SEPARAZIONE DI MACRO MOLECOLE - sebastianolava.chsebastianolava.ch/LAM chimica 2006.pdf · 4.3 I...
Transcript of SEPARAZIONE DI MACRO MOLECOLE - sebastianolava.chsebastianolava.ch/LAM chimica 2006.pdf · 4.3 I...
C ROMATOGRAF IA HPLC P ER LA
SE PARAZ I ONE D I MACROMOLECOLE
D I I NT ERE SSE BI OLOG I CO
D I
S E B A S T I A N O L AVA
L I C E O D I L O C ARN O , A . S . 2 0 0 5 / 2 0 0 6
D O C E N T E : G I A N M A R C O Z E N O N I
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 1
1. Indice 1. Indice 1
2. Premessa 4
3. Introduzione 5
4. Parte I: Cromatografia 8 4.1 Etimologia e storia 8 4.2 La cromatografia, introduzione 10 4.3 I tipi di cromatografia 14
4.3.1 Cromatografia per adsorbimento 14 4.3.2 Cromatografia per ripartizione 19 4.3.3 Cromatografia a fase normale e a fase inversa 25 4.3.4 Cromatografia per scambio ionico 26 4.3.5 Cromatografia per esclusione 33 4.3.6 Cromatografia di affinità 39
4.4 Metodi cromatografici 40 4.4.1 Cromatografia su carta 41
4.4.1.1 Campioni 41 4.4.1.2 Applicazione del campione 42 4.4.1.3 Sviluppo 42 4.4.1.4 Tecniche ascendente e discendente 43 4.4.1.5 Essiccamento 45 4.4.1.6 Localizzazione delle sostanze 45 4.4.1.7 Cromatografia preparativa su carta 49 4.4.1.8 Cromatografie quantitative su carta 51 4.4.1.9 Cromatografia su carta a scambio ionico 54 4.4.1.10 Elettroforesi 54
4.4.2 Cromatografia su strato sottile 56 4.4.2.1 Preparazione delle lastre 57 4.4.2.2 Scelta della fase stazionaria e del solvente 58 4.4.2.3 Applicazione dei campioni 59 4.4.2.4 Sviluppo 60 4.4.2.5 Localizzazione degli analiti sui cromatogrammi 60 4.4.2.6 Cromatografia su strato sottile a scopi preparativo e qualitativo 61 4.4.2.7 Documentazione dei risultati 62
4.4.3 Cromatografia su colonna 62
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 2
4.4.3.1 La colonna 62 4.4.3.2 Solventi 63 4.4.3.3 Eluizione 63 4.4.3.4 Raccolta ed identificazione degli analiti 64 4.4.3.5 Cromatografia in liquido a filo mobile 67 4.4.3.6 Cromatografia in colonna con riciclo 67 4.4.3.7 Cosa avviene in una colonna durante una separazione cromatografica 68 4.4.3.8 “High performance liquid cromatography” o HPLC 73 4.4.3.9 Strumentazione per HPLC 76
4.4.3.9.1 Sistemi per HPLC 76 4.4.3.9.2 Contenitori per la fase mobile e sistemi di trattamento dei solventi 76 4.4.3.9.3 Fasi mobili 77 4.4.3.9.4 Pompe 77 4.4.3.9.5 Sistema di iniezione del campione 79 4.4.3.9.6 Colonna 80 4.4.3.9.7 Fasi stazionarie 81 4.4.3.9.8 Colonna di guardia (o precolonna) 83 4.4.3.9.9 Termostato della colonna 83 4.4.3.9.10 Rilevatori (“detectors”) 83
4.4.3.10 Caratterizzazione di una colonna cromatografica 85 4.4.3.10.1 Parametri di ritenzione 85 4.4.3.10.2 Allargamento dei picchi (caratterizzazione dell’efficienza della colonna) 89 4.4.3.10.3 Risoluzione e selettività: come unire i parametri di ritenzione e di allargamento dei picchi in un
solo parametro 92 4.4.3.10.4 Teoria per l’allargamento dei picchi (equazione di Van Deemter) 94
4.4.3.11 Analisi quantitativa 100 4.4.3.11.1 Calcolo dell’area del picco 101 4.4.3.11.2 Calcolo delle concentrazioni 103
5. II parte: esperimenti 106 5.1 Scopo 106 5.2 Basi teoriche 106 5.3 Materiale 107
5.3.1 Materiale, sguardo prospettico (sintesi introduttiva) 107 5.3.2 Materiale, apparecchiatura 107
5.3.2.1 Apparecchi utilizzati all’ETHZ 107 5.3.2.2 Apparecchiatura impiegata al Liceo di Locarno 112
5.3.3 Materiale, sostanze 116 5.3.3.1 Fasi stazionarie 116 5.3.3.2 Sostanze varie (solventi, traccianti, campioni) 118
5.4 Determinazione dei tempi di ritenzione 122
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 3
5.4.1 Jasco PU-980, UV-975 senza colonna 122 5.4.2 Colonna da 20 cm 123 5.4.3 Colonna da 10 cm 128 5.4.4 HP 1090 senza colonna 130 5.4.5 Colonna da 3cm 131
5.5 Influsso della temperatura sulle analisi cromatografiche con HPLC 135 5.6 Separazione di insulina e interferone 136
5.6.1 Introduzione; iniezione di tiourea nei due solventi 136 5.6.2 Insulina, interferone, miscela di insulina ed interferone nel solvente non adsorbente (acetonitrile e acqua
40:60 + acido fosforico) 139 5.6.3 Insulina, Interferone, Miscela di insulina ed interferone nel solvente adsorbente (acetonitrile e acqua
25:75 + acido fosforico) 143 5.6.4 Confronto tra le analisi col solvente adsorbente e quello non adsorbente, discussione dei risultati,
conclusione 147
6. Bibliografia 151
7. Appendice 153
8. Ringraziamenti 155
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 4
2. Premessa Questo lavoro si articola in due grosse sezioni. Dapprima una lunga parte che si prefigge di presentare la
teoria cromatografica nel suo insieme. In questa prima sezione si parlerà della storia della cromatografia, si
esporranno i principali tipi di cromatografia che si possono eseguire, i metodi con cui questi tipi possono
venire applicati, e ci si concentrerà in modo piuttosto dettagliato sull’HPLC e sulle elaborazioni quantitativo-
matematiche che si possono condurre sui dati così ottenuti. Questa trattazione sull’HPLC sarà fondamentale
per poter capire bene la seconda sezione.
La seconda sezione, infatti, è una relazione degli esperimenti da me condotti su apparecchiature per HPLC,
presso il Liceo cantonale di Locarno (d’ora in poi semplicemente Liceo di Locarno) e presso
“l’Eidgenössische Technische Hochschule” di Zurigo (ETHZ).
Queste due grandi parti sono precedute da un’introduzione, che cerca di meglio spiegare e inquadrare il
presente lavoro, e seguite da una bibliografia e dai ringraziamenti.
A tutti auguro una piacevole lettura, nella speranza che questa possa portare a una conoscenza della
cromatografia, ed in particolare dell’HPLC, e soprattutto che essa permetta al lettore di capire l’importanza
della cromatografia liquida ad alte prestazioni nell’ambito della scienza biologico-chimica contemporanea, in
particolare riferimento alle sue applicazioni farmacologiche.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 5
3. Introduzione Da sempre l’uomo ha avvertito la necessità di selezionare sostanze o, perlomeno, oggetti. L’uomo primitivo
selezionava i frutti o le bacche che lo potevano nutrire da quelle velenose. L’uomo dell’età del ferro
selezionava le pietre contenenti ferro per poterlo ricavare ed escogitava sistemi di estrazione. L’uomo
contemporaneo seleziona continuamente sostanze isolandole dai miscugli in cui esse si trovano. Pensiamo
alla purificazione del petrolio ed ai processi industriali che portano alla commercializzazione della benzina,
pensiamo però anche più semplicemente al setaccio usato in cucina, o allo scolapasta usato per separare
l’acqua salata usata per la cottura dalla pastasciutta.
Vari sono i metodi utilizzabili per separare miscugli ed isolare sostanze, e compito di chi ha la necessità di
effettuare tale operazione è individuare la tecnica adatta o più appropriata e costruire o procurarsi l’eventuale
apparecchiatura occorrente. È evidente per chiunque che le varie tecniche possibili richiedono tecnologie
diverse, con gradi di complessità anche notevolmente differenti: per una sedimentazione è sufficiente una
vasca, per la purificazione di medicamenti dell’ultima generazione la lista di apparecchi necessari è enorme.
È proprio da quest’ultimo esempio che parte la mia ricerca, che si inserisce in un ben più ampio ed
ambizioso progetto attualmente in corso al Politecnico federale di Zurigo (ETHZ). Per capire di cosa si tratti
devo partire da lontano.
Dopo un secolo di interessanti e sorprendenti sviluppi, capeggiati dalla scoperta e dall’applicazione diffusa
degli antibiotici, la scienza medica si sta oggi proiettando, essenzialmente, verso due linee di ricerca. Da un
lato l’ambito della diagnostica e della medicina per immagini, che sta sempre più rivoluzionando e
ampliando le possibilità diagnostiche ma anche quelle di chirurgia mini-invasiva e della chirurgia
propriamente detta. Dall’altro il perfezionamento di medicamenti sempre più efficaci e mirati, che si
caratterizzino nel contempo per effetti collaterali e problemi di interazione medicamentosa ridotti sempre
più, nel tentativo di raggiungere l’assenza completa di queste complicazioni, frequenti soprattutto per tutte
quelle persone affette da malattie metabolico-degenerative che si presentano spesso come patologie multiple.
Queste richiedono l’uso di molti medicamenti diversi, ognuno con le proprie controindicazioni, con i limiti
della propria farmacocinetica e con le proprie limitazioni di impiego in riferimento alla debolezza di
determinati sistemi del paziente e all’utilizzo contemporaneo di altri medicamenti.
È palese che le soluzioni trovate a queste sfide della ricerca sono per propria natura complesse, e quindi assai
costose. La sfida che si pone è dunque quasi più politica e tecnica che non medica: il problema in cui ci si
imbatte è quasi sempre economico e non umano. Per questo motivo gli scienziati stessi cercano di trovare
metodi produttivi il più economici possibili, che permettano quindi un accesso alle cure quanto più
generalizzato.
Nella produzione di medicamenti dell’ultima generazione, assume particolare rilevanza e diffusione
l’utilizzo delle tecniche dell’ingegneria biomolecolare, che permettono di utilizzare batteri in qualità di
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 6
fabbriche specializzate nel produrre le sostanze desiderate. In particolare, si utilizza la tecnica del DNA-
ricombinante applicata ai plasmidi dei batteri per farli poi lavorare, clonare i geni selezionati e
successivamente produrre le sostanze (generalmente proteine) per le quali il frammento di DNA codifica,
introducendo i geni clonati in cellule di animali. Si opera in questo modo, per esempio con le capre, alle
quali si fa produrre l’enzima tPA (attivatore del plasminogeno tissutale), utilizzato nella cura dell’infarto
miocardico e che le capre “transgeniche” riversano nel loro latte1.
I rapidi progressi seguiti dalla tecnologia del DNA-ricombinante permettono oggi praticamente di produrre
qualsiasi proteina desiderata in una cellula di nostra scelta. In questo modo si apre la possibilità di produrre
“materiali” e sostanze il cui potenziale applicativo è inimmaginabilmente vasto. Un esempio può essere
rappresentato dagli anticorpi monoclonali, utilizzabili per esempio nella cura di alcuni tumori. Questi
anticorpi riescono a produrre un’azione selettiva e senza effetti secondari nella cura di una malattia. La
ricerca si è diretta, quindi, sulla produzione di anticorpi monoclonali simili a quelli umani. Attualmente sono
attorno al centinaio e più i casi in cui questi tipi di anticorpi, per il momento nelle fasi 2 o 3 della ricerca
clinica (ossia in quelle fasi che prevedono la sperimentazione in vivo sugli animali e, rispettivamente, sugli
uomini, ossia su volontari sani), sono indicati.
Tuttavia, al rapido sviluppo della ricerca hanno fatto (e stanno tuttora facendo) riscontro assai limitati
progressi nel campo della produzione. Ciò è vero in particolare per quanto riguarda la separazione e
l’isolamento delle sostanze, per motivi unicamente finanziari. È infatti chiaro che, con l’impiego di animali
transgenici in qualità di “fabbriche di medicamenti”, la separazione delle sostanze assume un ruolo
economico di primaria importanza, per rapporto al costo totale della produzione del farmaco. Infatti, in molti
casi, questa quota sale addirittura fino all’80%2. Inoltre, le norme a proposito della purezza e della sicurezza
dei prodotti diventano sempre più (e sempre più velocemente) precise e severe, cosicché l’attenzione da
prestare all’eliminazione delle sostanze contaminanti e/o indesiderate assume sempre maggiore importanza.
Il metodo correntemente utilizzato è quello della cromatografia liquida ad alta pressione (High Performance
Pressure Liquid Chromatography, HPLC3).
Ora, nel campo dell’HPLC esiste la possibilità di usare vari tipi di cromatografia. In tutti, però, è necessaria
una fase stazionaria. L’ETHZ ha sviluppato un nuovo procedimento per la produzione di una fase stazionaria 1 JOHN H. POSTLETHWAIT, JANET L. HOPSON; Corso di biologia; Etas per le scuole superiori, 1999 2 MASSIMO MORBIDELLI, ALESSANDRO BUTTÉ; Materialien für die Reinigung biologischer Produkte, in
Bulletin ETH Zürich Nr. 295, November 2004, p. 25 3 HPLC fu originariamente la sigla di “High Pressure Liquid Chromatography”, giacché in un primo tempo
si credeva che fosse la pressione il principale fattore alla base delle aumentate possibilità rispetto ai metodi
tradizionali. Tuttavia non è così e, in realtà, le qualità dell’HPLC sono dovute a vari fattori, per cui è
preferibile usare il termine “High Performance Liquid Chromatography”. Per una presentazione dei vantaggi
dell’HPLC rispetto alle tecniche precedenti e dei fattori alla base dell’aumentata performance, si vedano i
capitoli 4.4.3.8-4.4.3.8.11, dedicati all’HPLC.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 7
solida e sta lavorando per cercare di produrla con sempre maggior precisione, ovvero stabilendo con sempre
maggior precisione le sue caratteristiche – dimensione, forma e struttura dei pori; eventuali loro altre
caratteristiche quali la polarità per un’eventuale applicazione come cromatografia a scambio ionico, o il
potere adsorbente e quello desorbente nel caso di un’eventuale applicazione come cromatografia per
adsorbimento, e così via (v. cap. 4.3 per la descrizione dei citati tipi di cromatografia).
Il tipo di cromatografia concettualmente più semplice è quello della cromatografia ad esclusione, in cui una
fase stazionaria solida funge da setaccio, da filtro attraverso cui si fa scorrere una miscela contenente le
molecole da separare. A titolo intuitivo (e ancora molto generale) ciascuno può capire che più si riuscirà a
stabilire la forma e la grandezza dei pori della fase stazionaria (delle maglie del setaccio) più si potrà
applicare questa tecnica ad ambiti vari ed interessanti.
A questo punto il lettore dovrebbe avere un’idea, seppure ancora vaga, dell’ambito della presente ricerca e di
quella in corso all’ETHZ. Quest’ultima si propone di riuscire a produrre materiali sempre più rispondenti alle
esigenze poste dalla cromatografia, aumentando le sue possibilità di applicazione e proponendola come
tecnica separativa sostitutiva ad altre, oggi praticate, molto più costose. La mia ricerca invece, stimolata da
quella dell’ETHZ, si propone dapprima di presentare in modo organico i vari tipi di cromatografia (teoria
generale sulla cromatografia) e le varie tecniche cromatografiche, in particolare quella su colonna e in
riferimento speciale all’HPLC, e successivamente presentare il lavoro di laboratorio da me effettuato presso
il Liceo di Locarno e l’ETH di Zurigo, che si è concentrato sull’uso di colonne cromatografiche per HPLC
impaccate con i polimeri prodotti dall’équipe del gruppo del prof. Morbidelli dell’ETHZ e dai miei
compagni di lavoro di maturità. La cromatografia da me effettuata è essenzialmente una semplice
cromatografia per filtrazione su gel, un tipo di cromatografia per esclusione, una tecnica separativa
concettualmente paragonabile a quella di un filtro, di un setaccio o di un colino.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 8
4. Parte I: Cromatografia
4.1 Etimologia e storia La cromatografia, etimologicamente derivata dal greco “khrômatos” (colore) e “graphía” (tratto da
“grápho”, scrivere), significa “scritto in colore”, o “scrittura col colore”. In realtà questo nome l’ha ricevuto
per caso, essendo stata sviluppata da un botanico che si stava occupando dei pigmenti dei cloroplasti. I suoi
principi non hanno nulla a che vedere col colore in sé, sebbene in molti casi le sostanze trattenute
cromatograficamente possono essere distinte grazie ai loro diversi colori o a tecniche di rilevamento
spettrofotometriche. Ma torniamo a noi. Le origini della cromatografia sono relativamente recenti, e
risalgono agli inizi del secolo scorso, più precisamente al 1901-1903, quando il botanico russo Michail
Semenovich Tswett (1872-1919) filtrò una soluzione di sostanze vegetali in una colonna riempita con del
carbonato di calcio, ottenendo una separazione dei pigmenti colorati e realizzando così la prima
cromatografia, che fu una cromatografia per adsorbimento (v. cap. 4.3.1). Tswett infatti la realizzò proprio
perché stava compiendo degli studi sui fenomeni di adsorbimento. Il suo interesse verso di essi era stato
catturato dal fatto che, in generale, i pigmenti dei cloroplasti non possono venire estratti con solventi apolari,
mentre che, una volta estratti, sono solubili in sostanze apolari, come il benzene. L’ipotesi che il botanico
russo avanzò fu che i pigmenti fossero adsorbiti su certi organelli dei cloroplasti, ovvero che i cloroplasti
avessero degli organelli (o comunque delle parti) con delle capacità di adsorbimento, atti cioè a fissare sulla
propria superficie delle molecole, degli atomi o degli ioni. Come vedremo più avanti, oggi si definisce
l’adsorbimento come quel fenomeno che avviene quando un solido o un liquido trattiene sulla propria
superficie delle sostanze (composti, molecole, ioni o altro) grazie a dei legami di tipo covalente o a ponte
idrogeno. È un fenomeno di tipo adsorbente anche quello in cui l’interazione avvenga tra ioni, con la
creazione di legami di tipo ionico. Tuttavia, nel campo cromatografico, si preferisce distinguere questo
fenomeno, concettualmente uguale all’adsorbimento, dandogli un nome proprio, come vedremo in seguito.
Ma torniamo al nostro Tswett. Per dimostrare la sua teoria, egli studiò il comportamento di varie misture di
pigmenti su substrati artificiali, accorgendosi così di avere scoperto una tecnica efficace per separare i
componenti di miscele altrimenti intrattabili.
Tswett però, che era nato ad Asti da madre italiana e padre russo e che aveva studiato a Ginevra, non venne
inizialmente ascoltato dagli scienziati, ai quali le sue procedure di cromatografia su colonna apparvero
troppo “qualitative” per scienziati che indagavano sostanze naturali che dovevano essere ottenute in grandi
quantità, visti i metodi analitici da loro usati. Insomma, quegli scienziati erano un po’ come i bambini, che
sono più impressionati da un esperimento grandioso e con l’uso di complesse apparecchiature che da un
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 9
procedimento che si limiti ad utilizzare pochi granelli di sostanza per scioglierli in soluzione e poi analizzarli
qualitativamente. Dobbiamo però tenerci lontani dalla polemica e ricordarci che il contesto storico, culturale
e scientifico in cui si svolsero questi fatti era diverso dal nostro, e che le nozioni di qualitativo e di
quantitativo potevano anche essere viste in un rapporto di antagonismo, anziché di collaborazione e
reciproco completamento, come dovrebbe essere – credo e spero – oggi. È nostro dovere, invece,
scandalizzarci quando oggi, alla luce di tutte le vicende simili avvenute in passato, la comunità scientifica
ignora ricerche rigorose, accurate e potenzialmente utilissime.
Se la scoperta di Tswett non fu inizialmente considerata con serietà dalla maggior parte degli scienziati, il
suo valore conoscitivo, legato alla qualità più che alla quantità, risaltò qualche anno più tardi, nello scontro
tacito che ci fu tra Tswett e il chimico tedesco Willstätter.
Nel 1901 Tswett aveva dichiarato che la cosiddetta “clorofilla cristallizzabile” era in realtà la miscela di
composti diversi, ossia quelle che noi oggi conosciamo come clorofilla a e clorofilla b. Willstätter però, che
aveva isolato da più di duecento specie diverse sempre la stessa clorofilla, sostenne esplicitamente che essa
era costituita da un unico pigmento. Nel 1912 però (due anni dopo la pubblicazione di “Cromofille dei regni
vegetale e animale” di Tswett, in cui questi spiegava sia le tecniche sperimentali che le proprie conclusioni),
anch’egli ammise che esistevano due tipi di clorofilla, e dimostrò anche che la clorofilla a aveva formula
55 72 5 4C H O N Mg , che la clorofilla b, una forma ossidata della precedente, aveva formula
2-55 70 5 4C H O N Mg e che le due forme avevano uno spettro d’assorbimento diverso. Willstätter, per arrivare
a queste conclusioni, aveva utilizzato le tecniche classiche della chimica organica, senza ricorrere alla
cromatografia. Ciò mise in ombra, per alcuni anni, il contributo scientifico di Tswett, ridotto a curiosità
tecnica. Tuttavia desta qualche perplessità il fatto che Willstätter si fosse fatto tradurre per uso privato il libro
pubblicato nel 1910 da Tswett, e anche il fatto che il chimico tedesco trattò, nell’opera pubblicata assieme ad
A. Stoll nel 1913 a Berlino, dell’impiego di procedure identiche a quelle del chimico russo, criticandone però
l’efficacia conoscitiva per il pericolo di cambiamenti di struttura durante la separazione, pericolo già esposto
peraltro dallo stesso Tswett.
Gli anni però resero onore a Tswett ed alla sua procedura. Nel settembre del 1930, il ventiduenne viennese
Edgard Lederer si recò ad Heidelberg, nel laboratorio diretto dall’allievo prediletto di Willstätter, Richard
Kuhn (1900-1967), per un lavoro di postdottorato. Compito del giovanissimo austriaco era di affrontare i
problemi posti dalle proprietà del pigmento della carota (allora ritenuto omogeneo) e dei composti ad esso
connessi. Lederer si fece aiutare dalla lettura di un libro del 1922 sui carotenoidi dell’americano L.S. Palmer,
che faceva riferimento al volume di Tswett. Lederer chiese a Kuhn informazioni su Tswett, e Kuhn gli fece
avere quella stessa “traduzione privata” che era stata di Willstätter. Nel dicembre del 1930 (ossia a soli tre
mesi dal suo arrivo ad Heidelberg), il giovane viennese applicò le procedure di Tswett sul colorante del
tuorlo d’uovo e dimostrò che era costituito da carotenoidi ossigenati. Nella primavera successiva pubblicò
poi (insieme a Kuhn e a Winterstein) vari lavori, in cui si descriveva una tecnica preparativa che impiegava
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 10
colonne di carbonato di calcio, come quelle usate e illustrate da Tswett vent’anni prima. Le fotografie di
cristalli di β-carotene sanzionarono poi il valore epistemologico della cromatografia.
4.2 La cromatografia, introduzione La cromatografia è una tecnica fisico-chimica per la separazione di sostanze disciolte in soluzione. La si può
collocare nell’ambito conoscitivo dell’analisi chimica strumentale. In realtà la cromatografia, in quanto
tecnica di separazione di sostanze, ha due funzioni: quella analitica, appunto, e quella produttiva, che si
sfrutta quando da una miscela si vuole isolare una o più sostanze da commercializzare.
In modo un po’ più scientifico, ma sempre ancora in termini generali, si può definire la cromatografia “come
quella tecnica per la separazione di una miscela di soluti (in soluzione), in cui la separazione si produce per
una differente velocità di spostamento dei singoli soluti in seno a un mezzo poroso sotto l’azione di un
solvente in moto”4.
Il principio generale di ogni procedimento cromatografico è il seguente. Si hanno due elementi, chiamati
fasi, uno che scorre nell’altro. Nelle prime cromatografie realizzate, il mezzo che scorreva era liquido o
gassoso, mentre l’altro era solido, ossia un mezzo era in movimento e l’altro era fisso. Per questo motivo si
parla, correntemente, di fase stazionaria e di fase mobile. Si ha poi la o le sostanza/-e da identificare e/o
separare, presenti in soluzione nella fase mobile, che passando attraverso (e/o a contatto con) la fase
stazionaria, permetterà ai soluti contenuti di interagire con quest’ultima. La fase mobile è l’insieme del
solvente e dei soluti. Mi preme precisare che, per quanto noi non tratteremo in questa esposizione tali tipi di
cromatografia, esistono delle tecniche che prevedono una fase stazionaria in movimento, allo scopo di
aumentare la velocità di scorrimento e di migliorare la risoluzione. Tali tecniche sono la cromatografia a letto
mobile e quella a letto mobile simulato (SMB).
Nel caso di uno scolapasta, potremmo dire, estendendo un po’ il concetto cromatografico e immaginando di
recuperare l’acqua scolata estraendone il sale, che lo scolapasta è la fase stazionaria; l’acqua il solvente; la
pasta e il sale le sostanze da separare e identificare; l’acqua, la pasta e il sale nel loro insieme la fase mobile.
Esistono vari modi per classificare le categorie cromatografiche. Quello più chiaro, indicato
successivamente, è quello di distinguere da un lato i tipi di cromatografia, e dall’altro i modi in cui si
possono realizzare, praticamente, le separazioni cromatografiche. Un altro modo, però, che non entra
necessariamente in concorrenza con gli altri due ma che vi si può anche aggiungere, a loro completamento, è
proprio quello di distinguere alcune tipologie di cromatografia a seconda dello stato (fisico) delle fasi
4 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 1
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 11
stazionaria e mobile. Si definiranno così la cromatografia liquido-liquido, la cromatografia solido-liquido, la
cromatografia liquido-gas, e così via.
Le possibilità che si hanno sono le seguenti: la fase stazionaria può essere solida, liquida o solida/liquida,
mentre la fase mobile può essere liquida o gassosa, e scorrerà attraverso la fase stazionaria.
La cosiddetta gascromatografia, citata anche in seguito, è difficile da collocare nelle categorie più avanti
presentate proprio perché la sua caratterizzazione deriva da questo tipo di suddivisione (ovvero è una
cromatografia in cui la fase mobile è allo stato aeriforme).
Ma torniamo a noi o, meglio, al principio generale, valevole per qualsiasi cromatografia, ossia alla presenza
di due fasi.
È importante dire che è fondamentale, affinché si possa effettuare una cromatografia, che le due fasi siano tra
loro immiscibili.
La grandezza base che si può definire per tutte le tecniche cromatografiche è quindi il cosiddetto coefficiente
di ripartizione (o coefficiente di distribuzione) dK , che descrive il modo in cui il soluto si distribuisce tra le
due fasi immiscibili. Esso è semplicemente definito come il rapporto tra le concentrazioni del soluto nelle
due fasi:
concentrazione nel solvente Aconcentrazione nel solvente B
=dK (per una sostanza posta in due volumi uguali di solvente A e B).
Questa formula è generale, e vale anche tra due fasi qualsiasi, per esempio solido/liquido, o gas/liquido. Nel
caso della cromatografia possiamo dunque scrivere, più generalmente e più correttamente:
dFsFmFsFm
d KCCCC
K ⋅=⇔= , dove (eq. 1)
FmC è la concentrazione nella fase mobile,
FsC è la concentrazione nella fase stazionaria e
dK è il coefficiente di ripartizione (/distribuzione) definito nella formula qui riportata.
Quest’ultimo è caratteristico per ogni sostanza analizzata e per ogni istante t considerato (oppure, giacché
passando il tempo la fase mobile scorre nella colonna, per ogni tratto di colonna considerato, ma è preferibile
riferirsi al tempo, siccome altrimenti si aprirebbe il problema sul modo in cui “sezionare” la colonna, ossia su
quanti e quanto grandi definire i tratti). Ne risulta quindi, in un grafico che abbina il coefficiente di
ripartizione (sull’ordinata) e il tempo (sull’ascissa), una retta descritta con una funzione di primo grado. Il
coefficiente di ripartizione è costante a temperatura costante, per cui tale funzione può anche prendere il
nome di isoterma di ripartizione.
Si può meglio capire quanto spiegato riferendosi ad un esempio. Prendiamo tre diverse specie molecolari
(che chiamiamo A, B e C), ognuna con un coefficiente di ripartizione diverso, rispettivamente 2=AdK ,
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 12
1=BdK e 2,0=
CdK . Otterremo un grafico come quello che segue, che descrive la concentrazione della
specie considerata nelle due fasi:
Figura 1
Ora che abbiamo presentato il coefficiente di ripartizione, possiamo esprimere la frase sopra riportata relativa
all’immiscibilità delle due fasi in questo modo, più matematico:
l’equilibrio tra le fasi stazionaria e mobile deve essere tale che FmFs dd KK ≠ .
Lo stesso rapporto descritto dall’equazione 1 può essere espresso dall’equazione qui riportata:
ms FF KCC = (eq. 2)
Queste due equazioni, che presentano sostanzialmente lo stesso rapporto (anche se inverso), rappresentano
una legge limite, ossia una descrizione teorica da cui nella pratica ci si discosta. Questa formula, infatti,
trascura i possibili fenomeni di saturazione della fase stazionaria, ed è chiaro che se un tratto di colonna
presenta una fase stazionaria satura non sarà possibile, su quel tratto, una ripartizione, ma l’analita rimarrà
sciolto nella fase mobile, almeno finché incontrerà un tratto insaturo. Il comportamento reale è descritto
dall’equazione di Langmuir:
FmFm
Fs CBCAC⋅+
⋅=
1, dove (eq. 3)
A e B sono delle costanti empiriche.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 13
Isoterme di ripartizione secondo Nernst (comportamento ideale) e secondo Langumuir (comportamento reale)
Figura 25
Mi preme precisare che sia le equazioni 1 e 2, sia l’equazione 3 sono costanti a temperatura costante, e
quindi tutte e tre prendono entrambe il nome di isoterme di ripartizione. È dunque chiaro che, per conoscere
il comportamernto di una data sostanza, bisognerà tracciare più isoterme, a varie temperature.
Per chiarezza occorre subito dire che esistono vari tipi di cromatografia e vari metodi cromatografici. È
importante distinguere bene questi due termini, che non sono sinonimi: da un lato abbiamo le tecniche,
dall’altro le tecnologie con cui queste tecniche possono venire impiegate.
I tipi di cromatografia, ossia le tecniche cromatografiche, sono cinque:
· cromatografia per adsorbimento
· cromatografia per ripartizione
· cromatografia a scambio ionico
· cromatografia ad esclusione
· cromatografia per affinità
I metodi in cui si possono realizzare, nella pratica di laboratorio, le separazioni cromatografiche sono invece
tre:
· cromatografia su colonna
· cromatografia su strato sottile
· cromatografia su carta.
5 Immagine tratta da G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia
editori; Milano; 1979; p. 433 (Fig. XIII.5)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 14
La gascromatografia è un procedimento cromatografico che, per evidenti motivi, può essere condotto
unicamente su colonna. Esso può sfruttare uno o più tipi di cromatografia tra i cinque sopra elencati. In
questo lavoro non verrà trattata la gascromatografia.
Vediamo ora una per una le possibili tecniche cromatografiche.
4.3 I t ipi di cromatografia
4.3.1 CROMATOGRAFIA PER ADSORBIMENTO Essa si basa sull’equilibrio d’adsorbimento tra una fase stazionaria solida e una fase mobile liquida o gassosa
(meglio sarebbe dire aeriforme). Un adsorbente è un solido che ha la proprietà di tenere legate delle molecole
sulla propria superficie. Tale capacità aumenta se il solido è poroso, ossia finemente diviso e con una
superficie ampia.
Si presti attenzione al fatto che l’adsorbimento è un fenomeno di tutt’altro genere dell’assorbimento, essi non
vanno confusi. Se l’assorbimento è la penetrazione di una sostanza nella massa di un’altra, l’adsorbimento è
un fenomeno superficiale, che comporta una più alta concentrazione all’interfaccia tra le due fasi (ossia sulla
superficie della fase stazionaria) che non nel mezzo circostante.
L’adsorbimento è in genere abbastanza specifico per ogni sostanza, e quindi un soluto può venire
selettivamente adsorbito a partire da una miscela etero- o omogenea. La cromatografia per adsorbimento non
fa infatti altro che sfruttare, per ottenere una separazione, piccole differenze nell’adsorbimento e
desorbimento delle sostanze tra un solvente in moto (liquido o gassoso) e una fase stazionaria solida.
Altrimenti detto, il solvente percola attraverso la fase stazionaria e fenomeni di adsorbimento selettivo tra
adsorbente e solvente determinano quella che viene chiamata migrazione differenziale delle sostanze da
separare.
In conclusione di questo capitolo vedremo meglio come in realtà la cromatografia per adsorbimento su
colonna consista non in una sola, ma in tre fasi distinte. Per ora, tuttavia, e per poter seguire con chiarezza
tutte le osservazioni relative ai materiali usati per gli adsorbenti e per i solventi, basta considerare quanto qui
detto, ossia quella che in realtà è la prima fase della cromatografia per adsorbimento.
La cromatografia per adsorbimento può essere eseguita su colonna o su strato sottile.
Affinché all’adsorbimento non si sommino gli effetti della ripartizione (v. sotto, cap. 4.3.2) è necessario che
il materiale adsorbente utilizzato per la fase stazionaria sia anidro (ossia privato di acqua, “disidratato” per
usare una terminologia del linguaggio corrente).
Nel campo cromatografico, il termine adsorbimento viene associato a quelle interazioni, che si instaurano tra
la fase stazionaria e i soluti presenti nella fase mobile, causate da legami a ponte idrogeno o covalenti, e dalle
più deboli forze elettrostatiche. Quando le interazioni sono di carattere ionico, al processo si dà il nome di
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 15
scambio ionico. Si considerano questi due tipi di cromatografia - adsorbimento e scambio ionico - come
distinti in quanto differenti da un profilo realizzativo e pratico, ma concettualmente la base è la stessa, ed è
quella appena esposta.
Ma vediamo un po’ meglio cosa avvenga durante il fenomeno d’adsorbimento. Ora, i siti adsorbenti, detti
anche siti attivi (con una terminologia che ricorda quella usata in biologia per gli enzimi), nei materiali tipo
gel di silice e allumina (i materiali adsorbenti più usati6) sono dovuti soprattutto alla presenza di difetti di
struttura (fratture, spigoli, ecc.), dove le forze elettrostatiche del reticolo cristallino della fase stazionaria
sono parzialmente rivolte verso l’esterno. In questo modo, queste forze possono interagire con le forze
elettriche delle molecole di soluto, dando così luogo al fenomeno dell’adsorbimento. È evidente che quanto
più è grande la separazione di carica nelle molecole di soluto, ossia quanto è più grande la loro polarità, tanto
più grande sarà la forza adsorbente.
Nella pratica di laboratorio, la cromatografia per adsorbimento liquido/solido si applica con i migliori
risultati a sostanze di polarità media o bassa. Questo è facilmente intuibile, giacché sostanze molto polari
vengono adsorbite e trattenute nel primo tratto della colonna.
In un sistema cromatografico per adsorbimento, si devono considerare tre variabili indipendenti:
l’adsorbente, il solvente e le sostanze che devono essere cromatografate. Le separazioni sugli adsorbenti
sono dovute al fatto che si stabilisce un equilibrio tra le molecole adsorbite sulla fase stazionaria e quelle
libere nel solvente in moto (eventualmente precedentemente già adsorbite e poi desorbite), con molecole
singole che passano da una fase all’altra. Si tratta infatti, come sempre in chimica, di un equilibrio dinamico,
non statico. Chiaramente, se le molecole di un particolare componente presentano grande affinità per
l’adsorbente, tale componente si muoverà solo lentamente lungo la colonna (o sullo strato sottile), mentre un
altro componente, con minore affinità, si muoverà più rapidamente e, nel caso di una cromatografia su
colonna, uscirà prima dalla colonna. Compito del cromatografista è dunque scegliere il sistema di adsorbente
e solvente adatto, in modo da avere la migliore separazione per una miscela data. Una regola generale è
quella di accoppiare la polarità del solvente con quella del campione e di impiegare adsorbenti più potenti (o
più attivi che dir si voglia) per le sostanze apolari o poco polari, e gli adsorbenti meno attivi per le sostanze
più polari7.
Per quanto concerne la scelta del solvente, si può capire la regola considerando quanto segue. Da un lato è
chiaro che è impossibile sciogliere una miscela altamente polare in un solvente completamente apolare, in
quanto si sa che vale la regola semplice ma efficace del “simile scioglie il simile”. Dall’altro c’è anche un
altro fattore da considerare. Anche se la differenza di polarità, per quanto grande, permettesse comunque una
certa solubilità, bisogna tenere infatti presente che, se scegliessimo un solvente polare per una miscela di
sostanze apolari, otterremmo che le molecole di solvente si adsorbiranno preferenzialmente, e così il 6 secondo DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano,
p. 14 7 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 15
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 16
campione si muoverà rapidamente lungo il sistema, senza che la miscela si separi nei suoi componenti.
Viceversa, se usassimo un solvente apolare per una miscela polare, la miscela si adsorbirebbe all’inizio e
anche in questo caso non avverrebbe nessuna separazione.
Per quanto attiene alla polarità della fase mobile, si dica qui ancora che, in generale, la sua polarità è
paragonabile a quella dell’analita più polare presente nella miscela da separare. Come risulta però chiaro al
lettore attento, si tratta di una semplificazione estrema, forzatamente semplicistica, che non considera quindi
i possibili “giochi” nell’accoppiamento tra analiti e solventi appena esposti. Tuttavia, come primo elemento
di valutazione, per lo studente curioso e desideroso di sperimentare che si trova però alle prime armi, questa
considerazione mantiene il suo valore.
