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SI SCRIVE MUSICA, SI LEGGE PASSIONE DI E NRICO C OGNO Parliamo di musica, in particolare di jazz e di musica d’autore, ma anche di creatività, di come nasce un’idea musicale, di come il jazz può influenzare la scrittura, oltre ad avere influenzato, dai primi del 900, quasi tutta la musica attuale e l’arte in senso generale, con particolari riferimenti alla letteratura e alla pittura. Ricordate l’incipit di Il giro del giorno in ottanta mondi di Julio Cortàzar? “Una sera in cui Lester Young riempiva di fumo e pioggia la melodia di Three Little Words, sentii più che mai cosa rende tali i grandi del jazz: quella invenzione che rimane fedele al tema mentre lo combatte, lo trasforma e li irida….. un andirivieni di pezzi di stelle, di anagrammi e palindromi”. Ricordate, ancora, Henri Matisse e la sua opera JAZZ, pubblicata nel 1947 dall’editore Terrier? Quelle venti tavole dagli accesi cromatismi (come era logico attendersi dal caposcuola dei Fauves) che cercavano, nell’improvvisazione con la quale Matisse sempre produceva le sue opere (prive di prospettiva ma cariche di umanità, di senso del ritmo e di colore) di cogliere l’attimo creativo con forbici, colla, ispirazione e passione, nei suoi gauches decoupè. E ricordate, più recentemente, la geniale opera di uno dei nostri autori musicali più creativi, Paolo Conte, che in Ratmataz ha fuso mirabilmente jazz e arte visiva? Da quasi cinquanta anni porto avanti, con le debite differenze rispetto a questi maestri, una ricerca che analizzi l’intrecciarsi della musica con le parole e la stimolazione che queste sanno dare alla musica. Ho un’idea fissa: indagare su cosa genera questo intreccio dell’idea con l’arte, in particolare per cercare di capire come nasce un’idea, sapere cosa fa sorgere l’esatto attimo creativo. Anche un personaggio di Alessandro Baricco cercava sempre, per tutta la vita, di capire dove finiva il mare. Un'altra mia idea fissa è cercare di dare swing alla scrittura. Nel 1971 pubblicai per Cappelli Editore “Jazz Inchiesta Italia”, un testo che cercava di “scrivere in modo jazz”. Qualcuno colse questa intenzione. Francesco Forti su Spettacolo scrisse: “Non è facile resistere all’intensa suggestione che emana dal libro per come è stato montato e per la sua scrittura rapida e swingante”. Perfetta sintesi di quello che avevo cercato di fare.

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SI SCRIVE MUSICA, SI LEGGE PASSIONE DI ENRICO COGNO

Parliamo di musica, in particolare di jazz e di musica d’autore, ma anche di

creatività, di come nasce un’idea musicale, di come il jazz può influenzare la

scrittura, oltre ad avere influenzato, dai primi del 900, quasi tutta la musica

attuale e l’arte in senso generale, con particolari riferimenti alla letteratura e

alla pittura.

Ricordate l’incipit di Il giro del giorno in ottanta mondi di Julio Cortàzar?

“Una sera in cui Lester Young riempiva di fumo e pioggia la melodia di Three

Little Words, sentii più che mai cosa rende tali i grandi del jazz: quella

invenzione che rimane fedele al tema mentre lo combatte, lo trasforma e li

irida….. un andirivieni di pezzi di stelle, di anagrammi e palindromi”.

Ricordate, ancora, Henri Matisse e la sua opera JAZZ, pubblicata nel 1947

dall’editore Terrier? Quelle venti tavole dagli accesi cromatismi (come era

logico attendersi dal caposcuola dei Fauves) che cercavano,

nell’improvvisazione con la quale Matisse sempre produceva le sue opere (prive

di prospettiva ma cariche di umanità, di senso del ritmo e di colore) di cogliere

l’attimo creativo con forbici, colla, ispirazione e passione, nei suoi gauches

decoupè.

E ricordate, più recentemente, la geniale opera di uno dei nostri autori musicali

più creativi, Paolo Conte, che in Ratmataz ha fuso mirabilmente jazz e arte

visiva?

Da quasi cinquanta anni porto avanti, con le debite differenze rispetto a questi

maestri, una ricerca che analizzi l’intrecciarsi della musica con le parole e la

stimolazione che queste sanno dare alla musica. Ho un’idea fissa: indagare su

cosa genera questo intreccio dell’idea con l’arte, in particolare per cercare di

capire come nasce un’idea, sapere cosa fa sorgere l’esatto attimo creativo.

Anche un personaggio di Alessandro Baricco cercava sempre, per tutta la vita,

di capire dove finiva il mare.

Un'altra mia idea fissa è cercare di dare swing alla scrittura.

Nel 1971 pubblicai per Cappelli Editore “Jazz Inchiesta Italia”, un testo che

cercava di “scrivere in modo jazz”. Qualcuno colse questa intenzione.

Francesco Forti su Spettacolo scrisse: “Non è facile resistere all’intensa

suggestione che emana dal libro per come è stato montato e per la sua scrittura

rapida e swingante”. Perfetta sintesi di quello che avevo cercato di fare.

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Nell’introduzione cercavo di spiegare questo approccio:

Feeling: tocco, sensibilità, sentimento.

E’ scritto sui dizionari, ma la gente del jazz non usa tradurlo.

Dice: il jazz è feeling (o è swing, è blues) come chiave di un codice che sconfina

in campi semantici che un dizionario non riporta. Parlando (o scrivendo) di jazz, è

importante far rivivere un tratto spontaneo, non mediato, che proceda sul piano

dell’emotività più pura (pulsazione, fremito, mixage di sentimenti tra il lirico e il

disincantato), un modo di rendere jazz le parole, di usare un segno in sintonia

con i problemi degli uomini che del feeling ne hanno fatto un modo di vivere.

Il jazz è compromissione e comprensione: per parlarne serve compromettersi con

chi lo produce e capirne il perché. Le biografie da sole non servono a questo.

Per sensibilizzare anche il fruitore meno attento serve scoprire la seconda parte di

ogni musicista. Si sa qualcosa sempre e soltanto della prima, quella che va dallo

strumento in avanti, mentre dell’altra (quella che tira fuori dall’ oggetto le note, le

idee, i suoni della rabbia, dell’amore, la poesia, la vita) l’uomo, insomma, la

gente, l’uomo, lo conosce sempre troppo poco o troppo tardi.

Il jazz in Italia, ha avuto molti giudici e pochi testimoni.

Ora che serve affermarlo (a fianco dei fenomeni della cultura ufficiale) come

musica di poesia e non di consumo, serve, paradossalmente, la tecnica del

consumo, non quella della poesia: una inchiesta rivolta a scoprire l’ambiente e la

problematica di chi produce il jazz, di chi lo giudica e di chi lo ascolta. Il tutto

impregnato di feeling, fatto con discorsi grintosi, diretti a stimolare oltre che a

informare.

Negli anni ’70 una storia (in senso tradizionale) del jazz soddisferebbe chi infila i

libri sugli scafali con amore feticistico e lascerebbe insensibili quelli che, di una

musica viscerale come il jazz, vogliono un documento che ne analizzi la sfera

sociale ed umana. Vivere il jazz al di fuori di questo contesto significherebbe

esaminarlo spogliato della sua caratteristica più importante.

Così l’uomo del sassofono sarà del fianco del vigile urbano, il critico di fronte alla

fioraia, lo studente con il programmatore RAI: un collage che tenderà a creare un

habitat in cui le testimonianze (non i giudizi) cercheranno di distinguere i buoni

poeti dai buoni artigiani, sul piano dello stimolo emozionale.

Nel jazz la saggistica, caricata di feeling (denominatore comune per questo

dialogo) può sconfinare e fondersi con la narrativa, può vivere di ricordi e da

questi, operando per sintesi, trasformarsi in ricerca.

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Non potrebbe, trattandosi di jazz, non essere racconto di vita.

In altra parte del sito si può rileggere l’intero testo (Jazz Inchiesta Italia 1971)

tenendo però conto di due indicazioni: la prima è che il libro è stato scritto

nell’estate del 1970 e che oggi pertanto mostra tutte le incompletezze

derivanti da ciò. E’ solo una testimonianza sullo spaccato di quel periodo, visto

che il testo è introvabile e forse a qualcuno potrebbe far piacere rileggerlo o

leggerlo per la prima volta.

La seconda è che manca delle immagini, fondamentali, mi pare, per dare quello

swing che il testo intendeva avere e che nella versione originale, ancorché in

bianco e nero e su carta povera, invece includeva.

La passione per la musica e per le parole

L’ho succhiata nel latte, la passione per le parole, per la musica e per l’arte in

una Torino del dopoguerra: macerie, fame, ma anche l’allegria di chi dalla

guerra era uscito vivo. Cantavamo sempre, in casa. Mio padre, che si era

formato artisticamente a Parigi, era un bravissimo pittore e appassionato

melomane. Mia madre era nata nei pressi di Buenos Aires, cantava, suonava la

chitarra e dipingeva anche lei; si era poi trasferita in Inghilterra, per arrivare in

Italia verso i trent’anni. Così le milonghe, le arie verdiane, le ballate celtiche,

le ceramiche d’arte e la pittura mi sono entrate nel sangue, mischiate come un

frullato di dolce follia.

L’ambiente era creativo, anche se il fatto che in famiglia fossero tutti dotati di

una grande abilità nel disegno, fuorché me, mi spinse verso un’espressività

basata sulle parole, parlate e scritte.

Sono sempre stato attratto dalle parole. Mio padre, a volte, se le inventava,

quando quelle del dizionario erano inadeguate: nel nostro lessico familiare, ad

esempio, bastava che mio padre, rientrando in casa e volendo dire “Questa sera

mangiamo in fretta, poi andiamo al cinema” usava una sola parola, inventata e

quasi magica: “Tringhesvai”. E, tutti felici, capivamo perfettamente.

Mia madre, per via della sua lunga presenza in Inghilterra, aggiungeva alle

parole inventate da mio padre i suoi termini italo-ispano-anglosassoni.

Qualche volta i miei amici avevano difficoltà a capirmi: solo dopo molti anni mi

resi conto che, certe parole che usavo, non esistevano in italiano, anche se

erano più efficaci di quelle previste dallo Zingarelli.

Alla sera, la radio alternava radiodrammi a musiche dal mondo: mi piaceva il

suono delle chitarre, nel folklore internazionale, i quartetti vocali, il suono del

trombone, i gospel, la musica country. Il jazz lo scoprii qualche anno più tardi.

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Così mi nutrivo del Trio Los Calaveras, del Golden Gate Quartet, di Les Paul e le

sue 100 chitarre, delle arie d’opera, delle orchestre italiane dell’epoca: Cinico

Angelini, Pippo Barzizza, la stupenda band di Ferrari. E c’era poi il Discobolo, la

hit parade di quel tempo.

