Settantadue ore

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Terra bruciata, aria di bufera. Nubi nere, pesanti, si muovono basse sotto un cielo mai limpido. Fulmini su resti diroccati di case. Suolo arido, alberi scarni. I ratti si contendono l’ultimo cibo. Poco lontano, terra fertile. Un fiume placido, un cielo azzurro e voci festose. Gioia. Paura. Frustrazione. Dolore. Coraggio. È sottile, il confine, quasi invisibile. Difficile spostarlo. Rischioso attraversarlo. Sopra il confine, un’altissima torre di roccia si sgretola. Sulla cima, un uomo vestito di nero e una donna con il capo coperto da un velo si affrontano.

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Andrea Lepri

SETTANTADUE ORE

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SETTANTADUE ORE Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Andrea Lepri ISBN 978-88-6307-286-0

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Maggio 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

MOLTO TEMPO FA... Terra bruciata dal vento. Aria di bufera. Nubi nere, gonfie e pesanti, si muovono basse sotto un cielo mai limpido. Fulmini sui resti diroccati di case. Suolo arido, spaccato, alberi scarni. I ratti si contendono l’ultimo cibo. Poco lontano, terra fertile. Un fiume placido, un cielo azzurro, e voci festose. Gioia. Paura. Dolore. Coraggio. È sottile, il confine. Quasi invisibile. Rischioso attraversarlo. Difficile spostarlo. Sopra il confine un’altissima torre di roccia, esile, si sgretola. Le pietre rotolano giù in un fragore assordante. Sulla cima, un uomo vestito di nero e una donna con un foulard in testa si affrontano.

Prologo VENERDI ORE 22:53 Aldo correva disperatamente, il premio in palio era la sua stessa vita. Il sudore sulla sua fronte si cristallizzava in gemme splendenti a causa dell’aria gelida, nonostante avesse passato i quarant’anni e fosse di cor-poratura massiccia era veloce e resistente, ma presagiva comunque che non ce l’avrebbe fatta. Aveva umiliato l’altro una volta di troppo. Ave-va minacciato di uccidere la sua donna con un coltello, poi l’aveva ba-ciata davanti a lui prima di darsi alla fuga. No, questi non l’avrebbe perdonato, non avrebbe perso quell’ultima possibilità di riscattare il proprio orgoglio esasperato. Ancora pochi metri e sarebbe stato in salvo nel buio serale del fitto bosco, ma temeva che a tradirlo sarebbe stata proprio la notte, facendogli mettere un piede in fallo. Udì le grida scon-fortate della donna, provenienti da dietro: “Luca, non farlo. Ti prego, non farlo”. E l’altro: “Togliti davanti, accidenti, lo sto perdendo”. Ancora pochi metri. Soltanto pochi metri. Aldo immaginò l’altro svin-colarsi dalla presa della donna e spingerla via, poi prendere la mira con calma, socchiudendo un occhio, per non sprecare quell’unica occasione. Udì il rumore dello sparo squarciare la notte. Si dice che una persona, in quel momento, riveda in un flash tutta la propria vita....

Parte Prima

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GIOVEDI ORE 18:51 Aldo era di pessimo umore, quella sera cadevano violente gocce di pioggia, fredde e sottili come aculei di ghiaccio. Sospinte dal vento di tramontana gli pungevano le guance e le palpebre con cattiveria, co-stringendolo a tenere gli occhi socchiusi e facendolo imprecare a ogni passo. Col bavero del cappotto rialzato e le mani infreddolite affondate nelle tasche entrò nell’affollato bar del porto. C’era il solito brusio as-sordante, un miscuglio di musica sudamericana, tintinnio di bicchieri, risa sguaiate. Gruppetti di persone parlavano a voce alta per potersi sen-tire, quasi gridando. Negli angoli nascosti, dove la morbida luce fatica-va a farsi strada, veniva contrattata merce di ogni genere. Qualcuno palpeggiava mostrando denti d’oro. Lasciò vagare lo sguardo, stringen-do gli occhi per vedere meglio, e li scorse attraverso le spirali di fumo di mille sigarette. I tre avevano scelto un tavolo appartato e stavano be-vendo della birra, lui si fermò al bancone a prenderne una a sua volta e li raggiunse. “Sei in ritardo” gli disse il Topo senza accennare il minimo segno di saluto. “Colpa di questa maledetta pioggia, l’autobus si è fermato tremila vol-te.” “Ciao Lupo” lo salutò con entusiasmo il Cane. “Ciao amico” rispose questi stringendogli calorosamente le mani, con vigore. “Ne è passato di tempo, eh?” soggiunse poi sedendosi. “Già” rispose il Cane, “ cominciavo a temere che non volessi più lavo-rare con noi. E invece siamo di nuovo tutti insieme, pronti a colpire!” “Volete smettere di fare i romantici?” intervenne il Topo sottovoce. “Qui anche i muri ci ascoltano, definiamo alla svelta gli ultimi partico-lari e andiamocene. E’ pericoloso stare qui a chiacchierare.” “Hai ragione, è meglio darsi una mossa” convenne Aldo.

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“Vediamo un po’ come siamo messi: abbiamo gli spostamenti?” chiese guardando il Gatto che fino ad allora era rimasto in disparte, continuan-do a studiarli in silenzio. “Tutto regolare” rispose questi, “domani mattina alle sette e trenta il furgone consegnerà i soldi delle paghe e delle pensioni, e col Natale vi-cino ci saranno anche le tredicesime: settecentomila euro che aspettano solo noi.” “E per smerciarli?” “E’ tutto a posto anche quello, ho appena parlato col mediatore. Sono persino riuscito a imporgli una commissione più bassa, tutti quei soldi gli hanno fatto gola.” “Ottimo” commentò Aldo, poi si rivolse al cane. “I mezzi?” “Sono pronti. Abbiamo un Pick-up per tagliare attraverso i campi e una station turbodiesel già posteggiata all’autogrill. È anonima e potente, e dentro c’è tutto l’occorrente per cambiarsi nei bagni dell’area di servi-zio.” Aldo annuì gravemente, poi voltò lievemente la testa verso il Topo e lo fissò dritto negli occhi. Non c’era bisogno di fare domande, lui era quello che da sempre si occupava delle armi. “Siamo a posto anche con le armi: Beretta calibro 9, caricatore bifilare. Quattordici colpi più uno in canna. Sono leggere, maneggevoli e preci-se.” Aldo annuì, poi prese a guardare come ipnotizzato le bollicine della propria Guinness che continuavano a scoppiettare emettendo un rumore lievissimo. “Sembrerebbe che sia tutto a posto” commentò poco dopo, passandosi una mano sul mento con fare pensoso. “Ci vediamo alle otto in punto allo sfasciacarrozze abbandonato. Avete recuperato le biciclette?” chiese poi. Gli altri annuirono in silenzio. “Bene” concluse il Lupo. “Adesso usciremo uno alla volta. Andate a riposare, domani sarà una giornata lunga e faticosa. A proposito” aggiunse lisciandosi di nuovo la folta barba nera, “sarà l’ultima”. La sorpresa fiorì improvvisa sul volto degli altri tre. “Ma che dici?” scattò in avanti il Topo, “ ci sono almeno altri due colpi sicuri da fare. Ci aspetta una montagna di soldi.” Aldo passò in rassegna i volti dei propri compagni, soffermandosi a fis-sarli uno per uno con espressione seria.

