Seminario Estivo 27 Luglio 03 Agosto...

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Reg. Num. 6188 A Villa Nazareth Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754 Siti web: www.villanazareth.org, www.vnstudenti.org, www.vnservizi.it E-mail: [email protected], [email protected] , [email protected] Seminario Estivo 27 Luglio 03 Agosto 2013

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Reg. Num. 6188 – A

Villa Nazareth – Fondazione “Comunità Domenico Tardini” ONLUS Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma – Tel. 06-895981, Fax. 06-6621754

Siti web: www.villanazareth.org, www.vnstudenti.org, www.vnservizi.it E-mail: [email protected], [email protected], [email protected]

Seminario Estivo 27 Luglio – 03 Agosto

2013

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PROGRAMMA

“SUI PASSI DELLA MUSICA, SUI PASSI DELLA STORIA”

Sabato 27 luglio

Pomeriggio Arrivo e sistemazione presso il Centro Vacanze e Cultura Grand Hotel Dobbiaco

Ore 18:45 Celebrazione eucaristica

Ore 20:00 Cena e saluto del card. Achille Silvestrini, di mons. Claudio Maria Celli, della

prof.ssa Angela Groppelli, del prof. Carlo Felice Casula, del dott. Marco Catarci del dott. Massimo Gargiulo, della dott. Maria Cristina Girardi.

A seguire

Presentazione del seminario a cura degli studenti della Commissione Cultura

Domenica 28 luglio

Ore 8:00 Colazione

Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata

Ore 18:45 Celebrazione eucaristica

Ore 19:30 Cena

Lunedì 29 luglio

Ore 8:00 Colazione

Ore 9:15 Conferenza: "Musica e società”: il ruolo del teatro verdiano

nella formazione dell'identità culturale e nazionale

Relatore: Prof.ssa Luana Palladino, docente di Storia del teatro musicale,

Conservatorio “S.Cecilia” di Roma.

Moderatore: Pierluigi Carbonara

Ore 13:00 Pranzo

Ore 16:00 Incontro Gruppi Regionali (studenti residenti e non residenti)

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Ore 18:45 Celebrazione eucaristica

Ore 19:30 Cena

Martedì 30 luglio

Ore 8:00 Colazione

Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata

Ore 18:45 Celebrazione eucaristica presieduta dal card. Achille Silvestrini

nell'anniversario della morte del Cardinale Domenico Tardini

Ore 19:30 Cena

Mercoledì 31 luglio

Ore 8:00 Colazione

Ore 9:15 Conferenza: “La musica folkloristica in Italia”

Relatore: Prof. Sandro Biagiola, docente di storia della musica e etnomusicologia,

Conservatorio “S.Cecilia” di Roma.

Moderatore: Loris Leoni

Ore 13:00 Pranzo

Ore 16:00 Laboratorio degli studenti: “Il mondo attraverso una canzone”

Ore 18:45 Celebrazione eucaristica

Ore 19:30 Cena

Giovedì 1 agosto

Ore 8:00 Colazione

Ore 9:15 Escursione di tutta la giornata

Ore 18:45 Celebrazione eucaristica

Ore 19:30 Cena Tipica

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Venerdì 2 agosto

Ore 8:00 Colazione

Ore 9:15 Tavola rotonda a cura degli studenti: “Poeta fui, e cantai…": i cantautori e la canzone italiana

Moderatrice: Livia De Meo

Ore 13:00 Pranzo

Pomeriggio libero

Ore 18:45 Celebrazione eucaristica

Ore 19:30 Cena

Sabato 3 agosto

Ore 8:00 Colazione

A seguire Saluti e partenze

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Indice

Biografie dei relatori – pag. 6

Articolo n.1: “Canzone popolare e musica”, Francesco Rossi - pag. 8

Articolo n. 2: “Letteratura, Canto, Danza e Dramma”, Paolo Toschi - pag. 18

Articolo n.3: “Inchiesta sulla musica “di massa” e la musica

“popolare” - Una ricerca difficile”, Diego Carpitella – pag. 22

Articolo n.4: “Il dissolversi della tradizione”, Diego Carpitella – pag. 27

Articolo n. 5: “Artigiano e artista – Il mondo dell’opera verso il 1840”, Gilles de

Van– pag. 29

Articolo n. 6: “La canzone d’autore italiana”, Francesco Troiano - pag. 33

Articolo n.7: “La musica etnica”, Sandro Biagiola – pag. 36

Articolo n.8: “Italia e Francia nell’Ottocento”, Fabrizio Della Seta – pag. 46

Articolo n.9: “La nota patriottica”, Ulderico Rolandi – pag. 49

Bibliografia – pag. 56

Filmografia – pag. 59

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Biografie dei relatori

Luana Palladino

Luana Palladino, nata a Roma, si è laureata con il Prof. Pierluigi

Petrobelli presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" in

Lettere con indirizzo Storia della Musica. Ha seguito un corso di

perfezionamento in Discipline Musicali presso l'Università degli Studi di

Roma "La Sapienza" con i docenti Fabrizio Della Seta, Agostino Ziino e

Pierluigi Petrobelli. Si è diplomata in Pianoforte sotto la guida del

maestro Maria Teresa Carunchio e ha svolto attività concertistica in

duo con il violinista Nereo Zampieri.Si è diplomata in Canto sotto la

guida del maestro Tea Carcavallo. Nel 1992 ha superato i Concorsi per

titoli ed esami venendo inserita tra i primi posti della graduatoria

nazionale per l'insegnamento di Letteratura Italiana e di Letteratura

Poetica e Drammatica nei Conservatori.

Nel 1993, avendo superato il concorso per l'insegnamento di Materie

Letterarie nei Licei Classici, Scientifici e negli Istituti Magistrali, è

entrata in ruolo presso il Convitto Nazionale "Vittorio Emanuele II".

Nel 2007 ha lasciato l'insegnamento presso il Liceo Classico per

entrare in Conservatorio quale docente a tempo indeterminato di

Letteratura Poetica e Drammatica e dal 2010 insegna presso il

Conservatorio di Musica di Roma S. Cecilia. Sandro Biagiola Etnomusicologo e musicologo nato nel 1947. Ha insegnato Storia della musica presso vari Conservatori e dal 1988 insegna presso il Conservatorio S.Cecilia di Roma. Dal 1990 tiene corsi di Etnomusicologia presso il medesimo Conservatorio. Dal 1975 svolge ricerche etnomusicologiche promosse dall'Università di Roma, dalla Discoteca di Stato, dall' Accademia di Santa Cecilia e dal Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari. Ha effettuato tra l'altro un'indagine sui canti dei venditori ambulanti in Campania registrando oltre 500 documenti sonori, molti dei quali sono stati incisi su disco (Cetra, Milano 1979). Nel 1978 ha realizzato, con Diego Carpitella, una scheda di catalogazione del folklore musicale italiano (FKM) per

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l'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. È autore di numerosi saggi, articoli e voci enciclopediche su tematiche etnomusicologiche e storico-musicali, pubblicati su varie riviste (tra cui Culture musicali, EM.Annuario degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Nuova Rivista Musicale Italiana) e sul Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti. Per la Discoteca di Stato ha curato il volume Etnomusica.Catalogo della musica di tradizione orale nelle registrazioni dell'Archivio Etnico Linguistico-Musicale della Discoteca di Stato (Roma 1986). Dal 1992 ha fatto parte del Comitato scientifico degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e della rivista EM della stessa Accademia. Si è occupato inoltre di didattica musicale pubblicando (con Giovanni Piazza) Orff-Schulwerk. Canti folklorici italiani (Milano, 1992).

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Articolo n.1: “Canzone popolare e musica”, Francesco Rossi Dal volume ”Enciclopedia dell’Italiano” - 2010

1. Il termine popolare

Va chiarito preliminarmente che in ambito musicale l’aggettivo popolare

può avere almeno due significati. Nel primo, equivale all’inglese popular (o pop): la locuzione musica popolare (popular music) è dunque

contrapposta a musica colta o classica. Nel secondo, equivale all’inglese

folk (folk music, folk song) e vale «etnico» o «delle classi subalterne». In quest’ultimo significato, per canzone popolare si intende la produzione di

un determinato popolo (per es., le canzoni popolari sarde) o di una

determinata classe sociale e, di solito, in una determinata epoca. In questa voce si intende canzone popolare nella prima accezione,

annoverando nel genere tutta la produzione vocale cosiddetta

commerciale o leggera, dal rock, al rap, alla canzone d’autore. È sempre più difficile distinguere, oggi, l’italiano della grande canzone d’autore da

quello della poesia, per via dei contorni assai sfumati della seconda e del

crescente valore sociale assegnato alla prima. Molti sono, del resto, i poeti che hanno scritto per cantanti: Pasquale Panella con Lucio Battisti,

Roberto Roversi con Lucio Dalla, Manlio Sgalambro con Franco Battiato,

Alda Merini con Milva. Numerosi sono anche i poeti del passato messi in musica dai moderni cantautori: Edgar Lee Masters da Fabrizio De André

(Non al denaro non alla terra né al cielo, 1971) e Yeats da Angelo

Branduardi (Branduardi canta Yeats, 1986).

2. Il Festival di Sanremo

Nel ripercorrere sinteticamente la storia dei rapporti tra lingua e canzone

in Italia, va riconosciuto un ruolo fondamentale al principale Festival

della canzone italiana, quello di Sanremo, dal 1951. La canzone sanremese continua a rappresentare, infatti, il termine di paragone per

saggiare temi, stilemi, lessico e strutture linguistiche più in linea con la

tradizione (Arcangeli 1999) e, sull’opposto versante, le soluzioni alternative (di solito) della canzone d’autore, di quella d’impegno

sociopolitico e di quella sperimentale. Tipici della tradizione sanremese

sono i versi semplici e cantabili, perlopiù tronchi (anche al plurale, contro le norme morfologiche odierne: «un delicato mazzolin di fior», “Sotto

l’ombrello”, 1954, di Casiroli) e ricchi di monosillabi talora usati a mo’ di

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zeppa («Volare ... oh, oh! / cantare ... oh, oh, oh, oh!», “Nel blu dipinto

di blu”, 1958, di Modugno-Migliacci), le rime baciate o alternate ed

estremamente prevedibili (cuor / amor), la riduzione lessicale (con parole che gravitano soprattutto intorno alla sfera amorosa), morfologica

(perlopiù le prime due persone singolari e plurali) e sintattica (periodi in

genere d’un’unica proposizione e ricchi di ripetizioni). Non mancano, beninteso, le eccezioni, soprattutto tra i brani ai livelli più bassi della

classifica. Spicca il ruolo di Domenico Modugno, che fa da spartiacque tra

la fase antica e quella moderna della canzone italiana: “Nel blu dipinto di blu” segna infatti alla fine degli anni Cinquanta il passaggio dal sogno

d’amore sommesso e lirico all’espressione dell’amore a voce spiegata, a

metà strada fra tradizione melodica italiana e nuovi ritmi americani, con lessico e sintassi nel contempo concreti e sfuggenti, tra realismo e

surrealismo, tra poesia e libera affermazione della sessualità, dal

momento che il volo è chiara metafora del coito (Borgna 1985: 142).

3. Gli inizi

Fatte le dovute differenze, per es. per quanto riguarda lo scarso uso,

nella canzone, di arcaismi e di termini difficilmente comprensibili, la

canzone prima di Modugno presenta più di un tratto in comune con il linguaggio operistico, con il quale condivide la stereotipia e certo

antirealismo, e con quello dei romanzi d’appendice, della stampa

periodica rosa e del cinema pre-neorealistico (straordinario veicolo di canzoni d’amore, a partire dal primo film sonoro italiano, La canzone

dell’amore, 1930, di Gennaro Righelli, con il celebre brano di Bixio e

Cherubini: “Solo per te, Lucia”), ovvero con i testi di consumo tra Ottocento e prima metà del Novecento. È noto, infatti, come il livello

culturale medio dei destinatari di un prodotto di massa sia (o forse, più

giustamente, fosse) inversamente proporzionale rispetto al livello di

formalità (scolastica) dello stile impiegato in quel prodotto, perlopiù

refrattario all’innovazione, alla designazione piana e colloquiale, al

regionalismo e al plurilinguismo. Del primo periodo della canzone italiana si segnalano almeno le frequenti apocopi, l’insistito uso di

metafore (➔ metafora), spesso fantasiose, e di riferimenti esotici:

Bei fiori carnosi

son le donne dell’Avana

hanno il sangue torrido come l’Equator.

Fiori voluttuosi

come coca boliviana chi di lor s’inebria

ci ripete,

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ognor

va cantando:

“Creola ... creola ...” (“Creola”, 1925, di Ripp)

le strutture speculari tra due membri sintattici imperniati l’uno sul

pronome io o mio, l’altro su tu o tuo («Tu con me... / Io con te ...», “Tu con me”, 1960, di Ballotta-Amurri), le inversioni sintattiche: «tutta

sfolgorante è la vetrina», «entra con la mamma la bambina», «pieni di

pianto ha gli occhi» (“Balocchi e profumi”, 1929, di Mario; Borgna & Serianni 1994: 6).

In un genere vocale basato sul facile ascolto, è ovvia, a tutte le altezze

cronologiche, la spiccata presenza di giochi fonici, dalle assonanze alle allitterazioni. Alcuni di questi fenomeni avranno tenuta duratura nella

storia della canzone, anche in luoghi apparentemente insospettabili come

gli innovatori testi di Mogol per Battisti, pieni di inversioni: «Molto se vuoi tutto non puoi» (“Donna selvaggia donna”, 1978: Telve 2008: 7).

Ogni generalizzazione è però rischiosa, in quest’ambito, data l’origine

assai composita della canzone italiana, che intrattiene debiti di lingua e di stile almeno con le tradizioni regionali (soprattutto napoletana,

romana e milanese), con il melodramma romantico (almeno Gioacchino

Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti), con le romanze da salotto, con l’operetta, con i canti patriottici e politici, con i numeri del caffè

concerto e del varietà e altro ancora (Borgna 1985: 3-37).

