Sacrificio my Last Hero

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Sacrificio my Last Hero, Alice Signorelli - Fantasy - 0111edizioni

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Alice Signorelli

Sacrificio My Last Hero

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SACRIFICIO. MY LAST HERO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Alice Signorelli ISBN: 978-88-6307-303-4

In copertina: immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Luglio 2010 da Digital Print

Segrate - Milano

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PROLOGO Oltre il boschetto degli abeti, superate le rovine dell’antica abbazia, proprio nel cuore della selva, vi era la bella villa che i residenti chiamavano la Magione. Non vi era una casa più bella della Magione in tutto il paese, ma neanche vi era villa più segregata dal resto del mondo. Si può dire che nessuno, a parte le due famiglie che lì abitavano, vi avesse mai messo dentro piede o anche solo posato lo sguardo. Non erano passati più di trent’anni da quando Elizabeth e Jonathan Black avevano deciso che in quella casa avrebbero trascorso il resto della loro vita con Victoria e River, i figlioletti di pochi anni, e con i LeBlanc, la famiglia di cari amici che vollero portare con sè a condividere l’esperienza di una nuova vita a totale contatto con la natura. E fu così che la Magione si trasformò da residenza estiva a residenza fissa di due famiglie e del sogno di una vita. Non più di qualche anno dopo nacque la terzogenita Black, la piccola Alexandra, prima di una lunga serie a vedere la luce tra le mura domestiche della Magione e a trascorrervi lì l’intera esistenza. Casa Black, tuttavia, non era solo una bella villa, ma anche un luogo che non conosceva le insidie del tempo. La segregazione dal mondo era ciò che i suoi fondatori avevano ricercato e protetto, il ritorno alle origini il suo fine ultimo. Non vi era elettricità a casa Black, niente gas, niente plastica o acciaio, nè stoffe sintetiche. Vi erano invece candele, sete e broccati, pizzo e merletti, e poi tele, pennelli, aghi e filo. Fu in una mattina di inverno che Hero spalancò le porte di questo mondo segreto e venne accolta alla Magione come una figlia.

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I “Devi insegnare alla tua protetta che il cimitero dell’abbazia non è luogo di divertimento! Non può andare a giocare al fiume? O nella selva, sulle montagne se le fa piacere, ma per favore, insegnale una volta per tutte che i morti si lasciano in pace!” A Hero sfuggì un sorriso: “Allora dovrò insegnarlo anche alla tua figlia minore visto che stanno giocando insieme.” “Quiva? Madre mia, no! Ma che sta succedendo in questa casa? Quiva ha sempre avuto paura dell’abbazia! Il mondo andrà presto a rotoli se mia figlia salta e corre tra le tombe!” Il sorriso di Hero divenne una risata vera e propria: “Allora corri a recuperarla, Vic, prima che una di quelle tombe la inghiotta!” “Hero! Non dirlo neanche per scherzo, ma perchè devi essere sempre così macabra? Ora capisco da chi ha preso Morgan!” e si avviò a rapidi passi verso la selva. Hero rientrò in casa ancora sorridendo e salutò l’anziana padrona, Elizabeth D. Black, che scendeva in quel momento dallo scalone centrale che conduceva alle stanze del primo piano. “Allegra presto stamattina.” “Oh, solo una vivace discussione con tua figlia Victoria. Pare che un lato inaspettato si sia improvvisamente manifestato nel carattere della sua creatura.” “E questo sconvolge mia figlia?” “Beh, è un lato un po’ macabro.” “Oh, nessuna mia nipote ha lati macabri, scommetto che è influenza tua!” rispose la signora ridendo. “Ma guarda, Vic ha la stessa teoria! Ci sarà un fondo di verità in questa affermazione?” “Ma no,” continuò la signora scuotendo leggermente la testa, “Ma no, Hero, figurati. Piuttosto, ti spiace dire a tutti che è pronta la colazione?” Quando Quiva e Morgan rientrarono dai giochi trovarono tutti già riuniti intorno al grande tavolo di legno della sala da pranzo e fu solo dopo essersi lavate con cura le mani che vi furono ammesse.

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“Gli ultimi cavalieri saranno gli ultimi a servirsi!” esclamò Cassandra Black, sorella di Quiva. “E da quando in qua? I cavalieri arrivati per ultimi sono quelli che hanno combattuto di più, perciò spetta a loro il primo assaggio intorno alla tavola rotonda!” rispose la sorella “Combattimenti e giochi non sono la stessa cosa, madmoiselle. E visto che tra i due litiganti il terzo gode, a Morgan spetta la prima fetta di torta!” I tentativi pacificatori di una madre sono sempre visti come un grave torto e meritano un mutismo offeso che ha termine solo quando la noia di tacere vince sulla rabbia. E la rabbia delle piccole di casa non durava mai troppo a lungo, perchè il loro carattere era solare e spensierato, forgiato dalle corse tra il fiume e gli alberi della selva e dall’amore della famiglia. “Sono buonissime Eliza!” disse Hero “Per quanto mi sforzi non mi riesce di starti alla pari in cucina.” “Oh cara, ma tu non hai sessant’anni di esperienza alle spalle! Sarebbe come se un puledro si lamentasse perchè non riesce a tener testa allo stallone nella corsa! Dai tempo al tempo, e nel frattempo continua a esercitarti. L’abilità c’è, e anche la passione. Abilità e Passione hanno per figlia il Successo.” “Successo che per altro già c’è.” disse Victoria “Di cosa ti lamenti, Hero? Riesci bene in tutto e non sei mai contenta! Fossi io dotata come te! È proprio vero che chi ha talento non se ne accorge.” “Dotata come me, Vicky? Andiamo. Ognuno qui ha i suoi talenti, non dovremmo cominciare a invidiarci a vicenda, non l’abbiamo mai fatto! Invidia è figlia di Rancore.” “O viceversa?” disse l’uomo taciturno che sedeva al capo opposto della tavola e che finora aveva sempre taciuto lasciando le chiacchiere alla figlia e alle nipotine “Anche se ti assicuro che Victoria scherzava! Mia figlia è incapace di invidiare.” “Ah ah, lo so John non ti preoccupare!” sorrise al capofamiglia e accostò alle labbra la tazza di tè che aveva fatto dondolare tra le mani per qualche minuto per farne raffreddare il contenuto bollente “Ah Vicky! Prima che mi dimentichi: come procede il dipinto?” “Lentamente! Non finisce mai!” esclamò la più grande delle figlie dell’interpellata. “Non finisce mai perchè il mio soggetto lascia il suo posto per andare a giocare tra le tombe! Sei un pessimo modello Quiva, la prossima volta chiederò a Cassie di posare!”

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“Avresti dovuto chiedermelo fin dal principio mamma, avrei potuto posare indossando l’abito che ha appena finito di cucirmi Niobe!” “Oh Niobe, davvero, era meraviglioso! Cassie me l’ha mostrato ieri sera e sono rimasta a bocca aperta, avrei voluto dirtelo subito ma era tardi e avevo paura che fossi già a letto…” “Non c’è problema Vicky, non cucio certo per ricevere complimenti! Sono davvero felice che vi sia piaciuto, confesso che per un istante ho avuto la tentazione di tenerlo per me!”. Era Niobe LeBlanc. “Ma del resto, poi, ho pensato che non ci sarei potuta entrare neanche con la forza, sono giusto quel tantino più grande di Cassie!”. Sorrise. Nessuno al mondo sapeva sorridere come Niobe LeBlanc. “Niobe, carissima,” si intromise a quel punto, per la prima volta nella conversazione, il ragazzo che le sedeva di fronte. “Scusa se interrompo il simpatico dialogo, ma i tuoi fratelli qua gradirebbero quel vassoio che ti ostini a tenere di fianco al braccio e a non far passare!” Niobe guardò alla sua destra distrattamente e rise mentre sollevava il vassoio di biscotti e li porgeva al fratello oltre la tavola imbandita, sussurrando abbastanza da farsi sentire da tutti: “Ho dei fratelli ingordi.” “No bellezza, hai dei fratelli che muoiono di fame! Altrochè! Ne vuoi anche tu?” e i due fratelli LeBlanc si servirono per poi ripassare il vassoio alla sorella minore. Laurie, Nicholas e Niobe LeBlanc. Tutti e tre biondi e sottili, dal carattere limpido e solare come il verde dei loro occhi. Ormai orfani da diverso tempo, ma figli adottivi dei due capifamiglia. “River! Vuoi biscotti? Ti conviene affrettarti perchè stanno finendo”. E il secondogenito Black prese la sua parte. “Stavo pensando” disse River sogghignando “che se ci fossero più uomini in questa famiglia, le discussioni prenderebbero una piega più interessante di cucina e cucito.” “Oh scusa tanto fratello, se ho avuto due figlie femmine!” “Invece di lamentarti, River, perchè non provvedi ad aumentare il numero di maschi in questa casa? Hai ventotto anni, direi che sarebbe anche ora!”. Era la spontaneità tagliente di una bambina. “Piccola Morgan! Diventi ogni giorno più audace.” E Hero, a lato di Morgan, si sentì improvvisamente nervosa. “Ma le piace il pane?” disse Niobe a un certo punto, riferendosi alla gattina tricolore che stava leccando briciole di pane cadute a terra. “Adora la farina. Non sai le volte che ce la ritroviamo in cima alla tramoggia mentre maciniamo il grano. Siamo costretti a chiudere porte

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e finestre al mulino quando lavoriamo, altrimenti qua si macina grano e pelo.” disse Jonathan. “Secondo me, Lola è innamorata di River.” disse Morgan all’improvviso, con gli occhi fissi e pensierosi sul mucchietto di pelo accanto alla sedia del fratello. “Non vedete come lo guarda desiderosa?” “Oh cielo, speriamo di no.” disse River. “Non guarda River, guarda il prosciutto.” rispose Laurie. “Ma non vedi come fa tremare il codino?” “Beh? Cosa c’è di male a far tremare il codino al prosciutto? Anch’io lo farei se avessi un codino.” “Potrebbe cercare di prenderlo da sola se volesse. Invece sta fissando River, non è il prosciutto che vuole, è l’attenzione di River!” “Dai River, dalle attenzione. Magari ha ragione Morgan...” River mise giù coltello e forchetta e allungò la mano destra verso la gattina ai suoi piedi. Lei annusò la mano come la vedesse per la prima volta e poi iniziò a leccargli un dito. “Vedi? Sente odore di cibo e gli lecca la mano. Non è innamorata di River, è innamorata della sua colazione” “Eppure, secondo me, Lola è innamorata di nostro fratello.” “Non avrebbe molto senso, ti pare?” disse ancora Laurie. “E lei come fa a saperlo? Se lo ama, lo ama. Vaglielo a dire che non ha senso.” “Magari per lei ne ha.” “Hero, ma anche tu?” “Beh, non puoi negare che Loly abbia una predilezione per River.” “Okay, okay, che abbia una preferenza speciale per River posso accettarlo. È vero. Ma che si sia innamorata mi pare fantasioso.” “Che ne sai di cosa passa per la testa di un gatto?” Hero la prese in braccio e la sistemò tra le ginocchia, col muso rivolto verso di lei. “Lola, parlaci. Raccontaci. Cosa c’è nel tuo cuore? Confidati con noi.” La gatta la fissava coi grandi occhi gialli spalancati e le orecchie dritte. Aveva la solita espressione buffa di sempre. “Quanto amo questa gatta!” disse Hero, e l’abbracciò. Lei emise una specie di frullo e sgusciò via. Andò ad accuattarsi sotto la sedia di River, nascosta dietro una gamba, con le orecchie piatte da gatto all’erta. “Vedi? Va a rifugiarsi da River! È il suo principe azzurro!” ridacchiò Morgan. “È come vi dico io, vedrete!” “Vedrete cosa? Quando gli confesserà il proprio amore?”

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“Povera piccola Lola... anche se gli miagoli il tuo amore, River non può capire. Che triste, il suo è un amore impossibile.” “Ma non è innamorata di River!” ribadì Laurie per l’ennesima volta. “Ma tu che ne sai? Solo perchè è piccolina! Anche Campanellino era innamorata di Peter Pan, anche se lui era grande e lei piccoletta!” “Almeno però erano tutte e due umani, e lei non aveva i baffi e le orecchie pelose.” “No, lui era umano, lei era fatina e aveva le ali polverose, erano anche loro di razza diversa.” “Ma comunque lui se ne fregava altamente.” Hero quasi si strozzò col tè. “Non erano polverose, era polvere fatata! Permetteva di volare!” “Guardate, guardate! Miagola a River!” Lola era tornata alla carica. “Magari gli sta dichiarando il suo amore e lui non sta capendo.” disse Hero “Dai River, capiscila!” lo pregò Morgan River era perplesso davanti al suo pane e prosciutto. “Senti che miao pietoso che ti sta facendo.” “Se vuole posso darle un pezzetto di prosciutto...” “Oh River, come sei materiale. Lei vuole il tuo cuore.” River restò fondamentalmente perplesso. “Io vado alle scuderie.” disse Jonathan distogliendo l’attenzione dalla gatta. “I cavalli vanno strigliati e spazzolati. River, ti aspetto lì. Poi raggiungo voi due al frumento.” disse rivolgendosi a Nicholas e Laurie. Alzatosi dal tavolo aggiunse: “Buona giornata a tutti ragazzi. Che vi dia soddisfazioni.” La Magione era una villa affollata e movimentata, e non solo perchè due erano le famiglie che lì abitavano, ma anche perchè, dei suoi dodici componenti, non ve n’era uno che trascorresse le giornate nell’ozio. C’era sempre qualcosa da fare alla Magione, e, per le bambine, qualche nuovo gioco con cui intrattenersi. Erano molto rari i momenti di noia. Era davvero un luogo felice. Laurie e Nicholas si occupavano del campo di frumento e lavoravano al mulino. Le donne si occupavano dell’orto e del frutteto, e di tutto ciò che aveva a che fare con la cucina. River e Jonathan si occupavano

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degli animali, a partire dai cavalli delle scuderie che andavano strigliati e nutriti ogni giorno. Il compito di Hero era sempre stata l’istruzione di Quiva e Cassandra Black, di Niobe LeBlanc e della piccola Morgan. Avevano età disparate, ma ha poca importanza l’età quando si tratta di apprendere la pittura, il cucito e la musica. E per quanto riguardava discipline come la letteratura e la filosofia, Hero riusciva a farne apprendere le basi alle più piccole e spiegarle in profondità alla maggiore. Aveva solo quattro allieve in fondo, non era mai stato arduo seguirle attentamente negli studi una per una, personalizzando le lezioni e gli esercizi. E a Hero piaceva il suo compito e nessuna delle sue giovani allieve le dava il minimo problema. Erano sveglie e intelligenti e imparavano rapidamente. “Cassandra ha il talento artistico di sua madre.” pensò Hero, fermandosi alle spalle della ragazzina quattordicenne e osservando sovrappensiero la tela che la sua mano abile stava riempiendo di tinte violette. “Di sua madre come mio, del resto. Solo che io non ho la sua calma, mi spazientisco troppo in fretta mentre aspetto che l’olio sia abbastanza asciutto per stendere un nuovo strato di colore. Cassie invece è tranquilla e paziente, sa che la tela non fugge via mentre aspetta. Sa di aver tempo.” L’unica cosa veramente difficile nel compito di Hero era il fatto di avere nelle sue mani le menti delle ragazzine e doveva plasmarle così come Elizabeth le aveva insegnato a fare. E a volte era arduo mentire. Non si era ancora abituata. A volte, seppure fossero passati anni da quando era stata accolta alla Magione, le pesava sul cuore il fatto di dover stravolgere la storia e la natura per adattarle alle leggi di casa Black. Mentre osservava l’opera di Cassie, le tornò in mente un giorno di un paio di anni prima. Stava tenendo una lezione di letteratura a Niobe, parlavano di romanticismo inglese. “… la poesia ‘London’...” Niobe le aveva chiesto dove fosse Londra. “Ci sono sempre tante persone e paesi in queste poesie, ma dov’è tutta questa gente? E dov’è questa Londra ‘dalle verdi colline e le torri rifulgenti di luce’?” “Non esiste più, Niobe.” “Non esiste più come i greci? Come quegli altri popoli di tanti secoli fa? Perchè ogni volta che imparo qualcosa tu mi dici che non esiste più?”

