m s-1. Suc-cessivamente è stata anche tentata la loro identificazio-ne come modi p di grado l=1 ed l=2 (Mosser et al., 1991). Lo stesso risultato è stato ottenuto al Canada-France-Hawaii Telescope (CFH) dal 10 al 13 Gennaio 1990 e dal 3 al 7 Gennaio 1991, osservando un disco di 12 arcsec di diametro sulla superficie di Giove con uno Spettrometro a Trasformata di Fourier (FTS) (Mosser et al., 1993). Questo strumento, come quello usato da Schmider (1991), permette di rivelare piccole variazioni nei profili delle righe spettrali; nondimeno, le sue notevoli proprie-tà di multiplexing consentono di osservare simultanea-mente un gran numero di righe (fino a più di 500) e quindi di far entrare molta più luce nel rivelatore, come nelle osservazioni di Deming (1989). La regione spettra-le osservata è quella della banda 3ν3 del metano, a circa 1.1 μm. Gli spettri di potenza risultanti hanno la stessa struttura delineata da Schmider (1991), con limiti simili anche sulle ampiezze delle velocità di oscillazione, ritoccati successivamente (nel 1996) sempre da Mosser et al. (1999) ad un nuovo limite superiore dell’ampiezza dei modi pari a 60 cm s-1. Questi risultati, in linea di principio, non sono in contra-sto. Le diverse tecniche impiegate sono differentemente sensibili alle diverse modalità di oscillazione e sondano, inoltre, diverse profondità nell’atmosfera gioviana: il livello a circa 0.5 bar nelle osservazioni di Deming (1989); quello a circa 1.3 bar in quelle di Mosser (1993); e quello a circa 3 bar in quelle effettuate da Schmider (1991). Quindi si potrebbe pensare a qualche processo fisico per il quale i modi rivelati da Schmider e Mosser risultino completamente smorzati al livello, più basso, studiato da Deming. Nel 1995, tuttavia, in un articolo apparso sulla rivista Icarus, è stato mostrato che fluttuazioni quasi-periodiche di albedo, dovute a regioni di diverse dimen-sioni che attraversano continuamente il disco gioviano, possono seriamente contaminare gli spettri di potenza almeno fino a 700 mHz (Lederer et al., 1995); questo limite superiore era tuttavia riconosciuto dall’autrice come non dotato di reale significato fisico, ma definito solo dalla massima risoluzione raggiunta nelle immagini visuali. È pertanto assai probabile che, ripetendo tali osserva-zioni con una risoluzione molto più elevata, si scopra che anche la restante porzione di spettro è contaminata dalle fluttuazioni di albedo.

Sulla base di queste considerazioni, alla fine degli anni ’90 il gruppo dell’Università “La Sapienza” effettuò una serie di osservazioni basate sul Filtro Magneto-Ottico (Cacciani et al., 2001). Tale filtro consente di effettuare una tecnica Doppler a doppia banda passante, con le due bande (denominate B ed R) posizionate da parti opposte rispetto alla posizione naturale della riga in esa-me (figura 4.3). Grazie alla doppia banda, sono disponibili due distinti segnali a lunghezze d’onda diverse (che divengono tre quando si acquisisca separatamente, anche a banda re-lativamente larga, un segnale su una porzione dello spettro continuo adiacente la riga) ed è possibile effettu-are misure differenziali. È questa la “vera” tecnica Dop-pler normalmente usata in Eliosismologia (segnale B-R normalizzato a B+R) ed è stata estesa al caso stellare per la prima volta nel 1994, in occasione degli impatti della cometa Shoemaker-Levy 9 su Giove (Cacciani et al., 1995a,b,c). Questo tipo di applicazione è seriamente limitata dal flusso fotonico estremamente ridotto e dalle velocità orbitali sistematiche che possono spostare le righe di assorbimento stellari al di fuori della portata delle ban-de passanti del MOF: osservazioni stellari con tecniche magneto-ottiche sono state effettivamente tentate nel passato (Gelly, 1986; Innis et al., 1991, 1994), ma l’analisi dei dati è molto difficile, eccetto che nel caso di pulsazioni di grossa ampiezza (si veda il buon articolo di review di Brown & Gilliland, 1994). È però evidente l’altissimo potere di reiezione dei segna-li indesiderati: la tecnica si presta quindi molto bene a queste condizioni “estreme” di osservazione. Per di più un tale sistema, a differenza di una tecnica spettroscopi-