È chiaro anche il ragionamento che determina la scelta degli adsorbenti. Essa viene effettuata in modo da
adattare la forza dell’adsorbente alla polarità dei campioni. Se infatti avessimo un adsorbente molto polare
per una miscela contenente componenti anch’essi assai polari, tutta la miscela tenderebbe ad adsorbire
all’origine del sistema cromatografico, e non otterremmo nessuna separazione. Viceversa se avessimo una
miscela apolare accoppiata ad un adsorbente apolare. Calibrando invece la forza dell’adsorbente in modo da
compensare la polarità della miscela, si riesce a raggiungere la giusta via mediana che permette ai vari
componenti della miscela di venire adsorbiti in modo diverso, e che fa sì che la polarità dell’adsorbente sia
situata proprio nello spettro che meglio distingue i vari componenti.
Per facilitare la scelta opportuna dei solventi e degli adsorbenti, sono state preparate delle tabelle, facilmente
consultabili. Esse però possono trarre talvolta in inganno, giacché esistono delle eccezioni, ossia può talvolta
capitare che si verifichino delle inversioni, specialmente tra due particolari solventi (meno sovente tra due
materiali adsorbenti)8.
Teoricamente, qualsiasi liquido può venire usato come solvente nella cromatografia per adsorbimento, e si
possono a tal scopo utilizzare anche miscele di due o più liquidi diversi, per esempio di differenti polarità.
Così, il numero dei solventi utili, per il cromatografista, si amplia assai. Non così per gli adsorbenti utili.
Questi sono molti meno.
La maggior parte dei solidi usati per la cromatografia per adsorbimento (su strato sottile o in colonna) sono
ossidi metallici, ossidi idrati e sali. Alcuni esempi possono essere l’acido silicilico (o gel di silice), l’ossido
d’alluminio (o allumina, di formula 2 3Al O ), carbonato di calcio, carbonato di magnesio, carbonato di zinco,
ossido di magnesio, cellulosa e idrossiapatite (o, più semplicemente, fosfato di calcio). Quest’ultima, in
particolare, è l’adsorbente più comunemente usato per la separazione di proteine, acidi nucleici e virus,
perché possiede proprietà di scambio ionico, che migliorano la separazione. Si tratta cioè già di una
cromatografia per scambio ionico (vedi quanto accennato sopra e il cap. 4.3.4).
8 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 15
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 17
Molti adsorbenti tendono ad assorbire (si faccia attenzione che ci stiamo qui riferendo all’assorbimento, e
non all’adsorbimento) l’umidità dell’aria, mutando così le loro proprietà. Bisogna allora scaldare
l’adsorbente a 110°C per il tempo necessario per rimuovere l’acqua e rendere così anidra la fase stazionaria.
A proposito dello scarso numero di adsorbenti utili, si consideri che ho qui indicato, a titolo quasi di
curiosità, una lista dei possibili materiali adsorbenti, ma quelli comunemente impiegati sono essenzialmente
due: il gel di silice e l’allumina9.
In pratica, infatti, si usano questi due adsorbenti, e si alterano poi i solventi o si varia il potere adsorbente
dell’adsorbente utilizzato (fra questi due), di solito “giocando” con quantità controllate di acqua. Infatti,
come già detto qualche riga sopra, la presenza più o meno marcata di acqua negli adsorbenti cambia le loro
proprietà. La forma anidra è quella più attiva, e viene preparata (come detto sopra) per forte riscaldamento,
allontanando così tutta l’acqua per semplice evaporazione, e tutti i contaminati organici. Viceversa, i gradi di
attività minore si producono aggiungendo quantità ben determinate di acqua. Quest’ultimo procedimento
prende il nome di deattivazione.
La forma anidra è quella “standard”, la forma normalmente usata in cromatografia10, in quanto, quando fosse
presente dell’acqua, agli effetti dell’adsorbimento si sommerebbero quelli della ripartizione, e in questo caso
non si tratterebbe più di una cromatografia per adsorbimento “pura”, ma di una cromatografia che combina la
cromatografia per adsorbimento e quella per ripartizione. Ciò non toglie, tuttavia, che in uno stadio
applicativo più complesso non si possano combinare queste due tecniche cromatografiche in un’unica
separazione, col vantaggio di poter variare anche il potere adsorbente dell’adsorbente impiegato.
Come si potrà meglio capire al termine del capitolo sulla cromatografia per ripartizione (cap. 4.3.2), infatti,
“rivestendo le particelle con una piccola quantità di una fase liquida, è possibile combinare le capacità di
separazione dell’adsorbimento e della ripartizione”11
Si ricordi che “gli adsorbenti, con la loro altissima area superficiale, spesso agiscono come potenti
catalizzatori e in alcuni casi possono dar luogo durante la separazione a importanti trasformazioni chimiche
nei composti di una miscela”12.
9 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 16 10 Molti testi dicono semplicemente che la colonna (o lo strato sottile) viene riempita (/viene preparato) con
materiale adsorbente anidro. Così, per esempio, G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e
tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p. 429, o http://www.pacifici-
net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html . Noi stessi, in questo stesso capitolo,
abbiamo inizialmente spiegato che il materiale adsorbente deve essere anidro, per evitare una
sovrapposizione degli effetti dell’adsorbimento e della ripartizione. 11 Ibidem, p. 17 12 Ibidem, p. 16
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 18
Vorrei ancora ricordare che, essendo ogni cromatografia caratterizzata anche dal coefficiente di ripartizione
sopra definito, anche nel caso della cromatografia per adsorbimento la separazione non dipende solo dal
potere adsorbente della fase stazionaria, ma anche dall’equilibrio di ripartizione tra la fase mobile e quella
stazionaria, definito appunto dal coefficiente di ripartizione. In particolare, sarà consigliabile far sì che la
sostanza più adsorbita sia anche la meno solubile nell’eluente utilizzato per il trasporto.
Si presti inoltre attenzione al fatto che il potere adsorbente della superficie della fase stazionaria decresce
all’aumentare del carico, poiché i siti più attivi vengono occupati per primi, e sul cromatogramma (nel caso
di una cromatografia su colonna) si presenterà una coda, in quanto le molecole adsorbite facilmente
accessibili si desorbiranno velocemente, mentre quelle situate in zone per così dire più discoste si
desorbiranno più tardi, dando origine allo scodamento. Si cercherà quindi di ottenere un rapporto adsorbente
: campione il più alto possibile.
Una ragione dell’interesse del gel di silice per la cromatografia per adsorbimento risiede proprio nella sua
capacità molto alta di separare una grande quantità di miscela, ossia di sopportare un alto carico di sostanza
da analizzare o produrre.
Come promesso in apertura di capitolo, prima di concludere la presentazione della cromatografia per
adsorbimento, do una rapida ma più completa spiegazione di come avvenga, praticamente, una cromatografia
per adsorbimento su colonna.
Essa consiste, come preannunciato, di tre fasi.
La prima, già esposta, è quella in cui si fa percolare la fase mobile attraverso quella stazionaria, lasciando
“lavorare” le interazioni di adsorbimento e di desorbimento selettivi.
La seconda, che prende il nome di sviluppo, è volta a rendere ben netta la separazione, che per il momento
non è ancora così “nitida”, né definitiva. Per renderla tale, si fa percolare attraverso la colonna un flusso di
solo solvente (lo stesso di prima o anche uno diverso), per riportare in soluzione i componenti più solubili e
depositarli poi in modo definitivo a seconda della loro rispettiva adsorzione, localizzando così i vari
componenti in modo definitivo in zone ben distinte della colonna.
Per finire, occorre prelevare i vari componenti. Le tecniche possibili sono due.
Una è quella dell’eluizione, che consiste nel far percolare attraverso la colonna solventi adeguati per
riportare in soluzione, uno alla volta, i vari componenti. Se si effettuerà una cromatografia a scopo
preparativo si avrà cura di raccogliere i componenti (chiamati ora anche eluiti) in recipienti separati. Se
invece si effettuerà una cromatografia a scopo analitico, basterà inviare gli eluiti (o anche il flusso di eluente
raccolto in fondo alla colonna, se si vuole lavorare in continuo) ad un apparecchio spettro fotometrico, o
eventualmente al proprio occhio se si riuscissero ad identificare i componenti ad occhio nudo, o ancora
raccogliendo campioni da sottoporre a determinati test chimici se non fosse possibile identificare altrimenti
le varie sostanze separate cromatograficamente.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 19
La seconda tecnica utilizzabile è quella dell’estrusione, consistente nell’estrazione dalla colonna dell’intero
materiale di riempimento (chiamato carota) e nella separazione (mediante spatola o coltello) delle varie
bande.
4.3.2 CROMATOGRAFIA PER RIPARTIZIONE La cromatografia per ripartizione prevede di separare miscele di sostanze, sfruttando la ripartizione tra un
solvente in movimento e un liquido stazionario, aderente ad un supporto solido. Il solvente può essere un
liquido (e si avrà così una cromatografia liquido/liquido) o un gas (e si avrà così una cromatografia
gas/liquido). Da un punto di vista teorico queste due tecniche sono strettamente legate, ma i loro dettagli
pratici sono diversi. Avendo deciso di non trattare la gascromatografia, ci concentriamo qui sulla
cromatografia per ripartizione liquido/liquido. Quest’ultima può venire eseguita su colonna, su strato sottile o
su carta.
Qualsiasi mezzo venga impiegato, sempre vi è un solvente (che, assieme alle sostanze da analizzare,
costituirà la fase mobile) e un materiale che fungerà da supporto per l’acqua (questo supporto, assieme
all’acqua, costituirà la fase stazionaria). Di conseguenza, la cromatografia per ripartizione liquido/liquido è
usata soprattutto per la separazione di sostanze solubili in acqua. Il principio stesso della ripartizione
prevede, infatti, di sfruttare la diversa solubilità degli analiti nelle due fasi, vale a dire nel solvente della fase
mobile e nell’acqua della fase stazionaria. Se dunque più di una sostanza da analizzare non fosse solubile in
acqua, il processo cromatografico sarebbe inutile, perché tali sostanze uscirebbero dal loro percorso senza
essersi separate, ma sempre ancora completamente sciolte nel solvente.
L’acqua, o più in generale il liquido posto sul supporto scelto, verrà “intrappolata” sul supporto, non potrà
cioè muoversi. Per questo motivo, acqua e supporto (assieme) costituiscono la fase stazionaria. Sopra di essa
fluiscono invece il solvente e gli analiti ivi disciolti, che formano la fase mobile.
Ora, come già accennato, nella cromatografia per ripartizione “pura” (ossia quella dove l’unico fenomeno
sfruttato è quello della ripartizione), l’unico fattore ad influenzare il movimento di un analita è la solubilità
relativa dell’analita stesso nella fase stazionaria e nella fase mobile. Sostanze solubili solo nel solvente
migreranno per un percorso uguale a quello compiuto dal fronte del solvente, mentre composti solubili solo
nella fase stazionaria rimarranno al punto di partenza. In realtà, spesso al fenomeno di ripartizione se ne
sommano altri, come l’adsorbimento, per cui la separazione è influenzata da più fattori.
Possiamo immaginarci la carta, lo strato sottile o la colonna come una fila di cellette adiacenti (sebbene
l’aggiunta di solvente sia continua). Nel caso di una cromatografia su colonna tali cellette prenderanno il
nome di piatti teorici, e il loro numero (o la loro lunghezza) saranno una caratteristica importante della
colonna stessa, come vedremo più avanti. Appena la fase mobile raggiunge la prima cella, le sostanze
contenute nel solvente in moto si ripartiranno tra le due fasi secondo la legge di ripartizione (v. eq. 1). Il
solvente si muoverà di nuovo, proseguendo il suo percorso, incontrando così un’altra cella contenente (per il
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 20
momento) solo il liquido della fase stazionaria (per es. acqua), mentre altro solvente (nuovo) verrà in
contatto con la prima cella, su cui avrà luogo una seconda ripartizione. Questo processo è noto come
distribuzione in controcorrente.
Prendiamo ad esempio, per meglio illustrare quanto esposto, una miscela di due sostanze, che chiamiamo A e
B. Effettuiamo una cromatografia su carta, e come liquido per la fase stazionaria usiamo dell’acqua.
Mettiamo che A abbia un coefficiente di ripartizione tra la fase stazionaria e quella mobile di 2:1, e che il
coefficiente di ripartizione di B sia 1:2. Possiamo vedere una rappresentazione di ciò che abbiamo sopra
spiegato nella seguente figura, in cui i cerchietti neri rappresentano molecole della sostanza A e le crocette
quelle della sostanza B:
Ripartizione, disegno
Figura 313
Dopo dieci ripartizioni (ossia dopo che il solvente abbia incontrato dieci cellette), si otterrà un grafico simile
al seguente:
13 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 6 (fig. 1)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 21
Ripartizione, grafico
Figura 414
Come si può vedere, le due sostanze hanno già cominciato a separarsi. Ripetendo questo processo molte
volte, si darà luogo ad una netta separazione delle due sostanze.
Fondamentale e fondante è la proprietà che segue: con un determinato sistema cromatografico, il movimento
di un qualsiasi composto rispetto al fronte del solvente è una proprietà riproducibile e caratteristica di tale
composto.
Nel caso di una cromatografia su carta o su strato sottile si può esprimere questa proprietà con una grandezza
appositamente definita, chiamata fR e definita da
shR f = , dove (eq. 4)
h è la distanza percorsa dalla sostanza (ossia distanza della macchia relativa ad un analita dalla linea di
partenza)
s è la distanza percorsa dal fronte del solvente15.
14 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 6 (fig. 1) 15 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 31
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 22
Questa grandezza è una misura della velocità con cui la sostanza, sotto l’azione del solvente, è migrata lungo
la carta.
fR è influenzato, oltre dal solvente, dalla temperatura, dalla fase stazionaria e dalle particolari condizioni
operative. Poiché il valore assoluto dell’ fR è spesso assai influenzato da queste variabili, è preferibile
ricorrere alla determinazione di fR relativi. Per farlo, si unisce al campione una sostanza di riferimento, che
appartenga alla stessa categoria di composti da separare e il cui fR sia noto. Sia H lo spostamento della
sostanza di riferimento dalla linea di partenza ed X, Y, Z le distanze da detta linea di tre sostanze separate.
Gli fR relativi di queste sostanze saranno, rispettivamente:
HXR fX = ;
HYR fY = ;
HZR fZ = .
Gli fR relativi si possono anche indicare con xR 16 e sono per esempio spesso utilizzati nel campo degli
zuccheri, dove si è soliti riferirsi al glucosio, impiegando – in luogo di valori di fR , valori di GR 17.
Conosciuto l’ fR relativo di una sostanza A e l’ fR assoluto della sostanza di riferimento, si può risalire
all’ fR assoluto di A per il tramite della semplice relazione:
.... rifsostassrelass fff RRR ⋅= 18 (eq. 5)19
Per la cromatografia su colonna, invece, i valori di fR non hanno la stessa rilevanza, giacché non è
possibile identificare con facilità la posizione del fronte del solvente, né quella dei composti nella colonna.
Nel caso di una cromatografia su carta o su strato sottile si può ricorrere, per realizzare separazioni più
complete e nette, alla cromatografia bidimensionale. In pratica non si fa altro che eseguire, in successione,
dapprima un cromatogramma monodimensionale e poi, ruotando il foglio di 90°, un secondo
cromatogramma, utilizzando – all’occorrenza – anche un solvente diverso. Ne risulterà un cromatogramma
bidimensionale, dove le macchie non risolte dal primo cromatogramma lo saranno, di certo, dal secondo. La
carta cromatografata per la prima volta viene infatti asciugata, girata di 90° e sviluppata nuovamente. In tal
modo il cammino percorso dalle macchie viene notevolmente allungato. Vantaggio della cromatografia
bidimensionale è dunque quello di un risultato migliore. Una sostanza così cromatografata può essere
16 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p.32 17 Ibidem 18 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979; p.
437 19 cfr.
.. solrelass fff RRR ⋅= (G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia
editori; Milano; 1979; p. 437)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 23
identificata confrontando la sua posizione con quella di una sostanza standard (sia posta sullo stesso
cromatogramma, sia cromatografata su un altro cromatogramma bidimensionale, preparato allo stesso
modo).
Figura 520
21
20 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano; p. 33 (fig. 14) 21 Immagine tratta da http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html
direzione di flusso
d l i l t
direzione
di flusso
del
separazione
se viene
usato solo
il secondo
separazione
se entrambi
i solventi
vengono
separazione
se viene
usato solo
il primo
Figura 6
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 24
Benché nelle cromatografie per ripartizione la cellulosa e il gel di silice agiscano semplicemente come
supporto dell’acqua (o di un altro liquido impiegato nella realizzazione della fase stazionaria), tuttavia essi
presentano caratteristiche peculiari diverse, che ne consigliano l’impiego nei singoli casi.
La cellulosa è un polimero del glucosio, e presenta per questo motivo un certo numero di gruppi ossidrile
(-OH). La cellulosa è perciò polare, ed è dunque indicata per le separazioni delle sostanze solubili in acqua,
quando l’adsorbimento non è desiderato.
Il gel di silice invece possiede in una certa misura le caratteristiche di un adsorbente. Esso è preparato
facendo reagire dell’acido cloridrico concentrato (HCl) con una soluzione di silicato di sodio. Per via della
sua natura inorganica, il gel di silice è indicato quando si richiedano metodi corrosivi per la rivelazione (è per
esempio il caso della cromatografia su strato sottile), ma anche per la separazione di sostanze solubili in
acqua, ma meno polari, quando cioè l’adsorbimento va ad influenzare il risultato.
Si vede bene come il concetto di polarità, così centrale in chimica, sia di grande rilevanza pure nel campo
cromatografico. A tale proposito, occorre aggiungere ancora due informazioni. La prima è che “il carattere di
adsorbimento delle molecole aumenta all’aumentare della polarità”22. La seconda è invece che “la polarità
delle sostanze aumenta quando esse vengono sciolte in solventi polari”23. Per questo motivo è possibile che
la polarità dei componenti di una miscela sia molto più grande in una cromatografia liquido/liquido che non
in una cromatografia gas/liquido. Infatti, non essendoci nella gascromatografia un solvente (ma
semplicemente il campione allo stato aeriforme, trasportato in un gas inerte), non vi è nessuna interazione
tra sostanze, cosa che invece avviene tra i soluti e il solvente costituenti la fase mobile di una cromatografia
liquido/liquido24.
22 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p.9 23 Ibidem 24 La gascromatografia (in sigla GC), al di là di questo fatto (ossia che non aumenta la polarità delle molecole
da separare, e quindi risulta meno indicata in analisi per adsorbimento in cui si desidera separare molecole
polari), presenta, per rapporto all’HPLC (v. capp. 4.4.3.8-4.4.3.11), un grosso vantaggio e due importanti
svantaggi. Il pregio della GC è che, utilizzando dei rivelatori molto sensibili e non avendo un solvente in cui
il campione è disciolto, questa tecnica permette di recuperare campioni estremamente puri. I punti a sfavore
della GC sono invece che le quantità iniettate sono infime, e ciò rende difficile un loro recupero in
separazioni svolte a scopo produttivo (e, oltre a ciò, occorre spesso azoto liquido per raffreddare le sostanze
da recuperare), e che si ha una bassa produttività. Ossia – essendo piccole le quantità iniettate e separate –
occorre ripetere il procedimento moltissime volte per ottenere quantitativi di rilevanza industriale o
farmacologia. Ciò rende le separazioni produttive con GC molto lunghe e costose.
Da tutto ciò risulta che la GC è un ottimo metodo di analisi, ma è un procedimento separativo di poco
interesse: per le separazioni si preferisce usare l’HPLC.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 25
4.3.3 CROMATOGRAFIA A FASE NORMALE E A FASE INVERSA In particolare riferimento alla tecnica cromatografica per ripartizione, ma anche (in minor misura) a quella di
adsorbimento (dove comunque avviene spesso anche una ripartizione e dove la polarità delle due fasi
influisce in modo fondante sulla ritenzione selettiva dei campioni), esistono due tecniche diverse, utilizzate a
dipendenza della polarità delle due fasi e dei composti da analizzare: la cromatografia a fase normale e la
cromatografia a fase invertita, detta anche cromatografia a fasi invertite25.
Nella cromatografia a fase normale, il letto della fase stazionaria è piuttosto fortemente polare (per es. gel di
silice), mentre la fase mobile è apolare (per es. normal-esano, o tetraidrofurano26). Campioni polari sono così
trattenuti sulla superficie polare della fase stazionaria più a lungo dei materiali meno polari.
Nella cromatografia a fase inversa, invece, la situazione è invertita: il letto della fase stazionaria è apolare (o
idrofobico) mentre la fase mobile è polare (per es. una miscela di acqua e metanolo o acqua ed acetonitrile27).
In questo modo, più il materiale è apolare, più sarà ritenuto a lungo.
Si potrà meglio capire questa distinzione e, soprattutto, l’utilità di questi due metodi possibili, in riferimento
ad un esempio concreto. Prendiamo una cromatografia su carta, in cui la striscia di carta costituente la fase
stazionaria è impregnata di acqua e il solvente ha una polarità associata a quella della miscela contenente i
campioni da analizzare. Nel caso in cui le sostanze da analizzare fossero pochissimo solubili in acqua (ossia
pochissimo polari o addirittura apolari), non si potrebbe effettuare nessuna separazione, in quanto i composti
si muoverebbero con la stessa velocità del solvente (apolare o poco polare) utilizzato.
Per poter separare tale tipo di sostanze si essicca la carta e la si impregna poi con una sostanza di bassa o
nulla polarità (come per esempio olio d’oliva, olio di silicone, paraffina o lattice di gomma28). La carta così
impregnata assorbe il componente apolare del solvente, e così avviene una ripartizione tra questo e il
solvente in grado di dar luogo ad una separazione. Questo processo separativo prende il nome di
cromatografia su carta a fase inversa, o a fasi invertite.
I solventi utilizzati per le separazioni a fase inversa sono di solito composti da un liquido organico apolare
contenente una piccola quantità d’acqua.
È evidente che questi due tipi di cromatografia (a fase normale e a fase invertita) sono importantissime da
considerare, a dipendenza delle sostanze da separare. Nel seguente ragionamento ci riferiamo, per semplicità,
alla cromatografia su colonna (ma le conclusioni ed i concetti sono validi per ogni cromatografia). Se, infatti,
i soluti saranno polari, occorrerà che si utilizzi un solvente polare ed una fase stazionaria apolare,
principalmente per due motivi:
25 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 38 26 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 27 Ibidem 28 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 38
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 26
1. i soluti devono potersi sciogliere nel solvente (e, in generale, più sono solubili, o addirittura miscibili,
meglio è);
2. se la polarità dei soluti e della fase stazionaria è troppo simile, i primi – avendo fortissima affinità con
quest’ultima – rimarranno trattenuti in modo considerevole, impedendo o perlomeno rallentando il
flusso, con conseguente diminuzione della risoluzione.
4.3.4 CROMATOGRAFIA PER SCAMBIO IONICO Le separazioni per scambio ionico, come quelle per adsorbimento, sfruttano le interazioni elettriche tra le fasi
stazionaria e mobile. Se, però, nella cromatografia per adsorbimento si sfruttano legami covalenti e a ponte
idrogeno, nella cromatografia a scambio ionico ci si riferisce alle interazioni tra ioni. Addirittura, come il
nome stesso suggerisce, non si tratta più di semplici attrazioni-repulsioni che si rendono visibili,
macroscopicamente, come adsorbimento e desorbimento, bensì di vere e proprie interazioni chimiche, con
scambio di ioni. Avvengono cioè delle reazioni chimiche di sostituzione, in cui sostituenti e sostituiti sono
degli ioni. Questa tecnica cromatografica è quindi, assieme a quella per affinità, un metodo separativo che
sfrutta fenomeni di tipo chimico, e non di tipo fisico. Va infatti sottolineato non solo che avvengono delle
reazioni chimiche, ma anche che durante un processo cromatografico a scambio di ioni i materiali coinvolti
non subiscono grandi cambiamenti fisici.
La cromatografia a scambio ionico è condotta con l’uso di materiali speciali, aventi una struttura porosa
insolubile che abbia dei gruppi reattivi, a cui siano legati in modo labile degli ioni, capaci di scambio con gli
ioni del mezzo circostante, la fase mobile nel nostro caso. In questo modo, i materiali scambiatori usati in
cromatografia a scambio ionico sono capaci di sottrarre (e successivamente restituire) alle soluzioni che li
attraversano ioni (sia positivi che negativi). È logico dunque aspettarsi che esistano due tipi di materiali per
scambio ionico: uno per scambiare cationi ed uno per scambiare anioni. In realtà è proprio così: i materiali
avranno dei legami con ioni positivi se si vorrà avere uno scambio cationico, mentre essi avranno legati degli
ioni negativi se si desidera far avvenire uno scambio anionico.
Già da questa prima spiegazione risulta evidente che la cromatografia per scambio ionico, per forza di cose,
può venire impiegata unicamente per separare sostanze ioniche, che vanno dai semplici ioni inorganici a
quelli organici, e ai più complessi polielettroliti, quali gli enzimi, le proteine, gli ormoni, i virus, gli acidi
nucleici e ancora altre sostanze di rilevanza biologica.
Il principio su cui si basa questo tipo di cromatografia è l’attrazione che si verifica tra ioni di segno opposto
e, ed è qui che risiede l’interesse di questa tecnica, molti materiali biologici (per esempio amminoacidi e
proteine) possiedono gruppi ionizzabili, che possono portare una carica netta (positiva o negativa).
Si presti attenzione al fatto che questo processo cromatografico ha sempre luogo in una soluzione liquida,
normalmente acquosa. D’altra parte era logico aspettarselo, giacché occorre avere una soluzione contenente
ioni.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 27
Comunemente si utilizzano tre tipi di materiali adatti allo scambio cationico: le resine, i gel e le cellulose per
scambio ionico. Le differenze sono da un lato dovute ai gruppi scambiatori che vi si possono incorporare (ma
che possono talvolta essere incorporati, per esempio, sia su una resina che su una cellulosa), e dall’altro alla
microstruttura caratteristica di ciascuno di questi materiali. È proprio quest’ultima caratteristica a
differenziare, principalmente, questi tre tipi di sostanze, giacché i gruppi scambiatori possono talvolta essere
“attaccati” sia ad una resina, sia ad un gel, sia ad una cellulosa.
Una prima differenza, che si può ben cogliere nella figura 6, è che le resine presentano delle dimensioni dei
pori molto più piccole di quelle dei pori delle altre sostanze. Di conseguenza, le resine sono utilizzate
soprattutto per il frazionamento di sostanze con molecole piuttosto piccole, come gli ioni inorganici o anche
gli amminoacidi. Viceversa le maggiori dimensioni dei pori dei gel e delle cellulose rendono questi materiali
indicati per la separazione dei polielettroliti.
Rappresentazione schematica delle microstrutture di quattro diversi tipi di mezzi scambiatori di ioni
Figura 729
Inizialmente, il fenomeno dei materiali scambiatori di ioni catturò interesse in riferimento alla durezza
dell’acqua. Si era infatti notato che certi minerali, più precisamente dei silicati di struttura complicata
29 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 18 (fig. 5)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 28
chiamati zeoliti, possedevano la capacità di rimuovere gli ioni calcio e magnesio dall’acqua dura,
sostituendoli con ioni sodio. Ricordo qui, a questo proposito, che la cosiddetta durezza dell’acqua è una
misura di quanti ioni magnesio e calcio sono disciolti nell’acqua. Un tempo si misurava in gradi francesi, e
secondo questa scala un’acqua con 25 o più gradi francesi era definita pesante. Per dare un titolo di
confronto, si dica che il nostro Lago Maggiore ha un’acqua cosiddetta dolce, giacché l’acqua di Locarno
presenta all’incirca 6 gradi francesi. In termini generali, si può dire che si avrà acqua dura, ossia con tanti
ioni magnesio e calcio disciolti, dove ci sono rocce calcaree (per es., per restare in Ticino, nel Mendrisiotto),
mentre si sarà in presenza di acqua dolce, ossia con pochi ioni magnesio e calcio in soluzione, nelle regioni
dove sono presenti rocce granitiche (ed è per questo che nel Locarnese l’acqua è dolce). Ora, le zeoliti
tolgono all’acqua gli ioni calcio e magnesio, generalmente indesiderati, sostituendoli con degli ioni sodio,
che vanno in soluzione nell’acqua30. Le zeoliti, in altre parole, agivano da scambiatori di cationi (sia gli ioni
calcio, sia gli ioni magnesio, sia gli ioni sodio sono infatti ioni positivi, o cationi che dir si voglia).
Tuttavia le applicazioni delle zeoliti sono piuttosto ristrette, a causa della loro instabilità alle variazioni
dell’acidità/basicità dell’ambiente in cui sono poste (pH) e per via dello scarso recupero del materiale da esse
fissato. Cromatograficamente parlando, però, queste difficoltà furono superate grazie all’introduzione delle
resine scambiatrici di ioni sintetiche, suggerita da quanto si era scoperto con le zeoliti, le quali rimangono
oggi – eccezion fatta per l’addolcimento dell’acqua – più una curiosità storica che non un materiale di
rilevanza tecnico-scientifica.
Le prime resine venivano preparate facendo condensare l’acido fenolsolfonico e la formaldeide (che è
l’aldeide dell’acido acetico). Il prodotto conteneva gruppi reattivi, quali –OH e –COOH, oltre che ai gruppi
scambiatori –SO3H31. Con queste resine si riuscivano ad ottenere separazioni cromatografiche estremamente
difficili, come quelle degli isotopi radioattivi, degli elementi delle terre rare e degli amminoacidi.
Ciononostante, l’esperienza successiva ha mostrato che si possono ottenere risultati ancora migliori e più
riproducibili con resine che presentino un solo tipo di gruppo reattivo. Oltre a ciò, le tecniche di produzione
moderne permettono di ottenere resine con dimensioni dei pori più uniformi. La maggior parte delle moderne
resine a base di polistirene sono di questo tipo, con un unico tipo di gruppo reattivo e con dimensioni dei pori
più uniformi. Esse sono prodotte per polimerizzazione di una miscela di stirene e di un agente che dia luogo
a legami trasversi (come per esempio il divinilbenzene), e successivamente facendo reagire quanto si è
ottenuto con un reagente per introdurre gruppi fortemente o debolmente acidi o basici. Si possono infatti
30 Per meglio far capire al lettore di cosa si tratta, riporto qui uno degli equilibri determinanti la durezza
dell’acqua, rappresentato dalla reazione di equilibrio sodio – calcio: 222 2+ ++ +RNa Ca R Ca Na
(equazione tratta da G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia
editori; Milano; 1979, p. 446). 31 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p.19
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 29
produrre resine scambiatrici cationiche forti o deboli, e resine scambiatrici anioniche forti o deboli,
introducendo gruppi scambiatori diversi a seconda delle esigenze.
Le resine scambiatrici cationiche possono anche venire chiamate resine acide a scambio ionico, per via del
fatto che le loro cariche negative derivano dalla protolisi di gruppi acidi. Si prenda ad esempio una molecola
R-SO3-H+. Staccandosi lo ione idrogeno, la molecola diventerà R-SO3
-, prima di poter legare il nuovo ione in
arrivo dalla soluzione.
Similmente, le resine scambiatrici anioniche possono prendere anche il nome di resine basiche a scambio
ionico.
Le resine scambiatrici cationiche sono dei polimeri, usati in forma granulare, contenenti più funzioni acide,
quali -SO3H, -COOH, -OH, capaci di scambiare il proprio ione idrogeno (o idrogenione) con i cationi
presenti in soluzione, secondo lo schema
3 3+ + − + +− + − +R SO H Na R SO Na H . (eq. 6)
Quando resine di questo tipo si trovano in presenza di cationi diversi, questa reazione assume un carattere
selettivo nei confronti dei cationi presenti in soluzione, e ciò costituisce il principio alla base della
separazione cromatografica. Questa reazione è, come si vede, una reazione di equilibrio, stabilito dalla
saturazione della resina stessa.
Si noti che, facendo percolare una soluzione di acido cloridrico (HCl) attraverso la colonna (o lungo la
striscia di carta, o lungo lo strato sottile), la reazione procede in senso inverso, scambiando gli ioni Na+ con
degli ioni H+ (quelli presenti in eccesso in soluzione in conseguenza alla dissociazione di HCl in H+ e Cl-),
onde mantenere l’equilibrio.
Le resine scambiatrici anioniche sono anch’esse dei polimeri granulari, solamente che le resine anioniche
contengono nelle loro molecole funzioni basiche (tendono ad acquistare protoni, ossia ioni H+, come il
gruppo –OH-), anziché acide (tendono a perdere, o a scambiare che dir si voglia, ioni H+) come le resine
cationiche. Generalmente le resine anioniche hanno, in qualità di gruppi funzionali basici, delle ammine (più
o meno sostituite32)33, capaci di fissare ioni negativi, secondo uno dei seguenti due schemi: _
2 3− + +− + + −R NH Cl H R NH Cl
oppure (eq. 7.a) e 7.b) )
3 3 3 3+ − − + − −− + − +R NH OH NO R NH NO OH 34
32 Il gruppo amminico è definito come R-NH-R’. Ora, il punto di partenza è uno ione ammonio NH4
+. È
possibile sostituire uno o più atomi di idrogeno, ottenendo così ammine mono-, bi-, tri- o tetra- sostituite. 33 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p.
446 34 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p.
446
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 30
In modo semplificato le equazioni 6 e 7 possono essere così presentate:
- reazione tra una resina scambiatrice cationica R-H+ e ioni sodio: + + + +− + − +R H Na R Na H
- reazione tra una resina scambiatrice anionica R-OH- e ioni cloruro: − − − −− + − +R OH Cl R Cl OH .
Di per sé, giacché qualsiasi ione appropriato può essere scambiato, anche il contro-ione sulla resina può
essere di qualsiasi tipo. Tuttavia si preferisce, per scopi meramente pratici, usare le resine scambiatrici
cationiche nelle forme idrogeno (H+) o sodio (Na+), e quelle anioniche nelle forme cloruro (Cl-) o idrossido
(OH-).
Per convertire una resina da una forma all’altra, la resina viene lavata con una soluzione concentrata dello
ione che si desidera avere sulla resina, spostando così l’equilibrio nella direzione desiderata. Per esempio, se
volessimo convertire una resina dalla forma sodio a quella idrogeno, la laveremo con un eccesso di acido
forte (per esempio HCl), in modo che l’equilibrio farà in modo che degli ioni H+ si attacchino alla resina, al
posto prima occupato dagli ioni Na+.
Le principali resine scambiatrici sono prodotte per condensazione o per polimerizzazione di monomeri
contenenti i gruppi attivi desiderati. Tra i tre gruppi delle resine cationiche citati prima (-SO3H, -COOH, -
OH), il gruppo solforico (SO3- H+) è considerato forte, mentre quello carbossilico (-COOH) e quello fenolico
(-OH) sono considerati più deboli.
Il meccanismo di scambio dipende dagli equilibri che si stabiliscono fra le due fasi (e all’interno di esse),
caratterizzati dal potenziale di scambio degli ioni in causa, il quale è influenzato da numerosi fattori, fra i
quali – in primo luogo – la concentrazione nella fase solida e in quella liquida degli ioni da scambiare.
Bisogna poi considerare anche la carica dello ione, il suo numero atomico, la sua massa atomica, e così via.
Ne risulta che il potenziale di scambio non è assoluto, ma strettamente legato alle caratteristiche specifiche
degli ioni che partecipano all’equilibrio ed alle varie condizioni sperimentali.
Tuttavia, alcune considerazioni generali possono essere indicate, seppure necessariamente semplificate e, per
certi versi, semplicistiche e ricche di eccezioni. Eccole di seguito:
1. Nelle soluzioni acquose diluite, a temperatura ambiente, la resina, a parità di carica, trattiene
maggiormente i cationi a numero atomico più elevato. Alle alte concentrazioni, però, può verificarsi
un’inversione dei potenziali di scambio.
2. A basse concentrazioni ed in solventi acquosi, si scambiano più facilmente gli ioni con un numero di
carica più elevato. Per esempio lo ione calcio (Ca2+) sarà più facilmente scambiato dello ione sodio
(Na+). Anche qui, però, con l’uso di alte concentrazioni si può avere un’inversione dei potenziali di
scambio.
3. Il potenziale di scambio, come detto, non è assoluto, e dipende strettamente dal tipo di resina al
quale è legato lo ione che si staccherà (il cosiddetto contro-ione35, anche chiamato ione attivo36). Ciò
35 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 31
si può vedere bene nel caso degli ioni idrogeno (H+) e ossidrile (OH-), perché questi sono degli ioni
che reagiscono facilmente e volentieri, oltre che essere ben solubili in acqua, e in tal modo il
fenomeno qui descritto risulta evidente.37
4. Il potenziale di scambio coincide, grosso modo, a quanto ci dice il coefficiente di attività38 dello
ione, cioè ioni con alto coefficiente di attività hanno in genere un elevato potenziale di scambio.
Vediamo ora come avviene il meccanismo dello scambio ionico. Esso consta di cinque fasi distinte.
1. diffusione dello ione sciolto in soluzione alla superficie della resina
2. diffusione dello ione attraverso la matrice della resina verso il sito di scambio
3. piazzamento del contro-ione e attacco dello ione al sito di scambio
4. diffusione del contro-ione attraverso la resina
5. fase finale, in cui si fanno staccare dalla resina gli analiti ionici in modo selettivo, a opera di un
eluente, e diffusione degli ioni staccati nella soluzione esterna. L’eluizione selettiva degli ioni, degli
analiti legati alla resina si ottiene mediante variazione del pH, o della forza ionica, o di entrambi, o
ancora con un’eluizione di affinità, ossia introducendo nel sistema uno ione dotato di maggiore
affinità per lo scambiatore dell’analita già attaccatovi che si desidera eluire.