Scoprii il jazz nel 1954, quando acquistai una antologia discografica per

corrispondenza: vi era di tutto, in quel disco, da Sidney Bechet a Louis

Armsgrong, da Benny Goodman a Charlie Parker, da Chet Baker a Dave Brubeck.

Fu un vantaggio, perché, da quel momento in poi, mi piacque ogni genere di

jazz, senza cadere nel tormentone dell’epoca che usava distinguere, con una

sorta di definizione demenziale, tra jazz caldo e jazz freddo.

Un Natale ricevetti in regalo una chitarra e passai giorni interi a cercar di

cavare un suono che non fosse solo un Mi basso ostinato, con il quale

accompagnavo tutto: tanto, sosteneva un mio amico, prima o poi i giri armonici

“passavano di lì”.

La cosa migliorò quando mia sorella decise di prendere delle lezioni di chitarra

e il mio compito di bravo fratello era accompagnarla tutte le volte dal maestro,

perché all’epoca, a Torino, le ragazze per bene non andavano da sole da un

giovane musicista, per di più in un borgo periferico: insomma, il fratellino

sempre dietro, tipo “Io Mammeta e tu”. Mi annoiavo da morire. Il maestro mi

fece una proposta: con poche lire in più avrebbe insegnato anche a me. Un

affare, almeno mi sarei annoiato di meno.

Così studiai solfeggio e armonia (cosa che in realtà apprezzai solo in seguito) e

una volta scoperto che la musica e la chitarra non erano poi così difficili,

dilagai.

Aggiunsi l’uso del banjio tenore a sei corde, più agevole per me del classico

quattro corde. Amavo esplorare più le parti armoniche che quelle melodiche. Mi

nutrivo di Tiny Grimes, Django Reinhardt, Bib Bill Broonzy e vari bluesmen.

Poi, attratto dai suoni pastosi del trombone a coulisse (divertenti nel dixieland

e adattissimi anche a stili più moderni) comprai per duemila lire un vecchio Orsi

al Balòn, pagavo le lezioni ad uno squattrinato allievo del conservatorio di

Torino sotto forma di due pacchetti di Giubek, mi vennero due labbra gonfie

come un canotto (non avevo idea che esistesse il sistema no-pressure: al

conservatorio all’epoca il bocchino si schiacciava sino a far sgorgare il sangue) e

incrinai definitivamente il rapporto con i vicini che pensavano che avessimo una

mucca in casa, tanti erano i muggiti che producevo all’inizio con quel coso

metallico.

Poi, non pago, tentai di fare del jazz con il corno francese (anche quello

acquistato di seconda mano da un amico) ma smisi subito, essendo uno

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strumento troppo ostico per il be-bop. Però eseguivo il Tannhauser niente male.

Nel frattempo, colpito da Stan Kenton e Woody Herman, iniziai a comporre dei

brani che arrangiavo a 16 voci: solo che non trovai mai tanti amici in grado di

leggere la musica per eseguirli, per cui non ho mai saputo se facessero davvero

pena come ora temo.

Infine, incominciai a muovere i primi passi come giornalista specializzato in

quella che veniva definitiva musica extra-colta, facendo incetta di articoli

firmati (anche se pagati quasi niente) per poter prendere la tessera da

pubblicista, che ottenni poi qualche anno dopo.

I gruppi musicali dell’epoca

Avevo attivato diversi combos: un quintetto con due tromboni, stile Jay & Kay,

qualche gruppo in stile swing-era, con il giovane Paolo Dutto al clarinetto e io

alla chitarra, più una ritmica raccogliticcia con il classico bassista-finto (era un

imbianchino che faceva boom-boom a corde libere, del tutto indipendenti dalla

tonalità del brano) e un batterista che oggi fa il carrozziere, di cui non ricordo

il nome, ma so che lo chiamavamo Cucciolo. Poi avevo qualche formazione in

stile east coast con un organico molto elastico: dipendeva da quanti amici

erano disposti a venire alle prove. Alcuni compagni d’avventura (non li cito per

tenerezza) erano talmente “squadrati” che, una volta esposto il tema che

leggevano rigidamente, non riuscivano a capire quando, finite le

improvvisazioni, dovevano riprendere il chorus finale: ricorrevo quindi a degli

espedienti strani, tipo battere il palmo della mano sul bocchino del trombone

quattro battute prima della ripresa, oppure facendo dello scat urlando Minus

four, three, two, one…

Uno di questi musicisti-da-ridere era il mio giovane portalettere (che mi sentiva

suonare quando mi portava la corrispondenza) e che, quando mio padre un

Natale gli volle dare la mancia, come un tempo si usava alla consegna del

Calendario del Portalettere, si schernì dicendo..”No, no, mi basterebbe solo

poter suonare con suo figlio…”.

L’altro era l’idraulico di casa, anche lui appassionato suonatore di sax tenore

che aveva imparato a suonare nella banda del paese. Non tutti erano così

semplici: alcuni, per la verità, erano già bravi. Mi ricordo tra questi Enrico

Rava, che aveva appena abbandonato il trombone a coulisse (strumento con il

quale aveva iniziato, per pochissimo tempo, a suonare nei gruppi dixieland) per

passare alla tromba, sulla quale stava impostando il metodo no-pressure,

imitando alla meglio Miles Davis, con interminabili cascate di note per

nascondere una tecnica allora molto rozza. Adesso Enrico, diventato

giustamente una grande star del jazz, confessa, nel suo interessantissimo libro

“Note necessarie”, che impiegò molti anni a disfarsi di quel vizio e ci riuscì solo

quando, sentendolo suonare, Joao Gilberto gli disse: “Sei bravo, ma fai troppe

note inutili. Suona solo le note necessarie”.

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Veniva spesso anche Gianni Negro (e poiché, da chitarrista, non avevo in casa

un pianoforte, Gianni suonava la fisarmonica alla Gorni Kramer) e nei concerti

esterni qualche volta ci raggiungeva Paolo Conte. Quando al piano c’era Ennio

Vitanza (un innamorato di Monk che all’epoca aveva vinto un concorso nelle

ferrovie come Capo Stazione Aggiunto alla stazione di Porta Nuova e che poi si

trasferì a Milano a fare il cronista sportivo in Rai), Paolo passava al vibrafono,

sul quale è sempre stato molto bravo. Sempre come vibrafonista, Paolo Conte e

il fratello Giorgio alla batteria, diversi anni dopo, nel 1962, incisero per la RCA

Victor un extended play dal titolo “The Italian Way to Swing” sotto il nome,

americanizzato, di Paul Conte Quartet.

E’ un disco purtroppo introvabile.

Il rapporto jazz-canzoni

Va ricordato che negli anni 50, in mezzo a poche canzoni interessanti, vi era

molta robaccia. I cantautori (termine creato alcuni anni dopo) non esistevano

ancora in Italia: si doveva ascoltare Georges Brassens per sentire qualcosa di

serio. Chi componeva la musica, tranne pochissimi casi, non la eseguiva e

soprattutto non scriveva i testi.

Per questo c’erano i “parolieri”. Per scrivere una canzone si mettevano quindi

insieme un gruppo di persone, a volte con qualche nome in più al solo scopo di

poter depositare il pezzo alla SIAE, che rilasciava il titolo di autore solo dopo

esami che all’epoca erano piuttosto complessi.

A quel tempo, in genere, chi suonava jazz non amava la musica leggera: si

atteggiava, aveva un po’ la puzza sotto al naso e cercava di stare alla larga

dalle canzoni. Ricordo un amico che per far colpo sulle ragazze diceva di “fare

be-bop” e siccome loro non sapevano cosa fosse ma non osavano chiederlo, lui

riusciva ad ottenere un alone di mistero e rimorchiava facilmente. In realtà

suonava da schifo.

Paolo Conte, senza dirlo a nessuno di noi, si divertiva, con suo fratello Giorgio

(altro bravissimo autore che meriterebbe molta più notorietà in Italia) a

scrivere canzoni che proponeva ai gruppi e ai cantanti di successo dell’epoca.

Molti di questi brani sono adesso dei successi mondiali: si pensi a "La coppia più

bella del mondo" e "Azzurro" per Adriano Cementano, "Insieme a te non ci sto

più" per Caterina Caselli, "Tripoli '69" per Patty Pravo, "Messico e nuvole" per

Enzo Jannacci, "Genova per noi" e "Onda su onda" per Bruno Lauzi, ecc. .

Solo in un secondo tempo, come Paolo ha affermato in una recente intervista,

incominciò a tenere nel cassetto le sue composizioni senza offrirle più a

nessuno, perché, sono parole sue, dette con la consueta e inimitabile sintesi:

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“L’interpretazione di un brano da parte di un cantante di successo è un onore

quanto una profanazione”.

Anni dopo decise quindi di cantare le sue canzoni in prima persona. Direi che

“Sotto le stelle del jazz” è la perfetta descrizione di quella epoca - tanto cara

anche al regista-clarinettista Pupi Avati - dove tutte le ragazze si chiamavano

Marisa, il jazz a loro non piaceva perché “non si capisce il motivo”, i ragazzi

avevano le cravatte sbagliate e giravano i preziosi 78 giri sui grammofoni a

manovella, cercando di ballare con le più belle: il ballo era l’unico modo in cui

all’epoca si poteva stare vicino, a volte molto vicino, ad una ragazza.

Il meritato successo internazionale di Paolo Conte, e in parte anche quello di

Giorgio Conte, è oggi sotto gli occhi di tutti.

Un episodio curioso a proposito di Paolo Conte accadde a Roma: da molti anni

non ci vedevamo, dopo che lui si era laureato in legge e curava lo studio

professionale del padre ad Asti. Io vivevo ormai da tempo a Roma e mi

occupavo, collateralmente, di critica jazz, come poi vedremo. Non avevo

ricollegato che un certo P.Conte, autore di diverse canzoni di successo, era il

mio mitico pianista-vibrafonista di quando eravamo ragazzi: può sembrare

strano ma davvero non avevo ricollegato i nomi. Una sera, durante un concerto

di Art Farmer al Music Inn, vidi un elegante signorotto baffuto, sornione, che

sembrava aspettare da me un cenno di riconoscimento: dopo molti anni le

persone cambiano e non mi resi conto di chi fosse quel gentiluomo con l’aria da

gattone. Solo quando, con accento piemontese, mi rimproverò dicendo “Oh,

basta là, ma non si salutano neanche più gli amici…” mi resi conto, dalla voce e

dallo sguardo, che era Paolo Conte. Aveva appena inciso il suo primo LP per la

RCA, solo piano e voce, e, obbligato dalla casa discografica, lo stava

presentando in giro per l’Italia, con grande ritrosia perché detestava cantare in

pubblico. M’invitò ad andarlo ad ascoltare in un piccolissimo locale di via

Garibaldi, il Folk Rosso (da non confondere con il ben più importante

Folkstudio) un locale, scomparso pochi anni dopo, che era letteralmente una

topaia: penso che le poltrone fossero state raccattate nelle discariche, quelle

abbandonate dai cittadini. Bisognava stare attenti a non prendersi il tetano, ma

Paolo fu una rivelazione. Allora nessuno conosceva la sua musica surreale,

cosicchè Bartali, La giarrettiera Rosa, La Topolino Amaranto, Wanda e le storie

del Caffè Mocambo mi colpirono molto. Per altro, lui allora non cantava mai le

sue Onda su Onda, Una giornata al mare, Azzurro e i successi che altri avevano

lanciato. Era realmente un nuovo modo, geniale, di interpretare delle canzoni.

