SAN GIUSEPPE CAFASSO. MEMORIE PUBBLICATE NEL 1860 DA … · 2019. 7. 4. · SAN GIUSEPPE CAFASSO....

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SAN GIUSEPPE CAFASSO. MEMORIE PUBBLICATE NEL 1860 DA SAN GIOVANNI BOSCO. SEI, Torino, 1960. AR gennaio 2011. Libro della Comunità di Valdocco. Ho inserito i numeri di pagina utente e i segnalini dei capitoli. Alcune note sono stata cancellate; altre – che ritengo interessanti – sono state mantenute in fondo alla pagina di riferimento.

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  • SAN GIUSEPPE CAFASSO. MEMORIE PUBBLICATE NEL 1860 DA SAN GIOVANNI BOSCO. SEI, Torino, 1960. AR gennaio 2011. Libro della Comunità di Valdocco. Ho inserito i numeri di pagina utente e i segnalini dei capitoli. Alcune note sono stata cancellate; altre – che ritengo interessanti – sono state

    mantenute in fondo alla pagina di riferimento.

  • PRESENTAZIONE. Il 23 giugno 1860 si spegneva in Torino la figura più eminente del clero piemontese di

    allora, il sacerdote Giuseppe Cafasso. In quella occasione Don Bosco fu il primo a cantarne le lodi e a testimoniarne la santità. Oggi, a cento anni di distanza, su invito del venerato Rettor Maggiore e del Comitato

    dei festeggiamenti, vogliamo che sia ancora Don Bosco il primo a ricordarne le inclite benemerenze e a celebrare questa data così fausta negli annali della storia della Chiesa e dell'umanità.

    I due discorsi che egli tenne in tale circostanza, il primo nella chiesetta di S. Francesco di Sales, il secondo, per la trigesima, nella chiesa di S. Francesco d'Assisi, furono i primi panegirici su S. Giuseppe Cafasso detti in forma ufficiale.

    Da allora, la Chiesa ha emesso il suo verdetto infallibile, e la santità del Cafasso e di Don Bosco è stata ormai celebrata su tutta la faccia della terra.

    È per questo che oggi, queste pagine acquistano un valore eccezionale. Dalla prima edizione, apparsa in quello stesso anno 1860, all'ultima, curata da Don Angelo Amadei nel 1925, in occasione della Beatificazione del Cafasso, esse non hanno subito mutamento.

  • È una testimonianza storica ineccepibile. E noi, col rispetto dovuto alle reliquie, la riprodurremo tale e quale.

    Riprodurremo anche la bella prefazione dell'Amadei, apportandovi però alcune leggere modifiche, dovute ai pochi studi storici apparsi in questi ultimi anni. Introdurremo perciò la correzione cronologica alle Memorie dell'Oratorio proposta da Don Klein e integrata dal sottoscritto, secondo cui l'incontro di Giovannino Bosco con Don Cafasso e con Don Colosso avvenne nel 1829.

    Questa nuova edizione vuol essere altresì una testimonianza di riconoscenza di tutta la Congregazione Salesiana verso il primo e pia insigne benefattore del nostro Padre.

    Umanamente parlando, senza S. Giuseppe Cafasso noi non avremmo avuto S. Giovanni Bosco, e probabilmente neppure avremmo avuto la Congregazione Salesiana.

    Fu egli che lo consigliò, lo guidò nella scelta dello stato, lo formò nel Convitto Ecclesiastico, e poi lo diresse, lo difese e lo sostenne nei momenti difficili della vita.

    La spiritualità del Maestro si trasfuse in buona parte nel Discepolo, e noi oggi rileggendo queste pagine a distanza di un secolo, ci accorgiamo facilmente dell’intreccio e, per così dire, della fusione di queste due spiritualità.

    È infatti questa la caratteristica principale di questa documentazione. Don Cafasso è stato per Don Bosco il Maestro, il Direttore Spirituale, il Confessore, il Benefattore per eccellenza. Ora quest'influsso di relazioni intime, durate per lo spazio di trent'anni, non poteva non lasciare un'impronta, - e quale improntai - nella vita del discepolo.

    È questa la prima ragione, quella oggettiva, per cui la spiritualità del Cafasso si trasfuse in S. Giovanni Bosco.

    Ma c'è un'altra ragione, - e questa è soggettiva, - per cui noi troviamo in queste pagine così mirabili coincidenze. Ed è che ogni uomo, quando ritrae gli altri, ritrae in buona parte se stesso.

  • Non si notano infatti negli altri, che quegli aspetti che ci colpiscono, che entrano nella cerchia dei nostri interessi, che disvelano parte delle soluzioni dei problemi che ci preoccupano.

    In tal modo operò Don Bosco. E questo non solo nel primo discorso dove si prefisse di presentare il Cafasso come modello ai suoi giovani uditori, ma anche nel secondo, dove meglio delineo l'apostolo e il sacerdote, a cui egli stesso si era ispirato nel suo ministero sacerdotale. Del resto una prova indiretta del principio di cui sopra, si ha anche nello studio del salesiano Don Flavio Accornero sulla dottrina spirituale del Cafasso.

    Egli, essendosi prefisso di analizzare il pensiero del Santo, in base soprattutto agli scritti, riflettenti la sua predicazione, non ha colto certe caratteristiche della sua spiritualità, che derivavano piuttosto dalla vita e dallo spirito che lo animava. Ed è invece in questa linea che si colgono le coincidenze col pensiero e la spiritualità di Don Bosco.

    È un Santo che ha colto la fisionomia spirituale di un altro Santo, e che ne ha descritto i tratti salienti. Fra questi ne segnaleremo dieci illustrandoli con le parole stesse di Don Bosco.

    I) Il lavoro-preghiera. “Egli lavora, ma le sue fatiche sono miste con giaculatorie, con atti di pazienza, con

    offerte continue del suo cuore a Dio”. 2) Il lavoro come espressione di carità. Ogni parola, ogni pensiero, ogni opera dalla più tenera età sino all'ultimo istante di vita

    fu un continuo e non

  • mai interrotto esercizio di carità; cioè una pratica costante dei suoi doveri verso Dio, verso gli uomini, verso se stesso».

    3) Lo zelo precoce e giovanile. « Egli va ad ascoltare la parola di Dio, e poi va a ripeterla ai suoi compagni ed amici. Il dare un buon consiglio, riconciliare il figlio al padre, il padrone col servo, erano

    frequenti trionfi del giovinetto Cafasso». 4) La volontà decisa della santità. «Egli scriverà: "Ma non solo, o Dio, io voglio essere tutto vostro, ma voglio farmi santo;

    e siccome non so se lunga o breve sarà la mia vita, così, o mio Dio, vi protesto che voglio farmi santo e presto santo. Cerchi pure il mondo le vanità, i piaceri, le grandezze della terra, io non voglio, non cerco, non desidero che farmi santo, e sarò il più felice degli uomini, facendomi santo, presto santo e gran santo».

    5) La santità del dovere quotidiano. «La prontezza, la diligenza nello studio, la facilità nel capire le difficoltà; l’ubbidienza ai

    superiori, l'affabilità, la pazienza verso tutti gli uguali e gli inferiori, la frequenza, il contegno nelle pratiche di pietà, parevano un mistero a quanti lo conoscevano».

    6) Lo stile pratico più che speculativo. «È qui da notare che le conferenze di Don Cafasso non erano già uno studio astratto,

    un lavoro da tavolino, ma ogni cosa egli appoggiava sulla pratica. Insegnava il modo di ascoltare con frutto le confessioni dei fedeli, ma egli stesso passava più ore al confessionale, osservava se la sua morale riusciva fruttuosa, ne notava gli effetti e le conseguenze, e ciò faceva con tale destrezza, o dirò meglio, con

  • tale pietà, scienza e prudenza, che noi si saprebbe dire se fosse più grande la consolazione e il frutto in chi l'ascoltava nelle conferenze od in chi aveva la bella sorte di avere in lui una direzione spirituale ».

    y) L'ottimismo apostolico. Gli diceva un giorno un famoso malfattore: — O Don Cafasso, Don Cafasso, credete voi

    che con tante scelleratezze io possa ancora salvare l'anima mia? — Non solo io lo credo possibile, ma lo credo certo: e chi mai potrà togliervi dalle mie mani? Se voi foste già nell'anticamera dell'inferno e vi restasse fuori ancora un capello, ciò mi basterebbe per istrapparvi dalle unghie del demonio e trasportarvi al Paradiso.

    8) L'omnibus omnia factus. « Sembra che Don Cafasso sia sempre intento a predicare ai popoli; e Don Cafasso è

    continuamente applicato alle conferenze, alla predicazione ed istruzione del Clero. Fare che tutta la sua vita sia impegnata a catechizzare ragazzi, assistere carcerati, istruirli, confessarli; ma intanto egli è di continuo in sua camera che dà udienze, o medita, o predica, o confessa.

    » A rimirare il gran numero di scritti che ci lasciò, si crederebbe che la sua vita sia stata impiegata al tavolino; ciò non ostante, lo vedo sempre in atto di dare consigli ad ogni condizione di persone, assistere e disimpegnare i suoi più minuti affari domestici.

    » Don Cafasso attende allo studio di tutte le materie ecclesiastiche; ma prepara in pari tempo i casi pel concorso alle parrocchie, dà esami di confessione; lo si vede frequentemente in chiesa a pregare, oppure assiste al confessionale, attorniato da lunga schiera di fedeli.

    » Mentre compie questa moltitudine di azioni, di cui

  • ciascuna sembra dover impiegare la vita di un uomo, ecco aggiungerne molte altre. “Ma, Signori, parlo io d'un uomo solo, o di più ministri di Gesù Cristo? Io parlo, uditori,

    d'un uomo solo, ma d'un uomo che ha lo spirito del Signore; parlo di quell'eroe che con zelo meraviglioso fa vedere quanto possa la carità di un sacerdote coadiuvato dalla divina grazia”.

    9) La sintesi di cinque Santi. “Chi lo chiama un novello San Luigi per innocenza e purità di costumi; altri lo dicono

    un San Francesco di Sales per mansuetudine, pazienza e carità; chi lo dice un San Vincenzo de' Paoli per la grande carità che egli usò ad ogni sorte di infedeli. Havvi poi chi non esita di chiamarlo un San Carlo Borromeo per la rigidezza della vita e per l'austerità usata con se medesimo. E mentre rimangono sorpresi al rigido suo tenor di vita, lo chiamano un novello Sant'Alfonso per dolcezza, accondiscendenza e bontà”.

    10) L'arte per far molto del bene e cioè i cinque segreti della santità del Cafasso. Don Bosco li enumera in quest'ordine: “il primo segreto fu la costante sua tranquillità.

    Il secondo, la lunga pratica degli affari, congiunta ad una grande confidenza in Dio. Il terzo, l'esatta e costante occupazione del tempo. Il quarto, la sua temperanza, che meglio chiameremo la sua rigida penitenza. Il quinto, la sua parsimonia nel riposo.

    E Don Bosco termina dicendo: ”Con questi cinque segreti Don Cafasso trovava modo di compiere molte e svariate cose in breve tempo e portava così la carità al più sublime grado di perfezione: Plenitudo legis dilectio».

    Il lettore, riandando su queste pagine, troverà poi per conto suo tante altre coincidenze, ma queste noi abbiamo

  • voluto segnalare quasi a specimen, per chi desidera studiare le due spiritualità e penetrare a fondo nell'animo e nello spirito dell'uno e dell'altro dei due Santi.

