Sergio Leone. L'America, la nostalgia e il mito

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I film e i protagonisti del grande regista italiano

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FALSOPIANO CINEMA

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E così prendemmo su le nostre valigie, lui il baule con l’unicobraccio sano e io il resto, e ci avviammo traballando verso lafermata della funicolare; in un momento scivolammo giù perla collina con le gambe ciondoloni verso il marciapiede dal

predellino sobbalzante, due eroi sconfitti della notte del West.

Jack Kerouac, Sulla strada

A R.,half-made man;

e a Franceschina,vedrai buoni film e leggerai buoni libri

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SERGIO

LEONEL’AMERICA,

LA NOSTALGIA E

IL MITO

Roberto Donati

FALSOPIANO eBOOK

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© Edizioni Falsopiano - 2009Via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAhttp://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri, Roberto Dagostini

Stampa: Impressioni Grafiche S.C.S. a r.l. - Acqui TermePrima edizione - Ottobre 2009

Ringraziamenti

L’autore desidera ringraziare, in ordine sparso e casuale di memoria: Carlo Lizzani, ClaudiaCardinale, Fiammetta Lionti (CSC), Sergio Donati, Luciano Vincenzoni, Antonio Monda,Gianni Minà, Sir Christopher Frayling, Luca Morsella, Franco Ferrini, Carlos Aguilar,Giancarlo Santi, Franco De Gemini, Roberto Torelli, Gianfranco Manfredi, Roberto Recchioni,Italo Moscati, Luca Beatrice, Alessandro Gori, Stefano Mutolo, Glauco Bresci, Cristina Barone,Domenica Vincenti, Andrea Martini, Mauro Fradegradi, Alberto Donati, Enrico Vanzina, ilCentro Comunale S. Biagio di Cesena, l’Autry National Center of the American West, EnnioMorricone, Roberto Curti, Burke Mudge, Lucio Izzo e Luca Di Vito (IIC Seoul), il Seoul ArtCinema, Park Chan-wook, Kim Jee-woon, Hannah Chu, Alberto Castaldini (IIC Bucarest),Stefania Del Bravo (IIC Vilnius), Amelia Carpenito (IIC San Francisco), Roberta Alberotanza(IIC Lussemburgo), Clara Celati (IIC Cracovia), Francesca Valente (IIC Los Angeles), MicheleGiacalone (IIC Washington), Renata Sperandio e Simonetta Magnani (IIC New York), AlbertoZambenedetti, Vincent Marsicano, John Fawell, Andrea Monda, Stefano Albertini (CasaItaliana Zerilli-Marimò, New York), Steven de Totosy (Purdue University Press), DanielaAronica, Filippo Zanella, Paolo Simonazzi, Andrea Fontana, Manlio Gomarasca e DavidePulici, Alberto Farina, Gianni Di Claudio, Giuseppe Bruni, Giacomo Ioannisci, Marco Giusti,Enzo G. Castellari, Lorenzo De Luca, Lars Bloch, Tim League, Janet Walker, Carlo Gaberscek,l’Associazione Sergio Leone, Luca Verdone, Giulio Reale, Giuseppe Sansonna, Alex Cox,Anna Strowe, Courtney Joyner, Jace Anderson & Adam Gierasch, Oreste De Fornari, CarmeloMilone, Tonino Valerii, Roberto Granata, Pier Maria Bocchi, Mauro Gervasini, Enrico Medioli,Raffaella Paladino (Unidis), Giancarlo Mancini (RHV), Andrea Cocchi, Paola Gallorini,Stefano Petti, Camillo Brezzi, Lucia De Robertis, l’Università di Warwick (UK), Vito Casale,Martin Pumphrey, Antonello Longo, Lorenzo Letizia, Luca Rea, Maurizio Colombo, Sergio DiLino, Paolo Bertolin, Marco Grosoli, Milo Busanelli, Pierfrancesco Prosperi; e Raffaella,Francesca, Andrea e la famiglia Leone.Un ringraziamento particolare a Claudio Donati e Luciana Taioli.

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INDICE

Prefazionedi Carlo Lizzani pag. 11

Profilo biografico. Per un pugno di date pag. 15

C’era una volta. Nostalgia di Sergio Leone pag. 31

La trilogia del tempo.C’era una volta il West (1968) pag. 39

La trilogia del tempo. Giù la testa (1971) pag. 73

La trilogia del tempo. C’era una volta in America (1984) pag. 93

Postfazione di Italo Moscati pag. 123

Western & Balloon. Dialogo con gli sceneggiatori Gianfranco Manfredi e Roberto Recchioni pag. 125

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Parola di: interviste e conversazioni pag. 139

Sergio Donati pag. 140

Luciano Vincenzoni pag. 152

Franco Ferrini pag. 158

Giancarlo Santi pag. 168

Luca Morsella pag. 176

Ennio Morricone pag. 181

Franco De Gemini pag. 186

Alessandro Alessandroni pag. 190

Luca Beatrice pag. 194

Antonio Monda pag. 198

Carlos Aguilar pag. 201

Roberto Torelli pag. 204

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Sir Christopher Frayling pag. 211

Claudia Cardinale pag. 219

Luca Zampetti: Indimenticabile Sergio pag. 225

La trilogia del tempo: filmografia pag. 241

Riferimenti bibliografici pag. 244

Siti internet pag. 254

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Prefazione di Carlo Lizzani

Con questo suo libro, Roberto Donati ci fa entrare con discrezione nellaboratorio di uno dei più grandi cineasti del secolo scorso: Sergio Leone.

Un’occasione ghiotta per il cinefilo, ma anche per l’appassionato di cine-ma in generale, e preziosa sia per quei colleghi che hanno vissuto la sua sta-gione, sia per quei giovani che oggi vogliano capirne e apprenderne il detta-to. Indispensabile, poi, per chi, come me, si è avventurato nelle ricerche enegli studi sul cinema italiano del Novecento e che può aver osservato la suaopera, a una prima lettura, un po’ superficialmente.

Entrare nel laboratorio di un artista, cogliere, in presa diretta, queimomenti chiave che possono farci capire meglio lo scaturire, in lui, di un’i-dea, o il perché della sua cancellazione; l’emergere di un sogno, di un pro-getto e poi la loro rimozione; e poi il passaggio improvviso a un soggetto chepareva sepolto e che invece appare all’improvviso improrogabile. E l’intrec-cio di questi processi con la variabile più decisiva e imprevedibile: la com-mittenza, i produttori, i distributori.

Non è sempre essenziale questa ricerca in laboratorio ai fini di una visio-ne critica che voglia attenersi rigorosamente ai valori formali consegnati allatela come allo schermo, alla pagina come allo spartito musicale. La critica delNovecento, da Croce in poi, ha ritenuto quegli elementi via via più margina-li. Tanto meno valgono, per un giudizio estetico sull’opera, le motivazioniprivate che possano aver stimolato certe scelte piuttosto che altre, e, ancorameno, certe caratteristiche psicologiche che a volte sono dominanti - per certiartisti - nell’ambito della vita privata ma non hanno incidenza profonda sul-l’identità della loro opera.

Ci sono esempi innumerevoli nella storia dell’arte, della letteratura e anchedel cinema in cui vediamo convivere - nello stesso artista - la spinta innovati-va, trasgressiva innovatrice nel linguaggio, e tanti freni timidezze e conformi-smi in quelli che sono, invece, i suoi comportamenti quotidiani, la spregiudi-catezza più estrema sul terreno creativo e l’obbedienza invece ai pregiudizi oai vizi dell’epoca nella sfera sociale in cui l’artista si è trovato a vivere.

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Questo tipo di scissione estrema (esemplare per esempio in Belli, inBalzac… e l’elenco sarebbe lungo) non è leggibile nel percorso esistenziale diSergio Leone. È leggenda la sua pretesa indifferenza per le vicende del suotempo. Non sarà stato un sessantottino, Sergio Leone, ma certo neanche unconservatore in fuga verso il West e la sua nostalgia non può essere scambiataper indifferenza verso quanto in quei decenni avveniva in Italia e la cambiava.

Nel corso della lettura offertaci da Donati ci imbattiamo, qualche volta, inquesto tipo di contraddizioni, che ricorrono, come dicevo, in ogni epoca e inogni artista, e che naturalmente anche Sergio Leone ha vissuto sulla sua pelle.E che spesso hanno reso criptica la sua opera fino a far prevalere il “colore”,l’aneddoto sul giudizio critico.

Sì, nei primi tempi, in quell’area della critica dove erano dominanti gliorientamenti di tipo lukacsiano-marxista e l’impegno per la valorizzazionedel “nazional-popolare”, si manifestò una qualche indifferenza e freddezzaper un cinema - come quello di Leone - che sembrava allontanarsi vistosa-mente dagli orizzonti del realismo. L’attenzione era soprattutto per chi, comeAntonioni, Fellini, e poi Bellocchio, i Taviani, Ferreri, Pasolini, osservavapasso passo l’evoluzione, le crisi, i conflitti della società italiana.

Io stesso domandai, in quegli anni, a Sergio Leone: qual è la relazione chevedi tra il mondo del West e quella realtà italiana in cui tu stesso, oggi, vivi,e che appassiona tanti tuoi colleghi? Con un grande candore, ma spalancan-domi di colpo tutto uno scenario che non avevo naturalmente previsto, mirispose: “E allora l’Ariosto, che vagava con la fantasia tra i Pirenei, con i suoiMori e i suoi cavalieri? Era anche lui così poco ‘italiano’?”. Fui costretto dicolpo a far emergere, sotto la coltre di quel realismo tanto frequentato in que-gli anni, tutto quel patrimonio classico che era stato, a scuola, nutrimento quo-tidiano, e di cui mai avevamo misurato il tasso di italianità, dando natural-mente per scontata l’italianità del Rinascimento. Cioè la nostra capacità diinserirci -possibile dunque anche oggi?- in altre realtà da noi anche lontanis-sime. E del resto non si sono spinti anche altri autori, malgrado il dettato domi-nante fosse allora quello del nazional-popolare, verso territori anche lontanigeograficamente e culturalmente dai nostri confini?