Già dai primi anni Trenta prendono vita modi espressivi decisamente più dimessi, liberi dai retaggi stilistici del melodramma (ma non da quelli

tematici, sempre rotanti attorno al perno dell’amore), che proseguono,

con il solito notevole ritardo delle forme popolari, le istanze di

svecchiamento inaugurate da ➔ Giovanni Pascoli, Vittorio Betteloni e i

Crepuscolari: Fiorin fiorello

l’amore è bello

vicino a te! Mi fa sognare,

mi fa tremare,

chissà perché ... (“Fiorin fiorello”, di Mascheroni e Mendes, 1933)

Il lessico è ad altissima disponibilità, la sintassi è ridotta al minimo e

quasi solo coordinativa, tutto deve essere agevolmente memorizzabile, cantabile, prevedibile, rassicurante nel riconoscimento delle attese.

Rispetto a quelli lirico-amoroso e politico, i coevi filoni comico-realistico,

nonsense ed espressionistico-cabarettistico presentano maggiore originalità, soprattutto nei terreni onomatopeico e neologistico:

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Nel Parapapà

nell’anno tre

regnava il vecchio marajà Perepepè. Egli tien per cortigiane

tutte le parapagiane,

quindi l’uomo lì non può fare mai il poropopò!

(“Nel Parapapà”, 1931, di De Angelis)

4. Gli anni Sessanta e dopo

Dopo le innovazioni musicali e linguistiche apportate alla canzone italiana da Modugno, dagli urlatori (da Mina ad Adriano Celentano), da Fred

Buscaglione e da altri, un’ulteriore tappa fondamentale è segnata dal

successo dei cantautori (la prima attestazione del sostantivo è del 1960; Borgna 1985: 163), perlopiù genovesi (Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi

Tenco, Bruno Lauzi, De André, Sergio Endrigo: Jachia 1998: 36-105),

che, in contrapposizione con l’esibita noncuranza formale dei testi urlati, ne rivitalizzano lo stile, talora sotto l’influenza di esempi stranieri (dal

jazz alla canzone francese), mediante uno svecchiamento delle metafore,

una nuova attenzione alla quotidianità e alla sfera intimistica e un impiego critico e talora ironico della tradizione letteraria: «si sentono

echi di Gozzano e Montale, di Saba e Pavese, di Caproni e di Sbarbaro. O

del surrealismo francese» (Borgna 1985: 167). Tra gli ultimi esponenti della scuola genovese è Paolo Conte, dalla «parola rara e specialissima

[...], estratta dagli ambiti più disparati, riesumata da un vocabolario

andato, goffamente rediviva e ironizzata, tra il tecnicismo e il forestierismo a volte volutamente opaco» (Borgna & Serianni 1994:

161), come in “Hemingway”, 1996:

Oltre le illusioni di Timbuctù

e le gambe lunghe di Babalù

c’era questa strada ...

... Questa strada zitta che vola via come una farfalla, una nostalgia,

nostalgia al gusto di curaçao ...

Tra tutti, è De André il più ricco di riferimenti culturali, dalla chanson de geste (“Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, 1968, scritta con

Paolo Villaggio), a Cecco Angiolieri (di cui musica “S’i fossi foco”, 1969),

ai Vangeli apocrifi (l’album La buona novella, 1970), inseriti in cadenze ironicamente canzonettistiche. Anche se l’amore, la solitudine e

l’incomunicabilità sono i temi dominanti, non mancano aperture politico-

sociali, sempre antiretoriche:

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Anche se avete chiuso

le vostre porte sul nostro muso

la notte che le “pantere” ci mordevano il sedere

lasciandoci in buonafede

massacrare sui marciapiedi anche se ora ve ne fregate,

voi quella notte voi c’eravate

(“Canzone del maggio”, 1973, di De André) Senza questi primi esempi di cantautori, cui andrebbero aggiunti molti

tasselli, dai milanesi Giorgio Gaber e Enzo Jannacci alle precedenti

esperienze di famosi intellettuali accostatisi al mondo della canzone (Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Alberto Arbasino, Italo Calvino, Franco

Fortini, questi ultimi coinvolti nell’esperienza nota come Cantacronache,

dal 1957, poi confluita nel milanese Nuovo canzoniere italiano), non si capirebbe la strada percorsa dalla canzone italiana fino ad oggi, da

Battisti a Dalla, da Francesco Guccini a Battiato.

Proseguendo il percorso linguistico, si rileva un rinnovato gusto (dopo i fasti cabarettistici) per il nonsense, la profluvie di figure retoriche e il

gioco di parole che tocca vette di originalità e di autonomia del

significante con il sodalizio tra Panella e Battisti: Uno andò saldato uno vive all’estro

uno s’è spaesato uno ha messo plancia e

fa il transaitante uno fa le more uno sta invecchiando perché è un nobile scotch

Uno fa calzoni dai risvolti umani

Uno ha un solo naso uno ha mani e polsi Uno è su due piedi uno è calvo a onde

uno si nasconde poi non sa in che vano sta

(“Equivoci amici”, 1986)

Ben più in linea con la tradizione poetica italiana, sebbene sempre dai

toni colloquiali, erano i testi scritti, sempre per Battisti, da Mogol:

I giardini di marzo si vestono di nuovi colori e le giovani donne in quei mesi vivono nuovi amori

camminavi al mio fianco e ad un tratto dicesti “tu muori

se mi aiuti son certa che io ne verrò fuori” ma non una parola chiarì i miei pensieri

continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri

(“I giardini di marzo”, 1972, di Mogol) sebbene la versificazione si mostrasse già originale, con metri sempre

meno regolari (e comunque la nostra canzone ha presto imboccato la

strada dell’estrema varietà metrica), aperti anche a versi dalla lunghezza e dall’accentazione atipiche:

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Ma quante braccia ti hanno stretto tu lo sai

per diventar quel che sei.

Che importa tanto tu non me lo dirai

purtroppo

(“La canzone del sole”, 1971, di Mogol) Altro elemento rilevante è il plurilinguismo e la preziosità lessicale dei

testi di Battiato, che ospitano il latino e il greco come le lingue orientali

(è nota la passione del cantautore per le filosofie orientali, che ha dato vita anche all’opera lirica Gilgamesh, 1992), l’inglese e il francese, come

in:

Up patriots to arms, Engagez-Vous la musica contemporanea, mi butta giù.

L’ayatollah Khomeini per molti è santità

abbocchi sempre all’amo le barricate in piazza le fai per conto della borghesia

che crea falsi miti di progresso

(“Up patriots to arms”, 1980, di Battiato) il tedesco (“L’oceano di silenzio”, 1988), il siciliano (“Stranizza d’amuri”,

1979 e “Veni l’autunnu”, 1988) e altre lingue ancora, testi intrisi spesso

di riferimenti dotti in versi facilmente cantabili: Mi piacciono le scelte radicali

la morte consapevole che si autoimpose Socrate

e la scomparsa misteriosa e unica di Majorana la vita cinica ed interessante di Landolfi

opposto ma vicino a un monaco birmano

o la misantropia celeste in Benedetti Michelangeli (“Mesopotamia”, 2003, di Battiato)

Assolutamente sperimentali e vicini al futurismo i versi del primo

Battiato:

L’esotomia, l’IBM-azione

de-cloro de-fenilchetone,

essedi-etilizzazione han dato vita

alla programmazione.

x = a (sen ωt) x2 = a (sen ωt + γ) (“Fenomenologia”, 1971)

Parallelamente ad altre forme di comunicazione, va poi ricordato, almeno

a partire dagli anni Ottanta, il progressivo aumento delle lingue straniere (dell’inglese prima, dello spagnolo poi: “Vamos a la playa”, 1983, dei

Righeira), dei dialetti e del turpiloquio nei testi delle canzoni italiane, con

significative anticipazioni, per quest’ultimo, nella canzone politica degli anni Settanta:

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Colleghi cantautori eletta schiera

che si vende alla sera per un po’ di milioni

voi che siete capaci fate bene ad aver le tasche piene e non solo i coglioni [...]

Mi piace far canzoni e bere vino,

mi piace far casino, poi sono nato fesso e quindi tiro avanti e non mi svesto

dei panni che son solito portare.

Ho tante cose ancor da raccontare per chi vuole ascoltare

e a culo tutto il resto

(“L’avvelenata”, 1976, di Guccini) Tipici della lingua rock, oltre al frequente ricorso all’inglese e ai registri

più informali, fino al triviale, sono i riferimenti al sesso, all’alcol e alla

droga, spesso con l’usurata metafora del viaggio, e il continuo ammiccamento al cinema, alla televisione e alla pubblicità, tutti

fenomeni ben presenti nei massimi rocker italiani, da Vasco Rossi, a

Ligabue, a Gianna Nannini (Accademia degli Scrausi 1996: 191-237). Amante degli eccessi, il rock spazia da un estremo grado di

banalizzazione linguistica e di ripetitività:

Voglio trovare un senso a questa sera anche se questa sera un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa vita

anche se questa vita un senso non ce l’ha Voglio trovare un senso a questa storia

anche se questa storia un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa voglia anche se questa voglia un senso non ce l’ha

(“Un senso”, 2004, di Vasco Rossi),

a eccessi di complessità:

Adamo nobile, Carmine equivoco,

Rocco Crocco e la banda Spessotto,

imboscati in fondo alla stiva, negli ultimi banchi della fila, abbagliati dalla balena, nella pancia della

falena,

clandestini sopra alla schiena, gettati al mare delle anime in pena,

evasi dal compito, evasi dall’ordine,

imbrandati sotto a un trastino, a giocarcela a nascondino di soppiatto allo sguardo divino

(“Dalla parte di Spessotto”, 2006, di Vinicio Capossela)

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5. Gli anni Duemila

Complessità che non è solo del rock degli ultimi anni (Antonelli 2005) e

che spesso coinvolge anche la sintassi, infrangendo la nota abitudine alla paratassi della canzone in stile sanremese:

Mi ritrovo a pensare per caso

a quello che un tempo credevo sarei diventato alla luce di un cerchio che forse speravo

mi avrebbe scoperto trafitto e scaldato

e malgrado i discorsi divisi con te se allora avrei immaginato davvero che fosse così

e per quanto mi ritenga contento

di avere previsto e voluto il mio risultato il colore delle mie medaglie non è mai intonato

con quello del mio vestito

(“Il mio stato”, 2000, di Niccolò Fabi) Non mancano, già da anni, oculate infrazioni alla norma grammaticale,

da «Ancora una volta ho rimasto solo [...]. Ancora una volta m’hai

rimasto solo» (“Ho rimasto”, 1965, di Don Backy) a «Sono un ragazzo fortunato perché m’hanno regalato un sogno / sono fortunato perché non

c’è niente che ho bisogno» (“Ragazzo fortunato”, 1995, di Jovanotti).

Quanto ai dialetti, se è vero che a farla da padrone è sempre il napoletano (ringiovanito da Pino Daniele) e che comunque il nocciolo

duro della produzione discografica rimane l’italiano standard, non vanno

trascurati interessanti escursioni in altre aree, come il genovese dell’album Crêuza de mä, 1984, di De André e, dello stesso, l’album

Nuvole, 1990, in genovese, sardo, napoletano e tedesco. Tali esperimenti

(peraltro sempre più numerosi) sono in linea con la rivitalizzazione dei

dialetti da parte delle giovani generazioni e sono incoraggiati, soprattutto

nell’ultimo decennio, dal successo crescente della musica hip-hop (rap,

reggae, ecc.: Accademia degli Scrausi 1996: 285-369; Cartago 2003: 210-213): Accanto ad una canzone dialettale che recupera,

aggiornandola, la tradizione popolare della folk song, e accanto ad una

canzone dialettale “d’autore” come risposta al logoramento della canzone in lingua, si affacci[a] prepotentemente il dialetto delle posse, nate e

sviluppatesi un po’ in tutta Italia. Qui il dialetto, spesso reimparato dalle

generazioni precedenti, con un fenomeno di interessante cortocircuito, si è per così dire gergalizzato, esprimendo i caratteri di una condizione

giovanile marginale, protestataria e di opposizione (di tutt’altro segno

rispetto a quello delle leghe, che infatti vengono attaccate da più di un rapper nostrano (Coveri 1996: 20-21) I generi appena citati hanno

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anche il merito di aver riportato l’attenzione della canzone a temi politici

e sociali, senza per questo rinunciare alla facile cantabilità. Sembra

sempre più difficile, oggi, individuare tendenze generali, nella lingua della canzone così come negli altri mezzi di comunicazione di massa. La

cifra distintiva sembra essere, semmai, proprio l’estrema varietà e

commistione dei generi, il riuso dei materiali dalle fonti più disparate (tratto tipico della postmodernità a tutti i livelli) e il continuo

interscambio tra mezzi diversi. Basti pensare già soltanto ai Festival di

Sanremo dell’ultimo decennio (e dunque ben maggiore sarà la varietà, in sedi meno commerciali e ossequiose alla tradizione), per rendersene

conto; sono popolati da canzoni dalle tinte regionali (Nino D’Angelo, Gigi

D’Alessio) e in italiano paludato (come quelle cantate da Laura Pausini, Giorgia, Elisa, Michele Zarrillo e tanti altri), da rap d’impegno politico

(Jovanotti) e da testi sperimentali (Blu vertigo, Elio e le storie tese), da

nonsense con aperture al turpiloquio come in Mi sono innamorato di una stronza

ci vuole una pazienza

io però ne son rimasto senza era molto meglio pure una credenza

un fritto di paranza ... paranza ... paranza

(“La paranza”, 2007, di Daniele Silvestri) dai versi anticonvenzionali, prosastici ma dal lessico assai ricercato, e

decisamente poco cantabili di Carmen Consoli

puntualmente mi dimostravo inflessibile inaccessibile e fiera

intimamente agguerrita

temendo una sciocca rivalità (“In bianco e nero”, 2000)

dallo stile più pretto della canzonetta memorizzabile e disimpegnata:

Laura non c’è

è andata via

Laura non è più cosa mia

e te che sei qua e mi chiedi perché

l’amo se niente più mi dà

(“Laura non c’è”, 1996, di Nek) dalla mescidanza tra stile lirico e impegno civile (Simone Cristicchi).