Di tanto in tanto accompagnava il canto con swinganti boogy woogy o afferrava

il suo kazoo (che a New Orleans era lo strumento dei negretti poveri) per fare la

linea melodica nella ripresa del refrain. Ne scrissi su Il Tempo una recensione

entusiasta. E la cosa finì lì, per almeno un anno e mezzo.

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La sua affermazione avvenne per gradi: lenta ma inesorabile, sino al grande

successo,

soprattutto all’estero. Quando lo rividi al suo secondo concerto a Roma già

c’era una folla ad ascoltarlo. Nel camerino, dopo le spettacolo, mi confessò che

il mio articolo aveva finalmente convinto sua madre (quattro colonne su un

quotidiano della capitale avevano impressionato favorevolmente quella gentile

signora di provincia, a quanto pare) che dopo anni di disapprovazione della

mania di quei due figli a perdere tempo con la musica, aveva ammesso le loro

ragioni nel non dedicarsi solo all’attività legale. E poiché questo riconoscimento

la madre glielo confessò poco prima della sua morte, Paolo ne fu molto toccato

e me lo confessò con commozione.

Il successo di Paolo Conte, all’estero, partì dalla Francia: il critico musicale del

Figarò seguì la sua tournèe italiana sommergendo i francesi di elogi su questo

avvocato poeta che cantava in modo sghembo storie di gente che invecchiava

triste nei tinelli marron. Siccome il critico del Figarò era un giovane free lance

pagato a borderò (cioè per ogni pezzo che scriveva) era costretto a scrivere un

sacco di articoli per pagarsi le spese del viaggio in Italia. Così la Francia su

sommersa di articoli su Conte, tanto che lo chiamarono a Parigi e Paolo si

chiese come i francesi avrebbero potuto capire i racconti di uno che vive in

mezzo alla campagna, dove il sole è un lampo giallo al parabrise. Avrebbero

capito soltanto parabrise. Cercò allora di tradurre in francese le sue canzoni:

incominciò da “La ricostruzione del Mocambo” e quando cercò di tradurre la

frase “tinello marron”, si arrese, capì che era un’impresa impossibile, decise di

non tradurre nulla, di cantare tutto in italiano e si preparò al fiasco più totale.

Fu un’apoteosi, invece, e il commento (assolutamente geniale) di Paolo Conte

fu:

“Ancora una volta i francesi sono stati vittime della loro presunzione di capire

sempre tutto”.

Sempre sulla linea del rapporto jazz-arte, Paolo Conte ha prodotto nel 2000

un progetto che sognava da venti anni: "Razmataz", un’opera musicale che

narra della Parigi degli anni ’20. E’ la fusione dei suoi due amori, il jazz e l’arte

visiva.

Conte vede nella Parigi degli anni Venti il punto d'incontro e di fermento

culturale di tutte le avanguardie del ventesimo secolo. La storia, che nello

specifico narra l'incontro tra la vecchia Europa e la nuova musica nera, è stata

illustrata da 1800 suoi disegni e trasformata in un'opera video su DVD,

accompagnata da musica e dialoghi. L'album contiene stralci di musica

d'atmosfera del passato oltre ad una serie di canzoni in un'interessante

carrellata di stili in francese, italiano e inglese, e riflette le eccitanti

innovazioni e fusioni di questo incrocio culturale della Parigi degli anni Venti.

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Tutti i musicisti amano il jazz?

A proposito del rapporto jazz-musica leggera, è curioso notare che alcuni

artisti, che in seguito raggiunsero grande notorietà nel campo della canzone e

in altri settori della cultura, avessero con il jazz un rapporto molto

diversificato: alcuni d’amore, altri di totale disinteresse.

Un rapporto d’amore è stato certamente quello di Fred Buscagione, Bruno

Martino,

Armando Trovajoli, Ugo Calise, Nicola Arigliano, Renzo Arbore, Lucio Dalla,

Piergiorgio Farina, Tullio De Piscopo, poi, più tardi, Pino Daniele, Sergio

Cammariere e tanti altri.

In cima alla lista, per la verità, andrebbero messi Luigi Tenco e Bruno Lauzi

che, negli anni 50, il primo al clarinetto e il secondo al banjo, formarono la

Jelly Roll Morton Boys Band a Genova, con Danilo Degipo alla batteria e Alfred

Gerard alla chitarra.

Molto più recentemente, un altro notevole cantautore, Gianmaria Testa,

appassionato di jazz, è stato chiamato ad inaugurare l'edizione 2002 di Umbria

Jazz, il maggior evento legato al genere in Italia. A proposito di Umbria Jazz, ho

già prima citato il bravissimo Pupi Avati, celebre regista che condivide com’è

noto con l’altro grande cineasta, Woody Allen, la passione per il clarinetto. A

proposito di questa passione comune per il clarinetto, ricordo che molti anni

dopo Alberto Alberti e Carlo Pagnotta si fecero venire la voglia di riunire ad

Umbria Jazz (la loro creatura che tanto successo ha portato alla cultura e al

turismo umbro) alcune celebrità per una magic riunion di clarinettisti, da far

esibire in gruppo con una sezione ritmica: Woody Allen, Hengel Gualdi, Pupi

Avati, Lucio Dalla e Renzo Arbore. Ero presente al concerto, al quale dette

forfait (ma c’era da giurarlo) soltanto Woody Allen.

Pupi Avati, dietro le quinte (che poi non erano davvero delle quinte, perché il

concerto si teneva sulla piazza maggiore di Perugia, en plain air, era

terrorizzato:

“Ma perché cavolo ho accettato una simile follia, non suono da anni, sarà una

catastrofe”. Invece andò benissimo. Suonarono tutti splendidamente, con molto

swing e sembravano un gruppo vero che suonasse insieme da anni.

Pochi conoscono la storia di un ventenne, certo Ferdinando da tutti chiamato

Nando, che aveva scoperto, nella portineria di Piazza Cavour a Torino dove

abitava con la madre, un pacco di dischi di jazz a settantotto giri dimenticati

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dall’inquilino precedente. Se li era imparati a memoria sul vecchio grammofono

a manovella e quando conobbe lo scatenato fisarmonicista e trombettista

Renato Germonio, tra i due nacque un’amicizia immediata. Germonio, con

maggiori possibilità economiche, noleggiò subito un contrabbasso per Nando,

che aveva frequentato per sei mesi il corso di violino al Conservatorio Giuseppe

Verdi, facendosi poi buttare fuori per il suo carattere focoso. Le corde erano

più spesse, la tastiera molto più grande, ma grosso modo Nando seppe

arrangiarsi a suonare quel violone enorme. Nacque così il primo duo jazzistico

torinese, fisarmonica e contrabbasso, che per ore swingavano sulle note di The

Sheik of Araby, la loro sigla musicale: il giovanotto era Ferdinando Buscaglione,

che poi cambiò il suo nome popolare di Nando in quello di Fred, con cui divenne

a tutti noto.

Invece non aveva un buon rapporto con il jazz Lucio Battisti, che dall’età di 18

anni era il chitarrista del gruppo I Campioni, nel quale si era fatto le ossa Tony

Dall’ara, un gruppo reso celebre dal loro successo Tintarella di Luna, ripreso

poi da Mina. Ricordano i colleghi che una volta Battisti venne condotto a forza

ad ascoltare al Lirico di Milano il gruppo di Charlie Mingus e per tutto il tempo

sbuffò: “Ma che palle, annammo via, ma che è ‘sta robba”

Anche rifacendosi alle origini del jazz, il rapporto tra questo linguaggio e la

musica leggera, in particolare proprio al genere “song”, è molto più stretto di

quanto solitamente si pensi. Una infinità di jazzmen hanno dedicato moltissimi

album alla rivisitazione in chiave jazzistica di canzoni di tutti i tipi, i cosiddetti

“standard”

Lo standard altro non è che un song, una canzone, in origine spesso presente

nelle commedie musicali. Il legame tra standard e jazz i indissolubile: si pensi a

tutte le registrazioni dei vocalist e singers vari, da Billie Holiday a Ella

Fitzgerald, da Sarah Vaughan a Mel Tormè, da Louis Armstrong a Bestie Smith.

Gli standard

Una cosa che colpisce sempre chi pratica poco l’ambiente del jazz è il fatto

che i musicisti, quando si incontrano per la prima volta, riescono a suonare

insieme senza difficoltà, senza leggere spartiti, senza aver mai provato prima.

Questo che sembra, agli occhi dei profani, un piccolo miracolo, è per jazzmen

una normalità, basata sulla conoscenza dei cosiddetti “standard”, quei brani

evergreen che si suonano da sempre. Conoscere gli standard è fondamentale,

diversamente non sarebbe possibile nessuna attività senza settimane di prove e

di studio specifico del repertorio. Si ritiene che i brani di comune conoscenza

nel mondo jazzistico siano almeno un migliaio.

Questo è la lista dei 100 standard, redatta da Nino De Rose, che si devono

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tassativamente conoscere per fare del jazz, oltre al più tradizionale di tutti: un

giro di blues di 12 battute, in Sibemolle.

