Simmetria-rivista 17 2013 a5

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SIMMETRIA Associazione Culturale - Via Muggia 10 00195 Roma e-mail: [email protected] N.17 Gennaio 2013 In questo Numero: Architetture acroniche: Il tempo si tramuta in spazio. L architettura del Tempio del Graal e di Santo Stefano Rotondo di A.Bonifacio Selezione di articoli, commenti, riedizioni, estratti e segnalazioni relative alle attività di Sim- metria. La rivista on-line, agile e di poche pagine, si affianca alla rivista cartacea di Simmetria, ha lo stesso comitato di- rettivo ed editoriale e sviluppa temi particolari, prescelti fra quelli di maggiore interesse fra i nostri lettori. Ha un carattere aperiodico e viene inviata gratuitamente a tutti i soci ed amici che ne facciano richiesta.

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In questo Numero:

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di A.Bonifacio

Selezione di articoli, commenti, riedizioni, estratti e segnalazioni relative alle attività di Sim-

metria.

La rivista on-line, agile e di poche pagine, si affianca alla rivista cartacea di Simmetria, ha lo stesso comitato di-

rettivo ed editoriale e sviluppa temi particolari, prescelti fra quelli di maggiore interesse fra i nostri lettori.

Ha un carattere aperiodico e viene inviata gratuitamente a tutti i soci ed amici che ne facciano richiesta.

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Rivista n.17 – Gennaio2013

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Architetture acroniche: Il tempo si

tramuta in spazio.

L’architettura del Tempio del Graal

e di Santo Stefano Rotondo

Premessa La letteratura di genere offre spesso delle insospettate illuminazioni in que-gli ambiti del sapere che riguardano le discipline filosofiche, proprie dei libri sapienziali dell’antichità. Tale è il caso di Philip K. Dick il cui personaggio di “autore” è tutt’uno con la sua stessa letteratura. Dick, nell’ultima opera, prodotta al culmine della sua agitata esistenza, la trilogia di Valis, s’interroga profondamente sulla natura del tempo e sulle modalità del suo su-peramento, attingendo abbondante-mente alle riflessioni che lo storico delle religioni Mircea Eliade propose nel celebre saggio Mito e Realtà. For-te di esse Dick penetra nel cuore stesso del racconto graalico, là dove Wagner, nel suo Parsifal, e, prima di lui, Wolfram Von Echembach, fa af-fermare al personaggio di Gurnemanz: Vedi figliolo mio qui il tempo si tramuta in spazio. Il tema del tempo che diventa spazio, ovvero dell’annullamento del tempo profano e l’inaugurazione della tempo-ralità acronica propria degli stati spiri-tuali, s’innesta col tema dell’irruzione paracletica pentecostale che, nel rac-conto mistico del Graal, rappresenta il concretarsi l’illud tempus. Esso segna il culmine di quel percorso di gnosi

della cavalleria templare e proprio del corpus dottrinale giovanneo, che ha come fulcro dottrinale essenziale la pe-ricope evangelica di Nicodemo incentra-ta sul nascere di nuovo. Il tempo che diventa spazio trovò una sua compiuta espressione architettoni-ca nel castello del Graal, così come lo troviamo descritto nel grandioso poema Nuovo Titurel di Albrecht von Sharfen-berg. Qui la struttura del Tempio si con-figura come la traduzione spaziale della struttura temporale del ciclo cosmico per eccellenza, ovvero del ciclo preces-sionale o anno platonico. Il tempo della restaurazione, ovvero dell’avvento interiore del “Regno di Dio”, come effusione dello Spirito Santo, è quello proprio della possibilità di disce-sa sempre attuale della Gerusalemme celeste che, con le sue “misure” pecu-liari, rappresenta, insieme, il tempo e lo spazio, e con ciò un’anticipazione pro-digiosa delle conclusioni del fisico H. Minkowsky e del suo “cronotopo”. Anche i materiali dell’edificio sono pre-ziosi e appaiono sapientemente coniu-gati alla vocazione celeste dello stesso. L’abbondanza di oro e gemme non ha alcuna finalità esornativa, piuttosto la presenza di tali preziosità coincide con le finalità di una sottilissima alchimia trasmutativa, che induce correlative modificazioni degli stati interiori al fine di propiziare la manifestazione ierofani-ca. Lo stesso Goethe lo poté testimo-niare durante il suo avventuroso viaggio invernale nella regione mineraria dello Hartz, che costituì per lui una vera e propria iniziazione esplicata anche per mezzo della contemplazione sotterra-

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nea delle gemme minerarie. Tutto ciò non è solo letteratura. A

Roma il Tempio di Santo Stefano Ro-tondo, il tempio più magnificamente adornato dell’urbe, riproduce congiun-tamente il tempio del Graal e la Geru-salemme celeste e lo splendore dei raffinati materiali che ne adornavano gli interni induce a ritenere che esso fosse il centro di un culto giovanneo di cui oggi restano mute vestigia architet-toniche, tracce possibili di un altro cri-stianesimo di cui lo stesso Dick, a di-stanza di diversi secoli, prospettava l’originaria dimensione gnostica.

“Traducendo ciò in termini di pen-

siero arcaico, si potrebbe dire che vi

fu un paradiso… e una rottura, una

catastrofe…, e qualunque sia

l’atteggiamento dell’adulto rispetto

a questi avvenimenti primordiali,

non sono meno costitutivi del suo es-

sere”.

(Mircea Eliade)

“Camminando mi resi conto che

ero io in un senso molto reale a crea-

re il mondo di cui avevo esperienza.

Creavo il mondo e al tempo stesso lo

percepivo…”

(da Valis)

“Parsifal: Mi muovo solo di poco,

eppure mi sembra di essere andato

lontano

Gurnemanz: Vedi figliolo mio qui il

tempo si tramuta in spazio”.

(Dal libretto di R, Wagner)

“Vi sono coloro per i quali il passato

è chiuso; vi sono coloro per i quali il

passato deve sempre arrivare”

(H. Corbin)

Valis: la ricerca tormentata della

verità ultima

Gli ultimi lavori editi dello scrittore

Philip K. Dick consistono in tre ro-

manzi uniti in unico corpus conosciuto

con il nome di “Trilogia di Valis”. I tre

scritti, redatti compulsivamente in una

manciata di giorni, sono unificati dalla

presenza dell’entità “Valis”, un “satel-

lite” per le comunicazioni utilizzato

pretestuosamente dall’autore dopo a-

verlo prelevato dall’armamentario del-

la narrazione fantascientifica e che

rappresenterebbe, alternativamente, o

un’originale “voce del Logos” per i

tempi ultimi, o un diffusore di devianti

ologrammi.

Al momento della morte Dick aveva

in corso altri progetti editoriali ma Va-

lis sembra costituire l’ultimo suo pos-

sibile lembo speculativo posto

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all’estremità di una ormai sfuggente

terraferma. Esso è sviluppato intorno

al tema (consueto per l’autore) della

“realtà”. Dopo questo lavoro si fa fa-

tica a immaginare che possano esser-

vi per l’autore ulteriori alternative fi-

losofiche che percorrano vie diverse

dall’assoluto agnosticismo o il finale

abbandono a una prospettiva salvifi-

ca.

Qui dobbiamo fermarci, non pos-

siamo certo speculare su come si sa-

rebbe evoluto il tormentato pensiero

dickiano nel corso del tempo (anche

se siamo intimamente convinti che

Dick avvertisse di non avere più

“tempo”). L’ultimo prodotto del suo

genio visionario è quindi giocoforza

il suo testamento spirituale, sintesi

delle sue convinzioni e contempora-

neamente autobiografia della sua

tormentata esperienza esistenziale

dominata costantemente da un senso

oscuro di estraneità al mondo deri-

vante dalla sensazione di “gettatez-

za”, propria di chi si sente “caduto”

in un universo assolutamente incom-

prensibile se non addirittura ostile.

L’inclusione nel corpo narrativo, in

modo a volta forzato e forsennato, di

molteplici disparate citazioni, tratte

anche dalla sua personale sterminata

Exegis, (una raccolta di riflessioni

filosofiche, quasi una puntigliosa

glossa a questa sua ultima opera let-

teraria, com’è in uso alla saggistica e

non certo comune alla letteratura),

rende il testo narrativo difficilmente e

malamente raccontabile. Per questo è

necessario leggerlo. Ciò che appare

essenziale alla comprensione sta pro-

prio nelle “intrusioni” che costituisco-

no il vero canovaccio dell’opera; i

personaggi, in fondo, sono mere “oc-

casioni” per includere la glossa (quan-

do nel loro parlare non sono glosse es-

si stessi).

E’ noto che Dick si è abbeverato nel

tempo a molteplici e disparate fonti

presenti in quel vasto contenitore che,

negli anni passati, è stato definito

“controcultura americana”, un mine-

strone di caotiche suggestioni che in-

cludevano tutto quello che si rivoltava

contro l’orizzonte proposto

dall’establishment. Tuttavia, negli ul-

timi anni della sua vita, la sua specu-

lazione sembrò essersi indirizzata sul-

la gnosi e precisamente

sull’orientamento valentiniano e quin-

di “monista” di questa possente cor-

rente speculativa, che ha occupato ge-

ograficamente e cronologicamente

larga parte del mondo antico. Ciò ac-

cadde dopo che Dick aveva menato

l’esistenza a inseguire e “ingerire”,

quasi come un antico carpocraziano

(per restare nella sua personalissima

prospettiva gnostica), esperienze e-

streme dell’anima che ne hanno for-

giato una personalità dai caratteri de-

cisamente borderline.

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Il cambio di rotta che egli ci testi-

monia come narratore e personaggio

che racconta se stesso, si focalizza su

un evento epifanico di autoillumina-

zione spontanea ed “epistrofica”,

sperimentata qualche anno prima

della morte e puntualmente racconta-

ta in Valis. Si tratta di un’esperienza

innescata dal possesso di un modesto

vaso di terracotta, che gli fu donato

dalla ragazza che lo aveva realizzato.

Ella portava su di sé un potente sim-

bolo: il segno cristiano del pesce. Si

trattò di una circostanza talmente pe-

culiare che Dick affermò di essersi

trovato a “pensare in una lingua u-

sata duemila anni fa, la lingua in

cui scriveva San Paolo”, mentre era

proiettato in uno spazio infinito e

vuoto che Dick avvertiva come e-

stremamente vivo.

Valis quindi, seguendo e inaspren-

do i contenuti di tutta la sua pregres-

sa produzione dickiana, può essere

considerato una sorta di trattato gno-

stico confezionato in forma narrativa

in cui si indaga sulla deformazione

percettiva. Essa è stata introdotta

dall’eone maldestro Sophia, entità

posta all’estrema periferia del plero-

ma originario, un “lavoro” portato

poi a compimento dalla sua sviata

genealogia, nel caso di specie da

Yaldabaoth, che si fa responsabile

della “creazione” di ingannevoli “o-

logrammi” che immettono

l’esperienza del “tempo” nel cosmo,

introducendo una “deviazione” fon-

damentale tra gli esseri senzienti.

Così, appunto, scrive l’alter ego let-

terario di Dick, il personaggio Horse-

lover Fat (brillante calembour lettera-

rio del nome di Dick), nella sua Exe-

gis o diario: ”Noi non siamo caduti a

causa di un errore morale, siamo ca-

duti a causa di un errore intellettua-

le: quello di assumere il mondo fe-

nomenico come reale. Perciò siamo

moralmente innocenti… Noi iposta-

tizziamo le informazioni in oggetti, la

riorganizzazione di oggetti significa

la trasformazione nel contenuto

dell’informazione ”. Concezione che

ci sembra mutuata da Bohm che così

descrive la realtà “s-velata”: “In defi-

nitiva l’intero universo (con tutte le

sue particelle comprese quelle che co-

stituiscono gli esseri umani, i loro la-

boratori, i loro strumenti di osserva-

zione) dev’essere immaginato come un

tutto unico e indiviso, nel quale

l’analisi delle parti esistenti separa-

tamente ed indipendentemente non di-

spone di uno status fondamentale”, ri-

flessione cui fanno eco le parole di A.

