Rossati Sculture Oltremontane Nella Lombardia Di 400 e 500

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Marco Rossati Sculture oltremontane nella Lombardia del Quattro e Cinquecento: presenze, scambi, importazioni* Dal 1410 non c’è più nessuno scultore tedesco nella Fabbrica del Duomo. Da quel mo- mento si era costituita una maestranza disciplinata e prettamente italiana. Di maestri ol- tremontani non c’è più bisogno. Ora attendono alle sculture del Duomo artisti di fama: accanto ai pochi veneziani, Matteo de’ Raverti, Antonio Briosco e il grande Jacopino da Tradate. Da questo momento anche nella scultura il Duomo parla la sua lingua. 1 Così Herbert Siebenhüner concludeva nel 1945 il testo de Il Duomo di Mi- lano e gli artisti tedeschi, trascrizione di una conferenza ispirata al più corposo saggio Deutsche Künstler am Mailänder Dom, da lui stesso pubblicato un anno prima a Monaco. Senza dubbio lo storico dell’arte lipsiano coglieva con questa affermazione una verità importante nella storia dei rapporti artistici tra Lombardia e Germania: il momento di maggior intensità di questi rapporti si era in effetti registrato nel cantiere del duomo prima del 1410. Nel suo studio l’autore si era giustamente soffermato a sottolineare l’impor- tanza e il prestigio degli architetti d’oltralpe, chiamati appositamente a intervenire nella controversa vicenda della fabbrica del duomo. Molto più sbrigativo era invece il suo giudizio sugli scultori, ai quali decideva di riservare solo poche pagine in chiusura: a parte un paio di eccezioni questi sono per lui “in massima parte artisti mediocri di passaggio, attratti dal miraggio di guadagnarsi la vita”. In particolare Walter Monich, scultore monacense attivo a Milano nel primo decennio del Quat- trocento, ispira allo storico dell’arte quasi un moto di compassione: la sua espe- rienza gli sembra incarnare in qualche modo il destino (inglorioso) di molti suoi colleghi scesi da oltralpe. Anche se viene ripetutamente indicato nei documenti come “bonus et optimus magister”, egli è in realtà una figura mediocre: Questa incoerenza illumina il problema degli scultori germanici alla decorazione del Duomo milanese in genere: essi non sono molto sicuri di sé, non sono personalità ar- * Ringrazio per la lettura, le critiche e i consigli: Giovanni Agosti, Roberto Cara, Marco Collare- ta, Massimo Ferretti, Mauro Natale, Orso Piavento, Alessandro Pisoni, Stefano Rinaldi, Daniele Rivoletti, Giovanni Santucci, Mauro Spina, Michele Tomasi, Luca Tosi, Patrizia Zambrano. La responsabilità di quanto pubblicato resta integralmente mia. 1. Herbert Siebenhüner, Il Duomo di Milano e gli artisti tedeschi, Milano 1945, p. 23.

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Dagli atti del convegno tenutosi a Ginevra nel 2013, pubblicati sotto il nome "Cultura oltremontana in Lombardia al tempo degli Sforza (1450-1535)", per i tipi di Viella nel 2014.

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Marco Rossati

Sculture oltremontane nella Lombardia del Quattro e Cinquecento: presenze, scambi, importazioni*

Dal 1410 non c’è più nessuno scultore tedesco nella Fabbrica del Duomo. Da quel mo-mento si era costituita una maestranza disciplinata e prettamente italiana. Di maestri ol-tremontani non c’è più bisogno. Ora attendono alle sculture del Duomo artisti di fama: accanto ai pochi veneziani, Matteo de’ Raverti, Antonio Briosco e il grande Jacopino da Tradate. Da questo momento anche nella scultura il Duomo parla la sua lingua.1

Così Herbert Siebenhüner concludeva nel 1945 il testo de Il Duomo di Mi-lano e gli artisti tedeschi, trascrizione di una conferenza ispirata al più corposo saggio Deutsche Künstler am Mailänder Dom, da lui stesso pubblicato un anno prima a Monaco.

Senza dubbio lo storico dell’arte lipsiano coglieva con questa affermazione una verità importante nella storia dei rapporti artistici tra Lombardia e Germania: il momento di maggior intensità di questi rapporti si era in effetti registrato nel cantiere del duomo prima del 1410.

Nel suo studio l’autore si era giustamente soffermato a sottolineare l’impor-tanza e il prestigio degli architetti d’oltralpe, chiamati appositamente a intervenire nella controversa vicenda della fabbrica del duomo. Molto più sbrigativo era invece il suo giudizio sugli scultori, ai quali decideva di riservare solo poche pagine in chiusura: a parte un paio di eccezioni questi sono per lui “in massima parte artisti mediocri di passaggio, attratti dal miraggio di guadagnarsi la vita”. In particolare Walter Monich, scultore monacense attivo a Milano nel primo decennio del Quat-trocento, ispira allo storico dell’arte quasi un moto di compassione: la sua espe-rienza gli sembra incarnare in qualche modo il destino (inglorioso) di molti suoi colleghi scesi da oltralpe. Anche se viene ripetutamente indicato nei documenti come “bonus et optimus magister”, egli è in realtà una figura mediocre:

Questa incoerenza illumina il problema degli scultori germanici alla decorazione del Duomo milanese in genere: essi non sono molto sicuri di sé, non sono personalità ar-

* Ringrazio per la lettura, le critiche e i consigli: Giovanni Agosti, Roberto Cara, Marco Collare-ta, Massimo Ferretti, Mauro Natale, Orso Piavento, Alessandro Pisoni, Stefano Rinaldi, Daniele Rivoletti, Giovanni Santucci, Mauro Spina, Michele Tomasi, Luca Tosi, Patrizia Zambrano. La responsabilità di quanto pubblicato resta integralmente mia.

1. Herbert Siebenhüner, Il Duomo di Milano e gli artisti tedeschi, Milano 1945, p. 23.

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tistiche come gli architetti oltremontani, ma artigiani; sono più scalpellini intagliato-ri che scultori, di cui si stima l’abilità manuale più che le loro possibilità artistiche.2

Secondo Siebenhüner il fatto che il suo stile ipergotico e in certi casi anche la sua firma siano stati rinvenuti a Orvieto, Sulmona e l’Aquila, non prova che l’arti-sta abbia goduto ripetutamente di un certo successo, ma piuttosto il contrario:

L’artista recita un vocabolario stilistico già da tempo fuori uso. A lui, sperduto negli Abruzzi, manca ogni contatto con le forze creative di artisti tedeschi o italiani. Quan-te volte sarà stato questo il destino degli scalpellini germanici in Italia!3

Alcune affermazioni di Siebenhüner partivano dalla lettura dei documenti, ma non possiamo negare che oggi, passato più di mezzo secolo, il suo giudizio ci appaia quantomeno eccessivamente severo.

Possiamo concedere che alcune sue opere, come ad esempio la tomba Cal-dora a Sulmona, appaiono “un po’ ispide e sgrammaticate nell’esecuzione”, ma “il temperamento immaginoso” di Monich e le sue “continue trovate ad effetto” non possono non ispirarci una certa simpatia.4 Sarebbe senza dubbio sbagliato non scorgere alcuna dignità artistica nella sua produzione, e a maggior ragione ci sembra giusto riconoscere l’importanza degli altri scultori stranieri attivi a Mila-no nello stesso decennio, o in quello precedente.

Tra il 1387 e il 1393 conosciamo il nome di un altro tedesco, Hans von Fer-nach, sicuramente autore dell’imponente sovrapporta della sagrestia meridionale; anche lui, come Monich, lascia la città viscontea dopo alcuni anni per ritrovarsi in un altro grande cantiere, quello di San Petronio a Bologna (e forse non è un caso che, ancora un paio di decenni più tardi, il primitivo progetto di Jacopo della Quercia per il portale della basilica prevedesse una soluzione “che richiama in maniera suggestiva quella messa in opera da Hans von Fernach” a Milano).5

Contorni più sfumati presenta invece la figura di Roland de Banille, definito nella contabilità “regiminis domini regis Franzie”:6 per via documentaria ricono-

2. Ibidem, p. 21.3. Ibidem, p. 22.4. Abbiamo qui preso in prestito l’efficace descrizione tratteggiata da Laura Cavazzini nel libro

più recente e utile per ricostruire la storia della scultura lombarda in questo periodo: Il crepuscolo della scultura medievale in Lombardia, Firenze 2004, p. 51. Sui tedeschi in Abruzzo si veda Daniele Benati, “Presenze tedesche all’Aquila da Gualtieri d’Alemagna a Giovanni Teutonico”, in L’ Abruzzo in età angioina, atti del convegno (Chieti 2004), a cura di Daniele Benati, Alessandro Tomei, Cinisello Balsa-mo 2005, pp. 309-319. L’identificazione tra il Gualtieri Alemanno attivo a Sulmona e il Walter Monich documentato a Milano è generalmente accettata dalla critica, con l’eccezione di Valentino Pace, “Il sepolcro Caldora nella Badia Morronese presso Sulmona: una testimonianza delle presenze tedesche in Italia nel primo Quattrocento”, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, atti del convegno (Roma 1985), a cura di Jörg Garms, Angiola Maria Romanini, Wien 1985, pp. 413-422.

5. Ibidem, p. 34, nota 50. Come nota l’autrice “Jacopo potrebbe aver ammirato [il sovrapporta di Hans von Fernach] quando nel 1425, si recò nella città viscontea per procacciare il marmo ne-cessario all’impresa bolognese”. Alla bibliografia sul cantiere del duomo raccolta dall’autrice va aggiunta anche la pubblicazione della tesi di dottorato di Paolo Sanvito, Il tardogotico del duomo di Milano. Architettura e decorazione intorno all’anno 1400, Münster 2002.

6. Ugo Nebbia, La scultura nel Duomo di Milano, Milano 1908, p. 40.

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sciamo in lui l’autore di una Sant’Agata posta su uno dei finestroni del transetto, ma è anche molto suggestiva l’ipotesi che vede una sua firma nel monogramma r inciso sulla spada di una Santa Pelagia, collocata in posizione speculare all’altra scultura.7 Egualmente considerate opere francesi sono le sculture che decorano la guglia Carelli: sia gli angeli dalle lunghe ali possenti, chiaramente imparentati con quelli sulla sommità del pilone XVII all’interno del duomo (tutti attribuiti dalla Cavazzini allo stesso Roland de Banille);8 sia le statuette di profeti, che a detta del Toesca, “ricordano, per la loro intensa espressione, quelle di Claus Sluter nel Pozzo di Mosè”.9

Senza dubbio è vero che il momento più internazionale del duomo di Milano è stato proprio questo, cioè il periodo che va dalla dominazione di Gian Galeazzo Visconti (un duca particolarmente esterofilo) al decennio immediatamente suc-cessivo alla sua morte nel 1402. In questo periodo il processo di acculturazione tra maestranze di diversa origine è stato talmente forte che gli storici dell’arte hanno incontrato più di una difficoltà quando hanno cercato di “divinare” la na-zionalità di ogni autore solo sulla base dello stile.10 Ciò detto, va in ogni caso riconosciuto che la fortuna della scultura transalpina in Lombardia è durata ben più a lungo di quel limitato momento storico: se è vero che per quanto riguarda l’Opera del duomo i documenti non attestano più la presenza di scultori tedeschi, abbiamo in ogni caso la certezza che nel resto della città i modelli nordeuropei hanno continuato ad essere largamente imitati ed apprezzati.

Nel II e III decennio uno scultore lombardo come Jacopino da Tradate non si dimostra certo insensibile al fascino dei panneggi ipergotici cari ai suoi colleghi transalpini: lo dimostrano l’unica sua scultura sicuramente documentata (il Martino V benedicente nel duomo), e ancor di più la Madonna del Castello Sforzesco, di incerta provenienza ma a lui attribuita sulla base dell’opera precedente.11 Ancor più significativa è la presenza nel Tesoro di Sant’Ambrogio di una serie di cinque Pleu-rants incappucciati che si ispirano inequivocabilmente a un modello ampiamente diffuso nel nord Europa, soprattutto a partire dalla tomba del duca Filippo l’Ardito a Champmol: per quanto ne sappiamo si tratta dell’unico esempio italiano di questa tipologia iconografica. La storiografia non è concorde sulla provenienza dell’ope-ra, né sull’identità dell’artista: segnalati sin dal Toesca come “monumenti dell’arte borgognona in Milano”,12 sono oggi discussi dalla critica come opera di un lombar-

7. Si tratterebbe quindi di una sigla curiosamente allusiva alle consuetudini degli armaioli, che così si firmavano. Cfr. Cavazzini, Il crepuscolo [n. 4], p. 40.

8. Ibidem, p. 42, n. 13.9. Pietro Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia dai più antichi monumenti alla

metà del Quattrocento, [Milano 1912], Torino 1966, p. 183, nota 2. 10. Una prova ne sono le schede del catalogo del Museo del duomo (e di molte altre pub-

blicazioni) dove una cautela ‒ piuttosto comprensibile ‒ ha spinto gli autori a non lesinare i punti interrogativi e ad usare espressioni molto generiche come “scultore franco-tedesco”. Vedi Rossana Bossaglia, Mia Cinotti, Tesoro e Museo del Duomo, 2 voll., Milano 1978.

11. Su Jacopino si veda il profilo delineato in Cavazzini, Il crepuscolo [n. 4], pp. 55-102.12. Toesca, La pittura [n. 9], p. 183, nota 2.

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do suggestionato dalla scultura oltremontana.13 Le analisi condotte per il restauro del 2006 hanno indicato come luogo di origine della pietra una cava del nord Italia (probabilmente Candoglia):14 questo permette di escludere che si tratti di un’opera di importazione, ma non dice nulla di definitivo circa l’identità dello scultore.

Oltre ai pagamenti conservati in archivio e alle opere superstiti, disponiamo di un ulteriore tipo di documento che testimonia la persistente fortuna della scultura nordeuropea in Lombardia: una lettera/trattatello (“aepistolam [sic] seu volumen”, secondo le parole dell’autore)15 scritta nel 1432 da Francesco Piccolpasso, all’epoca vescovo di Pavia, ma anche importante umanista e collezionista di manoscritti.16 Nella sua Epistola de architectura sacrae aedis Castelleonis l’autore si rivolge al cardinale Juan de Cervantes per raccontargli di essere stato a Milano per l’incoro-nazione dell’imperatore Sigismondo e di avervi incontrato il loro comune amico, il cardinal Branda Castiglione. Ospitato da quest’ultimo ha così avuto modo di apprezzare le straordinarie bellezze commissionate dal cardinale per abbellire la sua residenza in Valle Olona;17 descrive quindi ammirato la lunetta che ancor oggi sovrasta l’ingresso della collegiata di Castiglione, ma soprattutto ci testimonia la presenza di alcune opere di cui non ci rimangono altre testimonianze: il chiostro, le campane fuse in Inghilterra (in arrivo dal porto di Venezia), due arazzi fiamminghi nelle navate laterali, i bassorilievi (“anaglypha”) che circondavano l’altar maggiore. Cita inoltre varie candelabra e lampades, ma non ne descrive nessuna nel dettaglio: non possiamo quindi sapere se era già presente lo splendido lampadario bronzeo che ancor oggi pende presso l’altar maggiore;18 si tratta di un’opera di provenienza

13. Per Rovetta sono opera di uno scultore lombardo suggestionato dalla cultura borgognona e potrebbero provenire dal monumento funerario di Manfredo Della Croce; Alessandro Rovetta, “Memorie e monumenti funebri in S. Ambrogio tra Medioevo e Rinascimento”, in La basilica di S. Ambrogio: il tempio ininterrotto, a cura di Maria Luisa Gatti Perer, 2 voll., Milano 1995, I, pp. 269-309: p. 285. Per la Cavazzini, invece, le statuette si sarebbero trovate (a mo’ di pseudo-telamoni) al di sotto di una tomba proveniente dalla basilica di Sant’Ambrogio e oggi sullo scalone di accesso all’Archivio, quella di Alchirolo e Giacomo Della Croce; l’autore di tutto il complesso sarebbe per lei da identificare in Jacopino da Tradate; Cavazzini, Il crepuscolo [n. 4], pp. 75-82.

14. Il rapporto di restauro è stato pubblicato sul sito dello Studio Restauri Formica. 15. Pubblicato in Tino Foffano, “La costruzione di Castiglione Olona in un opuscolo inedito

di Francesco Pizolpasso”, Italia medioevale e umanistica, 3 (1960), pp. 153-187: p. 173.16. Amico di Enea Silvio Piccolomini e Cusano, donò la sua ricca collezione al capitolo della

cattedrale di Milano: ancor oggi questa è conservata nella Biblioteca Ambrosiana, dove confluì nel XVII secolo. Sul Piccolpasso (o Pizolpasso) bibliofilo si veda Angelo Paredi, La biblioteca del Pizolpasso, Milano 1961.