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“Perchè è così, tesoro. Non vi è più nulla nel mondo di ciò di cui leggi, lo sai. Esiste solo la gente della selva ormai.” “E allora cosa leggo a fare?” Hero sapeva cosa doveva rispondere: “Per scoprire chi sei. Qual è il tuo vero nome, Niobe LeBlanc? Sarà Coraggio? Splendore? Arte? Curiosità? Un giorno lo saprai, ma devi conoscere ciò che ti ha preceduto prima di poter conoscere te stessa. Prima viene il Passato, solo allora potranno venire Presente e Futuro.” Era difficile mentire, ottenebrare quelle menti così vivaci, eludere domande così spontanee e naturali e far credere alle bambine che casa Black contenesse le uniche persone viventi sulla faccia della Terra. Ma questo era il suo compito, il più importante che Elizabeth le potesse affidare, e lo aveva affidato a lei perchè, a parte i due anziani Black, era l’unica della famiglia a conoscere la verità. I capofamiglia LeBlanc erano ormai morti di polmonite da alcuni anni e i due Black maggiori, Victoria e River, che pure erano nati in città, erano troppo piccoli quando furono portati alla Magione per poter ricordare con chiarezza l’avvenimento, nè tanto meno per poter rammentare cosa fossero le loro vite prima di quel giorno. Hero compiva bene il suo lavoro, poichè la giovane Niobe LeBlanc, oramai diciottenne, aveva smesso di fare domande scomode da molto tempo. Adesso erano le più piccole a preoccuparla, specialmente Morgan, che era la sua perla più preziosa. Ma scacciò il pensiero e si convinse di tornare a preoccuparsene solo quando il problema si fosse presentato realmente. Era inutile fasciarsi la testa prima del tempo, e in ogni caso con Niobe l’aveva spuntata. Perchè non sarebbe dovuto essere lo stesso anche con le altre tre? A meno che un giorno, per disgrazia, non fossero entrate in contatto con qualcuno del mondo di fuori, la verità non sarebbe mai venuta a galla e i ragazzi sarebbero cresciuti sereni nel mondo che la signora Black aveva creato per loro. Tuttavia vi era nel suo cuore l’ombra costante dell’errore: sarebbe bastata una citazione sbagliata, un accenno azzardato, e questo avrebbe inevitabilmente scatenato una catena di domande che l’avrebbe intrappolata nelle sue stesse menzogne. Ancora una volta scacciò il pensiero convincendosi di star agendo a fin di bene, per il bene delle bambine. Non che avesse bisogno di convincersi: era fermamente persuasa che questo fosse il modo giusto di agire. Non era scappata lei stessa dal mondo di fuori? La selva

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l’aveva salvata. Dunque doveva donare la stessa salvezza alle sue giovani allieve e proteggerle dal mondo esterno. Ogni tanto ripensava alla sua vita passata, quando viveva nel mondo, e vi ripensava sempre con un certo sgomento. Si chiedeva come avesse potuto resistervi così tanti anni e cos’avrebbe fatto se un destino caritatevole non l’avesse condotta al limitare della selva. Che sarebbe stato di lei se la signora non l’avesse accolta alla Magione? Se l’avesse rimandata nel mondo infernale che l’aveva generata? Il pensiero diveniva tormento, e il tormento angoscia, che riusciva a seppellire in fondo al cuore solo parlando con la sua benefattrice oppure uscendo nell’aria fresca della foresta e passeggiando fino all’abbazia, o lungo le sponde del fiume, o, ma doveva essere assolutamente sicura che nessuno l’avesse vista e la stesse seguendo, spingendosi oltre il fiume, su per il cosiddetto “monte del vento” che poi non era altro che il pendio verso la scogliera che si gettava a strapiombo sul mare. Era salita fino in cima alla scogliera una sola volta nella sua vita, dopodichè l’aveva giudicato troppo rischioso perchè c’era la possibilità che qualcuna delle bambine potesse vederla e seguirla, e non poteva permettere di far loro scoprire che la selva, il loro mondo, era in realtà un’isola. L’esistenza di questo mare che circondava l’isola le avrebbe riempite di curiosita. Avrebbero voluto sapere cosa c’era al di la’ del mare e avrebbero potuto concepire di avventurarvisi per scoprirlo. E tutto questo non era ammissibile. L’unico mondo che era permesso loro concepire era quello della loro casa in mezzo alla selva. Ovviamente sarebbe potuta ricorrere al solito espediente del tabù, “Il mare è regno della Dea, assolutamente precluso agli umani avvicinarsi”, ma avrebbe voluto evitare domande in partenza se fosse stato possibile. Così “la scogliera” era divenuta “una montagna”, nonostante non avesse l’altitudine necessaria per essere considerata tale. Ma le bambine non lo sapevano, sapevano solo che la montagna era il regno della Dea ed era luogo proibito, e questo avrebbero creduto e sarebbero andate avanti a credere per sempre, e l’avrebbero insegnato ai propri figli, e i figli ai loro figli, e la parola isola, che verosimilmente potevano aver letto in qualche poesia o racconto, avrebbe perso di significato e sarebbe stata dimenticata. È facile uccidere le parole quando se ne distrugge l’oggetto. E di conseguenza, nessuno nella casa, a parte coloro che erano stati cittadini del mondo esterno, conoscevano quelle parole che si riferivano al mondo moderno, quello delle macchine e della tecnologia che aveva

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sostituito l’abile braccio dell’uomo. Nè, volesse il Cielo conservare la loro felicità, l’avrebbero mai saputo. Finita l’ora di pittura, Hero concesse una pausa a tutte quante e uscì per quella passeggiata all’abbazia della quale aveva sentito il bisogno per tutta la mattina, e condusse Morgan con sè. Gettò una mantella sulle spalle di entrambe, poichè l’aria di settembre cominciava a farsi pungente anche nelle prime ore del pomeriggio, e uscì pensierosa con la bambina che la seguiva saltellando. Si chiese perchè avesso portato Morgan con sè visto che sentiva il bisogno di stare in solitudine, e Morgan non era certo il tipo di ragazzina che trascorreva le giornate in silenzio, ma le era venuto spontaneo e ormai era troppo tardi per dirle che aveva cambiato idea. E tutto sommato aveva piacere ad avere la sua protetta accanto: la solitudine era ciò che ricercava e temeva allo stesso tempo, e Morgan ne avrebbe ricacciato lo spettro. Lady Black stava scendendo le scale mentre Hero apriva la porta di casa. “Hero! Esci?” “Cosa te ne pare?” rispose Hero, che aveva già quasi un piede sullo scalino di pietra. La signora si offuscò un po’ in viso e continuò: “Porta questo all’altare allora” e le porse qualcosa di grosso e pesante avvolto in un panno nero. “Certamente mamma, andavo giusto all’abbazia!” rispose lei tentando di suonare più gentile che poteva e rimediare così alla sgarbatezza di un momento prima. Sapeva che chiamarla madre, nonostante non lo fosse, sarebbe servito allo scopo. La signora infatti sembrò rasserenarsi e la ringraziò calorosamente, come se Hero le stesse facendo un grande favore personale, quando invece la richiesta era di regolare amministrazione e non certo particolarmente impegnativa. “Andiamo” cantilenò Morgan che già si annoiava ad aspettare in giardino. E andarono. “Perchè sei così sgarbata con Eliza? Cos’hai, Hero?” Hero si stupì della domanda: “Non credevo che avessi sentito.” “Parlavate a voce alta…” “Comunque non ho niente Morgan, sono solo stanca.” “Ma tu sei sempre stanca!” “Ma cosa dici?” era veramente sorpresa e in un certo senso addolorata

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“Una volta non dormivi così tanto! E dipingevi di più. Guarda che Cassie potrebbe diventare migliore di te se smetti di esercitarti.” “Non ho nessun’invidia per chi è migliore di me, e auguro a Cassie di diventarlo dato che ha più costanza e pazienza di me. Quando l’allievo supera il maestro, è lo stimolo per quest’ultimo a impegnarsi di più. Non c’è mai limite all’apprendimento.” “Lo dice anche Eliza.” Gli alberi iniziavano a farsi più fitti e scuri. “E comunque non ho smesso di dipingere. Sto solo… riflettendo. Cercando nuove ispirazioni. Tutto qua.” “E su cosa rifletti?” Come spiegarlo alla bambina quando non ne era certa neppure lei? Decise di cambiare argomento. “Ti piace giocare con Quiva nel giardino dell’abbazia?” Morgan annuì con un gran sorriso. “Abbiamo inventato un nuovo gioco e ci ispira un sacco di avventure! Una volta ci piaceva di più il fiume perchè ci costruivamo sopra i ponti e facevamo le dighe, ma ora ci siamo stancate dell’acqua, perciò facciamo le esplorazioni nella selva!” “Esplorazioni?” la parola aveva un suono minaccioso per Hero. “Non vi spingerete troppo lontano, mi auguro!” “Ma no, Hero, dai! Lo so benissimo che è proibito dalla Dea! Restiamo tra l’abbazia e il fiume. Senza raggiungerlo ovviamente, perchè è troppo lontano! E ci diamo delle missioni! Ad esempio stamattina cercavamo bacche rosse! E le abbiamo portate tutte sull’altare come omaggio alla Dea! Anche l’involto di Eliza è un omaggio, vero?” “Già! Credo sia l’ultimo quadro di Victoria.” “Ah, io non l’avevo ancora visto!” “Neanch’io! Lo disferò ora per la prima volta sull’altare.” “Conoscendola sarà bellissimo, dovrebbe essere il ritratto di Quiva!” “Suppongo di sì.” Già la radura si intravedeva tra le grandi querce ombrose. E al centro della radura vi era l’abbazia. Raramente Hero si era spinta piu’ in la’ della radura dell’abbazia. Solitamente la vita di casa Black gravitava fra l’abbazia, a ovest dell’isola, e il grande fiume a est. Tra l’abbazia e il fiume vi era la Magione, con intorno i suoi orti e campi coltivati, il frutteto e le scuderie. Capitava di spingersi a cavallo oltre il fiume, ma mai fino a raggiungere la scogliera, che era stata ammantata di sacro per renderla inaccessibile e proibita. Ancor piu’ raramente era capitato che qualcuno della selva oltrepassasse la radura dell’abbazia a

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ovest e si spingesse verso il bosco degli abeti. Piu’ in la’ del bosco degli abeti poi, nessuno sapeva che cosa ci fosse. Giunte nella radura dell’abbazia, Hero e Morgan si fermarono. Non rimaneva molto di quella che un tempo doveva essere stata una costruzione imponente, poichè i secoli e l’abbandono avevano avuto la meglio sulle grandi mura di pietra. Solo uno dei due lati maggiori dell’edificio, quello di sinistra, era ancora parzialmente in piedi, con la sua fila di arcate gotiche diroccate. Del resto del perimetro non rimanevano che frammenti di mura, pilastri spezzati, scheletri di antiche vetrate e capitelli semi distrutti. Non vi era più alcun tipo di pavimentazione, se non in radi punti intorno alla base dei pilastri di quell’arcata maggiore sottratta all’erosione del tempo. E, al centro dell’abbazia, un grande altare di pietra. Sulla pietra levigata erano poggiati due lumi, spenti, poichè nessuna cerimonia era in atto. Le bacche rosse di Morgan erano ancora sull’altare laddove, tra le due candele, la pietra si faceva leggermente concava. “La Dea non è venuta a prenderle.” osservò Morgan un po’ delusa “Verrà stanotte, non temere. E porterà via anche questo.” Tolse il quadro dal panno nero che lo avvolgeva. Come sospettato, il bel visetto di Quiva sorrideva dalla tela. “Lo metto io, lo metto io!” e Morgan tolse il quadro dalle mani di Hero per posarlo sul grande altare, inchinandosi leggermente non appena compiuta l’offerta. “Le piacerà?” “Le piacera di sicuro. E ci ricompenserà per la nostra devozione.” “Io vorrei servire la Dea per sempre! Vorrei sempre farle nuovi doni, sempre di più, e più belli e più grandi ogni volta!” la vocetta di Morgan si era fatta concitata dal fervore. “Sai che la Dea non bada alla grandezza ma alla purezza del cuore di chi le offre un dono. Non c’è bisogno che i doni siano sempre di più, e belli, e grandi, basta che vengano dal cuore.” “Le mie bacche venivano dai rovi…” Hero scoppiò a ridere e abbracciò forte la sua piccola protetta. “Vedrai che le piaceranno tantissimo.” Morgan si sciolse dall’abbraccio come colpita da un pensiero improvviso e passò la mano, lentamente, sulla liscia pietra lucente dell’altare. “Mi lasciò qui, vero? Sopra questa pietra.”

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Hero capì subito di cosa stava parlando e l’abbracciò per la seconda volta, sorridendo. “Sì. Fui io a trovarti. Era una mattina di settembre proprio come questa. Ma la sai già la storia, te l’ho raccontata un’infinità di volte!” “Ma a me piace sempre sentirla! Mi ricorda che sono una figlia della selva, e perciò sono speciale.” “Saresti speciale anche se non lo fossi. Forse che i tuoi fratelli non sono speciali? Eppure non sono stati raccolti nella selva.” “Siete tutti speciali, Hero, e io sono felice che la Dea mi abbia messo nelle vostre mani e mi abbia dato la possibilità di conoscervi. Anche se avrei preferito che mi avesse lasciato tra le querce, o sulla sponda del fiume, o tra le bacche di rovo!” “Già, così ti saresti graffiata tutta, ti agitavi talmente tanto! Cosa c’è, non trovi l’altare abbastanza romantico?” “No, è che” ci pensò su un attimo, con la bocca atteggiata alla sua tipica smorfia di quando si concentrava “non è a diretto contatto con la natura! Non abbastanza!” “Non abbastanza? Vuoi dire che l’altare consacrato non è sufficiente? La Dea ti pose nel luogo a lei più sacro e con un soffio di fiato accese i lumi, e per te non è abbastanza?” “Oh no, non volevo criticare la Dea, ma la prossima volta sai dove voglio nascere? Nel tronco cavo dietro la Magione! Dove dormono i conigli! Oh Hero, io adoro i conigli!” e prese a saltellare battendo le mani, come faceva sempre quando qualcosa la eccitava particolarmente. “Bene, affare fatto” e prendendo la bambina per mano si incamminarono di nuovo verso casa. “La prossima volta. Al prossimo giro di ruota.”