Goswami: “l’universo esiste come po-

tenzialmente informe in una miriade

di possibili derivazioni dell’ambito

trascendente e si manifesta solo quan-

do viene osservato da esseri coscienti”

(dall’articolo “Psichiatria quantistica”

di Andrew Powell in Nexus n. 42).

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Secondo Dick, infatti, la realtà fe-

nomenica è solo informazione (in

senso tradizionale si userebbe vero-

similmente la parola “simbolo”, ri-

chiamando il passo paolino che de-

nuncia la deformazione percettiva

che induce alla visione della realtà

per mezzo dello specchio). Solo at-

traverso la corretta applicazione di

un’acconcia disciplina anamnestica

si può procedere a decodificare

l’apparenza del reale e ripristinare la

Realtà. Ciò può essere compiuto uti-

lizzando modalità operative che fu-

rono proprie dello strumentario ritua-

le degli Antichi dei quali, sempre

Dick riverentemente scrive:

“…possedevano delle tecniche (sa-

cramentali e rituali) largamente uti-

lizzate nelle religioni misteriche

greco-romane, compreso il cristia-

nesimo primitivo, per indurre

l’accensione e il recupero...”1.

Ci si può domandare: può prendersi

per “buono” questo sofisticato ap-

proccio alla realtà spirituale visto che 1 F. Dick, nella sua costruzione letteraria, è stato pro-

fondamente influenzato da Platone è perciò interes-sante comparare il concetto di “informazione” con quello che per i “platonici” rappresentava la manife-stazione. Plutarco afferma che: “il mondo è un tempio santissimo L’uomo vi penetra nel giorno della sua na-scita e vi contempla gli oggetti sensibili fabbricati, dice Platone, dall’Intelletto divino perché siano copie degli Intellegibili”. Questo senso di stupore non è ristretto al solo ambito platonico così Aristotele scrive in una di-gressione sui misteri eleusini: “Il primo effetto dell’iniziazione nel tempio mistico del mondo non è una conoscenza, ma un’impressione, un sentimento di timore reverenziale e di ammirazione alla vista dello spettacolo divino offerto dal mondo visibile”.

proviene da un personaggio così e-

stemporaneo, oppure esso rappresenta

il frutto avvelenato e squilibrato del

suo tormentato passato? Non sta certo

a noi dirlo. Tuttavia non possiamo non

tenere a mente le parole che René

Guénon pronunciò sull’arte e sugli ar-

tisti e sulla loro possibile auto inizia-

zione spontanea per cui: “il simboli-

smo filtra comunque nella forma, poi-

ché ogni vero simbolo porta con sé i

molteplici significati e fin

dall’origine…in virtù della legge della

corrispondenza che collega tra loro

tutti i mondi” (R Guénon: Sull’ esote-

rismo cristiano pp.113-116).

Ottenuto in qualche modo da Gué-

non il suggerimento per sdoganare il

nostro scomodo personaggio

(nell’intimo l’operazione era già com-

piuta) si può proseguire nell’indagine

e approfondire quindi il tema priorita-

rio dello scrittore. La sua intera produ-

zione mostra quanto egli si sia sponta-

neamente avvicinato al nocciolo es-

senziale proprio di quelle esperienze

spirituali che provocano lo smantella-

mento e/o la decodificazione

dell’apparenza fenomenica per arriva-

re alla Realtà ultima. Nel passo appena

citato Dick ha parlato di possesso da

parte di una certa arcaica rituaria, di

tecniche specifiche finalizzate, alla

possibilità di fuoriuscire dal tempo

storico per defluire in un tempo “al-

tro” (lui, che era “finito” nel tempo di

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San Paolo attraverso

un’illuminazione spontanea) 2.

Con l’abrogazione rituale del tem-

po presente, non si restaura un tempo

semplicemente antecedente al quoti-

diano (come il noto “effetto Proust”

della Recherche), quanto piuttosto ci

si connette all’ illud tempus, il tempo

dello splendore aurorale, la condi-

zione acronica propria delle origini

dove il passato deve sempre arriva-

re, per dirla alla Corbin. Per questo

proprio nelle prime pagine di Valis

egli si sofferma sulle enigmatiche pa-

role del Parsifal di Richard Wagner

(e le citerà più volte nel testo, costi-

tuendo esse il succo della sua espe-

rienza e il leit-motiv dell’opera stes-

sa) che rappresentano la premessa

2

La coniugazione tra il “Buddismo”, fonte frequente

delle riflessioni filosofiche dickhiane sulla realtà e san Paolo potrebbe essere in Dick frutto di un accosta-

mento tutt’altro che epidermico. Vediamo cosa scriveva R. Steiner sul tema nel 1923: “Vedete, nelle religioni orientali, anche nel buddismo, trovate la dottrina: il mondo esteriore è Maya. Certa-mente è così, ma nell’Oriente questo viene posto co-me assoluta verità. Anche Paolo la conosce, ma egli sottolinea anche delle altre cose. Egli dice: quando si guarda nel mondo non si vede la verità, la realtà. E perché? Perche, col suo discendere nella materia l’uomo ha reso la realtà esteriore illusione. E’ l’uomo stesso che con la sua azione ha reso il mondo illusio-ne. Chiamatelo come nella Bibbia peccato originale o in altro modo, ciò ha fatto in modo che il mondo este-riore ora appaia quale illusione…Battiti il petto dice Paolo. Tu sei sceso e hai talmente oscurato la tua visione che colori e forme non manifestano più nulla di spirituale… “. (conferenza del 21,26 Gennaio 1923, in Conoscenza vivente della natura, O.O. 220). Non per nulla molti autori legittimamente sottolineano la dimensione gnostica di alcuni passaggi essenziali delle lettere di San Paolo.

della sua “queste” personale (e quella

dei suoi lettori).3

Così si legge:

3 Richard Wagner realizzò il suo Parsifal poco prima di

morire dopo aver meditato intorno a quest’opera gran-diosa per molti decenni della sua vita. Esso quindi è il suo testamento artistico spirituale. Benché all’epoca sua l’opera non sia stata accolta con particolare gradimento, oggi è considerata come il capolavoro di Wagner con-giuntamente a “Tristano e Isotta”. L’intendimento dell’artista, infine concretato dopo un lungo travaglio, era quello di realizzare un “dramma liturgico”. Per otte-nere un tale risultato s’impegnò a fondere in un’opera unica tutte le arti nella medesima rappresentazione scenica. Nonostante gli strali lanciatigli da Nietzche, che lo accusò di essersi “accasciato ai piedi della croce”, si può invece considerare questo riconosciuto capolavoro come una rappresentazione compiuta di cristianesimo esoterico, in cui, accanto ai tempi propri della letteratura graalica, sono ben evidenti gli influssi della dottrina buddista filtrata da Schopenauer. Il tema del Graal non era del resto nuovo per Wagner, che lo aveva trattato già nel Lohengrin. Che l’impostazione dell’opera fosse volutamente concertata a sollecitare un risveglio spiritu-ale lo affermò direttamente Wagner che definì la rap-presentazione scenica del teatro come l’esplicarsi di un’operazione sacra che andava quindi anche oltre il concetto meramente fideistico-religioso. Partecipando a essa lo spettatore poteva sperimentare uno stato dell’essere che andava ben oltre la dimensione psichi-co- emotiva, incidendo direttamente l’esplicarsi degli eventi sui suoi sensi spirituali, in forte similitudine di ciò che accade nella sfera rituaria. Ne scrive Marco Ianna-relli;” in quest’opera vi sono momenti di una capacità, meglio di una potenza evocativa immensa: la musica, i versi cantati dalla voce umana, certe scenografie, unite ai colori e ai movimenti coreografici delle cerimonie che si svolgono alla presenza dello stesso Graal rimangono impressi nell’anima per sempre, come archetipi che par-lano al nostro sentire presago, se non già al nostro pen-sare”. I versi di Wagner descrivono la vittoria spirituale di Parsifal il quale, guarendo il re ferito Anfortas, ricon-sacra il Graal e ne ricostituisce le doti effusive destinate alla comunità degli eletti, ovvero a coloro che sono ca-paci di santificarsi. Al coro finale cantato dai cavalieri del Graal compartecipano le creature angeliche e l’evento culmina con l’apparizione paracletica della colomba, chiudendosi la rappresentazione con le enigmatiche parole “Al redentore redenzione”. In conclusione pen-siamo che quanto F Dick (che è stato musicofilo piutto-sto preparato) maneggiava il materiale wagneriano sa-peva di trovarsi di fronte a un contesto dai contenuti sicuramente iniziatici

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Parsifal: Mi muovo solo di poco,

eppure mi sembra di essere andato

lontano

Gurnemanz: Vedi figliolo mio qui

il tempo si tramuta in spazio.

E’ davvero singolare che la frase

messa in bocca a Gurnemanz, sia sta-

ta scritta da Wagner nel 1845, molto

tempo prima che Hermann Minko-

wski postulasse l’esistenza di uno

spazio a quattro dimensioni, com-

prendente la dimensione temporale.

Si tratta di una teoria che il fisico

formulò nel 1906, e ancor più singo-

lare può apparire il fatto che tali con-

cetti fossero strutturalmente presenti

nell’antico corpus letterario su cui

Wagner si formò. 4

Allo stesso modo Dick per giustifi-

care ulteriormente la propria espe-

rienza recessiva si trovò a riprendere

i contenuti di un testo di Mircea E-

liade (Mito e realtà), precisamente il

quinto capitolo del libro dal titolo Il

tempo può essere dominato. Qui si

affronta l’argomento del tempo ritua-

le come sconnessione dalla cronolo-

gia degli eventi che sono percepiti in

successione causale e per conse-

4 Il Cronotopo è il neologismo ideato da Minkowsky

che definisce la consustanzialità dello spazio e del tempo la cui equipollenza fa si che l’uno sia funzione dell’altro. Si tratta di una rappresentazione della realtà in cui aggiungiamo un asse immaginario, relativo alla traslazione degli avvenimenti nel tempo. La rappre-sentazione tridimensionale che ne consegue è un fo-tografia in stadi successivi dello stesso evento. (da Claudio Lanzi: I ritmi della scienza sacra pag,130)

guenza la funzione salvifica che può

condurre tale estraneazione. In queste

sue considerazioni il celebre storico

delle religioni postula la possibilità di

una “vittoria” sul tempo, ottenuta at-

traverso l’impiego di determinate mo-

dalità rituali che si fondano su strate-

gie regressive, restituendo all’adepto

la pienezza spirituale originaria. Ciò si

compie attraverso una sorta di vero e

proprio regressus ad uterum (la psica-

nalisi freudiana in questo non c’entra,

ma la sua tecnica può costituire un o-

recchiabile termine di confronto, an-

che perché essa è l’unica disciplina

profana che valorizza senza riserve il

valore degli inizi). Rifletteremo ancora

più in avanti sulle cogitazioni eliadia-

ne ma, in questa circostanza, sarà op-

portuno soffermarsi su un dato essen-

ziale. Eliade allude sempre nella sua

esposizione al rito, non entra però mai

in merito all’ambiente dove il rito si

celebra. Se poniamo in relazione due

termini (“azione rituale” e “ambien-

te”) in maniera “moderna” si potrà af-

fermare che la pratica rituale potrà es-

sere assunta a software del “sistema”,

mentre il luogo templare può essere

considerato l’hardware del rito e

quest’ultimo, come si vedrà, può as-

sumere un’importanza determinante in

quest’opera di “dominazione del tem-

po”. Proprio sotto quest’ultimo domi-

nio ci si soffermerà appena successi-

vamente. Si tratta di un ambito in cui

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rientra a pieno diritto la pluricitata

menzione dickiana del “tempo che

diventa spazio”, espressione che ci

riconduce direttamente al cuore della

sacralità graalica, così come essa è

prospettata nel testo wagneriano.