Figura 4.2 – Lo spettro di potenza delle oscil-lazioni di Giove ottenuto da Schmider et al. (1991). I picchi di potenza sono prevalentemente raggrup-pati nella zona intorno a 0.5 mHz e in quella intorno a 1.6 mHz.

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ca o interferometrica (come quelle adottate dal gruppo di Mosser), permette di trasmettere direttamente imma-gini “monocromatiche” dell’oggetto osservato: con lo sviluppo di rivelatori ad alta sensibilità, è dunque spera-bile poter un giorno studiare direttamente, con tale tec-nica, Dopplergrammi di Giove e Saturno, come si fa at-tualmente per il Sole. L’osservazione effettuata dal Gruppo dell’Università “La Sapienza”, di cui faceva parte l’autore, si è svolta al tele-scopio TNT dell’Osservatorio Astronomico di Collurania nel corso di 3 notti di osservazione, dall’ 11 al 13 Luglio 1996. Ogni notte consisteva di circa 6 ore di dati. Ogni secondo si acquisivano, mediante un fotomoltiplicatore

ed un sistema a conteggio di fotoni, i flussi provenienti alternativamente dalle bande B ed R del filtro utilizzato (ciascuna avente una larghezza di circa 40 mÅ), insieme con il flusso del segnale di spettro continuo, acquisito nelle adiacenze della riga spettrale presa in esame, con un filtro interferenziale di 30 Å di larghezza. Con i tre segnali a disposizione, vennero elaborati due algoritmi separati: il cosiddetto segnale-differenza D = (B-R)/(B+R) ed il cosiddetto segnale-somma S = (B+R)/continuo. Gli spettri di potenza misurati per tali segnali sono riportati nella figura 4.4. Un punto cruciale nell’interpretazione di questi risultati è capire quale è la sensibilità dei diversi metodi di misu-ra alle oscillazioni di Giove e alle fluttuazioni di albedo sulla sua superficie. Le sensibilità SD ed SS sono naturalmente differenti a causa delle differenze nelle tecniche impiegate. In realtà esse dipendono anche dal periodo di osservazione tobs (a causa della velocità orbitale relativa), dal modo di oscil-lazione (l,m) osservato e dalla sua parità (ovvero dalla parità di l+|m| ). Si trova, molto in generale, che le grandezze SD ed SS presentano comportamenti complementari all’opposizione e in quadratura: per un dato fenomeno (oscillazioni o fluttuazioni di albedo), quando una qual-siasi delle due è nulla all’opposizione, allora sarà massi-ma verso la quadratura, e viceversa; e quando l’una è massima in quadratura, l’altra è ivi nulla, e viceversa all’opposizione. Per di più, sia in opposizione che in quadratura, quando una qualsiasi delle due tecniche è massimamente sensibile alle oscillazioni, allora sarà quasi insensibile alle fluttuazioni di albedo, e viceversa.

Figura 4.3 – Le due bande di trasmissione del Filtro Ma-gneto-Ottico (B, R) e della riga di assorbimento dell’oggetto osservato.

Figura 2.13 – Gli spettri di potenza di S=(B+R)/continuo (a sinistra, fino a 4 mHz) e D=(B-R)/(B+R) (a destra, fino a 15 mHz) ottenuti dal Gruppo dell’Università “La Sapienza” nel 1996. Lo spettro di S mostra alcune caratteristiche simili agli spettri ottenuti da Schmider et al. (1991) e da Mosser et al. (1993); lo spettro di D non sembra invece mostrare alcuna caratteristica significativa al di sopra di un livello rms di rumore corrispondente a 1.2 m/s, ad eccezione di due picchi in-torno a 1.6 mHz (modi gioviani ?) e a 3 mHz (oscillazioni a 5 minuti nella luce solare riflessa da Giove?).