    Noi oggi, rieditando, a cento anni di distanza, queste Memorie di Don Bosco, intendiamo rendere un omaggio al suo santo Maestro, ed esprimere anche il nostro grato animo a tutti coloro che cooperarono alla sua glorificazione, diffondendo cogli scritti gli insegnamenti e le gesta di Colui che ben a ragione fu definito ala perla del clero italiano”.

    D. EUGENIO VALENTINI. Torino, Pontificio Ateneo Salesiano. 11 ottobre 1959. 130° anniversario del primo incontro dei due Santi.

  • PREFAZIONE. Per apprezzare degnamente queste memorie, giova conoscere i rapporti che passarono

    tra S. Giuseppe Cafasso e S. Giovanni Bosco. Entrambi del medesimo paese - Castelnuovo d'Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) - e

    quasi della stessa età - il Cafasso nacque il 75 gennaio 1811, Don Bosco il 16 agosto 1815 - se a ciò dovettero il primo incontro in giovinezza, su ben altre basi sorse la loro santa amicizia.

    S. Giuseppe Cafasso e S. Giov. Bosco. Don Cafasso, uomo “straordinario nell'ordinario”, sin dalla fanciullezza fu

    semplicemente ammirabile nell'esercizio d'ogni virtù, mentre Don Bosco, sin dalla fanciullezza fu “straordinario tra gli straordinari”; e tra le prove della speciale assistenza che di lui ebbe il Signore è quella di avergli posto al fianco Giuseppe Cafasso. Questi, benché maggiore soltanto di quattro anni e mezzo, era ordinato sacerdote quando Giovanni faceva la terza ginnasiale, e subito divenne suo consigliere e benefattore, poi direttore e maestro di spirito.

    Il primo incontro, narrato da Don Bosco medesimo, risale al 1829, quando Giovanni, quattordicenne, era un

  • contadinello, e il Cafasso, di diciotto anni e mezzo, entrava nel 2° corso di teologia. Noi risaliamo, per un momento, un po' più addietro.

    Nell'età dai nove ai dieci anni S. Giovanni Bosco ricevette il primo annunzio della missione che lo attendeva. Vide in “sogno” una moltitudine di fanciulli che si trastullavano. Alcuni ridevano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro, adoperando pugni e parole per farli tacere - Non con le percosse - gli disse un Uomo venerando, nobilmente vestito, chiamandolo per nome, e ordinandogli di porsi alla testa di quei fanciulli, - non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità, dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti dunque immediatamente a far loro un'istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù. - Confuso e spaventato, Giovanni rispose che era un povero ed ignorante fanciullo, incapace di parlare di religione a quei giovinetti - Io ti darò la Maestra, sotto la cui disciplina puoi venire sapiente - proseguì quell'Uomo; ed apparve una Donna di maestoso aspetto, che fé' cenno a Giovanni di avvicinarsi a Lei, e presolo con bontà per mano: - Guarda! - gli disse. Giovanni guarda, quei fanciulli erano tutti fuggiti; e, in loro vece, vede una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di parecchi altri animali. - Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare - continuò a dire quella Signora. - Renditi umile, forte e robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo per i figli miei. - Volge lo sguardo, e, invece di animali feroci, vede altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano attorno

  • belando, come per far festa a quell'Uomo e a quella Signora. A questo punto Giovanni si mise a piangere e quella Donna, ponendogli la mano sul capo, gli disse: - A suo tempo tutto comprenderai!

    Questo “sogno”, fu così vivo e parlante, che senza indugio Giovanni Bosco iniziò la missione che gli era indicata.

    Don Cafasso era solito dire che il bene va fatto bene, e che è meglio indugiare il principio di un'opera buona per poterla far bene. Don Bosco, invece, diceva che l'ottimo è nemico del bene, e che è meglio far subito quel bene che si può, come si può, anziché ritardarlo per poterlo far meglio. E a dieci anni, ai Becchi e a Murialdo, cominciò la sua missione e fu giocoliere e saltimbanco per esser l'apostolo dei compagni. Cosicché quando nel 1829 vide per la prima volta S. Giuseppe Cafasso, da quattro anni egli compiva cotesto apostolato, che in una forma ancor più larga ed efficace aveva svolto negli ultimi due anni, umile garzoncello di campagna alla cascina Moglia a Moncucco, e poi svolgerà con maggior successo a Castelnuovo nel primo anno di latino, e in seguito dal 1831 al 1835 a Ch'ieri, dove, frequentando le pubbliche scuole di ginnasio, fonderà tra i compagni la «Società dell'Allegria».

    A 19 anni il desiderio di vita perfetta, che da tempo era la forte aspirazione dell'anima sua, si concretò nel proposito di entrare tra i figli di S. Francesco d'Assisi: e se non vi

  • entrò fu per una nuova illustrazione meravigliosa, per il consiglio dello zio dell'amico Comollo, e per Don Cafasso. Il santo sacerdote, che fin dal primo incontro aveva intuito la bellezza e la generosità dell'anima di Giovanni, lo invitò a soprassedere per conoscere meglio la vocazione, ed egli ubbidì.

    L'anno dopo, per i buoni uffici del Cafasso, il quale, sapendo le sue strettezze familiari, lo raccomandò al generoso Teol. Guala, entrava nel Seminario di Chieri; e là pure, dove attese allo studio della Filosofia e della Teologia, continuò ad occuparsi dei piccoli amici, che ogni settimana, al giovedì, correvano ad intrattenersi con lui in parlatorio; ed anche durante le vacanze, tornando alla casa paterna, proseguiva il santo apostolato.

    Prima di salire agli ordini maggiori, formatosi il patrimonio ecclesiastico con l'aiuto del fratello Giuseppe, che gli “assegnò tutto quel poco che possedeva”, non bastando “la [sua] parte di beni ereditata dal padre”, “non avendo chi si prendesse cura diretta della [sua] vocazione” si consigliò nuovamente con Don Cafasso, che gli disse “di andare avanti e di posare sulla sua parola”.

    E grande era la riconoscenza che sentiva già per il suo benefattore. Ordinato sacerdote il 5 giugno 1841, in Torino, qui celebrò la Prima Messa nella Chiesa di San Francesco d'Assisi, per salire con maggior raccoglimento all'altare e per avere la fortuna di essere assistito da Don Cafasso, che gli diè poi il consiglio di recarsi nel nuovo anno scolastico a Torino ad intraprendere lo studio pratico della Teologia Morale nel Convitto Ecclesiastico.

    Nel frattempo il nuovo sacerdote restò a Castelnuovo: “Mancando a Castelnuovo il mio prevosto di vice-curato, io ne compii l'ufficio per cinque mesi. Provai il più grande piacere a lavorare. Predicava tutte le domeniche,

  • visitava gli ammalati, teneva in ordine i libri parrocchiali. Ma la mia delizia era fare catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro. Da Murialdo mi venivano spesso a trovare. In paese, poi, cominciavano pure a farsi miei compagni ed amici. Uscendo dalla casa parrocchiale era sempre accompagnato da una schiera di fanciulli, e, dovunque mi recassi, era attorniato dai miei piccoli amici che mi festeggiavano”.

    Venuto a Torino il 3 novembre, manifestò al suo consigliere ed amico ogni segreto dell'anima sua. Così “Don Cafasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio direttore spirituale; e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico, nelle cui mani deposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita”.

    Il saggio maestro di spirito cominciò ad inviarlo alle carceri a portare dei soccorsi ai prigionieri; ed enorme fu l'impressione che n'ebbe il futuro Apostolo della gioventù. “Chi sa, se questi giovinetti avessero fuori un amico che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina, o almeno diminuire il numero di coloro che tornano al carcere. Comunicai questo pensiero a Don Cafasso e col suo consiglio e co' suoi lumi mi son messo a studiare il modo di effettuarlo, abbandonando il tutto alla grazia di Dio, senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini”.

    E venne l'ora segnata da Dio per dar principio all'Opera Salesiana. “Appena entrato nel Convitto di S. Francesco, subito mi trovai una schiera di giovinetti

    che mi seguivano per i viali e per le piazze e nella stessa sacrestia della chiesa dell'istituto; ma non poteva prendermi diretta cura di loro per mancanza di locale. Un lepido incidente porse occa

  • sione di tentare l'azione del progetto in favore dei giovinetti vaganti per le vie della città, specialmente quelli usciti dalle carceri”. L'8 dicembre 1841, mentre si vestiva per andar a dir Messa, vede maltrattato dal sacrestano un giovinetto sui quindici anni, garzoncello muratore. Subito fa richiamare quel poveretto, gli rivolge amorevoli parole, e lo prega ad attenderlo dopo Messa, quando, deposti i sacri paramenti e detta un'Ave, gli fece una prima lezione di catechismo. “Quell'Ave Maria, diceva Don Bosco 44 anni dopo, recitata con fervore insieme col giovinetto Bartolomeo Garelli, fu la sorgente di tutte le benedizioni, che Maria SS. ottenne da Dio sull'Opera Salesiana”.

    La domenica seguente, 12 dicembre, sei poveri fanciulli, condotti da Bartolomeo Garelli, e due altri raccomandati da Don Cafasso, ascoltavano attenti il nuovo Apostolo della gioventù, che mostrava loro le vie del paradiso. “Don Cafasso, già da parecchi anni, in tempo estivo, faceva ogni domenica un catechismo ai garzoni muratori in una stanzetta annessa alla sacrestia”; e Don Bosco lo riprese sul finire di quell'anno. E il numero dei giovani crebbe ancora, in modo che in breve si potè formar tra loro una Schola cantorum, che cominciò a prodursi, con grande edificazione del popolo in varie chiese.

    I sogni cominciavano ad avverarsi; l'Opera Salesiana era iniziata; e il Signore veniva accendendo sempre più del desiderio della perfezione l'anima del fondatore.

    Don Bosco era destinato dalla Divina Provvidenza a fondare un Istituto che avrebbe consacrato tanta parte della sua attività anche nel campo delle Missioni Estere. Era quindi naturale che sentisse vivo il desiderio di ritirarsi dal mondo e insieme di consacrarsi alle Missioni; e avvicinandosi la fine del terz'anno che era al Convitto e dovendo scegliere la sua parte di lavoro nel ministero

  • sacerdotale, sentendo più vivo il desiderio di una vita perfetta, chiese un consiglio decisivo a Don Cafasso.

    Questi gli rispose di salire al Santuario di S. Ignazio sopra Lanzo ad implorare i lumi celesti in un corso di Esercizi Spirituali. Don Bosco ubbidì; ma perdurando il generoso pensiero e vedendo che Don Cafasso non gli diceva ancor nulla di preciso, conscio della pace che trova chi si affida ad altri più saggio e ne segue umilmente il consiglio, si presentò nuovamente al Maestro - così narrava egli stesso ai suoi - come chi è deciso di partire.

    - E dove volete andare? - gli chiese Don Cafasso. - A Pinerolo, tra gli Oblati di Maria Verginei - Abbandonate ogni idea di vocazione religiosa - gli disse il santo sacerdote; -

    continuate la vostra opera a pro della gioventù. Questa è la volontà di Dio e non altra! E, a facilitargli il modo di raggiungere la mèta, parlò egli stesso col Teol. Borel, altro

    grande amico e benefattore di Don Bosco, e gli ottenne, preventivamente, l'ufficio di cappellano o direttore spirituale dell’Ospedaletto di Santa Filomena, che sorgeva allora dalle fondamenta per la carità inesauribile della marchesa di Barolo. Là avrebbe avuto la sua dimora e là avrebbe trasferito l'Oratorio.