Fig.1 - Volfram Von Echembach nelle vesti di

cavaliere in una miniatura medievale

Indietro nel tempo

Dick fa risalire l’ispirazione

dell’opera wagneriana a diverse fon-

ti. Da una parte essa deriverebbe da

un corpus di leggende celtiche,

dall’altra dagli studi condotti dal com-

positore sul buddismo, dottrina ove si

esercita una fortissima speculazione

intorno alla pretesa oggettività del rea-

le. In Valis Dick non menziona

l’autore del Parsifal, ossia Wolfram

von Echembach, da cui Wagner è stato

necessariamente ispirato e per conse-

guenza ci è d’obbligo integrare, alme-

no con un cenno, le fonti dickiane.

Il richiamo al celtismo è senz’altro

degno di menzione e se ne vedranno

meglio le ragioni più avanti,

d’altronde è parimenti da sottolineare

la probabile derivazione del Parsifal

da uno dei testi gnostici più apprezzati

e sicuramente più coinvolgenti

dell’intera letteratura religiosa univer-

sale, ovvero Il canto della perla.

Un’omissione della quale, se Dick

fosse ancora vivo, immaginiamo si sa-

rebbe assai doluto dal momento che la

citazione delle fonti gnostiche (e se-

gnatamente Nag Hammadi) costituisce

una vera e propria costante in Valis.

Nel Parsifal di Von Eschembach è

menzionato il Tempio del Graal e ciò

avviene per la precisione in occasione

del battesimo di Feirefis, il fratellastro

pagano di Parsifal. Nel panorama dei

testi graalici il Parsifal occupa un po-

sto speciale, non solo in relazione alle

specificità salienti della sua opera,

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quanto e soprattutto per i numerosi

contenuti che si possono definire,

senza alcuna ambiguità, prettamente

dottrinali. Dall’intero corpus di que-

sto autore e del suo “continuatore”

Albrecht von Sharfenberg emerge

uno specifico simbolismo architetto-

nico che introduce a mirabolanti pro-

spettive spirituali. Tuttavia nel Parsi-

fal, fino al quinto libro, si parla

dell’edificio in quanto dimora del

Graal, senza ulteriori dettagli. Per

completezza argomentativa si deve

accostare al Parsifal un’altra opera,

ossia il Titurel, da cui emerge piena-

mente la familiarità dell’autore con

gli stati spirituali propri della cerca

spirituale. Qui si descrive una sorta

di genealogia celeste cui sarebbero

appartenuti i custodi del Graal; pur-

troppo il testo ci è pervenuto troppo

mutilo per apprezzarne pienamente i

contenuti, tuttavia in esso, vi è un

passaggio essenziale alla compren-

sione di quanto si va proponendo. Si

tratta dell’edificazione del “Tempio”

graalico che avviene per opera di

Merlino, il profeta celtico, iniziato

proprio da Giuseppe di Arimatea,

l’originale custode del Graal, alle

misure mistiche del tempio archeti-

pico che corrisponde al Tempio di

Salomone di cui furono custodi i

Templari quali rappresentanti di

una tradizione spirituale ininterrot-

ta (qui è ben evidente la coniugazio-

ne tra celtismo e chiesa gerosolimitana

e quindi templarismo). I semi gettati

da Von Eschembach, intorno alla pa-

rentela spirituale dei due edifici, finora

letterariamente separati, troveranno

una straordinaria sintesi in un'altra o-

pera che approfondisce la tradizione

echembachiana ovverosia nel Nuovo

Titurel, del già citato Albrecht von

Sharfenberg. Siamo di fronte a due

narrazioni che, secondo l’illuminato e

devoto parere di H. Corbin, andrebbe-

ro lette e commentate con le stesse

modalità con cui una certa esegesi si

approccia al testo biblico. 5

5 Come detto H. Corbin propone una specifica lettura

esegetica dei testi del ciclo del Graal, una lettura che va ben oltre lo storicismo e il letteralismo. Questi sono ap-procci che distruggono dal di dentro lo spirito di “certe” opere una volta che queste sono sottoposte a esegesi: si tratta di anatomia letteraria patologica applicata alla materia vivente. Chiunque si sia occupato della lettera-tura del Graal sa della sua natura ineffabile e della ne-cessità di avvicinarsi all’interpretazione che lo riguarda secondo le regole che sono proprie dei testi sacri. Tut-tavia, se ne vogliono enucleare gli elementi simbolici che scaturiscono dal “corpus” mitologico, qui si propone di fare riferimento a quattro testi fondamentali sui quali ruota l’impalcatura simbolica del tema. Questi scandi-scono quasi una rapsodia sull’argomento, e si tratta di testi concepiti in un arco di tempo pari a circa un secolo (dal 1170 al 1280), che fu un periodo davvero inesti-mabile per la creazione spirituale. Il primo a parlare della “leggenda” del Graal è Robert de Boron nel sua opera Giuseppe d’Arimatea o il racconto del Graal. Qui il sacro oggetto è rappresentato come un’umile ciotola, verosimilmente in terracotta, forse sim-bolo della stessa sostanza terrestre decaduta trasmuta-ta dal contatto col sangue di Cristo che Giuseppe di A-rimatea vi raccoglierà. Il secondo racconto è di Chre-tienne de Troyes che scrive un poema dal titolo Parsifal o il racconto del Graal. Nella circostanza l’oggetto è de-scritto, come ci è maggiormente conosciuto, ovvero quale una coppa d’oro che contiene al suo interno un’ostia consacrata. Lasciando l’area francese appro-diamo in Germania dove un cavaliere “scrittore” Wol-fram Von Echembach ci narra della coppa del Graal

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Qui compiamo davvero un salto

pindarico di notevole audacia, volen-

do associare la convulsa prosa di

Dick e i suoi stravaganti personaggi

a una ricerca dello stato delle origini

che fu proprio della più pura cavalle-

ria spirituale, passando stavolta non

attraverso il rito, come suggerisce

descrivendolo come una pietra di diaspro (o smeral-do) caduta dal centro della fronte di Lucifero (come rappresentasse il suo “terzo” occhio, ovvero lo sguar-do che unifica passato e presente in un’unica realtà) dopo la cacciata dal paradiso. Questa pietra è, muta-tis mutandis, la stessa utilizzata da Giuseppe di Ari-matea per raccogliere il sangue di Cristo. Come si vede nella cronologia dei racconti v’è una certa pro-gressione che invita a confrontarli tra loro come se ognuno di essi fosse portatore di uno specifico mes-saggio che diviene via via più complesso man mano che il simbolo, migrando da un autore all’altro, si ar-ricchisse di ulteriori valenze. La quarta narrazione è rappresentata dal monumentale poema di Albercht von Scharferburg, che fu elaborato intorno nel decen-nio che va dal 1260 al 1270, ossia nell’anno stesso dell’iniziazione di Christian Resencreutz. Qui ci si de-ve dilungare un poco in quanto l’atmosfera muta ulte-riormente rispetto ai racconti precedenti. Nel racconto Re Titurel è chiamato a un’impresa il cui adempimen-to richiede di salire su un’alta montagna, attraversan-do una selva oscura. Giunto alla sommità v’è una spianata, qui lo attendono dodici cavalieri, dall’alto una coorte angelica discende recandogli il Graal che si presenta come un oggetto sfavillante da cui fuorie-sce una magica “sostanza”. Il trasudo della coppa formerà il materiale con cui dovrà essere realizzata la dimora dello stesso Graal, all’interno del Gralsburg, la cui pianta Titurel trova già incisa sul monte. E’ signi-ficativo che a Re Davide la pianta e le dimensioni del tempio di Gerusalemme furono anch’esse in una vi-sione. In precedenza solo Giuseppe d’Arimatea aveva potuto maneggiare il Graal ed è significativo che il Titurel, in quanto re pescatore, dal momento che as-somma le caratteristiche dell’apostolo (pescatore di uomini) e di reggente. sia il nuovo destinatario del santo oggetto. Questo era stato “ritirato” e riconse-gnato agli angeli dal momento che nessuno, dopo Giuseppe, esprimeva una forza spirituale tale da po-terne sostenere il contatto. E’ significativo per inciso che in Valis una ragazza che porta tatuato sul corpo il simbolo del pesce, offra al protagonista un “vaso” che lo illuminerà nelle sue ricerche.

Dick sulla scorta di Mircea Eliade, ma

attraverso la stessa “macchina” rituale

che rappresenta essa stessa, in sé stes-

sa, la trasformazione del tempo in spa-

zio.

Afferma re Titurel, nel testo di von

Sharfenberg:

A immagine della Gerusalemme, nel

santo Paradiso,

Ecco il tempio del Graal, ma simile

a lei nella misura soltanto,

In cui un ramoscello infiammato può

illuminare con la sua luce

Il mondo tutto attorno, al posto del

sole

Proprio da questa dichiarazione con-

cernente l’omologia strutturale dei due

edifici, pur se ontologicamente distan-

ti, principieremo qualche riflessione

sul nostro tema, mentre degli aspetti

“minerali” della costruzione si parlerà

successivamente, premettendo che essi

stessi cooperano alla temporalità acro-

nica dell’edificio, costituendone la

manifestazione evidente. Una tale co-

struzione costituisce davvero l’ultimo

stato di esistenza in cui tutto ciò che

nel mondo partecipa ascosamente del-

la natura divina ed è quindi incorrutti-

bile nella sua essenza, si troverà sot-

tratto al tempo e “sospeso” nello spiri-

to atemporale e divino.

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Il tema delle misure del tempio del

Graal è stato trattato in maniera ma-

gnifica da due celebri ricercatori, ov-

vero Henry Corbin e Titus Burckardt

dalle cui osservazioni traiamo prin-

cipale spunto per i nostri ragiona-

menti sul tema, affiancando a essi

anche ulteriori suggerimenti tratti

dall’opera di Gerhard von dem Borne

dedicati al medesimo tema.

Fig.2 - Il Graal come compare nell’atto terzo

del Parsifal di R Wagner in una vetusta sceno-

grafiche che mostra la colomba paracletica

discendere sul calice. Nel racconto di Von E-

chenbach si descrive il graal come una pietra

preziosissima (la pietra era posta all’origine

sulla fronte stessa di Lucifero e fu da lui ab-

bandonata quando fu cacciato) che la notte di

ogni venerdì santo riceve la visita di una bian-

ca colomba che vi deposita sopra un’ostia.

Una delle architetture “ideali” che

concretano il “cronotopo di Minko-

ski” è rappresentata dall’archetipo

eccellente ovvero dalla Gerusalemme

celeste di cui Ezechiele afferma:

“L’eterno è qui”. La città santa, di-

scendendo alla “fine del tempo”, porrà

fine al tempo stesso, proprio per que-

sto essa costituisce l’essenziale em-

blema del luogo in cui “il tempo di-

venta spazio”, ma, attenzione,

l’escatologia si può realizzare al

presente ogni qualvolta un sacro e-

dificio ricalchi le caratteristiche del

suo prototipo celeste e ivi si celebri

una liturgia sincronizzata con quella

dell’archetipo celeste.

Fig.3 - Il duomo di Siena che sembra aver ispira-

to Wagner e la scenografia precedente

Per quanto riguarda la forma archi-

tettonica, la trasformazione dei tempi

in un unico presente, poggiante su se

stesso, è introdotta dalle peculiari cifre

numeriche fornite dall’angelo che, per

mezzo della sua aurea canna graduata,

detta le misure del Tempio celeste.

Così la circonferenza della città corri-

sponde alla misura di dodicimila stadi

e l’altezza dei suoi muri è pari a cen-

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toquarantaquattro braccia. Come

osserva T. Burckardt si tratta di due

numeri solari, derivati dal calcolo

della precessione degli equinozi, il

più grande periodo di tutti i movi-

menti cosmici, qui considerato nel

suo semiperiodo pari a 12.960 anni.

Evidenziamo qui un sottomultiplo,

144, che riveste una speciale impor-

tanza nella partizione degli ambienti

della Gerusalemme celeste e di molte

architetture sacre.

