Senza Titolo

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1 [SENZA TITOLO] di JULA LAURA DE SANCTIS e GIUSEPPE LAMOLA A Lucia, che ha tenuto in piedi lo specchio, perché potessimo raccontarne. "Finché il sole non si spegnerà, io sarò con te!" mi disse. E nacque la speranza. Subito dopo, il cielo ebbe la brillante idea di trasformarsi in buio pesto. (da "Alla faccia di eclissi e solitudini", di Joe Cometa) 15 settembre 2008, ore 22.30 È un giorno come tanti…Sono stanchissima, ma finalmente a casa! (Casa?) Respiro a pieni polmoni questa stanza enorme, le pareti verdastre e impersonali. Respiro il fastidioso odore di naftalina che emana quest’armadio decadente e mal rifinito. Osservo la piccola scrivania che lotta quotidianamente contro la sua vecchiaia per reggere tutti i miei libri. L’unica cosa che mi ricorda vagamente una casa è la piccola pianta, che sopravvive nonostante tutto. Come me. No, questa non è la mia casa! Certo, è sempre meglio della mia vecchia ‘cella’, minuscola stanza in un appartamento che condividevo con Michela, una quarantenne filo new-age fuori di testa. Ogni giorno aveva idee strampalate, sempre a proporre nuovi modi per meditare e riflettere sul cosmo. È stata una liberazione andarmene da lì (senza nemmeno averci meditato a sufficienza!)… Ma non è stata certo quella la fine dei miei problemi. Oggi, come ogni giorno da sei mesi, arrivo in ufficio alle 8.30. Nemmeno il tempo di controllare la mail, che mi sento chiamare. E’ il capo. Chiara Bonsanti, direttrice del Museo del Borgoantico nella settentrionalissima città di Cima. La cosiddetta donna in carriera, manager rispettato nell’ambiente (un ambiente chiuso, di gente tutta con la puzza sotto il naso, a cui farebbe bene aprire la finestra ogni tanto...). Mi fa: “Simona, so che sei super-impegnata con le ricerche per il nuovo catalogo della mostra (che ti super-impegni a fare poi, se sul catalogo ci sarà solo il nome mio...?), ma c’è un’urgenza…Oggi arriva un gruppo di circa trenta persone qui al museo e mi manca una guida valida. Sai, è gente importante, ci sono anche un paio di assessori, imprenditori, gente che finanzia…Devi occupartene tu, cara. Te lo dico da ora, perché sai, dovresti far fare un giro ed esporre il tutto in inglese: alcuni di loro sono americani… Insomma, mi raccomando non mi deludere. Dai, hai un po’ di tempo per prepararti, arriveranno alle 16 (anzi, visto che ti trovi, perché non mi vai a fare un bel caffè?). Ovviamente mi dispiace bloccarti proprio oggi, che hai il pomeriggio libero, ma capisci, è un’urgenza, ho proprio bisogno di te. Mica avevi altri impegni?”. Non mi lascia nemmeno il tempo di rispondere, si volta e se ne va. (Figurarsi, IO altri impegni? Come se potessi addirittura aspirare ad avere il lusso di condurre una mia vita autonoma al di fuori di qui...) In un istante la mia mente è travolta da miliardi di pensieri. Poi mi focalizzo su un solo termine, FLESSIBILITA’. Il modo moderno e legale per dire ‘sfruttamento’. Ho un contratto

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[SENZA TITOLO]

di JULA LAURA DE SANCTIS e GIUSEPPE LAMOLA

A Lucia,che ha tenuto in piedi lo specchio,

perché potessimo raccontarne.

"Finché il sole non si spegnerà, io sarò con te!" mi disse. E nacque la speranza.Subito dopo, il cielo ebbe la brillante idea di trasformarsi in buio pesto.(da "Alla faccia di eclissi e solitudini", di Joe Cometa)

15 settembre 2008, ore 22.30

È un giorno come tanti…Sono stanchissima, ma finalmente a casa! (Casa?) Respiro a pieni polmoni questa stanza enorme, le pareti verdastre e impersonali. Respiro il fastidioso odore di naftalina che emana quest’armadio decadente e mal rifinito. Osservo la piccola scrivania che lotta quotidianamente contro la sua vecchiaia per reggere tutti i miei libri. L’unica cosa che mi ricorda vagamente una casa è la piccola pianta, che sopravvive nonostante tutto. Come me. No, questa non è la mia casa! Certo, è sempre meglio della mia vecchia ‘cella’, minuscola stanza in un appartamento che condividevo con Michela, una quarantenne filo new-age fuori di testa. Ogni giorno aveva idee strampalate, sempre a proporre nuovi modi per meditare e riflettere sul cosmo. È stata una liberazione andarmene da lì (senza nemmeno averci meditato a sufficienza!)… Ma non è stata certo quella la fine dei miei problemi.