L’ultimo autore citato ben esibisce anche l’impossibilità di isolare le

canzoni dai contesti sociali e mediatici che le circondano, tant’è vero che la canzone vincitrice di Cristicchi a Sanremo (“Ti regalerò una rosa”,

2007) faceva parte di un progetto di ricerca sui centri di igiene mentale

italiani che ha dato vita anche a spettacoli, un libro e un documentario. Totalmente diverso, rispetto agli anni Sessanta, è anche il mercato

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discografico. Le canzoni vengono oggi ascoltate soprattutto mediante

Internet; il cinema e la televisione (con l’eccezione del Festival di

Sanremo, sempre ai vertici degli ascolti), a differenza della radio, sono ormai meno determinanti nell’influenzare i gusti dei giovani consumatori,

tant’è vero che è del tutto estinto il fenomeno dei cosiddetti musicarelli,

vale a dire i film musicali confezionati su misura di un interprete vocale, da Mina a Celentano, da Gianni Morandi a Rita Pavone, e anche quello

dei varietà televisivi condotti da cantanti (Mina in testa). Il riflesso

linguistico di questa sostanziale perdita di consenso consiste nella minore influenza della lingua cantata sull’italiano scritto, parlato e trasmesso e

nella minore riconoscibilità di uno stile da canzonetta, tuttora,

comunque, preso a modello di operazioni tra l’autoreferenziale e l’autoironico: «dammi tre parole: sole, cuore e amore» (“Tre parole”,

2001, di Valeria Rossi). Per dimostrare la minore influenza linguistica

della canzone di oggi rispetto a quella di ieri (dai linguisti ormai riconosciuta tra gli elementi dell’unificazione linguistica italiana), e

rispetto all’influenza del cinema (specialmente quello americano

doppiato, evidente nell’abuso di calchi dall’inglese nell’italiano odierno) e soprattutto dei reality show, basta commisurare lo spazio concesso ai

cantanti a quello degli interpreti dei reality nei rotocalchi a stampa e

televisivi e lo scarso riuso di espressioni tratte da canzoni nei titoli dei quotidiani, che invece ridondano di ammiccamenti al piccolo e al grande

schermo.

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Articolo n. 2: “Letteratura, Canto, Danza e Dramma”, Paolo

Toschi Dal libro “Il folklore- tradizioni, vita e arti popolari” – Paolo Toschi – Touring

Club Italiano - 1967

La poesia popolare

Innanzitutto è da rilevare la funzionalità della nostra poesi popolare

sempre legata alle varie forme della vita pratica. Essa serve, si può dire,

sempre a precisi scopi, e trae la sua ispirazione, cos’ come la ragione del suo conservarsi e diffondersi, dalla sua funzionalità. Nel ciclo della vita

umana le ninna-nanne servono per addormentare i bambini, le filastrocche per bloccarli, le canzoncine per dare lo spunto ai loro giochi:

i rispetti e gli stornelli come dichiarazione ufficiale, e non c’è pranzo di

nozze che non sia ravvisato da canti; infine per la morte, si hanno voceri, lamenti ecc. Altrettanto dicasi per il corso dell’anno con i canti nataliziì,

le strenne, le pasquelle, i canti carnascialeschi, le “passioni” per la

Settimana santa, le maggiolate ecc. e per i principali lavori dei campi. Anche le canzoni epico liriche ispirate a gesta avventurose o episodi

drammatici hanno avuto per secoli la funzione che ora è assolta dai

romanzi e dai fumetti: e le canzoni iterative hanno rallegrato e tuttora rallegrano le serate trascorse in bisboccia nelle osterie. La forma che ha

avuto finora prevalenza, e che anzi, per molto tempo ha rappresentato

genericamente tutta la nostra poesia popolare è il canto lirico monostrofico, quello cioè, che racchiude in una sola strofa l’intero motivo

poetico ispiratore: un pensiero, un motto, un omaggio, o anche

un’arguzia o una satira dispettosa. I principali tipi sono: lo strambotto o

rispetto (detto anche canto nell’Italia settentrionale, canzuna in Sicilia e

sonetto altrove), lo stornello, la villotta friulana e il mutu sardo.

Lo “strambotto”

Si distingue per l’antichità, la diffusione orale e l’abbondanza di produzione. Esso è sempre in endecasillabi, ma si presenta in due

principali forme: a) lo strambotto siciliano, in otto versi a rima alterna e

spesso a consonanza; b) il rispetto toscano, in quartina a rima alterna, seguita in due riprese, che sono coppie di versi a rima baciata. Le

riprese più di due e in qualche caso formano una lunga coda, oppure

anche una sola. Nell’Italia settentrionale, lo strambotto può avere qualche variazione, specie nell’ordine delle rime. Sembra che lo

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strambotto sia nato in Sicilia già nel Duecento e si sia poi diffuso in

Italia, specialmente in Toscana, che nel Trecento e nei successivi secoli

ne fu uno dei principali centri di creazione e diffusione. Poi salì verso i più alti livelli della poesi d’arte e basti qui ricordare i nomi di Lorenzo De’

Medici e del Polinzano: del quale alcuni rispetti sono rimasti nella

tradizione orale fino a oggi, o almeno ieri. Anche nella secondà metà dell’Ottocento, se ne hanno espressivi echi nella poesi del Carducci e dei

suoi scolari, quali il Ferrari e Il Pascoli. Lo stesso volume zanichelliano

che riunisce tutte le poesie del Carducci si chiude con uno stornello: Fiore tricolore – tramontano le stelle in mezzo al mare – e si spengono i

canti entro al mio cuore.

Lo “stornello”

Certamente lo stornello è di agevole improvvisazione per chiunque, anche analfabeti, e la sua etimologia da estorn=combattimento, indica la

sua funzione originaria di canto a botta e risposta, usato specialmente

durante i lavori agricoli e le veglie. Si compone di tre versi, a rima alterna con consonanza atona, dei quali il primo può essere quinario (con

l’invocazione) o endecasillabo , mentre gli altri due sono sempre

endecasillabi: Quanno te guardo me pari ‘na stella: - senti ‘sto core mio come me bball: - più tt’ammiro, e ppiù mme pari bella.

L’invocazione più diffusa è quella di un fiore, ma si ricorre talora anche

ad altre, come: rama d’alloro, oh Dio del cielo, ggira ggirello, ecc. La diffusine dello stornello, le cui prime testimonianze risalgono al

Seicento, è intensa in tutta l’Italia centrale, specialmente a Roma e nel

Lazio: si va attenuando verso il Nord p verso le regioni meridionali, dove predomina lo strambotto.

La “villotta”

Mentre nel Veneto il termine villotta indica lo strambotto nelle forme già

da noi illustrate, in Friuli la villota, pur rappresentando il canto lirico monostrofico di quella regione, è una quartina di ottonari a rime (o

assonanze) alterne: a b a b, con i versi pari, di regola, tronchi e quelli

dispari anche non rimati tra loro. Ecco due esempi classici: 1. Altra volta fieri biele – Blanch’e rossa come un fiore – Ma ora no. Non son più biele

– Consumatis dall’amore (da De Musset).2.La rosade de la sere – Bagna

el fior del sentiment – La rosade del matine – Bagna el fior del pentiment (da G.C.Abba).

Anche per la villotta, non si può risalire più in su del Seicento, ma la

recente scoperta delle Karge mozarabiche del territorio romanzo risalenti ai secoli XI-XIII, che presentano affinità con la villotta friulana, può far

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pensare a origini più antiche.

Il “mutu”

E pure antica deve essere l’origine del canto lirico monostrofico sardo,

conosciuto col nome di mutu, o mutettu, o battorina (cioè quartina, da battor=quattro), consistente in una quartina di settenari a rima alterna a

b a b (anche a b b a): Su celu biancu biancu – promitti cilixia; - Su mali

pari mancu – po tenni cumpagnia; (Il cielo bianco promette nevischio; - il mal pare minore – se si ha compagnia). La quarta è poi divisa in due

parti: i primi due versi formano la isterria o isterrimenu (= stesura) e gli

altri due la torrada o cobertanza o coberimentu (=completamento). Una caratteristica che lì per lì può sorprendere è questa: che tra la isterria e

la cobertanza, non c’è, il più delle volte, nessun nesso logico. Questo

fenomeno, chiamato “incongruenza”, talora ha quasi il carattere di volo pindarico, per una lontana associazione fantastica dei due motivi.

Comunque l’incoerenza si trova anche nella poesia popolare di altri Paesi

mediterranei, come nei mani turchi. Oltre alla forma semplice, che abbiamo illustrato, il mutu presenta anche numerose variazioni metriche

(almeno una dozzina) specialmente sviluppando ciascun verso

dell’esterria con le cosiddette cambas (letteralmente gambe) che dan luogo a nuove piccole strofe. Nel complesso dei mutus è rispecchiata la

civiltà di varie epoche; vi prevalgono i ricordi dei corsari barbareschi, ma

vi compaiono anche accenni ad aspetti della civiltà moderna.

La canzone epico lirica

Ha una grandissima importanza e svolge a rapide battute, spesso in

forma di dialogo, episodi di avventura, d’amore, di guerra, con

prevalente carattere passionale e tragico. In Francia e in Inghilterra e

altri Paesi si chiama ballata, in spagnolo romance. Per lo più queste

canzoni sono monorime o a coppie di due versi assonanti fra loro, o a

terzine del tipo a b b. L’esempio forse più famoso e significativo è La donna lombarda che si

ispira all’episodio tragico di Rosmunda. Ma oltre a questa, molte altre

canzoni epico-liriche hanno goduto di larga popolarità, che dimostra loa loro tradizione secolare e la loro ampia diffusione. Ricorderemo la Finta

monacella, i Tre tamburini, Fior di tomba, Rinaldo, la Bella Cecilia, la

Pesca dell’agnello, la Pastora e il lupo, il Testamento dell’avvelenato, ecc. In base anche a nostre ricerche comparative possiamo affermare che per

la massima parte sono arrivate in Italia dalla Francia nel corso di almeno

cinque o sei secoli e hanno assunto il linguaggio delle regioni e talvolta anche la metrica di altre canzoni epico-liriche di sicura origine italiana.

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Questo è il casso di Roi Renaud, divenuta da noi Rinaldo e, in Abruzzo,

anche San Rinaldo, canzone medioevale forse già rielaborata in Francia

da ballate nordiche: mentre il Testamento dell’avvelenato richiama direttamente la ballata anglo-scozzese di Lord Randal. Di sicura origine

italiana, sono: Scibilia Nobili o la donna rapita dai corsari, Verde oliva e

conte Maggio, Il cognato traditore, e altre. Si è creduto per molto tempo che la diffusione della canzone epico-lirica

non arivasse più in là della Toscana e dell’Abbruzzo; ma recenti ricerche

ne hanno dimostrato l’esistenza anche nell’Italia meridionale, con abbondante numero di versioni.

Riguardo al problema cronologico, si sono stabiliti sicuri raffronti con

testi contenuti in codici e manoscritti dei secoli XV-XVIII. Ne può essere del tutto esclusa, anche se a un livello culturale e tecnico-

poetico un po’ più alto, la ricca produzione di cantari e di storie in ottave,

ispirata spesso ad analoghi motivi leggendari, sviluppatisi in Toscana e diffusa in Sicilia, fin dal Cinquecento, ad opera dei cantastorie. La

tradizione si è conservata, pur via via degradandosi, nei fogli volanti

dell’Ottocento e dei primi del Novecento.

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Articolo n.3: “Inchiesta sulla musica “di massa” e la musica

“popolare” - Una ricerca difficile”, Diego Carpitella

Da “Inchiesta sulla musica “di massa” e la musica “popolare” – Voci 2008.

Nel nostro precedente articolo, a conclusione di alcune considerazioni

sulla musica di massa e di “consumo”, ponevamo la differenza tra la

musica folkloristica “ricostruita” e la musica “popolare” propriamente detta: anzi aggiungevamo che fra di esse vi è una notevole differenza di

livello sociale, storico, ideologico.

La musica folkloristica “ricostruita” è quella dei complessi Enal, è quella “rurale” delle celebrazioni ufficiali, è quella che si crede, erroneamente

viva soltanto in osteria, è quella dell’immagine, tardiva e romantica, di

un popolo sempre “semplice e allegro”, è quella ricreativa-dopolavoristica,o dei concorsi nelle feste del patrono e del santo

protettore. Cioè, in altri termini, è una musica le cui antiche radici sono

popolari, ma che da tempo è stata convogliata, nella forma e nel contenuto, da un’ideologia e da un gusto che potremmo dire piccolo-

borghese (nel senso deteriore che a questo attributo si può dare).

La musica popolare, propriamente detta, è invece quella dei contadini, dei braccianti dei pastori, cioè è quel tipo di musica che ancora vive, sia

pure oggi in maniera discontinua, a un certo livello sociale.

Noi vorremmo dare in questo articolo un’immagine dell’ambiente diverso nel quale queste due musiche vivono: e lo vogliamo fare attraverso la

trascrizione del tipo di dialogo, che in Italia può accadere di ascoltare,

nel corso di una qualsiasi inchiesta sulla musica popolare. Cosa questa

che negli ultimi anni è avvenuta molto di frequente, a opera di alcuni

studiosi di folklore musicale, i quali armati di entusiasmo e di tenacia,

hanno raggiunto i paesi più lontani di quasi tutte le regioni italiane, per raccogliere e registrare su nastro magnetico, antiche canzoni popolari.

Come essi stessi ci hanno detto, in ogni paese, in ogni comune, in ogni

frazione, si ripresentava una situazione analoga: la quale mostrava, immediatamente, una divisione sociale in compartimenti, per cui un

certo livello della comunità (il piccolo impiegato, spesso il sindaco, il

farmacista, l’avvocato, spesso il maestro elementare, il parroco) ignorava il patrimonio popolare e tradizionale della campagna, che ancora

“resiste” a poca distanza, e che è conosciuto, invece, dalla guardia

municipale, dal venditore ambulante, dai contadini, dai braccianti, dai pastori, dalle donne.

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Noi abbiamo trascritto parte del dialogo che può avvenire tra alcuni

studiosi del folklore musicale, dapprima con i “notabili” del paese, e

successivamente con i veri e genuini “portatori di folklore”. 1°STUDIOSO:Buon giorno, sindaco: noi siamo due studiosi che stiamo

girando tutta la regione per raccogliere e registrare canzoni popolari. Ora

siamo qui, e siamo venuti da lei, perché pensiamo che ci potrà dare qualche utile indicazione.

SINDACO: Prego, mi dicano.

1°STUDIOSO: Ecco sa indicarci qualche posto del suo Comune, dove si cantano ancora vecchie canzoni paesane?

SINDACO (sorridendo): Ma qui non cantano più…

2°STUDIOSO: Ma come non cantano più…! Ma se negli altri paesi qui vicino, dove siamo stati, i contadini cantano ancora… Come può essere

che qui no?