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II

Sirio pascolava nel paddock sotto il sole. Era bello. Era figlio di Nyah e Darcy, e quindi non avrebbe potuto che essere bello. Un arabo baio. Stessi colore del padre: il mantello color delle noci e i crini neri. Da quando Nausicaa era morta, Sirio era stato fin da subito destinato a Hero. Aveva sofferto tantissimo per la morte della sua cavalla. Aveva patito insieme a Nausicaa il tormento della malattia agli zoccoli anteriori che non la lasciava più camminare. Nell’impossibilità di curarla, Jonathan era stato costretto ad abbatterla. Terribile veder morire qualcuno di amato, ma ancora più terribile non avere altra scelta che ucciderlo con le proprie mani. Hero non aveva voluto assistere alla morte di Nausicaa. Aveva pianto tanto nei giorni seguenti di fronte al suo box vuoto: le redini e gli altri finimenti erano ancora appesi alla parete del box, la paglia per terra, la mangiatoia ancora quasi piena. Ma nessun muso moro sbucava dalla finestrella del box, e nemmeno Nausicaa era coricata nel suo angolo preferito in mezzo alla paglia. Semplicemente non sarebbe tornata mai più. Triste e lineare. Poi era nato Sirio, il bellissimo figlio di Nyah e Darcy. Nyah era la cavalla di River e Darcy era da sempre stato di Laurie LeBlanc. Non molto tempo prima di Sirio era nata Silke, figlia di Yuna. Era stata data a Morgan, che nel frattempo era divenuta grande abbastanza da avere un piccolo pony tutto per sè. Era bella Silke, una bionda palomina figlia di una pony islandese. Era un incrocio di razze, ma era bella almeno quanto la mamma. Da quando era nato, Sirio era stato affidato a River per la doma. In casa Black erano tutti bravi cavalieri, ma il domatore per eccellenza era certamente River che aveva appreso l’arte di domare i cavalli da suo padre, Jonathan Black. Quel giorno, Sirio pascolava per l’appunto nel paddock dopo una cavalcata con River. Il ragazzo lo osservava seduto sulla staccionata del paddock. Era sudato e stanco, ma visibilmente orgoglioso del bell’arabo color delle noci.

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“È bello.” disse Hero giungendogli alle spalle. River si voltò rimanendo seduto sulla staccionata. “È bello eccome.” confermò con voce un po’ ansante. “Ed è pronto. Puoi montarlo quando vuoi.” Saltò giù dalla staccionata. “Io stavo rientrando, muoio di sete e ho bisogno assolutamente di un bagno. Tu che fai?” “Niente. Ho finito le lezioni con le ragazze e venivo a fare una passeggiata.” Si avviarono insieme verso la villa. “Tutte femmine le piccole di questa famiglia, eh.” “Ma Victoria è certa che il prossimo sarà maschio.” “Speriamo. Servono uomini a questa casa. Altrimenti chi domerà i cavalli dopo di me?” “Nick e Laurie se la cavano.” “Sì, sono bravi, ma non sono stato io a insegnar loro il lavoro, è stato mio padre. Sai, a volte penso che mi piacerebbe avere un allievo tutto mio, qualcuno a cui raccontare tutto quello che conosco, e... sai... non so come dire...” “Un figlio?” River ridacchiò imbarazzato. “Beh, qualcosa del genere.” “Qualcosa del genere?” rise Hero. “Beh, non è così facile. Sai...” “Non è facile? Ma come non è facile? Magari al prossimo Sabbath, se ti impegni...” lo stuzzicò Hero. “Hero, sei una deficiente! Ma no, voglio dire... Sai com’è ai Sabbath, è tutto così...” River non riusciva a completare il concetto, ma Hero credeva di aver capito. Più o meno. Victoria era incinta per la terza volta, quasi al quarto mese. Ma chi era il padre? I padri non avevano diritti sui figli in casa Black. Al contrario le madri, che non potevano avere dubbi sulla propria maternità, avevano la possibilità di rivendicare un certo potere sui neonati. Hero pensava fosse questo ciò a cui poco fa alludeva River. “Non è così facile, sai...” aveva detto. Non sarebbe facile pretenderlo come mio, non sarebbe facile sentirlo mio, non sarebbe facile chiamarlo mio figlio. Probabilmente intendeva questo, o qualcosa del genere. Casa Black era un’unica grande famiglia. Nel momento in cui padri e madri avessero preteso la loro identitificazione come “nucleo familiare”

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insieme ai propri figli, l’idea di Grande Famiglia sarebbe pian piano venuta meno e sarebbero invece nate tante piccole famiglie. E “tante piccole famiglie” non faceva parte delle leggi della Magione. La Magione era un sogno di unità e condivisione, complicità, amore fraterno, ed era un sogno realizzato, ma andavano rispettate certe regole per poter mantenere intatto il sogno. Hero aveva un ruolo vitale nel far rispettare le regole. Lei conosceva la differenza fra mondo della selva e mondo di fuori, perchè li aveva abitati entrambi. I ragazzi nati nella selva non conoscevano il disegno che stava dietro il sogno della Magione, non potevano rendersi conto che il gioco aveva regole ben precise dettate da qualcun altro, e non sapendolo non si ponevano domande, nessun dubbio, e vivevano felici. La vita era fatta così e basta, tutto molto semplice. A volte Hero pensava a quanto senso di responsabilità dovesse provare la padrona. Non gliel’aveva mai domandato, perchè nella selva meno domande si facevano meglio era per tutti, ma si era spesso chiesta se Elizabeth Black non vivesse segretamente nella paura che il gioco le sfuggisse di mano. Poteva succedere. Non ci sarebbe voluto molto. Era fragile la selva, tutto sommato. Era una bolla di sapone che rimane intatta finchè non soffia il vento. Sarebbe mai soffiato il vento nel sogno della Magione? Hero si domandava se questa domanda non insidiasse i sonni tranquilli di Lady Black. Accompagnato River in casa, Hero tornò al maneggio. Sirio era ancora nel paddock dove l’aveva lasciato. “Puoi montarlo quando vuoi” le aveva detto River. “Ciao Sirio” gli sussurrò Hero dolcemente e lo accarezzò sul muso. Sirio emise un nitrito sommesso e diede un colpetto col naso alla mano di Hero. “Sei bello Sirio. Sei il mio cavallino, lo sai? D’ora in poi saremo fratelli.” L’arabo si diede una scrollata e tornò ad annusare la mano della sua nuova sorella umana. “Torno subito” Hero si diresse verso le scuderie ed entrò nel box che un tempo era stato di Nausicaa. Staccò dal muro redini e testiera e si diresse di nuovo verso il paddock. “Forza Sirio, non aver paura.”

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Entrata nel paddock iniziò a fissare i finimenti al cavallo. Per prima cosa fissò la testiera intorno al muso dell’animale, facendogli aprire leggermente la bocca per potervi infilare dentro il morso. Poi allacciò le redini alla testiera e, impugnatele saldamente, aprì la staccionata del paddock e condusse Sirio fino alla scuderia. Là gli pose in groppa un leggero cuscinetto grigio e sopra di questo la sella che era appartenuta a Nausicaa, che fissò bene al dorso del cavallo avvolgendogli una cinghia di cuoio intorno al torace. Aderiva perfettamente, come fosse stata creata per lui. Impugnando nuovamente le redini nella mano destra, ricondusse ancora una volta il cavallo verso il paddock e là gli montò in sella. Sirio non oppose resistenza, e Hero, fiduciosa, lo spinse al passo per la prima volta. “Coraggio Sirio. Dobbiamo diventare una coppia perfetta.” Gli voleva già bene. Era il suo cavallo, e un cavallo non è solo una bestia che si possiede, è un complice, un alleato, e un amico. “La settimana prossima c’è la famosa gita oltre il fiume coi ragazzi. Dobbiamo essere pronti Sirio, fratello mio.” disse Hero mentre Sirio prendeva a trottare sicuro sotto il sole.

*** Non si può separare una gita a cavallo dalle canzoni che l’accompagnano. Di solito si parte con canzoni vivaci e ritmate, dalle strofe rapide e ritornelli semplici e orecchiabili. Poi, mano a mano che la compagnia si inoltra nella selva, col cielo che sparisce sotto il groviglio di rami scuri e il profumo di sottobosco che si fa più intenso a ogni passo, anche le canzoni si fanno più lente e solenni perchè il fiato ha bisogno di riposo. “Ma abbiamo una meta precisa?” risuonò tra gli alberi la voce di Morgan “Certo che l’abbiamo, ma non lo scoprirai finchè non arriveremo.” “Dai River! Dimmi almeno se è al di qua o al di là del fiume! Riesco ancora a sentire acqua che scroscia, quindi significa che lo stiamo costeggiando, ed è da quando ci siamo messi in marcia che lo costeggiamo. Passeremo di là?” “Sei curiosa, troppo curiosa piccola Morgan! Ma visto che sembri farne una questione di vita ti darò un indizio: è al di là del fiume, ma è ancora troppo presto per guadare. Cavalcheremo nella selva per almeno un’altra mezz’ora.”

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“Ah che bello! Adoro andare al trotto nella selva!” “Perchè sei nanetta e non sbatti la testa contro i rami più bassi, ecco perchè ti piace!” rise Hero. “Se tu fossi più svelta abbasseresti la testa in tempo, ma tu ti perdi costantemente a guardare il paesaggio che tra l’altro conosci a memoria!” ribatte’ Morgan. Hero rise ancora: “Sei una piccola insolente ma hai ragione. Conosco questi boschi come le mie tasche ma ogni volta che li percorro è come se fosse la prima. Ora ti dico qualcosa di molto saggio, schifosamente profondo e filosofico su cui tu mediterai: sembrano sempre cambiare, giorno dopo giorno e secondo dopo secondo. Ciò che era un attimo fa non è già più ciò che è ora, così come l’acqua che senti scrosciare nel fiume non è mai la stessa, ma un continuo scorrere e divenire. Quindi conosco questi boschi e allo stesso tempo non li conosco, è una continua riscoperta di ciò che mi è familiare. Ma ora cantiamo!” E Hero intonò un’antica ballata medievale. Parlava di due sorelle, due principesse, una mora e una bionda, una malvagia e l’altra angelica. Un giorno un cavaliere bussò alla porta del loro castello sul mare del nord per chiedere la dolce bionda in sposa. Invidiosa, un mattino la bruna condusse la sorella su per una scogliera con la scusa di guardar salpare le navi, e invece la spinse tra i flutti. Indifferente alle invocazioni di pietà della sorella, la mora la lasciò annegare e sostituì la bionda nel cuore del cavaliere. ”Hero, dov’è il mare del nord?” “Non esiste. È un luogo di fantasia.” “Peccato.” sospirò Morgan “Mi piacerebbe che esistesse un posto dove la gente viene a bussare alla tua porta all’improvviso e si innamora di te.” “E dove le sorelle ti spingono giù dalle scogliere per farti affogare? No, non credo che ti piacerebbe.” Morgan sembrò ripensarci e decise che effettivamente no, preferiva guardarsi bene da un luogo del genere. Intanto la selva si stava a poco a poco diradando e la luce del sole si faceva più forte a ogni passo, finchè la compagnia si trovò finalmente fuori dal bosco e attraversò il fiume. “Come ti avevo detto, Morgan!” E una volta al di là, poterono finalmente spingere i cavalli al galoppo, giù per il fianco della collina che declinava dolcemente, rapidi e leggeri come volpi, potenti come i domatori di cavalli che erano. Agili nel vento reso pungente dalla velocità, forti, unici e liberi.

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“Torniamo indietro, River! Voglio rifarlo ancora.” E alla richiesta di Niobe, tutti voltarono i cavalli e si rituffarono nella brughiera, di nuovo verso il fiume appena guadato, e poi ancora, al galoppo verso la meta che dovevano raggiungere prima che calasse il sole. Era vicino il crepuscolo quando il casolare apparve da dietro un declivio. Nessuno degli altri vi era mai stato, ma Hero riconobbe il luogo. Vi era gia’ stata, molto tempo prima. Per qualche motivo sentiva di avere un legame con quella casa di pietra abbandonata, e provò una strana sensazione al pensiero che River li avesse condotti proprio li’, in quel luogo che per lei aveva un significato, ma tentò di scacciare il pensiero considerandolo assurdo e inutilmente sentimentale e volle convincersi che non poteva esservi niente di meglio nella vita che condividere ciò che c’è di bello al mondo con le persone care. In fondo era presuntuoso sentire di avere un diritto su quella casa quando tutto ciò su cui i suoi occhi potevano spaziare apparteneva alla Dea soltanto. Il vecchio casolare era abbandonato ma le erbacce non lo invadevano come sarebbe stato ovvio che fosse. Hero pensò che evidentemente qualcuno se ne prendeva cura a sua insaputa, e guardò River cercando nei suoi occhi un barlume di verità, ma non vide che il riflesso dorato del cielo che si faceva di fuoco in quell'ora del tramonto. Scacciò anche questo pensiero considerando la questione, tutto sommato, irrilevante. Condussero i cavalli nei box delle scuderie e mentre i ragazzi estraevano acqua dal pozzo e accendevano un grande falò nel prato, di fronte al portico del casolare, le ragazze iniziarono a infilzare su lunghi spiedi di ferro le fette di carne che Laurie aveva portato nella sacca da viaggio appesa alla sella. “Io ho portato le mele!” esclamò Alexandra “Ma non erano mature! Le avevo controllate anch’io!” replicò Niobe incredula. “A che ora sei passata?” “Mentre preparavamo le sacche, appena prima di metterci in marcia” “Allora sai perchè le hai trovate tutte acerbe? Perchè quelle mature le avevo già colte tutte io.” “E mi hai fatto arrampicare sopra i rami per niente! Maledizione!” “Voglio io quella là! Mi dai quella grande?” ”Ma dai Morgan, che ce n’è per tutti!” “Scusate, ma da bere?”