Oggi, come ogni giorno da sei mesi, arrivo in ufficio alle 8.30. Nemmeno il tempo di controllare la mail, che mi sento chiamare. E’ il capo. Chiara Bonsanti, direttrice del Museo del Borgoantico nella settentrionalissima città di Cima. La cosiddetta donna in carriera, manager rispettato nell’ambiente (un ambiente chiuso, di gente tutta con la puzza sotto il naso, a cui farebbe bene aprire la finestra ogni tanto...). Mi fa: “Simona, so che sei super-impegnata con le ricerche per il nuovo catalogo della mostra (che ti super-impegni a fare poi, se sul catalogo ci sarà solo il nome mio...?), ma c’è un’urgenza…Oggi arriva un gruppo di circa trenta persone qui al museo e mi manca una guida valida. Sai, è gente importante, ci sono anche un paio di assessori, imprenditori, gente che finanzia…Devi occupartene tu, cara. Te lo dico da ora, perché sai, dovresti far fare un giro ed esporre il tutto in inglese: alcuni di loro sono americani… Insomma, mi raccomando non mi deludere. Dai, hai un po’ di tempo per prepararti, arriveranno alle 16 (anzi, visto che ti trovi, perché non mi vai a fare un bel caffè?). Ovviamente mi dispiace bloccarti proprio oggi, che hai il pomeriggio libero, ma capisci, è un’urgenza, ho proprio bisogno di te. Mica avevi altri impegni?”. Non mi lascia nemmeno il tempo di rispondere, si volta e se ne va. (Figurarsi, IO altri impegni? Come se potessi addirittura aspirare ad avere il lusso di condurre una mia vita autonoma al di fuori di qui...)

In un istante la mia mente è travolta da miliardi di pensieri. Poi mi focalizzo su un solo termine, FLESSIBILITA’. Il modo moderno e legale per dire ‘sfruttamento’. Ho un contratto

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ridicolo, dopo uno stage semestrale (STAGE = vedi alla voce ‘beneficienza’ o ‘lavoro non retribuito’ o ‘speriamo che prima o poi mi assumano e vada meglio’). Per continuare a lavorare in questo posto ho fatto domanda per il servizio civile, ed eccomi qui. Guida del Museo, responsabile della catalogazione, organizzatrice di mostre, all’occorrenza addetta alle bevande e alle fotocopie. Il tutto per circa quattrocento eurozzi al mese. Il mio tempo libero? Faccio la baby sitter. E parlo al telefono. Con la mia famiglia (una famiglia ormai molto 'virtuale'), le mie amiche, e chiaramente Luca.

Ho una laurea in Scienze dei Beni Culturali. Frequentare l’università, un’università prestigiosa, per me è stato come scoprire un nuovo pianeta. Non ho mai perso una lezione, ho sempre preso il massimo dei voti e mi sono laureata in tempo. La prima del corso, l’orgoglio della famiglia. I professori che mi coinvolgevano spesso in progetti extra. Non ho mai fallito. Oggi vedo la mia osannata bravura come un limite…Mi offuscava la visuale, così non mi rendevo conto dei miei limiti e del fatto che fuori, laurea in mano, non sai che fartene dei complimenti, delle lodi, della giovane età: il lavoro non c’è! Chi lo dice che se uno è bravo, qualcosa da fare lo trova? Mah. Posso solo dire di aver studiato cose che amo, visto mostre e girato in lungo e largo quasi tutti i musei d’Europa! E ogni città mi ha detto qualcosa, con ognuna ho iniziato un discorso di conoscenza che forse non avrò mai l’occasione di finire (ad esempio, ho capito che a Londra forse sono tutti single: possibile che non abbiano il bidet da nessuna parte?). E ora, nonostante il mio impegno, mi tocca ancora chiedere i soldi a mio padre per uscire a farmi una pizza…

Alle 16.30 arrivano: un gruppo d’omoni circa quarantenni e di donne impellicciate ed ingioiellate, tutti convinti che il cospicuo conto in banca e i soldoni che straripano dalle tasche bastino a far balbettare il prossimo d’invidia. Comunque, comincia il giro. Molti, almeno all’inizio, fingono interesse, alcuni parlano in un inglese strettissimo, uno di loro blatera qualcosa a proposito d’arte greca e spolvera lontane reminiscenze scolastiche (tra l’altro per la maggior parte inappropriate ed inutili). Un altro addirittura farfuglia qualcosa tipo: “Io avrei optato per un relativismo ragionato, piuttosto che questo assolutismo ottenebrante” (Chissà in che programma tv avrà sentito questa frase…).

