Sintesi Storia Medievale
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1-LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO
Tra il I e il II secolo d.C. vi fu una grande fioritura della cultura e la diffusione della scrittura anche
tra le classi meno abbienti. Parallelamente entra in crisi la religione ufficiale di tipo politeistico, che
non riusciva più a reggere il confronto con i nuovi culti provenienti da Oriente.
Dopo un aspra concorrenza tra le religioni a carattere salvifico, il Cristianesimo divenne
maggioritario solo quando riuscì a liberarsi dei toni apocalittici e dalle forti contestazioni sulle
evidenti ingiustizie. Già nel I secolo la comunità cristiana poggiava su una stabile gerarchia
sacerdotale, e ben presto, i vescovi finirono per essere scelti tra quelle famiglie dell’elites cittadina.
Questa vicinanza tra amministratori pubblici e capi delle chiese conferirà ben presto a questi ultimi
autorevolezza anche sul piano civile. Fu solo per un breve tempo, quindi, che la chiesa seguì il
modello primitivo di perfetta carità.
Uno dei maggiori problemi che il Cristianesimo dovette affrontare fu quello delle persecuzioni.
Tra il II e il III secolo una crisi di norme proporzione (dovuta ad uno sviluppo abnorme delle città,
al progressivo abbono delle campagne da parte dei contadini, alle carestie, epidemie, rivolte e al
brigantaggio.) investì le fondamenta stesse della società romana. L’unico modo perché l’impero
riuscisse a riprendersi, all’imperatore Diocleziano sembrò essere un grandioso progetto di pace e
unità su modello delle grandi monarchie orientali, che accentuò però il carattere sacrale del potere
imperiale, inaccettabile per i cristiani. Da questo momento saranno infatti visti come elemento di
pericolo e soggetti a una dura persecuzione. Solo il suo successore, Costantino, intuì il
Cristianesimo come elemento di forza e riconobbe alle chiese cristiane la libertà di culto.
Agli inizi del IV secolo un prete, Ario di Alessandria sostenne che il figlio di Dio fosse a lui
subordinato. Costantino fu costretto ad indurre il primo concilio ecumenico della storia, a cui
parteciparono circa trecento vescovi, e in cui la dottrina di Ario fu condannata all’unanimità. È da
questo momento in poi che si può parlare di eresie, dottrine che si oppongono alla vertità e che
provocheranno nel corso del secoli gravi lacerazioni interne alla Cristianità.
2-LA DIVISIONE DELL’IMPERO
Le rive del Reno segnavano il confine tra due sistemi di vita molto differenti e il cui contatto
definitivo si ebbe solo con la conquista della Gallia da parte di Cesare: da una parte i romani con un
mondo imperniato sulle città e con sistemi socio-culturali assai complessi, dall’altro le popolazioni
germaniche, dedite alla caccia e alla guerra, soggette a continui spostamenti e che vivevano delle
continue razzie nei territori circostanti. L’organizzazione dei germani era semplice, l’unica
gerarchia erano i capi militari, soggetti solo al controllo degli anziani e l’unico modo per emergere
in questa società era aggregare intorno a se giovani per compiere razzie e scorrerie. A partire dal I
secolo la penetrazione dei Germani nei territori dell’impero venne vista come indispensabile per il
popolamento delle spopolate regioni periferiche e per il reclutamento nelle legioni(già nel III secolo
la presenza germanica nell’esercito era ormai prevalente).
Sembrava che fosse stato raggiunto un equilibrio tra mondo romano e germanico, fino all’arrivo
degli Unni(popolo turco-mongolo) che provocarono un grosso sconvolgimento tra le popolazioni
germaniche, che travolse anche il mondo romano, riducendo l’impero solo alla sua parte orientale.
L’imperatore Teodosio tentò di restaurare l’unità imperiale, con una politica di totale apertura verso
le popolazioni germaniche, ma si rivelò solo una situazione transitoria. Alla sua morte, infatti,
divenne inevitabile che le due parti dello Stato, sempre più diverse tra loro, venissero divise tra i
due figli, al primo l’Occidente con capitale Milano, al secondo l’Oriente con capitale
Costantinopoli.
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3-L’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE
La politica di apertura verso le popolazioni germaniche che si stava cercando di mantenere,
cominciò a creare tensioni all’interno dell’aristocrazia senatoria, e anche all’interno della corte
crebbe l’opposizione verso gli elementi di origine barbarica. Mentre in Oriente si arrivò
all’estromissione dei germani dalle alte cariche militari, i Visigoti e gli altri Germani orientali
diventavano sempre più inquieti per la pressione degli Unni, finchè nel 406 il confine del Reno non
fu superato da Vandali, Alani, Svevi, Franchi e Burgundi. I Visigoti guidati da Alarico
attraversarono la penisola e raggiunsero Roma, dove attuarono tre giorni di saccheggio. Questo
ebbe un effetto più psicologico che militare, e l’autorità dell’impero d’Occidente venne a ridursi
sempre di più. Ben presto apparve chiaro, però, che l’elemento germanico era essenziale per la
sopravvivenza di ciò che restava dell’impero d’Occidente, per cui si ritornò ad una politica di
convergenza tra Romani e barbari. Il generale Ezio utilizzo infatti, con grandi risultati, i germani
contro gli Unni. Alla morte di Ezio(ucciso dal suo successore), si susseguirono imperatori primi di
potere effettivo, tanto da mandare lo Stato in una situazione sempre più confusa.
Odoacre tentò infine di governare quello che restava dell’impero d’Occidente in nome
dell’imperatore d’Oriente, e una delle sue primi tentativi per arginare i contrasti fu quello di inserire
i Germani in modo meno traumatico possibile nella struttura sociale esistente. Alla sua morte lo
sostituì Teodorico, re ostrogoto, che portò in Italia con lui il suo popolo(circa 125 000 persone) e
ottenne subito l’appoggio dell’aristocrazia fu dalla sua parte perché vide in lui l’uomo forte del
momento. Il tentativo di convivenza non fu traumatico perché il declino demografico aveva fatto
aumentare la disponibilità di terre e inoltre le due comunità rimasero distinte. Erano vietati i
matrimoni tra Romani e Goti, il senato rimase presidio romano, mentre l’aristocrazia gota entrava a
far parte solo del consiglio del re. Il sogno di Teodorico si infranse però per le resistenze sia del
mondo romano che germanico. In seguito al ristabilirsi di una piena intesa tra papato e imperatore
d’Oriente, vi fu un ulteriore irrigidimento tra i Goti, da sempre ariani, che portò a un clima di totale
diffidenza.
4-ALTRI REGNI ROMANO-BARBARICI
Nello stesso periodo si consumò il dramma dei Vandali dell’Africa, i cui rapporti con le popolazioni
locali erano difficili per la brutalità delle confische e le persecuzioni.
I Vsigoti in Aquitania mostrarono un dinamismo espansivo in Provenza e nella penisola iberica, che
dovette scontrarsi con la resistenza Franca, che tolse loro l’Aquitania e li spinse definitivamente
nella sola penisola iberica.
I Franchi, originariamente divisi in tanti piccoli aggregati, furono via via inglobati nel dominio di
Clodoveo, re dei Franchi Salii. Dopo aver eliminato l’ultima presenza romana in Gallia, egli si volse
verso le altre popolazioni germaniche della Gallia, ponendole sotto il suo controllo o scacciandole.
Alla base di questi successi militari c’era la collaborazione con l’aristocrazia gallo-romana e
soprattutto con l’episcopato cattolico, grazie alla conversione del popolo franco e delle stesso re al
Cattolicesimo. L’ordinamento pubblico era articolato in distretti, le contee, governati da
rappresentanti del re, i conti. Alla morte di Clodoveo il regno venne diviso però equamente tra i
quattro figli e questo ne bloccò il dinamismo espansivo.
5-L’IMPERO ROMANO D’ORIENTE
Mente l’impero d’Occidente cedeva all’influenza germanica, l’impero d’Oriente mostrava una
sorprendente capacità di resistenza, alimentata dalla fedeltà alle tradizioni, e dalla capacità di
adattamento a situazioni sempre mutevoli. Tutto questo perché l’oriente aveva città più numerose e
popolose, con una struttura economica più complessa, l’aristocrazia non godeva di una schiacciante
superiorità, né aveva acquisito la maggioranza delle terre schiacciando i piccoli proprietari, la flotta
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era stata rafforzata e l’esercito era ben addestrato, inoltre lo Stato fu in grado di esercitare il pieno
controllo sulla Chiesa, esaltando il ruolo dell’imperatore quale difensore della dottrina cristiana.
Attraverso la ristrutturazione urbanistica di Bisanzio, una modesta colonia greca, venne realizzata la
nuova capitale, Costantinopoli, che conobbe in breve tempo un vero e proprio boom: la popolazione
crebbe a ritmo sostenuto, superando quella di Roma, si mantenne l’ordine interno grazie alla
distribuzione del grano e all’allestimento di giochi nel circo.
Le contraddizioni nacquero sulla questione barbarica; mentre in Occidente si tendeva ad un
inserimento dei germani nell’esercito e nei quadri dirigenti, in Oriente vi fu una netta chiusura nei
loro confronti e si diede vita ad una politica di dirottamento verso Occidente dei germani orientali.
La liberazione dalle pressioni barbariche consentì di punta le energie sulla risoluzione di problemi
interni gravi: le rivolte degli Isauri, popolo suddito dell’impero, e le agitazioni a carattere religioso.
Gli Isauri vennero facilmente deportati in massa, mentre il problema religioso si rivelò più difficile
da risolvere a causa delle controversie nate per i Monofisisti. Se l’imperatore fosse stato conciliane
nei loro riguardi, ci sarebbero state rivolte a Costantinopoli e contrasti con la chiesa di Roma.
Giustiniano tentò di attenuare l’intransigenza facendo loro qualche concessione sul piano dottrinale,
ma ebbe come risultato la rottura con il papa e i vescovi d’Occidente, creando un vero e proprio
scisma.
Uno degli obbiettivi principali di Giustiniano fu la riconquista dell’Occidente, che ebbe buon esito
in Africa(dove distrusse il regno dei Vandali), ma si rivelò più lunga e difficile in Italia. Al termine
di questa guerra emanò la pragmatica sanzione nella quale terre e greggi venivano restituite ai
vecchi proprietari e le chiese ottennero le terre confiscate alle chiese ariane; l’Italia venne divisa in
distretti e l’amministrazione civile affidata ad un iudex, mentre quella militare a un dux, si mise
inoltre in piedi un efficiente apparato fiscale.
Prima ancora che finisse la campagna di Italia, Giustiniano aveva già posato lo sguardo sulla
Spagna dei Visigoti. L’occasione per intervenire gli venne data da Atanalgido, auto proclamatosi re
dei Visigoti con l’aiuto della nobiltà, in quale chiese aiuto proprio all’imperatore d’Oriente per
aiutarlo nella guerra civile contro i sostenitori del precedente re Agila. Un corpo di spedizione
bizantina conquistò così una vasta fascia costiera.
Per portare avanti questo progetto espansionistico, Giustinano ebbe però bisogno di molte risorse
finanziarie che potè reperire solo potenziando l’apparato amministrativo e tenendo a freno
l’aristocrazia che tendeva ad ampliare i propri latifondi, inglobando i piccoli proprietari terrieri.
Nello stesso momento Giustiniano attuò un progetto di riorganizzazione del patrimonio giuridico
romano, da cui scaturì il Corpus Iuris Civilis, destinato a restare alla base di tutta la produzione
giuridica europea dei secoli seguenti.
Il grandioso progetto di unificazione di Giustiniano dovette infine scontrarsi con l’impossibilità di
porre un freno ai problemi interni ed esterni all’impero: all’interno vi erano ancora tensioni
religiose, vi era un sovraffollamento delle città e una plebe troppo numerosa che costituiva una
minaccia costante a causa della fame; gli stessi successi in politica estera si rivelarono non
risolutive, le conquiste in Spagna e in Italia andarono presto perdute dopo la sua morte, e l’impero
fu costretto a ridimensionare le sue ambizioni di dominio.
Nel corso del VI secolo fecero la loro comparsa nei territori bizantini dei Balcani gli Slavi, i quali
assimilarono completamente le popolazioni preesistenti. Questa forza si andò affievolendo a causa
della divisione tra Slavi occidentali, orientali e meridionali, le cui differenze economiche, sociali e
giuridiche diventarono sempre più profonde. Furono gli Slavi meridionali ad insediarsi nei territori
bizantini dei Balcani e la loro pressione, a cui si aggiunse quella degli Avari, culminò nell’assedio
di Tessalonica e Costantinopoli. Fu solo sul finire del VII secolo che i Bizantini tentarono di
recuperare le loro posizioni, alternando terribili massacri, pressioni diplomatiche e intelligenti
progetti di acculturazione ed evangelizzazione.
Nonostante queste pressioni esterne e i contrasti religiosi e sociali interni, la sopravvivenza di
Bisanzio fu resa possibile da una profonda riorganizzazione delle strutture dell’impero ad opera
dell’imperatore Maurizio. Le province occidentali (Italia e Africa) furono messe in grado di
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provvedere con milizie locali alla propria difesa, sotto il comando di governatori militari. Tuttavia
l’uccisione di Maurizio rese impossibile il progetto e anzi inaugurò un periodo di lotte tra esponenti
del governo attuale e precedente, rendendo l’impero debole di fronte ai tradizionali nemici, i
Persiani, che riuscirono ad invadere le province orientali. Il nuovo imperatore Eraclio, grazie al
massiccio appoggio dell’apparato ecclesiastico, riuscì a mobilitare tutte le energie dell’impero per
sconfiggere definitivamente i suoi nemici Persiani, apportando un duro attacco nel cuore stesso del
loro impero e imponendo un trattato di pace che prevedesse la restituzione di tutti i territori occupati
e il pagamento di un’indennità di guerra. Appena terminata la guerra contro i Persiani, l’imperatore
dovette fronteggiare l’assedio di Costantinopoli da parte degli Avari e degli Slavi(come già
accennato prima) che furono ricacciati indietro con facilità.
Risolti i problemi esterni, Eraclio si volse verso i problemi interni a carattere religioso, dovuti
all’eterna contrapposizione dei Monofisiti. Nel tentativo di accontentare tutte le parti si concluse per
una nuova dottrina, che accettava la presenza in Cristo di due nature, umana e divina, unite da una
sola volontà. Questa dottrina ebbe inizialmente buona accoglienza, ma successivamente nacque un
conflitto tra papato e impero, e non ebbe i risultati sperati in Oriente, dove fu respinta riaccendendo
le lotte interne. Lotte e diminuirono la capacità di resistenza dell’impero verso i nuovi nemici, gli
Arabi, che invasero ben presto i territori dell’impero, fin quando i monofisiti, sperando in una
maggiore tolleranza religiosa islamica, non aprirono loro le porte di Alessandria. Era il 648.
Anche se gli Arabi non riuscirono a venire a capo della dura resistenza bizantina, alla fine del VII
secolo l’impero era ormai ridotto a circa un terzo del territorio avuto al tempo di Giustiniano.
6-L’ITALIA LONGOBARDA E BIZANTINA
I Longobardi (popolo di origine scandinava) giunsero in Italia attraverso il Friuli, conquistando
l’Italia settentrionale e centro-meriodionale. Avevano ancora un organizzazione di tipo militare, con
un capo eletto dall’aristocrazia nei momenti di necessità, limitato dall’ordinamento tribale del
popolo. Non avevano mai avuto contatti con il mondo romano, quindi si imposero in Italia come
una dominazione straniera politica e militare. La popolazione romana infatti non fu resa schiava, ma
privata della capacità politica, e non esistette altra forma di ascesa sociale se non l’inserimento nella
società e tradizione dei dominatori. I Longobardi, da poco convertiti al cristianesimo ariano, non
ebbero inoltre riguardi per la chiesa cattolica.
Con la trasformazione in proprietari terrieri e la necessità di difendere i beni acquisiti da un
possibile ritorno offensivo dei Bizantini, i Longobardi furono indotti a darsi un ordinamento
politico più stabile ed evoluto, su modello romano. Prima cosa fu rafforzare il ruolo del re, che si
fece cedere dai duchi metà delle loro terre per procurare alla monarchia i mezzi necessari al suo
funzionamento, mentre papa Gregorio Magno operò in Italia un opera instancabile di conversione
dei Longobardi, anche se l’adesione della famiglia reale al Cattolicesimo non ottenne l’adesione
sperata. I duchi infatti, erano tenacemente legati alle loro tradizioni nazionali. Lo schieramento
nazionalista e filo-cattolico si fronteggiarono ancora per tutto il VII secolo e il risultato fu che sul
trono si alternarono re cattolici e re ariani. Solo con la salita al potere del re Liutprando(il più
grande re Longobardo) può considerarsi definitiva la conversione dei Longobardi al cattolicesimo e
il superamento della divisione etnica tra Romani e Longobardi. Forte di questa coesione interna,
egli pensò che fosse il momento di completare la conquista dell’Italia, ma giunto alle porte di
Roma, il papa riuscì a convincerlo a rinunciare e a restituire i territori appena conquistati. Nel
rinunciare al castello di Sutri Liutprando lo donò alla chiesa romana, episodio che verrà ricordato
nella storia come riconoscimento della sovranità del papa su Roma e il territorio circostante.
L’invasione longobarda segnò una rottura con il passato anche nei territori ancora sotto il dominio
bizantino; nonostante l’organizzazione sociale fosse rimasta tradizionale, il ceto dominate si andava
avvicinando sempre di più alle condizioni dell’aristocrazia longobarda. All’origine del
cambiamento vi è il problema vitale della difesa, che portò all’unificazione dei poteri civili e
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militari nelle mani delle sole autorità militari. I proprietari terrieri furono inquadrati nell’esercito,
con obblighi corrispondenti alla loro base economica e al prestigio sociale. Inoltre la chiesa
disponeva di immensi patrimoni terrieri la cui gestione era affidata con un contratto a lungo termine
e rapporti di tipo clientelare con esponenti dell’apparato politico, militare e le famiglie più in vista.
Ma fu a Roma che si ebbero sviluppi sociali e politici clamorosi, che portarono alla fine della
dominazione bizantina e all’inizio del dominio pontificio, grazie all’abilità dei pontefici di legare a
se l’aristocrazia e la burocrazia mediante la concessione di parti del vasto patrimonio di San Pietro.
7-GLI ARABI
Come già accennato, gli Arabi avevano apportato un duro colpo all’impero bizantino, che aveva
visto ridotto fortemente il suo raggio d’azione; inoltre, avendo lasciato un vuoto politico nel
Mediterraneo centro-occidentale, la Chiesa di Roma e il regno dei Franchi ebbero maggiore libertà
per dare vita a quel progetto di nuova sistemazione politica dell’Occidente, incentrato sulla
collaborazione tra potere politico e papato.
La penisola arabica, situata tra l’Africa e l’Asia, si presentava come un grande tavolato desertico
con rilievi lungo le coste che, arrestando i venti, contribuivano a rendere il clima molto caldo e
secco.
L’Arabia meridionale, favorita dalle piogge monsoniche, era popolata da stirpi di lingua diversa e
con un alto livello di civiltà, ma la grande maggioranza della popolazione si trovava nella parte
centro-settentrionale, abitata da tribù di beduini che praticavano l’allevamento, ed erano comandate
da un capo elettivo.
Tuttavia, essendo la penisola luogo privilegiato per il transito delle merci provenienti da India o
Africa, dirette verso il Mediterraneo, vi fu un notevole sviluppo di alcune città, tra cui la Mecca, che
divenne uno dei maggiori centri dell’Arabia.
Con l’avvento del messaggio religioso di Maometto e delle nascita dell’Islam, la configurazione di
quel mondo mutò radicalmente, superando il carattere tribale e organizzandosi intorno ad una
autorità centrale(Maometto), che era temporale e religiosa insieme.
Alla sua morte, insorsero subito contrasti tra i seguaci per la designazione del successore, il califfo;
che si cercò di risolvere attraverso l’elezione di membri del ristretto gruppo dei parenti e dei primi
compagni del profeta. Questo non risolse però il problema, e gli atti di violenza per lo scontento
continuarono fino a culminare in una vera e propria rottura con l’ascesa al califfato di Alì,genero di
Maometto, il quale, deposto dopo una sentenza che lo vedeva colpevole di omicidio, si mantenne in
armi con i suoi seguaci(detti sciiti) contrapposto alla maggioranza dei mussulmani ortodossi(detti
sunniti).
Queste lotte per la successione al Profeta non avevano però frenato lo slancio espansionistico della
comunità mussulmana, ma anzi, lo avevano esaltato, servendo i successi esterni a coprire i disagi
interni. Il risultato fu che in poco più di venti anni l’impero Persiano fu spazzato via e quello
bizantino privato dell’Africa e della Siria. All’origine di queste conquiste però, vi fu soprattutto la
debolezza di bizantini e persiani, tradizionali nemici, indebolitisi a vicenda.
