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C ROMATOGRAFIA HPLC PER LA SEPARAZIONE DI MACROMOLECOLE DI INTERESSE BIOLOGICO DI S EBASTIANO L AVA L ICEO DI L OCARNO , A. S . 2005/2006 D OCENTE : G IANMARCO Z ENONI

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C ROMATOGRAF IA HPLC  P ER  LA 

SE PARAZ I ONE  D I  MACROMOLECOLE 

D I   I NT ERE SSE  BI OLOG I CO 

D I 

S E B A S T I A N O  L AVA 

L I C E O   D I  L O C ARN O ,  A .  S .  2 0 0 5 / 2 0 0 6 

D O C E N T E  :  G I A N M A R C O  Z E N O N I

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

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1. Indice 1. Indice 1

2. Premessa 4

3. Introduzione 5

4. Parte I: Cromatografia 8 4.1 Etimologia e storia 8 4.2 La cromatografia, introduzione 10 4.3 I tipi di cromatografia 14

4.3.1 Cromatografia per adsorbimento 14 4.3.2 Cromatografia per ripartizione 19 4.3.3 Cromatografia a fase normale e a fase inversa 25 4.3.4 Cromatografia per scambio ionico 26 4.3.5 Cromatografia per esclusione 33 4.3.6 Cromatografia di affinità 39

4.4 Metodi cromatografici 40 4.4.1 Cromatografia su carta 41

4.4.1.1 Campioni 41 4.4.1.2 Applicazione del campione 42 4.4.1.3 Sviluppo 42 4.4.1.4 Tecniche ascendente e discendente 43 4.4.1.5 Essiccamento 45 4.4.1.6 Localizzazione delle sostanze 45 4.4.1.7 Cromatografia preparativa su carta 49 4.4.1.8 Cromatografie quantitative su carta 51 4.4.1.9 Cromatografia su carta a scambio ionico 54 4.4.1.10 Elettroforesi 54

4.4.2 Cromatografia su strato sottile 56 4.4.2.1 Preparazione delle lastre 57 4.4.2.2 Scelta della fase stazionaria e del solvente 58 4.4.2.3 Applicazione dei campioni 59 4.4.2.4 Sviluppo 60 4.4.2.5 Localizzazione degli analiti sui cromatogrammi 60 4.4.2.6 Cromatografia su strato sottile a scopi preparativo e qualitativo 61 4.4.2.7 Documentazione dei risultati 62

4.4.3 Cromatografia su colonna 62

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4.4.3.1 La colonna 62 4.4.3.2 Solventi 63 4.4.3.3 Eluizione 63 4.4.3.4 Raccolta ed identificazione degli analiti 64 4.4.3.5 Cromatografia in liquido a filo mobile 67 4.4.3.6 Cromatografia in colonna con riciclo 67 4.4.3.7 Cosa avviene in una colonna durante una separazione cromatografica 68 4.4.3.8 “High performance liquid cromatography” o HPLC 73 4.4.3.9 Strumentazione per HPLC 76

4.4.3.9.1 Sistemi per HPLC 76 4.4.3.9.2 Contenitori per la fase mobile e sistemi di trattamento dei solventi 76 4.4.3.9.3 Fasi mobili 77 4.4.3.9.4 Pompe 77 4.4.3.9.5 Sistema di iniezione del campione 79 4.4.3.9.6 Colonna 80 4.4.3.9.7 Fasi stazionarie 81 4.4.3.9.8 Colonna di guardia (o precolonna) 83 4.4.3.9.9 Termostato della colonna 83 4.4.3.9.10 Rilevatori (“detectors”) 83

4.4.3.10 Caratterizzazione di una colonna cromatografica 85 4.4.3.10.1 Parametri di ritenzione 85 4.4.3.10.2 Allargamento dei picchi (caratterizzazione dell’efficienza della colonna) 89 4.4.3.10.3 Risoluzione e selettività: come unire i parametri di ritenzione e di allargamento dei picchi in un

solo parametro 92 4.4.3.10.4 Teoria per l’allargamento dei picchi (equazione di Van Deemter) 94

4.4.3.11 Analisi quantitativa 100 4.4.3.11.1 Calcolo dell’area del picco 101 4.4.3.11.2 Calcolo delle concentrazioni 103

5. II parte: esperimenti 106 5.1 Scopo 106 5.2 Basi teoriche 106 5.3 Materiale 107

5.3.1 Materiale, sguardo prospettico (sintesi introduttiva) 107 5.3.2 Materiale, apparecchiatura 107

5.3.2.1 Apparecchi utilizzati all’ETHZ 107 5.3.2.2 Apparecchiatura impiegata al Liceo di Locarno 112

5.3.3 Materiale, sostanze 116 5.3.3.1 Fasi stazionarie 116 5.3.3.2 Sostanze varie (solventi, traccianti, campioni) 118

5.4 Determinazione dei tempi di ritenzione 122

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5.4.1 Jasco PU-980, UV-975 senza colonna 122 5.4.2 Colonna da 20 cm 123 5.4.3 Colonna da 10 cm 128 5.4.4 HP 1090 senza colonna 130 5.4.5 Colonna da 3cm 131

5.5 Influsso della temperatura sulle analisi cromatografiche con HPLC 135 5.6 Separazione di insulina e interferone 136

5.6.1 Introduzione; iniezione di tiourea nei due solventi 136 5.6.2 Insulina, interferone, miscela di insulina ed interferone nel solvente non adsorbente (acetonitrile e acqua

40:60 + acido fosforico) 139 5.6.3 Insulina, Interferone, Miscela di insulina ed interferone nel solvente adsorbente (acetonitrile e acqua

25:75 + acido fosforico) 143 5.6.4 Confronto tra le analisi col solvente adsorbente e quello non adsorbente, discussione dei risultati,

conclusione 147

6. Bibliografia 151

7. Appendice 153

8. Ringraziamenti 155

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2. Premessa Questo lavoro si articola in due grosse sezioni. Dapprima una lunga parte che si prefigge di presentare la

teoria cromatografica nel suo insieme. In questa prima sezione si parlerà della storia della cromatografia, si

esporranno i principali tipi di cromatografia che si possono eseguire, i metodi con cui questi tipi possono

venire applicati, e ci si concentrerà in modo piuttosto dettagliato sull’HPLC e sulle elaborazioni quantitativo-

matematiche che si possono condurre sui dati così ottenuti. Questa trattazione sull’HPLC sarà fondamentale

per poter capire bene la seconda sezione.

La seconda sezione, infatti, è una relazione degli esperimenti da me condotti su apparecchiature per HPLC,

presso il Liceo cantonale di Locarno (d’ora in poi semplicemente Liceo di Locarno) e presso

“l’Eidgenössische Technische Hochschule” di Zurigo (ETHZ).

Queste due grandi parti sono precedute da un’introduzione, che cerca di meglio spiegare e inquadrare il

presente lavoro, e seguite da una bibliografia e dai ringraziamenti.

A tutti auguro una piacevole lettura, nella speranza che questa possa portare a una conoscenza della

cromatografia, ed in particolare dell’HPLC, e soprattutto che essa permetta al lettore di capire l’importanza

della cromatografia liquida ad alte prestazioni nell’ambito della scienza biologico-chimica contemporanea, in

particolare riferimento alle sue applicazioni farmacologiche.

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3. Introduzione Da sempre l’uomo ha avvertito la necessità di selezionare sostanze o, perlomeno, oggetti. L’uomo primitivo

selezionava i frutti o le bacche che lo potevano nutrire da quelle velenose. L’uomo dell’età del ferro

selezionava le pietre contenenti ferro per poterlo ricavare ed escogitava sistemi di estrazione. L’uomo

contemporaneo seleziona continuamente sostanze isolandole dai miscugli in cui esse si trovano. Pensiamo

alla purificazione del petrolio ed ai processi industriali che portano alla commercializzazione della benzina,

pensiamo però anche più semplicemente al setaccio usato in cucina, o allo scolapasta usato per separare

l’acqua salata usata per la cottura dalla pastasciutta.

Vari sono i metodi utilizzabili per separare miscugli ed isolare sostanze, e compito di chi ha la necessità di

effettuare tale operazione è individuare la tecnica adatta o più appropriata e costruire o procurarsi l’eventuale

apparecchiatura occorrente. È evidente per chiunque che le varie tecniche possibili richiedono tecnologie

diverse, con gradi di complessità anche notevolmente differenti: per una sedimentazione è sufficiente una

vasca, per la purificazione di medicamenti dell’ultima generazione la lista di apparecchi necessari è enorme.

È proprio da quest’ultimo esempio che parte la mia ricerca, che si inserisce in un ben più ampio ed

ambizioso progetto attualmente in corso al Politecnico federale di Zurigo (ETHZ). Per capire di cosa si tratti

devo partire da lontano.

Dopo un secolo di interessanti e sorprendenti sviluppi, capeggiati dalla scoperta e dall’applicazione diffusa

degli antibiotici, la scienza medica si sta oggi proiettando, essenzialmente, verso due linee di ricerca. Da un

lato l’ambito della diagnostica e della medicina per immagini, che sta sempre più rivoluzionando e

ampliando le possibilità diagnostiche ma anche quelle di chirurgia mini-invasiva e della chirurgia

propriamente detta. Dall’altro il perfezionamento di medicamenti sempre più efficaci e mirati, che si

caratterizzino nel contempo per effetti collaterali e problemi di interazione medicamentosa ridotti sempre

più, nel tentativo di raggiungere l’assenza completa di queste complicazioni, frequenti soprattutto per tutte

quelle persone affette da malattie metabolico-degenerative che si presentano spesso come patologie multiple.

Queste richiedono l’uso di molti medicamenti diversi, ognuno con le proprie controindicazioni, con i limiti

della propria farmacocinetica e con le proprie limitazioni di impiego in riferimento alla debolezza di

determinati sistemi del paziente e all’utilizzo contemporaneo di altri medicamenti.

È palese che le soluzioni trovate a queste sfide della ricerca sono per propria natura complesse, e quindi assai

costose. La sfida che si pone è dunque quasi più politica e tecnica che non medica: il problema in cui ci si

imbatte è quasi sempre economico e non umano. Per questo motivo gli scienziati stessi cercano di trovare

metodi produttivi il più economici possibili, che permettano quindi un accesso alle cure quanto più

generalizzato.

Nella produzione di medicamenti dell’ultima generazione, assume particolare rilevanza e diffusione

l’utilizzo delle tecniche dell’ingegneria biomolecolare, che permettono di utilizzare batteri in qualità di

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fabbriche specializzate nel produrre le sostanze desiderate. In particolare, si utilizza la tecnica del DNA-

ricombinante applicata ai plasmidi dei batteri per farli poi lavorare, clonare i geni selezionati e

successivamente produrre le sostanze (generalmente proteine) per le quali il frammento di DNA codifica,

introducendo i geni clonati in cellule di animali. Si opera in questo modo, per esempio con le capre, alle

quali si fa produrre l’enzima tPA (attivatore del plasminogeno tissutale), utilizzato nella cura dell’infarto

miocardico e che le capre “transgeniche” riversano nel loro latte1.

I rapidi progressi seguiti dalla tecnologia del DNA-ricombinante permettono oggi praticamente di produrre

qualsiasi proteina desiderata in una cellula di nostra scelta. In questo modo si apre la possibilità di produrre

“materiali” e sostanze il cui potenziale applicativo è inimmaginabilmente vasto. Un esempio può essere

rappresentato dagli anticorpi monoclonali, utilizzabili per esempio nella cura di alcuni tumori. Questi

anticorpi riescono a produrre un’azione selettiva e senza effetti secondari nella cura di una malattia. La

ricerca si è diretta, quindi, sulla produzione di anticorpi monoclonali simili a quelli umani. Attualmente sono

attorno al centinaio e più i casi in cui questi tipi di anticorpi, per il momento nelle fasi 2 o 3 della ricerca

clinica (ossia in quelle fasi che prevedono la sperimentazione in vivo sugli animali e, rispettivamente, sugli

uomini, ossia su volontari sani), sono indicati.

Tuttavia, al rapido sviluppo della ricerca hanno fatto (e stanno tuttora facendo) riscontro assai limitati

progressi nel campo della produzione. Ciò è vero in particolare per quanto riguarda la separazione e

l’isolamento delle sostanze, per motivi unicamente finanziari. È infatti chiaro che, con l’impiego di animali

transgenici in qualità di “fabbriche di medicamenti”, la separazione delle sostanze assume un ruolo

economico di primaria importanza, per rapporto al costo totale della produzione del farmaco. Infatti, in molti

casi, questa quota sale addirittura fino all’80%2. Inoltre, le norme a proposito della purezza e della sicurezza

dei prodotti diventano sempre più (e sempre più velocemente) precise e severe, cosicché l’attenzione da

prestare all’eliminazione delle sostanze contaminanti e/o indesiderate assume sempre maggiore importanza.

Il metodo correntemente utilizzato è quello della cromatografia liquida ad alta pressione (High Performance

Pressure Liquid Chromatography, HPLC3).

Ora, nel campo dell’HPLC esiste la possibilità di usare vari tipi di cromatografia. In tutti, però, è necessaria

una fase stazionaria. L’ETHZ ha sviluppato un nuovo procedimento per la produzione di una fase stazionaria 1 JOHN H. POSTLETHWAIT, JANET L. HOPSON; Corso di biologia; Etas per le scuole superiori, 1999 2 MASSIMO MORBIDELLI, ALESSANDRO BUTTÉ; Materialien für die Reinigung biologischer Produkte, in

Bulletin ETH Zürich Nr. 295, November 2004, p. 25 3 HPLC fu originariamente la sigla di “High Pressure Liquid Chromatography”, giacché in un primo tempo

si credeva che fosse la pressione il principale fattore alla base delle aumentate possibilità rispetto ai metodi

tradizionali. Tuttavia non è così e, in realtà, le qualità dell’HPLC sono dovute a vari fattori, per cui è

preferibile usare il termine “High Performance Liquid Chromatography”. Per una presentazione dei vantaggi

dell’HPLC rispetto alle tecniche precedenti e dei fattori alla base dell’aumentata performance, si vedano i

capitoli 4.4.3.8-4.4.3.8.11, dedicati all’HPLC.

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solida e sta lavorando per cercare di produrla con sempre maggior precisione, ovvero stabilendo con sempre

maggior precisione le sue caratteristiche – dimensione, forma e struttura dei pori; eventuali loro altre

caratteristiche quali la polarità per un’eventuale applicazione come cromatografia a scambio ionico, o il

potere adsorbente e quello desorbente nel caso di un’eventuale applicazione come cromatografia per

adsorbimento, e così via (v. cap. 4.3 per la descrizione dei citati tipi di cromatografia).

Il tipo di cromatografia concettualmente più semplice è quello della cromatografia ad esclusione, in cui una

fase stazionaria solida funge da setaccio, da filtro attraverso cui si fa scorrere una miscela contenente le

molecole da separare. A titolo intuitivo (e ancora molto generale) ciascuno può capire che più si riuscirà a

stabilire la forma e la grandezza dei pori della fase stazionaria (delle maglie del setaccio) più si potrà

applicare questa tecnica ad ambiti vari ed interessanti.

A questo punto il lettore dovrebbe avere un’idea, seppure ancora vaga, dell’ambito della presente ricerca e di

quella in corso all’ETHZ. Quest’ultima si propone di riuscire a produrre materiali sempre più rispondenti alle

esigenze poste dalla cromatografia, aumentando le sue possibilità di applicazione e proponendola come

tecnica separativa sostitutiva ad altre, oggi praticate, molto più costose. La mia ricerca invece, stimolata da

quella dell’ETHZ, si propone dapprima di presentare in modo organico i vari tipi di cromatografia (teoria

generale sulla cromatografia) e le varie tecniche cromatografiche, in particolare quella su colonna e in

riferimento speciale all’HPLC, e successivamente presentare il lavoro di laboratorio da me effettuato presso

il Liceo di Locarno e l’ETH di Zurigo, che si è concentrato sull’uso di colonne cromatografiche per HPLC

impaccate con i polimeri prodotti dall’équipe del gruppo del prof. Morbidelli dell’ETHZ e dai miei

compagni di lavoro di maturità. La cromatografia da me effettuata è essenzialmente una semplice

cromatografia per filtrazione su gel, un tipo di cromatografia per esclusione, una tecnica separativa

concettualmente paragonabile a quella di un filtro, di un setaccio o di un colino.

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4. Parte I: Cromatografia

4.1 Etimologia e storia La cromatografia, etimologicamente derivata dal greco “khrômatos” (colore) e “graphía” (tratto da

“grápho”, scrivere), significa “scritto in colore”, o “scrittura col colore”. In realtà questo nome l’ha ricevuto

per caso, essendo stata sviluppata da un botanico che si stava occupando dei pigmenti dei cloroplasti. I suoi

principi non hanno nulla a che vedere col colore in sé, sebbene in molti casi le sostanze trattenute

cromatograficamente possono essere distinte grazie ai loro diversi colori o a tecniche di rilevamento

spettrofotometriche. Ma torniamo a noi. Le origini della cromatografia sono relativamente recenti, e

risalgono agli inizi del secolo scorso, più precisamente al 1901-1903, quando il botanico russo Michail

Semenovich Tswett (1872-1919) filtrò una soluzione di sostanze vegetali in una colonna riempita con del

carbonato di calcio, ottenendo una separazione dei pigmenti colorati e realizzando così la prima

cromatografia, che fu una cromatografia per adsorbimento (v. cap. 4.3.1). Tswett infatti la realizzò proprio

perché stava compiendo degli studi sui fenomeni di adsorbimento. Il suo interesse verso di essi era stato

catturato dal fatto che, in generale, i pigmenti dei cloroplasti non possono venire estratti con solventi apolari,

mentre che, una volta estratti, sono solubili in sostanze apolari, come il benzene. L’ipotesi che il botanico

russo avanzò fu che i pigmenti fossero adsorbiti su certi organelli dei cloroplasti, ovvero che i cloroplasti

avessero degli organelli (o comunque delle parti) con delle capacità di adsorbimento, atti cioè a fissare sulla

propria superficie delle molecole, degli atomi o degli ioni. Come vedremo più avanti, oggi si definisce

l’adsorbimento come quel fenomeno che avviene quando un solido o un liquido trattiene sulla propria

superficie delle sostanze (composti, molecole, ioni o altro) grazie a dei legami di tipo covalente o a ponte

idrogeno. È un fenomeno di tipo adsorbente anche quello in cui l’interazione avvenga tra ioni, con la

creazione di legami di tipo ionico. Tuttavia, nel campo cromatografico, si preferisce distinguere questo

fenomeno, concettualmente uguale all’adsorbimento, dandogli un nome proprio, come vedremo in seguito.

Ma torniamo al nostro Tswett. Per dimostrare la sua teoria, egli studiò il comportamento di varie misture di

pigmenti su substrati artificiali, accorgendosi così di avere scoperto una tecnica efficace per separare i

componenti di miscele altrimenti intrattabili.

Tswett però, che era nato ad Asti da madre italiana e padre russo e che aveva studiato a Ginevra, non venne

inizialmente ascoltato dagli scienziati, ai quali le sue procedure di cromatografia su colonna apparvero

troppo “qualitative” per scienziati che indagavano sostanze naturali che dovevano essere ottenute in grandi

quantità, visti i metodi analitici da loro usati. Insomma, quegli scienziati erano un po’ come i bambini, che

sono più impressionati da un esperimento grandioso e con l’uso di complesse apparecchiature che da un

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procedimento che si limiti ad utilizzare pochi granelli di sostanza per scioglierli in soluzione e poi analizzarli

qualitativamente. Dobbiamo però tenerci lontani dalla polemica e ricordarci che il contesto storico, culturale

e scientifico in cui si svolsero questi fatti era diverso dal nostro, e che le nozioni di qualitativo e di

quantitativo potevano anche essere viste in un rapporto di antagonismo, anziché di collaborazione e

reciproco completamento, come dovrebbe essere – credo e spero – oggi. È nostro dovere, invece,

scandalizzarci quando oggi, alla luce di tutte le vicende simili avvenute in passato, la comunità scientifica

ignora ricerche rigorose, accurate e potenzialmente utilissime.

Se la scoperta di Tswett non fu inizialmente considerata con serietà dalla maggior parte degli scienziati, il

suo valore conoscitivo, legato alla qualità più che alla quantità, risaltò qualche anno più tardi, nello scontro

tacito che ci fu tra Tswett e il chimico tedesco Willstätter.

Nel 1901 Tswett aveva dichiarato che la cosiddetta “clorofilla cristallizzabile” era in realtà la miscela di

composti diversi, ossia quelle che noi oggi conosciamo come clorofilla a e clorofilla b. Willstätter però, che

aveva isolato da più di duecento specie diverse sempre la stessa clorofilla, sostenne esplicitamente che essa

era costituita da un unico pigmento. Nel 1912 però (due anni dopo la pubblicazione di “Cromofille dei regni

vegetale e animale” di Tswett, in cui questi spiegava sia le tecniche sperimentali che le proprie conclusioni),

anch’egli ammise che esistevano due tipi di clorofilla, e dimostrò anche che la clorofilla a aveva formula

55 72 5 4C H O N Mg , che la clorofilla b, una forma ossidata della precedente, aveva formula

2-55 70 5 4C H O N Mg e che le due forme avevano uno spettro d’assorbimento diverso. Willstätter, per arrivare

a queste conclusioni, aveva utilizzato le tecniche classiche della chimica organica, senza ricorrere alla

cromatografia. Ciò mise in ombra, per alcuni anni, il contributo scientifico di Tswett, ridotto a curiosità

tecnica. Tuttavia desta qualche perplessità il fatto che Willstätter si fosse fatto tradurre per uso privato il libro

pubblicato nel 1910 da Tswett, e anche il fatto che il chimico tedesco trattò, nell’opera pubblicata assieme ad

A. Stoll nel 1913 a Berlino, dell’impiego di procedure identiche a quelle del chimico russo, criticandone però

l’efficacia conoscitiva per il pericolo di cambiamenti di struttura durante la separazione, pericolo già esposto

peraltro dallo stesso Tswett.

Gli anni però resero onore a Tswett ed alla sua procedura. Nel settembre del 1930, il ventiduenne viennese

Edgard Lederer si recò ad Heidelberg, nel laboratorio diretto dall’allievo prediletto di Willstätter, Richard

Kuhn (1900-1967), per un lavoro di postdottorato. Compito del giovanissimo austriaco era di affrontare i

problemi posti dalle proprietà del pigmento della carota (allora ritenuto omogeneo) e dei composti ad esso

connessi. Lederer si fece aiutare dalla lettura di un libro del 1922 sui carotenoidi dell’americano L.S. Palmer,

che faceva riferimento al volume di Tswett. Lederer chiese a Kuhn informazioni su Tswett, e Kuhn gli fece

avere quella stessa “traduzione privata” che era stata di Willstätter. Nel dicembre del 1930 (ossia a soli tre

mesi dal suo arrivo ad Heidelberg), il giovane viennese applicò le procedure di Tswett sul colorante del

tuorlo d’uovo e dimostrò che era costituito da carotenoidi ossigenati. Nella primavera successiva pubblicò

poi (insieme a Kuhn e a Winterstein) vari lavori, in cui si descriveva una tecnica preparativa che impiegava

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colonne di carbonato di calcio, come quelle usate e illustrate da Tswett vent’anni prima. Le fotografie di

cristalli di β-carotene sanzionarono poi il valore epistemologico della cromatografia.

4.2 La cromatografia, introduzione La cromatografia è una tecnica fisico-chimica per la separazione di sostanze disciolte in soluzione. La si può

collocare nell’ambito conoscitivo dell’analisi chimica strumentale. In realtà la cromatografia, in quanto

tecnica di separazione di sostanze, ha due funzioni: quella analitica, appunto, e quella produttiva, che si

sfrutta quando da una miscela si vuole isolare una o più sostanze da commercializzare.

In modo un po’ più scientifico, ma sempre ancora in termini generali, si può definire la cromatografia “come

quella tecnica per la separazione di una miscela di soluti (in soluzione), in cui la separazione si produce per

una differente velocità di spostamento dei singoli soluti in seno a un mezzo poroso sotto l’azione di un

solvente in moto”4.

Il principio generale di ogni procedimento cromatografico è il seguente. Si hanno due elementi, chiamati

fasi, uno che scorre nell’altro. Nelle prime cromatografie realizzate, il mezzo che scorreva era liquido o

gassoso, mentre l’altro era solido, ossia un mezzo era in movimento e l’altro era fisso. Per questo motivo si

parla, correntemente, di fase stazionaria e di fase mobile. Si ha poi la o le sostanza/-e da identificare e/o

separare, presenti in soluzione nella fase mobile, che passando attraverso (e/o a contatto con) la fase

stazionaria, permetterà ai soluti contenuti di interagire con quest’ultima. La fase mobile è l’insieme del

solvente e dei soluti. Mi preme precisare che, per quanto noi non tratteremo in questa esposizione tali tipi di

cromatografia, esistono delle tecniche che prevedono una fase stazionaria in movimento, allo scopo di

aumentare la velocità di scorrimento e di migliorare la risoluzione. Tali tecniche sono la cromatografia a letto

mobile e quella a letto mobile simulato (SMB).

Nel caso di uno scolapasta, potremmo dire, estendendo un po’ il concetto cromatografico e immaginando di

recuperare l’acqua scolata estraendone il sale, che lo scolapasta è la fase stazionaria; l’acqua il solvente; la

pasta e il sale le sostanze da separare e identificare; l’acqua, la pasta e il sale nel loro insieme la fase mobile.

Esistono vari modi per classificare le categorie cromatografiche. Quello più chiaro, indicato

successivamente, è quello di distinguere da un lato i tipi di cromatografia, e dall’altro i modi in cui si

possono realizzare, praticamente, le separazioni cromatografiche. Un altro modo, però, che non entra

necessariamente in concorrenza con gli altri due ma che vi si può anche aggiungere, a loro completamento, è

proprio quello di distinguere alcune tipologie di cromatografia a seconda dello stato (fisico) delle fasi

4 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 1

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stazionaria e mobile. Si definiranno così la cromatografia liquido-liquido, la cromatografia solido-liquido, la

cromatografia liquido-gas, e così via.

Le possibilità che si hanno sono le seguenti: la fase stazionaria può essere solida, liquida o solida/liquida,

mentre la fase mobile può essere liquida o gassosa, e scorrerà attraverso la fase stazionaria.

La cosiddetta gascromatografia, citata anche in seguito, è difficile da collocare nelle categorie più avanti

presentate proprio perché la sua caratterizzazione deriva da questo tipo di suddivisione (ovvero è una

cromatografia in cui la fase mobile è allo stato aeriforme).

Ma torniamo a noi o, meglio, al principio generale, valevole per qualsiasi cromatografia, ossia alla presenza

di due fasi.

È importante dire che è fondamentale, affinché si possa effettuare una cromatografia, che le due fasi siano tra

loro immiscibili.

La grandezza base che si può definire per tutte le tecniche cromatografiche è quindi il cosiddetto coefficiente

di ripartizione (o coefficiente di distribuzione) dK , che descrive il modo in cui il soluto si distribuisce tra le

due fasi immiscibili. Esso è semplicemente definito come il rapporto tra le concentrazioni del soluto nelle

due fasi:

concentrazione nel solvente Aconcentrazione nel solvente B

=dK (per una sostanza posta in due volumi uguali di solvente A e B).

Questa formula è generale, e vale anche tra due fasi qualsiasi, per esempio solido/liquido, o gas/liquido. Nel

caso della cromatografia possiamo dunque scrivere, più generalmente e più correttamente:

dFsFmFsFm

d KCCCC

K ⋅=⇔= , dove (eq. 1)

FmC è la concentrazione nella fase mobile,

FsC è la concentrazione nella fase stazionaria e

dK è il coefficiente di ripartizione (/distribuzione) definito nella formula qui riportata.

Quest’ultimo è caratteristico per ogni sostanza analizzata e per ogni istante t considerato (oppure, giacché

passando il tempo la fase mobile scorre nella colonna, per ogni tratto di colonna considerato, ma è preferibile

riferirsi al tempo, siccome altrimenti si aprirebbe il problema sul modo in cui “sezionare” la colonna, ossia su

quanti e quanto grandi definire i tratti). Ne risulta quindi, in un grafico che abbina il coefficiente di

ripartizione (sull’ordinata) e il tempo (sull’ascissa), una retta descritta con una funzione di primo grado. Il

coefficiente di ripartizione è costante a temperatura costante, per cui tale funzione può anche prendere il

nome di isoterma di ripartizione.

Si può meglio capire quanto spiegato riferendosi ad un esempio. Prendiamo tre diverse specie molecolari

(che chiamiamo A, B e C), ognuna con un coefficiente di ripartizione diverso, rispettivamente 2=AdK ,

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1=BdK e 2,0=

CdK . Otterremo un grafico come quello che segue, che descrive la concentrazione della

specie considerata nelle due fasi:

Figura 1

Ora che abbiamo presentato il coefficiente di ripartizione, possiamo esprimere la frase sopra riportata relativa

all’immiscibilità delle due fasi in questo modo, più matematico:

l’equilibrio tra le fasi stazionaria e mobile deve essere tale che FmFs dd KK ≠ .

Lo stesso rapporto descritto dall’equazione 1 può essere espresso dall’equazione qui riportata:

ms FF KCC = (eq. 2)

Queste due equazioni, che presentano sostanzialmente lo stesso rapporto (anche se inverso), rappresentano

una legge limite, ossia una descrizione teorica da cui nella pratica ci si discosta. Questa formula, infatti,

trascura i possibili fenomeni di saturazione della fase stazionaria, ed è chiaro che se un tratto di colonna

presenta una fase stazionaria satura non sarà possibile, su quel tratto, una ripartizione, ma l’analita rimarrà

sciolto nella fase mobile, almeno finché incontrerà un tratto insaturo. Il comportamento reale è descritto

dall’equazione di Langmuir:

FmFm

Fs CBCAC⋅+

⋅=

1, dove (eq. 3)

A e B sono delle costanti empiriche.

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Pagina 13

Isoterme di ripartizione secondo Nernst (comportamento ideale) e secondo Langumuir (comportamento reale)

Figura 25

Mi preme precisare che sia le equazioni 1 e 2, sia l’equazione 3 sono costanti a temperatura costante, e

quindi tutte e tre prendono entrambe il nome di isoterme di ripartizione. È dunque chiaro che, per conoscere

il comportamernto di una data sostanza, bisognerà tracciare più isoterme, a varie temperature.

Per chiarezza occorre subito dire che esistono vari tipi di cromatografia e vari metodi cromatografici. È

importante distinguere bene questi due termini, che non sono sinonimi: da un lato abbiamo le tecniche,

dall’altro le tecnologie con cui queste tecniche possono venire impiegate.

I tipi di cromatografia, ossia le tecniche cromatografiche, sono cinque:

· cromatografia per adsorbimento

· cromatografia per ripartizione

· cromatografia a scambio ionico

· cromatografia ad esclusione

· cromatografia per affinità

I metodi in cui si possono realizzare, nella pratica di laboratorio, le separazioni cromatografiche sono invece

tre:

· cromatografia su colonna

· cromatografia su strato sottile

· cromatografia su carta.

5 Immagine tratta da G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia

editori; Milano; 1979; p. 433 (Fig. XIII.5)

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Pagina 14

La gascromatografia è un procedimento cromatografico che, per evidenti motivi, può essere condotto

unicamente su colonna. Esso può sfruttare uno o più tipi di cromatografia tra i cinque sopra elencati. In

questo lavoro non verrà trattata la gascromatografia.

Vediamo ora una per una le possibili tecniche cromatografiche.

4.3 I t ipi di cromatografia

4.3.1 CROMATOGRAFIA PER ADSORBIMENTO Essa si basa sull’equilibrio d’adsorbimento tra una fase stazionaria solida e una fase mobile liquida o gassosa

(meglio sarebbe dire aeriforme). Un adsorbente è un solido che ha la proprietà di tenere legate delle molecole

sulla propria superficie. Tale capacità aumenta se il solido è poroso, ossia finemente diviso e con una

superficie ampia.

Si presti attenzione al fatto che l’adsorbimento è un fenomeno di tutt’altro genere dell’assorbimento, essi non

vanno confusi. Se l’assorbimento è la penetrazione di una sostanza nella massa di un’altra, l’adsorbimento è

un fenomeno superficiale, che comporta una più alta concentrazione all’interfaccia tra le due fasi (ossia sulla

superficie della fase stazionaria) che non nel mezzo circostante.

L’adsorbimento è in genere abbastanza specifico per ogni sostanza, e quindi un soluto può venire

selettivamente adsorbito a partire da una miscela etero- o omogenea. La cromatografia per adsorbimento non

fa infatti altro che sfruttare, per ottenere una separazione, piccole differenze nell’adsorbimento e

desorbimento delle sostanze tra un solvente in moto (liquido o gassoso) e una fase stazionaria solida.

Altrimenti detto, il solvente percola attraverso la fase stazionaria e fenomeni di adsorbimento selettivo tra

adsorbente e solvente determinano quella che viene chiamata migrazione differenziale delle sostanze da

separare.

In conclusione di questo capitolo vedremo meglio come in realtà la cromatografia per adsorbimento su

colonna consista non in una sola, ma in tre fasi distinte. Per ora, tuttavia, e per poter seguire con chiarezza

tutte le osservazioni relative ai materiali usati per gli adsorbenti e per i solventi, basta considerare quanto qui

detto, ossia quella che in realtà è la prima fase della cromatografia per adsorbimento.

La cromatografia per adsorbimento può essere eseguita su colonna o su strato sottile.

Affinché all’adsorbimento non si sommino gli effetti della ripartizione (v. sotto, cap. 4.3.2) è necessario che

il materiale adsorbente utilizzato per la fase stazionaria sia anidro (ossia privato di acqua, “disidratato” per

usare una terminologia del linguaggio corrente).

Nel campo cromatografico, il termine adsorbimento viene associato a quelle interazioni, che si instaurano tra

la fase stazionaria e i soluti presenti nella fase mobile, causate da legami a ponte idrogeno o covalenti, e dalle

più deboli forze elettrostatiche. Quando le interazioni sono di carattere ionico, al processo si dà il nome di

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scambio ionico. Si considerano questi due tipi di cromatografia - adsorbimento e scambio ionico - come

distinti in quanto differenti da un profilo realizzativo e pratico, ma concettualmente la base è la stessa, ed è

quella appena esposta.

Ma vediamo un po’ meglio cosa avvenga durante il fenomeno d’adsorbimento. Ora, i siti adsorbenti, detti

anche siti attivi (con una terminologia che ricorda quella usata in biologia per gli enzimi), nei materiali tipo

gel di silice e allumina (i materiali adsorbenti più usati6) sono dovuti soprattutto alla presenza di difetti di

struttura (fratture, spigoli, ecc.), dove le forze elettrostatiche del reticolo cristallino della fase stazionaria

sono parzialmente rivolte verso l’esterno. In questo modo, queste forze possono interagire con le forze

elettriche delle molecole di soluto, dando così luogo al fenomeno dell’adsorbimento. È evidente che quanto

più è grande la separazione di carica nelle molecole di soluto, ossia quanto è più grande la loro polarità, tanto

più grande sarà la forza adsorbente.

Nella pratica di laboratorio, la cromatografia per adsorbimento liquido/solido si applica con i migliori

risultati a sostanze di polarità media o bassa. Questo è facilmente intuibile, giacché sostanze molto polari

vengono adsorbite e trattenute nel primo tratto della colonna.

In un sistema cromatografico per adsorbimento, si devono considerare tre variabili indipendenti:

l’adsorbente, il solvente e le sostanze che devono essere cromatografate. Le separazioni sugli adsorbenti

sono dovute al fatto che si stabilisce un equilibrio tra le molecole adsorbite sulla fase stazionaria e quelle

libere nel solvente in moto (eventualmente precedentemente già adsorbite e poi desorbite), con molecole

singole che passano da una fase all’altra. Si tratta infatti, come sempre in chimica, di un equilibrio dinamico,

non statico. Chiaramente, se le molecole di un particolare componente presentano grande affinità per

l’adsorbente, tale componente si muoverà solo lentamente lungo la colonna (o sullo strato sottile), mentre un

altro componente, con minore affinità, si muoverà più rapidamente e, nel caso di una cromatografia su

colonna, uscirà prima dalla colonna. Compito del cromatografista è dunque scegliere il sistema di adsorbente

e solvente adatto, in modo da avere la migliore separazione per una miscela data. Una regola generale è

quella di accoppiare la polarità del solvente con quella del campione e di impiegare adsorbenti più potenti (o

più attivi che dir si voglia) per le sostanze apolari o poco polari, e gli adsorbenti meno attivi per le sostanze

più polari7.

Per quanto concerne la scelta del solvente, si può capire la regola considerando quanto segue. Da un lato è

chiaro che è impossibile sciogliere una miscela altamente polare in un solvente completamente apolare, in

quanto si sa che vale la regola semplice ma efficace del “simile scioglie il simile”. Dall’altro c’è anche un

altro fattore da considerare. Anche se la differenza di polarità, per quanto grande, permettesse comunque una

certa solubilità, bisogna tenere infatti presente che, se scegliessimo un solvente polare per una miscela di

sostanze apolari, otterremmo che le molecole di solvente si adsorbiranno preferenzialmente, e così il 6 secondo DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano,

p. 14 7 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 15

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campione si muoverà rapidamente lungo il sistema, senza che la miscela si separi nei suoi componenti.

Viceversa, se usassimo un solvente apolare per una miscela polare, la miscela si adsorbirebbe all’inizio e

anche in questo caso non avverrebbe nessuna separazione.

Per quanto attiene alla polarità della fase mobile, si dica qui ancora che, in generale, la sua polarità è

paragonabile a quella dell’analita più polare presente nella miscela da separare. Come risulta però chiaro al

lettore attento, si tratta di una semplificazione estrema, forzatamente semplicistica, che non considera quindi

i possibili “giochi” nell’accoppiamento tra analiti e solventi appena esposti. Tuttavia, come primo elemento

di valutazione, per lo studente curioso e desideroso di sperimentare che si trova però alle prime armi, questa

considerazione mantiene il suo valore.

