Rottami - Antica Biblioteca Rossanese · superficie della Terra, ... naia di migliaia di chilometri...

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DOMENICA 1 MARZO 2009 D omenica La di Repubblica D icono che, ad occhio nudo, dallo spazio, fino a qualche anno fa, si riuscissero a distinguere, sulla superficie della Terra, soprattutto due opere del- l’uomo. La prima è la Grande Muraglia cinese. Una linea sottile, però, incerta. L’altra, invece, è una macchia dai contorni irregolari, ma inconfondibi- le: Fresh Kills, Staten Island, New York. La più grande discarica a cielo aperto del mondo, in cui, per anni, ogni giorno, si sono ro- vesciati dodicimila tonnellate di rifiuti assortiti. Con un po’ di pa- zienza, appena più a sinistra, giusto a metà strada fra Fresh Kills e la Grande Muraglia, dallo spazio si può individuare un altro se- gno della presenza umana, più grande dell’una e dell’altra. Una enorme chiazza di mille colori: Garbage Patch, la chiamano, più o meno “il posto della monnezza”. È qui, nel mezzo del Pacifico settentrionale, che il gioco inconsapevole delle correnti raduna a galleggiare placidamente la plastica raccolta dal mare. (segue nelle pagine successive) S pazzatura, ma anche infinito repertorio di linguaggi sul- la condizione umana. Italo Calvino le ha dedicato una città. Don DeLillo un intero sottomondo. L’Arte le ha spalancato i suoi musei. La Fantascienza l’ha inserita tra i mostri di uso quotidiano. Il cinema ci ha arredato le sue apocalissi con musica e robot. Samuel Beckett l’ha invi- tata nel suo teatro del silenzio, mostrata nella sua forma finale che è poi un sorriso senza denti, e il suono elementare di un lamento che ci respira accanto per poi interrompersi, parlare, non più per rac- contarci il passato, come accadeva nei secoli antichi, ma il presen- te e il prossimo futuro. Per primo è arrivato Marcel Duchamp, anno 1912. Avvertendoci, con un orinatoio capovolto, una vecchia ruota di bicicletta e uno scolapiatti appena traslato da mani d’artista, che i rottami d’uso quotidiano si erano accomodati intorno a noi, alle nostre città colme di vuoto e merci, alle nostri notti insonni, in un as- sedio perpetuo di spazi non più solo geografici, ma anche mentali. (segue nelle pagine successive) spettacoli Il secolo dei Ballets Russes LEONETTA BENTIVOGLIO la memoria Il segreto dell’Acqua di Colonia GIUSEPPE VIDETTI i sapori Germogli, un morso alla primavera LICIA GRANELLO e LUCA VILLORESI cultura Carlo Levi si è fermato a Eboli NELLO AJELLO e CARLO LUCARELLI l’attualità La “middle class” va in paradiso ENRICO FRANCESCHINI e FEDERICO RAMPINI PINO CORRIAS MAURIZIO RICCI FOTO CORBIS Rottami L’immondizia ci assedia, è in orbita sopra di noi, ricopre gli oceani. Eppure, come rimedio anticrisi, sarà premiato chi butta via l’auto o gli elettrodomestici Repubblica Nazionale

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DOMENICA 1MARZO 2009

DomenicaLa

di Repubblica

Dicono che, ad occhio nudo, dallo spazio, fino aqualche anno fa, si riuscissero a distinguere, sullasuperficie della Terra, soprattutto due opere del-l’uomo. La prima è la Grande Muraglia cinese. Unalinea sottile, però, incerta. L’altra, invece, è unamacchia dai contorni irregolari, ma inconfondibi-

le: Fresh Kills, Staten Island, New York. La più grande discarica acielo aperto del mondo, in cui, per anni, ogni giorno, si sono ro-vesciati dodicimila tonnellate di rifiuti assortiti. Con un po’ di pa-zienza, appena più a sinistra, giusto a metà strada fra Fresh Killse la Grande Muraglia, dallo spazio si può individuare un altro se-gno della presenza umana, più grande dell’una e dell’altra. Unaenorme chiazza di mille colori: Garbage Patch, la chiamano, piùo meno “il posto della monnezza”. È qui, nel mezzo del Pacificosettentrionale, che il gioco inconsapevole delle correnti radunaa galleggiare placidamente la plastica raccolta dal mare.

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Spazzatura, ma anche infinito repertorio di linguaggi sul-la condizione umana. Italo Calvino le ha dedicato unacittà. Don DeLillo un intero sottomondo. L’Arte le haspalancato i suoi musei. La Fantascienza l’ha inserita trai mostri di uso quotidiano. Il cinema ci ha arredato le sueapocalissi con musica e robot. Samuel Beckett l’ha invi-

tata nel suo teatro del silenzio, mostrata nella sua forma finale che èpoi un sorriso senza denti, e il suono elementare di un lamento checi respira accanto per poi interrompersi, parlare, non più per rac-contarci il passato, come accadeva nei secoli antichi, ma il presen-te e il prossimo futuro. Per primo è arrivato Marcel Duchamp, anno1912. Avvertendoci, con un orinatoio capovolto, una vecchia ruotadi bicicletta e uno scolapiatti appena traslato da mani d’artista, chei rottami d’uso quotidiano si erano accomodati intorno a noi, allenostre città colme di vuoto e merci, alle nostri notti insonni, in un as-sedio perpetuo di spazi non più solo geografici, ma anche mentali.

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spettacoli

Il secolo deiBallets RussesLEONETTA BENTIVOGLIO

la memoria

Il segreto dell’Acqua di ColoniaGIUSEPPE VIDETTI

i sapori

Germogli, un morso alla primaveraLICIA GRANELLO e LUCA VILLORESI

cultura

Carlo Levi si è fermato a EboliNELLO AJELLO e CARLO LUCARELLI

l’attualità

La “middle class” va in paradisoENRICO FRANCESCHINI e FEDERICO RAMPINI

PINO CORRIAS MAURIZIO RICCI

FO

TO

CO

RB

IS

RottamiL’immondizia ci assedia, è in orbita sopra di noi, ricopregli oceani. Eppure, come rimedio anticrisi,sarà premiato chi butta via l’auto o gli elettrodomestici

Repubblica Nazionale

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la copertinaRottami

Dallo spazio ingombro di detriti di satelliti si possono vederesoltanto due manufatti dell’uomo: la Grande Muragliae l’ex discarica di Fresh Kills, alle porte di New York,descritta da Don DeLillo nel suo “Underworld”. La metaforadi un’emergenza globale che ci sta costringendo a cambiarei comportamenti e i modelli di funzionamento dell’economia

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(segue dalla copertina)

Garbage Patch è più grande del Texas: centi-naia di migliaia di chilometri quadrati, lastri-cati di bottiglie, bambole, paperelle, conte-nitori vari, pezzi sfusi e, soprattutto, buste,buste, buste. Una distesa immane, destinataa perpetuarsi nei secoli, quanto durano i po-

limeri della plastica, e già punteggiata di carogne. Perché, co-me spesso capita con le cose che ci lasciamo spensierata-mente alle spalle, l’impatto è devastante: dicono gli espertiche un milione di uccelli marini e centomila fra foche e tar-tarughe muoiono ogni anno perché restano impigliati nellaplastica o la inghiottono.

Grosso uguale importante: è un para-metro un po’ rozzo, ma la gerarchia di quelche si vede dallo spazio almeno fa giustiziadell’idea che i rifiuti siano qualcosa di cuici possiamo serenamente dimenticare nelmomento in cui li abbiamo prodotti. Alcontrario, sono una emergenza perma-nente, che assorbe risorse crescenti. FreshKills è stata chiusa qualche anno fa e tra-sformata in un parco, ma il problema è di-ventato solo più complicato. Smaltire do-dicimila tonnellate di rifiuti significa riem-pire seicento camion da venti tonnellatel’uno: una fila lunga quindici chilometri.«Praticamente — commentò a suo tempoil vicesindaco di New York, Joseph Lhota— un’operazione militare su base quoti-diana». La metafora militare funziona,perché, in effetti, i rifiuti ci assediano. La ci-viltà del Ventunesimo secolo non è, cometutte quelle che l’hanno preceduta, sedu-ta sui propri scarti. Ci è immersa. A volte,come a Napoli l’anno scorso, se li trova let-teralmente fino alle ginocchia. In terminiplanetari, ce l’abbiamo non fino al collo,ma ben sopra alla testa.

Le orbite intorno alla Terra sono ormaiautostrade intasate in cui i novecento sa-telliti attivi viaggiano nel mezzo di unagrandine di detriti e rottami di lanci prece-denti. Il recente scontro fra un satellite Iri-dium e un vecchio Cosmos li ha moltipli-cati, ma è solo strano che non sia avvenu-to prima. Statisticamente, ognuno dei sa-telliti in attività rischia due o tre volte algiorno di scontrarsi con un rifiuto spazia-le. All’ultimo conto, gli oggetti in orbita so-no oltre centomila. Di questi, poco menodi diecimila sono più grossi di dieci centi-metri. E tutto viaggia alla velocità di mi-gliaia di chilometri l’ora. A quella velocità,un lembo di vernice può creare un cratere nel vetro di unoblò. E un pezzo di ferro da dieci centimetri ha la forza esplo-siva di venticinque candelotti di dinamite. Il guaio è che, suquesta pista alla Mad Max, non ci sono solo i satelliti spia equelli scientifici. C’è la rete su cui rimbalzano il traffico te-lefonico e le trasmissioni tv. La partita di stasera e la telefo-nata alla fidanzata sono legati al filo sottile della capacità delsatellite di avvistare e schivare gli ostacoli che incontra.

Qui a terra almeno i rifiuti stanno fermi. Ne produciamooltre due miliardi di tonnellate l’anno, che diventeranno tremiliardi nel 2030. Nei paesi ricchi, ognuno di noi produce, inmedia, quasi un chilo e mezzo di rifiuti al giorno. Se vi sem-brano pochi, provate a vederli su una proiezione annua.Ogni italiano produce, in media, mezza tonnellata di rifiutil’anno. Ci battono gli americani, che sfiorano gli ottocentochili. È una quantità aumentata a velocità vertiginosa negliultimi decenni, man mano che si affermava quella che unambientalista famoso come Lester Brown chiama «la civiltàdell’usa-e-getta». Non pensate solo ai rasoi e ai tovagliolinidi carta. L’ottanta per cento dei prodotti americani, secondouna statistica, viene usato più o meno a lungo ma una voltasola. Non è colpa del fato. Un modesto analista, Victor Le-bow, scrivendo su una oscura rivista specializzata nel com-mercio al dettaglio, ne ha dato la descrizione in qualche mo-do definitiva: «La nostra economia, enormemente produtti-va, richiede che facciamo del consumo il nostro stile di vita,che trasformiamo l’acquisto e l’uso delle cose in un rituale,

setto in “piccoli metalli”. Un calzino solo, nei combustibili.Due calzini negli abiti usati, a condizione però che sianouguali. Niente scherzi. Bisogna scrivere il proprio codice benchiaro, con il pennarello, sulla busta, per consentire i con-trolli.

I rifiuti sono arrivati tanto in primo piano, nella nostra vi-ta, da diventare una importante attività economica. Spessomiserabile. Dandora, alla periferia di Nairobi, è una discari-ca a cielo aperto intorno a cui ruota una comunità di seicen-tomila persone che, a rischio della salute, scavano nelle due-mila tonnellate di spazzatura che arrivano ogni giorno per ri-cavarne di che vivere. Lo stesso accade nelle villas miseriasargentine, nelle favelas brasiliane, negli slums indiani e, su

piccola scala, nei pattugliamenti degli extraco-munitari intorno ai cassonetti romani. Ma è an-che un hobby. In America lo chiamano “mon-go”. È il vecchio giocattolo, il televisore d’epoca,il tavolo con le sedie spaiate, il servizio di piatti dacinque di cui qualcuno si è liberato e di cui qual-cun altro si riappropria per portarselo a casa o perrivenderlo su E-bay.

Sempre più, la spazzatura alimenta centraliche riscaldano e illuminano le case. La sua partepiù nobile, il rottame, è il cuore di un’industria inproprio, a tutto tondo, che la rottamazione dellemacchine, varata per rianimare l’anemico mer-cato dell’auto, si prepara a rilanciare. Sono nu-meri che incutono rispetto: l’industria del rotta-me, a livello mondiale, ricicla 145 milioni di ton-nellate ogni anno, il sette-otto per cento dellaspazzatura globale. Negli Usa, il 66 per cento del-l’acciaio, il 33 dell’alluminio, il 50 della carta vie-ne da materiale di recupero.

Il paradosso è che, nella società dei consumi,praticamente ogni cosa che ci circonda è sulla viadi diventare scarto o rottame. Ma quello di cuinoi ci liberiamo, spesso con un sospiro di sollie-vo, ha molte volte un valore economico signifi-cativo. Secondo il servizio geologico degli StatiUniti, una pila di circuiti integrati estratti daicomputer contiene più minerale della stessaquantità di minerale grezzo. E costa meno: unatonnellata di resina sintetica (da cui si fa la pla-stica) costa 1.420 dollari. Una tonnellata di rifiu-ti di plastica, 515 dollari. Ecco perché i grandipaesi manifatturieri, come la Cina, sono cosìghiotti dei nostri rottami, in particolare dell’elet-tronica. Il problema è che i gadget — il pc, la tv, iltelefonino — che affollano la nostra vita sono in-nocui finché integri, pericolosi quando li apri. Iltubo catodico di un televisore contiene un chilodi piombo. Se è a schermo piatto, c’è il mercurio.I pc sono ricchi di cadmio, che è cancerogeno. In-fatti, l’Europa ha vietato il traffico dei rifiuti high-tech. Questo non impedisce — come ha recen-

temente documentato Greenpeace — un fiorente contrab-bando. E, comunque, l’ottanta per cento degli scarti elettro-nici americani finisce in Cina o in Africa.

