Saba, Palazzeschi, Calvino

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ai miei genitori che mi hanno cullato

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ai miei genitori che mi hanno cullato

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Angelo Ariemma

SABA PALAZZESCHI CALVINO

un percorso critico

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INDICE

SABA Poesia onesta p. 11

Saba e Debenedetti: il poeta e il suo critico 21

Ernesto: l’ultimo esorcismo 37

Poesia in tre stati: da Leopardi a Saba 93

PALAZZESCHI La poesia giovanile di Palazzeschi: dal dolore al controdolore 105

Un romanzo ritrovato 139

CALVINO Tragedia dell’ascolto 147

Cammei 169

Leggere o amare? This is the question 177

Vocabolario di città 183

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Amai trite parole che non uno osava. M'incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo.

SABA

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POESIA ONESTA

Verità e onestà sono due parole magiche per Saba, due concetti alla base del suo scritto di poetica del 1911: Quello che resta da fare ai poeti.1 In questo scritto giovanile Saba dichiara a tutte lettere la sua concezione poetica, contrapponendo due modi di fare poesia antitetici: quello di Manzoni, volto alla ricerca e all'espressione del suo vero sentimento e del suo vero essere; e quello di D'Annunzio, più portato invece verso una pura elabo-razione formale e musicale, anche a costo di esprimere sentimenti non provati e artificiosi. Natural-mente Saba si pone subito dalla parte di Manzoni, poiché i versi belli, quando sono privi di verità e di onestà, non lo interessano. E non lo interessa nemmeno l'originalità ricercata a tutti i costi. Giustifica così due peculiarità della sua poesia: i frequenti calchi da altri poeti, che natural-mente però nel contesto delle sue poesie assumono tutt'altro senso e significato; e le ripetizioni di temi e di situazioni che si riscontrano nella sua opera; ineliminabili perché, dato l'uomo, la sua vita, i suoi pensieri e i suoi sentimenti, se è appunto un uomo e un poeta onesto, non può far altro che esprimere quella vita, quei pensieri, quei sentimenti, cercando continuamente di chiarirli a sé e agli altri.

Troviamo nel presente saggio anche una chiave per comprendere i futuri continui rimaneggiamenti delle poesie giovanili, quando si afferma:

È pertanto che bisogna con lunga disciplina prepararsi a ricevere la grazia con animo proprio; fare un quotidiano esame di coscienza, rileggersi in quei periodi di ristagno in cui è più possibile l’analisi, cercando sempre di ricordarsi lo stato d’animo che ha generato quei versi e rilevando con eroica meticolosità la differenza

1 U. Saba, Quello che resta da fare ai poeti, in Prose, Milano, Mon-dadori, 1964, p. 751-759.

fra il pensato e lo scritto.1

Quindi anche le varianti devono tendere a rendere nella maniera più sincera ed onesta gli effettivi sentimenti provati nella realtà, da cui nasce lo slancio poetico; vanno al di là di semplici prove stilistiche, di più compiuta bellezza formale. E infatti per Saba,

Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più re-moto possibile da quello del letterato di profes-sione, ed avvicinarsi invece a quello dei ricerca-tori di verità esteriori o interiori…2

Vediamo così come già in questo saggio del 1911 Saba si ponga in polemica con quella che viene definita ‘letteratura’ in senso deteriore, per rivendicare ai poeti una funzione moralmente e umanamente più sostanziale all’interno della società: perché ad essi è dato di com-prendere ed esprimere più compiutamente la realtà che ci circonda e quella che è dentro di noi. E giustamente, proprio a proposito del passo citato, così chiarisce Antonio Pinchera:

… bisogna sentire la poesia, essa stessa, come ricerca di verità, cioè, come ricerca ed espressione di sentimenti veri, che tanto più sono veri quanto più appartengono ad una esperienza comune e quotidiana.3

La poesia come parte integrante della vita, ad assolvervi il compito di medicina dei mali che questa vita infligge. Ma per assolvere questo compito deve assumere su di sé, come in un esorcismo, le manifestazioni, le più dolorose come le più liete, della vita “comune e quotidiana” del poeta, ma che sono anche le manifestazioni della vita

1 Ivi, p. 755 (corsivo nostro).2 Ivi, p. 758.3 A. Pinchera, U. Saba, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 54.

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“comune e quotidiana” di tutti gli uomini. Perciò anche il grande impegno stilistico di Saba è dettato dalla ricerca dell'espressione più vera e sincera; perché in essa ognuno possa riconoscere le proprie sensazioni e i propri sentimenti, perché così ognuno, anche chi poeta non è, possa usufruire dell'ufficio consolatorio e liberatorio della poesia.

Che poi si possa affermare che,

(...) nel poeta maturo che di volta in volta tornava sulle sue primissime esperienze agiva, sia pure inconsapevolmente, ora la volontà di occultare influssi di autori in seguito ripudiati, o più modeste simpatie delle quali il poeta maturo si sarebbe quasi vergognato, ora quella di attenuare talune forme di imitazioni scolastiche e rigide dai classici o, viceversa, il desiderio di far risaltare quelle presenze, ‘il filo d'oro della tradizione italiana’,1

non incide a fondo nella realtà di questa poesia, vissuta da Saba come scoperta ed estrinse-cazione delle proprie paure, per liberarsene col canto. Lo stesso Saba con-ferma:

Quasi tutte le sue poesie sono nate dal bisogno di trovare, poetando, un sollievo alla sua pena; più tardi anche da una specie di gratitudine alla vita.2

Ma in Saba non c’è solo una vita che ha bisogno della poesia, per trovarvi conforto e nuova forza vitale; ma anche una poesia che trova la sua sostanza e la sua mate-ria nella vita. Anche a questo proposito Saba ci il-lumina quando rivolgendosi a due suoi assidui interlocutori episto-lari, dice loro:

1 G. Savarese, U. Saba, Milano, Marzorati, 1976, p. 15.2 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 410.

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Tu vorresti far solo della letteratura; cioè solo sognare (cattivo sistema per fare dei bei libri e della buona letteratura); tutto quello che ti toglie dal sogno (cioè la realtà esterna) ti fa paura e t'ispira odio.1

… cava dalla tua vita i tuoi racconti, i quali, più aderiscono alla tua personale esistenza, più piacciono ed interessano.2

Il fatto che Saba si rivolge a due romanzieri quali sono Quarantotti Gambini e Comisso, non deve trarci in inganno, poiché le due raccomandazioni si applicano benissimo alla sua poesia, che dal dato vivo e reale parte con slancio lirico verso il sogno e la sublimazione poetica; mai però in questo sogno e in questa sublimazione si perde il dato di partenza sempre presente e riconosci-bilissimo.

Infatti lo spunto poetico non è dato solo dalla realtà sentimentale, interiore del poeta, ma molto spesso da situazioni esterne, che Saba coglie da quella "calda vita" in cui si immerge quando più sente il peso dell'esistenza ("…ma se la vita all'interno ti pesa / tu la porti al di fuori”3). Sono le due "care voci discordi"4 sempre presenti nella vita e nella poesia di Saba: quella introversa, tesa a cogliere tutti gli umori che si vengono svolgendo nella propria psiche, quasi in una sofferta e, nello stesso tempo, prediletta contemplazione narcisistica; e quella che invece proprio nel "guardare ed ascoltare"5 le manifestazioni più

1 U. Saba- P.A. Quarantotti-Gambini, Il vecchio e il giovane, Milano, Mondadori, 1965, p. 20, lettera del 31 agosto 1930.

2 Saba, Svevo, Comisso, Lettere inedite, a cura di M. Sutor, Padova, Gruppo di Lettere Moderne, 1968, p. 43, lettera del 16 giugno 1945 (corsivo nostro).

3 U. Saba, Il Canzoniere, Torino, Einaudi, 1974, p. 135 (Il garzone con la carriola).

4 Ivi, p. 351 (Preludio di Preludio e fughe).5 Ivi, p. 26 (Meditazione).

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comuni della vita altrui, trova il conforto e il coraggio per sopportare la propria dolorosa esistenza.

Certo, hanno ragione Savarese e Maier quando affermano:

(…) quando pare che rappresenti cose, figure, gesti ‘esterni’, non esprime altro, molto spesso, che proiezioni del proprio interno…1

(…) Tanto difficile è la conquista della profonda sincerità e originalità artistica quale sarà propria della migliore, matura poesia del Saba, capace d'interiorizzare ogni esterno spunto e pretesto, facendone, diremmo, un simbolo di se mede-simo, del suo sentire e pensare la vita, della sua intera mitologia di uomo e di poeta.2

Infatti lungo tutta la storia del Canzoniere, queste figure si presentano costantemente con una loro valenza simbolica: la madre dalla “marmorea faccia”3, la nutrice “madre di gioia”4, il padre, i 'ragazzi' gai ed esuberanti; perfino le cose e gli animali assumono spesso significati simbolici. E gli attributi di questi personaggi spesso si ripetono identici nei vari componimenti, quasi a ricordare una delle caratteristiche tipiche dell'epos omerico (quella di accompagnare l'apparizione dei vari dèi ed eroi con un formulario atto a caratterizzare ogni singolo personaggio), situandoli così in una sorta di mitologia tutta personale, consona al sentire dello stesso Saba. Il quale ci conferma questa interpretazione quando sostiene che uno dei suoi ‘ragazzi’, quello di “Frutta erbaggi”5 è “il bel ‘fanciullo imperioso’ che Saba avrebbe voluto essere stato”6.

1 G. Savarese, U. Saba, cit., p. 23.2 B. Maier, Appunti sul noviziato artistico di U. Saba, in “Galleria”

gen.-apr. 1960, p. 48.3 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 101 (Nuovi versi alla luna).4 Ivi, p. 434 (Nutrice).5 Ivi, p. 437.6 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 605.

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Questa affermazione si potrebbe estendere a molti dei fanciulli presenti nel Canzoniere; i quali vengono ad assolvere così una funzione di simbolo esorcistico, atto a sublimare, attraverso la rappresentazione poetica, una delle frustrazioni più cocenti di Saba, quella appunto di non essere stato “un ‘bel fanciullo imperioso’ “, ma, anche nell'adolescenza, un ragazzo volto alla introversione, di animo romantico e malinconico.

Leggiamo il componimento:

Erbe frutta, colori della bellastagione. Poche ceste ove alla setesi rivelano dolci polpe crude.

Entra un fanciullo colle gambe nude,imperioso, fugge via.

S'oscural'umile botteguccia, invecchia comeuna madre. Di fuori egli nel solesi allontana, con l'ombra sua, leggero.

Ecco, al di là del significato simbolico, un ragazzo come se ne vedono tanti per le strade di paese, ancora spensierato, ancora gaio nel compiere il suo furto inno-cente, pieno di gioia e di luminosità che riverbera intorno a sé. Ma non solo il ragazzo viene rappresentato in tutta la sua pienezza di figura e di personaggio, bensì tutta l'immagine è presente e viva davanti ai nostri occhi come cosa reale, pur se descritta in quella maniera più rappresa ed essenziale tipica della stagione di Parole.

Del resto già Debenedetti ha individuato una delle caratteristiche essenziali della poesia di Saba in questa rappresentazione oggettiva, al limite del narrativo, di figure e personaggi, colti vuoi dalla propria personale esperienza di vita, vuoi da quella realtà circostante in cui Saba trova

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addentellati, o “per affinità o per contrasto”1, con il proprio essere.

Per cui si può certamente parlare di simboli, di mitologia, a proposito di Saba, non dimenticando però che il modo in cui questi simboli ci vengono presentati ha sempre un carattere oggettivo e reale, tale da rendere queste figure simboliche valide per se stesse, proprio in quanto rappresentazioni significanti il loro essere e la loro realtà di figure e di personaggi vivi e concreti, prima ancora del mito nascosto dietro la loro simbologia. Non di-menticando altresì che queste rappresentazioni simbo-liche non hanno mai una valenza metafisica, ma si riferiscono sempre a una mitologia tutta personale e interiore a Saba, che se ne serve per trovare in esse, nel farne la materia del proprio canto, il valore della sua poesia, vissuta come il solo mezzo per comunicare e partecipare alla vita degli altri, alleggerendo così quella angosciosa solitudine di cui si sente vittima.

E non valgono ad annullare questa interpretazione determinate affermazioni del Saba preda delle sue ricorrenti crisi di sconforto durante le quali neanche nella poesia trovava più alcun senso, come in questa lettera a Ettore Serra del 14 settembre 1936:

Non credo più alla poesia. Non alla poesia di questo o quel poeta ma alla poesia in genere2.

O ancora in quest'altra lettera a Nora Baldi, datata 30 gennaio 1957:

La poesia non mi ha mai, almeno nelle ultime profondità del mio essere, interessato. Mi sono rivolto a lei per l'impossibilità di agire.3

1 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 130.

2 Cit. in A. Marcovecchio, L'epistolario di Saba, in "Terzo Programma" n. 2, 1961, p. 135.

3 U. Saba, Lettere a un'amica, Torino, Einaudi, 1966. p. 133.

Probabilmente questa è un'altra delle numerose contraddizioni di Saba, che fin dalla giovinezza desiderava impegnarsi e acquisire gloria e fama in attività più solide e concrete, e invece si è ritrovato tra le mani una cosa così aleatoria come la poesia lirica. Ma sostenere in base a questo che Saba non provava nessun interesse per la sua poesia non ci convince affatto. Perché Saba ha accettato subito la poesia come parte integrante della sua vita, e vi ha impegnato tutto il suo essere, trovandovi il più grande compenso alle proprie frustrazioni di uomo. Ce ne ren-diamo perfettamente conto quando andiamo a leggere una poesia come Amai1

Amai trite parole che non unoosava. M'incantò la rima fioreamore, la più antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo,quasi un sogno obliato, che il doloreriscopre amica. Con paura il cuorele si accosta, che più non l'abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona carta lasciata al fine del mio gioco.

Dove chiaramente Saba ci dice le cose che maggiormente e profondamente lo hanno interessato nella sua vita: una poesia tradizionale e apparentemente scon-tata, ricca invece di nuove suggestioni liriche; la verità e l'onestà dei propri pensieri e sentimenti, cantate attraverso quella poesia; il suo interlocutore di sempre, che si iden-tifica con ogni uomo con cui è riuscito a mettersi in sintonia e a comunicare il suo “dono d’anima”2.

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 516.2 G. Debenedetti, Per Saba ancora, in “Solaria”, mag. 1928, ora in

Saggi critici (I serie), Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 179.

Ma soprattutto è difficile credere a una poesia come espediente e quasi mezzo di sopravvivenza (materiale), quando si legge la lirica intitolata appunto Poesia1

È come a un uomo battuto dal vento, accecato di neve - intorno pingeun inferno polare la città -l’aprirsi, lungo il muro, di una porta.

Entra. Ritrova la bontà non morta, la dolcezza di un caldo angolo. Un nomeposa dimenticato, un bacio soprailari volti che più non vedeva che oscuri in sogni minacciosi.

Tornaegli alla strada, anche la strada è un'altra. Il tempo al bello si è rimesso, i ghiacci spezzano mani operose, il celeste rispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa che ogni estremo di mali un bene annunci.

Qui, nei modi più caratteristici di Saba, un'im-magine dipinta in tutte le sue particolarità visive e psicologiche, viene espresso quel senso della poesia come rifugio dalle intemperie esterne, dove ritrovare caldi affetti e la fiducia per ritornare ad operare nel concerto degli uomini con un nuovo senso di accettazione della vita e perfino del dolore che essa arreca. E proprio qui, in questa funzione terapeutica e rigenerante, è il significato della poesia e di tutta l'arte di Saba.

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 427.

SABA E DEBENEDETTI

IL POETA E IL SUO CRITICO

1. Biografia e poesia

L’interpretazione che Giacomo Debenedetti ci for-nisce, lungo l'arco di quarant'anni, della poesia di Saba si incentra su un punto che ci sembra fondamentale per la sua intima comprensione. Si tratta dello stretto rapporto che Debenedetti coglie tra la vita e l'opera poetica di Saba, la quale si sostanzia delle vicende di questa vita, anche le più quotidiane ed insignificanti.

Prendiamo innanzi tutto il famoso saggio che il giovane Debenedetti pubblicò nella rivista "Primo Tempo", da lui fondata e diretta (insieme a Sergio Solmi, Mario Gromo, Emanuele Sacerdote) negli anni 1922-‘23.1 Questo saggio è storicamente molto importante: primo, perché inaugura quel proficuo sodalizio tra Debenedetti e Saba che si protrarrà almeno fino alla morte del poeta instaurando non solo un mero rapporto formale tra critico e artista, ma una vera e propria amicizia tra due uomini; inoltre, perché è il primo intervento critico sulla poesia di Saba che ne dichiari a tutte lettere la grandezza e la profonda contemporaneità.

Già dalla prima pagina così si esprime Debenedetti:

La qualità e la larghezza della materia su cui Saba lavora, sono presto indicate e oltremodo significanti: si tratta di tutta intera la sua passione individuale; accettata, come cosa di natura, coi suoi limiti che si patiscono, meglio che non si definiscano: e quasi senza preoc-cupazioni di redimerla dalla immediata biografia

1 G. Debenedetti, La poesia di Saba, in "Primo Tempo", n. 9-1O, 1923, ora in Saggi critici (I serie), cit., p. 1O9-147.

in cui nasce.1

È evidente qui come Debenedetti imposti il suo discorso critico sulla stretta aderenza della poesia di Saba ai precisi eventi della sua vita, e alle situazioni psicologiche che questi eventi determinano in lui. Ma Debenedetti non si ferma qui; anzi, fa di questa aderenza alla propria biografia la cifra che misura l'estraneità di Saba nei confronti di tutta la poesia che si veniva svolgendo nei primi anni del secolo (preludio della grande fioritura ermetica). Infatti, immediatamente dopo il passo citato, chiarisce come la poesia allora imperante si risolvesse "nel vagheggiamento di una forma in sé sola vivente, fondata su valori figurativi e musicali"2; non lavorando, quei poeti, sui materiali fornitigli dalla loro vita minuta o tutt'al più prendendone un piccolo spunto per grandi astrazioni metafisiche.

Non intendiamo dire che i 'poeti nuovi' o gli ermetici non mettessero in poesia se non i loro sentimenti e le loro vicende: prima di tutto perché crediamo che qualsiasi artista crei prendendo spunto da sé e dalla propria vita, tanto più se è un poeta lirico; e poi perché possiamo constatare sperimentalmente nelle poesie dei suddetti poeti, come la materia del loro canto sgorga dalla loro biografia. Però, "mentre gli altri fanno la lirica con scopi e intenti puramente lirici, Saba usa la lirica, i mezzi della lirica, cioè il verso, il canto, la parola poetica come strumenti; ma il suo fine è più o meno incosapevolmente diverso."3 I 'poeti nuovi' e gli ermetici si propongono un fine strettamente formale: la ricerca della parola pura, evocatrice di mille simboli e sensazioni, capace, attraverso inusitate analogie, di suggerire e richiamare una dimensione diversa e più alta di quella strettamente terrena e contingente da cui la poesia nasce; riducono così la loro biografia a mero supporto contenutistico, che perde

1 Ivi, p. 109 (corsivo nostro).2 Ivi, p. 110.3 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 130.

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il suo significato strettamente biografico in questo mare di simboli universali. Invece in Saba "la suggestione è data sempre dalle cose che vivono immediatamente sotto la parola e che creano vedute concrete entro cui il lettore si aggira”1, proprio perché anche i problemi stilistici e di canto sono funzionali al suo bisogno di esprimere ciò che gli urge dentro e ciò che gli sta intorno.

Quindi Debenedetti imposta il suo discorso nella determinazione e specificazione di una poesia dichiara-tamente anomala nel panorama poetico contemporaneo, e ne individua fin d'ora le caratteristiche essenziali proprio nel suo richiamarsi continuo, quasi documentario, alle vicende personali dell'autore, al fine di risolversi in quella dimensione terapeutica che Saba gli ha assegnato per resistere alle proprie angosce interiori:

Le qualità di aperto candore, di fedeltà autobiografica e perfino l'opinione in cui la poesia è tenuta: di attività meravigliosa ed atta a far salvi, per vie nascoste, da ogni mortifi-cazione che la dura vita infligga - si riproducono presso di lui come atmosfera elettiva del poetare.2

Questa linea interpretativa viene ancor più sviluppata nel bellissimo saggio Il grembo della poesia,3

dove Debenedetti giustifica proprio attraverso esigenze biografiche e psicologiche il fare poetico di Saba. È ancora il problema di capire come mai in un'epoca in cui la poesia si faceva con parole 'pure', con analogie azzardate e incomprensibili, con accostamenti puramente sonori; in cui con i futuristi ci si augurava la messa al rogo di tutto quanto sapesse d'antico (primi fra tutti biblioteche e musei), ci fosse un uomo che faceva poesia con i mezzi

1 G. Debenedetti, La poesia di Saba, in “Primo Tempo” n. 9-10, 1923, ora in Saggi critici (I serie), cit., p. 142.

2 Ivi, p. 112.3 G. Debenedetti, U. Saba e il grembo della poesia, in “l'Unità”, 1

set. 1946, ora in Intermezzo, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 35-45.

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tradizionali, avallati da secoli di letteratura: l’endecasillabo, forme chiuse come il sonetto, la parola che rimanda solo all'oggetto significato.

La spiegazione che in genere si dà di questa ‘arre-tratezza’ di Saba, dovuta alla sua nascita a Trieste, cioè in una città isolata rispetto alla più avanzata cultura italiana, non è convincente. Se è vero che Trieste non aveva stretti rapporti con la cultura italiana, proprio per essere un im-portante porto dell'impero asburgico ne aveva con la ben più avanzata cultura europea. Inoltre Saba non era così isolato da non conoscere ciò che avveniva in Italia, infatti era in contatto con un gruppo all'avanguardia come quello de "La Voce".

La ragione più profonda della sua estraneità al clima culturale dell'epoca, consiste invece nel fatto che Saba era "fra lor di un'altra spece(sic)”1, perché,

c’era, nel profondo della sua natura, qualcosa che aveva bisogno di appoggiarsi sempre al più solido, al più sicuro, a quello che aveva fatto le sue prove in un lungo, nel più lungo possibile, passato, per poi partire da quello alla conquista di se stesso.2

Tale attaccamento al passato, confessato dallo stesso Saba, si risolve in una costante fedeltà agli stilemi della tradizione poetica italiana, in cui Debenedetti scopre un bisogno profondo e vitale di ritrovare nella poesia, in quella poesia, una voce materna, calda e rassicurante:

Enunziata in due parole, l'avventura di Saba era questa: distruggere la severità della propria madre personale la madre 'dalla marmorea faccia' che l'ha deluso come figlio, e trovare altrove le necessarie dolcezze di un grembo

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 252 (Autobiografia 10).2 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 407-

408.

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materno. (...) Il grembo fu quello della poesia...1

Quindi, proprio perché la poesia viene ad as-sumere per Saba una funzione materna, egli vi ricorre costantemente, a raccontare tutto quanto gli accade, buono o doloroso che sia. Ma appunto per questo, quando vi ricorre per confidarglisi deve essere sicuro di trovarsi di fronte alla poesia, e questa per riconoscersi deve essere quella canonica, con le sue regole fisse, rigidamente stabilite da secoli.

In questo modo Debenedetti spiega tre fatti fondamentali per capire Saba, che lo differenziano dai poeti a lui contemporanei: la copiosità della sua pro-duzione poetica; la sua prosaicità, per questo bisogno di mettere in poesia tutto, anche ciò prima non ritenuto degno di essere versificato; e la sua forma rifacentesi ai moduli consueti e classici del verso.

L'analisi di Debenedetti è qui estremamente si-gnificativa del suo atteggiamento verso la poesia di Saba, e ne scopre la vera essenza: cioè la poesia per Saba non è un puro esercizio intellettualistico, ma la vera e la sola medicina che lo aiuta a sopravvivere alle tremende angosce esistenziali di cui soffre. Dunque una poesia non solo permeata di fatti, storici e quotidiani, ma essa stessa parte ineliminabile e centrale della vita di un uomo chiamato Umberto Saba.

Ora, come mai per l'uomo Saba la poesia dovette assumere un compito così vitale? Da dove gli veniva quella profonda angoscia di esistere?

Così spiega Debenedetti:

La sua è come la psicologia di un perseguitato da qualche cosa di nascosto nelle radici, inesorabile e congenito, quasi sia stato mescolato nel suo essere fin da prima della nascita, e col ricordo confuso e senza nome ne

1 G. Debenedetti, U. Saba e il grembo della Poesia, in Intermezzo, cit., p. 37-38.

sia rimasto l'incubo.1

Praticamente Debenedetti qui intende parlare di quel senso di esclusione e di persecuzione atavico, che a Saba derivava dalla sua appartenenza alla razza ebraica. Questo dell’ebraismo è un discorso che Debenedetti, ebreo egli pure, tiene costantemente presente nell’analisi della poesia sabiana. In particolar modo vi ricorre in un saggio del 19572, e ancora una volta per spiegare quello che egli chiama “il viaggio del salmone" di Saba, cioè il viaggio della poesia di Saba contro la corrente della poesia contemporanea.

Debenedetti trova due spiegazioni a questo viaggio contro-corrente. Una è la nascita di Saba a Trieste, una città dove certe correnti culturali, come il verismo, ave-vano, nei primi anni del Novecento, ancora una freschezza e una possibilità creativa, perdute nel resto d'Italia. Di qui l'attenzione di Saba per le cose e i fatti più comuni e quotidiani.

L'altra è l'essere stato "per lo meno un nipote del Ghetto”3, cioè la sua nascita ebraica non lo condizionò solo nella psicologia da escluso e da perseguitato, ma anche in una mentalità amante della concretezza e di regole rigidamente stabilite, come la legge del Vecchio Testamento. Saba ritrovò questa rigidità nella forma poetica tradizionale: "con la sua metrica, le sue strofe, i suoi versi, l'inderogabile ricorrere delle rime”4.

Si potrebbe obiettare che ci sia contraddizione tra quanto appena affermato e ciò che si è detto a proposito dell'articolo U. Saba e il grembo della poesia, ma a noi non sembra che la contraddizione sia reale. Infatti, nella psicologia di un uomo sono presenti tanti fattori concomi-tanti e interagenti, tra i quali è arduo stabilire delle priorità;

1 Ivi, p. 41.2 G. Debenedetti, Ultime cose su Saba, in "Nuovi Argomenti", gen.-

feb. 1958, ora in Intermezzo, cit., pp. 46-69.3 Ivi, p. 58.4 Ivi, p. 60.

e per quanto riguarda Saba è innegabile che tra questi fattori ci sia anche l'essere nato e cresciuto in un ambiente ebraico; fatto peraltro da lui mai rinnegato, se ha scritto dei racconti proprio su quell'ambiente1 e se durante gli anni della campagna razziale ha sofferto come gli altri ebrei, rifiutandosi di prendere il battesimo, come invece avrebbe potuto fare, poiché di razza mista.

Dunque, anche in questo caso, e coerentemente a tutta la sua analisi, Debenedetti trova la risposta alla originalità poetica di Saba in un fattore biografico e psicologico; viene così a determinare in maniera netta la funzionalità reciproca tra vita e poesia in Saba, per il quale, appunto, ognuna delle due entità è indispensabile al realizzarsi dell'altra.

2. Storia di esorcismi

Nel saggio introduttivo alla pubblicazione in volume di Epigrafe2, le sei poesie pubblicate postume per precisa volontà del poeta, Debenedetti trova una chiave interpretativa estremamente interessante. L’illustre critico vede in Vecchio e giovane3, la poesia più famosa e più sconcertante della raccolta, un tentativo di esorcismo: Saba cioè cercherebbe di addossare al suo giovane amico le angosce che lo tormentano; ma il tentativo fallisce, e Saba si ritrova con una angoscia ed un rimorso in più, perché toccava se mai a lui, vecchio e prossimo alla morte, addossarsi i mali del giovane, per liberarlo a una vita più serena. Questo profondo rimorso spiegherebbe anche la sorte postuma di queste poesie, che sono la testimonianza di un periodo di grave crisi esistenziale attraversato dal poeta.

Ma Debenedetti si trova ora tra le mani un elemento

1 U. Saba, Gli ebrei, in Prose, cit., pp. 7-59.2 G. Debenedetti, La sua quinta stagjone, Prefazione a U. Saba,

Epigrafe-Ultime Prose, Milano, Il Saggíatore, 1959, ora in Intermezzo, cit., pp. 81-98.

3 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 610.

estremamente fecondo per interpretare Saba, e non se lo lascia più sfuggire. Si impegna infatti in una lunga storia di esorcismi più o meno riusciti.

Questa tecnica magico-esoterica, per cui ci si libera dei propri fantasmi maligni addossandoli a una vittima innocente e indifesa, Debenedetti la ritrova nella poesia Berto1, mista a quell'altra tecnica liberatoria, che è la psicoanalisi. Qui, appunto, Saba tenterebbe di effettuare l’esorcismo ai danni del se stesso bambino, evocato in quelle sedute psicoanalitiche a cui negli anni 1928-’29, immediatamente precedenti la composizione della raccolta Il Piccolo Berto2, egli si sottopose. Ma l'esorcismo fallisce, poiché la vittima designata si ribella, non svela tutti i suoi segreti, facendo così ripiombare Saba in una angoscia ancora più profonda, aggravata dal senso di colpa per aver tentato un'operazione quasi sacrilega; la lirica infatti si conclude così: “Io sono - rispose - un morto. Non toccarmi più.”3

Questo di Berto è il primo esorcismo fallito, ma Saba non rinuncia ai suoi tentativi liberatori, se, come abbiamo visto, ci riprova col suo giovane amico. Ed anche le poesie di Uccelli4, poste nella loro collocazione originaria, cioè insieme a quelle di Epigrafe, si possono leggere come un nuovo esorcismo. Infatti:

Queste poesie sono un discorso a un interlocutore, poi cancellato. La benignità dei piccoli alati è una sorridente, vendicativa ram-pogna al giovane. Pur con le loro ali, essi non sfuggono al replicarsi quotidiano dell'esorcismo. Mostrano, in una vivente allegoria, l'esempio del prigioniero che ripaga con un bene chi lo tiene in gabbia per rendergli più sicura la vita, fargli una prigionia più dolce che la libertà.5

1 Ivi, p. 391-392.2 Ivi, p. 385-406.3 Ivi, p. 392.4 Ivi, pp. 535-551.5 G. Debenedetti, La sua quinta stagione, in Intermezzo, cit., p. 93.

Ecco, siamo di fronte a un uomo che sente ancora il bisogno di dare amore agli altri, ma che rimane deluso nella speranza di ricevere in cambio almeno un minimo di gratitudine e questo gli acuisce l’innata sensazione di essere un escluso; cerca così un'ultima compensazione nell'amore verso i piccoli uccelli.

Ma gli esorcismi continuano; e ne scopriamo il senso in precise affermazioni di Saba, come quella che segue (che troviamo in una lettera inviata proprio a Debenedetti, il 3 settembre 1946):

Vedi i rapporti fra me e la vecchiaia, e tutte le ‘esclusioni’ che ho provato un sollievo a buttare addosso a lei.1

Queste chiarissime parole ci mostrano come Debenedetti non abbia improntato il suo discorso su delle forzature interpretative, ma abbia colto una realtà che era in fondo presente allo stesso Saba, anche a quello dei Versi militari:

E ti racconterò, quando lontani saranno i giorni che n'ero malato, tutti i mostri di cui m'ha liberatol'anima il sol che m’arrossò le mani.2

Un esorcismo, anche il servizio militare, e per di più riuscito nel suo intento liberatorio, ma non definitivamente. Infatti le crisi d'angoscia risorgeranno continuamente, e Saba continuamente cercherà di liberarsene in tutti i modi, ma soprattutto con quello che per lui è stato l'esorcismo più presente e più proficuo: la poesia.

Spontanea o sollecitata, la poesia veniva a lui, e

1 U. Saba, Lettere a G. Debenedetti, in “Nuovi Argomenti” nov.-dic. 1959, p. 27.

2 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 38 (Durante una marcia 6).

doveva essere ben riconoscibile nelle forme, esattamente quella che per tutti e da sempre è la poesia, concreta nei suoi ritmi e strofe e rime come una palpabile creatura in carne ed ossa: davvero il recipiente puro, il vaso senza pecca, che si richiede negli esorcismi per farvi passare le potenze tormentatrici.1

Ancora una spiegazione del tradizionalismo formale di Saba; ma una spiegazione che s’inscrive sempre in quella visione che Debenedetti ci ha dato della sua poesia, come di un bisogno essenziale alla sua anima e al suo essere, per sopravvivere in un mondo in cui si sentiva escluso e non compreso.

E lo stesso Saba conferma questa interpretazione quando, a proposito della cura psicoanalitica che non riuscì a guarirlo dalle sue ansie, dice che se lo avesse completamente guarito “non avrebbe più scritto poesie: non avrebbe avuto più bisogno di scriverne”2; poiché, appunto, esse erano l'esorcismo, la scappatoia, “il grembo materno” in cui rifugiarsi per rigenerarsi alla vita di sempre.