Non è un film italiano (ma, e anche profondamente, algerino) La battagliadi Algeri di Pontecorvo? E non sono anche “anglosassoni” autentici Blow-upe Zabriskie Point di Antonioni? E dove mettiamo L’ultimo imperatore diBertolucci o il Louis XIV di Rossellini? E i film shakespeariani di Zeffirelli?

Ed ecco quindi l’illuminazione che Leone mi ha regalato: noi italianiabbiamo una ancora viva, doppia identità, quella nazionale fermatasi tantofaticosamente nell’Ottocento, e che ancora nel Novecento fatica a dare frutti,

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e quella che ci viene dal Rinascimento. Una ricchezza che non hanno certa-mente né gli intellettuali e artisti francesi, né gli inglesi o i russi o i tedeschi.

Sotto questa luce, la lettura del libro di Donati diventa ancora più preziosaperché certamente il laboratorio dove l’autore ci conduce - grazie anche airicordi legati alla lunga collaborazione dello sceneggiatore Sergio Donati conLeone e alle testimonianze più diverse, ora critiche ora professionali - è illaboratorio di un artista che inevitabilmente non può non avere motivi di con-flitto con la committenza e anche con gli stessi collaboratori che spesso nonpossono comprendere la fatica, i rovelli, le debolezze e qualche volta le fin-zioni di chi vive nella propria carne una identità tanto ricca proprio perchédoppia.

Carlo Lizzani, Roma, gennaio 2009

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Profilo biografico. Per un pugno di date

Non esiste qualcosa come più o meno americani: si è americani e basta.

Andy Warhol, America; “Life”

Intellettuale dall’anima popolare e, almeno a giudicare dalle numerosefotografie che lo ritraggono, quintessenza della “romanità”, con il barbonesemincolto, la voce roca e profonda, gli occhietti acuti in un faccione severoma dai tratti gentili e l’appetito vorace da Mangiafoco uscito da qualche vivi-da strofa di Trilussa o del Belli, Sergio Leone nacque, a Roma, il 3 gennaio1929, figlio unico e ambito di Vincenzo Leone e di Edvige Valcarenghi,rispettivamente regista e attrice di cinema.

Romano figlio di non romani (il padre era di origini campane, la madrefriulana) o, meglio, trasteverino fin dalla prima infanzia, giocata fra i viali ei vicoli del quartiere, fra amici spesso più grandi e tutt’altro che immaginarie un “nemico” contingente a proiettare ombre inquietanti dietro le spallecome in un film muto di Fritz Lang. Un nemico, il fascismo, e un periodo sto-rico, quello degli anni Trenta del giovane Sergio, che tuttavia avrebbero potu-to al massimo piegare od osteggiare l’attività artistica del padre - agli occhidi qualcuno passibile di condanna per come intristiva la realtà coi suoi“drammoni” cupi e ottocenteschi- ma che invece potrebbero col senno di poiavere temprato il pensiero e la filosofia del regista. Come sottolinea Fofi, adesempio, e come confermerà Sergio Donati in appendice,

la mitizzazione della cultura americana è stata un fatto degli anni del fascismo, comereazione al clima stagnante e come idealizzazione di un mondo pieno sì di contrad-dizioni e di conflitti sociali e razziali, ma libero e coraggioso nella denuncia, “mes-saggio e risposta orgogliosa ai problemi del mondo” 1.

Fascino che tuttavia, a livello di massa, come sostiene sempre Fofi in unexcursus straordinario per brevità e intensità di analisi,

si era già espresso attraverso il cinema, e continuava a esprimersi nei limiti possi-

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bili, per poi esplodere con l’immediato dopoguerra. Erano gli anni d’oro (dal puntodi vista della frequenza) dello spettacolo cinematografico, e il cinema americanooffriva varietà di generi, stelle affermate, evasioni sicure, ma anche problematicheabbastanza nuove, pur se nascoste tra le pieghe del racconto, ancorché tutte risoltein azione e in favola. Era il “sogno americano di una cultura unitaria che trasferis-se grazie al cinema i valori della società Usa in patria e nel mondo”. Il western nonera allora così problematico come oggi, era nella sua fase di esaltazione di una sem-pre nuova frontiera e proponeva rozzi ritorni naturali. […] Il cinema americano equello western in particolare (i dubbi erano riservati al film nero che, sulla scia diHammett e Chandler, scopriva spesso nidi di vipere dietro eleganti apparenze),aveva forza nei suoi messaggi per la sua capacità di essere dovunque, di costruiremiti, di, soprattutto, nascondere le sue morali in azioni scintillanti di rapidità, con-cisione, speditezza. Ancor oggi, si subisce dal western anche un messaggio reazio-nario perché la sua astrazione avventurosa raramente riesce a irritarci ideologica-mente, in fondo predisposti a “stare al gioco”, mentre con altri “generi” ci trovia-mo meno “scoperti”, più armati di rigore. Il western ci proponeva un mondo chiarodi naturalezza e di movimento, senza dubbi. Era l’America dell’infanzia, luogo fuoridella storia e della geografia, luogo dell’avventura e della disponibilità eroica. Poipiano piano vennero i dubbi, […] e vennero le revisioni. E i western, da luogo privi-legiato della regressione, sono lentamente diventati quasi strumenti di riflessione edi “presa di coscienza”. Ma ciò che li distingue ancor oggi rispetto ad altri generi èproprio questa mescolanza di regressione e di maturità, fedeli a degli schemi e a unpaesaggio ben noto e nello stesso tempo consoni alla riflessione presente e alla crisipresente. I western – e non i film – sono “better than ever” proprio per questa loropossibilità di parlare dell’oggi attraverso metafore riconoscibili a tutti, attraversoschemi che sono patrimonio comune come un tempo lo furono le chansons de gesteo i romanzi d’appendice.[…] Soddisfa la nostra sete di evasione, […] e soddisfaanche la nostra sete di conoscenza presente 2.

Certo è che il Leone degli anni Trenta aveva già imparato a trascurare larealtà fenomenica, a favore di una visione ludica ancora più che artistica dellavita: com’è facile verificare praticamente in qualsiasi valido volume dedica-to a Leone, il fatto che il regista ripetesse con puntuale precisione di averemancato di poco la nascita dentro una sala cinematografica è sintomatico.Nella Roma mussoliniana apparentemente pacifica, il futuro regista avevaquasi sicuramente più dimestichezza con il mondo dei set del padre che conquello della quotidianità circostante o, perlomeno, era già il primo ad attrar-lo inesorabilmente. Un fascino alimentato e arricchito, inoltre, dalle espe-rienze concrete della sua prima giovinezza, che col senno di poi si sarebbero

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rivelate fonte di ispirazione e cuore tematico della sua futura opera cinema-tografica: le attività ludico-competitive con gli amici e soprattutto, forse, lafolgorante scoperta dell’America 3, del suo mito ma anche delle sue contrad-dizioni, compiuta attraverso le più disparate forme di intrattenimento popo-lare, come il cinema, la letteratura, il fumetto.

Leone sviluppa, chissà per quali vie autobiografiche, una passione forsegià innata, per la violenza e si lascia consapevolmente sedurre dal westernche col tempo impara a conoscere a fondo e a rispettare. Il minimo comunedenominatore fra i due interessi è certamente la nostalgia per un mondoormai irrimediabilmente perduto con l’arrivo della moderna civiltà e dellesue istituzioni fondamentali: al tramonto di un’epoca in cui la violenza pote-va ancora mantenere una sua dignità e un suo cavalleresco senso dell’onore,era subentrata l’alba di un’epoca in cui la violenza veniva (e viene) canaliz-zata, irreggimentata, parzialmente modificata, strumentalizzata da chi detie-ne il potere e vuole mantenerlo. In Leone, certo, non c’è nessuna pretesa filo-sofica, ma se è vero che lo sguardo di un regista, per quanto morale e obiet-tivo, riesce sempre a trapassare lo schermo, è altrettanto evidente la prefe-renza accordata da Leone nei confronti di una sanguigna rappresentazionedella violenza. Una preferenza che ovviamente, come nel caso di Leone, nongli permette mai di arrivare a giustificare i suoi atti ma che, nonostante tutto,è stata travisata e addirittura ritenuta pericolosa.

È proprio questa nostalgia, sempre più presente nelle opere della maturità,a essermi parsa interessante e poco trattata per uno studio più istintivo e par-tecipe ma tendenzialmente teorico del cinema di Sergio Leone. Un cinemache, nel suo modificarsi per restare, in fondo, sempre uguale, è sempre statopiuttosto ghettizzato dalla intellighenzia italiana e che invece, pur tra i suoimolteplici e palesi difetti, è percorso innegabilmente da sicuri e vitali segnidi stile e da interessanti ricorsi tematici. Un cinema sicuramente più viscera-le che cerebrale e al quale, perciò, si può ben addire l’epiteto, soltanto ini-zialmente usato in funzione dispregiativa da un critico anglosassone, di “spa-ghetti-western”, ma che è anche capace di voli pindarici nei cieli del surrea-lismo e della metafisica e che, in ogni caso, è onesto con sé stesso mante-nendo e rispettando le promesse, semplici o riduttive quanto si vuole maassolutamente dignitose, del suo artefice: regalare emozioni e spettacolo.Perché, prima di ogni cosa, come osserva Bezzi,

Leone non ha mai perso di vista la sua natura di cantastorie, di affabulatore, di“mitografo”. Il rapporto con lo spettatore è per lui massimale, egli è spettatore delsuo stesso processo creativo; egli, la sua memoria cinematografica, il pubblico,

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addirittura l’idea dello spettacolo sono protagonisti presenti dei suoi film. L’atto,l’azione, la scena cinematografica, per esistere deve “essere vista”, nella realtà enella finzione ha bisogno del soggetto percipiente. Senza questo non esiste storia,senza di esso esiste solo l’ignoto. Ogni realtà, veritiera o fittizia, possiede un minimo comune denominatore di dueentità senzienti. Una agisce rispetto all’altra, che ne recepisce l’agire, e viceversa.E siccome la Storia è fatta di storie, ogni storia avrà un suo narratore il quale in pre-cedenza sarà stato spettatore-fruitore della vicenda stessa. Questo è il cardine attor-no al quale ruota la mitologia, l’agiografia, la letteratura, tutta l’arte, il cinema esoprattutto la memoria. Ognuna di queste categorie non è che una rappresentazio-ne, uno specchio di realtà, una proiezione della vita. Leone nel suo cinema [del mito,del cinema, della memoria] rende evidente questo gioco di specchi 4.