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“E’ troppo tempo che siamo in ballo, se andiamo avanti così prima o poi ci prendono. Non siamo più tanto giovani, i riflessi non sono più quelli di una volta, e poi in fondo abbiamo guadagnato abbastanza per poterci ritirare tranquillamente...” “No, non puoi mollarci proprio adesso” insisté il Topo. “Forse ha ragione lui” intervenne il Cane, “stiamo invecchiando. Ma non è questo il momento di parlarne, lo faremo quando ci incontreremo per dividere”. “Ma se siamo appena...” fece per insistere il Topo. “Devo andare” chiuse il discorso Aldo senza lasciargli terminare la fra-se. Bevve un paio di sorsi di birra, si asciugò la barba col polsino del cappotto e si alzò. Si avviò verso l’uscita senza aggiungere altro. “Secondo voi diceva sul serio?” domandò il Gatto, più curioso che per-plesso. “Temo di si” rispose il Cane, “e molto probabilmente ha ragione.” “Balle. Sono tutte balle” biascicò il Topo in tono acido, scotendo la te-sta. “La verità è che da quando ha ammazzato quello sbirro non è stato più lo stesso. E per fare questo mestiere ci vuole fegato, ci vogliono co-raggio e sangue freddo.” “Ma cosa stai dicendo” sussurrò a denti stretti il Cane, “se ti ricordi be-ne, ha dovuto sparare a quel poliziotto perché TU non hai avuto abba-stanza fegato. Per combattere la tensione ti eri fatto fino alla punta dei capelli, come al solito, e ti sei lasciato disarmare come un idiota. Ti ha salvato la vita! Non è così? Avanti, rispondi! Non è vero?” “Basta. Smettete, dannazione” intervenne il Gatto tirando via il braccio del Cane, che si agitava minaccioso davanti alla faccia del Topo. “Ma non vi vedete? State dando spettacolo!” Diversi clienti, disturbati dai loro schiamazzi, avevano interrotto le loro conversazioni e li guardavano curiosi. “A domani” disse il Cane stizzito, alzandosi. Tirò via con rabbia il giubbotto di pelle dalla spalliera della sedia e se ne andò.

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GIOVEDI ORE 19:15 Non pioveva più, ma soffiava ancora con forza un vento fastidioso. Al-do salì sull’autobus e sedette in fondo, dove il motore rilascia un po’ di calore agli schienali delle poltroncine. Stava guardando distrattamente la strada, con la testa rivolta al finestrino quando improvvisamente qualcosa si appropriò della sua mano, tirandogliela di lato. Trasalì ed ebbe un attimo di smarrimento, subito dopo si voltò con un guizzo, pronto a reagire. Accanto a lui c’era una giovane donna, un foulard fan-tasia le copriva soltanto in parte i lunghi capelli neri, sciolti sulle spalle. Aldo si domandò come potesse, con quel clima, portare abiti tanto leg-geri. Gli aveva rovesciato la mano e la stava studiando come fosse un oggetto suo. Infastidito Aldo tentò di ritrarla, ma le unghie di lei erano quasi infilzate nel dorso in una presa ferrea e lui dovette desistere o si sarebbe ferito. Lei alzò la testa e gli rivolse un sorriso sfuggente, i suoi occhi erano grandi e scuri come il carbone, le ciglia folte e lunghe e i denti bianchissimi. Decise di lasciarla fare, di certo quella Zingara vo-leva solo qualche spicciolo. “Allora?” domandò ironico mettendosi comodo e spingendo la mano verso di lei per offrirgliela. Lei la osservò attentamente, in silenzio, per qualche istante. “Il momento dei bilanci è vicino. Presto ti troverai a confronto con il tuo passato, molto prima di quanto pensi. Devi essere prudente, non fi-darti di nessuno” disse lei in un sussurro udibile a malapena. “Certo, certo” rispose lui mostrandole i bei denti regolari in un sorriso superficiale. “Soprattutto degli uomini in divisa, e dei tuoi soci in affari. Specialmente di quelli dallo sguardo sfuggente, dei roditori.” Aldo la guardò disorientato, la giovane donna piantò gli occhi nei suoi e si fece seria. “Non è uno scherzo, già da domani dovrai fare scelte importanti” ripre-se poi in tono grave ma con un sottofondo divertito. “Non potrai evitarlo. E anche se cercherai di fuggire” continuò, “ il pas-sato ti inseguirà e ti agguanterà. Niente sarà più come sembra. Tieni questo bracciale. Indossalo, ti proteggerà.” “Non lo voglio” rispose lui in tono irritato. “Tieni” disse poi porgendo-le una manciata di monete mentre la guardava ancora accigliato. “Non voglio i tuoi soldi. Prendi il bracciale” insisté la donna mettendo-glielo tra le mani e avvolgendole con le sue. I suoi occhi mandarono un lampo improvviso, lui sentì come un tocco gelido sulla nuca e un brivi-

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do gli corse su per la schiena. Smise di opporsi e accolse il bracciale tra le mani. Un prete, apparentemente sbucato dal nulla, gli si parò davanti. Era alto e magro, aveva i capelli grigi e l’aspetto sofferto; ma i suoi occhi, di un colore verde brillante, stonavano in quel viso segnato da molte rughe. Sembravano quelli di un ragazzo. “Mi dispiace, ma si diverte ad andare in giro a spaventare la gente” dis-se gentilmente indicando la donna ad Aldo, che rispose con uno sguar-do stralunato. “La sta importunando?” gli domandò poi. “È tutto a posto” rispose Aldo dopo aver lanciato un’occhiataccia di rimprovero alla zingara. “Bene, meglio così... voglia scusarla” concluse il sacerdote, poi si ri-volse alla donna. “E’ ora di andare” le ordinò indicando la porta centrale con un cenno della testa. “E se non volessi?” lo sfidò lei sorridendo spavalda. Il prete la guardò in silenzio, pensieroso. Lei fece un’espressione scocciata, poi si strinse nelle spalle e si alzò. Si avviarono verso l’uscita sotto lo sguardo incerto di Aldo. Parlottavano a voce bassa, in modo animato, quasi come se litigassero. Perplesso, il Lupo tornò a guardare fuori. Fu colto da un dubbio e decise di frugarsi le tasche, per verificare che il portafogli fosse ancora al suo posto. Nel farlo allungò una gamba e calpestò qualcosa, si chinò e vide che era un piccolo crocifisso d’argento. Lo raccolse e si voltò in cerca del prete, per restituirglielo. Non c’erano più, né sull’autobus, né in strada. Erano come svaniti. Si grattò il capo. Si voltò verso una donna lì vicino, per domandarle se per caso non avesse assistito alla scena, ma ci ripensò. Si rigirò nella mano i due oggetti, osservandoli, e quando questi si sfiora-rono tra loro lui provò uno strano formicolio, simile a una piccola scos-sa. Fece spallucce e li mise in tasca, poi riprese a guardare fuori dal fi-nestrino finché l’autobus finì il suo interminabile giro con uno stridore metallico e una sbuffata. Il Lupo salì in auto e consultò l’orologio. “Se non trovo traffico ce la faccio tranquillamente”, pensò. Accese lo ste-reo, sintonizzò la sua emittente preferita e si diresse verso il lungomare.

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GIOVEDI ORE 19:47 Il Topo sbatté con forza la porta, poi premette l’interruttore borbottando qualcosa a proposito del clima. La ragazza si riscosse e socchiuse gli occhi, offesi dalla luce. Stava a terra, raggomitolata in un angolo, e a-veva i capelli scompigliati e sudici. Sul viso pallido e scheletrico risal-tavano occhiaie scure, tanto accentuate da sembrare finte. Tremava. Il Topo inveì di nuovo contro il freddo e lanciò la giacca su una poltrona. “Me l’hai portata?” domandò lei in un lamento strascicato. La testa di un drago tatuato le spuntava dal maglione a collo alto. Il Topo fece una smorfia a causa dell’odore acre che aleggiava nella stanza. Le andò incontro lentamente, annusando l’aria. “Te la sei di nuovo fatta addosso...” “Ti... ti prego...” mormorò Silvia. “Ma ti vedi? Riesci vedere come sei ridotta?” disse lui infilando la ma-no in tasca. “Ti prego, dammela... non ce la faccio più, mi sento morire” lo implorò lei continuando a tremare, e lui le lanciò addosso la bustina, con di-sprezzo. La ragazza ci si avventò, poi si applicò velocemente il laccio emostati-co, tirandolo con una mano da una parte e coi pochi denti rimasti dall’altra. Il Topo sedette al tavolo e si preparò una sigaretta con l’erba che aveva preso da un cofanetto, l’accese e dopo appena un paio di tiri si sentì meglio, più rilassato. La donna buttò a terra la siringa e si lasciò scivolare lungo il pavimento. Chiuse gli occhi. “Mi hai rovinata....“ biascicò dopo qualche istante. “Stai zitta” rispose lui con noncuranza, “ho bisogno di silenzio e tran-quillità”. “Sei un bastardo” insisté Silvia con un filo di voce. “Ti ho detto di fare silenzio” grugnì lui voltandosi di scatto. Qualche lacrima si era fermata nella guancia infossata di lei, formando un laghetto. Singhiozzò. Indifferente, lui cominciò a smontare la pistola per pulirla. “Promettimi che mi farai curare.” L’uomo continuò a fare in silenzio il proprio lavoro. “Promettimelo, ti prego. Non ne posso più... non ce la faccio più ad an-dare avanti così.” Seccato, il Topo si alzò con un guizzo spingendo all’indietro la sedia, istintivamente la ragazza raccolse le braccia intorno alle gambe, rannic-