Dove vengono, naturalmente, riciclati a caccia dei loromateriali ancora preziosi. Ma non c’è nulla di positivo e vir-tuoso in questo recupero che limiti lo spreco planetario. SeDandora, con le sue migliaia di persone che frugano nel-l’immondizia, evoca le immagini di una miseria atavica,Guiyu, nel sud della Cina, sarebbe parsa familiare a Dickens.La logica economica è indiscutibile. Un contadino cineseguadagna duecentosessanta dollari l’anno coltivando ilcampo, cento dollari al mese frugando nel ventre dei com-puter. Tranne che si gioca la vita. L’ottanta per cento degliabitanti di Guiyu vive intorno al riciclaggio dell’high-tech,processando circa un milione di tonnellate l’anno di moni-tor, tastiere, fax, stampanti, cartucce, hard disk, telefonini.Processarli è un lavoro domestico. Nel video di una organiz-zazione umanitaria, si vede una donna che gira lentamentein una padella una pila di circuiti integrati. Quando il caloreli ha ammorbiditi abbastanza, pilucca a mani nude i micro-chip che contenevano e li butta in un secchio. Un uomo si av-vicina e ci rovescia sopra una pentola di acido. Quando la nu-be tossica si è dissolta, si vede nella pentola una sfoglietta d’o-ro. Intorno, bruciano cavi elettrici, da cui si ricava il rame. Mail pvc che li ricopre, bruciato, sprigiona diossina. A Guiyu lapercentuale di diossina nell’aria è la più alta al mondo. Dun-que, dove avete buttato la vecchia tv?

La civiltà dell’usa-e-gettasoffocata dai suoi rifiuti

MAURIZIO RICCI

Interi slums nei paesidel Terzo Mondovivono

riciclando materialirecuperati nelle grandi

discariche metropolitane

che cerchiamo la soddisfazione spirituale, la gratificazionedell’ego nel consumo. Bisogna che le cose vengano consu-mate, esaurite, scartate, sostituite ad un ritmo sempre piùveloce». Era il 1955. La profezia di Lebow si è avverata, siamoentrati nella società dei consumi. E adesso ne paghiamo leconseguenze. I rifiuti si vendicano, diventando una preoc-cupazione individuale, quotidiana, pressante.

Lo spiega un amministratore comunale inglese, Paul Bet-tison: «Spiace distruggere le illusioni della gente, ma è finitoil tempo in cui potevano mettere la spazzatura dentro un sac-co nero e, poi, durante la notte, la fatina della spazzatura sa-rebbe venuta e storia finita. La fatina della spazzatura è mor-ta». Al suo posto, mentre veniamo alle prese con l’obbligo, laresponsabilità, l’assillo del riciclo, comincia a materializzar-si l’immagine del Grande Fratello della Ruera, dal nome che,nella Milano di una volta, aveva il buco sul muro del piane-rottolo in cui si scaricava la spazzatura quotidiana.

Nell’Inghilterra di Bettison, molte città raccolgono ormail’immondizia solo due volte al mese. E in quantità prefissa-te. Spesso, raccontano gli abitanti, bisogna saltare vigorosa-mente sui sacchi per ridurli alle dimensioni necessarie perentrare nei contenitori prescritti. Un camionista di Whi-tehaven è stato multato di quasi duecento euro per non es-serci riuscito e avere lasciato il coperchio del contenitoreaperto di dieci centimetri. A Yokohama, in Giappone, il li-bretto di istruzioni sul riciclo è lungo 27 pagine ed elenca 518rifiuti diversi. Il rossetto va nei combustibili, il tubetto del ros-

LE IMMAGINILe foto di queste pagine, scattate in un campo di demolizione di auto, sono di Dino Fracchia

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 1MARZO 2009

(segue dalla copertina)

Spazzatura come rumore di fondo. Teatrodelle premonizioni. Accumulo di oggetti &desideri. Accumulo di segni. Masticazionedel mondo che ci mastica. I cassonetti so-no pagine e le discariche interi libri. Noi sia-mo la trama, il filo che lega quella moltitu-

dine di scarti alle necessità presunte di una vita cheoscilla tra l’utile e l’inutile, il nuovo e il vecchio, il ru-more del giorno e l’ultimo silenzio.

Fino ai vapori della civiltà delle macchine e ai primiscaffali dell’abbondanza, quella declinazione ci sem-brava possibile in un solo universo,quello del tempo lineare dei consu-mi usa e getta.

Dopo Duchamp il calendario deglioggetti è andato avanti per tornareindietro. Il loro tempo è diventatocircolare. Rivelandosi capace di unasussistenza che non si esaurisce mai.O dura un quasi mai che è lungo mil-le anni, come fanno gli isotopi ra-dioattivi delle centrali nucleari di-smesse. Perché gli oggetti usati e ab-bandonati — «estromessi dall’io»scriveva Carlo Emilio Gadda — con-tengono una infinità di cose, più omeno avvelenate, inerti o disgusto-se, ma anche la piccola eternità delnarrare.

E narrativamente la spazzatura èun personaggio di prim’ordine. Unattante, direbbero i semiologi. Inca-ricato di recitare non solo tra gli og-getti d’arte — dalle carrozzerie com-presse di Cesar issate sul piedistallodel museo come monoliti del Tem-po, alle montagne di stracci riusatidall’Arte Povera — ma anche dentrol’inchiostro dei libri, dalle trinceesulla Marna di Celine al cyberspaziodi Bruce Sterling, sul palcoscenicodei teatri, nelle vaste traiettorie delcinema. In quegli scarti di nere me-tropoli o stanze di vita familiare ocrateri di introspezione quotidiana,dove la fine degli oggetti inanimati, illoro decomporsi, anticipa quella de-gli esseri viventi. Diventando lospecchio, il rendiconto, lo spavento.E insieme la nostalgia. Come facevala tela di certi pittori del Seicentoolandese che su fondali di velluto ne-ro allineavano, tra gli avanzi di unbanchetto già finito, il teschio e la bolla di sapone, ilfiore sfiorito e la clessidra a dirci la vanità del tempo infuga.

Beckett, nel suo Finale di partita, annota: «In primopiano a sinistra, ricoperti da un lenzuolo, due bidonidella spazzatura, uno accanto all’altro». Dentro ci so-no Nagg e Nell, i genitori del protagonista, cioè quelche resta del suo passato, ma con la viva interferenzadei loro dialoghi, o bucce di parole e imprecazioni, giàpronte a finire gettate negli scarti del tempo.

Tadeusz Kantor, l’autore della Classe morta, usa glioggetti scartati come accessi al ricordo, come chiavi diquel tempo perduto che le signorine del Giardino deiciliegi custodivano nell’armadio di casa, tra i giocat-toli puliti e il profumo di cedro. Ne I Paraventi di JeanGenet comparirà, come scenografia della storia, il ri-fiuto per eccellenza, la deiezione umana, ma nelleproporzioni di una scultura di Arnaldo Pomodoro, e laprudente consistenza del cemento armato. PieroManzoni ci ha lasciato lo stesso compendio, sebbeneinscatolato, ma suggerendoci una intenzione piùprossima al sorriso delle provocazioni, che all’immi-nenza dell’apocalisse.

Qualche anno fa il Mart, Museo d’Arte Contempo-ranea di Rovereto, ha dedicato una intero allestimen-to al Trash, curato da Lea Vergine, sinfonia d’incubi e«astrazioni della società pulita» e collezione di rim-

pianti, cose avanzate, cose futili, cose colorate o in gri-gio — dai feltri di Bueys agli assemblaggi di Rau-schemberg, ai sacchi di Burri — passando per il Dada,la Pop Art, i riciclaggi di Nam June Paik. Le ricostru-zioni dei Mutoid specializzati a trasformare vecchi ri-fiuti in nuovi oggetti. Tutte opere, per così dire, con lamorte già incorporata. Eppure non funeree. Come in-vece sarebbe accaduto molti anni più tardi al teschiocon diamanti di Damien Hirst, residuo non più uma-no, semmai rimanenza di un mercato dell’arte con-tante già tramontato con la sua lucentezza finanzia-ria.

Inganno che si perpetua in quell’altro manufattod’alta finanza, il robottino Wall-E che grazie alle im-perfezioni di macchina assemblata intorno a un cuo-re d’oro, ha appena vinto Oscar e incassi. E che nellastoria di Andrew Stanton ripulisce una Terra ridotta aun’unica discarica, abbandonata dagli umani e daogni altro essere vivente. Però in procinto di rinasce-re grazie alle sue cure di robottino premuroso, ancoracapace di commuoversi davanti alle bellezze di un to-stapane. E di scovare la prima pianticella viva, con lasua promessa di futuro.

Per Calvino, che nelle sue Città invisibili allestì pu-re Leonia, «la città che rifà se stessa tutti i giorni», il fu-turo non era in una pianta, ma nella montagna dei ri-fiuti che franando cancellerà tutto, come un addio.

Scrive di Leonia: «Più espelle roba, più ne accumula:le squame del suo passato si saldano in una corazzache non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno lacittà conserva tutta se stessa nella sola forma definiti-va: quella delle spazzature di ieri che si ammucchianosulle spazzature dell’altroieri e di tutti i suoi giorni eanni e lustri». I confini tra le città sono quei bastioni in-fetti. Basterà che un barattolo o un vecchio pneuma-tico rotoli dalla parte sbagliata «e una valanga di scar-pe, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommer-gerà la città nel proprio passato che invano tentava direspingere».

È appena successo nella Napoli non letteraria (enon fantastica) di Antonio Bassolino. E ac-cade ogni giorno nelle megalopoli di latitu-dine sud con le loro code di periferie intos-sicate, dove scavano i cani randagi e i carto-neros, come nei romanzi fantastici di Ri-chard Matheson e Philip K. Dick. Scenari diapocalissi che il cinema ha raccontato, inchiave di apologo e di catastrofe finale. Op-pure usando i colori rassicuranti dell’epicaa fumetti. Nella fuga di Jena Plinsky da NewYork. Nelle dune post-atomiche di MadMax. Nelle discariche sotterranee di Termi-nator.

E che il capolavoro di carta di DeLillo, Un-derworld, inquadra negli occhi di Brian co-me una visione che ha il potere della rivela-zione: «Brian scese dalla macchina e si ar-rampicò su un argine terroso. Il vento eraabbastanza freddo da fargli lacrimare gli oc-chi mentre guardava al di là di uno strettospecchio d’acqua verso un’altura a terraz-ze, sull’altra sponda. Era bruno-rossastra,appiattita in cima, monumentale, illumi-nata in vetta dalla fiammata del tramonto, eBrian pensò che fosse l’allucinazione di unodi quei cucuzzoli isolati dell’Arizona. Inve-ce era reale, ed era creata dall’uomo, spaz-zata dal volo roteante dei gabbiani, e Briancapì che poteva essere solo una cosa — la di-scarica di Fresh Kills a Staten Island».

L’intera America è in quella discarica. In-corporata ai suoi feticci: il consumismoconsumato e l’erotismo, la tecnologia, il de-naro. Residuo di tutte le storie già vissute.Ma anche punto di partenza per altrettanteda vivere. Orrore e fascinazione, come negliincubi ambigui di James Ballard attrattodalle catastrofi che descrive.

In discariche infinitamente più piccole —i cassonetti domestici — due fotografi fran-cesi, Bruno Mouron e Pascal Rositan, han-no trovato il loro filo narrativo. Fotografa-

vano celebrities. Respiravano le loro storie. Ma vole-vano di più. Volevano avvicinarsi all’essenza dei loroidoli. Nell’anno 1988 scoprirono la strada investigati-va della spazzatura e la seguirono per quindici anni.Nel cassonetto di Serge Gainsbourg, il cantante, tro-varono «la sua vera chiave», bottiglie vuote di Ricard epacchetti di Gitanes. Nei sacchi di Elizabeth Taylor, lasua solitudine, porzioni singole di pollo fritto, birreanalcoliche e vecchi articoli sulla propria carriera.Analizzarono la pattumiera di Jack Nicholson, Brigit-te Bardot, Bruce Willis, eccetera. Scelsero gli scartidelle loro vite da mettere in mostra. La mostra fu ungrande successo di pubblico. Un vero pellegrinaggiodavanti a quegli oggetti morti. Celebrati come untrionfo morboso dell’essere vivi.

Perché la spazzatura può rivelarsi persino il luogoiniziatico della rinascita. La prova più estrema checonsente a Doc e Carol, i fuggitivi di Getaway (film diSam Peckinpah, capolavoro di Jim Thompson) rima-sti intrappolati in un cassonetto, poi in un camioncompattatore, liberi solo all’alba, di misurare la fibradel loro amore. Trovarla resistente agli urti della vita.Ai suoi scarti peggiori, il cibo avariato e i tradimenti.Capace di rimetterli in piedi. Ripulirli dentro a unadoccia. Proteggerli fino a un confine da attraversare,dove ricomincia il mondo. E dove la catastrofe è ri-mandata ancora per un po’.

Da Terminator a Wall-El’incubo del pianeta-pattumiera

PINO CORRIAS

In principio fu Duchamp, ma la catastrofe minacciatadai nostri scarti fuori misura

ha sempre suscitatonegli artisti orrore e fascino

LE CIFRE

PRO CAPITE

Il primato dei rifiutipro capite spettaagli Stati Uniti: 760 chiliall’anno. Subito dopol’Australiae la Danimarcacon 690 e 660 chiliL’Italia è 14macon 500 chili a testa

MEGA-DISCARICA

La più grandediscarica di rifiuti,Fresh Killsa Staten Island, chiusaqualche anno fa,assorbiva ogni giorno12mila tonnellate:una fila di 600 camionlunga 15 chilometri

MARE DI PLASTICA

Garbage Patchè l’area del Pacificosettentrionale doveil gioco delle correntiraduna la plasticaflottante: uno spaziopiù grande del Texasdove la vita marinaè di fatto azzerata

ORBITE INTASATE

I 900 satelliti attiviviaggiano attorniatida centomila detritispaziali, diecimiladei quali più grandidi dieci centimetriUn impattoa quelle velocitàè sempre devastante

LA COPERTINALa foto di copertina, il particolare di un cofano d’auto rottamata, è dell’agenzia Corbis

Repubblica Nazionale

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a passare dal sedici al sessantadue per cento dellapopolazione tra il 1990 e il 2007; e in India sarà cre-sciuta nello stesso periodo dal cinque al venti percento, con previsione del quaranta per cento entroil 2025. Utilizzando questa chiave di misura, l’eco-nomista indiano stima che la classe media sia au-mentata negli ultimi quindici-venti anni da un ter-zo a oltre metà (cinquantasette per cento) della po-polazione del mondo.