    Ma era un passo difficile, questo, e grave di preoccupazioni] La seconda domenica di ottobre “doveva partecipare ai miei giovinetti, che l'Oratorio sarebbe trasferito in Valdocco. Ma l'incertezza del luogo, dei mezzi e delle persone mi lasciava veramente sopra pensiero. La notte precedente andai a letto col cuore inquieto. In quella notte feci un nuovo sogno”, che lo occupò fino all'alba, e fu un'appendice di quello che aveva avuto nella casa paterna.

    Tornò a vedere una moltitudine di capre, capretti, agnelli, pecore ed altri animali, ed “io voleva fuggire, quando una Signora, assai ben messa, mi fé' cenno di seguire ed accompagnare quel gregge strano, mentr'Ella precedeva.

  • Andammo vagabondi per varii siti: facemmo tre stazioni o fermate: ad ogni fermata molti di quegli animali si cangiavano in agnelli, il cui numero andavasi ognor più ingrossando. Dopo aver molto camminato, mi trovai in un prato, dove quegli animali saltellavano e mangiavano insieme, senza che nessuno tentasse di mordere gli altri.

    » Oppresso dalla stanchezza, voleva sedermi accanto ad una strada vicina, ma la Pastorella mi invitò a continuare il cammino. Fatto ancor breve tratto di via, mi son trovato in un vasto cortile con porticato attorno, alla cui estremità eravi una chiesa. Qui mi accorsi che quattro quinti di quegli animali erano diventati agnelli. Il loro numero poi divenne grandissimo. In quel momento sopraggiunsero parecchi pastorelli, che aumentavano e prendevano cura degli altri. Crescendo i pastorelli in gran numero, si divisero e andavano altrove per raccogliere altri strani animali e guidarli in altri ovili.

    » Io voleva andarmene, ma la Pastorella mi invitò a guardare al mezzodì. Guardando, vidi un campo, in cui era stato seminato meliga, patate, cavoli ecc.

    » - Guarda un'altra volta! mi disse. E guardai di nuovo, e vidi una stupenda ed alta chiesa. Un'orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar Messa. Nell'interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali stava scritto:

    »- Hic Domus mea; inde gloria mea!». E lasciò il Convitto e trasportò l'Oratorio al Rifugio, dove l'8 dicembre 1844 piangeva di

    commozione al vedere i suoi giovani raccolti per le pratiche di pietà in una cappella propria, improvvisata in due camere dell'Ospedaletto, e dedicata, d'accordo col Teol. Borei e con Don Cafasso, a San Francesco di Sales.

    Ma non era quella la mèta: era la prima tappa di una lunga via dolorosa: le difficoltà, infatti, non tardarono a

  • moltiplicarsi e ad ingigantire. La marchesa di Barolo vedeva malvolentieri che un suo cappellano si dedicasse tanto ai giovani, e gli proibì di adunarli più a lungo nella striscia di terreno, che divide anche oggi l'Ospedaletto di S. Filomena dalla a Piccola Casa della Divina Provvidenza».

    Che fare? Durante la Quaresima del 1845 parte dei giovinetti assidui all'Oratorio, per mancanza di locale all'Ospedaletto, erano stati condotti per il catechismo alla cappella del Cimitero di San Pietro in Vincoli, ove da dieci anni non si facevano più seppellimenti, fuorché in qualche tomba patrizia dei loculi perpetui; e la domenica 25 maggio Don Bosco vi condusse tutti i suoi giovani. Anche di là fu cacciato, e malamente; né potè ottenere di tornarvi non ostante i buoni uffici di Don Cafasso, che, per il momento, avrebbe voluto vederlo nominato cappellano, dopo la morte di Don Testo, per favorire «'opera di grande gloria di Dio, qual è il radunare nei giorni festivi una quantità di ragazzi abbandonati onde istruirli e tenerli lontani dai pericoli.

    Mentre il buio si faceva più denso sull'avvenire dell'Oratorio, il Signore tornò a confortare Don Bosco con un'altra illustrazione.

    Vide di nuovo la maestosa Signora, che gli si palesò chiaramente essere la Vergine Santa, la quale, incoraggiatolo a lavorare in mezzo alla gioventù, gli mostrò nuovamente, nei brulli prati di Valdocco, una chiesa modesta, piena zeppa di giovani e incapace di raccoglierli, poi un gran tempio, la futura basilica dì Maria Ausiliatrice. E conducendolo amorevolmente Ella stessa sul luogo, dove questa doveva sorgere, solennemente gli disse:

    « — In questo luogo dove i gloriosi martiri di Torino, Avventore ed Ottavio, soffrirono il loro martirio, su queste

  • zolle che furono bagnate e santificate dal loro sangue, io voglio che Dio sia onorato in modo specialissimo”.

    Come vivi lampi ripetuti in una notte oscura mostrano per un istante al pellegrino la via, ma, cessando, rendono ancor più densa l'oscurità, così le ripetute illustrazioni celesti per un istante riempivano di coraggio l'anima di Don Bosco, ma le difficoltà sempre crescenti, create anche dalla santa novità con cui egli esercitava il suo apostolato, tornavano a piombarlo nell'incertezza. Anche la sua umiltà lo rendeva perplesso. Ma aveva al fianco D. Cafasso, il quale, pieno dello spirito del Signore, nell'udire le accennate meraviglie:

    - Andate pur avanti tuta conscientia - gli diceva - nel dar importanza a questi sogni, perchè giudico che ciò sia di maggior gloria di Dio e di bene alle anime.

    Ma le contrarietà divennero tali che avrebbero abbattuto qualunque tempra, che non fosse in modo particolare assistita dal Signore: ed anche qui splendette l'alta missione di Don Cafasso.

    Per i buoni uffici di questo Servo di Dio l’Arcivescovo Mons. Fransoni interpose le sue raccomandazioni perché l'Oratorio potesse trasferirsi nella cappella di S. Martino presso i Molassi, o Molini della Dora, e l'ottenne; ma, dopo due mesi, per il chiasso che i giovinetti facevano nelle vicinanze e perchè “un ragazzo con la punta di un chiodino aveva fatto una breve riga sulle pareti”, Don Bosco era obbligato a sloggiare anche di là: e l'Oratorio divenne ambulante: oggi in un luogo, domenica in un altro. E si avvicinava l'inverno!

    Per buona sorte riuscì ad affittare alcune stanze in Valdocco, presso l'odierna chiesa succursale della parrocchia di Maria Ausiliatrice, e nel suo gran zelo Don Bosco vi iniziò le scuole serali, mentre le adunanze festive venivano necessariamente ridotte a un catechismo nel pomeriggio, prece

  • duto e seguito dal canto di alcune lodi innanzi una statuetta della Madonna. Sennonché quel nuovo genere di apostolato cominciò ad impensierire le autorità

    ecclesiastiche e civili, e il padrone stesso di casa Moretta. 1 Parroci presero a lamentarsi che tanta gioventù, che non metteva piede in chiesa,

    frequentando l'Oratorio, sarebbe venuta a formare una classe indipendente di parrocchiani, che non avrebbe mai conosciuto il proprio parroco. Il Municipio, e precisamente il marchese Michele di Cavour, Vicario di Città, o capo del potere urbano, s'insospettì di quelle accolte giovanili, quasi fossero un covo rivoluzionario, le raccomandò alla speciale vigilanza della questura, chiamò a sé Don Bosco, e qualificandolo un pazzo, minacciò di farlo chiudere in prigione.

    I Parroci, raccoltisi a conferenza, convennero che non era possibile provvedere di un Oratorio ogni parrocchia e incoraggiavano il Santo a continuare nell'opera sua, fino a nuova deliberazione. Ma il padrone di casa Moretta, seccato dei lamenti degl'inquilini, diede a Don Bosco lo sfratto.

    “A mali estremi, estremi rimedi!”. Si avvicinava la primavera e Don Bosco affittò, là presso, un pezzo di prato, dove, all'aperto, raccoglieva nelle feste i suoi giovani a giocare e pregare.

    Questi, d'un tratto, salirono a quattrocento! E, proprio in quel tempo, anche vari sacerdoti, di fronte ad uno zelo così nuovo e

    intraprendente, avvicinavano Don Cafasso, sapendolo il confessore di Don Bosco, per dirgli che sarebbe stato un vero servizio alla Chiesa il segnar limiti al suo zelo. “Guai a noi e alla Chiesa, dicevano altri, se Don Bosco non è un prete secondo il cuore di Dio! e lo sarà?”. E Don Cafasso, calmo e sorridente, ascoltava le frequenti rimostranze: e, invariabilmente, con tono grave e con accento profetico, rispondeva a tutti:

  • - Lasciatelo fare! Lasciatelo fare! Ma non lo lasciarono fare i fratelli Filippi, padroni del prato, i quali, vedendo che tanti

    ragazzi, pur radunandovisi una volta la settimana, distruggevano perfino le radici dell'erba, condonandogli la pigione scaduta gli diedero la diffida, con intimazione di lasciar libero il prato tra quindici giorni.

    Povero Don Bosco! Ma durante quest'ultimo tratto della via dolorosa ebbe un'altra illustrazione celeste.

    Rivide la scena viva e parlante dell'Oratorio, con le due chiese, con i cortili pieni di giovani e un gran numero di preti e chierici che l'aiutavano: ed allora più che mai conobbe che il Signore voleva che egli formasse anche un nuovo Istituto religioso, che sposasse gl'ideali che gli erano stati ripetutamente indicati e che aveva cominciato a mettere in opera.

    Il nuovo “sogno” trionfò di ogni sua incertezza e, mentre non aveva più un palmo di terra, cominciò a dire a tutti che presto avrebbe avuto case, chiese e cortili, e aiutanti ai cenni suoi. Fu creduto pazzo e due distinti ecclesiastici, che lo amavano e stimavano, tentarono di condurlo al manicomio, ma non vi riuscirono. Lo stesso Teol. Borei per un istante dubitò egli pure dell'equilibrio delle sue facoltà mentali. Solo Don Cafasso continuava a dire a tutti:

    - Lasciatelo fare, lasciatelo fare! E, talvolta, spiegava il suo pensiero: - Anch'io, diceva, certe cose non le comprendo, ma sapendo che i Santi non vanno

    giudicati umanamente, mi accontento di ammirare quanto fanno! Così, con le frequenti illustrazioni e con l’appoggio di Don Cafasso, Iddio conduceva al

    principio della lunga via che doveva percorrere il Santo Fondatore dei Salesiani.

  • Alla scuola del Cafasso. Da San Giuseppe Cafasso Don Bosco non ebbe né l'ispirazione né le linee direttive per

    le opere di cui Dio lo volle fondatore, ma apprese quella vita di perfetto sacerdote che lo fece degno dei grandi disegni della Provvidenza Divina.

    Uscito dal Convitto Ecclesiastico, continuò a recarvisi quasi ogni giorno, perchè dal santo amico gli venne assegnata una stanza, dove poteva recarsi a qualunque ora; ed egli se ne servì, come di un ritiro preferito, per scrivere le Letture Cattoliche avendo agio di consultare la ricca biblioteca del Convitto, e pel disbrigo della corrispondenza; e non se ne partiva mai senza salire a salutare il Maestro.

    Immancabilmente vi si recava ogni lunedì per confessarsi; e in quel giorno, per molti anni, continuò anche a frequentare le lezioni pratiche di Teologia Morale. E Don Cafasso che, nel tempo in cui lo aveva avuto alunno e ripetitore, aveva ammirato la generosità e la perizia con cui riusciva a far la sua parte, da comparire, a qualcuno, di coscienza stretta e rigorosa quando non cercava altro che mettere in maggior luce le miti e serene dottrine del Maestro, amava anche in seguito giovarsi del suo zelo e del suo cuore.