SINDACO (con tono più deciso): No, qui non cantano sicuramente… GUARDIA COMUNALE(che interviene timidamente): I signori vogliono

dire…quei canti che si fanno durante la mietitura, sull’aia…a luglio e quelli

della vendemmia a settembre… SINDACO(quasi offeso): Ah, quelli! E che sono canti? Quelli li sapevano

un tempo soltanto i vecchi. Ora sono tutti morti. Non c’è più niente…

3°STUDIOSO: Ma può essere che nessuno dei giovani, dei contadini, delle donne non sappia più cantare le canzoni antiche, paesane, quelle

con la zampogna, l’organetto e il tamburello…

I “cacciatori” di canti

GUARDIA COMUNALE (ancora più timidamente): E come no? C’è un certo Giuseppe Amatore, che quando si mette a cantare non finisce più…

(Entrano a questo punto nell’ufficio del sindaco, il farmacista, un

grossista di agrumi e proprietario terriero, il parroco. I due studiosi sono

presentati).

SINDACO: Questi due signori sono venuti a cercare cose strane. Sapete

che cosa? Antiche canzoni paesane… (Il farmacista, il commerciante e il parroco sorridono bonariamente,

quasi con commiserazione).

IL COMMERCIANTE (quasi urlando): Ma quelle canzoni non ci sono. E poi sono tutte brutte…

1° STUDIOSO (irritato): Ma come, la guardia comunale ci ha detto che in

una frazione del Comune, alle falde della montagna, si canta ancora…! COMMERCIANTE (guardando con un certo disprezzo la guardia

comunale) : Ma che cantano…Quelli gridano! Sembrano africani! (il

parroco e il farmacista ridono). IL PARROCO: Vedono signori: quella che voi cercate non è musica. Solo

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in parrocchia si incominciano a insegnare le canzonette…

2°STUDIOSO (interrompendo seccato): Non vogliamo né canzonette né

canzoni di Chiesa: vogliamo solo canzoni popolari, quelle che sanno i contadini quando lavorano o i pastori quando accompagnano le bestie…

Quelle che sanno le donne o qualche vecchio…

IL PARROCO (continuando): C’è Don Clementino che li prepara. Se verrete tra dieci giorni alla festa del Patrono, potrete ascoltarli. Anche

quando sono venuti quelli della Radio… la Radiosquadra…li hanno presi e

trasmessi… 2°STUDIOSO (fuori di sé, innervosito): Ma noi non siamo la

radiosquadra: noi vogliamo canzoni genuine. Di contadini, di pastori, di

lavoro, le canzoni a sfottimento, in dialetto… COMMERCIANTE (con tono falsamente moralistico): Ma poi in queste

canzoni dicono delle cose senza senso e anche poco pulite…

1°STUDIOSO (secco): Non c’è ne importa: a noi ci interessa studiarle… Sono interessanti anche così…

COMMERCIANTE (proseguendo, con tono enfatico): Eh, sono finiti i bei

tempi: quando c’era il fascismo, il dopolavoro, e si organizzavano gruppi che andavano a Roma e cantavano dinanzi al Duce…

2°STUDIOSO (paonazzo): Noi vogliamo il dopolavoro, né l’Enal. Quelle

non sono canzoni popolari, non è quello che cerchiamo noi. (Poi rivolgendosi repentinamente verso la Guardia Comunale, che ormai

sembra aver preso coraggio) Noi veniamo con voi: indicateci questa

frazione dove cantano ancora… sul campo. FARMACISTA (interrompendo e rivolgendosi al fotografo che accompagna

i due “cacciatori” di canzoni popolari). Se vuole faccio prendere a mia

figlia, il vestito paesano, da sotto la naftalina, così può fare una bella fotografia. C’è anche la figlia di Don Fernando (il commerciante).

Beviamo un bicchierino e poi andiamo a mangiare. Eh, che ve ne

sembra?

1°STUDIOSO (ormai esasperato): Noi vogliamo canzoni popolari. (Poi

prende sottobraccio la Guardia Comunale e gli dice: andiamo presto).

GUARDIA COMUNALE (rivolto verso il Sindaco, che insieme al farmacista, il parroco e il commerciante, guarda ormai rassegnato): Posso andare?

SINDACO: Vai, vai…

I due studiosi escono e cominciano a parlare con la Guardia Comunale, alla quale si sono aggregati una donnetta che da circa un anno protesta

presso l’Ente di Assistenza comunale, e che abita in una frazione vicina,

e con lei un venditore ambulante. 1° STUDIOSO (verso la Guardia Comunale, e cercando di coinvolgere gli

altri due). Ecco noi vogliamo andare in una casa di contadini . Questa

sera quando tornano dal lavoro, li riuniamo in una casa… Ecco, in quella di Giuseppe Amatore. Allora gli chiederemo i canti dell’aia, gli stornelli, i

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saltarelli… e alle donne le ninne-nanne.

VENDITORE AMBULANTE (ormai entusiasmato): Ah, quelle sì che ne

sanno di canzoni belle!!! Certe volte d’estate, si mettono a cantare alle dieci di sera e non la finiscono fino a mezzanotte…

LA DONNA (anche lei con gli occhi lucidi): Poi ci sono i canti delle ulive e

quelli per la raccolta delle castagne… I due studiosi imbarcano i loro nuovi amici nella macchina e rapidamente

vanno verso la frazione che è alle falde della montagna. Appena arrivati

si forma un circolo di curiosi. Ma qui, i due studiosi, lasciano “lavorare” i loro amici.

GUARDIA COMUNALE: Chiamate Maria… quella che canta alla mietitura…

E poi c’è don Antonio… quello della zampogna… sì, fa certe “pastorali”… IL VENDITORE AMBULANTE: E Giuseppina e Adele, quelle che cantano

sempre quando fanno le ulive… Ah buono… Chiamate Sor Vincenzo così

ci facciamo una tarantella…! Si è ormai creato il clima. I due cacciatori di canti tirano fuori i loro

libretti e cominciano a segnare i titoli che la sera chiederanno. Poi

prendono altre notizie riguardanti l’ambiente, e la società in cui queste ancora vivono. La moglie di uno dei due studiosi, parla con le donne:

dopo un’ora sa vita e miracoli del paese, cioè superstizioni e spesso

fatture d’amore. Il fotografo, scatta centinaia di fotografie. La sera, in uno stanzone con il camino, con una trentina di persone in

piedi, con il magnetofono che deve registrare e l’asta del microfono che

domina la stanza, cominciano ad arrivare i “divi” di questa musica popolare: sono contadini, braccianti, pastori, piccoli proprietari, donne,

gente che ha lavorato tutto il giorno sul campo. Ma sono venuti lo

stesso: li hanno convinti a cantare vecchie canzoni paesane, a questi due strani signori, che poi subito dopo averle incise, gliele faranno ascoltare.

Dopo un po’ di diffidenza, l’aria si scioglie: fino a mezzanotte verranno

fuori tarantelle, saltarelli, canzoni di lavoro, ottave rime, ballarelle,

serenate, ninne-nanne, e qualche volta anche il lamento per il morto.

Amichevole conclusione

Spesso non si ha il tempo di ripassare dal Sindaco che insieme al

farmacista, al parroco e al commerciante, ha atteso che i due cacciatori di canzoni tornassero sconfitti. Ma qualche volta si ripassa dal Comune,

per uno spirito di vendetta. E allora il dialogo è questo.

SINDACO: E così che avete preso? 1° STUDIOSO: Abbiamo raccolto un sacco di canzoni…!

SINDACO (perplesso e meravigliato): Brutte, no?

1° STUDIOSO: Brutte? Ma no: alcune sono anche belle… SINDACO: E vi piacciono?

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1° STUDIOSO: Non è che piacciono o no: noi le studiamo.

SINDACO (anche lui un po’ entusiasmato): E avete raccolto anche <<Tu

vieni, sei come la neve>>? 1° STUDIOSO: Sì, anche quella. Non è delle più antiche: ma è

interessante lo stesso.

SINDACO (un po’ pentito): Beh, tornate un’altra volta. Verrò anche io con voi. C’è mia sorella, che pure lei ne sa di canzoni antiche…

1° STUDIOSO: Va bene, se possiamo, torneremo. Grazie…

Arriva il Parroco, ansimante: Don Clementino ha preparato per domani, il gruppo delle signorine e dei giovanotti. Canteremo qualche canzone

alpina (La montanara), e qualcuna di S. Remo e poi l’inno di S.

Bellarmino… 1° STUDIOSO (gentile, ma deciso): No grazie, abbiamo già raccolto le

canzoni popolari tra i contadini. Quelle di Don Clementino vanno bene

per l’ora del dilettante. Rimontano sulla macchina, ormai hanno in paese degli amici. Qualcuno

ha dato loro una lettera per la città e qualche altro si è raccomandato di

andare dall’avvocato, per una causa che dura da almeno dieci anni. Faranno questi piaceri: è un modo di ricambiare il lavoro che hanno

prestato i “portatori” di folklore.

Noi abbiamo riportato, anzi trascritto fedelmente, questa situazione per rendere più vivo l’ambiente e il modo in cui hanno lavorato in questi

ultimi anni gli studiosi di folklore musicale in Italia. Nel prossimo articolo,

cercheremo di spiegare perché questa musica popolare, propriamente detta, resiste ancora al tempo, e il modo in cui essa va vista nel quadro

dell’odierna società e cultura italiana.

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Articolo n.4: “Il dissolversi della tradizione”, Diego

Carpitella

Da “Inchiesta sulla musica “di massa” e la musica “popolare” – Voci 2008.

Si potrebbe scrivere un libro sulle ragioni del perché la musica popolare arcaica, - cioè quella degli stornelli, dell’aia, dei carrettieri e dei minatori,

dei pastori e alla boara – abbia potuto rimanere ancora viva in molte

zone: sarebbe una storia della società italiana e delle sue lente trasformazioni.

E la radio, la televisione, le canzonette che influenza hanno in questo

processo di dissolvimento? In genere nei congressi di folklore che si sono avuti in questi ultimi 50 anni, sono state fatte dichiarazioni apocalittiche

secondo cui la radio demolirebbe la musica popolare giorno per giorno, e

così le canzonette. A un certo punto è sembrato che la presenza di un apparecchio radio potesse trasformare immediatamente e

automaticamente la vita culturale di una comunità contadina o pastorale.

Ma anche questa è una grossa ingenuità. Infatti il patrimonio musicale tradizionale ha tali radici storiche e sociali, per cui un apparecchio-radio

o la corsa di una corriera, rimangono “estranei”a quel mondo culturale.

Può più certe volte, la morte di un leader, sia esso contadino o pastore, a dissolvere una tradizione.

Non c’è dubbio a ogni modo che in Italia la musica popolare si presenti in

modo continuo soprattutto nelle regioni centro-meridionali e nelle isole. Il processo di industrializzazione, le strade, l’organizzazione del folklore

“ricostruito” (corali, associazioni, ecc.) hanno minato la tradizione di

base; tuttavia, cercando bene, nella zona alpina, in alcune contrade del

Veneto, del Piemonte, della Liguria o dell’Emilia-Romagna, si rinvengono

forme arcaiche, vive e insospettate. In altri termini non è possibile

stabilire un nesso di causa ed effetto, tra strade-industrializzazione-radio, e dissolvimento del patrimonio musicale tradizionale. E viceversa.

Uno dei fatti più interessanti relativo alla musica popolare, in Italia, è

avvenuto durante il fascismo. Com’è noto bisognava “andare verso il popolo”, e in questo senso gli studi delle tradizioni popolari, o almeno la

loro conservazione, avrebbero dovuto avere un grande sviluppo. E invece

si può affermare che, se si escludono alcuni aspetti di carattere universitario-scentifico, è stato il periodo più negativo, dilettantesco, e

“rurale”. Perché è avvenuto tutto questo? La risposta è in un certo senso

semplice: perché il folklore “arcaico” e di base, quello delle classi sociali cosiddette “subalterne”, fa paura sia dal punto di vista estetico che da

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quello ideologico-sociologico: i canti strazianti del carrettiere e del

minatore siciliani, la voce “terrosa” del pastore sardo e calabrese; la

monotona uniformità di una canzone alla boara romagnola, l’agghiacciante melopea di un lamento funebre lucano e tante altre cose,

sono quella che si chiama una “denuncia”. Ecco perché i gruppi

dominanti tentano a tutti i costi di rendere “piacevole” questo folklore, più o meno alternandolo (è in parte il criterio della radio o del cinema

commerciale; a meno che non si tratti di trasmissioni culturali limitare

però a un numero limitato di persone). Ma un altro fatto interessante da osservare in Italia è il seguente: la

musica popolare arcaica che funzione può avere nella contemporanea

cultura italiana? Può essere uno stimolo e un punto di riferimento per delle creazioni artistiche colte? Il problema è difficile. L’Italiaè anzitutto il

paese dove la cultura non è diventata “nazionale” a un italiano, questi

rimane dapprima perplesso, e quindi sfodera o le canzoni alpine (cioè la canzone divenuta nazionale e di massa dopo la prima guerra mondale)

oppure le canzoni napoletane (cioè quella canzone popolaresca, che con

gli spaghetti e gli Al Capone, è stata senza dubbio uno degli oggetti più esportati). Da ciò ne deriva il problema del regionalismo: cioè le melodie

popolari italiane rimangono legate, in genere,a dei confini regionali e

locali ben precisi. Non circolano.