Il governo di territori così vasti rese bel presto evidenti le inadeguatezze degli ordinamenti sociali, e
necessitò di un nuovo apparato amministrativo, ereditato dalle precedenti dominazioni bizantine e
persiane: a capo di ogni provincia fu messo un governatore, assistito da un corpo di guardie, da un
giudice, e da un responsabile dell’apparato finanziario.
Questo nuovo ordinamento, che si tentò di rendere uniforme in tutto il territorio, comportò
inevitabilmente il rafforzamento del ruolo del califfo, che per dare stabilità al suo ruolo, introdusse
l’ereditarietà del potere. La capitale venne trasferita a Damasco, in Siria.
Riprese ben presto la spinta espansionistica che portò gli arabi alle porte di Costantinopoli che,
tuttavia, resistette; non resistettero invece le isole di Cipro, Creta e Rodi e la Spagna, conquistata in
soli cinque anni, e grazie alle quali gli arabi diventarono padroni incontrastati del mediterraneo. Per
completare il quadro dell’espansione islamica, conquistarono la Sicilia, che sotto il dominio arabo,
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conobbe un periodo di floridezza e benessere, e la ricchezza di sorgenti della regione consentì lo
sviluppo di quella che può essere considerata l’agricoltura più avanzata del tempo.
La situazione precipitò quando gli Abbassidi presero il potere con una insurrezione armata,
promossa dagli sciiti e spostarono il baricentro dell’impero dalla Siria all’Iraq, con nuova capitale
Baghdad. Il modello del nuovo stato furono le monarchie orientali, e il califfo divenne
rappresentante di Dio sulla terra. La cultura araba crebbe in campi nuovi, quali medicina, filosofia,
fisica, astronomia, matematica, geografia, e vi fu una piena fioritura anche degli studi letterari e
giuridici. Sul piano economico il maggiore settore produttivo restava l’agricoltura che venne
potenziata grazie al perfezionamento dei sistemi di irrigazione e l’introduzione di nuove colture.
Vennero fondate nuove città, sedi di attività produttive, commerciali e intellettuali. Ben presto un
ruolo egemone sul piano economico acquisirono i negozianti e i commercianti, vera e propria
borghesia mercantile.
Elementi di debolezza avrebbero però di lì a poco minato la stabilità del mondo arabo: la ricchezza
e la concentrazione delle terre in mano a pochi funzionari, militari e borghesi, aveva creato squilibri
sociali enormi; lo sviluppo delle città era avvenuto a scapito delle campagne; insorsero fortissime
spinte autonomistiche con alla base motivazioni etniche e religiose, vi furono rivalità all’interno
della dinastia regnate. La grandezza dell’impero arabo crollò definitivamente quando Baghdad fu
messa a ferro e fuoco dalle orde mongole.
8-LA SOCIETA’ DELL’ALTO MEDIOEVO
L’Occidente cristiano conosce tra il VI e l’VIII secolo una grave decadenza e un processo
involutivo, che investirà tutti i settori della società. Ovunque le città scompaiono o vedono ridotta la
loro estensione; scompaiono inoltre anche quella fitta rete di villaggi, disseminati nei pressi delle
vie di maggiore traffico. Parallelamente si assisteva ad una dilatazione delle foreste, dove si
praticava la libera caccia, il pascolo degli animali, si raccoglievano i frutti spontanei e la legna, ma
il bosco assunse per le popolazioni medioevali un’importanza che andava al di là dell’ambito
economico e materiale, costituendo lo sfondo più frequente per la narrativa popolare e i racconti a
carattere agiografico.
All’origine di un così grande cambiamento c’era lo spopolamento delle città e delle campagne:
guerre, devastazioni(operate soprattutto dai Longobardi), epidemie provocarono vuoti nella
popolazione.
Con le città scomparse o ridotte si allentarono anche i flussi di scambio tra città e campagna, che
comunque era soggetta ad un livello assai basso di produttività, dovuto al carattere rudimentale
degli attrezzi e delle conoscenze tecniche. La scarsa disponibilità di denaro dei contadini non
permetteva loro di dotarsi di attrezzi meno rudimentali e di animali, e portò anche ad una tendenza
all’autoconsumo per la quale il contadino produceva da se anche gli utensili da lavoro, fatto che
danneggiò molto l’artigianato cittadino. L’unico modo per far produrre la terra era coltivandola con
la rotazione biennale(tecnica per cui ogni anno una parte della terra è coltivata e l’altra a riposo) che
contribuiva però a tenere basso il reddito essendo coltivata solo metà della terra.
In questa condizione di decadenza la vera ricchezza non era più possedere bene, quanto uomini, di
qui la tendenza ad accasare parte degli schiavi e a dotarli di un pezzo di terra e di una casa. Al
padrone erano tenuti a corrispondere una parte del raccolto e un certo numero di giornate
lavorative(courvees) oltre a prestazioni di natura(polli, uova, oggetti di artigianato).
Concessioni di terre erano fatte anche a coltivatori liberi, ma privi di terra, ai quali si chiedeva una
quota minore di raccolto e un numero non alto di giornate lavorative. Ai signori si rivolgevano
anche i piccoli proprietari terrieri, i quali in cambio di protezione erano disposti a rinunciare alla
loro terra, che veniva loro affittata in cambio di un canone.
Il signore possedeva quindi terra date in concessione a coloni liberi, dette massaricio, e terre
genstite direttamente dal proprietario grazie ad amministratori di fiducia, dette riserva patronale;
una terza parte era data dai boschi, dai prati, dagli stagni e dalle terre incolte sulle quali i coloni
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avevano diritti d’uso; le tre parti insieme formavano la curtis. Le dimensioni della curtis erano in
continuo mutamento, soprattutto quelle degli enti ecclesiastici, in seguito a donazioni e divisioni
ereditarie.
La curtis mirava a produrre tutto al proprio interno, alcune di esse, sorgendo in zone ricche di
giacimenti ferrosi o salgemma erano attrezzale alla loro estrazione e lavorazione, ma se era
possibile vendere al mercato le eccedenze per acquistare utensili non esitava a farlo.
Nonostante il suo attuale impoverimento l’Europa era pur sempre in grado di esportare qualcosa in
Oriente, come legno, metalli, pelli, schiavi e non tutto l’Occidente era economicamente depresso: in
Italia meridionale, collegata direttamente con l’Oriente bizantino e arabo i commerci non conobbero
interruzione e contemporaneamente cresceva la potenza di Venezia, la cui flotta commerciale aveva
raggiunto dimensioni di rilievo.
9-L’IMPERO CAROLINGIO
Il regno dei Franchi conobbe, dopo la morte di Clodoveo, un progressivo indebolimento del potere
regio e l’emergere di quattro organismi politici, la Neustria, l’Aquitania, l’Austrasia e la Borgogna,
in concorrenza tra loro. Nel corso del VII secolo la lotta per l’egemonia si venne restringendo
all’Austrasia e alla Neustria(a cui si era unita la Borgogna). Protagonisti di queste lotte non erano i
sovrani, bensì i loro maetri di palazzo, effettivi detentori del potere; e nel corso della seconda metà
del VII secolo si imposero definitivamente quelli dell’Austrasia con Pipino II, che fu arbitro
assoluto del potere sui tre organismi, mentre l’Aquitania si veniva configurando come una realtà
indipendente all’antico regno dei Franchi.
Degno successore di Pipino II fu Carlo Martello che estese subito il proprio potere anche a quelle
regioni in cui fino ad allora il dominio franco non si era imposto in maniera definitiva. Passò infine
ad occuparsi dell’Aquitania, sotto l’incalzare del pericolo arabo. La vittoria che riportò su di loro
non valse a ricacciarli indietro, ma gli conferì comunque prestigio. Questo gli consenti,dopo la
scomparsa senza eredi del re merovingio, di comportarsi come un re a tutti gli effetti, tanto che
divise il regno tra i suoi due figli, Carlomanno e Pipino il Breve. I due fratelli non furono però in
grado di proseguire sulla strada paterna, per cui per venire a capo dell’opposizione da parte
dell’aristocrazia, ripristinarono la monarchia merovingia elevando al trono un re fantasma. Quando
Carlomanno abdicò lasciò campo libero al fratello Pipino, che di lì a poco, volendo dare sanzione
formale al suo potere, si fece acclamare re da una assemblea di grandi, facendosi poi ungere con
l’olio santo da Bonifacio e altri vescovi. In questo modo l’approvazione pontificia e l’unzione
davano al suo potere un fondamento sacro, facendolo discendere direttamente da Dio e ponendo le
premesse per la nascita della monarchia di diritto divino.
Anche i franchi, come tutte le popolazioni germaniche, erano stati per definizione popoli in armi,
con l’attitudine guerriera. I sovrani e gli esponenti della nobiltà avevano infatti continuato a
mantenere intorno a se un seguito armato più o meno grande; ma con la fine delle guerre di
conquista e non potendo quindi ripagarli con i frutti di razzie e scorrerie, non restava che accasarli
mediante la concessione di terre. In cambio essi si impegnavano, mediante un giuramento, a
prestare servizio militare in caso di bisogno. Per indicare questa ricompensa in cambio del servizio
si iniziò ad utilizzare la parola feudo. All’interno dell’esercito venne quindi acquistando un ruolo
preminente il nucleo vassallatico, che operava sotto il comando del rispettivo capo. Di seguiti
armati i Pipinidi disponevano con maggiore larghezza rispetto ad altre famiglie, avendo grossi
possedimenti fondiari in Austrasia. L’ovvia opposizione dei vescovi fu facilmente aggirata offrendo
loro un servizio armato da prestare in difesa della cristianità, minacciata dagli arabi.
Con questa forte macchina da guerra Pipino il Breve diede inizio ad una nuova fase di espansione in
Europa; a farne le spese per primi furono i Longobardi: il re longobardo Astolfo, arrivò a
minacciare Roma tanto che il pontefice si recò in Francia dove conferì al re il titolo di protettore
della Chiesa romana e lo esortò ad intervenire in Italia contro Astolfo. La spedizione militare di
Pipino in Italia mostrò la chiara diversità di potenziale bellico tra i due regni: l’esercito longobardo,
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formato da uomini liberi, costretti alle armi dal re, fu travolto dalle schiere franche. A seguito della
vittoria, Pipino si accontentò di cedere al papa Ravenna e altri territori sottratti ai Bizantini. Bastò
però che egli lasciasse l’Italia perché Astolfo riprendesse gli attacchi a Roma, tanto che Pipino fu
costretto ad una nuova spedizione e questa volta lo sconfisse definitivamente imponendogli la
cessione immediata alla Chiesa dei territori della costa romagnola.
Il nuovo re longobardo Desiderio, mostrò invece propositi meno bellicosi nonché la volontà di
intrattenere rapporti di amicizia con i Franchi, rapporti sanciti anche dal matrimonio dei figli di
Pipino con le figlie di Desiderio. Dopo la morte del fratello, rimasto unico sovrano Carlo(detto poi
Magno) ripudiò subito la moglie longobarda e scacciò la vedova del fratello con i figli che si
rifugiarono presso re Desiderio. Questi mosse improvvisamente un attacco ai territori da poco
consegnati al pontefice e alla stessa Roma. Il papa chiese l’intervento di Carlo che sconfisse
Desiderio portandolo con se in Francia. Nel 774 cinse a Pavia la corona di re dei longobardi, mentre
la maggior parte dei duchi ed esponenti dell’aristocrazia longobarda si sottomisero al vincitore per
conservare i propri patrimoni fondiari e la possibilità di mantenere in piedi l’apparato
amministrativo e le leggi preesistenti. Un tentativo di sollevazione dei duchi, costrinse però Carlo a
immettere nella penisola conti e vassalli franchi, che assicurarono al sovrano un pieno controllo del
territorio. Con l’arrivo in Italia dei franchi arrivarono anche i rapporti vassallatico-beneficiari,
conoscendo subito un’ampia diffusione.
Gli anni successivi la conquista del regno longobardo videro Carlo impegnato in una serie
incessante di guerre: condusse un corpo di spedizione oltre i Pirenei con l’obbiettivo di mettere fine
una volta per tutte alla minaccia dei mussulmani(o saraceni) in Spagna, ma fu costretto a ritirarsi
per far fronte alla rivolta dei Sassoni; durante la ritirata cadde in una imboscata dei Baschi e persero
la vita molti suoi guerrieri. Solo nell’800 riuscì a dare inizio ad una nuova campagna, che
procedette lentamente e con difficoltà, ma portò alla conquista di un nuovo distretto, la Marcha
Hispanica, con capitale Barcellona.
Nel tempo intercorso tra la prima e la seconda spedizione in Spagna, Carlo fu impegnato su altri due
fronti: a nord ci mise trent’anni per venire a capo della resistenza dei Sassoni i quali prima ancora
del dominio franco, rifiutavano in Cristianesimo; difficoltà comportò poi il controllo della Frisia e
della Baviera, anch’esse incorporate poi nei regno di Carlo. Con queste ultime conquiste il suo
potere si estendeva su un territorio vastissimo, comprendente quasi tutta l’Europa centrale.
Quando papa Leone III fu imprigionato dalla nobiltà romana che lo accusava di spergiuro e
adulterio, implorò l’aiuto di Carlo, il quale lo liberò e lo fece scortare fino a Roma dove fu
convocata una grande assemblea davanti alla quale il papa giurò la sua innocenza venne così
riabilitato. Due giorni dopo nella chiesa di san Pietro, durante la celebrazione del Natale, il papa
incoronò Carlo Magno imperatore. Con l’atto di incoronazione, il papa riaffermava inoltre la
supremazia religiosa della Chiesa di Roma, unica in grado di dare legittimità e funzione sacrale ad
un potere. A Carlo spettava così la difesa della cristianità occidentale nonché la protezione e il
controllo dell’apparato ecclesiastico.
In ambito di ordinamento pubblico, Carlo mirò alla creazione di distretti a capo dei quali pose un
proprio funzionario con il titolo di conte e con il compito di provvedere alla difesa e
all’amministrazione della giustizia; nelle zone di frontiera dove era necessaria una maggiore
protezione, i distretti erano affidati invece a un marchese. Grandi distretti erano infine i ducati.
Nelle mani di questi funzionari pubblici venivano quindi a concentrarsi vasti patrimoni di terre,
quindi un secondo problema fu quello di mantenerne il controllo, insediando nei territori dei vassi
dominaci, fedeli diretti del re.
Inoltre si fece un sempre più largo uso dell’immunità: nei territori immuni non potevano entrare
funzionari pubblici, ma i poteri erano demandati all’immunista, titolare di una concessione; queste
terre, sottratte all’autorità del conte, ne riducevano ovviamente l’autorità. Inoltre la stretta
compenetrazione tra stato e chiesa andava al di là dell’ambito ideologico; agli ecclesiastici si
conferivano incarichi di natura politica e il compito di limitare il potere dei conti, procedendo con
loro nella designazione di chi doveva provvedere al mantenimento dell’ordine pubblico dei territori
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immuni. L’amministrazione dell’impero era nelle mani di tre ufficiali, stretti consiglieri
dell’imperatore: l’arcicappellano, che si occupava di affari ecclesiastici; il cancelliere, capo del
personale addetto alla redazione di testi legislativi e i conti palatini, responsabili
dell’amministrazione della giustizia.
Carlo Magno tentò di dare inoltre omogeneità all’impero attraverso una intensa attività legislativa.
Si tenevano infatti due importanti assemblee dette placiti, una a porte chiuse dove partecipavano i
principali consiglieri, e un'altra con la partecipazione anche dei funzionari minori e dei vassalli regi.
Materie di discussione erano diritto pubblico, organizzazione ecclesiastica, l’integrazione delle
leggi nazionali dei popoli dell’impero, intervenendo nel diritto penale e privato.
Carlo Magno diede vita ad una grandiosa opera di restaurazione ecclesiastica, tramite la riforma
delle Chiese e dei monasteri, che estese a tutto l’impero. Le Chiese si articolavano in province,
diocesi e pievi, le prime erano rette da arcivescovi e comprendevano al loro interno un numero più o
meno grande di diocesi, che a loro volta erano divise in pievi, grandi circoscrizioni parrocchiali.
Per quanto riguarda i monasteri impose a tutti le regole Benedettine. Per attuare questo vasto
progetto fu necessario elevare il livello culturale di monaci e chierici; furono perciò istituite scuole
presso le chiese e i monasteri.
10- LA CRISI DELL’ORDINAMENTO CAROLINGIO
Il problema più grave si rilevò quello della successione, per la quale il sovrano mostrò di volersi
attenere alla tradizione franca: divise il regno i suoi tre figli. Ad eliminare ogni incertezza
intervenne però la morte prematura di due dei tre fratelli, per cui l’ultimo figlio, Ludovico, raccolse
l’intera eredità paterna. Egli era più portato ad accentuare il carattere sacro del potere imperiale,
uno dei suoi primi provvediti fu pertanto quello che risolveva il problema della successione,
proclamando indivisibile l’impero che veniva destinato al primogenito Lotario, mentre gli altri due
figli Pipino e Ludovico(detto il Germanico) assegnava territori periferici. Lotario operò in maniera
energica emanando la Constitutio romana, con la quale si stabiliva che il papa avrebbe dovuto
prestare giuramento di fedeltà all’imperatore prima di essere consacrato. L’imperatore Ludovico,
però, debole di carattere non riuscì a tenere a bada i figli minori, intorno ai quali si veniva
coagulando l’interesse di famiglie aristocratiche. Ne nacquero tensioni che videro alla fine lo stesso
Lotario ribellarsi al padre insieme ai fratelli. Per difendersi l’imperatore non trovò altro modo che
allargare la schiera dei suoi vassalli, impoverendo così il patrimonio del fisco, principale fonte di
reddito della monarchia. Proprio in questo momento di crisi, la Chiesa annunciò un nuovo principio
che affermava che se l’imperatore non fosse stato in grado di assolvere ai suoi compiti spettava alla
chiesa intervenire(in questo modo si ponevano le premesse per l’intervento della chiesa nella sfera
politica). Alla morte dell’imperatore si giunse allo scontro tra Lotario e i fratelli, risultando questi
ultimi vincitori. I fratelli stipularono poi un patto solenne promettendosi aiuto reciproco e
costrinsero Lotario ad accettare il trattato di Verdun, con il quale si sancì definitivamente la
divisione dell’impero in parte orientale, occidentale e centrale. Lotario avrebbe conservato il titolo
imperiale, ma in realtà, al di fuori dei suoi domini, non avrebbe avuto alcun potere. All’imperatore
successe il figlio Ludovico II, che fu a lungo impegnato in Italia contro i Saraceni; alla sua morte
Carlo il Calvo conseguì la corona, ma la sua morte senza eredi permise al figlio di Ludovico il
Germanico, Carlo il Grosso, di riunire nelle sue mani tutta l’eredità di Carlo Magno. Ma fu solo
una restaurazione effimera perché l’imperatore non si dimostrò in grado di fronteggiare le
incursioni dei Normanni e fu costretto ad abdicare e l’impero nuovamente diviso.(il regno verrà
attribuito da un’assemblea di nobili a Berengario)
L dissoluzione dell’impero investì anche l’organizzazione politica del mondo carolingio a tutti i
livelli. Ormai assai debole era diventata la capacità delle monarchie di controllare i poteri locali.
Strumento essenziale di dominio erano infatti la disponibilità di vassalli, e ormai si riducevano di
numero quelli legati al re e perfino i conti nelle contee faticavano ad esercitare una reale egemonia
sui centri minori di potere. Chiunque possedesse possedimenti fondiari e quindi di vassalli,
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tenevano a ritagliarsi domini più o meno ampi, pur essendo sprovvisti di una formale delega da
parte della monarchia.
Inoltre continua era la minaccia delle popolazioni seminomadi; una vasta area era ancora quella
occupata dagli Slavi, in cui nel IX secolo fecero irruzione gli Ungari. Il loro stabilizzarsi in quelle
terre non cambiò le loro abitudini predatorie, tanto che continuarono a compiere incursioni in
Europa. Davanti a loro le formazioni politiche nate dalla dissoluzione dell’impero carolingio si
dimostrarono impotenti a garantire la difesa della popolazione. A farne le spese fuorono soprattutto
monasteri, ricchi di oggetti preziosi, e centri abitati privi di adeguate difese. Fortunatamente a
mettere fine alla loro scorrerie intervennero due fattori: la riorganizzazione del regno di Germania
ad opera della dinastia di Sassonia, e la loro conversione al cristianesimo.
Contemporaneamente l’Europa veniva aggredita anche da sud e da nord. Dopo la conquista della
Sicilia i mussulmani continuarono gli attacchi all’Occidente, sottoforma di razzie e incursioni.
Inserendosi nelle lotte tra i vari poteri locali(come mercenari o come creatori di autonome
dominazioni politiche) costituirono emirati a Bari e Taranto, facendone punti di partenza per
incursioni in tutta Italia. Visto che la resistenza armata non ebbe esiti risolutivi, l’unico modo per
fermali era il versamento di pesanti tributi in denaro.