Il western come anima dell’America Leone lo aveva già scoperto proprioin quegli anni di rigido regime autarchico: se già l’America come paese lon-tano e vagamente “esotico” aveva un suo fascino epico e un suo potenzialemitico, soprattutto nell’immaginario fanciullesco di un bimbo già di per sépredisposto all’uso e abuso della fantasia personale, il fatto di assistere a spet-tacoli o di leggere libri/fumetti chissà come arrivati e tradotti 5 (i film statu-nitensi, regolarmente distribuiti sino al 1939, subirono un massiccio blocconei quattro anni seguenti e Leone, come i colleghi della sua generazione,recupererà il ‘tempo perduto’ velocemente) accresceva senz’altro lo status diculto di quell’American Dream ancora inconsapevole ma ben presto osses-sione esistenziale e artistica 6.

Piacerebbe davvero pensare che, in quel periodo, Leone - luce fioca, pan-taloni abbassati, libro di Jack London sulle ginocchia - passasse parte del suotempo libero a leggere nel fetido cesso comune di un modesto condominio,abbinando il piacere della lettura a pratiche corporali quotidiane un po’ comeil suo futuro Noodles, magari aspettando una Peggy a cui mostrare orgoglio-so l’appendice della virilità maschile e maschilista, mentre fuori la lotta perla sopravvivenza con relativi tentativi di sopraffazione reciproca avrebbetranquillamente continuato a sporcare di sangue le strade e a rendere ancorapiù deserta una città che per il coprifuoco forse assomigliava già a uno di queipaesini fantasma della lontana frontiera.

È solo continuando a seguire il lunghissimo piano sequenza di questa fan-tasia (“sarà un piano sequenza, come non se ne sono mai visti. […] Nientestacchi, nessun inserto, sempre lo stesso piano sequenza” 7, amava dire Leonepresentando, con la solita enfasi goliardica da attore volutamente mancato

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che di volta in volta stupiva o irritava i suoi astanti, la scena d’apertura delsuo ultimo, non concluso e nemmeno iniziato, progetto basato sui novecentogiorni storici d’assedio nazista a Leningrado) che otterremmo tutte le infor-mazioni mancanti del percorso di Leone: il fatto che la sua famiglia era bene-stante perché il padre, di mestiere, faceva il regista e la madre, invece, l’at-trice, il fatto che fin da subito la sua vita, volente o nolente, sarebbe stata vis-suta sotto l’influenza diretta del cinematografo e ancora il fatto che tutti i suoifilm, che non sono altro che la rielaborazione immaginaria di generi, di miti,archetipi e stereotipi effettuata sulla base di un’autoconsapevolezza metanar-rativa personalissima ed estremamente evoluta, dovevano esistere in nuce giàin quegli anni di magico e infantile realismo.

Il padre Vincenzo Leone altri non era, dietro la pratica allora comune dellopseudonimo, che il Roberto Roberti regista di tanti melodrammi muti (eanche di qualche rudimentale western): storie d’amore e dolore, passione esofferenze dall’afflato liricheggiante e dal passo spesso incerto, sospeso frauna fedele rievocazione storica e una costruzione invece magniloquente epomposa, tendente all’enfasi teatrale e all’arte gridata dei saltimbanchi dapiazza, che la recitazione degli attori e le soluzioni di regia volentieri tene-vano come modello. Storie sicuramente appassionanti per gli spettatori deltempo, meno smaliziati e meno esigenti di oggi, che ritrovavano con piacerela serialità e le caratteristiche già conosciute dei feuilleton del secolo appenatrascorso. Storie, lo si capisce, che avranno ben poco a che fare col futurocinema di Leone ma che, a osservare con maggiore attenzione, contenevanoelementi sicuramente ispiratori, quando non proprio anticipatori: un assoluto,volontario distacco critico dalla realtà in cui i personaggi si trovano ad agire,realtà invece riprodotta dalla puntigliosa rappresentazione esteriore di essa;una realtà, cioè, tautologica, utile più come sfondo decorativo dell’azionetumultuosa e non tanto rete metaforica di simboli e valori aggiunti né espe-diente necessario per lanciare messaggi o creare paragoni e agganci con l’at-tualità. O, ancora, l’irreale manierismo delle vicende raccontate o la decisasolennità dello sguardo del regista e, di conseguenza, la caratterizzazioneforte, gestuale di attori che evidentemente non devono dare vita a personag-gi complessi e compiuti ma devono soltanto interpretare tipologie di perso-naggi già consolidati dalla tradizione e perciò già noti. Un’altra peculiaritàcomune è rintracciabile nel marchio stilistico improntato sull’eccesso e sul-l’iperbole nel narrare di passioni estreme (e, a questo proposito, un amorevale certo quanto un odio, un lutto quanto una vendetta), come se il cinemadi Sergio Leone con i suoi silenzi e le sue pause dilatatissime costituisse unideale ponte, costruito sopra il cinema italiano bellico, capace di permettere

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al suo artefice di ricongiungersi alla tradizione familiare, alle proprie radicipersonali rappresentate da un cinema che, in quanto muto, doveva sublimarel’esperienza dialogica della narrazione con l’artificiosa radicalità di quellavisivo-epifanica.

Storie, dicevamo, di quel tale Roberto Roberti grande amico delle star del-l’epoca 8, quello stesso Roberto Roberti che, involontariamente o meno,avrebbe fornito i contatti giusti affinché il figlio potesse intraprendere la suastessa, sconsigliatissima carriera e che, a giochi ormai fatti, sarebbe statoaffettuosamente ricordato da Leone con l’omaggio nominale che costituì lasua credenziale abilmente posticcia verso il successo (Bob Robertson, ovve-ro dall’inglese, come sarà noto, “figlio di Roberto Roberti”). Certo non si puòdire che Sergio Leone si sia fatto le ossa sui set del padre (anche se nel 1941era già presente su quello di La bocca sulla strada), vuoi perché era oggetti-vamente troppo piccolo vuoi perché forse il padre tendeva a tenerlo lontanoda un mestiere sicuramente emozionante e gratificante ma, per quanto alme-no ne sapeva lui, discontinuo dal punto di vista del rendimento finanziario etroppo soggetto all’alea dei produttori e del fattore pubblico. È altrettantocerto, però, che fin da bambino Leone ha respirato quest’atmosfera fatta dimagia onirica e di brutale realismo produttivo-commerciale, un’atmosferache lo avrebbe segnato anche a livello primario quando si sarebbe trovato adover disegnare personaggi e a studiare trame che, di fatto, rispecchiavano lasua posizione ideologica di uomo prima che di artista. E, fondamentalmente,dalle sue opere traspare una filosofia di vita improntata sul disincanto di certeillusioni, gradualmente o meno andate perdute o ribaltate nella prospettiva, esu un fatalismo pessimista che non può non avere le sue basi nella precoceesperienza cinematografica del padre e magari nei resoconti sull’ambienteche costui forniva alla famiglia, oltreché nel periodo storico in cui la sorte l’a-veva scaraventato a vivere. Epoca cardine della moderna Storia italiana, sot-tile trama di ambiguità e doppigiochi, di verità nascoste e di menzogne rive-late, dalla quale Leone sarebbe uscito con una visione più amara che lucidanei confronti della politica, dei rapporti di potere e della congenita violenzadell’essere umano. In Leone, la volontà di continuare a vivere non rispondemai a un illuminato bisogno naturalistico di perpetuare la specie e la stirpepersonale, o a una necessità contemporanea di esorcizzare la morte o al rifiu-to aprioristico di credere in alcunché oltre la vita terrena e di godere di que-sta, quindi, finché è possibile: in Leone, il motto non è mai il libertario “vivie lascia vivere”, ma semmai l’altrettanto umanamente comprensibile “uccidie non lasciarti uccidere” perché, una volta morti, il baule pieno di monete

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d’oro o il delirio di onnipotenza nei confronti dell’inerme villaggio di turnosono inevitabilmente persi, e non c’è filosofia o, peggio, religione che tenga-no. Che il (Nuovo) Messico sperso nel lontano ovest di Sergio Leone sia unaparafrasi personale dell’Italia fascista non è comunque lecito asserirlo, comenon sarebbe altrettanto onesto dire che le sue intenzioni di intellettuale sianostate proprio quelle di cantore dei suoi tempi e di coscienza critica dellanostra Storia e della nostra civiltà: anche perché Leone, se non forse neimomenti in cui, come risulta da più fonti, amava prendersi dannatamente sulserio e dimenticava la sua umiltà di artigiano appassionato di cinema in favo-re della maschera di boria romana che gli osanna del pubblico, più che dellacritica, lo avevano “costretto” a indossare, era il primo a negarlo e a smentir-lo, molto in linea con l’approccio astorico e favolistico con cui il regista con-cepiva la vita e l’estetica artistica.

Sergio Leone, lusso certo non concesso a tutti all’epoca, veniva sì da unafamiglia di estrazione borghese, ancorché di umili origini e di umile pensie-ro; dalle sue ginocchia sbucciate cadendo dalla scalinata del fantomatico eormai mitico Viale Glorioso usciva dunque un bel liquido rosso e caldo evivo, e i suoi film, se mai l’incorporeità di quel fascio di ombre e luci checostituisce il cinema (e il suo fascino ancestrale) può riflettere la vibrante fisi-cità dei suoi artefici, ce lo stanno a testimoniare a ogni fotogramma.

