Separata – mente: tra fusionalità e dualità, la nascita ... · La visione freudiana dell’Io,...

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La Separazione Possibile 11-12 ottobre 2013 Separata – mente: tra fusionalità e dualità, la nascita dell'individuo Silvia Padino, Francesca Toso, Federica Zerbato Io Proprio io Dentro al mare c'è più luccichio La conchiglia ha fatto la perla La balena ora riesce a vederla Ma io sono balena, io sono conchiglia Il tuo mare, tua mamma, tua figlia Questo mare ci agita nelle sue onde E chi sono ora io, si confonde Ma se solo il tuo sguardo si incrocia col mio Dico sì, sono qui Sono io (Bruno Tognolini, 2002) La poesia di Bruno Tognolini ci sembra riporti ad una questione centrale rispetto a quella che è la tematica del nostro lavoro. Coglie con infinita precisione l'ondivago moto tra fusione e separazione e lo fa da un punto di vista inconsueto rispetto a molta della letteratura psicoanalitica in merito. Visita il vissuto della madre verso il suo bambino appena nato, che è speculare e mescolato a quello del bambino, esplora il lasciarsi cullare in questa indefinitezza, il bisogno del riconoscimento dell'altro e nell'altro attraverso lo sguardo, la potenza del sentirsi visti e riconosciuti nel momento dell'incontro e infine la ricerca di una nuova identità in un'escalation che va da elementi primordiali, fusionali, indistinti “sono il tuo mare” verso una più evoluta ricerca di un'identità di ruolo “sono tua madre, sono tua figlia”. Nell’esperienza di essere madre sentiamo esserci forte la consapevolezza di alcuni istanti in cui lo sguardo del nostro bambino testimonia visceralmente la sensazione che noi esistiamo separatamente da lui. Sono momenti che si succedono ad altri nei quali la sensazione di essere fusi predomina; in questi istanti il mondo intorno sembra posizionarsi in un sottofondo nebuloso che perde di nitidezza ed è come se esistesse solamente la dualità, l’esistere solamente per e con il proprio bambino. 1

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La Separazione Possibile 11-12 ottobre 2013

Separata – mente:

tra fusionalità e dualità, la nascita dell'individuo

Silvia Padino, Francesca Toso, Federica Zerbato

Io Proprio io

Dentro al mare c' è più luccichio La conchiglia ha fatto la perla La balena ora riesce a vederla

Ma io sono balena, io sono conchiglia Il tuo mare, tua mamma, tua figlia

Questo mare ci ag ita nelle sue onde E chi sono ora io, si confonde

Ma se solo il tuo sguardo si incrocia col mio Dico sì, sono qui

Sono io (Bruno Tognolini, 2002)

La poesia di Bruno Tognolini ci sembra riporti ad una questione centrale rispetto a quella

che è la tematica del nostro lavoro.

Coglie con infinita precisione l'ondivago moto tra fusione e separazione e lo fa da un

punto di vista inconsueto rispetto a molta della letteratura psicoanalitica in merito. Visita il

vissuto della madre verso il suo bambino appena nato, che è speculare e mescolato a quello

del bambino, esplora il lasciarsi cullare in questa indefinitezza, il bisogno del riconoscimento

dell'altro e nell'altro attraverso lo sguardo, la potenza del sentirsi visti e riconosciuti nel

momento dell'incontro e infine la ricerca di una nuova identità in un'escalation che va da

elementi primordiali, fusionali, indistinti “sono il tuo mare” verso una più evoluta ricerca di

un'identità di ruolo “sono tua madre, sono tua figlia”.

Nell’esperienza di essere madre sentiamo esserci forte la consapevolezza di alcuni istanti

in cui lo sguardo del nostro bambino testimonia visceralmente la sensazione che noi

esistiamo separatamente da lui. Sono momenti che si succedono ad altri nei quali la

sensazione di essere fusi predomina; in questi istanti il mondo intorno sembra posizionarsi

in un sottofondo nebuloso che perde di nitidezza ed è come se esistesse solamente la dualità,

l’esistere solamente per e con il proprio bambino.

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Il vissuto personale di una mamma con il suo bambino nella lettura del libro di Dina

Vallino (Vallino, Macciò, 2004) ha trovato un riscontro teorico e ci ha offerto un punto di

vista da cui partire con il nostro discorso. Leggendo gli stralci clinici, frutto delle osservazioni

dell’Infant Research, si delinea un profilo di neonato vicino alle sensazioni che ciascuna di

noi ha avvertito in prima persona come madre o come osservatrice. E’ quindi da questa

visione di neonato, così vicina al nostro sentire, che abbiamo deciso di partire per esplorare

da un lato le dinamiche che portano al riconoscimento di un oggetto “altro da sè” e dall'altro

il processo di formazione del pensiero inteso come nascita della mente.