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“Hanno tutto Nick e River.” “Ma avete portato acqua da casa? Ma se c’è il pozzo?” “Sidro di mele, amore mio. Non acqua.” “Ah ah Niobe!” rise Morgan “Neanche a cercare tutto il giorno avresti trovato una mela matura! Hanno fatto sparire tutto per tempo i tuoi fratelli!” “Maledetti...” La luna fu presto alta nel cielo ma il falò bastava da solo a rischiarare la notte. Gettava lunghe ombre infuocate sui volti e sui corpi, alterandone i connotati e facendo di rame i capelli corvini e bruna la pelle più chiara. C’è qualcosa di magico nel fuoco, e non solo in quanto legato a immagini di pratiche religiose, alla sacralità di mistici rituali, ma anche perchè emblema di una forza antica come la terra stessa, donato agli uomini per tradimento, eterno e inestinguibile come l’aria e l’acqua. E mortale se lasciato libero di propagarsi. E caldo, splendido, passionale. “Hero” chiamò Morgan “Continua quella canzone!” “Quale canzone?” “Quella del mare del nord. Cosa ne fu della sorella assassina?” Hero porse il piccolo flauto di legno ad Alex, che sapeva suonare qualunque strumento meglio di chiunque altro, e volgendo lo sguardo alla luna da dietro le lingue di fuoco, riprese la triste canzone da dove l’aveva interrotta. Continuava con la macabra immagine di due menestrelli che recuperano dai flutti il cadavere della principessa buona e fanno un’arpa con le sue ossa e corde per l’arpa coi suoi capelli biondi. Intervengono come cantori al matrimonio della principessa mora col cavaliere e si portano dietro l’originale arpa. Durante il matrimonio, l’arpa inizia a suonare da sola e insieme alle note risuonano parole che rivelano la verità su quanto è accaduto e accusano la principessa malvagia di aver assassinato la sorella per gelosia. La ballata finisce con l’immagine della sorella bruna che piange sconsolata in mezzo alla sala, consapevole della pena capitale a cui sarà condannata in espiazione dell’atrocità compiuta. “È davvero triste.” mormorò Morgan “E in un certo senso mi dispiace anche per la sorella maggiore.” “Ma è un’assassina!” “Sì ma poteva aver avuto le sue buone ragioni.” “Non esistono buone ragioni per uccidere una sorella.”

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“No certo, certo, no... però per qualche motivo che non so spiegare mi dispiace anche per lei. Forse ha ucciso per solitudine.” Hero abbracciò la sua protetta e si strinsero più vicine al falò. “Sì Morgan. Anch’io credo che abbia ucciso per solitudine.” Il sonno cominciava a farsi sentire. Hero si rivolse a River: “Mi ricordo di questo posto. L’ho riconosciuto appena ho visto sbucare il casolare dal declivio.” Hero sentì che River stava sorridendo, sebbene il suo viso fosse in penombra. “È cambiato dall’ultima volta?” “Tutto cambia. Come i noci della selva e le acque del fiume.” rispose lei “Anche noi cambiamo?” “In continuazione.” “E non ti spaventa questo?” “Al contrario, siamo immortali. Perchè moriamo ogni notte e rinasciamo col sorgere del sole.” “Guarda l’Orsa Maggiore com’è brillante stanotte!” esclamò Morgan a un certo punto. “Però Hero, sai qual è il problema delle costellazioni? Che non ne nascono mai di nuove, così dopo un po’ finiscono le storie da raccontare.” “Allora si può inventarne di nuove” “Ma non legate alle stelle! Sarebbero bugie!” la cosa sembrò rattristarla sul serio “Che triste quando si arriva alla fine di qualcosa.” “Sai cosa si fa in quei casi? Si ricomincia da capo.” “Allora raccontami ancora la storia di Dike.” “Dike viveva sulla terra ai tempi del regno di Saturno. Si trattava dell’età dell’oro, era di pace e prosperità, in cui la primavera non aveva mai fine, e Dike era rispettata da tutti per la sua capacità di dare consigli saggi, nobili e giusti e di porre fine ai dissensi. Finchè Giove, figlio di Saturno, lo combattè, lo uccise e ne prese il posto sul trono. Fu la fine dell’età dell’oro. La primavera fu accorciata e periodicamente costretta a lasciare il posto alle sorelle stagioni, estate, autunno, e il gelido inverno. Gli uomini divennero litigiosi e avidi e dimenticarono i tempi prosperi del regno fiorente di Saturno. Tutti, ma non Dike, che ripensava con nostalgia ai tempi perduti e li rimpiangeva disperatamente, incolpando amaramente Giove e gli uomini dei mali che cominciavano ad affliggere il mondo. Tuttavia non dimenticò il suo compito di dispensatrice di giustizia, e tentò invano di

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ammonire gli uomini della loro devastante condotta, rammentando loro la gloria dei padri. Ma ella rimase inascoltata e gli antichi ideali dimenticati. Si passò all’età del bronzo e infine a quella del ferro, era in cui gli uomini abbandonarono quell’ultimo barlume di giustizia che era rimasto nei loro animi e si diedero alla violenza, alla guerra, e all’infamia. Non potendo sopportare la malvagità degli uomini, Dike li abbandonò e fu ammessa in cielo, dove ora splende in più gloriosa compagnia, come costellazione della Vergine". “Povera Dike. Lo avrei fatto anch’io.” commentò Niobe quando Hero smise di parlare. “Che rabbia! Se Giove non fosse arrivato a cambiare le cose, tutti avrebbero continuato a vivere come nell’età dell’oro e sarebbero stati pacifici e felici per sempre. Come si può essere così ciechi? Come hanno potuto dimenticare il passato e preferire la malvagità?” “Vorrei poterti dare una risposta ma non ce l’ho, Niobe. Le cose sono andate così, e non si possono cambiare.” “Ma se Giove non avesse ucciso suo padre, ora al mondo saremmo più di dodici?” Lì per lì, Hero non seppe cosa rispondere. Infine optò per annuire, seppure non con particolare convinzione. “Credo che mi piacerebbe che fossimo di più.” commentò Morgan, che finora era rimasta zitta, pensierosa. “A me non piacerebbe affatto.” mormorò Hero “E perchè non ti piacerebbe?” domandò Morgan “Perchè la selva è un luogo piccolo, e dividerla con tanti significherebbe lasciare poco per ciascuno! Io sto bene sola coi miei fratelli, non vorrei trovarmi a dover difendere ciò che è mio dalle mire di mille altre persone. Più si è, e meno si è importanti Morgan, quindi è meglio essere in pochi. Pochi e preziosi.” “Ma se queste persone non avessero nessuna mira particolare? Se fossero uomini buoni e giusti come Dike?” Hero ci riflettè un attimo, per poi concludere che se bastò un cambio di sovrano per rendere gli uomini avidi e litigiosi, allora significava che la loro anima era malvagia per natura ed era semplicemente rimasta assopita durante il regno di Saturno, quando la prosperità e l'abbondanza vanificavano il bisogno. E lei non voleva condividere nulla con creature tanto predisposte per natura alla cattiveria.

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“Ricordati sempre di ciò che ti sto dicendo ora, Morgan. Pochi e preziosi, non un’inutile moltitudine.” E Morgan promise che lo avrebbe fatto. “Fra poco sarà inverno e non potremo più dormire all’aperto. Non mi piace l’inverno.” disse Nicholas all’improvviso. “Ma poi torna l’estate. Torna sempre.” “E poi di nuovo l’inverno. E Samhain.” “Siete pronti per il Sabbath? Io adoro i Sabbath!” disse Morgan. “Io sono sempre pronta per Samhain.” disse Alexandra con aria un po’ triste. “Mi piacciono i fuochi del Sabbath. Mi fanno sentire potente.” commentò Hero. “Fra tutti gli elementi, quello che preferisco è il fuoco, non so perchè. Devo dire la verità, sono un pochino invidiosa di Laurie e Nicholas che custodiscono il fuoco.” “Ci fu affidato dal Guardiano.” “Lo so. Come a me fu affidata Morgan.” “Meglio io del fuoco!” esclamò quest’ultima. Poi riflettè un attimo. “A me non è stato affidato niente.” “Sei ancora molto giovane. Io avevo 15 anni quando il Guardiano mi nominò custode del fuoco.” disse Nicholas. “E comunque hai i conigli! Non è vero che non ti è stato affidato niente!” Tutti risero, seppure un po’ stancamente. Il sidro di mele cominciava a fare effetto. Il sidro, il calore del fuoco, l’erba soffice. Quella luna nel cielo.

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III “Al principio la Dea creò un mondo in perfetto equilibrio. Non mancava nulla e tutte le creature erano felici. Non c’era solo la luce, esisteva anche l’ombra: ma erano in perfetto equilibrio. Non c’era solo la vita, vi era anche la morte: ma erano in perfetto equilibrio. Finchè Adam si recò dalla Dea e le disse: “Tu mi dai da mangiare e da dormire e io non necessito di nulla. Mi dai amore e calore e io non sento nè solitudine nè freddo nel cuore. Ma io voglio costruire un mondo identico a questo dove sarò io a nutrire i miei figli e a fabbricare loro ripari e coperte. Madre, io voglio prendere possesso della mia vita. Voglio essere artefice del mio bene e del mio male.” La Dea rispose: “Nel momento in cui tu l’hai così fortemente desiderato, il tuo mondo è già stato creato. Lo posso vedere, circondato dalle acque, come il dorso di una tartaruga che affiora dal mare. Ma è un mondo dove crescono le ortiche e pascolano i lupi. Sei sicuro che un mondo così ti piacerà?” “Lo libererò dalle ortiche e dai lupi e diventerà un mondo perfetto esattamente come questo.” “Ha senso per te allontanarti da un mondo perfetto nel tentativo di creare un altro mondo identico e altrettanto perfetto?” “Per me ha senso, Madre.” rispose Adam. “Sei libero. Non ti ho creato catene intorno ai polsi. Mi addolora il tuo addio, ma ti lascio andare. Io però non ti seguirò.” “Non ho più bisogno di te, Madre. Resta pure.” “Tu forse non hai più bisogno di me, ma sei sicuro che i tuoi figli non ne avranno?” “Non ne avranno Madre, perchè ci sarò io.” “Adam, tu conosci il mio nome?” “Non lo conosco.” “Il mio nome è Amore. Sei sicuro che i tuoi figli sapranno essere felici senza Amore?” “Saranno felici, perchè io sarò con loro.”

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“Allora vai, io ti lascio andare. Ma ricordati del luogo da cui provieni. Se mai le ortiche dovessero divorare i tuoi campi e i lupi la carne del tuo corpo, ricordati che se gridando allungherai una mano, io la saprò stringere.” E Adam scese su Mondo Nuovo insieme alla sua compagna Lilith. Anche Loki, Min ed Eris scesero con loro. La prima figlia nata da Adam e Lilith si chiamò Kama. Poi nacque Indra, poi Morrigan, poi Kali, poi Pan, Ate, Dagda, Fenrir, Maya, Aditi e ancora, e ancora, e anche Loki, Min ed Eris si riprodussero a loro volta, e la loro progenie si disperse in ogni angolo di Mondo Nuovo. Lilith intanto continuava a procreare e a procreare, perchè voleva generare più figli di quanti non ne avesse mai generati la Dea. Era invidiosa della Dea. Finchè divenne troppo anziana per poter procreare ancora e il suo cuore si riempì di dolore. Non era più utile. Era vecchia. “Cosa te ne fai di una donna vecchia? Una donna vecchia è come un fiore avvizzito: si recide.” sussurrò un giorno Eve all’orecchio di Adam. E Adam le diede ascolto, perchè le parole di Eve gli parvero sensate. Eve convinse Adam ad uccidere Lilith e insieme le tagliarono la gola. Fu il primo sangue versato per disprezzo su Mondo Nuovo. Poi Adam si unì a Eve e venne al mondo Baal. Baal nacque mostruoso e cieco. Allora Adam capì di essersi unito a una delle sue figlie. Si ricordò della legge di Mondo Antico: “Mai unirsi a qualcuno della propria discendenza, ne nascerebbero mostri” e uccise Eve che l’aveva indotto a un sacrilegio. Ma ormai la colpa del padre era già ricaduta sul figlio, e Baal crebbe isolato da tutti, orrendo, senza pupille per vedere, senza calore nel cuore. Divenne cattivo. Quando fu in età di poter tenere in mano un coltello, lo affondò nel petto del padre che era stato artefice della sua sventura. Mondo Nuovo continuò a popolarsi, ma ormai i consanguinei non avevano più modo di riconoscersi l’un l’altro perchè erano troppo numerosi e dunque nacquero tanti e tanti altri mostri. Non vi era amore su Mondo Nuovo, perchè Amore era lontana, su Mondo Antico, coi figli rimasti. Ma anche su Mondo Antico ormai l’equilibrio era spezzato, perchè Adam insieme a Voluttà, Tradimento, Brama e Discordia erano scesi su Mondo Nuovo e di loro non era rimasta traccia nella terra della Dea. Un mondo perfetto era diventato due mondi imperfetti, e mai nessuno da Mondo Nuovo gridò verso la Dea e tese una mano per farsi salvare,

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perchè la memoria di Mondo Antico era andata col tempo perduta. Nè Adam, nè Lilith, nè Loki, nè Min nè Eris avevano mai tentato di mantenerne vivo il ricordo. Mondo Antico esiste ancora. Mondo Nuovo è affondato nei flutti molto tempo fa. C’è chi sostiene che in realtà quella di Mondo Nuovo sia solo una leggenda, che in realtà non sia mai esistito. Noi della selva siamo i discendenti di coloro che rimasero su Mondo Antico. Mondo Nuovo ha cambiato nome per noi ed è diventato Vecchio Mondo. Esiste un solo luogo al mondo che sfiora la perfezione, ed è la selva. Ringraziate di viverci.” Hero concluse il racconto. “Io non ho mai capito una cosa di questa storia. Se nel mondo della Dea non mancava nulla, come poteva Adam non essere felice?” chiese Cassie. “Chi ti dice che non fosse felice?” “Nessuno desidera abbandonare un luogo in cui è felice.” “Forse Adam non ha saputo riconoscere la felicità se non dopo averla persa. Ma è una buona domanda la tua Cassie, è una domanda che mi sono posta anch’io tante e tante volte. Io credo che nella sua ignoranza, Adam abbia pensato di poter avere di più. Non sapeva che non esisteva un di più. Ha tentato, e gli è andata male. Doveva prevedere che lontano da Amore non sarebbe mai potuto essere felice, e si sarebbe dovuto scegliere una compagnia migliore di Lilith, Eris, Loki e Min.” “La Dea avrebbe dovuto trattenerlo. Se fosse stata una buona madre l’avrebbe trattenuto.” “Adam non le apparteneva, era libero. Non aveva il potere di trattenerlo. L’ha lasciato andare, con la promessa che se avesse voluto tornare avrebbe potuto farlo. Ma Adam non ha mai tentato di tornare indietro.” “Però si è portato via Tradimento, e Discordia, e tante altre brutte cose che è molto meglio non avere fra di noi.” disse Quiva. “Tradimento e Discordia sono brutte cose ma ora Lealtà e Armonia non hanno più un opposto. Gli opposti servono per garantire equilibrio. In principio la Dea separò gli opposti per tenere in bilico il mondo. Adam fu colui che ruppe per sempre l’equlibrio.” “Non si potrebbero riunire i due mondi?” disse Cassie. “Si potrebbe, se Vecchio Mondo non fosse sprofondato in mezzo al mare.” “Perciò Tradimento, Voluttà, Brama e Discordia non torneranno mai più? E Adam? Qual’ era il nome di Adam?”