Titolo Autore

1) Ain't Misbehavin' Fats Waller

2) AII Blues Miles Davis

3) AII The Things You Are Jerome Kern

4) AII Of You Cole Porter

5) Ad Infinitum Carla Bley

6) Autumn Leaves Joseph Kosma

7) BeautifuI Love Victor Young

8) Black Orpheus Luiz Bonfà

9) Blue Bossa Kenny Dorham

10) Blusette Toots Thielmans

11) Body And Soul John Green

12) Bye Bye Blackbird Ray Anderson

13) Cantaloupe Island Herbie Hancock

14) Cherokee Ray Noble

15) Corcovado A.C. Jobim

16) Days Of Wine And Roses Henry mancini

17) Doxy Sonny Rollins

18) ExactIy Like You Jimmy McHugh

19) Fly MeToThe Moon Burt Howard

20) Foggy Day George Gerswin

21) Footprints Wayne Shorter

22) Four Miles Davis

23) Georgia On My Mind Hoagy Carmichael

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24) Giant Steps John Coltrane

25) Goodbye Pork Pie Hat Charlie Mingus

26) Have You Met Miss Jones Richard Rogers

27) Here's That Rainy Day Jimmy van Heusen

28) How Deep Is The Ocean Irvin Berlin

29) How High The Moon Morgan Lewis

30) How insensitive A.C. Jobim

31) It Don't Mean A Thing Duke Ellington

32) I Fall In Love Too Easily Jule Styne

33) I Got Rhythm George Gershwin

34) I Love You Cole Porter

35) I Remember You Victor Schertzinger

36) l'II Remember April Raye De Paul

37) If I Should Lose You Ralph Rainger

38) Impressions / So What Davis J. Coltrane/Miles Davis

39) In A Mellow Tone Duke Ellington

40) In A Sentimental Mood Duke Ellington

41) In Walked Bud (Blue Skies) Thelonious Monk

42) In Your Own Sweet Way Dave Brubeck

43) Jucy Luicy/ Confirmation H. Silver/Charlie Parker

44) Just Friends Klemmer/Lewis

45) Lady Be Good George Gershwin

46) Lady Bird Tedd Dameron

47) Laura David Raskin

48) Like Someone In Love Jimmy van Hausen

49) Lover Man Ram ramirez

50) Left Alone Mal Waldron

51) LuIlaby Of BirdIand George Shearing

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52) Maiden Voyage Herbie Hancock

53) Man I Love George Gershwin

54) Memories Of You Eubie Blake

55) Milestones (modale) Miles Davis

56) Minority Gigi Gryce

57) Misty Errol Garner

58) Moments' Notice Kohn Coltrane

59) My Favorite Things Richard Rogers

60) My Funny Valentine Richard Rogers

61) My Romance Richard Rogers

62) Naima John Coltrane

63) Nardis Miles Davis

64) Night And Day Cole Porter

65) Night In Tunisia Dizzy Gillespie

66) On Green Dolphin Street Bronislau Caper

67) On The Sunny Side Jimmy McHugh

68) One Note Samba A.C. Jobim

69) Out of Nowhere John Green

70) Over The Rainbow Harold Arlen

71) Recordame Joe Henderson

72) Round Midnight Thelonious Monk

73) Ruby, My Dear Thelonious Monk

74) Satin Doll Duke Ellington

75) Serenade To A Cuckoo Roland Kirk

76) Shadow Of Your Smile Johnny Mandel

77) Softly As In A Morning Sigmund Romberg

78) Solar Miles Davis

79) Someday My Prince will Come Frank Churchill

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80) Sophisticated Lady Duke Ellington

81) Soul Eyes Mal Waldron

82) Speak Low Kurt Weil

83) St. Thomas Sonny Rollins

84) Star Eyes Raye DePaul

85) Stella By Starlight Victor Young

86) Summer Night Harry Warren

87) Summertime George Gershwin

88) Take Five Paul Desmond

89) Take The "A" Train Billy Strayhorn

90) Tenderly Walter Gross

91) There’ll Never Be Another You Harry Warren

92) Waltz For Debbie Bill Evans

93) What Is This Things Called Love Cole Porter

94) Whisper Not Benny Golson

95) Windows Chick Corea

96) Woody ‘n’ You Dizzy Gillespie

97) Yardbird Suite Charlie Parker

98) Yesterday Jerome Kern

99) You Don't Know What Love Is Raye - DePaul

100) You Stepped Out Of A Dream N.H. Brown

Per questo, parallelamente all’amore per il jazz, ho sempre maturato un

parallelo interesse per la canzone d’autore, diretta discendente della canzone

popolare.

Come nasce una canzone

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Probabilmente una canzone nasce nello stesso modo in cui nasce un brano di

jazz. Non credo vi sia molta differenza, in termini di processo di genesi

creativa, tra comporre Night in Tunisia oppure Estate. La differenza tra i brani

strumentali e le canzoni è solo data dalla presenza del testo. Quando poi il jazz

attinge dal genere song, qualunque canzone diventa uno standard jazzistico.

Dice Lucio Dalla che “Guardando la vita nasce una canzone” e ricorda che,

incontrando a Bologna una prostituta e chiacchierando con lei del più e del

meno, si sentì chiedere, per prima cosa: “Ma lo sai che domani arriva Sartre?”

Commenta Dalla: “Io ci rimasi di sasso, e l’indomani composi Disperato Erotico

Stomp”.

Lui si dice solo “narratore di fatti di vita”.

Quando nel 1982 il discografico Vincenzo Micocci (che si autodefinisce

l’inventore del termine cantautore, anche se la versione è da altri contestata)

con Tullio De Mauro organizzò il corso Mestiere della Musica, invitando come

docenti il fior fiore degli autori musicali, Venditti, Battiato, Morricone e altri,

Lucio Dalla tenne una lezione proprio su come nasce una canzone, facendo

distribuire agli studenti una fotocopia in cui c’era scritto: “Cari allievi, le mie

canzoni più belle le avete scritte voi, senza saperlo. Quanta gente canta, se sa

cantare, ma quanta canta anche se non sa farlo.

Perché uno canta? Se è felice? Se ha qualcosa da dire? O se soffre e se gli piace

soffrire, o se ha fantasia e non ama il “normale” delle cose. Forse si canta da

sempre perché cantare è come raccontare, stare vicino alle cose, a un passo dal

mondo.

Anch’io canto a un passo dal mondo, scrivo canzoni e ricevo nastrini e cassette

a milioni. La gente mi manda le sue parole, non vuole solo autografi o foto

firmate, non mi chiede chi amo, ma se amo, mi chiede a cosa penso quando

scrivo una canzone e dov’era questa canzone prima di essere scritta, su quali

spiagge o cimiteri volava prima di essere inventata, in quali occhi a mandorla di

strega o in quali mani di porco o di fata era avanti di essere scovata. Io ho

cominciato così: in piedi su di un tavolo, sotto ad un neon, nella cucina di casa.

Oggi mi sveglio la notte con questo sogno sempre in mente e mi butto anni e

anni avanti, sbaraglio gli occhi sulla canzone che scriverò domani, un sogno

difficile da raccontare, più facile da suonare.

Quanta gente sarà seduta davanti a me ad aspettare qualcosa di speciale su un

argomento che mi sembra del tutto normale? Mi crederanno quando dirò che

ogni fatto ha un suo suono, che questa notte a casa mia ho già visto le loro

facce, so già chi sono, che potrei parlare duecento ore in fila e non stancarmi

mai o stare zitto a contare sino a duemila e dirti tutto quello che dirai? Chissà

se crederanno che ognuno è mago, è carta da canzone, è padrone di due

tasche, che la gioia è come la disperazione, che tutte le note stanno

tranquillamente in una mano sola, che anche i muli possono cantare in un coro

e, soprattutto, che le mie canzoni più belle le hanno scritte loro?”

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A volte gli autori svelano cosa ha generato il “momento magico”, ma in molti

casi rimane un mistero. Alcuni spunti sembrano essere comuni, come nel caso

dell’ispirazione più diffusa al mondo, l’amore, ma questa non è certo l’unica

fonte di creatività.

In un testo del compianto Giorgio Lo Cascio, “Diventare Cantautori” (Lato Side

Editore), vengono riportate le otto tipologie che, nello studio della metrica

classica, servono a classificare i generi testuali. Naturalmente questa

classificazione vale prevalentemente per i brani classici, ma con una piccola

forzatura può essere adattata anche alle canzoni:

Il Carme (potrebbe essere il caso di Eppure soffia di Pierangelo Bertoli);

L’Epicinio (per celebrare o auspicare una vittoria: El pueblo unido jamas serà

vencido);

L’Epitalamio (composizione per la celebrazione di un matrimonio, che in parte

è presente nel testo dello strano sposalizio narrato in Alice di Francesco De

Gregori oppure in Marcia Nuziale di Brassens tradotta da De Andrè e cantata da

Gino Paoli);

L’Epicedio (per le occasioni funebri e i funerali: ad esempio La Ballata del

Pinelli);

L’Elegia (un narrazione triste, potrebbe essere esemplificata con Santa Lucia di

De Gregori o La storia di Marinella di De Andrè);

L’Idillio (un tema bucolico, come un Mazzo di fiori di Roversi-Dalla);

Il Sermone (componimento satirico, come l’Ultimo Mohicano di Gianfranco

Manfredi)

L’Epistola (una composizione in forma di lettera, come l’Anno che verrà di

Lucio Dalla o Rosso colore di Bertoli);

L’Epigramma (una comunicazione pungente e ironica, di quattro/cinque versi al

massimo, come le canzoni-bonsai di Enzino Iachetti).

Indagando su cosa ha generato l’idea-base di una serie di canzoni, ho

individuato una lunga serie di spunti, in parte rientranti in questo elenco, in

parte no, più che altro allo scopo di coinvolgere il lettore nel completare la

lista.

Sono chiaramente nati da

Un testo letterario:

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Dormono sulla collina, Un matto, Un giudice, Un blasfemo, Un malato di cuore,

Un medico, Un chimico, Un ottico, Il suonatore Jones, di Fabrizio De Andrè e

Giuseppe Bentivoglio, tutte liberamente tratte dall’antologia di Spoon River di

E.L.Masters

Un fatto di cronaca:

1) La Donna Cannone di Francesco De Gregori, ispirata da un fatto realmente

accaduto: un circo equestre era entrato in crisi a seguito della fuga d’amore

della sua massima attrazione, una donna che tutte le sere veniva sparata da un

cannone. Era accaduto che una sera, dopo lo sparo, la donna era sparita, non

nel cielo, ma con il suo amante.

2) Una Storia Sbagliata di Fabrizio De Andrè, commissionatagli dalla RAI per la

sigla di una trasmissione ispirata all’omicidio di Pier Paolo Pasolini.

Un rapimento:

Hotel Supramonte, ispirata a Fabrizio De Andrè dalla sua drammatica avventura

in Sardegna ed allo strascico che ebbe nei suoi rapporti con la compagna Dori

Ghezzi, rapita assieme a lui.

Una donna:

Margherita di Luberti e Cocciante; ma anche Laura, Maria, Suzanne, Dolly,

Nenè, Anita, Emanuela, Gloria, Liu, Dolcenera,Titti, Sally, Linda, Isolina,

Elena, Alice, Maruzzella, più quasi tutto il calendario di nomi femminili, ma

non Francesca, perché sappiamo che secondo Lucio, Non è Francesca.

La dedica ad una città:

Roma capoccia, Ma se ghe pensu (Genova), Malaga, Addio Lugano bella,Ciao

Turin, Rimini, Genova per noi, Napule è, e migliaia di altre località.