È chiaro anche il ragionamento che determina la scelta degli adsorbenti. Essa viene effettuata in modo da

adattare la forza dell’adsorbente alla polarità dei campioni. Se infatti avessimo un adsorbente molto polare

per una miscela contenente componenti anch’essi assai polari, tutta la miscela tenderebbe ad adsorbire

all’origine del sistema cromatografico, e non otterremmo nessuna separazione. Viceversa se avessimo una

miscela apolare accoppiata ad un adsorbente apolare. Calibrando invece la forza dell’adsorbente in modo da

compensare la polarità della miscela, si riesce a raggiungere la giusta via mediana che permette ai vari

componenti della miscela di venire adsorbiti in modo diverso, e che fa sì che la polarità dell’adsorbente sia

situata proprio nello spettro che meglio distingue i vari componenti.

Per facilitare la scelta opportuna dei solventi e degli adsorbenti, sono state preparate delle tabelle, facilmente

consultabili. Esse però possono trarre talvolta in inganno, giacché esistono delle eccezioni, ossia può talvolta

capitare che si verifichino delle inversioni, specialmente tra due particolari solventi (meno sovente tra due

materiali adsorbenti)8.

Teoricamente, qualsiasi liquido può venire usato come solvente nella cromatografia per adsorbimento, e si

possono a tal scopo utilizzare anche miscele di due o più liquidi diversi, per esempio di differenti polarità.

Così, il numero dei solventi utili, per il cromatografista, si amplia assai. Non così per gli adsorbenti utili.

Questi sono molti meno.

La maggior parte dei solidi usati per la cromatografia per adsorbimento (su strato sottile o in colonna) sono

ossidi metallici, ossidi idrati e sali. Alcuni esempi possono essere l’acido silicilico (o gel di silice), l’ossido

d’alluminio (o allumina, di formula 2 3Al O ), carbonato di calcio, carbonato di magnesio, carbonato di zinco,

ossido di magnesio, cellulosa e idrossiapatite (o, più semplicemente, fosfato di calcio). Quest’ultima, in

particolare, è l’adsorbente più comunemente usato per la separazione di proteine, acidi nucleici e virus,

perché possiede proprietà di scambio ionico, che migliorano la separazione. Si tratta cioè già di una

cromatografia per scambio ionico (vedi quanto accennato sopra e il cap. 4.3.4).

8 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 15

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Molti adsorbenti tendono ad assorbire (si faccia attenzione che ci stiamo qui riferendo all’assorbimento, e

non all’adsorbimento) l’umidità dell’aria, mutando così le loro proprietà. Bisogna allora scaldare

l’adsorbente a 110°C per il tempo necessario per rimuovere l’acqua e rendere così anidra la fase stazionaria.

A proposito dello scarso numero di adsorbenti utili, si consideri che ho qui indicato, a titolo quasi di

curiosità, una lista dei possibili materiali adsorbenti, ma quelli comunemente impiegati sono essenzialmente

due: il gel di silice e l’allumina9.

In pratica, infatti, si usano questi due adsorbenti, e si alterano poi i solventi o si varia il potere adsorbente

dell’adsorbente utilizzato (fra questi due), di solito “giocando” con quantità controllate di acqua. Infatti,

come già detto qualche riga sopra, la presenza più o meno marcata di acqua negli adsorbenti cambia le loro

proprietà. La forma anidra è quella più attiva, e viene preparata (come detto sopra) per forte riscaldamento,

allontanando così tutta l’acqua per semplice evaporazione, e tutti i contaminati organici. Viceversa, i gradi di

attività minore si producono aggiungendo quantità ben determinate di acqua. Quest’ultimo procedimento

prende il nome di deattivazione.

La forma anidra è quella “standard”, la forma normalmente usata in cromatografia10, in quanto, quando fosse

presente dell’acqua, agli effetti dell’adsorbimento si sommerebbero quelli della ripartizione, e in questo caso

non si tratterebbe più di una cromatografia per adsorbimento “pura”, ma di una cromatografia che combina la

cromatografia per adsorbimento e quella per ripartizione. Ciò non toglie, tuttavia, che in uno stadio

applicativo più complesso non si possano combinare queste due tecniche cromatografiche in un’unica

separazione, col vantaggio di poter variare anche il potere adsorbente dell’adsorbente impiegato.

Come si potrà meglio capire al termine del capitolo sulla cromatografia per ripartizione (cap. 4.3.2), infatti,

“rivestendo le particelle con una piccola quantità di una fase liquida, è possibile combinare le capacità di

separazione dell’adsorbimento e della ripartizione”11

Si ricordi che “gli adsorbenti, con la loro altissima area superficiale, spesso agiscono come potenti

catalizzatori e in alcuni casi possono dar luogo durante la separazione a importanti trasformazioni chimiche

nei composti di una miscela”12.

9 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 16 10 Molti testi dicono semplicemente che la colonna (o lo strato sottile) viene riempita (/viene preparato) con

materiale adsorbente anidro. Così, per esempio, G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e

tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p. 429, o http://www.pacifici-

net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html . Noi stessi, in questo stesso capitolo,

abbiamo inizialmente spiegato che il materiale adsorbente deve essere anidro, per evitare una

sovrapposizione degli effetti dell’adsorbimento e della ripartizione. 11 Ibidem, p. 17 12 Ibidem, p. 16

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Vorrei ancora ricordare che, essendo ogni cromatografia caratterizzata anche dal coefficiente di ripartizione

sopra definito, anche nel caso della cromatografia per adsorbimento la separazione non dipende solo dal

potere adsorbente della fase stazionaria, ma anche dall’equilibrio di ripartizione tra la fase mobile e quella

stazionaria, definito appunto dal coefficiente di ripartizione. In particolare, sarà consigliabile far sì che la

sostanza più adsorbita sia anche la meno solubile nell’eluente utilizzato per il trasporto.

Si presti inoltre attenzione al fatto che il potere adsorbente della superficie della fase stazionaria decresce

all’aumentare del carico, poiché i siti più attivi vengono occupati per primi, e sul cromatogramma (nel caso

di una cromatografia su colonna) si presenterà una coda, in quanto le molecole adsorbite facilmente

accessibili si desorbiranno velocemente, mentre quelle situate in zone per così dire più discoste si

desorbiranno più tardi, dando origine allo scodamento. Si cercherà quindi di ottenere un rapporto adsorbente

: campione il più alto possibile.

Una ragione dell’interesse del gel di silice per la cromatografia per adsorbimento risiede proprio nella sua

capacità molto alta di separare una grande quantità di miscela, ossia di sopportare un alto carico di sostanza

da analizzare o produrre.

Come promesso in apertura di capitolo, prima di concludere la presentazione della cromatografia per

adsorbimento, do una rapida ma più completa spiegazione di come avvenga, praticamente, una cromatografia

per adsorbimento su colonna.

Essa consiste, come preannunciato, di tre fasi.

La prima, già esposta, è quella in cui si fa percolare la fase mobile attraverso quella stazionaria, lasciando

“lavorare” le interazioni di adsorbimento e di desorbimento selettivi.

La seconda, che prende il nome di sviluppo, è volta a rendere ben netta la separazione, che per il momento

non è ancora così “nitida”, né definitiva. Per renderla tale, si fa percolare attraverso la colonna un flusso di

solo solvente (lo stesso di prima o anche uno diverso), per riportare in soluzione i componenti più solubili e

depositarli poi in modo definitivo a seconda della loro rispettiva adsorzione, localizzando così i vari

componenti in modo definitivo in zone ben distinte della colonna.

Per finire, occorre prelevare i vari componenti. Le tecniche possibili sono due.

Una è quella dell’eluizione, che consiste nel far percolare attraverso la colonna solventi adeguati per

riportare in soluzione, uno alla volta, i vari componenti. Se si effettuerà una cromatografia a scopo

preparativo si avrà cura di raccogliere i componenti (chiamati ora anche eluiti) in recipienti separati. Se

invece si effettuerà una cromatografia a scopo analitico, basterà inviare gli eluiti (o anche il flusso di eluente

raccolto in fondo alla colonna, se si vuole lavorare in continuo) ad un apparecchio spettro fotometrico, o

eventualmente al proprio occhio se si riuscissero ad identificare i componenti ad occhio nudo, o ancora

raccogliendo campioni da sottoporre a determinati test chimici se non fosse possibile identificare altrimenti

le varie sostanze separate cromatograficamente.

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La seconda tecnica utilizzabile è quella dell’estrusione, consistente nell’estrazione dalla colonna dell’intero

materiale di riempimento (chiamato carota) e nella separazione (mediante spatola o coltello) delle varie

bande.

4.3.2 CROMATOGRAFIA PER RIPARTIZIONE La cromatografia per ripartizione prevede di separare miscele di sostanze, sfruttando la ripartizione tra un

solvente in movimento e un liquido stazionario, aderente ad un supporto solido. Il solvente può essere un

liquido (e si avrà così una cromatografia liquido/liquido) o un gas (e si avrà così una cromatografia

gas/liquido). Da un punto di vista teorico queste due tecniche sono strettamente legate, ma i loro dettagli

pratici sono diversi. Avendo deciso di non trattare la gascromatografia, ci concentriamo qui sulla

cromatografia per ripartizione liquido/liquido. Quest’ultima può venire eseguita su colonna, su strato sottile o

su carta.

Qualsiasi mezzo venga impiegato, sempre vi è un solvente (che, assieme alle sostanze da analizzare,

costituirà la fase mobile) e un materiale che fungerà da supporto per l’acqua (questo supporto, assieme

all’acqua, costituirà la fase stazionaria). Di conseguenza, la cromatografia per ripartizione liquido/liquido è

usata soprattutto per la separazione di sostanze solubili in acqua. Il principio stesso della ripartizione

prevede, infatti, di sfruttare la diversa solubilità degli analiti nelle due fasi, vale a dire nel solvente della fase

mobile e nell’acqua della fase stazionaria. Se dunque più di una sostanza da analizzare non fosse solubile in

acqua, il processo cromatografico sarebbe inutile, perché tali sostanze uscirebbero dal loro percorso senza

essersi separate, ma sempre ancora completamente sciolte nel solvente.

L’acqua, o più in generale il liquido posto sul supporto scelto, verrà “intrappolata” sul supporto, non potrà

cioè muoversi. Per questo motivo, acqua e supporto (assieme) costituiscono la fase stazionaria. Sopra di essa

fluiscono invece il solvente e gli analiti ivi disciolti, che formano la fase mobile.

Ora, come già accennato, nella cromatografia per ripartizione “pura” (ossia quella dove l’unico fenomeno

sfruttato è quello della ripartizione), l’unico fattore ad influenzare il movimento di un analita è la solubilità

relativa dell’analita stesso nella fase stazionaria e nella fase mobile. Sostanze solubili solo nel solvente

migreranno per un percorso uguale a quello compiuto dal fronte del solvente, mentre composti solubili solo

nella fase stazionaria rimarranno al punto di partenza. In realtà, spesso al fenomeno di ripartizione se ne

sommano altri, come l’adsorbimento, per cui la separazione è influenzata da più fattori.

Possiamo immaginarci la carta, lo strato sottile o la colonna come una fila di cellette adiacenti (sebbene

l’aggiunta di solvente sia continua). Nel caso di una cromatografia su colonna tali cellette prenderanno il

nome di piatti teorici, e il loro numero (o la loro lunghezza) saranno una caratteristica importante della

colonna stessa, come vedremo più avanti. Appena la fase mobile raggiunge la prima cella, le sostanze

contenute nel solvente in moto si ripartiranno tra le due fasi secondo la legge di ripartizione (v. eq. 1). Il

solvente si muoverà di nuovo, proseguendo il suo percorso, incontrando così un’altra cella contenente (per il

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momento) solo il liquido della fase stazionaria (per es. acqua), mentre altro solvente (nuovo) verrà in

contatto con la prima cella, su cui avrà luogo una seconda ripartizione. Questo processo è noto come

distribuzione in controcorrente.

Prendiamo ad esempio, per meglio illustrare quanto esposto, una miscela di due sostanze, che chiamiamo A e

B. Effettuiamo una cromatografia su carta, e come liquido per la fase stazionaria usiamo dell’acqua.

Mettiamo che A abbia un coefficiente di ripartizione tra la fase stazionaria e quella mobile di 2:1, e che il

coefficiente di ripartizione di B sia 1:2. Possiamo vedere una rappresentazione di ciò che abbiamo sopra

spiegato nella seguente figura, in cui i cerchietti neri rappresentano molecole della sostanza A e le crocette

quelle della sostanza B:

Ripartizione, disegno

Figura 313

Dopo dieci ripartizioni (ossia dopo che il solvente abbia incontrato dieci cellette), si otterrà un grafico simile

al seguente:

13 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 6 (fig. 1)

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Ripartizione, grafico

Figura 414

Come si può vedere, le due sostanze hanno già cominciato a separarsi. Ripetendo questo processo molte

volte, si darà luogo ad una netta separazione delle due sostanze.

Fondamentale e fondante è la proprietà che segue: con un determinato sistema cromatografico, il movimento

di un qualsiasi composto rispetto al fronte del solvente è una proprietà riproducibile e caratteristica di tale

composto.

Nel caso di una cromatografia su carta o su strato sottile si può esprimere questa proprietà con una grandezza

appositamente definita, chiamata fR e definita da

shR f = , dove (eq. 4)

h è la distanza percorsa dalla sostanza (ossia distanza della macchia relativa ad un analita dalla linea di

partenza)

s è la distanza percorsa dal fronte del solvente15.

14 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 6 (fig. 1) 15 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 31

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Pagina 22

Questa grandezza è una misura della velocità con cui la sostanza, sotto l’azione del solvente, è migrata lungo

la carta.

fR è influenzato, oltre dal solvente, dalla temperatura, dalla fase stazionaria e dalle particolari condizioni

operative. Poiché il valore assoluto dell’ fR è spesso assai influenzato da queste variabili, è preferibile

ricorrere alla determinazione di fR relativi. Per farlo, si unisce al campione una sostanza di riferimento, che

appartenga alla stessa categoria di composti da separare e il cui fR sia noto. Sia H lo spostamento della

sostanza di riferimento dalla linea di partenza ed X, Y, Z le distanze da detta linea di tre sostanze separate.

Gli fR relativi di queste sostanze saranno, rispettivamente:

HXR fX = ;

HYR fY = ;

HZR fZ = .

Gli fR relativi si possono anche indicare con xR 16 e sono per esempio spesso utilizzati nel campo degli

zuccheri, dove si è soliti riferirsi al glucosio, impiegando – in luogo di valori di fR , valori di GR 17.

Conosciuto l’ fR relativo di una sostanza A e l’ fR assoluto della sostanza di riferimento, si può risalire

all’ fR assoluto di A per il tramite della semplice relazione:

.... rifsostassrelass fff RRR ⋅= 18 (eq. 5)19

Per la cromatografia su colonna, invece, i valori di fR non hanno la stessa rilevanza, giacché non è

possibile identificare con facilità la posizione del fronte del solvente, né quella dei composti nella colonna.

Nel caso di una cromatografia su carta o su strato sottile si può ricorrere, per realizzare separazioni più

complete e nette, alla cromatografia bidimensionale. In pratica non si fa altro che eseguire, in successione,

dapprima un cromatogramma monodimensionale e poi, ruotando il foglio di 90°, un secondo

cromatogramma, utilizzando – all’occorrenza – anche un solvente diverso. Ne risulterà un cromatogramma

bidimensionale, dove le macchie non risolte dal primo cromatogramma lo saranno, di certo, dal secondo. La

carta cromatografata per la prima volta viene infatti asciugata, girata di 90° e sviluppata nuovamente. In tal

modo il cammino percorso dalle macchie viene notevolmente allungato. Vantaggio della cromatografia

bidimensionale è dunque quello di un risultato migliore. Una sostanza così cromatografata può essere

16 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p.32 17 Ibidem 18 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979; p.

437 19 cfr.

.. solrelass fff RRR ⋅= (G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia

editori; Milano; 1979; p. 437)

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Pagina 23

identificata confrontando la sua posizione con quella di una sostanza standard (sia posta sullo stesso

cromatogramma, sia cromatografata su un altro cromatogramma bidimensionale, preparato allo stesso

modo).

Figura 520

21

20 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano; p. 33 (fig. 14) 21 Immagine tratta da http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html

direzione di flusso

d l i l t

direzione

di flusso

del

separazione

se viene

usato solo

il secondo

separazione

se entrambi

i solventi

vengono

separazione

se viene

usato solo

il primo

Figura 6

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Pagina 24

Benché nelle cromatografie per ripartizione la cellulosa e il gel di silice agiscano semplicemente come

supporto dell’acqua (o di un altro liquido impiegato nella realizzazione della fase stazionaria), tuttavia essi

presentano caratteristiche peculiari diverse, che ne consigliano l’impiego nei singoli casi.

La cellulosa è un polimero del glucosio, e presenta per questo motivo un certo numero di gruppi ossidrile

(-OH). La cellulosa è perciò polare, ed è dunque indicata per le separazioni delle sostanze solubili in acqua,

quando l’adsorbimento non è desiderato.

Il gel di silice invece possiede in una certa misura le caratteristiche di un adsorbente. Esso è preparato

facendo reagire dell’acido cloridrico concentrato (HCl) con una soluzione di silicato di sodio. Per via della

sua natura inorganica, il gel di silice è indicato quando si richiedano metodi corrosivi per la rivelazione (è per

esempio il caso della cromatografia su strato sottile), ma anche per la separazione di sostanze solubili in

acqua, ma meno polari, quando cioè l’adsorbimento va ad influenzare il risultato.

Si vede bene come il concetto di polarità, così centrale in chimica, sia di grande rilevanza pure nel campo

cromatografico. A tale proposito, occorre aggiungere ancora due informazioni. La prima è che “il carattere di

adsorbimento delle molecole aumenta all’aumentare della polarità”22. La seconda è invece che “la polarità

delle sostanze aumenta quando esse vengono sciolte in solventi polari”23. Per questo motivo è possibile che

la polarità dei componenti di una miscela sia molto più grande in una cromatografia liquido/liquido che non

in una cromatografia gas/liquido. Infatti, non essendoci nella gascromatografia un solvente (ma

semplicemente il campione allo stato aeriforme, trasportato in un gas inerte), non vi è nessuna interazione

tra sostanze, cosa che invece avviene tra i soluti e il solvente costituenti la fase mobile di una cromatografia

liquido/liquido24.

22 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p.9 23 Ibidem 24 La gascromatografia (in sigla GC), al di là di questo fatto (ossia che non aumenta la polarità delle molecole

da separare, e quindi risulta meno indicata in analisi per adsorbimento in cui si desidera separare molecole

polari), presenta, per rapporto all’HPLC (v. capp. 4.4.3.8-4.4.3.11), un grosso vantaggio e due importanti

svantaggi. Il pregio della GC è che, utilizzando dei rivelatori molto sensibili e non avendo un solvente in cui

il campione è disciolto, questa tecnica permette di recuperare campioni estremamente puri. I punti a sfavore

della GC sono invece che le quantità iniettate sono infime, e ciò rende difficile un loro recupero in

separazioni svolte a scopo produttivo (e, oltre a ciò, occorre spesso azoto liquido per raffreddare le sostanze

da recuperare), e che si ha una bassa produttività. Ossia – essendo piccole le quantità iniettate e separate –

occorre ripetere il procedimento moltissime volte per ottenere quantitativi di rilevanza industriale o

farmacologia. Ciò rende le separazioni produttive con GC molto lunghe e costose.

Da tutto ciò risulta che la GC è un ottimo metodo di analisi, ma è un procedimento separativo di poco

interesse: per le separazioni si preferisce usare l’HPLC.

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4.3.3 CROMATOGRAFIA A FASE NORMALE E A FASE INVERSA In particolare riferimento alla tecnica cromatografica per ripartizione, ma anche (in minor misura) a quella di

adsorbimento (dove comunque avviene spesso anche una ripartizione e dove la polarità delle due fasi

influisce in modo fondante sulla ritenzione selettiva dei campioni), esistono due tecniche diverse, utilizzate a

dipendenza della polarità delle due fasi e dei composti da analizzare: la cromatografia a fase normale e la

cromatografia a fase invertita, detta anche cromatografia a fasi invertite25.

Nella cromatografia a fase normale, il letto della fase stazionaria è piuttosto fortemente polare (per es. gel di

silice), mentre la fase mobile è apolare (per es. normal-esano, o tetraidrofurano26). Campioni polari sono così

trattenuti sulla superficie polare della fase stazionaria più a lungo dei materiali meno polari.

Nella cromatografia a fase inversa, invece, la situazione è invertita: il letto della fase stazionaria è apolare (o

idrofobico) mentre la fase mobile è polare (per es. una miscela di acqua e metanolo o acqua ed acetonitrile27).

In questo modo, più il materiale è apolare, più sarà ritenuto a lungo.

Si potrà meglio capire questa distinzione e, soprattutto, l’utilità di questi due metodi possibili, in riferimento

ad un esempio concreto. Prendiamo una cromatografia su carta, in cui la striscia di carta costituente la fase

stazionaria è impregnata di acqua e il solvente ha una polarità associata a quella della miscela contenente i

campioni da analizzare. Nel caso in cui le sostanze da analizzare fossero pochissimo solubili in acqua (ossia

pochissimo polari o addirittura apolari), non si potrebbe effettuare nessuna separazione, in quanto i composti

si muoverebbero con la stessa velocità del solvente (apolare o poco polare) utilizzato.

Per poter separare tale tipo di sostanze si essicca la carta e la si impregna poi con una sostanza di bassa o

nulla polarità (come per esempio olio d’oliva, olio di silicone, paraffina o lattice di gomma28). La carta così

impregnata assorbe il componente apolare del solvente, e così avviene una ripartizione tra questo e il

solvente in grado di dar luogo ad una separazione. Questo processo separativo prende il nome di

cromatografia su carta a fase inversa, o a fasi invertite.

I solventi utilizzati per le separazioni a fase inversa sono di solito composti da un liquido organico apolare

contenente una piccola quantità d’acqua.

È evidente che questi due tipi di cromatografia (a fase normale e a fase invertita) sono importantissime da

considerare, a dipendenza delle sostanze da separare. Nel seguente ragionamento ci riferiamo, per semplicità,

alla cromatografia su colonna (ma le conclusioni ed i concetti sono validi per ogni cromatografia). Se, infatti,

i soluti saranno polari, occorrerà che si utilizzi un solvente polare ed una fase stazionaria apolare,

principalmente per due motivi:

25 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 38 26 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 27 Ibidem 28 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 38

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1. i soluti devono potersi sciogliere nel solvente (e, in generale, più sono solubili, o addirittura miscibili,

meglio è);

2. se la polarità dei soluti e della fase stazionaria è troppo simile, i primi – avendo fortissima affinità con

quest’ultima – rimarranno trattenuti in modo considerevole, impedendo o perlomeno rallentando il

flusso, con conseguente diminuzione della risoluzione.

4.3.4 CROMATOGRAFIA PER SCAMBIO IONICO Le separazioni per scambio ionico, come quelle per adsorbimento, sfruttano le interazioni elettriche tra le fasi

stazionaria e mobile. Se, però, nella cromatografia per adsorbimento si sfruttano legami covalenti e a ponte

idrogeno, nella cromatografia a scambio ionico ci si riferisce alle interazioni tra ioni. Addirittura, come il

nome stesso suggerisce, non si tratta più di semplici attrazioni-repulsioni che si rendono visibili,

macroscopicamente, come adsorbimento e desorbimento, bensì di vere e proprie interazioni chimiche, con

scambio di ioni. Avvengono cioè delle reazioni chimiche di sostituzione, in cui sostituenti e sostituiti sono

degli ioni. Questa tecnica cromatografica è quindi, assieme a quella per affinità, un metodo separativo che

sfrutta fenomeni di tipo chimico, e non di tipo fisico. Va infatti sottolineato non solo che avvengono delle

reazioni chimiche, ma anche che durante un processo cromatografico a scambio di ioni i materiali coinvolti

non subiscono grandi cambiamenti fisici.

La cromatografia a scambio ionico è condotta con l’uso di materiali speciali, aventi una struttura porosa

insolubile che abbia dei gruppi reattivi, a cui siano legati in modo labile degli ioni, capaci di scambio con gli

ioni del mezzo circostante, la fase mobile nel nostro caso. In questo modo, i materiali scambiatori usati in

cromatografia a scambio ionico sono capaci di sottrarre (e successivamente restituire) alle soluzioni che li

attraversano ioni (sia positivi che negativi). È logico dunque aspettarsi che esistano due tipi di materiali per

scambio ionico: uno per scambiare cationi ed uno per scambiare anioni. In realtà è proprio così: i materiali

avranno dei legami con ioni positivi se si vorrà avere uno scambio cationico, mentre essi avranno legati degli

ioni negativi se si desidera far avvenire uno scambio anionico.

Già da questa prima spiegazione risulta evidente che la cromatografia per scambio ionico, per forza di cose,

può venire impiegata unicamente per separare sostanze ioniche, che vanno dai semplici ioni inorganici a

quelli organici, e ai più complessi polielettroliti, quali gli enzimi, le proteine, gli ormoni, i virus, gli acidi

nucleici e ancora altre sostanze di rilevanza biologica.

Il principio su cui si basa questo tipo di cromatografia è l’attrazione che si verifica tra ioni di segno opposto

e, ed è qui che risiede l’interesse di questa tecnica, molti materiali biologici (per esempio amminoacidi e

proteine) possiedono gruppi ionizzabili, che possono portare una carica netta (positiva o negativa).

Si presti attenzione al fatto che questo processo cromatografico ha sempre luogo in una soluzione liquida,

normalmente acquosa. D’altra parte era logico aspettarselo, giacché occorre avere una soluzione contenente

ioni.

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Comunemente si utilizzano tre tipi di materiali adatti allo scambio cationico: le resine, i gel e le cellulose per

scambio ionico. Le differenze sono da un lato dovute ai gruppi scambiatori che vi si possono incorporare (ma

che possono talvolta essere incorporati, per esempio, sia su una resina che su una cellulosa), e dall’altro alla

microstruttura caratteristica di ciascuno di questi materiali. È proprio quest’ultima caratteristica a

differenziare, principalmente, questi tre tipi di sostanze, giacché i gruppi scambiatori possono talvolta essere

“attaccati” sia ad una resina, sia ad un gel, sia ad una cellulosa.

Una prima differenza, che si può ben cogliere nella figura 6, è che le resine presentano delle dimensioni dei

pori molto più piccole di quelle dei pori delle altre sostanze. Di conseguenza, le resine sono utilizzate

soprattutto per il frazionamento di sostanze con molecole piuttosto piccole, come gli ioni inorganici o anche

gli amminoacidi. Viceversa le maggiori dimensioni dei pori dei gel e delle cellulose rendono questi materiali

indicati per la separazione dei polielettroliti.

Rappresentazione schematica delle microstrutture di quattro diversi tipi di mezzi scambiatori di ioni

Figura 729

Inizialmente, il fenomeno dei materiali scambiatori di ioni catturò interesse in riferimento alla durezza

dell’acqua. Si era infatti notato che certi minerali, più precisamente dei silicati di struttura complicata

29 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 18 (fig. 5)

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chiamati zeoliti, possedevano la capacità di rimuovere gli ioni calcio e magnesio dall’acqua dura,

sostituendoli con ioni sodio. Ricordo qui, a questo proposito, che la cosiddetta durezza dell’acqua è una

misura di quanti ioni magnesio e calcio sono disciolti nell’acqua. Un tempo si misurava in gradi francesi, e

secondo questa scala un’acqua con 25 o più gradi francesi era definita pesante. Per dare un titolo di

confronto, si dica che il nostro Lago Maggiore ha un’acqua cosiddetta dolce, giacché l’acqua di Locarno

presenta all’incirca 6 gradi francesi. In termini generali, si può dire che si avrà acqua dura, ossia con tanti

ioni magnesio e calcio disciolti, dove ci sono rocce calcaree (per es., per restare in Ticino, nel Mendrisiotto),

mentre si sarà in presenza di acqua dolce, ossia con pochi ioni magnesio e calcio in soluzione, nelle regioni

dove sono presenti rocce granitiche (ed è per questo che nel Locarnese l’acqua è dolce). Ora, le zeoliti

tolgono all’acqua gli ioni calcio e magnesio, generalmente indesiderati, sostituendoli con degli ioni sodio,

che vanno in soluzione nell’acqua30. Le zeoliti, in altre parole, agivano da scambiatori di cationi (sia gli ioni

calcio, sia gli ioni magnesio, sia gli ioni sodio sono infatti ioni positivi, o cationi che dir si voglia).

Tuttavia le applicazioni delle zeoliti sono piuttosto ristrette, a causa della loro instabilità alle variazioni

dell’acidità/basicità dell’ambiente in cui sono poste (pH) e per via dello scarso recupero del materiale da esse

fissato. Cromatograficamente parlando, però, queste difficoltà furono superate grazie all’introduzione delle

resine scambiatrici di ioni sintetiche, suggerita da quanto si era scoperto con le zeoliti, le quali rimangono

oggi – eccezion fatta per l’addolcimento dell’acqua – più una curiosità storica che non un materiale di

rilevanza tecnico-scientifica.

Le prime resine venivano preparate facendo condensare l’acido fenolsolfonico e la formaldeide (che è

l’aldeide dell’acido acetico). Il prodotto conteneva gruppi reattivi, quali –OH e –COOH, oltre che ai gruppi

scambiatori –SO3H31. Con queste resine si riuscivano ad ottenere separazioni cromatografiche estremamente

difficili, come quelle degli isotopi radioattivi, degli elementi delle terre rare e degli amminoacidi.

Ciononostante, l’esperienza successiva ha mostrato che si possono ottenere risultati ancora migliori e più

riproducibili con resine che presentino un solo tipo di gruppo reattivo. Oltre a ciò, le tecniche di produzione

moderne permettono di ottenere resine con dimensioni dei pori più uniformi. La maggior parte delle moderne

resine a base di polistirene sono di questo tipo, con un unico tipo di gruppo reattivo e con dimensioni dei pori

più uniformi. Esse sono prodotte per polimerizzazione di una miscela di stirene e di un agente che dia luogo

a legami trasversi (come per esempio il divinilbenzene), e successivamente facendo reagire quanto si è

ottenuto con un reagente per introdurre gruppi fortemente o debolmente acidi o basici. Si possono infatti

30 Per meglio far capire al lettore di cosa si tratta, riporto qui uno degli equilibri determinanti la durezza

dell’acqua, rappresentato dalla reazione di equilibrio sodio – calcio: 222 2+ ++ +RNa Ca R Ca Na

(equazione tratta da G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia

editori; Milano; 1979, p. 446). 31 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p.19

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produrre resine scambiatrici cationiche forti o deboli, e resine scambiatrici anioniche forti o deboli,

introducendo gruppi scambiatori diversi a seconda delle esigenze.

Le resine scambiatrici cationiche possono anche venire chiamate resine acide a scambio ionico, per via del

fatto che le loro cariche negative derivano dalla protolisi di gruppi acidi. Si prenda ad esempio una molecola

R-SO3-H+. Staccandosi lo ione idrogeno, la molecola diventerà R-SO3

-, prima di poter legare il nuovo ione in

arrivo dalla soluzione.

Similmente, le resine scambiatrici anioniche possono prendere anche il nome di resine basiche a scambio

ionico.

Le resine scambiatrici cationiche sono dei polimeri, usati in forma granulare, contenenti più funzioni acide,

quali -SO3H, -COOH, -OH, capaci di scambiare il proprio ione idrogeno (o idrogenione) con i cationi

presenti in soluzione, secondo lo schema

3 3+ + − + +− + − +R SO H Na R SO Na H . (eq. 6)

Quando resine di questo tipo si trovano in presenza di cationi diversi, questa reazione assume un carattere

selettivo nei confronti dei cationi presenti in soluzione, e ciò costituisce il principio alla base della

separazione cromatografica. Questa reazione è, come si vede, una reazione di equilibrio, stabilito dalla

saturazione della resina stessa.

Si noti che, facendo percolare una soluzione di acido cloridrico (HCl) attraverso la colonna (o lungo la

striscia di carta, o lungo lo strato sottile), la reazione procede in senso inverso, scambiando gli ioni Na+ con

degli ioni H+ (quelli presenti in eccesso in soluzione in conseguenza alla dissociazione di HCl in H+ e Cl-),

onde mantenere l’equilibrio.

Le resine scambiatrici anioniche sono anch’esse dei polimeri granulari, solamente che le resine anioniche

contengono nelle loro molecole funzioni basiche (tendono ad acquistare protoni, ossia ioni H+, come il

gruppo –OH-), anziché acide (tendono a perdere, o a scambiare che dir si voglia, ioni H+) come le resine

cationiche. Generalmente le resine anioniche hanno, in qualità di gruppi funzionali basici, delle ammine (più

o meno sostituite32)33, capaci di fissare ioni negativi, secondo uno dei seguenti due schemi: _

2 3− + +− + + −R NH Cl H R NH Cl

oppure (eq. 7.a) e 7.b) )

3 3 3 3+ − − + − −− + − +R NH OH NO R NH NO OH 34

32 Il gruppo amminico è definito come R-NH-R’. Ora, il punto di partenza è uno ione ammonio NH4

+. È

possibile sostituire uno o più atomi di idrogeno, ottenendo così ammine mono-, bi-, tri- o tetra- sostituite. 33 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p.

446 34 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p.

446

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In modo semplificato le equazioni 6 e 7 possono essere così presentate:

- reazione tra una resina scambiatrice cationica R-H+ e ioni sodio: + + + +− + − +R H Na R Na H

- reazione tra una resina scambiatrice anionica R-OH- e ioni cloruro: − − − −− + − +R OH Cl R Cl OH .

Di per sé, giacché qualsiasi ione appropriato può essere scambiato, anche il contro-ione sulla resina può

essere di qualsiasi tipo. Tuttavia si preferisce, per scopi meramente pratici, usare le resine scambiatrici

cationiche nelle forme idrogeno (H+) o sodio (Na+), e quelle anioniche nelle forme cloruro (Cl-) o idrossido

(OH-).

Per convertire una resina da una forma all’altra, la resina viene lavata con una soluzione concentrata dello

ione che si desidera avere sulla resina, spostando così l’equilibrio nella direzione desiderata. Per esempio, se

volessimo convertire una resina dalla forma sodio a quella idrogeno, la laveremo con un eccesso di acido

forte (per esempio HCl), in modo che l’equilibrio farà in modo che degli ioni H+ si attacchino alla resina, al

posto prima occupato dagli ioni Na+.

Le principali resine scambiatrici sono prodotte per condensazione o per polimerizzazione di monomeri

contenenti i gruppi attivi desiderati. Tra i tre gruppi delle resine cationiche citati prima (-SO3H, -COOH, -

OH), il gruppo solforico (SO3- H+) è considerato forte, mentre quello carbossilico (-COOH) e quello fenolico

(-OH) sono considerati più deboli.

Il meccanismo di scambio dipende dagli equilibri che si stabiliscono fra le due fasi (e all’interno di esse),

caratterizzati dal potenziale di scambio degli ioni in causa, il quale è influenzato da numerosi fattori, fra i

quali – in primo luogo – la concentrazione nella fase solida e in quella liquida degli ioni da scambiare.

Bisogna poi considerare anche la carica dello ione, il suo numero atomico, la sua massa atomica, e così via.

Ne risulta che il potenziale di scambio non è assoluto, ma strettamente legato alle caratteristiche specifiche

degli ioni che partecipano all’equilibrio ed alle varie condizioni sperimentali.

Tuttavia, alcune considerazioni generali possono essere indicate, seppure necessariamente semplificate e, per

certi versi, semplicistiche e ricche di eccezioni. Eccole di seguito:

1. Nelle soluzioni acquose diluite, a temperatura ambiente, la resina, a parità di carica, trattiene

maggiormente i cationi a numero atomico più elevato. Alle alte concentrazioni, però, può verificarsi

un’inversione dei potenziali di scambio.

2. A basse concentrazioni ed in solventi acquosi, si scambiano più facilmente gli ioni con un numero di

carica più elevato. Per esempio lo ione calcio (Ca2+) sarà più facilmente scambiato dello ione sodio

(Na+). Anche qui, però, con l’uso di alte concentrazioni si può avere un’inversione dei potenziali di

scambio.

3. Il potenziale di scambio, come detto, non è assoluto, e dipende strettamente dal tipo di resina al

quale è legato lo ione che si staccherà (il cosiddetto contro-ione35, anche chiamato ione attivo36). Ciò

35 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html

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si può vedere bene nel caso degli ioni idrogeno (H+) e ossidrile (OH-), perché questi sono degli ioni

che reagiscono facilmente e volentieri, oltre che essere ben solubili in acqua, e in tal modo il

fenomeno qui descritto risulta evidente.37

4. Il potenziale di scambio coincide, grosso modo, a quanto ci dice il coefficiente di attività38 dello

ione, cioè ioni con alto coefficiente di attività hanno in genere un elevato potenziale di scambio.

Vediamo ora come avviene il meccanismo dello scambio ionico. Esso consta di cinque fasi distinte.

1. diffusione dello ione sciolto in soluzione alla superficie della resina

2. diffusione dello ione attraverso la matrice della resina verso il sito di scambio

3. piazzamento del contro-ione e attacco dello ione al sito di scambio

4. diffusione del contro-ione attraverso la resina

5. fase finale, in cui si fanno staccare dalla resina gli analiti ionici in modo selettivo, a opera di un

eluente, e diffusione degli ioni staccati nella soluzione esterna. L’eluizione selettiva degli ioni, degli

analiti legati alla resina si ottiene mediante variazione del pH, o della forza ionica, o di entrambi, o

ancora con un’eluizione di affinità, ossia introducendo nel sistema uno ione dotato di maggiore

affinità per lo scambiatore dell’analita già attaccatovi che si desidera eluire.