    E l’Apostolo della gioventù se ne valeva per inculcare ai nuovi confratelli nel sacerdozio come si hanno a trattar i giovinetti in confessione. Invitato a fare da penitente, egli era sempre un ragazzo, ora un umile calzolaio, ora un garzone muratore, e più spesso un piccolo spazzacamino; ed esponeva i diversi casi delle varie coscienze con una naturalezza che incantava. Avveniva talvolta, che il giovane sacerdote al quale parlava si accendesse di troppo zelo e alzasse troppo la voce. Egli taceva, chinava mesto la fronte, e non diceva più una parola. Dopo un po' di silenzio interveniva il Cafasso e: - Non così, non così - ammoniva il giovane sacerdote - voi togliete la confidenza a quel ragazzo -; e vol

  • gendosi a Don Bosco “calzolaio” o “muratore” o “spazzacamino”: - Fai coraggio, gli diceva, mio buon figliuolo; tu hai ancora qualche cosa che ti pesa sul cuore, non è vero? Forse t'è accaduta anche quest'altra cosa, non è vero? Parla con confidenza - “Sì, signore!” rispondeva timidamente Don Bosco. E Don Cafasso con maggior amabilità: -- O caro figliuolo, tu sei qui per levarti ogni peso dalla coscienza: su, dimmi, forse ti sarà accaduto anche questo, non è vero? - Don Bosco, alzava rasserenata la fronte e fissando affettuosamente Don Cafasso: a Sì, ripeteva con slancio, sì, signore: Lei mi cava tutto dal cuore: ma quello là - e additava il sacerdote al quale aveva cominciato ad esporre lo stato di sua coscienza - mi aveva incusso tanta vergogna, che non sarei più venuto a confessarmi!”.

    Ben si può dire, osserva egregiamente Don Lemoyne, che tutto lo spirito, la scienza e la pratica di San Giuseppe Cafasso si trasfusero in lui mirabilmente: la stessa carità nell'accogliere i penitenti, la stessa precisione nelle interrogazioni, la stessa brevità nelle confessioni, sicché in pochi minuti scioglieva coscienze intricatissime; la stessa concisione in quelle poche parole di eccitamento al dolore che passavano l'anima e vi restavano impresse: la stessa prudenza nel suggerire i rimedi. Chi ebbe la fortuna di confessarsi anche una volta da luì, ammirò certo l'unzione e la forza de' suoi consigli.

    Anche per il bel modo di predicare, per l’edificante contegno che portava all'altare, per lo spirito di carità che lo mosse a sacrificare quotidianamente l'intera mattinata nel dare udienze per consigliare, confortare, illuminare chiunque si presentava a lui, Don Bosco ebbe a perfetto maestro il Cafasso.

    Anche quella calma imperturbabile tra le più gravi opposizioni, che fu una delle sue più spiccate caratteristiche, l'apprese da Don Cafasso; come imparò da lui quei “se

  • greti” per compiere un lavoro continuo, che egli dice propri del Cafasso, ma che furono eminentemente caratteristici anche in lui.

    In breve, Don Cafasso non fu solo il suo maestro di Teologia Morale, il consigliere, il confessore, il direttore di spirito, l'amico e il primo confidente, ma il modello di quella perfetta vita e di quel perfetto contegno sacerdotale, che intere popolazioni ammirarono in lui, in Italia e all'estero.

    Le due anime si erano intimamente comprese, perchè mosse dagli stessi ideali: la gloria di Dio e la salvezza delle anime!

    Anche in quella parte del sacro ministero che fu la più caratteristica del Cafasso, l'assistenza ai condannati al patibolo, Don Bosco cercò di seguire il Maestro; e si alternava con lui e col Teol. Borel nel preparare i disgraziati all'ora fatale. Stabilito il giorno dell'esecuzione, se aveva ascoltata la confessione del condannato, la sera della vigilia andava a passare la prima metà della notte al suo fianco, e quando arrivava Don Cafasso o il Teol. Borei, dato un ultimo ricordo all'infelice, tornava a casa, spossato e febbricitante. Don Bosco non si sentì mai di protrarre la veglia fino al mattino per la profonda impressione che ne provava, come non si sentiva di accompagnare il condannato al palco di morte. Una volta sola si fece violenza, e insieme con D. Cafasso si recò ad Alessandria, dove tre rei, tra cui padre e figlio, dovevano salire al patibolo. A Don Bosco venne affidato il povero giovane, di ventidue anni: ma Don Cafasso tosto si avvide dal suo pallore quanto soffriva, e lo fece scendere di là e salire sul carro del padre. Don Bosco ubbidì; ma quando giunse in piazza e vide eseguite le prime due sentenze e il corpo del giovane pender esanime dal laccio, impallidì nuovamente e prima che si eseguisse la terza sentenza si sentì mancare. Se Don Cafasso non lo reggeva, sarebbe caduto a terra. Da quel giorno il Cafasso non osò più

  • invitarlo ad una esecuzione capitale, benché Don Bosco continuasse per più anni a

    consolare e confessare i condannati al patibolo. La riconoscenza di Don Bosco. Don Cafasso fu di Don Bosco e dell'Opera Salesiana anche un insigne benefattore.

    Aveva ereditato dal Teologo Guala una cospicua eredità, che a sua volta lasciò, morendo, alla “Piccola Casa della Divina Provvidenza”: ma in vita se ne servì sapientemente e generosamente per compiere mille opere buone. Ed anche Don Bosco ne godette nei momenti di maggiori strettezze per l'Oratorio.

    Dalle piccole offerte per provvedere regalucci ai primi alunni, alla spesa del pulpito della chiesa di S. Francesco di Sales, ai sussidi per il pane dei ricoverati e per le nuove fabbriche che venivano realizzando le illustrazioni accennate, non sappiamo dire quanto abbia elargito a Don Bosco; ma è certo che gli fece delle offerte anche generose, e che, per il tramite suo e dell'instancabile Teol. Borel, giunsero a Don Bosco le prime offerte delle nobili famiglie torinesi, che incominciarono, così, a conoscere, ad ammirare, e a sostenere l'Opera Salesiana.

    Due delle rare volte che Don Cafasso fu visto scendere a Valdocco, fu mosso da questa carità.

    La prima fu nel 1851, quando portò a Don Bosco l'offerta di 10.000 lire della contessa Casazza-Riccardi, le quali con altre 20.000 date a prestito dall'Abate Antonio Rosmini, servirono per la compera di casa Pinardi, dove ebbe sede stabile il primo Oratorio Salesiano; e Don Bosco, nell'atto notarile, ne volle comproprietario, insieme col Teol. Roberto M urial do e col Teol. Borel, Don Cafasso.

    L'altra volta fu nel 1860, poco prima che morisse, per vedere i lavori di ampliamento della nuova portieria (che

  • nel 1913 cedette il luogo alla costruzione parallela al Santuario di Maria Ausiliatrice nel primo cortile dell'Oratorio). Egli era rimasto unico comproprietario, con Don Bosco, di tutti gli stabili dell'Oratorio; e per quei nuovi lavori, di cui aveva esaminato il disegno, aveva fornito la somma occorrente. Diede uno sguardo alla costruzione e la sua benedizione all'Oratorio, e se ne partì. E fu l'ultima volta che discese a Valdocco.

    Qual fosse la riconoscenza di San Giovanni Bosco per tanti favori, lo può comprendere chi conosce l'anima del Fondatore delle Opere Salesiane, che vedeva nei suoi benefattori non tanto gli angeli della Provvidenza, ma gli autori del bene che veniva operando, considerando sé un semplice manovale, che senza il loro aiuto non avrebbe potuto far nulla. “Senza la vostra carità, egli scriveva a tutti i benefattori prima di morire, io avrei potuto fare poco o nulla: con la vostra carità abbiamo invece cooperato, con la grazia di Dio, ad asciugare molte lagrime e a salvare molte anime”.

    Dolorosissima, per lo stesso motivo, fu per Don Bosco la morte del Cafasso. Erano giorni tristi. Un mese prima, e precisamente il 26 maggio 1860, Don Bosco aveva

    subito una perquisizione domiciliare umiliante, per la quale anche Don Cafasso sofferse assai. E il 6 giugno toccava a lui, al Cafasso; e quell'onta, frutto d'infondati sospetti e d'insinuazioni maligne, gli parve così grave per il carattere sacerdotale, che la sua fibra, affranta dalle fatiche e dalle continue penitenze, superiori alle sue forze, ne ebbe il tracollo. L'u giugno cadde malato; e i medici dissero che la sua vita era alla fine.

    Don Bosco si recava ogni giorno a visitarlo, ed avrebbe vivamente desiderato di raccoglierne l'ultimo respiro, ma non gli fu concesso. L'ultimo giorno, anzi, fu strappato dal suo letto con brutte parole: - Vada, vada via - gli dis

  • sero - lo lasci tranquillo! - E lo spinsero fuori di camera, soggiungendo: - Lei poi sarebbe capace di dire a tutti che in punto di morte Don Cafasso ha visto la Madonna!

    C'era in queste gocce di fiele tutto il riconoscimento della venerazione che Don Bosco nutriva per il Cafasso e dell'intima carità, non compresa da qualcuno, che univa le due anime (vedi nota fondo pagina).

    A Don Bosco giunse la notizia della santa morte del Maestro, mentre, seduto a tavola, narrava ai suoi figli, con molte lacrime, ciò che gli era occorso. Tornò immediatamente al Convitto, e il pianto che si levò forte alla vista e al bacio della salma benedetta, notato e ricordato dai presenti, fu il suo.

    Diciassette giorni dopo, con un solenne funerale nella chiesa dell'Oratorio, al quale presero parte molti cimici ed ammiratori del defunto, volle mostrare al compianto benefattore la sua riconoscenza, e lesse egli stesso l'orazione funebre.

    Quel discorso piacque tanto che il Can. Galletti, suc Nota. Don Cafasso e Don Bosco - scrive Mons. Carlo Salotti nella vita del Cafasso - sono due

    grandi Santi moderni, ben diversi tra loro nei lineamenti morali, nelle finalità che si prefissero, nei mezzi che adoperarono, e nella palestra in cui esercitarono il loro apostolato. Malgrado tanta diversità, si amarono, si stimarono e si aiutarono vicendevolmente. Pochi Santi, come questi due figli di Castelnuovo, si compresero tra loro in una comprensione intima e piena”. Ma qualcuno dei contemporanei non lo capì. “Al Convitto - nota il Salotti - la presenza di quel sacerdote operoso e intraprendente (S. Giovanni Bosco) era come il fumo negli occhi per l'economo Don Begliati; ma il Cafasso godeva di quella presenza (e largheggiava con lui di soccorsi), poiché non ignorava che quei denari, nelle mani di Don Bosco, erano rivoli d'oro che andavano a salvare tanta gioventù ed a preparare la restaurazione della società a traverso la educazione giovanile». Fine nota.

  • ceduto al Cafasso nel governo del Convitto, volle affidare a Don Bosco anche il nuovo elogio funebre per i funerali, detti di trigesima, che si celebrarono il 30 agosto nella chiesa di S. Francesco d'Assisi. Don Bosco annuì e, profondamente commosso, commosse tutto l'uditorio, tra cui non meno di trecento sacerdoti.

