Roma cultural magazine n 0

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Il mestiere l'arte di vivere è stato sempre oggetto di indagine e domande, sul senso della vita e della morte, sulla sua finitudine e anche sull'infinito del suo pensiero e della sua immaginazione -------------------------------------------------------------------------------------- pag. 15 Il sogno dei fuochi attivi pag. 4 Popolazione romanì: da secoli in Europa pag. 19 TRIMESTRALE maggio 2013 # 0 CULTURAL MAGAZINE dell’umano Con il supporto finanziario del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario del progetto “Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity – JUST/2011/ FRAC/AG/2743” del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. I contenuti di questa pubblicazione sono unica responsabilità dell’autore e non può in nessun modo essere considerato come espressione delle volontà della Commissione Europea. Partner COPIA GRATUITA www.romaidentity.org

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Roma cultural magazine n 0

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Il mestierel'arte di vivere è stato sempre oggetto di indagine e domande,

sul senso della vita e della morte, sulla sua finitudinee anche sull'infinito del suo pensiero e della sua immaginazione

--------------------------------------------------------------------------------------

pag. 15

Il sogno deifuochi attivi

pag. 4

Popolazione romanì:da secoli in Europa

pag. 19

TRIMESTRALE

maggio 2013# 0

C U L T U R A L M A G A Z I N E

dell’umano

Con il supporto finanziario del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea.

Questa pubblicazione è stata prodotta con il supporto finanziario del progetto “Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity – JUST/2011/FRAC/AG/2743” del Programma per i Diritti Fondamentali e di Cittadinanza della Direzione Generale per la Giustizia dell’Unione Europea. I contenuti di questa pubblicazione sono unica responsabilità dell’autore e non può in nessun modo essere considerato come espressione delle volontà della Commissione Europea.

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PRESENTAZIONERoma Cultural Magazine è un trimestrale di informa-zione sulla cultura e sull’identità Rom. Ideata, prodot-ta e diffusa da Rom, la rivista vuole favorire la cono-scenza di un popolo poco e mal conosciuto.

Questa rivista vuole contribuire a dare una voce alla comunità Rom, affinché essa stessa possa raccontar-si e auto-rappresentarsi. Per farlo, abbiamo scelto un giornale, perché crediamo che lo strumento mediatico sia quello che maggiormente abbia contribuito alla diffusione di informazioni errate, incoraggiando così il sospetto e il rifiuto nei confronti dei Rom.

Racconteremo storie di quotidianità, integrazione e convivenza pacifica, pur consapevoli che si tratta di una comunità che vive in condizioni di esclusione ed emarginazione che non ha pari in Europa. Abbiamo preferito dare la priorità ai temi della cultura e dell’i-dentità, ai racconti di vita, alle aspirazioni, ai timo-ri e alle visioni del mondo dalla prospettiva dei Rom. Consapevoli che solo la conoscenza può vincere il pre-giudizio, la paura e la segregazione del diverso.

Roma Cultural Magazine intende rivolgersi anche all’interno delle comunità romanés ed in particolare ai giovani rom, che sono i primi a rischiare le conseguen-ze di una crisi di identità, ignorando troppo spesso le proprie radici, la propria storia e le proprie tradizioni.

La rivista, che troverete on line (www.romaidentity.org) e nelle principali piazze, stazioni metropolitcane e ferroviarie di Milano, Bologna, Firenze, Pescara, Roma, Napoli, Cosenza e Reggio Calabria è una del-le iniziative del Progetto Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma cultu-re and identity co-finanziato dal Programma Funda-mental Rights and Citizenship dell’Unione Europea.

Il Progetto, coordinato da Ricerca e Cooperazione, e realizzato in collaborazione con diverse Associazioni, ONG ed Istituzioni di Italia, Spagna e Romania ha l’obiettivo di migliorare la conoscenza della popola-zione Rom d’Europa e di aumentare la disponibilità all’accoglienza e all’integrazione da parte dei cittadini europei.

Il Progetto ha l’ambizione di scoprire e far conoscere un popolo che è stato spesso associato esclusivamente alla dimensione del reato e del crimine, tanto che nel sentire comune il termine Rom, o “Zingaro”, evoca im-

mediatamente il furto e il borseggio, l’accattonaggio, gli accampamenti abusivi e gli sgomberi, i presunti e mai dimostrati “furti di bambini”. Un popolo che, nel corso dei secoli, ha incarnato, più di ogni altro, la “diversità”e l’”alterità”, su cui si sono concentrate le ansie, le paure e le fobie delle altre popolazioni euro-pee. Un popolo che si è insediato in Europa a partire dal 1290, ma mai accettato e ancora oggi considerato “straniero”.

Questo popolo sarà raccontato da studiosi, attivisti, giornalisti Rom e non Rom, attraverso attività di ri-cerca, di formazione, di promozione della partecipa-zione, di educazione interculturale per i giovani e di sensibilizzazione della cittadinanza.

Per maggiori informazioni sul Progetto visitare il sito www.romaidentity.org

Natascia Palmieri

PRESENTATIONRoma Cultural Magazine is a quarterly magazine of information on the culture and identity of Roma. De-signed, produced and distributed by Roma, the maga-zine wants to improve the understanding of a commu-nity little and poorly known.

This magazine wants to help to give a voice to the Roma community, so that it can tell and represent itself. To do so, we chose a newspaper, because we be-lieve that the media outlet is the one that has most contributed to the spread of false information, there-by encouraging the suspicion and rejection against Roma.

Tell stories of everyday life, integration and peaceful coexistence, while aware that it is a community that lives in conditions of exclusion and marginalization that has no equal in Europe. We preferred to give priority to issues of culture and identity, life stories, aspirations, fears and visions of the world from the perspective of the Roma, aware that knowledge alone can overcome prejudice, fear and segregation of diffe-rent.

Roma Cultural Magazine wishes to speak also within the Romanes community and in particular to young Roma, who are the first to risk the consequences of an identity crisis, too often ignoring their roots, their

pag. 4

Il sogno dei fuochi attivi

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La popolazione romanì

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Se l’importante è partecipare

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Il mestiere dell’umano

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Mediare e/è riconoscere

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Popolazione romanì: da secoli in europa

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Il populismo culturale

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La popolazione romanì a roma

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La donna rom (romnì) e l’amore

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L’utopia contro la devastazione

GRAFICA

Andrea [email protected]

REDAZIONE

RomSinti@ politicaVia Rigopiano n. 10/B65124 - PescaraTel: 085.7931610N. Verde: 800.587705 [email protected]

history and their traditions.

The magazine, which you will find on-line (www.romaidentity.org and in the main squares, underground stations and stations of Milan, Bologna, Floren-ce, Pescara, Rome, Naples, Cosenza and Reggio Calabria is one of the initiatives of the Project Conflicts, mass media and rights: a raising awareness campaign on Roma culture and identity co-funded by the Program of the European Union Fundamental Rights and Citizenship.

The project, coordinated by Ricerca e Cooperazione and in collaboration with various associations, NGOs and institu-tions in Italy, Spain and Romania aims to improve the knowledge of the Roma population in Europe and increase the willingness to accept and to integrate on the part of European citizens.

The project has the ambition to discover and make known a community that has often been associated exclusively to cri-me, so that in the common feeling term Roma or “Gypsy” immediately evokes theft and pickpocketing, begging, camps and evictions and never proven “theft of children.” A people who, over the cen-turies, embodied, more than any other, “diversity” and ‘”otherness”, which focu-sed on the anxieties, fears and phobias of other European populations. A people who have settled in Europe from 1290 on, but it has never been accepted and is still considered “foreign.”

They would be told by scholars, acti-vists, journalists Roma and non-Roma, through research, training, promotion of participation in intercultural education for young people and to raise awareness of citizenship.For more information about the project visit www.romaidentity.org

Natascia Palmieri

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Baskim Berisha – Trento

Mi chiamo Berisa Baskim, ho 27 anni, sono un rom stanziale khora-hano (lettore del corano, di religione mussulmana). Vivo a Trento da

17 anni e sono iscritto al quarto anno di giurisprudenza presso la facoltà di Trento.Cosa significa sognare? Sognare è la possibilità di navigare con il pensiero, di guardare a degli obbiettivi a volte inarrivabili. A volte però si rischia di avere dei sogni astratti, impossibili. Nel corso degli anni ho capito che esi-stono due tipi di sogni: il primo è quello che spazia con la fantasia raggiun-gendo ogni tipo di realtà; l’altro, invece è un tipo di sogno che assomiglia ad un desiderio ed è reale e realizzabile. Qual’è il mio sogno?Il mio sogno è quello di costruire qualcosa di concreto: di portare a termine i miei studi universitari e un giorno di diventare un avvocato per difende-re i diritti della mia etnia. Voglio lottare per distruggere le discriminazioni di cui sono vittima i Rom. Voglio lottare affinchè la comunicazione media-tica sia capace di evidenziare la ricchezza della mia cultura, non solo di alimentare il sospetto contro i Rom.Credo che noi giovani dobbiamo essere i primi ad iniziare un processo di

cambiamento, e questo può avvenire solamente studiando e aprendo la mente alle tantissime prospettive e possibi-lità di relazione che ci sono al mondo; osservare le cose con uno sguardo diverso.Nel mio futuro vorrei anche costruire una famiglia e impegnarmi affinchè i miei figli possano vivere una vita digni-tosa senza essere giudicati per l’etnia a cui appartengono, ma semplicemente per le persone che saranno.Un altro grandissimo sogno è poi quello di vedere tutti i Rom lottare per i propri diritti. Sono pochissimi quelli che già lo fanno e fra questi molti quelli che speculano sulla situazione. Sarebbe importante che tutti si unissero: non bastano pochi soggetti per ottenere un risultato. Bisogna mettersi tutti assieme e cercare di lottare per i nostri diritti di esseri umani; altrimenti non si va da nessuna parte e saremo sempre considerati negativamente, come gli zingari di turno. ROM nella lingua romanì significa UOMO e come tale ognuno di noi dev’essere rispettato, ricor-dando i diritti universali dell’uomo che rimangono inalienabili.

Daniel Fota - Roma

Mi chiamo Daniel e ho 19 anni. Sono un ragazzo rumeno di etnia Rom.Il mio sogno è quello di far finire tutte le discriminazioni e i maltratta-

menti subiti dai Rom. Vorrei che tutti andassero a scuola, con l’obiettivo di finire il liceo e anche l’università. Vorrei che tutti avessero un lavoro fisso, senza avere più bisogno di umiliarsi facendo l’elemosina in giro. Vorrei che i Rom di tutte le etnie fossero più uniti e consapevoli dei loro doveri, ma anche e soprattutto dei loro diritti, da utilizzare a vantaggio del benessere delle loro famiglie. Vorrei che tutti i Rom fossero uniti e portatori orgogliosi della pro-pria bellissima cultura e delle proprie esperienze di vita, spesso molto dure, da condividere con tutti, per raggiungere un’integrazione e una qualità di vita migliore.

Nedzad Husovic - Roma

I have a dreamIl mio sogno è di essere un Rom inserito nella contemporaneità e nei suoi problemi. Essere Rom al giorno d’oggi

non significa chiedere aiuto, ma dare aiuto per permettere a chi è accecato dall’ignoranza, di aprire gli occhi.Non parlo solo dei gaje, o dei Rom, ma di tutti quegli uomini che hanno completamente dimenticato il piacere del confronto e del contatto verbale; il piacere di stringersi la mano e guardarsi negli occhi per sancire un vincolo di rispetto e uguaglianza.

Andrea Stasolla - Roma

Il mio sogno è di poter diffondere e far conoscere la cultura Rom a partire dalla mia esperienza personale. Inizierò quindi, raccontando in breve la mia vita.