Quale che sia il tipo di calcolo, non c’è dubbioche la classe media sia stata e continui ad essere increscita costante da almeno due secoli. Secondo idati riportati da Surjit Bhalla, questa classe, la clas-se dei grandi e piccoli borghesi, annoverava appe-na il due per cento della popolazione mondiale nel1820, era già salita al dodici per cento nel 1913 allavigilia della Prima guerra mondiale, al ventidue percento nel 1938, vigilia della Seconda guerra mon-diale, balzando quasi al trenta per cento negli anniSessanta, al quaranta per cento nel 2000, per supe-rare quota cinquanta per cento negli ultimi anno odue. Un prodigioso cammino verso benessere eprogresso, che ha conosciuto tre ondate: la primadurante la rivoluzione industriale, verso la fine del-l’Ottocento e l’inizio del Novecento; la seconda trala fine degli anni Cinquanta e i successivi vent’an-ni, quando è nata la cosiddetta generazione deibaby boomers, i figli del boom economico; e la ter-za sta avvenendo ora, per lo più in grandi nazionidel Terzo Mondo, come Cina, India, Brasile.

Paesi in cui, in realtà, esistono oggi due distinteclassi medie: una consiste di coloro che sonomiddle class sotto qualunque standard, dunqueguadagnano abbastanza da poter appartenere al-la classe media globale, avendo molto in comunecon i borghesi di Europa e America, una categoriain rapida crescita ma che conta per adesso sola-mente il dieci per cento della popolazione nei pae-si emergenti. L’altra, assai più numerosa, è com-posta da coloro che si possono considerare classemedia nei paesi in via di sviluppo ma non lo sareb-bero nei paesi ricchi occidentali. Del primo grup-po fanno probabilmente parte i tre milioni di cine-si che si sono dati con passione allo sci, uno sportche nemmeno esisteva in Cina fino a quindici an-ni or sono. Del secondo gruppo fanno probabil-mente parte gli abitanti di Paraisopolis, una dellefavelas di San Paolo del Brasile notoriamente infe-

l’attualitàTerzo Stato

La classe media va in paradiso

Per la prima volta nella storia metà della popolazionemondiale è entrata a far parte della middle classCindia, Brasile e altre locomotive economichedel Terzo Mondo aumentano il proprio benessere. Europae Usa, complice la crisi, lo assottigliano. Risultato: ricchisempre più ricchi e tutti gli altri sempre più uguali

LONDRA

Èimpossibile stabilire con precisionequando è accaduto, ma in un qualchemomento degli ultimi dodici mesi, per laprima volta nella storia, più di metà del-

la popolazione mondiale è entrata a far parte dellaclasse media. Tra il 1990 e oggi, in meno di due de-cenni, due miliardi di nuovi “borghesi” si sono ag-giunti al totale di coloro che appartengono allamiddle class, che sono così diventati la maggio-ranza tra gli abitanti del pianeta. Ad annunciare ilraggiungimento di questo traguardo, una pietramiliare nel progresso dell’umanità, è l’Economist,il settimanale globale con sede a Londra ma letto-ri in ogni continente. Naturalmente bisogna in-tendersi su cosa significa esattamente “classe me-dia”. In uno studio pubblicato nel 2002 da due illu-stri sociologi, Branko Milanovic e Shlomo Yitzaki,per classe media si intende chi percepisce un sala-rio a metà strada tra quello medio dell’Italia, con-siderato come il livello maggiore, e quello mediodel Brasile, considerato il livello minore. Su talebase, la classe media consisterebbe attualmente dipoco più del sei per cento della popolazione terre-stre; e pur continuando a espandersi di anno in an-no, rappresenterebbe soltanto il quindici per cen-to della popolazione mondiale nel 2030.

Ma un economista indiano, Surjit Bhalla, auto-re di un imminente libro sul tema (The MiddleClass Kingdom of China and India), obietta che uncalcolo di questo genere non riflette l’esistenza diun’ampia categoria di persone con un reddito daclasse media nei paesi in via di sviluppo, pur gua-dagnando molto meno di chi viene consideratomiddle class nei paesi industrializzati. Il professorBhalla preferisce usare una definizione differente:è classe media, afferma, chiunque guadagna traidieci e i cento dollari al giorno, ovvero da trecentoa tremila dollari al mese, fascia che al livello supe-riore consente consumi da classe media occiden-tale, mentre a quello inferiore li consente soltantoin paesi emergenti. È proprio in questi, tuttavia,che con l’avvento della globalizzazione si è regi-strata la più spettacolare avanzata della classe me-dia, un boom che per esempio in Cina l’ha portata

ENRICO FRANCESCHINI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1MARZO 2009

Repubblica Nazionale

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stata dal crimine, dove hanno recentemente co-minciato ad aprire i negozi di una catena di elet-trodomestici venduti a rate: televisori e frigoriferivanno a ruba, in uno slum dove a prima vista nonci sono nemmeno elettricità e acqua corrente.

Un altro sistema di definizione e misura, osser-va l’Economist citando una ricerca di Diana Far-rell, membro del National Economic Councilamericano, è che uno comincia a far parte dellaclasse media quando gli rimane «un terzo» del pro-prio stipendio da spendere per beni secondari ovoluttuari, ossia dopo avere già provveduto a co-prire tutte le spese di alloggio e di vitto necessarie

al sostentamento. È un sistema di misurazionemesso a dura prova dalla recessione globale, inuna fase in cui sempre più gente fatica ad arrivarealla fine del mese ed è costretta a ridurre drastica-mente le spese “superflue”.

In effetti si può dire che già da alcuni anni, ancheprima che scoppiasse la crisi economica, si è veri-ficato un doppio movimento: da un lato, la classemedia dei paesi emergenti che si espande; dall’al-

tro, quella dei paesi sviluppati, come l’Italia, cheperde potere d’acquisto, scivola verso la “lowermiddle class”, o talvolta anche più sotto. Ma gli unie gli altri, mentre ovunque si allarga il gap tra ricchie poveri, si ritrovano comunque nel mezzo, sem-pre più numerosi, finalmente maggioranza. Di-venteremo tutti, un giorno, classe media? Nel fu-turo immediato, conclude l’Economist, dipendeda quanto durerà la recessione: se solo un paiod’anni, e in tal caso la risposta è che l’avanzatamondiale della middle class, dopo una breve pau-sa, proseguirà e potrebbe anzi accelerare; o se du-rerà più a lungo, e allora la risposta è più incerta.

RITRATTIDa sinistra, un impiegato di banca(1932); un grossista e la moglie(Colonia, 1927); una coppiaborghese (1927/28)Le immagini sono tratte dal libroUomini del XX Secolo

di August Sander(Federico Motta Editore, 1991)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 1MARZO 2009

PECHINOLi Gang, ventitré anni, giacca di cuoio nero e jeans, è accasciato su una sedia, sfiancatodalla fatica. «Oggi due soli colloqui, e andati male. Vengo qui tre volte alla settimana e co-mincio a scoraggiarmi. Per fortuna a Pechino ho parenti che mi ospitano. Ma se continua co-sì mi tocca tornare a casa dai miei genitori in provincia, a Suzhou». Neolaureato in ingegne-ria elettronica, fino a un anno fa Li credeva di avere la strada spianata. L’ingresso nel nuovoceto medio per lui era una certezza: si vedeva già sistemato in una grande azienda informa-tica, ben presto con le rate del mutuo per un appartamentino, il frigo e la lavatrice, poi la pri-ma utilitaria, un giorno magari le vacanze in Thailandia. «Oggi sembrano spariti del tutto i la-vori da millecinquecento yuan al mese (duecento euro). Se i colloqui coll’ufficio del perso-nale vanno bene, al massimo ti offrono un posto da venditore, faticoso e precario, a mille-duecento yuan». Incontro Li Gang dentro una Job Fair di Pechino, sulla via Haidian Nanlu vi-cino al quartiere universitario. È un palazzone di uffici affittato dagli sponsor di questa fierapermanente del reclutamento di personale, e assediato dai giovani in tutti i giorni della set-timana. Si paga il biglietto d’ingresso, poi bisogna farsi strada a gomitate in un muro di folla,prima di intravedere il grande schermo luminoso con le indicazioni di tutte le aziende chequi hanno i loro stand per le assunzioni. È un campionario misto di finanza e assicurazioni,gruppi immobiliari e industria tecnologica, agenzie pubblicitarie e operatori turistici. La res-sa per entrare, la densità di giovani per metro quadro, è proporzionale al numero di diplo-mati e laureati che l’istruzione superiore cinese sforna ogni anno: sei milioni. Non forza la-voro bruta, non più operai o contadini come i loro nonni, ma già figli di un benessere diffuso,carichi di aspettative e di bisogni. Qui si aggira un pezzo della futura middle class globale, lenuove generazioni di colletti bianchi che imprimeranno il loro segno nella società dei con-sumi del Ventunesimo secolo. La Repubblica Popolare è stata negli ultimi trent’anni il più gi-gantesco laboratorio di “imborghesimento” nella storia dell’umanità. Lo sviluppo econo-mico travolgente ha generato in Cina un ceto medio di ottocento milioni di persone, secon-do i calcoli della Banca mondiale. Forse sono stime troppo generose? Alziamo pure l’asticel-la del tenore di vita, e dimezziamo quel totale: abbiamo comunque un ceto medio cinese chesupera l’intera popolazione di Stati Uniti e Canada messi insieme. Grazie allo sviluppo di Ci-na, India, Indonesia, Vietnam, per la prima volta dal Settecento la piccola borghesia dell’A-sia è più vasta che in tutto l’Occidente.

In questo momento, però, i figli del miracolo orientale non sono al riparo dalle ansie dellarecessione globale. Seguendo un modello già sperimentato con successo in Giappone e Co-rea del Sud, poi imitato anche dall’India, la Repubblica Popolare ha investito molto sull’i-struzione di massa come leva per la crescita. È la nuova sfida della modernizzazione cinese:liberarsi dal ruolo di “fabbrica del pianeta” che ormai le sta stretto, fare il salto verso produ-zioni di qualità, innovazione tecnologica, mestieri avanzati, e tutti i servizi di una società po-st-industriale. Nel bel mezzo di questa mutazione genetica è scoppiata la crisi. Insieme congli operai licenziati dalle fabbriche tessili e di giocattoli del Guangdong, perde colpi anche ilmercato immobiliare di Pechino e Shanghai; a catena il malessere si diffonde in ogni angolodel sistema. I figli del ceto medio cinese conoscono la prima disoccupazione intellettuale dimassa nella storia di questo paese.

Wang Sijia è una ragazza di ventiquattro anni, elegante e ben truccata, che si aggira per laJob Fair con tante fotocopie del suo curriculum vitae sottobraccio, e una laurea in lettere ot-tenuta nella città di Baoding. «Cerco un posto di segretaria, qualsiasi settore mi andrebbe be-ne, ma qui sento dire che ci vogliono anche due anni per trovare. La competizione è semprepiù dura, le aziende prendono solo chi ha già esperienza di lavoro, non vogliono sobbarcar-si la formazione dei neolaureati». I suoi aspettano notizie, vivono nella provincia dello He-bei, la mamma ha un posto di contabile e il padre è venditore di macchinari per le miniere.«A casa mia non si parla d’altro che di licenziamenti, tutti sono preoccupati».

Mentre la intervisto qualcuno mi scambia per un cacciatore di teste straniero, all’improv-viso si addensa la calca attorno a me, i ragazzi mi allungano i fogli dei loro curriculum. DengTao ha ventisette anni: laureato nel 2005 in giurisprudenza, allora trovò un posto subito nel-l’ufficio legale di una multinazionale sudcoreana. Con la crisi la società straniera ha chiusola sede di Pechino. Lo hanno licenziato a dicembre. «Guadagnavo tremila yuan al mese manelle interviste con gli uffici del personale dico subito che mi accontenterei di duemilaquat-trocento: mi rispondono che è troppo». I suoi genitori sono pronti ad accoglierlo di nuovo incasa, ma lui vorrebbe risparmiargli il costo, e l’umiliazione, dopo tanti sacrifici per farlo stu-diare. «Speriamo tutti — sospira Deng — che il governo ci tiri fuori da questa crisi».

Ecco, in mezzo alla tensione che si respira in questa Job Fair l’unico ingrediente che man-ca è la recriminazione, la voglia di protestare. La storia recente del vasto ceto medio cinesecontiene questa anomalia. Contrariamente alle previsioni di molti occidentali, la crescitadella borghesia non ha comportato un’automatica rivendicazione di libertà politiche e de-mocrazia. Il movimento di piazza Tienanmen avvenne prima del grande balzo in avanti del-la globalizzazione. L’ultima fase di sviluppo, al contrario, ha visto nei colletti bianchi la piùaffidabile constituency del regime autoritario. E dal loro governo questi ragazzi aspettano lasoluzione. La crisi attuale è la prima grande prova per la stabilità del patto sociale tra la no-menklatura tecno-comunista e la più estesa middle class del pianeta. Se fallisce l’energicapolitica economica con cui il governo cerca di rilanciare la crescita, il consenso può sfaldar-si. Ma se Pechino vince la sua sfida contro la recessione globale, l’Occidente avrà almeno unaragione per celebrare: il giovane ceto medio cinese non chiede altro che ricominciare a con-sumare. È un mercato così grosso che la crescita mondiale potrebbe ripartire da qui.

È la Cina tecno-comunistala più grande fabbrica di borghesi

FEDERICO RAMPINI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 1MARZO 2009

Una colonia leggera. Fre-sca. Discreta. Delicata.Colonia è sinonimo di ac-qua profumata. Nessuno,pronunciando quella pa-rola, pensa più alla città

della Renania. Il nome evoca altre sugge-stioni, sole, mare, campi di lavanda,agrumeti. Esattamente quel che il suo in-ventore, Giovanni Maria Farina, aveva inmente trecento anni fa quando — era il1709 — mise in commercio le prime bot-tiglie della sua aqua mirabilis, poi diven-tata famosa col nome francese di Eau de

Cologne, perché allora come oggi Parigiera la capitale della moda. Acqua di colo-nia è diventato un termine generico, mala formula originaria è una e una sola,quella che ha stregato clienti illustri diogni epoca: Carlo VI e Maria Teresa d’A-sburgo, Luigi XV di Francia, Federico Gu-glielmo I di Prussia, Napoleone Bona-parte, Mark Twain, Johann Wolfgangvon Goethe, Konrad Adenauer, IndiraGandhi, Romy Schneider e la principes-sa Diana.