Mi hanno sempre insegnato che l’arte vera è per pochi, una faccenda d’elite, purtroppo, ma bisogna renderla accessibile a tutti, anche ai profani. Ormai non faccio più caso agli sbadigli, al continuo sguardo all’orologio o a chi, passando davanti alle più grandi opere d’arte, le stesse che riescono a farmi commuovere ed emozionarmi e trattenermi qui, alza la mano e (invece di disquisire con me riguardo la psicologia dell’autore dell’opera) mi chiede: “Scusi, non c’è un distributore automatico di merende nei paraggi?” (Un po’ col tono dell’alunno in gita, che chiede alla maestra quanto tempo ci vuole per arrivare alla prossima stazione di servizio per fare il bisognino). E poi, mentre mi infervoro a parlare della disperazione che ha spinto l’autore a dipingere il tutto, del suo malessere di fondo, del suo sentirsi estraniato e distaccato da una società in cui non è mai riuscito ad integrarsi, e proprio mentre scavo nel profondo di me stessa per cercare descrizioni pertinenti…Iniziano a confabulare qualcosa! Hanno fame e mezz’ora dopo c’è una cena prenotata nel miglior ristorante della città, col sindaco e la cara direttrice del museo. A quel punto li ho congedati. In alcuni (tutti?) mi è anche sembrato di cogliere un sospiro di sollievo.

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Sono tornata in ufficio, ho preso le mie cose e sono uscita. Mi ha raggiunto Chiara per ricompensarmi (a parole, ovvio): “Grazie. Ci vediamo domani, abbiamo molto lavoro da fare, mi raccomando, puntuale!”.

Fortuna che poi a casa Consuelo, la mia coinquilina, mi ha preparato la cena…l’unico abbozzo di calore familiare in tutta la giornata. Che forza della natura, Consuelo! Anche lei nella mia stessa barca: è qui a fare un master, sogna di diventare restauratrice. Come me, lontana dal suo paese, la Spagna. Ma nonostante tutto, trova un motivo per scherzare, essere felice: riesce sempre tirare anche me su di morale. “Bè, almen nessuno de losotros ricones te ha riso en façia!” (correggo: riesce quasi sempre a tirare anche me su di morale!)

17 settembre 2008, ore 19

Oggi è uno di quei giorni per cui vale davvero la pena essere qui. C’è stato l’incontro col grafico per la stampa del tanto atteso catalogo sulla mostra che si terrà il prossimo anno. Chissà io dove sarò…Questo lavoro mi piace tantissimo, peccato che non siano previste assunzioni e che sia così lontano da casa e…Vabbè, oggi voglio (devo) essere positiva, godermi qualche piccola soddisfazione.

Dopo mesi di ricerche, stesure di bozze, tiraemolla, oggivabenedomanino, tiavevodettodicorreggerenoanziriscrivitutto e oggiètropposinteticodomaniècosìprolisso e stress e delusioni e arrabbiature e camomille e serate passate in biblioteca o in archivio o su internet, ore e ore per poi un giorno vedere il proprio nome scritto piccolissimo sull’ultima pagina di un libro che forse nessuno leggerà…Dopo tutto questo, oggi è stata una vera soddisfazione! Finalmente qualcosa di concreto. Che emozione scegliere il formato, la copertina. Posso solo lontanamente immaginare cosa può provare un pittore quando ha finito la sua opera e si ferma un attimo a guardare la sua ‘creatura’ completa, ben formata, un’idea che prende sostanza ed assume vita propria.