Sono nato in Italia, a Roma e appartengo ai Khorakhané. La mia famiglia vive nei campi. Io sono cresciuto pre-valentemente in casa. Ho vissuto poco nei campi perché mia madre ha sposato un non rom. Ho vissuto con la mia famiglia in una roulotte per alcuni anni, ci siamo spostati in giro per Roma. Quando avevo più o meno 4 anni i miei genitori insieme ad altre famiglie sinte comprarono un terreno a Mentana, più o meno a 30 km da Roma. Divisero il terreno in 5 parti, ogni famiglia ebbe una parte del terreno. Vivevamo in un pullman privato dei sedili e ricostruito a mò di casa. Nel 2001 ci siamo spostati a Roma perché mio padre, attraverso dei contatti con un suo amico gesui-ta, ha trovato lavoro come responsabile di un centro d’accoglienza per rifugiati politici. Vivo con la mia famiglia in questo centro da allora.Quello che vorrei mettere in luce sono alcuni momenti importanti nella cultura Rom, ovvero il grande senso di ospitalità, le loro feste ed il matrimonio.Esistono dei riti dell’ospitalità, che però si stanno perdendo sempre di più. L’usanza è quella di dare il benvenuto all’ospite facendogli lavare i piedi dalla figlia maggiore. Subito dopo c’è il rituale del caffè, sempre preparato dalle donne di casa. All’ospite non viene fatto mancare nulla ed è considerato sacro.I Rom hanno molte festività, le più importanti sono: il Giurgiedan che ricorre il 6 maggio, il Pash o Milai il 2 agosto ed il Vassili il 14 gennaio.Durante il Giurgiedan si festeggia l’inizio dell’estate. Prima di questo giorno porta sfortuna lavarsi con l’acqua fred-da e portare a casa dei fiori. La mattina del Giurgiedan si va al fiume più vicino e si comincia la giornata prima che il sole sorga. Ognuno deve purificarsi lavandosi con l’acqua del fiume e tornando, si portano a casa dei ramoscelli

Il Sogno deiFuochi Attivi

I giovani sognano un futuro migliore. I giovani rom e sinti sognano un futuro migliore. Fuochi attivi è un percorso di formazione per 10 giovani rom verso la cittadinanza attiva romanì.

Fuochi attivi NON E’ un corso per operatori sociali o mediatori culturali rom, è un percorso articolato per accrescere le potenzialità di partecipazione responsabile, conoscendo ed esigendo i diritti propri e quelli altrui, per arricchire e consolidare le capacità individuali e collettive, ed elaborare una nuova romanipè.

Riportiamo le testimonianze di alcuni Fuochi attivi che periodicamente scriveranno in questa rivista per far cono-scere la realtà e la cultura della popolazione romanì.

Il Sogno dei Fuochi Attivi

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abbassare la dote, cercando di sensibilizzarli in virtù del lungo viaggio e degli sforzi fatti per raggiungerli, parte del rituale di matrimonio descritto sopra. Quan-do la madre della ragazza getta per terra il suo fazzo-letto e chiede ai pretendenti di metterci sopra tutto quello che hanno, parte il momento dell’accordo vero e proprio: si parte da poco fino ad arrivare alla cifra desiderata. Una volta accordato il prezzo della dote si festeggia aprendo una bottiglia ingioiellata porta-ta dai genitori del ragazzo. I gioielli sopra la bottiglia ora appartengono alla ragazza e i due ragazzi sono già sposati. La cerimonia però avviene durante un’altra giornata sempre concordata dai genitori degli sposi. La quarta fase consiste nella cerimonia celebrata dai due capifamiglia che si promettono rispetto reciproco. Il genitore del ragazzo assicura che la nuora verrà ac-cettata come una figlia in casa e che il figlio non oserà mai farle del male. La quinta ed ultima fase consiste nel far congedare i genitori della sposa dalla loro fi-glia, poiché lei seguirà la famiglia acquisita. La prima notte di nozze gli sposi consumeranno il matrimonio. La sposa deve essere vergine per non disonorare la propria famiglia, e quindi come prova, il giorno se-guente viene esibito il lenzuolo sporco di sangue da-vanti alla casa degli sposi.Ho voluto scrivere di queste tradizioni, perchè credo che attraverso la conoscenza delle altre culture sia possibile una vera integrazione e l’eliminazione del-le discriminazioni. Il mio sogno è proprio questo, cioè di impegnarmi a diffondere la cultura Rom per l’in-tegrazione e dall’altra impegnarmi a mantenere vive queste stesse tradizioni e a valorizzarle: sarebbe bello se un giorno i Rom potessero tornare ad essere quei meraviglio artisti, musicisti, artigiani, modellatori di metalli che sono sempre stati.

Marco Bevilacqua – Reggio Calabria

Mi chiamo Marco Bevilacqua ho 29 anni e sono di Reggio Calabria.

In cuor mio ho un sogno, e spero che questo sogno un giorno possa realizzarsi. Spero che la comunità Rom possa al più presto uscire fuori dal gravissimo degra-do sociale nella quale è costretta a vivere, proprio nel guscio di quella società che viene definita come “civi-le”.Credo che per poter rispondere adeguatamente a que-sta società, oltre a molti esempi positivi, è necessario raggiungere un alto livello di scolarizzazione.Per questo spero che in un vicino futuro la comunità Rom possa avere molte persone scolarizzate capaci di svolgere attività e lavori con elevata professionalità, come l’avvocato, il medico, il politico...Sono convinto che questo sogno si realizzerà. Vedo che questo sogno è già iniziato. Faccio parte insieme ad altri 14 compagni Rom di un percorso di formazione fi-nalizzato allo sviluppo lavorativo e sociale per costru-ire un’indipendenza di vita e spendersi come attivisti della comunità Rom.Se le basi sono queste, siamo già a buon punto.

Enzo Abruzzese - Cosenza

Il mio sogno è quello di non avere più il sogno che vi dirò, ma che questo diventi realtà.

Vorrei che una persona Rom non si debba più vergo-gnarsi di essere Rom. Purtroppo nella nostra realtà quotidiana essere “diverso” è ancora un grande pro-

blema, si è bersagli di intolleranza, razzismo ed esclu-sione figli di stupidi pregiudizi radicati, generati dalla poca informazione e dalla chiusura mentale.Personalmente essere Rom non mi ha mai creato grandi problemi. Sono cresciuto in un quartiere pre-valentemente di gajè. Ho avuto la grande fortuna di conoscere gente che mi ha apprezzato come persona. Credo che questa caratteristica è tipica delle persone semplici, di quelli che vivono nei quartieri di perife-ria, luoghi dove si trovano persone che materialmente non hanno molto, ma credono nei sentimenti sinceri e nell’amicizia.Crescendo tuttavia ho visto e provato sulla mia pelle l’esclusione, la marginalità e il razzismo. Basta dire il tuo cognome oppure la zona da dove vieni e alcu-ne persone iniziano a guardarti con sospetto: per mia grande fortuna riesco a farmi scivolare addosso i com-menti e i giudizi che non ritengo importanti.Queste esperienze fanno sicuramente nascere una fiamma dentro se stessi. Ma fanno anche riflettere, provando a pensare al futuro. Il sogno è quello di ab-battere i muri dell’emarginazione e dell’ipocrisia, e dico questo non solo per quanto riguarda i Rom, ma per tutti quelli che vengono considerati diversi in questa società. E’ questo il motivo per cui racconto la mia storia e porto come esempio il quartiere dove sono cresciuto: evidentemente è possibile combattere l’emarginazione partendo dal valore della persona, e qualche volta già succede.

Fiore Manzo – Cosenza

Ho un sogno semplice e non complesso che vede il mio popolo libero dai pregiudizi, un popolo co-

operativo e quindi unito. Penso che per raggiungere uno scopo simile oltre ad una vera presa di coscienza bisogna rafforzare la romanipè (identità Romanì) e tirar fuori la voce, non piangersi più addosso, e met-tersi in gioco, fare qualcosa per gli altri, per la propria comunità. La Fondazione Romanì con questo corso ci sta dando proprio questa opportunità. Penso dunque che è pos-sibile attuare quel passaggio fra il sunò (sogno) e il cipò (reale-concreto), ma solo se uniti e collaborativi, consapevoli di quelli che sono i nostri diritti di esseri umani, senza dover nascondere la propria identità e quindi rovesciando completamente il concetto sbaglia-to di normalità.

fioriti. Ogni famiglia, sempre prima che il sole sorga, deve sacrificare un agnello (Korbano) in ringraziamento a Dio. Di solito per festeggiare la guarigione di un pa-rente o semplicemente per festeggiare l’anno andato bene, una metà dell’agnello viene offerto ai vicini. Non si deve buttare nulla dell’animale sacrificato, che per di più è un simbolo di pace. La festa si deve celebrare con la famiglia di appartenenza. Durante la festa è di buon auspicio mangiare tutte le primizie che la natu-ra offre.Il termine Pash o Milai significa metà estate. E’ una festa che ricorda l’avvicinarsi dell’inverno: l’estate ha superato la metà e occorre fare provviste per il freddo. In passato il Pash o Milai era anche una data per ini-ziare a cercare un posto dove accamparsi per il lungo inverno.Il Vassili invece è il capodanno Rom, ma mia madre non lo ha mai festeggiato perché è il giorno in cui han-no ucciso il suo bisnonno.Un altro momento speciale della cultura Rom è il ma-trimonio. Il matrimonio Rom è diviso in diversi mo-menti. La prima parte prevede la richiesta da parte di un amico comune, ai genitori della ragazza, affinché si possano incontrare con i genitori del ragazzo e di conseguenza, poter chiedere la mano della figlia.Se i genitori della ragazza accettano comincia la se-conda parte, ovvero si cerca di radunare una piccola folla di persone, per di più parenti dei genitori del ra-gazzo, e si va alla porta della ragazza, futura sposa, per dare importanza all’evento.Nel momento in cui le coppie di genitori si devono in-contrare, il rituale è molto complesso.I genitori del ragazzo fanno la parte di quelli che sono venuti da lontano e chiedono il permesso di riposarsi in casa dei genitori della ragazza. Ma questi difficil-mente accettano subito e il rituale continua ancora per qualche minuto. I genitori della ragazza potreb-bero anche decidere di mandarli via e farli tornare in un secondo momento. Quando il padre della ragazza accetta di accoglierli in casa inizia la terza parte del rituale di matrimonio. Si incomincia a parlare del più e del meno cercando di rompere il ghiaccio tra le due famiglie, anche rac-contando barzellette. Una volta presa confidenza, il genitore del ragazzo può avanzare la richiesta e qui comincia un altro rituale. I genitori della ragazza cer-cano di darle un grande valore materiale, il più alto possibile. Di contro i genitori del ragazzo cercano di

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Lorenzo Spada – Frosinone

Voglio che il mondo cambi opinione, o almeno provi a cambiarla, sui Rom. Vengo da una famiglia di lavoratori dove la prima cosa che mi è stata

insegnata è il rispetto verso il prossimo. Sono fiero di venire da una famiglia come la mia. Mio nonno, Gerardo Spada è stato, insieme al fratello, il primo Rom a prendere la residenza a Frosinone. Mio nonno era rispettatissimo da tutti, rom e gaggi, ed è ancora ricordato con affetto nonostante siano passati quasi 14 anni dalla sua scomparsa. I tre figli maschi di mio nonno Gerardo, tra cui mio padre, lavorano da più di trent’anni in varie industrie cittadine. Mia zia Rosaria, ha speso e ancora spende la sua vita al servizio dei genitori prima e dei fratelli e nipoti poi, una vera donna di altri tempi. E poi voglio parlare

dell’ultimo genito, Umberto Spada. Zio Umberto è la persona che più mi ha ispirato e, anche se non direttamente, invogliato a prendere la decisione di partecipare a questo corso. Umberto Spada è stato uno dei fondatori della Fon-dazione Romanì. E’ stato un vero e proprio promotore della nostra etnia, ha speso anni della sua vita ricercando e intervistando sportivi e artisti Rom, spronando tutti i nipoti a proseguire negli studi. Ha anche scritto un libro sulla storia dei Rom abruzzesi. Mio zio Umberto è scomparso in modo improvviso lo scorso anno ed io, anche e soprattutto grazie ai suoi preziosi documenti gelosamente custoditi, vorrei provare a continuare il suo lavoro sui rom e, siccome ho sua stessa passione per il giornalismo sportivo (calcistico in primis), provare a poter fare quest’esperienza.

Noris Seferovic – Roma

I Rom hanno una prospettiva di integrazione nel paese in cui si trovano; vo-gliono conoscere e vivere la cultura del luogo in qui vogliono mettere le

radici. Già da tempo i figli delle popolazioni Rom frequentano le scuole di vario grado, e quindi, già si intravede la possibilità dell’alternativa.Quale è la prospettiva di un giovane rom oggi? Innanzitutto quella di avere una occupazione da cui ricavare un compenso economico tale da poter vivere con dignità. Poi avere una casa dove abitare con la propria famiglia; e anche e soprattutto di vivere e convivere con i cittadini comuni senza alcuno screzio o differenza: vivere cioè da normali cittadini. Come ci si può far partecipi del-la vita sociale di un paese? I giovani hanno tutto l’interesse di vivere la loro vita nella società comune. La prima integrazione avviene attraverso la scuola: esiste quindi un primo cambiamento. Bisogna continuare su questa strada in modo da attuare una trasformazione completa del modo di pensare e ragionare facendo uscire tutto il loro valore.

Marinela Costantin – Bologna

La cultura rom è bella, ogni rom è diverso dall’altro, come ho sempre detto ai miei amici.