    Al momento di salir sul pulpito, si accorse che non aveva in tasca un fazzoletto bianco; e il sac. Michelangelo Chiatellino di Carignano corse in sacrestia, prese un manutergio, o tovagliolo d'altare, e glielo portò. “Quando scese dal pulpito - narrava Don Chiatellino - Don Bosco mi restituì il manutergio così inzuppato di lacrime, che pensai di non restituirlo alla sacrestia e lo tenni per me, e l'ho ancora, e lo conservo prezioso come ricordo di due Santi”.

    Anche Don Bosco conservò alcuni oggetti appartenuti al Cafasso, come care reliquie. Da anni aveva sul suo tavolo il Crocifisso che teneva sul suo scrittoio il Cafasso, quando nel 1878 un ottimo sacerdote, curato al Duomo di Cuneo, recatosi all’Oratorio e salito a far visita al Santo, vinto dalla carità che irradiava ogni sua parola, gli diede in elemosina tutti i denari che aveva con sé, tanto che dovette chiedere in prestito a Don Savio, Rettore del Rifugio, il necessario per tornar a casa; ma in fine egli pure domandò un ricordo a Don Bosco:

    - Che desidera? - gli rispose il Santo. E il sacerdote, prendendo in mano il Crocifisso: - Questo! - rispose. Don Bosco ebbe un

    lampo di dolorosa sorpresa: - È un caro ricordo di Don Cafasso! - esclamò;

  • e ricomponendosi sull'istante: - Lo prenda egualmente - proseguì - glielo dono volentieri! - ed obbligò il sacerdote Don Celestino Allisiardi, che si fece Gesuita e fu confessore di Benedetto XV, ad accettarlo.

    Il degno sacerdote, non senza rincrescimento per il grave sacrifizio che involontariamente gli aveva imposto, prese con divozione quel caro ricordo che conservò egli pure come preziosa memoria di due Santi.

    Per la glorificazione del Maestro. Don Bosco era così convinto della santità di Don Cafasso, che a promuoverne la fama

    cominciò a pubblicare i due discorsi che aveva pronunziati. “Dopo la Messa delle esequie [del 10 luglio all'Oratorio] - scrive nel 2° fascicolo - ho

    letto il seguente ragionamento che si può appellare biografia funebre accomodata alla condizione e desiderio dei lettori. A questo segue un altro discorso funebre, esposto nella chiesa di San Francesco d'Assisi. Non era mia intenzione di dare tali scritti alle stampe, essendo questi semplici e famigliari discorsi indirizzati specialmente ad una radunanza di amici e di giovinetti, che godo poter chiamare miei cari figliuoli nel Signore; ma le replicate domande fatte da persone autorevoli, mi hanno determinato di pubblicarli».

    E ripeteva chiaramente quest'esplicita dichiarazione: “Questa biografia è un compendio della vita del Sac. Cafasso, che ho in animo di compilare, se il Signore nella sua misericordia mi darà sanità e grazia».

    Difatti anche sulla copertina del 1° fascicolo aveva posto questo “Avviso: Nel desiderio di fare una più estesa relazione delle azioni del Sac. Cafasso, si pregano tutti quelli cui fosse noto qualche fatto o detto edificante, spettanti al

  • medesimo, di volerli scrivere e farli pervenire al Sac. Bosco Giovanni in Torino». Com'ebbe iniziato la costruzione del Santuario di Maria Ausiliatrice, fece disegnare da

    Rollini e Daniele, allievi dell'Oratorio, un gran ritratto del Cafasso e riprodurlo in molte copie dalla Litografia Doyen, e ne restano ancora parecchie, con sotto queste parole: “Il Sac. Giuseppe Cafasso, modello e maestro del Clero, - Padre dei poveri - Consigliere dei dubbiosi - Consolatore degli infermi - Conforto degli agonizzanti - Sollievo dei carcerati - Salute dei condannati al patibolo. - Nacque in Castelnuovo d'Asti l'u gennaio 1811. - Morì Prefetto di Conferenze e Rettore del Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d'Assisi il 23 giugno 1860. - Sua ultima volontà: “Spero di vedervi tutti nel Paradiso!” E lo donava ai benefattori e lo poneva in vendita “a beneficio della chiesa di Maria Ausiliatrice in Valdocco al prezzo di L. 5”.

    Nessun altro più di Don Bosco cooperò all'odierna glorificazione del Cafasso. Ne aveva sempre il nome sul labbro; con venerazione profonda ne ricordava gli esempi di virtù, specialmente la fede, la carità, la calma, l'angelico candore, l'umiltà profonda, e l'alto spirito di mortificazione e di penitenza. Lo rivide anche nei suoi “sogni”, e sempre illuminato Maestro. Quali memorie edificanti sarebbero giunte a noi, se egli avesse potuto scriverne la vita.

    E non la molteplicità o la gravità delle occupazioni lo distolsero dal santo proposito. Aveva già raccolto preziosi documenti: aveva già letto molti scritti del Cafasso; e da un giorno all'altro si sarebbe accinto all'opera, quando - chi lo crederebbe? - fu costretto a rinunziarvi. Ce lo confidava, di questi giorni, il venerando Can. D. Giuseppe Allamano.

  • “Don Bosco era al termine dei suoi giorni. Non teneva ancora il letto, ma era già alla fine. Fui a trovarlo, e, come sempre, mi parlò di Don Cafasso. Con quella confidenza che inspirava gli dissi:

    » - Ma, intanto, lei, Don Bosco, non ha scritto la vita di Don Cafasso, come aveva promesso!

    » - Non è mia colpa! - esclamò il Santo. - Per me ti assicuro che se le occupazioni mi avessero impedito di farlo prima, l'avrei fatto in questi ultimi anni, e sarei pronto a farlo anche ora, se avessi i documenti. Solo sullo zelo che Don Cafasso spiegò agli Esercizi di S. Ignazio, avrei potuto scrivere un volume! Ascolta come è andata la cosa.

    » E mi narrò come pochi anni dopo la morte del Cafasso, gli si presentò, con altri, Don Begliati, l’economo del Convitto, il quale gli disse: - Don Bosco, noi non vogliamo che lei scriva la vita di Don Cafasso; ci dia tutti gli scritti che ha e i documenti che ha raccolti.

    » Don Bosco rispose: - L'incarico di scrivere la vita di Don Cafasso mi venne dal Rettore Don Galletti; e non da voi: quindi non posso declinare a voi l'invito, e non posso darvi nulla. - E restò fermo nel diniego.

    » Dopo qualche tempo si assentò da Torino. Don Begliati lo seppe e se ne approfittò. Tornò all’Oratorio e con fare deciso, come se ne avesse urgente mandato da parte del Rettore, fece aprire l'armadio, dove Don Bosco conservava gli scritti di Don Cafasso e i documenti raccolti, e li portò via.

    » - Ecco, concludeva D. Bosco, perchè non ho scritto la vita di Don Cafasso; mi portarono via tutti i documenti, e non ne seppi più nulla! Ma tu puoi rimediare: scrivi una circolare, domandando notizie della vita e delle virtù di Don Cafasso; mandala a quanti lo ricordano, o l'hanno conosciuto; e vedrai che ti arriverà tanta materia da poter scrivere un bel volume.

  • » Accolsi con riconoscenza il consiglio di D. Bosco, - terminava il Can. Allamano, - e lo mandai ad effetto; ed ebbi davvero tante memorie che il Can. Colombero, Curato di S. Barbara, potè scrivere la prima vita del Cafasso, e stamparla nel 1895.

    Le memorie di Don Bosco. Ma l'anno stesso della morte del Cafasso, Don Bosco pubblicava i suoi opuscoli sul gran

    Servo di Dio presso la Tipografia G. B. Paravia. A Valdocco aveva già aperto le scuole professionali dei calzolai, dei sarti, dei legatori di libri, dei falegnami-ebanisti; aveva pure iniziato una piccola libreria, ma non ancora la scuola tipografica, che oggi è lieta di ristampare queste pagine.

    Il primo fascicolo “Rimembranza storico-funebre dei giovani dell'Oratorio di San Francesco di Sales verso il Sacerdote Cafasso Giuseppe, loro insigne benefattore, pel Sac. Bosco Giovanni - Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1860”, conteneva, a mo' di prefazione, un breve ragguaglio sul funerale celebrato nell'Oratorio di S. Francesco di Sales e l'elogio detto in quell'occasione e, in appendice, alcuni scritti ascetici del Santo.

    “Siccome so, notava Don Bosco, star molto a cuore delle persone divote di aver qualche ricordo di Don Cafasso, ho pensato di soddisfare a questo pio desiderio, aggiungendo in forma di appendice la stampa di due esercizi di pietà, composti ed usati da lui medesimo. Questi sono: - Ultima volontà per disporsi alla morte, ossia Esercizio per la Buona Morte, - che egli soleva fare una volta al mese: l'altro - Visita al SS. Sacramento per ciascun giorno della settimana - la quale visita egli faceva ogni giorno invariabilmente. Il Signore Iddio, che secondo gl'imperscrutabili suoi

  • decreti ci ha voluto privare di un così raro e prezioso amico, faccia almeno che le azioni e gli scritti di lui, ci siano di eccitamento ad imitarlo nella sua grande carità e nelle altre virtù. Così facendo io spero che saremo sicuri di battere come lui quella strada che conduce all'eterna felicità”.

    Il 2° fascicolo: “Biografia del Sac. Giuseppe Cafasso, esposta in due ragionamenti funebri dal Sac. Bosco Giovanni - Torino, Tip. G. B. Paravia e Comp., 1860” usciva nelle Letture Cattoliche in novembre e dicembre di quell'anno. Riportava integralmente il primo fascicolo, e a questo, prima dell’appendice, preannunziato da breve inciso aggiunto in prefazione, seguiva il nuovo elogio funebre, detto nella chiesa di San Francesco d'Assisi, con una breve descrizione delle esequie, della sepoltura e di quel secondo funerale.

    Nell'edizione presente è integralmente ristampato il secondo fascicolo, con nuovi titoli alle varie parti e con ordine cronologico, perchè i vecchi titoli nella faustissima occasione presente sarebbero sembrati inopportuni.

    Ecco l'indice del secondo fascicolo di Don Bosco: 1. Funerale celebrato nell'Oratorio di S. Francesco di Sales in memoria del Sac.

    Cafasso Giuseppe. 2. Discorso funebre pel Sac. Cafasso Giuseppe. 3. Esequie e sepoltura del Sac. Giuseppe Cafasso. 4. Solenne funerale celebrato nella chiesa di S. Francesco d'Assisi. 5. Ragionamento funebre esposto il giorno XXX agosto nella chiesa di S. Francesco

    d'Assisi.

  • In appendice: a) Pensieri del Sac. Cafasso Giuseppe per passare bene la giornata. b) Esercizio della Buona Morte che Don Cafasso praticava ogni mese nel modo

    seguente. - Ultima volontà per disporsi alla morte. c) Speciali proteste e dimande, distribuite per ciascun giorno della settimana, che Don

    Cafasso faceva nella visita al SS. Sacramento. Ed ecco i nuovi titoli e l'ordine con cui le stesse memorie vengon riprodotte nella

    presente edizione: 1. Prima apoteosi del Santo (il n. 3 precedente), 2. Altra solenne dimostrazione (il n. 1, tranne la parte qui riportata a pag. 32 e 35, e il

    n. 4). 3. San Giuseppe Cafasso, maestro di ben vivere e di ben morire (il n. 2). 4. San Giuseppe Cafasso, modello di vita sacerdotale (il n. 5). 5. Caro a Dio e agli uomini (le iscrizioni dei funerali, riportate in nota al n. 1 e al n. 4). 6. Dagli scritti del Santo (l'appendice, dove, in capo a ciascuna visita al SS.