1. Verso una visione innovativa di neonato: l’apporto di Ester Bick e Dina Vallino

Freud, nella seconda topica (1922), vede l’Io come il prodotto della differenziazione

progressiva dell’Es. Quest’istanza della psiche è a contatto da un lato con la realtà esterna e

dall’altro con le istanze superegoiche. La visione freudiana dell’Io, dalla quale ogni modello

teorico per quanto contrastante prende origine, si traduce nella visione di un neonato che alla

nascita è solo Es, totalmente indifferenziato e incapace di distinguere tra me e non-me. A

partire dalle teorizzazioni freudiane si sono sviluppati due grandi filoni di pensiero rispetto

alle caratteristiche con cui il neonato viene al mondo. Se da un lato la visione freudiana è stata

abbracciata ed ampliata dalla figlia Anna, da Margaret Mahler nonchè da Winnicott e Balint

(Quinodoz, pag.160), dall’altro Melanie Klein propone un nuovo sguardo che vede il neonato

come capace ‘di una percezione immediata dell’oggetto fin dalla nascita, punto che costituisce probabilmente

la divergenza più importante rispetto a Freud’ (Quinodoz, pag 161).

Melanie Klein, nella sua teorizzazione, propone una lettura in cui si introduce il punto di

vista kantiano descrivendo il neonato come dotato fin dalla nascita di una categoria a priori

di esistenza di un oggetto esterno, il seno (Vallino, Macciò, 2004, pag. 34). Ciò presuppone

che il neonato sia già dotato di un “rudimentale io”, ponendo così l'accento sul divenire, sulle

potenzialità interattive piuttosto che, come in Freud, sull'indifferenziazione1.

Partendo da questo stesso presupposto, Ester Bick cerca riscontro alle teorizzazioni

kleiniane attraverso “l'Infant Observation”, arrivando a delineare una visione innovativa del

neonato. Pur quindi muovendo da una matrice kleiniana troviamo che il suo punto di vista

vada oltre i confini tracciati, proponendone una nuova visione. In particolare la Bick si

1 ‘Il narcisismo primario designa uno stadio precoce in cui il bambino investe tutta la sua libido su se stesso. [...] In Freud, il narcisismo primario designa in linea generale il primo narcisismo, quello del bambino che assume se stesso come oggetto d’amore prima di scegliere degli oggetti esterni. [...]In seguito, con l’elaborazione della seconda topica, Freud designa piuttosto col termine narcisismo primario un primo stadio della vita, antecedente anche alla costituzione di un Io, il cui archetipo sarebbe la vita intrauterina. [...] si designa sempre con esso uno stato inoggettuale o per lo meno indifferenziato, senza scissione tra soggetto e mondo esterno’ (Laplanche Pontalis, 1967, pagg. 355, 356)

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discosta dalla Klein mettendo in luce un'idea della mente del neonato nella quale le angosce

di non-integrazione precedono le angosce persecutorie, l’avidità e la scissione kleiniane. Il

grande apporto dell’infant research è stato proprio in questa direzione: molte delle

osservazioni del neonato si dimostravano difficilmente leggibili utilizzando unicamente le

teorizzazioni kleiniane. In particolare il pianto immotivato del bambino, nonostante il

soddisfacimento dei suoi bisogni primari, viene letto dalla Bick come l’espressione di un

vissuto di totale impotenza connessa ad uno stato di non integrazione interpretabile come

angoscia esistenziale. Il neonato fin dalla nascita possiede capacità precoci “inudite”

testimoni di un’intersoggettività2 primaria quasi immediata (Golse, 2012). Pur con queste

potenzialità, quando viene al mondo, di fatto è mentalmente ancora un feto ‘è l’essere di prima

in una situazione nuova’ (Bick in Vallino, Macciò, 2004 pag.52), è come se si trovasse senza pelle,

esposto e senza protezione non essendo più avvolto nella placenta. L’angoscia quindi non è

tanto riconducibile al trauma della nascita tout court, ma proprio a questo trovarsi ‘gettato

nel mondo’ della separazione e della sofferenza non essendo ancora mentalmente nato. Al di

là dei bisogni fisiologici, il neonato sente l’assenza della madre in termini sensoriali e desidera

ritornare con lei, è alla disperata ricerca di un oggetto-contenitore che lo faccia sentire tenuto

insieme e quindi fin dall’inizio, a livello proto-mentale, ha percezioni oggettive e distingue tra

me e non-me.

Tale concetto rimanda a quanto affermato già da Ferenczi circa il desiderio dell’essere

umano di ritornare nel corpo materno: l’accoglimento tra le braccia materne realizza il

desiderio del neonato di ritorno nel suo grembo (Ferenczi, 1924). Anche Balint si avvicina a

questa visione affermando come attraverso il pianto, il neonato esprima il desiderio di

contatto corporeo nel tentativo di costituire “un’unità duale” con la madre che si realizza

nell’essere tenuto tra le braccia. La madre nell’assolvere alle cure primarie svolge una funzione

contenitiva impedendo al bambino di cadere in angosce catastrofiche. Le cure materne

permettono al neonato di sentirsi esistere, di viversi come integrato. Il senso di sè passa

dunque attraverso il riconoscimento da parte della madre dello stato fisico e mentale del

neonato che dà consistenza alla sua esperienza ed ai suoi vissuti; dal canto suo il neonato nel

sentirsi compreso si sente ‘di esistere per lei’ e quindi di non essere un’unità indifferenziata.