Per festeggiare stasera cena da Teresa, la mia collega, che vive qui (ed ha una bellissima bambina, Laura, di 3 anni). Sul lavoro è l’unica vera amica che ho trovato. Sta al Museo da due anni, ha iniziato con un progetto a tempo determinato che ora sembra esser diventato indeterminato. Così indeterminato che non sa mai a che ora torna a casa. Ed io che mi lamento del mio lavoro: chissà che ne pensa la piccola Laura, invece, degli orari assurdi della madre, della babysitter, dell’ansia di non arrivare alla fine del mese… (Sicuramente però avrebbe potuto esprimere il suo disappunto sindacale in maniera diversa, piuttosto che vomitarmi l’intero contenuto della cena sul pantalone nuovo. Vabbè, non le farò fare più l’aeroplanino…)

Come vorrei che ci fosse anche Luca qui, a volte lo sento così lontano. E non parlo solo di tutti i chilometri che ci dividono: è che in alcuni momenti mi sento davvero sola, incompresa. L’ho chiamato piena d’entusiasmo e lui, invece di ascoltarmi, si è lamentato tutto il tempo del suo capo, un altro isterico frustrato che (quasi per contratto) tormenta poveri ragazzi come lui. Sono stata ad ascoltarlo finché non mi ha detto che era stanco, che voleva andare a dormire. (E allora no, dico, non mi chiedi nemmeno come sto??!?) A quel punto mi sono a dir

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poco incacchiata, incavolata, imbelvita. Non è possibile che tu sia sempre concentrato su te stesso e sui tuoi problemi, per una volta potresti fingere un minimo vago interesse e provare ad essere felice per me…E’ chiedere troppo??? Così, a mente in tempesta, gli ho chiuso il telefono in faccia.

18 settembre 2008, ore 22

Oggi ero a lavoro, sommersa dalle scartoffie, quando è arrivato in ufficio un fattorino…Ed era per me! Non ho mai ricevuto posta personale sul lavoro, e m’è sembrata davvero strana la faccenda (anche perché ormai la posta chi la usa più?). Era un plico, senza il mittente. L’ho aperto e ci ho trovato dentro una foto stupenda, una polaroid. Io e Luca al mare, cinque anni fa. Innamorati, vicini, giovani. Oltre alla foto, un biglietto del treno per domani pomeriggio, per raggiungerlo a Trecase, e un foglietto di carta con su scritto:

“Non lasciamoci travolgere dallo stress, dal lavoro, dalla lontananza. Rifugiamoci in NOI, nell’eternità di quell’attimo di luce che può nascere solo dallo stare insieme, io e te e basta…Buon anniversario, amore! Ti aspetto. P.S. Ti ricordi che belle le polaroid? Peccato che non ne facciano più...”

Sono scoppiata a piangere. Se ogni volta si facesse perdonare in questo modo, sarebbe davvero stupendo litigare per ogni minima scemenza (Quasi quasi divento irascibile!).

Non vedo l’ora che arrivi domani. Cercherò di non pensare al fatto che avremmo potuto festeggiare insieme oggi. Sono passati sette anni da quando ci siamo messi insieme, mentre sono ormai quattro anni che odio le stazioni e i telefoni e gli sms e i weekend e dormire da sola la notte. Nonostante tutto, però, l'amore è un virus, e io e lui ci infettiamo a vicenda di continuo, tossendoci addosso quello che deteniamo dentro.

Luca mi ha sempre detto di cercare negli sguardi che fotografa qualcosa che lo sottragga alla ‘immensa solitudine di cui è permeata la nostra quotidianità’. Si appende in camera i primi piani della gente che coglie in strada con la sua 35 mm. Ma (e non capisco perché) io non ci sono mai! Eppure è proprio grazie ad una foto se stiamo insieme.

Ricordo così bene la prima volta che l’ho visto. In realtà io non l’avevo notato per niente. Eravamo ad un corso di fotografia a Trecase. Mi ci ero iscritta quasi per caso, anche stimolata da alcune amiche, lui invece era tutto preciso e coinvolto, prendeva appunti. Si avvicinò a me a fine lezione e mi chiese: “Hai gli occhi di chi sa affrontare l’abisso. Ti piacerebbe posare per me?”. Io gli risposi che non avevo capito granché di ciò che m’aveva detto, ma comunque c’erano i miei amici che mi stavano aspettando. E me n’andai.