Il punto tre appena presentato mi fornisce l’occasione per ripresentare le equazioni 6 e 7 in una forma ora più

completa e corredata dai nomi dei vari gruppi coinvolti nella reazione di equilibrio:

Negli scambiatoricationici: scambiaredamolecolacontroioneescambiator

R'HNNa........RSO 3-3

++ +

scambiatoionelegatomolecolareione

++

+ NaR'HN....RSO 3-3

Negli scambiatorianionici: scambiaredamolecolacontroioneescambiator

OOCR'Cl........NR 4 +−+

scambiatoionelegatomolecolareione

−+

+ ClOOCR'....NR 4

Figura 839

36 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979, p.

447 37 Ibidem 38 Il coefficiente di attività è una proprietà del singolo ione che ci informa sulla sua facilità a reagire. In

realtà, il modello che noi siamo soliti assumere come corretto e che prevede che uno ione dia luogo a

determinate reazioni a seconda del proprio stato di ossidazione e delle caratteristiche delle sostanze con cui

potrebbe reagire (solvente o altri soluti), non è corretto, e per arrivare a spiegare teoricamente la costante

d’equilibrio in realtà rientrano anche altri, complicati ed innumerevoli fattori, espressi dal coefficiente di

attività dello ione. Come questo numero venga calcolato è argomento troppo ambizioso per la presente

ricerca, e ci limitiamo a dire che tali valori sono consultabili nei formulari chimici appositi.

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Come già accennato sopra, gran parte degli scambiatori ionici sono prodotti polimerici dello stirene. Il

polistirene, però, è un polimero lineare, solubile in numerosi solventi. Condensando stirene con

divinilbenzene si ottengono per contro dei legami crociati, e quindi dei polimeri non solubili. Si parla, più

precisamente, di copolimerizzazione. Copolimerizzando percentuali variabili di divinilbenzene e di stirene si

possono ottenere resine con gradi variabili di legami crociati; tanto è maggiore la quantità di divinilbenzene

rispetto allo stirene, tanto più numerosi risulteranno i legami crociati e quindi l’insolubilità del polimero

prodotto. Le resine con pochi legami crociati sono più permeabili ai composti ad alto peso molecolare, e ciò

costituisce un vantaggio, ma esse sono anche meno rigide e, di conseguenza, si rigonfiano più facilmente

delle resine con molti legami crociati40.

Uno dei principali limiti tecnici delle resine scambiatrici è la permeabilità della matrice agli ioni, giacché la

cromatografia per scambio ionico si basa proprio sullo scambio degli ioni che diffondono nella matrice. Una

delle caratteristiche che si cerca di ottenere nella produzione delle resine è infatti proprio una buona

permeabilità agli ioni.

Altra caratteristica importante è che la resina, nel suo insieme, offra una relativa facilità di scorrimento al

flusso del solvente, ossia che presenti una superficie porosa e facilmente attraversabile.

È poi necessario che questa superficie sia la più vasta possibile nel minor volume, onde facilitare gli scambi

ionici e migliorare l’efficienza del sistema.

Per questi motivi le resine scambiatrici sono solitamente prodotte sotto forma di gel o di particelle sferiche.

Le proprietà che i materiali scambiatori devono (o dovrebbero, idealmente, praticamente si può talvolta

scendere a qualche compromesso) possedere non si fermano però qui, ve ne sono delle altre, di cui molte

dipendono dal campione da separare. Fra queste mi preme ricordare che molti composti di interesse

biologico, soprattutto le proteine, sono stabili solo in uno stretto intervallo di pH, per cui lo scambiatore

dovrà funzionare in questo stesso intervallo. Come già detto in apertura, se il campione presenta una carica

(netta) positiva (ossia se è più stabile a valori di pH inferiori al suo punto isoionico41), occorrerà uno

scambiatore di cationi, mentre se il campione ha una carica (netta) negativa (ovvero se è più stabile a valori

di pH superiori al suo punto isoionico) si utilizzerà uno scambiatore di anioni. Allorquando il campione fosse

stabile in un ampio intervallo di pH, si potranno usare entrambi i tipi di scambiatore.

Anche quando si tratta di scegliere tra uno scambiatore debole ed uno forte occorre prestare attenzione alla

stabilità del campione e all’effetto dell’acidità/basicità sulla carica del campione. In termini generali, gli

scambiatori deboli sono indicati per separare elettroliti forti.

39 Immagine tratta da http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/index.htm 40 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 41 Il punto isoionico è quella situazione in cui uno ione è nella sua forma dipolare, ossia quando lo ione può

cedere o assumere protoni a seconda del pH dell’ambiente. Nel nostro caso, quindi, il punto isoionico si

verifica quando si ha quel pH in cui una molecola è sotto forma di ione dipolare.

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Il tipo di scambiatore scelto dipende anche dal peso molecolare dei componenti da separare42.

Per terminare questo capitolo, propongo una sintesi della procedura cromatografica a scambio di ioni su

colonna, la quale rappresenta il mezzo più utilizzato per questo tipo di cromatografia. Nella cromatografia a

scambio ionico su colonna (che può all’occorrenza essere riempita con resine diverse) si imbeve dapprima la

colonna con del solvente, e poi si inietta la soluzione, ovvero il solvente con discioltivi gli analiti da separare.

Come già più volte ripetuto, gli ioni vengono trattenuti dalla fase stazionaria in modo diverso, ossia

selettivamente: quelli a più alto potenziale di scambio verranno subito scambiati nella parte iniziale della

colonna, mentre decrescendo il potenziale di scambio gli analiti si scambieranno man mano più in basso.

Generalmente si scelgono delle condizioni tali per cui gli ioni della soluzione si scambino rapidamente con

quelli della resina, ottenendo così una banda stretta degli ioni analizzati alla sommità della colonna. I vari

ioni vengono poi spostati uno per volta, o cambiando lentamente il pH della soluzione eluente, o aumentando

la concentrazione di un determinato tipo di ioni, o aumentando la temperatura. Se si usa lo stesso eluente

dall’inizio fino alla fine si parla di eluizione isocratica. Se invece lo si varia esistono due possibilità:

l’eluizione discontinua (o a step) e quella continua, più nota col nome di eluizione a gradiente.

È evidente che, salvo desiderati interventi nelle caratteristiche della soluzione eluente o della temperatura, di

regola gli ioni verranno eluiti con una velocità inversamente proporzionale al loro rispettivo potenziale di

scambio. Da ciò risulta che gli ioni meno fortemente fissati saranno raccolti per primi, e viceversa quelli più

fortemente trattenuti verranno raccolti per ultimi. Le singole frazioni eluite potranno poi, se necessario,

essere sottoposte ad eventuali analisi di conferma. Ovviamente, se nell’eluizione viene impiegato uno o più

ioni, gli eventuali legami (o forze repulsive) tra gli ioni eluenti e quelli scambiati influenzeranno, con la loro

forza, la sequenza degli ioni desorbiti.

4.3.5 CROMATOGRAFIA PER ESCLUSIONE Si tratta del tipo di cromatografia concettualmente più semplice, quello cioè in cui la fase stazionaria

funziona come un setaccio, come un filtro, alla stregua di uno scolapasta o di un colino. La si può effettuare

solo su colonna.

Esiste quella in cui come setaccio molecolare sono utilizzati granuli di vetro, che prende così il nome di

cromatografia su vetro a porosità controllata, e quella cosiddetta di filtrazione su gel. Noi tratteremo, in

questo lavoro, unicamente ques’ultimo tipo di cromatografia per esclusione, che è anche il più diffuso ed

utilizzato43. Questo tipo di cromatografia, benché il nome più diffuso sia quello di filtrazione su gel, è anche

42 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 43 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/cromatografia_a_esclusione.htm

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detto cromatografia di permeazione su gel44 (o anche, per l’influsso dell’inglese, di “gel permeation”), o

esclusione molecolare, o ancora setacciatura molecolare45.

La cromatografia per filtrazione su gel è una cromatografia liquido/liquido utilizzata per la separazione di

sostanze secondo la diversa grandezza (ed eventualmente la diversa forma) delle loro molecole. Venne

definita come tecnica di laboratorio, con l’introduzione delle sostanze Sephadex46, nel 1959, ossia all’incirca

trent’anni dopo la data di nascita a pieno titolo della cromatografia come tecnica separativa (assumendo

quindi come data il dicembre 1930, cfr. cap. 4.1).

La tecnica che sfrutta il principio concettualmente più semplice, quindi, non è assolutamente la prima ad

essere stata scoperta, né utilizzata. Eppure il principio, come ormai già più volte ribadito, è semplicissimo: si

riempie la colonna di un materiale che lasci passare sostanze con una determinata grandezza, trattenendo

quindi in modo selettivo le particelle della dimensione desiderata e lasciando passare (all’esterno) le

particelle più grandi e quelle più piccole, che possono però anche penetrare nella fase stazionaria stessa.

La cromatografia per esclusione prevede che ogni possibile interazione di superficie tra le due fasi sia

evitata. Ciò è possibile se le particelle di eluente hanno interazioni con la fase stazionaria più forti di quelle

degli analiti47.

I materiali per la filtrazione su gel del tipo Sephadex sono prodotti a partire da un polisaccaride (ossia da uno

zucchero complesso, per es. il destrano, che è appunto un polisaccaride) nelle cui catene polimeriche

vengono introdotti dei legami traversi, in modo da ottenere un reticolo tridimensionale più o meno uniforme.

A livello macroscopico, questo prodotto si presenta come dei granuli sferici, come mostrato in figura: 44 La cromatografia per esclusione è anche chiamata con questi due nomi, ma perlopiù per ragioni storiche:

oggi, infatti, la fase stazionaria non è per forza un gel (ossia un colloide dove una fase liquida è dispersa in

una fase solida, cfr. appendice A).

Cfr. YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html: “Mainly for

historical reasons, this technique i salso called gel filtration or gel permeation chromatography although,

today, the stationary phase is not restricted to a gel”. 45 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 12 46 Queste sostanze, prodotte a partire da un polisaccaride (come per esempio il destrano), sono generalmente

delle ciclodestrine. Queste non sono altro che una serie di molecole di glucosio (ognuna con la sua

caratteristica struttura a sedia) legate assieme. Ne risulta una sorta di imbuto a forma di cono, che permette

quindi una cromatografia per esclusione. Inoltre, i gruppi ossidrile (-OH) delle molecole di glucosio

permettono delle interazioni con i componenti da separare, e ciò può dare origine anche a delle cromatografie

per adsorbimento o anche per scambio ionico (nel caso si tratti di anioni, essendo OH- uno ione negativo). 47 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

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Mezzi cromatografici.

A sinistra sono illustrate delle particelle per filtrazione su gel Sephadex, al centro della cellulosa per scambio ionico a

struttura fibrosa migliorata Whatman e a destra della cellulosa per scambio ionico a struttura microgranulare

migliorata Whatman.

Figura 948

Questi granuli hanno molti gruppi ossidrile (-OH), e quindi presentano una grande affinità per l’acqua. Per

questo motivo, in acqua o in soluzioni acquose elettrolitiche, si rigonfiano e formano un gel49

semitrasparente. Questi gel vengono poi utilizzati per impaccare una colonna cromatografica. Si tratta

dunque di una cromatografia su colonna.

Esistono numerosi mezzi per la cromatografia di filtrazione su gel, diversi dal destrano sopraccitato. Il

campo di frazionamento dei gel prodotti a partire da questi mezzi dipende dalle dimensioni dei loro pori,

determinate, queste ultime, dalla quantità di reagente usato per provocare i legami trasversi: tanto più

reagente si è utilizzato, tanto più piccole saranno le proprietà rigonfianti del gel e quindi i suoi pori (ossia si

tratta di un rapporto di proporzionalità inversa). Proprio per questo (e per il largo impiego dovuto al basso

costo dell’acqua) la maniera normale di caratterizzare i vari tipi di gel è quella di indicare i loro valori di

riassorbimento dell’acqua (in ml) assorbita da 1g di granuli di gel secco.

I tipi con bassi valori di riassorbimento dell’acqua possiedono piccole dimensioni dei pori, e sono usati per

separare molecole altrettanto minuscole. Viceversa i tipi con alti valori di riassorbimento dell’acqua

presentano dimensioni dei pori elevate e si prestano alla separazione di sostanze grandi e di alto peso

48 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, Illustrazione 1. 49 Ricordo che il gel è un tipo particolare di colloide. Per ulteriori informazioni al riguardo, vedi appendice

A.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

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molecolare. A titolo indicativo, riporto qui alcuni dati trovati in letteratura50: materiali con valore di

riassorbimento di ca. 1 si prestano al frazionamento di sostanze con peso molecolare fino a circa 700g/mol,

mentre materiali con valore di riassorbimento di ca. 20 sono adatti alla separazione di proteine globulari e

peptidi con pesi molecolari compresi tra 5000g/mol e svariate centinaia di migliaia. Vi sono poi tutte le

varianti intermedie.

Quando occorre frazionare sostanze di peso molecolare estremamente elevato, come nel caso di certe

proteine, polisaccaridi, acidi nucleici, virus eccetera occorrono particelle ancora più grandi, prodotte da un

polisaccaride chiamato agarosio, che è un polimero neutro (ossia senza cariche elettriche) derivato da un alga

di nome, appunto, agar .

Vediamo ora quale sia, a grandi linee, il procedimento. Si carica la colonna con una soluzione contenente il

campione, in cui il solvente è in genere acqua o un tampone. Si lava poi lentamente il campione con il

solvente (di solito, come appena detto, acqua o un tampone). Le sostanze con molecole più grandi dei pori

più grandi presenti fra le sferette rigonfiate (sopra cioè il cosiddetto limite di esclusione) non possono,

logicamente, entrare nei pori delle particelle di gel e di conseguenza passano attraverso il letto esterno al gel,

ossia nella fase liquida esterna alle particelle, ed emergono per prime in fondo alla colonna. Le particelle di

esse più piccole, per contro, riescono a penetrare all’interno del gel in modo variabile, a seconda delle loro

rispettive dimensioni. Ha luogo una ripartizione tra il liquido esterno e quello interno alle particelle di gel.

Come appare logico, le molecole più piccole trovano maggior liquido a loro disposizione all’interno delle

particelle di gel e quindi verranno maggiormente trattenute all’interno della colonna (ovvero usciranno più

tardi). Altrimenti detto, le molecole lasciano la colonna nell’ordine delle loro dimensioni in senso

decrescente.

La filtrazione su gel offre una grande varietà di applicazioni, in primo luogo per quanto concerne l’analisi di

miscele di molecole di diverso peso molecolare e/o (normalmente una sostanza di alto peso molecolare

possiede anche considerevoli grandezze) di diverse dimensioni.

50 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 12

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 37

Figura 1051

Un’altra interessante possibilità offerta dalla filtrazione su gel è quella di determinare il peso molecolare

delle sostanze. In pratica si fa fluire nella colonna una proteina di peso molecolare noto, e si tarano poi i dati

(solitamente all’interno di un grafico), potendo così determinare i pesi molecolari di proteine anche

sconosciute. Ciò è particolarmente utile nel caso degli enzimi.

È sì vero che il frazionamento, nella filtrazione su gel, dipende dalle dimensioni molecolari, ma estesi studi

hanno mostrato che i volumi di eluizione di determinate proteine globulari su ben precisi tipi di fasi

stazionarie52 sono largamente determinati dal peso molecolare. In particolare, in un campo notevolmente

vasto, il volume di eluizione è funzione all’incirca lineare del logaritmo del peso molecolare.

51 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, Illustrazione 4. 52 Sephadex G-100 e Sephadex G-200, cfr. DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla

cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 13. Nelle serie Sephadex e Bio-Gel, i numeri riportati nei

nomi corrispondono a dieci volte il valore di riassorbimento dell’acqua, di modo che, per esempio, il G-100

sarà un materiale che presenta un valore di riassorbimento d’acqua di 10, il G-200 di 20, e così via.

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Quanto fin qui detto è stato circoscritto alla filtrazione su gel con solventi acquosi. In realtà, però, le

possibilità si ampliano, essendo possibile utilizzare dei mezzi opportunamente modificati per delle

separazioni con solventi organici apolari. Un esempio di mezzi di questo genere è prodotto facendo reagire i

gruppi ossidrilici (idrofili) di un gel a base di destrano con un reagente che renda il prodotto idrofobo. In

questo modo, le particelle di questo gel modificato, si rigonfiano in solventi non acquosi. Un altro esempio è

quello derivato dal polistirene con legami traversi, come quello che ho utilizzato io. In figura, riporto una

separazione di lipidi (cioè degli esteri glicerici) frazionati in questo modo:

Filtrazione su gel in solventi organici. La figura a sinistra mostra la separazione di alcuni esteri glicerici in una

colonna di Sephadex LH-20, con cloroformio come solvente. La figura a destra mostra una separazione analoga svolta

usando una colonna Styragel, con benzene in qualità di solvente.

Figura 1153

La scelta del mezzo, però, non è l’unico criterio da tenere presente. Si è per esempio notato che “quando i

granuli di gel sono caricati in una colonna di piccole dimensioni, sia un cattivo assestamento dei granuli, sia

una velocità di flusso troppo alta danno luogo a separazioni scarse”54. I tre cromatogrammi qui riportati

illustrano bene l’effetto delle dimensioni delle particelle di gel sulla risoluzione del sistema cromatografico:

Tuttavia, come vedremo nella parte dedicata all’HPLC e agli esperimenti da me effettuati (cap. 5),

dimensioni troppo piccole dei granuli creano problemi nell’impaccamento della colonna e hanno tendenza ad

otturarla.

Inoltre, la risoluzione può essere migliorata non solo diminuendo le dimensioni dei granuli, ma in generale

aumentando il numero dei piatti teorici della colonna (per esempio aumentando il flusso) (v. cap. 4.4.3.10), o

utilizzando la tecnica della cromatografia con riciclo (v. cap. 4.4.3.6).

53 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, Illustrazione 5. 54 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 13

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Pagina 39

4.3.6 CROMATOGRAFIA DI AFFINITÀ La cromatografia di affinità, a differenza di tutti gli altri tipi di cromatografia (e anche, per esempio,

dell’elettroforesi e della centrifugazione) non si basa su differenze nelle proprietà fisiche delle molecole da

separare, ma sfrutta interazioni chimiche, altamente specifiche, tra le molecole da separare e la fase

stazionaria. Si tratta di una differenza importante anche rispetto alla cromatografia per scambio ionico. In

quest’ultima tecnica avvengono sì delle reazioni chimiche, ma esse sono esclusivamente di sostituzione, in

quanto avviene uno scambio. Nella cromatografia di affinità, invece, c’è proprio un sito sulla fase

stazionaria, chiamato ligando, deputato a creare dei legami con gli analiti. Proprio per questo motivo, le

interazioni che si sfruttano sono, per forza di cose, altamente specifiche. Ciò ha due conseguenze importanti:

da un lato è possibile, almeno teoricamente, raggiungere una separazione completa in un’unica tappa;

dall’altro occorre conoscere dettagliatamente la struttura e le peculiarità del composto da purificare, onde

allestire le condizioni di separazione che diano la resa la più elevata possibile.

Questa tecnica fu inizialmente sviluppata per la purificazione degli enzimi, e in tal caso il ligando può essere

il substrato, un inibitore reversibile o un attivatore. Da questo si può notare come il ligando debba essere

specifico, tanto specifico quanto lo è il substrato per il relativo enzima! Tuttavia, se la cromatografia di

affinità ebbe i suoi esordi nel campo degli enzimi, essa può venire applicata anche ai nucleotidi, agli acidi

nucleici, alle immunoglobuline, ai recettori di membrana, ed addirittura a frazioni subcellulari o a vere e

proprie cellule.

Il meccanismo è, in via teorica, piuttosto semplice e lineare: esso prevede che il composto da purificare si

leghi reversibilmente ad un ligando specifico, immobilizzato su una matrice insolubile. Tale processo può

essere sintetizzato con la formula:

(eq. 8)55

Per quanto concerne l’eluizione, ritenuto che il metodo di eluizione (così come il tipo di resina e il modo di

“attacco” del componente) può variare, essa è generalmente effettuata inserendo nella soluzione eluente un

eccesso del gruppo funzionale libero. Altre possibilità di eluizione sono il cambiamento delle condizioni del

tampone in modo tale che la proteina modifichi il proprio stato originale in modo che abbia dei siti polari,

per esempio variando il pH o aggiungendo un agente denaturante, quali l’urea o la guanidina.

55 formula tratta da

http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/Cromatografia_%20di_%20affinita.htm

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I materiali usati come matrici nella cromatografia per affinità dovrebbero possedere le seguenti

caratteristiche:

1. possedere numerosi gruppi reattivi, e adatti a legare covalentemente il ligando;

2. essere stabili nelle condizioni di interazione con l’analita e nella successiva fase di eluizione;

3. devono interagire debolmente o, meglio, per nulla con altre molecole;

4. devono presentare buone proprietà per quanto concerne il flusso;

5. devono essere insolubili.

4.4 Metodi cromatografici Come detto nel capitolo 4.2, esistono tre metodi in cui si possono realizzare, nella pratica di laboratorio, le

separazioni cromatografiche, utilizzando uno o più dei cinque tipi di cromatografia appena presentati. Essi

sono:

• la cromatografia su carta;

• la cromatografia su strato sottile;

• la cromatografia in colonna.

Sebbene tutti i metodi possano venire utilizzati sia a scopo analitico che preparativo, i primi due metodi sono

più indicati per il primo scopo che non per il secondo. Il procedimento necessario per una cromatografia su

carta o a su strato sottile a scopo preparativo, infatti, è piuttosto complesso, necessita di tempo e si ricavano

in genere piccole quantità (ossia, per separare grosse quantità, per esempio a livello industriale, occorre

ripetere il processo moltissime volte). Di conseguenza il processo risulta costoso.

Questi primi due metodi hanno il vantaggio di richiedere un’attrezzatura in genere poco costosa, e di

presentare comunque una buona risoluzione (come la cromatografia su colonna). Per questo motivo sono

indicati quando si necessita di analizzare dei composti: in genere le analisi vengono condotte su piccole

quantità, e meno si spende meglio è.

Per scopi preparativi, invece, è assai più indicata la cromatografia su colonna, che permette di separare anche

grossi quantitativi, spesso anche in tempo breve, e soprattutto in modo continuo. A scopo analitico la

cromatografia su colonna si rivela economicamente vantaggiosa nel caso di analisi di grandi quantità, per

esempio nel caso di un laboratorio incaricato di verificare la qualità e la purezza di un prodotto, sull’arco di

tutto l’anno. Il costo dell’apparecchio, infatti, viene compensato dal risparmio del materiale di consumo

(carta o lastre e strati, maggior quantità di solventi) richiesto per cromatografie su carta o su strato sottile.

In ogni modo, presenteremo gli ulteriori procedimenti richiesti per una cromatografia preparativa, anche nel

caso di cromatografie su carta o su strato sottile: da un lato perché queste possono venire provate in un

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laboratorio anche poco equipaggiato e dall’altro, soprattutto, per far rendere conto il lettore della complessità

del procedimento preparativo nel caso di questi due metodi cromatografici.

4.4.1 CROMATOGRAFIA SU CARTA Su carta si possono effettuare cromatografie per ripartizione (la più semplice da realizzare su carta), per

adsorbimento o a scambio ionico. Le fibre di cellulosa della carta fungono da matrice di supporto per la fase

stazionaria, che utilizzando appunto la carta come supporto, può essere costituita da acqua (cromatografia

per ripartizione a fase normale), da un materiale apolare come per esempio della paraffina liquida

(cromatografia per ripartizione a fase inversa), da un materiale adsorbente solido (cromatografia

d’adsorbimento), da delle resine scambiatrici di ioni (cromatografia a scambio ionico) o da delle sostanze

derivate dalla cellulosa con gruppi capaci di scambiare ioni (cromatografia a scambio ionico). Il tipo di

cromatografia su carta più utilizzato è quello per ripartizione.

4.4.1.1 CAMPIONI

I campioni vengono solitamente applicati alla carta in soluzione. I solidi, perciò, sono di solito disciolti in

una piccola quantità di un solvente adatto. Le sostanze pure, tuttavia, possono normalmente essere applicate

direttamente. Gli estratti preparati dai tessuti biologici richiedono spesso una purificazione preliminare,

perché grandi quantità di proteine o di sali presenti nell’estratto possono interferire con il processo di

ripartizione, estraendo acqua dal solvente e originando code sui cromatogrammi. Oltre a ciò, rilevanti

quantità di materiale estraneo possono confondere i componenti separati.

Per rimuovere le sostanze estranee indesiderate esistono vari metodi. Per esempio i lipidi possono venire

allontanati con dei solventi organici apolari, le proteine possono essere fatte precipitare con alcool, i sali

possono essere allontanati con resine scambiatrici di ioni o con metodi elettrolitici (v. cap. 4.4.1.10 per la

presentazione dell’elettroforesi).

Per gli estratti biologici si rivela spesso utile un frazionamento preliminare con delle resine scambiatrici. In

tal modo si separano, in primo luogo, le sostanze non ioniche da quelle ioniche e, secondariamente, si

possono ulteriormente frazionare queste ultime, potendo così ottenere campioni contenenti per esempio solo

due tipi molecolari.

Per eliminare i sali, oltre alla cromatografia per scambio ionico (v. cap. 4.3.4) e all’elettroforesi (v. cap.

4.4.1.10), si può ricorrere all’elettrolisi, per la quale esistono alcune apparecchiature. Un apparecchio tipo è

quello che possiede una cella di desalificazione composta di tre parti: un compartimento catodico

(contenente acido solforico diluito, H2SO4), un compartimento centrale in cui porre il campione, ed un

compartimento anodico (contenente una soluzione diluita di idrossido di sodio, NaOH). I compartimenti

sono separati da membrane scambiatrici di ioni, che permettono agli ioni di attraversarle in una sola

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 42

direzione. Facendo passare la corrente elettrica, gli ioni (positivi e negativi) passano selettivamente

attraverso le membrane, finendo nei compartimenti appropriati e facendo così diminuire la concentrazione

degli elettroliti nel compartimento centrale. Lo stato della desalificazione è indicato da un milliamperometro

collegato alla cella.

4.4.1.2 APPLICAZIONE DEL CAMPIONE

Si traccia anzitutto sulla carta una linea a matita, parallela al lato del foglio che si farà pendere nel solvente e

ad un’opportuna distanza dal bordo (1-3 cm ca.). Sulla linea si segnano poi alcune crocette, ugualmente

distanziate, una per ogni campione da analizzare, scrivendovi poi accanto il nome di ciascun campione. Con

un capillare si pone una goccia di ciascuna sostanza sulla rispettiva crocetta. I capillari possono essere di

vetro o di platino. Gli anelli di fili di platino possono venire riutilizzati, lavandoli e arroventandoli su di un

becco Bunsen. I capillari di vetro vanno invece gettati dopo l’uso. È bene che le macchie non superino i 5mm

di diametro, per evitare separazioni peggiori. Se occorre analizzare una maggiore quantità di sostanza, più

grande di quella presente in una singola goccia (come è il caso quando la soluzione è molto diluita), si lascia

asciugare la macchia e si ripete l’applicazione. Per accelerare l’essiccamento, si può utilizzare un

asciugacapelli.

Nel caso di una cromatografia preparativa su carta, invece di applicare delle gocce si “tracciano” delle strisce

dell’estratto da separare.

4.4.1.3 SVILUPPO

Una volta che le macchie sono asciutte, si può iniziare lo sviluppo, ossia quel processo in cui il solvente

fluisce lungo la carta per dar luogo alla separazione.

Il solvente per lo sviluppo dipende dalla natura delle sostanze da separare, il sapere quale solvente provare

(si procede infatti per ipotesi e poi per tentativi) deriva innanzitutto dall’esperienza (propria o di letteratura).

Si possono preparare dei solventi adatti per separare quasi ogni classe di composti.

I solventi per la cromatografia di ripartizione su carta si possono preparare semplicemente saturando con

acqua un solvente organico, come il n-butanolo.

Molti solventi comunemente usati sono di questo tipo, ma altrettanti liquidi di ripartizione incorporano solo

piccole quantità d’acqua, tanto che i composti polari - come gli amminoacidi, gli zuccheri o i composti

fenolici - si muovono assai lentamente o non si separano del tutto. Per superare quest’ultima difficoltà, si può

aggiungere alla miscela uno o più componenti (acidi, basi, altri agenti complessanti). Esempi di questi

componenti da aggiungere possono essere l’acido acetico, l’acido formico, la piridina e l’ammoniaca in

soluzione, l’acido cloridrico in soluzione,... Queste aggiunte, oltre a permettere di incorporare più acqua nel

solvente, migliorano o deprimono la solubilità di alcune sostanze.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 43

Di sicuro in alcune separazioni gli effetti d’adsorbimento giocano un ruolo importante, tanto che è possibile

ottenere buone separazioni usando come solvente per lo sviluppo della carta semplicemente dell’acqua

(deionizzata, meglio ancora se pura, trattata cioè con un’apparecchiatura tipo Millipore).

4.4.1.4 TECNICHE ASCENDENTE E DISCENDENTE

Lo sviluppo può essere condotto sia lasciando salire il solvente per capillarità lungo la carta (tecnica

ascendente), sia facendolo scendere, sfruttando la forza di gravità (tecnica discendente).

Nel caso si utilizzasse la tecnica ascendente il procedimento è il seguente. Si pone il solvente sul fondo di

una vaschetta (di materiale inerte, per esempio vetro). Si sospende sopra di esso la carta per mezzo di un

qualche sistema o arrotolandola a cilindro e chiudendola attaccando le due estremità con delle cordicelle (per

esempio di metallo). Alcune possibilità sono illustrate in figura 12:

Materiale per cromatografia ascendente

Figura 1256

Inizialmente si tiene la carta fuori dalla bacinella e si chiude il coperchio della vaschetta, per saturarne

l’atmosfera con i vapori del solvente (ciò per evitare che il solvente, salendo, evapori in modo disomogeneo

56 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 26 (fig. 10)

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influenzando i risultati della cromatografia). Successivamente si potrà lasciar pendere la carta nel solvente,

chiudere il coperchio ed attendere che la separazione si sia completata.

Se, invece, si impiegasse la tecnica discendente il procedimento è il seguente. Si pone il solvente sul fondo

della bacinella di materiale inerte, collocata all’interno della vaschetta cromatografica, per esempio sospesa

per mezzo di alcune corde, o appoggiata su alcune corde come illustrato in figura 12 . Si versa un po’ di

solvente pure sul fondo della vaschetta cromatografica, per saturarne l’atmosfera con i suoi vapori. Si può

successivamente sospendere la carta nel solvente, richiudere il coperchio ed attendere che la separazione si

sia completata.

Schema di una vaschetta per cromatografia ascendente (a sinistra) e schema per l’inserimento della carta (a destra)

Figura 1357

La scelta fra le due tecniche è per molte separazioni equivalente, e dettata dalle preferenze di ognuno, o dal

materiale a disposizione in laboratorio. Spesso, infatti, si ottengono risultati del tutto simili. Tuttavia, per

certe applicazioni, è consigliata l’una o l’altra tecnica. Ecco illustrati alcuni pregi delle due tecniche.

Con la tecnica ascendente (sempre che l’atmosfera sia satura dei vapori del solvente di sviluppo) il solvente

può salire solo fino alla sommità della carta, dopodichè (per forza di cose) si arresta. In questo modo, tutte le

sostanze rimangono sulla carta. Ed ecco il primo vantaggio. Il secondo è invece che la distanza percorsa dal

solvente è fissa, e di facile misurazione (basta misurare la lunghezza della carta). Questo si rivela utile per le

57 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 25 (fig. 9)

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separazioni bidimensionali (v. cap. 4.3.2). Il metodo ascendente è anche indicato nel caso in cui si

utilizzassero solventi molto volatili58. Uno svantaggio della tecnica ascendente è però che le sostanze con

valori di Rf bassi tendono ad essere separate in modo incompleto (per via della difficoltà a salire).

Con la tecnica discendente, invece, il solvente può essere lasciato scorrere anche dopo che ha raggiunto il

bordo della carta, per cui si può aumentare anche notevolmente il percorso delle sostanze (effettuando una

cosiddetta cromatografia con riciclo, cfr. cap. 4.4.3.6) e migliorare così la separazione, anche nel caso di

sostanze con basso valore di Rf. La tecnica discendente presenta anche il vantaggio che il flusso (e quindi la

velocità del processo) è più elevato.

4.4.1.5 ESSICCAMENTO

Quando il solvente ha percorso la distanza necessaria per la separazione (o ha fluito per il tempo necessario),

la carta viene tolta dalla vaschetta e il fronte del solvente viene segnato (per esempio con dei piccoli strappi

ai lati della carta). La carta viene successivamente fatta essiccare, sotto una cappa aspirante o per mezzo di

una ventola o di un asciugacapelli. Si possono poi localizzare i composti.

4.4.1.6 LOCALIZZAZIONE DELLE SOSTANZE

A questo punto, la separazione delle sostanze è completata. Tuttavia, per poter leggere il cromatogramma,

dobbiamo poter localizzare le sostanze. Talvolta esse sono colorate, e la loro localizzazione è banale. Molte

sostanze, però, sono incolori, e fra queste parecchie di interesse biologico. Esistono allora vari metodi,

raggruppabili in due categorie. Da una parte i metodi fisici, dall’altro quelli chimici.

I metodi fisici sfruttano particolari proprietà delle sostanze, come la fluorescenza o la radioattività. Essi

presentano il vantaggio di mantenere le sostanze invariate, senza convertirle in altre molecole, cosa che

avviene invece nel caso di metodi chimici. Tuttavia l’applicabilità dei metodi fisici è limitata, e nella

maggioranza dei casi non possono venire impiegati.

Se si sfrutta la radioattività, per quanto potenzialmente pericoloso e dannoso, il processo è assai semplice. Si

utilizzano delle sostanze marcate radioattivamente, in modo che esse possano venire rilevate da un contatore

Geiger.

L’altra possibilità è quella di sfruttare il fenomeno della fluorescenza, che è presentato da alcune sostanze

organiche insature, fra cui molti vegetali, che presentano nei loro tessuti varie sostanze fluorescenti. Tale

fenomeno consiste nella capacità di assorbire la luce ultravioletta o anche violetta (di breve lunghezza

d’onda, più breve dello spettro visibile e quindi invisibile) e di emettere luce di lunghezza d’onda più lunga e

quindi visibile. Queste sostanze sono invisibili sul cromatogramma alla luce naturale o artificiale ordinaria,

58 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 27

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

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ma si possono vedere subito se poste sotto una lampada ultravioletta. La lunghezza d’onda emessa, e di

riflesso il colore che si vede con l’occhio, è caratteristica di ogni sostanza, e la si sfrutta per l’identificazione.

Se nessuno di questi metodi fisici dà i risultati sperati, occorre impiegare dei metodi chimici per

l’identificazione delle sostanze cromatografate. In pratica le si fanno reagire con una o più sostanze chimiche

in modo da dar luogo a prodotti colorati. La conversione dei composti cromatografati incolori in sostanze

colorate avviene attraverso una soluzione contenente sostanze reagenti chiamata, nel suo insieme di soluto e

solvente, reagente di localizzazione. Esso può essere un gas (per esempio l’idrogeno solforato è usato per la

localizzazione degli ioni metallici, che formano dei solfuri colorati59), un liquido o un solido sciolto in

soluzione. La maggioranza dei reagenti di localizzazione è proprio costituita da queste due ultime tipologie

di reagente. Solventi comuni usati per la localizzazione sono l’acqua, l’alcol metilico, l’alcol n-butilico e

l’acetone.

Il processo di localizzazione può essere costituito da uno o più stadi. Nel caso in cui ci fossero più stadi, è

opportuno lasciare asciugare i cromatogrammi (almeno parzialmente) dopo ciascuno stadio. Talvolta, per

completare la reazione, si rende necessario un riscaldamento del cromatogramma.

Esistono due modi per applicare i reagenti di localizzazione: l’immersione della carta nella soluzione del

reagente di localizzazione o lo spruzzo di tale reagente (o miscela di reagenti) sulla carta.

Vediamo dapprima la tecnica d’immersione. L’occorrente è assai limitato: oltre al reagente di localizzazione

è necessaria solamente una bacinella poco profonda, di un materiale inerte e abbastanza grande perché il

cromatogramma possa essere passato attraverso la soluzione senza toccarne i lati.

L’immersione e la scelta del solvente per il reagente di localizzazione devono essere svolte con cura, poiché

buone separazioni possono essere danneggiate dall’impiego del solvente sbagliato per il reagente di

localizzazione o per mancanza di attenzione nella sua applicazione. In primo luogo è essenziale che i

composti e i loro prodotti colorati siano pressoché insolubili, per evitare una diffusione o – peggio – una

parziale o completa dissoluzione delle macchie.

Queste condizioni sono ben soddisfatte dall’acetone, che presenta inoltre il particolare vantaggio – nella

tecnica ad immersione – di evaporare velocemente dal cromatogramma.

Se il cromatogramma deve venire conservato, si esegue solitamente una immersione finale per togliere

l’eccesso di reagente di localizzazione dalla carta (per esempio immergendo il cromatogramma in una

bacinella contenente unicamente il solvente utilizzato precedentemente per sciogliere il reagente di

localizzazione).

59 Ibidem, p. 28

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 47

In letteratura60 ho trovato due esempi della tecnica di immersione, che riporto qui perché interessanti, utili a

meglio capire cosa si svolga nella pratica corrente e facilmente eseguibili in laboratorio, anche se

relativamente poco equipaggiato.

Il primo esempio è quello della separazione degli amminoacidi. Il reagente più largamente utilizzato per la

loro rilevazione è la ninidrina, un solido bianco che viene applicato come soluzione allo 0,1- 0,25% (V/V) in

un opportuno solvente. L’esperienza ha mostrato che per l’immersione il solvente migliore per la ninidrina è

l’acetone, perché produce rapidamente un colore più intenso.

La reazione che si sfrutta è la seguente:

amminoacido + ninidrina (in soluzione) calore⎯⎯⎯→ prodotto colorato (eq. 9)

(incolore) (incolore) (blu – lilla)

La carta viene immersa nella soluzione di ninidrina in acetone, rimossa, dopodichè si fa evaporare l’acetone.

In seguito il cromatogramma viene riscaldato a circa 100°C per 5-10 minuti, per lasciar sviluppare il colore61

(che, ovviamente, sarà lo stesso per tutte le macchie).