3. Poesia di personaggi

Un'altra caratteristica tipica della poesia di Saba è il suo sostanziarsi in figure e personaggi. Debenedetti analizza questa caratteristica soprattutto nel saggio3

pubblicato nel numero di “Solaria” del 1928 dedicato a Saba, prima, vera consacrazione nazionale della sua arte.

Qui Debenedetti, continuando nel suo scavo all'interno della poesia di Saba, vi scopre, proprio nelle ultime produzioni degli anni venti, un’accentuazione di questo concretizzarsi della lirica sabiana in figure che assumono una loro specificità e indipendenza.

1 G. Debenedetti, La sua quinta stagione, in Intermezzo, cit., p. 86.2 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 562.3 G. Debenedetti, Per Saba ancora, in Saggi critici (I serie), cit., p.

149-179.

Naturalmente questa tendenza era già presente nelle raccolte precedenti, in un'alternanza di “figure e canti”, cioè di rappresentazioni più plastiche e narrative, e di situazioni più liriche e musicali, rivolte all'interno di sé; ma ora le figure sembrano essere predominanti, quasi che dopo i fasti dell'Autobiografia1, una completa rimeditazione sulla propria esperienza di uomo e di poeta, Saba sentisse il bisogno di estrinsecarsi in figure oggettive: nascono così I prigioni2, Fanciulle3, L'uomo4.

Anche se la critica più recente tende a vedere ne I prigioni nient'altro che le personificazioni dei vizi e degli atteggiamenti di Saba stesso, non si può però disco-noscere quanto dice Debenedetti: “Permane tuttavia evidente lo sforzo di creare dei personaggi”5, cioè delle entità artistiche che hanno una loro autonomia rispetto all'autore. E il termine personaggi è tanto più esatto, in quanto molte di queste personificazioni si identificano con i mitici personaggi della tragedia greca; posti, in quella dimensione oggettiva che fa di questi Prigioni delle vere e proprie figure plastiche tratteggiate “a tutto tondo”6.

Questa tendenza a raffigurare un personaggio è ancora più presente nel poemetto L'uomo. Scrivere nel 1928, quando imperava un tipo di poesia effusiva, ermetica, e che per di più prediligeva forme brevi; la storia di un uomo in versi, fu veramente una grande scommessa. Forse il risultato, da un punto di vista strettamente estetico, non è di grande valore; ma ciò che ci preme sottolineare è l'atteggiamento con cui Saba si è posto di fronte a questa impresa:

Saba si trova, per parte sua, nelle condizioni di un romanziere, che metta mano al suo roman-

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 243-257.2 Ivi, p. 261-275.3 Ivi, p. 279-290.4 Ivi, p. 335-348.5 G. Debenedetti, Per Saba ancora, in Saggi critici (I serie), cit., p.

166 .6 Ibid.

zo: a quel romanzo che avrà, finalmente per protagonista un testimone e un messaggero diretto della vita dell'autore. Solo a queste con-dizioni può nascere un romanzo che sia tutto lirico: che diventi l'inno o l'ode o l'elegia di quella vita, che l’autore ha sognata o desiderata o presentata per sé, e che poi si è dovuta ringhiottire1.

E appunto la vita di questo Uomo è intessuta delle gioie e dei dolori che si susseguono nell'esistenza di qualsiasi individuo, fermi restando alcuni fatti specifici propri della vita di Saba. Questo dimostra che anche questi personaggi nascono da un'esigenza biografica; cioè Saba trova una sublimazione di sé nei suoi personaggi, che raffigura come tipi comuni alla media degli uomini, partecipi di quella "calda vita" da cui egli si sente irri-mediabilmente escluso. Tipici di questo atteggiamento riscontrato ne L'uomo, sono anche quei famosi 'ragazzi' che costellano tutto il Canzoniere: ragazzi vivaci, esu-beranti, e anche un po' dispettosi, colti appunto da Saba nei loro atteggiamenti più alieni dal suo temperamento introverso. E questa stessa problematica la ritroveremo in colui che anche in senso esteriore e formale è un vero e proprio personaggio da romanzo: Ernesto2.

Ma dove Debenedetti analizza in maniera più com-piuta e magistrale questa spinta di Saba alla creazione di personaggi, è nelle sue lezioni universitarie dedicate alla Poesia Italiana del Novecento3. Qui il critico parla di una vera e propria "vocazione drammaturgica”4, che si ma-nifesta nell'imbastire le poesie intorno a "dei personaggi esterni che il poeta coglie nella vita e nei quali vede una situazione atta a confessarlo per affinità o per contrasto; più ancora si tratta di una metamorfosi continua, per cui gli stessi sentimenti del poeta si raffigurano come esseri

1 Ivi, pp. 168-169.2 U. Saba, Ernesto, Torino, Einaudi, 1975.3 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit.4 Ivi, p. 133.

tangibili, come gesti, come movimenti, come voci: insomma, prendono attributi da personaggi, da dramatis personae”1. Questo procedimento si coglie in maniera evi-dente nelle Fughe2, e in special modo nel bellissimo Canto a tre voci3.

Come nelle altre Fughe anche in questo com-ponimento troviamo le due voci presenti nell'intimo di Saba, quella rivolta verso l'esterno e quella rivolta verso l’interno di sé, che si confrontano e dialogano con una terza voce, che può essere la Poesia, oppure l'Io che si sostanzia di queste due voci. Ma qui, oltre che ad una struttura musicale, con le sue riprese e variazioni del tema principale, siamo di fronte a una vera e propria scena da commedia, e le voci non sono altro che i personaggi di questa commedia: l'amoroso galante e intraprendente, il giovane timido e romantico, la ragazza che si lascia corteggiare senza parere; i quali imbastiscono sulla scena un vivace dialogo drammatico, attraverso il quale riusciamo a cogliere le loro psicologie fin nelle minime sfumature, proprio come nei veri personaggi della letteratura, che pur nella breve vicenda rappresentata ci portano a conoscenza quasi di una loro esistenza autonoma e indipendente dalla manifestazione creativa dell'autore.

Il Canto a tre voci costituisce un alto vertice di poesia nella produzione di Saba: per la sua struttura complessa e inusitata; per la realizzazione densa di valori poetici ed umani (tra l'altro vi si riscontrano vivi accenti a ricordo e gloria dei torturati politici del ventennio fascista e di sempre); e perché questo bisogno di creare personaggi è qui più evidente e raggiunge un risultato più perfetto. Però non bisogna dimenticare che questo concretizzarsi in figure e personaggi, spesso anche con modulazioni narrative e prosastiche, è una costante della poesia di Saba, che anche altrove raggiunge risultati di altissimo

1 Ivi, p. 130.2 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 351-384.3 Ivi, p. 360-370.

valore poetico. Perfino nel periodo in cui la sua poesia di-venta più scabra e vengono abbandonate le forme chiuse è presente questo sbocco nella descrizione di alcune figure tipiche. E lo dimostra la presenza in Parole1, la sua raccolta più 'ermetica', delle Cinque poesie per il gioco del calcio2, che sono tra le più classiche di Saba, proprio perché, pur in una forma più rappresa, rispec-chiano il suo senso di partecipazione umana e la sua capacità di cogliere e ricantare uomini e cose. Inoltre nelle ultime raccolte ritorna di nuovo in maniera preponderante questo narrare vicende e personaggi. Tanto è vero, che una di queste raccolte si intitola addirittura Quasi un racconto3, e narra (propriamente) le vicende e le emozioni che il vecchio Saba vive accanto ai suoi canarini.

Perciò non dobbiamo meravigliarci se costante-mente, accanto alla vasta produzione poetica, troviamo in Saba una cospicua quantità di racconti (per lo più anche essi a carattere biografico), e soprattutto se negli ultimi anni della sua vita Saba ha tentato la grande avventura del romanzo4, che purtroppo le sue disagevoli condizioni fisiche e psichiche gli hanno impedito di portare a compimento.

Non vogliamo con ciò dire che la dimensione più propria di Saba sia quella della prosa, o addirittura quella diaristica, perché "quei personaggi, Saba li trova, li conosce, li riconosce, li accetta nei momenti in cui la loro cronaca, pure attaccata alle proprie determinazioni documentarie e di fatto, acquista una portata - per così dire - esemplare: il fatto personale, o l'intima ripercussione del fatto personale, diventa un fatto di tutti”5. Allora le vicende di questi personaggi e soprattutto le vicende di Saba stesso assumono un significato diverso, poiché assurgono a simbolo e paradigma di quanto di fondamentale accade all’uomo in ogni tempo e luogo; sono, cioè, quella

1 Ivi, p. 411-439.2 Ivi, p. 420-424.3 Ivi, p. 555-597.4 U. Saba, Ernesto, cit.5 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 130.

"rivelazione di destino”1, di cui parla Debenedetti, e su cui più volte ritorna nel corso della sua esegesi critica, facendone la discriminante dell'arte, e il metro di giudizio per valutare le singole opere.

Non a caso, dunque, Debenedetti si è confrontato a lungo con la poesia di Saba, proprio perché vi ha scorto, pur nella sua essenza lirica e musicale, la concretezza di un personaggio-Saba, in cui possiamo leggere il nostro destino. Ed è appunto qui che si situa la grandezza e il valore storico della poesia di Saba, volta alla concreta determinazione di un destino umano, senza però mai perdere le sue qualità liriche: quindi, una poesia biografica, una poesia di personaggi, una poesia narrativa, che rimane pur sempre vera e grande poesia lirica.

1 G. Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione, Pre-fazione 1949 a Saggi critici (I serie), cit., p. 35.

ERNESTO: L'ULTIMO ESORCISMO

1. Romanzo di una biografia sognata

Il romanzo che Saba scrisse in una clinica romana nel 1953, in pochi mesi di grande felicità creativa, ma pub-blicato solo nel 19751, si presenta, pur nella sua incom-pi-utezza, come l'estremo capolavoro di un poeta che, giunto a cimentarsi con la forma romanzo, vi rífonde tutti i temi a lui più cari, in una scrittura lieve e luminosa.

È per Saba, questo del romanzo, un approdo che potremmo definire inevitabile. Sappiamo come Saba anche nella poesia e nei modi lirici tende a creare personaggi e figure oggettivi; quindi questo sbocco nel romanzo è un mezzo per soddisfare nella maniera più completa questa tendenza narrativa, del resto già scaltritasi nei numerosi ricordi-racconti che hanno accompagnato in parallelo la sua produzione poetica.

Tale parallelismo non è solo di tipo cronologico, ma riguarda anche la diversa funzione che la prosa, in Saba, assume nei confronti delle identiche esperienze esistenza-li da cui scaturisce lo sfogo lirico. Infatti come chiaramente dimostra Lavagetto2 a proposito della novella Un uomo3, in cui vede un modo diverso, più coraggioso e coerente, di presentare la dolorosa storia del dissidio e del distacco dalla moglie, già cantata in Trieste e una donna4,

Il racconto e la poesia sono risposte intrecciate e poco dirimibili ad un'unica, ambivalente espe-rienza; il Canzoniere ci presenta allora la linea autobiografica degli eventi, mentre i racconti sono delle autobiografie ipotetiche, delle ‘com-pensazioni’ o, se vogliamo, degli atti di espia-

1 U. Saba, Ernesto, Torino, Einaudi, 1975.2 M. Lavagetto, La gallina di Saba, Torino, Einaudi, 1974, cfr. in parti-

colare p. 63-111.3 U. Saba, Prose, cit., p. 76-85.4 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 75-131.

zione nei confronti di scelte esistenziali rifiutate; oppure ci fanno toccare con mano il fallimento di una eventualità. Scrivere il racconto allora è un modo di liberarsi di quella scelta spigolosa, concedendole una immaginata soddisfazione1.

Questo perché nella poesia, proprio in base a quel canone della "poesia onesta" che tiene costantemente presente, Saba non può far altro che esprimere la realtà e la verità degli eventi e dei sentimenti che questi generano nel suo animo. Nei racconti invece i margini dell’ela-borazione fantastica si dilatano, poiché Saba si trova di fronte a dei personaggi con vita e caratteristiche proprie. Inoltre Saba assume la funzione di narratore esterno, distanzia da sé questi personaggi, che si pongono così su un piano diverso da quello della sua biografia e della sua poesia. Può così calare in loro tutte le pulsioni, e i desideri nascosti, in modo da concretizzare nei suoi personaggi quell'esistenza e quelle soluzioni di vita che egli sognava per sé. In tale maniera questi personaggi vengono ad assumere un più chiaro valore simbolico in funzione catartica e liberatoria.

Questo discorso vale anche e soprattutto per quanto riguarda Ernesto. Qui però il meccanismo esorcistico è più complesso, in quanto il romanzo a prima vista si presenta come una sorta di biografia dello stesso Saba adolescente nella Trieste operosa e mercantile di fine Ottocento. Pos-siamo notare questo carattere autobiografico del romanzo nei frequenti rimandi che il narratore fa a proposito delle future esperienze e della conclusione della vita di quasi tutti i personaggi, come a testimoniare di una loro reale esistenza. Ma è soprattutto la figura di Ernesto che nasce e vive calata in tutta una serie di fatti e situazioni particolari, proprie della esperienza personale di Saba: dall’abbandono del padre, all'amore per la balia; dalla presenza di una vecchia zia che mantiene lui e la madre, allo studio infruttuoso del violino, ecc. Inoltre per molti

1 M. Lavagetto, La gallina di Saba, cit., p. 105.

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risguardi la psicologia di Ernesto è simile a quella di Saba, così dove si afferma:

Ed uno dei tratti del carattere di Ernesto era il bisogno di essere approvato ed amato.1

O ancora:

... (quando non poteva dire la verità preferiva tacere).2

Dove è presente quel grande amore per la verità e l’onestà morale sempre proclamato da Saba, e suggellato in questa massima di Freud:

Non si viene a patti con la verità; è meglio – se altro non si può - perire onestamente.3

Quindi, anche nel modellare la figura di Ernesto, Saba non ha potuto prescindere dalla sua biografia, e ha rifuso nel protagonista del suo romanzo tutte le particolarità e, diciamo pure, le stranezze della sua vita, facendone così un personaggio inconfondibilmente sabia-no. Ma,

Ernesto ... è Saba e non è Saba. Lo è in quanto la sua biografia è l'autobiografia dell'Autore, quale egli stesso, nella sua opera, ha spar-samente tracciato per vividi frammenti. (...) Nello stesso tempo, Ernesto non è Saba, in quanto assunto a 'figura' del mondo poetico di Saba; la più complessa delle sue 'figure', il più straordi-nario dei suoi ‘ragazzi’; e quindi esposto alle al-

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed. con tredici lettere di Saba, Torino, Einaudi, 1976, p. 55.

2 Ivi, p. 26.3 U. Saba, Scorciatoie e raccontini, Milano, Mondadori, 1946, ora in

Prose, cit., p. 286.

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terazioni della fantasia.1

In questo senso Ernesto e gli altri personaggi del romanzo sono figure autonome e oggettive, compiuta-mente realizzate proprio in quanto figurazioni fantastiche, che appartengono più al mondo dell'arte che a quello della vita. Insomma anche qui, e nella maniera più completa e perfetta, si verifica quella fusione tra il bisogno di ogget-tivazione e il bisogno, altrettanto sentito, di autobiogra-fismo, che caratterizza tutta l'arte di Saba.

Dunque, il personaggio di Ernesto si gioca tutto su questa ambiguità di segno: tra l'autobiografia più minuta e precisa nei singoli particolari, e lo scarto della fantasia più libera e disinibita. Proprio in questo aggettivo, disinibito, è la chiave che giustifica e chiarifica questa duplicità di ispirazione da cui Ernesto indubbiamente nasce. Lo stesso Saba dichiara in una lettera all'amico Bruno Pincherle:

Ernesto non aveva inibizioni, o poche poche, e in forma più graziosa che angosciosa.2

Infatti è lui che quasi prende l'iniziativa di intra-prendere la relazione omosessuale con “l'uomo”, agendo così in maniera molto libera, fuori dagli schemi e dalle regole convenzionali della morale comune. Ernesto appare così come l’ultimo di quei numerosi 'ragazzi', gai e intraprendenti, presenti nell'opera poetica di Saba, e pensiamo anche a quelle poesie escluse dall'edizione definitiva del Canzoniere, come Cottalo3, Lungo il Reno4, in cui troviamo fanciulli ancora più liberi e disinvolti.

Ora, però, questo carattere così disinvolto, così aperto a tutte le esperienze che la vita ci pone di fronte, anche quelle più condannate dalla morale corrente, Saba

1 A. Marcovecchio, Saba prosatore, in “Terzo Programma” n.1, 1964, p. 95.

2 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 145, lettera del 30 giugno 1953.3 U. Saba, Il Canzoniere, Trieste, Libreria antica e moderna, 1921, p.

158-159.4 Ivi, p. 159.

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prova il bisogno di calarlo in una figura dalle evidenti carat-teristiche autobiografiche. Riesce così ad essere, almeno nella realtà fantastica del romanzo, quel "bel 'fanciullo imperioso' che Saba avrebbe voluto essere stato".1

Potremmo quindi riferire a Ernesto quanto Debenedetti dice a proposito del poemetto L'Uomo:

Saba si trova, per parte sua, nelle condizioni di un romanziere, che metta mano al suo roman-zo: a quel romanzo che avrà finalmente, per protagonista un testimone e un messaggero diretto della vita dell'autore. Solo a queste con-dizioni può nascere un romanzo che sia tutto lirico: che diventi l’inno o l’ode o l'elegia di quella vita, che l'autore ha sognata o desiderata o presentita per sé, e che poi si è dovuta rin-ghiottire. L'Uomo obbedisce appunto a queste condizioni. Dove Saba ha conosciuto soprattutto il proprio destino come una perpetua necessità e bisogno di isolarsi in uno stato riflessivo, di tristezza lirica e filosofica - quest'uomo invece risolve e scarica immediatamente nel vivere, nell'azione, nella pratica, gli stati sentimentali che il poeta ha semplicemente patiti e contem-plati. C'è, nell'infanzia dell'uomo, lo stesso prato breve 'di sparse macerie ingombro' che consolò di giochi - e lo sappiamo da tanti accenni del Canzoniere - l’infanzia di Saba; c'è un padre assente e duro (e l'Autobiografia diceva: 'mio padre è stato per me l'assassino…’), c'è una madre che ingoia le proprie lacrime. Ma a partire dall'infanzia, quando il destino comincia a differenziarsi individualmente, l'Uomo vive, mentre Saba si appartava. L'Uomo comincia a diventare l'eroe fortunoso di quella 'calda vita’, di cui Saba è rimasto il poe-ta. Proprio la ‘calda vita' è quella che Saba at-

1 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 605.

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tribuisce come retaggio e come destino al suo Uomo: per poterla toccare, vedere; per poterla far fremere e sospirare in una creatura plasmata con la materia su cui egli non aveva potuto se non cantare; in una creatura fatta a immagine e somiglianza di quegli impulsi attivi, che egli non aveva potuto se non risolvere in musici e pere-grini sospiri.1

Nel romanzo, però, ci si arresta all’adolescenza, e la “calda vita” allora si manifesta in quelle forme che Saba ha sempre creduto tipiche di questa età: cioè un’accettazione spensierata e totale della vita, appunto priva di quelle inibizioni che un'educazione troppo rigida spesso invece lascia penetrare negli animi giovanili. Tuttavia sappiamo, e la stessa testimonianza di Debenedetti ce lo conferma, che l’animo e il carattere di Saba sono totalmente agli antipodi di questa visione dell'adolescenza così libera e liberatoria, poiché egli è più che altro volto a un'introspezione dolo-rosa e malinconica. Quindi, per questo rispetto, la realtà vissuta di Saba non è affatto corrispondente a quella nar-rata nel romanzo.

Allora, come possiamo dare a questo romanzo un carattere di autobiografia? Si tratta di quell'autobiografia “sognata o desiderata o presentita per sé”, che Saba non è riuscito a vivere, e proietta, quindi, in questa ultima, stupenda, creazione della sua arte.

Proiettare vuol dire trasferire un contenuto soggettivo in un oggetto. Esso è un fenomeno di dissimilazione giacché un contenuto è aliena-to dal soggetto e in qualche modo s’incarna nell'oggetto. Si proiettano contenuti penosi o incompatibili per liberarsene, come anche valori positivi divenuti inaccessibili per un motivo

1 G. Debenedetti, Per Saba ancora, in Saggi critici (I serie), cit., p. 168-169.

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qualunque.2

È il caso di Saba. Il quale ha bisogno di questo og-getto in cui proiettare quei “valori positivi divenuti inac-cessibili" (per la sua indole, per l'età avanzata), e se lo crea con quelle caratteristiche che ne permettano, a colpo d'occhio, il riconoscimento come di una figura chiaramente e volutamente autobiografica. In questo modo Ernesto non è altri che Saba adolescente, che però non si com-porta come nella realtà, rinchiudendosi in se stesso e nella propria angoscia; ma in quella maniera sempre sognata, di accettazione e di partecipazione alla vita di tutti, spesso anche in modi spontanei e irrispettosi delle autorità e delle leggi sancite dalla comunità.

Ernesto, quindi, serve a Saba per esteriorizzare e oggettivare la sua natura nascosta e irrealizzata. Così Saba, attraverso il romanzo, si crea una biografia diversa da quella vissuta, e cantata nel Canzoniere, tale da soddisfare il suo grande desiderio di vivere libero dalle inibizioni e dall’angoscia, e di ricevere dagli altri quello stesso amore che egli si sente di dare. Ancora una volta, quindi, l'arte si realizza in un esorcismo, che permette all’uomo Saba di continuare a vivere la dolorosa vita di tutti i giorni.

Alla realizzazione di questo esorcismo partecipa anche lo stile in cui l'opera è scritta. Già abbiamo visto come il fatto che si tratti di un romanzo, e quindi di prosa narrativa e non di un'effusione lirica, consente una maggior estrinsecazione e oggettivazione delle proprie pulsioni, che vengono riversate sul personaggio, visto proprio come un oggetto esterno e a sé stante. Ma non si tratta solo di questo, poiché la prosa di Saba, come la sua poesia, è di tipo classico e tradizionale, che non tiene conto di tutte le nuove esperienze narrative che il Novecento ci ha proposto: dal monologo interiore di Joyce, alla memoria involontaria di Proust, dall'onirismo di Kafka alla con-

2 C.G. Jung, Tipi Psicologici (trad. di M.Cervini), 4. ed., Roma, Newton Compton , 1974, p. 428.

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fessione psicoanalitica di Svevo; dove si crea quasi un'osmosi tra l’io narrante e il protagonista della vicenda narrata.

In Saba invece il discorso si svolge in terza persona, e il narratore è totalmente esterno ed estraneo alla vicenda di cui racconta. Questo modo di raccontare non ricorda, appunto, la narrativa del Novecento, ma si avvicina molto di più alla maniera classica di raccontare di Manzoni; che del resto Saba, per sua stessa ammissione (“lo avevo tanto letto e riletto da ragazzo, da saperlo quasi a memoria”),1 conosceva benissimo. Infatti, come in Man-zoni, anche qui il narratore si presenta, rispetto alla storia del romanzo, come una figura onnisciente, che conosce gli eventi passati e futuri dei personaggi, e tutti i loro minimi risvolti psicologici. Quindi si trova a raccontare la storia come da un piano superiore, per niente toccato da quegli accadimenti, che invece giudica dall’alto della sua cono-scenza ed esperienza, con fare bonario e paternalistico, attraverso i suoi numerosi interventi e incisi esplicativi, per lo più caratterizzati da una fine e demistificante ironia.

Ecco un breve esempio di questo procedimento narrativo. Ernesto, affascinato dal ragazzo appena visto al concerto, se lo immagina circondato dall’amore e quasi dalla venerazione di chi gli vive accanto, e pensa:

'Guarda, - continuava a tormentarsi, - come veste! Tanto i suoi genitori l’hanno caro che vorrebbero conservarlo sempre fanciullo, e non si decidono ancora a metterlo in calzoni lunghi’. (Il giovinetto li portava corti suo malgrado, per economia di stoffa). 'Devono tenerlo ben cus-todito, ben vicino a loro, il più vicino possibile ... come la rosa al naso'. (In casa gli volevano certo bene - specialmente sua madre - ma non ne potevano più delle sue ‘arie e pretese’, desideravano - specialmente suo padre - che si

1 U. Saba, Della Biblioteca Civica ovvero della gloria, in Prose, cit., p. 248.

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tagliasse, piuttosto oggi che domani, i capelli; e si preparasse a suonare, quanto prima, in or-chestra. per liberarsi, almeno economica-mente, di lui).1

Qui, come spesso in tutto il romanzo, e come anche in Manzoni, le considerazioni del narratore-autore servono a mettere nella giusta luce la realtà della situazione fuori degli orpelli e dei miti che i personaggi vi vedono, generando così un gustoso contrasto ironico. Il tutto volto a rendere evidente il distacco tra il narratore-autore e l'oggetto della narrazione, per consentire quella proiezione di cui parla Jung.

In questa direzione troviamo anche il senso del linguaggio che Saba adotta in quest'ultima sua opera. Innanzi tutto si tratta di un linguaggio semplice, piano, aderente alle cose, che abbiamo già riscontrato caratteristico anche della sua poesia; ma soprattutto, ciò che è più interessante per noi è il doppio registro lin-guistico in cui il romanzo è scritto. Infatti il narratore-autore racconta in italiano: quel bel italiano chiaro e discorsivo, tipico di Saba; i personaggi invece, dialogano in dialetto triestino, un dialetto addolcito e comprensibilissimo, ma che mantiene pur sempre il suo sapore e le sue doti di spontaneità e freschezza popolare. La scelta del dialetto per i dialoghi, non ha però valore documentario, di presa dalla realtà, - per cui si fanno parlare i personaggi nel loro linguaggio naturale - come per la pressoché contempo-ranea narrativa neorealista; ma si presenta anch’essa come un ulteriore mezzo che Saba usa per oggettivare e distanziare da sé il suo protagonista.

Ecco allora, che il linguaggio e lo stile complessivo dell'opera, in quanto si rifanno alla maniera di raccontare più classica e più accreditata dalla tradizione letteraria italiana, - naturalmente, svolta e realizzata da Saba in modo del tutto personale - sono volti alla piena determinazione di quel completo distacco tra autore e

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 127-128.

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personaggio, che fa di quest'ultimo un oggetto esterno. Solo così Saba vi può far rifluire i desideri e le pulsioni del suo animo, solo così può fare di Ernesto una sorta di vittima sacrificale, che lo liberi dalle delusioni e dalle frustrazioni della sua vita, assorbendole su di sé. Si realizza in tal modo l'ultimo tentativo di esorcismo che Saba compie per salvare la vita attraverso la sublimazione dell'arte.

Tale sublimazione si registra a diversi livelli. Prima di tutto vediamo come si risolve l’ennesima contraddizione che ha amareggiato Saba negli ultimi anni della sua esistenza: quel forte desiderio di paternità, che egli cercava di riversare sui suoi amici e sul popolo italiano:

C'era in Saba, specie negli anni della maturità avanzata, il desiderio classico, (…) di essere il ‘vecchio onorato’ del proprio popolo, concretamente circondato, dove passava, dell'amore e della stima pubblici.1

Lo stesso Saba confessa questo bisogno di consenso e di approvazione, e di essere guida morale del suo popolo, in una lettera al suo impiegato Carletto del 15 giugno 1945:

Però vedi, Carletto, non riesco mai per gli italiani a diventare padre (come un giorno Carducci, come oggi Croce); rimango sempre alla mia età - fratello; anche perché sono un fratello ... 2

Questo senso di paternità non si dichiara solo nel voler essere come un vecchio saggio patriarca per il po-polo italiano; ma si può riscontrare anche nella sfera più intima dei rapporti con gli amici, quasi tutti di molti anni più giovani di lui. Infatti così si rivolge a Debenedetti, cono-

1 G. Piovene, Prefazione, a U. Saba, Prose, cit., p. XVI.2 Cit. in A. Marcovecchio, L’epistolario di Saba, in “Terzo Programma”

n. 2, 1961, p. 137.

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sciuto appena ventenne:

La nostra [relazione] ha avuto principio sotto la costellazione (circa) di padre e figlio, e tale - non nella realtà oggettiva, ma nel mio pensiero - si è mantenuta.1

Anche nei confronti dello scrittore Quarantotti Gambini, Saba si comporta come un padre esperto che guida e consiglia il figlio nella sua attività; ed esplici-tamente gli dichiara in una lettera del 23 febbraio 1946:

Ma il mio ‘narcisismo’ fa che ti senta come uno dei due o tre figli che m'illudo di avere per il mondo.2

Per non parlare dello sfortunato Federico Almansi, “il giovane stornello in cui ponevo / qualche speranza d'avvenire..."3 di Mediterranee; il pettirosso di Uccelli che “Come un tempo / il dolce figlio che di me nutrivo, / si sente ingordo libero feroce; // e là si sgola.”4; il più giovane, il più amato dei ‘figli’ di Saba, che gli reca l'estremo dolore di privarlo dell'ultimo affetto: quell'amore paterno, protettivo e rassicurante, che egli sente di dover dare a un ragazzo indifeso e inesperto della vita, e che il giovane invece non accetta fino in fondo:

Un vecchio amava un ragazzo. Egli, bimbo - gatto in vista selvatico - temeva castighi a occulti pensieri. Ora due cose nel cuore lasciano un'impronta dolce: la donna che regola il passo leggero al tuo la prima volta, e il bimbo

1 U. Saba, Lettere a Debenedetti, in “Nuovi Argomenti”, nov.-dic. 1959, p.24-25, lettera del 27 apr. 1946.

2 U. Saba- P.A. Quarantotti-Gambini, Il vecchio e il giovane, cit., p. 47.

3 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 524 (Quasi una favola).4 Ivi, p. 539 (Pettirosso).

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che, al fine tu lo salvi, fiducioso mette la sua manina nella tua.

Giovinetto tiranno, occhi di cielo, aperti sopra un abisso, pregava lunga all'amico suo la ninna nanna.La ninna nanna era una storia, qualeuna rara commossa esperienzafiltrava alla sua ingorda adolescenza:altro bene, altro male. <<Adesso basta - diceva a un tratto; - spegniamo, dormiamo>>. E si voltava contro il muro. <<T’amo –dopo un silenzio aggiungeva - tu buono sempre con me, col tuo bambino>>. E subito sprofondava in un sonno inquieto. Il vecchio, con gli occhi aperti, non dormiva più.

Oblioso, insensibile, parvenzad’angelo ancora. Nella tua impazienza, cuore, non accusarlo. Pensa: E’ solo; ha un compito difficile; ha la vita non dietro, ma dinanzi a sé. Tu affretta se puoi, tua morte. O non pensarci più.1

Ma accanto alla paternità, così dolorosamente fru-strata, troviamo costantemente in Saba un forte attacca-mento alla condizione di figlio, un desiderio di tornare alla propria infanzia, o di sognarne una diversa, più libera dai condizionamenti dell’educazione materna.

E infatti, le famose e incomprese Scorciatoie, dove maggiormente e poeticamente esprime il suo pensiero ‘filosofico’, sono in gran parte permeate da questa dialet-tica tra saggezza patriarcale e perdurante infantilità. Già nella loro struttura aforistica e sentenziosa si presentano come l'opera di un uomo giunto a scrivere “le parole definitive”2 della sua esistenza e di tutta un' epoca.

Inoltre sono da notare le scorciatoie più politiche,

1 Ivi, p. 610 (Vecchio e giovane).

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che evidenziano il profondo rispetto che il popolo italiano ha sempre nutrito per l’autorità paterna incarnata nello Stato:

Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… (…) Gli italiani sono l'unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione.

Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.1

LE SOFFERENZE DEGLI ANTIFASCISTI (ragioni pratiche a parte) nascevano da questo: che essi erano, nella loro grande maggioranza uomini affezionati all'autorità. Ora quell'autorità che essi dall'infanzia, e per necessità infantili (di protezione) amavano, comandava loro di non fare proprio quelle cose che i fascisti coman-davano di fare; minacciando esclusioni e castighi a quelli che mostravano di disap-provarle. (…) L'anima dell’infelice antifascista era così lacerata fra due autorità; tutt’e due ordinavano, sotto la minaccia di gravi pene, cose fra loro contrastanti ed inconciliabili.2

TOTEM E TABU’. La sera in cui si seppe dell'esecuzione (…) si notava, nei quartieri popolari di Roma, un'inquietante aria di festa. (...) Ma (…) già il giorno seguente avvertivo, nell'osteria dove prendo i miei pasti, i primi

2 Saba, Svevo, Comisso, Lettere inedite, cit., p. 44, lettera del 16 giugno 1945.

1 U. Saba, Scorciatoie e Raccontini, in Prose, cit., p. 260.2 Ivi, p. 291-292.

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sintomi del rimorso. (…) Dicevano: 'Hanno fatto bene a fucilarlo. Magari l'avessero fatto prima! Sarebbe stato tanto di guadagnato per lui e per noi. Ma avrebbero dovuto fucilare assieme a lui, prima di lui, molti altri (seguivano nomi e cognomi, tutti, adesso, di persone – relati-vamente – giovani; fratelli piuttosto che padri). Quelli invece sono ancora a piede libero. Vedrai che lo saranno per un pezzo. Chi ti dice che egli sia stato il maggior colpevole? ecc. ecc.1

In fondo, in questa analisi di Saba si nasconde il suo desiderio di poter essere lui per gli italiani, quella guida morale, una guida non autoritaria, ma autorevole e comprensiva, che lo Stato non è riuscito a rappresentare dovutamente.