Non feci caso, apparentemente, a quell’episodio. Ma solo apparentemente, perché in realtà avevo memorizzato a livello subliminale quelle informazioni e le avevo lasciate lì nei miei neuroni a sedimentare. Così, forse fu anche per quello che quando tempo dopo un mio amico mi invitò alla serata finale di un concorso fotografico, ci andai con piacere. Immaginate il mio stupore nel vedere il mio sorriso appeso su una parete, lungo quasi un metro (e sì che mi era già spuntato il dente del giudizio, ma non pensavo d’avere tutti quei denti). Incredibile! Mi

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giro, e c’è lui che se la ride. Mi aveva fotografato di nascosto e ne era uscito un capolavoro! “Vuoi che sia io il tuo abisso?”. Proprio questo mi disse. Tra il romantico ed il serial killer. Come mi aveva colpita però. Il mio parlamento interiore, volgarmente chiamato cervello, aveva già votato segretamente a suo favore, però iniziò ad emanare leggi per la salvaguardia del mio apparato cardiovascolare: mi imposi di non baciarlo, di non avvicinarmi troppo a chi avrebbe potuto rubare il mio cuore con disarmante facilità. Anche se non era facile stargli lontano.

Uscimmo in strada. Parlammo tanto. Anzi, io parlai tanto che alla fine mi dava fastidio il suono della mia voce. Lui stette per la maggior parte in silenzio, rapito, a osservare i miei movimenti, a fotografarmi con gli occhi, a rendermi speciale. Così a un certo punto mandai a quel paese la razionalità, le leggi, l’apparato cardiovascolare, i piedi di piombo e la sfiga. E lo baciai. Senza smettere. Per un bel po’. Ed ancora ora, non so come faccio a respirare quando le nostre bocche sono distanti.

19 settembre 2008, ore 17

Sono in treno, ormai scrivo ovunque. Ho sonno. Sono partita alle tre e mezza e tra ‘sole’ quattro ore (circa duecentoquaranta minuti) sarò a Trecase. Mentre vedevo gli alberi scorrere veloci dal finestrino, e le gallerie e le case, ho pensato che in fondo né Van Gogh né Picasso sapevano che sarebbero diventati famosi un giorno, dopo la loro morte. Ecco cos’ho in comune con loro: anch'io farò fortuna (ma ancora non lo so, ovviamente!).

Prima accanto a me c’era una ragazza. Vedendo che leggevo un libro d’arte contemporanea mi ha chiesto delle informazioni riguardo l’università. Pensava fossi un’insegnante (“Può chiamarmi professoressa, prego, chieda pure!”), voleva saperne di più a proposito dell’Accademia delle Belle Arti. Tra un paio di mesi iniziano i corsi, si è appena iscritta. Mi ha raccontato la sua grande passione per la scultura, di come ha dovuto lottare coi suoi genitori (avvocati di successo e senza grilli per la testa) per seguire la propria strada…Alla fine però ce l’ha fatta. E forse era stata una liberazione anche per i genitori, che ormai erano stanchi di non trovare chiavi, posate, elettrodomestici, che finivano a far parte delle sue ‘opere’ incomprese. Ora si calava nel ruolo della studentessa fuori sede e i suoi non avrebbero più dovuto rivolgersi all’ufficio Oggetti Smarriti o fingersi contorsionisti per passare dal corridoio spesso occupato dalle sue sculture (o cambiare serratura alle porte quando sparivano le chiavi!).

Il suo enorme entusiasmo per un attimo ha spazzato via la mia frustrazione, come un dolce naufragio. Nella mia mente non c’era più posto per stage, scuole di specializzazione, master, conti a fine mese, problemi di lontananza, la storia che l’arte non paga e te lo dovevi aspettare, cosa pretendevi, avresti dovuto fare qualcosa di più concreto tipo economia e bla bla bla…Ho chiuso gli occhi e c’ero io, dieci anni fa, quando ho lasciato il mio paesino lontano, Terravecchia. Un posto troppo piccolo per restarci e troppo grande per non aver voglia di tornarci. Era il periodo della mia vita in cui mi svegliavo in due tempi: prima aprivo gli occhi e solo dopo smettevo di sognare (il fatto è che spesso tra i due momenti passava l'intera giornata). Paura, entusiasmo, voglia di nuove esperienze e di staccare dal paese, dai