Il secondo esempio è quello di un procedimento a più stadi. Prendiamo il caso di un metodo, molto usato e

sensibile per rivelare le sostanze riducenti, applicabile alla separazione da una miscela di glucosio o di

maltosio su cromatogrammi di carta. Si immerge il cromatogramma secco in una soluzione di nitrato di

argento acquosa al 10% V/V in acetone. Successivamente, si toglie la carta e si fa evaporare l’acetone.

Nel primo stadio non avviene ancora nessuna reazione, e la carta rimane di conseguenza bianca.

Nel secondo stadio, si alcalinizza (ossia si rende basico) il cromatogramma immergendolo in una soluzione

di soda caustica (NaOH) in alcol (contenente un poco di acqua) 0,5 M, e in questo modo il nitrato di argento

si riduce in corrispondenza alle macchie contenenti gli zuccheri riducenti e si deposita così dell’argento

metallico, che appare sul cromatogramma come delle macchie brune, che indicano la posizione degli

zuccheri.

Il nitrato di argento in eccesso diventerebbe rapidamente assai scuro al contatto con l’aria, e si deve così

svolgere un terzo stadio, in cui si rimuove il nitrato d’argento immergendo il cromatogramma in una

soluzione al 5% di tiosolfato di sodio. Quest’ultimo stadio si svolge unicamente se occorre conservare il

cromatogramma.

60 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, pp. 29-

30 61 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 30

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 48

La tecnica di immersione non può essere utilizzata se una o più sostanze cromatografate, o uno o più prodotti

colorati, sono solubili nel solvente usato per la localizzazione. In questo caso si ricorre alla tecnica dello

spruzzo.

In questo caso, ciò che si fa è semplicemente spruzzare uniformemente sulla superficie del cromatogramma

una soluzione del reagente di localizzazione, spruzzato per mezzo di un atomizzatore (v. figura 14.a) ).

Possono andare bene quelli usati per i profumi. Esistono però anche degli spruzzatori per cromatografia,

azionati da una pompetta a mano o da un flusso di aria compressa, come mostrato in figura 14.b) .

Figura 1462

Nel caso in cui servissero due o più reagenti di localizzazione, essi possono venire semplicemente spruzzati

in successione, senza bisogno di essiccare la carta dopo ogni applicazione: l’essiccazione è infatti meno

importante con la tecnica dello spruzzo.

Anche con questa tecnica, però, se si vuole conservare il cromatogramma, l’eccesso dei reagenti va rimosso.

Di per sé, in un procedimento a più stadi, nulla vieta che alcuni reagenti vengano applicati per immersione ed

altri a spruzzo.

Anche per la cromatografia su carta è valido il grande vantaggio di tutte le tecniche e tecnologie

cromatografiche, ossia una grande sensibilità, che permette di localizzare i composti separati anche se

presenti in quantità minime, sino ad arrivare all’ordine (nel caso della cromatografia su carta) di 0,1µg

62 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 30 (fig. 12)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 49

( -61µg=10 g ). Il limite inferiore per la rilevazione della maggior parte dei composti è infatti compreso tra 1 e

50µg.

Questa alta sensibilità è una caratteristica molto importante della cromatografia, giacché molti composti

organici naturali possono essere isolati solo in quantità di pochi milligrammi63.

4.4.1.7 CROMATOGRAFIA PREPARATIVA SU CARTA

Come detto, la cromatografia preparativa su carta richiede alcuni passaggi ulteriori rispetto ad una

cromatografia analitica su carta. Rispetto ad una cromatografia su colonna, quindi, un processo

cromatografico separativo risulta più complesso e, se utilizzato per grandi quantità, anche più costoso.

Tuttavia, nulla vieta di eseguire delle cromatografie preparative anche su carta.

Per la cromatografia preparativa su carta si usa una carta da filtro spessa. I composti separati vengono

recuperati prima eluendoli selettivamente con particolari solventi, poi concentrando le soluzioni e infine, se

necessario, cristallizzando i composti.

Solitamente, nel caso di una cromatografia preparativa, si sa già cosa si vuole ottenere. Di conseguenza, si

può procedere nel seguente modo.

Si applica dapprima la soluzione contenente la miscela di composti da separare come una striscia lungo la

linea base della carta (come preannunciato, in una cromatografia separativa, anziché delle macchie, si pone

una striscia). Ai due bordi si applica invece una soluzione di sostanze standard, fra cui perlomeno quelle che

desideriamo separare, come mostrato in figura 15.

Preparazione della carta

Figura 1564

63 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 31 64 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 34 (fig. 15.a) )

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 50

Una volta sviluppata ed essiccata la carta, si tagliano le strisce marginali in modo da comprendere i composti

standard ormai separati ed una parte di miscela. Queste strisce vengono se necessario (ossia se i composti

desiderati non sono colorati) trattate con un reagente di localizzazione (spruzzandole o immergendole),

mettendo così in evidenza le bande contenenti i composti che si desiderano ottenere.

Strisce marginali spruzzate

Figura 1665

Avvicinando poi le strisce trattate col reagente di localizzazione alla carta (ancora “vergine”) si possono

tracciare delle linee che andranno a definire delle aree, contenenti i componenti separati. Queste aree si

possono tagliare, ottenendo così una striscia per ogni componente desiderato.

Figura 1766

65 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 34 (fig. 15.b) )

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 51

Ognuna di queste strisce viene poi tagliata in striscioline più piccole, che potranno poi venire unite insieme

con un punto metallico per poi appenderle ad una bacinella di eluente permettendo così a quest’ultimo di

percolare attraverso di esse eluendo i composti desiderati. Tagliando le bande a striscioline piccole,

l’eluizione diventa più veloce e uniforme. Inoltre questa tecnica permette di tagliare delle striscioline

terminanti a punta, utili per far cadere le gocce in un bicchiere e non in modo sparso. Una figura aiuterà a

meglio capire questi vantaggi:

Figura 1867

4.4.1.8 CROMATOGRAFIE QUANTITATIVE SU CARTA

Anche su carta si possono effettuare delle cromatografie quantitative. Sebbene il procedimento sia meno

immediato e meno accurato di quello che si può svolgere nel caso di una cromatografia su colonna, la

possibilità di misurare le quantità di campione esiste appunto anche su carta.

Un primo metodo è il seguente, la cui somiglianza con quello appena descritto per una cromatografia

preparativa è notevole. Si applica un determinato e accuratamente misurato volume di miscela su un punto

della linea di base della carta (usando un capillare o una micropipetta tarati, o una micropipetta elettronica, in

grado quindi di misurare accuratamente il volume che viene depositato). Ai lati si depositano degli standards,

66 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 34 (fig. 16) 67 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 35 (fig. 17)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 52

nel nostro caso due campioni del componente da determinare. Tagliando le due strisce laterali e trattandole

con un opportuno reagente di localizzazione (sempre se questo sia necessario) si potrà identificare la banda

contenente il campione che si desidera determinare. Si potrà così ritagliare questa banda ed eluire il

campione in essa contenuto con un solvente appropriato, allo stesso modo di una cromatografia preparativa

su carta. In questo caso, però, si sottoporrà l’eluito a delle determinazioni, che potranno utilizzare uno o più

dei numerosi metodi disponibili per le sostanze in soluzione (reazioni colorimetriche, titolazioni, metodi

microgravimetrici, ecc.)68.

Ovviamente, il successo di questo e degli altri metodi quantitativi presuppone che la separazione sia

completa.

Esistono però anche altri metodi, che effettuano delle misurazioni direttamente sulla carta.

Il primo è quello utilizzabile nel caso in cui esista un reagente capace di reagire col componente da indagare

producendo un colore di intensità proporzionale alla quantità del componente. Metodi come questo sono per

forza di cose, intrinsecamente, comparativi.

Un’altra possibilità è la seguente. Si applica un volume accuratamente misurato di miscela sulla linea di

base. Ai due lati, in una serie di punti, si applicano delle quantità esattamente note (in ordine crescente o

decrescente, ma sempre graduale, per semplificare il confronto delle macchie o la lettura del grafico in fase

di lettura di dati) del componente da considerare, di cui si vuole trovare la concentrazione (conosciamo

infatti il volume della goccia di miscela che lo contiene e vorremmo ricavare la sua quantità). Una volta

sviluppata ed essiccata la carta, e localizzati i componenti, si può già effettuare una stima per semplice

confronto visivo.

Cromatogramma dopo la localizzazione

Figura 1969

68 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 35 69 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 37 (fig. 19)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 53

Chiaramente, le concentrazioni del composto da indagare negli standards applicati ai lati dovrebbero essere

all’interno di quella ipotizzata della miscela con concentrazione sconosciuta. Stime approssimative come

questa possono essere spesso sufficienti. Se invece si necessità di una misurazione più accurata, si può

ricorrere ad un apparecchio fotoelettrico, chiamato fotodensitometro, che misura l’intensità di ciascuna

macchia. Dal cromatogramma si ritaglia una sottile striscia di carta, che contenga il campione da determinare

(possiamo identificare la sua banda grazie agli standards a concentrazione nota applicati ai lati, standards che

contengono unicamente il campione da determinare). Si pone poi la strisciolina tra due lastre di vetro, poi

inserite nell’apposito alloggiamento all’interno del fotodensitometro. Qui si tara l’apparecchio su una

porzione di carta esente da macchie (di qualsiasi tipo) e si sposta la striscia di carta a piccoli tratti per volta,

attraverso il raggio di luce.

Fotodensitometro

Figura 2070

L’apparecchio misura il cambiamento di intensità di colore e lo registra su un grafico, in cui sull’ordinata c’è

la deflessione dell’indice (ossia l’intensità del colore per rapporto alla porzione di carta senza macchie usata

per tarare l’apparecchio) e sull’ascissa c’è la distanza percorsa dalla nostra strisciolina. L’area sottostante ad

ogni curva è proporzionale alla quantità di sostanza presente nella macchia. Questo metodo dà

determinazioni accurate, nella maggior parte dei casi, entro il 5%. Un valore di molto inferiore a quelli

raggiungibili con una cromatografia su colonna, ma comunque buono ed utile nel caso in cui non sia

richiesta un’accuratezza ottimale.

70 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 37 (fig. 20)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 54

4.4.1.9 CROMATOGRAFIA SU CARTA A SCAMBIO IONICO

Le applicazioni e la versatilità della cromatografia su carta possono essere estese utilizzando delle carte

impregnate di resine scambiatrici di ioni o impiegando per la fabbricazione della carta, invece della cellulosa,

delle speciali sostanze da essa derivate, che abbiano gruppi scambiatori di ioni. In questo modo è possibile

eseguire delle cromatografie a scambio ionico anche su carta.

Le sostanze che si possono impiegare al posto della cellulosa includono la carbossi-metil-cellulosa, il citrato

di cellulosa e il fosfato di cellulosa per quanto concerne gli scambiatori di ioni positivi, mentre esempi di

scambiatori di anioni sono l’amino-etil- e la dietil-amino-etil-cellulosa71.

L’uso di queste carte è semplice, ed assai simile a quello delle carte ordinarie. Lo sviluppo delle carte a

scambio ionico può venire effettuato con un solvente non ionico, ottenendo così delle separazioni simili a

quelle ottenute con una normale carta da filtro, cioè per ripartizione, oppure con una soluzione contenente

ioni in grado di spostare quelli delle sostanze separate, cioè per scambio ionico. L’utilizzo di entrambi i tipi

di sviluppo è possibile ed utile nel caso di separazioni bidimensionali.

4.4.1.10 ELETTROFORESI

L’elettroforesi è una tecnica separativa simile alla cromatografia su carta per quanto concerne la procedura

sperimentale, sebbene sfrutti principi completamente diversi, riferiti alle proprietà elettriche dei componenti

della miscela da separare. Per via di tale somiglianza, l’elettroforesi è spesso usata assieme alla

cromatografia, in modo complementare. Sostanze difficilmente separabili con i metodi cromatografici

possono infatti spesso venire separate velocissimamente con l’elettroforesi, e viceversa.

L’elettroforesi non è altro che una forma incompleta di elettrolisi, in cui le particelle cariche elettricamente

vengono arrestate in una certa posizione nel loro cammino verso gli elettrodi. Se l’elettroforesi, anziché in

modo libero, viene condotta a zone, le sostanze separate – una volta arrestata la corrente – non sono libere di

diffondere nella soluzione, ma vengono bloccate nella posizione da loro raggiunta nel mezzo impiegato come

supporto, che può essere costituito da gelatina di amido o anche strisce di carta da filtro72, come quelle usate

per la cromatografia cartacea. È di quest’ultima possibilità che ci occupiamo, perché – pur non più

trattandosi di cromatografia in senso stretto – si utilizza un procedimento assai simile per ottenere risultati

laddove la cromatografia su carta non lo permette. Procedimento peraltro che non esclude la cromatografia

su carta, ma che può anche migliorarla se utilizzato in una separazione cromatografica-elettroforetica

bidimensionale.

Il procedimento da seguire per una elettroforesi con una striscia di carta da filtro è il seguente. Si traccia una

linea perpendicolare alla lunghezza della carta, come per la cromatografia su carta. Su questa linea si

71 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 38 72 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 39

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 55

pongono delle gocce dei campioni da separare, segnando i punti (eventualmente con una scritta indicante la

miscela presente nella rispettiva goccia). Non essendovi un fronte del solvente con cui paragonare la corsa

dei campioni, si pone anche una goccia di una sostanza standard, con la quale si potranno paragonare i

percorsi dei campioni. Successivamente, si umidifica la carta, utilizzando una soluzione tampone (per evitare

interferenze dovute alla situazione di acidità/basicità durante la separazione). Le due estremità della striscia

di carta vengono poi immerse in due bacinelle contenenti la stessa soluzione tampone. Sopra e sotto la carta

si pongono due strisce di materiale isolante. Ne risulta un sistema come quello mostrato in figura 21 .

Apparecchiatura per elettroforesi ad alto voltaggio (a sinistra) e esempio di un cromatogramma sviluppato (a destra)

Figura 2173

Quando si fa passare la corrente elettrica, il supporto (cioè la strisciolina di carta) agisce da ponte tra i due

recipienti di soluzione tampone, e ogni sostanza avente una carica elettrica presente nella miscela migrerà (la

direzione dipenderà dal segno della carica, mentre la lunghezza dalla sua intensità e da quella della corrente

applicata). Spesse volte anche molecole prive di carica elettrica possono presentare mobilità elettroforetica,

perché esse possono formare degli ioni complessi con gli ioni presenti nella soluzione tampone. Questo è per

esempio il caso degli zuccheri, che possono venire separati per elettroforesi proprio grazie a ciò.

Dopo un adeguato intervallo di tempo si interrompe la corrente elettrica, si rimuove la carta, la si essicca ed a

questo punto si possono localizzare le sostanze separate: a occhio se queste sono colorate, per mezzo di un

reagente di localizzazione (usando l’immersione o lo spruzzo) se queste non sono visibili direttamente.

73 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 39 (fig. 21)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 56

La velocità di migrazione di una sostanza in un processo elettroforetico dipende da vari fattori, tra i quali la

natura e la struttura dello ione ed il voltaggio applicato.

Come nel caso della cromatografia, si identifica il cammino percorso da una sostanza durante l’elettroforesi

con un valore di xM , calcolato dividendo la distanza superata da tale sostanza per quella percorsa dalla

sostanza di riferimento. Nel caso di una sostanza A avremo XAM A = , dove X è la sostanza di riferimento.

È importante rilevare che, come nel caso della cromatografia, la mobilità elettroforetica di un composto in

una miscela è indipendente dalle altre sostanze presenti, ed è quindi riproducibile con semplicità ed

applicabile a miscele composte anche da sostanze sconosciute74.

Le applicazioni dell’elettroforesi su carta possono essere ulteriormente estese utilizzando strisce di acetato di

cellulosa anziché di carta ordinaria. Queste strisce, più o meno trasparenti, presentano infatti una struttura

molto più uniforme di quella della cellulosa e possiedono pori più piccoli, permettendo una risoluzione

migliore. Inoltre, l’acetato di cellulosa è in grado di separare anche piccolissime quantità di sostanza. Per

queste ragioni, l’acetato di cellulosa si rivela particolarmente utile nelle diagnosi cliniche, quando si

dovessero analizzare i liquidi corporei: dalle proteine del siero sanguigno, alle emoglobine, al liquido

cerebro-spinale, all’urina, al liquido lacrimale.

4.4.2 CROMATOGRAFIA SU STRATO SOTTILE La cromatografia su strato sottile è strettamente imparentata con la cromatografia su carta. Se però

quest’ultima permette solamente separazioni con materiali fibrosi, come la cellulosa, la filtrazione su gel

offre la possibilità di utilizzare anche altri materiali utili, come il gel di silice, l’allumina o le sferette per la

filtrazione su gel, che non possono venire prodotti in fogli. Il principio è assai semplice: si applicano dei

sottili strati di queste sostanze su un supporto, tipicamente costituito da una lastra di vetro, ma è possibile

anche utilizzare dei fogli di plastica resistenti ai solventi.

Gli strati sottili da applicare sul supporto possono essere di due tipi: strati induriti o morbidi. Quelli morbidi

hanno scarso utilizzo, e perciò non li tratteremo.

Come già detto, la cromatografia su strato sottile, partendo da una premessa pressoché identica a quella della

cromatografia su carta, apre però molte più possibilità, offrendo una scelta assai più ampia di mezzi

disponibili. In tal modo con questa tecnica si possono eseguire cromatografie per ripartizione, per

adsorbimento, per filtrazione su gel o per scambio ionico. Inoltre, le proprietà degli strati sottili consentono

tempi di sviluppo molto brevi. A titolo indicativo, si dica che spesso le separazioni su strato sottile si

74 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 40

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 57

possono produrre in 20-40 minuti75. Addirittura, questa accelerazione è percepibile anche nel caso si

utilizzasse uno strato sottile di cellulosa (ossia la stessa sostanza utilizzata nella cromatografia su carta).

Questa velocizzazione del processo è principalmente dovuta al fatto che la maggior parte degli strati sottili

permette una migliore risoluzione ed una maggiore compattezza delle macchie.

4.4.2.1 PREPARAZIONE DELLE LASTRE

Gli strati vengono preparati applicando su lastre di vetro pulite una sospensione del mezzo scelto in un

solvente opportuno. Per ottenere buoni risultati occorre che lo strato sottile sia di spessore uniforme. Per

ottenere risultati riproducibili (in fin dei conti gli unici accettabili in un procedimento sperimentale che abbia

pretesa scientifica), bisogna controllare le dimensioni delle particelle, la struttura superficiale e l’adesività

dello strato sottile. È importante che queste caratteristiche siano il più possibile omogenee, su tutto il

percorso che la fase mobile dovrà effettuare.

Se il materiale scelto dovesse aderire malamente al supporto (la lastra di vetro) si può incorporare al suo

interno un agente legante (per esempio del solfato di calcio), ma ciò non è sempre necessario.

Le sospensioni contenenti il mezzo scelto vengono normalmente preparate in acqua, la quale può contenere,

se necessario, degli acidi, delle basi, delle soluzioni tampone o altri agenti, a seconda delle necessità.

Bisogna sempre prestare attenzione affinché la sospensione abbia la giusta consistenza: se è troppo liquida

scorre troppo rapidamente e dà luogo a strati eccessivamente sottili, se è troppo viscosa è difficilmente

spalmabile e tende perciò a produrre degli ammassamenti eterogenei sulle lastre di supporto.

La spalmatura delle sospensioni degli strati sottili così preparate può avvenire in diversi modi. In commercio

esistono degli apparecchi appositamente progettati, che permettono di regolare lo spessore dello strato e la

grandezza della lastra, producendo un risultato eccellente (ossia una lastra coperta da uno strato uniforme).

Tuttavia è possibile anche spalmare tali sospensioni in modo più semplice e, soprattutto, più economico.

Basta far scivolare sulla lastra una bacchetta di vetro ai cui lati si è arrotolato un uguale spessore di nastro

adesivo o su cui si sono inseriti due tubi di gomma di uguale spessore. Un’altra possibilità, forse ancora più

semplice da realizzare, è quella di applicare ai lati della lastra due strisce di nastro adesivo e di far scorrere

sopra di esse la bacchetta di vetro.

Normalmente le lastre cromatografiche hanno dimensioni comprese tra i 2,5 x 20 cm e i 20 x 20 cm. Per usi

di laboratorio o per dimostrazioni didattiche, sono ideali anche lastrine più piccole, come i vetrini da

microscopia. La sospensione, in questo caso, può essere applicata o con appositi apparecchi (che sono

tuttavia piuttosto costosi) o immergendo nella soluzione preparata la lastrina, o spruzzando tale soluzione sul

vetrino da microscopia, o spalmando su quest’ultimo la soluzione con un altro vetrino, cercando di ottenere

uno strato omogeneo.

75 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 41

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 58

Una volta preparate le lastre, occorre essiccarle. Ciò si fa ponendole in un forno a 100-105°C per circa due

ore. Bisogna però prestare attenzione al fatto che alcuni mezzi (come le particelle rigonfiate di gel per

filtrazione) devono essere lasciati essiccare lentamente, in quanto un riscaldamento troppo brusco li farebbe

decomporre. Una volta essiccate, le lastre sono pronte per una cromatografia per adsorbimento. Nel caso si

desiderasse una cromatografia per ripartizione su gel di silice o su cellulosa, occorre una certa quantità di

umidità (di acqua). Per ottenere ciò, si lasciano le lastre esposte all’atmosfera. Questo processo prende il

nome di deattivazione.

Fortunatamente, per chi non volesse o non potesse produrre delle lastre cromatografiche, esistono delle lastre

cromatografiche già pronte, disponibili con una grande varietà di materiali di rivestimento.

4.4.2.2 SCELTA DELLA FASE STAZIONARIA E DEL SOLVENTE

Il mezzo da applicare sulla lastra, che andrà a costituire la fase stazionaria, può essere pressoché ogni

materiale. Come regola generale, anche qui vale quella già illustrata, ovvero di accoppiare la polarità del

mezzo a quella della soluzione da analizzare (ossia scegliendo un mezzo che abbia una certa differenza di

polarità rispetto alle sostanze da analizzare, per evitare che queste si depositino tutte all’inizio del loro

percorso).

I mezzi maggiormente impiegati sono la cellulosa microgranulare o microcristallina (per una cromatografia

per ripartizione), il gel di silice (per una cromatografia per ripartizione o per adsorbimento) e l’allumina (per

una cromatografia per adsorbimento).

Nel caso si desiderasse una cromatografia per filtrazione su gel o per scambio ionico, si sceglieranno dei

mezzi appositamente preparati: come detto in apertura di capitolo, infatti, la cromatografia su strato sottile

permette la realizzazione anche di queste tecniche cromatografiche, sebbene queste tecniche siano

tendenzialmente applicate alla tecnologia della cromatografia su colonna.

La scelta del solvente dipende dalla natura delle sostanze da separare e dal mezzo su cui verrà condotta la

cromatografia. Come regola generale, lo ribadisco un'altra volta, si deve accoppiare la polarità del solvente a

quella delle sostanze da separare. Ne consegue che per cromatografare delle sostanze idrosolubili si

sceglieranno strati di cellulosa o di gel di silice ed un solvente relativamente polare, mentre per separare

sostanze meno polari si opterà per strati di gel di silice attivato o di allumina e un solvente non acquoso,

relativamente apolare.

Per scegliere il solvente più adatto senza correre il rischio di dover ripetere l’intero esperimento per una

cattiva scelta di esso e/o per mancata esperienza, si può usare il seguente trucco. Si dispone una serie di

macchie della miscela da separare su una lastra cromatografica ricoperta dal mezzo scelto. Al centro di

ciascuna macchia si applicano, con un sottile capillare, i solventi da provare (già scelti e preparati secondo il

principio sopra spiegato) e, dopo aver lasciato migrare radialmente le macchie, si vedrà quale serie di centri

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 59

concentrici sarà più distinta e presenterà il maggior numero di circonferenze: tale macchia sarà quella col

solvente più adatto. Un esempio è mostrato in figura.

Figura 2276

4.4.2.3 APPLICAZIONE DEI CAMPIONI

I metodi sono gli stessi descritti per la cromatografia su carta. La grande delicatezza della maggior parte

degli strati impone tuttavia una maggior cura nell’applicazione. Esistono dei gocciolatori automatici, ma

vanno benissimo anche dei sottili capillari.

Dopo l’applicazione del campione alla linea di base, occorre lasciare evaporare il solvente in cui le sostanze

da separare sono disciolte. L’evaporazione da strati sottili è rapida, e normalmente non si rende perciò

necessario l’impiego di un asciugacapelli o di un’apparecchiatura che ne faccia le veci.

È possibile applicare diverse gocce sulla stessa macchia, purché però il solvente sia lasciato evaporare di

volta in volta. La quantità da applicare a ciascuna macchia è di circa 1µl77.

Esiste una cosiddetta “pipetta per strisciature”, che permette di applicare strisce di campione ai

cromatogrammi. Tale pipetta però, pur molto utile nelle cromatografie su carta, può venire impiegata nelle

cromatografie su strati sottili solo su strati con grande resistenza all’abrasione. In alternativa, si possono

tuttavia trovare in commercio degli apparecchi strisciatori, che permettono inoltre di applicare lungo una

striscia uniforme un volume accuratamente misurato. In tali apparecchi l’ago della siringa utilizzata per

applicare la soluzione contenente il campione non tocca mai lo strato sottile, e così il pericolo di abrasione è

scongiurato.

76 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 46 (fig. 23) 77 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 46

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Esistono anche degli applicatori che trasferiscono il campione sulla lastra per mezzo di un gas inerte o di aria

compressa. Tutti questi applicatori, per quanto comodi ed utili, sono piuttosto costosi, e quindi adatti alle

industrie ma sconsigliabili per cromatografie didattiche.

4.4.2.4 SVILUPPO

La procedura è simile a quella impiegata per la cromatografia su carta. Di solito lo sviluppo degli strati sottili

viene condotto col metodo ascendente. Nel caso si dovessero sviluppare più lastre, è possibile disporle in un

apposito supporto e inserire il tutto in una vaschetta leggermente più grande.

Qualsiasi metodo si scelga, si deve disporre un foglio di carta impregnato di solvente lungo le pareti laterali

della vaschetta e coprire il fondo della vaschetta con 0,5-1 cm di solvente per assicurare che l’atmosfera

interna sia satura dei vapori dell’eluente. Le lastre vengono introdotte dopo un certo periodo di tempo,

sufficiente per raggiungere l’equilibrio nell’evaporazione.

Normalmente il fronte del solvente viene lasciato avanzare per circa 10 cm, e poi la lastra viene estratta. Il

fronte del solvente viene marcato con una matita, e nel giro di pochi minuti il solvente evapora dallo strato

sottile. Se necessario si può riscaldare la lastra.

Gli strati composti da particelle di gel per filtrazione sono delicatissimi, ed è in questo caso consigliata la

tecnica discendente, con un angolo di 10-20°.

4.4.2.5 LOCALIZZAZIONE DEGLI ANALITI SUI CROMATOGRAMMI

Le procedure di localizzazione sono simili a quelle per la cromatografia su carta. La localizzazione per

immersione è però sconsigliata, giacché gli strati sottili possono così venire danneggiati facilmente.

Gli strati sottili, rispetto alla carta, presentano il vantaggio di essere, nella maggior parte dei casi, inorganici,

e quindi è possibile usare per la localizzazione dei reagenti molto corrosivi, tipo l’acido solforico (anche

concentrato), e degli agenti anche fortemente ossidanti. Molto usato è il vapore di iodio (nel caso in cui

nessuna delle sostanze da separare reagisse con lo iodio, altrimenti si avrebbe una localizzazione distruttiva,

solitamente non desiderata), che dà luogo a delle macchie marroni in corrispondenza degli analiti. Esso viene

prodotto semplicemente lasciando sul fondo di una vaschetta dei cristalli di iodio e ponendo in essa il

cromatogramma per pochi minuti.

Altri metodi non distruttivi, come già indicato in precedenza, sono la fluorescenza e la radioattività. Molte

lastre per strati sottili contengono degli additivi fluorescenti, che rivelano i composti a causa

dall’attenuazione della fluorescenza prodotta da questi ultimi. Facendo passare il cromatogramma sotto una

lampada ultravioletta si osserveranno così delle zone più scure corrispondenti alle macchie dei composti.

Questo metodo, oltre a sfruttare la fluorescenza naturale di determinate sostanze che magari sono proprio

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 61

quelle che abbiamo separato, si giova anche di questa attenuazione della fluorescenza, e si rivela così

particolarmente utile.

4.4.2.6 CROMATOGRAFIA SU STRATO SOTTILE A SCOPI PREPARATIVO E

QUALITATIVO

Per quanto la cromatografia su strato sottile e quella su carta siano più indicate a scopi qualitativi e analitici

che non quantitativi e/o preparativi (essendo, nel caso di una preparazione, in genere essi più costosi che non

una cromatografia su colonna e, nel caso di una determinazione quantitativa, più laboriosi e/o meno accurati

e precisi), queste due applicazioni non sono escluse a priori, bensì possono venire eseguite.

La cromatografia su strato sottile può venire impiegata come metodo preparativo usando strati più spessi e

lastre più grandi. La quantità di sostanza che può essere separata dipende dalla natura della sostanza e dal

metodo di separazione. In termini generali, si dica che su una lastra di 40 x 20 cm, con uno strato di 1mm, si

possono cromatografare fino a 10mg per ripartizione e fino a 10mg di miscela per adsorbimento78. In ogni

modo, devo ricordare che è sempre possibile sviluppare diverse lastre contemporaneamente, potendo così

cromatografare quantità anche elevate di sostanza.

Il campione viene applicato lungo una striscia, ed occorre quindi uno dei metodi descritti in precedenza.

Rispetto alla cromatografia su carta, bisogna prestare attenzione al fatto che strati piuttosto spessi possono

assorbire79 anche notevoli quantità di solvente, per cui esiste il pericolo che la composizione di esso vari

durante lo sviluppo lungo la lastra.

La localizzazione degli analiti avviene con dei metodi non distruttivi. Se ciò non fosse possibile, si

localizzano le sostanze sulle strisce laterali della lastra con un reagente chimico, e in seguito si rimuovono le

bande contenenti le sostanze separate per mezzo della punta di una spatola, in analogia col metodo già

esposto per la cromatografia su carta. Con la spatola si raschia lo strato sottile e si raccoglie la polvere, dalla

quale le varie sostanze possono venire estratte con un solvente. Un alternativa è quella di usare un aspiratore

a vuoto, che aspira la polvere in un contenitore.

Nel caso in cui si volesse effettuare una cromatografia a scopo quantitativo si segue lo stesso procedimento,

applicando però alla linea di base un volume noto del campione. Alla fine del procedimento appena descritto,

le quantità delle sostanze eluite selettivamente possono venire misurate con uno dei normali metodi d’analisi

(il più ovvio è quello di pesare la massa della sostanza così recuperata). Un’altra possibilità è quella di

determinare le quantità dei componenti separati direttamente sulla lastra, utilizzando gli stessi metodi

spiegati per la cromatografia su carta (v. cap. 4.4.1.8).

78 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano, p. 49 79 Assorbire, ossia far penetrare nei propri interstizi.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 62

4.4.2.7 DOCUMENTAZIONE DEI RISULTATI

A differenza della cromatografia su carta, non si desidera normalmente conservare i cromatogrammi, giacché

le lastre possono venire recuperate e reimpiegate. Benché fotografare il cromatogramma sia semplice ed

eccellente, si tratta di un metodo che richiede molto tempo. Per questo motivo si è soliti seguire un metodo

diverso, quello cioè di spruzzare sul cromatogramma una speciale dispersione plastica che si indurisce,

formando un rivestimento plastico trasparente. Questa sottile pellicola può venire rimossa dalla lastra e

conservata.

4.4.3 CROMATOGRAFIA SU COLONNA Nelle colonne si possono integrare numerosi mezzi, che danno luogo a separazioni per ripartizione,

adsorbimento, scambio ionico o filtrazione su gel. Di per sé, quasi ogni mezzo è suscettibile di impiego. I più

comuni sono la cellulosa, il gel di silice, la celite e il “kieselguhr” per separazioni per ripartizione e

l’allumina, l’ossido di magnesio, l’ossido di calcio, il carbone attivo, varie resine scambiatrici di ioni e

derivati della cellulosa per separazioni per adsorbimento o per scambio ionico.

Lo stato fisico del mezzo scelto deve essere tale da permettere un riempimento omogeneo della colonna ed

un flusso libero del solvente attraverso di essa.

4.4.3.1 LA COLONNA

La colonna deve essere chiusa o, meglio, chiudibile (per esempio con un rubinetto, o con un tubo di gomma

collassabile con una pinzetta a vite) sul fondo.

Per riempire una colonna col mezzo scelto la si pone verticalmente e si colloca sul suo fondo un filtro (per

esempio, in una cromatografia su colonna normale, ossia non ad alta pressione, un disco di porcellana con

dei fori seguito da un batuffolo di lana di vetro) per trattenere i materiali solidi nella colonna e lasciare

percolare i liquidi.

Sebbene sia possibile anche caricare il mezzo a secco, di solito il caricamento avviene a umido, introducendo

il mezzo attraverso una sospensione, ottenendo così maggiore uniformità all’interno della colonna. In pratica

si versa la sospensione a piccole porzioni, lasciandola sedimentare per gravità e lasciando percolare i liquidi,

mantenendo però il livello del liquido in modo che la colonna sia riempita fino in cima. Terminata

l’operazione, la colonna è pronta per la cromatografia.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 63

4.4.3.2 SOLVENTI

Il tipo di solvente dipende innanzitutto dal tipo di cromatografia che si esegue: per ripartizione,

adsorbimento, scambio ionico o esclusione.

I solventi usati per la cromatografia per ripartizione sono simili a quelli usati nella cromatografia su carta.

Per quanto concerne le separazioni per adsorbimento, va sottolineata l’importanza di avere un solvente

esente da impurità, giacché queste possono alterare lo sviluppo.

Con adsorbenti del tipo del gel di silice e dell’allumina, la forza di adsorbimento aumenta all’aumentare della

polarità del materiale che si fa passare attraverso la colonna. Il materiale, quindi, è normalmente fatto

percolare in un solvente apolare (per esempio un idrocarburo), giacché i gruppi polari – come per esempio

l’ossidrile (-OH-) presente nell’acqua (H2O) o negli alcoli (R-OH, per esempio l’etanolo) – causerebbero un

desorbimento. Desorbimento che è desiderato invece alla fine del processo di separazione, per poter

recuperare le sostanze prima adsorbite lungo la colonna. In conseguenza a queste due esigenze – dapprima

permettere l’adsorbimento e in seguito ottenere il desorbimento – appare logico effettuare l’eluizione della

colonna (ossia il passaggio del solvente con gli analiti inizialmente ancora presenti) con solventi di natura

vieppiù polare. Una serie tipica può dunque essere questa: esano < cicloesano < benzene < cloroformio <

dietil-etere < acetato d’etile < acetone < etanolo < metanolo < acqua (pura)80. In questo caso, come spiegato

nel cap. 4.3.3, si ha una cromatografia a fase normale.

L’effetto opposto, ossia quello di una cromatografia a fase inversa, si ottiene usando come adsorbente una

sostanza apolare come il carbone attivo. In tale caso, l’adsorbimento avviene a partire da una soluzione

acquosa. Per esempio si potrà separare una miscela acquosa contenente glucosio e maltosio (un disaccaride),

versandola su una colonna di carbone attivo e attendendo che le molecole di zucchero si adsorbano sul

carbone attivo. Esse si potranno poi eluire usando dell’acqua (per il glucosio) e dell’etanolo contenente un

poco di acqua (per il maltosio), sfruttando cioè la relativa maggiore o minore polarità di ogni analita.

Nel caso di una cromatografia per scambio ionico, i campioni si adsorbono a causa delle forze elettrostatiche

(cfr. cap. 4.3.4). Il desorbimento selettivo avviene variando il pH e/o la concentrazione degli ioni nel

solvente eluente.

Per quanto attiene alla cromatografia per gel filtrazione, il solvente dipenderà unicamente dalle sostanze da

separare (esse devono potersi sciogliere nel solvente, ossia esservi solubili) ed eventualmente la vulnerabilità

della fase stazionaria (essa non deve rovinarsi e non deve interagire né con gli analiti né col solvente).

4.4.3.3 ELUIZIONE

La miscela da separare viene sciolta in un opportuno solvente, in modo da ottenere una soluzione piuttosto

concentrata, introdotta poi nella colonna per mezzo di una pipetta (ed eventualmente di una bacchetta di

80 DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano

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Pagina 64

vetro per mescolare il tutto) o, nel caso di un’apparechiatura più sofisticata o di un HPLC, di una pompa. Il

solvente scelto deve essere miscibile con quello impiegato per riempire la colonna. Il rubinetto sul fondo

della colonna è leggermente aperto, in modo da lasciare uscire una quantità di liquido tale da permettere di

mantenere costante il suo livello all’interno della colonna (fino all’orlo del materiale di riempimento).

Successivamente si fa fluire l’eluente con moto uniforme lungo la colonna, finché la miscela si è

completamente separata. Tale procedura prende il nome di analisi per eluizione.

Come vedremo fra poco, esistono due principali tipi di eluizione: l’eluizione isocratica e quella a gradiente.

Nel primo tipo si utilizza un unico solvente durante tutto il tempo dell’eluizione (è il caso, in genere, di una

cromatografia per ripartizione), mentre nel secondo si utilizzano due o più solventi, che variano durante

l’analisi. Questo secondo tipo può prevedere una variazione drastica (ossia un cambiamento di solvente) o

una variazione progressiva (ovvero un cambiamento delle relative concentrazioni dei due o più solventi dalla

situazione iniziale a quella finale; per esempio da una situazione con solvente A 0% e solvente B 100% ad

una situazione con solvente A 60% e solvente B 40%). Quest’ultimo procedimento abbisogna di una pompa

con due o più entrate (e con un miscelatore), o eventualmente composta da due o più pompe. Ma vediamo un

esempio concreto.