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Articolo n. 5: “Artigiano e artista – Il mondo dell’opera verso

il 1840”, Gilles de Van dal libro Verdi. Un teatro in musica - La Nuova Italia - 1994 Le condizioni in cui un creatore esercita il proprio mestiere e l’immagine dell’artista che la società gli propone hanno un’evidente incidenza sulla

pratica e sull’idea che egli si fa della propria arte; ciò vale ancora di più

nel caso dell’opera lirica, che dipende strettamente dalla maniera in cui viene realizzata e può rivelarsi un successo o un fiasco a seconda che i

numerosi addetti ai lavori si intendano o meno. Già questo basterebbe a

giustificare un accenno, anche rapido, al mondo dell’opera così come si presentava quando debuttò il nostro musicista. Verdi, però, è un caso a

parte: egli ha conosciuto non soltanto due Italie, due tipi di società, ma

due civiltà musicali, due modi di fare assai differenti e la storia della sua carriera è quella di un passaggio dalla concezione “artigianale” del

musicista alla figura moderna dell’artista. L’Italia, che intorno al 1840

vede esordire Verdi, era ancora soltanto un’ “espressione geografica”, spezzettata in vari Stati, e le sue velleità di indipendenza, limitate a una

frangia abbastanza ristretta della popolazione, erano sorvegliate da

vicino dai governi legittimi restaurati dal Congresso di Vienna. Era un paese relativamente povero, la cui ricchezza derivava soprattutto

dall’agricoltura, anche se non si può parlare di una civiltà rurale- almeno

per quanto riguarda il Nord e il Centro, regioni cardinali dell’attività di Verdi - a causa del gran numero di città e cittadine che favorivano una

civiltà di tipo essenzialmente urbano. Le città avevano comunque

dimensioni minori rispetto alle metropoli europee: Firenze, Venezia e Milano contavano fra i 100 e 150.000 abitanti verso il 1840, quando

Vienna ne contava 500.000 nel 1848, Parigi 1.500.000 e Londra

2.500.000. La società era molto gerarchizzata e dominata da una classe dirigente formata dall’aristocrazia e, nel Nord in particolare, dall’alta

borghesia. L’opera lirica resta il principale divertimento di quel mondo provinciale e diviso in piccoli stati, e se il prestigio della Scala di Milano,

della Fenice di Venezia, della Pergola di Firenze o del San Carlo di Napoli

oltrepassa le frontiere, questi teatri non sono che le gemme di una cultura che penetra fin nelle più piccole cittadine. Fra il 1820 e il 1850 si

assiste a uno sviluppo considerevole dell’attività lirica, che coincide con

la scomparsa delle vecchie corti e l’affermazione di una nuova classe dominante costituita da mercanti e proprietari terrieri spesso di

estrazione borghese. Il nuovo ambiente sociale incoraggia

l’organizzazione di spettacoli a carattere laico e municipale nei teatri in

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comproprietà e nelle società filarmoniche. Sarebbe un errore, tuttavia,

valutare la popolarità dell’opera sulla base unicamente dei suoi effetti

diretti, senza tener conto della sua “riverberazione”, cioè di quei “ripetitori” grazie ai quali penetrava nella vita quotidiana. Certo, la

pratica di uno strumento, la consuetudine di cantare le arie alla moda nei

salotti, riguardava soprattutto l’aristocrazia e la borghesia, ma non era lo stesso per le società filarmoniche, numerosissime nella pianura padana.

Costituite in gran numero a partire dal 1810, queste società o bande

avevano favorito lo studio della musica negli ambienti borghesi e artigiani. Vi partecipavano musicisti dilettanti di diversa estrazione: uno

era tintore, l’altro chirurgo, parrucchiere, sarto, commesso viaggiatore,

conciatore, chincagliere, negoziante, ecc. Il repertorio di queste società filarmoniche comprendeva, in proporzioni schiaccianti, adattamenti di

pezzi lirici contemporanei, arie, concertati, ouvertures di Rossini, Bellini,

Donizetti, Coccia, Per, ecc. Celeberrima fra le bande era quella di Busseto, posta nel 1820 sotto la responsabilità di Ferdinando Provesi,

che insegnò la musica a Busseto, ebbe il compito di dirigere la banda e di

comporre diversi brani per le sue “accademie vocali e strumentali”. L’opera è di fatto uno spettacolo estremamente fragile: la prima donna

viene sostituita da un supplente poco convincente, un rumore incongruo

turba lo slancio di un cantante, la messinscena è approssimativa, ed è l’ilarità generale; nel secolo scorso poteva finire in un gran baccano, una

sommossa con l’intervento della polizia e la chiusura del teatro!

L’integrità di un’opera d’arte non aveva gran peso davanti a tali contingenze e le manipolazioni cui si procedeva per assicurare il successo

sono note abbastanza da rendere inutile entrare nei dettagli: un

personaggio veniva aggiunto o soppresso, si mettevano insieme arie o atti di opere diverse, e gli artisti non potevano fare altro che deplorarlo.

Nel 1857 Verdi nota con indignazione che i fratelli Marzi, impresari al

teatro di Reggio Emilia, hanno permesso che un’aria della Lucia di

Lammermoor fosse inserita nel Simon Boccanegra; va di nuovo su tutte

le furie quando nella medesima città, nel 1874, una cantante intercala

pezzi dagli Ugonotti e dal Macbeth nel Don Carlos!

La fine di un’epoca d’oro

Questo periodo, ritenuto come un’epoca d’oro per l’opera, finisce con le

rivoluzioni del 1848. Fra l’agosto del 1848 e il 1850 le rivoluzioni sono sedate ovunque e la repressione è durissima: Milano diventa una vera e

propria caserma dove non si osa più uscire, i milanesi sospetti di

liberalismo emigrano in Piemonte o in Svizzera. La repressione si estende a tutto il Lombardo-Veneto ed è ancora molto feroce nel 1853. Se questo

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momento non fa che esacerbare i sentimenti di rivolta degli italiani e

attizzare il loro nazionalismo, se innesta il processo politico che porterà

dieci anni dopo all’unità del paese, pesa gravemente sulla vita teatrale: la censura si scatena e l’aumento progressivo dei costi durante il periodo

aureo fa sì che i teatri non siano più in grado di offrire i cachet che

proponevano alcuni anni prima. La sorte dei teatri migliorò dopo il 1853, ma essi non ritrovarono più del tutto fisionomia precedente al 1848: a

poco a poco l’opera cessò di essere quel centro sociale che era stato e il

processo di unificazione del paese mise in crisi l’organizzazione municipale e aristocratica su cui si fondava l’attività lirica delle diverse

città italiane. a partire dall’Unità il lento cedimento del sistema sociale su

cui poggiava l’opera, le reticenze del governo centrale a sovvenzionare i teatri, come se la sovvenzione fosse stata un resto dei vecchi Stati

scomparsi, gli attacchi dei partiti di sinistra contro gli spettacoli destinati

solo a un esiguo numero di privilegiati, la tendenza del potere centrale ad affidare queste incombenze ai comuni che non sempre disponevano di

un bilancio sufficiente, un minore interesse per l’opera, le esigenze

crescenti per la realizzazione delle opere come il vertiginoso aumento dei cachet dei cantanti il cui mercato si era esteso ai cinque continenti, tutto

ciò spiega la precarietà della vita costretti a chiudere provvisoriamente le

loro porte; i teatri di città un tempo capitali di Stato soffrono ancora di più di questa situazione (al Teatro Regio di Parma, si danno 35 spettacoli

all’anno fra il 1879 e il 1929 contro 70 fra il 1829 e il 1859); quanto a

quelli dei piccoli centri, delle città fieristiche come Senigallia, Rimini, Pesaro, essi si avviano a lenta morte.

Un lungo percorso

Verdi comincia la sua carriera in condizioni più o meno analoghe a quelle

dei suoi predecessori, Rossini, Bellini o Donizetti; la finisce da Giove

dell’Olimpo musicale e riesce, in quasi tutti i campi,a imporre la sua

volontà. I suoi rapporti con il mondo dello spettacolo sono, in effetti,

complessi: il sistema trovato al suo esordio, in cui il musicista era un impiegato a tempo determinato di un teatro, lasciava all’artista un

margine ridotto di libertà. Se non voleva subire questa situazione , aveva

solo due alternative: creare un sistema proprio, come farà Wagner in un contesto, però, del tutto differente, o, a forza di tenacia, conquistare un

potere che gli permettesse di trattare con i teatri in posizione di forza.

È la soluzione che sceglie Verdi. Questa conquista, favorita dalle circostanze, manifesta tuttavia il desiderio di affrancare il creatore dalla

tutela del teatro e di far riconoscere la sua autonomia di “libero

professionista” più che un’ideologia di rottura fondata su una visione demiurgica dell’artista. Anche i suoi rapporti spesso autoritari con i teatri

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rivelano in qual misura un compositore d’opera, secondo le sue

concezioni, sia un uomo di teatro perfettamente consapevole che il

successo di un’opera non può basarsi sulla sola qualità della partitura, ma esige il controllo di tutte le dimensioni della realizzazione scenica. La

tecnica di Verdi è semplice: fin dall’inizio tratta i suoi affari di persona,

senza far ricorso a intermediari quali gli agenti teatrali ( a ragione Rosselli nota un fatto significativo: capita spesso che egli rifiuti

l’ospitalità degli impresari, preferendo alloggiare in albergo); li tratta nel

suo stile franco, spedito, che va al sodo senza troppe precauzioni retoriche. Non manca d’astuzia e minaccia sovente di rompere le

trattative, anche a costo di tornare indietro quando si è mostrato troppo

brusco. Ogni esigenza è immediatamente tradotta in termini contrattuali che gli permettano, se necessario, di far valere i propri diritti.

Se il compositore non intende lasciarsi imporre una “compagnia di

canto”, si può ben immaginare come intenda ancor meno che un cantante gli detti legge: dalla spassosa scena nel giugno 1844, che ci

descrive Muzio, durante la quale oppone un fermo rifiuto alle istanze di

una cantante che domandava un ruolo nei Due Foscari fino alle dispute con Maurel all’epoca di Falstaff,darà sempre prova di un’intransigenza

che viene fuori nettamente in questa sortita del 1856 in cui rifiuta di

considerare che il ruolo di Cordelia (nel Re Lear) tocchi di diritto a Rosina Penco: “ È nelle mie abitudini di non lasciarmi imporre nessun artista,

tornasse al mondo la Malibran. Tutto l’oro del mondo non mi farebbe

rinunciare a questo principio. Io ho tutta la stima del talento della Penco, ma non voglio ch’ella possa dirmi:Signor Maestro, datemi la parte della

vostra Opera, la voglio, ne ho il diritto!” ”.

Il rifiuto di sottomettersi ai dettami dei cantanti, in quanto individui in possesso di uno strumento specifico, con punti forti e deboli, può

condurre a dissociare la voce di un ruolo, così come è stato creato in

astratto dal compositore, dagli interpreti che ne assicurano la

realizzazione. Tali indicazioni provano esplicitamente la volontà di Verdi

di dissociare l’opera artistica dalle condizioni più o meno aleatorie della

sua esecuzione.

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Articolo n. 6: “La canzone d’autore italiana”, Francesco

Troiano

dal sito www.italica.rai.it

"Una mattina mi sveglio e dico a mia moglie: ma guarda che bella

giornata! Mimmo, fa lei, mi pare che stia piovendo. Io sentivo crescere

dentro di me una grande felicità. Mi metto al pianoforte e comincio a

cantare "Nel blu, dipinto di blu". D'improvviso provo l'impulso di andare

alla finestra (la nostra casa stava allora in piazza cardinal Consalvo, a

Ponte Milvio) e lancio un grido potentissimo, spalancando le braccia, come chi stia per spiccare il volo: 'Voo-laa-ree'. Ecco, quel che

mancava!". Se sia questa la genesi del brano più noto nella musica

leggera italiana - secondo solo, nella classifica delle maggiori vendite d'ogni tempo, a "White Christmas" di Bing Crosby - è difficile da stabilire

(il coautore Franco Migliacci, ad esempio, dice che l'idea nacque invece

guardando una tela di Marc Chagall, probabilmente "Le coq rouge"): è certo, in ogni caso, che "Nel blu, dipinto di blu" irruppe nell'asfittico

scenario della canzone indigena come un ciclone, facendo piazza pulita di

un universo popolato da rime cuore-amore, madri adorate, vecchi scarponi e simili amenità. Quando, nell'edizione 1958 del festival di

Sanremo, il giovane cantante-autore (eh sì, la fortunata parolina

"cantautore" non era stata ancora inventata) Domenico Modugno presentò la sua composizione, pochi si accorsero - tra questi,

pare, il giornalista Casalbore - di avere di fronte qualcosa che avrebbe

provocato una rivoluzione nell' universo delle sette note nostrane. Al termine dell'esecuzione (resa memorabile pure dal gesto del cantante,

che spalancò le braccia al momento del ritornello, infrangendo le

inamidate tradizioni di postura canora dell'epoca), il pubblico dimostrò un incontenibile entusiasmo da subito trasformatosi in un enorme successo

di vendita: oltre ottocentomila copie, numeri allora inimmaginabili per il

business canterino. Cosa ancora più importante, "Volare" - è così che il pezzo è conosciuto sul mercato internazionale - condensò al meglio

quanto di nuovo avanzava nello scenario musicale del periodo. E' appena

il caso di ricordare, infatti, che altro si andava muovendo in quei giorni inquieti: nel gennaio del '58 un talentoso sconosciuto, Tony Dallara,

aveva esordito con lo strepitoso successo di "Come prima",

guadagnandosi la qualifica di primo "urlatore" di casa nostra; un giovanissimo Celentano si era presentato, tra il '57 ed il '58, quale

interprete autarchico delle nuovissime tendenze musicali, con il brano-

manifesto "Il tuo bacio è come un rock"; pochi mesi dopo, sarebbe

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arrivata alla ribalta Mina, capace di suscitare un grande entusiasmo con

una versione isterica e terzinata di "Nessuno", tipica melodia degli anni

'50, mentre oramai da un paio d'anni Fred Buscaglione raccontava - con la collaborazione di Leo Chiosso - storie alla Damon Runyon intinte

d'inimitabile ironia (valga per tutte la strepitosa "Che bambola!")

e Peppino Di Capri rileggeva in chiave contemporanea i classici della canzone napoletana, da "Voce 'e notte" a "Piscatore 'e Pusilleco".

Insomma i tempi stavano per cambiare, giusto come avrebbe

profetizzato anni più tardi un geniale menestrello d'oltre oceano: a mettere il sigillo sui mutamenti, giungono poi un gruppo d'amici, quasi

tutti originari di Genova, a parlare d'amore e d'altro in termini assai

diversi dal consueto. Nasce così il termine "cantautore" (la cui invenzione è, da varie fonti, attribuita al discografico Nanni Ricordi), a

indicare una figura di musicista-intellettuale ben calzante ai principali

rappresentanti della categoria: Gino Paoli era difatti un pittore, Piero Ciampi un poeta, Luigi Tenco e Bruno Lauzi validi studenti universitari.