17. Il più recente volume di studi sul complesso di Castiglione Olona è Lo specchio di Castiglione Olona, a cura di Angelo Bertoni, Varese 2009 (incentrato soprattutto sul palazzo, ma non limitato a questo). Ancora importanti restano Eugenio Cazzani, Castiglione Olona nella storia e nell’arte, Milano 1966; Carol Pulin, Early Renaissance Sculpture and Architecture at Castiglione Olona in Northern Italy and the Patronage of a Humanist, Cardinal Branda Castiglione, diss., Ann Arbor 1984; e Enrico Catta-neo, Gian Alberto Dell’Acqua, Immagini di Castiglione, Milano 1986 (che per alcuni aspetti resta la mi-gliore documentazione fotografica esistente). Incentrato sull’attività di Masolino per il cardinale è Carlo Bertelli, Masolino. Gli affreschi del Battistero e della Collegiata a Castiglione Olona, Milano 1998.

18. Le migliori riproduzioni restano quelle di Cattaneo, Dell’Acqua, Immagini di Castiglione [n. 17], pp. 78-79. Non mi sono noti articoli scientifici su quest’opera (che sembrerebbe essere

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sicuramente transalpina, che andrebbe ulteriormente studiata da uno specialista della materia. Ad attirare, invece, la sua attenzione è un altro oggetto di origi-ne nordica, al quale dedica un numero di righe maggiore della media. Questo è descritto in un unico periodo, molto lungo e retoricamente ispirato, denso di su-perlativi ed incisi. Lo riportiamo qui in una traduzione abbastanza letterale (cosa che, purtroppo, non ne alleggerisce la lettura):19

Infatti in mezzo all’altare si trova appoggiato, come una perla preziosa e nobile, un oggetto che ha grosso modo la forma di un monticello vermiglio scuro, composto di una sostanza minerale, lavorato con l’intaglio finissimo e meraviglioso della glo-riosissima Natività e piissima Passione di nostro Signore Gesù Cristo in Germania (cioè nel paese più potente del mondo, che primeggia fra gli altri per la nascita di scultori straordinari); un oggetto tanto più straordinario quanto più piccolo20 è lo spazio nel quale è racchiusa la rappresentazione di qualcosa così grande21 con figure minutissime e bellissime. Vicino alla sua sommità quest’opera contiene al suo inter-no [o sorregge] la statuina di un crocifisso d’oro, coerente con il resto per propor-zione e bellezza; mentre, in questo caso separatamente, ve ne è anche un’altra22 più grande ed in argento, che pende al centro poco più in alto [corsivi miei].

Si tratta di un documento prezioso sotto molti punti di vista. Innanzitutto è molto suggestivo sapere che un bolognese residente nella Lombardia dell’epoca potesse guardare alla Germania come alla regione della Terra “sculptorum miri-fico genere praepollentem”: un’ulteriore prova che gli scultori tedeschi ebbero veramente una loro fama al di qua delle Alpi, e che questa nel 1432 non era ancora

sfuggita all’attenzione degli specialisti di questi oggetti); per provare a inquadrarlo nel contesto dei casi più noti si può vedere Kurt Jarmuth, Lichter leuchten im Abendland. Zweitausend Jahre Beleuchtungskörper, Braunschweig 1967.

19. Abbiamo preferito tradurre in un modo piuttosto letterale per agevolare il controllo sull’origi-nale. “Nanque [sic] monticulus mineralis fere, pullus et vermiculatus, apud Germaniam, potentissimam orbis regionem, sculptorum mirifico genere praepollentem, elaboratus mira exquisitissimaque caelatu-ra gloriosissime nativitatis et piissime passionis Domini nostri Ihesu Christi, eque preciosum ac nobile margaritum, medio supersedet altari: tanto insignior quanto brevioribus metis minutissimis simulachris formosissimis tantae rei sculptura concluditur, in se verticem iuxta continens caelatum simulachrulum aurei crucifixi consentientis proportionis et dignitatis maiore quoque argenteo seorsum istic altius ali-quanto ad medium suprapendente”. Foffano, “La costruzione di Castiglione” [n. 15], p. 183.

20. “Tanto insignior, quanto brevioribus metis […]”: letteralmente “tanto più straordinario, quanto in dimensioni più ridotte è racchiusa la scultura/la rappresentazione […]”.

21. Si potrebbe anche tradurre “di un evento così grande / così importante”: la Passione è infatti “tanta res” perché è l’evento capitale per la salvezza dell’umanità. Ma abbiamo preferito renderlo “di una cosa tanto grande”, perché Piccolpasso sembra anche giocare su una certa ambi-guità del significato di tanta res: la meraviglia di quest’opera non è semplicemente legata al fatto che un evento capitale è stato rappresentato così piccolo, ma soprattutto alla contrapposizione fisica brevioribus metis vs. tantae rei (su cui si basa la costruzione retorica della frase), cioè all’idea che in uno spazio così esiguo si è riusciti a racchiudere l’intaglio di due immagini così impegnative come una Natività e una Passione di Cristo. Non sembra un caso che si tratti di due iconografie sovente rappresentate come scene “corali” particolarmente affollate (soprattutto in età gotica e nel nord Europa), quindi ancora più difficili da realizzare senza occupare un minimo di spazio, a maggior ragione se presenti entrambe.

22. O “un altro”, se lo riferiamo a “crucifixi”.

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tramontata. Ma una questione anche più affascinante è quella che riguarda l’iden-tificazione del tipo di opera descritta dal vescovo. Non sono molti gli studiosi che si sono confrontati con questo problema, e per quanto ne sappiamo tutti si rifanno al filologo Tino Foffano, che nel 1960 ha edito il testo corredandolo di una buona introduzione storica.23 Nel suo contributo questi non ha provato ad accostare la fonte scritta ad alcuna opera esistente, ma si è limitato, forse per prudenza, a tra-durne ad sensum certi punti per descrivere un “piccolo blocco piramidale di pietra preziosa […] una specie di piedistallo dal colore scuro e vermiglio […] un cammeo con due bassorilievi”.24 Innanzitutto bisogna sottolineare che il termine mineralis, dal significato oggi abbastanza pacifico, non era così chiaro ed univoco all’epoca: inesistente in latino classico, viene forgiato dagli umanisti sul modello del volgare per indicare tutto ciò che viene estratto in una miniera, metalli compresi (da qui la sua etimologia). In ogni caso l’esperienza insegna che i materiali citati nelle descri-zioni antiche non sono da considerare sempre affidabili e, se dovessimo provare a collegare il monticulus a una tipologia di opere conosciute, preferiremmo affidarci ad altri indizi. L’intaglio dei cammei non è un’arte così prettamente tedesca, mentre conosciamo un altro genere dominato incontestabilmente dagli scultori di Germa-nia e Fiandre per molti secoli: si tratta dell’intaglio in bosso, un legno particolar-mente duro e resistente che si presenta di solito in un colore bruno-rossastro molto intenso. Aspetto e consistenza di questo materiale tendono talvolta ad assomigliare a quelli di una pietra scura (o anche di un metallo brunito, quando la superficie è lucidata): è forse possibile che Piccolpasso non abbia riconosciuto questo tipo di legno, raramente utilizzato dagli artisti italiani? Sarà un caso, ma la specificità dell’intaglio in bosso (un po’ come succede per l’avorio) è proprio quella di per-mettere solo la realizzazione di figure molto minute, limite che gli scultori nordici hanno saputo invece piegare a proprio vantaggio. Soprattutto nei Paesi Bassi di fine Quattro e inizio Cinquecento si assisterà ad una specie di boom della realizzazione di altaroli, oggetti preziosi e Betnüsse in questo materiale (fig. 1-3),25 apprezzati

23. Foffano, “La costruzione di Castiglione” [n. 15]. Qualche rapida nota sul monticulus si trova anche in Bertelli, Masolino [n. 17], p. 32 e nota 169; e in Carl Brandon Strehlke, “Li magistri con li discepoli. Thinking about art in Lombardy”, in Quattro pezzi lombardi (per Maria Teresa Binaghi), a cura di Barbara Agosti, Brescia 1998, pp. 9-38: p. 28. Nelle stesse pagine Strehlke fa anche riferimen-to ad altri due casi di cui parleremo più avanti (il Maestro di Rimini, Johannes Teutonicus).

24. Foffano, “La costruzione di Castiglione” [n. 15], p. 165. Seguendo la lettura del filologo anche noi abbiamo reso con l’italiano vermiglio l’aggettivo vermiculatus (vermilatus, prima che il copista si correggesse): è un significato attestato nel latino medievale. Una possibile alternativa sarebbe stata tradurlo screziato, variegato.

25. Abbiamo deciso di riprodurre in fotografia ben tre di questi oggetti, proprio per testimoniare la varietà di tipologie possibili. Segnaliamo il numero di inventario di ognuno di essi per rendere più semplice la loro identificazione, anche sul catalogo on-line dei tre musei (la cui scheda risulta molto più dettagliata rispetto alle informazioni pubblicate a stampa): Londra, Victoria & Albert Museum (inv. A.41-1954); New York, Metropolitan Museum of Art (inv. 17.190.475); Londra, British Museum (inv. WB.232). Betnuss (“noce per la preghiera”) è il nome tedesco con cui, dall’Ottocento in poi, la storiografia indica una piccola scultura sferica apribile in due, contenente uno o più microrilievi dedi-cati a una scena religiosa, il più delle volte cristologica. Solitamente non superano i 6 cm di diametro e sono in legno di bosso, o anche in avorio: venivano attaccate alla sommità di un rosario o a una

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proprio per lo straordinario virtuosismo con cui gli intagliatori ricavavano scene mi-croscopiche e affollatissime nello spazio di pochi centimetri. Sono proprio le stesse caratteristiche sulle quali insiste ripetutamente il vescovo nel descrivere i rilievi del monticulus (e anche l’accostamento in un’opera minuscola di Natività e Passione, ricorda da vicino l’iconografia di molte di queste opere: fig. 2-3).26 Quanto alla pro-venienza geografica, se la fioritura più impressionante si è registrata nei Paesi Bassi, di certo esistono regioni tedesche a questi molto prossime, in cui si commerciavano (o si lavoravano) opere “alla fiamminga”: non è un caso che i confini tra le due identità fossero molto labili, tanto che questi venivano spesso considerati una parte della Germania.27 Il problema più grosso da affrontare è piuttosto un altro: siamo, infatti, consapevoli che questo tipo di opere sono generalmente datate ben più tardi del 1431. Resta però il fatto che su molte di esse, in realtà, non vi è alcuna certezza assoluta;28 inoltre nulla vieta di pensare ad una sorta di incunabolo di questo tipo di realizzazioni, a maggior ragione visto che esistono anche rilievi del genere il cui stile sembra tradire una datazione decisamente più alta.29 In ogni caso, anche se si lascia cadere tale ipotesi, bisogna comunque immaginare un microrilievo simile a questi, sempre realizzato nel nord Europa, ma in un altro materiale rosso scuro (cosa che ‒ tutto sommato ‒ sembrerebbe ancor più rara e singolare).

Date le varie vicissitudini subite in seguito dal sito di Castiglione Olona è proba-bile che del monticulus non sia sopravvissuto alcunché,30 e per quanto ne sappiamo la lettera di Piccolpasso resta l’unica testimonianza della sua esistenza in Lombardia.

collana, ma conosciamo dei casi in cui aperte e provviste di una montatura vennero utilizzate come altaroli privati, facilmente trasportabili. Si veda ad esempio quella del Victoria & Albert Museum (inv. 225-1866) in cui il supporto, più tardo, è argenteo: una testimonianza che legno di bosso e metallo potevano essere abbinati senza problemi. Il tabernacolo apribile del British Museum (inv. WB.233) testimonia infine la grande complessità che questi oggetti preziosi potevano raggiungere. Sulla micro-scultura in bosso e sulle sue tipologie: Susan Romanelli, South Netherlandish Boxwood Devotional Sculpture, 1475-1530, diss., Ann Arbor 1992; Evelin Wetter, Zwei spätmittelalterliche Betnüsse aus den südlichen Niederlanden, Bern 2011; e soprattutto i vari contributi di Frits Scholten, tutti abba-stanza recenti; rimandiamo all’ultimo in ordine cronologico (che pemette di recuperare la bibliografia precedente): “Joost van Cranevelt’s prayer nut”, Simiolus, 36 (2012), 3/4, pp. 123-141.

26. Nel caso del microaltare alla fig. 3 la Crocifissione è accompagnata da un’Orazione nell’orto; Crocifissione e Natività sono invece presenti in un altarolo molto simile al Louvre (inv. OA 5612).

27. Basti pensare al titolo del famoso libro di Lodovico Guicciardini, Descrittione di tutti i Paesi Bassi altrimenti detti Germania inferiore, Antwerpen 1567. Sulla ‘sfuggente’ identità dei Paesi Bassi borgognoni (e sull’uso di Alemania inferior e Nederlanden) si veda Alastair Duke, “The elusive Netherlands. The question of national identity in the early modern Low Countries on the eve of the Revolt”, BMGN, 9 (2004), pp. 10-38.

28. Non varrebbe forse la pena di chiedersi se alcune di queste opere vadano in qualche modo retrodatate? Lo stile di alcune di esse sembra in realtà compatibile anche con il XV secolo. Un esempio fra i tanti è questo del Metropolitan Museum di New York: inv. 17.190.458.

29. Si prenda ad esempio l’Adorazione della Trinità del Metropolitan Museum di New York (inv. 17.190.486). Un primo catalogo delle sculture quattrocentesche in bosso (ancora esistenti o solo documentate) è offerto da Antje Middeldorf Kosegarten, “Inkunabeln der gotischen Kleinpla-stik in Hartholz”, Pantheon, 22 (1964), pp. 302-321.

30. Nel 1513 Castiglione Olona venne saccheggiata dalle truppe di Massimiliano Sforza, mentre nel 1780 la sagrestia venne distrutta da un incendio.

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Meno sfortunato è invece il caso del cosiddetto Altare dell’Umiltà, opera senza dubbio più imponente del monticulus, ma composta sempre da figure abbastanza minute (fig. 4): conservato quasi integralmente, si trova oggi nella collezione Borro-meo dell’Isola Bella (Stresa).31 Probabilmente ci troviamo di fronte a un altro caso di importazione: l’ancona è composta da ventotto nicchie che ospitano altrettante scul-ture alabastrine, verosimilmente scolpite in Germania o nelle Fiandre nel V decennio del secolo. Sin dalla prima pubblicazione scientifica dedicata a questo polittico,32 esso è stato collegato ai resti di un altro altare, acquistato nel 1913 dal Liebieghaus di Fran-coforte e proveniente dal Santuario delle Grazie presso Rimini: entrambi sono forma-ti da piccole statue di alabastro di dimensioni comparabili (anche se non identiche)33 e molte delle figure presenti all’Isola Bella sfoggiano un panneggio ipergotico del tutto simile a quello che si riscontra in tutte le sculture di Francoforte (tra di loro molto più omogenee). L’identità del “Maestro dell’Altare di Rimini” è rimasto il punto più controverso su cui si è cimentata la storiografia successiva: in un primo tempo lo si è creduto un renano attivo negli anni attorno al 1420 e 30, emigrato in Italia verso il 1440 (Swarzenski, contraddetto poi da Krautheimer, proponeva di identificarlo con il maestro Gusmin di Colonia tanto elogiato da Ghiberti).34 I principali contributi ap-parsi nel secondo dopoguerra sembrano invece accantonare entrambe queste ipotesi, pur lasciando la cronologia grosso modo invariata:35 la vicinanza formale a molte creazioni del gruppo Campin-Weyden ha, invece, fatto supporre un’origine fiammin-ga del maestro. Inoltre, l’aggregazione allo stesso corpus di altre sculture simili per dimensioni e stile, ma sparse un po’ in tutta Europa, ha spinto gli studiosi a dubitare della necessità di un viaggio dello scultore al di là delle Alpi: le dimensioni sempre molte contenute e la (quasi) serialità di queste opere sembrano suggerire che buona parte di esse siano state concepite per il mercato o per l’esportazione. Il fatto che i due cicli più importanti del gruppo, ancora conservati, si trovassero entrambi in Italia sa-rebbe quindi più che altro una casualità, o “il fortunato esito di una differente vicenda

31. Il più recente contributo specificamente dedicato a quest’opera è la scheda di Mauro Natale in El Renacimiento mediterráneo. Viajes de artistas e itinerarios de obras entre Italia, Francia y España en el siglo XV, catalogo della mostra (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza; Valencia, Museu de Belles Arts, 2001), a cura di Mauro Natale, Madrid 2001, pp. 240-245 (con bibliografia precedente); da integra-re con un nuovo apporto documentario (e una nuova proposta) di Stefania Buganza, Palazzo Borromeo. La decorazione di una dimora signorile milanese al tramonto del gotico, Milano 2008, p. 42.

