Serra, Disobbedienza civile

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1 Disobbedienza civile di Teresa Serra 1. Introduzione Il fenomeno della disobbedienza civile ha avuto una sua stagione fortunata soprattutto nell'esperienza politica e giuridica americana degli anni sessanta, sì che Hannah Arendt poteva rilevare come, pur essendo un fenomeno mondiale, la disobbedienza civile restasse, «per sua natura e origine, prettamente americana», e come «in nessun altro paese e in nessuna altra lingua esistesse un termine per designarla, e, infine, come il sistema americano fosse il solo ad avere almeno una possibilità di farvi fronte, conformemente, forse, non alle leggi in vigore, ma allo spirito delle sue istituzioni giuridiche» 1 . L’esperienza americana, storicamente basata su una tradizione democratica in cui l’associazionismo e il federalismo assumono ampio respiro e tendono a unire pur nel rispetto delle differenze, è certamente diversa dalle esperienze dell’Europa occidentale. E in quel contesto il fenomeno è stato interpretato e analizzato da una schiera nutrita di pensatori che ne hanno delineato le caratteristiche, prospettandone contemporaneamente una teoria che tenesse conto di alcuni parametri ideali da definire, al 1 H. Arendt, La disobbedienza civile, trad. it. a cura di T. Serra, Giuffré, Milano 1985, p. 68. 1

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Disobbedienza civiledi Teresa Serra

1. Introduzione

Il fenomeno della disobbedienza civile ha avuto una sua stagione fortunata soprattutto

nell'esperienza politica e giuridica americana degli anni sessanta, sì che Hannah Arendt

poteva rilevare come, pur essendo un fenomeno mondiale, la disobbedienza civile restasse,

«per sua natura e origine, prettamente americana», e come «in nessun altro paese e in

nessuna altra lingua esistesse un termine per designarla, e, infine, come il sistema

americano fosse il solo ad avere almeno una possibilità di farvi fronte, conformemente,

forse, non alle leggi in vigore, ma allo spirito delle sue istituzioni giuridiche»1.

L’esperienza americana, storicamente basata su una tradizione democratica in cui

l’associazionismo e il federalismo assumono ampio respiro e tendono a unire pur nel

rispetto delle differenze, è certamente diversa dalle esperienze dell’Europa occidentale. E

in quel contesto il fenomeno è stato interpretato e analizzato da una schiera nutrita di

pensatori che ne hanno delineato le caratteristiche, prospettandone contemporaneamente

una teoria che tenesse conto di alcuni parametri ideali da definire, al fine di evitare che per

ogni atto di disattenzione della legge si potesse invocare il ricorso alla disobbedienza

civile2. Sono stati così individuati quei caratteri distintivi che ne impediscono

l’assimilazione alla violazione comune della legge, alla obiezione di coscienza, alla

1 H. Arendt, La disobbedienza civile, trad. it. a cura di T. Serra, Giuffré, Milano 1985, p. 68.2 Oltre al sopra citato saggio di H. Arendt, mi limito a ricordare qui gli scritti più noti sul tema della disobbedienza civile: H. Bedau, On civil disobedience, in “Journal of Philosophy”, 1961; J. Murphy, Civil disobedience and violence, Wadsworth Pub., Belmont, Cal. 1961; C. Cohen, The essence and ethics of civil disobedience, in “Nation”, marzo 1964, 16; H. Freeman, Civil disobedience, California 1966; A. Fortas, Concerning dissent and civil disobedience, New American Library, New York 1968; H. Bedau (ed.), Civil disobedience. Theory and practice, Pegasus, New York 1969; C. Bay, Civil disobedience, in The International Encyclopaedia of the social sciences, II, 1970, p. 483; C. Cohen, Civil disobedience, Columbia University Press, New York 1971; R. T. Hall, Legal toleration of civil disobedience, in “Ethics”, 1971; R. Martin, Civil disobedience, in “Ethics”, 1970, p. 129; F. Neumann, Sui limiti di una disobbedienza giustificata, in Id., Lo stato democratico e lo stato autoritario, Il Mulino, Bologna 1973; P. Singer, Democracy and disobedience, Clarendon Press, Oxford 1974; E. Rostow (ed.) Is law dead?, Simon and Schuster, New York 1971; A. D. Woozley, Civil disobedience and punishment, in “Ethics”, 1976, 4; E. Rostow, The rightful limits of freedom in a liberal democratic State: of civil disobedience, in Id., The ideal in law, University of Chicago Press, Chicago, 1978; J. Rawls, La giustificazione della disobbedienza civile, in Id., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982; R. R. Flatman, Rights, utility and civil disobedience, in “Nomos”, 1982, pp. 194-209; C. Cosi, Saggio sulla disobbedienza civile, Giuffré, Milano 1984; V. Haksar, Civil disobedience, threats and offers: Gandhi and Rawls, Oxford University Press, Dehli 1986; G. Pontara, Sulla disobbedienza civile, in “Teoria politica”, 1991, pp. 29-45.

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resistenza, alla ribellione e alla rivoluzione.

Senza approfondire questo punto, basti qui ricordare che la obiezione di coscienza

riguarda il rispetto di determinati specifici sentimenti personali, anche condivisi con altri,

ma che non toccano il livello politico bensì solo l’ambito morale e religioso; che la

ribellione e la rivoluzione, così come il diritto di resistenza, si inquadrano, ciascuna con le

sue peculiarità, in un atteggiamento di rifiuto dell’organizzazione esistente.

Eppure la teorizzazione della disobbedienza civile fin qui proposta, e a cui io stessa

non mi sono sottratta3, sembra essere legata a un modo d’essere della politica che ha perso

la sua centralità e che diventa sempre più anacronistico, in quanto è svolta con una

attenzione particolare al rapporto cittadino-Stato, mentre il fenomeno sta assumendo oggi,

anche in relazione alla globalizzazione - basti pensare al popolo di Seattle -, una

dimensione trasversale che va oltre i confini della statualità. Occorre, infatti, riflettere sul

fatto che i centri decisionali della politica, oltre ad avere esautorato i centri istituzionali a

livello interno, vanno sempre più situandosi fuori e al di là dei confini statali. E se pure

ogni singolo Stato in qualche modo vi partecipa attraverso una concertazione che travalica i

confini nazionali, nella realtà il decision making trova i suoi luoghi al di fuori di quelli

tradizionalmente e istituzionalmente a ciò deputati, e quindi richiede alla stessa

disobbedienza civile una transnazionalità che le fa assumere aspetti nuovi che impongono

una riflessione più approfondita con riferimento almeno a due novità: l’ulteriore difficoltà

sul piano degli ordinamenti democratici di uno spostamento del centro decisionale è

accompagnata, infatti, dall’intervento di quel luogo di riunione o aggregazione che può

essere considerato il villaggio virtuale despazializzato della rete. La despazializzazione

modifica senso e finalità della disobbedienza civile ampliandola a fenomeno globale -

quindi non rivolto solo contro le politiche o le leggi di un determinato ordinamento -,

offrendole, contemporaneamente, strumenti più potenti di ascolto, ma anche esponendola a

rischi di strumentalizzazione potenzialmente non democratica - dal momento che la

transnazionalità del fenomeno è resa possibile da sistemi di comunicazione più raffinati, ma

non sempre suscettibili di essere controllati per quanto riguarda la loro rispondenza alle

caratteristiche che la disobbedienza civile deve avere - e ai rischi della riduzione a

fenomeno di bavardage elettronico. L’intervento della globalizzazione, in qualche modo,

3 T. Serra, La disobbedienza civile. Una risposta alla crisi della democrazia?, Giappichelli, Torino 2000.

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così come modifica i contorni della politica, modifica anche i contorni della

disobbedienza, dimostrando, se pure ve ne fosse stato bisogno, che essa resta un momento

fondamentale della lotta per il diritto, da far valere proprio contro la prevaricazione dei

poteri reali, ovunque essi si concentrino.