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chiandosi. Lui le si avvicinò lentamente, le prese il viso ossuto tra le mani e lo tirò a sé. “Mi fai male” protestò timidamente Silvia tentando di liberarsi da quel-la morsa. “Guardami. Voglio che mi guardi, quando ti parlo! Ti ho detto che devi stare zitta. Zitta, hai capito?” ringhiò lui. “Lasciami, mi fai male” ripeté Silvia. “Non voglio più sentirti! Non voglio più vederti. Mi fai schifo! Non sei più in grado di controllare il tuo corpo, non sei più buona neanche a let-to. Ora esco, e quando torno non voglio trovarti qui. E non devi venirci mai più, o sarà peggio per te.” “E dove posso andare, in queste condizioni?” “Non lo so e non mi interessa! Vai a marcire da qualche altra parte.” “Sei un bastardo” disse lei in un sussurro. Lui la spinse via e tornò al tavolo. Finì di rimontare la pistola, poi in-dossò il giaccone e uscì. GIOVEDI ORE 19:58 Il Lupo fermò l’auto in un punto nascosto del cortile, dietro un capanno per gli attrezzi, quando la canzone fu finita uscì e si inoltrò tra gli alberi con fare circospetto. Notò quasi subito il bambino, era seduto su un masso e teneva in mano un telecomando. La piccola jeep elettrica sob-balzava sulle dune di fango che aveva costruito, con la paletta da giar-dinaggio. Il Lupo si avvicinò lentamente, in silenzio, tendendo le mani verso il bambino. Era molto vicino. Il bambino si voltò e lanciò un gri-do spaventato. Aldo gli si gettò addosso di slancio e lo afferrò per la vi-ta. “Sei sempre il solito, che ci fai ancora fuori a quest’ora? Prenderai un bel raffreddore!” lo rimproverò prendendolo per le braccia e facendolo roteare nell’aria, poi se lo mise a cavalcioni sulle spalle. “Accidenti a te, mi hai fatto prendere una paura del diavolo” rispose Giacomo ridendo e dandogli dei pugni in testa. “Come va? Funziona ancora?” domandò Aldo indicando la jeep. “È fortissima!” rispose il bambino.

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Intanto erano arrivati davanti alla porta, Aldo tese il braccio per suonare il campanello ma la porta si aprì prima che ci arrivasse. Fu travolto da uno sciame di bambini che gridavano il suo nome, sorridenti. Se lo con-tendevano, gli tiravano le maniche per attirare la sua attenzione, alcuni cercavano di mostrargli qualcosa. Uno stringeva tra le mani un pallone, guardandolo speranzoso. Li salutò tutti uno a uno, dando a chi un bacio e a chi una carezza. Francesca, ferma sulla porta, sorrideva. Aveva i ca-pelli raccolti in una coda arrotolata e fermata sulla testa da un matita. Attese che i bambini si calmassero. “La cena è pronta, tutti di corsa al refettorio. E dopo, pulite come si de-ve” ordinò con falsa severità. “Aldo, ti trovo in forma” disse poi all’uomo prendendolo sottobraccio. Lo guidò nella grande sala e lo invitò a sedere, mise un po’ di ordine tra i giochi sparsi sul grande tappeto poi ravvivò la brace del camino. “Bevi qualcosa?” domandò mentre abbassava il volume dello stereo. “Solo se mi fai compagnia.” “Sia, ma andiamoci piano perché sono a stomaco vuoto.“ “Allora me ne vado così puoi cenare coi bambini, tornerò in un altro momento ”Non è necessario, non preoccuparti. Ultimamente non ho molto appeti-to.” Gli porse il bicchiere, controllò di nuovo il fuoco e sedette di fronte a lui. “Cosa ti porta qui?” “Cominciavate a mancarmi.” “In effetti era da qualche tempo che non ti facevi vedere.” “Ho avuto un po’ da fare... e poi tra un po’ sarà Natale.” “Allora, se vieni adesso, vuol dire che...” “Già. Un’azienda mi ha commissionato un viaggio, starò via per un pezzo.” Lei si rabbuiò. “Stavolta dove ti mandano?” “Un’azienda tessile ha venduto dei macchinari in Romania, vado a mo-strare loro come funzionano.” “È un vero peccato! Ci sarebbe piaciuto averti qui per le feste.” “Dispiace molto anche a me. Ma non sarete soli, ci sarà Luca.” “A dire il vero non lo so”, rispose lei dopo qualche istante tornando a giocherellare con l’attizzatoio.

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“E’ successo qualcosa?” “Niente di grave. Ma sai com’è lui, si dedica solo al lavoro. Vuole sali-re in cima alla scala più in fretta che può, pensa solo ad arrestare delin-quenti. E poi vorrebbe un futuro più concreto, vorrebbe dei figli suoi e non una dozzina di marmocchi che gridano e gli girano intorno tutto il giorno...” “Anche se è un po’ più giovane di te Luca non mi sembra immaturo, è un ragazzo in gamba. Non temere, vedrai che le cose si sistemeranno.” “Non ne sono più così sicura. A volte ho come la sensazione che mi stia chiedendo di scegliere.” “Che ne sarebbe di loro?” domandò Aldo pur conoscendo già la rispo-sta. La ragazza rimase assorta per qualche istante, cercando di figurarsi la situazione. Fece una smorfia di disgusto. “Sarebbero dispersi. Qualcuno verrebbe affidato in previsione di un’adozione, altri ridistribuiti negli istituti convenzionali.” “Sarebbe terribile.” Lei annuì tenendo gli occhi bassi. “Non disperare, anche se le cose con Luca andassero male troverai qualcuno che voglia condividere con te tutto questo.” “Tu credi? Guardami: non sono bella e ho già passato i trentacinque. Chi credi che sia tanto pazzo da accollarsi una situazione del genere?” “Qualcuno che apprezzi il tuo sorriso meraviglioso, qualcuno che abbia un cuore grande come il tuo.” “Mi sopravvaluti. Ma pensandoci bene, in fondo sono felice così. La ragione della mia vita sono loro” disse sorridendo, “ non li abbandone-rei per niente al mondo.” Aldo avrebbe voluto dirle che magari che avrebbe potuto esserci lui, lì con lei. Che gli sarebbe piaciuto aiutarli a preparare l’albero, gli addob-bi, e magari entrare di notte vestito da Babbo Natale per leggere la feli-cità sui volti dei bambini. Ma non aprì bocca. Rimasero a fissare il fuo-co per un po’, in silenzio, gustandosi il tepore della stanza. Dopo qual-che minuto l’uomo guardò l’orologio. “Devo andare.” “Così presto?” “Domani mi aspetta una giornata noiosa, fatta di valigie e documenti. “ Si frugò la tasca interna del cappotto. “Non mi piace, in questo modo, ma stavolta purtroppo non posso fare diversamente. Questi sono per i loro regali di Natale, non ho il tempo di andare a comprarli di persona. Al tuo ci penserò quando tornerò” disse consegnandole una busta da lettera rigonfia.