La dedica ad un luogo:

Creuza de ma, Luci a San Siro, Motel, Porta Portese, Via del Campo, Il mare,

Chiesetta alpina, La collina, Via della povertà, Via della Croce, ecc.

La luna:

Verde luna, Luna rossa, Guarda che luna, Luna marinara, Pallida luna, Luna tu,

Acqua dalla luna, più almeno il 20% delle ispirazioni delle canzoni

Le stagioni:

Estate, April in Paris, Maledetta primavera, Inverno, Il mare d’inverno,

Autumn in New York, ecc.

Una data:

1950 di Amedeo Minghi, 29 settembre di Lucio Battisti, 4/3/1943 di Lucio Dalla

e Paola Pallottino.

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Un periodo:

I migliori anni della nostra vita di Renato Zero, A very good year interpretata

sia da Franck Sinatra sia da Ray Charles.

Una rosa:

La rosa sfogliata di Vinicio De Morales, metafora dell’amore in disfacimento;

Rose Rosse, Yellow roses of Texas e molti altri esempi.

Se la rosa è rossa, ovviamente, è simbolo d’amore, ma spesso, di qualunque

colore sia, è una metafora dell’intimità femminile.

Celebrità del passato:

Bartali di Paolo Conte, Nuvolari e Caruso di Lucio Dalla, Girardengo (Vai

campione) di cui è autore il fratello di Francesco De Gregori, Carlo Martello di

De Andrè, più tante altre.

La nascita di un figlio:

Avrai, di Claudio Baglioni.

Una storia strana:

Aguaplano di Paolo Conte (un pianoforte a coda in fondo al mare, sul fiume di

Gennaio che è poi Rio de Janeiro, che mai si saprà come e perché sia finito lì);

I sogni:

Nel blu dipinto di blu e centinaia d’evocazioni che apparirebbero troppo

assurde se non fossero giustificate dal fatto di essere state provocate da una

fantasia notturna;

Una sbronza:

Amico fragile di De Andrè, scritta in garage sotto l’effetto del vino dopo una

furiosa serata nei salotti bene della Sardegna degli anni 70.

L’amicizia:

Ci vorrebbe un amico di Venditti, Una donna per amico di Riccardo Cocciante,

L’arcobaleno, dedica musicale di Giulio Rapetti a Lucio Battisti dopo una sua

visione notturna; Amico di Renato Zero.

Una cadenza ritmica:

Zoccoletti, quelli che, per intenderci, nella tormentone che cantava Claudio

Villa, ogni mattina davano il buon giorno a Nina; Scalinatella longa, dove il

passo del somaro segna il ritmo della bella canzone di Roberto Murolo.

Un manifesto politico:

Contessa, di Paolo Pietrangeli, La locomotiva di Francesco Guccini, ecc.

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Oggetti e cose:

Sassi, Foglie morte, Abatjour (o l’illuminazione di una celebre casa

d’appuntamenti di Buenos Aires in A Media luz, il celebre tango che descrive le

stanze piene di velluti, tutti in penombra, che sorgevano al celebre indirizzo di

un lupanare dell’epoca, “Corriente 648”, riportato nel testo, dove ora esiste

soltanto più uno squallido garage).

I fenomeni atmosferici:

Il vento, Solo, sole, sole, Cantando sotto la pioggia, O sole mio, Nebbia,

Tramonto, Quando calienta el sol, Alba tragica, ecc.

Una parte del corpo:

Bocca di rosa, Le tue mani, Lisa dagli occhi blu, Ma le gambe…

Strumenti musicali:

La fisarmonica di Stradella, Chitarra romana, Suona balalaika, Il piano

elettrico, ecc.

Le attività professionali:

Il pianista di piano-bar, Boscaiolo, Vecchio lampionaio, Ma dove vanno i

marinai, Lupo di mare, Il pescatore, ecc.

Un aneddoto:

Lo scrutatore non votante di Samuele Bersani. L’autore confessa di aver scritto

di getto la canzone dopo l’incontro con un amico che gli aveva confessato di

non votare alle elezioni. Solo che lo stesso amico era stato visto da Samuele nel

ruolo di scrutatore alle elezioni precedenti, donde una serie di ossimori e di

nonsense deliziosi che danno vita a questo testo di Bersani.

Ho lasciato per ultimo il tema principe, l’amore. Dice Giulio Rapetti (Mogol) che

se gli amori non producessero tormenti, nel sorgere, nello svolgimento e nella

fine del sentimento, probabilmente non ci sarebbe nulla da scrivere.

Ecco una infinitesima parte delle canzoni ispirate a

L’amore nelle sue varianti.

- la nascita del sentimento:

La costruzione di un amore, di Ivano Fossati; Mi sono innamorato di te di Luigi

Tenco;

Che cosa c’è di Gino Paoli (più centinaia di altri esempi)

- un madrigale:

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La Cura, di Franco Battiato, che riesce ad essere intrisa d’amore senza mai

nominarlo; (anche qui gli esempi sono infiniti, molte spesso sotto forma di nomi

femminili, quasi mai maschili);

Un amore ritrovato:

Valsinha di Chico Buarque De Hollanda

- l’abbandono:

Quando finisce un amore di Luberti e Cocciante, Ne me quitte pas di Jacques

Breil; L’amore conta di luciano Ligabue, Cantando con le lacrime agli occhi,

Viale d’autunno

- il suicidio per amore:

La ballata del Michè, Marinella di Fabrizio De Andrè, Alfonsina, cantata da

Mercedes Sosa, e tante altre canzoni ispirate a suicidi per un amore finito.

Più il 70% della produzione canzonettistica di tutto il mondo ispirato all’amore.

IL JAZZ NELLA TORINO DEGLI ANNI 50 Il disegno musicale più ambizioso a Torino negli anni dal 1955 al 1958, almeno

per quanto riguardava il jazz californiano, era guidato da Piero Brovarone, un

geniale commesso di dischi che anni dopo si sarebbe trasferito negli USA,

laureandosi brillantemente in fisica nucleare, diventando poi un docente di

informatica dopo anni di brillante attività alla NASA. Brovarone suonava (e

ancora suona, negli USA) con grande tecnica, una infinità di strumenti, sempre

da autodidatta: tromba, chitarra, flauto, pianoforte. Scriveva anche sofisticati

arrangiamenti. Ero presente quando arrivò un pacco delle Messaggerie Musicali

contenente un flauto-traverso che Brovarone aveva acquistato per

corrispondenza. Aprì il pacco, montò i due pezzi dello strumento e, senza aver

mai saputo come s’imboccasse un flauto, suono un’aria di Bach in modo

perfetto. Faceva quasi rabbia. Aveva l’orecchio assoluto e improvvisava in

modo magistrale in qualunque tonalità. Dopo un periodo come commesso da

Gariazzo (un negozio di dischi a fianco del teatro Alfieri che importava i primi

LP dagli USA e che rappresentava il centro di raccolta per gli appassionati

torinesi di jazz moderno) Piero (noto come Pedro) aprì un proprio negozio in via

XX Settembre nel quale io, in attesa di partire per il servizio militare, lavoravo

pretestuosamente come assistente: il vero scopo era ascoltare jazz tutto il

giorno e incontrare i vari Franco Mondini, Enrico Rava, Cesare Fiorio, Giampaolo

Belgrano, Raul Marietti, Bruno Bonsignore, Ennio Vitanza, Piero Delsedime (un

emulo di Gerry Mulligan al sax baritono, poi diventato un brillante docente

universitario) e tanti altri della ganga dei “modernisti”.

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Vi erano poi altri bravi musicisti, in particolare pianisti: Mario Rusca, ad

esempio, e un certo Peter Angela, che tutti oggi conoscono con il suo nome

anagrafico di Piero. Ma amavamo alla follia un dolcissimo ragazzo dalla parlata

romana, Maurizio Lama, che si era trasferito a Torino quando il padre assunse in

quella città l’incarico di Provveditore agli Studi. Maurizio, che accompagnava

splendidamente al piano Enrico Rava, morì pochi anni dopo in un incidente

stradale sull’Autostrada dei Fiori.

Hot jazz e cool jazz

Ho già accennato al tormentone dell’epoca che divideva il jazz tra hot e cool.

In quegli anni, e forse oggi farà impressione ai giovani jazzisti sentirlo dire, gli

ambienti del jazz si dividevano in due fazioni distinte, che a volte finivano

anche in rissa: il termine jazz caldo e jazz freddo lo usavano solo gli estranei

alla cerchia jazzistica, di solito signore-bene che volevano apparire informate,

ed a noi faceva ribrezzo.

I termini usati erano “tradizionale” e “moderno”.

C’erano quindi i “tradizionalisti”, che ascoltavano o suonavano solo dixieland,

blues e revival, e i “modernisti”, come noi, che seguivano solo quello che

andava dal bebop in poi. I primi accettavano anche la swing era, ma si

fermavano lì. Per loro Dizzy Gillespie, Charlie Parker, per non parlare di tutto il

jazz bianco (Stan Kenton, Woodhy Hermann, l’intera East Cost) era musicaccia

incomprensibile. Noi chiamavamo gli altri “cavernicoli”. Alcuni dei

“modernisti”, almeno io ero tra questi, non facevano però troppe distinzioni tra

le epoche.

Oltre al primo disco che mi fece scoprire il jazz, di cui ho già detto, ce ne fu un

secondo importante nella mia formazione iniziale: un’altra antologia, questa

volta dell’East Coast, grazie alla quale m’innamorai di Gerry Mulligan, Chet

Baker, Shally Manne, ecc. Ma via via ascoltai tutto il jazz, dalle origini a quei

giorni, cioè a metà degli anni ‘50. Una profonda emozione la provai al mio

primo concerto, al teatro Nuovo di Torino nel 1956, quando ascoltai per la

prima volta dal vivo il quartetto di Gerry Mulligan, che da pochi mesi si era

separato da Chet Baker. Alla tromba quella volta c’era Joe Eardly. L’emozione

fu pari a quelle che ricevetti nell’ascoltare, molti anni dopo, in distinti

concerti, due giganti: Louis Armstrong e Duke Ellington.

Il centro di tutte le attività di jazz tradizionale (e solo qualche volta di jazz

moderno, che in quel locale era piuttosto malvisto) era il Sangip Club, al

Valentino, dove aveva sede il Circolo Torinese del Jazz (del quale qualche

tempo dopo venni nominato segretario) frequentato da uno stuolo di ex alunni

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del San Giuseppe, il fior fiore della Torino-bene dell’epoca che si formava dai

guesuiti.

Nella cantina, dove vi era anche un sala-prove, erano attive diverse formazioni

di jazz tradizionale e di swing e, solo in un secondo tempo, di jazz moderno.

Era lì che avvenivano gli scontri, qualche volta fisici, tra gli appassionati dei

due generi. Mi ricordo che una volta uno dei “cavernicoli” sbattè il coperchio

del piano sulle mani di un pianista che stava eseguendo un pezzo di Lennie

Tristano e per poco non gli spezzò le dita.