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“Non si conosce il nome di Adam. Ma qualunque esso fosse è morto per sempre.” “Qual è il peggiore di tutti secondo te, Hero?” “Sicuramente Voluttà. È figlia di Vizio e di Egosimo e suoi figli sono Lussuria, Desiderio e Perversione. Tutte cose che voi non conoscete perchè grazie al cielo ora stanno sul fondo del mare. Voluttà è ingannatrice e senza onore. È insaziabile come sua madre e violenta come suo padre. Non conosce dolcezza e non conosce pudore. Sa essere sadica, spietata e mortifera. È sorella di Brama e compagna di Disprezzo. Essendo falsa e ingannatrice si nasconde spesso sotto falso nome. Non è raro che si travesta da Amore per farsi gioco degli sciocchi, ma Voluttà non sarà mai Amore.” Hero stava provando odio e disgusto da qualche parte nelle profondità di se stessa. E rabbia. “Lilith, la Voluttà, ha combattuto una causa persa in partenza. Lilith era invidiosa di Amore. Voleva essere come lei, amata come lei, ma non avrebbe mai potuto. Si può morire per Amore, ma non si muore per Voluttà. Voluttà invecchia, Amore non invecchia mai. Voluttà assume molti volti, Amore non ne ha che uno. Voluttà raggira gli ignoranti e si fa idolatrare dagli ottusi, ma non saprà mai farsi strada fino al cuore così profondamente come Amore. Era sporca Lilith. Mai per lei ci sarà posto nella selva.” concluse Hero. “Hero ma... la selva...” cominciò Morgan titubante “La selva e la terra della Dea sono lo stesso luogo?” “Anche questa è una buona domanda. Ragazze, dovete capire che io non ho tutte le risposte, io vi racconto solo ciò che anche a me è stato raccontato. Per quanto riguarda certi argomenti non posso che fare congetture. Quello che credo io è che la selva non sia la terra della Dea, ma sia quanto di più vicino alla Dea esista al mondo. Noi siamo i discendenti di Coloro Che Rimasero, questo è certo, e ci portiamo dietro le virtù ma anche gli errori dei nostri predecessori. La separazione dei due mondi ha influenza su tutto ciò che siamo, ma il luogo che abitiamo oggi non è nessuno dei due mondi. Di più non vi so dire. Ciò che so per certo è che nella selva non esistono nè Tradimento, nè Discordia, nè Voluttà, nè Brama, nè nessuno dei loro perversi discendenti. E nè ortiche nè lupi vivono nella selva. Perciò non abbiate timore di nulla.”

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*** C’era un salotto caldo e accogliente nell’ala sinistra della Magione. Era un salotto rettangolare, quasi quadrato, non troppo grande da risultare spoglio ma non troppo piccolo da essere incapace di sistemare ciascuno nel proprio angolino preferito. Il soffitto era basso, in travi di legno, le mura di pietra, e due porte nel lato corto del perimetro davano accesso l’una alla sala da pranzo, l’altra alle camere da letto del primo piano tramite scala a chiocciola. Non era l’unica scala che portasse alle stanze, ma era la più stretta, buia, e la più intima. C’era una grande finestra nel lato lungo del salotto, con tende a mezzo vetro ricamate da Elizabeth molti anni prima. Era ancora visibile un rammendo eseguito da Victoria il giorno che la piccola Cassie, che imparava allora a camminare, si era aggrappata all’orlo di una di quelle tendine per tirarsi in piedi e l’aveva strappata. Sotto la finestra correvano i tre scaffali di legno di una lunga, bassa libreria. Era la libreria più piccola della casa, ed era volutamente bassa così che ogni libro fosse facilmente raggiungibile anche dalle più piccole della casa. Nei giorni di pioggia non era inusuale sedersi su uno dei divani del salotto e sfilare un libro a caso da quegli scaffali. Ma non c’era niente di più amato dalle ragazze del camino di pietra incassato nel muro, coi grandi alari di ferro battuto e il mantice appoggiato sullo scalino che lo rialzava dal suolo. Hero amava il fuoco. Non c’era per lei niente di più affascinante delle fiamme che scricchiolavano divorando il legno. Se Hero amava leggere davanti al caminetto e Morgan solitamente le era accanto, non vi era per Cassie luogo più confortevole in tutta la villa dei soffici cuscini colorati nell’angolo tra il camino e la finestra, proprio accanto alla scala a chiocciola. Cassie amava stare per terra, seduta o sdraiata che fosse, sui cuscini di seta o sul tappeto davanti al camino. E se un ipotetico visitatore fosse entrato in quel salotto in un momento qualunque della giornata, avrebbe con ogni probabilità trovato Cassie, Hero e Morgan nei loro angoli preferiti intorno al fuoco e Alex nell’angolo opposto a suonare il pianoforte. Nessuno sapeva suonare il piano meglio di Alexandra Black. Ed era esattamente così che si presentava la stanza rilucente di fuoco la vigilia della festa di Samhain, quando la vecchia Elizabeth entrò in salotto seguita dai restanti otto membri della famiglia.

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Era un giorno importante e presupponeva la presenza di tutti. Ciascuno prese posto dove meglio credeva e gli sguardi confluirono verso il centro della stanza dove in piedi stavano il capofamiglia e sua moglie. Alex fece tacere Chopin e volse le spalle al pianoforte pur rimandendo seduta sullo sgabello. Elizabeth Black parlò con serietà: “Domani è la notte in cui luce e oscurità si combattono. È la notte in cui i confini fra mondo dei vivi e mondo dei morti si fa più sottile e confuso. Domani è la notte in cui l’inverno trionfa sull’estate, il gelo sul tepore, la morte sulla vita. Ma non temete! La Dea non ci toglie la luce per rigettarci nell’ombra da cui ci tolse al principio, ma per renderci ancora più caro il sole quando Imbolc ce lo restituirà a primavera.” Le più piccole tenevano gli occhi fissi sulla padrona. Attendevano tutte con ansia di sapere chi avrebbe impersonato la luce, chi l’oscurità e chi il guaritore benevolo nel rito di Samhain della notte seguente. Furono tutte e tre accontentate. “Penso di non far torto a nessuno se assegno a Morgan il ruolo dell’inverno, a Quiva quello dell’estate e a Cassie il ruolo di colei che soccorre l’estate sconfitta.” Tutti batterono le mani e le tre interpreti di Samhain si abbracciarono saltellando di emozione. Poi, finita la riunione, Victoria mise a bollire sul fuoco l’acqua per il the e Elizabeth tiro’ fuori le tazze di porcellana dalla credenza in cucina. Bere the alla sera davanti al camino era un’abitudine della Magione che non veniva mai a noia. Quando tutti decisero di andare a dormire, Hero uscì senza farsi notare dalla porta sul retro e si avviò verso l’abbazia. Era una bella notte senza nubi. L’erba della selva intorno a Hero sarebbe stata una semplice distesa nera illuminata dal lattiginoso pallore lunare se non fosse che era disseminato di piccole scintille luccicanti. Sembravano fiori, “Ma i fiori non brillano,” pensò Hero, “deve trattarsi di stelle.” I fiori-stella splendevano come piccoli soli, parevano un fiume di lanterne galleggianti, solo che non si perdevano nella corrente ma restavano sospese sui loro steli; solo ogni tanto qualcuna sfuggiva e saliva ondeggiando nel cielo, finchè non veniva travolta dal gelo lunare e si spegneva nel vento dolcemente.

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“Luna,” pensò Hero, “come sei lontana.” Si avviò verso la radura dell’abbazia dove la notte successiva tutta la selva avrebbe celebrato Samhain, come l’anno precedente, e quello prima ancora. L’altare era avvolto nell’oscurità seppure la luce della luna ne rendesse vagamente visibile la sagoma in mezzo al perimetro dell’antica abbazia diroccata. Hero chiuse gli occhi e passo lentamente le dita sulla pietra dell’altare. Non lo vedeva ma lo sentiva sotto la pelle, inciso sulla roccia: il cerchio lunare. Era solo un piccolo solco inciso sull’altare ma racchiudeva in sè tutta l’essenza del tempo. “Il cerchio della vita”, “il cerchio del tempo”, “il cerchio lunare”, aveva molti nomi, come molti erano gli antichi misteri nascosti dietro quell’insieme di linee tracciate. Era diviso in quattro quarti: Samhain, l’inverno, Imbolc, la primavera, Beltane, l’estate, Lunasa, l’autunno. La notte successiva, in quello stesso luogo, sarebbe stato celebrato l’inizio dell’inverno. Il confine fra la vita e la morte si sarebbe aperto per un attimo e allungando la mano in quello spiraglio di passaggio, forse, Hero avrebbe potuto sfiorare un istante di eternità. Ritrasse la mano dall’altare. Di fronte a esso, a pochi metri, il tempo aveva lasciato lo scheletro di quella che doveva essere stata una magnifica vetrata. Base e arcata erano perfettamente intatte, mancava solo il vetro. Era “la vetrata che non c’era”. Hero amava sedersi nella vetrata che non c’era e da lì guardare la luna e le stelle, e sentirsi un’eterna figlia della selva. “Esistono cose che non capirò mai. Ma io sono parte di quelle cose.” ed era un buon pensiero. “Hero, sarò l’inverno!” esclamò eccitata Morgan la mattina seguente. “L’anno scorso ero la guaritrice, ma quest’anno sono la protagonista!” Era contenta, e Hero era felice per lei. Anche Hero era stata l’inverno un Samhain di qualche anno prima. Ed era stata anche guaritrice, ma mai era stata l’estate. Dubitava che mai più lo sarebbe stata, visto che tendenzialmente si lasciava il posto nella recita ai ragazzini più piccoli. Le tornò in mente Ren, il figlio che Alexandra aveva perso bambino. Ren era stato l’estate di Hero la notte che lei era stata guaritrice Ren, Hero e Niobe: l’estate, la guarigione e l’inverno. Ma Hero non aveva potuto salvarlo dalla morte, quella vera, quando era venuta a portarselo via.

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Ren era morto tre anni prima per un infezione al braccio. Si era ferito nella selva, un giorno che si era allontanato da solo nel bosco, ed era tornato pieno di sangue. Diceva che i lupi l’avevano morso, ma non esistevano lupi nella selva. Hero non aveva mai saputo cosa avesse ferito Ren, fatto sta che nel giro di pochi giorni la febbre l’aveva divorato e ucciso. Nessuno l’aveva visto morire. Elizabeth l’aveva portato all’altare in fin di vita e là l’aveva lasciato, nelle mani della Dea, come era uso fare coi moribondi. Il giorno dopo, Alex era andato a trovarlo alla radura, ma il suo corpo non c’era più. La Dea se l’era portato via, per evitare alla madre il dolore di vedere il cadavere di suo figlio. Aveva solo 7 anni Ren quando morì. Da allora Alex non aveva più avuto figli. Hero sapeva che Alex aspettava ogni anno Samhain con ansia. Sapeva che per lei era l’occasione di rivedere l’anima di suo figlio. Allo stesso modo, per Niobe, Nicholas e Laurie LeBlanc era l’occasione di poter incontrare lo spirito dei genitori defunti. Con ogni probabilità, Morgan era la sola che non avesse mai conosciuto la morte di un parente di sangue, ma questo era ovvio: Morgan non aveva parenti di sangue. Era stata trovata nell’abbazia e adottata dalla Magione, e fine della storia. Morgan non aveva un passato, era senza tempo come la selva, come la Dea e come Samhain.

*** “Samhain è il giorno che non esiste. Samhain è fuori dal tempo. È una congiunzione di opposti che si scontrano e si annullano e noi lo celebriamo per il mistero che rappresenta. Accettiamo il paradosso e l’insepiegabile, non poniamo domande, ringraziamo di non saper comprendere.” Elizabeth parlava in mezzo alla radura ai suoi figli seduti in cerchio intorno all’altare. La voce giungeva tra lo scricchiolare dei due falò accesi ai lati dell’altare. Nicholas vegliava sul fuoco di destra, Laurie sul fuoco di sinistra. Jonathan era accanto ai suoi figli. Victoria, River, Niobe, Hero e Nicholas erano in tunica nera. Le donne portavano una cintura di seta rossa intorno alla vita e gioielli d’oro al collo e ai polsi. Ognuno teneva in mano una candela.

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Quiva era vestita di bianco, Morgan di nero, e Cassie di verde. “Due falò bruciano accanto all’altare e sono gli unici fuochi accesi in tutta la selva. Sono i fuochi che accendono ed estinguono ogni altro fuoco. Avvicinatevi alla fonte della vita e della morte.” Uno per uno, i figli della Magione si avvicinarono al falò di destra. Ognuno accese la candela che reggeva tra le mani. Hero accese la propria candela con molta solennità e guardo’ bruciare quell’elemento che tanto amava. Sentiva il mistero dentro di sè mentre si avvicinava a ciò che Elizabeth aveva definito “la fonte della vita e della morte”. E seriamente, commossa, felice e umilmente, accettò il paradosso e l’inspiegabile, non pose domande, e ringraziò di non saper comprendere. Poi, come tutti i suoi fratelli, raggiunse l’altare di pietra, vi salì in piedi, alzò la candela accesa sopra il capo, si inchinò alla selva e scese a terra. Si avvicinò al falò di sinistra e gettò la candela fra le fiamme. La cera si sciolse rapidamente e la fiammella che per un istante aveva brillato fra le sue mani tornò a essere parte di qualcosa di più grande. “La fonte della vita e della morte. Il fuoco che accende ed estingue ogni altro fuoco.” Riprese Elizabeth. “Noi siamo come quella fiammella. La Dea ci separa dalla natura, ci lascia brillare per un certo tempo, e poi ci restituisce alla stessa natura che ci ha generato. Ma come il fuoco, continuamo a esistere. C’è chi vorrebbe rimanere fiammella in eterno, e non morire mai. Ma noi sappiamo che morire non è svanire, è solo trasformarsi e riunirsi a qualcosa di più grande. E dunque non abbiamo paura. Morire è raggiungere la Dea, come la fiammella il falò. Però è anche vero che la Dea ci ha separato. Dodici persone sono state separate dal cosmo e riunite in questa selva. Perchè? Non invano la Dea separa elementi del cosmo. Perchè ciascuno di voi è stato temporaneamente allontanato dal corpo della Dea? Ciascuno di noi ha un nome. La Dea ce lo sussurrò all’orecchio prima di mandarci nel mondo, ma noi non ce lo ricordiamo. Nessuno nasce ricordando il proprio nome. E allora la nostra famiglia ce ne assegna un altro, perchè nessuno può vivere senza un nome con cui farsi identitificare e riconoscere fra gli altri. Ma non è il nostro vero nome. Vivete dunque, figli della selva, vivete cercando di ricordare. Prestate attenzione ai segni. Tutto intorno a voi sussurra il vostro vero nome. Prestate orecchio ai suoni della selva e nei meandri della memoria, ritrovate il vostro nome. Che la Dea ci assista.” Ognuno tornò al proprio posto nel cerchio.

