Saggio Su Industria Culturale

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1 Guido Gili, Industria culturale, cultura di massa e mass media, in Mancini P., Marini R. (a cura di), Le comunicazioni di massa. Teorie, effetti, contenuti, Carocci, Roma, 2006. Il concetto di “industria culturale” è ormai entrato stabilmente nel vocabolario delle scienze sociali ed economiche per indicare l’organizzazione produttiva della cultura e il rapporto tra cultura e mercato. Tale concetto nasce tuttavia fortemente connotato in senso ideologico all’interno del dibattito sviluppatosi a partire dagli anni quaranta e cinquanta negli Stati Uniti e in Europa tra difensori e detrattori della cultura di massa, la “nuova cultura” nata e diffusa dai mass media. 1. Un lungo dibattito…ancora aperto 1.1. Le origini: la teoria della società di massa Tra le due guerre mondiali si è sviluppata una teoria che ha animato il dibattito sociologico per più di un trentennio: la teoria della società di massa. Si trattava di una teoria generale sull’evoluzione e la struttura della società contemporanea, che assegnava tuttavia ai mass media un ruolo fondamentale nella trasformazione dei rapporti sociali (Wilensky 1964; Mannucci, 1967; Giner, 1976; Gili, 1990, 2001). Senza approfondire in dettaglio i singoli filoni, è sufficiente ricordare i principali elementi comuni: 1) la società contemporanea si caratterizza per l’accresciuto potere delle grandi organizzazioni e delle istituzioni centrali della società; 2) anche i mass media – come le altre istituzioni sociali – sono soggetti a un processo di concentrazione, per cui il potere di influenzare l’opinione pubblica appare controllato da ristrette élites; 3) il tessuto sociale – per una serie complessa di cause e fattori – diventa più debole, meno organizzato, e gli individui appaiono più isolati e privi di forti legami di gruppo; 4) il pubblico atomizzato e coinvolto in rapporti sociali formali e astratti risulta più vulnerabile all’influenza dei mass media, i quali contribuiscono a loro volta alla disgregazione del tessuto sociale. Nell’ambito delle teorie della società di massa, un nodo cruciale è costituito dal dibattito sulla “cultura di massa” che della società di massa costituisce il versante culturale e simbolico. 1.2. Le teorie critiche della cultura di massa Tra le teorie critiche della cultura di massa, possiamo distinguere una critica conservatrice ed una radicale. La critica conservatrice, portavoce dei valori “umanistici” di difesa della civiltà europea ed occidentale, denunciava l’invasione dei sottoprodotti culturali dell’industria moderna, sottolineando gli aspetti di banalizzazione, decadenza del gusto, divertimento plebeo, volgarizzazione. La distinzione concettuale principale era quella tra alta cultura e bassa cultura (o, appunto, “cultura di massa”) e, ancor più radicalmente, tra cultura “autentica” e “inautentica”. Tra gli autori più significativi possiamo ricordare José Ortega y Gasset (1930), Hannah Arendt (1958) e Gunther Anders (1956). La critica di sinistra, debitrice perlopiù della vulgata marxista, vedeva invece nella cultura di massa il nuovo “oppio dei popoli”, moderna e più efficace versione della funzione ideologica e consolatoria già svolta dalla religione. Una consapevole mistificazione con cui il capitalismo “distrae” le masse dai loro veri problemi e ne indebolisce la coscienza di classe. All’interno di questa area gli esponenti della scuola di Francoforte, emigrati in America negli anni trenta per sfuggire al nazismo, apportarono un approccio critico radicale, ispirato dal marxismo ma essenzialmente originale. Oltre al saggio sull’industria culturale di Horkheimer e Adorno (1947) e allo studio di Lowenthal sulle biografie di personaggi famosi nelle riviste popolari (1944), vanno ricordati Eclipse of Reason di Horkheimer (1947), la ricerca coordinata da Adorno The

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Il concetto di “industria culturale” è ormai entrato stabilmente nel vocabolario delle scienze sociali ed economiche per indicare l’organizzazione produttiva della cultura e il rapporto tra cultura e mercato. Tale concetto nasce tuttavia fortemente connotato in senso ideologico all’interno del dibattito sviluppatosi a partire dagli anni quaranta e cinquanta negli Stati Uniti e in Europa tra difensori e detrattori della cultura di massa, la “nuova cultura” nata e diffusa dai mass media.

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Guido Gili, Industria culturale, cultura di massa e mass media, in Mancini P., Marini R. (a cura di), Le comunicazioni di massa. Teorie, effetti, contenuti, Carocci, Roma, 2006. Il concetto di “industria culturale” è ormai entrato stabilmente nel vocabolario delle scienze sociali ed economiche per indicare l’organizzazione produttiva della cultura e il rapporto tra cultura e mercato. Tale concetto nasce tuttavia fortemente connotato in senso ideologico all’interno del dibattito sviluppatosi a partire dagli anni quaranta e cinquanta negli Stati Uniti e in Europa tra difensori e detrattori della cultura di massa, la “nuova cultura” nata e diffusa dai mass media. 1. Un lungo dibattito…ancora aperto 1.1. Le origini: la teoria della società di massa Tra le due guerre mondiali si è sviluppata una teoria che ha animato il dibattito sociologico per più di un trentennio: la teoria della società di massa. Si trattava di una teoria generale sull’evoluzione e la struttura della società contemporanea, che assegnava tuttavia ai mass media un ruolo fondamentale nella trasformazione dei rapporti sociali (Wilensky 1964; Mannucci, 1967; Giner, 1976; Gili, 1990, 2001). Senza approfondire in dettaglio i singoli filoni, è sufficiente ricordare i principali elementi comuni: 1) la società contemporanea si caratterizza per l’accresciuto potere delle grandi organizzazioni e delle istituzioni centrali della società; 2) anche i mass media – come le altre istituzioni sociali – sono soggetti a un processo di concentrazione, per cui il potere di influenzare l’opinione pubblica appare controllato da ristrette élites; 3) il tessuto sociale – per una serie complessa di cause e fattori – diventa più debole, meno organizzato, e gli individui appaiono più isolati e privi di forti legami di gruppo; 4) il pubblico atomizzato e coinvolto in rapporti sociali formali e astratti risulta più vulnerabile all’influenza dei mass media, i quali contribuiscono a loro volta alla disgregazione del tessuto sociale. Nell’ambito delle teorie della società di massa, un nodo cruciale è costituito dal dibattito sulla “cultura di massa” che della società di massa costituisce il versante culturale e simbolico. 1.2. Le teorie critiche della cultura di massa Tra le teorie critiche della cultura di massa, possiamo distinguere una critica conservatrice ed una radicale. La critica conservatrice, portavoce dei valori “umanistici” di difesa della civiltà europea ed occidentale, denunciava l’invasione dei sottoprodotti culturali dell’industria moderna, sottolineando gli aspetti di banalizzazione, decadenza del gusto, divertimento plebeo, volgarizzazione. La distinzione concettuale principale era quella tra alta cultura e bassa cultura (o, appunto, “cultura di massa”) e, ancor più radicalmente, tra cultura “autentica” e “inautentica”. Tra gli autori più significativi possiamo ricordare José Ortega y Gasset (1930), Hannah Arendt (1958) e Gunther Anders (1956). La critica di sinistra, debitrice perlopiù della vulgata marxista, vedeva invece nella cultura di massa il nuovo “oppio dei popoli”, moderna e più efficace versione della funzione ideologica e consolatoria già svolta dalla religione. Una consapevole mistificazione con cui il capitalismo “distrae” le masse dai loro veri problemi e ne indebolisce la coscienza di classe. All’interno di questa area gli esponenti della scuola di Francoforte, emigrati in America negli anni trenta per sfuggire al nazismo, apportarono un approccio critico radicale, ispirato dal marxismo ma essenzialmente originale. Oltre al saggio sull’industria culturale di Horkheimer e Adorno (1947) e allo studio di Lowenthal sulle biografie di personaggi famosi nelle riviste popolari (1944), vanno ricordati Eclipse of Reason di Horkheimer (1947), la ricerca coordinata da Adorno The