Di contro però, sull’altro versante, troviamo sempre in Saba il senso del conflitto generazionale, della ribellione dei figli contro i padri:

UN AVVOCATO molto vecchio, molto abile, molto (anche al tempo del fascismo) antifascista, potrebbe tentare ancora questa DIFESA DI MUSSOLINI.

<<Voi non sapete>> potrebbe dire <<voi non potete sapere cosa fosse in Italia la generazione che ha preceduta la sua! Siete troppo giovani per saperlo.

Fu una terribile generazione di vecchi. I quali una sola virtù avevano: essere inamovibili; un solo compito: impedire ai giovani di occupare anche il più modesto (come si diceva) posto al sole...>>2

Che la contraddizione qui riscontrata non sia in

1 Ivi, p. 305-306.2 Ivi, p. 289.

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fondo che un'interpretazione della storia basata sul com-plesso edipico analizzato da Freud è evidente, ma importa fino a un certo punto. Interessa di più far notare la com-presenza nell'animo di Saba di qualità di saggezza e di guida, caratteristiche di un padre; e di una visione ribellistica e incosciente, da fanciullo. Un tipo di com-presenza che viene da Saba addirittura teorizzata nell'ambito dell'arte:

PER FARE, come per comprendere, l'arte, una cosa, è prima di ogni altra, necessaria: avere conservata in noi la nostra infanzia; che tutto il processo della vita tende, d'altra parte, a di-struggere. Il poeta è un bambino che si me-raviglia delle cose che accadono a lui stesso, diventato adulto. Ma fino a che punto adulto?Tocchiamo qui una delle differenze che corrono fra la piccola e la grande poesia. Solo là dove il bambino e l'uomo coesistono, in forme il più possibile estreme, nella stessa persona, nasce - molte altre circostanze aiutando - Il miracolo: nasce Dante...1

Ma non solo Dante, poiché Saba è convinto di incar-nare anche lui quel tipo d'uomo in cui la maturità e la saggezza dell'adulto convivono, “in forme il più possibile estreme”, con la curiosità e l'innocenza di un bambino, e che è in grado di produrre il miracolo della poesia.

E appunto questa compresenza si verifica anche in Ernesto, in quanto Saba non s'identifica solo nel suo gio-vane, disinibito protagonista, ma s’immedesima anche nei personaggi più adulti, che possono evocare l'immagine di un amorevole padre per Ernesto.

Primo fra tutti proprio “l’uomo”, con il quale Ernesto ha dei rapporti omosessuali. Ci sembra estremamente sin-golare il fatto che questo personaggio così importante della storia non ha un nome proprio. Infatti viene indicato da

1 Ivi, p. 266.

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Saba solo come “il bracciante avventizio” o “l'uomo”, met-tendo così in evidenza la differenza di età, e quindi di at-teggiamento, tra quest'uomo maturo, ma in fondo impac-ciato e pieno di sensi di colpa per la sua condizione di omosessuale; e il ragazzo Ernesto, così spontaneo e privo di inibizioni, a tal punto da accettare e praticamente incoraggiare lui l’inizio della relazione con “l'uomo”, per la speranza di trovarvi “quel po' di protezione paterna, che egli, rimasto più bambino della sua età e virtualmente senza padre (lo zio tutore contava solo per le sberle e il fiorino settimanale) inconsciamente cercava”1.

Ma il fatto di indicare questo personaggio in modo così generico, può avere anche un altro significato: cioè dietro “l'uomo” c'è Saba, che attraverso di lui riversa il suo amore, quello che ritiene debba essere l’amore di un genitore verso il figlio, un amore comprensivo e rassicu-rante, su Ernesto; e in definitiva su se stesso, il se stesso fanciullo, privato di quel tipo di amore, perché il padre era scappato prima della sua nascita, e la madre, come la madre di Ernesto, non manifestava il suo affetto dol-cemente e teneramente, ma impartendo al figlio un’edu-cazione rigida e severa.Un personaggio che presenta molte affinità con Ernesto, pur se immerso in un clima più angoscioso e crepuscolare è Odone Guasti, il protagonista della novella La gallina2, scritta da Saba nel 1913. Anche questo personaggio è di evidente derivazione biografica, - tra l'altro dichiaratamente affermata dallo stesso Saba con i continui rimandi al futuro di poeta del personaggio, fin dall'incipit del racconto: “Odo-ne Guasti, che doveva più tardi, e sotto altro nome, acqui-starsi una qualche fama nella repubblica delle lettere ...”3 - e tuttavia anch’esso mantiene la sua qualità di personag-gio autonomo, e mostra in questo ambito una denotazione di carattere simbolico.

Infatti il rapporto di affetto e di gioco che Odone ha

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 29.2 U. Saba, Prose, cit., p. 96-105.3 Ivi, p. 96.

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con una gallina che gira liberamente per casa, assume un valore di compensazione dell’affetto materno, sentito come insufficiente. In definitiva, attraverso il gioco, si instaura un rapporto di questo genere:

... la gallina è Odone e Odone la propria madre. L'io ritaglia scrupolosamente quella parte del mondo che gli permette di prendersi come oggetto e in quanto tale di curarsi, di proteg-gersi, di blandirsi: tutto il resto viene respinto.1

Quindi anche l'acquisto di un'altra gallina nell’età adolescenziale per rinverdire quei giochi infantili, assume il significato di una fuga all’indietro per ritrovare il dolce e sicuro mondo dell'infanzia e non affrontare la realtà pre-sente, che per Odone significa l’acquisizione della maturità e il conseguente distacco dalla madre. Distacco che pun-tualmente si verifica alla fine del racconto (“Ma da quella sera amò meno, sempre meno, sua madre.”2); ma in maniera traumatica, perché è proprio la madre che, uccidendo la gallina, vanifica l'esorcismo tentato da Odone, e spezza così definitivamente il cordone ombe-licale che legava Odone all'infanzia vissuta sotto la costel-lazione materna, e che egli aveva cercato inutilmente di riannodare3.

In Ernesto Saba, immedesimandosi anche nei personaggi adulti, che riversano il loro amore sul giovane, imbastisce con il suo personaggio un tipo di transfert simile a quello che Odone ha con la gallina: come là, attraverso il gioco, “la gallina è Odone e Odone è la propria madre”,4

così qui, attraverso la scrittura del romanzo, Ernesto è Saba e Saba è il proprio padre sempre sognato e desi-derato per avere quel conforto protettivo, atto a fargli affrontare la vita in modo più disinvolto, sicuro, e meno problematico.

1 M. Lavagetto, La gallina di Saba, cit., p. 82.2 U. Saba, La gallina, in Prose, cit., p. 105.3 M. Lavagetto, La gallina di Saba, cit., in particolare p. 82-88.4 Ivi, p. 82.

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Del resto Saba già aveva tentato di trovarsi un padre per mezzo della sua arte, come egli stesso confessa a proposito del poemetto L'Uomo:

…Saba ha voluto creare con esso una figura ‘paterna’, il padre che mancò alla sua infanzia, e del quale egli portò sempre la nostalgia.1

Ma qui il meccanismo psicologico è più complesso, in quanto Saba dapprima si immedesima nel suo per-sonaggio, ed è attraverso di esso che si consola e trova l'affetto e la comprensione sempre desiderati, ma difficil-mente ottenuti, soprattutto nel periodo dell’infanzia e dell'adolescenza:

Fra chi dice d'amarmi e in cor m’è ostile io consumo la dolce età minore, e celo, vergognando, ogni non vilepensiero che mi accenda gli occhi e il cuore.

Rider sento di me; nel vano ardore spendo dei sogni il tempo giovanile; e sì lo veggo, e fremo, e col dolore e col sangue ricreo l'antico stile.

E ben lo so che il secolo, volgendo a più fiero ideale l'occhio ardito, passa e non guarda il mio gentil lavoro.

Per cui dal mondo io fuggirò, piangendo ciò che non torna, e in un lontano lito morrò senza baci e senz’alloro.2

Anche il principale di Ernesto, il signor Wilder, si comporta nei suoi confronti in maniera estremamente

1 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 540.2 U. Saba, Il Canzoniere, Trieste, Libreria antica e moderna, 1921, p.

19 (Fra chi dice d’amarmi).

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comprensiva e tollerante. Emesto lo subissa di scherzi e marachelle, ed egli non se ne accorge, o fa finta di non accorgersene, perché verso Ernesto “non gli riusciva di provare quella antipatia e diffidenza che provava per tutti gli altri suoi dipendenti”;1 tanto che quando è costretto a licenziarlo, perché Ernesto gli ha scritto una lettera piena di insulti, dopo la sfuriata “rientrò nel suo studio, che gli apparve squallido come la sua casa. (Il signor Wilder, sposato da molti anni, non aveva figli)”;2 e la madre, andata a pregarlo di riassumere il figlio, riferisce a Ernesto: “Ha parlato come un padre, e non come un superiore, ed un superiore ingiustamente offeso.”3 Insomma anche que-sto principale ha il valore di una figura paterna, e tale la sente, in fondo, lo stesso Ernesto:

Ernesto non amava il suo principale, ma nemmeno – malgrado i dispetti e i disegni caricaturali – l’odiava. Con questi, gli era, per quanto riguardava il lavoro, fedele. Il signor Wilder gli rappresentava una figura familiare, un po' comica e non eccessivamente interessante; ma nulla di peggio. Il lettore ricorderà forse che, la sera prima, mentre si accingeva a bere alla disgraziata fontanella, era stato sorpreso da una specie di nostalgia della sua presenza, dal de-siderio, o quasi., di vederlo. Era insomma, per Ernesto, qualcosa come un oggetto, che si ha sempre sotto gli occhi, di cui la vista può, in certi momenti, perfino rassicurare; far abortire - se del caso - una crisi d'angoscia. Per conto suo, il signor Wilder non gli aveva mai dimostrata una particolare antipatia; gli aveva perfino regalato, con più o meno opportunità, un bastone col po-mo d’argento; e il mensile (che Ernesto, se non altro per le sue gambe, aveva la coscienza di

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 31.2 Ivi, p. 94.3 Ivi, p. 110-111.

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guadagnarsi) era un po' più elevato di quanto comportasse l'uso da una parte e la parsimonia del principale dall'altra. Tanto più il ragazzo restò male quando capì che, senza alcun preavviso, questi gli aveva messo contro un concorrente. Si sentì tradito; vittima 'innocente' della cosa che temeva più di tutte (Ernesto era cane, non gatto).1

Il lungo passo citato ci permette di chiarire come rapporto tra capoufficio e impiegato si svolga qui, almeno nei profondi recessi del subconscio così caro a Saba, all'insegna di padre e figlio. Quei regali e quelle con-cessioni che Il signor Wilder fa ad Ernesto dimostrano che egli sente un certo affetto verso il ragazzo, su cui riversa il suo desiderio di paternità, che la sua famiglia priva di prole non gli concede di soddisfare. Da parte di Ernesto quel vedere nel suo datore di lavoro “una figura familiare”, la cui sola presenza può rassicurarlo a tal punto da evitargli “una crisi d'angoscia”, mette in evidenza che anche lui trova nel principale almeno un surrogato del padre che non ha mai conosciuto. Per di più c’è questo sentirsi tradito dall’arrivo del nuovo praticante; fatto che si inscrive nella classica gelosia che il figlio primogenito prova verso il fratello ap-pena nato, poiché teme che questi gli rubi l'affetto dei genitori, nella fattispecie rappresentati dal signor Wilder. Gli stessi “dispetti e disegni caricaturali” si possono far risalire a quei conflitti che sempre e comunque si verifi-cano tra padre e figlio. Quindi Saba si identifica anche con questo personaggio, in fondo marginale all'interno del racconto, per poter soddisfare almeno attraverso la sua fantasia creatrice quel desiderio di paternità che le vicende della vita gli hanno sempre frustrato.

Ma Saba non solo si identifica con i personaggi adulti che possono evocare un’immagine paterna; bensì, anche nella sua qualità di autore-creatore assume un at-teggiamento paterno, di amore e comprensione, verso

1 Ivi, p. 74.

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Ernesto1; nel quale, nello stesso tempo, si ritrova come figlio amato e protetto, quale egli nella realtà non poté essere.

Riesce così a sublimare nell'arte le due interne pulsioni della sua ultima stagione: il sentimento di voler essere un padre che guida e protegge il proprio fanciullo; e il ritorno a quell'età, sempre vagheggiata e, quasi, mitiz-zata, dell'infanzia e dell'adolescenza.

Questa dimensione mitica in cui Saba pone l'età adolescenziale, suggella fortemente, nel significato e nella struttura, Ernesto; anche per quanto riguarda il suo essere un'opera incompiuta, poiché sembrerebbe che Saba non sia più riuscito ad andare avanti nel suo lavoro (a parte le situazioni contingenti che egli pone a giustificazione della difficoltà di scrivere il romanzo), proprio nel momento in cui avrebbe dovuto raccontare il progressivo distacco di Ernesto dalla sua adolescenza.

Infatti questa età Saba l'ha sempre vista come l'età più bella dell'uomo, perché più libera e più spontanea, in quanto non ancora intaccata, nel suo approccio alla realtà, dai condizionamenti e dalle convenzioni che il vivere in società impone. E in questa prospettiva ci mostra i numerosi fanciulli del suo Canzoniere: quasi egoisti-camente intenti solo al loro piacere, incuranti dei giudizi altrui, essi, proprio in virtù di queste loro caratteristiche, illuminano della loro gaia luce tutto il mondo circostante:

……un garzone con una carriola, che a gran voce si tien la strada aperta, e se appena in discesa trova un’erta non corre più, ma vola.

La gente che per via a quell’ora è tantanon tace, dopo che indietro si tira.Egli più grande fa il fracasso e l’ira,

1 Cfr. le tredici lettere poste in appendice a U. Saba, Ernesto, 3. ed., Torino, Einaudi, 1976, p. 137-162.

più si dimena e canta.1

Perfino la sua adolescenza che, sappiamo, non fu certo serena e spensierata (“Dal fanciullo era nato il giovanotto, / ma triste ancora, ancor senza baldanza, / ed incerta ai suoi occhi era la meta. // A sé e ad altri crudele, del suo letto / in un canto sedeva in buia stanza, / come chi finge una pena secreta.”)2, nel ricordo degli ultimi anni gli appare come un'epoca "lieta":

Per condurre a termine quel romanzo, avrei avuto bisogno di un'atmosfera lieta, come (almeno nel ricordo: ma anche nella realtà) l'adolescenza.3

Quindi lo scrivere il romanzo è anche un rituffarsi nell'atmosfera di quell'età; immaginata a tal punto libera e felice, da procurargli ora, in mezzo ai dolori e alle angosce della vecchiaia, un'oasi liberatoria e rigeneratrice.

Ma soprattutto il romanzo serve a creare un perso-naggio che, vivendo di una doppia dimensione: quella bio-grafica di Saba, e quella appartenente ai suoi desideri, ai suoi sogni, ai suoi miti; può appunto sostanziare e rendere vivi e reali quei desideri, quei sogni, quei miti. I quali co-stituiscono quella realtà psicologica più libera e naturale, quella capacità di partecipare alla vita di tutti, di accettare l'esistenza così come viene, con il suo bene e con il suo male, che Saba vede negli altri, ma non trova in sé:

Tutti hanno pensieri e preoccupazioni; ma - dai frammenti di discorsi che odo per via - capisco che gli altri possono vivere ugualmente,

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 135 (Il garzone con la carriola).2 Ivi, p. 247 (Autobiografia 5).3 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 155, lettera a Nello Stock del 1

settembre 1953.

ed anche abbastanza bene; io no, né ora, né mai.1

Ora però, attraverso la creazione di questo perso-naggio, la cui identità autobiografica è posta chiaramente in evidenza, Saba si appropria di tali capacità di vivere in maniera meno angosciosa, e soprattutto si appropria di quel senso di libertà, spontaneità, e disinibizione, che egli ha sempre associato all'adolescenza. E appunto questo ragazzo “tenero, pietoso, assetato dei <<beni della vita>>”2, che è Ernesto, viene rappresentato come total-mente libero da inibizioni, e capace di accogliere l’amore comunque gli si presenti, anche sotto la forma del de-siderio omosessuale di un “bracciante avventizio”.

La provocatorietà, nel senso buono, di questo ro-manzo consiste proprio nel modo in cui Ernesto accetta il suo rapporto con “l’uomo”: è per lui un’esperienza come un’altra, che la vita ci permette di vivere; per di più è un’esperienza d’amore, e va accettata come tale, fuori delle remore e delle inibizioni che l'educazione e il senso comune ci impongono. Anche il linguaggio, poiché con la sua naturalezza e spontaneità bandisce ogni senso di morbosità e di oscenità, concorre all'immagine di questo rapporto come del tutto naturale.

Tutto ciò serve a rendere nella maniera più illu-minante la natura del personaggio: un ragazzo vivo, spon-taneo, intraprendente, che ama la vita, e viene da quella in fondo ricambiato, attraverso l'amore che tutti coloro che lo circondano gli portano; proprio quel tipo di ragazzo che Saba non è mai stato, ma ha sempre sognato di essere.

Insomma, il significato più profondo di Ernesto sta proprio in questo far vivere un personaggio che ha quelle qualità psicologiche da Saba desiderate, ma mai posse-dute e manifestate nella vita reale. Per cui anche e soprat-tutto in quest'ultima opera, l'arte assume per Saba quel

1 U. Saba, Lettere a un'amica, cit., p. 101, lettera del 23 febbraio 1955.

2 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 144, lettera alla moglie.

valore di compensazione nei confronti della propria vi-cenda umana, che sempre egli vi ha scorto; e non solo in merito alla sua produzione1, ma anche per quanto riguarda le manifestazioni artistiche di altri poeti.

Così, per esempio, in un breve scritto del 1948,2

sintetizza il suo giudizio sulle tragedie alfieriane, in cui appunto vede una compensazione al desiderio inappagato di Alfieri di agire nel campo politico:

Si può dire dell'Alfieri che, se altri scrissero o scrivono dolcissimi versi per consolarsi di non aver potuto o voluto andar a letto col loro amore, egli ne scrisse di stridenti per consolarsi di più amare assenze. Per non essere stato re del Piemonte fa dire al re di Messene: <<Oh quanta è impresa il mantenerti, o trono!>>.3

O ancora, analizzando due versi di Leopardi, sfocia in questa chiarissima e significativa enunciazione di un'arte come rappresentazione di una alterità, sognata e desi-derata dal poeta affranto nell’angoscia:

Si sente, per esempio, che, senza nemmeno accennarlo, il contino Giacomo Leopardi (…) invidia, per i suoi <<sollazzi>>, per il suo <<povero ostello>>, l’artigiano, che egli forse avrebbe voluto essere per sfuggire al suo tormento interiore, al suo ‘narcisismo’ così spie-tatamente offeso da una deformità fisica.4

Il valore di compensazione e di esorcismo del ro-manzo di Saba non si esplica solo, come abbiamo visto, nel fatto che questo ragazzo, protagonista del romanzo, è

1 Cfr. il primo saggio: La poesia onesta.2 U. Saba, Perché amo l’Alfieri, in Prose, cit., p. 798-801.3 Ivi, p. 801.4 U. Saba, La spada d’amore. Lettere scelte 1902-1957, a cura di

Aldo Marcovecchio, Milano, Mondadori, 1983, p. 264, lettera ad Alfredo Rizzardi del 20 novembre 1953.

un alter ego di Saba adolescente, l'immagine di quello che egli avrebbe voluto essere stato, ma che le circostanze della vita e la sua indole psicologica gli hanno impedito di essere nella realtà; ma può avere anche un altro significato.

Già si è detto di come Saba abbia nutrito durante la sua vita un forte affetto verso i suoi numerosi amici più giovani; soprattutto questo affetto si è dimostrato particolarmente intenso verso il giovane Federico Almansi. Il rapporto con questo giovane, quasi da padre a figlio, o più precisamente da maestro a discepolo, culmina in un piccolo volume di poesie di Almansi, la cui prefazione viene scritta appunto da Saba. In essa1 traspare chiaramente il sentimento di amore portato da Saba ad Almansi, fin da quando questi era un fanciullo di tredici anni. Sentimento che viene ricambiato dal giovane, e nella maniera che Saba può apprezzare di più: cioè quella di sceglierlo a maestro ed esempio della propria arte poetica. Infatti tutta la prefazione è percorsa da un senso di compiacimento e di riconoscenza verso il giovane poeta che sceglie a modello della sua poesia proprio lui, Saba, da sempre escluso da tutte le correnti e le scuole più in voga della letteratura italiana contemporanea. Almansi invece, incurante delle mode, si richiama alla sua "Musa dai semplici Panni"2 e alla sua Poetica dell'onestà ("... i sentimenti espressi in quella forma sono bene i suoi, sono bene quelli che provava allora Federico Almansi”).3 È quindi il figlio e il discepolo che Saba vede e ama in lui.

Ma qualcosa accade. Il giovane, probabilmente per un fatto naturale dell’animo umano, preferisce i rischi e i pericoli della libertà, preferisce vivere da solo, in prima persona, la propria esperienza di vita, senza la guida sicu-ra del vecchio. Ma questo addolora profondamente Saba, che finalmente aveva creduto di trovare nel giovane Al-

1 U. Saba, Prefazione a F. Almansi, Poesie, Firenze, Fussi, 1948, ora in U. Saba, Prose, cit., p. 676-686.

2 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 255 (Autobiografia 13).3 U. Saba, Prefazione a F. Almansi, Poesie, cit., ora in U. Saba,

Prose, cit., p. 682.

mansi chi fosse disposto a lasciarsi guidare nella vita e nell'arte da lui, il giovane a cui la sua dolorosa esperienza fosse utile e necessaria, "il bimbo / che, al fine tu lo salvi, fiducioso / mette la sua manina nella tua."1. Questa vi-cenda è così traumatica per Saba da costituire il tema centrale delle raccolte Uccelli ed Epigrafe, quest'ultima addirittura pubblicata postuma per precisa volontà del-l'autore, che evidentemente ne sentiva tutto il peso di dolorosa confessione. E, contenuta appunto in questa raccolta, ecco questa Lettera2 di dolce rimprovero al giovane per il suo distacco:

Ti mando, amico, due poesie che sono ultime voci d’uno sulla terra, legate a un filo che la guerra rompere non può, né giovanile il tuo delitto.

Se ti piacque, per noi dattiloscritto sogno mediterraneo, quell’azzurro fascicolo che in dono ti lasciavo partendo, oggi tu, buono, le aggiungi a quelle a Telemaco. In breve, spero, ci rivedremo. Il tuo delitto non è grave: è di avermi un po’ scordato.

Finché giunge la rassegnazione:

Trattenerti, volessi anche, non posso.3

Insomma la ferita prodottasi a causa del distacco col giovane Almansi perdura a lungo nell'animo del vecchio Saba, caratterizzando profondamente i suoi ultimi anni.

Allora, scrivere il romanzo, farne la storia, dolce e amabile, delle piccole avventure e dei primi istinti amorosi di un simpatico ragazzo adolescente, in fondo libero e indi-

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 610 (Vecchio e giovane).2 Ivi, p. 613.3 Ivi, p. 539 (Pettirosso).

pendente, è anche un modo per riconciliarsi con quell'età giovanile sempre vagheggiata ma che gli aveva procurato l'ultima, e forse più cocente, delusione.

Dunque, anche per questo rispetto Ernesto si pre-senta come l'ultimo tentativo di esorcismo; poiché per mez-zo di esso Saba riesce a esternare e a oggettivare nella forma più limpida quanto più gli preme dentro l’animo: l'esperienza e i desideri della giovinezza fusi alle delusioni della vecchiaia; e se ne libera così nell'unico modo a lui consentito, cioè attraverso la poesia.

Tornano comode le parole di Gennaro Savarese, che riescono a includere in un unico significato liberatorio le due istanze compensative che abbiamo visto essere alla base del romanzo di Saba:

Attraverso il romanzo, e più che altro attraverso lo schermo autobiografico sovrapposto al ro-manzo, Saba compiva su di sé l'ennesima opera di liberazione mediante l'arte, si ricon-ciliava con gli adolescenti crudeli, o sentiti tali, dei suoi ultimi anni, quasi riconoscendosi in loro, pensando che anche lui era stato come uno di loro.1

2. Una lettura di Ernesto

Il romanzo si presenta come la storia di un ragazzo adolescente che, attraverso le sue varie e diverse espe-rienze amorose, giunge alla scoperta di sé e della sua vera vocazione artistica2. È quindi la storia di una maturazione e di una educazione, non tanto sentimentale, quanto, più in generale, di un'educazione alla vita. E in questo senso la dolce e area favola di Ernesto, pur nella particolarità e sin-

1 G. Savarese, U. Saba, cit., p. 53.2 Cfr. l'Appendice di U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit.

golarità della vicenda, sta a rappresentare e a simboleg-giare un cammino psicologico che in fondo è di tutti.

Così, l'esperienza omosessuale con “l'uomo” non è determinata solo dalla particolarità di Ernesto di essere privo del padre, il cui amore mancante cerca così di sosti-tuire con quello che gli può dare questo personaggio, già, ai suoi occhi, anziano:

Forse il povero ragazzo non aveva trovato in quella relazione quel po’ di protezione pa-terna, che egli, rimasto più bambino della sua età e virtualmente senza padre (lo zio tutore contava solo per le sberle e il fiorino settima-nale) inconsciamente cercava.1

Ma si determina anche come espressione concreta di quella tendenza e fase omosessuale inconscia che ciascuno, normalmente, durante l'adolescenza attraversa; proprio perché il narcisismo tipico di questa età spinge l'interesse sessuale verso un oggetto amoroso simile a se stessi2.

Questo fatto è ancora più evidente nell’in-namoramento di Ernesto per un suo coetaneo: un inna-moramento molto più intenso e partecipato che non il semplice rapporto sessuale con “l'uomo”, in quanto la maturazione psicologica di Ernesto è ormai tale da non aver più bisogno di un surrogato paterno, bensì di rivolgere il suo amore attivo verso un oggetto esterno, anche se ancora, in definitiva, visto come un diverso e più amabile se stesso. Nello stesso tempo questo primo, vero in-namoramento collabora e prelude alla definitiva chiari-ficazione e maturazione sentimentale e psicologica di Ernesto, che si realizza quando finalmente, in quella parte

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 29.2 Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla sessualità, in Psicoanalisi e

sessualità, 7. ed., Roma, Newton Compton, 1978, in partic. p. 83-85; cfr. anche D. Stafford-Clark, Che cosa ha veramente detto Freud, Roma, Ubaldini, 1967, in partic. p. 75-96.

del romanzo non scritta, si innamorerà di una ragazza1.Dunque, l'esito finale a cui tendeva questo lento,

progressivo, a volte contraddittorio processo psicologico di maturazione del giovane Ernesto, Saba non è riuscito a raccontarcelo. Ci ha raccontato però, nei suoi singoli svi-luppi e rivolgimenti questo lungo e faticoso cammino per staccarsi dall’infanzia e dalla sudditanza alla madre, ad essa congiunta, e giungere così alla maturità e alla in-dipendenza proprie di un uomo adulto.

A questo proposito possiamo dire che il centro del romanzo è costituito dal terzo episodio, dove appunto si riscontrano diversi segnali del progressivo distacco di Ernesto dalla madre e dalla propria infanzia, a cui è legato anche il rapporto con “l'uomo”.

Già un primo, quasi nascosto, segnale di tale distac-co di Ernesto dal suo vecchio mondo infantile si trova nel finale del secondo episodio, quando con la verga che “l'uomo” aveva portato per punirlo, Ernesto colpisce il suo amante-padre, e poi “fece la bacchetta a pezzi, che buttò lontano, come, tempo prima, aveva buttati i frammenti del cartello attaccato al sacco di farina doppio zero”2. Ora, la verga, nella simbologia dell'inconscio, è un attributo della madre persecutrice3, e tale, in fondo, è l’immagine che Ernesto, ma soprattutto Saba, ha della propria madre, in quanto,

L'angoscia deriva dalla madre, cioè dal de-siderio nostalgico - che si oppone all'adat-tamento alla realtà - di far ritorno alla madre. In questo modo la madre diventa apparentemente una perfida persecutrice.4

Rappresenta, cioè, l'ostacolo ad una piena matura-

1 Cfr. la lettera alla figlia Linuccia del 25 luglio 1953, U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 147-149.

2 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 48.3 Cfr. C.G. Jung, La libido. Simboli e trasformazioni (trad. di G. Man-

cuso), Roma, Newton Compton, 1975, p. 322.4 Ivi, p. 268.

zione, poiché è il polo d'attrazione a cui costantemente si cerca di ritornare. Quindi Ernesto, spezzando questo at-tributo della madre persecutrice, compie già un piccolo passo verso la nuova vita.

Questi passi si fanno più evidenti e decisi nel pro-sieguo del romanzo. L’episodio del primo, non voluto, taglio di barba rientra in quest'ambito di eventi che deter-minano il definitivo abbandono da parte di Ernesto della prospettiva infantile, e produce a catena tutti gli altri. Infatti durante l'operazione di rasatura Ernesto pensa a “l'uomo”:

Gli passò per la mente - un attimo - l'uomo; lo vide, lontano, come se piangesse.1

“L'uomo” è ormai lontano, perché la barba significa che Ernesto non è più un amabile fanciullo, che può per-mettersi anche di vivere delle esperienze fuori del normale, ma è diventato un uomo maturo. Questa sensazione di-viene certezza al rientro a casa:

<<Mama, Bernardo me ga fata la barba,>> disse, come la donna gli aperse la porta. E lo disse col tono con cui avrebbe annunciata una grande sventura che gli sarebbe occorsa. La madre, che non capì l'angoscia del figlio, non pensò né di dirgli una parola di augurio, né - meglio ancora - di dargli un bacio sulla guancia rasata per la prima volta.

<<Hai l'età, - disse, - che ai giovanotti incomincia a crescere la barba. Bernardo ha fatto bene a tagliartela. Fa' vedere…>>.

La parola <<giovanotto>> finì di urtare e disperare Ernesto. Quando aveva tredici-quattordici anni desiderava molto di essere, di passare per un uomo fatto, e tormentava sua madre perché gli comperasse un gilé (come lo aveva a scuola il suo compagno di

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 58.

banco); ora invece era contento se, leggendo la cronaca dei giornali, un giovane della sua età era chiamato ancora un ragazzo. Così, se sua madre, invece di dire <<giovanotti>> avesse detto <<ragazzi>>, le avrebbe perdo-nata la sua prima incomprensione.1

Questa prima rasatura è così traumatica per Er-nesto perché lo pone bruscamente di fronte alla realtà, che egli ancora non vuol riconoscere; gli fa capire che l’infanzia è ormai definitivamente passata, ed egli si avvia verso un'età non più spensierata, non più affrontabile sotto l'ala protettiva della famiglia. E il comportamento della madre, così distaccato e non rassicurante, accentua questa sen-sazione di rottura.

Siamo praticamente di fronte al trauma della tran-sizione dall'età infantile all'età matura, che abbiamo già riscontrato come fulcro del racconto La gallina. Infatti, co-me la madre di Ernesto non comprendendo l'angoscia, per lei ingiustificata, del figlio, lo distanzia da sé, ponendolo solo con la sua angoscia e solo di fronte al mondo; così la madre di Odone, più drammaticamente, uccidendo la gal-lina determina la frattura definitiva con il figlio.

Il racconto termina a questo punto, con la con-statazione di questa frattura; ma, data la personalità di Odone, così introversa e legata all'infanzia, lascia pre-sumere, a causa di questo traumatico distacco dal 'grembo materno', un enorme conflitto interiore in questo perso-naggio, per certi aspetti molto più aderente alla psicologia di Saba di quanto non lo sia Ernesto.

Infatti Ernesto, che rappresenta l'altra faccia di Saba, quello che egli avrebbe voluto essere, non si macera a lungo sulle sue disgrazie, ma decide ed agisce verso l'esterno, accettando e sancendo per parte sua la rottura con la madre:

1 Ivi, p. 58-59.

<<Se mi sverginassi, oggi, adesso, subito!>> fu la conclusione a cui giunsero le meditazioni e le malinconie di Ernesto. Aveva dimenticata la promessa fatta a se stesso di non andare dalle donne prima dei diciotto-diciannove anni com-piuti.1

Tale decisione ha tutto il sapore di un’iniziazione a una nuova vita, alla piena maturità; che Ernesto già da tempo presentiva si dovesse sancire con l’amplesso con una donna, e che ora anticipa drasticamente, perché la prima rasatura e l'atteggiamento della madre lo hanno convinto di non poter più contare su di essa in modo assoluto, e quindi di dover anticipatamente raggiungere la maturità e l'indipendenza.