Ci sono zingari e zingari, buoni e cattivi, come ci sono italiani ed italiani, buoni e cattivi.CAPITEI rom amano essere al centro dell’attenzione e lo fanno con abiti colorati e sgar-gianti, musica vivace, parlata forte e veloce.

Il mondo è bello perchè e vario, se fossimo tutti uguali che noia sarebbe.Vi voglio raccontare una bella barzelletta auto ironica che si racconta nella mia comunità:un rom parte per l’estero per guadagnare qualche soldo. Dopo tre giorni torna al suo paese e tutti curiosi gli chiedono: - “allora comè andata dai racconta” - lui: “lasciate stare uno schifo mai più in vita mia” - loro: “ma perchè cos’è sucesso” - lui: “appena arrivato ho preso un autobus e durante il tragitto mi sento una mano che mi controlla la tasca di dietro poi quelle due davanti” - loro:”e tu?” - lui:”e io sono morto dalla vergogna non avevo manco un centesimo da farmi rubare. Che figuraccia ho fatto con lo scippatore”

Il Sogno dei Fuochi AttiviIl Sogno dei Fuochi Attivi

Badema Ramovic – Reggio Calabria

Mi chiamo Badema Ramivic, ho 23 anni, vengo dal Montenegro e vivo a Reggio Calabria dall’età di dieci anni con la mia famiglia.

Sono arrivata in Italia dovendo abbandonare il mio paese per la guerra civile nel 1998.I miei genitori hanno preferito allontanarsi dalla guerra civile per provare a trivare per i figli un futuro migliore.Fino all’età di dodici anni, non sapevo né leggere nè scrivere.Ogni giorno vedevo tanti ragazzini della mia età andare in un posto chiamato “SCUOLA”, tutti con gli zainetti sulle spalle. E allora, per capire dove fosse-ro diretti, mi misi in testa di seguirli. Ogni giorno dalla finestra, davo uno sguardo per sbirciare, fin quando una maestra non mi beccò e mi fece entrare nella sua classe. Allora ho capito che quel posto serviva per imparare cose utili nella vita.Da quel momento mi è nata una grande voglia di imparare a leggere e scri-vere. Finalmente il mio desiderio più grande si era realizzato. Pian piano ho

fatto tutte le scuole a partire dalla terza elementare fino al diploma in ragioneria informatica/programmatore.Durante il periodo scolastico ho sempre dovuto lavorare per comprarmi i libri, per pagare l’affitto, la luce e tante altre spese...Per non abbandonare gli studi mi sono iscritta alla scuola serale e la mattina lavoravo. Non avevo più tempo da dedicare a me stessa. Ho fatto tanti sacrifici e tanti ne sto facendo ancoraSe sono riuscita ad andare avanti, cambiare la mia vita in positivo è solo grazie a delle persone che mi hanno con-sigliato giustamente ed io questo non lo dimenticheró mai. Se fossi rimasta nel mio paese sarei già diventata moglie e mamma, mi sarei sposata con una persona sconosciuta voluta dai miei genitori. Non avrei mai frequentato una scuola, non avrei imparato determinate cose e non avrei mai incontrato le persone che oggi mi vogliono bene.Stare nel mio paese per le ragazze non è facile; vengono ancora sottomesse dai propri familiari...Non hanno il diritto di dire si o no ad un matrimonio combinato e se si innamorano vengono punite. Anche se sono una romnì le persone mi hanno sempre rispettato ed accettato per quella che sono. Nessuno ha mai discriminato me e la mia famiglia per le nostre origini e provenienza. Spero che non accada mai.Un mio sogno è di aiutare la mia gente a capire il valore della vita, ad aprire la mente. A far si che anche le ragazze abbiano il diritto ed il dovere di frequentare una scuola, di lavorare e soprattutto di cambiare la loro vita nel miglior modo possibile.

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Il Sogno dei Fuochi Attivi

Se ho scelto di partecipare al corso di formazione Fuochi attivi è perché credo che mi possa essere molto utile: mi aiuterà a crescere e diventare ancora meglio di quello che sono oggi.

Ion Dumitru - Roma

La vita delle comunità rom e sinte è sempre stata una vita di isolamento, di emarginazione e di non rispetto dei loro diritti. Con il passare del tempo

non ci sono stati grossi miglioramenti, anzi alcune cose sono diventate più evidenti e l’attacco ancora più diretto, anche e soprattutto da parte del quadro politico.Tutto questo può essere cambiato dagli stessi rom. Bisogna incominciare a rifiutare l’assitenzialismo fine a se stesso se vogliamo che le cose cambino per noi e per i nostri figli. Non bisogna solo sognare, ma realizzarsi per una vita degna nel rispetto dei nostri diritti, e anche dei nostri doveri e delle leggi. Vogliamo tramandare la nostra cultura ai nostri figli: le tradizioni, la lingua, i valori che sono caratteristici del nostro popolo, e che creano un’identità speci-fica. Dobbiamo fare molto di più per la promozione dei diritti di base delle co-munità, per sostenere l’associazionismo, nel migliorare i rapporti fra le istitu-zioni scolastiche e le famiglie rom. Bisogna dare il giusto valore alla funzione educativa, sia che venga dalle scuole che dall’associazionismo, facendo attività culturali aperte a tutti e accessibili a tutti, senza nessuna differenza.Le relazioni non possono fare altro che portare ad un arricchimento delle per-sone e quindi portare, attraverso la conoscenza, alla diminuzione del pregiudi-zio nei confronti della comunità rom.I sogni sono realizzabili, bisogna solo avere fiducia nelle proprie capacità e nella costruzione di nuove relazioni e soprattutto essere convinti di non vergo-gnarsi mai di dire che si è Rom.

Rom, sinti, zingari, nomadi, viaggianti, giostrai, ecc. tanti

termini utilizzati in modo dispre-giativo per puntare il dito verso una popolazione poco e mal cono-sciuta.

Il mondo romanó oggi è costituito essenzialmente da cinque grandi comunità: Rom, Sinti, Kale, Ma-nouches e Romanichals, un’unica lingua, il romanès o romanì chib, entro cui sono stati classificati cir-ca 18 dialetti. Rom, Sinti, Kalè, Manousches, Ro-manichels sono etnonimi e signifi-cano essenzialmente uomo e, da un punto di vista generale, possono es-sere considerati, fra loro, sinonimi, ovvero Rom è l’etnonimo originario e tutti gli altri sono dei derivati.

Gli etnonimi Rom (sostantivo in-variabile) e Roma (plurale di Rom) sono quelli più largamente usati fra le comunità romanès di tutto il mondo e derivano dal termine Ûom che designava nei territori persiani un gruppo etnico eterogeneo d’ori-gine indiana.

I Sinti (singolare Sinto), derivereb-bero il loro nome da Sindhi, ovvero la popolazione che viveva nella re-gione del Sind a Nord ovest dell’In-dia (oggi in Pakisthan). Quindi il termine Sinto è un toponimo (nome del luogo).

Sinti e Rom parlano il romanès ed è la ragion per cui i termini Sinto

La popolazione romanì

e Rom sono da considerarsi etnoni-mi che vanno considerati sinonimi, non vanno separati come se si trat-tasse di due popoli differenti.

I Kale o Cale derivano il loro nome dall’aggettivo hindi kŠlŠ che signi-fica nero.Per Kale si intendono le comuni-tà romanès della Finlandia e del Galles, mentre con Calo e Calão si designano rispettivamente le comunità romanès della Spagna e del Portogallo. In Brasile esistono gruppi romanès che si autodeter-minano come Kalãos così come in Iraq e in Africa del Nord (Algeria) si designano come Kaulja.

I Manouches derivano il loro nome dal sànscrito Manuò che significa uomo, essere umano. I Manouches si trovano soprattutto in Francia meridionale, il loro dialetto ro-manès ha molti imprestiti tedeschi.

I Romanichals o Romanichels sono insediati soprattutto in Inghilterra (ma anche in Australia e in Nord America) derivano il loro nome da due termini romanès: romaní (ag-gettivo) e da chals o chels che de-riva dal romanès havo/have che significa figlio, figli, ma anche gio-vane, giovani. La traduzione lette-rale sarebbe dunque figli/giovani Rom.

UN OLOCAUSTO DI-MENTICATO

Simonia Berger, una bambina rom, nacque nel giugno del

1933 ad Altheim, un piccolo villag-gio austriaco. Abbandonata dopo la nascita dalla madre naturale, venne accolta da una famiglia gagé (non rom) del posto ed allevata as-sieme al loro figlio.È inserita nella vita del paese, fre-quenta la scuola.All’età di dieci anni viene tolta alla famiglia a cui è stata affidata e restituita alla madre naturale. Insieme a lei, la bambina viene portata nel campo di sterminio di Auschwizt – Birkenau. Registrata con il numero 6672, vi morirà il 6 agosto 1943 di crepacuore e non nella camera a gas come la maggior parte dei rom deportati.Simonia Berger è solo una delle oltre 500.000 vittime delle perse-cuzioni naziste subite dai rom du-rante la seconda guerra mondiale.Il caso di questa bambina, morta a dieci anni solo perché nata rom, è emblematico. Esso mostra al di là delle cifre, fatti raccapriccianti e descrizioni di scene strazianti, quanto fosse spietata ed inesorabi-le la volontà nazista di sterminare, oltre agli ebrei, anche il popolo rom.I treni con i rom destinati a morire non arrivavano solo ad Auschwitz, dove nel 1942 era stato istituito il famigerato Zigeunerlager di Bir-kenau, ma anche a Dachau e a Ra-vensbruck, dove donne e bambine

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rom furono sterilizzate, a Natzweiler-Struthof, nell’Alsazia francese, dove furono sottoposti a vari e mortali espe-rimenti medici, a Buchenwald dove furono ceduti alle grandi società farmaceutiche per 170 marchi a “capo” e poi a Majdanek, Treblinka, Chelmno e Lodz, a Bergen-Belsen e Neuengamme, a Teresin, Mauthausen, Lackenback e Jasenavac.

È un olocausto quasi dimenticato, anche nelle commemorazioni e nei monumenti dedicati alle vittime del nazismo. I rom, identificati ad Auschwitz con un triangolo nero o verde sui vestiti e una “Z” che stava per Zigeuner, tatuata sul braccio sinistro, furono per lungo tempo esclusi dalla memoria delle loro sofferenze. Questo popolo disperso nel mondo, senza una nazione o uno stato che caldeggiasse la sua causa, non aveva né la forza né il potere per alzare la voce e gridare al mondo le ingiustizie e i soprusi subiti.Le inchieste ed i verdetti del tribunale di Norimberga, che condannò alcuni dei più grandi criminali nazisti, non fornì alcuna spiegazione sul perché questo popolo inoffensivo, che nel corso dei secoli aveva donato al mondo con musica e canti tutta la sua ricchezza, dovesse essere sterminato.

LA MUSICA E IL CANTO: PAROLE E SENTIMENTI DI UN POPOLO MUTO

Dal flamenco spagnolo al jazz di Django Reinhardt, dagli ottoni della Kocani Orkestar che risuonano in alcuni recenti film, ai ritmi di rumba dei Gipsy Kings: il panorama della musica rom è vastissimo. Nel libro dei Re,

scritto attorno all’anno 1000, il poeta persiano Firdusi parla di diecimila uomini e donne esperti nel suonare il liuto che il Re di Persia richiese al sovrano dell’India per divertire i suoi sudditi, e si pensa che fossero musicanti rom.La musica ha fatto sì che i Rom, nel corso dei secoli, si siano trovati in situazioni paradossali: mentre i musicisti erano richiesti dalle corti europee e per allietare feste di piazza, matrimoni, reclutamenti, il popolo rom veniva ban-dito da tutti i paesi, espulso e derubato della sua identità.

Temi musicali rom hanno ispirato compositori come Bizet (la famosa Carmen), Brahams, Dvorak, Ravel. Grande ammiratore dei rom e della loro musica fu Franz Liszt. Mentre i musicisti rom dei Balcani prediligono da sempre gli strumenti a fiato, in Romania, Ungheria e Austria lo strumento principale era ed è il violino.La chitarra acquistò maggiore prestigio con Django Reinhardt (1910/1953) che nel 1934 fondò il mitico quintetto dell’Hot Club de France, che segnò, con le improvvisazioni zingaresche di Django, la storia del jazz.Il canto, che nella cultura esclusivamente orale del popolo rom aveva avuto sempre una funzione narrativa, ha conservato un importante ruolo tra i gitani spagnoli che, come cataores , chitarristi e ballerini, hanno dato un fondamentalecontributo alla nascita e allo sviluppo del flamenco e del cante jondo con il quale esprimevano il loro dolore per le persecuzioni subite.Le tracce del cammino millenario, che ha portato i rom dall’India in Europa, si trovano anche nella musica che ha mantenuto una forte matrice orientale.I rom hanno assorbito gli elementi più tipici delle musiche incontrate “lungo la strada”, per mescolarle e reinter-pretarle.Il risultato è una musica dall’impronta inconfondibile, attraverso la quale riescono ad esprimersi tutte le varietà dei sentimenti. Ancora oggi per celebrare adeguatamente gli eventi più importanti per il popolo rom, come nascite e matrimoni, non manca mai un gruppo di musicisti per allietare la festa.I musicisti rom suonano spesso “ad orecchio”, senza conoscenze teoriche precise. Suonano con la forte espressività dell’anima. Perché la musica, per il rom, ha da sempre rappresentato anche la sua parola.