32. Georg Swarzenski, “Der Kölner Meister bei Ghiberti”, Vorträge der Bibliothek Warburg, 1926/27 (1930), pp. 22-42.

33. Le dimensioni variano tra i 30 e i 50 cm. Ovviamente si intendono le dimensioni delle figure più piccole dell’altare di Francoforte (44-46 cm), perché all’Isola Bella mancano le scene di gruppo con i tre crocifissi.

34. Swarzenski, “Der Kölner Meister” [n. 32]; Richard Krautheimer, “Ghiberti and Master Gusmin”, The Art Bulletin, 29 (1947), pp. 25-35.

35. Il più importante (e completo) resta quello di Anton Legner, “Der Alabasteraltar aus Ri-mini”, Städel Jahrbuch, 2 (1969), pp. 101-168. Il più recente è invece quello di Kim Woods, “The Master of Rimini and the tradition of alabaster carving in the early fifteenth-century Netherlands”, Nederlands kunsthistorisch jaarboek, 62 (2012 [2013]), pp. 56-83 (con bibliografia precedente). Nella pagine conclusive l’autrice propone anche una possibile identificazione del Maestro con lo scultore Gilles De Backere, documentato al servizio del duca Filippo il Buono (pp. 73-77).

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storica, culturale e quindi conservativa” tra nord e sud dell’Europa.36 Raccogliendo un numero sempre maggiore di opere il corpus ha naturalmente finito per perdere la compattezza originaria, tanto che, ormai, alcuni credono più corretto riconoscervi:

non un maestro ma molti scultori, non una sola bottega, ma molte germinate l’una dall’altra, per filiazione diretta o per contatto con le opere, fino a costituire quello che potremmo definire una vera e propria corrente stilistica all’interno del tardo gotico europeo.37

Un problema particolarmente interessante legato all’altare Borromeo è quello della sua morfologia. Se a Francoforte non è rimasto nulla della struttura che inquadrava l’opera, le sculture alabastrine dell’Isola Bella si trovano inve-ce inserite nelle nicchie di un polittico ligneo a quattro ordini, dipinto e dorato, sovrastato da una selva di cuspidi e pinnacoli: gli storici dell’arte non hanno tardato a riconoscere nella forma di questa ancona gotica, sviluppata su più re-gistri, una tipologia di altare molto frequente nel nord-est dell’Italia (tra Veneto, Emilia e Lombardia),38 oltre che in certe zone costiere dell’Adriatico particolar-mente esposte all’influsso veneziano.39 Con molta verisimiglianza si tratta quindi di un’ancona scolpita in Italia e non nel nord Europa, dove sono state lavorate le sculture d’alabastro. Come già accennato, queste ultime sono però meno omo-genee tra loro di quelle di Francoforte, sia per stile sia per dimensioni;40 inoltre, dal punto di vista iconografico, presentano alcune incongruenze (ad esempio il

36. Francesca Nanni, “Il maestro di Rimini: una traccia”, Romagna arte e storia, 27 (2007), 80, pp. 27-42: p. 31 (con bibliografia precedente).

37. Ibidem, p. 32.38. Già Mauro Natale aveva giustamente proposto di confrontare l’articolazione dei registri

di quest’ancona con quella visibile nell’Altare degli Apostoli a Castiglione Olona: scheda in Arte in Lombardia tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra (Milano, Musei Civici 1988), a cura di Miklós Boskovits, Milano 1988, pp. 276-281: p. 276. La stessa pala si trova riprodotta e discussa come opera di ‘Maestri Caronesi’ in Aldo Galli, “Introduzione alla scultura di Castiglione Olona”, in Lo specchio di Castiglione [n. 17], pp. 55-73: 57-58. Sulla struttura dei polittici in Lombardia si veda Raffaele Casciaro, Patrizia Zambrano, “Cornici e incorniciature del Quattrocento lombardo”, in Pittura in Lombardia. Il Quattrocento, a cura di Valerio Terraroli, Milano 1993, pp. 345-368. Un’ancona di simile tipologia è visibile anche nello sfondo della fig. 5: è il polittico di Bartolomeo da Isola Dovarese e Pietro Bussolo nel duomo di Salò.

39. Si pensi all’altare nel Museo della cattedrale di Atri, attribuito a Giacomo Moranzon da Giuliana Ericani, “I Moranzon veneziani e la scultura lignea veneta del Quattrocento”, in La scul-tura lignea nell’arco alpino: storia, stili e tecniche. 1450-1550, atti del convegno (Udine 1997), a cura di Giuseppina Perusini, Udine 1999, pp. 105-117 (riprodotto a p. 110).

40. Quest’ultima differenza è accentuata dalle dimensioni molto varie che si riscontrano nei pie-distalli. Alcuni di questi devono essere stati sostituiti (o aggiunti?) in epoca successiva, ma non tutti: un numero molto alto mostra i forellini di ancoraggio per le placchette, che dovevano coprirne la parte mediana (come nell’esemplare di Feltre, Santi Vittore e Corona). Le statuette di Francoforte, invece, sono prive di piedistallo. Sul piedistallo della Madonna feltrina vedi la scheda di Fabio Coden in Il Gotico nelle Alpi, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio 2002), a cura di Enrico Castelnuovo, Francesca de Gramatica, Trento 2002, pp. 562-565: p. 564. Nello stesso volume è inte-ressante anche la scheda dedicata da Laura Cavazzini alla Testa virile del Museo Civico di Pacenza, che contiene qualche breve considerazione stilistica sul nostro Altare dell’Umiltà (pp. 566-567).

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Battista e Sant’Andrea sono ripetuti due volte). Tutti questi elementi inducono a credere che l’altare abbia subito delle modifiche sostanziali nel corso della sua storia: sappiamo per certo che esso proviene dalla cappella dell’Umiltà ‒ o della Natività ‒ in Santa Maria Podone, cioè la chiesa dei Borromeo a Milano, di fronte al loro palazzo cittadino; prima di approdare all’Isola Bella nel 1889 l’opera subì varie vicissitudini, non tutte documentate, ma è certo che già nel 1627 avesse la forma che conosciamo, perché Fabio Mangone la descrive dettagliatamente in una sua lettera.41 La storia precedente è invece più lacunosa, ricca di indizi ma povera di certezze. Pur in assenza di documenti specifici, la totalità della critica accetta come data più plausibile per l’arrivo delle sculture in chiesa il V decen-nio del Quattrocento, quando Vitaliano Borromeo commissionò grandi lavori di abbellimento soprattutto per la cappella maggiore e per quella dell’Umiltà, da lui fondata.42 Vale anche la pena notare che, curiosamente, in tutta la storia della chiesa e dell’altare non esiste alcuna testimonianza che riconosca queste scultu-re come opere provenienti d’oltralpe (a differenza di quanto avevamo visto nel caso del monticulus, per il quale disponiamo di una fonte coeva che lo definisce apud Germaniam elaboratus);43 in effetti abbiamo ben poche informazioni sui meccanismi di mercato o di committenza che hanno portato a Milano le opere di questa bottega tedesco/fiamminga, già apprezzata qualche anno prima a Rimini. Se i viaggi, le amicizie e i contatti diplomatici del cardinal Branda lasciavano l’imbarazzo della scelta nell’immaginare le modalità di arrivo a Castiglione delle sue opere oltremontane, nel caso di Vitaliano Borromeo i contatti sembrano invece meno numerosi, e limitati alla fondazione, negli anni trenta del Quattrocento, di diverse filiali estere del Banco Borromeo (Bruges, Londra, Barcellona).44

41. “L’ornamento dell’altare detto icona è di legno finto di marmo con profili d’oro parimente di detta architettura [si intende: tedesca], compartito con vintiotto nicchiette, nella quali è posto per ciascuna una figurina d’alabastro, nel cui piedistallo sono tocche d’oro diverse imprese di detta casa”. Pubblicato in Costantino Baroni, Documenti per la storia dell’architettura a Milano nel Rinascimento e nel Barocco, 2 voll., Roma 1968, II, p. 87. All’epoca architetto del duomo, Fabio Mangone era stato incaricato da Federico Borromeo di visitare la cappella per misurarla e studiarla: lo scopo era costruire una cappella speculare sulla navata opposta, quella sinistra (progetto che risa-liva alle disposizioni testamentarie di Vitaliano Borromeo, ma continuamente rimandato). Su Fabio Mangone vedi Isabella Balestreri, Dizionario Biografico degli Italiani, 69, Roma 2007, pp. 22-25.

42. Questa è in effetti la cosa più probabile, ma ‒ come si vedrà più avanti nel testo ‒ sembra da escludere che esse siano arrivate tutte nello stesso momento. È comunque verisimile che almeno una parte di esse (quelle che si trovavano sull’altar maggiore) fossero già installate nel marzo 1445: in questa data vengono infatti pagati i lavori per la doratura della “maestà all’altare grande”. Cfr. Buganza, Palazzo Borromeo [n. 31], p. 42.

43. È forse possibile che la cornice “alla veneta”, documentata almeno dal 1627, la rendesse in qualche modo più familiare, non troppo differente da molti altri polittici scolpiti medievali che in Lombardia si potevano e si possono ancora vedere: Fabio Mangone afferma che l’architettura della cappella e dell’icona sono “simili alla tedesca”, ma è semplicemente un modo per definirle gotiche. Bisogna riconoscere che per un osservatore del Cinque e Seicento era probabilmente più difficile distinguere tra una declinazione italiana e una tedesca del gotico.

44. Su Vitaliano Borromeo si veda l’ottimo profilo delineato da Buganza, Palazzo Borromeo [n. 31], pp. 33-76, con bibliografia precedente. Non disponiamo di alcun dato sicuro nemmeno sul com-

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Bisognerà aspettare due visite pastorali ben più tarde per vedere finalmente citate le nostre sculture, ma anche qui i problemi non mancano: Carlo Borromeo nel 1567 nomina una “ancona lapidea cum pluribus figuris”, ma curiosamente essa si trova sull’altar maggiore, mentre nessun polittico viene segnalato nell’accurata descrizione della cappella dell’Umiltà.45 Negli atti della visita pastorale del 1605 le icone in marmo sono invece due, una per cappella.46 Nel II e III decennio del Seicento i pagamenti attestano vari lavori di restauro/rifacimento, che coinvolgono anche il nostro polittico, anche se non è chiaro esattamente in quale misura: il pittore Bartolomeo Roverio detto il Genovesino (sotto la direzione del quale lavoravano anche stuccatori e incorniciatori) viene ricompensato in vari momenti per rinnovare le pitture già esistenti, “depingere tutta la chiesa […] con stelle dorate e stucchi finti”, “formar in pietra di pogevera li cornici dei quadri nelle nize”, ma soprattutto, nel maggio 1626, “per la renovatione de le pitture della cappella dei signori Borro-mei [cioè dell’Umiltà] et ancona di detto altare”.47 Nel febbraio 1627 abbiamo poi il minuzioso rapporto del Mangone dedicato esclusivamente a questa cappella, nel quale viene descritto inequivocabilmente il polittico “alla veneta” oggi all’Isola Bel-la. Come è naturale, in questa lettera non troviamo informazioni sullo stato dell’altar maggiore: in ogni caso è certo che quest’ultimo o era già stato smontato/spostato, o stava per esserlo, perché nell’aprile 1628 quello nuovo era già stato installato.48

Riassumendo: abbiamo la certezza che in Santa Maria Podone si trovarono due altari scolpiti (più problematico è sapere quando esattamente vennero installati e per-ché uno sembra arrivarvi molto più tardi dell’altro). Dato che in meno di tre anni il primo fu smontato mentre il secondo, che ancora esiste all’Isola Bella, venne “rinno-vato”, sembra in effetti plausibile spiegare le ripetizioni iconografiche di quest’ulti-mo ipotizzando la fusione dei due cicli, o perlomeno la sostituzione di alcune statuet-te con quelle dell’altro altare.49 Ancor meno certezze abbiamo su quanto sia antico

mittente dell’altare ora a Francoforte, per cui è difficile riuscire a stabilire un collegamento preciso tra i due casi (l’ipotesi più accreditata, comunque, è che si tratti di una commissione di Galeotto Roberto Malatesta, signore di Rimini). Una proposta recente, però, vede nel cardinale Niccolò Albergati e nei suoi viaggi un possibile tramite per la diffusione di opere del Maestro di Rimini a sud delle Alpi: Antoine de La Taverne ci testimonia che il cardinale, recatosi ad Arras per la pace del 1435, aveva apprezzato un altare (oggi distrutto), che alcuni documenti permettono di riconoscere come un’opera del nostro artista; un ulteriore indizio è fornito dall’aggiunta al suo corpus di due pezzi di area bolognese (la diocesi di cui Albergati era arcivescovo). Cfr. Massimo Medica, “Una deposizione alabastrina a Bologna nell’ambito del Maestro di Rimini”, in Il più dolce lavorare che sia. Mélanges en l’honneur de Mauro Natale, a cura di Frédéric Elsig, Noémie Etienne, Grégoire Extermann, Cinisello Balsamo 2009, pp. 83-87.

45. Buganza, Palazzo Borromeo [n. 31], p. 41.46. Barbara Agosti, Collezionismo e archeologia cristiana nel Seicento: Federico Borromeo

e il Medioevo artistico tra Roma e Milano, Milano 1996, p. 130.47. Baroni, Documenti [n. 41], pp. 86-89, doc. 487 e nota, doc. 489.48. Cfr. Luigi Demolli, “Santa Maria Pedone e i Borromeo (IV)”, Archivio storico lombardo,

3-4 (dicembre 1939), pp. 367-407: p. 393. Conserviamo anche i pagamenti che risalgono, invece, all’anno successivo: “A maestri Francesco Orello et Vigna per l’opere in far l’altare di marmoro a dì 7 marzo 1629”. Baroni, Documenti [n. 41], pp. 86-87, doc. 487.

49. Natale, El Renacimiento [n. 31], pp. 240, 242 e nota 5 a p. 245. Sembra abbastanza signi-ficativo che, pur non conoscendo le visite pastorali ‒ pubblicate successivamente ‒ sia Swarzenski

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(e in che percentuale possa considerarsi “originale”) il polittico che oggi le ospita, a maggior ragione visto che ha subito numerose vicissitudini anche in seguito.50

(“Der Kölner Meister” [n. 32], p. 40), sia Legner fossero già convinti che le figure del nostro altare fossero “aus mehreren Komplexen stammende” (“Der Alabasteraltar” [n. 35], p. 134).

50. La storiografia precedente non ha ancora trovato una risposta definitiva a questo problema, che in effetti rimane ancora aperto (cfr. Natale, El Renacimiento [n. 31], pp. 240-242). La pala potrebbeessere stata realizzata nel Quattrocento e poi spostata nella cappella laterale entro il 1605, come ipo-tizza Buganza, partendo dalla constatazione che la visita pastorale del 1567 – da lei ritrovata – non la cita (Palazzo Borromeo [n. 31], p. 41). Potrebbe quindi corrispondere a una delle due pale menzionate dai documenti cinque-seicenteschi, che ha poi raccolto le sculture di entrambi i cicli, quando l’altra è stata smontata; resta però il dubbio: perché rompere la coerenza interna del primo gruppo di alabastri? Forse alcune sculture erano andate perse o si erano rovinate.

Su questo problema sembra però opportuno recuperare anche alcune annotazioni del Legner, il quale, dopo una visione autoptica, aveva posto l’accento sulle numerose incongruenze dimensionali tra alabastri e nicchie, per escludere che la struttura all’Isola Bella fosse quella intagliata in origine per le sculture del Maestro di Rimini (“Der Alabasteraltar” [n. 35], p. 134). Legner non conosceva, però, la lettera di Mangone e non si poneva quindi il problema che ne consegue: se questa non è l’incorniciatura originale, quando si è venuta a creare l’attuale configurazione, già attestata nel 1627 (cosa che rende i restauri successivi meno interessanti per la nostra questione)?