Le regioni d’Europa risparmiate da Ungari e Saraceni furono invece invase dai Normanni o dai
Vichinghi. Città e monasteri isolati venivano assaliti e saccheggiati se non venivano versate somme
in denaro; dovette versarle anche l’imperatore Carlo il Grosso per salvare Parigi.
I sovrani dei regni, seppur tentarono di riorganizzare le difese, non riuscirono a mantenere il
controllo della situazione data la grande mobilità di un nemico che colpiva di sorpresa e si ritirava.
La situazione era così difficile che spesso i signori fondiari prendevano l’iniziativa di fortificare le
loro ville o costruire castelli anche senza l’autorizzazione regia. La costruzione di castelli
condizionò fortemente l’organizzazione del territorio. Il signore chiamava a contribuirvi gli abitanti
delle terre circostanti , considerando che anche loro se ne sarebbero serviti, imponendo turni di
guardia e servizi di manutenzione. In questa maniera egli veniva a svolgere compiti di natura
puramente politica e, trasformandosi ben presto anche nel loro giudice, attribuendosi compiti di
natura giudiziaria. Nel moneto in cui si preoccupò di far sorgere anche una chiesa per l’assistenza
religiosa all’interno del castello il territorio si configurò definitivamente come un organismo
politico completo.
Il X secolo fu considerato “secolo di ferro”. Un signore radicato in un territorio aveva anche
possedimenti aveva non di rado possedimenti minori in località lontane. La tendenza che emerse fu
quella di coordinare questi poteri riservando a se la difesa del territorio e l’alta giustizia e
riservando ai minori signori fondiari la bassa giustizia, cause civili. Non sempre si arrivò in maniera
pacifica ad accordi di questo genere, perciò il risultato fu una guerra di tutti contro tutti, che
giustifica la definizione del secolo.
Anche le relazioni di vassallaggio subirono la crisi e vennero a snaturarsi completamente. Mentre
prima l’elemento più importante era la fedeltà al signore, che veniva poi ricompensata con il feudo,
ora era il feudo l’elemento decisivo e la fedeltà era più o meno grande a seconda dell’entità del
feudo, tanto che un cavaliere prestava omaggio anche a più signori.
Parallelamente alla crisi dell’ordine pubblico si ebbe anche quella dell’ordine ecclesiastico. Si
vennero a diffondere usi, costumi e consuetudini che andavano contro i precetti della chiesa. I
vescovi dedicavano più tempo all’esercizio dei loro poteri signorili, piuttosto che alla cura delle
anime e concedevano in feudo ai loro vassalli le risorse delle chiese e le decime versate dai fedeli
venivano usate per pagare servizi di natura militare. Inoltre non era meno diffusa la tendenza di
imperatori e re di imporre i propri candidai alla guida delle diocesi come delle grandi abbazie.
11-LASITUAZIONE ITALIANA
il quadro politico della penisola era assai frammentato sul piano giuridico-politico. L’Italia
settentrionale e buona parte di quella centrale formavano il Regno d’Italia; Puglia, Basilicata e
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Calabria e Campagna costiera erano inserite nell’impero bizantino. L’Italia divenne quindi terra di
incontro e scontro tra i due imperi, che rivendicavano entrambi il diritto alla sovranità sui territori
Longobardi rimasti in meridione e, come abbiamo detto prima, queste lotte interne crearono le
premesse per un inserimento dei Saraceni. Il fattore di maggiore complicazione del quadro politico
italiano era, tuttavia, rappresentato dal papato, che esercitava in maniera incerta e discontinua la sua
signoria su buona parte del Lazio, Umbria e Marche.
Berengario fu iniziatore di una serie di re che si susseguirono in maniera rapida e avventurosa.
Contro di lui si levò Guido, duca di Spoleto che lo sconfisse riuscì a ottenere la corona di
imperatore; ma Berengario si tenne pronto a rientrare in gioco, impegnandosi subito nella guerra
contro gli Ungari invasori e contro i Saraceni che riuscì a espellere dalla loro base alla foce del
Garigliano. Ottenne così dal papa la corona imperiale. La fortuna gli voltò le spalle quando fu
sconfitto da Rodolfo di Borgogna, facendolo uscire di scena. A Rodolfo si contrappose poi il
marchese Ivrea Berengario, appoggiato dal re di Germania Ottone I di Sassonia, e lo sconfisse
cingendo, una volta scomparso Lotario, la corona di re d’Italia.
La vedova di Lotario, perseguitata da Berengario, chiese aiuto al re di Germania, che scese
prontamente in Italia, accolto dalla feudalità che gli fece atto di sottomissione insieme allo stesso
Berengario che riuscì così a conservare il regno in qualità di vassallo. Quando Ottone si allontanò
dall’Italia, però, ne approfittò per recuperare l’indipendenza arrivando a minacciare i territori della
Chiesa. La Chiesa richiamò Ottone che, ritornato in Italia, fece prigioniero Berengario, cingendo sia
la corona regia che quella imperiale.
Ottone contribuì in Germania, nonostante anch’essa fosse divisa in ducati, alla formazione di uno
spirito di identità nazionale tedesca, attraverso la consapevolezza delle varie stirpi germaniche di
vivere all’interno di un regno comune. Il progetto che attuò Ottone per ottenere un governo solido,
fu quello di sostituire duchi e funzionari pubblici con membri della sua famiglia. Inoltre coinvolse i
vescovi nel governo di città e conte, facendone dei signori territoriali(vescovi e abati erano
anch’essi scelti tra le famiglie a lui strettamente legate); mentre lui esigette da loro un pari impegno
in capo religioso per cui quei fenomeni di indisciplina e rilassatezza dei costumi apparivano in
Germania molto meno gravi.
Intanto il papato vedeva ridimensionato il suo ruolo all’interno della Cristianità, trovandosi in balia
dell’aristocrazia romana, che divenne arbitra delle elezioni papali, tutto ciò mentre la città appariva
sempre più immiserita e spopolata. Nel momento in cui Ottone rimase in Italia tentò di risollevare le
sorti del papato, assicurandosi per il futuro la correttezza dell’elezione papale e attribuendosi il
diritto di giudicare l’eletto prima della consacrazione.
Successivamente volte la sua attenzione verso l’Italia meridionale, tentando di imporvi la sua
autorità: i principi Longobardi si riconobbero subito suoi vassalli, mentre non ebbe la stessa fortuna
con i Bizantini. Ma con il nuovo imperatore bizantino Zimisce le trattative ripresero, e quest’ultimo
gli riconobbe il titolo imperiale acconsentì le nozze tra Ottone II e sua figlia che avrebbe dovuto
portare in dote i territori dell’Italia meridionale.
Quando Ottone I morì però, ricominciarono le resistenze dei duchi e la situazione Italiana sfuggì di
mano al nuovo imperatore; a Roma l’aristocrazia aveva ripreso a imperversare e i bizantini non
mostravano più di voler onorare i patti matrimoniali. Quando morì lasciò il peso dell’impero al
figlio Ottone III, che tentò subito di dare un contenuto effettivo alla teoria del carattere universale
dell’impero e del connubio tra regno e sacerdozio. Il primo atto di governo fu pertanto la nomina a
pontefice di un suo parente e trasferendosi anch’egli a Roma, per governare a stretto contatto con il
pontefice. Il suo programma prevedeva inoltre la sottomissione di tutte le monarchie fino ad allora
indipendenti. Ma tutti i suoi progetti si scontrarono con ostacoli insormontabili che venivano
proprio dai suoi domini: in Germania cresceva lo scontento dell’aristocrazia per la scarsa
considerazione che l’imperatore sembrava avere dei problemi del paese; mentre in Italia i grandi
feudatari, abituati ad essere indipendenti, non gradivano la presenza stabile dell’imperatore e
l’aristocrazia romana si vedeva privata della sua tradizionale influenza sul papato. Il risultato fu una
sollevazione di feudatari italiani che costrinse Ottone III a lasciare la città.
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Gli successe il figlio Enrico II che lasciò cadere tutti i propositi di potere universale del padre,
concentrando i suoi sforza sulla Germania, alle prese con la pressione degli Slavi sulle frontiere e si
preoccupò in seconda sede di combattere la rilassatezza dei costumi del clero e dei monaci
incoraggiando movimenti di riforma.
Ebbe anche lui, come tutti gli imperatori tedeschi, difficoltà a rendere effettivo il suo potere in
Italia, a causa delle tendenze autonomistiche dei signori locali che riconoscevano solo formalmente
l’autorità regia e imperiale. Vi contribuiva il fatto che in Italia non ci fosse stata la formazione di
grandi principati territoriali capaci di coordinare le forze signorili locali. Lo avevano impedito il
protrarsi per più di un secolo delle incursioni saracene e ungare, che avevano contribuito al
proliferare dei castelli, e dall’altro la vitalità delle città che mantenevano una orgogliosa coscienza
di se. Le città apparivano, infatti, avviate verso una ripresa economica e demografica, grazie
all’emergere di nuovi ceti legati all’artigianato e al commercio, alla partecipazione del popolo alla
gestione del potere, all’emergere della coscienza cittadina e della consapevolezza di giocare un
ruolo importante sul piano politico.
11- SPLENDORE E DECLINO DI BISANZIO
Alla fine del VII secolo, l’impero bizantino contava complessivamente un terzo del territorio del
tempi di Eraclio. Però vero la metà dell’IX secolo ebbe la forza di risollevarsi, recuperando parte
dei territori perduti.
Questa forza è da attribuire allo sforzo compiuto dalle varie dinastie per rinnovare l’organizzazione
statale e metterla in grado di far fronte alle difficoltà del momento. Miravano infatti a radicare nel
territorio i soldati, rendendoli allo stesso tempo colonizzatori e proprietari delle terre che avevano il
compito di difendere; erano esentati dalle tasse e ricevevano un piccolo stipendio. Parallelamente si
favorì anche la formazione di una piccola proprietà di contadini liberi, principale base economica e
finanziaria dello Stato, che non impedì però che nelle città costiere si sviluppassero attività
commerciali e produttive. L’Impero bizantino venne inoltre ad acquisire un carattere di tipo
orientale, superando il diritto romano e introducendo consuetudini di origine orientale, tra cui la
sempre più stretta compenetrazione tra vita civile e religiosa.
Dalle province orientali dell’impero, più soggette all’influenza dell’Islamismo e del Giudaismo,
partì un movimento contrario al culto delle icone che diede il via alla controversia iconoclasta. Il
movimento assunse particolare rilevanza quando sul trono salì Leone III che, o perché convinto
spiritualmente o per rafforzare l’unità dello Stato, accolse le richieste che provenivano da quelle
province, infliggendo così un duro colpo ai monaci, troppo indipendenti dal potere imperiale e
dotati di grande influenza sul popolo. Nonostante l’opposizione del pontefice, con un decreto proibì
il culto di tutte le immagini.
Con l’avvento al trono di Constantino VI sembrò però che si volesse rinunciare al proposito e infatti
il Concilio Ecumenico di Nicea condannò l’iconoclasmo come eresia.
Il trionfo dell’ortodossia sull’eresia venne non a caso a coincidere con l’attenuarsi del pericolo
arabo, a cui è collegato una ripresa della grande proprietà terriera. Nonostante le leggi in difesa
degli stratioti e dei contadini liberi che costituivano il nerbo degli eserciti e degli apparati produttivi
bizantini, non si riuscì ad rallentare quel processo per cui i contadini impoveriti preferivano cedere
le terre a un potente e mettersi sotto la sua protezione, come avveniva già in Occidente.
Tuttavia, grazie ad un apparato pubblico di gran lunga più efficiente, non si ebbe quel totale
trasferimento dei poteri nelle mani dei signori, che aveva caratterizzato le campagne europee.
Potendo contare su questo efficiente apparato burocratico, l’imperatore aveva strumenti di direzione
politica e di intervento nella vita sociale, sconosciuti ai sovrani d’Occidente e la sua posizione si era
venuta progressivamente rafforzando: l’imperatore era considerato rappresentante di Dio sulla terra,
capo dell’esercito e del’amministrazione, garante della giustizia e della pace, nonché difensore della
Chiesa e della vera fede.
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L’imperatore decideva infatti in merito all’elezione del patriarca e legiferava in materia di
fede,tanto che ne risultò un legame strettissimo tra Stato e Chiesa, molto più stretto di quello che si
cercava di realizzare in Occidente.
A rafforzare la figura dell’imperatore erano inoltre i successi sul piano militare, dovuti ad un
potenziamento della marina militare, che portarono alla riconquista dell’importante centro
strategico di Emessa, al recupero di Creta, del Libano, della Palestina e di buona parte della Siria.
Vi erano tuttavia tensioni tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, per via della dottrina
della derivazione dello Spirito Santo non solo dal padre, ma anche dal Figlio, che non corrisponde a
quella stabilita nel Concilio di Nicea(per il quale deriva solo dal Padre). A questo problema se ne
aggiunsero altri nel corso degli anni, come il matrimonio dei preti e l’uso del pane lievitato nella
celebrazione dell’Eucarestia. La situazione esplose a metà del XI secolo, quando alla guida delle
due chiese vennero a trovarsi prelati intransigenti, nemici di ogni compromesso, che portò presto
allo scisma.
Sul piano economico le attività produttive e commerciali, che avevano la loro sede nelle città,
apparivano in piena ripresa e la moneta bizantina era forte sul mercato internazionale.
Costantinopoli era allora il più importante centro commerciale del Mediterraneo. Proprio quando il
prestigio di Bisanzio era al culmine, apparvero i segni di un rapido declino. Con la fine della
dinastia macedone cominciò un mezzo secolo di lotte per il potere tra l’alta burocrazia e la nobiltà
da una parte e l’aristocrazia fondiaria dall’altra. A vittoria di quest’ultima porto all’abbandono di
una politica a difesa della piccola proprietà contadina, e all’introduzione di ampi privilegi per i
signori, esentati dal pagare le tasse, cosa che ridusse fortemente le risorse finanziarie dello Stato.
Tutto ciò mentre aumentava la pressione sulle frontiere ed era necessario trovare i mezzi per
arruolare truppe mercenarie, perché la rovina della piccola proprietà aveva privato lo Stato
dell’apporto militare degli stratioti. A oriente premevano i Turchi, ma il pericolo maggiore erano i
Normanni; dopo aver infatti espulso i bizantini dall’Italia puntarono addirittura a Costantinopoli,
l’imperatore chiese aiuto a Venezia, aiuto che gli venne dato in cambio di ampi privilegi in base ai
quali i veneziani potevano commerciare liberamente in tutte le città dell’Impero, senza pagare dazi
e tasse.
Questo portò ad uno progressiva svalutazione della moneta bizantina e ad un aumento della
pressione fiscale, mentre i veneziani divennero arbitri della vita economica dell’impero
risucchiandone le risorse finanziarie e, nel secolo seguente, assumendone diretto controllo.
12- PROGRESSI DELL’EUROPA NEI SECOLI XI-XII
Agli inizi del nuovo millennio, dopo il calo dei secoli precedenti seguiti da una stagnazione, era di
nuovo in aumento e ciò comportò la nascita di nuovi villaggi. Le città si ripopolano e diventano
centri di scambio e attività produttive. I prodotti agricoli trovano nel mercato cittadino uno sbocco
molto più consistente che nel passato. Ovunque era in atto un ampliamento delle terre messe a
coltura attraverso opere di disboscamento e bonifica, risultato di un contratto tra proprietario
terriero e coltivatore: il primo concedeva la terra per consentire di avviare l’attività produttiva,
chiedendo in cambio il pagamento di un canone in natura a partire dal momento in cui la terra
avrebbe cominciato a produrre. Un ruolo assai importante nell’espansione dei territori coltivati
ebbero anche i nuovi ordini monastici, conseguenza diretta del loro stile di vita e desiderosi di
riscoprire lo spirito originario della regola benedettina.; intorno a questi nuovi monasteri sorsero
inoltre villaggi di contadini. Tuttavia questi progressi nono sono da considerarsi generali, in molte
zone i successi furono limitati e molti villaggi scomparvero quando la terra messa a coltura si
rivelava poco produttiva.
Il fenomeno interessò anche aree fino ad allora quasi deserte, come le zone costiere dei Paesi Bassi,
disseminate di paludi e acquitrini. Nell’arco di due-tre secoli l’intera zona fu bonificata e sulle aree
recuperate si procedette a impiantare aziende agrarie e di allevamento. Un risultato del genere fu
possibile grazie all’intervento di conti e signori feudali. Nello stesso tempo in Spagna la messa a
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coltura di nuove terre procedeva pari passo con la riconquista, da parte dei cristiani, dei territori
occupati dagli Arabi.
Ma fu la Germania che produsse il più intenso slancio espansivo; i principi territoriali si diedero ad
una poderosa spinta verso oriente, guidando coloni al di là delle frontiere, dove conquista,
colonizzazione ed evangelizzazione forzata procedettero pari passo. Flussi migratori così intensi
ebbero notevoli ripercussioni sulle terre di origine degli emigrati, poiché i signori si dovettero
preoccupare di evitare la partenza dei loro contadini e si resero conto che l’unico modo era quello di
venire incontro alle loro esigenze di maggiore libertà, tra cui il riconoscimento di usi e costumi
locali e la possibilità di gestire la riscossione delle imposte e la polizia campestre.
Furono introdotte anche nuove tecniche agrarie e colture; strumenti come l’aratro pesante in grado
di smuovere terreni pesanti come erano quelli sottratti agli acquitrini e alle foreste, la sostituzione
della bordatura con un collare rigido che permetteva all’animale di respirare liberamente, la
ferratura dello zoccolo del cavallo, introduzione sempre più ampia della rotazione triennale(una per
la semina autunnale, una per la primaverile, e una a riposo), anche se in Europa meridionale si
continuò ad usare la rotazione biennale a causa delle primavere troppo brevi e asciutte.
I progressi dell’agricoltura valsero a creare le condizioni per la ripresa del commercio e
dell’artigianato nelle città. Le popolazioni più attive a riguardo erano quelle che si trovavano nei
punti di incontro tra aree economiche diverse: i Veneziani, che mettevano in collegamento il mondo
bizantino con l’Europa centrale; gli Amalfitani, che collegavano l’Italia centro-meridionale con i
mercati bizantini e arabi e gli Ebrei, unici ad avere un raggio di azione intercontinentale essendo
intermediari tra due mondi lontani e diversi. Dopo il X secolo si vide quindi un ampliarsi dei
mercanti di professione e la crescita di importanza delle fiere, che cominciarono a superare l’ambito
locale. La fiera più importante che collegava l’area mediterranea con quella nordica, era la fiera di
Champagne, in Francia; considerata il più grande mercato internazionale del tempo che, favorendo
l’incontro di mercanti che parlavano lingue diverse e avevano usi e costumi diversi, contribuì alla
formazione di uno spirito europeo.
Vennero inoltre ridefinendosi le rotte e gli oggetti di commercio che non erano più solo articoli
ricchi e di facile trasporto, ma merci di ogni tipo, tra qui genere alimentari per il rifornimento delle
città più popolose; una merce importante erano inoltre gli schiavi, in genere negri, slavi, turchi, ma
anche greci e spagnoli, richiesti soprattutto per i lavori domestici. I vari prodotti del commercio
avevano zone di provenienza ben definite, la cui vocazione produttiva finì con l’essere esaltata
sempre di più; si vennero così delineando aree a specializzazione agricola, come la Borgogna, e
aree a specializzazione manifatturiera e tessile, come le Fiandre.
Vennero a ridefinirsi anche le posizioni di forza all’interno del mondo della mercatura: i più attivi e
intraprendenti restarono i Veneziani, seguiti dai Genovesi e, nel secolo seguente, dai Pisani.
Furono introdotti miglioramenti tecnici che contribuirono a rendere più sicuri i viaggi e convenienti
dal punto di vista economico. Uno di questi fu l’investimento di capitali nella costruzione di navi
più sicure, grandi e manovrabili, seguito dall’introduzione della bussola, dei portolani(guide per
naviganti compilate da uomini di mare che descrivevano le caratteristiche delle coste e dei porti), le
carte nautiche, carri a due e quattro ruote per il commercio via terra e una rete viaria sempre più
fitta per abbreviare il viaggio.
Lo sviluppo dei commerci richiese a un certo punto il superamento del sistema monetario creato da
Carlo Magno e basato sulla libra d’argento. Monete così scadenti potevano andare bene per i piccoli
traffici locali, ma non per quelli a carattere internazionale, per i quali si usavano abitualmente
monete d’oro arabe o bizantine. Quando però anch’esse cominciarono a prendere prestigio a causa
del declino di Costantinopoli sia della riconquista cristiana della Spagna, i mercanti si dovettero
porre il problema di dotarsi di una moneta stabile e capace di circolare ovunque. L’iniziativa fu
presa da Venezia, che coniò il grosso d’argento. Questo non valse però a risolvere il problema,
perché rimanevano comunque monete d’argento, mentre il volume di scambio richiedeva l’usi
dell’oro; tuttavia in occidente l’oro era scarso e i sovrani erano deboli economicamente a confronto
con quelli bizantini e arabi. Solo agli inizi del XIII secolo si ebbero le condizioni per ribaltare la
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situazione, quando nei mercati dell’Europa e del mediterraneo dominavano i mercanti delle città
italiane.