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Authoritarian Personality (1950), i saggi di Fromm, Escape from Freedom (1941) e The Sane Society (1955) e, infine, negli anni sessanta, One-dimensional Man (1964) di Marcuse, che ha esercitato grande influenza sul clima intellettuale al di qua e al di là dell’oceano, e l’opera d’esordio del maggiore esponente della seconda generazione, J. Habermas, sul passaggio dall’opinione pubblica criticamente fondata al pubblico consumatore di cultura (1962). L’industria culturale. L’espressione “industria culturale” venne introdotta da Horkheimer e Adorno nel saggio omonimo, inserito in Dialektik der Aufkärung (1947; trad. it. Dialettica dell’Illuminismo, 1966, poi 1974). Si tratta di una consapevole rottura terminologica e concettuale. Come spiegò in seguito Adorno, l’espressione cultura di massa, utilizzata negli appunti preparatori, venne sostituita nella stesura definitiva con quella di industria culturale “per eliminare fin dall’inizio l’interpretazione consueta e cioè che si tratti di una cultura che nasce spontaneamente dalle masse stesse, di una forma contemporanea di arte popolare” (Adorno, 1967). Sebbene, come rilevano vari interpreti, gli autori della scuola di Francoforte contestino al marxismo di ridurre troppo semplicisticamente la cultura e l’arte all’economia, essi non rinnegano tuttavia il principio fondamentale del materialismo storico per cui è la struttura sociale, in particolar modo la struttura economica (capitalistica) della società, a definire ultimamente la cultura. Horkheimer e Adorno dichiarano espressamente che i meccanismi e le logiche che governano la produzione e la distribuzione della cultura attraverso i mass media sono del tutto analoghi a quelli degli altri settori dell’industria capitalistica. I prodotti culturali costituiscono delle “merci”, nel senso che il contenuto artistico ed estetico è soggetto alle regole dello scambio e del profitto. L’evoluzione del settore della comunicazione di massa nei paesi capitalistici è simile a quella degli altri settori industriali e la concorrenza sul mercato della comunicazione tende a sfociare nella creazione di posizioni dominanti di tipo oligopolistico. La “concentrazione dello spirito” non è che un aspetto ed una conseguenza della concentrazione del sistema economico (Horkheimer, Adorno, trad. it. pp. 132-133). L’interesse degli esponenti della scuola di Francoforte non è rivolto agli effetti di singoli media e messaggi, ma alla funzione che il sistema dei mass media nel suo insieme svolge nell’ambito della società capitalistica (ivi, p.131-2). L’industria culturale non è solo un settore dell’industria capitalistica, ma esercita anche una fondamentale funzione ideologica per tutto il sistema. Essa non ha una propria ideologia, ma riflette l’ideologia dei settori dominanti della società. Al di là delle differenze di media, generi e messaggi, vi è un comune orientamento ideologico, costituito dall’apologia della società: “l’industria culturale torna a fornire come paradiso la stessa vita quotidiana” (ivi, p.153); “la nuova ideologia ha per oggetto il mondo come tale” (ivi, p.160). Partendo da queste premesse, Horkheimer e Adorno non riservano particolare attenzione alla prospettiva dei riceventi, ma sono interessati a quella degli emittenti, di coloro che controllano i media e l’industria culturale. La logica che guida le scelte dei grandi comunicatori e dei manager dell’industria culturale è la stessa che per i due autori segna la storia dell’occidente: quella “razionalità strumentale” o “logica amministrativa” che porta a considerare gli altri come oggetti per i propri fini senza alcuna considerazione della loro soggettività e dei loro bisogni (ivi, pp.132-133). Questi prodotti culturali (e la loro ideologia implicita) si impongono ai riceventi, cosi che la sfera del consumo e della cultura cessa di essere la sfera della libertà del consumatore: “il consumatore non è sovrano, come l’industria culturale vorrebbe far credere, non è il suo soggetto bensì il suo oggetto” (Adorno, 1967, trad. it. p.6). L’industria culturale contribuisce – secondo la nota espressione di Marcuse – a creare un mondo uni-dimensionale (1964), nel quale l’amministrazione della vita da parte dei poteri forti della società non si esaurisce nella sfera della produzione e del lavoro, ma viene ad abbracciare anche la sfera del consumo e della cultura. La cultura omogeneizzata. La prospettiva critica della Scuola di Francoforte ha influenzato direttamente un gruppo di autori radicali americani, i cui contributi compaiono sull’influente rivista della sinistra intellettuale “Politics”, diretta da Dwight MacDonald, e nei volumi collettanei Mass culture (a cura di Rosenberg e White, 1957) e Culture for the millions? (a cura di Jacobs, 1961).

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Muovendo da posizioni progressiste, essi collocano le ragioni storiche della nascita della cultura di massa nella democrazia politica e nell’istruzione di massa, ma deprecano il fatto che la grande industria, grazie al controllo delle nuove tecnologie produttive e della comunicazione, si sia appropriata del mercato dei beni culturali (MacDonald, 1953, poi in 1957; van den Haag, 1957). La cultura di massa (mass culture) ha raccolto l’eredità della cultura popolare pre-industriale (folk culture), ma le differenze sono più significative delle somiglianze (MacDonald 1953, poi 1957). Mentre la cultura popolare cresceva dal basso, come espressione spontanea del popolo, la cultura di massa è invece imposta dall’alto, fabbricata da professionisti arruolati dagli imprenditori del settore. E’ una homogenized culture che abbatte le barriere di classe, tradizione, gusto, e dissolve ogni differenza culturale. Ironicamente MacDonald osserva che “la cultura di massa è molto, molto democratica” (1953, poi 1957, p. 62). La cultura di massa è anche essenzialmente conservatrice: si basa sulle opinioni e i sentimenti diffusi. Produce una continua stimolazione ed eccitazione superficiali, ma non disturba e non inquieta. Il suo messaggio fondamentale è: rimanete come siete, vivete come avete sempre fatto (Howe, 1957). Offre la felicità o almeno la libertà dall’ansia attraverso il consumo, una specie di “religione popolare” non-cristiana (van den Haag, 1957, 1961). I prodotti della cultura di massa sono standardizzati e includono la “reazione controllata” del destinatario. Questa idea, già avanzata da Adorno (1954, poi 1957), viene sviluppata nel saggio di Greenberg sul kitsch e il cattivo gusto (1957). Il kitsch non è una “qualità” bassa o deteriore di un prodotto, ma un particolare modo di intendere il rapporto tra produttore e fruitore dell’oggetto culturale. Il prodotto culturale è costruito in modo tale da favorire una ricezione immediata e superficiale: l’industria culturale assieme al prodotto vende (prescrive) anche le modalità del suo uso, la stessa reazione del destinatario. All’interno della cultura di massa, MacDonald introduce infine una distinzione tra due diversi livelli: la cultura di massa propriamente detta (o Masscult) e il Midcult (1960, poi in 1962). Il Midcult “possiede le qualità essenziali del Masscult – la formula, la reazione controllata, la mancanza di qualsiasi metro di misura tranne la popolarità – ma le nasconde pudicamente con una foglia di fico culturale. Nel Masscult il trucco è scoperto – piacere alle folle con ogni mezzo. Ma il Midcult contiene un duplice tranello: finge di rispettare i modelli dell’Alta cultura, mentre in effetti li annacqua e li volgarizza” (ivi, trad. it. p.82). Manipolazione ed eterodirezione. La sociologia critica americana ha espresso negli anni cinquanta alcuni autori che, per quanto isolati dal contesto accademico e osteggiati dal predominante orientamento struttural-funzionalista, hanno raggiunto una vasta popolarità influenzando profondamente il clima intellettuale del dopoguerra. The Power Elite (1956; trad. it L’élite del potere, 1959) di Charles Wright Mills pone in modo radicale e polemico il problema del rapporto tra la struttura del potere “reale” nella società americana – che egli identifica in una ristretta élite composta dagli oligarchi del governo, dai dirigenti dei principali gruppi industriali e degli alti gradi dell’esercito – e la funzione assolta dall’insieme delle istituzioni culturali (chiesa, scuola e, soprattutto, mass media) o “apparato culturale” (1963). Attraverso i mass media si realizza, secondo Mills, quella particolare forma di esercizio del potere, che egli chiamerà “manipolazione”, che si affianca e si sostituisce alle forme più tradizionali, costituite dall’autorità e dalla coercizione. La manipolazione è “l’esercizio segreto del potere, sconosciuto a chi ne subisce l’influenza” che si afferma quando “gli uomini hanno potere accentrato e incondizionato, ma non autorità, oppure quando, per una ragione qualsiasi, non desiderano fare uso apertamente del loro potere” (Mills, 1956, trad. it., pp. 297-8). La condizione perché ciò avvenga, osserva Mills in sintonia con Horkheimer e Adorno, è che l’èlite del potere detenga la proprietà o controlli direttamente o indirettamente tutti i principali mezzi di comunicazione di massa, anche in condizioni di apparente pluralismo delle fonti e dei canali di comunicazione. Attraverso i mass media diventa possibile formare le opinioni, sollevare o neutralizzare i problemi, canalizzare i bisogni e le aspirazioni, orientare gli atteggiamenti senza che

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appaia mai direttamente il collegamento con le élite dominanti. L’apparato culturale, da un lato, trasforma le finalità di mantenimento del potere delle élite e di conservazione dello status quo in influenze formatrici, modelli di identificazione, simboli e immagini della società; dall’altro impedisce una effettiva comunicazione dalla base al vertice. The Lonely Crowd di David Riesman (1950, trad. it. La folla solitaria, 1956) sviluppa un punto di vista diverso (e complementare) rispetto ai Francofortesi e a Mills. Il fortunato concetto intorno al quale Riesman costruisce il suo saggio è quello di eterodirezione, che indica al tempo stesso una disposizione fondamentale della personalità e un principio di organizzazione sociale. “Ciò che è comune a tutte le persone eterodirette – scrive Riesman – è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’individuo, quelli che conosce o quelli con cui ha relazioni indirette attraverso gli amici o i mezzi di comunicazione di massa. Questa fonte è naturalmente “interiorizzata” nel senso che la dipendenza da essa come guida nella vita è radicata nel fanciullo molto presto. I fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere a una meta e il processo di fare stretta attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati per tutta la vita. Questo modo di tenersi in contatto con gli altri permette una stretta conformità di comportamento (...) attraverso una eccezionale sensibilità per le azioni e i desideri degli altri” (1950, trad. it. pp.29-30). Per Riesman l’eterodirezione non è una passività imposta, ma un atteggiamento attivo di ricerca della conformità. È un fondamentale atteggiamento di permeabilità, di disponibilità verso influenze esterne. Riesman dà una spiegazione strutturale di questo orientamento della personalità: l’eterodirezione è il “carattere sociale” o “modo di conformità” più adatto alle società industriali avanzate dell’Occidente. La continua ricerca del consenso e dell’approvazione degli altri, la rapida circolazione dei gusti e delle preferenze, rispondono infatti alle esigenze di funzionamento di una società a capitalismo maturo il cui vero problema non è più la produzione, ma il consumo e la sua continua promozione. Questi tratti della personalità vengono dunque coltivati, sebbene in forme e secondo modalità diverse, da tutte le agenzie di socializzazione: dalla famiglia alla scuola, dal gruppo dei pari agli ambienti professionali, ai mass media (ivi, pp.83-103). 1.3. La teoria della democratizzazione della cultura Alle teorie critiche si oppone la teoria consensuale della società di massa, i cui autori più significativi sono Edward Shils e Daniel Bell, riconducibile in senso lato all’orientamento struttural-funzionalista che ha egemonizzato la teoria sociologica negli Stati Uniti fino agli anni sessanta. Muovendo da una matrice di pensiero liberale, tale teoria concepiva la cultura di massa come un aspetto fondamentale della democratizzazione della società. Le teorie critiche della società di massa hanno avuto il merito, secondo Shils, di aver attirato l’attenzione della sociologia, anche se con esiti fuorvianti, su un aspetto fondamentale della più recente fase di sviluppo della società moderna: l’inclusione della massa della popolazione nella società (Shils, 1962). Grazie al diffuso benessere, all’estensione dei diritti civili, alla democrazia politica, all’istruzione di massa, la maggioranza della popolazione è entrata a pieno titolo a far parte della società e a goderne i benefici. In questo contesto si situa la decisa contestazione della teoria critica della cultura di massa e dell’industria culturale. Nelle società del passato i gruppi sociali dominanti svolgevano un ruolo di direzione politica e di mediazione culturale e costituivano il punto di partenza e di arrivo della circolazione sociale dei prodotti culturali. La società di massa si caratterizza invece per la democratizzazione dell’accesso alla cultura (Shils, 1957, 1960; Bell 1956, 1962; White 1957). Per Shils l’espressione “cultura di massa” non rimanda ad un concetto univoco e scientificamente valido, ma viene riferita, a seconda dei casi, alle proprietà sostantive della cultura, alla posizione sociale dei suoi fruitori o ai mezzi attraverso i quali è trasmessa (1960, trad. it. p.129). Essa inoltre appiattisce la pluralità di forme dell’esperienza culturale moderna sulle sue espressioni più rozze e brutali. Nella società di massa convivono invece diversi livelli di cultura: la cultura superiore o raffinata, la cultura mediocre e la cultura brutale. Questi si differenziano non solo per i temi trattati,