Se guardiamo ai documenti che precedono questa descrizione troviamo, nel 1626, i grandi lavori di rifacimento della cappella commissionati da Federico Borromeo: come accennato sopra il Genovesi-no, oltre ad essere pagato per scolpire in pietra le cornici di altre nicchie d’altare all’interno della chiesa, riceve in quell’anno un pagamento relativo alla nostra ancona. Sebbene il documento ‒ citato nel corpo del testo ‒ sia leggermente ambiguo, sembra lasciar spazio all’ipotesi che il suo intervento non si sia limitato a una semplice ridipintura. Questa possibilità non ci deve sembrare così straordinaria, a ben vedere: pure la cappella costruita poco dopo dal Mangone di fronte a quella dell’Umiltà avrebbe ‘simu-lato’ forme così perfettamente gotiche da essere creduta medievale dal Torre nel suo Ritratto di Milano (pubblicato nel 1674), e non sembra un caso che tutto il restauro federiciano di Santa Maria Podone sia stato considerato “un tentativo ancora stentato e un po’ contradditorio di mantenere l’assetto tardogotico complessivo della chiesa” (cfr. Agosti, Collezionismo [n. 46], pp. 131, 133). Esattamente in quegli anni (1624-34) lo stesso Mangone partecipava anche alla costruzione del corpo principale della Ca’ Granda, la cui facciata riprendeva letteralmente le forme dell’ala quattrocentesca, raddoppiandone addirittura le bifore gotiche, che prima si limitavano al secondo ordine. Cfr. Luciano Patetta, “Permanenze medievali a Milano nei secoli XVI e XVII”, in Presenze medievali nell’architettura di età moderna e contempo-ranea, atti del convegno (Roma 1995), Milano 1997, pp.142-150: 143-144. Sempre Mangone veniva incaricato nel 1622-3 di giudicare “duoi mezzi capitelli” e “duoi quarti d’ordine tedeschi” realizzati da Orello e Vigna per la cappella della Madonna dell’Albero in duomo: sarà un caso ma si tratta proprio degli stessi scultori che lavoreranno sei anni più tardi al nuovo altare maggiore di Santa Maria Podone (non conservato, essendo stato sostituito nel 1829 da quello attuale; vedi nota 48). Cfr. Sergio Gatti, “Manoscritti sul Duomo di Milano nel tomo I della Raccolta Ferrari”, in Il duomo di Milano, atti del convegno (Milano 1968), a cura di Maria Luisa Gatti Perer, 2 voll., Milano 1969, II, pp. 205-240: p. 230, n. 126. Immaginare che una nuova struttura sia stata realizzata per salvare il maggior numero di sculture provenienti dall’unione dei due cicli, permetterebbe inoltre di spiegare un’altra particolarità del nostro polittico: è rarissimo trovare ancone quattrocentesche di questa tipologia strutturate su quattro ordini della stessa altezza. Infine sottolineiamo che le dimensioni della pala non si possono considerare un ostacolo a quest’ultima ipotesi; anzi, potrebbero essere utilizzate al contrario come un indizio a favore: a differenza di quanto è stato scritto in passato, le misure del polittico all’Isola Bella (massime h 310 x l 214 cm) risultano congrue rispetto allo spazio che questo doveva occupare sulla parete della cappella (416 x 266). Non per niente la lettera di Mangone non nota nulla di strano quando si riferisce al nostro polittico, e descrive anche l’oculo soprastante, senza accennare a eclatanti sovrapposizioni: al massimo è quindi possibile che i pinnacoli sporgessero un poco, ma non che lo oscurassero in modo

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La presenza di uno ‒ più probabilmente due ‒ altari del Maestro di Rimini a Milano, così come il gruppo di Francoforte, ci testimonia che attorno alla metà del Quattrocento la scultura nordeuropea era ancora apprezzata in più di una re-gione d’Italia. In particolare le opere che abbiamo appena esaminato nei decenni centrali del secolo sembrano ricercate soprattutto per la minuzia del loro intaglio e per la particolarità/preziosità del materiale. Forse non è un caso che pure l’ore-ficeria venisse spesso considerata un campo di eccellenza degli oltremontani:51 Filarete, nel nono libro del Trattato d’architettura, immagina per la chiesa della sua città ideale una pala d’altare d’oro e pietre preziose “fatta da solennissimi maestri […] di diverse parti d’Italia e fuori d’Italia: franciosi, todeschi e altri”; ed è prima di tutto per i suoi “lavorii d’oro” che Ghiberti tesse le lodi del maestro Gusmin di Colonia, l’unico artista non toscano citato nei Commentarii,52 e quello che riceve in assoluto più spazio all’interno del rapido excursus dedicato dal fio-rentino agli scultori del passato. Stando alle informazioni fornite da quest’ultimo l’orafo tedesco sarebbe infatti già morto nel II decennio del secolo, almeno una trentina d’anni prima della composizione dello scritto.53

Un’origine diversa, ma pur sempre nordica, è quella degli alabastri inglesi che nel XIV e XV secolo venivano esportati in tutta Europa, Italia compresa (con un ampiezza di mercato anche maggiore rispetto a quella del Maestro di Rimini): due rilievi di questo tipo sono attualmente conservati a Milano e per uno di essi è documentata una provenienza dalla cappella nella Rocchetta di Porta Romana.54

molto disturbante (per inciso, è probabile che l’insegna di casa Borromeo da lui citata non fosse dipinta come è stato creduto, ma si trovasse invece sulla vetrata dell’oculo: non è un ostacolo che usi la parola pinto, e non sembra un caso che su quella attuale, anche se più tarda, si trovi lo stesso emblema).

51. Sulla presenza di orafi transalpini in Lombardia vedi il contributo di Paola Venturelli in questo volume.

52. L’unica altra eccezione è il romano Cavallini. Cfr. Lorenzo Ghiberti’s Denkwürdigkeiten (I commentarii), a cura di Julius von Schlosser, 2 voll., Berlin 1912, I, p. 39 e 43. Su Gusmin vedi la bibliografia alla nota 43. Per la citazione dal Filarete, vedi Trattato di architettura, a cura di Anna Maria Finoli, Liliana Grassi, 2 voll., Milano 1972, I, p. 251.

53. D’altra parte bisogna anche riconoscere che si tratta dell’unico artista almeno in parte con-temporaneo dell’autore, presente nella sezione ‘storica’ dei Commentarii: tutti gli altri non superano infatti il VII decennio del Trecento (mentre i ‘rivali’ quattrocenteschi vengono solo citati in un rapido elenco stilato per il racconto del concorso del 1401). Cfr. Lorenzo Ghiberti’s [n. 52], pp. 35-43 e 46.

54. La notizia della provenienza, relativa al Bacio di Giuda ora al Castello Sforzesco, si trovava in un’indicazione manoscritta, registrata nel 1888 (in occasione del dono al Museo Patrio di Arche-ologia da parte di Luca Beltrami). Su questo pezzo e sulla Deposizione ora in Pinacoteca di Brera si vedano le schede di Francesca Tasso, in Maestri della scultura in legno nel Ducato degli Sforza, catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco 2005), a cura di Giovanni Romano, Claudio Salsi, Cinisello Balsamo 2005, pp. 88-91 (con l’ipotesi di una comune provenienza dei due pezzi, e biblio-grafia precedente). Sul primo rilievo e su una testa virile egualmente al Castello Sforzesco si vedano anche le schede di Luca Palozzi, in Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea, a cura di Maria Teresa Fiorio, Graziano Vergani, 3 voll., Milano 2013, II, pp. 130-132. Meno studiato è invece l’Albero di Jesse del Museo Diocesano di Bergamo (dalla chiesa di Mediglio, Botta di Sedri-na): Simone Facchinetti, Museo Diocesano Adriano Bernareggi in Bergamo, Cinisello Balsamo 2008, p. 24. Il catalogo più completo sugli alabastri inglesi è quello di Francis Cheetham, Alabaster Images of Medieval England, Woodbridge 2003, che aggiorna ed integra le precedenti ricerche dell’autore.

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Accanto a questo filone più prezioso ne esiste un altro, di tenore diverso: una specialità prettamente nordica, e in particolare tedesca, è infatti quella dei crocifissi “patetici” scolpiti in legno che ‒ a fasi alterne ‒ hanno conosciuto una lunghissima fortuna italiana. Già nel Trecento un modello gotico particolarmente espressionista (il cosiddetto Crucifixus Dolorosus) si era diffuso dalla Renania a tutto il resto d’Europa;55 interessante sarebbe poi chiedersi perché nel secolo suc-cessivo abbia continuato a verificarsi un fenomeno simile, ma questa volta ‒ al-meno così sembrerebbe ‒ più limitato all’Italia (cioè proprio al paese tradizional-mente considerato più lontano da queste forme di patetismo in campo artistico).

In particolare, nel vasto corpus di crocifissi quattrocenteschi alla tedesca sparsi un po’ in tutta la penisola, vi è un raggruppamento più specifico raccolto sotto il nome di Giovanni Teutonico: le opere che ne fanno parte sono general-mente più coerenti delle altre dal punto di vista stilistico e spesso affiancate da documenti (tutti successivi al 1449), che menzionano uno scultore chiamato ‒ a seconda della lingua utilizzata ‒ Johannes Teutonicus o Giovanni Tedesco.56 Esse sono particolarmente numerose in Umbria e Romagna, anche se esemplari impor-tanti si trovano pure a Pordenone e a Salò. In particolare, a proposito di quest’ul-timo (fig. 5-6), una descrizione di fine Cinquecento di Bongianni Grattarolo ci informa che esso fu “lodato da Messer Andrea Mantegna […] e messo in credito di uno di più be’ Crocifissi d’Italia”.57 Ora, il pittore padovano è sicuramente pas-sato per la riva del Garda almeno due volte: nel 1464, per la famosa passeggiata archeologica in compagnia, tra gli altri, di Samuele da Tradate, figlio di Jacopino; e nel 1491, chiamato a collaudare un organo. La fonte locale non sembra quin-di priva di fondamento e la “parentela tra la scultura e certi non meno lignei e tormentati San Sebastiano del pittore padovano” ha permesso di ipotizzare che quest’opera abbia avuto una qualche importanza nello sviluppo di una particolare linea patetica dell’arte tra Lombardia e Veneto.58

55. Su questo tema resta ancora fondamentale il saggio di Géza de Francovich, “L’origine e la diffusione del crocifisso gotico doloroso”, Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, 2 (1938), pp. 143-261.

56. Vedi in particolare Massimo Ferretti, Storia delle arti figurative a Faenza. La scultura nel Quattrocento, Faenza 2011, pp. 81-95, cui si rimanda per la bibliografia precedente sul problema.

57. Bongianni Grattarolo, Historia della riviera di Salò, [Brescia 1599], Salò 1978, p. 59.58. È stata formulata anche un’altra ipotesi molto ingegnosa, che però non chiude definitivamente

la questione: Mantegna non avrebbe ammirato il crocifisso di Giovanni Teutonico, ancor oggi visibile a Salò, ma avrebbe lodato (nel senso di “effettuare un lodo”) quello di un frate Paolo, egualmente lì docu-mentato, e poi andato perduto. Cfr. Monica Ibsen, “Una prova e alcune congetture per Andrea Mante-gna”, Quaderni di Palazzo Te, V (1999), pp. 95-97. In ogni caso la stessa autrice non si sente di escludere la prima possibilità: non per niente la citazione nel corpo del testo è tratta proprio dalla conclusione del suo articolo (p. 96). È comunque abbastanza suggestiva l’ipotesi di Stefano L’Occaso, ripresa anche da Rita Dugoni, che vede in questo Paolo un altro artista tedesco: proprio nel 1459 un “maestro Paolino tedesco” era attivo a Mantova per Pio II. In questo caso, indipendentemente dal significato di lodare, Mantegna potrebbe in effetti aver visto il suo crocifisso ‒ non quello di Johannes ‒ e non ci sarebbe bisogno di ipotizzare un errore del Grattarolo, che parla solo di un alamano, senza specificarne il nome. Cfr. Rita Dugoni, “Quella ‘gita’ sul lago di Garda: note sul Mantegna e il territorio bresciano”, in An-drea Mantegna e i Gonzaga, catalogo della mostra (Mantova, Castello di San Giorgio 2006), a cura di

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Anche i crocifissi di Johannes Teutonicus hanno spinto gli studiosi a porsi interrogativi simili a quelli già visti per il Maestro di Rimini, con la differenza che in questo caso molti documenti hanno permesso di escludere l’importazione delle sue opere da oltralpe, ma anche la possibilità di un passaggio solo temporaneo dello scultore nella penisola. Le sue attestazioni archivistiche sono abbastanza numerose da indurci a immaginare un artista trasferitosi in Italia per lungo tem-po, se non definitivamente. Ma proprio una tale abbondanza di materiale, sparso su regioni non sempre limitrofe anche in date molto prossime, ha portato a sup-porre l’esistenza di diversi maestri omonimi attivi contemporaneamente in più zone della penisola (e ipoteticamente pure imparentati tra loro). Questo non è del tutto inconciliabile con l’idea che uno o più artisti menzionati come “Giovanni Teutonico” possano aver anche cambiato il proprio domicilio, muovendosi in base all’offerta di lavoro giudicata più conveniente (un po’ come doveva essere successo a Walter Monich): prima di accettare per alcuni mesi una carica a Salò lo Johannes gardesano viveva sulla sponda opposta del lago e lo stesso Grattarolo ci racconta che l’“intagliatore alamano, persona bizzarra” si era successivamente spostato in una città di cui non ricorda il nome.59

Naturalmente uno dei problemi più spinosi della questione è quello del ruolo svolto dall’attesa dei committenti nelle scelte iconografiche e stilistiche visibili in queste opere. Non è da escludere che alcuni dei numerosi crocefissi del corpus siano stati scolpiti da altri artisti tedeschi (o forse anche da italiani) che si sono sem-plicemente adeguati ‒ più o meno consapevolmente ‒ a questa formula di succes-so.60 Ciononostante la familiarità che accomuna i capisaldi del gruppo Teutonicus sembra così stretta da permetterci di immaginare la presenza dello stesso scultore (o della stessa bottega) almeno dietro ad alcune delle opere in questione.

Filippo Trevisani, Milano 2006, pp. 268-272: p. 271. Altre ipotesi sul Paolo gardesano sono in Matteo Mazzalupi, “Paolo Alamanno: un contributo per la questione di Johannes Teutonichus”, in Pittori ad Ancona nel Quattrocento, a cura di Andrea De Marchi, Milano 2008, pp. 322-332.

59. Il fatto che alcune opere del corpus si trovino raccolte a gruppi (alcuni più grandi, ma altri decisamente piccoli) in aree geografiche non molto prossime tra loro potrebbe essere interpretato come un indizio in questo senso. Certo conosciamo casi in cui un mecenate commissiona una o più opere a una bottega non locale (come potrebbe essere successo al Maestro di Rimini), ma più raramente committenti diversi che vivono nella stessa area decidono di rivolgersi parallelamente ad un’unica maestranza, ognuno importando da molto lontano la medesima tipologia di opere.

È più difficile immaginare un’unica bottega stanziale che esporta opere in varie direzioni anche per un altro motivo: la diffusione di questi crocifissi non sembra seguire la rete commerciale e le di-rettrici lungo le quali viaggiano di solito i manufatti artistici. È difficile credere che un’opera scolpita in Romagna risalga l’Adriatico per poi penetrare in terraferma sino a Pordenone: è molto più comune il rapporto inverso. Ma d’altra parte sembra da escludere l’ipotesi di una bottega veneziana, perché in tal caso ci sarebbe da aspettarsi una presenza ben più significativa del Teutonico in questa regione: invece in tutto il Veneto attuale l’unico caso discusso nel corpus è quello ‒ molto dubbio ‒ di San Giorgio Maggiore a Venezia. Sembra quindi molto più economico pensare che questa diffusione, così disomogenea, sia dovuta allo spostamento di uno o più artisti (anche solo parzialmente) itineranti.

60. Il problema è già sottolineato da Fulvio Cervini, “La selva dei Cristi feriti. Crocifissi quattrocenteschi nel Ponente. Naturalismo nordico e mediterraneo”, in La sacra selva, catalogo della mostra (Genova, Chiesa di Sant’Agostino 2004), a cura di Franco Boggero, Milano 2004, pp. 74-85: p. 77.

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Il problema Johannes Teutonicus interessa solo tangenzialmente il ducato di Milano nei suoi confini storici: ci premeva citarlo soprattutto per poter istituire un confronto con gli altri casi presentati, che rispetto a questo mostrano varie somi-glianze interessanti, insieme ad alcune differenze significative. Inoltre, essa ci con-sente di osservare in altre regioni d’Italia, più o meno vicine, un’analoga evoluzione del fenomeno al centro di questa ricerca: la quasi totalità dei vari casi esaminati nella prima metà del secolo riguarda la scultura in pietra, mentre quelli che potremo citare d’ora in avanti si limitano all’intaglio in legno. Come motivare questa differenza?