Assieme all'apripista Umberto Bindi - che aveva di già firmato cose

mirabili, quali "Arrivederci" (1959) ed "Il nostro concerto"(1960) - essi danno vita alla cosiddetta "scuola genovese": poeti in musica che

guardano a Brassens ed a Brel (segnatamente il più dotato di

tutti, Fabrizio De André), ma anche a Saba e Pavese. Quando Tenco intona, con voce malinconica, "mi sono innamorato di te/ perché non

avevo niente da fare", depura l'amore d'ogni scoria e nel contempo si fa

cantore di un malessere diffuso, d'una insoddisfazione pei miti del benessere e del consumo che troverà compiuta espressione solo nel

ribollente '68: per adesso, si assiste solo ad un dolente ripiegamento

(Tenco si toglierà la vita nel '67, Paoli aveva tentato di farlo nel '63), si prova la sensazione straziante che "un giorno dopo l'altro/ la vita se ne

va/ e la speranza ormai/ è un'abitudine". E', questo, il momento più

felice della canzone d'autore nostrana, di cui ci proponiamo di illustrare -

attraverso una serie di biografie suddivise per tema dei suoi protagonisti

e l'esame dei loro principali lavori discografici - evoluzione e sviluppo

sino ai giorni nostri. Dai capostipiti - quali Gaber e Jannacci - a quelli prossimi alla tradizione folk, come Giovanna Marini e la Nuova

Compagnia di Canto Popolare; dai principali esponenti del pop

(Ligabue, Gianna Nannini, Vasco Rossi,Zucchero) ai complessi più significativi (Banco Mutuo Soccorso, Nomadi, Orme, Premiata

Forneria Marconi); dai menestrelli & ribelli - si va da Ricky

Gianco fino a Vinicio Capossela - ai cantautori che ancora oggi ci accompagnano (Francesco De Gregori, Paolo Conte, Francesco

Guccini, Ivano Fossati), senza trascurare interpreti del calibro

di Mina ed Ornella Vanoni, il nostro lavoro vuole essere un contributo - senza pretese di esaustività - alla conoscenza d'una parte non

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secondaria della storia musicale tricolore ed un omaggio ad un'arte

povera - combinare parole e musica con la pretesa che non siano "solo

canzonette", a voler smentire per celia Edoardo Bennato - che pure affascinò tanti letterati illustri, iniziando da Pier Paolo

Pasolini ("quanto a me, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe

applicare dei versi a una bella musica, tango o samba che sia").

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Articolo n.7: “La musica etnica”, Sandro Biagiola

Dal libro “La musica etnica” – Forcom - Roma 1998

Occasioni esecutive e funzioni

I nessi e le interazioni tra la musica e gli altri eventi culturali (cerimonie,

riti, feste ecc.) hanno indotto molti studiosi a classificare i repertori

musicali in base alle occasioni temporali in cui essi si manifestano. Un criterio tassonomico ampiamente utilizzato è quello che tiene conto del

cosiddetto ciclo della vita, dalla nascita alla morte. Secondo tale criterio

si distinguono ad esempio musiche connesse al periodo infantile (ninne nanne, giochi e filastrocche cantate dagli adulti per i bambini; giochi e

filastrocche eseguite dai bambini stessi), al periodo di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza (musiche per i rituali di iniziazione), al ma-

trimonio, alla morte (lamenti funebri). Questo criterio è generalmente

integrato prendendo in considerazione il ciclo dell’anno, cioè tutte le occasioni festive e lavorative calendariali (feste religiose, raccolto ecc.) in

cui si esegue musica. Si individuano in tal modo le musiche eseguite nei

diversi periodi del calendario agricolo (ad esempio i canti di mietitura o di vendemmia) o le musiche specifiche per le principali feste di periodicità

annuale (come il Natale, la Pasqua e le feste dei santi patroni, nelle

società a religione cattolica). Non tutti i tipi di musiche rientrano tuttavia negli schemi descritti e vi sono inoltre numerosi brani musicali, definiti

‘ad occasione indeterminata’, che non sono connessi a particolari oc-

casioni temporali ma possono essere eseguiti in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, a discrezione dell’esecutore. […]

Musica e rito

Per valutare il rapporto tra la musica e il contesto culturale ha particolare

rilievo lo studio dei rituali religiosi, in cui la musica svolge spesso un ruolo determinante. Un esempio significativo in tal senso, anche per

l’importanza che ha avuto negli studi etnomusicologici italiani, è il

tarantismo pugliese, un rituale di possessione, oggi scomparso, in cui la musica e la danza sono elementi essenziali. Il tarantismo è stato studiato

da Ernesto De Martino e Diego Carpitella in La terra del rimorso (De

Martino, 1961; v. Gli studi etnomusicologici in Italia); successivamente l’argomento è stato ripreso da Gilbert Rouget nel volume Musica e

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trance, ampio lavoro sul rapporto tra la musica e i fenomeni di

possessione (1986, ed. originale 1980).

La ricerca sul tarantismo, diretta da De Martino, si svolse nel 1959 in alcuni paesi della provincia di Lecce (Nardò, Galatina, Cutrofiano,

Galàtone ecc.). Il rituale, secondo le informazioni raccolte nei paesi e le

osservazioni fatte, si configurava nel modo seguente. Lo scopo del rito era chiaramente terapeutico, quello cioè di favorire la guarigione di una

persona che si riteneva morsa e posseduta da una ragno, la ‘taranta’ (da

cui tarantismo); il morso, presunto o reale, causava nella vittima, il ‘tarantato’, manifestazioni di tipo apparentemente isterico (caduta al

suolo, agitazione psicomotoria, angoscia, dolori muscolari, vomito ecc.).

L’evento rituale si svolgeva in una stanza del domicilio del tarantato, in uno spazio cerimoniale delimitato da un lenzuolo e alla presenza dei

familiari e di altri abitanti del paese. Qui venivano invitati alcuni musicisti

specializzati (di solito quattro suonatori: di violino, chitarra, organetto, tamburello) che eseguivano specifici brani strumentali, inducendo la

persona colpita dal ragno a danzare nello spazio cerimoniale. La danza

(pizzica tarantata) si articolava in una fase al suolo, in cui il tarantato si identificava con il ragno e ne mimava i movimenti, e in una fase in piedi,

caratterizzata da moduli coreutici che evidenziavano la lotta tra la vittima

posseduta e il ragno e che si concludevano con la caduta a terra. Il ciclo coreutico veniva quindi ripetuto fino alla guarigione che avveniva con

l’ausilio di San Paolo, protettore dei tarantati. L’evento appariva come

una manifestazione religiosa sincretistica, tipica della cultura popolare, con connotazioni cristiane accanto ad elementi rituali diversi, riscontrabili

in altre religioni mediterranee o nel mondo antico.

Il significato del rito fu interpretato da De Martino con criteri storico-religiosi e psicologici. Fu subito evidente che il morso del ragno, presunto

o reale inizialmente, era comunque simbolico, in quanto la crisi e il

rituale, dopo la prima evenienza, si ripetevano con periodicità annuale,

tra maggio e agosto; le persone colpite inoltre erano in prevalenza di

sesso femminile e di ceto contadino. Il morso della taranta costituiva cioè

un evento simbolico e mitico, culturalmente definito, in cui far confluire le diverse crisi esistenziali (nel periodo della pubertà, in seguito a

conflitti familiari, a malattie ecc.) al fine di superarle con un rituale so-

cializzato e mediante un ‘esorcismo coreutico-musicale’. «Anche il tema simbolico del morso che torna in successive stagioni rituali acquista qui il

significato di un ordine culturale chiamato a disciplinare un ‘ritorno’ che

altrimenti potrebbe esplodere in un qualsiasi momento del tempo, assumendo tutti i caratteri antisociali della crisi individuale senza

orizzonte» (De Martino, 1961, p. 63). La ‘taranta’ va intesa quindi come

animale mitico che può prendere possesso di una persona in modo analogo alle divinità, più chiaramente definite, di altri culti di possessione

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(come ad esempio nel vodu haitiano). I moduli coreutico-musicali impie-

gati nella fase risolutiva e terapeutica del tarantismo hanno

un’importanza fondamentale. «Modulo coreutico-musicale significa tecnica protettiva in un quadro magico-religioso; significa anche

protezione dalla crisi mediante modelli tradizionalizzati di gesti, di suoni,

di figure, di ritmi e di melodie; significa soprattutto fedeltà culturale a tali modelli che funzionano come strumenti di evocazione e di controllo

socialmente ammessi e operanti ogni volta che si profila la crisi del ta-

rantismo. Crisi, ritmo, melodia, mimica e risoluzione terapeutica stanno nel tarantismo in connessione organica, o - se si vuole - come dramma

che da una lacerazione iniziale viene conquistando il suo proprio

scioglimento. In particolare il rapporto fra crisi e suoni assume uno spic-cato carattere di reciprocità, nel senso che il tarantato in crisi richiede ‘i

suoni’ e d’altra parte ‘i suoni’ possono far precipitare una crisi latente e

immettere nella vicenda terapeutica. Inoltre nel tarantismo i moduli musicali tradizionalizzati sono strettamente associati ai corrispondenti

moduli coreutici, e il loro ritmo richiama con tanta immediatezza e psico-

logica necessità la esigenza di una ginnastica ordinata, che si deve parlare di un sistema unitario, di cui solo per astrazione temporanea è

lecito isolare i diversi momenti» (Carpitella, 1961, p. 335). Alcuni esempi

di pizzica-tarantata registrati sono caratterizzati da «iterazione ritmica ossessiva (ostinato) con varianti melodiche di carattere rapsodico; ritmo

isometrico diversamente accentato; [...] netta divisione tra il beat della

sezione ritmica (organetto, tamburello e chitarra) e l’off beat del violino, che si manifesta soprattutto attraverso il sincopato e le note ribattute»

(Carpitella, 1961, p. 351).

Gilbert Rouget (1986, p. 221 e sgg.) evidenzia ulteriormente le caratteristiche del tarantismo come culto di possessione e, rispetto alle

affermazioni di De Martino, dà una diversa interpretazione del carattere

esorcistico del rituale. La possessione, scrive Rouget (p. 225-26)

«consiste nell’essere, nel tarantismo come nelle altre sue forme, un

rapporto di alleanza e non di conflitto con la divinità.[...] Nonostante le

apparenze, nella possessione non è la divinità responsabile della possessione stessa a venire esorcizzata. Al contrario, la divinità in

questione, permettendo al posseduto di identificarsi con essa, gli fornisce

il mezzo per esorcizzare il male - sia esso reale o immaginario - di cui questi soffre». Nel tarantismo cioè il morso del ragno non è «il male da

esorcizzare» ma «il mezzo per esorcizzare il male».

La musica svolge un ruolo rilevante anche nei riti funebri. Nel folklore europeo l’elemento musicale dei rituali funerari consiste principalmente

nella lamentazione (lamento o pianto rituale), eseguita quasi sempre da

donne (parenti o amiche del defunto), e talvolta da lamentatrici professionali. Nel volume Morte e pianto rituale Ernesto De Martino

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(1975, 1ª edizione 1958) definisce il lamento funebre come ‘tecnica del

piangere’ e ‘controllo rituale del patire’; il lamento cioè viene considerato

come un’azione rituale che, mediante l’iterazione di moduli tradizionali verbali, musicali e mimici, tende a controllare la crisi del cordoglio e le

sue manifestazioni parossistiche (e talvolta autolesionistiche)

conseguenti all’evento luttuoso. In altre parole la calma apparente o la crisi violenta (definita da De Martino planctus irrelativo) che possono

manifestarsi dopo il decesso di una persona cara vengono controllati

attraverso un planctus rituale, culturalmente definito e socializzato, che consente di superare il momento critico. «In sostanza dal planctus

irrelativo il lamento passa al planctus ritualizzato» (De Martino, 1975, p.

85): il comportamento incontrollato e l’atto autolesionistico sono atte-nuati simbolicamente in gesti ritmici tradizionalmente determinati (ad

esempio il movimento ritmico del busto), il grido di disperazione è

sostituito da moduli melodico-ritmici e verbali iterati. L’efficacia dell’azione rituale è accresciuta dalla ripetizione del lamento funebre in

date canoniche prestabilite (nell’Italia meridionale ad esempio dopo tre,

nove o trenta giorni dal decesso, e ogni anno il 2 di novembre, ‘festa’ dei morti).

Nel folklore musicale italiano il lamento funebre presenta alcuni elementi

musicali costanti (o almeno frequenti) accanto tuttavia ad un’ampia varietà di modelli stilistici utilizzati nelle diverse aree culturali. I testi

verbali sono formati da moduli stereotipi, che variano da paese a paese,

relativi ad esempio a episodi della vita in comune con il defunto o alla condizione in cui viene a trovarsi il parente privato del sostegno della

persona deceduta; i testi si concludono spesso con l’invocazione del

defunto stesso (mamma mia, cumpagno mio ,frate mio ecc.). Gli esempi che seguono sono tratti da registrazioni degli Archivi di Etnomusicologia

dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (AESC: Abruzzo, raccolta 129

brano 98, registrato nel 1970; Campania, racc. 24 T, br. 65, 1955;

Puglia, racc. 43, br. 52, 1958).

e sora sora a sora me ca (Abruzzo) e ti sè morta i sè lasciata

chisti figli a mmezz’a na strada

e comm’avem’a fa ga sora me ga (traduzione: Sorella mia, tu sei morta e hai lasciato questi figli in mezzo

a una strada. Come dobbiamo fare sorella mia? ecc.)

cumpagno addo m’hai lassato cumpagno mi (Campania)

cumpagno addo m’hai lassato cumpagno mi

specchio da casa mia cumpagno mi

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(traduzione: Compagno, dove mi hai lasciato, compagno mio! Specchio

della casa mia, compagno mio; ecc.)

a tate mia tate mia (Puglia)

e com’haia faie tate mia

e com’haia fa sola n mezz’a via tate mia

e com’haia fa senza di teie

(traduzione: Padre mio, come faccio padre mio, sola in mezzo alla strada, come faccio senza di te? ecc.)

I lamenti sono generalmente monodici, eseguiti da una sola voce femminile oppure da più voci all’unisono o in stile eterofonico. Talvolta

l’intervento corale si limita alla parte conclusiva del lamento

evidenziando la partecipazione collettiva all’evento luttuoso e il controllo sociale dell’azione rituale stessa. La forma è strofica, costituita di

frequente da una sola frase melodica ripetuta più volte con mi-

crovariazioni, ma non mancano esempi di strofe musicali più lunghe (da due a cinque segmenti melodici). Molti lamenti inoltre sono in parte

recitati (non intonati) e in parte cantati; altri sono del tutto recitati.