Nel caso di una cromatografia su colonna per ripartizione ci si ferma alla prima parte esposta sopra (un solo

solvente), nel caso invece di una cromatografia su colonna per adsorbimento occorre ancora aggiungere

qualche indicazione. In quest’ultimo caso, infatti, sono utili alcune variazioni nel procedimento descritto nel

primo paragrafo. In particolare, nel caso in cui il primo solvente dovesse fluire rapidamente (ossia in tempi

ragionevoli, senza eccessive attese) unicamente solo una parte dei componenti della miscela, lasciandone

alcuni adsorbiti per lungo tempo (o per sempre) nella colonna, si dovrà utilizzare un secondo solvente, con

un più forte potere desorbente, per completare la separazione. Qualche volta, può rendersi necessaria una

serie di più solventi, ciascuno con un potere desorbente via via maggiore. Siccome questi solventi vengono

aggiunti a stadi successivi, tale procedimento prende il nome di eluizione a stadi.

In alternativa alla eluizione a stadi, la concentrazione del secondo solvente può essere aumentata

uniformemente per mezzo di un apparecchio, in modo tale che questa sia progressiva. Si parla in questo caso

di eluizione a gradiente.

L’obiettivo che ci si pone è che l’eluente abbia un potere desorbente che cresca lentamente, e che quindi

desorbisca successivamente i vari composti adsorbiti dalla colonna, anche se questi dovessero essere molti e

magari anche simili fra loro (questo è il vantaggio di un aumento lento e graduale del secondo solvente,

rispettivamente del terzo, del quarto, e così via).

4.4.3.4 RACCOLTA ED IDENTIFICAZIONE DEGLI ANALITI

Evidentemente è assai banale seguire la separazione di sostanze diversamente colorate. Con sostanze incolori

ciò non è però possibile.

In questi casi esistono due tipologie.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 65

La prima prevede di fluire per un certo periodo di tempo e successivamente spingere fuori dalla colonna la

fase stazionaria. Successivamente si presentano due possibilità. Una è quella di fare evaporare il solvente e

tagliare poi la colonna a strati, da ciascuno strato viene poi estratto l’analita (o gli analiti) con un solvente ed

il campione viene esaminato. L’altra possibilità è di pressare una striscia di carta contro la colonna, in modo

che la prima assorba una piccola quantità di solvente. Si fa essiccare la carta e la si spruzza poi con un

reagente per localizzare i composti. Affiancando la striscia di carta alla colonna, si possono localizzare i

composti e tagliare le porzioni di colonna contenenti i composti desiderati. Questa prima tipologia non è

molto utilizzata, da un lato perché non molto comoda e dall’altro – soprattutto – perché implica l’estrazione e

la distruzione della fase stazionaria. Tuttavia le va riconosciuto il merito di risparmiare molto solvente,

talvolta assai costoso.

La seconda tipologia consiste invece nel lasciar proseguire la separazione finché le sostanze separate non

emergano nell’eluito. Si raccolgono così molte frazioni di eluito (spesso di uguale volume), che vengono poi

analizzate. Quando il contenuto di tali frazioni è noto, alcune di esse si potranno riunire, mentre il contenuto

di altre potrà essere gettato nei liquidi di scarto. Altre frazioni potrebbero contenere più componenti, che si

possono separare con un ulteriore frazionamento su un’altra colonna. La purezza dei composti ottenuti può

essere verificata con una cromatografia su carta o su strato sottile, ma eventualmente anche su colonna (se si

dispone di un’altra colonna o se si ha il tempo di reimpaccare quella utilizzata in precedenza).

La raccolta di un grande numero di frazioni è lunga, per cui tale lavoro può essere svolto da alcuni

apparecchi meccanici, come, per esempio un tamburo portaprovette rotante, come quello mostrato in figura.

Figura 2381

81 Immagine tratta da DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS; Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello

editore, Milano, p. 57 (fig. 30)

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Si tratta di un raccoglitore che riunisce frazioni a volume costante, grazie ad un sifone bilanciato da un

contrappeso. Un altro tipo di apparecchio può essere quello munito di un contagocce. Esso è indicato per

raccogliere piccole frazioni. Benché possa venire regolato per collezionare campioni composti anche da

molte gocce (e quindi benché possa rendersi adatto anche alla raccolta di frazioni più grandi), presenta lo

svantaggio di non raccogliere frazioni a volume costante, giacché col cambiare solvente cambia anche la

dimensione delle gocce.

Una volta raccolte le frazioni, occorre analizzarne il contenuto. Con centinaia di frazioni, fatto non inusuale

per alcune separazioni, ciò sarebbe un’impresa immensa. In casi simili, perciò, l’eluente viene spesso

analizzato in continuo, prima che finisca nelle provette di raccolta.

Per le analisi in continuo, l’eluente è fatto passare in uno strumento che misura una determinata proprietà

degli analiti. Molti composti, per esempio, sebbene incolori, assorbono la luce in un ben determinato spettro,

spesso l’ultravioletto. Pompando l’eluente a velocità costante in una celletta recante due finestre opposte, si

fa passare attraverso la celletta un raggio ultravioletto di una ben precisa lunghezza d’onda, poi captato da

una fotocellula posta dalla parte opposta della celletta. Sostanze diverse assorbiranno in maniera diversa la

luce ultravioletta, determinando segnali diversi ricevuti dalla fotocellula e quindi impulsi elettrici diversi

inviati da quest’ultima all’integratore o al computer con un software che svolga il compito dell’integratore

(di solito tale software permette più operazioni dell’integratore: dall’elaborazione dei dati ricevuti fino al

controllo del cromatografo tramite ordinatore ed interfaccia, magari anche automatizzato secondo dei

parametri precedentemente immessi). L’integratore o il computer tracceranno, a seconda degli impulsi

ricevuti, una linea su un grafico. Quando sarà presente unicamente il solvente la linea sarà piatta (essendo il

solvente sempre presente, questa sarà la linea “di base” del grafico), mentre quando attraverso la celletta

passerà una sostanza, sul grafico si potrà notare un picco. Consultando il grafico si possono così localizzare –

a seconda del tempo a cui compaiono (tempo che prende il nome di tempo di ritenzione, come verrà spiegato

in seguito) – le varie sostanze separate. Il calcolo dell’area del grafico permetterà poi anche un rilevamento

quantitativo: basta comparare l’area del picco indagato con quella di un picco prodotto da una quantità nota

di sostanza. Va da sé che, per ottenere dati quantitativi, si rende necessario operare in condizioni ben

controllate e annotate, requisito peraltro sempre richiesto (anche per cromatografie qualitative) onde poter

ottenere risultati riproducibili. Si vede bene come nella cromatografia su colonna l’analisi quantitativa sia

molto semplice (rispetto a quella qualitativa non presenta infatti grandi differenze di procedura, basta

effettuare dei calcoli su dati già disponibili e cromatografare anche un campione a quantità nota), a

differenza delle cromatografie su carta e/o su strato sottile (dove, come si è visto, un’indagine quantitativa

richiede molte operazioni ulteriori rispetto ad un’analisi unicamente qualitativa).

Se i composti da separare non hanno la proprietà di assorbire la luce ultravioletta, si può operare nello stesso

modo utilizzando un’altra lunghezza d’onda (per esempio quella infrarossa), se si ha a disposizione un tale

spettrofotometro, o inviando l’eluito ad uno spettrometro di massa, o ad un apparecchio che effettui una

risonanza magnetica nucleare (RMN), oppure si possono far reagire tali composti con un appropriato

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Pagina 67

reagente, in modo da dar luogo a dei prodotti colorati o sensibili alla radiazione ultravioletta (operazione

spesso consigliata visti gli elevati costi delle apparecchiature per la spettrometria di massa e, ancor di più, per

la RMN). Per scopi preparativi, si trattano in questo modo unicamente quei composti che non sono già stati

identificati attraverso il rilevatore ultravioletto, mentre quegli analiti separabili direttamente con quest’ultimo

vengono separati prima, onde ridurre il dispendio di tempo e fatica ma anche, e soprattutto, di reagenti.

4.4.3.5 CROMATOGRAFIA IN LIQUIDO A FILO MOBILE

Si tratta di uno sviluppo della normale cromatografia in colonna. All’interno dell’effluente dalla colonna si fa

passare un filo di acciaio inossidabile, calibrato con grande precisione. Questo filo raccoglie così su se stesso

un sottile film di effluente. Il filo passa poi attraverso un piccolo forno, dove l’effluente viene fatto evaporare

ed il vapore analizzato da un rivelatore molto sensibile, del tipo di quelli sviluppati per la gascromatografia.

Questo rivelatore, lo scrivo solo a scopo di completezza ma senza entrare nei dettagli, può essere a

ionizzazione di argon o a ionizzazione di fiamma, a dipendenza del campione da analizzare.

La grande sensibilità di questi rivelatori verso le sostanze organiche, e viceversa la loro scarsa sensibilità a

cambiamenti di temperatura e/o del flusso del gas, permettono di rivelare e registrare quantità piccolissime di

sostanza, fino all’ordine di parti per milione rispetto al solvente. Inoltre, la risposta di questo sistema è

rapidissima, per cui i picchi vengono registrati sul cromatogramma pressoché nello stesso istante in cui

escono dalla colonna le sostanze corrispondenti (come nel caso si disponesse di un integratore in una

normale cromatografia in colonna, vedi sopra). Inoltre la quantità di sostanze sottratta per la rivelazione è

infima, per cui virtualmente tutta la sostanza separata viene recuperata.

L’alta sensibilità del sistema di rivelazione permette poi elevati rapporti fase stazionaria : campione, vicini a

quelli della cromatografia su strato sottile e provocanti una risoluzione superiore a quella normalmente data

dalla cromatografia in colonna (semplice, non l’HPLC, che dà migliori risultati). Infine, il sistema presenta il

grande vantaggio di essere indipendente dal solvente, per cui anche variazioni della composizione

dell’eluente – come nell’eluizione a gradiente o in quella a stadi – non influiscono sui risultati.

Tuttavia questo sistema presenta un importante difetto: ha applicabilità limitata. Benché infatti il sistema a

filo mobile possa essere applicato a qualsiasi tipo di colonna, esso è utilizzabile solo per sostanze

vaporizzabili o pirolizzabili. Oltre a ciò, occorre che il solvente abbia un punto di ebollizione molto più basso

di quello delle sostanze disciolte e generalmente deve avere una tensione superficiale inferiore a quella

dell’acqua, onde assicurare un certo ricoprimento del filo.

4.4.3.6 CROMATOGRAFIA IN COLONNA CON RICICLO

Non sempre è possibile ottenere una separazione completa con una sola colonna: spesso è desiderabile

rifrazionare il materiale separato solo parzialmente (quello già separato viene semplicemente riunito e

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stoccato) in una seconda colonna, eventualmente usando un altro mezzo di riempimento (un’altra fase

stazionaria) ed un altro sistema di solventi. Per sostanze molto stabili ciò non costituisce certo un problema,

ma per sostanze facilmente decomponibili, come gli enzimi (oggi spesso obiettivo delle separazioni, viste le

metodiche di produzione di molti farmaci, cfr. cap. 3), la procedura di riconcentrare e ripreparare le frazioni

per la seconda preparazione (ed eventualmente per una terza) può richiedere molto tempo ma anche e

soprattutto provocare notevoli perdite di sostanza. Queste perdite possono però venire evitate grazie alla

tecnica della cromatografia con riciclo.

Il principio è banale, ma furbo: si fa passare nuovamente attraverso il letto della colonna il campione da

analizzare – sciolto nell’opportuno solvente –, aumentando così la lunghezza della colonna e, di riflesso,

l’efficienza del sistema (cfr. cap. 4.4.3.10). Chiaramente, il sistema di rivelazione deve essere non distruttivo,

come quello di un “detector” ad ultravioletti o di un rivelatore della conducibilità elettrica. Speciali valvole a

selettore, infine, permettono di rimuovere dal sistema le sostanze separate o i composti non desiderati in ogni

punto del ciclo. I componenti non ancora risolti possono così essere riciclati finché non si sia raggiunta una

separazione sufficiente.

4.4.3.7 COSA AVVIENE IN UNA COLONNA DURANTE UNA SEPARAZIONE

CROMATOGRAFICA

Per capire le potenzialità e i limiti della cromatografia su colonna, è necessario cercare di capire cosa

avvenga in una colonna. Immaginiamo di avere una colonna riempita di una fase stazionaria granulare solida

in cui facciamo scorrere una fase mobile liquida, contenente (in soluzione) due sostanze A e B, con

rispettivamente coefficienti di ripartizione . 1.

= =AA

A

Conc FMKConc FS

e . 1. 3

= =BB

B

Conc FMKConc FS

. Benché la fase

sia aggiunta in continuo, è possibile immaginare la colonna – in analogia con le colonne per la distillazione

frazionata82 – come una serie di zone adiacenti, in ognuna delle quali i soluti raggiungono un equilibrio tra la

concentrazione nella fase stazionaria e la concentrazione nella fase mobile. Ognuna di queste zone prende il

nome di piatto teorico, e l’estensione di tali zone all’interno della colonna è detta altezza del piatto (il piatto

teorico corrisponde dunque a quel tratto di colonna nel quale una specie chimica si trova in equilibrio tra le

82 Si pensi per esempio alla distillazione del petrolio grezzo, effettuata dapprima per mezzo di una

distillazione frazionata in alte torri cilindriche. Per un’esposizione semplice e chiara, si veda FRANCO

BAGATTI, ELIS CORRADI, ALESSANDRO DESCO, CLAUDIA ROPA; Chimica; Zanichelli, Bologna, 1996; pag.

11

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Pagina 69

due fasi, stazionaria e mobile, prima che l’eluente la trascini ad uno stadio successivo83). Come vedremo in

seguito, tanto maggiore è il numero di piatti teorici (oppure, tanto minore è la loro altezza), tanto maggiore è

l’efficienza della colonna.

Per capire cosa avvenga, seguiamo passo dopo passo (meglio sarebbe dire piatto dopo piatto) la separazione

di 256 particelle di sostanza A e di 256 particelle di sostanza B in una colonna in cui abbiano coefficienti di

ripartizione (come detto) 1=AK e 31

=BK . In una rappresentazione grafica avremo84:

83 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf, p. 2 84 Figure 24-30 tratte da http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html

Figura 24

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Dopo la ripartizione all’interno del primo piatto teorico, avremo la seguente situazione:

Figura 25

Dopo la ripartizione all’interno del secondo piatto teorico, avremo invece questa situazione:

Figura 26

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Dopo la ripartizione all’interno del terzo piatto teorico, si avrà:

Figura 27

Dopo tredici ripartizioni, si avrà:

Figura 28

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E, infine, dopo venti ripartizioni, si avrà:

Figura 29

Tracciando un grafico che rappresenti le ripartizioni delle due sostanze A e B, si ottiene:

Figura 30

Questo grafico prende il nome di cromatogramma, e quando i due picchi sono separati l’uno dall’altro

significa che siamo riusciti ad effettuare una separazione completa delle due sostanze A e B. Per la lettura e

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Pagina 73

l’elaborazione matematica dei cromatogrammi, si veda il cap. 4.4.3.11. Si ricordi però che, oltre a questi dati

quantitativi, i cromatogrammi, i tempi di ritenzione che essi ci danno, la loro forma, il loro variare

cambiando sistema di solventi, eccetera, ci permettono di concludere varie ed interessanti considerazioni

qualitative (come noi abbiamo peraltro fatto quando abbiamo condotto i nostri esperimenti, cfr. cap. 5).

4.4.3.8 “HIGH PERFORMANCE LIQUID CROMATOGRAPHY” O HPLC

L’HPLC è un tipo particolare di cromatografia su colonna, è uno sviluppo di questa tecnica. Innanzitutto

riprendo quanto già detto nel capitolo 3: HPLC è una sigla che è nata con un significato ma è oggi utilizzata

con un altro. A causa di questo “inconveniente” storico-linguistico, vi è oggi una certa confusione di termini

nella letteratura sull’argomento. È quindi mia intenzione chiarire subito questo semplice dilemma.

Originariamente HPLC fu la sigla di “High Pressure Liquid Chromatography”, giacché in un primo tempo si

credeva che fosse la pressione il principale fattore alla base delle aumentate possibilità rispetto ai metodi

tradizionali. Tuttavia non è così, e in realtà le qualità dell’HPLC sono dovute a vari fattori, per cui è

preferibile usare il termine “High Performance Liquid Chromatography”. Fra poco vedremo quali siano le

principali caratteristiche dell’HPLC che la differenziano da una normale cromatografia su colonna, e

capiremo così perché sia meglio parlare di “High Performance (e non Pressure) Liquid Cromatography”.

Ho appena parlato di “qualità dell’HPLC” e di “aumentate possibilità rispetto ai metodi tradizionali”, in

quanto l’HPLC è una procedura cromatografica direttamente derivata dalla cromatografia classica su colonna

e, come tale, si basa sugli stessi principi cromatografici esposti nella prima parte di questo lavoro (cap. 4.3).

Nella cromatografia su colonna classica, la colonna contiene la fase stazionaria all’interno della quale scorre

la fase mobile, rappresentata dall’eluente. Il passaggio di quest’ultimo avviene attraverso la spinta esercitata

dalla colonna di liquido costituente la fase mobile e grazie alla forza di gravità. Se la fase stazionaria non è

sufficientemente porosa, tale passaggio può anche essere particolarmente lento. La novità dell’HPLC risiede

nel fatto che la forza che permette all’eluente di scorrere nella colonna è creata non più dalla forza di gravità

ma dalla pressione applicata in testa alla colonna da una pompa, pressione che forza la fase mobile a scorrere

all’interno di quella stazionaria. Ciò non solo rende il processo più rapido, ma aumenta anche il numero di

piatti teorici e in tal modo la risoluzione della colonna.

Come vedremo nel cap. 4.4.3.10, infatti, il potere di risoluzione di una colonna cromatografica aumenta

all'aumentare del numero dei piatti teorici, ossia da un lato con l’incremento della lunghezza della colonna e

dall’altro con l’innalzamento del numero di piatti teorici presenti per unità di lunghezza (sebbene esistano dei

limiti alla lunghezza di una colonna dovuti al problema dell'allargamento dei picchi). Giacché il numero dei

piatti teorici è in relazione all'area della fase stazionaria, a minori dimensioni delle particelle della fase

stazionaria corrispondono migliori risoluzioni. Sfortunatamente, però, diminuendo le dimensioni delle

particelle, assieme all’area della fase stazionaria aumenta anche la resistenza al flusso dell'eluente. Le

velocità di flusso relativamente basse che si ottengono nelle tecniche cromatografiche su colonna classiche

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favoriscono il fenomeno dell'allargamento dei picchi per semplice diffusione dei soluti85 e per questo motivo

risulta inutile applicare velocità di flusso più elevate, in quanto ciò provocherebbe un ritorno di pressione

sufficiente a danneggiare la struttura della matrice della fase stazionaria con conseguente riduzione del flusso

dell'eluente e peggioramento della risoluzione. L’evoluzione tecnologica sfociata nella tecnica dell’HPLC ha

coinvolto la cromatografia d’adsorbimento, di ripartizione, a scambio ionico, ad esclusione e di affinità ed ha

incrementato di molto il grado di risoluzione e la velocità di separazione. Ciò spiega perché l'HPLC sia

considerata oggi la tecnica cromatografica più diffusa, efficace e versatile.86

I primi sviluppi della cromatografia su colonna verso l’HPLC furono effettuati dopo che si ipotizzò e si

constatò che l’aumento del numero di piatti teorici si poteva ottenere impaccando la colonna con particelle di

diametro più piccolo. Verso la fine degli anni ’60 fu sviluppata una tecnologia adatta alla fabbricazione di

particelle di grandezze dell’ordine dei 5 – 10 µm per riempire le colonne cromatografiche87.

Siccome però una diminuzione delle dimensioni delle particelle aumenta la resistenza opposta da queste al

flusso e abbassa la velocità lineare (espressa in mm/sec) della fase mobile, ossia il flusso (espresso in

mL/min) della fase mobile, era necessario che il solvente potesse attraversare la colonna con una maggiore

pressione. Ne risulta, quindi, che proprio con la nascita di queste tecnologie per la fabbricazione di particelle

di piccole dimensioni (e con i relativi adattamenti per il raggiungimento di una adeguata pressione) venne

anche alla luce il nome di “High Pressure Liquid Chromatography” (HPLC).

Confrontata con le tecniche cromatografiche precedenti (o “classiche”), l’HPLC presenta queste principali

peculiarità: 85 Poiché ad ogni piatto teorico si verifica una distribuzione dei soluti tra le fasi stazionaria e mobile, la

concentrazione dei soluti nella fase mobile varia. Essendo questa liquida, è logico che per semplice

diffusione sia favorito un processo di “equilibramento” e di livellamento delle concentrazioni. Se dunque nel

piatto teorico 2 gran parte dei soluti passerà dalla fase mobile a quella stazionaria, avverrà che i soluti

presenti nella fase mobile nei tratti appena precedente e successivo della colonna (piatti teorici 1 e 3)

tenderanno a spostarsi per diffusione in corrispondenza del piatto teorico 2. Giacché il flusso viaggia in

direzione 1 3, probabilmente nella zona del piatto teorico 3 non ci saranno ancora soluti. Avverrà dunque

una diffusione dei soluti da 1 a 2. In fase di desorbimento l’effetto sarà contrario, e dunque si avrà una

diffusione da 2 ad 1. In questa situazione, una pressione elevata del flusso defavorirà in maniera importante

la diffusione in direzione 2 1, andando così ad attenuare in maniera considerevole l’allargamento dei

picchi dovuto ai fenomeni diffusivi. 86 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 87 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

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· più piccolo diametro delle colonne (2-5 mm);

· colonne in acciaio inossidabile (quindi riutilizzabili, ev. reimpaccabili);

· impaccamento (riempimento) delle colonne con particelle molto piccole e sviluppo continuo di nuove

sostanze da usare come fasi stazionarie (anche a dipendenza delle esigenze separative, ossia delle

sostanze da separare);

· pressioni di iniezione relativamente elevate e flusso controllato della fase mobile;

· introduzione di una precisa quantità di campione, e iniezione di piccole quantità di campione

(solitamente 5 – 20 µL, ma si possono effettuare iniezioni anche di solo 1µL) (non è più necessario

iniettarne grandi quantità, con un conseguente risparmio di campioni e solventi);

· “detectors” capaci di lavorare in continuo e di rilevare anche quantitativi molto piccoli di sostanza;

· strumenti automaticizzati grazie all’impostazione di procedimenti standardizzati (programmazione

tramite appositi softwares resa possibile da efficienti interfacce PC-cromatografo);

· analisi piuttosto rapide;

· risoluzione elevata.88

Alla luce di queste caratteristiche, risulta manifesto che la pressione elevata non è l’unico fattore all’origine

dell’interesse dell’HPLC. Il termine “High Pressure Liquid Chromatography” è dunque un vocabolo

sfortunato, giacché induce a credere che le migliorate prestazioni siano dovute esclusivamente all’aumentata

pressione. In realtà tale incremento è permesso da numerosi fattori, fra cui

· l’impiego, per la fase stazionaria, di particelle molto piccole e con uno stretto intervallo di distribuzione

(ossia con dimensioni dei pori piuttosto omogenee89), e quindi tali da permettere una distribuzione

uniforme del flusso;

· iniettori in grado di introdurre in modo accurato anche piccoli volumi di campioni;

· rilevatori sensibili a bassi volumi;

· buoni sistemi di pompaggio (pompe in grado di generare pressioni elevate e di resistere ad esse, anche se

in uso prolungato).90

La pressione elevata è dunque un fattore determinante per le aumentate potenzialità dell’HPLC, ma non è il

solo. Ciò che davvero caratterizza l’HPLC sono delle prestazioni elevate, e dunque – come già più volte

sottolineato – risulta consigliabile utilizzare il termine “High Performance Liquid Chromatography”.

88 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 89 La misura della distribuzione delle dimensioni delle particelle viene in genere indicata con una

percentuale, una sorta di quota d’errore. Se prendiamo come esempio delle particelle con dimensione 10µm,

una distribuzione del 10% significa che il 90% delle particelle ha dimensioni comprese tra 9 e 11µm. 90 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

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4.4.3.9 STRUMENTAZIONE PER HPLC

4.4.3.9.1 Sistemi per HPLC

La strumentazione per l’HPLC include un sistema per trattare i solventi (in particolare per purificarli e

degassificarli), una pompa, un iniettore, una (o più) colonna(/-e), un rilevatore, un sistema per registrare i

dati.

Il cuore del sistema è la colonna, dove ha luogo la separazione. Giacché la fase stazionaria è composta da

particelle porose di grandezza micrometrica (o addirittura nanometrica), si rende necessaria una pompa in

grado di generare alte pressioni, per poter spingere la fase mobile lungo la colonna.

Il processo cromatografico, se si esclude l’impaccamento della colonna, inizia con la eventuale purificazione

e degassificazione dei solventi da usare (per evitare che essi vadano a rovinare la fase stazionaria o

interferiscano con i segnali del rilevatore). Successivamente si fa passare attraverso la colonna un flusso del

solvente. Poi si inietta il campione. Ogni componente effluisce dalla colonna e genera una banda (o un picco)

sul “recorder”. La rilevazione dei componenti è importante, e può essere selettiva o universale, a dipendenza

del “detector” utilizzato. La risposta del “detector” (o rilevatore) è mostrata sul grafico tracciato

dall’integratore o sullo schermo del computer, e tale grafico prende il nome di cromatogramma. Per

memorizzare ed analizzare i dati si utilizzano integratori o, meglio, computers.

4.4.3.9.2 Contenitori per la fase mobile e sistemi di trattamento dei solventi

Innanzitutto si hanno dei contenitori in vetro o in acciaio per i solventi, in genere bottiglie di vetro

(solitamente con capacità comprese tra 0,5L e 2,0L). Solitamente queste bottiglie sono dotate di tappi

particolari (con un foro per far passare un capillare), tubi e filtri in teflon per connetterle alla pompa.

In genere sono poi presenti dei dispositivi per degassificare i solventi e per eliminare eventuali particelle

indisciolte. La preparazione della soluzione di eluente o la sostituzione di un contenitore di solvente

producono bolle, che se entrassero in colonna potrebbero causare un allargamento delle bande, ma

soprattutto una compromissione dell’efficienza del sistema di pompaggio (nei nostri esperimenti, per

esempio, ci sono state pressioni inferiori o superiori ai valori massimi di controllo impostati nella pompa, o

pressioni incostanti, causate da un solvente non ben degassificato, e non abbiamo potuto utilizzare i dati così

rilevati nella presente esposizione, ma abbiamo dovuto effettuare nuovi esperimenti).

Il sistema di degassaggio può essere costituito da una pompa a vuoto, da un sistema di distillazione, da un

sistema per il riscaldamento e l’agitazione della soluzione, da un bagno agli ultrasuoni o da un sistema di

degassaggio tramite un gas inerte. In quest’ultimo caso un gas non solubile nel solvente da degassificare

(solitamente si utilizza dell’elio) viene fatto gorgogliare in piccole bolle all’interno del contenitore per

portare così via i gas disciolti. Quest’ultimo metodo, però, è ritenuto insufficiente per degassificare solventi

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acquosi, per i quali si preferisce applicare un vuoto per circa 5-10 minuti e poi tenere il solvente sotto

un’atmosfera di elio91.

4.4.3.9.3 Fasi mobili

Nell’HPLC il tipo e la composizione degli eluenti è una delle variabili più importanti che influenzano la

separazione. Nonostante la larga varietà di solventi usati nell’HPLC, ci sono alcune proprietà comuni:

· purezza;

· compatibilità col “detector” e le guarnizioni dell’impianto;

· solubilità del campione;

· bassa viscosità;

· devono essere chimicamente inerti;

· prezzo ragionevole.

Ogni tipo di HPLC ha delle esigenze particolari. Per la cromatografia a fase normale, i solventi devono

essere apolari (o poco polari), mentre per cromatografia a fase inversa gli eluenti sono usualmente miscugli

di acqua con un solvente organico polare, come acetonitrile (che è leggermente polare).

Nel caso di HPLC per esclusione (in inglese questo tipo di HPLC prende la sigla di SEC, “Size Exclusion

Chromatography”), gli eluenti devono sciogliere i componenti, ma anche sopprimere tutte le possibili

interazioni delle molecole di campione con la superficie della fase stazionaria.

4.4.3.9.4 Pompe

Onde forzare i solventi attraverso le colone sono richieste pompe in grado di generare alte pressioni. Più

piccole sono le particelle costituenti la fase stazionaria, più alte sono le pressioni richieste. Usare particelle

piccole presenta molti vantaggi, in particolare ciò permette di aumentare il numero di piatti teorici e dunque

l’efficienza della colonna (v. anche cap. 4.4.3.10), ma anche di aumentare la velocità delle analisi. Tuttavia

non sempre sono necessarie particelle piccolissime, e un laboratorio con un budget ristretto può anche

accontentarsi di una pompa che non sia in grado di sopportare pressioni elevate.

Le pompe per HPLC dovrebbero soddisfare le seguenti esigenze:

· gamma di flusso tra 0,01 e 10 mL/min;

· stabilità del flusso (il flusso non deve variare più dell’1%);

· per HPLC per esclusione (SEC) la stabilità del flusso è ancora più importante, e si richiede che il flusso

vari meno dello 0,2%;

· pressione massima superiore ai 5000psi;

· resistenza alla corrosione verso una grande quantità di solventi.

91 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

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Sono inoltre desiderabili dei controlli elettronici per le pompe. Questi, benché facciano lievitare il costo della

pompa, permettono automatizzazioni (magari anche attraverso un’interfaccia ed un software che permettano

di controllare la pompa direttamente dal computer, che può essere programmato e che può quindi condurre

analisi durante la notte, permettendo un notevole risparmio di tempo e, di riflesso, di soldi). Sono utili anche

pompe che permettano eluizioni a gradiente, ossia alle quali si possano collegare due o più bottiglie di

solvente, le cui proporzioni possono essere variate grazie o ad apposite valvole o alla presenza di due o più

pompe unite ad un miscelatore.

Esistono tre tipi di pompe.

La prima è costituita da una siringa guidata a vite. Questa produce un flusso costante (senza pulsazioni), e

permette un facile controllo della velocità del flusso. Tuttavia ha lo svantaggio di un alto volume di

riempimento, problematico quando è necessario sostituire i solventi.

Il secondo tipo di pompa, pure meccanica, è di tipo alternativo, ossia a pistone, di cui possiamo vedere uno

schema nella figura 31.

Figura 3192

Le pompe a pistone sono quelle più comunemente usate, e sono costituite da una piccola camera cilindrica

che viene riempita e svuotata dal movimento di un pistone. Il pompaggio però, per forza di cose, produce un

flusso pulsatile, e questo necessita di essere successivamente linearizzato. I vantaggi di questo tipo di pompa

sono un piccolo volume interno (e ciò permette di variare la composizione dei solventi a scalini così piccoli

da poter considerare tale variazione di tipo continuo, ossia una eluizione a gradiente), la capacità di generare

alte pressioni (anche superiori a 10000psi) rapida adattabilità al cambiamento dei solventi durante la stessa

92 Immagine tratta da GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf, p. 9

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analisi, bassa sensibilità alla viscosità del solvente e alla pressione in testa alla colonna. È per questi vantaggi

che è questa la pompa più diffusa.

La terza pompa è di tipo pneumatico, e consiste in un contenitore di solvente collassabile contenuto in un

recipiente che può venire riempito con un gas compresso. Il gas spinge sulle pareti del contenitore

collassabile, facendolo collassare e spremendo così il solvente nella colonna. Questo tipo di pompe è

semplice, poco costoso e permette di generare un flusso costante e lineare. Presentano però l’inconveniente

che la velocità del flusso è molto influenzata dalla viscosità del solvente. Inoltre non permettono un’analisi a

gradiente.

4.4.3.9.5 Sistema di iniezione del campione

Nel caso di una cromatografia su colonna classica, si è soliti iniettare il campione con una siringa attraverso

un setto di materiale elastomerico. Questa procedura, però, non è molto riproducibile, e si può usare solo a

pressioni inferiori a 1500psi.

In linea di principio esistono due tipi di iniezione: uno che ferma il flusso del solvente per iniettare il

campione, e uno che aggiunge al solvente il campione.

Il primo tipo, anche chiamato “stop-flow”93, prevede il blocco del flusso per permettere l’asportazione di una

piccola quantità di solvente in testa alla colonna e il successivo caricamento del campione, sempre in testa,

per il tramite di una siringa.

Il secondo tipo, nettamente più diffuso, è quello di usare una valvola di iniezione del campione. Questa

valvola, chiamata anche anello o cappio (dall’inglese “loop”), ha un’entrata del flusso proveniente dalla

pompa, un’uscita del flusso diretta alla colonna, un’entrata per l’iniezione con la siringa ed uno sfiato. Per

prima cosa si riempie l’anello con il campione, ossia si spinge del campione fintanto che questo non cominci

ad uscire dallo sfiato: questo è segnale che l’anello è pieno. Quando si commuta la valvola su “iniezione”,

nell’anello contenente il campione viene fatto scorrere il flusso proveniente dalla pompa, ed in questo flusso

si scioglie il campione. Il tutto viene poi inviato alla colonna.

Questo tipo di valvola viene anche chiamato con il termine inglese “sampling loop”, ossia anello per il

campione.

Questi dispositivi sono in genere equipaggiati con un set di “loops” intercambiabili, con capacità variabile

dai 5 ai 500µL. La caratteristica più importante dell’iniezione tramite anello è l’alta riproducibilità dei

volumi iniettati.

Apparecchiature più sofisticate, poi, permettono di variare il volume di campione iniettato in modo continuo

partendo persino da 1µL. Sempre in questi apparecchi più complessi, si possono anche trovare sistemi di

93 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf, p. 10

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iniezione del campione automatici, dove l’iniezione è svolta con l’aiuto di autocampionatori

(“autosamplers”), autoiniettori e microprocessori. Questi apparecchi, collegati ad un computer che li diriga,

possono essere utilizzati per analisi successive e programmate, che possono venire svolte anche di notte

(dopo che il cromatografista abbia preparato i solventi, i campioni nei loro relativi solventi e che abbia

programmato il software).

Nella cromatografia liquida, campioni liquidi possono essere iniettati direttamente, mentre campioni solidi

devono essere prima disciolti in un opportuno solvente. Non è necessario che questo solvente sia uguale alla

fase mobile, ma è fondamentale che sia comunque scelto in modo che siano evitate interferenze col

rilevatore, con la colonna, con gli eventuali altri componenti, cosa che determinerebbe una diminuzione

dell’efficienza del sistema,... In ogni caso, è sempre consigliato di rimuovere eventuali particelle indesiderate

dal campione filtrandolo o centrifugandolo, in quanto, dopo continue iniezioni, eventuale materiale

particellare può causare un blocco dei sistemi di iniezione o anche della colonna stessa. Anche se non si

dovesse arrivare a tanto, si avrebbe comunque una diminuzione dell’efficienza e della risoluzione della

colonna, in particolare a causa dell’allargamento dei picchi dovuto all’introduzione di elementi estranei che

diminuiscono l’uniformità della colonna.

La quantità dei campioni iniettati può variare anche molto. La disponibilità di “detectors” ad alta sensibilità

permette l’uso di piccole quantità di campione, fatto che porta ad un’alta prestazione della colonne. Per dare

un termine di paragone trovato in letteratura94, si dica che tipicamente, in una colonna di 4,6mm di diametro,

si iniettano campioni di alcuni nanogrammi fino a 2mg sciolti in 20mL di solvente.

4.4.3.9.6 Colonna

Le colonne per cromatografia sono solitamente d’acciaio o di vetro ricoperte di metallo, queste ultime

impiegate soprattutto quando si lavora a pressioni inferiori a 600psi. La lunghezza delle colonne usate a

scopi analitici e/o preparativi varia da 10 a 30cm, ed il diametro interno dai 4 ai 10mm. Le colonne sono in

genere impaccate con particelle di diametro variabile dai 5 ai 10µm (ma anche meno, vedi sotto) nell’HPLC.

Le tipiche colonne per la cromatografia liquida ad alta pressione sono lunghe 10, 15 o 25 centimetri, e sono

impaccate con particelle estremamente piccole (3, 5 o 10 µm, v. sotto). Il diametro interno è normalmente 4,0

o 4,6mm. Questo è considerato il miglior compromesso tra capacità di iniezione del campione, consumo

della fase mobile, velocità dell’analisi e risoluzione del sistema cromatografico. Colonne di questo tipo

arrivano di solito a contenere 40'000 o anche 60'000 piatti teorici per ogni metro di lunghezza.

Recentemente sono state introdotte sul mercato delle microcolonne lunghe dai 3 ai 6,5cm, e aventi un

diametro interno variante da 1 a 4,6mm. Queste colonne sono impaccate con particelle di diametro compreso

tra i 3 e i 5µm. Queste microcolonne hanno anche più di 100'000 piatti teorici per metro, e presentano il

94 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

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vantaggio di una maggiore velocità operativa e di un minore consumo di solventi. Quest’ultima caratteristica

è particolarmente interessante, giacché per la cromatografia liquida ad alta pressione sono necessari solventi

ad alto grado di purezza, particolarmente costosi. Ci sono esempi di separazioni di 8 composti in 15 secondi

con una colonna di 4cm e di diametro interno di 4mm, impaccata con particelle di 3µm di diametro95.

In generale, le colonne per HPLC sono piuttosto durevoli, e ci si può aspettare una vita piuttosto lunga,

purché non siano utilizzate in maniere intrinsecamente distruttive, come per esempio usando eluenti

fortemente acidi o fortemente basici, o iniettando continuamente campioni biologici “sporchi”.

È consigliabile iniettare una o più miscele di prova sotto condizioni controllate quando la colonna è nuova, e

di conservare il cromatogramma. Se, più in là nel tempo, si dovessero ottenere risultati strani, la miscela di

prova potrà venire iniettata nuovamente ed il cromatogramma così ottenuto si potrà confrontare con quello

che si era avuto quando la colonna era nuova e, in questo modo, stabilire se la colonna è ancora utilizzabile

oppure no.