La popolazione romanì

Se l’importante è partecipare...Dott. Antonello Salvatore

Questo breve articolo vuole porre le basi per una riflessione condivisa , per nulla esaustiva, su un

tema fondamentale come quello della Partecipazione attiva dei singoli e Comunità Rom (globalmente inte-se) nel Nostro Paese. Il tema della Partecipazione “attiva” è uno tra i più dibattuti nell’ambito della riflessione sulla condizione della minoranza Romanì in Italia . In realtà questa frase , che potrebbe essere un incipit di un articolo su tale tema si riferisce ad un qualcosa che non esiste . Non esiste una riflessione sul tema della partecipazione, sulle implicazioni che la sotten-dono nel quadro della condizione di marginalità ed esclusione cognitivo-culturale delle comunità rom sin-te in Italia. Meglio dire che l’item partecipazione è sempre richiamato aprioristicamente , alla stregua di altri concetti , quando si parla di Rom. Il dibattito presuppone prese di posizione basate su opinioni differenti , paradigmi interpretativi e pro-grammi operativi e pratiche ad essi conseguenti. In realtà quello della partecipazione è un termine spot che “accompagna” immancabilmente la stesura di un progetto , l’esplicitazione di linee guida, il manifesto di un Tavolo per i Diritti. Ma se analizziamo con cura la tipologie , le modali-tà interpretative della stessa ci rendiamo facilmente conto che in questo caso , come in molti altri, tra teo-ria e pratica vi è un abisso.Partiamo da un assunto : partecipare significa pren-dere parte, ovvero acquisire la possibilità/capacità di agire o incidere sulle decisioni che riguardano la propria vita in termini individuali e comunitari. La partecipazione è quindi un processo di azioni che coin-volgono i soggetti (all’interno di comunità e organiz-zazioni) al fine di aumentarne la padronanza, il senso di protagonismo e la responsabilità. (Bruscaglioni M., Gheno S., Il gusto del potere, FrancoAngeli, Milano, 2000)

Partecipare attivamente implica una dinamica su tre livelli:

1) Favorire la partecipazione personale (empower-ment individuale) 2) Favorire la capacità di agire in gruppo (empower-ment organizzativo) 3) Favorire processi di cambiamento e trasformazio-ni collettivi (empowerment sociale)

Per tale fine è necessario che i protagonisti di un per-corso partecipativo possano utilizzare al meglio le proprie risorse (interne) ed abbiano accesso alle risor-se (esterne). La partecipazione non è, quindi, un pro-cesso spontaneo (soprattutto nelle nostre società com-plesse fondate sulla delega) ma, per esser credibile, efficace , fattiva , presuppone processi di formazione alla partecipazione (capacity building), cioè lo svilup-po di capacità che consentano davvero ai soggetti di partecipare attivamente, di co-elaborare decisioni in gruppo, di mediare i conflitti, di perseguire (una vol-ta individuate) in modo efficace le proprie ambizioni e desideri e infine di sviluppare un pensiero critico e autonomo.Pensare all’esistenza di una partecipazione attiva per tutti e per chiunque a tutti i livelli senza capacity bu-ilding (semplicemente per l’appartenenza ad un de-terminato gruppo), commette un grave errore che può impedire il passaggio dalla mediazione (istituzionale) alla partecipazione attiva (in questo caso dei rom) au-tonoma e reale. La partecipazione attiva è una meta non un dato. La Partecipazione presuppone l’avere degli strumen-ti cognitivo -culturali che la vivificano , la rendano og-gettivamente possibile , altrimenti si configura alla stregua di un vuoto artificio retorico. Inoltre è necessario evitare di svuotarne il significato nella direzione del livellamento o azzeramento delle differenze, lo scopo della Partecipazione non è quello di produrre un consenso generalizzato , come alcune forme di ideologizzazione della stessa a volte inducono

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a credere e come spesso viene declinata nell’elabora-zione di offerte progettuali rispetto all’inclusione delle comunità rom. Essa al contrario deve prevedere anche il Conflitto ed è necessario allora disporre di quelle competenze di base come la gestione dei conflitti , di individuazione delle soluzioni, capacità di ascolto, di comunicazione efficace che sono tutte connesse , in ultima analisi, alla dimensione etica del concetto di cittadinanza e di responsabilità sociale e che sono inscindibili dal per-corso formativo di un singolo come di una comunità.Fatte queste premesse è facile individuare le critici-tà strutturali alla base delle articolazioni correnti di questo concetto nell’ambito del” Discorso sui rom”.Quella che viene presentata oggi come Partecipazione attiva in realtà è spesso , purtroppo, una forma di in-clusione contratta nei processi partecipativi di alcuni individui e/o gruppi che vengono limitatamente coin-volti , scarsamente consultati sulla base dell’utilizzo di un minimo numero di strumenti ai fini della parte-cipazione dei soggetti.Una forma è spesso quella di legittimare teoricamente e moralmente azioni e progetti nella cui ideazione i rom stessi non hanno avuto alcun ruolo. Una sorta di bollino ex- post, una partecipazione in-tesa come strumento , non come fine, e come tale im-possibilitata a “scatenare” processi trasformativi e di cambiamento.

Che fare ? È arrivato il momento di aprirsi ad una riflessione strutturale su questo tema nel quadro della generale revisione critica di strumenti , paradigmi , visioni , azioni relative al tema dell’inclusione delle Comunità Rom nel nostro Paese.Una revisione che non può non ribadire la necessità urgente di ideare dispositivi di empowerment comuni-tario e di un grande sforzo non episodico ma integra-to nella direzione della Formazione soprattutto delle giovani generazioni che possano così divenire il mo-tore trainante dello sviluppo culturale e morale delle comunità stesse sui territori.

Partecipare , prendere la parola , vuol dire avere la capacità di decrittare i linguaggi ed i codici della con-temporaneità. Bisogna apprendere le regole del gio-co ed è un processo lento e complesso soprattutto per gruppi ed identità che sono marginalizzate ed escluse anche e non solo dal punto di vista culturale. È questo uno dei grandi obiettivi che la Fondazione vuole perseguire , e l’avvio di Fuochi Attivi rappresen-ta la prima tappa di questo viaggio.Solo attraverso questo processo di capacitazione , è

Se l’importante è partecipare...

possibile parlare di Partecipazione Attiva e rilanciare, realmente , sui territori , la via di un’effettiva , Comu-nicazione Interculturale basata sul rispetto reciproco.La popolazione romanì nel suo travagliato percorso storico ha resistito alla pressione assimilazionista at-tivando una forma di “resistenza etnica” per tutelare e/o difendere la propria alterità culturale, resistenza etnica che si è implementata a partire da una forte coesione del gruppo e da meccanismi volti al conteni-mento ed alla rarefazione dei contatti inter-etnici. La scelta di chiusura verso l’altro se ha costituito una strategia di difesa dell’identità culturale rom dall’al-tro non ha oggettivamente favorito lo scambio e quin-di una corretta conoscenza interculturale.

Questa scelta ha ostacolato il processo di cambiamen-to della Cultura Romanì , cambiamento culturale che si struttura a partire dall’attivazione di dinamiche d’interazione e di contaminazione essendo le culture sistemi porosi e le identità culturali strutturalmente basate sul cambiamento frutto della continua intera-zione tra sistemi diversi che, per essere vivi , devono comunicare .

Oggi è giunto il momento di Acquisire gli strumen-ti per essere consapevoli di vivere all’interno di una cultura che evolve senza sosta e che non è statica e immutabile, fare un salto di qualità per uscire da una logica etnocentrica, attivare scambio e confronto per la valorizzazione reciproca, sollecitare gruppi e comu-nità ad intraprendere la strada della relazione inter-culturale , nella direzione del superamento definitivo del multiculturalismo. La strada come dicevamo è lunga e faticosa, ma non c’è alternativa per poter vivere nella trincea della complessità contemporanea.

Dott. Antonello Salvatore

Al centro della vita della perso-na rom sta la famiglia, piccola o

grande che sia, oltre la quale non esi-stono gerarchie. Né capi o comandan-ti, né Re o Regine. Gli insegnamenti e i pareri degli anziani sono tenuti in grande considerazione.Sono loro che possono “giudicare” una persona che sia venuta meno a determinate regole della convivenza. La donna vera protagonista e custode della tradizione della famiglia roma-nì, si presenta con un abbigliamento appariscente: non un costume vero e proprio, bensì un modo di vestire ca-ratterizzante. Elementi tipici sono una blusa ampia, la gonna lunga, lar-ga e colorata, spesso con applicazio-ni, un fazzoletto in testa se è sposa-ta. Questo stile di vestiario è tuttora adottato da molte romnià.Meno vistosi sono invece i vestiti dell’uomo rom, in genere influenzati dalle mode del paese in cui vive. Par-te importante dell’abbigliamento rom sono i gioielli: lunghi orecchini, colla-ne e braccialetti per le donne, grandi anelli per gli uomini. E tutti rigorosa-mente in oro. I rom hanno avuto da sempre un for-tissimo legame con la natura nella quale vivevano e che rispettavano perché dava loro riparo e protezione. Alla nascita, oltre al nome di battesi-mo, al bambino rom viene dato di so-lito anche un soprannome con il quale sarà conosciuto dal gruppo.Quando muore un rom, accade ancora oggi presso molti gruppi rom, si bru-ciano tutti i suoi beni personali, come prevede la tradizione indù: non esiste eredità materiale.Ogni rom deve costruirsi il suo patri-monio da solo. Ogni rom ha sempre dovuto ricominciare daccapo, ogni giorno, ovunque arrivasse, dopo lun-

Il mestiere dell’umano

ghi e difficili viaggi.

IL MESTIERE DELL’UMANOIl mestiere umano, l’arte di vivere è stato sempre oggetto di indagine e domande, da quando l’uomo si è inco-minciato ad interrogare su se stesso: sul senso della vita e della morte, sul-la sua finitudine e anche sull’infinito del suo pensiero e della sua immagi-nazione. Spesso il contatto con i grandi eventi dell’esistenza; la nascita, la malattia, la vecchiaia, la professione, le scelte di vita di fronte alle ingiustizie grandi e piccole, ci spingono a recuperare la dimensione insieme limitata e illimi-tata del nostro essere.

Questo insegnamento alla vita ci arri-va nei momenti difficili, di sconforto, di scoraggiamento e di disorienta-mento: quando facciamo esperienza di un evento imprevisto che destabi-lizza la nostra routine. E’ allora che il contatto con l’altro che sembra più debole, più fragile e più bisognoso di-venta fonte di rigenerazione. Ci ren-diamo conto che l’altro che pensava-mo più debole c’insegna sia a dare che a ricevere; c’insegna anche tanto sulla nostra vita, sulla vita in generale.

E’ allora che ci rendiamo conto dell’in-finito mondo di risposte umane; ri-sposte che passano soprattutto nei rapporti di ogni giorno con le persone care ma anche con chi incontriamo sulla nostra strada e che ci porta nel viaggio dei sentimenti e del pensiero. Ci rendiamo conto allora che è l’altro che ci dà qualcosa; qualcosa di non misurabile con le solite tecniche dia-gnostiche e statistiche ; ci rendiamo conto che l’altro ci dà la possibilità di essere veramente umano.

Nell’esperienza di questo apprendi-mento dell’essere umano vi sono i dolori, le gioie, i momenti di abbat-timento o quelli di grande slancio, vi è anche l’inganno verso me stesso e quello verso gli altri, vi è il tentativo di non superare il limite etico dell’in-coerenza. E’ un mestiere, quello dell’umano, faticoso e complesso, non scontato e che ci porta continuamente su dei lidi inesplorati. Forse la cosa più difficile per noi che impariamo costantemente il mestiere dell’umano è di riconoscere la nostra finitezza e il fatto che pren-diamo tanto dagli altri senza dare molto in cambio. Molti di noi nascondono a se stessi la loro fragilità, le proprie contraddizio-ni; la vita c’insegna tuttavia a dovere fare i conti con la nostra coscienza e con i nostri sentimenti. Purtroppo ci capita troppo spesso d’indulgere verso noi stessi e di non essere benevoli verso l’altro, di non ri-conoscere quello che ci dà l’altro come persona che entra in relazione con noi; anche qui il mestiere dell’umano è qualcosa di difficile e complicato. Eppure quante volte siamo riusciti ad essere sinceri con noi stessi, ad acco-gliere l’altro, a ricevere il dono della vita anche nei momenti di estrema difficoltà, quante volte siamo riusciti ad imparare il mestiere dell’umano diventando davvero umani? Certo vi-vere non è semplice, certo la tendenza è di prendere, pretendere per sé e non vedere quello che ci viene anche da chi soffre la malattia, l’oppressione, la discriminazione, o semplicemente il rifiuto e la non accettazione; il mestie-re dell’umano è proprio di riconoscere la nostra vulnerabilità che è forse la qualità più importante che abbiamo e che ci rende davvero umani.