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Lei strappò un lembo e vi guardò dentro. “Tu sei pazzo! No, non posso accettare. Questi soldi sono troppi.” “Non dirlo. Se lo faccio è perché posso permettermelo. Che dovrei far-ci, coi soldi, lasciarli marcire sotto il materasso? Non mi viene a mente nessun modo migliore per spenderli. Vado a salutare i bambini. Buon Natale... e tieni duro, mi raccomando.” La baciò sulla guancia e si diresse verso il refettorio. Poco dopo lei lo guardò allontanarsi dalla finestra. Rimase a riflettere, col braccio ancora alzato in un saluto, e si domandò per l’ennesima volta chi fosse quell’uomo misterioso. Era capitato lì molto tempo prima, per un bana-le guasto all’automobile. Per puro caso. Da allora veniva regolarmente in visita, e ogni volta portava denaro, doni, medicine. Di tanto in tanto aiutava i bambini a studiare e lei a fare piccole riparazioni in quella vecchia e grande casa, senza mai chiedere niente in cambio. Chi era in realtà? Avevano trascorso insieme tanti bei momenti, lavorando per i bambini e divertendosi. Ma nonostante tutto sembrava che lui non vo-lesse legarsi più di tanto, aveva sempre mantenuto un certo distacco e raramente parlava di sé. Questo, unito al suo bell’aspetto, lo rendeva ancora più affascinante. Se lui le avesse lasciato intendere qualcosa, un interesse per lei un po’ più profondo, l’avrebbe messa in seria difficoltà. Francesca non aveva neanche capito bene che lavoro facesse, ma non era tipo da fantasticarci sopra. Era una persona pratica, aveva imparato da tempo ad accettare i doni della vita senza interrogarsi troppo a lungo sul significato delle cose. Arrivato all’automobile, Aldo esitò. Si voltò e rimase per qualche istan-te a guardare la facciata scalcinata dalla salsedine e le persiane scrosta-te, quasi completamente divelte. Ogni volta indugiava sempre un po’ più a lungo. Era tormentato, stanco di quella vita. Aveva quarant’anni, ormai. Con il denaro che aveva messo insieme avrebbe potuto andare lontano, cominciare una nuova vita, ma provò una fitta al pensiero di non vedere più i bambini. E di non vedere più Francesca, anche se ave-va sempre cercato di negarselo. L’ammirava perché era riuscita a creare quel piccolo miracolo da sola, un piccolo paradiso nel mezzo della peri-feria più degradata. Si impegnava giorno dopo giorno per garantire un futuro a quei piccoli sfortunati, e ci stava riuscendo. Lui l’aiutava come e quando poteva, e lei ne era felice. Ma come avrebbe reagito, sapendo che i soldi che ogni tanto le donava erano sporchi? I piccoli, che lo ado-ravano, lo avrebbero odiato. Ai loro occhi sarebbe diventato come i loro papà... o come quelli che glieli avevano portati via. Entrò in auto e os-

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servò ancora per qualche istante la casa fatiscente, in lontananza. Poi accese il motore e ripartì, e scoprì di sentirsi più triste di quando era ar-rivato. GIOVEDI ORE 20:55 Giunto a casa, collegò il portatile e lo accese. Controllò per l’ennesima volta che la prenotazione effettuata via Internet fosse andata a buon fi-ne. Era tutto a posto. Quattro mesi in un appartamentino isolato sulla riviera adriatica, in pieno inverno. In quella stagione nessuno lo avreb-be notato. Quanto alla noia e alla solitudine, ci era abituato. Avrebbe letto qualche libro, passeggiato, dipinto. Dipingere era l’unica cosa che in realtà gli piacesse fare, gli venne da domandarsi perché non ci si fos-se mai dedicato pienamente. Un ricordo che credeva sepolto da tempo riaffiorò improvviso: sua madre gli diceva che ora che suo padre non c’era più pennelli e colori erano diventati troppo costosi, da quel mo-mento non avrebbero potuto più permetterseli. E lui, bambino, piangeva in un angolo stringendo tra le mani la foto di un uomo sorridente in di-visa. La stringeva sempre più forte, come nella ricerca di un contatto fisico, poi la scagliava con rabbia contro il muro. “Perché ci hai abban-donato?” ripeteva continuando a piangere... la risposta affondava troppo profondamente le radici nel passato. Troppo dolorosamente, e non ave-va voglia di pensarci oltre. Spense il portatile e andò in bagno. Usando un rasoio elettrico si tagliò la barba foltissima, poi i capelli. Adesso gli occhi azzurri, grandi, risaltavano sulla faccia un po’ rotonda dalle ma-scelle robuste. Tolse da una scatola di scarpe la parrucca e la barba po-sticcia e li sistemò a portata di mano, sulla mensola, nel caso avesse dovuto riassumere velocemente la propria identità. Mangiò di malavo-glia una pizza scaldata al microonde, poi sedette davanti alla televisione con una bottiglia di whisky ai piedi. Come ogni volta, la sera prima di entrare in azione non riusciva a prendere sonno. Saltellò per un po’ da un programma all’altro, ma niente riusciva a catturare la sua attenzione per più di due minuti. Si rese conto di essere inquieto. Cominciò a pen-sare all’indomani, a rivedere scrupolosamente tutti i particolari. Il lavo-ro era facile, si trattava di un piccolo ufficio postale poco sorvegliato, le auto erano affidabili e il percorso era stato studiato con cura. L’unica noia era doversi bagnare i piedi per attraversare il torrente, per il resto

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avrebbero semplicemente dovuto attendere l’ora di punta, quando all’autogrill e ai caselli c’è folla e nessuno ti nota. Avrebbero scavalca-to la recinzione e sarebbero penetrati nell’area di sosta per arrivare all’auto. Tutto era stato studiato e programmato nei minimi particolari, tutto sarebbe andato liscio come sempre. Si domandò perché, allora, era preda dell’angoscia. Ripensò all’ostinazione della zingara nel volergli leggere la mano. “Il momento dei bilanci è vicino” gli aveva detto. “Chissà se davvero voleva dire qualcosa?” si domandò a voce alta. Rivide il suo sguardo profondo, quasi ipnotico, e il prete che l’aveva portata via praticamente a forza. Che stranezza. E poi il bracciale di rame e il crocifisso d’argento. E quello strano formicolio, l’energia che sembravano sprigionare sfiorandosi. Se li rigirò di nuovo in una mano, curioso, e provò di nuovo quella sensazione. “Stronzate! E’ soltanto suggestione” si rispose seccamente. Decise di indossarli per dimostrare a sé stesso di non avere paura, si appisolò e sognò l’ultima rapina. Stava andando tutto secondo il pro-gramma, ma il Topo si era messo a fare lo spaccone perdendo la con-centrazione e tempo prezioso. Un poliziotto in borghese l’aveva disar-mato con un gesto fulmineo, ora gli stava puntando contro la sua stessa arma. Cercava di guadagnare tempo. Il Topo aveva estratto un coltello dallo stivale e lo aveva affrontato, ferendogli un braccio. Il poliziotto aveva gridato e aveva messo il dito sul grilletto e quando aveva visto i nervi sull’avambraccio del poliziotto entrare in tensione, il Lupo aveva mirato alla spalla e aveva fatto fuoco. Ma proprio in quell’istante l’altro aveva esitato e aveva deciso di voltarsi per guardarsi le spalle. Il proiet-tile gli aveva spezzato la spina dorsale. Tre giorni di agonia, avevano detto i telegiornali. Una giovane vedova e una bambina di pochi mesi. Se la trovò d’improvviso davanti, adulta, mentre gli conficcava una la-ma lunga e lucente nello stomaco. Ridendo, ruotava lentamente la mano per scavargli meglio dentro. Poi il suo volto non era più il suo, era di-ventato quello della zingara. Si svegliò di colpo, gridando, e scoprì di essere fradicio di sudore. Quel sogno sembrava vero. Si cacciò in gola il contenuto del bicchiere, si alzò e prese l’agenda. L’aprì alla lettera “M“ e compose il numero. Attese un po’, poi il ricevitore all’altro capo si alzò. “Chi parla?” “Melissa, sei tu?” “E chi altri?” “...stavi dormendo?” “Già. E’ tardissimo.”