Il materiale più comune usato per impaccare le colonne per l’HPLC è la silice, preparata per agglomerazione

di particelle di diametro inferiore al micron sotto condizioni che portano alla formazione di particelle più

grandi con diametri altamente uniformi. Le particelle risultanti possono venire rivestite con sottili film di

composti organici, legati alla superficie con legami chimici o fisici (questi film permetteranno cromatografie

per adsorbimento, ripartizione, scambio ionico o affinità). Altri materiali usati per impaccare le colonne sono

l’albumina, dei polimeri micro e/o macroporosi e resine a scambio ionico.96

Vediamo però un po’ più in dettaglio quali debbano essere le caratteristiche delle fasi stazionarie e

presentiamo qualche esempio di esse trovato in letteratura.97

4.4.3.9.7 Fasi stazionarie

Le moderne fasi stazionarie per HPLC sono particelle rigide e porose con un’alta area di superficie. I

principali parametri delle fasi stazionarie sono:

95 SNYDER L.R, KIRKLAND J.J.; Introduction to High-performance Liquid Chromatography; 2nd

ed. New

York: Chapman and Hall, 1982; citato in GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione

(HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf, p. 12 96 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf, pp. 12-13 97http://www.amscampus.cib.unibo.it/archive/00000396/01/CROMAT_1A_2003.ppt#256,1,CROMATOGR

AFIA Principi generali

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· grandezza delle particelle tra 3 e 10 µm;

· distribuzione della grandezza delle particelle la più piccola possibile, solitamente entro il 10%;

· grandezza dei pori tra 70 e 300 Ǻ;

· area di superficie tra 50 e 250 m2/g;

· densità dei siti interattivi della fase stazionaria (numero di siti adsorbenti98 per unità di superficie) da 1 a

5 per 1 nm2.

Sostanze per le fasi stazionarie (dette anche matrici) frequentemente utilizzate sono l’agarosio, la cellulosa, il

destrano, il poliacrilamide, il polistirene e la silice (il gel di silice). Vediamo brevemente di cosa si tratta.

· “Agarosio È un polisaccaride derivante da particolari alghe rosse (chiamate, appunto, agar) cosituito da

residui alternati di D-galattoso e 3,6-anidro-L-galattoso. È disponibile commercialmente come

Sepharose, Sepharose CL (cross-linking con 2,3-dibromopropanolo), Superose, Bio-Gel A. Limiti di

esclusione 10-40000 kD.

· Cellulosa Polimero di unità glucosidiche unito da legami β-1,4. Tramite epicloridrina vengono ottenuti i

legami crociati essenziali per l’ utilizzo come matrice in cromatografia, il numero dei quali determina la

dimensione dei pori.

· Destrano È un polimero di residui di glucosio uniti da legami β-1,6, prodotto dal batterio Leuconostoc

mesenteroides. È presente in commercio con il nome di Sephadex. La porosità dei gel a base di destrano

è controllata dalla massa molecolare del destrano usato e dall’ introduzione di legami crociati ottenuti

con epicloridrina. Limiti di esclusione 0.7-800 kD.

Il cosiddetto Sephacryl è del destrano con legami crociati ottenuti con N,N’-metilene bisacrilamide.

Limiti di esclusione 1-8000 kD.

Il Superdex è un gel composito costituito da destrano covalentemente legato ad agarosio.

· Poliacrilamide È un polimero di acrilamide e N,N’-metilenbisacrilamide (quest’ultimo determina la

formazione di legami crociati). È disponibile in commercio come Bio-GelP, con limiti di esclusione tra

0.2 e 400 kD.

· Polistirene E’ un polimero di stirene legato con divinilbenzene.

· Silice È un polimero prodotto a partire dall’ acido ortosilicico. I molti gruppi silanolo (Si-OH) rendono

la matrice altamente idrofilica. Il loro eccesso può essere eliminato derivatizzando con

triclorometilsilano. ”99

98 Nel caso di una cromatografia per adsorbimento. Questo parametro si riferisce unicamente a questo tipo di

cromatografia. 99 Dati e spiegazioni tratte da

http://www.amscampus.cib.unibo.it/archive/00000396/01/CROMAT_1A_2003.ppt#256,1,CROMATOGRA

FIA Principi generali

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Pagina 83

4.4.3.9.8 Colonna di guardia (o precolonna)

Spesso, per aumentare la vita di una colonna, in testa ad essa è applicata una colonna di guardia che rimuove

dai solventi eventuali particelle indisciolte e contaminanti. Inoltre, la precolonna serve anche a saturare la

fase mobile con la fase stazionaria cosicché sia minimizzata la perdita di fase stazionaria dalla colona

analitica. La composizione di una colonna di guardia dovrebbe quindi essere simile a quella della colonna

analitica (o colonna principale, se si vuole impiegare un termine germanofonizzante, che ricordi il tedesco

“Hauptsäule”). La grandezza delle particelle della colonna di guardia è però maggiore di quella delle

particelle della colonna analitica, onde minimizzare la caduta di pressione.

4.4.3.9.9 Termostato della colonna

In molti casi non è necessario un preciso controllo della temperatura, e le colonne vengono adoperate a

temperatura ambiente. Spesso, però, i migliori cromatogrammi si ottengono a temperature superiori, e

mantenendo la temperatura costante. I sistemi più sofisticati, quindi, sono equipaggiati con riscaldatori di

colonne, che possono mantenere una temperatura in una gamma variabile dalla temperatura ambiente a circa

150°C100. Spesso il termostato non è altro che un forno (con sottili fessure per l’entrata e l’uscita del

capillare), ossia un ulteriore apparecchio da porre nelle vicinanze della pompa e del “detector” (ed

eventualmente dell’iniettore automatico e del degassificatore, se il sistema ne è equipaggiato).

4.4.3.9.10 Rilevatori (“detectors”)

Oggi si utilizzano esclusivamente sistemi di rivelazione non distruttivi, che permettono di analizzare

l’effluito in modo continuo e senza modificarlo, offrendo così la possibilità di utilizzare il sistema anche a

scopo preparativo (e non solo analitico).

In genere, bisogna sempre cercare il compromesso tra tre fattori: selettività, sensibilità e costo. Un’alta

selettività significa che bisognerà cambiare il “detector” a seconda di quali composti si desidera analizzare.

Essa non permetterà, quindi, un’analisi di campioni contenenti composti molto diversi fra loro (bisognerà

dapprima fare un’analisi con un “detector” a bassa selettività e bassa sensibilità, per poi passare ad analisi

più sensibili ma con “detector” più mirati, ossia adattati ai vari tipi di componenti). Un’alta sensibilità

significa che anche piccole quantità di sostanza vengono rilevate, e che sostanze con piccole differenze di

assorbanza vengono diversificate. Spesso, però, i sistemi con alta sensibilità presentano una altrettanto alta

selettività, e non possono quindi essere usati per campioni contenenti analiti molto disparati.

100 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf, p. 13

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Molto usati sono gli apparecchi spettrofotometrici, in particolare quelli negli spettri ultravioletto e visibile. I

rilevatori spettrofotometrici sono molto più versatili di quelli fotometrici e sono quelli più usati negli

strumenti ad alte prestazioni.

Questi rilevatori fanno passare un raggio di luce attraverso l’effluito che passa attraverso una cella

contenente un piccolo volume. Le variazioni dell’intensità della luce causata dall’assorbimento da parte del

solvente e degli analiti è rilevata dalla fotocellula, che cambierà il voltaggio che emette. Tramite

un’interfaccia, questo segnale analogico (cambiamento di voltaggio) è tradotto in impulsi digitali, poi

elaborati da un computer.

Lo spettrofotometro infrarosso ha una selettività bassa (funziona dunque ad ampio raggio), ma è poco

sensibile. Oggi è praticamente caduto in disuso.

Il più usato in assoluto è proprio un rilevatore nell’ultravioletto e visibile. Un “detector” di questo tipo,

generalmente, è capace di monitorare uno spettro tra i 190 ed i 460 (o anche 600) nm. Esistono apparecchi

che rilevano sia l’assorbanza ad una ben precisa lunghezza d’onda, sia lo spettro d’assorbanza del liquido

contenuto nella cella. Questo tipo di apparecchi, chiamato DAD (“Diode Array Detector”), permette di

scegliere la lunghezza d’onda ideale basandosi sullo spettro d’assorbanza. Generalmente si indagano

lunghezze d’onda dai 200 ai 280nm, poiché molti gruppi funzionali dei composti organici assorbono in

questa regione dello spettro.

La sorgente usata per emettere l’onda luminosa può essere il mercurio, ma si usano anche filamenti in

tungsteno o deuterio, equipaggiati con filtri che eliminano le radiazioni indesiderate.

Altri tipi di rivelatori possono essere quello che misura l’indice di rifrazione, quello che misura l’emissione

fluorescente, lo spettrometro di massa, l’apparecchio per la risonanza magnetica nucleare, il polarimetro, ...

Il “detector” dell’indice di rifrazione rileva il cambiamento dell’indice di rifrazione del solvente causato

dalle molecole di analita, ed è un “detector” piuttosto usato. Questo metodo è meno selettivo dei rivelatori

ultravioletto-visibile (UV-VIS), perché l’indice di rifrazione è in generale meno specifico per le varie

sostanze, e può venire influenzato anche da soluti presenti nella fase mobile. È meno selettivo, ma anche

meno sensibile.

Lo spettrometro di massa e la risonanza magnetica nucleare sono due metodi analitici strumentali che

presentano sia alta sensibilità sia un ampio raggio d’azione (ossia scarsa selettività). Tuttavia sono entrambi

molto costosi e sovente usati in combinazione con un rilevatore UV.

Ci sono infine rivelatori che misurano la conducibilità della fase mobile, o quelli che eseguono misure

potenziometriche o amperometriche. Questo tipo di rivelatore è comunque usato piuttosto raramente.

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Pagina 85

4.4.3.10 CARATTERIZZAZIONE DI UNA COLONNA CROMATOGRAFICA

Per caratterizzare una colonna cromatografica ci si basa sui cromatogrammi ottenuti, ossia sull’analisi dei

picchi. Si tratta dunque di analisi matematiche, durante le quali è però buona cosa tenere sempre ben presente

il legame con ciò che avviene nella realtà sperimentale. In particolare, ci sono due fattori da considerare: la

ritenzione degli analiti da parte della fase stazionaria e l’allargamento della banda tracciata sul grafico.

Durante il corso di una cromatografia, infatti, tale banda tende ad allargarsi, per via del flusso attorno e

dentro le particelle porose, la cinetica delle interazioni lente tra le fasi, la diffusione longitudinale del flusso,

ed altri fattori, che vedremo meglio in seguito (cfr. teoria di Van Deemter, che ci permette di individuare e

descrivere poi matematicamente tre fattori all’origine di tale allargamento dei picchi). Questi processi, nel

loro insieme, producono il cosiddetto allargamento dei picchi. In generale, più a lungo un componente resta

nella colonna, più sarà grande l’allargamento del picco a lui dovuto (tutti questi effetti, infatti, hanno più

tempo per avvenire e quindi diventano più consistenti).

Le prestazioni della separazione dipendono da entrambi gli agenti: ritenzione degli analiti nella colonna ed

allargamento dei picchi. In generale, questo secondo fattore è un parametro cinetico, dipendente dalla

grandezza delle particelle costituenti la fase stazionaria, dalla porosità di essa, dalla grandezza dei pori, dalla

grandezza e dalla forma della colonna, nonché dalla qualità dell’impaccamento. I fenomeni di ritenzione,

invece, sono influenzati da questi parametri unicamente nel caso di una cromatografia per esclusione, mentre

questi parametri non sono caratterizzanti per una cromatografia per adsorbimento, di ripartizione o per

scambio ionico. In questi ultimi casi, ad influenzare la ritenzione sono invece soprattutto le interazioni tra le

due fasi e, quindi, essa sarà determinata anche dalla superficie della fase stazionaria. È chiaro che anche in

questi casi può sommarsi alla cromatografia per adsorbimento/ripartizione/scambio ionico pure il contributo

di una cromatografia per esclusione, ma la forza delle interazioni che si sfruttano è in genere tale da rendere

trascurabile l’influsso dell’esclusione.

Per caratterizzare una colonna è dunque bene tenere presenti entrambi questi ordini di parametri: da un lato

quelli di ritenzione e dall’altro quelli di allargamento dei picchi.

4.4.3.10.1 Parametri di ritenzione

Il modo più semplice per determinare la ritenzione cromatografica è quello di misurare il tempo che trascorre

tra l’iniezione e il punto di massima risposta del “detector”. Questo parametro è chiamato tempo di

ritenzione. Evidentemente, il tempo di ritenzione è inversamente proporzionale al flusso dell’eluente. Il

prodotto tra il tempo di ritenzione ed il flusso ci dà il volume di ritenzione, che rappresenta il volume di

eluente passato attraverso la colonna durante la cromatografia di un particolare analita (ossia il volume di

eluente scorso durante la colonna nel tempo trascorso dall’iniezione del campione alla sua uscita dalla

colonna, indicata dal suo rilevamento da parte del rilevatore).

Matematicamente avremo:

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 86

Φ⋅= RR tV , dove (eq. 10)

RV : volume di ritenzione [mL]

Rt : tempo di ritenzione [s, o min]

Φ : flusso del solvente impostato sulla pompa [mL/s, o mL/min]

Il volume di ritenzione può essere diviso in due parti:

1. il volume di eluizione del componente (o volume di ritenzione ridotto, o corretto): il volume di

eluente che percola attraverso la colonna mentre l’analita è trattenuto dalla fase stazionaria;

2. il volume morto (o volume di vuoto): il volume di eluente che passa attraverso la colonna mentre

l’analita si muove con la fase mobile.

In altre parole, il volume di ritenzione che calcoliamo misurando il tempo di ritenzione che vediamo sul

cromatogramma è la somma del volume necessario per eluire l’analita e del volume di solvente contenuto

nella colonna e nei capillari dell’apparecchiatura (pompa, “detector”, capillari di collegamento pompa-

colonna e colonna-rilevatore), vale a dire il volume della fase mobile.

Matematicamente avremo che

'0 RR VVV += , dove (eq. 11)

RV : volume di ritenzione

0V : volume di vuoto

'RV : volume di ritenzione corretto.

Utilizzando il volume di ritenzione anziché il tempo di ritenzione, abbiamo a disposizione un parametro che

è indipendente dal valore del flusso. Infatti, se aumentiamo il flusso, il tempo di ritenzione diminuisce, e tale

parametro non è confrontabile se non indicando esplicitamente il flusso utilizzato. Se invece indichiamo in

un unico parametro il prodotto del flusso e del tempo di ritenzione, questo valore è confrontabile

direttamente (permette un confronto diretto tra più prove sulla stessa colonna).

Il volume di ritenzione è invece dipendente dalle caratteristiche geometriche della colonna e della sua fase

stazionaria. Ciò significa che analizzando lo stesso composto in due colonne contenenti la stessa fase

stazionaria ma di lunghezza (o diametro) diversa, il volume di ritenzione sarà diverso. Ne consegue che

nemmeno il volume di ritenzione (corretto) è un parametro in grado di caratterizzare una colonna in modo

semplice e direttamente confrontabile con dati di altre colonne.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 87

Per risolvere questo problema, si rapporta il volume di ritenzione corretto al volume di vuoto della colonna, e

in tal modo si ottiene un parametro che caratterizza la fase stazionaria (e non più la singola colonna101), come

mostrato nell’equazione 12. A tale parametro viene dato il nome di fattore di capacità.

0

0:'V

VVk R −= 102, dove (eq. 12)

'k : fattore di capacità.

Il fattore di capacità è dunque adimensionale, ed è indipendente – come detto – da qualsiasi parametro

geometrico della colonna o del sistema cromatografico. Lo si può considerare come una caratteristica

termodinamica del sistema fase stazionaria – analita – solvente.

Il fattore di capacità, che noi abbiamo espresso utilizzando i volumi, si può definire anche impiegando i

tempi (come si può trovare in certa letteratura103):

0

0:'t

ttk R −= , dove (eq. 13)

'k : fattore di capacità.

Rt : tempo di ritenzione

0t : tempo morto.

Dall’equazione 13 si ricava che

00 0 '

0

' : (1 ')−= ⇔ = + = +R

R Rt tk t t k t t

t e che (eq. 14)

' 0 '= ⋅Rt t k (eq. 15)

101 In realtà ciò è vero solo nel caso teorico ideale, perché ogni colonna presenta delle caratteristiche di

impaccamento diverse (anche se la procedura seguita per impaccarla è stata la stessa). È infatti possibile che

si creino dei piccoli spazi vuoti in cui la fase stazionaria non c’è, e questa risulta quindi distribuita non

uniformemente. Va però anche detto che, nel caso di procedimenti industriali altamente automaticizzati e

standardizzati, ci si avvicina abbastanza al caso teorico. 102 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 103 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,

Tokyo; 1993; p. 56

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 88

Il fattore di capacità 'k è però sempre lo stesso (infatti esprime un rapporto), e si può dunque scrivere in due

modi:

0

0

0

0:'V

VVt

ttk RR −=

−= (eq. 16) 104

Un altro modo per caratterizzare la colonna, diverso dal fattore di capacità in quanto a valore ma molto

simile in quanto a concetto (cioè, si calcola in modo diverso, dà un risultato numericamente diverso, ma ci dà

sostanzialmente le stesse informazioni), è quello di calcolare il cosiddetto grado di vuoto totale, indicato con *ε e definito da

( )Vtt Φ⋅−

= 0'

0*ε , dove (eq. 17) 105

*ε : grado di vuoto totale

0t : tempo di ritenzione con colonna montata [min]

0't : tempo di ritenzione senza colonna montata [min]

Φ : flusso dell’eluente [mL/min]

V : volume della colonna [mL]

Il grado di vuoto si dice, appunto, totale, perché costituito da due diversi gradi di vuoto: quello

interparticellare, indicato con bε , e quello intraparticellare, indicato con pε .

bε si riferisce al grado di vuoto del letto (in inglese “bed”, da cui la b all’indice), ossia agli interstizi tra le

particelle della fase stazionaria.

pε si riferisce al grado di vuoto delle particelle della fase stazionaria, ossia al vuoto contenuto in esse (la p

all’indice sta, infatti, per “particle”, ossia particella).

104 http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html 105 GIANMARCO ZENONI, Tecnologia a letto mobile simulato per la separazione cromatografica continua

d’enantiomeri, Diss. ETHZ nr. 13880, 2000; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-

pool/diss/fulltext/eth13880.pdf

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Pagina 89

Il grado di vuoto totale può essere espresso dalla seguente relazione:

( )* 1b b pε ε ε ε= + − , dove (eq. 18a) 106

*ε : grado di vuoto totale

bε : grado di vuoto interparticellare

pε : grado di vuoto intraparticellare

4.4.3.10.2 Allargamento dei picchi (caratterizzazione dell’efficienza della colonna)

Innanzitutto si dica che l’allargamento dei picchi può venire studiato con l’equazione di Van Deemter, che

vedremo in seguito. Per ora ci basta mettere in relazione tale allargamento con l’efficienza della colonna,

ossia con la sua capacità di separare tanti più componenti in un dato tempo: più alto sarà il numero di analiti

separati per unità di tempo e/o più rapido sarà l’intervallo temporale impiegato per separare una data quantità

di sostanze, più grande sarà l’efficienza della colonna.

Giacché la colonna dà luogo a rapporti di equilibrio tra le fasi stazionaria e mobile, parametri di equilibrio

possono essere utilizzati per caratterizzare la colonna. In questo senso, si utilizzano due parametri: il numero

di piatti teorici ( N ) e l’altezza del piatto teorico ( HETP , sigla di “Height Equivalent of a Theoretical

Plate”107). Vediamo però, con ordine, come si sia giunti a definire questi due parametri.

Dopo l’iniezione, la banda tracciata sul cromatogramma si allarga durante il passaggio del campione nella

colonna. Più è grande questo allargamento, più è piccolo il numero di componenti che possono venire

separati in un dato tempo. Il quanto è acuto il picco, quindi, ci indica quanto efficiente sia la colonna. Per

misurare l’acutezza del picco ci si riferisce alla sua larghezza (facilmente misurabile dal grafico). In genere,

quindi, la larghezza del picco ci informa sull’efficienza della colonna.

Tuttavia, tale larghezza dipende da molti parametri, tra cui la lunghezza della colonna, il flusso, la grandezza

delle particelle. Poiché però il flusso è l’unico parametro che può venire variato di prova in prova (senza

bisogno di cambiare la colonna), risulta che la larghezza del picco non caratterizza la colonna, bensì la

singola analisi. Per far sì, dunque, che la larghezza del picco caratterizzi la colonna (e non la singola prova),

basta rapportare tale larghezza ad un parametro che si riferisca al flusso. Anziché prendere direttamente il

flusso, si è soliti usare il tempo di ritenzione (che però, come già detto, è diverso a seconda del flusso: a

flusso veloce corrisponde tempo di ritenzione più rapido). Giacché poi il picco ha una forma approssimabile

106 SEBASTIAN BÖCKER, A general procedure for the design of chromatographic separations, Diss. ETHZ nr.

14352, 2001; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-pool/diss/fulltext/eth14352.pdf 107 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,

Tokyo; 1993, p. 57

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Pagina 90

da una curva di Gauss (tanto che il picco teorico, ideale, è proprio una campana gaussiana108), la larghezza

del picco può venire caratterizzata per mezzo della deviazione standard. Si può così ottenere la deviazione

standard relativa, che è indipendente dal flusso:

RtS σ= , dove (eq. 19)

S : deviazione standard relativa

σ : deviazione standard

Rt : tempo di ritenzione.

In pratica, però, si usa il quadrato del reciproco di tale frazione, in quanto la misura base della distribuzione

normale – così ci dicono i matematici che si occupano di statistica – non è la deviazione standard (σ ), ma il

suo quadrato, la cosiddetta varianza ( 2σ ).

Il valore che così si ottiene è diventato accettato come espressione dell’efficienza di una colonna, e prende il

nome di numero di piatti teorici, in analogia con la terminologia usata nella distillazione frazionata.

2

⎟⎠⎞

⎜⎝⎛=σ

RtN , dove (eq. 20)

N : numero di piatti teorici

Rt : tempo di ritenzione

σ : deviazione standard (e 2σ : varianza).

Nella pratica risulta più comodo misurare la larghezza del picco non in corrispondenza alla deviazione

standard (che risulta essere a 0,609 volte l’altezza del picco109), ma o alla base o a metà altezza. Poiché, per

ragioni statistiche, la base ha una larghezza corrispondente a 4 volte la deviazione standard (ossia

σ4=BW , dove (eq. 21)

BW : “base line width” = larghezza della linea di base

σ : deviazione standard) e poiché a metà altezza del picco, la larghezza di esso è di circa σ36,2

(precisamente σ3547824,2 ), dall’equazione 19 si possono ricavare le seguenti due equazioni, più comode

da utilizzare nella pratica di laboratorio:

108 Tale picco ideale è ottenibile se non ci sono interazioni specifiche tra le due fasi, né eccessivo

caricamento del campione, né fenomeni diffusivi e termodinamici che creino irregolarità di flusso, né

mancanze di uniformità nella distribuzione della fase stazionaria. Queste condizioni sono in pratica

irraggiungibili, ma tanto più ci si avvicina ad esse, tanto più il picco sperimentale assomiglia a quello teorico. 109 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

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Pagina 91

Numero di piatti teorici calcolato misurando la larghezza della linea di base: 2222

1644

4 ⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛=⎟⎟

⎞⎜⎜⎝

⎛=⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛=⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛=

B

R

B

RRR

Wt

Wttt

Nσσ

, dove (eq. 22)

N : numero di piatti teorici

Rt : tempo di ritenzione

BW : larghezza della linea di base.

Numero di piatti teorici calcolato misurando la larghezza del picco a metà altezza: 2

21

2

21

22

545,53547824,23547824,2

3547824,2⎟⎟⎟

⎜⎜⎜

=⎟⎟⎟

⎜⎜⎜

=⎟⎠

⎞⎜⎝

⎛=⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛=

h

R

h

RRR

Wt

WtttN

σσ, dove (eq. 23)

N : numero di piatti teorici

Rt : tempo di ritenzione

hW

21 : larghezza del picco a metà altezza.

Il numero di piatti teorici dipende dalla lunghezza della colonna: più questa è lunga, più è elevato tale

numero. Per questo motivo, al fine di avere un termine in grado di caratterizzare la fase (e la qualità

dell’impaccamento della colonna con tale fase) indipendentemente dalla lunghezza della colonna, si è

introdotto un altro parametro: l’altezza del piatto teorico, definita dal quoto tra la lunghezza della colonna e

il numero di piatti teorici:

=LHETPN

, dove (eq. 24)

HETP : “Height Equivalent of a Theoretical Plate” = altezza equivalente di un piatto teorico

L : lunghezza della colonna

N : numero di piatti teorici.

Più è bassa l’altezza del piatto teorico e più alto è il numero di piatti teorici, più efficiente è la colonna (ossia

i componenti escono dalla colonna in bande più compatte110).

110 GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_parte.

pdf

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Pagina 92

4.4.3.10.3 Risoluzione e selettività: come unire i parametri di ritenzione e di allargamento dei

picchi in un solo parametro

Finora abbiamo discusso separatamente ciò che ci permette di caratterizzare i fenomeni di ritenzione e ciò

che invece ci dà la possibilità di descrivere il fenomeno dell’allargamento dei picchi, che è inversamente

proporzionale all’efficienza della colonna (ossia alla capacità della colonna di separare un numero elevato di

componenti in un breve intervallo di tempo). Come già detto nella parte introduttiva del presente capitolo

sulla caratterizzazione della colonna, entrambi questi due parametri influenzano e caratterizzano la

separazione del miscuglio da cromatografare. Infatti i fenomeni di ritenzione mettono a punto la separazione,

mentre l’allargamento dei picchi la ostacola (o addirittura la impedisce).

Ciò che ci prefiggiamo ora di fare, è di caratterizzare la colonna descrivendo la sua capacità di separare due

sostanze. A questo scopo ci si riferisce ad un parametro chiamato selettività, e definito come rapporto tra i

fattori di capacità dei due picchi, oppure come il rapporto tra i due relativi tempi di ritenzione corretti, o

ancora come il rapporto tra i rispettivi volumi di ritenzione corretti. Si ottiene così la seguente equazione:

2

1

02,

01,

02,

01,

'':

kk

VVVV

tttt

R

R

R

R =−−

=−−

=α , dove (eq. 25)

α : selettività

1,Rt : tempo di ritenzione del primo picco

2,Rt : tempo di ritenzione del secondo picco

0t : tempo morto

1,RV : volume di ritenzione del primo picco

2,RV : volume di ritenzione del secondo picco

0V : volume di vuoto

1'k : fattore di capacità del primo picco

2'k : fattore di capacità del secondo picco.

Questo parametro è indipendente dalla efficienza della colonna, e dipende unicamente dalla natura dei

componenti della sua fase stazionaria, dal tipo di eluente, dalla composizione di esso, dalla chimica delle

eventuali interazioni di superficie, dall’impaccamento della colonna.

In generale, se la selettività di due componenti è uguale a 1, allora non c’è modo di separarli, e a nulla

varrebbe aumentare l’efficienza della colonna. Bisognerà scegliere un’altra fase stazionaria o un altro

sistema di solventi.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 93

Il secondo parametro che vogliamo presentare è un termine che ci descriva la capacità di separare due

sostanze non più della colonna, ma dell’intero sistema cromatografico. Questo parametro prende il nome di

risoluzione, ed è definito come il rapporto tra la distanza tra i due picchi e la somma delle larghezze dei due

picchi a livello della linea di base:

21

1,2,2WWVV

R RR

+−

= , dove (eq. 26)

R : risoluzione

2,RV : volume di ritenzione del primo picco

1,RV : volume di ritenzione del secondo picco

1W : larghezza della linea di base del primo picco

2W : larghezza della linea di base del secondo picco.

Altri autori111, anziché utilizzare i volumi di ritenzione dei due picchi, preferiscono riferirsi ai tempi di

ritenzione:

21

1,2,2WWtt

R RR

+−

= , dove (eq. 27)

2,Rt : tempo di ritenzione del primo picco

1,Rt : tempo di ritenzione del secondo picco

1W : larghezza della linea di base del primo picco

2W : larghezza della linea di base del secondo picco.

È anche possibile utilizzare, in luogo della larghezza del picco in corrispondenza della linea di base, la

larghezza a metà altezza del picco, e in tal caso si otterrà che

2;211;

21

1,2,177,1hh

RR

WWtt

R+−

= 112, dove (eq. 28)

2,Rt : tempo di ritenzione del primo picco

1,Rt : tempo di ritenzione del secondo picco

1;21h

W : larghezza del primo picco a metà altezza

2;21 h

W : larghezza del secondo picco a metà altezza.

111 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,

Tokyo; 1993; p. 58 112 Ibidem

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 94

Se si approssima il picco con un triangolo isoscele (metodo approssimativo utilizzabile anche per calcolare

l’area dei picchi, v. cap. 4.4.3.11.1), allora si ha che se R è maggiore o uguale a 1 (se 1≥R ), allora i

componenti sono completamente separati; se invece R è minore di 1 (se 1<R ), allora i picchi dei due

componenti sono parzialmente sovrapposti.

Usando le definizioni dei fattori di capacità e di efficienza della colonna, l’equazione 25 (equivalente a 26 e

27) può essere riscritta nella forma:

2''''

2 12

12

++−

⋅=kk

kkNR , dove (eq. 29)

R : risoluzione

N : numero di piatti teorici

1'k : fattore di capacità del primo picco

2'k : fattore di capacità del secondo picco, dove la dipendenza della risoluzione dall’efficienza della colonna

è rappresentata dalla radice del numero dei piatti teorici, il che significa che aumentare l’efficienza non è

così interessante per migliorare la risoluzione (sebbene dia comunque un piccolo contributo), e nella forma

1,2,

1,2,

2 RR

RR

VVVVNR

+−

⋅= , dove (eq. 30)

R : risoluzione

N : numero di piatti teorici

2,RV : volume di ritenzione del primo picco

1,RV : volume di ritenzione del secondo picco.

4.4.3.10.4 Teoria per l’allargamento dei picchi (equazione di Van Deemter)

Oggi è ormai riconosciuto che, secondo la teoria elaborata da Van Deemter e da lui sintetizzata

nell’equazione che porta il suo nome, l’allargamento dei picchi si origina da tre principali fattori:

1. i possibili vari sentieri che la fase mobile può seguire durante il passaggio nella colonna (si parla

anche di diffusione di Eddy);

2. diffusione molecolare longitudinale;

3. trasferimento di massa tra le due fasi.

Vediamoli, con ordine, separatamente, per poi riunirli in un’unica equazione.

1. Diffusione di Eddy

La velocità della fase mobile nella colonna può variare anche in modo significativo lungo la sezione della

colonna, a dipendenza della forma e della porosità delle particelle della fase stazionaria, nonché dalla

struttura generale del letto stazionario (in particolare si pensi alla qualità dell’impaccamento della

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 95

colonna: ai bordi, per esempio, la fase stazionaria è meno densamente impaccata che non nel centro della

colonna113).

In questo modo, la fase mobile può trovare percorsi più o meno diretti lungo la colonna, ossia più o meno

veloci. In particolare:

o lungo i bordi l’impaccamento è meno denso e di riflesso la velocità di flusso maggiore;

o al centro dei pori la velocità è maggiore che non in prossimità delle particelle costituenti la

fase stazionaria.

Il concetto può essere facilmente ed intuitivamente compreso osservando la seguente figura:

Diffusione di Eddy

Figura 32114

Le differenti velocità di flusso attraverso la colonna possono essere scritte matematicamente secondo la

seguente equazione:

PP dH λ2= , dove (eq. 31)

PH : l’aumento del valore dell’HETP che si presenta nella zona considerata (a dipendenza della variazione

della velocità del flusso). Tale aumento corrisponde all’effetto di allargamento dei picchi dovuto alla

diffusione di Eddy, chiamata anche, dall’inglese “multiple path effect” (da questo si capisce il

significato della P al pedice), effetto dei sentieri multipli.

Pd : la media del diametro delle particelle della fase stazionaria

λ : una costante, che è piuttosto prossima all’1.

113 WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,

Tokyo; 1993; p. 53 114 Immagine tratta da WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York,

Basel, Cambridge, Tokyo; 1993; p. 53 (Abb. 4-2.1)

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Pagina 96

Questa equazione mostra che il valore di PH può essere ridotto (ossia l’efficienza della colonna può

essere aumentata) riducendo il diametro delle particelle. Il coefficiente λ dipende dalla distribuzione

della grandezza delle particelle. Più piccola sarà la distribuzione (ossia più uniformi saranno le

dimensioni delle particelle), più piccolo sarà il valore di λ , e quindi maggiore sarà l’efficienza della

colonna.

2. Diffusione molecolare longitudinale

In generale, come si sa, fenomeni diffusivi possono far sì che le molecole si allontanino o si avvicinino.

Nel caso delle cromatografie su colonna, avviene anche una diffusione longitudinale, ossia perpendicolare

alla direzione del flusso, che porta ad un allargamento dei picchi.

È chiaro che, aumentando la pressione, tale diffusione avviene in modo molto meno rilevante, perché la

fase mobile è spinta in avanti. Nell’HPLC, quindi, la rilevanza di questo fenomeno è piuttosto ridotta.

Matematicamente, è possibile descrivere questa diffusione longitudinale con l’ausilio della formula

seguente:

vDH M

Dγ2= 115, dove (eq. 32)

DH : effetto di allargamento dei picchi dovuto alla diffusione

MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile

γ : il fattore che si riferisce alla restrizione della diffusione per l’impaccamento della colonna

v : la velocità del flusso.

Al contrario del primo termine (la diffusione di Eddy), in questo caso più si aumenta la velocità del flusso

più si diminuisce l’effetto della diffusione sull’allargamento dei picchi. Questo effetto, tuttavia, è

trascurabile per i flussi normalmente usati nell’HPLC, giacché – come si diceva – le pressioni che si

hanno nella colonna sono abbastanza alte da defavorire in maniera importante fenomeni diffusivi

longitudinali.

3. Trasferimento di massa tra le due fasi

Per i moderni tipi di materiali per le fasi stazionarie, il trasferimento di massa può combinare due effetti:

· cinetica d’adsorbimento;

· trasferimento di massa all’interno delle particelle (principalmente dovuto alla diffusione).

Il contributo della cinetica d’adsorbimento, specialmente se confrontato al trasferimento di massa, è

trascurabile116. Nell’equazione si considera dunque unicamente questo secondo effetto, senza per questo

introdurre una semplificazione eccessiva. 115 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

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Pagina 97

Il 95% delle moderne fasi stazionarie è costituito da particelle sferiche, completamente rigide, con un

diametro medio di circa 5µm (ossia 95 10−⋅ m ) e con un diametro dei pori di circa 100Å (ossia 125 10−⋅ m ). Il rapporto tra le dimensioni delle particelle e il diametro dei pori è di 500 / 1. La pressione,

per quanto elevata possa essere, non è dunque capace di spingere il flusso all’interno delle particelle, ed i

componenti disciolti nella fase mobile possono penetrare nelle particelle della fase stazionaria unicamente

per diffusione.

L’allargamento del picco dovuto al trasferimento di massa all’interno delle particelle costituenti la fase

stazionaria può essere matematicamente scritto nella forma:

vD

HM

pM

d 2

ω= 117, dove (eq. 33)

MH : effetto di allargamento dei picchi dovuto al trasferimento di massa

MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile

ω : è il coefficiente determinato dalla distribuzione e dalla forma della dimensione dei pori ed anche dalla

distribuzione della grandezza delle particelle

v : la velocità del flusso.

Questa equazione mostra la dipendenza lineare dell’aumento dell’altezza del piatto teorico dovuto al

trasferimento di massa dal flusso. Più sarà bassa la sua velocità, più uniformemente gli analiti

penetreranno all’interno delle particelle costituenti la fase stazionaria, e meno grande sarà l’effetto di una

differente penetrazione sull’efficienza. Ne risulterà un’efficienza tanto più alta quanto più basso sarà il

flusso.

Al contrario, più sarà veloce il flusso più sarà grande la differenza tra le profondità di penetrazione degli

analiti all’interno delle particelle costituenti la fase stazionaria e quindi più sarà grande il fenomeno del

trasferimento di massa ed il suo effetto di diminuzione dell’efficienza della colonna.

116 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html 117 YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

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Pagina 98

4. Equazione di Van Deemter

Nel 1956 J. J. Van Deemter trovò l’equazione che combina questi tre fattori e li rappresenta come

variabili a dipendenza dell’altezza equivalente del piatto teorico (HETP) dalla velocità della fase mobile

(ossia dal flusso). Originariamente, questa equazione fu introdotta per la gascromatografia, ma gli stessi

processi fisici avvengono nell’HPLC, per cui questa equazione è perfetta anche per l’HPLC.

Come già spiegato, ognuno dei tre termini sopra spiegato contribuisce all’allargamento dei picchi.

Possiamo quindi trovare l’aumento della lunghezza del piatto teorico (HETP) dovuta all’allargamento dei

picchi semplicemente sommando questi tre termini:

MDPtot HHHHH ++== , dove (eq. 34)

HHtot = : aumento dell’altezza del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi

PH : allargamento dei picchi dovuto all’effetto “multiple path”

DH : allargamento dei picchi dovuto all’effetto della diffusione longitudinale

MH : effetto di allargamento dei picchi dovuto al trasferimento di massa.

Sostituendo in questa equazione i valori trovati nelle equazioni 30 - 32, troviamo così la forma completa

dell’equazione di Van Deemter:

vDv

DdHM

pMP

d 2

22ωγλ ++= , dove (eq. 35)

H : aumento dell’altezza del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi

λ : una costante, che è piuttosto prossima all’1

Pd : la media del diametro delle particelle della fase stazionaria

γ : il fattore che si riferisce alla restrizione della diffusione per l’impaccamento della colonna

MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile

v : la velocità del flusso

ω : è il coefficiente determinato dalla distribuzione e dalla forma della dimensione dei pori ed anche dalla

distribuzione della grandezza delle particelle

MD : il coefficiente della diffusione degli analiti nella fase mobile.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 99

Poiché l’equazione di Van Deemter mostra la proporzionalità diretta tra l’aumento dell’altezza del piatto

teorico dovuta all’allargamento dei picchi per quanto riguarda il trasferimento di massa, nonché la

proporzionalità indiretta tra l’aumento del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi causato dalla

diffusione longitudinale, si può semplificare tale equazione, come proposto da certa letteratura118, nel

modo seguente:

CXX

BAH ++=1

, dove (eq. 36)

H : aumento dell’altezza del piatto teorico dovuta all’allargamento dei picchi

A : effetto “multiple path”

B : coefficiente della diffusione molecolare

C : coefficiente di resistenza al trasferimento di massa

X : velocità del flusso.