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ma soprattutto per la ricchezza di contenuto simbolico. Già nel diciannovesimo secolo, con la formazione di un vasto pubblico di lettori, si è avuta una grande espansione nel consumo di cultura mediocre o brutale: periodici popolari, romanzi d’appendice, libri politici di interesse passeggero, poesia inferiore, biografie, opere esemplari di teologia e di edificazione morale. In tempi più recenti, questi prodotti sono stati affiancati e, in parte sostituiti, dai film e dai programmi radiofonici e televisivi. Essi costituivano, e costituiscono tuttora, la gran parte dei consumi culturali. In sintesi, la tesi fondamentale dei due autori è che, per quanto prevalgano ancora gli aspetti mediocri e brutali, la cultura della società di massa non può essere misurata sul metro di una visione ideale e romantica dell’integrità dell’esperienza letteraria ed artistica, privilegio di pochi, ma va giudicata, nel contesto di una più complessiva evoluzione socio-culturale, come una prima fase di inculturazione di vaste masse, in precedenza pressoché analfabete e del tutto escluse da ogni accesso alla cultura. 1.4. La teoria tecnologica della cultura Il dibattito sui mass media e la cultura di massa vede salire alla ribalta negli anni sessanta un nuovo protagonista, Marshall McLuhan, portatore di un nuovo paradigma di analisi dei media, alternativo sia al “paradigma dominante” della mass communication research, espresso da Lazarsfeld e dai sociologi riuniti intorno al Bureau of Applied Social Research della Columbia University, sia al paradigma critico, di cui abbiamo ricordato i principali protagonisti. L’opera di McLuhan costituisce la versione più nota ed estremistica del paradigma tecnologico, che annovera altri importanti e più rigorosi autori, quali Innis (1950, 1951) e Ong (1967, 1982). Sebbene sia stata fortemente osteggiata, accusata di dilettantismo e impressionismo, senza dubbio la teoria di McLuhan ha rappresentato una sfida che ha spinto gli studiosi a mettere in dubbio le teorie correnti sulla comunicazione e la cultura di massa. McLuhan insiste su un’idea centrale e semplice: i media non “rappresentano” il mondo – sebbene in modo ideologico e deformato, come affermavano gli esponenti della teoria critica – ma “danno forma” al mondo, poiché danno forma alla nostra stessa esperienza del mondo. L’ambiente umano si costruisce a partire dai media e intorno ai media, poiché questi plasmano le strutture percettive e cognitive con cui l’uomo vede il mondo ed agisce nel mondo. Per dirla con le parole dello stesso McLuhan, i nuovi media non sono dei nuovi modi per riportarci al vecchio mondo reale; sono essi stessi il mondo reale e rimodellano radicalmente la cultura e la società precedenti. McLuhan enuncia i principi fondamentali della sua più nota teoria in The Gutenberg Galaxy (1962) e Understanding media (1964). Gli aspetti salienti possono essere così riassunti: a) la teoria dei mass media viene ripensata nel contesto di una più ampia teoria delle tecnologie, intese come “estensioni dell’uomo”. Queste estensioni non costituiscono solo delle “cose”, degli strumenti che l’uomo utilizza, ma anche delle “funzioni” attive (Barilli, 1974) che retroagiscono e modificano il loro artefice. b) I mezzi di comunicazione sono estensioni degli organi e delle funzioni sensoriali. McLuhan propone una “antropologia sensorialista” (Morin, 1976), secondo la quale le essenziali caratteristiche psicologiche e sociali dell’uomo derivano dalle modificazioni sensoriali provocate dai mezzi di comunicazione. Un vero e proprio “tecnomorfismo” (Di Nallo, 1970). c) La teoria dei media di McLuhan presenta un carattere tendenzialmente deterministico. Afferma, infatti, che l’uomo è “il servomeccanismo dei suoi media” (1964) ed erige lo sviluppo tecnologico a variabile indipendente del mutamento socio-culturale (Gili, 1983, 1993). A partire da queste tesi McLuhan rifiuta tutto il dibattito sulla cultura di massa: il vero problema non sono i contenuti dei media e la loro funzione ideologica, né è interessante chiedersi se propongano una visione “realistica” o deformata della realtà sociale. In verità non ha senso parlare di una cultura di massa; occorre parlare piuttosto di una “cultura dei media”, poiché sono i diversi media, di volta in volta dominanti, che generano e definiscono i diversi modelli di cultura. La teoria di McLuhan, anche se ha goduto di vasta risonanza ed è divenuta per un certo periodo una moda culturale, non è mai riuscita ad entrare nel main stream della teoria e della ricerca sulla

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comunicazione di massa, costituendo peraltro uno dei principali bersagli polemici degli esponenti dell’approccio critico di cui si collocava agli antipodi (come anche emerge dal titolo del libro di Eco, Apocalittici e integrati). Tuttavia la sua influenza sotterranea appare più ampia e profonda di quanto non si creda, soprattutto perché ha introdotto una visione dei media come linguaggi e ambienti culturali (Meyrowiz, 1993), che molte teorie successive hanno in vario modo ripreso e sviluppato, come anche avremo modo di vedere in alcuni più recenti approcci alla cultura di massa. 1.5. Culture nazionali, umanistiche, religiose e cultura di massa Mentre negli Stati Uniti ferve il dibattito tra le opposte visioni della cultura di massa e McLuhan elabora la sua teoria dei media, nel contesto europeo, soprattutto in Francia e Gran Bretagna, emergono alcuni autori e correnti che risentono più o meno direttamente dell’influenza della Scuola di Francoforte, ma sviluppano percorsi e prospettive autonome. Il tratto che li accomuna è l’intendere la cultura di massa come una vera e propria cultura in senso antropologico e sociologico e l’avvalersi nella sua analisi di una molteplicità di prospettive disciplinari, dalla sociologia alla linguistica, dalla semiotica alla psicanalisi. Il principale centro propulsore dell’analisi delle comunicazioni e della cultura di massa in Francia è il Centre d’ètudes des communications de masse, fondato dal sociologo Georges Friedmann, con la rivista “Communications”. Vi collaborano diversi studiosi tra cui Roland Barthes, di cui vanno ricordate le finissime analisi sui riti e i miti della cultura di massa e sul sistema della moda (1957, 1967), Moles, Morin e Greimas. Il nuovo spirito dei tempi. L’esprit du temps di Edgar Morin (1962, che nella traduzione italiana reca significativamente il titolo L’industria culturale, 1963) è lo studio che più direttamente si riferisce al saggio di Horkheimer e Adorno. Non solo Morin riconosce la superiorità dell’approccio della Scuola di Francoforte rispetto a tutte le altre analisi critiche, ma opera anche un interessante approfondimento della “visione del mondo” dell’industria culturale: il nuovo “spirito dei tempi” appunto. La cultura di massa – chiarisce subito Morin – deve essere considerata a tutti gli effetti una cultura poiché: “costituisce un corpo di simboli, di miti e immagini concernenti la vita pratica e la vita immaginaria, un sistema di proiezioni e di identificazioni specifiche, e si aggiunge alla cultura nazionale, alla cultura umanistica, entrando in concorrenza con loro. Le società moderne sono policulturali. In esse focolari di cultura di natura diversa sono in attività: la religione o le religioni, lo Stato nazionale, la tradizione umanistica si affrontano o coniugano le loro morali, i loro miti, i loro modelli nell’ambito della scuola e fuori di essa. (…) La cultura di massa integra e al tempo stesso si integra in una realtà policulturale, si fa contenere, controllare, censurare (dallo Stato, dalla Chiesa), e nello stesso tempo, tende a corrodere e disgregare le altre culture. Per questo, cioè, essa non è autonoma in senso assoluto, può permearsi di cultura nazionale, religiosa, o umanistica, e a sua volta permeare la cultura nazionale, religiosa o umanistica. Parimenti, essa non è la sola cultura del XX secolo. Ma è la corrente davvero di massa e nuova del XX secolo. Nata negli Stati Uniti, essa si è acclimatata nell’Europa occidentale. Alcuni dei suoi elementi si diffondono su tutto il globo. Essa è cosmopolita per vocazione e planetaria per estensione, ci pone i problemi della prima cultura universale della storia dell’umanità” (trad. it., p.12) Il primo carattere di questa nuova cultura, come già affermato da Horkheimer e Adorno, è di essere “prodotta secondo le norme della fabbricazione di massa industriale” (ivi, p.10). Si tratta di una “industria ultra-leggera”, ma è organizzata sul modello dell’industria più concentrata tecnicamente ed economicamente: “nel campo privato, pochi grandi gruppi di stampa, poche grandi catene radio e televisive, poche società cinematografiche concentrano gli strumenti (rotative, studi) e dominano le comunicazioni di massa. Nel campo pubblico [e questo è un carattere specifico dell’Europa rispetto agli Stati Uniti], è lo Stato che assicura la concentrazione” (ivi, pp. 21-22).