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“Cosa significa Samhain? Significa inverno. Stanotte, ricordando da dove siamo venuti, celebriamo il mistero della ruota che gira. Stanotte la ruota ha compiuto un altro quarto di giro, e l’inverno scende fra noi, e si porta via il tepore dell’estate.” Hero non si era accorta del momento in cui Morgan si era allontanata da lei, ma evidentemente era successo, perchè si trovava ora in mezzo al cerchio insieme a Quiva. Elizabeth diede a ciascuna una piccola ciotola di legno da cui le due ragazzine bevvero qualcosa di scuro. Poi Elizabeth si allontanò nell’ombra, fuori del cerchio, ma nessuno la seguì con lo sguardo. Gli occhi di tutti erano fissi su Morgan e Quiva, nera la prima e bianca la seconda, che si fronteggiavano davanti all’altare fra i due fuochi. Morgan lanciò la sua ciotola nel falò di sinistra, Quiva in quello di destra. Dai due fuochi si alzò una vampata e poi il legno svanì divorato dalle fiamme. Nicholas e Laurie, custodi dei fuochi, avevano messo a bruciare qualcosa sull’altare e una leggera nebbiolina profumata si diffuse tutt’intorno. Poi Morgan si scagliò su Quiva e la gettò a terra. I due corpi si avvinghiarono l’uno all’altro in una ruota di bianco e di nero che rotolava in mezzo alla terra, all’incenso e agli scoppi di fiamma. Per un istante, Hero temette per Morgan. Sapeva bene che era solo una recita nata per interpretare l’inverno che lotta con l’estate e la sconfigge, ma per qualche motivo un’ombra di inquietudine l’aveva travolta quando Morgan si era lanciata sulla piccola Quiva come una tigre. Quell’impeto di violenza, per quanto fittizio, non le si addiceva. Morgan aveva vinto la sfida, come da copione. L’estate giaceva supina a terra. In quel momento sopraggiunse Cassandra vestita di verde, con una ciotola di legno identica a quella da cui Morgan e Quiva avevano bevuto all’inizio della rappresentazione. Cassandra si inginocchiò accanto all’estate e le sollevò il capo all’altezza della ciotola. Quiva bevve e si rimise in piedi aiutata dalla sorella. La voce di Elizabeth risuonò da qualche parte dietro l’altare: “L’estate è stata sconfitta, ma non è morta. Tornerà quando la ruota avrà compiuto un altro mezzo giro.” “I morti!” gridò qualcuno. “Sì.” parlò ancora Elizabeth “Ne hanno diritto. Stanotte ne hanno diritto. Lasciate entrare i morti nella vostra vita, solo per stanotte. Ma fate attenzione, non tutti i morti sono benevoli.”

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“Guardate là, guardate dietro la colonna!” gridava Niobe “Guardate, sono due!” “Stanotte tutto è permesso. Tutto è possibile.” parlò ancora Elizabeth, per l’ultima volta quella notte. Niobe aveva ragione, c’era qualcosa dietro la fila di arcate spezzate. C’era qualcosa di scuro che si muoveva. Alex mosse qualche passo come per correre incontro a quel qualcosa, ma la figura si ritrasse. “È là, è là! È dietro la vetrata che non c’è!” Hero guardò oltre l’altare e la vide: una figura accucciata esattamente laddove lei stessa aveva guardato la luna la notte precedente. Difficile definirlo umano, avrebbe potuto benissimo essere un animale, ma indubbiamente si muoveva: oltre i Dodici della Magione, qualcosa di estraneo era presente in quel momento nella selva, e si muoveva, e li guardava. Non era un evento irrilevante, non per chi sapeva di essere unico al mondo insieme ai propri fratelli. Quiva iniziò a strillare, mentre la figura scavalcava l’arcata senza vetrata e strisciava verso di loro. Anche Cassie si ritrasse spaventata. Morgan si strinse a Hero ma non disse nulla. Fu allora che Alexandra si slanciò verso la figura nera. La cosa arretrò. “Ren!” disse ad alta voce. Non era chiaro se lo stesse affermando o domandando. “Ren! Sei tu? Ti prego Ren, non scappare! Ti prego, vieni qui!”. Ora pareva più sicura di sè. Si avvicinò e ancora una volta la cosa arretrò. “Per favore, vieni avanti. Voglio vederti. Perchè scappi, cosa ti spaventa? Voglio solo sapere chi sei!”, ma la cosa non dava segni di volersi fare avanti. Poi Alex perse la calma e iniziò a piangere e a gridare. “Per l’amor del cielo Ren, vieni qui! Vieni qui, cos’hai da scappare?” e gli corse incontro, al che la cosa si allontanò da Alex con la stessa rapidità. “Ma perchè, maledizione! Perchè! Non andare via, voglio solo vederti! Fatti toccare, un attimo solo! Dannazione Ren, ti prego, vieni qui!” Hero si accorse di essere vicina alle lacrime. Qualcosa dentro di lei provava una pena indicibile di fronte allo strazio di quella donna che continuava a gridare il nome del figlio, e più cercava di raggiungerlo e più lui arretrava, e quando Alex infine lo capì si fermò, e si limitò a gridare, per non farlo allontanare oltre. “Torna indietro! Aspetta ti prego, ti scongiuro, vieni qui, solo una volta, voglio toccarti, lo so che sei Ren. Ti prego abbi pietà di me. Ho bisogno

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di te, ho bisogno di te Ren, ti prego, solo una volta. Perchè! Perchè! Voglio sapere perchè a me! Ti adoravo, perchè a me!” Andò avanti a chiedere perchè fra le lacrime a lungo. Hero la sentì urlare ancora per molto, molto tempo, mentre si allontanava correndo nella selva incapace di tollerare lo strazio di quella sua sorella adottiva. E lei stessa si trovò a gridare in cuor suo “perchè ”. Alex non parlava mai di Ren e non cedeva mai al dolore o al rimpianto davanti agli altri. Pareva avesse accettato la sua scomparsa come i fratelli LeBlanc avevano accettato quella dei genitori. Pareva forte Alexandra Black. Non parlava mai di Samhain come dell’occasione che attendeva tutto l’anno per rivedere il figlio e non si abbandonava mai ai ricordi. Lavorava nell’orto insieme a Elizabeth e raccoglieva dal frutteto mele d’inverno e pesche d’estate. Dava una mano al mulino e strigliava i cavalli per River insieme a Jonathan. Suonava tutti gli strumenti musicali presenti in casa come se li avesse creati lei, suonava e cantava per i piccoli e per i grandi, era musica e poesia. Periodicamente catturava fiori-stella e li faceva volare via lontano, verso le montagne, per aiutare Ren a trovare la via verso casa. Eppure una parte di lei non aveva evidentemente mai smesso di domandarsi perchè la vita le avesse sottratto l’unico figlio che avesse mai avuto. E forse non si era mai perdonata per averlo lasciato allontanare nel bosco da solo. Forse si faceva una colpa per quanto era accaduto, forse nella sua mente aveva ridisegnato quel giorno di inverno tante e tante volte, e Ren non correva più nella selva ma rimaneva seduto davanti al camino ad ascoltarla suonare il pianoforte e poi si addormentava sul tappeto lambito dal calore dei ciocchi scricchiolanti. Forse dentro di sè aveva tentato di riscrivere la storia innumerevoli volte, ma quella notte la sagoma nera che emergeva dalle tenebre la metteva di fronte alla realtà per quella che era. Per Hero c’era qualcosa di totalmente sbagliato nella scena che si era svolta sotto i suoi occhi. Era dolore quello di Alex. Dolore. E il dolore non era un concetto della selva. Non c’era dolore nella selva, non ci poteva essere, come non potevano esserci i lupi che avevano sbranato Ren Black. In un certo senso, Hero stava provando in cuore la stessa disperazione di Alex: non voleva accettare la crudele realtà dei fatti. Era penoso dover constatare che il mondo che credeva essere perfetto, non era affatto perfetto, neanche un po’.

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“Nella selva non c’è morte, non c’è dolore, non manca nulla”. E invece c’era la morte, c’era il dolore, e c’era una donna con un vuoto incolmabile nel cuore. “Accettiamo il paradosso, e non poniamo domande” aveva detto Elizabeth Black all’inizio della cerimonia. Accettare. Accettare un dolore che era inspiegabile, nella speranza che prima o poi tutto avrebbe avuto un senso. Era la sfida di sempre. “È per scappare da questa sfida che sono venuta nella selva!” Hero gridò al cielo. “Hai capito? Io non so accettare tutto questo, io volevo essere felice! Perchè mi perseguiti? Mi avevi promesso la salvezza!”. Continuò a ripetersi le stesse parole un’infinità di volte, fra le lacrime, incredula, frustrata, angosciata, delusa. “Questa non è la selva. Non è vero, non può essere così. Ci deve essere una spiegazione. La selva è pace e felicità.” Le sovvenne il pensiero che forse Alex aveva smesso di gridare. Forse quella figura era davvero Ren e infine, di fronte ai richiami della madre, le era corso incontro. Forse non era come sembrava. Perchè non poteva essere così, non poteva esserci sofferenza nella selva. Non esistono i lupi nella selva! Ritornò sui suoi passi correndo come il vento. Già da una certa distanza riuscì a vedere i fuochi. E udì i canti e il tintinnare di gioielli che si agitavano intorno a polsi e caviglie. Pareva una festa in corso. “È perchè è tornato Ren dalla morte! Per questo danzano!” Corse di volata verso l’arcata senza vetro e guardò nel perimetro dell’abbazia. Non una, ma molte figure vestite di nero ballavano intorno ai fuochi. Non osò mostrarsi, per paura di essere coinvolta in quell’intreccio danzante di vivi e di morti. Cercò subito Morgan con lo sguardo e la trovò sdraiata in un angolo lontano insieme a Quiva. Dormivano? O erano morte? No, certamente dormivano: avevano bevuto dalla ciotola di legno. Elizabeth e Jonathan erano spariti. Chi erano le figure nei mantelli neri? Non potevano essere anime defunte. Alex stava danzando con due di loro e le stava toccando: erano tangibili. Si può toccare un’anima? Niobe danzava insieme a un’altra, ma erano danze folli di ebbrezza e trasgressione che nulla avevano a che fare con i ritmi equilibrati delle donne della selva. Altre figure ancora danzavano tutt’intorno, ma Hero non riusciva a vederle in viso. Sentiva tamburi rullare, ma non vedeva i tamburi. Sentiva piedi battere il suolo come se un’intera mandria di cavalli stesse galoppando intorno

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al fuoco, ma erano esclusivamente piedi umani quelli che danzavano nella radura. L’incenso rendeva l’aria spessa e pesante, era come una nebbiolina densa di umidità che attenuava i contorni di tutte le cose. Era un rito di fertilità, Hero sapeva riconoscerlo. Ogni Sabbath prevedeva un rito di fertilità, faceva parte della tradizione. Quiva e Cassie erano nate così, Hero lo sapeva. Quella danza orgiastica a inizio inverno serviva a propiziare la prosperità della casa anche nei tempi bui e freddi che l’attendevano. Era una danza tra uomini e Dei. O morti? C’era qualcosa di confuso in quel Samhain. Si parlava dei riti di fertilità come di unioni tra uomini e divinità, cosa c’entravano i morti di Samhain? C’era qualcosa di macabro in quella danza con la Morte in nome della vita. “Non si può celebrare un rito di fertilità con la Morte! Non ha nessun senso!” Non aveva senso niente quella notte, ma anche questo faceva parte di Samhain. “Tutto è permesso stanotte. Tutto è possibile” le tornarono in mente ancora una volta le parole di Elizabeth. “Tutto è un paradosso, tutto è capovolto ma possibile. Accettiamo il mistero senza porci domande”. “Così sia” pensò Hero. Solo la notte precedente, l’abbazia era deserta e Hero aveva guardato la luna e le stelle sdraiata sopra un mare di piccoli soli. Difficile dire se la luna nel cielo di quella notte fosse la stessa della notte passata. Prima o poi avrebbe guardato la luna per l’ultima volta e tutto sarebbe finito per sempre. Era quel ‘per sempre’ che faceva paura e che l’aveva spinta tra le braccia di un mondo in cui il confine tra passato e presente era fragile e sottile come quello tra vita e morte, bene e male, e tutti gli opposti del mondo. Nella selva il tempo scorreva più lentamente e ogni salda concezione umana diveniva pura intuizione, ombra di un’idea e infine aria fumosa nella notte. Ogni istante unico e prezioso perchè irripetibile ma allo stesso tempo eterno, parte incancellabile di una storia circolare scritta nella pietra e nel fuoco, dove il mondo muore e rinasce a ogni alba e tramonto.

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Difficile dire se la luna di quella notte fosse la stessa della notte passata. Ma improvvisamente non aveva più importanza: era ciò che era. E niente di più. Questo era accettare. Prima o poi anche quella notte sarebbe finita e Samhain sarebbe tornato l’anno successivo, ma sarebbe stato un Samhain diverso, con nuovi fuochi e nuovi paradossi, nuovi misteri da accettare e nuove ombre da inseguire. Diede un’ultima occhiata ai fuochi che si andavano spegnendo col sorgere dell’alba. Poi si addormentò. Tre settimane dopo, Alexandra era incinta.

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IV Hero, nella sua camera, si sedette sul letto e osservò la lama del pugnale che il Guardiano le aveva donato la prima volta che si erano incontrati. La lama, lucida come uno specchio, le restituì l’immagine di una giovane con grandi occhi blu e lunghi capelli neri. Hero non aveva mai amato la propria immagine e tendenzialmente evitava di guardarsi riflessa. “Ma non sei brutta, Hero! Sei così bella! Io vorrei tanto essere bella come te!” le diceva la piccola Morgan ogni volta che lei si lagnava del proprio aspetto, ma il parere delle persone care non ha mai troppa importanza quando si tratta di giudicare se stessi con onestà. “Sono orribile invece.” Ma nella selva aveva imparato a guardare il cuore più che l’apparenza, perciò ultimamente tentava di vedere oltre lo specchio. A volte rimaneva seduta davanti alla lama del suo pugnale per ore, tentando di trascendere l’immagine e cogliere la vera se stessa. Finchè il panico la assaliva, e allora se ne allontanava. “Non devi temere lo specchio. Abbi il coraggio di guardarci dentro, te l’ha detto il Guardiano.” le rammentava Elizabeth quando la trovava in salotto accanto al fuoco in condizioni miserevoli. Quando Hero aveva quell’espressione signficava che si era fissata troppo a lungo nel pugnale. “Gli specchi sono spiacevoli per chi cela colpe segrete nel proprio cuore. Ma tu sei una brava ragazza, non hai niente da rimproverare a te stessa. Sei candida e pura, figlia mia.” “Avevo 15 anni quando mi trovaste nella selva. Nessuno conosce la mia vita prima di allora, come puoi essere certa che nel mio passato non ci siano colpe imperdonabili?” le rispondeva Hero affranta. “Hero, nessuno può essersi macchiato di colpe imperdonabili in così giovane età, può solo esserne stato vittima. Ma in ogni caso il Guardiano ti ha benedetta e ti ha dato un nome. Nessuno viene accolto nella selva se porta gravi peccati nel cuore. Il Guardiano legge ben oltre qualunque specchio, sa quello che fa. Ha benedetto te e ha benedetto Morgan, e per quanto mi riguarda è sufficiente, e deve esserlo anche

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per te. Non ti sto chiedendo di dimenticare qualunque cosa ti affligga, ti chiedo solo di essere clemente con te stessa, e saperti perdonare. Hero, sii buona con te stessa.”