Questi ultimi sono caratterizzati da moduli ritmici che seguono la metrica del testo verbale; nei lamenti misti (recitati e cantati) il passaggio

immediato dall’una all’altra formalizzazione conferma la contiguità

esistente nelle culture di tradizione orale tra recitazione e canto, avvertiti come analoghe entità sonore, ciascuna con propri caratteri stilistici ma

anche con elementi comuni che le differenziano dalla lingua parlata. […]

L’efficacia del lamento ritualizzato è documentata da alcune registrazioni effettuate in Basilicata e in Calabria negli anni ottanta, in occasione

dell’iterazione della lamentazione durante la festa del 2 novembre. In

tale occasione alcune donne, parenti dei defunti, sono colte dalla crisi del

cordoglio che gradualmente superano eseguendo il modulo verbale e

musicale della lamentazione, dapprima in modo incerto e poi sempre più

definito nel ritmo e nella melodia, segnale questo di una totale ripresa del controllo di sé che evidenzia l’efficacia di un’azione rituale

correttamente eseguita (Biagiola, 1996). In alcuni esempi il pianto reale

(con singhiozzi, respirazione alterata, sospiri ecc.) e la commozione (con modifiche del timbro vocale) diventano parte integrante del lamento

ritualizzato; ciò appare evidente ad esempio quando commozione e

pianto si manifestano periodicamente nelle pause tra una frase melodica e l’altra. In altri casi tali manifestazioni sono stilizzate nelle interiezioni

(ah, uh ecc.) pronunciate o gridate alla fine della strofa musicale.

I lamenti funebri sono diffusi in molte altre culture e presentano sempre moduli vocali stereotipi, eseguiti da uomini o da donne, talvolta con

41

accompagnamento di strumenti. Presso i Kassena-Nankani del Ghana le

donne eseguono la lamentazione accompagnandosi con sonagli; durante

i funerali sono inoltre previste esecuzioni di musica strumentale (per tamburi e cordofoni). Tra gli Akan del Ghana sono frequenti le rappre-

sentazioni commemorative con le quali vengono rievocati, mediante la

danza e azioni mimate, episodi della vita del defunto (Nketia, 1974, p. 221).

Musica e lavoro

Nelle società di tradizione orale evento musicale e lavoro sono spesso tra

loro associati e integrati. In molti casi i gesti iterati, i movimenti periodici e le azioni dell’attività lavorativa sono accompagnati dall’esecuzione di

moduli melodici e ritmici, che hanno la funzione (cosiddetta ‘euritmica’)

di coordinare e sincronizzare i movimenti stessi. Durante il lavoro possono essere inoltre eseguite musiche appartenenti a tipologie diverse,

utilizzate al fine di alleviare in parte la fatica, ma non ritmicamente

connesse con l’azione lavorativa. Un altro tipo di musiche, pur non avendo funzione ritmica, sono tuttavia parte integrante del lavoro, come

i canti e le grida dei venditori ambulanti, impiegati con funzione

pubblicitaria. Negli ultimi decenni, in conseguenza dei mutamenti socio-economici e tecnologici, molti lavori tradizionali (agricoli o artigianali)

sono stati abbandonati e quindi le musiche ad essi associate permangono

soltanto nella memoria e non più nell’uso. Anche in Italia sono ormai pochi gli esempi di musiche eseguite durante

il lavoro; numerosi sono invece i documenti registrati su nastro o disco

tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta. Nell’antologia discografica Folklore musicale italiano (2 dischi Pull, a cura di Alan Lomax e Diego

Carpitella, 1973) compaiono alcuni significativi canti di lavoro con

funzione euritmica registrati tra il 1954 e il 1955. Il canto dei battipali

registrato a Venezia (1° disco, brano 15) era impiegato durante la posa

delle travi sul fondo della laguna come fondamenta delle costruzioni; lo

schema ritmico regolare del canto serviva come riferimento per alzare il maglio e farlo cadere sulla trave. Il canto dei battipali è polifonico (a due

parti) per voci maschili ed è formalizzato in un struttura strofica

bipartita; la prima nota di ciascuna breve frase melodica coincide con il battito del maglio sulla trave. Il testo verbale è il seguente:

o issa o issa e ma issel’in alto o

e in alto bene perché conviene o

42

te dago segno e

ma sarà de segno o

per sto lavoro e

che noi l’abbiamo o

ma è cominciato e

ma serio o li o

lo finiremo e

ma col santo aiuto o (ecc.)

Nelle cave di marmo a Carrara (1° disco, brano 24) il ritmo del canto

aiutava la coordinazione dei movimenti del gruppo di lavoro impegnato ad alzare i blocchi di marmo su traverse di legno. Lo schema melodico

(Es. 2) comprende poche note (alcune non intonate): il gruppo (vv.m.:

voci maschili) intona una sola nota (sulla vocale e ) alternandosi con la voce guida (v.m.: voce maschile) che pronuncia alcune sillabe (e, la, ue

ecc., talvolta intonate) oppure incita a sollevare (o issa).

Es. 2

Durante la pesca del tonno a Trapani (2° disco, brano 32) il canto

fornisce il riferimento ritmico per alzare le reti prima della mattanza;

anche qui una voce solista si alterna con il coro. Una funzione enumerativa hanno invece i canti delle saline registrati a Trapani (2°

disco, brano 31); il canto, intonato da uno dei salinari, serviva a regolare

il lavoro e a contare i sacchi di sale trasportati da ciascun lavoratore. I canti della tonnara e dei salinari sono stati registrati in anni più recenti

da Elsa Guggino e Gaetano Pagano (v. disco Albatros Musiche e canti

popolari siciliani. Canti del lavoro, vol. 1, 1974). Nel lavoro del venditore ambulante il canto e le grida agiscono come

segnale pubblicitario, nel senso che il timbro vocale del venditore e il

modello melodico utilizzato servono come chiaro segnale di

43

riconoscimento per gli acquirenti, evidenziando nello stesso tempo,

mediante un adeguato testo verbale, la qualità della merce. Da una

ricerca sui canti dei venditori ambulanti in Italia (Biagiola, 1992) emerge che molti modelli musicali sono ancora oggi impiegati durante la vendita

diretta; altri canti invece non sono più usati e permangono soltanto nella

memoria, in quanto si riferiscono a merci vendute nei negozi e non più in strada (ad esempio i fiammiferi) oppure a prodotti non più venduti in una

realtà socio-economica profondamente trasformata. La vendita

ambulante viene effettuata per lo più da uomini e i generi posti in vendita sono soprattutto alimentari (cibi crudi e cibi cotti); accanto ai

venditori ambulanti esistono anche mestieri ambulanti (arrotino,

ombrellaio, stracciaiolo ecc.), pubblicizzati con analoghi modelli musicali. I testi verbali sono formalizzati secondo varie modalità: 1) si nomina

esclusivamente la merce venduta; 2) insieme alla merce si segnala il

prezzo, la qualità o l’uso; 3) il prodotto venduto viene contestualizzato in un breve episodio narrativo; 4) la merce non viene neppure nominata in

quanto ugualmente riconoscibile dal testo impiegato (indicandone ad

esempio il modo di cottura). Gli esempi sono tratti dalla suindicata ricerca (Biagiola, 1992):

e pperzech’e pperz (Campania) (pesche, pesche)

e l’uva de li castelli romani (Lazio) cinquanta lire cinquanta lire

signura viri ca sonno ruossi l’agghi (Sicilia) un bellu chilu r’agghio a du mila lire

signura un ci issi n’a cummare p’una testa r’agghio

v’accattateve l’agghio ca sempre bisognano signò

(signora, vedi che sono grandi gli agli / un bel chilo di aglio a duemila lire

/ signora, non andare dalla comare [per chiedere] una testa di aglio /

compratevi l’aglio ché serve sempre, signora)

chiammate mamman’e stu paese (Campania)

chiammate mamman’e stu paese cà so figliate e sarache

e ha fatte trecientocinquantacinche sarachielle

nu quartarello mezza lira scelatavelle (chiamate la levatrice di questo paese / ché hanno partorito le saràche /

hanno fatto trecentocinquantacinque sarachielle / un quarto - di chilo -

mezza lira, scegliete!)

44

cumme vollono cumme vollono (Campania)

(come bollono! - vendita delle pannocchie di granturco bollite)

Dal punto di vista musicale i modelli utilizzati sono del tutto intonati,

oppure recitati (non intonati) o misti (in parte recitati e in parte cantati).

I brani (cantati o recitati) sono costituiti spesso da una breve frase, eseguita una sola volta; in altri casi (nelle forme intonate) i modelli sono

strofici, cioè la stessa strofa musicale, composta di una o più frasi

melodico-ritmiche, sono ripetute con microvariazioni ma con diverso testo verbale. I profili melodici si basano su strutture scalari molteplici,

costituite per lo più da un numero di note variabile tra 2 e 7 (ad esempio

sol-la; mi-fa#-sol; sol-la-si-do#-re ecc.). I ritmi sono liberi, non schematizzabili in battute, con alternanza di cellule ritmiche diverse

(binarie, ternarie, quinarie ecc.) connesse spesso con la metrica del testo

verbale. Durante il lavoro vengono eseguiti altri canti che non hanno alcuna

funzione ritmica o pubblicitaria, ma sono intonati per alleviare in parte la

fatica. Tali canti hanno forme musicali e contenuti molto vari; talvolta i testi fanno riferimento al lavoro stesso, in altri casi trattano temi

narrativi, satirici o amorosi. La mancanza di una funzione euritmica e la

frequente assenza di riferimenti specifici al lavoro ne consente l’esecuzione anche in altre occasioni, private o sociali. Il testo che segue

è quello di un canto di carrettiere, eseguito fino a non molto tempo fa da

contadini e venditori ambulanti nei loro spostamenti di paese in paese e intonato anche in occasioni non lavorative. Il brano, per due voci

maschili alterne e registrato in provincia di Napoli, è tratto dal disco

sopra citato Campania 1.Venditori ambulanti, lato B, brano 9.

io facci’o carrettieri e mo rispera

i’ faccio lu guardiani e me n’avanta

a sienti quanne chiama quelli gallina

viena ditella mi vien’a magnara

e l’acqua e l’acqua e l’acqua de funtanella

addò ce vanno le donn’a lavara

e me ne vogliu scegliere una bella

i semp’appriesso ma la voglio purtara

la nott’è longh’e lo marit’è muscia

la povera quadrana comme patiscia

45

comma patiscia e comme s’allamenta

e le va belle ca te ne vaia

(faccio il carrettiere e mi dispero / faccio il guardiano e me ne vanto // la

senti quando chiama quella gallina / vieni ditella mia, vieni a mangiare //

e l’acqua della fontanella / dove vanno le donne a lavare // ne voglio scegliere una bella / e sempre con me la voglio portare // la notte è

lunga e il marito è freddo / povera ragazza, come soffre // come soffre e

come si lamenta / le va bene se te ne vai ecc.).

Un altro tema ricorrente è la denuncia, esplicita o implicita, della propria

condizione di miseria, come nel seguente canto di contadini registrato in provincia di Agrigento. Il brano è tratto dal disco Albatros (già

citato)Musiche e canti popolari siciliani. Canti del lavoro (lato A, brano

3d).

com’am’a ffari l’annat’ad aguannu

chiddi c’hann’ad aviri vann’e vennu

ca si travaju vi vaiu paganno

a ppoc’a ppocu vi vaiu dannu

ca nun facemu la fatta di sd’annu

nun mi nni dati ne stati ne mmernu

ca i l’impegni cci li mett’aguannu

ca vi li portu anchi a lo nfernu

(Come dobbiamo cavarcela quest’anno?/ i creditori vanno e vengono //

se lavoro vi pagherò / a poco a poco ve li darò // non facciamo come lo

scorso anno / non me li date né in estate né in inverno // io m’impegno

quest’anno / a portarveli anche all’inferno).

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Articolo n.8: “Italia e Francia nell’Ottocento”, Fabrizio Della

Seta Dal libro “Storia della musica” - EDT -1996

In tarda età Verdi rifiutò la definizione di “grande compositore”,

affermando ironicamente di essere “solo” “un uomo di teatro”. Fin dagli

esordi il suo modo di operare è infatti caratterizzato da una concezione

dell’opera come fatto primariamente e globalmente drammatico di cui il

musicista si fa responsabile a tutti i livelli, dalla genesi del libretto a tutti

gli aspetti della messa in scena, alla recitazione dei cantanti, alla cura della scenografia e dei costumi. In questo modo egli trae le conseguenze

di quel processo di affermazione del musicista-drammaturgo di cui in

Francia aveva dato esempio Meyerbeer, in Italia, con consapevolezza di poco minore, soprattutto Bellini.

Dopo le primissime prove Verdi non accetta più di musicare libretti già

confezionati, e anche quando il soggetto è già stato trattato da altri compositori egli ne esige una versione interamente nuova, concepita

secondo i suoi criteri. D’altronde col passare degli anni egli interviene

sempre più decisamente già nella scelta del soggetto che, occorre ricordare, è momento essenziale della creazione operistica: voler

comporre un determinato soggetto, magari vincendo le diffidenze

d’impresari e censure, appartiene già al processo creativo perché significa intuire le potenzialità musicali di quella materia drammatica, ed

è spesso un fatto culturalmente qualificante; se infatti non v’era nulla di

straordinario nello scegliere soggetti quali Alzira o Il corsaro (che anzi appaiono già arretrati per l’epoca in cui furono scritti), temi come

Macbeth, Le roi s’amuse di Hugo per il Rigoletto, La dame aux camélias

di Dumas filgio per la La traviata sono operazioni innovative e persino audaci. Ma la volontà drammaturgica del compositore si esplica poi in

tutte le successive fasi che conducono alla stesura del libretto: dalla

sceneggiatura sommaria (la “selva”, nel gergo teatrale), in cui viene schizzata la fondamentale distribuzione degli eventi drammatici, alla

versificazione, che Verdi non valuta dal punto di vista dell’eleganza letteraria bensì da quello della chiarezza e dell’efficacia comunicativa.