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pregiudizi, dalle attività in parrocchia, e perché no, anche un po’ dalla mia famiglia…tutto questo c’era nella mia valigia allora (Bè, ovviamente c’erano pure calzini e dentifrici!). Mi sentivo così fortunata ad andarmene. La maggior parte delle ragazze della mia età coltivava un solo sogno: sposarsi! Un matrimonio conforme alle chiacchiere del paese, con un’opulenza e uno sfarzo direttamente proporzionali agli anni di sacrifici fatti dai genitori per racimolare somme improponibili da sperperare in un unico giorno! Le guardavo avvinghiarsi ai loro ridicoli quanto vacui destini: nessuna di loro avrebbe mai visto un’opera d’arte da vicino né discusso riguardo pittori, scultori, architetti. Avrebbero messo il naso fuori da casa solo durante il viaggio di nozze o per qualche sbadata e inconsistente vacanza…Ecco cosa pensavodelle mie coetanee. Ed invece, ora, io, non mi riconosco più! Ho ridimensionato le mie ambizioni, i miei desideri. Non so che darei per vivere con Luca e, perché no, sposarlo, metter su famiglia. Altro che carriera e master e ambizioni (e frustrazioni). Sarei felice in un monolocale con quattro figli, a cucinare pasta al forno e lavare i piatti tutto il giorno (ma ne sarei davvero capace? Non so più chi sono! A volte mi sembra di portare avanti un'esistenza senza prospettiva, di cui ogni angolatura potrebbe essere quella giusta per visualizzare l'insieme...ma anche quella sbagliata!).

20 settembre 2008, ore 8.30

Luca è accanto a me, sta dormendo. Gli ho rubato la sua inseparabile Reflex dalla borsa e gli ho scattato una foto. Volevo fermare questo istante. E’ stato proprio lui ad insegnarmi a cogliere l’attimo e renderlo eterno in un’immagine. In questo periodo, cerco di godermi a pieno questi pochi istanti di intensa felicità. Così va a finire che quando vengo da lui quasi mi sento in colpa a dormire troppo…E allora eccomi, già sveglia, dopo circa 5 ore di sonno, sono anche andata al bar a comprare i cornetti, così appena lui si sveglia li trova (già so che non avverrà prima di mezzogiorno, e questo sarà il suo aperitivo!). Mi manca talmente tanto quando sono a Cima che passerei l’intera giornata così, a letto, a guardarlo dormire. Poi tra due giorni già riparto, quindi devo fare il ‘pieno’ per sopportare un’altra settimana senza di lui…

Ieri sera quando Luca è venuto in stazione, è stato come un raggio di sole nel buio ammuffito che mi aveva ricoperto nell’ultima settimana. Il tempo si è dilatato fino a farmi parere che fossero passati interi mesi da tutti i piccoli traumi quotidiani che avevano atterrato il mio umore. E i significati delle cose si sono dissolti nel nostro abbraccio.

Purtroppo abbiamo avuto poco tempo per stare insieme. Luca doveva stampare delle foto da consegnare in serata. Riflettevo sul fatto che lui sa affrontare meglio di me le difficoltà, è più pronto! E le sue sono doppie, visto che ha due lavori. La laurea in Psicologia gli permette di lavorare in una comunità di recupero per tossicodipendenti, un’esperienza totalizzante quanto difficile, che lo riempie di soddisfazioni e di responsabilità, il tutto per una misera paghetta. Poi ‘lavora’ in questo studio fotografico. In realtà gli danno solo un parziale rimborso spese, ma lui è felice perché ha la possibilità di stampare, usare macchine fotografiche costosissime. Il fotografo con cui collabora, Andrea, è molto affezionato a Luca. E anche a me. In pratica ci ha adottati. Ha circa sessant’anni e non ha famiglia. Si può definirlo un hippy, un reduce del sessantotto ormai in pensione di servizio, che ha vissuto un'esistenza stupenda. A 18 anni ha lasciato tutto si è girato a piedi mezza Italia, poi l’Europa in bici, e

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infine gli altri continenti in treno (era stanco...), sempre alla ricerca di volti e paesaggi da immortalare, col suo desiderio di libertà a fargli da bussola e da compagnia. Verso i quaranta a dovuto ‘mettere la capa a posto’, mettere radici da qualche parte…Ma non ha abbandonato le sue passioni. Ne ha fatto un lavoro. Per arrivare a fine mese fa il fotografo di professione. Certo, all’inizio era un tormento per lui occuparsi di matrimoni e battesimi: tutte quelle formalità, quelle pose predefinite e poco naturali erano una vera e propria violenza per i suoi occhi, fino a quel momento abituati alla ricerca di immagini vere e libere…(Ma bisogna pur campare, in fondo, no?)