Giovanni Maria Farina(1685-1766) ci lavoròper mesi. In una lette-ra del 1708 al fratelloGiovanni Battistascriveva: «Il mio pro-fumo è come unmattino italiano diprimavera dopo lapioggia: ricorda learance, i limoni, ipompelmi, i berga-motti, i cedri, i fiori e leerbe aromatiche dellamia terra. Mi rinfrescae stimola sensi e fan-tasia». Sono più omeno le parole che sileggono ogni voltache si lancia una co-lonia che ha le stessecaratteristiche. Conla differenza che al-l’epoca MonsieurFarina lavoravaesclusivamente conmaterie prime — lenote sintetiche sa-rebbero state inven-tate solo due secolipiù tardi — e si fidavasolo del suo naso edella sua fantasia.

Ancora oggi il suonome è garanzia di ot-tima fragranza: ungiovane “naso” auto-revole come AntoineMaisondieu ha pen-sato la raffinata Eau

de Jade di Armaniprivé come «unanuova interpreta-zione dell’accordo diColonia». Grande ar-te con pochi ingre-dienti, come voleva ilmaestro: «L’acqua dicolonia è improntataall’esaltazione di ele-menti agrumati senzacontorno. Dà risalto aun unico elementoportante, il bergamot-to della migliore qua-lità». L’originale, perchi vuol farne cono-scenza, è ancora incommercio. L’ottavagenerazione dei Fari-na continua la tradizio-ne, usando gli stessi ingredienti, anchese ora l’antico atélier ospita un Museodel profumo. È situato di fronte al muni-cipio di Colonia, al numero 21 di Oben-marsforten, adiacente alla piazza Jülich.La cantina dove venivano prodotti i pro-fumi è ancora là. La botte di cedro è in-tatta. La distilleria, raffinatissima, è unariproduzione fedele dell’originale.Tutt’intorno le immagini che racconta-no l’evoluzione della produzione delprofumo nell’arco di tre secoli, insieme auna vasta collezione di flaconi originali edelle centinaia di imitazioni che hannoinflazionato il mercato.

A Santa Maria Maggiore, paesino inprovincia di Verbania che oggi conta po-co più di mille anime, lo ricordano conuna via che passa proprio davanti alla ca-sa natale. I Farina vi si erano trasferiti daAncona, dopo una pestilenza del 1200.Giovanni Maria trascorse la sua infanzianell’alto Piemonte allenando le sue ca-pacità olfattive e raffinando la tecnicadella distillazione dell’alcol puro, meto-do che portò con sé a Colonia. Il suo viag-gio era iniziato come quello di un emi-grante qualsiasi, alla ricerca di una vitamigliore nella Mitteleuropa. Un mirag-gio, l’America dell’epoca.

A Maastricht lavorò come commer-ciante presso uno zio, poi si trasferì a Co-lonia, dove suo fratello Giovanni Battista

(1683-1732) aveva aperto un negozio dimoda francese. Adorava la città, un po’meno il fetore delle sue strade. Nelle cro-nache dell’epoca si legge del lezzo che sirespirava nei vicoli degli agglomerati ur-bani che si preparavano a diventare cittàindustriali, funestati dalle fogne a cieloaperto e dai miasmi delle concerie. Persi-no nelle corti europee l’igiene era ap-prossimativa, la cura della persona prati-camente resa impossibile da capi d’abbi-gliamento ridondanti e complicati. Siracconta di parrucche infestate dai pi-docchi e incrostate di sudore, di escre-menti negli angoli di sontuosi salonisprovvisti di servizi, di strati e strati di piz-zi e broccati che non venivano lavati perevitare di gualcire i tessuti e sbiadire i co-lori. E di una superstizione che avevacontagiato l’Europa: girava voce che uneccessivo uso di acqua e sapone rendes-se più vulnerabili alla sifilide.

Giovanni Maria Farina, che pure non sisottraeva alle mode — i ritratti dell’epocalo mostrano con l’immancabile parruc-

ca candida e finanziere, panciotti e cami-cie parecchio elaborati — cercò di miti-gare il disgusto creando un cocktail con iprofumi della sua terra ad uso della raffi-nata clientela che frequentava l’atélier.Era un ospite ineffabile, lo si intuisce daisuoi carteggi. L’immenso repertorio epi-stolare custodito nella casa-museo di-mostra il suo acume di commerciantema anche la sua cultura: parlava cinquelingue, viaggiava senza sosta e registravacon la stessa meticolosità di Andy Warholentrate e uscite, annotando in una rubri-ca a parte i cattivi debitoriche comprava-no a credito e poi “dimenticavano” di sal-dare (oppure erano deceduti prima diestinguere il debito).

Farina era l’erede di una tradizione chein Italia prosperava da secoli e che nel pe-riodo rococò era diventata eccellente.L’arte del profumo era in realtà parec-chio più antica. Ne facevano uso in Me-sopotamia, Avicenna estraeva dai fiori oliessenziali che gli arabi diffusero in Euro-pa negli anni della conquista, nel Quat-

tordicesimo secolo. Si ritiene che il primoprofumo a base di alcol in Europa sia sta-to l’Acqua della Regina d’Ungheria, pre-parato a base di rosmarino che venivausato fin dal 1300 anche come medicina-le. I francesi rivendicano molti primati inprofumeria, solo perché fu negli stabili-menti di Grasse, in Provenza, che nel Di-ciottesimo secolo cominciarono a essereprodotti profumi su larga scala, ma inrealtà fu Caterina de’ Medici, in pieno Ri-nascimento, a portare nella capitale i piùraffinati segreti di quell’arte. Il suo “naso”personale, Renato Bianco detto René leFlorentin, era arrivato a Parigi con lei nel1533. Affinché le sue formule non venis-sero imitate, aveva un laboratorio colle-gato direttamente con gli appartamentidella sovrana, vanitosa quanto ghiotta esuperstiziosa. Il profumo Eau de la Reine

fu creato per il suo matrimonio con Enri-co II dai domenicani di Firenze e fu l’ini-ziatore della moda dei profumi italianioltralpe. Già nel 1381 i frati di Santa Ma-ria Novella vendevano l’acqua di rose co-

me disinfettante, usata so-prattutto nei periodi

di epidemie. Lì,nel 1612, nac-que la profu-meria che hatuttora sedenel complessoconventuale.

Anche le fa-mose Acque

Carthusia diCapri, i cui se-

greti Farinaraccontava diaver appresoda un frate suoamico, nac-quero in con-vento. Secon-do la leggenda,nel 1380 il pa-dre priore del-la Certosa diSan Giacomopreparò unaraccolta deifiori più bellidell’isola inoccasione del-la visita di Gio-vanna d’An-giò, li lasciò tregiorni nellastessa acqua eal momento digettarli si reseconto della de-liziosa, miste-riosa fragran-za che l’acquasprigionava. Èdocumentato,invece, che nel1948 il prioredella Certosascovò le vec-chie formuledei profumi,su licenza delPapa le svelò aun chimicopiemontese ecreò un picco-lo laboratoriodenominatoC a r t h u s i a ,cioè Certosa(che ancoraoggi a Capri è

meta di turisti).Forte di que-

sta tradizione, Giovanni Maria profumòil Nordeuropa. Cent’anni dopo la mortedel primo Farina, la bottega di Coloniaforniva ancora Eau de Cologne a tutte lecorti europee. Nel 1810, Napoleone, ine-briato di quella fragranza (come la reginaVittoria: negli archivi del museo c’è testi-monianza di cinquanta ordini prove-nienti dalla corte inglese) e persuaso del-le sue proprietà curative, emanò un edit-to in cui sanciva che le ricette di tutti i pro-dotti medicamentosi dovevano essererese pubbliche. Fu allora che i Farina, permantenere segreta la formula, dichiara-rono che la loro Acqua non era un balsa-mo ma solo eau de toilette.

La formula fu immediatamente imi-tata. Nel 1806, Jean Marie Joseph Farina,pronipote del fondatore, aprì a Parigiun’attività parallela che poi, nel 1862,sarebbe passata a Roger & Gallet (cheprodusse una Eau de Cologne Extra

Vieille in concorrenza con la fragranzaoriginale inventata a Colonia, e varie al-tre tonalità imparentate con quella tra-dizione, come Jean Marie Farina e4711). Nel 1995, la città di Colonia ha re-so omaggio al principe dei “nasi” eri-gendo una statua accanto alla torre mu-nicipale. La sua tomba è in città, nel ci-mitero di Melaten: una lapide che curio-samente sembra l’etichetta di una pre-ziosa bottiglia di profumo.

la memoriaMarchi storici

Trecento anni fa in Germania un emigrante piemontesedi talento, Giovanni Maria Farina, inventò l’Acqua di Colonia“Il mio profumo - scrisse - è come un mattino italianodi primavera dopo la pioggia”. Oggi, nonostante le centinaiadi imitazioni, l’ottava generazione dei Farina la produce ancorasulla base di una ricetta gelosamente custodita

TRADIZIONE DI FAMIGLIADa sinistra, venditore ambulante francese del profumoprodotto da Giovanni Maria Farina a Colonia(incisione colorata, 1845); riproduzione dello storicoflacone del 1709 (il rosolio) in cui veniva confezionatoil profumo; una stampa del Diciannovesimo secolocon la veduta della più antica distilleria di Acquadi Colonia. Nell’immagine grande attorno al titolol’etichetta originale

FONDATOREGiovanni Maria Farina (1685-1766)

L’antico segretodell’aqua mirabilis

GIUSEPPE VIDETTI

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1MARZO 2009

Giovane medico antifascista, amicodi Gobetti e dei fratelli RosselliArtista cosmopolita. Poi, nel 1935

a trentatré anni, l’arresto e il confino in Lucania. Pare un uomofinito. Invece laggiù imparerà la lezione della dignità dei vintidiventando scrittore. Una metamorfosi ora raccontata in un libro

CULTURA*

Leggendo le lettere che le invia il suouomo, Paola si accorge che della contradadove l’hanno inviato per punirloegli comincia a essere “innamoratocome del più bel luogo della terra”

«Il paese classico e antico,dove gli dei e i mostri» so-no di casa «oggi, comenei più remoti tempi del-la memoria»: così CarloLevi, nell’estate del ’41,

descriveva il Mezzogiorno d’Italia inuna lettera a sua sorella Adele. Magicoe mitico insieme, quel mondo avevafatto irruzione nella vita dello scrittoretorinese in un’altra estate, quella del1935, quando egli arrivò a Grassano, inBasilicata, per cominciare a scontarvitre anni di confino cui lo aveva condan-nato il regime fascista. Ecco la «perma-nenza giudiziaria» che, ridotta a novemesi grazie a un’amnistia, viene orarievocata nel volume di Vito Angelo Co-langelo, Cronistoria di un confino-L’e-silio in Lucania di Carlo Levi racconta-to attraverso i documenti (editriceScrittura e Scritture, 136 pagine, 12 eu-ro). Una rete di carte d’archivio avvol-ge, come un fitto promemoria, queltratto di vita che lascerà un’improntadurevole nell’animo del confinatotrentatreenne, ispirandogli, oltre a tan-ti disegni a penna e oli su tela, un cele-bre romanzo di testimonianza, Cristo siè fermato a Eboli, edito in anni più tar-di (1945). Emerge insomma dal volumequella vicenda che, trasfigurata dallasua attitudine fantastica, varrà alloscrittore la qualifica di «torinese delSud».

Ma com’era Carlo Levi prima dell’in-cidente confinario? Nel libro di Colan-gelo, fra un documento e l’altro, se neparla a lungo. Studente di medicina(anno di laurea, il 1923), egli cominciaper tempo a frequentare la clinica me-

NELLO AJELLOdica dell’università di Torino, condu-cendovi lavori sulle epatopatie; temapoi approfondito in trasferte di perfe-zionamento a Parigi. Ma la sua vera pas-sione riguarda la sfera pubblica, sia pu-re con un inizio un po’ svagato: «Nonsiamo giunti alla politica per natura»,così raccontava, «ma quasi a malincuo-re, per il dovere dei tempi». Un dovereche appare imperioso, se si pensa allaparentela di Levi con l’esponente socia-lista Claudio Treves, fratello di sua ma-dre. Ma ancora più se si ricorda l’amici-zia che lo legava a Piero Gobetti fin dal1918, e la collaborazione alle sue riviste.

Del futuro martire del fascismo egliconserverà negli occhi come un’istan-tanea: è «un giovane alto e sottile», con«gli occhiali a stanghetta» e «i lunghi ca-pelli arruffati, dai riflessi rossi». Quel-l’intellettuale ispirato e intransigentemorirà nel febbraio del ’26, ma CarloLevi ne conserverà la lezione: «Gobet-ti», egli scriverà, ha dato agli italiani «l’e-sempio forse unico della nascita di unmito d’azione che è insieme critico estorico». La sua scelta politica è com-piuta. Soldato di leva a Firenze, Levi fre-quenta i fratelli Rosselli e assiste all’ag-gressione degli squadristi a GaetanoSalvemini. S’infittiscono i suoi soggior-ni parigini: oltre che motivi di studio, velo attraggono esigenze «pittoriche» eimpulsi politici. Fra Torino e la Francia,entra in contatto con antifascisti con-clamati, come Aldo Garosci, Mario An-dreis, Vittorio Foa, per citarne appenaqualcuno.