Fig.4 - La pianta del tempio del Graal - “Deb-

bo costruire un tempio in onore di Dio e del

Graal tale che nessuno possa superarlo in ma-

gnificenza”. A questo compito re Titurel at-

tende 30 anni così com’è descritto nel poema

di Albrecht von Schaefenberg

Questi numeri così significativi so-

no i medesimi presenti nella costru-

zione del Tempio del Graal di Schar-

fenberg e sono occultati attraverso

una serie di riferimenti difficilmente

decrittabili che però, una volta indi-

viduati, dimostrano una straordinaria

coerenza interna. Seguiamo di nuovo

T. Burckardt nelle sue annotazioni.

Sopra il santuario del Graal si trova

una torre centrale che sostiene una

gorgiera di campanili ottagonali, cia-

scuno a strapiombo su due stalli. Ogni

campanile ha sei piani e ogni parete di

questi piani ottagonali possiede tre fi-

nestre.

Fig. 5 - Raffigurazione del tempio del Graal -

Tempio del Graal in alzato, con al centro il cibo-

rio che miniaturizza la costruzione

Combinando congiuntamente queste

cifre si constata che queste concretano

numeri che hanno attinenza con la

scansione ciclica del tempo; contiamo,

infatti, settantadue stalli, trentasei

campanili e sei volte ventiquattro fine-

stre per campanile, ovvero una serie di

numeri che sono tutti multipli del do-

dici. Aggiungendo che in ogni coro

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bruciano dieci lampade a olio, si ot-

tiene, infine, per moltiplicazione il

numero 25.920, che è il numero cui

corrisponde l’intero ciclo della pre-

cessione degli equinozi, il cosiddetto

anno platonico o anno perfetto. Il ri-

sultato è quindi straordinario: così

anche nella Dimora del Graal si

può dimostrare che il tempo diventa

spazio e lo spazio diventa tempo. Ci

troviamo di fronte a una misura co-

smica che totalizza un intero ciclo di

manifestazione e che coincide con

dati numerici ricavabili dalla lettura

dell’Apocalisse: in particolare, il

numero di finestre di ogni campanile

–centoquarantaquattro- corrisponde

alla misura della città celeste, come

si è appena visto in precedenza. Si

compie così in Monsalvat la più alta

delle montagne, talmente santa da

presentarsi purificata da ogni scoria

da trasmutarsi infine in puro onice, la

manifestazione rivelativa attesa. Su

di essa, infatti, gli angeli adagiano il

tempio che è l’anticipazione archeti-

pale della Gerusalemme celeste, al

nadir del tempio celeste corrisponde

lo zenit del tempio terrestre (si ricor-

di l’allegoria precedente del rapporto

tra ramoscello infiammato e il sole).

Tempio del Graal e Tempio divino

coincidono per mezzo del loro

“tempo” ed entrambi inaugurano

una condizione che è insieme, auro-

rale e paradisiaca: l’avvento del tem-

po acronico, ovvero di quel tempo li-

turgico ricorrente e reversibile che se-

gna la rottura dalla linearità del tempo

cronometrico. Queste similitudini, non

solo dimostrano la volontà di garantire

una precisa filiazione spirituale tra i

due edifici, ma legittimano altresì la

possibilità di operare la restaurazione

cosmica per mezzo del sacro Graal.

Osserva Corbin che una grande trage-

dia s’è compiuta nella storia: il tempio

di Gerusalemme è stato distrutto, la

Gloria di Dio s’è ritirata dal suo Tro-

no, e da quel giorno, il mondo attende

e anela il ristabilimento. Ciò avverrà

con l’avvento di quella condizione e-

nunciata da Gioacchino del Fiore, ov-

vero dell’età dello Spirito Santo, che è

l’età della piena Rinascita a una supe-

riore condizione. Il nostro scrittore (P.

Dick) ama citare la nota formula rosa-

crociana che recita: “ex Deo nasci-

mur, in Jesu morimur, per Spiritum

Sanctum reviviscimus”, per eviden-

ziare l’avvento dell’età piena e “tota-

le” compimento e rigenerazione “ou-

roborica” dei primordi. Altrove, sem-

pre nella sua Exegesis, al punto 44 af-

ferma:“Tuttavia questa informazione

(o più esattamente la capacità di leg-

gere l’universo in quanto informazio-

ne) può diventare disponibile per noi

solo attraverso lo Spirito Santo.”. Al-

lo stesso modo Corbin aveva scritto:

”Ma questo innalzamento è impossi-

bile senza l’ispirazione dello Spirito -

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Paraclito”.

Ci domandiamo: dopo tutto questo

è lecito chiedersi se può essere dav-

vero considerato casuale il fatto che

Dick scriva l’enigmatica frase che

segue, senza avere profonda cogni-

zione dei suoi contenuti? Leggiamo-

la: “Il tempo non esiste. Questo è il

grande segreto noto ad Apollonio di

Tiana, Paolo di Tarso, Simone Mago,

Asclepio, Paracelso, Boheme e Gior-

dano Bruno…Il tempo reale cessò

nel 70 d.C. con la distruzione del

Tempio di Gerusalemme…” 6,

Qui si riprende, in forma narrativa,

il pregresso riferimento a H. Corbin,

che sottolineava la portata catastrofi-

ca, di ordine cosmico e quindi

tutt’altro che contingente, che rive-

stiva la distruzione del Tempio, un

cataclisma cosmico che andava ben

oltre il conflitto che opponeva Israele

a Roma (Dick considera l’Impero

come una metafora di tutte quelle

forze arcontiche che mantengono in

vita, attraverso un apparato repressi-

vo, la percezione della realtà illuso- 6 L’anima tedesca ha profondamente assimilato

l’ispirazione paracletica che ha guidato Wolfram von Echembach e Albrecth von Scharfeberg a concepire la loro liturgia del Tempio e le architetture che vi corri-spondono. Il tema è stato ripreso anche dal grande Goethe che fu profondo conoscitore dell’ermetismo e che concretò le sue cognizioni sul tema nell’opera incompiuta Die Geheimnisse (I misteri) che mette in scena quali protagonisti dodici cavalieri rosacroce. Qui Goethe fa riferimento a Montserrat per indicare il cammino che conduce a Montsalvat e d’altronde il tema aveva occupato Goethe in un’altra opera dal titolo “Racconto del serpente verde”

ria), configurandosi altrimenti come

vero e proprio scollamento epocale.

La portata dell’avvenimento è così de-

scritta dallo scrittore ebreo Elia Wie-

sel; “Se i popoli e le nazioni avessero

saputo quanto male si facevano di-

struggendo il Tempio di Gerusalem-

me, avrebbero pianto più dei figli

d’Israele”. 7

Per questo il rito pentecostale, pro-

prio di questa terza età gioachimita,

non solo prefigura ma attua al presente

7 La distruzione del tempio di Gerusalemme è conside-

rata la catastrofe spirituale per eccellenza sul cui signifi-cato sono stati spesi fiumi di parole. Questo atto sacri-lego è correntemente attribuito alla furia devastatrice esercitata dall’esercito romano durante la campagna condotta dall’imperatore Tito. Di recente però sono stati pubblicati due testi, uno di Vittorio Messori e l’altro di Maurizo Blondet che riprendono l’argomento e pur, se da angolazioni visuali diverse, ne rimettono in discus-sione l’assunto. Per il nostro intento basterà citare il primo degli autori citati. Messori fonda la sua analisi sulla testimonianza offerta dallo storico ebreo Giuseppe Flavio, capo militare passato ai Romani, che non rinne-gò la sua appartenenza alla religione ebraica e che quindi si dovrebbe ritenere testimone imparziale degli eventi. Questi, nella sua descrizione, afferma come Tito fosse un uomo molto superstizioso, e per conseguenza fosse assolutamente contrario a danneggiare l’edificio nonostante il fatto che in esso si fossero rifugiati gli e-brei combattenti. Il suo scrupolo religioso lo spingeva addirittura: “…per risparmiare il tempio straniero a cau-sare la strage dei suoi uomini”. Egli, infatti, aveva ordi-nato ai suoi di spegnere il fuoco che, innescato nelle parti secondarie del Tempio, sembrava propagarsi verso la struttura principale. Nell’ambito di questi eventi ac-cadde che un soldato romano, per difendersi da una sortita dei difensori, afferrasse un tizzone e lo scaglias-se contro gli avversari. Questo tizzone per “un’ispirazione inviata da Dio” (daimonio orme tini) pe-netrò con una traiettoria pressoché innaturale attraverso una finestra nel Tempio innescando il vasto incendio che causò la combustione dell’intero edificio, nonostan-te i tentativi dello stesso Tito di domare le fiamme ormai inarrestabili. L’evento fu talmente prodigioso che Mes-sori propone di considerare questo evento voluto da Dio stesso per certificare la fine della prima alleanza.

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questo “nuovo” avvento e non per

nulla essa è la festività principale che

si celebra nell’edificio graalico (nel

testo Von Scharfenberg dedica due

righe soltanto al Natale e alla Pasqua

e ben una strofa alla Pentecoste). Del

resto è la stessa struttura simbolica

dell’edificio a rivelare apertamente le

sue finalità in quanto il suo coro

principale è consacrato allo Spirito

Santo. Ciò è in perfetta consequen-

zialità con gli accadimenti descritti

nel racconto Queste del Saint Graal,

dove ai cavalieri riuniti attorno a re

Artù, al tempo della festa della Pen-

tecoste, accadde di essere partecipi di

un insolito fenomeno di fotismo. Essi

d’improvviso furono tutti illuminati

da un raggio di sole di incomparabile

luminosità. Era la loro purezza che li

rendeva degni di essere toccati diret-

tamente dalla luce dello Spirito Santo

e di partecipare così alla visione di-

retta del Graal. L’effusione del Para-

clito non si è quindi compiuta una

sola volta, l’evento che si richiama

nella liturgia del Graal non è com-

memorativo di ciò che è “accaduto”,

bensì attuativo: esso si compie ogni

volta che uomini spiritualmente puri

si riuniscono con quella finalità. Si

realizza un’escatologia al presente,

allo stesso modo di come era uso

nella primitiva comunità qumranica

di cui il ciclo del Graal può essere

considerato in qualche modo in una

relazione di filiazione spirituale. Per

questo si può affermare che la liturgia

del Graal è la Pentecoste realizzata al

presente. Siamo, come suggerisce

Corbin, in un presente “ipersottile”

che nulla ha a che fare con il tempo

“opaco e denso” proprio degli accadi-

menti profani, Osserva ancora il ricer-

catore:” Il ‘tempo di Titurel’ è il

‘Tempo del Tempio’”, ovvero il tem-

po si è davvero trasformato in spazio.

Si è di fronte a una riflessione totaliz-

zante che rimarrebbe del tutto enigma-

tica se non fosse inquadrata in quella

cornice di temporalità acronica che si

va proponendo. Qui il mistero liturgi-

co ricorre al presente e si è quindi

all’opposto dello iam et nondum (già e

non ancora) che viene proposto dalla

rituaria contemporanea; qui abbiamo

una liturgia speculativa della festa che

si realizza sempre come irruzione pa-

racletica al presente come simultanei-

tà tra iam et nondum, là una festa re-

ligiosa che commemora un evento.

Nel tempio del Graal e in ogni tem-

pio di luce, al culmine della consonan-

za liturgica, si realizza l’esperienza e-

statica permanente (non dimentichia-

mo che nella vulgata leggendaria la

coppa del Graal sarebbe in grado di

donare l’eterna giovinezza), ovvero la

trasmutazione dell’adepto, la sua as-

sunzione nel pleroma dei figli della

luce, secondo una scansione di eventi

che ha precisi riscontri nella prassi ri-

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tuale presente nel corpo degli “scritti

giovannei” che scandiscono in moda-

lità eptadica la descritta ritmica rea-

lizzativa.