    Sacramento, abbiamo aggiunto l'oggetto della preghiera). Queste pagine, care allora, tornano particolarmente interessanti oggi, perchè

    riavvicinano mirabilmente la data della morte a quella della glorificazione del Cafasso. La prima è qui descritta “con parola così semplice, calda e patetica” - come diceva il giornale L'Armonia, - che fin d'allora fece pensare all’esaltazione presente; e questa, anche dopo ogni altra più ampia documentazione, è anch'essa

  • così bene illustrata nei discorsi di Don Bosco, che difficilmente verrà messa in miglior luce da qualunque panegirico. A parer nostro, queste memorie su San Giuseppe Cafasso, scritte da San Giovanni Bosco, - ricordate con amplissima lode dallo stesso S. Padre Pio XI nel Decreto di Beatificazione - si leggeranno con ammirazione anche dai posteri, come quelle di S. Bonaventura sul Poverello d'Assisi.

    Sac. Angelo Amadei Salesiano

  • PRIMA APOTEOSI DEL SANTO. Il 23 giugno 1860 volgeva alla metà del suo corso, quando si sparse la notizia della

    morte del sacerdote Cafasso. Quest'uomo, che fino allora visse quasi sconosciuto al mondo, cominciò ad apparire grande. Tu avresti veduto, come accadde alla morte de' Santi, accorrere mesta alla funebre stanza del sacerdote una folla sempre crescente di persone, che cercava un lenimento al dolore nel vedere quell'aria di paradiso spirante dal suo volto, nel baciar quelle mani, ministre di tante consolazioni spirituali e temporali, nel tagliuzzare degli abiti, dei panni, dei capelli, nel far toccare il suo corpo con oggetti per questo contatto divenuti preziosi. Il popolo con questo slancio di reverenza veniva a dire: “È morto il sacerdote secondo il cuore di Dio!”, e mostrava il credito di santo in che teneva il defunto.

    La mattina del 25, chiuso nella cassa, era trasportato nella chiesa di S. Francesco. Qui, dai suoi più cari, che avevan divise con lui le cure [del Convitto Ecclesiastico], ebbe i primi pubblici suffragi ed onori. Non è facile dire il concorso d'ogni condizione di

  • persone, dal sacerdote al laico, dal patrizio più illustre al bracciante e al povero, che con un solo affetto in cuore, con una sola preghiera sul labbro, assisterono alla Messa da requiem.

    Per tutta la funzione, e ancor più finite le esequie, era un accalcarsi continuo di gente intorno alla funebre bara, una pressa ad avvicinar più che si poteva la cassa, un baciar di quel drappo mortuario, un versar di lacrime, un sospirar forte, un deporre di fiori e gigli, così bene esprimenti la virtù e il candore del perduto sacerdote. Questo commovente spettacolo metteva tutta l'anima in preda a teneri sentimenti, così che il piangere era un bisogno, un conforto, un misto di religioso dolore e di affettuose espansioni.

    Giunta l'ora fissata per la sepoltura, sfilarono varie compagnie religiose, la corporazione de' Francescani e, da ultimo, una lunga fila di sacerdoti muniti di torce. Questo decoroso accompagnamento, che pur era imponente, acquistava un'insolita pompa per il concorso di migliaia e migliaia di persone, che lungo le vie attendevano con l'eloquente loro presenza a dare un tributo d'onore e di ossequio alla salma del defunto. E chi faceva parte di questa funzione, udiva, a destra e sinistra, spontanei elogi della santità, dello zelo, della generosità del venerando sacerdote, e vedeva le lacrime di tutti spargersi miste alla preghiera, interrotta dai singhiozzi.

    Si giunse infine alla parrocchiale dei Santi Martiri, e quella chiesa, ampia assai, era stipata di fedeli che agognavano di assistere alle preci rituali, alla Messa can

  • tata praesente cadavere, alle solenni esequie. Clero e popolo, signori e poveri, uomini e donne, provetti e fanciulli, circondavano l'altare e il feretro, pregando pace e requie all'anima bella di Don Cafasso. Quelle auguste cerimonie terminarono; si spensero i molti lumi, e al mesto canto tenne dietro un religioso silenzio, interrotto solo da un cupo mormorio degli astanti, che dolenti separavansi da quelle care spoglie.

    I confratelli della confraternita di S. Rocco levarono sulle spalle il prezioso deposito e si diressero al campo santo. Qui crebbe il trasporto di venerazione verso quel santo uomo. Molta gente, d'ogni ordine di persone, prese a seguire il feretro, recitando preghiere e rosari, alternati tra sacerdoti e popolo. La piccola chiesa del cimitero torinese non potè contenere la moltitudine che seguiva quelle venerande spoglie. Impartita l'assoluzione funebre, vennero trasportate in una camera mortuaria, ove fu una gara nel dividersi i fiori soprastanti alla cassa, quasi preziose memorie e del defunto sacerdote e della pietosa funzione.

    Prima però di dividersi da quelle care reliquie, si mandò dai fedeli, per la prima volta dal cimitero, a quell'anima candida un suffragio, che partiva da cuori spezzati dal dolore e dalla ineluttabile necessità di pur separarsi anche dai resti del suo frale. Dissi per la prima volta, e dissi bene, poiché nei giorni che venner di poi, la sua sepoltura fu visitata da persone memori de' suoi antichi benefizi e speranzose di nuovi; e su quelle fredde sabbie s'immolò da quel di un continuo sacrificio di suffragi e di invocazioni.

  • Chi scrive visitò quel sepolcro, e tornò a sentire che il cristiano cimitero, sempre eloquente maestro a chi lo perlustra con lo spirito della fede e con la preghiera della religione, diviene un luogo indispensabile al cuore, quando tra quelle tombe dimorino le ceneri dei nostri diletti benefattori.

  • ALTRA SOLENNE DIMOSTRAZIONE. Fra i luoghi che furono oggetto di beneficenza del Sac. Cafasso Giuseppe fu questa

    nostra Casa, detta Oratorio di S. Francesco di Sales. La perdita di questo insigne benefattore fu con gran dolore sentita tra noi, e, sebbene fossero già state fatte speciali preghiere con varii uffizi di cristiana pietà in suffragio dell'anima sua, era tuttavia nel desiderio di tutti il tributargli un atto di pubblica riconoscenza con un funerale sontuoso per quanto comporta la povera nostra condizione.

    Il giorno io luglio, diciassettesimo dopo il di lui decesso, fu scelto per dare questo segno di gratitudine.

    Due iscrizioni vennero affisse alle entrate della Chiesa, ed altre nell'interno della medesima intorno al feretro. Ciascuna delle iscrizioni del feretro era accompagnata da figure allusive agli insigni suoi meriti.

    I medesimi giovani, con sollecitudine, prepararono un canto musicale nel miglior modo loro possibile. Alcune preghiere precedettero ed accompagnarono la sacra funzione. Secondo l'uso di questa casa i giovani, premessa la debita preparazione, fecero tra la Messa la

  • Santa Comunione, che certamente è uno dei mezzi più efficaci per suffragare le anime dei fedeli defunti. Tra i nostri giovani e parecchi distinti personaggi, amici o ammiratori del defunto, la chiesa era piena di gente.

    Intanto si approssimava il dì trigesimo, e il Convitto gli apprestava tutto quel maggior

    onore che gli era consentito dai disponibili mezzi. Tuttavia il desiderio di molte private persone vagheggiava una dimostrazione solenne in maniera che l'uomo di tutti ricevesse da tutti quanti il volessero una testimonianza degna di lui. Alcuni, riconoscenti ed apprezzatori de' suoi meriti, si videro, s'intesero, e con coraggio intrapresero a disporre per un decoroso funerale, raccogliendo offerte nella sfera delle persone che più in vita l'avevano avvicinato, o comunque ammirato.

    Ed era bello il vedere come a questo pietoso scopo il povero deponeva il suo obolo col rincrescimento di non poter fare di più, e l'agiato signore largiva con piena soddisfazione l'oro e l'argento. E quando si rifletta che in pochi dì, e in una stagione di viaggi e di villeggiatura, si raccolse tanto da sopperire vistose spese, si dovrà confessare che, owe arrida la Religione, è possibile e facile mandar le più ardue imprese a felice esecuzione.

    Dal cielo l'anima benedetta di Don Cafasso ha senz'altro goduto assai nello scorgere il concorso del

  • povero, del prigioniero, dell'agiato, del ricco, e sopratutto di un illustre patrizio, che nel dare le volute disposizioni eccedeva la prevedibile entrata, perchè sapeva che la maggior pompa dell'apparato non avrebbe mai ecceduto la generosità del suo affetto e della sua mano.

    La mattina del 30 agosto aprivasi la chiesa di San Francesco per la mesta cerimonia, e l'aspetto maestoso di quel santo luogo faceva dire a più d'uno che simile ricchezza non avrebbe disdetto a regal principe, non avvertendo che il defunto per cui erasi preparata quell'onoranza godeva in effetto l'impero dei cuori.

    Tutto l'interno della gran croce della chiesa, come pure la cupola e la vòlta, era coperto di drappi a frange d'oro; ma quel che più colpì si fu quel costante intreccio del bianco e del nero, cosicché simile apparato veniva a mescere al lugubre pensiero della morte il lieto pensiero della immortalità, e mentre ti chiamava al suffragio secondo lo spirito della Chiesa, elevava lo spirito al cielo, ove ti pareva contemplar l'anima del caro estinto.

    Un gran calvario, a toga d'argento, dominava tutta la chiesa dall'alto del coro; l'altar maggiore presentavasi tutto scoperto e bruno, e sormontato dal Crocifisso in mezzo ad argentati candelieri; una tomba ricca, di buon gusto e circondata da gran quantità di torce, sorgeva a pochi passi dalla balaustra, e, lungo la chiesa, i lampadari posti in mezzo a grandiosi cortinaggi mandavano una luce, che si addiceva assai bene nel vasto aere ombreggiato artisticamente.

    Una pia signora aveva preparato quattro corone di gigli da collocarsi ad ornamento nel catafalco, col bel

  • pensiero che così venisse simboleggiato il candore dell'anima di D. Cafasso. Ma il desiderio di attenersi esattamente al disposto delle ecclesiastiche rubriche consigliò di dare a queste corone un'altra destinazione, che fu quella di collocare ai pie di Maria Immacolata, il cui altare si ebbe cura che facesse bella mostra di sé, col disporre una serie di lumi ben compartiti innanzi l'immagine della Vergine, e un bell'ordine di vasi con piante di pini, frammezzo ai dorati e ricchi candelieri. Mirabile intreccio che ti parlava nel suo insieme di candore, di speranza e di viva carità; più ancora, quei gigli, quei lumi, quei vasi di verdura innanzi a Maria m quel di svelavano di per sé il pensiero propostosi di significar con questo la gran pietà del defunto verso Maria, e la gran predilezione di Maria verso il defunto.

    Qui sarebbe opportuno il discorrere delle iscrizioni dettate dal prof. Don Carlo Ferrerò, iscrizioni che ben altri poteva fare di eguali per merito letterario, ma non certo eguali per unzione e pietà.

    Fin qui non si fece parola della funzione, o meglio ancora, della successione delle funzioni, e giova darne un cenno relativo.

    Si notò con gran compiacenza che un gran numero di comunioni ebbe luogo in quel mattino, e questa divota espressione del principale spirito ammiratore del funerale mostrò la vivezza della cattolica Fede nel porgere al defunto il precipuo suffragio dopo quello di sacrificio incruento, anzi, se non era il timore di esigere troppo, e insieme il non volere introdurre novità

  • di sorta, quelle comunioni si sarebbero riserbate all'ora della Messa solenne. Con tutto ciò si deve dire, ad onor del vero, che riuscirono egualmente edificanti nel tenore in che vennero fatte.