L'incontro con la prostituta si presenta in questo senso come un vero e proprio reimmergersi nel grembo materno per una nuova nascita. Già la figura della pro-stituta, non molto giovane e "con repressi istinti materni"2, manifestati in tutto il suo atteggiamento di estrema sim-patia e quasi amore verso il giovanissimo cliente, sembra la più adatta a simboleggiare una madre. Per di più determinate circostanze inducono in Ernesto il ricordo del-l’amata balia dell’infanzia, “la sua <<seconda madre>>”3 e “madre di gioia”4, quindi ancora più adatta ad un atto di totale rigenerazione. Ecco come viene descritto da Saba il momento dell'amplesso:

Ernesto provò un grande piacere, ma che non gli riuscì nuovo. Gli parve di averlo provato già altre volte, di saperlo da sempre, da prima ancora della sua nascita. Si sentiva come un uomo che, dopo un viaggio avventuroso, ritorna alla sua casa, di cui conosce e ritrova tutto: la collocazione dei mobili, i ripostigli, ogni cosa

1 Ivi, p. 60.2 Ivi, p. 64.3 Ibid.4 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 434 (Nutrice).

insomma.1

È proprio un “tornar nel buio dell'alvo materno”,2

dove ci si ritrova sicuri e protetti, come nella propria casa. E il paragone del ritorno a casa “dopo un viaggio av-venturoso” lo abbiamo già trovato nella lirica Poesia, intesa appunto come un porto familiare e sicuro in cui rifugiarsi dai mali della vita. La presente concordanza viene dunque a testimoniare, ancora una volta, l’esattezza di quanto afferma Debenedetti nel saggio Saba e il grembo della poesia3: la poesia è per Saba come un grembo materno, che lo protegge e lo rigenera.

Tale rigenerazione, evidente nel finale di Poesia,

Tornaegli alla strada, anche la strada è un’altra.Il tempo al bello si è rimesso, i ghiaccispezzano mani operose, il celesterispunta in cielo e nel suo cuore. E pensa che ogni estremo di mali un bene annunci.4

È in fondo la conseguenza anche dell’amplesso con la prostituta, per quanto riguarda Ernesto. Uscito dalla casa della prostituta, Ernesto, fortemente assetato, si avvicina ad una fontanella pubblica attorniata da numerose donne, per lo più ragazze, in attesa di prendere l’acqua:

Dovette, per bere a garganella, piegare in due la persona: quell'atto suscitò in lui, per la posizione del corpo, un ricordo importuno. In quel punto, udì intorno a sé delle risa.

<<Le sa tuto, - pensò, - le sa de l’omo, le sa de che logo che vegno: devo aver scrito in faccia qualcossa de strano; e xe per questo che

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 67.2 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 299 (La vetrina).3 G . Debenedetti, U. Saba e il grembo della poesia, in Intermezzo,

cit.4 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 427.

le ridi de mi>>. Smise di bere, prima ancora di aver estinta interamente la sete, e si allontanò arrossendo. Il suo turbamento era così grande che non si accorse che quasi tutte le donne che ridevano (non di lui, ma per lui) erano molto giovani; alcune anche assai carine. Fissavano Ernesto, che teneva gli occhi a terra, e cercava di allontanarsi il più presto possibile dalla disgraziata fontanella.

Ernesto si giudicava male. Non c’era nulla nella sua persona che potesse suscitare il riso: nulla poi di effeminato. Le giovani donne rideva-no perché avevano circa la stessa età di Er-nesto, e nessun altro modo per attirarsi una sua occhiata. Non ce ne era forse una che non avrebbe accettato per buono un complimento; custodito in cuore, per qualche giorno o qualche ora, un, anche minimo, segno di attenzione.1

Questo episodio mostra come Ernesto, dopo aver fatto per la prima volta l'amore con una donna, sia un ra-gazzo diverso, che si sta allontanando da quel fanciullo che era: attaccato alla madre e all'immagine paterna rap-presentata da “l'uomo”; ed è tale ormai da suscitare l'at-tenzione amorosa di alcune ragazze, sue coetanee. La stessa immagine finale di Ernesto che si allontana ac-compagnato dal riso benevolo e accattivante delle ra-gazze, sembra voler evidenziare il fatto che Ernesto si di-rige ormai verso una nuova vita: caratterizzata, non più dai rapporti con la madre e “l’uomo”, ma dall'amore prima verso il giovane Ilio, e poi verso una ragazza.

Tale episodio è già raccontato da Saba in una poesia giovanile, presente, in due versioni completamente diverse, nelle Poesie2 del 1911 e nel primo Canzoniere3

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 70.2 U. Saba, Poesie, Firenze, Casa Editrice Italiane, 1911, p. 23-28

(Intorno ad una fontana).3 U. Saba, Il Canzoniere, Trieste, Libreria antica e

del 1921, e in seguito esclusa dal corpus definitivo del Canzoniere.

Versione 1911:

E gli anni passavano: e a l’istesseusanze che allietavano il fanciullo, volle un giorno tornare il giovinetto; né invano: che da quelle altro diletto s'ebbe: vedersi d’ogni intorno belle forse no, ma procacigiovani; alcune con sul capo secchie d’acqua, che ad ogni scossa de la persona, o mossa dei fianchi ne spandevano una pioggia. Ed una sera, che sentì di quella pioggia tutto ammollarsi, l'improvviso brivido che lo colse, non fu solo di freddo, fu il sospetto de la beffa, onde pallido si volse; e più pallido ancora e più infelice stette vedendo il maledetto riso de la sua beffatrice; stette convinto al tutto che non uno di lui più triste e brutto ci fosse tra la gente.1

Versione 1921:

Ma una sera (or ne ridel'anima sua, pur ne sofferse allora), una sera dolcissima (e più ancora nel ricordo) sentì egli, non vide, che di giovani ritte sulle sogliedelle case, o ciancianti ove le foglielarghe d'un fico ombreggiano i lor colmi secchi, le loro colme anfore in testa,

moderna, 1921, p. 34-35 (La fonte).1 U. Saba, Poesie, cit., p. 25-26.

tutti gli sguardi eran per lui: d'un tratto un fremito provò, come a contatto indicibile, e più non bevve, il rossosangue tutto fuggì dalla sua faccia.Suonò beffardo il corodelle giovani risa a quel pallore,pur fu guardato amorosamente.1

Già nel passaggio dall'una all’altra versione poetica si nota un totale cambiamento di clima. La prima versione più vicina nel tempo al verificarsi reale di quella situazione, risente profondamente della vergogna e del dramma real-mente patiti a causa di quel “maledetto riso”; termine che mostra chiaramente l’atmosfera, in fondo dolorosa, che ca-ratterizza questa poesia. Nella seconda versione invece, a distanza di dieci anni, il ricordo ha addolcito le sensazioni negative allora provate, così “il maledetto riso” si è tra-sformato in “giovani risa”, che danno pienamente Il senso del clima diverso, più umanamente caldo e sereno, di que-sta versione; ancora più chiaramente espresso da quel “pur fu guardato amorosamente”, che pone l’episodio non più tra gli eventi dolorosi della vita di Saba, ma tra quelli lieti e sostanziati d’amore. In seguito, inserito in un roman-zo fatto totalmente di leggerezza e di innocenza ecco che anche questo episodio si immerge in un’atmosfera quasi di sogno, lieta, e perfino ironica nei confronti del giovane Ernesto, che non comprende l’atto di amore che quelle ragazze gli rivolgono.

Ancora una volta verifichiamo come la biografia sia per Saba lo spunto primario per la sua arte; non nel senso di una riproduzione dell’evento reale, bensì nel senso di una ricreazione continua e sempre feconda, tale da con-cretizzarsi, in questo caso, in tre prodotti artistici com-pletamente diversi. Infatti Saba è in grado di ripresentare lo stesso dato di fatto, di volta in volta sotto diverse luci e diverse sensazioni, seguendo passo passo la sua evoluzione artistica con la sua evoluzione di uomo. Così

1 U. Saba, Il Canzoniere (1921), cit., p. 35.

vediamo che un sentimento di frustrazione e di dolore gli si trasforma con gli anni e attraverso successive elaborazioni artistiche, in una situazione piena di levità e di amore.

Questo conferma ulteriormente la funzione tera-peutica e liberatoria che l’arte ha per Saba, e, in par-ticolare, il ruolo di magico esorcismo che abbiamo visto costituire l'essenza di Ernesto, proprio in quanto rivi-sitazione e rielaborazione fantastica di una realtà estre-mamente dolorosa e angosciosa.

Le basi e i segnali del distacco e dell'allontana-mento di Ernesto dal proprio mondo infantile, fin qui posti, si concretizzano definitivamente nel quarto episodio, con la sofferta confessione alla madre. Con questo atto Ernesto si libera in un sol colpo de “l'uomo” e del signor Wilder, poiché, essendosi licenziato dall'impiego, non li rivedrà più; ma così si libera anche dell'immagine paterna che vede in loro, e che è ormai divenuta inutile e limitativa per la sua psicologia fattasi più matura.

Contemporaneamente, confessandole i suoi 'pec-cati’, Ernesto si libera anche della sudditanza nei confronti della madre. Raccontandole quei fatti, comunemente ri-tenuti scabrosi e immorali, di cui era stato protagonista, supera quel timore che ancora nutre verso sua madre, che "era una donna dura, e non sapeva, il più delle volte, comprenderlo"1; e supera altresì quei sensi di colpa infantili che fanno vedere nella madre quasi una figura espiatoria delle proprie azioni e delle proprie colpe:

Temeva di averle inferto un colpo mortale, di vederla, da un momento all'altro stramazzare dalla sedia, morta per colpa sua... Se non fosse stato egli stesso così turbato, avrebbe visto che le sue parole avevano procurato invece a sua madre un senso quasi di sollievo. Dall'agi-tazione del figlio attendeva anche peggio...2

1 U. Saba, Ernesto, 3. ed., cit., p. 111.2 Ivi, p. 114.

Ma soprattutto è confessando di aver già fatto l'amore con una donna che Ernesto si libera defini-tivamente di quel rapporto di tipo incestuoso che l'incon-scio del bambino instaura con la madre:

<<No son una putela, - protestò Ernesto, son anche sta una volta da una dona.>> (…)

Questa seconda confessione - colla quale Ernesto credeva forse di lavarsi dalla prima - ferì più profondamente l'anima gelosa di sua madre. (...)

<<Ma io, - disse, - che ti credevo ancora innocente come un colombino.>>

Dal letto di ottone le rispose il gemito di un uomo pugnalato.1

È quasi un secondo taglio del cordone ombelicale. Ormai Ernesto ha chiuso i conti con l'infanzia e con le fi-gure che ad essa presiedono, il padre e la madre, e si avvia a diventare un uomo maturo, sperimentando nuovi e diversi amori.

Con questa confessione praticamente termina la prima parte del romanzo. Della seconda Saba non ha scritto che il primo incontro con Ilio. Anche queste poche pagine sono però bellissime, e in esse si accentua quell’aura di sogno e di favola che permea tutto il romanzo.

Ilio sembra presentarsi come un dio o un magico folletto, che appare, sparisce, riappare quasi misteriosa-mente, manovrato dal destino, che gioca con Ernesto per farlo maturare attraverso nuove esperienze. E tanto più Ilio sembra un personaggio da favola, in quanto si identifica, agli occhi di Ernesto, con quel ragazzo di cui aveva letto nelle Mille e una notte:

Quello strano, quel meraviglioso fanciullo era - comunque si chiamasse allora e a Trieste - il figlio del pasticcere di Bagdad (o di Bassora),

1 Ivi, p. 117.

quello che aggradiva, sì, l'offerta di uno, anche due, sorbetti; ma, rifiutando le carezze dell’of-ferente, gli intimava, allontanandolo col gesto: <<Restate tranquillo al vostro posto. Accon-tentatevi di guardarmi e di servirmi>>.1

Allora l'amore che Ernesto prova verso questo ragazzo così “sicuro di sé …, superbo addirittura”2, è ancora un amore di tipo narcisistico, poiché vede in lui quello che egli avrebbe voluto essere: un fanciullo ancora coccolato, ancora legato ai genitori, ancora infantile:

<<Guarda, - continuava a tormentarsi, - come veste! Tanto i suoi genitori l'hanno caro che vorrebbero conservarlo sempre fanciullo e non si decidono ancora a metterlo in calzoni lun-ghi>>. (…) <<Devono tenerlo ben custodito ben vicino a loro, il più vicino possibile ... come la rosa al naso>>.3

In sostanza Ernesto si innamora di Ilio perché lo vede ancora come un fanciullo innocente, venerato e pro-tetto dai genitori; praticamente ama in lui l'infanzia, l'idea che si era costruita dell’infanzia, e cerca così di rimanervi ancora attaccato, poiché sa di aver ormai completamente abbandonato la sua infanzia reale con quella drammatica confessione.

In definitiva l'amore che Ernesto porta verso Ilio è ancora un amore rivolto a se stesso, al se stesso sempre sognato e immaginato, identificato nel "figlio del pasticciere di Bagdad (o di Bassora)", e ora scoperto vivo e reale davanti ai propri occhi. E infatti il primo moto dell'anima che quella stupenda visione suscita in Ernesto è invidia,

Non un’invidia cattiva (che vuol togliere per il

1 Ivi, p. 130.2 Ibid.3 Ivi, p. 127.

solo piacere di togliere), ma nata dal desiderio altrettanto appassionato quanto disperato, di assomigliare al proprio oggetto.1

E l’amore, in Ernesto, scatta appunto perché Ilio è

…il meraviglioso fanciullo, che, non potendo essere, si sarebbe accontentato di avere.2

Si tratta insomma ancora di un amore sostan-zialmente infantile, perché frutto di una identificazione con l’oggetto amato. Ma già siamo sulla strada buona per una completa e naturale maturazione psicologica di Ernesto, che progressivamente avrebbe dovuto culminare in un amore più vero e reale verso una ragazza.

Purtroppo Saba non è riuscito a terminare il ro-manzo, che si chiude così con questo incontro e questa identificazione di Ernesto con Ilio. La quale tuttavia, trova-ndosi anche all'interno della struttura del racconto, ci fa ancora più certi della nostra ipotesi: Saba compie un ana-logo transfert nei confronti del suo protagonista, crea con la sua fantasia, ancora una volta e nella maniera più chiara, completa e definitiva quel "bel ‘fanciullo imperioso’ che Saba avrebbe voluto essere stato”3.

3. Ernesto personaggio-uomo

La lettura di Ernesto che abbiamo proposto e tutta l’interpretazione ad essa sottesa, ci riconducono alle fini analisi di Debenedetti riguardanti la poesia di Saba. In esse, infatti, troviamo una linea interpretativa dell'arte di Saba ancora profondamente rispecchiata in quest'ultimo suo capolavoro.

Innanzi tutto abbiamo visto come anche il romanzo

1 Ivi, p. 126-127.2 Ivi, p. 129.3 U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere, in Prose, cit., p. 605.

svolga quella funzione compensativa e terapeutica nei confronti dell'amara realtà biografica che Debenedetti ri-scontra nella poesia di Saba fin dal suo primo intervento critico su di lui:

Le qualità di aperto candore, di fedeltà autobio-grafica e perfino l'opinione in cui la poesia è tenuta: di attività meravigliosa ed atta a far salvi, per vie nascoste, da ogni mortificazione che la dura vita infligga - si riproducono presso di lui come atmosfera elettiva del poetare.1

Proprio perché qui tutto il discorso di Debenedetti è incentrato sulla precisa aderenza dei temi della poesia di Saba ai temi della sua vita, egli vi scopre un modo per lenire e addolcire col canto quei dolori e quelle angosce che la vita ha costantemente inflitto a Saba. Tanto più que-sto meccanismo esorcistico si ritrova in Ernesto, dove Sa-ba si guarda non solo attraverso la propria vita vissuta, ma soprattutto attraverso i propri sogni e i propri miti.

La consolazione dei miti è di accomunarci col-l'eroe, redimendoci dall'angustia della nostra sorte personale2

Ernesto è proprio un eroe mitologico, di quella mito-logia tutta personale che Saba si è costruita nella propria psiche, l'eroe di un'adolescenza vissuta all'insegna della libertà e della spregiudicatezza, l’eroe con il quale, “per re-dimersi dall'angustia della propria sorte personale”, Saba si identifica e attraverso il quale si piace e si ama.

Ernesto rappresenta così un nuovo e più completo atto di quella “compensazione narcisistica” che già costi-tuiva una premessa della poesia sabiana:

1 G. Debenedetti, La poesia di Saba, in Saggi critici (I serie), cit., p. 112.

2 G. Debenedetti, U. Saba e il grembo della Poesia, in Intermezzo, cit., p. 44.

Più autentico, più coerente con le idee di Saba sulla poesia e sulla propria sorte e con-formazione di poeta era, semmai, che la poesia fosse un narcisistico amore di se stessi: la via attraverso la quale il poeta poteva finalmente ar-rivare a piacersi, ad amarsi, almeno come po-eta, dopo tutte le delusioni e le smentite in-flit-tegli dalla vita. La poesia, insomma, come com-pensazione narcisistica.1

D'altra parte il personaggio di Ernesto non vive solo di questa dimensione biografica ed esistenziale, che ne fa la rappresentazione oggettiva "di quella vita, che l'autore ha sognata o desiderata o presentita per sé”2, ma che non è riuscito a concretizzare nell’ambito della realtà vissuta.

In effetti la sua dimensione è anche quella di un personaggio che ha una sua personale coerenza e autonomia proprio in quanto prodotto artistico. In sostan-za, con la creazione di questo personaggio Saba esplica ancora più compiutamente la sua capacità di rappre-sentare figure e ambienti, che già Debenedetti ha trovato a fondamento della sua poesia,3 dove appunto frequenti sono questi personaggi, che hanno sì valore di simbolo psichico, ma mantengono pur sempre le loro qualità più oggettive e figurative prese dalla vita.

In questo senso il valore di questi personaggi e di Ernesto in particolare, ultimo e più perfetto rappresentante delle figure create da Saba, è molto più complesso e uni-versale. Questo perché,

…quei personaggi Saba li trova, li conosce, li riconosce, li accetta nei momenti in cui la loro cronaca, pure attaccata alle proprie determi-nazioni documentarie e di fatto, acquista una

1 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 135-136.2 G. Debenedetti, Per Saba ancora, in Saggi critici (I serie), cit., p.

169.3 Cfr. il 2. saggio: Saba e Debenedetti: il poeta e il suo critico.

portata - per così dire - esemplare: il fatto per-sonale, o l’intima ripercussione del fatto per-sonale, diventa un fatto di tutti.1

E infatti così, a proposito del poemetto L’Uomo, che nell'ambito della poesia è il tentativo più esplicito di creare un personaggio complesso e a tutto tondo, ancora si espri-me Debenedetti:

Ma se quest'uomo è sentito come l'Uomo, allora il suo destino si innalza a diventare il simbolo lirico del destino di tutti... 2

E tale risultato viene raggiunto in quanto,

Sulla vita di quel suo personaggio Saba operò come sempre aveva fatto anche sulla propria vita per ottenere i vari episodi del Canzoniere. Controllò se nel flusso dei giorni si potessero condensare alcune situazioni tipiche, prover-biali, quasi emblematiche …3

Questo è lo stesso procedimento che Saba adopera in Ernesto, per tratteggiare il cammino di maturazione psicologica del suo protagonista, narrando ed eviden-ziando appunto quei momenti fondamentali e tipici, che caratterizzano l'evoluzione psicologica dal mondo infantile alla piena maturità e identità di uomo.

E il personaggio, pur con le sue specifiche carat-teristiche, si universalizza, proprio perché la sua storia è la storia di tutti: quell'allontanarsi dall'infanzia, dall'attac-camento alla madre, la grande battaglia che ognuno deve vincere all'interno di sé per maturare compiutamente da un punto di vista psichico.

Ma anche le tappe per giungere alla meta finale di 1 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 130.2 G. Debenedetti, Per Saba ancora, in Saggi critici (I serie), cit., p.

167.3 G. Debenedetti, Ultime cose su Saba, in Intermezzo, cit., p. 65.

questo viaggio esistenziale, apparentemente così originali e inusitate, non sono, in fondo, che l’oggettivazione e la rappresentazione drammaturgica dei processi psichici che si muovono nell’inconscio di ogni adolescente.

Così l’esperienza omosessuale, da Ernesto vissuta realmente, è in effetti il primo stimolo sessuale della libido adolescenziale, che cerca per la prima volta di estrover-tersi all’infuori di sé e dei rapporti con la madre. Così il primo amplesso con una donna rappresenta una sorta di ritorno nel grembo materno, per una seconda e più vitale nascita. Nello stesso tempo è la vittoria sul desiderio ince-stuoso che alberga nell'inconscio del bambino; vittoria che apre le porte al definitivo e liberatorio distacco dalla madre, e all’avventura umana matura e responsabile.

In definitiva Saba continua ancora a guardare il mondo dal “versante psichico”1, confermando di nuovo quanto Debenedetti afferma a proposito della sua poesia:

Che Saba abbia preso fuoco per Freud, non fa meraviglia. Freud arrivava a dar ragione teorica-mente, scientificamente e in universale a quello che era sempre stato il postulato, il punto di partenza di Saba poeta: i rapporti col mondo oggettivo sono un fatto psicologico o, per meglio dire, psichico.2

E Saba raggiunge qui, con il romanzo, fatto di am-bienti vivi e reali, fatto di personaggi concreti, palpabili, la piena determinazione di tale “postulato” della sua poesia:

Veduto così il mondo, il rapporto col mondo dal versante psichico, Saba non ha cercato, o per meglio dire: istintivamente non ha trovato al sentimento soggettivo che gliene derivava un'immagine puramente lirica, insomma un'im-magine che cercasse di afferrare direttamente

1 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 159.2 Ivi, p. 157.

l’essenza di quel sentimento; ha trovato invece una scenografia e su quella scenografia ha mosso i personaggi drammatici...1

Appunto questi personaggi si muovono ora, nella struttura romanzesca di Ernesto, in modo più continuo, generando una storia fatta di quelle situazioni e di quelle pulsioni che in genere si producono solo a livello inconscio, e che Ernesto invece vive e realizza concretamente.

In questo senso, rappresentando e visualizzando quello che è il destino psicologico e psichico di tutti, Ernesto rientra in quella felice classificazione di Debe-nedetti di personaggio-uomo:

CHIAMO PERSONAGGIO-UOMO quell’alter-ego, nemico o vicario, che in decine di migliaia di esemplari tutti diversi tra loro, ci viene incontro dai romanzi e adesso anche dai films. (... ) Se gli chiediamo di farsi conoscere, come capita coi poliziotti in borghese, gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è insieme il suo motto araldico: si tratta anche di te.2

Si tratta insomma dell'eroe dei romanzi, dei films, dei drammi, che esemplifica ed esprime la nostra vita, il nostro destino. Egli vive però solo in un mondo ancora spiegabile per cause ed effetti, ancora rappresentabile in quella “epica della realtà” in cui,

...noi vediamo il personaggio muoversi in mezzo a un mondo con cui c'è ancora la possibilità di una intesa reciproca. In quest'epica della realtà il personaggio è ancora assistito da qualche

1 Ivi, p. 166.2 G. Debenedetti, Commemorazione provvisoria del personaggio-

uomo, in “Paragone” dic. 1965, ora in Il personaggio-uomo, Milano, Il Saggiatore, 1970, p. 13; cfr. anche gli altri saggi presenti nel volume.

cosa, se non altro dalla fiducia in un collega-mento tra sé e il mondo. Quello che gli suc-cede, si produrrà dunque come qualche cosa di spiegabile.1

Questo "collegamento tra sé e il mondo", questa spiegabilità della vita, che nella realtà contemporanea De-benedetti vede perduta, a favore di un destino e di una esistenza sentiti ormai come assurdi e mossi dal caso, Saba li ritrova nella sua fede nella dottrina freudiana. La quale appunto,

È un tentativo di visibilizzare, o quanto meno di rappresentare in concreto l'invisibile. È un atto di fede nella piena, vicendevole spiegabilità tra l'io e il mondo.2

Saba, allora, si appropria di questa dottrina, la fa sua, e dopo averne sostanziato la sua poesia, la quale appunto “non si spiega mai del tutto, senza riferirsi narrativamente alle situazioni che presuppone, senza tuf-farsi tra i germi e le impurità del loro liquor psicologico”3; con il romanzo cerca, e riesce, in modo ancora più esplicito di “rappresentare in concreto l’invisibile”, il mondo inconscio che ha le sue leggi volte a spiegare anche la vita di superficie. E infatti,

Se dallo stato d’animo Freud, se dalla mentalità Freud fosse uscita direttamente un'epica, sareb-be stata ancora un'epica della realtà.4

1 G. Debenedetti, Personaggi e destino, in “Janus Pannonius” ott.-dic. 1947, ora in Saggi critici (III serie), Milano, Il Saggiatore, 1959, p. 140.

2 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, cit., p. 156.3 G. Debenedetti, La sua quinta stagione, in Intermezzo, cit., p. 87-

88.4 G. Debenedetti, Personaggi e destino, in Saggi critici (III serie), cit.,

p. 152.

È quanto fa Saba, che costruisce il suo romanzo con la “mentalità Freud”, facendone così un romanzo dove tutto, attraverso le leggi della psicoanalisi, si spiega, dove ogni evento è consequenziario all'altro, in una catena di cause ed effetti che situano Ernesto in quella “epica della realtà” di cui parla Debenedetti; poiché il romanzo di Saba è ancora al di là - o al di qua? in una prospettiva di superamento, - di quella crisi che tale epica ha vissuto, e in parte ancora vive, soppiantata da una “epica dell’esi-stenza”1, specchio di un mondo assurdo e inconoscibile.

Saba invece concepisce Ernesto ancora come il personaggo-uomo che, vivendo le sue singolari esperienze, si rivolge al lettore, occasionale e spesso disattento, e gli dice: “si tratta anche di te”. Mantiene così fede al “più giusto impulso per cui un uomo si mette a in-ventare storie di uomini e le racconta ad altri uomini. Per cavarne, cioè, e comunicare quelle illuminazioni sul de-stino che sole fanno catarsi nei miti, nei romanzi, nei drammi”2.

E infatti l’arte come catarsi, come esorcismo, è ciò che dà il senso e la misura di tutta l’arte sabiana. Volta in tutte le sue determinazioni concrete, siano esse poesie liriche o poesia in forma di romanzo, a consolare, a li-berare Saba dalle frustrazioni della sua personale esi-stenza; ma nello stesso tempo volta ad assolvere questo ufficio terapeutico anche nell’animo di tutti coloro i quali vengono in contatto con questa poesia, poiché vi ritrovano il proprio destino di uomini.

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POESIA IN TRE STATI: DA LEOPARDI A SABA*

Primo stato

Entro dipinta gabbiafra l'ozio ed il diletto educavasi un tenero amabile augelletto.

A lui dentro i tersissimi bicchieri s’infondea fresc’acqua, e il biondo miglio pronto a sue voglie avea.

Pur de la gabbia l'uscio avendo un giorno aperto, spiegò fuor d'essa un languido volo non bene esperto.

Ma quando a lui s’offersero gli arbori verdeggianti e i prati erbosi e i limpidi ruscelli tremolanti,

de l'abbondanza immemore, e de l'usato albergo, l'ali scotendo, volsegli lieto e giocondo, il tergo.

Di libertà l'amoreregna in un giovin core

Recanati, 1811

Secondo stato

* Pubblicato in “La rassegna della letteratura italiana”, n. 1-2, gen.-ago. 1984, p. 226-232.

Entro dipinta gabbia, nell'ozio e nel diletto ,era educato un tenero amabile uccelletto.

Fresc’acqua a lui nei tersi bicchieri s’infondeva;e il biondo miglio prontosempre, a sua voglia, aveva.

Pur della gabbia l'uscioTrovando un giorno aperto,fuori spiegava un languido volo non bene esperto.

Ma quando a lui s'offerseroalberi verdeggiantie i prati erbosi e i limpidiruscelli mormoranti,

dell'abbondanza immemore, e dell’usato albergo, l'ali scotendo, a quellovolse, giocondo, il tergo.

Di libertà l’amoreregna in giovane cuore.

Trieste, maggio 1951

Terzo stato

Entro dipinta gabbia, dei fanciulli a diletto, era educato un tenero e feroce uccelletto.

94

Candida mano in tersi bicchieri rinnovava l’acqua; egli il biondo miglio a sua voglia tritava.

Pur della gabbia un giornol'uscio - o fu il Caso? - aperto: l'ali spiegava a un languido volo non bene esperto.

Ma come a lui s'offerseroalberi verdeggianti,gli erbosi prati, i limpidiruscelli sottostanti,

dell'abbondanza immemore, e del fidato albergo, lena riprese, e a quello volse, per sempre, il tergo.

Di libertà l’amoreregna ai fringuelli in cuore.1

Trieste, luglio 1951

Questo “gioco”, come lo chiama Saba, della Poesia in tre stati, dietro la sua apparenza di innocente esercizio poetico nasconde un sincero dramma della vita di Saba, ancora una volta trasposto e sublimato in poesia. Teniamo presenti le date delle ultime raccolte poetiche di Saba: 1948, Uccelli ed Epigrafe, originariamente facenti parte di una stessa raccolta; 1951, Quasi un racconto e Poesia in tre stati. Sono tutte ricollegabili alla identica humus biogra-fica, che caratterizza gli ultimi anni del poeta triestino; solo ne rappresentano la diversa espressione: l’una più cruda, e amara, l’altra ormai rassegnata e. appunto, giocosa.

1 U. Saba, Poesia in tre stati, in “Archi”, n. 5-6, 1951, ora in U. Saba, Prose, cit., p. 849-855.

95

Come giustamente fa notare il Debenedetti1 la chiave di questo dramma “familiare” è fornita dalle poesie di Epigrafe e in particolare da Vecchio e giovane2. Il vecchio Saba ha trovato nel giovane amico e poeta Federico Almansi il suo Telemaco, “giovane stornello in cui ponevo / qualche speranza d’avvenire”3, “il bimbo / che, al fine tu lo salvi, fiducioso / mette la sua mano nella tua”4. Ma proprio Vecchio e giovane testimonia di come questo esorcismo, voler addossare al giovane le esigenze del vec-chio, fallisce, perché il giovane si rifiuta a questo senti-mento di protezione, per affrontare da solo le proprie esperienze di vita. Ecco allora il dolce rimprovero di Let-tera: “Il tuo delitto / non è grave: è di avermi un po’ scordato”5 finché giunge la rassegnazione: “Trattenerti, volessi anche, non posso”6. Ecco quindi che letta in questa chiave anche la raccolta Uccelli assume tutt’altro signifi-cato e spessore:

Queste poesie sono un discorso a un interlocutore, poi cancellato. La benignità dei piccoli alati è una sorridente, vendicativa rampo-gna al giovane. Pur con le loro ali, essi non sfuggono al replicarsi quotidiano dell’esorcismo. Mostrano, in una vivente allegoria, l’esempio del prigioniero che ripaga con un bene chi lo tiene in gabbia per rendergli più sicura la vita, fargli una prigionia più dolce che la libertà7.

1 G. Debenedetti, La quinta stagione di Saba, cit.2 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 610.3 Ivi, p. 524 (Quasi una favola).4 Ivi, p. 610 (Vecchio e giovane). Si veda anche la prefazione di Saba

a F. Almansi, Poesie, Firenze, Fussi, 1948, ora in U. Saba, Prose, cit., p. 676-686; dove traspare chiaramente il sentimento di amore quasi paterno, che Saba manifesta verso il giovane poeta che ha scelto pro-prio lui, Saba, da sempre escluso da tutte le correnti e le scuole più in voga della letteratura italiana contemporanea, a modello delle sue prove poetiche.

5 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 613.6 Ivi, p. 539 (Pettirosso).

96

È l’amarezza di Cielo (“qui tranquillo riposo, dove penso / che ho dato invano”1), o dell’Ornitologo pietoso che dopo aver lasciato libero il suo “rosignolo”, con tanta cura accudito, “si sentì più solo”2, o ancora di Quest’an-no… (“alla mia solitudine le rondini / mancheranno, e ai miei dì tardi l’amore”3), che caratterizza questa raccolta con tutto il suo peso di solitudine, e di nuovo sentimento di amore ormai definitivamente frustrato.

Ma gli anni passano e anche la più cocente ama-rezza si addolcisce un poco, magari mitigata dalla com-pagnia “Di un giovane canarino”4. Siamo a Quasi un rac-conto. Saba ha trovato un po’ di conforto nei suoi piccoli uccelli chiusi in gabbia, ma non dimentica il suo inter-locutore degli ultimi anni, che, cancellato in Uccelli, qui riappare:

Dopo tre anni di silenzio ho scrittopochi versi. Non possomandarli a te, di cui sì cara m’era(mi sarebbe) una lode. (Ignoro l’animocon cui li accoglieresti). Ma trafittomi sento il cuore da una punta acutacome un rimorso5.