Stanchi di essere vessati da questi personaggi intransigenti, decidemmo di fare

una colletta tra noi e affittare una cantina. Il più attivo in questa operazione,

oltre me, fu Enrico Rava. Andammo a parlare con il segretario della Camera del

Lavoro di Torino il quale ci affittò per poche lire al mese uno scantinato

enorme, pieno di topi e scarafaggi.

Comprai presso una cartiera decine di rotoli di cartone ondulato che servirono a

tappezzare le pareti ed insonorizzare il locale, aiutati anche da una raccolta di

contenitori per uova che i negozianti buttavano via. Poi colorammo tutto con

tinte che obbligavano a suonare con gli occhiali da sole per non essere accecati,

tanto erano vivaci. Ma fu un successo. Avevamo una sala prove solo per il “jazz

moderno”. Quando il segretario della Camera del Lavoro scese per vedere cosa

Rava ed io stavamo combinando fu talmente sorpreso da nostro zelo che ci fece

omaggio di tre mesi d’affitto. Con quella somma pagammo la derattizzazione e

suonammo finalmente senza i topi. Che tempi, gente, da non credere. Era in

quel cantinone enorme che Enrico Rava studiò seriamente l’imboccatura della

tromba.

La band più importante era guidata da uno molto bravo nel ragtime, Ettore

Zeppegno, che poi si trasferì a Roma alla direzione artistica della RCA.

Spiccavano nella banda Gigi Cavicchioli al sax basso e Alex Cameron Curry alla

cornetta in Do.

Altri gruppi erano animati dal clarinettista Bepi Cancan, poi trasferitosi a Milano

per lavorare nell’editoria.

Ricordo un cantante negro che per poche lire cantava gli standard americani

per qualunque formazione, Al Tanner, sempre sbronzo, che viveva di rendita

(aveva sbancato il Casinò di Venezia in una serata fortunata) bevendo pinte di

bourbon al bar di fronte a Porta Nuova.

Ad un livello, sempre amatoriale, ma decisamente eccellente, era molto attivo

il gruppo Jazz at Kansas City con Renato Germonio, Sergio Farinelli, Emilio

Siccardi e Dick Mazzanti, che alternava il trombone al piano, nel quale

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eccelleva nello stile boogy woogy. L’avvocato Siccardi era un vero principe del

foro, talmente appassionato di Lester Young che ne imitava, oltre il fraseggio e

la sonorità sul sax tenore, anche l’abbigliamento (girava sempre con un

cappello piatto a tesa tonda) e, quando la band raggiungeva dei momenti caldi,

suonava piegando il sax tenore di lato, come il suo idolo. Siccardi e Mozzanti,

oltre che amicissimi, erano anche cognati, perché avevano sposate due sorelle

appassionate di jazz.

Nelle grandi occasioni venivano al club anche dei musicisti che, sebbene fossero

quasi coetanei, sembravano molto più vecchi di noi, talmente erano bravi:

Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Dino Piana, Sergio Fanni e Carlo Sola.

Era sempre presente anche Sergio Ramella che anni dopo sarebbe passato dal

ruolo di appassionato ascoltatore a quello di organizzatore di eventi jazzistici.

Di tanto in tanto avvenivano dei gemellaggi e degli scambi culturali con altri

circoli del jazz sparsi per l’Italia: tra questi i più attivi erano il circolo di

Bologna, dove imperava Ruggero Stiassi, quello di Genova, animato da Lucio

Capobianco, quello di Roma (dove la Roman News Orleans Jazz Band

spadroneggiava, animando quella che poi venne chiamata la Dolce Vita) e

Perugia, dove si era trasferito da Genova Adriano Mazzoletti, che poi lasciò

Perugia per Roma e andò alla Rai, diventando, negli anni seguenti, con Nicolosi,

Biamonte, Rosa e Rotondo uno dei programmatori di jazz più attivi. A

Mazzoletti si devono inoltre i più significativi studi sul jazz italiano, sui quali

ritorneremo più avanti.

Si tenevano settimanalmente, in questi circoli, delle audizioni guidate, a tema.

Noi al San Gip a Torino avevamo una rigorosa programmazione mensile e non

era raro che fossero presenti molte decine di appassionati. La sala era sempre

piena se era in programma del jazz tradizionale, ma una sera, per l’improvvisa

assenza di un conferenziere su Bix Beiderbecke, lo sostituii io con un

programma sul post be bop.

Siccome i “cavernicoli”, di fatto, altro tipo di jazz che non fosse il loro non lo

ascoltavano quasi mai, si trovarono spiazzati nel dover ammettere che le cose

che stavano ascoltando erano eccellenti. Così a poco a poco i gruppi smisero di

lottare tra loro. Anche se, non solo gli appassionati, ma anche alcuni critici

ufficiali non riuscirono mai ad accettare le nuove tendenze.

All’inizio del mio periodo di segretariato del circolo, forse anche grazie al fatto

che le mie audizioni avevano (non è immodestia, solo cronaca) il più elevato

numero di ascoltatori, venni invitato a tenere una conferenza fuori dal circolo,

in un teatro, un vero, enorme teatro. L’annuncio era apparso su La Stampa

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cosicché molte centinaia di persone, attratte dal tema e dal fatto che

l’audizione fosse gratuita, riempirono la sala. Ricordo vividamente due cose: la

prima, che quando vidi più di mille persone in sala mi trasformai in uno zombie

dalla paura. Se mi avessero detto che, anni dopo, sarei diventato un docente di

tecniche per la comunicazione efficace in pubblico, sarei morto dalle risate. La

seconda, che il direttore del teatro, che non mi conosceva ma aveva

trionfalmente annunciato “Tra poco sarà qui il noto conferenziere Enrico

Cogno”, vedendo un giovane spaventato che si era presentato con lo stesso

cognome, pensò che si trattasse del figlio del conferenziere mandato ad

annunciare il ritardo del padre.

“Tuo padre quando arriva?” mi chiese nervoso.

“Mio padre non viene”.

“Come non viene?”

“Ma non si occupa di queste cose… Guardi che Enrico Cogno sono io.”

“Tuuuuuuu?” E lo sgomento si dipinse sul suo volto.

In realtà andò tutto benissimo.

Poi per me quel periodo d’oro finì con la partenza per il servizio militare. Ero

nella 46°Aerobrigata a Pisa dove ascoltavo alla radio la Coppa del Jazz, che

quel anno venne vinta dal Quintetto di Lucca, guidato da Giovanni Tommaso e

Antonello Vannucchi.

Dopo fu tutto diverso.

Smisi di suonare quasi completamente, ma con due figlie piccole e un lavoro

che mi obbligava a molti viaggi, non mi pesò troppo il distacco dall’ambiente

jazzistico.

La civiltà della fame

Me lo ricordo bene, quando si viveva nella civiltà della fame, o se

vogliamo dirla alla Enzo Spaltro, nella società della scarsità. La

comunicazione, al confronto di oggi, quasi non esisteva e non ce

ne accorgevamo neppure. Pochi amici con il telefono, pochissimi

con il televisore, alcuni con la Vespa, solo i figli di papà con

l’auto. Si parlava, si camminava, si ascoltava musica. Lontani anni

luce dal diluvio informativo di oggi, dai cellulari che trillano come

cicale in ogni luogo, che mandano messaggi cifrati: T.V.M.B. io di

+ xkè 6 bella.

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Era meglio, era peggio? Era diverso. Certo, più scomodo, molto

più silenzioso, più raccolto, meno sguaiato. Se confronto la

comunicazione degli anni di guerra, con le notizie sullo sbarco

degli alleati captati di nascosto da Radio Londra, con i quattro

colpi di tamburo che riprendevano l’inizio della Quinta di

Beethoven (un ritmo cupo che metteva i brividi, soprattutto se

passavano nei pressi delle pattuglie tedesche che avrebbero

fucilato chiunque fosse stato trovato all’ascolto) e lo paragono con

le immagini delle Twin Towers che crollano in diretta, le emozioni

sono identicamente forti, mentre i due sistemi di comunicazione

sono chiaramente all’opposto.

Le immagini, in radio, erano quelle della fantasia, in TV, quelle

della realtà.

Ma non sempre la fantasia perde, nel confronto.

Ma lo strumento di comunicazione che in quel giorno, quel

maledetto storico e trasformante 11 settembre, ha dimostrato di

aver perso, è stato Internet: almeno in quelle ore, chi poteva ha

spento il computer ed ha acceso la televisione, al limite, la radio.

Poi si è attaccato al cellulare per dirlo agli altri, sperando di

arrivare per primo, quasi godendo dell’essere per primo

messaggero di una catastrofe.

Ma Internet rimane lo strumento principe per creare un net work

mondiale, come la sigla WWW, Wordls Wide Web, indica. Non a

caso, nel 2006, il protagonista scelto per la mitica copertina del

Times è stato uno specchio, per indicare che i protagonisti del

mondo siamo noi, collegati nella rete mondiale.

Negli anni in cui ascoltavo Radio Londra di nascosto non sapevo

quale fosse la differenza tra informazione e comunicazione. Non

mi era chiaro che si comunica sempre e che se anche si cerca di

non comunicare, si comunica lo stesso. Non sapevo che invece non

sempre si fa informazione, perché se non si informa,

l’informazione davvero non c’è.

La memoria

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Allora non sapevo che la memoria fosse così importante. La usavo,

in quei tempi, solo come tecnica di studio, e quello era l’uso che

consideravo serio, in alternativa all’uso gioioso, per ricordare cose

gradevoli, per rivivere dei momenti belli. Non conoscevo la

distinzione tra memoria a lungo termine, quella di tipo

emozionale, eterna, e la memoria labile, quella che usavo per

leggere dei testi mal scritti da recitare in esami sgradevoli. La

memoria l’avevo ridotta a strumento utile per ottenere un voto di

sufficienza, non sapevo nulla dell’emisfero sinistro e di quello

destro del cervello, non sapevo che gli ermeneuti greci e i docenti

della Roma antica sapevano giocare con la memoria come Cirano

con le parole, sapevano trarne il massimo profitto, visto che

scrivere, all’epoca, era poco agevole e che tanti erano gli

analfabeti.

Ho incominciato a capire che cosa volesse dire saper fare davvero

comunicazione quando, nella mia prima visita romana, mi imbattei

nelle lastre di marmo di via dei Fori Imperiali che mi mostravano,

tavola dopo tavola, il successivo espandersi dell’impero.

Pensateci: senza Internet, senza fax, senza telefono, senza

giornali, senza radio, senza TV, il sistema di comunicazione degli

antichi romani teneva saldamente collegato quasi tutto il mondo.