Il grafico mostrato in figura 33 presenta il contributo di ogni termine all’equazione di Van Deemter:

Figura 33119

Il seguente grafico, invece, ci mostra la dipendenza dell’aumento dell’altezza del piatto teorico dal flusso

per alcune sostanze:

118 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979,

p. 453 119 Immagine tratta da: http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 100

Figura 34120

Il grafico riportato in figura 34 mostra che componenti diversi, sulla stessa colonna, hanno dipendenze

diverse dal flusso. Ciò significa che la natura dei componenti, il tipo di interazioni e talvolta anche altri

parametri hanno influenza sull’efficienza della colonna.

Ciò che è però più importante ritenere, come conseguenza dell’equazione di Van Deemter, è che è

possibile – per ogni componente da separare – individuare un flusso di eluente ottimale, dove l’efficienza

della colonna è la migliore.

4.4.3.11 ANALISI QUANTITATIVA

Come già più volte sottolineato nei due capitoli precedenti (4.4.3.9 e 4.4.3.10), la cromatografia su colonna

permette un’analisi quantitativa senza richiedere particolari procedimenti ulteriori rispetto alla stessa analisi

condotta unicamente a scopo qualitativo. Partendo dai cromatogrammi, infatti, si possono ricavare tramite

calcoli numerosi parametri. È tuttavia necessario effettuare un’iniezione ulteriore, quella di una sostanza di

riferimento a concentrazione nota. In tal modo si potrà confrontare l’area del picco di tale sostanza a

concentrazione nota con l’area del/dei picco/picchi da indagare.

L’analisi quantitativa consta di due parti principali:

1. il calcolo dell’area del picco;

2. il calcolo della concentrazione della sostanza (effettuato una volta conosciuta l’area del picco).

120 Ibidem

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 101

4.4.3.11.1 Calcolo dell’area del picco

Esistono sostanzialmente quattro metodi, due dei quali relativamente semplici e quindi utilizzabili anche

senza computer. Un terzo richiede un ordinatore ed un quarto può essere svolto nei due modi, ma con gradi

di precisione e accuratezza assai diversi. I primi due metodi sono quello delle triangolazioni e quello della

gaussiana, mentre il terzo è quello del riferimento a funzioni più aderenti ai dati sperimentali ma anche più

complesse: si tratta quindi di un metodo che abbisogna di un computer dotato di un software piuttosto

avanzato. È comunque sempre possibile suddividere il picco in tante piccole colonne di altezze diverse: la

somma delle aree di queste colonne ci darà l’area del picco. Più le colonne saranno strette, migliore sarà

l’approssimazione del risultato. Questo stesso ragionamento è alla base dell’utilizzo di funzioni di tipo

integrale a livello matematico. Il calcolo degli integrali svolto a mente o con una calcolatrice è un po’

complesso, ma può venire svolto con semplicità da un computer ben programmato. È questo il quarto

metodo (lo stesso da noi utilizzato, impostando il software Excel per svolgere il calcolo di sottili colonne

sottese alla linea del grafico).

Il metodo delle triangolazioni prevede di costruire un triangolo tracciando le tangenti al picco nel punto di

flesso: queste, assieme alla linea di base del picco, daranno luogo ad un triangolo isoscele. Si ammette poi

che l’area di questo triangolo sia uguale a quella del picco. Si ottiene dunque che

hBA ⋅=21

, dove (eq. 37)

A : area

B : base

h : altezza.

Questo primo metodo è mostrato nella figura 35.

Il metodo della gaussiana parte dall’idea di considerare il picco uguale ad una campana di Gauss, e di

calcolare quindi l’area di tale campana ammettendo che essa sia l’area del picco. In condizioni ideali, in

effetti, il picco cromatografico assume proprio la forma di una curva di Gauss. Ora, l’area sottesa al picco è

espressa dall’equazione seguente:

!KxeY

kx ⋅= (eq. 38) 121

Questa funzione, per bassi valori di K, ha un andamento asimmetrico. Col crescere di K, però, assume

sempre più la forma simmetrica dell’area della campana di Gauss: 2xeY −= (eq. 39) 122

121 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;

p. 476

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 102

Metodo delle triangolazioni

Figura 35123

Entrambe le equazioni, 37 e 38, rappresentano con buona approssimazione i picchi, ma la seconda è più

semplice e permette dunque un’integrazione immediata. Baseremo dunque il calcolo dell’area su questa

equazione. Per adattarla, però, ai vari picchi del cromatogramma, occorre introdurre due costanti, H ed A ,

che si possano rilevare geometricamente dal grafico.

Si ottiene questa equazione:

2

22ln4

AX

HeY−

= , dove (eq. 40) 124

H : altezza del picco

A : ampiezza del picco a metà altezza (chiamata anche semiampiezza).

Integrando questa equazione da ∞− a ∞+ , otteniamo

066,12ln4

2

22ln4

⋅⋅≅== ∫∞+

∞−

−AHMHAdxeHA A

X

(eq. 41) 125

122 Ibidem 123 Immagine tratta da G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia

editori; Milano; 1979; p. 476 (Fig. XII, 54) 124 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;

p. 477 125 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;

p. 477

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 103

Otteniamo così un risultato (approssimativo) molto semplice: l’area del picco è data dal prodotto di due

segmenti H ed A facilmente misurabili dal grafico moltiplicati per una costante (che, tra l’altro, nel

successivo calcolo delle percentuali, può venire ignorata).

4.4.3.11.2 Calcolo delle concentrazioni

Esistono due metodi distinti. Li vediamo uno dopo l’altro, dopodichè discuteremo brevemente i pregi e i

difetti dell’uno e dell’altro.

1. Metodo della normalizzazione interna

Bisogna sviluppare completamente un cromatogramma, in modo da avere a disposizione tutti i picchi

(ossia i picchi relativi a tutte le sostanze contenute nella fase mobile). A partire da questi si potranno

calcolare i dati da inserire nella seguente proporzione:

∑∑=

ii

i

ii

i

FSP

FSP

, dove (eq. 42)

iP : concentrazione percentuale di un componente i

iS : area “bruta” del picco di un componente i

iF : fattore correttivo

ii FS : area corretta di un componente i

Da questa proporzione è possibile ricavare iP . A condizione, infatti, che tutti i componenti siano stati

presi in considerazione, si ha che ∑ =1iP , per cui si ottiene

∑∑∑∑ =⇔=⇔=

ii

iii

iiii

i

ii

i

ii

i

FSFS

PFSFS

PFS

PFS

P 1. (eq. 43)

Per poter utilizzare le equazioni 41 e 42, occorre però determinare i fattori correttivi relativi ad ogni

singolo picco.

Per calcolare i fattori correttivi bisogna avere a disposizione il cromatogramma di un miscuglio in cui le

sostanze siano presenti in concentrazioni note. Vale l’equazione 41, ma per risolverla bisogna conoscere

la sommatoria ∑ ii FS , che non si può calcolare direttamente, giacché non sono noti i valori dei

vari iF . Si procede dunque così. Si sceglie arbitrariamente un composto come riferimento, ponendo il

suo fattore correttivo uguale a 1 (ossia 1=rF , dove rF : fattore correttivo del composto di riferimento),

per cui l’equazione sarà:

∑∑∑=

⋅==

ii

r

ii

r

ii

rrr FS

SFS

SFS

FSP 1. (eq. 44)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 104

Da questa equazione, conosciuti rP e rS , si ricava ∑ =r

rii P

SFS , e sostituendo tale valore

nell’equazione 42, si ottiene l’espressione che ci dà il fattore correttivo:

{ri

rii

ir

ri

ir

riii

PS

FSii

iii PS

SPF

PSPS

FSPFS

PFS

FSP

r

rii

=⇔=⇔=⇔=∑ =∑

1. (eq. 45)

I fattori correttivi sono principalmente legati al tipo di rivelatore usato, ma nella pratica di laboratorio

possono inglobare anche altri fattori, il cui scopo è di correggere alcuni errori sistematici del

procedimento utilizzato.

2. Metodo della standardizzazione interna

Si aggiunge al miscuglio in esame una sostanza a concentrazione nota rP , di cui si misurerà sul

cromatogramma l’area corrispondente rS . Tale sostanza a concentrazione nota prende il nome di

sostanza di riferimento, o anche di standard interno126.

Si può così ottenere la proporzione seguente:

i

ii

r

r

PFS

PS

= . (eq. 46)

Da questa proporzione si può ricavare iP :

r

riii

i

ii

r

r

SPFSP

PFS

PS

=⇔= . (eq. 47)

Le concentrazioni così calcolate, però, sono riferite al miscuglio contenente anche la sostanza di

riferimento. Poiché a noi interessa, invece, conoscere le concentrazioni nel miscuglio originale,

bisognerà normalizzare i valori ottenuti fin qui. Indicando con iP' la percentuale da trovare, avremo:

r

ii

ri

i

PPP

PPP

−=⇔

−=

1'

11'

. (eq. 48)

In altre parole, quindi, le percentuali trovate con l’equazione 46 dovranno essere divise per ( )rP−1 .

3. Discussione

Il metodo della standardizzazione interna richiede dunque la preparazione di un miscuglio, esattamente

dosato, tra lo standard interno e la sostanza in esame. Questo metodo è tuttavia vantaggioso (o

126 G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979;

p. 483

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 105

addirittura necessario) quando non è possibile eluire tutto il cromatogramma ed è invece richiesta

l’elaborazione di un numero limitato di picchi.

Inoltre, anche il metodo della normalizzazione interna richiede di avere a disposizione un miscuglio in

cui le sostanze siano presenti in concentrazioni note, ossia un miscuglio di riferimento a cui rapportare i

dati dei miscugli successivamente cromatografati.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 106

5. II parte: esperimenti

5.1 Scopo L’obiettivo è di impaccare alcune colonne con i polimeri macroporosi sintetizzati dai miei compagni di

lavoro di maturità, cercando poi di caratterizzare tali colonne. Un altro obiettivo, questo ben più pretenzioso,

è di tentare di separare due molecole di interesse biologico, ossia due proteine di dimensioni importanti.

Per quanto attiene al primo obiettivo, ho impaccato tre colonne (di tre lunghezze diverse), con due fasi

diverse, effettuando poi analisi con alcune sostanze (tiourea, acetofenone, interferone).

Per mostrare anche con dei dati sperimentali come la temperatura possa influenzare l’analisi cromatografica,

ho effettuato la stessa analisi (iniezione di acetofenone) variando unicamente la temperatura.

Per raggiungere il secondo scopo, quello di effettuare alcune separazioni, abbiamo scelto insulina ed

interferone (chiaramente non puri, ma da due medicamenti in commercio, e quindi conteneti anche alcune

sostanze per stabilizzarli).

Alcuni esperimenti sono stati condotti nei laboratori del gruppo del prof. Massimo Morbidelli all’ETH di

Zurigo, impiegando tre sistemi cromatografici diversi (Hitachi D7000, HP 1090 e HP 1100). Altri

esperimenti sono stati svolti al liceo di Locarno. Un ulteriore scopo della mia attività sperimentale è quindi

stato quello di confrontare apparecchiature con gradi di sofisticatezza (e costo) diversi, e di cercare di

mettere in piedi al liceo di Locarno, con relativamente pochi mezzi, un’apparecchiatura cromatografica il più

vicina possibile agli apparecchi utilizzati all’ETH di Zurigo.

5.2 Basi teoriche Le basi teoriche sulla cromatografia sono state ampiamente esposte nella prima parte del presente testo. In

particolare, invito chi non li avesse letti, a considerare i capitoli 3, 4.3.1, 4.3.5, 4.4.3 (introduzione;

cromatografia per adsorbimento, cromatografia per esclusione; cromatografia su colonna).

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 107

5.3 Materiale

5.3.1 MATERIALE, SGUARDO PROSPETTICO (SINTESI

INTRODUTTIVA) Come fase stazionaria si sono utilizzati due monoliti diversi, ottenuti sottoponendo a “swelling” e

successivamente a gelificazione e successiva stabilizzazione delle emulsioni dei copolimeri di polistirene-

divinilbenzene (cfr. ELENA CALANCHINI, LORENZO CASARI, SANDRO CIPRIAN, GIACOMO MORETTI, ALAN

OGGIER, ATTILIO RIZZOLI; Sintesi di materiali macroporosi attraverso un processo di polimerizzazione in

emulsione seguito da un processo di gelificazione reattiva; Lavoro di maturità, Liceo di Locarno, 2006).

I solventi impiegati sono stati acetonitrile e acqua, in proporzioni diverse (indicate per ogni analisi).

Abbiamo utilizzato tre colonne, una dell’ETHZ e due del liceo di Locarno.

Quella dell’ETHZ, di 3cm, l’abbiamo dovuta svuotare e lasciare a Zurigo. Con essa, però, abbiamo condotto

tutte le analisi svolte all’ETHZ (tiourea e acetofenone variando la temperatura).

Una colonna di 10cm è stata impaccata a Zurigo con la pompa di un sistema cromatografico HP1100.

La colonna di 20cm l’abbiamo impaccata a secco al liceo di Locarno.

Per le analisi a Zurigo si è utilizzato un cromatografo HP1090. Per l’impaccamento della colonna da 3cm si è

usato un sistema Hitachi D7000, per l’impaccamento della colonna di 10cm si è usata la pompa di un

HP1100, per l’impaccamento della colonna di 20cm si è usata una pompa Jasco PU-980 .

5.3.2 MATERIALE, APPARECCHIATURA

5.3.2.1 APPARECCHI UTILIZZATI ALL’ETHZ

Gli apparecchi dell’ETHZ summenzionati sono mostrati nelle figure 35 - 43.

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Pagina 108

HPLC Hitachi D7000

Figura 36

HPLC HP 1090 con software dedicato

Figura 37

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Pagina 109

HP 1090

Figura 38

HP 1090, iniettore automatico

Figura 39

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Pagina 110

HP 1090, dettaglio pompe

Figura 40

HP 1090, dettaglio camera termostatata

Figura 41

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Pagina 111

HP 1090, dettaglio DAD

Figura 42

HP 1090, dettaglio camera termostatata aperta

Figura 43

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Pagina 112

Pompa HP 1100

Figura 44

5.3.2.2 APPARECCHIATURA IMPIEGATA AL LICEO DI LOCARNO

Qualcuno si chiederà perché per Zurigo abbia usato il termine “apparecchi” e per Locarno, invece, il

vocabolo “apparecchiatura”. La risposta è che, mentre a Zurigo tutti gli elementi erano integrati in un unico

apparecchio, a Locarno (al di là del fatto che la pompa ed il “detector” erano fisicamente separati, ossia due

apparecchi distinti) abbiamo dovuto parzialmente costruire noi un sistema in grado di effettuare delle analisi

cromatografiche e di raccogliere i dati su computer. Vediamo allora meglio in cosa consistesse il nostro

sistema cromatografico al Liceo di Locarno.

Il nucleo base era costituito da una pompa Jasco PU-980 e da un rilevatore ultravioletto Jasco UV-975 . I dati

rilevati dal “detector” sono stati inviati ad un’interfaccia Pasco Sw-500, collegata ad un PC su cui era

caricato il Software Data studio ver. 1.8.5. Con questo programma abbiamo acquisito e registrato in linea i

dati delle analisi effettuate.

Questo impianto, notevolmente meno sofisticato di quello dell’ETHZ, ci ha posto principalmente due

problemi.

1. L’assenza di un sistema automatico di miscelazione dei solventi ha reso impossibile la creazione dei

solventi direttamente dai loro contenitori (dove essi erano puri) e, soprattutto, lo svolgimento di

analisi a gradiente.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 113

Al primo inconveniente abbiamo ovviato preparando manualmente le soluzioni (che quindi, essendo

le sostanze state pesate a mano, possono variare leggermente nella loro composizione da una

preparazione all’altra127). Successivamente, per evitare danni alla fase stazionaria o anche più

semplicemente una diminuzione dell’efficienza della colonna, le abbiamo degassificate in un bagno

ad ultrasuoni.

Al secondo problema non siamo riusciti a rispondere altrettanto “elegantemente”. In particolare, per

la separazione delle biomolecole interferone e insulina, si sarebbe resa necessaria un’analisi a

gradiente. Essendo questa impossibile, siamo intervenuti manualmente cambiando il solvente dopo la

chiusura del picco dell’insulina (il primo picco), giacché quello dell’interferone, per uscire con il

primo solvente, avrebbe impiegato qualche giorno.

2. L’assenza di un sistema di iniezione automatico. L’iniezione attraverso “loop”, in questa

apparecchiatura, è manuale, mentre per rilevare i tempi è necessario conoscere il momento esatto

dell’iniezione. Abbiamo ovviato a tale problema applicando alla leva per commutare il “loop” dalla

modalità “load” alla modalità “inject” una bacchetta che, quando si spostava la leva, passava davanti

ad una fotocellula, anch’essa collegata all’interfaccia Pasco ed al software Data studio.

Un ulteriore problema posto dall’assenza di un sistema di iniezione automatico è che non è possibile

preparare dei campioni in “vials” e programmare delle analisi automatiche. In questo caso, ci siamo

accontentati degli apparecchi a nostra disposizione ed abbiamo svolto le analisi esclusivamente “in

diretta”, senza effettuare grandi numeri di ripetizioni (che di per sé assicurano un risultato più certo e

quindi sono preferibili) durante la notte.

Un terzo problema, non tanto riferito all’impianto cromatografico quanto al software, è stato quello della

mancata capacità del programma di calcolare le aree ed i dati relativi ai cromatogrammi. Abbiamo dunque

dovuto esportare i dati dal software Data studio ad Excel, pulire i cromatogrammi dal rumore di fondo

effettuando una media ogni dieci dati, calcolare manualmente le aree, azzerare manualmente il tempo di

iniezione.

Il software Data studio, infatti, rilevava in due serie diverse i dati ricevuti dal “detector” ultravioletto e dalla

fotocellula. Nei dati che sotto riportiamo, il grafico si riferisce ai valori di tensione rilevati dal “detector”,

mentre i tempi corrispondenti al momento di iniezione (per poter calcolare il tempo trascorso dall’iniezione

al massimo del picco) sono presi dalla tabella registrata dal software. Per semplificare la lettura dei dati,

abbiamo azzerato manualmente il tempo di iniezione, riportando solo la porzione del grafico relativa

all’iniezione.

127 In particolare, il solvente composto dal 90% di acetonitrile e dal 10% d’acqua, è stato preparato tre volte,

in tre date diverse. Benché la preparazione sia stata effettuata con un certo rigore, piccole differenze dovute

ad errori di pesata, magari anche minime, sono sempre possibili. Queste lievi differenze possono essere

trascurate ai fini delle nostre analisi.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 114

Nella separazione dell’interferone e dell’insulina, si è misurata la temperatura applicando una sonda

termometrica a fianco della colonna. Quando abbiamo condotto tale separazione, infatti, si stava avvicinando

l’inverno, ed il locale a nostra disposizione aveva delle grate di areazione impossibili da chiudere, per cui era

importante – per poter confrontare i dati delle separazioni, effettuate sull’arco di più giorni per avere alcune

ripetizioni della stessa esperienza – sapere se le condizioni sperimentali erano simili.

Ecco alcune fotografie dell’apparecchiatura installata presso il Liceo di Locarno:

HPLC Liceo Locarno

Figura 45

Impianto HPLC del Liceo (Jasco UV-975 in alto e Jasco PU-980 in basso)

Figura 46

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 115

HPLC Jasco, dettaglio iniettore, fotocellula (in basso a destra) e colonna su cui è applicato un sensore di

temperatura

Figura 47

Lettore della temperatura della Pasco PS2000

Figura 48

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 116

5.3.3 MATERIALE, SOSTANZE

5.3.3.1 FASI STAZIONARIE

Come fase stazionaria, come già detto (cfr. cap. 5.3.1) si sono utilizzati due monoliti diversi. Il primo,

impiegato per impaccare una colonna di 3cm ed una di 10cm, era il prodotto di una gelificazione

effettuata128 a partire dal Fed-batch 02 (preparato dall’ETHZ il 23.10.05), il quale conteneva un polimero

ottenuto con il 10% di divinilbenzene. Questa emulsione presentava particelle di un diametro di circa 100nm.

Il secondo, utilizzato per impaccare una colonna di 20cm, era L07 2 (un polimero preparato al Liceo di

Locarno da Lorenzo Casari e poi gelificato da Attilio Rizzoli). Questa emulsione presentava particelle di un

diametro medio di 48,7nm. Il polimero in essa contenuto era ramificato al centro, piuttosto lineare ai lati.

Questo secondo monolita presentava delle caratteristiche interessanti, che ci hanno permesso di effettuare

delle separazioni finora non riportate in letteratura (v. cap. 5.6). Le dimensioni dei pori di questa fase, infatti,

secondo un’analisi tramite SEM effettuata all’ETHZ, arrivavano fino a 3µm per 2µm. Si è riusciti ad ottenere

pori di dimensioni così rilevanti, grazie ad un polimero ottenuto con un’elevata concentrazione di

divinilbenzene e grazie all’azione porogena del sale impiegato come iniziatore della gelificazione. Nella fase

di gelificazione dei polimeri, si desidera stabilizzare i vari polimeri in una struttura stabile e il più possibile

uniforme. Per dare inizio a questa reazione, si è utilizzato un sale, il KCl. Onde rendere rapida tale reazione,

se ne è usata una grande quantità, in modo che il sale è rimasto “imprigionato” all’interno del monolita.

Quando noi, una volta ridotto il monolita in granuli di piccole dimensioni e impaccata la colonna, abbiamo

fatto scorrere dell’acqua pura attraverso di essa, il sale si è dissociato e sciolto, determinando così la

formazione di ulteriori pori, di grandi dimensioni. Ciò, unitamente ad un polimero già di per sé ottimo ed

uniforme, spiega come siamo stati in grado di separare due proteine a lunga catena, quali l’insulina umana

(66 amminoacidi) e l’interferone (166 amminoacidi).

Questi i dati relativi alle analisi DLS (“Dynamic Light Scattering”) del polimero L07 2:

128 da Giacomo Moretti presso il Liceo di Locarno.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 117

Figura 49129

Dove si nota l’omogeneità del campione L7 e si vede che il diametro medio è leggermente inferiore ai 50

nm. La figura seguente mostra l’immagine ingrandita 20000 volte del materiale finito scattata al microscopio

elettronico a scansione (SEM):

Figura 50129

Si notino le dimensioni piuttosto considerevoli dei pori e, soprattutto, la presenza di residui di sale KCl (parti

bianche).

129 Immagini tratte da LAM “Sintesi di nuovi materiali macroporosi attraverso un processo di gelificazione

reattiva”, Liceo Locarno, 2006

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 118

5.3.3.2 SOSTANZE VARIE (SOLVENTI, TRACCIANTI, CAMPIONI)

Tiourea

Formula bruta: CH4N2S

Massa molare: 76,11 unità di massa atomica [g/mol]

Punto di fusione: 174-177°C

Classe di tossicità: 3 Figura 51

Ditta fornitrice: Merck, Darmstadt, Germania

Acetofenone

Formula bruta: C8H8O

Massa molare: 120,15 unità di massa atomica [g/mol]

Classe di tossicità: 4

Ditta fornitrice: Siegfried, Zofingen, Svizzera Figura 52

Acetonitrile

Formula bruta: CH3CN

Massa molare: 41.05 unità di massa atomica [u] [g/mol]

Punto di fusione: 2°C

Classe di tossicità: 2

Ditte fornitrici: Fluka Che mie AG, Buchs e J. T. Baker B. V., Deventer, Olanda Figura 53

Acqua

Formula bruta: H2O

Massa molare: 18,02 [g/mol]

Punto di ebollizione: 100°C

Densità: 1 kg/L a 3,98 °C

Acqua deionizzata: Fonte: rete dell’acqua potabile Città di Locarno

Deionizzatore: Noion Aqua, Magliaso; cartuccia tipo 2

Acido fosforico

Formula bruta: H3PO4

Massa molare: 98,0 [g/mol]

Punto di ebollizione: 158°C

Densità: 1,685 kg/L Figura 54

Ditta fornitrice: Sigma chemical co., St. Louis, MO, USA

NH2 NH2

S

O

N

OH P OHOH

O

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 119

Interferone

L’interferone è una glicoproteina composta da 166 amminoacidi. Non avendola a disposizione pura, abbiamo

abbiamo utilizzato il farmaco Rebif®, di cui è il principio attivo.

Indichiamo qui dunque dapprima alcune informazioni sulla molecola dell’interferone e poi la composizione

di tale farmaco, nonché alcuni suoi principali impieghi medici.

Per prima cosa, occorre dire che – esistendo più tipi di interferone – quello da noi utilizzato era

dell’interferone beta 1-a, prodotto attraverso la tecnica del DNA ricombinante in cellule CHO (“Chinese

Hamster Ovary”). Rebif® contiene infatti un interferone che ha la stessa sequenza d’amminoacidi

dell’interferone beta umano; essendo poi fabbricato in cellule di mammiferi è glicosilato allo stesso modo

della proteina naturale.

La sequenza dei 166 amminoacidi (e la struttura secondaria che presenta questa proteina) di cui è composto è

la seguente:

Key: = extended strand, = turn, = disulfide bond

= alpha helix, = 310 helix, = pi helix,

Greyed out monomers have no structural information

Figura 55a130

La sua massa atomica è di 20055 g/mol (o unità di massa atomica che dir si voglia).

Si tratta dunque di una molecola di grandi dimensioni, come si può peraltro vedere dall’immagine qui

riportata:

130 http://www.rcsb.org/pdb/cgi/explore.cgi?job=chains&pdbId=1AU1&page=&pid=268551135287011

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 120

Figura 55b131

La principale ed originaria indicazione per l’impiego del Rebif® è il trattamento della sclerosi a placche, in

particolare per pazienti che hanno avuto due o più ricadute negli ultimi due anni prima della cura. Tuttavia,

alcuni tipi di interferone (in particolare l’interferone gamma) si sono mostrati utili nella protezione delle

cellule umane dall’attacco dei virus dell’epatite, dell’herpes e del raffreddore e sembra che siano anche in

grado di stimolare la crescita di quelle cellule del sistema immunitario che distruggono i tumori132.

Gli interferoni, infatti, sono delle glicoproteine prodotte naturalmente che esercitano differenti effetti

biologici, fra cui degli effetti antivirali, antiproliferativi, differenziatori ed immunomodulatori133.

131 tratta da:

http://www.rcsb.org/pdb/navbarsearch.do?newSearch=yes&isAuthorSearch=no&radioset=Structures&input

QuickSearch=1au1 132 JOHN H. POSTLETHWAIT, JANET L. HOPSON; Corso di Biologia; Etas – McGraw-Hill, Milano, 2000; p.

182 133 AA. VV., Compendium suisse des médicaments 2004, Documed, Basel, 2004 ; pp. 2358-2360

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 121

Insulina

L’insulina è un ormone prodotto dai mammiferi, quindi anche dall’uomo. Ha la funzione di regolare la

glicemia (ossia la concentrazione di glucosio nel sangue) ed è prodotta dalle ghiandole a funzione endocrina

del pancreas. È una proteina composta da 66 amminoacidi. Anche qui, per l’iniezione non avevamo a

disposizione l’insulina pura ed abbiamo impiegato un farmaco di cui è il principio attivo, l’Actrapid HM®.

L’insulina ha la seguente struttura (quaternaria):

Figura 56134

134 tratta da: http://www.rcsb.org/pdb/explore.do?structureId=1AI0

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 122

5.4 Determinazione dei tempi di

ritenzione

5.4.1 JASCO PU-980, UV-975 SENZA COLONNA

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0.295

0.345

0.395

0.445

0.495

0.545

0 5 10 15 20tempo [s]

tens

ione

[V]

Tiourea

Figura 57

Abbiamo iniettato della tiourea nel sistema cromatografico Jasco, composto da una pompa PU-980 e da un

“detector” ultravioletto UV-975, ripetendo più volte la prova ed ottenendo sempre cromatogrammi del tutto

simili a quello qui riportato. Lo scopo di queste iniezioni senza colonna, benché banale, era duplice:

1. rilevare i tempi di ritenzione della tiourea in questo cromatografo senza colonna montata per poter

poi calcolare i gradi di vuoto delle colonne da 20cm e da 10cm.

2. mostrare che la forma del picco presenta sempre un certo scodamento, anche senza colonna montata.

Questo è importante da ritenere, in quanto permetterà di valutare la qualità dell’impaccamento delle

colonne: uno scodamento sarà sempre presente quando si utilizzerà quest’apparecchiatura,

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 123

indipendentemente dalla colonna che si monterà. Se dunque la colonna da valutare darà luogo a

cromatogrammi leggermente scodati, non sarà a causa di un cattivo impaccamento, bensì delle

caratteristiche stesse dell’apparecchio. In particolare, il problema è che questo cromatografo,

essendo economico (pur costando diverse migliaia di franchi, è economico se paragonato ai sistemi

Hewlett Packard), ha una cella piuttosto grande, dove gli analiti subiscono dei fenomeni di

miscelazione.

5.4.2 COLONNA DA 20 CM Come sostanza di riferimento (“tracer”) abbiamo usato della tiourea, sciolta in un solvente uguale all’eluente

(per la precisione, abbiamo utilizzato un solvente di acetonitrile e acqua 90:10 m/m, ossia con la stessa

composizione dell’eluente, ma prodotto in data diversa). Le analisi sono state effettuate ad una lunghezza

d’onda pari a 230nm.

Abbiamo ottenuto alcuni cromatogrammi, fra i quali ne abbiamo scelto uno rappresentativo per ogni

iniezione. Abbiamo però calcolato i tempi di ritenzione effettuando una media dei risultati dei vari picchi, e,

quindi, riportiamo qui i tempi di ritenzione mediati.

Purtroppo, i grafici che qui riproduciamo, sono stati elaborati in Excel, giacché non è possibile importare

direttamente il grafico del software Data studio. Per pulire il rumore di fondo (ossia le fluttuazioni della linea

di base dovute alla sensibilità del rilevatore e a interferenze di natura elettrica su di esso), abbiamo preso una

media dei dati calcolata ogni secondo (ossia ogni dieci decimi di secondo, ogni dieci unità di rilevamento).

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 124

Ecco, di seguito, la tabella contenente i vari tempi di ritenzione ed i loro valori mediati. La formula

impiegata è ricavabili dalle equazioni 11-17, ed è

numero del picco tempo di ritenzione

corretto

Tempi di ritenzione dei picchi riferiti all'iniezione di

tiourea a concentrazione 0.13 [g/L]

31.10.05 – 1 160

31.10.05 – 2 156.9

Media 158.45

Tempi di ritenzione dei picchi riferiti all’iniezione di

acetonitrile

31.10.05 – 3 218.7

31.10.05 – 4 204.2

Media 211.45

Tempi di ritenzione dei picchi di eluizione della

tiourea iniettata ad una concentrazione 0.40 [g/L]

31.10.05 – 5 147.8

31.10.05 – 6 145.7

31.10.05 – 7 136.5

Media 143.3333

Tabella 1

Isoliamo un picco per la prima prova (tiourea poco concentrata), un picco per la seconda (acetonitrile) ed un

picco per la terza (tiourea concentrata), e li riportiamo ad un tempo zero che corrisponda al tempo

dell’iniezione, ottenendo questo grafico:

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 125

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0 100 200 300 400 500tempo [s]

tens

ione

[V]

Tiourea Acetonitrile Tiourea conc.

Figura 58

I commenti e le riflessioni che si possono fare su questo grafico sono essenzialmente di due tipi. La prima

annotazione si riferisce esclusivamente alle due iniezioni di tiourea, come mostrato nelle seguente figura:

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 126

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0 100 200 300 400tempo [s]

tens

ione

[V]

Tiourea Tiourea conc.

Figura 59

Innanzitutto si veda come l’area dei due picchi sia diversa. L’area sottesa al picco dell’iniezione di tiourea a

bassa concentrazione (0,13 [g/L]) – il picco rosa nel grafico – ha un’area pari a 6,535155 unità, mentre l’area

sottesa al picco dell’iniezione di tiourea ad alta concentrazione (0.40 [g/L]) ha un’area di 19,71618 unità,

pari cioè a 3,02 volte l’area del primo picco. Considerando che la concentrazione usata per la seconda

iniezione era tripla, il valore sperimentale è molto prossimo a quello teorico, giacché ci si aspetterebbe

un’area di 3 volte maggiore, ed otteniamo un’area di 3,02 volte maggiore: sicuramente un buon risultato.

La seconda considerazione che possiamo fare riguardo a questi primi due picchi, è che quello ad alta

concentrazione presenta il suo massimo leggermente prima di quello a bassa concentrazione, come mostrato

dalle linee tratteggiate sul grafico. Essendo qui piccola la differenza di concentrazione, anche il fenomeno è

contenuto, ed i due massimi presentano un valore di ascissa piuttosto vicino. Tuttavia, possiamo comunque

osservare che aumentando la concentrazione, il picco tende a raggiungere il suo massimo più presto. Ciò è

dovuto ad una (parziale) saturazione dei pori della colonna: alcune molecole del campione iniettato, trovando

ostruiti i pori, passano all’esterno della fase stazionaria (ossia lungo i lati della colonna), uscendo prima dalla

colonna ed anticipando leggermente il picco.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 127

La seconda annotazione si riferisce invece alle iniezioni di tiourea e di acetonitrile, come mostrato nella

figura 60:

-0.005

0.045

0.095

0 100 200 300 400 500tempo [s]

tens

ione

[V]

Tiourea Acetonitrile

Figura 60

Qui si vede come l’acetonitrile abbia un tempo di ritenzione maggiore della tiourea. Il primo insegnamento

che possiamo trarre da questo grafico, conosciute le formule di struttura delle due sostanze, è che la tiourea,

essendo più grande, passa parzialmente all’esterno della fase stazionaria, e quindi esce prima da essa.

L’acetonitrile, essendo più piccolo, passa attraverso la fase stazionaria perché può diffondere nei pori più

piccoli ed esce più tardi.

Il secondo insegnamento, a mio giudizio ancor più importante, che possiamo trarre dal grafico è che, per

determinare il tempo morto di una colonna non è giusto impiegare il solvente (o uno dei suoi componenti), in

quanto non è detto che sia proprio il solvente ad uscire subito senza rimanere trattenuto nella fase stazionaria.

Nel nostro caso, infatti, l’acetonitrile era, assieme all’acqua, uno dei due componenti del solvente (e ne era

anche il principale, con il 90% di acetonitrile contro il 10% di acqua [percentuali m/m]). Il tracciante deve

quindi essere scelto diversamente, e nel nostro caso è sicuramente più indicato usare la tiourea che non

l’acetonitrile.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 128

Possiamo infine utilizzare questi cromatogrammi per calcolare il fattore di capacità ed il grado di vuoto della

colonna da 20cm, oltre che il numero di piatti teorici (e l’altezza equivalente dei piatti teorici, HETP). Lo

facciamo calcolando questi parametri per entrambe le iniezioni di tiourea e mediandoli poi in seguito. Le

definizioni di questi due parametri caratterizzanti le colonne sono riportate nel capitolo 4.4.3.10 (equazioni

21 e 23, cap. 4.4.3.10.2): inseriamo semplicemente i dati in queste equazioni. Per semplicità, organizziamo

tutti i dati in una tabella:

t rit [s]

t rit senza colona

[s] k'

flusso

[mL/min]

volume colonna

[mL]

grado di

vuoto

Conc. x 158.5 17.6 8.006 1 3.323707 0.71

Conc. 3x 143.3 17.6 7.144 1 3.323707 0.63

Tabella 2

t rit [s]

larghezza

linea di base N

HETP

[cm]

tiourea 160.0 203 7.87 0.381

tiourea conc. 145.7 249 4.23 0.709

Tabella 3

È evidente che utilizzando una soluzione più concentrata si ottenga un minor numero di piatti teorici

(corrispondente ad una più elevata altezza equivalente del piatto teorico), ossia una minore efficienza della

separazione, in considerazione delle osservazioni già fatte a proposito del maggior tempo di ritenzione (e del

maggior scodamento del picco) nel caso in cui si iniettino concentrazioni maggiori: la fase stazionaria si

satura di analita e la separazione perde in efficienza.

5.4.3 COLONNA DA 10 CM Le analisi con questa colonna sono state condotte ad una lunghezza d’onda di 230nm, ed hanno riguardato

due sostanze: la tiourea e l’acetofenone. Anche qui, pur avendo effettuato più prove, presentiamo un singolo

cromatogramma per sostanza, che è rappresentativo di tutti quelli ottenuti. Il tempo di ritenzione, però, che

utilizziamo per calcolare il grado di vuoto ed il fattore di capacità, è quello risultante dalla media delle varie

iniezioni.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 129

-0.005

0.045

0.095

0.145

0 200 400 600 800tempo [s]

tens

ione

[V]

Tiourea Acetofenone

Figura 61

Si noti innanzitutto come questa colonna produca dei picchi più scodati che non quella da 20cm. In effetti,

questa colonna è stata impaccata con un monolita meno uniforme (oltre che con pori meno grandi, e quindi

meno adatti a separare molecole di dimensioni rilevanti nel campo biologico e/o medico-farmacologico).