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La mediazione non è ancora inserita nello specifico dell’o-

peratività sociale, specialmente nelle situazioni di marginalità e, se talvolta la si incontra, si confi-gura come pratica distorta, usata a sproposito, tanto da sconvolgere l’azione socio-educativa e gli inten-ti dell’inserimento sociale.

L’idea di mediazione nei servizi è riduttiva, ha per di più una funzio-ne superficiale da effetto vetrina, è un idea che banalizza il concetto stesso di mediazione, cercando di applicare forme e funzioni che si vagliano dalla pesantezza in ribas-so dei budget, accompagnate dalla retorica delle regole che attribui-scono inadeguatezza di esistenza a chi non riesce a saperle e a capirle.

Gli standard riduttivi e la descri-zione negativa nella pratica dell’o-peratività sociale, non solo riduco-no la mediazione socio–culturale, ma anche l’essenza e le potenziali-tà delle relazioni di aiuto e di cura, agite dall’ente pubblico e dal priva-to sociale. Fare mediazione, se di-venta una attività che si somma a tutte le altre previste dai vari rego-lamenti dei campi “nomadi”, diven-ta prassi burocratica piuttosto che azione socio–educativa. Nell’attua-le contesto socio–istituzionale la mediazione improntata acritica-mente ci allontana dalle possibilità di poter distinguere fra persone di diversa e varia provenienza e cul-tura. Nel fare mediazione socio-culturale

Mediare e/èriconoscere

con gli stranieri, immigrati e pro-fughi, e/o con i Rom, “è la stessa cosa”: attività di indirizzo neutro e identiche ad una realtà appiattita dal non senso, dalla monotonia e dalla ripetizione. Non è ancora impostata una me-diazione che parte dai contesti culturali e dalle condizioni di vita concrete delle persone ed è per que-sto che non produce conoscenza; al suo posto abbiamo una descrizione istituzionale costantemente nega-tiva: gli “zingari” sono gli stranieri “estranei”che trasgrediscono conti-nuamente le regole.

Nessuno si interroga sul chi e come sono state impostate queste regole, come sono state condivise e soprat-tutto se sono state oggetto di comu-nicazione e di educazione per esse-re capite. La retorica delle regole ci porta a quella della sicurezza e ov-viamente rinforza le giustificazioni dei pogrom. L’interesse verso forme di speri-mentazione è ridotto, è circoscritto e frantumato nei settori di appar-tenenza e l’assunzione di respon-sabilità non avviene. Non avviene neppure nei campi “nomadi” con-siderati come soluzione abitativa speciale.

È possibile superare questa situa-zione? Certamente, bisogna iniziare a pensare la reciprocità e i ricono-scimenti. Riconoscere che i Rom e i Sinti sono individui e persone con diritti esigibili e non forzatamente

legati a categorie inventate come il nomadismo, è possibile e necessa-rio investire con un altra attenzio-ne e intenzione politica, anche nel nostro quotidiano, là dove le rela-zioni sono dirette e gli sguardi si incontrano.

Occorre riconsiderare l’operatività sociale pensandola nel suo intento di solidarietà, bisogna riconsidera-re l’impossibilità di applicare leggi e regolamenti inventati e posti in essere solo per essere trasgrediti, oggi i campi nomadi sono ingover-nabili perché nessun essere umano può accettare e seguire quei regola-menti, ma soprattutto perchè nes-sun essere umano può vivere nei campi con dignità. Uno sforzo che parte dai professio-nisti e dagli operatori che, a vario titolo, operano nel sociale e da tutti quelli che hanno a che fare con le relazioni. Occorre iniziare a considerare Rom e Sinti come persone che hanno una dignità, dentro e oltre le pro-blematiche che ci fanno incontrare nel sociale.I Rom e Sinti negli anni Trenta sono state due categorie etniche “affida-te” all’universo della concentrazio-ne senza essere state nominate nel-le leggi razziali, la loro a-socialità è stata “l’alibi” per poterli destinare all’estremo, allo sterminio. Oggi i pogrom ripartono dalle ti-pologie della socialità dell’altro, dall’assenza di problematicità, dal suo modo di essere.Occorre pensare l’altro nella sua

forma di cittadino, soggetto di di-ritti e interlocutore potenzialmen-te attivo, capace di presentare e negoziare le sue richieste e le sue aspettative.È necessario pensare tutte le nostre pratiche come prassi che possono portare al cambiamento, necessa-rie e capaci di cambiare “il destino” delle cose, che possono attivare le persone, e che devono provocare la mobilità sociale, non solo nei con-fronti di Rom e Sinti, stranieri per eccellenza, ma in tutti i migranti che a vario titolo si trovano sul ter-ritorio italiano, poiché questo è il cambiamento che loro cercano. Diventa necessario cercare di co-noscere i paradossi dell’agire so-ciale, pubblico, per cercare le vie di uscita, ri-organizzando e influen-zando, non solo la politica con la ‘P’ maiuscola, ma tutta quella che riguarda le nostre quotidianità operative. Da questa necessità le considerazioni che seguono, relati-ve alle distanze e alla conoscenza sociale, ai riconoscimenti reciproci e alle istanze politiche, servono per ipotizzare una serie di proposte fi-nalizzate all’uscita dall’immobilità del campo “nomadi”.

1 - La riduzione della distanza so-ciale e istituzionale potrebbe esse-re possibile e facilitata se la lettura delle realtà dei Rom e Sinti, avvie-ne con approcci differenti che sap-piano spostare il pensiero e i para-digmi relazionali che incidono sui contatti diretti e sull’impostazione delle politiche sociali. L’impossibilità delle pratiche co-municative, sociali e istituzionali, le dicotomie e i fallimenti di vici-nanza e di diritti, la gratuità delle repressioni e le situazioni gravissi-me ci invitano, forse ci obbligano, a rivedere i modelli di analisi e di in-tervento, relativamente al binomio Nomadismo/Stanzialità, considera-to come unica chiave interpretati-va di una realtà difficile e talvolta estrema.

2 - La produzione sociale della conoscenza risulta influenzabile e sensibile alle condizioni di una pre-carietà permanente.La conoscenza è influenzata dal si-lenzio che permane un silenzio. Si ignora intenzionalmente lo zin-garo servendosi di una conoscenza distorta dai pregiudizi e dalle ste-reotipie diffuse anche dall’azione istituzionale.La repressione istituzionale che ricevono Rom e Sinti produce, pa-radossalmente, conoscenza che incentiva le pratiche di allontana-mento sociale. L’operatività istitu-zionale a tutti i livelli di intervento non distingue fra individuo e grup-po di appartenenza.

L’attuale tipologia di Mediazione linguistica, nei vari servizi pubblici e privati, investita dalla banalità e dall’inutilità dell’azione stessa, non si (ri)qualifica e non è un veicolo di produzione di conoscenza. Far co-noscere la propria situazione non rappresenta per i Rom e sinti una strategia di apertura e di diversa impostazione dei rapporti con i non Rom, per motivi di sopravvivenza.I professionisti dei servizi e delle politiche sociali descrivono e indi-cano gli “zingari” come esempio di non integrazione, come esempio di una inutile-utilità, per rafforzare le politiche della sicurezza, e speri-mentarne i risvolti.Le tradizionali agenzie dello stu-dio e degli apprendimenti, Scuola e enti di Formazione Professiona-le, preposte anche come veicolo di mobilità sociale, non hanno ancora sperimentato e prodotto forme di comunicazione e di relazione, ver-so una minoranza, volta a produrre conoscenza reciproca e consolidare i saperi e i comportamenti non vio-lenti e giusti.Le istanze politicheIn una prospettiva di riconosci-mento e integrazione, nazionale ed europea, è utile ribadire che:

1 - La presenza rom in Europa non è necessariamente subordinata ne ai servizi sociali ne ai nazionalismi. Essere rom in Europa potrebbe dire una presenza generatrice di inter e transculturalità e di interessanti nonché singolari forme sociali e po-litiche di convivenza . 2 - La cultura rom non è ne su-balterna ne alternativa alle altre culture europee. La presenza rom non è oggetto di correzioni, conver-sioni e cambiamenti non voluti dai singoli, dai gruppi e dalle comunità romanì. L’educazione proposta ai rom nelle scuole e con le agenzie formative in Europa non contem-pla le autonomie, gli interessi e le differenze di questa popolazione e spesso questa educazione diventa di fatto un meccanismo di tipo re-pressivo e correttivo nei confronti dei rom. 3 - La presenza della popolazione romanì in Europa è altamente di-versificata, costituita nella sua uni-cità da una varietà di gruppi che pur non avendo la stessa storia, religione, riconoscimento giuridico e politico, si auto - riconoscono e si auto rappresentano, in una appar-tenenza polimorfa. I meccanismi di questa appartenenza rom, rico-nosciuta e rappresentata, non sono il risultato di una etero definizione da parte dei non rom ma sono mec-canismi interni alla popolazione romanì. 4 - La minoranza rom è una mi-noranza discriminata e oggetto di razzismi (metto razzismi al plura-le) questo rende la sua situazione in più Paesi europei critica e tal-volta estrema. I rom hanno avuto il porrajmos (divoramento e /o gran-de perdita) La minoranza rom ha sviluppato forme di resistenza alle discriminazioni subite e si oppone, culturalmente e politicamente, re-agendo fortemente alle ingiustizie del passato e di oggi. Ha bisogno di riconoscimenti e di solidarietà in questa sua opposizione verso raz-

Dott. Dimitris Argiropoulos

Mediare e/è riconoscere

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zismi e discriminazioni. 5 - Ogni risvolto di tipo nazionalista come riscatto, potenziamento e soluzione etnica delle questioni rom non è forma di resistenza consona alla cultura rom e alla situazione della popolazione romani così come si delinea nel contesto europeo. 6 - La comunicazione fra rom e non rom è una comunicazione distorta dalla descrizione negativa ed etnocentrica dei rom e dei non rom. La descrizione negativa che ricevono i rom coinvolge pienamente l’azione pubblica ed è soprat-tutto istituzionale, come tale, origina e mantiene ufficializzando meccanismi pregiudiziali (relazioni e contenuti) di forte valenza negativa. 7 - Le società rom (singoli gruppi e comunità) non sono omo - classe o uni - classe. Si tratta di società diversificate anche in termini classisti e le economie esistenti vanno considerati per capire la diversa posizione sociale e politica degli individui. Le società romanì non sono unigenere o omogenere ma sono costituite da uomini e donne, individui di appartenenze plurali, che vanno descritte in questa loro pluralità. 8 - Tutte le convivenze in Europa e nel mondo si aprono alle mescolanze. Le realtà delle coppie miste, fra rom e non rom, non è considerata e si resiste dal descriverla. Si insiste a pensare l’altro nella separazione e ci si ostina a pensare le interazioni in una inesorabile (e atipica) lontananza.

• Re-impostare la partecipazione dei Rom e richiedere sempre la loro presenza in ogni situazione che li riguarda. • Interloquire e intervenire sistematicamente con le realtà nella situazione del campo “nomadi”, per chiarire tutte le dimensioni di una situazione di apartheid e cercare le soluzioni di uscita. • Ripensare e ristabilire pratiche comunicative per interrompere i circuiti istituzionali di Assistenzialismo e Re-pressione riservati ai Rom, problematizzando i bisogni per proporre soluzioni. • Prospettare Forme di Comunicazione e di Contrattazione con le istituzioni su tutte le tematiche della presenza e delle condizioni di vita dei Rom e sinti. La varietà delle forme comunicative influenza la presa in considerazione e i successi della contrattazione.