*** Il Guardiano viveva ai limiti della selva. Era l’unico essere vivente che abitava la selva pur non essendo della Magione. Nessuno l’aveva mai visto in faccia perchè il suo corpo era completamente velato di nero. Egli era un mistero. Nessuno aveva mai udito la sua voce. Che non sapesse parlare o che non volesse farlo non era chiaro, fatto sta che rivolgere parole al Guardiano era tacitamente proibito, e riceverne impossibile. Però poteva scrivere, questo gli era concesso. Si parlava del Guardiano come di un “lui” ma, per quanto ne si sapeva, avrebbe potuto anche essere una “lei” dal momento che nessuno aveva mai udito la sua voce o visto il suo viso sotto il cappuccio nero. Hero l’aveva incontrato pochissime volte in vita sua: le aveva impartito la benedizione appena arrivata alla selva, dopodichè erano passati molti anni prima che avesse avuto occasione di incontrarlo nuovamente. La prima volta che l’aveva incontrato, il Guardiano le aveva dato il nome: Hero. Gliel’aveva consegnato scritto su un sasso, di quelli piatti e levigati che possono saltare sull’acqua. Era un sasso bianco, piccolo, proporzionato alla brevità del suo nome, Hero, che riluceva in lettere rosse sulla pietra. Si diceva che il Guardiano potesse vedere il futuro di tutti meno che il suo. Si diceva infatti che il suo destino si sarebbe compiuto solo quando fosse terminata la discendenza della Magione. Finchè fosse rimasto in vita anche un solo erede dei Black, anche il Guardiano sarebbe andato avanti a vivere per vegliare sulla sua sorte. Ovvero, finchè nella selva vi fosse stata vita, egli non poteva morire. Questo si diceva, ma nessuno poteva saperlo con certezza. Non si sapeva da dove fosse arrivato, anche se era credenza diffusa fosse stato generato direttamente dalla Dea. Nessuno sapeva il suo nome. Si pensava non l’avesse. Era semplicemente un mistero, ma esisteva. Esisteva come il fiume e le montagne, e l’aria e la terra. Non era la Dea, ma a differenza di essa era tangibile, e perciò dava speranza. In qualche modo si faceva garante di un disegno nel mistero della vita, e pertanto era temuto ma riverito, e in un certo senso amato.

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Si diceva fosse male andare a visitare il Guardiano senza valido motivo, ed era tanto tempo che un buon motivo non spingeva qualcuno della selva a recarsi dal Guardiano. La padrona stessa sosteneva di avergli fatto visita solo tre volte nella sua vita, una delle quali era stato per la presentazione di Hero e la benedizione. C’era una alone di timore riguardo al fatto di recarsi dal Guardiano, quasi fosse presagio di cattiva sorte. “Perchè fa così paura visitare il Guardiano?” aveva chiesto una volta Hero a Elizabeth. “Perchè egli non mente mai.” “E perchè questo fa paura?” “Un giorno capirai, quando gli rivolgerai la domanda giusta. E comunque il Guardiano non ama ricevere visite. Può essere molto doloroso per lui rispondere a certe domande. È sempre meglio non recarsi da lui senza un motivo più che valido.” La prima volta che Hero era stata dal Guardiano per riceverne il nome e la benedizione, egli le aveva lasciato un solo, breve messaggio scritto: “Non temere lo specchio, nè di giorno, nè di notte. Nessuno può condannarti fuorchè te stessa”. E le aveva consegnato il pugnale che adesso Hero stava rimirando seduta sul letto della sua stanza. Il Guardiano non amava le visite, e non era prodigo di parole. Tuttavia, giorno dopo giorno, cresceva in Hero il desiderio di parlare con lui. Aveva la sensazione che il Guardiano avesse un ruolo chiave nella selva. Il mistero che avvolgeva quell’essere la ossessionava e non solo: provava pena per la sua solitudine. Come poteva chiunque vivere ai margini della foresta, senza mai vedere nessuno, senza parlare con nessuno? Sentiva un legame con quella creatura. In qualche modo era certa di aver bisogno di lui e che lui avesse bisogno di lei. Bisognava avere il permesso da Elizabeth per potersi recare dal Guardiano e sapeva che non gliel’avrebbe mai dato soltanto perchè desiderava vederlo. Il desiderio non era una motivazione valida per andare a disturbare una creatura della Dea, e questo era legge, e infrangere una legge comportava sventura. Hero non avrebbe mai attirato la sventura sulla sua famiglia solo perchè nel suo cuore bruciavano desideri immotivati. Per questo sperava che quando Kavi fosse nato, Victoria l’avrebbe nominata sua madrina, nel qual caso sarebbe potuta recarsi con la madre dal Guardiano per la benedizione.

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Quattro mesi, Hero. Saprai aspettare serenamente altri quattro mesi? Intanto la famiglia celebrava la gravidanza di Alexandra. Il nascituro, femmina o maschio che fosse, era già stato chiamato Raya dalla madre. Quando Raya e Kavi fossero stati al mondo, gli abitanti della Magione sarebbero saliti a quattordici. “Quattordici come i miei anni!” esclamò Cassie quel giorno a colazione. Il pane era ancora caldo, appena sfornato da Victoria. “La marmellata è di Niobe, l’ha preparata tutta da sola per la prima volta.” “È buonissima! Stupenda mia sorella.” Fu allora che Quiva tirò fuori un argomento particolare. “Stanotte qualcosa si muoveva fuori dalla finestra.” “Sì, è vero. Anch’io l’ho visto.” confermò Cassie, che dormiva in stanza con Morgan e con la sorella. “Io non ho sentito niente.” disse Morgan. “Perchè dormi come la gatta. Noi invece abbiamo visto e sentito!” “Cos’avete visto e cosa avete sentito?” chiese Elizabeth. “Qualcosa si muoveva e grattava sulla finestra.” “Saranno stati rami.” “Non erano rami, era qualcosa di vivo.” “Sarà stata la gatta.” “La gatta dormiva con me.” disse Hero. “Okay, posso avere paura?” disse Niobe turbata. “Un attimo gente, siamo pratici.” si intromise River. “Chi abita la selva oltre a noi?” “Magari era un animale, non ho detto che fosse umano.” “Magari era scappato uno dei conigli di Morgan.” “Non era un coniglio, era grosso. Aveva delle dita e...” “... bussava” completò Quiva. “Era come se volesse entrare.” “Va bene, io ho ufficialmente paura.” disse Niobe. Hero era turbata dal racconto delle piccole Black. Chiese a Elizabeth e a Jonathan cosa ne pensassero. I due si guardarono in faccia per un istante, poi Jonathan disse: “Non lo so.” Semplice, laconico, come tutte le parole che uscivano dalla sua bocca. Ma anche Elizabeth era a corto di espressioni. “È strano.” disse solo. “Forse le bambine hanno immaginato.” “O forse c’è qualche animale nella selva che qualche volta si spinge fino alla Magione. Non sarebbe così strano.” disse Laurie. “Ma sì infatti, cos’è tutta questa paura? Sarà stato un animale!” disse Nicholas.

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I due LeBlanc erano come al solito i più pratici. “Che animali vivono nella selva?” chiese Hero rivolgendosi ancora ai capifamiglia. “Ci sono cervi, scoiattoli, conigli selvatici, poco altro. Polli e ovini li abbiamo nella stalla, i cavalli sono in maneggio. Le mucche sono in stalla anche loro. Poi ci sono varie specie di uccelli naturalmente, quelli prolificano in abbondanza.” rispose Jonathan. “Sarà stato un cervo, oppure qualche uccello si è schiantato sulla finestra delle bambine e le ha spaventate.” disse Laurie. River si mise a sghignazzare all’idea di un uccello spiaccicato sulla finestra delle bambine ma confermò che comunque era l’ipotesi più plausibile. “O magari era Peter Pan che cercava la sua ombra.” disse Morgan. “Oppure l’ombra che cercava Peter Pan.” rispose Hero.

*** La storia dell’incursore notturno aveva messo in moto il cervello di Hero. Ripensò alle ombre nere che avevano danzato in mezzo ai Black la notte di Samhain. Hero non aveva contato le figure presenti nella radura quella notte, ma poteva giurare che fossero molte più di dodici. Quando ne aveva parlato con Victoria il giorno subito dopo il festival si era sentita rispondere: “Erano anime defunte. È normale che i defunti tornino tra i vivi la notte di Samhain. È loro concesso, no? Cosa c’è di strano? È Samhain!” Certo. Lineare e logico. La notte in cui i morti tornano fra i vivi, morti e vivi ballano insieme. Era logico per Victoria ed era naturale per tutti gli altri, ma non per Hero. A Hero non parevano anime quelle che avevano danzato pestando i piedi intorno all’altare dell’abbazia. Per Hero, venuta da Vecchio Mondo, non era affatto naturale la scena che si era svolta sotto i suoi occhi a Samhain. Hero credeva nell’immortalità dell’anima ed era pronta ad accettare che una notte all’anno il confine tra vivi e morti si facesse così sottile da diventare pian piano insesistente, ma non era così pronta ad accettare che le anime andassero in giro nascoste sotto mantelli neri a mettere incinte le sue sorelle. Sarebbe stato agghiacciante se fosse stato vero, ma per Victoria e il resto della famiglia era semplicemente naturale. E ora questa storia delle dita sul vetro di Cassie. Hero non poteva fare a meno di continuare a rimuginarci sopra.

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Dopo colazione andò al mulino. Aveva qualche minuto prima dell’inizio delle lezioni alle bambine. “John?” “È alle scuderie.” sentì rispondere la voce di Laurie. Non avrebbe fatto in tempo ad andare alle scuderie, parlare con John e poi di nuovo alla Magione, perciò ritornò a casa ed entrò nella sala delle lezioni, dove Cassie, Quiva e Morgan la stavano già aspettando. Siccome la misteriosa ombra alla finestra continuava a ronzarle in testa e non le dava tregua, colse l’occasione per fare della vicenda il tema della lezione. “Prendete le tele e i colori, stamattina si dipinge.” Le ragazzine si ammucchiarono intorno all’armadio dei colori e ne estrassero gli utensili da pittura: tele, tubetti di colore, cavalletti, pennelli di varie misure, tavolette di legno, olio di lino per diluire i colori, vasetti per l’olio di lino, spugne, e grembiuli per non macchiarsi. Quando ognuna ebbe sistemato i propri strumenti, indossato il grembiule e montato la tela sul cavalletto, Hero cominciò a parlare: “Stamattina a colazione è saltata fuori una storia misteriosa...” “Ci credi, vero Hero?” chiese la piccola Quiva. “Ci credo Quiva, credo che tu abbia visto qualcosa.” “Anch’io l’ho visto.” si intromise Cassie. “Okay, so che avete visto qualcosa. Cosa fosse non lo so, e non lo sapete neanche voi, però vi siete spaventate, giusto?” “Sembrava cercasse di aprire la finestra! Io mi sono spaventata.” disse Quiva. “Non avere paura Quiva, non succederà più, e se dovesse succedere di nuovo sveglia Cassie e Morgan e chiamate subito qualcuno. Ma non è questo il punto.” Prese un attimo fiato. Non sapeva bene neanche lei doveva arrivare, stava solo ragionando, ma non avendo tempo per ragionare da sola lo faceva ad alta voce con le sue sorelle. “Non volevo farvi ripensare a qualcosa che vi ha fatto paura, voglio solo sottoporvi una questione su cui riflettere. Io penso che quando qualcosa ci fa paura dobbiamo guardarlo in faccia. Sapete cosa bisogna fare quando qualcosa nel buio ci spaventa?” “Gridare!” “Scappare.” “Morgan? Cosa dici?” “Io scapperei insieme a Cassie.” “È difficile scappare nel buio, sapete? Come fate a scappare se non vedete dove andate? Rischiate di cadere e farvi male.”

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“Ma Hero, cosa c’entrano i pennelli?” “Aspetta Morgan, aspetta.” In realtà stava ancora riflettendo sul da farsi. “No,” riprese Hero, “quando qualcosa mi spaventa nel buio io farei un’altra cosa: accenderei la luce.” “Ma magari era un mostro! Io non voglio vedere i mostri, ho paura!” “Non ci sono mostri nella selva, Quiva. E sai perchè non ci sono?” “Perchè?” “Perchè i mostri non nascono dal nulla. La Dea fa crescere alberi e fiori nella nostra foresta. Fa crescere la frutta sugli alberi e le verdure nell’orto. Ci dà acqua fresca dal fiume, carne da mangiare e frumento per fare il pane. Ci dà tutto ciò di cui abbiamo bisogno, ma non ci dà nè lupi nè ortiche. Nè mostri. La natura non crea mostri. L’unica creatura capace di creare mostri è l’uomo, ma bisogna avere un cuore oscuro per creare mostri, e nessuno nella Magione ha un cuore oscuro. Per questo non esistono mostri nella selva.” Riprese fiato. “Perciò ora vi do un lavoro da fare: voglio che dipingiate la luce. Provate a pensare, voi tre, di aver acceso la luce ieri sera, mentre avevate paura. Cosa avreste visto? Cosa c’era secondo voi fuori dalla finestra? Un ramo scricchiolante? Un cervo che grattava con le corna sul vetro? Uno scoiattolo che si arrampicava su verso il tetto? Oppure un lupo? Un mostro? Voglio che illuminiate il buio e guardiate in faccia la paura. Non vi do un mese, vi do due ore per finire questo quadro, quindi non dipingete a strati, mescolate i colori direttamente sulla tela senza aspettare che asciughi. Voglio vedere un risultato al termine di queste due ore. Se poi nei giorni a venire vorrete modificare il quadro e stendere altro colore potrete farlo. Voglio che questa tela diventi uno specchio della vostra anima.” “Ma io non ho visto niente stanotte. Io dormivo!” disse Morgan “È vero Morgan, ma tutte questi racconti ti avranno suggestionato, no? Dipingi ciò che pensi. Qualunque idea tu ti sia fatta sulla base dei racconti delle tue sorelle, riportalo sulla tela. Se pensi che Cassie e Quiva si siano immaginate tutto, dipingi una finestra lucida con la luce della luna che vi si specchia dentro. Se invece pensi che nella selva ci siano i mostri, inizia a diluire il nero sulla tavolozza.” E iniziarono il lavoro. Intanto, la fretta che aveva avuto di parlare con Jonathan si era dileguata. Parlando con le bambine si era chiarita da sola le idee e le era venuta voglia di dipingere lei stessa. Ma non voleva farlo davanti alle bambine, avrebbe preferito farlo in camera sua, di nascosto: non se la sentiva di mostrare a nessuno il quadro della sua anima.