Quando, nell’agosto del ’29, si costi-tuisce Giustizia e Libertà, Carlo Levi èdella partita. Poco più tardi assume, nelmovimento, responsabilità organizza-tive. Ha uno studio a Parigi, partecipaalla Biennale di Venezia, espone con il

“Gruppo dei Sei” di Torino e in variepersonali. Frequenta Guttuso, De Chi-rico, Moravia, Chiaromonte, Noventa,Lionello Venturi. Tornando in Italia,soggiorna fra la sua città e Alassio, dovei suoi hanno una casa. Lì viene arresta-to. È il 13 marzo del ’34. Due mesi scarsidi carcere. Nell’aprile del ’35, la polizialo ferma di nuovo nella sua città. Tra-sferimento a Roma (due mesi a ReginaCoeli) e condanna a tre anni di confinoda scontarsi a Grassano, in Lucania.

Fine dell’antefatto. Cioè di quei «pre-cedenti» che si riflettono in ogni rigadella Cronistoria di un confino e chehanno già fatto di Carlo Levi un perso-naggio insolito. Un tipo che non si lasciatravolgere dagli eventi, ma li sormontacon un sorriso. Questa risorsa egli l’haesibita, per esempio, la mattina stessadel suo arresto torinese: mentre gliagenti dell’Ovra, entrati nel suo studioin cima a un palazzone di piazza Vitto-rio lo perquisiscono per bene, lui conti-nua a disegnare la copertina di Americaprimo amore: vi si vedrà una sirena ac-quatica sullo sfondo d’un grattacielo.Vuole consegnarla all’autore, MarioSoldati, con il quale ha lavorato alla sce-neggiatura di vari film.

Un altro amico, Manlio Cancogni, in-contrandolo, notava ogni volta il suo«atteggiamento tranquillo, un po’ iera-tico, da patriarca biblico e da sciamanodi villaggio». Lalla Romano gli scorgevain volto «una sorta di olimpicità». Alloscrittore Enrico Filippini verrà poi diparagonare Carlo Levi «a Giove», un diobenefico «che esprimeva un’inconteni-bile, totale, misteriosa felicità». GiulioFerroni avrebbe visto nella sua opera«una calda intimità con le cose», e unpo’ sulla stessa lunghezza d’onda JeanPaul Sartre vi aveva rilevato un’«animo-

Un torinese del Sud in esilio

SULLA TERRAZZAAliano, 1935: Carlo Levi sulla terrazza della casadi confino con tre ragazzi del paese; a destra, i documenticon le comunicazioni tra Levi e la Questura di Matera

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COMUNE DI PORTOSCUSO Provincia di Carbonia-Iglesias Il Responsabile del Servizio

ai sensi e per gli effetti del combinato disposto di cui agli articoli 7 e 8 della Legge 7 agosto 1990,n. 241, e degli articoli 11, comma 2, e 16, comma 5, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327,

Avvisa - che è stato avviato il procedimento di approvazione del progetto definitivo, con conseguente di-

chiarazione di pubblica utilità dei lavori di “Realizzazione di fasce di rispetto”, in attuazione delPiano di disinquinamento del Sulcis-Iglesiente, scheda E1-2;

- che i lavori di cui sopra interessano il territorio del Comune di Portoscuso; - che l’Amministrazione competente per il procedimento amministrativo ed alla realizzazione dei

lavori, nonchè autorità espropriante, è il Comune di Portoscuso; - che la documentazione relativa al progetto e quella di cui all’articolo 16 del D.P.R. 8 giugno 2001,

n. 327, è depositata e visionabile presso il Servizio Lavori Pubblici del Comune di Portoscuso,via Marco Polo n. 1, 09010 Portoscuso (Telefono 0781 51111, Fax 0781 508728).

La realizzazione del progetto indicato interessa le seguenti particelle catastali: - Foglio 3, Mappali: 100, 1904, 1905, 1906, 2059, 2056, 490, 491, 1925, 1458, 436, 147, 1204,

1205, 27, 101, 595, 538, 539, 540, 541, 542, 543, 1152, 28, 148, 1379, 101, 110, 109, ex 136,1154, 1155, 1156, 1157, 1242, 1243, 1244, 1245, 1246, 136, 36, 42, 1860, 117, 46, 1866, 46,1366, ex 124/b, 561, 124, 126, 1163, 127, 143, ex 116, 152;

- Foglio 4, Mappali: 47, 376, 377, 375, 374, 373, 372, 44, 566, 279, 657, 125, 601, 126, 40, 565,41, 124, 38, 564, 37, 563, 34, 459, 637, 460, 639:

- Foglio 6, Mappali: 534, 528. Avvisa, inoltre che: - Ai sensi dell’articolo 16, comma 10, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, nel termine perentorio di

30 giorni successivi alla data di pubblicazione del presente avviso presso l’Albo Pretorio Comunale,i proprietari delle aree ed ogni altro interessato possono formulare osservazioni al responsabi-le del procedimento;

- Ai sensi dell’articolo 16, comma 11, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, il proprietario dell’area,nel formulare le proprie osservazioni, può chiedere che l’espropriazione riguardi anche le fra-zioni residue dei suoi beni che non siano state prese in considerazione, qualora per esse risul-ti una disagevole utilizzazione.

Dalla Residenza Municipale, lì 27 febbraio 2009Il Responsabile del Servizio (Geom. Angelo Taccori)

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 1MARZO 2009

sa curiosità per tutte le forme del vissu-to».

Tranquillo in apparenza, a GrassanoCarlo si guardava intorno. Fissava per-sone e paesaggi in uno schizzo al trattoo in una tavola ad olio. Li immergeva inquella «civiltà immobile» che per lui erail mondo contadino. Le richieste che ri-volgeva all’amministrazione della co-lonia terminavano in clausole deferen-ti: «Con ogni ossequio», «con i sensi del-la più alta considerazione». Quasi sem-pre, le autorità respingevano i suoi ap-pelli. No al permesso di intrattenererapporti epistolari con Mario Soldati;obbligo di mandare al prefetto di Mate-ra, in copia, le lettere che Carlo si scam-biava con Alberto Moravia; divieto di vi-sitare e curare la gente del posto, spes-so affetta da malaria.

Trasferito da Grassano ad Aliano,sempre in Basilicata e luogo ritenutopiù adatto a censurarlo, all’inizio Levi sisentì due volte confinato. La nuova de-stinazione gli parve squallida e solita-ria. Chiese di passare qualche giornonella prima località dove aveva lasciatodei quadri incompiuti e stavolta fu ac-contentato. Ma l’arrivo al confino, pervisitarlo, di Vitia Gourevitch, una sua examante conosciuta in Francia, e di Pao-la Levi Olivetti, cui lo legava un lungo

rapporto, fu oggetto di nutrite diatribetra autorità carcerarie e prefettizie.

Intanto nell’animo di Levi il pregiudi-zio verso quei paesi desolati cambia se-gno, al punto da fargli sentire — comescrive Colangelo presentando questofascio di documenti — che «l’altra ci-viltà, cui si trova ora di fronte, è una ci-viltà diversa, ma non inferiore» a quellada cui egli proviene. Leggendo le letteredi Carlo, Paola, la sua donna, s’accorgeche della contrada dove l’hanno invia-to per punirlo egli comincia ad essere«innamorato come del più bel luogodella terra». Sta sviluppandosi in luiquell’apologia del mondo contadinocome una risorsa umana e politica al dilà e al di sopra della storia, che conno-terà poi il suo nome in tutte le storie del-la letteratura, associandolo al titolod’un libro che verrà: Cristo si è fermato aEboli.

26 maggio 1936: è il giorno della libe-razione, disposta dal ministro degli In-terni per i confinati politici in coinci-denza con la proclamazione dell’Impe-ro. Ha così termine l’avventura fisica diCarlo Levi, medico e pittore, nel Sud d’I-talia. Ma essa — dicevamo — è legata aquella d’un best seller fra i più prover-biali del dopoguerra, non solo italiano.Secondo Manlio Cancogni, che all’au-tore è stato a lungo vicino, la prima ideadel Cristorisale al settembre del ’43. Na-scosto a Firenze per sfuggire a fascisti enazisti, Carlo «cominciò a scrivere, amatita, i suoi ricordi dell’esilio in unaterra di miti e di favole» e «in pochi me-si arrivò in fondo». Il libro sarebbe usci-to da Einaudi nel ’45. A guerra finita, aResistenza compiuta: come un com-mosso promemoria d’autore su unatrasferta al Sud che era valsa a trasfor-marlo.

Un’isola è quasi per definizione il punto termi-nale di un viaggio. Magari quello da cui poi siriparte, ma non è un luogo che si possa attra-

versare così, per caso, passando di là. Un’isola è unposto in cui si sta. Perché è remota, staccata, in unaparola isolata. I luoghi di confino, nel senso del con-fino di polizia tanto abusato durante il regime fasci-sta, in pratica sono sempre delle Isole. Perché se de-vi prendere una persona, staccarla dal suo contestoe rinchiuderla in una prigione a cielo aperto allora tici vuole davvero un’isola, come Ponza, come Usticao come Ventotene, e quando non ne hai una a di-sposizione allora va bene un posto sperduto tramontagne, lande desolate o deserti, come i paesinidella Lucania o della Calabria.

Verrebbe da pensare che un posto così, per unoscrittore, sia come la morte. Gli scrittori vivono di ra-dici e di suggestioni, se gliele tagli, queste radici, senon lo sentono più quel luogo così familiare da per-cepirne tutte le più intime contraddizioni, se gli co-struisci attorno un guscio isolante che li separa daquegli stimoli che suonano i loro nervi come i tasti diun pianoforte, smettono di scrivere e muoiono.

Come scrittori e spesso anche come uomini.Con la letteratura del confino, invece, questo non

succede quasi mai, e icasi di Carlo Levi o diCesare Pavese, cheproprio al confino esul confino hannoscritto cose bellissi-me, sono solo i piùeclatanti. Credo che ilmotivo per cui tuttoquesto avviene, para-dossalmente, sia pro-prio questo: perché ilconfino è un’Isola.L’Isola è una prigio-ne, ma la letteratura,la scrittura, la narrati-va — lo sappiamo —mettono le ali. Nessu-no sente di più il biso-gno di evadere, alme-no con la mente, dichi è rinchiuso in unluogo ristretto. Esisteuna letteratura carce-raria enorme, spessosconosciuta solo perle limitate capacità diespressione di chi lapratica.

Gli scrittori, invece,sono scrittori e queste capacità ce le hanno. Posso-no perdersi quando si trovano confinati in uno spa-zio troppo vasto, come i fuoriusciti in un altro paese— altra gente, altra lingua, altri pensieri — e smette-re di scrivere o scrivere sempre la stessa cosa diquando si trovavano a casa loro. Ma su un’isola, cir-condata dal mare o dalla terra che sia, non c’è scam-po. Per uscirne bisogna scrivere.

L’Isola è una prigione, ma è anche una prigionenuova. Carlo Levi o Cesare Pavese sono intellettualidella buona borghesia piemontese. Conoscono lecittà, conoscono anche le Langhe, sicuramente, chesono campagna, però sempre del Nord, sempre inPiemonte. Ma la realtà di Aliano in Lucania o di Bran-caleone Calabro, dove il fascismo li spedisce al con-fino, quella gente, quel modo di vivere, anche quel-la natura sono cose sconosciute. Sono mondi da sco-prire, complessi ed esotici, e non importa se sonopiccoli, sono Mondi Nuovi. Sono un viaggio che siestende di pochi chilometri in lungo e in largo, lospazio di un paesino — quando non si riduce ai po-chi metri di una colonia penale. Ma è un viaggio in-finito lungo un’altra dimensione che può arrivaregiù fino all’Inferno o su, fino al Cielo.

Un viaggio che si può fare anche (quasi) da fermi.L’anima della scrittura, della narrazione che rac-

conta un posto, è data dalle sue contraddizioni. Sco-prirla diversa da quello che si aspettava, l’Isola, per-dercisi. Farsene stupire.

Sono stimoli che perforano il guscio e toccano i ta-sti di un pianoforte che scrittori come Levi o Pavesesanno suonare bene: quello dell’indignazione perl’ingiustizia e il degrado sociale o quello della fasci-nazione per la natura primitiva. Sarà per questo cheanche se non le sopportano, le disprezzano e anchele odiano, gli scrittori al confino finiscono per de-scrivere le loro Isole con una profondità, una tene-rezza e anche un amore che altri non vedono.

Come Stefano, l’alter ego di Cesare Pavese nel pri-mo racconto di Prima che il gallo canti, che nota laselvaggia e sensualissima Concia, mentre per tuttigli uomini del paese le donne come lei «sembranocapre», e basta.

Ma sono capre da raccontare. Capre che fanno letteratura.

© 2009 by Carlo LucarelliPublished by arrangement

with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

CARLO LUCARELLI

IL PAESAGGIO“Serio e grave”così Carlo Levi definivail paesaggio di Aliano,soggetto dei suoidipinti duranteil confino. A sinistra,Levi in un disegnodi Tullio Pericoli

PITTORE TRA I RAGAZZISopra, un altro paesaggio dipinto da LeviIn basso, Carlo Levi nel 1936, fotografatotra i ragazzi di Aliano mentre dipingedavanti alla scala della casa di confino

IL LIBRO

Cronistoria di un confino di V. AngeloColangelo (editore Scrittura & Scritture, 134 pagine, 12 euro) racconta attraversoimmagini e documenti l’esilio in Lucania di Carlo Levi. Il libro è stato pubblicato con il patrocinio del Comune di Aliano (Mt)Le due fotografie in pagina, tratte dal libro,sono esposte nella mostra permanente allaPinacoteca Leviana di Aliano. I documentiappartengono all’Archivio di Stato di Matera

L’anima libera

di un prigioniero

I DIPINTIIl ritratto di questidue bambini di Aliano,così come le altre riproduzionidei dipinti di Carlo Levi,è pubblicato per gentileconcessione del Parcoletterario Carlo Levi di Aliano

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Rivoluzionarono lo spettacolo moderno da Parigia New York. Ispirarono Cartier e Coco ChanelAlle musiche, alle scenografie, ai costumi, collaborarono

tutti i geni del secolo, da Debussy a Picasso, da Ravel a Matisse, da Braquea Poulenc. Il mondo celebra la compagnia di danza fondata cent’anni fada Sergei Djagilev, che ebbe come protagonista il sublime Nijinskij

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1MARZO 2009

Tremanodi eccitazione gli spetta-tori parigini, nel 1912, di fronte aL’Après-midi d’un Faune, doveVaslav Nijinskij soddisfa solita-rio le sue brame grazie al contat-to con la sciarpa abbandonata

da una Ninfa. Ne aspira l’odore, la stende aterra, vi si sdraia sopra, passa le mani sotto ilcorpo come per masturbarsi; la schiena s’i-narca, nel volto si diffonde l’aura del piacere.Già l’anno prima il danzatore ha folgorato leplatee in Le Spectre de la Rose, incarnando unfolletto onirico ammantato di petali sottiliche salta fuori da una finestra, la stessa in cui,con balzo impressionante, sparirà alla fine. Èun’emozione memorabile per chi vi assiste,come il pittore Oskar Kokoschka, che ram-menterà «un essere fluttuante nell’aria nelpiù assoluto sprezzo delle leggi fisiche: unsortilegio che non potrò mai dimenticare».