Il punto tre appena presentato mi fornisce l’occasione per ripresentare le equazioni 6 e 7 in una forma ora più
completa e corredata dai nomi dei vari gruppi coinvolti nella reazione di equilibrio:
Negli scambiatoricationici: scambiaredamolecolacontroioneescambiator
R'HNNa........RSO 3-3
++ +
scambiatoionelegatomolecolareione
++
+ NaR'HN....RSO 3-3
Negli scambiatorianionici: scambiaredamolecolacontroioneescambiator
OOCR'Cl........NR 4 +−+
scambiatoionelegatomolecolareione
−+
+ ClOOCR'....NR 4
Figura 839
36 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p.
447 37 Ibidem 38 Il coefficiente di attività è una proprietà del singolo ione che ci informa sulla sua facilità a reagire. In
realtà, il modello che noi siamo soliti assumere come corretto e che prevede che uno ione dia luogo a
determinate reazioni a seconda del proprio stato di ossidazione e delle caratteristiche delle sostanze con cui
potrebbe reagire (solvente o altri soluti), non è corretto, e per arrivare a spiegare teoricamente la costante
d’equilibrio in realtà rientrano anche altri, complicati ed innumerevoli fattori, espressi dal coefficiente di
attività dello ione. Come questo numero venga calcolato è argomento troppo ambizioso per la presente
ricerca, e ci limitiamo a dire che tali valori sono consultabili nei formulari chimici appositi.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 32
Come già accennato sopra, gran parte degli scambiatori ionici sono prodotti polimerici dello stirene. Il
polistirene, però, è un polimero lineare, solubile in numerosi solventi. Condensando stirene con
divinilbenzene si ottengono per contro dei legami crociati, e quindi dei polimeri non solubili. Si parla, più
precisamente, di copolimerizzazione. Copolimerizzando percentuali variabili di divinilbenzene e di stirene si
possono ottenere resine con gradi variabili di legami crociati; tanto è maggiore la quantità di divinilbenzene
rispetto allo stirene, tanto più numerosi risulteranno i legami crociati e quindi l’insolubilità del polimero
prodotto. Le resine con pochi legami crociati sono più permeabili ai composti ad alto peso molecolare, e ciò
costituisce un vantaggio, ma esse sono anche meno rigide e, di conseguenza, si rigonfiano più facilmente
delle resine con molti legami crociati40.
Uno dei principali limiti tecnici delle resine scambiatrici è la permeabilità della matrice agli ioni, giacché la
cromatografia per scambio ionico si basa proprio sullo scambio degli ioni che diffondono nella matrice. Una
delle caratteristiche che si cerca di ottenere nella produzione delle resine è infatti proprio una buona
permeabilità agli ioni.
Altra caratteristica importante è che la resina, nel suo insieme, offra una relativa facilità di scorrimento al
flusso del solvente, ossia che presenti una superficie porosa e facilmente attraversabile.
È poi necessario che questa superficie sia la più vasta possibile nel minor volume, onde facilitare gli scambi
ionici e migliorare l’efficienza del sistema.
Per questi motivi le resine scambiatrici sono solitamente prodotte sotto forma di gel o di particelle sferiche.
Le proprietà che i materiali scambiatori devono (o dovrebbero, idealmente, praticamente si può talvolta
scendere a qualche compromesso) possedere non si fermano però qui, ve ne sono delle altre, di cui molte
dipendono dal campione da separare. Fra queste mi preme ricordare che molti composti di interesse
biologico, soprattutto le proteine, sono stabili solo in uno stretto intervallo di pH, per cui lo scambiatore
dovrà funzionare in questo stesso intervallo. Come già detto in apertura, se il campione presenta una carica
(netta) positiva (ossia se è più stabile a valori di pH inferiori al suo punto isoionico41), occorrerà uno
scambiatore di cationi, mentre se il campione ha una carica (netta) negativa (ovvero se è più stabile a valori
di pH superiori al suo punto isoionico) si utilizzerà uno scambiatore di anioni. Allorquando il campione fosse
stabile in un ampio intervallo di pH, si potranno usare entrambi i tipi di scambiatore.
Anche quando si tratta di scegliere tra uno scambiatore debole ed uno forte occorre prestare attenzione alla
stabilità del campione e all’effetto dell’acidità/basicità sulla carica del campione. In termini generali, gli
scambiatori deboli sono indicati per separare elettroliti forti.
39 Immagine tratta da http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/index.htm 40 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 41 Il punto isoionico è quella situazione in cui uno ione è nella sua forma dipolare, ossia quando lo ione può
cedere o assumere protoni a seconda del pH dell’ambiente. Nel nostro caso, quindi, il punto isoionico si
verifica quando si ha quel pH in cui una molecola è sotto forma di ione dipolare.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 33
Il tipo di scambiatore scelto dipende anche dal peso molecolare dei componenti da separare42.
Per terminare questo capitolo, propongo una sintesi della procedura cromatografica a scambio di ioni su
colonna, la quale rappresenta il mezzo più utilizzato per questo tipo di cromatografia. Nella cromatografia a
scambio ionico su colonna (che può all’occorrenza essere riempita con resine diverse) si imbeve dapprima la
colonna con del solvente, e poi si inietta la soluzione, ovvero il solvente con discioltivi gli analiti da separare.
Come già più volte ripetuto, gli ioni vengono trattenuti dalla fase stazionaria in modo diverso, ossia
selettivamente: quelli a più alto potenziale di scambio verranno subito scambiati nella parte iniziale della
colonna, mentre decrescendo il potenziale di scambio gli analiti si scambieranno man mano più in basso.
Generalmente si scelgono delle condizioni tali per cui gli ioni della soluzione si scambino rapidamente con
quelli della resina, ottenendo così una banda stretta degli ioni analizzati alla sommità della colonna. I vari
ioni vengono poi spostati uno per volta, o cambiando lentamente il pH della soluzione eluente, o aumentando
la concentrazione di un determinato tipo di ioni, o aumentando la temperatura. Se si usa lo stesso eluente
dall’inizio fino alla fine si parla di eluizione isocratica. Se invece lo si varia esistono due possibilità:
l’eluizione discontinua (o a step) e quella continua, più nota col nome di eluizione a gradiente.
È evidente che, salvo desiderati interventi nelle caratteristiche della soluzione eluente o della temperatura, di
regola gli ioni verranno eluiti con una velocità inversamente proporzionale al loro rispettivo potenziale di
scambio. Da ciò risulta che gli ioni meno fortemente fissati saranno raccolti per primi, e viceversa quelli più
fortemente trattenuti verranno raccolti per ultimi. Le singole frazioni eluite potranno poi, se necessario,
essere sottoposte ad eventuali analisi di conferma. Ovviamente, se nell’eluizione viene impiegato uno o più
ioni, gli eventuali legami (o forze repulsive) tra gli ioni eluenti e quelli scambiati influenzeranno, con la loro
forza, la sequenza degli ioni desorbiti.
4.3.5 CROMATOGRAFIA PER ESCLUSIONE Si tratta del tipo di cromatografia concettualmente più semplice, quello cioè in cui la fase stazionaria
funziona come un setaccio, come un filtro, alla stregua di uno scolapasta o di un colino. La si può effettuare
solo su colonna.
Esiste quella in cui come setaccio molecolare sono utilizzati granuli di vetro, che prende così il nome di
cromatografia su vetro a porosità controllata, e quella cosiddetta di filtrazione su gel. Noi tratteremo, in
questo lavoro, unicamente ques’ultimo tipo di cromatografia per esclusione, che è anche il più diffuso ed
utilizzato43. Questo tipo di cromatografia, benché il nome più diffuso sia quello di filtrazione su gel, è anche
42 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 43 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/cromatografia_a_esclusione.htm
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 34
detto cromatografia di permeazione su gel44 (o anche, per l’influsso dell’inglese, di “gel permeation”), o
esclusione molecolare, o ancora setacciatura molecolare45.
La cromatografia per filtrazione su gel è una cromatografia liquido/liquido utilizzata per la separazione di
sostanze secondo la diversa grandezza (ed eventualmente la diversa forma) delle loro molecole. Venne
definita come tecnica di laboratorio, con l’introduzione delle sostanze Sephadex46, nel 1959, ossia all’incirca
trent’anni dopo la data di nascita a pieno titolo della cromatografia come tecnica separativa (assumendo
quindi come data il dicembre 1930, cfr. cap. 4.1).
La tecnica che sfrutta il principio concettualmente più semplice, quindi, non è assolutamente la prima ad
essere stata scoperta, né utilizzata. Eppure il principio, come ormai già più volte ribadito, è semplicissimo: si
riempie la colonna di un materiale che lasci passare sostanze con una determinata grandezza, trattenendo
quindi in modo selettivo le particelle della dimensione desiderata e lasciando passare (all’esterno) le
particelle più grandi e quelle più piccole, che possono però anche penetrare nella fase stazionaria stessa.
La cromatografia per esclusione prevede che ogni possibile interazione di superficie tra le due fasi sia
evitata. Ciò è possibile se le particelle di eluente hanno interazioni con la fase stazionaria più forti di quelle
degli analiti47.
I materiali per la filtrazione su gel del tipo Sephadex sono prodotti a partire da un polisaccaride (ossia da uno
zucchero complesso, per es. il destrano, che è appunto un polisaccaride) nelle cui catene polimeriche
vengono introdotti dei legami traversi, in modo da ottenere un reticolo tridimensionale più o meno uniforme.
A livello macroscopico, questo prodotto si presenta come dei granuli sferici, come mostrato in figura: 44 La cromatografia per esclusione è anche chiamata con questi due nomi, ma perlopiù per ragioni storiche:
oggi, infatti, la fase stazionaria non è per forza un gel (ossia un colloide dove una fase liquida è dispersa in
una fase solida, cfr. appendice A).
Cfr. YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html: “Mainly for
historical reasons, this technique i salso called gel filtration or gel permeation chromatography although,
today, the stationary phase is not restricted to a gel”. 45 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 12 46 Queste sostanze, prodotte a partire da un polisaccaride (come per esempio il destrano), sono generalmente
delle ciclodestrine. Queste non sono altro che una serie di molecole di glucosio (ognuna con la sua
caratteristica struttura a sedia) legate assieme. Ne risulta una sorta di imbuto a forma di cono, che permette
quindi una cromatografia per esclusione. Inoltre, i gruppi ossidrile (-OH) delle molecole di glucosio
permettono delle interazioni con i componenti da separare, e ciò può dare origine anche a delle cromatografie
per adsorbimento o anche per scambio ionico (nel caso si tratti di anioni, essendo OH- uno ione negativo). 47 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 35
Mezzi cromatografici.
A sinistra sono illustrate delle particelle per filtrazione su gel Sephadex, al centro della cellulosa per scambio ionico a
struttura fibrosa migliorata Whatman e a destra della cellulosa per scambio ionico a struttura microgranulare
migliorata Whatman.
Figura 948
Questi granuli hanno molti gruppi ossidrile (-OH), e quindi presentano una grande affinità per l’acqua. Per
questo motivo, in acqua o in soluzioni acquose elettrolitiche, si rigonfiano e formano un gel49
semitrasparente. Questi gel vengono poi utilizzati per impaccare una colonna cromatografica. Si tratta
dunque di una cromatografia su colonna.
Esistono numerosi mezzi per la cromatografia di filtrazione su gel, diversi dal destrano sopraccitato. Il
campo di frazionamento dei gel prodotti a partire da questi mezzi dipende dalle dimensioni dei loro pori,
determinate, queste ultime, dalla quantità di reagente usato per provocare i legami trasversi: tanto più
reagente si è utilizzato, tanto più piccole saranno le proprietà rigonfianti del gel e quindi i suoi pori (ossia si
tratta di un rapporto di proporzionalità inversa). Proprio per questo (e per il largo impiego dovuto al basso
costo dell’acqua) la maniera normale di caratterizzare i vari tipi di gel è quella di indicare i loro valori di
riassorbimento dell’acqua (in ml) assorbita da 1g di granuli di gel secco.
I tipi con bassi valori di riassorbimento dell’acqua possiedono piccole dimensioni dei pori, e sono usati per
separare molecole altrettanto minuscole. Viceversa i tipi con alti valori di riassorbimento dell’acqua
presentano dimensioni dei pori elevate e si prestano alla separazione di sostanze grandi e di alto peso
48 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, Illustrazione 1. 49 Ricordo che il gel è un tipo particolare di colloide. Per ulteriori informazioni al riguardo, vedi appendice
A.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 36
molecolare. A titolo indicativo, riporto qui alcuni dati trovati in letteratura50: materiali con valore di
riassorbimento di ca. 1 si prestano al frazionamento di sostanze con peso molecolare fino a circa 700g/mol,
mentre materiali con valore di riassorbimento di ca. 20 sono adatti alla separazione di proteine globulari e
peptidi con pesi molecolari compresi tra 5000g/mol e svariate centinaia di migliaia. Vi sono poi tutte le
varianti intermedie.
Quando occorre frazionare sostanze di peso molecolare estremamente elevato, come nel caso di certe
proteine, polisaccaridi, acidi nucleici, virus eccetera occorrono particelle ancora più grandi, prodotte da un
polisaccaride chiamato agarosio, che è un polimero neutro (ossia senza cariche elettriche) derivato da un alga
di nome, appunto, agar .
Vediamo ora quale sia, a grandi linee, il procedimento. Si carica la colonna con una soluzione contenente il
campione, in cui il solvente è in genere acqua o un tampone. Si lava poi lentamente il campione con il
solvente (di solito, come appena detto, acqua o un tampone). Le sostanze con molecole più grandi dei pori
più grandi presenti fra le sferette rigonfiate (sopra cioè il cosiddetto limite di esclusione) non possono,
logicamente, entrare nei pori delle particelle di gel e di conseguenza passano attraverso il letto esterno al gel,
ossia nella fase liquida esterna alle particelle, ed emergono per prime in fondo alla colonna. Le particelle di
esse più piccole, per contro, riescono a penetrare all’interno del gel in modo variabile, a seconda delle loro
rispettive dimensioni. Ha luogo una ripartizione tra il liquido esterno e quello interno alle particelle di gel.
Come appare logico, le molecole più piccole trovano maggior liquido a loro disposizione all’interno delle
particelle di gel e quindi verranno maggiormente trattenute all’interno della colonna (ovvero usciranno più
tardi). Altrimenti detto, le molecole lasciano la colonna nell’ordine delle loro dimensioni in senso
decrescente.
La filtrazione su gel offre una grande varietà di applicazioni, in primo luogo per quanto concerne l’analisi di
miscele di molecole di diverso peso molecolare e/o (normalmente una sostanza di alto peso molecolare
possiede anche considerevoli grandezze) di diverse dimensioni.
50 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 12
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 37
Figura 1051
Un’altra interessante possibilità offerta dalla filtrazione su gel è quella di determinare il peso molecolare
delle sostanze. In pratica si fa fluire nella colonna una proteina di peso molecolare noto, e si tarano poi i dati
(solitamente all’interno di un grafico), potendo così determinare i pesi molecolari di proteine anche
sconosciute. Ciò è particolarmente utile nel caso degli enzimi.
È sì vero che il frazionamento, nella filtrazione su gel, dipende dalle dimensioni molecolari, ma estesi studi
hanno mostrato che i volumi di eluizione di determinate proteine globulari su ben precisi tipi di fasi
stazionarie52 sono largamente determinati dal peso molecolare. In particolare, in un campo notevolmente
vasto, il volume di eluizione è funzione all’incirca lineare del logaritmo del peso molecolare.
51 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, Illustrazione 4. 52 Sephadex G-100 e Sephadex G-200, cfr. DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla
cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 13. Nelle serie Sephadex e Bio-Gel, i numeri riportati nei
nomi corrispondono a dieci volte il valore di riassorbimento dell’acqua, di modo che, per esempio, il G-100
sarà un materiale che presenta un valore di riassorbimento d’acqua di 10, il G-200 di 20, e così via.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 38
Quanto fin qui detto è stato circoscritto alla filtrazione su gel con solventi acquosi. In realtà, però, le
possibilità si ampliano, essendo possibile utilizzare dei mezzi opportunamente modificati per delle
separazioni con solventi organici apolari. Un esempio di mezzi di questo genere è prodotto facendo reagire i
gruppi ossidrilici (idrofili) di un gel a base di destrano con un reagente che renda il prodotto idrofobo. In
questo modo, le particelle di questo gel modificato, si rigonfiano in solventi non acquosi. Un altro esempio è
quello derivato dal polistirene con legami traversi, come quello che ho utilizzato io. In figura, riporto una
separazione di lipidi (cioè degli esteri glicerici) frazionati in questo modo:
Filtrazione su gel in solventi organici. La figura a sinistra mostra la separazione di alcuni esteri glicerici in una
colonna di Sephadex LH-20, con cloroformio come solvente. La figura a destra mostra una separazione analoga svolta
usando una colonna Styragel, con benzene in qualità di solvente.
Figura 1153
La scelta del mezzo, però, non è l’unico criterio da tenere presente. Si è per esempio notato che “quando i
granuli di gel sono caricati in una colonna di piccole dimensioni, sia un cattivo assestamento dei granuli, sia
una velocità di flusso troppo alta danno luogo a separazioni scarse”54. I tre cromatogrammi qui riportati
illustrano bene l’effetto delle dimensioni delle particelle di gel sulla risoluzione del sistema cromatografico:
Tuttavia, come vedremo nella parte dedicata all’HPLC e agli esperimenti da me effettuati (cap. 5),
dimensioni troppo piccole dei granuli creano problemi nell’impaccamento della colonna e hanno tendenza ad
otturarla.
Inoltre, la risoluzione può essere migliorata non solo diminuendo le dimensioni dei granuli, ma in generale
aumentando il numero dei piatti teorici della colonna (per esempio aumentando il flusso) (v. cap. 4.4.3.10), o
utilizzando la tecnica della cromatografia con riciclo (v. cap. 4.4.3.6).
53 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, Illustrazione 5. 54 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 13
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 39
4.3.6 CROMATOGRAFIA DI AFFINITÀ La cromatografia di affinità, a differenza di tutti gli altri tipi di cromatografia (e anche, per esempio,
dell’elettroforesi e della centrifugazione) non si basa su differenze nelle proprietà fisiche delle molecole da
separare, ma sfrutta interazioni chimiche, altamente specifiche, tra le molecole da separare e la fase
stazionaria. Si tratta di una differenza importante anche rispetto alla cromatografia per scambio ionico. In
quest’ultima tecnica avvengono sì delle reazioni chimiche, ma esse sono esclusivamente di sostituzione, in
quanto avviene uno scambio. Nella cromatografia di affinità, invece, c’è proprio un sito sulla fase
stazionaria, chiamato ligando, deputato a creare dei legami con gli analiti. Proprio per questo motivo, le
interazioni che si sfruttano sono, per forza di cose, altamente specifiche. Ciò ha due conseguenze importanti:
da un lato è possibile, almeno teoricamente, raggiungere una separazione completa in un’unica tappa;
dall’altro occorre conoscere dettagliatamente la struttura e le peculiarità del composto da purificare, onde
allestire le condizioni di separazione che diano la resa la più elevata possibile.
Questa tecnica fu inizialmente sviluppata per la purificazione degli enzimi, e in tal caso il ligando può essere
il substrato, un inibitore reversibile o un attivatore. Da questo si può notare come il ligando debba essere
specifico, tanto specifico quanto lo è il substrato per il relativo enzima! Tuttavia, se la cromatografia di
affinità ebbe i suoi esordi nel campo degli enzimi, essa può venire applicata anche ai nucleotidi, agli acidi
nucleici, alle immunoglobuline, ai recettori di membrana, ed addirittura a frazioni subcellulari o a vere e
proprie cellule.
Il meccanismo è, in via teorica, piuttosto semplice e lineare: esso prevede che il composto da purificare si
leghi reversibilmente ad un ligando specifico, immobilizzato su una matrice insolubile. Tale processo può
essere sintetizzato con la formula:
(eq. 8)55
Per quanto concerne l’eluizione, ritenuto che il metodo di eluizione (così come il tipo di resina e il modo di
“attacco” del componente) può variare, essa è generalmente effettuata inserendo nella soluzione eluente un
eccesso del gruppo funzionale libero. Altre possibilità di eluizione sono il cambiamento delle condizioni del
tampone in modo tale che la proteina modifichi il proprio stato originale in modo che abbia dei siti polari,
per esempio variando il pH o aggiungendo un agente denaturante, quali l’urea o la guanidina.
55 formula tratta da
http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/Cromatografia_%20di_%20affinita.htm
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 40
I materiali usati come matrici nella cromatografia per affinità dovrebbero possedere le seguenti
caratteristiche:
1. possedere numerosi gruppi reattivi, e adatti a legare covalentemente il ligando;
2. essere stabili nelle condizioni di interazione con l’analita e nella successiva fase di eluizione;
3. devono interagire debolmente o, meglio, per nulla con altre molecole;
4. devono presentare buone proprietà per quanto concerne il flusso;
5. devono essere insolubili.
4.4 Metodi cromatografici Come detto nel capitolo 4.2, esistono tre metodi in cui si possono realizzare, nella pratica di laboratorio, le
separazioni cromatografiche, utilizzando uno o più dei cinque tipi di cromatografia appena presentati. Essi
sono:
• la cromatografia su carta;
• la cromatografia su strato sottile;
• la cromatografia in colonna.
Sebbene tutti i metodi possano venire utilizzati sia a scopo analitico che preparativo, i primi due metodi sono
più indicati per il primo scopo che non per il secondo. Il procedimento necessario per una cromatografia su
carta o a su strato sottile a scopo preparativo, infatti, è piuttosto complesso, necessita di tempo e si ricavano
in genere piccole quantità (ossia, per separare grosse quantità, per esempio a livello industriale, occorre
ripetere il processo moltissime volte). Di conseguenza il processo risulta costoso.
Questi primi due metodi hanno il vantaggio di richiedere un’attrezzatura in genere poco costosa, e di
presentare comunque una buona risoluzione (come la cromatografia su colonna). Per questo motivo sono
indicati quando si necessita di analizzare dei composti: in genere le analisi vengono condotte su piccole
quantità, e meno si spende meglio è.
Per scopi preparativi, invece, è assai più indicata la cromatografia su colonna, che permette di separare anche
grossi quantitativi, spesso anche in tempo breve, e soprattutto in modo continuo. A scopo analitico la
cromatografia su colonna si rivela economicamente vantaggiosa nel caso di analisi di grandi quantità, per
esempio nel caso di un laboratorio incaricato di verificare la qualità e la purezza di un prodotto, sull’arco di
tutto l’anno. Il costo dell’apparecchio, infatti, viene compensato dal risparmio del materiale di consumo
(carta o lastre e strati, maggior quantità di solventi) richiesto per cromatografie su carta o su strato sottile.
In ogni modo, presenteremo gli ulteriori procedimenti richiesti per una cromatografia preparativa, anche nel
caso di cromatografie su carta o su strato sottile: da un lato perché queste possono venire provate in un
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 41
laboratorio anche poco equipaggiato e dall’altro, soprattutto, per far rendere conto il lettore della complessità
del procedimento preparativo nel caso di questi due metodi cromatografici.
4.4.1 CROMATOGRAFIA SU CARTA Su carta si possono effettuare cromatografie per ripartizione (la più semplice da realizzare su carta), per
adsorbimento o a scambio ionico. Le fibre di cellulosa della carta fungono da matrice di supporto per la fase
stazionaria, che utilizzando appunto la carta come supporto, può essere costituita da acqua (cromatografia
per ripartizione a fase normale), da un materiale apolare come per esempio della paraffina liquida
(cromatografia per ripartizione a fase inversa), da un materiale adsorbente solido (cromatografia
d’adsorbimento), da delle resine scambiatrici di ioni (cromatografia a scambio ionico) o da delle sostanze
derivate dalla cellulosa con gruppi capaci di scambiare ioni (cromatografia a scambio ionico). Il tipo di
cromatografia su carta più utilizzato è quello per ripartizione.
4.4.1.1 CAMPIONI
I campioni vengono solitamente applicati alla carta in soluzione. I solidi, perciò, sono di solito disciolti in
una piccola quantità di un solvente adatto. Le sostanze pure, tuttavia, possono normalmente essere applicate
direttamente. Gli estratti preparati dai tessuti biologici richiedono spesso una purificazione preliminare,
perché grandi quantità di proteine o di sali presenti nell’estratto possono interferire con il processo di
ripartizione, estraendo acqua dal solvente e originando code sui cromatogrammi. Oltre a ciò, rilevanti
quantità di materiale estraneo possono confondere i componenti separati.
Per rimuovere le sostanze estranee indesiderate esistono vari metodi. Per esempio i lipidi possono venire
allontanati con dei solventi organici apolari, le proteine possono essere fatte precipitare con alcool, i sali
possono essere allontanati con resine scambiatrici di ioni o con metodi elettrolitici (v. cap. 4.4.1.10 per la
presentazione dell’elettroforesi).
Per gli estratti biologici si rivela spesso utile un frazionamento preliminare con delle resine scambiatrici. In
tal modo si separano, in primo luogo, le sostanze non ioniche da quelle ioniche e, secondariamente, si
possono ulteriormente frazionare queste ultime, potendo così ottenere campioni contenenti per esempio solo
due tipi molecolari.
Per eliminare i sali, oltre alla cromatografia per scambio ionico (v. cap. 4.3.4) e all’elettroforesi (v. cap.
4.4.1.10), si può ricorrere all’elettrolisi, per la quale esistono alcune apparecchiature. Un apparecchio tipo è
quello che possiede una cella di desalificazione composta di tre parti: un compartimento catodico
(contenente acido solforico diluito, H2SO4), un compartimento centrale in cui porre il campione, ed un
compartimento anodico (contenente una soluzione diluita di idrossido di sodio, NaOH). I compartimenti
sono separati da membrane scambiatrici di ioni, che permettono agli ioni di attraversarle in una sola
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 42
direzione. Facendo passare la corrente elettrica, gli ioni (positivi e negativi) passano selettivamente
attraverso le membrane, finendo nei compartimenti appropriati e facendo così diminuire la concentrazione
degli elettroliti nel compartimento centrale. Lo stato della desalificazione è indicato da un milliamperometro
collegato alla cella.
4.4.1.2 APPLICAZIONE DEL CAMPIONE
Si traccia anzitutto sulla carta una linea a matita, parallela al lato del foglio che si farà pendere nel solvente e
ad un’opportuna distanza dal bordo (1-3 cm ca.). Sulla linea si segnano poi alcune crocette, ugualmente
distanziate, una per ogni campione da analizzare, scrivendovi poi accanto il nome di ciascun campione. Con
un capillare si pone una goccia di ciascuna sostanza sulla rispettiva crocetta. I capillari possono essere di
vetro o di platino. Gli anelli di fili di platino possono venire riutilizzati, lavandoli e arroventandoli su di un
becco Bunsen. I capillari di vetro vanno invece gettati dopo l’uso. È bene che le macchie non superino i 5mm
di diametro, per evitare separazioni peggiori. Se occorre analizzare una maggiore quantità di sostanza, più
grande di quella presente in una singola goccia (come è il caso quando la soluzione è molto diluita), si lascia
asciugare la macchia e si ripete l’applicazione. Per accelerare l’essiccamento, si può utilizzare un
asciugacapelli.
Nel caso di una cromatografia preparativa su carta, invece di applicare delle gocce si “tracciano” delle strisce
dell’estratto da separare.
4.4.1.3 SVILUPPO
Una volta che le macchie sono asciutte, si può iniziare lo sviluppo, ossia quel processo in cui il solvente
fluisce lungo la carta per dar luogo alla separazione.
Il solvente per lo sviluppo dipende dalla natura delle sostanze da separare, il sapere quale solvente provare
(si procede infatti per ipotesi e poi per tentativi) deriva innanzitutto dall’esperienza (propria o di letteratura).
Si possono preparare dei solventi adatti per separare quasi ogni classe di composti.
I solventi per la cromatografia di ripartizione su carta si possono preparare semplicemente saturando con
acqua un solvente organico, come il n-butanolo.
Molti solventi comunemente usati sono di questo tipo, ma altrettanti liquidi di ripartizione incorporano solo
piccole quantità d’acqua, tanto che i composti polari - come gli amminoacidi, gli zuccheri o i composti
fenolici - si muovono assai lentamente o non si separano del tutto. Per superare quest’ultima difficoltà, si può
aggiungere alla miscela uno o più componenti (acidi, basi, altri agenti complessanti). Esempi di questi
componenti da aggiungere possono essere l’acido acetico, l’acido formico, la piridina e l’ammoniaca in
soluzione, l’acido cloridrico in soluzione,... Queste aggiunte, oltre a permettere di incorporare più acqua nel
solvente, migliorano o deprimono la solubilità di alcune sostanze.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 43
Di sicuro in alcune separazioni gli effetti d’adsorbimento giocano un ruolo importante, tanto che è possibile
ottenere buone separazioni usando come solvente per lo sviluppo della carta semplicemente dell’acqua
(deionizzata, meglio ancora se pura, trattata cioè con un’apparecchiatura tipo Millipore).
4.4.1.4 TECNICHE ASCENDENTE E DISCENDENTE
Lo sviluppo può essere condotto sia lasciando salire il solvente per capillarità lungo la carta (tecnica
ascendente), sia facendolo scendere, sfruttando la forza di gravità (tecnica discendente).
Nel caso si utilizzasse la tecnica ascendente il procedimento è il seguente. Si pone il solvente sul fondo di
una vaschetta (di materiale inerte, per esempio vetro). Si sospende sopra di esso la carta per mezzo di un
qualche sistema o arrotolandola a cilindro e chiudendola attaccando le due estremità con delle cordicelle (per
esempio di metallo). Alcune possibilità sono illustrate in figura 12:
Materiale per cromatografia ascendente
Figura 1256
Inizialmente si tiene la carta fuori dalla bacinella e si chiude il coperchio della vaschetta, per saturarne
l’atmosfera con i vapori del solvente (ciò per evitare che il solvente, salendo, evapori in modo disomogeneo
56 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 26 (fig. 10)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 44
influenzando i risultati della cromatografia). Successivamente si potrà lasciar pendere la carta nel solvente,
chiudere il coperchio ed attendere che la separazione si sia completata.
Se, invece, si impiegasse la tecnica discendente il procedimento è il seguente. Si pone il solvente sul fondo
della bacinella di materiale inerte, collocata all’interno della vaschetta cromatografica, per esempio sospesa
per mezzo di alcune corde, o appoggiata su alcune corde come illustrato in figura 12 . Si versa un po’ di
solvente pure sul fondo della vaschetta cromatografica, per saturarne l’atmosfera con i suoi vapori. Si può
successivamente sospendere la carta nel solvente, richiudere il coperchio ed attendere che la separazione si
sia completata.
Schema di una vaschetta per cromatografia ascendente (a sinistra) e schema per l’inserimento della carta (a destra)
Figura 1357
La scelta fra le due tecniche è per molte separazioni equivalente, e dettata dalle preferenze di ognuno, o dal
materiale a disposizione in laboratorio. Spesso, infatti, si ottengono risultati del tutto simili. Tuttavia, per
certe applicazioni, è consigliata l’una o l’altra tecnica. Ecco illustrati alcuni pregi delle due tecniche.
Con la tecnica ascendente (sempre che l’atmosfera sia satura dei vapori del solvente di sviluppo) il solvente
può salire solo fino alla sommità della carta, dopodichè (per forza di cose) si arresta. In questo modo, tutte le
sostanze rimangono sulla carta. Ed ecco il primo vantaggio. Il secondo è invece che la distanza percorsa dal
solvente è fissa, e di facile misurazione (basta misurare la lunghezza della carta). Questo si rivela utile per le
57 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 25 (fig. 9)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 45
separazioni bidimensionali (v. cap. 4.3.2). Il metodo ascendente è anche indicato nel caso in cui si
utilizzassero solventi molto volatili58. Uno svantaggio della tecnica ascendente è però che le sostanze con
valori di Rf bassi tendono ad essere separate in modo incompleto (per via della difficoltà a salire).
Con la tecnica discendente, invece, il solvente può essere lasciato scorrere anche dopo che ha raggiunto il
bordo della carta, per cui si può aumentare anche notevolmente il percorso delle sostanze (effettuando una
cosiddetta cromatografia con riciclo, cfr. cap. 4.4.3.6) e migliorare così la separazione, anche nel caso di
sostanze con basso valore di Rf. La tecnica discendente presenta anche il vantaggio che il flusso (e quindi la
velocità del processo) è più elevato.
4.4.1.5 ESSICCAMENTO
Quando il solvente ha percorso la distanza necessaria per la separazione (o ha fluito per il tempo necessario),
la carta viene tolta dalla vaschetta e il fronte del solvente viene segnato (per esempio con dei piccoli strappi
ai lati della carta). La carta viene successivamente fatta essiccare, sotto una cappa aspirante o per mezzo di
una ventola o di un asciugacapelli. Si possono poi localizzare i composti.
4.4.1.6 LOCALIZZAZIONE DELLE SOSTANZE
A questo punto, la separazione delle sostanze è completata. Tuttavia, per poter leggere il cromatogramma,
dobbiamo poter localizzare le sostanze. Talvolta esse sono colorate, e la loro localizzazione è banale. Molte
sostanze, però, sono incolori, e fra queste parecchie di interesse biologico. Esistono allora vari metodi,
raggruppabili in due categorie. Da una parte i metodi fisici, dall’altro quelli chimici.
I metodi fisici sfruttano particolari proprietà delle sostanze, come la fluorescenza o la radioattività. Essi
presentano il vantaggio di mantenere le sostanze invariate, senza convertirle in altre molecole, cosa che
avviene invece nel caso di metodi chimici. Tuttavia l’applicabilità dei metodi fisici è limitata, e nella
maggioranza dei casi non possono venire impiegati.
Se si sfrutta la radioattività, per quanto potenzialmente pericoloso e dannoso, il processo è assai semplice. Si
utilizzano delle sostanze marcate radioattivamente, in modo che esse possano venire rilevate da un contatore
Geiger.
L’altra possibilità è quella di sfruttare il fenomeno della fluorescenza, che è presentato da alcune sostanze
organiche insature, fra cui molti vegetali, che presentano nei loro tessuti varie sostanze fluorescenti. Tale
fenomeno consiste nella capacità di assorbire la luce ultravioletta o anche violetta (di breve lunghezza
d’onda, più breve dello spettro visibile e quindi invisibile) e di emettere luce di lunghezza d’onda più lunga e
quindi visibile. Queste sostanze sono invisibili sul cromatogramma alla luce naturale o artificiale ordinaria,
58 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 27
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 46
ma si possono vedere subito se poste sotto una lampada ultravioletta. La lunghezza d’onda emessa, e di
riflesso il colore che si vede con l’occhio, è caratteristica di ogni sostanza, e la si sfrutta per l’identificazione.
Se nessuno di questi metodi fisici dà i risultati sperati, occorre impiegare dei metodi chimici per
l’identificazione delle sostanze cromatografate. In pratica le si fanno reagire con una o più sostanze chimiche
in modo da dar luogo a prodotti colorati. La conversione dei composti cromatografati incolori in sostanze
colorate avviene attraverso una soluzione contenente sostanze reagenti chiamata, nel suo insieme di soluto e
solvente, reagente di localizzazione. Esso può essere un gas (per esempio l’idrogeno solforato è usato per la
localizzazione degli ioni metallici, che formano dei solfuri colorati59), un liquido o un solido sciolto in
soluzione. La maggioranza dei reagenti di localizzazione è proprio costituita da queste due ultime tipologie
di reagente. Solventi comuni usati per la localizzazione sono l’acqua, l’alcol metilico, l’alcol n-butilico e
l’acetone.
Il processo di localizzazione può essere costituito da uno o più stadi. Nel caso in cui ci fossero più stadi, è
opportuno lasciare asciugare i cromatogrammi (almeno parzialmente) dopo ciascuno stadio. Talvolta, per
completare la reazione, si rende necessario un riscaldamento del cromatogramma.
Esistono due modi per applicare i reagenti di localizzazione: l’immersione della carta nella soluzione del
reagente di localizzazione o lo spruzzo di tale reagente (o miscela di reagenti) sulla carta.
Vediamo dapprima la tecnica d’immersione. L’occorrente è assai limitato: oltre al reagente di localizzazione
è necessaria solamente una bacinella poco profonda, di un materiale inerte e abbastanza grande perché il
cromatogramma possa essere passato attraverso la soluzione senza toccarne i lati.
L’immersione e la scelta del solvente per il reagente di localizzazione devono essere svolte con cura, poiché
buone separazioni possono essere danneggiate dall’impiego del solvente sbagliato per il reagente di
localizzazione o per mancanza di attenzione nella sua applicazione. In primo luogo è essenziale che i
composti e i loro prodotti colorati siano pressoché insolubili, per evitare una diffusione o – peggio – una
parziale o completa dissoluzione delle macchie.
Queste condizioni sono ben soddisfatte dall’acetone, che presenta inoltre il particolare vantaggio – nella
tecnica ad immersione – di evaporare velocemente dal cromatogramma.
Se il cromatogramma deve venire conservato, si esegue solitamente una immersione finale per togliere
l’eccesso di reagente di localizzazione dalla carta (per esempio immergendo il cromatogramma in una
bacinella contenente unicamente il solvente utilizzato precedentemente per sciogliere il reagente di
localizzazione).
59 Ibidem, p. 28
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 47
In letteratura60 ho trovato due esempi della tecnica di immersione, che riporto qui perché interessanti, utili a
meglio capire cosa si svolga nella pratica corrente e facilmente eseguibili in laboratorio, anche se
relativamente poco equipaggiato.
Il primo esempio è quello della separazione degli amminoacidi. Il reagente più largamente utilizzato per la
loro rilevazione è la ninidrina, un solido bianco che viene applicato come soluzione allo 0,1- 0,25% (V/V) in
un opportuno solvente. L’esperienza ha mostrato che per l’immersione il solvente migliore per la ninidrina è
l’acetone, perché produce rapidamente un colore più intenso.