Per quanto riguarda il caso specifico della Lombardia bisogna riconoscere che per tutta l’epoca gotica la scultura lignea sembra aver conosciuto una fortuna in-feriore rispetto a quella lapidea: naturalmente molto deve essere andato perduto, ma il confronto con altre regioni (come ad esempio la Toscana) resta abbastanza impressionante.61 In questo frangente sarebbe quindi stato più difficile instaurare un rapporto con il resto d’Europa. Un altro fattore importante è il progressivo cam-biamento di gusto qui avvenuto all’incirca dal VII-VIII decennio del Quattrocento: sino a che questa regione è rimasta sostanzialmente attaccata al sistema di valori del Gotico, le differenze rispetto al nord Europa erano ‒ sotto molti aspetti ‒ meno significative e gli scambi risultavano quindi più facili. Si può invece ora assistere a una sorta di rivoluzione, evidente soprattutto nella scultura lapidea: maestri locali di vaglia come Amadeo, Piatti e Mantegazza plasmano un nuovo linguaggio di successo, che riporta progressivamente la Lombardia al passo con quelle regioni d’Italia già aggiornate alla nuova estetica rinascimentale.

Questa nuova tradizione, incentrata sull’uso del marmo bianco (di Carrara, quando possibile), si pone naturalmente in dialogo con le civiltà artistiche tosca-na o genovese o veneziana, meno con quelle d’oltralpe. La fortuna di questa linea “aulica” della scultura lombarda sarà tale che una quarantina d’anni dopo essa potrà ribaltare, insieme alle altre tradizioni italiane, le polarità del rapporto nord-sud in Europa: se a inizio Quattrocento erano soprattutto gli artisti settentrionali a varcare le Alpi per portare il loro contributo, con l’inizio del nuovo secolo il modello rinascimentale italiano diventerà, un poco alla volta e con tempistiche diverse, un riferimento imprescindibile.62

61. Sul ‘problema’ della scultura lignea lombarda prima della metà del Quattrocento si pos-sono vedere le considerazioni di Raffaele Casciaro, Scultura lignea lombarda del Rinascimento, Milano 2000, pp. 11-13, e di Cavazzini, Il crepuscolo [n. 4], p.117.

62. Complici le numerose campagne militari nella penisola, sarà soprattutto la corte di Fran-cia ad aggiornarsi alla nuova estetica commissionando opere o dando ospitalità a scultori e pittori toscani, napoletani, genovesi o lombardi. Verso l’area linguistica tedesca lo stesso fenomeno si realizzerà invece in forme decisamente più blande e graduali, con casi più limitati di importazione/immigrazione dal sud delle Alpi. In ogni caso non dobbiamo dimenticare che vari artisti italiani del Cinquecento continueranno a trarre ispirazione da diversi modelli tedeschi o fiamminghi, soprat-tutto incisori e pittorici (basti pensare alle numerose riprese di invenzioni del Dürer o di Luca di Leida): non si può certo dire che in questo caso il rapporto sia stato unidirezionale.

L’importanza delle presenze e dei modelli italiani per l’arte francese del Cinquecento è cosa ormai riconosciuta: tra le varie trattazioni manualistiche, che ovviamente si confrontano con que-sto tema, la migliore ci sembra Henri Zerner, L’art de la Renaissance en France. L’invention du

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È abbastanza curioso notare come questa “rivoluzione del marmo” lombarda sia sostanzialmente parallela a una sorta di “rivoluzione del legno” che si va profi-lando negli stessi anni tra le Alpi e il sud della Germania. In particolare in Svevia, Baviera e Tirolo è attivo un numero di grandissimi intagliatori che danno vita alla cosiddetta stagione della scultura florida;63 questa tradizione inizia ad assumere un ruolo nettamente “protagonista”, tanto che sembra venirsi a delineare una situazione opposta a quella che avevamo visto per la Lombardia gotica (e probabilmente anche per la Francia di questi stessi anni): la maggior parte della scultura si realizza infatti in legno, mentre la lavorazione degli altri materiali riveste più raramente un ruolo propulsivo e “all’avanguardia”.

In particolare alcuni scultori svevi particolarmente efficienti, come Jörg Lederer o Ivo Strigel, riusciranno a organizzare la propria attività in un modo tanto imprendi-toriale da produrre un gran numero di Schnitzaltäre destinati all’esportazione, talvolta firmati dal capobottega ma dati in subappalto ad aiuti.64 È soprattutto Strigel (fig. 7) a interessarci in questa sede: curando con successo i propri rapporti commerciali questi arriva infatti a piazzare varie opere importanti sul confine settentrionale del ducato di Milano (tra Valchiavenna e Canton Ticino), senza contare poi tutte quelle desti-nate ai Grigioni, poco al di là della frontiera.65 A quelli appena citati vanno aggiunti numerosi altri altari, tedeschi o forse tirolesi, per la maggior parte anonimi.66 “Yvo

classicisme, Paris 1996. Per un aggiornamento sulla scultura si possono vedere i saggi contenuti in La sculpture française du XVIe siècle, atti del convegno (Paris-Troyes 2009), a cura di Marion Boudon-Machuel, Marseille 2011. Un inquadramento sugli artisti italiani in Germania è offerto da Barbara Marx, “Wandering objects, migrating artists: the appropriation of Italian Renaissance art by German courts in the sixteenth century”, in Forging European Identities. 1400-1700, a cura di Herman Roodenburg, Cambridge 2007, pp. 178-226. Sulla ripresa di modelli transalpini da parte degli italiani di fine Quattro e primo Cinquecento possiamo rimandare all’imponente volume di Al-berto Maria Fara, Albrecht Dürer. Originali, copie, derivazioni, Firenze 2007; e in particolare, per quanto concerne la scultura lombarda, a Silvia Bianchi, “Appunti relativi ad alcune fonti a stampa delle principali realizzazioni nell’arte della scultura lignea in Lombardia tra Quattro e Cinquecen-to”, Rassegna di studi e di notizie, 27 (2003), pp. 123-174. Per quanto riguarda gli scambi in pittura rimandiamo al saggio di Edoardo Villata in questo volume, e alla bibliografia relativa.

63. La definizione “scultura florida” è stata introdotta da Michael Baxandall, nel libro che rimane ancor oggi un punto di riferimento su questa grande stagione dell’intaglio in Germania: Scultori in legno del Rinascimento tedesco, [New Haven-London 1980], Torino 1989, pp. XXXV. Per un aggiornamento sugli altari più importanti si può vedere Rainer Kahsnitz, Carved altarpieces. Masterpieces of the late gothic, [München 2005], London 2006, sontuosamente illustrato.

64. Lo sappiamo grazie ai vari contratti tra Verleger e aiutante ancora conservati. Cfr. Baxan-dall, Scultori in legno [n. 63], pp. 149-151.

65. Canton Ticino: 1494 Osogna (?); Valchiavenna: 1495 Villa di Chiavenna, 1495 Santa Cro-ce di Piuro; Grigioni: 1512 Santa Maria in Val Calanca (ora Basilea, Historisches Museum). In quest’ultimo cantone se ne trovano anche numerose altre, di solito più vicine alla città di Coira, sede della diocesi.

66. Nei confini storici del ducato di Milano i più importanti altari di origine tedesca, svizzera o tirolese, ancora in gran parte integri, sono i seguenti:

– in Valtellina: Bormio, Premadio, San Nicolò in Valfurva, Cepina e Oga Valdisotto; sono tutti concentrati attorno a Bormio, e sono stati messi in relazione dalla critica con la coeva scultura tirolese (cosa che non stupisce, data la loro collocazione geografica);

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dictus Strigel ex Memingen innperiali [sic]”67 è infatti uno dei pochi che ha fir-mato e datato le sue opere con una certa continuità, ma non solo: nel 1495 a Villa di Chiavenna egli stesso sottoscrive di suo pugno un documento, rilasciando in tedesco la quietanza del conto. È curioso trovare confermata la sua presenza in loco proprio per l’unica commissione di modeste dimensioni (un San Sebastiano e una Madonna),68 quando invece per tutti gli altri altari si considera plausibile una spedizione dalla sua bottega di Memmingen, cioè da 300 km più a Nord: anche quello di Calanca, che è il più grande attualmente in Svizzera dopo l’Hochaltar di Coira, è infatti costituito dall’assemblaggio di pezzi che non superano il metro e mezzo di dimensione, di modo da facilitarne il trasporto.69

La cosa in realtà non desta stupore, se pensiamo ad altri casi contemporanei, molto ben documentati: anche il tirolese Michael Pacher lavora a Brunico la grande macchina d’altare destinata a Sankt-Wolfgang, come ci testimoniano le minuziose clausole sul trasporto presenti nel contratto (lo scultore avrebbe infatti dovuto accom-pagnare l’opera, smontata e imballata, per oltre 400 km); mentre le lettere di alcuni suoi mecenati ci testimoniano che, per iniziare a lavorare l’altare di Salisburgo, gli aiuti e l’orefice avevano bisogno non solo del suo progetto, ma anche della sua pre-senza (e infatti, più tardi, egli sarà costretto a passare molto tempo in questa città).70

– in Canton Ticino: Chiggiogna; Mairengo; Giornico; Brione Verzasca, firmato da Matheis Miller nel 1502 (ora Zurigo, Schweizerisches Landesmuseum);

– sul confine occidentale: Baceno, Frua, Formazza (Alta Val d’Ossola); Pian di Misura, Alagna (Alta Valsesia, comunità Walser).

Sui primi si veda Sandra Sicoli, “Scultura lignea d’Oltralpe nella provincia di Sondrio: una prima ricognizione”, in La scultura lignea nell’arco alpino [n. 39], pp. 55-69; da integrare con i materiali di Legni Sacri e Preziosi, catalogo della mostra (Sondrio, Museo Valtellinese di storia ed arte 2005), a cura di Angela Dell’Oca, Cinisello Balsamo 2005. Dedicato soprattutto alla storia della tutela e alla ricezione di queste opere nella storiografia del primo Novecento è l’articolo di Gianpaolo Angelini, “‘Altari lignei in Valtellina di evidente influenza tedesca’: Guglielmo Aurini e la riscoperta della scultura lignea d’Oltralpe in provincia di Sondrio”, in Pulchrum. Studi in onore di Laura Meli Bassi, a cura di Augusta Corbellini, Sondrio 2009, pp. 237-252.

Sui secondi la documentazione fotografica più ampia resta quella di Walter Hugelshofer, Altari ad intaglio d’origine tedesca nel Cantone Ticino e altari della Madonna del Sasso e di Ascona, Milano 1927. Il materiale da questi raccolto va ora integrato grazie ai recenti studi di Claudia Gaggetta, che affrontano finalmente in modo sistematico le numerose problematiche legate a queste presenze “forestiere” in Ticino (morfologia, iconografia, attribuzione, committenza e ricezione): “Altari a sportelli di origine tedesca in Ticino”, in La nube dei testimoni. Santi in Ticino: arte, fede e iconografia, catalogo della mostra (Mendrisio, Museo d’arte 2014), a cura di Angelo Crivelli, Lugano 2014, pp. 120-134.

Quanto agli ultimi il contributo più specifico è Angela Guglielmetti, “Alcune sculture li-gnee svizzero-tedesche in alta Valle Ossola e nell’arco alpino occidentale”, in La scultura lignea nell’arco alpino [n. 39]; mentre la migliore documentazione fotografica si trova in Angela Gugliel-metti, Scultura lignea nella diocesi di Novara tra ’400 e ’500, Novara 2000, soprattutto pp. 51-56.

67. Così si firma sull’altare di Santa Croce in Piuro. Cfr. Guido Scaramellini, scheda in Legni Sacri e Preziosi [n. 66], p. 60.

68. Il primo è perduto, la seconda è ora al Museo del Tesoro di Chiavenna.69. Vedi Susanne Buder, “Kunstwissenschaft und Technologie”, Uni Nova, 88 (2001), pp. 56-57.70. Erika Kustatscher, “Michael Pacher nei documenti”, in Michael Pacher e la sua cerchia,

catalogo della mostra (Novacella, Abbazia agostiniana 1998), a cura di Artur Rosenauer, Bolzano 1998, pp. 306-314: p. 307, doc. 7; p. 310, docc. 34-35.

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Non bisogna quindi essere troppo manichei nella distinzione tra artisti itineranti e artisti stanziali: come si è appena visto, anche gli scultori che avevano una bot-tega e una cittadinanza stabili potevano muoversi per periodi più o meno lunghi, con lo scopo di curare i propri interessi commerciali o di accompagnare un’opera da installare personalmente.

Inoltre, è certo che gli artisti potevano anche muoversi nella speranza di trovare nuovi committenti, soprattutto quando c’era “bonaccia” nel loro paese di residenza. Ad esempio, sempre ricollegandoci al medesimo scultore, nel 1481 ve-diamo il vescovo di Bressanone scrivere al giudice della città per preannunciargli che Pacher lo verrà a visitare in cerca di commesse.71 Forse, questo importante pittore e intagliatore non ha limitato il suo campo d’azione al Tirolo e al Salisbur-ghese: oltre agli echi italiani ravvisabili in alcune sue opere, esistono vari indizi che hanno suggerito agli storici dell’arte di supporre un suo viaggio nella Pianura Padana (di solito però immaginato nel decennio precedente).

Quali sono le evidenze documentarie che lasciano spazio a un’ipotesi mi-lanese?

Sappiamo che nel 1473 Bartolomeo Gadio, in una lettera a Galeazzo Ma-ria Sforza, si lamenta della scarsa presenza di validi intagliatori nella Milano dell’epoca: si tratta di una situazione che ostacola i lavori nella grandiosa cap-pella delle reliquie del castello di Pavia (è lui stesso a sottolineare il problema);72 è quindi certo che in quegli anni la corte era alla ricerca di nuovi maestri da impiegare nel cantiere, poco importa se stranieri. Al contrario, è lo stesso duca a dimostrarsi particolarmente ben disposto verso gli artisti transalpini in almeno tre occasioni, due delle quali datate: nel 1472 quando ordina a Giovanni Simo-netta di andare a trovare un todesco (ospite di Sforza Secondo, suo fratellastro) che possiede una Maestate molto bella, per convincerlo a portargli di persona quest’opera a Pavia; e nel 1475/6 quando accoglie il ginevrino Zohanni de Savii depintore (probabilmente Hans Witz), dal quale ottiene un’altra Maestà.73 Un do-cumento recentemente scoperto e valorizzato da Carlo Cairati ci mostra poi un Michele “d’Allamania”, maestro d’intaglio, intento a presentare una supplica al duca per farsi pagare le spese di un viaggio alla volta di Roma: come opportu-namente segnalato dallo studioso è possibile che si tratti dello stesso tedesco del 1472, a maggior ragione visto che l’artista afferma di avergli donato proprio una Maestà.74 Il documento non è datato, ma non può essere successivo al 1476 (anno

71. Ibidem, p. 308, doc. 16.72. Casciaro, Scultura lignea lombarda [n. 61], p. 12.73. Il duca lo accoglie solo momentaneamente, perché a ospitarlo in Lombardia è Branda Ca-

stiglione minor (pronipote dell’omonimo già citato): è lui che l’ha conosciuto a Ginevra durante un viaggio diplomatico. Il nome riportato dai documenti è probabilmente la traduzione “etimologica” del tedesco Witz. Cfr. Evelyn Welch. “Un artista di Ginevra nella casa di Branda Castiglioni, vescovo di Como”, Arte Lombarda, 70/71 (1984), 3/4, pp. 156-158. Sulla controversa identificazione con Hans Witz e sul Cristo di Chiaravalle si veda il contributo di Stefania Buganza nel presente volume.

74. Rimandiamo al suo contributo in questo volume anche per la bibliografia precedente sul problema dei rapporti tra Pacher e la Lombardia.

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dell’assassinio del duca): non sono molti i mecenati romani che in questi anni sembrano essersi interessati alla scultura d’oltralpe e, anche per questo, verrebbe spontaneo chiedersi se il viaggio romano dell’artista non sia forse da mettere in relazione con il Giubileo del 1475 (ad esempio, anche Van der Weyden aveva visitato l’Urbe per lo stesso motivo un quarto di secolo prima).