Nel 1913 è sconvolgente l’irruzione in sce-na di Le Sacre du Printemps, spettacolo checaccia via la danza dal mondo delle fiabe. Èun proclama di anti-romanticismo: salti sel-vaggi, braccia contorte, movenze spigolose,sussulti che scuotono i corpi. È il rigetto del-l’evanescente e del sinuoso in nome di un’in-quietante fisicità remota. La sera del debut-to, al Théâtre des Champs-Elysées, il pubbli-co applaude, fischia e grida, diviso tra spetta-tori disgustati ed estatici. Quando appare un

gruppo di ballerine coi piedi en-dedans e leguance poggiate sui pugni chiusi, s’alza dal-la sala un urlo: «Un dentista!». Il direttorePierre Monteux, che ignora la bagarre conpiglio stoico, non smette di gesticolare sulpodio, e l’autore della coreografia Nijinskij,dietro le quinte, batte il ritmo in piedi su unasedia: tale è il baccano che i ballerini nonsentono l’orchestra. Si rappresenta il sacri-ficio di una vergine immolata dalla sua tribùalla madre-terra per propiziarne la fertilità.Monta in un crescendo martellante la musi-

ca di Igor Stravinskij, accompagnando ladanza mortale.

Sono solo alcuni tra i tasselli dell’epopeadei Ballets Russes, di cui cade in maggio ilcentenario. In molti lo festeggiano: una mo-stra è in corso a Monaco di Baviera, e una de-dicata al mito di Nijinskij s’apre ad Ambur-go fra due mesi. Altre sono in programma al-l’Opéra di Parigi e al Dansmuseet di Stoccol-ma, mentre Londra aspetta il 2010 per orga-nizzarne una al Victoria and Albert Mu-seum. Nel 2009 sono previsti convegni a

Harvard, Yale, Boston e Venezia, e nuovi li-bri celebreranno l’avventura, tra cui un vo-lume a più firme sui Ballets Russes prodottodall’Accademia di Santa Cecilia e un saggiodi Richard Taruskin su Stravinskij alla lucedelle fonti russe, mentre l’Opera di Roma, inaprile, ospiterà un festival con diciassette ti-toli della compagnia. Tanta mobilitazione èproporzionata al peso del fenomeno, checorrisponde all’avvenimento teatrale piùmassiccio e provocante del primo quarto diNovecento, irripetibile per il livello dei com-positori e pittori coinvolti. Tra il 1909 e il ’29la troupe conquista le collaborazioni di Stra-vinskij e Picasso, Ravel e Matisse, Braque eDebussy, Satie e Mirò, De Falla e Goncharo-va, Balla e Poulenc, e la lista potrebbe conti-nuare a lungo. Come se tutto il fuoco degli“ismi” che ribaltano i criteri della percezio-ne dell’arte nel secolo scorso — orientali-smo, impressionismo, cubismo, costrutti-vismo, surrealismo, espressionismo, futuri-smo — si riversasse in quegli spettacoli sfa-villanti e scandalosi.

Il primo nucleo dell’ensemble si formanella cerchia più elevata del balletto natonella Russia zarista, per poi lanciarsi nelmercato capitalistico e diventare cosmo-polita grazie alla maestria organizzativa diSergej Pavlovic Djagilev, inventore del fan-tastico serraglio. Non è un artista, bensì «uninsolente privo di scrupoli e afflitto daun’assenza totale di genio» (la definizione èsua). Ha il polso dello spirito del tempo, sa

LEONETTA BENTIVOGLIO

Cambiare il mondoin punta di piedi

LE IMMAGINIIn alto a destra, due costumi di Léon Bakstper il balletto Narcisse di Nikolai Cerepnin (1911)Qui sopra, il disegno raffigura Nijinskij nei pannidel protagonista de L’Après-midi d’un Faune

LE FOTOGRAFIENel tondo in alto, Sergej Pavlovic Djagilev

Nell’altra foto, Vaslav Nijinskij in costume di scenaper L’Après-midi d’un Faune di Debussy

in un allestimento del 1912

Quel ballerino è un gattoacrobata colmodi ingenua lussuriaJEAN COCTEAU

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TEORIA DELL’EVOLUZIONEe le sue implicazioni filosofiche e morali

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 1MARZO 2009

Mille e una notte. Il debutto avviene al Théâ-tre Châtelet di Parigi il 19 maggio di cent’an-ni fa: è un tripudio, un’ubriacatura, un suc-cesso che detta mode e condiziona il gusto.Per dar vita alla compagnia Djagilev ha as-sunto alleati preziosi: Michail Fokin, coreo-grafo in grado di svecchiare il balletto in sen-so espressivo; il pittore Aleksandr Benois,coi fasti del suo théâtre du merveilleux; LéonBakst, autore di interni evocativi e turgidi co-me «serre di passioni» (Cocteau) e riprodut-tore di un Oriente ridondante di voluttà;

Nikolaj Roerich, sensibile al tratto selvaggiodei pittori fauve. Oltre a Nijinskij, figureran-no tra gli interpreti personalità avvenentiquali il danzatore apollineo Adolf Bolm,l’imperiale Karsavina, Olga Spessivtzeva,delicato fiore di Pietroburgo, Anna Pavlovacol suo collo da cigno ed altri, tra cui Ida Ru-binstein, femme fatale di dannunziano lan-guore. È lei ad offrirsi alla ribalta come Cleo-patra spogliata da ogni velo e come Zobeidelussuriosa in Shéhérazade, il balletto dovel’accostamento tra il verde smeraldo e il blu

zaffiro ispira i gioielli di Cartier e le stoffe de-gli abiti disegnati da Chanel.

Partita come uno specchio raffinato del-la cultura russa per poi farsi plasmare dalsuo obiettivo, quello di produrre spettacolistupefacenti per gli occidentali, la compa-gnia diventa sempre più internazionale. Èun teatro senza frontiere dove si riversano lapittura francese, il neoclassicismo musica-le, la danza spagnola, le angolosità costrut-tiviste, la danza morbida e ondosa di Isado-ra Duncan, le bizzarrie metafisiche di DeChirico e l’estro di Picasso, con la sua im-magine della scena come scatola ottica (ve-di il balletto cubista Parade, 1917) e i suoi to-ni opachi lontani dagli sgargianti bizantini-smi art nouveau che hanno segnato l’albadei Ballets Russes.

Nei vent’anni della sua esistenza, trionfa-trice a Parigi, a Madrid, a Roma, a New York,a Buenos Aires e a Berlino, e in seguito aMontecarlo, la sublime creatura di Djagilevproduce esiti clamorosamente eterogenei.Ciò nonostante è forte l’omogeneità del suomessaggio, riassumibile in una frase: i Bal-lets Russes sono “semplicemente” all’origi-ne dello spettacolo moderno. Separano ladanza dalla lirica, portano l’arte “alta” a con-tatto con le masse, decretano l’autonomiaespressiva di musica e scenografia, apronoil teatro a un vasto e libero tessuto di lin-guaggi. Nel 1929 Djagilev muore a Venezia.Con lui tramontano i Ballets Russes, ma i lo-ro semi germogliano ovunque.

di musica e di pittura, è un produttore spre-giudicato e coraggioso. Ma non ha il donodella creazione. Tuttavia è un formidabiletalent scout: scova gli artisti, li valorizza,guadagna la fiducia di quelli già famosi. Èuno stregone, un incantatore, un manipo-latore. Dispotico come uno zar (sostiene didiscendere da Pietro il Grande), si veste daprincipe d’operetta, con monocolo e cap-pello a cilindro, muovendosi nei salotti pa-rigini circondato da un alone di charme epettegolezzi. È amico di Coco Chanel, va acena al Bois de Boulogne con Marcel Prou-st e Jean Cocteau, è abile nello spillare soldia mecenati e a vecchie dame facoltose. Hasempre amanti notevoli, dal divino Nijin-skij, che lo massacrerà nei deliri del suo sca-broso Diario, a coreografi come Massine eLifar. Perdutamente votato all’arte, scegliesolo tra gli artisti i suoi legami passionali. Se-condo Igor Markevitch, musicista inclusotra i suoi favoriti, «le opere più belle dei Bal-lets Russes risultano dall’intreccio delle re-lazioni affettive di Djagilev».

Forse è anche per questo che uno dei pe-riodi più fruttuosi della compagnia scorreparallelo al più intenso amore dell’impresa-rio, quello col «geniale idiota» Nijinskij. Mi-scela di grazia e virilità, candore infantile ebestialità felina, il ballerino «è un gatto acro-bata colmo di ingenua lussuria» (Cocteau).Djagilev lo plagia nel corpo e nella mente. Loelegge star maschile del complesso, lo inci-ta a creare danze iconoclaste, ne controlla e

gestisce l’immenso talento, è geloso di lui fi-no all’ossessione e lo ammonisce che «desi-derare il corpo femminile è cosa abietta».(«Non si può descrivere», riferirà Stravinskij,«la perversione di quel milieu: si viveva asse-diati da guardie svizzere omosessuali»).Non a caso, negli spettacoli delle prime sta-gioni parigine, da Le Pavillon d’Armide aCléopâtre a Shéhérazade, a Vaslav toccanosempre ruoli da schiavo. E l’idea di unaprofonda seduzione tra il monarca e il suofantoccio si rinnova nel 1911 con Petrou-chka, parabola dell’uomo-burattino. A direil vero Nijinskij si sente attratto dalle donne:lo affascina la ballerina Tamara Karsavina,col suo lunare pallore. E quando s’invaghiràdell’aristocratica ungherese Romola de Pul-szky, destinata a diventare sua moglie, su-birà il ripudio dalla compagnia diaghilevia-na, precipitando in una lunga notte di follia(morirà pazzo nel 1950). Parigi è ai piedi diDjagilev fin dal 1906, anno in cui l’esteta-mercante porta al Salon d’Automne un’e-sposizione d’arte russa: festa barbarica di orie argenti, propone emblemi del folcloreasiatico e del primitivismo slavo. Sergej“Cincillà”, come lo chiamano per la sua frez-za bianca, reinventa la Russia ad uso deglistranieri, svelando una dimensione croma-ticamente vitale e densa di vigore primige-nio. La prospettiva s’accentua quando lan-cia l’impresa dei Balletts Russes, foriera dimondi suggestivi e fiabeschi, sospesi tra ilsogno di bassorilievi ellenici e scenari da

In quell’ambientesi era assediati da guardiesvizzere omosessualiIGOR STRAVINSKIJ

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i saporiRisvegli

Un batuffolo di cotone, un fagiolo, un po’ d’acqua: una voltaera poco più che un gioco da bambini. Oggi la scopertadelle cucine orientali ha sdoganato anche da noi questo cibocarico di straordinaria energia e facile da produrreperfino in casa: piselli, avena, girasole, crescione, cipolla,basta un germogliatore multi-piano per entrare nel club

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 1MARZO 2009

Germogli

Buoni, sani, freschiun morso alla primavera

LICIA GRANELLO

Piccoli germogli crescono. A vistad’occhio, se solo si ha la pazienzadi controllarli da vicino. Genera-zioni di bambini sono diventatigrandi imparando la magia dellanatura grazie a due batuffoli di

cotone, un fagiolo e un poco d’acqua. Comenella favola del fagiolo magico, il cotiledonelasciato in un bicchierino sul davanzale del-la finestra si apriva, lasciando spuntare unacapocchia verde, pronta a diventare unapianta nuova di zecca. Difficilmente si anda-va oltre l’entusiasmo dei primi giorni, limi-tando l’esperimento botanico a un deliziosorituale d’infanzia, esaurito insieme alla sco-perta dell’origine dei baccelli. La differenza èche, negli anni, i germogli abbiamo impara-to a mangiarli.

Benedetta cucina orientale. In gran partedell’Asia, i germogli abitano il menù quoti-diano esattamente come le alghe, il riso e leverdure: la contaminazione culinaria li haportati fin qui, con tutto il loro carico distraordinaria energia. Dicono che primadelle battaglie, i destrieri arabi venissero nu-triti con semi di frumento germogliato. Sen-za arrivare a tanto, i nutrizionisti contempo-ranei incoraggiano caldamente l’inclusionedei germogli nella dieta giornaliera per ag-giungere sostanze preziose. I più sapienti ar-rivano a selezionare i diversi tipi di semi, a se-conda dei bisogni del paziente.

A renderli tanto pregiati, la sfrontata ric-chezza di vitamine, enzimi, oligoelementi,aminoacidi essenziali, impossibili da trova-re altrove in pari quantità e purezza. Il tutto,ad alto tasso di digeribilità, senza controin-dicazioni e senza limiti di utilizzo, dall’anti-pasto al dolce. Insomma, un vero tesoro ali-mentare.

È l’acqua, a compiere il miracolo. Graziealla germinazione, infatti, il seme viene atti-vato, promuovendo tutte le trasformazionibiochimiche necessarie a mettere in moto lacrescita della pianta nel suo intero. Durantela mobilizzazione delle sostanze di riserva —trasformazione degli amidi in zuccheri — sirealizza una condizione di bio-grazia asso-luta, tanto da rendere commestibili perfinolegumi e cereali, altrimenti del tutto indige-ribili a crudo. Discorso analogo per le protei-ne, a loro volta rese più facilmente assimila-bili grazie all’opera degli enzimi, così comein forma organica — e quindi di pronto ac-cesso all’organismo — si trovano sali mine-rali e oligoelementi, a partire dal ferro.