La reazione che si sfrutta è la seguente:
amminoacido + ninidrina (in soluzione) calore⎯⎯⎯→ prodotto colorato (eq. 9)
(incolore) (incolore) (blu – lilla)
La carta viene immersa nella soluzione di ninidrina in acetone, rimossa, dopodichè si fa evaporare l’acetone.
In seguito il cromatogramma viene riscaldato a circa 100°C per 5-10 minuti, per lasciar sviluppare il colore61
(che, ovviamente, sarà lo stesso per tutte le macchie).
Il secondo esempio è quello di un procedimento a più stadi. Prendiamo il caso di un metodo, molto usato e
sensibile per rivelare le sostanze riducenti, applicabile alla separazione da una miscela di glucosio o di
maltosio su cromatogrammi di carta. Si immerge il cromatogramma secco in una soluzione di nitrato di
argento acquosa al 10% V/V in acetone. Successivamente, si toglie la carta e si fa evaporare l’acetone.
Nel primo stadio non avviene ancora nessuna reazione, e la carta rimane di conseguenza bianca.
Nel secondo stadio, si alcalinizza (ossia si rende basico) il cromatogramma immergendolo in una soluzione
di soda caustica (NaOH) in alcol (contenente un poco di acqua) 0,5 M, e in questo modo il nitrato di argento
si riduce in corrispondenza alle macchie contenenti gli zuccheri riducenti e si deposita così dell’argento
metallico, che appare sul cromatogramma come delle macchie brune, che indicano la posizione degli
zuccheri.
Il nitrato di argento in eccesso diventerebbe rapidamente assai scuro al contatto con l’aria, e si deve così
svolgere un terzo stadio, in cui si rimuove il nitrato d’argento immergendo il cromatogramma in una
soluzione al 5% di tiosolfato di sodio. Quest’ultimo stadio si svolge unicamente se occorre conservare il
cromatogramma.
60 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, pp. 29-
30 61 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 30
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 48
La tecnica di immersione non può essere utilizzata se una o più sostanze cromatografate, o uno o più prodotti
colorati, sono solubili nel solvente usato per la localizzazione. In questo caso si ricorre alla tecnica dello
spruzzo.
In questo caso, ciò che si fa è semplicemente spruzzare uniformemente sulla superficie del cromatogramma
una soluzione del reagente di localizzazione, spruzzato per mezzo di un atomizzatore (v. figura 14.a) ).
Possono andare bene quelli usati per i profumi. Esistono però anche degli spruzzatori per cromatografia,
azionati da una pompetta a mano o da un flusso di aria compressa, come mostrato in figura 14.b) .
Figura 1462
Nel caso in cui servissero due o più reagenti di localizzazione, essi possono venire semplicemente spruzzati
in successione, senza bisogno di essiccare la carta dopo ogni applicazione: l’essiccazione è infatti meno
importante con la tecnica dello spruzzo.
Anche con questa tecnica, però, se si vuole conservare il cromatogramma, l’eccesso dei reagenti va rimosso.
Di per sé, in un procedimento a più stadi, nulla vieta che alcuni reagenti vengano applicati per immersione ed
altri a spruzzo.
Anche per la cromatografia su carta è valido il grande vantaggio di tutte le tecniche e tecnologie
cromatografiche, ossia una grande sensibilità, che permette di localizzare i composti separati anche se
presenti in quantità minime, sino ad arrivare all’ordine (nel caso della cromatografia su carta) di 0,1µg
62 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 30 (fig. 12)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 49
( -61µg=10 g ). Il limite inferiore per la rilevazione della maggior parte dei composti è infatti compreso tra 1 e
50µg.
Questa alta sensibilità è una caratteristica molto importante della cromatografia, giacché molti composti
organici naturali possono essere isolati solo in quantità di pochi milligrammi63.
4.4.1.7 CROMATOGRAFIA PREPARATIVA SU CARTA
Come detto, la cromatografia preparativa su carta richiede alcuni passaggi ulteriori rispetto ad una
cromatografia analitica su carta. Rispetto ad una cromatografia su colonna, quindi, un processo
cromatografico separativo risulta più complesso e, se utilizzato per grandi quantità, anche più costoso.
Tuttavia, nulla vieta di eseguire delle cromatografie preparative anche su carta.
Per la cromatografia preparativa su carta si usa una carta da filtro spessa. I composti separati vengono
recuperati prima eluendoli selettivamente con particolari solventi, poi concentrando le soluzioni e infine, se
necessario, cristallizzando i composti.
Solitamente, nel caso di una cromatografia preparativa, si sa già cosa si vuole ottenere. Di conseguenza, si
può procedere nel seguente modo.
Si applica dapprima la soluzione contenente la miscela di composti da separare come una striscia lungo la
linea base della carta (come preannunciato, in una cromatografia separativa, anziché delle macchie, si pone
una striscia). Ai due bordi si applica invece una soluzione di sostanze standard, fra cui perlomeno quelle che
desideriamo separare, come mostrato in figura 15.
Preparazione della carta
Figura 1564
63 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 31 64 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 34 (fig. 15.a) )
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 50
Una volta sviluppata ed essiccata la carta, si tagliano le strisce marginali in modo da comprendere i composti
standard ormai separati ed una parte di miscela. Queste strisce vengono se necessario (ossia se i composti
desiderati non sono colorati) trattate con un reagente di localizzazione (spruzzandole o immergendole),
mettendo così in evidenza le bande contenenti i composti che si desiderano ottenere.
Strisce marginali spruzzate
Figura 1665
Avvicinando poi le strisce trattate col reagente di localizzazione alla carta (ancora “vergine”) si possono
tracciare delle linee che andranno a definire delle aree, contenenti i componenti separati. Queste aree si
possono tagliare, ottenendo così una striscia per ogni componente desiderato.
Figura 1766
65 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 34 (fig. 15.b) )
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 51
Ognuna di queste strisce viene poi tagliata in striscioline più piccole, che potranno poi venire unite insieme
con un punto metallico per poi appenderle ad una bacinella di eluente permettendo così a quest’ultimo di
percolare attraverso di esse eluendo i composti desiderati. Tagliando le bande a striscioline piccole,
l’eluizione diventa più veloce e uniforme. Inoltre questa tecnica permette di tagliare delle striscioline
terminanti a punta, utili per far cadere le gocce in un bicchiere e non in modo sparso. Una figura aiuterà a
meglio capire questi vantaggi:
Figura 1867
4.4.1.8 CROMATOGRAFIE QUANTITATIVE SU CARTA
Anche su carta si possono effettuare delle cromatografie quantitative. Sebbene il procedimento sia meno
immediato e meno accurato di quello che si può svolgere nel caso di una cromatografia su colonna, la
possibilità di misurare le quantità di campione esiste appunto anche su carta.
Un primo metodo è il seguente, la cui somiglianza con quello appena descritto per una cromatografia
preparativa è notevole. Si applica un determinato e accuratamente misurato volume di miscela su un punto
della linea di base della carta (usando un capillare o una micropipetta tarati, o una micropipetta elettronica, in
grado quindi di misurare accuratamente il volume che viene depositato). Ai lati si depositano degli standards,
66 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 34 (fig. 16) 67 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 35 (fig. 17)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 52
nel nostro caso due campioni del componente da determinare. Tagliando le due strisce laterali e trattandole
con un opportuno reagente di localizzazione (sempre se questo sia necessario) si potrà identificare la banda
contenente il campione che si desidera determinare. Si potrà così ritagliare questa banda ed eluire il
campione in essa contenuto con un solvente appropriato, allo stesso modo di una cromatografia preparativa
su carta. In questo caso, però, si sottoporrà l’eluito a delle determinazioni, che potranno utilizzare uno o più
dei numerosi metodi disponibili per le sostanze in soluzione (reazioni colorimetriche, titolazioni, metodi
microgravimetrici, ecc.)68.
Ovviamente, il successo di questo e degli altri metodi quantitativi presuppone che la separazione sia
completa.
Esistono però anche altri metodi, che effettuano delle misurazioni direttamente sulla carta.
Il primo è quello utilizzabile nel caso in cui esista un reagente capace di reagire col componente da indagare
producendo un colore di intensità proporzionale alla quantità del componente. Metodi come questo sono per
forza di cose, intrinsecamente, comparativi.
Un’altra possibilità è la seguente. Si applica un volume accuratamente misurato di miscela sulla linea di
base. Ai due lati, in una serie di punti, si applicano delle quantità esattamente note (in ordine crescente o
decrescente, ma sempre graduale, per semplificare il confronto delle macchie o la lettura del grafico in fase
di lettura di dati) del componente da considerare, di cui si vuole trovare la concentrazione (conosciamo
infatti il volume della goccia di miscela che lo contiene e vorremmo ricavare la sua quantità). Una volta
sviluppata ed essiccata la carta, e localizzati i componenti, si può già effettuare una stima per semplice
confronto visivo.
Cromatogramma dopo la localizzazione
Figura 1969
68 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 35 69 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 37 (fig. 19)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 53
Chiaramente, le concentrazioni del composto da indagare negli standards applicati ai lati dovrebbero essere
all’interno di quella ipotizzata della miscela con concentrazione sconosciuta. Stime approssimative come
questa possono essere spesso sufficienti. Se invece si necessità di una misurazione più accurata, si può
ricorrere ad un apparecchio fotoelettrico, chiamato fotodensitometro, che misura l’intensità di ciascuna
macchia. Dal cromatogramma si ritaglia una sottile striscia di carta, che contenga il campione da determinare
(possiamo identificare la sua banda grazie agli standards a concentrazione nota applicati ai lati, standards che
contengono unicamente il campione da determinare). Si pone poi la strisciolina tra due lastre di vetro, poi
inserite nell’apposito alloggiamento all’interno del fotodensitometro. Qui si tara l’apparecchio su una
porzione di carta esente da macchie (di qualsiasi tipo) e si sposta la striscia di carta a piccoli tratti per volta,
attraverso il raggio di luce.
Fotodensitometro
Figura 2070
L’apparecchio misura il cambiamento di intensità di colore e lo registra su un grafico, in cui sull’ordinata c’è
la deflessione dell’indice (ossia l’intensità del colore per rapporto alla porzione di carta senza macchie usata
per tarare l’apparecchio) e sull’ascissa c’è la distanza percorsa dalla nostra strisciolina. L’area sottostante ad
ogni curva è proporzionale alla quantità di sostanza presente nella macchia. Questo metodo dà
determinazioni accurate, nella maggior parte dei casi, entro il 5%. Un valore di molto inferiore a quelli
raggiungibili con una cromatografia su colonna, ma comunque buono ed utile nel caso in cui non sia
richiesta un’accuratezza ottimale.
70 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 37 (fig. 20)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 54
4.4.1.9 CROMATOGRAFIA SU CARTA A SCAMBIO IONICO
Le applicazioni e la versatilità della cromatografia su carta possono essere estese utilizzando delle carte
impregnate di resine scambiatrici di ioni o impiegando per la fabbricazione della carta, invece della cellulosa,
delle speciali sostanze da essa derivate, che abbiano gruppi scambiatori di ioni. In questo modo è possibile
eseguire delle cromatografie a scambio ionico anche su carta.
Le sostanze che si possono impiegare al posto della cellulosa includono la carbossi-metil-cellulosa, il citrato
di cellulosa e il fosfato di cellulosa per quanto concerne gli scambiatori di ioni positivi, mentre esempi di
scambiatori di anioni sono l’amino-etil- e la dietil-amino-etil-cellulosa71.
L’uso di queste carte è semplice, ed assai simile a quello delle carte ordinarie. Lo sviluppo delle carte a
scambio ionico può venire effettuato con un solvente non ionico, ottenendo così delle separazioni simili a
quelle ottenute con una normale carta da filtro, cioè per ripartizione, oppure con una soluzione contenente
ioni in grado di spostare quelli delle sostanze separate, cioè per scambio ionico. L’utilizzo di entrambi i tipi
di sviluppo è possibile ed utile nel caso di separazioni bidimensionali.
4.4.1.10 ELETTROFORESI
L’elettroforesi è una tecnica separativa simile alla cromatografia su carta per quanto concerne la procedura
sperimentale, sebbene sfrutti principi completamente diversi, riferiti alle proprietà elettriche dei componenti
della miscela da separare. Per via di tale somiglianza, l’elettroforesi è spesso usata assieme alla
cromatografia, in modo complementare. Sostanze difficilmente separabili con i metodi cromatografici
possono infatti spesso venire separate velocissimamente con l’elettroforesi, e viceversa.
L’elettroforesi non è altro che una forma incompleta di elettrolisi, in cui le particelle cariche elettricamente
vengono arrestate in una certa posizione nel loro cammino verso gli elettrodi. Se l’elettroforesi, anziché in
modo libero, viene condotta a zone, le sostanze separate – una volta arrestata la corrente – non sono libere di
diffondere nella soluzione, ma vengono bloccate nella posizione da loro raggiunta nel mezzo impiegato come
supporto, che può essere costituito da gelatina di amido o anche strisce di carta da filtro72, come quelle usate
per la cromatografia cartacea. È di quest’ultima possibilità che ci occupiamo, perché – pur non più
trattandosi di cromatografia in senso stretto – si utilizza un procedimento assai simile per ottenere risultati
laddove la cromatografia su carta non lo permette. Procedimento peraltro che non esclude la cromatografia
su carta, ma che può anche migliorarla se utilizzato in una separazione cromatografica-elettroforetica
bidimensionale.
Il procedimento da seguire per una elettroforesi con una striscia di carta da filtro è il seguente. Si traccia una
linea perpendicolare alla lunghezza della carta, come per la cromatografia su carta. Su questa linea si
71 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 38 72 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 39
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 55
pongono delle gocce dei campioni da separare, segnando i punti (eventualmente con una scritta indicante la
miscela presente nella rispettiva goccia). Non essendovi un fronte del solvente con cui paragonare la corsa
dei campioni, si pone anche una goccia di una sostanza standard, con la quale si potranno paragonare i
percorsi dei campioni. Successivamente, si umidifica la carta, utilizzando una soluzione tampone (per evitare
interferenze dovute alla situazione di acidità/basicità durante la separazione). Le due estremità della striscia
di carta vengono poi immerse in due bacinelle contenenti la stessa soluzione tampone. Sopra e sotto la carta
si pongono due strisce di materiale isolante. Ne risulta un sistema come quello mostrato in figura 21 .
Apparecchiatura per elettroforesi ad alto voltaggio (a sinistra) e esempio di un cromatogramma sviluppato (a destra)
Figura 2173
Quando si fa passare la corrente elettrica, il supporto (cioè la strisciolina di carta) agisce da ponte tra i due
recipienti di soluzione tampone, e ogni sostanza avente una carica elettrica presente nella miscela migrerà (la
direzione dipenderà dal segno della carica, mentre la lunghezza dalla sua intensità e da quella della corrente
applicata). Spesse volte anche molecole prive di carica elettrica possono presentare mobilità elettroforetica,
perché esse possono formare degli ioni complessi con gli ioni presenti nella soluzione tampone. Questo è per
esempio il caso degli zuccheri, che possono venire separati per elettroforesi proprio grazie a ciò.
Dopo un adeguato intervallo di tempo si interrompe la corrente elettrica, si rimuove la carta, la si essicca ed a
questo punto si possono localizzare le sostanze separate: a occhio se queste sono colorate, per mezzo di un
reagente di localizzazione (usando l’immersione o lo spruzzo) se queste non sono visibili direttamente.
73 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 39 (fig. 21)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 56
La velocità di migrazione di una sostanza in un processo elettroforetico dipende da vari fattori, tra i quali la
natura e la struttura dello ione ed il voltaggio applicato.
Come nel caso della cromatografia, si identifica il cammino percorso da una sostanza durante l’elettroforesi
con un valore di xM , calcolato dividendo la distanza superata da tale sostanza per quella percorsa dalla
sostanza di riferimento. Nel caso di una sostanza A avremo XAM A = , dove X è la sostanza di riferimento.
È importante rilevare che, come nel caso della cromatografia, la mobilità elettroforetica di un composto in
una miscela è indipendente dalle altre sostanze presenti, ed è quindi riproducibile con semplicità ed
applicabile a miscele composte anche da sostanze sconosciute74.
Le applicazioni dell’elettroforesi su carta possono essere ulteriormente estese utilizzando strisce di acetato di
cellulosa anziché di carta ordinaria. Queste strisce, più o meno trasparenti, presentano infatti una struttura
molto più uniforme di quella della cellulosa e possiedono pori più piccoli, permettendo una risoluzione
migliore. Inoltre, l’acetato di cellulosa è in grado di separare anche piccolissime quantità di sostanza. Per
queste ragioni, l’acetato di cellulosa si rivela particolarmente utile nelle diagnosi cliniche, quando si
dovessero analizzare i liquidi corporei: dalle proteine del siero sanguigno, alle emoglobine, al liquido
cerebro-spinale, all’urina, al liquido lacrimale.
4.4.2 CROMATOGRAFIA SU STRATO SOTTILE La cromatografia su strato sottile è strettamente imparentata con la cromatografia su carta. Se però
quest’ultima permette solamente separazioni con materiali fibrosi, come la cellulosa, la filtrazione su gel
offre la possibilità di utilizzare anche altri materiali utili, come il gel di silice, l’allumina o le sferette per la
filtrazione su gel, che non possono venire prodotti in fogli. Il principio è assai semplice: si applicano dei
sottili strati di queste sostanze su un supporto, tipicamente costituito da una lastra di vetro, ma è possibile
anche utilizzare dei fogli di plastica resistenti ai solventi.
Gli strati sottili da applicare sul supporto possono essere di due tipi: strati induriti o morbidi. Quelli morbidi
hanno scarso utilizzo, e perciò non li tratteremo.
Come già detto, la cromatografia su strato sottile, partendo da una premessa pressoché identica a quella della
cromatografia su carta, apre però molte più possibilità, offrendo una scelta assai più ampia di mezzi
disponibili. In tal modo con questa tecnica si possono eseguire cromatografie per ripartizione, per
adsorbimento, per filtrazione su gel o per scambio ionico. Inoltre, le proprietà degli strati sottili consentono
tempi di sviluppo molto brevi. A titolo indicativo, si dica che spesso le separazioni su strato sottile si
74 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 40
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 57
possono produrre in 20-40 minuti75. Addirittura, questa accelerazione è percepibile anche nel caso si
utilizzasse uno strato sottile di cellulosa (ossia la stessa sostanza utilizzata nella cromatografia su carta).
Questa velocizzazione del processo è principalmente dovuta al fatto che la maggior parte degli strati sottili
permette una migliore risoluzione ed una maggiore compattezza delle macchie.
4.4.2.1 PREPARAZIONE DELLE LASTRE
Gli strati vengono preparati applicando su lastre di vetro pulite una sospensione del mezzo scelto in un
solvente opportuno. Per ottenere buoni risultati occorre che lo strato sottile sia di spessore uniforme. Per
ottenere risultati riproducibili (in fin dei conti gli unici accettabili in un procedimento sperimentale che abbia
pretesa scientifica), bisogna controllare le dimensioni delle particelle, la struttura superficiale e l’adesività
dello strato sottile. È importante che queste caratteristiche siano il più possibile omogenee, su tutto il
percorso che la fase mobile dovrà effettuare.
Se il materiale scelto dovesse aderire malamente al supporto (la lastra di vetro) si può incorporare al suo
interno un agente legante (per esempio del solfato di calcio), ma ciò non è sempre necessario.
Le sospensioni contenenti il mezzo scelto vengono normalmente preparate in acqua, la quale può contenere,
se necessario, degli acidi, delle basi, delle soluzioni tampone o altri agenti, a seconda delle necessità.
Bisogna sempre prestare attenzione affinché la sospensione abbia la giusta consistenza: se è troppo liquida
scorre troppo rapidamente e dà luogo a strati eccessivamente sottili, se è troppo viscosa è difficilmente
spalmabile e tende perciò a produrre degli ammassamenti eterogenei sulle lastre di supporto.
La spalmatura delle sospensioni degli strati sottili così preparate può avvenire in diversi modi. In commercio
esistono degli apparecchi appositamente progettati, che permettono di regolare lo spessore dello strato e la
grandezza della lastra, producendo un risultato eccellente (ossia una lastra coperta da uno strato uniforme).
Tuttavia è possibile anche spalmare tali sospensioni in modo più semplice e, soprattutto, più economico.
Basta far scivolare sulla lastra una bacchetta di vetro ai cui lati si è arrotolato un uguale spessore di nastro
adesivo o su cui si sono inseriti due tubi di gomma di uguale spessore. Un’altra possibilità, forse ancora più
semplice da realizzare, è quella di applicare ai lati della lastra due strisce di nastro adesivo e di far scorrere
sopra di esse la bacchetta di vetro.
Normalmente le lastre cromatografiche hanno dimensioni comprese tra i 2,5 x 20 cm e i 20 x 20 cm. Per usi
di laboratorio o per dimostrazioni didattiche, sono ideali anche lastrine più piccole, come i vetrini da
microscopia. La sospensione, in questo caso, può essere applicata o con appositi apparecchi (che sono
tuttavia piuttosto costosi) o immergendo nella soluzione preparata la lastrina, o spruzzando tale soluzione sul
vetrino da microscopia, o spalmando su quest’ultimo la soluzione con un altro vetrino, cercando di ottenere
uno strato omogeneo.
75 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 41
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 58
Una volta preparate le lastre, occorre essiccarle. Ciò si fa ponendole in un forno a 100-105°C per circa due
ore. Bisogna però prestare attenzione al fatto che alcuni mezzi (come le particelle rigonfiate di gel per
filtrazione) devono essere lasciati essiccare lentamente, in quanto un riscaldamento troppo brusco li farebbe
decomporre. Una volta essiccate, le lastre sono pronte per una cromatografia per adsorbimento. Nel caso si
desiderasse una cromatografia per ripartizione su gel di silice o su cellulosa, occorre una certa quantità di
umidità (di acqua). Per ottenere ciò, si lasciano le lastre esposte all’atmosfera. Questo processo prende il
nome di deattivazione.
Fortunatamente, per chi non volesse o non potesse produrre delle lastre cromatografiche, esistono delle lastre
cromatografiche già pronte, disponibili con una grande varietà di materiali di rivestimento.
4.4.2.2 SCELTA DELLA FASE STAZIONARIA E DEL SOLVENTE
Il mezzo da applicare sulla lastra, che andrà a costituire la fase stazionaria, può essere pressoché ogni
materiale. Come regola generale, anche qui vale quella già illustrata, ovvero di accoppiare la polarità del
mezzo a quella della soluzione da analizzare (ossia scegliendo un mezzo che abbia una certa differenza di
polarità rispetto alle sostanze da analizzare, per evitare che queste si depositino tutte all’inizio del loro
percorso).
I mezzi maggiormente impiegati sono la cellulosa microgranulare o microcristallina (per una cromatografia
per ripartizione), il gel di silice (per una cromatografia per ripartizione o per adsorbimento) e l’allumina (per
una cromatografia per adsorbimento).
Nel caso si desiderasse una cromatografia per filtrazione su gel o per scambio ionico, si sceglieranno dei
mezzi appositamente preparati: come detto in apertura di capitolo, infatti, la cromatografia su strato sottile
permette la realizzazione anche di queste tecniche cromatografiche, sebbene queste tecniche siano
tendenzialmente applicate alla tecnologia della cromatografia su colonna.
La scelta del solvente dipende dalla natura delle sostanze da separare e dal mezzo su cui verrà condotta la
cromatografia. Come regola generale, lo ribadisco un'altra volta, si deve accoppiare la polarità del solvente a
quella delle sostanze da separare. Ne consegue che per cromatografare delle sostanze idrosolubili si
sceglieranno strati di cellulosa o di gel di silice ed un solvente relativamente polare, mentre per separare
sostanze meno polari si opterà per strati di gel di silice attivato o di allumina e un solvente non acquoso,
relativamente apolare.
Per scegliere il solvente più adatto senza correre il rischio di dover ripetere l’intero esperimento per una
cattiva scelta di esso e/o per mancata esperienza, si può usare il seguente trucco. Si dispone una serie di
macchie della miscela da separare su una lastra cromatografica ricoperta dal mezzo scelto. Al centro di
ciascuna macchia si applicano, con un sottile capillare, i solventi da provare (già scelti e preparati secondo il
principio sopra spiegato) e, dopo aver lasciato migrare radialmente le macchie, si vedrà quale serie di centri
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 59
concentrici sarà più distinta e presenterà il maggior numero di circonferenze: tale macchia sarà quella col
solvente più adatto. Un esempio è mostrato in figura.
Figura 2276
4.4.2.3 APPLICAZIONE DEI CAMPIONI
I metodi sono gli stessi descritti per la cromatografia su carta. La grande delicatezza della maggior parte
degli strati impone tuttavia una maggior cura nell’applicazione. Esistono dei gocciolatori automatici, ma
vanno benissimo anche dei sottili capillari.
Dopo l’applicazione del campione alla linea di base, occorre lasciare evaporare il solvente in cui le sostanze
da separare sono disciolte. L’evaporazione da strati sottili è rapida, e normalmente non si rende perciò
necessario l’impiego di un asciugacapelli o di un’apparecchiatura che ne faccia le veci.
È possibile applicare diverse gocce sulla stessa macchia, purché però il solvente sia lasciato evaporare di
volta in volta. La quantità da applicare a ciascuna macchia è di circa 1µl77.
Esiste una cosiddetta “pipetta per strisciature”, che permette di applicare strisce di campione ai
cromatogrammi. Tale pipetta però, pur molto utile nelle cromatografie su carta, può venire impiegata nelle
cromatografie su strati sottili solo su strati con grande resistenza all’abrasione. In alternativa, si possono
tuttavia trovare in commercio degli apparecchi strisciatori, che permettono inoltre di applicare lungo una
striscia uniforme un volume accuratamente misurato. In tali apparecchi l’ago della siringa utilizzata per
applicare la soluzione contenente il campione non tocca mai lo strato sottile, e così il pericolo di abrasione è
scongiurato.
76 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 46 (fig. 23) 77 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 46
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 60
Esistono anche degli applicatori che trasferiscono il campione sulla lastra per mezzo di un gas inerte o di aria
compressa. Tutti questi applicatori, per quanto comodi ed utili, sono piuttosto costosi, e quindi adatti alle
industrie ma sconsigliabili per cromatografie didattiche.
4.4.2.4 SVILUPPO
La procedura è simile a quella impiegata per la cromatografia su carta. Di solito lo sviluppo degli strati sottili
viene condotto col metodo ascendente. Nel caso si dovessero sviluppare più lastre, è possibile disporle in un
apposito supporto e inserire il tutto in una vaschetta leggermente più grande.
Qualsiasi metodo si scelga, si deve disporre un foglio di carta impregnato di solvente lungo le pareti laterali
della vaschetta e coprire il fondo della vaschetta con 0,5-1 cm di solvente per assicurare che l’atmosfera
interna sia satura dei vapori dell’eluente. Le lastre vengono introdotte dopo un certo periodo di tempo,
sufficiente per raggiungere l’equilibrio nell’evaporazione.
Normalmente il fronte del solvente viene lasciato avanzare per circa 10 cm, e poi la lastra viene estratta. Il
fronte del solvente viene marcato con una matita, e nel giro di pochi minuti il solvente evapora dallo strato
sottile. Se necessario si può riscaldare la lastra.
Gli strati composti da particelle di gel per filtrazione sono delicatissimi, ed è in questo caso consigliata la
tecnica discendente, con un angolo di 10-20°.
4.4.2.5 LOCALIZZAZIONE DEGLI ANALITI SUI CROMATOGRAMMI
Le procedure di localizzazione sono simili a quelle per la cromatografia su carta. La localizzazione per
immersione è però sconsigliata, giacché gli strati sottili possono così venire danneggiati facilmente.
Gli strati sottili, rispetto alla carta, presentano il vantaggio di essere, nella maggior parte dei casi, inorganici,
e quindi è possibile usare per la localizzazione dei reagenti molto corrosivi, tipo l’acido solforico (anche
concentrato), e degli agenti anche fortemente ossidanti. Molto usato è il vapore di iodio (nel caso in cui
nessuna delle sostanze da separare reagisse con lo iodio, altrimenti si avrebbe una localizzazione distruttiva,
solitamente non desiderata), che dà luogo a delle macchie marroni in corrispondenza degli analiti. Esso viene
prodotto semplicemente lasciando sul fondo di una vaschetta dei cristalli di iodio e ponendo in essa il
cromatogramma per pochi minuti.
Altri metodi non distruttivi, come già indicato in precedenza, sono la fluorescenza e la radioattività. Molte
lastre per strati sottili contengono degli additivi fluorescenti, che rivelano i composti a causa
dall’attenuazione della fluorescenza prodotta da questi ultimi. Facendo passare il cromatogramma sotto una
lampada ultravioletta si osserveranno così delle zone più scure corrispondenti alle macchie dei composti.
Questo metodo, oltre a sfruttare la fluorescenza naturale di determinate sostanze che magari sono proprio
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 61
quelle che abbiamo separato, si giova anche di questa attenuazione della fluorescenza, e si rivela così
particolarmente utile.
4.4.2.6 CROMATOGRAFIA SU STRATO SOTTILE A SCOPI PREPARATIVO E
QUALITATIVO
Per quanto la cromatografia su strato sottile e quella su carta siano più indicate a scopi qualitativi e analitici
che non quantitativi e/o preparativi (essendo, nel caso di una preparazione, in genere essi più costosi che non
una cromatografia su colonna e, nel caso di una determinazione quantitativa, più laboriosi e/o meno accurati
e precisi), queste due applicazioni non sono escluse a priori, bensì possono venire eseguite.
La cromatografia su strato sottile può venire impiegata come metodo preparativo usando strati più spessi e
lastre più grandi. La quantità di sostanza che può essere separata dipende dalla natura della sostanza e dal
metodo di separazione. In termini generali, si dica che su una lastra di 40 x 20 cm, con uno strato di 1mm, si
possono cromatografare fino a 10mg per ripartizione e fino a 10mg di miscela per adsorbimento78. In ogni
modo, devo ricordare che è sempre possibile sviluppare diverse lastre contemporaneamente, potendo così
cromatografare quantità anche elevate di sostanza.
Il campione viene applicato lungo una striscia, ed occorre quindi uno dei metodi descritti in precedenza.
Rispetto alla cromatografia su carta, bisogna prestare attenzione al fatto che strati piuttosto spessi possono
assorbire79 anche notevoli quantità di solvente, per cui esiste il pericolo che la composizione di esso vari
durante lo sviluppo lungo la lastra.
La localizzazione degli analiti avviene con dei metodi non distruttivi. Se ciò non fosse possibile, si
localizzano le sostanze sulle strisce laterali della lastra con un reagente chimico, e in seguito si rimuovono le
bande contenenti le sostanze separate per mezzo della punta di una spatola, in analogia col metodo già
esposto per la cromatografia su carta. Con la spatola si raschia lo strato sottile e si raccoglie la polvere, dalla
quale le varie sostanze possono venire estratte con un solvente. Un alternativa è quella di usare un aspiratore
a vuoto, che aspira la polvere in un contenitore.
Nel caso in cui si volesse effettuare una cromatografia a scopo quantitativo si segue lo stesso procedimento,
applicando però alla linea di base un volume noto del campione. Alla fine del procedimento appena descritto,
le quantità delle sostanze eluite selettivamente possono venire misurate con uno dei normali metodi d’analisi
(il più ovvio è quello di pesare la massa della sostanza così recuperata). Un’altra possibilità è quella di
determinare le quantità dei componenti separati direttamente sulla lastra, utilizzando gli stessi metodi
spiegati per la cromatografia su carta (v. cap. 4.4.1.8).
78 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 49 79 Assorbire, ossia far penetrare nei propri interstizi.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 62
4.4.2.7 DOCUMENTAZIONE DEI RISULTATI
A differenza della cromatografia su carta, non si desidera normalmente conservare i cromatogrammi, giacché
le lastre possono venire recuperate e reimpiegate. Benché fotografare il cromatogramma sia semplice ed
eccellente, si tratta di un metodo che richiede molto tempo. Per questo motivo si è soliti seguire un metodo
diverso, quello cioè di spruzzare sul cromatogramma una speciale dispersione plastica che si indurisce,
formando un rivestimento plastico trasparente. Questa sottile pellicola può venire rimossa dalla lastra e
conservata.
4.4.3 CROMATOGRAFIA SU COLONNA Nelle colonne si possono integrare numerosi mezzi, che danno luogo a separazioni per ripartizione,
adsorbimento, scambio ionico o filtrazione su gel. Di per sé, quasi ogni mezzo è suscettibile di impiego. I più
comuni sono la cellulosa, il gel di silice, la celite e il “kieselguhr” per separazioni per ripartizione e
l’allumina, l’ossido di magnesio, l’ossido di calcio, il carbone attivo, varie resine scambiatrici di ioni e
derivati della cellulosa per separazioni per adsorbimento o per scambio ionico.
Lo stato fisico del mezzo scelto deve essere tale da permettere un riempimento omogeneo della colonna ed
un flusso libero del solvente attraverso di essa.
4.4.3.1 LA COLONNA
La colonna deve essere chiusa o, meglio, chiudibile (per esempio con un rubinetto, o con un tubo di gomma
collassabile con una pinzetta a vite) sul fondo.
Per riempire una colonna col mezzo scelto la si pone verticalmente e si colloca sul suo fondo un filtro (per
esempio, in una cromatografia su colonna normale, ossia non ad alta pressione, un disco di porcellana con
dei fori seguito da un batuffolo di lana di vetro) per trattenere i materiali solidi nella colonna e lasciare
percolare i liquidi.
Sebbene sia possibile anche caricare il mezzo a secco, di solito il caricamento avviene a umido, introducendo
il mezzo attraverso una sospensione, ottenendo così maggiore uniformità all’interno della colonna. In pratica
si versa la sospensione a piccole porzioni, lasciandola sedimentare per gravità e lasciando percolare i liquidi,
mantenendo però il livello del liquido in modo che la colonna sia riempita fino in cima. Terminata
l’operazione, la colonna è pronta per la cromatografia.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 63
4.4.3.2 SOLVENTI
Il tipo di solvente dipende innanzitutto dal tipo di cromatografia che si esegue: per ripartizione,
adsorbimento, scambio ionico o esclusione.
I solventi usati per la cromatografia per ripartizione sono simili a quelli usati nella cromatografia su carta.
Per quanto concerne le separazioni per adsorbimento, va sottolineata l’importanza di avere un solvente
esente da impurità, giacché queste possono alterare lo sviluppo.
Con adsorbenti del tipo del gel di silice e dell’allumina, la forza di adsorbimento aumenta all’aumentare della
polarità del materiale che si fa passare attraverso la colonna. Il materiale, quindi, è normalmente fatto
percolare in un solvente apolare (per esempio un idrocarburo), giacché i gruppi polari – come per esempio
l’ossidrile (-OH-) presente nell’acqua (H2O) o negli alcoli (R-OH, per esempio l’etanolo) – causerebbero un
desorbimento. Desorbimento che è desiderato invece alla fine del processo di separazione, per poter
recuperare le sostanze prima adsorbite lungo la colonna. In conseguenza a queste due esigenze – dapprima
permettere l’adsorbimento e in seguito ottenere il desorbimento – appare logico effettuare l’eluizione della
colonna (ossia il passaggio del solvente con gli analiti inizialmente ancora presenti) con solventi di natura
vieppiù polare. Una serie tipica può dunque essere questa: esano < cicloesano < benzene < cloroformio <
dietil-etere < acetato d’etile < acetone < etanolo < metanolo < acqua (pura)80. In questo caso, come spiegato
nel cap. 4.3.3, si ha una cromatografia a fase normale.
L’effetto opposto, ossia quello di una cromatografia a fase inversa, si ottiene usando come adsorbente una
sostanza apolare come il carbone attivo. In tale caso, l’adsorbimento avviene a partire da una soluzione
acquosa. Per esempio si potrà separare una miscela acquosa contenente glucosio e maltosio (un disaccaride),
versandola su una colonna di carbone attivo e attendendo che le molecole di zucchero si adsorbano sul
carbone attivo. Esse si potranno poi eluire usando dell’acqua (per il glucosio) e dell’etanolo contenente un
poco di acqua (per il maltosio), sfruttando cioè la relativa maggiore o minore polarità di ogni analita.
Nel caso di una cromatografia per scambio ionico, i campioni si adsorbono a causa delle forze elettrostatiche
(cfr. cap. 4.3.4). Il desorbimento selettivo avviene variando il pH e/o la concentrazione degli ioni nel
solvente eluente.
Per quanto attiene alla cromatografia per gel filtrazione, il solvente dipenderà unicamente dalle sostanze da
separare (esse devono potersi sciogliere nel solvente, ossia esservi solubili) ed eventualmente la vulnerabilità
della fase stazionaria (essa non deve rovinarsi e non deve interagire né con gli analiti né col solvente).
4.4.3.3 ELUIZIONE
La miscela da separare viene sciolta in un opportuno solvente, in modo da ottenere una soluzione piuttosto
concentrata, introdotta poi nella colonna per mezzo di una pipetta (ed eventualmente di una bacchetta di
80 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 64
vetro per mescolare il tutto) o, nel caso di un’apparechiatura più sofisticata o di un HPLC, di una pompa. Il
solvente scelto deve essere miscibile con quello impiegato per riempire la colonna. Il rubinetto sul fondo
della colonna è leggermente aperto, in modo da lasciare uscire una quantità di liquido tale da permettere di
mantenere costante il suo livello all’interno della colonna (fino all’orlo del materiale di riempimento).
Successivamente si fa fluire l’eluente con moto uniforme lungo la colonna, finché la miscela si è
completamente separata. Tale procedura prende il nome di analisi per eluizione.
Come vedremo fra poco, esistono due principali tipi di eluizione: l’eluizione isocratica e quella a gradiente.