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Un secondo carattere della cultura di massa, che ne definisce la “logica intrinseca”, è la ricerca del “grande pubblico”. Agli inizi del XX secolo, le barriere delle classi sociali, delle età, del livello di educazione delimitavano le rispettive zone di cultura. Queste barriere non sono del tutto abolite, nel senso che permangono delle differenze nei consumi culturali, ma a partire dagli anni trenta in modo sempre più accentuato è emerso un nuovo tipo di stampa, di radio, di cinema, e finalmente di televisione, il cui carattere è di rivolgersi a tutti, al di là di ogni differenza. Dall’interazione tra questi due aspetti discendono i criteri con cui i contenuti vengono prodotti e le caratteristiche sostantive di questi contenuti. La principale è l’eclettismo, la coesistenza dei più diversi contenuti, temi e generi: “La varietà, nell’ambito di un giornale, di un film, di un programma radiofonico, mira a soddisfare tutti gli interessi e i gusti, in modo da ottenere un massimo di consumi” (ivi, p.33). La cultura mosaico. Se L’esprit du temps di Morin si riferisce esplicitamente alla riflessione di Horkhiemer e Adorno e al dibattito sulla cultura di massa, Sociodynamique de la culture di Moles (1967, trad. it. Sociodinamica della cultura, 1971) propone una teoria sistematica della cultura e del ciclo culturale in una prospettiva “cibernetica”, cioè di una scienza generale degli organismi (trad. it. p. 25). A differenza di Morin, che privilegia una prospettiva “di contenuto” (le idee guida, le figure, i miti, etc.), Moles intende definire le caratteristiche strutturali della cultura di massa. Le culture greco-romana, cristiano-medievale, umanistica, rinascimentale, illuminista, idealista (da Aristotele all’ottocento), hanno affermato l’esistenza di soggetti principali, di temi del pensiero predominanti di fronte a soggetti meno importanti e agli elementi minuti della vita di tutti i giorni. La struttura della cultura moderna appare invece del tutto diversa: “Ormai la tessitura di questo schermo di conoscenze è profondamente cambiata: diremmo, per mantenere l’immagine, che essa tende piuttosto verso una specie di sistema fibroso, di feltro: i frammenti della nostra conoscenza sono minuzzoli senza ordine, legati a caso da semplici relazioni di prossimità, di epoca di acquisizione, di assonanza, di associazione d’idee, senza una struttura definita dunque, ma con una coesione che può, quanto il legame logico visto precedentemente, assicurare una certa densità dello schermo delle nostre conoscenze… Chiameremo questa cultura “cultura mosaico” poiché si presenta essenzialmente aleatoria, come un insieme di frammenti giustapposti senza costruzione, senza punto di riferimento, in cui nessuna idea è necessariamente generale, ma molte idee sono importanti (idee forza, parole chiavi, ecc.)” (ivi, p. 43). I mass media sono i principali soggetti e artefici della nuova cultura: “reggono la nostra cultura filtrandola, prelevano elementi particolari dai fenomeni culturali per conferire loro importanza, valorizzano un’idea e ne svalorizzano un’altra, infine polarizzano completamente il campo culturale” (ivi, p.130). In tale contesto, cambia anche la modalità della trasmissione e della acquisizione delle conoscenze: “Ormai ciò che l’individuo incorpora nel suo tessuto mentale gli giunge assai più con l’impregnazione della mente immersa nella sfera dei messaggi che attraverso il processo razionale dell’educazione, più ordinato e metodico certo, ma operante soltanto per un breve periodo della sua vita” (ivi, pp.45-46). Connaturato all’idea di “impregnazione” è il fatto che le nostre conoscenze non provengono da uno “sforzo” (che presuppone anche un filtro), ma “da un apporto permanente dell’ambiente esterno a noi in tutti i suoi aspetti” (ivi, p. 129). La società dei consumi. Un altro importante contributo francese all’analisi della cultura di massa è costituito dagli studi di Jean Baudrillard, di cui il più noto e influente è La société de consommation (1970; trad. it. La società dei consumi, 1976). Baudrillard pone al centro della riflessione il rapporto tra sistema del consumo e industria culturale. Società dei consumi e industria culturale sono infatti le due facce, sociale e simbolica, dello stesso processo fondamentale: la “produzione industriale delle differenze” (trad. it. p.115). Secondo Baudrillard, l’uomo è caratterizzato da un bisogno essenziale di differenziarsi dagli altri. Nelle società del passato, pre-moderne e della prima modernità, le differenze di nascita, di sangue,

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di religione riguardavano l’essenziale, o almeno ciò che veniva considerato come essenziale. Erano dunque differenze che creavano coesione e riconoscimento reciproco all’interno del gruppo di appartenenza e, al tempo stesso, distanza e separazione dagli altri gruppi o strati sociali (ivi, p.123). La società industriale capitalistica tende invece ad abolire le differenze reali tra gli uomini, omogeneizza le persone e i prodotti. Al tempo stesso però essa genera e controlla un sistema, quello dei consumi, che si basa sulla continua produzione delle differenze attraverso la “personalizzazione” del consumo e il possesso di oggetti che conferiscono “identità” (ivi, p.116-117). Il sistema dei consumi costituisce un fondamentale meccanismo di riproduzione sociale, non appena un pre-requisito del funzionamento delle economie capitalistiche avanzate, poiché tiene sotto controllo la tensione alla differenza degli individui e dei gruppi sociali, trasformandola da fattore di separazione, ostilità e conflitto sociale in fattore di integrazione, mezzo di comunicazione e di scambio. L’aspetto fondamentale, che già Riesman aveva individuato, è che la società dei consumi (e tutti i media che la circondano e la presidiano), facendo del consumo (simbolico) un linguaggio di comunicazione, non produce conflitto e ostilità tra gli individui e i gruppi, ma integrazione sociale, nel senso che la differenza (marginale) unifica, propone gli stessi modelli, costruisce terreni per la comunicazione anziché per la separazione e il conflitto. 1.6. I Cultural studies: industria culturale e cultura di classe All’inizio degli anni sessanta emerge in Inghilterra un gruppo di studiosi, riuniti intorno al Center for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, che darà vita al filone di studi noto come Cultural studies. Anche la prospettiva dei Cultural studies inglesi si riferisce direttamente al marxismo, con cui condivide l’approccio critico, i concetti di “ideologia dominante” e di “egemonia” (ricavati da Gramsci), l’impegno militante. Come bene riassume Crane: “come i marxisti essi affermano che l’ideologia dominante riflette gli interessi politici ed economici della classe che controlla il sistema economico e politico. Il loro principale obiettivo è quello di capire come questa classe riesca ad imporre la sua concezione del mondo (egemonia) sui membri delle altre classi sociali, al punto che queste accettano le istituzioni sociali, politiche ed economiche esistenti come fossero naturali ed inevitabili. Mentre altri filoni del marxismo, come la scuola di Francoforte, erano principalmente interessati alla natura e agli effetti dell’ideologia, la tradizione dei Cultural studies inglesi ha cercato di capire come gruppi sociali diversi rispondano all’ideologia della classe dominante” (1992, trad. it. p.121). A differenza della teoria critica dei francofortesi e delle analisi degli studiosi francesi, più orientate al contenuto e all’ideologia implicita della cultura di massa, i Cultural studies dirigono invece la loro attenzione sul rapporto tra produzione e ricezione. Questa prospettiva è stata aperta dai lavori dei tre padri fondatori: lo studioso di letteratura Richard Hoggart (1958), lo storico Edward P.Thompson (1963) e Raymond Williams (1958, 1961, 1974), uno dei più acuti e poliedrici studiosi di storia e sociologia della cultura e della comunicazione. Il maggior interesse di questi studi per il nostro tema sta nel tentativo di delineare le relazioni tra cultura commerciale di massa e cultura operaia. Distaccandosi da una astratta formulazione di coscienza di classe, essi intendono la cultura – e quindi anche la cultura della classe operaia – non come un semplice epifenomeno della collocazione di classe, né come un “insieme di prodotti dell’intelletto e della fantasia”. La cultura è “un intero sistema di vita” (Williams 1958, trad. it. p. 382), che si definisce per alcuni elementi comuni, come i costumi e la lingua nazionale, ed alcuni elementi specifici, come appunto la cultura che nasce dall’appartenenza di classe. La cultura operaia, pur subendo l’influenza della cultura commerciale e dei suoi modelli, e non potrebbe essere altrimenti, è capace di una relativa autonomia e di una “resistenza”, che affonda le sue radici nei modi di vita tradizionale delle comunità operaie, nelle relazioni concrete di gruppo primario e nelle pratiche di vita quotidiana (il club operaio, il pub, etc.). Questo tema della autonomia-relazione tra