Ci sembra che nel pensiero degli autori da noi considerati sia la sensorialità corporea ad

imporsi come ‘via regia’ per una iniziale, seppur rudimentale, esperienza di sè che

2 Riferendoci al lavoro di Bernard Golse manterremo inalterato l’uso del termine ‘intersoggettività’ per lui inteso come processo che porta alla scoperta di se stessi attraverso la scoperta dell’oggetto e viceversa, in una co-costruzione tra attori reciprocamente protagonisti attivi.

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progressivamente si sposta da ciò che è puramente somatico a qualcosa di psichico; ciò che

la McDougall chiama progressiva ‘desomatizzazione della psiche’ (McDougall, 1989).

2. Questioni di sguardi.

La crescita del senso del sé passa dunque attraverso il riconoscimento da parte della madre

dei bisogni e delle sensazioni del bebè il quale sente di esistere per lei e quindi di esserne

separato. È attraverso questo processo di riconoscimento che egli si sente arricchito e

consolato e ha inizio la sua vita mentale.

Quando la madre parla al suo bambino o lo culla tra le braccia gli fa sentire la vicinanza

del suo corpo, rappresentazione di un bene assoluto, ma al tempo stesso gli dà anche la

possibilità di rappresentarsi l’assenza di un bene ancora più grande, il seno. In questa prima

fase l’idea dell’assenza del seno dalla bocca passa attraverso la presenza del corpo materno e

quindi di quella del seno, anche se invisibile. In questo senso la prima idea di assenza è, in

ultima analisi, un’idea di presenza. È in questa atmosfera, che la Vallino descrive nei termini

di situazione fusionale quieta (Vallino-Macciò, 2010), che può prodursi un primo lampo di pensiero

(Vallino-Macciò, 2010). Nel processo ideativo che ha luogo, una volta nato il desiderio del

seno, sorge la speranza del suo ritorno, cosicché l’attenzione del neonato si rivolge

all’ambiente alla ricerca di un segnale. Dina Vallino riporta nel suo testo “Essere neonati”

l’osservazione di Bianca, una neonata di 17 giorni, che ben chiarisce questo processo:

Bianca 17 giorni sembra sempre più a disagio e la madre, seduta sul divano, decide di allattarla, si slaccia la camicia ed accenna ad estrarre il seno. La bambina apre la bocca e si placa profondamente già alcuni attimi prima di ricevere il seno stesso. Questa capacità anticipatoria di Bianca mi colpisce profondamente, anche la madre commenta “ha già imparato”. La bambina succhia ma, direi, non con molta energia.

In questo breve stralcio emerge come il gesto della madre di sbottonarsi la camicia diventi

per Bianca un chiaro indizio del ritorno del seno nella bocca e quindi del piacere dato

dall’allattamento, che placa addirittura lo stato di disagio in cui sembrava trovarsi poco prima.

Alla percezione della mano della madre si unisce un processo ideativo, un lampo di pensiero

appunto, ossia l’idea del capezzolo che riapparirà, di qualcosa cioè che sta per avvenire in un

futuro prossimo.

L’ideazione in quest’ottica sembrerebbe attivata proprio dalla vicinanza al corpo materno,

dalla percezione rassicurante della sua presenza. Grazie a ripetute esperienze soddisfacenti

con il seno, il neonato impara a distinguere tra la percezione oggettiva del seno in bocca e la

sensazione soggettiva che deriva dalla scomparsa della fame e dal piacere di succhiare.

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Le osservazioni psicoanalitiche dei neonati, dunque, mettono in luce un aspetto

importantissimo e innovativo, ovvero che è grazie al contenimento materno, attraverso il

quale viene esaudito il desiderio fusionale del neonato, che viene favorita la trasformazione

dei desideri in rappresentazioni mentali prima e in pensieri e concetti poi. Il neonato non

vive solamente frustrazioni che lo mettono davanti a un senso di insicurezza totale, elemento

beta (Bion, 1967), ma vive anche altre frustrazioni meno angoscianti. Ciò che fa la differenza

è la vicinanza o meno della madre, che gli farà intravedere o meno la possibilità del ritorno

di quanto bramato, rendendo possibile quindi l’elaborazione e la pensabilità. Ci si imbatte,

dunque, in un concetto che va oltre alla teorizzazione bioniana di madre–contenitore dove il

neonato proietta la sua sofferenza. A livello di protomentale (Imbasciati e Calorio, 1981) si può

invece supporre che il neonato abbia già idea dell’assenza, di desiderio, di attenzione verso il

mondo esterno.

Quando il bambino viene appagato nei suoi desideri realizza uno stato di quieta fusione

che si colloca tra il vissuto della più angosciante separazione e la realizzazione della fusionalità

tanto bramata. Quest’ultima si attua solo in alcuni momenti della giornata e dura pochi minuti

e il suo “prototipo esperienziale è costituito dal contenimento intrauterino” (Vallino-Macciò, 2010, pag

99). Una volta esaudito questo stato fusionale, il neonato ritorna a quello di quieta fusionalità,

nel quale ritrova il suo mondo e vive tranquillo tra le braccia di chi lo accudisce. Stando in

braccio il piccolo sperimenta piacevoli sensazioni, soddisfazioni sensuali, probabili memorie

di qualcosa che egli ha già provato e che facilitano le capacità cognitive, volitive e di

comunicazione del suo io. È proprio la fusionalità esaudita nel presente che si fonde con

quanto conosciuto dal neonato in precedenza e che rimane attivo, inconsciamente, come

memoria implicita. Le sensazioni tattili, cinestesiche, rappresentano i primi contenuti

dell’immaginazione.