Nel primo tipo si utilizza un unico solvente durante tutto il tempo dell’eluizione (è il caso, in genere, di una
cromatografia per ripartizione), mentre nel secondo si utilizzano due o più solventi, che variano durante
l’analisi. Questo secondo tipo può prevedere una variazione drastica (ossia un cambiamento di solvente) o
una variazione progressiva (ovvero un cambiamento delle relative concentrazioni dei due o più solventi dalla
situazione iniziale a quella finale; per esempio da una situazione con solvente A 0% e solvente B 100% ad
una situazione con solvente A 60% e solvente B 40%). Quest’ultimo procedimento abbisogna di una pompa
con due o più entrate (e con un miscelatore), o eventualmente composta da due o più pompe. Ma vediamo un
esempio concreto.
Nel caso di una cromatografia su colonna per ripartizione ci si ferma alla prima parte esposta sopra (un solo
solvente), nel caso invece di una cromatografia su colonna per adsorbimento occorre ancora aggiungere
qualche indicazione. In quest’ultimo caso, infatti, sono utili alcune variazioni nel procedimento descritto nel
primo paragrafo. In particolare, nel caso in cui il primo solvente dovesse fluire rapidamente (ossia in tempi
ragionevoli, senza eccessive attese) unicamente solo una parte dei componenti della miscela, lasciandone
alcuni adsorbiti per lungo tempo (o per sempre) nella colonna, si dovrà utilizzare un secondo solvente, con
un più forte potere desorbente, per completare la separazione. Qualche volta, può rendersi necessaria una
serie di più solventi, ciascuno con un potere desorbente via via maggiore. Siccome questi solventi vengono
aggiunti a stadi successivi, tale procedimento prende il nome di eluizione a stadi.
In alternativa alla eluizione a stadi, la concentrazione del secondo solvente può essere aumentata
uniformemente per mezzo di un apparecchio, in modo tale che questa sia progressiva. Si parla in questo caso
di eluizione a gradiente.
L’obiettivo che ci si pone è che l’eluente abbia un potere desorbente che cresca lentamente, e che quindi
desorbisca successivamente i vari composti adsorbiti dalla colonna, anche se questi dovessero essere molti e
magari anche simili fra loro (questo è il vantaggio di un aumento lento e graduale del secondo solvente,
rispettivamente del terzo, del quarto, e così via).
4.4.3.4 RACCOLTA ED IDENTIFICAZIONE DEGLI ANALITI
Evidentemente è assai banale seguire la separazione di sostanze diversamente colorate. Con sostanze incolori
ciò non è però possibile.
In questi casi esistono due tipologie.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 65
La prima prevede di fluire per un certo periodo di tempo e successivamente spingere fuori dalla colonna la
fase stazionaria. Successivamente si presentano due possibilità. Una è quella di fare evaporare il solvente e
tagliare poi la colonna a strati, da ciascuno strato viene poi estratto l’analita (o gli analiti) con un solvente ed
il campione viene esaminato. L’altra possibilità è di pressare una striscia di carta contro la colonna, in modo
che la prima assorba una piccola quantità di solvente. Si fa essiccare la carta e la si spruzza poi con un
reagente per localizzare i composti. Affiancando la striscia di carta alla colonna, si possono localizzare i
composti e tagliare le porzioni di colonna contenenti i composti desiderati. Questa prima tipologia non è
molto utilizzata, da un lato perché non molto comoda e dall’altro – soprattutto – perché implica l’estrazione e
la distruzione della fase stazionaria. Tuttavia le va riconosciuto il merito di risparmiare molto solvente,
talvolta assai costoso.
La seconda tipologia consiste invece nel lasciar proseguire la separazione finché le sostanze separate non
emergano nell’eluito. Si raccolgono così molte frazioni di eluito (spesso di uguale volume), che vengono poi
analizzate. Quando il contenuto di tali frazioni è noto, alcune di esse si potranno riunire, mentre il contenuto
di altre potrà essere gettato nei liquidi di scarto. Altre frazioni potrebbero contenere più componenti, che si
possono separare con un ulteriore frazionamento su un’altra colonna. La purezza dei composti ottenuti può
essere verificata con una cromatografia su carta o su strato sottile, ma eventualmente anche su colonna (se si
dispone di un’altra colonna o se si ha il tempo di reimpaccare quella utilizzata in precedenza).
La raccolta di un grande numero di frazioni è lunga, per cui tale lavoro può essere svolto da alcuni
apparecchi meccanici, come, per esempio un tamburo portaprovette rotante, come quello mostrato in figura.
Figura 2381
81 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello
editore, Milano, p. 57 (fig. 30)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 66
Si tratta di un raccoglitore che riunisce frazioni a volume costante, grazie ad un sifone bilanciato da un
contrappeso. Un altro tipo di apparecchio può essere quello munito di un contagocce. Esso è indicato per
raccogliere piccole frazioni. Benché possa venire regolato per collezionare campioni composti anche da
molte gocce (e quindi benché possa rendersi adatto anche alla raccolta di frazioni più grandi), presenta lo
svantaggio di non raccogliere frazioni a volume costante, giacché col cambiare solvente cambia anche la
dimensione delle gocce.
Una volta raccolte le frazioni, occorre analizzarne il contenuto. Con centinaia di frazioni, fatto non inusuale
per alcune separazioni, ciò sarebbe un’impresa immensa. In casi simili, perciò, l’eluente viene spesso
analizzato in continuo, prima che finisca nelle provette di raccolta.
Per le analisi in continuo, l’eluente è fatto passare in uno strumento che misura una determinata proprietà
degli analiti. Molti composti, per esempio, sebbene incolori, assorbono la luce in un ben determinato spettro,
spesso l’ultravioletto. Pompando l’eluente a velocità costante in una celletta recante due finestre opposte, si
fa passare attraverso la celletta un raggio ultravioletto di una ben precisa lunghezza d’onda, poi captato da
una fotocellula posta dalla parte opposta della celletta. Sostanze diverse assorbiranno in maniera diversa la
luce ultravioletta, determinando segnali diversi ricevuti dalla fotocellula e quindi impulsi elettrici diversi
inviati da quest’ultima all’integratore o al computer con un software che svolga il compito dell’integratore
(di solito tale software permette più operazioni dell’integratore: dall’elaborazione dei dati ricevuti fino al
controllo del cromatografo tramite ordinatore ed interfaccia, magari anche automatizzato secondo dei
parametri precedentemente immessi). L’integratore o il computer tracceranno, a seconda degli impulsi
ricevuti, una linea su un grafico. Quando sarà presente unicamente il solvente la linea sarà piatta (essendo il
solvente sempre presente, questa sarà la linea “di base” del grafico), mentre quando attraverso la celletta
passerà una sostanza, sul grafico si potrà notare un picco. Consultando il grafico si possono così localizzare –
a seconda del tempo a cui compaiono (tempo che prende il nome di tempo di ritenzione, come verrà spiegato
in seguito) – le varie sostanze separate. Il calcolo dell’area del grafico permetterà poi anche un rilevamento
quantitativo: basta comparare l’area del picco indagato con quella di un picco prodotto da una quantità nota
di sostanza. Va da sé che, per ottenere dati quantitativi, si rende necessario operare in condizioni ben
controllate e annotate, requisito peraltro sempre richiesto (anche per cromatografie qualitative) onde poter
ottenere risultati riproducibili. Si vede bene come nella cromatografia su colonna l’analisi quantitativa sia
molto semplice (rispetto a quella qualitativa non presenta infatti grandi differenze di procedura, basta
effettuare dei calcoli su dati già disponibili e cromatografare anche un campione a quantità nota), a
differenza delle cromatografie su carta e/o su strato sottile (dove, come si è visto, un’indagine quantitativa
richiede molte operazioni ulteriori rispetto ad un’analisi unicamente qualitativa).
Se i composti da separare non hanno la proprietà di assorbire la luce ultravioletta, si può operare nello stesso
modo utilizzando un’altra lunghezza d’onda (per esempio quella infrarossa), se si ha a disposizione un tale
spettrofotometro, o inviando l’eluito ad uno spettrometro di massa, o ad un apparecchio che effettui una
risonanza magnetica nucleare (RMN), oppure si possono far reagire tali composti con un appropriato
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 67
reagente, in modo da dar luogo a dei prodotti colorati o sensibili alla radiazione ultravioletta (operazione
spesso consigliata visti gli elevati costi delle apparecchiature per la spettrometria di massa e, ancor di più, per
la RMN). Per scopi preparativi, si trattano in questo modo unicamente quei composti che non sono già stati
identificati attraverso il rilevatore ultravioletto, mentre quegli analiti separabili direttamente con quest’ultimo
vengono separati prima, onde ridurre il dispendio di tempo e fatica ma anche, e soprattutto, di reagenti.
4.4.3.5 CROMATOGRAFIA IN LIQUIDO A FILO MOBILE
Si tratta di uno sviluppo della normale cromatografia in colonna. All’interno dell’effluente dalla colonna si fa
passare un filo di acciaio inossidabile, calibrato con grande precisione. Questo filo raccoglie così su se stesso
un sottile film di effluente. Il filo passa poi attraverso un piccolo forno, dove l’effluente viene fatto evaporare
ed il vapore analizzato da un rivelatore molto sensibile, del tipo di quelli sviluppati per la gascromatografia.
Questo rivelatore, lo scrivo solo a scopo di completezza ma senza entrare nei dettagli, può essere a
ionizzazione di argon o a ionizzazione di fiamma, a dipendenza del campione da analizzare.
La grande sensibilità di questi rivelatori verso le sostanze organiche, e viceversa la loro scarsa sensibilità a
cambiamenti di temperatura e/o del flusso del gas, permettono di rivelare e registrare quantità piccolissime di
sostanza, fino all’ordine di parti per milione rispetto al solvente. Inoltre, la risposta di questo sistema è
rapidissima, per cui i picchi vengono registrati sul cromatogramma pressoché nello stesso istante in cui
escono dalla colonna le sostanze corrispondenti (come nel caso si disponesse di un integratore in una
normale cromatografia in colonna, vedi sopra). Inoltre la quantità di sostanze sottratta per la rivelazione è
infima, per cui virtualmente tutta la sostanza separata viene recuperata.
L’alta sensibilità del sistema di rivelazione permette poi elevati rapporti fase stazionaria : campione, vicini a
quelli della cromatografia su strato sottile e provocanti una risoluzione superiore a quella normalmente data
dalla cromatografia in colonna (semplice, non l’HPLC, che dà migliori risultati). Infine, il sistema presenta il
grande vantaggio di essere indipendente dal solvente, per cui anche variazioni della composizione
dell’eluente – come nell’eluizione a gradiente o in quella a stadi – non influiscono sui risultati.
Tuttavia questo sistema presenta un importante difetto: ha applicabilità limitata. Benché infatti il sistema a
filo mobile possa essere applicato a qualsiasi tipo di colonna, esso è utilizzabile solo per sostanze
vaporizzabili o pirolizzabili. Oltre a ciò, occorre che il solvente abbia un punto di ebollizione molto più basso
di quello delle sostanze disciolte e generalmente deve avere una tensione superficiale inferiore a quella
dell’acqua, onde assicurare un certo ricoprimento del filo.
4.4.3.6 CROMATOGRAFIA IN COLONNA CON RICICLO
Non sempre è possibile ottenere una separazione completa con una sola colonna: spesso è desiderabile
rifrazionare il materiale separato solo parzialmente (quello già separato viene semplicemente riunito e
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 68
stoccato) in una seconda colonna, eventualmente usando un altro mezzo di riempimento (un’altra fase
stazionaria) ed un altro sistema di solventi. Per sostanze molto stabili ciò non costituisce certo un problema,
ma per sostanze facilmente decomponibili, come gli enzimi (oggi spesso obiettivo delle separazioni, viste le
metodiche di produzione di molti farmaci, cfr. cap. 3), la procedura di riconcentrare e ripreparare le frazioni
per la seconda preparazione (ed eventualmente per una terza) può richiedere molto tempo ma anche e
soprattutto provocare notevoli perdite di sostanza. Queste perdite possono però venire evitate grazie alla
tecnica della cromatografia con riciclo.
Il principio è banale, ma furbo: si fa passare nuovamente attraverso il letto della colonna il campione da
analizzare – sciolto nell’opportuno solvente –, aumentando così la lunghezza della colonna e, di riflesso,
l’efficienza del sistema (cfr. cap. 4.4.3.10). Chiaramente, il sistema di rivelazione deve essere non distruttivo,
come quello di un “detector” ad ultravioletti o di un rivelatore della conducibilità elettrica. Speciali valvole a
selettore, infine, permettono di rimuovere dal sistema le sostanze separate o i composti non desiderati in ogni
punto del ciclo. I componenti non ancora risolti possono così essere riciclati finché non si sia raggiunta una
separazione sufficiente.
4.4.3.7 COSA AVVIENE IN UNA COLONNA DURANTE UNA SEPARAZIONE
CROMATOGRAFICA
Per capire le potenzialità e i limiti della cromatografia su colonna, è necessario cercare di capire cosa
avvenga in una colonna. Immaginiamo di avere una colonna riempita di una fase stazionaria granulare solida
in cui facciamo scorrere una fase mobile liquida, contenente (in soluzione) due sostanze A e B, con
rispettivamente coefficienti di ripartizione . 1.
= =AA
A
Conc FMKConc FS
e . 1. 3
= =BB
B
Conc FMKConc FS
. Benché la fase
sia aggiunta in continuo, è possibile immaginare la colonna – in analogia con le colonne per la distillazione
frazionata82 – come una serie di zone adiacenti, in ognuna delle quali i soluti raggiungono un equilibrio tra la
concentrazione nella fase stazionaria e la concentrazione nella fase mobile. Ognuna di queste zone prende il
nome di piatto teorico, e l’estensione di tali zone all’interno della colonna è detta altezza del piatto (il piatto
teorico corrisponde dunque a quel tratto di colonna nel quale una specie chimica si trova in equilibrio tra le
82 Si pensi per esempio alla distillazione del petrolio grezzo, effettuata dapprima per mezzo di una
distillazione frazionata in alte torri cilindriche. Per un’esposizione semplice e chiara, si veda FRANCO
BAGATTI, ELIS CORRADI, ALESSANDRO DESCO, CLAUDIA ROPA; Chimica; Zanichelli, Bologna, 1996; pag.
11
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 69
due fasi, stazionaria e mobile, prima che l’eluente la trascini ad uno stadio successivo83). Come vedremo in
seguito, tanto maggiore è il numero di piatti teorici (oppure, tanto minore è la loro altezza), tanto maggiore è
l’efficienza della colonna.
Per capire cosa avvenga, seguiamo passo dopo passo (meglio sarebbe dire piatto dopo piatto) la separazione
di 256 particelle di sostanza A e di 256 particelle di sostanza B in una colonna in cui abbiano coefficienti di
ripartizione (come detto) 1=AK e 31
=BK . In una rappresentazione grafica avremo84:
83 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
pdf, p. 2 84 Figure 24-30 tratte da http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html
Figura 24
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 70
Dopo la ripartizione all’interno del primo piatto teorico, avremo la seguente situazione:
Figura 25
Dopo la ripartizione all’interno del secondo piatto teorico, avremo invece questa situazione:
Figura 26
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 71
Dopo la ripartizione all’interno del terzo piatto teorico, si avrà:
Figura 27
Dopo tredici ripartizioni, si avrà:
Figura 28
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 72
E, infine, dopo venti ripartizioni, si avrà:
Figura 29
Tracciando un grafico che rappresenti le ripartizioni delle due sostanze A e B, si ottiene:
Figura 30
Questo grafico prende il nome di cromatogramma, e quando i due picchi sono separati l’uno dall’altro
significa che siamo riusciti ad effettuare una separazione completa delle due sostanze A e B. Per la lettura e
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 73
l’elaborazione matematica dei cromatogrammi, si veda il cap. 4.4.3.11. Si ricordi però che, oltre a questi dati
quantitativi, i cromatogrammi, i tempi di ritenzione che essi ci danno, la loro forma, il loro variare
cambiando sistema di solventi, eccetera, ci permettono di concludere varie ed interessanti considerazioni
qualitative (come noi abbiamo peraltro fatto quando abbiamo condotto i nostri esperimenti, cfr. cap. 5).
4.4.3.8 “HIGH PERFORMANCE LIQUID CROMATOGRAPHY” O HPLC
L’HPLC è un tipo particolare di cromatografia su colonna, è uno sviluppo di questa tecnica. Innanzitutto
riprendo quanto già detto nel capitolo 3: HPLC è una sigla che è nata con un significato ma è oggi utilizzata
con un altro. A causa di questo “inconveniente” storico-linguistico, vi è oggi una certa confusione di termini
nella letteratura sull’argomento. È quindi mia intenzione chiarire subito questo semplice dilemma.
Originariamente HPLC fu la sigla di “High Pressure Liquid Chromatography”, giacché in un primo tempo si
credeva che fosse la pressione il principale fattore alla base delle aumentate possibilità rispetto ai metodi
tradizionali. Tuttavia non è così, e in realtà le qualità dell’HPLC sono dovute a vari fattori, per cui è
preferibile usare il termine “High Performance Liquid Chromatography”. Fra poco vedremo quali siano le
principali caratteristiche dell’HPLC che la differenziano da una normale cromatografia su colonna, e
capiremo così perché sia meglio parlare di “High Performance (e non Pressure) Liquid Cromatography”.
Ho appena parlato di “qualità dell’HPLC” e di “aumentate possibilità rispetto ai metodi tradizionali”, in
quanto l’HPLC è una procedura cromatografica direttamente derivata dalla cromatografia classica su colonna
e, come tale, si basa sugli stessi principi cromatografici esposti nella prima parte di questo lavoro (cap. 4.3).
Nella cromatografia su colonna classica, la colonna contiene la fase stazionaria all’interno della quale scorre
la fase mobile, rappresentata dall’eluente. Il passaggio di quest’ultimo avviene attraverso la spinta esercitata
dalla colonna di liquido costituente la fase mobile e grazie alla forza di gravità. Se la fase stazionaria non è
sufficientemente porosa, tale passaggio può anche essere particolarmente lento. La novità dell’HPLC risiede
nel fatto che la forza che permette all’eluente di scorrere nella colonna è creata non più dalla forza di gravità
ma dalla pressione applicata in testa alla colonna da una pompa, pressione che forza la fase mobile a scorrere
all’interno di quella stazionaria. Ciò non solo rende il processo più rapido, ma aumenta anche il numero di
piatti teorici e in tal modo la risoluzione della colonna.
Come vedremo nel cap. 4.4.3.10, infatti, il potere di risoluzione di una colonna cromatografica aumenta
all'aumentare del numero dei piatti teorici, ossia da un lato con l’incremento della lunghezza della colonna e
dall’altro con l’innalzamento del numero di piatti teorici presenti per unità di lunghezza (sebbene esistano dei
limiti alla lunghezza di una colonna dovuti al problema dell'allargamento dei picchi). Giacché il numero dei
piatti teorici è in relazione all'area della fase stazionaria, a minori dimensioni delle particelle della fase
stazionaria corrispondono migliori risoluzioni. Sfortunatamente, però, diminuendo le dimensioni delle
particelle, assieme all’area della fase stazionaria aumenta anche la resistenza al flusso dell'eluente. Le
velocità di flusso relativamente basse che si ottengono nelle tecniche cromatografiche su colonna classiche
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 74
favoriscono il fenomeno dell'allargamento dei picchi per semplice diffusione dei soluti85 e per questo motivo
risulta inutile applicare velocità di flusso più elevate, in quanto ciò provocherebbe un ritorno di pressione
sufficiente a danneggiare la struttura della matrice della fase stazionaria con conseguente riduzione del flusso
dell'eluente e peggioramento della risoluzione. L’evoluzione tecnologica sfociata nella tecnica dell’HPLC ha
coinvolto la cromatografia d’adsorbimento, di ripartizione, a scambio ionico, ad esclusione e di affinità ed ha
incrementato di molto il grado di risoluzione e la velocità di separazione. Ciò spiega perché l'HPLC sia
considerata oggi la tecnica cromatografica più diffusa, efficace e versatile.86
I primi sviluppi della cromatografia su colonna verso l’HPLC furono effettuati dopo che si ipotizzò e si
constatò che l’aumento del numero di piatti teorici si poteva ottenere impaccando la colonna con particelle di
diametro più piccolo. Verso la fine degli anni ’60 fu sviluppata una tecnologia adatta alla fabbricazione di
particelle di grandezze dell’ordine dei 5 – 10 µm per riempire le colonne cromatografiche87.
Siccome però una diminuzione delle dimensioni delle particelle aumenta la resistenza opposta da queste al
flusso e abbassa la velocità lineare (espressa in mm/sec) della fase mobile, ossia il flusso (espresso in
mL/min) della fase mobile, era necessario che il solvente potesse attraversare la colonna con una maggiore
pressione. Ne risulta, quindi, che proprio con la nascita di queste tecnologie per la fabbricazione di particelle
di piccole dimensioni (e con i relativi adattamenti per il raggiungimento di una adeguata pressione) venne
anche alla luce il nome di “High Pressure Liquid Chromatography” (HPLC).
Confrontata con le tecniche cromatografiche precedenti (o “classiche”), l’HPLC presenta queste principali
peculiarità: 85 Poiché ad ogni piatto teorico si verifica una distribuzione dei soluti tra le fasi stazionaria e mobile, la
concentrazione dei soluti nella fase mobile varia. Essendo questa liquida, è logico che per semplice
diffusione sia favorito un processo di “equilibramento” e di livellamento delle concentrazioni. Se dunque nel
piatto teorico 2 gran parte dei soluti passerà dalla fase mobile a quella stazionaria, avverrà che i soluti
presenti nella fase mobile nei tratti appena precedente e successivo della colonna (piatti teorici 1 e 3)
tenderanno a spostarsi per diffusione in corrispondenza del piatto teorico 2. Giacché il flusso viaggia in
direzione 1 3, probabilmente nella zona del piatto teorico 3 non ci saranno ancora soluti. Avverrà dunque
una diffusione dei soluti da 1 a 2. In fase di desorbimento l’effetto sarà contrario, e dunque si avrà una
diffusione da 2 ad 1. In questa situazione, una pressione elevata del flusso defavorirà in maniera importante
la diffusione in direzione 2 1, andando così ad attenuare in maniera considerevole l’allargamento dei
picchi dovuto ai fenomeni diffusivi. 86 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 87 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 75
· più piccolo diametro delle colonne (2-5 mm);
· colonne in acciaio inossidabile (quindi riutilizzabili, ev. reimpaccabili);
· impaccamento (riempimento) delle colonne con particelle molto piccole e sviluppo continuo di nuove
sostanze da usare come fasi stazionarie (anche a dipendenza delle esigenze separative, ossia delle
sostanze da separare);
· pressioni di iniezione relativamente elevate e flusso controllato della fase mobile;
· introduzione di una precisa quantità di campione, e iniezione di piccole quantità di campione
(solitamente 5 – 20 µL, ma si possono effettuare iniezioni anche di solo 1µL) (non è più necessario
iniettarne grandi quantità, con un conseguente risparmio di campioni e solventi);
· “detectors” capaci di lavorare in continuo e di rilevare anche quantitativi molto piccoli di sostanza;
· strumenti automaticizzati grazie all’impostazione di procedimenti standardizzati (programmazione
tramite appositi softwares resa possibile da efficienti interfacce PC-cromatografo);
· analisi piuttosto rapide;
· risoluzione elevata.88
Alla luce di queste caratteristiche, risulta manifesto che la pressione elevata non è l’unico fattore all’origine
dell’interesse dell’HPLC. Il termine “High Pressure Liquid Chromatography” è dunque un vocabolo
sfortunato, giacché induce a credere che le migliorate prestazioni siano dovute esclusivamente all’aumentata
pressione. In realtà tale incremento è permesso da numerosi fattori, fra cui
· l’impiego, per la fase stazionaria, di particelle molto piccole e con uno stretto intervallo di distribuzione
(ossia con dimensioni dei pori piuttosto omogenee89), e quindi tali da permettere una distribuzione
uniforme del flusso;
· iniettori in grado di introdurre in modo accurato anche piccoli volumi di campioni;
· rilevatori sensibili a bassi volumi;
· buoni sistemi di pompaggio (pompe in grado di generare pressioni elevate e di resistere ad esse, anche se
in uso prolungato).90
La pressione elevata è dunque un fattore determinante per le aumentate potenzialità dell’HPLC, ma non è il
solo. Ciò che davvero caratterizza l’HPLC sono delle prestazioni elevate, e dunque – come già più volte
sottolineato – risulta consigliabile utilizzare il termine “High Performance Liquid Chromatography”.
88 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 89 La misura della distribuzione delle dimensioni delle particelle viene in genere indicata con una
percentuale, una sorta di quota d’errore. Se prendiamo come esempio delle particelle con dimensione 10µm,
una distribuzione del 10% significa che il 90% delle particelle ha dimensioni comprese tra 9 e 11µm. 90 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 76
4.4.3.9 STRUMENTAZIONE PER HPLC
4.4.3.9.1 Sistemi per HPLC
La strumentazione per l’HPLC include un sistema per trattare i solventi (in particolare per purificarli e
degassificarli), una pompa, un iniettore, una (o più) colonna(/-e), un rilevatore, un sistema per registrare i
dati.
Il cuore del sistema è la colonna, dove ha luogo la separazione. Giacché la fase stazionaria è composta da
particelle porose di grandezza micrometrica (o addirittura nanometrica), si rende necessaria una pompa in
grado di generare alte pressioni, per poter spingere la fase mobile lungo la colonna.
Il processo cromatografico, se si esclude l’impaccamento della colonna, inizia con la eventuale purificazione
e degassificazione dei solventi da usare (per evitare che essi vadano a rovinare la fase stazionaria o
interferiscano con i segnali del rilevatore). Successivamente si fa passare attraverso la colonna un flusso del
solvente. Poi si inietta il campione. Ogni componente effluisce dalla colonna e genera una banda (o un picco)
sul “recorder”. La rilevazione dei componenti è importante, e può essere selettiva o universale, a dipendenza
del “detector” utilizzato. La risposta del “detector” (o rilevatore) è mostrata sul grafico tracciato
dall’integratore o sullo schermo del computer, e tale grafico prende il nome di cromatogramma. Per
memorizzare ed analizzare i dati si utilizzano integratori o, meglio, computers.
4.4.3.9.2 Contenitori per la fase mobile e sistemi di trattamento dei solventi
Innanzitutto si hanno dei contenitori in vetro o in acciaio per i solventi, in genere bottiglie di vetro
(solitamente con capacità comprese tra 0,5L e 2,0L). Solitamente queste bottiglie sono dotate di tappi
particolari (con un foro per far passare un capillare), tubi e filtri in teflon per connetterle alla pompa.
In genere sono poi presenti dei dispositivi per degassificare i solventi e per eliminare eventuali particelle
indisciolte. La preparazione della soluzione di eluente o la sostituzione di un contenitore di solvente
producono bolle, che se entrassero in colonna potrebbero causare un allargamento delle bande, ma
soprattutto una compromissione dell’efficienza del sistema di pompaggio (nei nostri esperimenti, per
esempio, ci sono state pressioni inferiori o superiori ai valori massimi di controllo impostati nella pompa, o
pressioni incostanti, causate da un solvente non ben degassificato, e non abbiamo potuto utilizzare i dati così
rilevati nella presente esposizione, ma abbiamo dovuto effettuare nuovi esperimenti).
Il sistema di degassaggio può essere costituito da una pompa a vuoto, da un sistema di distillazione, da un
sistema per il riscaldamento e l’agitazione della soluzione, da un bagno agli ultrasuoni o da un sistema di
degassaggio tramite un gas inerte. In quest’ultimo caso un gas non solubile nel solvente da degassificare
(solitamente si utilizza dell’elio) viene fatto gorgogliare in piccole bolle all’interno del contenitore per
portare così via i gas disciolti. Quest’ultimo metodo, però, è ritenuto insufficiente per degassificare solventi
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 77
acquosi, per i quali si preferisce applicare un vuoto per circa 5-10 minuti e poi tenere il solvente sotto
un’atmosfera di elio91.
4.4.3.9.3 Fasi mobili
Nell’HPLC il tipo e la composizione degli eluenti è una delle variabili più importanti che influenzano la
separazione. Nonostante la larga varietà di solventi usati nell’HPLC, ci sono alcune proprietà comuni:
· purezza;
· compatibilità col “detector” e le guarnizioni dell’impianto;
· solubilità del campione;
· bassa viscosità;
· devono essere chimicamente inerti;
· prezzo ragionevole.
Ogni tipo di HPLC ha delle esigenze particolari. Per la cromatografia a fase normale, i solventi devono
essere apolari (o poco polari), mentre per cromatografia a fase inversa gli eluenti sono usualmente miscugli
di acqua con un solvente organico polare, come acetonitrile (che è leggermente polare).
Nel caso di HPLC per esclusione (in inglese questo tipo di HPLC prende la sigla di SEC, “Size Exclusion
Chromatography”), gli eluenti devono sciogliere i componenti, ma anche sopprimere tutte le possibili
interazioni delle molecole di campione con la superficie della fase stazionaria.
4.4.3.9.4 Pompe
Onde forzare i solventi attraverso le colone sono richieste pompe in grado di generare alte pressioni. Più
piccole sono le particelle costituenti la fase stazionaria, più alte sono le pressioni richieste. Usare particelle
piccole presenta molti vantaggi, in particolare ciò permette di aumentare il numero di piatti teorici e dunque
l’efficienza della colonna (v. anche cap. 4.4.3.10), ma anche di aumentare la velocità delle analisi. Tuttavia
non sempre sono necessarie particelle piccolissime, e un laboratorio con un budget ristretto può anche
accontentarsi di una pompa che non sia in grado di sopportare pressioni elevate.
Le pompe per HPLC dovrebbero soddisfare le seguenti esigenze:
· gamma di flusso tra 0,01 e 10 mL/min;
· stabilità del flusso (il flusso non deve variare più dell’1%);
· per HPLC per esclusione (SEC) la stabilità del flusso è ancora più importante, e si richiede che il flusso
vari meno dello 0,2%;
· pressione massima superiore ai 5000psi;
· resistenza alla corrosione verso una grande quantità di solventi.
91 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 78
Sono inoltre desiderabili dei controlli elettronici per le pompe. Questi, benché facciano lievitare il costo della
pompa, permettono automatizzazioni (magari anche attraverso un’interfaccia ed un software che permettano
di controllare la pompa direttamente dal computer, che può essere programmato e che può quindi condurre
analisi durante la notte, permettendo un notevole risparmio di tempo e, di riflesso, di soldi). Sono utili anche
pompe che permettano eluizioni a gradiente, ossia alle quali si possano collegare due o più bottiglie di
solvente, le cui proporzioni possono essere variate grazie o ad apposite valvole o alla presenza di due o più
pompe unite ad un miscelatore.
Esistono tre tipi di pompe.
La prima è costituita da una siringa guidata a vite. Questa produce un flusso costante (senza pulsazioni), e
permette un facile controllo della velocità del flusso. Tuttavia ha lo svantaggio di un alto volume di
riempimento, problematico quando è necessario sostituire i solventi.
Il secondo tipo di pompa, pure meccanica, è di tipo alternativo, ossia a pistone, di cui possiamo vedere uno
schema nella figura 31.
Figura 3192
Le pompe a pistone sono quelle più comunemente usate, e sono costituite da una piccola camera cilindrica
che viene riempita e svuotata dal movimento di un pistone. Il pompaggio però, per forza di cose, produce un
flusso pulsatile, e questo necessita di essere successivamente linearizzato. I vantaggi di questo tipo di pompa
sono un piccolo volume interno (e ciò permette di variare la composizione dei solventi a scalini così piccoli
da poter considerare tale variazione di tipo continuo, ossia una eluizione a gradiente), la capacità di generare
alte pressioni (anche superiori a 10000psi) rapida adattabilità al cambiamento dei solventi durante la stessa
92 Immagine tratta da GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
pdf, p. 9
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 79
analisi, bassa sensibilità alla viscosità del solvente e alla pressione in testa alla colonna. È per questi vantaggi
che è questa la pompa più diffusa.
La terza pompa è di tipo pneumatico, e consiste in un contenitore di solvente collassabile contenuto in un
recipiente che può venire riempito con un gas compresso. Il gas spinge sulle pareti del contenitore
collassabile, facendolo collassare e spremendo così il solvente nella colonna. Questo tipo di pompe è
semplice, poco costoso e permette di generare un flusso costante e lineare. Presentano però l’inconveniente
che la velocità del flusso è molto influenzata dalla viscosità del solvente. Inoltre non permettono un’analisi a
gradiente.
4.4.3.9.5 Sistema di iniezione del campione
Nel caso di una cromatografia su colonna classica, si è soliti iniettare il campione con una siringa attraverso
un setto di materiale elastomerico. Questa procedura, però, non è molto riproducibile, e si può usare solo a
pressioni inferiori a 1500psi.
In linea di principio esistono due tipi di iniezione: uno che ferma il flusso del solvente per iniettare il
campione, e uno che aggiunge al solvente il campione.
Il primo tipo, anche chiamato “stop-flow”93, prevede il blocco del flusso per permettere l’asportazione di una
piccola quantità di solvente in testa alla colonna e il successivo caricamento del campione, sempre in testa,
per il tramite di una siringa.
Il secondo tipo, nettamente più diffuso, è quello di usare una valvola di iniezione del campione. Questa
valvola, chiamata anche anello o cappio (dall’inglese “loop”), ha un’entrata del flusso proveniente dalla
pompa, un’uscita del flusso diretta alla colonna, un’entrata per l’iniezione con la siringa ed uno sfiato. Per
prima cosa si riempie l’anello con il campione, ossia si spinge del campione fintanto che questo non cominci
ad uscire dallo sfiato: questo è segnale che l’anello è pieno. Quando si commuta la valvola su “iniezione”,
nell’anello contenente il campione viene fatto scorrere il flusso proveniente dalla pompa, ed in questo flusso
si scioglie il campione. Il tutto viene poi inviato alla colonna.
Questo tipo di valvola viene anche chiamato con il termine inglese “sampling loop”, ossia anello per il
campione.
Questi dispositivi sono in genere equipaggiati con un set di “loops” intercambiabili, con capacità variabile
dai 5 ai 500µL. La caratteristica più importante dell’iniezione tramite anello è l’alta riproducibilità dei
volumi iniettati.
Apparecchiature più sofisticate, poi, permettono di variare il volume di campione iniettato in modo continuo
partendo persino da 1µL. Sempre in questi apparecchi più complessi, si possono anche trovare sistemi di
93 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
pdf, p. 10
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 80
iniezione del campione automatici, dove l’iniezione è svolta con l’aiuto di autocampionatori
(“autosamplers”), autoiniettori e microprocessori. Questi apparecchi, collegati ad un computer che li diriga,
possono essere utilizzati per analisi successive e programmate, che possono venire svolte anche di notte
(dopo che il cromatografista abbia preparato i solventi, i campioni nei loro relativi solventi e che abbia
programmato il software).
Nella cromatografia liquida, campioni liquidi possono essere iniettati direttamente, mentre campioni solidi
devono essere prima disciolti in un opportuno solvente. Non è necessario che questo solvente sia uguale alla
fase mobile, ma è fondamentale che sia comunque scelto in modo che siano evitate interferenze col
rilevatore, con la colonna, con gli eventuali altri componenti, cosa che determinerebbe una diminuzione
dell’efficienza del sistema,... In ogni caso, è sempre consigliato di rimuovere eventuali particelle indesiderate
dal campione filtrandolo o centrifugandolo, in quanto, dopo continue iniezioni, eventuale materiale
particellare può causare un blocco dei sistemi di iniezione o anche della colonna stessa. Anche se non si
dovesse arrivare a tanto, si avrebbe comunque una diminuzione dell’efficienza e della risoluzione della
colonna, in particolare a causa dell’allargamento dei picchi dovuto all’introduzione di elementi estranei che
diminuiscono l’uniformità della colonna.
La quantità dei campioni iniettati può variare anche molto. La disponibilità di “detectors” ad alta sensibilità
permette l’uso di piccole quantità di campione, fatto che porta ad un’alta prestazione della colonne. Per dare
un termine di paragone trovato in letteratura94, si dica che tipicamente, in una colonna di 4,6mm di diametro,
si iniettano campioni di alcuni nanogrammi fino a 2mg sciolti in 20mL di solvente.
4.4.3.9.6 Colonna
Le colonne per cromatografia sono solitamente d’acciaio o di vetro ricoperte di metallo, queste ultime
impiegate soprattutto quando si lavora a pressioni inferiori a 600psi. La lunghezza delle colonne usate a
scopi analitici e/o preparativi varia da 10 a 30cm, ed il diametro interno dai 4 ai 10mm. Le colonne sono in
genere impaccate con particelle di diametro variabile dai 5 ai 10µm (ma anche meno, vedi sotto) nell’HPLC.
Le tipiche colonne per la cromatografia liquida ad alta pressione sono lunghe 10, 15 o 25 centimetri, e sono
impaccate con particelle estremamente piccole (3, 5 o 10 µm, v. sotto). Il diametro interno è normalmente 4,0
o 4,6mm. Questo è considerato il miglior compromesso tra capacità di iniezione del campione, consumo
della fase mobile, velocità dell’analisi e risoluzione del sistema cromatografico. Colonne di questo tipo
arrivano di solito a contenere 40'000 o anche 60'000 piatti teorici per ogni metro di lunghezza.
Recentemente sono state introdotte sul mercato delle microcolonne lunghe dai 3 ai 6,5cm, e aventi un
diametro interno variante da 1 a 4,6mm. Queste colonne sono impaccate con particelle di diametro compreso
tra i 3 e i 5µm. Queste microcolonne hanno anche più di 100'000 piatti teorici per metro, e presentano il
94 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 81
vantaggio di una maggiore velocità operativa e di un minore consumo di solventi. Quest’ultima caratteristica
è particolarmente interessante, giacché per la cromatografia liquida ad alta pressione sono necessari solventi
ad alto grado di purezza, particolarmente costosi. Ci sono esempi di separazioni di 8 composti in 15 secondi
con una colonna di 4cm e di diametro interno di 4mm, impaccata con particelle di 3µm di diametro95.
In generale, le colonne per HPLC sono piuttosto durevoli, e ci si può aspettare una vita piuttosto lunga,
purché non siano utilizzate in maniere intrinsecamente distruttive, come per esempio usando eluenti
fortemente acidi o fortemente basici, o iniettando continuamente campioni biologici “sporchi”.