Non esiste alimento più facile da produr-re, roba da far sentire degni di un giardinozen anche i reietti delle coltivazioni in vaso.Basta un vasetto col coperchio forato, o ad-dirittura un sacchetto di garza da appenderesotto lo scolapiatti: i semi amano l’acquapurché non ristagni, altrimenti ammuffisco-no. Volendo sistematizzare la produzione,via libera ai germogliatori multi-piano(composti da tre, quattro piani forati sovrap-posti, con coperchio bucato per far colarel’acqua).

La scelta delle tipologie è ampia e frasta-gliata, con la sola esclusione delle solanacee— patate, pomodori, melanzane, che ab-bondano in solanina, lievemente tossica —e con l’indicazione di usare solo semi biolo-gici, per evitare presenza di residui chimici eogm. Per il resto, via libera alle monovarietà(piselli, avena, girasole, crescione, cipolla...)o alle miscele, formulate per bilanciare i gu-sti dei singoli semi o le virtù nutrizionali. Unavolta innaffiati, accuditi e finalmente raccol-ti, non fermatevi alle semplici insalate: dallesalse agli oli, dai canditi ai sorbetti, i germo-gli sapranno conquistarvi a tutto pasto. Sepotete, resistete alla tentazione di farli salta-

re nel wok, come vediamo fare nei ristoranticinesi. Vitamine, sali & co. vi ripagheranno insalute e allegria, come veri destrieri arabi.

SoiaConditi in insalata o saltatiin padella — meglio se bio,anche per evitare l’alto rischiodi contaminazioni ogm — hannovirtù rinfrescanti e anticolesteroloCinquemila anni fa nei testidi medicina cinese venivanoconsigliati come antinfiammatori

CrescioneUna vera messe di bio elementi,nei germogli della mini insalatadal sapore lievemente piccante:vitamine A, B, C, D, e — tra i minerali— calcio, potassio, iodio, ferroe fosforo. In fitoterapiasono consigliati per le proprietàdepurative e digestive

FESTE E SAGRE DI FINE INVERNO

L’arrivo della primavera si porta appresso un’allegra catenadi appuntamenti legati alla celebrazione delle nuovissime vitevegetali che testimoniano la fine dell’inverno. Si cominciacon “Germogli di primavera”, percorso in tappe successivenei borghi della Marca Trevigiana, alla scoperta del germogliodei germogli, l’asparago (dal greco aspharagos e dal persianoasparag, germoglio) e si arriva fino alla quinta “Sagra mondialedel bruscandolo”, il germoglio del luppolo, in programmaper la seconda domenica di maggio a Berra, vicino a Ferrara

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 1MARZO 2009

itinerariPaolo Doneigestisce col fratelloMassimoil ristorante“Antica Malga”affacciatosulla Val di Fassa,

a Moena. In bilicofra tradizione e ricerca,il suo orzo mantecatoai germogli di luppolocon crema all’aglioaffumicato e gamberi di fiume

Fondato intorno al 700,il bel borgo medievaledominato dalla roccamalatestiana è appoggiatotra le prime collineromagnole e la focedel Rubicone. Tutt’intornoserre e coltivazioni,

tra cui insalate, sementi e germogli certificati bio

DOVE DORMIRELA CASA DEI GRILLIVia IV Novembre 49Tel. 0547-665540Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREDEI CANTONIVia Santa Maria 19 Tel. 0547-665899Chiuso mercoledì, menù da 23 euro

DOVE COMPRARESUBA&UNICO SEMENTIVia Emilia 1818Tel. 0547-56191

Sede medievaledi una comunità monastica,occupata e quasi distruttadai nazisti, la cittadinadella piana di Cassinosormontata dal monteAquilone vantauna grande tradizione di oli

di qualità. Fiorente produzione di semi e germogli

DOVE DORMIREAGRITURISMO CRETE GIALLEVia Parasacchi 3 Tel.0776-343304Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANGOLO DIVINOVia Carmine 26 Cassino Tel. 077-624596Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREGERMOGLIO FRESCOVia Oliveto Oscuro 8Tel. 333-1402369

È alle porte di Perugial’ex frazione legataallo storico pastificio PonteTra i “testimonial”della realtà agricola,la Centrale del latte,il mattatoio e un impiantodi semi e germogli

datato 1896 che esporta in tutto il mondo

DOVE DORMIREDECOHOTELVia del Pastificio 8 Tel. 075-5990950Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL GIARDINO DEI CILIEGIVia Massera 6, Località VioleTel. 075-8064091Chiuso a pranzo, menù da 20 euro

DOVE COMPRAREBAVICCHI SEMENTIVia della Valtiera 293Tel. 075-393941

Longiano (Fc) Ponte S. Giovanni (Pg) Cervaro (Fr)

Un germoglio è come una sveglia che suona. Il segnale scatta non appena le lancette diun grande orologio arrivano a sfiorare i tasti della primavera. La linfa sale. Segnalan-do l’avvento di un Capodanno naturale, ben più visibile di quello astronomico. Il sol-

stizio d’inverno, alla fine di dicembre, ha scandito il tempo di un pendolo nascosto nell’em-pireo, non ancora percepibile a occhio nudo. Per riscaldare la terra al punto giusto il sole do-vrà crescere per almeno tre mesi, fino all’equinozio di primavera: l’inizio di un risveglio evi-dente, comprensibile, vicino ai nostri sensi. Una concreta manifestazione del cosmo; tene-ra e scrocchiarella. Il capo dell’anello che segnava il principio dei calendari, collocato dai ro-mani, come da gran parte delle culture antiche, proprio nei giorni di marzo. Il mese più attesoe spiato, fin da febbraio, in ogni sua piccola manifestazione. Perché una violetta non fa pri-mavera. Ma è già l’annuncio di una bella misticanza: indivia, ruchetta, erba noce... cacciale-pre, riccetta, porcellana...

Mettere assieme una bella misticanza — acetosa, crespino, crescione — assume ormai ladimensione dell’atto rituale, una cerimonia pagana, per evocare un mondo definitivamen-te scomparso. Eppure l’appuntamento con la primavera era stato, per secoli, per millenni,l’appuntamento con i germogli. Ambasciatori del compiersi di un’alchimia sacra, non privadi qualche risvolto profano. Le prime erbette erano un caposaldo dell’alimentazione. Veni-vano a dare un aiuto alla cucina della sopravvivenza. E riportavano sui palati (e negli intesti-ni) assopiti dai mesi delle conserve, del secco e dell’insaccato, il sapore della freschezza. Unafesta, che lungo il mese di marzo risaliva le latitudini della Penisola, dalla Sicilia alle terre deicimbri, tanto più attesa e invocata — «Schella, schella maartzo». Vieni, vieni marzo — quan-to più lunghi erano i rigori del freddo e quanto più si era raschiato il fondo del barile della di-spensa: «Gariibet de kaputzen...». Finiti i crauti... «Aussar de rajikken!». Spuntino i radicchi!

Spuntano i radicchi! E spuntano le mille erbe dei campi: la cupa e la cristallina, la cornettae la cornacchia, la storna e la zolfina... La geografia e la nomenclatura dei germogli italiani,prima di essere cancellata dall’invasione di una piccola cerchia di vegetali globalizzati — soia,adzuki e alfalfa — rappresentavano una delle più belle, variopinte immagini del Belpaese. Leinnumerevoli differenze di clima e di terreno della penisola ci hanno regalato la vegetazionepiù ricca e più varia d’Europa. E, con quella, una miriade di tradizioni locali (i lampascioni inPuglia e i bruscandoli nel Veneto, la borragine ligure e la cicoria laziale), portate a loro voltaa spezzettarsi in un insalatone inestricabile. Il contrario della botanica col codice a barre. Lastessa erba cambia spesso nome da provincia a provincia. E i precetti tramandati dalla cul-tura orale non si limitano al dove, come e quando raccogliere le erbe spontanee, ma impli-cano anche le regole per pulirle, cuocerle, condirle.

Minestra di foglie d’ortica e asparagi di pungitopo all’uovo. Le erbe di marzo, il Germina-le come lo avevano denominato nel calendario della rivoluzione francese, per quanto scor-butiche sembrano sempre le migliori dell’anno. Per farsi una bella misticanza — raperon-zolo, moscatella, borsa del pastore — bisognerebbe, è vero, avere il tempo e la competenzaper andarsela a comporre da soli. Talvolta, però, capitano ancora certi incontri, casuali e for-tunati: un fascio d’erbette all’angolo di un mercato, o un piatto di ramolacci ripassati in pa-della ai margini di un menu. Ottima occasione per officiare un rito, olio e sale, alla memoriadi germogli, boccioli e teneri virgulti.

Così la natura celebrail suo Capodanno

LUCA VILLORESI

AzukiConosciuti soprattutto per il gelatodi matrice giapponese(in alternativa a quello di tè verde)i piccoli fagioli rossi dal grandevalore antiossidante sono ottimigermogli per salse e insalateAttenzione ai semi non germinati:sono durissimi e vanno scartati

LinoAmarognoli, piccoli e croccanti,sono tra i più ricchi di acidi grassipolinsaturi (Omega Tre), proteinee mucillagini. In più vantanoproprietà disintossicanti,ricostituenti e mineralizzantiAiutano a mantenere bassoil livello del colesterolo “cattivo”

AlfalfaL’altro nome dell’erba medica(in lingua araba “padre di tuttii cibi”) ben illustra la vocazionebenefica: un mix di enzimi,minerali, vitamine (tra cui la K,antiemorragica) e fitoestrogeniHa consistenza croccantee gusto intenso, stuzzicante

GirasoleHanno gusto che vira dal dolceall’amaro (a seconda del tempodi germinazione) e sono considerativeri tesori nutrizionali, graziealla ricchezza di proteine, grassiinsaturi, sali minerali, vitamine,antiossidanti specificinella protezione della prostata

RucolaAltra miscellanea virtuosadi vitamine — C, acido folico,betacarotene, precursoredella vitamina A — e minerali(potassio, calcio, fosforo)Insieme a senape e cipolla,sono tra i germogli più gustosie “pizzicanti”, dalle virtù diuretiche

BasilicoVitamine A e B per i germoglidi entrambe le varietà cromatiche(verde e rosso), dal profumocaratteristico e ricchi di sostanzeenergetiche. Lasciati in infusionenell’extravergine, lo trasformanoin condimento originaleper pesci e verdure

la quantità di vitaminerispetto alla pianta adulta

1400 %

i giorni necessarialla germinazione

quattro

la lunghezza minimaper poterli utilizzare

3 cm

Repubblica Nazionale

Page 13: Rottami - Antica Biblioteca Rossanese · superficie della Terra, ... naia di migliaia di chilometri quadrati, lastri- ... il 50 della carta vie-ne da materiale di recupero.

IL CANONELo spirito eclettico

di Piero Fornasetti rivivenei piatti di porcellanadecorati con i dettaglidi un viso femminile

Dalla collezione Temae variazioni, omaggio

ai canoni della bellezzaclassica

SEDUTI IN MANOUna seduta decisamente

atipica: si chiamaManomorta perché

accoglie il posteriorein una mano aperta,

con il divertitoconsenso di chi si siede

Per esterni, si fissaal muro. Di Bross Italia

SOTTO IL CASCOSembra un Playmobill’omino motociclistadi Maiuguali. Sotto

il casco, però, nascondeuna sorpresa: un attacco

con porta UsbLa chiavetta

ha una memoriadi un Gb. In tre versioni

BATTER D’OCCHIOPer aprire il comodinoKio basta spalancarel’occhio, disegnatosui cassetti di tutti

i complementiper la zona nottedi Zana, dotatidi meccanismo

con richiamo frizionato

MITOLOGIAGiano, dio della casa,

era detto bifronteperché ne custodivagli accessi, entrata

e uscita. L’evocativovaso-scultura di Jaime

Hayòn per Lladrò,custode di ogni segreto,di facce ne ha quattro

le tendenzeLinee morbide

Sta vivendo un momento di buona fortuna questa costoladella scuola “organica” che ha scelto di giocare con le formeumane fino allo sberleffo e all’eccesso. Così mobili,stoviglie e oggetti d’arredamento si trasformano in specchi,spesso deformanti, dei nostri organismi in movimento:divani-labbra, lampade-vulva, sedie-mani, piatti-occhio

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 1MARZO 2009

designantropomorfo

Organico, ergonomico, an-tropomorfo. Tre aggettiviper costruire il perimetrodel design intorno all’uo-mo e alla vita della Terra.Un triangolo scaleno, a di-

re il vero. Un triangolo i cui lati sono tuttidi lunghezza diversa. Perché le differen-ze sono molte.

Il design organico si ispira alle formedegli esseri viventi, o di parti di esseri vi-venti. In sottofondo c’è un’interpretazio-ne darwiniana del design: la natura per-segue la perfezione delle forme organi-che, la selezione naturale premia la for-ma più adatta al luogo che ogni essere vi-vente occupa in un ecosistema. Le formeinadeguate soccombono e scompaiono.Gli oggetti di design organico hanno im-mediata evidenza: una sedia a forma ditulipano, una scala elicoidale che sembrauna conchiglia. Però, anche quando nonè evidente il riferimento, le forme sonomorbide, sinuose, avvolgenti. Perché gliesseri viventi non hanno spigoli. Nel de-sign organico si incontrano personaggieterogenei: pietre miliari come gli Ea-mes; brillanti creativi come Ron Arad; maanche stravaganti come la designer,israeliana proprio come Arad, che haprogettato una lampada da terra a formadi vulva. Con l’ergonomia l’attenzionepassa dal generico — gli esseri viventi —allo specifico: l’uomo. L’ergonomia stu-dia le forme e le dimensioni che gli ogget-ti devono avere per adeguarsi al nostrocorpo, alla sua conformazione, ai movi-menti naturali. L’ergonomia è probabil-mente la qualità degli oggetti che perce-piamo di più: una sedia troppo alta, un ta-volo troppo basso, il volante di un’autoche si impugna male. Eppure è una qua-lità che sottovalutiamo, e sono rari i pro-duttori che hanno come primo approc-cio quello ergonomico.