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cultura popolare e industria culturale diventerà centrale in tutta la riflessione successiva dei Cultural studies. Codice egemonico e lotta per il significato. Secondo Stuart Hall, che alla fine degli anni sessanta succede a Hoggart nella direzione del Center for Contemporary Cultural Studies divenendo la principale figura intellettuale del gruppo, tutta la cultura prodotta dai mass media (si tratti di informazione o intrattenimento) è costruita secondo un “codice egemonico” che tende a perpetuare la struttura di potere esistente e la divisione classista della società. La funzione ideologica dei mass media non consiste però essenzialmente nella trasmissione delle direttive dei gruppi dominanti, né in un’opera di consapevole censura o distorsione di avvenimenti o problemi sociali da parte degli operatori dei media. Essi assumono invece un ruolo fondamentale nel produrre e articolare una definizione della realtà, una cornice consensuale “su cui ognuno concorda”, che traccia i confini di ciò che è socialmente accettato, pacifico, naturale. Questo “incorniciamento” ideologico della realtà sociale opera attraverso meccanismi raffinati e complessi di inclusione/esclusione che, da un lato, lasciano ampio spazio ad una diversità pluralistica di forme espressive e rappresentazioni sociali, dall’altro stabiliscono cosa debba essere emarginato o ignorato come inaccettabile e deviante (Hall, 1982). Secondo Hall e i suoi collaboratori nelle società industriali avanzate il conflitto sociale si sposta in larga parte sul terreno della “definizione della realtà”: una vera e propria “lotta di classe nel linguaggio”, una “lotta per il predominio nel discorso” (ivi, pp. 76-79). Questa lotta per il significato trova il suo fondamento nello “scarto” tra i processi di produzione (codifica) e di ricezione (decodifica). Riferendosi in particolare al messaggio televisivo, Hall osserva che vi è una distorsione e un fraintendimento sistematico tra il processo della produzione e della ricezione, che deriva dalla asimmetria dei codici della “fonte” e quelli del “ricettore” e, ancor più radicalmente, “dalle differenze strutturali, sia di relazione che di posizione, tra emittente e audience” (Hall, 1980, trad. it. p.72-3). Secondo questa prospettiva, i mass media sono certamente veicoli della ideologia egemone, la quale riflette gli interessi delle élites e delle classi dominanti. Questa ideologia non ha tuttavia una “presa” assoluta e indifferenziata sulla società: le diverse classi e gruppi sociali reagiscono diversamente in funzione della loro collocazione nella struttura sociale (Hall, 1982). I destinatari non accettano necessariamente e nello stesso modo i significati immanenti al testo e costruiti secondo il codice egemonico. Essi possono attivare tre diversi percorsi interpretativi: accanto ad una lettura “preferenziale”, per cui i riceventi aderiscono sostanzialmente al codice dominante e alle intenzioni dei produttori, sono possibili anche letture “negoziate” (cioè selettive) che, pur accettando il quadro di valori del codice dominante, elaborano proprie definizioni e letture particolari divergenti, e infine letture “oppositive” che ridefiniscono il messaggio in un quadro di riferimento alternativo che comporta l’esplicito rifiuto del codice egemonico (Hall, 1980, trad. it. pp. 80-84). Secondo questa prospettiva, il limite dell’approccio dei francofortesi stava nell’avere appiattito l’attività di decodifica alla sola lettura “preferenziale”, interna e succube del codice dominante, non riuscendo a scorgere alcuno spazio per la libertà interpretativa del ricevente, così che il dominio culturale attraverso i mass media appariva loro assoluto e incontrastato. Una più sofisticata e realistica analisi del processo comunicativo conduce invece a identificare strutturalmente una distanza, una asimmetria tra processi di codifica/decodifica, e quindi la possibilità di letture parzialmente o totalmente divergenti. Gli audience studies. Lo schema codifica/decodifica di Hall ha costituito l’ipotesi di partenza per una serie di ricerche sul consumo televisivo note come audiences studies (per una presentazione, cfr. Grandi, 1992; Moores, 1993; McQuail, 1997; Losito, 2002) Tre aspetti fondamentali caratterizzano questi studi. 1. Mentre l’approccio degli “usi e gratificazioni” (Katz, Gurevitch, Haas, 1973; Blumler, Katz, 1974; Rosengren, Wenner, Palmgreen, 1985) mette il potere dei media tra parentesi, dirigendo

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l’analisi sul ricevente e sull’uso attivo dei media in una prospettiva essenzialmente utilitaristica e funzionalistica, gli audience studies collocano al centro dell’attenzione l’interazione, il gioco aperto di incontro/scontro, inclusione/conflitto tra i codici dei produttori e quelli dei destinatari, indagandone le diverse modalità e determinanti sociali. 2. Gli audience studies non considerano semplicemente i lettori o gli spettatori come individui, ma come membri di “comunità interpretative” (per una presentazione generale, cfr. Lindlof, 1988), cioè di gruppi sociali, generazionali, sessuali, etnici, che condividono esperienze di vita e codici culturali omogenei. 3. Vengono adottati e progressivamente affinati dei metodi qualitativi di analisi del consumo mediale, spesso integrati tra loro, tra cui il metodo etnografico, già utilizzato in antropologia e sociologia, che consiste nell’osservazione partecipante da parte del ricercatore della concreta situazione di fruizione in ambito domestico che, oltre agli studiosi inglesi, vede tra i suoi alfieri anche l’americano J. Lull (1988, 1990). La prima ricerca sul consumo televisivo nata nell’ambito dei Cultural studies inglesi riguarda il magazine popolare Nationwide trasmesso dalla Bbc nella fascia pre-serale negli anni settanta. La ricerca si componeva di due parti: una prima parte di analisi testuale (Brundson, Morley, 1978) esaminava il programma dal punto di vista della codificazione, cioè i suoi contenuti ideologici (il codice egemonico immanente al testo) e il modo in cui si rivolgeva al pubblico; la seconda parte (Morley, 1980) indagava, attraverso una serie di interviste di gruppo a manager, sindacalisti, studenti, apprendisti, il modo in cui queste diverse categorie di spettatori interpretavano il testo accettando, riformulando o rifiutando la lettura (dominante) adottata dal programma dei problemi e degli eventi. Il principale risultato di questa seconda ricerca fu che effettivamente le diverse categorie sociali tendevano a relazionarsi diversamente al codice dominante, aderendo o distanziandosi dai significati contenuti nel testo e rielaborandoli attivamente, anche se la collocazione socio-economica degli interpreti, pur significativa, non era sufficiente a dar conto di tutta la varietà di gusti e interpretazioni che emergeva. Se l’approccio di Hall privilegia l’appartenenza di classe come fondamentale riferimento dei processi di decodifica, un secondo filone di ricerca pone al centro dell’attenzione il rapporto tra gender e consumi culturali e televisivi. Questi studi si sono rivolti innanzitutto ai generi televisivi “femminili”, come la soap opera e la fiction romantica, tradizionali oggetti di denigrazione e disprezzo da parte dei critici della cultura di massa, cercando di cogliere lo stretto rapporto tra il testo e le pratiche di consumo da parte delle donne. Come riassume Brundson, il genere della soap opera “implica testualmente un lettore femminile” (1981, p.37). Tale rapporto può essere analizzato dai due lati del processo di codifica/decodifica. Da un lato, vari studi hanno documentato come i media tendano a formare i generi intorno a determinate comunità interpretative, adattandoli ad esse: così le ricerche sui programmi preferiti dalle donne hanno mostrato che questi riflettono il modo di conversare e gli stili emozionali femminili (Brown, 1990). L’andamento lento, ripetitivo, ricco di pause, la struttura narrativa aperta, i continui dilemmi morali ed emozionali di fronte a cui si trovano i protagonisti (e il pubblico) delle soap opera risponde, ad esempio, ad un tipico genere di discorso femminile, il pettegolezzo (Jones, 1980, p. 197). Dall’altro lato, Hobson (1980, 1982) e Buckingham (1987) hanno concretamente analizzato, utilizzando il metodo etnografico, le pratiche di fruizione delle donne, in particolare casalinghe. Da questi studi sono emersi due “mondi” totalmente diversi di consumo televisivo: un mondo maschile e uno femminile. Mentre per gli uomini, la casa è essenzialmente il luogo del riposo e del tempo libero, per le donne essa coincide, anche quando svolgono un lavoro esterno, con la sfera del lavoro domestico (Hobson 1980, p.105). In tal senso, la fruizione della radio e della televisione, e di alcuni particolari generi come la soap opera, costituisce la principale compagnia nelle attività domestiche e le aiuta a combattere il senso di monotonia e di frustrazione collegato alla routine e alla ripetitività della vita quotidiana. L’ascolto della radio e della televisione fornisce anche la punteggiatura della giornata lavorativa, accompagnando e marcando i suoi diversi momenti.