Nuccio D’Anna in un suo scritto

osserva che, alla fine del mondo

classico, la scuola neo-platonica di

Atene, in un suo ultimo guizzo spe-

culativo, formulò una dottrina sullo

spazio e sul tempo prospettando la

possibilità di fruire dell’esperienza di

un tempo immoto che si rapporta

allo stato estatico proprio di un intel-

letto che ha raggiunto la stabilità u-

nitaria e che quindi sperimenta la

speciale condizione cristallina (e cri-

stica) di un tempo che non scorre,

quel tempo che fu proprio di Kronos

reggente dell’età aurea. Una conce-

zione che, almeno così ci sembra, ri-

vela più che una profonda similitudi-

ne con ciò che stiamo qui trattando,

Tuttavia, come dianzi si accennava,

queste costruzioni scandite da “misu-

re” cosmiche non appartengono solo

al mondo delle Idee, come sembre-

rebbe prospettato dai riferimenti fi-

nora citati. Le relazioni della cosmo-

logia con l’architettura, per il mezzo

dell’anno platonico, hanno trovato

concreta applicazione presso altri

ambiti sacrali e quindi nel contesto di

altre forme spirituali tra loro distanti

localmente e temporalmente, al pun-

to che si può riscontrare una presen-

za ubiquitaria della scansione preces-

sionale (con tutti i suoi frazionali) nel-

le architetture templari disperse nel

mondo. Stella Kramrich, nota studiosa

dell’architettura induista, ebbe ad af-

fermare che: “Tutti i numeri ciclici

nella cosmologia indù sono essen-

zialmente basati sulla precessione

degli equinozi. Sono frazioni esatte

del numero 25.920.” Poi, essa ag-

giunge: “la morte, la distruzione e di-

verse malattie risultano da un cattivo

orientamento (di un edificio ndr). Se

la costruzione disturba il corso e

l’ordine del Cosmo, questo provoche-

rà la discordia nel regno e nel corpo

del costruttore”.

E’ evidente che qui “morte” significa

sottomissione al “tempo” e al suo illu-

sorio trascorrere, mentre gli altri “ma-

li” costituiscono il manifestarsi delle

vere e proprie infezioni spirituali deri-

vate dalla contingenza degli stati im-

permanenti innescate dalla sconnes-

sione cosmologica. A queste osserva-

zioni Schwaller de Lubicz, ebbe ad

aggiungere: “Quando nel 1942 ho af-

fermato per la prima volta che

l’architettura dinastica (la cronologi-

a) dell’antico Egitto si basava sui

tempi precessionali, reggendo anche i

simboli del culto, si reagì con scettici-

smo. Ignoravo allora questo inse-

gnamento vedico. Nel passato una

stessa saggezza ha guidato il mondo”

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(Schwaller de Lubicz:1°, 2000,498).

Per quanto riguarda il nostro studio

tuttavia appena in prosieguo vor-

remmo menzionare un edificio posto

alle nostre latitudini che rispecchia

fedelmente questa impronta genetica

e lo faremo non appena avremo esau-

rito un ulteriore aspetto proprio

dell’architettura acronica, ossia il

ruolo che riveste l’ornamentazione

preziosa nella significazione del luo-

go.

L’alchimia acronica del Tempio del

Graal

Osserva H. Corbin che il “conosce-

re” il linguaggio simbolico dei mine-

rali preziosi costituisce la condizione

indispensabile per partecipare al nu-

trimento spirituale dispensato dal

Graal. Tra gli uomini presentati nel

racconto del Graal, solo coloro che

hanno realizzato la loro trasmutazio-

ne minerale (Corbin allude al dia-

mante che nell’embriologia alchimi-

ca è considerato come prodotto della

maturazione del cristallo) possono

avere il privilegio di toccare il luogo

santissimo, posto in essere dagli stes-

si angeli. Del resto non si dimentichi

che nella saga di von Sharfenberg la

costruzione del Tempio del Graal sia

stata adiuvata dalla schiera celeste,

come parimenti era accaduto per il

suo prototipo salomonico, il Tem-

plum Domini Throni. In Montsalvat, le

“pietre” sono quindi portate già taglia-

te affinché, durante la costruzione, non

risuoni il minimo rumore di martello e

scalpello.

Il Tempio del Graal a similitudine

del suo prototipo celeste, non può es-

sere che costituito che in omologica

proiezione dei medesimi materiali pu-

rissimi propri della città immaginale.

Ne descriviamo rapidamente le carat-

teristiche salienti. L’edificio del Graal

si presenta a pianta circolare e l’alta

volta è sostenuta da colonne di bron-

zo: è interamente decorato d’oro e di

pietre preziose. La volta della sala

centrale è ricoperta di zaffiro, in modo

da presentare l’immagine della volta

uranica col suo azzurro splendore, es-

sa è altresì disseminata da piccoli pun-

ti luminosi costituti da carbonchi che

brillano come stelle nell’oscurità della

notte. Vi è un’immagine del Sole, fatta

d’oro, e una della Luna d’argento: i

due astri artificiali sono messi in mo-

vimento da un ingegnoso orologio co-

smico ed essi percorrono un superbo

zodiaco, mentre cembali d’oro annun-

ciano l’avvicendarsi delle stagioni. Il

meccanismo fornisce l’immagine

dell’ordine universale che è regolato

come l’ingranaggio di un orologio. Le

finestre sono contornate di berillio e

cristallo lucente. Le vetrate, colorate o

incrostate di pietre preziose, attenuano

il bagliore della luce: anche il tetto

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d’oro è incrostato di minerali prezio-

si affinché il suo splendore non acce-

chi.

Infine il Tempio, come il “Trono”,

poggia sulle acque dell’oceano del

mondo, anche se è collocato sulla

cima di un’alta montagna; se ciò

contraddice la “realtà” fisica, allo

stesso modo esalta il simbolismo co-

smico della costruzione. In questo

oceano di ghiaccio cristallino nuota-

no pesci d’onice e altre meravigliose

creature marine. Si tratta di una rap-

presentazione frequente nell’ar-

chitettura sacra in cui gli affreschi

sul soffitto e i mosaici al suolo, dan-

no vita alla medesima rappresenta-

zione di una spazio edificato posto

tra due oceani celesti. Anche il Potala

a Lhasa nel Tibet è concepito come

una montagna adagiata sull’acqua i

cui pinnacoli svettano nel cielo.

La descrizione ci narra della profu-

sione di pietre preziose dissipate nel

Tempio. Qui si è fatto solo un cenno

essenziale a tale magnificenza, dal

momento che una completa elenca-

zione avrebbe occupato troppe pagi-

ne di questo scritto. Tuttavia lo scru-

polo nel quale nel nuovo Titurel si

descrive lo splendore incomparabile

di ogni ambiente ci impone di dedi-

care qualche riflessione al tema e,

nello specifico, a tentare di cogliere

il significato dell’ interazione che si

realizza tra la specifica partizione ar-

chitettonica del luogo e la presenza di

tale incomparabile profusione di ori e

gemme. Da un punto di vista profano

il problema della loro presenza par-

rebbe non doversi porre: si tratterebbe

di un’ornamentazione deferente utiliz-

zata per scandire la maestà del luogo

sacro.

Pensiamo invece di andare oltre

l’ovvietà di quel pensiero che vede in

ciò esclusivamente un’opulenza ma-

gniloquente apparecchiata al solo sco-

po di rendere omaggio a un “Dio” di

inaccessibile maestà. Per quanto ci ri-

guarda vogliamo accedere invece a

una meno proiettiva interpretazione

della circostanza, proponendo una

meditazione alchimica sviluppata in-

torno al tema dell’impiego delle pietre

preziose, coniugate all’elemento archi-

tettonico regolato questo, cosmica-

mente, sulle misure processionali, tan-

to devotamente esposte da Platone nel

suo Timeo.

Per Eliade, infatti, la pratica alche-

mica è strettamente connessa

all’abrogazione del tempo profano al

fine di retrocedere nell’immanifesto

aureo primordiale. Il valore restaurati-

vo dell’alchimia sotto questo profilo è

stato già evidenziato: “Siamo quindi di

fronte a due tecniche mistiche diverse

ma solidali, entrambe perseguenti il

raggiungimento del ‘ritorno

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all’origine’ la respirazione embrio-

nale e l’opera alchemica.” Aggiunge

ancora che essa “deve essere accom-

pagnata da un’appropriata medita-

zione mistica”. (M. Eliade 1974,96) 8

Per questo abbiamo a disposizione

uno strumento interpretativo ecce-

zionale ed eccellente: si parla qui del

Bahir (ovvero, Livre de la Clarté,

trattasi di un testo cabalistico ebrai-

co), che indaga sulla simbologia del-

le pietre preziose, i cui profondi si-

gnificati esoterici si sono mantenuti a

lungo nel tempo come dimostra la

presenza, fin nel Medioevo, di lapi-

dari cristiani che s’interrogano sul

valore spirituale delle gemme. I più

noti di questi trattati sono rappresen-

tati dalle opere di Ildegarda Von Bin-

gen e Mardobo di Rennes, oggi con-

8 Il carattere embriologico attribuito alle pietre in ge-

stazione nelle viscere planetarie è riconosciuto a sva-riate latitudini. Si ritiene, infatti, che la terra gravida, dopo una lunghissima maturazione generi le pietre preziose. Non per caso in lingua sanscrita lo smeraldo significa “nato dalla roccia” e i trattati indiani di mine-ralogia lo descrivono attecchito nella roccia come se questa fosse il suo utero. Nel testo indiano denomina-to “Libro delle pietre preziose” si distingue il diamante dal cristallo per una differenza d’età espressa in ter-mini embriologici, in quanto il diamante è considerato “maturo” mentre il cristallo “acerbo”. Eliade (1968,54) rileva l’universalità di tale concezione di cui si trovano tracce fin al XVII secolo. In un testo del 1672, citato da questo studioso e dal titolo “Il mercurio indiano”, si trova scritto: ”Il rubino, in particolare, nasce a poco a poco nella miniera; dapprima è bianco e, maturatosi acquista gradualmente il suo rosso, da ciò deriva che se ne trovano alcuni che sono completamente bian-chi, altri che sono metà bianchi e metà rossi…Come il bambino si nutre di sangue nel seno di sua madre,

così il rubino si forma e si nutre”.

sultabili in un unico volume. La spe-

culazione del Behir è dunque pretta-

mente cabalistica pur se le modalità

operative che vi sono descritte hanno

evidenti similitudini alchemiche, rive-

landosi così la presenza di un’alchimia

gemmifera parallela a quella dei me-

talli. 9

Nonostante il grande interprete della

cabala Gershom Scholem, abbia nega-

to la presenza di alchimia ed ermeti-

smo all'interno della tradizione giudai-

ca, l’ulteriore maturazione degli studi

sul tema, sembra aver dimostrato in

maniera inequivocabile la presenza di

questo particolare percorso che coniu-

ga la via dei piccoli e dei grandi miste-

ri. La fonte di questa misconosciuta

tradizione alchimica riposa sul signifi-

cato della presenza delle dodici gem-

me, collegate alle dodici tribù d'Israe-

le, incastonate nel pettorale (ephod)

del Gran Sacerdote del Tempio, il tutto

posto in relazione dinamica con

l’albero sephirotico (cfr. A. Benzimra:

2009,72). Vogliamo ricordare qui, del 9 Il carattere “celeste” delle pietre preziose è ben carat-

terizzato da ildegarda di Bingen che nel suo trattato scrive:“Ogni gemma racchiude in sé acqua e fuoco, Tuttavia il demonio rifugge, abomina e disdegna le pietre preziose, che ridestano nella sua mente il ri-cordo del loro originario splendore, quando ancora egli rifulgeva della gloria concessagli da Dio…”. Le pietre, d’altronde, per la loro funzione anagogica, per le loro caratteristiche unioni simboliche sim-patetiche e anti-patetiche costituiscono gli elementi essenziale della santa arcaica farmacopea dal momento che la loro a-zione si rivolge prevalentemente alla guarigione dell’anima, alla “salute” intendendo per questo l’ignizione del “sale” titanico, primeva fonte di ogni male creaturale.