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“Mi spiace averti svegliata, ma non riesco proprio a dormire... sei so-la?” “Desolata, ma a quest’ora non ti riceverei neanche se tu fossi il presi-dente degli Stati Uniti.” “Capisco... è tutta qui la tua gratitudine per averti tirata fuori dai guai.” “Sapessi come mi piaci, quando mi rinfacci le cose!” Lui sospirò. “Scusami, non volevo... è solo che riesco a dormire” ripeté. La donna abbassò la testa, sconfortata. “Il massimo che posso fare è offrirti una tisana.” “Accetto.” GIOVEDI ORE 22:00 Le immagini scorrevano silenziose sullo schermo. Al Cane piaceva guardare la tivù così, con l’audio disinserito. Lo distraeva e al tempo stesso lo aiutava a riflettere. La notizia che Aldo aveva deciso di molla-re lo aveva turbato non poco. Aveva sempre saputo che prima o poi sa-rebbero arrivati a quel punto, ma non se lo aspettava e d’improvviso si trovava a dover decidere il proprio futuro. Aveva molto denaro ma non sapeva che cosa avrebbe fatto, l’unica cosa di cui era certo era che sua sorella, col suo aiuto, sarebbe arrivata in alto. Era la persona che amava di più al mondo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei. Stava per laurearsi in lettere ma voleva tentare la carriera di attrice, e lui aveva già deciso che le avrebbe regalato un corso di recitazione a Roma. La maschera da Setter lo fissava dal tavolo, e lui la guardò con un misto di amore e o-dio. L’indomani l’avrebbe usata per l’ultima volta, e in parte ne era contento. Quando la indossava smetteva di essere lui per diventare una specie di bestia. Un violento, un bastardo. Ma grazie a quella aveva ri-solto molti problemi e si era tolto tante soddisfazioni. Forse avrebbe aperto un negozio di animali. Gli dispiaceva sapere che non avrebbe più rivisto Aldo, e gli sarebbe piaciuto dare una bella lezione al Topo. Era diventato troppo carogna, troppo viscido, mentre il Gatto gli restava del tutto indifferente. Dopo aver puntato la sveglia, come tutte le sere im-maginò la cerimonia di laurea di Martha, poi la festa grandiosa che a-vrebbero dato per amici e parenti. Pensò che avrebbe indossato un bel completo blu, e si addormentò sorridendo.

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VENERDI ORE 00:04 Melissa aprì la porta. Era davvero bella, di una bellezza coinvolgente. Era struccata e aveva gli occhi un po’ gonfi, per la stanchezza e il sonno interrotto, ma anche così l’attrazione che esercitava su Aldo era incre-dibile. La sottoveste nera, di seta fine, non aveva la pretesa di nascon-dere alcunché. “Vuoi stare sulla porta tutta la notte?” Senza rispondere, Aldo la oltrepassò e andò a sedersi in soggiorno. “Serataccia, eh?” disse lei andando in cucina. Poco dopo appoggiò sul tavolo un vassoio con due tazze, un bricco fu-mante colmo di tisana e dei pasticcini. “È rilassante, ti farà bene” gli spiegò Melissa indicando l’infuso. Senza toccare niente Aldo continuò a guardare nel vuoto, in silenzio. “Perché non vuoi dirmi cos’hai?” gli domandò lei dopo altri minuti di silenzio. “Va bene, ho capito” aggiunse infine, vinta. Lo prese per mano e lo trascinò in camera, vincendo subito la sua debo-le resistenza. Gli tolse la camicia, poi lo spinse sul letto e lo fece voltare di schiena, gliela cosparse con un olio intensamente profumato. Respirò a fondo e cominciò massaggiandogli lentamente il collo e le spalle, lui chiuse gli occhi e si lasciò andare. “Va un po’ meglio adesso?” gli chiese Melissa dopo che ebbero finito. “Si, credo di sì.” “È carino quel bracciale.” “Me l’ha regalato una zingara.” Melissa provò una fitta di gelosia. Poi notò la croce, appesa al collo a mezzo di un cordino nero. “E quella?” “Me l’ha data un prete prima di portarsi via la zingara.” “Mi prendi in giro?” “È andata proprio così” rispose Aldo guardando il soffitto con le brac-cia incrociate dietro la testa. “Cos’è che ti fa stare tanto male? Non ti ho mai visto così.” “Sono stufo di tutto questo. Vorrei cambiare. Sparire. Andare lontano e ricominciare da capo. Ma temo che il passato mi perseguiterà per sem-pre, che non troverò mai pace. Mi sono sporcato troppo.” Melissa rimase per un po’ in silenzio, il pensiero di lui che spariva dalla circolazione la fece sentire abbandonata.

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“Andiamo via. Partiamo insieme!” disse con impeto, con gli occhi lu-minosi di speranza. “Anch’io sono stanca di questa vita. Non abbiamo niente, che ci tenga qui. Non abbiamo problemi di denaro, potremmo stare bene” aggiunse carezzandogli il profilo con l’indice. “Magari potremmo anche fare un figlio” rispose lui sottovoce dopo un po’. “Perché no? Siamo ancora giovani, magari in futuro... “ replicò la don-na dopo averlo immaginato. “Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Ti metti a fare la roman-tica?” la rimproverò aspramente lui scostandole la mano con un gesto brusco. Lei sbarrò gli occhi in un’espressione di stupore, subito dopo li abbassò delusa. “Io...” “Tu che cosa? Che ne sai di me? Pensi di sapere cosa voglio? E poi, vorresti cancellare quello che siamo? Come credi che sia possibile? Tu e io, ma come puoi pensarlo?” Si vestì in fretta e lasciò delle banconote stropicciate sul comodino. Lei li raccolse e lo seguì correndo fino alle scale, gliele lanciò dietro con rabbia. “Ti odio. Non farti vedere mai più” sussurrò più forte che poteva, e in-tanto piangeva. VENERDI ORE 08:00 Il grande disco arancione del sole, velato di foschia, tentava vanamente di amplificare la propria vitalità specchiandosi sull’ammasso di lamiere arrugginite. I quattro erano stati puntuali come sempre. Immersi nell’irreale silenzio mattutino smisero l’abbigliamento da ciclista e lo riposero dentro alcune borse, poi nascosero le biciclette e le borse die-tro un cumulo di auto accatastate. Cominciarono a rivestirsi, infreddoliti e nervosi, il solo rumore che si udiva era lo scricchiolio dell’erba brinata sotto i loro piedi. Ognuno conosceva i propri compiti a memoria, si erano scambiati solo qualche raro cenno d’intesa. Aldo notò che il Topo lo stava guardando in modo strano, forse con astio. “Non fidarti di nessuno” ricordò. Istintivamente portò la mano alla tasca della giacca, il contatto col metallo dell’arma lo rassicurò. Il Gatto intanto aveva arrotolato il telone mimetico che ricopriva il Pick-up, lo

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tolato il telone mimetico che ricopriva il Pick-up, lo buttò sul sedile po-steriore e accese il motore. VENERDI ORE 08:36 Il trillo improvviso del telefono fece sobbalzare Luca. Ancora insonno-lito, interruppe i suoi esercizi addominali quotidiani e andò a rispondere di malavoglia. “La banda del Lupo” scandì lentamente una voce di donna quando alzò il ricevitore. “Chi sei? Dove? A che ore?” domandò Luca. A quelle parole era di colpo tornato in possesso di tutte le sue facoltà. “Un ufficio postale.” “Quale?” “Non so dirti altro, mi spiace. Datti da fare.” “Aspetta, non riattaccare. Chi sei?” “Stai già perdendo tempo.” Luca sentì il “click” e chinò il capo perplesso, all’altro capo del telefo-no la zingara sorrise, convinta di aver fatto breccia. Il ragazzo rimase per un po’ immobile davanti allo specchio con la cornetta in mano, nel tentativo di riflettere. I suoi colleghi conoscevano la sua ossessione che aveva per la banda del Lupo, e lui ne era consapevole. Per uno ambizio-so come lui era un obiettivo di prestigio, per di più da quando avevano assassinato Nardi, il suo compagno, era diventata una questione perso-nale, una vera e propria malattia. Essendo diffidente per natura si disse che forse era soltanto uno scherzo di cattivo gusto, ma mentre ancora cercava di ragionarci sopra l’istinto lo vinse. “Al diavolo” disse a voce alta, bandì ogni esitazione e corse a vestirsi. VENERDI ORE 09:00 Il Capo era un uomo corpulento di mezza età e stava armeggiando at-torno a un fornello da campeggio, rintanato nello stanzino privato adia-cente al suo ufficio. Aveva la cravatta allentata e la camicia sottonata, e