Con l’atto di disobbedienza civile, nel suo significato ormai assodato, si intende

ribadire e rafforzare il proprio consenso all’ordinamento nel suo insieme, ma si opera una

distinzione tra quel consenso generalizzato alla comunità, che implica un atteggiamento di

abituale accettazione, e quel consenso relativo ai singoli momenti della vita della comunità,

cioè relativo a un obbligo specifico di collaborazione alla vita della comunità, in cui rientra

anche l'obbligo di obbedire alle norme specifiche: la comunità acquista così un significato

particolare attraverso un fondamento consensuale che si rinnova quotidianamente, proprio

in virtù della possibilità del dissenso. Senza questa possibilità, infatti, l’obbedienza diventa

un conformarsi abitudinario e non una obbedienza consapevole, mentre, nel contesto

democratico, in tanto si può obbedire liberamente alla legge in quanto questa è espressione

di un volere comune e si caratterizza per la sua incorruttibilità. Nell’atto consapevole di

disobbedienza civile, la violazione della norma deve darsi per ragioni che non sono

riconducibili a interessi settoriali, bensì a fini e principi che si considerano prioritari e

fondanti lo stesso ordinamento. È chiaro che, in questo contesto, il riferimento a fini e

principi è fondamentale, ma è anche chiaro che esso resta collegato a un ambito chiuso in

cui la sovranità statale ha ancora una sua consistenza. Nel momento in cui lo Stato sovrano

perde questa sua consistenza e sempre più si modifica il suo ruolo sia verso l’interno che

verso l’esterno, la posizione del cittadino muta e la sua richiesta di partecipazione si amplia

alla partecipazione a una decisione politica che supera la sovranità nazionale. Il processo di

democratizzazione pretende la democratizzazione delle scelte politiche - vale a dire una

rappresentatività del volere della collettività o quanto meno una capacità di ascolto dei

punti di vista di larghe parti di essa - che avvengono al di fuori e al di sopra dello Stato e,

quindi, anche la disobbedienza civile si trasforma correlativamente alla trasformazione, o

crescita, dell'istanza democratica.

La disobbedienza civile è senz'altro una volontà di opposizione che non è dettata da

spinte particolaristiche, bensì da istanze di riappropriazione del mondo, nasce sulla base di

una opinione condivisa, una coscienza comune; essa non è rivolta contro la comunità in

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quanto tale e contro uno o più ordinamenti vigenti nel loro insieme, ma contro leggi

determinate e contro politiche specifiche che risultano contrarie al principio comunitario o

all'interesse generale o a un’ampia visione condivisa dei diritti dell’uomo. In questo senso,

essa risponde alla necessità di un concerto di opinioni che realizza un accordo comune,

conferisce valore alle opinioni di coloro che si uniscono, e tende a dimostrare, al di là del

caso specifico per cui si lotta, che la funzione costitutiva della comunità risiede

nell'esperienza dell'uomo e non nella potenza delle istituzioni, le quali traggono la loro

forza dal continuo consenso e dalla continua partecipazione dei primi.

Il darsi dell’istanza partecipativa è decisamente espressione del dinamismo della

società dei nostri tempi, ma anche della plasticità dei nostri tempi e quindi della necessità

che le trasformazioni non siano lasciate alla scelta di pochi, ma si realizzino attraverso una

partecipazione in senso ampio. In un ambito democratico i fini non possono essere definiti

da pochi che esprimono interessi particolari, bensì devono essere posti solo attraverso un

processo che dal basso sale verso l’alto, grazie a un confronto continuo facilitato dal

linguaggio comune. La pubblica opinione resta, così, momento fondamentale della vita

democratica, ma a volte il soggetto deve rafforzare la visibilità delle sue opinioni attraverso

atti di partecipazione negativa che diventano necessari per rendere reale la partecipazione

attiva. La disobbedienza civile, in questa ottica, se bene intesa, può riflettere l’esigenza di

recuperare una comunicazione sia in senso orizzontale che in senso verticale. Se sorge non

solo sulla base del rispetto democratico delle opinioni, ma anche della pretesa di far

rispettare le proprie opinioni, può essere in grado di superare il contrasto tra la razionalità

strumentale e la razionalità teleologicamente orientata.

[Essa] sembra situarsi in una gamma che la vede come forza partecipativa più forte dell’opinione pubblica e meno forte dell’opposizione politica, meno forte perché non istituzionalizzata e, forse, non suscettibile di esserlo; ma meno estesa dell’opinione pubblica, anche se su di essa influente, e più estesa dell’opposizione con la quale, però deve creare alleanze, meno drastica e dirompente della rivoluzione e della rivolta, che forme partecipative non sono in quanto escludono totalmente dal loro fine un qualunque mantenimento dell’ordine sociale e delle istituzioni esistenti4.

Se bene intesa, ove non si lasci irretire dalla particolarità di fini contro i quali invece deve

combattere, può essere non solo lo strumento per far prendere in considerazione opinioni

4 T. Serra, Il disagio del diritto, Giappichelli, Torino 1993, p. 205.

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condivise, ma anche uno strumento di educazione della società che spinge i singoli ad

assumersi le proprie responsabilità. Solo così, nata dalla logica dell’unione e del dialogo,

del coordinamento, dell’orizzontalità e della responsabilità, può far sviluppare la logica del

dialogo, del coordinamento, dell’orizzontalità e della responsabilità5.

Nelle società contemporanee, caratterizzate anche dal rischio della

defattualizzazione politica cui ha condotto la menzogna organizzata6, la disobbedienza

civile può essere anche un modo per smascherare in forma forte la menzogna

istituzionalizzata e la fuga dalla realtà propria dei nostri tempi. In tale contesto è anche

sensibilità verso il giuridico nel suo significato più alto e, come tale, può essere considerata

espressione della volontà dell’uomo di realizzare una democrazia radicale, di recuperare

alcuni credi fondamentali da non lasciare alla decidibilità del potere costituito e da

difendere con forza. Da cui il superamento di quelle posizioni nichilistiche che, alla fine,

assoggettano il singolo alla volontà del più forte, il superamento del cinismo e dello

scetticismo che lasciano il singolo in balia del nulla. La disobbedienza civile è, dunque, la

rivendicazione, in questo contesto, di una primazia della società come potere costituente sul

potere costituito, primazia di una società in cui ci si riconosce e che definisce la nostra

identità senza chiederci di identificarci con essa annullando la nostra soggettività.

In termini pratici, la disobbedienza civile comporta il riferimento ad alcuni valori

fondamentali. Si tratta sia dei valori propri di una comunità e di una tradizione culturale

circoscritta che definiscono l’identità di appartenenza a quella comunità, sia di valori e

principi fondamentali che vanno oltre questa comunità particolare e definiscono l’identità

dell’uomo come uomo. Comporta, quindi, la consapevolezza di una identità di uomo che

fonda e rispetta contemporaneamente l’identità particolare; e l’impegno dell’uomo è anche

quello di far valere l’identità particolare in un quadro di rispetto dell’identità generale e

l’identità generale come parametro per misurare la validità delle singole realizzazioni

all’interno dell’identità particolare. Di far appello alla sua identità di uomo contro ogni

5 Come ricorda Cosi (Saggio sulla disobbedienza civile, cit., p. 271), vi potrebbe essere anche una funzione educativa della disobbedienza civile: «sapere che essa esiste, e che esistono individui che sanno usarla (i cui atti sarebbero inevitabilmente pubblici ed esemplari) credo che avrebbe il potere di diffondere e fare crescere la consapevolezza di quali siano i veri obblighi e diritti che costituiscono il contenuto di qualità di “cittadino”».6 T. Serra, La defattualizzazione tra virtualità e simulazione, in E. Baglioni (a cura di), Ospiti del futuro, Giappicchelli, Torino 2000.

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prevaricazione.

2. Caratteristiche dell’atto di disobbedienza civile

Innanzitutto, perché si possa parlare di disobbedienza civile è necessario che vi sia una

violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida,

emanata da una autorità legittima7. Si deve trattare di un atto di deliberata violazione di una

legge valida, che ha alla sua base la convinzione del necessario raccordo tra validità e

legittimità. Vale a dire, si accetta l’ordinamento giuridico nel suo complesso, perché lo si

considera legittimo e, proprio per ribadire questa legittimità, si richiede di eliminare la

legge specifica o la specifica politica che contrasti con lo spirito dell'ordinamento.

Sul disinteresse e sulla pubblicità come caratteri essenziali dell’atto di

disobbedienza civile non è il caso di insistere, in quanto essi chiaramente segnano la linea

di demarcazione tra la violazione pura e semplice di una legge, quale può essere quella

legata alla delinquenza comune o al calcolo della convenienza, e quella violazione che può

rientrare nella disobbedienza civile, non potendosi ammettere, per sua stessa intrinseca

contraddizione, che la violazione, che pretende di assurgere a disobbedienza civile,

chiedendo a volte anche il riconoscimento di uno stesso diritto alla disobbedienza civile,

possa risolversi nell’ombra ed essere priva del carattere della pubblicità o del carattere del

disinteresse. Basta ricordare, infatti, che, essendo la disobbedienza civile una forma di

dissenso, che pretende di essere rafforzata proprio grazie al gesto pubblicamente espresso

della violazione di una legge valida, senza la pubblicizzazione, oltre a sminuire la sua

possibilità di incidenza sull’opinione pubblica e sul governo correrebbe anche il rischio di

essere strumentalizzata a fini diversi da quelli che giustificano l’atto stesso della violazione.