Attraverso le miriadi di espressioni facciali del neonato possiamo intuire in lui il formarsi

di rappresentazioni. Il neonato, immerso in un mondo fatto di sensazioni tattili, olfattive,

sonore, ritrova tra le braccia della madre una continuità con quel luogo originario intrauterino

attivandone la memoria implicita che porterà, durante il primo mese di vita, alla comparsa di

rappresentazione anche per immagini visive. Se da un lato, con l’abbraccio, la madre richiama

quella fusionalità prenatale ancora tanto agognata dal neonato, la sensazione della fame

rappresenta una vera e propria novità e la madre attraverso le sue azioni favorisce nel bebè

l’emergere di sensazioni e rappresentazioni non solamente tattili, olfattive ma anche visive

che potranno essere recuperate quando si ripresenterà la fame (Vallino e Macciò, 2004).

Con questi presupposti, quindi, la fusionalità del neonato con la madre non viene più vista

come uno stadio a sé ma come uno dei momenti che si alternano ad altri di separazione dal

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corpo materno. In questi ultimi il neonato non solo avvertirebbe l’assenza della perduta unità

con esso ma proverebbe anche il forte desiderio di recuperarla.

Riprendendo le parole di Joyce McDougall in “Teatri del corpo” (1989) c’è dentro ognuno

di noi un forte slancio verso la separazione, pur essendo viva anche la nostalgia per una fusione

illusoria con la madre- universo nella quale però non esiste nessuna identità individuale. Anche

Winnicott mette ben in luce questo aspetto sottolineando la necessità, per lo sviluppo

dell’individuo, di una “via che gli permetta di ritornare alla dipendenza totale” (Winnicott, 1987, pag

82). Una relazione sufficientemente buona tra la madre e il suo bambino (Winnicott, 1974)

creerà le basi per ciò che la McDougall chiama desomatizzazione della psiche, ossia per la

“progressiva differenziazione nella strutturazione psichica del bambino, tra il suo corpo e la prima

rappresentazione del mondo esterno” (McDougall, 1989, pag.37), ossia il corpo della madre; lo

psichico si differenzierà dal somatico. D’altra parte, è viva anche nella madre quella

preoccupazione materna primaria (Winnicott, 1974) che mantiene anche in lei l’illusione di essere

una parte nell’unità madre- bambino; sarà proprio questo aspetto, afferma la Mc Dougall,

che renderà possibile al bambino di vivere la loro relazione nello stesso modo. È chiaro che

sia nel caso in cui le madri si troveranno preda di sentimenti di estraneità verso il loro piccolo

sia in quello di impossibilità a rinunciare alla relazione fusionale, le cose per i loro neonati si

faranno complicate: correranno il “rischio di riuscire solo con difficoltà a stabilire il senso, necessario

da un punto di vista vitale, di un’identità separata” (Mc Dougall, 1989, pag 51). Nonostante le sue

precoci capacità, il rudimentale pensiero e l’immaginazione del neonato tendono a svanire

con facilità ed è quindi compito della madre non lasciarlo solo nella disperazione troppo a

lungo.

Il neonato, con uno sguardo di questo tipo, non è in una posizione di attore passivo ma

coopera attivamente nella relazione con la madre rivelando l’esistenza di una interazione

reciproca tra soggetti presente sin dalle primissime fasi dell’esistenza. Durante il secondo

mese tra la madre e il neonato si realizza infatti quella che Brazelton nel 1974 aveva definito

early interaction fatta di sguardi, vocalizzi e sorrisi da parte del bambino che trovano risposta

nelle gesta della madre intenta a mantenere l’attenzione del piccolo su di sè. Il neonato, già

così precocemente, è alla ricerca di un’interazione, sperimenta quelle che di fatto sono forme

di comunicazione con la madre e attraverso il pianto o il verseggiare tenta di stabilire un

contatto e si aspetta una risposta.

Dunque la relazione con l’oggetto diviene relazione con un soggetto, ossia la madre che

diviene soggetto che accorre ogni qual volta il neonato le manda il suo richiamo, che

comprende i suoi bisogni, i suoi desideri e che attraverso i suoi comportamenti gli mostra

come essi possano non solamente essere compresi ma anche esauditi. La potenza di tale

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alchimia tra la mamma e il suo bambino è tale da sconfiggere anche i fantasmi della paura e

della solitudine. Se già durante il primo mese il neonato si mostra attento all’ambiente che lo

circonda, ma le sue risposte ai genitori passano attraverso un io-bocca, un io-corpo, è durante

il secondo mese che il neonato inizia a guardare il suo mondo: i genitori si sentono cercati,

desiderati e riconosciuti. Lo sguardo del neonato ha un grande potere nella creazione del

legame affettivo con l’adulto: la madre, che ha l’impressione di essere vista e riconosciuta dal

suo piccolo, si sente di esistere per lui, e quindi anche per sé. Allo stesso modo è proprio la

madre, attraverso le sue cure e la sua vicinanza emotiva, che offre al bambino le prime fonti

di riconoscimento di sé e che via via alimentano il suo senso di esistere (Vallino-Macciò, 2004):

significando la sua esperienza emotiva, essa comincerà a poco a poco ad esistere anche per

lui.