E la nostalgia per il giovane amico incrina anche la sicurezza che l’esorcismo, da quello rifiutato, venga vera-mente accettato dai piccoli uccelli:

Con occhi intenti seguono ogni mossadelle mie mani industri a rinnovarela gabbia al novo giorno. Un’ombra appena

7 G. Debenedetti, La quinta stagione di Saba, in Intermezzo, cit., p. 93.

1 U. Saba, Il Canzoniere, cit., p. 540.2 Ivi, p. 543.3 Ivi, p. 545.4 Ivi, p. 569 (Un orientale).5 Ivi, p. 570 (Invio).

d’apprensione superstite, visibileal buon custode. Contentezza provanoche m’occupi di loro, e quella esprimono,se intendo il caro linguaggio, in sommessibrevi trilletti.

Ma forse è umana illusione che ai tettidegli uomini e alle cure sieno paghi.Una gabbia è una gabbia; e in cuore vaghiserbano indistruttibili ricordidelle Canarie, dei natii boschetti1.

La Poesia in tre stati si inserisce in questo clima di forzata rassegnazione e, come vedremo, per la partico-larità delle varianti apportate da Saba, il terzo stato potrebbe addirittura far parte di Uccelli. La morale della favola del giovane Leopardi è fin troppo chiara: egli si sente e vorrebbe essere questo uccello che fugge libero dalla gabbia opprimente di Recanati e della famiglia. E tutto il componimento, con la sua aerea leggerezza, è dalla parte dell’ “amabile augelletto”, che finalmente scopre l’eb-brezza della vita libera, che offre di meglio della tranquillità e della sicurezza di una gabbia, seppur “dipinta”.

Il secondo stato non presenta particolarità di grande interesse: le varianti sabiane sono qui in gran parte ammodernamenti del lessico, come augelletto/uccelletto, arbori/alberi, ecc. È nel terzo stato che la riscrittura di Saba cambia completamente prospettiva all’apologo, visto ora sub specie paternitatis dalla parte di chi cura e custodisce il “feroce uccelletto”.

L’aggettivo “feroce”, che qualifica l’uccello nel terzo stato come variante dell’ “amabile” leopardiano, ci fornisce subito preziose indicazioni, in quanto pone l’accento su una qualità che potremmo definire aggressiva, dell’animale chiuso e protetto in gabbia. Ma ancora più rilevante è che lo stesso aggettivo caratterizza il Pettirosso di Uccelli:

1 Ivi, p. 585 (Nostalgia).

…Come un tempoIl dolce figlio che di me nutrivo,si sente ingordo libero feroce;

e là si sgola1.

“Feroce” apparenta quindi “l’uccelletto” al Pettirosso e, attraverso questi, al “dolce figlio che di me nutrivo”, il giovane che non ha accettato fino in fondo l’affetto pro-tettivo che Saba gli offriva.

Il piccolo animale mostra dunque la sua aggres-sività; ma a chi si rivolge questa aggressività? Ecco allora altre significative varianti sabiane. Nella poesia di Leopardi l’attenzione è tutta accentrata sull’ “amabile augelletto”, da qui la forma impersonale dei verbi delle prime due quar-tine, dove viene descritta la vita tranquilla dell’uccello in gabbia, quando più che agire in proprio è agito da chi lo custodisce.

Entro dipinta gabbiafra l'ozio ed il diletto educavasi un tenero amabile augelletto.

A lui dentro i tersissimi bicchieri s’infondea fresc’acqua, e il biondo miglio pronto a sue voglie avea.

Qui, al di fuori dell’uccello, non ci sono altri soggetti con-creti che agiscono. Vediamo invece come Saba cambia completamente il senso di queste quartine:

Entro dipinta gabbia, dei fanciulli a diletto, era educato un tenero e feroce uccelletto.

1 Ivi, p. 539.

Candida mano in tersi bicchieri rinnovava l’acqua; egli il biondo miglio a sua voglia tritava.

Subito viene introdotta una presenza umana, quella dei fanciulli, quindi l’uccello non è più solo all’interno del quadro, anzi, nella sequenza delle immagini, compare solo in un terzo momento, dopo la gabbia, e dopo i fanciulli. Inoltre la forma passiva “era educato” è ben diversa da quella impersonale “educavasi”, poiché presuppone e sot-tintende un complemento d’agente, qualcuno che si preoc-cupa di educare l’animale; ancora una presenza che invade il campo visivo, e sposta l’attenzione del lettore, che nella versione leopardiana era focalizzata esclusiva-mente sull’uccello. Ancora più esplicita in questo senso è la seconda quartina. Dapprima compare una “candida mano”, che appartiene a persona ben diversa dai fanciulli del secondo verso, poiché appunto è “candida”, innocente, come i fanciulli certamente non sono, poiché si servono dell’uccello solo per il loro “diletto” (e questo è un altro dolce rimprovero di Saba al fanciullo che lo ha abbandonato alla sua vecchiaia). Poi finalmente “egli il biondo miglio / a sua voglia tritava”: come in una sequenza di avvicinamento, prima si era solo avvertita questa pre-senza, poi ne compare un particolare (“candida mano”), e infine ecco “egli”, il soggetto che tanto amorevolmente accudisce il “feroce uccelletto” si mostra compiutamente come persona viva, concreta, che agisce. Allora la fuga del piccolo animale non è più un innocente volo alla scoperta della libertà, ma comporta una sofferenza sentita e pro-fonda in colui che fino a quel momento ha custodito, protetto, e investito di affetto il giovane e inesperto “uc-celletto”. Dunque la versione di Saba non fa che ribadire quella tematica dell’abbandono che costituisce la nota do-minante di Uccelli, a cui ancora una volta direttamente ci richiama proprio l’immagine della mano che nutre l’uccello:

Tra un fanciullo ingabbiato e un insettivoroche i vermetti carpiva alla sua mano,in quella casa, in quel mondo lontanoc’era un amore. C’era anche un equivoco1.

Il gioco è ora più scoperto. Saba ha spostato com-pletamente la prospettiva della poesia dalla parte di chi tiene con sé l’uccello e soffre di questo volo liberatorio. Quindi la gabbia che l’uccello-Leopardi definisce “usato albergo”, diviene per il custode-Saba il “fidato albergo”. La prima versione fornisce una connotazione di abitudine, di stanchezza, quasi che una vecchia dimora sia stata ap-punto usata fino a quel momento come l’unica possibile, perché il giovane uccello non conosceva alternative, ma ora che ha visto le bellezze della terra, stanco di quella condizione limitativa della libertà, l’abbandona “lieto e gio-condo”, senza rimpianti. Ma Saba non può accettare questo. Il suo albergo è “fidato”, perché il giovane uccello vi sarebbe potuto sempre ritornare dopo le sue escursioni alla scoperta del mondo, e trovarvi quella comprensione, quella sicurezza, che non poteva di certo trovare al di fuori. E allora ritorna, anche in questo gioco, una struggente amarezza, in quel “per sempre”, posto come inciso, quasi isolato dal resto del verso, a significare tutta la solitudine di un uomo definitivamente e irrimediabilmente abbandonato alla sua dolorosa vecchiaia.

Poi, all’ultimo momento, Saba, con un piccolo vez-zo, cerca di mascherare il suo “gioco”. Leopardi nel distico finale scopre le sue carte:

Di libertà l'amoreregna in un giovin core.

È tale la voglia di libertà del giovane, che egli è spinto all’avventura all’aria aperta, incurante della protezione che le mura del borgo possono dargli.

1 Ivi, p. 547.

Saba invece cambia le carte in tavola:

Di libertà l’amoreregna ai fringuelli in cuore.

Il libero volo è dei fringuelli, degli uccelli, il giovane che va per la sua strada senza guardarsi indietro non c’entra.

Ma noi ormai sappiamo troppo bene che la metafora degli uccelli è per il Saba degli ultimi anni una pista sicura, che conduce al suo conflittuale rapporto con il giovane amico. Così anche la Poesia in tre stati viene a costituire un anello della catena che lega le ultime poesie di Saba al tema del vecchio che vuol trovare qualcuno che accetti tutto il suo affetto, e del giovane che invece si rifiuta a un rapporto così limitante per lui e lascia il vecchio con un rimorso in più: aver tentato un’operazione che non era giusta, costringendo il giovane in una “dipinta gabbia”. Ma questi, appunto come fanno gli uccelli, è fuggito per il libe-ro cielo.

E lasciatemi divertire

PALAZZESCHI

LA POESIA GIOVANILE DI PALAZZESCHI:DAL DOLORE AL CONTRODOLORE

“Allegoria di Novembre (…) rispecchia fondamen-talmente una giovinezza turbata e quasi disperata. E tale fu la mia fino al giorno che tale disperazione e turbamento come per miracolo, come per virtù di un incantesimo del quale non saprei io stesso spiegare il mistero (approfondita conoscenza della vita, degli altri e di me stesso?) si risolsero in allegria”1.

Queste parole di Palazzeschi, riferite al suo primo romanzo del 1908, trovano riscontro anche nell’analisi dell’evoluzione stilistica della sua poesia giovanile, che di raccolta in raccolta segna questo percorso psicologico che va dalla cupa malinconia delle prime poesie alla rivolta violenta e ironica de L’Incendiario.

L’esordio poetico di Palazzeschi è del 1905 con I cavalli bianchi. Le poesie qui raccolte mostrano lugubri paesaggi dominati da alti cipressi neri, o antichi castelli e palazzi chiusi da alte mura, dove nulla accade e il senso di fissità, di monotonia, di inutilità di qualsiasi atto è accen-tuato dal ritmo ampiamente pausato su versi lunghi e dalla costante ripetizione di parole, di sintagmi, di interi versi che si rincorrono all’interno delle singole poesie e perfino da una poesia all’altra. Prendiamo per esempio il verso “La gente passando si ferma a guardare” che chiude Le fanciulle bianche; orbene, questo verso, già preceduto nella stessa poesia sia da “La gente cammina pian piano” al v. 1 e al v. 5, lo ritroviamo con minime variazioni, nel corso dell’intera raccolta:

Pubblicato in “Periferia”, n. 22, 1985, p. 17-42.1 A. Palazzeschi, Premessa a Opere giovanili, Milano, Mondadori,

1958, p. 2-3. Per quanto riguarda le raccolte poetiche facciamo riferi-mento alle prime edizioni: I cavalli bianchi, Firenze, Cesare Blanc, 1905; Lanterna, Firenze, Cesare Blanc, 1907; Poemi, Firenze, Cesare Blanc, 1909; L’incendiario, Milano, Edizioni Futuriste, 1910.

La gente alle rive si ferma guardando. (La lancia, v. 9)La gente passando si ferma un istante. (Il segno, v. 4)La gente passando si volge e procede. (Il castello dei fantocci, v. 8 e v. 13)La gente si ferma guardando in quel campo riarso. (Il campo dell’odio, v. 10)La gente passando si ferma a guardare. (Il manto, v. 14)La gente si ferma a guardarlo. (Il figlio d’un re, v. 8)

e si potrebbe continuare, ma tanto basta a mostrare come Palazzeschi elegga a protagonista di questa raccolta pro-prio la gente anonima, che guarda, scruta,osserva, ma ancora non giudica, ancora non prende la parola, come av-verrà nelle raccolte successive. Qui c’è solo la gente che guarda, muta testimone di situazioni statiche, che si ripe-tono nella loro fissità di sempre:

Nel mezzo d’un prato è la fonte perenne.L’adombran cipressi ben alti e ben folti.Quell’acqua guarisce le piaghe.La fonte ne getta tre stille ogni giorno.N’occorre una brocca a guarire una piaga.Sta intorno alla fonte la gente aspettando la stilla.

(La fonte del bene)

In questa situazione di un’attesa inutile, evidenziata dai punti fermi che isolano ogni verso e ne appesantiscono il significato, quasi articoli di una legge eterna e sovruma-na, si legge il senso di un cupo destino che sovrasta gli uomini, giocato ai dadi dalle vecchie centenarie Ara Mara Amara:

In fondo alla china,fra gli alti cipressi,

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v’è un piccolo prato.Si stanno in quell’ombraTre vecchie giocando coi dadi.Non alzan la testa un istante,non cambian di posto un sol giorno.Sull’erba in ginocchio,si stanno in quell’ombra giocando.

Ancora una descrizione di un evento che si ripete sempre uguale. Tutte queste prime poesie di Palazzeschi si sviluppano su questo registro della descrizione pittorica di luoghi e di personaggi, come fissati una volta per tutte; mai compare il pronome “io”. Evento nuovo e significativo che si pone in contrasto con tutta la tradizione poetica italiana fino a Pascoli, a D’Annunzio, agli stessi crepu-scolari, che pongono sempre al centro del quadro se stes-si. Ma questa scelta ci mostra soprattutto che la solitudine del poeta si manifesta qui ancora come un solipsismo os-sessivo, che non riesce ad avere alcun contatto con gli oggetti o con la gente, la cui muta e quasi indiscreta pre-senza rende ancora più inquietante la nebulosa atmosfera che permea l’intera raccolta.

Già in Lanterna la cupa compattezza dello stile e dell’animo del primo Palazzeschi si smaglia, per fare posto a diversi moduli stilistici. Subito, ad apertura del volume, in Torre Burla, dove pure permangono termini come “neris-sima” e “ombra”, la gente trova finalmente la parola a com-mento di quel misterioso sfogliare di libro e spezza così l’incantesimo dell’eterna fissità della precedente raccolta. Certo, ci sono ancora cadute in situazioni da incubo, come in Tempio serrato, dove il modulo della ripetizione di sin-tagmi assume uno spessore parossistico; o come in Parco umido, dove “Il parco è serrato serrato serrato / serrato da un muro ch’è lungo / le miglia le miglia le miglia”, versi che esprimono ancora il vivo sentimento di una totale repres-sione interiore. Ma ciò che distingue questa raccolta è la varietà di stili e formule poetiche che vi si incontrano, in cui possiamo notare nuovi e diversi atteggiamenti psicologici

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che si affacciano all’arte palazzeschiana. Così la ripeti-zione del gesto de Il passo delle Nazarene assume il ritmo e il movimento di un gaio balletto settecentesco. Oppure la levità favolistica de Il principe bianco è data appunto dal colore “bianco” che ne domina l’intera struttura e dal termi-ne “leggero” che vi compare a più riprese, come secondo leit-motiv di un racconto sospeso tra cielo e terra come un sogno a carattere incestuoso di un fanciullo1. Ma c’è anche il gioco di rime e assonanze di Rosario, forse un po’ for-zato, ma che comunque è indice della grande capacità di Palazzeschi di dipingere in pochi tratti un personaggio. In Comare Coletta troviamo per la prima volta un tipico “buffo” palazzeschiano esposto al ludibrio della gente, che qui addirittura prende parte all’azione e non è più il muto spettatore di una situazione statica. In questa poesia com-pare anche quel lessico crudo, aspro, violento, che sarà tipico de L’Incendiario:

- Ricordi il tuo sozzo peccato?- Tu sei maledetta comare Coletta!Vecchiaccia d’inferno!- Saltella e balletta comare Coletta!Saltella e balletta!Ricurva e sciancata, provandosi ancoraDi reggere a la piroetta,s’aggira per fame la vecchia rugosa,trascina la logora veste pendente a brandelli,le cade a pennacchi di capo il capecchiofra il lazzo e le risa,la rabbia le serra la bocca di rughe ormai fossa.

E che qui si presenta, anche attraverso la grottesca mu-sicalità delle rime e delle allitterazioni, come un prean-nuncio di una diversa, possibile, scelta poetica, che sarà pienamente attuata solo nella futura raccolta. In Palazzo

1 La scelta della dama sul cui seno il Principe “un bacio soltanto vi pone”, non è altro che il desiderio di un ritorno all’allattamento ma-terno.

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Mirena notiamo la presenza dello stilema dell’accumu-lazione:

In sera di festa la veglia era piena,smagliante di luci e di gemme,fiorita dai petali rossi e scarlattidi dolci sorrisi lunghissimi,fra muover di passi leggeri,di piccoli passi dorati,strisciare d’inchini profondi, lentissimi,frusciare di serici monti,di manti vermigli, violetti,di manti bianchissimi,coperti di gemme fulgenti,cosparsi di perle finissime,goccianti di vivi diamanti,fluenti di trecce biondissime;nel mezzo a la notte,le fiamme terribili avvolseroil grande palazzo.

Il quale arricchisce la poesia palazzeschiana nel senso della varietà e dell’apertura verso gli oggetti e il mondo, laddove la ripetizione era una chiusura nel circolo buio della propria angoscia.

Infine il volume si chiude con due poemetti che aprono uno spiraglio verso nuovi orizzonti poetici. La storia di frate Puccio, con la condanna della repressione che la religione attua verso la sessualità (ed è evidente il con-trasto tra il bianco della castità e il rosso della passione: “gli stracci scarlatti / spiccavan nel manto bianchissimo / siccome una macchia di sangue, / siccome una grande ferita / dischiusa nel petto del frate”), consente al represso dell’inconscio di affacciarsi alle soglie della coscienza, per accampare i suoi diritti all’espressione verbale. La per-fezione ritmico-musicale de La gavotta di Kirò indica la strada dove con più compiutezza riuscirà a esprimersi la musa di Palazzeschi. Qui ogni verso aggiunge particolari al

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quadro, che è movimento e azione:

Un presto cadere di sguardi,un mesto incontrarsi,un lieve incrociarsi di dita,un lesto attrarsi,un lampo leggero di risorisplende nel lento piegaredi teste fluenti.

L’accumulazione anaforica di questi versi rende tot-almente il parossismo della danza che, appunto, “s’ac-cresce, s’accresce, s’accresce”, finché al termine della musica “la danza pian piano svanisce, si perde”. E qui l’Io è finalmente presente, sublimato nella figura di Kirò, che si accampa “immobile e muto1 nel mezzo al ricalco”, di fronte all’acclamazione della folla, come essere superiore e intan-gibile:

Ei piano nel raggio viola dispare,dispare leggero snellissimo,il giovine bianco, biondissimo,il musico grande: Kirò2.

La solitudine resta la cifra dell’Io palazzeschiano, ma ora non è più immersa e oppressa da una gente muta, bensì si stacca quasi con disprezzo da una folla vociante e acclamante.

Il passo successivo è dato da Poemi, che si apre proprio con un’affermazione in prima persona: “Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia”, si domanda e si risponde il poeta, che con questa definizione trova finalmente la forza

1 Da notare come lo stesso sintagma era già stato attribuito alle dame de Il Principe Bianco (v. 1, v. 14, v. 27) e alle contesse de La veglia delle tristi (v. 48) con un senso di passività e attesa, mentre ora, al sin-golare maschile, nella nuova situazione in cui si presenta, assume il valore di un distacco au dessus de la mêlée.

2 Ancora gli attributi ‘leggero’ e ‘bianco’, qui ancor più avvalorati nella loro casta purezza da due superlativi assoluti.

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di porre il proprio Io di fronte al mondo. Certo le carat-teristiche di questo Io sono ancora “follia”, “malinconia”, “nostalgia”, e nella raccolta ancora si riscontrano stilemi e tematiche del passato. I prati di Gesù sono ancora la rappresentazione di una situazione immobile nella sua fissità centenaria, dove tutto si ripete ab aeterno, e dove la ripetizione costante del sintagma “nel mezzo”, che si incontra almeno una volta in ognuno dei vari compo-nimenti, indica ancora una sensazione di sperduto iso-lamento in un mondo curioso e ostile; mentre chi vede in queste poesie un’intenzione autoparodica forse non nota come persistono in Poemi “due linee, una a tendenza lirico-simbolica (anche pascoliana) e una ludico grottesca (che sarà sempre più caratterizzata nel prosieguo dell’attività palazzeschiana”1, ed è appunto nella prima di esse che possiamo ascrivere I prati di Gesù, in quanto i classici topoi delle precedenti raccolte ancora premono sulla spinta creativa del poeta. Spiccano poi in questa prima tendenza le inquietanti figure delle maestose Regine e quelle misteriose dello Sconosciuto e del Principe scomparso. Del resto lo stesso Palazzeschi confessa ancora uno spirito malinconico, autunnale, eleggendo per sé, nella sezione Marine, il Mar Grigio:

Io solo lo vedo,io solo mi posso indugiare a guardarlotessuta ò la vela io stesso,la prima a solcarlo.

Poi, finalmente, Palazzeschi trova l’interlocutore:

Nazarene settecentotutte chiuse in un conventosenza luci e senza grateper le suore rinserrate.Ma ve le figurate

1 G. Savoca, Eco e Narciso. La ripetizione nel primo Palazzeschi, Pa-lermo, Flaccovio, 1979, p. 150-151.

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tutte quelle monache,con quell’enormi tonache,là dentro rinserrate?

(Il convento delle Nazarene)

Qui per la prima volta si spezza il circolo vizioso del narratore che osserva e presenta una situazione, un per-sonaggio, accompagnato dal coro della gente anonima; ora il poeta, in quanto tale, scopre il ‘tu’ a cui rivolgersi, con cui commentare e magari ridere della realtà.

La scoperta del ‘tu’ implica una nuova percezione dell’Io1, che ora diviene protagonista dell’intera sezione Le mio ore. Qui, in questa sorta di castello, ben diverso da quello che sarà il Mio bel castello de L’incendiario, poiché ancora immerso in una atmosfera luttuosa, permeata dal senso cristiano del peccato (e i riferimenti a una repres-sione di tipo religioso qui sembrano farsi ancora più presenti)2, l’Io poetico palazzeschiano trova la forza di esprimere le proprie angosce in prima persona. E allora abbiamo il tedio di una vita sempre uguale a se stessa:

Ore sole come solo pane,per oggi e per dimane,e per tutti i giornidi tutte le settimane.

(Ore sole)

Oppure c’è lo scatto di ribellione contro questa solitudine opprimente:

Vogl’ire nel mondo, nel mezzo alla vita,vogl’essere uomo, amante, guerriero,

1 “La coscienza di sé è possibile solo per contrasto. Io non uso io se non rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione sarà un tu” (E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971, p. 312.

2 Cfr. Il dittico a mezze scale; Le nutrici; Habel Nassab.

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vogl’ire lontano a gioire! (Habel Nassab)

E la capacità d’introspezione si fa totale, totale la voglia di guardarsi allo specchio e scoprire che dietro quella “faccia bianca” si nasconde “un uomo / un uomo tutto rosso”:

Che uniformità di biancoSu quella faccia!Tutta impastata e infarinata,come quella d’un piccolo pagliaccioinconscio della sua vestiturae della sua truccaturamessagli per necessità.Sotto l’occhio sinistroIl palpito si vedeD’una stella rossa,che per la sua vivacitàsembra continuamente mossa.strano un pochinoveramente vederein un cielo di biaccauna stella di rubino1.

Così, fatti i conti con se stesso, l’Io può rivolgersi all’esterno con un atteggiamento più disincantato e ironico:

Talora irresistibileLo stimolo m’assale,del più mondano passatempo:vedere il mondo girare.Discendo le scale,traverso le sale,apro le porte

1 Come chiariremo in seguito, questa contrapposizione dei colori bianco e rosso ha grande significato nella prima produzione palaz-zeschiana.

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della sale morte,e dietro le grate,delle oscure vetrate,m’appiatto per guardareil mondo camminare.

(La finestra terrena)

Il ritmo danzante di questa poesia, giocato sulla ricchezza e varietà delle rime e delle allitterazioni, indica come dalla opprimente fissità delle prime prove, quando era le gente che, muta, osservava l’eterno ripetersi dell’ac-cadere, la musa di Palazzeschi si vada orientando verso un’ampia gamma di ritmi nuovi (peraltro confermata, pro-prio in questa sezione, da quel piccolo capolavoro di ritmo che è La fontana malata), che non solo annullano le vec-chie strutture formali, ma, proprio in questo senso, mostrano un Palazzeschi che si muove al di fuori e in opposizione alle convenzioni, poetiche e non, della società borghese.

Il reale punto di discrimine all’interno della poesia giovanile di Palazzeschi è rappresentato dal poemetto che chiude questa terza raccolta: Il Frate Rosso. Già la netta antitesi che qui si evidenzia (un frate, a cui si è soliti ac-comunare il colore nero, è invece rosso) mostra che ci tro-viamo di fronte a un punto nodale dell’evoluzione poetica palazzeschiana, dove ritorna e si risolve la contrappo-sizione simbolica tra i colori bianco e rosso. Tale contrap-posizione corre e si evolve lungo tutta la raccolta. In Mar Rosso è ancora la purezza intangibile del bianco che vince il passionale rosso:

la veste sua biancanon porta neppure un puntinodel rosso dell’acqua.

Ne Lo specchio, come già notato, questa prevalenza del

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bianco già si incrina1; e ora il rosso trova la sua rivincita:

Un frate tutto rosso,nella veste,nei capelli, negli occhi,solo le guance à bianche,più dirvi non posso.

L’importanza simbolica che questi colori rivestono nella poesia del primo Palazzeschi è già stata notata da Fausto Curi: “se, nel sistema di simboli cromatici palaz-zeschiani, il colore bianco rinvia a una catena referenziale tutta positiva, e cioè al seno e al latte materno, e quindi alla madre, e quindi al figlio, e quindi, per finire, all’amore, il colore rosso non può che rinviare a una catena refe-renziale esattamente opposta e pertanto tutta negativa, e cioè al padre e quindi all’ “odio” e all’ “onore”2. Certo, il bianco richiama il latte materno e perciò la madre, ma non per questo necessariamente ha una valenza “tutta po-sitiva”; anzi, proprio perché si riferisce a un universo fem-minile richiama piuttosto la passività e l’impossibilità ad agire di un mondo chiuso e buio, quasi prenatale: “il bianco (…) ci appare come un muro freddo, invalicabile, indi-struttibile, che si prolunga all’infinito. Per questo il bianco agisce nella nostra psiche come un grande silenzio che per noi è assoluto. (…) È un nulla che è giovanile, o, me-glio ancora, un nulla che sta prima del principio, prima della nascita”3. Quindi il bianco rappresenta il passato, l’im-possibilità della vita piena e dell’amore:

- Come non sa egliche ad una principessa di marmo

1 Da notare come sia messo in rilievo all’inizio di verso il “palpito” vi-vace “d’una stella rossa”.

2 F. Curi, Perdita d’aureola, Torino, Einaudi, 1977, p. 74.3 W. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, Bari, De Donato, 1968, p. 68.

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non è dato amare? (La principessa bianca)

Non a caso è il colore predominante di queste prime raccolte, che, come abbiamo visto, esprimono soprattutto l’angoscia di una vitalità spenta e repressa; per di più mol-to spesso al bianco troviamo associato il nero: “come un nulla senza possibilità, come un nulla morto dopo l’estin-guersi del sole, come un silenzio eterno senz’avvenire e senza speranza, risuona interiormente il nero”1. Allora più giustamente giudica il Savoca: “il bianco è anche il colore della “repressione”, della rinunzia alla sessualità (…), e perciò della morte”2.

Di contro, “il rosso, come lo pensiamo, colore scon-finato e caratteristicamente caldo, esercita interiormente l’azione di un colore molto vivo, vivace e irrequieto (…); nonostante tutta la sua energia e intensità, ha una robusta nota di immensa forza quasi consapevole del proprio sco-po. In questo fremere e ardere precipuamente in sé, e po-chissimo verso l’esterno, v’è, per così dire, della maturità virile”3. Ecco quindi che la carica virile del rosso, rafforzata dalla rappresentazione fallica della fiamma4, fa piazza pu-lita del bianco altare e con esso delle antiche paure che opprimevano e limitavano l’azione dell’Io palazzeschiano:

La mattina l’altare non c’era più.Non c’era più.Per tutte le file incatenatedel lino e dell’argentopassò il fuoco.Passò il fuoco.Passo passo,momento momento,

1 Ivi, p. 69.2 G. Savoca, op. cit., p. 124.3 W. Kandinskij, op. cit., p. 70.4 “Non possono esserci dubbi che per il mito la fiamma abbia assunto

il significato di un fallo” (S. Freud, L’acquisizione del fuoco, Opere XI, Torino, Boringhieri, 1979, p. 106).

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vi corse la sua spolache corre sola.Una favilla non vista?Una favilla non vista?Forse sfuggita all’occhio del chiericonello spegnere i lumi?L’altare non c’era più.Non c’era più.E non c’erano piùnemmeno le sue ceneri.

“Le feu suggère le désir de changer, de brusquer le temps, de porter toute la vie à son terme, à son au-delà. (…) La destruction est plus qu’un changement, c’est un renouvellement » ; e ancora, « quand on veut que tout change, on appelle le feu »1. Il fuoco è appunto il secondo tema simbolico che presiede al rinnovamento stilistico (e psichico) della nuova poesia palazzeschiana. Esso colle-ga, quasi senza soluzione di continuità, Il frate rosso col poemetto L’Incendiario, eponimo della quarta raccolta poetica di Palazzeschi:

Dove anderà ora il Frate Rosso?Dove anderà?Fra tutta la gente vestitadi colore indecisolui, tutto rosso,con quel suo strano viso…Se lo mettessero in prigione?

(Il Frate Rosso)

E appunto in prigione è l’Incendiario:

In mezzo alla piazza centraledel paese,è stata posta la gabbia di ferro

1 G. Bachelard, La psychanalyse du feu, Paris, Gallimard, 1971. p. 35 e p. 96.

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con l’incendiario.

Questo poemetto introduce i temi della nuova poesia palazzeschiana. Dapprima compare la folla, ormai viva e attiva, che in un dialogo serratissimo (che prefigura lo stile narrativo che sarà proprio del Codice di Perelà) si pone in un rapporto sostanzialmente dialettico con la figu-ra, muta e impenetrabile, dell’Incendiario. Poi interviene l’Io palazzeschiano che insultando quel “fetido bestiame”, si pone al centro della rappresentazione proprio in quanto poeta:

Largo! Sono il poeta!Io vengo di lontano,il mondo ò traversato,per venire a trovarela mia creatura da cantare!

E il canto del poeta diviene l’esaltazione, finalmente esplicita, dalla carica vitale e rigeneratrice rappresentata dalla fiamma e dal rosso, l’unica in grado di contrastare ogni repressione, morale, religiosa, o sociale:

Rannicchiato sotto il tuo mantelloTu sei senza parole,come la fiamma: calore, e colore!E quel mantello neroTe l’àn gettato addossoGli stolidi uomini vero,perché non si veda che sei tutto rosso?Oppure te lo sei gettato da te,per ricoprire un pocol’anima del tuo fuoco?

Certo, questa carica è ancora proiettata all’esterno, sulla figura dell’Incendiario, mentre poi, personalmente, persiste il rammarico di essere solo un “incendiario da poesia”, che vive la bruciante contraddizione tra il suo es-

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sere interiore e la sua maschera esterna:

Nel segreto della mia stanzapasseggio vestito di rosso,e mi guardo in un vecchio specchio,pieno di ebbrezza,come fossi una fiamma,una povera fiamma che aspetta…il tuo riflesso!Fuori vado vestito di grigio,ovvero di nessun colore,c’è anche per le vesti una polizia,come per le parole.

Ma il finale apre la strada alla comprensione del senso più profondo dell’intera raccolta: la liberazione dai vecchi fantasmi e dalle antiche angosce:

E una di queste mattineuscendo dalla mia casa,fra le consuete catapecchie,non vedrò più le vecchiereliquie tarlite,così gelosamente custoditeda tanto tempo!Non le vedrò più!Avrò un urlo di gioia!Ci sei passato tu!E dopo mi sentirò lambire le vesti,le fiamme arderannosotto la mia casa…griderò, esulterò,m’avrai dato la vita!

Tale senso di liberazione, fattosi ormai pressante, trova il suo sfogo nel porre in mora i luoghi deputati della socialità borghese. Allora La villa celeste altro non è che un casino “di luride puttane”, e tutta la poesia si gioca su

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questo alternante contrasto di ‘idillio’ e di ‘osceno’. Oppure il cimitero diventa il luogo di una grande festa popolare, dove il circo convive con i banconi delle più varie cibarie e dove perfino i teschi vengono messi all’incanto (La fiera dei morti). E la rivolta di Palazzeschi contro quanto di più repressivo c’è nella società, nella religione, e viene introiet-tato nella propria psiche, si esprime nella maniera più viol-enta ne Le beghine. Qui la rappresentazione grottesca raggiunge il massimo di espressionismo, mentre la con-trapposizione io-tu si fa esplicita, come non mai prima, e si esprime nel linguaggio più aspro:

Io penso a denudarvi,cavarvi i vecchi giacchetti sbiaditi,i sudici panciottiche v’ammassate addossoper la paura delle polmoniti,spogliarvi, spogliarvidi quel sudicio fasciume,avervi nude dinanzi!Gobbe, torte, mostruose,farvi rinascere per un istante soloun brivido del più orribile desiderio;vedervi ballettare dinanzi sconciamente,stampellare ridendo, aizzate;le più vergini vorrei,magari quellache non fu toccata mai,e darvi i miei vent’anni!Sentirvi sotto cigolare,stridere, cricchiolare;schiacciarvi, pestarvi,darvi la più orribile gioia,il più feroce martirio!(Le vostre bocche Sdentate, sinuose,mi fanno vederelibidini mostruose).

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Contaminarvi tutte,tutte, darvi odio amore scherno,perdervi, gettare in un sol pugno,al vento, tutte le vostre preghiere,eppoi lasciarvi ridendo!Via! Via! Via!