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Precisamente, la tecnica D è prevalentemente sensibile alle oscillazioni all’opposizione e alle fluttuazioni di al-bedo in quadratura; la tecnica S, viceversa, è prevalente-mente sensibile alle fluttuazioni di albedo all’opposizione e alle oscillazioni verso la quadratura. Applicando queste conclusioni ai dati rilevati, si può ragionevolmente affermare che nei dati non erano pre-senti oscillazioni con un'ampiezza al di sopra del livello rms di rumore, ovvero circa 1.2 m s-1., altrimenti avreb-bero dovuto essere visibili nello spettro di D. Le fluttua-zioni di albedo potevano invece essere presenti in questo spettro, ma non sarebbero state in ogni caso visibili a causa dell'insensibilità di questa tecnica. Fa eccezione doverosa una coppia di picchi posizionati intorno a 1.6 mHz e intorno a 3 mHz. Si potrebbe trattare, nel primo caso, di reali oscillazioni gioviane rilevate dalla misura e, nel secondo caso, di oscillazioni a 5 minuti nella luce solare riflessa da Giove. Trattandosi però di picchi isola-ti e non risolti in una struttura più o meno complessa, questa conclusione non ha potuto essere confermata. Lo spettro di S, dal canto suo, poteva contenere oscilla-zioni ma non mostrarle poiché non era sensibile ad esse nella configurazione orbitale all’epoca della misura; i gruppi di frequenze che esso conteneva non erano per-tanto di natura oscillatoria. Per questo motivo il gruppo a basse frequenze (~500 mHz) viene indicato come evi-denza delle fluttuazioni di albedo già discusse da Lede-rer (1995), così come anche il gruppo a frequenze supe-riori (~1.6 mHz), seppur non incluso nell'intervallo pre-visto da Lederer (£ 700 mHz). In definitiva, i risultati delle (poche) osservazioni sismo-logiche di Giove apparse finora in letteratura, pur non essendo in accordo tra loro, non sono necessariamente in contrasto. Appare chiaro infatti che di volta in volta è stata data diversa attenzione a due aspetti molto importanti di questo tipo di misure: la giusta calibrazione dei dati ed una loro corretta interpretazione in termini di vere o-scillazioni o di fluttuazioni di albedo gioviana. Una di-scussione accurata in tal senso è stata proposta solo dal gruppo dell’Università “La Sapienza” (Cacciani et al., 2001), mentre le misure eseguite in precedenza sono fortemente sospette di una calibrazione sostanzialmente inesatta. I risultati presentati da Mosser (1999), ad esempio, po-trebbero essere riconciliati con quelli ottenuti da Caccia-ni (2001) se il coefficiente di calibrazione differisse da quello vero di circa un ordine di grandezza. In tal caso i 4 cm s-1 mHz-1 di rumore di fondo diverrebbero 40 cm s-

1 mHz-1 e, riportati alla risoluzione spettrale della misura di Cacciani (3.81 mHz), fornirebbero un livello di rumo-re nello spettro di potenza compreso tra 1 e 2 m s-1, per-fettamente consistente con il risultato di quest’ultimo.