3. Io e te facciamo due

Tra gli autori più recenti Golse (2006) propone un modello intermedio dinamico in cui il

bebè quando viene al mondo non sarebbe né nell’indifferenziato totale3 né

nell’intersoggettività primaria4. Il bebè avrebbe invece in alcuni momenti della giornata la

possibilità di pre-sentire che un altro esiste; questi momenti sono dei lampi, durano molto

poco ma sono istanti in cui sente di essere “lui da solo tutto solo”. Quest’idea trova grande

sostegno in Anna Alvarez (1992) perché infonde coraggio ai terapeuti che lavorano con i

bambini più malati sostenendo che anch’essi hanno delle piccole parti della loro personalità

che non lo sono, degli isolotti di intersoggettività primaria in cui c’è la percezione che il

bambino riconosca l’esistenza dell’altro. Meltzer (1975) aveva descritto momenti in cui il bebè

comincia a sentire che un altro esiste, primordiali momenti di intersoggettività che si

verificano nella polisensorialità e che descriveva come una funzione fluida. Tali momenti

sono i momenti significativi di accudimento, come ad esempio la poppata, dove il neonato

esce dallo smantellamento per prendere insieme tutti i flussi sensoriali che gli derivano dalla

madre: la voce della madre, il suo odore, il gusto del latte, il tatto e il ritmo di come viene

tenuto.

3 Spitz R.: ‘Le mie teorie si basano sul concetto freudiano del neonato come organismo psicologicamente indifferenziato, nato con un equipaggiamento congenito e certe Anlagen. Questo organismo manca ancora della coscienza, della percezione, della sensazione e di tutte le altre funzioni psicologiche, siano esse consce o inconsce’ (1965, pag. 16) e ancora poche righe dopo specifica come lo stato di non differenziazione del neonato alla nascita derivi dal fatto che ‘alla nascita non esiste l’Io, almeno nel senso usuale del termine’ (1965, pag.17). Spitz definisce questo primo stadio, lo stadio pre-oggettuale o senza oggetto perché ritiene che ‘nel mondo del neonato non vi è né un oggetto né una relazione oggettuale’ (1965, pag.45). 4 Stern D. N. attraverso l’infant reseach e le scoperte sulle precoci capacità del bebè ha ipotizzato che l’essere umano, fin dalla nascita, sia equipaggiato per relazionarsi con gli altri ipotizzando quindi un’intersoggettività primaria.

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Alla base c’è l’idea che il bebè non possa inizialmente ‘sentire tutto insieme’ perché

sarebbe sommerso da un ‘troppo di sensazioni’ quindi ‘scinde la realtà esterna secondo i diversi canali

sensoriali’ (smantellamento). In questi istanti, che passano attraverso il corpo e le sensazioni

corporee, riesce a mettere in atto un ‘mantellamento’ e da poppata a poppata elabora questi

diversi flussi sensoriali che riesce a sentire ‘insieme’. Meltzer (1975) parlando dei bambini

autistici rimanda alla loro difficoltà ad accedere alla polisensorialità, difficoltà visibile in

alcune loro stereotipie che sembrano modi per far prevalere un solo canale sensoriale.

Talvolta nei momenti di scoperta dell’esistenza dell’altro/oggetto il bambino ci si incolla

come a cercare di percepirlo secondo una modalità monosensoriale, come se dovesse attivare

dei meccanismi di difesa per far prevalere il monosensoriale nel quale non c’è

intersoggettività possibile. Questi momenti sono importantissimi in quanto rappresentano

riprese dello sviluppo che non vanno lasciate cadere nel mortifero del monosensoriale.

Parlare di Samuel, un bambino autistico grave conosciuto anni fa, sembra quanto mai

appropriato in questo momento perché leggere queste parole ha donato senso all’incontro e

ad un momento vissuto con lui che era rimasto un dono ma che non era del tutto

comprensibile.

Io e Samuel ci siamo incontrati una sola volta, durante una sua seduta di psicomotricità. Casualmente quel giorno c’ero anch’io e avevo al collo una sciarpa chiusa, tipo scaldacollo, ed una collana violetta che tintinnava al movimento. Samuel si aggirava per la stanza apparentemente inconsapevole ed indifferente alla nostra presenza, dopo un po’ si è seduto e io mi sono messa davanti a lui con un tavolino a separarci. Era molto attirato dalla mia collana ed ha iniziato a toccarla e a tirarla sempre più verso di sè; continuava a toccarla ma io non mi sentivo esistere per lui, c’era solo lei, la mia collana. Spinta forse proprio da questo sentimento di frustrazione, impulsivamente ho avvolto lui e me dentro lo scaldacollo, Samuel però ha reagito sfilandoselo. In quel momento ho pensato di essermi avvicinata troppo tenendo conto delle mie esigenze e non delle sue. Mentre penso questo Samuel riprende lo scaldacollo e ci si infila, a questo punto c’è un intenso sguardo tra noi, dentro di me penso ‘mi vede’ e istintivamente lo saluto ‘ciao Samuel’ e, continuando a guardarlo e a parlargli, inizio a toccargli gentilmente gli avanbracci.