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tutto di passata, che ugualmente do-

dici pietre sono collocate nei basa-

menti della città santa in evidente re-

lazione omologica con i dodici apo-

stoli e in definitiva con lo zodiaco

celeste. E’ stato utilizzato nell’a cir-

costanza l’aggettivo “dinamico” con

precisa finalità espositiva. André

Benzimira, lo studioso che ha com-

mentato il testo cabalistico, ha, infat-

ti, individuato delle strategiche rela-

zioni tra la disposizione dei centri

collocati sull’albero sefirotico e la

disposizione delle pietre poste sul sa-

cro pettorale e la sinergia della loro

reciproca trasmutazione (sarebbe in-

teressante, visto lo specifico “taglio”

che subiscono le gemme prima di

procedere alla loro incastonatura,

comprendere se esiste una possibile

lettura in chiave “pitagorico-

platonica” della loro interpenetrazio-

ne “trasmutativa”).

Si diceva che questa scienza delle

corrispondenze spirituali legate alle

gemme è ben presente anche nel cri-

stianesimo come dimostra la “saggi-

stica” dedicata ai lapidari. In questa

ottica di continuità (anche con tutto il

mondo classico) all’ephod che è em-

blema caratteristico del potere sacer-

dotale ebraico, è opportuno accostare

il simbolo cristico per eccellenza, os-

sia la croce. Le parole dell’abate Su-

ger, “inventore” del gotico, con le

quali egli descrive il rapimento che

lo assale nella contemplazione della

croce gemmata di Sant’Eligio, rendo-

no ben congruo il parallelo. Egli, in-

fatti, scrive:“…il tuo ornamento è un

gioiello di sardonica, di topazio, di di-

aspro, di crisolito, di onice, di berillio,

di zaffiro, di carbonchio e di smeral-

do. Quanti conoscono le proprietà

delle pietre preziose constatano, con

loro grande sorpresa che qui non ne

manca alcuna…”. Questa precisazio-

ne “non ne manca alcuna…” sottoli-

nea in maniera inequivocabile il per-

fetto “dosaggio” spirituale del manu-

fatto, che discende dalla virtuosa di-

stribuzione delle pietre sulle sue arti-

colazioni. E’ evidente che le proprietà

cui allude Suger si riferiscono esclusi-

vamente alla capacità delle pietre di

agire sulla dimensione pneumatica

dell’individuo. Questo dimostra che le

trasmutazioni gemmifere fanno da

sfondo a una vera e propria alchimia

dell’anima, legata all’influenza che le

pietre sono in grado di esercitare su di

essa, grazie alla capacità combinatoria

delle loro virtù. In via principale si

può affermare che ogni pietra rivela

una nostalgia della sua “miniera” spi-

rituale d’origine. Questo suscita

nell’adepto potenti suggestioni oniri-

che, poiché le pietre su cui egli eserci-

ta la sua arte, si pongono in specifica

consonanza e in maniera via via più

evidente con le sue “miniere interiori”.

Qui giacciono sepolti nella ganga cor-

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porale gli omologhi delle pietre este-

riori, Questi si rivelano strumenti di

una specifica ascesi alchimica in

grado di sottrarre progressivamente

l’anima dall’oscurità tenebrosa in cui

essa è imprigionata. Questa empatia

può manifestarsi con occasionale

spontaneità o può essere disciplinar-

mente ricercata e costituisce il nucleo

di quella che può configurarsi come

una vera e propria disciplina onirica,

che si fonda proprio sul richiamo che

le particelle incontaminate, strategi-

camente disseminate nel tessuto cor-

porale, esercitano progressivamente

sulla psiche dell’uomo durante il suo

cosciente percorso di purificazione,

fino a trasmutare il suo corpo in

“corpo di gloria”. Esse, quindi, pos-

sono manifestarsi nel sogno incuba-

torio quando rivelandosi in immagini

enunciano la loro “nostalgia” per la

“miniera” celeste da cui provengono

e a cui aspirano ritornare. I preziosi,

costituiscono l’eredità latente e pre-

sente del tempo aureo delle origini.

Per questo sono in grado di trasmuta-

re, per anagogica simpatia, l’anima

dell’uomo “nobile”, richiamando,

nella circostanza, un’espressione si-

gnificativa del mistico renano Mei-

ster Eckart, che fu contemporaneo

agli accadimenti che videro il fiorire

della letteratura graalica che qui si

sta citando. Il processo di trasmuta-

zione tra le pietre e l’anima è ben de-

scritto nel Behir. Qui si allude alla ge-

rarchia di quattro anime presenti

nell’uomo (più una quinta esclusiva-

mente naturale) ovverosia ai quattro

aspetti o stadi dell’anima unica.

L’anima si purifica attraverso la parte-

cipazione empatica alle tramutazioni

gemmiche (si veda ad esempio sul te-

sto citato la trasmutazione della perla

in ametista) che le conferiscono la

”virtù” necessaria per offrire ricettaco-

lo al divino. Si risale così dall’anima

“naturale” fino a giungere al fondo in-

creato dell’anima in un percorso a-

scensionale che procede attraverso un

progressivo schiarimento, come acca-

de alla fiammella di una candela i cui

vari cangiamenti luminosi, meditati in

chiave ascensiva, ben si prestano a e-

splicitare tali indicazioni trasmutative

che trovano la loro finale rappresenta-

zione “gloriosa” nella luce purissima

che emana dal vertice della fiamma.

Quando tutto è compiuto l’anima è

ricondotta allo splendore e alla lucen-

tezza che è propria della gemma. A

questa conclusione può accostarsi

un’osservazione condotta dal Bur-

ckardt sui processi di cristallizzazione

che costituiscono una sorta di emble-

matizzazione concreta del processo al-

chimico. La sostanza sottoposta al

procedimento è in grado di:

“…perdere la prima forma in una so-

luzione per acquisirne immediatamen-

te un’altra per cristallizzazio-

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24

ne….Questa capacità espressa da

un’unica sostanza di trasformare se

stessa simboleggiava esplicitamente

l’unità della materia prima del co-

smo, in grado di assumere tutte le

forme e tutti gli stadi possibili senza

alterarsi nella sua essenza” (T. Bur-

ckardt: Alchimia, 85).

Fig. 6 - Non è senza rilevanza per l’economia

del nostro discorso rilevare come anche nella

pala centrale dell’opera il Regno millenario di

Hieronymus Bosch le caratteristiche paradi-

siache del luogo siano caratterizzate da un

proliferazione di elementi minerali, sempre

che si accetti la tesi di W.Fraenger

sull’appartenenza di Bosch alla corrente degli

Adamiti. Una collina raffigurata all’interno

del paesaggio del Paradiso è rappresentata

tempestata di pietre preziose e le acque stesse

rigurgitano di pietre gemmiche luminose. La

pianta dell’albero della vita prescindendo dal-

la sua complessa architettura, metà umana,

metà naturale è costituita di materiale indefi-

nibile, né pianta, né marmo, né cristallo, quan-

to piuttosto sintesi di tutti e tre.

Un altro commentatore del tema,

l’antroposofo Gerhard von dem Bor-

ne, a sostegno dei significati spirituali

del processo di cristallizzazione de-

scritto nel Nuovo Titurel di Von Schar-

fenberg, scrive: “Egli (Albrecht von

Sharfenberg n.d.r.) parla di questa at-

tività in maniera precisa quando de-

scrive il processo di cristallizzazione:

come Dio, creatore delle acque, le so-

lidifica in pietra, così si formano i

chiari cristalli nei quali si accende un

fuoco misterioso”.

Queste le parole:

‘Nel profondo della fenditura roc-

ciosa, agisce il peso del gelo, del calo-

re, del vento e delle acque le quali, es-

sendo qui da lungo tempo, vengono

così trasformati in chiari cristalli’

(Strofa 37)’

Il poeta innalza questa realtà natura-

le della creazione divina a livello dei

processi spirituali, come si constata

nel successivo passaggio:

“Il nome Cristo, ricco di benedizio-

ne celeste, mi piace, poiché mi rende

felice. Tutti voi cristiani dovete impe-

gnarvi creativamente, per essere cri-

stallizzati nel Cristo…”(strofa 38) 10

10

Goethe, autore delle opere graaliche citate, ebbe par-

ticolari esperienze di miniere e cristalli che descrisse nel suo enigmatico viaggio invernale nella regione dello Harz. Questa landa fu un luogo di intensa frequentazio-ne rosacruciana e probabilmente Goethe scelse di visi-tarla proprio per questo motivo e lo fece in un periglioso pellegrinaggio invernale ove la natura tutta è immota. I rosacroce, infatti. svilupparono delle tecniche meditative

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Fig. 7 - La copertina del libro di J. Ballard Fo-

resta di Cristallo completamento della tetralo-

gia dedicata alla rivolta degli “elementi”, qui il

tema è la rivolta del tempo cronologico che ral-

lenta progressivamente fino ad arrestarsi

A questo punto della disamina vor-

remmo di nuovo introdurre la narra-

zione di un altro notevole esponente

della letteratura di fantascienza (neo-

logismo coniato più di mezzo secolo

fa da Giorgio Monicelli ma oggi ina-

deguato a conchiudere un genere, cui

sarebbe preferibile- se proprio si

vuole- apporre l’etichetta di letteratu-

ra immaginativa) ovvero J. Ballard.

legate agli aspetti mineralogici della natura e sotto questo aspetto il territorio dello Harz offriva le più am-pie possibilità di concentrazione dal momento che v’era una grande esuberanza di rocce metallifere e in inverno di cristallini ghiacciai. Goethe, nel suo sog-giorno visitò puntigliosamente diverse miniere ove appunto abbondano disparate formazioni cristalline. Così il pozzo di miniera da lui esplorato a Rammel-sberg è il medesimo di quello indicato dai discepoli di Rosencreuz per certe loro meditazioni. Qui essi espe-rivano la cosiddetta “esperienza dei cristalli” (in cui sarebbe apparsa sulla montagna la propria figura gio-vanile), mentre, all’interno della terra praticando “l’esperienza dei metalli”, sarebbe apparsa la propria figura in vecchiaia.

Questo autore scrisse molti anni fa

una tetralogia dedicata alla rivolta dei

quattro elementi pre-socratici, a ciò

aggiunse un ulteriore scritto dedicato

all’”immobilizzazione” del tempo cui

aveva dato il significativo titolo Fore-

sta di Cristallo. La vicenda, che qui

non riassumiamo, si dipana da una

sperduta contrada dell’Africa equato-

riale dove, lentamente, il tempo si

ferma e come conseguenza di ciò, tut-

to il paesaggio e gli esseri viventi, che

in questo spazio vivono, si cristalliz-

zano in un arabesco iridescente di

gemme la cui bellezza, la maestria

dell’autore rende con rara efficacia. E’

un’ulteriore prova che l’intuizione

dell’artista è in grado di attingere di-

rettamente a una fonte sapienziale a

lui stesso ignota in via immediata e di-

retta rivelando verità nascoste.

Il Tempio è sulla Terra. La

straordinaria architettura di Santo

Stefano Rotondo

Sul colle del Celio si erge a Roma Il

Tempio di Santo Stefano Rotondo. Es-

so, se pur posto in prossimità di altri

rilevanti monumenti, quali la Navicel-

la, la chiesa di Santa Maria in Domni-

ca, nonché la Chiesa dei Santi Gio-

vanni e Paolo, edifici tutti molto cono-

sciuti, è però del tutto ignota ai più.

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Questa straordinaria costruzione

protetta dagli sguardi da un’alta re-

cinzione esterna e quasi immersa in

un lussureggiante giardino, si na-

sconde alla vista del passante fretto-

loso.