La disobbedienza civile si presenta così come un atto pubblico, in quanto essa non

soltanto si indirizza a principi pubblici, ma si compie in pubblico e nella pubblicità acquista

la dimensione del politico, una dimensione che la lega al bisogno di partecipazione e la

distingue anche da qualunque violazione della legge fatta con riferimento a principi di

moralità personale o a dottrine religiose8. È necessario, quindi, che la violazione venga

7 A. D. Woozley, Civil disobedience and punishment, in “Ethics” 1976, 4.8 Rawls (Una teoria della giustizia, cit., pp. 304 ss.) ritiene che, per giustificare la disobbedienza civile, non si possa fare appello «ai principi della moralità personale o alle dottrine religiose [...] ma alla concezione della giustizia pubblicamente condivisa che sottostà all’ordinamento giuridico». Per la Arendt la

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fatta con la precisa consapevolezza che sia doveroso esprimere pubblicamente il proprio

modo di vedere, anche rafforzando questa pubblica espressione attraverso la violazione di

una determinata legge, perché si ritiene che essa non corrisponda ai principi costituzionali o

alla coscienza comune, sulla base cioè di qualche concezione della politica, del bene

pubblico, dell’utilità sociale, dei diritti umani9. Ed è proprio il riferimento a quest’ultimo

punto che ha contribuito a modificare ulteriormente la teorizzazione della disobbedienza

civile.

Il tema dei diritti umani acquista una centralità che lo svincola dal semplice

riferimento individualistico per ampliarlo ai diritti dell’umanità nel suo complesso. I diritti

umani, o, meglio, i diritti dell’umanità acquistano una valenza chiaramente collegata ai

principi di legittimazione di una Costituzione. La disobbedienza civile si presenta sempre

come una lotta per il diritto, che viene esperita però non solo a favore dell’ordinamento

stesso, ma a favore della realizzazione del principio democratico che deve essere ampliato a

livello internazionale. E in questa variazione del principio della disobbedienza civile è

evidente che acquistano una centralità la violazione di norme per sé valide e accettate

perché giuste, a fini dimostrativi, come mezzo per modificare leggi che non possono essere

direttamente violate dal cittadino, e il rifiuto di linee politiche non rispondenti ai fini non

più della società in cui si vive, ma del mondo in cui si vive. La coscienza della doverosità

della violazione in tal caso non nasce dalla connessione tra la legge ingiusta, che non si può

osservare, e i superiori principi, ma dalla necessità di rafforzare l’espressione di una

opinione condivisa, che altrimenti non sarebbe presa in considerazione. Così come acquista

una sua valenza la presenza silenziosa e massiccia di disobbedienti civili che esprimono il

proprio dissenso perché sentono il dovere di farlo per rispetto all’umanità di cui fanno

parte.

La doverosità della violazione definisce la natura politica della stessa violazione e la

collega, in entrambi i casi, all’impegno politico che il “buon cittadino” - cittadino di uno

Stato ma anche cittadino del mondo - deve avere nei confronti della sua polis o nei

confronti della sua umanità. Vale a dire, l’impegno che lo spinge a non limitare la

disobbedienza civile è invece il riconoscimento di una funzione costitutiva della comunità; essa è specifica di un uomo che si costituisce nel suo rapporto con l’altro e fa riferimento a un concetto di giustizia che sgorga dall’incontro delle opinioni (La disobbedienza civile, cit., p. 68).9 Martin, Civil disobedience, cit., p. 131.

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partecipazione al momento della consultazione elettorale, ma a render continua

testimonianza del suo modo di intendere la cosa pubblica e a partecipare attivamente e

continuamente alla gestione della cosa pubblica, e, quando la sua voce non sia ascoltata, a

rafforzarla in vario modo. In questo senso la sua voce può essere innovativa, se tende a

modificare uno status quo o conservativa, se tende a impedire innovazioni non coerenti con

i fini e i valori che sottendono gli ordinamenti e la vita umana che essi sono portati a

gestire. In altre parole, la disobbedienza civile «può essere rivolta verso mutamenti

desiderabili e necessari, o verso la preservazione o restaurazione necessaria o desiderabile

dello status quo». La disobbedienza civile è «un atto politico per eccellenza, vale a dire un

atto guidato da principi politici»10. E questi principi politici assumono oggi una valenza

sempre più planetaria.

La violazione, inoltre, deve essere fondamentalmente non violenta11, in quanto, se

vuole essere coerente con i principi che la sostengono, non può essere lesiva dei diritti degli

altri e dei principi su cui si fondano le istituzioni. La non violenza è, in linea di principio,

un requisito necessario perché la disobbedienza civile è basata sul rispetto dell’ordinamento

in sé, e l’ordinamento democratico ha tra i suoi principi costitutivi fondamentali il rispetto

dei diritti di tutti e la razionalizzazione del conflitto attraverso l’eliminazione della violenza

10 Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 304.11Tra i pensatori contemporanei convengono sulla necessità della non violenza come carattere peculiare della disobbedienza civile Fortas, Concerning dissent and civil disobedience, cit.; Murphy, Civil disobedience and violence, cit.,; Bedau, On civil disobedience, cit.; Cohen, The essence and ethics of civil disobedience, cit.; Rawls, Una teoria della giustizia, cit. Di diverso parere Woozley (Civil Disobedience, cit.), il quale ritiene che la non violenza non sia concettualmente necessaria alla disobbedienza civile ma che l’uso della violenza nella disobbedienza civile sia tatticamente poco opportuna. Peraltro (p. 325) «se l’uso della violenza nella persecuzione di una campagna di disobbedienza civile è tatticamente inopportuno, e se è moralmente criticabile», si tratta chiaramente di domande sostanziali che possono essere poste con riferimento al comportamento del disobbediente civile ma non domande su ciò che è la disobbedienza civile o su ciò che deve essere un disobbediente civile. A questi caratteri fondamentali altri autori aggiungono ancora che colui che disobbedisce non può essere che un privato cittadino e certamente non un funzionario pubblico (Martin, Civil disobedience, cit., p. 125). Particolarmente interessante è, a questo proposito, l’esaltazione della non violenza come caratteristica necessaria per l’atto di disobbedienza civile fatta, ad esempio, da molti gruppi che praticano la disobbedienza civile e pubblicizzano la necessità della non violenza sulla base di due considerazioni, l’una riguardante la tutela degli stessi disobbedienti, l’altra riguardante il principio del rispetto della sicurezza altrui. Negli ultimi anni sono sorti numerosi siti Internet riguardanti la disobbedienza civile. Interessante è il sito http://www.actupny.org/documents/CD documents/ Guidelines.html del 9.01.2001 sul quale Act up, nel fare la storia dell’azione di massa non violenta, dà la seguente definizione del potere: «il potere in sé non deriva dalla violenza sebbene nella sua forma governativa è solitamente violento per natura». E ancora «il potere governativo si è spesso mantenuto attraverso l’oppressione e il tacito assenso della maggioranza dei governati. Ogni significativa diminuzione di questo assenso restringerà o dissolverà il controllo governamentale. L’apatia di fronte all’ingiustizia è una forma di violenza. La lotta e il conflitto spesso sono necessari per correggere l’ingiustizia».

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e del conflitto. Poiché tra i fini di ogni associazione politica dei nostri giorni c’è la difesa

della libertà, della vita e della proprietà, nel significato lockeano del termine, non si può

pretendere di difendere questi principi attraverso mezzi che li contraddicano.