Infine, nel 1476, è attestato a Genova un Michael de Alemania intaliator figurarum, che Piero Donati propone di identificare con il Pacher.75

Che cosa possiamo concludere da questa serie di documenti? Se è vero che non ci è nota alcuna traccia materiale di un’attività pacheriana a Milano, Pavia o Geno-va, è anche certo che gli indizi attorno a questa possibilità sembrano diversi.76

A questo proposito bisogna in effetti riconoscere che, quando si scende al di sotto di una certa quota, le testimonianze di scultura florida tedesca si fanno ab-bastanza rare: ovviamente molto deve essere andato perduto, ma resta comunque l’impressione che queste fiorenti botteghe del Tirolo o del Sud della Germania siano riuscite ad esportare i loro manufatti soprattutto verso il resto del deutsch-sprachiger Raum, i paesi slavi e l’arco alpino, mentre abbiano riscosso meno suc-cesso nella Pianura Padana (oltre che ad ovest, verso la Francia). Se provassimo a confrontare la situazione vista nel ducato di Milano con quella delle cosiddette Venezie potremmo scorgere dei paralleli abbastanza significativi: ad esempio, alla stessa latitudine di Canton Ticino, Valtellina e Valchiavenna troviamo nel Nord Est Trento e Belluno; nella loro area (per quanto indipendente dal Tirolo, italofona e non lontana da quel poderoso centro d’esportazione che fu Venezia) il modello deutsch sembra in questo periodo quasi sempre prevalere su quello welsch, o almeno tenergli testa, soprattutto per quanto riguarda la scultura.77 Man

75. Piero Donati, “Per un atlante dell’antica scultura lignea in Liguria”, in La sacra selva [n. 60], pp. 25-42: p. 34.

76. L’unica eccezione, con cui ci possiamo in parte consolare evocando la sua “lezione”, è la più tarda cappella di Lovere sul Lago d’Iseo, dipinta nel 1494 da un artista di chiara cultura tirolese-pacheriana (fig. 8). Di recente è stata proposta, dubitativamente, un’identificazione con Simone da Tesido; cfr. Silvia Spada Pintarelli, “Quattro- e Cinquecento e la sfortuna di chiamarsi Pacher”, in Domenicani a Bolzano, a cura di Silvia Spada Pintarelli, Bolzano 2010, pp. 192-211: pp. 201-205

77. Sulla contrapposizione welsch vs. deutsch si rimanda naturalmente a Baxandall, Scultori in legno [n. 63], pp. 175-184, e al più specifico e recente contributo di Thomas Weser, “‘Künstlich auf welsch und deutschen Sitten’: Italianismus als Stilkriterium für die deutsche Skulptur zwischen 1500 und 1550”, in Deutschland und Italien in ihren wechselseitigen Beziehungen während der Renaissance, atti del convegno (Wolfenbüttel 1998), a cura di Bodo Guthmüller, Wies baden 2000, pp. 319-361. Sull’idea di frontiera nella storia dell’arte e sulle Alpi come crocevia si rimanda natu-ralmente agli imprescindibili studi di Enrico Castelnuovo: La cattedrale tascabile, Livorno 2000, pp. 15-66; “L’autunno del Medioevo nelle Alpi”, in Il Gotico nelle Alpi [n. 40], pp. 16-33 (con bibliografia precedente). Nello stesso catalogo risulta particolarmente utile per il nostro tema il sag-gio di Laura Cavazzini, “Tra Fiandra, Francia e Valle Padana”, pp. 186-199 (insieme alla sezione “Viaggi di opere, viaggi di artisti”, pp. 555-581).

Sulla scultura lignea nell’arco alpino si rimanda al già citato La scultura lignea nell’arco alpino [n. 39]; in particolare la situazione del Trentino e del Veneto settentrionale è stata indagata approfondi-tamente nei volumi: Imago lignea. Sculture lignee nel Trentino dal XIII al XVI secolo, a cura di Enrico Castelnuovo, Trento 1989; A nord di Venezia. Scultura e pittura nelle vallate dolomitiche tra Gotico e

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mano che si scende a valle alla latitudine di Treviso, Vicenza e Verona i rapporti invece si ribaltano e le presenze tedesche si fanno più sporadiche, come del resto succede anche al livello di città quali Milano, Brescia o Bergamo.78

Rinascimento, catalogo della mostra (Belluno, Palazzo Crepadona 2004), a cura di Anna Maria Spiazzi, Cinisello Balsamo 2004.

78. Naturalmente lo stesso discorso vale anche per la pittura. Questi sono i casi più eclatanti conservati nel nord Italia: l’Annunciazione di Santa Maria di Castello a Genova, firmata nel 1451 da Giusto di Ravensburg (insieme agli altri affreschi oltremontani dello stesso complesso); il Cristo davanti a Pilato dell’abbazia di Chiaravalle, probabilmente frutto del già citato soggiorno milanese di Hans Witz (vedi nota 73); la cappella di Lovere (1494, vedi nota 66). Si noti che in tutti e tre i casi si tratta di affreschi: il loro stile prettamente nordico dimostra quindi la presenza di un maestro oltremon-tano in loco. Conosciamo anche alcuni pittori tedeschi/austriaci che, trasferitisi in Italia, si adeguano al linguaggio locale, conservando ben poche tracce delle loro origini: si pensi a Giovanni d’Alemagna a Venezia (collaboratore e cognato di Antonio Vivarini) o Pietro Alamanno nelle Marche. È appena il caso di ricordare che tra fine Quattro e primo Cinquecento varcheranno le Alpi due grandissimi pittori come Dürer e Holbein, ma ‒ rispetto ai casi precedenti ‒ la loro esperienza italiana si porrà soprattutto come un viaggio di studio. Un discorso a parte, poi, meriterebbero le vetrate (vedi il contributo di Stefania Buganza in questo volume). Invece, per quanto riguarda la scultura della seconda metà del XV secolo, a sud dell’arco alpino vanno citati almeno questi casi di opere indiscutibilmente tedesche, ancora conservate (un elenco di sicuro destinato a crescere): i crocifissi “teutonici” e i Vesperbilder, la cui fortuna continuerà soprattutto sul versante orientale della penisola (la linea ‘patetica’ cui abbia-mo già accennato); la Madonna dei burattini di Bologna (San Giovanni Battista dei Celestini), ante 1452; lo Straßburger Frari-Meister che nel 1468 lavora al coro della basilica veneziana, cui forse va ricollegata anche la Madonna dell’altarolo ora al Wadsworth Atheneum di Hartford (Connecticut); lo “Johannes biomen… theatonicus delubec” (di Lubecca?) che nel 1476 firma l’Incoronazione nella lunetta di Santa Maria Maggiore a Caramanico (Pescara); le sculture di area napoletana raccolte at-torno al Presepe proveniente da San Giovanni a Carbonara, terminato nel 1484 da Pietro e Giovanni Alamanno (ora al Museo della Certosa di San Martino); il Corrado Teutonico, abitante di Cingoli, che realizza la cornice e gli stalli della collegiata di Arcevia (1490); il portale del chiostro nell’abbazia di Santa Scolastica a Subiaco e le edicole a forma di Halbciborium ora nella chiesa di San Rocco a Guardiagrele (entrambi di datazione incerta); scollinando nel nuovo secolo abbiamo la Sant’Anna Metterza e il Crocifisso del Campo Santo Teutonico in Vaticano, e il celebre San Rocco di Veit Stoss all’Annunziata di Firenze, ammirato da Vasari con il nome di “Janni Franzese” (cui forse va collegato anche il Crocifisso di Ognissanti). Come già osservato per l’ambito lombardo, anche nel resto d’Italia si incontrano soprattutto opere di scultura lignea, diversamente da quanto era successo nella prima metà del secolo. Sui crocifissi il riferimento più ovvio è Margrit Lisner, “Deutsche Holzkruzifixe des 15. Jah-rhunderts in Italien”, in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, 9 (1959/60 [1960]), 3/4, pp. 159-206. Sulla diffusione del Vesperbild in Italia il saggio più completo resta quello di Werner Körte, “Deutsche Vesperbilder in Italien”, in Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte, 1 (1937), pp. 1-138. Il gruppo di opere collegabili al Frari-Meister è discusso, insieme a molti altri casi, in Ulrich Söding, “‘Austria iam genuit qui sic opus edidit’: Bildhauer und Bildschnitzer der Spätgotik als ‘Wan-derkünstler’ in Italien”, in Docta Manus. Studien zur italienischen Skulptur für Joachim Poeschke, a cura di Johannes Myssok, Jürgen Wiener, Münster 2007. Pur essendo incentrato soprattutto sugli arti-sti tedeschi tardogotici, si tratta di uno dei pochi contributi che provano a raccogliere casi diversi e non sempre vicini tra loro, per valutarli in una prospettiva geografica più ampia. La splendida Madonna dei burattini è stata invece pubblicata da Massimo Ferretti, “Dalla cartella ‘Geografia della scultu-ra lignea nel Quattrocento’”, in “Conosco un ottimo storico dell’arte…”. Per Enrico Castelnuovo. Scritti di allievi e amici pisani, a cura di Maria Monica Donato, Pisa 2012, pp. 197-206. Su Stoss e le sue opere collegate a Firenze il contributo più recente è Ingrid Ciulisová, “Stoss, Callimachus and Florence”, Ars, 42 (2009), 1, pp. 34-46 (con bibliografia precedente). Per l’area adriatica, tra Marche ed Abruzzo, si veda Paolo Sanvito, “Artisti transalpini itineranti nell’area adriatica: alcune questioni

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Proprio in quest’ultima incontriamo un caso che si presta particolarmente bene a dimostrare l’effetto del cosiddetto “sistema delle attese” sulla dinamica committente-artista, e quindi anche la diversa temperatura di due città, poste su “paralleli” diffe-renti (non solo geografici, ma anche culturali). Poco prima dell’anno 1500 il norim-berghese Sisto Frei si trova a Bergamo per realizzare in legno dorato il monumento equestre da collocare sulla tomba di Bartolomeo Colleoni (fig. 9): ne risulta un’opera abbastanza rigida e impacciata, che delude a tal punto i committenti da determinare una lunga disputa legale sulla retribuzione da pagare all’artista.79 Ciononostante essa assume per noi un valore particolare, perché mostra uno scultore tedesco alle prese con un compito per lui piuttosto inconsueto, quello di uniformarsi al modello “eroi-co” ‒ tipicamente italiano ‒ del condottiero che incede sul suo destriero vittorioso. Ma la cosa più interessante è soprattutto un’altra: pochi anni dopo lo stesso Sisto Frei è documentato a Trento (almeno dal 1508)80 ed è a lui che viene verosimilmente rife-rito il gruppo con la Crocifissione tra Maria e San Giovanni nel duomo (fig. 10-11). In quest’opera l’artista non deve più simulare alcun afflato umanistico e può invece dare libero sfogo a tutto il patetismo e l’emotività che la sua formazione nordica gli aveva insegnato a trasmettere: nel Cristo sofferente il dolore deforma i tratti del vol-to e i piedi si incrociano in una contrazione quasi grünewaldiana;81 mentre in Maria

ancora aperte”, in Universitates e baronie, atti del convegno (Guardiagrele-Chieti 2006), a cura di Pio Francesco Pistilli, Francesca Manzari, Gaetano Curzi, 2 voll., Pescara 2008, I, pp. 191-212. Più spe-cifico sulle Marche meridionali è il saggio di Giorgia Corso, “Il frontespizio tardogotico e le presenze oltremontane nelle Marche meridionali”, in La chiesa collegiata di San Ginesio, San Ginesio 2012, pp. 123-157 (incentrato su due casi anteriori alla metà del secolo: il bavarese Enrico “de’ Japicho”, che nel 1421 realizza il coronamento della facciata nella collegiata di San Ginesio, Macerata; e la lunetta del portale di Santa Maria di Piazza Alta a Sarnano). Sull’Abruzzo si veda ancora Benati, “Presenze tedesche” [n. 4] . Per Roma e il Lazio si veda Michael Rohlmann, “Antigisch art Alemannico more composita. Deutsche Künstler, Kunst und Auftraggeber im Rom der Renaissance”, in Deutsche Han-dwerker, Künstler und Gelehrte im Rom der Renaissance, atti del convegno (Roma 1999), a cura di Stephan Füssel, Klaus Vogel, Wiesbaden 2001, pp. 101-180. Per l’area napoletana si vedano le note conclusive di Ida Maietta, “Scultori lombardi a Napoli tra Quattrocento e Cinquecento: aggiunte a Pietro Belverte”, in Scultori e intagliatori del legno in Lombardia nel Rinascimento, a cura di Daniele Pescarmona, Milano 2002, pp. 84-103: pp. 101-102 (cui si rimanda per la bibliografia precedente).

79. L’unico contributo propriamente monografico su questo artista è Gianfranco Bortolotti, “Sisto Frei scultore (notizie 1500-1515)”, Arte veneta, 41 (1987 [1988]), pp. 176-184.

80. Nel 1508 un “Sixtus Barbatus” è infatti citato all’interno di un gruppo di “intagliatores lignorum” che devono effettuare una perizia. Nel 1511 il nostro artista è poi citato in modo ancor più inequivocabile in un contratto d’affitto: “locatio […] Sixti alemani lignorum incisoris seu scul-toris Tridenti habitatoris”. Vedi il più recente contributo consacrato all’attività trentina di questo scultore: Laura Dal Pra, scheda in Rinascimento e passione per l’antico, catalogo della mostra (Trento, Castello del Buonconsiglio 2008), a cura di Andrea Bacchi, Laura Giacomelli, Trento 2008, pp. 598-605, con bibliografia precedente.

81. Pensiamo ad esempio al Cristo in croce di Basilea (Kunstmuseum, 1500-1508): in entram-be le opere i piedi incrociano le loro direzioni e si sovrappongono all’altezza del collo, lasciando così sporgere le punte. Tale scelta permette ai due artisti di riservare una cura particolare alla rap-presentazione delle dita: queste tendono quasi ad allargarsi e vengono definite, se non separate, con una precisione e un’evidenza particolarmente espressive. Naturalmente non intendiamo sostenere che Frei sia stato a Basilea, né che questa sia un’idea esclusivamente grünewaldiana. Semplicemen-te troviamo interessante che, più o meno negli stessi anni in cui il pittore di Würzburg realizzava i

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e San Giovanni la fisicità del corpo umano scompare dietro una cascata di panneggi accartocciati e dorati, per riaffiorare solo nel calligrafico effetto dei boccoli del santo o nei volti lacrimosi, corrucciati da una smorfia patetica.

È molto probabile che il ritorno di Sisto Frei in una città più vicina alle sue ori-gini non sia stato casuale. Per quanto in un contesto italofono, a Trento gli sarebbe senza dubbio riuscito più facile soddisfare i desideri della committenza: dato che nella maggior parte delle opere d’arte locali risuonava un evidente “accento tede-sco”, questo milieu risultava sicuramente più congeniale alla sua formazione.

La maggioranza dei casi che abbiamo trattato sino ad ora riguarda arti-sti tedeschi, attivi soprattutto sull’arco alpino o nel sud della Germania. Nella seconda metà del secolo, invece, vediamo farsi strada anche un altro modello nordico, affine, ma assolutamente non identico al precedente: è quello dei Pa-esi Bassi, che di certo non si limitarono a spedire solo arazzi, cioè la tipologia artistica di cui rimasero a lungo il principale produttore ed esportatore europeo. Già da qualche decennio l’impressionante rivoluzione della pittura eyckiana aveva progressivamente conquistato larghe porzioni d’Europa e l’Italia non era rimasta affatto ai margini di questo processo; anzi, i mecenati delle nostre cor-ti si erano rivelati tra i migliori clienti dei grandi maestri attivi tra Bruges e Bruxelles.82 A livello di committenza ducale è innegabile che una simile fasci-nazione per l’ars nova abbia attraversato anche Milano: sono celebri le lettere con cui Bianca Maria Visconti raccomanda a Van der Weyden il suo pittore di corte Zanetto Bugatto, trasferitosi a Bruxelles dal 1460 al 1463 per una sorta di “soggiorno di studio”.83 Inoltre possediamo menzioni di pitture fiamminghe

suoi capolavori, il nostro scultore abbia ripreso e portato al parossismo una tradizione schiettamente tedesca, che con il tempo aveva assunto forme sempre più miti: non sono tantissimi i casi in cui entrambe le punte sporgono in una maniera così pronunciata come a Trento, e se guardiamo ai cro-cifissi di Johannes Teutonicus, noteremo che i piedi si sovrappongono in modo molto più composto, e si conferisce raramente alle dita quell’impressione così ossuta ed urtante.

82. Per un inquadramento generale sulla fortuna della pittura fiamminga nelle varie corti della penisola è ancora utile il volume di Liana Castelfranchi Vegas, Italia e Fiandra nella pittura del Quattrocento, Milano 1983. Un catalogo delle attuali sopravvivenze è offerto da Licia Collobi Ragghianti, Dipinti fiamminghi in Italia 1420-1570, Bologna 1990. Per studi più aggiornati si deve guardare alla bibliografia dei singoli contesti regionali; ci limitiamo a segnalare per Firenze: Fi-renze e gli antichi Paesi Bassi. 1430-1530, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti 2008), a cura di Bert Meijer, Livorno 2008; e per il Veneto: Maddalena Bellavitis, Telle depente forestiere. Quadri nordici nel Veneto, Padova 2010 (entrambi con bibliografia precedente).