Uno dei settori principali dell’artigianato era il tessile(laniero in particolare), per la cui produzione
si può parlare di vera e propria industria, tuttavia non si ebbe mai la concertazione di un gran
numero di lavoratori in un solo opificio, ma le numerose operazioni per raggiungere il ridotto finale
comprendevano un buon numero di botteghe e lavoratori a domicilio.
Altra attività produttiva di rilievo era l’estrazione e lavorazione dei metalli per la produzione di
attrezzi di vario genere; Milano in particolare fu fiorente nella produzione di armi, rinomate in tutto
il mondo. Un settore completamente nuovo fu invece quello della produzione della carta, l cui
centro italiano principale fu Fabriano. Inoltre artigiani operavano molto anche in settori
difficilmente distinguibili dall’arte, come oreficerie, intarsio del marmo e dell’avorio, vetro e
ceramiche, i cui centri principali furono Venezia, Pisa e Firenze.
Alla base di tutte queste attività vi era la bottega dell’artigiano, nella quale, accanto al titolare,
lavorano i famigliari, collaboratori stabili e apprendisti che puntavano a diventare maestri.
Diventare maestro significava non solo maggiore prospettiva di guadagno, ma anche inserirsi a
pieno titolo nella struttura economica e sociale della città, nonché partecipazione politica grazie
all’influenza sulle autorità delle associazioni di categoria, chiamate anche corporazioni di arti e
mestieri. Esse provvedevano a tutelare gli interessi e i diritti dei propri membri, fornivano materie
prime alle botteghe, fissavano salari e prezzi di vendita e controllavano qualità e quantità dei
prodotti.
Le città furono una componente fondamentale della storia europea a partire dall’XI secolo; mentre
prima avevano una funzione poco rilevante se non marginale. Anzi nelle aree marginali dell’antico
impero romano le città scomparvero del tutto, mentre in quelle che sopravvissero decisivo fu il
ruolo del vescovo, la cui presenza nelle città faceva si che esse continuassero ad essere un punto di
riferimento delle popolazioni contadine dei dintorni.
Le città ora, invece, diventano fondamentali come centri di produzione e di scambi. Nell’Italia
meridionale lo spazio commerciale bizantino e mussulmano si era andato ulteriormente dilatando e
ad avvantaggiarsene di più furono i maggiori centri costieri della Campagna e della Puglia. Le
attività manifatturiere vi erano in piena espansione e in crescita appaiono anche tutte le branche
della produzione, dall’industria tessile a quella estrattiva, dalle manifatture artistiche alle
costruzioni navali. Nonostante lo sviluppo dei commerci nelle città meridionali si continuò a
perpetuare il predominio sociale e politico dell’aristocrazia fondiaria, che riuscì a imporre anche ai
nuovi ceti i propri modelli culturali.
Nell’Italia centro-settentrionale, invece, le città marinare appaiono tutte proiettate verso il futuro.
Innanzi tutto Venezia, si organizzò ben presto in maniera sostanzialmente autonoma e la sua
posizione di forza nel mediterraneo fu sancita dalla Bolla d’oro con la quale l’imperatore dava piena
libertà ai mercanti della città di commerciare in tutte le città dell’impero in cambio di aiuti miliari
contro i Normanni.
Ma mentre Venezia voleva far diventare il mare Adriatico sotto il suo controllo, spuntavano le mire
di altre importanti città marinare: Pisa e Genova. Queste due città si unirono insieme con
l’obbiettivo comune di scacciare i Saraceni dal Tirreno; i Pisani li scacciarono dalla Sardegna, i
genovesi puntarono i loro attacchi contro alcune città islamiche della Spagna meridionale.
In poco tempo genovesi, pisani e veneziani ottennero una posizione di preminenza assoluta.
Il ruolo che nelle città vecchie e nuove svolse il vescovo andò ben presto molto al di là
dell’ambito religioso e configurandosi come potere concorrente a quello dei funzionari pubblici,
reso possibile dal fatto che il vescovo, in quanto eletto dal clero e dal popolo, era pur sempre
espressione della città.
Con il ritorno della nobiltà delle città, dovuto alla migliore qualità della vita e alla presenza in città
di mercanti, uomini di legge e professionisti i quali fornivano l’opportunità di nuovi rapporti
economici e sociali, si vennero creando città dinamiche e coscienti della propria forza, in grado di
condizionare fortemente il governo del vescovo, per poi, successivamente, esautorarlo del tutto. La
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rinascita urbana coinvolse anche Germania e Francia. I modi in cui avvenne furono due: o un
signore feudale prendeva l’iniziativa e fondava un centro fortificato nei pressi di un luogo di
mercato, o un gruppo di mercanti creava il proprio insediamento nei pressi di un castello, per
riceverne protezione. Il borgo ben presto crebbe in estensione e in floridezza economica, fino a che
una cinta muraria non inglobò entrambi, sanzionando così la nascita della nuova città.
In Germania, città come Brena, Amburgo e tante altre della Germania settentrionale diedero vita ad
una lega assai potente sul piano economico e militare, la lega Anseatica, per garantirsi il monopolio
dei traffici nelle zone di loro interesse.
Tuttavia le città del medioevo occidentale non conobbero il fenomeno delle megalopoli; il massimo
di estensione fu raggiunta agli inizi del trecento, quando città come Milano, Firenze e Parigi
avevano già costruito una terza cerchia muraria; di minore densità erano invece le città della
Germania.
La crescita del numero di abitanti delle città fu reso possibile soprattutto dalla massiccia migrazione
degli abitanti dalle campagne, spinti dal desiderio di sfruttare opportunità di lavoro fornite dalle
nascenti industrie cittadine.
Si veniva così delineando una società più ricca e articolata, nella quale chi operava nel campo del
commercio, del credito e delle manifatture svolgevano un ruolo di crescente importanza. La città
restava però divisa nei tre ordini sociali tradizionali: gli oratores, coloro che pregavano, i bellatores,
coloro che difendevano il clero e la popolazione, e i laboratorse, i rustici che lavoravano la terra.
nonostante giuristi e scrittori avessero preso coscienza della nuova classe dei borghesi, l’immagine
della società rimase immutata nella sua rigida tripartizione, essendo strumento di difesa dell’ordine
pubblico.
Un elemento che accomuna tutte le città europee fu la tendenza a dotarsi di una certa autonomia,
intorno al XI e XII secolo, nei confronti dei principi e dei signori territoriali.
Il movimento comunale nacque dall’iniziativa dei cittadini che, sotto la guida di personaggi
eminenti per ricchezza e prestigio, stipularono tra di loro giuramenti di pace e avviavano trattative
con i signori per ottenere carte di comune, cioè autorizzazioni a fare il comune, spesso sborsando
ingenti somme di denaro o ricorrendo alla minaccia armata. A volte però l’iniziativa era nelle mani
dei signori, i quali dopo aver promosso lo sviluppo del centro, concedevano la carta in cambio di
denaro e del mantenimento di propri funzionari all’interno della città.
Anche nelle città dell’Europa in cui lo sviluppo fu più lento, i cittadini riuscirono comunque ad
ottenere spazi di autonomia, attraverso l’elezione di giudici e organismi amministrativi.
13-LA RIFORMA DELLA CHIESA
L’ordinamento ecclesiastico, privato del sostegno del potere politico perso in un groviglio di diritti
signorili che non riusciva a disciplinare, non riusciva a funzionare a causa sia dell’ingerenza dei
laici nelle nomine di papi, vescovi e abati, sia per il livello culturale e morale di prelati e chierici
che trascuravano i loro compiti pastorali.
A peggiorare questa situazione intervenne la diffusione della simonia, per cui si richiedevano
somme di denaro in cambio del conseguimento di dignità ecclesiastiche.
Ma mentre la crisi dell’impero durò ancora a lungo, il recupero delle funzionalità dell’apparato
ecclesiastico fu più rapido ed efficace; probabilmente perché le manchevolezze della chiesa furono
sentite come più gravi e meno tollerabili da tutti i ceti della società.
Fu nei monasteri che si manifestarono i primigeni di rinnovamento; l’esperienza che si mostrò
particolarmente feconda fu quella del monastero di Cluny dove abbiamo il primo esempio di
“ordine religioso”. Mentre prima ogni monastero era dipendente dal suo abate e sotto la
giurisdizione del vescovo, che non di rado usava i beni del monastero per il mantenimento dei suoi
vassalli, ora i monasteri erano sotto la guida di un solo abate, quello di Cluny, che reggeva le
comunità locali attraverso priori; rafforzato dall’immunità di cui fu ben presto dotata l’abbazia per
sottrarla all’ingerenza dei funzionari pubblici.
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Nelle occupazioni dei monaci vennero introdotte la lettura di salmi, solenni funzioni liturgiche,
nuovi culti di santi, riti per i defunti, preghiere, distribuzione di pasti per i poveri, studio e attività
letteraria(il genere più praticato fu l’agiografia).
Come reazione alla crisi delle istituzioni ecclesiastiche e politiche si diffuse l’eremitismo, che
prevedeva la separazione totale dalla società, di cui sorsero veri e propri ordini, come quello
fondato da Romoaldo da Ravenna, da esso dipendevano vari monasteri, nei quali vivevano quei
monaci, che non si sentivano forti abbastanza per affrontare i rigori della vita eremitica.
Un’altra componente importante del movimento di riforma della chiesa fu costituita dalle comunità
canonicati, dove ripristinare la vita comune del clero, prescrivendo la costruzione di appositi edifici
in cui i chierici avrebbero dovuto vivere in comune. Ma le conseguenze furono che la vita in
comune entrò in crisi e i beni destinati al mantenimento della comunità canonicale furono divisi in
quote assegnate ai chierici.
Un’inversione di tendenza si ebbe tra il X e l’XI secolo nell’ambito delle cattedrali, dove il vescovo
cominciò ad affiancare ai suoi mille impegni politici e gestionali, una maggiore attenzione agli
aspetti religiosi e pastorali; iniziando proprio dallo sforzo di ripristinare la vita comune, miglior
rimedio contro il concubinato. Quelle che sembrarono iniziative isolate diventarono sempre più
numerose. Era tempo, infatti, che si tentasse di realizzare un coordinamento tra i vari filoni di
riforme; questo coordinamento fu assicurato prima dal potere politico, poi dal papa stesso.
Gli imperatori erano sempre stati fortemente interessati al corretto funzionamento dell’ordinamento
ecclesiastico, perché vescovi, abati e rettori di chiese erano un prezioso sostegno al potere
imperiale. Non sorprende quindi che gli imperatori si siano fatti interpreti e sostenitori per primi del
rinnovo della Chiesa.
Significati fu in particolare l’opera dell’imperatore Enrico III, che intraprese un’opera di
moralizzazione all’interno dell’episcopato e di sostegno ai monasteri, poiché alcuni vescovi
tenevano comportamenti non molto diversi da quelli dei feudatari laici. Volse poi la sua attenzione
alla Chiesa di Roma, allora in profonda crisi, perché e rivalità tra le famiglie dell’aristocrazia
avevano portato all’elezione contemporanea di ben tre papi. L’imperatore li depose tutti e fece
eleggere un suo candidato, che prese il nome di Clemente II; emanò inoltre delle norme contro gli
ecclesiastici colpevoli di simonia, che furono dichiarati decaduti.
Intanto tra le schiere di intellettuali impegnati nell’opera di riforma cominciava a diffondersi l’idea
che non era possibile un’opera di rinnovamento senza limitare l’ingerenza dei laici e anche
dell’imperatore nella scelta dei papi, dei vescovi, degli abati e dei rettori. Finì così che sempre più
esponenti del movimento si sentivano sempre meno solidali con l’imperatore, e, dall’altra parte,
cresceva l’ostilità da parte di quei vescovi che non volevano adeguarsi alle nuove regole.
Alla morte dell’imperatore si creò una situazione di debolezza del potere imperiale, ma si evitò per
il momento l’esplodere delle contraddizioni, consentendo al gruppo dei riformisti romani di trovare
una buona strategia. Elaborare una strategia non era stata una cosa semplice per un gruppo già
diviso al suo interno in due posizioni: da una parte c’era lo schieramento rigorista che propugnava
una dipendenza della Chiesa dal potere regio e imperiale, nonché la condanna decisa dei vescovi
simoniaci e l’annullamento di tutti i loro atti; dall’altra parte c’era chi riteneva impraticabili
soluzioni di questo tipo, ritenendo i sacramenti validi indipendentemente dalla qualità morale di chi
li amministra e che l’annullamento avrebbe significato uno sconvolgimento della vita di troppe
chiese, che si sarebbero trovate private dei loro rettori, inoltre sostenevano l’unione inscindibile tra
regno e sacerdozio.
Intanto il papato si rafforzava politicamente e attuava una serie di interventi assai importanti in
ambito disciplinare e organizzativo: riunì un concilio di Laterano nel quale vennero modificate le
procedure per l’elezione papale, che venne riservata a un collegio di cardinali; fu rinnovato
l’obbligo al celibato, i vescovi simoniaci furono deposti, ma le ordinazioni fatte da loro fino a quel
momento furono ritenute valide.
Il nuovo imperatore Enrico IV si rese subito contro di quale effetto avrebbero avuto questi
provvedimenti sul piano politico, privandolo del controllo delle abbazie e delle sedi vescovili e
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avrebbe affrontato la questione in modo deciso. Nel frattempo saliva sul soglio pontificio Gregorio
VII, l’uomo di punta dello schieramento riformatore.
Dotato di una forte personalità e di un’alta concezione della dignità papale, rivendicò la suprema
autorità del papa all’interno della Chiesa e nell’ambito della società cristiana, attribuendosi la
facoltà di deporre non solo i vescovi ma anche lo stesso imperatore. Ne scaturì una profonda
spaccatura del movimento riformatore, dalla parte dell’imperatore vennero a trovarsi i vescovi ostili
alla riforma e gli ecclesiastici contrari alla concezione gregoriana del primato del papa;
nacque una lunga lotta, detta “lotta per le investiture” e le due fazioni combatterono sia con le armi
che con le campagne di stampa, di cui furono protagonisti gli scrittori schierati nei due fronti
opposti.
Enrico IV convocò a Worms nel 1076 un’assemblea di nobili e ecclesiastci e con il consenso di tutti
depose e fece scomunicare il pontefice. Per tutta risposta Gregorio VII scomunicò i vescovi e
l’imperatore.
Enrico si rese subito conto della posizione pericolosa nella quale si trovava, poiché il
provvedimento papale dava legittimità all’opposizione dell’aristocrazia tedesca, che infatti gli
impose di sottporsi al giudizio papale, convocando nel 1077 una dieta ad Augusta. Gregorio si mise
in marcia per raggiungere la città tedesca, fermandosi al castello di Canossa ospite della contessa
Matilde, sua fedele alleata, aspettando lì la scorta armata promessagli. Enrico ritenendo troppo
umiliante per lui il giudizio davanti ad una pubblica assemblea, si presentò a Canossa per implorare
l’assoluzione dalla scomunica. Il papa rifiutò di riceverlo, ma dopo gli concesse il perdono.
L’imperatore, una volta spezzato il fronte dei suoi oppositori, si volse nuovamente contro il papa
che gli rinnovò così la scomunica. Enrico IV convocò allora due concili: il primo a Magonza, dove
fece di nuovo deporre il papa, e il secondo a Bressanone dove fece eleggere papa Clemente III.
Dopo di che scese in Italia, dirigendosi a Roma, dove dopo un lungo assedio la città fu presa e
qualche giorno dopo Clemente venne consacrato e incoronò a sua volta Enrico imperatore.
Dopo di ciò niente fu più come prima, l’impero, messosi in contrasto con la Chiesa, era destinato a
perdere la sua funzione religiosa e a cercare nuove legittimità sul piano giuridico.
Quando salì sul soglio pontificio Urbano II, cercò subito collegamento con l’episcopato,
rafforzandone l’autorità all’interno delle diocesi e promuovendo la fondazione di canoniche che
avrebbero dovuto aiutare i vescovi nell’esercizio della cura delle anime. In breve tempo i vescovi
della Germania e della Lombardia, da sempre schierati dalla parte dell’imperatore, riconobbero
l’autorità del papa di Roma. L’iniziativa ormai era tutta nelle mani del pontefice, che si attivò in
particolare nel meridione, dove bisognava fronteggiare l’influenza della chiesa greca; mentre nel
settentrione dovette incitare i suoi aderenti nello sforzo finale contro il partito filoimperiale. A
Firenze ricevette anche gli ambasciatori greci, con i quali trattò della riunificazione delle due Chiese
e, secondo la tradizione, ebbe da loro anche una richiesta di aiuto contro i Turchi. Da qui il papa
deplorò le lotte fratricide tra cristiani e promosse, invece, un pellegrinaggio in Terrasanta come
mezzo di purificazione dai peccati e come occasione per recare aiuto alla chiesa orientale, minaccia
dagli infedeli.
Con il successore di Urbano II, Pasquale II, il papato sembrò tornare sotto il controllo del partito
rigorista di ispirazione gregoriana. Fu infatti rinnovato il decreto contro le investiture di chiese e
monasteri fatte da laici, mentre cominciava a farsi strada la proposta che i vescovi avrebbero dovuto
rinunciare ai beni e ai poteri ricevuti dallo Stato eliminando così l’intervento del potere politico
nella loro nomina.
Questa decisione sembrò essere accolta sia dal papa che dall’imperatore, i quali raggiunsero a Sutri
un accordo in tal senso, ma l’opposizione sia del seguito imperiale, sia degli ambienti ecclesiastici
fu enorme. Stato e Chiesa erano infatti da sempre così legati che non si riusciva a pensare uno stato
privo dell’appoggio dei vescovi e viceversa.
Un concilio sconfessò quindi Pasquale II, e successivamente Enrico V venne scomunicato. Nel giro
di poco tempo tutto tornò come prima.
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Da questi scontri e scomuniche ne uscì rinforzata la posizione di chi appoggiava la possibilità di
raggiungere un compromesso e finalmente nel 1122 fu possibile passare alla stipula del concordato
di Worms con il quale si affermava il principio di non ingerenza del potere politico nell’elezione del
vescovi e degli abati, gli abati sarebbero stato eletti dalle comunità di monaci e i vescovi dal clero e
dal popolo della diocesi. L’intervento dell’imperatore sarebbe stato possibile in un secondo
momento, durante l’investitura dei poteri temporali; tuttavia aveva il diritto di negare l’investitura
dell’eletto se non fosse stato di suo gradimento.
Il concordato di Worms finì però per essere stratificato dal Concilio lateranense del 1123,
l’assemblea alla quale parteciparono circa trecento vescovi e abati di tutto l’Occidente, considerato
il primo concilio ecumenico. Esso segnò l’avvio di un processo che portò in tempi rapidissimi alla
collocazione del papato al vertice della società cristiana, mentre il potere politico non fu in grado di
superare lo stato di disgregazione prodottosi del corso dell’Alto Medioevo. La Chiesa di Roma una
volta risolta la contesa con l’impero, seppe invece riavviare una grandiosa opera di consolidamento
in tutti i suoi campi.
Strumento importantissimo per il governo pontificio fu l’istituto della legazione:
rappresentanti(legati) inviati presso il sovrano o gli enti ecclesiastici; i loro poteri erano assai ampi,
potevano decider in merito a controversie, consacrare o deporre vescovi, presiedere ai concili
provinciali e in certi momenti assumendo tutti i poteri e configurandosi come governatori veri e
propri. Attraverso loro il papato riuscì nel corso del XII secolo ad attuare una forma assai avanzata
di centralismo monarchico e ad ottenere una piena supremazia sia in ambito ecclesiastico che
politico, trasformando la Santa sede in punto di riferimento di tutta la politica europea.
14-RINASCITA CULTURALE E NUOVE ESERIENZE RELIGIOSE
Verso la metà del secolo XI si ebbe una vivace rinascita culturale in Italia meridionale, da sempre in
contatto diretto con il mondo greco e con quello arabo.
Nell’Italia settentrionale, invece, era in atto, in quello steso periodo, la rinascita del diritto romano,
sulla base dell’intero Corpus iuris civilis di Giustiniano e Bologna era il maggior centro di studi in
questo campo.
Il paese in cui l’attività culturale appariva in piena ripresa in ogni campo era invece la Francia,
soprattutto nel secolo seguente il fenomeno ebbe una forte accelerazione, per cui si parla di rinascita
del secolo XII. Erano inoltre in piena fioritura ordini religiosi di nuova fondazione e fervidi centri di
vita intellettuale furono le cattedrali, le quali avevano il vantaggio di essere pienamente inserite
nelle città. Il fenomeno fu particolarmente evidente nella Francia settentrionale, dove le scuole
cattedrali divennero polo di attrazione per studenti provenienti dalla Germania, dall’Inghilterra e
dall’Italia. Queste scuole erano sotto il controllo dei vescovi, mancava però un vero e proprio
programma di studio, né erano previsti esami finali e conferimento di titoli. Tutto questo avverrà
più avanti con le università.