È consigliabile iniettare una o più miscele di prova sotto condizioni controllate quando la colonna è nuova, e
di conservare il cromatogramma. Se, più in là nel tempo, si dovessero ottenere risultati strani, la miscela di
prova potrà venire iniettata nuovamente ed il cromatogramma così ottenuto si potrà confrontare con quello
che si era avuto quando la colonna era nuova e, in questo modo, stabilire se la colonna è ancora utilizzabile
oppure no.
Il materiale più comune usato per impaccare le colonne per l’HPLC è la silice, preparata per agglomerazione
di particelle di diametro inferiore al micron sotto condizioni che portano alla formazione di particelle più
grandi con diametri altamente uniformi. Le particelle risultanti possono venire rivestite con sottili film di
composti organici, legati alla superficie con legami chimici o fisici (questi film permetteranno cromatografie
per adsorbimento, ripartizione, scambio ionico o affinità). Altri materiali usati per impaccare le colonne sono
l’albumina, dei polimeri micro e/o macroporosi e resine a scambio ionico.96
Vediamo però un po’ più in dettaglio quali debbano essere le caratteristiche delle fasi stazionarie e
presentiamo qualche esempio di esse trovato in letteratura.97
4.4.3.9.7 Fasi stazionarie
Le moderne fasi stazionarie per HPLC sono particelle rigide e porose con un’alta area di superficie. I
principali parametri delle fasi stazionarie sono:
95 SNYDER L.R, KIRKLAND J.J.; Introduction to High-performance Liquid Chromatography; 2nd
ed. New
York: Chapman and Hall, 1982; citato in GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione
(HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
pdf, p. 12 96 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
pdf, pp. 12-13 97http://www.amscampus.cib.unibo.it/archive/00000396/01/CROMAT_1A_2003.ppt#256,1,CROMATOGR
AFIA Principi generali
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 82
· grandezza delle particelle tra 3 e 10 µm;
· distribuzione della grandezza delle particelle la più piccola possibile, solitamente entro il 10%;
· grandezza dei pori tra 70 e 300 Ǻ;
· area di superficie tra 50 e 250 m2/g;
· densità dei siti interattivi della fase stazionaria (numero di siti adsorbenti98 per unità di superficie) da 1 a
5 per 1 nm2.
Sostanze per le fasi stazionarie (dette anche matrici) frequentemente utilizzate sono l’agarosio, la cellulosa, il
destrano, il poliacrilamide, il polistirene e la silice (il gel di silice). Vediamo brevemente di cosa si tratta.
· “Agarosio È un polisaccaride derivante da particolari alghe rosse (chiamate, appunto, agar) cosituito da
residui alternati di D-galattoso e 3,6-anidro-L-galattoso. È disponibile commercialmente come
Sepharose, Sepharose CL (cross-linking con 2,3-dibromopropanolo), Superose, Bio-Gel A. Limiti di
esclusione 10-40000 kD.
· Cellulosa Polimero di unità glucosidiche unito da legami β-1,4. Tramite epicloridrina vengono ottenuti i
legami crociati essenziali per l’ utilizzo come matrice in cromatografia, il numero dei quali determina la
dimensione dei pori.
· Destrano È un polimero di residui di glucosio uniti da legami β-1,6, prodotto dal batterio Leuconostoc
mesenteroides. È presente in commercio con il nome di Sephadex. La porosità dei gel a base di destrano
è controllata dalla massa molecolare del destrano usato e dall’ introduzione di legami crociati ottenuti
con epicloridrina. Limiti di esclusione 0.7-800 kD.
Il cosiddetto Sephacryl è del destrano con legami crociati ottenuti con N,N’-metilene bisacrilamide.
Limiti di esclusione 1-8000 kD.
Il Superdex è un gel composito costituito da destrano covalentemente legato ad agarosio.
· Poliacrilamide È un polimero di acrilamide e N,N’-metilenbisacrilamide (quest’ultimo determina la
formazione di legami crociati). È disponibile in commercio come Bio-GelP, con limiti di esclusione tra
0.2 e 400 kD.
· Polistirene E’ un polimero di stirene legato con divinilbenzene.
· Silice È un polimero prodotto a partire dall’ acido ortosilicico. I molti gruppi silanolo (Si-OH) rendono
la matrice altamente idrofilica. Il loro eccesso può essere eliminato derivatizzando con
triclorometilsilano. ”99
98 Nel caso di una cromatografia per adsorbimento. Questo parametro si riferisce unicamente a questo tipo di
cromatografia. 99 Dati e spiegazioni tratte da
http://www.amscampus.cib.unibo.it/archive/00000396/01/CROMAT_1A_2003.ppt#256,1,CROMATOGRA
FIA Principi generali
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 83
4.4.3.9.8 Colonna di guardia (o precolonna)
Spesso, per aumentare la vita di una colonna, in testa ad essa è applicata una colonna di guardia che rimuove
dai solventi eventuali particelle indisciolte e contaminanti. Inoltre, la precolonna serve anche a saturare la
fase mobile con la fase stazionaria cosicché sia minimizzata la perdita di fase stazionaria dalla colona
analitica. La composizione di una colonna di guardia dovrebbe quindi essere simile a quella della colonna
analitica (o colonna principale, se si vuole impiegare un termine germanofonizzante, che ricordi il tedesco
“Hauptsäule”). La grandezza delle particelle della colonna di guardia è però maggiore di quella delle
particelle della colonna analitica, onde minimizzare la caduta di pressione.
4.4.3.9.9 Termostato della colonna
In molti casi non è necessario un preciso controllo della temperatura, e le colonne vengono adoperate a
temperatura ambiente. Spesso, però, i migliori cromatogrammi si ottengono a temperature superiori, e
mantenendo la temperatura costante. I sistemi più sofisticati, quindi, sono equipaggiati con riscaldatori di
colonne, che possono mantenere una temperatura in una gamma variabile dalla temperatura ambiente a circa
150°C100. Spesso il termostato non è altro che un forno (con sottili fessure per l’entrata e l’uscita del
capillare), ossia un ulteriore apparecchio da porre nelle vicinanze della pompa e del “detector” (ed
eventualmente dell’iniettore automatico e del degassificatore, se il sistema ne è equipaggiato).
4.4.3.9.10 Rilevatori (“detectors”)
Oggi si utilizzano esclusivamente sistemi di rivelazione non distruttivi, che permettono di analizzare
l’effluito in modo continuo e senza modificarlo, offrendo così la possibilità di utilizzare il sistema anche a
scopo preparativo (e non solo analitico).
In genere, bisogna sempre cercare il compromesso tra tre fattori: selettività, sensibilità e costo. Un’alta
selettività significa che bisognerà cambiare il “detector” a seconda di quali composti si desidera analizzare.
Essa non permetterà, quindi, un’analisi di campioni contenenti composti molto diversi fra loro (bisognerà
dapprima fare un’analisi con un “detector” a bassa selettività e bassa sensibilità, per poi passare ad analisi
più sensibili ma con “detector” più mirati, ossia adattati ai vari tipi di componenti). Un’alta sensibilità
significa che anche piccole quantità di sostanza vengono rilevate, e che sostanze con piccole differenze di
assorbanza vengono diversificate. Spesso, però, i sistemi con alta sensibilità presentano una altrettanto alta
selettività, e non possono quindi essere usati per campioni contenenti analiti molto disparati.
100 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
pdf, p. 13
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 84
Molto usati sono gli apparecchi spettrofotometrici, in particolare quelli negli spettri ultravioletto e visibile. I
rilevatori spettrofotometrici sono molto più versatili di quelli fotometrici e sono quelli più usati negli
strumenti ad alte prestazioni.
Questi rilevatori fanno passare un raggio di luce attraverso l’effluito che passa attraverso una cella
contenente un piccolo volume. Le variazioni dell’intensità della luce causata dall’assorbimento da parte del
solvente e degli analiti è rilevata dalla fotocellula, che cambierà il voltaggio che emette. Tramite
un’interfaccia, questo segnale analogico (cambiamento di voltaggio) è tradotto in impulsi digitali, poi
elaborati da un computer.
Lo spettrofotometro infrarosso ha una selettività bassa (funziona dunque ad ampio raggio), ma è poco
sensibile. Oggi è praticamente caduto in disuso.
Il più usato in assoluto è proprio un rilevatore nell’ultravioletto e visibile. Un “detector” di questo tipo,
generalmente, è capace di monitorare uno spettro tra i 190 ed i 460 (o anche 600) nm. Esistono apparecchi
che rilevano sia l’assorbanza ad una ben precisa lunghezza d’onda, sia lo spettro d’assorbanza del liquido
contenuto nella cella. Questo tipo di apparecchi, chiamato DAD (“Diode Array Detector”), permette di
scegliere la lunghezza d’onda ideale basandosi sullo spettro d’assorbanza. Generalmente si indagano
lunghezze d’onda dai 200 ai 280nm, poiché molti gruppi funzionali dei composti organici assorbono in
questa regione dello spettro.
La sorgente usata per emettere l’onda luminosa può essere il mercurio, ma si usano anche filamenti in
tungsteno o deuterio, equipaggiati con filtri che eliminano le radiazioni indesiderate.
Altri tipi di rivelatori possono essere quello che misura l’indice di rifrazione, quello che misura l’emissione
fluorescente, lo spettrometro di massa, l’apparecchio per la risonanza magnetica nucleare, il polarimetro, ...
Il “detector” dell’indice di rifrazione rileva il cambiamento dell’indice di rifrazione del solvente causato
dalle molecole di analita, ed è un “detector” piuttosto usato. Questo metodo è meno selettivo dei rivelatori
ultravioletto-visibile (UV-VIS), perché l’indice di rifrazione è in generale meno specifico per le varie
sostanze, e può venire influenzato anche da soluti presenti nella fase mobile. È meno selettivo, ma anche
meno sensibile.
Lo spettrometro di massa e la risonanza magnetica nucleare sono due metodi analitici strumentali che
presentano sia alta sensibilità sia un ampio raggio d’azione (ossia scarsa selettività). Tuttavia sono entrambi
molto costosi e sovente usati in combinazione con un rilevatore UV.
Ci sono infine rivelatori che misurano la conducibilità della fase mobile, o quelli che eseguono misure
potenziometriche o amperometriche. Questo tipo di rivelatore è comunque usato piuttosto raramente.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 85
4.4.3.10 CARATTERIZZAZIONE DI UNA COLONNA CROMATOGRAFICA
Per caratterizzare una colonna cromatografica ci si basa sui cromatogrammi ottenuti, ossia sull’analisi dei
picchi. Si tratta dunque di analisi matematiche, durante le quali è però buona cosa tenere sempre ben presente
il legame con ciò che avviene nella realtà sperimentale. In particolare, ci sono due fattori da considerare: la
ritenzione degli analiti da parte della fase stazionaria e l’allargamento della banda tracciata sul grafico.
Durante il corso di una cromatografia, infatti, tale banda tende ad allargarsi, per via del flusso attorno e
dentro le particelle porose, la cinetica delle interazioni lente tra le fasi, la diffusione longitudinale del flusso,
ed altri fattori, che vedremo meglio in seguito (cfr. teoria di Van Deemter, che ci permette di individuare e
descrivere poi matematicamente tre fattori all’origine di tale allargamento dei picchi). Questi processi, nel
loro insieme, producono il cosiddetto allargamento dei picchi. In generale, più a lungo un componente resta
nella colonna, più sarà grande l’allargamento del picco a lui dovuto (tutti questi effetti, infatti, hanno più
tempo per avvenire e quindi diventano più consistenti).
Le prestazioni della separazione dipendono da entrambi gli agenti: ritenzione degli analiti nella colonna ed
allargamento dei picchi. In generale, questo secondo fattore è un parametro cinetico, dipendente dalla
grandezza delle particelle costituenti la fase stazionaria, dalla porosità di essa, dalla grandezza dei pori, dalla
grandezza e dalla forma della colonna, nonché dalla qualità dell’impaccamento. I fenomeni di ritenzione,
invece, sono influenzati da questi parametri unicamente nel caso di una cromatografia per esclusione, mentre
questi parametri non sono caratterizzanti per una cromatografia per adsorbimento, di ripartizione o per
scambio ionico. In questi ultimi casi, ad influenzare la ritenzione sono invece soprattutto le interazioni tra le
due fasi e, quindi, essa sarà determinata anche dalla superficie della fase stazionaria. È chiaro che anche in
questi casi può sommarsi alla cromatografia per adsorbimento/ripartizione/scambio ionico pure il contributo
di una cromatografia per esclusione, ma la forza delle interazioni che si sfruttano è in genere tale da rendere
trascurabile l’influsso dell’esclusione.
Per caratterizzare una colonna è dunque bene tenere presenti entrambi questi ordini di parametri: da un lato
quelli di ritenzione e dall’altro quelli di allargamento dei picchi.
4.4.3.10.1 Parametri di ritenzione
Il modo più semplice per determinare la ritenzione cromatografica è quello di misurare il tempo che trascorre
tra l’iniezione e il punto di massima risposta del “detector”. Questo parametro è chiamato tempo di
ritenzione. Evidentemente, il tempo di ritenzione è inversamente proporzionale al flusso dell’eluente. Il
prodotto tra il tempo di ritenzione ed il flusso ci dà il volume di ritenzione, che rappresenta il volume di
eluente passato attraverso la colonna durante la cromatografia di un particolare analita (ossia il volume di
eluente scorso durante la colonna nel tempo trascorso dall’iniezione del campione alla sua uscita dalla
colonna, indicata dal suo rilevamento da parte del rilevatore).
Matematicamente avremo:
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 86
Φ⋅= RR tV , dove (eq. 10)
RV : volume di ritenzione [mL]
Rt : tempo di ritenzione [s, o min]
Φ : flusso del solvente impostato sulla pompa [mL/s, o mL/min]
Il volume di ritenzione può essere diviso in due parti:
1. il volume di eluizione del componente (o volume di ritenzione ridotto, o corretto): il volume di
eluente che percola attraverso la colonna mentre l’analita è trattenuto dalla fase stazionaria;
2. il volume morto (o volume di vuoto): il volume di eluente che passa attraverso la colonna mentre
l’analita si muove con la fase mobile.
In altre parole, il volume di ritenzione che calcoliamo misurando il tempo di ritenzione che vediamo sul
cromatogramma è la somma del volume necessario per eluire l’analita e del volume di solvente contenuto
nella colonna e nei capillari dell’apparecchiatura (pompa, “detector”, capillari di collegamento pompa-
colonna e colonna-rilevatore), vale a dire il volume della fase mobile.
Matematicamente avremo che
'0 RR VVV += , dove (eq. 11)
RV : volume di ritenzione
0V : volume di vuoto
'RV : volume di ritenzione corretto.
Utilizzando il volume di ritenzione anziché il tempo di ritenzione, abbiamo a disposizione un parametro che
è indipendente dal valore del flusso. Infatti, se aumentiamo il flusso, il tempo di ritenzione diminuisce, e tale
parametro non è confrontabile se non indicando esplicitamente il flusso utilizzato. Se invece indichiamo in
un unico parametro il prodotto del flusso e del tempo di ritenzione, questo valore è confrontabile
direttamente (permette un confronto diretto tra più prove sulla stessa colonna).
Il volume di ritenzione è invece dipendente dalle caratteristiche geometriche della colonna e della sua fase
stazionaria. Ciò significa che analizzando lo stesso composto in due colonne contenenti la stessa fase
stazionaria ma di lunghezza (o diametro) diversa, il volume di ritenzione sarà diverso. Ne consegue che
nemmeno il volume di ritenzione (corretto) è un parametro in grado di caratterizzare una colonna in modo
semplice e direttamente confrontabile con dati di altre colonne.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 87
Per risolvere questo problema, si rapporta il volume di ritenzione corretto al volume di vuoto della colonna, e
in tal modo si ottiene un parametro che caratterizza la fase stazionaria (e non più la singola colonna101), come
mostrato nell’equazione 12. A tale parametro viene dato il nome di fattore di capacità.
0
0:'V
VVk R −= 102, dove (eq. 12)
'k : fattore di capacità.
Il fattore di capacità è dunque adimensionale, ed è indipendente – come detto – da qualsiasi parametro
geometrico della colonna o del sistema cromatografico. Lo si può considerare come una caratteristica
termodinamica del sistema fase stazionaria – analita – solvente.
Il fattore di capacità, che noi abbiamo espresso utilizzando i volumi, si può definire anche impiegando i
tempi (come si può trovare in certa letteratura103):
0
0:'t
ttk R −= , dove (eq. 13)
'k : fattore di capacità.
Rt : tempo di ritenzione
0t : tempo morto.
Dall’equazione 13 si ricava che
00 0 '
0
' : (1 ')−= ⇔ = + = +R
R Rt tk t t k t t
t e che (eq. 14)
' 0 '= ⋅Rt t k (eq. 15)
101 In realtà ciò è vero solo nel caso teorico ideale, perché ogni colonna presenta delle caratteristiche di
impaccamento diverse (anche se la procedura seguita per impaccarla è stata la stessa). È infatti possibile che
si creino dei piccoli spazi vuoti in cui la fase stazionaria non c’è, e questa risulta quindi distribuita non
uniformemente. Va però anche detto che, nel caso di procedimenti industriali altamente automaticizzati e
standardizzati, ci si avvicina abbastanza al caso teorico. 102 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 103 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,
Tokyo; 1993; p. 56
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 88
Il fattore di capacità 'k è però sempre lo stesso (infatti esprime un rapporto), e si può dunque scrivere in due
modi:
0
0
0
0:'V
VVt
ttk RR −=
−= (eq. 16) 104
Un altro modo per caratterizzare la colonna, diverso dal fattore di capacità in quanto a valore ma molto
simile in quanto a concetto (cioè, si calcola in modo diverso, dà un risultato numericamente diverso, ma ci dà
sostanzialmente le stesse informazioni), è quello di calcolare il cosiddetto grado di vuoto totale, indicato con *ε e definito da
( )Vtt Φ⋅−
= 0'
0*ε , dove (eq. 17) 105
*ε : grado di vuoto totale
0t : tempo di ritenzione con colonna montata [min]
0't : tempo di ritenzione senza colonna montata [min]
Φ : flusso dell’eluente [mL/min]
V : volume della colonna [mL]
Il grado di vuoto si dice, appunto, totale, perché costituito da due diversi gradi di vuoto: quello
interparticellare, indicato con bε , e quello intraparticellare, indicato con pε .
bε si riferisce al grado di vuoto del letto (in inglese “bed”, da cui la b all’indice), ossia agli interstizi tra le
particelle della fase stazionaria.
pε si riferisce al grado di vuoto delle particelle della fase stazionaria, ossia al vuoto contenuto in esse (la p
all’indice sta, infatti, per “particle”, ossia particella).
104 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 105 GIANMARCO ZENONI, Tecnologia a letto mobile simulato per la separazione cromatografica continua
d’enantiomeri, Diss. ETHZ nr. 13880, 2000; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-
pool/diss/fulltext/eth13880.pdf
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 89
Il grado di vuoto totale può essere espresso dalla seguente relazione:
( )* 1b b pε ε ε ε= + − , dove (eq. 18a) 106
*ε : grado di vuoto totale
bε : grado di vuoto interparticellare
pε : grado di vuoto intraparticellare
4.4.3.10.2 Allargamento dei picchi (caratterizzazione dell’efficienza della colonna)
Innanzitutto si dica che l’allargamento dei picchi può venire studiato con l’equazione di Van Deemter, che
vedremo in seguito. Per ora ci basta mettere in relazione tale allargamento con l’efficienza della colonna,
ossia con la sua capacità di separare tanti più componenti in un dato tempo: più alto sarà il numero di analiti
separati per unità di tempo e/o più rapido sarà l’intervallo temporale impiegato per separare una data quantità
di sostanze, più grande sarà l’efficienza della colonna.
Giacché la colonna dà luogo a rapporti di equilibrio tra le fasi stazionaria e mobile, parametri di equilibrio
possono essere utilizzati per caratterizzare la colonna. In questo senso, si utilizzano due parametri: il numero
di piatti teorici ( N ) e l’altezza del piatto teorico ( HETP , sigla di “Height Equivalent of a Theoretical
Plate”107). Vediamo però, con ordine, come si sia giunti a definire questi due parametri.
Dopo l’iniezione, la banda tracciata sul cromatogramma si allarga durante il passaggio del campione nella
colonna. Più è grande questo allargamento, più è piccolo il numero di componenti che possono venire
separati in un dato tempo. Il quanto è acuto il picco, quindi, ci indica quanto efficiente sia la colonna. Per
misurare l’acutezza del picco ci si riferisce alla sua larghezza (facilmente misurabile dal grafico). In genere,
quindi, la larghezza del picco ci informa sull’efficienza della colonna.
Tuttavia, tale larghezza dipende da molti parametri, tra cui la lunghezza della colonna, il flusso, la grandezza
delle particelle. Poiché però il flusso è l’unico parametro che può venire variato di prova in prova (senza
bisogno di cambiare la colonna), risulta che la larghezza del picco non caratterizza la colonna, bensì la
singola analisi. Per far sì, dunque, che la larghezza del picco caratterizzi la colonna (e non la singola prova),
basta rapportare tale larghezza ad un parametro che si riferisca al flusso. Anziché prendere direttamente il
flusso, si è soliti usare il tempo di ritenzione (che però, come già detto, è diverso a seconda del flusso: a
flusso veloce corrisponde tempo di ritenzione più rapido). Giacché poi il picco ha una forma approssimabile
106 SEBASTIAN BÖCKER, A general procedure for the design of chromatographic separations, Diss. ETHZ nr.
14352, 2001; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-pool/diss/fulltext/eth14352.pdf 107 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,
Tokyo; 1993, p. 57
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 90
da una curva di Gauss (tanto che il picco teorico, ideale, è proprio una campana gaussiana108), la larghezza
del picco può venire caratterizzata per mezzo della deviazione standard. Si può così ottenere la deviazione
standard relativa, che è indipendente dal flusso:
RtS σ= , dove (eq. 19)
S : deviazione standard relativa
σ : deviazione standard
Rt : tempo di ritenzione.
In pratica, però, si usa il quadrato del reciproco di tale frazione, in quanto la misura base della distribuzione
normale – così ci dicono i matematici che si occupano di statistica – non è la deviazione standard (σ ), ma il
suo quadrato, la cosiddetta varianza ( 2σ ).
Il valore che così si ottiene è diventato accettato come espressione dell’efficienza di una colonna, e prende il
nome di numero di piatti teorici, in analogia con la terminologia usata nella distillazione frazionata.
2
⎟⎠⎞
⎜⎝⎛=σ
RtN , dove (eq. 20)
N : numero di piatti teorici
Rt : tempo di ritenzione
σ : deviazione standard (e 2σ : varianza).
Nella pratica risulta più comodo misurare la larghezza del picco non in corrispondenza alla deviazione
standard (che risulta essere a 0,609 volte l’altezza del picco109), ma o alla base o a metà altezza. Poiché, per
ragioni statistiche, la base ha una larghezza corrispondente a 4 volte la deviazione standard (ossia
σ4=BW , dove (eq. 21)
BW : “base line width” = larghezza della linea di base
σ : deviazione standard) e poiché a metà altezza del picco, la larghezza di esso è di circa σ36,2
(precisamente σ3547824,2 ), dall’equazione 19 si possono ricavare le seguenti due equazioni, più comode
da utilizzare nella pratica di laboratorio:
108 Tale picco ideale è ottenibile se non ci sono interazioni specifiche tra le due fasi, né eccessivo
caricamento del campione, né fenomeni diffusivi e termodinamici che creino irregolarità di flusso, né
mancanze di uniformità nella distribuzione della fase stazionaria. Queste condizioni sono in pratica
irraggiungibili, ma tanto più ci si avvicina ad esse, tanto più il picco sperimentale assomiglia a quello teorico. 109 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 91
Numero di piatti teorici calcolato misurando la larghezza della linea di base: 2222
1644
4 ⎟⎟⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛=⎟⎟
⎠
⎞⎜⎜⎝
⎛=⎟
⎠⎞
⎜⎝⎛=⎟
⎠⎞
⎜⎝⎛=
B
R
B
RRR
Wt
Wttt
Nσσ
, dove (eq. 22)
N : numero di piatti teorici
Rt : tempo di ritenzione
BW : larghezza della linea di base.
Numero di piatti teorici calcolato misurando la larghezza del picco a metà altezza: 2
21
2
21
22
545,53547824,23547824,2
3547824,2⎟⎟⎟
⎠
⎞
⎜⎜⎜
⎝
⎛
=⎟⎟⎟
⎠
⎞
⎜⎜⎜
⎝
⎛
=⎟⎠
⎞⎜⎝
⎛=⎟
⎠⎞
⎜⎝⎛=
h
R
h
RRR
Wt
WtttN
σσ, dove (eq. 23)
N : numero di piatti teorici
Rt : tempo di ritenzione
hW
21 : larghezza del picco a metà altezza.
Il numero di piatti teorici dipende dalla lunghezza della colonna: più questa è lunga, più è elevato tale
numero. Per questo motivo, al fine di avere un termine in grado di caratterizzare la fase (e la qualità
dell’impaccamento della colonna con tale fase) indipendentemente dalla lunghezza della colonna, si è
introdotto un altro parametro: l’altezza del piatto teorico, definita dal quoto tra la lunghezza della colonna e
il numero di piatti teorici:
=LHETPN
, dove (eq. 24)
HETP : “Height Equivalent of a Theoretical Plate” = altezza equivalente di un piatto teorico
L : lunghezza della colonna
N : numero di piatti teorici.
Più è bassa l’altezza del piatto teorico e più alto è il numero di piatti teorici, più efficiente è la colonna (ossia
i componenti escono dalla colonna in bande più compatte110).
110 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 92
4.4.3.10.3 Risoluzione e selettività: come unire i parametri di ritenzione e di allargamento dei
picchi in un solo parametro
Finora abbiamo discusso separatamente ciò che ci permette di caratterizzare i fenomeni di ritenzione e ciò
che invece ci dà la possibilità di descrivere il fenomeno dell’allargamento dei picchi, che è inversamente
proporzionale all’efficienza della colonna (ossia alla capacità della colonna di separare un numero elevato di
componenti in un breve intervallo di tempo). Come già detto nella parte introduttiva del presente capitolo
sulla caratterizzazione della colonna, entrambi questi due parametri influenzano e caratterizzano la
separazione del miscuglio da cromatografare. Infatti i fenomeni di ritenzione mettono a punto la separazione,
mentre l’allargamento dei picchi la ostacola (o addirittura la impedisce).
Ciò che ci prefiggiamo ora di fare, è di caratterizzare la colonna descrivendo la sua capacità di separare due
sostanze. A questo scopo ci si riferisce ad un parametro chiamato selettività, e definito come rapporto tra i
fattori di capacità dei due picchi, oppure come il rapporto tra i due relativi tempi di ritenzione corretti, o
ancora come il rapporto tra i rispettivi volumi di ritenzione corretti. Si ottiene così la seguente equazione:
2
1
02,
01,
02,
01,
'':
kk
VVVV
tttt
R
R
R
R =−−
=−−
=α , dove (eq. 25)
α : selettività
1,Rt : tempo di ritenzione del primo picco
2,Rt : tempo di ritenzione del secondo picco
0t : tempo morto
1,RV : volume di ritenzione del primo picco
2,RV : volume di ritenzione del secondo picco
0V : volume di vuoto
1'k : fattore di capacità del primo picco
2'k : fattore di capacità del secondo picco.
Questo parametro è indipendente dalla efficienza della colonna, e dipende unicamente dalla natura dei
componenti della sua fase stazionaria, dal tipo di eluente, dalla composizione di esso, dalla chimica delle
eventuali interazioni di superficie, dall’impaccamento della colonna.
In generale, se la selettività di due componenti è uguale a 1, allora non c’è modo di separarli, e a nulla
varrebbe aumentare l’efficienza della colonna. Bisognerà scegliere un’altra fase stazionaria o un altro
sistema di solventi.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 93
Il secondo parametro che vogliamo presentare è un termine che ci descriva la capacità di separare due
sostanze non più della colonna, ma dell’intero sistema cromatografico. Questo parametro prende il nome di
risoluzione, ed è definito come il rapporto tra la distanza tra i due picchi e la somma delle larghezze dei due
picchi a livello della linea di base:
21
1,2,2WWVV
R RR
+−
= , dove (eq. 26)
R : risoluzione
2,RV : volume di ritenzione del primo picco
1,RV : volume di ritenzione del secondo picco
1W : larghezza della linea di base del primo picco
2W : larghezza della linea di base del secondo picco.
Altri autori111, anziché utilizzare i volumi di ritenzione dei due picchi, preferiscono riferirsi ai tempi di
ritenzione:
21
1,2,2WWtt
R RR
+−
= , dove (eq. 27)
2,Rt : tempo di ritenzione del primo picco
1,Rt : tempo di ritenzione del secondo picco
1W : larghezza della linea di base del primo picco
2W : larghezza della linea di base del secondo picco.
È anche possibile utilizzare, in luogo della larghezza del picco in corrispondenza della linea di base, la
larghezza a metà altezza del picco, e in tal caso si otterrà che
2;211;
21
1,2,177,1hh
RR
WWtt
R+−
= 112, dove (eq. 28)
2,Rt : tempo di ritenzione del primo picco
1,Rt : tempo di ritenzione del secondo picco
1;21h
W : larghezza del primo picco a metà altezza
2;21 h
W : larghezza del secondo picco a metà altezza.
111 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,
Tokyo; 1993; p. 58 112 Ibidem
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 94
Se si approssima il picco con un triangolo isoscele (metodo approssimativo utilizzabile anche per calcolare
l’area dei picchi, v. cap. 4.4.3.11.1), allora si ha che se R è maggiore o uguale a 1 (se 1≥R ), allora i
componenti sono completamente separati; se invece R è minore di 1 (se 1<R ), allora i picchi dei due
componenti sono parzialmente sovrapposti.
Usando le definizioni dei fattori di capacità e di efficienza della colonna, l’equazione 25 (equivalente a 26 e
27) può essere riscritta nella forma:
2''''
2 12
12
++−
⋅=kk
kkNR , dove (eq. 29)
R : risoluzione
N : numero di piatti teorici
1'k : fattore di capacità del primo picco
2'k : fattore di capacità del secondo picco, dove la dipendenza della risoluzione dall’efficienza della colonna
è rappresentata dalla radice del numero dei piatti teorici, il che significa che aumentare l’efficienza non è
così interessante per migliorare la risoluzione (sebbene dia comunque un piccolo contributo), e nella forma
1,2,
1,2,
2 RR
RR
VVVVNR
+−
⋅= , dove (eq. 30)
R : risoluzione
N : numero di piatti teorici
2,RV : volume di ritenzione del primo picco
1,RV : volume di ritenzione del secondo picco.
4.4.3.10.4 Teoria per l’allargamento dei picchi (equazione di Van Deemter)
Oggi è ormai riconosciuto che, secondo la teoria elaborata da Van Deemter e da lui sintetizzata
nell’equazione che porta il suo nome, l’allargamento dei picchi si origina da tre principali fattori:
1. i possibili vari sentieri che la fase mobile può seguire durante il passaggio nella colonna (si parla
anche di diffusione di Eddy);
2. diffusione molecolare longitudinale;
3. trasferimento di massa tra le due fasi.
Vediamoli, con ordine, separatamente, per poi riunirli in un’unica equazione.
1. Diffusione di Eddy
La velocità della fase mobile nella colonna può variare anche in modo significativo lungo la sezione della
colonna, a dipendenza della forma e della porosità delle particelle della fase stazionaria, nonché dalla
struttura generale del letto stazionario (in particolare si pensi alla qualità dell’impaccamento della
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 95
colonna: ai bordi, per esempio, la fase stazionaria è meno densamente impaccata che non nel centro della
colonna113).
In questo modo, la fase mobile può trovare percorsi più o meno diretti lungo la colonna, ossia più o meno
veloci. In particolare:
o lungo i bordi l’impaccamento è meno denso e di riflesso la velocità di flusso maggiore;
o al centro dei pori la velocità è maggiore che non in prossimità delle particelle costituenti la
fase stazionaria.
Il concetto può essere facilmente ed intuitivamente compreso osservando la seguente figura:
Diffusione di Eddy
Figura 32114
Le differenti velocità di flusso attraverso la colonna possono essere scritte matematicamente secondo la
seguente equazione:
PP dH λ2= , dove (eq. 31)
PH : l’aumento del valore dell’HETP che si presenta nella zona considerata (a dipendenza della variazione
della velocità del flusso). Tale aumento corrisponde all’effetto di allargamento dei picchi dovuto alla
diffusione di Eddy, chiamata anche, dall’inglese “multiple path effect” (da questo si capisce il
significato della P al pedice), effetto dei sentieri multipli.
Pd : la media del diametro delle particelle della fase stazionaria
λ : una costante, che è piuttosto prossima all’1.
113 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,
Tokyo; 1993; p. 53 114 Immagine tratta da WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York,
Basel, Cambridge, Tokyo; 1993; p. 53 (Abb. 4-2.1)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 96
Questa equazione mostra che il valore di PH può essere ridotto (ossia l’efficienza della colonna può
essere aumentata) riducendo il diametro delle particelle. Il coefficiente λ dipende dalla distribuzione
della grandezza delle particelle. Più piccola sarà la distribuzione (ossia più uniformi saranno le
dimensioni delle particelle), più piccolo sarà il valore di λ , e quindi maggiore sarà l’efficienza della
colonna.
2. Diffusione molecolare longitudinale
In generale, come si sa, fenomeni diffusivi possono far sì che le molecole si allontanino o si avvicinino.
Nel caso delle cromatografie su colonna, avviene anche una diffusione longitudinale, ossia perpendicolare
alla direzione del flusso, che porta ad un allargamento dei picchi.
È chiaro che, aumentando la pressione, tale diffusione avviene in modo molto meno rilevante, perché la
fase mobile è spinta in avanti. Nell’HPLC, quindi, la rilevanza di questo fenomeno è piuttosto ridotta.
Matematicamente, è possibile descrivere questa diffusione longitudinale con l’ausilio della formula
seguente:
vDH M
Dγ2= 115, dove (eq. 32)
DH : effetto di allargamento dei picchi dovuto alla diffusione
MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile
γ : il fattore che si riferisce alla restrizione della diffusione per l’impaccamento della colonna
v : la velocità del flusso.
Al contrario del primo termine (la diffusione di Eddy), in questo caso più si aumenta la velocità del flusso
più si diminuisce l’effetto della diffusione sull’allargamento dei picchi. Questo effetto, tuttavia, è
trascurabile per i flussi normalmente usati nell’HPLC, giacché – come si diceva – le pressioni che si
hanno nella colonna sono abbastanza alte da defavorire in maniera importante fenomeni diffusivi
longitudinali.
3. Trasferimento di massa tra le due fasi
Per i moderni tipi di materiali per le fasi stazionarie, il trasferimento di massa può combinare due effetti:
· cinetica d’adsorbimento;
· trasferimento di massa all’interno delle particelle (principalmente dovuto alla diffusione).
Il contributo della cinetica d’adsorbimento, specialmente se confrontato al trasferimento di massa, è
trascurabile116. Nell’equazione si considera dunque unicamente questo secondo effetto, senza per questo
introdurre una semplificazione eccessiva. 115 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 97
Il 95% delle moderne fasi stazionarie è costituito da particelle sferiche, completamente rigide, con un
diametro medio di circa 5µm (ossia 95 10−⋅ m ) e con un diametro dei pori di circa 100Å (ossia 125 10−⋅ m ). Il rapporto tra le dimensioni delle particelle e il diametro dei pori è di 500 / 1. La pressione,
per quanto elevata possa essere, non è dunque capace di spingere il flusso all’interno delle particelle, ed i
componenti disciolti nella fase mobile possono penetrare nelle particelle della fase stazionaria unicamente
per diffusione.
L’allargamento del picco dovuto al trasferimento di massa all’interno delle particelle costituenti la fase
stazionaria può essere matematicamente scritto nella forma:
vD
HM
pM
d 2
ω= 117, dove (eq. 33)
MH : effetto di allargamento dei picchi dovuto al trasferimento di massa
MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile
ω : è il coefficiente determinato dalla distribuzione e dalla forma della dimensione dei pori ed anche dalla
distribuzione della grandezza delle particelle
v : la velocità del flusso.
Questa equazione mostra la dipendenza lineare dell’aumento dell’altezza del piatto teorico dovuto al
trasferimento di massa dal flusso. Più sarà bassa la sua velocità, più uniformemente gli analiti
penetreranno all’interno delle particelle costituenti la fase stazionaria, e meno grande sarà l’effetto di una
differente penetrazione sull’efficienza. Ne risulterà un’efficienza tanto più alta quanto più basso sarà il
flusso.
Al contrario, più sarà veloce il flusso più sarà grande la differenza tra le profondità di penetrazione degli
analiti all’interno delle particelle costituenti la fase stazionaria e quindi più sarà grande il fenomeno del
trasferimento di massa ed il suo effetto di diminuzione dell’efficienza della colonna.
116 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 117 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 98
4. Equazione di Van Deemter
Nel 1956 J. J. Van Deemter trovò l’equazione che combina questi tre fattori e li rappresenta come
variabili a dipendenza dell’altezza equivalente del piatto teorico (HETP) dalla velocità della fase mobile
(ossia dal flusso). Originariamente, questa equazione fu introdotta per la gascromatografia, ma gli stessi
processi fisici avvengono nell’HPLC, per cui questa equazione è perfetta anche per l’HPLC.
Come già spiegato, ognuno dei tre termini sopra spiegato contribuisce all’allargamento dei picchi.
Possiamo quindi trovare l’aumento della lunghezza del piatto teorico (HETP) dovuta all’allargamento dei
picchi semplicemente sommando questi tre termini:
MDPtot HHHHH ++== , dove (eq. 34)
HHtot = : aumento dell’altezza del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi
PH : allargamento dei picchi dovuto all’effetto “multiple path”
DH : allargamento dei picchi dovuto all’effetto della diffusione longitudinale
MH : effetto di allargamento dei picchi dovuto al trasferimento di massa.