La poetica semplice di Leone, in cui conta molto la contaminazionefeconda di generi e lo scambio osmotico fra le varie forme d’arte (processitipici di un’epoca postmoderna in cui era già difficile stabilire confini nettifra le varie esperienze estetiche, spesso capaci di travalicare il loro stesso sta-tuto e di mescolarsi armonicamente per creare nuove associazioni vitali comecolori lasciati gocciolare in una tela di Jackson Pollock), tende ad accantona-re i sillogismi alla Socrate per crearne di nuovi, a uso e consumo di un diver-so tipo di pubblico che finiva per condividere, grazie alla forza di persuasio-ne visiva innata nel personaggio Leone, lo spirito terragno e fracassone delregista. Nel suo essere attaccato all’aspetto “povero” e manuale dell’espe-rienza artistica, Leone non poteva certo dimenticare l’attrattiva offerta dalla,parafrasando Hugo Pratt, “letteratura disegnata”: un fenomeno estremamen-te popolare che proprio negli anni degli esordi e della piena attività di Leonestava conoscendo un boom impensato -anche grazie a vere e proprie opered’arte sempre più a buon mercato come, oltre all’intramontabile Topolinodisneyano-italico, i più indipendenti Cocco Bill (lo stralunato cowboy dellostralunato West di Jacovitti), il bonelliano Tex o ancora l’Uomo mascherato,Mandrake, Cino e Franco, Flash Gordon e i meno conosciuti Capitan Miki,Storia del West o Ken Parker 9- e che gli avrebbe inconsapevolmente assicu-

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rato un certo gusto per la caricatura e per la deformazione grottesca. Così,l’uomo è sempre mortale e l’eroe di turno è sempre un uomo, ma stavolta l’e-quazione non corrisponde più e, perciò, l’eroe di turno non è più mortale.Questo non perché sia l’ennesimo supereroe ma semplicemente perché,molto più pragmaticamente, è assai sveglio e astuto, spara sempre più velocedell’altro o altri ma soprattutto perché, molto poco onestamente, ne sa sem-pre e comunque una più del diavolo in persona. Joe, il Monco e il Biondo -tre diverse facce dell’archetipo omerico di Ulisse/Nessuno, ovvero l’UomoSenza Nome - non usciranno mai sconfitti perché, essendo la controparteassolutamente positiva di un gioco al massacro che al massimo può esten-dersi a tre persone, sono investiti di certi valori che, almeno per convenzio-ne, sono destinati a durare in eterno. Il loro ultimo atto sarà quello di scom-parire dal mondo epitomizzato in ogni film, ma sarà una scomparsa delibera-ta e volontaria, un atto sacrificale di autoestinzione spontanea e insieme unamorte spirituale che permette di creare attorno a loro un’aura di mistero, gra-titudine e leggenda: anche perché la loro natura messianica - moto di discen-sione e ascensione, com’è facile notare - includerà il lascito di una parvenzadi giustizia, sia pure effimera e umanissima, e si concluderà con una evolu-zione interna del personaggio e una sua successiva rinascita (o reincarnazio-ne?) nel film successivo di una iniziale trilogia senza prequel né sequel chesuscita, tuttavia, la forte sensazione di serialità.

Difatti, quando per Leone verrà il momento di staccarsi completamentedal cordone ombelicale che ancora lo univa alla tradizione western, il risul-tato non sarà una definitiva dissociazione dal genere ma nemmeno più ungioco violento fra bambini cresciuti; sarà, piuttosto, un’epica ritualizzataall’insegna della malinconia e della morte dell’anima, in cui gli eroi positivisi evolvono in materne figure femminili, i banditi fanfaroni alla Tuco nonottengono più il miracolo della grazia divina da parte di “angeli biondi” e sicolorano di stanchezza da fine dei tempi e i cattivi, ovviamente, crepanoancora. Un’epica che conserverà una nota di speranza e di fiducia nel pro-gresso umano ma che fin dal titolo percepisce e sancisce il triste tramonto diun’epopea e di tutti i suoi amati presupposti, evidentemente non più attuali eattualizzabili.

Conviene tuttavia tornare indietro nel tempo, al tempo in cui possiamovedere un Leone sempre più attratto dal mondo del cinema, del quale ormaiconosce quasi tutti i meccanismi interni e gli stratagemmi: il suo approccioempirico non lo portava ad analizzare i film - di cui, cinefilo onnivoro, con-tinuava a cibarsi quotidianamente - dal punto di vista critico o storico-teori-

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co, ma piuttosto ad agire come un entomologo della celluloide, dissezionan-do o studiando intere sequenze, imparandole visivamente a memoria perapprendere i tempi cinematografici, il senso del ritmo, l’importanza dei dia-loghi (e, per contro, dei silenzi) e della composizione delle inquadrature,l’impostazione gestuale dei personaggi o la capacità evocativa che l’atten-zione maniacale ai minimi dettagli conferivano all’insieme. Esattamente ciòche poi faranno, coi suoi film, le generazioni di registi a venire, specialmen-te quelle cresciute con la priorità della fascinazione visiva del cinema e nelculto del cinema italiano tutto, generi popolari compresi, come i cosiddettimovie (o video) brats americani, etichetta comprendente i classici FrancisFord Coppola, George Lucas, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Joe Dante,John Carpenter, John Milius, Brian De Palma, Tony Scott e i più giovaniQuentin Tarantino, Robert Rodriguez, e altri ancora.

Com’è possibile notare, la propensione lirica di Leone e il suo gusto perle coreografie barocche hanno più di un punto di contatto con il cinema “ope-ristico” di Luchino Visconti: ma se la biografia e le ossessioni personali delregista milanese si traducevano in un’acribia registica tutta dedicata alla rap-presentazione colta dello sfarzo di una classe aristocratica in avanzato statodi decadenza sociale e morale, la “popolanità” di Leone era invece tuttarivolta innanzitutto a un’altra classe sociale (e forse nemmeno una classe) epoi a una puntigliosa ricostruzione della realtà del tempo, dove l’imperativodella verosimiglianza rispondeva infine alla volontà di dare almeno una pen-nellata di realismo alle sue favole scanzonate e senza tempo. Perché, dopo-tutto, lui aveva scelto di raccontare un aspetto di ciò che già il suo nume JohnFord aveva sancito con la celeberrima conclusione de L’uomo che ucciseLiberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, Usa 1962), non a casouno dei film di Ford prediletti da Leone: “qui siamo nel West. Dove se la leg-genda diventa realtà, vince la leggenda” (la citazione in originale, molto piùstringata, sbrigativa e moderna con quel suo riferimento alla stampa, suona:“This is the West, Sir. When the legend becomes fact, print the legend”). SeFord aveva pirandellianamente scelto di raccontare la realtà che si cela dietrola leggenda, il più pragmatico Leone avrebbe pareggiato i conti in favore delmito, narrando quella leggenda che via via si era tramandata ai posteri grazieall’oralità e al travisamento, man mano sempre meno consapevole, dei fattistorici, in nome del bisogno umano di spettacolo ed epos.

Ed è per questo che il paradosso di raccontare la leggenda volendo esse-re, allo stesso tempo, più realistico di chi aveva deciso a priori di raccontarela realtà, produsse una manifestazione della violenza

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spesso pervertita sadicamente, spesso di indubbia compiacenza, sempre formale, chenon ha nulla a che vedere con la durezza reale del periodo storico [nel quale essa]era radicata in un contesto preciso di rapporti sociali, [mentre] tutto si richiude susé stesso, senza storia né ideologia, senza morale da frontiera né lotta tra civiltà ebarbarie, in una neutra, pericolosa retorica. Che era e ne rimane anche la ragioneessenziale di seduzione 10.

Un paradosso che costituisce una delle critiche più comuni mosse al cine-ma di Leone, spesso accusato infatti di voler essere romanticamente elegiacoma di abbondare, per contro, in aridità e cinismo senza che sussista una rigo-rosa morale della visione.

Leone, intanto, completati gli studi e abbandonata la carriera universitariagiuridica che il padre desiderava completasse, si stava chiudendo sempre piùin sé stesso e nel suo amore per il cinema: un amore così totale che lo rende-va benevolo e riverente verso il padre regista e molto meno invece con lamadre, alla quale sembra non riuscisse a perdonare (vuoi forse per un maisopito senso di colpa) il fatto che avesse lasciato la sua carriera di attrice e lopseudonimo di Bice Walerian - lei che in un misconosciuto western del 1909aveva interpretato addirittura una squaw indiana - per dedicarsi interamentealla famiglia e, principalmente, a lui.