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guardava con adorazione la moka che aveva appena cominciato a fi-schiare. L’odore del caffè nero e caldo gli aveva fatto venire l’acquolina in bocca, avrebbe rinunciato a tutto ma non al suo caffè. Niente a che vedere con quello dei distributori automatici. Si servì e si avviò verso la scrivania con la tazzina piena fino al bordo, guardandola fissa per evitare di rovesciarla. Stava pregustando il piacere per quel piccolo rito quotidiano, e per quel sapore forte e amaro che gli avrebbe dato la forza per affrontare la giornata, quando vide un paio di piedi ol-tre il bordo della tazzina. “Dio, fa’ che non sia lui” implorò, ma in fon-do non osava sperarci perché sapeva che era l’unico che aveva tanto co-raggio da interrompere quel suo momento sacro. Poggiò con cura la tazzina sulla scrivania e risalì lentamente con lo sguardo lungo le gam-be e il tronco, e non ebbe bisogno di arrivare fino alla testa. Era proprio lui, il caffè si sarebbe freddato anche stavolta. Allontanò la tazzina con un gesto stizzito e si lasciò cadere rassegnato in poltrona, le braccia penzoloni oltre i braccioli. Luca era in piedi davanti a lui, immobile, e aveva un’espressione angosciata. “Che ti è successo?” domandò il Capo. “Un’emergenza.” “Cioè?” “Mi ha appena chiamato un informatore per la Banda del Lu-po” decise di mentire. “Ebbene?” “Colpiranno questa mattina.” “Mhhh... ti ha anche detto dove?” domandò il Capo grattandosi la testa dubbioso. “Un ufficio postale.” “Ti ha anche detto quale?” Luca scosse la testa. “Allora credo che sia un po’ tardi. Anche se l’informazione fosse esatta dovremmo mandare fuori sette o otto pattuglie a presidiare tutti gli uffi-ci postali, e sai bene che non è possibile, perché stamani c’è quella ma-nifestazione e dovremo essere presenti in forze.” “Ma si tratta della la Banda del Lupo... agiranno stamani proprio perché sanno della manifestazione” obiettò Luca deciso. “Luca, lo so che vorresti prenderli tutti tu, i delinquenti” gli disse il Capo in tono paterno, “e piacerebbe anche a me, ma abbiamo delle priorità da rispettare. Non possiamo mandare in giro metà del nostro organico in giro così, a caso.”

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“Ma se ci lavoriamo sopra possiamo restringere in fretta il campo delle possibilità, basterebbe... “ stava dicendo Luca, ma il Capo gli fece cen-no di fare silenzio. “Non sappiamo neanche se la rapina ci sarà davvero, e se ci sarà po-trebbe anche essere già in corso. Potrebbe addirittura essere già finita.” “Sono quelli che hanno ammazzato Nardi!” rimarcò l’altro dopo un lungo silenzio, guardandolo con occhi che mandavano lampi di rabbia dal viso scavato. “Non c’è bisogno che me lo ricordi!” rispose seccato il suo superiore. Poi rimase assorto per qualche istante a osservare malinconico il filo di fumo sempre più sottile che si levava dalla tazzina, cercando di carpirne almeno l’aroma sempre meno corposo. Sbuffò. “Tutto ciò che posso fare è darti una giornata di permesso, comincia subito a studiare la situazione in via non ufficiale. Se lavori di testa, an-ziché d’impulso come fai sempre, potrebbe venirti qualche buona idea. Con un po’ di fortuna potremmo coglierli di sorpresa, quei bastardi.” Luca serrò la mascella e strinse i pugni, il suo volto si illuminò. “Grazie Capo, mi metto subito al lavoro.” “Luca” lo richiamò il Capo. Il ragazzo si fermò sulla soglia e si voltò. “Primo: di questa storia io non ne so niente. Secondo: sono pericolosi. Ti conosco come le mie tasche e capisco la tua sete di vendetta... vedi di non fare sciocchezze.” Luca annuì e corse al suo ufficio, buttò la giacca su una sedia poi prese il telefono e compose un interno. “Mauro, sono Luca. Ho bisogno di sapere subito quali sono gli uffici postali che oggi riceveranno i soldi delle pensioni.” “Subito è impossibile. Perché vuoi saperlo?” “Ti concedo cinque minuti” ribatté Luca senza aggiungere altro. Riat-taccò. In attesa della risposta si piazzò davanti alla carta della città appesa alla parete e cominciò a studiarla con la mente che viaggiava a mille, dopo pochi minuti Mauro lo richiamò e gli disse ciò che voleva sapere. “Questo è da escludere perché è troppo vicino al centro, e c’è la mani-festazione. Questo è troppo vicino alle banche, è ben sorvegliato. Que-sto non è servito bene dalle strade per la fuga... ci sono rimasti solo questi due.” Chiamò il suo superiore. “Capo, ho controllato. Le agenzie a rischio sono due.”

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“Capito. Vai a dare un’occhiata, ma senza esporti. Farò il possibile per tenere pronta una pattuglia, se li vedi, chiama e aspetta i rinforzi.” “Ok, vado” rispose Luca al vivavoce mentre indossava il corpetto anti-proiettile. VENERDI ORE 09:39 Il pick-up verde scuro dai vetri fumé avanzava a passo d’uomo, oltre-passò l’ufficio postale e si fermò una decina di metri più avanti dell’ingresso, in una piazzola adibita a parcheggio. “Ok ragazzi, ci siamo. È tutto a posto?” domandò Aldo in tono deciso. Gli altri annuirono. “Gatto, tieniti pronto. La strada la ricordi?” “L’ho fatta decine di volte.” “E se qualcosa andasse storto?” “Ho preparato un paio di percorsi alternativi.” “Bene. Ora entriamo, prendiamo il denaro, e ce ne andiamo. Abbiamo sette minuti, non un secondo di più. Niente perdite di tempo e soprattut-to niente cazzate inutili, o stavolta ti lascio qui! Ci siamo capiti?” con-cluse guardando fisso negli occhi il Topo, che distolse lo sguardo e fece un grugnito d’assenso. Indossarono le maschere e si incamminarono. VENERDI ORE 09:41 Luca stava filando a tutta velocità verso l’Agenzia Cinque, alla periferia sud della città. Era quasi arrivato quando lo colse un dubbio, prese il telefonino e richiamò Mauro. “Sono ancora io: non mi hai detto gli orari delle consegne.” “Non me li hai chiesti. Aspetta che cerco il foglio nel cestino... ecco qua: Agenzia Cinque alle ore sedici.” “E la Sette?” “Vediamo... Agenzia Sette ore sette e trenta.” “Maledizione!” esclamò Luca lasciando cadere il telefonino.

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Prese la paletta dal vano portaoggetti e la tese fuori dal finestrino, poi effettuò un’improvvisa inversione di marcia. Gli automobilisti frenaro-no a secco e presero a inveirgli contro, lui completò la manovra saltan-do su uno spartitraffico e schiacciò a tavoletta. VENERDI ORE 09:41 I tre entrarono decisi, con le armi bene in vista. “Questa non è un’esercitazione! State tutti buoni e nessuno si farà del male. Avanti, radunatevi tutti da quella parte con la faccia al muro” dis-se il Lupo in tono rassicurante ma deciso. I pochi presenti, qualche anziano e un paio di casalinghe, obbedirono senza fiatare. Il Cane e il Topo scavalcarono il banco con un balzo e ri-caddero armi in pugno a fianco alle due impiegate. “Che nessuno provi a premere il famoso bottoncino rosso, mi sono spiegato?” sussurrò il Topo nell’orecchio della cassiera più anziana, po-sandole una mano su una spalla. Lei inghiottì e fece cenno di sì con la testa. “Non ho sentito la risposta!” gridò lui più forte strattonandola per i ca-pelli. “Ho capito signore” rispose l’anziana donna alzandosi dalla sedia. “Avanti, apri la cassaforte e riempi queste, e non fare scherzi.” Le gettò ai piedi due sacchi di tela e la spinse con forza verso la cassa-forte, facendola cadere in ginocchio. “E fai in fretta!” le gridò con tutto il fiato che aveva. La donna si rialzò e camminò con passo malfermo fino all’armadio blindato. Il Lupo era preoccupato, come aveva temuto anche stavolta il Topo era completamente fuori di sé. Aveva gli occhi iniettati di sangue ed era scosso da un tremito, e lui aveva deciso di affiancargli il Cane anziché il Gatto perché era convinto che questi avrebbe saputo tenerlo a freno. Approfittando di questo momento di distrazione del Lupo, un uomo sui settanta con una coppola di velluto in testa aveva cominciato a strisciare lungo il muro. Era rischioso perché avrebbe dovuto passar-gli molto vicino, ma l’uscita era appena a due passi, e lui aveva il nipo-tino a cavalluccio sulle spalle e voleva a tutti i costi portarlo via di lì.