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Le subculture giovanili. Un altro campo di ricerca dei Cultural studies inglesi riguarda le subculture giovanili. La relazione tra industria culturale e condizione giovanile è ormai ampiamente documentata. A partire dagli anni cinquanta emerge un nuovo fenomeno culturale: la differenziazione dei gusti in base all’età. In questo contesto si crea una sfera di consumi culturali specificamente rivolta ai giovani, con particolari media, come il giradischi e il juke-box, e generi, come il rock and roll (Flichy 1991, trad. it. p.263, sgg.). Se l’emergere di questo tipo di cultura è certamente un fatto generazionale, dagli anni sessanta si sono anche sviluppate delle subculture giovanili, talvolta con i caratteri di controcultura: rocker, mod, teddy boy, hippy, skinhead, punk, etc. Due studi segnano in modo particolare gli esordi di questo filone di ricerca: l’antologia Resistance Through Rituals, curata da Hall e Jefferson (1976) e il saggio di Dick Hebdige, Subculture: The Meaning of Style (1979). Queste subculture giovanili appaiono come il prodotto dell’interazione tra l’elemento generazionale e la appartenenza di classe (proletaria) e si caratterizzano per la invenzione di uno “stile di vita”, espresso da un particolare gergo, rituali, modi di vestire, preferenze musicali, che conferiscono significati diversi e alternativi ai rituali e ai comportamenti tipici della cultura di massa. Il rapporto tra industria culturale e subculture giovanili è tuttavia un gioco aperto. Se, da un lato, i gruppi giovanili esprimono la loro distanza dalla cultura dominante e dai valori ufficiali attraverso particolari gusti musicali, tipi di ballo, forme di aggregazione non istituzionalizzate, spesso creando dei particolari bricolage o re-inventando riti e miti della cultura di massa, anche l’industria culturale è costantemente impegnata a monitorare e ricondurre al suo interno ciò che si muove ai suoi margini. In uno studio successivo, Hiding in the Light (1988), Hebdige, riconosce di avere sottovalutato la “presa” dell’industria culturale su questi stili culturali anti-egemonici, nel senso che la cultura commerciale è capace di riappropriarsi delle strategie culturali oppositive e d’avanguardia, sterilizzandole e inserendole in un’offerta più vasta e differenziata di stili giovanili di vita e di consumo. 1.7. Cultura di massa o culture dei media? Un dato che caratterizza tutte le teorie che abbiamo fin qui considerato è l’idea dell’uniformità e dell’omogeneità della cultura di massa. Ciò è del tutto evidente nel paradigma critico, ma anche nella teoria del codice dominante di Hall, in cui la differenziazione viene affidata alla relativa autonomia interpretativa dei riceventi, legata essenzialmente all’appartenenza di classe. Negli ultimi vent’anni sono emerse tuttavia varie teorie di diversa provenienza che rifiutano questa visione e sottolineano invece la ricchezza e la multiformità della produzione dell’industria culturale. Queste stesse teorie enfatizzano, dall’altro lato, l’idea della libertà del ricevente. I moderni narratori di storie. Riprendendo un’idea già espressa da Riesman, a partire dagli anni settanta vari autori come Carey, Newcomb e Fiske, riconducibili anch’essi all’ampio e diversificato universo internazionale dei Cultural studies, hanno indicato nel medium televisivo il più importante “narratore di storie” del nostro tempo. Newcomb (1988) ha definito la televisione il “central story teller system” della società attuale. Pur non rinunciando ad una prospettiva critica, questi autori non considerano la televisione un medium piatto e univoco, ma un sistema narrativo di grande ricchezza, varietà e significatività. La fiction cinematografica e televisiva costituisce infatti il più ricco corpus narrativo del nostro tempo ed ha la possibilità di raggiungere un gran numero di destinatari. Essa ci dischiude tanti mondi possibili e ci consente di vivere in modo vicario, nell’immaginazione e nella fantasia, situazioni diversissime che ci sono precluse nella vita quotidiana. Così non appare esagerato considerare la televisione “the most popular art” (Newcomb, 1974). I contenuti della televisione, e la fiction in particolare, possono essere studiati non meno seriamente dei generi letterari e teatrali dell’“alta cultura”, con metodologie e strumenti altrettanto raffinati. Non solo. Secondo Newcomb (con Alley, 1983) lo story-telling televisivo assume anche una

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fondamentale funzione rituale e “partecipativa”, in quanto alimenta continuamente un processo simbolico di condivisione dei significati attraverso i quali gli individui comprendono, costruiscono, conservano, ma anche re-immaginano e trasformano la realtà. La televisione ha sempre una funzione insieme di conservazione e di trasformazione culturale. Una prospettiva per certi aspetti analoga è contenuta nella teoria della “funzione bardica” della televisione di Fiske e Hartley (1978; per una presentazione sintetica: Hartley, 1994). Come l’ordine dei bardi nelle società celtiche, la televisione costituisce un’istituzione sociale distinta e identificabile, il cui ruolo è quello di costruire attraverso un linguaggio retorico specializzato un “mondo comune” tra le élites dominanti e la più vasta società. Assolvendo questo ruolo di “mediazione”, la televisione non riflette semplicemente le opinioni dei gruppi dominanti (secondo l’idea di “cinghia di trasmissione” dell’ideologia), né il sentire generalizzato degli spettatori (secondo l’idea di “specchio” della cultura condivisa). Svolge invece una funzione di distillazione e di sintesi: i materiali culturali “grezzi”, che emergono dalle più diverse interazioni e pratiche sociali, vengono rielaborati, soprattutto attraverso la fiction cinematografica e televisiva, e restituiti al pubblico come modelli, norme e forme di comportamento e di relazione, che ispirano la vita quotidiana e i comportamenti sociali, in forza del prestigio professionale e sociale dei nuovi bardi e delle gratificazioni che il pubblico ricava dalle loro storie. Il supermarket culturale. Una immagine ancor più radicale della varietà dell’industria culturale e dell’autonomia dei riceventi è stata proposta da Fiske in alcune opere successive. Secondo Fiske (1989a) la cultura di massa assomiglia un supermarket, che offre una ricchissima varietà di prodotti, da cui ognuno preleva ciò che gli serve e meglio risponde ai suoi gusti e preferenze per poi “cucinarlo” e assemblarlo in modo personale. In questa prospettiva, che lo stesso Fiske definisce della “democrazia semiotica” e della resistenza culturale popolare (1987, 1989a, 1989b), il ricevente non si limita a negoziare i significati della “cultura comune” elaborata dai nuovi bardi della cultura di massa, ma utilizza i contenuti dei media come un puro pretesto, una semplice occasione, un materiale “grezzo” da utilizzare liberamente per ricostruire come in un puzzle i propri significati, a volte anche del tutto divergenti e indipendenti dallo stesso prodotto culturale. Più in generale Fiske ritiene che anche le pratiche quotidiane ispirate dalla società dei consumi e dalla cultura di massa possano essere oggetto e luogo della resistenza culturale popolare. E cita la pratica dello shopping, il “rito” che più di ogni altro descrive ed incarna la società dei consumi e della cultura di massa. Fiske osserva che gruppi di giovani utilizzano i centri commerciali come luoghi di ritrovo sfruttando questo spazio per esprimere una propria identità autonoma e ribelle, gli anziani passeggiano al caldo nel centro commerciale nei mesi invernali senza acquistare nulla, e tante persone guardano le vetrine nella pausa lavorativa di mezzogiorno, sbirciano qua e là nei negozi, provando le merci, guardandosi allo specchio senza avere alcuna intenzione di comprare (1989b). Questa teoria porta alle estreme conseguenze la prospettiva della decodifica di Hall. La “relativa autonomia”, sempre determinata dalle concrete collocazioni sociali dei riceventi, di cui parla il sociologo inglese, si trasforma in questo caso in una autonomia assoluta nel contesto di una teoria che potremmo definire della “ricezione anarchica”. Ma siamo certi che questi siano davvero comportamenti difformi? O non si potrebbe ritenere, come osserverebbe Riesman, che il centro commerciale, costituendosi come “il” luogo dell’interazione e dell’incontro, prima ancora che dell’acquisto, si propone come “cornice” della stessa vita sociale e forse agisce anche su quei giovani ribelli come una potente socializzazione anticipatoria a più disciplinati comportamenti di consumatori di domani? Peraltro, questa teoria, con la sua retorica sulla libertà e la capacità di resistenza dei consumatori attivi che sfuggono agilmente alla presa della cultura dominante, non finisce per distogliere l’attenzione, come ha rilevato Bee (1989), dall’analisi del momento della produzione e dei meccanismi con cui opera il “potere” culturale, ma anche degli stessi contenuti di molta cultura popolare?

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Le “culture” dei media. A differenza della prospettiva della Scuola di Francoforte, ma anche degli approcci fin qui considerati, la teoria della “mediatizzazione culturale” di Altheide e Snow afferma che i media o, meglio, ogni medium specifico sia portatore di una propria, distintiva, visione del mondo. Mutuando i principali concetti della teoria dei media di McLuhan, dalla frame analysis di Goffman e dalla teoria della costruzione sociale della realtà, i due autori sostengono che la cultura non passa semplicemente attraverso i mass media, ma prende forma nei (e dai) media. Essi costituiscono infatti dei fattori primari nella formazione della coscienza collettiva, cioè di quell’insieme di idee sulla realtà sociale che accettiamo come ovvie e date per scontate (Snow, 1983, trad. it., p.14). I media contribuiscono alla formazione di questa coscienza collettiva non solo perché la alimentano di contenuti (cose da sapere, di cui parlare, etc.), ma più radicalmente perché operano come delle cornici o “strutture interpretative” della realtà. L’industria culturale e dei media non esprime dunque una unica ideologia (come ritenevano i francofortesi) o un “codice egemonico” o “ordine di discorso” unico e tendenzialmente onnicomprensivo (come ritiene Hall), ma una pluralità di forme culturali. Ogni medium, ma anche ogni genere o formato mediale, si caratterizza infatti per una particolare “grammatica” o “logica”, cioè per un proprio modo, tipico e distintivo, di presentare e ricostruire la realtà (Altheide, Snow, 1979, 1988; Snow, 1983; Altheide, 1985). Così, ad esempio, le news centrate sull’evento singolo diventano lo schema con cui ci rappresentiamo la realtà socio-politica contemporanea, la situation comedy o la soap opera offrono un termine di paragone per le relazioni della vita quotidiana, la percezione del passato storico assume le forme del romanzo storico o del western, il senso del mistero viene coltivato dalle immagini dei generi fantasy e horror. In secondo luogo queste “visioni del mondo” dei media non sono riflessi o epifenomeni di determinate relazioni sociali ed economiche o rapporti di potere, ma costituiscono delle vere e proprie forme a priori dell’esperienza culturale alla stregua delle grandi cornici ideologiche e culturali con cui gli individui danno senso alla realtà, quali il cristianesimo, la visione scientifica del mondo o il capitalismo. Tali forme culturali “diventano normali e vengono reificate come la realtà nella coscienza collettiva di una società” (Altheide e Snow 1988, pp. 197-198, p. 207), ed appaiono così pervasive che possono essere assimilate alle “istituzioni totali” di Goffman (Altheide, 1991). 1.8. Stili di vita e consumi mediali Il concetto di “stile di vita” costituisce una radicale contestazione dell’immagine della moderna società industriale come società uniforme e omogeneizzata e, al tempo stesso, la forma più estrema di differenziazione dei riceventi. Esso tuttavia non emerge da una prospettiva antagonistica, ma costituisce forse la più coerente espressione della teoria della de-massificazione della società, cioè la teoria del superamento della società di massa per evoluzione interna. Un’idea annunciata, ad esempio, all’inizio degli anni ottanta da un best seller di Toffler (1980), secondo cui “le forze che hanno concorso alla realizzazione della società di massa [cioè urbanizzazione, industrializzazione, burocratizzazione, comunicazione tecnologica] hanno preso improvvisamente ad operare in senso inverso”, così da far emergere una società – e una economia, una politica, una tecnologia, una comunicazione, etc. – sempre più de-massificata, nella quale cresce lo spazio per le differenze individuali e di gruppo. Se nel significato sociologico più classico, legato agli studi di Weber, Simmel e Veblen, il concetto di stile di vita appare legato a gruppi specifici di status e al prestigio di cui godono, l’uso che si è affermato negli ultimi decenni enfatizza maggiormente la dimensione dell’identità individuale e della costruzione soggettiva rispetto alla “collocazione” sociale oggettiva. La crescente differenziazione dei valori, delle opinioni, degli atteggiamenti, dei gusti è l’espressione di un orientamento culturale generale delle società industriali avanzate, che Inglehart (1977) ha definito