Luca ne aveva sentito parlare e aveva visto i suoi scatti su un blog. Ne era rimasto stupefatto, così ha vinto la timidezza ed è andato nel suo studio a chiedergli se poteva fare una sorta di stage. Avrebbe fatto di tutto pur di imparare qualcosa da lui. E Andrea, vista la sua determinazione, ha accettato. All’inizio era solo un commesso, consegnava le stampe ai clienti, li riceveva. Poi Andrea ha guardato alcune sue foto, gli ha riconosciuto un gran talento, mentre gli rimproverava scarsa applicazione nelle tecniche. Così sono iniziate le ‘lezioni’. Dopo il lavoro, Andrea ha iniziato ad insegnargli tutti i segreti del mestiere. Hanno sempre avuto molto in comune: sono entrambi nostalgici delle pellicole, usano le digitali solo per dovere...

E' strano pensare che prima era solo un passatempo, per Luca. Ora partecipa a tutti i concorsi possibili e molti li ha anche vinti, sta diventando pian piano ‘famoso’, ha un sito frequentatissimo ed è contento perché inizia a pensare di farlo come professione (ci sono sin troppi psicologi in giro!). A volte mi sento assalita dai sensi colpa perché provo invidia per lui: la sua passione è il gioco vincente che vale la candela, la mia è la goccia amara che può far traboccare il vaso. Spero solo di non arrivare al punto in cui la mia goccia spegnerà anche la sua candela, sarebbe ingiusto!

Col tempo comunque ho imparato a trovare dei diversivi mentre lui è allo studio. Ieri ad esempio ho chiamato Anna, un'ottima amica che vive qui, e ci siam fatte un breve giro. Ci sentiamo molto spesso per telefono e quando vengo a Trecase è d'obbligo fare le stupide per strada, come quando eravamo solo piccole matricole spensierate! Caffé, giro per negozi di scarpe (a guardare le vetrine, emozionate come due maschi adolescenti a una sfilata di moda!), chiacchiere e risate e chiacchiere e risate...(Ecco come passiamo il tempo quando siamo insieme!). Poi, a un certo punto, le viene la ‘brillante idea’: comprare un gratta e vinci! Pensavo, perché no, stavolta ci cambia la vita. Ero convinta d'aver già retribuito a sufficienza il mio fato, a furia di banconote di sfiga…Invece evidentemente non avevo ben calcolato gli interessi: per un solo numero non abbiamo vinto una cifra con tanti di quegli zeri da farti subito rinunciare a capire quanti soldi sono. Ma in fondo, che saranno mai i soldi...L'uomo è riuscito a creare dal nulla questi oggetti famelici chiamati ‘denaro’ che riescono a renderci invidiosi, generare fazioni e sudditi, causare guerre e morti. Come se tutti avessimo riversato in questi illustri pezzi di carta le nostre pulsioni e aspirazioni. Senza desideri nei confronti di qualcosa di più concreto (occhei, lo so, ora sto disprezzando, ma solo perché ho perso, che se invece si fosse vinto, altro che filosofia spiccia!).

Nelle tristezza, ce ne passammo poi per un pub, e per tirarci su di morale bevemmo un po’. Per pudore vi risparmierò la parte in cui poi mi sono travestita da Marylin Monroe, ho urlato in faccia ad un poliziotto e sono andata al concerto di una boyband in piazza a strapparmi i capelli (anche perché, ovviamente, non è vero niente di tutto ciò!)...

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21 settembre, ore 20

Oggi pomeriggio Luca mi ha portato nella ‘stanza magica’ (che taluni volgarmente chiamano camera oscura). Quel luogo assume per lui il ruolo di una sala parto, con quel senso quasi di sacralità a permeare l’atmosfera: un vero e proprio rifugio dal deserto del mondo esterno. Ci si dimentica del tempo che scorre e di tutto il mondo là fuori, delle persone lontane, dei problemi sul lavoro. Per una persona impaziente come me è stata una sorta di seduta psicanalitica…All’inizio Luca ha cercato di spiegarmi la storia del bromuro d’argento, di cosa è composta la soluzione del bagno di sviluppo (!?!), ma, dopo essersi accorto che non ci capivo niente, ha lasciato perdere le spiegazioni e mi ha istruito riguardo cosa assolutamente non dovevo fare, toccare, spiare (avevo il permesso di star ferma però!).