Brevità, concisione, questo il ritornello costante delle sue lettere; il minor

numero possibile di parole, ma che convoglino nella maniera più immediata il senso generale di una scena, di una situazione, è il principio

che il musicista compendierà nel 1870 nell’espressione “parola scenica”,

ma che ebbe davanti a sé fin dall’inizio : “Tante volte- scrive già nel 1843- un recitativo troppo lungo una frase, una sentenza che sarebbe

47

bellissima in un libro, ed anche in un dramma recitato, fan ridere in un

dramma cantato”, e questo perché in un’opera, nonostante l’importanza

fondamentale del libretto, il più e l’essenziale viene detto dalla musica. Ora, che il libretto sia costruito in funzione dei numeri musicali che

costituiranno la partitura è cosa assolutamente pacifica; la novità (ch’è

poi il punto di arrivo di una tendenza che si era andata delineando con chiarezza a partire da Rossini) sta nel fatto che ormai i singoli numeri

non vengono più concepiti come elementi isoloti (e sia pure integrati in

blocchi più vasti) e fino a un certo punto sostituibili, ma come componenti di una struttura globale in cui ciascuno di essi acquista forza

e significato dalla sua relazione con ciascuno degli altri e con tutto

l’insieme; e ciò per mezzo di procedimenti eminentemente musicali quali il calcolo delle durate relative dei pezzi, dell’affinità e del contrasto di

movimento, di ritmo, di colore timbrico.

Un punto è però necessario sottolineare: tale ricerca di unità non va intesa come il progressivo accostamento a un tipo di dramma musicale

fondato sulla continuità di un linguaggio musicale di derivazione

sinfonica, in altre parole come una convergenza più o meno consapevole con l’ideale drammatico wagneriano. In un certo senso in Verdi il

problema dell’unità complessiva dell’opera si pone proprio perché egli,

nel corso della propria lunghissima evoluzione personale (un costante affinamento linguistico che lo portò ad adottare occasionalmente anche

procedimenti di tipo sinfonico), rimase sempre sostanzialmente fedele

alla concezione dell’opera a numeri, fondata sulla chiara articolazione periodica della melodia vocale, che aveva ereditato dalla tradizione e che

fino all’ultimo rivendicò come carattere distintivo della musica italiana;

l’esigenza di far convergere i vari prezzi verso un centro unitario nasce appunto dalla necessità di contrastarne la tendenza centrifuga. L’affinità

con Wagner, con la cui arte Verdi fece certamente i conti a partire dagli

anni Settanta, si può vedere nella comune aspirazione a dar vita a un

proprio originale programma e i mezzi impiegati per metterlo in atto,

ciascuno seguì la propria strada.

48

Modello Grand Opéra

Modello “dramma romantico

moderno”

Nabucco (Milano 1842)

I Lombardi alla prima crociata (Milano 1843)

Giovanna D’arco (Milano 1845)

Attila (Venezia 1846)

Jerusalem (Parigi 1847,

rifacimento de I Lomabrdi alla prima crociata)

La battaglia di Legnano (1849)

Il trovatore (Roma 1853)

Le vepres siciliennes (I vespri siciliani,

Parigi 1855)

Simon Boccanegra (Venezia 1857)

I due foscari (Roma 1844)

I masnadieri (Londra 1847)

Luisa Miller (Napoli 1849)

Stiffelio (Trieste 1850)

Rigoletto (Venezia 1851)

La traviata (Venezia 1853)

Aroldo (Rimini 1857, rifacimento di

Stiffelio)

Ernani (Venezia 1844)

Macbeth (Firenze 1847)

Un ballo in maschera (Roma 1859)

49

Articolo n.9: “ La nota patriottica”, Ulderico Rolandi

da “Il libretto per Musica attraverso i tempi” – Edizioni dell’Ateneo -1952

Nei primitivi libretti verdiani poi era frequente ed accentuata la nota

patriottica, sicché G. Verdi finì per essere simbolo di italianità, di libertà e

d’indipendenza italiana. Incontriamo infatti nei libretti delle sue opere

frequenti accenni all’amor di patria e alla liberazione dal giogo straniero a cominciare dalla 1a opera (Oberto di S. Bonifacio; A. Piazza e T. Solera,

1839) là dove il protagonista esclama:

O patria terra, alfin io ti rivedo, terra sì cara e desiata

[I, 3]

Negli altri libretti verdiani ne troviamo una messe. Infatti nel Nabucco (T. Solera, 1842) oltre al notissimo Coro

Và pensiero sull’ali dorate [III, 4]

che è tutta un’aspirazione al suolo della patria lontana, v’è un accenno al desiderio di liberazione dall’oppressione straniera in quell’invocazione a

Dio:

Nei tuoi servi un soffio accendi

Che dia morte allo stranier.

[id.]

Molto più decisamente nei Lombardi (T. Solera, 1843) in un Coro di

chiare intenzioni:

Giuriam! . . . Noi tutti sorgere

Come un sol uom vedrai, scordar le gare, e accendere le schiere…

[II, 1]

e soprattutto nel popolare

O Signore, dal tetto natìo

50

[IV, 3]

<<che tanti petti ha scossi e inebriati>> come ben cantava G. Giusti fin dal 1846. E proseguendo vediamo ancora:

Nell’Ernani (F. M. Piave, 1844):

Si ridesti il Leon di Castiglia

. . . siamo tutti una sola famiglia

. . . Schiavi inulti più a lungo e negletti Non sarem finché vita abbia il cor

[III, 4]

e concludono inneggiando alla Patria che

dal servaggio redente sarà [id.]

Più oltre poi v’era il noto coro << Oh sommo Carlo>> che concludeva

A Carlo Quinto sia gloria e onor

[III, 6]

e che – adattandosi alle circostanze politiche di allora – veniva mutato, in

omaggio al Pontefice Pio IX e al suo atteggiamento liberale, in

Al Nono Pio sia gloria e onor

E destava deliranti entusiasmi patriottici.

Nei Due Foscari (F. M. Piave, 1844):

Brezza del mar natìo…

o Regina dell’onde, io ti saluto! …

Dal più remoto esilio sull’ali del desio

a te sovente rapido

volava il pensier mio [I, 5]

(è ovvio avvertire in questi versi l’aspirazione ch’era nel cuore degli italiani perché Venezia fosse unita alle altre città italiane in una unità

nazionale).

Nella Giovanna d’Arco (T. Solera, 1845):

51

Orda immensa di barbari ladri

questa misera terra distrugge

[Prologo, 1] . . . .

Or sia patria il mio solo pensiero

[id.] . . . .

Alla Patria che periglia

. . . sovra l’ale di vittoria riconduci il tuo stendardo.

[III, 2]

Nell’Attila (T. Solera, 1846):

Santo di Patria, indefinito amor! … Ma noi, noi donne italiche

. . . sul fumido terreno

Sempre vedrai pugnar [Prologo, 3]

. . . .

Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me!

[id. 5]

. . . . Cara Patria già madre e reina

Di possenti magnanimi figli,

or macerie, deserto, ruina, su cui regna silenzio e squallor;

ma dall’alghe di questi marosi,

qual risorta fenice novella,

rivivrai più superba, più bella,

della terra e dell’onde stupor!

[id. 7] . . . .

E la tua Patria in cenere

pur non ti cade in mente? [I, 2]

. . . .

Cadrò da forte, non vedrò l’amata terra

svanir lenta e farsi a brano...

[II, 4]

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Nei Masnadieri (A. Maffei, 1847):

Su fratelli, stringetevi insieme . . . Su, fratelli! Corriamo alla pugna

. . . Nella destra un esercito impugna

Chi brandisce la libera spada… [II, 7]

Nel Corsaro (F. M. Piave, 1848):

E può la schiava un palpito

Sentir per l’oppressore? Solo nel cuor de’ liberi

Sa germogliar l’amore.

[III, 6]

Ma soprattutto nella Battaglia di Legnano (S. Cammarano; Roma, 1849)

è un succedersi, un vero <<fuoco di fila>> di espressioni inneggianti all’indipendenza, all’unità italiana e all’odio contro lo straniero

oppressore. Vi si incontrano infatti versi elettrizzanti di questo genere:

Viva Italia! Un sacro patto

Tutti stringe i figli suoi

[I, 1]

(Coro d’apertura dell’opera)

Viva Italia forte ed una

colla spada e col pensiero!

Questo suol che a noi fu cuna tomba sia dello stranier!

[id.]

. . . .

S’appressa un dì che all’Austria funesta sorgerà

in cui di tante ingiurie

a noi ragion darà! [I, 3]

. . . .

Sull’Istro nativo cacciam queste fiere, sian libere e nostre le nostre città.

Il Cielo è con noi! Fra l’itale schiere,

dai barbari offeso, Iddio pugnerà! [id.]

53

. . . .

Pur della Patria senti l’affetto,

t’arde nel petto – italo cor! [I, 4]

. . . .

Amo la patria, immensamente io l’amo!... [id.]

. . .

In tua difesa, o Patria, cadrò, squarciato il seno,

sia benedetto almeno

il sangue mio da Te! [I, 8]

. . . .

Un sol nemico, sola una Patria abbiamo,

il Teutono e l’Italia; in sua difesa

leviam tutti la spada . . . Le mercenarie squadre

Non vinceranno un popolo0 che sorge a libertà:

né il gran destin d’Italia per esse cangerà!

[II, 4]

Grande e libera Italia sarà! [id.]

. . . Giuriam d’Italia por fine ai danni

Cacciando oltr’Alpe i suoi tiranni [III, 2]

. . .

Dall’Alpi a Cariddi echeggi vittoria!

Vittoria risponda l’Adriatico al Tirreno!

Italia risorge vestita di gloria!

Invitta e regina qual era sarà! [IV, 2]

. . .

Chi muore per la Patria Alma sì rea non ha!

. . . E’ salva Italia!... io spiro

E benedico il Ciel! [IV, 3]

E’ facile immaginare a qual grado di delirante entusiasmo giungessero i Romani sotto il fuoco continuo di queste espressioni eccitanti: si

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replicava tutto intero il IV atto dell’opera e dopo pochi giorni non se ne

trovava più un libretto essendo stati tutti venduti!

Né più si finirebbe se si volessero ancora ricordare i 2 libretti delle opere scritte per Parigi: I Vespri siciliani (E. Scribe e C. Duveyrier, 1855) tutto

imperniato sul concetto di un popolo che oppresso dal tiranno, scuote

infine il giogo e si ribella sopraffacendo l’oppressore e Don Carlos (J. Méry e C. Du Locle, 1867) che tratta dell’indipendenza dei fiamminghi in

lotta contro l’opprimente monarca assoluto Filippo II. E di più la Forza

del Destino (F. M. Piave, 1862):

. . .

Già fuggono i Tedeschi! … i nostri han vinto! . . . Viva l’Italia! . . . E’ nostra la vittoria!

[III, 3]

e il notissimo popolare:

Rataplan, rataplan della gloria Nel soldato ritempra l’amor;

. . . Rataplan della patria la gloria

più rifulge de’ figli al valor! [III, 10]

Persino nell’Aida (A. Ghislanzoni, 1871):

Se l’amor della Patria è delitto

Siam rei tutti, siam pronti a morir! [II, 2]

. . .

Ora in armi si desta il popol nostro

Vittoria avrem!...

della mia Patria degna sarò!

[III, 2]

A proposito di patriottismo nelle opere verdiane è da osservare altresì la

fervida esaltazione patriottica che dominò, sia nella letteratura in generale che nel teatro, durante gli anni accesi del nostro risorgimento e

particolarmente nell’epopea garibaldina, produsse altresì vari libretti per

musica occasionali, dove erano trattati anche argomenti relativi ad eventi recenti. Naturalmente quei libretti son tirati via, infarciti di convenzionale

retorica, senza valore drammatico, né letterario; né sempre vennero

posti in musica e rappresentati. Servivano solo a fomentare il patriottismo e a glorificare le figure più in vista. Tali ad es. Il Trionfo del

55

Patriottismo (testo e musica di I.F. Castelli, 1848, non rappresentato); La

Battaglia di Solferino (C. Z. Cafferecci – musica per varî autori)

rappresentata a Napoli l’autunno 1860, cioè appena 6 mesi dopo l’evento a cui si riferiva ed avente fra i personaggi lo stesso Garibaldi . . . che al

postutto era vivo e vegeto (!); La Campana della Gancia (testo e musica

di R. Carboni, 1860); Garibaldi a Palermo (ignoto – C. Angeloni) cantata eseguita a Lucca pure nel 1860; Il Bersagliere in Crimea (testo e musica

di V. Robaudi, 1865) etc.

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“Enzo Avitabile Music Life” - regia di Jonathan Demme, 2012.

“The Blues” – prodotto da Martin Scorsese, 2003:

“L'anima di un uomo” - regia di Win Wenders, 2003.

“Godfathers and Sons” - regia di Marc Levin, 2002.

“Red, White and Blues” - regia di Mike Figgis, 2003.

“Warming by the Devil's Fire” - regia di Charles Burnett, 2002.

“The Road to Menphis” – regia di Richard Pearce e Robert Kenner, 2002.

“Buena vista social club” – regia di Win Wenders, 1999.

“L'ultimo walzer” – regia di Martin Scorsese, 1976.

“Bird” – regia di Clint Eastwood, 1988.

“Questa storia qua” – regia di Alessandro Paris e Sibylle Righetti, 2011.

“Passione” – regia di John Turturro, 2010.

“Spettacolo di varietà” - regia di Vincente Minnelli, 1953.

“Cantando sotto la pioggia” - regia di Stanley Donen, Gene Kelly, 1952.

“Amami stanotte” - regia di Rouben Mamoulian, 1932

“Ti amavo senza saperlo”, regia di Charles Walters, 1948.

“Un giorno a New York” - regia di Gene Kelly, Stanley Donen, 1949.

“Follie d'inverno” - regia di George Stevens, 1936.

“Carosello napoletano” - regia di Ettore Giannini, 1954.

“La leggenda del pianista sull’oceano” - regia di Giuseppe Tornatore, 1998.

“Il pianista” - regia di Roman Polanski, 2002.

“Canone inverso” - regia di Ricky Tognazzi, 2000.

“Anonimo Veneziano” - regia di Enrico Maria Salerno, 1970.

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Un ringraziamento particolare a tutti gli studenti e le studentesse che hanno offerto la loro collaborazione e il loro supporto nella realizzazione del seminario:

Anna Berloco, Alessia Bove, Michele Brescia, Anna Maria Cimino, Miriam Corrado, Andres Matias Dabas, Maurizio Giorgi, Giacomo Guarini, Loris Leoni, Alessandro Leopardi, Fabrizia Lucarelli, Nino Marzullo, Davide Navarra, Alfonso Russo, Francesco Santi, Chiara Strano, Gabriele Tucciarone.

Valentina Mezza

Valentina Piras

Giulia Santi

Camilla Valentini

Gennaro Cataldo

Adolfo Perrotta