Le forme di Mediazione sociale e istituzionale devono proporsi tenendo presente la giustizia nei rapporti da mediare e i processi di interiorizzazione che potrebbero investire la parte debole: “i riconosciuti e dichiarati deboli” che sono intesi come soggetti impossibilitati al cambiamento, eternamente “zingari”.In ogni pratica di intervento e azione sociale occorre tenere presente la stigmatizzazione e soprattutto l’auto- stig-matizzazione dei Rom in quanto sentimento totalizzante attinente all’inadeguatezza di stare nel mondo.In ogni pratica di intervento e azione sociale occorre considerare e proporsi alla comunità e al singolo, alla persona, come bisogna tener presente le prospettive differenti degli adulti e dei minori, delle donne e degli uomini.Trova legittimità ed è indispensabile la domanda di cambiamento che nasce dai Rom e che è rivolta al cambiamento verso se stessi, verso il gruppo e i contesti di appartenenza e che incontra la dimensione Politica.

Dott. Dimitris Argiropoulos

Mediare e/è riconoscere

Popolazione romanì:da secoli in Europa

Sono arrivati in Italia dopo un lunghissimo viag-gio, del quale oggi restano pochissime tracce do-

cumentarie. I motivi della migrazione restano ancora oggi avvolti nel mistero, mentre la partenza dall’India viene stimata attorno al IX – X secolo.Non fu un’emigrazione di massa, bensì un espatrio graduato condotto da gruppi di alcune centinaia di persone, uomini, donne e bambini. Arrivarono, si fermarono per un certo tempo e partirono di nuovo. Dall’India alla Persia e all’Armenia, dall’Armenia at-traverso l’Asia Minore fino in Grecia e nei paesi Bal-canici, e in seguito, in tutti gli altri paesi Europei e nel mondo. Sebbene suddivisi in numerosi sottogruppi, i rom sono affratellati non solo dalle loro origini, dalla storia e dalla lingua, ma anche da alcune tradizioni e norme di comportamento.

“...e come ho sentito, alcuni dicevano che erano dell’In-dia”. Così annota Frate Gerolamo da Forlì il 7 ago-sto 1422 nel suo Chronicon. Nel 1348, gruppi di rom erano stati visti in Serbia, nel 1370 in Moldavia, nel 1390 in Italia (Abruzzo), nel 1399 in Boemia. Ma dopo queste prime apparizioni spuntano come per magia in mezza Europa: nel 1407 in Germania, nel 1414 in Svizzera, nel 1415 in Francia, nel 1416 in Transilva-nia, nel 1420 in Belgio e Olanda. E nel 1422 in Italia: il 18 luglio a Bologna e venti giorni più tardi a Forlì. Dopo questa grande migrazione si fermano nelle varie regioni Europee, mantenendo, nonostante le influen-ze esterne su lingua, usanze e attività, le caratteristi-che di un unico gruppo etnico.Non passano inosservati. La pelle scura, l’abbiglia-mento colorito e fantasioso, la lingua incomprensibile e le origini misteriose suscitano la curiosità della gen-te. Affermano di essere pellegrini e quindi viaggiatori a quel tempo privilegiati, si procurano dei salvacon-dotti da imperatori, papi e re, ostentano credenziali aristocratiche. Pittoreschi gruppi rom vengono accolti come gran signori alle varie corti europee, dalla Boe-mia all’Andalusia. Sono oggi dodici milioni al mondo, otto nella sola Europa: la più grande minoranza del

nostro continente. Ma anche la minoranza più nasco-sta e più silenziosa.

UNA LINGUA: IL SANSCRITOIl romanès, una lingua di origine indoeuropea, ha conservato nel suo vocabolario una grande quantità di parole provenienti direttamente dal sanscrito.Sono stati soprattutto i linguisti a ricostruire le mi-grazioni rom, attraverso lo studio della lingua ro-manès e dei suoi numerosi imprestiti linguistici, te-stimonianza della residenza in una determinata area per un periodo sufficientemente lungo da consentire la migrazione di parole da un gruppo all’altro.In Persia i Rom assimilano termini come zor (forza), baxt (fortuna) khangri (chiesa). Parole armene rima-ste nel romanès sono grast (cavallo), vurdon (carroz-zone), dal curdo deriva bori (nuora) mentre in Grecia si appropriano di voci come klidi (chiave), drom (stra-da), draka (uva), zumin (minestra), tzoxa (gonna).E il viaggio (non solo linguistico) continua fino in Ger-mania dove i rom si impadronisconodi molti vocaboli tedeschi. Da glaso (bicchiere) e ti-sha (tavolo) fino a lixta (luce) e all’immancabile graiga (violino).Pochi decenni dopo l’anno mille, nelle vicinanze del Monte Athos in Grecia, un cronista registra il passag-gio di un gruppo di nomadi che si guadagnano da vi-vere come maghi e incantatori di serpenti. Li chiama “Athinganoi”, e da questo termine deriveranno i nomi per gli zingari in Italia, i zigeuner in Germania, gli tsiganes in Francia, i czinny in Ungheria, i cikan in Russia.E poiché si erano fermati a lungo nel Peloponneso gre-co, il cosiddetto “piccolo Egitto”, vengono denominati anche “egiziani”. Diventano così i gyphtoi in Grecia, i gitanos in Spagna, i gypsies in Inghilterra. Un popolo dai cento nomi.

UNA CULTURA DIVERSA...IL NEMICOSono comunque stranieri molto strani. Non hanno niente da condividere con le popolazioni europee: né la

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storia, né la religione, né la lingua, né lo stile di vita. Perché l’Europa, a quell’epoca, si stava faticosamen-te organizzando dal punto di vista politico ed economico.E loro, i rom, sono arrivati nel mo-mento meno opportuno. Nomadi in una società che aveva rifiutato il nomadismo, dal quale era uscita da poco tempo, in favore di scelte di vita sedentaria.Per alcuni gruppi poi, la pelle oli-vastra li rese simili nell’immagina-rio collettivo, a quegli islamici che premevano alle frontiere degli stati dell’Europa cristiana. A quei Tur-chi che, con l’espansione dell’Impe-ro Ottomano, arrivarono a minac-ciare concretamente le frontiere dell’Occidente. Essi divennero così la personificazione del “nemico”.A renderli ulteriormente sospetti era la loro conoscenza della metal-lurgia, un’arte i cui procedimenti all’epoca venivano assimilati alle pratiche magiche ed alchemiche. La pratica, da parte delle donne rom, dell’arte divinatoria li circon-dò di un alone di mistero che con-tribuì ad alimentare le diffidenze e le paure nei loro confronti.Sono stati considerati giocatori, commediante e spie, eretici e gente senza religione. Addirittura esiste-va una leggenda che li voleva for-giatori dei chiodi che erano stati utilizzati per la crocifissione di Cri-sto.Inizia già allora il violento conflit-to tra sedentari e nomadi, tra la società rigidamente organizzata e regolamentata e i “girovaghi”. Ed insieme a ciò, iniziano una serie in-finita di proibizioni e divieti, di ri-fiuti ed espulsioni, di emarginazio-ni e discriminazioni. Ma i rom sono sopravvissuti, nonostante i bandi più terrificanti che, nel corso dei secoli, li hanno minacciati di venire marchiati a fuoco o condannati ai lavori forzati, o al carcere, o addi-rittura alla morte, per il solo fatto di essere rom.

L’ARTE DEL LAVORARE VIAGGIANDO

In un proverbio della Grecia, pae-se in cui i rom si sono fermati per vari secoli, si dice che ogni villag-gio deve avere la sua chiesa e il suo rom, in altre parole: un parroco e un fabbro.Fin dalla loro apparizione in Euro-pa i rom si fecero conoscere come abilissimi artigiani nella lavorazio-ne dei metalli:dal ferro e dal rame all’argento e all’oro.Fornivano i nobili di spade fine-mente cesellate e di armature, di staffe e di ferri di cavallo, indora-vano calici e altri oggetti sacri per le chiese, fabbricavano e riparava-no padelle, pentole e caldaie per gli abitanti della campagna e delle città.Le donne rom invece praticavano la cartomanzia e la lettura della mano predicando la ventura. In un censimento effettuato nel 1523 nell’Impero Ottomano, si contava-no nella parte europea del regno oltre 66,000 “cigane”: di prevalen-za fabbri, maniscalchi ed armaioli, ma anche allevatori e commercian-ti di cavalli e addirittura avvocati, medici e monaci. E negli eserciti di vari paesi europei i rom si sono distinti, nel corso dei secoli, come valenti e coraggiosi soldati.Fin dal loro arrivo furono apprez-zati anche come musicisti e danza-tori, acrobati, saltimbanchi, gioco-lieri e ammaestratori di animali. Come nomadi “fornitori di beni”, si dedicavano al commercio di uten-sili e oggetti prodotti da loro stessi durante le soste invernali: trogoli in legno e setacci, ceramiche per i contadini, cesti per panettieri e macellai, ruote di carri e sedie im-pagliate, strumenti musicali come violini e flauti, tamburi e cornamu-se. Questi oggetti venivano venduti nel corso dei loro numerosi viaggi, girando di casa in casa e di paese in paese portando, oltre alla loro mer-

ce, le ultime notizie riguardantii luoghi che avevano attraversato.I fabbri rom sono rimasti maestri nella creazione di oggetti in ferro battuto, dalla Spagna alla Slovac-chia dove il centro storico di Brati-slava rivive grazie anche alla loro abilità. Lo sviluppo industriale ha costretto i rom a rinunciare a molti dei mestieri tradizionali. Ma han-no saputo adattarsi anche questa volta?

Popolazione romanì: da secoli in Europa

La trasmissione culturale è il passaggio delle informazioni

da un individuo all’altro attraver-so i meccanismi comportamentali dell’apprendimento socio/culturale, dell’insegnamento, del linguaggio; la trasmissione culturale è una componente fondamentale per l’e-voluzione culturale.Senza trasmissione culturale non può esserci evoluzione culturale ed una cultura che non si evolve non sarà in grado di acquisire strumen-ti e modi per risolvere i problemi quotidiani.Il modello di trasmissione cultura-le influenza significativamente le dinamiche evolutive della cultura.Quale modello di trasmissione cul-turale è necessario per una evolu-zione culturale utile alla soluzione dei problemi quotidiani delle perso-ne e dei gruppi?

La trasmissione culturale “verti-cale” permette di imparare dalle generazioni precedenti per risolve-re i problemi quotidiani, ma tende ad essere molto conservatrice in una società in cui il cambiamento è molto veloce. La trasmissione culturale “orizzon-tale” permette di imparare dalle altre culture ad utilizzare nuove identità culturali per risolvere i probelmi quotidiani, è molto effica-ce per un adattamento ad un cam-biamento ambientale rapido. “Se non sai dove vai? Ricordati da dove vieni”.

Il populismoculturale

Quale modello di trasmissione cul-turale nella popolazione romanì?

Nel passato la trasmissione cultu-rale verticale era la principale fonte di apprendimento, insegnamento e linguaggio per le persone apparte-nenti alle comunità romanès (come per gran parte di tutte le altre po-polazioni) e forniva risposte ai biso-gni della quotidianità. Oggi la trasmissione culturale ver-ticale non fornisce risposte coerenti ai bisogni sociali, culturali ed eco-nomici alle comunità romanès per l’assenza di evoluzione culturale in una società con cambiamenti velo-ci.

Nel passato la trasmissione cultu-rale orizzontale era per la popola-zione romanì una strategia di inte-razione sociale ed economica, che raramente è riuscita ad assumere un carattere culturale ed intercul-turale, a causa di uno “scambio con l’altro” dettato dalla necessità di un “compromesso sociale” per la sopravvivenza, una strategia che ha portato le comunità romanès a “ziganizzare” i nuovi apprendimen-ti, insegnamenti e linguaggi, e ad attivare una “resistenza etnico-culturale” di chiusura verso l’altro, nella convinzione di difendere la propria identità culturale. Oggi per le comunità romanès la trasmissione culturale orizzantale è condizionata alla programmza-zione di una politica per l’evoluzio-ne della cultura romanì, deve fare

i conti con una crisi di identità nel ruolo sociale (“Non so più chi sono perchè non so cosa fare”).

Per la popolazione romanì la tra-smissione culturale orizzontale è ostacolata da “filtri culturali” che hanno proposto e realizzato ini-ziative prive di senso, impregnate di protagonismo e di assistenziali-smo culturale, ed hanno prodotto un linguaggio stereotipato, antica-mera della discriminazione, senza valutare l’impatto negativo per la popolazione romani e per la società civile, politica ed istituzionale.Un “linguaggio” ambiguo, privo di senso e ricco di contraddizioni, che categorizza il “pensiero” discrimi-nante ed innesta nella politica, nel-le istituzioni, nell’opinione pubbli-ca e nelle stesse comunità romanès un “comportamento” discriminante e razzista.Linguaggio = Pensiero = Compor-tamentoIl razzismo è un veleno sottile e in-sidioso che si infiltra piano piano nella coscienza collettiva attraver-so un linguaggio falso, espressioni ambigue, senza il timore di arriva-re a contraddizioni clamorose. Soffiando su preoccupazioni reali e trasformando sentimenti di insicu-rezza in fobie e caccia alle streghe si arriva direttamente alla stig-matizzazione di un gruppo sociale. Nulla meglio di un capro espiatorio lenisce le ansie di una società.