Questo atto istintivo e compiuto in modo inesperto sembra ben descrivere proprio la

possibilità di una ripresa dello sviluppo attraverso l’inserimento nel monosensoriale di altri

sensi, il tatto viene arricchito dalla parola e dallo sguardo, nei momenti in cui questi bambini

sono, come dice la Alvarez, ‘più raggiungibili’ (2011, pag 1).

Questo concetto di sincronia polisensoriale sembra la base delle diverse visioni qui

proposte perché fondamentale nel far sentire al bambino che l’altro esiste. Golse propone

l’idea che vi possa essere accesso all’intersoggettività, e quindi alla nascita della

comunicazione sia verbale che non verbale, solamente attraverso l’unificazione dei diversi

flussi sensoriali che provengono dall’altro e che questo sia reso possibile dal fatto che essi

siano sufficientemente sincroni.

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Dunque è l’accesso all’intersoggettività che permette al bebè di sentire e di vivere, ‘è ciò che

permette di integrare che lui e l’altro fa due’ (Golse, 2012). Inizialmente si tratta più di un vissuto

provato, ‘il bebè si sente esistere come persona prima di sapere intellettivamente cos’è un essere umano’; ciò

gli permette di scoprire contemporaneamente se stesso e l’oggetto, l’uno non può essere

disgiunto dall’altro. Per Golse ‘si scopre se stessi scoprendo l’oggetto e si scopre l’oggetto anche scoprendo

se stessi’: in questi termini parla di intersoggettività.

Qui noi riconosciamo il concetto di Benedetti tanto amato e incarnato dal nostro

direttore, Giorgio Maria Ferlini, di reciprocità nella relazione terapeutica in cui in ogni

incontro vi è uno scambio che trasforma entrambi gli attori protagonisti.

Perché questo avvenga bisogna che, tra bebè e gli adulti che se ne prendono cura, ci sia

un doppio lavoro che diviene una co-costruzione dove entrambi gli attori devono bucare lo

scarto intersoggettivo e contemporanemante anche tessere dei legami per ‘restare insieme

malgrado la differenziazione’. Ci piace qui richiamare la suggestiva immagine donataci dallo

stesso Golse, nel convegno di Padova del 1 giugno 2012, che ci sembra ben descriva proprio

questa separazione con l’esempio del ragno che volendo scendere a terra tesse il filo che dal

soffitto gli permette di arrivare al pavimento ma senza strappare il legame che rimane

rappresentato dal filo. Proprio attraverso questo legame, da lui stesso creato, il ragno potrà

tornare al soffitto; sarà attraverso i legami tessuti in questa fase che potrà in seguito

allontanarsi sapendo di poter ritornare sia in caso di bisogno che di desiderio.

Quindi il bebè non è solo ma c’è un doppio lavoro il suo e quello degli adulti, entrambi

devono bucare lo scarto e tessere legami compensatori partendo dal corpo e dalle sensazioni

corporee.

4. La sensorialità tra corpo e rappresentazione

La nascita del pensiero, assieme al riconoscimento di un oggetto esterno, risulta uno dei

primi fondamentali movimenti di separazione dell'essere umano. L’oscillazione tra

sensorialità e pensiero, che caratterizza il processo di individuazione-separazione, ci ha

portate a porre l'attenzione sulla dinamica che intercorre tra corporeo e rappresentativo.

Interessante a tale proposito abbiamo trovato il modello della mente di Bion e alcune

riflessioni che fa Racalbuto (Racalbuto 1997) rispetto all'apporto che può dare quest'ultimo

al modello rappresentazionale psicoanalitico. L’autore, infatti, pur non considerandosi un

analista bioniano e non derivando il suo pensiero dal filone kleiniano, trova utile non

contrapporre bensì integrare i due modelli. Abbiamo trovato nella spiegazione che Racalbuto

dà circa il processo di costruzione del pensiero un contributo essenziale nel dipanare il

legame che intercorre tra il corporeo e il rappresentativo.

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Nella sua teoria della mente Bion postula che i pensieri preesistano al pensare (Bion 1967).

L'atto del pensare risulta come conseguenza “delle richieste imposte dall'esistenza dei

pensieri” ed è possibile solo dopo la formazione di un “apparato per pensare i pensieri”

(Bion 1964) che permette ai proto-pensieri di diventare, appunto, pensieri pensabili.

Esplicando tale dinamica l'autore specifica che “il neonato per predisposizione congenita possiede un

presentimento che esista un seno” (Bion, 1967, pag 171) ed è nel momento in cui fa esperienza del

seno, ossia quando vi è una corrispondenza di tale predisposizione con il dato reale, che si

forma una rappresentazione prima e un pensiero poi, che porterà alla formazione di nozioni

e concetti. In altre parole, il bambino alla nascita, è invaso da percezioni fisiche alle quali non

sa dare un senso e che lo mettono in uno stato di tensione. Pensiamo per esempio alla

sensazione di fame: l'arrivo del seno e delle sensazioni fisiche ad esso associate, latte tiepido,

sazietà, contato corporeo, ecc., se ripetuto permette al bambino di rappresentarsi l'oggetto

mancante e di desiderare il ritorno del seno quando ha la sensazione di fame.