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“post-materialistico”, in cui diventa sempre più importante l’aspetto dell’identità e della espressività personale. Gli stili di vita vengono identificati attraverso un particolare tipo di analisi empirica (detto ricerca psicografica) volto ad indagare le determinanti psicologiche e socio-culturali di comportamenti individuali e collettivi. Uno dei primi programmi di ricerca realizzato a partire dagli anni sessanta è il Values and Life Styles (VALS) che, partendo dalla scala dei bisogni di Maslow (1954) e dalla tipologia dei caratteri sociali di Riesman, ha suddiviso la popolazione americana in nove diversi stili di vita (Mitchell, 1983). Simili programmi di ricerca sono stati realizzati anche in altri paesi: in Italia ricordiamo Sinottica (Eurisko) e Monitor 3SC (GPF & Associati). Questa metodologia di ricerca consente di identificare dei gruppi con particolari profili socioculturali relativamente omogenei al loro interno e diversi tra loro, ma anche di coglierne nel corso del tempo i mutamenti quantitativi e qualitativi. Ciò che accomuna questi gruppi non sono tanto e principalmente delle variabili socio-demografiche derivanti dalle grandi strutture di differenziazione sociale, come la classe sociale, il genere, l’età, l’appartenenza etnica, lo status socio-economico, il livello di istruzione o la professione, bensì variabili più sottili e immateriali, quali determinati valori, opinioni, atteggiamenti, gusti, che presentano un certo grado di “coerenza” e consentono di delineare un “profilo” psicologico e socio-culturale caratteristico. L’analisi degli stili di vita è strettamente correlata agli stili di consumo e alle mode (Bovone, 1996; Di Nallo, 1997), ed anzi il maggior impulso a questi studi è venuto proprio dalle applicazioni nel campo del marketing e della pubblicità. Ciò è stato possibile perché anche in questo campo si è assistito ad un rovesciamento di prospettiva, legato ai mutamenti del sistema produzione/consumo nelle società industriali avanzate: non è più il cliente che deve adattarsi al prodotto, ma è il prodotto che deve adattarsi al cliente. Questa nuova filosofia aziendale dell’orientamento al consumatore ha trovato il suo punto d’arrivo nel concetto di “marketing individualizzato” (Rapp, Collins, 1992). L’aspetto degli stili di vita è infine collegato alle diverse forme e modalità di uso dei media, in un duplice senso. Da un lato, gli stili di vita influenzano i modelli di consumo e quindi anche i modelli di consumo dei media; dall’altro, l’uso dei media o particolari “diete” mediali costituiscono una parte integrante di una più ampia costellazione di atteggiamenti e comportamenti psicologici e sociali (Livolsi 1992; Morcellini, 1992). 2. Il sistema dell’industria culturale Sebbene quello dell’industria culturale rimanga un tema “caldo” e ideologicamente sensibile, a partire dagli anni settanta emerge gradualmente un più chiaro orientamento analitico, che produce una serie di studi e ricerche empiriche sull’industria culturale, i suoi attori, i suoi prodotti, i suoi meccanismi di produzione, distribuzione e consumo. Studiare l’industria culturale come sistema significa analizzare le diverse organizzazioni e i processi attraverso i quali i prodotti culturali – film, dischi, libri a basso costo, programmi televisivi, etc. – vengono creati, distribuiti e fruiti dai consumatori nei mercati nazionali e internazionali. 2.1. La produzione nell’industria culturale A partire dagli anni settanta varie ricerche sono state condotte sul processo di produzione e sul management delle industrie culturali: cinema, televisione, editoria, musica leggera. E’ emerso che le decisioni artistiche in queste industrie sono capillarmente sorvegliate dai vertici aziendali (Cantor, 1971; Bennett, Woollacoot, 1987; Thurston, 1987) che intervengono in ogni fase della produzione, dalla scrittura dei copioni alla scelta delle strategie promozionali, con esiti non sempre felici a causa di strategie basate su stereotipi e modelli ormai superati. Nell’industria cinematografica (Faulkner, Anderson 1987), televisiva (Gitlin, 1983; Cantor, Pingree, 1983) e, sebbene in modo più limitato, in quella della musica leggera (Rothenbuhler, Dimmick, 1982), il numero dei creatori è poi limitato a

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una cerchia relativamente ristretta ed esclusiva di autori che ne hanno perfettamente assimilato i valori e i modelli espressivi. Anche se si registrano stagioni di particolare effervescenza creativa come gli anni settanta, in cui si ebbe una straordinaria fioritura di serie televisive destinate ad un grande successo internazionale (Newcomb, Alley, 1983), sia nel campo cinematografico sia in quello della produzione televisiva vi è una crescente standardizzazione delle formule e una insofferenza verso i contenuti insoliti. In campo televisivo, ad esempio, poiché l’innovazione è percepita come un rischio, vengono selezionati e costruiti prodotti simili a quelli che già hanno ottenuto successo in passato, come libri best-seller e film di successo, da cui vengono tratte le serie televisive, oppure si ricombinano formule o ripresentano personaggi già amati ed apprezzati dal pubblico. Come nel campo dell’informazione giornalistica, anche nella realizzazione di questi prodotti artistici i creatori e gli strateghi dell’industria culturale si osservano reciprocamente per convalidare le proprie scelte culturali ed estetiche e non trovarsi “spiazzati”. 2.2. I sistemi nazionali di produzione, circolazione e consumo culturale Le arene culturali. Un primo modello del sistema dell’industria culturale è stato proposto da Diana Crane (1992). Si tratta di un modello sincronico, basato sulle interazioni tra i tre principali ambiti nei quali si determina la produzione e la circolazione dei prodotti culturali. “Il settore centrale è dominato da conglomerati [cioè compagnie con interessi in molti campi diversi] che diffondono cultura a pubblici nazionali ed internazionali e ai quali tutti i membri della popolazione sono in qualche modo esposti. La televisione è il principale medium in questo settore, insieme al cinema e ad alcuni grandi quotidiani e periodici di informazione. Il settore periferico è dominato da organizzazioni come network radiofonici, case discografiche ed editori di riviste e libri che diffondono cultura su base nazionale ma a gruppi specifici solitamente basati sull’età e sullo stile di vita. Il terzo settore è quello della cultura urbana, prodotta e diffusa in contesti cittadini per pubblici locali. Le organizzazioni che attirano pubblici ristretti con i più esoterici ed eccentrici materiali tendono ad essere organizzazioni culturali locali la cui importanza nella produzione e diffusione della cultura è generalmente trascurata da quanti evidenziano il ruolo della cultura popolare prodotta dai conglomerati. Le organizzazioni culturali locali, che sono solitamente parte di network culturali – subculture o mondi artistici – sono spesso fonte di nuove idee, alcune delle quali raggiungono alla fine l’arena culturale” (trad. it. pp. 24-26). Mentre la teoria critica dell’industria culturale concepiva il settore centrale come capace di “assorbire” e amalgamare tutti i contenuti culturali che provenivano dai settori più periferici e marginali, la teoria delle arene culturali di Crane sottolinea invece che: “C’è una tensione continua tra la tendenza dei media centrali a dominare il sistema nel suo insieme e la regolare proliferazione di nuove organizzazioni culturali nei settori periferico e locale. Nella misura in cui le organizzazioni del settore centrale si fondono per formare conglomerati sempre più grandi, sembra impossibile sfuggire alla minaccia di egemonia, alla imposizione di una concezione del mondo elitaria su tutta la società. In ogni caso, il numero delle organizzazioni nei settori periferico e locale continua a crescere. I generi entro ciascun tipo di cultura tendono continuamente a differenziarsi, così come è costantemente in crescita il numero dei diversi stili di vita…” (ivi, p. 29). Dalla produzione al consumo: interfacce, filtri e feedback. Un secondo modello analitico del sistema dell’industria culturale è stato elaborato da Hirsch (1972), poi ripreso e adattato da Griswold (1994, trad. it. pp. 102-108). Questo modello si sviluppa secondo una logica diacronica, nel senso che ricostruisce il “viaggio” di un prodotto culturale (libro, canzone, film, etc.) dalla sua ideazione fino al consumo finale, attraverso una serie di organizzazioni o sottosistemi.