L’opinione pubblica è sempre più

Dott. Nazzareno Guarnieri

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convinta che le persone rom “sono nomadi, pigri, ladri, violenti, pericolosi, maltrattano e sfruttano i bambini, ruba-no i bambini. Non sono una minoranza etnico-linguistica, ma una realtà malavitosa.Un immaginario collettivo falso che criminalizza una intera popolazione e produce discriminazione razziale a tutti i livelli; un immaginario collettivo falso in costante crescita, alimentato da più fonti con strategie diverse.Se è vero che tanto odio verso la popolazione romanì è attribuito all’assenza di conoscenza, è altrettanto vero che bisogna chiedersi quale conoscenza è stata diffusa con i numerosi progetti per la popolazione romanì.Le società mutano, le culture evolvono, gli individui ed i gruppi conquistano consapevolezza culturale.

Il cambiamento si realizza con il coinvolgimento attivo dei diretti interessati per creare le condizioni di autonomia decisionale che consenta alle persone ed ai gruppi una visione realistica di sè e dell’ambiente sociale e culturale in cui vivono, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla quotidianità ed al futuro.

Le esperienze insegnano che un intervento ha valore ed è efficace se viene realizzato e condiviso non solo negli obiet-tivi ma ancor prima nel significato che assume. Le esperienze insegnano che nel contesto politico e legislativo Ita-liano denunciare la discriminazione razziale e la violazione dei diritti contro le comunità romanés non è sufficiente per migliorare le condizioni di vita della popolazione romanì, è necessario destrutturare le cause che la generano, ed è possibile farlo.E’ possibile farlo con lo sviluppo della comunità, con l’autonomia decisonale che consenta una visione realistica di sè e del contesto politico, sociale e culturale in cui vive.E’ possibile farlo con la promozione delle potenzialità e delle positivitàE’ possibile farlo con il rifiuto di ogni forma di “populismo” e la diffusione di un modello di conoscenza, cognitiva e diretta, della realtà delle comunità romanés e della cultura romanì.

NON SARA’ mai possibile destrutturare le cause che generano la discriminazione razziale e la violazione dei diritti se la popolazione romanì continua a rimanere impiccata nella foresta dei diritti negati, affogata nel fango dell’as-sistenzialismo culturale e della dipendenza, chiusa nel “populismo” della segregazione culturale e dell’estremismo culturale.

Oggi alle difficoltà per la trasmissione culturale verticale ed orizzontale della cultura romanì si aggiunge un tenta-tivo di “scouting” della partecipazione attiva, inteso come osservazione e valutazione delle azioni da intraprendere per rivendicare i diritti, ma che si ferma sempre in superficie ed impedisce alla popolazione romanì di entrare nel sistema da protagonista positivo e professionale.

La popolazione romanì non ha operato ed investito risorse ed energie, tempi ed azioni per costruire un proprio disegno politico e culturale per la trasmissione culturale, non ha rivolto alla comunità politica italiana proposte e provocazioni in forma strutturata, trasparente e programmata in un contesto dotato di senso. Occorre fare un salto di qualità ed uscire dalla logica del “populismo” e pensare in termini di collaborazione, speci-fica e non esclusiva, all’elaborazione di una nuova romanipè.

Dott. Nazzareno Guarnieri

La popolazione romanì a RomaDott. Ulderico Daniele e Antonio Ardolino

Come già altre volte in questi anni, in tempi di campagna elettorale, la cronaca romana è torna-

ta a concentrarsi sulla questione delle presenze rom in città. Dopo la lunga stagione degli sgomberi e dei trasferimenti forzati, dopo la fugace apparizione di le-ader e rappresentanti rom “a braccetto” col sindaco Alemanno, dopo i roghi nei campi e le polemiche at-torno all’emergenza e al “Piano Nomadi”, questa volta il dibattito si è incentrato su una questione spinosa, -che è utile affrontare criticamente per le contraddi-zioni che lascia intravedere.

Innanzitutto i fatti: in seguito ad una serie di indagi-ni patrimoniali, l’amministrazione intende ritirare ad alcune famiglie il diritto a risiedere nei cosiddetti Vil-laggi Attrezzati poiché queste risultano intestatarie di beni e conti correnti bancari tali da non giustificare in alcun modo il sostegno abitativo fino ad oggi offerto.

Per alcune di queste famiglie dovrebbe scattare anche la denuncia per aver firmato, all’atto dell’attribuzione dei container nei Villaggi Attrezzati il falso. Le principali agenzie di stampa hanno parlato di 3500 controlli patrimoniali che hanno portato all’indivi-duazione di 88 casi su cui l’amministrazione intende intervenire. Di questi 51 saranno quelli a cui verrà “revocato” l’alloggio (se così si può chiamare), anche il TAR del Lazio aveva sospeso fino al 24 aprile 2013, il provvedimento per due di loro che hanno fatto ricorso. Ora, non c’è bisogno di sottolineare che questa vicen-da entra a far parte della lunghissima sequenza di strumentalizzazioni ai danni delle popolazioni romanì in questo Paese. Già da soli i numeri riportati non giustificano i titolo-ni dei giornali e la solita litania sugli “zingari ricchi” che ne è seguita. Così come è evidente la “manovra” elettorale dell’at-tuale amministrazione capitolina che, così come 5 anni fa, punta a fare della questione “nomadi” uno dei

suoi punti di forza del suo programma di governo.

Se volessimo poi analizzare il comportamento degli “assegnatari abusivi”, non andremmo oltre la con-statazione che una certa integrazione, ovviamente al ribasso, dei rom nel tessuto sociale locale sia già ben avviata, ragionamento che in fondo potrebbe aiutare a decifrare anche la “scandalosa” partecipazione dei rom romani alle primarie del Partito Democratico e al loro presunto (tutto da provare, certo.) coinvolgimen-to nel voto di scambio, pratica ben consolidata nella tradizione italica.

Ma quello che vogliamo cogliere in queste righe è l’oc-casione per cominciare a mettere in discussione un tema che, soprattutto a Roma, troppo spesso viene eluso. Sono circa 10 anni che il modello Villaggio Attrezzato, frutto di una operazione di maquillage del preceden-te e assolutamente simile modello campo-nomadi, si è affermato, sotto la giunta Veltroni, e stabilizzato, sotto quella Alemanno.

Nel frattempo è cresciuto, nel Terzo Settore cittadino, un dibattito che vede confrontarsi diversi approcci alla questione: da chi considera imprescindibile lavorare nei progetti all’interno dei campi, a chi li considera dannosi e controproducenti, passando per le diverse sfumature intermedie a queste due posizioni. E’ un di-battito che probabilmente durerà ancora molto tempo.

Ma ciò che manca troppo spesso in questo dibattito è la messa in discussione della categoria a cui si fa riferimento: da un lato, c’è la figura storica, e tanto spesso usata da amministrazioni locali di qualsiasi colore politico, del “nomade” pericoloso, da sorveglia-re o punire; all’estremo opposto c’è invece il “rom” da difendere o emancipare, figura romantica che sfocia a volte nel folklore ma che ha preso forma e consistenza soprattutto nell’ambito di quello che è stato definito il “razzismo democratico”.

Il populismo culturale

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Se la prima di queste categorie è stata am-piamente criticata per la sua inconsistenza e per l’uso strumentale che se ne è fatto, siamo convinti invece che i tempi siano maturi per decostruire anche la seconda immagine.

La vicenda dei controlli patrimoniali potreb-be cioè essere una delle occasioni utili per mettere al centro del dibattito una serie di domande che, a nostro giudizio, sono priori-tarie anche per immaginare qualsiasi politi-ca “a favore” dei rom e orientata verso il su-peramento dei campi-nomadi.

Le questioni prioritarie sono, a nostro titolo, almeno due e strettamente dipendenti l’una dall’altra: tutti coloro che vivono nei “Villag-gi Attrezzati” sono socialmente ed economi-camente nelle stesse condizioni, o forse esiste una stratificazione, una differenziazione che rende disomogenea la popolazione che vive nei campi-nomadi? E se la risposta è affermativa, se esistono dif-ferenze sociali ed economiche fra di loro, que-ste non dovrebbero forse determinare anche delle differenze nel loro diritto all’accesso ai servizi pubblici, o la loro presunta apparte-nenza “culturale” ne fa automaticamente dei “bisognosi” e quindi degli “utenti”?

Oggi è necessario smontare la dicotomia “re-pressione-salvaguardia” e riconoscere non soltanto la diversificazione all’interno delle collettività che sono state forzosamente riu-nite nei campi-nomadi, ma anche per comin-ciare a prendere in considerazione le risorse che gli stessi rom hanno saputo costruirsi, la loro capacità di autodeterminarsi, social-mente, economicamente e, perchè no, politi-camente.

Questo mutamento di ottica ci sembra sem-pre di più necessario e urgente se non si vuole ricadere nella strumentalizzazione mediatica ad ogni avvenimento di cronaca, così come è necessario per cominciare a ragionare sulla realizzazione di politiche pubbliche efficaci dopo un trentennio di ghettizzazione perma-nente.

Dr. Ulderico Daniele e Antonio Ardolino

La donna rom (romnì) e l’amoreLA TESTIMONIANzA DI UNA DONNA ROM

L’amore per noi donne rom è parte della vita, anzi è forse l’a-spetto migliore di essa, l’aspetto di cui godi con maggiore in-

tensità.Noi donne rom difficilmente viviamo amori tormentosi, che non danno mai la felicità, anche perché non ci è possibile.L’amore per noi è la relazione con l’uomo che per primo prenderà il tuo corpo. La donna nel donarglielo hai giurato di appartenere a lui per tutta la vita.L’integrità morale per noi è molto importante. Sta a significare che appartieni all’uomo a cui ti sei donata e con il quale nascerà l’amore. Donarsi a un uomo dopo che un sacerdote ha consacrato e regolato l’unione, per noi è l’amore che nasce: e vivendo assieme a lui impari a conoscerlo ed a scoprirlo giorno dopo giorno, e scopren-dolo lo ami sempre di più con tutta la forza d’animo che il Signore Dio possa darti.

Vi siete mai chiesti perché spesso due giovani rom fuggono insieme piuttosto che fare un regolare fidanzamento, come fanno tutti i giovani di altre culture? La giovane rom non se ne fa un problema in quanto sa che quel certo uomo è stato messo sulla sua strada grazie a un Dio fatale, nel quale crede ciecamente.Infatti noi rom crediamo ciecamente nell’esistenza di un Dio, che domina tutta la terra e quindi segue gli uomini uno ad uno.Per quanto riguarda la vita sessuale di una coppia rom non sussi-stono problemi, in quanto la donna sa già che deve essere guidata dal suo compagno fin dai primi approcci con il sesso, fino a quando non si raggiungerà il completamento di una felice vita sessuale insieme, che è parte integrale dell’esistenza umana.La coppia rom vive il sesso come il completamento di una giornata, tanto è vero che non si pone minimamente il problema del numero dei figli che da un rapporto possano nascere.La più povera delle famiglie Rom ha diversi figli, che sono uniti fra loro, e loro ai genitori, come la ginestra è attaccata alla roccia.

Naturalmente un numero maggiore di figli significa solo sfamare altre bocche. E’ anche vero però che una donna rom preferisce avere un figlio

in più, una bocca in più da sfamare, piuttosto che dire un giorno: «Chissà di che colore avrebbe avuto gli occhi mio figlio?». Questo significa che è meglio avere tanti figli che tanti rimorsi.Relativo è per i noi rom l’indirizzo culturale da dare ai figli, ai quali da piccoli è sufficiente il pane quotidiano e da grandi, cioè al raggiungimento della maggiore età, sanno da soli cosa devono fare.