Le università si presentarono all’inizio come semplici associazioni di studenti e professori, ma ben
presto mirarono ad ottenere il riconoscimento dell’autorità civile ed ecclesiastica e la concessione di
privilegi d carattere giuridico ed economico. Nello stesso tempo cercarono di fissare programmi di
studio, compensi per i professori, le modalità degli esami e come conseguire la licenza di
insegnamento.
A Bologna l’università nacque in ambito delle scuole laiche di diritto per iniziativa degli studenti.
A Parigi le origini dell’università sono invece da collegare con la scuola della cattedrale di Notre
Dame; essa aveva tanti docenti e un così grande prestigio da fare di Parigi la prima città di insegnati
che abbia avuto il mondo medievale. Qui l’iniziativa fu soprattutto dei maestri, con l’obbiettivo di
ridurre il potere del cancelliere arcivescovile, che interveniva anche in ambito dottrinale, stabilendo
i libri da usare nell’insegnamento. Una filiazione di Parigi si può considerare l’università di
Oxford, a cui seguì Cambrige
.
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I pontefici, prima ancora dei sovrani, si resero conto dell’importanza delle nuove istituzioni
ecclesiastiche e si adoperarono inserendosi nei contrasti tra università e autorità cittadine e
prendendole sotto la loro protezione. Ma il risultato fu tuttavia che le università persero ben presto il
loro tratto originario, trovandosi dipendenti e sottoporte ai pubblici poteri, dai quali proveniva lo
stipendio dei maestri.
Tuttavia le università mantennero una loro autonomia organizzativa: l’insegnamento era basato
sulla lezione e sulla disputa; la prima consisteva nella lettura e nel commento di opere di autori
fondamentali per la disciplina; per le seconde il maestro sceglieva un tema e dava l’incarico agli
assistenti di presentarlo e rispondere alle obiezioni, l’insegnante dava poi una sintesi della
discussione e presentava la sua tesi a riguardo. Dispute assai più impegnative erano quelle
organizzate due volte l’anno alla presenza di tutti i membri della facoltà e su qualsiasi argomento;
qui il maestro e i suoi assistenti dovevano essere pronti a rispondere alle domande del pubblico.
La nascita delle università contribuì a modificare radicalmente anche le condizioni in cui venivano
prodotti i libri. Una commissione approvava infatti i testi ufficiali, da usare per l’insegnamento, che
venivano forniti agli stationarii riconosciuti dall’università; questi li utilizzavano sia per trarne le
copie da destinare alla vendita sia per darli in prestito a chi volesse provvedere da solo a ricopiarli.
La lingua dei testi universitari era il latino; i secoli XII-XII videro però la diffusione della cultura
che andava molto più in là degli ambienti universitari e che coinvolgeva nuovi ceti sociali. La
stragrande maggioranza dei laici e anche molti esponenti del clero, non erano più in grado di parlare
il latino e le lingue volgari venivano parlate sia dal popolo sia dagli stessi dotti. Assistiamo anche
alla diffusione di componimenti e di opere in lingua volgare, dapprima negli ambienti feudali
francesi, dove emersero due lingue: d’Oc parlata a sud, e d’Oil parlata a Nord. In Italia il volgare
acquistò dignità letteraria solo nei primi decenni del Duecento, grazie soprattutto all’attività della
Scuola poetica formatasi alla corte di Federico II e a quella immediatamente successiva dei poeti
toscani.
Inoltre sempre più larga era la pratica della lettura e della scrittura, dovuta ad una precisa scelta
delle autorità cittadine , che si preoccuparono di creare scuole aperte a tutti. L’aumento del numero
di coloro che sapevano leggere creò premesse per l’immissione sul mercato di un nuovo tipo di
produzione libraria dal costo più basso. Il risultato fu che il sapere era ora più largamente diffuso, e
in questo senso possiamo parlare di laicizzazione della cultura, poiché i laici erano diventati fruitori
e produttori di letteratura, seppur ancora fortemente intrisa di valori religiosi.
Si creavano anche i presupposti per un maggiore dinamismo dei laici anche sul piano religioso, che
si manifestò principalmente attraverso il proliferare di iniziative caritative, nate dalla necessità dei
laici di ritagliarsi un proprio spazio organizzativo in ambito sia economico che religioso.
Si trattava però di un fenomeno di massa, che non poteva appagare le ansie e il malessere di chi
aspirava a un regime più perfetto di vita spirituale e non trovava nella Chiesa dell’età pos-
gregoriana una qualche aderenza a quel modello della comunità cristiana delle origini.
Tra il XII e il XIII secolo il dissenso si manifestò tra spiriti semplici, non interessati alle sottili
questioni teologiche, ma che muovevano unicamente da esigenze di carattere morale.
Era così che andavano crescendo in Germania e in Lombardia i seguaci di Valdo, ricco mercante di
Lione, che rinunciò a tutti beni per distribuirli trai poveri e le chiese. Essi cercarono disperatamente
di ottenere l’approvazione delle autorità ecclesiastiche ma invano, e furono dichiarati eretici. Con la
stessa decretale vennero condannati gli Umiliati e i Catari; questi ultimi avevano una loro dottrina e
un’organizzazione ecclesiastica con vescovi, sacerdoti e particolari pratiche sacramentali.
Nella lotta ai Catari la chiesa mobilitò le autorità politiche bandendo una vera e propria crociata.
Una delle esperienze più singolari della spiritualità medievale furono tuttavia gli ordini mendicanti.
Uno di questi nacque intorno alla figura di Francesco,figlio di un ricco mercante di Assisi, rinunciò
alle ricchezze per vivere in povertà secondo l’insegnamento di Cristo e predicare il Vangelo con
l’esempio. Ai suoi seguaci diede il nome di frati minori, in segno di umiltà e già questo nome
creava una rottura con la situazione consolidata che vedeva gli ordini religiosi in possesso di beni
fondiari e di poteri di natura signorile. Quindi uno stile di vita così suscitò subito la diffidenza da
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darete delle gerarchie ecclesiatiche ; diffidenza che fu superata per la totale obbedienza che
Francesco e dei suoi seguaci professarono nei confronti della Chiesa.
Artefice di questa svolta fu Innocenza III che approvò la regola di vita che Francesco aveva
proposta ai suoi compagni. Intanto venne approvata anche un’atra regola, quella dei frati predicatori
(Domenicani). Anch’essi avevano operato un rifiuto della ricchezza, ma rispetto ai francescani si
caratterizzavano per la loro preparazione teologica e aveva scelto come principio la lotta contro gli
eretici. Questo fece si che il papato impresse una svolta alla lotta contro gli eretici creando in ogni
diocesi il tribunale dell’inquisizione, direttamente dipendente da Roma e non a caso i giudici
venivano scelti tra i domenicani. Ad essi ben presto si affiancarono però i francescani, i quali
venivano così ad assumere compiti certamente non conformi al tipo di testimonianza cristiana
auspicata. Infatti nell’ordine erano emerse tensioni, poiché il rapido sviluppo dell’ordine aveva
comportato la stabilizzazione dei frati in edifici di tipo conventuale e ben presto anche all’afflusso
di donazioni in beni immobili. Nonostante questi contrasti però i frati minori seppero realizzare una
presenza capillare in tutti gli ambienti sociali, fissando le loro sedi nei centri delle città dove
facevano da punto di riferimento per territori più o meno ampi. Questo fece si che acquistassero ben
presto un prestigio enorme.
15- LA NASCITA DELLA CAVALLERIA E I NUOVI RAPPORTI FEUDO-
VASSALLATICI
il rinnovato dinamismo della società europea, in piena crescita sul piano demografico ed
economico, richiedeva condizioni di maggiore sicurezza per mercanti e contadini impegnati in
grandi lavori di dissodamento. Per realizzarle, era necessario superare lo stato continuo di guerra.
Una prima risposta fu data dalla Chiesa attraverso il movimento delle paci di Dio. Ne furono
protagonisti i vescovi, i quali organizzarono grandi assemblee pubbliche di clero e popolo, per
promuovere una mobilitazione collettiva a difesa dell’ordine pubblico, nonché delle categorie più
deboli. Contro i signori dei castelli e i loro eserciti armati, venivano mobilitati, insieme al popolo,
anche i principi e i signori contrari alla violenza, i quali trovavano nelle iniziative vescovili anche
un’occasione per tentare di riprendere il controllo dei loro indocili vassalli. Si cercò inoltre di
garantire a tutti una maggiore sicurezza, proibendo qualsiasi attività bellica in determinati giorni,
quali la domenica, le festività religiose e i giorni precedenti le festività.
Esse contribuirono da un lato a dare un’ulteriore legittimazione all’opera dei principi e dei sovrani,
impegnati nel difficile tentativo di coordinare gli organismi di potere esistenti all’interno dei loro
territori, dall’altro a reprimere i disordini, prospettando al ceto inquieto dei guerrieri l’ideale del
cavaliere al servizio dei deboli e delle fede cristiana.
È questo il periodo infatti in cui coloro che esercitavano una funzione militare o avevano poteri di
comando a vario titolo, prendendo coscienza della loro particolare condizione giuridica,
cominciarono a chiudersi in un ceto privilegiato, la nobiltà, a cui si poteva accedere solo per volontà
del sovrano o di chi già ne faceva parte.
I nobili erano esentati dal pagamento delle tasse per le terre che possedevano, erano sottratti alla
giustizia dei signori e potevano tramandare ereditariamente la loro condizione giuridica.
A dare coesione a questo ceto contribuirono anche gli ecclesiastici i quali trasformarono
l’investitura in un rituale religioso: il neocavaliere doveva sottoporsi a un bagno purificatore e
passare una nottata in veglia in chiesa a pregare.
Gli ideali cavallereschi e cortesi celebrati dagli scrittori e dai poeti non deve però farci dimenticare
che nella realtà lo stile di vita dei cavalieri restava fortemente intriso di violenza, finendo per
lanciarli in qualsiasi impresa guerresca e vanificare così le iniziative di pace dei vescovi. Il
problema fu risolto in parte indirizzando i cavalieri verso l’esterno della Cristianità, nella lotta
contro gli infedeli. I vescovi, comunque, disciplinando queste forze, cercarono di sopperire alle
carenze dell’ordinamento politico, che non era più in grado di mantenere l’ordine nella società.
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Nel corso del XII secolo si avviò una lenta ripresa anche sul piano politico e si tentò di coordinare e
disciplinare i vari poteri locali. Lo strumento sul quele si fece più leva furono quei rapporti feudo-
vassallatici che erano considerati la causa della frammentazione dello Stato.
Alla ripresa contribuirono i giuristi che, sull’onda della riscoperta del diritto romano, arrivarono a
individuare nello Stato la fonte del diritto e di ogni potere, per cui l’esercizio di qualsiasi funzione
non era concepibile senza una formale delega da parte dell’autorità sovranana. Il problema era una
realtà politica assai frantumata, che vedeva l’esistenza di poteri privi ormai di ogni legittimazione e
coordinamento. Furono i giuristi stessi a indicare una soluzione attraverso il feudo oblato, cioè terre,
fortezze o giurisdizioni che il proprietario donava a un signore per riaverle in feudo dopo aver
prestato omaggio. Il vassallo si legava così a un signore potente che gli chiedeva poco in cambio,
tranne riconoscere in lui la fonte del suo potere, non schierarsi dalla parte die nemici e prestarli un
servizio militare non gravoso, o una tassa sostitutiva. Il signore non acquisiva il dominio diretto dei
territori riconosciuti come feudo del suo vassallo, ma affermava su di essi la sua superiore autorità.
Nasce così l’immagine della piramide feudale che procede dal vertice verso il basso, fino a
raggiungere attraverso valvassori e valvassini, i ceti rurali.
16- I COMUNI ITALIANI
In Italia le comunità cittadine non erano formate solo da mercanti e artigiani, ma anche da
esponenti della piccola e media nobiltà. La situazione politica delle città era però poco chiara: le
funzioni pubbliche erano svolte dal vescovo, dal conte, dal capitolo cattedrale e dai grandi
monasteri. Inoltre la comunità cittadina interveniva sempre e riusciva sempre a far sentire la propria
voce alle autorità locali.
Una quadro così frammentato si rivelò presto inadeguato a disciplinare le tensioni sociali e i
contrasti familiari che sorgevano inevitabilmente nelle comunità cittadine.
Grandi vassalli e piccoli feudatari, da sempre contrapposti, si erano dovuti unire contro gli attacchi
del popolo stanco delle loro violenze e dei loro soprusi. Ne nacquero scontri nelle piazze e nelle
strade. L’equilibrio era reso ancora più precario dalle tensioni religiose e politiche provocate dalla
riforma e dalla lotta per le investiture.
Quest’ultima si rivelò un’occasione assai favorevole per lo sviluppo delle autonomie cittadine, data
la necessità di pontefici e imperatori di guadagnarsi il favore delle comunità cittadine, alle quali
concedevano grandi privilegi. Non a caso durante la lotta per le investiture a Milano alcune famiglie
più in vista avevano dato vita ad una associazione giurata che si faceva interprete del desiderio di
pacificazione del popolo, assumendo direttamente il governo.
Gli esponenti dell’aristocrazia feudale costituivano il nucleo fondamentale del nuovo ceto dirigente,
seguiti in posizione minoritaria, da esponenti del mondo mercantile e delle professioni, mentre era
totalmente escluso il popolo.
Tuttavia in alcune città della Toscana e del Piemonte, a più intenso sviluppo mercantile, a prevalere
furono gli esponenti del mondo commerciale e imprenditoriale.
Gli organi di governo erano però d’ovunque l’Arego, assemblea generale dei cittadini cui spettava
di decidere in merito a problemi generali e il Collegio dei Consoli, cui spettava il potere esecutivo.
Particolarmente ambiguo il rapporto con il vescovo, e cui prerogative giurisdizionali venivano
continuamente ridimensionate all’interno della città, ma strenuamente difese fuori di essa e nel
territorio della diocesi, dove il comune riusciva a far arrivare la sua influenza solo con il sostegno
del vescovo. Una politica di sistematica sottomissione del contado di ebbe solo sul finire del XII
secolo.
L’autorità imperiale era uscita fortemente scossa dalla lotta contro il papato, e si trovò costretta a
trovare nuove basi teoriche alla sua esistenza. Anche questa volta le basi furono fornite dai giuristi
che rinnovarono la concezione del potere imperiale fondato dal diritto romano e non più solo da
motivazioni religiose.
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Enrico V non era riuscito ad assicurare una discendenza al trono di Germania, e alla sua morte i
principi tedeschi, non senza conflitti, elessero re di Germania il duca di Svevia, Federico(detto
Barbarossa). Il giovane sovrano mostrò subito di voler ridare forza all’autorità imperiale e indisse la
dieta di Costanza, in cui espresse la sua convinzione che potere politico e spirituale dovessero
collaborare; assicurò di garantire prestigio alla Chiesa e ottenne in cambio di essere incoronato
imperatore a Roma.
Alla dieta comparvero anche due inviati della città di Lodi, ai quali si aggiunsero ben presto alte
città lombarde, venuti a implorare la giustizia imperiale contro le prepotenze dei Milanesi.
L’imperatore volse subito la sua attenzione verso l’Italia, poiché città che si arrogavano poteri di
competenza del sovrano erano incompatibili con l’ambizioso programma politico di Federico. Egli
mise la città al bando privandola di tutte le regalie e distrusse Tortona, alleata dei Milanesi. Si
diresse poi verso Roma per cingere la corona imperiale, ma prima di ciò abbatté il regime comunale
formatosi nella città.
Alla convocazione di una seconda dieta, a Roncaglia, vi furono invitati anche i quattro famosi
giuristi di Bologna, ai quali Federico chiese di indicargli con recisione i diritti regi. L’elenco, molto
lungo, comprendeva il diritto a battere moneta, a nominare magistrati, a imporre tasse, a riscuotere
multe. Si trattava di diritti di cui i Comuni si erano appropriati da tempo e che l’imperatore era
anche disposto a lasciare loro, a patto che versassero un tributo annuo e riconoscessero nell’impero
la fonte di tutti i loro poteri. Emanò anche una costituzione sulla pace, con la quale proibì le leghe
tra città e le guerre private. Vennero inviati nelle città funzionari imperiali per esigere i tributi e
assumere il controllo diretto dei Comuni più riottosi.
Il risultato fu la formazione di un grande movimento di opposizione di cui facevano parte numerosi
comuni lombardi e veneti, ma anche il pontefice. La reazione dell’imperatore fu assai dura: il papa
fu costretto a fuggire, Milano fu assediata e rasa al suolo. I comuni del Veneto si unirono nella lega
veronese, seguiti poco dopo dalla lega cremonese, e dalla loro fusione nacque la lega lombarda.
Ad essa si collegò lo stesso pontefice Alessandro III, in onore del quale i Comuni chiamarono la
città di Alessandria, costruita in posizione strategica. E proprio contro questa città l’imperatore
puntò i suoi sforzi, senza risultati. Nel frattempo in Germania la situazione era difficile per la rivolta
dei feudatari, che portò l’imperatore a rinunciare all’assedio per tornare in Germania. Durante il
viaggio di ritorno fu però investito dall’esercito della Lega e sconfitto a Legnano. A quel punto
l’imperatore dovette puntare su una soluzione di tipo diplomatico; giunse così ad un accordo col
pontefice, impegnandosi a restituire alla Chiesa di Roma i territori e le regalie, mentre il papa si
impegnava a fare da mediatore con i comuni. Questi però non gradirono il voltafaccia del pontefice
e rifiutarono la mediazione. Si giunse perciò alla stipula solo di una tregua di sei anni, che
consentisse all’imperatore di occuparsi degli affari in Germania.
Sei anni dopo, nel 1183, fu stipulato un trattato di pace a Costanza, in cui si decise che tutti i poteri
derivavano dall’imperatore, ma i Comini della Lega avrebbero mantenuto le regalie di cui godevano
da tempo, impegnandosi a versare un’indennità. I consoli dei Comuni dovevano ricevere investitura
formale dall’imperatore ogni cinque anni.
Le concessioni fatte da Barbarossa alla Lega, furono presto considerate valide per tutti i comuni, i
quelli diventarono organismi politico-amministrativi pienamente legittimi e inseriti nella struttura
dell’impero. Dopo la morte dell’imperatore, i Comuni ne approfittarono per consolidar
definitivamente le loro istituzioni e per avviare una sistematica sottomissione del contado.
Il vescovo venne estromesso da ogni giurisdizione civile e si provvide a dotare le città di edifici
pubblici e di un codice di leggi(Statuti).
Vennero creati borghi franchi per il controllo del territorio, insediamenti fortificati di nuova
fondazione situati sui confini e i cui abitanti godevano di agevolazioni fiscali e aiuti di vario genere
perché impegnati nella difesa da attacchi esterni. Gli operatori economici divennero sempre più
consapevoli della loro forza quindi non più disponibili a lasciare la gestione delle cariche pubbliche
completamente nelle mani della vecchia classe aristocratica. Questa, d’altra parte cominciava a
chiudersi sempre di più man mano che cresceva il numero dei nuovi ricchi e dei nobili del contado.
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Si formarono così due schieramenti, la nobiltà e il popolo. La vecchia classe dirigente, che era stata
capace di condurre i Comuni alla vittoria contro Barbarossa, non appariva più in grado di gestire la
pace; la soluzione venne trovata con la sostituzione della magistratura collegiale dei consoli con il
potestà, prima locale, poi forestiero per garantire la sua indipendenza dai centri di interesse della
città. Il suo compito era quello di eseguire le decisioni prese dai Consigli cittadini, di applicare le
leggi, amministrare la giustizia e sovrintendere all’apparato burocratico del comune.
Il podestà forestiero nei primi tempi riuscì a svolgere un’opera di mediazione tra i gruppi sociali,
ma verso la metà del Duecento le tensioni riesposero.
Non si trattava più della sola contrapposizione tra vecchia classe dirigente e borghesia in ascesa, ma
di lotte che dividevano anche i membri dello stesso ceto, a causa di odi familiari.
I clan riuniti in federazioni formavano due schieramenti opposti detti guelfi(filopapali) e
ghibellini(filoimperiali). I due termini persero presto il loro valore, diventando copertura ideologica
di conflitti all’interno della nobiltà, e dei Comini stessi sulla base di interessi.
Non meno complessa era la situazione del ceto popolare, tenuto insieme solo dalla lotta contro la
nobiltà; ma bastava che la tensione si allentasse, che esplodessero le contraddizioni al suo interno.
Le stesse corporazioni none erano pienamente solidali tra loro, perché le categorie con una forza
economica maggiore avevano maggiore pressione sul governo.
Le esigenze delle lotte contro i nobili fece si che queste differenze si accantonassero, per cui
mercanti, artigiani, intellettuali, laici, diedero vita ad una propria associazione: societas populi, con
capi e consigli. Il risultato fu che in città vi era la coesistenza di più centri di potere, dotati di
notevole raggio d’azione.