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VENERDI ORE 09:47 L’auto di Luca abbandonò la curva e si schiacciò sul rettilineo sban-dando, arrivato nei pressi dell’obiettivo rallentò bruscamente e si impo-se di assumere un’andatura normale, finché giunto in prossimità dell’Agenzia si fermò. Notò subito il furgone dai vetri fumé posteggiato poco più avanti, aveva il muso puntato nella sua direzione e la cosa non prometteva niente di buono. Si accucciò facendo finta di cercare qual-cosa e prese la trasmittente. “Sono Forti, passami il capo” disse al centralino, “è urgente.” “Sono io. Ci sono novità?” “Capo, c’è un fuoristrada sospetto posteggiato davanti all’Agenzia nu-mero Sette. C’è bisogno di un paio di auto perché la strada ha diversi sbocchi.” “Va bene, te le mando subito. Mi raccomando, aspetta che escano. Cer-ca di stargli alle costole ma senza farti notare, voglio solo sapere quale direzione prendono. Forse riesco a mandare anche un elicottero.” “Ok capo, aspetterò in macchina.” “Non esporti, hai capito? Se si accorgono di qualcosa ci sfuggiranno anche stavolta.” Luca prese un parasole da sotto il sedile e lo applicò al parabrezza. Tol-se la sicura alla pistola e fece scorrere il carrello, il proiettile entrò in canna con uno scatto secco. La impugnò e infilò la mano nella tasca del giaccone, poi uscì dall’auto. Attraversò la strada e si portò davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento. Sfruttando i riflessi sul vetro del negozio si guardò intorno, per controllare la situazione. Stava ten-tando di ricostruire mentalmente la mappa della zona, per capire quale direzione avrebbero potuto prendere per la fuga, quando sentendosi os-servato si voltò e vide in lontananza una zingara. Aveva lo sguardo fis-so nella sua direzione, e con un lieve cenno della testa gli indicò l’interno dell’ufficio postale. Pensò al Capo e si morse le labbra, poi si strinse nelle spalle e si avviò con passo deciso.

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VENERDI ORE 09:49 L’impiegata aveva quasi finito di riempire la seconda sacca. “Muovetevi, siamo quasi fuori tempo” gridò Aldo dopo aver guardato il cronometro che aveva al polso. I numeri digitali si accavallavano uno sull’altro, impetuosi. Il count-down arrivò a zero e l’orologio cominciò a suonare. “Abbiamo quasi finito” rispose il Topo. “Lascia perdere gli spiccioli, prendi quello che c’è e vieni via.” “Ti ho detto che abbiamo quasi finito” insisté l’altro. Con movimenti lentissimi il vecchio era riuscito a passare quasi com-pletamente dietro al Lupo. Pregò che questi non si voltasse proprio in quel momento, ancora pochi centimetri e sarebbe stato fuori. Al bambi-no seduto sulle sue spalle sembrava tutto un gioco. Non aveva paura, aveva visto quella scena tante volte in televisione e quella maschera da lupo gli piaceva un sacco. La voleva. Nell’istante stesso in cui il nonno aveva cominciato una specie di corsa per uscire, il bambino aveva al-lungato la mano e aveva afferrato la maschera per un orecchio, lascian-do Aldo a volto scoperto. Da quel momento in poi tutto si era svolto come al rallentatore. Aldo si era girato su sé stesso. “Fermo dove sei” aveva gridato sparando un colpo in aria. Il vecchio, spaventato, si era buttato all’indietro e aveva sbattuto contro il muro, era un miracolo se non era rovinato a terra insieme al bambino. Le donne avevano cominciato a strillare, terrorizzate, con le mani da-vanti alla bocca. “Ti prego, non fare del male a mio nipote”, lo aveva supplicato il vec-chio. La situazione stava precipitando. L’impiegata più giovane, approfittan-do di quel diversivo, aveva tentato di appropriarsi della pistola che il Cane stringeva in mano. Un pugno allo stomaco l’aveva mandata a sbattere la schiena contro il muro e adesso sedeva senza fiato, con gli occhi socchiusi per il dolore. Aldo aveva alzato la pistola in direzione della testa del bambino. “No... per favore, non sparare!” gridò il nonno.

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VENERDI ORE 09:50 Luca attraversò di nuovo e proseguì dritto fino all’ingresso dell’ufficio postale, attraverso la vetrata vide un uomo tendere il braccio armato verso un bambino. Impugnò la pistola ed entrò come una furia, puntan-dogliela contro. “Getta l’arma” intimò al Lupo in tono risoluto. Un attimo dopo per lui tutto si fece buio. Aldo premette il grilletto. Le donne si portarono di nuovo le mani alla bocca, con gli occhi sbarrati. Le cassiere gridarono. Il bambino rideva divertito dietro la maschera da Lupo. Il vecchio piangeva. Il proiettile passò di un soffio sopra la testa del piccolo e fece esplodere la telecamera a circuito chiuso. “Il nastro. Devo recuperare il nastro” esclamò Aldo. “Non c’è tempo. A momenti saranno qui” disse il Gatto. “Dobbiamo filare di brutto. Avete capito? Ho detto che dobbiamo anda-re via” ribadì urlando e tirando per la manica il braccio del compagno, vedendo che non riusciva a smuoverlo mollò la presa e corse verso l’uscita. Come se si fossero svegliati improvvisamente da un butto sogno i tre capirono le parole del Gatto. Afferrarono le borse piene di soldi e corse-ro fuori, saltarono sul pick-up, che sfrecciò via con un prolungato stri-dore di gomme. Luca riaprì gli occhi a fatica, le facce che si sporgevano su di lui danza-vano in un girotondo. Il sangue gli usciva copioso da una ferita alla tempia, prodotta dal calcio della pistola del Gatto. Si alzò a fatica e uscì più in fretta che poteva, strascicando i piedi sostenuto da un paio di per-sone. In lontananza udì il rumore delle sirene, ma il furgone stava già svoltando e capì che li avrebbe persi anche questa volta. Si sedette al volante della propria auto e accese il motore. “Ma cosa vuole fare? Fermatelo, non vedete che è ferito?” gridò una donna parandosi davanti alla sua auto. Luca diede una sonora sgasata, la donna si buttò a terra di lato per non essere investita e lui partì. Dopo pochi metri perse i sensi e finì la corsa contro un lampione.

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VENERDI ORE 09:58 Il Gatto guidava veloce lungo la stretta strada di campagna evitando le buche come poteva, un fine strato di fanghiglia prodotto dalla pioggia del giorno prima faceva sbandare il furgone. I quattro cercavano di op-porsi ai sobbalzi, in silenzio, ognuno perso dietro i propri pensieri. ”Un elicottero” esclamò d’improvviso il Cane che aveva avvertito il ca-ratteristico rumore sorde delle pale che mulinano nell’aria. Il Gatto portò il mezzo in un oliveto e si fermò in un punto dove gli al-beri erano alti, folti, e molto vicini tra loro. “Qui non ci vedranno.” “Ora dovremo aspettare qui che faccia buio!” commentò il Topo in tono seccato. “No, non ci conviene! Più aspettiamo, più daremo loro il tempo di or-ganizzarsi. Appena saremo fuori dalla visuale dell’elicottero dobbiamo ci rimetteremo in movimento” replicò il Gatto. Attraversarono un campo di grano che sembrava infinito e arrivarono al fiumiciattolo, coprirono il fuoristrada con il telone mimetico e lo ab-bandonarono sotto un ponticello, lasciandovi dentro le maschere e tutto ciò che non serviva più. “Prendete le borse e andiamo, dobbiamo fare in fretta” li esortò Aldo che aveva già cominciato ad affrontare la scarpata per risalire verso l’autogrill. “Ehy, dove stai andando? Tu non puoi venire, sei bruciato” rispose il Topo. “Sono stati attimi, ho distrutto subito la telecamera” disse il Lupo. “Non possiamo lasciarlo qui, la città è troppo lontana” intervenne il Cane. “Non c’è mai una sola telecamera. E poi non sei ferito, impiegherai del tempo ma puoi farcela benissimo. Se riconoscono te, siamo fottuti tutti quanti.” “La città è troppo lontana. Dobbiamo portarlo con noi” insisté Cane. Aldo e il Topo si scrutarono a lungo in un silenzio di gelo, il Topo ave-va in mano la pistola. La teneva bassa, col braccio disteso lungo il fian-co, ma carezzava il grilletto con fare nervoso. “Ha ragione lui. Ci rivedremo per dividere quando le acque si saranno calmate” convenne Aldo, lasciò cadere la propria borsa e si avviò per i campi, e gli altri presero ad arrampicarsi verso l’Autogrill.