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All’origine del processo vi sono gli artisti creativi: scrittori, compositori, cantanti, attori, registi. Ne fanno potenzialmente parte tutti coloro che pensano, scrivono, compongono, realizzano performance artistiche. Al suo interno si forma un’area di “professionisti”, che dispongono di mezzi espressivi e tecnici più sofisticati e intrattengono relazioni privilegiate con il secondo sottosistema, quello manageriale, costituito dalle aziende attive nei diversi settori dell’industria culturale: case discografiche, case editrici, strutture di produzione cinematografica e di fiction televisiva. Tra questi due sottosistemi esiste un’area di confine, che funziona come interfaccia. Gli artisti creativi possono servirsi di agenti o proporsi direttamente alle aziende del settore, le quali, a loro volta, possono utilizzare scopritori di nuovi talenti. Quest’area di connessione è però anche un filtro, una struttura di gatekeeping, che decide chi e che cosa sia “interessante” dal punto di vista delle organizzazioni manageriali. Si tratta di considerazioni non riferite esclusivamente alla qualità degli artisti e dei prodotti culturali, ma soprattutto alla loro “valorizzazione” e vendibilità sul mercato. Il sistema manageriale promuove un artista o un prodotto sul mercato con una serie di iniziative pubblicitarie, anche se non tutti ricevono lo stesso trattamento. Le iniziative promozionali si rivolgono direttamente al pubblico, ma possono anche indirizzarsi verso un terzo sottosistema, quello dei mass media. Recensori di libri, giornalisti, disk-jockey, conduttori di talk show, cioè gli operatori e gli intermediari culturali attivi in questo terzo sottosistema, possono promuovere attivamente, bocciare o semplicemente ignorare un prodotto. Trasmettere continuamente una nuova canzone su un network radiofonico, recensire benevolmente un film su un quotidiano o una rivista specializzata, presentare un libro e il suo autore in un seguito programma televisivo, sono scelte che influenzano in modo determinante il successo di un prodotto culturale presso il pubblico. Per questo le organizzazioni manageriali dispongono di uffici stampa e strutture di marketing che intrattengono rapporti con i mass media al fine di assicurare una accoglienza positiva e una adeguata promozione dei prodotti culturali. L’accoglienza (più o meno positiva) del prodotto da parte dei mass media costituisce un primo feedback per l’organizzazione manageriale, che in tal modo può disporre di un importante elemento di valutazione del successo di un prodotto. Il carattere strategico di questo legame tra organizzazioni produttive dell’industria culturale e mass media fa sì che si creino varie forme di “collusione”, dalle bustarelle ai disk-jockey al maggiore spazio che le riviste letterarie riservano ai migliori inserzionisti. A questo proposito occorre anche considerare che, talvolta (e sempre più con i processi di concentrazione orizzontale e verticale), le aziende produttrici e i mass i media fanno parte di uno stesso grande gruppo editoriale e mediale, per cui il sottosistema mediale coopera attivamente come “rinforzo” e momento costitutivo nella strategia promozionale delle aziende. Attraverso questa successione di filtri il prodotto culturale viene selezionato e “canalizzato” verso i destinatari. Il pubblico, anche se variamente indirizzato e stimolato all’accoglimento favorevole di un certo prodotto dalla struttura di marketing che lo accompagna, rimane tuttavia l’arbitro finale del suo successo, misurato dal numero di biglietti, dischi o libri venduti e, possiamo aggiungere, in riferimento alla televisione, dagli indici di ascolto e di gradimento. La risposta del pubblico costituisce il secondo e inappellabile feedback di cui le aziende dispongono per valutare il successo dei loro prodotti, la validità delle linee editoriali, l’efficacia delle strategie promozionali, la direzione degli investimenti futuri.

Artisti creativi

(sottosistema tecnico)

Organizzazioni

(sottosistema manageriale)

Media (sottosistema istituzionale)

Consumatori Filtro 1

╫ Filtro 3

╫ Filtro 2

Feedback 1

Feedback 2

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2.3. La circolazione internazionale dei prodotti culturali Fino a qualche decennio fa, l’industria culturale si rivolgeva in primo luogo ai mercati domestici. I mercati extra-nazionali rappresentavano un “di più”, una specie di valore aggiunto, ma la maggior parte del fatturato veniva realizzato in ambito nazionale. Anche gli attori e i processi dell’industria culturale si definivano essenzialmente all’interno di contesti nazionali. Oggi non è più così. Un aspetto fondamentale del processo della globalizzazione comunicativa è che i grandi sistemi industriali di produzione vedono derivare la maggior parte dei loro introiti dalle vendite su un mercato globale. Ad esempio, a partire dalla metà degli anni novanta, l’industria cinematografica statunitense ricava la maggior parte dei suoi introiti dalle vendite all’estero rispetto al mercato domestico americano, senza contare i video e i passaggi televisivi. Lo stesso accade per i programmi televisivi. Il mercato mondiale mostra una continua crescita del volume degli scambi negli ultimi tre decenni. Il quadro generale appare caratterizzato dai seguenti elementi: a) a livello globale poche nazioni occidentali, con in testa gli Stati Uniti, figurano tra i principali produttori di programmi televisivi; b) in numerosi paesi, la percentuale dei programmi importati raggiunge quote ragguardevoli dell’intera programmazione, con presenze significative nelle fasce di maggior ascolto; c) il flusso è costituito soprattutto da programmi di intrattenimento e di evasione: film, fiction televisiva, spettacoli sportivi e cartoni animati; d) va sottolineato, infine, che in termini di dipendenza dall’estero, anche i paesi europei risultano fortemente dipendenti dagli Stati Uniti (Nordenstreng, Varis, 1974; Varis, 1984, 1985; Mowlana, 1996). Questo quadro del flusso internazionale dei prodotti dell’industria cinematografica e televisiva è stato tuttavia messo in discussione da alcune evidenze empiriche che, se non ne smentiscono la generale validità, lo arricchiscono di alcuni importanti elementi. 1. Numerose ricerche in diversi paesi hanno mostrato la preferenza del pubblico per la fiction di produzione nazionale, purché di qualità accettabile, sulla base del principio della “prossimità culturale”, che è uno dei principali regolatori dei consumi culturali e mediali. I programmi acquistati all’estero si attestano in genere su livelli di ascolto medi, mentre i picchi di audience premiano sistematicamente la fiction domestica (Straubhaar, 1983; Tracey, 1985, 1988; Bechelloni, Buonanno, 1997). Così negli ultimi anni in Europa, anche in relazione al rafforzamento delle capacità produttive dell’industria nazionale, la fiction di produzione domestica ha conquistato il prime time, mentre permane un predominio americano nelle altre fasce di programmazione durante la giornata (Eurofiction 2002, 2003). 2. Si ridisegna – almeno parzialmente – la geografia dei centri di produzione. Un caso interessante è rappresentato dall’America latina, una delle aree in cui tradizionalmente più alta risultava la penetrazione dei prodotti dell’industria culturale americana. Nel 1982 una ricerca in sei paesi ha messo in luce la tendenza a produrre di più e ad importare di meno. I primi passi in questa direzione sono stati compiuti dal Messico, seguito da Brasile, Argentina e Venezuela (Antola, Rogers, 1984). Protagoniste principali di questa inversione di tendenza erano le telenovele, un tipo di soap opera che costituisce il più popolare genere televisivo di produzione latino-americana. Il loro successo internazionale non solo avrebbe favorito la riduzione delle importazioni, ma avrebbe anche in qualche modo equilibrato il rapporto con i paesi più industrializzati costituendo un importante prodotto di esportazione (Rogers, Schement, 1984; Rogers, Antola, 1985). 3. Anche i prodotti dell’industria culturale occidentale più affermati ricevono una accoglienza diversa nei vari contesti nazionali e socio-culturali. E’ il caso di Dallas, che costituì uno dei più grandi successi televisivi internazionali degli anni ottanta, citato come l’esempio più evidente della conquista del mondo da parte dell’industria televisiva americana. I sostenitori della tesi dell’imperialismo culturale ( per una presentazione, cfr. Tomlinson, 1991) vi hanno visto, infatti, un tipico caso di esportazione dei modelli culturali americani: valori, concezioni, modi di intendere i rapporti sociali e familiari, penetrano impercettibilmente nella mentalità di chi guarda il

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programma, anche in contesti – come l’Asia, l’Africa o il Medio Oriente – lontanissimi da quello in cui esso è nato e che vi è rappresentato. Così, alle analisi qualitative del contenuto si sono affiancati vari studi sul significato attribuito a Dallas dai pubblici di diversi paesi. La più nota e influente ricerca è però costituita da un ampio studio comparativo di Liebes e Katz (1987, 1990). La ricerca analizza quattro pubblici di diversa origine etnica e culturale in Israele, messi a confronto con il pubblico americano di Los Angeles e il pubblico giapponese, di un paese cioè dove Dallas ha registrato uno dei pochi brucianti insuccessi. Dall’analisi è risultato che gli schemi interpretativi dei gruppi appartenenti alla stessa comunità culturale erano assai simili per forma e contenuto, mentre differivano notevolmente da comunità a comunità. Una importante conclusione a cui perviene la ricerca di Liebes e Katz è che i valori dei gruppi sociali e la loro collocazione sociale influenza profondamente l’attività di ricezione, confermando la prospettiva espressa ad esempio da Hall e da altri autori dei Cultural studies, ma volgendola contro le tesi dei sostenitori dell’imperialismo culturale. La comprensione deriva sempre da una complessa interazione tra testo e ricevente. Il testo ha senza dubbio una sua “oggettività” ed è costruito secondo una serie di criteri culturali, ideologici e stilistici ben definiti, che dirigono l’attenzione su certi temi e “guidano” le possibili interpretazioni. Al tempo stesso però lo spettatore, inserito in determinate “comunità interpretative”, dispone sempre di una capacità di decodifica e negoziazione dei significati sia dal punto di vista estetico, sia dal punto di vista morale e ideologico.

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