    Secondo i calcoli basati sulle circostanze della stagione autunnale, erasi a temere che la chiesa in altri mesi troppo angusta per simile funzione, in questo dovesse riuscire troppo ampia; ma il fatto smentì i timori; perchè i fedeli, buon tempo prima della Messa solenne, già si affollavano ansiosi per assistere alla cara funzione, fino a mostrare con la loro presenza per ben due ore e mezzo, quanto gustassero quella degna testimonianza di affetto, data al degno ecclesiastico.

    Per ciò che spetta all'affluenza del clero si deve confessare, senza timor di esagerazione, che furono non meno di tre centinaia gli accorsi, non solo da tutte le parti della città, ma eziandio da distanti paesi. Ed erano essi una parte solo dei beneficati e degli ammiratori di D. Cafasso, giacché moltissimi altri che la stima e la riconoscenza avrebbe condotti alla funzione, furono dal dovere trattenuti al loro posto. Un centinaio dei presenti vestirono la cotta, e, disposti intorno all'altar maggiore e al feretro, assistettero il celebrante, che fu il canonico Anglesio, Padre della “Piccola Casa della Divina Provvidenza”.

    Quel Sacrifizio, sempre solenne, celebrato con tanta pompa, assistito da si numeroso clero e popolo, offerto in suffragio e memoria di un dilettissimo sacerdote, offriva un non so che di patetico, di tenero, di celeste, che tu adoravi, godevi nel medesimo istante, con un atto solo. E chi non ravvicinò, in quei momenti,

  • quell'augusta cerimonia a quell'altra della Chiesa primitiva, in cui sulla tomba del martire offrivasi a Dio il Sacrifizio della religion d'amore, nel mentre stesso che una ferma credenza stava profonda nel cuor del Pontefice e degli assistenti, che, cioè quel Sacrifizio fosse più in invocazione e onore, che in espiazione e suffragio del caro estinto?

    Ad aggiungere decoro alla funzione eravi l'accompagnamento di scelta musica composta e diretta dal cav. Rossi, così valente maestro nelle religiose melodie.

    Tra il canto severo e grave delle preci della Messa, e la soave e religiosa melodia dell'orchestra, tra le preghiere del clero e del popolo, progredì al fine quel Sacrifizio.

    Allora ho letto il ragionamento, più sotto stampato, in cui il sacerdote Cafasso è descritto modello di vita sacerdotale.

    Le prescritte esequie vennero a mettere fine a quella solenne funzione, la quale, per essere stata indirizzata ad un amico di Dio, lascia luogo a sperare grandi benedizioni solite a coronare il funerale dei santi, benedizioni tanto più da aspettarsi perchè nei disegni della Divina Provvidenza è disposto, e la storia lo attesta, che sia accettata la immolazione spontanea che fa il giusto di sé per lo scampo dai più tremendi castighi minacciati ai rei; e in ciò sia benedetta la premura de' buoni che cercano di onorar la memoria dei diletti del Signore.

    E giusto fu dichiarato il Defunto e diletto dal Signore. Questa è la voce del sacerdote e del laico, del

  • ricco e del povero, dell'afflitto e del carcerato, dell'anima condotta alla perfezione e del peccatore riconciliato con Dio. E se mai fu vero che la voce del popolo è la voce di Dio, mi piace crederlo questa volta, in cui il popolo, senza voler prevenire i giudizi della Chiesa, nello slancio dell'affetto chiamò “Santo” il defunto, vide nei funerali maestosi i primi onori, e secondo l'espressione adoperata da qualche persona, non corriva nelle parole e nell'apprezzamento delle cose, i primi vespri di un'altra solennità, e non si acconciò ad appellar altrimenti questa funebre pompa, che col nome di festa.

    Comunque sia la cosa, la funzione ebbe il suo termine, com'è proprio delle cose umane quaggiù, sian pur esse giuste, preziose e sante. Però il finir della funzione, l'uscir da quella chiesa, non equivalse a smettere la ricordanza di ciò che si era là dentro passato; e l'anima, al lasciar quel luogo santo, sperimentava vivo rincrescimento che troppo presto si fosse involato quel mattino, troppo presto si fosse cessato dall'attestare in faccia al mondo la riconoscenza del cuore all'Uomo di. Dio.

    Buon per noi che rimane all'affetto un rifugio, ed è il poter visitar la tomba che chiude le spoglie mortali del Sacerdote così benemerito delle anime, e il poter avvicinare quelle ceneri che sono eloquenti anche nel nudo avello.

    Oh! amato Don Cafasso, ogni qualvolta vedrai dal Cielo raccolti intorno al tuo sepolcro, come ad un luogo di ambito convegno, que' tali che già ebber da te consiglio, coraggio, ed affetto, e che dopo averti

  • mostrata una qualche riconoscenza ripareranno alla tua tomba, quasi ad un porto fra le tempeste, tu fa' sentire l'effetto che si provava quando ti approssimavano in vita; allora questi giorni passeranno men tristi per la tua dipartita e le anime da te beneficate continueranno a usufruire dell'opera tua, forse meno sensibile, ma certo più efficace ancora.

  • SAN GIUSEPPE CAFASSO maestro di ben vivere e di ben morire. Discorso. Non so, miei cari giovani e venerati signori, non so se l'argomento di questa mattina

    debba per noi considerarsi come oggetto di dolore o di consolazione. Certamente, se nella morte del sacerdote Cafasso noi consideriamo la perdita di un benefattore della misera umanità, noi abbiamo gravi motivi di dolerci e piangere, come colpiti da grave sciagura. Sciagura per i buoni, infortunio per i poveri, disastro per il clero, calamità pubblica per la religione. Ma se giudichiamo questa perdita nel cospetto della fede, noi abbiamo ragionevole motivo di cangiare l'affanno in consolazione, perchè se abbiamo perduto un uomo che ci beneficava sopra la terra, abbiamo ferma fiducia d'aver acquistato un protettore presso Dio in cielo.

    Difatti, se noi diamo un'occhiata sopra la vita del sacerdote Cafasso, sopra l'innocenza dei suoi costumi, sopra lo zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime, sopra la sua fede, speranza e carità, umiltà e penitenza, noi dobbiamo conchiudere che a tante virtù sia

  • stato compartito un gran premio, e che egli, morendo, non abbia fatto altro che abbandonare questa vita mortale, piena di miserie, per volar al possesso della beata eternità.

    Inoltre, secondo San Paolo, le virtù dell'uomo mortale sono imperfette, e non sono neppur degne di essere paragonate con le celesti; perciò, se la carità del sacerdote Cafasso fu grande in terra, quanto più lo sarà ora che lo crediamo in cielo? Quindi, se in terra egli ci beneficava come uno, in cielo ci beneficherà come dieci, come cento, come mille. Fortunati adunque coloro che poterono godere della carità di Don Cafasso quando era sopra la terra, ma assai più fortunati essi e quelli tutti che ora lo riconoscono protettore presso Dio in Cielo.

    Affinché siamo persuasi di quello che dico, vi prego di accompagnarmi con la vostra pietosa attenzione, mentre vi andrò esponendo le principali azioni della vita di quest'uomo meraviglioso.

    Dico di esporvi soltanto le principali azioni, perchè la maggior parte di esse sono ancora sconosciute: col tempo, però, si andranno con diligenza raccogliendo, a fine di farne glorioso deposito per la storia.

    Pertanto mi limiterò a quelle sole cose, che io stesso ho veduto, oppure udito. Queste pure debbo in parte tacere, sia per tenermi alla brevità voluta in un discorso,

    sia perchè molte di esse mi cagionerebbero troppo grande commozione, da cui forse mi sarebbe impedito di poterle esporre.

    Tuttavia, stando pure alla brevità di un discorso, e tenendomi al solo racconto delle cose per lo più note

  • a quanti lo conobbero, credo che esse basteranno a persuaderci che il sacerdote Cafasso Giuseppe visse di una santa vita, cui tenne dietro una santa morte.

    Sono questi i due pensieri che primi ci corrono alla mente ricordando questo caro e compianto amico; e questi due pensieri sono la materia del nostro trattenimento. Mentre andremo ricordando le virtuose azioni e la preziosa morte del sacerdote Cafasso, diremo che egli fu maestro di ben vivere e modello a tutti quelli che desiderano di fare una santa morte.

    Giovinezza. Accade a molti giovinetti che, per lo sfortunato incontro di perversi compagni, o per la

    trascuratezza dei genitori e spesso ancora per la loro indole infedele alla buona educazione, dalla più tenera età diventano preda infelice del vizio, perdendo, così, l'inestimabile tesoro dell'innocenza, prima di averne conosciuto il pregio, e divenendo schiavi di Satana, senza nemmeno aver potuto gustare le dolcezze dei figliuoli di Dio. Per Don Cafasso non fu così.

    Nacque egli nel gennaio del 1811, in Castelnuovo d'Asti, da onesti contadini. La docilità, l'ubbidienza, la ritiratezza, l'amore allo studio ed alla pietà del giovinetto Cafasso, fecero si che presto divenisse l'oggetto della compiacenza dei genitori e dei maestri.

    La cosa caratteristica fin da quella giovanile età era la ritiratezza congiunta ad una propensione quasi irresistibile a far del bene al prossimo. Egli stimava giorno il più felice, quando poteva dare un buon consiglio, e

  • riusciva a promuovere un bene o ad impedire un male. All'età di dieci anni la faceva già da piccolo apostolo in patria. Fu spesso visto uscire di

    casa, andare in cerca di compagni, di parenti e di amici. Grandi e piccoli, giovani e vecchi, tutti, invitavali a venire in casa sua, di poi accennava loro d'inginocchiarsi e fare con lui una breve preghiera, poscia montava sopra una sedia, che per lui diveniva un pulpito, e da questa faceva la predica, cioè andava ripetendo le prediche udite in chiesa, o raccontando esempi edificanti.

    Egli era di piccola corporatura, e il suo corpo era quasi tutto nella voce; perciò ognuno, al rimirare quel volto angelico, quella bocca da cui uscivano parole e discorsi cotanto superiori a quella età, andava, pieno di meraviglia, esclamando, con le parole proferite da quelli che rimiravano il fanciulletto San Giovanni Battista: “Chi mai sarà questo fanciullo?” Quis putas puer iste erit?

    Voi, o Castelnovesi, che, attoniti, ascoltando il fanciullo Cafasso dimandaste chi egli sarà per essere, allora non lo sapevate, ma io, adesso, sono in grado di appagarvi.

    Quel fanciullo sarà modello di virtù nelle scuole, che i maestri proporranno come maestro di diligenza ai condiscepoli; sarà lo specchio di divozione, che dovrà guidare tanti discoli sul cammino della virtù, confermare tanti buoni sulla via del bene; sarà il padre de' poveri, la delizia dei genitori; sarà colui che in breve giungerà a tal grado di virtù da non conoscere più alcuna strada, se non quella che conduce alla chiesa ed alla scuola; sarà colui, che dopo aver passato quindici anni nella virtù e nello studio risolve di darsi

  • tutto a Dio nello stato ecclesiastico, e lavorare unicamente per la gloria di Dio; sarà colui che un giorno, divenuto maestro del Clero, somministrerà molti degni ministri alla Chiesa e guadagnerà molte anime al Cielo.