Un’altra osservazione che si può fare riguarda il confronto fra i tempi di ritenzione delle due sostanze

iniettate. Anche qui, vale lo stesso ragionamento fatto per la colonna da 20cm a proposito del confronto tra

tiourea ed acetonitrile: una sostanza con maggior ingombro sterico (una sostanza più grande) tende a saturare

di più e/o più velocemente i pori, costringendo le molecole che arrivano all’istante successivo a passare

all’esterno della fase stazionaria, sui lati della colonna, e ciò fa sì che il picco esca leggermente prima.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 130

Ecco ora i due parametri che ci permettono di caratterizzare la colonna:

Tiourea t rit [s]

t rit senza colona

[s] k'

flusso

[mL/min]

volume colonna

[mL]

Grado di

vuoto

I° picco 192.4 35.4 4.435 0.5 1.661854 0.79

II° picco 194.3 35.4 4.489 0.5 1.661854 0.80

Media 193.4 35.4 4.463 0.5 1.661854 0.79

Tabella 4

Acetofenone t rit [s]

t rit senza colona

[s] k'

flusso

[mL/min]

volume colonna

[mL]

Grado di

vuoto

I° picco 157.4 35.4 3.446 0.5 1.661854 0.61

II° picco 154.5 35.4 3.364 0.5 1.661854 0.60

Media 156.0 35.4 3.406 0.5 1.661854 0.60

Tabella 5

Ho voluto inserire i dati ed i relativi calcoli anche per l’acetofenone, per mostrare al lettore come i dati così

calcolati siano diversi (ed inferiori) rispetto a quelli ottenuti utilizzando la tiourea, che è il nostro tracciante.

È proprio per evitare errori nel calcolo di questi parametri che si utilizza, per rilevare questi dati, un

tracciante, come la tiourea.

t rit [s]

larghezza

linea di base

[s] N

HETP

[cm]

I° picco 192.4 519.0 1.46 2.054

II° picco 194.3 453.8 1.96 1.531

Media 1.71 1.754

Tabella 6

5.4.4 HP 1090 SENZA COLONNA Onde avere il volume morto dell’apparecchio, necessario per calcolare il grado di vuoto della colonna, è

necessario misurare il tempo morto dell’apparecchio, ossia di tutto il circuito (capillari esterni, capillari

interni all’apparecchio, cella, …) senza la colonna montata.

Abbiamo effettuato alcune prove, ed abbiamo ottenuto molte volte un valore prossimo a 0,056 min con un

flusso di 1 mL/min. Utilizziamo quindi questo dato come tempo morto dell’apparecchiatura.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 131

5.4.5 COLONNA DA 3CM Le analisi con la colonna da 3cm, come già detto nel cap. 5.3.1, sono state effettuate all’ETH di Zurigo con

un HP1090 ed il software dedicato della Hewlett Packard. Per questo motivo, i grafici – a differenza delle

analisi effettuate a Locarno – indicano la tensione in mV anziché in V ed il tempo in minuti anziché in

secondi.

Con la colonna da 3cm abbiamo effettuato le analisi con due sostanze diverse: tiourea ed acetofenone. Per

l’acetofenone, abbiamo effettuato iniezioni a tre diverse concentrazioni. Per trovare il fattore di capacità ed il

grado di vuoto della colonna, ossia per caratterizzarla, utilizziamo i dati della tiourea (che è il nostro

tracciante e che, infatti, ha un tempo di ritenzione minore dell’acetofenone). Le misurazioni sono state

effettuate ad una lunghezza d’onda di 220nm.

Tiourea

-1

4

9

14

19

24

29

34

0 2 4 6 8 10

tempo [min]

tens

ione

[mV

]

Tiourea

Figura 62

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 132

Grazie a questo tracciante, abbiamo potuto calcolare il fattore di capacità ed il grado di vuoto di questa

colonna. Questi parametri sono stati anche qui calcolati utilizzando le equazioni 21 e 23 (cap. 4.4.3.10.2 ).

Ecco la tabella con i dati:

t rit

[min]

t rit senza colona

[min] k'

flusso

[mL/min]

volume colonna

[mL]

grado di

vuoto

CM001 1.232 0.224 4.500 0.25 0.498556 0.51

CM003 1.215 0.224 4.424 0.25 0.498556 0.50

CM004 1.233 0.224 4.504 0.25 0.498556 0.51

CM005 1.224 0.224 4.464 0.25 0.498556 0.50

CM006 1.208 0.224 4.393 0.25 0.498556 0.49

CM007 1.238 0.224 4.527 0.25 0.498556 0.51

CM008 1.225 0.224 4.469 0.25 0.498556 0.50

Media 1.225 0.224 4.469 0.25 0.498556 0.50

Tabella 7

t rit [min] larghezza linea di base N

HETP

[cm]

I° picco 1.225 6.95 0.33 9.091

Tabella 8

Questa colonna, essendo più piccola, impaccata meno bene e riempita con una fase meno buona di quella

impiegata per la colonna da 20cm, presenta un numero di piatti teorici molto piccolo e, viceversa, una grande

altezza equivalente del piatto teorico. Bisogna però considerare che il valore di HETP elevato risente dello

scodamento del picco, questo perché il flusso era di soli 0.25 mL/min (v. cap. 4.4.3.10.4).

Dalla tabella 7 si può inoltre vedere che, pur avendo utilizzato la stessa fase impiegata per riempire la

colonna da 10cm, abbiamo qui ottenuto un grado di vuoto minore, di 0,50 contro lo 0,80 della colonna più

lunga. Una spiegazione di ciò è che la granulometria delle particelle del materiale utilizzato era differente:

nella colonna da 3cm le particelle avevano un diametro inferiore rispetto a quelle utilizzate per riempire la

colonna da 10cm (anche se la porosità delle singole particelle era simile).

Acetofenone

Con l’acetofenone abbiamo condotto due tipi di esperimenti. Da un lato abbiamo effettuato tre analisi a tre

diverse concentrazioni, dall’altro abbiamo cercato di capire quale possa essere – per l’acetofenone –

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 133

l’influsso della temperatura sull’analisi. Questo secondo esperimento è illustrato nel cap. 5.5, mentre qui ci

occupiamo solo del primo.

-3

47

97

147

197

247

297

0 2 4 6 8 10

tempo [min]

tens

ione

[mV]

Acetofenone 1 microL Acetofenone 4microLAcetofenone 8 microL

Figura 63

Due sono le osservazioni da effettuare a proposito di questo grafico, rappresentante tre cromatogrammi

sovrapposti (in realtà questi cromatogrammi sono stati ottenuti in analisi diverse, la sovrapposizione è frutto

di un’elaborazione grafica, utile per meglio intuire le considerazioni seguenti). Entrambe le osservazioni

sono del tutto analoghe a quelle fatte per la colonna da 20 cm e l’iniezione di due concentrazioni diverse di

tiourea. Il fatto che anche qui otteniamo risultati simili, ci dimostra che l’ipotesi avanzata per spiegare il

fenomeno nel cap. 5.4.2 è piuttosto consistente e corretta (infatti, risultati simili si ottengono sempre, come

anche noi abbiamo potuto appurare effettuando altri esperimenti simili ai due descritti in questo testo).

Si noti innanzitutto come l’area del picco sia direttamente proporzionale alla concentrazione iniettata. L’area

del picco blu corrisponde infatti ad 1/4 di quella del picco viola e ad 1/8 di quella del picco rosso.

La seconda annotazione è più difficile da apprezzare a partire da questo grafico, giacché la scala non è

sufficientemente dettagliata (ed ingrandita), ma anche e soprattutto perché l’analisi che qui consideriamo è

effettuata su una colonna di 3cm di lunghezza, ossia su una colonna corta, dove il fenomeno è meno

apprezzabile. Ma qual è questo fenomeno? Invito il lettore ad osservare più attentamente il grafico (Figura

64): egli scoprirà che i massimi dei tre picchi non sono esattamente uguali (in quanto a valore del tempo),

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 134

bensì noterà che a concentrazione maggiore corrisponde un tempo di ritenzione leggermente minore. Questo

fenomeno si può meglio rilevare se si disegnano delle linee in corrispondenza dei massimi dei picchi:

-3

47

97

147

197

247

297

0 2 4 6 8 10

tempo [min]

tens

ione

[mV]

Acetofenone 1 microL Acetofenone 4microLAcetofenone 8 microL

Figura 64

Il lettore, se è davvero attento, si chiederà se io non abbia barato, giacché visivamente il massimo del picco

blu è ad un valore di ascissa minore di quello in cui io ho posto la linea. Il massimo, in effetti, è ad un valore

di tempo minore di come io non l’abbia considerato per disegnare la linea. Tuttavia, ho operato in questo

modo poiché il picco blu è molto scodato – si parla di un fenomeno di “tailing”, dall’inglese “tail” (coda) –,

tanto che sembra chiudere poco prima degli altri due picchi, che hanno concentrazioni piuttosto maggiori.

Non possiamo far altro che ripetere quanto già detto a proposito della colonna da 20 cm e dell’iniezione di

diverse concentrazioni di tiourea: questo fenomeno è dovuto ad una (parziale) saturazione dei pori della

colonna: alcune molecole del campione iniettato, trovando ostruiti i pori, passano all’esterno della fase

stazionaria (ossia lungo i lati della colonna), uscendo prima dalla colonna ed anticipando leggermente il

picco.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 135

5.5 Influsso della temperatura sulle

analisi cromatografiche con HPLC

Abbiamo valutato l’influsso della temperatura conducendo analisi a temperature diverse iniettando

acetofenone. Riportiamo qui i dati relativi alle temperature di 30°C e 50°C, ottenuti conducendo l’analisi ad

una lunghezza d’onda di 220nm. È palese che simili analisi si possono eseguire solo in un impianto che

preveda la possibilità di termostatare la colonna, come l’HP1090 che avevamo a disposizione all’ETHZ. Al

Liceo di Locarno, anche per la separazione delle biomolecole – dove una temperatura controllata sarebbe

stata utile –, non abbiamo invece potuto effettuare analisi a più temperature.

-1

9

19

29

39

49

59

69

79

89

99

0 5 10 15

tempo [min]

tens

ione

[mV

]

Acetofenone 30° C Acetofenone 50° C

Figura 65

Questo cromatogramma, se guardato attentamente, ci può dare alcune informazioni a proposito della cinetica

dei processi di adsorbimento e desorbimento dell’acetofenone all’interno della colonna.

Il picco viola, corrispondente ad una temperatura di 30°C, appare prima del picco blu, corrispondente ad una

temperatura di 50°C.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 136

Ciò mi ha in un primo tempo sorpreso. Siamo infatti abituati a pensare che un aumento di temperatura porti a

reazioni più rapide ed il passo fino a prevedere che anche il processo separativo (basato non su reazioni, ma

comunque su un’azione di “filtro” della fase stazionaria e su interazioni tra il componente e le due fasi) si

velocizzi è breve. Ragionando però sui dati sperimentali ottenuti, possiamo ipotizzare la seguente

spiegazione, che ci permette peraltro di scoprire un importante principio.

Evidentemente, apparendo l’acetofenone più tardi aumentando la temperatura, o il desorbimento deve essere

favorito da una temperatura più elevata (o perlomeno più prossima ai 50°C che ai 30°C, difficile dire con

certezza se tale fenomeno abbia un andamento lineare anche aumentando ulteriormente le temperature, o

diminuendole) o l’adsorbimento deve venire accelerato da una temperatura più bassa, o entrambe le cose

combinate.

Questa semplice spiegazione, ci permette di notare come in realtà non sia possibile prevedere l’effetto della

temperatura su una separazione cromatografica: tutto dipende dagli equilibri che si stabiliranno tra le due fasi

e da come verranno influenzate dalla temperatura le interazioni tra il (o i) componente (/-i) da separare, ossia

se verrà favorito l’adsorbimento o il desorbimento aumentando o diminuendo la temperatura. Le possibilità

per trovare risposta sono tre: o si fanno delle previsioni, basandosi su una conoscenza dettagliata delle

interazioni che si hanno in colonna, o si va in laboratorio e si conducono delle analisi, o si consulta della

letteratura che riporta i risultati di quelle svolte da qualcun altro, badando però che le abbia condotte su una

stessa fase stazionaria, cosa nel nostro caso impossibile, vista la produzione “in proprio” del materiale usato

quale fase stazionaria.

5.6 Separazione di insulina e

interferone

5.6.1 INTRODUZIONE; INIEZIONE DI TIOUREA NEI DUE

SOLVENTI L’esperimento più interessante che abbiamo svolto è stato quello di separare due molecole di dimensioni di

rilevanza biologica. Abbiamo scelto l’insulina umana e l’interferone beta 1-a, una glicoproteina a lunga

catena composta da 166 amminoacidi. Evidentemente, non avevamo a disposizione queste due sostanze pure,

ma abbiamo utilizzato due medicamenti di cui sono il principio attivo. La presentazione sia delle proteine

che dei medicamenti e dei loro possibili utilizzi è contenuta nel cap. 5.3.3.2 , a cui rimando il lettore che non

l’avesse ancora affrontato.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 137

Trattandosi di due proteine, è stato necessario aggiungere al solvente una sostanza acida per mantenere un

pH in cui le proteine non si denaturassero (ossia perdessero le loro strutture terziaria e quaternaria, così

importanti, fra l’altro, per la loro funzionalità biologica e medica). A questo scopo, abbiamo, su

suggerimento dell’équipe del prof. Morbidelli dell’ETHZ, utilizzato dell’acido fosforico. Questo sistema è

già stato utilizzato dai ricercatori del politecnico per stabilizzare e separare una miscela di calcitonina e

d’insulina. Abbiamo inoltre preparato, sempre su suggerimento dei ricercatori dell’ETHZ, due miscele

diverse, con diversa composizione in quanto a percentuale di acetonitrile e di acqua. Una aveva

composizione 25:75, l’altra 40:60 (percentuali m/m). La seconda presenta carattere di adsorbimento, leggero

per l’insulina, molto marcato per l’interferone, e ciò permette una separazione delle due proteine.

Per prima cosa, riporto qui i cromatogrammi ottenuti iniettando nei due solventi della tiourea, in modo che i

risultati ottenuti per le biomolecole possano venire confrontati con quelle del tracciante e, soprattutto, in

modo tale che possiamo calcolare il tempo di ritenzione corretto tanto per l’insulina quanto per l’interferone

(in realtà, come si vedrà, nel caso del solvente adsorbente, quello con il 40% di acetonitrile, l’interferone

adsorbe così tanto che l’abbiamo desorbito cambiando solvente). Questi cromatogrammi sono stati ottenuti

conducendo le analisi ad una lunghezza d’onda di 230nm.

-0.005

0.005

0.015

0.025

0.035

0.045

0.055

0.065

0.075

0 200 400 600 800 1000 1200tempo [s]

tens

ione

[V]

Tiourea, solvente 25% ACN Tiourea, solvente 40% ACN

Figura 66

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 138

Il tempo di ritenzione della tiourea, che – come si vede sia dal grafico (Figura 66) – non viene adsorbita dalla

fase stazionaria indipendentemente da quale dei due solventi si usi (o viene adsorbita sempre nello stesso

modo), il fattore di capacità ed il grado di vuoto sono riportati in tabella:

t rit [s]

t rit senza

colona [s] k'

flusso

[mL/min]

volume

colonna [mL]

grado di

vuoto

solv. 25% ACN 176.6 17.6 9.034 1 3.323707 0.80

solv. 40% ACN 179.6 17.6 9.205 1 3.323707 0.81

Tabella 9

Le analisi riportate successivamente sono state condotte ad una lunghezza d’onda di 205nm. Questo

abbassamento di lunghezza d’onda (o aumento di frequenza che dir si voglia) si è reso necessario per

individuare una regione dello spettro in cui le due proteine assorbissero luce in modo da poterle rilevare al

“detector”.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 139

5.6.2 INSULINA, INTERFERONE, MISCELA DI INSULINA ED

INTERFERONE NEL SOLVENTE NON ADSORBENTE

(ACETONITRILE E ACQUA 40:60 + ACIDO FOSFORICO) Per prima cosa, abbiamo iniettato l’insulina da sola (o, per meglio dire, l’Actrapid HM®) sciolta nel solvente

con il 40% di acetonitrile ed il 60% di acqua (mentre la quantità di acido fosforico era all’incirca la stessa per

i due solventi, tra 1,3g e ____), ottenendo il seguente cromatogramma:

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0.295

0 100 200 300 400 500 600 700tempo [s]

tens

ione

[V]

Insulina

Figura 67

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 140

Abbiamo fatto la stessa cosa con l’interferone (o, meglio detto, con il medicamento Rebif®), ottenendo il

cromatogramma seguente:

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0 100 200 300 400 500 600tempo [s]

tens

ione

[V]

IFN

Figura 68

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 141

Abbiamo successivamente iniettato una miscela dei due medicamenti, ottenendo il seguente

cromatogramma:

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0 100 200 300 400 500 600 700 800 900tempo [s]

tens

ione

[V]

Miscela

Figura 69

Come si vede, i picchi non sono per niente risolti, anzi, del tutto sovrapposti. Infatti, questo solvente non

presenta alcuna caratteristica di adsorbimento per nessuna delle sostanze qui considerate. Ciò si può peraltro

vedere confrontando il cromatogramma relativo alla miscela con i due grafici delle due sostanze iniettate

singolarmente: il tempo di ritenzione è all’incirca lo stesso.

Volendo “giocare” un po’ con la grafica, possiamo tuttavia riuscire a mostrare i due cromatogrammi nascosti

sotto quello della miscela, che non è altro se non il picco risultante dalla somma degli altri due:

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 142

-0.02

0.18

0.38

0.58

0.78

0.98

0 100 200 300 400 500 600 700 800 900tempo [s]

tens

ione

[V]

Miscela Interferone Insulina

Figura 70

Si noti come in realtà non solo l’area del picco riferito alla miscela sia la somma dei picchi delle due

sostanze, ma anche che il cromatogramma dell’interferone è leggermente spostato verso sinistra e quello

dell’insulina verso destra rispetto a quello della miscela. Il picco risultante, quindi, è la somma dei picchi che

“contiene”, in tutti i sensi: sia in quanto ad area, sia in quanto ad altezza (dovuta essenzialmente alla

sensibilità del rilevatore ed alla concentrazione iniettata), sia in quanto a valore sull’asse delle ascisse.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 143

5.6.3 INSULINA, INTERFERONE, MISCELA DI INSULINA ED

INTERFERONE NEL SOLVENTE ADSORBENTE

(ACETONITRILE E ACQUA 25:75 + ACIDO FOSFORICO) Anche qui, per prima cosa riporto i cromatogrammi relativi all’iniezione di solo Rebif® e di solo Actrapid

HM®.

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0.295

0.345

0 100 200 300 400 500 600 700 800tempo [s]

tens

ione

[V]

Insulina

Figura 71

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 144

-0.015

0.035

0.085

0.135

0.185

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]

tens

ione

[V]

IFN

Figura 72

Questo cromatogramma è in realtà stato ottenuto variando il solvente. Iniettando interferone nel solvente al

25% di acetonitrile, infatti, si è ottenuto unicamente il primo picco, che ha un’area notevolmente più piccola

di quella ottenuta iniettando la medesima sostanza a pari concentrazione nel solvente al 40% di acetonitrile,

il che significa che non tutto il campione iniettato è uscito dalla colonna. Abbiamo lasciato proseguire

l’analisi per circa 50min, ma nessun picco ulteriore è stato registrato dal software. Probabilmente, attendendo

alcuni giorni (e consumando ingenti quantità di solventi), dalla colonna si sarebbe desorbito l’interferone in

essa trattenuto ma, non avendo a disposizione sufficienti riserve di solvente né un sistema per cambiare le

varie bottiglie (sempre che si abbiano a disposizione i solventi), abbiamo deciso di simulare, in modo

forzatamente rozzo, un’analisi a gradiente. Questa situazione, infatti, è la tipica situazione in cui si rileva di

estrema utilità un’analisi a gradiente, in cui la composizione dei solventi varia gradualmente durante l’analisi

(cfr. cap. 4.4.3.3). Purtroppo, però, il nostro cromatografo mancava di un miscelatore, ed abbiamo quindi

deciso, dopo 50min, di cambiare solvente e di utilizzare il solvente non adsorbente (quello al 40% di

acetonitrile). Quest’operazione, per forza di cose, ha richieto di fermare per qualche secondo la pompa, onde

poter togliere dalla bottiglia contenente il solvente adsorbente il capillare ed inserirlo nella bottiglia

contenente il solvente non adsorbente. In fase di elaborazione grafica dei risultati, poi, abbiamo tagliato i

lunghi minuti in cui non si era ottenuto nessun picco, interrompendo il cromatogramma a 840s e

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 145

aggiungendo poi il risultato dell’analisi continuata impiegando il nuovo solvente. Utilizzando questo

solvente, difatti, l’interferone si è desorbito in relativamente poco tempo (97,6s per l’esattezza, considerando

però che già l’apparecchio ha un tempo morto di 17,6s, per un tempo di ritenzione effettivo di 80,0s).

Anche per risolvere la miscela, dunque, giacché l’insulina (come si può vedere dal cromatogramma riportato

in figura 71) si adsorbe e si desorbe (completamente) anche con il solvente al 25% di acetonitrile e giacché

l’interferone – come appena spiegato – si adsorbe fortemente con il solvente al 40%, opereremo nella stessa

maniera, ossia cambiando il solvente dopo 840s di analisi col primo solvente. Ritenuto quanto fin qui detto,

si noti che questa separazione – da noi effettuata a livello puramente sperimentale – potrebbe rendersi utile a

scopi preparativi ed eventualmente, se perfezionata e standardizzata, anche su larga scala (per grossi

quantitativi di sostanza). Una delle due sostanze da separare, infatti, viene quasi completamente adsorbita dal

primo solvente. Tuttavia, è assai inusuale (oltre che molto improbabile) che un’industria necessiti di separare

insulina ed interferone! Il nostro esperimento è interessante ed utile, invece, perché costituisce un esempio di

una separazione di due proteine di grosse dimensioni utilizzando la tecnica cromatografica dell’HPLC

utilizzando come fase stazionaria un materiale prodotto per gelificazione reattiva a partire come spiegato in

precedenza (cap. 5.3.3.1). Se si applicasse questa tecnica alla separazione di proteine di interesse medico-

farmacologico (come, peraltro, le due da noi utilizzate), ottenute mediante tecniche di ingegneria genetica, da

una miscela contenente molti altri polipeptidi, si avrebbe a disposizione una tecnica separativa a

relativamente buon mercato, in grado cioè di abbassare i costi (oggi molto elevati135) di medicamenti prodotti

in questo modo, spesso vitali per molte persone.

135 Il Rebif® da noi utilizzato, per esempio, in Svizzera è venduto in confezioni di 12 iniezioni a prezzi di

1842,60 Fr per il Rebif 22µg e di ben 2419,15 Fr per il Rebif 44µg . (v. AA. VV., Compendium suisse des

médicaments 2004, Documed, Basel, 2003 ; p. 2360)

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 146

Ecco il cromatogramma relativo alla miscela:

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]

tens

ione

[V]

Miscela

Figura 73

Il primo picco si riferisce all’insulina, il secondo (successivo al cambiamento del solvente, avvenuto, come

detto, a 840s) all’interferone. Giacché la miscela è stata fatta con un 50% (V/V) e giacché i due medicamenti

contengono concentrazioni diverse del principio attivo, i due picchi hanno aree (e altezze) diverse. Si noti

che il secondo picco chiude ad un valore della linea di base superiore al primo. Ciò è del tutto normale, in

quanto abbiamo cambiato il solvente, e l’acetonitrile (che nel secondo solvente è presente a concentrazione

maggiore) assorbe parte della radiazione luminosa.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 147

5.6.4 CONFRONTO TRA LE ANALISI COL SOLVENTE

ADSORBENTE E QUELLO NON ADSORBENTE,

DISCUSSIONE DEI RISULTATI, CONCLUSIONE Per avere una rappresentazione visiva di quanto spiegato nei due capitoli precedenti (capp. 5.6.2 e 5.6.3),

abbiamo unito in un unico grafico i cromatogrammi effettuati nei due solventi, rispettivamente, dell’insulina,

dell’interferone e della miscela. Ecco i grafici così ottenuti:

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0.295

0.345

0 100 200 300 400 500 600 700 800tempo [s]

tens

ione

[V]

Insulina 25% Insulina 40%

Figura 74

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 148

-0.015

0.035

0.085

0.135

0.185

0.235

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]

tens

ione

[V]

IFN 25% IFN 40%

Figura 75

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 149

-0.005

0.045

0.095

0.145

0.195

0.245

0 200 400 600 800 1000 1200 1400 1600tempo [s]

tens

ione

[V]

Miscela 25% Miscela 40%

Figura 76

Valgono tutte le considerazioni esposte nei capitoli 5.6.2 e 5.6.3 a proposito del modo di procedere e della

spiegazione del perché il secondo picco della miscela al 25% chiuda ad un valore di ordinata superiore al

primo picco. Le aree sottese al cromatogramma ottenuto con la miscela al 40% di acetonitrile e la somma dei

due cromatogrammi ottenuti con la miscela al 25% di acetonitrile e poi al 40% corrispondono.

Vale anche quanto detto a proposito dell’utilità del nostro lavoro per eventuali sviluppi futuri, anche

nell’ambito di applicazioni industriali da parte del settore farmaceutico.

Quello che qui vorremmo sviluppare è invece un altro discorso. Ci vorremmo infatti concentrare brevemente

sulla spiegazione (o su un’ipotesi di spiegazione) di quanto avviene in colonna usando l’uno e l’altro

solvente, in un costante paragone fra i due.

Ora, i cromatogrammi ottenuti ci dicono che una miscela con il 40% di acetonitrile ed il 60% di acqua è in

grado di desorbire sia l’insulina sia l’interferone. In altre parole, con questo solvente, entrambe le sostanze

presentano maggiore affinità per la fase mobile che per quella stazionaria e presentano dunque un tempo di

ritenzione relativamente basso. Sempre i cromatogrammi ci dicono che una miscela composta per il 25% di

acetonitrile e per il 75% di acqua desorbe (e adsorbe poco) l’insulina mentre adsorbe fortemente

l’interferone. Ora, l’interferone è una glicoproteina composta da una lunga catena peptidica (166

amminoacidi). Conformandosi nelle sue strutture terziaria e quaternaria, tale proteina, rivolge i suoi gruppi

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 150

polari all’interno, onde avere una certa coesione e poter così mantenere la sua forma. La polarità della

proteina verso le fasi, dunque, è data dai due gruppi –NH2 che sporgono alle due estremità, mentre il resto

della molecola può essere considerato come una catena apolare (in realtà questa è una semplificazione, ma,

come detto, le parti polari della proteina si rivolgono all’interno per dare le strutture terziaria e quaternaria e,

inoltre, il calcolo della polarità di una molecola così grande e così complessa, e di forma così complicata, è

assai difficile, se non impossibile, perlomeno con i nostri mezzi). La stessa cosa dicasi per l’insulina. Se

partiamo da questo presupposto, allora, l’insulina presentando una “catena apolare” più corta, dovrebbe

presentare maggiore affinità per sostanze relativamente polari che non l’interferone. Infatti, l’insulina, anche

utilizzando il solvente con il 75% di acqua, esce velocemente dalla colonna, dimostrando di avere poca

affinità con la fase stazionaria (che, essendo un materiale prodotto a partire da copolimeri di polistirene-

divinilbenzene, è apolare). L’interferone, invece, che presenta una “catena apolare” ben più lunga (166

amminoacidi contro 66), ha una buona affinità con la fase mobile solo quando il solvente presenta il 60% di

acqua ed il 40% di acetonitrile, mentre che, quando il solvente diventa relativamente polare (con una

composizione acetonitrile e acqua 25:75), si dimostra poco affine alla fase mobile e si adsorbe invece su

quella stazionaria (apolare, come detto).

La spiegazione della separazione effettuata va ricercata proprio in questa diversa affinità relativa per le due

fasi da parte delle due molecole, diversa a seconda della composizione del solvente impiegato.

Il fatto che, cambiando la percentuale di acetonitrile nella fase mobile (90:10, 40:60, 25:75), il grado di vuoto

della colonna cambi circa del 10% (cfr. cap. 5.6.1; iniezione della tiourea in questi solventi), ci fa pensare

che la fase stazionaria si rigonfi aggiungendo acqua.

La fase stazionaria che abbiamo utilizzato si conferma dunque eccezionalmente stabile, macroporosa ed

uniforme, ossia adatta alla separazione di macromolecole, quindi anche di molecole di rilevanza biologica,

quali ormoni ed enzimi.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 151

6. Bibliografia · AA. VV., Compendium suisse des médicaments 2004, Documed, Basel, 2003

· DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS, Introduzione alla cromatografia, Aldo Martello editore, Milano, 1971

· G. AMANDOLA, V. TERRENI, Analisi chimica strumentale e tecnica, Masson Italia editori, Milano, 1979

· R. ARSHADY; Leading Contribution; Suspension, emulsion and dispersion polymerization: A

metodological survey, Colloid Polymer Science 270:717-732, 1992

· FRANCO BAGATTI, ELIS CORRADI, ALESSANDRO DESCO, CLAUDIA ROPA; Chimica; Zanichelli, Bologna,

1996

· SEBASTIAN BÖCKER, A general procedure for the design of chromatographic separations, Diss. ETHZ

nr. 14352, 2001; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-pool/diss/fulltext/eth14352.pdf

· E. CALANCHINI, L. CASARI, S. CIPRIAN, G. MORETTI, A. OGGIER, A. RIZZOLI, Sintesi di nuovi materiali

macroporosi attraverso un processo di gelificazione reattiva, LAM Liceo Locarno, 2006

· WOLFGANG GOTTWALD; RP-HPLC für Anwender; VCH; Weinheim, New York, Basel, Cambridge,

Tokyo; 1993

· YURI KAZAKEVICH, HAROLD MCNAIR, Basic liquid cromatography, Textbook on High Performance

Liquid Cromatography (HPLC), http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

· N. MARTI, F. QUATTRINI, ALESSANDRO BUTTÉ,, MASSIMO MORBIDELLI; Production of Polymeric

Materials with Controlled Pore Structure: the “Reactive Gelation” Process; Macromol. Mater. Eng.

2005, 290, 221-229

· NADIA MARTI, ALESSANDRO BUTTÉ, MASSIMO MORBIDELLI; Production of Porous Materials by

“Reactive Gelation”, Poster, DECHEMA 2004

· MASSIMO MORBIDELLI, ALESSANDRO BUTTÉ; Materialien für die Reinigung biologischer Produkte, in

Bulletin ETH Zürich Nr. 295, November 2004

· MASSIMO MORBIDELLI, Polymer Reaction & Colloid Engineering, Lecture Notes, Winter Semester

2003/2004, ETHZ; da http://www.morbidelli-group.ethz.ch

· JOHN H. POSTLETHWAIT, JANET L. HOPSON; Corso di Biologia; Etas – McGraw-Hill, Milano, 2000

· GIOVANNI VITALI, Cromatografia liquida ad alta pressione (HPLC) ,

http://www.chimicando.it/esperimenti/chimica_analitica_quantitativa/corso_HPLC/corso_hplc_prima_p

arte.pdf

· GIANMARCO ZENONI, Tecnologia a letto mobile simulato per la separazione cromatografica continua

d’enantiomeri, Diss. ETHZ nr. 13880, 2000; http://e-collection.ethbib.ethz.ch/ecol-

pool/diss/fulltext/eth13880.pdf

· http://hplc.chem.shu.edu/NEW/HPLC_Book/index.html

· http://www.accessexcellence.org/LC/SS/chromatography_background.html

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 152

· http://www.accessexcellence.org/LC/SS/chromatohgraphy_background.html

· http://www.amscampus.cib.unibo.it/archive/00000396/01/CROMAT_1A_2003.ppt#256,1,CROMATOG

RAFIA Principi generali

· http://www.carloerbareagenti.com/repository/DIR005/cromatografia.pdf

· http://www.hplcweb.com

· http://www.minerva.unito.it/Storia/ChimicaClassica/Cromatografia/CROMO.htm

· http://www.morbidelli-group.ethz.ch

· http://www.pacifici-net.it/biologia/Metodologie_Biochimiche/la_cromatografia.html

· http://www.pignascuola.it

· http://www.rcsb.org/pdb/

· http://www.sapere.it

· http://www.wikipedia.org

Nota:

Purtroppo la bibliografia cartacea da me utilizzata (in particolare DAVID ABBOTT, R. S. ANDREWS;

Introduzione alla cromatografia; Aldo Martello editore, Milano; 1971 e G. AMANDOLA, V. TERRENI; Analisi

chimica strumentale e tecnica; Masson Italia editori; Milano; 1979) è di data piuttosto lontana, ma in Ticino,

sia presso la biblioteca del liceo di Locarno sia presso le biblioteche cantonali, non sono riuscito a trovare

nulla di più recente. Ho cercato di supplire a questa mancanza riferendomi ad alcuni articoli scientifici e a

vari siti internet contenenti informazioni più aggiornate.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 153

7. Appendice Il gel è una soluzione colloidale di un solido disperso in un liquido. Un colloide è una sostanza che si trova in

uno stato finemente disperso, intermedio tra una soluzione omogenea ed una sospensione eterogenea. Questo

stato, che potremmo definire “microeterogeneo”, è dunque composto da una sostanza di dimensioni

microscopiche (all’incirca con un diametro compreso tra 1nm e 1µm, ossia tra m910− e m610− ) dispersa in

una fase continua. Un sistema colloidale è dunque l’insieme di una fase dispersa e di una fase continua (la

prima è dispersa sotto forma di particelle minuscole nella seconda). A titolo indicativo si possono dare le

seguenti informazioni, che permettono di distinguere una soluzione omogenea da un colloide e un colloide

da una soluzione eterogenea:

dimensione particella < 10-9m 10-9m < x < 10-6m > 10-6m

nome Soluzione omogenea colloide soluzione eterogenea

Molte sostanze quotidiane o famigliari sono dei colloidi. Ne sono esempi il burro, la mayonnaise, l’asfalto, la

colla, la nebbia.

All’interno dei colloidi, poi, esistono vari tipi, che si possono distinguere in base allo stato della fase dispersa

e della fase continua (solido, liquido o aeriforme) e che riporto in tabella:

fase dispersa fase continua nome esempio

liquido Gas aerosol liquido nebbia, spray liquidi

solido Gas aerosol solido fumo, polvere

gas Liquido schiuma schiuma da barba, panna

montata

liquido Liquido emulsione latte, mayonnaise,

sangue

solido Liquido sol dentifricio

gas Solido schiuma solida polistirene o poliuretano

espansi

liquido Solido gel opale, formaggio

solido Solido sospensione solida vetro, leghe metalliche

Come regola generale, si potrà ricordare (per semplicità) che se la fase continua (o disperdente) non ha

particolare affinità con le particelle disperse, e queste ultime non sono aggregate, si parla di sol (che può poi

prendere nomi diversi a seconda della natura della fase continua: aerosol, idrosol, ecc.) Se invece le micelle

sono aggregate tra loro formando una specie di reticolo, nelle cui maglie la fase disperdente penetra, si parla

di gel. Si ritenga poi anche che quando un gas è disperso in un liquido o in un solido si è soliti parlare di

schiuma, quando un liquido è disperso in un altro si parla invece di emulsione.

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 154

La chimica dei colloidi è stata inaugurata dal chimico scozzese Thomas Graham, ed è una scienza che

coinvolge numerosi aspetti della chimica. Le forze che entrano in gioco nei fenomeni colloidali coinvolgono

infatti interazioni elettrostatiche, forze antropiche (ossia delle forze che risultano dallo stato di disordine e

quindi di agitazione termica della materia), nonché la tensione superficiale. Nei colloidi, i quali hanno spesso

la proprietà di disperdere la luce, spesso la fase dispersa assume una organizzazione a micella.

Numerosi processi sono correlati con i colloidi. Fra questi citiamo la detergenza ed i tensioattivi,

l’elettroforesi, la precipitazione, l’osmosi e, soprattutto – visti i nostri fini – la cromatografia. (cfr.

http://www.wikipedia.org e http://www.sapere.it).

Sebastiano Lava LAM, Liceo di Locarno

Pagina 155

8. Ringraziamenti Ringrazio anzitutto il mio docente, Dott. Gianmarco Zenoni, che mi ha proposto l’argomento per il presente

lavoro, che mi ha seguito con pazienza e interesse, che mi ha accompagnato e guidato nei miei esperimenti

all’ETHZ (dove ha pure riparato i macchinari che non funzionavano), che mi ha aiutato a mettere in piedi

l’apparecchiatura a Locarno, che mi ha aiutato, accompagnato e condotto nei miei esperimenti in moltissime

ore straordinarie, che mi ha guidato e stimolato in questo lavoro di maturità. Lo ringrazio per la sua

disponibilità, per l’attenzione, le energie e il tempo che mi ha regalati.

Ringrazio poi tutta l’equipe del prof. Morbidelli dell’ETH di Zurigo, che mi ha permesso di intrufolarmi nei

loro laboratori e di utilizzare i suoi apparecchi, materiali e sostanze.

Ringrazio in particolare il Dott. Alessandro Buttè, e la dottoranda Nadia Marti per le spiegazioni, i dati e le

sostanze che mi hanno fornito, ma soprattutto per avermi fatto partecipe delle loro ricerche, attualmente in

atto.

Ringrazio anche i dottorandi Laurence Adjadj, Lena Melter e Lars Aumann per le loro collaborazione e

disponibilità.

Ringrazio i miei zii, Flavio e Patrizia Fiscalini, che mi hanno ospitato (e viziato…) nella mia settimana di

esperimenti presso l’ETHZ.

Un sentito grazie va poi ai miei compagni di ricerca, Elena Calanchini, Lorenzo Casari, Sandro Ciprian,

Giacomo Moretti, Alan Oggier e Attilio Rizzoli, che mi hanno fornito i polimeri da loro prodotti, convertiti

in forma di gel fino a diventare monoliti utilizzabili quali fase stazionaria, ed i dati relativi.

Ringrazio il prof. Emilio Brenn per avermi preparato il PC e l’interfaccia necessari per raccogliere ed

integrare i dati rilevati dal “detector” dell’apparecchiatura di Locarno.

Ringrazio il prof. Michele D’Anna per avermi prestato la fotocellula necessaria per l’installazione

dell’apparecchiatura a Locarno.

Ringrazio infine la mia famiglia, per avermi sostenuto, stimolato e… sopportato, nella mia ricerca.