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Al termine delle due ore mando le ragazzine a lavarsi le mani e intanto diede un’occhiata ai dipinti. Quiva aveva dipinto una luna piena. Una nera sagoma alata si stagliava sul bianco della luna. Le ali erano spalancate e gli artigli protesi. Sembrava un falco, o un aquila, e Hero si chiese se uccelli così grandi esistessero nella selva. Cassie aveva dipinto se stessa: nella stanza che divideva con le sue sorelle, Cassie aveva rappresentato se stessa di spalle col viso rivolto verso alla finestra. Teneva in mano una candela con la quale illuminava il vetro, e in quel vetro era visibile un pallido riflesso di Cassie che guardava Hero negli occhi. Morgan aveva raffigurato un uomo con le mani sulla finestra. Un piccolo sole dorato gli brillava accanto al volto e con la sua luce rendeva distinguibile la sagoma dell’uomo, separandolo dallo sfondo oscuro della selva. Hero si turbò. Quando tornarono nella stanza, Hero chiese spiegazioni a Morgan: “È Peter Pan!” disse lei. “E Campanellino!” “E tu Cassie, cos’hai raffigurato?” “Penso che se avessi acceso la luce non avrei visto che me stessa riflessa nel vetro. Tutto sommato la paura me la sono messa addosso da sola, è qualcosa che è nato dentro di me, perciò ho dipinto me stessa.” “E per te invece, Quiva, la paura è nata fuori di te?” “Sì, per me era un uccello la cosa che bussava. Forse graffiava la finestra con gli artigli.” “Bene, potete mettere a lavare i pennelli. Mi raccomando, scrostateli bene dal colore. Jonathan non ci passerà altri pennelli per tutto l’inverno, quindi abbiatene cura.” Mentre le ragazze si affannavano a fregare i pennelli per non farli incrostare di residui di colore, Hero guardò fuori dalla finestra della sala da pittura e vide Jonathan che usciva dal mulino. Trascinava due sacchi di farina che doveva aver appena finito di macinare. Con quella farina, Elizabeth e Victoria avrebbero impastato il pane la mattina seguente e il suo delizioso profumo avrebbe accompagnato tutta la famiglia al risveglio. Le piccole sarebbero corse in cucina prima degli altri per spezzare il pane ancora croccante e ficcarselo in bocca mentre era caldo ed Elizabeth le avrebbe ammonite di non scottarsi la lingua, altrimenti non sarebbero più state in grado di gustarselo. Poi ridacchiò tra sè e sè, immaginando Lola sopra la tramoggia del mulino che allungava la zampina cercando di acchiappare i chicchi di frumento che cadevano nella macina per essere triturati. Come avesse

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udito i suoi pensieri, il buffo musetto della piccola tricolore spuntò proprio in quel momento dietro alle tendine ricamate della finestra che aveva fatto correre lontano i pensieri di Hero. La gatta spinse il vetro con la zampina ed entrò nella stanza. Andò a sistemarsi sul tappeto in mezzo alla sala e decise di presiedere alla lezione successiva. “Non c’è bisogno di te, Lola!” le disse Quiva ridendo. Per tutta risposta, la tricolore la guardò negli occhi con l’aria di replicare: “C’è sempre bisogno di un gatto a tenere d’occhio le cose.” e non si mosse. Quando le ragazze furono sedute a semicerchio sul tappeto, con la gatta al centro che controllava la situazione, Hero iniziò a parlare: “Vecchio Mondo non conosceva l’importanza dei nomi come la conosciamo noi, però qualcosa al riguardo aveva intuito. Ad esempio, non pronunciavano con leggerezza il nome di alcune delle loro divinità. Noi sappiamo che un nome è potenza. Possedere il nome di qualcuno significa averlo in pugno. Ora voglio raccontarvi una storia di Vecchio Mondo in cui un nome può farsi causa di vita o di morte. C’era una volta, in una delle lande più antiche di Vecchio Mondo, una principessa di nome Turandot. Era una donna bellissima, ma dal cuore freddo come il ghiaccio. Turandot non amava gli uomini, e non desiderava per sè il matrimonio. Una donna della sua casa, tempo addietro, era stata posseduta e uccisa da uno straniero conquistatore, e da allora, Turandot aveva giurato che mai sarebbe caduta nelle mani di un uomo. Tuttavia, su Vecchio Mondo era usanza l’unione tra uomini e donne, e il padre della principessa premeva perchè la figlia prendesse marito. Per sfuggire al pericolo del matrimonio, Turandot aveva escogitato tre enigmi: solo colui che avesse risolto i tre enigmi avrebbe potuto prenderla in moglie, altrimenti sarebbe stato giustiziato. Molti erano stati i re e i principi che avevano tentato di risolvere gli indovinelli di Turandot senza riuscirci, e molto sangue era stato versato nel palazzo della principessa. Finchè un giorno, dall’ovest giunse un principe straniero a tentare l’impresa. Turandot gli pose il primo enigma: “Cos’è che nasce di notte e muore col sorgere del sole?” “La speranza” rispose lo straniero. Ed era la risposta esatta. Allora Turandot propose il secondo enigma: “Cos’è che guizza come fiamma, ma non è fuoco?” “Il sangue”. Sì, era proprio il sangue.

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“Cos’è quel gelo che ti infuoca e dal tuo fuoco trae altro gelo?” “Sei tu, Turandot”. Lo straniero aveva risolto i tre enigmi, e ora la bella principessa avrebbe dovuto mantenere la parola data e sposarlo. Ed ella, al pensiero, si gettò disperata ai piedi del padre pregandolo di scioglierla dalla sua promessa. Il principe straniero sapeva che, sposandola, egli avrebbe avuto una moglie ostile e riluttante al suo amore, perciò la sciolse egli stesso dal giuramento e, a sua volta, le propose un enigma: se, prima del sorgere del sole, la principessa avesse indovinato il suo nome, egli stesso si sarebbe sottoposto alla pena capitale. Quella notte tutto il popolo vegliò. Turandot mandò in giro i suoi servitori in tutto il paese a cercare il nome del principe che l’aveva sfidata. In ogni modo tentò di carpire il nome del principe, con doni preziosi e con torture, ma invano. Quando le prime luci dell’alba iniziarono a colorare il cielo, egli stesso le rivelò il proprio nome. Ed ella lo amò.” “È finita?” “Sì, è finita.” “Ma finisce così?” “Cosa ti aspettavi, Morgan?” “Non so, ma mi sembra un finale strano. È troppo semplice.” “Non è così semplice come credi, e ci sarebbe da parlare molto al riguardo, ma per adesso voglio che riflettiate su due concetti: il nome e l’enigma. Vi ho raccontato molte altre storie di Vecchio Mondo in cui i protagonisti si trovano di fronte a enigmi da sciogliere, pena la morte. Ve ne ricordate uno?” “Edipo e la Sfinge!” “Esatto Cassie. L’enigma è potente. Come il nome. Con un nome esatto si può risolvere un enigma e salvarsi la vita. Al contrario, per un nome sbagliato si può morire. Su Vecchio Mondo, molti secoli fa, i popoli dell’est si sfidavano a gare di enigmi. Esistevano veri e propri maestri di enigmi e non essere in grado di sciogliere un indovinello comportava la morte. Curioso, vero? Voglio che riflettiate su questo e scriviate due pagine al riguardo per domani. Ora andate da Alex, vi aspetta per la lezione di pianoforte.” “Aiutami a perdonare. Finchè mi guarderai negli occhi non potrò dimenticare.

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Oh Guardiano della selva, perchè mi hai fatto dono di un oggetto che mi fissa coi miei stessi occhi? Riflesso in questa lama il mio stesso volto si prende gioco di me e mi accusa con occhi d’acciaio. Aiutami a perdonare. Ti prego, Dea, Madre mia, aiutami a dimenticare. Io porto i segni della colpa e il peso del peccato. Le mie mani sono sporche, perciò le ho nascoste. Io sono un rifiuto e una vergogna. Sono stata umiliata e disprezzata e non sono riuscita a tollerarlo. Allora ho risposto al male col male, e mi sono macchiata di sangue. Nel profondo del mio cuore nascondo pensieri inconfessabili. Tante volte ho provato a gridare, ma nessuno mi ha ascoltata. Allora ho smesso di gridare e ho cominciato a piangere. Ma nessuno mi ha consolata. Allora ho smesso di piangere e ho deciso di ridere. Allora mi hanno amata. Eppure, la notte, nell’ombra, quando nessuno mi sente, io torno a gridare la mia colpa. Madre mia, tu mi hai condotto in un luogo di luce e di amore, e per questo io ti ringrazio. Quando ho gridato a te, tu mi hai risposto. Ciò che Adam non fece, io l’ho fatto. Ma non permettere che i miei stessi occhi mi lacerino col fuoco della colpa. Ti prego, liberami. Insegnami, dammi la forza di osare, e se questa lama deve rivolgersi verso di me, dammi il coraggio di farlo. Le mie sorelle sono in pericolo. Dammi la forza di proteggerle. Niente di ciò che può far loro del male varcherà questi confini. Non permetterò mai che qualcosa distrugga ciò che io qua dentro ho costruito. Io difenderò la selva da tutti i lupi del mondo”. Ripose il pugnale tra le pagine su cui stava scrivendo, come fosse un segnalibro. Era il suo diario. Nè Elizabeth nè Jonathan sapevano dell’esistenza di quel diario, come nessun altro, e Hero lo teneva nascosto. Per qualche motivo aveva il sospetto che l’esistenza di quel diario non sarebbe stata apprezzata dai padroni di casa, anche perchè era parzialmente scritto in penna. Non esistevano penne a sfera nella selva e non esisteva carta così bianca come quella su cui scriveva Hero. Era materiale maledetto proveniente dal mondo esterno e non sarebbe dovuto esistere. Hero si sentì in colpa. Sapeva che avendo introdotto oggetti del mondo esterno era venuta meno al patto che implicitamente aveva stretto con Elizabeth e con la selva.

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“Niente di maligno deve oltrepassare i confini della selva”, il che significava che niente di nato “fuori” poteva entrare “dentro”. “Anche tu sei venuta da fuori.” Il pensiero si abbattè su di lei, implacabile come la scure di un boia. “Anche tu sei venuta da fuori. Sei un’intrusa. Non sei desiderata.” Hero si tappò istintivamente le orecchie, ma sapeva che quella voce così impietosamente giudicante non si sarebbe spenta. Hero aprì gli occhi e lo stesso demone oscuro che la stava accusando guidò i suoi occhi verso il pugnale. Dalla lama, una bocca riflessa nell’acciaio compose parole altrettanto severe: “Tu sei male.” “Io sono stata accettata! Il Guardiano mi ha benedetta! Elizabeth e Jonathan mi hanno accolta. Io ho il diritto di essere qui! Anche loro vengono da fuori.” “Non osare paragonarti ai padroni! Loro hanno creato la casa in cui ora abiti. Loro sono simili a dei creatori. Tu sei un parassita.” “Non è colpa mia, smettila. Io non avevo altro luogo dove andare.” “Questo non ti giustifica. Tu sei debole e inutile, non hai creato nulla di buono. Sei un’intrusa indesiderata.” Il dialogo con la se stessa del pugnale era per Hero il più patetico di tutti i dialoghi, perchè nè gridando nè tappandosi le orecchie avrebbe potuto interromperlo. “Perchè il Guardiano mi ha donato questo coltello? Perchè mi ha accolta per poi deridermi nella forma di questa lama?” E le tornarono in mente vecchie parole di Elizabeth: “Il Guardiano non mente mai”. Era dunque vero che la sua esistenza nella selva era male? “Vorrei sprofondare nella terra in questo istante.” “Attenta.” le parlò di nuovo l’altra se stessa. “Nella selva i desideri si realizzano. Attenta a ciò che desideri. Se tu sparisci, chi proteggerà la selva?” Qualcuno bussò alla porta. “Hero? Ci sei?” “Morgan?” “Posso entrare?” Hero nascose diario e pugnale nel cassetto sotto la scrivania. “Vieni, piccola!” rispose sforzandosi di suonare allegra. Morgan entrò, avvolta in una mantella di lana rossa. “Guarda!” Fece un giro su se stessa ridacchiando. “Sto bene?” “Sei bellissima. Te l’ha fatta Niobe? Ti sta benissimo il rosso addosso.”

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“Anche Niobe l’ha detto! Dice che sta bene coi capelli!” “Capelli biondi, occhi blu, e mantellina rossa. Sei una meraviglia, Morgan!” “Hai da fare?” chiese la bambina. “Perchè Elizabeth e Niobe chiedono se puoi andare ad aiutarle ai telai. L’inverno promette molto freddo quest’anno e c’è da fare molta roba. Anche per il bimbo che verrà, sai. E Victoria sta diventando sempre più grossa, fa fatica a fare tutto.” Era comprensibile: era incinta al sesto mese. “Adesso scendo, dì a Elizabeth che arrivo!” Si gettò sulle spalle la vecchia mantella bianca che per tanti inverni l’aveva scaldata nella neve, nella pioggia e nel vento, o semplicemente al riparo tra le mura di casa quando il fuoco del camino non era sufficiente a calmare i brividi di freddo. Scese giù per la stretta scala a chiocciola del primo piano ed entrò nel salottino dove Victoria sedeva in poltrona davanti al camino leggendo un antico libro di Vecchio Mondo. Hero le diede un bacio, poi indicando la pancia di Victoria le chiese come si sentisse. “Grossa.” rispose lei ridendo “Ma sto bene. Spero che sopravviverà al gelo, visto che nascerà proprio nel cuore dell’inverno.” “Stai tranquilla, gli prepareremo tante di quelle coperte pesanti che al massimo morirà di caldo.” “Stai andando ai telai?” “Sì, sono stata assunta da Elizabeth.” “Scusa se ti faccio fare il mio lavoro, ma mi sento veramente stanca oggi.” “Vic, stai tranquilla.” La guardò negli occhi. “Ma allora non è vero che stai bene.” “Sono solo stanca Hero, non preoccuparti. A volte capita.” “Alla mia età tu avevi già Cassie, vero?” “Era appena nata. Anche lei di inverno, con i fiocchi di neve che cadevano fuori dalla finestra. Era una giornata più o meno come questa.” “Me lo consiglieresti?” “Cosa? Di partorire?” Hero annuì. “Beh, non è una cosa che puoi consigliare, no? Capita e basta. Come ai conigli e come ai cavalli. Fa parte della natura, altrimenti la nostra razza si estinguerebbe. Certo, gli ultimi mesi sono faticosi e il parto è doloroso, ma siamo nate donne, il nostro ruolo è anche questo. Ma poi,

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una volta che sono nati, impari ad amarli e non puoi più fare a meno di loro.” e sorrise. Victoria era così, pacata, dolce, a volte remissiva. Non si poneva crucci e pensieri, accettava la realtà e la viveva serenamente. “Come pensi che Alex stia vivendo la nuova gravidanza?” “È agitata. Un po’ tesa. Ma è coraggiosa Alex, sa far fronte alle situazioni. Ma puoi parlarne tranquillamente con Alex stessa, non farti scrupoli. Fa sempre piacere che una sorella si preoccupi per noi, vai pure a parlarle quando hai tempo. Se riesci a trovarla lontana dal pianoforte naturalmente.” e risero entrambe. “Ultimamente sembra stia diventando una cosa sola col piano!” “Infatti la prendo sempre in giro! Forse sta cercando di trasformarsi nell’ultimo tasto del pianoforte!” Poi Hero si avviò verso la stanza dei telai pensando: “Tra poco è Yule.” Yule era la festa più bella dell’anno lunare, non solo per i bambini ma anche per gli adulti. Sarebbe stata dura la vita nella selva se la Dea non avesse fatto dono alle sue creature della festa di Yule. Esiste “un giorno che non è giorno”, perchè la notte pare non finire mai. Le ombre sono lunghe quel giorno e le terre restano avvolte nell’oscurità più a lungo che in qualunque altro giorno dell’anno. Eppure, in quella notte lunga e buia si dice nascano re e salvatori. Quella notte si chiama Yule ed è notte di grandi prodigi. Si dice che piante e animali parlino la lingua degli uomini a Yule, e che il fumo dei ceppi ardenti dipinga in cielo il futuro. Si esprimono desideri in quella lunga notte e si fanno promesse. E si ricevono doni. Non c’è nessuno, adulto o bambino, che non ami ricevere doni: per questo Yule era da sempre la festa più attesa dell’anno, e si stava avvicinando.