In ogni caso per confrontare i vari risultati occorre tene-re conto esattamente della configurazione orbitale Sole-Giove-Terra all’epoca della misura: solo in questo modo, infatti, si può non solo calibrare esattamente il dato spe-rimentale in velocità, ma anche rendersi conto se ciò che si sta osservando (e che si può osservare) è un segnale di velocità oppure una fluttuazione di albedo. 4 Idee per un monitoraggio da terra con piccoli telescopi Le oscillazioni gioviane costituiscono piccole perturba-zioni dello stato della superficie del gigante gassoso e sono assai difficili da rilevare con una singola osserva-zione, qualunque possa essere il tempo di esposizione utilizzato. Trattandosi di un fenomeno oscillatorio periodico, assu-me invece importanza il campionamento dello stesso: tanto maggiore è l’intervallo di tempo su cui viene cam-pionato un dato modo di oscillazione, tanto più alto sarà il rapporto segnale-rumore con il quale, nello spettro di potenza, sarà visibile il picco alla frequenza corrispon-dente. In tal senso, quindi, l’intervallo di campionamento assu-me la stessa importanza che ha il tempo di integrazione in una singola esposizione. È, questa, una caratteristica dei fenomeni periodici: le caratteristiche di un’oscillazione, pur non visibili nella cosiddetta serie temporale (time series) dei dati, emergono quando se ne calcoli lo spettro di potenza (con algoritmi più o meno complessi di trasformata di Fourier, come la Fast Fou-rier Transform o FFT): ciò accade perché il fenomeno periodico, pur di ampiezza non direttamente rilevabile, è tuttavia sempre presente nella serie dei dati in modo coerente con sé stesso, al contrario del rumore, il quale non ha coerenza interna su nessun intervallo di tempo e quindi, pur dominando il dato direttamente osservato, si distribuisce poi su tutto l’intervallo di frequenze dimi-nuendo di conseguenza in intensità. Che si osservi con dettaglio di immagine o a disco inte-grato, quindi, la sismologia gioviana comporta l’acquisizione di serie temporali che siano il più lunghe possibile e per di più siano ininterrotte, di modo che lo spettro di potenza corrispondente non risenta degli in-tervalli di interruzione i quali, costituiti di fatto da misu-re nulle, simulano un comportamento del fenomeno oscillatorio che risulta diverso da quello reale. Chiaramente sussistono dei vincoli sui tempi di integra-zione del singolo dato, i quali non possono superare il tempo massimo di campionamento della serie tempora-le. Le caratteristiche della serie temporale infatti in-fluenzano l’intervallo di frequenze che è possibile esplo-

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rare, che si estende in genere fino ad una frequenza massima νmax = 1 / 2τ, pari cioè a metà dell’inverso del tempo di campionamento (teorema di Nyquist), e che ha una risoluzione in frequenza Δν = 1/T, pari cioè all’inverso della lunghezza temporale della time series. Ne consegue che per analizzare in modo sicuro l’intervallo di frequenze previsto per le oscillazioni gio-viane (0.8 – 4 mHz) si deve essere in grado di ricavare lo spettro di potenza fino ad almeno 5 mHz: ciò implica un tempo di campionamento massimo