È a partire da questi assunti che Racalbuto, nel suo articolo del 1997, cerca di integrare il

modello rappresentazionale psicoanalitico con il modello bioniano. Egli coglie nei

protopensieri le caratteristiche di quelli che lui chiama elementi psichici esperiti come “affetti

sensazioni” (Racalbuto 1994). Come spiega Maria Vittoria Costantini (2007) il concetto di

affetto-sensazione diviene ‘crocevia tra differenti teorie psicoanalitiche da un lato, e dall’altro, come via

di apertura a nuove proposte concettuali e a confronti con altre scienze e modelli teorici’ (pag. 14).

Prima dei processi primari e secondari di pensiero, Racalbuto sostiene ci sia uno psichismo

originario ossia “il pensiero in sè”. Le memorie somatiche depositate nella psiche finiscono

con l'assumere il significato di dati psicologici solo dopo la formazione di un apparato per

pensare i pensieri.

Il ruolo dell'accudimento materno è fondamentale in questo processo. Infatti questi stati

corporei grezzi affettivi–sensoriali, per dirla con Racalbuto (1994) ossia elementi beta, per

dirla con Bion (Bion 1964), se non trasformati in elementi alfa da una funzione alfa materna,

rimarranno tracce mnestiche non elaborate. Nel caso in cui venga a mancare la funzione alfa,

che permette la metabolizzazione e la trasformazione degli elementi beta, il neonato viene

invaso da un surplus di angosce impensabili che non può che evacuare. Questo non si traduce

nella nascita di “cattivi pensieri” ma semplicemente in non-pensiero. Non si forma dunque

l'apparato per pensare i pensieri, e i pensieri, che preesistono al pensare, non vengono pensati.

Racalbuto parla, a tal proposito, di ‘buchi neri nello psichismo’: “Ciò che resta fuori dall'area

della rappresentabilità e che non fa parte dell'inconscio per sua natura, cioè fisiologicamente impensabile, va

a costituire una mancanza di contenuto, una mancanza di senso all'interno dell'esperienza psichica:

l'esperienza clinica delle aree psichiche narcisistiche molto disturbate ce lo insegna. In questo senso

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l'irrappresentabile è una non-rappresentazione, cioè quell'esperienza che si contraddistingue per la sua

negatività, per essere un non-essere, un ‘buco nero’ dello psichismo” (Racalbuto, 1997).

La rappresentabilità nasce, secondo l'autore, necessariamente attraverso primarie

esperienze sensoriali: “Qui voglio ribadire che probabilmente una originaria modalità, forse l'unica, di

registrare-vivere un evento psichico con le sue implicazioni sensoriali consiste inizialmente in un dato psico-

somatico, recuperabile attraverso le tracce mnestiche senza che questo evento sia necessariamente "pensato"”

(Racalbuto, 1997).

Racalbuto afferma che in origine l'oggetto è una sensazione che gradualmente arriva a

connotarsi come un oggetto distinto dal sé con proprie caratteristiche. Il processo di nascita

del pensiero, in un contesto di adeguato contenimento origina da un funzionamento

“affettivo–sensoriale”, per poi arrivare, attraverso la ripetizione dell'esperienza di

soddisfacimento, alla rappresentazione di cosa e, infine alla rappresentazione di parola intesa come

“reperimento di una immagine verbale che dia un senso cosciente alle immagini mnestiche della

rappresentazione di cosa” (Racalbuto, 1994, pag. 58). Ciò, secondo Racalbuto, si traduce in

campo clinico nell’attribuzione di un’importanza fondamentale a quelle parole in grado di

risvegliare i processi primari, senza cui non sarebbe fruttuoso nessun percorso terapeutico.

Riportiamo di seguito, uno stralcio di esperienza clinica dove emerge la difficoltà della

paziente di connotare in modo significativo un'esperienza sensoriale:

La signora R. racconta del momento in cui le viene diagnosticato un cancro al colon. Da più di un anno notava tracce di sangue nelle feci che ignorava pensando ad un problema di emorroidi. Il compagno, con aspetti ipocondriaci, preoccupato riesce a portarla, solo grazie ad un sotterfugio, dal medico. Da lì la colonscopia e la diagnosi. R. racconta il momento del risveglio dopo l'esame: “La prima immagine che mi si è presentata una volta aperti gli occhi è quella del mio compagno, in piedi accanto al letto. Piange e scuote la testa. Io guardo il medico e chiedo: “Quanto è grande la bestia?”. E ancora: “Non ho provato paura, ho pensato solo a cosa avrei dovuto ‘fare’... si deve sempre andare avanti.” Nel corso della seduta le chiedo a chi sentiva di poter chiedere conforto quando stava male da piccola. La signora R sembra dover pensare, in quel momento per la prima volta, non solo ad una figura che si prendesse cura di lei, ma addirittura al suo stare male: in cosa consisteva? Risponde che non poteva contare sull'aiuto di nessuno e comincia a raccontare che in occasione di un intervento ad una spalla, l'infermiera l'aveva trovata dolorante nel suo letto e le aveva chiesto come mai non avesse domandato un antidolorifico. Guardandomi con un certo stupore mi dice: “Non mi era venuto in mente, dottoressa!”.