Ciò non toglie che la violenza sia in realtà sempre latente nella disobbedienza

civile, perché il processo violento è sempre pronto a innescarsi, anche in conseguenza della

reazione che le forze pubbliche assumono nei confronti del fenomeno. Il “braccio di forza”

tra il “potere” (nazionale, sovranazionale, transnazionale, economico eccetera) e il “potere”

che nasce dall’unione di coloro che condividono opinioni dovrebbe rispondere alla

dialettica democratica dell’ascolto e del dialogo, ma troppo spesso si risolve in un raffronto

di forze non sempre pari. Si tratta anche di comprendere che il significato di politica deve

essere rifondato e che dall’opinione condivisa nasce un potere che non può essere

sottovalutato dal potere istituzionalizzato, se quest’ultimo non vuole delegittimarsi12. La

condivisione, ovviamente, riguarda le opinioni e i principi e non gli interessi. Quindi la

violazione non deve riflettere interessi personali o di gruppo, o punti di vista individuali,

ma deve essere espressione di una coscienza sociale. Anche per questo, non può essere

violazione di un singolo ma deve nascere da una opinione condivisa13. È, questa, anche

l’opinione di Hannah Arendt, per la quale la disobbedienza civile è una forma dell’“agire di

concerto”, che è la vera anima della politica. Anzi, è proprio questo accordo a fare della

disobbedienza civile un fatto di coscienza collettiva, coscienza comune che si realizza

nell’incontro di opinioni e che, in quanto tale, è “potere” nel significato di Tocqueville,

sempre ricordato dalla Arendt:

non appena un certo numero di abitanti degli Stati Uniti hanno concepito un sentimento o un’idea che vogliono introdurre nel mondo o percepito qualche errore che vogliono correggere si cercano, e quando si sono trovati si uniscono. Da allora non sono più uomini isolati, ma una potenza visibile a distanza che parla e che viene ascoltata14.

12 Anche se da questo punto di vista sono interessanti i consigli per evitare che la disobbedienza degeneri nella violenza che si ritrovano sui siti internet della disobbedienza civile. Così come interessante è il recupero del pensiero e dell’esempio di Gandhi e Martin Luther King: fare in modo che sia più costoso per il potere fare resistenza di fronte ai disobbedienti civili di quanto non sia accontentarli.13Cfr. Cosi, Saggio sulla disobbedienza civile, cit., p. 237: «Il riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento, e anche il rinvio a “norme” meta-positive ritenute vincolanti per quegli stessi principi, assumono significato soprattutto se suscitano una risonanza collettiva».14 A. De Tocqueville, Democrazia in America, II parte, cap. IV, Rizzoli, Milano 1995. Cfr. Arendt, La disobbedienza civile, cit., p. 81.

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Se su questi punti sono tutti piuttosto consenzienti, un punto molto controverso

riguarda la sanzionabilità degli atti di disobbedienza civile. Ed è una questione che viene

ulteriormente ad aggrovigliarsi quando il fenomeno assume una dimensione transnazionale

che lo porta sulla linea di confine tra disobbedienza civile e rivolta vera e propria, e che

soprattutto tocca problemi di competenza ben difficili da risolvere. L’impegno politico del

cittadino, del “buon cittadino”, consiste, dunque, anche nel saper esprimere il dissenso tutte

le volte che le istituzioni democratiche fanno naufragio. E nel pretendere che questo

dissenso sia preso in considerazione dalle istituzioni. Si tratta di un diritto, ma anche di un

dovere di far ascoltare la propria opinione e, ove questo ascolto sia negato, di farla valere

anche attraverso quella forma rafforzata di dissenso che è la disobbedienza civile,

sicuramente meno forte e violenta della resistenza.

Da un punto di vista politico e sociale, oltre che morale, non vi è dubbio che ormai

sia pienamente riconosciuta la giustificabilità di molti atti di disobbedienza civile; anzi

sembra che ne sia anche riconosciuta l’utilità sociale e politica. A questo punto ci si

domanda: se le conseguenze politiche e sociali di atti di disobbedienza civile sono positive,

è necessario e doveroso per l’istituzione perseguire giuridicamente colui che li ha messi in

atto con beneficio per la società? Non c’è contraddizione tra la positività delle conseguenze

dell’atto di disobbedienza civile e la negatività delle conseguenze giuridiche nei confronti

di colui che ha messo in atto la disobbedienza civile? Si può e si deve fare una distinzione -

sul piano della sanzionabilità - tra gli atti di violazione della legge dovuti a delinquenza e

gli atti di violazione che hanno le caratteristiche della disobbedienza civile? È evidente che

la risposta a queste domande può essere data su due differenti piani, quello teorico del

riconoscimento di un diritto alla disobbedienza civile e quello pratico che fa riferimento ai

singoli ordinamenti. Su tale questione si sono fatte molte discussioni nell’ambito

dell’ordinamento degli Stati Uniti d’America e da alcuni il diritto alla disobbedienza civile,

con relativa non perseguibilità del disobbediente, il quale “reo” vero e proprio non è, è

fatto risalire al Primo emendamento, quando esso non contrasti con altri diritti e libertà,

cioè quando sia esercitato in maniera pacifica. È questa, ad esempio, l’opinione di Fortas15,

mentre altri, tra i quali Freeman, ritengono che non possa rientrare nel primo emendamento

neanche la disobbedienza a una legge considerata immorale, e altri ancora, come Dworkin

15 Fortas, Concerning dissent and civil disobedience, cit., p. 66.

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e Allen, rimandano a un potere discrezionale dei giudici. Ci si è chiesti, anche, se accettare

la sanzione configuri un dovere logico o un dovere morale, e le risposte sono state varie.

Tra tutte ricordiamo quella di Murphy, per il quale si tratta di un dovere morale e di

Woozley, il quale ritiene che, se la indisponibilità alla sanzione non è una condizione

logica sufficiente per non essere un disobbediente civile, la disponibilità alla sanzione non

può essere una condizione necessaria per essere un disobbediente civile16.

Per molti autori, colui che viola una legge con l’intento di mettere in atto la

disobbedienza civile non deve rifiutare la eventuale sanzione inerente alla violazione,

proprio a causa della sua accettazione dell’ordinamento nel suo insieme. È questo un tema

particolarmente delicato sia perché il tema della “sanzione” non può che essere legato al

modo di intendere il mondo giuridico e istituzionale, sia con riferimento al significato da

attribuire al dovere di accettare la sanzione, cioè di accettare il diritto dell’istituzione di

dettare non solo comportamenti in cui non ci si riconosce, ma soprattutto di comminare

sanzioni per quei comportamenti che, se pure contrari alla volontà espressa sotto forma di

legge, rispondano a un convincimento ampiamente condiviso. Nella dialettica cittadini-

Stato, attraverso la disobbedienza civile si ripropone il problema della titolarità della

soggettività politica e il disconoscimento da parte delle istituzioni di questa titolarità come

appartenente a soggetti non istituzionalizzati può fare evolvere verso forme di anarchismo

l’istanza democratica partecipativa

3. Perché obbedire?

Probabilmente la crescita della democrazia sta portando a una revisione dello stesso

concetto di obbligo giuridico. Perché obbedire a una legge, se questa è solo l’espressione di

un atto di volontà assolutizzata, che rifiuta la normale dialettica con la pubblica opinione?

Se urta contro il modo di vedere di ampie fasce di cittadini, contro opinioni largamente

condivise? Se non corrisponde ai principi su cui l’ordinamento si regge? Se non è coerente

con i fini dell’ordinamento stesso? Se non collima con quelli che si ritengono i diritti

fondamentali? Certamente non perché essa è sorretta da una sanzione, soprattutto nei nostri

ordinamenti attuali, nei quali la maggior parte degli stessi reati comuni restano impuniti. Le

motivazioni dell'obbedienza alla legge, in un ambito in cui lo spirito contrattuale, privato

16 Murphy, Civil disobedience, cit., p. 3-4, Woozley, Civil disobedience and punishment, cit., p. 326.

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della sua regola intrinseca del pacta sunt servanda17, sembra aver preso il sopravvento,

sembrano essere sempre più svincolate da ogni riferimento alla giustizia e sempre più

collegate al principio della convenienza immediata. La disattenzione della legge messa in

atto dal disobbediente civile sarebbe invece, in questo contesto, proprio un modo per

riportare la legge e il principio dell’obbligo a criteri più ampi, sorretti da una sensibilità

giuridica che occorre oggi ricreare. Sensibilità verso il diritto e senso della legge.

Se l’atto di disobbedienza è fatto nei termini di una violazione che si appella a

principi costituzionali - il riferimento ai principi costituzionali si rende necessario in quanto

limita i rischi di un riferimento generico, e quindi suscettibile di diventare arbitrario, a

principi non istituzionalizzati - il solo fatto di essere messa in atto è già una lotta per il

diritto.