t = 1 / (2 × 5 mHz) = 1 / (0.01 s-1) = 100 sec

che costituisce, quindi, anche un limite superiore al tempo di integrazione sul singolo dato. Il tempo di inte-grazione tipico deve quindi essere dell’ordine di 1 min, in modo da campionare adeguatamente il fenomeno con più di 2 punti per periodo di oscillazione (quest’ultimo numero corrisponde infatti al minimo campionamento di Nyquist, che è in genere da evitare). Un tempo di integrazione di 1 min rappresenta tuttavia una notevole sfida per osservazioni di Giove a banda stretta. Considerando la larghezza di ciascuna delle due bande passanti del Filtro Magneto-Ottico (40 mÅ), la magnitudine corrispondente di Giove risulta aumentata di almeno 12 unità rispetto alla magnitudine di Giove nella banda V di Johnson. In opposizione, quindi, Giove a disco integrato appare come un oggetto non più bril-lante di 10m–11m ed è necessaria una buona apertura per effettuare osservazioni di 1 min di posa con un rapporto segnale-rumore soddisfacente. L’apertura cresce poi al limite della tecnologia attuale se si vuole osservare Gio-ve con dettaglio di immagine, giacché un rapido calcolo mostra un aumento di altre 11-12 magnitudini nella lu-minosità superficiale del pianeta per arcosecondo qua-drato. Le cose vanno solo leggermente meglio per il campiona-mento dell’albedo di Giove nella regione spettrale di interesse (ovvero nelle adiacenze delle righe su cui si effettua l’osservazione Doppler). Con un filtro interfe-renziale da 30 Å di larghezza, infatti, la luminosità di Giove a disco integrato diminuisce soltanto di 5 magni-tudini circa, alle quali va però sommata la diminuzione di circa 11 magnitudini nelle osservazioni con dettaglio di immagine a 1 arcsec di risoluzione, che sono inevita-bili in questo caso. Nel complesso, Giove appare come una sorgente estesa avente una luminosità superficiale compresa fra 13 e 14 mag/arcsec2. Il dato appare scon-fortante, ma va considerato che il vincolo del tempo di campionamento qui non deve essere necessariamente rispettato: le fluttuazioni di albedo, infatti, influenzano i dati zenosismologici per una combinazione della veloce rotazione di Giove e della loro lenta variazione intrinse-

ca (e si parla difatti di disturbi quasi-periodici negli spettri di oscillazione). È dunque possibile, in definitiva, campionare le fluttuazioni di albedo con tempi di inte-grazione adeguati: l’effetto pieno di queste fluttuazioni si calcola poi ricostruendo una mappa multi-rotazionale dell’albedo sulla superficie di Giove, ed andando a “ri-osservare” quest’ultima con il tempo di campionamento desiderato. Si può pensare pertanto ad un programma di osserva-zioni sismologiche di Giove basato su un telescopio di apertura adeguata che effettua osservazioni Doppler a disco integrato, supportato da una rete di piccoli tele-scopi (amatoriali) che effettuano un monitoraggio conti-nuo e rigoroso dell’albedo gioviana. I requisiti abbastanza stringenti sulla risoluzione spazia-le possono essere soddisfatti grazie alle attuali tecniche di ricostruzione delle immagini, purché naturalmente ne siano verificate – entro una tolleranza da stabilire – la coerenza, la conservazione dei flussi (per non alterare la fotometria e quindi la distribuzione dell’albedo) e la non-introduzione di disturbi artificiali o effetti parassiti. Un tale programma necessiterebbe naturalmente del reperimento della strumentazione adeguata (filtri a ban-da strettissima per effettuare osservazioni Doppler al telescopio principale, e filtri a banda stretta per la rete di monitoraggio ai piccoli telescopi) e della messa a pun-to di algoritmi di intercalibrazione delle misure di albe-do da telescopi diversi e non necessariamente forniti della stessa strumentazione. Tuttavia, una volta ovviato a questi fondamentali requi-siti, esso permetterebbe di sondare, con l’ausilio di tele-scopi amatoriali, un campo della moderna astrofisica ancora poco esplorato ma potenzialmente ricco di im-portanti implicazioni.

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Mauro Dolci è nato a Roma nel 1969. Ha conseguito pri-ma la laurea in Fisica nel 1995 e poi il Dottorato di Ricerca in Fisica nel 2000, presso l'Università "La Sapienza" di Ro-ma. Dallo stesso anno lavora presso l'INAF-Osservatorio Astronomico di Collurania Teramo (OACTe), in cui è Astro-nomo Ricercatore di ruolo dall'ottobre 2004. È responsabi-le tecnico per la camera infrarossa SWIRCAM della Stazio-ne Osservativa di Campo Imperatore e coordinatore del Progetto AMICA (Antarctic Multiband Infrared CAmera). Nel 1998 ha partecipato alla XIV Campagna Antartica del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA) presso la Base Italiana di Baia Terra Nova. Ricopre l'incari-co di Responsabile per le Attività Didattiche e Divulgative dell'INAF-OACTe ed è membro del Comitato Nazionale per le Olimpiadi Italiane di Astronomia.