A complicare ulteriormente la situazione politica fu il fenomeno del fuoriuscitismo, vale a dire
l’espulsione dalla città degli esponenti della parte perdente, con relativa confisca dei beni. I
fuoriusciti si riorganizzavano però anch’essi in comune, stabilendo collegamenti con Comuni rivali,
e spesso riuscivano a rientrare in città espellendo i loro nemici.
Di queste lotte approfittò il popolo, che non poche volte riuscì a prendere il potere. Tuttavia i
governi popolari si rivelarono incapaci a mantenere a pace, poiché non tutelavano le classi più
povere, spingendole alla rivolta, e avevano atteggiamenti punitivi verso la vecchia classe
aristocratica del cui apporto avevano invece bisogno sul piano militare. Inoltre anche in questi casi,
il potere fu sempre nelle mani delle arti maggiori e medie, che tennero fuori artigiani e ari minori,
nonché i salariati delle industrie cittadine.
17-LA DIFFUSIONE DEI RAPPORTI FEUDO-VASSALLATICI
I rapporti feudo-vassallatici raggiunsero nel XI-XII secolo la massima diffusione, perché furono
esportati anche in territori dove non erano mai stati sperimentati in precedenza. Ne furono
protagonisti soprattutto i cavalieri provenienti dal ducato di Normandia, formato nella Francia
settentrionale in seguito allo stanziamento dei Vichinghi.
I Normanni erano attratti dall’Inghilterra, in cui avevano compiuto ripetute incursioni senza riuscire
a dar vita a vere dominazioni. Ci tentarono dopo il mille, ma alla morte del re, l’Inghilterra recuperò
l’indipendenza con il re Edoardo il Confessore. Alla sua morte priva di eredi, gli successe il
cognato, contro il quale si levò il duca di Normandia Guglielmo che riuscì a sconfiggerlo.
Con l’ascesa al trono di Guglielmo, detto poi il Conquistatore, l’Inghilterra si venne legando
strettamente alla Francia. Giunsero infatti nell’isola la lingua e i costumi francesi. Il Conquistatore e
i suoi successori si posero il duplice obbiettivo di rendere accetto alla popolazione il nuovo ceto
dirigente e di rafforzare il potere monarchico, perciò lasciarono intatta la divisione del regno. La
potenza della monarchia inglese si accrebbe ancora di più verso la metà del secolo XII, quando salì
al trono Enrico II, con lui i domini della corona in territorio francese si ampliarono a dismisura.
Altri cavalieri provenienti dalla Normandia erano impegnati già da qualche decennio nella
creazione di una salda dominazione politica al centro del Mediterraneo. I Normanni in Italia
meridionale non giunsero come un esercito di conquistatori, ma a piccoli gruppi e con la speranza di
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farvi fortuna. Il loro inserimento fu facilitato dalla situazione politiche che trovarono al loro arrivo: i
principi longobardi, nominalmente i pendenti da Bisanzio, erano da tempo praticamente autonomi,
mentre la Sicilia era sotto il dominio mussulmano. Essi cominciarono quindi ad inserirsi da
protagonisti nelle lotte tra le varie formazioni politiche locali, offrendo i loro servigi ora a una ora
all’altra, a seconda dell’entità del compenso. Verso la metà del XI secolo la minaccia normanna
cominciò ad essere evidente a tutti, ma fu il pontefice Leone IX a farsi promotore di una coalizione
contro i temibili cavalieri francesi.
Tuttavia la coalizione antinormanna fu rovinosamente sconfitta in Puglia e lo stesso pontefice fatto
prigioniero, fu liberato solo quando riconobbe le loro conquiste in cambio dell’appoggio politico e
militare.
Forte dell’investitura papale si avviarono alla conquista della Sicilia mussulmana, allora in piena
fioritura economica e culturale ma in crisi sul piano politico a causa delle tendenze autonomistiche
delle signorie locali, il che favorì la conquista normanna.
Ma la cultura arabo-siciliana continuò a fiorire nelle città, tanto che la corte normanna assunse un
carattere del tutto particolare nel panorama politico-culturale dell’Occidente cristiano.
Quando anche l’ultimo possedimento bizantino in Italia, Bari, fu conquistato, si sottomisero Amalfi
e Salerno. Si formava così uno dei regni destinati a durare fino al 1860.
Il Regno di Sicilia, con Ruggero II si configurò in breve tempo come uno dei meglio organizzati del
tempo, lui e i suoi successori seppero infatti sfruttare a fondo le strutture di governo ereditate da
Arabi e Bizantini, dotando il regno di un efficiente amministrazione. Questo diede loro una grande
capacità di produrre leggi e di procurarsi entrate fiscali e il controllo dell’apparato ecclesiastico.
I sovrani normanni costituivano il vertice di una piramide feudale in cui erano inseriti a vari livelli i
discendenti degli antichi conquistatori.
Le città riuscirono quindi a conservare le loro consuetudini e alcune forme di autonomia, grazie alla
capacità dei sovrani di realizzare un equilibrio tra forze locali e autorità regia.
18-LE CROCIATE
come già detto, papa Urbano II, dopo avre deplorato le guerre fratricide tra cristiani, esortò a
intraprendere un pellegrinaggio in Terrasanta come mezzo di purificazione dei peccati e come
occasione di recare aiuto alla Chiesa orientale, minacciata dagli infedeli. Se le parole dei pontefice
ebbero una vasta risonanza, fu perché la società europea della fine del XI secolo era pervasa da un
forte slancio espansivo. All’appello dei pontefice rispose infatti il fio fiore della feudalità: cavalieri
francesi, fiamminghi, lorenesi e italiani si diressero subito in Terrasanta, mossi non solo da spirito
di avventura e dal desiderio di conquista, ma anche dall’entusiasmo religioso, senza il quale non si
potrebbe spiegare come riuscissero a superare gravissime difficoltà di carattere ambientale e
organizzativo.
La spedizione si mosse nel giugno del 1097 e procedette in mezzo a gravi difficoltà. La stagione
estiva non era la più propizia per un esercito di cavalieri armati in maniera inadeguata alle
condizioni climatiche di quelle regioni. Ciò nonostante il 25 luglio del 1099, dopo cinque settimane
di assedio, si giunse alla conquista di Gerusalemme, che fu accompagnata dal massacro quasi totale
della popolazione mussulmana ed ebraica.
Questo successo fu reso possibile anche dalle lacerazioni esistenti all’interno del mondo
mussulmano. La situazione cambiò agli inizi del XII secolo, quando l’emiro di Mossul fu in grado
di esercitare una forte pressione sugli stati crociati, che si mostrarono militarmente e politicamente
impreparati a farvi fronte. La prima a cadere fu Edessa. La notizia destò preoccupazione in
Occidente e fu organizzata una nuova crociata, mobilitando i più potenti sovrani d’Occidente.
L’iniziativa si risolse però in un completo fallimento, perché ognuno dei sovrani perseguiva solo i
propri obbiettivi. Solo alla fine si giunse a una forma di coordinamento tra i vari corpi di
spedizione, che non valse però a evitare loro ripetute sconfitte.
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La piena riscossa mussulmana arrivò qualche decennio dopo, ad opera di un curdo, Saladino il
quale si reso completamente indipendente da Banghdad, creando un sultanato che andava
dall’Egitto al Tigri. Nel 1187 sconfisse i Franchi ed entrò trionfate a Gerusalemme. La gravità
dell’evento provocò in occidente una mobilitazione ancora più grande, ma non vi furono ancora
risultati. Gerusalemme rimase in mano ai mussulmani e il clima di entusiasmo religioso si era ormai
definitivamente dissolto.
Ala morte di Saladino il suo impero si frantumò in varie formazioni politiche in lotta tra loro e di
ciò si aveva piena consapevolezza in Occidente; uno dei papi più grandi di tutti i tempi Innocenzo
III, si fece quindi promotore di una grande crociata, con il duplice obbiettivo di riconquistare
Gerusalemme e ricondurre la Chiesa d’Oriente sotto la sovranità pontificia. Ma i crociati attuarono
un cambiamento di programma, e attaccarono Costantinopoli nel 1203, assumendo il controllo della
città, che fu orrendamente saccheggiata. Dopo che l’ingordigia di bottino si fu placata, i
conquistatori procedettero alla formazione dell’impero latino d’Oriente.
Questo impero si rivelò da subito una costruzione politica assai debole, soprattutto a causa
dell’ostilità della popolazione. Naufragò quindi sul nascere la speranza di Innocenzo III di giungere
a un’effettiva riunificazione delle due Chiese. Ma aveva dimostrato di non voler rinunciare a
recuperare Gerusalemme e altri luoghi santi della Palestina; riuscì a far bandire così una nuova
crociata, conclusasi prima ancora di cominciare. Anche il re di Francia Luigi IX, considerato
l’ultimo vero esponente del movimento crociato, fallì entrambe le spedizioni che guidò in Egitto, a
causa dei Mamelucchi, una casta di schiavi-guerrieri molto forti, che avviarono una riconquista
sistematica dei territori rimasti in mano ai cristiani. Questi eventi chiusero definitivamente la
vicenda della presenza politica cristiana in Terrasanta.
19-INNOCENZO III
Innocenzo III era un papa dotato di una concezione altissima della sua dignità e di una lucida
visione dei rapporti tra i poteri operanti all’interno della comunità cristiana.
Il suo primo intervento riguardò il Regno di Sicilia, che la Chiesa considerava da sempre suo feudo.
La morte della regina Costanza, vedova di Enrico VI, forniva ora la pontefice l’opportunità di
tradurre quella sovranità teorica in un governo effettivo. La regina, per tutelare i diritti del figlio
Federico, che aveva appena pochi anni, lo pose sotto la tutela proprio del pontefice, che
approfittando della vacanza del trono imperiale si ergeva come arbitro nella contesa tra i pretendenti
alla successione di Enrico VI. La scelta cadde su Ottone, del partito guelfo. Tuttavia il nuovo
imperatore si dimostrò meno docile del previsto, puntando addirittura ad impadronirsi del Regno di
Sicilia. La reazione del pontefice fu assai dura: Ottone venne scomunicato come traditore e la
corona imperiale fu assegnata proprio al giovane Federico.
Risolta la questione, a Innocenzo ora preoccupavano le iniziative contro i mussulmani. Egli infatti
considerava che fossero soprattutto gli eretici a minacciare l’intera comunità cristiana e la sua
attenzione nei primi anni del duecento si concentrò sui catari, stanziati soprattutto nella contea di
Tolosa, in Francia, dotata di grande autonomia e dove godevano di un largo consenso e della
benevola protezione di tutti gli strati sociali.
Tutto cominciò con l’uccisione da parte dei catari di un delegato papale, che indusse il pontefice a
bandire contro di loro una vera e propria crociata, alla quale accorsero molti cavalieri e che ebbe
successo. Questo successo fu dovuto da un lato alla prospettiva di guadagnare meriti spirituali,
dall’altro la speranza di un bottino ricco. Il risultato fu che stragi e saccheggi, nonostante gli inviti
papali alla moderazione, furono in diverse città non meno orrendi di quelli perpetuati a
Gerusalemme. Si concludeva così definitivamente la parabola dell’ideale della crociata, da
fenomeno religioso a strumento politico nelle mani dei papa. Innocenzo III continuò poi la sua
intensa attività che culminò nel 1215 con il IV Concilio lateranense che vide per la prima volta in
Occidente la partecipazione unita di prelati, abati vescovi, principi e re e nella quale molto spazio fu
dato alla definizione di una strategia globale contro l’eresia.
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20- LA RESTAURAZIONE IN EUROPA
Il re di Francia Filippo Augusto, dotato di grande energia e di notevole abilità politica, operò con
pari impegno sia all’interno del regno sia in politica estera, tentando di indebolire il suo potente
vassallo inglese. Sembrava che i rapporti tra i due regni dovessero migliorare con l’ascesa al trono
di Riccardo, insieme al quale Filippo aveva partecipato alla terza crociata, ma il sovrano francese
aveva ben chiari i suoi interessi. Filippo si schierò con l’imperatore Enrico VI, nemico di Riccardo,
che durante il viaggio di ritorno dalla crociata imprigionò quest’ultimo e lo liberò solo quando ebbe
prestato giuramento di vassallaggio. Con la morte di Riccardo e di Enrico l’impero entrò in una
lunga fase di declino, mentre sul trono inglese saliva il debole Giovanni Senza terra; arbitro della
situazione restava sempre, insieme a Innocenzo III, il re francese, che progettò di conquistare
l’Inghilterra ma dovette fermarsi per l’abile mossa di Giovanni che si mise sotto la protezione del
papato, dichiarandosi feudo della Chiesa. Lo scontro frontale tra le due potenze era però solo
rinviato. L’occasione fu fornita dalla situazione politica della Germania, dove aveva conseguito la
corona Ottone; quando il papa promosse una coalizione contro di lui, Filippo aderì e ciò perché tra
gli alleati dell’imperatore di Germania c’era anche Giovanni.
L’esercito anglo-germanico fu posto in rotta e Filippo Augusto impose il riconoscimento di tutti i
territori da lui incorporati negli ultimi anni, alla sua morte il territorio soggetto al dominio della
corona francese si era triplicato.
Dopo la sconfitta, Giovanni dovette affrontare la reazione dell’opinione pubblica e della nobiltà,
irritate per il carico fiscale che diveniva sempre più pesante a causa della guerra. Quando l’onda
crescente di protesta investì la stessa Londra, baroni e grandi ecclesiasti passarono alla rivolta
aperta imponendo al re la concessione della Magna Charta Libertatum(confermata e redatta in
forma definitiva nel 1217). Con essa il sovrano si impegnava a rispettare i diritti di cui godevano i
nobili, gli ecclesiastici e tutti i liberi del regno, le concessioni a favore di Londra e delle altre città, il
diritto dei sudditi di condizione libera di essere giudicati da tribunali di pari, le consuetudini vigenti
in materia di libera circolazione dei mercati. Si obbligava a non imporre tasse nuove senza
l’approvazione della nobiltà e del clero e a farsi assistere negli affari di governo da una curia di 25
baroni. I rivoltosi volevano soltanto garantire il rispetto della tradizione, limitando gli abusi dei
funzionari regi in materia giudiziaria e fiscale. La promulgazione della carta portò alla sconfessione
di Giovanni ad opera del papa e il risultato fu che i ribelli lo dichiararono decaduto e offrirono
inizialmente la corona a Luigi, figlio di Filippo Augusto, ma in nome del nascente sentimento
nazionale, si preferì infine lasciare la corona al figlio di Giovanni, Enrico III.
Federico II, intanto, dovette fare fronte all’ostilità dei sostenitori italiani e tedeschi di Ottone e
decisivo si rivelò l’appoggio dei vescovi e dei principi ecclesiasti, i quelli gli fornirono aiuti
militari. aiuto grazie al quale riuscì a farsi incoronare re di Germania dall’arcivescovo di Magonza.
Non si trattava però di un aiuto disinteressato, dato che si chiese a Federico di emanare nel 1213 la
Bolla d’Oro con la quale rinunciò ai diritti del concordato di Worms sull’elezione di vescovi e abati.
Nel frattempo Innocenzo III aveva tentato di risolvere l’antico problema della divisione della
corona di Sicilia da quella imperiale, per evitare che lo Stato della Chiesa venisse a trovarsi tra due
domini di uno stesso sovrano. Si era fatto quindi promettere da Federico che avrebbe rinunciato al
trono di Sicilia in favore del figlio Enrico. La scomparsa del pontefice due settimane dopo indusse
però il sovrano a ritrattare la promessa. La ritrattazione era stata possibile grazie all’indole
remissiva del nuovo pontefice Onorio III, con la sola idea della riconquista di Gerusalemme in
mente. Fu possibile a Federico mantenere le due corone unite grazie alla sola promessa di partire
prima possibile per la crociata. Subito dopo Federico II si trasferì nel Mezzogiorno; il regno era
rimasto in balia dei comandanti militari tedeschi, feudatari e comunità cittadine avevano
approfittato della debolezza della monarchia per estendere i loro domini e le loro autonomie. Il suo
primo obbiettivo fu quindi quello di rivendicare tutti i diritti regi con la dieta di Capua in cui si
decise di far abbattere i castelli costruiti abusivamente, di annullare le più avanzate autonomie
cittadine e riesaminare i privilegi concessi. Subito dopo affrontò il problema dei Saraceni di Sicilia,
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che erano diventati padroni di vaste zone dell’isola, sottraendosi completamente al controllo della
monarchia. Dopo numerose campagne i ribelli furono sconfitti. Contemporaneamente cercò di
risollevare la situazione economica del regno, facilitando gli scambi, costruendo porti e garantendo
la sicurezza delle strade.
È evidente che Federico aveva già chiari i ruoli e le prerogative del potere regio: prerogative che
egli pensava di riuscire ad esercitare anche in Italia centro-settentrionale, dove intanto una lunga
crisi dell’impero aveva consentito ai Comuni di svilupparsi ulteriormente in assoluta autonomia.
Indisse pertanto una dieta a Cremona in cui si sarebbe dovuto discutere del ripristino dei diritti
imperiali; ma le città lombarde preoccupate per i piani imperiali, si unirono nuovamente nella lega
lombarda e si appellarono al pontefice. L’imperatore ritenne opportuno non forzare la situazione e
annullò la dieta.
Intanto moriva il mite Onorio III e gli succedeva l’intransigente Gregorio IX, che assunse verso
Federico un atteggiamento di grande fermezza e imponendogli di partire per la Terrasanta come
aveva promesso. Questa volta l’imperatore non potè più sottrarsi all’impegno che aveva assunto.
Immediatamente convocò i crociati, ma una epidemia, che colpì lo stesso Federico, impedì la
partenza. Il papa non credendo alla malattia lanciò contro di lui una scomunica.
Federico, appena guarito, riprese tuttavia i preparativi per la crociata e partì di nuovo, nonostante la
scomunica. Trovò subito un intesa con il sultano, arrivando a stipulare un trattato, grazie al quale
Gerusalemme fu restituita ai cristiani, ma prevedeva anche lo smantellamento di tutte le
fortificazioni della città. Gregorio IX trovò scandalosi i buoni rapporti stabiliti da Federico con gli
infedeli e il risultato fu che l’imperatore ritornato in Italia dovette fronteggiare un’altra crociata
bandita però contro di lui dal pontefice. Respinto l’esercito crociato potè raggiungere finalmente un
compromesso con il papa; l’imperatore fu prosciolto dalla scomunica, ma dovette rinunciare ad ogni
forma di controllo sull’elezione dei vescovi. Il boccone amaro ingoiato consentì comunque
all’imperatore di potersi dedicare al consolidamento del suo regno, di cui tentò a più riprese di
migliorare l’organizzazione amministrativa. Il momento più significativo fu l’emanazione nel 1231
delle Costituzioni di Melfi, con le quali dotò il regno di un codice di leggi, ispirato alla tradizione
giuridica romana. Anche in Germania promulgò un importante codice di leggi, la Costituzione di
pace imperiale, emanata a Magonza nel 1235, con la quale riordinò tutto il diritto penale tedesco.
A questo punto l’imperatore ritenne di essere ora in grado di imporre la sua volontà alla Lega
lombarda. Ed effettivamente nel 1238 inflisse ad essa una grave sconfitta presso Bergamo; commise
però l’errore di imporre condizioni di pace eccessivamente dure, che sortirono l’effetto di spingere
le città ad una resistenza a oltranza. A incoraggiarle contribuiva Gregorio IX, che mostrava
crescenti segni di irritazione per la politica dell’imperatore, il quale non rispettava gli obblighi
assunti interferendo con l’attività dei vescovi. Il Papa diede inizio, infatti, ad una intensissima
attività diplomatica per mettere fine alle divisioni tra potenziali nemici dell’imperatore e coalizzarli
contro di lui. Fu perfino possibile unire in una lega le città di Genova e Venezia. Lanciò infine la
seconda scomunica contro Federico II e scatenò una campagna diffamatoria contro di lui,
additandolo come l’incarnazione dell’Anticristo, molti comuni italiani abbandonarono il partito
ghibellino, lo schieramento filoimperiale, per passare a quello guelfo, a cui faceva capo il papa.
Fatti che resero terribili i suoi ultimi anni di vita, nel tentativo frenetico di contrastare i suoi nemici.
Dopo la morte anche del figlio il trono rimase vacante, fino a quando fu eletto il debole Rodolfo
d’Asburgo. Ma mentre in Germania tramontava la possibilità di creare un saldo organismo politico,
nel Regno di Sicilia gli sforzi di Federico non andarono perduti; se ne fece continuatore, infatti, il
figlio naturale Manfredi, che si fece incoronare re a Palermo. Tuttavia il papa era deciso a
eliminare definitivamente gli Svevi dalla scena politica e contro di lui chiamò in Italia Carlo
d’Angiò, fratello del re di Francia. Manfredi cercò di bloccarlo ma fu sconfitto e morì combattendo.
Il nuovo sovrano proseguì l’opera di consolidamento dell’apparato burocratico - amministrativo.