Se si esclude l’esperienza americana e i pur molteplici studi che al fenomeno sono

stati dedicati, non si può fare a meno di notare che i numerosi appelli alla disobbedienza

civile, che sul piano pratico sono spesso stati fatti per sensibilizzare l’opinione pubblica su

particolari leggi o su particolari aspetti specifici delle politiche nazionali e oggi anche

internazionali, non hanno mai raggiunto risultati apprezzabili in Europa, dove il fenomeno

non sembra finora aver raggiunto proporzioni tali da diventare quella valvola di sicurezza

per la democrazia di cui alcuni autori hanno parlato18. Nelle democrazie questo modo di

rafforzare le opinioni condivise può essere invocato nel momento in cui ci si rende conto

che gli organismi rappresentativi talvolta rappresentativi non sono, dato che possono

operare scelte o emettere provvedimenti che urtano contro principi esplicitamente

richiamati nelle carte costituzionali o che caratterizzano, implicitamente, il sistema politico.

Là dove il potere prevarica sulla società, impedendo, o non favorendo, la giusta dialettica e

la giusta comunicazione con il cittadino, allora quest’ultimo, dopo aver sperimentato in

tutti i modi l’impossibilità che il suo giudizio critico sia preso in considerazione e discusso,

ha il dovere di rafforzare la sua critica in modo da aggregare altri consensi e da farsi

ascoltare dalle sfere del potere. Insieme alle altre manifestazioni di protesta, alla vera e 17 Serra, Il disagio del diritto, cit.18 Cfr. soprattutto Rawls che definisce la disobbedienza civile «uno dei meccanismi di stabilizzazione di un sistema costituzionale; sebbene sia, per definizione, illegale. Insieme a elezioni libere e regolari, e a un sistema giudiziario indipendente, dotato del potere di interpretare la costituzione (non necessariamente scritta), la disobbedienza civile, usata nei limiti stabiliti e con valido giudizio, aiuta a mantenere e rafforzare le istituzioni giuste. Opporsi all’ingiustizia nei limiti della fedeltà al diritto serve a frenare l’allontanamento dalla giustizia e a correggerlo quando è avvenuto» (Una teoria della giustizia, cit., p.318).

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propria contestazione, può decidere così di ricorrere alla disobbedienza civile che, se

rettamente intesa, può essere l’espressione di quell’impegno politico che tende a ristabilire

il corretto rapporto tra cittadini e suoi rappresentanti in uno Stato democratico, quando

questo corretto rapporto sia stato violato. Ma può assumere anche il significato di un

capitolo della lotta per il diritto, quando si avvertano tutte le conseguenze negative della

avvenuta scissione tra diritto e giustizia, in qualunque modo si voglia intendere

quest’ultima. Vista sotto tale angolazione è anche uno strumento per riportare il potere

politico al mondo comune e, soprattutto, per non fargli perdere di vista la concretezza della

società, e per costringerlo, prima che il rapporto potere-cittadini degeneri in modo da

richiedere forme violente di protesta, a recuperare sia il principio di legalità che la

consapevolezza dei principi che dettano la forma e i contenuti delle sue decisioni e

costituiscono la ragione della sua stessa esistenza.

Ma la disobbedienza civile, proprio perché viene invocata e messa in atto quando le

istituzioni democratiche fanno naufragio, quando sembra che non sussista più nessuna

possibilità di recuperare punti di vista comuni né principi e fini, se strumentalizzata, può

diventare essa stessa espressione di logiche parziali e interessi settoriali. Può diventare

espressione del gregarismo che caratterizza le società contemporanee e non di

quell’associazionismo che si definisce per la sua trasversalità rispetto agli interessi, per la

occasionalità dell’accordo, coerente con l’accettazione di fondo di un consentire critico su

determinati aspetti che non richiedono opposizione costante e quindi durata del gruppo di

disobbedienza civile. Questa occasionalità è un elemento determinante, su cui i teorici della

disobbedienza civile non hanno ancora sufficientemente riflettuto. Eppure, se si dovesse

costituire un gruppo stabile di disobbedienti civili, si produrrebbe un soggetto politico che

tenderebbe a rispondere a tutte le logiche settarie proprie dei gruppi. Si deve trattare,

quindi, di una aggregazione finalizzata al momento specifico, che non può

istituzionalizzarsi, ma deve conservare una sua trasversalità all’interno della società e una

sua temporaneità, in quanto l’organizzazione e istituzionalizzazione del gruppo di

disobbedienza civile farebbe correre il rischio di una ricaduta nei meccanismi e nelle

dinamiche dei gruppi19 e la costituirebbe in gruppo di pressione. L’occasionalità non è

certamente da confondere con la spontaneità. Se pure, infatti, può sembrare che la

19 Su questo punto cfr. Cosi, Saggio sulla disobbedienza civile, cit., pp. 257 ss.

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disobbedienza civile sorga spontaneamente, in realtà essa è ben lungi dall’essere spontanea

in quanto richiede che sia in qualche modo organizzata.

Il ricorso alla disobbedienza civile può acquistare, perciò, significato ambivalente:

da un lato, esso può essere strumento positivo, espressione dell’esigenza di recuperare la

referenza valoriale delle leggi, strumento per rivendicare un diritto di sindacato su quelle

leggi che non siano collegate ai valori della società, per far giungere in maniera forte le

opinioni condivise da gruppi sulle decisioni politiche, strumento, ancora, per recuperare la

condivisione di opinioni e idee, quindi l’accordo su principi e fini, attraverso la

comunicazione rinnovata e disinteressata. Anche espressione del ritrovato bisogno di agire

nella piena responsabilità del “buon cittadino”, in modo da partecipare al mondo comune

attraverso l’espressione delle proprie opinioni e delle proprie idee. Risponde all’esigenza,

quindi, di riappropriarsi di una soggettività politica messa in crisi e di un bisogno di

confrontarsi con gli altri sui problemi e sui principi. Ma, dall'altro, essa potrebbe anche

essere espressione della volontà e della forza di minoranze che tendono a dettare la “loro”

volontà e a rifiutare la decisione della maggioranza. Espressione, ancora, della forza

aggregativa e gregaristica propria dei gruppi particolari, che fa riferimento non ai principi e

ai valori, ma solo agli interessi. Se è valido il principio che lo strumento tecnico della

maggioranza non deve degenerare nella tirannia della maggioranza, a maggior ragione deve

essere valido il principio che gli strumenti tecnici che le minoranze usano per far sentire le

loro opinioni non degenerino nella tirannia della minoranza.

Il fatto è che c’è una circolarità tra democrazia e disobbedienza civile che deve

essere presa in seria considerazione. E, proprio per questo, la disobbedienza civile risente

delle stesse contraddizioni della democrazia e risente della necessità di un ampliamento del

rapporto democratico paritario dal livello nazionale al livello internazionale.

4. Un problema di opportunità politica

Al di là del problema della definizione, che consente anche di individuare gli atti di

disobbedienza civile e distinguerli da altri tipi di protesta, di dissociazione o dalla violenza

comune, e al di là della necessità della consapevolezza dei rischi di strumentalizzazione,

sorge anche il problema di come, quando e perché rafforzare un giudizio critico non

ascoltato trasformandolo in disobbedienza civile. È importante, a questo punto, tornare sul

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principio di reciprocità democratica e sulla necessità che il governante sappia ascoltare le

opinioni che deve rappresentare, in modo da impedire che la protesta “civile” diventi

rivolta vera e propria. Così come è importante che coloro che pongono in essere atti di

disobbedienza civile sappiano, a loro volta, ascoltare le ragioni della maggioranza, sì da

evitare di prolungare o aggravare una situazione contestativa con motivazioni che non

giovano alla stessa comunità.

Fa notare Neumann come il problema di chi decide se e quando esista il diritto di

resistenza sia di difficile soluzione, ma contemporaneamente si preoccupa di quelli che

sono i diritti minimi spettanti all'uomo, diritti che «non importa se si chiamino o no diritti

naturali, sono validi a prescindere dal sistema politico, validi contro qualsivoglia sistema,

anche la democrazia»20.Quando Neumann passa poi a precisare quali siano questi diritti

minimi, li rinviene in alcuni di quelli che sono i postulati del sistema di diritto positivo

proprio di uno Stato di diritto: innanzitutto è l'uguaglianza giuridica di tutti gli uomini a

definire il contenuto concreto di questi diritti; inoltre la generalità e l'irretroattività della

legge rendono possibile il rispetto della razionalità dell'uomo; infine, corollario del

principio della generalità della legge, è la separazione dei poteri per la quale l'applicazione

della legge è affidata a un organo separato dagli organi di decisione dello Stato. Dati questi

postulati, pur restio per sua costituzione mentale a riconoscere la disobbedienza e la

resistenza, Neumann può affermare che «la violazione di qualunque di questi quattro

postulati rende illegittimo l'esercizio del potere politico, dando quindi a ciascuno,

direttamente interessato o no, il diritto di resistenza». Ma «se questo diritto possa farsi

valere o prevalere è, s'intende, una questione ben diversa». Nell'universo culturale di

Neumann è evidente che si tratta di un problema morale, non di una questione di diritto;

ma all'interno del suo orizzonte, come, del resto, benché in termini diversi, anche per

Dworkin, nello Stato di diritto non si può parlare di un venir meno dell’obbligo giuridico

quando sono in gioco i diritti minimi, perché in tal caso è la stessa legge a essere

illegittima, e quindi la sua disattenzione diventa legittima. E allora il problema se

disobbedire alla legge ingiusta o no è anche un problema di opportunità politica 21 .