83. Più precisamente si conoscono due lettere della duchessa Bianca Maria, la prima rivolta al duca Filippo (1460) e la seconda direttamente a Van der Weyden, come ringraziamento (1463). Il testo originale è stato pubblicato, insieme ad altre lettere che dimostrano l’affezione nutrita per Zanetto dai suoi signori, in Francesco Malaguzzi Valeri, Pittori lombardi del ’400, Milano 1902, pp. 126-127. Sappiamo anche dell’esistenza di altre tre lettere di raccomandazione inviate al delfino di Francia, al duca di Borgogna e al duca di Clèves da Sforza Secondo Sforza (figlio illegittimo del duca Francesco): di queste non possediamo il testo, ma è lo stesso mittente a citarle in un’altra lettera scritta al padre per discolparsi dall’accusa di tradimento (1461). Cfr. Maria Grazia Albertini Ottolenghi, “Zanetto Bugatto nel 1461 e Sforza Secondo Sforza”, in Itinerari d’arte in Lombardia dal XIII al XX secolo. Scritti offerti a Maria Teresa Binaghi Olivari, a cura di Matteo Ceriana, Fernando Mazzocca, Milano 1998, pp. 67-71. Per la bibliografia relativa a Zanetto Bugatto si veda

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nelle descrizioni di chiese e collezioni milanesi84 ed esistono alcune opere, pro-babilmente lombarde, che riecheggiano modelli dell’ars nova (una di queste è la trascrizione a colori della grisaille sinistra che chiude il trittico realizzato dalla bottega di Van der Weyden per gli Sforza di Pesaro).85 Ciononostante resta comunque la “sensazione” che l’arrivo di pittura fiamminga a Milano sia stato più elitario e meno massiccio che in altre città della penisola, quali ad esempio Firenze (a meno di non pensare che in Lombardia la sfortuna si sia accanita su queste opere con maggior successo che altrove).86

Se malauguratamente non si conserva alcun (ipotetico) Trittico Portinari in Lombardia, possiamo dirci un po’ più fortunati per quanto riguarda la scultura. Nel Quattrocento e soprattutto a inizio Cinquecento Bruxelles, Malines e Anversa vedono un boom dell’intaglio in legno: un po’ come era avvenuto per gli arazzi, i fastosissimi altari gotici brabantini ottengono tanto successo da diventare presto un tipico prodotto da esportazione. Molto spesso essi sono più piccoli della media di quelli tedeschi, e anche molto più seriali (non per niente conosciamo ben di rado i nomi degli artisti, e il più delle volte la critica abdica al tentativo di racco-glierli per corpora sotto nomi convenzionali); ma quel che più conta è che questi polittici sono molto più facili da “modulare”, perché suddivisi in tanti pannelli più piccoli, quasi sempre sovraccarichi di figurine molto minute, e quasi mai composti da sculture di grandi dimensioni, come succede invece nelle opere dei loro concorrenti più meridionali. Proprio per queste ragioni vengono talvolta la-vorati on spec87 e acquistati da mercanti o venduti in occasione delle fiere, per poi essere esportati un po’ in tutta Europa, senza obbligare l’intagliatore brabantino a seguire la propria opera fino a destinazione (mentre, per la ragione opposta, artisti e altari tedeschi sembrano spostarsi più difficilmente oltre una certa distanza).88

il contributo di Federico Cavalieri nel presente volume. L’utilizzo dell’espressione ars nova per definire la pittura fiamminga del XV secolo risale a Erwin Panofksy, Early Netherlandish Painting: Its Origins and Character, Cambridge (Mass.) 1953.

84. Ad esempio vedi Rossana Sacchi, Il disegno incompiuto. La politica artistica di France-sco II Sforza, 2 voll., Milano 2005, I, p. 314. Una serie di altri casi è raccolta da Carlo Cairati nel presente volume.

85. È il San Girolamo dell’Accademia Carrara, presente nella collezione Lochis a Bergamo dal 1850 circa (non è però sicura l’origine del pittore e tantomeno la presenza dell’opera ab antiquo in area lombarda). Il Trittico Sforza della bottega di Van der Weyden è invece tornato nella sua terra di origine: si trova infatti a Bruxelles, MRBA. Per un altro caso di possibile presenza weydeniana in Lombardia vedi Federico Zeri, “La probabile origine lombarda di un dipinto della cerchia di Van der Weyden”, Paragone, XXXVII, 435 (maggio 1986), pp.13-16.

86. Non siamo naturalmente i primi a notare che “poco numerose sono le presenze documentate ab antiquo di opere fiamminghe nel capoluogo lombardo”. Albertini Ottolenghi, “Zanetto Bugatto” [n. 83], p. 70. Anche l’eco dei modelli ponentini sulla pittura locale sembra essere meno precoce e folgorante che altrove, e non si può non riconoscere che questa ricaduta si presenti quasi sempre in forme meno dirette, spesso visibilmente filtrata attraverso la mediazione ‒ via Pavia ‒ di Genova e dell’arte ligure.

87. Quindi senza avere la garanzia di un committente, ma confidando di riuscire comunque a venderli, dato il loro duraturo successo sul mercato.

88. Sulla commercializzazione ed esportazione degli altari brabantini e sul sistema delle fiere (dette panden) vedi Lynn Jacobs, Early Netherlandish carved altarpieces (1380-1550), Medieval Tastes and Mass Marketing, Cambridge 1998, pp.192-208 e Roland Op de Beeck, “Aspects éco-

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In Italia questo tipo di opere sembra conoscere un certo successo quasi esclu-sivamente nel Nord-Ovest: tra Liguria e Piemonte si trovavano almeno quattro esemplari (ancora esistenti), tutti di grande qualità.89 Per quanto riguarda l’attuale Lombardia si conservano invece due pale importanti: quella di San Nazaro in Brolo a Milano (originariamente in un sacello della vecchia chiesa di Santa Cate-rina) e quella proveniente dalla parrocchiale di San Giorgio ad Annone Brianza, ora al Museo Diocesano di Milano.

La prima (fig. 12; tav. VIII) va collegata al lascito testamentario di Protasio Bonsignori Busti, un mercante milanese attivo soprattutto in Germania, partico-larmente bibliofilo e sensibile al mondo dell’arte: come ci informa una lapide non lontana dall’altare questi morì nel 1510. Si tratta di un’opera straordinaria sotto molti punti di vista, ma ‒ nonostante questo ‒ è stata trascurata dalla critica italiana per quasi un secolo: in assenza di uno studio specifico si è “sedimentata” l’opinione (risalente a fine ’800) che si trattasse di una realizzazione tedesca, se non addirittu-ra tirolese.90 Si è dovuto aspettare il convegno ginevrino del 2013 perché l’opera venisse riportata all’attenzione degli studiosi, e perché Carlo Cairati, acutamente, proponesse un giusto confronto con l’epitaffio Croy, realizzato in Brabante nel II decennio del secolo (Schatzkammer del duomo di Colonia).91 Per motivi di spazio preferiamo destinare ad un’altra sede la discussione di quest’opera e del-le sue numerose peculiarità, molto rilevanti dal punto di vista della morfologia, delle dimensioni, dello stile e della cronologia. Sono tutti elementi che rendono questo altare particolarmente “eccezionale” e prezioso per la storia della scultura nei Paesi Bassi; forse sono anche gli stessi che hanno ostacolato per lungo tempo

nomiques de la production des retables du gothique tardif”, in Marjan Buyle, Christine Vanthillo, Retables flamands et brabançons dans les monuments belges, Bruxelles 2000, pp. 63-78.

89. Polittico Villa-Solaro per San Domenico a Chieri (ca. 1470, ora Bruxelles, MRAH); polittico Pensa di Mondovì (inizi XVI, ora Bruxelles, Musée de la Ville de Bruxelles); Testana d’Avegno, chiesa di Santa Caterina (1515-1520 ca.); polittico di Giovanni Ludovico di Saluzzo per l’abbazia di Staffarda (ca. 1530, ora Torino, Museo Civico), che è l’unico realizzato ad Anversa, e non a Bruxelles. Forse era più difficile conquistare il mercato del versante adriatico, visto che era già dominato dalla produzione/esportazione di altari alla veneta? Sui primi due casi si vedano le schede di Ria De Boodt, in Miroirs du sacré. Les retables sculptés à Bruxelles XVe - XVIe siècles, a cura di Brigitte D’Hainaut-Zveny, Bruxelles 2005, pp. 165-9, che rimane il catalogo scientifico più completo sui polittici di Bruxelles, conservati sia in Belgio che all’estero (da integrare con Ria De Boodt, Ulrich Schäfer, Vlaamse retabels. Een internationale reis langs laatmiddeleeuws beeldsnij-werk, Leuven 2007). Su quello di Testana si veda la scheda di Gianluca Zanelli in La sacra selva [n. 60], pp. 222-225. Per quello di Staffarda si legga la scheda di Guido Gentile, Gotico sulle vie di Francia. Opere dal Museo Civico di Torino, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala 2002), a cura di Enrica Pagella, Siena 2002, pp. 154-5. L’opera è curiosamente ignota agli studi più specifici sui polittici d’Anversa: per questi si vedano i due volumi Antwerpse retabels. 15de -16de eeuw, catalogo della mostra (Anversa, Cattedrale 1993), a cura di Hans Nieuwdorp, Antwerpen 1993 (il primo volume, Catalogue, esiste anche in francese; il secondo, Essays, è solo trilingue).

90. Giuseppe Mongeri, L’arte in Milano, Milano 1872, p. 258.91. La sua ipotesi è stata prontamente presentata già in sede di convegno: all’epoca non ci

era ancora stato possibile studiare l’opera, né direttamente, né su buone riproduzioni; ora, invece, possiamo affermare di condividere in pieno quest’idea. Per i dettagli della sua proposta (e per la bibliografia relativa) si veda il contributo da lui scritto in questo volume.

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il riconoscimento della sua provenienza. Ci limitiamo qui ad anticipare qualche conclusione (più o meno provvisoria): non è impossibile che questa pala sia stata acquistata o commissionata in Germania (così potrebbero in effetti suggerire al-cune delle sue particolarità); nonostante questo siamo sostanzialmente convinti di trovaci davanti alla prima opera ‒ dal punto di vista cronologico ‒ o alla seconda ‒ dal punto di vista dimensionale ‒ collocabile con sicurezza nell’esiguo corpus del “Maestro di Lombeek”, ossia una delle vette toccate dalla scultura nei Paesi Bassi dell’epoca: “the most outstanding master after Borman” (fig. 13).92

Il secondo (e ultimo) polittico nederlandese conservato in Lombardia è quel-lo di Annone in Brianza (fig. 14): si tratta di un’opera meno “problematica” della pala di San Nazaro e proprio per questo ha goduto di una fortuna critica decisa-mente maggiore della precedente, soprattutto da quando, nel 2000, è stata tra-sportata a Milano per entrare nel nuovo Museo Diocesano.

Ci troviamo qui di fronte a un polittico realizzato ad Anversa (non più a Bruxelles), frutto di quella poderosa produzione, fiorita grosso modo tra il II e l’VIII decennio del secolo XVI, che portò la più grande città portuale dei Paesi Bassi a esportare centinaia di questi manufatti in gran parte d’Europa, soprattutto settentrionale. Data l’evidenza dei dati di morfologia, iconografia e stile, la critica ha incontrato relativamente poca difficoltà a riconoscerne i caratteri, tanto che già nel 1978 la Binaghi Olivari ha proposto un inquadramento ‒ piuttosto preci-so ‒ accanto agli esemplari di Bouvignes (in Belgio) e Roskilde (Danimarca):93 ne conseguirebbe una datazione attorno al 1560, che è del resto perfettamente in linea con la biografia del mecenate che l’ha acquistato (o commissionato?). È quindi evidente che si tratta di un’opera successiva alla fine del ducato sforzesco, alla quale vogliamo accennare per tentare un confronto sulle dinamiche della committenza, e per gettare uno sguardo sull’evoluzione della geografia artistica.

Senza dubbio la scelta di Giovanni Andrea Annoni, nobile milanese, doveva apparire inusuale a molti suoi contemporanei, per tutta una serie di motivi. Prima di tutto bisogna riconoscere che, a quell’altezza cronologica, la soluzione del grande polittico ligneo scolpito (di qualunque provenienza fosse) era ormai dive-nuta rara quasi ovunque. Dopo la lettera scritta dal Gadio nel 1473 la Lombardia aveva in effetti visto uno sviluppo senza precedenti (qualitativi e quantitativi) della scultura in legno: questo periodo di fioritura era durato ‒ grosso modo ‒ sino al IV decennio del secolo XVI.94 L’Annoni aveva sicuramente fatto in tempo a

92. Gert von der Osten, Horst Vey, Painting and Sculpture in Germany and the Netherlands: 1500 to 1600, Harmondsworth 1969, p. 58.

93. Maria Teresa Binaghi Olivari, “Annone Brianza: il polittico anversese nella chiesa di San Giorgio”, in Scultori e intagliatori del legno in Lombardia nel Rinascimento, a cura di Daniele Pescarmona, Milano 2002, pp. 200-219 (con bibliografia precedente). Si tratta senza dubbio del contributo fondamentale sull’opera, che mi sembra invece ignorata dalla storiografia nordeuropea sui polittici di Anversa.

94. Su questa eccezionale fioritura, che la critica ha opportunamente rivalutato da almeno un paio di decenni, il volume più completo e meglio illustrato resta quello di Casciaro, Scultura lignea lombarda [n. 61].

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vivere almeno l’ultima parte di questa stagione:95 ad esempio, la grande ancona di Giovan Angelo del Maino ad Ardenno era stata collocata nel 1540, mentre le sue ante dipinte sarebbero state consegnate solo nel 1552.96 Una generazione prima della morte del nostro mecenate, nell’area tra Como e la Valtellina, era in effetti ancora piuttosto comune ammirare (e commissionare) grandi pale lignee dorate, anche istoriate.97 È vero, però, che verso la metà del secolo quest’epoca si era chiusa abbastanza bruscamente (per varie ragioni, tra cui, naturalmente, anche la Controriforma): dal nostro punto di vista questo momento segna l’inizio di una zona d’ombra nella storia dell’altare ligneo, che riprenderà con rinnovato vigore solo in età barocca. È un fenomeno che in effetti interessa varie regioni d’Europa: anche la grande stagione della scultura florida tedesca (che sembrava quasi desti-nata a non finire mai, tanto era vitale) si era già esaurita, grosso modo all’inizio del IV decennio, in parte per l’avvento della Riforma, ma soprattutto a causa di un’improvvisa sfortuna del polittico ligneo scolpito, anche in molti stati cattolici.

È vero che nella penisola iberica questa tradizione non si era mai interrotta, tanto che il retablo spagnolo sarebbe passato dalla sua stagione rinascimentale-manierista a quella barocca, quasi senza soluzione di continuità: il contesto iberi-co, però, non aveva mai brillato per esportazione di artisti e di opere (anzi per la maggior parte della sua storia era invece stato “terra di conquista” degli stranieri di tutta Europa). Al contrario, da quasi un secolo i Paesi Bassi avevano quasi mo-nopolizzato, proprio con l’invio di polittici del genere, un mercato che andava da Tallinn alle Canarie: per questa produzione la zona d’ombra sarebbe iniziata solo qualche decennio più tardi. È vero, d’altra parte, che gli esemplari visibili in Italia erano meno numerosi, e che il loro arrivo si era probabilmente interrotto prima che altrove (essendosi concentrato grosso modo tra il 1470 e il 1530, anno dell’unico altro caso noto di polittico anversese, quello di Staffarda); ma il rischio di sembrare poco ortodosso, esterofilo o “fuori dal suo tempo” non doveva certo spaventare un committente come l’Annoni. Dalla sua biografia sappiamo che fece parte della Congregazione di Santa Corona, i cui confratelli “partecipavano di un’inquieta ri-cerca di verità che aveva una storia quasi secolare e costantemente filo-francese”;98 e sembra difficilmente una coincidenza che proprio lui sia stato il probabile dona-tore al duomo di Milano di un’opera come il Candelabro Trivulzio: senza dubbio un capolavoro assoluto, ma realizzato almeno quattro secoli prima, in piena età medievale, probabilmente in Francia.99

95. Non conosciamo la sua data di nascita, ma un’idea approssimativa ce la può fornire il suo ritratto sullo sportello dell’altare.

96. Cfr. Sandra Sicoli, scheda in Legni Sacri [n. 66], pp. 80-83.97. Come nota giustamente la Binaghi Olivari, si può presumere che il committente desiderasse

“un’opera fulgente e commovente, tutta teatrini sovrapposti, ori, blu e lacche, come i grandi altari che brillavano, ancor quasi nuovi” in molte chiese della regione. “Annone Brianza” [n. 93], p. 212.