Fu con questo background che a soli diciannove anni Leone scrisse la suaprima sceneggiatura (quell’autobiografico Viale Glorioso che non avrebbemai realizzato), nello stesso anno in cui pressappoco compariva, nella bre-vissima parte di un seminarista che si ripara dalla pioggia assieme ad alcunicompagni e ai due protagonisti del film, in Ladri di biciclette (1948) diVittorio De Sica, per il quale si adoperò anche in collaborazioni più stretta-mente tecniche. Da allora fino all’anno del suo definitivo esordio dietro lamacchina da presa come singolo autore del proprio film, cioè ben tredici annipiù avanti, il suo fu un graduale e sempre più attivo scivolare nei ritmi dellamacchina cinema e nei suoi ingranaggi produttivi. Iniziando a collaborarecon i registi/amici/coetanei del padre, ormai in pensione creativa, quali MarioBonnard, Mario Camerini, Carmine Gallone, Mario Soldati - tutti registi for-matisi all’epoca del muto e poi trapiantatisi senza particolari scossoni nel-l’avveniristica era sonora - Sergio Leone poté farsi le ossa su vari set e, svol-gendo di volta in volta differenti mansioni, acquisire esperienza e competen-za, facendosi allo stesso tempo notare per precisione, meticolosità e affidabi-lità. Poté assistere al boom dell’industria cinematografica italiana, ovvioriflesso di quello economico generale, e al sempre più massiccio investimen-to sulla risorsa Cinecittà, complesso di studi e set romani retaggio dell’epoca

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fascista. Poté assistere dall’interno all’evoluzione dei gusti del pubblico edelle conseguenti richieste di mercato, selezionando e maturando così ancheun personale ambito di interesse e l’appropriato stile corrispondente: passatal’urgenza neorealistica di descrivere, coi pur limitatissimi mezzi a disposi-zione, l’Italia bellica e appena postbellica attraverso immagini freschissime,audaci e spurie da ogni ridondante contaminazione visiva, ci fu la reazionenormale di fronte alla libertà riacquistata a così caro prezzo e un generalesenso di rilassamento che permise, di lì a poco, la nascita del “neorealismorosa” e, più avanti ancora, della cosiddetta “commedia all’italiana”. Con que-sto termine tutt’altro che limitato o provinciale, si intese fin da subito una for-mula (poi di largo successo) che univa comicità regionale, brio attoriale eregistico, temi leggeri che avevano a che fare con l’essenza dell’Italia e spin-te di modernità derivanti dai nuovi costumi dell’epoca, in primis la semprepiù crescente emancipazione della donna e la sempre più realistica, concretae talvolta audace rappresentazione della sessualità.

Un’età dell’oro in cui - fenomeno quasi esclusivamente italiano e di cuiandare sicuramente orgogliosi - le rischiose opere di ambizione dei cosiddet-ti “autori” potevano essere realizzate anche, e spesso soprattutto, grazie aiguadagni ottenuti dai film di genere dei “manovali o artigiani” del cinema,comprendenti fra gli altri saghe o cicli di eroi mitologici che spesso affonda-vano in un’iconografia povera sotto la direzione di personalità registiche diserie B. Un sottobosco cinematografico in cui, allora, Leone era immerso (ela cui ideologia non rinnegò mai) e che avrebbe finito per attirare, per l’e-strema facilità a lavorarci (nell’Italia dalle leggi già non così ferree) e per laricca reperibilità di set (nell’Italia dagli infiniti e strabilianti paesaggi), unnumero sempre più cospicuo di troupe americane, anch’esse impegnate nellarealizzazione di film storici di nessuna pretesa realistica e di impianto sco-pertamente spettacolare. Leone conquistava così la fiducia dei dirigenti e deiregisti e saliva di grado, da semplice assistente che amava stare sui set e desi-deroso di dare una mano dove serviva ad aiuto regista preparato e prodigo diidee e suggerimenti anche tecnici. Con l’ingresso sempre più massiccio ditroupe cinematografiche americane in suolo italico (dovuto al fatto che, inve-stendo nella remunerativa produzione estera, l’industria di Hollywood si assi-curava la copertura dei costi di produzione: runaway production - ovveroproduzione all’estero - che nel caso italiano contribuì a lanciare il mito diCinecittà come “Hollywood sul Tevere”), Leone aveva anche modo di con-frontarsi direttamente con le proprie ossessioni, con i miti della sua infanziae con i registi che più lo avevano segnato: ma se dal punto di vista profes-sionale, l’esperienza di lavorare, tra gli altri, con il Robert Aldrich di Vera

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Cruz (id., 1954) o con il William Wyler di Ben-Hur (id., 1959) si dimostròsicuramente valida e utile, da quello personale e umano fu una totale delu-sione, e costituì forse il primo moto di disincanto verso quell’America chefino ad allora gli aveva mostrato soltanto la leggenda di sé stessa e che ora,improvvisamente, gli presentava la propria nuda e cruda essenza reale.

Per il resto, la carriera registica di Leone dura poco più di un ventennio 11

ma - dal peplum (Gli ultimi giorni di Pompei; Il colosso di Rodi) agli spa-ghetti-western (la cosiddetta “trilogia del dollaro” rappresentata da Per unpugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo;C’era una volta il West e l’atipico Giù la testa) per finire al canto del cignocon il film di gangster (C’era una volta in America) e ai progetti abortiti [sututti, il remake del già sfarzoso e colossale Via col vento (Gone with the Wind,Usa 1939) di Victor Fleming]- è in costante ascesa: anche la critica è semprepiù pronta a riconoscere il suo valore, perlomeno quello di cineasta tout courtche ha legato il suo nome alle immagini e alla visione, e, come ricorda GianniDi Claudio, il suo epitaffio cinematografico finisce addirittura (unico titoloitaliano) nella lista dei dieci migliori film degli anni Ottanta 12.

L’ultimo progetto -una ricostruzione epica dell’estenuante assedio diLeningrado- è stato bloccato soltanto dalla morte (30 aprile 1989), l’eternodestino che regola la vita di ognuno di noi: e per un uomo/artista che hadichiarato di essere quasi nato in un cinematografo e che ha fatto del cinemala sua vita (e viceversa), quale miglior sorte - sempre sotto il segno di unadolceamara ironia - se non quella di spegnersi cautamente durante la visionedi un film, per giunta intitolato Non voglio morire 13?

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Note

1 Goffredo Fofi, “Introduzione”, in Raymond Bellour (a cura di), Il Western - Fonti, forme,miti, registi, attori, filmografia (edizione italiana a cura di Gianni Volpi), Feltrinelli Editore,Milano, 1973, p. 11.2 Goffredo Fofi, Ivi, pp. 11-13.3 Mi pare corretto sottolineare una volta per tutte che, nel caso di Leone, con il termine geo-graficamente improprio di America sono da intendersi solo ed esclusivamente gli Stati Unitid’America.4 Federico Bezzi, Veni, Vidi, Vici: metacinema di Sergio Leone, inhttp://www.effettonotteonline.com/enol/index.html, dicembre 2003.5 Con chissà quanta verità, per un uomo che ha sempre detto di amare l’ambiguità conferi-ta a cose e fatti dal filtro del tempo, Leone disse, a proposito di C’era una volta in America:“è un omaggio alle cose che ho sempre amato, e in particolare alla letteratura americana diChandler, Hammett, Dos Passos, Hemingway, Fitzgerald. Personaggi che, quando li ho cono-sciuti, erano proibiti in Italia. Li ho letti in clandestinità ai tempi del fascismo, e come tutte lecose proibite hanno assunto un significato anche superiore alla loro importanza effettiva”.Francesco Mininni, Sergio Leone, L’Unità/Il Castoro (Editrice Il Castoro), Firenze-Roma,1995, p. 11-12. 6 Vale sicuramente la pena citare, a proposito dell’America e delle affettuose nostalgie a essalegate, una bella dichiarazione di Federico Fellini che si potrebbe benissimo immaginare esse-re stata detta da Leone in persona: “Su quei vecchi giornalini a fumetti la mia generazione hatrovato la possibilità di evadere e di contestare le processioni, le adunate, i campi Dux. I ragaz-zi italiani, immiseriti dalla Chiesa e dal fascismo, attraverso personaggi come Mio Mao, o Bibìe Bibò, o la Checca, potevano finalmente sognare una vita festosa. La vera letteratura ameri-cana non è stata solo quella dei Faulkner e degli Steinbeck ma anche quella degli inventori diArcibaldo, di Petronilla, di Dick Fulmine, di Braccio di Ferro. All’America abbiamo potutoperdonare tutto, anche l’imperdonabile, grazie alle immagini liberatorie che ci ha regalatoattraverso i suoi fumetti e il suo cinema.” da Donata Righetti, “Quasi un film, di carta”, in IlGiornale, martedì 17 luglio 1990, contenuto in Milo Manara, Viaggio a Tulum - da un soggettodi Federico Fellini per un film da fare (a cura di Vincenzo Mollica), Edizioni Di, Perugia2000, p. 135.7 Christopher Frayling, Sergio Leone - Danzando con la morte, Editrice Il Castoro, Milano2002, pp. 480-81. Al biografo inglese, il quale spesso divaga su descrizioni personali dellafoga mimica e dell’estro narrativo di Leone, devo le informazioni riportate immediatamentedopo la citazione.8 Su tutte Francesca Bertini, tanto che in una superficialissima minibiografia apparsa come

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extra nell’edizione dvd di un film di Leone figura addirittura come sua moglie; Per un pugnodi dollari, in C’era una volta Sergio Leone - Limited Edition DeLuxe (DvdVideo), CVC, 2003.9 Da notare come, nelle intenzione degli autori Giancarlo Berardi (sceneggiatore) e IvoMilazzo (disegnatore), il personaggio di Ken Parker -un tuttofare che di puntata in puntataispessisce il proprio profilo psicologico, cambia mestiere e attitudini ed è sempre pronto a rin-novarsi - sia ricalcato anche sulle gesta leggendarie del reale Davy Crockett (1786-1836). Dinuovo, ovvero, in un “western” italiano, realtà e immaginazione, storia e mito, biografia eagiografia vengono mescolati con consapevolezza e competenza. Cfr. Berardi & Milazzo, KenParker Collection 1, Panini Comics, Milano, maggio 2003.10 Manuel Dori, Scheda relativa a “Sergio Leone”, in Raymond Bellour (a cura di), IlWestern - Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia (edizione italiana a cura di GianniVolpi), Feltrinelli Editore, Milano, 1973, p. 305.11 Il rapporto tempo/produzioni/qualità lo avvicina senza dubbio ai nomi più illustri dellastoria del cinema: basti pensare, per citare qualche esempio concreto, alle filmografie “ragio-nate” di Orson Welles, Stanley Kubrick, Terrence Malick, Michael Cimino, Quentin Tarantino.12 Cfr. Gianni Di Claudio, Directed by Sergio Leone, Libreria Universitaria Editrice, Chieti,1990, p. 192.13 Il titolo italiano dell’opera in questione (Usa 1958, di Robert Wise) è una curiosa litotedell’originale I Want to Live!.