Esaminando questi passaggi, si nota come il compagno abbia svolto in un primo

momento, una funzione rêverie, preoccupandosi al posto della signora, incapace di dare

significato al suo sentire. In seguito invece, al momento della diagnosi, egli non è riuscito a

tenere l'angoscia circolante, provocando da parte della signora R. l’evacuazione dei contenuti

affettivi troppo angoscianti.

Racalbuto sostiene che prima ancora di sostituire “rappresentazioni di parola” a

“rappresentazioni di cosa” è necessario rendere possibile l'esperienza degli affetti,

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significandola. Il senso di cui parla Racalbuto non è, in questo caso, quello dei nessi causali e

dei perché, o almeno non ancora, bensì “ è il senso "originario" dell'esperienza, non sempre connessa

perciò alla parola, ma ad altre categorie di vissuti, come quelle legate ai toni, ai ritmi, alle cadenze sensoriali,

alle caratteristiche emotive”(Racalbuto 1997, pag 3).

Abbiamo trovato che le parole di Racalbuto sopra riportate si possano ben adattare anche

al nostro avvicinarci ai concetti finora esposti . Nella lettura dei modelli di costruzione della

mente, infatti, dopo una prima digestione “cerebrale” a livello di contenuti con l'inevitabile

fatica di creare una mappa concettuale piena di riquadri, frecce e collegamenti vari, è stato

piacevole abbandonarsi ad una comprensione più vicina all'esperienza e ai vissuti che ci ha

permesso non solo di capire, bensì di “sentire” e apprezzare quanto studiato.

5. Conclusioni

A questo punto ciò che ci sembra di dover ancora sottolineare è come al di là del

presupposto da cui uno parta un ruolo fondamentale viene e rimane comunque assunto

dalla relazione, in particolare dalla relazione con la figura materna. Infatti sia che si parta dal

presupposto da noi assunto, ossia dall’esistenza di un abbozzo di Io già alla nascita, sia che

si pensi che il bebè nelle prime fasi sia del tutto indifferenziato, la funzione materna e la

relazione assumono un ruolo fondamentale per il processo di individuazione-separazione e

per la nascita del pensiero.

Seppur si ipotizzi una separazione iniziale questa comunque non è sempre presente e

non è sufficiente al fiorire delle potenzialità del bambino. Per quanto si possa considerare il

bebè capace e dotato fin dall’inizio, le sue doti sono potenziali devono incontrare una figura

che renda possibile, attraverso la giusta modulazione della frustrazione, la capacità di

tollerare l’assenza dell’oggetto e la frustrazione che ne deriva da cui nascerà la capacità di

autocontenimento ed in seguito di ‘pensare i pensieri’.

Con la nascita inizia un viaggio che porterà alla meravigliosa conquista di nuovi ed

inesplorati mondi, noi stessi. E’ pur sempre il corpo la nostra nave, quel mezzo che deve

poter salpare per solcare le onde del mare e conoscere cosa c’è al di là del primo sguardo

ma che mantiene, al tempo stesso, il ricordo di casa, senza il quale rischierebbe di perdersi

nell’infinito. E’ il ponte tra il conosciuto e lo sconosciuto che conserva in sé la memoria del

luogo incantato da cui veniamo ma che al tempo stesso evolve e si trasforma portandoci

verso nuovi mondi. Questa grande nave, però, non può essere in balia delle onde, ha bisogno

di un’equipaggio, forte, saldo e organizzato e di un capitano coraggioso che la sappia domare

nella tempesta, che la riesca a condurre nella bonaccia, che non la renda facile preda dei

misteri del mare.

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Giungiamo a questo punto a gettare lo sguardo oltre la primissima separazione, verso

altri orizzonti, verso altri momenti di vita dove si rimettono inevitabilmente e costantemente

in gioco le forze contrapposte di separazione e fusione. È il dinamismo entro cui si snoda

l'intera vita umana e che permette la vita stessa. Ritorniamo quindi alla possibilità di oscillare

tra distanza e vicinanza facendoci nuovamente aiutare dalle parole di Bruno Tognolini con

le quali abbiamo aperto e con le quali ci piace concludere.

Via Io dove vado, io dove vivo

Quando mi vedi sparire così Via dal tuo dolce campetto visivo

Che cosa c' è via da qui? Qui c' è il tuo nido, via c' è il tuo mondo

Qui c' è l'oceano, via c' è la nave Qui c' è la tana dove ti nascondo

Qui c' è lo scrigno, via c' è la chiave Qui c' è la sola cosa che importa

Ma via da qui c' è una grande magia Come dei brividi dietro la porta

Mille altri qui, mille altri via (Bruno Tognolini, 2002)

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Federica Zerbato, www.federicazerbato.it

Silvia Padino,

[email protected]

Francesca Toso [email protected]

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