Ora veramente si può affermare che l’Io poetico palazzeschiano, uscito dal suo guscio di ossessione e di angoscia, trova una nuova dimensione: il divertimento parodistico. Su questa linea non si situa solo l’ormai classica E lasciatemi divertire, che trae le conseguenze dal conto in cui si tiene l’istituto della poesia nella nuova società a capitalismo avanzato, ma anche tutta la sezione Al mio bel castello non fa che contrapporre lo ‘strambo’ poeta agli istituti della buona società borghese, in una dimensione appunto di rovesciamento parodico. La scelta di un castello “ammasso di rovine”, già dimora di tre vecchie centenarie, ormai morte, indica come Palazzeschi si venga liberando dalla sensazione di un cupo destino su lui sovrastante, rappresentato proprio dalle vecchie cen-tenarie, ossessivamente vive e presenti nelle precedenti raccolte. Anche l’orologio che scandiva le “ore sole” del poemetto Le mie ore viene distrutto con violenza liberatoria e quasi dissacrante, che ancora una volta si manifesta nel crudo linguaggio espressionistico tipico di questa raccolta:

Ora sono io che comando,sono io che darò l’ora a te, Ora!Trovar nella mia gola,far salire dal mio ventre,le più folli, le più oscene risate,i lazzi più sconci,i gridi di scherno più acuti,e farti aspettare

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altri cinque minuti1. (L’orologio)

Allora, se la solitudine resta l’unica alternativa per il poeta del ventesimo secolo, che almeno sia una solitudine volutamente portata all’estremo, anche nella scelta di una vita che è solo parodia della buona vita borghese:

Gli uomini come va,nella buona società,usan tenere, per il buon umore, una moglieal posto della scimmia,io, tanto di modeste voglie,lontano da ogni buona società,tengo una scimmiaal posto della moglie.

(Cherubino)

Così la moglie è una scimmia, le sorelle del poeta sono due galline, il ballo e il pranzo si risolvono in si-tuazioni assolutamente contrarie alla etichetta della buona società:

La cena procede con brio,con molta eleganza.Se non fosse Stellina,se non fosse Cometuzza!Ogni tanto vengono a beccare nel mio piatto,io rido come un matto.Oppure saltano in mezzo al tavolo,e si mettono a beccare i fiori del bocchécome se fosse un cavolo!Che gioia per me!Se non fosse CherubinaCon qualche sua smorfiettina

1 Un finale che ben esprime, anche nel suo scarto realmente comico, il senso della nuova poetica palazzeschiana, che trova nel riso aperto e “osceno” l’unico valido antidoto all’angoscia.

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Piena di simpatia!Dà uno scappellottoAl servitore che le porge il vassoio,si prende un mezzo pollastrotutto per sé!Si leva qualche cosaDalla sacca della golaE la mette nel piatto del visino.Caccia un osso dentro una bottigliaEppoi ci va a guardare piena di meraviglia.Mangia un pochini troppo con le mani,buffa, buffa!(Qualche invitato forse sbuffa).Che cosa ci posso fareSe la padrona di casaÈ una birichina?Alle volte, perfino,si mette col suo culo sul suo piatto!(Mi par che gli invitati si scandalizzino).Io divento matto!E Cherubina lo rifà.

(Il pranzo)

L’Io palazzeschiano è ormai al centro della scena, finalmente ben attrezzato di fronte a una società che egli respinge, ma che non teme più, anzi ora l’affronta con la forza del suo agro sberleffo.

Si conclude così un percorso che vede la poesia di Palazzeschi evolversi da “mezzo espressivo di una realtà psichica soggettiva premente alle soglie della coscienza” a “strumento autenticamente comunicativo, tale cioè da costituirsi come sistema segnico relazionale che coinvolge nel proprio processo insieme con l’Io gli ‘altri’ “1. A questo punto, la personale battaglia interiore di Palazzeschi si inserisce, quasi per un bisogno di trovare finalmente un consenso e un appoggio fuori di sé2, nella più generale battaglia per il rinnovamento della società e della poesia

1 F. Curi, op. cit., p. 101.

intrapresa dal Futurismo.

***

L’adesione di Palazzeschi al Futurismo, seppur con-traddittoria nei suoi esiti, si fonda su precise istanze co-muni, che confluiscono in comuni atteggiamenti e finalità demandate all’arte. Facilmente si possono trovare espres-sioni teoriche di Martinetti legittimamente applicabili al-l’esperienza poetica di Palazzeschi; bastino pochi esempi:

La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ri-durle a prostrarsi davanti all’uomo1;

Il nostro cuore è ancora pieno di un ciarpame immondo: code di pavoni, pomposi galli di ban-deruola, leziosi fazzoletti profumati!... E non abbiamo ancora scacciate dal nostro cervello le lugubri formiche della saggezza… Ci vogliono dei pazzi!... Andiamo a liberarli!2;

alcuni punti del meraviglioso futurista:

caricature possenti; 2. abissi di ridicolo; 3. ironie impalpabili e deliziose; 4. simboli avviluppati e definitivi; 5. cascate di ilarità irrefrenabili; (…) 7. scorci di cinismo rivelatore (…) 9. tutta la gam-ma del riso e del sorriso per distendere i nervi; 10. tutta la gamma della stupidaggine, del-l’imbecillità, della balordaggine e dell’assurdità, che spingono insensibilmente l’intelligenza fino

2 Lo stesso Martinetti afferma che nel movimento futurista “questo libero spirito ha potuto osare, sentirsi compreso, amato, in quanto era solo, tipico, indigesto a tutti, beffeggiato da critici e ignorato dal pub-blico” (Il poeta futurista A. Palazzeschi, in Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1968, p. 55).

1 F.T. Martinetti, Fondazione e Manifesto del Futurismo, ivi, p. 10.2 F.T. Martinetti, Uccidiamo il chiaro di luna, ivi, p. 17.

all’orlo della pazzia; 11. tutte le nuove signi-ficazioni della luce, del suono, del rumore e della parola, coi loro prolungamenti misteriosi e inesplicabili nella parte più inesplorata della nostra sensibilità1.

E tutta la tematica del fuoco e del rosso risulta comune, come chiarisce il De Maria: “Il motivo del-l’incendiario rientra nella mitologia futurista e vi rientrano anche il rosso come colore simbolico, il fuoco e il sole come forza rigeneratrice. È vero, in Palazzeschi i germi di questi motivi preesistono all’adesione al futurismo, ma solo col futurismo acquistano forza dirompente, coerenza programmatica e assoluta, diretta pertinenza storico-sociale”2. Ma quel che più conta è che il punto d’incontro di Palazzeschi col Futurismo avviene sul terreno espressivo. “L’opera fondamentale del futurismo (afferma Glauco Viazzi) consiste proprio nella rottura delle strutture del linguaggio per andare alla ricerca delle strutture profonde, quindi della loro espressione”3. Ecco dunque che una poesia basata sul verso libero, sull’onomatopea; un linguaggio che nella ripetizione, nei giochi ritmico-verbali, distrugge la comune logicità del discorso per far emergere il represso dell’inconscio si ritrova a pieno diritto nello spi-rito dell’avanguardia futurista4.

Giunge così per Palazzeschi il momento di ripensare e riordinare la sua opera; nasce quindi il secondo Incendiario5, frutto appunto di questa collabo-

1 F.T. Martinetti, Il Teatro di Varietà, ivi, p. 71.2 L. De Maria, Palazzeschi e l’avanguardia, Milano, All’insegna del

pesce d’oro, 1976, p. 29.3 Palazzeschi oggi, atti del Convegno, Firenze, 6-8-nov. 1976; a cura

di L. Caretti, Milano, Il Saggiatore, 1978, p. 136.4 Naturalmente, poi ci sono tematiche futuriste totalmente estranee a

Palazzeschi, prima fra tutte l’esaltazione della guerra, sulla quale avverrà il distacco di Palazzeschi dal Futurismo.

5 L’Incendiario, Milano, Edizioni Futuriste, 1913. poco crediamo all’af-fermazione che Palazzeschi pone in nota al volume: “Detti com-poni-menti furono in questo volume da me disposti in ordine cronologico, non furono né riveduti, né corretti”. Infatti, a un attento raffronto dei

razione al movimento futurista. Palazzeschi fa molte con-cessioni al nuovo credo futurista nell’ampia cernita che propone delle precedenti raccolte. Lo stesso poemetto L’Incendiario viene ridotto a pochi versi posti come epi-grafe al volume. Vengono eliminati i versi che più contra-stano con l’ideologia e le tematiche futuriste: tutta la parte in cui il poeta canta l’Incendiario come nuovo messia, contraria allo spirito anticlericale e iconoclasta del Futu-rismo; e poi la parte dove Palazzeschi si rammarica, solipsisticamente, di essere solo un “incendiario da poesia”. Restano i versi che coniugano il significato di-struttivo del fuoco col suo senso rigeneratore e rinno-vatore, legato anche alla carica sessuale:

Tutte quelle bocche,tutte quelle labbra,tutte quelle lingue,non vengono a baciarti tutte?Non sono le tue sposevoluttuose?………………………………………………E una di queste mattineuscendo dalla mia casa,fra le consuete catapecchie,non vedrò più le vecchiereliquie tarlite,così gelosamente custoditeda tanto tempo!Non le vedrò più!Avrò un urlo di gioia:ci sei passato tu!E dopo mi sentirò lambire le vesti,le fiamme arderanno sotto la mia casa,

testi, si nota che varianti, seppur minime, sono state apportate. Dunque, se non è del tutto esatta l’affermazione di non aver ritoccato i testi, siamo autorizzati a credere che non sia comple-tamente esatta neanche l’affermazione di averli disposti in ordine strettamente crono-logico.

griderò, esulterò!M’avrai data la vita!…………………….Va, passa fratello, corri, a riscaldarela gelida carcassadi questo vecchio mondo!

Anche nell’esclusione di certe poesie ci sembra che Palazzeschi tenga conto del criterio unitario che, pur evi-denziando nel nuovo testo il suo personale percorso poetico, non si discosti mai troppo da certe tematiche futuriste. Per esempio non sono presenti molte poesie che troppo insistono su atmosfere religiose, quali Il tempio pagano, Il manto, La lacrima, ecc.; o molte fra le poesie più lunghe, quasi narrative, come Torre burla, Tempio serrato, dove la ripetizione è più ossessiva e quindi contrasta con l’esaltazione del movimento e dell’azione propria dei fu-turisti. O ancora, è molto ridotta la presenza del bianco (infatti mancano sia Il Principe Bianco, sia La Principessa Bianca), mentre permangono certe atmosfere grigie e autunnali, dove meglio risalta il contrasto col rosso fuoco: “fiamme rosse in cieli grigi” (Addio). Così vediamo che delle quattro poesie della sezione Marine, rimane ora solo Mar Grigio, e anche delle tre regine resta solo Regina Carlotta, la più tetra, avvolta nel suo “pesantissimo / vestito di lutto”. Anche l’esclusione de La morte di Cobò, dove il fuoco evocato è solo distruttore e infruttifero, si giustifica con una più specifica attenzione alla mitologia futurista del fuoco generatore di vita.

La struttura in cui è organizzato il nuovo testo rivela, più di ogni cosa, che lo stesso Palazzeschi ha preso co-scienza del viaggio poetico compiuto dal dolore al riso bef-fardo. In questo senso le cinque parti in cui è suddiviso il volume segnano, per così dire, le tappe di questo viaggio. Il libro si apre con Il segno, che è la croce cristiana, dando subito l’immagine dal punto di vista di partenza di Palaz-zeschi: la religione e la repressione sessuale e morale ad essa legata. E tutta la prima parte, con i suoi personaggi

centenari, con la presenza ossessiva della gente, mostra un’angoscia totalmente introiettata e come chiusa da mura invalicabili. Perfino La gavotta di Kirò, seguita immedia-tamente da Comare Coletta, assume ora un diverso si-gnificato: della gente non ci si può fidare, anche il suo plauso è menzognero e volubile e dall’acclamazione si può presto finire nel fango e nello scherno, come dimostra il raffronto di versi, che sembrano richiamarsi e rincorrersi vicendevolmente da una situazione di gloria fugace a quella di miseria presente e reale:

La danza è finita.La folla le bracia protendelanciando dei gridi di gioia a Kirò.Immobile e muto in mezzo al ripalcosoltanto un istante egli attende,gli brillano intorno i begli occhi di mare.

(La gavotta di Kirò)

Danzavi nel mezzo ai ripalchi,n’è vero Comare Coletta?Danzavi vestita di luci, cosparsa di gemme,coperta soltanto dai guardi malefici, vero?

(Comare Coletta)

La seconda parte è costituita dal poema Le mie ore che, come già visto, rappresenta il momento in cui l’Io poetico palazzeschiano esprime in prima persona le angosce che lo tormentano.

Le due poesie che aprono la terza parte (Le caro-vane e La città del Sole mio) si ricollegano a Le mie ore nel loro senso di chiusura al mondo:

Alla Città del Sole Mio,non ci posso andare che io!……………………………Sareste rimasti tutti fuoria litigarvi alle porte,

son tutte chiuse quelle porte! (La città del Sole mio)

Mentre tutte quelle che seguono Chi sono? Rap-presentano l’esemplificazione stilistica della ‘follia’, ‘ma-linconia, ‘nostalgia’, che sostanziano l’anima del poeta. La regola del Sole, che chiude questa parte, prefigura quasi la nuova religione del fuoco purificatore (il cui messia sceso in terra potrebbe essere Perelà, l’uomo di fumo):

Quelle suore non muoionodi nessun male,si asciugano, si asciugano,si disseccano al Sole…come le rose e le viole,e più che centenarie,vaniscono, evaporano nel Solecome un qualunque vapore,senza la consueta putrefazione.

(La regola del Sole)

La quarta parte è costituita dall’altro poema Al mio bel castello che, in posizione simmetrica rispetto a Le mie ore, prelude e introduce lo scoppio di riso osceno, libe-ratorio, quasi blasfemo, che caratterizza l’ultima parte, la quale, con l’aggiunta di sette poesie inedite, chiude realmente questo viaggio poetico nel senso di un totale ribaltamento del rapporto io-mondo.

Quest’ultima parte presenta la produzione poetica più radicalmente eversiva di Palazzeschi, dove, in un crescendo di ritmi e sonorità espressive assolutamente inedite nel panorama della poesia italiana, la paradossale ironia palazzeschiana coniuga una feroce critica a certo costume borghese con la messa in rilievo della perdita di valore dell’inutile poesia in una società fondata sul-l’utilitarismo capitalistico. Ecco quindi che alle poesie più ironicamente polemiche verso il consueto costume di vita borghese (come Visita alla Contessa Eva Pizzardini Ba, La

fiera dei morti, ecc.), se ne aggiungono altre che troncano ogni residuo legame col vecchio costume poetico legato a quella società. Tale I fiori, che scuote tutto l’armamentario romantico della pace e purezza della natura, sottolineando la corruzione anche di quel mondo ritenuto incontaminato: “Anche voi, poveri fiori, / misero pasto delle passioni!”; tale La passeggiata, un susseguirsi ritmico-musicale delle insegne pubblicitarie che corredano le vie della città: quan-to di più antipoetico ci possa essere; tale Postille, una serie di insulti rivolti al poeta che rifiuta il suo antico status di poeta romantico e si pone fuori della società.

Ma il vero cambiamento di registro, che chiude un ciclo poetico, è dato dalla nuova prospettiva con cui l’Io palazzeschiano si pone di fronte agli altri: prima gente anonima il cui sguardo penetrante minacciava la sicurezza dell’Io; ora pubblico chiamato a raccolta per salutare il poeta che parte (Addio). Quindi una nuova, proditoria vo-lontà di mostrarsi davanti e contro la gente, che giunge ne L’ascolto a una sorta (parafrasando Martinetti) di voluttà di essere osservati; fino alla piena consapevolezza di sé e del percorso compiuto per arrivare a questa provocatoria padronanza del proprio Io, capace ormai di mostrarsi anche nella più segreta intimità:

Non sono più castelli rovinati,decrepite ville abbandonate,dalle mura tutte crepatedove ci passa il sole.Non palazzi provincialidisabitati,dalle porte polverose, dalle vetrate colorate,dalle finestre ferrate, non più.Non più colli soleggiati,non cime di montagne,isole luminose,non più.Non solitarie vie

infinite polveroseDove sfogare tutte le mie malinconie.Mi son venute a noiatutte queste cose.Non prati sconfinatiricoperti di margherite,circondati di stupore.Non parchi bagnati di dolore.Non fontane, non cancelli, attonite folle mutenon più;non più il croscio dei ruscellirapito ascoltareall’ombre solitarie,non le grida degli uccelli,non più.

………………………..

Io sogno una casina di cristallo proprio nel mezzo della città, nel folto dell’abitato.Una casina semplice, modesta,piccolina piccolina,tre stanzette e la cucina.Una casinacome un qualunque mortalepuò possedereche di straordinario non abbia niente,ma che sia tutta trasparente,di cristallo.Che si vede bene dai quattro lati la via,e di sopra bene il cielo, e che sia tutta mia.

L’antico solitario nascostonon nasconderà più nientealla gente.

Mi vedrete mangiare,mi potrete vederequando sono a dormire,sorprendere i miei sogni;mi vedrete quando sono a fare i miei bisogni,mi vedrete quando cambio la camicia.

(Una casina di cristallo)

A questo punto la crassa risata che chiude il volume pone come un marchio di fabbrica del nuovo Palazzeschi, che quasi rilegge, nella chiave della parodia futurista, tutto il proprio viaggio come un semplice divertimento di cui il poeta si pasce per contrapporsi e affermarsi di fronte a un mondo che lo nega proprio in quanto poeta:

Ahahahahahahah!Ahahahahahahah!Ahahahahahahah!

Infine io ò pienamente ragione,i tempi sono molto cambiati,gli uomini non dimandanopiù nulla ai poeti,e lasciatemi divertire!

(E lasciatemi divertire)

***

“La grandiosità [dell’umorismo] risiede evidente-mente nel trionfo del narcisismo, nell’affermazione vit-toriosa dell’invulnerabilità dell’Io. L’Io rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà, di lasciarsi costringere alla sofferenza, insiste nel pretendere che i traumi del mondo esterno non possono intaccarlo, dimostra anzi che questi traumi non sono altro per lui che occasioni per ottener piacere”1.

1 S. Freud, L’umorismo, Opere X, Torino, Boringhieri, 1978, p. 504-505 (corsivo nostro).

Siamo così al Controdolore1, la teorizzazione pro-grammatica del percorso che Palazzeschi è venuto trac-ciando con la sua produzione poetica. La presa di co-scienza di Palazzeschi, unita all’animus provocatorio fu-turista, spinge il Nostro a questo intervento teorico di rivincita del principio di piacere, con un totale ribaltamento rispetto ai vecchi schemi della morale borghese che privilegiano ed enfatizzano il dolore e il pianto. Subito, la riduzione di Dio a “un omettino di sempre media statura, di sempre media età, di sempre medie proporzioni”, vestito in tait, che ride “a crepapelle”, pone le basi di questo totale rovesciamento che opera lo sguardo di Palazzeschi, la cui fantasia si scatena a sfornare immagini di un’evidenza palpabile, che dipingono in modo nuovo il significato della presenza dell’uomo sulla terra:

La nostra terra non è dunque che uno di questi suoi tanti giocattoli fatto precisamente così: un campo diviso da una fittissima macchia di mar-ruche, spini, pruni, pungiglioni. À posto l’uomo da un lato dicendo ad esso: attraversala, là è la gioia, è il largo, la vita degli eletti, vivrai coi pochi coraggiosi che come te l’attraverseranno. Riderai del dolore dei poltroni, dei paurosi, dei caduti, dei vili, dei vinti (…).L’uomo che attraverserà coraggiosamente il do-lore umano godrà dello spettacolo divino del suo Dio. Egli si farà simile a lui, attraversando questo purgatorio di spine ch’egli gli à imposto per godere primo lui e comunicare la stessa gioia ai suoi diletti, egli, corpo umano, ma per-fettissimo, che non à sulle sue membra di gioia una sola cicatrice di dolore.

1 Per Il controdolore facciamo riferimento all’antologia Per conoscere Martinetti e il futurismo, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1973, p. 128-138.

Egli è l’uomo che ha attraversato la fosca macchia del dolore sbucandone al di là, nel riso e nella gioia. La propria esperienza personale, dell’Io che, appunto come dice Freud, “rifiuta (…) di lasciarsi costringere alla sofferenza”, viene qui portata avanti e propugnata per tutti gli uomini, che andrebbero educati al dolore fin da piccoli, per non soffrirne più, ma anzi riderne sinceramente. Ma il riso qui evocato non è un riso ebete, superficiale, bensì un riso fatto cosciente del dolore umano e della sua costante presenza nel mondo:

Non si può intimamente ridere se non dopo aver fatto un lavoro di scavo nel dolore umano.

Tutto il programma educativo proposto da Palazzeschi è un’immersione in quanto di laido e deforme esiste nel mondo. Così i pupazzi del bambini saranno “gobbi, ciechi, cancrenosi, sciancati, etici, sifilitici, che mec-canicamente piangano, gridino, si lamentino, vengano as-saliti da epilessia, peste, colera, emorragie, scoli, follia, svengano, rantolino, muoiano. Poi la loro maestra sarà idropica, ammalata di elefantiasi, oppure secca secca, lunga, con un collo di giraffa”; mentre il maestro sarà “piccolino piccolino, gobbo, rachitico, ed uno gigantesco dalla faccia impubere, dalla voce esilissima, e dal pianto come un filo di vetro”. Questi si ripresenteranno nelle più varie fogge:

Una mattina il maestro sarà fasciato per un male di denti; una mattina avrà gonfia una guancia come per una patata ricevuta o le-vandosi il cappello avrà sopra il cranio lucido un enorme bitorzolo in mezzo, roseo lucente gros-so come una mela, bubboni e foruncoli geniali, bendaggi, e fisserà gli alunni, e girerà per la classe serio, irato o malinconico, nostalgico, romantico, stupidamente innamorato della maestra idropica, o non corrisposto dalla giraffa.

Sarà, zoppo, guercio, marcio, sciancato.

E si produrranno in false morti e falsi funerali:

La signora idropica darà tre enormi soffi e cadrà morta sulla sua poltrona. Quella lunga lunga secca, col collo di giraffa, morirà con lanci di cavalletta e cadrà contro il muro colle gambe all’insù, dopo aver percorso in tutti i sensi la sua classe. (…) Si faranno nel cortile della scuola falsi funerali: le bare verranno, dopo l’estrema benedizione del cadavere, scoperte e trovate piene di dolciumi e di figurine per i più piccoli, o partiranno da esse centinaia di topolini, prima bianchi, poi grigi, poi neri, o il cadavere sarà di pasta frolla per i più grandi, di cioccolata per i più piccoli, ed essi se ne contenderanno allegra-mente le membra. O si alzerà in aria terribile, o all’alzarsi del coperchio il suo naso si eleverà oltre due metri sulla sua faccia, per i più grandi ancora.

Però, tutto questo, offerto con un’evidenza fan-tastica espressionista, dove spiccano il grottesco e la clownerie che generano riso e divertimento, non nega, ma anzi ribadisce che il dolore è l’essenza della vita, che immancabilmente sfocia nella malattia, nella vecchiaia, nella morte; ciò che cambia è il diverso atteggiamento, la diversa ‘filosofia’ che Palazzeschi assume di fronte a questa verità: non più il vieto romanticismo che si pasce dei sogni di una giovinezza fugace e ne piange il presto svanire; ma una moderna consapevolezza che si procura di vedere il buffo e il grottesco in ciò che altrimenti spingerebbe a una triste e colpevole compassione. Basti pensare all’incitamento rivolto ai giovani a non attardarsi sulla loro giovinezza, ma a immaginarsi già vecchi, per non essere impreparati quando veramente lo saranno:

Giovani, la vostra compagna sarà gobba, orba, sciancata, calva, sorda, sganasciata, sdentata, puzzolente, avrà gesti da scimmia, voce da pap-pagallo, ecc. Sono queste le sole creature che hanno in loro realizzato già il patrimonio della felicità. Non vi attardate sulla sua bellezza, se disgraziatamente per voi ella vi sembra bella, approfonditela, e ne avrete la deformità. Non vi adagiate mollemente sull’onda del suo profumo; una spira acuta di quel puzzo che è la verità profonda della sua carne che adorate, potrebbe un giorno sorprendervi, sfasciare d’un tratto il vostro fragile sogno, farvi prigionieri del dolore. Non vi attardate sull’ora breve della vostra e della sua giovinezza, rimarrete per forza a galla sul dolore umano. Approfonditela e ne avrete la vecchiaia, verità che altrimenti vi rimarrà scono-sciuta quando la possederete e sarete preda della nostalgia. Non vi fermate a nessun grado del deforme, del vecchio, essi non hanno come il bello e il giovane un limite; essi sono infiniti.Voi godrete di più a veder correre tre carogne, rassicuratevi, che tre puro-sangue. Il puro-san-gue à in sé la carogna che sarà; cercatela, scopritela, non attardatevi sulle sue linee di fugace splendore. Pensate con gioia alla sua ed alla vostra vecchiaia. In fondo ad essa è la profondità della vostra vita.

Allora il senso di questo manifesto, come di tutta questa fase poetica di Palazzeschi, conclusasi con la riappropriazione da parte dell’Io di una sua integra volontà di affermazione sulla realtà esterna, può essere riassunto in questi termini:

Combattere il dolore fisico e morale con la loro stessa parodia.

Il rovesciamento del dolore nel riso è completato, e giunge anche al suo termine. Lo scontro shockante con la cruda realtà dell’immane carneficina della Grande Guerra non consentirà più neanche all’incendiario Palazzeschi di professare una poetica così radicalmente eversiva, e lo costringerà a un nuovo tuffo nella macchia del dolore umano, questa volta non più vissuto nella solitudine della propria interiore tragicità, ma in comunione con la sventura degli altri uomini.

UN ROMANZO RITROVATO*

La stesura di questo romanzo inedito di Palaz-zeschi1 (ritrovato fra le sue vecchie carte depositate presso la biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia del-l’Università di Firenze) si può far risalire, secondo quanto ci dice il curatore Fabrizio Bagatti, agli anni venti, un periodo in cui la scrittura di Palazzeschi ancora risente dello spe-rimentalismo futurista. La struttura del testo, come in tutte le prime prove di Palazzeschi, non ha nulla del romanzo classico ottocentesco, si presenta invece come un serrato dialogo tra il poeta interrogante e la protagonista, che spiega e racconta il suo stile di vita fuori del comune.

Le sfaccettature di questo piccolo gioiello sono mol-teplici. Un primo livello di lettura lo potremmo definire ‘eti-co’, in questo confortati dalle stesse parole del narratore che parla di “documento umano, morale e anche, oserei dire, un tantino scientifico”2. La contessa Maria è portatrice di una diversa morale sessuale, che non tiene conto dei costumi e delle ipocrisie della società borghese, ma intende esprimersi in forza di una naturalità quasi dar-winiana, che concepisce l’accoppiamento come la ri-sultante di forti istinti che si cercano, si trovano, si sele-zionano in base alla loro reciproca capacità vitale.

Il reciproco, spontaneo, desiderio è tutto. Quat-tro occhi s’incontrano, si frugano, si spogliano nel mezzo della via, a teatro, al caffè: si vogliono? Tu non ti devi domandare che il più prossimo perché: si prendano, per Dio! È un frutto che bisogna saper cogliere in tempo e non è facile quanto si creda3.

* Pubblicato in “Letteratura Italiana Contemporanea”, n. 27, 1989, p. 352-354.

1 A. Palazzeschi, Interrogatorio della contessa Maria, Milano, Monda-tori, 1988

2 Ivi, p. 73 Ivi, p. 19

Queste parole sintetizzano chiaramente la pratica della contessa, che vede nella reciproca attrazione erotica la forza capace di superare i vincoli posti dalla civiltà alla libera espressione della vita. In realtà però la contessa vive ai margini della società, ed è considerata un “vecchio arnese puzzolente”1; testimonia così del fallimento di una concezione totalmente aliena dallo stile di vita che l’uomo si è costruito in secoli di civile convivenza. Fallimento già sperimentato nel Codice di Perelà, dove pure l’ipotesi di una diversa organizzazione sociale veniva sconfitta dalla tenace resistenza degli usati modelli. Mentre l’espressione vivace, franca, del testo, caricata attraverso il grottesco, l’iperbole, l’antitesi, ci riporta al manifesto del Controdolore: ancora una volta la morale borghese e il senso di morte e di caducità che vi si lega, vengono stravolti da Palazzeschi in favore dei valori della vita e della gioia, portati qui alla ribalta in una sorta di moderno carpe diem.

Nella seconda parte del libro la contessa Maria nar-ra distesamente della sua prima esperienza amorosa (ancora giovanissima), della segregazione in cui fu tenuta dalla famiglia nobiliare in seguito a quella prima mancanza, e della rocambolesca fuga con un tenente di cavalleria. Le scene e gli episodi si susseguono portati dalla sicura vo-lontà della protagonista, capace di organizzarsi la vita e sventare le minacce alla sua libertà sfruttando a proprio vantaggio le debolezze dei suoi antagonisti. Non c’è epi-sodio in cui l’acre irriverenza di Palazzeschi non faccia capolino, quasi a straniare i personaggi da loro stessi, colti nei loro atteggiamenti stravolti dalla lunga permanenza in un mondo chiuso e artefatto, come se l’occhio impietoso della contessa che li narra ce ne mostrasse la caricatura: il fratello maggiore emerge dalla pagina sempre con il lungo naso; il padre nella sua stanca austerità nobiliare; mentre la vecchia governante (“il tacchino”) viene descritta in tutta la gamma della sua sconcia ipocrisia perbenista; tutti assumono quelle caratteristiche di evidenza fantastica e di tragica clownerie che saranno tipiche dei ‘buffi’ Palazze-

1 Ivi, p. 8

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schiani. Il ritmo del racconto è estremamente serrato, senza cedimenti di tono o cadute nel sentimentale; forse solo un attimo, quando la contessa ricorda l’ultimo incontro col suo primo amante, quasi ancora un fanciullo, e l’incapacità di lui, travolto dalle consuetudini borghesi, di capire la grandezza del loro atto d’amore. Ma subito la narrazione riprende spedita attraverso gli ostacoli che i familiari frappongono alla libertà della contessa, già consapevole del proprio incontenibile desiderio di vita. Così la prima fuga a Roma, la scena del finto pentimento, l’incontro col baldo tenente, tutto precipita fino al culmine della fuga dalla casa paterna: una scena dove la comicità grottesca di Palazzeschi raggiunge una delle sue vette, con l’immagine del “tacchino” completamente ubriaca, che canta nella notte un’aria del Trovatore, mentre la giovane contessa cerca di addormentarla dondolandone il gonfio ventre.

Un terzo livello di lettura, che attraversa tutto il romanzo come punto dolente caratteristico, si riallaccia alla problematica del ruolo della letteratura e dell’intellettuale in genere, ben presente nel clima culturale dei primi decenni del Novecento. Mentre nel corso dell’Ottocento la funzione dell’intellettuale era stata di guida del moto risorgimentale prima e di educazione delle masse allo stesso concetto di unità nazionale poi, allorché la società italiana si avvia a dover gestire la grigia politica del quotidiano e nuovi strati sociali si presentano alla ribalta sull’onda del primo sviluppo industriale, il letterato borghese si trova spiazzato e fuori gioco. Diverse sono le reazioni al nuovo stato di cose: D’Annunzio vi si oppone fermamente dedicandosi alla politica, alla mondanità, alla pubblicità di se stesso, e a una produzione letteraria che nelle sue varie forme faccia salva la personalità <multanime> del suo autore; Prezzolini intende rinchiudersi in una <società degli apoti> fuori della mischia; i futuristi con il loro bellicismo ripropongono alla società italiana il momento eroico, nel quale anche lo scrittore possa sentirsi protagonista. Pochi sono quelli che prendono coscienza che la letteratura ha ormai perso la

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sua funzione etico-sociale: Gozzano ne fa quasi il balocco di un uomo condannato; Svevo vede in essa la malattia che impedisce una vita sana e vigorosa; e Palazzeschi proclama apertamente l’inutilità della poesia e il suo “la-sciatemi divertire” si stampa come un suggello sulla fine di un mondo. Qui, nell’Interrogatorio, costantemente la con-tessa dichiara la superiorità dei suoi valori di vita in con-fronto a quelli dell’arte, l’incapacità dei poeti di vivere pienamente1, la possibilità invece di porsi naturalmente in contatto con gli uomini e di agire nella vita, senza bisogno di costruire immagini fantastiche2. Emblematico in questo senso è l’episodio dell’opera lirica, quando la contessa, amante della musica, accompagna il poeta a sentire la Norma, però subito viene distratta dalla maschia presenza del caffettiere del loggione ed esce con lui prima che la rappresentazione finisca, e alle obiezioni del poeta così risponde: “un’ora di vita è sempre, in ogni caso, da preferirsi a un’ora d’arte”3. Ma l’arte si riprende la rivincita nel momento stesso in cui è proprio la contessa a raccontare la storia del suo primo amore, e a raccontarla a uno scrittore, che farà di lei un singolare personaggio letterario, coniugando un diverso stile di vita con un di-verso modo di fare letteratura. Una letteratura che è gioco, divertimento, sberleffo, ma che porta dietro di sé la pena di aver esaurito la sua funzione positiva nella società bor-ghese, di non avere più quel ruolo primario svolto durante i periodi romantico e verista, di essere posta ai margini di una società che ha sviluppato bisogni più quotidiani e valori meno eroici. Tutto questo, espresso in vario modo dalla letteratura del decadentismo, trova in Palazzeschi il suo stravolgimento grottesco e in questo romanzo la sua antifrasi più provocatoria. Il romanzo della negazione della letteratura si rivela così come un’opera squisitamente letteraria, che riscatta il valore della letteratura nel suo

1 “Letterato! Letterato! Tu non mi potevi dare altro consiglio. Ma la vita è azione, figliolo caro, e starsene col sedere sulla seggiola non è azione”, ivi, p. 10

2 “si dice più con un’occhiata che con duemila sonetti”, ivi, p. 1343 Ivi, p. 51

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essere infinito piacere per chi racconta e per chi ne fruisce la sapiente costruzione.