Intanto la Spagna era alle prese con il movimento di liberazione dal dominio mussulmano, ma
solo raramente si trasformò in compagne militare, trattandosi per lo più di incursioni a scopo di
razzia. Solo tra il X e XI secolo il movimento assunse maggior vigore, connotandosi anche come
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impresa politica e religiosa e acquistando, poi, il carattere quasi di una crociata. Vi contribuirono i
rapporti stretti con l’Occidente, dove la rinnovata iniziativa papale aveva avuto come effetto anche
l’arrivo di numerosi cavalieri in Spagna, per combattere contro i mussulmani. Gli Spagnoli
mostravano però di perseguire soprattutto l’obbiettivo di sottomettere politicamente i mussulmani e
non di sterminarli, accontentandosi di imporre loro la propria protezione in cambio di un tributo
annuo; i mussulmani conservarono perciò i propri beni e le loro leggi, oltre alla possibilità di
professare la loro religione. Solo nelle principali città subirono restrizioni, e dovettero
abbandonarle. Si comprende perciò la delusione dei cavalieri venuti dall’estero, i cui furori crociati
mal si conciliavano con la politica dei sovrani spagnoli, improntata a una realistica considerazione
dei propri interessi. Il movimento riprese poi alla fine del XII secolo, poiché l’avanzata cristiana
non era più contenibile. Verso la metà del Duecento la “reconquista” poteva dirsi conclusa, essendo
rimasto ai musulmani solo un piccolo territorio alle pendici della Sierra Nevada. Contro di esso i
sovrani castigliani non rinunciarono mai ai loro progetti di conquista, ma per più di due secoli non
furono in grado di realizzare uno sforzo bellico risolutivo. La lunga guerra contro i mori lasciò sulla
società spagnola una impronta destinata a mantenersi nel tempo: innanzitutto il carattere di guerra,
richiedendo un continuo coinvolgimento delle popolazioni rurali e urbane, aveva permesso a queste
di conseguire larghissimi spazi di autonomia.
21-LA RUSSIA E L’IMPERO MONGOLO
tra il VIII secolo pirati-mercanti provenienti dalla Scandinavia, i Vichinghi, si mossero lungo le due
vie commerciali che collegavano il mar Baltico con i grandi imperi bizantino e arabo. Le
popolazioni slave chiamavano Rus questi stranieri che creavano nuovi insediamenti o si stabilivano
nei pressi dei mercati frequentati da arabi e da altri mercanti alla ricerca di miele e pellicce. Presto i
Rus presero però ad imporsi sulle popolazioni locali, assumendo il controllo di centri commerciali
dove erano già numerosi. Rinforzati poi dall’afflusso di altri gruppi provenienti dalla loro terra
d’origine, diedero vita a una vasta dominazione territoriale, il principato di Kiev, che strinse subito
rapporti commerciali con Bisanzio. La conversione del popolo al cristianesimo è considerato uno
degli eventi più importanti della Cristianità, grande successo per i missionari bizantini. A partire
dalla metà del XI secolo il principato di Kiev cominciò però a decadere, a causa delle lotte
dinastiche alimentate anche dalla consuetudine di dividere il potere tra i vari membri della famiglia
del principe.
Vecchie e nuove formazioni politiche erano però destinate ad essere travolte dai Mongoli,
popolazione seminomade e organizzati per la prima volta militarmente da Gengis Khan.
Straordinaria fu la sua capacità di valorizzare a fondo la tradizione guerriera del suo popolo, ma
ancora più straordinaria fu la sua capacità di trasformare tribù in continuo contrasto tra loro in una
nazione stretta intorno ad un unico sovrano. Nei confronti delle popolazioni conquistate, Gengis
Khan ebbe un atteggiamento improntato sulla duttilità: quelle che si sottomettevano
spontaneamente non subivano danni, quelle ce si opponevano furono decimate e distrutte. Passata
tuttavia la furia devastatrice della conquista, cominciarono ad apparire i primi segni del
superamento della civiltà nomade; ai territori soggetti fu imposta una rudimentale amministrazione
affidata a funzionari mongoli e le città distrutte furono ricostruite.
La morte di Gengis Khan non valse a frenare lo slancio espansivo dei Mongoli, che completarono la
conquista della Cina e della Corea e sottomisero la Persia. Nel giro di pochi anni, furono travolti i
principati russi e quando la minaccia arrivò alle porte di Vienna il papa lanciò una crociata contro di
loro, quando all’improvviso i mongoli ripiegarono e tornarono indietro. Le popolazioni europee
tirarono un sospiro di sollievo. Continuarono invece l’avanzata verso l’Egitto, dove ebbero le prime
sconfitte, poco dopo vennero cacciati anche dalla Mesopotamia e un'altra battuta d’arresto subirono
in India. Questi insuccessi furono dovuti a rivalità interne sempre più accese tra i familiari di
Gengis e le tendenze separatiste, inevitabili in un organismo politico così vasto. Si formarono così 4
grandi imperi, destinati a prendere sempre di più le distanze tra loro. Il maggiore degli imperi
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mongoli fu quello che comprendeva grosso modo le attuali Mongolia e Cina; quest’ultima in
particolare aveva una prospera economia e una classe dirigente dallo stile di vita assai raffinato, che
modificarono i costumi rozzi dei Mongoli. I primi a recarsi alla corte del Gran Khan, furono
missionari e mercanti italiani, spinti dalla prospettiva di raggiungere direttamente i luoghi di
produzione della seta e delle spezie(i primi furono proprio i veneziani), ma le missioni cattoliche
non diedero però alcun risultato né sul piano politico che religioso.
L’ultimo degli imperi nati dalle conquiste di Gengis Khan fu l’Orda d’oro, il primo ad acquisire una
sua particolare fisionomia, distaccandosi dal mondo mongolo e integrandosi già in quello islamico-
mediterraneo. Lo dimostrarono la conversione all’Islam e gli stretti rapporti economici e culturali
con l’Asia minore e l’Egitto.
22-LA CRISI DELL’EUROPA
Agli inizi del Trecento un po’ ovunque in Europa si registra un rallentamento di quella processo di
crescita che aveva investito nei tre secoli precedenti. Innanzitutto cominciano a diradarsi le grandi
opere di dissodamento; rallentato appare anche il ritmo della fondazione di nuovi insediamenti,
poiché le terre si erano rivelate sempre meno produttive. Perciò quando il rapporto tra popolazione e
territorio raggiunse il suo punto di rottura, non si potè evitare l’insorgere di frequenti carestie. La
conseguenza fu un aumento generale del tasso di mortalità al quale seguì un calo del tasso delle
nascite. A peggiorare la situazione intervenne il clima, sempre più freddo e piovoso e le ricorrenti
catastrofi naturali (i più gravi furono i terremoti del 1348-1349). L’equilibrio tra risorse e
popolazione era ovunque precario, soprattutto nelle città , dove cercavano rifugio sempre più
abitanti delle campagne. Questo fece peggiorare le condizioni igieniche delle città di quel tempo e
rese il terreno propizio al dilagare di malattie e d epidemie. Disastrosa fu la peste del 1348, che
provocò ovunque vuoti paurosi nella popolazione. Vuoti non facilmente colmabili dato che allora la
peste si stabilì in Europa in forma endemica, esplodendo più o meno violentemente ora in una
regione, ora in un'altra. Solo agli inizi del Cinquecento si tornerà al livello generale della
popolazione europea dei primi del Trecento.
A debilitare ancora di più le popolazioni erano le guerre di espansione e tra signori, combattute ora
soprattutto con milizie mercenarie, volte ad annientare l’avversario attraverso la distruzione delle
sue risorse e che non facevano molta differenza tra la popolazione che erano chiamati a difendere e
quella nemica facendo gravare su tutte saccheggi e vessazioni di ogni tipo. Le spese militari sempre
crescenti costrinsero inoltre gli Stati ad aumentare la pressione fiscale.
Tutto questo contribuì a far esplodere da un capo all’altro dell’Europa rivolte contadine e tensioni
sociali. La più famosa è certamente la jacquerie francese che partì dall’Ile-de-France e si estese
rapidamente in una vasta area, trovando anche l’appoggio del ceto mercantile di Parigi. Violenta fu
la reazione della nobiltà la quale nel giro di pochi giorni ebbe la meglio sui rivoltosi.
Anche in Inghilterra la rivolta ebbe nei contadini l’elemento propulsivo, ma coinvolse in seguito
anche operai salariati e artigiani, trovando perfino copertura ideologica in non pochi esponenti del
clero; il re Riccardo II e i nobili si videro costretti ad accogliere buona parte delle richieste dei
rivoltosi e a concedere un’amnistia.
Nelle città che avevano avuto un forte incremento dell’artigianato e un conseguente aumento della
concentrazione di un gran numero di salariati, si assisté alle loro rivolte, dovute alla mancanza di
tutela sindacale e per il fatto di non potersi riunire in associazioni di mestieri come i loro datori di
lavoro riuniti nelle corporazioni. Inoltre l’attività produttiva legata all’andamento del mercato,
aveva conseguenze drammatiche per le famiglie dei lavoratori, ai quali il livello basso dei salari non
permetteva di risparmiare per superare periodi di disoccupazione.
A più nota delle rivolte urbane del Trecento scoppiò a Firenze ad opera dei Ciompi, operai tessili,
che non si limitavano a chiedere aumenti dei salari, ma riproponevano di modificare completamente
i rapporti di potere all’interno della città. Chiesero quindi la creazione di un’arte di operai tessili che
tutelasse dalle pretese dei padroni e granisse la loro partecipazione al governo, allenandosi con e arti
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minori discriminate dalle maggiori. La strategia dei rivoltosi diede all’inizio i frutti sperati;
ottenendo la creazione di nuove arti e la presenza di rappresentanti all’interno della massima
magistratura cittadina(priorato). Però i contrasti tra datori di lavoro e lavoratori non erano sanati, ma
solo trasferiti così all’interno della struttura di governo. I rivoltosi pretendevano l’abolizione delle
gabelle sui cereali e l’abbassamento dei prezzi dei generi di prima necessità; i datori di lavoro
ricorsero allora alla serrata, chiudendo le loro botteghe. A quel puntosi ruppe l’alleanza dei Ciompi
con le arti minori, interessate alla ripresa delle attività, i rivoltosi rimasti soli non riuscirono a
fronteggiare i datori di lavoro e la loro corporazione fu soppressa.
23-MONARCHIE IN EUROPA
Il problema del ruolo di impero e papato nella politica europea si venne chiarendo agli inizi del
Trecento grazie anche al rapido succedersi di eventi, soprattutto in Italia, Francia e Germania.
Il primo ebbe come protagonisti il re di Francia Filippo IV il Bello e il pontefice Bonifacio VIII,
il quale era asceso al trono pontificio in mezzo ad aspri contrasti di natura politica e religiosa. La
sua elezione, infatti, era stata contestata sia dalle altre famiglie della nobiltà, sia da quei settori degli
ordini mendicanti e del laicato poi, che reclamavano con sempre maggiore forza un rinnovamento
della Chiesa all’insegna del ritorno ai valori evangelici di povertà e carità.
Il nuovo pontefice non si lasciò intimidire dalle accuse e dai sospetti e si mosse con determinazione
contro i suoi oppositori, coronando una serie di iniziative volte a riaffermare il ruolo centrale del
papato e della Chiesa. Questi progetti si scontravano con l’opera di consolidamento dello Stato
attuata da Filippo e che aveva coinvolto anche il clero, imponendogli tributi senza autorizzazione
della Santa Sede. Il conflitto che ne derivò fu risolto solo con un compromesso, che concedeva al re
il diritto di tassare il clero in caso di necessità senza l’autorizzazione di Roma. Ma a seguito
dell’imprigionamento da parte di Filippo di un vescovo molto legato al papa, questi annullò la
concessione fatta. Il sovrano riunì allora a Parigi gli Stati generali(con rappresentati del clero, della
nobiltà e della borghesia) per far approvare la sua politica di indipendenza da Roma. Il Papa emanò
allora la Unam Sanctam, con cui riaffermava la sottomissione del sovrano al pontefice, che
deteneva entrambi i poteri, spirituale e temporale, ma che affidava ai laici quello temporale.
Dopo una violenta campagna scandalistica contro il pontefice, Filippo concepì l’rdito disegno di
tradurlo davanti a un tribunale francese, per sottoporlo a giudizio. Alla testa di un manipolo di
uomini raggiunse il suo palazzo, e lo trascinò via. A quel punto la popolazione insorse, costringendo
i Francesi a battere in ritirata. La condanna dell’azione del sovrano fu generale, ma senza
conseguenze per lui, essendo morto Bonifacio pochi giorni dopo.
Anzi, si trovò addirittura in condizione di esercitare un controllo diretto sul papato in seguito al
trasferimento della sede pontificia da Roma ad Avignone. Clemente V, prima arcivescovo di
Bordeaux, era succeduto a Bonifacio, e temendo un’accoglienza ostile da parte dei Romani, preferì
stabilirsi ad Avignone.
In Germania, invece, il particolarismo politico si era particolarmente accentuato a causa delle
spinte autonomistiche delle città e del rafforzamento dei principati laici ed ecclesiastici. Quando
divenne re di Germania Enrico VII tentò di restaurare l’autorità regia, unendo di nuovo ad essa la
dignità imperiale, per cui giunse in Italia per cingere la corona di imperatore. L’impresa registrò un
totale fallimento dato che morì l’anno dopo. Il suo successore si orientò verso un’altra
interpretazione del suo ruolo, e non curandosi della scomunica ricevuta dal papa, si fece incoronare
imperatore a Campidoglio da un rappresentante del popolo romano. Ciò valse a creare il
presupposto per la riforma dell’elezione imperiale, operata nella dieta di Rehns nel 1338 dai
principi tedeschi, che decisero che la dignità imperiale era attribuita automaticamente a chi era stato
eletto re di Germania e incoronato ad Aquisgrana. Il nuovo imperatore Carlo IV diede poi sanzione
definitiva a quanto deciso con la celebre Bolla d’Oro, precisando che l’elezione spettava a 7 grandi
elettori: 4 laici e 3 ecclesiastici.
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Rafforzamento e riorganizzazione delle Stato erano in atto anche in Inghilterra, sebbene la magna
Charta concessa. Il Concilio che intanto aveva preso il nome di Parlamento aveva cominciato a
riunirsi sempre più spesso, articolandosi in una Camera di pari, comprendente i grandi nobili e gli
alti ecclesiastici, e in una Camera dei comuni, che accoglieva la piccola nobiltà, il basso clero e
rappresentati della città.
Il contemporaneo consolidamento delle istituzioni in Francia e in Inghilterra si scontrava con la
realtà di una monarchia inglese, il cui titolare avendo molti feudi in Francia, era vassallo del re di
Francia. Quest’ultimo a sua volta si vedeva nell’impossibilità di esercitare diritti sovrani su un
vassallo tanto forte; a ciò si aggiungeva la concorrenza che le due monarchie si facevano sul
controllo delle Fiandre. Un terzo terreno di scontro era rappresentato dalla Scozia che i re inglesi
ambivano ad avere sotto il loro controllo, ma che i Francesi erano interessati a difendere per evitare
la crescita del potente rivale. Ne nacque una serie interminabile di conflitti tra i due regni, protrattisi
dal 1337 al 1453, e che presero il nome di “guerra dei cento anni”.
La prima fase di questa guerra fu favorevole agli inglesi e in Francia l’andamento negativo delle
azioni belliche unite alle epidemie di peste creavano una situazione esplosiva a livello sociale. Si
giunse così alla pace di nel 1360, con la quale il re inglese rinunciava ai suoi diritti sul trono di
Francia, ma riceveva in cambio la piena sovranità su un terzo del territorio francese. Le ostilità
ripresero nel 1369. Intanto in entrambi gli stati il potere veniva scosso da gravi crisi dinastiche e
conflitti sociali che portarono all’avvento sul trono inglese della dinastia dei Lancaster, il sovrano
inglese sbarcato in Normandia travolse l’esercito francese occupando gran parte della Francia nord-
occidentale, compresa Parigi. Avvenne allora un fatto inatteso. Giovanna d’Arco, una pastorella
animata da forte spirito patriottico, rivelò di aver avuto alcune visioni attraverso le quali Dio stesso
le avrebbe ordinato di salvare la Francia dagli invasori e di restituire il regno al legittimo sovrano.
La Francia sembrò percorsa da un’ondata di entusiasmo patriottico e i risultati non si fecero
attendere. Tuttavia Giovanna fu fatta prigioniera dai Borgoni e portata in territorio inglese dove fu
processata e condannata al rogo per eresia. La scomparsa dell’eroina non fermò però la riscossa
francese, favorita anche dalla situazione di debolezza in cui si trovavano gli inglesi per la minore
età del loro sovrano Enrico VI. Parigi fu riconquistata in pochi anni insieme a tutto il centro della
Francia; quando le operazioni militari cessarono non era rimasto quasi nulla nelle mani degli
inglesi.
La Francia uscì esausta dalla guerra dei cent’anni, ma in condizione di riprendersi rapidamente,
soprattutto grazie al neonato spirito nazionale che si era formato nel popolo durante il conflitto.
Grazie a questo il nuovo imperatore Luigi XI potè intraprendere una politica antifeudale molto
spregiudicata, che lo portò and estendere la sua autorità su gran parte del territorio francese e a
recuperare feudi sui quali la giurisdizione dei sovrani era da secoli solo teorica.
Molto più incerta era invece la situazione politica in Inghilterra, in cui la monarchia era indebolita
per la mancanza di eredi a Enrico VI. Questo fece si che gran parte dell’aristocrazia diventasse
arbitra del potere, dividendosi in due fazioni e cercando i ipotecare la successione al trono.
La lunga e rovinosa guerra civile che ne scaturì prese il nome di guerra delle due Rose, dal
momento che i sostenitori della casa di York avevano come simbolo una rosa bianca e quelli della
casa dei Lancaster una rosa rossa.
Dopo circa venti anni di lotte sanguinose e di continui ribaltamenti dei rapporti di forza tra i
contendenti, il successo sembrò arridere ai primi. Ma una rivolta capeggiata da Enrico Tudor,
discendete dei Lancaster, mise fine in soli due anni al nuovo regno e segnò l’inizio della dinastia dei
Tudor. Il nuovo sovrano potè intraprendere finalmente l’opera di restaurazione dell’autorità regia,
sottraendosi quasi completamente al controllo del Parlamento. In questa sua azione un elemento di
forza fu costituito, come in Francia, dal sentimento nazionale che anche qui si era formato a seguito
della guerra dei cent’anni.
In Spagna si erano formati dal plurisecolare movimento di reconquista i tre regni di Portogallo,
Pastiglia e Aragona, tutti nel corso del tre-quattrocento sconvolti da violente crisi dinastiche e gravi
tensioni sociali.
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Quello che le superò per primo fu il Portogallo, grazie all’impulso che il sovrano diede in tutto il
paese alle attività marinare, per cui agricoltori e pastori si trasformarono in marinai e mercanti. In
politica estera si consolidava intanto l’alleanza con l’Inghilterra.
In Castiglia, invece, si fece sentire il peso della nobiltà, la quale si divise in fazioni contrapposte e si
inserì nelle contese dinastiche con tutto il potenziale bellico e l’aggressività possibile.
La situazione migliorò nel corso del quattrocento, perché le città, riunitesi in fratellanze,
acquistarono una situazione preminente consentendo così alla monarchia di farne un efficace
contrappeso.
Il regno di Aragona si presentava invece come una realtà composita dal punto di vista economico-
sociale e politico e cominciò a guardare con interesse alle coste della Spagna meridionale e verso le
isole del Mediterraneo arrivando ad acquisire il controllo prima delle Baleari e di Valencia, e
successivamente della Sicilia e della Sardegna, che portò il regno a diventare un vero e proprio
impero marittimo. Inoltre grazie al matrimonio del figlio del re, Ferdinando, con Isabella di
Castiglia, si posero le basi per una vera e propria egemonia nel Mediterraneo. Il matrimonio non
portò però l’unione dei due regni, che mantennero le loro individualità e istituzioni, ma nel
frattempo i due regnanti si riproposero di far nascere una coscienza nazionale spagnola, puntando
sul fattore religioso. Ne fecero le spese gli Ebrei e i mussulmani, costretti a scegliere la espulsione o
conversione; molti preferirono partire impoverendo così l’agricoltura delle regioni interne. Isabella
e Ferdinando si trovarono presto a svolgere un ruolo di primo piano in un evento destinato a dilatare
le frontiere del mondo: la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Già dopo la prima
spedizione fu necessario definire le aree di influenza Spagnole e Portoghesi, attraverso la bolla Inter
cetera si giunse al trattato di Tordesillas, che prevedeva la divisione dell’Oceano Atlantico: la parte
orientale era destinata ai portoghesi, quella a occidente agli spagnoli; trattato che avrebbe scatenato
in breve tempo il malcontento delle altre grandi potenze europee e la conflittualità internazionale.