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Parole di:

Conversazioni e interviste

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Sergio Donati, sceneggiatore

Oltre ad aver scritto soggetti e sceneggiature per Sergio Leone, Sergio Donati hafirmato più di settanta film, collaborando tra gli altri con i registi GiulianoMontaldo, Elio Petri, Sergio Sollima, Luigi Zampa, Steno, Michele Lupo, SergioCorbucci e, negli Stati Uniti, con Michael Anderson, John Irvin, John Gullermine Tony Scott.

Lei che ha collaborato per vari anni insieme a Sergio Leone, come potreb-be descriverlo dal punto di vista umano e da quello artistico?

Leone era una “bestia da cinema”. Figlio di regista e attrice, cresciuto sem-pre nell’ambiente dello spettacolo, fin da giovanissimo ha cominciato afare l’aiuto regista. Era l’aiuto soprattutto di Bonnard, è cresciuto in que-st’ambiente di vecchi e aveva delle amarezze dentro, come tutti quelli chehanno un grande talento ma che sono stati capiti o hanno avuto successodopo i trenta o i quaranta abbondanti. Aveva dentro quella rabbietta chepoi sfogava sul prossimo.Cinematograficamente era un “animale” coltissimo, nel senso che avevavisto tutti i film, li sapeva a memoria. Soprattutto western: adesso pur-troppo non lo è più, ma allora era il genere cinematografico per eccellen-za, era il cinema. Libri, onestamente, ne avrà letti cinque in vita sua: era ilcognato, Fulvio Morsella, molto colto, interprete addirittura a Washington,a leggere i libri per lui. Gli faceva poi i rendiconti. Questo è uno dei moti-vi, per esempio, per cui non ha fatto Il padrino, che gli era stato offerto: ilcognato l’ha letto e ha detto “sì vabbè, è una storia di italiani”; lo stesso“Leningrado”, era il cognato ad aver letto il romanzo di riferimento. Iocredo di possedere l’unico libro che lui ha letto sul serio, perlomeno metà,e sono i racconti di Chandler, minuziosamente annotati. In realtà, avevauna cultura visuale straordinaria: infatti gli piaceva molto anche la pittura,era un grande collezionista di quadri veri e falsi, di argenterie, di cose, dioggetti… se ne intendeva molto. Sì, gli piaceva molto l’arte visiva.

Come cominciò a collaborare con Leone e come potrebbe sintetizzare ilrapporto -professionale e non- che si stabilì con lui?

Con Sergio ho iniziato rifiutando di fare Per un pugno di dollari perché

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ero a Milano a lavorare in pubblicità. Io sono romano come Sergio e cisiamo conosciuti quando ho pubblicato i miei primi gialli e lui era un aiutoregista “scannato”… mi suscitava profonda diffidenza, tanto è vero che ilprimo a cercarmi è stato lui. Comunque, questo aiuto regista un po’ truf-faldino mi affascinava anche perché raccontava tante cose, era sempre infermento; così, dopo avermi trovato, mi disse: “famo un horror sullaneve”, “ah, bello”, risposi io e gli scrissi sette-otto pagine di soggetto.

Questo è un dato molto interessante: a Leone, ancora prima del western,il “cinema di genere” sembrava interessare più del cinema d’autore. Oforse la pratica del cinema italiano dell’epoca questo suggeriva? È inogni caso una controtendenza netta rispetto a come viene inteso il farecinema oggi in Italia.

Contrariamente a quello che accade oggi col poco che resta del nostrocinema, a quei tempi il cinema italiano “di genere” girava il mondo: molteerano coproduzioni internazionali e il cast comprendeva spesso importan-ti attori stranieri.

Cosa successe poi?

Poi lui mi disse che questo horror doveva essere ambientato in un albergodi Courmayeur; “perché?!”, feci io, “perché i soldi li mette il proprietarioche si vo’ scopa’ le attrici”. Io rimasi scandalizzato, avevo diciannove,venti anni… pensai: “che orrore”; e allora sono andato a lavorare aMilano, disgustato dalle mie prime esperienze cinematografiche. Ho scrit-to alcuni gialli, di cui comprarono i diritti; e lavorai con Riccardo, il miti-co Riccardo Freda, a una riduzione di un romanzo di James Hadley Chase,e poi in pubblicità, dove andavo molto bene. A un certo punto, dopo pocoche mi ero sposato, ’sto Leone, che continuava a telefonarmi, mi chiama edice: “ma che stai affa’? ahò, vatti a vede’ un film di Kurosawa, Yojimbola vendetta del samurai, che con quattro soldi ci si può fare un western”.Io rimango di stucco: “un western!?, in Italia!?”.

Perché proprio un western? Cosa poteva avere visto Leone nel film diKurosawa e cosa poteva avere capito prima o più degli altri? Voglio dire,il western all’italiana era già allora una pratica avviata…

Sì, ma avviata ancora piuttosto rozzamente, con piccoli western travestiti-

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da film americani di serie B; come del resto fu costretto a fare ancheSergio, che si firmò appunto Bob Robertson al suo debutto. Ma già la“bestia da cinema” aveva visto in quello splendido film d’azione del mae-stro giapponese tutti gli elementi del grande western.

Torniamo a Per un pugno di dollari.

Sì. Beh, Leone mi chiamò per vedere questo film di Kurosawa e io dico amia moglie di dire che non ci sono nel caso telefonasse di nuovo questoLeone, perché è un matto, non mi piace. Fu così che non feci Per un pugnodi dollari. Invece lui, dopo il successo, ha continuato a cercarmi, e allafine sono andato a Roma, nascosto all’Hotel delle Muse, e ho fatto tuttauna revisione di Per qualche dollaro in più; e poi, ancora, un lavoro gros-sissimo di revisione, di nuovo uncredited, per Il buono, il brutto, il catti-vo: in fondo, del film, Age e Scarpelli hanno scritto un primo tempo di cuiè rimasto una sola battuta. A quel punto ero il suo sceneggiatore, così miha fatto passare nove mesi in moviola, ai doppiaggi, ai brusii… accadevaquesto con lui: io ero il suo sceneggiatore, dal primo fino all’ultimo gior-no, anche quando non c’era più bisogno di sceneggiare. Soltanto che ave-vamo delle differenze di carattere estreme: io tengo molto all’amicizia, aivalori… lui invece ti “usava”, anche se poi era affascinantissimo lavorarecon lui. Però nel momento in cui non gli servivi più, era come se fossimorto, non esistevi proprio più. Questo l’ha fatto con tutti: chiunque halavorato con lui ha questo tipo di ferite. All’interno di questo circo eque-stre che è il cinema, lui era e rimaneva sempre il regista. Questo, comun-que, è un rapporto normale fra regista e sceneggiatore; si diceva, per esem-pio, Zavattini-De Sica la coppia perfetta… sapessi pure quanto De Sica hafatto soffrire Zavattini, il quale diceva che lo sceneggiatore è come lamoglie, che sta a casa, prepara i piattini, mentre l’altro va fuori, fa lecorna, tradisce… è così, è vero.

Come avvenivano, concretamente, le sessioni di scrittura con o perLeone? Da chi nasceva generalmente l’idea centrale da cui svilupparestoria, intrecci, personaggi?

Sergio aveva sempre in mente uno schema di base, anche se nato in origi-ne dalla mente di Kurosawa o di Fernando Di Leo (misconosciuto sogget-tista del western successivo); attorno a quello, il suo collaboratore delmomento era chiamato a sviluppare storia e personaggi. Andò così anche

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con Bertolucci e Argento per il soggetto di C’era una volta il west, e inquel caso il risultato fornito dai due “intellettuali” fu così deludente cheLeone li congedò e tornò a cercarmi per elaborare le quattrocentoventipagine della sceneggiatura.

Nell’approccio di Leone alla realizzazione del film, l’aspetto visivo inte-grava il risultato della sceneggiatura o, piuttosto, era la sceneggiatura adoversi adattare alle immagini che Leone aveva già dentro di sé? A livel-lo di sceneggiatura, quanto e quale era il contributo effettivo di Leone: silimitava a suggerire agli altri collaboratori, in vista della concretizzazio-ne visiva, personali idee a proposito dei temi, dei personaggi, delle emo-zioni da esprimere o, invece, collaborava attivamente, magari proprioscrivendo e rielaborando il materiale?

Assolutamente era l’aspetto visivo a dominare, anzi per Sergio esistevasolo quello: Sergio non era capace di scrivere, non ha mai scritto una rigain vita sua, però raccontava il film che aveva già chiaro in testa e noi pote-vamo vederlo attraverso il suo racconto. Per esempio, la sceneggiatura diC’era una volta il West sembra desunta dal film, tanto ogni scena è minu-ziosamente descritta. Questo anche perché Sergio non amava improvvisa-re, girava una montagna di pellicola ma voleva una sceneggiatura assolu-tamente di ferro, non improvvisava niente, mai, non gli piaceva.

Il film successivo è C’era una volta il West.

Io, a quel punto, avevo già fatto i soldi, avevo fatto delle cose importantie quindi aspettavo che mi chiamasse per fare C’era una volta il West. Passaun mese, due mesi, tre mesi… silenzio: ma io sento che sta lavorando conArgento e Bertolucci. Questo era Sergio Leone, io ero il suo sceneggiato-re e io stavo lì ad aspettare, rifiutando offerte di lavoro, altri contratti, fin-ché appunto suona il telefono e la voce di Sergio mi fa: “ahò, quei duestronzi di intellettuali non funzionano, vieni che famo la sceneggiatura”.Io ho accettato, però ho detto: “Sergio, a questo punto l’amicizia non contaniente, è una questione di soldi e basta…”. E così è andata, anche per Giùla testa e poi ancora dopo; Sergio era così, non c’è niente da fare.