Era più lento, ma doveva funzionare perfettamente, visti i

risultati. Credo che il fattore determinante fosse la capacità,

certo maggiore di quella attuale, di memorizzare.

Non per nulla noi, mammiferi umani di lentissima crescita,

impieghiamo ben 25 anni per giungere ad una relativa maturità e

ne trascorriamo altrettanti a dormire: assommando, nella vita

media di un individuo, le ore di sonno a quelle del tempo che gli

occorre per diventare psicologicamente maturo, ogni persona

impiega 50 anni, quindi ben oltre la metà della sua vita media. Di

quello che gli resta, una grande parte, soprattutto verso la fine, la

passa a ricordare.

Il tempo dedicato al lavoro sta rapidamente decrescendo: dice

l’evoluzione storica del rapporto vita/lavoro che i nostri avi

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vivevano in media 300.000 ore e ne lavoravano 200.000, noi ne

viviamo 700.000 di cui ne trascorriamo 150.000 a lavorare, mentre

i nostri nipoti, che vivranno 850.000 ore, ne dedicheranno soltanto

120.000 ore al lavoro.

Non abbiamo più bisogno di usare la memoria per ricordare cose

che una banca dati può custodire meglio della nostra materia

grigia; dobbiamo invece incominciare ad usare la memoria come

macchina della metafora, come generatore di nuovi sistemi di

relazione. Italo Calvino ricordava, nelle “Lezioni Americane”, che

il silenzio, lo spazio, l’autonomia, l’amicizia, la convivialità, la

bellezza sono una rete di connessioni tra i fatti, tra le persone, tra

le cose del mondo, che già sono e sempre più saranno la vera

ricchezza del terzo millennio. Come ottenere questo? Se non

fossimo in grado di usare così bene la memoria, ci consola

Nietzsche: “Il vantaggio della cattiva memoria e che si gode

parecchie volte delle stesse cose per la prima volta”.

LA ROMA MUSICALE DEGLI ANNI 60 Quando arrivai a Roma, invece, la musica mi mancava. Dirigevo il servizio

comunicazioni di una multinazionale americana e, dal tardo pomeriggio in poi,

avevo del tempo libero. Ripresi a collaborare con Musica Jazz e con qualche

periodico che ospitava delle rubriche musicali. Poi venni invitato da Angiolillo a

tenere per il quotidiano Il Tempo la rubrica del jazz, visto che la nuova

direzione di Gianni Letta dava molto spazio alla cultura. Questo fece scattare

anche delle collaborazioni con la Rai, che poi proseguirono, in vari modi, per

quasi venti anni, particolarmente con Adriano Mazzoletti e Paolo Padula.

Collaboravo anche con le prime radio romane, che allora si chiamavano “radio-

libere”. In particolare una, Radio GBR, trasmetteva da uno sgabuzzino

dell’Hotel Hilton (che si trova in cima a Monte Mario) e irradiava un segnale di

buona potenza: mi lasciava un sacco di spazio, ero libero (vorrei vedere, era

una radio-libera) di trasmettere cosa volevo, non come in Rai dove tutto

passava attraverso cento controlli. Tenevo una rubrica che chiamai “My

favorites” nella quale trasmettevo, dato il titolo, i brani che amavo di più. Il

proprietario era un simpatico ed esplosivo commerciante di elettrodomestici,

per cui venivo pagato in natura, nel senso che mi dava lavatrici e frigoriferi e

non denaro. Molte volte facevo venire in diretta (tutto era in diretta, fare le

differite costava di più e non c’erano quattrini) dei musicisti per intervistarli e

andavamo avanti ore a parlare di jazz.

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Insomma, mi venni a trovare nella condizione di avere spazi nei quali operare

ed una serie di contatti con un sacco di musicisti, l’ideale per raccogliere con

facilità del materiale.

Mi venne l’idea di fare una ricerca (il mio primo lavoro era stato quello di

ricercatore), in particolare una doppia indagine, dapprima sul jazz italiano e

poi su quello europeo, che non godevano di grande spazio né in Rai, né sui

giornali.

Poi, parlando con l’editore Cappelli di Bologna, con il quale ero in contatto,

pensai di riversare i risultati dell’indagine in due libri, il primo, che venne

realizzato nel 1971, JAZZ INCHIESTA ITALIA e il secondo, che avrebbe dovuto

intitolarsi JAZZ INCHIESTA EUROPA, che invece rimase lettera morta perché

l’editore incominciò a vivere momenti difficili.

In quel periodo collaboravano con il mio servizio aziendale due personaggi,

Ennio Tamburi (un art director molto creativo, un vero artista, nipote nel

grande Orfeo Tamburi) e Umberto Santucci (fratello del trombettista Cicci

Santucci). Umberto, tra le tante cose che faceva, allora era prevalentemente

un fotografo. Con loro decisi di dare al libro un montaggio che, grazie alla mole

di fotografie che avevo fatto produrre a Santucci, potesse, alternandosi alle

parole, dare un certo ritmo alla stesura del tutto: l’intenzione era quello di fare

un testo “che avesse swing”.

La copertina avrebbe dovuto essere una tromba riempita di spaghetti, a

significare un certo intasamento tipico della cultura medio-borghese italiana di

quel periodo: in realtà venne reperito solo un vecchio bombardino a Porta

Portese e al posto degli spaghetti vennero infilati nello strumento dei bucatini

all’amatriciana, semplicemente perché quel giorno in casa del fotografo quello

era il piatto servito a pranzo.

COME VENNE ACCOLTO IL LIBRO Al testo vennero dedicate molte recensioni, tra le quali una, lunghissima e

lusinghiera, a cura di Walter Mauro, che occupò interamente le due pagine

centrali de La Fiera Letteraria, della quale ho perso il ritaglio.

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La cartolina promozionale a suo tempo realizzata in appoggio al lancio del

libro

Ecco una sintesi delle altre recensioni, riportate non per immodestia ma come

puro atto di cronaca :

Musica Jazz: “Cogno ha descritto il suo libro come una jam session. Il risultato

è che si legge di corsa, con divertimento e anche con utilità, considerato che

alla fine ci si fa effettivamente un’idea precisa del mondo del jazz italiano,

degli umori e delle idee che vi circolano”.

Franco Fayenz: “Un volume agile che descrive e fornisce prove con notevole

incisità. Il libro è scritto molto bene, con vivacità, con anticonformismo e con

una libertà di schemi che riesce a riflettere nelle parole lo spirito del jazz.”

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Fabrizio Zampa su Il Messaggero: “Un ritratto discordante ma vivo, costruito

con le caratteristiche di un servizio giornalistico.”

Maurizio Costanzo (con Dina Luce in Buon Pomeriggio) RadioRAI: “Un libro

molto bello, un abecedario utilissimo per chi vuole accostarsi al jazz, adatto

soprattutto per i giovani e con una caratteristica indispensabile in questo senso:

costa poco”.

Giuseppe Gatt: “Testimone e non giudice. In questa impostazione metodologica

sta il grosso merito del libro di Cogno; l’aver cioè rinunciato alla presa di

posizione cattedratica e l’aver scelto una forma di coinvolgimento globale che

colloca il libro in linea con il più vivo ed attuale spirito della critica d’oggi”

Arrigo Polillo su Il Giorno: “Sin dalla copertina è emblematicamente indicato lo

spirito spregiudicato (ma solo apparentemente divertito) con il quale l’autore

ha avvicinato la materia. Ognuno degli intervistati spara sul bersaglio preferito,

talvolta senza rifuggire dai colpi bassi”.

Renzo Nissim in “E via discorrendo..RadioRAI”: “Il libro è eccellente, con una

veste grafica avvincente ed un suo stile imprevisto, molto ritmico”.

Tonino Scaroni su Il Tempo: “E’ un libro che tocca i tre aspetti del mondo

jazzistico: chi fa, chi giudica e chi ascolta il jazz in Italia, in modo

assolutamente nuovo ed interessante”.

Walter Mauro su Il Dramma: Sul filo dell’indagine giornalistica il libro di Cogno

si presenta come quanto di più completo e pertinente ci si potesse aspettare”.

Pietro Violante su Il Giornale di Sicilia: “I jazzmen italiani vengono fuori con

verità (qui il merito di Cogno) colti in una confusa e affannosa ricerca

d’identità”.

Dario Salvatori su Ciao 2001: “Enrico Cogno ha risolto molto brillantemente il

problema di un libro nuovo ed attuale sul jazz italiano: un libro che costituirà

per tutti gli appassionati una piacevole sorpresa”.

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Roberto Capasso su Il Paese Sera: “Un’inchiesta coraggiosa, una serie di

interviste che hanno il pregio di essere montate in maniera assai valida, si da

facilitare la lettura”.

E. G. Mattia su Momento Sera: “Una trattazione giovane, ricca di notizie, una

registrazione fedele delle arringhe in difesa del jazz, raccolte in un documento

che non si perderà nel mucchio della stampa periodica”.

Giorgio Martinelli su Il resto del Carlino: “Un quadro fitto di cose e personaggi,

con molte pregevoli illustrazioni nel testo”.

Il Secolo XIX: “Lontano da ogni cerebralità questo libro si propone di capire e

informare. Gli interventi di Cogno sono spesso maliziosamente provocatori e

pongono con franchezza sul tappeto certe questioni imbarazzanti: un vivace

campione di stimolante polemica culturale”.

Gianni Capitani su L’Avanti: “Un buon libro, con un montaggio agile, favorito

da un racconto fotografico e da una impaginazione di grande interesse”.

Albert Rodriguez in Per voi giovani: “Presenta l’immagine del jazz italiano

nella sua dimensione quotidiana, evitando le definizioni universalistiche e lo fa

mediante una proposta metodologica molto corretta.”

Francesco Forti su Spettacolo: “Una mano, quella di Cogno, di regista oltre

che di scrittore. Non è facile resistere all’intensa suggestione che emana dal

libro per come è stato montato e per la sua scrittura rapida e swingante”.

Ma una recensione che mi ha colpito, della quale non conosco l’autore, l’ho

trovata di recente navigando in Internet in un sito internazionale di vendite

editoriali, che dice: “Jazz Inchiesta Italia è un libro ormai introvabile sul jazz

italiano degli anni '70. Tra le righe riesce a parlare dell'Italia di quegli anni e di

alcune idee che attraverso la musica si stavano affermando. L'ho trovato su una

bancarella a Roma Ostiense e ne ho comprato 2 copie. E’ uno di quei libri a

margine del mondo editoriale e quindi bellissimo e appassionato.“

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Vennero tirate ben 25.000 copie del libro (una vera esagerazione, dato il

numero abituale della tiratura di opere del genere) che dopo qualche tempo

riempirono i vari remainder d’Italia.