Sostituendo in questa equazione i valori trovati nelle equazioni 30 - 32, troviamo così la forma completa
dell’equazione di Van Deemter:
vDv
DdHM
pMP
d 2
22ωγλ ++= , dove (eq. 35)
H : aumento dell’altezza del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi
λ : una costante, che è piuttosto prossima all’1
Pd : la media del diametro delle particelle della fase stazionaria
γ : il fattore che si riferisce alla restrizione della diffusione per l’impaccamento della colonna
MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile
v : la velocità del flusso
ω : è il coefficiente determinato dalla distribuzione e dalla forma della dimensione dei pori ed anche dalla
distribuzione della grandezza delle particelle
MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 99
Poiché l’equazione di Van Deemter mostra la proporzionalità diretta tra l’aumento dell’altezza del piatto
teorico dovuta all’allargamento dei picchi per quanto riguarda il trasferimento di massa, nonché la
proporzionalità indiretta tra l’aumento del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi causato dalla
diffusione longitudinale, si può semplificare tale equazione, come proposto da certa letteratura118, nel
modo seguente:
CXX
BAH ++=1
, dove (eq. 36)
H : aumento dell’altezza del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi
A : effetto “multiple path”
B : coefficiente della diffusione molecolare
C : coefficiente di resistenza al trasferimento di massa
X : velocità del flusso.
Il grafico mostrato in figura 33 presenta il contributo di ogni termine all’equazione di Van Deemter:
Figura 33119
Il seguente grafico, invece, ci mostra la dipendenza dell’aumento dell’altezza del piatto teorico dal flusso
per alcune sostanze:
118 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979,
p. 453 119 Immagine tratta da: http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 100
Figura 34120
Il grafico riportato in figura 34 mostra che componenti diversi, sulla stessa colonna, hanno dipendenze
diverse dal flusso. Ciò significa che la natura dei componenti, il tipo di interazioni e talvolta anche altri
parametri hanno influenza sull’efficienza della colonna.
Ciò che è però più importante ritenere, come conseguenza dell’equazione di Van Deemter, è che è
possibile – per ogni componente da separare – individuare un flusso di eluente ottimale, dove l’efficienza
della colonna è la migliore.
4.4.3.11 ANALISI QUANTITATIVA
Come già più volte sottolineato nei due capitoli precedenti (4.4.3.9 e 4.4.3.10), la cromatografia su colonna
permette un’analisi quantitativa senza richiedere particolari procedimenti ulteriori rispetto alla stessa analisi
condotta unicamente a scopo qualitativo. Partendo dai cromatogrammi, infatti, si possono ricavare tramite
calcoli numerosi parametri. È tuttavia necessario effettuare un’iniezione ulteriore, quella di una sostanza di
riferimento a concentrazione nota. In tal modo si potrà confrontare l’area del picco di tale sostanza a
concentrazione nota con l’area del/dei picco/picchi da indagare.
L’analisi quantitativa consta di due parti principali:
1. il calcolo dell’area del picco;
2. il calcolo della concentrazione della sostanza (effettuato una volta conosciuta l’area del picco).
120 Ibidem
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 101
4.4.3.11.1 Calcolo dell’area del picco
Esistono sostanzialmente quattro metodi, due dei quali relativamente semplici e quindi utilizzabili anche
senza computer. Un terzo richiede un ordinatore ed un quarto può essere svolto nei due modi, ma con gradi
di precisione e accuratezza assai diversi. I primi due metodi sono quello delle triangolazioni e quello della
gaussiana, mentre il terzo è quello del riferimento a funzioni più aderenti ai dati sperimentali ma anche più
complesse: si tratta quindi di un metodo che abbisogna di un computer dotato di un software piuttosto
avanzato. È comunque sempre possibile suddividere il picco in tante piccole colonne di altezze diverse: la
somma delle aree di queste colonne ci darà l’area del picco. Più le colonne saranno strette, migliore sarà
l’approssimazione del risultato. Questo stesso ragionamento è alla base dell’utilizzo di funzioni di tipo
integrale a livello matematico. Il calcolo degli integrali svolto a mente o con una calcolatrice è un po’
complesso, ma può venire svolto con semplicità da un computer ben programmato. È questo il quarto
metodo (lo stesso da noi utilizzato, impostando il software Excel per svolgere il calcolo di sottili colonne
sottese alla linea del grafico).
Il metodo delle triangolazioni prevede di costruire un triangolo tracciando le tangenti al picco nel punto di
flesso: queste, assieme alla linea di base del picco, daranno luogo ad un triangolo isoscele. Si ammette poi
che l’area di questo triangolo sia uguale a quella del picco. Si ottiene dunque che
hBA ⋅=21
, dove (eq. 37)
A : area
B : base
h : altezza.
Questo primo metodo è mostrato nella figura 35.
Il metodo della gaussiana parte dall’idea di considerare il picco uguale ad una campana di Gauss, e di
calcolare quindi l’area di tale campana ammettendo che essa sia l’area del picco. In condizioni ideali, in
effetti, il picco cromatografico assume proprio la forma di una curva di Gauss. Ora, l’area sottesa al picco è
espressa dall’equazione seguente:
!KxeY
kx ⋅= (eq. 38) 121
Questa funzione, per bassi valori di K, ha un andamento asimmetrico. Col crescere di K, però, assume
sempre più la forma simmetrica dell’area della campana di Gauss: 2xeY −= (eq. 39) 122
121 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;
p. 476
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 102
Metodo delle triangolazioni
Figura 35123
Entrambe le equazioni, 37 e 38, rappresentano con buona approssimazione i picchi, ma la seconda è più
semplice e permette dunque un’integrazione immediata. Baseremo dunque il calcolo dell’area su questa
equazione. Per adattarla, però, ai vari picchi del cromatogramma, occorre introdurre due costanti, H ed A ,
che si possano rilevare geometricamente dal grafico.
Si ottiene questa equazione:
2
22ln4
AX
HeY−
= , dove (eq. 40) 124
H : altezza del picco
A : ampiezza del picco a metà altezza (chiamata anche semiampiezza).
Integrando questa equazione da ∞− a ∞+ , otteniamo
066,12ln4
2
22ln4
⋅⋅≅== ∫∞+
∞−
−AHMHAdxeHA A
X
(eq. 41) 125
122 Ibidem 123 Immagine tratta da G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia
editori; Milano; 1979; p. 476 (Fig. XII, 54) 124 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;
p. 477 125 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;
p. 477
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 103
Otteniamo così un risultato (approssimativo) molto semplice: l’area del picco è data dal prodotto di due
segmenti H ed A facilmente misurabili dal grafico moltiplicati per una costante (che, tra l’altro, nel
successivo calcolo delle percentuali, può venire ignorata).
4.4.3.11.2 Calcolo delle concentrazioni
Esistono due metodi distinti. Li vediamo uno dopo l’altro, dopodichè discuteremo brevemente i pregi e i
difetti dell’uno e dell’altro.
1. Metodo della normalizzazione interna
Bisogna sviluppare completamente un cromatogramma, in modo da avere a disposizione tutti i picchi
(ossia i picchi relativi a tutte le sostanze contenute nella fase mobile). A partire da questi si potranno
calcolare i dati da inserire nella seguente proporzione:
∑∑=
ii
i
ii
i
FSP
FSP
, dove (eq. 42)
iP : concentrazione percentuale di un componente i
iS : area “bruta” del picco di un componente i
iF : fattore correttivo
ii FS : area corretta di un componente i
Da questa proporzione è possibile ricavare iP . A condizione, infatti, che tutti i componenti siano stati
presi in considerazione, si ha che ∑ =1iP , per cui si ottiene
∑∑∑∑ =⇔=⇔=
ii
iii
iiii
i
ii
i
ii
i
FSFS
PFSFS
PFS
PFS
P 1. (eq. 43)
Per poter utilizzare le equazioni 41 e 42, occorre però determinare i fattori correttivi relativi ad ogni
singolo picco.
Per calcolare i fattori correttivi bisogna avere a disposizione il cromatogramma di un miscuglio in cui le
sostanze siano presenti in concentrazioni note. Vale l’equazione 41, ma per risolverla bisogna conoscere
la sommatoria ∑ ii FS , che non si può calcolare direttamente, giacché non sono noti i valori dei
vari iF . Si procede dunque così. Si sceglie arbitrariamente un composto come riferimento, ponendo il
suo fattore correttivo uguale a 1 (ossia 1=rF , dove rF : fattore correttivo del composto di riferimento),
per cui l’equazione sarà:
∑∑∑=
⋅==
ii
r
ii
r
ii
rrr FS
SFS
SFS
FSP 1. (eq. 44)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 104
Da questa equazione, conosciuti rP e rS , si ricava ∑ =r
rii P
SFS , e sostituendo tale valore
nell’equazione 42, si ottiene l’espressione che ci dà il fattore correttivo:
{ri
rii
ir
ri
ir
riii
PS
FSii
iii PS
SPF
PSPS
FSPFS
PFS
FSP
r
rii
=⇔=⇔=⇔=∑ =∑
1. (eq. 45)
I fattori correttivi sono principalmente legati al tipo di rivelatore usato, ma nella pratica di laboratorio
possono inglobare anche altri fattori, il cui scopo è di correggere alcuni errori sistematici del
procedimento utilizzato.
2. Metodo della standardizzazione interna
Si aggiunge al miscuglio in esame una sostanza a concentrazione nota rP , di cui si misurerà sul
cromatogramma l’area corrispondente rS . Tale sostanza a concentrazione nota prende il nome di
sostanza di riferimento, o anche di standard interno126.
Si può così ottenere la proporzione seguente:
i
ii
r
r
PFS
PS
= . (eq. 46)
Da questa proporzione si può ricavare iP :
r
riii
i
ii
r
r
SPFSP
PFS
PS
=⇔= . (eq. 47)
Le concentrazioni così calcolate, però, sono riferite al miscuglio contenente anche la sostanza di
riferimento. Poiché a noi interessa, invece, conoscere le concentrazioni nel miscuglio originale,
bisognerà normalizzare i valori ottenuti fin qui. Indicando con iP' la percentuale da trovare, avremo:
r
ii
ri
i
PPP
PPP
−=⇔
−=
1'
11'
. (eq. 48)
In altre parole, quindi, le percentuali trovate con l’equazione 46 dovranno essere divise per ( )rP−1 .
3. Discussione
Il metodo della standardizzazione interna richiede dunque la preparazione di un miscuglio, esattamente
dosato, tra lo standard interno e la sostanza in esame. Questo metodo è tuttavia vantaggioso (o
126 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;
p. 483
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 105
addirittura necessario) quando non è possibile eluire tutto il cromatogramma ed è invece richiesta
l’elaborazione di un numero limitato di picchi.
Inoltre, anche il metodo della normalizzazione interna richiede di avere a disposizione un miscuglio in
cui le sostanze siano presenti in concentrazioni note, ossia un miscuglio di riferimento a cui rapportare i
dati dei miscugli successivamente cromatografati.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 106
5. II parte: esperimenti
5.1 Scopo L’obiettivo è di impaccare alcune colonne con i polimeri macroporosi sintetizzati dai miei compagni di
lavoro di maturità, cercando poi di caratterizzare tali colonne. Un altro obiettivo, questo ben più pretenzioso,
è di tentare di separare due molecole di interesse biologico, ossia due proteine di dimensioni importanti.
Per quanto attiene al primo obiettivo, ho impaccato tre colonne (di tre lunghezze diverse), con due fasi
diverse, effettuando poi analisi con alcune sostanze (tiourea, acetofenone, interferone).
Per mostrare anche con dei dati sperimentali come la temperatura possa influenzare l’analisi cromatografica,
ho effettuato la stessa analisi (iniezione di acetofenone) variando unicamente la temperatura.
Per raggiungere il secondo scopo, quello di effettuare alcune separazioni, abbiamo scelto insulina ed
interferone (chiaramente non puri, ma da due medicamenti in commercio, e quindi conteneti anche alcune
sostanze per stabilizzarli).
Alcuni esperimenti sono stati condotti nei laboratori del gruppo del prof. Massimo Morbidelli all’ETH di
Zurigo, impiegando tre sistemi cromatografici diversi (Hitachi D7000, HP 1090 e HP 1100). Altri
esperimenti sono stati svolti al liceo di Locarno. Un ulteriore scopo della mia attività sperimentale è quindi
stato quello di confrontare apparecchiature con gradi di sofisticatezza (e costo) diversi, e di cercare di
mettere in piedi al liceo di Locarno, con relativamente pochi mezzi, un’apparecchiatura cromatografica il più
vicina possibile agli apparecchi utilizzati all’ETH di Zurigo.
5.2 Basi teoriche Le basi teoriche sulla cromatografia sono state ampiamente esposte nella prima parte del presente testo. In
particolare, invito chi non li avesse letti, a considerare i capitoli 3, 4.3.1, 4.3.5, 4.4.3 (introduzione;
cromatografia per adsorbimento, cromatografia per esclusione; cromatografia su colonna).
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 107
5.3 Materiale
5.3.1 MATERIALE, SGUARDO PROSPETTICO (SINTESI
INTRODUTTIVA) Come fase stazionaria si sono utilizzati due monoliti diversi, ottenuti sottoponendo a “swelling” e
successivamente a gelificazione e successiva stabilizzazione delle emulsioni dei copolimeri di polistirene-
divinilbenzene (cfr. ELENA CALANCHINI, LORENZO CASARI, SANDRO CIPRIAN, GIACOMO MORETTI, ALAN
OGGIER, ATTILIO RIZZOLI; Sintesi di materiali macroporosi attraverso un processo di polimerizzazione in
emulsione seguito da un processo di gelificazione reattiva; Lavoro di maturità, Liceo di Locarno, 2006).
I solventi impiegati sono stati acetonitrile e acqua, in proporzioni diverse (indicate per ogni analisi).
Abbiamo utilizzato tre colonne, una dell’ETHZ e due del liceo di Locarno.
Quella dell’ETHZ, di 3cm, l’abbiamo dovuta svuotare e lasciare a Zurigo. Con essa, però, abbiamo condotto
tutte le analisi svolte all’ETHZ (tiourea e acetofenone variando la temperatura).
Una colonna di 10cm è stata impaccata a Zurigo con la pompa di un sistema cromatografico HP1100.
La colonna di 20cm l’abbiamo impaccata a secco al liceo di Locarno.
Per le analisi a Zurigo si è utilizzato un cromatografo HP1090. Per l’impaccamento della colonna da 3cm si è
usato un sistema Hitachi D7000, per l’impaccamento della colonna di 10cm si è usata la pompa di un
HP1100, per l’impaccamento della colonna di 20cm si è usata una pompa Jasco PU-980 .
5.3.2 MATERIALE, APPARECCHIATURA
5.3.2.1 APPARECCHI UTILIZZATI ALL’ETHZ
Gli apparecchi dell’ETHZ summenzionati sono mostrati nelle figure 35 - 43.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 108
HPLC Hitachi D7000
Figura 36
HPLC HP 1090 con software dedicato
Figura 37
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 109
HP 1090
Figura 38
HP 1090, iniettore automatico
Figura 39
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 110
HP 1090, dettaglio pompe
Figura 40
HP 1090, dettaglio camera termostatata
Figura 41
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 111
HP 1090, dettaglio DAD
Figura 42
HP 1090, dettaglio camera termostatata aperta
Figura 43
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 112
Pompa HP 1100
Figura 44
5.3.2.2 APPARECCHIATURA IMPIEGATA AL LICEO DI LOCARNO
Qualcuno si chiederà perché per Zurigo abbia usato il termine “apparecchi” e per Locarno, invece, il
vocabolo “apparecchiatura”. La risposta è che, mentre a Zurigo tutti gli elementi erano integrati in un unico
apparecchio, a Locarno (al di là del fatto che la pompa ed il “detector” erano fisicamente separati, ossia due
apparecchi distinti) abbiamo dovuto parzialmente costruire noi un sistema in grado di effettuare delle analisi
cromatografiche e di raccogliere i dati su computer. Vediamo allora meglio in cosa consistesse il nostro
sistema cromatografico al Liceo di Locarno.
Il nucleo base era costituito da una pompa Jasco PU-980 e da un rilevatore ultravioletto Jasco UV-975 . I dati
rilevati dal “detector” sono stati inviati ad un’interfaccia Pasco Sw-500, collegata ad un PC su cui era
caricato il Software Data studio ver. 1.8.5. Con questo programma abbiamo acquisito e registrato in linea i
dati delle analisi effettuate.
Questo impianto, notevolmente meno sofisticato di quello dell’ETHZ, ci ha posto principalmente due
problemi.
1. L’assenza di un sistema automatico di miscelazione dei solventi ha reso impossibile la creazione dei
solventi direttamente dai loro contenitori (dove essi erano puri) e, soprattutto, lo svolgimento di
analisi a gradiente.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 113
Al primo inconveniente abbiamo ovviato preparando manualmente le soluzioni (che quindi, essendo
le sostanze state pesate a mano, possono variare leggermente nella loro composizione da una
preparazione all’altra127). Successivamente, per evitare danni alla fase stazionaria o anche più
semplicemente una diminuzione dell’efficienza della colonna, le abbiamo degassificate in un bagno
ad ultrasuoni.
Al secondo problema non siamo riusciti a rispondere altrettanto “elegantemente”. In particolare, per
la separazione delle biomolecole interferone e insulina, si sarebbe resa necessaria un’analisi a
gradiente. Essendo questa impossibile, siamo intervenuti manualmente cambiando il solvente dopo la
chiusura del picco dell’insulina (il primo picco), giacché quello dell’interferone, per uscire con il
primo solvente, avrebbe impiegato qualche giorno.
2. L’assenza di un sistema di iniezione automatico. L’iniezione attraverso “loop”, in questa
apparecchiatura, è manuale, mentre per rilevare i tempi è necessario conoscere il momento esatto
dell’iniezione. Abbiamo ovviato a tale problema applicando alla leva per commutare il “loop” dalla
modalità “load” alla modalità “inject” una bacchetta che, quando si spostava la leva, passava davanti
ad una fotocellula, anch’essa collegata all’interfaccia Pasco ed al software Data studio.
Un ulteriore problema posto dall’assenza di un sistema di iniezione automatico è che non è possibile
preparare dei campioni in “vials” e programmare delle analisi automatiche. In questo caso, ci siamo
accontentati degli apparecchi a nostra disposizione ed abbiamo svolto le analisi esclusivamente “in
diretta”, senza effettuare grandi numeri di ripetizioni (che di per sé assicurano un risultato più certo e
quindi sono preferibili) durante la notte.
Un terzo problema, non tanto riferito all’impianto cromatografico quanto al software, è stato quello della
mancata capacità del programma di calcolare le aree ed i dati relativi ai cromatogrammi. Abbiamo dunque
dovuto esportare i dati dal software Data studio ad Excel, pulire i cromatogrammi dal rumore di fondo
effettuando una media ogni dieci dati, calcolare manualmente le aree, azzerare manualmente il tempo di
iniezione.
Il software Data studio, infatti, rilevava in due serie diverse i dati ricevuti dal “detector” ultravioletto e dalla
fotocellula. Nei dati che sotto riportiamo, il grafico si riferisce ai valori di tensione rilevati dal “detector”,
mentre i tempi corrispondenti al momento di iniezione (per poter calcolare il tempo trascorso dall’iniezione
al massimo del picco) sono presi dalla tabella registrata dal software. Per semplificare la lettura dei dati,
abbiamo azzerato manualmente il tempo di iniezione, riportando solo la porzione del grafico relativa
all’iniezione.
127 In particolare, il solvente composto dal 90% di acetonitrile e dal 10% d’acqua, è stato preparato tre volte,
in tre date diverse. Benché la preparazione sia stata effettuata con un certo rigore, piccole differenze dovute
ad errori di pesata, magari anche minime, sono sempre possibili. Queste lievi differenze possono essere
trascurate ai fini delle nostre analisi.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 114
Nella separazione dell’interferone e dell’insulina, si è misurata la temperatura applicando una sonda
termometrica a fianco della colonna. Quando abbiamo condotto tale separazione, infatti, si stava avvicinando
l’inverno, ed il locale a nostra disposizione aveva delle grate di areazione impossibili da chiudere, per cui era
importante – per poter confrontare i dati delle separazioni, effettuate sull’arco di più giorni per avere alcune
ripetizioni della stessa esperienza – sapere se le condizioni sperimentali erano simili.
Ecco alcune fotografie dell’apparecchiatura installata presso il Liceo di Locarno:
HPLC Liceo Locarno
Figura 45
Impianto HPLC del Liceo (Jasco UV-975 in alto e Jasco PU-980 in basso)
Figura 46
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 115
HPLC Jasco, dettaglio iniettore, fotocellula (in basso a destra) e colonna su cui è applicato un sensore di
temperatura
Figura 47
Lettore della temperatura della Pasco PS2000
Figura 48
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 116
5.3.3 MATERIALE, SOSTANZE
5.3.3.1 FASI STAZIONARIE
Come fase stazionaria, come già detto (cfr. cap. 5.3.1) si sono utilizzati due monoliti diversi. Il primo,
impiegato per impaccare una colonna di 3cm ed una di 10cm, era il prodotto di una gelificazione
effettuata128 a partire dal Fed-batch 02 (preparato dall’ETHZ il 23.10.05), il quale conteneva un polimero
ottenuto con il 10% di divinilbenzene. Questa emulsione presentava particelle di un diametro di circa 100nm.
Il secondo, utilizzato per impaccare una colonna di 20cm, era L07 2 (un polimero preparato al Liceo di
Locarno da Lorenzo Casari e poi gelificato da Attilio Rizzoli). Questa emulsione presentava particelle di un
diametro medio di 48,7nm. Il polimero in essa contenuto era ramificato al centro, piuttosto lineare ai lati.
Questo secondo monolita presentava delle caratteristiche interessanti, che ci hanno permesso di effettuare
delle separazioni finora non riportate in letteratura (v. cap. 5.6). Le dimensioni dei pori di questa fase, infatti,
secondo un’analisi tramite SEM effettuata all’ETHZ, arrivavano fino a 3µm per 2µm. Si è riusciti ad ottenere
pori di dimensioni così rilevanti, grazie ad un polimero ottenuto con un’elevata concentrazione di
divinilbenzene e grazie all’azione porogena del sale impiegato come iniziatore della gelificazione. Nella fase
di gelificazione dei polimeri, si desidera stabilizzare i vari polimeri in una struttura stabile e il più possibile
uniforme. Per dare inizio a questa reazione, si è utilizzato un sale, il KCl. Onde rendere rapida tale reazione,
se ne è usata una grande quantità, in modo che il sale è rimasto “imprigionato” all’interno del monolita.
Quando noi, una volta ridotto il monolita in granuli di piccole dimensioni e impaccata la colonna, abbiamo
fatto scorrere dell’acqua pura attraverso di essa, il sale si è dissociato e sciolto, determinando così la
formazione di ulteriori pori, di grandi dimensioni. Ciò, unitamente ad un polimero già di per sé ottimo ed
uniforme, spiega come siamo stati in grado di separare due proteine a lunga catena, quali l’insulina umana
(66 amminoacidi) e l’interferone (166 amminoacidi).
Questi i dati relativi alle analisi DLS (“Dynamic Light Scattering”) del polimero L07 2:
128 da Giacomo Moretti presso il Liceo di Locarno.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 117
Figura 49129
Dove si nota l’omogeneità del campione L7 e si vede che il diametro medio è leggermente inferiore ai 50
nm. La figura seguente mostra l’immagine ingrandita 20000 volte del materiale finito scattata al microscopio
elettronico a scansione (SEM):
Figura 50129
Si notino le dimensioni piuttosto considerevoli dei pori e, soprattutto, la presenza di residui di sale KCl (parti
bianche).
129 Immagini tratte da LAM “Sintesi di nuovi materiali macroporosi attraverso un processo di gelificazione
reattiva”, Liceo Locarno, 2006
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 118
5.3.3.2 SOSTANZE VARIE (SOLVENTI, TRACCIANTI, CAMPIONI)
Tiourea
Formula bruta: CH4N2S
Massa molare: 76,11 unità di massa atomica [g/mol]
Punto di fusione: 174-177°C
Classe di tossicità: 3 Figura 51
Ditta fornitrice: Merck, Darmstadt, Germania
Acetofenone
Formula bruta: C8H8O
Massa molare: 120,15 unità di massa atomica [g/mol]
Classe di tossicità: 4
Ditta fornitrice: Siegfried, Zofingen, Svizzera Figura 52
Acetonitrile
Formula bruta: CH3CN
Massa molare: 41.05 unità di massa atomica [u] [g/mol]
Punto di fusione: 2°C
Classe di tossicità: 2
Ditte fornitrici: Fluka Che mie AG, Buchs e J. T. Baker B. V., Deventer, Olanda Figura 53
Acqua
Formula bruta: H2O
Massa molare: 18,02 [g/mol]
Punto di ebollizione: 100°C
Densità: 1 kg/L a 3,98 °C
Acqua deionizzata: Fonte: rete dell’acqua potabile Città di Locarno
Deionizzatore: Noion Aqua, Magliaso; cartuccia tipo 2
Acido fosforico
Formula bruta: H3PO4
Massa molare: 98,0 [g/mol]
Punto di ebollizione: 158°C
Densità: 1,685 kg/L Figura 54
Ditta fornitrice: Sigma chemical co., St. Louis, MO, USA
NH2 NH2
S
O
N
OH P OHOH
O
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 119
Interferone
L’interferone è una glicoproteina composta da 166 amminoacidi. Non avendola a disposizione pura, abbiamo
abbiamo utilizzato il farmaco Rebif®, di cui è il principio attivo.
Indichiamo qui dunque dapprima alcune informazioni sulla molecola dell’interferone e poi la composizione
di tale farmaco, nonché alcuni suoi principali impieghi medici.
Per prima cosa, occorre dire che – esistendo più tipi di interferone – quello da noi utilizzato era
dell’interferone beta 1-a, prodotto attraverso la tecnica del DNA ricombinante in cellule CHO (“Chinese
Hamster Ovary”). Rebif® contiene infatti un interferone che ha la stessa sequenza d’amminoacidi
dell’interferone beta umano; essendo poi fabbricato in cellule di mammiferi è glicosilato allo stesso modo
della proteina naturale.
La sequenza dei 166 amminoacidi (e la struttura secondaria che presenta questa proteina) di cui è composto è
la seguente:
Key: = extended strand, = turn, = disulfide bond
= alpha helix, = 310 helix, = pi helix,
Greyed out monomers have no structural information
Figura 55a130
La sua massa atomica è di 20055 g/mol (o unità di massa atomica che dir si voglia).
Si tratta dunque di una molecola di grandi dimensioni, come si può peraltro vedere dall’immagine qui
riportata:
130 http://www.rcsb.org/pdb/cgi/explore.cgi?job=chains&pdbId=1AU1&page=&pid=268551135287011
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 120
Figura 55b131
La principale ed originaria indicazione per l’impiego del Rebif® è il trattamento della sclerosi a placche, in
particolare per pazienti che hanno avuto due o più ricadute negli ultimi due anni prima della cura. Tuttavia,
alcuni tipi di interferone (in particolare l’interferone gamma) si sono mostrati utili nella protezione delle
cellule umane dall’attacco dei virus dell’epatite, dell’herpes e del raffreddore e sembra che siano anche in
grado di stimolare la crescita di quelle cellule del sistema immunitario che distruggono i tumori132.
Gli interferoni, infatti, sono delle glicoproteine prodotte naturalmente che esercitano differenti effetti
biologici, fra cui degli effetti antivirali, antiproliferativi, differenziatori ed immunomodulatori133.
131 tratta da:
http://www.rcsb.org/pdb/navbarsearch.do?newSearch=yes&isAuthorSearch=no&radioset=Structures&input
QuickSearch=1au1 132 JOHN H. POSTLETHWAIT, JANET L. HOPSON; Corso di Biologia; Etas – McGraw-Hill, Milano, 2000; p.
182 133 AA. VV., Compendium suisse des médicaments 2004, Documed, Basel, 2004 ; pp. 2358-2360
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 121
Insulina
L’insulina è un ormone prodotto dai mammiferi, quindi anche dall’uomo. Ha la funzione di regolare la
glicemia (ossia la concentrazione di glucosio nel sangue) ed è prodotta dalle ghiandole a funzione endocrina
del pancreas. È una proteina composta da 66 amminoacidi. Anche qui, per l’iniezione non avevamo a
disposizione l’insulina pura ed abbiamo impiegato un farmaco di cui è il principio attivo, l’Actrapid HM®.
L’insulina ha la seguente struttura (quaternaria):
Figura 56134
134 tratta da: http://www.rcsb.org/pdb/explore.do?structureId=1AI0
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 122
5.4 Determinazione dei tempi di
ritenzione
5.4.1 JASCO PU-980, UV-975 SENZA COLONNA
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0.295
0.345
0.395
0.445
0.495
0.545
0 5 10 15 20tempo [s]
tens
ione
[V]
Tiourea
Figura 57
Abbiamo iniettato della tiourea nel sistema cromatografico Jasco, composto da una pompa PU-980 e da un
“detector” ultravioletto UV-975, ripetendo più volte la prova ed ottenendo sempre cromatogrammi del tutto
simili a quello qui riportato. Lo scopo di queste iniezioni senza colonna, benché banale, era duplice:
1. rilevare i tempi di ritenzione della tiourea in questo cromatografo senza colonna montata per poter
poi calcolare i gradi di vuoto delle colonne da 20cm e da 10cm.
2. mostrare che la forma del picco presenta sempre un certo scodamento, anche senza colonna montata.
Questo è importante da ritenere, in quanto permetterà di valutare la qualità dell’impaccamento delle
colonne: uno scodamento sarà sempre presente quando si utilizzerà quest’apparecchiatura,
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 123
indipendentemente dalla colonna che si monterà. Se dunque la colonna da valutare darà luogo a
cromatogrammi leggermente scodati, non sarà a causa di un cattivo impaccamento, bensì delle
caratteristiche stesse dell’apparecchio. In particolare, il problema è che questo cromatografo,
essendo economico (pur costando diverse migliaia di franchi, è economico se paragonato ai sistemi
Hewlett Packard), ha una cella piuttosto grande, dove gli analiti subiscono dei fenomeni di
miscelazione.
5.4.2 COLONNA DA 20 CM Come sostanza di riferimento (“tracer”) abbiamo usato della tiourea, sciolta in un solvente uguale all’eluente
(per la precisione, abbiamo utilizzato un solvente di acetonitrile e acqua 90:10 m/m, ossia con la stessa
composizione dell’eluente, ma prodotto in data diversa). Le analisi sono state effettuate ad una lunghezza
d’onda pari a 230nm.
Abbiamo ottenuto alcuni cromatogrammi, fra i quali ne abbiamo scelto uno rappresentativo per ogni
iniezione. Abbiamo però calcolato i tempi di ritenzione effettuando una media dei risultati dei vari picchi, e,
quindi, riportiamo qui i tempi di ritenzione mediati.
Purtroppo, i grafici che qui riproduciamo, sono stati elaborati in Excel, giacché non è possibile importare
direttamente il grafico del software Data studio. Per pulire il rumore di fondo (ossia le fluttuazioni della linea
di base dovute alla sensibilità del rilevatore e a interferenze di natura elettrica su di esso), abbiamo preso una
media dei dati calcolata ogni secondo (ossia ogni dieci decimi di secondo, ogni dieci unità di rilevamento).
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 124
Ecco, di seguito, la tabella contenente i vari tempi di ritenzione ed i loro valori mediati. La formula
impiegata è ricavabili dalle equazioni 11-17, ed è
numero del picco tempo di ritenzione
corretto
Tempi di ritenzione dei picchi riferiti all'iniezione di
tiourea a concentrazione 0.13 [g/L]
31.10.05 – 1 160
31.10.05 – 2 156.9
Media 158.45
Tempi di ritenzione dei picchi riferiti all’iniezione di
acetonitrile
31.10.05 – 3 218.7
31.10.05 – 4 204.2
Media 211.45
Tempi di ritenzione dei picchi di eluizione della
tiourea iniettata ad una concentrazione 0.40 [g/L]
31.10.05 – 5 147.8
31.10.05 – 6 145.7
31.10.05 – 7 136.5
Media 143.3333
Tabella 1
Isoliamo un picco per la prima prova (tiourea poco concentrata), un picco per la seconda (acetonitrile) ed un
picco per la terza (tiourea concentrata), e li riportiamo ad un tempo zero che corrisponda al tempo
dell’iniezione, ottenendo questo grafico:
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 125
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0 100 200 300 400 500tempo [s]
tens
ione
[V]
Tiourea Acetonitrile Tiourea conc.
Figura 58
I commenti e le riflessioni che si possono fare su questo grafico sono essenzialmente di due tipi. La prima
annotazione si riferisce esclusivamente alle due iniezioni di tiourea, come mostrato nelle seguente figura:
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 126
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0 100 200 300 400tempo [s]
tens
ione
[V]
Tiourea Tiourea conc.
Figura 59
Innanzitutto si veda come l’area dei due picchi sia diversa. L’area sottesa al picco dell’iniezione di tiourea a
bassa concentrazione (0,13 [g/L]) – il picco rosa nel grafico – ha un’area pari a 6,535155 unità, mentre l’area
sottesa al picco dell’iniezione di tiourea ad alta concentrazione (0.40 [g/L]) ha un’area di 19,71618 unità,
pari cioè a 3,02 volte l’area del primo picco. Considerando che la concentrazione usata per la seconda
iniezione era tripla, il valore sperimentale è molto prossimo a quello teorico, giacché ci si aspetterebbe
un’area di 3 volte maggiore, ed otteniamo un’area di 3,02 volte maggiore: sicuramente un buon risultato.
La seconda considerazione che possiamo fare riguardo a questi primi due picchi, è che quello ad alta
concentrazione presenta il suo massimo leggermente prima di quello a bassa concentrazione, come mostrato
dalle linee tratteggiate sul grafico. Essendo qui piccola la differenza di concentrazione, anche il fenomeno è
contenuto, ed i due massimi presentano un valore di ascissa piuttosto vicino. Tuttavia, possiamo comunque
osservare che aumentando la concentrazione, il picco tende a raggiungere il suo massimo più presto. Ciò è
dovuto ad una (parziale) saturazione dei pori della colonna: alcune molecole del campione iniettato, trovando
ostruiti i pori, passano all’esterno della fase stazionaria (ossia lungo i lati della colonna), uscendo prima dalla
colonna ed anticipando leggermente il picco.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 127
La seconda annotazione si riferisce invece alle iniezioni di tiourea e di acetonitrile, come mostrato nella
figura 60:
-0.005
0.045
0.095
0 100 200 300 400 500tempo [s]
tens
ione
[V]
Tiourea Acetonitrile
Figura 60
Qui si vede come l’acetonitrile abbia un tempo di ritenzione maggiore della tiourea. Il primo insegnamento
che possiamo trarre da questo grafico, conosciute le formule di struttura delle due sostanze, è che la tiourea,
essendo più grande, passa parzialmente all’esterno della fase stazionaria, e quindi esce prima da essa.
L’acetonitrile, essendo più piccolo, passa attraverso la fase stazionaria perché può diffondere nei pori più
piccoli ed esce più tardi.
Il secondo insegnamento, a mio giudizio ancor più importante, che possiamo trarre dal grafico è che, per
determinare il tempo morto di una colonna non è giusto impiegare il solvente (o uno dei suoi componenti), in
quanto non è detto che sia proprio il solvente ad uscire subito senza rimanere trattenuto nella fase stazionaria.
Nel nostro caso, infatti, l’acetonitrile era, assieme all’acqua, uno dei due componenti del solvente (e ne era
anche il principale, con il 90% di acetonitrile contro il 10% di acqua [percentuali m/m]). Il tracciante deve
quindi essere scelto diversamente, e nel nostro caso è sicuramente più indicato usare la tiourea che non
l’acetonitrile.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 128
Possiamo infine utilizzare questi cromatogrammi per calcolare il fattore di capacità ed il grado di vuoto della
colonna da 20cm, oltre che il numero di piatti teorici (e l’altezza equivalente dei piatti teorici, HETP). Lo
facciamo calcolando questi parametri per entrambe le iniezioni di tiourea e mediandoli poi in seguito. Le
definizioni di questi due parametri caratterizzanti le colonne sono riportate nel capitolo 4.4.3.10 (equazioni
21 e 23, cap. 4.4.3.10.2): inseriamo semplicemente i dati in queste equazioni. Per semplicità, organizziamo
tutti i dati in una tabella:
t rit [s]
t rit senza colona
[s] k'
flusso
[mL/min]
volume colonna
[mL]
grado di
vuoto
Conc. x 158.5 17.6 8.006 1 3.323707 0.71
Conc. 3x 143.3 17.6 7.144 1 3.323707 0.63
Tabella 2
t rit [s]
larghezza
linea di base N
HETP
[cm]
tiourea 160.0 203 7.87 0.381
tiourea conc. 145.7 249 4.23 0.709
Tabella 3
È evidente che utilizzando una soluzione più concentrata si ottenga un minor numero di piatti teorici
(corrispondente ad una più elevata altezza equivalente del piatto teorico), ossia una minore efficienza della
separazione, in considerazione delle osservazioni già fatte a proposito del maggior tempo di ritenzione (e del
maggior scodamento del picco) nel caso in cui si iniettino concentrazioni maggiori: la fase stazionaria si
satura di analita e la separazione perde in efficienza.
5.4.3 COLONNA DA 10 CM Le analisi con questa colonna sono state condotte ad una lunghezza d’onda di 230nm, ed hanno riguardato
due sostanze: la tiourea e l’acetofenone. Anche qui, pur avendo effettuato più prove, presentiamo un singolo
cromatogramma per sostanza, che è rappresentativo di tutti quelli ottenuti. Il tempo di ritenzione, però, che
utilizziamo per calcolare il grado di vuoto ed il fattore di capacità, è quello risultante dalla media delle varie
iniezioni.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 129
-0.005
0.045
0.095
0.145
0 200 400 600 800tempo [s]
tens
ione
[V]
Tiourea Acetofenone
Figura 61
Si noti innanzitutto come questa colonna produca dei picchi più scodati che non quella da 20cm. In effetti,
questa colonna è stata impaccata con un monolita meno uniforme (oltre che con pori meno grandi, e quindi
meno adatti a separare molecole di dimensioni rilevanti nel campo biologico e/o medico-farmacologico).