    Vita chiericale. Qui la brevità mi obbliga ad omettere molti fatti per portarmi tosto a quel momento per

    me fortunato, che feci la prima personale sua conoscenza. Era l'anno 1827, e in Murialdo, borgata di Castelnuovo d'Asti, si festeggiava la

    maternità di Maria SS., la solennità principale fra quegli abitanti. Ognuno era in faccende per le cose di casa o di chiesa, mentre altri erano spettatori, o prendevano parte a giuochi o a trastulli diversi.

    Un solo io vidi lungi da ogni spettacolo; ed era un chierico, piccolo nella persona, occhi scintillanti, aria affabile, volto angelico. Era appoggiato alla porta della chiesa. Io fui come rapito dal suo sembiante; e sebbene toccassi soltanto l'età di dodici anni, tuttavia, mosso dal desiderio di parlargli, mi avvicinai e gli indirizzai queste parole:

    - Signor abate, desiderate di vedere qualche spettacolo della nostra festa? Io vi condurrò di buon grado dove desiderate.

    Egli mi fe' grazioso cenno di avvicinarmi, e prese ad interrogarmi sulla mia età, sullo studio, se era già

  • stato promosso alla santa Comunione, con che frequenza andava a confessarmi, ove andava al Catechismo e simili.

    Io rimasi come incantato a quelle edificanti maniere di parlare; risposi volentieri ad ogni domanda; di poi, quasi per ringraziarlo della sua affabilità, ripetei l'offerta di accompagnarlo a visitare qualche spettacolo o qualche novità.

    - Mio caro amico - egli ripigliò - gli spettacoli dei preti sono le funzioni di chiesa; quanto più esse sono divotamente celebrate, tanto più grati ci riescono i nostri spettacoli. Le nostre novità sono le pratiche della religione, che sono sempre nuove e perciò da frequentarsi con assiduità; io attendo solo che si apra la chiesa per poter entrare.

    Mi feci animo a continuare il discorso, e soggiunsi: - È vero quanto mi dite; ma v'è tempo per tutto, tempo per andare in chiesa e tempo

    per ricrearsi. Egli si pose a ridere, e conchiuse con queste memorande parole, che furono come il

    programma delle azioni di tutta la sua vita: - Colui che abbraccia lo stato ecclesiastico si vende ai Signore; e di quanto àvvi nel

    mondo, nulla più deve stargli a cuore se non quello che può tornar a maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime.

    Allora, tutto meravigliato, volli sapere il nome di quel chierico, le cui parole e il cui contegno cotanto manifestavano lo spirito del Signore. Seppi che era il chierico Giuseppe Cafasso, studente del primo anno di Teologia, di cui più volte aveva già udito a parlare come di uno specchio di virtù.

  • Se avessi tempo di venire ad un minuto racconto delle virtù luminose che egli fece risplendere negli anni del suo chiericato, sia quando viveva in patria, sia quando viveva in Seminario a Chieri, quanti curiosi edificanti fatti vorrei esporvi! Dico solo che la carità verso i compagni, la sommessione ai superiori, la pazienza nel sopportare i difetti degli altri, la cautela di non mai offendere alcuno, la piacevolezza nell'accondiscendere, consigliare, favorire i condiscepoli, l'indifferenza negli apprestamenti di tavola, la rassegnazione nelle vicende delle stagioni, la prontezza nel fare catechismo ai ragazzi, il contegno ovunque edificante, la sollecitudine nello studio e nelle cose di pietà, sono le doti che adornarono la vita chiericale di Don Cafasso; doti, che praticate in grado eroico fecero diventar familiare ai suoi compagni ed amici il dire che il chierico Cafasso non era affetto dal peccato originale.

    Giunto a questo punto, io sono costretto di omettere una lunga serie di fatti edificanti compiuti dal chierico Cafasso, per aver tempo a dir qualche cosa della sua vita sacerdotale.

    Vita sacerdotale pubblica. Ma chi sei tu, io dimando a me stesso, che pretendi esporre le meravigliose gesta di

    questo eroe? Non sai che le più belle azioni di lui sono soltanto note a Dio? e non sai che le più dotte penne dovrebbero scrivere grossi volumi per parlare degnamente delle cose che son note al mondo?

  • Lo so: e vi assicuro che mi trovo come un ragazzo che per fare un mazzetto di fiori entra in un giardino, in ogni angolo pieno di fiori così belli e svariati che rimane confuso e non sa che farsi. Così, volendo io parlare delle virtù sacerdotali di Don Cafasso, non so né dove cominciare, né che cosa dir prima o di poi. Perciò mi limito a raccogliere e mettere insieme un piccolo serto delle virtù, che fece in modo particolare risplendere nella sua vita privata e mortificata.

    Cominciamo dalla vita pubblica. Il suo zelo, la sua facilità nell'esporre la parola di Dio, il buon successo delle sue

    prediche lo facevano cercare da tutte parti per dettar tridui, novene, esercizi spirituali, e missioni al popolo di vari paesi. Egli, coraggioso, facevasi tutto a tutti per guadagnare tutti a Gesù Cristo: ma dopo alcuni anni, non potendo reggere a così gravi e continue fatiche, dovette limitarsi a predicare al Clero, che pareva la porzione dell'umana società in modo speciale dalla Divina Provvidenza a lui affidata.

    E qui, chi può enumerare il gran bene che ha fatto con gli esercizi spirituali, con le conferenze pubbliche e private, col somministrare libri, mezzi pecuniari ai sacerdoti ristretti di mezzi di fortuna, affinché potessero compiere i loro studi ed esercitare degnamente il sacro loro ministero!

    Appartiene alla vita pubblica di Don Cafasso la sollecitudine che prendevasi specialmente dei poveri giovinetti. Questi istruiva nelle verità della fede; quelli provvedeva di abiti, affinchè potessero decentemente

  • intervenire alla chiesa, e collocarsi al lavoro presso ad onesto padrone; ad altri pagava la spesa dell'apprendimento, o somministrava pane finché avessero potuto guadagnarsi di che campare colle proprie fatiche. Questo spirito ardente di carità cominciò a mettere in pratica quando era semplice borghese e continuò quando fu chierico, e con zelo raddoppiato fece viepiù risplendere quando fu sacerdote. Il primo catechista di questo nostro Oratorio fu Don Cafasso, e ne fu costante promotore e benefattore in vita e dopo morte ancora.

    Appartengono alla vita pubblica di Don Cafasso le intere giornate che passava nelle carceri a predicare, confortare, catechizzare quegli infelici detenuti, e ascoltarne le confessioni. Qui non so se sia degno di maggior lode il suo coraggio o la sua carità: se non vogliamo dire che l'ardente carità inspiravagli coraggio eroico. Dei moltissimi atti, di cui sono stato testimonio, trascelgo il seguente; ascoltatelo, che è curioso.

    Egli, per disporre i carcerati a celebrare una festa che occorreva in onore di Maria Santissima, aveva impiegata un'intera settimana ad istruire ed animare i detenuti di un colloquio, ovvero camerone, ove erano circa quarantacinque de' più famosi carcerati.

    Quasi tutti avevano promesso di accostarsi alla confessione alla vigilia di quella solennità. Ma, venuto il giorno stabilito, niuno si risolvea a cominciare la santa impresa di confessarsi. Egli rinnovò l'invito; richiamò, in breve, quanto aveva loro detto nei giorni trascorsi, ricordò la promessa fattagli; ma, fosse rispetto umano, fosse inganno del demonio od altro vano pretesto, niuno si voleva confessare. Che fare?

  • La carità industriosa di Don Cafasso saprà che cosa fare. Ridendo, si avvicina ad uno che, a vederlo, sembra il più grande, il più forte e il più robusto dei carcerati: e, senza proferir parola, colle sue piccole mani lo piglia per la folta e lunga barba.

    Il detenuto pensava che Don Cafasso facesse per burla, perciò, in modo garbato, quanto si può aspettare da tal gente:

    - Mi prenda tutto - disse - ma mi lasci stare la barba! - Non vi lascio più, finché non siate venuto a confessarvi. - Ma io non ci vado. - Ed io non vi lascio andare. - Ma io non voglio confessarmi. - Dite quello che volete, voi non mi scappate più; io non vi lascio andare finché non vi

    siate confessato. - Io non son preparato. - Io vi preparerò! Certo, se quel carcerato avesse voluto, avrebbe potuto svincolarsi dalle mani di Don

    Cafasso col più leggero urto; ma fosse rispetto alla persona, o meglio frutto della grazia del Signore, il fatto sta che il prigioniero si arrese e si lasciò tirar da Don Cafasso in un angolo del camerone. Il venerando sacerdote si asside sopra un pagliericcio, e prepara il suo amico alla confessione. Ma che? in breve questi si mostra commosso, e tra le lagrime e i sospiri a stento potè terminare la dichiarazione delle sue colpe.

    Allora apparve una grande meraviglia. Colui che,

  • prima, bestemmiando ricusava di confessarsi, dopo, andava a' suoi compagni predicando di non essere mai stato tanto felice in vita sua! E tanto fece e tanto disse che tutti si ridussero a fare la loro confessione.

    In questo fatto, che scelgo tra migliaia di tal genere, sia che si voglia chiamare miracolo della grazia di Dio, sia che si voglia dire miracolo della carità di Don Cafasso, è forza di riconoscere l'intervento della mano del Signore (vedi nota fondo pagina).

    Il rimanente della vita pubblica di Don Cafasso lo vengano a raccontare quei molti, sacerdoti e borghesi, ricchi e poveri che a lui sono debitori, chi della scienza,

    nota: È bene qui notare che in quel giorno Don Cafasso confessò fino a notte molto

    avanzata, e non essendogli stati aperti i fermagli e gli usci del carcere, era sul punto di dover dormire coi carcerati. Ma ad una cert'ora della notte entrano i birri ed i custodi armati di fucili, pistole e di sciabole; e si mettono a fare la solita visita, tenendo lumi sulle estremità di alcune lunghe bacchette di ferro. Andavano qua e là osservando se per caso apparissero rotture sui muri o nel pavimento, e se non fossero a temersi trame o disordini tra i carcerati. Al vedere uno sconosciuto si mettono a gridare: ce Chi va là?”. E, senza attendere risposta, lo attorniano e lo minacciano dicendo: “Che cosa fate, che cosa volete fare qui, chi siete, ove volete andare?”.

    Don Cafasso voleva parlare, ma non gli fu possibile, perchè i birri tutti ad una voce, gridano:

    - Si fermi, si fermi! e ci dica chi è! - Sono Don Cafasso. - Don Cafasso! Come? A quest'ora! perchè non andare via per tempo? noi non

    possiamo più lasciarvi uscire senza farne relazione al direttore delle carceri. - A me non importa; fate pure la relazione a chi volete, ma badate bene a voi,

    perciocché all'avvicinarsi della notte voi dovevate venire a vedere e fare uscire quelli che erano estranei alle carceri. Era questo il vostro dovere, e siete in colpa per non averlo fatto.

    Allora tutti si tacquero e prendendo Don Cafasso alle buone e pregandolo a non pubblicare quanto era avvenuto, gli aprirono la porta, e, per cattivarsene la benevolenza, lo accompagnarono sino a casa.

    (Nota dell'Autore). Fine nota.

  • chi dei mezzi di acquistarla, chi dell'impiego o della felicità che gode in famiglia, chi del mestiere che esercita e del pane che mangia (vedi nota fondo pagina).

    Lo vengano a raccontare quei molti infermi da lui confortati, i moribondi assistiti, le lunghe schiere di penitenti d'ogni età e condizione, c}ie in ogni giorno e in ogni ora del giorno trovavano in lui un pio, dotto e prudente direttore delle loro coscienze.

    Lo vengano a raccontare tanti infelici condannati all