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Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio

CALVINO

TRAGEDIA DELL’ASCOLTO

Una prima lettura del romanzo di Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore1 evidenzia la particolarità di un testo costruito sul doppio binario della metaletteratura e del romanzesco; intesi, la prima come quel particolare di-scorso letterario che spiega e giustifica i propri meccanismi e i propri significati; e il secondo come quella classica fabula narrativa che porta l’eroe, attraverso una serie di peripezie e di avventure al limite dell’inverosimile, a co-ronare il suo sogno d’amore nella dolce tranquillità di una casa borghese.

Vari elementi costituiscono la coerenza metalet-teraria del romanzo: primo fra tutti l’argomento stesso della fabula, incentrata sulle avventure di un Lettore alla ricerca del libro perduto, che attraversa tutti i meandri che ruotano intorno alla produzione e alla diffusione dei libri nel mondo moderno. Il libro quindi è il primo protagonista del roman-zo, e, oggetto di una ricerca disperata da parte del Lettore, diviene parte sostanziale del testo sotto la forma di dieci diversi incipit di romanzo (e quindi di dieci potenziali libri). Ma anche il libro che, lungo il corso dei capitoli, quasi viene visto crescere e formarsi come concreto oggetto fatto di fogli di carta stampati e come luogo privilegiato di comunicazione tra due persone (l’autore e il lettore). L’intreccio del romanzo delinea in questo senso un coeren-te percorso di rappresentazione dell’oggetto-libro come si manifesta nella sue diverse fasi di formazione e di contatto con gli uomini.

Il libro si presenta subito come oggetto (quasi vi-vificato) che dalla libreria – luogo deputato allo smercio di libri, sconcertante nella pletora di proposte che investono l’acquirente2 – occhieggia il suo potenziale lettore, pro-mettendogli i rilassanti piaceri di una lettura distesa e

1 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979.

2 Cfr. p. 5-6, dove questa pletora viene esemplificata attraverso la figura dell’enumerazione.

ininterrotta. Falsa promessa, in un’epoca in cui “la dimen-sione del tempo è andata in frantumi, [e] non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s’allon-tanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono”1. Così anche si è perso il gusto della nar-razione ampia, distesa, che abbraccia un intero universo nel cui scorrevole flusso di parole, e il libro diviene un oggetto scomponibile in “quinterni, frasi, parole, morfemi, fonemi”, in “fotoni, vibrazioni ondulatorie, spettri polveriz-zati”, in “elettroni, neutroni, neutrini, particelle elementari”, in “impulsi elettronici, in flusso d’informazione squassata da ridondanze e rumori”2, perdendo così il suo potere affa-bulatorio, la sua capacità di trasmettere idee, sogni, emo-zioni. Una capacità che andrà recuperata attraverso una lunga peregrinazione nel mondo che si nutre e produce libri, attraverso quel mondo che ancora nei libri trova la sua ragion d’essere.

Inizia così questo viaggio del Lettore nel libro, per un libro che resti salvo dalla frantumazione del discorso, tipica della nostra epoca, discutendo di altri, molteplici, possibili libri, del loro farsi, del loro dipanarsi nei rivoli della comunicazione che instaurano con ciascun diverso lettore. E questo viaggio è il testo, è la parentesi di vita sognata, immaginata, che il testo offre al lettore, che vi si accosta per scoprire l’altra dimensione, la dimensione del discorso narrativo, del detto, e del non-detto che è parte integrante del detto, quella dimensione racchiusa tra le semplici frasi: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino”3 e “Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Cal-vino”4.

Prima tappa è l’Università, il luogo dove il libro di-viene oggetto di studio: sottolineato, analizzato, scompo-sto nei suoi singoli componenti, interpretato alla luce delle più agguerrite metodologie; disecar dicono gli spagnoli per

1 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 8.2 Ivi, p. 26.3 Ivi, p. 3.4 Ivi, p. 263.

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indicare questa operazione di analisi critica, quasi a riprodurre nel suono del vocabolo quel senso di aridità, di lacerazione, che appartiene a molta critica contempo-ranea, qui metaforizzata dal lavoro del tagliacarte che apre la via attraverso le pagine intonse del secondo romanzo Fuori dall’abitato di Malbork1. L’incontro del Lettore puro con il mondo accademico degli anni settanta, quando troppo spesso un romanzo diveniva pretesto per discus-sioni politiche e rivendicazioni sociali, giustifica la presa di distanza del testo da un modo ideologico di concepire la letteratura e la lettura, basato su idee precostituite, troppo spesso tirate a forza dentro ogni opera letta, come su un letto di Procuste. Fatta comunque salva l’ironia calviniana, sempre presente nel testo, e più dove appunto la critica al mondo letterario che lo sottende è più convinta e aspra.

Seconda tappa: la casa editrice, luogo dove i libri pensati, immaginati, ora perfino da identità collettive, quasi anonime2, divengono (non sempre) quell’oggetto concreto pronto per il mercato, pronto per la sua destinazione pri-maria: essere letto. Ed ecco che tra quei corridoi affollati di gente che ricerca la piccola gloria di vedersi stampato il proprio libro, tra quel caos di voci, di domande e risposte confuse, emerge la figura del dottor Cavedagna, lettore professionale, factotum della casa editrice, sempre pronto ad ascoltare tutti, a prestare i suoi servigi a tutti, ma sem-pre con quell’aria distratta di chi continua a rincorrere il suo vecchio sogno infantile: il piacere di una lettura pura, quasi segreta, nascosto nel pollaio, e solamente così ritrovare quell’autore puro che era

solo un nome sulla copertina, una parola che faceva tutt’uno col titolo, autori che avevano la stessa realtà dei loro personaggi e dei luoghi nominati nei libri, che esistevano e non esiste-vano allo stesso tempo, come quei personaggi e quei paesi. L’autore era un punto invisibile da

1 Ivi, p. 41-2 “La figura dell’autore è diventata plurima”, ivi, p. 96.

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cui venivano i libri, un vuoto percorso da fan-tasmi, un tunnel sotterraneo che metteva in co-municazione gli altri mondi col pollaio della sua infanzia1.

La ricognizione dell’autore è la prossima tappa di questa discesa agli inferi, nelle profondità del mercato editoriale e della produzione libraria, negli abissi che il testo apre dentro di sé. Dapprima appare sotto le vesti del traduttore mistificatore Ermes Manara, il quale, multipli-cando i libri, confondendo le attribuzioni, manovrando mo-dernissimi computer e sette di stampo medioevale, cerca di sconfiggere “la funzione dell’autore, l’idea che dietro ogni libro ci sia qualcuno che garantisce una verità a quel mondo di fantasmi e di invenzioni per il solo fatto d’avervi investito la propria verità, d’aver identificato se stesso con quella costruzione di parole”, quella “voce silenziosa che (…) parla attraverso i libri”2, comunque identificato con un individuo che comunica a un altro individuo che legge, e rompe l’incantesimo sognato da Manara di “una letteratura tutta d’apocrifi, di false attribuzioni, d’imitazioni e contraf-fazioni e pastiches”3, dove si perdono i problemi dello stile personale, delle tematiche ricorrenti, delle situazioni sto-rico-sociali, e il narrare diventa puro flusso narrativo che non ha più una fonte d’emanazione (o ha un’unica fonte per tutto il narrabile: “il Padre dei Racconti”)4.

Ma la funzione dell’autore è ineliminabile (lo stesso testo, evocandone la duplice figura, ce lo dice), e appare così come individuo, come persona viva, con corpo e anima, nel personaggio dello scrittore produttivo Silas Flannery che “fa i libri ‘come una pianta di zucche fa le zucche’”5, colto nel suo momento di crisi creativa, proprio

1 Ivi, p. 101-102.2 Ivi, p. 159.3 Ibidem.4 Ma ogni traduzione non è forse una specie di mistificazione? Pre-

sentare un’opera come copia conforme all’originale, mentre, neces-sariamente, è già un altro testo, non è forse falsificare il testo?

5 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 189.

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perché sente il peso dell’Io che lo sovrasta, che guida la mano mentre scrive e caratterizza i libri scritti da lui come suoi, mentre vorrebbe “fingere gli io più opposti a me e tra loro”1. Però la sostanza corporea di quell’Io si ribella e si ripropone nella sua cruda fisicità di fronte alla Lettrice, nel momento in cui scopre che l’Io individuo vivente e l’Io autore sono “due persone distinte, i cui rapporti non pos-sono interferire”2. Il testo, volendo negare la funzione dell’autore, non fa che riaffermarne il ruolo preponderante nella concezione e produzione dei libri, comunque pensati da un Io che si pone al di qua del testo e lo rende in-telligibile = leggibile, attraverso una concrezione di moduli stilistici e di tematiche sostanziali, anche allorché sono volti a una generale mistificazione e a una riproduzione di mo-delli stilistici allotri (del resto, la stessa preponderanza del narratore onnisciente di vecchio stampo in una struttura narrativa per altri versi molto originale, non fa che ribadire l’ineliminabilità dell’autore, di questo ossimoro ‘voce silenziosa’ da cui promana il discorso narrativo).

Dall’autore nasce il libro, da un Io, individuo in carne ed ossa, che vi profonde le sue concezioni, le sue idee, il suo messaggio di verità (o di menzogna). Per cui ecco che il libro diviene una sorta di feticcio, un oggetto involucro di verità fondamentali e definitive, ricercato dagli uni per il suo valore di rigenerazione del mondo, temuto dagli altri come destabilizzatore dell’assetto generale della società, e quindi censurato, proibito, diffuso clandestinamente, in una sorta di cerchio infernale che il Lettore si trova a percorrere sballottato da un covo di guerriglieri a un comando di polizia, da un carcere a un laboratorio computerizzato, preda di una macchinazione internazionale (il romanzesco) le cui fila incontrollate mosse da Ermes Manara3 portano finalmente il Lettore al suo posto più congeniale, nel suo ambiente naturale: una pubblica biblioteca.

In biblioteca, paradiso dei lettori e della lettura, si 1 Ivi, p. 181.2 Ivi, p. 191.3 L’autore che perde il controllo del testo nel momento in cui lo pro-

duce.

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ritrova il Lettore al termine del suo viaggio. Anche il libro, nato dalla mente di un autore, concretatosi in una casa editrice, chiude il suo circuito di circolazione (iniziato in libreria) nella biblioteca, dove si rinnova nel tempo quel-l’incontro misterioso tra due individui tramite la pagina scritta, e il libro può assolvere la funzione per cui è nato: essere letto sempre e da chiunque, nei modi più diversi decifrare nel libro un senso del mondo e dell’esistenza, soddisfare un desiderio infantile, la propria brama di cono-scenza, una curiosità improvvisa, spengere l’ansia di una ricerca, leggere nei caratteri tipografici “la continuità della vita, l’inevitabilità della morte”1.

In biblioteca trova un suo termine anche quella ricognizione sulla lettura che percorre tutto il testo, e che fa di questo romanzo metaletterario il romanzo della lettura nel mondo contemporaneo, appunto quella evidenziata qui dai romanzi interrotti: l’impossibilità di lasciarsi trascinare dall’onda del racconto in uno spazio e tempo diversi, rac-chiusi nell’ordine paradigmatico del discorso tra un inizio e una fine stabiliti, attraverso la successione causale dei fatti, dall’ipostasi coerente della narrazione. Dice il Lettore:

Signori, devo premettere che a me nei libri piace leggere solo quello che c’è scritto; e collegare i particolari con tutto l’insieme; e certe letture considerarle come definitive; e mi piace tener staccato un libro dall’altro, ognuno per quel che ha di diverso e di nuovo; e soprattutto mi piac-ciono i libri da leggere dal principio alla fine. Ma da un po’ di tempo in qua tutto mi va per storto: mi sembra che ormai al mondo esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per strada2.

1 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 261.Il testo no. Il testo termina in una camera da letto, dove ancora la let-tura si propone nella sua contiguità metonimica con il rapporto amo-roso.

2 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 258-259.

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Dà così voce alla sua lettura pura, piena, totale; consapevole di immergersi in una realtà fittizia, fatta di parole e frasi concatenate sintatticamente, eppure felice di perdersi nel flusso del racconto, felice di partecipare alle vicende dei personaggi, come se lui stesso lettore fosse protagonista della storia che legge e che altri ha raccon-tato; e pone questa sua lettura di contro alle letture più complicate, enunciate dagli altri lettori della biblioteca. La lettura stimolo al proprio vagabondaggio mentale tra sen-tieri di sentimenti ed immagini inesplorate:

Lo stimolo della lettura mi è indispensabile, e d’una lettura sostanziosa, anche se d’ogni libro non riesco a leggere che poche pagine. Ma già quelle poche pagine racchiudono per me interi universi, cui non riesco a dar fondo1.

La lettura iterativa, concentrata sui minimi particolari del testo alla ricerca di impercettibili verità fondamentali:

leggo e rileggo ogni volta cercando la verifica d’una nuova scoperta tra le pieghe delle frasi2.

La lettura che cerca se stessa nel libro, ogni volta nuova, inattesa, ogni volta diversa, pur se il libro è lo stes-so:

La conclusione a cui sono arrivato è che la lettura è un’operazione senza oggetto; o che il suo vero oggetto è se stessa3.

La lettura unica, onnicomprensiva, che situa ogni libro in un universo del leggibile, come parte di un unico sistema:

Oltretutto, poco più sotto un lettore racconta la storia del Califfo Haru’n ar-Rashìd, che è praticamente l’undicesimo romanzo interrotto.

1 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 256.2 Ivi, p. 257.3 Ibidem.

Da anni frequento questa biblioteca e la esploro volume per volume, scaffale per scaffale, ma potrei dimostrarvi che non ho fatto altro che por-tare avanti la lettura d’un unico libro1.

La lettura memoriale, sperduta nella ricerca di quel primo, solo libro che ha aperto il piacere del leggere, sorta di imprinting letterario:

Nelle mie letture non faccio che ricercare quel libro letto nella mia infanzia, ma quel che ne ricordo è troppo poco per ritrovarlo2.

“La promessa della lettura”3, quel sottile piacere che il libro intonso, le sue prime frasi, fanno intravedere.

La lettura ulteriore, che cerca il senso ultimo del libro al di là di esso:

il mio sguardo scava tra le parole per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli spazi che si estendono al di là della parola <fine>4.

Il tema della lettura nei suoi diversi modi, nei suoi svariati significati, attraversa l’intero romanzo come prin-cipale problematica a cui il romanzo è dedicato: evi-denziata nella stessa struttura narrativa, che fa protago-nista del romanzo un lettore comune, che inizia a leggere dieci diversi libri.

La lettura si presenta come un rito che abbisogna di luoghi particolari, di particolari condizioni ambientali, di preliminari che girino “intorno al libro”5, per trovare quella rilassata concentrazione che consente di mettersi in con-

1 Ivi, p. 258.2 Ibidem.3 Ibidem.4 Ibidem.5 Ivi, p. 9.

tatto col misterioso mondo evocato dalla parola narrante; perché la lettura è mistero, è “trovarsi di fronte a qualcosa che ancora non sai bene cos’è”1, e richiede l’attiva parte-cipazione del lettore a sondare il fondo di questo qualcosa: “ciò che dovrai tu spremere dal libro”2. Un qualcosa che appartiene a un’altra dimensione, una dimensione del pen-sabile, che forse arriva da un lontano passato, imme-moriale, sperduto nel tempo; forse si proietta verso il fu-turo, tra gli abissi siderali di ciò che ancora non ha preso forma:

Leggere è sempre questo: c’è una cosa che è lì, una cosa fatta di scrittura, un oggetto solido, materiale, che non si può cambiare, e attraverso questa cosa ci si confronta con qualcos’altro che non è presente, qualcos’altro che fa parte del mondo immateriale, invisibile, perché è solo pensabile, immaginabile, o perché c’è stato e non c’è più, passato, perduto, irraggiungibile3.

Ma leggere così vuol dire restare lettori puri, in-corrotti, non lasciarsi travolgere dalla massa di coloro che producono libri, che leggono per dovere professionale o solamente in funzione del loro scrivere. Tutto il testo è percorso da questo desiderio quasi infantile4, comunque risolutivo per le sorti della letteratura, di ritrovare “il piacere disinteressato di leggere”5, di sondare quei “messaggi d’altri mondi”6 racchiusi solo nei libri che si leggono per il semplice gusto di leggere e in qualche modo estraniarsi dal qui e ora, da quel tempo e quello spazio che con-cretano il sé, l’individuo come si pensa e si conosce, quell’Io che agisce appunto in quel tempo e in quello spazio determinati. Desiderio ora corrotto dall’inflazione di

1 Ibidem.2 Ibidem.3 Ivi, p. 71.4 Cfr. il personaggio Cavedagna.5 Ivi, p. 93.6 Ivi, p. 101.

libri (spesso inutili e brutti) che appaiono sul mercato, dalla spinta di molti a varcare la soglia della casa editrice per proporsi come autori, da una letteratura che sta perdendo il gusto di raccontare storie; desiderio che il testo sembra negare allorché propone dei romanzi interrotti, ma che riaf-ferma sia con la qualità fabulatoria dei dieci racconti sia con l’intreccio romanzesco che si sviluppa nella cornice.

Il romanzesco, pur in una struttura anomala che si organizza intorno a un surplus metaletterario del racconto, si presenta con tutti i crismi e le caratteristiche tipiche del romanzesco tradizionale che vuole catturare l’attenta par-tecipazione del lettore alla storia narrata. In questo senso le vicende che il Lettore attraversa nella sua ricerca del libro perduto si possono tranquillamente riportare ai mo-delli tradizionali del racconto: un mistero si propone al-l’inizio, un enigma che verrà sciolto solo alla fine: un libro si presenta incompleto, con le stesse pagine che si ripetono continuamente. Incomincia la ricerca del protagonista per risolvere questo mistero apparentemente semplice e ba-nale (un errore nell’impaginazione del volume), invece si ri-vela complicato e oscuro: tutti i libri risultano imperfetti, interrotti, di dubbia attribuzione, di incerta provenienza, e ciò che li accomuna è solo il <narrabile>, la capacità che ha ognuno di essi di far rivivere delle storie a chi li legge. La ricerca del Lettore si trasforma così in una vera e propria investigazione, simile alla detection di un omicidio, in cui i cadaveri sono i libri interrotti, le storie avvincenti ma inconcluse. E nella sua ricerca il Lettore incontra altri per-sonaggi che assumono la funzione di aiutanti o oppositori. Prima fra tutti la Lettrice, alter-ego femminile del propago-nista, immagine di donna che diviene il premio ambito dopo il superamento delle prove che la ricerca del libro perduto richiederà1.

Un falso aiutante è il professor Uzzi-Tuzii, perché non fornisce le chiavi giuste, ma anzi, con la sua teoria che

1 Infatti il matrimonio tra Lettore e Lettrice chiude la ricerca e chiude la storia; non chiude il testo, che ritorna alla lettura con lo stesso giro di frase dell’inizio, e riapre così il circuito del testo plurale, leggibile e ri-leggibile secondo diverse modalità.

“tutti i libri continuano al di là”1, provoca un allontanamento dalla vera soluzione dell’enigma. Irnerio, il non-lettore, colui che usa i libri solo per manipolarli e farne oggetti arti-stici, fornisce invece alcune notizie (esche) utili all’in-vestigazione del Lettore, che abbraccia insieme la ricerca del libro perduto e la ricognizione dell’identità psicologica e sentimentale della Lettrice (di cui vuol scoprire i veri rapporti con gli altri personaggi). Vero e proprio aiutante è il dottor Cavedagna, l’uomo della casa editrice, che, preso dal suo sogno di ritornare a una lettura pura e disin-teressata nascosto nel pollaio2, ritrova nel Lettore un’affinità elettiva, un consenso di sentimenti, e lo aiuta fornendogli il mezzo magico che lo può avvicinare alla verità: le lettere di Manara. Il mistificatore si rivela come il motore di una macchinazione internazionale (e quindi il vero artefice del romanzesco) volta a sconvolgere l’assetto tradizionale della letteratura, per rompere quel circuito comunicativo che il libro istituisce tra autore e lettore, e inserirsi lui, Manara, come autore della mistificazione totale, dietro la pagina di qualsiasi libro. È quindi Manara l’oppositore principale (il colpevole); ma anche altri personaggi si frappongono come ostacoli tra il Lettore e il raggiungimento della piena felicità: leggere un libro fino all’ultima pagina e sposare la Lettrice. Uno di questi è lo scrittore Silas Flannery che, rifugiatosi nel suo chalet alpino, quasi si innamora di quella lettrice che spia col suo cannocchiale, identificandola con Ludmilla, la lettrice ideale: “Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro”3, e induce il Lettore a un viaggio trappola dall’altra parte del mondo, proprio per allontanarlo dalla Lettrice. Lotaria, la sorella di questa, è l’altro importante oppositore, perché propone un modo di leggere intellet-tualistico, ideologico, precostituito, che non si lascia

1 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 70.2 Ivi, p. 97.3 Ivi, p. 185.

coinvolgere nelle spire del racconto, che si oppone quindi alla letture franca, aperta, totale del Lettore e delle Lettrice. E la prova decisiva sarà proprio l’amplesso con Lotaria, (ormai partecipe della generale mistificazione) che, sotto tutti i suoi travestimenti, mostra solo un corpo di donna ben fatto e desiderabile. Solamente così, adempiuta la prova finale, l’eroe può possedere la verità: l’artificio orchestrato da Manara era solo per mandare dei “segni della sua presenza”1 alla lettrice Ludmilla attraverso i romanzi inter-rotti, i titoli cambiati, le attribuzioni confuse; ma tutto il suo castello di mistificazioni è crollato, sconfitto:

era lei la vincitrice, era la sua lettura sempre incuriosita e sempre incontentabile che riusciva a scoprire verità nascoste nel falso più smac-cato, e falsità senza attenuanti nelle parole che si pretendono più veritiere2.

E questa apoteosi della Lettrice3 è anche un’apo-teosi della lettura:

leggere vuol dire spogliarsi d’ogni intenzione e d’ogni partito preso, per essere pronta a co-gliere una voce che si fa sentire quando meno ci s’aspetta, una voce che viene non si sa da do-ve, da qualche parte al di là del libro, al di là del-l’autore, al di là delle convenzioni della scrittura: dal non detto, da quello che il mondo non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire4.

Una vittoria della lettura contro ogni mistificazione, contro ogni censura: “Possiamo impedire di leggere: ma nel decreto che proibisce la lettura si leggerà pur qualcosa

1 Ivi, p. 242.2 Ibidem.3 Cfr. p. 243.4 Ivi, p. 242.

della verità che non vorremmo venisse mai letta”1, dice il censore Arkadian Porphyritch, che pure si lascia trascinare dal piacere della “lettura disinteressata ma pur sempre attenta a tutte le implicazioni lecite e illecite, al chiarore di questa lampada, nel grande palazzo dagli uffici deserti, appena posso sbottonarmi la giubba dell’uniforme da fun-zionario e lasciarmi visitare dai fantasmi del proibito che durante le ore diurne devo tenere inflessibilmente a di-stanza”2.

L’apoteosi della lettura (che prosegue nella bi-blioteca, luogo di pubblica lettura, e nella camera da letto, luogo di lettura privata, a due, che prepara il rapporto amo-roso) ci riporta alla sostanza metaletteraria di questo ro-manzo, che pure sfrutta così sapientemente tutti i modelli della tradizione romanzesca. Gli stessi personaggi or ora visti agire in funzione dell’intreccio narrativo, come pedine di un meccanismo ben organizzato ai fini della suspense che <sospende> il lettore al filo del racconto, pure fanno parte del gioco metaletterario, in quanto ciascuno di essi è portatore di un diverso modo di porsi di fronte al libro, di una diversa <sostanza> di lettura: perfino Irnerio, il non-lettore, nel farsi antitesi vivente di un mondo costruito sulla pagina stampata non fa che ribadire la necessità della lettura: “E poi qualcuno che legga i libri ci vuole, no? Almeno posso star tranquillo che non devo leggerli io”3. Così il censore Arkadian Porphyritch che legge i libri per catalogarli e inventariarli sotto diverse rubriche, pure, la sera, chiuso nel suo studio, si lascia “visitare dai fantasmi del proibito”4 che emanano dalla pagina dei libri censurati, e lancia il suo peana alla lettura, a dispetto del suo ufficio:

Finché so che al mondo c’è qualcuno che fa dei giochi di prestigio solo per amore del gioco, finché so che c’è una donna che ama la lettura per la lettura, posso convincermi che il mondo

1 Ivi, p. 243.2 Ivi, p. 240-241.3 Ivi, p. 150.4 Ivi, p. 241.

continua… E ogni sera anch’io m’abbandono al-la lettura, come quella lontana lettrice scono-sciuta…1.

Quasi come il dottor Cavedagna, che non vede l’ora di andare in pensione per poter finalmente leggere, leg-gere veramente, con gusto, con passione, con trasporto, come quando fanciullo si nascondeva nel pollaio per farsi visitare anche lui da fantasmi di mondi sconosciuti.

Invece il professor Uzzi-Tuzii, troppo preso dallo studio di una letteratura scomparsa, si lascia trascinare in una lettura, per così dire, esoterica, che cerca il suo signi-ficato al di là, “nella lingua silenziosa a cui rimandano tutte le parole dei libri che crediamo di leggere”2. Ci si avvicina così al lettore-critico incarnato da Lotaria che legge per trovare conferme alle proprie ideologie, ai propri schemi di pensiero, ora eludendo la lettura in una discussione di concetti generali: “Vicende personaggi ambienti sensazioni vengono spinti via per lasciare posto ai concetti generali”3, ora scompaginando il discorso narrativo, la storia, il rac-conto in una serie numerica di frequenze di vocaboli che colgono l’essenza del libro, la sua atmosfera, i problemi che propone, ma isolati in una nomenclatura che non ha più alcun fascino affabulatorio, e azzera l’operazione let-teraria a mera sostanza concettuale. Perciò c’è bisogno del continuo controcanto che Lettore e Lettrice oppongono a questo schema di lettori viziati, perché sia ancora pos-sibile “una condizione di lettura naturale, innocente, pri-mitiva”4, attraverso la quale “leggere quel che c’è scritto e basta”5, e “poter considerare ciò che è scritto come qual-cosa di finito e di definitivo, a cui non c’è nulla da ag-giungere o da togliere”6. Ed è questa lettura che si lascia catturare dalla storia, dal racconto, che ossessiona la

1 Ivi, p. 243.2 Ivi, p. 70.3 Ivi, p. 91.4 Ivi, p. 93.5 Ivi, p. 71.6 Ivi, p. 115.

figura dell’autore. Ossessiona Manara che ritrova l’imma-gine di una lettrice assorta allo scorrere della pagina “come se tutto quel che importa si decidesse lì, al prossimo capitolo“1, in ogni parte del mondo: in un aereo dirottato, per niente preoccupata della drammatica situazione che sta vivendo, perché troppo presa dalla lettura; su una spiaggia dell’Oceano Indiano; nella sala controlli dove, attraverso una lettrice-cavia, vengono valutate le possibilità di successo dei libri prodotti; nella Sultana che riesce a superare la noia della sua condizione solo per mezzo di una lettura continua, che la proietti in una condizione di-versa. Ed ossessiona Silas Flannery che dal suo chalet di montagna col cannocchiale osserva “una giovane donna che legge” per “cogliere nella sua figura immobile i segni di quel movimento invisibile che è la lettura, (…), quel percorso che sembra uniforme e invece è sempre mutevole e accidentato”2. Da qui nasce la crisi dello scrit-tore, da questa visione della lettura, dal piacere della let-tura, ormai vietato a chi è “diventato un forzato dello scri-vere”3.

Il diario dello scrittore è un punto nodale del testo, in quanto ne fornisce la chiave (o almeno quella chiave che Calvino vuole fornire). Scrivere non è un’espressione dei propri sentimenti e pensieri, piuttosto è una funzione della lettura, acquista senso nel suo momento di fruizione:

Ciò che faccio ha come fine lo stato d’animo di questa donna sulla sedia a sdraio inquadrata dalle lenti del mio cannocchiale, ed è uno stato d’animo che mi è vietato. Tutti i giorni prima di mettermi al lavoro guardo la donna sulla sdraio: mi dico che il risultato dello sforzo innaturale cui mi sottopongo scrivendo deve essere il respiro di questa lettrice, l’operazione del leggere diven-tata un processo naturale, la corrente che porta

1 Ivi, p. 127.2 Ivi, p. 169.3 Ibidem.

le frasi a sfiorare il filtro della sua attenzione, a fermarsi per un attimo prima d’essere assorbite dai circuiti della sua mente e sparire trasfor-mandosi nei suoi fantasmi interiori, in ciò che in lei è più personale e incomunicabile1.

Sono questi <fantasmi interiori> suscitati dalla lettura il vero scopo dello scrivere, che diventa quasi un’azione senza un concreto soggetto che la produca. La crisi dello scrittore è dunque la crisi dell’Io autorale, che si sente espropriato di ciò che ha scritto nel momento in cui viene letto: “sento che ciò che scrivo non mi appartiene più”2. Letto però da un individuo, da un Io che carica il libro dei suoi <fantasmi interiori>, delle sue pulsioni, delle sue aspettative, e perciò stesso lo fa suo; l’individuo che scrive diviene solo

un’impersonale energia grafica, pronta a trasformare dall’inespresso alla scrittura un mondo immaginario che esiste indipenden-temente da me. Guai se sapessi che non mi resta più nulla di quello che lei crede: né l’ener-gia espressiva né qualcosa da esprimere3.

Il dramma di Silas Flannery sta in questo: sentire il peso dell’Io individuo, persona, con propri sentimenti e im-pulsi4, e la consapevolezza che in quanto scrittore questo Io non conta nulla. Da qui il desiderio di

cancellare me stesso e trovare per ogni libro un altro io, un’altra voce, un altro nome, rinascere; ma il mio scopo è di catturare nel libro il mondo

1 Ivi, p. 169-170.2 Ivi, p. 171.3 Ivi, p. 190.4 Cfr. l’episodio in cui Silas Flannery cerca di attrarre a sé Ludmilla,

ivi, p. 190-191

illeggibile, senza centro, senza io1.

Il tema della lettura viene qui ricondotto alla sua scaturigine, appunto l’autore, che si trova insidiato dai di-versi fronti di lettura: quella inquinata da mistificazioni totali (Manara) o ideologiche e messianiche (setta Apo), o da interpretazioni critiche precostituite (Lotaria); la stessa lettura di Silas Flannery inquinata da necessità com-merciali e produttive2, viene rifiutata per essere costruita su un a priori, su un pre-testo. Ma anche la lettura totale, immedesimata nel testo, rappresentata da Ludmilla <lettrice ideale>3, nega l’autore come persona, come in-dividuo, e lo condanna ad essere quella <impersonale energia grafica’> pronta a “trasmettere lo scrivibile che at-tende d’essere scritto, il narrabile che nessuno racconta”4. Ma annullare il proprio Io non è semplice, è più “facile mol-tiplicare i miei io, annettere gli io altrui, fingere gli io più op-posti a me e tra loro (…) scrivere tutti i libri, scrivere i libri di tutti gli autori possibili”5; ed ecco che il testo si costi-tuisce6 come risposta ad una crisi di identità, come ri-chiamo alla potenza del narrabile (e del narrato) seppur concentrata in piccole cellule di racconto.

Non a caso tutti i dieci romanzi sono narrati in prima persona. Ma anche questi dieci diversi Io che raccontano le loro storie sono ossessionati dall’operazione letteraria, dalla Lettrice che quasi li guida con i suoi mutevoli desideri di lettura. “Leggo nel suo viso quel che lei desidera leg-

1 Ivi, p. 180.2 “Da quanti anni non posso concedermi una lettura disinteressata?

Da quanti anni non riesco ad abbandonarmi ad un libro scritto da altri, senza nessun rapporto con ciò che devo scrivere io? (…) Da quando sono diventato un forzato dello scrivere, il piacere della lettura è finito per me”, ivi, p. 169.

3 “Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leg-gere qualcosa che non sapevano loro”, p. 185.