Del tutto particolare fu l’esperienza della Confederazione Svizzera, poiché il processo di
ricomposizione politico-territoriale avvenne per iniziativa di comunità di contadini liberi, sorte nelle
regioni alpine, a prevalente economia pastorale ma che aveva acquisito importanza militare per il
controllo dei valichi, importanti per gli scambi tra Italia e Centro Europa. Sul finire del XIII secolo
era passata sotto la sovranità degli Asburgo, e fu proprio per contrastarli che le comunità locali
diedero vita ad una lega che riuscì a sconfiggere i cavalieri austriaci, destando stupore in Europa.
Presto ai tre cantoni che avevano formato la lega se ne aggiunsero altri, tra cui città e fu necessario
darsi un ordinamento unitario a cui seguì un patto militare.
24- IL MEZZOGIORNO
Le novità di carattere amministrativo e finanziario che si sono viste emergere nell’organizzazione
degli Stati Europei dell’Occidente, si ritrovarono anche nell’antico Regno di Sicilia che, ricco,
ordinato e in una posizione strategica nel Mediterraneo attirò su di se le mire dinastiche straniere. Il
regno fu conquistato da parte di Carlo d’Angiò, sotto sollecitazione del pontefice; egli si propose
due obbiettivi: rendere effettivo il vincolo feudale che subordinava la monarchia meridionale alla
Chiesa romana; e procurarsi un valido sostengo per riunire intorno al papato tutte le forze guelfe
dell’Italia centro-settentrionale. Sotto gli Angioini vi fu un forte sviluppo delle autonomie cittadine;
mentre al Nord i Comuni avevano perso la loro autonomia politica, al Sud le amministrazioni locali
si sottraevano sempre di più al controllo di funzionari regi. I progetti del giovane Carlo, però, solo
in parte coincidevano con quelli papali. Egli mirava, infatti, ad attuare un ampio disegno di
egemonia europea e mediterranea, che, facendo perno sulla Sicilia, sarebbe dovuto culminare nella
conquista di Costantinopoli. Questo piano fece nascere i dissapori con il papa, ai quali si andavano
aggiungendo e lamentele della popolazione per i soprusi dei funzionari regi e per il carico fiscale
eccessivo a causa dei costi sempre più alti della sua politica espansionistica, cui si affiancava una
massiccia penetrazione in Italia centro-settentrionale, dove tutti i comuni guelfi accettarono il
protettorato. Il malcontento esplose e venne represso duramente, ma comportò anche un
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rinnovamento della feudalità, con l’immissione nei suoi ranghi di numerosi cavalieri francesi, e il
malcontento si diffuse ancora di più. In questo clima non sorprende la vasta adesione che ebbe in
Sicilia il moto insurrezionale scoppiato a Palermo, dopo lo scontro avvenuto all’ora del Vespro(di
qui il nome rivolta del vespro) tra giovani siciliani e soldati francesi. I Siciliani subito dopo la
rivolta avevano offerto la corona di Sicilia a Pietro III, un Aragonese, opponendosi a qualsiasi tipo
di accordo che riportasse alla situazione anteriore; a spingere vero quella soluzione era invece il
pontefice che considerò gli Aragonesi come usurpatori arrivando a bandire contro di loro una
crociata. La situazione sembrò doversi sbloccare con la salita di papa Bonifacio VIII che creò le
condizioni perché si arrivasse a un trattato( il Trattato di Anagni, 1295) col quale il nuovo re
d’Aragona, in cambio dell’investitura del regno di Sardegna e Corsica, rinunciava alla Sicilia che
restava in mano agli Angioini di Napoli. Ma i Siciliani si ribellarono e offrirono ancora una volta la
corona agli Aragonesi. Federico III d’Aragona fu riconosciuto così re, con l’intesa però che alla sua
morte l’isola sarebbe tornata agli Angioini. Le cose non andarono tuttavia così perché l’isola rimase
sotto la dinastia Aragonese e inutilmente i d’Angiò tentarono la riconquista.
Questi ripetuti tentativi di riconquista costrinsero i successori di Federico ad un impegno bellico
costante, che li mise in condizioni di debolezza nei confronti della nobiltà la cui collaborazione era
indispensabile sul piano militare. Si giunse così con il consenso del re alla divisione del regno in
due parti, orientale e occidentale e alla sua morte il regno venne diviso addirittura tra quattro nobili
vicari. Una svolta fu rappresentata dalla comparsa sulla scena del re d’Aragona Pietro IV che fece
rapire Maria, unica figlia di Federico, per darla in moglie al nipote Martino. Martino scese così in
Sicilia alla testa di una armata impegnandosi nella lotta ai baroni ribelli e nella riorganizzazione del
regno, che fu dotato di un parlamento. Si instaurò così una più equilibrata dialettica tra monarchia e
poteri locali e nello stesso tempo riprese la crescita dell’economia. La morte di Martino segnò però
la fine dell’indipendenza Siciliana perché l’isola rimase definitivamente legata all’Aragona,
passando al futuro re di Napoli Alfonso il Magnanimo. Per acquisire il regno di Napoli, Alfonso
dovette ingaggiare una dura lotta con un altro pretendete al trono Luigi III d’Angiò, preferito dalla
regina Giovanna II regina di Napoli, senza eredi. Le sorti del conflitto volsero a favore di Luigi, ma
la morte della regina fece esplodere di nuovo la guerra. Ancora una volta le cose si misero male peri
il sovrano aragonese, fatto prigioniero e condotto a Milano dai Visconti, alleati degli Angiò; però
avvenne un colpo di scena, il prigioniero non solo più a farsi liberare, ma convinse i Visconti a
stringere con lui un’alleanza, destinata a mantenersi anche in futuro quando ai Visconti
succederanno gli Sforza. Forte del sostegno Milanese, riprese allora la conquista del regno,
giungendo a impadronirsi della stessa Napoli nel 1442. IL regno di Sicilia era ora riunito e
acquistava così un prestigio maggiore nell’Europa mediterranea.
25-L’ITALIA SETTENTRIONALE
L’esperienza comunale fu caratterizzata dappertutto da una perenne instabilità delle istituzioni, e
all’origine di questa c’è una dinamica sociale assai vivace che, nel contesto di una economia in
espansine, portava all’ascesa di nuove famiglie e al tentativo di categorie sociali di allargare gli
spazi; c’era però anche l’incapacità dei Comuni di dotarsi di più saldi ordinamenti. Tutti questi
motivi di instabilità appaiono in superamento nel corso del Trecento. Alla base del superamento
c’era l’intraprendenza di alcune famiglie dell’aristocrazia feudale che, facendo leva sulle clientele
vassallatiche dei loro domini e hai collegamenti con potenti consorterie nobiliari della città, diedero
una forte spinta alla crisi delle istituzioni e alla loro evoluzione in senso signorile. Il primo caso è
quello di Ferrara, città nella quale la vita del Comune era stata fortemente condizionata dalle lotte
per il predominio tra le varie fazioni aristocratiche, lotte che si conclusero con la vittoria definitiva
degli Estensi.
I da Romano, famiglia dotata di grandi patrimoni fondiari e di estese clientele vassallatiche nel
Veneto, si impose invece si Verona, Vicenza, Padova e Treviso. I Pelavicino si crearono un vasto
dominio tra Piemonte, Lombardia ed Emilia. I Monferrato nella Padania occidentale. Però queste
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istituzioni politiche signorili si rivelarono ben presto effimere, per il carattere spiccatamente feudale
e il fatto di non essere legate davvero a nessuna delle città inglobate.
Il successo arrise invece a quelle stirpi militari che ne raccolsero l’eredità in sede locale e che erano
legate anche alla realtà di una città, dove avevano ricoperto incarichi per contro del Comune o ai
vertici delle istituzioni ecclesiastiche. Questo il caso dei Visconti di Milano, degli Scaligeri a
Verona e dei Gonzaga a Mantova.
A Verona, Mastino della Scala non assunse il titolo di signore, ma solo quello di potestà e
successivamente di capitano del popolo, per cui non ci fu formalmente una cambiamento di
costituzione politica, ma si trattò di una esperienza esclusivamente veronese, in quanto ovunque ci
fu una fase più o meno lunga in cui le istituzioni furono svuotate di contenuto, ma non ancora
abbattute. Questo fu il caso anche di Milano, in cui il superamento del regime comunale avvenne
lentamente e con vari espedienti formali. All’inizio si imposero con il sostegno del popolo e
consolidarono la loro signoria solo con il conferimento a Matteo Visconti, nel 1294, del vicariato
imperiale. In questo modo il signore di Milano, configurandosi come funzionario dell’imperatore,
mostrava di considerare il suo potere non più basato sul consenso dei cittadini, ma su una delega
concessa dall’altro. Cento anni dopo l’imperatore conferirà alla famiglia il titolo di duca e principe,
in questa maniera la signoria si rendeva autonoma dallo stesso imperatore.
Non dovunque il passaggio da Comune a Signoria fu un atto irreversibile. Gli esempi più numerosi
sono offerti dalla Toscana in cui la signoria fu riconosciuta per brevi periodi e solo per far fronte a
circostanze eccezionali: a Pisa durante la lotta tra guelfi e ghibellini, a Firenze durante le agitazioni
dei salariati dell’industria tessile. In quest’ultimo caso la situazione precipitò quando si realizzo una
convergenza tra grandi e popolo minuto ad opera di Brienne, protetto da Roberto d’Angiò, che
impadronendosi poi del potere concepì l’ardito disegno di instaurare una propria signoria
eliminando dal governo sia il popolo grasso che i grandi che lo avevano sostenuto; il suo primo
provvedimento fu il disarmo immediato di tutti i gruppi sociali. Tuttavia un cambiamento così era
troppo per una società che non era disposta a rinunciare alla proprie tradizioni politiche e Brienne fu
cacciato con una insurrezione generale.
Questa vicenda contribuì a mettere in moto un fenomeno che altrove era già in atto alla fine del
Duecento, vale a dire la formazione di regimi di tipo oligarchico. L’avvento del popolo al governo,
là dove si realizzò, aveva comportato un allargamento degli spazi di iniziativa politica, che si era
rivelato troppo ampio rispetto alle possibilità reali della società che continuava ad essere
suggestionata dai valori e dallo stile di vita del ceto aristocratico. Non si spiegherebbe diversamente
il fenomeno contraddittorio dei grandi del popolo, famiglie schierate con il popolo, esponenti di ceti
mercantili e bancari, che coronavano la loro ascesa economica conseguendo dignità cavalleresche o
fama di grandi. È il caso della famiglia bolognese dei Principi, in una posizione di primo piano
nell’ambito della vita mercantile cittadina agli inizi del Duecento, a metà del secolo successivo
appaiono già integrati nel ceto aristocratico, di cui assunsero lo stile di vita; culminando nella loro
espulsione dalla città perché impegnati con altri grandi ad escludere dal governo della città la stessa
categoria di mercanti e artigiani da cui erano provenuti.
Un altro fenomeno diffuso fu la nascita di un patriziato cittadino, risultante dalla convergenza del
vecchio ceto cavalleresco e l’alta borghesia, tendenzialmente chiuso e compatto nel frenare l’ascesa
sociale e politica di nuove famiglie, ma nello stesso tempo con un più alto livello culturale.
Il caso più notevole fu quello di Venezia, che non aveva conosciuto le tensioni sociali e l’instabilità
politica delle altre città, data l’assenza nella laguna di forti consorterie nobiliari e la disponibilità
dei nobili di accogliere nella sfera del potere le nuove famiglie che si erano arricchite attraverso i
traffici. Ma ben presto a che a Venezia il ceto dirigente aristocratico-borghese cominciò a chiudersi,
attuando addirittura la cosiddetta Serrata del Maggior consiglio, grazie alla quale l’accesso al
principale organo di governo veniva riservato alle famiglie che già ne avevano fatto parte nei
precedenti quattro anni; la chiusura divenne ancora più forte quando si espanse anche agli altri
organismi di governo.
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A Firenze, l’indomani della cacciata di Brienne, il vecchio ceto magnatizio, ottenne la revoca degli
ordinamenti emanati da Brenne, ma mostrò anche di voler spadroneggiare nel governo cittadino
suscitando così la violenta reazione delle ripristinate compagnie armate di popolo. Furono allora
subito introdotti provvedimenti di Giustizia, che colpirono però solo i più pericolosi e potenti,
staccando da loro quelli meno possenti che furono accolti tra le famiglie di popolo e ammessi negli
organismi del comune, tappa che fu fondamentale nel processo di fusione fra nobiltà guelfa e grandi
mercanti e quindi nella formazione di un patriziato cittadino.
Questo patriziato era però scarsamente solidale al suo interno e la sua egemonia era continuamente
scossa da difficoltà a causa della crescita del debito pubblico, del crollo delle grandi banche, dalle
agitazioni dei salariati, dalle peste nera. Il fallimento della rivolta dei Ciompi rafforzò però il ruolo
politico delle arti maggiori e la coesione del patriziato cittadino, anche se questo non mise fine alle
lotte interne fra famiglie. Vincitori di queste lotte erano senza dubbio gli Albizzi, esponenti di rilevo
della parte guelfa, ebbero ora la possibilità di prendere in mano direttamente la guida del Comune,
grazie all’abilità politica del loro capo Maso. Questi oligarchi procedettero a una serie di riforme
istituzionali perché le cariche pubbliche venissero riservate ai loro più fedeli partigiani; ma al loro
interno erano già divisi tra chi intendeva restare fedele il più possibile alle vecchie istituzioni e chi
voleva consolidare un potere personale. La situazione peggiorò con la morte di Maso, al quale
successe il figlio, molto diverso dal padre. Intanto i discendenti dei Medici stava accumulando
sempre più ricchezze e beni fondiari, e accrescendo il loro prestigio di mercanti-banchieri. Artefice
principale delle fortune della famiglia fu Giovanni. Le gravi difficoltà finanziarie in cui si dibatteva
il governo e l’insorgere del malcontento e del disagio, portò all’emergere di una corrente moderata
del patriziato cittadino inclini ad attribuire il ruolo di maggiore influenza proprio ad degno figlio di
Giovanni, Cosimo de Medici.
Gli Albizzi rendendosi conto del progressivo logoramento della loro posizione, fecero arrestare
Cosimo, mandandolo in esilio a Padova. Intanto i suoi sostenitori conducevano a Firenze una
efficiente propaganda in suo favore. Il risultato fu che fu richiamato in patria, e mentre i suoi
avversari prendevano la via dell’esilio lui dava inizio alla sua signoria.
La formazione delle signorie coincise in Italia con l’avvio di una serie di tentativi espansionistici,
che portarono alla semplificazione del quadro politico della penisola attraverso la creazione di
organismi politici di più vaste dimensioni. Nella stessa direzione andava anche l’economia del
tempo caratterizzata da una circolazione sempre più intensa di uomini e di beni.
Nel Veneto protagonisti di un’ambiziosa politica di potenza furono gli Scaligeri che per più di un
secolo esercitarono una grande influenza anche in Toscana e in Lombardia. Di quest’ultima si
diceva che volesse diventare re, ma fu bloccato dalla violenta reazione di Firenze, Venezia e
Milano. Il crollo di questi disegni espansionistici aprì definitivamente le porte ai Visconti, i quali
continuavano ad estendere il loro dominio. Raggiunsero l’apice della potenza con Gian Galeazzo il
quale, dopo aver stretto legami con la casa regnate francese facendo sposare la figlia con il duca
D’Orleans, conquistò nel Veneto, Padova, Verona, Vicenza e Treviso, volgendosi poi verso la
Toscana, dove conquistò Pisa e sconfisse ripetutamente Firenze, senza però mai fiaccarne la
resistenza. La guerra fu combattuta non soltanto sui campi di battaglia, ma anche attraverso la
propaganda nelle piazze e nelle corti di tutta Italia. I proclami dei Visconti non caddero nel vuoto,
come si vide nel caso di Bologna che si sottomise spontaneamente e i suoi poeti di corte già
chiamavano Galeazzo re, quando la morte mise fine alla sua scesa. Seguirono per il ducato anni di
anarchia, complicati dal protagonismo dei capi delle truppe mercenarie, che ambivano a ritagliarsi
spazi autonomi di potere, finché Filippo Maria Visconti non avviò il recupero dei territori perduti,
riprendendo nell’arco di un decennio il controllo dell’intera Lombardia e di Genova.
Firenze dopo essersi tanto battuta contro i Visconti in nome della libertà dal tiranno, imboccò essa
stessa la strada delle conquiste territoriali; le tappe più importanti di questo processo furono
l’annessione di Arezzo, Pisa, Cortona e Livorno.
L’obbiettivo principale di Venezia era invece il dominio del Mediterraneo orientale e dei mercati
che su di esso gravitavano, obbiettivo che la pose prima in competizione e poi in conflitto aperto
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con Genova che aveva assunto il controllo del commercio tirrenico dopo la vittoria su Pisa. La
lunga guerra sembrò volgere a favore dei genovesi, ma Venezia fece ricorso a tutte le sue forze e
investì la base genovese di Chioggia, capovolgendo la situazione. Si decise allora di stipulare a
Torino un contratto di pace che comportò per Venezia la perdita di Trieste, ma le consentì di uscire
senza danni irreparabili da una situazione di grave pericolo. Però già si prospettava all’orizzonte
l’espansionismo dei Visconti e il risultato fu che Venezia si trovò per presto coinvolta in posizione
di primo piano nella politica italiana. Contemporaneamente cresceva in Piemonte la potenza dei
Savoia i quali avevano cominciato a volgersi verso la pianura padana e seppero ben inserirsi in un
complesso gioco di alleanze che li portò a ottenere il controllo dell’intero Piemonte.
Anche lo stato Pontificio mirò alla costruzione di una salda dominazione territoriale, giustificata
dall’esigenza di tutelare la liberà della chiesa e il progetto si andò realizzando nel corso del
Duecento e comprendeva grosso modo le regioni dell’attuale Umbria, Marche, e parte dell’Emilia
Romagna. Non avevano mai costituito una coerente dominazione territoriale per l’esistenza di
numerosi centri di potere locale che lo rendevano impossibile. La situazione mutò a partire dagli
inizi del Duecento, e il papato non solo riuscì a recuperare i territori da tempo sottratti alla sua
sovranità, ma anche annettersi l’intera Romagna. Contemporaneamente si cercò di trasformare il
dominio papale in governo effettivo, dividendo il territorio in sette province ognuna delle quali rette
da un preside. Si trattava comunque di un equilibrio assai precario, continuamente scosso dalla
vitalità dei maggiori centri urbani. La situazione peggiorò di molto con il trasferimento della curia
papale ad Avignone. Il contrasto tra la realtà misera del presente e il ricordo dell’antica grandezza
creò le condizioni per la singolare avventura politica di Cola di Rienzo, che si impadronì del potere
grazie all’esasperazione del popolo che lo innalzò contro la nobiltà. Egli concepì l’ardito disegno di
ridare grandezza a Roma e a tal proposito convocò un’assemblea di signori italiani e rappresentanti
dei Comuni che mostrarono entusiasmo per le sue iniziative. Tuttavia gli eccessi della sua dittatura
lo portarono all’arresto e fu condotto dal papa Innocenzo VI ad Avignone. Questi però
inaspettatamente lo accolse bene decidendo di utilizzarlo per riprendere controllo su Roma. Cola,
investito del titolo di senatore fece ritorno a Roma, seguito dal legale papale, ma privo come era di
reali capacità di governo si alienò ancora una volta le simpatie del popolo, che stanco dei suoi
procedimenti tirannici, si sollevò e lo mise a morte.
Le dinastie e le città si ponevano in quel periodo il problema di dare un assetti stabile a organismi
politici di ampie dimensioni. Innanzitutto i Visconti, che avevano inglobato un gran numero di
Comuni ognuno retto da propri ordinamenti, si posero come obbiettivo l’omogeneizzare il tutto
imponendo le stesse leggi, ma si rivelò impossibile non disponendo di una adeguata burocrazia. Nel
frattempo si fece largo uso anche delle istituzioni feudo-vassallatiche, che non furono messi in crisi
neanche dal nuovo Stato territoriale.
Alquanto diverso fu il modello organizzativo seguito da Firenze, la quale si trovò ad esercitare il
suo dominio su città che avevano inoltre un vasto contado molto legato a loro. Si puntò infatti a
spezzare questi rapporti, ridando maggiore autonomia alla campagne; le comunità rurali dovettero
ripristinare l’antico parlamento e dotarsi di nuovi statuti oltre che di nuovi organi amministrativi.
Questa politica suscitò subito la protesta delle città per cui a un certo punto Firenze ritenne
necessario in insistere su quella strada.
Un modello intermedio fu quello adottato da Venezia, che lasciò tutta l’amministrazione locale
nelle mani dei patriziati urbani, ma restando presente in tutte le questioni e nei contrasti, il risultato
fu la costruzione di uno stato abbastanza omogeneo al suo interno.
Diversa invece la situazione dei domini dei Savoia, in cui l’autorità del duca potette affermarsi in
maniera più agevole, non dividendo imporsi su grandi città. Fu possibile attuare così un
ordinamento che prevedeva la divisione del ducato in dodici province, a loro volta divise in
castellanie, le une e le altre rette da funzionari scelti dal duca.