L’importante è non dimenticarsi mai che dietro di loro vi è sempre un padre e una madre, i quali possono es-sere di aiuto in caso di bisogno.Vi potreste domandare dove vada a finire tutto questo grande amore che i genitori nutrono per i figli, quando vedi questi ultimi a soli 5 o 6 anni chiedere l’elemosina lungo le strade ad ogni passante. E l’amore di quei signori benestanti, che hanno uno al massimo due figli, dove è andato a finire? Se poi tutti i loro sogni ed i proponimenti che hanno riposto sui figli svaniscono? E spesso te li ritrovi che a 15 – 16 anni fan-no vandalismo per la droga o altro? O a trattare male le persone più deboli? No! I rom vogliono solo un figlio che sia cresciuto bene e libero, in modo che sia in grado di mantenere la compa-gna che si sceglierà e saprà sfamare tutti i figli che con lei metterà al mondo.Anche il sesso dunque non è visto dal rom come un sod-disfacimento animalesco, che appaga solo la materia. Per noi rom il sesso va al di là di un rapporto fisico, il sesso ed il sentimento sono una sola cosa; essi si fon-dono come il sale si scioglie nell’acqua bollente. Ecco perché dico che “Zingari si nasce”.Vi potrebbe sorgere il dubbio che la donna rom è una schiava per il marito e una balia per i figli; anche qui vi sbagliate, perché non saprete mai quanto dolce sia consumare il pasto della sera, quando la famiglia si riunisce attorno ad una tavola apparecchiata, anche male, ma dalla quale sfumeggia una gustosa minestra di fagioli oppure semplicemente pane con qualche cosa in mezzo, benché misero, però che basti a tutti grandi e piccini.Per le coppie rom la gelosia è un fatto molto serio in quanto i due coniugi sono l’uno pazzamente geloso dell’altro, tanto è vero che se disgraziatamente uno tradisce l’altro, la famiglia finisce. E da questo si può dedurre quanto sia importante il sesso ed il sentimen-to, che vale più di una costosa pelliccia o di una bella vacanza.

Noi donne nel partorire riusciamo a trasmettere al pic-colo quel particolare senso d’amore per la vita, per cui la gioia di donargliela è tale che si fonde al dolore e la creatura nel venir fuori al suo primo grido sembra dire: «Grazie mamma ». Già la sua bocca cerca il tuo seno, che con il suo caldo sapore materno placa il pianto, ed

è già sereno.I sentimenti ci distinguono e con essi le nostre sem-bianze fisiche, che sono quasi sempre marcate e forti, come forte è il nostro carattere, anche se profondamen-te sensibile e amante delle cose più semplici e belle del-la vita, come l’acqua limpida di un ruscello e l’immen-sità del cielo stellato nella notte.Le prime cose che i bambini rom riescono a captare sin dalla prima infanzia sono il senso di libertà, per cui odiano stare chiusi in casa, amano invece stare all’a-perto a corpo libero, senza attaccamento al conformi-smo del vestiario, di cui non vogliono essere schiavi.I nostri bambini rom hanno uno spiccato senso d’amore per gli animali: almeno questi possono contraccambiar-li, cosa che non accadrebbe mai con bambola o robot, per quanto belli e perfezionati.

Quando i nostri bambini vanno a scuola insieme agli altri, anche se sono vestititi bene e parlano come loro, sono sempre guardati e considerati diversi. Tutto que-sto naturalmente è logico perché essi sono diversi; si, solo che in quell’essere diverso il bambino rom non sen-te alcun senso di inferiorità e mai ci sarà uno sguardo pietoso che possa farlo sentire inferiore, perché è sem-pre orgoglioso di sè, giusta o sbagliata che sia.

Personalmente non amo fare confronti e tanto meno parlare di razzismo, perché odio questa parola e la bas-sezza del concetto che essa racchiude, ma forse in que-sto siamo nel giusto noi rom, perché non insegniamo ai nostri figli: “Con quello non devi giocare”, oppure: “Se ti picchiano, ripicchia loro”. Noi cerchiamo di insegnare loro a distinguere nelle persone il bene e il male. Il male è quello di una perso-na che ti dice: “Sei zingaro”.Ai nostri bambini non viene mai insegnato ad amare le cose inutili anche se belle.

Per noi rom l’unico vero tesoro della vita è l’AMORE, quel sentimento sincero, che può unire un uomo a una donna oppure quello ancora più profondo che lega la madre a1 figlio e che niente potrà mai sciogliere, nep-pure la morte.Questo amore così profondo nelle nostre creature è in-ternato in esse sin dalla nascita e non dobbiamo certo comprarcelo o meritarlo, soddisfacendo loro ogni picco-lo desiderio.

Un rom sa che sua madre lo ha cominciato ad amare ancora prima che venisse al mondo, perché è parte di te, è il tuo stesso sangue che produce un altro essere simile a te e che sarà la continuazione di te, quando la morte porrà fine al tuo essere. Un rom non potrà mai fare una cosa che possa dispia-cere alla mamma e questo rispetto è sacro e lo porterà nel cuore sempre.

La donna rom (romnì) e l’amore

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L’utopia contro la devastazione

Si parla di banche, finanza, debiti, mercati, si parla di numeri infiniti, miliardi e miliardi. Un pugno di

privilegiati della finanza domina il mondo ed è in gra-do di fare crollare in qualsiasi momento intere Nazio-ni e Stati come la Grecia, ma prima ha fatto crollare tanti Stati in Africa o in America latina. Milioni sono le donne e gli uomini, gli anziani e i bam-bini che pagano il prezzo della libertà capitalista di dominare il mondo con il suo denaro e le sue merci. Merci prodotte da quegli stessi sfruttati, in cui si pro-duce un meccanismo di identificazione al potere; si predispongono alla sottomissione con la speranza di diventare come quei ricchi che decidono le sorti del mondo. La crisi è profonda. Le misure che vengono prese dai capi degli Stati europei sembrano inadeguate; l’im-pressione è che non riescano più a controllare la si-tuazione, che i meccanismi delle determinazioni eco-nomiche e finanziarie non siano più in loro potere.

Assistiamo al volo degli avvoltoi della finanza inter-nazionale sul corpo profondamente indebolito delle economie di diverse nazioni; aspettano il momento giusto per divorare quello che vi è ancora da ingoiare. Gli uomini politici che siano di destra o di sinistra di-mostrano tutta la loro inconsistenza ma anche la loro complicità diretta e indiretta ad un sistema che ormai produce solo ingiustizie, diseguaglianza e che non rie-sce più a controllare le proprie contraddizioni. Il capitalismo è entrato in una nuova fase; la fase della devastazione totale degli Stati e delle economie reali, quindi nella devastazione della vita sociale di milioni di donne e uomini, dei loro diritti. Si tratta ormai di una realtà che riguarda tutti gli Stati europei e i loro popoli. La questione del debito serve per tagliare le strutture di giustizia che danno un minimo di sostanza alla dignità dei cittadini e dei lavoratori del vecchio continente. Si va verso società dove verranno smantellate tutte le strutture di protezione sociale e il sistema dei dirit-ti che sembrava una conquista irreversibile. I grandi ideali di libertà, eguaglianza, giustizia sociale e fra-

tellanza sembrano ormai molto lontani.

Le forze politiche sono ormai tutte dentro le logiche del meccanismo capitalistico; tutti pensano a soluzio-ni che servono ad alimentare una finanza che ha di-mostrato di essere solo parassitaria. Nessuno sembra voler mettere seriamente in discussione il potere delle banche, delle grandi società finanziarie, delle grosse multinazionali. Le proposte tentano soltanto di tappare le falde aper-te dalla crisi, ma le contraddizioni sono ormai struttu-rali e le risposte non potranno che essere strutturali. Il prossimo futuro per milioni di europei è un processo progressivo d’impoverimento e uno smantellamento dei diritti sociali e di cittadinanza. Il processo in atto sta modificando in profondità l’es-sere umano. Foucault scriveva che siamo come determinati dalla rete di parole che c’impongono le sovrastrutture: il mito dell’individuo re, del denaro re, della centrali-tà del consumare per essere, il mito della proprietà privata, della competitività come unica regola di vita, hanno trasformato il modo di essere, hanno creato un nuovo senso comune. Modo di essere e senso comune che trasformano le persone in esseri che si difendono continuamente e sembrano incapaci di aprirsi all’altro, di esprimere i propri sentimenti, anzi mostrare i propri sentimenti è un segnale di debolezza. Tutto ciò porta le persone a diventare diffidenti gli uni verso gli altri, aumentano paure e anche intolleranze; l’essere umano non sembra più in grado di riconoscere in sé l’altro che lo costituisce e lo fonda, dimentica di essere il frutto di una relazione tra due persone che si sono amate. L’amore inteso come dono di sé è praticamente sparito dallo scenario della vita quotidiana e sociale: tutti si devono auto realizzare in nome di un ego che passa at-traverso l’accumulo di oggetti; l’umiliazione dell’altro: si è ricchi di oggetti ma poveri di sentimenti e pensie-ri.Si promuove la psicologia dell’insensibilità di fronte

alla sofferenza e al dolore. L’ingiustizia è un tratto di chi governa la finanza arricchendosi sulla pelle di milioni di esseri umani, ma è anche diventata una psicologia dell’indifferenza e della diffidenza di tanta gente che s’identifica con chi è ritenuto potente. Le classi dominanti sono riuscite a modificare nel profondo la psicologia collettiva esportando dal cuore degli uomini l’utopia, la capacità di pensare, di sognare un’altra società, un altro mondo.

Anche chi sembra voler proporre soluzioni e risposte a livello istituzionale e governativo, è mentalmente e cultu-ralmente collocato all’interno della logica del mercato come unico regolatore dei rapporti umani: nessuno rimette veramente in discussione questo sistema e le sue strutture si riproducono tramite contraddizioni spaventose che non possono fare altro che continuare a macellare vite umane, a portare a conflitti cruenti, a distruggere l’ambien-te, l’ecosistema naturale. Gli uomini e le donne sembrano avere perso la speranza e la fiducia di una possibile rivoluzione umanistica auten-tica. Sono riusciti ad estirpare il sogno di un mondo più umano e giusto che aveva mosso milioni di donne e uomini. Ci sono riusciti perché il potere ha divorato i sistemi usciti da quei primi tentativi della storia. Il potere e il denaro sono stati hanno determinato la morte dell’utopia, del sogno di una società fatta a dimensione dell’essere umano, rispettosa della dignità di ognuno. Oggi domina dunque l’ideologia della non ideologia, del pragmatismo materialistico del consumismo sfrenato e della concorrenza sul mercato, del mercato che domina stati e popoli, della finanza che ordina ai governi quello che devono fare e non fare. Sembra che nessuno sia disposto ad andare alla radice di questo sistema e di metterlo in discussione: oggi non servono i vari riformismi , occorre tornare all’utopia per ridare speranza ai popoli e un futuro all’umanità.

Pensiamo all’utopia di un mondo umanizzato dove il denaro non conta ma solo la giustizia, l’equità, l’etica dell’ac-coglienza, dove libertà e eguaglianza sono inscindibili. Certo si potrà sempre rispondere che si tratta di pensieri al vento, di cose irrealistiche, che il mondo ha sempre avuto ricchi e poveri ecc…ma nessuno può impedire all’essere umano di continuare a sognare ad occhi aperti, di fare funzionare la ragione critica , di svelare l’essenza delle cose e tutte le strutture di dominazione, di costruire delle ipotesi per un futuro umanamente migliore. La forza dell’utopia è quella di svegliare le coscienza tramite la cosa più profonda di ogni essere umano: il sogno, il sogno che appartiene alla nostra infanzia, il sogno che ci fa immaginare e fantasticare. E non si può negare che anche le tecnologie dei media facciano fatica a controllare il sogno e le sue manifestazioni.

Occorre che gli intellettuali si rimettono a pensare, a fare una critica profonda ad elaborare alternative sempre più legate alla vita sociale di chi perde il lavoro, di chi subisce sfruttamento e ingiustizia, di chi è angosciato per l’avvenire.Occorre costruire un altro progetto di società. Non bastano più le elezioni con partiti che si alternano al governo e che sono tutti simili e governati dall’idea di un’economia parassitaria. Ci vuole la forza degli intellettuali, di operatori sociali e culturali in grado di progettare altri rapporti umani, di dimostrare nella pratica la possibilità e il vantaggio di una società senza il re denaro, di una società basata sulla cooperazione, dove ognuno vive secondo i suoi bisogni e le sue capacità per il bene comune e le future generazioni rispettando la dignità umana e l’ambiente che lo circonda.

L’utopia dell’impegno quotidiano per l’umanizzazione del mondo significa credere che è possibile vivere in un modo altro, un modo che risponde ai bisogni più profondi della vita.Jean Paul Sartre nel suo testo L’esistenzialismo è un umanesimo diceva: “la potenza del rifiuto di fronte alla di-sumanizzazione e all’ingiustizia” è “la ricerca costante nelle relazioni di ogni giorno del Bene e del Vero, di quella dimensione che riconosce ad ognuno di esistere per quello che è e di poterlo fare, esprimendo tutto se stesso, con la massima ricchezza nella costruzione di una esistenza degna di questo nome”.

É in questo senso che oggi l’utopia deve ridiventare una pratica di chi non vuole perdere la speranza per se e per le future generazioni. L’utopia contro la devastazione del mondo è un imperativo categorico, ma soprattutto una necessità vitale.

L’utopia contro la devastazione

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