Un’altra osservazione che si può fare riguarda il confronto fra i tempi di ritenzione delle due sostanze
iniettate. Anche qui, vale lo stesso ragionamento fatto per la colonna da 20cm a proposito del confronto tra
tiourea ed acetonitrile: una sostanza con maggior ingombro sterico (una sostanza più grande) tende a saturare
di più e/o più velocemente i pori, costringendo le molecole che arrivano all’istante successivo a passare
all’esterno della fase stazionaria, sui lati della colonna, e ciò fa sì che il picco esca leggermente prima.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 130
Ecco ora i due parametri che ci permettono di caratterizzare la colonna:
Tiourea t rit [s]
t rit senza colona
[s] k'
flusso
[mL/min]
volume colonna
[mL]
Grado di
vuoto
I° picco 192.4 35.4 4.435 0.5 1.661854 0.79
II° picco 194.3 35.4 4.489 0.5 1.661854 0.80
Media 193.4 35.4 4.463 0.5 1.661854 0.79
Tabella 4
Acetofenone t rit [s]
t rit senza colona
[s] k'
flusso
[mL/min]
volume colonna
[mL]
Grado di
vuoto
I° picco 157.4 35.4 3.446 0.5 1.661854 0.61
II° picco 154.5 35.4 3.364 0.5 1.661854 0.60
Media 156.0 35.4 3.406 0.5 1.661854 0.60
Tabella 5
Ho voluto inserire i dati ed i relativi calcoli anche per l’acetofenone, per mostrare al lettore come i dati così
calcolati siano diversi (ed inferiori) rispetto a quelli ottenuti utilizzando la tiourea, che è il nostro tracciante.
È proprio per evitare errori nel calcolo di questi parametri che si utilizza, per rilevare questi dati, un
tracciante, come la tiourea.
t rit [s]
larghezza
linea di base
[s] N
HETP
[cm]
I° picco 192.4 519.0 1.46 2.054
II° picco 194.3 453.8 1.96 1.531
Media 1.71 1.754
Tabella 6
5.4.4 HP 1090 SENZA COLONNA Onde avere il volume morto dell’apparecchio, necessario per calcolare il grado di vuoto della colonna, è
necessario misurare il tempo morto dell’apparecchio, ossia di tutto il circuito (capillari esterni, capillari
interni all’apparecchio, cella, …) senza la colonna montata.
Abbiamo effettuato alcune prove, ed abbiamo ottenuto molte volte un valore prossimo a 0,056 min con un
flusso di 1 mL/min. Utilizziamo quindi questo dato come tempo morto dell’apparecchiatura.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 131
5.4.5 COLONNA DA 3CM Le analisi con la colonna da 3cm, come già detto nel cap. 5.3.1, sono state effettuate all’ETH di Zurigo con
un HP1090 ed il software dedicato della Hewlett Packard. Per questo motivo, i grafici – a differenza delle
analisi effettuate a Locarno – indicano la tensione in mV anziché in V ed il tempo in minuti anziché in
secondi.
Con la colonna da 3cm abbiamo effettuato le analisi con due sostanze diverse: tiourea ed acetofenone. Per
l’acetofenone, abbiamo effettuato iniezioni a tre diverse concentrazioni. Per trovare il fattore di capacità ed il
grado di vuoto della colonna, ossia per caratterizzarla, utilizziamo i dati della tiourea (che è il nostro
tracciante e che, infatti, ha un tempo di ritenzione minore dell’acetofenone). Le misurazioni sono state
effettuate ad una lunghezza d’onda di 220nm.
Tiourea
-1
4
9
14
19
24
29
34
0 2 4 6 8 10
tempo [min]
tens
ione
[mV
]
Tiourea
Figura 62
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 132
Grazie a questo tracciante, abbiamo potuto calcolare il fattore di capacità ed il grado di vuoto di questa
colonna. Questi parametri sono stati anche qui calcolati utilizzando le equazioni 21 e 23 (cap. 4.4.3.10.2 ).
Ecco la tabella con i dati:
t rit
[min]
t rit senza colona
[min] k'
flusso
[mL/min]
volume colonna
[mL]
grado di
vuoto
CM001 1.232 0.224 4.500 0.25 0.498556 0.51
CM003 1.215 0.224 4.424 0.25 0.498556 0.50
CM004 1.233 0.224 4.504 0.25 0.498556 0.51
CM005 1.224 0.224 4.464 0.25 0.498556 0.50
CM006 1.208 0.224 4.393 0.25 0.498556 0.49
CM007 1.238 0.224 4.527 0.25 0.498556 0.51
CM008 1.225 0.224 4.469 0.25 0.498556 0.50
Media 1.225 0.224 4.469 0.25 0.498556 0.50
Tabella 7
t rit [min] larghezza linea di base N
HETP
[cm]
I° picco 1.225 6.95 0.33 9.091
Tabella 8
Questa colonna, essendo più piccola, impaccata meno bene e riempita con una fase meno buona di quella
impiegata per la colonna da 20cm, presenta un numero di piatti teorici molto piccolo e, viceversa, una grande
altezza equivalente del piatto teorico. Bisogna però considerare che il valore di HETP elevato risente dello
scodamento del picco, questo perché il flusso era di soli 0.25 mL/min (v. cap. 4.4.3.10.4).
Dalla tabella 7 si può inoltre vedere che, pur avendo utilizzato la stessa fase impiegata per riempire la
colonna da 10cm, abbiamo qui ottenuto un grado di vuoto minore, di 0,50 contro lo 0,80 della colonna più
lunga. Una spiegazione di ciò è che la granulometria delle particelle del materiale utilizzato era differente:
nella colonna da 3cm le particelle avevano un diametro inferiore rispetto a quelle utilizzate per riempire la
colonna da 10cm (anche se la porosità delle singole particelle era simile).
Acetofenone
Con l’acetofenone abbiamo condotto due tipi di esperimenti. Da un lato abbiamo effettuato tre analisi a tre
diverse concentrazioni, dall’altro abbiamo cercato di capire quale possa essere – per l’acetofenone –
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 133
l’influsso della temperatura sull’analisi. Questo secondo esperimento è illustrato nel cap. 5.5, mentre qui ci
occupiamo solo del primo.
-3
47
97
147
197
247
297
0 2 4 6 8 10
tempo [min]
tens
ione
[mV]
Acetofenone 1 microL Acetofenone 4microLAcetofenone 8 microL
Figura 63
Due sono le osservazioni da effettuare a proposito di questo grafico, rappresentante tre cromatogrammi
sovrapposti (in realtà questi cromatogrammi sono stati ottenuti in analisi diverse, la sovrapposizione è frutto
di un’elaborazione grafica, utile per meglio intuire le considerazioni seguenti). Entrambe le osservazioni
sono del tutto analoghe a quelle fatte per la colonna da 20 cm e l’iniezione di due concentrazioni diverse di
tiourea. Il fatto che anche qui otteniamo risultati simili, ci dimostra che l’ipotesi avanzata per spiegare il
fenomeno nel cap. 5.4.2 è piuttosto consistente e corretta (infatti, risultati simili si ottengono sempre, come
anche noi abbiamo potuto appurare effettuando altri esperimenti simili ai due descritti in questo testo).
Si noti innanzitutto come l’area del picco sia direttamente proporzionale alla concentrazione iniettata. L’area
del picco blu corrisponde infatti ad 1/4 di quella del picco viola e ad 1/8 di quella del picco rosso.
La seconda annotazione è più difficile da apprezzare a partire da questo grafico, giacché la scala non è
sufficientemente dettagliata (ed ingrandita), ma anche e soprattutto perché l’analisi che qui consideriamo è
effettuata su una colonna di 3cm di lunghezza, ossia su una colonna corta, dove il fenomeno è meno
apprezzabile. Ma qual è questo fenomeno? Invito il lettore ad osservare più attentamente il grafico (Figura
64): egli scoprirà che i massimi dei tre picchi non sono esattamente uguali (in quanto a valore del tempo),
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 134
bensì noterà che a concentrazione maggiore corrisponde un tempo di ritenzione leggermente minore. Questo
fenomeno si può meglio rilevare se si disegnano delle linee in corrispondenza dei massimi dei picchi:
-3
47
97
147
197
247
297
0 2 4 6 8 10
tempo [min]
tens
ione
[mV]
Acetofenone 1 microL Acetofenone 4microLAcetofenone 8 microL
Figura 64
Il lettore, se è davvero attento, si chiederà se io non abbia barato, giacché visivamente il massimo del picco
blu è ad un valore di ascissa minore di quello in cui io ho posto la linea. Il massimo, in effetti, è ad un valore
di tempo minore di come io non l’abbia considerato per disegnare la linea. Tuttavia, ho operato in questo
modo poiché il picco blu è molto scodato – si parla di un fenomeno di “tailing”, dall’inglese “tail” (coda) –,
tanto che sembra chiudere poco prima degli altri due picchi, che hanno concentrazioni piuttosto maggiori.
Non possiamo far altro che ripetere quanto già detto a proposito della colonna da 20 cm e dell’iniezione di
diverse concentrazioni di tiourea: questo fenomeno è dovuto ad una (parziale) saturazione dei pori della
colonna: alcune molecole del campione iniettato, trovando ostruiti i pori, passano all’esterno della fase
stazionaria (ossia lungo i lati della colonna), uscendo prima dalla colonna ed anticipando leggermente il
picco.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 135
5.5 Influsso della temperatura sulle
analisi cromatografiche con HPLC
Abbiamo valutato l’influsso della temperatura conducendo analisi a temperature diverse iniettando
acetofenone. Riportiamo qui i dati relativi alle temperature di 30°C e 50°C, ottenuti conducendo l’analisi ad
una lunghezza d’onda di 220nm. È palese che simili analisi si possono eseguire solo in un impianto che
preveda la possibilità di termostatare la colonna, come l’HP1090 che avevamo a disposizione all’ETHZ. Al
Liceo di Locarno, anche per la separazione delle biomolecole – dove una temperatura controllata sarebbe
stata utile –, non abbiamo invece potuto effettuare analisi a più temperature.
-1
9
19
29
39
49
59
69
79
89
99
0 5 10 15
tempo [min]
tens
ione
[mV
]
Acetofenone 30° C Acetofenone 50° C
Figura 65
Questo cromatogramma, se guardato attentamente, ci può dare alcune informazioni a proposito della cinetica
dei processi di adsorbimento e desorbimento dell’acetofenone all’interno della colonna.
Il picco viola, corrispondente ad una temperatura di 30°C, appare prima del picco blu, corrispondente ad una
temperatura di 50°C.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 136
Ciò mi ha in un primo tempo sorpreso. Siamo infatti abituati a pensare che un aumento di temperatura porti a
reazioni più rapide ed il passo fino a prevedere che anche il processo separativo (basato non su reazioni, ma
comunque su un’azione di “filtro” della fase stazionaria e su interazioni tra il componente e le due fasi) si
velocizzi è breve. Ragionando però sui dati sperimentali ottenuti, possiamo ipotizzare la seguente
spiegazione, che ci permette peraltro di scoprire un importante principio.
Evidentemente, apparendo l’acetofenone più tardi aumentando la temperatura, o il desorbimento deve essere
favorito da una temperatura più elevata (o perlomeno più prossima ai 50°C che ai 30°C, difficile dire con
certezza se tale fenomeno abbia un andamento lineare anche aumentando ulteriormente le temperature, o
diminuendole) o l’adsorbimento deve venire accelerato da una temperatura più bassa, o entrambe le cose
combinate.
Questa semplice spiegazione, ci permette di notare come in realtà non sia possibile prevedere l’effetto della
temperatura su una separazione cromatografica: tutto dipende dagli equilibri che si stabiliranno tra le due fasi
e da come verranno influenzate dalla temperatura le interazioni tra il (o i) componente (/-i) da separare, ossia
se verrà favorito l’adsorbimento o il desorbimento aumentando o diminuendo la temperatura. Le possibilità
per trovare risposta sono tre: o si fanno delle previsioni, basandosi su una conoscenza dettagliata delle
interazioni che si hanno in colonna, o si va in laboratorio e si conducono delle analisi, o si consulta della
letteratura che riporta i risultati di quelle svolte da qualcun altro, badando però che le abbia condotte su una
stessa fase stazionaria, cosa nel nostro caso impossibile, vista la produzione “in proprio” del materiale usato
quale fase stazionaria.
5.6 Separazione di insulina e
interferone
5.6.1 INTRODUZIONE; INIEZIONE DI TIOUREA NEI DUE
SOLVENTI L’esperimento più interessante che abbiamo svolto è stato quello di separare due molecole di dimensioni di
rilevanza biologica. Abbiamo scelto l’insulina umana e l’interferone beta 1-a, una glicoproteina a lunga
catena composta da 166 amminoacidi. Evidentemente, non avevamo a disposizione queste due sostanze pure,
ma abbiamo utilizzato due medicamenti di cui sono il principio attivo. La presentazione sia delle proteine
che dei medicamenti e dei loro possibili utilizzi è contenuta nel cap. 5.3.3.2 , a cui rimando il lettore che non
l’avesse ancora affrontato.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 137
Trattandosi di due proteine, è stato necessario aggiungere al solvente una sostanza acida per mantenere un
pH in cui le proteine non si denaturassero (ossia perdessero le loro strutture terziaria e quaternaria, così
importanti, fra l’altro, per la loro funzionalità biologica e medica). A questo scopo, abbiamo, su
suggerimento dell’équipe del prof. Morbidelli dell’ETHZ, utilizzato dell’acido fosforico. Questo sistema è
già stato utilizzato dai ricercatori del politecnico per stabilizzare e separare una miscela di calcitonina e
d’insulina. Abbiamo inoltre preparato, sempre su suggerimento dei ricercatori dell’ETHZ, due miscele
diverse, con diversa composizione in quanto a percentuale di acetonitrile e di acqua. Una aveva
composizione 25:75, l’altra 40:60 (percentuali m/m). La seconda presenta carattere di adsorbimento, leggero
per l’insulina, molto marcato per l’interferone, e ciò permette una separazione delle due proteine.
Per prima cosa, riporto qui i cromatogrammi ottenuti iniettando nei due solventi della tiourea, in modo che i
risultati ottenuti per le biomolecole possano venire confrontati con quelle del tracciante e, soprattutto, in
modo tale che possiamo calcolare il tempo di ritenzione corretto tanto per l’insulina quanto per l’interferone
(in realtà, come si vedrà, nel caso del solvente adsorbente, quello con il 40% di acetonitrile, l’interferone
adsorbe così tanto che l’abbiamo desorbito cambiando solvente). Questi cromatogrammi sono stati ottenuti
conducendo le analisi ad una lunghezza d’onda di 230nm.
-0.005
0.005
0.015
0.025
0.035
0.045
0.055
0.065
0.075
0 200 400 600 800 1000 1200tempo [s]
tens
ione
[V]
Tiourea, solvente 25% ACN Tiourea, solvente 40% ACN
Figura 66
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 138
Il tempo di ritenzione della tiourea, che – come si vede sia dal grafico (Figura 66) – non viene adsorbita dalla
fase stazionaria indipendentemente da quale dei due solventi si usi (o viene adsorbita sempre nello stesso
modo), il fattore di capacità ed il grado di vuoto sono riportati in tabella:
t rit [s]
t rit senza
colona [s] k'
flusso
[mL/min]
volume
colonna [mL]
grado di
vuoto
solv. 25% ACN 176.6 17.6 9.034 1 3.323707 0.80
solv. 40% ACN 179.6 17.6 9.205 1 3.323707 0.81
Tabella 9
Le analisi riportate successivamente sono state condotte ad una lunghezza d’onda di 205nm. Questo
abbassamento di lunghezza d’onda (o aumento di frequenza che dir si voglia) si è reso necessario per
individuare una regione dello spettro in cui le due proteine assorbissero luce in modo da poterle rilevare al
“detector”.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 139
5.6.2 INSULINA, INTERFERONE, MISCELA DI INSULINA ED
INTERFERONE NEL SOLVENTE NON ADSORBENTE
(ACETONITRILE E ACQUA 40:60 + ACIDO FOSFORICO) Per prima cosa, abbiamo iniettato l’insulina da sola (o, per meglio dire, l’Actrapid HM®) sciolta nel solvente
con il 40% di acetonitrile ed il 60% di acqua (mentre la quantità di acido fosforico era all’incirca la stessa per
i due solventi, tra 1,3g e ____), ottenendo il seguente cromatogramma:
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0.295
0 100 200 300 400 500 600 700tempo [s]
tens
ione
[V]
Insulina
Figura 67
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 140
Abbiamo fatto la stessa cosa con l’interferone (o, meglio detto, con il medicamento Rebif®), ottenendo il
cromatogramma seguente:
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0 100 200 300 400 500 600tempo [s]
tens
ione
[V]
IFN
Figura 68
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 141
Abbiamo successivamente iniettato una miscela dei due medicamenti, ottenendo il seguente
cromatogramma:
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0 100 200 300 400 500 600 700 800 900tempo [s]
tens
ione
[V]
Miscela
Figura 69
Come si vede, i picchi non sono per niente risolti, anzi, del tutto sovrapposti. Infatti, questo solvente non
presenta alcuna caratteristica di adsorbimento per nessuna delle sostanze qui considerate. Ciò si può peraltro
vedere confrontando il cromatogramma relativo alla miscela con i due grafici delle due sostanze iniettate
singolarmente: il tempo di ritenzione è all’incirca lo stesso.
Volendo “giocare” un po’ con la grafica, possiamo tuttavia riuscire a mostrare i due cromatogrammi nascosti
sotto quello della miscela, che non è altro se non il picco risultante dalla somma degli altri due:
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 142
-0.02
0.18
0.38
0.58
0.78
0.98
0 100 200 300 400 500 600 700 800 900tempo [s]
tens
ione
[V]
Miscela Interferone Insulina
Figura 70
Si noti come in realtà non solo l’area del picco riferito alla miscela sia la somma dei picchi delle due
sostanze, ma anche che il cromatogramma dell’interferone è leggermente spostato verso sinistra e quello
dell’insulina verso destra rispetto a quello della miscela. Il picco risultante, quindi, è la somma dei picchi che
“contiene”, in tutti i sensi: sia in quanto ad area, sia in quanto ad altezza (dovuta essenzialmente alla
sensibilità del rilevatore ed alla concentrazione iniettata), sia in quanto a valore sull’asse delle ascisse.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 143
5.6.3 INSULINA, INTERFERONE, MISCELA DI INSULINA ED
INTERFERONE NEL SOLVENTE ADSORBENTE
(ACETONITRILE E ACQUA 25:75 + ACIDO FOSFORICO) Anche qui, per prima cosa riporto i cromatogrammi relativi all’iniezione di solo Rebif® e di solo Actrapid
HM®.
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0.295
0.345
0 100 200 300 400 500 600 700 800tempo [s]
tens
ione
[V]
Insulina
Figura 71
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 144
-0.015
0.035
0.085
0.135
0.185
0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]
tens
ione
[V]
IFN
Figura 72
Questo cromatogramma è in realtà stato ottenuto variando il solvente. Iniettando interferone nel solvente al
25% di acetonitrile, infatti, si è ottenuto unicamente il primo picco, che ha un’area notevolmente più piccola
di quella ottenuta iniettando la medesima sostanza a pari concentrazione nel solvente al 40% di acetonitrile,
il che significa che non tutto il campione iniettato è uscito dalla colonna. Abbiamo lasciato proseguire
l’analisi per circa 50min, ma nessun picco ulteriore è stato registrato dal software. Probabilmente, attendendo
alcuni giorni (e consumando ingenti quantità di solventi), dalla colonna si sarebbe desorbito l’interferone in
essa trattenuto ma, non avendo a disposizione sufficienti riserve di solvente né un sistema per cambiare le
varie bottiglie (sempre che si abbiano a disposizione i solventi), abbiamo deciso di simulare, in modo
forzatamente rozzo, un’analisi a gradiente. Questa situazione, infatti, è la tipica situazione in cui si rileva di
estrema utilità un’analisi a gradiente, in cui la composizione dei solventi varia gradualmente durante l’analisi
(cfr. cap. 4.4.3.3). Purtroppo, però, il nostro cromatografo mancava di un miscelatore, ed abbiamo quindi
deciso, dopo 50min, di cambiare solvente e di utilizzare il solvente non adsorbente (quello al 40% di
acetonitrile). Quest’operazione, per forza di cose, ha richieto di fermare per qualche secondo la pompa, onde
poter togliere dalla bottiglia contenente il solvente adsorbente il capillare ed inserirlo nella bottiglia
contenente il solvente non adsorbente. In fase di elaborazione grafica dei risultati, poi, abbiamo tagliato i
lunghi minuti in cui non si era ottenuto nessun picco, interrompendo il cromatogramma a 840s e
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 145
aggiungendo poi il risultato dell’analisi continuata impiegando il nuovo solvente. Utilizzando questo
solvente, difatti, l’interferone si è desorbito in relativamente poco tempo (97,6s per l’esattezza, considerando
però che già l’apparecchio ha un tempo morto di 17,6s, per un tempo di ritenzione effettivo di 80,0s).
Anche per risolvere la miscela, dunque, giacché l’insulina (come si può vedere dal cromatogramma riportato
in figura 71) si adsorbe e si desorbe (completamente) anche con il solvente al 25% di acetonitrile e giacché
l’interferone – come appena spiegato – si adsorbe fortemente con il solvente al 40%, opereremo nella stessa
maniera, ossia cambiando il solvente dopo 840s di analisi col primo solvente. Ritenuto quanto fin qui detto,
si noti che questa separazione – da noi effettuata a livello puramente sperimentale – potrebbe rendersi utile a
scopi preparativi ed eventualmente, se perfezionata e standardizzata, anche su larga scala (per grossi
quantitativi di sostanza). Una delle due sostanze da separare, infatti, viene quasi completamente adsorbita dal
primo solvente. Tuttavia, è assai inusuale (oltre che molto improbabile) che un’industria necessiti di separare
insulina ed interferone! Il nostro esperimento è interessante ed utile, invece, perché costituisce un esempio di
una separazione di due proteine di grosse dimensioni utilizzando la tecnica cromatografica dell’HPLC
utilizzando come fase stazionaria un materiale prodotto per gelificazione reattiva a partire come spiegato in
precedenza (cap. 5.3.3.1). Se si applicasse questa tecnica alla separazione di proteine di interesse medico-
farmacologico (come, peraltro, le due da noi utilizzate), ottenute mediante tecniche di ingegneria genetica, da
una miscela contenente molti altri polipeptidi, si avrebbe a disposizione una tecnica separativa a
relativamente buon mercato, in grado cioè di abbassare i costi (oggi molto elevati135) di medicamenti prodotti
in questo modo, spesso vitali per molte persone.
135 Il Rebif® da noi utilizzato, per esempio, in Svizzera è venduto in confezioni di 12 iniezioni a prezzi di
1842,60 Fr per il Rebif 22µg e di ben 2419,15 Fr per il Rebif 44µg . (v. AA. VV., Compendium suisse des
médicaments 2004, Documed, Basel, 2003 ; p. 2360)
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 146
Ecco il cromatogramma relativo alla miscela:
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]
tens
ione
[V]
Miscela
Figura 73
Il primo picco si riferisce all’insulina, il secondo (successivo al cambiamento del solvente, avvenuto, come
detto, a 840s) all’interferone. Giacché la miscela è stata fatta con un 50% (V/V) e giacché i due medicamenti
contengono concentrazioni diverse del principio attivo, i due picchi hanno aree (e altezze) diverse. Si noti
che il secondo picco chiude ad un valore della linea di base superiore al primo. Ciò è del tutto normale, in
quanto abbiamo cambiato il solvente, e l’acetonitrile (che nel secondo solvente è presente a concentrazione
maggiore) assorbe parte della radiazione luminosa.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 147
5.6.4 CONFRONTO TRA LE ANALISI COL SOLVENTE
ADSORBENTE E QUELLO NON ADSORBENTE,
DISCUSSIONE DEI RISULTATI, CONCLUSIONE Per avere una rappresentazione visiva di quanto spiegato nei due capitoli precedenti (capp. 5.6.2 e 5.6.3),
abbiamo unito in un unico grafico i cromatogrammi effettuati nei due solventi, rispettivamente, dell’insulina,
dell’interferone e della miscela. Ecco i grafici così ottenuti:
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0.295
0.345
0 100 200 300 400 500 600 700 800tempo [s]
tens
ione
[V]
Insulina 25% Insulina 40%
Figura 74
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 148
-0.015
0.035
0.085
0.135
0.185
0.235
0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]
tens
ione
[V]
IFN 25% IFN 40%
Figura 75
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 149
-0.005
0.045
0.095
0.145
0.195
0.245
0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]
tens
ione
[V]
Miscela 25% Miscela 40%
Figura 76
Valgono tutte le considerazioni esposte nei capitoli 5.6.2 e 5.6.3 a proposito del modo di procedere e della
spiegazione del perché il secondo picco della miscela al 25% chiuda ad un valore di ordinata superiore al
primo picco. Le aree sottese al cromatogramma ottenuto con la miscela al 40% di acetonitrile e la somma dei
due cromatogrammi ottenuti con la miscela al 25% di acetonitrile e poi al 40% corrispondono.
Vale anche quanto detto a proposito dell’utilità del nostro lavoro per eventuali sviluppi futuri, anche
nell’ambito di applicazioni industriali da parte del settore farmaceutico.
Quello che qui vorremmo sviluppare è invece un altro discorso. Ci vorremmo infatti concentrare brevemente
sulla spiegazione (o su un’ipotesi di spiegazione) di quanto avviene in colonna usando l’uno e l’altro
solvente, in un costante paragone fra i due.
Ora, i cromatogrammi ottenuti ci dicono che una miscela con il 40% di acetonitrile ed il 60% di acqua è in
grado di desorbire sia l’insulina sia l’interferone. In altre parole, con questo solvente, entrambe le sostanze
presentano maggiore affinità per la fase mobile che per quella stazionaria e presentano dunque un tempo di
ritenzione relativamente basso. Sempre i cromatogrammi ci dicono che una miscela composta per il 25% di
acetonitrile e per il 75% di acqua desorbe (e adsorbe poco) l’insulina mentre adsorbe fortemente
l’interferone. Ora, l’interferone è una glicoproteina composta da una lunga catena peptidica (166
amminoacidi). Conformandosi nelle sue strutture terziaria e quaternaria, tale proteina, rivolge i suoi gruppi
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 150
polari all’interno, onde avere una certa coesione e poter così mantenere la sua forma. La polarità della
proteina verso le fasi, dunque, è data dai due gruppi –NH2 che sporgono alle due estremità, mentre il resto
della molecola può essere considerato come una catena apolare (in realtà questa è una semplificazione, ma,
come detto, le parti polari della proteina si rivolgono all’interno per dare le strutture terziaria e quaternaria e,
inoltre, il calcolo della polarità di una molecola così grande e così complessa, e di forma così complicata, è
assai difficile, se non impossibile, perlomeno con i nostri mezzi). La stessa cosa dicasi per l’insulina. Se
partiamo da questo presupposto, allora, l’insulina presentando una “catena apolare” più corta, dovrebbe
presentare maggiore affinità per sostanze relativamente polari che non l’interferone. Infatti, l’insulina, anche
utilizzando il solvente con il 75% di acqua, esce velocemente dalla colonna, dimostrando di avere poca
affinità con la fase stazionaria (che, essendo un materiale prodotto a partire da copolimeri di polistirene-
divinilbenzene, è apolare). L’interferone, invece, che presenta una “catena apolare” ben più lunga (166
amminoacidi contro 66), ha una buona affinità con la fase mobile solo quando il solvente presenta il 60% di
acqua ed il 40% di acetonitrile, mentre che, quando il solvente diventa relativamente polare (con una
composizione acetonitrile e acqua 25:75), si dimostra poco affine alla fase mobile e si adsorbe invece su
quella stazionaria (apolare, come detto).
La spiegazione della separazione effettuata va ricercata proprio in questa diversa affinità relativa per le due
fasi da parte delle due molecole, diversa a seconda della composizione del solvente impiegato.
Il fatto che, cambiando la percentuale di acetonitrile nella fase mobile (90:10, 40:60, 25:75), il grado di vuoto
della colonna cambi circa del 10% (cfr. cap. 5.6.1; iniezione della tiourea in questi solventi), ci fa pensare
che la fase stazionaria si rigonfi aggiungendo acqua.
La fase stazionaria che abbiamo utilizzato si conferma dunque eccezionalmente stabile, macroporosa ed
uniforme, ossia adatta alla separazione di macromolecole, quindi anche di molecole di rilevanza biologica,
quali ormoni ed enzimi.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 151
6. Bibliografia · AA. VV., Compendium suisse des médicaments 2004, Documed, Basel, 2003
· DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS, Introduzione alla cromatografia, Aldo Martello editore, Milano, 1971
· G. AMANDOLA, V. TERRENI, Analisi chimica strumentale e tecnica, Masson Italia editori, Milano, 1979
· R. ARSHADY; Leading Contribution; Suspension, emulsion and dispersion polymerization: A
metodological survey, Colloid Polymer Science 270:717-732, 1992
· FRANCO BAGATTI, ELIS CORRADI, ALESSANDRO DESCO, CLAUDIA ROPA; Chimica; Zanichelli, Bologna,
1996
· SEBASTIAN BÖCKER, A general procedure for the design of chromatographic separations, Diss. ETHZ
nr. 14352, 2001; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-pool/diss/fulltext/eth14352.pdf
· E. CALANCHINI, L. CASARI, S. CIPRIAN, G. MORETTI, A. OGGIER, A. RIZZOLI, Sintesi di nuovi materiali
macroporosi attraverso un processo di gelificazione reattiva, LAM Liceo Locarno, 2006
· WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,
Tokyo; 1993
· YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance
Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
· N. MARTI, F. QUATTRINI, ALESSANDRO BUTTÉ,, MASSIMO MORBIDELLI; Production of Polymeric
Materials with Controlled Pore Structure: the “Reactive Gelation” Process; Macromol. Mater. Eng.
2005, 290, 221-229
· NADIA MARTI, ALESSANDRO BUTTÉ, MASSIMO MORBIDELLI; Production of Porous Materials by
“Reactive Gelation”, Poster, DECHEMA 2004
· MASSIMO MORBIDELLI, ALESSANDRO BUTTÉ; Materialien für die Reinigung biologischer Produkte, in
Bulletin ETH Zürich Nr. 295, November 2004
· MASSIMO MORBIDELLI, Polymer Reaction & Colloid Engineering, Lecture Notes, Winter Semester
2003/2004, ETHZ; da http://www.morbidelli-group.ethz.ch
· JOHN H. POSTLETHWAIT, JANET L. HOPSON; Corso di Biologia; Etas – McGraw-Hill, Milano, 2000
· GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,
http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_p
arte.pdf
· GIANMARCO ZENONI, Tecnologia a letto mobile simulato per la separazione cromatografica continua
d’enantiomeri, Diss. ETHZ nr. 13880, 2000; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-
pool/diss/fulltext/eth13880.pdf
· http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html
· http://www.accessexcellence.org/LC/SS/chromatography_background.html
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 152
· http://www.accessexcellence.org/LC/SS/chromatohgraphy_background.html
· http://www.amscampus.cib.unibo.it/archive/00000396/01/CROMAT_1A_2003.ppt#256,1,CROMATOG
RAFIA Principi generali
· http://www.carloerbareagenti.com/repository/DIR005/cromatografia.pdf
· http://www.hplcweb.com
· http://www.minerva.unito.it/Storia/ChimicaClassica/Cromatografia/CROMO.htm
· http://www.morbidelli-group.ethz.ch
· http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html
· http://www.pignascuola.it
· http://www.rcsb.org/pdb/
· http://www.sapere.it
· http://www.wikipedia.org
Nota:
Purtroppo la bibliografia cartacea da me utilizzata (in particolare DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS;
Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano; 1971 e G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi
chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979) è di data piuttosto lontana, ma in Ticino,
sia presso la biblioteca del liceo di Locarno sia presso le biblioteche cantonali, non sono riuscito a trovare
nulla di più recente. Ho cercato di supplire a questa mancanza riferendomi ad alcuni articoli scientifici e a
vari siti internet contenenti informazioni più aggiornate.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 153
7. Appendice Il gel è una soluzione colloidale di un solido disperso in un liquido. Un colloide è una sostanza che si trova in
uno stato finemente disperso, intermedio tra una soluzione omogenea ed una sospensione eterogenea. Questo
stato, che potremmo definire “microeterogeneo”, è dunque composto da una sostanza di dimensioni
microscopiche (all’incirca con un diametro compreso tra 1nm e 1µm, ossia tra m910− e m610− ) dispersa in
una fase continua. Un sistema colloidale è dunque l’insieme di una fase dispersa e di una fase continua (la
prima è dispersa sotto forma di particelle minuscole nella seconda). A titolo indicativo si possono dare le
seguenti informazioni, che permettono di distinguere una soluzione omogenea da un colloide e un colloide
da una soluzione eterogenea:
dimensione particella < 10-9m 10-9m < x < 10-6m > 10-6m
nome Soluzione omogenea colloide soluzione eterogenea
Molte sostanze quotidiane o famigliari sono dei colloidi. Ne sono esempi il burro, la mayonnaise, l’asfalto, la
colla, la nebbia.
All’interno dei colloidi, poi, esistono vari tipi, che si possono distinguere in base allo stato della fase dispersa
e della fase continua (solido, liquido o aeriforme) e che riporto in tabella:
fase dispersa fase continua nome esempio
liquido Gas aerosol liquido nebbia, spray liquidi
solido Gas aerosol solido fumo, polvere
gas Liquido schiuma schiuma da barba, panna
montata
liquido Liquido emulsione latte, mayonnaise,
sangue
solido Liquido sol dentifricio
gas Solido schiuma solida polistirene o poliuretano
espansi
liquido Solido gel opale, formaggio
solido Solido sospensione solida vetro, leghe metalliche
Come regola generale, si potrà ricordare (per semplicità) che se la fase continua (o disperdente) non ha
particolare affinità con le particelle disperse, e queste ultime non sono aggregate, si parla di sol (che può poi
prendere nomi diversi a seconda della natura della fase continua: aerosol, idrosol, ecc.) Se invece le micelle
sono aggregate tra loro formando una specie di reticolo, nelle cui maglie la fase disperdente penetra, si parla
di gel. Si ritenga poi anche che quando un gas è disperso in un liquido o in un solido si è soliti parlare di
schiuma, quando un liquido è disperso in un altro si parla invece di emulsione.
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 154
La chimica dei colloidi è stata inaugurata dal chimico scozzese Thomas Graham, ed è una scienza che
coinvolge numerosi aspetti della chimica. Le forze che entrano in gioco nei fenomeni colloidali coinvolgono
infatti interazioni elettrostatiche, forze antropiche (ossia delle forze che risultano dallo stato di disordine e
quindi di agitazione termica della materia), nonché la tensione superficiale. Nei colloidi, i quali hanno spesso
la proprietà di disperdere la luce, spesso la fase dispersa assume una organizzazione a micella.
Numerosi processi sono correlati con i colloidi. Fra questi citiamo la detergenza ed i tensioattivi,
l’elettroforesi, la precipitazione, l’osmosi e, soprattutto – visti i nostri fini – la cromatografia. (cfr.
http://www.wikipedia.org e http://www.sapere.it).
Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno
Pagina 155
8. Ringraziamenti Ringrazio anzitutto il mio docente, Dott. Gianmarco Zenoni, che mi ha proposto l’argomento per il presente
lavoro, che mi ha seguito con pazienza e interesse, che mi ha accompagnato e guidato nei miei esperimenti
all’ETHZ (dove ha pure riparato i macchinari che non funzionavano), che mi ha aiutato a mettere in piedi
l’apparecchiatura a Locarno, che mi ha aiutato, accompagnato e condotto nei miei esperimenti in moltissime
ore straordinarie, che mi ha guidato e stimolato in questo lavoro di maturità. Lo ringrazio per la sua
disponibilità, per l’attenzione, le energie e il tempo che mi ha regalati.
Ringrazio poi tutta l’equipe del prof. Morbidelli dell’ETH di Zurigo, che mi ha permesso di intrufolarmi nei
loro laboratori e di utilizzare i suoi apparecchi, materiali e sostanze.
Ringrazio in particolare il Dott. Alessandro Buttè, e la dottoranda Nadia Marti per le spiegazioni, i dati e le
sostanze che mi hanno fornito, ma soprattutto per avermi fatto partecipe delle loro ricerche, attualmente in
atto.
Ringrazio anche i dottorandi Laurence Adjadj, Lena Melter e Lars Aumann per le loro collaborazione e
disponibilità.
Ringrazio i miei zii, Flavio e Patrizia Fiscalini, che mi hanno ospitato (e viziato…) nella mia settimana di
esperimenti presso l’ETHZ.
Un sentito grazie va poi ai miei compagni di ricerca, Elena Calanchini, Lorenzo Casari, Sandro Ciprian,
Giacomo Moretti, Alan Oggier e Attilio Rizzoli, che mi hanno fornito i polimeri da loro prodotti, convertiti
in forma di gel fino a diventare monoliti utilizzabili quali fase stazionaria, ed i dati relativi.
Ringrazio il prof. Emilio Brenn per avermi preparato il PC e l’interfaccia necessari per raccogliere ed
integrare i dati rilevati dal “detector” dell’apparecchiatura di Locarno.
Ringrazio il prof. Michele D’Anna per avermi prestato la fotocellula necessaria per l’installazione
dell’apparecchiatura a Locarno.
Ringrazio infine la mia famiglia, per avermi sostenuto, stimolato e… sopportato, nella mia ricerca.