4 Ivi, p. 171.5 Ivi, p. 181.6 Cfr. ivi, p. 197.

gere, e lo scrivo fedelmente”1, aveva detto Silas Flannery, e almeno nove dei dieci romanzi sono la risposta narrativa alla esplicita richiesta che la Lettrice rivolge al mondo del narrabile. Il primo, che si presenta come apertura di libro, come novità, alla curiosa attesa del Lettore, non trova modo di legarsi all’appercezione della Lettrice se non a posteriori, come <senso di smarrimento> ed <effetto di nebbia> ricavati dalla lettura. Invece in ogni capitolo che precede gli altri romanzi la Lettrice enuncia ogni volta la propria impellente aspettativa alla quale appunto ogni volta il romanzo che segue si legherà.

Capitolo 2., dice Ludmilla:

preferisco i romanzi che mi fanno entrare subito in un mondo dove ogni cosa è precisa, con-creta, ben specificata. Mi dà una soddisfazione speciale sapere che le cose sono fatte in quel determinato modo e non altrimenti, anche le co-se qualsiasi che nella vita mi sembrano indif-ferenti2.

Ed ecco l’ossessione metatestuale dell’io narrante di Fuori dell’abitato di Malbork che si preoccupa di specificare come il testo si costruisca davanti al lettore: “Un odore di fritto aleggia ad apertura di pagina (…). Olio di colza, è specificato nel testo, dove è tutto molto preciso, le cose con la loro nomenclatura e le sensazioni che le cose tra-smettono (…). Qui tutto è molto concreto, corposo, de-signato con sicura competenza”3. Lega così il suo racconto alle stesse parole, alle sensazioni evocate da Ludmilla come attesa di Lettura.

Capitolo 3.:

Però io vorrei che le cose che leggo non fossero tutte lì, massicce da poterle toccare, ma ci si

1 Ivi, p. 127.2 Ivi, p. 129-130.3 Ivi, p. 33.

senta intorno la presenza di qualcos’altro che ancora non si sa cos’è, il segno di non so cosa1.

E il diarista di Sporgendosi dalla costa scoscesa, alle prese con i messaggi e i segnali che il mondo gli manda, raccomanda “a chi mi leggerà” di comprendere “lo sforzo che sto compiendo per leggere tra le righe delle cose il senso elusivo di ciò che mi aspetta”2.

Capitolo 4.:

Il libro che ora avrei voglia di leggere è un ro-manzo in cui si senta la storia che arriva, come un tuono ancora confuso, la storia quella storica insieme al destino delle persone, un romanzo che dia il senso di stare vivendo uno scon-volgimento che ancora non ha un nome, non ha preso forma3.

E il quarto romanzo Senza temere il vento e la verti-gine presenta proprio una situazione di rivolgimenti politici, sociali e personali, la cui sintesi è in queste parole dell’io narrante: “Forse è questo racconto che è un ponte sul vuo-to, e procede buttando avanti notizie e sensazioni e emo-zioni per creare uno sfondo di rivolgimenti sia collettivi che individuali in mezzo al quale ci si possa aprire un cammino pur restando all’oscuro di molte cose sia storiche che geo-grafiche”4; ancora una volta strettamente legate a quelle di Ludmilla.

Capitolo 5.:

Il romanzo che più vorrei leggere in questo momento dovrebbe avere come forza motrice solo la voglia di raccontare, d’accumulare storie su storie, senza pretendere di importi una vi-sione del mondo, ma solo di farti assistere alla

1 Ivi, p. 45.2 Ivi, p. 60.3 Ivi, p. 71-72.4 Ivi, p. 82.

propria crescita, come una pianta, un aggrovi-gliarsi come di rami e di foglie1.

E infatti Guarda in basso dove l’ombra s’addensa è un <addensarsi> di storie, di racconti possibili, iniziati, in-terrotti, tralasciati, che si intrecciano nella mente del pro-tagonista che narra; e ritorna la stessa metafora arborea della Lettrice: “Anzi, guardando in prospettiva a tutto quello che lascio fuori dalla narrazione principale, vedo come una foresta che si estende da tutte le parti e non lascia passare la luce tanto è folta”2.

Capitolo 6.:

I romanzi che preferisco sono quelli che comu-nicano un senso di disagio fin dalla prima pa-gina3.

In una rete di linee che s’allacciano inizia così: “La prima sensazione che dovrebbe trasmettere questo libro è ciò che io provo quando sento lo squillo d’un telefono”4, appunto quella sensazione di disagio, di ansia, di ango-scia, che questo sesto romanzo vuol comunicare.

Capitolo 7.:

A me piacciono i libri in cui tutti i misteri e le angosce passano attraverso una mente esatta e fredda e senza ombre come quella d’un gioca-tore di scacchi5.

Il protagonista di In una rete di linee che si inter-secano pare veramente un giocatore di scacchi che si di-verte a muovere le persone come fossero semplici pedine del suo gioco perverso.

In seguito la corrispondenza tra le parole di Ludmilla 1 Ivi, p. 92.2 Ivi, p. 109.3 Ivi, p. 126.4 Ivi, p. 133.5 Ivi, p. 157.

e quelle dei narratori non è più così precisa, ma lo schema permane, a conferma di come la narrazione nasca dalle esigenze dell’ascolto, di come il narrabile sia una funzione del leggibile, di come la problematica che il testo propone (la possibilità del racconto) sia risolvibile solo partendo da una lettura piena, totale, ricca di aspettative sul testo che affronta, non sul con-testo che si presuppone al di fuori e prima del testo.

CAMMEI

Nei racconti che costituiscono la muscolatura di Se una notte d’inverno un viaggiatore, che riempiono quel-l’intelaiatura analizzata nel saggio precedente, appaiono, in ciascuno, figure femminili, che qui vogliamo seguire nella loro trama, che innerva il romanzo come un ricamo in rilievo, il quale si affaccia e compare ogni volta diverso, con caratteristiche proprie.

Armida appare di spalle, esce dalla nebbia del bar della stazione, dall’intricato, minuscolo mondo racchiuso in quel bar, interloquisce con gli altri avventori, dialoga con il protagonista, e prende rilievo sulla pagina:

La tua attenzione lettore ora è tutta rivolta alla donna, è già da qualche pagina che le giri in-torno, che io, no, che l’autore gira intorno a questa presenza femminile, è da qualche pagi-na che tu aspetti che questo fantasma femminile prenda forma nel modo in cui prendono forma i fantasmi femminili sulla pagina scritta, ed è la tua attesa di lettore che spinge l’autore verso di lei, e anch’io che ho tutt’altri pensieri per il capo ecco che mi lascio andare a parlarle, ad attac-care una conversazione che dovrei troncare al più presto, per allontanarmi, sparire.1

Il racconto diventa questo dialogo con la donna, questo rapporto sottile, nebbioso, tra il protagonista e la donna, sullo sfondo del bar, presenti gli altri, presente l’ex marito di Armida, che dà un rilievo perturbante al dialogo tra i due. Quando lei esce di scena,

S’alza dallo sgabello, s’aggiusta allo specchio il bavero del soprabito, la cintura.- Se più tardi passo di lì e picchio alla saracinesca, mi sente?

1 Ivi, p. 20

- Provi.Non saluta nessuno. È già fuori nella piazza.1

l’epilogo è ormai prossimo e tutto il racconto subito preci-pita nell’indistinto del non raccontato.

Nel secondo racconto la figura femminile si sdoppia: da un lato la corposità di Brigd, con i suoi gesti, i suoi odori:

Nell’impastare la carne tritata sulla farina intrisa d’uova le braccia rosse e sode di Brigd pic-chiettate di lentiggini dorate si coprono d’una spolveratura bianca con appiccicati frammenti di carne cruda. A ogni su e giù del busto di Brigd sul tavolo di marmo, le sottane da dietro si sol-levano di qualche centimetro e mostrano l’inca-vo tra polpaccio e bicipite femorale dove la pelle è più bianca, solcata da una sottile vena ce-leste.2

Dall’altro la leggerezza di un’immagine, Zwida:

Il ritratto d’una ragazza coi capelli neri tagliati corti e il viso lungo era uscito per un attimo dal bauletto di Ponko, prontamente nascosto da lui sotto una blusa d’incerato […] Era una ragazza diversa da quelle di qui che hanno tutte la faccia tonda e le trecce color semola.3

La lotta tra i due ragazzi è lotta per quelle donne, ma è anche lotta contro un passato, verso un futuro im-maginato diverso:

ciò che io sto provando mentre schiaccio il petto di Ponko sotto il mio petto o mentre resisto alla

1 Ivi, p. 23.2 Ivi, p. 34.3 Ivi, p. 36.

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torsione d’un braccio dietro la schiena non è la sensazione di cui avrei bisogno per affermare ciò che voglio affermare, vale a dire il possesso amoroso di Brigd, della pienezza soda di quella carne di ragazza, così diversa dalla compat-tezza ossuta di Ponko, e anche il possesso amoroso di Zwida, della morbidezza struggente che immagino in Zwida, il possesso di una Brigd che già sento perduta e d’una Zwida che ha solo la consistenza incorporea d’una fotografia sottovetro. Cerco inutilmente di stringere nel groviglio di membra maschili contrapposte e identiche, quei fantasmi femminili che svani-scono nella loro diversità irraggiungibile; e cerco nello stesso tempo di colpire me stesso, forse l’altro me stesso che sta per prendere il mio posto nella casa oppure il me stesso più mio che voglio sottrarre a quell’altro, ma ciò che sento premermi contro è soltanto l’estraneità dell’altro, come se già l’altro avesse preso il mio posto e qualsiasi altro posto, e io fossi can-cellato dal mondo.1

Lotta che spezza, lotta che non rifonde il sé, ma apre una porta verso l’ignoto, il viaggio.

Ed ecco, nel terzo racconto, una signorina Zwida accoglierci, con la leggerezza di un “nastro lilla”2 e la levità dei suoi gesti da disegnatrice amante della natura. Ma la ragazza nasconde un segreto e coinvolge il protagonista nella fuga di un carcerato: dalla leggerezza dei loro incontri il racconto volge verso l’impervia natura degli accadimenti umani:

- Sono evaso. – disse. – Non mi tradisca. Dovrebbe andare ad avvertire una per-sona, vuole? Sta all’Albergo del Giglio Marino.

1 Ivi, p. 38.2 Ivi, p. 55.

171

Sentii subito che nell’ordine perfetto dell’uni-verso s’era aperta una breccia, uno squarcio ir-reparabile.1

Nel quarto racconto gli accadimenti di una rivo-luzione coinvolgono i tre personaggi, e Irina si staglia come dominatrice tra i due maschi, musa di una rivoluzione ses-suale e morale dei rapporti tra uomini e donne, dove sono le donne a prendere il sopravvento:

- Per prendere il vostro posto. Noi sopra e voi sotto. A provare un po’ voi cosa si sente, quando si è donna. Via, muoviti, passa dall’altra parte, va’ vicino al tuo amico, - ordina, sempre puntandomi contro l’arma.2

Tutto sarà trasformato, fin nelle alcove:

In mezzo alle rivoluzioni che quell’inverno ven-toso spazzavano le vie delle capitali come raf-fiche di tramontana, stava nascendo la rivo-luzione segreta che avrebbe trasformato i poteri dei corpi e dei sessi: questo Irina credeva3

O solamente lì, perché poi la trama degli inganni tra gli uomini riprende il suo corso:

Aspettavo l’attimo in cui il laccio dello sguardo di Irina si sarebbe allentato. Eccola che socchiude gli occhi, ecco che io striscio nell’ombra, dietro i cuscini i divani il braciere, là dove Valeriano ha lasciato i suoi vestiti piegati in perfetto ordine come sua abitudine, striscio nell’ombra delle ci-glia di Irina abbassate, frugo nelle tasche, nel portafogli di Valeriano, mi nascondo nel buio

1 Ivi, p. 66.2 Ivi, p. 86.3 Ivi, p. 88.

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delle palpebre serrate di lei, nel buoi del grido che esce dalla sua gola, trovo il foglio piegato in quattro col mio nome scritto con pennino d’ac-ciaio, sotto la formula delle condanne a morte per tradimento, firmata e controfirmata sotto i timbri regolamentari.1

Bernadette, nel quinto racconto, sembra una figura sfumata, appare per dire qualche frase di raccordo:

- Ci vuole un secondo sacco per infilarglielo in testa, - disse Bernadette, e ancora una volta dovetti riconoscere che l’intelligenza di quella ragazza era superiore a quel che ci si poteva aspettare dalla sua condizione sociale.2

Poi viene risucchiata nel magma narrativo del prota-gonista, che riverbera dentro di sé le mille storie della sua vita. Ma poi anche Bernadette viene illuminata da un faro: quando fa l’amore con l’antagonista, affinché il pro-tagonista lo possa uccidere; e quando riprende a farlo in macchina con lui:

Quanto a me, preso così di sorpresa, con le reazioni fisiche che andavano per conto loro preferendo evidentemente d’obbedire a lei piuttosto che al mio animo esterrefatto, senz’avere neanche bisogno di muovermi perché era lei che ci pensava, ebbene, ho ca-pito in quel momento che quello che stavamo facendo era una cerimonia a cui lei dava uno speciale significato, lì sotto gli occhi del morto, e ho sentito che la morbida tenacissima morsa si serrava e non potevo sfuggirle.<<Ti sbagli, ragazza, - avrei voluto dirle – quel morto è morto per un’altra storia, non la tua, una

1 Ivi, p. 89.2 Ivi, p. 104.

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storia che non è ancora chiusa>>.1

Una parentesi rispetto al racconto, appunto un cam-meo che vive di luce propria nel magma confuso della narrazione.

Nell’angoscioso monologo interiore del protagonista del sesto racconto sembra non esserci spazio che per le sue nevrotiche emozioni e fantasie, finché la realtà gli si manifesta con la sua brutale consistenza:

- Sta’ bene a sentire. Marjorie è qui, tra poco si sveglia, ma è legata e non può scap-pare. Segnati bene l’indirizzo: 115, Hillside Drive. Se te la vieni a prendere, bene; se no in cantina c’è una tanica di cherosene e una carica di plastico collegata a un timer. Tra mezz’ora questa casa sarà in fiamme.2

E lo costringe a un periodare affannoso, per trovare finalmente la donna, brutalmente:

Sono completamente privo di fiato, corro solo perché non sento la terra sotto i piedi, né i polmoni nel petto. Ecco Hillside Drive. Unidici, quindici, ventisette, cinquantuno; meno male che la numerazione procede rapidamente, sal-tando da una decina all’altra. Ecco il 115. la porta è aperta, salgo la scala, entro in una stanza in penombra. Legata su un divano c’è Marjorie, imbavagliata. La sciolgo. Vomita. Mi guarda con disprezzo.- Sei un bastardo, - mi dice.3

Nel mondo di specchi e riflessioni di cui si circonda il

1 Ivi, p. 111.2 Ivi, p. 138.3 Ivi, p. 139.

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protagonista del settimo racconto appare Lorna:

Sul pavimento di specchio giace un corpo di donna, legato. È Lorna. Appena fa un movi-mento, la sua carne nuda dilaga ripetuta su tutti gli specchi.1

E subito dopo Elfrida:

Intanto s’è aperta una porta. Viene avanti Elfrida. – Sapevo del pericolo che ti minacciava e sono riuscita a salvarti, - dice. – Forse il sistema è stato un poco brutale, ma non avevo scelta.2

E le loro immagini riflesse negli specchi appaiono scom-poste, come l’Io del protagonista:

Un occhio e un sopracciglio d’Elfrida, una gam-ba negli stivali aderenti, l’angolo della sua bocca dalle labbra sottili e dai denti troppo bianchi, una mano inanellata che stringe un revolver si ripetono ingigantiti dagli specchi e tra questi frammenti stravolti della sua figura s’interpon-gono scorci della pelle di Lorna, come paesaggi di carne. Già non so più distinguere ciò che è dell’una e ciò che è dell’altra, mi perdo, mi sembra d’aver perduto me stesso, non vedo il mio riflesso ma solo il loro.3

Nel racconto erotico-giapponese il protagonismo femminile si appalesa in tutta evidenza. Il narratore, preso dalla ricognizione precisa e puntuale delle sensazioni che dal corpo si trasmettono all’animo, si lascia cogliere dal-l’amore per la giovane Makiko. Ma è la madre di lei,

1 Ivi, p. 167.2 Ivi, p. 168.3 Ivi, p. 168.

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Miyagi, che lo conduce dentro di sé, senza che lui riesca a opporsi, proprio perché intento a studiare le sensazioni che anche quel corpo maturo può trasmettergli.

Anche nel nono racconto la figura femminile si sdop-pia: Amaranta e Jacinta, due razze diverse, due classi di-verse, eppure:

Jacinta scoppia a ridere nascondendosi la bocca con le mani. Capisco in quel momento che è identica ad Amaranta, anche se è vestita e pettinata in tutt’altro modo.1

Le unisce la stessa impossibilità di essere né l’una, né l’altra, la donna del protagonista.

Il decimo racconto chiude il cerchio: quella nebbia d’angoscia che invade il protagonista del primo racconto al disparire della donna, qui è il nucleo narrativo di una progressiva cancellazione del mondo. Mondo che improv-visamente riappare, interrompendo la caduta nell’abisso del nulla, allorché compare la donna Franziska:

È qui, è di fronte a me, sorridente, con lo scintillio dorato degli occhi, il suo piccolo viso un po’ arrossato dal freddo. – Oh, ma sei proprio tu! Ogni volta che passo sulla Prospettiva t’incontro! Non mi dirai che passi le giornate a passeggio! Senti, conosco un caffè qui all’an-golo, pieno di specchi, con un’orchestra che suona dei valzer: m’inviti?2

Una semplice amica? Una futura amante? Semplicemente il Tu in cui l’Io finalmente si ritrova, fuori dall’ossessione onirica; quel Tu, quel Lettore, a cui il romanzo si rivolge, e per cui solamente ha senso rac-contare storie.

LEGGERE O AMARE?

1 Ivi, p. 231.2 Ivi, p. 254.

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THIS IS THE QUESTION!

L’ossessione della lettura era già presente in un racconto del 1958: L’avventura di un lettore1. Qui, il prota-gonista Amedeo viene colto nella minuta descrizione dei gesti, minimi, abituali, preparatori dell’atto della lettura, che viene poi descritto così:

Ci si buttò sopra supino, e già con le mani apri-va il libro al segno. Così rimase lungo disteso sulla roccia, in quel sole che riverberava da tutte le parti, a pelle asciutta […], posò sul cuscino di gomma il capo calzato d’un berrettino bianco di tela, […], immobile, con solo gli occhi, (invisibili dietro gli occhiali scuri) che inseguivano per le righe bianche e nere il cavallo di Fabrizio del Dongo. […] Amedeo ogni tanto levava gli occhi a quella vista circostante, li posava su un luc-cichio della superficie e della corsa obliqua d’un granchio; poi tornava assorto alla pagina dove Raskolnikov contava i gradini che lo separavano dalla porta della vecchia o Lucien de Rubempré prima d’infilare il capo nel nodo scorsoio con-templava le torri e i tetti della Conciergerie2.

Ecco, il racconto di un lettore subito si rivolge ad altri lettori esperti, che possono cogliere i riferimenti lette-rari presenti nella pagina, ed entrare nel clima ben cono-sciuto che avvolge una persona che legge, quasi un’os-sessione all’isolamento, a vivere le esperienze solamente attraverso la lettura:

Da tempo Amedeo tendeva a ridurre al minimo la sua partecipazione alla vita attiva. Non che egli non amasse l’azione, anzi dell’amore per

1 Cit. dall’ed.: I. Calvino, Gli amori difficili, Milano, Mondadori, 2002, (Oscar Mondadori), p. 83-99.

2 Ivi, p. 84.

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l’azione erano nutriti tutto il suo carattere e i suoi gusti; eppure, d’anno in anno, la smania d’esser lui a fare scemava, scemava, tanto che veniva da chiedersi se mai egli questa smania avesse avuto davvero. L’interesse all’azione soprav-viveva però nel piacere di leggere; la sua pas-sione erano sempre le narrazioni di fatti, le storie, l’intreccio delle vicende umane. […] Amedeo amava i grossi tomi e metteva nell’af-frontarli il piacere fisico dell’affrontare una gros-sa fatica. […] un po’ riluttando all’inizio, senza voglia di vincere la prima fatica di tener a mente i nomi, di cogliere il filo della storia; poi affidan-docisi, correndo per le righe, attraversando il graticcio della pagina uniforme, e di là dei carat-teri di piombo ecco appariva la fiamma e il fuoco della battaglia e la palla che fischiando per il cielo s’abbatteva ai piedi del principe Andrej, ecco il negozio gremito di stampe, di statue e con il batticuore Fréderic Moreau faceva il suo ingresso dagli Arnoux. Oltre la superficie della pagina s’entrava in un mondo in cui la vita era più vita che di qua, da questa parte1.

Il testo si enuncia, il testo si rappresenta: anche noi, al di là delle parole, dei caratteri grafici, vediamo la vita scorrere, farsi avanti, rappresentarsi, così nelle pagine evocate dal racconto, così nel racconto stesso: vediamo la nuotata di Amedeo, il suo indugiare sott’acqua o il suo al-lontanarsi dalla scogliera; ma vediamo anche che

Il suo cuore era tra le pagine del libro lasciato a riva. Ecco che riguadagnava a rapide bracciate il suo scoglio, cercava il punto dove arrampi-carsi, ecco che quasi senz’accorgesene si tro-vava già lassù, a strofinarsi sulle spalle l’asciu-gamano a spugna. Ricalcava in testa il ber-

1 Ivi, p. 85.

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rettino di tela, si sdraiava al sole, e aveva co-minciato il nuovo capitolo […] soffermandosi sul-le frasi, alzando spesso gli occhi dalla pagina per riflettere, raccogliere le idee. A un certo punto, così alzando gli occhi, vide che sulla spiaggia di sassi in fondo alla cala era venuta a sdraiarsi una donna1.

La vita, la realtà, vuole prendersi la sua rivincita: la donna con le sue forme, con la sua isolata presenza, turba l’attenzione di Amedeo, lo distrae, gli fa soppesare l’even-tualità di un’avventura, ma “continuò a leggere, convinto che quella donna non poteva affatto interessarlo”2. Ora una lotta si ingaggia nell’animo del protagonista tra la sua ossessione di continuare a leggere e non distrarsi da quel mondo fittizio, ma più vero del reale, e l’attrazione eser-citata da questa donna, sola sulla scogliera, appetibile, forse disponibile, che viene a spezzare lo sguardo rilassato di Amedeo, a intrudere la sua tranquillità di lettore. E il racconto prosegue tutto in questa turbolenza tra la vita, l’azione, rappresentata dalla donna, che vuole attrarre a sé Amedeo, e la sua resistenza, il suo tornare al libro, alla lettura:

nel libro ritrovava un’adesione alla realtà molto più piena e concreta, dove tutto aveva un si-gnificato, un’importanza, un ritmo3.

Era inutile, nulla eguagliava il sapore di vita che è nei libri. […] Non c’era altra storia , altra attesa possibile oltre a quella che aveva lasciato in so-speso tra le pagine dov’era il segnalibro, e tutto il resto era un intervallo vuoto4.

In questa tensione, nella continua ricerca di Amedeo 1 Ivi, p. 87.2 Ivi, p. 88.3 Ivi, p. 92.4 Ivi, p. 94.

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di trovare un equilibrio tra l’ossessione della lettura e la pulsione erotica, vitale, si gioca il racconto:

Amedeo non sapeva se guardarla facendo finta di leggere o se leggere facendo finta di guar-darla1.

Ma la situazione precipita, la forza della vita vince la resistenza di Amedeo:

<<Dato che deve avvenire, avvenga subito!>> pensò Amedeo buttandosi avanti col libro in mano, un dito tra le pagine, ma ciò che lesse in quello sguardo […] cioè quello che non lesse perché negli sguardi non sapeva leggere ma solo indistintamente avvertì, gli provocò un momento di tale trasporto verso la donna che, abbracciandola e cadendo insieme a lei sul ma-terassino, volse appena il capo al libro per ve-dere che non finisse in mare2.

Non c’è scampo alla pulsione vitale, volersi rifugiare nel mondo dei libri, in una realtà più vera, più coerente, è solamente un’ossessione, votata alla sconfitta:

Adesso lei era discesa là e stava a mezz’acqua. – Vieni anche tu, facciamo un ultimo bagno… - Amedeo, mordendosi un labbro, contava quante pagine mancavano alla fine3.

Venti anni dopo, nel romanzo dei libri interrotti4, molto più felicemente, il finale vedrà il coronamento del sogno d’amore tra Lettore e Lettrice, in barba all’osses-sione della lettura non portata a compimento.

1 Ivi, p. 98.2 Ivi, p. 99.3 Ivi, p. 99.4 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit.

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VOCABOLARIO DI CITTÀ

Le città invisibili1sono una prova stilistica di alto spessore, in cui la struttura che innerva l’opera2 si fonde in un linguaggio libero, aereo, quasi poetico; nel ritmo musi-cale di una prosa capace di far nascere mondi solamente dal flusso delle parole.3

Alcuni esempi:

dire che quattro torri d’alluminio s’elevano dalle sue mura fiancheggiando sette porte dal ponte levatoio a molla che scavalca il fossato la cui acqua alimenta quattro verdi canali che attra-versano la città e la dividono in nove quartieri, ognuno di trecento case e settecento fumaioli; e tenendo conto che le ragazze da marito di ciascun quartiere si sposano con giovani di altri quartieri e le loro famiglie si scambiano le mer-canzie che ognuno ha in privativa: bergamotti, uova di storione, astrolabi, ametiste, fare calcoli in base a questi dati fino a sapere tutto quello che si vuole della città nel passato nel presente nel futuro.4

Abbandonata prima o dopo esser stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scor-

1 Cit. dall’ed.: I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 2002, (Oscar Mondadori).

2 “Alla fine ho deciso di fissarmi su 11 serie di 5 pezzi ciascuna, rag-gruppati in capitoli formati da pezzi di serie diverse che avessero un certo clima in comune. Il sistema con cui le serie si alternano è il più semplice possibile, anche se c’è chi ci ha studiato molto per spiegarlo”. Ivi, Presentazione di I. Calvino, p. VII.

3 “Ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi ce-lesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla strut-tura del racconto e al linguaggio”. I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2002, (Oscar Mondadori), p. 7.

4 I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 9.

gere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che fanno abluzioni, o che s’asciugano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acqua sventagliati dalle docce, i getti dei ru-binetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.1

L’immagine che la tradizione ne divulga è quella d’una città d’oro massiccio, con chiavarde d’ar-gento e porte di diamante, una città-gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo di studio laborioso può produrre applicandosi a materie di massimo pregio. Fedeli a questa cre-denza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste: accu-mulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di com-posita compostezza.2

Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavolo, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla domanda: - Perché la costruzione di Tecla continua così a lungo? – gli abitanti senza smettere d’issare secchi, di calare fili a piombo, di smuovere in su e in giù lunghi pennelli, - Perché non cominci la di-struzione, - rispondono. E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce: - Non soltanto la città.3

Il tour de force linguistico che si esplica in ogni

1 Ivi, p. 49.2 Ivi, p. 111.3 Ivi, p. 128.

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poema in prosa (così ci piace chiamare questi testi, che sfuggono alle categorie prettamente narrative di racconto, favola, sunto, ecc.) fa il paio con il rigore strutturale che li organizza, da cui è possibile astrarre fili di una ragnatela che si intrecciano e legano tra loro le città: memoria, sogno, finzione, duplicazione delle città, duplicazione dei punti di vista; così il libro, questo libro, diventa visibile.

Non diversamente è costruito il vocabolario: un ordine semplice ma rigoroso (quello alfabetico) lo struttura; fili sottili legano gli aggettivi con gli aggettivi, i sostantivi con i sostantivi, ecc.; il flusso delle parole, delle definizioni, evoca oggetti, pensieri, sentimenti, racconti:

Non solo a vendere e a comprare si viene a Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come <<lupo>>, <<so-rella>>, <<tesoro nascosto>>, <<battaglia>>, <<scabbia>>, <<amanti>> - gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie.1

Ecco, la parola definisce, dalla parola nasce il racconto, dal vocabolario nascono infinite possibilità di racconto, dal vocabolario nascono Le città invisibili. L’enumerazione, l’accumulazione sono le figure principali su cui si gioca la descrizione delle città: un magma ridondante di parole; termini comuni, termini specifici, un vocabolario che si dipana sotto lo sguardo del lettore e penetra nella sua mente, per raccontargli queste città misteriose, che vivono solo grazie alla forza evocativa delle parole.

Kublai è questo lettore, Kublai pensa di possedere il suo impero come ogni lettore pensa di possedere il voca-bolario della propria lingua, ma questi gli sfugge e sempre lo sorprende, perché la gamma delle parole possibili,

1 Ivi, p. 36.

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invisibili, travalica lo spazio della sua mente, delle cose conosciute, di un sapere che sempre deve arrestarsi: neanche l’Imperatore sa tutto il suo Impero.

Le conversazioni tra Kublai e Marco Polo, che aprono e chiudono ogni capitolo, racchiudono questo vo-cabolario di città, per dare spazio alla ricerca umana di senso.

Già dal primo capitolo è manifesta l’ansia dell’Imperatore di conoscere il suo Impero, di leggere nei gesti di Marco Polo (siamo alla mimica, prima della co-municazione linguistica) i segni che lo giustifichino:

Il nuovo dato riceveva un senso da quell’em-blema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso. Forse l’impero, pensò Kublai, non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente.- Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi, - chiese a Marco, - riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?1

Possedere l’Impero significa conoscerlo, definirlo at-traverso i gesti di Marco Polo; vana speranza:

E il veneziano: - Sire, non lo credere: quel gior-no sarai tu stesso emblema tra gli emblemi.2

Eppure ai gesti fanno seguito le parole: la lingua più precisa ma meno evocativa, definisce meglio la realtà, i gesti definiscono meglio i sentimenti:

E mentre il vocabolario delle cose si rinnovava con i campionari delle mercanzie, il repertorio dei commenti muti tendeva a chiudersi e a fis-sarsi.3

Ma tutto sfuma nel silenzio:

1 Ivi, p. 22.2 Ibid.3 Ivi, p. 40.

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Anche il piacere a ricorrervi diminuiva in en-trambi; nelle loro conversazioni restavano il più del tempo zitti e immobili.1

Allora è nei sogni, nelle immagini mentali il senso di tutto?

- D’ora in avanti sarò io a descrivere le città e tu verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate.2

Ma ancora Marco Polo sbarra la strada alla com-prensione di senso, interviene da un’altra prospettiva, rigurgita sull’Imperatore la sua ansia di conoscenza:

È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.3

Fino al limite di eludere anche la possibilità di un modello mentale congruo alla realtà:

le città visitate da Marco Polo erano sempre di-verse da quelle pensate dall’imperatore.4

Perché il modello è quello dell’arco, visibile, ma fatto di tante pietre:

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.1 Ibid.2 Ivi, p. 43.3 Ivi, p. 44.4 Ivi, p. 69.

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- Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. - Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco, - ma dalla linea dell’arco che esse formano.Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.Polo risponde: - Senza pietre non c’è arco.1

Il racconto è fatto di parole, senza il vocabolario il racconto non esiste:

- Ti è mai accaduto di vedere una città che assomigli a questa? – chiedeva Kublai a Marco Polo sporgendo la mano inanellata fuori dal bal-dacchino di seta del bucintoro imperiale, a in-dicare i ponti che s’incurvano sui canali, i pa-lazzi principeschi le cui soglie di marmo s’im-mergono nell’acqua, l’andirivieni di battelli leg-geri che volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, le chiatte che scaricano ceste di ortaggi sulle piazze dei mercati, i balconi, le altane, le cupole, i campanili, i giardini delle isole che ver-deggiano nel grigio della laguna.2

Dalla memoria delle parole depositate nel vocabolario e ricontestualizzate in una diversa sequenza nasce ogni volta un nuovo racconto; così come dal racconto nascono mondi e città. Tutto per tornare a capire il senso dell’Impero o in una oppure innumerevoli partite a scacchi (oltre il linguaggio delle parole nell’astrazione matematica) o in un piccolo, banale, tassello di legno:

La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommer-

1 Ivi, p. 83.2 Ivi, p. 87.

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gevano Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre…1

Oppure in uno sconfinato atlante che, come un vocabolario contiene tutti i racconti possibili, contenga tutte le possibili città:

Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell’assortimento di qualità che sono come le lettere del nome.2

Ma allo sconforto di Kublai:

Dice: - Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.3

Risponde così Marco Polo:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando in-sieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper rico-noscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.4

L’epilogo è anche l’inizio di tutto: l’inizio dei viaggi di Marco Polo, il Marco Polo di Calvino, e il mercante di

1 Ivi, p. 133-134.2 Ivi, p. 139.3 Ivi, p. 163-164.4 Ivi, p. 164.

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Venezia curioso del mondo; l’inizio di come nasce e diventa città meravigliosa Venezia; l’inizio dell’Impero ci-nese, che costruisce la città proibita; l’inizio di quel primo uomo che dall’inferno della sua esistenza ha estratto il fuoco per riscaldarsi insieme alla sua compagna.

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