20 Neumann, Sui limiti di una disobbedienza giustificata, in Lo stato democratico e lo stato autoritario, cit., p. 110. Cfr. anche Cosi, Saggio sulla disobbedienza civile, cit., p. 10.21 Neumann, Lo stato democratico e lo stato totalitario, cit., p. 111: «solo al di là dei quattro postulati sul diritto incondizionato di resistenza ciascun uomo deve fare le proprie scelte».

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Page 16: Serra, Disobbedienza civile

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Qui interviene il problema della necessità morale, per chi la mette in essere, di tener

conto non solo dell’immediato, ma delle conseguenze che sul piano generale può avere un

atto di disattenzione manifesta della legge. Si presenta cioè il problema del limite che la

disobbedienza civile deve porsi, oltrepassando il quale essa perde il suo aspetto di risposta

a una incoerenza o ingiustizia che si realizza all'interno di un sistema considerato coerente

e giusto, quindi perde il suo aspetto equilibratore tra conservazione e innovazione, tra

diritto e politica, per definirsi come espressione dell'incapacità della minoranza di accettare

di essere tale e della sua volontà di imporre le sue opinioni contro la maggioranza.

Il fenomeno della disobbedienza civile, nella sua formulazione più coerente, è

espressione, infatti, dell'ineludibilità di una esigenza critica della legge e, quindi, in qualche

modo, delle esigenze di ricreare dei parametri di giustizia sui quali commisurare la norma

positiva e, contemporaneamente, dell'esigenza di collegare la norma non alla sua fonte

formale ma alla fonte reale, che è quella della società. È espressione, quindi, anche di un

bisogno partecipativo che la società avverte in democrazia, e, sotto questo punto di vista ,

può avere anche il significato positivo di tendere a ricreare in maniera forte comunicazione

tra gli uomini, e tra gli uomini e le istituzioni. Ed è per questo che quando la società

diventa globale anche il fenomeno della disobbedienza civile muta connotati.

Ma ciò pone l’ulteriore domanda del significato che la disobbedienza civile acquista

all’interno di ogni ordinamento giuridico, soprattutto con riferimento a quegli atti di

disobbedienza civile che si realizzano in maniera trasversale. Se in democrazia l’ impegno

politico deve sostituire o, per lo meno, affiancare l’obbligo politico, per meglio definirlo,

ne consegue che occorre ancora riflettere sul senso e sul significato di obbligo politico e

obbligo giuridico all’interno di una visione democratica della vita e in un contesto culturale

che ha consentito la perdita di doverosità della stessa obbedienza alle leggi. Se, inoltre, di

fronte a una legge o a una decisione politica che non collima con modi di vedere condivisi

o che non rispecchia i valori di un ordinamento, si ha il “dovere” di far sentire la propria

opinione in tutti i modi, che significato ha questo “dovere” e come il riconoscimento di

questo “dovere” definisce il rapporto tra il singolo e l’istituzione che deve far rispettare le

leggi? Sorge in altri termini il problema di definire se è possibile trovare una legal basis

alla disobbedienza civile e se, anche nell’impossibilità di definire questa legal basis, si

debba poi trattare il disobbediente civile in termini diversi da come si tratta il delinquente

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comune. Una volta riconosciuto il “dovere” di far sentire le proprie opinioni,

eventualmente anche rafforzandole attraverso varie forme, tra le quali anche la

disobbedienza civile, come deve essere trattato colui che viola la legge? Per rafforzare la

sua posizione disinteressata e dettata da principi generali e dall’accettazione di fondo

dell’ordinamento esistente, dal punto di vista soggettivo il disobbediente civile “deve”

accettare la sanzione legata alla violazione della norma? E dal punto di vista oggettivo

l’ordinamento deve trattare il disobbediente civile, che tale atto abbia messo in essere nelle

forme più aderenti alla definizione concettuale, alla stessa stregua di ogni altro violatore di

norme, o deve tener conto della peculiarità del gesto e della sua utilità sociale e politica?

L’analisi della disobbedienza civile e la sua definizione rimandano alla necessità di

verificare cosa può significare dal punto di vista giuridico un atto di violazione della legge

e se sia possibile in linea di principio riconoscere una qualche legittimità, sul piano

giuridico, alla disobbedienza civile, vale a dire se sia possibile trovare un diritto in senso

stretto alla disobbedienza civile.

5. Un diritto alla disobbedienza civile?

Che si tratti di un dovere collegato all’impegno del “buon cittadino” non può essere

escluso. Ma si può parlare anche di un diritto alla disobbedienza civile? Riconoscere un

diritto alla disobbedienza civile comporterebbe una innovativa definizione del giuridico o

potrebbe inserirsi in una attitudine di recupero del giuridico nel suo significato più ampio e

complesso, che non consente una sua definizione riduttivistica di carattere positivistico-

formalistico? Pur conservando la connotazione positiva del giuridico che, malgrado certe

sue assolutizzazioni, ha certamente un suo significato e una sua valenza positiva, ciò che

occorre chiarire è proprio il rapporto tra diritto e giusto22, che va visto soprattutto in

relazione a ogni ordinamento giuridico esistente, che ha assunto determinati valori, e in

relazione a una comparazione di valori specifici a ogni ordinamento con quelli che sono i

diritti fondamentali del rispetto della vita degna di essere vita umana. Occorre cioè una

definizione concettuale del diritto sia in termini di ciò che è il diritto in un determinato

ambito giuridico sia in termini di ciò che il diritto è, e, quindi, una definizione del rapporto

22 Cfr. Cosi, Saggio sulla disobbedienza civile, cit., p. 31: «La sovrapposizione che in inglese è perfino lessicale, può verificarsi però anche su un piano concettuale, il che accade tutte le volte che si facciano coincidere senz’altro l’idea di azione giuridicamente giusta e di azione moralmente giusta».

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tra diritto e “giusto”, una distinzione tra diritto positivo e diritto, entro il quale ultimo

occorre ancora ritrovare norme e principi, diritto e fini. Vale a dire, occorre una

configurazione ampia dell’etica in tutti i suoi aspetti, e quindi anche un chiarimento del

rapporto diritto-dovere. Il “tu devi” viene così a complicarsi con l'“io ho diritto”, cioè col

principio che lo fonda, il diritto dell'uomo alla sua dignità, al rispetto della sua identità di

essere un uomo, innanzitutto, e di esserlo in un contesto statuale specifico, però inserito in

un contesto internazionale.

Logicamente coerente con i nostri tempi e ampiamente forse giustificabile sul piano

dell’impegno politico del cittadino democratico, la disobbedienza civile esprime, dunque,

un bisogno di risalire, al di là della norma positiva e della specifica accettazione della

decisione dell’autorità politica, a principi fondamentali legittimanti. Esprime anche un

bisogno legittimo di partecipazione sulla base della condivisione di certi principi. È perciò

che potremmo considerare questo diritto-morale, come lo chiama Dworkin, di disobbedire

alla legge come coerente con lo Stato democratico, soprattutto nella sua forma post-

liberale, anche se, certamente, se ne deve riconoscere una sua minor coerenza, ma non una

contraddizione vera e propria, con lo Stato di diritto; il fenomeno è più affine, infatti, a una

organizzazione che privilegi il politico, di quanto non lo sia a una organizzazione che si

basi sulla rule of law, intesa nel suo ampio senso non riducibile a uno stretto legalismo

positivistico. Ma la differenza tra i due momenti non è da ricercarsi nell’ammissibilità o

meno dell’atto di disobbedienza civile, bensì soltanto nella impossibilità, all’interno di uno

Stato di diritto, di pensare a un suo riconoscimento giuridico, se non nella forma

dell’eccezionalità che si dia in momenti particolari, così come l’ordinamento giuridico dei

tempi moderni ha sempre giustificato lo stato di necessità. E la eccezionalità dello stato di

necessità è data dal fatto che la disobbedienza civile è messa in atto nel momento in cui le

istituzioni democratiche sono venute meno al loro compito, e quando ogni altra forma di

partecipazione critica sia resa impossibile.