C’era una volta il West sembra mantenere i caratteri di questa natura bifi-da: da un lato voglia di sperimentare e azzardare piste inesplorate, dal-l’altro rigido ossequio nei confronti della tradizione. Anche la sceneggia-

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tura, pur così dettagliata, è sfrangiata, ricca di passaggi narrativamenteoscuri; non so se è d’accordo…

No, non sono d’accordo. Nelle intenzioni mie e di Sergio era una epopealineare; quello è il nostro addio definitivo a un mondo che avevamo amatosullo schermo e nella Storia, quello del West americano, dell’avventura,degli eroi solitari.

Il suo rapporto con Leone subì qui una brusca battuta d’arresto?

Io ho sempre avuto un rapporto di amore/odio con Sergio perché era, in uncerto senso, spietato: ha ferito tutti quelli che hanno lavorato con lui… hafatto sempre qualche “puttanata”. Lavorare con Sergio era molto bello, mafino a un certo punto: era esigente e riusciva a tirare fuori tutto quello cheavevi, ecco. Ai tempi della trilogia del dollaro, era anche estremamentecreativo (a parte Per un pugno di dollari, che si basava sul film diKurosawa). Durante il primo film al quale collaborai, Per qualche dollaroin più, lui aveva l’abitudine di raccontare la pellicola a memoria primaancora che fosse scritta, e lo stesso accadde anche per Il buono, il brutto,il cattivo; poi, da lì in avanti, proprio dall’edizione de Il buono, il brutto,il cattivo, ha cominciato a non divertirsi più, ha cominciato a far soffriretutti, a far rifare cose duecento volte. Tutto sommato, non voleva uscire colfilm e da lì ha cominciato a prendere quei ritmi biblici, dieci-dodici anniper fare un film; fino allora si divertiva, non aveva ancora il problema delnome, dei miliardi, dell’insicurezza, poi ha cominciato a divertirsi di menoe ha cominciato a prevalere in lui il sempre più grande, sempre più soldi,più intellettuale… si divertiva meno a inventare. Per esempio, in Giù latesta, di suo c’è poco o niente… e infatti non voleva né doveva dirigerlolui. Abbiamo avuto esperienze anche divertenti con Bogdanovich e poi, inrealtà, ha cominciato a dirigerlo Giancarlo Santi, l’aiuto. È durato un gior-no perché poi è arrivato Rod Steiger, col quale Leone è sempre stato aiferri corti perché lui era imposto dalla major: io avevo scritto la parte perEli Wallach, e si vede, ma il film era molto costoso e si temeva che EliWallach non “facesse cast”, e allora gli hanno mandato Steiger, fresco diOscar per La calda notte dell’ispettore Tibbs, che sarà anche un bravissi-mo attore ma che pure io detesto in quella parte. Ecco, è arrivato Steigersul set e Leone gli ha detto “guarda, fai conto che Giancarlo Santi sia io,io gli spiego tutto e lui fa come se fossi io”. Steiger allora gli fece: “bene,allora domani io sul set ci mando mio cugino, gli spiego tutto, sarà come

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se fossi io”. Allora Leone è andato in albergo, ha chiamato la major e nellanotte gli è arrivata la risposta: in pratica, si è dovuto mettere di nuovo die-tro la macchina da presa, di malavoglia. Si è vendicato facendo durare lalavorazione qualcosa come 24-25 settimane, ma l’ha dovuto fare.

Nonostante questo, Giù la testa risulta più compatto, più risolto, come sequeste difficoltà iniziali avessero poi favorito un affetto maggiore, comequello verso un figlio più sfortunato, ma anche una concentrazione e unrigore, pur negli eccessi, insoliti per Leone. A me continua a sembrare ilsuo film più “americano”, anche produttivamente parlando.

Beh, questo lo prendo come un complimento perché Giù la testa è il filmleoniano che sento più mio, più vicino alla mia idea di cinema, oltre chequello nel quale, per la prima e unica volta nella sua storia creativa, Sergioha fatto quasi soltanto il regista.

Limitatamente all’universo western, non ricorda se Leone dimostrava unaprofonda conoscenza di tale genere mettendo in evidenza determinati filmo determinate referenze artistiche/storiche o se, invece, si affidava piutto-sto alle suggestioni e all’istinto personali?

Su questo Leone era, devo dire, straordinario; che ti posso dire?, la suadocumentazione era ridotta al minimo: rimediava magari tre libri, però daquelli tirava fuori, per esempio, gli spolverini. Ai tempi del west gli spol-verini esistevano davvero, eppure il cinema americano western non liaveva mai scoperti in trenta-quaranta anni di film, e soltanto in seguito liha ripresi da Leone. A lui bastava una fotografia, un dettaglio… e poi haavuto la bravura di scegliersi collaboratori del suo pari. In questa manieradiciamo intuitiva lavorava per esempio con Tonino Delli Colli. Ricordoche per la sequenza de Il buono, il brutto, il cattivo in cui Lee Van Cleefarriva nella casa messicana, Sergio aveva sul tavolo un libro non sulla pit-tura fiamminga, un’edizione antologica tipo quella dei Fratelli Fabbri sullapittura fiamminga, lo aprì davanti a Tonino, gli fece vedere un Rembrandto qualcosa del genere, un interno coi chiaroscuri insomma, e gli disse: “aToni’, così!”. Tonino lo guardò e poi: “ah, vabbene”. Ecco, questa è statala loro “seduta di visualizzazione”: erano proprio “animali di cinema”, nonso se mi spiego. La stessa cosa, in un certo senso, con Ennio Morricone,grandissimo musicista ma grandissimo “copione”, insomma uno che“acchiappa” le cose: mi ricordo che Ennio aveva dei quadernetti di tipo

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scolastico, col bordo nero e rosso, e annotava tutte le sequenze, le musicheche Sergio ci voleva sopra. A un certo punto andava avanti con le imma-gini e Sergio lo bloccava subito. “Ma qui c’è una strada deserta”, si giu-stificava Ennio, e Sergio: “embè, mi ci devi mettere un rumoretto, unacosa nervosa…”, e così sono nati gli strumentini, gli effettini… C’è unagrandissima impronta di Leone nella formazione di Morricone come musi-cista di colonne sonore. Ancora, per esempio, io ho visto nascere la musi-ca di Per qualche dollaro in più quando Volonté sta sul pulpito della chie-sa sconsacrata: vista la scena, Sergio voleva una cosa di chiesa che peròfinisse con la tromba “sgarata” del Deguello. Ed ecco che la colonna sono-ra parte con la Toccata e fuga e poi fa “pirariraa rarirariraraaa”. È natacosì, d’istinto. Sergio era un istintivo.Era un animale cinematografico, ripeto, incolto se vuoi, tanto che neglianni, facendo pochi film ed esponendosi molto, si è fatto crescere la barba,ha assunto quest’aria da profeta, parlava poco ma diceva delle cose, comedire, “sagge”, quando dietro, in realtà, non c’era una cultura con la Cmaiuscola. Anche in politica, Sergio era un qualunquista pressoché asso-luto; aveva, però, questa cultura visiva eccezionale, non soltanto cinema-tografica, ma anche pittorica, sia pure, in un certo senso (ride), inconscia. C’è una grandissima qualità dietro i suoi film, questo sì, era un filmmakereccezionale. C’era una volta in America è un film bellissimo, io l’ho“attraversato” due o tre volte e sono scappato continuamente, a un certopunto gli ho detto “a Se’, o diventiamo soci o io non posso passare la vitaappresso a un film”, anche se poi ho fatto i primi sopralluoghi nel… eradurante la sceneggiatura di C’era una volta il West, quindi era qualcosacome il ’67, e gli ho trovato molte locations, nel New Jersey e via dicen-do, l’ha girato poi nell’80 quindi tredici anni di maturazione… no, non erapossibile per me, però è un film splendido e anche il più consapevole, lìaveva una coscienza dei propri mezzi e c’è anche del ragionamento dietro.

Quanto e come ci deve mancare un regista come Sergio Leone oggi?

Purtroppo ci è mancato già negli ultimi venti anni della sua vita, durante iquali ci ha regalato solo un film: splendido e grandioso, è vero, ma unosolo. Che spreco. Che rabbia. Che dolore.

Secondo lei, è possibile affermare che il tema della nostalgia è forse lachiave che permette di aprire le porte dell’universo cinematografico diSergio Leone? A livello di scrittura, la visualizzazione della nostalgia (per

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un certo cinema, per una certa epoca, per una certa America idealizzata)era già così centrale nel pensiero di Leone, o essa è piuttosto la conse-guenza naturale del fatto che Leone filmava le cose che veramente loappassionavano? I personaggi di Leone -i quali sembrano tesi e intrappo-lati tra un passato doloroso in cui, in parte, si trovano le ragioni della loronatura e un futuro dato come inconoscibile ma già avvertibile come trau-matico- potrebbero rispecchiare Leone stesso? Le sembra che quella diLeone sia una nostalgia più di carattere poetico-letteraria, e quindi riccadi tutte le suggestioni della pagina scritta, o prettamente visiva, cinema-tografica?