Fig. 8 - Santo Stefano Rotondo - La ricostru-

zione di Santo Stefano Rotondo secondo le in-

dicazioni di Sandor Ritz S.J. che tale ricerca-

tore riconduce alla volontà dello stesso Costan-

tino: “In che modo fu costruita la chiesa del Re-

dentore, la Nuova Gerusalemme annunciata dai

Profeti” …”L’Imperatore volle quindi glorifica-

re con magnificenza la vittoria del Redentore

sulla morte, sicché forse, quanto possibile, que-

sto edificio può essere la recente e nuova Geru-

salemme, annunziata dai profeti, quindi quella

sulla quale il vaticino dei profeti, ispirato dal

divino Spirito, ispirato dal divino Spirito preco-

nizzò tanto splendore “

( Eusebio: Vita Costantini lib . III, cap 33)

Su tale struttura, davvero unica, ha

indagato per anni il dotto gesuita

Sandor Ritz, che ha riassunto i suoi

studi in una preziosa pubblicazione,

purtroppo mai più ristampata dopo la

scomparsa dell’autore, che è dedicata

alla sua singolare, anzi unica, simbo-

logia architettonica.

Fig.9 - Sezione pianta Il risultato di una così in-

tenzionale ripartizione delle misure corrisponde

a quanto si legge nell’Apocalisse “La lunghezza e

la larghezza e l’altezza di essa sono ugua-

li”(Apocalisse 21,16). Si noti quindi la coniuga-

zione della pianta circolare con il cubo centrale

della costruzione

I risultati sorprendenti ai quali è ar-

rivato lo studioso dimostrano che

l’edificio rappresenta, nella forma e

nelle misure, una sorta di concretizza-

zione terrena della Nuova Gerusa-

lemme descritta nell’Apocalisse di

Giovanni e insieme a ciò riproduce per

identità di misure il Graalsburg di Al-

brecth von Sharfenberg, contenendosi

così nel medesimo edificio la circola-

rità del castello del Graal e il cubo del-

la Gerusalemme celeste. Tutto ciò è

stato rilevato con un’accurata misura-

zione delle sue dimensioni interne ed

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esterne che, trasformate in cubiti, so-

no identiche a quelle della Gerusa-

lemme celeste e al contempo recano

anche la grammatica numerica del

ciclo precessionale (è parimenti pre-

sente ad esempio il numero 1260).

Siamo di fronte ha un esempio

davvero straordinario di architettura

acronica. Completando nozioni già

abbozzate in precedenza si deve os-

servare che è proprio la forma cubica

della Gerusalemme celeste che de-

nuncia e dimostra il suo significato

escatologico, Essa è, infatti, simbolo

del compimento. Chiosando Bur-

ckardt dobbiamo osservare che se

consideriamo il cerchio come la trac-

cia visibile del “tempo”, la ‘coagula-

zione’ del cerchio in un rettangolo si

trova a rappresentare la trasforma-

zione del tempo in uno “spazio” spi-

rituale. Altri particolari architettonici,

che qui velocemente disbrighiamo,

rafforzano questa identità. Così il

tempio all’origine possedeva una

pianta formata da tre cerchi concen-

trici, noto simbolo atlantideo, cono-

sciuto come “triplice cinta druidica”,

simbolo assunto sovente dal cristia-

nesimo, quasi a ribadire una enigma-

tica continuità con la “invenzione”

platonica (anche se la triplice cinta è

prevalentemente rappresentata come

quadrata) e dodici ingressi così come

sono disposti nella Gerusalemme ce-

leste. Questa, così brevemente descrit-

ta, è la struttura originale che nei seco-

li è stata profondamente rimaneggiata,

anzi mutilata, al punto da renderla il-

leggibile ai contemporanei (non è stato

ad esempio scavato l’ultimo dei recinti

esterni, che dovrebbe consegnarci ul-

teriori dettagli particolarmente signifi-

cativi). Se questa struttura non avesse

avuto il significato profondo che le si

attribuisce sarebbe stato poco congruo

arricchirla di quegli elementi di inau-

dita preziosità, totalmente scomparsi

nell’edificio attuale, della cui presenza

ci testimoniano le fonti. Si parla, infat-

ti, di una splendida decorazione mar-

morea e musiva (dove, significativa-

mente, i corpi immersi nel fulgore del-

la luce aurea non fanno ombra), che

era tra le più meravigliose mai realiz-

zate. Essa era tanto celebre

nell’antichità che, ancora nel secolo

XV, lo studioso Flavio Biondo ne esal-

tava la bellezza descrivendo il Tem-

pio come il più magnificamente a-

dornato di tutta Roma. A distanza di

secoli il remoto splendore del luogo ha

abbacinato anche il suo sapiente con-

servatore, il citato Sandor Ritz, che ha

potuto affermare, nell’ultima edizione

dei suoi studi: “Possiamo aggiungere

che la cristianità ha perso un grande

tesoro, perché col tempo non ne capi-

va più il significato. La visione che il

fedele aveva nell’entrare in questo

Tempio quando era ancora intatto nel

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28

suo splendore, doveva certamente

essere al di sopra di ogni immagina-

zione, perché riteniamo che il Tem-

pio abbia potuto superare anche le

sette meraviglie del mondo…” (San-

dor Ritz: edizione privata, pag.49). Il

confronto con il suo stato attuale,

scheletro disseccato d’ogni vita, ri-

chiama le parole che pronunciò il

profeta Aggeo (II, 3) alla vista del

Tempio di Gerusalemme distrutto:

”Qual è tra di voi il superstite che

abbia visto questa casa nella sua

gloria primitiva? E in quale condi-

zioni la vedete ora? Così come essa

è, non è come un nulla ai vostri oc-

chi?”.

Fig.10- Palazzo Celeste - Una ricostruzione

fantasiosa, ma aderente alla cronaca

dell’epoca, del Tempio di Santo Stefano Ro-

tondo. La parola Tempio, oltre al senso già e-

nunciato in altre parti del lavoro, si riconduce

all’ebraico hekal che significa anche palazzo,

inteso come dimora di Dio, quindi luogo abita-

to da Dio. Rispetto alla nudità attuale le mura

si presentavano nell’antichità rivestite di

marmi e mosaici secondo quella visione che

trasfigura il terrestre nel suo corrispettivo mine-

rale più prossimo a quello celeste e che è carat-

tere istintivo dell’alchimia ebraica.

Lo studio sulle gemme e sui minerali

in genere, accennato nelle pagine pre-

cedenti, e l’ulteriore accenno al possi-

bile significato della loro “staticità”

testimoniante la loro maturazione o

compimento (così come del resto si

descrive nell’Apocalisse il trono di

Dio immerso in uno spazio “minera-

le”) e quindi la loro “fuoriuscita” dal

tempo che consente il legame con la

specifica architettura, ci pone in con-

dizione di leggere Santo Stefano come

concretizzazione terrena della Città

santa e quindi, lo ribadiamo, edificio

di escatologia realizzata.

Fig.11 - Ricostruzione del pavimento - Una

ricostruzione del pavimento di Santo Stefano

Rotondo. Ingrandendo l’immagine si può notare

come in questo pavimento compaiano le acque e

le creature marine che vi abitano in conformità

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a quanto descritto da A Von Sharfenberg nel

suo Nuovo Titurel.

A riprova di quanto affermiamo

prendiamo le parole di Fozio che

scrisse:” quando il credente entra

nel sacro luogo è come se fosse en-

trato nel cielo stesso” e per questo lo

storico Gunder Bandmann scrive: “la

Gerusalemme celeste non rappre-

senta uno stato storico terminale

(come nella concezione storicistica

odierna) bensì il senso finalissimo

dello stato presente”.

Fig.12 - Monte Brocken - La regione mine-

raria dello Harz è dominata dal modesto rilie-

vo del Brocken su cui il poeta iniziato volle sa-

lire nonostante il parere contrario della sua

giuda nell’inverno del 1777. Sulla sommità del

monte, quasi costantemente immersa nella

nebbia, si manifestano frequenti fenomeni fo-

tici, oggetto di “leggende” popolari che hanno

formato l’ossatura di opere quali la Notte di

Valpurga

Questo luogo è quindi un altro

“ramoscello incendiato” e costituisce

di conseguenza il concreto recupero

della possibilità paradisiaca, la restitu-

zione della condizione umana allo sta-

to celeste, in un superamento che va

oltre l’ecclesiologia ufficiale. Forse è

proprio da questo scostamento con la

“Chiesa di Pietro” che è derivato

l’abbandono di un così prezioso teso-

ro.

Oggi possiamo comprendere il gran-

de privilegio e il correlativo rammari-

co di aver ricevuto e poi “perduto” una

rappresentazione della Gerusalemme

celeste della quale, senza il prezioso

lavoro del nostro gesuita, poco o nulla

sapremmo. Egli amandola, l’ha a fon-

do studiata, proponendoci l’unica co-

struzione umana conosciuta realizzata

utilizzando lo schema e le misure de-

scritte nell’Apocalisse.

Conclusione

“Se non tutto è compiuto” come as-

serisce H. Corbin, se il Logos trova

ancora occasione di esprimersi, anche

se in maniera difforme al passato, qui,

ora, oggi, proprio nel nostro tempo

decaduto, ove gli oracoli sono da tem-

po immemore ormai muti, si può ac-

cettare che la rivelazione privata di

Dick assuma un senso e una funzione

catartica, proprio in relazione alla de-

licata vicenda epocale dei nostri tempi

che anch’egli considerava come ulti-

mi.

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30

Il nostro melange non deve essere

interpretato come un atto di peregri-

na audacia, avendo avuto l’ardire di

accostare le immagini, per così dire,

“naif” proposte dagli autori di “con-

fine” che abbiamo citato nel testo, in

bilico tra fantascienza e mainstream

e le descrizioni sapientissime degli

Antichi. Essere dubitanti è, eviden-

temente, un pieno diritto. Tuttavia

senza queste letture non avremmo

avuto l’intuizione di attribuire a certe

architetture la qualità di strumenti,

quasi tecnici, di suscitamento paradi-

siaco.

E ciò ci è sufficiente.

Antonio Bonifacio

*Appendice

Alcune considerazioni sulla forma

della Gerusalemme celeste

Vogliamo aggiungere a quanto si è

esposto nelle pagine precedenti alcu-

ne schematiche considerazioni sup-

plementari, imperniate sul tema assai

complesso della Gerusalemme cele-

ste e della sua forma simbolica. Si

tratta di osservazioni che possono

suggerire ulteriori elementi di com-

prensione per decifrare l’intima strut-

tura di questo “manufatto” celeste.

Nella nostra esposizione saremo adiu-

vati da una significativa iconografia di

cui queste note costituiscono, in prati-

ca, un ragionato commento.

Per questo inizieremo a discorrere

della Gerusalemme cubica di Georg

von Welling (alias Gregorius Anglus

Sallwing). Questi nacque nel 1652 e

affiancò la sua occupazione di inge-

gnere minerario quella di studioso di

“occultismo”, dimostrando profonde

conoscenze simboliche. L’opera in cui

espresse il suo sapere, frutto di una

lunga gestazione, fu stata data alle

stampe nel 1735, e reca il titolo Opus

mago cabalisticum, suscitando le sue

pagine, la reverente ammirazione di J.

Wolfram Goethe. All’interno

dell’opera è presente una singolare ta-

vola attraverso la quale lo studioso in-

tendeva offrire una peculiare interpre-

tazione dell’architettura della Gerusa-

lemme, così come è descritta

nell’Apocalisse di San Giovanni. Se-

condo la visione dell’autore Cristo, nel

giorno del Giudizio universale, avreb-

be ricondotto l’intero sistema solare

alla forma che aveva prima della cadu-

ta di Lucifero e, al termine di questa

restaurazione, sarebbe apparsa Geru-

salemme “quale immagine speculare

dell’archetipa città di Dio”.

Essa, sostiene il teosofo, sarà cir-

condata della forma sferica del globo

terrestre, e sarà a misura dell’uomo in

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quanto immagine di Dio.