È stato magico, soprattutto quando da un semplice foglio bianco, passato in varie vaschette contenenti strani liquidi, compare un’immagine…Ero io! Una foto scattata per strada, ero incavolatissima perché avevo avuto un colloquio di lavoro e mi ero beccata il solito: “Le faremo sapere…” (tradotto: "Ti illudi sul serio di risolvere la tua vita con un colloquio di lavoro? Troppo semplice e troppo facile!"). Luca dice che quando sono arrabbiata faccio una strana smorfia carina, e quel giorno aveva voluto catturarla. Io stavo lì a guardare a bocca aperta la foto, manco fossi la bambina di E.T.…(E quando stavo per prendere la foto senza aspettare che s'asciugasse, s'è arrabbiato proprio come un alieno…). Alla fine, il fatto che abbia condiviso con me quella stanza, ha reso "magico" l'intera giornata!

22 settembre 2008 ore 5

E' lunedì. Si ricomincia…

Ho già detto che odio la violenza? Soprattutto quando potrei esserne io la vittima! Eppure sono stata picchiata in faccia dal mio destino, che mi ha allontanata di nuovo da Luca. Ho ormai superato le ferite evidenti, e sono pronta per il nuovo round: il ritorno al lavoro.

Scrivo dal treno di ritorno a Cima. Il mio weekend è finito in un niente. Fortuna che ho il turno di pomeriggio al lavoro, oggi. Arriverò appena in tempo per posare le valigie ed iniziare ad essere schiavizzata da una donna talmente nevrotica da aver più adrenalina che buonsenso nel sangue. Bentornata nella tua vita, Simona (Finirà mai questa insoddisfazione? Questo circolo vizioso, questa ricerca di cui non vedo una meta?).

UN ANNO DOPO

21 settembre 2009, ore 16

Ora vivo a Rivolo. Mi sono iscritta a una scuola di specializzazione. Chiedo ancora i soldi a mio padre per ogni pizza che voglio comprarmi (soprattutto l'amata quattrostagioni, ad essere precisi. Forse è colpa del mio salvadanaio che non riesce a trattenere i miei soldi per più di una settimana? Sarà bucato?). Vivo metà delle mie giornate sui treni, ormai. Luca è ancora a Trecase, ma forse da gennaio si trasferirà qui...Bè, lo spero almeno! Non ho ancora un lavoro (credo che a breve però chiuderò la mia laurea in un cassetto e potrete trovarmi

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alla cassa dei Grandi Magazzini!). Sarebbe tutto più facile però se, tornando a casa la sera, trovassi Luca qui!

Nella mia nuova cameretta ho appeso un quadro, che mi ha regalato la mia migliore amica, Elisa. Poche persone al mondo conoscono i miei gusti bene come lei. E’ la riproduzione di “Senza Titolo”, un acquerello dipinto nel 1910 da Kandinskij. Può essere considerato la prima opera astratta. ("L'Astrattismo, a differenza dei precedenti movimenti d'avanguardia, non si propone di interpretare la realtà: vuole invece semplicemente creare immagini nuove. L'arte diventa autonoma espressione della psicologia emotiva dell'uomo. Le figure astratte sono pura invenzione dell'artista. L’acquerello si presenta intenzionalmente come uno schizzo informe, quasi uno scarabocchio infantile, come una composizione gioiosa, eseguita di getto,senza un disegno o uno schema; l’effetto è quello di un’idea iniziale, immediatamente fissata sulla carta." Parlo proprio come un libro stampato, eh?)

Amo tanto Kandinskij, e poi questo acquerello, con la sua scomposizione di linee, la sua confusione (solo apparente!), rispecchia abbastanza bene il mio stato d'animo attuale...Poi però, a guardarlo meglio, ci si accorge che ci sono dei punti di riferimento, delle "linee guida", che io faccio corrispondere a ciò che vorrei dalla mia vita, alle mie ambizioni, ai miei progetti, che mi sono fissata bene nella testa e nel cuore. Insomma, ordine nel disordine. E questa spontaneità di colori e di forme, che mi riportano indietro nel tempo, a quando tutto sembrava colorato, positivo, possibile...

Povera Elisa, è sempre lì pronta ad ascoltare le mie lamentele…Spero che presto potrà sentire di nuovo la mia voce tranquilla, serena e con belle novità da raccontare e non la solita vocina triste che si è abituata a sentire negli ultimi tempi. Davvero aspetto un segno per un cambiamento...Vorrei tornare a sentire tutto, ad innamorarmi della vita. Vorrei tanto che niente mi attraversasse così veloce da non lasciare impronte digitali sulla mia pelle. Vorrei tanto potervi raccontare la mia via d’uscita dalla tormenta, ma temo di non averla ancora trovata.