Il design antropomorfo, cui dedichia-mo questa pagina perché, pur essendoun filo rosso del design fin dalle origini,vive adesso un periodo di buona fortuna,è facile da definire: un caso particolare deldesign organico che fa il verso all’ergono-mia. Si ispira al corpo umano e alle sueparti fino a ingigantirne i caratteri, ripe-terne ossessivamente i dettagli. Un og-getto-icona che fa parte del nostro im-maginario è il divano a forma di tumidelabbra rosso vivo, un omaggio a SalvadorDalì inventato da Studio 65 nel 1971 perGufram. Un oggetto esemplare, che ci di-ce tutto sul design antropomorfo: il suocarattere fondante è il gusto ludico, la vo-glia di giocare con il corpo umano fino al-l’ironia. È la paradossale negazione delfunzionalismo e quindi dell’ergonomia,anche se qualche volta la sposa con unosberleffo.

Accade alle sedute di Fabio Novembreper Casamania, sedie realizzate ricalcan-do la schiena e il sedere di una persona se-mi-inginocchiata e quindi ipso facto er-gonomiche, eccezioni fuori misura per-mettendo. In qualche caso l’ironia è di-chiarata già nel nome: Manomorta è unaseduta sospesa, in acciaio, a forma di ma-ni aperte e unite: di Bross Italia, si fissa di-rettamente al muro. Infine, l’antropo-morfismo può tornare dal design al dise-gno con effetti singolari. Per esempio ilpiatto in porcellana di Fornasetti che ri-produce un grande occhio disegnato altratto, un inquietante sguardo femmini-le che offre alla nostra cena la sua malin-conia.Domani sul sito www.casa.repubblica.it

una fotogalleria con cinquanta

immagini di oggetti antropomorfi

AURELIO MAGISTA’

VOLTO DI DONNALa donna, assieme

alla flora e alla fauna,è un tema molto amato

da Lalique. Nella scatolail viso femminile

è impressosu un pannello

in cristallo chiamatoMasque de femme

ARCHEOLOGIALa serie Up 7, disegnata

da Gaetano Pescenel 1969, rappresenta

una clamorosaespressione del design

al confine con l’arteUn frammento

archeologico dell’etàmoderna, di B&B Italia

MUSCOLI E PLASTICALe sedute Him e Her,di Fabio Novembre

per Casamania, sonoin polietilene e prendonoforma dalla scansione

tridimensionaledi due sculture di gesso

con profilo maschilee femminile

RAPA NUIIl monolite Bronze di Xo

by Philippe Starckche ricorda i Moai,

le grandi statue dell’Isoladi Pasqua in porcellana

color bronzo, si usa come tavolino

o come sedutaDistribuito da Phorma

Corpo a corpo, con ironia

Repubblica Nazionale

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Siciliana dai colori nordicima dalla passionalità “araba”,la prima ballerina dell’Opéradi Parigi vive con le valigie accantoda quando, a dodici anni, andò via

da casa per danzare“Non sentivomalinconia o nostalgiaAvevo addossouna malattia, una febbreche mi rendevainsensibile”. Adessoperò progetta un domani

oltre il lavoro: “Sono singlema non mi vedo da sola nel futuroVorrei avere dei figli e li avrò”

l’incontroEtoiles

MILANO

Una vita sulle punte. Sudo-re e fatica. I muscoli guiz-zanti e i capelli stretti nel-lo chignon che tira all’in-

verosimile. Allenarsi sempre e comun-que. Una corsa continua contro il tem-po, che non basta mai: tacco e punta e,ancora, punta e tacco. Sino alla nausea.Dieci ore ogni giorno tra audizioni, pro-vini, scuole di ballo. Piroetta anche neisogni la danseur Eleonora Abbagnato,prima ballerina all’Opéra di Parigi. E, aforza di arabesque e passé, la magia delladanza le è rimasta dentro. Le è penetratanella pelle. Quando entra in un bar dellavecchia Milano, la gente la guarda in-cantata. E lei sorride a tutti, gentile e se-ducente come una gatta. Colori nordici eintensità siciliana. In più charme france-se. Una miscela esplosiva che lascia sen-za fiato.

Lei è essenziale, magra al punto giu-sto. Capelli di seta e occhi turchesi. Ungiubbotto di cuoio e jeans morbidi ma,sarà il portamento impeccabile, sembrain abito da sera. La mano sposta il sipariodei capelli e scivola su una tazza di tè fu-mante. Osserva ridendo una montagnadi valigie. «Ogni volta che mi sposto dauna città all’altra mi porto dietro la casa,ma ormai ci sono abituata». Perché è daquando ha dodici anni che Eleonora Ab-bagnato vive con il bagaglio in mano. Aballare, invece, ha iniziato molto prima.Sotto gli occhi stupiti della mamma —genovese trapiantata in Sicilia per amo-re — e dei fratelli convocati per minispettacoli casalinghi. «Avevo appena treanni e mia madre, che aveva un negozioa Palermo, mi lasciava sola e io invece di

giocare spiavo le bambine della scuola didanza di Marisa Benassai». Per i genitorinon c’è scelta. La iscrivono al corso diballo e, a quattro anni appena compiuti,Eleonora indossa il suo primo paio dimezze punte e affronta leggera il debut-to. Una passione ma anche una prova diforza: «Volevo essere davanti a tutti e glialtri bambini restavano allibiti perché,con il mio aspetto da angioletto, non siaspettavano che fossi così determinata aconquistare la prima fila».

Quindi, ancora piccola, la decisione dilasciare Palermo, di dire addio alla “sua”Sicilia. «Non sentivo niente, nessun do-lore per la separazione o nostalgia di ca-sa. Era come una malattia, una febbreche mi rendeva insensibile». Adesso, in-vece, è molto meno fanatica. «Quandonon ballo per alcuni giorni quello cheprovo è una mancanza fisica ma quellapassione psicologica, fortissima, che av-vertivo da bimba resterà irripetibile». Adodici anni è già a Montecarlo a studiareda Marika Bresobrasova e, tra un con-corso e l’altro, conquista il posto per laBella Addormentata al Teatro Massimodi Palermo con il coreografo Roland Pe-tit. «Dopo sei mesi in tournée con Petit,sono andata a studiare a Cannes dall’in-segnante Rosella Hightower e all’Acca-demia di danza Principessa Grace a Mo-naco e ho capito che il tempio della dan-za è la Francia. Sono riuscita a chiedereun’audizione da Claude Bessy, allora di-rettrice dell’Accademia dell’Opéra, e nel’92 mi hanno preso alla Ecole de dansedell’Opéra di Parigi. Ci sono rimasta daiquattordici ai diciotto anni».

È la rivincita dell’italiana. La forza del-la volontà che annulla ogni altra emo-zione. «Non sentivo malinconia e se av-vertivo qualcosa di doloroso, come unapunta di spillo, lo respingevo dicendomiche dovevo continuare, mentre oggi mipesa molto stare lontana e se non ci fos-se l’Opéra non vivrei mai a Parigi. L’Italiaè meravigliosa perché è un paese since-ro, però purtroppo ha un grande difetto:tanto interesse per le cose inutili».

La vita di Eleonora non è mai stataquella di una ragazza normale. La sua èun’esistenza estrema. Come quella dicerti alpinisti o nuotatori. Al lavoro seigiorni su sette. Sulle punte dalle dieci delmattino alle sette di sera. «In tanti anninon ho mai saltato una lezione», ribadi-sce orgogliosa. Solamente due settima-ne di vacanze in agosto. In più sessantaspettacoli l’anno con coreografi sempredifferenti. «Ognuno ci chiede una cosadiversa. Fisicamente la danza è uno deisacrifici più duri, ma i ballerini non si la-mentano mai perché quello che li muo-ve è la passione». E poi bisogna confron-tarsi con il talento. Il fisico. I doni natura-li. I difetti che ti rovinano il changementde pieds. «Nel mio caso la conformazio-ne non era il massimo, troppo debole peralcune cose e con le ginocchia in fuori.Nella danza classica devi sempre model-lare il tuo corpo e mai compiacerti del ri-sultato. Non esiste la perfezione e se gliammiratori ti dicono che sei stata ma-

la nel futuro, vorrei avere dei figli e li avrò.Ma forse sarò ancora più possessiva dimia madre e non lascerò mai partire imiei figli per andare lontani da casa».

Perché Eleonora, quando si tratta diamore, è tutt’altro che una donna eterea:«Sono una siciliana vera, più araba cheitaliana, passionale e con il fuoco den-tro». Per ora sfoga il bisogno di amare congli amici, che sono quasi tutti fuori dalgrande, ma in fondo troppo piccolo,mondo del balletto: «Mi piace cucinareper gli altri, fare le cose con le mani. In ca-sa sono una maniaca della pulizia comela mia nonna paterna che mi faceva la-vare i piatti con lei. Ho degli scatti ma-niacali verso l’ordine della casa, che ioconsidero come terapeutico, un modoper rilassarmi. In piena notte sono capa-ce di sistemare tutti gli armadi».

Quando non gioca alla massaia amaleggere, soprattutto i libri di AmélieNothomb, e ascoltare musica. Non èinvece molto tecnologica: «Un amicomi ha aperto un profilo su Youtube euno su Facebook ma non li clicco qua-si mai, forse ho paura che diventi unamania. Però quando accendo il com-puter, e leggo quello che mi scrivono,sono commossa dalle dimostrazionid’affetto del pubblico».

Tanti incontri hanno cambiato la suavita. Prima di tutti quello con Pina Bau-sch, l’inventrice del teatro-danza, cheaveva il dono d’instaurare con le suecreature un rapporto quasi psicologico.«Quando avevo diciotto anni mi ha affi-dato il ruolo di Elettra ed è stata un’espe-rienza indimenticabile. Sempre con laBausch ho ballato in Orfeo e Euridice. La-vorare con lei mi ha insegnato l’umanitàdel ballo. Ho danzato anche per WilliamForsythe e con Angelin Preljocaj».L’Opéra di Parigi ha di magico che per-mette mille incontri nuovi e, restandofermi, si possono interpretare i perso-naggi più diversi. «Sono stata sul palco diNotre Dame de Paris e della Carmen mapreferisco le nuove performance ai bal-letti tradizionali. Non posso ripetere pertutta la vita Il lago dei cigni. Ho inveceamato tantissimo La signora delle Came-lie, del coreografo statunitense JohnNeumeier basata sul romanzo diAlexandre Dumas. Mi piace collaborarecon un’artista per inventare personagginuovi». Nella danza non ha il mito deicolleghi più grandi ma, casomai, delleinterpretazioni che l’hanno stregata e lehanno lasciato un marchio inciso nellamemoria: «Carla Fracci in Giselle,Mikhail Baryshnikov nel Don Chisciotte,e poi naturalmente alcuni passi di Ru-dolf Nureyev che purtroppo ho incon-trato una sola volta a Parigi, poco primache morisse».

In trent’anni Eleonora non si è maifermata e non lo farà a breve: «Ho un fi-sico resistente, che curo con costantimassaggi e sedute dal podologo e dal-l’osteopata. Ho firmato all’Opéra ilcontratto sino alla nostra età della pen-sione, che coincide con i quarantadueanni, e poi forse vorrei aprire una scuo-

gnifica, tu sai benissimo che avresti po-tuto fare di meglio. Io ho lavorato comeuna pazza sul collo del piede e sono riu-scita a migliorarlo solamente grazie alcarattere, che è la mia vera arma. Senzaquello non sarei andata avanti e lo con-sidero la mia sola protezione».

Quando finisce lo spettacolo Eleono-ra, per il momento, è sola. «Vivo da singlenella casa che mi sono comprata a Mont-martre quando mi hanno nominata pre-mière danseuse nel 2001. Ho avuto unpaio di storie importanti tra cui quellacon il mio primo fidanzato, Jeremy Be-lingard, anche lui ballerino dell’Opéra,ma non è il caso di innamorarsi di chi fa iltuo stesso mestiere perché finisci per fa-re tutto assieme e inevitabilmente nasceuna competizione che logora i senti-menti. E poi una passione forte con l’at-tore americano David Charvet». Sonostati amori importanti, di quelli che la-sciano il segno, ma quando ha dovutoscegliere tra i sentimenti e il lavoro havinto il lavoro. «Però non mi vedo da so-

la di ballo in Sicilia. La cosa che mi pia-ce di più è far sognare le bimbe che vo-gliono studiare e, quando insegno loroi primi passi, capisco subito chi ha lavolontà di farcela». Prima di allora peròdesidera una famiglia. Con tanti figli e,naturalmente, un marito italiano: «Vo-glio un uomo del mio stesso paese co-me padre dei miei bambini. Se avrò unabimba, so già che le farò studiare dan-za, perché così avrà il migliore porta-mento che si può desiderare per unadonna». Per ora, in attesa del principeazzurro, si accontenta dei sogni che so-no bilingui: «Sembra assurdo ma appe-na arrivo a Parigi comincio a sognare infrancese e quando torno a casa lo faccioin italiano».

Tra un balletto e una tournée la Ab-bagnato ha trovato, in questi anni, ilmodo si strizzare l’occhio al mondodello show business. A undici anni,scoperta da Pippo Baudo, ballava in te-levisione con Raffaele Paganini. Ognitanto si diverte a fare la modella per fo-tografie di moda e ha anche posato perKarl Lagerfeld. Poi una piccola parte inun film e, ultimamente, la partecipa-zione al Festival di Sanremo. «Quellodel cinema e della televisione è unosvago, anche se io faccio tutto con quelsenso di responsabilità che mi derivadall’allenamento continuo. La danza èuna realtà di nicchia e mi piacerebbeprovare altri impegni, anche se il miolavoro rimane quello di prima ballerinaa Parigi». Eleonora però ha sfondato ilmuro della danza. È riuscita a farsi co-noscere ed amare anche da quelli cheun balletto non lo hanno mai visto.Adesso però ha fretta. La macchina chela porta in aeroporto sta per arrivare.Parigi è vicina e domani è ancora ungiorno di allenamenti.

Trovo che l’Italiasia meravigliosaperchéè un paese sinceroPurtroppoha un grande difetto:tanto interesseper le cose inutili

IRENE MARIA SCALISE

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