Fig. 1 La Gerusalemme cubica di Georg von

Velling

Esorta von Welling a guardare

l’immagine con sguardo rinnovato e

quindi di “osservate la figura non

con gli occhi della carne, bensì con

gli occhi spirituali dell’animo”, e-

sortazione che si potrebbe rendere

come l’invito a innalzare la visione

“alla confluenza dei due mari” (fig.1)

al fine di percepire le sottigliezze di

una simbologia altrimenti inaccessi-

bile. Questo invito, essenziale per

accostarsi alla specificità della sua

proposta, richiama il lavoro di un

profondissimo interprete della forma

cubica della Ka’ba, Qazi Sa’id

Qommi, che ha speso davvero tesori

di erudizione per commentare il si-

gnificato di quello che è sicuramente

il più sacro degli edifici islamici.

Qommi suggerisce di accostarci a

una peculiare meditazione

sull’edificio, le cui strutture appaiono

metamorfosate rispetto alla loro origi-

ne celeste, poiché “vengono assunte

alla coscienza attraverso

un’elaborazione di carattere geome-

trico”. Si mette così in relazione, at-

traverso un rigoroso processo di

trasposizione, il mondo sensibile con

il mondo sovrasensibile, cogliendo

con ciò il significato dell’edifico alla

“confluenza dei due mari”. In diver-

se parole il visionario, anzi il teosofo,

ovvero colui che coltiva la capacità

immaginativa dell’anima, vede le cose

di questo mondo quali espressioni di

una ierofania e per questo con un pro-

cesso immaginativo interiore le innal-

za per ricondurle istantaneamente alla

sede di provenienza, da dove le forme

spirituali discendono nel sensibile,

come le immagini “discendono” nello

specchio in un processo che è stato

rettamente definito come “epifania

dell’incorporeo”.

La città santa è quindi anch’essa a

forma di un cubo, e la sua poliedrica

stabilità discende dalla staticità intem-

porale che ne contraddistingue il sen-

so, come, del resto, si manifesta “qua-

drato” il percorso solare quando è tra-

slato dalla condizione celeste a quella

terrestre.

L’intera struttura rivela i suoi nume-

rosi risvolti simbolici.

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Lungo i lati della figura cubica so-

no scritti i nomi delle dodici tribù

d’Israele, così come recita

l’Apocalisse (21,12): ”La città è cin-

ta da un grande e alto muro con do-

dici ‘porte’: sopra di queste porte

stanno dodici angeli e ‘nomi’ scritti,

i nomi delle dodici ‘tribù dei figli

d’Israele’”. In questa, come in altre

tradizioni, il dodici esprime il nume-

ro perfetto che sottende la norma in-

teriore di una totalità compiuta, di un

pleroma, rappresentando l’intera teo-

logia dell’Aion. Questa pienezza è

presente in molteplici tradizioni e,

citando un poco liberamente, per as-

sociazione, possiamo ulteriormente

riferirci ai dodici segni dello zodiaco,

alle dodici sorgenti che il bastone di

Mosè fece sgorgare dalla roccia, ai

dodici Apostoli, ai dodici mesi

dell’anno e ai dodici Imam della tra-

dizione shi’ita e via enumerando.

In riferimento alla sua composizio-

ne minerale, propria della ristabilita

condizione aurorale, Georg von Wel-

ling evidenzia che il materiale che

compone la città-tempio è delicatis-

simo cristallo dorato, sul cui signifi-

cato ci siamo un poco spesi in consi-

derazioni precedenti.

L’incomparabile splendore che da

essa si effonde, deriva dal fatto di es-

sere direttamente trafitta dai raggi

della pura luce divina. (si veda Ale-

xander Robb: Alchimia e mistica, pag.

342). Come può osservarsi

l’immagine quadrato-cerchio, cubo-

sfera, che propone von Welling è in-

vertita rispetto alle figure 8-9 del no-

stro testo, ove il Tempio di Santo Ste-

fano Rotondo appare contenuto da un

recinto quadrato. Lo schema in alzato

che abbiamo proposto in quella im-

magine contiene in maniera celata e

invisibile la struttura cubica, che è in-

serita in maniera latente nella struttura

di Santo Stefano Rotondo proprio a ri-

chiamare i numeri della città celeste.

Ciò discende da un complesso rappor-

to tra quadratura e circolarità, ossia si

allude qui al tema della quadratura

del cerchio e della circolazione del

quadrato, che è stato affrontato da

Guénon più volte nei suoi approcci al-

lo studio del simbolismo architettoni-

co, ove la complementarità oppositiva

delle due figure geometriche assume

un determinato valore a seconda che si

consideri uno o l’altro dei poli di os-

servazione.

La Gerusalemme celeste, sempre in

forma quadrata, viene riprodotta in

maniera sottilmente simbolica in una

miniatura di un manoscritto spagnolo

del X secolo che qui si propone (fig.

2). La città è vista dall’alto con i muri

disposti in piano. Al centro figurano

l’Agnello di Dio, San Giovanni che

sorregge il Libro e l’Angelo che misu-

ra la città con la sua canna. Sulla so-

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glia delle dodici porte stanno gli A-

postoli e, al di sopra di essi, le perle

alle quali la sacra Scrittura paragona

le porte. Ancora una volta cogliamo

un riferimento alla tradizione islami-

ca.

Fig. 2 La Gerusalemme cubica così come

rappresentata in un manoscritto del X sec

Qui l’angelo che “misura”, Gabrie-

le, suggerisce ad Adamo di tracciare

sul terreno un solco che disegna il

perimetro della futura ka’ba (lette-

ralmente cubo), seguendo il contorno

dell’ombra proiettata sul terreno dal-

la Nube “discesa dal cielo spiritua-

le”: la forma o configurazione del

tempio di Dio nel mondo

dell’Intelligenza. Allo stesso modo è

presente anche qui una tradizione che

associa la perla all’angelo (che in re-

altà è la forma vivente della perla),

perla che poi, ulteriormente discesa

nel mondo tenebroso, si rivestirà

dell’opacità propria della dimensione

terrena.

Ciò si presterebbe a ulteriori compa-

razioni davvero interessanti che però

esondano dal carattere schematico e

complementare che rivestono le in-

formazioni che proponiamo in questa

circostanza. (Si veda sul tema: La con-

figurazione del Tempio della Ka’ba

come segreto della vita spirituale, sta

in Henry Corbin: L’immagine del

Tempio).

Tutta l’immagine della città si svi-

luppa su un fondo simile a una scac-

chiera suddivisa in dodici case per la-

to, dando così origine al numero sola-

re 144 (12x12), cioè la misura della

muraglia effettuata dall’Angelo: “A

Oriente tre porte, a settentrione tre

porte, a mezzogiorno tre porte e a oc-

cidente tre porte” (Apocalisse 21,13).

Al centro della scacchiera immolato e

perciò immoto, in stato di non azione,

sta l’Agnello sacrificale. Esso è una

peculiare omologia, collocata

all’interno della tradizione cristiana,

del sacrificio primordiale dell’uomo

celeste il Purusha (l’equivalente ani-

male del sacrificato indù è il capro).

Questi, attraverso il proprio auto-

sacrificio, si divide per “smembramen-

to” e ciò accade “all’origine della ma-

nifestazione, per risiedere contempo-

raneamente in tutti gli esseri e in tutti

i mondi” (cfr. T. Burckhardt: La nasci-

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ta della cattedrale pag. 33, R. Gué-

non: Simboli della scienza sacra pag.

392).

La comparazione di Gerusalemme

con lo schema dell’altare vedico, in-

teso come “diagramma magico”, e

altresì luogo del sacrificio del puru-

sha esprime la sintesi di tutta la real-

tà cosmologica, ci spinge ad analiz-

zare, con un minimo di approfondi-

mento, questo schema che la base di

tutta l’architettura templare induista

e che naturalmente investe princi-

palmente anche le nostre considera-

zioni. Qui si propongono due esempi

di vastu purusha mandala, Come

detto si tratta di uno schema cosmo-

logico che cospira su più livelli di re-

altà, dal microcosmo al macrocosmo

e proprio in questo riprendiamo sin-

teticamente gli studi di Stella Kra-

mich esposti nel suo incomparabile

libro: Il tempio indù. Qui ella scrive:

“analogamente, ogni potere o divini-

tà è disposto nei quadrati (pada); il

loro totale è il Vastupurusamandala

di 64 o 81 quadrati, a seconda che

sia destinato ai Brahmanas o agli

Ksatriyas” (fig. 3,4). Queste due

“scacchiere”, di cui è evidente la si-

militudine con lo schema solare

dell’immagine precedente, discendo-

no da due mandala fondamentali. Il

mandala “base” a quattro caselle,

connesso alla “casta” sacerdotale e

all’aspetto macroscopico del simbolo

e quello a nove caselle, relativo

all’aspetto microcosmico che si lega

alla classe guerriera. I numeri 64 e 81

sono, a loro volta, entrambi sottomul-

tipli del ciclo precessionale

(64x81x5=25.920). In quanto dia-

gramma cosmologico il vastu purusha

mandala fissa e coordina i due cicli del

sole e della luna.

Fig. 3 e 4: I due prototipi del mandala – Man-

dala a 64 e a 81 caselle, (secondo Stella Kram-

risch)

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Il cosmo è vivente, e, allo stesso

modo, tutte le costruzioni umane che

traggono fonte e legittimazione

dall’archetipo cosmico devono ripro-

durre e quindi ripetere il sacrificio

dell’origine. Questo accade in ogni

ambito di cultura e a ogni latitudine.

Senza un sacrificio di fondazione,

nessun luogo può ritenersi ritualmen-

te fondato e quindi essere considera-

to appartenente alla “realtà”.

Fig. 5: Mandala come diagramma cosmolo-

gico e altare vedico che riproduce l’universo .

Su di esso è disteso il Sacrificato omologo

dell’Agnello

Il mandala a 81 quadrati (fig. 5)

corrisponde al corpo sottile del sacri-

ficato, purusha, che è rappresentato

come un uomo dalla faccia a terra,

mentre gli assi e le diagonali segnano

le correnti sottili e principali del suo

corpo, le cui intersezioni disegnano la

sagoma in pianta dell’edificio sacro (si

confronti T. Burckhardt: L’arte sacra

in Oriente e Occidente pp. 34-37).

Quanto abbiamo esposto finora sono

solo alcuni suggerimenti interpretativi

di peculiari strutture sacrali che, per

effetto della loro costituzione intem-

porale, forniscono elementi per la fuo-

riuscita dal tempo denso e opaco, che

costituisce la condizione ammorbata

nella quale, inconsapevolmente, vive

la quasi totale integrità dell’umanità

attuale.

Antonio Bonifacio Bibliografia James Ballard: Foresta di Cristallo Feltri-

nelli

André Benzimra: Hermetisme et alchimie dans la Kabbala, Arché

Antonio Bonifacio : Organismi di pietra. Ter-re Sommerse.

Gerard von dem Borne: Il graal in Europa, Ecig

Titus Burchardt: La nascita della Cattedra-le, Chartres, Edizioni Arkeios

Titus Burchardt: Alchimia, Arché Pizeta

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Henry Corbin: L’immagine del Tempio, Bo-ringhieri, Torino

Henry Corbin: L’immaginazione creatrice, Edizioni Laterza

Philps K Dick: Valis (con prefazione di Car-lo Pagetti), Fanucci editore

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Mircea Eliade: Mito e realtà, Rusconi

Nuccio d’Anna: il gioco cosmico Edizioni Mediterranee

René Guénon: Sull’esoterismo cristiano, Luni

Mario Iannarelli: Sulla via. Dal mistero alla sapienza del Graal, Antroposofia (n. 6, 2006; nn.1-2, 2007).

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Claudio Lanzi: Ritmi e Riti, Simmetria.

R.A Schwaller de Lubicz; Il tempio dell’uomo, Mediterranee.

Sandor Ritz: L’insuperabile creazione del passato presente e futuro, il Tempio pe-renne di Santo Stefano Rotondo in Roma, la nuova Gerusalemme dell’Apocalisse, edizione dell’autore, Roma, s.d.

Marcus Schneider: Il viaggio di Goethe nello Hartz, Inverno 1777 Antroposofia n.4 Luglio Agosto 2008

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