Sull'estraneità del fenomeno al sistema di diritto positivo dell'Europa occidentale

non è il caso di insistere, eppure le trasformazioni della democrazia avvenute negli ultimi

trenta anni lo possono rendere più familiare al nuovo ambito culturale dove esso si è

presentato, da un lato, nel suo aspetto strumentale, dimostrando, quindi, la sua coerenza

con una logica di contrapposizione di forze, e, dall'altro, nel suo aspetto politico-morale,

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Page 19: Serra, Disobbedienza civile

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facendo riflettere sull'ineludibilità del fatto che ogni legislazione, non che essere soltanto

un corpo di regole a sé coerente e chiuso che si forma sulla base di un gioco di forze,

rimanda sempre, in qualche modo, a un ordine concettuale diverso, sulla cui natura e sui

cui contenuti si può discutere, ma che non può essere sottaciuto; rimanda, cioè, a un

campo morale - in qualunque modo lo si voglia poi concepire - che fonda le stesse scelte

politiche e le regole giuridiche che da queste vengono positivizzate. È quando questo

collegamento si perde che sorge la esigenza di recuperarlo, mettendo in essere quelle forme

di protesta che, in ambito di sostanziale accettazione del principio democratico, ma di

disattenzione all’ascolto delle opinioni, si presentano anche sotto la forma della

disobbedienza civile.

All'interno della logica dello Stato di diritto non entrato in contraddizione con se

stesso, la disobbedienza civile sembra toccare un problema di coscienza, cioè il problema

del rapporto diritto-morale e, quindi, non può pretendere il riferimento a una sua base

legale, mentre nello Stato sociale, soprattutto nella sua forma degenerativa23, si presenta

come impegno politico e, come tale, sembra essere un dovere che si configura non solo

come logica risposta e correttivo a un cattivo funzionamento, ma anche come momento

essenziale dello stesso funzionamento dello Stato democratico, momento di autocorrezione.

Ed è proprio in questo ambito che la disobbedienza civile mostra la sua ambivalenza

presentandosi, da un lato, come correttivo e, dall'altro, come momento della stessa

degenerazione. La linea di demarcazione tra i due aspetti è segnata dal corretto rapporto

che essa deve realizzare tra l'istanza morale, l'impegno politico e l'obbligo giuridico24 e dal

riferimento continuo che essa deve attuare ai principi. Emerge, con la crisi della

democrazia rappresentativa, la necessità di tornare a occuparsi della differenza tra principi

e norme, e della loro correlazione, chiaramente espressa da Dworkin, o della loro

differenza individuata da Arendt nella differenza tra agire in base a un modello e agire in

base a un principio, tra utilità e significatività intenzionale, che trova la sua espressione

linguistica nella differenza tra al fine di e in vista di25. O anche della distinzione che fa

23 Cfr. Serra, Il disagio del diritto, cit..24 Confronta la distinzione operata da U. Scarpelli, Dovere morale, obbligo giuridico, impegno politico, in “Rivista di filosofia”, 1965, pp. 165 ss.25 Per H. Arendt (Vita activa, Bombiani, Milano 1964, pp. 161-2 e Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze, 1970, p. 86), che si mostra polemica contro l’assolutizzazione del fare strumentale, quando l’uomo si lascia sopraffare dall’utilitarismo e rende fine ciò che è mezzo, resta preso nella catena «interminabile dei

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Zagrebelski quando auspica una normazione per principi26. Alla regola si obbedisce, ai

principi si aderisce. Ma cosa fare quando c’è discordanza tra regole e principi? O come

comparare tra di loro principi contrastanti se manca la possibilità del dialogo?

Il problema è quello di trovare e rispettare da parte di tutti, cittadini e governanti,

anche quelle regole che consentono di realizzare il giusto equilibrio tra fini collettivi e

diritti individuali, fini individuali e diritti della collettività 27, e ancora una volta questo è

possibile se, quando si parla di fini, si tiene presente la fondamentalità dei diritti umani e

quando l’uomo, ogni uomo, sappia far riferimento ai principi e assumere le norme solo

come modello non come comando, come modello che deve comunque sempre rispondere ai

principi. Quando l’istituzione democratica non rispetta i principi che la legittimano, occorre

riappropriarsi dei diritti dell'individuo contro la sopraffazione dello Stato, e occorre farlo

non in base al ricorso a un soggettivismo foriero di anarchia e sopraffazione del più forte

sul più debole, bensì in base, come dice Dworkin, a standards condivisi. Né la minoranza,

né la maggioranza o i suoi pretesi rappresentanti possiedono e personificano verità e

certezza, e quindi non possono pretendere di imporre valori a scapito della pluralità delle

esigenze qualitative e pratiche che emergono dalla dialettica sociale28. Le maggioranze

hanno un loro mondo di senso comune che deve restare anche il luogo in cui si pongono i

dubbi. Diceva Stuart Mill

Se tutta l’umanità meno uno fosse di un’opinione e una sola persona fosse dell’opinione opposta, sarebbe ingiusto tanto per l’umanità mettere a tacere quella sola persona quanto per questa, se ne avesse il potere, di mettere a tacere l’umanità [...]. Il male peculiare nel soffocare un’opinione sta nel fatto che ciò rappresenta un furto ai danni della razza umana, della posterità come delle generazioni attuali, di coloro che dissentono da tale opinione ancor più che di coloro che la sostengono. Se l’opinione è giusta, questi ultimi sono privati dell’opportunità di lasciare l’errore per la verità; se è sbagliata, essi perdono un vantaggio quasi altrettanto grande, cioè una percezione

mezzi e dei fini senza arrivare mai ad un principio che giustifichi la categoria dei mezzi e dei fini, cioè l’utilità stessa [...] e l’utilità posta come significato genera l’assenza di significato».26 G. Zagrebelski, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992.27 Cfr. R. Dworkin, Introduzione a Phylosophy of law, I, Oxford University Press, Oxford p. 13: «Una teoria politica coerente, tale da poter essere usata per giustificare la legge ( law) di una comunità nel suo complesso, deve essere fondata o su qualche idea del benessere collettivo dei cittadini, o su qualche concezione dei loro diritti politici e sociali, o su qualche teoria dei doveri morali. Ogni teoria politica, naturalmente, farà uso di tutte queste idee, ma se può coordina gli scopi collettivi, i diritti individuali e i doveri individuali».28 A. Zanfarino, La vocazione critica della democrazia, in D. Fiorot (a cura di), Filosofia e democrazia, Giappichelli, Torino 1992, p. 20.

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più chiara e una impressione più viva della verità, in seguito all’urto dell’errore29.

L’urto tra verità e errore che deriva dalla libertà di parola è ancora oggi la grande

risorsa dell’umanità. La libertà di parola esige, da un lato, l’ascolto dell’altro e la

disponibilità a comprendere le sue ragioni, dall’altro anche l’impegno a dire le proprie

ragioni e a pretendere l’ascolto. Se a questa pretesa non si dà seguito da parte dell’autorità

costituita, questa pretesa deve essere fatta valere anche attraverso il rafforzativo della

disobbedienza civile. La disobbedienza civile si basa su questo duplice impegno, e se è

conseguenza di un mancato ascolto, deve essere considerata come pienamente legittima in

quanto correlata, in positivo, al dovere del buon cittadino che tende a rivendicare anche in

maniera rafforzata la sua soggettività politica e, in negativo, a un venir meno dell’obbligo

e dell’impegno politico di colui che è stato chiamato a “rappresentarlo”. Il dovere di

reciprocità democratica lo impone.