I PERSONAGGI DELL ’EPOCA Il problema che mi si pose subito, non appena ebbi deciso di scrivere

l’inchiesta, fu quali personaggi inserire e quali escludere dal testo, anche in

base alla ridotta bibliografia esistente: all’epoca, sul jazz italiano, le due opere

di riferimento erano la discografia curata da Pippo Barazzetta, edita nel 1960

(Giuseppe Barazzetta, JAZZ INCISO IN ITALIA, Messagerie Musicali, Milano,

1960) e un libro-disco di Adriano Mazzoletti, una vera chicca, dal titolo 40 ANNI

DI JAZZ IN ITALIA, che riuniva in due LP una splendida selezione di brani storici

dei musicisti italiani più significativi, corredata da un album fotografico. La

bella copertina era opera del graphic designer romano Sergio Salaroli.

Soltanto diversi anni dopo, nel 1982, Mazzoletti editò per Laterza un altro

testo, la prima edizione de “Il jazz in Italia” che, pur essendo un libro

corposo, per altro presentava solo una parte delle sue ricerche. Una più recente

edizione di questo testo, divisa in due volumi (il primo dei quali si estende dalle

origini agli anni Trenta), presenta invece il materiale nella sua completezza e si

spinge fino agli anni Settanta.

E’ un panorama completo del jazz in Italia dal 1902 agli anni Trenta, un testo

nel quale si sfatano molte vecchie idee sul rapporto tra jazz e società italiana.

Afferma Adriano Fazzoletti che “all'inizio il jazz in Italia è stata una musica di

imitazione del modello americano. I musicisti che affrontarono per primi questa

musica negli anni Venti erano quasi tutti diplomati, molto preparati e in più

possedevano la capacità di capire e assimilare il nuovo linguaggio, anche se

conoscevano soprattutto un jazz più leggero, da ballo. A partire dal 1932

appaiono degli straordinari musicisti con una forte personalità che, se fossero

vissuti altrove, oggi sarebbero considerati dei grandi. Il periodo più significativo

va dal 1935 all’avvento del bebop: il periodo swing ha prodotto grandi musicisti

di assoluto valore, primo fra tutti il fisarmonicista Gorni Kramer, il trombettista

Nino Impallomeni, il sassofonista Piero Rizza, il pianista Romeo Alvaro.”

Chi mettere, chi levare da quel testo?

Ricordo, mentre preparavo Jazz Inchiesta Italia, che nell’intervistare Giorgio

Gaslini ricevetti da lui l’incitamento a “separare la gramigna dal grano”, che

fuori di metafora voleva dire “scegli tu chi mettere nel libro, ma non mettere

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tutti”. Optai per una soluzione che mi sembrava corretta a livello editoriale:

dare più spazio (foto e intervista) ai jazzmen maggiori e citare soltanto gli altri,

senza però escludere qualcuno volontariamente. Poi, di fatto, qualche

dimenticanza mi avrà fatto cadere in qualche gaffes.

Alcuni di quei personaggi minori sono svaniti come meteore nel giro di pochi

anni. Altri, già piuttosto anziani all’epoca, si sono ritirati o sono deceduti. Altri

sono tuttora in splendida forma e al centro dell’attuale panorama del jazz.

Invece molti dei big attuali, all’epoca erano poco più che bambini e ovviamente

non potevano comparire come: per citarne alcune per tutti, Massimo Urbani,

Paolo Fresu e Stefano Bollani.

Come sappiamo il primo dei tre non è riuscito ad uscire dal tunnel e, purtroppo,

possiamo solo ricordarlo con grande affetto.

LA PREFAZIONE DI MASSIMO MILA Una annotazione va fatta per la prefazione al testo, a cura di Massimo Mila, un

grande teorico musicale che era piuttosto defilato rispetto al jazz. Confesso che

mi serviva il nome di un saggista super partes che non irritasse nessuno dei

colleghi della critica: non avrei potuto chiedere la prefazione, che so, ad Arrigo

Polillo piuttosto che a Franco Fajenz senza sollevare gelosie e ripercussioni

negative. Invece, sia Polillo, sia Fajenz, con altri critici musicali come Franco

Pecori, Umberto Santucci, Alberto Rodriguez, Giancarlo Roncaglia (gli ultimi

due deceduti in questi ultimi anni) intervennero per altro all’interno del libro, o

sotto forma di intervista o di contributo scritto. Così, chiesi a Mila

l’autorizzazione a pubblicare un suo scritto sul jazz sotto forma di prefazione e

lui, gentilissimo, accondiscese senza problemi. Eccola riprodotta:

Prefazione

Il jazz moderno è diventato un fenomeno complesso e multiforme, chi si dirama

in varie articolazioni e che non teme all’occorrenza di accostarsi alla

ricercatezza dell’arte moderna. Soltanto la presenza di qualche glorioso

superstite può restituire ancora nella sua autenticità quel senso univoco di

robusta ispirazione popolare che, più di quaranta anni fa, aveva attirato sul

jazz l’interesse e la simpatia di quasi tutte le forze vive della musica

contemporanea. Oggi anche il jazz percorre vie difficili, non meno difficili di

quelle degli indirizzi più avanzati della odierna musica d’avanguardia. Ed è

giusto che sia così: probabilmente sarebbe un errore volerlo mantenere a forza,

come se fosse imbalsamato, su quelle posizioni di semplicità popolare di cui

solo Armstrong e gli artisti della sua epoca conservano il segreto. Ma anche il

jazz di oggi comprova la propria positività precisamente attraverso l’evoluzione

che subisce: proprio perché alle

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sue origini c’erano la verità e la forza dell’ispirazione popolare, il jazz si

dimostra capace di sopravvivere e di seguire un proprio destino artistico, che

magari lo allontana dalle posizioni originarie. Ma non si vive senza trasformarsi,

e anche chi è rimasto sentimentalmente attaccato alla nostalgia del jazz della

sua giovinezza, anche chi ha perduto il contatto con la molteplicità degli

sviluppi più recenti, così prolifici di nuove formule e nuovi stili, se fa tanto di

accostarvisi, non tarda a riconoscere in questi sviluppi le conseguenze

inevitabili dell’antico ceppo.

E’ ancora l’antico incendio che alimenta le nuove fiamme, o fiammelle che

siano, e anche nelle sue recentissime formulazioni il jazz resta tuttora una

manifestazione genuina della musica del nostro tempo: senza avere spento

l’originario impulso popolare, ne documenta le possibilità di affinamento e di

evoluzione stilistica in accordo con il volgere dei tempi: basterebbe questo per

fare del jazz un capitolo insostituibile nella musica moderna.

Massimo Mila

Molti amici non ci sono più

Nel ripensare a quel periodo a distanza di tanti anni risulta evidente che per

molte persone la vita è troppo breve. La lista delle persone che nel frattempo

sono decedute è lunga. Solo per citarne alcuni: Massimo Urbani, Alberto

Rodriguez, Giancarlo Roncaglia, Dick Mazzanti, Sergio Battistelli, Umberto

Cesàri, Oscar Valdambrini, Marcello Melis, Romano Mussolini, Giancarlo Cesaroni

(il patron del mitico Folkstudio) ed i due anfitrioni della serata nella quale Jazz

Inchiesta Italia venne presentato, Pepito e Picchi Pignatelli. Scelsi infatti per

l’occasione il loro mitico Music Inn, che era il tempio del jazz a Roma. Pepito e

Picchi, dieci anni dopo, uscirono drammaticamente dalla scena del jazz: dopo

la morte del principe-batterista per alcolismo, Picchi non resistette al dolore e

poco tempo dopo si tolse la vita.

Ma quella serata di presentazione, affidata a Renzo Arbore, fu molto vivace e

allegra. Era presente uno stuolo di colleghi giornalisti e musicisti, animati da

Dario Salvatori, Fabrizio Zampa, Marco Molendini e tanti altri. Alla fine ne

venne fuori, ovviamente, una jam session.

A proposito di amici scomparsi, mette conto riportare qui un avvenimento che

seguì immediatamente la pubblicazione del libro relativo a Umberto Cesari. Il

grande pianista era stato da me descritto con stima e affetto, ma senza

un’intervista diretta. Sapevo, da quanto si diceva in giro, che era stato il

migliore pianista italiano in assoluto, ma che da anni viveva in casa, senza

uscire mai. Una storia che aveva, del tutto casualmente, delle attinenze con

quanto scrisse molti anni dopo Alessandro Baricco in Novecento, un testo nato

per il teatro che poi diventò un film (“La leggenda del pianista sull’oceano”) nel

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quale si narra la storia di un pianista abbandonato in fasce dalla madre

emigrante su di una nave dalla quale non scenderà mai. In entrambe le storie di

tratta di splendidi pianisti che vivevano isolati.

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Whitney Balliet - “new York Notes”, DaCapo - N.Y. 1972

Duke Ellington - “Autobiografia”, Emme Ed. - Trento 1981

Joachim Berendt - “The Jazz Book”, Paladin - Great Britain 1976

Page 37: SI SCRIVE MUSICA, SI LEGGE PASSIONE DI ENRICO COGNO scrive musica si legge passione.pdf · cavare un suono che non fosse solo un Mi basso ostinato, con il quale accompagnavo tutto:

Luciano Federighi “Le Grandi Voci della Musica Americana” Oscar Mondadori -

Milano 1997

S.B. Charters - L.Kunstadt - “Jazz”, DoubleDay &C. - N.Y. 1962

Louis Armstrong - “Satchmo”, Garzanti - Milano 1970

LeRoi Jones - “II Popolo del Blues”, Einaudi - Torino 1968

Enrico Pieranunzi - “Bill Evans” Nuovi Equilibri - Roma 1994

lan Carr - “Keith Jarrett” Arcana - Milano 1992

Giancarlo Roncaglia - “Una Storia del Jazz” Marsilio - Venezia 1982

Arrigo Polillo - “Jazz” Oscar Mondadorì - Milano 1976

Arrigo Zolì - “Storia del J. Moderno Italiano” Azi - Roma 1983

Livio Cerri - “Jazz in Microsolco” Nistri Lischi - Pisa 1963

Longstreet-Dauer-Carpitella - “Dizionario del Jazz” II Saggiatore Mondadori -

Verona 1960

Eric J. Hobsbawm - Storia Sociale del J.” Editori Riuniti - Roma 1982

David Meeker - “Jazz In The Movies” Talisman - London 1981

Alec Wilder - “American Popular Song” Oxford - N.Y. 1975

Antonio Lodettì - “Jazz & Jazzmen” Kaos - Milano 1992

Feather-Gitler - “Jazz in The Seventies” Quartet - London 1978

Joachim & Ernst Berendt - “Fotostoria del Jazz” Garzanti-Milano 1979

Jimmy Lyons - “Dizzy, Duke, The Count and Me” Living Book San Francisco 1978

Brian Case - Stan Britt - “Enciclopedia illustrata del Jazz” Idea Libri - Milano

1981