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VENERDI ORE 17:46 Aldo arrivò a casa che aveva appena fatto buio, dopo una camminata di molti chilometri. Aveva fame e freddo, ed era esausto. Chiuse a chiave la porta e abbassò le tapparelle, poi andò in bagno e dopo aver messo il tappo alla vasca e averci versato mezzo flacone di bagnoschiuma aprì il rubinetto dell’acqua calda. Tornò in sala e con gesti meccanici, di-stante da sé stesso, pulì la pistola e la ripose nel nascondiglio; la stessa cosa fece coi vestiti dopo averli impacchettati per bene, riproponendosi di gettarli via il prima possibile. Si immerse nella vasca da bagno colma di schiuma caldissima, era consapevole che doveva prendere delle deci-sioni in fretta ma non riusciva a riflettere. Rendendosi conto di essere stato sfiorato dalla morte, e gli venne di pensare alla zingara. In quei momenti di caos totale, durante i quali aveva perso il controllo della si-tuazione, aveva sentito un’ombra pesante calargli addosso e avvolgerlo completamente a rabbuiare tutto. Quando con la coda dell’occhio aveva visto entrare Luca si era sentito perduto, non che potessero definirsi a-mici, ma non gli avrebbe mai sparato. Chissà se lo aveva riconosciuto, coi capelli rasati e senza barba? Forse aveva avuto un barlume, ma troppo breve. Non sapeva cosa sarebbe accaduto se il Gatto non lo a-vesse seguito, ma per fortuna era stato veloce come un fulmine. In ogni caso, adesso aveva un grave problema da risolvere. Sicuramente la po-lizia disponeva già di un suo identikit e gli avrebbe dato la caccia. Cosa doveva fare? Partire lo stesso? Riprendere la solita identità e restare? Fare finta che l’impegno di lavoro fosse saltato e restare avrebbe au-mentato le possibilità di essere riconosciuto, ma a quel punto sparire sarebbe stata un’ammissione di colpevolezza. Se qualcuno, notando una somiglianza, avesse deciso di indagare un po’ più a fondo, avrebbe sco-perto tutte le sue menzogne. Diede una manata stizzita all’acqua, fa-cendo svolazzare la schiuma per tutta la stanza. VENERDI ORE 17:50 Luca aveva un feroce mal di testa e dolori sparsi in tutto il corpo. Con-clusi tutti gli accertamenti gli infermieri lo trasferirono con cautela dal-la barella al letto, poi lasciarono la stanza. Teneva gli occhi chiusi per-ché aveva la sensazione che la luce al neon, benché tenue, gli arrivasse

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direttamente nel cervello, ma avvicinarsi dei passi e li aprì. Quando riu-scì a focalizzare le figure al suo capezzale lesse la disapprovazione nei loro occhi, e di fronte a quei muti rimproveri sentì la rabbia divampargli dentro. Ciò che più gli bruciava era farsi vedere in quelle condizioni, coi segni della sconfitta ben visibili sulla faccia e sul corpo. Lui aveva soltanto cercato di fare il proprio dovere, possibile che né il suo supe-riore, né la sua donna riuscissero a capirlo? Erano lì, pronti a rimprove-rarlo, eppure il Capo era un poliziotto, proprio come lui... “Hai di nuovo rischiato la vita stupidamente!” esordì guardandolo acci-gliato, senza preamboli. Senza neanche domandargli come stava. “E non solo: hai messo in pericolo anche altre persone. Hai distrutto uno dei nostri mezzi. Hai fatto uscire un elicottero a vuoto, con quello che costa. Il questore mi ha fatto una ramanzina che non finiva più. E tutto questo è successo perché ti credi un maledetto superman”, disse alzando improvvisamente la voce e dando un pugno nel muro “e devi sempre decidere di testa tua. Ti aspetto in ufficio non appena sarai in grado di muoverti.” Senza aggiungere altro girò i tacchi e se ne andò. Rabbioso, Luca strin-se forte il lenzuolo. “E tu di cosa sei venuta ad accusarmi?” chiese scattando in avanti verso Francesca senza lasciarle il tempo di parlare. Una fitta alle costole lo costrinse a calmarsi immediatamente, si distese con un gemito. Francesca si asciugò una lacrima. “Quando mi hanno telefonato ho avuto paura che tu fossi morto... per-ché sei così testardo? Bastava che tu facessi come ti aveva detto il Ca-po, li avresti presi. A quest’ora la tua foto sarebbe sui giornali, con tutti gli onori. È questo ciò che vuoi, no?” “Non farmi la predica, lo sai che lo odio.” “Io ti voglio bene, ma non ce la faccio più a stare in questa situazione” continuò lei, “ogni volta che vai al lavoro non so quando tornerai, come tornerai, e a volte non so neanche se tornerai! E questo solo perché sei un egoista, perché vuoi coprirti di gloria e non te ne importa niente di quelli che hai intorno. Di chi ti ama.” “Ti ho detto di non farmi la predica. Io cerco solo di fare il mio lavoro, di prendere i delinquenti. Mi pagano per questo, per difendere anche te che te ne stai rinchiusa tutto il giorno fuori dal mondo, in una baracca che cade a pezzi. Hai capito perché lo faccio? Tu, invece, che piangi e ti lamenti, che cosa fai per me e per gli altri?”

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“Cosa faccio io? Io cerco di rendere migliori quei ragazzi” rispose ri-sentita sporgendosi su di lui e battendosi una mano sul petto. “Cerco di fargli credere che avranno un futuro, delle possibilità. E nel caso tu non lo sapessi, è molto più difficile confrontarsi giorno per giorno con la vita vera che andare in giro a giocare a guardie e ladri.” “E’ tutto tempo perso!” ribatté acido lui. “Sono figli di delinquenti e diventeranno delinquenti. Scommetterei la testa che passeranno tutti dal mio ufficio, prima o poi.” “Sei cattivo” replicò lei sprezzante, “adesso scarichi il peso delle tue sconfitte addosso agli altri. Non ti riconosco più...” Rendendosi conto che stava per piangere, uscì. “Francesca... dove vai.... Francesca.... accidenti!” gridò Luca sbattendo entrambi i palmi delle mani sul letto, procurandosi un’ennesima ondata di dolore. Chiuse gli occhi in attesa di stare un po’ meglio e nell’attesa riprese a scavare nella propria mente nel tentativo di ricordare il volto del rapina-tore. L’aveva appena intravisto, di sbieco, e sì arrovellò a lungo per ca-pire chi gli ricordava. Era quasi convinto di conoscerlo ma non riusciva a trovare un indizio valido, una faccia che venisse fuori da quella somi-glianza. Si scosse, sapeva che standosene disteso a letto a pensare non avrebbe certo risolto il caso. “Infermiera... infermiera” gridò più volte suonando il campanello. La giovane donna si precipitò nella stanza, quando vide che almeno all’apparenza non c’era niente che non andasse si mise le mani sui fian-chi e lo interrogò con lo sguardo. “Devo uscire di qui. Devo andarmene subito.” “Mi spiace, ma il dottore ha detto che deve stare in osservazione. Ha preso una brutta botta in testa e dobbiamo ancora sottoporlo alla Tac.” “Ho detto che devo andarmene subito. Se non mi fate firmare quei fo-gli, me ne vado in pigiama” insisté Luca. “Le chiamo il dottore” rispose rassegnata lei vedendo che era inutile di-scutere. FINE ANTEPRIMACONTINUA...