6. La disobbedienza civile elettronica

Due problemi emergono nella situazione contemporanea: da un lato la difficoltà di trovare

un linguaggio comune, e, dall’altro, anche quando questo linguaggio venga in qualche

modo ricostituito attraverso lo scambio di opinioni, esso sembra non avere visibilità. Ora,

se fino a qualche anno fa l'ordinamento che l’eventuale disobbediente accettava era quello

specifico nel quale si compiva il gesto, oggi con la transnazionalità del fenomeno si

realizza un passo ulteriore, che corre il rischio di far avvicinare sempre di più la

disobbedienza civile alla rivolta. E non per il rischio della degenerazione, ma perché

sembra che l’istanza partecipativa imponga un rispetto non tanto per gli ordinamenti in sé,

quanto per il principio democratico che sembra scindersi dall’ordinamento stesso nel

momento in cui il centro decisionale diventa una forza comune alla quale le singole

potenze partecipano ma con un atteggiamento che riscopre simboli e atteggiamenti di un

potere che con la base non ha più alcun rapporto. Soprattutto, il disobbediente civile dei

tempi nuovi sembra avvertire la necessità di porsi come forza trasversale che risponde a

logiche di carattere generale, con riferimento anche al principio della vita e della

sopravvivenza della vita interpretato come diritto umano fondamentale, in contrapposizione

29 J. S. Mill, On Liberty, (1859), Oxford University Press, London 1964, cap. II.

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alla trasversalità di un potere che risponde a logiche parziali di tipo economico che col

principio della vita nulla hanno a che fare. Da questo punto di vista, una novità interviene

per la disobbedienza civile grazie alla comunicazione via internet che, attraverso la

formazione di un linguaggio nuovo e grazie soprattutto al luogo di incontro virtuale che

supera limiti spaziali e territoriali, riesce ad aggregare ciò che prima, soprattutto ma non

solo dove mancava una tradizione associativa, era impossibile .

L’avvento della rete chiaramente arricchisce la discussione e richiede anche una

precisazione su quelle caratteristiche che consentono la differenziazione della

disobbedienza civile da fenomeni paralleli propri della rete. Innanzitutto, occorre

distinguere tra l’uso della rete come strumento per la comunicazione tra disobbedienti civili

dalla vera e propria disobbedienza civile elettronica (ECD). Sotto il primo punto di vista, la

disobbedienza civile sembra aver trovato sia la possibilità di un linguaggio comune sia uno

strumento di comunicazione fortemente utile ai fini della trasmissione e scambio di

opinioni e ai fini dell’organizzazione del fenomeno stesso. A dare un sia pur veloce

sguardo ai vari siti che riguardano la disobbedienza civile, ci si rende conto di come

l’organizzazione ne venga migliorata, di come soprattutto la rete funzioni da strumento di

collegamento, di informazione, ma anche di sostegno per i disobbedienti ai quali cerca di

chiarire le idee anche sui caratteri specifici del fenomeno stesso.

Più interessante, perché fa riflettere sui cambiamenti del nostro tempo, è tuttavia il

fenomeno della disobbedienza civile elettronica. I fenomeni di dissenso che si manifestano

via rete sono vari e forse tra di loro suscettibili di essere visti in una linea di crescente

forza. In un primo gradino troviamo l’attivismo computerizzato che, iniziato negli anni

ottanta con l'apparizione della prima versione di Peace Net, rappresenta l’incontro tra i

movimenti politico-sociali e la comunicazione mediale. La comunicazione via e-mail e i

web sites sono diventati uno strumento molto valido ai fini della circolazione, creazione e

conservazione dell’International Solidarity Network30. Una forma più forte di protesta è il

30 Cfr. A. Harmon, Hacktivists of all persuasion take their struggle to the web, in “New York Times” del 31 ottobre 1998; J. D. Downing, Computers for political change. PeaceNet and public data access, in “Journal of Communication”, 39, 3. Per inciso, nel momento in cui questo fenomeno della computer-mediated communication (CMC) fu preso in considerazione dagli studiosi iniziarono le prime discussioni sulla democrazia elettronica. (Cfr. anche J. Street, Remote control? Politics, technology and electronic democracy, in “European Journal of Communication”, 12, 1997, 1, pp. 27-42) e soprattutto si cominciò a discutere sul ruolo della CMC nel collegare il mondo. Con l’avvento di internet il processo si è ampliato a dismisura e allo stato attuale esistono innumerevoli forme di protesta sui siti web.

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Grassroots Infowar che, pur facendo riferimento a una guerra di parole e di propaganda, si

presenta come suscettibile di realizzare il passaggio dalla parola verso l’azione31. Un

esempio di come Grossroots può muoversi è dato dal global pro-zapatista network of

solidarity and resistance attraverso il quale si manifesta chiaramente la differenza tra il

movimento di opinioni che si realizza nell’attivismo computerizzato e l’incitamento

all’azione accresciuto dalla capacità di farlo su scala globale che caratterizza Grossroots

Infowar. La disobbedienza civile elettronica si inserisce in questo contesto e applica la

tradizione e le tattiche non violente a internet. Utilizza perciò virtuali blockades e virtual

sit in a cui i partecipanti possono intervenire da tutti i siti e da qualunque punto di accesso

al network. Una forma più forte di trasgressione via internet da cui si distingue la ECD è il

politicized hacking che comporta interventi attivi nel sistema elettronico, dall’alterazione

dei siti web fino alle azioni dell’Electronic Disturbance Theater, propri della disobbedienza

civile, che però se ne differenziano per un elemento importante che riguarda l’anonimato.

Mentre la ECD conserva il principio della pubblicità dell’azione e della condivisione

dell’azione e dell’opinione in un gruppo, caratteristica della disobbedienza civile classica

per cui gli attori non si nascondono dietro l’anonimato e operano liberamente andando

incontro alle conseguenze delle proprie azioni, i political hackers, anche a causa delle loro

azioni chiaramente illegali, operano generalmente sotto forma anonima e individualmente.

Proprio per questo individualismo è difficile dare contorni precisi a un fenomeno che non

possiede prospettive unitarie. Anche al livello di rete, la disobbedienza civile si distingue,

comunque, da forme più violente nelle quali potrebbe ad ogni modo sconfinare di fronte

alla cecità di un potere che non ne comprenda l’istanza partecipativa pienamente

rispondente alla realizzazione della democrazia.

È presto forse per cercare di capire gli sviluppi di queste forme di protesta e la

ricaduta pratica che esse potranno avere: certamente potranno accrescere le informazioni e

anche i legami tra coloro che condividono opinioni. L’attivismo via internet, in qualunque

forma si presenti, è sicuramente uno strumento per accrescere o sostenere gli sforzi dei

31 «Grassroots infowar actors emerge fully cognizant they are on a global stage, telepresent across borders, in many locations simultaneously. There exists a sense of immediacy and interconnectivity at a global level. More than a mere sharing of information and dialogue, there is a desire to push words towards action». Cfr. G. Stocker, C. Schopf (eds.), Infowar, Vienna 1988; S. Wray, Infowar, Vienna 1998; S. Wray, Towards bottom-up information warfare: theory and practice: version 1.0 “Electronic Civil Disobedience”, archive 1998 (http://www.nyu. edu/ projects/wray/Bottom up.html del 9.01.2001).

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cittadini, per far conoscere le loro azioni e per rinforzarle facendo conoscere anche tutte le

informazioni necessarie sui diritti e doveri del disobbediente civile. Si può certamente

prevedere che le istituzioni potranno diventare più vulnerabili nel ciberspazio di quanto non

lo siano nel mondo fisico e che la ECD possa essere uno strumento potente da affiancare

agli strumenti tradizionali. Anche se l’abitudine alla comunicazione via internet potrebbe

sortire l’effetto opposto, di rendere cioè verbale e comunicazionale la disobbedienza

rafforzandola quanto a numero ma indebolendola quanto a possibilità effettive di

raggiungere i risultati. È certo che l’attivismo è in crescita, e soprattutto che esso pone

problemi, primo fra tutti quello della difficoltà di trovarne una regolamentazione giuridica

dal momento che esso si gioca tutto sull’extraterritorialità, non essendo legato ad alcuna

regione geografica precisa.

Wray e Dominguez, cofondatori dell’Electronic Disturbance Theater, con la loro

affermazione che «The revolution will be digitized»32, ci invitano a non sottovalutare un

fenomeno che, creando nuovi poteri, può modificare il rapporto col potere e lo stesso

concetto di potere. E ci invitano a riflettere sulla profonda trasformazione culturale a cui

conduce il superamento della galassia Gutenberg: l’avvento della rete, che dà un

palcoscenico mondiale a chiunque abbia una minima conoscenza del suo funzionamento,

può modificare le stesse categorie su cui una cultura e un potere tradizionalmente riservati

a cerchie ristrette si sono retti.

32 “The Electronic Disturbance Theater, working at the intersections of radical politics, recombinant and performance art, and computer software design, has produced an ECD device called Food net, URL based software used to flood and block an opponent’s web site” . Cfr. S. Wray, The electronic disturbance theater and electronic civil disobedience, giugno 1998 (http://www. nyu.edu/project/wray/EDTECD.html, p. 1 del 9.01.2001).

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