Sì, più o meno inconsciamente il tema è quello della nostalgia, di un certotipo di cinema soprattutto, del cinemetto di periferia dove andavamo, il“pidocchietto”… con otto lire, dieci lire si vedevano tre film. Quindi iltema è senz’altro forte, però anche inconscio, naturale per uno che hamasticato tutto il cinema che era stato fatto fino a quel momento, e idea-lizza mooolto il personaggio, nel senso che è un aspetto psicanalitico, ana-lizzato a posteriori, che avrebbe in un certo senso sorpreso lo stesso Leone.Lui era istintivo, non aveva certamente una conoscenza intellettualeprofonda, e dunque questo tema non era frutto di una vera e propriacoscienza culturale. Però, per esempio, aveva questo tema pulsante del-l’infanzia, della memoria dell’infanzia, della nostalgia della giovinezza,ecco… Viale Glorioso, che è una strada di Trastevere dove lui è cresciuto,questa amicizia fanciullesca fra ragazzi, fra maschi, che ha tirato fuorisoprattutto in C’era una volta in America, questo ce l’aveva forte, sì.Questo era un tema proprio suo, un tema molto forte per sentimenti chepoi, in realtà, forse lui non provava nemmeno più, perché come adulto eraspietato, veramente un fijo de ‘na mignotta (ride), ti feriva, improvvisa-mente spariva, sentiva un altro... Mentre il personaggio femminile non lo coinvolgeva affatto… per lui lefemmine erano tutte… insomma, voglio dire, il personaggio di Jill inC’era una volta il West, che è l’unico forte a parte il caso posteriore diC’era una volta in America, è molto mio. Lui lo sentiva come… (ride)“mah, è ‘na mignotta… un po’ a metà fra la nobiltà e il romanticismo…”,ma in realtà è anche molto altro, è forte sì caspita, è un maschio: noi dice-vamo che gli uomini che le gravitano attorno hanno la pistola, ma lei haun’altra cosa che ha la stessa forza e che lei usa con la stessa forza… Setu pensi in quegli anni lì una donna che si “prostituisce” con tanta deci-sione e cinismo, come quando fa quella specie di duello a letto con Henry

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Fonda, capisci che è un personaggio decisamente potente.Anche Giù la testa è molto più mio che suo in un certo senso: il perso-naggio del “bombarolo” è proprio mio, uno di questi perdenti romantici…lui non li sentiva, non gliene fregava granché, faceva il produttore a quelpunto, era già cambiato. Era un film che non era suo, doveva essere unfilm diretto da un altro che lui produceva.

Il tema della nostalgia, per forza di cose correlato a quello della memoria edella malinconia, emergeva esplicitamente dall’ideologia di Leone, o erasoltanto una modalità per rievocare epoche e miti amati e ormai andati? Iprotagonisti degli ultimi tre film di Leone (Armonica/Cheyenne/Frank,John/Juan, Noodles/Max) sono una sorta di prosecuzione/evoluzione dei per-sonaggi standard di Leone e del western, il loser e il loner: secondo lei, lilega più la nostalgia per un passato ormai immodificabile o la consapevo-lezza della non esistenza, per loro, di un futuro?

No, il sottofondo culturale, ideologico non c’era proprio. C’era il mestie-re, c’era il “famo”… che poi, ripeto, uno psicanalista avrebbe in effettitirato fuori quello che lui aveva dentro, sotto. Un po’ mi dispiace smitiz-zarlo, però in realtà era una persona diversa da quella che appariva, dalpersonaggio che si era costruito con pazienza facendo poco cinema e moltepubbliche relazioni, presentandosi, costruendo un personaggio che inrealtà non era lui, perché lui era tutta un’altra persona… un po’ comehanno fatto altri autori successivi. Leone ha passato il tempo a costruire,la sua opera forse più importante e consapevole è la costruzione del per-sonaggio Leone, e in questo era straordinario… ricordo, per esempio, cheVincenzoni aveva un libro di culto all’epoca, Voyage au bout de la nuit diCéline: stiamo parlando del ’68-’69 e leggeva i capitoli a Sergio, glieli rac-contava. A un certo punto, Sergio fu invitato in Francia -in Francia Leoneè un mito assoluto- a una celebre trasmissione condotta da Bernard Pivot,un talk-show culturale importantissimo. Questo Pivot a un certo puntochiese a Sergio quale fosse il suo libro preferito e Sergio, che non lo avevamai letto però si ricordava e in questo senso era una spugna, rispose cheera proprio Voyage au bout de la nuit, che allora era il libro-manifesto del’68… e quindi tutta la Francia in ginocchio davanti a Sergio. Sergio eracosì, una mistificazione continua di talento e di cultura: il cinema… sì, infondo è questo il cinema.

Secondo lei, è possibile affermare che gli ultimi tre film di Leone, pur nelle

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affinità di temi e stile, rappresentano un qualcosa di differente rispetto aifilm della “trilogia del dollaro”?

Sì, assolutamente, anche perché sono figli di una presa di coscienza diver-sa, voglio dire… lui fino al terzo film si è divertito; ripeto: era il diverti-mento puro di uno che ha fatto l’aiuto, che ha già girato film non “suoi”(perché, per esempio, due o tre film di Bonnard sono quasi tutti suoi, li hadiretti praticamente lui, tipo Gastone, tipo Hanno rubato un tram, e poi i“coturni” come Gli ultimi giorni di Pompei), che ha dentro questa vogliadi fare, di raccontare… e poi il western era proprio la sintesi del cinema,almeno per noi di quella generazione rappresentava questo. Ci sono arri-vati addosso, dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta,venti anni di roba tutti insieme, perché il fascismo non faceva entrare ifilm di Ford, e poi la letteratura: io ho letto cinque Hemingway tutti in unavolta e tutto Dos Passos, quindi eravamo imbevuti di cultura americana, edi cultura visiva… per cui eravamo quasi più americani noi. Quando quel-li della Writers Guild of America mi informarono che l’American FilmInstitute aveva inserito C’era una volta il West tra i migliori dieci westerndi tutti i tempi, compresi quelli americani, mi chiesero come facevano dueautori italiani a sentire, a sapere, a dare del West un’immagine così auten-tica… risposi che sia io che Sergio, benché lui più grande di quattro annidi me, facevamo parte della stessa generazione di “topi di cinema” e chele ragioni potevano essere soltanto e semplicemente queste.

Secondo lei, com’è avvenuto il passaggio dal western americano a quelloall’italiana? C’è stato un consapevole tentativo di riprendere e rifare ilgenere?

Secondo me il western di Leone, perché da lì è nato il western all’italiana,non è nato come tentativo di rifare il western americano, ma come tentati-vo di fare il western come l’abbiamo sognato noi nei cinemetti. “Io lo fareicosì, cambierei questo”: non era il tentativo di rifare un genere, ma c’era lavolontà di rifarlo come l’avremmo fatto noi, come avremmo fatto noi VeraCruz, o My Darling Clementine. Tutto infatti veniva convertito in romane-sco; Leone diceva “i dialoghi pensali in romanesco”, e aveva ragione.

Ha senso rifare il western oggi?

L’ultima volta che hanno dato C’era una volta il West in televisione, era

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appena finito che mi suona il telefono. Era Alex Infascelli (per il qualeDonati ha scritto Almost Blue, ndr): “ah, Sé! Voglio fa’ un western! Famoun western!”. “E famolo”, gli ho risposto. Però ultimamente Infascelli staa diventa’ un po’… oscuro. Insomma, a me piacciono i film che si capiscequello che succede, e io so’ abituato a Leone. Per il resto, non lo so se lagente andrebbe a rivedere un western all’italiana. Già quelli americani,oggi, non è che vadano poi così bene. Nemmeno loro sono più riusciti afare un grande western; poi non ci sono più gli attori, né la cultura del filmdi genere… Quando Leone voleva fare un altro western con me, pocoprima di morire, aveva ancora in mente la solita storia di due figli de ‘namignotta, e ‘sta storia non se poteva fa’, nemmeno dopo quarant’anni.Invece, io avevo questa idea mai realizzata prima, c’avevo già depositatoda anni un’idea che nel cinema non s’era mai fatta. Un film a episodi. Eraun soggetto per il cinema, che si chiamava The Gun .

Ah, Colt 45! Ne ho sentito parlare… la storia di questa pistola che passadi mano in mano e traccia una sorta di Storia del West.

Sì, in fondo è la più vecchia storia del cinema… comunque, cominciammoa lavorarci... Era d’estate, l’anno prima della morte di Leone, 1988-’89.Ogni domenica, nella sua villa, veniva l’attore americano di turno. C’eraRichard Gere, che stava qui a fa’ ‘na cagata; poi è venuto Mickey Rourke.L’idea prevedeva episodi di cinquanta minuti: un episodio comico, unostorico, uno drammatico, uno triste, uno allegro. Solo che questi attori nonvolevano fare una particina così piccola. Così, dopo un po’, Leone s’èrotto e disse “famo un film! Famo un western!”. Come al solito era un“famo ‘na storia di due figli de ‘na mignotta che…”. Io gli ho detto:“siamo alla fine degli anni ’80, sono passati venti anni da C’era una voltail West. Come fai a rifare di nuovo la stessa storia…? Facciamo piuttostoil West com’era veramente, con quelli della Pinkerton, con le pistole chenon sparavano a una mucca da tre passi, perché c’avevano un rinculotale… facciamolo com’era, autentico. Ma niente, e alla fine l’ha fatto ClintEastwood [Gli spietati, 1992]. Oggi non ci sono più i presupposti, non c’èpiù la cultura, i produttori non capiscono niente; anzi, proprio non ci sono.Prima il produttore era una persona con cui potevi parlare, mandarlo a quelpaese. Oggi sono legati a mille cose. Sono due anni che cerco di fare unfilm, bellissimo, ma ci sono problemi con la film commission. I francesi cihanno messo seicentocinquantamila euro, ma niente, non riesce a partire.Uno poi si scoraggia. Parli con della gente che non capisce un cacchio di

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cinema. Siccome è un film molto strutturato, allora dicono che sembratelevisione. Ma come, se un film è strutturato, allora sembra televisione?Invece non si deve capire più un cacchio, deve essere una di quelle coseche va così… e allora è cinema. Ma li mortacci vostra! Se oggi presentas-si la sceneggiatura di C’era una volta il West, ci sta che sembrerebbe tele-visione… televisione, capisci?!

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Luca Zampetti

Indimenticabile Sergio

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Scegliendo quel dolce per Peggy, cm 70x85, Grafite ed encausto su tavola, 2004

Li aveva già conosciuti tutti, Carol, cm 70x85, Grafite ed encausto su tavola, 2004

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Prossime uscite:

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Davide MorelloDavid Lynch: Inland Empire

Gianluigi Negri e Roberto TanziBabbo Natale al cinema

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