98. Ibidem, p. 207.99. L’ultima pubblicazione sul Candelabro Trivulzio è Silvio Leydi, “The Trivulzio cande-

labrum in the sixteenth century: documents and hypotheses”, Burlington Magazine, 153 (2011), 1294, pp. 4-12 (con bibliografia precedente).

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In conclusione crediamo giusto riconoscere che il caso di Annone sia stato probabilmente più unico che raro nella Lombardia di secondo Cinquecento; cio-nonostante sembra anche importante sottolineare che non risulta troppo difficile spiegare questo hapax, se si riflette sulla storia della scultura lignea lombarda, e ancor di più sulle particolari inclinazioni di chi lo ha commissionato. Quest’ulti-mo punto è quello su cui vorremmo insistere per tirare le fila della nostra ricerca: il ruolo essenziale svolto dalla committenza nella maggior parte dei casi che abbiamo raccolto.

Chiuso abbastanza presto il momento più internazionale e realmente “euro-peo” del cantiere del duomo, nella Lombardia del secondo quarto del secolo XV e in quella sforzesca, la scultura oltremontana pare aver trovato senza dubbio una sua via, anche se più limitata ed occasionale: per molto tempo essa ha continuato a godere di una buona considerazione, ma i casi più importanti documentati sem-brano quasi tutti legati a specifiche scelte (o esperienze) di singoli committenti. Il più delle volte questi spiccano per un’apertura particolare verso il mondo transal-pino o sono comunque ad esso legati per qualche motivo: il cardinal Branda Ca-stiglione aveva viaggiato come diplomatico in tutta Europa; Vitaliano Borromeo aveva assistito all’apertura di filiali del suo Banco a Bruges e Londra; il mercante Protasio Busti viveva a metà tra Italia e Germania; anche un personaggio dai gusti particolarmente ‘originali’, come Andrea Annoni, era stato di certo molto vicino agli ambienti filo-francesi. In tutti questi casi la scultura è stata ‒ con ogni proba-bilità ‒ spedita (o portata) in Lombardia da oltralpe, ma va sottolineato che per nessuno di essi conosciamo le circostanze precise di arrivo e di commissione.

Quanto alla presenza fisica di artisti nordeuropei, immigrati o di passaggio nel ducato, la dinamica sembra per certi versi più difficile da ricostruire: di si-curo gli specialisti di qualche produzione particolare riuscivano a stabilirsi in Italia, come è ad esempio il caso dei vari orefici o stampatori menzionati nei documenti (anche a date molto tarde); o quello degli intagliatori in legno specia-lizzati in una tipologia di crocifissi patetici, a lungo apprezzata nella penisola: l’attività del più noto di questi (Johannes Teutonicus) riguarda anche il lago di Garda, quindi il confine attuale tra Lombardia e Veneto. In un altro caso, quello di Sisto Frei, abbiamo visto che la carriera italiana dello scultore nordico non era sempre coronata dal successo, e poteva variare sensibilmente a seconda del contesto in cui si trovava ad operare (in questo caso Trento o Bergamo, che al-lora era una città veneziana, ma pur sempre vicinissima a Milano). Forse anche per questo non sono stati troppo numerosi i casi di artisti nordici scesi a “cercare fortuna” in Lombardia, senza già avere una qualche garanzia o almeno un punto d’appoggio (come invece potrebbe essere il caso dei tantissimi emigrati in Spa-gna). Le presenze più rilevanti, infatti, sembrano collegabili ‒ ancora una volta ‒ a un’esperienza particolare o alla liberalità di un mecenate.

Branda Castiglione minor assume ed ospita il già citato Zohanni de Savii, perché ‒ durante un viaggio diplomatico ‒ lo ha conosciuto nella sua bottega di Ginevra. Prima del ritorno in patria del vescovo questi si era fatto avanti chiedendogli di entrare a far parte del suo seguito: riparare in Lombardia ‒ a

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spese del suo nuovo signore ‒ era un ottimo modo per sfuggire alle guerre che funestavano il suo paese (è lo stesso committente a raccontarci ex post i det-tagli della storia, non senza lamentarsi dei fastidi che questa ospitalità gli ha poi causato). È davvero un caso particolarmente prezioso, perché è l’unico in cui sappiamo precisamente come il mecenate italiano ha conosciuto lo scultore nordico, e ‒ contemporaneamente ‒ veniamo anche a sapere come quest’ultimo ha preso la strada della Lombardia.

Sulla provenienza del tedesco documentato nel 1472 (probabilmente identico a Michele d’Allamania, e forse da identificare con Michael Pacher) non sappiamo quasi nulla, ma la prima volta che lo incontriamo è già ospite di Sforza Secondo Sforza, un mecenate che aveva intrecciato rapporti diplomatici con mezza Europa.100 A questo proposito ci pare comunque giusto sottolineare che i documenti noti non hanno ancora mai restituito “nitidamente” l’immagine di uno scultore oltremontano che varca le Alpi su raccomandazione di una corte straniera: resta comunque possi-bile che questa dinamica, in effetti più frequente tra gli stati italiani, venga provata da nuove scoperte d’archivio. Viceversa è ben nota la vicenda, speculare, del “pluri-raccomandato” Zanetto Bugatto: il suo soggiorno nei Paesi Bassi venne appoggiato da almeno cinque lettere (due della duchessa Bianca Maria e tre di Sforza Secondo). È vero, però, che la sua esperienza sembra più che altro una lunga “vacanza-studio”, ed è quindi ben diversa da quella degli artisti che si spostano per essere assunti da un nuovo signore (spesso partiti con la speranza di elevare il proprio status).101

Sul confine orientale e su quello meridionale il ducato sembra abbastanza per-meabile all’arrivo (con o senza raccomandazione) di artisti “forestieri”, soprattutto quando si dimostrano particolarmente talentuosi: Filarete, Bramante, Leonardo si trasferiscono tutti a Milano (o in Lombardia) per un periodo più o meno lungo, e si portano dietro la loro cultura. Inoltre è fuor di dubbio che il ducato vive un rap-porto osmotico con le province più occidentali della Repubblica Veneta: molti dei più grandi artisti milanesi di quest’epoca sono nati a Bergamo o Brescia, ma ‒ nel

100. Albertini Ottolenghi, “Zanetto Bugatto” [n. 83], p. 68.101. Per un futuro studio sui Wanderkünstler di quest’epoca sarebbe in effetti utile raccogliere e

confrontare i numerosi casi di “raccomandazioni” e “lettere di presentazione”, noti in contesti anche molto distanti tra loro e scritti con intenzioni diverse. Tra i molti possibili ricordiamo: lo Johannes En-rici de Alamania, scultore specializzato in crocifissi, raccomandato nel 1453 dalla Signoria di Firenze al cardinal Colonna; la lettera di Leonardo a Ludovico il Moro (generalmente datata 1482-1483); la lettera di Jacopo de’ Barbari a Federico il Saggio di Sassonia (1501); o ancora Alonso Berruguete a Fi-renze raccomandato da Michelangelo (1508). Per Johannes Henrici (e per una proposta d’identifica-zione con Johannes Teutonicus) si veda Donati, “Per un atlante” [n. 75], p. 33. La lettera a Ludovico il Moro si può leggere in Leonardo da Vinci, Scritti letterari, a cura di Augusto Marinoni, 2 voll., Milano 1952, I, pp. 198-201. La lettera a Federico il Saggio si trova in Simone Ferrari, Jacopo de’ Barbari. Un protagonista del Rinascimento tra Venezia e Dürer, Milano 2006, pp. 175-176. La lettera con la quale Michelangelo, da Roma, raccomanda a suo fratello di lasciar accedere lo spagnolo al cartone della Battaglia di Cascina, è discussa in Tommaso Mozzati, “Alonso Berruguete in Italia: nuovi itinerari”, in Norma e capriccio. Spagnoli in Italia agli esordi della “maniera moderna”, catalogo della mostra (Firenze, Galleria degli Uffizi 2013), a cura di Antonio Natali, Firenze 2013, pp. 16-47: p. 17. Per una storia (e una storiogafia) degli “artisti in viaggio” si può vedere ora la pubblicazione della tesi di dottorato di Claudia Caesar, Der “Wanderkünstler”. Ein kunsthistorischer Mythos, Berlin 2012.

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senso inverso ‒ non c’è da stupirsi se il più grande condottiero veneziano sceglierà il pavese Amadeo come architetto della sua cappella. In certi casi più particolari si assiste anche all’arrivo di opere d’arte appositamente commissionate in altre città, anche se geograficamente meno vicine: si pensi a Ludovico il Moro che commis-siona a Filippino Lippi e Perugino opere per la certosa di Pavia.102

Sul versante opposto gli scultori oltremontani sembrano invece raggiungere più raramente la capitale, e il più delle volte si limitano a coltivare un mercato piuttosto redditizio nel lembo più settentrionale del ducato (senza spostare defi-nitivamente la loro bottega dalla Svevia o dal Tirolo). L’unico contesto in cui la scultura nordeuropea trova senza difficoltà uno sbocco massiccio e continuativo (ancora ben visibile, nonostante le molte distruzioni e dispersioni) è infatti quel-lo alpino: Valtellina, Valchiavenna, Valle del Ticino a nord del Ceneri, Alta Val d’Ossola, Alta Valsesia.

Se provassimo ad allargare cronologicamente il nostro punto di vista e tenessimo a mente la “folgorazione” pisana provata dalla Milano trecentesca, ne ricaveremmo quasi l’impressione che per il Quattrocento (cioè il secolo che si apre con Sluter in Borgogna e si chiude con Pacher in Tirolo) la diffusione di modelli tedeschi, francesi o fiamminghi sia stata meno invasiva e persistente di quello che ci si sarebbe potuto aspettare, soprattutto per una città “crocevia” così prossima alle Alpi.

Per certi versi questo potrebbe anche essere vero, ma bisogna prima di tutto collocare ogni cosa nel giusto contesto: sembra infatti evidente che per la secon-da metà del Quattrocento le presenze oltremontane in scultura si siano fatte più rare non solo in Lombardia, ma anche nel resto d’Italia. Una volta affermatasi l’estetica del marmo e dell’ornato rinascimentali, rimarranno ben poche regioni a dialogare serratamente con il modello nordeuropeo: è probabile che solo quelle alpine possano dimostrare un grado di acculturazione uguale o maggiore rispetto a quello del ducato sforzesco (pensiamo al ducato di Savoia, al vescovado di Trento, alle regioni settentrionali e orientali della Repubblica Veneta).

Un problema analogo si potrebbe porre anche confrontando l’evoluzione della pittura lombarda quattrocentesca con la precoce ‒ e quasi entusiastica ‒ ricezione dell’ars nova eyckiana, dimostrata da molti pittori fiorentini (e forse anche veneziani o di altre città). È più difficile intuire le cause per cui questi rapporti sembrano aver viaggiato a velocità così differenti: eppure il caso di Zanetto Bugatto prova che in Lombardia non mancarono le occasioni per impri-mere una svolta più precoce verso questi modelli. Forse non è assurdo pensare che a Milano (dove non si era mai vista una rivoluzione come quella di Masac-cio, ma nemmeno come quella di Bellini) questo processo sia stato in qualche modo ritardato dalla persistente “civiltà degli ori”, che continuò a dominare la pittura lombarda sino a date molto inoltrate. Tutto sommato non era così banale coniugare l’istanza grafico-esornativa della tradizione con i precetti, so-

102. Su queste commissioni la pubblicazione più specifica è Perugino, Lippi e la bottega di San Marco alla Certosa di Pavia. 1495-1511, catalogo della mostra (Milano, Pinacoteca di Brera 1986), a cura di Barbara Fabjan, Firenze 1986.

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stanzialmente diversi, dell’ars nova: quest’ultima riduce al minimo necessario l’utilizzo di ornati e dorature, per puntare invece sul paesaggio o comunque sulla rappresentazione pittorica di una spazialità unificata; nel far questo azzera anche l’importanza della cornice, che perde ogni ambizione architettonica, per diventare poco più che un listello di contorno. Erano tutte soluzioni, compren-sibilmente, non facili da riprendere per la civiltà del polittico di Treviglio.

Resta comunque il fatto che tutti questi rapporti ci furono ed ebbero una loro importanza, certo non indifferente: senza dubbio meriterebbero di essere ulterior-mente indagati e approfonditi, anche per focalizzare meglio le ragioni di queste asimmetrie. È in effetti un problema di geografia artistica dalla portata non solo italiana, ma europea, e il suo interesse trascende il ducato degli Sforza.103

103. Possiamo qui solo accennare a un tema importante che speriamo di trattare in altra sede, e cioè la ricaduta sulla scultura lombarda di queste presenze forestiere (e più in generale dei modelli oltremontani, soprattutto quelli in pittura o incisione): è forse più verisimile spiegare in questo modo l’accento particolarmente nordico di quattro tavolette brianzole, già pubblicate con la proposta di un’origine fiamminga da Sergio Gatti, “Un’ipotesi sull’ancona lignea fiamminga già nella chiesa di San Vittore a Seregno”, Arte lombarda, 92/9 (1990), 1/2, pp. 91-94. Dal punto di vista tipologico e stilistico queste si confrontano difficilmente con l’evoluzione della scultura nei Paesi Bassi di Quattro e Cinquecento; in ogni caso resta aperta la questione dell’identità (artistica e geografica) del loro artefice. Il documento scoperto dallo studioso resta comunque interessante per il nostro di-scorso: prova infatti che ‒ almeno dal 1568 ‒ la chiesa di San Vittore a Seregno ospitava una “Icona aurata cum sculptis figuris auratis”, acquistata altrove presso alcuni uomini che l’avevano portata dalle Fiandre (come recita il testo della relazione). Non è facilissimo immaginare la morfologia di quest’opera, che ‒ curiosamente ‒ si trovava sovrapposta ad una “Iconam ex lateribus et calce cum imgine Crucifixi”: probabilmente una pala costruita in muratura e affrescata, simile a quella che si vede ancor’oggi nella pieve di Vespolate (come mi suggerisce Orso Piavento). Non credo siano noti altri casi in cui una scultura fiamminga è stata posizionata in un punto del genere. In ogni caso non sembra davvero necessario collegare questa descrizione alle quattro tavolette superstiti, la cui collocazione originaria resta dubbia.

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1. Anonimo nederlandese, Scene della storia di San Giorgio, ca 1520 (?), legno di bosso, h 34 cm. Londra, Victoria & Albert Museum (inv. A.41-1954).2. Anonimo nederlandese, “Betnuss” con miniature della Natività e della Crocifissione (e altri scene), 1500-1510 (?), legno di bosso, ø 5,2 cm. New York, Metropolitan Museum of Art (inv. 17.190.475).3. Anonimo nederlandese, Microaltare con Crocifissione (e altre scene), 1511, legno di bosso, h 25,1 cm. Londra, British Museum (inv. WB.232).

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4. Maestro dell’altare di Rimini, Altare dell’Umiltà (Sculture), 1440-50, alabastro. Isola Bella (Stresa), Palazzo Borromeo (dalla chiesa di Santa Maria Podone a Milano). Per la datazione della struttura lignea vedere il testo.5. Johannes Teutonicus, Crocifisso, 1449-50, legno di melo. Salò, duomo.6. Johannes Teutonicus, Crocifisso (particolare), 1449-50, legno di melo. Salò, duomo.

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7. Ivo Strigel, Ancona, firmata e datata 1449. Santa Croce di Piuro (Sondrio), chiesa della Santa Croce.8. Pittore tirolese di cultura pacheriana, Incoronazione della Vergine, datata 1494, affresco. Lovere (Bergamo), cappella di S. Pietro.

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9. Sisto Frei, Ritratto equestre di Bartolomeo Colleoni, 1498-1500, legno dorato. Bergamo, cappella Colleoni. Il monumento funebre è di Giovanni Antonio Amadeo (1472-1476).10. Sisto Frei (attr.), Crocifissione con Maria e San Giovanni evangelista: particolare del Cristo, I-II decennio del XVI secolo, legno di salice. Trento, Cattedrale di San Vigilio.11. Sisto Frei (attr.), Gruppo della Crocifissione: Maria e San Giovanni evangelista, I-II decennio del XVI secolo, legno di pioppo. Trento, Cattedrale di San Vigilio.

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12. Ambito del Maestro di Lombeek, Adorazione dei Magi, sicuramente commissionata entro il 1510. Milano, Basilica di San Nazaro in Brolo.13. Maestro di Lombeek, Polittico con storie della Vergine, 1515-30. Onze-Lieve-Vrouw-Lombeek presso Roosdaal (Belgio), Onze-Lieve-Vrouwekerk.

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14. Bottega anversese, Ancona della Passione, circa 1560. Milano, Museo Diocesano (dalla chiesa di San Giorgio ad Annone Brianza).

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